Iulius Paulus: Ad Neratium libri IV [Bilingual ed.] 8891324205, 9788891324207, 9788891324238

The core of the volume is the analysis of Julius Paulus' "Ad Neratium libri quattuor", a commentary that

180 61 3MB

English, Italian Pages 326 [327] Year 2021

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Iulius Paulus: Ad Neratium libri IV [Bilingual ed.]
 8891324205, 9788891324207, 9788891324238

Table of contents :
SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1
SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1
SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1
SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1
SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1
SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1
SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1

Citation preview

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina I

Scriptores ivris Romani, 12

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina II

Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone

Volumi pubblicati: 1. Quintus Mucius Scaevola. Opera Jean-Louis Ferrary, Aldo Schiavone, Emanuele Stolfi (2018) 2. Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III Giovanni Luchetti, Antonio L. de Petris, Fabiana Mattioli, Ivano Pontoriero (2018) 3. Antiquissima iuris sapientia. Saec. VI-III a.C. Anna Bottiglieri, Annamaria Manzo, Fara Nasti, Gloria Viarengo. Praefatores Valerio Marotta, Emanuele Stolfi (2019) 4. Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V Domenico Dursi (2019) 5. Callistratus. Opera Salvatore Puliatti (2020) 6. Iulius Paulus. Decretorum libri tres. Imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum libri sex Massimo Brutti (2020) 7. Aemilius Macer. De officio praesidis. Ad legem XX hereditatium. De re militari. De appellationibus Sergio Alessandrì (2020) 8. Cnaeus Domitius Ulpianus. Institutiones. De censibus Jean-Louis Ferrary, Valerio Marotta, Aldo Schiavone (2021) 9. Herennius Modestinus. Libri VI excusationum Alberto Maffi, Bernard H. Stolte, Gloria Viarengo (2021) 10. Papirius Iustus. Libri XX de constitutionibus Orazio Licandro, Nicola Palazzolo (2021) 11. Q. Cervidius Scaevola. Quaestionum libri XX Alessia Spina (2021) 12. Iulius Paulus. Ad Neratium libri IV Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon (2021)

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina III

Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone 12

IVLIVS PAVLVS AD NERATIVM LIBRI IV Gianni Santucci Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Roma - Bristol

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 07/12/21 10:54 Pagina IV

European Research Council Advanced Grant 2014 / 670436

Scriptores iuris Romani Principal Investigator Aldo Schiavone, Sapienza - Università di Roma Host Institution Sapienza - Università di Roma, Dipartimento di Scienze giuridiche Senior Staff / Comitato editoriale Oliviero Diliberto, Sapienza - Università di Roma Andrea Di Porto, Sapienza - Università di Roma Valerio Marotta, Università di Pavia Fara Nasti, Università della Calabria Emanuele Stolfi, Università di Siena Direzione della collana Aldo Schiavone Coordinamento editoriale e della redazione Fara Nasti Redazione del volume Sergio Castagnetti, Alessia Spina Volume sottoposto a doppia peer review © Copyright «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER® 2021 Via Marianna Dionigi 57 00193, Roma - Italy www.lerma.it

70 Enterprise Drive, Suite 2 Bristol, Ct 06010 - USA [email protected]

Sistemi di garanzia della qualità UNI EN ISO 9001:2015 Sistemi di gestione ambientale ISO 14001:2015

Scriptores iuris Romani.12. -1(2021) Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2021. -v.; 24 cm. ISBN CARTACEO: 978-88-913-2420-7 ISBN DIGITALE: 978-88-913-2423-8 ISSN: 2612-503X CDD 349.37 1. Diritto romano

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina V

INDICE

Attribuzioni

VII

I I LIBRI AD NERATIUM: STRUTTURA E GENERE LETTERARIO 1. Premessa 2. La forma letteraria del commento ad un giurista anteriore: in specie, i libri ‘ad’ di Paolo 3. Le citazioni di Nerazio negli scritti di Paolo: riflessioni sui rilievi quantitativi 4. L’ad Neratium: le opere oggetto del commento 5. L’ad Neratium: caratteri e orientamenti interpretativi

3 5 17 21 26

II NERAZIO INTERLOCUTORE PRIVILEGIATO DI PAOLO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Visioni del ius nel pensiero di Nerazio Ius constitutum e senso del passato nel pensiero di Paolo Plauzio, Nerazio e Paolo: una significativa catena di saperi L’ad Neratium nella prospettiva scientifica di Paolo L’error iuris I sentieri dell’aequitas Possessio e animus L’acquisto del possesso e della proprietà per procuratorem Il furto della res hereditaria

33 42 45 55 57 64 76 82 90

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina VI

III FRAGMENTA L’ATTRIBUZIONE DEI TESTI: PREMESSA METODOLOGICA FRAGMENTA

99 104

IV COMMENTO AI TESTI 1. 2. 3. 4.

Libro I Libro II Libro III Libro IV

125 173 204 235

APPARATI E INDICI Bibliografia Abbreviazioni Giuristi citati Fonti antiche

243 291 293 297

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina VII

ATTRIBUZIONI

Le scelte alla base di questo volume sono state oggetto di un condiviso e costante confronto fra gli autori. In particolare: sono di Gianni Santucci i §§ 1, 3, 4 del I capitolo, la traduzione e il commento dei frammenti 1, 2, 3, 4, 7, 8, 12, 13; sono di Paolo Ferretti il § 5 del I capitolo, i §§ 7, 8, 9 del II capitolo, la traduzione e il commento dei frammenti 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28; sono di Marina Frunzio i §§ 1, 2, 3, 4, 5, 6 del II capitolo, la traduzione e il commento dei frammenti 14, 15, 16, 17, 18, 19; sono di Alvise Schiavon il § 2 del I capitolo, il § 1 del capitolo III, la traduzione e il commento dei frammenti 5, 6, 9, 10, 11, 29. Gli autori esprimono un doveroso ringraziamento alla prof. Simona Tarozzi per il prezioso aiuto ricevuto nella redazione degli apparati e degli indici.

VII

SIR_XII_00_Principi.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina VIII

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 1

I I LIBRI AD NERATIUM: STRUTTURA E GENERE LETTERARIO

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 2

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 3

I I LIBRI AD NERATIUM: STRUTTURA E GENERE LETTERARIO

1. Premessa Nella Palingenesia di Otto Lenel residuano ventinove frammenti dell’ad Neratium libri quattuor, commento che Giulio Paolo dedicò all’opera di Nerazio1. L’illustre studioso indica la presenza della scrittura di Nerazio in dieci di essi2; ma per uno solo di questi è in grado di individuarne l’attribuzione ad un’opera determinata3. La diffusa presenza all’interno dei testi del nome Paulus4 e una volta pure quella del sintagma Paulus notat5, segni inequivocabili dell’inizio della prosa paolina, chiaramente denotano la natura lemmatica del commento6. Inoltre, da tempo possiamo guardare con fiducia alla complessiva genuinità di questo scritto, passato per lo più indenne sotto il profilo della critica testuale anche nella stagione interpolazionistica più devastante7. L’ad Neratium suscitò un fugace ma intenso interesse presso la romanistica della fine del diciannovesimo secolo che, nella allora recente acquisizione del metodo storico-filologico, si stava cimentando per la prima volta nello studio delle singole opere e delle personalità dei

1

Lenel 1889.I, 1140 ss. Il titolo dell’opera è menzionato nell’Index Florentinus (XXV.13). D. 7.8.23, (L. 113 e 1023); D. 15.1.56 (L. 131 e 1033); D. 17.1.61 (L. 137 e 1034); D. 24.1.63 (L. 152 e 1040); D. 33.7.24 (L. 161 e 1043); D. 34.1.23 (L. 162 e 1048); D. 35.1.96 (L. 167 e 1027); D. 35.1.97 (L. 168 e 1036); D. 45.1.40.1 (L. 183 e 1046). 3 D. 47.19.6 (L. 83. e 1030). 4 D. 7.8.23 (L. 1023); D. 16.1.31 (L. 1024); D. 35.1.96 (L. 1027); D. 46.3.32 (L. 1029); D. 47.19.6 (L. 1030); D. 15.1.56 (L. 1033); D. 17.1.61 (L. 1034); D. 35.1.97 (L. 1036); D. 40.2.24 (L. 1037); D. 33.7.24 (L. 1043); D. 45.1.40.12 (L. 1046); D. 34.1.23 (L. 1048). Verifica anche in Maifeld 1991, 100 s. 5 D. 24.1.63 (L. 1040). 6 Così Schulz 1968, 392; Liebs 1971, 73 nt. 92; Liebs 1976, 219; Manthe 1982, 34 s. 7 Appare abbastanza moderato lo stesso Schulz 1968, 392 s., che ritiene l’ad Neratium l’unico commento classico ad un’opera del secondo secolo in mano ai compilatori. 2

3

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 4

Gianni Santucci giuristi romani8. A talune ingenuità del pionieristico contributo di Lando Landucci9 rimediò Contardo Ferrini10, le cui opinioni furono per lo più accolte dalla letteratura successiva11, quest’ultima, tuttavia, non ha più manifestato un impegno in ricerche ex professo sul tema12, con la sola eccezione, se vogliamo, di Reinhold Greiner, che, all’interno di uno studio sulle opere di Nerazio in chiave di Textstufenforschung, ha dedicato un certo spazio anche al nostro scritto paolino13. Ventinove non è un numero di passi così esiguo da non consentire di porre in essere un nucleo di ricerche di respiro ampio e profondo, destinato ad offrire una ricostruzione complessiva ed una metodologicamente attrezzata critica dell’ad Neratium. In questa prospettiva conviene subito riconoscere come superfluo, almeno in questa sede, indugiare ancora sui profili biografici di Giulio Paolo, già compiutamente riproposti nei primi volumi di questa Collana dedicati al Severiano14; i nostri interessi pertanto saranno rivolti pressoché esclusivamente alla comprensione dell’opera, convinti, peraltro, che dalla sua analisi e dalla edizione critica dei testi che residuano potranno trovare origine spunti e riflessioni in grado di illuminare aspetti non marginali della personalità scientifica di Paolo. Rimanendo ancorati ai profili squisitamente ricostruttivi dell’opera, all’interprete si pongono principalmente due ordini di problemi che ancora attendono soluzioni più circostanziate e meditate. Innanzitutto la necessità di giungere ad una ragionata e, nei limiti del possibile affidabile, ripartizione fra la scrittura di Paolo e quella di Nerazio. Infatti, i criteri formali meccanicamente adottati15 non sempre alla luce dell’analisi sostanziale dei frammenti sembrano aver soddisfatto, conducendo gli studiosi a procedere con scelte fra loro diverse circa la paternità dei testi16. In secondo luogo quella che potremmo definire la vexata quaestio dell’ad Neratium paolino: l’individuazione di quali scritti del giurista traianeo siano stati oggetto delle annotazioni di Paolo. L’esegesi delle reliquie dello scritto nella loro completezza, coniugata ad una verifica delle possibili corrispondenze, sotto il profilo contenutistico e stilistico, con tutta l’opera neraziana, potrà consentire una risposta al riguardo. Infine, gli esiti della ricostruzione critica dell’ad Neratium sollevano altri interrogativi per l’interprete, interrogativi legati alla comprensione delle possibili ragioni che spinsero il Severiano a commentare Nerazio.

8

Sul punto si veda di recente Santucci 2012, 141 ss. Landucci 1892, 405 ss. 10 Ferrini 1894b, 229 ss. Utile inquadramento storiografico dell’approccio critico e metodologico che ha guidato Ferrini in Mantovani 2003, 156 ss. 11 Si vedano, per esempio, Berger 1917, 709; Liebs 1976, 219 nt.128; Maschi 1976, 681; Maifeld 1991, 100 s. Di recente González Roldán 2019, 164 s. 12 Recenti e aggiornati quadri dello stato dell’arte intorno allo scritto paolino in Cossa 2013, 305 nt. 201 e, soprattutto, in Viarengo 2020, 26 s. 13 Greiner 1973, 139 ss. 14 Pontoriero 2018, 3 ss., con ampia bibliografia a cui si può aggiungere Karlowa 1885, 744 ss.; Wenger 1953, 516 ss.; Berger 1953, 623; Liebs 1967, 1550 s.; Schiller 1978, 355 ss. Ulteriori prospettive originali in Brutti 2020, 3 ss. 15 Così Lenel 1889.I, 1140 ss. 16 Sono, per esempio, riscontrabili differenze fra le attribuzioni decise da Landucci 1892, 408 ss. e quelle decise da Ferrini 1894b, 231 ss. 9

4

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 5

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario Che Paolo fosse un buon conoscitore di Nerazio è un dato risaputo presso gli studiosi17, ma ciò ovviamente non basta. Il rapporto fra i due giuristi va colto ed approfondito avendo a guida una molteplicità di fattori. Oltre ovviamente l’analisi contenutistica e la struttura formale dei testi, bisognerà prendere in considerazione, per esempio, la mole e le peculiarità delle citazioni rispettivamente di Nerazio e Paolo verso giuristi anteriori e, non da ultimo, il frequente incontro, nel seguire l’intreccio dei loro percorsi, con Plauzio, baricentro e interlocutore privilegiato per entrambi. Aspetti, questi appena ricordati, che consentono di esplorare il legame fra i due giuristi; un legame complesso che, alla luce della conoscenza delle loro personalità scientifiche, partecipa di profili culturali e metodologici che ruotano intorno all’essenza stessa e alle funzioni del ius, dell’aequitas, sottesa al fondo di numerose scelte ermeneutiche e, al contempo, si manifesta nella presenza di identità e interessi comuni verso talune figure giuridiche, fra cui certamente l’error iuris, il furto della res hereditaria, il possesso, la funzione del procurator. 2. La forma letteraria del commento ad un giurista anteriore: in specie, i libri ‘ad’ di Paolo 1. Come noto, la produzione scientifica di Giulio Paolo è tra quelle meglio attestate della giurisprudenza romana18: tra opere in più libri e libri singulares19 sono documentati nelle fonti ottantotto lavori riconducibili alla paternità paolina20, testimoniati – secondo la ricostruzione palingenetica offerta da Lenel – da 2094 brani21. Tra questi, vi sono diverse opere di commento a giuristi precedenti22. In particolare, quattro di esse sono denominate attraverso il generico riferimento al nome del giureconsulto più

17

Lo ricorda di recente Starace 2015, 88. Per uno sguardo di insieme sulla vastissima produzione di Giulio Paolo si possono consultare Maschi 1976, 676 ss. e Liebs 1997b, 151 ss. Una panoramica, più recentemente, anche in Giomaro 2016, 20 ss. 19 Su cui è tornato di recente Cossa 2018b, dimostrando la genuinità di tutti i libri singulares attribuiti a Paolo dalle fonti. 20 Tanti sono quelli riportati da Lenel 1889.I, 951 ss., ma i dubbi di autenticità di alcuni riferimenti rende il numero oscillante in base alle diverse ricostruzioni degli autori. Krüger 1912, 228 ad esempio contava ottantasei scritti attribuibili al giurista, distribuiti su 319 libri mentre Liebs 1997b, 173 s. finisce per attribuirne a Paolo ottantuno (a cui aggiungere altri di origine spuria). 21 Anche in questo caso il numero di passi attribuiti al pensiero paolino originale varia in base alla valutazione degli studiosi: di recente Giomaro 2016, 19 nt. 14 ne conta 2057. 22 Rimangono dunque escluse, dal discorso che stiamo facendo, le opere consistenti in un semplice lavoro di epitomazione di materiale giuridico precedente, cui Paolo non aggiunse un commento proprio. Questo è in particolare il caso dello scritto paolino di epitome dei digesta di Alfeno Varo – non attestata nell’Index Florentinus ma richiamata in diversi passi del Digesto giustinianeo – in cui il giurista severiano si limitava probabilmente a una selezione di estratti dall’opera di Alfeno, senza commento (così Liebs 1997b, 154); al contrario Ferrini 1891, 172 e Maschi 1976, 681 s. hanno ipotizzato si trattasse di un vero e proprio commento. Per i dati essenziali relativi a questa composizione si può fare riferimento a Roth 1999, 26 ss. Lo stesso discorso deve essere fatto per il presunto de variis lectionibus liber singularis, laddove Paolo avrebbe raccolto estratti di diversi giuristi precedenti, sulla cui genuinità sono stati sollevati dubbi non marginali: essa è negata dagli autori che vi vedevano un’epitome tarda, tra cui in particolare Pringsheim 1921, 282; Guarino 1939b e ancora Liebs 1971, 83; altri studiosi si sono mostrati più dubbiosi e possibilisti, ad esempio Schulz 1968, 400 e Maschi 1976, 684. 18

5

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 6

Alvise Schiavon risalente: ad Plautium libri XVIII23, ad Sabinum libri XVI24, ad Vitellium libri IV25 e, appunto, ad Neratium libri IV. Quella di comporre libri ‘ad’ non è peraltro una peculiarità di Paolo: numerosi altri giuristi – appartenenti a un’età che va dalla tarda repubblica (a partire da Quinto Mucio Scevola) all’età severiana – composero opere di questo tipo26. Accanto a questi scritti, genericamente dedicati a giuristi precedenti, le fonti testimoniano dell’esistenza di altri libri paolini di commento a singole opere giurisprudenziali. Tra queste, quella attestata con maggior sicurezza e ricchezza di testimonianze è l’epitome-commento ai pithanà labeoniani27: si tratta di una selezione di passi tratti dal lavoro del giurista augusteo, quasi sempre corredati da un commento – spesso critico28 – di Paolo29. Oltre a questi scritti di commento ed epitome a giuristi del I-II sec. d.C., sono poi attribuite alla paternità paolina le notae ai passi di Papiniano, i responsorum libri XIX e i quaestionum libri XXXVII30, che infatti nella ricostruzione palingenetica di Otto Lenel portano rispettivamente l’indicazione ‘cum notis Pauli’31 e ‘cum notis Pauli et Ulpiani’, nel caso dei responsa32. Occorre sottolineare fin da ora una differenza fondamentale tra le due categorie di lavori: in un caso, le fonti ci indicano non solo l’opera originale oggetto della rimeditazione o del commento di Paolo, ma pure suggeriscono la tipologia di intervento svolto da quest’ultimo

23

Lenel 1889.I, 1147 ss. (L. 1071 ss.). Lenel 1889.I, 1251 ss. (L. 1558 ss.). 25 Lenel 1889.I, 1301 ss. (L. 2062 ss.). 26 Un elenco delle opere intitolate a giuristi precedenti (in tutto diciotto) in Liebs 1976, 219 ss. Ha di recente proposto una rivisitazione del tema Viarengo 2020, 1 ss. 27 Lenel 1889.I, 528 ss. (L. 193 ss.). Su quest’opera si segnala la ricerca di Formigoni 1996 (su cui si veda anche la recensione di Guarino 1997, 108 ss.). Lenel 1889.I, 300 nt. 3 ha ipotizzato, a partire dall’esistenza di quest’opera nonché dal tenore di Iav. 1 ex posterioribus Labeonis, D. 29.2.60, che Paolo avesse potuto comporre anche notae di commento all’epitome di Giavoleno dei libri posteriores labeoniani: contro questa ipotesi si è espresso Maschi 1976, 682, a favore Liebs 1997b, 153. Sull’origine dei libri posteriores di Labeone rimangono fondamentali le ricerche di Kohlaas 1987 e Mantovani 1988, 271 ss.; circa il lavoro di Giavoleno sul materiale labeoniano si veda da ultimo Negri 1996, 57 ss. 28 Già Ferrini 1894a, 223 vi scorgeva un atteggiamento particolarmente ‘critico’ di Paolo nei confronti dell’opera del giurista precedente; da intendersi però non nel senso di un aprioristico rifiuto di quanto riconducibile a Labeone ma invece – come giustamente sottolineato da Formigoni 1996, 161 ss. – come “ricerca sistematica dei motivi che suggerivano di riconoscere nell’asserto labeoniano un punto di riferimento non sempre vero, non sempre sicuro, non sempre affidabile” (162). In senso analogo anche Cannata 1997a, 319. 29 Solo otto passi, su un totale di quarantatré, non presentano l’indicazione del nome dell’autore del brano. 30 Si tratta di una serie di passi che la inscriptio riportata dai compilatori giustinianei attribuisce alle rispettive opere di Papiniano, ma che contengono note di commento di Paolo segnalate dal sintagma ‘Paulus notat’. Annotazioni di Paolo ai responsa di Papiniano sono peraltro attestate anche da manoscritti contenti stralci di quell’opera ed esterni alla tradizione testuale del Corpus Iuris Civilis. Su queste note al materiale papinianeo rimane fondamentale la ricerca di Santalucia 1965, 49 ss. ma si vedano anche Maschi 1976, 683 e Liebs 1997b, 155. A partire dall’esistenza di tali annotazioni, peraltro, Schulz 1968, 395 ss. ha ipotizzato che Paolo avesse potuto annotare anche i digesta di Giuliano e i responsa di Cervidio Scevola (dubbioso su questo punto Maschi 1976, 683; più possibilista Liebs 1997b, 153 ss.). 31 Lenel 1889.I, 813 ss. (L. 63 ss.). 32 Lenel 1889.I, 881 ss. (L. 387 ss.). Alcune di queste notae sarebbero frutto di rielaborazione post-classica (Schulz 1968, 396 ss.; meno radicale Santalucia 1965, 56 ss.), in ogni caso non sembra trattarsi di un’opera originariamente concepita da Paolo come annotazione sistematica dell’opera di Papiniano, ma piuttosto di annotazioni elaborate a scopi pratici nei tribunali e che non siano così riconducibili ad un’opera di Paolo (così da ultima in particolare Giomaro 2017, 40 nt. 51, ma anche Liebs 1997b, 154). 24

6

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 7

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario (epitome, annotazione); per quanto riguarda invece la categoria dei libri ad genericamente intitolati a giuristi precedenti, non è chiaro né quale scritto (o quali degli scritti) stesse commentando Paolo, né il tipo di operazione compiuta su di essa. Generalmente si esclude che, in questo genere di lavori, il riferimento al giurista precedente potesse avere una funzione meramente dedicatoria, ammettendo invece che si trattasse in ogni caso dell’indicazione dell’autore la cui opera era oggetto di epitome e commento33. D’altro canto, sembra che tale natura dedicatoria debba ammettersi quantomeno per il commento edittale di Servio intitolato al giurista Bruto – chiamato ad Brutum in Pomp. l. s. ench., D. 1.2.2.44 – e, forse, per lo scritto dedicato da Ofilio ad Attico34: entrambe le opere risalgono però all’epoca repubblicana e poco ci possono dire, quindi, per la situazione al tempo di Giulio Paolo. In ogni caso pur ammettendo, con la storiografia prevalente, la natura di commentari delle opere ad – quantomeno per quelle dell’età del Principato – rimane il problema di individuare l’opera o le opere tenute in considerazione dal giurista successivo, nonché il confine tra il testo attribuibile allo scritto originale e quello aggiunto in sede di commento. La posizione di queste opere all’interno della vastissima produzione scientifica paolina – nonché la posizione dei libri ad Neratium tra quelle intitolate a giuristi precedenti – è pertanto tutt’ora complicata da decifrare: tale incertezza riposa non solo sulla difficoltà di ricostruire compiutamente contenuto e caratteri delle singole opere di Giulio Paolo dedicate a giuristi precedenti, compito che – dopo le risalenti ricerche di Contardo Ferrini35 Salvatore Riccobono36 e Antonio Guarino37 – è rimasto a lungo inesplorato dalla romanistica38; ma anche, più in generale, dalla difficoltà di inquadrare tali lavori nel panorama dei generi letterari, o delle forme di produzione scientifica dei giureconsulti romani. La questione generale circa il ruolo e la posizione dei libri ad (o libri ex) intitolati a giuristi precedenti e dei commenti a opere specifiche nel quadro dei generi letterari praticati dai giuristi romani è questione complessa e che non può essere affrontata in questa sede, in cui ci si limiterà a qualche ragguaglio minimo, utile a inquadrare il problema dal punto di vista della produzione paolina. La romanistica della seconda metà del Novecento, come noto, è stata in questo campo profondamente influenzata dalla fondamentale impostazione schulziana sulla storia della giurisprudenza romana. In questo quadro ricostruttivo, gli scritti di commento a materiale giurisprudenziale precedente – comprese le citate opere paoline – erano inserite nella categoria (assai generale) dei “commentari, incluse le epitomi-commento”39, dove il maestro tedesco fa rifluire tutte le opere in cui un giurista riporta e commenta un brano o un testo

33

Per tutti Schulz 1968, 374 nt. 7. Si consideri però quanto si dirà infra circa i libri ad Vitellium. Liebs 1971, 66 nt. 50. 35 Il primo studioso moderno ad occuparsi estensivamente dei libri ad paolini fu Contardo Ferrini, in due saggi dedicati rispettivamente alla ad Plautium (Ferrini 1894a, 206 ss.) e alla ad Neratium (Ferrini 1894b, 219 ss.) di Giulio Paolo. Sull’importanza delle ricerche di questo studioso per gli studi relativi alle opere dei giuristi romani si veda da ultimo Mantovani 2003, 129 ss. 36 Riccobono 1893c, 5 ss. 37 Guarino 1964a, 300 ss. affronta in generale la questione della natura e funzione dei libri ad nella produzione dei giuristi romani; lo stesso autore si è anche occupato dei libri ad Vitellium (Guarino 1963, 337 ss.). 38 Ma di recente si veda il volume collettaneo Baldus, Luchetti, Miglietta 2020. 39 Così Schulz 1968, 327 ss. 34

7

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 8

Alvise Schiavon proveniente da un’altra opera di carattere giuridico: nel caso di commentario “lemmatico” in senso stretto erano citate solo le parole da commentarsi, mentre nel caso delle “epitomicommento” il giurista successivo riportava veri e propri stralci dell’opera originale, non necessariamente tutti commentati40. Tutte le opere riconducibili alla categoria del commentario erano caratterizzate in origine da una struttura con scrittura a doppio livello – in cui il lemma o lo stralcio dell’opera originale erano seguiti dal brano del commentatore – che spesso si perse nella trasmissione del testo, con la caduta del lemma originale o la scomparsa della distinzione tra lemma e commento: anche per questo motivo la valutazione di un commento come lemmatico o come epitome-commento deve essere sempre improntata a grande cautela41. In effetti è lo stesso Schulz a riconoscere come queste distinzioni possano essere assunte solo come indicazioni di massima, perché la forma lemmatica ammetteva molte variazioni nelle concrete modalità di citazione del testo originale, tanto da rendere impossibile una netta distinzione tra le due categorie. Non stupisce dunque che, nel prosieguo della sua trattazione, l’opera paolina di epitome dei pithanà labeoniani venga qualificata come commento-epitome, mentre i libri ad intitolati a giuristi precedenti vengano definiti commenti lemmatici42, sebbene si aggiunga che spesso questi contenevano passi dell’opera originale. Le indagini di Schulz, che pure rappresentano un caposaldo e un dato acquisito in letteratura, sono state oggetto di profonda revisione e rimeditazione da parte della storiografia successiva. Su un piano generale, sono stati messi in luce i “postulati e le aporie” di tale impostazione43, che hanno finito per condizionare le ricerche successive44. Sulla scia di questo ripensamento, poi, in tempi recenti si è messa in discussione la stessa capacità euristica del concetto di “genere letterario” implicito nell’impostazione schulziana45. Senza voler entrare in questo dibattito, che coinvolge alcuni assunti di fondo degli studi romanistici, si può forse notare che le classificazioni dei generi letterari praticati dai giuristi,

40 La prima forma di commento – lemmatico – era quella tipica dei commentari all’editto e ai provvedimenti legislativi: avendo questi lavori ad oggetto atti pubblici, di per sé non difficili da reperire, per aiutare il lettore che doveva muoversi tra i due testi sarebbe stato sufficiente un richiamo ai lemmi che il commentatore stava di volta in volta affrontando. La forma dell’epitome-commento, invece, consisteva innanzitutto in una raccolta di stralci dell’opera precedente, non necessariamente di facile reperimento, cui il commentatore poteva aggiungere annotazioni o riflessioni personali: in talune ipotesi il testo originale poteva essere riprodotto in forma sintetizzata. Si veda su questi profili Schulz 1968, 329. 41 La ricaduta sul piano delle scelte editoriali della distinzione formale tra commenti lemmatici ed epitomicommento si coglie valutando la Palingenesi del Lenel, sulla quale Schulz improntò la sua ricostruzione: nel caso di commenti lemmatici, qualora il testo non presenti la struttura a doppia scrittura esso è presuntivamente attribuito al commentatore, mentre nel caso di epitomi-commento esso è tendenzialmente attribuito all’opera originale. Sul rapporto tra l’opera leneliana e la ricerca di Schulz sulla giurisprudenza romana si può fare riferimento a Talamanca 2000, IX. 42 Schulz 1968, 375 (libri ad Vitellium); 378 (ad Sabinum); 388 (ad Plautium); 392 (ad Neratium). 43 Ci riferiamo al titolo (e al contenuto) del notissimo contributo di Bretone 1982, 15 ss. 44 A questo riguardo si possono considerare i contributi raccolti in Schiavone, Cassandro 1982. Per una comparazione con i progressi fatti negli ultimi quarant’anni si considerino gli interventi confluiti nell’opera collettanea curata da Schiavone 2018. 45 Una ricostruzione dei termini della questione da ultima in Stolfi 2017, 49 ss.

8

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 9

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario pur indispensabili, non dovrebbero essere applicate con eccessivo schematismo46. Questa indicazione si attaglia con particolare puntualità alle distinzioni relative alla vasta classe dei “commentari lemmatici”. In questo senso Detlef Liebs, uno degli studiosi che si è dedicato con più profondità di analisi alla ricerca sulle forme di produzione letteraria dei giuristi romani47, rifiuta la netta contrapposizione tra commenti lemmatici ed epitomatici basata sul tipo di rimando al testo commentato48; nei suoi lavori, le opere di Giulio Paolo intitolate a giuristi precedenti sono classificate assieme a quelle di commento e annotazione di opere specifiche (epitome Labeonis e annotazioni a Papiniano), ai libri di commento all’editto nonché ai libri singulares a commento di leggi e senatoconsulti49. Su un piano diverso da quello della tecnica compositiva e di citazione del testo originale, altri autori hanno sottolineato i differenti scopi pratici dei commentari a leggi, editti e altri provvedimenti normativi da un lato, e i commentari a trattati di giuristi precedenti dall’altro50. Non appare dunque superfluo in questa sede porre alcuni ragguagli minimi relativi ai criteri compositivi e contenutistici delle opere paoline di commento a giuristi precedenti, allo scopo di rintracciare caratteristiche comuni e profili di differenziazione. Innanzitutto, mostra caratteristiche affatto peculiari rispetto alle altre opere paoline dedicate a giuristi precedenti il commentario ad Sabinum51 avente ad oggetto i libri tres iuris civilis di Masurio Sabino52, trattato sul diritto civile dalla forte impronta teorica53 risalente alla metà del primo secolo d.C.54 che divenne il testo base della scuola sabi-

46 È interessante osservare come una discussione circa il valore euristico delle categorie di generi letterari si svolse proprio con riferimento alla classificazione delle opere di Paolo. Nel già ricordato saggio di Maschi 1976, 677 si affermava che “una classificazione di generi di opere presenta sempre elementi di incertezza ed anche di artificiosità […] incertezza sul tipo, entro cui far rientrare l’una o l’altra opera” e sul risultato dell’operazione “ché codeste hanno una loro individualità e realtà, che soltanto in parte viene definita allorché si costringe entro gli schemi astratti di una classificazione”, pur riconoscendo che “con tali limiti sono accettabili nelle grandi linee i tentativi di classificazione formulati dallo Schulz”; a questa affermazione rispose in un articolato contributo Talamanca 1977a, 222 ss. e nt. 47 che ribadì l’esigenza di non diluire il concetto di genere letterario in un criterio totalmente arbitrario ed esterno rispetto allo svolgimento della produzione letteraria dei giuristi romani. Ci sembra una posizione equilibrata quella assunta da Bretone 1989, 454 secondo cui le forme e i generi letterari “sono qualcosa di più di un mero schema classificatorio” ma esse non devono condurre a coprire le specificità individuali della singola opera all’interno della produzione del singolo giurista, distribuendo “gli scritti, o quanto degli scritti ci è noto, entro le forme della letteratura giuridica classica, senza mai osservarli nei loro interni legami e senza indagarli a fondo”; in senso tutto sommato analogo D’Ippolito 2009, XXVI ss. 47 Su cui si veda in generale Liebs 1997a, 84 ss. 48 Liebs 1997a, 140. 49 Liebs 1997b, 151 ss. 50 Ferrary 1997, 246 e Behrends 1995, 427 ss. 51 Tràdito sotto il nome ad Sabinum o ad Masurium Sabinum (in particolare nelle Istituzioni di Giustiniano – Inst. 2.14pr. – si ricorda l’opera di Paolo ad Masurium Sabinum), cfr. Lenel 1889.I, 1251 ss. (L. 1598 ss.). 52 Sull’opera principale di Sabino le indicazioni essenziali in Schulz 1968, 277 ss. Per la ricostruzione del contenuto dell’opera rimangono fondamentali le ricerche di Schulz 1906 e di Astolfi 2001. 53 Sottolinea in particolare l’afflato teorico dell’opera Bretone 1989, 448. 54 Sulla biografia di Masurio Sabino abbiamo dati abbastanza solidi: per un orientamento essenziale si vedano Kunkel 1967, 119 ss.; Orestano 1975, 294 ss.; di recente sono tornati sulla questione Morgera 2007 e Beggio 2020, 48 ss. Sulla importante testimonianza tratta dall’enchiridion di Pomponio in D. 1.2.2.48-50 (L. 178), in cui il giurista offre uno squarcio sulla vita e la carriera di Sabino, si vedano i lavori di Stolfi 2007, 57 ss. e 2016, 170 ss. Valorizza la posizione di Sabino nello svolgimento della giurisprudenza romana (in particolare quale spartiacque per l’individuazione dei veteres da parte dei giuristi successivi) a partire dai numerosi cenni biografici operati dai giuristi successivi Mantovani 2017a, 291 ss.

9

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 10

Alvise Schiavon niana55 e fu oggetto di commento sistematico a partire (per quanto ci è noto) da Pomponio, che vi dedicherà 35 libri56. Rispetto al commentario ad Sabinum di Pomponio e a quello di Ulpiano, forse incompiuto, che copre ben 51 libri57, l’opera di Paolo si caratterizza per una relativa agilità (16 libri). Sebbene dalle opere ad Sabinum, compresa quella paolina, traspaia in filigrana la sistematica dello ius civile che si venne cristallizzando a partire anche dall’impostazione data da Sabino ai suoi libri iuris civilis58 e la storiografia si sia impegnata nell’individuare, anche nel commento ad Sabinum di Paolo, lemmi direttamente attribuibili al giurista più risalente anche in assenza di esplicita attribuzione nel testo pervenutoci59, nel complesso la sensazione è che l’opera originale di Sabino venga assorbita nei commenti successivi e tenda a scomparire60. Sembrerebbe deporre nello stesso senso il fatto che, nonostante nell’ad Sabinum paolino le citazioni di giuristi più risalenti siano numerosissime, quelle di Sabino siano relativamente poche61. A ciò si aggiunga che la struttura lemmatica a scrittura doppia, consistente nella chiara differenziazione, nel testo, della parte attribuibile al giurista precedente da quella di commento del giurista successivo, non traspare mai dal materiale a nostra disposizione62. Diversamente dai libri ad Sabinum, il commentario di Giulio Paolo ad Plautium denota caratteristiche affatto originali rispetto agli altri dedicati a questo giurista63. In effetti l’opera – o le opere, come vedremo subito – di Plauzio furono oggetto, tra il I e il III secolo della nostra era, di quattro commenti: oltre ai libri ad Plautium di Giulio Paolo, infatti, nelle fonti sono attestate opere ex Plautio attribuite a Giavoleno64, Nerazio65 e Pomponio66. Il ricorso alla preposizione ex, invece che a quella ad, per introdurre la dedica ad un autore, è stato talora percepito quale elemento di differenziazione interna alla categoria delle opere dedicate a giuristi precedenti, ma i tentativi di individuare sicuri elementi di differenziazione si sono

55 Sulla costruzione del ‘sistema sabiniano’ a partire dalla rilettura e commento dell’opera dello scolarca si vedano, oltre al classico lavoro di Lenel 1892, la penetrante recensione di Luchetti 1987, 49 ss. alla già citata ricerca di Astolfi, nonché il saggio di Avenarius 2011, 33 ss. 56 Lenel 1889.II, 86 ss. (L. 378 ss.). Sulle caratteristiche di quest’opera di Pomponio, anche nel quadro della sua produzione scientifica, si leggano le belle pagine di Nörr 2002, 204 ss. 57 Sull’incompiutezza dell’ad Sabinum ulpianeo si vedano le ricerche di Honoré 2002, 179 ss. 58 Oltre agli autori richiamati supra (nota 55), per la ricostruzione delle linee di fondo del ‘sistema civilistico’ sabiniano rimangono fondamentali Frezza 1933, 412 ss. e Scherillo 1953, 445 ss. 59 L’indagine che ha stabilito i criteri fondamentali per la ricerca di lemmi sabiniani nei commentari dei giuristi successivi è quella di Schulz 1906. Questa è stata sviluppata nella più complessiva ricerca di Astolfi 2001; sulla prima edizione di questo lavoro si consideri la già ricordata recensione di Luchetti 1987, 49 ss. 60 Così si esprime, molto suggestivamente, Mantovani 2018, 35. Anche Liebs nota questa caratteristica della ad Sabinum di Paolo, in cui “der Grundtext war eher Anknüpfungspunkt für die Darlegung der Rechtsansichten des Kommentators” (Liebs 1971, 73 nt. 92), che è peraltro tipica di tutti i grandi commentari ad Sabinum dei giuristi di età severiana, come già dimostrato nell’importante saggio di Seidl 1962, 119 ss. 61 Si contano solo nove passi (su 295) in cui Sabino viene citato nominalmente: L. 1602, 1625, 1676, 1734, 1738, 1766, 1773, 1782 e 1799. 62 Lo notava anche Liebs 1971, 73. 63 Su cui in generale Viarengo 2020, 15 ss. 64 Ex Plautio libri V, Lenel 1889.I, 297 ss. (L. 142 ss.). 65 Ex Plautio libri, Lenel 1889.I, 774 (L. 64). 66 Ex Plautio libri VII, Lenel 1889.II, 79 ss. (L. 326 ss.).

10

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 11

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario rivelati deboli67 e la maggior parte degli studiosi mostra di considerare le due espressioni come fungibili68. Nonostante la vasta eco che dovette generare la sua opera, la biografia di Plauzio rimane per larga parte avvolta nel mistero69, anche se la sua vita è collocabile durante il principato di Vespasiano70, dunque in un periodo di poco precedente l’attività di Giavoleno e Nerazio71. La sua appartenenza all’una o all’altra secta non appare invece univocamente determinabile, sulla base dei dati in nostro possesso72. Ugualmente incerti sono i dati relativi alla sua opera, che pure fu oggetto di commento da parte di alcuni dei più importanti giuristi della generazione immediatamente successiva73. C’è chi lo immagina autore di una sola opera avente a prevalente oggetto la materia edittale, di cui però sono discussi sia il titolo che la natura74. Non è però escluso che Plauzio possa essere stato autore di più opere, oggetto di distinti commenti da parte dei giuristi successivi 75. Tra i commentari ad Plautium giunti fino a noi, quello di Paolo è il più ampio – sia per quanto riguarda la consistenza originale dell’opera, che constava di diciotto libri76, che per quanto riguarda i frammenti superstiti, centodiciassette nella Palingenesi di Otto Lenel. Il commento paolino, come del resto l’opera originale plauziana commentata, ha come oggetto prevalente la materia edittale, sebbene l’ordine di esposizione degli argomenti appaia non perfettamente sovrapponibile a quello edittale e divergente rispetto a quello seguito dagli altri commentatori di Plauzio77. Di tale divergenza siste-

67 Ferrini 1894a, 206 ha sostenuto che il ricorso alla preposizione ex segnalerebbe un commento specificatamente rivolto a un’opera determinata del giurista precedente, mentre la preposizione ad indicherebbe commentari aventi ad oggetto genericamente la produzione di un giurista precedente; Liebs 1971, 65 ss. ha in un primo momento lasciato intendere che originariamente il ricorso alla preposizione ad avrebbe segnalato la natura dedicatoria dello scritto e che solo con Paolo esso sarebbe stato utilizzato, al posto di ex, per indicare un’opera di commento, mentre più di recente (Liebs 1976, 220) ha fatto notare come le opere ad siano quelle in cui il commento supera per lunghezza il testo commentato (cfr. anche Manthe 1982, 33 ss.). Anche Ferrary 1997, 246 ss. risolve la questione sul piano diacronico, sostenendo che originariamente l’espressione libri ad fosse riservata ai commenti a leggi ed editti e che solo in progresso tempo essa sarebbe stata usata anche per i libri dedicati a giuristi precedenti, per cui era preferita la preposizione ex. 68 Una sintesi della interpretazione tradizionale in Krüger 1912, 146 ss. Si ipotizza comunque che il ricorso alla preposizione ex sia da ritenere più pertinente, ad esempio, in Guarino 1964b, 203. 69 Così espressamente già Siber 1951, 45. Di recente è stata di nuovo avanzata l’ipotesi che questo giurista sia da identificare con Plauzio Silvano Eliano (Viarengo 2020, 17), a suo tempo reputata non attendibile dal Siber. 70 Kunkel 1967, 134 ss. 71 Sul giurista Giavoleno si vedano le informazioni biografiche minime in Kunkel 1967, 138 ss. e più articolate riflessioni sulla sua opera in Viarengo 2020, 4 ss. 72 In argomento da ultima Viarengo 2020, 17 nt. 81 che ha ipotizzato che fosse di scuola proculiana, notando però al contempo che, nel commento di Paolo, i giuristi precedenti a Plauzio citati sono in prevalenza sabiniani e che la sua opera fu successivamente commentata da esponenti di entrambe le sectae (Giavoleno e Nerazio). 73 Maschi 1981, 66 ss. 74 Una collazione di responsi (secondo Ferrini 1887, 20 ss.) o di quaestiones (Ferrini 1894a, 215 e di recente Frunzio 2017c, 97), dei digesta (Bremer 1898-1901.II.2, 219), un libro di natura didattica (Liebs 1997b, 152), ovvero un contenitore di sententiae di giuristi precedenti, composto forse con lo scopo di raccogliere responsi provenienti da entrambe le sectae (Mantovani 2003, 158). 75 Così Lenel 1889.II, 1147. Su questa ipotesi si rivela possibilista Schulz 1968, 387, decisamente contrario invece Ferrini 1887, 19 ss. e 1894a, 205 ss. 76 Per contro erano solo cinque i libri ex Plautio di Giavoleno Prisco e sette quelli ex Plautio di Pomponio. 77 Lo notava già Ferrini 1894a, 211 ss.

11

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 12

Alvise Schiavon matica tra il commento paolino e quello di Giavoleno si è cercato di dar conto in diversi modi: si è ipotizzato che Giulio Paolo, a differenza di Giavoleno, abbia utilizzato l’editto del pretore dopo la sua pubblicazione definitiva78; oppure si è immaginato che i due giuristi abbiano commentato opere diverse di Plauzio79; non possiamo però escludere che i vari giuristi – e in particolare Paolo e Giavoleno – abbiano commentato i medesimi materiali plauziani, escerpendo però i contenuti che ritenevano dal loro punto di vista più interessanti. Appare senz’altro significativa, per il discorso che stiamo svolgendo, la circostanza che nell’opera ad Plautium di Paolo si rinvengano diverse citazioni di giuristi precedenti80: sia di giuristi risalenti a un’età anteriore all’attività di Plauzio, e dunque in via presuntiva attribuibili all’opera originale di quest’ultimo81, sia a questa successsivi e dunque sicuramente attribuibili a Giulio Paolo82; tra questi ultimi, Paolo nomina con particolare frequenza gli autori degli altri libri ad Plautium – e in particolare Pomponio, il cui commento Paolo ben conosceva83 – e Salvio Giuliano84. A fronte di tale ricchezza di citazioni, risalta l’esiguità dei passi in cui viene esplicitamente riportata l’opinione del giurista commentato, con l’indicazione del suo nome: cinque (nella forma ‘Plautius ait’ o con la semplice indicazione del nome sottolineata da punto di vista editoriale)85 più una dove l’indicazione del nome di Plauzio non è seguita dall’esposizione della sua opinione86. L’impressione che si trae è che il materiale del giurista precedente fosse consultato da Paolo anche, se non in massima parte, proprio in quanto prezioso contenitore di opinioni più risalenti87. Per lungo tempo sui libri ad Vitellium di Paolo88 ha aleggiato un giudizio di sfiducia secondo il quale, pur ammettendo l’esistenza di tale opera, i ventiquattro frammenti giunti fino a noi non potrebbero essere assunti come testimoni affidabili per la sua ricostruzione, trattandosi del frutto di un rimaneggiamento post-classico89; a seguito della persuasiva revisione della questione da parte di Antonio Guarino, oggi la dottrina prevalente mostra di considerare genuini i brani pervenutici90.

78

Questa è la tesi proposta da Siber 1951, 46. Così, partendo naturalmente dall’ipotesi che Plauzio fosse autore di diverse opere, tutte conosciute dalla giurisprudenza successiva, Scherillo 1953, 444 ss. L’ipotesi era già stata avanzata da Lenel 1889.II, 1147 nt. 1. 80 Lo notava già Fitting 1908, 90. 81 I giuristi precedenti a Plauzio citati nell’opera di commento di Paolo sono Servio (1), Labeone (1), Sabino (1), Cassio (13), Nerva padre (6), Proculo (3), Fulcinio (1) Atilicinio (1). 82 Un utile prospetto delle citazioni in Viarengo 2020, 25. 83 Specialmente Pomponio (citato in sette passi) e Nerazio (in tre passi) mentre Giavoleno è citato nominatim solo in un brano. Occorre però sottolineare che le opere di commento ex Plautio di Giavoleno e Pomponio non contengono una tale ricchezza di citazioni di giuristi precedenti, nello stato in cui ci sono giunte: si vedano i dati raccolti in Viarengo 2020, 15 ss. 84 Questo giurista viene citato nominativamente in ben quattordici passi (cfr. Lenel 1889.I, 1147 ss. L. 1073, 1079, 1084, 1101, 1003, 1141,1176, 1184, 1199, 1217, 1226 1227, 1235, 1239). 85 L. 1074, 1156, 1171, 1174 e 1179. 86 L. 1188. 87 In questo senso da ultime Frunzio 2017c, 97 e Viarengo 2020, 23. Sul punto si considerino anche le osservazioni di Mantovani 2003, 157 ss. (in particolare nota 106) nonché quanto si dirà infra pp. 45 ss. 88 Ad Vitellium libri IV in Lenel 1889.I, 1301 ss. (L. 2062 ss.). 89 Schulz 1968, 375. 90 Guarino 1963, 1 ss. 79

12

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 13

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario Nemmeno i libri di Paolo ad Vitellium rappresentano peraltro un unicum tra le opere dedicate a giuristi precedenti: l’altra opera ad Vitellium testimoniata dalle fonti è attribuita proprio a Masurio Sabino91. A differenza degli altri libri ad paolini, però, in questo caso non solo la biografia, ma l’identità stessa del personaggio cui l’opera è intitolata rappresenta un mistero92 e la questione si riverbera naturalmente su quella della natura e dello scopo delle opere successive (di Sabino e Paolo) a lui intitolate93. L’unico dato che appare sufficientemente certo è quello dell’esistenza di una linea di continuità tra il commento di Sabino e l’ad Vitellium di Paolo94. Questa conclusione è del resto corroborata dalla considerazione della materia oggetto dei commenti di Sabino e Paolo: i frammenti superstiti attribuibili alle due opere riguardano infatti esclusivamente la materia successoria, e in particolare l’ambito testamentario95. Per altro verso, l’opera ad Vitellium di Paolo contiene un numero molto elevato di citazioni di giuristi precedenti96 e alcuni passi riportano verbatim stralci di responsa di Cervidio Scevola, maestro di Paolo97, mentre la tipica struttura a doppio livello di scrittura – con indicazione

91 Il quale, oltre ai già ricordati libri iuris civilis, scrisse una serie di altre opere (su cui è tornato da ultimo Pontoriero 2020, 153 ss.), tra cui, appunto, un commentario intitolato a Vitellio (cfr. Lenel 1889.II, 189 ss. L. 10 ss.), di cui abbiamo testimonianza indiretta grazie alle citazioni della stessa da parte di altri giuristi (Paolo, Ulpiano e Trifonino). 92 Ha di recente rivisitato i dati a nostra disposizione e le diverse ipotesi avanzate nella romanistica moderna Beggio 2020, 32 ss. 93 Alcuni autori ritengono che il Vitellius oggetto delle opere di Sabino e Paolo non fosse un giureconsulto, ma un personaggio pubblico, forse un funzionario imperiale, cui l’opera di Sabino sarebbe stata dedicata (così in particolare Bremer 1898-1901.II.1, 375 ss. ma oggi anche Liebs 1980, 138 ss.) o destinata (questa è l’idea di fondo a suo tempo fatta propria da Di Marzo 1899, 14); secondo questa ipotesi, il successivo commento di Paolo non si potrebbe riferire all’opera di Vitellio, ma sarebbe da intendere come commento all’opera di Sabino ad Vitellium: l’opera di Paolo sarebbe pertanto più correttamente da intendersi come commento ad Sabinum ad Vitellium, mentre la denominazione di libri ad Sabinum sarebbe da imputare a una contrazione suggerita da esigenza di breviloquenza: in questo senso Bremer 1898-1901.II.1, 375-376; Di Marzo 1899, 4 ss. e Guarino 1965, 15 ss. Altri autori mostrano però di ritenere Vitellius un giurista di età risalente alla tarda età repubblicana o a quella augustea, la cui opera sarebbe stata commentata poco dopo da Sabino: secondo Ferrini 1885, 36 l’opera commentata sarebbe stata una collezione di responsi; Baviera 1889, 5 ha invece sostenuto che l’opera commentata da Paolo fosse una raccolta di altri giuristi più antichi composta da Vitellio; non prende posizione sul punto Krüger 1912, 159. In ogni caso, secondo questa opzione interpretativa, Paolo avrebbe utilizzato per il suo commentario l’opera originale di Vitellius, al più tenendo conto anche del commento di Sabino alla stessa. È stata infine proposta anche un’interpretazione ‘mediana’ da Guarino 1964a, 303 secondo cui Vitellio sarebbe stato effettivamente un giurista la cui opera era stata commentata da Sabino, e che quest’ultima fosse stata commentata da Paolo. Si segnala anche la recente ipotesi di Buongiorno 2020, 57 ss. secondo cui, alla luce della documentazione prosopografica a nostra disposizione, il Vitellio oggetto del commento paolino sarebbe da identificare con Lucio Vitellio, giurista e collega di censura dell’imperatore Claudio nel 47-48 d.C. 94 Lo sottolinea da ultima Mattioli 2020, 88. A questo proposito Wieacker 2006, 43 ha ipotizzato che nell’interesse di Paolo per la tradizione sabiniana (testimoniata dai suoi commenti ad Sabinum e ad Vitellium) abbia potuto influire l’opera di Pomponio; cfr. anche Beggio 2020, 54 ss. 95 Ma si consideri anche il tentativo di spiegare la polarizzazione della ad Vitellium paolina sulla materia testamentaria da parte di Ferrini 1894a, 224, secondo cui i compilatori giustinianei avrebbero potuto avere a disposizione solo la prima parte dell’opera del giurista severiano, quella dedicata alla materia successoria, ovvero che l’opera di Paolo si limitasse a quella parte perché incompiuta o per qualche interesse peculiare di Paolo verso la materia successoria. 96 Già riportati in Baviera 1889, 129 ss. 97 Su cui Schulz 1931, 220 ss. e 235 ss., che ricollegava queste inserzioni a una revisione tardo antica: contro questa tesi si era già espresso Guarino 1965, 2 ss.; analogamente, da ultimo, Wolf 2007, 472 ss.

13

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 14

Alvise Schiavon delle parti attribuibili a Paolo e al giurista precedente – emerge con certezza in un solo brano, in cui peraltro Paolo riporta e commenta un passo di Sabino98, circostanza che rafforza l’ipotesi che il commento di Paolo a Vitellio sia stato “mediato” dalla lettura del commentario di Sabino. Sebbene la sua natura lemmatica non sia in discussione – sia che l’opera originale commentata fosse quella di Vitellio99 o quella di Sabino ad Vitellium100 – anche in essa tale struttura rimane perlopiù nell’ombra, nascosta dietro brani costruiti con ricchissime citazioni di giuristi precedenti e una notevole attenzione casistica. Spostandoci infine sull’oggetto privilegiato della ricerca, bisogna subito sottolineare che a differenza delle opere ad paoline considerate fin qui, i libri ad Neratium rivestono una posizione peculiare non solo nella produzione di quel giurista, ma nel più vasto panorama della produzione letteraria dei giuristi romani: si tratta infatti dell’unica opera di commento a Nerazio a noi giunta101. Il dato appare ancora più significativo laddove si consideri che Nerazio è un giurista la cui opera è ben attestata102 e rispetto a cui i dati biografici, seppure scarni103, riescono a restituire un’immagine definita della sua carriera104 così come del suo profilo intellettuale. Fu presumibilmente proculiano105 e la sua produzione giurisprudenziale è attestata da numerosi frammenti del Digesto, da cui emergono con una certa sicurezza struttura e contenuto di tre opere principali106: membranae, regulae, responsa. Tra il restante materiale neraziano107, oltre alle numerosissime citazioni indirette ma non riconducibili ad alcuna opera specifica108, spicca il frammento ulpianeo (Ulp. 17 ad ed., D. 8.3.5.1) che attesta l’esistenza (già ricordata sopra) di una opera neraziana ex Plautio in più libri – non menzionata nell’Index Florentinus. Il passo in questione, peraltro, riporta indirettamente il pensiero di Proculo e Atilicino, giuristi antecedenti di qualche decennio a Nerazio e che ricorrono con una certa frequenza anche nell’opera paolina ad Plautium sopra citata. Circostanza, questa, che spinge ad immaginare che il brano ulpianeo riporti una citazione letterale dell’originale passo di Plau-

98 Lenel 1889.I, 1302 L. 2064. Si tratta del brano di Paul. 1 ad Vitellium, D. 28.5.18 su cui è tornato di recente Bonin 2020, 282 ss. A questo frammento si deve aggiungere Paul. 2 ad Vitellium, D. 33.7.18.12-13 (L. 2071), in cui è riportato un lungo brano esplicitamente attribuito a Sabino, senza però il commento da parte di Paolo. 99 Mayer Maly 1962c, 1743. 100 Schulz 1968, 375. 101 Per un inquadramento delle principali questioni sollevate dai libri ad Neratium dal punto di vista delle forme di produzione scientifica di Giulio Paolo e dei giuristi del Principato rimangono fondamentali le ricerche di Landucci 1892; Ferrini 1894b, 229 ss.; Guarino 1964a, 300 ss.; Liebs 1976, 217 ss. Più di recente ha toccato l’argomento anche Viarengo 2020, 26 ss. 102 Lenel 1889.I, 763 ss. riporta 188 frammenti attribuibili a Nerazio. 103 Vedi i dati prosopografici raccolti da Syme 1957, 480 ss.; Kunkel 1967, 144 ss.; Casavola 1980, 272 ss. e Marcone 1996, 216 ss. 104 Oltre agli autori citati nella nota precedente, si aggiungano specialmente le ricerche di Camodeca 1976 e 2007. Una sintesi anche in Greiner 1973, 1 ss. e Maifeld 1991, 15 ss. 105 Ce ne informa ancora una volta Pomponio in Pomp. l. s. ench., D. 1.2.2.53, dove si dice che Nerazio, insieme a Celso figlio, sarebbe succeduto a Celso padre come guida della scuola proculiana. 106 Bisogna segnalare fin da ora che non solo sulla genuinità delle attestazioni delle fonti relative alle opere di Nerazio, ma pure sull’esistenza stessa di quelle opere, sono stati sollevati severi rilievi critici da Greiner 1973, di cui si darà conto nel prosieguo del testo. 107 Tra cui in particolare vi sono testimonianze di altre opere neraziane: epistulae (Lenel 1889.I, 763 L. 1 e 2) e un liber singularis de nuptiis (Lenel 1889.I, 774 L. 63). 108 Lenel 1889.I, 778 ss. L. 103 ss.

14

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 15

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario zio109 e che l’opera di quest’ultimo si caratterizzasse per la ricchezza delle citazioni di giuristi precedenti110. Come per i libri ad Plautium, anche per quelli ad Neratium si pone il problema di determinare quale opera (o opere) di Nerazio stesse commentando il giurista severiano. Se si considerano il numero e la tipologia di citazioni nominative di giuristi precedenti emerge invece una peculiarità dell’ad Neratium rispetto agli altri libri ad paolini: a differenza di quanto abbiamo potuto constatare per le opere ad Sabinum e ad Plautium (e congetturare per la ad Vitellium) – lavori ricchi di citazioni anche molto risalenti, attribuibili con buona probabilità all’estensore dell’opera originale – nell’ad Neratium esse sono praticamente assenti. Se si escludono le menzioni di Scevola, Sabino e Labeone presenti in Paul. 2 ad Ner., D. 3.5.18.1-5 (L. 1032), fonte che però alla luce della nostra analisi appare piuttosto attribuibile al commentario ad edictum di Paolo111, nell’opera di commento a Nerazio si rinviene solo una citazione di Salvio Giuliano (in Paul. 3 ad Ner., D. 13.1.19 L. 1039)112, attribuibile alla mano paolina, e un generico riferimento ai veteres da parte di Nerazio (in Paul. 3 ad Ner., D. 45.1.140 L. 1046)113. D’altro canto, però, in quest’opera appare con frequenza la struttura a doppia scrittura tipica dei commentari ‘lemmatici’, ossia la separazione della parte attribuibile all’opera originale da quella del commentatore premettendovi il nome dell’autore (in 13 frammenti su 29)114. Al termine di questa raccolta dei dati minimi sulle opere di Paolo di commento a giuristi precedenti, si possono trarre alcune conclusioni utili a inquadrare il commentario paolino ad Neratium. Abbiamo testimonianze di cinque commenti di Paolo all’opera di giuristi precedenti, tutti collocabili cronologicamente tra l’età augustea e quella di Traiano (Vitellio [?], Labeone, Sabino, Plauzio, Nerazio)115. Salvo Nerazio e Labeone116, gli altri sono stati tutti commentati anche da giuristi successivi diversi da Giulio Paolo, in libri ad intitolati a loro. Alcuni di essi sono riconducibili a una delle scuole (Sabino – ovviamente scolarca sabiniano – e Nerazio, forse Plauzio – proculiani), ma questo non sembra il criterio principale seguito da Paolo nella selezione del giurista da commentare.

109

Come riportato da Viarengo 2020, 17 nt. 78. Notava la peculiare ricchezza di citazioni di giuristi precedenti in quest’opera già Fitting 1908, 90. Non è possibile valutare questo aspetto con riferimento ai libri ex Plautio o ad Plautium di Giavoleno, di cui è conservata una sola citazione indiretta in Paul. 9 ad Plaut., D. 34.2.8, mentre, per quanto riguarda la corrispondente opera di Pomponio, le testimonianze pervenuteci contengono un numero limitato di citazioni nominative di giuristi precedenti ad esso (mentre contengono numerose citazioni di giuristi successivi a Plauzio ma precedenti a Pomponio). Su tutti questi aspetti si vedano i dati raccolti in Viarengo 2020, 15 ss. 111 Si veda l’analisi svolta infra pp. 175 ss. 112 Cfr. infra pp. 204 ss. 113 Cfr. infra pp. 228 ss. 114 Troviamo segnata la parte di testo attribuibile a Paolo in L. 1023, 1024, 1027, 1029, 1030, 1033, 1034, 1036, 1037, 1040 (qui con il sintagma ‘Paulus notat’), 1043, 1046, 1048 (Lenel 1889.I, 1140 ss.). 115 A cui si dovrebbero aggiungere le notae di Papiniano sulle quali, come abbiamo ricordato, vi sono dubbi circa la loro consistenza di opera autonoma. 116 La cui opera fu comunque ampiamente conosciuta da parte dei giuristi successivi: si vedano le citazioni raccolte nell’utile repertorio predisposto da Melillo, Palma, Pennacchio 1995 che nella prima parte (16 ss.) riporta le citazioni di Labeone presso i giuristi successivi, mentre nella seconda (113 ss.) sono riportate le ricorrenze tratte da epitomi, posteriores e pithanà. Sui libri posteriores e il rapporto tra l’opera labeoniana e quella di Giavoleno si vedano anche le ricerche di Kohlhaas 1986, 20 ss. e Mantovani 1988, 271 ss. 110

15

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 16

Alvise Schiavon Tutte queste opere avevano la forma del commento lemmatico. È incerto se nei libri paolini ad Sabinum fosse originariamente riportato l’intero testo o si richiamasse solo un lemma per riferirsi al testo commentato117, in ogni caso quest’opera presenta caratteri di commento sistematico allo ius civile che la differenzia decisamente dalle altre opere intitolate a giuristi precedenti. Le altre opere di commento a materiale giurisprudenziale precedente contenevano invece, nella loro forma originaria, il testo commentato – nella forma integrale o quantomeno in forma riassunta. La struttura lemmatica con scrittura a doppio livello – con l’evidenziazione sul piano editoriale della parte attribuibile all’uno e all’altro giurista – emerge in modo disuguale nelle diverse opere, per come ci sono preservate: nella epitome dei pithanà essa è presente nella maggior parte dei passi; nell’ad Neratium si ritrova in circa la metà di essi; nell’ad Plautium in sei passi su settantasei, nell’ ad Vitellium, infine, solo in due passi (su trentadue). Questo naturalmente può dipendere da fattori del tutto casuali – alterazioni testuali posteriori, interpolazioni giustinianee, oppure consapevole omissione del nome da parte del copista – che vanno ove possibile accertate passo per passo, ma potrebbe anche essere legato a caratteristiche originarie dell’opera118. La differenza tra il lavoro su Labeone e quelli su Plauzio e Nerazio, più che sul tipo di operazione svolta sul materiale originale, sembra risiedere nel criterio per selezionare i passi da commentare: nell’epitome la scelta sembra guidata dall’ordine originale dell’opera specifica da annotare, mentre nell’ad Plautium e nell’ad Neratium il commentatore potrebbe essersi mosso più liberamente tra il materiale del giurista anteriore119. Le tre opere invece si differenziano profondamente quanto alla presenza di citazioni di giuristi precedenti, sia rispetto al commentatore che all’autore dell’opera commentata: mentre i libri ad Plautium ne sono ricchissimi, le fonti attestano per il commentario ad Neratium e nella epitome Labeonis un numero molto minore di ricorrenze. Il dialogo di Paolo con Labeone e Nerazio ci appare più denso e in qualche misura privilegiato, sebbene condotto con un tono differente: generalmente critico verso Labeone, complessivamente di affinità verso Nerazio. Le rilevate differenze tra le opere ad di Paolo, e le similitudini tra queste e l’epitomecommento di Labeone potrebbero suggerire che le opere si rivolgessero a tipologie di pubblico differenti e che siano nati in contesti – e dunque per finalità – differenti.

117 Wieacker 2006, 41 ss. ritiene che generalmente, nel caso dei grandi commentari ad edictum e ad Sabinum, il testo commentato fosse solo richiamato con un singolo lemma prima del commento (e analogamente Bretone 2020, 281 ss.). Per contro Liebs 1997a, 140 si mostra persuaso che tutte le forme di commentario – compresi i grandi commentari ad edictum e ad Sabinum – riportassero in forma almeno riassunta l’intero brano originale commentato. Su una posizione opposta Cannata 1976, 61 dubita persino della natura lemmatica dei commenti ad Sabinum: essi infatti ‘erano dei veri trattati, e non vanno confusi con le notae, che spesso i giuristi facevano ad opere o a parti di o punti di opere altrui’. 118 Si potrebbe ad esempio immaginare che, al netto delle alterazioni nella tradizione testuale post-classica, i compilatori abbiano escerpito passi con scrittura a doppio livello specialmente laddove fosse impossibile riportare il commento del giurista successivo senza perdere completamente il senso del discorso. Se così fosse, la ricorrenza tra le fonti a noi trasmesse della struttura a doppio livello potrebbe comunque essere assunto come indicatore di alcuni caratteri del commento del giurista al testo precedente. 119 Non appare possibile valutare, allo stato delle fonti, come abbia operato la selezione del commentatore nel caso delle notae di Paolo ai responsa di Papiniano (sulla cui stessa consistenza come opera autonoma la storiografia non è ancora convinta) e dell’ad Vitellium (su cui sono troppe le incertezze circa l’opera commentata).

16

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 17

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario 3. Le citazioni di Nerazio negli scritti di Paolo: riflessioni sui rilievi quantitativi Nerazio non fu autore di marginale importanza agli occhi di Paolo. La considerazione può apparire del tutto ovvia e superflua, data la scelta che questo ultimo fece nel dedicargli una specifica opera di commento. Ma ciò trova ulteriore conferma se si volge lo sguardo al complesso degli scritti del Severiano, dove si contano ulteriori 26 occorrenze in cui il giurista traianeo viene espressamente menzionato120. In prima battuta questa cifra potrebbe sembrare non particolarmente rilevante, soprattutto se si instaura il naturale confronto con quella delle citazioni neraziane, intorno a 65, presenti nell’opera di Ulpiano121. Ma tale confronto può assumere un diverso sapore se letto alla luce di alcune circostanze ben note alla storiografia.

120 Volendo seguire l’ordine e le attribuzioni presenti nella palingenesi leneliana, Paolo richiama le membranae, senza indicare il libro in Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17pr., a questo testo Lenel collega Paul. 6 ad Plaut., D. 42.1.21 e Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17.2 (considero separatamente le due citazioni neraziane di Paul. 7 ad Sab., sebbene tratte dal medesimo frammento, in quanto prendono in considerazione contesti fra loro differenti). Il primo e il secondo libro dei responsa neraziani sono citati rispettivamente in Paul. 8 ad Plaut., D. 35.1.43.3 e in Paul 4 ad Sab., D. 33.7.13pr. e 1 (anche in questo caso si potrebbero considerare autonome le due citazioni di Nerazio in quanto riguardano l’interpretazione del legato di oggetti e relativi instrumenta differenti); altri riferimenti ai responsa, ex libris incertis in Paul. 4 quaest., D. 15.3.19 (il richiamo a Nerazio ricorre 2 volte nel testo, ma essendo il medesimo argomento si può ritenere una sola citazione); Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8pr. Incerta è l’opera di Nerazio a cui Paolo si rifà in una citazione tratta da un “libro primo” in Paul. 14 resp., D. 22.1.14.1. Circa poi le citazioni di Nerazio prive di qualsivoglia ulteriore indicazione: Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27pr.; Paul 9 ad ed., D. 3.5.17; Paul. 6 ad Sab., D. 8.2.19pr.; Paul. 1 manual., Vat. 54; Paul. 3 ad Sab., D. 16.2.4; Paul. 32 ad ed., D. 17.1.22.8; Paul. 32 ad ed., D. 17.1.26.7; Paul. 5 ad Plaut., D. 18.1.57pr.; Paul.7 ad Sab., D. 23.3.20; Paul. 7 ad Sab., D. 24.1.26.1; Paul. 1 ad l. Ael. Sent., D.28.5.56; Paul. 2 ad Vit., D. 33.7.18.2; Paul.2 ad Vit., D. 34.2.32.5; Paul. ad l. Fuf. Can., D. 35.1.37; Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1.21. Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.3; Paul. 54 ad ed., D. 41.2.7; Paul. 54 ad ed., D. 41.4.2.6. Sul punto cfr. anche i rilievi di Bremer 1898-1901, II.2, 288. 121 Sempre seguendo l’ordine e le attribuzioni presenti nella palingenesi leneliana, dalle epistulae, liber IV: Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.12.35 e 43; ex libro incerto: Ulp. 32 ad ed., D. 19.2.19.2 (Nerazio è citato 2 volte ma essendo nel medesimo contesto va ritenuta una sola citazione). Dalle membranae, liber II: Ulp. 17 ad ed., D. 8.3.3pr.-2 (qui si hanno 3 citazioni di Nerazio, tratte dallo stesso libro e pertinenti al medesimo contesto che è opportuno considerare in modo unitario); liber III: Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.12pr. (= Vat. 71); Ulp. 17 ad ed., D. 8.3.3.3; liber IV (Nerazio è citato due volte dal medesimo libro e nello stesso contesto): Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.7.3; Ulp. 76 ad ed., D. 44.4.4.18; liber V: Ulp. 56 ad ed., D. 47.10.1.8-9 (Nerazio è citato 2 volte ma sempre nel medesimo contesto e vanno considerate in modo unitario); liber VI-VII: Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.13.3; liber VII: Ulp. 75 ad ed., D. 44.2.9.1 e 11pr. (Nerazio è citato 2 volte ma essendo nel medesimo contesto va considerata una sola citazione); ex libris incertis: Ulp. 26 ad ed., D. 12.4.3.5 dalle membranae, Ulp. 38 ad ed., D. 13.1.12.2; Dai libri ex Plautio, Ulp. 17 ad ed., D. 8.3.5.1. Dai responsa, liber I: Ulp. 17 ad Sab., Vat. 75 e 79 (= D. 7.2.3 pr.) (Nerazio è citato 2 volte dalla stessa opera e nello stesso contesto e va considerata in modo unitario); Ulp. 29 ad ed., D.14.6.7 pr.; Ulp. 5 disput., D. 36.1.23.3; liber II: Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.9.1; Ulp. 32 ad ed., D. 19.1.11.12; Ulp. 24 ad ed., D. 10.4.5.4; ex libris incertis: Ulp. 19 ad ed. D. 10.2.20.7. Dalle operae incertae, Ulp. 6 ad ed., D. 3.2.11.3. Circa poi le citazioni del giurista prive di qualsivoglia ulteriore indicazione: Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.27.1; Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.15.3; Ulp. 16 ad ed., D. 6.2.9.3; Ulp. 17 ad Sab., D. 7.2.3.2 (= Vat. 83); Ulp. 17 ad Sab., Vat. 85; Ulp. 17 ad Sab., D. 7.8.10.2; Ulp. 17 ad ed., D. 8.5.2.2; Ulp. 18 ad ed., D. 9.2.9.2; Ulp. 18 ad ed., D. 9.2.23pr.; Ulp. 18 ad ed., D. 9.2.27.9 (= Coll. 12.7.7); Ulp. 23 ad ed., D. 9.4.21.6; Ulp. 30 ad ed., D. 16.3.1.20-21(si tratta di 2 citazioni di Nerazio che vanno considerate in modo unitario); Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.12.5; Ulp. 31 ad ed., D. 17.2.52.16-17; Ulp. 32 ad ed., D. 18.3.4.1; Ulp. 32 ad ed., D. 19.1.11.7-11 e 13 (qui troviamo 6 citazioni di Nerazio strettamente collegate fra loro e pertinenti allo stesso argomento; Ulp. 32 ad ed., D. 19.1.13-14; Ulp. 73 ad ed., D. 20.2.3; Ulp. 1 ad ed. aed., D. 21.1.25.3; Ulp. 32 ad ed., D. 21.2.37.2; Ulp. 31 ad Sab., D. 23.3.5.6 e 8; Ulp. 32 ad Sab., D. 24.1.5.5; Ulp. 32 ad Sab., D. 24.1.13.2; Ulp. 35 ad ed., D. 27.3.9.1; Ulp. 5 ad Sab., D. 28.5.9.14; Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.12.4; Ulp. 18 ad Sab., D. 35.1.7pr.; Ulp. 8 disput., D. 35.2.82; Ulp. 3 fideic., D. 36.1.1.19; Ulp. 53 ad ed., D. 39.3.1.2; Ulp. 19 ad Sab., D. 40.4.7; Ulp. 59 ad ed., D. 42.4.7.16; Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.7.1; Ulp. 41 ad Sab., D. 47.2.43.1; Ulp. 57 ad ed., D. 47.10.7.5; Ulp. 11.28. Ad un numero maggiore, 76, giunge Tony Honoré in ragione di un mero calcolo quantitativo (Honoré 2002, 140).

17

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 18

Gianni Santucci Innanzitutto per poter disporre di un quadro completo della presenza di Nerazio nell’opera paolina crediamo corretto accostare alla mole delle citazioni in Paolo anche gli stessi 29 testi del commento ad Neratium, in cui, come si vedrà analiticamente in seguito, il più delle volte si è conservata direttamente la prosa neraziana, e anche quando questo non è accaduto, si deve ritenere che verosimilmente questa fosse presente nell’originario commento paolino. Alla luce di questo calcolo, il complesso delle presenze di Nerazio viene così a toccare il numero di 55. Un numero tutt’altro che esiguo se si riconosce in Paolo, come si è soliti fare, un autore che nel complesso della sua opera appare avaro di citazioni dei giuristi precedenti o coevi, specie se queste sono nominative122; e ciò, soprattutto, se si continua il parallelo con l’altro grande severiano, essendo “ben nota l’inclinazione ulpianea a fare da cassa di risonanza e a dare ampiamente conto degli orientamenti della giurisprudenza precedente attraverso l’uso frequente di citazioni nominative”123. Se infine si tiene conto pure dell’ampiezza decisamente maggiore del materiale ulpianeo presente nel Digesto rispetto a quello paolino124, il numero delle citazioni nominative di Nerazio in Paolo appare senza dubbio considerevole. Assai di recente, in relazione a quel vasto campo dei libri ad edictum, si è osservato come Paolo abbia fra i referenti principali ancora i giuristi dell’età del primo principato, mentre, pur con la naturale eccezione di Giuliano e Pomponio, sembra che “in Paolo quasi non abbiano invece voce i giuristi dell’epoca di mezzo”125, alla luce di questa considerazione la presenza diffusa dei richiami a Nerazio viene quindi ad assumere ulteriore risalto. Uno sguardo cursorio intorno alla presenza tendenzialmente limitata nell’intera opera paolina delle citazioni di giuristi quali Aristone126, Celso127 e poi Marcello128, Africano129, conforta in questo ordine di considerazioni.

122

Cfr. quanto osserva con riguardo ai commenti ad edictum paolini Luchetti 2018, 41 nt.13. Così Luchetti 2018, 41, che inoltre, comparando i commentari ad edictum ulpianei e quelli paolini, riconosce 1800 citazioni di giuristi precedenti nei primi e solo 355 nei secondi. 124 Si afferma solitamente che almeno un terzo dei frammenti di cui è composto il Digesto provengono da Ulpiano (così fra i tanti Orestano 1973, 1107 e di recente Brutti 2009, 643); Honoré 2002, 41 e nt. 23 (con riferimenti bibliografici) identifica una mole maggiore da fissarsi fra il 40 e il 42 per cento; mentre il materiale paolino si ferma ad un sesto (Orestano 1965, 363; Brutti 2009, 639; Paricio, Fernández Barreiro 2010, 166). Circa tale rapporto con riguardo al numero dei paragrafi e delle colonne presenti nella Palingenesia leneliana cfr. Talamanca 1977a, 236 nt. 67. Circa la consistenza dei commentari ad edictum paolini in rapporto a quelli ulpianei Luchetti 2018, 40 e nt.9. 125 Luchetti 2018, 46 s. 126 Paolo ricorda 10 volte Aristone: Paul. 5 ad Plaut., D. 19.4.2; Paul. 3 quaest., D. 20.3.3; Paul. 1 ad ed. aed., D. 21.1.30.1; Paul. 7 ad Sab., D. 23.3.20; Paul. 7 ad Sab., D. 25.2.6.5; Paul. l. s. ad l. Falc., D. 35.2.1.9; Paul. 3 ad Sab., D. 36.1.20.1; Paul. 48 ad ed., D. 39.2.18.10; Paul. 3 ad l. Ael. Sent., D. 40.9.16.3; Paul. 72 ad ed., D. 45.1.83.1. 127 Celso è menzionato solo in 6 occorrenze: Paul. 3 ad Sab., D. 12.6.6pr. e 2; Paul. 7 ad ed., D. 24.1.28.7; Paul. 54 ad ed., D. 41.4.2.11.13.14; Paul. 8 ad Sab. Vat. 1; Paul.17 ad Plaut., D. 45.1.91.3; Paul. 15 quaest., D. 46.3.98.8. 128 Marcello è citato 13 volte: Paul. 11 ad ed., D. 4.4.23; Paul. 29 ad ed., D. 13.7.16.1; Paul. 1 quaest., D. 21.1.56; Paul. 6 ad Sab., D. 26.7.16; Paul. 25 quaest., D. 22.1.11.1; Paul. 1 ad Sab., D. 28.2.9.2; Paul. 4 ad Sab., D. 33.8.9.1; Paul. 12 ad Sab., D. 45.1.4.1; Paul. 2 ad Sab., D. 45.1.8; Paul. ad l. Falc., D. 35.2.1.19; Paul. ad l. Falc., D. 35.2.3.2; Paul. 71 ad ed., D. 44.4.5.1; Paul. l.s. de adult., Coll. 4.2.3.4. 129 2 citazioni di Marcello: Paul. 7 ad Sab., D. 24.1.2; Paul. 3 fideic., D. 35.2.36.4. 123

18

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 07/12/21 09:42 Pagina 19

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario Sappiamo con certezza che Paolo nei suoi scritti attinse dalle membranae130 e dai responsa131, ma la maggior parte dei richiami paolini non sono per noi più riconducibili ad una specifica opera di Nerazio. Sorprende in Paolo il buon numero di citazioni di altri giuristi accanto al nome di Nerazio, fenomeno invece pressoché assente nei libri ad Neratium132. Sorprende ancora di più, a nostro avviso, il fatto che sono richiamati, nella grande maggioranza dei casi, giuristi precedenti o tutt’al più coevi a Nerazio133. Quale il rapporto fra questi autori e Nerazio nel contesto dell’opera paolina? Da una parte la probabile disponibilità immediata della fonte neraziana nelle mani di Paolo, testimoniata talvolta dal richiamo del nome dell’opera citata134, dall’altra l’assenza, accanto a Nerazio, di giuristi a lui posteriori nelle citazioni paoline, inducono a ritenere che la menzione degli autori precedenti fosse filtrata in Paolo attraverso la diretta lettura di Nerazio135. Qualche indicazione più penetrante in questo senso la si può cogliere, osservando da vicino alcuni testi. Prendiamo innanzitutto il caso di Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17pr136. Qui Paolo pone il problema se si possa accordare il c.d. beneficium competentiae137 al suocero convenuto dal marito per una promessa di dote. La quaestio paolina – che non è inedita nel pensiero giurisprudenziale (“solet quaeri”) 138 – è risolta con il richiamo delle membranae di Nerazio e di Proculo: “Neratius membranarum et Proculus scribunt iustum esse”. La citazione neraziana con l’indicazione dell’opera precede quella di Proculo e appare credibile stimare che Paolo leggesse direttamente le membranae di Nerazio da cui traeva anche la citazione indiretta di Proculo. Che Paolo abbia tratto da Nerazio l’opinione di Proculo lo si può affermare con una certa sicurezza anche per Paul. 2 ad Vit., D. 34.2.32.5. dove il giurista severiano scrive che “Neratius Proculum refert ita respondisse”. Come già si è notato nella storiografia139, l’uso nei

130

Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17pr. e 2, a cui Lenel riconnette anche Paul. 6 ad Plaut., D. 42.1.21 (Lenel 1889.I, 773). Paul. 8 ad Plaut., D. 33.1.43.3; Paul. 4 ad Sab., D. 33.7.13.1; Paul. 4 quaest., D. 15.3.19; Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8pr. È assai plausibile ritenere che Paolo traesse dai responsa neraziani anche Paul. 14 resp., D. 22.1.14.1 (cfr. Lenel 1889.I, 774 s.). 132 Se come si ritiene Paul. ad Ner., D. 3.5.18.1-5 (dove sono citati Cervidio Scevola, Sabino e Labeone) fu tratto in realtà dal nono libro ad edictum di Paolo vedi infra: 175 ss., risulta citato solo una volta Giuliano in Paul. 3 ad Ner., D. 13.1.19, vedi infra: 116. 133 Accanto a Nerazio, Paolo ricorda Proculo in Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17pr.; Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27pr.; Paul. 9 ad ed., D. 3.5.17; Paul. 2 ad Vit., D. 34.2.32.5; Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.3. Sabino in Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17.2; Paul. 5 ad Plaut., D. 18.1.57pr. Nerva in Paul. 5 ad Plaut., D. 18.1.57pr. Labeone in Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8 pr. Atilicino in Paul.3 ad ed., D. 2.14.27pr.; Pegaso in Paul. 9 ad ed., D. 3.5.17. Aristone in Paul. 7 ad Sab., D. 23.3.20. Solo in parte contemporanei a Nerazio sono citati anche Giuliano e Pomponio in 7 ad Sab., D. 23.3.20 e in Paul. 3 ad Sab., D. 16.2.4. 134 Berger 1918, 746 s.; Maifeld 1991, 115 s.; Cossa 2018b, 345. 135 Sulle possibili modalità di citazione di seconda e terza mano di autori precedenti si è soffermato ampiamente, in rapporto ad Ulpiano, Honoré 2002, 148 ss. 136 D. 24.3.17pr: Ex diverso si socer ex promissione a marito conveniatur, solet quaeri, an idem et honor habendus sit: Neratius membranarum et Proculus scribunt iustum esse. 137 Il tema generale è quello della restituzione di dote e del beneficium competentiae accordato al marito e al suocero. Il discorso è ricostruito da Lenel in Paul. 1766 (D. 2 4.3.15.1-2; D. 24.3.17). 138 La centralità della citazione delle membranae di Nerazio è testimoniata anche da un altro testo, Paul. 6 ad Plaut., D. 42.1.21: Sicut autem cum marito agitur, ita et cum socero, ut non ultra facultates damnetur. An si cum socero ex promissione dotis agatur, in id quod facere potest, damnandus sit? Quod et id aequum esse videtur: sed alio iure utimur, ut et Neratius scribit. 139 Casavola 1980, 130. 131

19

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 07/12/21 09:44 Pagina 20

Gianni Santucci prudentes di determinati verbi, fra cui referre, sembra costituire la spia della lettura diretta dell’opera da parte del citante. Nella stessa prospettiva possono essere anche letti Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27pr.140 e Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17.2141; il primo testo tratta dell’opponibilità da parte di un socio argentarius del pactum de non petendo agli altri soci. Paolo riporta, aderendovi, il parere conforme di Nerazio, Atilicino e Proculo. Anche qui il fatto che il giurista traianeo sia menzionato per primo può apparire non privo di significato ed induce a supporre che le opinioni di Atilicino e Proculo giungano a Paolo tramite la lettura di Nerazio. Osservazioni simili si possono avanzare anche per il secondo testo dove la posizione di Nerazio anticipa quella di Sabino: “Neratius Sabinus aiunt (…)”. Talora nella narrazione paolina la posizione di Nerazio appare ‘staccata’ rispetto a quella degli altri giuristi citati ma non per questo non possiamo ritenere plausibile che pure in questo caso Paolo abbia attinto alle opinioni di autori precedenti sempre tramite la lettura di Nerazio. In questa prospettiva può essere letto Paul. ad Sab., D. 8.2.19pr.142. Paolo riporta il parere di Proculo secondo cui non si può proibire al vicino di tenere i locali adibiti a bagno, nonostante la parete assorba umidità. Su questa affermazione si innesta e si sviluppa la successiva riflessione di Nerazio che, ipotizzando una diffusa immissione di umidità originata dalla presenza di un tepidarium, giunge alla soluzione opposta rispetto a quella offerta da Proculo. Il fatto che la soluzione di Nerazio presupponga logicamente la precedente di Proculo rende probabile poter credere che Paolo, leggendo Nerazio, avesse conoscenza dell’opinione di Proculo. Un discorso simile si può proporre per Paul. 5 ad Plaut., D. 18.1.57pr.143 Le parti ignorano che la casa, oggetto di una compravendita, è andata perita. Nerva, Sabino e Cassio giudicano la vendita come nulla per mancanza dell’oggetto, suggerendo a favore del compratore l’azione di ripetizione del prezzo versato. Nerazio circostanzia e scompone il caso, ponendo l’eventualità che una parte della casa sia rimasta indenne da cui consegue la formulazione di un preciso discrimine: qualora l’edificio sia andato perito totalmente o per la maggior parte, secondo Nerazio si deve optare per la soluzione già illustrata, qualora invece questo sia rimasto integro per almeno la metà o per la maggior parte, la vendita conserva la sua validità e il compratore sarà costretto a pagare il prezzo che però dovrà essere ridotto proporzionalmente alla riduzione del valore della merce danneggiata. Come appare evidente, il più sottile

140 Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27pr.: Si unus ex argentariis sociis cum debitore pactus sit, an etiam alteri noceat exceptio? Neratius Aticilinus Proculus, nec si in rem pactus sit, alteri nocere: tantum enim constitutum ut solidum alter petere possit. 141 Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17.2: Si in iudicio dotis iudex ignorantia iuris lapsus condemnaverit maritum in solidum. Neratius Sabinus doli exceptione eum uti oportere aiunt eaque tutum fore. 142 Paul. 6 ad Sab., D. 8.2.19pr.: Fistulam iunctam parieti communi, quae aut ex castello aut ex caelo aquam capit, non iure haberi Proculus ait: sed non posse prohiberi vicinum, quo minus balineum habeat secundum parietem communem, quamvis umorem capiat paries: non magis quam si vel in triclinio suo vel in cubiculo aquam effunderet. sed Neratius ait, si talis sit usus tepidarii, ut adsiduum umorem habeat et id noceat vicino, posse prohiberi eum. 143 Paul. 5 ad Plaut., D. 18.1.57pr.: Domum emi, cum eam et ego et venditor combustam ignoraremus. Nerva Sabinus Cassius nihil venisse, quamvis area maneat, pecuniamque solutam condici posse aiunt, sed si pars domus maneret, Neratius ait hac quaestione multum interesse, quanta pars domus incendio consumpta permaneat, ut, si quidem amplior domus pars exusta est, non compellatur emptor perficere emptionem, sed etiam quod forte solutum ab eo est repetet: sin vero vel dimidia pars vel minor quam dimidia exusta fuerit, tunc coartandus est emptor venditionem adimplere aestimatione viri boni arbitratu habita, ut, quod ex pretio propter incendium decrescere fuerit inventum, ab huius praestatione liberetur.

20

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 21

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario ed articolato ragionamento di Nerazio presuppone e approfondisce la lineare e unanime risposta offerta dai primi tre giuristi. È plausibile ritenere che l’uniforme parere di Nerva, Sabino e Cassio fosse già presente e discusso in Nerazio e, tramite quest’ultimo, conosciuto dal giurista severiano. Scorrendo tali testi, poi, è facile cogliere pressoché sempre un atteggiamento di apprezzamento da parte di Paolo circa il pensiero di Nerazio. In molti passaggi Paolo sembra recepire integralmente, non manifestando distinguo o contrapposizioni di sorta, le opinioni del giurista traianeo introdotte dai consueti stilemi “Neratius scribit”, “Neratius ait”, “Neratius respondit” o simili144. In altri casi il ragionamento costruito da Paolo sulla citazione neraziana mostra una adesione ancora più esplicita e circostanziata145. Di rilievo, infine, il fatto che, spesso, anche se non sempre, Paolo abbracciando il pensiero di Nerazio e, attraverso la sua mediazione, quella di giuristi precedenti, al contempo ignori altri autori coevi o posteriori al giurista traianeo. Tale fatto può non essere casuale ed essere letto come l’indizio della precisa scelta del giurista severiano di eleggere Nerazio quale accreditata fonte in grado di fornire in modo pressoché definitivo e stabilizzato l’assetto di determinate questioni o figure giuridiche, recuperando e selezionando le trame dei contesti giurisprudenziali. L’impressione è che agli occhi di Paolo Nerazio potesse costituire una sorta di punto fermo, al pari di un Plauzio o di un Giuliano, a cui attingere con sicurezza in ragione della sua autorevolezza, della sua capacità di razionalizzare e fissare gli orientamenti teorici e pratici anteriori o coevi, e, non da ultimo, nella prospettiva di una condivisione di valori metodologici e concettuali del ius. 4. L’ad Neratium: le opere oggetto del commento Come già si è anticipato nella premessa146, fra gli scopi che ci poniamo nella presente ricerca vi è quello di tentare di offrire una soluzione alle incertezze sorte circa la provenienza del materiale del giurista traianeo messo a partito nel commento paolino. Il Severiano aveva steso le sue annotazioni di carattere lemmatico “su una particolare opera di Nerazio o su passi scelti da varie delle sue opere” era il dubbio registrato da Fritz Schulz nella sua Storia147. Dubbio, peraltro, ancora presente nella più recente storiografia148 e alimentato da un differente atteggiarsi degli studiosi. Contardo Ferrini si è mostrato risoluto al riguardo, non ritenendo “difficile” dimostrare che si trattasse unicamente di testi provenienti dai libri responsorum di Nerazio149. Alcuni stu-

144 Si vedano, fra gli altri, Paul. 6 ad Plaut., D. 42.1.21; Paul. 8 ad Plaut., D. 35.1.43.3; Paul. 1 manual., Vat. 54; Paul. ad l. Fuf. Can., D. 35.1.37; Paul. 54 ad ed., D. 41.2.7; Paul. 4 quaest., D. 15.3.19; Paul. 7 ad Sab., D. 24.1.26.1; Paul. 1 ad l. Ael. Sent., D. 28.5.56; Paul. 54 ad ed., D. 41.4.2.6; Paul. 4 ad Sab., D. 33.7.13pr. e 1; Paul. 2 ad Vit., D. 33.7.10.2. 145 Si vedano, per esempio, Paul. 6 ad Sab., D. 8.2.19pr.; Paul. 3 ad Sab., D. 16.2.4; Paul. 5 ad Plaut., D. 18.1.57pr.1; Paul. 7 ad Sab., D. 23.3.20. 146 Vedi supra: 4. 147 Schulz 1968, 392. In questo senso già Krüger 1888, 188; Frezza 1974, 486. 148 Viarengo 2020, 27. 149 Ferrini 1894b, 230 ss.

21

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 22

Gianni Santucci diosi si sono adagiati sull’autorevole conclusione150, mentre altri hanno preferito non prendere posizione, conservando un atteggiamento prudente al riguardo151. Diversamente ancora, in tempi più vicini a noi, Reinhold Greiner ha considerato del tutto legittima l’eventualità che anche altre opere neraziane, oltre i libri responsorum, siano state mutuate da Paolo per il suo commento152. Tre sono le evidenze su cui Ferrini fonda la propria tesi. L’“argomento fortissimo”153, nella riflessione dell’illustre studioso, era costituito dall’evenienza che, osservando la posizione dei frammenti paolini ad Neratium all’interno della massa papinianea nel Digesto, questi seguivano immediatamente testi escerpiti dai responsa di Nerazio. Tuttavia, una verifica circostanziata della loro collocazione è in grado di dimostrare che solo in cinque occorrenze sulla totalità dell’opera154 la sequenza così individuata emerge; ma, al di là dell’esiguità di tale fenomeno, dalla sua presenza crediamo sia possibile arguire unicamente il fatto che i compilatori, incaricati di selezionare la massa papinianea, in determinate occasioni abbiano spogliato i libri responsorum di Nerazio e l’ad Neratium paolino, gli uni appresso all’altro, ma nulla di più circa possibili peculiari rapporti di forma e di sostanza fra i due scritti155. Un secondo elemento di carattere negativo confortava Ferrini nel suo assunto: l’assenza di qualsivoglia consonanza, formale o contenutistica, che potesse avvicinare le reliquie dei libri paolini ad Neratium ad altri scritti neraziani. Agli occhi dello studioso per struttura e forma apparivano del tutto estranee all’opera di commento paolina le epistulae e le regulae neraziane, mentre, in particolare, le membranae si allontanavano “affatto per la forma e per il contenuto”156. In realtà, nell’analisi sui singoli frammenti dell’ad Neratium, oltre ai libri responsorum157, si potranno intravedere alcune affinità contenutistiche, e talora anche formali, con altri passaggi

150 Costa 1909, 109; Berger 1918, 709; Riccobono 1895-96, 523; Maschi 1976, 681. Di recente González Roldán 2019, 164 ss., che, però non sembra neppure escludere il fatto che Paolo possa avere attinto anche dalle membranae. 151 Viarengo 2020, 27. 152 Greiner 1973, 147 ss. In questa direzione sembra anche muoversi Bona 1974, 507 s. 153 Ferrini 1894b, 230. 154 Ner. 2 resp., D. 32.24 anticipa D. 32.25 (L. 1026) e D. 32.26 (L. 1035); Ner. 1 resp., D. 15.1.55 anticipa D. 15.1.56 (L. 1034); Ner. 1 resp., D. 47.2.84 anticipa D. 47.2.85 (L. 1038); Ner. 2 resp., D. 33.7.23 anticipa D. 33.7.24 (L. 1043). 155 Cfr. quanto osservato a proposito di D. 15.1.56 (L. 1034) e D. 47.2.85 (L. 1038), su cui vedi infra: 177 ss. e 198 ss. 156 Ferrini 1894b, 231. 157 Poche similitudini fra i responsa di Nerazio e i libri di Paolo ad Neratium sono segnalate da Ferrini 1984a, 231: la prima fra Ner. 1 resp., D. 47.2.83pr. (Ferrini scrive D. 47.2.84pr., ma si tratta di un evidente refuso), dove si nega la qualifica di furto al caso in cui uno, in qualità di erede, si impossessi dei beni di un altro, creduto morto, ma in realtà vivo, e Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6 (L. 1030), in cui Nerazio qualifica furto l’impossessamento di cose ereditarie non credute. La seconda fra Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8pr., dove è riferito un responso di Labeone e Nerazio che consente l’acquisto per usucapione delle cose acquistate dai servi mediante l’uso dei peculi e Paul. 4 ad Ner., D. 41.3.47 (L. 1045), la cui mano è però unicamente paolina, che afferma, qualora si sia ignari dell’acquisto del possesso, la possibilità di usucapire soltanto i beni che fanno parte del peculio. La terza interessa Paul. 14 resp., D. 22.1.14.1, in cui è riferito un responso di Nerazio secondo cui nell’adempimento di un fedecommesso, qualora si cada in mora, sono dovuti anche i frutti post moram e Paul. 2 ad Ner., D. 32.26 (L. 1035) qui si ricorda che nell’adempimento del fedecommesso, si è tenuti dopo la mora non solo alla prestazione dei frutti, ma anche di ogni danno sofferto dal fedecommissario. A queste tre ipotesi possiamo aggiungere anche il rapporto fra Ner. 2 resp., D. 7.1.61 e Paul. 1 ad Ner. D. 7.8.23 (L. 1023), su cui più ampiamente infra: 137.

22

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 23

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario di scritti attribuiti a Nerazio. In questa prospettiva si è colta, innanzitutto, un’assonanza fra Paul. 2 ad Ner., D. 47.2.85 (L. 1038)158 e Ner. 7 membr., D. 41.4.41pr.159. Il tema tocca i limiti soggettivi circa la valida operatività della reversio ad dominum della cosa furtiva. Nel testo delle membranae si può leggere il riconoscimento da parte di Nerazio dell’acquisto del possesso per procuratorem, sebbene, a giudizio del giurista, ciò non risulti sufficiente ad integrare la reversio della res furtiva ai fini dell’usucapibilità, poiché il dominus avrebbe dovuto essere a conoscenza non solo del furto, ma anche del rientro del bene nella sua potestà. Nella lettura che abbiamo deciso di offrire160, la riflessione di Nerazio appare del tutto in linea con quella successiva operata dal collega Paolo oltre un secolo dopo, potendo scorgere, inoltre, talune similitudini sotto il profilo formale fra il testo di Paolo e quello di Nerazio. Testo, quest’ultimo, che consente di instaurare un collegamento, ancor più stringente, con Paul. 3 ad Ner., D. 41.3.47 (L. 1045)161; qui Paolo riferiva di una regola, pacifica in età severiana, che contemplava l’acquisto del possesso per procuratorem, pur in assenza della scientia del dominus, ma che negava gli effetti tipici della reversio in potestatem della res furtiva. Regola che plausibilmente, come appunto testimonia Ner. 7 membr., D. 41.3.41, legato anche da evidenti affinità semantiche con il passo paolino, traeva origine da un caso su cui Nerazio si era pronunciato162. Alla luce dell’acquisto del possesso e della proprietà tramite procurator, sempre D. 41.3.47 può essere posto sulla scia di altro testo neraziano, tratto stavolta dalle regulae: Ner. 6 reg., D. 41.1.13pr.163. Il caso è quello del dominus che, avendo munito il procurator di un mandato speciale al fine di acquistare un bene a suo nome, ne diventa comunque proprietario, anche se avesse ignorato l’avvenuta adprehensio da parte del procurator. Nel conferimento di un mandato speciale all’acquisto, Nerazio avrebbe così individuato la preventiva manifestazione di volontà all’acquisto da parte del rappresentato. Pertanto, riprendendo il parallelo con D. 41.3.47, ci pare di poter affermare che anche il tema dell’acquisto della proprietà per procuratorem fosse conosciuto da Nerazio. Prima Nerazio, poi Paolo sembrano così contribuire alla costruzione di una regola che appare fissarsi in età severiana e che prevede, per l’acquisto della proprietà per procuratorem, un atto di volontà da parte del rappresentato. Aspetti interpretativi e di contenuto tornano a legare l’ad Neratium alle membranae anche nell’ambito del diritto di usufrutto e di uso: il tema è quello della intangibilità della c.d. destinazione economica della res oggetto del diritto reale. In Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23 (L.1023)164

158 Paul. 2 ad Ner., D. 47.2.85 (L. 1038): Quamvis res furtiva, nisi ad dominum redierit, usucapi non possit, tamen, si eo nomine lis aestimata fuerit vel furi dominus eam vendiderit, non interpellari iam usucapionis ius dicendum est. 159 Ner. 7 membr., D. 41.3.41: Si rem subreptam mihi procurator meus adprehendit, quamvis per procuratorem possessionem apisci nos iam fere conveniat, nihilo magis in eam potestatem meam redisse usque capi posse existimandum est, quia contra statui captiosum erit. 160 Vedi infra: 198 ss. 161 Si emptam rem mihi procurator ignorante me meo nomine adprehenderit, quamvis possideam, eam non usucapiam, quia ut ignorantes usuceperimus, in peculiaribus tantum rebus receptum est. 162 Vedi infra: 223 ss. 163 Ner. 6 reg., D. 41.1.13pr.: Si procurator rem mihi emerit ex mandato meo eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, id est proprietas adquiritur etiam ignoranti. 164 D. 7.8.23: Neratius: Usuariae rei speciem is cuius proprietas est nullo modo commutare potest. Paulus: deteriorem enim causam usuarii facere non potest: facit autem deteriorem etiam in meliorem statum commutata.

23

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 24

Gianni Santucci Nerazio nega la possibilità per il nudo proprietario di portare alla cosa qualsivoglia modifica, mentre Paolo circostanzia tale affermazione, specificando che anche l’eventualità di una miglioria costituisce una forma di modifica e pertanto appare da respingere. Come si è osservato in letteratura, tale testimonianza è stata letta quale indice di un “rigido e materialistico criterio di valutazione” che la storiografia riconosce come criterio discretivo assunto da Nerazio nel definire la sua riflessione sul diritto di usufrutto e di uso165. In questa prospettiva, accanto al nostro passo, hanno trovato accoglienza anche altri due testi del giurista traianeo che toccano il medesimo limite ma dalla visuale dell’usufruttuario. Si tratta di Ner. 3 membr., D. 7.1.44 dove viene negato che l’usufruttuario possa intonacare le pareti grezze dell’edificio, sebbene ciò risultasse agli occhi del giurista un’indubitabile miglioria apportata dall’usufruttuario166. Una presa di posizione non dissimile ritorna anche in Ner. 2 resp., D. 7.1.61, dove all’usufruttuario non è consentito aggiungere alle pareti un nuovo canale per l’acqua piovana oppure di completare la costruzione di un edificio167. Rispetto alla testimonianza derivata dai libri responsorum, il nostro testo paolino, D. 7.8.23, sembra mostrare maggiore aderenza con il testo tratto dalle membranae, poiché in entrambi, oltre a porre il limite dell’immodificabilità della res, si fa espresso riferimento al dato delle migliorie, sempre ascrivibile sia da Nerazio che da Paolo al novero delle modifiche e perciò non ammesse. L’ultimo argomento offerto da Ferrini a giustificazione dell’esclusività dei libri responsorum neraziani quale fonte dell’ad Neratium era determinato da “una certa corrispondenza”168 di contenuto e di forma fra le due opere. Lungi da negare quest’ultimo nucleo di considerazioni, crediamo tuttavia che esse debbano essere quanto meno soppesate in modo circostanziato. Com’è noto, il riferimento espresso ad un’opera di responsi appare in una sola testimonianza: Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6 (L. 1030) (“…furtum te facere respondit”)169. In altri passi, nonostante l’assenza di qualsiasi accenno al respondere170, appare possibile, seppur indirettamente, ravvisare la struttura del responso nella narrazione neraziana, in ragione di un’impostazione casistica che appare ancorata alla presenza di circostanze concrete e determinate, magari successivamente filtrate171. In questa prospettiva possiamo leggere due casi relativi all’atto di manomissione del servo. Il primo è Paul. 1 ad Ner., D. 35.1.96 (L. 1027), dove si affronta la disposizione di un legato dell’usufrutto di un servo, cui il testatore affianca una manomissione sottoposta alla condizione ‘si usufructus ad Titium desiniit pertinere’ e dove la premorienza del legatario in vita del testatore, travolge la disposizione a suo favore e di conseguenza anche la

165

Bretone 1962, 113; nello stesso senso Scarano Ussani 1979, 28 ss. D. 7.1.44: Usufructuarius novum tectorium parietibus, qui rudes fuissent, imponere non potest. quia tametsi meliorem excolendo aedificium domini causam facturus esset, non tamen id iure suo facere potest, aliudque est tueri quod accipisset an novum faceret. Il collegamento fra i due testi di Nerazio è segnalato già da Lenel 1889.I, 1140 nt.3. 167 D. 7.1.61: Usufructuarius novum rivum parietibus non potest inponere. Aedificium inchoatum fructuarium consummare non posse placet, etiamsi eo loco aliter uti non possit. Sed nec eius quidem usum fructum esse: nisi in costituendo vel legando usu fructu hoc specialiter adiectum sit, ut utrumque ei liceat. 168 Ferrini 1894b, 231. 169 Vedi infra: 108. 170 A cui Ferrini, nel confronto con i libri responsorum, non attribuiva alcun significato (Ferrini 1894b, 231), critico con buoni argomenti sul punto Greiner 1973, 149. 171 Così, a proposito di D. 35.1.96pr., (su cui subito dopo), González Roldán 2019, 165 s. 166

24

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 25

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario manomissione condizionata172. Il secondo è contemplato in Paul. 3 ad Ner., D. 33.1.16 (L. 1042), qui, alla distanza di dieci anni dalla concessione della libertà di un servo, segue la disposizione di un legato annuo a suo favore a partire dalla morte del dominus173. A questi si possono aggiungere Paul. 2 ad Ner., D. 15.1.56 (L. 1033), relativo alla situazione, del tutto particolare, dell’espromissione da parte di un servo a favore di un debitore del dominus dello stesso servo174; Paul. 2 ad Ner., D. 35.1.97 (L. 1036), in cui si discute sulla ammissibilità o meno di una condizione a prestare giuramento apposta ad un legato a favore di municipi; Paul. 3 ad Ner., D. 33.7.24 (L. 1043), che pone un problema interpretativo circa il caso di un fondo, in locazione ad un colono, disposto per legato insieme agli instrumenta necessari per il suo sfruttamento175. Ma in altri passi solo con minor convinzione si può affermare di essere in presenza di testi ricavati dai responsa, poiché la scrittura di Nerazio, pur conservando un andamento casistico, assume un registro espositivo più generico ed astratto che sembra non riflettere più necessariamente la richiesta al giurista per la soluzione di una peculiare e concreta situazione176. Si rinvengono infine tre testimonianze in cui la scrittura neraziana sembra impegnata nella descrizione di una fattispecie astratta, che tende quasi alla regula, o che comunque presenta assunti interpretativi di ampia portata, suggerendo al lettore l’impressione di essere lontani dalla narrazione tipica del responsum. Così, nel già ricordato Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23 (L. 1023)177, Nerazio afferma il principio secondo cui il nudo proprietario non può in alcun modo modificare l’identità della cosa concessa in uso, canone che trova applicazione nel diritto di uso come in quello di usufrutto e che nel medesimo tempo è diretto al nudo proprietario, come all’usuario o usufruttuario. In Paul. 1 ad Ner., D. 32.25 (L. 1026) Nerazio offre l’interpretazione della clausola testamentaria in cui si dispone un legato in modo alternativo a due eredi: “Ille aut ille heres Seio centum dabo”, il che appare una quaestio dal sapore astratto o, se vogliamo, di scuola178. Infine, in questa prospettiva può anche essere letto Paul. 2 ad Ner., D. 40.2.24 (L. 1037), dove si riconosce il principio per cui il pupillo non infans effettua una corretta manomissione presso il consiglio179. Alla luce di questa sintetica verifica, va certamente ridimensionata la totale identificazione fra i libri responsorum e la scrittura neraziana che residua nell’ad Neratium a cui Ferrini giunge, confrontando “l’andatura del periodo, il modo di porre la fattispecie, la risoluzione di questa regolarmente senza motivi”180.

172

Vedi infra: 152 ss. Vedi infra: 213 ss. 174 Vedi infra: 177 ss. 175 Vedi infra: 216 ss. 176 Cfr., per esempio, Paul. 2 ad Ner., D. 32.26 (L. 1035); Paul. 1 ad Ner., D. 46.2.32(L. 1029); Paul. 3 ad Ner., D. 45.1.140 (L. 1046); Paul. 4 ad Ner., D. 34.1.23 (L. 1048). In generale e di recente sui molteplici livelli di casistica a cui ci hanno abituato i giuristi romani nelle loro opere cfr. le suggestive riflessioni di Stolfi 2014, 13 ss. 177 Vedi infra: 133 ss. 178 ‘Ille aut ille heres Seio centum dato’: potest Seius ab utro velit petere. Cum in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti voluntatis quaestio. 179 Pupillus qui infans non est apud consilium recte manumittit. Paulus: scilicet tutore auctore, ita tamen, ut peculium eum non sequatur. 180 Ferrini 1894b, 231 s. 173

25

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 26

Paolo Ferretti Un ulteriore dato che contribuisce a revocare in dubbio il carattere esclusivo di tale identificazione è offerto da alcune riflessioni che Reinhold Greiner compie a margine della sua indagine sull’assetto formale dei libri responsorum di Nerazio181 al fine di constatare la distanza e la diversità dell’ad Neratium rispetto ai responsa neraziani. In particolare, il confronto fra questi ultimi e i testi del giurista traianeo riportati nel commento paolino, rivela, agli occhi dello studioso, una significativa diversità sotto il profilo delle loro strutture. Nei libri responsorum la descrizione del fatto e il parere giuridico sono tenuti separati e il responsum sembra seguire sempre nella forma sintattica accusativo con infinito, nell’opera di Paolo, invece, descrizione della fattispecie e parere costituiscono prevalentemente un’autonoma preposizione principale182. Appare arduo, alla luce di tutte queste osservazioni, seguire l’assunto di Ferrini nei termini radicali da lui disegnati. Sicuramente i libri responsorum di Nerazio hanno costituito una fonte del commento paolino, ma noi riteniamo che non sia stata la sola: anche le membranae e, verosimilmente, pure le regulae ne sono state parte. Che Paolo abbia potuto attingere da vari scritti di Nerazio, anche appartenenti a forme letterarie e a scopi diversi non ci deve affatto stupire; del resto la storiografia ha colto in più occasioni la mancanza della coscienza dei generi e delle forme letterarie in generale presso i giuristi romani183. In questa prospettiva si è evidenziato come vi fossero criteri mutevoli e non sempre programmabili a guidare i giuristi nella collocazione dei loro materiali in forme letterarie specifiche. Così, per esempio, risultava “indiscutibile” agli occhi di Federico D’Ippolito che “argomenti posti da un determinato giurista sotto il titolo di epistulae possono essere dispiegati da lui stesso o da un altro autore, in una diversa tipologia quale quella dei responsa”184. Riflessioni di portata assai ampia queste ultime, certamente, ma che ci confortano ulteriormente nella nostra lettura, calcando anche per Paolo, commentatore di Nerazio, l’immagine suggerita da Lelio Lantella “che i Romani (a differenza di noi) commentavano non l’opera bensì l’autore”185. 5. L’ad Neratium: caratteri e orientamenti interpretativi Nell’ad Neratium paolino, come appena detto, è rintracciabile la scrittura del giurista traianeo in diversi testi. I passi interessati sono in tutto quindici: in uno186 appare il termine Neratius, mentre nei restanti quattordici187 individuiamo alcuni elementi, di ordine formale e sostan-

181

Greiner 1973, 139 ss. “Bei Paulus hingegen sind Tatbestand und Gutachten überwiegend selbständige Hauptsätze”, cosi Greiner 1973, 148 s. 183 Lantella 1979, 63 ss.; Bretone 2020, 278 s.; Masiello 1999, 96 ss.; D’Ippolito 2009, XXII ss., diffusamente vedi anche Stolfi 2017, 62 ss. Di recente torna sul punto anche Frunzio 2019, 891 nt.24. 184 D’Ippolito 2009, XXXII. 185 Lantella 1979, 66. 186 Si tratta di Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23. 187 Paul. 1 ad Ner., D. 32.25; Paul. 1 ad Ner., D. 35.1.96; Paul. 1 ad Ner., D. 46.2.32; Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6; Paul. 2 ad Ner., D. 15.1.56; Paul. 2 ad Ner., D.17.1.61; Paul. 2 ad Ner., D. 35.1.97; Paul. 2 ad Ner., D. 40.2.24; Paul. 3 ad Ner., D. 24.1.63; Paul. 3 ad Ner., D. 33.1.16; Paul. 3 ad Ner., D. 33.7.24; Paul. 3 ad Ner., D. 45.1.140; Paul. 3 ad Ner., D. 46.1.67; Paul. 4 ad Ner., D. 34.1.23. 182

26

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 27

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario ziale, che ci consentono di risalire con ogni verosimiglianza alla sua prosa, accanto a quella di Paolo. Verificata, dunque, la presenza di una ‘duplice mano’, approfondiamo il rapporto tra le due ‘scritture’, cercando in particolare di comprendere quale sia stata la posizione del Severiano nei confronti del predecessore. I brani, come accennato, sono quindici e possono essere suddivisi, a nostro avviso, in quattro raggruppamenti sulla base del tipo di intervento: a) Paolo mostra di accettare la soluzione avanzata da Nerazio, corroborandola attraverso una ulteriore motivazione, al fine di renderla ancor più convincente e condivisibile. In Paul. 1 ad Ner., D. 32.25188 è riportata una clausola testamentaria attraverso la quale il testatore impone un legato in modo alternativo a due eredi: ‘Ille aut ille heres Seio centum dabo’ (‘Quell’erede o quell’altro darà cento a Seio’). Secondo Nerazio, Seio può chiedere la somma a chi vuole dei due eredi indicati. Segue la chiosa di Paolo, il quale ribadisce l’opinione del giurista traianeo, rilevando come l’assoluta carenza di ambiguitas nella disposizione renda superfluo procedere ad un ulteriore approfondimento sul contenuto della volontà del testatore. La stessa impostazione si rinviene in Paul. 1 ad Ner., D. 46.2.32189, brano nel quale il Severiano fa precedere il suo commento dall’espressa approvazione – resa con il significativo avverbio merito – della soluzione di Nerazio: l’effetto novativo della stipulatio dipende dal fatto che in essa risultano dedotte entrambe le precedenti obbligazioni. Infine, Paul. 2 ad Ner., D. 35.1.97190, nel quale Nerazio, in merito ad una condicio iurisiurandi, apposta ad un legato disposto a favore di un municipio, afferma che questa non sia una condizione impossibile. Al dictum neraziano segue la motivazione offerta dal giurista severiano: la condizione non è impossibile dal momento che a prestare il giuramento sono qui municipii res geruntur. Paolo, dunque, si allinea all’opinione di Nerazio, limitandosi ad offrirne la spiegazione che, non è da escludere, già lo stesso giurista di Sepino potrebbe aver dato, ma forse in una forma che necessitava di essere rivista e riassunta. b) Paolo accetta la soluzione avanzata da Nerazio, ma al tempo stesso la precisa, vincolandola ad una nuova e diversa circostanza. La particolare struttura appena accennata si riscontra, a nostro avviso, in sei testi: Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23191 verte sui limiti imposti al nudo proprietario allo scopo di tutelare le prerogative del titolare di un diritto di uso. Nerazio, traendo verosimilmente spunto da una ricca casistica elaborata dai giuristi di scuola proculiana192, è netto nell’affermare che il proprietario non può modificare l’identità della res usuaria. Paolo si riallaccia alla regula

188 Paul. 1 ad Ner., D. 32.25: ‘Ille aut ille heres Seio centum dato’: potest Seius ab utro velit petere. 1. Cum in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti voluntatis quaestio. 189 Paul. 1 ad Ner., D. 46.2.32: Te hominem et Seium decem mihi dare oportet: stipulor ab altero novandi causa ita: ‘quod te aut Seium dare oportet’: utrumque novatur. Paulus: merito, quia utrumque in posteriorem deducitur stipulationem. 190 Paul. 2 ad Ner., D. 35.1.97: Municipibus, si iurassent, legatum est. haec condicio non est impossibilis. Paulus: quemadmodum ergo pareri potest per eos? itaque iurabunt, per quos municipii res geruntur. 191 Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23: Neratius: Usuariae rei speciem is cuius proprietas est nullo modo commutare potest. Paulus: deteriorem enim causam usuarii facere non potest: facit autem deteriorem etiam in meliorem statum commutata. 192 Cfr. Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.13; Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.7.1; Ulp. 18 ad Sab., D. 7.1.13.7.

27

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 28

Paolo Ferretti formulata dal giurista traianeo e la precisa, ampliandone il contenuto: anche il miglioramento della cosa concessa in uso costituisce una forma di deterioramento della causa usuarii. Lo stesso andamento scorgiamo in Paul. 1 ad Ner., D. 35.1.96193, in cui un testatore dispone a favore di Tizio un legato di usufrutto di un servo, collegandolo ad una manomissione sottoposta alla condizione si usufructus ad Titium desiniit pertinere (‘se il servo avesse cessato di appartenere a Tizio’). Sennonché, la circostanza che Tizio premuoia al testatore travolge la disposizione e si riverbera sulla manomissione, così da spingere Nerazio a negare la libertà al servo, poiché la condizione non ha avuto inizio. A questo punto interviene Paolo, il quale estende la soluzione avanzata dal giurista traianeo – la mancata concessione della libertas – al caso in cui l’onorato fosse risultato incapace di ricevere il legato. Anche in questa ipotesi, infatti, desisse enim non videtur, quod nec incipit (‘non può cessare ciò che non ebbe neppure principio’). Pure in Paul. 2 ad Ner., D. 40.2.24194 Paolo si limita a precisare l’opinione di Nerazio. Quest’ultimo informa che il pupillo non infans può correttamente compiere manomissioni innanzi al consiglio195. Il giurista severiano interviene per puntualizzare che l’atto avrebbe necessitato dell’auctoritas del tutore, salvaguardando il peculio da riservarsi al pupillo. In Paul. 3 ad Ner., D. 33.1.16196 Nerazio presenta il caso di un testatore che ha disposto per un servo la libertà dopo un periodo di dieci anni e previsto, a partire dal giorno della sua morte, un legato periodico a favore del medesimo sottoposto. Il giurista traianeo pensa che il legato sia valido soltanto con riferimento alla frazione di tempo successiva alla acquisita libertà. Paolo, recependo verosimilmente alcune modifiche nel frattempo introdotte197, interviene anticipando l’obbligo dell’erede di prestare gli alimenti al servo al periodo intercorrente tra la morte del dominus e la concessione della libertà. Un andamento analogo si registra in Paul. 3 ad Ner., D. 33.7.24198. A proposito di un legato di fundus cum instrumento, Nerazio propende per attribuire in ogni caso al legatario l’intero, mentre Paolo distingue sulla base della titolarità delle res: se l’instrumentum fosse appartenuto soltanto al colono, allora vale per intero, mentre se fosse appartenuto tanto al colono quanto al testatore, il giurista severiano nega al legatario la parte dell’instrumentum di cui era titolare il colono.

193 Paul. 1 ad Ner., D. 35.1.96: Titio usus fructus servi legatus est et, si ad eum pertinere desisset, libertas servo data est. Titius vivo testatore decessit. libertas non valet, quia condicio nec initium accepit. Paulus: ergo et si viveret Titius et capere non potest, idem dicendum est: desisse enim non videtur, quoad nec incipit. 1. Servi usus fructus mulieri, quoad vidua esset, legatus, idem servus, se ea nubsisset, liber esse iussus est. si mulier nubserit, liber erit, quia potior est legato libertas. 194 Paul. 2 ad Ner., D. 40.2.24: Pupillus qui infans non est apud consilium recte manumittit. Paulus: scilicet tutore auctore, ita tamen, ut peculium eum non sequatur. 195 La lex Aelia Sentia, infatti, imponeva al dominus di età inferiore ai venti anni di manomettere solo vindicta, dopo aver dimostrato, presso un apposito consilium, l’esistenza di una giusta causa. 196 Paul. 3 ad Ner., D. 33.1.16: Servus post decem annos liber esse iussus est legatumque ei ex die mortis domini in annos singulos relictum est. eorum quidem annorum, quibus iam liber erit, legatum debebitur: interim autem heres ei alimenta praestare compellitur. 197 Cfr. Marcian. 7 inst., D. 30.113.1. 198 Paul. 3 ad Ner., D. 33.7.24: Fundus, qui locatus erat, legatus est cum instrumento: instrumentum, quod colonus in eo habuit, legato cedit. Paulus: an quod coloni fuit an tantum id quod testatoris fuit? et hoc magis dicendum est, nisi nullum domini fuit.

28

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 29

I libri ad Neratium: struttura e genere letterario L’ultimo testo che presenta la medesima struttura è Paul. 3 ad Ner., D. 46.1.67199. Un garante, chiamato in causa dal creditore, solleva un’eccezione, ma viene condannato iniuria iudicis. Secondo Nerazio il mandatario-garante non può ottenere il rimborso dal debitore principale, in quanto è più equo che l’ingiustizia fatta ad uno (garante) non si rifletta sull’altro (debitore principale). Paolo fa propria la soluzione del giurista traianeo, ma la vincola, forse a causa di sviluppi normativi nel frattempo intercorsi200, al fatto che lo stesso garante non abbia culpa dell’ingiusta condanna, preferendo così un criterio soggettivo ad uno meramente oggettivo. c) Paolo corregge la soluzione avanzata da Nerazio. Ravvisiamo l’intervento correttivo di Paolo in soli tre passi. Il primo è Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6201, nel quale la soluzione di Nerazio, costruita sulla base di parametri di tipo soggettivo, viene sovvertita da Paolo. Il giurista di Sepino individua nella sottrazione di una res hereditaria, compiuta nella completa ignoranza della natura della cosa, un furto; a questa opinione Paolo si oppone, negando in maniera recisa che ci possa essere rei hereditariae furtum, poiché l’atteggiamento soggettivo di colui che sottrae il bene non è determinante per la qualificazione della fattispecie. Il secondo brano è Paul. 2 ad Ner., D. 17.1.61202, nel quale un filius, ricevuto mandato di riscuotere un credito, si attiva soltanto dopo essere stato emancipato. Nonostante la fuoriuscita dallo stato di sottoposto, Nerazio opta per la concessione dell’actio de peculio – verosimilmente pensando al momento del conferimento del mandato, momento in cui il soggetto è ancora subiectus –, mentre Paolo ritiene che cum filio agendum est203. L’ultimo testo è Paul. 4 ad Ner., D. 34.1.23204, che descrive il caso di un fedecommesso a titolo particolare, con cui il testatore chiede all’erede istituito di provvedere all’allevamento o all’educazione di qualcuno. I termini del contrasto si rinvengono nell’individuazione dei limiti della disposizione: Nerazio sembra propendere per una lettura restrittiva del concetto di alimenta, circoscrivendolo al vitto, mentre Paolo si mostra più propenso ad una interpretazione estensiva, fino a ricomprendervi vestiario e abitazione. d) Testi di difficile collocazione, in quanto non è agevole comprendere la posizione di Paolo rispetto a Nerazio. In questo raggruppamento ci sembra debbano essere collocati tre brani: in Paul. 2 ad Ner., D.

199 Paul. 3 ad Ner., D. 46.1.67: Exceptione, quae tibi prodesse debebat, usus iniuria iudicis damnatus es: nihil tibi praestabitur iure mandati, quia iniuriam, quae tibi facta est, penes te manere quam ad alium transferri aequius est, scilicet si culpa tua iniustae damnationis causam praebuisti. 200 Cfr. Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.8.8; Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Aurelio Papio, C. 4.35.10. 201 Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit. Paulus: rei hereditariae furtum non fit sicut nec eius, quae sine domino est, et nihil mutat existimatio subripientis. 202 Paul. 2 ad Ner., D. 17.1.61: Quod filio familias ut peteret mandavi, emancipatus exegit: de peculio intra annum utiliter agam. Paulus: sed et cum filio agendum est. 203 Nel commento (v. p. 187) si è supposto che “almeno a partire da una certa epoca, il figlio avrebbe acquistato la capacità iure civili di obbligarsi verso terzi e che, dunque, plausibilmente, proprio in questo sopraggiunto mutamento di regime consista il nucleo della specificazione operata dal giurista severiano nel testo in osservazione”. 204 Paul. 4 ad Ner., D. 34.1.23: Rogatus es, ut quendam educes: ad victum necessaria ei praestare cogendus es. Paulus: cur plenius est alimentorum legatum, ubi dictum est et vestiarium et habitationem contineri? Immo ambo exaequanda sunt.

29

SIR_XII_01_Libri_ad_Neratium.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 30

Paolo Ferretti 15.1.56205, Nerazio, a proposito del caso in cui un servo assuma il debito che un terzo aveva nei confronti del suo dominus, scrive che la promessa del sottoposto non estingue l’obbligazione preesistente. Tuttavia, di seguito sembra chiedersi se ci siano delle situazioni nelle quali il debito di colui per il quale expromissum est non entri a par parte del peculio. La risposta viene data da Paolo il quale avanza l’opinione che il dominus, una volta chiamato in giudizio, possa dedurre dal peculio il credito, trasformando in questo modo il debito del terzo in un debito del peculio. In Paul. 3 ad Ner., D. 24.1.63206 viene riportato un caso di donazione tra coniugi, in relazione al quale si domanda di quale rimedio processuale la moglie possa servirsi nei confronti del marito in relazione a quod in aedificium viri ita coniunctum est? Non essendo chiara l’opinione di Nerazio, non è possibile determinare con certezza il tipo di intervento paolino: entrambe le soluzioni, di critica come di condivisione207, appaiono plausibili. L’ultimo testo è Paul. 3 ad Ner., D. 45.1.140208, in cui Nerazio riporta il contenuto di una stipulazione – un soggetto promette di dare una determinata quantità di argento nei tre anni successivi, impegnandosi a distinti conferimenti articolati uno per anno – e la notizia che i veteres hanno avanzato soluzioni differenziate in relazione al fatto che si possa individuare un’unica stipulatio oppure una pluralità di stipulationes. Paolo pone fine all’antico dissenso e asserisce che debbano intravvedersi tre diverse stipulazioni. Anche in questo caso non emerge il parere di Nerazio, benché forse appaia più verosimile che anche il giurista di Sepino propendesse per scorgere una pluralità di contratti, in quanto sembra che egli avesse espresso tale opinione in merito ad una analoga stipulazione209. Dunque, già da questo breve prospetto riassuntivo sembrano affiorare alcune ragioni che potrebbero giustificare la scelta di Paolo di commentare Nerazio, come meglio e approfonditamente spiegheremo a breve. Il fatto che nella grande maggioranza dei passi il Severiano accetti le soluzioni del giurista traianeo o tutt’al più intervenga per precisarle ed adeguarle ai mutamenti nel frattempo verificatisi, mentre esprima il proprio dissenso in soli tre passi, potrebbe suggerire che egli scorgeva negli scritti del predecessore un significativo ‘serbatoio’ di opinioni che continuavano a trovare applicazione e che, proprio in quanto tali, necessitavano di essere messe a profitto e valorizzate.

205 Paul. 2 ad Ner., D. 15.1.56: Quod servus meus pro debitore meo mihi expromisit, ex peculio deduci debet et a debitore nihilo minus debetur. sed videamus, ne credendum sit peculiare fieri nomen eius, pro quo expromissum est. Paulus: utique si de peculio agente aliquo deducere velit, illud nomen peculiare facit. 206 Paul. 3 ad Ner., D. 24.1.63: De eo, quod uxoris in aedificium viri ita coniunctum est, ut detractum alicuius usus esse possit, dicendum est agi posse, quia nulla actio est, ex lege duodecim tabularum, quamvis decemviros non sit credibile de his sensisse, quorum voluntate res eorum in alienum aedificium coniunctae essent. Paulus notat: sed in hoc solum agi potest, ut sola vindicatio soluta re competat mulieri, non in duplum ex lege duodecim tabularum: neque enim furtivum est, quod sciente domino inclusum est. 207 Paolo avrebbe criticato Nerazio, nel caso in cui si creda che quest’ultimo fosse favorevole ad agire ex lege duodecim tabularum, mentre avrebbe condiviso l’opinione del precedessore, nel caso in cui si ritenga che il giurista traianeo escludesse azioni ex lege duodecim tabularum, sulla considerazione che non si potesse considerare furtivo ciò che veniva unito all’edificio altrui con la consapevolezza del proprietario. 208 Paul. 3 ad Ner., D. 45.1.140: Pluribus rebus praepositis, ita stipulatio facta est: ‘ea omnia, quae supra scripta sunt, dari?’ propius est, ut tot stipulationes, quot res sint. 1 De hac stipulatione: ‘annua bima trima die id argentum quaque die dari?’ apud veteres varium fuit. Paulus: sed verius et hic tres esse trium summarum stipulationes… 209 Abbiamo attribuito a Nerazio anche la prima parte di D. 45.1.140: Pluribus rebus praepositis, ita stipulatio facta est: ‘ea omnia, quae supra scripta sunt, dari?’ propius est, ut tot stipulationes, quot res sint…

30

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 31

II NERAZIO INTERLOCUTORE PRIVILEGIATO DI PAOLO

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 32

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 33

II NERAZIO INTERLOCUTORE PRIVILEGIATO DI PAOLO

1. Visioni del ius nel pensiero di Nerazio Come già anticipato nella Premessa1, la lettura dei libri paolini di commento a Nerazio pone come ineludibile la domanda circa quale interesse abbia mosso Paolo verso l’opera del predecessore. A tal scopo, non sarà vano cercare di comprendere alcune linee di fondo dell’interpretazione neraziana, la visione culturale del giurista, il suo apporto nello sviluppo del ius civile2. Nerazio, di famiglia aristocratica italica3, fu consul suffectus nel 97 sotto Nerva e membro del consilium principis prima di Traiano4, insieme all’amico Aristone, e poi di Adriano. Probabilmente fu seguace di Proculo5. Autore di diverse opere, sia in forma di epistulae che di regulae

1

Cfr. supra: 3 ss. Gioverà precisare, a scanso di equivoci, che quando ci riferiamo genericamente a ‘ius’ intendiamo il ius civile, cioè l’insieme di regole e consuetudini non ancora filtrato attraverso la lente ulpianea di uno ius privatum da tenere distinto rispetto al ius publicum: in tema, da ultimo, Schiavone 2021, spec. 61 ss. 3 I Nerazii erano originari del Sannio e, più precisamente, del municipio di Saepinum. 4 Secondo la testimonianza contenuta in H.A. vita Hadr. 4.8, Traiano avrebbe pensato a lui come successore, ma la notizia potrebbe essere infondata, considerato che l’Imperatore non gli confermò un secondo consolato. Sul punto, Camodeca 2007, 291 ss., ma anche Id. 1976, 1 ss. Cfr., inoltre, Bauman 1989, spec. 194 ss. e Scarano Ussani 1989, 37, secondo il quale, in seguito alla svolta impressa da Adriano, si aprì per i tradizionalisti italici, la “delusa accettazione di una realtà che non li vedeva più egemoni ma soltanto comprimari nell’establishment di potere”. 5 La sua presenza tra gli scolarchi proculiani è attestata da Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.53, dopo Celso padre e figlio, senza trascurare che una certa Nerazia aveva sposato il grande Labeone. Nella sua opera, complessivamente considerata, Nerazio cita pochissimi giuristi, dalla quale evenienza non ci è dato perciò ricavare alcuna informazione certa circa le sue ‘preferenze’ culturali: 1 volta Servio, D. 12.4.8, L. 11; 4 volte Aristone, D. 2.14.58, L. 15, D. 18.3.35, L. 33, D. 17.1.39, L. 52 (insieme a Celso), D. 36.3.13, L. 53; 1 volta Fulcinio, D. 39.6.43, L. 82; 2 volte Labeone, D. 37.10.9, L. 47 e D. 39.2.47, L. 48. Il dato quantitativo si arricchisce appena se si considera quante volte lo stesso Paolo cita Nerazio insieme a Proculo, 5, sul quale dato si legga quanto si osserva supra: 17 ss. In verità un’analisi più approfondita e radente i testi non potrà non svelare ascendenze culturali e percorsi di sapere assai più complessi e meno scontati di quanto possa apparire prima facie e dai quali dovremmo trarre poi i nostri risultati. 2

33

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 34

Marina Frunzio e di responsa, esprime soluzioni di grande interesse e suggestione all’interno delle sue membranae. Queste ultime probabilmente si riferiscono ad un materiale consistente in annotazioni, appunti su varie questioni, specie di diritto ereditario, di facile utilizzo soprattutto nelle aule giudiziarie6. Ed è proprio all’interno delle membranae che sono contenute due testimonianze tanto celebri quanto eloquenti della visione neraziana del diritto. Si tratta, in primo luogo di Ner. 5 membr., D. 22.6.2: In omni parte error in iure non eodem loco quo facti ignorantia haberi debebit, cum ius finitum et possit esse et debeat, facti interpretatio plerumque etiam prudentissimos fallat. L’errore di diritto non andrà posto sotto ogni aspetto sul medesimo piano dell’ignoranza di fatto, poiché il diritto può e deve essere definito, mentre l’interpretazione dei fatti assai spesso trae in inganno anche gli interpreti più accorti.

Qui il giurista, nell’intento di discernere le conseguenze dell’error iuris rispetto a quelle dell’error facti, giunge ad affermare che il ius non solo può, ma deve essere ‘finitum’, dunque sottratto al rischio di interpretazioni fallaci e colto nella sua oggettiva certezza7. Come noto, l’interpretazione del sintagma ‘ius finitum’ ha suscitato un vivace dibattito nella storiografia presso la quale, anche di recente, si insiste sull’accostamento tra il passo sopra riportato ed un’altra testimonianza neraziana, ancora contenuta, come si diceva, nelle membranae8, Ner. 6 membr., D. 1.3.21: et ideo rationes eorum quae constituuntur inquiri non oportet: alioquin multa ex his quae certa sunt subvertuntur, Pertanto non conviene ricercare le ragioni di ciò che è stato costituito: altrimenti molte certezze acquisite sono sovvertite,

6 Il termine ‘membrana’ parrebbe alludere alla carta su cui erano incise, da srotolare facilmente all’occorrenza, diversa dal papiro pregiato e contenente per lo più, appunti, notazioni semplici, schizzi: González Roldán 2017, 313 ss.; Mantovani 2018, passim; Marcone 2019, 269 ss. Secondo Marziale, ep. 14.184 ss., in membranis, in età flavia, circolavano numerose opere letterarie, tra cui quelle di Omero, Virgilio, Ovidio. A giudizio di Scarano Ussani 1989, 41, le membranae contenevano momenti significativi dell’attività respondente di Nerazio, accanto a quaestiones e a materiale riferibile ai suoi 15 libri di regulae, “dei quali è purtroppo rimasto ben poco, ma il cui titolo è certo indicativo di una precisa opzione scientifica in senso dogmatico”. Ciò che potrebbe indurre a pensare che l’opera appartenga alla maturità del giurista, ma, in argomento, con ampia trattazione e completi riferimenti bibliografici, rinviamo al volume di Castagnetti, di prossima uscita, sempre nell’ambito del Progetto S.I.R., diretto da A. Schiavone. Vogliamo sin d’ora esprimere i nostri più sentiti ringraziamenti al collega Castagnetti per i proficui dialoghi tra noi intercorsi che tanto hanno contribuito a fare luce sulla personalità di Nerazio e sulla valenza della sua opera. 7 Sull’error, soprattutto Zilletti 1961, passim; Mayer-Maly 1980, 150 ss.; Winkel 1985, passim; Cerami 1992, 57 ss.; Rainer 1999, 67 ss.; Winkel 2002, 901 ss. Si vedano inoltre gli Autori citati più avanti nel testo, cfr. infra: 57 ss. Sull’aggettivo finitum che accompagna il termine ius interessante la lettura di Cic. de domo sua IV (… ceterum et definitum ius religiosum…) e Quint., declamat. minores 309.9.5 (…non video quare non finitum ius sit…). Sul possibile rapporto tra Nerazio e la tradizione retorica, si rinvia ancora allo studio di Castagnetti. Secondo il pensiero di Behrends 1995, 444 e nt. 61, il ius finitum avrebbe rappresentato un “klassisch formale Ideal” che sarebbe stato nel corso del tempo sempre più logorato dall’introduzione di visioni del diritto vieppiù aperte, a cominciare dall’ ‘istituzionalizzazione’ dell’aequitas naturalis. 8 Cfr. Nappi 2005, passim; Scarano Ussani 1979, 5 ss. e 58 ss.

34

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 35

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo che in qualche modo si riallaccia a quanto esposto nel testo che lo precede immediatamente nell’ordine del Digesto, Iul. 55 dig., D. 1.3.20: Non omnium, quae a maioribus constituta sunt, ratio reddi potest. Non tutto ciò che è stabilito dai nostri antenati può essere ricondotto a ragione.

Sembrerebbe doversi concludere che, se, per un verso, andava limitata la ricerca delle rationes9 per evitare che le certezze acquisite fossero sovvertite, per un altro quelle medesime certezze dovevano essere riportate ad un patrimonio di acquisizioni di metodi e di logiche interpretative ormai consolidatesi nel tempo10, più che ad un sistema giuridico immodificabile. Tale conclusione è possibile da ricavarsi, peraltro, anche attraverso la lettura di un ulteriore passo neraziano, in materia di usucapione, assai noto presso la letteratura11. Si tratta di Ner. 5 membr., D. 41.10.5pr.-1: Usucapio rerum, etiam ex aliis causis concessa interim12, propter ea, quae nostra existimantes possideremus, constituta est, ut aliquis litium finis esset. 1. Sed id, quod quis, cum suum esse existimaret, possederit, usucapiet, etiamsi falsa fuerit eius existimatio quod tamen ita interpretandum est, ut probabilis error possidentis usucapioni non obstet, veluti si ob id aliquid possideam, quod servum meum aut eius, cuius in locum hereditario iure successi, emisse id falso existimem, quia in alieni facti ignorantia tolerabilis error est. Anche per altre cause ha luogo l’usucapione delle cose, e talora con riguardo a quelle cose che possediamo con la convinzione che siano nostre e ciò affinché le controversie abbiano termine.

9 Sarebbe tipica del tempo, secondo Casavola 1980, 49 ss., la ricerca delle rationes, mossa da una cultura volta alla educazione alla libertà e responsabilità dei propri comportamenti, “con la riflessione sul linguaggio e sulla storia, con la spiegazione scientifica dei fenomeni naturali, finanche con il possesso, proposto a tutti, della medicina come conoscenza della realtà del proprio corpo” e che “si alimentava della ricerca della ratio di ogni aspetto del mondo con un appello costante all’attività critica della ragione”. I giuristi sarebbero collegati con questa cultura, riproponendo nel loro ambito di studio e di interessi quale fosse la ratio dell’ordinamento, della società o di una norma. 10 Giuliano, pur non evitando di rivolgersi al passato, ritiene che la ricerca delle rationes applicata al diritto civile lasci scorgere assai di frequente come “multa… iure civili contra rationem disputandi pro utilitate communi recepta esse” (D. 9.2.51 da leggere insieme a D. 1.3.20, in ordine ai quali si vedano Scarano Ussani 1987, 21; Nörr 1981, spec. 27 ss. e, più di recente, Pelloso 2008, 16 ss. e note). Celso, da parte sua, àncora le rationes ai criteri del bonum e dell’aequum, che non intende come valori astrattamente estrinseci alle rationes giuridiche, ma connaturati alla formazione dell’ordinamento giuridico medesimo: sul punto, Cerami 1985, passim. Scarano Ussani 1979, 51 ss., nota, invece, che l’utilizzo dell’aequitas da parte di Nerazio, come dei criteri interpretativi ad essa riferiti ed espressi coi termini aequus e simili, rivelerebbe un’idea di diritto equitativo non estranea all’ordinamento, bensì riscoperta da Nerazio come ‘valore’ interno a quest’ultimo, “di cui aveva fondato lo sviluppo e garantito le certezze. Era perciò nella teorica di Nerazio il ‘valore’ che tutelava gli altri, da cui doveva essere costituito il ius finitum” (argomento soprattutto, ricavato da Ner. 3 membr., D. 6.2.17; Ner. 1 membr., D. 27.10.9; Ner. 3 membr., D. 46.7.16, ai quali ci sentiremmo di aggiungere, Paul. 8 ad Plaut., D. 35.1.43.3, in cui la soluzione equitativa, legata all’applicazione del beneficium legis Falcidiae, viene ricordata da Paolo come riportata nel libro 1 dei responsa neraziani e Paul. 6 ad Plaut., D. 42.1.21, in tema di beneficium competentiae, frammento non ricordato da Scarano Ussani. Sulla loro interpretazione, Maifeld 1991, passim, ma si confrontino le osservazioni che svolgeremo più avanti, cfr. infra: 64 ss.). 11 Si veda, soprattutto, Mayer-Maly 1962b, 54, con essenziali riferimenti bibliografici. 12 Interdum: Mo.

35

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 36

Marina Frunzio 1. Ma taluno acquisterà per usucapione ciò che egli avrebbe posseduto credendo di esserne proprietario, anche se tale convincimento fosse risultato falso, e purché la probabilità del suo errore non risulti essere di ostacolo all’usucapione, come, ad esempio, se io possieda qualcosa che possa credere essere stata acquistata dal mio servo o dal servo di colui al quale sono succeduto come erede, perché l’ignoranza di un fatto altrui è scusabile.

Si tratta di uno dei testi più tormentati nella storiografia romanistica, assunto diffusamente per affermare la possibilità, da parte di una corrente minoritaria di giuristi, di ammettere l’usucapione sulla base del titolo putativo13. Una diversa lettura, tuttavia, è stata proposta da Theo Mayer-Maly14, sulla cui scia si sono posti Herbert Hausmaninger15 e Letizia Vacca16, secondo cui il testo in esame andrebbe interpretato seguendo una logica più restrittiva: la prima parte andrebbe infatti intesa come riferita alla primitiva usucapio, introdotta affinché ‘aliquis litium finis esset’, con un evidente collegamento all’usus decemvirale e alla sua funzione di tutelare l’accipiente a non domino nella mancipatio. Di qui in poi il giurista avrebbe invece affrontato una più recente configurazione della posizione del possessore, il quale avrebbe potuto, errando su un fatto altrui, maturare il convincimento di possedere come proprietario. Il passo, pertanto, non rappresenterebbe l’espressione della regola generale orientata ad ammettere l’usucapio sulla base del solo titolo putativo, ma piuttosto sarebbe volto a chiarire, assai più empiricamente, che l’errore di fatto, ove non dovuto ad una inescusabile trascuratezza, non avrebbe dovuto arrecare pregiudizio a colui che vi fosse incorso17. Il che significa ammettere che per tutti i prudentes, Nerazio incluso, l’usucapio si sarebbe prodotta in presenza di una iusta causa, ma essi avrebbero – e Nerazio ne è testimone –, avviato un processo interpretativo volto a verificare se, anche in assenza della predetta iusta causa traditionis e a certe condizioni, l’usucapione sarebbe stata ammissibile. L’articolazione di tale processo interpretativo che, in ultima istanza, avrebbe avuto come centrale il tema della possessio pro suo, si renderebbe ulteriormente evidente attraverso la lettura di Pomp. 22 ad Sab., D. 41.10.3, ove si determina un’immissione nel possesso in seguito a una traditio che, secondo Pomponio, ‘ex causa quam veram esse existimo’ (per una causa che io ritengo essere vera): il tradente è convinto di essere falsamente creditore – il riferimento è anche in questo caso ad un convincimento erroneo –, ma l’usucapio procede non in virtù di

13 Così, Bonfante 1916-1926, 526 ss. e 678 ss. e Voci 1952, 203 ss. (ma già Voci 1937, 168 ss.). Cfr., inoltre, Zilletti 1961, 180 s. 14 Mayer-Maly 1962b, 54 ss. 15 Hausmaninger 1964, 44 ss. 16 Vacca 1985, 1955 ss. (= Vacca 2012, 49 ss., a cui da ora in poi ci riferiremo). 17 Vacca 2012, 55. Assai eloquente appare l’espressione ita interpretandum est che nel passo costituisce il senso ultimo del pensiero neraziano, per cui la possibilità di ammettere l’usucapione anche sulla base di un titolo meramente putativo è oggetto di un’attività interpretativa che il giurista riconnette a se stesso come valore necessario e sufficiente per autorizzare anche una deroga al sistema, purché concepita entro un certo margine di ragionevolezza. Sullo sfondo, si delinea una giustificazione superiore: l’usucapione fu introdotta per porre un finis, un argine all’incertezza delle situazioni in merito alla titolarità dei beni, una suggestiva immagine, questa disegnata da Nerazio e recuperata direttamente dall’ambito della retorica ciceroniana (Cic. pro Caec. 26.74: Fundus a patre relinqui potest, at usucapio fundi, hoc est finis sollicitudinis ac periculum litium, non a patre relinquitur, sed a legibus, rell.), in merito alla quale si può leggere Scarano Ussani 1979, 12.

36

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 37

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo siffatta falsa rappresentazione, quanto sulla base di un’oggettiva traditio18. Tale linea interpretativa giustifica pure una lettura meno generica di un altro testo che, a giudizio di larga parte della giusromanistica19, testimonierebbe, invece, di un’accesa polemica intercorsa tra Celso e Nerazio, Ulp. 31 ad Sab., D. 41.3.27: Celsus libro trigensimo quarto errare eos ait, qui existimarent, cuius rei quisque bona fide adeptus sit possessionem, pro suo usucapere eum posse nihil referre, emerit nec ne, donatum sit nec ne, si modo emptum vel donatum sibi existimaverit, quia neque pro legato neque pro donato neque pro dote usucapio valeat, si nulla donatio, nulla dos, nullum legatum sit, idem et in litis aestimatione placet, ut, nisi vere quis litis aestimationem subierit, usucapere non possit. Celso nel libro trentaquattresimo dice che sono in errore coloro i quali ritengono che taluno possa acquistare mediante usucapione in ragione del titolo pro suo una cosa per averne ottenuto il possesso in buona fede, e che non importa che egli l’abbia acquistata o meno ricevuta in donazione o meno, se è convinto di averla comprata o che gli sia stata donata. Essi sono in errore perché se non vi fu vendita, né donazione, né dote, né legato l’usucapione non può valere né in forza di vendita, né di dote, né di legato. Lo stesso si è convenuto rispetto alla stima del valore dell’oggetto della lite, di modo che non si dà luogo all’usucapione qualora il valore dell’oggetto della lite non sia stato effettivamente pagato.

Celso20 parrebbe infatti negare l’ammissibilità dell’usucapio pro suo indipendentemente dall’esistenza di un titolo. Ma anche qui il ragionamento del giurista va colto nella sua esatta portata. Ciò che egli afferma è che non si possa genericamente sostenere che chiunque acquisti il possesso in buona fede potrà usucapire in base al titolo pro suo, ove l’atto sottostante sia invalido: e infatti –aggiunge il giurista – non si può usucapire pro donato, pro dote o pro legato se risulta nulla la donazione o la dote o v’è nullità del legato. Secondo Letizia Vacca21, peraltro, proprio l’elencazione degli atti sottostanti non sarebbe casuale, ma rifletterebbe i casi maggiormente dibattuti dalla giurisprudenza, considerata anche la successiva menzione della litis aestimatio e, per converso, la significativa esclusione del titolo pro emptore. E nella medesima direzione si muove Afr. 7 quaest., D. 41.4.11, in cui la soluzione prospet-

18 Pomp. 22 ad Sab., D. 41.10.3: Hominem, quem ex stipulatione te mihi debere falso existimabas, tradidisti mihi: si scissem mihi nihil debere, usu eum non capiam: quod si nescio, verius est, ut usucapiam, quia ipsa traditio ex causa, quam veram esse existimo, sufficit ad efficiendum, ut id quod mihi traditum est pro meo possideam. Et ita Neratius scripsit idque verum puto. 19 Secondo Cerami 1985, 95 ss. e forse estremizzando i tratti entro cui ricondurre le scepsi dei due giuristi, si trattava di un contrasto di opinioni in merito alla ricerca di un necessario contemperamento di interessi tra possessore e proprietario: “gli assertori del titolo putativo, propugnando la possibilità di surrogare l’effettività della iusta causa con l’opinio del possessore, ritenevano di poter assicurare il giusto equilibrio in gioco mediante un più penetrante controllo sull’atteggiamento subiettivo del possessore”. Diversamente, per Celso, il raggiungimento dell’equilibrio tra le due positiones si sarebbe potuto realizzare solo richiedendo la sussistenza di ambedue gli elementi, quello soggettivo, la buona fede e quello oggettivo, la iusta causa, necessaria per proiettare il rapporto intersoggettivo all’interno di una dimensione ispirata alla communis utilitas. 20 Discusso è a quale opera di Celso si riferisca Ulpiano: il fatto che non sia presente tale indicazione ha fatto supporre al Lenel 1889.I, 169, fr. 277, nt.2, che non si trattasse dei digesta. Ma si veda quanto osservano MayerMaly 1962b, 31 s. e Cerami 1985, 98. 21 Vacca 2012, 71.

37

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 38

Marina Frunzio tata da Giuliano si agita pur sempre all’interno dello stesso criterio, quello della scusabilità dell’errore22: Quod volgo traditum est eum, qui existimat se quid emisse nec emerit, non posse pro emptore usucapere, hactenus verum esse ait, si nullam iustam causam eius erroris emptor habeat: nam si forte servus vel procurator, cui emendam rem mandasset, persuaserit ei se emisse atque ita tradiderit, magis esse, ut usucapio sequatur. Ciò che comunemente viene affermato che non può usucapire sulla base del titolo della compera chi ritiene di aver comprato senza averlo fatto, dice (Giuliano) essere vero, se il compratore non ha alcuna giusta causa del proprio errore: infatti se il servo o il procuratore, al quale fu dato mandato di comprare una cosa, persuase il mandante di aver comprato e gli consegnò il bene, è più giusto che l’usucapione abbia luogo.

Non v’è possibilità in questa sede di ampliare ulteriormente la riflessione, estendendola, come forse sarebbe opportuno fare, ad una disamina complessiva dei passi in tema di possessio pro suo; tuttavia ci sembra corretto e, soprattutto, prudente inquadrare il parere di Nerazio, contenuto in D. 41.10.5pr., entro i confini di una riflessione che mirava ad indagare le ipotesi di ammissibilità della possessio pro suo partendo dalle ipotesi di errore tollerabile – un tema sul quale sovente si interrogano i giuristi – rispetto alla quale cornice non vi sarebbe neppure motivo per inasprire un presunto contrasto tra Nerazio e Celso. Tuttavia, anche supponendo una diversa sensibilità nel modo di intendere il diritto, soprattutto nella sua dimensione teleologica, da parte dei due giuristi, si potrebbe tutt’al più parlare di due visioni non contrastanti sempre ed in ogni caso, ma orientate, quella celsina, verso la finalità del bonum e dell’aequum e quella neraziana maggiormente riflessa a cogliere in se stessa le ragioni sulla base di archetipi consolidati, a cui peraltro l’aequitas non era certamente estranea23. Tale diversa sensibilità pare emergere, ad esempio, da Paul. 17 ad Plaut., D. 45.1.91.3: Sequitur videre de eo, quod veteres constituerunt, quotiens culpa intervenit debitoris, perpetuari obligationem, quemadmodum intellegendum sit. Et quidem si effecerit promissor, quo minus solvere possit, expeditum intellectum habet constitutio: si vero moratus sit tantum, haesitatur, an, si postea in mora non fuerit, extinguatur superior mora. Et Celsus adulescens scribit eum, qui moram fecit in solvendo Sticho quem promiserat, posse emendare eam moram postea offerendo: esse enim hanc quaestionem de bono et aequo: in quo genere plerumque sub auctoritate iuris scientiae perniciose, inquit, erratur. Et sane proba-

22 In questo senso deponeva già Proc. 7 ep., D. 23.3.67: Proculus Nepoti suo salutem. Ancilla quae nupsit dotisque nomine pecuniam viro tradidit, sive sciat se ancillam esse sive ignoret, non poterit eam pecuniam viri facere eaque nihilo minus mansit eius cuius fuerat antequam eo nomine viro traderetur, nisi forte usucapta est. Nec postea quam apud eundem virum libera facta est, eius pecuniae causam mutare potuit. Itaque nec facto quidem divortio aut dotis iure aut per condictionem repetere recte potest, sed is cuius pecunia est recte vindicat eam. Quod si vir eam pecuniam pro suo possidendo usucepit, scilicet quia existimavit mulierem liberam esse, propius est, ut existimem eum lucrifecisse, utique si, antequam matrimonium esse inciperet, usucepit. Et in eadem opinione sum, si quid ex ea pecunia paravit, antequam ea dos fieret, ita, ut nec possideat eam nec dolo fecerit, quo minus eam possideret, dalla cui lettura Vacca 2012, 73 conclude: “Ne risulta con tutta evidenza che il possesso di buona fede del marito, per cui si esclude ovviamente il titolo pro dote, è nient’altro che un possesso pro suo, sufficiente in quanto tale all’usucapione: anche in questo caso l’usucapione viene inoltre fatta dipendere dalla scusabilità dell’errore”. Sul passo, inoltre, Mayer-Maly 1962b, 55 e Hausmaninger 1964, 51 s. 23 Svolgeremo, al riguardo, alcune riflessioni infra: 69 s.

38

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 39

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo bilis haec sententia est, quam quidem et Iulianus sequitur: nam dum quaeritur de damno et par utriusque causa sit, quare non potentior sit qui teneat, quam qui persequitur? Bisogna dunque esaminare quanto stabilito dai giuristi antichi – e cioè che ogniqualvolta che interviene la mora del debitore l’obbligazione vada perpetuata – come ciò debba intendersi. E il significato si coglie agevolmente se il promittente fece in modo di non poter effettuare il pagamento. Ma se ritardò solamente, nasce il dubbio se, nel caso che non abbia in seguito persistito nella mora, la prima mora si è o no estinta? Celso il giovane scrive che colui il quale è in mora nel dare il servo Stico da lui promesso, può purgare la mora facendo l’offerta successivamente, perché tale questione si risolve alla luce del buono e dell’equo, nel cui ambito la maggior parte dei giuristi – disse – erra pericolosamente dietro l’autorità della scienza giuridica. Questa opinione è probabile ed è seguita anche da Giuliano, infatti quando si discute del danno, ed è pari la causa di entrambi, perché non sarà prevalente la posizione di colui che tiene piuttosto che quella di colui che rivendica?

In questo noto testo Celso, riferendo la questione al campo del buono e dell’equo, intende con ciò sottrarla alla perniciosità della scienza giuridica, troppo distante, per la sua dimensione teorica, dal cogliere le istanze pratiche, sociali ed economiche in gioco24. Laddove la visione di Nerazio pare, invece, rinviare ad una dimensione interpretativa come appannaggio esclusivo dei iuris periti che grazie al loro secolare operato avevano portato in luce le coordinate portanti dell’interpretatio iuris. Il che non postula un universo ormai chiuso in se stesso, ma al contrario, lo predispone all’analisi del giurista il quale lo arricchirà, pur mantenendosi all’interno di quei percorsi logico-argomentativi sui quali si era costruita la scientia iuris. Quella di Nerazio insomma diventa sì la difesa di una tradizione consolidata, ma non per questo immodificabile nelle soluzioni di volta in volta proposte, tant’è che ciò che sembra paventare il giurista è il rischio della messa in discussione delle rationes, cioè delle intime e fondanti linee dell’interpretatio prudentium25.

24 Il passo è tratto dal libro 17 di commento di Paolo a Plauzio: si potrebbe credere che l’iniziale accenno ai veteres rappresenti un riferimento, implicito, alle opinioni di giuristi presenti nell’opera di quest’ultimo. Sul passo, Montel 1930, 163 e 190; Scarano Ussani 1979, 177 ss. e Id. 1989 spec. 96 ss.; per un inquadramento dogmatico cfr. Cannata 1996, 116 ss. Più recentemente, Santoro 2014, 177 ss., con ampi ragguagli bibliografici. Si ritiene comunemente che Nerazio fosse di circa 20 anni più anziano di Celso: Kunkel 1967, 144 s.; Greiner 1973, 1; Camodeca 1976, 1 ss.; Maifeld 1991, 15 ss. 25 Osserva correttamente Rainer 1999, 70, come non si possa certo dubitare che i valori di cui si nutriva l’aristocrazia italica abbiano determinato lo sviluppo del diritto e della tecnica giuridica e “fra essi alla bona fides spetta un ruolo preponderante”. E conclude: “È qui che proprio Nerazio si inserisce fra la staticità dei valori – da indagare con il metodo storico – e la dinamica dell’evoluzione, l’aequitas, sì valore essa stessa perché permette di determinare la giustizia di per sé, ma anche filtro e metodo per l’applicazione pratica e perciò propulsore di sviluppo giuridico”. La bona fides, d’altronde, sembrerebbe acquistare una posizione apicale per Nerazio nella regula di 4 membr., D. 44.4.11.1, secondo cui in universum autem haec in ea regula sequenda est, ut dolus omnimodo puniatur, etsi non ali cui, sed ipsi, qui eum admisit, damnosus futurus erit. In questa prospettiva non sarebbe erroneo, sulla scia del Greiner 1973, 113, ritenere che almeno le membranae fossero una raccolta di soluzioni problematiche rivolte da Nerazio ai suoi Fachkollegen, piuttosto che pensare ad un’opera costruita per l’insegnamento del diritto. Che, poi, le rationes constitutae di cui parla D. 1.3. 21 vadano intese come evocative dell’interpretazione giurisprudenziale è stato sostenuto già da Talamanca 1991-1992, 727, il quale afferma: “l’inopportunità di ricercare le rationes nella l. 21 non è…riferita a disposizioni di tipo legislativo, bensì a quel patrimonio di istituti che si sono sedimentati ed irrigiditi nel tempo proprio ad opera dell’interpretatio prudentium…”.

39

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 40

Marina Frunzio Ciò è peraltro dimostrato da numerose soluzioni che evidenziano un giurista apparentemente capace di ragionamenti arditi e innovatori: basterebbe pensare non solo alla discussione in merito al titolo putativo, ma anche a talune scelte nell’ambito della teoria del furto nelle sue applicazioni concrete26. Nell’insieme la visione di Nerazio appare maggiormente incline ad una prospettiva ‘sistematrice’ e consolidatrice del diritto; quella di Celso ad una prospettiva ‘asistematrice’, dove tutto può e deve essere colto nella concreta logica dell’interpretazione giurisprudenziale, empiricamente giusta, flessibilmente equitativa. Volendo indagare ancora più a fondo le motivazioni alla base delle due prospettive27, da un lato bisogna giocoforza rapportarsi alle temperie culturali del II secolo d.C., e, a ciò connesso, allo specifico atteggiamento che connota la riflessione di Nerazio, come pure quella di Aristone. Come è stato non da oggi sostenuto28, questo è il secolo della circolazione di numerose correnti filosofiche, lo stoicismo, ma anche lo scetticismo degli Accademici e, con accenti ancora più estremi, il pirronismo29. Si diffonde un atteggiamento complessivamente critico verso la scienza,

26 È il caso, ma gli esempi possono moltiplicarsi, di Ner. 1 membr., D. 47.2.65: A Titio herede homo Seio legatus ante aditam hereditatem Titio furtum fecit. Si adita hereditate Seius legatum ad se pertinere voluerit, furti eius servi nomine aget cum eo Titius, quia neque tunc, cum faceret furtum, eius fuit, et (ut maxime quis existimet, si servus esse coeperit eius, cui furtum fecerat, tolli furti actionem, ut nec si alienatus sit, agi possit eo nomine) ne post aditam quidem hereditatem Titii factus est, quia ea, quae legantur, recta via ab eo qui legavit ad eum cui legata sunt transeunt. Si fa il caso di furto compiuto dal servo legato nei confronti dell’erede prima dell’aditio. In seguito a questa, dice Nerazio, ove il legatario abbia dichiarato di accettare il legato, l’erede potrà agire di furto contro il legatario. E ciò perché lo schiavo che ha rubato non è mai appartenuto all’erede, neppure prima dell’adizione, in quanto i beni sono direttamente attribuiti dal testatore al legatario. Secondo Nappi 2005, 62, il testo si articolerebbe in due parti, attraverso l’impiego di un duplice ‘quia’. Inizialmente, l’osservazione che prima dell’adizione il servo non apparteneva all’erede, sembrerebbe una semplice constatazione di fatto, in cui non viene chiarita la ragione dell’esperibilità dell’actio furti. Poi, si presenta quello che agli occhi del giurista doveva essere il maggiore problema: giustificare l’azione di furto nonostante l’avvenuta adizione. E ciò si coglierebbe “da quell’inciso, ut maxime quis existimet – eo nomine –, che lascia scorgere una risposta a chi fosse di parere contrario”. 27 Non riteniamo, infatti, di dover drammatizzare i termini di un possibile conflitto interpretativo tra i due giuristi. Abbiamo nella Compilazione anche segnali di una sostanziale concordia di opinioni su singole questioni. Ce lo dimostrano innanzitutto due testimonianze ulpianee, Ulp. 17 ad Sab., D. 7.2.3pr. in tema di ius adcrescendi e Ulp. 29 ad ed., D. 14.6.7, a proposito della fideiussio del filius familias. In due casi, poi, Celso cita espressamente Nerazio, Cels. 23 dig., D. 8.6.12 e Cels. 33 dig., D. 50.17.191. Afferma Bauman 1989, 311, che tra la posizione più tradizionalista di Nerazio e quella più liberale di Celso potrebbe intravvedersi un “joint appointment”. In realtà, osserva bene Carcaterra 1984, spec. 407 ss., quando attribuisce al ius finitum neraziano la natura di un opus architettonico e deducibile da criteri primi evidenti e validi di per sé, quegli assiomi che già Scarano Ussani 1979, 44, aveva indicato come le grandi categorie dell’argomentare neraziano, l’aequitas, la pietas, la fides. Da questa prospettiva le rationes che non possono essere messe in discussione sarebbero appunto gli architravi della scientia iuris e Nerazio non farebbe altro che accogliere il razionalismo ciceroniano di de off. 1.9.30 per cui l’“aequitas lucet ipsa per se, dubitatio cogitationem significat iniuriae”. 28 Cfr. Casavola 1980, 53 ss. 29 Esemplare la testimonianza di Aulo Gellio, noct. Att. 11.5.6-8: Vetus autem quaestio et a multis scriptoribus Graecis tractata, an quid et quantum Pyrronis et Academicos philosophos intersit. Utrique enim σκεπτικόι, ἑφεκτικόι, ἁπορετικόι dicuntur quoniam utrique nihil adfirmant nihilque comprehendi putant. Sed ex omnibus rebus proinde visa dicunt fieri, quas φαντασίας appellant, non ut rerum ipsarum natura est, sed ut adfectio animi corporisve est eorum, ad quos ea visa perveniunt. Itaque omnes omnino res, quae sensus hominum movent, τῶν πρός τι esse dicunt. Id verbum significat nihil esse quicquam, quod ex sese constet, nec quod habeat vim propriam et naturam, sed omnia prorsum ad aliquid referri taliaque videri, qualis sit eorum species, dum videntur, qualiasque apud sensus nostros, quo pervenerunt, creantur, non apud sese, unde profecta sunt. Cum haec autem consimiliter tam Pyrronii dicant quam Academici, differre tamen inter sese et propter alia quaedam et vel maxime propterea existimati sunt, quod Academici quidem ipsum illud nihil posse comprehendi quasi comprehendunt et nihil posse decerni quasi decernunt, Pyrronii ne id quidem ullo pacto verum videri dicunt, quod nihil esse verum videtur.

40

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 41

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo sospinto non solo e più immediatamente dalle correnti scettiche, ma anche dalla metodologia della medicina empirica. Mentre l’ermeneutica celsina riecheggerebbe quest’ultima30, l’atteggiamento culturale di Nerazio sarebbe in aperto dialogo con la filosofia scettica ampiamente intesa e contro l’approssimazione degli esiti cui essa avrebbe potuto condurre31. Ed è dunque contro il pericolo della diffusione di pericolose tendenze volte alla vaghezza assiomatica che Nerazio avrebbe reagito, recuperando tutto il valore di una tradizione di pensiero capace di reperire in se stessa le rationes fondanti e di autorigenerarsi nel tempo. Per altro verso, non va neppure trascurato che il nostro giurista era uomo dell’apparato imperiale ed appartenente al ceto aristocratico: riferirsi al diritto come ad un mondo necessariamente limitato da precisi confini poteva rappresentare anche una storica, giustificata e coerente risposta ad un assetto politico-culturale sempre più gravante intorno all’imperatore e al suo impianto politico. Ma, come si diceva, v’è dell’altro, all’interno dello specifico percorso culturale che identifica la visione di Nerazio. Non da oggi si è difatti rilevato32 come negli anni del Principato augusteo “il razionalismo aristotelico di Labeone aveva rappresentato il traguardo più avanzato per l’esito della rivoluzione formale. Esso prefigurava un universo normativo aperto, flessibilmente controllato dalla giurisprudenza, di cui le regulae iuris avrebbero dovuto indicare la via di sviluppo”. Ma successivamente quella opposizione si dovette presentare in forma di chiusura, “non più aperta contro le eventuali ambizioni totalizzanti del principe, bensì bloccata sul passato, a fissare i confini di uno ius percepito come interamente dispiegato, a difesa di un governo, come quello traianeo, finalmente restauratore di una prassi filosenatoria e tradizionalista”33. Nell’immagine di uno ius che potesse e dovesse porsi come insieme ‘finito’, struttura ontologicamente compiuta – si è detto34 – sarebbe allora possibile cogliere “una conclusione dogmatica e paradossalmente antilabeoniana, debitrice verso un razionalismo meno creativo, meno fiducioso – quasi pessimista e sulla difensiva. Il diritto si proteggeva dentro le mura delle sue frontiere: di lì a poco avrebbe cominciato a farlo, e non metaforicamente, lo stesso impero, giunto ormai ai «confini del mondo»35”.

30

Cerami 1985, 29 ss. Casavola 1980, 54, sulla cui ricostruzione complessiva, tuttavia, si leggano i rilievi di Talamanca 1977a, 302. Pensa ad una forte influenza del pensiero di Labeone sui giuristi dell’epoca Schiavone 1971, spec. 147 s. 32 Schiavone 2017, 359 s. 33 In argomento si veda pure Sitzia 1983, 33 ss. 34 Schiavone 1996, 211 ss. 35 Il rinvio è ancora a Schiavone 2017, 359 s. V’è da dire che quella di non oltrepassare i confini dell’allora mondo conosciuto è una preoccupazione avente radici antiche. Se ne nutrì Alessandro il Macedone, nonostante l’impeto conquistatore (Seneca suasoriae I e controversiae VII.7.19, ricorda nelle declamationes delle scuole di retorica le preci rivolte ad Alessandro di non superare i confini, su cui si legga Canfora 2011, spec. 52 s.), Ottaviano Augusto, angosciato non solo dalle possibili difficoltà economiche, ma dall’idea stessa di smarrire la ‘misura’ , sinonimo di controllo e di pace, faticosamente raggiunta, quando ammonisce nel suo testamento Tiberio a rispettare il limes tracciato, sino ad Adriano, Antonino Pio, fautori dell’ecumene raccolta nelle mani dell’imperatore e Lucio Vero. Tra il I e il II sec. d.C. prende corpo negli alti strati della popolazione romana la necessità di non voler scorgere al di là della coscienza della propria altezza. L’impero aveva raggiunto il suo apice, finalmente l’agognata età aurea, e non vi poteva essere spazio per altro se non per il compiacimento della raggiunta perfezione, unito al timore di una fatale disgregazione. Questa idea di limite come punto di arrivo, ma soprattutto di spazio sicuro e concluso vive forte in numerosi intellettuali dell’epoca (si leggano le splendide pagine che Schiavone 1996, 211 ss., dedica a Elio Aristide), permea di sé l’ideologia imperiale e dimora negli scritti di chi, come Nerazio, era tanto più vicino a quel modo di sentire, condividendone le motivazioni per scelta di vita, ma anche per estrazione socio-culturale. 31

41

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 42

Marina Frunzio Ed è per questo che la certezza dell’ordinamento nella visione neraziana non può che reperirsi al suo stesso interno, attraverso un procedimento, non scevro da dogmatismo, il quale, parafrasando Casavola, era in grado di condurre a coerenza le intelligenze dei giuristi e la superiore volontà del principe36. 2. Ius constitutum e senso del passato nel pensiero di Paolo Ma la lettura di Paul. 17 ad Plaut., D. 45.1.91.3, ci conduce a formulare ulteriori e diversamente connesse riflessioni. Dall’iniziale inciso quod veteres constituerunt, parrebbe, infatti, doversi dedurre che per Paolo – e si tratta di una circostanza che è necessario approfondire – il tempo dei veteres37 si lasci cogliere dall’interprete per quel patrimonio di constituta a maioribus sunt di Iul., 55 dig., D. 1.3.20, su cui ancora alla sua epoca conviene ritornare per mantenerne viva e forte la voce38. Per comprendere fino in fondo il senso dello sguardo che Paolo rivolge al passato e su cui continueremo a confrontarci nel corso del presente lavoro, di considerevole aiuto si presentano i recentissimi studi di Massimo Brutti39, dove tale rapporto viene circostanziato innanzitutto all’interno della realtà del tempo in cui il giurista visse, attraversata, da Marco Aurelio in poi, da continue violenze che partecipano alle trasformazioni istituzionali, rispetto alle quali Paolo reagisce recuperando la tradizione come argine al disordine politico e sociale. Se ciò è vero, tuttavia, il legame col passato non può dirsi certo una innovazione dell’epoca severiana. Da Augusto in poi sappiamo che la difesa della tradizione, anche negli scritti degli storici come nell’oratoria, si presenta come un topos che viene utilizzato per legittimare il presente, e dunque particolarmente caro a quella propaganda politica che, nel giustificare le scelte attuali, ricorreva all’espediente retorico di esaltare il passato da cui quelle scelte avevano avuto origine40. Al tempo di Paolo quell’antica e sedimentata tendenza si nutre oltretutto degli orrori delle uccisioni ordinate dagli imperatori che, come noto, avevano illustri vittime anche nei giuristi vicini al Palazzo, come le tragiche vicende di Papiniano e di Ulpiano ci insegnano. Che poi Paolo in particolar modo custodisca la tradizione come un tesoro da salvaguardare si può arguire da non poche testimonianze, così come il concetto di ius constitutum an-

36

Casavola 1980, 184. Sulla giurisprudenza dei veteres – termine nelle fonti non del tutto univoco – Horak 1992, 201 ss.; Mantovani 2017a, 257 ss. 38 Ad un patrimonio di res constitutae si riferisce pure Cicerone, con uno sguardo soprattutto rivolto alle istituzioni fondanti la civitas. Cfr., ad esempio, Cic. leg. 3.5.12: Quae res cum sapientissime moderatissimeque constituta esset a maioribus nostris (si vedano, inoltre, Cic. rep. 2.38 e de off. 3.33.117), su cui si rinvia alle stringenti osservazioni di Giliberti 2014, 1 ss. 39 Brutti 2021, anticipato, proprio per quel che attiene al rapporto tra il giurista e le res veteres, da un saggio apparso sugli Annali Palermo, Brutti 2020, 19 ss. 40 Si tratta di un tema molto complesso all’interno del quale il costante recupero della tradizione denuncia un più sottile rifiuto per le innovazioni, a sua volta riflesso dell’assenza di un orizzonte culturale ampio che valorizzi il progresso come fattore positivo della società umana, su cui Syme 1962, 317. Più di recente, con analisi delle fonti e della letteratura, Romano 2006, 17 ss. 37

42

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 43

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo corato al diritto consolidatosi in forza del consenso raggiunto dai giurisperiti su determinate fattispecie: è quanto, ad esempio, sembra di doversi desumere da Paul. 7 ad Sab., D. 25.2.1. Rerum amotarum iudicium singulare introductum est adversus eam quae uxor fuit, quia non placuit cum ea furti agere posse: quibusdam existimantibus ne quidem furtum eam facere, ut Nerva Cassio, quia societas vitae quodammodo dominam eam faceret: aliis, ut Sabino et Proculo, furto quidem eam facere, sicut filia patri faciat, sed furti non esse actionem constituto iure, in qua sententia et Iulianus rectissime est: L’azione di diritto singolare per le sottrazioni di cose fu introdotta contro colei che fu moglie, poiché non si convenne di agire di furto nei suoi confronti, ritenendosi da parte di alcuni, come Nerva e Cassio, che ella neppure possa commettere furto, in considerazione del regime di comunanza di vita che la rendeva in qualche modo proprietaria; da altri, come Sabino e Proculo, che ella commetta furto come la figlia lo commette nei confronti del padre, ma che non si dia luogo all’azione di furto per diritto costituito, opinione seguita assai giustamente anche da Giuliano.

Il modello della continuità con il passato attraverso il legame con la scienza giuridica41 trova così in Paolo la sua più completa espressione42, in un luogo che, tuttavia, non è costruito dal giurista quale rifugio nostalgico, ma, come una “base per fare i conti con il presente”43. Per questa ragione, il giurista in un evidente elogio della consuetudine, dimostra di non avvertire rigidamente la necessità di un diritto scritto, ove si sia di fronte ad una disciplina generalmente osservata44. Così come si giustifica la ricerca di un rapporto con i giuristi precedenti, l’instaurazione, cioè, di un dialogo vitale che attraversi il tempo e sostenga con la sua auctoritas inedite argomentazioni e nuove scelte di contenuto45. Si tratta, a ben vedere, di un approccio che certamente guida Paolo nel suo rapporto con Labeone, del quale raccoglie la sfida a commentarne le soluzioni, rimodellando le opinioni del predecessore ed adattandole alla propria realtà e sensibilità giuridica. Che i pithanà labeoniani siano addirittura una raccolta di regulae è punto controverso46. Ma certamente tale opera si presenta come un insieme di proposizioni plausibili composte allo scopo di sottrarre il monopolio del diritto al potere assoluto e rivolto da Labeone ai

41 Lo esprime chiaramente Gell. noct. Att. 12.13.3 quando afferma che i giuristi si occupano ‘de vetere iure et recepto aut controverso et ambiguo aut novo nec constituto’. 42 Il ‘conservatorismo’ di Paolo sarebbe anche evidente in campo religioso, dato che per Honoré 1962, 225, spiegherebbe il motivo di fondo del dissidio tra il giurista e l’imperatore. 43 Brutti 2020, 40. 44 Paul. 7 ad Sab., D. 1.3.36: Immo magnae auctoritatis hoc ius habetur, quod in tantum probatum est, ut non fuerit necesse scripto id comprehendere; Paul. 1 quaest., D. 1.3.37: Si de interpretatione legis quaeratur, in primis inspiciendum est, quo iure civitas retro in eiusmodi casibus usa fuisset: optima enim est legum interpres consuetudo. 45 La forza del precedente, secondo Brutti 2020, 40, non risparmia neppure gli imperatori: “Essi formulano decisioni e regole innovative, tenendo conto del passato e legittimandole in nome di concetti (e valori) provenienti anch’essi dalla tradizione: l’aequitas, l’humanitas, la pietas. Valori che affondano le radici nell’epoca repubblicana ed ora cambiano verso, divenendo mezzi di affermazione della discrezionalità imperiale nel campo del diritto”. 46 La ritiene tale, da ultimo, González Roldán 2019, 23. Sul punto, soprattutto, Bretone 1973, 173 ss.; Talamanca 1975, 1 ss.; Bretone 1982, 361; Formigoni 1996, passim.

43

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 44

Marina Frunzio colleghi futuri47. Un’opera che rivela un fine politico-culturale, innanzitutto. Se così fosse, acquisterebbe forza l’immagine del giurista severiano come accorto interprete di un passato a cui egli si rivolge non per mero ossequio, ma enucleando al suo interno, con consapevole ragionevolezza, quanto è funzionale alla rilettura di un immenso patrimonio della scienza giuridica, ormai da adattare e rendere coerente alle funzioni dell’interprete del tempo. La sensibilità di Paolo verso la tradizione giuridica, ad uno sguardo meno distante, può apparire sotto una luce ancora più suggestiva. Come si avrà modo di vedere di qui a poco, è possibile intuire nel rapporto tra il giurista e il passato un valore strumentale rispetto ad una consapevole scelta culturale di pervenire ad una complessiva organizzazione sistematica del diritto civile. La stessa vicinanza che il giurista stabilisce tra sé e i colleghi precedenti, voci di un passato ancora parlante, non sembra dettata dal caso o saltuariamente intesa, ma finalizzata a recuperare la lezione di quanti tra essi avevano intrapreso l’operazione di raccolta di materiali giurisprudenziali e ciò al chiaro scopo di giungere a un riassetto della materia il più possibile epurato da discussioni ed incertezze. Se infatti, come pure di recente si è voluto dimostrare48, Paolo volge i propri occhi al passato, è vero tuttavia che nella sua opera, complessivamente considerata, emergono alcuni commentari a giuristi risalenti nel tempo, particolarmente significativi rispetto al progetto culturale che si sta cercando di illustrare: esclusi ovviamente i commentari ad edictum, si tratta dei libri di commento a Sabino, a Vitellio, a Plauzio e Nerazio. Le prime due opere di commento si spiegano facilmente. Qualsiasi cosa si voglia pensare di Vitellio49, amico o discepolo di Sabino, non v’è dubbio che commentare Sabino come Vitellio significa affrontare i cardini fondamentali del diritto civile su cui praticamente tutta la giurisprudenza posteriore indaga, si confronta e sottopone a vaglio; vuol dire porre i punti fermi della tradizione civilistica, specie in ambito successorio e riportarne alla luce in modo chiaro le ragioni di fondo.

47 L’insieme dei pithanà avrebbe come carattere quello della regola casistica, osserva Cannata 1997a, 319, le cui parole meritano di essere riferire testualmente: “essa (scil.: la regola) è appunto casistica, in quanto rappresenta la tipizzazione di un caso concreto con la sua soluzione, ma il suo vincolo con la concreta struttura casistica si attenua vieppiù che la forma regolare è frutto di più accentuata astrazione, e ciò fino a diventare a prima vista irreperibile; la regola casistica è poi, certo, regolativa, ma è anche problematica, perché non è normativa: è costruita da un giurista perché sia utilizzata, ma essa è proposta innanzitutto agli altri giuristi, perché la verifichino, e, verificatala, la correggano o la sottopongano, se possibile, ad un’astrazione di grado ulteriore. Questa era comunque, certamente, l’intenzione di Labeone, ed in ciò risiede pure la ragione per la quale egli propose la sua raccolta come un insieme di pithanà, di proposizioni, cioè, che vogliono persuadere, ma che per ciò stesso sono aperte alla discussione”. Il tono a volte apparentemente denigratorio, quando non offensivo del commento di Paolo sarebbe da leggere proprio in questo senso: Paolo, scegliendo di pubblicare i pithanà labeoniani corredati dalle sue note, avrebbe null’altro che seguito la lezione del giurista augusteo, discutendo le sue proposizioni che egli stesso aveva consapevolmente offerto al dibattito presso i colleghi. I pithanà tradirebbero così l’evidente fine di riservare, da parte di Labeone, l’interpretazione del diritto ai giuristi, escludendo il rischio di un controllo da parte del potere del princeps, se si riflette sul possibile intento di Augusto di riprendere l’idea cesariana della codificazione del diritto civile. Sul punto cfr., inoltre, Bretone 1973, 170 ss.; Talamanca 1975, 12 ss.; Formigoni 1996, passim. 48 Luchetti 2018, 37 ss. 49 In tema, Di Maria 2019, 1 ss. e i contributi contenuti in Baldus, Luchetti, Miglietta 2020, 1 ss., tra cui, in specie, per quanto ci interessa più da vicino, Beggio 2020, 31 ss. Si leggano anche le osservazioni contenute supra: 5 ss.

44

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 45

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo 3. Plauzio, Nerazio e Paolo: una significativa catena di saperi Nella nostra prospettiva particolare attenzione crediamo debba essere posta al commento paolino a Plauzio, che si può comprendere solo ragionando sulla valenza della sua opera, per quanto ci è dato allo stato di conoscere e merita in questa sede una riflessione più articolata. Giurista del I sec. d.C., non ci è giunto nessun frammento della sua opera, ma solo dei commenti ad essa da parte dei giuristi successivi50. Lo stesso Lenel mostra più di una perplessità, anche rispetto al commento svolto da Paolo, in cui individua fino ad un certo punto l’ordine edittale, per poi ritenere che gli ultimi libri siano forse stati composti successivamente e in ordine sparso51. Brilla all’interno del commento di Paolo la presenza di regulae; per altro verso, colpisce la totale assenza di commenti di Plauzio ai casi descritti52. Circostanza che ha fatto pensare a molti studiosi53 che l’opera fosse un raccoglitore delle opinioni di vari giuristi coevi o precedenti a Plauzio muniti di un’indiscussa auctoritas (sovente le soluzioni si riportano a Sabino, ma non solo54), raccolte e presentate a scopo di chiarimento definitivo di diverse questioni55. Probabilmente era un’opera scritta in forma di quaestiones, se non di responsa56. L’interesse di Paolo verso Plauzio potrebbe forse proprio intravvedersi nel fatto

50 L’opera di Plauzio, come si è già detto in precedenza, fu oggetto di commento da parte di Giavoleno, di Nerazio, di Pomponio e di Paolo. Secondo i dati in nostro possesso, Giavoleno scrisse 5 libri ad Plautium o ex Plautio, non se ne ha certezza. Probabilmente fu addirittura contemporaneo di Plauzio. Del suo commento ci residuano pochi frammenti, privi di citazioni di altri giuristi. Dei libri di Nerazio ex Plautio residua un unico frammento, D. 8.3.5.1, tratto dal 7 libro ad edictum di Ulpiano, con le opinioni di Proculo e Atilicino; Pomponio compose 7 libri di commento a Plauzio: secondo Lenel l’opera si presenta in 46 frammenti di cui, però, 7 non sono riferibili con certezza ad alcun libro del commento pomponiano e si tratta di passi provenienti tutti dall’opera di Paolo a Plauzio, salvo uno, sempre di Paolo, che deriva dal libro 7 ad Sabinum. Nei frammenti certamente ascrivibili a Pomponio sono citati: Ottaveno (1 volta); Labeone (4 volte); Ofilio (1 volta); Aristone (due volte); P. Pattumeio Clemente (1 volta); Giuliano, il più richiamato, è presente 7 volte nell’opera. Paolo risulta invece autore di ben 18 libri di commento, in cui emerge la materia edittale, ma assumono larga importanza anche le problematiche di carattere successorio: cfr. Ferrini 1894a, 19 ss.; Siber 1951, 45; Riccobono 1957, 2 ss. 51 Lenel 1889.I. 1147, nt. 1: “…Quod si librorum I-X fragmenta accuratius inspexeris, minime poteris dubitare, quin hi libri ad edicti perpetui ordinem redacti sint. In reliquis autem libris certum rerum ordinem equidem nullo modo invenio, ut pronior sim ad existimandum non unum, sed complura Plautii opera a Paulo esse excerpta: quae opinio eo firmatur quod neque Iavoleni neque Pomponii ex Plautio libri cum Pauli librorum ordine convenunt.” 52 Converrà ricordare che anche Pomponio, commentatore di Plauzio, compone un libro di regulae. 53 Da ultimo, Mantovani 2003, 157 ss. e note. 54 Si tratta soprattutto di giuristi vissuti nel I secolo d.C., sino, grosso modo, all’impero di Vespasiano, quali Nerva padre, Cassio, Proculo, Atilicino e Fulcinio Prisco. 55 Questa struttura parrebbe emergere da Paul. 7 ad Sab., D. 24.1.28.3, in cui ricorre ‘apud Plautium placuit’, e da Vat. 77, D. 7.2.13, con un ancora più eloquente ‘omnes auctores apud Plautium consenserunt’. Sul significato di placere e forme verbali analoghe, Schwarz (B.) 1951, 121 ss.; Bretone 2008, spec., 829 s.; Beduschi 2010, 1 ss.; Brutti 2012, 75 ss. Cfr., inoltre, Stein 1966, spec. 75; Lombardi 1967, spec. 68 ss.; Nörr 1974b, 16; Bona 1987, 127 per il quale il verbo ‘placere’ implicherebbe senza alcun dubbio l’idea della ricomposizione di un preesistente dissenso di opinioni. 56 Come noto, Ferrini 1894a, spec. 215 ss., dapprima ipotizzò che si trattasse di una raccolta di responsa, ma in seguito mutò opinione e preferì pensare ad un’opera di quaestiones; analogamente, concluse Riccobono 1957, 5 ss. Cfr., tuttavia, Bremer 1898-1901, II.1, 219, che ipotizza si tratti di digesta. A favore dell’ipotesi che l’opera plauziana fosse un insieme di responsa depone la circostanza, notata da Mantovani 2003, 158, per cui non vi è alcuna traccia di controversialità tra i pareri dei giuristi citati, ma, al contrario, come poco sopra si è rilevato, le diverse opinioni paiono convergere su un piano di sostanziale concordia.

45

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 46

Marina Frunzio che il lavoro del suo predecessore si presentava particolarmente utile a scopo di sistemazione della materia del diritto civile, su cui Paolo interviene per enucleare, sulla base di un materiale già accolto, delle regulae sedimentate57. Non è certo un caso che proprio all’interno del commento paolino a Plauzio si trovi l’enunciazione famosa della regula, con il richiamo all’autorità di Sabino e che larga parte del titolo 17 del libro 50 dei Digesta giustinianei contenga regulae paoline di cui un segmento cospicuo appare tratto proprio dal commento del giurista severiano a Plauzio58. Il celebre concetto di regola è contenuto in Paul. 16 ad Plaut., D. 50.17.1: Regula est, quae rem quae est breviter enarrat. Non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. Per regulam igitur brevis rerum narratio traditur, et, ut ait Sabinus, quasi coniectio est, quae simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum. La regola è quella che espone brevemente la questione. In modo che non si generi il diritto dalla regola, ma che questa risulti dal diritto esistente. Pertanto, attraverso la regola si ha una breve esposizione e, come afferma Sabino, questa è un’enunciazione sintetica della causa, che se risulta viziata in qualche sua parte, perde della sua tipica funzione.

Lo stesso Lenel dichiara di ignorare a quale contesto il frammento debba riportarsi, considerato che, verisimilmente, il libro 16 ad Plautium verteva sul tema delle manomissioni59. Cosa è possibile ricavare da questa testimonianza? Innanzitutto, parrebbe doversi desumere che la regula sia un’esposizione sintetica dello stato delle cose; secondariamente che essa non ricava il diritto vigente ma è da quest’ultimo che promana; da ciò ne consegue ulteriormente, come afferma Sabino, che l’efficacia della regola non è definitiva nel tempo, poiché essa si mantiene fintanto che esiste corrispondenza rispetto al diritto attuale, non potendo acquisire un autonomo valore normativo. Osserva Carlo Augusto Cannata come le due frasi iniziali, ‘Regula est, quae rem quae est breviter enarrat’; ‘non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat’, Paolo le trascrivesse da Labeone, forse dall’inizio dei pithanà60. E ciò per vari ordini di considerazioni. In primo luogo, l’Autore rileva l’equivalenza tra regula e res breviter enarrat, nel senso che la regula coincide

57 Pensa che Paolo avrebbe commentato il lavoro di Plauzio per finalità squisitamente didattiche, Liebs 1997b, 148, sulla cui scia, Viarengo 2020, 25, la quale asserisce: “Ritengo che ci siano sufficienti indizi per affermare a titolo conclusivo che Paolo ha commentato i materiali plauziani a scopo didattico”, affermazione che, soprattutto alla luce delle considerazioni che ci apprestiamo a svolgere, non possiamo non avvertire come eccessivamente riduttiva. Sulle regulae rinviamo all’ottima rassegna bibliografica in Di Cintio 2019, 13 ss. e note. Si vedano inoltre Maganzani 2007, 309 e, soprattutto, Miglietta 2012, 187 ss. Non trascurabili le considerazioni svolte da Nitsch 2007, 3797 ss. Da segnalare, infine, Cascione 2016, spec. 20 (e i diversi, pregevolissimi, contributi ivi raccolti). 58 Si tratta del segmento che va da D. 50.17.168 a D. 50.17.180. Dei 211 frammenti di cui si compone, 69 sono di Paolo. L’unico altro frammento presente nel titolo escerpito dal commento di questi a Plauzio è D. 50.17.1 che apre il titolo stesso. Va pure rilevato che quest’ultimo precede la ‘parte sabiniana’ delle regulae, cioè i passi tratti da opere di commento a Sabino, la quale si estende da D. 50.17.2 a D. 50.17.40 e costituisce, insieme alla sezione ‘plauziana’, la parte più cospicua di regulae derivate da commenti ‘ad’, escludendo, come pare opportuno, i frammenti di matrice edittale. 59 Lenel 1889.I, 1173 nt. 1. Per questa ragione si è parlato in dottrina anche di una meta-regola: Wacke 2007, 2826. Si è pensato anche ad un legame con la regula Catoniana: Daube 1952, 205 ss.; Stein 1966, 70; Martini 1966, 162 ss.; Albanese 1967, 3 ss.; Guarino 1968, 65 ss. Più cauto, Schiavone 1971, 112. 60 Cannata 1997a, 325. Si veda pure Cannata 1997b, 125 ss.

46

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 47

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo con il concetto di res espresso in forma breve. Che questa sia l’esatta etimologia del termine o meno non riveste particolare importanza, mentre, a giudizio dello studioso, assume significato dominante un altro dato e cioè che Labeone usava “intersecare una definizione con l’etimologia del vocabolo definito”61. In effetti, il rilievo del Cannata trova più di una conferma all’interno della ben nota, amplissima, formazione culturale del giurista, versato non solo allo studio del diritto in quanto tale, ma anche alla scienza dell’etimologia, come ci ricorda Gellio62 e come si può agevolmente ricavare da numerose testimonianze della Compilazione63. Di poi, l’Autore rileva come Sabino all’interno del passo, commenti la definizione di regula prima espressa e la accolga proprio nei termini di una regola casistica64, dimostrando di maneggiare un materiale definitorio a lui noto perché già enunciato precedentemente; il che ci conduce a credere che il giurista che prima di Sabino avesse proceduto alla celebre definizione fosse proprio Labeone. Infine – e questo rappresenta l’argomento più delicato da sciogliere – Cannata si sofferma sul significato da attribuire alla seconda frase, nel suo complesso, non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. Come abbiamo già rilevato, essa parrebbe doversi intendere nel senso per cui il diritto non andrà colto dalla regola, ma è questa che dovrà invece ricavarsi dal ius quod est, cioè dal diritto quale effettivamente è in relazione al caso concreto sottoposto al giurista. Nel pensiero dello studioso, diventa dunque centrale quel ‘diritto che è’, il diritto da cogliersi nella sua realtà di fatto, in connessione alla res quae est, in modo che se ne ricavi la soluzione giuridicamente corretta. Tale legame tra il ius quod est e la res quae est sarebbe particolarmente “adatto a presentare una raccolta di regole casistiche come proposta di metodo per la formazione delle regole, e ad esortare all’impiego del metodo stesso come esclusivo in funzione del suo scopo di munire i giudici di un apparato di criteri decisionali”65. Il progetto di Labeone di ricondurre il ius civile entro brevi enunciazioni66 per agevolarne

61

Cannata 1997a, 326. Gell. noct. Att. 13.10.1: …Latinarum vocum origines. 63 Cfr., ad esempio, Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1: Possessio appellata est, ut et Labeo ait, a sedibus quasi positio, quia naturaliter tenetur ab eo qui insistit, quam Graeci κατοχηλέν dicunt. 64 Bretone 1971b, 148, rileva come nei pithanà i vincoli casistici siano “larvati e molto tenui, quando non mancano del tutto”; ma, al riguardo, si ricordi quanto abbiamo osservato poco sopra. Cfr., inoltre, Vacca 1982, 110 ss. e 2006a, 186 ss., la quale (Vacca 2006a, 187), sulle orme del Cannata, individua nella regola casistica il prodotto di un’astrazione mediante induzione dalle soluzioni individuate, sia per casi uguali che per casi analoghi, attraverso un processo di generalizzazione che dunque ne consentirebbe l’utilizzazione per i casi futuri. Non dubita che D. 50.17.1 rechi una regola casistica Talamanca 2008, 385 s. 65 Cannata 1997a, 328. 66 Secondo Giuffrè 2015, 13, la regola rappresenta il punto di partenza di “altre analisi a riguardo di fattispecie analoghe o più complesse; l’esito di tali analisi esigeva che la regula fosse integrata e/o riformulata; e così quel ius che sembrava essersi cristallizzato nella regula iuris continuava ad evolversi”. Di tale procedimento un’efficace espressione è chiaramente rappresentata da Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit. Paulus: rei hereditariae furtum non fit sicut nec eius, quae sine domino est, et nihil mutat existimatio subripientis, ove Paolo interviene ad attualizzare la conclusione, in forma di regola, cui era pervenuto Nerazio: sul passo, cfr. infra: 167 ss. In modo non troppo diverso intende Masi Doria 2011, 31, per la quale le regole sarebbero “proposizioni che enunciano in termini generali, sintetici, una certa definita disciplina giuridica”. Per Riccobono 1968, 361, le regulae, provenienti per lo più dalla fine della Repubblica, segnerebbero l’inizio dell’elaborazione scientifica del diritto. In modo parzialmente differente pensa Corbino 2014, 19, secondo il quale le regole sarebbero espresse dalle leges e dai mores vincolanti, come individuati dai responsa giurisprudenziali. 62

47

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 48

Marina Frunzio la conoscenza e l’applicabilità e al tempo, rimesse all’incessante opera di adeguamento da parte dei giuristi, – progetto che abbiamo detto essere particolarmente significativo sotto il profilo politico, in quanto risposta al tentativo di ingerenza nell’amministrazione del diritto da parte di Augusto –, è ben probabile, secondo noi, che dovesse trovare come convinto seguace anche Nerazio: in questo, forse, possiamo pensare si sia racchiuso il cuore del ius finitum, quale espressione di una concordia opinionum su cui poter intervenire al fine precipuo di vagliare la validità delle regole precedentemente espresse, attraverso un razionale processo di adeguamento al diritto attuale67. Che Nerazio avesse interesse per la descrizione del diritto in forma di regulae è dimostrato oltretutto dal fatto che la prima opera dedicata a tale genere risale proprio al nostro giurista, la cui composizione riflette il carattere alquanto ampio di soluzioni sulle quali sembra si fosse raggiunto un certo grado di definitività, dal punto di vista almeno del giurista che le aveva collazionate68. Ma non solo. Anche nelle membranae come nei responsa è possibile rinvenire le tracce

67 Assumono in questa direzione importanza strategica tre testimonianze proprio tratte dall’ad Neratium paolino e sulle quali fermeremo a tempo debito la nostra attenzione. Si tratta di Paul. 1 ad Ner., D. 7.5.4: Nerva ipsi quoque debitori posse usum fructum nominis legari scribit: ergo cautio etiam ab hoc exigenda erit; di Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23: Neratius: Usuariae rei speciem is cuius proprietas est nullo modo commutare potest. Paulus: deteriorem enim causam usuarii facere non potest: facit autem deteriorem etiam in meliorem statum commutata; e di Paul. 3 ad Ner., D. 45.1.140: Pluribus rebus praepositis, ita stipulatio facta est: ‘ea omnia, quae supra scripta sunt, dari?’ propius est, ut tot stipulationes, quot res sint. 1 De hac stipulatione: ‘annua bima trima die id argentum quaque die dari?’ apud veteres varium fuit. Paulus: sed verius et hic tres esse trium summarum stipulationes. 2 Etsi placeat extingui obligationem, si in eum casum inciderit, a quo incipere non potest, non tamen hoc in omnibus verum est. ecce stipulari viam iter actum ad fundum communem socius non potest: et tamen si is, qui stipulatus fuerat, duos heredes reliquerit, non extinguitur stipulatio. et per partem dominorum servitus adquiri non potest, adquisita tamen conservatur et per partem domini: hoc evenit, si pars praedii servientis vel cui servitur alterius domini esse coeperit. Nel primo passo è contenuta una regola che sembra doversi riferire al pensiero neraziano le cui radici si riportano fino a Nerva, come se il parere di questi, in una chiara linea ermeneutica di ascendenza proculiana, fosse stato assunto da Nerazio nel significato di ‘ultima parola sul punto’ che egli fa sua e legittima con la propria auctoritas. Nel secondo passo si esprime una nota regula anche essa affermatasi nell’ambito della tradizione di pensiero proculiana in tema di limiti imposti al nudo proprietario. L’argomento era stato discusso tra i giuristi proculiani e Nerazio, col suo intervento, elabora una direttiva generale. Paolo la accoglie, ma, in ottemperanza al suo compito di adattamento delle regulae precedenti al diritto a lui coevo, ne precisa la portata. Ciò che colpisce nella stesura del passo è il riferimento ai veteres, che, come si avrà modo di verificare, andrebbe a cadere proprio all’interno della prosa neraziana, svelandosi con ciò l’interesse del Sannita a recuperare soluzioni dei giuristi precedenti colte per il loro valore in termini di disciplina giuridica applicabile. E, al tempo, l’andamento della scrittura concede al lettore di cogliere appieno il senso dell’intervento di Paolo, la cui attenzione pare proprio incentrata sull’esigenza di riprendere quelle soluzioni, verificandone la validità al lume delle peculiarità della prassi giuridica del suo tempo. 68 Un importante insegnamento metodologico ci proviene da Schmidlin 1970, 21, per il quale sarebbero da distinguere due categorie di regulae, quelle coincidenti con un insieme di soluzioni individuate dai giuristi e sovente presenti nei libri regularum e le enunciazioni dotate di un’efficacia generale ed astratta. Le regole di Nerazio sarebbero assai spesso vicine al concetto a fondamento della prima categoria. È evidente che la linea di confine spesso si presenta assai sottile, ma riteniamo che l’impostazione dello studioso sia capace di lumeggiare il percorso di una tradizione che da Nerazio si ricongiunge a ritroso con le enunciazioni generiche, ad esempio di Quinto Mucio e del suo liber singularis ὄρων sive definitionum, sul quale legame si possono leggere le pagine di Talamanca 1975, 12 e, soprattutto, con le proposizioni formulate da Labeone nei suoi pithanà. Quanto al termine ‘regula’ esso potrebbe essere stato utilizzato per la prima volta non da Nerazio, ma forse proprio da Labeone o al più tardi da Sabino, seguendo l’interpretazione letterale di D. 50.17.1. Le nostre conclusioni, tuttavia, è bene avvertirlo, sono desunte dalla lettura di quel che ci rimane dei libri regularum del Sannita, vale a dire una manciata di frammenti sino al libro 10, benché l’Index Florentinus riferisca di una composizione di 15 libri: si veda, inoltre, Nocera 1946, passim. Ma non

48

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 49

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo di un’operazione di riduzione in regole, come ad esempio, è visibilissimo a proposito del legato di usufrutto69. Un altro elemento, poi, ci spinge in questa direzione: abbiamo detto che D. 50.17.1, con cui peraltro – gioverà ricordarlo – si apre il titolo 17 del libro 50 dei Digesta giustinianei, è tratto dai libri paolini di commento a Plauzio e che Plauzio sembra assumere un ruolo strategico nei rapporti tra Paolo e Nerazio e non solo. Cerchiamo di far luce su questa affermazione. È ben probabile come si diceva, che l’opera di Plauzio sia consistita in una crestomazia di opinioni dei giuristi a lui coevi o anteriori, su cui si era raccolto un definitivo consenso. Una siffatta opera certo permetteva un’immediata conoscenza dello stato dell’arte e la riduzione delle diverse questioni attraverso la loro espressione in forma di regola. Ora Paolo commenta Plauzio, ma prima di lui lo stesso Nerazio è autore di un commento a Plauzio. L’opera di Paolo a Plauzio abbonda di regulae e proprio al suo interno troviamo esplicitata la regula delle regulae70, D. 50.17.1, con un immediato rinvio al pensiero di Sabino, fonte per eccellenza di Plauzio; lo stesso Nerazio è autore di un liber regularum e utilizza sovente tale genere. E poi, come ben sappiamo, Paolo commenta Nerazio. Se combiniamo insieme tutti questi dati, pare possibile supporre che l’interesse di Nerazio verso Plauzio fosse proprio nel senso di accedere ad un materiale di nozioni, forse ordinate in forma casistica, che costituivano, agli occhi dei giuristi del tempo e non solo, una prima, organica, raccolta e sistemazione di regole giuridiche. Interesse analogo dimostra Paolo, commentatore di Plauzio, leggendo direttamente la sua opera, ma non nascondiamo di credere che ad essa il giurista severiano si fosse potuto accostare anche attraverso i commenti dei colleghi precedenti, quello di Giavoleno, di Pomponio e soprattutto quello di Nerazio medesimo71. Come non sembra improbabile ritenere,

v’è dubbio che Nerazio avesse conoscenza accorta della regula della quale si era cimentato, in un dialogo col collega Aristone, a spiegarne l’autentico significato, Ulp. 32 ad ed., D. 19.2.19.2: Illud nobis videndum est, si quis fundum locaverit, quae soleat instrumenti nomine conductori praestare, quaeque si non praestet, ex locato tenetur. Et est epistula Neratii ad Aristonem dolia utique colono esse praestanda et praelum et trapetum instructa funibus, si minus, dominum instruere ea debere: sed et praelum vitiatum dominum reficere debere. Quod si culpa coloni quid eorum corruptum sit, ex locato eum teneri. Fiscos autem, quibus ad premendam oleam utimur, colonum sibi parare debere Neratius scripsit: quod si regulis olea prematur, et praelum et suculam et regulas et tympanum et cocleas quibus relevatur praelum dominum parare oportere. Item aenum, in quo olea calda aqua lavatur, ut cetera vasa olearia dominum praestare oportere, sicuti dolia vinaria, quae ad praesentem usum colonum picare oportebit. Haec omnia sic sunt accipienda, nisi si quid aliud specialiter actum sit, per cui la regula era il fiscolo utilizzato allo scopo di pesare le olive ovvero il disco necessario alla produzione dell’olio. 69 Si vedano Ulp. 18 ad Sab., D. 7.6.1.1 e Ner. 2 resp., D. 7.1.61, su cui González Roldán 2019, 29 ss. In senso contrario pensa Greiner 1973, 129 ss., il quale disconosce l’esistenza di un’opera di regulae neraziana, considerato che nel libro 6, D. 41.1.13pr., si farebbe questione dell’acquisto del possesso attraverso il procurator, tema, come noto, trattato anche in D. 41.3.41 e collocato, più opportunamente, nel libro 7 delle membranae: non si spiegherebbe pertanto la discussione sul possesso dell’intermediario in un contesto normalmente distante dal ius controversum. Crediamo, invece, più cautamente, in una riduzione del testo originario, perché il presunto problema non doveva essere tale nell’ottica di Nerazio, il quale, pure in D. 41.3.41, non si premura di discutere sull’ammissibilità o meno di quel possesso, ma sulla circostanza che esso, ottenuto all’insaputa del dominus, valesse a realizzare una valida reversio della res furtiva: sul punto, si leggano le nostre osservazioni svolte infra: 198 ss. 70 Prendiamo in prestito da Wacke 2007, 2826 ss., la brillante espressione. 71 Si consideri a riguardo Paul. 9 ad Plaut., D. 34.2.8: Plautius: mulier ita legavit: “quisquis mihi heres erit, titiae vestem meam mundum ornamentaque muliebria damnas esto dare”. Cassius ait, si non appareret quid sensisset, omnem vestem secundum verba testamenti legatam videri. Paulus. idem Iavolenus scribit, quia verisimile est, inquit, testatricem tantum ornamentorum universitati derogasse, quibus significationem muliebrium accommodasset: accedere eo, quod illa demonstratio “muliebria” neque vesti neque mundo applicari salva ratione recti sermonis potest. Il frammento lascerebbe credere che Paolo avesse ricavato il lemma plauziano direttamente dal commento di Giavoleno. Il fatto che il Severiano avesse sotto agli occhi (anche) il commento di Pomponio a Plauzio è deducibile, inoltre, da alcuni passi del commento

49

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 50

Marina Frunzio a questo punto, che quella ‘meta-regola’ Paolo l’avesse direttamente appresa dal commento di Nerazio a Plauzio. D’altronde, Nerazio era in perfetta linea con l’idea di considerare la regola efficace sino al momento in cui essa fosse stata conforme al diritto vigente (D. 50.17.1: quae simul cum in

paolino in cui si riferiscono le opinioni di Giuliano. Costui, cronologicamente, non avrebbe potuto essere una fonte di Plauzio, ma di Pomponio sì, che, come si è già verificato, utilizza Giuliano, nel suo commento, più di ogni altro giurista. A titolo di esempio, ma vi sono numerosi casi analoghi, si legga Paul. 1 ad Plaut., D. 2.11.10.2: Qui iniuriarum acturus est, stipulatus erat ante litem contestatam ut adversarius suus iudicio sistat: commissa stipulatione mortuus est. Non competere heredi eius ex stipulatu actionem placuit, quia tales stipulationes propter rem ipsam darentur, iniuriarum autem actio heredi non competit. Quamvis enim haec stipulatio iudicio sistendi causa facta ad heredem transeat, tamen in hac causa danda non est: nam et defunctus si vellet omissa iniuriarum actione ex stipulatu agere, non permitteretur ei. idem dicendum esse et si is, cum quo iniuriarurn agere volebam, stipulatione tali commissa decesserit: nam non competit mihi adversus heredem eius ex stipulatu actio, et hoc Iulianus scribit. secundum quod et si fideiussores dati erant, minime dabitur in eos actio mortuo reo. idem Pomponius, si non post longum tempus decesserit: quia si ad iudicium venisset, litem cum eo contestari actor potuisset. Da rilevare anche qui la presenza del verbo placuit a sottolineare la fondatezza della soluzione che trae forza da un consenso non revocabile in dubbio. A sua volta, è probabile che Pomponio leggesse il commento di Nerazio a Plauzio, come riterremmo possibile arguire dal riferimento ad Aristone di Pomp. 6 ex Plaut., D. 1.8.10: Aristo ait, sicut id, quod in mare aedificatum sit, fieret privatum, ita quod mari occupatum sit, fieri publicum: Aristone senza dubbio ha rappresentato una fonte prescelta per Pomponio (cfr. sul punto, Stolfi 2001a, 515: “Pomponio ama instaurare con Aristone un articolato dialogo in cui affiora la comune tendenza a una riflessione casistica che si intrattenga su figure negoziali di «confine», e sappia – sensibile verso le rationes delle diverse soluzioni – esplorare certe zone d’ombra del tessuto giuridico”) e dunque può dirsi ben probabile che egli ne abbia ricavato il parere attingendo direttamente dalla sua opera; ma non possiamo escludere che, almeno nel commentare Plauzio, abbia riferito l’opinione di Aristone attingendola dal commento di Nerazio a Plauzio medesimo, considerando che anche per il Sepinate Aristone era giurista privilegiato nonché collega nel consilium principis. Non è questa la sede per occuparci di ricostruire, neppure per sommi capi, la ‘Weltanschauung’ di Giavoleno e di Pomponio e, dunque, le possibili motivazioni dei loro commenti a Plauzio. Solo qualche brevissima nota. Giavoleno risulta il primo giurista in ordine di tempo a commentare Plauzio. Se l’opera di quest’ultimo avesse avuto una struttura di tipo casistico, si spiega bene l’interesse di Giavoleno per essa, ipotizzando con Schiavone 2017, 356, l’intento nel giurista di recuperare un materiale che potesse essere strumentale alla sua polemica empirico-descrittiva contro l’ondata sistematrice della sua epoca (nei 20 frammenti che ci residuano, come poc’anzi si accennava, mancano del tutto citazioni di giuristi: si tratta di casi resi, in verità, in termini piuttosto generali, in cui, una sola volta, D. 12.6.46 (L. 157), appare il sintagma ‘ait’ che verisimilmente si riferisce all’opinione di Plauzio). Per Pomponio, il discorso sarebbe ancora più complesso: ci limiteremo a rinviare alle densissime pagine di Nörr 2002, spec. 56 ss., richiamando i tratti dominanti della riflessione giuridica del giurista, la chiarezza, innanzitutto, e l’ordine del diritto, al cui progetto di innalzamento a scientia poteva essere funzionale il recupero delle antiquitates fornite di una indiscutibile autorevolezza. Del commento di Nerazio sappiamo, come si diceva, troppo poco (da rilevare che esso non appare nell’Index Florentinus) risultandoci un unico frammento di Ulpiano: tuttavia proprio da quest’ultimo è possibile argomentare nel senso che Paolo abbia direttamente attinto dal commento neraziano, almeno per quanto attiene ai pareri ivi riferiti di Atilicino e Proculo, Ulp. 17 ad ed., D. 8.3.5.1: Neratius libris ex Plautio ait nec haustum nec appulsum pecoris nec cretae eximendae calcisque coquendae ius posse in alieno esse, nisi fundum vicinum habeat: et hoc Proculum et Atilicinum existimasse ait. Sed ipse dicit, ut maxime calcis coquendae et cretae eximendae servitus constitui possit, non ultra posse, quam quatenus ad eum ipsum fundum opus sit. In questa direzione, si veda anche Paul. 5 ad Plaut., D. 18.1.57pr: Domum emi, cum eam et ego et venditor combustam ignoraremus. Nerva Sabinus Cassius nihil venisse, quamvis area maneat, pecuniamque solutam condici posse aiunt. Sed si pars domus maneret, Neratius ait hac quaestione multum interesse, quanta pars domus incendio consumpta permaneat, ut, si quidem amplior domus pars exusta est, non compellatur emptor perficere emptionem, sed etiam quod forte solutum ab eo est repetet: sin vero vel dimidia pars vel minor quam dimidia exusta fuerit, tunc coartandus est emptor venditionem adimplere aestimatione viri boni arbitratu habita, ut, quod ex pretio propter incendium decrescere fuerit inventum, ab huius praestatione liberetur. Nel passo possiamo individuare un primo tratto da domum a aiunt in cui parrebbero riferite le opinioni dei veteres, con ogni verisimiglianza, riportate nell’opera di Plauzio. Da sed in poi sembra emergere la fonte di quell’informazione, Nerazio, secondo il quale “hac quaesione multum interesse”: è ben probabile cioè pensare che Paolo stesse leggendo il commento di Nerazio a Plauzio, e che da lì abbia pure ricavato il parere di Nerazio

50

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 51

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo aliquo vitiata est, perdit officium suum): il giurista non sembra infatti mettere in discussione quanto già affermato in passato, ma piuttosto offrire una immediata immagine del diritto come si presenta ai suoi tempi e secondo la propria filosofia di pensiero. Ciò, va ricordato, appare inoltre del tutto coerente con quanto dallo stesso Nerazio dichiarato in D. 1.3.21, poco sopra richiamato, per cui non vanno indagate le rationes dell’ordinamento, evitandosi con ciò di sovvertire gli architravi su cui si era fondato il ragionamento giuridico sino ad allora (et ideo rationes eorum quae constituuntur inquiri non oportet: alioquin multa ex his quae certa sunt subvertuntur). Il che non significa rifiutare il dibattito, tutt’altro: significa invece riportare la discussione entro i confini di un percorso razionale il cui fondamento non può non trovare il suo naturale spazio se non all’interno di una consolidata tradizione di pensiero72. Compito del giurista è allora, verrebbe da dire, quello di saper andare oltre, adeguando le regole ai mutamenti sociali ed economici, ma all’interno di un perimetro definito e sicuro, realizzando via via un prodotto complessivamente indispensabile per il suo officium di rispondente, di avvocato, di professore73. Questi collegamenti tra generazioni di giuristi, in cui si colloca in modo centrale la posizione di Plauzio, ci permettono anche di fissare alcuni importanti punti fermi. Si è autorevolmente sostenuto74, e non senza fondamento, che la definizione di regola contenuta in D. 50.17.1 andrebbe riportata a Sabino, richiamato esplicitamente, che l’avrebbe formulata ricorrendo, peraltro, anche formalmente, a toni polemici – l’uso dei due congiuntivi, sumatur…fiat, tradirebbe una sorta di ammonimento da parte del giurista –, in aperto contrasto con Labeone. Il dissenso, si argomenta, tra i due grandi giuristi andrebbe in verità colto in un ambito più generale, di rifiuto di accoglimento da parte di Sabino dell’impianto logicogiuridico offerto da Labeone e da tutta la tradizione scientifica. La polemica culturale sottesa al passo denuncerebbe la visione sabiniana di procedere ad una compiutezza sistematica, fon-

stesso. Inoltre, dal principio del passo sembra chiaro come i tre giuristi menzionati, Nerva, Sabino e Cassio, interessati della questione, si trovassero tutti sulla medesima linea interpretativa, col che si conferma quanto abbiamo in precedenza già rilevato a proposito dell’assenza di opinioni contrastanti da parte dei giuristi ricordati all’interno dell’opera di Plauzio. Oltre a ciò, risulta poi del tutto evidente che Paolo avesse assunto Nerazio come un interlocutore privilegiato, conclusione che risulterà più chiara dalle pagine che seguiranno. 72 Guardato in questa prospettiva il problema della concezione del ius secondo Nerazio non può ancora risolversi all’interno della contrapposizione tra razionalismo e empirismo, posto che quel razionalismo non escludeva, anzi, un ruolo fattivo per l’interprete del diritto. Interessanti osservazioni in Giaro 1992, 508 ss. Eccede forse nell’inquadrare la visione di Nerazio entro una ricorrente cornice di accentuato conservatorismo Scarano Ussani 1979, passim su cui, con ragionevolezza, Sitzia 1983, spec. 35 ss. 73 Sulla possibile attività di docente di Paolo, Giomaro 2016, 60 s., azzarda che il giurista ne avesse senz’altro posseduto la “stoffa” (così testualmente), circostanza ricavabile in base alla considerazione per cui “è ben pensabile che nessuno si ponga consapevolmente a rischio di ‘smarrirsi’ in un’opera di insegnamento”, in mancanza di una sua esperienza personale e diretta (su questo aspetto, considerazioni e riferimenti bibliografici, da ultimo in Pontoriero 2018, 10 s.) Al riguardo, conveniamo, piuttosto, sulla necessità di sgombrare il campo da una pericolosa ‘circolarità’ di tale argomentazione: Paolo risulta autore di un’opera istituzionale, il che farebbe pensare che tale genere gli fosse stato congeniale per via del suo interesse professionale; la paternità paolina delle Institutiones è, però, a sua volta, assai spesso giustificata sulla base del fatto che il giurista insegnasse nelle scuole di diritto: Cossa 2018a, 97 s., lucidamente, invita a non considerare decisivo il dato della composizione delle Institutiones, il quale suggerisce “una certa confidenza” verso l’attività di insegnante, restando, tuttavia da chiarire, in via preliminare, “a quale modalità di insegnamento si faccia riferimento, poiché non è detto che quest’ultimo si svolgesse a livello elementare, e nel contesto delle scuole tradizionali”. 74 Schiavone 2017, 333 s.

51

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 52

Marina Frunzio data sulla brevitas a cui sarebbe stata del tutto estraneo il modello labeoniano75. Ma, al contrario, crediamo che la presenza di un’opera composta, per mano di Labeone, da brevi enunciazioni riferite a casi pratici e aperte alla discussione, induca a riportare al giurista augusteo la riflessione sulla nozione e sul valore della regola e che Sabino l’abbia dunque accolta e misurata alla luce del noto esempio della causae coniectio76, avvertendo inoltre della necessità di operare con estrema attenzione metodologica, per evitare il rischio che la regola, viziata in qualche suo elemento, perdesse di validità (quae simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum). Siamo pertanto dell’idea di attribuire pienamente la paternità di D. 50.17.1 a Paolo, che sul punto doveva, verisimilmente, leggere Plauzio77, o direttamente o forse attraverso il commento a questi svolto da Nerazio. Decisivo si presenta inoltre il contributo di Labeone a cui dobbiamo ascrivere il significato di regula che forse Plauzio riporta letteralmente e Paolo assume come proprio, laddove riteniamo che Sabino, nello specificare il valore ed il senso concreto della regola giuridica, indicasse la via del suo operare in quanto strumento ermeneutico nelle mani del giurista: costui avrebbe dovuto ricondurre il diritto in soluzioni normative solo se avesse proceduto, contestualmente, ad un’operazione di adeguamento della regula al diritto effettivamente in vigore. Per altro verso si è pure detto78 che il concetto di regula di Paolo avrebbe avuto come suo punto di riferimento l’opera di Nerazio, considerata la profonda conoscenza che il giurista severiano ne aveva, dimostrata dalla stessa circostanza dell’aver proceduto alla composizione di un commento a lui dedicato. Questa affermazione che svela un elemento di verità al fondo del rapporto tra Nerazio e Paolo, è, tuttavia, secondo noi, non del tutto condivisibile, perché, se da un lato, coglie senza meno l’importanza della regula in Nerazio, dall’altro trascura di considerare la posizione di Labeone, la sintesi esemplificativa che ne opera Sabino e, soprattutto, il ruolo di Plauzio: infatti, se appare, come si diceva, ampiamente probabile intravvedere un rapporto tra il concetto di regula accolto da Paolo e la filosofia del diritto neraziana, tuttavia, non si chiarisce da chi abbia avuto origine quel concetto e quale ruolo abbia svolto Plauzio dal cui commento paolino la regola è indiscutibilmente ricavata. La trama di tali rapporti, invece, tenderebbe ad acquisire chiarezza supponendo che Paolo abbia rinvenuto all’interno del commento di Nerazio a Plauzio il concetto di regula, che forse quest’ultimo riferiva, lemmaticamente79, leggendo Labeone (e Sabino) e lo abbia dunque trasfuso all’interno del suo commento a Plauzio.

75

Così Schiavone 2017, 334. Indubitabile è infatti accostare la scrittura dei libri iuris civilis di Sabino così “icastica e serrata….alla brevis rerum narratio” di D. 50.17.1 (Stolfi 2014, 56 s.), il che, tuttavia, non deve implicare un’automatica attribuzione dell’intero passo al giurista. 77 Che il contenuto di D. 50.17.1 risalga a Plauzio è sostenuto vigorosamente anche da Gallo 1992, 20 s. 78 González Roldán 2019, 32. 79 D’altronde, che il commento di Paolo fosse di natura lemmatica è un dato piuttosto condiviso: basterebbe leggere quanto osserva Lenel 1889.II, 13, nt.1, sulla cui scia si è posta tutta la storiografia successiva, per il quale studioso tutti i passi dell’ad Plautium paolino in cui compare la citazione di un giurista del I secolo andrebbero riportati a Plauzio (sulla medesima linea di pensiero, Ferrini 1894a, 214). A titolo di esempio ci limitiamo qui a ricordare le parole di Schulz 1946, 215: “Our Digest fragments clearly show that the commentary was lemmatic, Paul quoting a passage from Plautius, who speaks in the first person, and marking it Plautius or occasionally Plautius ait…”. Pertanto, la conclusione cui giunge Di Cintio 2019, 20 nt. 5, secondo la quale, nel brano in questione, “non vi sono elementi espliciti che inducano a ritenere che Paolo riportasse il pensiero di Plauzio” andrebbe ripensata con maggiore cautela. 76

52

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 53

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo Se queste considerazioni sono plausibili, l’interesse di Paolo verso Nerazio avrebbe più d’una ragion d’essere. Quest’ultimo infatti aveva creduto con forza al progetto di un diritto civile come patrimonio di valori da tramandare nei secoli, dotato di un’intrinseca forza fondata sull’auctoritas consolidata dei giurisperiti del passato. Un complesso innanzitutto di regole portanti, assiomi a cui ispirarsi e che avrebbero dovuto guidare l’interprete verso la soluzione delle fattispecie più complesse, vagliando la bontà delle vecchie regulae alla luce del nuovo assetto giuridico e sociale80. Questo è un percorso che Nerazio come Paolo ritiene compito essenziale ed esclusivo del giurista, anche laddove, inquadrato nell’amministrazione imperiale e di fronte ai nuovi assetti di un potere che tende ad assumere caratteri dell’assolutismo, deve ripensare il proprio ruolo. L’opera di Plauzio doveva davvero in questo senso presentarsi come strategica. Un immenso, colto contenitore di opinioni avallate da un’indiscutibile forza, al punto da costituire essa stessa precipua fonte di cognizione di quella tradizione del diritto da cui bisognava partire per fondare, alla luce della tradizione medesima, il nuovo ius imperiale81. Ciò spiega il perché di tanto interesse da parte dei giuristi che dedicano a Plauzio ben 4 commenti, e ciò spiega certamente la precipua attenzione che a quell’opera rivolge Paolo82, il quale tenta di procedere ad una sistemazione razionale del diritto civile utile alle esigenze del suo tempo83, capendo, tuttavia, che quell’operazione tanto ardita quanto praticamente necessaria, non può avvenire senza il simultaneo recupero dei fondamenti del pensiero giurisprudenziale, su cui quest’ultimo si era costruito e aveva brillato per secoli. Nei rispettivi e diversissimi panorami politici e culturali, tuttavia, una scelta di fondo accomuna Nerazio e Paolo, la ricerca di un sistema in cui orientare il diritto in una direzione dogmatico-razionale84.

80 Osserva Vacca 2012, 133 ss.: “le regole di diritto non fissano norme legislative... ma hanno il solo scopo pratico di fornire un’indicazione dei criteri ... vigenti, la loro formulazione è costantemente sottoposta al vaglio dell’interpretazione, ed esse possono essere intese, utilizzate e, se occorre, modificate in modo corretto solo dai detentori della scienza giuridica”. 81 Anche Bretone 2020, 283 ritiene che i commentari severiani dimostrino, “in grande stile, il rapporto ancora saldo della giurisprudenza tardo-classica con il passato… Paolo risaliva, in scritti autonomi, sino a Labeone”. Tuttavia questa riflessione sul pensiero antico, non esclude che i giuristi dell’epoca maturino interesse anche per nuovi settori del diritto che sono immediatamente funzionali all’interpretazione del tempo in cui essi vivono: è il caso, per Paolo, ma non solo, di tutta la sua produzione in ambito di ius publicum o direttamente connessa alle nuove esigenze del diritto fiscale. 82 Si spiega, oltretutto, il giudizio che la cancelleria giustinianea sembra rivolgere a Plauzio, ritenuto della stessa altezza scientifica di Sabino, Inst. 1.2.14pr.: Heredes instituere permissum est tam liberos homines quam servos tam proprios quam alienos. Proprios autem olim quidem secundum plurium sententias non aliter quam cum libertate recte instituere licebat. hodie vero etiam sine libertate ex nostra constitutione heredes eos instituere permissum est quod non per innovationem induximus, sed quoniam et aequius erat et Atilicino placuisse Paulus suis libris quos tam ad Masurium Sabinum quam ad Plautium scripsit refert. Sull’interpretazione del brano, soprattutto in relazione alla figura di Atilicino, si rinvia, da ultima, a Frunzio 2019, 879 ss. 83 Illuminanti le parole di Brutti 2021, 5 che preferiamo riferire letteralmente: “La eterogeneità delle norme e la molteplicità delle liti giudiziarie richiedono un sapere capace di dominare sia lo ius da tempo sperimentato, sia le innovazioni più recenti. Per Paolo, come per altri a lui contemporanei, il riferimento alle trasformazioni in atto nel principato è sempre presente, sottinteso o esplicito. I suoi discorsi giuridici sono ancorati a modelli tradizionali, ma proprio per questo appaiono sottoposti ad una tensione che viene dall’esterno: dalla realtà in movimento”. 84 Ciò spinge a nostro giudizio anche a leggere il contenuto di D. 50.17.1 come regula su cui si era depositato il consenso dei giuristi, inducendo a superare la dimensione conflittuale che solitamente si immagina abbia caratterizzato le visioni culturali di Labeone e di Sabino, tanto efficacemente espressa da Stein 1977, 66.

53

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 54

Marina Frunzio Che questo fosse il progetto di Nerazio lo si deduce anche dalla singolare, apparente, distanza dal pensiero di Giavoleno che proprio in quegli anni sosteneva, come noto a tutti, rifiutando qualsivoglia ipotesi razionalista, la pericolosità della definitio nel diritto civile85, e

85 Iav. 11 epist., D. 50.17.202: Omnis definitio in iure civili periculosa est: parum est enim, ut non subverti posset. Sul testo si è depositata una ricchissima letteratura che in questa sede non appare necessario riportare. A giudizio di Beduschi 2017, 211, l’interesse crescente, da parte della giurisprudenza, verso le definizioni concettuali, rappresenta una “naturale maturazione” del pensiero giuridico che, pur non disconoscendo il suo impianto originario di tipo ‘realista’, tuttavia evolveva verso forme più smaterializzate, in cui “alla parola-segno subentrava la parolaconcetto, ed alla valenza originaria, istintiva, irriflessa delle parole si sostituiva la valenza che esse potevano acquisire nel pensiero razionale”. Nondimeno, il ricorso alla definizione presentava dei rischi, dovendosi procedere poi ad operazioni di continue precisazioni, come dimostrerebbe la definitio di servus fugitivus, su cui Beduschi 2017, 212. Il brano di Giavoleno potrebbe dunque rappresentare “un atteggiamento di prudente ripensamento”, un ripensamento “ispirato dalla semplice constatazione che il discorso giuridico doveva avere la precedenza sui concetti, e non viceversa” (Beduschi 2017, 213). Tali conclusioni, difficilmente contestabili, offrono ulteriori occasioni di riflessione e ci permettono di cogliere taluni aspetti della scepsi paolina, che se da un lato provava a cercare dei punti fermi all’interno della tradizione giuridica, per altro non rifiutava di avvertire la regola come una rappresentazione semplificata ed originata dal diritto stesso, come ci viene presentata in D. 50.17.1. Sotto altra luce, non può certo sfuggire il ricorrere, nel frammento di Giavoleno, del medesimo verbo subvertere che si è incontrato in D. 1.3.21, un termine di forte pregnanza semantica, implicando esso l’idea del sovvertimento, dunque del rovesciamento all’interno del concetto giuridico che, in Giavoleno, risulta essere una temibile conseguenza di ogni definitio nel ius civile. E che ci lascia al tempo anche l’impressione che, pur nel cambio di prospettiva tra Nerazio e Giavoleno, la preoccupazione ultima e diffusa fosse di evitare l’incertezza dei risultati acquisiti: in questo la definitio di Giavoleno sembra contenere in sé il cuore della ‘definitività’, appunto, che risulta, a ben vedere, distante dal più elastico dispiegarsi della regula, suscettibile di continue evoluzioni ed adattamenti. La traccia di questa tensione che forse scuote la riflessione di Nerazio potrebbe, secondo noi, essere colta attraverso la lettura di Ner. 2 membr., D. 25.1.15: Quod dicitur impensas, quae in res dotales necessario factae sunt, dotem deminuere, ita interpretandum est, ut, si quid extra tutelam necessariam in res dotales impensum est, id in ea causa sit: nam tueri res dotales vir suo sumptu debet. Alioquin tam cibaria dotalibus mancipiis data et quaevis modica aedificiorum dotalium refectio et agrorum quoque cultura dotem minuent: omnia enim haec in specie necessariarum impensarum sunt. Sed ipsae res ita praestare intelleguntur, ut non tam impendas in eas, quam deducto eo minus ex his percepisse videaris. Quae autem impendia secundum eam distinctionem ex dote deduci debeant, non tam facile in universum definiri, quam per singula ex genere et magnitudine impendiorum aestimari possunt, in cui l’espressione ‘non tam facile in universum definiri’ colloca i margini del ius finitum in una dimensione di aspirazione ideale perseguita dal giurista, più che all’interno di un concreto progetto scientifico. Se poi la definitio di Giavoleno vada intesa come operazione logica che distingue i fenomeni giuridici affini o, come regola normativa vera e propria, alla luce di quanto detto, non escludiamo, in linea di principio, che il senso complessivo del frammento in questione consista nell’intento, da parte del giurista, di mettere in guardia dal rischio di eccedere nel ricorso al procedimento dell’astrazione, che certo doveva essere assai frequente ai suoi tempi. Vacca 2006a, 23, pensa che, addirittura, si possa trattare “dell’enunciazione del criterio del probabile, come necessaria apertura all’aequitas”, ed in Scevola potremmo cogliere i segni di una maturazione del dissidio tra definizione e ricorso equitativo, Scaev. l. sing. quest. publice tract., D. 44.3.14pr.: De accessionibus possessionum nihil in perpetuum neque generaliter definire possumus: consistunt enim in sola aequitate. In merito, si vedano inoltre, Villey 1945, passim, Stella Maranca 1934, 91 ss., Behrends 1957, 352 ss., Raggi 2007, 236 ss. e Albanese 1967, spec. 766, secondo il quale il contesto originario di D. 50.17.202 sarebbe stato relativo alla distinzione tra locazione e compravendita, per cui, la definitio sarebbe stata da intendere nel senso di ‘distinzione’ tra fenomeni giuridici affini (su tale ricostruzione, Raggi 2007, 134 ss.). Sotto altra angolazione non sfugge certo che il concetto di regula come enunciato in Paolo (D. 50.17.1), imponga una necessaria visione ‘storicizzante’ della regola stessa, la quale non può essere concepita nei termini statici di una definitio: guardata in tale sua propria dimensione dinamica, il cui contenuto è affidato ad una continua opera di rilettura e aggiornamento da parte dei giurisperiti, il contrasto tra quanto sostenuto da Giavoleno e la concezione di Labeone/Sabino/Paolo è inevitabilmente destinato a perdere di spessore. Ci conforta in questa direzione quanto rilevato da Quaglioni 2016, 20 per il quale studioso il senso della definitio giavoleniana sarebbe da cogliersi nella sua portata statica, di contro alla storicità di cui, anche ai

54

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 55

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo scansandosi così dall’accogliere quella tradizione culturale che aveva visto il suo massimo portavoce in Labeone. Va da sé che il razionalismo neraziano tenda, nel mutato clima politico, a nutrirsi di ulteriori e singolari suggestioni, arricchendosi soprattutto dell’apporto della filosofia stoica86. E pur tuttavia esso tradisce la prospettiva labeoniana di fondo, di ridurre il diritto “a modelli schematici di ragionamento”87 che certo costituivano l’impianto di fondo di un universo che poteva e doveva concepirsi in regulae88. 4. L’ad Neratium nella prospettiva scientifica di Paolo Peter Stein ha ipotizzato che Labeone fosse ben consapevole della distinzione tra regulae e definizioni, ritenendo le prime soluzioni potenzialmente normative e le seconde enunciati di carattere descrittivo89. La conclusione suggestiva dello studioso riesce a cogliere il vero

nostri occhi, pare intrisa la concezione della regula come espressa da Paolo: “È perciò che ogni riflessione sui concetti fondamentali del diritto, non può dunque prescindere dalla loro dimensione propriamente storica, di cui è appunto «pericoloso» ricercare una definizione statica, giacché essa sarebbe presto destinata a perdere officium suum, come la regula vitiata della massima del giurista Paolo”. In argomento, si leggano le importanti ricostruzioni storiche operate in Cadoppi 1996, passim e i vari contributi, oltre a quello di Quaglioni 2016, contenuti in Cortese, Tomasi 2016, passim. Sulla collocazione del brano di Giavoleno all’interno del titolo 17 del libro 50 dei Digesta rinviamo alle dense pagine di Stein 1962, 3 ss. 86 Un esempio chiarissimo viene individuato nello sviluppo del dolus malus: da simulazione secondo la proposta di Aquilio Gallo, accolta poi da Servio, con Labeone si giungeva ad una complessa definitio inclusiva di calliditas, fallacia, machinatio ad circumveniendum, fallendum, decipiendum alterum adhibita, che nel de officiis ciceroniano si era arricchita di aspetti etici e sociali di derivazione stoica. E simili suggestioni sembrano permeare alcune soluzioni neraziane dove l’elemento fides diveniva centrale nell’ispirare i rapporti tra compratore e venditore: cfr., il notissimo Ner. 5 membr., D. 18.3.5: Lege fundo vendito dicta, ut, si intra certum tempus pretium solutum non sit, res inempta sit, de fructibus, quos interim emptor percepisset, hoc agi intellegendum est, ut emptor interim eos sibi suo quoque iure perciperet: sed si fundus revenisset, aristo existimabat venditori de his iudicium in emptorem dandum esse, quia nihil penes eum residere oporteret ex re, in qua fidem fefellisset. Non a caso proprio nel libro 5 delle membranae il giurista pare tendere a principio l’idea che l’atteggiamento psicologico dell’agente vada valutato ben oltre la sussistenza dei requisiti di fatto, come accade nella dialettica intorno all’ammissibilità del titolo putativo. Ma anche la celebre distinzione tra il suicidio avvenuto taedio vitae rispetto a quello indotto da una mala coscientia, riferito da Ulp. 6 ad ed., D. 3.2.11.3, non fa che riecheggiare un problema caro alla filosofia stoica e su cui Seneca soprattutto aveva riflettuto a più riprese. Questa tensione era il frutto di una formazione complessa che, se da un lato recuperava la tradizione dell’aristocrazia romana, dall’altro risentiva delle nuove aperture culturali e filosofiche verso un mondo in continuo cambiamento di cui preservare le rationes tipiche, necessariamente ispirate però dall’arcaico modello del giureconsulto di tipo labeoniano, a sua volta intriso di logica dogmatico-aristotelica, in cui “l’auctoritas prevaleva sulla ratio”, così Scarano Ussani 1989, 81. Ma non si può escludere che una certa tendenza a pervenire a sistemazione e chiarezza nel ius civile rappresenti il portato di una esigenza avvertita come urgente già da tempo, ove si pensi, per un verso, al tentativo ciceroniano di ‘in artem redigere’ (su cui si vedano, tra gli altri, Mette 1954, passim, Pugliese 1963, spec. 572, Bona 1980, 282 ss. e Mantovani 2009, 113 ss.) e per un altro, alla composizione dei libri horoi di Mucio e, soprattutto, ai pithanà labeoniani. Sullo ‘stoicismo neraziano’, si leggano le nostre osservazioni più avanti nel testo, infra: 64 ss. 87 Schiavone 1971, 148. Cfr., inoltre, Bretone 1973, 170 ss. 88 La visione labeoniana ebbe già in Pomponio un convinto seguace che attraverso l’enchiridion, in modo particolare, aveva provato a far rivivere i grandi modelli del sapere giuridico sui quali emergeva preponderante il pensiero di Labeone. Sul punto, oggetto di ampie e numerose indagini, rinviamo agli studi accurati di Fara Nasti e, in particolare, a Nasti 2013, 899 ss. con ragionate indicazioni bibliografiche. 89 Stein 1966, 65 ss. Rileva l’ampia preparazione dialettica di Labeone pure Pernice 1873, 25 ss.

55

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 56

Marina Frunzio punto di origine di una linea ermeneutica che giunge sino all’epoca severiana e riunisce le voci di più giuristi il cui dialogo non pare essersi mai interrotto. Con Paolo quella lezione antica e complessa assume una nuova connotazione, si piega ad un più arduo progetto: la sistemazione organica del diritto civile. Il recupero continuo di materiale consolidatosi nel tempo su cui avviare un lavoro di sostanziale adattamento poteva agevolare, infatti, quella operazione di ‘restatement’ di cui ha parlato, con grande acume, Fritz Schulz90 a proposito di Ulpiano, ma anche di Paolo e che, a nostro avviso, costituisce il vero nucleo del progetto culturale dei giuristi severiani. Ma tra Paolo e Ulpiano la medesima operazione è condotta con strumenti ed approcci sensibilmente differenti. Mentre Paolo sembra muoversi sulla linea del tempo mantenendo forte il dialogo coi colleghi precedenti, sussumendone le ragioni, analizzandone i criteri ispiratori, provando per così’ dire ‘dall’interno’ a congiungere la nuova realtà politica all’ideale del diritto come patrimonio ancora nelle mani del giurista, Ulpiano tenta di offrire una diversa rappresentazione della scienza giuridica intesa come un sapere adesso pienamente comprensivo della civiltà, canone universale dell’incivilimento umano vissuto però “all’ombra dell’impero”91. In Paolo indomabile appare la salvaguardia di una memoria prestigiosa che diviene il filtro privilegiato per guardare al presente; in Ulpiano emerge il dualismo netto tra giurisprudenza e potere imperiale, all’interno del quale il principe si manifesta come il legislatore assoluto e la giurisprudenza la sua sponda per arginarne la pericolosa deriva. Questo il senso ultimo del ‘restatement’ ulpianeo che con Aldo Schiavone potremmo sintetizzare nei termini di un ambizioso progetto che si nutre di “scienza, di fondazione normativa e di politica del diritto”92. L’attenzione che Paolo dimostra verso i giuristi che si erano occupati del ius civile attraverso un procedimento ‘sistematorio’, più che intrinsecamente critico, è quanto giustifica il commento a Plauzio, ed, in ultima istanza, anche l’epitome paolina ai pithanà labeoniani, in cui, al di là dei toni spesso bruschi del Severiano, si cela il suo profondo interesse verso un’opera costruita attraverso brevi e generiche proposizioni, che, pur mantenendo la loro origine casistica, finivano con l’apparire enunciazioni di regole giuridiche. Il forte legame che si è verificato instauri il giurista severiano con i colleghi a lui precedenti va letto anche alla luce di questo dato: il passato ai suoi occhi è ancora un palcoscenico animato in cui si muovono, in un interrotto dialogo, gli interpreti autorevoli della scienza giuridica di secoli prima. Soprattutto quanti di essi erano riusciti nella difficile operazione di sistemazione di settori del ius o anche solo di portare a sintesi composite discipline giuridiche, entro le quali la ‘controversialità’ risultava assorbita, presente sullo sfondo ma non più palpitante. In questo orizzonte scientifico crediamo debba collocarsi pure l’ad Neratium di Paolo93, ricordando che Nerazio si presenta anche egli come un collettore di opinioni giurisprudenziali su cui si era costruito un certo consenso e come giurista capace di proporre linee ermeneutiche generali

90

Schulz 1946, 244 e 291. Schiavone 2017, 431. 92 Schiavone 2021, 64. 93 Il commento paolino non si distingue per una chiara scelta di metodi, né di contenuti, circostanza che sostiene l’idea per cui il Severiano si fosse accostato all’opera di Nerazio, intesa nel suo complesso, per valutarne le linee interpretative e i punti fermi che su diversi settori, fortemente all’attenzione di Paolo, lo scolarca proculeiano aveva provato a dispiegare. 91

56

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 57

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo nella direzione di una sistemazione definitiva dei concetti. La scienza giuridica doveva presentarsi ai suoi occhi come un prodotto finitum, solidamente costruito su basi radicatesi nel corso dei secoli e attraversate da logiche ed ideali antichi che ai suoi tempi erano veri e propri valori da custodire, come l’equità94, il rispetto della proprietà privata, la buona fede, la pietas. Le res constitutae dovevano essere proprio gli architravi del ius, al cui interno non si propone l’immagine del giurista come interprete in atteggiamento statico, ma dinamicamente orientato da un lato, verso la salvaguardia di quel patrimonio di categorie e valori da preservare e dall’altro, a fornire le nuove linee interpretative del diritto percepite come coerenti vene di sviluppo di quello stesso patrimonio. Si tratta, pertanto, di una visione composita e nient’affatto scontata, all’interno della quale il giurista assume su di sé il compito di condurre a sintesi un materiale magmatico e complesso, allo scopo di sistemarlo e di illuminare al suo interno gli itinerari giuridici da seguire e da sviluppare per la creazione del nuovo diritto. Non deve, pertanto, neppure sorprendere che Nerazio sovente dimostri di ricorrere alle regulae iuris in più luoghi della sua opera, recuperando la lezione dei veteres (Labeone e Sabino), poi accolta anche da Plauzio, Nerazio e Paolo, per cui le regulae, brevi enunciati giuridici, avrebbero dovuto essere sottoposte a continue operazioni di aggiornamento e di adeguamento al diritto, come via via veniva disegnato dalla giurisprudenza: D. 50.17.1 è il testo fondamentale in questa direzione, la stella polare di un ampio progetto scientifico95, in cui si segna l’orizzonte del compito del giurista e gli si indica la strada da seguire per recuperare un materiale di decisiva importanza nel proprio lavoro di interprete e di membro del consiglio imperiale. L’attenzione verso un diritto condensato in regole spiega altresì la paternità neraziana del primo liber regularum di cui si ha notizia, benché, ma ciò è indicativo di una precisa opzione culturale, non solo gli horoi di Quinto Mucio, ma soprattutto i pithanà di Labeone possono dirsi, in modi propri, contenitori di regole giuridiche96. L’interesse, allora, che muove Paolo nel leggere e commentare Nerazio potremmo dire che recuperi la sua essenza innanzitutto nell’accoglimento di quella scelta, in ossequio della quale il Severiano assume su di sé, come officium del giurista, di ordinare il ius civile e di condensarlo, dopo averne vagliato la validità, in sintetiche proposizioni giuridiche su cui si era depositato un antico consenso. 5. L’error iuris Quanto rilevato sin d’ora, se da un lato ci consente di gettare un potente fascio di luce sull’ad Neratium paolino, sulle sue peculiarità e sulle motivazioni che ne hanno forse costituito

94 Vedremo a breve il significato di tale ‘valore’ che sembra accomunare nella sua adozione come criterio ermeneutico sia Nerazio che Paolo. 95 Osserva Stolfi 2014, 54 s.: “La plausibilità delle regole casistiche messe a punto da Labeone – in quanto approssimativamente offerta al vaglio degli esperti, e come del resto imponevano le dinamiche dell’assetto giurisprudenziale romano, con la sua «instabilità» rimaneva tale finché non intervenisse con successo la critica di un altro giurista, in grado di prospettare situazioni diverse, che imponessero rettifiche o più spesso una scomposizione della disciplina”. 96 In argomento, Schmidlin 1976, spec. 119.

57

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 58

Marina Frunzio il fondamento, non è tuttavia l’unica prospettiva entro la quale è possibile cogliere la specificità del dialogo tra Paolo e Nerazio. Vi sono infatti, come preannunciato nella Premessa, alcuni ‘terreni di incontro’ tra i due giuristi, istituti e discipline ad essi connessi sui quali si concentra l’attenzione di entrambi e dove è possibile verificare lo svilupparsi di un fertile dialogo. Prenderemo in considerazione quelli che ci sono parsi più interessanti e densi di suggestioni, l’errore, l’equità, il possesso acquisito attraverso il procurator, il furto dei beni ereditari. Già si è potuta notare l’ampia attenzione che il giurista di Sepino rivolge al tema dell’errore, distinguendo, dal punto di vista degli effetti giuridici, quello di diritto da quello di fatto. L’ignorantia iuris, assimilata in tutto all’error iuris, non avrebbe, per Nerazio, giustificato in alcun modo (in omni parte, contenuto in Ner. 5 membr., D. 22.6.297) e sarebbe stata dunque causa della perdita di un’eventuale lite giudiziaria. La giustificazione che il giurista adduce all’enunciazione di quella che appare anche essa come una regula è appunto la necessità che il ius sia ‘finito’, cioè determinato e non sottoposto alla fallacia di continue interpretazioni. In questo senso, il sostenere che l’ignoranza del diritto avrebbe potuto legittimare eventuali comportamenti, soprattutto se delittuosi, certo avrebbe rappresentato nell’ottica del giurista un’inaccettabile falla del sistema. V’è da dire che le fonti tramandano l’esistenza di un liber singularis de iuris et facti ignorantia, attribuito a Paolo, e la cui testimonianza ci residua in un unico, lungo, frammento contenuto in D. 22.6.9pr.-6. La letteratura giusromanistica, in larga parte, si è pronunciata nel senso di negare la paternità paolina dell’opera, ritenendo che si tratti di un testo apocrifo o di rielaborazione tarda, ovvero, giudicandolo un estratto, manipolato, dal libro 44 ad edictum dello stesso Paolo per assonanza con D. 22.6.1 a quel libro appartenente98. Oggi si guarda, e non senza ragione, con maggiore fiducia all’autenticità della monografia, soprattutto valutandone il contenuto, potendosi semmai supporre che il testo potesse in origine essere più lungo, circostanza tuttavia destinata a non essere provata99. Il passo recita così: Regula est iuris quidem ignorantiam cuique nocere, facti vero ignorantiam non nocere. Videamus igitur, in quibus speciebus locum habere possit, ante praemisso quod minoribus viginti quinque annis ius ignorare permissum est. Quod et in feminis in quibusdam causis propter sexus infirmitatem dicitur: et ideo sicubi non est delictum, sed iuris ignorantia, non laeduntur. Hac ratione si minor viginti quinque annis filio familias crediderit, subvenitur ei, ut non videatur filio familias credidisse. 1. Si filius familias miles

97 Sul concetto di pars (iuris) si veda Mayer-Maly 2001, 103 ss. Si vedano, inoltre, Carcaterra 1981, 35 ss. e Winkel 1985, 43 ss. 98 Cfr., soprattutto, Scherillo 1950, 221 ss.; Soubie 1960, 116; Zilletti 1961, 165 ss.; Winkel 1985, spec. 77 ss.; Cerami 1993, 57 ss.; Guarino 1994, 3 ss. Non va taciuto che i compilatori dedicano all’ignorantia iuris et facti anche un titolo del Codex, titolo 1.18. Nota Cerami 1993, 63, che le direttive giustinianee in materia di error iuris e innanzitutto la regola generale dell’inescusabilità (cfr., ad esempio, C. 1.18.12: Constitutiones principum nec ignorare quemquam nec dissimulare permittimus), trovano all’interno dei Basilici una nuova collocazione sistematica, tendente chiaramente ad esaltarne il valore: “la rubrica ‘De iuris et facti ignorantia’ occupa, infatti, il titolo IV del secondo libro, che è preceduto dai seguenti titoli: I ‘De iustitia et iure et longa consuetudine’; II ‘De verborum significatione’; III ‘De diversis regulis iuris antiqui’”. 99 Da ultimo, Cossa 2018b, passim. Ma si legga anche Maschi 1976, spec. 683 ss.

58

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 59

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo a commilitone heres institutus nesciat sibi etiam sine patre licere adire per constitutiones principales, ius ignorare potest et ideo ei dies aditionis cedit. 2. Sed facti ignorantia ita demum cuique non nocet, si non ei summa neglegentia obiciatur: quid enim si omnes in civitate sciant, quod ille solus ignorat? Et recte Labeo definit scientiam neque curiosissimi neque neglegentissimi hominis accipiendam, verum eius, qui cum eam rem ut, diligenter inquirendo notam habere possit. 3. Sed iuris ignorantiam non prodesse Labeo ita accipiendum existimat, si iuris consulti copiam haberet vel sua prudentia instructus sit, ut, cui facile sit scire, ei detrimento sit iuris ignorantia: quod raro accipiendum est. 4. Qui ignoravit dominum esse rei venditorem, plus in re est, quam in existimatione mentis: et ideo, tametsi existimet se non a domino emere, tamen, si a domino ei tradatur, dominus efficitur. 5. Si quis ius ignorans lege Falcidia usus non sit, nocere ei dicit epistula divi Pii. Sed et imperatores Severus et Antoninus in haec verba rescripserunt: ‘Quod ex causa fideicommissi indebitum datum est, si non per errorem solutum est, repeti non potest. Quamobrem Gargiliani heredes, qui, cum ex testamento eius pecuniam ad opus aquae ductus rei publicae cirtensium relictam solverint, non solum cautiones non exegerunt, quae interponi solent, ut quod amplius cepissent municipes quam per legem Falcidiam licuisset redderent, verum etiam stipulati sunt, ne ea summa in alios usus converteretur et scientes prudentesque passi sunt eam pecuniam in opus aquae ductus impendi, frustra postulant reddi sibi a re publica cirtensium, quasi plus debito dederint, cum sit utrumque iniquum pecuniam, quae ad opus aquae ductus data est, repeti et rem publicam ex corpore patrimonii sui impendere in id opus, quod totum alienae liberalitatis gloriam repraesentet. Quod si ideo repetitionem eius pecuniae habere credunt, quod imperitia lapsi legis Falcidiae beneficio usi non sunt, sciant ignorantiam facti, non iuris prodesse nec stultis solere succurri, sed errantibus’. 6. Et licet municipum mentio in hac epistula fiat, tamen et in qualibet persona idem observabitur. Sed nec quod in opere aquae ductus relicta esse pecunia proponitur, in hunc solum casum cessare repetitionem dicendum est. Nam initium constitutionis generale est: demonstrat enim, si non per errorem solutum sit fideicommissum, quod indebitum fuit, non posse repeti: item et illa pars aeque generalis est, ut qui iuris ignorantia legis Falcidiae beneficio usi non sunt, non possint repetere: ut secundum hoc possit dici etiam, si pecunia, quae per fideicommissum relicta est quaeque soluta est, non ad aliquid faciendum relicta sit, et licet consumpta non sit, sed exstet apud eum cui soluta est, cessare repetitionem100. La regola è che, invero, l’ignoranza di diritto nuoce a chiunque, mentre l’ignoranza di fatto non nuoce. Vediamo dunque in quali fattispecie essa possa aver luogo, premesso subito che ai minori di venticinque anni è consentito ignorare il diritto. Ciò, in alcune circostanze, vale anche per le donne, a causa della debolezza di quel sesso. E, pertanto, allorquando non v’è delitto, ma ignoranza di diritto, essi non sono danneggiati. Per questa ragione, se un minore di venticinque anni ha concesso a credito ad un figlio in potestà, si viene in suo soccorso come se egli non avesse dato a credito a un figlio in potestà. 1. Se un figlio in potestà, militare, istituito erede da un commilitone, ignori che in forza di costituzioni del principe gli è lecito adire l’eredità anche senza l’autorizzazione del padre, può non conoscere il diritto e per questo il termine per l’accettazione non decorre. 2. Ma, allora, l’ignoranza di fatto non nuoce a nessuno, purché non gli si possa contestare la più grave negligenza: che dire, infatti, se tutti in città conoscono quello che lui solo ignora? E correttamente Labeone chiarisce che la conoscenza non deve essere presa in considerazione né quale quella di un uomo estremamente

100

Riteniamo opportuno riportare il liber nella sua interezza, per le considerazioni che a breve saranno svolte.

59

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 60

Marina Frunzio curioso né quale quella di un uomo estremamente negligente, bensì quella di colui che curi la situazione per poterla conoscere attraverso una diligente indagine. 3. Ma Labeone ritiene che la regola per cui l’ignoranza di diritto non giova vada intesa nel senso che l’ignoranza di diritto nuoccia a chi abbia la possibilità di consultare un giureconsulto, o sia istruito da una personale cultura di modo che gli risulti facile il sapere: il che, però, accade di rado. 4. Se uno ignorava che il venditore fosse proprietario della cosa, la realtà è superiore a quanto vi è nella rappresentazione della sua mente; e così, pur credendo di non comprare dal proprietario, tuttavia, se il bene gli sia stato consegnato dal proprietario, diventa proprietario. 5. Se uno, ignorando il diritto, non abbia fatto ricorso alla legge Falcidia, un’epistola del divo Pio dice che ciò gli nuoce. Ma anche gli imperatori Settimio Severo ed Antonino Caracalla in un rescritto si sono espressi con questi termini: «Ciò che fu indebitamente dato a titolo di fedecommesso non si può ripetere se non si è adempiuto per errore. Per questo motivo, gli eredi di Gargiliano che, avendo, in base al testamento, pagato ai Cirtesi il denaro per la costruzione di un acquedotto, non solo non hanno richiesto promesse di garanzia, che si è soliti prestare, affinché i cittadini del municipio che avessero ricevuto più di quanto consentito dalla legge Falcidia fossero tenuti a renderlo, ma hanno anche stipulato che quella somma non fosse adibita ad altri usi, ed hanno consciamente ed avvedutamente accettato che il denaro venisse speso per l’opera dell’acquedotto, invano domandano che il denaro venga loro reso dal patrimonio dei Cirtesi, come se avessero dato più di quanto dovuto, poiché sarebbero ingiuste entrambe le cose, cioè, il ripetere il denaro destinato alla costruzione di un acquedotto e che la res publica spenda del denaro dalle sostanze del proprio patrimonio in quell’opera che rappresenta in tutto il vanto dell’altrui liberalità. Se dunque credono di avere il diritto di ripetere giudizialmente quel denaro perché, per inesperienza, non si sono serviti del beneficio della legge Falcidia, sappiano che a giovare è l’ignoranza di fatto, non di diritto, e che non si è soliti soccorrere gli sciocchi, ma coloro che cadono in errore». 6. E sebbene in questa epistola si faccia menzione dei cittadini di un municipio, tuttavia bisogna osservare lo stesso nei riguardi di qualunque persona. Ma non si deve neanche dire che il diritto di ripetere giudizialmente venga meno solo nel caso in cui il denaro sia stato lasciato per l’opera di un acquedotto. L’inizio della costituzione, in realtà, è generale: indica, infatti, che, «se non si è adempiuto per errore» il fedecommesso, non si può ripetere quanto non dovuto; parimenti, è ugualmente generale anche quella parte secondo cui non possono ripetere giudizialmente quanto pagato non essendo dovuto coloro che, per ignoranza di diritto, «non si sono serviti del beneficio della legge Falcidia». Così, in base a quanto detto, si può pure dire che, se il denaro, lasciato per fedecommesso e pagato, non sia stato lasciato per il compimento di una qualche opera, viene meno il diritto di ripetizione, anche quando non sia stato ancora speso e si trovi presso colui al quale è stato pagato.

Non è questa la sede per affrontare in dettaglio tutti i problemi e le considerazioni che il passo suscita. Ai nostri fini tuttavia appare chiaro come innanzitutto il tema dell’errore fosse caro anche a Paolo: lo stesso dato addotto per negare la paternità paolina del liber e cioè la corrispondenza tematica con il libro 44 ad edictum del giurista severiano, ci dice infatti che questi, in ogni caso, si era dedicato alla trattazione del tema. Il titolo 6 del libro 22 dei digesta giustinianei si apre proprio con un passo di Paolo, tratto dal libro 44 ad edictum appunto, in cui l’errore viene distinto senza mezzi termini in error iuris e in error facti (Paul. 44 ad ed., D. 22.6.1: Ignorantia vel facti vel iuris est). E, d’altronde, sembra che la giurisprudenza severiana 60

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 61

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo abbia avuto, più in generale, a cuore il problema, come parrebbe doversi ricavare, e non solo, da alcune testimonianze di Papiniano e Ulpiano101.

101 In realtà, potrebbe non essere inutile dare uno sguardo complessivo al titolo 6 del libro 22 dei digesta. Il quale si apre con D. 22.6.1 tratto dal libro 44 ad edictum di Paolo per poi continuare con i successivi paragrafi. Si tratta di D. 22.6.1.1: Nam si quis nesciat decessisse eum, cuius bonorum possessio defertur, non cedit ei tempus: sed si sciat quidem defunctum esse cognatum, nesciat autem proximitatis nomine bonorum possessionem sibi deferri, aut se sciat scriptum heredem, nesciat autem quod scriptis heredibus bonorum possessionem praetor promittit, cedit ei tempus, quia in iure errat. idem est, si frater consanguineus defuncti credat matrem potiorem esse (Se un tale, infatti, non sappia che è morto uno e che ha luogo la delazione del possesso dei beni ereditari di quello, per lui non decorre il termine; ma se, invero, sappia che è morto un consanguineo mentre ignori che per lo stretto grado di consanguineità ha luogo nei suoi confronti la delazione del possesso dei beni, oppure sappia di essere stato designato erede per iscritto, ma ignori che il pretore promette il possesso dei beni a quelli che siano stati designati eredi, per lui il termine decorre, poiché commette un errore di diritto. Ugualmente dicasi se un fratello consanguineo del defunto crede che la madre abbia una posizione poziore); D. 22.6.1.2: Si quis nesciat se cognatum esse, interdum in iure, interdum in facto errat. nam si et liberum se esse et ex quibus natus sit sciat, iura autem cognationis habere se nesciat, in iure errat: at si quis (forte expositus) quorum parentium esset ignoret, fortasse et serviat alicui putans se servum esse, in facto magis quam in iure errat (Se uno non sappia di essere consanguineo, commette talora un errore di diritto, talora un errore di fatto. Se, infatti, sappia tanto di essere libero quanto da chi sia nato, ma non sappia di disporre dei diritti di consanguineità, commette un errore di diritto; ma se uno (per esempio un esposto) ignori di quali genitori sia figlio, e magari sia anche al servizio di qualcuno, credendo di essere un servo, commette un errore che attiene più al fatto che al diritto); D. 22.6.1.3: Item si quis sciat quidem alii delatam esse bonorum possessionem, nesciat autem ei tempus praeterisse bonorum possessionis, in facto errat. idem est, si putet eum bonorum possessionem accepisse. sed si sciat eum non petisse tempusque ei praeterisse, ignoret autem sibi ex successorio capite competere bonorum possessionem, cedet ei tempus, quia in iure errat (Ugualmente, se un tale sappia che la delazione del possesso dei beni ha luogo nei confronti di un altro, ma non sappia che costui ha lasciato trascorrere il termine per il possesso dei beni, commette un errore attinente al fatto. Lo stesso dicasi se reputi che quello abbia ricevuto il possesso dei beni. Ma se è a conoscenza che quello non ha fatto richiesta e che il suo termine è trascorso, ignori tuttavia che, in base al capo dell’editto in tema di successioni, il possesso dei beni compete a lui, il suo tempo scorre, poiché commette un errore di diritto); D. 22.6.1.4: Idem dicemus, si ex asse heres institutus non putet se bonorum possessionem petere posse ante apertas tabulas: quod si nesciat esse tabulas, in facto errat (Lo stesso va detto se un tale nominato erede universale, creda di non poter richiedere giudizialmente il possesso dei beni prima dell’apertura delle tavole testamentarie: invece, se ignora l’esistenza del testamento, erra sul fatto). Dopo questo squarcio del libro 44 ad edictum di Paolo, l’andamento del titolo 6 prosegue col celebre e ormai notissimo Ner. 5 membr., D. 22.6.2, in cui, si ricorderà, il giurista afferma: In omni parte error in iure non eodem loco quo facti ignorantia haberi debebit, cum ius finitum et possit esse et debeat, facti interpretatio plerumque etiam prudentissimos fallat. Di seguito, tre brani di Pomponio, i primi due tratti dal libro 3 ad Sabinum, l’ultimo dal libro 13 ad Sabinum: D. 22.6.3, Plurimum interest, utrum quis de alterius causa et facto non sciret an de iure suo ignorat (Esiste una grande differenza tra uno che ignori l’altrui condizione e attività ed uno che, invece, ignori un proprio diritto); D. 22.6.3.1, Sed Cassius ignorantiam Sabinum ita accipiendam existimasse refert non deperditi et nimium securi hominis (Tuttavia Cassio riferisce che secondo Sabino si sarebbe dovuta considerare come ignoranza quella di un uomo non mentalmente assente ed eccessivamente incurante); D. 22.6.4: Iuris ignorantiam in usucapione negatur prodesse: facti vero ignorantiam prodesse constat (Va negato che nell’usucapione giovi l’ignoranza di diritto; al contrario risulta che l’ignoranza di fatto è vantaggiosa). Dunque segue un passo di Terenzio Clemente, 2 ad leg. Iul. et Pap., D. 22.6.5: Iniquissimum videtur cuiquam scientiam alterius tamquam suam nocere vel ignorantiam alterius alii profuturam (Risulta gravemente iniquo che ad uno nuoccia la conoscenza di un altro così come la propria o che l’ignoranza di uno giovi ad un altro) ed uno di Ulpiano, D. 22.6.6, anche esso rivolto al commento della lex Iulia e Papia, l. 18: Nec supina ignorantia ferenda est factum ignorantis, ut nec scrupulosa inquisitio exigenda: scientia enim hoc modo aestimanda est, ut neque neglegentia crassa aut nimia securitas satis expedita sit neque delatoria curiositas exigatur (Non va né tollerata un’ignoranza negligente di colui che ignora un fatto, né va pretesa un’indagine scrupolosa; la conoscenza, infatti, va valutata in modo che non basti per liberarsi la negligenza grossolana o un eccesso di incuranza, né che si esiga una curiosità da delatore). Di poi, due frammenti papinianei, 19 quaest., D. 22.6.7: ignorantia non prodest adquirere volentibus, suum vero petentibus non nocet (L’ignoranza di diritto non giova a coloro che vogliono acquisire, ma non nuoce a coloro che richiedano giudizialmente la propria pretesa) e 1 def., D. 22.6.8:

61

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 62

Marina Frunzio La lettura complessiva del titolo intanto rivela, ci sembra incontestabile, una scelta forte da parte dei compilatori di voler far emergere l’autorità di Paolo in materia di errore, riconoscendo al giurista, ancora una volta, un ruolo decisivo nella formulazione del diritto in regulae: con una sua regula si apre il titolo e con una sua regula esso va a concludersi. In questo percorso, assumono posizione centrale Nerazio, Terenzio Clemente, forse discepolo di Giuliano, e Pomponio. Quindi, di nuovo giuristi severiani, Ulpiano e Papiniano e la ben nota chiusa di Paolo. Internamente, a parte il richiamo di Paolo a Labeone, non dobbiamo trascurare i riferimenti che Pomponio introduce a Sabino e Cassio, come se il tema dell’errore, con le sue antiche radici labeoniane, si fosse poi snodato a comprendere le riflessioni di Sabino e Cassio, dunque dei giuristi vissuti grosso modo tra Traiano e Lucio Vero, Nerazio, Terenzio Clemente, Pomponio, per poi approdare a quelle dell’età dei Severi, con il tentativo sistematico di Paolo. Vista da questa angolazione, non v’è motivo di ritenere che la monografia paolina sull’error debba essere necessariamente intesa come parte del libro 44 ad edictum, come si è potuto verificare del tutto ritagliato su problematiche successorie, rispetto al quale, al contrario, rivela la sua autonomia nel non seguire in modo serrato l’andamento logico del libro medesimo. Ancora uno sguardo rivolto al passato, quello di Paolo, tendente, nel recupero dell’assunto labeoniano e la breve riflessione su di esso, a ribadire l’attualità della regula neraziana in apertura dell’opera (Regula est iuris quidem ignorantiam cuique nocere, facti vero ignorantiam non nocere), attualità che Paolo verifica e discute non genericamente, ma valutandone la tenuta anche rispetto alla più autorevole opinione degli antichi giureconsulti, quella del grande Labeone. Alla quale opinione non appare insensibile neppure Ulpiano, il quale sembra dirigere la sua attenzione al concetto stesso di ignoranza, alla sua misurabilità, potremmo dire, forse alla ricerca, per essa, di un univoco criterio interpretativo102. Può anche darsi, pertanto, come vuole Pietro Cerami103, che il libro sia stato ‘ritoccato’ in sede di compilazione dei Digesta, ma ci sembra che la sua sostanziale genuinità, nonché la sua attribuzione a Paolo, non possa non riconoscersi e ciò anche sulla base di un ulteriore ordine di ragioni. Intanto risulta quanto mai congruo l’incipit del frammento con lo stile di Paolo e con il suo peculiare interesse verso l’enunciazione di regulae (Regula est iuris quidem ignorantiam cuique nocere, facti vero ignorantiam non nocere), ricordando che proprio al Severiano rimonta la formulazione della regula delle regulae (D. 50.17.1). In secondo luogo, appare evi-

Error facti ne maribus quidem in damnis vel compendiis obest, iuris autem error nec feminis in compendiis prodest: ceterum omnibus iuris error in damnis amittendae rei suae non nocet (L’errore di fatto, in relazione ai danni patrimoniali o ai guadagni, non nuoce neppure ai maschi; l’errore di diritto, in relazione ai guadagni, non giova neppure alle femmine; del resto, l’errore di diritto, in relazione ai danni patrimoniali derivanti dalla perdita della cosa propria, non nuoce a nessuno). A chiusura, il liber singularis de iuris et facti ignorantia, del nostro Severiano. 102 Sempre Ulpiano, 49 ad ed., D. 38.15.2.5, tratto dalla rubrica Quis ordo in possessionibus servetur, assai significativamente, osserva: Scientiam eam observandam Pomponius ait, non quae cadit in iuris prudentes, sed quam quis aut per se aut per alios adsequi potuit, scilicet consulendo prudentiores, ut diligentiorem patrem familias consulere dignum sit, muovendosi all’interno del solco interpretativo avviato da Labeone; come pure Paolo, 2 ad Sab., D. 37.1.10, in cui ancora in tema di bonorum possessio, collocandosi sulla medesima scia, afferma: In bonorum possessionibus iuris ignorantia non prodest, quo minus dies cedat, et ideo heredi instituto et ante apertas tabulas dies cedit. Satis est enim scire mortuum esse seque proximum cognatum fuisse copiamque eorum quos consuleret habuisse: scientiam enim non hanc accipi, quae iuris prudentibus sit, sed eam, quam quis aut per se habeat aut consulendo prudentiores adsequi potest. 103 Cerami 1993, 57 ss.

62

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 63

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo dente dalla lettura del liber che l’inescusabilità dell’ignorantia iuris era stata trattata approfonditamente da Labeone, richiamato per ben due volte, il quale aveva probabilmente cercato di precisarne la portata: va da sé che un copista o un compilatore non avrebbe certo potuto introdurre i richiami a Labeone, attribuendogli pure delle precise motivazioni104. Ma fermiamo l’attenzione proprio sulla posizione di Labeone, come essa appare disegnata nel passo in esame. Secondo il giurista augusteo il principio per cui l’ignoranza del diritto non giova andrebbe accolto, ma alla condizione che al soggetto cui detta ignoranza fosse imputata avesse avuto la possibilità di adire un giureconsulto ovvero che egli stesso avesse una certa competenza tecnico-giuridica. Dunque, secondo Labeone l’ignorantia del diritto avrebbe nuociuto solo a chi fosse stato facilmente in grado di conoscerlo. Paolo, pur senza esprimere un aperto rifiuto verso tale impostazione, non può tuttavia accoglierla in pieno (quod raro accipiendum est), risultando essa di certo non più rispondente alla propria realtà; ma anche Nerazio, sebbene in un orizzonte culturalmente e socialmente lontano da quello dell’epoca di Labeone e ancor più da quello di Paolo, doveva avvertirla poco conciliabile con la sua preponderante esigenza di ‘finire’ il ius civile. Al contrario, la visione labeoniana, è stato elegantemente osservato105, è perfettamente in linea con la dimensione cittadina, in cui il diritto non è conoscibile senza l’intervento di un esperto: “il giurista si muove nella città come luogo geometrico delle azioni umane, è in un contatto meravigliosamente diretto con il suo pubblico…il giureconsulto augusteo difende con tenacia il suo ruolo”106.

104 Certamente appartenente al linguaggio dei giuristi severiani è poi la costruzione della frase e alcuni termini in essa compresi, con cui si inizia il paragrafo 4 del liber: Qui ignoravit dominum esse rei venditorem, plus in re est, quam in existimatione mentis…rell., ove si ricordi quanto affermato da Ulpiano in altro contesto, Ulp. 7 ad ed., D. 50.16.13.1: Res ‘abesse’ videntur (ut Sabinus ait et Pedius probat) etiam hae, quarum corpus manet, forma mutata est: et ideo si corruptae redditae sint vel transfiguratae, videri abesse, quoniam plerumque plus est in manus pretio, quam in re. Finanche Guarino 1994, 3 ss., pur favorendo l’idea che il liber fosse stato un rifacimento postclassico di materiale paolino o comunque appartenente ad un giurisperito dell’epoca di Paolo, non può evitare di concludere con queste parole (Guarino 1993, 25): “E in ogni modo se in D. 22.6 ed in CI. 1.18 si trova addirittura il titolo generale «De iuris et facti ignorantia», non è questo il segno inconfondibile della persistenza del delicato problema ancora ai tempi di Giustiniano primo?”. 105 Bretone 1982, 123. 106 Bretone 1982, 123. Il principio che l’ignorantia iuris nuocesse, soprattutto in una certa epoca, secondo Kupiszewski 1984, 1364, sarebbe, tra gli altri, in diretta connessione con gli obiettivi posti alla base dell’insegnamento del diritto nelle scuole di Berito e di Costantinopoli: “…in queste scuole si professava l’obbligatorietà di conoscere il diritto: il che ebbe riflessi filosofici e pratici, ed ovviamente condizionò le attività delle scuole. Giustiniano, la cui compilazione è frutto del classicismo particolare di questo tipo di scuola, che definiremmo bizantino, romano-orientale, assunse in argomento la medesima posizione”. Non troppo dissimile l’impostazione del Guarino 1942, 166 ss., per cui l’emersione della regola ‘ignorantia iuris non excusat’ si mostrerebbe legata, nella storia giuridica romana, “al progressivo affermarsi della struttura costituzionale assolutistica…all’epoca in cui la funzione mistagogica dei giuristi, già decaduta durante la fase ultima del principato, venne completamente o quasi completamente a mancare”. In verità tali posizioni dottrinarie tradiscono un’impostazione eccessivamente rigida. La regola, anche nella trattazione di Paolo che l’assume inizialmente nella sua generalità, tuttavia non esclude delle eccezioni. E nello stesso senso vanno lette talune significative costituzioni contenute nel Codex Iustinianus. Ci riferiamo ad esempio, a C. 1.18.2 (Imp. Antoninus A. Sextio Iuvenali) del 243: Cum ignorantia iuris excusari facile non possit, si maior annis hereditati matris tuae renuntiasti, sera prece subveniri tibi desideras, in cui non appare un’incondizionata applicazione del principio dell’inescusabilità dell’ignorantia iuris, bensì si parla di una difficoltà a scusare. Analogamente, C. 1.18.3 (Imp. Philippus A. Marcellae), dell’anno 244, lascia intravvedere come la decisio imperiale non avvenga in via auto-

63

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 64

Marina Frunzio Al di là di ciò resta un dato assai significativo. La riflessione di Labeone costituisce il primo passo di un percorso sull’ignorantia del diritto che si svolge secolarmente e che riceve, forse, il suo primo tentativo di essere compresa in regula da Nerazio, sulla base di una precedente riflessione di Labeone; per poi apparire più tardi disciplinata in Paolo, che nel riprendere per essa, con rinnovata forza, il valore dell’enunciazione neraziana, si riporta al collega augusteo, la cui visione, chiaro specchio di una realtà ormai lontanissima, ne aveva costituito, tuttavia, un indispensabile ed autorevole precedente107. E di più. Se volessimo ancora riferirci al progetto labeoniano di ricondurre il diritto ad enunciazioni generali, quanto rilevato a proposito dell’errore aggiungerebbe forza a quelle conclusioni e segnerebbe in modo netto un percorso, da Labeone a Paolo, con l’importante mediazione di Nerazio, in cui non sarebbe impossibile riconoscere le tracce di “un nuovo rapporto tra interpretazione e testo normativo”108. 6. I sentieri dell’aequitas Che la Stoa abbia fortemente influenzato il pensiero giuridico romano è affermazione che già nel 1951 Paolo Frezza assumeva come conclusiva e non revocabile in dubbio109. La strategica importanza che tale corrente filosofica ebbe, sino a divenire una autentica ‘dimensione di pensiero’, presso gli intellettuali e i giuristi di Roma antica è stata oggetto di amplissima

matica, ma in seguito ad un’analisi fattuale: Si emancipata a patre intra annum bonorum possessionem petere cessasti, praetendere iuris ignorantiam nullis rationibus potes. Si tratta verisimilmente di testimonianze che attestano l’incessante dibattito che accompagna nei secoli l’accoglimento della regula, la cui tenuta viene nel corso del tempo pur sempre verificata alla luce delle circostanze di fatto a cui essa andrebbe riferita: per altre costituzioni improntate al medesimo spirito, si veda Scarlata Fazio 1970, 1 ss. Il problema è stato in dottrina affrontato anche sotto l’aspetto dell’ignoranza del diritto penale, soprattutto in seguito alla pubblicazione del saggio di Binding 1877, passim, secondo il quale nel diritto penale romano la scientia fosse un presupposto del dolus malus, con la conclusione per cui l’error iuris avesse la medesima efficacia dell’error facti (sulla Normtheorie di Binding e sulla successiva, connessa, Vorsatztheorie, Cavaliere 2000, 37 ss.). Diverse le opinioni succedutesi nel corso del tempo, tra le quali meritano di essere segnalate in questa sede almeno quella di Volterra 1930, 75 s., uno dei più accaniti sostenitori dell’idea per la quale l’efficacia discriminatoria dell’ignorantia iuris non fu mai ammessa, se non dai compilatori che operarono all’uopo drastiche corruzioni nei testi. Contro tale ipotesi reagì fortemente il De Martino 1937, 387 s., secondo il quale si passò dalla scusabilità dell’ignorantia iuris alla sua inescusabilità in età giustinianea, giustificata, quest’ultima, da un atteggiamento repressivo estremamente rigido. Con maggiore cautela, il Guarino 1942, 166 ss., ha evidenziato la necessità di distinguere tra diritto penale privato e diritto penale pubblico, ma il tema è ancora all’attenzione della giusromanistica: cfr., da ultimo, Pontoriero 2020, 3 ss. In particolare, circa il contributo di De Martino, cfr. Masi Doria 2013, 363 ss. Per una completa visione della valenza, attuale, del principio ‘ignorantia iuris non excusat’ in ambito penalistico, Lanzi 2018, spec. 3 ss. 107 Se Paolo sia stato solo un ‘Bewahrer’ o pure un ‘Gründer’ è un quesito che non si attaglia ad un esponente della giurisprudenza severiana, ma certo vi sono innumerevoli tracce per ritenerlo uno studioso copioso e vivace, dotato di uno spirito originale ed innovativo, pur nelle opere esplicitamente rivolte a commenti di autori precedenti, capace, anche, come vuole Mantello 1991-1992, 388, di ragionare in termini di “universalità”. Su tali conclusioni, ritorneremo a breve. 108 Usiamo qui un’efficace espressione di Schiavone 2017, 325. Non si può escludere che una certa vicinanza tra Nerazio e Labeone fosse indotta pure dalla medesima ‘ascendenza’ proculiana, peraltro, rinforzata, come si osservava supra: 33, nt. 5, dall’avere Labeone preso in moglie un’appartenente alla gens nerazia. 109 Frezza 1951, 326.

64

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 65

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo indagine, tanto da rendere troppo arduo in questa sede il compito di valutarne tutte le conseguenze portate in superficie110. Ma v’è un percorso che al pari o forse più di altri può offrire ancora qualche suggestione, sebbene, si intenda, entro i margini della presente ricerca, ed è quello dell’equità. Si tratta di un ‘canone’ della giustizia, latamente intesa, che attraversa il pensiero giuridico dei Romani per secoli, assumendo via via diverse sfumature e colorazioni ed arricchendosi degli specifici contributi offerti dalle singole visioni dei giuristi ad esso interessati. Ce ne vogliamo occupare qui perché l’equità costituisce un ulteriore e significativo terreno sul quale si incontrano Nerazio e Paolo, un terreno ove l’orma del pensiero stoico appare profonda e densa di possibili suggestioni. Converrà partire da una nota testimonianza di Nerazio, in merito alla quale esiste a tutt’oggi un ampio dibattito in letteratura111. Si tratta di Ner. 3 membr., D. 6.2.17: Publiciana actio non ideo comparata est, ut res domino auferatur: eiusque rei argumentum est primo aequitas, deinde exceptio “si ea res possessoris non sit”: sed ut is, qui bona fide emit possessionemque eius ex ea causa nactus est, potius rem habeat. L’azione Publiciana non è stata introdotta per sottrarre la cosa al proprietario, ed è argomento a favore di ciò, in primo luogo l’equità, poi l’eccezione «se quella cosa non appartenga al possessore»; ma (essa è stata predisposta) perché possa essere preferito (rispetto ad altri) colui che abbia comprata la cosa in buona fede e a tale titolo ne abbia ottenuto il possesso.

Nel pensiero di Nerazio appare chiaro come la concessione dell’azione Publiciana debba inevitabilmente fare i conti con l’esigenza di salvaguardare la legittima posizione del proprietario civilistico e il suo diritto a non essere spogliato ingiustamente del bene a lui appartenente. Il ragionamento trae forza innanzitutto dall’equità che verrebbe, pertanto, ad essere intesa come un baluardo a difesa della proprietà civilistica e poi dall’eccezione ‘si ea res possessori non sit’, probabilmente da identificarsi con l’exceptio iusti dominii112. Ciò che da tempo ha suscitato attenzione soprattutto da parte degli studiosi dedicati a cogliere il senso della scepsi neraziana, è tuttavia, il riferimento all’equità, avvertito sorprendente perché generalmente sostenuto per invocare le ragioni dell’in bonis habens, vale a dire le ragioni esattamente opposte a quelle del dominus ex iure Quiritium113. Ora, se è certo che Nerazio fosse ben consapevole di tale esigenza sociale, prima che giuridica, è altrettanto ve-

110 Cfr., in un’alluvionale letteratura, Arnold 1911, passim; Wenley 1924, passim; Heinemann 1932, passim; Festa 1932-1935, passim; Coing 1952, 24 ss.; 1953, 365 ss.; Edelstein 1966, passim; Pohlenz 1967, passim; Schiavone 1970, 240 ss.; Schiavone 1971, passim; Grosso 1976, 139 ss.; Bretone, Talamanca 1981, passim; Ferrary 1982, 778 ss. Più di recente, rinviamo agli studi di Emmanuele Vimercati ed, in specie, a Vimercati 2000, 386 ss.; Vimercati 2004, passim; Vimercati 2007, 573 ss. Sullo specifico apporto del pensiero senechiano, Murga 1997, 143 ss. 111 Fondamentali, sul passo, gli studi di Perozzi 1888, 49 ss.; Wubbe 1960, 31; Thür 1972, 375; Sturm 1962, 414; Greiner 1973, 21; Scarano Ussani 1977, 178 ss.; Apathy 1982, 168 ss.; Di Lella 1984, 72 ss.; Vacca 1988, 96; Giaro 2000, 281 ss.; Cannata 2001, 544; Vacca 2016, 630. Da ultimo, Cristaldi 2020, 24 ss., con indicazioni bibliografiche ulteriori. 112 Sull’identificazione, Carusi 1889, 219, Greiner 1973, 21, Scarano Ussani 1979, 51. 113 “Erstaunlich ist zunächst die Allgemeinheit dieser Aussage”: così, Maifeld 1991, 31.

65

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 66

Marina Frunzio risimile che la sua preoccupazione trovasse il suo precipuo fondamento nell’evitare un incongruo utilizzo dell’azione Publiciana, sottolineando, implicitamente, l’assurda conseguenza che si sarebbe prodotta intendendo l’azione nei termini di un rimedio giurisdizionale pensato contro la proprietà civilistica114. Il richiamo all’equità pare, se guardato da questa angolazione, rinforzare la posizione proprietaria e collocarla su uno sfondo in cui la tutela delle ragioni del possessore devono evidentemente trovare un giusto contemperamento rispetto a quelle del proprietario. In questo senso, l’‘avvertimento’ di Nerazio non può risultare né anacronistico, né particolarmente sorprendente, ma tutt’al più riflettere il bisogno del giurista di proteggere da attacchi iniqui il dominio quiritario. Condividiamo, in tale prospettiva, l’argomentazione addotta da Vincenzo Scarano Ussani115 per l’esatta comprensione della scelta di Nerazio: “Il senso neraziano dell’aequitas può forse ricavarsi e contrario dalla sententia del giurista, rovesciando i termini del discorso. Se l’actio Publiciana fosse stata (assurdamente) istituita per togliere la res al dominus, cioè contro l’istituto del dominium, essa sarebbe stata iniqua. Lo sarebbe stata, è facile aggiungere, perché il diritto, con una svolta irrazionale, avrebbe posto in essere uno strumento capace di sconvolgere l’ordinamento, ponendo in crisi uno degli istituti fondamentali della società romana: il dominium, della cui rilevanza giuridica e sociale il giurista doveva rendersi ben conto…”. Difficile negare credibilità al ragionamento dello studioso, ove poi si pensi che la difesa della proprietà costituiva un solido archetipo del pensiero stoico, ancora molto diffuso nell’epoca del Sepinate e coinvolgente soprattutto gli appartenenti alla élite aristocratica, della quale il giurista faceva parte. Un forte tramite di divulgazione del pensiero stoico era, poi, come noto, rappresentato dagli scritti di Cicerone e, in specie, dal de officiis, ricalcato, come anche Gellio ci informa116, sull’analoga opera di Panezio117. Lo stoicismo paneziano ebbe larghissima diffusione, attecchendo nei più alti strati sociali della popolazione118, attraverso la difesa di idee che, se per un verso propugnavano l’ideale di un ordine cosmopolita – ma pur sempre ispirato a logiche imperialiste –, dall’altro non esitavano a insistere sull’importanza della difesa di valori consolidati, la proprietà in primis119. È probabile che proprio attraverso il tramite di Cicerone Nerazio si sia accostato con maggiore consapevolezza alle idee stoiche dif-

114 Che la Publiciana ancora in età severiana fosse ricordata come azione giurisdizionale il cui profilo era stato disegnato ricalcando quello della rei vindicatio è dimostrato da numerose testimonianze della Compilazione. Basterà qui riportare Ulp. 16 ad ed., D. 6.2.7.6 e 8: Publiciana actio ad istar proprietatis non ad istar possessionis respicit. 8: In Publiciana actione omnia eadem erunt, quae et in rei vindicatione diximus. 115 Scarano Ussani 1979, 51 s. Lo studioso rileva pure come D. 6.2.17 rappresenti il “brano giurisprudenziale più antico in cui sia possibile rinvenire il sostantivo aequitas, che lo scolarca proculeiano potrebbe essere stato uno tra i primi giureconsulti a usare”. 116 Gell. noct. Att. 13.28.1-4: Legebatur Panaeti philosophi liber de officiis secundus ex tribus illis inclitis libris quos M. Tullius magno cum studio maximoque opere aemulatus est, su cui Sacchi 2005, 344. 117 L’opera è conosciuta nelle fonti come Περὶ τοῦ καθήκοντος. A lungo gli studiosi hanno discusso in merito all’ampiezza dell’accoglimento della visione paneziana nell’opera di Cicerone, negandosi talora che il pensiero del filosofo fosse presente, oltre che nel de officiis, anche nel de legibus e nel de republica: così, ad esempio, Ferrary 1982, 778 ss. In senso opposto e più di recente si è espresso Vimercati 2000, 386 ss. 118 Sul rapporto tra Panezio e la classe dirigente romana, cfr. fr. 8 e 21-37 in Alesse 1997. Cfr., pure, Edelstein 19892, 39 ss., Ferrary 1982, 778 ss. e Vimercati 2004, passim. 119 Sull’etica paneziana vicina agli interessi dei ceti conservatori romani, Pohlenz 1967, 535 ss. Si vedano, inoltre, almeno, Edelstein 1968, 45 ss. e Vimercati 2000, 386 ss., con ampia letteratura.

66

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 67

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo fuse da Panezio conducendole, verisimilmente, all’interno della propria visione del ius120. E, soprattutto, non può sfuggire che pure quell’ideale, in realtà vissuto e presentato come canone razionale, l’aequitas, costituisse un nodo centrale della riflessione ciceroniana, veicolato in modo potente dalla diffusione del pensiero paneziano a cui l’oratore notoriamente aveva aderito121. Un’altra celebre testimonianza di Nerazio conferma la centralità della posizione del dominus all’interno di un rapporto che vede ancora una volta coinvolte due posizioni diverse e potenzialmente confliggenti, Ner. 3 membr., D. 19.1.31.2: Uterque nostrum eandem rem emit a non domino, cum emptio venditioque sine dolo malo fieret, traditaque est: sive ab eodem emimus sive ab alio atque alio, is ex nobis tuendus est, qui prior ius eius adprehendit, hoc est, cui primum tradita est. si alter ex nobis a domino emisset, is omnimodo tuendus est. Entrambi comprammo la medesima cosa da uno che non era proprietario e la compravendita è stata conclusa senza dolo malvagio; la cosa fu consegnata ad uno di noi due. Sia che comprammo entrambi dalla stessa persona, sia che comprammo io da uno e tu da un altro, deve essere tutelato quello di noi due che per primo ne acquistò il possesso a giusto titolo, cioè colui al quale venne consegnata per primo. Se uno di noi l’avesse comprata dal proprietario, egli deve essere tutelato in ogni caso.

Il giurista dapprima considera meritevole di tutela chi per primo ha ricevuto la res dal proprietario, dimostrando dunque di ritenere che il possesso, ottenuto in base ad un giusto titolo, come si legge nel passo, fosse il criterio da seguire nel caso di conflitto tra due acquirenti. Ma detto criterio cede quando uno dei due abbia effettuato il contratto col proprietario medesimo, risultando, nella prospettiva dello scolarca proculiano, prioritario il rispetto della transazione conclusa a domino. Sebbene Nerazio nel passo in osservazione non si riferisca espressamente all’aequitas e, peraltro, va detto, sono assai rari i casi in cui il giurista menziona il criterio, anche in forme derivate, come aequus o aequum122, è chiaro che il percorso su cui si fonda la sua decisione si nutre di un evidente ragionamento equitativo, in cui le posizioni dei due acquirenti sono valutate alla luce di ciò che appare maggiormente idoneo a raggiungere la giustizia del caso concreto. Non condividiamo pertanto l’impostazione metodologica seguita da Jan Maifeld123 per il quale l’indagine sulla concezione dell’aequitas in Nerazio debba

120

Scarano Ussani 1979, 53, sulla scia di Pohlenz 1967, 541. Sullo stoicismo ciceroniano, imprescindibile è la lettura compiuta e lucida offerta da Fiori 2011, del cui pensiero è certo utile in questa sede almeno riferirne testualmente un importante passaggio, 59 s.: “Nonostante l’importanza delle premesse filosofiche dell’opera di Cicerone, non bisogna però dimenticare che egli scrive in latino e per un pubblico romano. Il suo intento non è di istruire alla filosofia, ma di convincere i propri lettori spiegando in forma nuova, attraverso la filosofia, la necessità di tornare ai valori tradizionali che ispirano il partito degli ottimati. Egli utilizza le dottrine filosofiche greche per dare forma compiuta a valori espressi da una cultura tradizionale che rifugge dall’esprimere chiaramente gli schemi generali sottostanti le proprie scelte, attribuendo loro una veste – potremmo dire – sempre ‘casistica’”. 122 Sul punto, Scarano Ussani 1979, 54. 123 Maifeld 1991, 28 s. Va al riguardo ricordato che l’autore conclude la sua analisi, 138 ss., ritenendo l’aequitas in Nerazio un criterio invocato di volta in volta per la soluzione del caso concreto senza che ad esso debba attribuirsi alcun valore all’interno della visione generale del ius costruita dal giurista sannita. 121

67

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 68

Marina Frunzio inevitabilmente snodarsi su due opposte soluzioni, o assumere che l’equità sia per il giurista un valore generale ovvero ritenerla un criterio dalla portata più ristretta e invocato solo in casi concreti. Ci sembra infatti da quanto siamo venuti sino ad ora dicendo, che l’equità possa senz’altro essere stata intesa dal giurista come un valore fondante la propria riflessione sul ius, senza con ciò escludere la portata concreta di quel valore la cui funzione è evocata con forza nel momento della contrapposizione tra due situazioni giuridiche entrambi meritevoli di essere tutelate. La precisazione che l’acquisto si è svolto sine dolo malo tradisce, in fondo, proprio questa esigenza di risolvere la questione in termini di giustizia concreta, assicurando che le posizioni coinvolte siano valutate attraverso un procedimento comparativo che tenga conto al suo interno della meritevolezza di entrambe perché sorrette da un comportamento delle parti conforme a buona fede: è evidente infatti che se uno degli acquisti fosse stato eseguito con dolo, da parte dell’acquirente, detta posizione non sarebbe stata neppure ritenuta degna di valutazione da parte del giurista. L’equità interviene a sorreggere nell’operare la scelta tra ciò che è più giusto salvaguardare in quel caso in esame e ciò che invece può essere sacrificato e può dirsi dunque costituire un criterio ermeneutico generale a cui il giurista ricorre in casi di difficile risoluzione e, per ciò stesso, ragione intima del casus giuridico sottoposto alla analisi interpretativa. La consapevolezza di una sostanza ontologica da conferire alla proprietà sembra emergere grazie proprio, come si preannunciava poco sopra, alla riflessione di Panezio, che esprime la necessità di difendere la posizione proprietaria come un dovere della res publica, ponendo tale esigenza al centro di un dibattito culturale124. Ce lo confermano numerosi passaggi del de officiis ciceroniano e, in specie, 2.21.73, un brano che l’Arpinate molto probabilmente sussume direttamente da Panezio125: Sed, quoniam de eo genere beneficiorum dictum est, quae ad singulos spectant, deinceps de iis, quae de universos quaeque ad rem publicam pertinent, disputandum est. Eorum autem ipsorum partim eius modi sunt, ut ad universos cives pertineant, pertim, singulos ut attingant, quae sunt etiam gratiora. Danda opera est omnino, si possit, utrisque, nec minus, ut etiam singulis consulatur, sed ita, ut es res aut prosit aut certe ne obsit rei publicae. C. Gracchi frumentaria magna largitio exhauriebat igitur aerarium; modica M. Octavi et rei publicae tolerabilis et plebi necessaria; ergo et civibus ut rei publicae salutaris. 73 In primis autem videndum erit ei, qui rem publicam administrabit, ut suum quisque teneat neque de bonis privatorum publicae deminutio fiat. Perniciose enim Philippus, in tribunatu cum legem agrariam ferret, quam tamen antiquari facile passus est et in eo vehementer se moderatum praebuit; sed cum in agendo multa populariter, tum illud male «non esse in civitate duo milia Hominum, qui rem haberent». Capitalis oratio est. Ad aequationem bonorum pertinens, qua peste quae potest esse maior? Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur, res publicae civitatesque constitutae sunt. Nam, etsi duce natura congregabantur homines, tamen spe custodiae rerum suarum urbium praesidia quaerebant. Ma poiché abbiamo già parlato dei benefici che riguardano i singoli, ora parleremo di quelli che si riferiscono a tutti quanti i cittadini e alla res publica. Di questi alcuni sono tali che si estendono a tutti i cittadini in quanto tali; altri sono relativi a singoli individui: e questi sono i più graditi. Se possibile,

124 125

Sacchi 2005, 339. Sacchi 2005, 339.

68

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 69

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo si provi a fare in modo che gli uni giovino agli altri, ai secondi come ai primi, purché il beneficio sia di giovamento per la res publica, o almeno non vi arrechi danno. La distribuzione frumentaria operata da Caio Gracco fu troppo massiccia e gravò sull’erario; moderata quella di Marco Ottavio, e dunque fu necessaria per la plebe ma non insopportabile per la res publica: utile pertanto sia ai cittadini che alla res publica. 73 Chi amministra la res publica dovrà innanzitutto badare che ciascuno conservi ciò che è suo e che le proprietà private non siano diminuite da parte della res publica. Infatti perniciosamente ebbe a comportarsi Filippo quando nel suo tribunato propose la legge agraria: vero pure che poi la lasciò cadere, dimostrando grande arrendevolezza; tuttavia, mentre adoperò nei suoi discorsi parole capaci di attrarre la simpatia del popolo, sbagliò ad affermare che non v’erano duemila proprietari in città. Parole sacrileghe, volte a sostenere l’eguagliamento dei beni, quale pestilenza può essere peggiore? Infatti gli stati furono costituiti e le comunità ordinate perché ciascuno potesse mantenere intatte le sue proprietà. Gli uomini andavano alla ricerca dei presidi delle città per conservare i propri beni, sebbene fossero mossi, per istinto naturale, ad unirsi tra loro.

Come si è giustamente notato126, il pensiero paneziano, qui, supera quello stoico tradizionale, nel quale il dilemma della inesistenza della proprietà privata in natura era risolto con la famosa metafora del teatro, per cui ciascuno avrebbe potuto chiamare ‘suo’ il posto occupato, evitando di qualificare come ‘proprio’ qualcosa che invece era percepito come comune a tutti127. Seguendo questo percorso è forse possibile anche spiegare la relativa scarsezza, di cui poc’anzi si diceva, dei termini come aequitas, aequum, aequus, all’interno dell’opera di Nerazio, e la relativa maggiore e non irrilevante presenza del termine ‘propius’128: non pensiamo infatti improbabile che l’interesse, complessivo, del Sepinate fosse innanzitutto rivolto a prendere posizione all’interno di un dibattito scientifico ancora in atto rispetto alle grandi tematiche della tradizione giuridica, quali la proprietà, ma anche il possesso, come a breve si avrà modo di verificare, all’interno delle quali l’equità doveva configurarsi come un valore ormai costituito e somma guida per l’interprete nel suo compito di reperire le linee ermeneutiche di cui il giurista si sarebbe dovuto avvalere. Se ora si prova a rileggere un passo su cui abbiamo già fermato la nostra attenzione129, si può scorgere una certa coerenza ideologica tra la visione di stampo stoico-ciceroniana, non estranea a Nerazio, e il pensiero di Paolo. In particolare ci interessa il punto ove, dopo aver riferito l’opinione di Celso il giovane per cui, a proposito della perpetuatio obligationis, occorrerebbe seguire una valutazione equitativa piuttosto che smarrirsi dietro le opinioni dei giurisperiti (sub auctoritate iuris scientiae), Paolo, nel confermare la sostanziale giustezza del

126

Sacchi 2005, 340. Cic. de fin. 3.20.67: Sed quem ad modum, theatrum cum commune sit, recte tamen dici potest eius esse eum locum quem quisque occuparit, sic in urbe mundove communi non adversatur ius quo minus suum quidque cuiusque sit. 128 Sul punto, Maifeld 1991, 8 e nt. 25. 129 Paul. 17 ad Plaut., D. 45.1.91.3, esaminato supra: 38 ss., di cui, ora, riportiamo nuovamente il testo per agio del lettore: Sequitur videre de eo, quod veteres constituerunt, quotiens culpa intervenit debitoris, perpetuari obligationem, quemadmodum intellegendum sit. Et quidem si effecerit promissor, quo minus solvere possit, expeditum intellectum habet constitutio: si vero moratus sit tantum, haesitatur, an, si postea in mora non fuerit, extinguatur superior mora. Et Celsus adulescens scribit eum, qui moram fecit in solvendo Sticho quem promiserat, posse emendare eam moram postea offerendo: esse enim hanc quaestionem de bono et aequo: in quo genere plerumque sub auctoritate iuris scientiae perniciose, inquit, erratur. Et sane probabilis haec sententia est, quam quidem et Iulianus sequitur: nam dum quaeritur de damno et par utriusque causa sit, quare non potentior sit qui teneat, quam qui persequitur? 127

69

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 70

Marina Frunzio parere, sostenuto pure da Giuliano, aggiunge, con un non inconsueto stile retorico della domanda senza risposta, quanto segue: Et sane probabilis haec sententia est, quam quidem et Iulianus sequitur: nam dum quaeritur de damno et par utriusque causa sit, quare non potentior sit qui teneat, quam qui persequitur? In tal guisa, il giurista estendendo il suo sguardo oltre la fattispecie in questione, introduce la necessità di un’analisi equitativa in merito a tutte quelle situazioni in cui, essendovi il rischio di una perdita per qualcuno, ed a parità di condizioni sottostanti, potrebbe essere più ‘giusto’ preferire le ragioni dell’attuale possessore piuttosto che quelle di colui che tenta di riottenere il bene. Che l’aequitas non dovesse avere valore ancillare rispetto all’auctoritas prudentium è oltretutto confermato da un brano, notissimo, di Cicerone, contenuto in topica 5.28, in cui l’Arpinate afferma: Partitionum, cum ea res, quae proposita est, quasi in membra discerpitur, ut si quis ius civile dicat id esse, quod in legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edicti magistratuum, more, aequitate, consistat… (Le definizioni operabili in seno alle) parti si realizzano quando la res proposta viene distinta nelle sue membra, come quando si dice che il ius civile consista nelle leggi, nelle deliberazioni del Senato, nei giudicati, nei pareri autorevoli dei giuristi, negli editti dei magistrati, nella consuetudine, nell’equità…

Il diritto civile si raffigura come un organismo composto da diverse membra130 che tutte insieme ne favoriscono il benessere e ne descrivono le diverse e collegate facoltà, le leggi, i senatus consulta, i giudicati, i pareri dei giureconsulti (anche qui il riferimento è all’auctoritas dei giurisperiti131), gli editti magistratuali, la consuetudine e l’equità. Le parti dell’unico organismo non possono evidentemente vivere separate l’una dell’altra, così come lo stesso corpus ha bisogno per operare in efficienza di ogni elemento che lo compone. Senza voler troppo generalizzare la visione ciceroniana di esplicita suggestione retorica, resta tuttavia un messaggio di fondo che è quello della convivenza di più voci all’interno dell’ordinamento civilistico, in cui l’equità va recuperata, da parte del giurista, quale valore intrinseco di quello stesso ordinamento, ogni qual volta la realizzazione della autentica giustizia lo richieda132.

130 La metafora dell’ordinamento giuridico o della res publica come organismo composto da membra che insieme contribuiscono al suo funzionamento è un topos di origine antiche, forse addirittura pre-platoniche. In tema, Ruch 1972, 830 ss.; Tandoi 1992, 287 ss.; Vegetti 1995, passim. Brevi considerazioni in Frunzio 2015, 1 ss. La visione organicistica, prima che in Cicerone, è presente nella rhetorica ad Herennium 2.13.19: Constat igitur ex his partibus: natura, lege, consuetudine, iudicato, aequo et bono, pacto. Non può escludersi che si tratti di un persistente insegnamento retorico, forse un’eco aristotelica, ove si pensi al riferimento alla natura nell’esordio del brano: sulla sua interpretazione, Schiavone 2017, 286 s. Si leggano, inoltre, 125 e 150 ss. Una ragionata visione d’insieme in Albanese 1992, 12 ss. Alcune rilevanti osservazioni anche in Santucci 2001, 93 s. e note. 131 Sul valore dell’auctoritas come strumento argomentativo, Stolfi 2011, 88 ss. 132 Si tratta certo di un ideale, quello del diritto che percorre la via dell’aequitas, che tuttavia costituisce una luce che deve illuminare il percorso del legislatore come del giurisperito. Questo il senso da attribuire a Cic. de off. 2.12.42, in cui con estrema chiarezza, l’Arpinate riconosce come indispensabile al ius la qualifica di aequabilis, cioè, si potrebbe tradurre, di diritto rivolto sempre all’attuazione concreta dell’equità. Di lex aequabilis si continua a discutere ancora nell’Occidente romano: al riguardo si vedano gli importanti studi di Orazio Licandro e, in specie, Licandro 2015, soprattutto 110 ss.

70

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 71

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo L’aequitas, nella rappresentazione di Cicerone, si è detto, sottesa all’interpretatio del giurista è contenuta all’interno dell’ordinamento, un’aequitas “civilistica” che “permette al iuris peritus di proporre le sue soluzioni tenendo conto di nuove esigenze di tutela o chiarendo i limiti di applicazione di una «norma», ma sempre come soluzioni «giuste» nel senso che sono concepite come esplicative della ratio dell’ordinamento esistente”133. E in ciò, ci sembra, non v’è neppure troppa distanza rispetto a quanto si è osservato circa la impostazione di Nerazio che non esita a ricorrere al ragionamento equitativo come se esso fosse non metasistemico rispetto al ius civile, ma parte funzionale ed integrante del ius medesimo. Così come parrebbe addirittura potersi intravvedere un più stretto collegamento tra la soluzione neraziana di proteggere il proprietario che ‘ha’ il bene di fronte a colui che lo reclama con l’azione Publiciana e la conclusione del Severiano che si chiede retoricamente se non sia più giusto tutelare la posizione di colui che ha presso di sé la cosa piuttosto che quella di colui che vuole riottenerla. Ma tale ipotizzata contiguità tra la visione neraziana e quella paolina dell’aequitas deve essere a questo punto verificata in quelle testimonianze in cui il confronto tra i due giuristi è particolarmente vivace, trattandosi di passi in cui Paolo richiama espressamente il parere del collega. Tre sono i frammenti che ci interessano, Paul. 3 ad Ner., D. 46.1.67; Paul. 8 ad Plaut., D. 35.1.43.3; Paul. 6 ad Plaut., D. 42.1.21. Circa la prima delle su indicate testimonianze rinviamo a quanto si osserverà nel corso del presente lavoro, trattandosi di un brano tratto proprio dal commento di Paolo a Nerazio134. Le altre sono entrambe ricavate dal commento di Paolo a Plauzio. Partiamo dalla lettura di D. 35.1.43.3: Neratius libro primo responsorum scribit, ex duobus scriptis heredibus si unus rogatus sit tibi hereditatem restituere, tu Titio certam summam dare, et beneficio legis Falcidiae in restituendo heres utatur, quanto minus tibi praestiterit, tanto minus te Titio praestare non esse iniquum. Nerazio nel primo libro dei Responsi scrive che se uno dei due eredi istituiti fu incaricato di restituire a te l’eredità, e tu fosti incaricato di dare una somma a Tizio e l’erede, operando la restituzione, si avvalga del beneficio della legge Falcidia, non è iniquo che quanto meno egli ti avrà prestato, tanto meno tu dovrai dare a Tizio.

133 Vacca 2006b, 33. A proposito del rapporto tra l’aggettivo aequum e il sostantivo aequitas, Schiavone 2017, 290 ss., rileva che il primo si pone nelle fonti come principio guida della giurisdizione pretoria. Di qui i giuristi percepiranno la necessità di ampliare la propria riflessione, integrandola col concetto di aequitas. Il quale, non sarà poi avvertito solo come pars del ius, ma come lo stesso ius guardato nella sua interezza: osserva lo studioso come i caratteri innovativi e tipici della giurisdizione pretoria trovavano una più ampia collocazione nel lavoro della giurisprudenza successiva; si saldava così, al bivio tra pensiero retorico e pensiero giuridico, un nuovo canone ispirato dall’utilità sociale e modellato dai giuristi sulle nascenti situazioni concrete. Una sorta di polisemia che Cicerone avrebbe accolta e fatta propria. 134 Paul. 3 ad Ner., D. 46.1.67: Exceptione, quae tibi prodesse debebat, usus iniuria iudicis damnatus es: nihil tibi praestabitur iure mandati, quia iniuriam, quae tibi facta est, penes te manere quam ad alium transferri aequius est, scilicet si culpa tua iniustae damnationis causam praebuisti. L’esame del passo ha suggerito intanto di attribuire il sintagma ivi presente, aequius est, alla scrittura di Nerazio e non a quella di Paolo, il cui dictum sarebbe visibile proprio a partire da quell’espressione. Il caso, a quanto è dato riscontrare, dimostra un intervento di Paolo volto, come sovente accade, a specificare ulteriormente la fattispecie, talora anche complicandola e fornendo, in ultima istanza, per una parzialmente diversa fattispecie, una nuova disciplina. Si leggano le osservazioni svolte supra: 232 ss.

71

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 72

Marina Frunzio Il procedimento argomentativo del Sepinate rivela una ragionevolezza di fondo che si articola nella logica per cui ‘chi riceve di meno (dall’erede), è corretto (non iniquo) che dia di meno (a Tizio)’135. E la linearità della considerazione evidentemente convince anche Paolo che riferisce, senza tentare alcuna correzione, neppure esplicativa, il responso del collega. Restano, tuttavia, alcuni dubbi per l’interpretazione del passo, potendosi riferire la soluzione del responso a Plauzio dal quale Nerazio l’avrebbe appresa e fatta propria nei suoi libri di responsa. Ma, allo stato, basterà rilevare, ai fini che qui interessano, come Paolo l’accogliesse senza riserve. Veniamo ora a D. 42.1.21: Sicut autem cum marito agitur, ita et cum socero, ut non ultra facultates damnetur. An si cum socero ex promissione dotis agatur, in id136 quod facere potest, damnandus sit? Quod et id aequum esse videtur: sed alio iure utimur, ut et Neratius scribit. Così come quando la moglie agisce contro il marito, alla stessa stregua se si agisce contro il suocero, non si è condannati oltre le proprie possibilità. Se allorquando si agisca contro il suocero sulla base della promessa di dote, ci si chiede, la condanna dovrà rapportarsi all’id quod facere potest? La qual cosa appare equa: ma un’altra disciplina giuridica è adottata, così anche Nerazio scrive.

Nel frammento si fa il caso in cui il padre della sposa sia convenuto in giudizio dallo sposo, in base alla promessa di dote con cui si era impegnato. A parere di Paolo sarebbe equo riconoscergli il beneficium competentiae, consentendogli una condanna rapportata all’id quod facere potest. In tal guisa, conclude il Severiano, si era espresso (scribit) anche Nerazio, sebbene, egli aggiunge, alio iure utimur137. Il primo e più grande problema è, rispetto al passo, quello di stabilire se il termine ‘aequum’ sia stato usato da Nerazio o da Paolo138.

135 Si profila qui la connessione tra utilitas contrahentium e valutazione equitativa che sarà ben presente agli occhi di Giuliano, come ci riferisce il suo allievo Africano, Afr. 8 quaest., D. 47. 2.62.5: Quod vero ad mandati actionem attinet, dubitare se ait, num aeque dicendum sit omni modo damnum praestari debere, et quidem hoc amplius quam in superioribus causis servandum, ut, etiamsi ignoraverit is, qui certum hominem emi mandaverit, furem esse, nihilo minus tamen damnum decidere cogatur. Iustissime enim procuratorem allegare non fuisse se id damnum passurum, si id mandatum non suscepisset: idque evidentius in causa depositi apparere. Nam licet alioquin aequum videatur non oportere cuiquam plus damni per servum evenire, quam quanti ipse servus sit, multo tamen aequius esse nemini officium suum, quod eius, cum quo contraxerit, non etiam sui commodi causa susceperit, damnosum esse, et sicut in superioribus contractibus, venditione locatione pignore, dolum eius, qui sciens reticuerit, puniendum esse dictum sit, ita in his culpam eorum, quorum causa contrahatur, ipsis potius damnosam esse debere. Nam certe mandantis culpam esse, qui talem servum emi sibi mandaverit, et similiter eius qui deponat, quod non fuerit diligentior circa monendum, qualem servum deponeret. L’utilità dei contraenti appare criterio sotteso all’aequitas, chiaramente invocata da Giuliano. Su tali aspetti, Bretone 2020, 323 ss. Il testo è tradotto e commentato in Santucci 2018, 108 s. 136 Itidem: Mo. 137 L’espressione è tradizionalmente avvertita come insiticia: si veda, al riguardo Guarino 1939a, 121 e autori ivi citati. Sullo specifico tipo di condemnatio, Prado Rodríguez 2010, 359 ss., con ulteriore bibliografia. 138 In effetti non si può neppure respingere l’ipotesi che, almeno il tratto da sicut a damnetur, possa rappresentare un lemma plauziano, e che da an a sit il tratto coinvolto rispecchi, invece, una parafrasi paolina al caso presentato da Plauzio, considerato peraltro che il passo, escerpito dal libro 6 del commento di Paolo a Plauzio medesimo, è collocato da Lenel 1889.I, 1156-1157, all’interno del fr. 131, in cui alle vicende maritali, rispetto alla dote promessa, Paolo dedica un’articolata attenzione, dimostrando così che il tema doveva essere stato a sua volta largamente trattato da Plauzio. Si potrebbe al riguardo finanche ipotizzare che Paolo avesse sotto gli occhi il commento di Nerazio a Plauzio.

72

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 73

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo Tuttavia, se non vi sono elementi sicuri per chiarire la paternità del dictum, qualche spiraglio di luce potrebbe forse provenire dalla lettura di un altro passo, sempre di Paolo, Paul. 7 ad Sab., D. 24.3.17pr.: Ex diverso si socer ex promissione a marito conveniatur, solet quaeri, an idem ei honor habendus sit: Neratius libris membranarum et Proculus scribunt hoc iustum esse. Al contrario, ove il suocero sia convenuto dal marito per una promessa (di dote), ci si suole chiedere se gli sia dovuto il medesimo riguardo; Nerazio, nelle membranae, e Proculo scrivono che ciò è giusto.

Secondo quanto riferisce Paolo, Proculo e Nerazio avevano ritenuto ‘iustum’ concedere il beneficium competentiae al suocero convenuto in giudizio, in ragione della promessa dotale139. Nerazio, come si può vedere, qui non sembra aver parlato di aequum, ma di iustum140, circostanza che si presta ad una molteplicità di interpretazioni. L’aggettivo iustum avrebbe potuto essere stato utilizzato da Proculo e quindi accolto da Nerazio; oppure, Proculo si sarebbe espresso usando iustum, ma Nerazio avrebbe reso l’aggettivo in aequum; o anche, ancora, i due termini, nella logica concreta di Nerazio o forse addirittura di Paolo, sarebbero stati, rispetto al caso in questione, avvertiti come sinonimi. Il problema, lo si arguisce, richiederebbe un’analisi assai più accurata di quella che si può svolgere in questa sede, dovendosi, ad esempio, esaminare con attenzione il contesto di D. 24.3.17pr. e la sua derivazione dal libro 7 del commento di Paolo a Sabino. Ma un’ipotesi possiamo provare ad azzardarla. Ci troviamo difatti di fronte ad un dato che non merita di essere sottaciuto: due passi su tre di quelli che coinvolgono Nerazio e Paolo sul terreno dell’interpretazione equitativa, sono tratti dal commento del Severiano a Plauzio. Si tratta di una circostanza che ci spinge a considerare più che ragionevole la possibilità per cui la conclusione al caso esposto in termini di giustizia equitativa fosse stata adottata innanzitutto da Plauzio e forse, se diamo rilievo anche a quanto si riporta in D. 24.3.27pr., sulla base di un precedente parere di Proculo. Plauzio è letto e commentato da Nerazio e Paolo legge e commenta sia Nerazio che Plauzio, dunque non può stupire che attraverso questa catena di saperi la soluzione proculiana sia stata efficacemente tramandata. Più difficile è stabilire chi abbia parlato di aequum, chi di non iniquum, chi di iustum: comprendere i nodi esatti di tale tradizione è pressoché impossibile, sebbene il significato sostanziale, e non solo formale, dei tre sintagmi li riferisca ad una medesima giustificazione di fondo, incentrata su una valutazione in termini di giustizia del caso concreto, espressione di un intento volto a bilanciare gli interessi in gioco. Oltre a ciò, possiamo rilevare che la concessione del beneficium aveva trovato concordi sia Nerazio che Paolo, col

139

In argomento, Guarino 1939a, 154 ss. e, più di recente, Wacke 2010, 447 ss. Sul significato di iustum e del sostantivo iustitia, anche in riferimento all’aequitas, rinviamo a Finkenauer 2014, 287 ss. L’autore ritiene che la iustitia si configuri come concetto assai più ampio e articolato di quello di aequitas, una sorta di aequitas totius rei. In base alla lettura di Tryph. 9 disp., D. 16.3.31.1 e di Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.14.13, egli giunge ad affermare, 299 s.: “In dieser Perspektive ist die iustitia der einfachen aequitas übergeordnet, wie es auch eine berühmte Allegorie der frühen Glossatorenzeit will: Die Göttin Iustitia thront, umgeben von ihren sechs Töchtern Religio, Pietas, Gratia, Vindicatio, Observantia und Veritas, im ihrem Tempel, die Aequitas, ihr Lieblingskind, im Arm haltend, gleich der Himmelskönigin mit sechs Engeln und dem Jesuskind”. In tema si leggano inoltre, Falcone 2007-2008, 133 ss. e Varvaro 2017, 594 ss. 140

73

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 74

Marina Frunzio che si dimostra l’esistenza di una comune sensibilità nell’accogliere soluzioni di equilibrio, ricercate, innanzitutto, all’interno del sistema di valori giuridici che Nerazio prova a rendere stabile e a cui Paolo guarda come un patrimonio di canoni ermeneutici ancora vivi. Peraltro, vieppiù complessi dovevano essere gli itinerari dell’aequitas che da Paolo risalivano all’indietro nella storia del pensiero giuridico, ove si pensi, da un lato, ancora, al rapporto che, indubitabilmente, si è visto in più di un’occasione legare il giurista a Plauzio e, dall’altro, all’importante sua vicinanza scientifica con Labeone, sulla quale pure ci si è soffermati in più luoghi del presente studio. Due esempi appaiono particolarmente calzanti ad illuminare, in via definitiva, il valore di tali nessi scientifici e il loro contributo alla costruzione della visione del ius in Paolo. Paul. 17 ad Plaut., D. 12.6.65.4: Quod ob rem datur, ex bono et aequo habet repetitionem: veluti si dem tibi, ut aliquid facias, nec feceris. Ciò che viene dato per un risultato ammette la ripetizione in base ad una valutazione fondata sul buono ed equo, come, ad esempio, se ti ho dato qualcosa affinché tu faccia una cosa e tu non l’abbia fatta.

Il frammento riteniamo che rifletta, nel tratto iniziale, da quod a repetitionem una regula che Paolo aveva tratta dall’opera di Plauzio, per cui la ripetizione sarebbe stata consentita alla luce dell’equità; di lì in poi, l’esempio di Paolo, che, accogliendo la regola plauziana, la declinava all’interno di un più ampio e generale schema di dare-facere e non facere. E prendiamo in esame poi, Paul. 49 ad ed., D. 39.3.2.6: Apud Namusam relatum est, si aqua fluens iter suum stercore obstruxerit et ex restagnatione superiori agro noceat, posse cum inferiore agi, ut sinat purgari: hanc enim actionem non tantum de operibus esse utilem manu factis, verum etiam in omnibus, quae non secundum voluntatem sint. Labeo contra Namusam probat: ait enim naturam agri ipsam a se mutari posse et ideo, cum per se natura agri fuerit mutata, aequo animo unumquemque ferre debere, sive melior sive deterior eius condicio facta sit. Idcirco et si terrae motu aut tempestatis magnitudine soli causa mutata sit, neminem cogi posse, ut sinat in pristinam locum condicionem redigi. Sed nos etiam in hunc casum aequitatem admisimus. Namusa riteneva che se l’alveo di un’acqua corrente rimase ostruito dal letame e pertanto l’acqua, ristagnando, avesse prodotto un danno al fondo superiore, si può agire contro il proprietario del fondo inferiore affinché permetta che si purghi l’alveo; poiché detta azione giova non tanto per i lavori manufatti, ma anche per quelli che non si sono determinati a causa della volontà di qualcuno. Labeone sostiene un parere opposto a quello di Namusa, infatti afferma che la natura del terreno può mutarsi da sé e perciò quando la natura si trasforma da sé, ognuno deve sopportarlo aequo animo, sia che la mutazione sia consistita in una miglioria, sia che abbia determinato un peggioramento; d’altronde anche se la condizione del suolo mutò in seguito ad un terremoto o per la violenza di una tempesta, nessuno può essere costretto al ripristino dello stato dei luoghi. Noi anche in questa ipotesi sosteniamo una soluzione fondata sull’equità.

Sulle orme di Labeone, Paolo sostiene che, ove la natura del fondo cambi senza che sia ravvisabile un’attività proveniente dal fondo vicino, il proprietario dovrà sopportare l’eventuale danno aequo animo. Anche laddove un evento naturale come un terremoto o una tempesta violenta alterino lo stato dei luoghi, non può imputarsi ad alcuno l’onere del ripristino ed 74

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 75

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo anche in questo caso, conclude Paolo, aequitatem admisimus. Il ricorso all’equità vale nella mente del Severiano a giustificare l’inevitabilità del danno che il proprietario dovrà subire, essendo palesemente iniquo far ricadere su qualcuno il peso delle conseguenze di un evento che egli non ha contribuito a realizzare141. Ma al di là della soluzione, del tutto logica ed in linea con l’elaborazione del caso fortuito e della forza maggiore142, resta la sostanziale e persistente vicinanza di Paolo ad un mondo di valori, che, pur non essendo nei fatti più attuale, tuttavia egli riesce ancora a disegnare in un armonico quadro di voci e categorie. Finanche l’universo di Labeone143, incentrato sulla “valutazione tecnica degli equilibri degli interessi in gioco”144 è colto nella sua essenza da Paolo e vissuto senza trascurare l’impianto etico dei “comportamenti umani e gli ideali stoici”145 che Labeone stesso verisimilmente aveva reso criteri dotati di una loro forza giuridica. Ci conforta in questo il giudizio complessivo su Paolo come emerge dagli studi di Antonio Mantello, che rinviene nell’opera del giurista “risonanze di tradizione stoica”146, chiaramente emergenti, ad esempio, da Paul. 14 ad Sab., D. 1.1.11. Ma più in generale, il ricorso da parte del giurista a valori etico-sociali, non pare oggi essere messo in dubbio da parte della letteratura romanistica147. Sono i medesimi ideali che già aleggiano nel ius neraziano, quel ius finitum dai confini precisi entro i quali soltanto il giurista può distendere la propria attività ermeneutica, recuperando i valori fondanti della tradizione148 a salvaguardia della proprietà, innanzitutto, e dunque di una concreta attuazione della giustizia distributiva149.

141 Sul passo cfr. Sitzia 1999, 13 ss.; Kacprzak 2007, 271 ss.; Mantello 2007, 220 ss. A giudizio di Gerkens 1995, 11 ss., il contrasto tra Namusa e Labeone sarebbe stato noto a Paolo e i compilatori, avendolo appreso, avrebbero inserito l’espressione ‘sed nos etiam in hunc casum aequitatem admisimus’ per superare l’opinione eccessivamente restrittiva di Labeone. Contro la radicale proposta interpretativa del Gerkens si possono leggere le argomentate osservazioni di Mantello 2007, 221 s. che reputa le considerazioni dello studioso sul punto, 221, in termini di “devastazioni”. 142 Su cui, Solidoro Maruotti 2013, 89. 143 Un universo permeato di etica è quello labeoniano a giudizio di Bretone 2010, 337. Dello stesso autore, 2007, 249 ss. Osservazioni preziose anche in Bretone 2006, 338 ss. e Bretone 2020, 333 ss. 144 Vacca 2006b, 38 nt. 55. 145 Solidoro Maruotti 2013, 85. 146 Mantello 1997, 614. 147 Cfr., Solidoro Maruotti 2013, 103. Ma anche Nörr 2007, 552 ss., con particolare attenzione a Paul. 33 ad ed., D. 18.1.34.1-2 e a Paul. 72 ad ed., D. 45.1.83.5. Osserva conclusivamente Mantello 1991-1992, 390 s.: “Con il suo prammatismo, Paolo non rinchiude l’aequum ac bonum (da lui «universalizzato» nel brano di D. 1,1,11) dentro una torre d’avorio. Ne riconosce piuttosto la supremazia e l’importanza per il contingente e il relativo, del quale sottolinea tuttavia (e con molto realismo) il carattere non di per sé equo e giusto…”. 148 Vale tuttavia qui più che altrove l’ammonimento di Talamanca 2006, 61: “I romani praticavano l’ «equità» – un’aequitas però non iperurania e lontana dall’uomo, bensì solidamente e realisticamente agganciata alle strutture ed ai valori correnti nella società –, ma non erano tanto preoccupati delle sovrastrutture ideologiche e concettuali…”. Di recente Lovato 2019, 217, in seguito ad un accurato esame di Pap. 11 quaest., D. 37.12.5pr., osserva: “Il testo sembra riflettere una visione della pietas in ambito familiare in grado di porsi come valore etico centrale, tanto da derogare alla disciplina della successione iure honorario. In tale concezione, in cui è forse possibile scorgere l’influsso del pensiero filosofico di Seneca, convivono atteggiamenti conservatori e spunti innovativi: da un lato la difesa dell’assetto tradizionale della famiglia romana, dall’altro una configurazione etica della patria potestas che impegna il pater nella consapevolezza del proprio ruolo e dei propri doveri verso il figlio”. Si veda pure Lovato 2020, spec. 548 ss. 149 L’equità si configura, tra Repubblica e Principato, come una ‘clausola generale’ dell’ordinamento: Talamanca 2003a, 311. Cfr., pure Vacca 2006b, 31. La summa del pensiero paolino, in chiave ‘universalizzante’ per dirla con Mantello 1991-1992, 349 ss., può forse intravvedersi in Paul. 14 ad Sab., D. 1.1.11: Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale. Altero modo, quod omnibus aut pluribus

75

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 76

Paolo Ferretti 7. Possessio e animus Sempre in ordine alla ineludibile domanda sull’interesse che abbia mosso Paolo verso l’opera del predecessore, un ruolo significativo va a nostro avviso individuato nella profonda convergenza verso alcune aree del diritto, approcciate con la comune intenzione di rinvenire soluzioni innovative, benché queste talvolta appaiano diverse nella linea interpretativa seguita. Iniziamo dal possesso. In particolare, i due giuristi sembrano dedicare una specifica attenzione agli aspetti legati alla ‘sfera soggettiva’ – animus – di questo istituto150. In ordine al sorgere della possessio, benché Gaio151 ricordi che questa può avvenire tramite noi e tramite altri, ma non animo – ossia attraverso modalità che prescindono dalla apprensione corporale della cosa –, è nota la posizione di alcuni giuristi di scuola proculiana152, i quali cercano di introdurre qualche eccezione alla regola, almeno per quanto concerne i beni la cui asportazione si dimostra complessa a causa della loro natura, del loro peso o del loro numero153. Anche Nerazio sembra aderire a posizioni tendenti a valorizzare maggiormente l’animus in relazione all’acquisto del tesoro. Il suo pensiero viene riferito da Paolo in un testo assai conosciuto: Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.3: Neratius et Proculus et solo animo non posse nos adquirere possessionem, si non antecedat naturalis possessio. ideoque si thensaurum in fundo meo positum sciam, continuo me

in quaque civitate utile est, ut est ius civile. Nec minus ius recte appellatur in civitate nostra ius honorarium. Praetor quoque ius reddere dicitur etiam cum inique decernit, relatione scilicet facta non ad id quod ita praetor fecit, sed ad illud quod praetorem facere convenit. Alia significatione ius dicitur locus in quo ius redditur, appellatione collata ab eo quod fit in eo ubi fit. Quem locum determinare hoc modo possumus: ubicumque praetor salva maiestate imperii sui salvoque more maiorum ius dicere constituit, is locus recte ius appellatur. È importante riportare la traduzione del passo per una sua più agile comprensione: “Il ‘ius’ può dirsi in più modi: in un modo, quando si dice ‘ius’ ci si riferisce a quel che è sempre buono ed equo, come è il diritto naturale; in altro modo, si dice ‘ius’ ciò che è utile a tutti o ai più in ciascuna città, come è il diritto civile; né meno correttamente viene detto ‘ius’, nella nostra città, il diritto onorario. Del pretore, si dice, perfino, che ‘rende diritto’ anche quando decide iniquamente, in relazione, s’intende, non a ciò che il pretore abbia fatto, ma a ciò che conviene che il pretore faccia. In altra accezione è detto ‘ius’ il luogo in cui il diritto viene reso, con una denominazione derivata da ciò che si fa al luogo in cui si fa; questo luogo può essere definito così: dovunque il pretore, fatta salva la maestà del suo imperio e fatto salvo il costume dei nostri antenati, abbia stabilito di dire il diritto, questo luogo rettamente si chiama ius”. Il buono e l’equo, accostati adesso al ius naturale, descrivono, per Paolo il ius, ne rappresentano l’intima voce che il giurista ascolta e piega alle sue finalità. E nel riannodare quegli antichi tessuti, riadatta la scienza giuridica del suo tempo, estende, oggettivizza l’aequitas che lentamente andrà a costituire, espressione, essa, delle consolidate categorie giuridiche, “un formidabile supporto dello ius scriptum” (Solidoro Maruotti 2013, 106). 150 Sul concetto di animo possidere, segnaliamo in particolare gli originali studi di Hagerström 1927, 141 ss.; Olivecrona 1938-1949, 52 ss. (su cui si veda la recensione di Burdese 1950a, 5 ss.); Cannata 1960, 71 ss.; Cannata 1961, 46 ss.; Zamorani 1977, 1 ss.; Lambrini 1998; Lambrini 2015a, 155 ss.; Lambrini 2015b; Ferretti 2017, con altra bibliografia. 151 Gai. 2.89-90; 2.94-95; 4.153 152 Cfr., ad esempio, Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.3; Iav. 5 ex post. Lab., in D. 41.2.51. Sulla propensione dei proculiani a valorizzare l’elemento soggettivo, si vedano, ad esempio, Cannata 1960, 71 ss.; Zamorani 1977, 44 ss. e nt. 1. Più in generale, sugli orientamenti delle due scuole, si vedano, tra gli altri, Baviera 1898; Baviera 1909, 109 ss.; Stein 1972, 8 ss.; Falchi 1981; Scacchetti 1984, 390 ss.; Stein 1996, 1 ss.; Cannata 1998, 433 ss.; Cannata 2002, 53 ss.; Stein 2003, 299 ss.; Bretone 2020, 256 ss. 153 Cfr., ad esempio, Iav. 5 ex post. Lab., D. 41.2.51, in cui Labeone ammette la possibilità di acquistare il possesso animo per le cataste di legna e per le anfore di vino.

76

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 77

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo possidere, simul atque possidendi affectum habuero, quia quod desit naturali possessioni, id animus implet. ceterum quod Brutus et Manilius putant eum, qui fundum longa possessione cepit, etiam thensaurum cepisse, quamvis nesciat in fundo esse, non est verum: is enim qui nescit non possidet thensaurum, quamvis fundum possideat. sed et si sciat, non capiet longa possessione, quia scit alienum esse. quidam putant Sabini sententiam veriorem esse nec alias eum qui scit possidere, nisi si loco motus sit, quia non sit sub custodia nostra: quibus consentio. Nerazio e Proculo (affermano che) non possiamo acquistare il possesso solo con la volontà se prima non ci sia il possesso materiale. Per cui, se io so che vi è un tesoro nel mio fondo, affermano che lo possiedo immediatamente, non appena avrò avuto la disposizione d’animo di possederlo, poiché ciò che manca al possesso materiale (per essere possesso) lo completa la volontà. Peraltro ciò che ritengono Bruto e Manilio, e cioè che chi usucapì un fondo usucapì anche il tesoro, non è vero: infatti colui che ignora non possiede il tesoro, benché possieda il fondo. Ma anche se sa dell’esistenza del tesoro, non lo usucapirà, poiché sa che è cosa altrui. Taluni ritengono che sia più corretta l’opinione di Sabino e che colui che sa dell’esistenza del tesoro lo possiede solamente se il tesoro sia stato rimosso dal luogo in cui si trova, poiché fino ad allora non si trova sotto la nostra custodia: io concordo con questi.

È verosimile che la parte iniziale, come molti studiosi hanno segnalato154, sia stata oggetto di vari interventi che ne hanno modificato la sostanza originaria, non limitandosi a qualche isolato termine155, ma coinvolgendo l’intero primo periodo156. Nel testo si legge che Nerazio e Proculo subordinano l’acquisto solo animo del possesso al fatto che si sia già attuata la naturalis possessio del bene. Continuando nella lettura, viene introdotto l’esempio del tesoro: ‘pertanto se io so che un tesoro si trova nel mio fondo, inizio a possederlo non appena avrò la volontà di possederlo, poiché l’animus integra ciò che manca ad ottenere la fisica disponibilità della cosa’157.

154 Si vedano, a mero titolo esemplificativo (v. anche nota successiva), Kübler 1890, 51, il quale suggerisce di sopprimere il non dopo solo animo e di mutare i successivi si non in etsi; Albertario 1923a, 85 nt. 1, che ritiene non genuina la frase simul atque possidendi affectum habuero; Beseler 1924, 374; Beseler 1929, 94 s.; Appleton 1930, 10 s.; Zamorani 1977, 181 ss. 155 Pensiamo, ad esempio, all’esordio, in cui è stato proposto di inserire Nerva in luogo di Neratius (tra gli altri, Kniep 1886, 165; Rotondi 1920, 108; Bonfante 1972, 302; Albanese 1985, 39 nt. 130), in quanto è più verosimile che innanzi a Proculo fosse nominato il caposcuola e predecessore (Bonfante 1972, 302), oppure di aggiungere Labeo (Cannata 2001, 196) o ille (Beseler 1929, 94); ancora all’et (l’et risulta presente in F1, mentre non è riprodotto in F2) successivo a Proculus, da alcuni conservato e fatto seguire da Nerva (Cannata 1960, 78 nt. 14), da altri trasformato in at, che rimanda alla forma verbale aiunt (Pescani 1962, 609; Zamorani 1977, 181 nt. 1), da reputare altrimenti implicita; pensiamo, infine, al termine solus, espunto da qualche autore (Möhler 1960, 63). 156 Fino a naturalis possessio. 157 Questa frase è ritenuta insiticia, tra gli altri, da Perozzi 1928, 846 nt. 1; Cannata 1960, 78 s.; Metro 1966, 64 nt. 141. Hausmaninger 1972, 115 s., nota una antinomia tra la frase in questione e quella iniziale, in cui si legge solo animo non posse nos adquirere possessionem si non antecedat naturalis possessio; lo studioso, pur preferendo eliminare il non (solo animo [non] posse nos adquirere possessionem), avanza anche l’ipotesi che le due frasi abbiano un oggetto differente: non si sarebbe potuto ottenere solo animo il possesso del tesoro, a meno che non fosse preceduta la naturalis possessio del fondo.

77

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 78

Paolo Ferretti Benché non sia escluso un rimaneggiamento più incisivo, soprattutto della frase d’esordio158, ci sembra che quest’ultima proposizione possa rimandare al fatto che Proculo e Nerazio, appurato il fatto che l’apprensione corporale del bene non si è del tutto realizzata159, ricorrano all’animus per determinare il sorgere della fattispecie possessoria. In altri termini, attraverso l’animus i giuristi avrebbero colmato il fatto che la possessio naturalis non sarebbe stata ancora ‘completa’. Segue l’opinione di Bruto e Manilio – putant eum, qui fundum longa possessione cepit, etiam thensaurum cepisse160 – e poi quella di Sabino, secondo cui il possesso sorge soltanto nel momento in cui la cosa viene rimossa ed entra sub custodia nostra. Paolo si schiera con quest’ultima opinione, correggendo in parte Nerazio, la cui posizione è forse ritenuta eccessivamente ardita e non in linea con i canoni interpretativi nel frattempo consolidatisi. Infatti, mentre Nerazio accetta una possessio naturalis ‘imperfetta’161, se accompagnata all’animus, il giurista severiano richiede l’effettiva custodia e questa regola ribadisce con decisione in più luoghi della sua opera: per acquistare il possesso sono necessari tanto l’animus162 quanto il corpus163. Si legga: Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.1.6: Et apiscimur possessionem corpore et animo, neque per se animo aut per se corpore… 6 ... igitur amitti et animo solo potest, quamvis adquiri non potest. Ed acquistiamo il possesso col corpo e con la volontà, né solo con la volontà o solo col corpo… 6 Dunque, il possesso può perdersi solo con la volontà, benché solo con la volontà non si possa acquistare.

158 In ordine alla prima frase, ricordiamo la ricostruzione di Bremer 1898-1901.II.2, 351: Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.3: Neratius et Proculus et solo animo [non] posse nos adquirere possessionem si non antecedat naturalis possessio… – Nerazio e Proculo (affermano che) possiamo acquistare il possesso solo con la volontà anche se prima non ci sia il possesso materiale…; e quella di Zamorani 1977, 192: Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.3: Neratius et Proculus [et] solo animo [non] posse nos adquirere possessionem [si non antecedat naturalis possessio] … – Nerazio e Proculo (affermano che) possiamo acquistare il possesso solo con la volontà… Sulla base di queste ricostruzioni, l’esempio successivo dovrebbe essere inteso nel seguente modo: nel momento in cui un tesoro viene rinvenuto – e quindi la sua reale esistenza è appurata –, non è necessario attendere la materiale apprensione (per la quale potrebbero occorrere anche alcuni giorni per portare alla luce, tramite opere di scavo, un bene che si trova a qualche metro di profondità) per acquistarne il possesso, potendo questo avvenire animo. Questa interpretazione è stata da noi condivisa in Ferretti 2017, 42 ss. 159 Cfr., ad esempio, Marrone 1957, 294 nt. 25; Mac Cormack 1967, 51 ss.; MacCormack 1969, 112 s.; Bonfante 1972, 302; Burdese 1985, 458, il quale pensa che i due giuristi intravvedessero la naturalis possessio nell’esistenza della cosa nel fondo posseduto. 160 Bruto e Manilio pensavano che l’usucapione del fondo comportasse l’usucapione del tesoro, anche nel caso in cui se ne ignorasse l’esistenza. Questi giuristi, pertanto, concependo il tesoro come una sorta di parte del fondo, ne condizionavano l’acquisizione del possesso all’acquisizione del possesso del fondo stesso. Su questa opinione, si vedano, ad esempio, Huvelin 1915, 273 ss.; Lauria 1955, 22 s.; Bonfante 1972, 244. Per un ulteriore approfondimento, rimandiamo, per tutti, a Mayer-Maly 1962a, 105 ss.; Watson 1968, 55 ss. 161 Sul punto, Bonfante 1972, 302, ritenendo il tesoro nella sfera d’azione del possessore, pensa che la possessio corpore, benché imperfetta (deest aliquid), non sia del tutto assente e, dunque, preceda. 162 Sull’impossibilità di acquistare il possesso soltanto tramite l’animus, si legga anche Gai. 4.153; Pap. 23 quaest., D. 41.2.44.1. In argomento, cfr., da ultimo, Brutti 2020, 48 s. 163 Pertanto, attingendo alla ricca esposizione paolina, è necessario entrare nel fondo (Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.1), rimuovere il tesoro (Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.3), catturare l’animale selvatico (Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1.1; Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.14-15), raccogliere le pietre preziose ritrovate sul lido del mare, ‘contrettare’ la cosa altrui ricevuta in deposito (Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.18).

78

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 79

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo Paul. 65 ad ed., D. 41.2.8: Quemadmodum nulla possessio adquiri nisi animo et corpore potest… Non si può acquistare il possesso se non attraverso la volontà e il corpo… Paul. 65 ad ed., D. 50.17.153: … ut igitur nulla possessio adquiri nisi animo et corpore potest… … pertanto non si può acquistare il possesso se non attraverso la volontà e il corpo… PS. 5.2.1: Possessionem adquirimus et animo et corpore: animo utique nostro, corpore vel nostro vel alieno. Sed nudo animo adipisci quidem possessionem non possumus… Acquistiamo il possesso sia con la volontà sia con il corpo: la volontà è in ogni caso nostra, il corpo è sia nostro sia altrui. Ma con la sola volontà certo non possiamo acquistare il possesso…

Per il sorgere del possesso è necessaria dunque la convergenza dei due elementi: nulla possessio nisi animo et corpore, scrive Paolo. Detto dell’acquisto, veniamo ora al mantenimento della possessio, tema sul quale Nerazio e Paolo continuano ad incrociarsi. In argomento, è noto che la giurisprudenza romana è favorevole alla conservazione del possesso solo animo. Iniziamo dalla lettura di un testo di Paolo (Paul. 54 ad ed., D. 41.2.7), testo che Otto Lenel164 attribuisce anche a Nerazio, aggiungendo tra parentesi quadre il passo ulpianeo che lo precede nel Digesto (Ulp. 70 ad ed., D. 41.2.6.1): 179. Paul. 54 ad ed. [Qui ad nundinas profectus neminem reliquerit et, dum ille a nundinis redit, aliquis occupaverit possessionem, videri eum clam possidere Labeo scribit: retinet ergo possessionem is, qui ad nundinas abit: verum si revertentem dominum non admiserit165…]166 Sed et si nolit in fundum reverti, quod vim maiorem vereatur, amisisse possessionem videbitur: et ita Neratius quoque scribit. [(Se) uno, andato al mercato, non avrà lasciato nessun (custode) e, mentre egli torna dal mercato, qualcuno avrà occupato il possesso, Labeone scrive che costui sembra possedere clandestinamente: quindi, chi va al mercato conserva il possesso: ma se non avrà ammesso nel possesso il proprietario che ritorna…] ma anche se non voglia ritornare sul fondo perché teme che l’occupante sia più forte, sembrerà avere perduto il possesso: e così scrive anche Nerazio.

Da Ulpiano167 si comprende la fattispecie: un individuo si reca al mercato senza lasciare intermediari sul proprio immobile, che nel frattempo viene occupato da un altro. Quest’ultimo, secondo Labeone, sembra possedere clam. Segue un inciso di non facile comprensione168, in cui si legge che conserva il possesso chi va al mercato. Infine, si accenna all’ipotesi in cui l’occupante impedisca l’accesso al proprietario che ritorna.

164

Lenel 1889.I, 785 s. Ulp. 70 ad ed., D. 41.2.6.1. 166 Paul. 54 ad ed., D. 41.2.7. 167 Opportuna anche la lettura di Ulp. 70 ad ed., D. 41.2.6pr.: Clam possidere eum dicimus, qui furtive ingressus est possessionem ignorante eo, quem sibi controversiam facturum suspicabatur et, ne faceret, timebat. is autem qui, cum possideret non clam, se celavit, in ea causa est, ut non videatur clam possidere: non enim ratio optinendae possessionis, sed origo nanciscendae exquirenda est: nec quemquam clam possidere incipere, qui sciente aut volente eo, ad quem ea res pertinet, aut aliqua ratione bonae fidei possessionem nanciscitur. itaque, inquit Pomponius, clam nanciscitur possessionem, qui futuram controversiam metuens ignorante eo, quem metuit, furtive in possessionem ingreditur. 168 Su questo, cfr., da ultimo e con altra bibliografia, Ferretti 2017, 179 ss. 165

79

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 80

Paolo Ferretti In questo punto si interrompe il testo ulpianeo169 e inizia quello paolino, in cui viene introdotta una seconda variante, secondo cui il dominus, allontanatosi dall’immobile, decide di non fare ritorno per timore di essere respinto: anche in questo caso il proprietario perde il possesso et ita Neratius quoque scribit. Entrambi i passi fanno riferimento alla regola della conservazione animo del possesso, regola che, come è noto, è stata verosimilmente elaborata da Proculo170, a cui appartiene il più risalente riferimento all’animus171. Tuttavia, cosa comportasse retinere animo possessionem non è facile dire. In particolare, non è chiaro se già con Proculo la regola prevedesse la conservazione del possesso nonostante un terzo avesse invaso il fondo. Su questo importante aspetto, sappiamo dal testo paolino appena visto che Nerazio si era pronunciato – non sappiamo se aderendo ad un indirizzo già presente172 o avanzando per primo la regola –, suggerendo che il possesso fosse conservato, almeno fino al momento in cui il proprietario avesse deciso di non ritornare sul fondo per timore di essere scacciato dall’invasore, più forte o meglio organizzato. Vale la pena riproporlo: Paul. 54 ad ed., D. 41.2.7: Sed et si nolit in fundum reverti, quod vim maiorem vereatur, amisisse possessionem videbitur: et ita Neratius quoque scribit. Ma anche se non voglia ritornare sul fondo perché teme che l’occupante sia più forte, sembrerà avere perduto il possesso: e così scrive anche Nerazio.

Sul punto, anche Pomponio173 interviene, riportando entrambe le varianti: Pomp. 23 ad Q. M., D. 41.2.25.2174: Quod autem solo animo possidemus, quaeritur, utrumne usque eo possideamus, donec alius corpore ingressus sit, ut potior sit illius corporalis possessio, an vero (quod

169 Il passo termina in questo modo: vi magis intellegi possidere, non clam. Riportiamo nella sua interezza Ulp. 70 ad ed., D. 41.2.6.1: Qui ad nundinas profectus neminem reliquerit et, dum ille a nundinis redit, aliquis occupaverit possessionem, videri eum clam possidere Labeo scribit: retinet ergo possessionem is, qui ad nundinas abit: verum si revertentem dominum non admiserit, vi magis intellegi possidere, non clam. 170 Cfr., tra gli altri, Alibrandi 1871, 226; Kniep 1886, 112; Riccobono 1893b, 267; Rotondi 1920, 117; Perozzi 1928, 844 nt. 7; Riccobono 1946, 63 s.; Dekkers 1953, 162; Kaser 1956, 328 nt. 30; Möhler 1960, 62 nt. 55 e 85, che tuttavia dubita che già Proculo prevedesse che il proprietario conservasse il possesso del bene una volta saputo che un terzo aveva occupato il fondo (p. 85 nt. 165 e nt. 166); Cannata 1960, 74 ss.; Bozza 1964, 81; Maschi 1966, 495 e 497; Burdese 1971, 402 s.; Thomas 1976, 145 s.; Zamorani 1977, 30 s. e 30 nt. 3; Solidoro Maruotti 1989, 126 ss.; Barton 1989, 51; Lambrini 1998, 104. Contra, da ultimo, D’Angelo 2007, 41 ss. e nt. 65. 171 Proc. 5 epist., D. 41.2.27. Cfr. anche Ulp. 69 ad ed., D. 43.16.1.25. 172 In argomento, Zamorani 1977, 44 nt. 1, pensa che l’arditezza della dottrina di Proculo consistesse proprio nel fatto di ammettere la conservazione del possesso del fondo da parte del titolare, nonostante un terzo fosse entrato nel fondo. 173 Al passo di Pomponio possiamo affiancare Gai. 4.153: … Quin etiam plerique putant animo quoque retineri possessio neque nostro nomine alius, tamen si non relinquendae possessionis animo, sed postea reversuri inde discesserimus, retinere possessionem videamur… 174 Nonostante le numerose proposte di censura (forse i maggiori sospetti sono stati avanzati da Möhler 1960, 64 nt. 66), il testo, quantomeno nella sostanza, è ritenuto genuino. Tra le proposte ora accennate (cfr. Index Interpolationum, III, 188 s.), suggerisce di mutare il quasi in quidem Riccobono 1893a, 231; Riccobono 1893b, 266 nt. 17; altri, ancora, hanno pensato che il periodo finale fosse più esteso di quanto ci è pervenuto:

80

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 81

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo quasi magis probatur)175 usque eo possideamus, donec revertentes nos aliquis repellat aut nos ita animo desinamus possidere, quod suspicemur repelli nos posse ab eo, qui ingressus sit in possessionem: et videtur utilius esse. Ci si pone poi il quesito se ciò che possediamo con la sola volontà noi lo possediamo fino a che un altro non vi sia materialmente entrato, sicché prevalga il suo possesso materiale, oppure (cosa che sembra più probabile) se lo possediamo fino a che qualcuno non ci respinga mentre ritorniamo, oppure noi cessiamo di possedere con la volontà, perché sospettiamo di poter essere respinti da colui che è entrato nel possesso: e ciò sembra più utile.

Il giurista, a proposito della regola del mantenimento animo del possesso – regola che pare avere il generale consenso176 – informa di una disputa177 circa il momento in cui si verifica la perdita di una possessio conservata animo. Alcuni giuristi, infatti, fanno coincidere la perdita della possessio con l’entrata di un terzo nel fondo178, mentre altri la individuano in un momento successivo, ossia quando il proprietario, tornato sull’immobile, venga scacciato dall’invasore, oppure quando il medesimo proprietario decida di non fare ritorno sul bene per timore dell’occupante. Balza agli occhi che l’ultima ipotesi menzionata da Pomponio coincide con quella di Nerazio, richiamato in Paul. 54 ad ed., D. 41.2.7. Infine, sempre Paolo, nel libro 54 ad edictum, ribadisce la regola:

Rotondi 1920, 133; Carcaterra 1938, 95; Cannata 1960, 87 s., il quale ritiene oggetto di interpolazione il termine ‘corpore’, nonché le frasi ut potior sit illius corporalis possessio e et videtur utilius esse; analogamente Bozza 1964, 40 s.; Burdese 1971, 393; altri studiosi, infine, hanno individuato nella frase quod quasi magis probatur un glossema o un’interpolazione: Kniep 1900, 296 s.; Rabel 1936, 215; Wieacker 1953, 186 nt. 11; Solidoro Maruotti 1989, 134 nt. 189. Infine, sulla possibilità di leggere Quinto Mucio in luogo di quasi magis, si veda la nota seguente. 175 Van de Water (la congettura è comunicata da Schulting 1828, 396), supponendo un errore di scioglimento della sigla Q. M. ad opera di un amanuense, modifica il quod quasi magis probatur in quod Quinto Mucio probatur. La congettura è accettata, da ultimo, da D’Angelo 2007, 18 nt. 15, con altra letteratura. Sul punto, scettico si mostra Cannata 1960, 88, per la difficoltà a riconoscere che già Quinto Mucio conoscesse la possessio animo retenta (alla nota 44 avanza l’ipotesi che Quinto Mucio potesse risolvere in tale modo il caso, ma attraverso una diversa terminologia). 176 Secondo quanto riferisce Gaio (Gai. 4.153), invece, non tutti i giuristi concordavano sulla regola della conservazione animo del possesso. Tuttavia, la maggior parte di essi riteneva che il titolare mantenesse il possesso se si fosse allontanato dall’immobile con l’intenzione di non abbandonarlo, ma di farvi ritorno. 177 Pomponio non offre informazioni sui giuristi coinvolti nella controversia. Molte le ipotesi sull’arco temporale dalla medesima abbracciato: ad esempio, alcuni studiosi fanno risalire la seconda opinione a Pomponio stesso (Wieacker 1953, 186 ss. e nt. 11; Bozza 1964, 102 s.), altri a Giuliano (Rabel 1936, 212 ss.), altri ancora a Nerazio (Rascio 1888, 114 s.; Riccobono 1893a, 233), altri infine a Proculo (Rotondi 1920, 136 s.; MacCormack 1969, 121 ss.; Burdese 1984, 760 ss.; Solidoro Maruotti 1989, 126 ss.) o a Labeone (Pininski 1888, 105 nt. 1), se non a Quinto Mucio. 178 All’interno di questo indirizzo giurisprudenziale, Solidoro Maruotti 1989, 134 s., pensa che figurasse Sabino, il quale si sarebbe opposto alla teoria proculiana, la quale avrebbe assegnato al dominus, ancora possessore, la tutela dell’interdictum uti possidetis (al quale farebbero riferimento alcuni passi di Frontino, dall’autrice citati a p. 129 s.: 34.22-25; 33.26-34.5; 34.9-12; 34.18-21 [Thulin]). Al contrario, Sabino avrebbe concesso al dominus, allontanatosi dall’immobile, la possessio ad usucapionem, con il riconoscimento dell’exceptio vitiosae possessionis, da opporre all’interdictum uti possidetis dell’occupante, e dell’interdictum unde vi, nel caso in cui lo stesso dominus fosse stato respinto con la deiectio dal medesimo occupante (a questi rimedi, si sarebbe poi aggiunta l’actio furti contro l’invasore clandestino).

81

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 82

Paolo Ferretti Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.7-8: Sed et si animo solo possideas, licet alius in fundo sit, adhuc tamen possides. 8 Si quis nuntiet domum a latronibus occupatam et dominus timore conterritus noluerit accedere, amisisse eum possessionem placet... Ma anche se tu possiedi solo con la volontà, anche se un altro si trovi nel fondo, possiedi tuttavia ancora tu. 8 Se qualcuno faccia sapere che una casa è stata occupata da malfattori e il proprietario impaurito non vi voglia entrare, è chiaro che egli ha perduto il possesso…

Dunque, a conclusione di questa breve rassegna di passi, ci sembra di poter scorgere un nesso, un filo che lega il sapere di Nerazio e quello di Paolo sulla tematica possessoria. In particolare, entrambi si dimostrano assai attenti all’aspetto psicologico del fenomeno – animus –, tanto nella fase iniziale del suo sorgere che in quella successiva della sua conservazione. In merito al perfezionarsi della possessio, Nerazio pare forse assumere una posizione più ‘ardita’, accettando che l’animus completi una possessio naturalis non ancora del tutto ‘perfetta’, mentre Paolo è fermo nel ribadire la necessità dell’effettiva custodia, ovvero sia del corpus che dell’animus. Sul fronte della conservazione, invece, si registra piena continuità di pensiero: entrambi concordano nel ritenere non solo che il possesso dei beni immobili possa essere mantenuto animo, ma altresì che il medesimo possesso vada perduto nel momento in cui il dominus, temendo la reazione violenta di chi nel frattempo ha invaso il fondo, decida di non fare ritorno. 8. L’acquisto del possesso e della proprietà per procuratorem Lambisce l’istituto appena trattato anche un’altra tematica, sulla quale si registra l’interesse di entrambi i giuristi, i quali appaiono legati dal tentativo di vincere le forti resistenze circa la possibilità di consentire al dominus di acquisire il possesso e la proprietà tramite procurator179. In questo percorso si possono notare, forse con ancor più evidenza, alcuni aspetti di profonda condivisione, come ad esempio l’apertura a soluzioni nuove e l’accettazione di un giusto contemperamento tra opposte esigenze. Iniziamo dalla possessio, rispetto alla quale proprio a Nerazio si riconducono i primi riferimenti180: Ner. 7 membr., D. 41.3.41: Si rem subreptam mihi procurator meus adprehendit, quamvis per procuratorem possessionem apisci nos iam fere conveniat, nihilo magis eam in potestatem meam redisse usuque capi posse existimandum est, quia contra statui captiosum erit. Se il mio procuratore prende una cosa che mi è stata sottratta, per quanto si sia già quasi convenuto che si possa acquistare il possesso tramite un procuratore, non bisogna credere che essa sia tornata nella mia potestà e che possa essere usucapita, poiché sarebbe ingannevole stabilire il contrario.

179 Sull’acquisto per procuratorem, si vedano tra gli altri Albertario 1921, 497 ss.; Frese 1929, 327 ss.; Riccobono 1930, 389 ss.; Arangio-Ruiz 1949; Burdese 1950b, 37 ss.; Watson 1961; Mecke 1962, 109 ss.; Quadrato 1963, 1 ss.; Watson 1967, 189 ss.; Angelini 1971; Negri 1994, 666 ss.; Briguglio 2007; Miceli 2008; Coppola Bisazza 2008. 180 Si veda, per tutti, Briguglio 2007, 164.

82

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 83

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo Al mio procurator è stata consegnata una cosa a me sottratta. Secondo il giurista traianeo non bisogna credere che essa sia ritornata nella mia potestà e che possa essere usucapita, sebbene si sia già quasi convenuto che il possesso si possa acquistare per mezzo di un procurator. L’intero passo si sviluppa intorno al concetto di reversio ad dominum181: è noto che la res subrepta non è usucapibile, se non a partire dal momento in cui sia ritornata presso il proprietario. Tuttavia, in questo caso, la cosa rubata non viene consegnata direttamente al dominus, ma al suo procurator, e la circostanza induce a chiedersi se si sia verificata o meno la reversio in potestatem domini. Nerazio risponde in maniera negativa, pur ammettendo che per procuratorem possessionem apisci nos iam fere conveniat. Soffermiamoci su quest’ultima proposizione, da cui sembra trasparire che il giurista traianeo fosse favorevole all’acquisto del possesso per procuratorem182, nonostante il sussistere di voci contrarie, come prova un celebre passo di Gaio183, il quale, dopo aver detto che non è possibile acquistare per mezzo di un estraneo, informa che de possessione quaeritur, an 184 nobis adquiratur. Del resto, che Nerazio sostenesse l’acquisto del possesso per procuratorem ci sembra confermato da due testi di Paolo185, uno tratto dal commento ad Neratium e l’altro in cui è richiamato Priscus. Iniziamo da: Paul. 3 ad Ner., D. 41.3.47: Si emptam rem mihi procurator ignorante me meo nomine adprehenderit, quamvis possideam, eam non usucapiam, quia ut ignorantes usuceperimus, in peculiaribus tantum rebus receptum est.

181

Cfr., da ultima e con ricca bibliografia, Frunzio 2017a. Sulla ratio dell’acquisto del possesso per procuratorem, in dottrina si registra un acceso dibattito, imperniato in particolare sui due elementi della possessio, almeno secondo Paolo, ossia corpus ed animus. Opinione diffusa, sebbene segnata da diverse sfumature, è che la giurisprudenza romana facesse riferimento all’animus del dominus, il quale conferiva al procurator generali poteri di amministrazione, quasi una sorta di volontà preventiva. Non sono, tuttavia, mancate altre interpretazioni, tra cui ad esempio quella che riconduce il caso in oggetto ad un acquisto del possesso corpore et animo alieno. In argomento, si veda, per tutti, Briguglio 2007, 67 ss. 183 È opportuno ampliare la lettura a Gai. 2.89-90.94-95: Non solum autem proprietas per eos quos in potestate habemus adquiritur nobis, sed etiam possessio; cuius enim rei possessionem adepti fuerint, id nos possidere videmur; unde etiam per eos usucapio procedit. 90. Per eas vero personas, quas in manu mancipiove habemus, proprietas quidem adquiritur nobis ex omnibus causis, sicut per eos qui in potestate nostra sunt; an autem possessio adquiratur, quaeri solet, quia ipsas non possidemus… 94. De illo quaeritur, an per eum servum, in quo usumfructum habemus, possidere aliquam rem et usucapere possumus, quia ipsum non possidemus. Per eum vero, quem bona fide possidemus, sine dubio et possidere et usucapere possumus. Loquimur autem in utriusque persona secundum definitionem quam proxime exposuimus, id est si quid ex re nostra vel ex operis suis adquirant [id nobis adquiritur]. 95. Ex his apparet per liberos homines, quos neque iuri nostro subiectos habemus neque bona fide possidemus, item per alienos servos, in quibus neque usumfructum habemus neque iustam possessionem, nulla ex causa nobis adquiri posse. Et hoc est quod vulgo dicitur per extraneam personam nobis adquiri non posse. Tantum de possessione quaeritur, an nobis adquiratur. 184 Sul punto, segnaliamo la lacuna del manoscritto veronese, lacuna che è stata colmata inserendo l’espressione ‘per procuratorem’ oppure l’espressione ‘per extraneam personam’. La maggior parte degli studiosi propende per la prima. Sulla problematica, si veda, per tutti e con altra bibliografia, Miceli 2008, 266 ss. 185 A questi si può aggiungere un testo dello stesso Nerazio, riportato in Ner. 6 reg., D. 41.1.13: Si procurator rem mihi emerit ex mandato meo eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, id est proprietas adquiritur etiam ignoranti. 1 Et tutor pupilli pupillae similiter ut procurator emendo nomine pupilli pupillae proprietatem illis adquirit etiam ignorantibus. 182

83

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 84

Paolo Ferretti Se il procuratore, a mia insaputa, compia l’apprensione a mio nome di una cosa comperata per me, per quanto io la possieda, non la usucapisco, poiché si è stabilito che, ignorando l’acquisto del possesso, usucapiamo soltanto i beni che fanno parte del peculio186.

Il procurator, a mia insaputa, compie l’apprensione a mio nome di una cosa comperata per me. Secondo il giurista io la possiedo, ma non la usucapisco, poiché si è stabilito che ignari dell’acquisto del possesso usucapiamo soltanto i beni che fanno parte del peculio187. Dunque, Paolo, ribadendo con ogni verosimiglianza il pensiero di Nerazio188, informa che il dominus, anche se ignorans, acquista il possesso di una cosa comperata per lui dal procuratore e a questo consegnata sempre a nome dello stesso dominus. Poi: Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1.21: Si iusserim venditorem procuratori rem tradere, cum ea in praesentia sit, videri mihi traditam Priscus ait, idemque esse, si nummos debitorem iusserim alii dare. non est enim corpore et tactu necesse adprehendere possessionem, sed etiam oculis et affectu argumento esse eas res, quae propter magnitudinem ponderis moveri non possunt, ut columnas, nam pro traditis eas haberi, si in re praesenti consenserint: et vina tradita videri, cum claves cellae vinariae emptori traditae fuerint. Se avrò autorizzato il venditore a consegnare la cosa ad un procuratore, quando la cosa stessa è presente, Prisco afferma che essa sembra consegnata a me, e che lo stesso accade se avrò autorizzato il debitore a dare ad un altro le monete (che deve a me). Non è infatti necessario apprendere il possesso con il corpo e con il contatto, ma (si può apprendere il possesso) anche con gli occhi e l’intenzione, e prova di ciò sono quelle cose che non possono essere spostate a causa del loro grande peso, come le colonne, infatti esse vanno considerate consegnate se le parti si saranno accordate in presenza della cosa: e i vini sembrano essere stati consegnati se saranno state consegnate al compratore le chiavi della cantina.

Io, compratore, ho autorizzato il venditore a consegnare una cosa ad un procurator189. Pri-

186

Per il commento del testo, rimandiamo a p. 223 ss. In argomento, è utile leggere Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8pr.: Labeo Neratius responderunt ea, quae servi peculiariter nancti sunt, usucapi posse, quia haec etiam ignorantes domini usucapiunt: idem Iulianus scribit. 188 Cfr., in questo senso, tra gli altri Lenel 1889.I, 778 nt. 2 e 785 nt. 2; Nicosia 1960a, 194 nt. 24; Benöhr 1972, 88 nt. 14; Greiner 1973, 145 s.; Krenz 1997, 349. 189 Il fatto che il par. 21 si trovi all’interno di un lungo testo interamente incentrato sui soggetti tramite i quali si acquista il possesso, e non sulle modalità con le quali il medesimo possesso si ottiene, fa pensare che Paolo stesse riflettendo sul caso in cui il compratore acquistasse il possesso in forza di una traditio fatta dal venditore al procurator. In argomento, tuttavia, la dottrina è divisa. Alcuni studiosi, infatti, ritengono che Paolo rinviasse ad un’ipotesi di traditio longa manu: il compratore, in seguito all’ordine impartito, sarebbe divenuto direttamente possessore e il procurator, una volta ottenuta la disponibilità della cosa, mero custode del bene (tra questi, ad esempio, Voci 1952, 77; Watson 1967, 195). Se così fosse, ci sembra di capire che saremmo di fronte ad un caso di acquisto del possesso per nosmet ipsos in forza dell’autorizzazione, data dal compratore al venditore, di consegnare il bene al procurator. Tuttavia, Paolo dedica all’acquisto del possesso per nosmet ipsos i paragrafi iniziali (dal 2 al 5), e poi passa a trattare l’acquisto della possessio attraverso altri (dal par. 5: item adquirimus possessionem per servum aut filium…); il par. 21 segue il par. 20 che si apre con l’affermazione secondo cui per procuratorem tutorem curatoremve possessio nobis adquiritur. Pertanto, benché il testo non vi accenni esplicitamente, riteniamo più fondato che il giurista stesse trattanto dell’ottenimento del possesso in seguito ad una effettiva traditio fatta ad un procurator. Sulla problematica, si vedano, per tutti e con altra bibliografia, Briguglio 2007, 475 ss.; Miceli 2008, 270 ss. 187

84

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 85

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo scus190 – con ogni probabilità Nerazio191 – sostiene che la medesima cosa sembra mihi tradita, e lo stesso accadrebbe nel caso in cui io, creditore, abbia autorizzato il debitore a dare le monete, oggetto del rapporto obbligatorio, ad un altro. Questo acquisto del possesso tramite procurator, continua Paolo, è possibile, in quanto non è necessario adprehendere possessionem corpore et tactu, ma anche oculis et affectu192 e, a dimostrazione dell’assunto, adduce il caso dei beni che non possono essere facilmente asportati a causa del loro peso: questi beni si intendono consegnati se le parti, alla presenza degli stessi beni, si sono accordate sul loro trasferimento. Orbene, sulla base dei brani sopra esaminati, ci sembra ragionevole pensare non solo che Nerazio ammettesse l’acquisto del possesso per procuratorem, ma anche che egli sia stato tra i primi ad avanzare la regola, che poi risulta consolidata nei giuristi successivi193, tra cui Paolo, del quale è opportuno leggere: Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1.20: Per procuratorem tutorem curatoremve possessio nobis adquiritur. cum autem suo nomine nacti fuerint possessionem, non cum ea mente, ut operam dumtaxat suam accommodarent, nobis non possunt adquirere. alioquin si dicamus per eos non adquiri nobis possessionem, qui nostro nomine accipiunt, futurum, ut neque is possideat cui res tradita sit, quia non habeat animum possidentis, neque is qui tradiderit, quoniam cesserit possessione. Si acquista il possesso mediante il procuratore, il tutore o il curatore, ma essi non lo acquistano a noi quando lo prendono a nome loro, bensì quando hanno l’intenzione di prestare a noi il loro ufficio; perciocché, se si dicesse che non acquistiamo il possesso mediante coloro che lo prendono a nostro nome, verrebbe di conseguenza che la cosa non sarebbe posseduta né da colui al quale fu fatta la consegna, perché non aveva la volontà di possederla, né da colui che fece la consegna, perché avrebbe cessato di esserne possessore.

Paolo, affiancando il procurator al tutor e al curator, non ha esitazioni nell’affermare che tramite loro noi acquistiamo il possesso, sempre che abbiano agito con l’intenzione di prestare a noi la loro opera. Del resto, aggiunge, se si dicesse che noi non acquistiamo il possesso mediante

190 I testi in cui compare soltanto Priscus, non seguito da Fulcinius o Neratius e neppure preceduto da Iavolenus o ancora Neratius, sono quatttro, oltre a quello citato nel testo: Tit. Ulp. 11.28; Pomp. 12 epist., D. 35.1.112.3; Ulp. 2 ad Urs. Fer., D. 39.6.21; Paul. 54 ad ed., D. 41.4.2.6. 191 Seguendo Lenel 1889.I, 785 e 785 nt. 2, propendiamo per identificare Priscus con Nerazio. In questo senso, si veda, tra gli altri, Nicosia 1960a, 147 nt. 24. Altre interpretazioni sono avanzate da Alibrandi 1871, 258; Bremer 1898-1901.II.2, 261 e 266; Riccobono 1913, 203; Olivecrona 1938-1949, 71 nt. 42; Voci 1952, 77 nt. 1; Metro 1966, 54 nt. 123; Gordon 1970, 47; Zamorani 1977, 170, con approfondimento alla nt. 9; Lambrini 1998, 128. 192 Il periodo è stato ritenuto interpolato, ad esempio, da Schulz 1916, 66 s.; Albertario 1923a, 84 nt. 1; Olivecrona 1938-1949, 71 e nt. 42. Contra, per tutti, Lambrini 1998, 128. Anche noi pensiamo che l’affermazione sia genuina. A dimostrazione dell’assunto, infatti, il giurista adduce poi il caso dei beni che non possono essere facilmente asportati a causa del loro peso: questi beni si intendono consegnati se le parti, alla presenza degli stessi beni, si sono accordate sul loro trasferimento. Paolo espone infine anche il caso del vino contenuto in una cantina: in questa ipotesi, il vino si intende consegnato cum claves cellae vinariae emptori traditae fuerint. Su questa ipotesi, si veda da ultimo e con altra bibliografia Ferretti 2017, 39 ss. e 154 s. 193 Cfr., ad esempio, Ulp. 16 ad ed., D. 6.2.7.10; Ulp. 28 ad ed., D. 13.7.11.6; Ulp. 7 disp., D. 39.5.13; Ulp. 7 disp., D. 41.2.34.1; Ulp. 4 reg., D. 41.2.42.1; Pap. 2 def., D. 41.2.49.2; Ulp. 71 ad ed., D. 43.26.6.1; Ulp. 29 ad Sab., D. 47.2.14.17. Cfr. anche Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Cyrillo, C. 7.32.8.

85

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 86

Paolo Ferretti coloro che lo prendono a nostro nome, la conseguenza sarebbe che nessuno risulterebbe possessore: non colui al quale la cosa è consegnata, in quanto non ha il proposito di possederla, ma nemmeno colui che ha fatto la consegna, poiché ha cessato di possedere194. Infine: PS. 5.2.2: Per liberas personas, quae in potestate nostra non sunt, adquiri nobis nihil potest. Sed per procuratorem adquiri nobis possessionem posse utilitatis causa receptum est... Non possiamo acquistare alcunché attraverso persone libere che non siano nella nostra potestà. Tuttavia, per ragioni di utilità, si è stabilito che tramite un procuratore si possa acquistare il possesso…

Nel testo si legge che attraverso persone che non siano sotto la nostra potestà adquiri nobis nihil potest195. Una eccezione è rappresentata dal procurator, rispetto al quale è stato stabilito per ragioni di utilità che si possa acquistare il possesso. Detto del possesso, veniamo all’acquisto della proprietà per procuratorem196, altro tema sul quale tanto Nerazio quanto Paolo sono intervenuti. La regola generale, riferita da Gaio, esclude la possibilità di acquistare la proprietà tramite persone estranee: Gai. 2.86.95: Adquiritur autem nobis non solum per nosmet ipsos, sed etiam per eos, quos in potestate manu mancipiove habemus; item per eos servos, in quibus usumfructum habemus; item per homines liberos et servos alienos, quos bona fide possidemus: de quibus singulis diligenter dispiciamus… 95. Ex his apparet per liberos homines, quos neque iuri nostro subiectos habemus neque bona fide possidemus, item per alienos servos, in quibus neque usumfructum habemus neque iustam possessionem, nulla ex causa nobis adquiri posse. Et hoc est quod vulgo dicitur per extraneam personam nobis adquiri non posse… A noi si acquista non solo per mezzo di noi stessi, ma anche per mezzo di coloro che abbiamo in potestà, mano o mancipio; analogamente per mezzo di quei servi di cui abbiamo l’usufrutto; analogamente per mezzo degli uomini liberi e dei servi altrui che in buona fede possediamo. Occupiamoci puntualmente di ogni categoria… 95 Risulta da ciò che per mezzo di uomini liberi né soggetti al nostro potere né posseduti in buona fede, e così per mezzo di servi altrui sui quali non abbiamo né usufrutto né giusto possesso, in nessun caso noi possiamo acquistare. Ed è quel che comunemente si dice: non potersi da noi acquistare per mezzo di un estraneo…

194 Al par. 20, segue, come abbiamo sopra visto, il par. 21, in cui Paolo richiama Priscus, il quale affermava che se il compratore avesse autorizzato il venditore a rem tradere ad un procurator, il bene sembra essere consegnato al compratore, analogamente al caso in cui un creditore avesse autorizzato il debitore a dare le monete ad un altro: non est enim corpore et tactu necesse adprehendere possessionem, sed etiam oculis et affectu. 195 Per quanto riguarda la problematica relativa alla regola secondo cui per liberas personas, quae in potestate nostra non sunt, adquiri nobis nihil potest (PS. 5.2.2), si veda, per tutti e con ricca letteratura, Lambrini 1998, 90 ss. 196 Cfr., sull’acquisto della proprietà tramite procurator, tra gli altri Savigny 1865, 304 ss.; Jhering 1889, 204 ss.; Solazzi 1911, 350 ss.; Betti 1933, 181 ss.; Voci 1952, 71 ss.; Meylan 1953, 112; Berneisen 1959, 283 ss.; Watson 1962, 205 ss.; Watson 1967, 192 ss.; Flume 1990, 84 ss.; Cannata 1991, 353 ss.; Krenz 1997, 345 ss.; Lovato 2001, 90 ss.; Klink 2004; Briguglio 2007, 270 ss.; Miceli 2008, 285 ss.

86

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 87

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo Il testo si inserisce all’interno di un ampio discorso in tema di acquisto della proprietà. In particolare, al par. 86 Gaio afferma che il dominio si ottiene non solo per mezzo di noi stessi, ma anche per mezzo di altri soggetti, come coloro che abbiamo in potestà, in mano o in mancipio, i servi di cui abbiamo l’usufrutto e gli uomini liberi o i servi altrui che possediamo in buona fede197. Al contrario, ‘per mezzo di uomini liberi, né soggetti al nostro potere né posseduti in buona fede, in nessun caso noi possiamo acquistare’: hoc est quod vulgo dicitur per extraneam personam nobis adquiri non posse. Tuttavia, forse già a partire da Nerazio – il quale, è bene ricordare, era favorevole all’acquisto del possesso per procuratorem –, possono intravvedersi le tracce di un indirizzo tendente ad ammettere, benché a determinate condizioni198, l’acquisto della proprietà per procuratorem199: Ner. 6 reg., D. 41.1.13pr.: Si procurator rem mihi emerit ex mandato meo eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, id est proprietas200, adquiritur etiam ignoranti. Se il procuratore avrà comprato una cosa per me, sulla base di un mio mandato, e la cosa gli sia stata consegnata a mio nome, acquisterò la proprietà anche se lo ignoro.

Il procuratore, sulla base di un mandato da me conferito, ha comperato una cosa per me e la cosa gli è stata consegnata a mio nome. In questo caso, scrive Nerazio, io acquisto la proprietà anche a mia insaputa201.

197 Tuttavia, sia con riferimento ai servi di cui abbiamo l’usufrutto sia con riferimento agli uomini posseduti in buona fede, si legga la distinzione di Gai. 2.91-92: De his autem servis, in quibus tantum usumfructum habemus, ita placuit, ut quidquid ex re nostra vel ex operis suis adquirant, id nobis adquiratur; quod vero extra eas causas, id ad dominum proprietatis pertineat. Itaque si iste servus heres institutus sit legatumve quod ei datum fuerit, non mihi, sed domino proprietatis adquiritur. 92. Idem placet de eo, qui a nobis bona fide possidetur, sive liber sit sive alienus servus. Quod enim placuit de usufructuario, idem probatur etiam de bonae fidei possessore. Itaque quod extra duas istas causas adquiritur, id vel ad ipsum pertinet, si liber est, vel ad dominum, si servus est. 198 Come vedremo (cfr. infra nel testo p. 88 ss.), queste condizioni consistono nel fatto che il rappresentato sia consapevole e in qualche modo partecipi al negozio, rendendo riconoscibile in maniera certa il suo interesse ad acquisire il dominio. 199 In questa prospettiva, si legga il celebre rescritto riportato in Impp. Severus et Antoninus AA. Attico, C. 7.32.1. Per [liberam personam] ignoranti quoque adquiri possessionem et, postquam scientia intervenerit, usucapionis condicionem inchoari posse tam ratione utilitatis quam iuris pridem receptum est. PP. VI k. dec. Dextro II et Prisco conss. (a. 196). Il testo ha ricevuto numerose letture. I più ritengono che in luogo di libera persona occorra inserire il termine procurator, come proverebbero non solo i dubbi manifestati da Nerazio (Ner. 7 membr., D. 41.3.41) e Gaio (Gai. 2.95) circa l’acquisto del possesso tramite procurator, ma anche una costituzione di Diocleziano e Massimiano (C. 7.32.8), in cui ancora si ribadisce che per procuratorem utilitatis causa possessionem et, si proprietas ab hac separari non possit, dominium etiam quaeri placuit. In argomento, rimandiamo, per tutti e con altra letteratura, a Briguglio 2007, 172 ss.; Coppola Bisazza 2008, 217 ss. 200 L’espressione id est proprietas è ritenuta da molti studiosi un glossema. Tra questi, ad esempio, Kniep 1886, 216; Lenel 1889.I, 774 nt. 2; Eisele 1892, 142; Grosso 1932, 158 nt. 17; Bretone 1955, 282 nt. 13; Claus 1973, 136; Greiner 1973, 123; Flume 1991, 88. 201 In argomento, si legga anche Ner. 6 reg., D. 41.1.13.1: Et tutor pupilli pupillae similiter ut procurator emendo nomine pupilli pupillae proprietatem illis adquirit etiam ignorantibus. Nel passo si legge che il tutore di un pupillo e di una pupilla, come il procurator, comprando a nome del pupillo o della pupilla, fa acquistare loro la proprietà anche senza che essi ne siano a conoscenza. Sul testo, di veda, con altra letteratura, Miceli 2008, 290 ss.

87

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 88

Paolo Ferretti Assai verosimilmente si tratta, come è stato del resto già sostenuto202, di un caso particolare203, connotato dal fatto che il procurator agisca in forza di un mandato speciale a comperare – mandato che avrebbe permesso di ascrivere al dominus il rapporto causale posto in essere dal procurator – e riceva la cosa tramite traditio sempre a nome del mandante. In questa ipotesi, conclude il giurista traianeo, il rappresentato acquista la proprietà204, anche nel caso in cui sia ignorans205. Al testo appena visto è opportuno affiancare un altro già riportato: Paul. 3 ad Ner., D. 41.3.47: Si emptam rem mihi procurator ignorante me meo nomine adprehenderit, quamvis possideam, eam non usucapiam, quia ut ignorantes usuceperimus, in peculiaribus tantum rebus receptum est. Se il procuratore, a mia insaputa, compia l’apprensione a mio nome di una cosa comperata per me, per quanto io la possieda, non la usucapisco, poiché si è stabilito che, ignorando l’acquisto del possesso, usucapiamo soltanto i beni che fanno parte del peculio206.

Il procurator, a mia insaputa, ha compiuto l’adprehensio a mio nome di una cosa comperata per me. Io, dominus negotii, acquisto il possesso, ma non la proprietà né posso iniziare ad usucapire, in quanto ignorans207. Se mettiamo a confronto i due passi, sembra di capire che in Paul. 3 ad Ner., D. 41.3.47 il mancato acquisto della proprietà derivi dall’assenza di un mandato speciale, viceversa presente in Ner. 6 reg., D. 41.1.13: il procurator ha posto in essere la compravendita senza che il dominus manifestasse la sua volontà in ordine a tale negozio – si tratterebbe con ogni verosimiglianza di un procurator che agisce ‘nomine domini’ in base ad un mandato generale208 – e questa circostanza sarebbe di impedimento all’acquisto della proprietà tramite usucapio. La regola, dunque, appare avvalorata: se il dominus non ha conferito un mandato speciale né ha in qualche modo manifestato la sua volontà209, l’acquisto della proprietà non si realizza210. Paolo ribadisce la regola in:

202 Briguglio 2007, 356 nt. 217 (vedi anche p. 451), secondo cui il mandato, in quanto idoneo a manifestare l’assenso alla realizzazione dell’acquisto della proprietà, sarebbe equiparato alla scientia. 203 Cfr. Beseler 1920, 55, il quale pensa che nel caso prospettato da Nerazio si possa intravvedere “eine antizipierte Erklärung des Eigentumsempfangswillens”. 204 Papiniano (Pap. 2 def., D. 41.2.49.2), nel caso in cui il procurator abbia compiuto una compravendita sulla base di un mandato generale del dominus negotii, ammette l’acquisto del possesso, ma non della proprietà; affinché si possa compiere l’usucapione egli richiede la scientia domini. 205 Ci pare che la mancata conoscenza da parte del dominus vada riferita esclusivamente al fatto che egli ignorasse l’avvenuta esecuzione del mandato. 206 Per il commento del testo, rimandiamo a p. 223 ss. 207 Cfr. sul punto, tra gli altri, Nicosia 1960a, 194 nt. 25; Bonfante 1972, 364 ss.; Vacca 1973, 25 ss. 208 Così, per tutti, Briguglio 2007, 451. 209 Alcuni testi fanno riferimento al caso in cui fosse il dominus a porre in essere il negozio causale giustificativo della traditio effettuata poi al procurator. In questi casi sembra ammettersi l’acquisto della proprietà per procuratorem: Ulp. 7 disp., D. 39.5.13; Ulp. 29 ad Sab., D. 41.1.20.2; Iul. 44 dig., D. 41.1.37.6; Ulp. 29 ad Sab., D. 47.2.14.17. 210 Così, per tutti, Flume 1991, 86.

88

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 89

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo Paul. 24 ad ed., D. 3.5.23 (24): Si ego hac mente pecuniam procuratori dem, ut ea ipsa creditoris fieret, proprietas quidem per procuratorem non adquiritur, potest tamen creditor etiam invito me ratum habendo pecuniam suam facere, quia procurator in accipiendo creditoris dumtaxat negotium gessit: et ideo creditoris ratihabitione liberor. Qualora io dia al procuratore di un creditore il denaro con l’intenzione che questo stesso denaro diventi del creditore, la proprietà non si acquista tramite il procuratore. Tuttavia, il creditore può fare suo il denaro, mio malgrado, poiché il procuratore, nel riceverlo, amministrò soltanto un affare del creditore: e pertanto io sono liberato con la ratifica del creditore.

Io consegno del denaro al procuratore di un creditore, con l’intenzione che la pecunia diventi del creditore. Ebbene, in questo caso proprietas quidem per procuratorem non adquiritur, in quanto, affinché il risultato si produca, è necessario che il creditore proceda alla ratifica. Anche in questa ipotesi, pertanto, la soluzione fornita dal giurista sembra fondarsi sulla mancanza di un accordo tra il debitore e il creditore in ordine al pagamento211: non avendo il creditore manifestato alcuna volontà, il procurator non avrebbe potuto fargli acquistare la proprietà, per la quale sarebbe occorso, come detto sopra, il riconoscimento dell’adempimento da parte del creditore medesimo tramite ratihabitio212. Sempre di ratifica si legge nelle Pauli Sententiae: PS. 5.2.2: Per liberas personas, quae in potestate nostra non sunt, adquiri nobis nihil potest. Sed per procuratorem adquiri nobis possessionem posse utilitatis causa receptum est. Absente autem domino comparata non aliter ei, quam si rata sit, quaeritur. Non possiamo acquistare alcunché attraverso persone libere che non siano nella nostra potestà. Tuttavia, per ragioni di utilità, si è stabilito che tramite un procuratore si possa acquistare il possesso. In assenza del dominus, tuttavia, ciò che è stato comperato non è a lui acquistato, se non nel caso in cui abbia posto in essere la ratifica.

La prima parte del testo è stata sopra esaminata: in essa si dice che il possesso non si acquista per mezzo di persone che non siano a noi legate da vincoli potestativi e che l’unica eccezione consentita, per ragioni di utilità, è quella del procurator. Nella seconda parte, invece, si legge che nel caso in cui il procurator213, absente domino, abbia posto in essere una compravendita, l’acquisto non si produce in capo al dominus, se non nel momento in cui egli opera la ratifica214. Anche questo testo, dunque, sembra allinearsi ai precedenti. Il dominus negotii non ha manifestato alcuna volontà in ordine all’acquisto, in quanto assente: egli non ha compiuto il

211 Non sono tuttavia mancate interpretazioni differenti. Alcuni autori, ad esempio, hanno pensato al caso di un soggetto (negotiorum gestor) che gerisce un affare altrui. In questo senso, si vedano, tra gli altri, Voci 1952, 73; Kaser 1974, 196. Altri, invece, hanno visto nel soggetto, che riceve il denaro per il creditore, un procurator omnium bonorum, che agisce nell’ignoranza del creditore medesimo: cfr., per tutti, Betti 1933, 265 ss. 212 È, infatti, la ratihabitio del dominus che avrebbe fornito la causa al pagamento effettuato dal debitore al procurator. Cfr., in questo senso, tra gli altri Flume 1990, 90; Cannata 1991, 354; Briguglio 2007, 498. 213 Così ci pare si debba interpretare l’espressione absente domino. 214 Cfr., per tutti, Hamza 1980, 219 e nt. 31.

89

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 90

Paolo Ferretti rapporto giuridico (compravendita) che si pone quale iusta causa della traditio effettuata al procurator né ha conferito al procurator un mandato speciale. Pertanto, l’unica possibilità rimane quella della ratihabitio. Orbene, pure dalle fonti in tema di procurator sembrano emergere intrecci, legami, nessi molto stretti tra il pensiero di Nerazio e Paolo, impegnati, entrambi, all’interno di un indirizzo ermeneutico volto, più che alla conservazione dell’esistente, all’introduzione di significativi cambiamenti. In particolare, in un periodo connotato da forti resistenze e contrarietà circa la possibilità di consentire al dominus di acquisire il possesso tramite procurator215, Nerazio e Paolo si schierano a favore dell’ampliamento, agevolando in tal modo il superamento della disputa e il graduale affermarsi di una regola che risulta poi consolidata in età severiana. Lo stesso, inoltre, può dirsi a proposito dell’acquisto della proprietà per procuratorem. Anche in questo ambito i due giuristi appaiono uniti nello scopo di giungere a scalfire il principio, secondo cui per extraneam personam nobis adquiri non posse216. La loro riflessione risulta così connotata da elementi comuni, dalla accettazione di un giusto contemperamento su alcuni aspetti al suggerimento di soluzioni nuove, al fine, come detto, di promuovere un’ ‘apertura’, quantomeno laddove la volontà del dominus negotii fosse stata manifestata in maniera chiara e certa. E questa volontà viene rinvenuta laddove il dominus, in via preventiva, avesse conferito un mandato speciale217 – o avesse compiuto egli stesso il negozio causale giustificativo della traditio fatta in seguito al procurator218 – oppure, in via successiva, avesse ratificato l’operato del medesimo procurator219. 9. Il furto della res hereditaria Un ultimo tema, che attira l’attenzione di Nerazio e Paolo, è rappresentato dal ‘furto’ della res hereditaria. Il tema si differenzia da quelli appena descritti, in quanto i due giuristi non sembrano allineati sulle stesse posizioni. Tuttavia, ciò non toglie di poter cogliere, anche in questo caso, elementi di condivisione, come, oltre alla materia su cui entrambi sentono il bisogno di intervenire, la capacità di ragionare attraverso le stesse categorie e attraverso il medesimo lessico. Soffermiamoci brevemente, prima di addentrarci nella loro riflessione, su alcuni istituti collegati all’argomento. Gaio 220 , in merito alla possessio et usucapio pro he-

215

Gai. 2.95. Gai. 2.95. 217 Ner. 6 reg., D. 41.1.13. 218 Ulp. 7 disp., D. 39.5.13; Ulp. 29 ad Sab., D. 41.1.20.2; Iul. 44 dig., D. 41.1.37.6; Ulp. 29 ad Sab., D. 47.2.14.17. 219 Paul. 24 ad ed., D. 3.5.23 (24); Paul. 3 ad Ner., D. 41.3.47; PS. 5.2.2. 220 Gai. 2.52-58: Rursus ex contrario accidit, ut qui sciat alienam rem se possidere, usucapiat, velut si rem hereditariam, cuius possessionem heres nondum nactus est, aliquis possederit; nam ei concessum est usucapere, si modo ea res est, quae recipit usucapionem. quae species possessionis et usucapionis pro herede vocatur. 53. Et in tantum haec usucapio concessa est, ut et res, quae solo continentur, anno usucapiantur. 54. Quare autem hoc casu etiam soli rerum annua constituta sit usucapio, illa ratio est, quod olim rerum hereditariarum possessione velut ipsae hereditates usucapi credebantur, scilicet anno: lex enim XII tabularum soli quidem res biennio usucapi iussit, ceteras vero anno: ergo hereditas in ceteris rebus videbatur 216

90

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 91

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo rede 221 , informa che talvolta può usucapire anche colui il quale sia consapevole di possedere una cosa altrui, come ad esempio chi possieda una res hereditaria, il cui possesso l’erede non abbia ancora ottenuto222. Questa species possessionis et usucapionis è chiamata pro herede223, ma anche lucrativa224, poiché tramite essa si approfitta scientemente di una cosa di altri225. Tuttavia, il giurista indica anche alcuni limiti: innanzitutto che per iniziativa di Adriano è stato emanato un senatoconsulto attraverso cui si è concesso all’erede, tramite l’hereditatis petitio, di recuperare la cosa usucapita; poi, che la presenza di un erede necessario è di ostacolo all’usucapione: nihil ipso iure pro herede usucapi potest. L’accenno all’erede volontario e all’erede necessario è ripreso da Gaio in tema di furto: Gai. 3.195.201: Furtum autem fit non solum, cum quis intercipiendi causa rem alienam amovet, sed generaliter, cum quis rem alienam invito domino contrectat… 201. Rursus ex diverso interdum alienas res occupare et usucapere concessum est nec creditur furtum fieri, velut res hereditarias, quarum heres non est nactus possessionem, nisi necessarius heres extet; nam necessario herede extante placuit nihil pro herede usucapi posse… Il furto avviene non solo quando uno rimuove la cosa altrui per sottrarla, ma in genere quando uno si appropria della cosa altrui contro il volere del proprietario… 201. Per contro è qualche volta consentito occupare ed usucapire le cose altrui senza che si ritenga aversi furto: ad esempio, le cose ereditarie delle quali l’erede non ha ottenuto il possesso; a meno che non ci sia un erede necessario, perché se c’è un erede necessario, si è ritenuto che non si possa usucapire nulla come erede…

esse, quia soli non est quia neque corporalis est; et quamvis postea creditum sit ipsas hereditates usucapi non posse, tamen in omnibus rebus hereditariis, etiam quae solo tenentur, annua usucapio remansit. 55. Quare autem omnino tam inproba possessio et usucapio concessa sit, illa ratio est, quod voluerunt veteres maturius hereditates adiri, ut essent, qui sacra facerent, quorum illis temporibus summa observatio fuit, et ut creditores haberent, a quo suum consequerentur. 56. Haec autem species possessionis et usucapionis etiam lucrativa vocatur: nam sciens quisque rem alienam lucri facit. 57. Sed hoc tempore iam non est lucrativa: nam ex auctoritate divi Hadriani senatusconsultum factum est, ut tales usucapiones revocarentur; et ideo potest heres ab eo, qui rem usucepit, hereditatem petendo proinde eam rem consequi, atque si usucapta non esset. 58. Necessario tamen herede extante nihil ipso iure pro herede usucapi potest. 221 Su questo tema, si vedano, tra gli altri, Ascoli 1887, 326 ss.; Galgano 1913, 70 ss.; Bonfante 1915, 683 ss.; Solazzi 1931, 379 ss.; Krüger 1934, 80 ss.; Solazzi 1936, 547 ss.; Fadda 1949; Franciosi 1965; Thomas 1968b, 489 ss.; Tomulescu 1971, 444 ss.; Bonfante 1974, 284 ss.; MacCormack 1978, 293 ss.; Orestano 1982, 2053 ss.; Gnoli 1984; Coppola 1987; Scacchetti 1994; Frunzio 1996, 403 ss.; Coppola 1999; Coppola 2011, 1 ss.; Pulitanò 2019, 259 ss. 222 Sul collegamento tra usucapione delle cose ereditarie da parte dell’estraneo e mancato acquisto del possesso da parte dell’erede, nonché sulle ragioni del medesimo collegamento, differenti sono state le interpretazioni avanzate in dottrina. Cfr., ad esempio, Tomulescu 1971, 448 ss.; Bonfante 1974, 284 ss.; Biavaschi 2006, 121 s. e nt. 15; Coppola 2011, 1 ss. 223 Nelle fonti si rinviene, accanto all’espressione usucapio pro herede (Gai. 2.52; Gai. 3.201), che risulta utilizzata per l’usucapione delle singole cose ereditarie, anche il termine usucapio hereditatis (Gai. 2.54). In argomento, si veda, per tutti, Coppola 1987, 66 s. e nt. 1. 224 Gai. 2.56. 225 La ragione, di una possessio e di una usucapio che appaiono improbae, risiede nella volontà dei veteres di affrettare l’adizione dell’eredità, al fine di assicurare, da un lato, gli uffici del culto e, dall’altro, di consentire ai creditori di conseguire quanto loro dovuto. Si sarebbe, dunque, trattato di un meccanismo volto a sollecitare l’erede ad una rapida accettazione oppure, come è stato sostenuto (cfr., tra gli altri, Albanese 1949, 409), di una concessione pensata allo scopo di permettere al possessore, e non all’erede, di usucapire in un solo anno i beni ereditari, tra i quali potevano figurare anche immobili (in Gai. 2.54 si legge che l’usucapione si compie in un anno, in quanto l’hereditas - comprenda o meno beni immobili - veniva fatta rientrare tra le ceterae res).

91

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 92

Paolo Ferretti Il giurista, dopo aver detto che il furto si realizza attraverso l’amovere una cosa altrui intercipiendi causa o più in generale attraverso il contrectare una cosa altrui invito domino226, afferma che qualche volta viene consentito occupare ed usucapire le cose altrui senza commettere furto. A questo proposito, introduce l’esempio227 delle cose ereditarie, di cui l’erede non abbia ancora ottenuto il possesso228 e a condizione che non ci sia un erede necessario229, perché, in questo caso, si è ritenuto che nihil pro herede usucapi posse. Ai testi gaiani, ora visti, è opportuno affiancare un passo di Ulpiano in materia di crimen expilatae hereditatis: Ulp. 9 de off. proc., D. 47.19.2: Si expilatae hereditatis crimen intendatur, praeses provinciae cognitionem suam accommodare debet: cum enim furti agi non potest, solum superest auxilium praesidis. 1. Apparet autem expilatae hereditatis crimen eo casu intendi posse, quo casu furti agi non potest, scilicet ante aditam hereditatem, vel post aditam antequam res ab herede possessae sunt. nam in hunc casum furti actionem non competere palam est: quamvis ad exhibendum agi posse, si qui vindicaturus exhiberi desideret, palam sit. Se si agisce per il crimine di eredità espilata, il preside della provincia vi deve applicare la sua cognizione: infatti, quando non si può agire di furto, vi rimane il solo ausilio del preside. 1. Si può agire per il crimine di eredità espilata nel caso in cui non si possa agire di furto, cioè certamente prima che l’eredità sia adita oppure, dopo che sia stata adita, prima che le cose siano possedute dall’erede. Infatti, è chiaro che in questo caso non compete l’azione di furto; quantunque sia chiaro che si possa agire per l’esibizione, se uno per rivendicarla desidera che si esibisca la cosa.

Ulpiano informa che l’accusatio per il crimen expilatae hereditatis230 è ammessa soltanto laddove non sia consentito esperire l’actio furti e questo accade in due casi: quando l’erede non ha

226 Sulle diverse definizioni di furto, connesse allo sviluppo della nozione stessa dell’illecito, rimandiamo, per tutti, ai fondamentali lavori di Albanese 1953, 5 ss.; Id. 1956, 85 ss.; Id. 1958, 99 ss. Inoltre, si vedano, anche, Fargnoli 2006; Fenocchio 2008; Pelloso 2008; Battaglia 2012. 227 Il secondo esempio esposto da Gaio (Gai. 3.201) è quello della usureceptio: … item debitor rem, quam fiduciae causa creditori mancipaverit aut in iure cesserit, secundum ea, quae in superiore commentario rettulimus, sine furto possidere et usucapere potest. 228 Secondo la maggior parte degli studiosi, l’usucapione dei beni ereditari da parte di un estraneo era ammessa anche dopo l’aditio hereditatis da parte dell’erede, purché quest’ultimo non avesse ancora preso possesso dei beni medesimi. Cfr., in questo senso, Bonfante 1915, 683 ss.; Id. 1926, 280 s. e 342 ss.; Solazzi 1936, 547 ss.; Franciosi 1965, 13 ss.; Voci 1967, 110 e 216 s.; Tomulescu 1971, 446; Scacchetti 1994, 5 s. e 131 ss.; Biavaschi 2006, 119 ss. Interpretazioni differenti si leggono ad esempio in Thomas 1968b, 489 ss.; MacCormack 1978, 293 ss.; Coppola 2011, 1 ss. 229 La menzione dell’erede necessario sposta il discorso gaiano dalla prospettiva della mancata acquisizione del possesso da parte dell’erede alla prospettiva della semplice esistenza di un necessarius. Alcuni studiosi hanno cercato di spiegare la circostanza rinviando al fatto che alla morte dell’ereditando il possesso dei beni ereditari si sarebbe automaticamente trasmesso al necessarius. Cfr., ad esempio, Solazzi 1931, 381 ss.; Bonfante 1974, 178 s. e 293 ss. 230 All’interno di D. 47.19 (Expilatae hereditatis), utile si rivela la lettura del primo testo, nel quale Marciano informa che il crimen expilatae hereditatis, oggetto di un senatoconsulto emanato su iniziativa di Marco Aurelio, era soggetto a repressione extra ordinem mediante accusatio al funzionario imperiale. Si legga Marcian. 3 inst., D. 47.19.1: Si quis alienam hereditatem expilaverit, extra ordinem solet coerceri per accusationem expilatae hereditatis, sicut et oratione divi Marci cavetur. Sul crimen in questione, si vedano, tra gli altri, Ferrini 1905, 226 ss.; Solazzi 1936, 547 ss.; Gnoli 1984, 7 ss., il quale ipotizza che il crimen non si debba ricondurre ad uno specifico provvedimento legislativo, ma ad una prassi, fondata sulla potestà

92

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 93

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo adito l’eredità231 oppure quando, pur avendo già adito, non si sia ancora impossessato dei beni ereditari. Avviciniamo i testi di Gaio e di Ulpiano: Gai. 3.201: Rursus ex diverso interdum alienas res occupare et usucapere concessum est, nec creditur furtum fieri, velut res hereditarias, quarum heres non est nactus possessionem, nisi necessarius heres extet; nam necessario herede extante placuit nihil pro herede usucapi posse… Per contro è qualche volta consentito occupare ed usucapire le cose altrui senza che si ritenga aversi furto: ad esempio, le cose ereditarie delle quali l’erede non ha ottenuto il possesso; a meno che non ci sia un erede necessario, perché se c’è un erede necessario, si è ritenuto che non si possa usucapire nulla come eredi…

Ulp. 9 de off. proc., D. 47.19.2.1: Apparet autem expilatae hereditatis crimen eo casu intendi posse, quo casu furti agi non potest, scilicet ante aditam hereditatem, vel post aditam antequam res ab herede possessae sunt. nam in hunc casum furti actionem non competere palam est: quamvis ad exhibendum agi posse, si qui vindicaturus exhiberi desideret, palam sit. Si può agire per il crimine di eredità espilata nel caso in cui non si possa agire di furto, cioè certamente prima che l’eredità sia adita oppure, dopo che sia stata adita, prima che le cose siano possedute dall’erede. Infatti, è chiaro che in questo caso non compete l’azione di furto; quantunque sia chiaro che si possa agire per l’esibizione, se uno per rivendicarla desidera che si esibisca la cosa.

Gaio tratta dei casi in cui un soggetto si impossessa di una cosa altrui e, ciononostante, non commette furto, mentre Ulpiano espone i casi in cui non è possibile agire con l’azione di furto. Non è nostra intenzione approfondire somiglianze e differenze, forse spiegabili considerando la particolare prospettiva da cui muovono i due giuristi232, quanto limitarci a sottolineare che entrambi i giuristi escludono il furto233, o che si possa esperire l’azione di furto234, quando l’impossessamento della res hereditaria sia avvenuto prima che l’erede abbia preso possesso della medesima; a questa ipotesi, Ulpiano aggiunge quella dell’impossessamento della res hereditaria avvenuto prima che l’erede abbia adito235.

discrezionale che gli imperatori delegavano a prefetti e governatori provinciali di applicare la propria cognitio a fattispecie che consideravano degne di punizione al di fuori dell’ordo iudiciorum publicorum; Pulitanò 2019, 259 ss. 231 Sulla natura delle res prima dell’accettazione da parte dell’erede, si legga Gai. 2.9: Quod autem divini iuris est, id nullius in bonis est: id vero, quod humani iuris est, plerumque alicuius in bonis est; potest autem et nullius in bonis esse: nam res hereditariae, antequam aliquis heres existat, nullius in bonis sunt… E ancora Gai. 2 inst., D. 1.8.1pr.; Iav. 7 epist., D. 28.5.65; Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.13.5. 232 Gaio sta scrivendo di res alienae occupate invito domino e, in questa luce, potrebbe comprendersi la ragione per cui non accenni all’ipotesi dell’erede volontario che non abbia ancora accettato; lo stesso potrebbe dirsi per Ulpiano, il quale non nomina l’heres necessarius, perché in questo caso l’azione di furto sarebbe divenuta esperibile. 233 Secondo Gaio, non si commette furto nel caso in cui un soggetto si immetta nel possesso delle cose ereditarie, di cui l’erede non ha ancora ottenuto la possessio. 234 Secondo Ulpiano, non si può agire con l’azione di furto nel caso in cui un soggetto si immetta nel possesso delle cose ereditarie ante aditam hereditatem oppure quando, post aditam hereditatem, l’erede non abbia ancora preso possessio delle cose medesime. 235 Sul punto, Coppola 2011, 10 ss., pensa, invece, che la distinzione tra ante aditam hereditatem vel post aditam non appartenga ad Ulpiano, il quale avrebbe prospettato un unico caso, ossia “quello dell’eredità non ancora adita che, in quanto tale, non autorizzava a considerare l’erede possessore dei beni ereditari” (p. 12).

93

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 94

Paolo Ferretti Fatta questa premessa, leggiamo un testo di Nerazio: Ner. 1 resp., D. 47.2.84 (83)pr.: Si quis ex bonis eius, quem putabat mortuum, qui vivus erat, pro herede res adprehenderit, eum furtum non facere. Se uno dai beni di colui che reputava morto, mentre era vivo, ha appreso una cosa come erede, non commette furto.

Un soggetto si appropria pro herede di una cosa appartenente ad una persona che egli pensa essere deceduta, mentre è viva. Come è agevole comprendere, sul piano oggettivo la cosa sottratta non è res hereditaria, in quanto l’ereditando è ancora in vita. Tuttavia, la cosa è ritenuta res hereditaria da colui che ne prende possesso e questo è sufficiente, secondo Nerazio, per escludere il furto. Dunque, in questo caso il giurista traianeo applica la regola secondo cui ‘rei hereditariae furtum non fit’236, facendo leva soltanto sull’elemento soggettivo di quis pro herede res adprehenderit237. Prima del testo appena riportato, Otto Lenel238, nel libro I dei responsa del giurista traianeo, inserisce, sempre al numero 83, la parte iniziale di un passo paolino: Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: [Neratius] Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit… [Nerazio] Se tu hai sottratto un bene ereditario ignorando la sua condizione, rispose che hai commesso un furto239…

Se sottrai una res hereditaria, ignorandone la condizione, ossia ritendo la cosa ‘non ereditaria’, commetti furto. Si tratta di un’ipotesi antitetica a quella sopra vista – cosa che suggerisce l’attribuzione del testo a Nerazio240 –, come risulta dal confronto: Ner. 1 resp., D. 47.2.84 (83)pr.: Si quis ex bonis eius, quem putabat mortuum, qui vivus erat, pro herede res adprehenderit, eum furtum non facere. Se uno dai beni di colui che reputava morto, mentre era vivo, ha appreso una cosa come erede, non commette furto.

Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: [Neratius] Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit… [Nerazio] Se tu hai sottratto un bene ereditario ignorando la sua condizione, rispose che hai commesso un furto…

236

Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6. In argomento è utile leggere anche Pomp. 32 ad Sab., D. 41.5.1: Pro herede ex vivi bonis nihil usucapi potest, etiamsi possessor mortui rem fuisse existimaverit. Pomponio sottolinea che nessun bene di una persona viva può essere usucapito pro herede, anche se il possessore ritenesse che la cosa fosse appartenuta ad un uomo deceduto. Cfr. anche Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Marinae, C. 7.29.3: Opinione falsa mortis pro herede possessio rerum absentis procedere non potest. Si veda, per tutti, Dénoyez 1953, 89. 238 Lenel 1889.I, 776. 239 Per il commento del testo, rimandiamo a p. 167 ss. 240 Cfr., tra gli altri, Ferrini 1905, 103; Huvelin 1915, 797; Albanese 1953, 195 ss.; Greiner 1973, 141 s., secondo cui i due testi deriverebbero da un unico responso di Nerazio; Scarano Ussani 1979, 15 ss., secondo cui l’opinione di Nerazio sarebbe stata influenzata dalle “suggestioni del moralismo stoicizzante del primo secolo dell’impero”; Scarano Ussani 1989, 55 s.; Gnoli 1992, 173. 237

94

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 95

Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo In D. 47.2.84 (83)pr. si legge che non commette furto colui il quale si sia impossessato di una res altrui, credendola ereditaria; al contrario in D. 47.19.6 si legge che commette furto colui il quale abbia sottratto una res hereditaria, ignorando che fosse tale. Balza agli occhi che entrambi i casi sembrano essere affrontati e risolti ricorrendo a criteri di natura puramente soggettiva241: l’erroneo ritenere che una cosa sia hereditaria, mentre non lo è, consente di evitare il furto242 e l’erroneo ritenere che una cosa sia altrui, mentre è hereditaria, dà origine al furto243. Passiamo ora a Paolo, leggendo interamente: Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit. Paulus: rei hereditariae furtum non fit sicut nec eius, quae sine domino est, et nihil mutat existimatio subripientis. Se tu hai sottratto un bene ereditario ignorando la sua condizione, rispose che hai commesso un furto. Paolo: non si commette furto di una cosa ereditaria così come non si commette furto di ciò che è senza proprietario, e l’atteggiamento soggettivo di colui che sottrae la cosa non cambia alcunché244.

La prima parte del passo riflette la scrittura di Nerazio, come abbiamo detto sopra: se tu hai sottratto una res hereditaria, ignorando che fosse tale, compi furto. A questo punto interviene Paolo: non si commette furto della res hereditaria, allo stesso modo in cui non si commette furto della cosa che è sine domino, non rilevando l’existimatio del subripiens. Orbene, secondo Paolo l’atteggiamento soggettivo di colui che si impossessa di una res hereditaria non influisce nel processo che conduce all’identificazione della fattispecie. Quest’ultima deve essere qualificata soltanto sulla base di parametri oggettivi. Pertanto, come non si commette furto di ciò che è senza proprietario245, così non si commette furto di una res hereditaria. Ricapitolando, entrambi i giuristi affrontano il caso dell’impossessamento di una res hereditaria, nella convinzione che ereditaria non sia, ma lo risolvono in maniera opposta: Nerazio

241 Si tratta, come ho sopra detto, di una prospettiva basata su criteri di natura soggettiva. Su questi Nerazio sembra far leva per risolvere anche un caso in tema di falsus procurator. Si legga Ulp. 41 ad Sab., D. 47.2.43.1: Falsus procurator furtum quidem facere videtur. sed Neratius videndum esse ait, an haec sententia cum distinctione vera sit, ut, si hac mente ei dederit nummos debitor, ut eos creditori perferret, procurator autem eos intercipiat, vera sit: nam et manent nummi debitoris, cum procurator eos non eius nomine accepit, cuius eos debitor fieri vult, et invito domino eos contrectando sine dubio furtum facit. quod si ita det debitor, ut nummi procuratoris fiant, nullo modo eum furtum facere ait voluntate domini eos accipiendo. 242 Ner. 1 resp., D. 47.2.84 (83)pr. 243 Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6. 244 Per il commento del testo, rimandiamo a p. 167 ss. 245 Con questa affermazione Paolo non sembra voler dire che le res hereditariae sono res sine domino, ossia che la sottrazione delle res hereditariae non configura una ipotesi di furto perché queste sono prive di un titolare, bensì che le medesime res soggiacciono alla stessa regola che vale per le res sine domino in tema di furto. Del resto, se così non fosse, il pensiero di Paolo risulterebbe in contraddizione con quanto si legge, ad esempio, in PS. 2.31.11: Rei hereditariae, antequam ab herede possideatur, furtum fieri non potest; Paul. 7 ad Sab., D. 25.2.6.6: Quod si mortuo viro amoverit, non facit furtum, quia rei hereditariae nondum possessae non fit furtum: ideoque aut vindicari poterunt aut in hereditatis petitionem venient. Contra, per tutti, MacCormack 1978, 298.

95

SIR_XII_02_Nerazio_interlocutore.qxp_Layout 1 06/12/21 10:32 Pagina 96

Paolo Ferretti attraverso criteri di natura soggettiva – il profilo intenzionale del subripiens –, Paolo attraverso criteri di natura oggettiva – la condizione giuridica della res –; secondo Pietro Bonfante246, Paolo si oppone ad un’applicazione eccessiva della teoria proculiana, richiamando contro di essa il principio sabiniano della substantia e dichiarando che l’opinione di chi apprende la cosa è priva di significato se il bene non è suscettibile di furto, come ad esempio la res hereditaria o la res che è sine domino. Dunque, l’exemplum del furto di cosa ereditaria si differenza dai precedenti. Infatti, riguardo alla conservazione animo247 del possesso e all’acquisto di possesso e proprietà per procuratorem, Nerazio e Paolo sembrano allineati sulle stesse posizioni, cosa che non accade in merito al furto della res hereditaria, materia nella quale le loro opinioni divergono. Tuttavia, pure da questo caso emerge a nostro avviso l’affinità culturale tra i due giuristi: entrambi appaiono impegnati a riflettere sulla tematica dell’impossessamento di una cosa ereditaria; mostrano di ragionare attraverso le stesse categorie – il furtum248, l’adprehendere249 e il subripere250, il putare251 e l’existimatio252 – e di servirsi, dal punto di vista della forma, della medesima terminologia; attribuiscono entrambi rilevanza all’elemento soggettivo, benché in uno tale requisito prevalga sulla condizione della res253, mentre nell’altro sia quest’ultima a dettare la regola254. Potremmo forse spingerci a dire che il legame tra il pensiero di Nerazio e quello di Paolo si mostra più forte della sensibilità che li divide su un caso particolare.

246

Bonfante 1974, 291. In tema di acquisto animo del possesso, Nerazio accetta una possessio naturalis ‘imperfetta’, valorizzando al massimo l’animus, mentre Paolo richiede sia l’animus che il corpus. 248 Ner. 1 resp., D. 47.2.84 (83)pr.; Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6. 249 Ner. 1 resp., D. 47.2.84 (83)pr. 250 Ner. 1 resp., D. 47.2.84 (83)pr.; Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6. 251 Ner. 1 resp., D. 47.2.84 (83)pr. 252 Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6. 253 Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit… 254 Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: … Paulus: rei hereditariae furtum non fit sicut nec eius, quae sine domino est, et nihil mutat existimatio subripientis. 247

96

SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 97

III FRAGMENTA

SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 98

SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 99

L’ATTRIBUZIONE DEI TESTI: PREMESSA METODOLOGICA

Sia le scelte relative alla ricostruzione palingenetica dei libri ad Neratium di Paolo, sia quelle relative all’attribuzione del testo dei frammenti all’uno o all’altro giurista si basano su considerazioni formali e sostanziali di cui si darà conto nei relativi commenti. La nostra valutazione si è attenuta al quadro tracciato da Otto Lenel, salvo le eccezioni di cui conviene dare subito conto nel tratteggiare una sintetica panoramica delle scelte compiute, a mo’ di premessa alla lettura dei singoli frammenti. Innanzitutto, secondo lo studioso tedesco, ogni volta in cui è riportato il nome di uno dei due giuristi – sia del commentatore o del commentato – il testo che segue deve essere considerato ascrivibile alla mano di questi. Peraltro, in uno solo dei frammenti considerati ricorrono i nomi di entrambi i giuristi, risultando quindi chiaramente individuabile la scrittura a doppio livello tipica del commento lemmatico: si tratta del F. 4, D. 7.8.23 (L. 1023), in cui l’andamento del brano è scandito, anche da un punto di vista grafico, dall’indicazione del nome del giurista più risalente (Neratius) e da quello del commentatore successivo (Paulus). In tutti gli altri passi in cui è riportato il nome di uno dei giuristi, compare invece esclusivamente quello di Paolo: in questi casi, la presenza del nome del giurista severiano all’interno del passo è comunque segno, per l’autorevole studioso, di una duplice ‘mano’, per cui quanto precede deve essere considerato la citazione letterale di un passo di Nerazio e quanto segue di Paolo. Per quanto riguarda questi frammenti, in cui è presente quantomeno l’indicazione Paulus e sia dunque visibile la ‘scrittura a doppio livello’, la collocazione delle parti attribuibili all’uno e all’altro giurista può essere riassunta nel seguente prospetto : PAULUS AD NERATIUM LIBRI

NERATIUS

Liber I, F. 4, D. 7.8.23 (L. 1023) Liber I, F. 8, D. 35.1.96 (L. 1027) Liber I, F. 10, D. 46.2.32 (L. 1029) Liber I, F. 11, D. 47.19.6 (L. 1030)

Neratius laudatur non indicato libro Neratius laudatur non indicato libro Neratius laudatur non indicato libro Responsorum Liber I

99

SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 100

Alvise Schiavon PAULUS AD NERATIUM LIBRI

NERATIUS

Liber II, F. 14, D. 15.1.56 (L. 1033) Liber II, F. 15, D. 17.1.61 (L. 1034) Liber II, F. 17, D. 35.1.97 (L. 1036) Liber II, F. 18, D. 40.2.24 (L. 1037)

Neratius laudatur non indicato libro Neratius laudatur non indicato libro Neratius laudatur non indicato libro Neratius laudatur non indicato libro

Liber III, F. 21, D. 24.1.63 (L. 1040) Liber III, F. 24, D. 33.7.24 (L. 1043) Liber III, F. 27, D. 45.1.140 (L. 1046)

Neratius laudatur non indicato libro Neratius laudatur non indicato libro Neratius laudatur non indicato libro

Liber IV, F. 29, D. 34.1.23 (L. 1048)

Neratius laudatur non indicato libro

Il prospetto riporta tutti i brani in cui compare l’indicazione di almeno uno dei due giuristi e, come detto, riflette l’impostazione seguita nella Palingenesia leneliana nell’attribuire il testo all’uno e all’altro. In esso abbiamo inserito anche un brano che parrebbe essere sfuggito all’attenzione dello studioso tedesco: F. 10, D. 46.2.32 (L. 1029)1. In questo caso infatti Lenel, sconfessando il criterio per il resto seguito nella sua ricostruzione, non attribuisce la parte di testo che precede Paulus alla mano di Nerazio. Come sarà diffusamente argomentato nel relativo commento2, la scelta di Lenel non appare comprensibile, dal momento che il passo presenta la medesima struttura di tutti gli altri in cui compare il termine del giurista severiano: all’indicazione Paulus segue una frase in cui l’autore aderisce (‘merito’) a un’opinione, a sostegno della quale adduce una nuova ragione di tipo teorico. Ciò, come detto, ci induce a ritenerla una dimenticanza dell’autore tedesco e, pertanto, ci è sembrato ragionevole suggerire una modifica al prospetto leneliano, assegnando a Neratius – pur nell’impossibilità di stabilire l’opera originale di provenienza della citazione – anche la parte di D. 46.2.32 compresa tra te hominem e novatur. Appare verosimilmente frutto di una svista anche la mancata attribuzione a Nerazio dell’intero brano che precede l’indicazione Paulus in F. 27, D. 45.1.140 (L. 1046)3. Qui Lenel, coerentemente con l’impostazione seguita in generale, attribuisce alla mano paolina l’intero brano che segue la menzione del nome Paulus; inspiegabilmente, però, ascrive alla paternità

1 F. 10, D. 46.2.32 (L. 1029) Te hominem et Seium decem mihi dare oportet: stipulor ab altero novandi causa ita: ‘quod te aut Seium dare oportet’: utrumque novatur. Paulus: merito, quia utrumque in posteriorem deducitur stipulationem. 2 Cfr. le osservazioni svolte nel commento relativo al frammento in esame infra a pp. 161 ss. 3 F. 27, D. 45.1.140 (L. 1046) Pluribus rebus praepositis, ita stipulatio facta est: ‘ea omnia, quae supra scripta sunt, dari?’ propius est, ut tot stipulationes, quot res sint. 1. De hac stipulatione: ‘annua bima trima die id argentum quaque die dari?’ apud veteres varium fuit. Paulus: sed verius et hic tres esse trium summarum stipulationes. 2 Etsi placeat extingui obligationem, si in eum casum inciderit, a quo incipere non potest, non tamen hoc in omnibus verum est. ecce stipulari viam iter actum ad fundum communem socius non potest: et tamen si is, qui stipulatus fuerat, duos heredes reliquerit, non extinguitur stipulatio. et per partem dominorum servitus adquiri non potest, adquisita tamen conservatur et per partem domini: hoc evenit, si pars praedii servientis vel cui servitur alterius domini esse coeperit.

100

SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 101

Fragmenta. L’attribuzione dei testi: premessa metodologica di Nerazio solo il par. 1 del brano (da de hac stipulatione a fuit). Anche qui, la non assegnazione del principium del frammento alla mano neraziana non appare suffragata da alcun elemento sostanziale né formale4. Pertanto, l’applicazione del criterio generalmente fatto proprio dallo stesso autore tedesco conduce a correggere questa indicazione e ad ascrivere anche questa parte del frammento ad una citazione letterale di un brano di Nerazio all’interno dell’opera paolina5. Gli altri frammenti superstiti dell’opera non contengono il riferimento esplicito al nome di nessuno dei due giuristi: in questi casi Lenel riporta il testo esclusivamente tra le testimonianze del commentatore severiano, rinunciando ad individuare in essi una parte di testo attribuibile a Nerazio. Questa scelta ricostruttiva discende dalla qualifica formale dei libri ad Neratium di Paolo come commentario lemmatico e non come epitome o collazione, eventualmente annotata, di pareri del giurista precedente. Come notato in precedenza6 tuttavia – e come del resto suggerito dallo stesso Lenel7 – in alcuni casi la scrittura a doppio livello è riconoscibile anche in quei frammenti in cui l’indicazione dei nomi di giuristi sia caduta nella successiva trasmissione del testo, rendendo così più difficoltosa l’individuazione delle parti di brano attribuibili rispettivamente a Nerazio e Paolo. Con riferimento ad alcuni di questi frammenti siamo quindi giunti ad attribuire, sulla base di puntuali analisi sostanziali, una parte del brano a Nerazio pur in assenza della menzione di uno dei due giuristi. Si tratta innanzitutto di F. 7, D. 32.25 (L. 1026)8. Lenel, come detto, non colloca il frammento all’interno dell’opera neraziana, mostrando quindi di attribuire integralmente il testo alla mano di Paolo. Come emerge dal commento a questo brano9, noi vi individuiamo invece la scrittura a doppio livello tipica della forma commentario: una prima parte costituita dalla citazione di una disposizione testamentaria seguita da un’osservazione di Nerazio in cui si legge lo schema stilistico del responsum, a cui segue il commento paolino, dall’intonazione generale, che pone la giustificazione teorica della scelta del giurista precedente. A sostegno di tale valutazione, del resto, depone anche la circostanza che un problema abbastanza simile a quello contenuto in tale responsum neraziano si ritrovi in un frammento tratto dal libro V delle membranae di Nerazio (Ner. 5 membr., D. 30.124). L’integrale attribuzione del testo superstite a Paolo ci è sembrata non accettabile anche con riferimento a F. 16, D. 32.26 (L. 1035)10. In questo caso la deviazione rispetto all’indica-

4 Al contrario, è lo stesso studioso tedesco, nella nota 1 in Lenel 1889.I, 778 (su cui infra nt. 7), ad indicare di sfuggita proprio il principium del frammento in questione tra quelli che sembrano contenere uno stilema (propius est) tipico della scrittura di Nerazio: tale annotazione, basata su un dato puramente stilistico, rende ancora meno spiegabile questa scelta di Lenel. 5 Cfr. infra il commento al frammento in esame pp. 228 ss. 6 Cfr. i brevi ragguagli sulla natura di commento lemmatico dei libri ad Neratium svolti a pp. 5 ss. 7 Che quella operata dallo studioso tedesco nella sua ricostruzione palingenetica fosse una scelta fondata esclusivamente sul criterio formale della natura del commento paolino si evince, tra l’altro, dalla lettura di Lenel 1889.I, 778 nt. 1, laddove egli specifica di non dubitare che altri frammenti paolini possano riportare brani sostanzialmente riconducibili a Nerazio. 8 F. 7, D. 32.25 (L. 1026) ‘Ille aut ille heres Seio centum dabo’: potest Seius ab utro velit petere. Cum in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti voluntatis quaestio. 9 Cfr. infra pp. 146 ss. 10 F. 16, D. 32.26 (L. 1035) Is qui fideicommissum debet post moram non tantum fructus, sed etiam omne damnum, quo adfectus est fideicommissarius, praestare cogitur.

101

SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 102

Alvise Schiavon zione leneliana è più netta: nella Palingenesia, infatti, il frammento è attribuito esclusivamente alla mano paolina, sebbene si suggerisca un collegamento con Paul. 14 resp., D. 22.1.14.1 – brano tratto dal libro XIV dei responsa di Paolo in cui si ritrova però una testimonianza indiretta del pensiero neraziano in tema di fedecommesso avente ad oggetto una schiava e il suo partus. L’analisi circostanziata del testo11 ci ha condotto a supporre si tratti invece della citazione letterale di un responsum di Nerazio, di cui si può pure congetturare, sulla base dell’indicazione fornita proprio da D. 22.1.14.1, la collocazione palingenetica all’interno del libro I dei responsa neraziani. Alla stessa opera di Nerazio pensiamo possa essere attribuito – in dissenso con la soluzione di Lenel – la prima parte di F. 23, D. 33.1.16 (L. 1042)12. Tale brano non compare nella ricostruzione leneliana degli scritti di Nerazio. Anche in questo caso però, come già per il F. 7, D. 32.25 (L. 1026), ci siamo persuasi che questo frammento originariamente riproponesse la struttura a doppio livello e che la scomparsa della distinzione tra lemma neraziano e commento paolino sia attribuibile alle successive vicende di tradizione testuale13. La prima parte, dunque, riporterebbe un responsum neraziano, su cui Paolo sarebbe intervenuto per adeguare la precedente soluzione di Nerazio, forse alla luce di un successivo rescritto di Settimio Severo e Caracalla. Un discorso non dissimile trova luogo per il F. 28, D. 46.1.67 (L. 1047)14. Lenel non riporta il frammento tra i luoghi neraziani e lo attribuisce dunque interamente a Paolo. L’analisi ravvicinata del contenuto e del contesto del frammento15, corroborata dall’opinione di autorevoli studiosi, ci ha suggerito di individuare nella prima parte del brano (da exceptione a aequius est) una citazione letterale della scrittura neraziana, su cui Paolo sarebbe intervenuto col suo commento per integrare la soluzione del giurista precedente alla luce di successivi sviluppi legislativi in materia di iniuria iudicis. Con riferimento alle scelte di attribuzione dei testi superstiti, rimane da sottolineare come le nostre analisi abbiano suffragato e ulteriormente sviluppato il dubbio già accolto in Lenel circa la non riconducibilità ai libri ad Neratium paolini di due frammenti (L. 1031 e L. 1032) le cui inscriptiones attestano l’appartenenza al libro II di quest’opera. Come osserviamo in sede di commento dei due passi16, Lenel attribuisce il primo frammento – composto da Paul. 9 ad

11

Cfr. il commento svolto infra alle pp. 187 ss. F. 23, D. 33.1.16 (L. 1042): Servus post decem annos liber esse iussus est legatumque ei ex die mortis domini in annos singulos relictum est. Eorum quidem annorum, quibus iam liber erit, legatum debebitur: interim autem heres ei alimenta praestare compellitur. 13 Cfr. infra pp. 213 ss. 14 F. 28, D. 46.1.67 (L. 1047): Exceptione, quae tibi prodesse debebat, usus iniuria iudicis damnatus es: nihil tibi praestabitur iure mandati, quia iniuriam, quae tibi facta est, penes te manere quam ad alium transferri aequius est, scilicet si culpa tua iniustae damnationis causam praebuisti. 15 Si vedano le considerazioni svolte infra alle pp. 231 ss. 16 F. 28, D. 3.5.18pr. (L. 1031): [Proculus et Pegasus bonam fidem eum, qui in servitute gerere coepit, praestare debere aiunt: ideoque, quantum, si alius eius negotia gessisset, servare potuisset, tantum eum, qui a semel ipso non exegerit, nogotiorum gestorum actione praestaturum, si aliquid habuit in peculio, cuius retentione id servari potest. Idem Neratius] Adquin natura debitor fuit etiamsi in peculio nihil habuit, et si postea habuit, sibi postea solvere debet in eodem actu perseverans: sicut is, qui temporali actione tenebatur, etiam post tempus ex actum negotiorum gestorum actione id praestare cogitur. F. 29, D. 3.5.18.1-5 (L. 1032): 1. Scaevola noster ait putare se, quod Sabinus scribit debere a capite rationem reddendum sic intellegi, ut appareat, quid reliquum fuerit tunc, cum primum liber esse coeperit, non ut dolum aut culpam in servitute ad12

102

SIR_XII_03_Fragmenta_Intro.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 103

Fragmenta. L’attribuzione dei testi: premessa metodologica ed. D. 3.5.17 e dal principium di D. 3.5.18pr. – al commentario di Paolo ad Neratium; per quanto riguarda il secondo, invece, lo studioso tedesco condivide il dubbio di Jacques Cujas17, secondo cui esso non proverrebbe dall’opera di commento a Nerazio, ma dal libro 9 del commentario di Paolo all’editto. Come anticipato, ragioni sostanziali e stilistiche depongono a nostro avviso a favore dell’attribuzione di tutti i paragrafi del frammento in esame proprio a quel luogo dei libri ad edictum paolini. I ventisette frammenti che, alla luce delle verifiche qui anticipate a mo’ di sintesi, costituiscono le testimonianze superstiti del commentario di Paolo a Nerazio sono disposti su quattro libri: lo confermano il titolo stesso dell’opera, riportato anche nell’Index Florentinus, e le inscriptiones delle fonti in nostro possesso. Nella sua Palingenesia Lenel si è affidato proprio a queste al fine di inserire ciascun frammento nell’uno o nell’altro libro e ha, al contempo, cercato, sulla base del contenuto dei frammenti, di pervenire ad un’ipotesi di ricostruzione delle rubriche dei primi due libri: liber I ‘De usu et usu fructu’; liber II ‘De mandatis et negotiis gestis’. La riconsiderazione complessiva delle testimonianze in nostro possesso ci ha condotto a non seguire lo studioso tedesco in questo tentativo. Diversi frammenti ricompresi nei primi due libri non sembrano infatti in alcun modo avvicinabili alle materie indicate nella denominazione leneliana: in effetti, tra i passi pertinenti al primo libro solo i frammenti riportati in L. 1020, 1021, 1022, 1023 e 1027 sembrano chiaramente affini alla tematica dell’uso e dell’usufrutto, mentre i rimanenti sembrano affrontare un ventaglio di questioni non riconducibile ad un’unità tematica (l’actio mandati in L. 1024 e L. 1025; l’interpretazione di una stipulatio alternativa in L. 1026 e L. 1029; la condizione di statuliber in L. 1028; il furto della res hereditaria in L. 1030); analogamente può dirsi per i frammenti inseriti nel libro secondo i quali, salvo L. 1033 e L. 1034, sono estranei – o riconducibili solo con difficoltà – alle tematiche del mandato e della gestione di affari altrui (interpretazione di una disposizione fedecommissaria in L. 1035 e di un legato in L. 1036; condizioni di validità della manomissione da parte di un pupillo in L. 1037; usucapione di una res furtiva in L. 1038). Tale eterogeneità nelle tematiche trattate si riscontra del resto anche nel libro III, rispetto al quale lo stesso Lenel rinuncia ad indicare una rubrica, mentre il libro IV risulta composto da un solo frammento (L. 1048). Questa caratteristica, che si raccorda del resto con la nostra ipotesi – di cui si è dato conto – circa i materiali neraziani consultati nonché circa natura e funzione del commento paolino, ci spinge a rinunciare a proporre un’ipotesi di ricostruzione delle rubriche dei singoli libri.

missam in obligationem revocet: itaque si inveniatur vel malo more pecunia in servitute erogata, liberabitur. 2. Si libero homini, qui bona fide mihi serviebat, mandem, ut aliquid agat, non fore cum eo mandati actionem labeo ait, quia non libera voluntate exsequitur rem sibi mandatam, sed quasi ex necessitate servili: erit igitur negotiorum gestorum actio, quia et gerendi negotii mei habuerit affectionem et is fuit, quem obligare possem. 3. Cum me absente negotia mea gereres, imprudens rem meam emisti et ignorans usucepisti: mihi negotiorum gestorum ut restituas obligatus non es. sed si, antequam usucapias, cognoscas rem meam esse, subicere debes aliquem, qui a te petat meo nomine, ut et mihi rem et tibi stipulationem evictionis committat: nec videris dolum malum facere in hac subiectione: ideo enim hoc facere debes, ne actione negotiorum gestorum tenearis. 4. Non tantum sortem, verum etiam usuras ex pecunia aliena perceptas negotiorum gestorum iudicio praestabimus, vel etiam quas percipere potuimus. contra quoque usuras, quas praestavimus vel quas ex nostra pecunia percipere potuimus quam in aliena negotia impendimus, servabimus negotiorum gestorum iudicio. 5. Dum apud hostes esset Titius, negotia eius administravi, postea reversus est: negotiorum gestorum mihi actio competit, etiamsi eo tempore quo gerebantur dominum non habuerunt. 17 Lenel 1889.I, 1141 nt. 1.

103

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 104

FRAGMENTA*

Liber I

1. D. 7.4.26 (L. 1020) Si ager ab hostibus occupatus servusve captus liberatus fuerit, iure postliminii restituetur usus fructus. servusue] aut servus P

2. D. 7.5.4 (L. 1021) [Nerva ipsi quoque debitori posse usum fructum nominis legari scribit:] ergo cautio etiam ab hoc exigenda erit. ergo et caucio P

3. D. 7.5.9 (L. 1022) In stipulatione de reddendo usu fructu pecuniae duo soli casus interponuntur, mortis et capitis deminutionis. mortis] et mortis PV

* Soluzioni grafiche: corpo ordinario in tondo indica la scrittura di Paolo; il corpo ordinario in corsivo indica la scrittura di Nerazio; il corpo ordinario in corsivo racchiuso fra parentesi quadre indica la scrittura di Paolo tratta da altra opera o la scrittura di altro giurista, spesso entrambe utilizzate da Lenel in funzione di introduzione o di raccordo. La riproduzione dei frammenti è accompagnata da un apparato critico che non pretende di essere esaustivo.

104

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 105

FRAGMENTA

Liber I

1. D. 7.4.26 (L. 1020) Se sia stato liberato un terreno in precedenza occupato dai nemici o un servo da loro catturato, l’usufrutto si ripristina per diritto di postliminio.

2. D. 7.5.4 (L. 1021) [Nerva scrive che si può istituire un legato dell’usufrutto di un credito pure nei confronti dello stesso debitore] pertanto, anche da tale debitore si dovrà esigere la stipulazione di garanzia.

3. D. 7.5.9 (L. 1022) Nella stipulazione di garanzia relativa alla restituzione dell’usufrutto di denaro, intervengono solo due eventualità per la restituzione dell’usufrutto, la morte e il mutamento dello stato giuridico dell’usufruttuario.

105

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 106

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 4. D. 7.8.23 (L. 1023) NERATIUS: Usuariae rei speciem is cuius proprietas est nullo modo commutare potest. PAULUS: deteriorem enim causam usuarii facere non potest: facit autem deteriorem etiam in meliorem statum commutata. usuarias Pa | species Pa – deteri o┤rem F2 | fa‹e›cere F – deteriorum Fae | commutat a F2, commutare Pa, commutara (voluit commutata) Pb, commutatam L, ..mutata Ua, re mutata Ub, re ins. (dett.) aut scr. etiam si in m.st. commutat Mommsen: commutat F1 Krüger ├





5. D. 16.1.31 (L. 1024) PAULUS: Si mulier quod ex intercessione solvit nolit repetere, sed mandati agere et cavere velit de indemnitate reo, audienda est. paulus om. PVU

6. D. 46.1.66 (L. 1025) Si servus alienus pro Titio fideiussit et solvit, liberatur Titius, si dominus mandati contra eum agere instituit: nam qui mandati agit, ratam habere solutionem videtur.

7. D. 32.25 (L. 1026) ‘Ille aut ille heres Seio centum dato’: potest Seius ab utro velit petere. Cum in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti voluntatis quaestio. amitti F

8. D. 35.1.96 (L. 1027) Titio usus fructus servi legatus est et, si ad eum pertinere desisset, libertas servo data est. Titius vivo testatore decessit. libertas non valet, quia condicio nec initium accepit. PAULUS: ergo et si viveret Titius et capere non potest, idem dicendum est: desisse enim non videtur, quod nec incipit. 1. Servi usus fructus mulieri, quoad vidua esset, legatus, idem servus, se ea nubsisset, liber esse iussus est. si mulier nubserit, liber erit, quia potior est legato libertas. si om. Fa – enim] et in F1, enin F2: οὐ γὰρ λέγομεν παύσασθαι BS (Enantioph.) – quo‹d›ad Fb? – iussus est] I, iussus esset FWDECK, iussus esset et Q

106

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 107

Fragmenta 4. D. 7.8.23 (L. 1023) Neratius: Il proprietario non può in alcun modo modificare l’identità della cosa concessa in uso ad altri Paulus: egli non può infatti rendere deteriore la condizione dell’usuario, ma la rende deteriore anche qualora egli migliori la cosa.

5. D. 16.1.31 (L. 1024) Paulus: Se una donna non voglia richiedere quanto pagato per un intervento a favore di altri, ma voglia agire con l’azione di mandato e promettere con stipulazione al debitore di tenerlo indenne, deve essere ascoltata.

6. D. 46.1.66 (L. 1025) Se un servo altrui ha prestato fideiussione a favore di Tizio e ha pagato quanto promesso, Tizio è liberato dal suo debito qualora il padrone del servo abbia intentato un’azione di mandato nei suoi confronti: infatti chi esercita l’azione di mandato appare ratificare il pagamento avvenuto. 7. D. 32.25 (L. 1026) “Quell’erede o quell’altro darà cento a Seio”: Seio può chiedere la somma di cento a chi vuole dei due eredi indicati. Non risultando alcuna ambiguità in queste parole, non deve essere posta una questione di determinazione della volontà del testatore.

8. D. 35.1.96 (L. 1027) A favore di Tizio viene disposto a titolo di legato l’usufrutto di un servo, con la condizione che se il servo avesse cessato di appartenergli, a quello sarebbe stata concessa la libertà. Essendo ancora in vita il testatore, Tizio morì. La dazione della libertà al servo non è valida, poiché la condizione non ebbe inizio. Paulus: lo stesso, di conseguenza, deve dirsi anche nel caso che Tizio fosse vivo ma non fosse legittimato ad acquistare a titolo di successione ereditaria: infatti non può cessare ciò che non ebbe neppure principio. 1. A una donna è disposto a titolo di legato l’usufrutto di un servo a condizione che essa rimanesse vedova e fu stabilito dal testatore che lo stesso servo acquistasse la libertà qualora la donna si fosse risposata, pertanto se la donna si risposerà, il servo diventerà libero, perché la libertà prevale sulla disposizione del legato.

107

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 108

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 9. D. 40.7.38 (L. 1028) Non omne ab heredis persona interveniens inpedimentum statulibero pro expleta condicione cedit, sed id dumtaxat, quod impediendae libertatis factum est.

10. D. 46.2.32 (L. 1029) Te hominem et Seium decem mihi dare oportet: stipulor ab altero novandi causa ita: ‘quod te aut Seium dare oportet’: utrumque novatur. PAULUS: merito, quia utrumque in posteriorem deducitur stipulationem. et seium] idem Graeci: καὶ παρὰ Πέτρου Β (Anon.) - novandi causa Iust. (Levy): Krüger

11. D. 47.19.6 (L. 1030) Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit. PAULUS: rei hereditariae furtum non fit sicut nec eius, quae sine domino est, et nihil mutat existimatio subripientis. non] XYMOC, om. F: τῶν κληρονομιαίων πραγμάτων οὐχ ἁμαρτάνεται κλοπὴ BS – domina F1 | subripuentis F

108

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 109

Fragmenta 9. D. 40.7.38 (L. 1028) Non qualunque impedimento proveniente dalla persona dell’erede fa sì che la condizione si consideri adempiuta a favore dello statulibero, ma solo quello che è stato posto in essere per impedire il raggiungimento della libertà. 10. D. 46.2.32 (L. 1029) Tu sei obbligato a trasferirmi un uomo, e Seio a pagarmi dieci: con lo scopo di procedere a novazione mi faccio promettere da uno dei due “ciò che tu o Seio siete obbligati a dare”: così si novano entrambe le obbligazioni. Paulus: giustamente, poiché entrambe sono dedotte nella stipulazione successiva.

11. D. 47.19.6 (L. 1030) Se tu hai sottratto un bene ereditario ignorando la sua condizione, rispose che hai commesso un furto. Paulus: non si commette furto di cosa ereditaria, così come non si commette furto di ciò che è senza proprietario, e l’atteggiamento soggettivo di colui che sottrae (la cosa) non cambia nulla.

109

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 07/12/21 09:47 Pagina 110

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon

Liber II

12. D. 3.5.18pr. (L. 1031) [Proculus et Pegasus bonam fidem eum, qui in servitute gerere coepit, praestare debere aiunt: ideoque, quantum, si alius eius negotia gessisset, servare potuisset, tantum eum, qui a semel ipso non exegerit, negotiorum gestorum actione praestaturum, si aliquid habuit in peculio, cuius retentione id servari potest. Idem Neratius. Adquin natura debitor fuit etiamsi in peculio nihil habuit, et si postea habuit, sibi postea solvere debet in eodem actu perseverans: sicut is, qui temporali actione tenebatur, etiam post tempus exactum negotiorum gestorum ac tione id praestare cogitur.] proculus et] proculare F (em. m. 3), proculus L: Πρόκουλος καὶ Πήγασος BS (Steph.): sic S com ΒΣ, proculset F2, proculire (emend. in proculsae) F2 Krüger | eum om. PaL – coepit] ederit Fae, ceperit U – exigerit F (em. m. 3) –potest: potuit? Mommsen - sencundo F | peculium PL - h abuit Fb | et si postea (post L) habuit sibi postea solvere debet (debuit U) VLU, item, sed ut primum scriptum fuerit solvere debet sibi postea P, cum Β (Anon.): ἐχρῆν αὐτὸν ... τῇ διοικήσει ἐπιμένοντα καταβαλεῖν ἑαυτῷ, εἰ καὶ μὲν οὐκ εἲχε πεκούλιον, ὓστερον δέ ἔσχεν, et sibi postea soluere debet F2, etsi postea solvere debet F1: et si postea habuit sibi S cum Β, et si F1 Krüger - tempus] temins F1 ├



13. D. 3.5.18.1-5 (L. 1032) [1. Scaevola noster ait putare se, quod Sabinus scribit debere a capite rationem reddendum sic intellegi, ut appareat, quid reliquum fuerit tunc, cum primum liber esse coeperit, non ut dolum aut culpam in servitute admissam in obligationem revocet: itaque si inveniatur vel malo more pecunia in servitute erogata, liberabitur. 2. Si libero homini, qui bona fide mihi serviebat, mandem, ut aliquid agat, non fore cum eo mandati actionem Labeo ait, quia non libera voluntate exsequitur rem sibi mandatam, sed quasi ex necessitate servili: erit igitur negotiorum gestorum actio, quia et gerendi negotii mei habuerit affectionem et is fuit, quem obligare possem. 3. Cum me absente negotia mea gereres, imprudens rem meam emisti et ignorans usucepisti: mihi negotiorum gestorum ut restituas obligatus non es. sed si, antequam usucapias, cognoscas rem meam esse, subicere debes aliquem, qui a te petat meo nomine, ut et mihi rem et tibi stipulationem evictionis committat: nec videris dolum malum facere in hac subiectione: ideo enim hoc facere debes, ne actione negotiorum gestorum tenearis. 4. Non tantum sortem, verum etiam usuras ex pecunia aliena perceptas negotiorum gestorum iudicio praestabimus, vel etiam quas percipere potuimus. contra quoque usuras, quas praestavimus vel quas ex nostra pecunia percipere potuimus quam in aliena negotia impendimus, servabimus negotiorum gestorum iudicio. 5. Dum apud hostes esset Titius, negotia eius administravi, postea reversus est: negotiorum gestorum mihi actio competit, etiamsi eo tempore quo gerebantur dominum non habuerunt.] 110

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 111

Fragmenta

Liber II

12. D. 3.5.18pr. (L. 1031) Proculo e Pegaso affermano che colui che, da servo, abbia iniziato la gestione di un affare, deve risponderne secondo buona fede: perciò, quanto si sarebbe potuto risparmiare se un altro avesse gestito quell’affare, di tanto colui (il gestore) che abbia evitato di esigere (qualcosa) da se stesso dovrà rispondere in base all’azione di gestione di affari, se nel suo peculio c’era qualcosa sopra il quale procedere a retenzione per quanto dovuto. Allo stesso modo Nerazio. Inoltre, costui è divenuto debitore per natura, anche se non aveva nulla nel peculio, e se successivamente avesse qualcosa egli deve poi adempiere a se stesso, qualora continui nella medesima attività (di gestione): così come colui che era tenuto in base a un’azione soggetta a prescrizione è tenuto a rispondere per la sua condotta anche dopo la scadenza del termine (della prescrizione), in virtù dell’azione di gestione di affari.

13. D. 3.5.18.1-5 (L. 1032) 1. Il nostro Scevola afferma di credere che ciò che Sabino scrive, che vada reso all’inizio il conto, debba intendersi così, affinché si dimostri cosa sia rimasto allorché il servo cominciò ad essere libero, e non perché si converta in obbligazione il dolo o la colpa commessa durante lo stato servile: così sarà da intendersi libero (da qualsiasi vincolo obbligatorio) ove si riscontri che durante la schiavitù abbia elargito denaro comportandosi in malo modo. 2. Nel caso in cui io dia mandato ad un uomo libero che si ritiene essere in buona fede mio servo, di compiere alcune attività, Labeone afferma che non vi sarà contro costui l’azione di mandato, giacché egli esegue l’incarico assegnatogli non in forza di una libera determinazione, ma come stretto dalla (tipica) necessità della condizione servile: e dunque vi sarà l’azione di gestione degli affari poiché egli ebbe intenzione di gestire un negozio mio e si trovò in una condizione tale che io potessi obbligarlo. 3. Se durante la mia assenza, mentre tu gestivi i miei affari, inconsapevolmente acquistasti una cosa mia e sempre ignorando (che fosse mia) la usucapisti: non sei obbligato alla restituzione in base alla gestione di affari. Ma se, prima di usucapire, vieni a conoscenza che la cosa è mia, devi farti sostituire da qualcuno, il quale la rivendichi da te in nome mio, così che costui assicuri a me la cosa e a te la stipulazione della garanzia per l’evizione; né potrà dirsi che con tale sostituzione tu compirai un dolo: infatti 111

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 112

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon debere quod Sabinus scribit? Mommsen - reddendum F1, reddendan P, reddendam F3VLU: F3S Krüger | tunc um primum Fb - aut‹em› culpam F | obligacione P – servitute erogata liberabitur om. F1 – serbiebat F – servili‹t›erit F | quia] qua Pa – cum m e F2, cum ne Ua – usucepisti] F1PVLbU cum Β: sic F1S Krüger, suscepisti F2.....pisti La – cognoscat Fae – committat] PbVLU, committit F1Pa, committet F2, ἵνα κάμοὶ τὸ πρᾶγμα καὶ σοὶ ἡ τῆς ἐκνικήσεως ἐπερώτησις φυλαχθῇ Β (Anon.) -et mihi rem: recipiat ins. Mommsen - actione‹t› F – gestorum om. F1 – quas praestau.] praestau. F |e x nostra F2 - impe n dimus F2 | negoti‹a›orum F – quas S, om. F Krüger - habuerint PL, haberent U ├















14. D. 15.1.56 (L. 1033) Quod servus meus pro debitore meo mihi expromisit, ex peculio deduci debet et a debitore nihilo minus debetur. sed videamus, ne credendum sit peculiare fieri nomen eius, pro quo expromissum est. PAULUS: utique si de peculio agente aliquo deducere velit, illud nomen peculiare facit. debetur] debeatur F2Pa – aliquod Pa | faciar Pa

15. D.17.1.61 (L. 1034) Quod filio familias ut peteret mandavi, emancipatus exegit: de peculio intra annum utiliter agam. PAULUS: sed et cum filio agendum est. libro ‹singula› secundo Fb | familias] fPU, filias F: τῶν Β, om. F Krüger

16. D. 32.26 (L. 1035) Is qui fideicommissum debet post moram non tantum fructus, sed etiam omne damnum, quo adfectus est fideicommissarius, praestare cogitur. 17. D. 35.1.97 (L. 1036) Municipibus, si iurassent, legatum est. haec condicio non est impossibilis. PAULUS: quemadmodum ergo pareri potest per eos? itaque iurabunt, per quos municipii res geruntur. si i urassent F2 – per ‹ad› quos F2 ├ ┤

18. D. 40.2.24 (L. 1037) Pupillus qui infans non est apud consilium recte manumittit. PAULUS: scilicet tutore auctore, ita tamen, ut peculium eum non sequatur.

112

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 07/12/21 09:47 Pagina 113

Fragmenta fai ciò per non essere tenuto con l’azione di gestione degli affari. 4. Nell’azione di gestione degli affari presteremo non solo la somma a titolo di capitale, ma anche gli interessi percepiti e perfino gli interessi che avremmo potuto percepire. Diversamente con l’azione di gestione degli affari otterremo gli interessi che prestammo o che avremmo potuto ricavare dal nostro denaro speso per la gestione degli affari altrui. 5. Mentre Tizio era nelle mani dei nemici, ne amministrai i negozi, dopo fece ritorno: mi compete l’azione di gestione degli affari, sebbene nel periodo in cui questi furono amministrati non ebbero alcun soggetto interessato alla loro gestione. 14. D. 15.1.56 (L. 1033) Ciò che il mio servo espromise per il mio debitore deve essere dedotto dal peculio e nondimeno dovuto dal debitore. Ma consideriamo se non debba ritenersi far parte del peculio il debito di colui per il quale vi fu l’espromissione. Paulus: in ogni caso, se taluno agendo in base al peculio voglia dedurre, quel debito grava sul peculio.

15. D. 17.1.61 (L. 1034) Ciò che diedi incarico attraverso un mandato al figlio di famiglia di richiedere egli lo riscosse dopo essere stato emancipato: esperirò l’azione di peculio in via utile entro l’anno. Paulus: ma contro il figlio bisogna agire.

16. D. 32.26 (L. 1035) Colui che deve un fedecommesso, è tenuto dopo la mora non solo alla prestazione dei frutti, ma anche di ogni danno sofferto dal fedecommissario. 17. D. 35.1.97 (L. 1036) Fu disposto un legato ai municipi, a condizione che avessero giurato. Tale condizione non è impossibile. Paulus: in che modo allora potrà adempiersi per essi? Giureranno attraverso coloro che amministrano il municipio.

18. D. 40.2.24 (L. 1037) Il pupillo non infante correttamente effettua atti di manomissione presso il Consiglio. Paulus: vale a dire con l’autorità del tutore, in modo tale però che il peculio non spetti a costui.

113

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 114

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 19. D. 47.2.85 (L. 1038) Quamvis res furtiva, nisi ad dominum redierit, usucapi non possit, tamen, si eo nomine lis aestimata fuerit vel furi dominus eam vendiderit, non interpellari iam usucapionis ius dicendum est. paulus] ἴδεμ Β - iu s F2 ├ ┤

114

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 115

Fragmenta 19. D. 47.2.85 (L. 1038) Sebbene la cosa furtiva, se non rientri nella potestà del proprietario, non possa essere usucapita, tuttavia se di essa se ne fece la stima in giudizio, ovvero se fu venduta dal ladro al proprietario, non si dubita che si abbia il diritto di usucapirla.

115

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 116

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon

Liber III 20. D. 13.1.19 (L. 1039) Iulianus ex persona filiae, quae res amovit, dandam in patrem condictionem in peculium respondit. 21. D. 24.1.63 (L. 1040) De eo, quod uxoris in aedificium viri ita coniunctum est, ut detractum alicuius usus esse possit, dicendum est agi posse, quia nulla actio est, ex lege duodecim tabularum, quamvis decemviros non sit credibile de his sensisse, quorum voluntate res eorum in alienum aedificium coniunctae essent. PAULUS notat: sed in hoc solum agi potest, ut sola vindicatio soluta re competat mulieri, non in duplum ex lege duodecim tabularum: neque enim furtivum est, quod sciente domino inclusum est. in] u Fa - esse‹t› F2 - quia: alia ins. Mommsen - de his Fb – coniuncta essent PUa, coniuncta esset VUb: quia ... coniuncta essent glossa (Riccobono): Krüger- agi potest, sed (del. in hoc solum)? Mommsen – competat] competant FaPaVUa - tabulorum Pa: Fortasse haec verba sed in hoc solum ...tabularum insiticia sunt Lenel: glossa (Riccobono) Krüger ├



22. D. 28.2.27 (L. 1041) Postumum ex qualibet vidua natum sibi filium heredem instituere potest. vidue F1

23. D. 33.1.16 (L. 1042) Servus post decem annos liber esse iussus est legatumque ei ex die mortis domini in annos singulos relictum est. eorum quidem annorum, quibus iam liber erit, legatum debebitur: interim autem heres ei alimenta praestare compellitur. 24. D. 33.7.24 (L. 1043) Fundus, qui locatus erat, legatus est cum instrumento: instrumentum, quod colonus in eo habuit, legato cedit. PAULUS: an quod coloni fuit an tantum id quod testatoris fuit? et hoc magis dicendum est, nisi nullum domini fuit.

116

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 117

Fragmenta

Liber III 20. D. 13.1.19 (L. 1039) Giuliano rispose che a causa della sottrazione posta in essere dalla figlia, deve essere concessa contro il padre l’azione di ripetizione nel peculio. 21. D. 24.1.63 (L. 1040) Riguardo al materiale appartenente alla moglie, materiale che è stato unito all’edificio del marito, in modo tale che possa essere di qualche uso una volta separato, si deve dire che la moglie, poiché non vi è alcuna azione, possa agire in forza della legge delle XII Tavole, per quanto non sia credibile che i decemviri abbiano pensato a coloro che hanno acconsentito a che le loro cose fossero congiunte ad un edificio altrui. Paulus notat: ma si può agire soltanto in questo modo, cosicché la sola rivendica competa alla moglie, una volta che il materiale sia stato separato dall’edificio del marito, non l’azione nel doppio derivante dalla legge delle XII Tavole: non è infatti furtiva la cosa che è stata congiunta ad un edificio altrui con la consapevolezza del proprietario.

22. D. 28.2.27 (L. 1041) Si può istituire erede il figlio postumo, che nascerà da qualsiasi vedova.

23. D. 33.1.16 (L. 1042) Ad un servo è stata concessa la libertà dopo dieci anni e gli è stato lasciato un legato annuo a partire dal giorno della morte del padrone. Invero, il legato sarà dovuto per gli anni, nei quali il servo è già divenuto libero: ma nel frattempo l’erede sarà tenuto a prestare gli alimenti. 24. D. 33.7.24 (L. 1043) Un fondo, che era oggetto di locazione, è stato dato in legato insieme alle cose strumentali al suo sfruttamento: le cose strumentali, che il colono ha avuto nel fondo, cedono al legato. Paulus: fanno parte del legato le cose strumentali del colono o soltanto quelle del testatore? Ed è meglio dire soltanto quelle di quest’ultimo, eccetto il caso in cui nessuno strumento appartenesse al proprietario del fondo. 117

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 118

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 25. D. 35.1.98 (L. 1044) Mea res sub condicione legari mihi potest, quia in huiusmodi legatis non testamenti facti tempus, sed condicionis expletae spectari oportet. lecatis F

26. D. 41.3.47 (L. 1045) Si emptam rem mihi procurator ignorante me meo nomine adprehenderit, quamvis possideam, eam non usucapiam, quia ut ignorantes usuceperimus, in peculiaribus tantum rebus receptum est. procuratur F1

27. D. 45.1.140 (L. 1046) Pluribus rebus praepositis, ita stipulatio facta est: ‘ea omnia, quae supra scripta sunt, dari?’ propius est, ut tot stipulationes, quot res sint. 1 De hac stipulatione: ‘annua bima trima die id argentum4 quaque die dari?’ apud veteres varium fuit. PAULUS: sed verius et hic tres esse trium summarum stipulationes. 2. Etsi placeat extingui obligationem, si in eum casum inciderit, a quo incipere non potest, non tamen hoc in omnibus verum est. ecce stipulari viam iter actum ad fundum communem socius non potest, et tamen si is, qui stipulatus fuerat, duos heredes reliquerit, non extinguitur stipulatio. et per partem dominorum servitus adquiri non potest, adquisita tamen conservatur et per partem domini: hoc evenit, si pars praedii servientis vel cui servitur alterius domini esse coeperit. proprus F1 - argentum: sua ins. Mommsen - t res F2 – relinquerit F – dominorum del. Mommsen: gloss. Lenel – domini del. Mommsen: gloss. Lenel. - servitur] servitus F1 ├ ┤

28. D. 46.1.67 (L. 1047) Exceptione, quae tibi prodesse debebat, usus iniuria iudicis damnatus es: nihil tibi praestabitur iure mandati, quia iniuriam, quae tibi facta est, penes te manere quam ad alium transferri aequius est, scilicet si culpa tua iniustae damnationis causam praebuisti. prodesse debebat usus iniuria iudicis damnatus es (est altero loco) nihil tibi bis F1 - iniusta e F2 - scilicet ... praebuisti glossa (Cuiacius): Krüger ├

118



SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 119

Fragmenta 25. D. 35.1.98 (L. 1044) Una cosa di mia proprietà può essermi legata sotto condizione, poiché nei legati di questo tipo occorre osservare non il momento nel quale è stato fatto il testamento, ma il momento in cui la condizione si è verificata.

26. D. 41.3.47 (L. 1045) Se il procuratore, a mia insaputa, compia l’apprensione a mio nome di una cosa comperata per me, per quanto io la possieda, non la usucapisco, poiché si è stabilito che ignari dell’acquisto del possesso usucapiamo soltanto i beni che fanno parte del peculio.

27. D. 45.1.140 (L. 1046) Dopo aver stabilito molte cose, fu fatta la stipulazione: ‘prometti che siano date tutte quelle cose che sono state scritte sopra?’. Vi sono propriamente tante stipulazioni quante sono le cose. 1 Riguardo a questa stipulazione: ‘Prometti di dare questo argento nel primo, nel secondo, nel terzo anno?’ Presso gli antichi giuristi vi furono diverse opinioni. Paulus: è più vero che anche in questo caso vi siano tre stipulazioni per tre somme. 2 Benché sia stabilito che l’obbligazione si estingua se rientra in un caso dal quale non avrebbe potuto avere inizio, tuttavia questo non è sempre vero. Per esempio, un socio non può stipulare la via o il passaggio a piedi o con il carro in un fondo comune: ma se colui, che ha stipulato, ha lasciato due eredi, la stipulazione non si estingue. E la servitù non può essere acquistata per una parte dei proprietari del fondo, tuttavia, una volta acquistata, è conservata anche per la parte di un proprietario; ciò accade se una parte del fondo servente o di quello cui serve inizia ad essere dell’altro proprietario. 28. D. 46.1.67 (L. 1047) Essendoti tu servito dell’eccezione, che ti doveva giovare, sei stato condannato per l’ingiustizia del giudice: niente a te sarà dato per diritto di mandato, perché è più conforme all’equità che l’ingiustizia, che ti è stata fatta, rimanga a tuo carico, anziché essere trasferita ad un altro, certo se per colpa tua hai dato motivo alla ingiusta condanna.

119

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 120

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon

Liber IV

29. D. 34.1.23 (L. 1048) Rogatus es, ut quendam educes: ad victum necessaria ei praestare cogendus es. PAULUS: cur plenius est alimentorum legatum, ubi dictum est et vestiarium et habitationem contineri? Immo ambo exaequanda sunt. est] est ergo F2 | legatum ‹i›ubi F2

120

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 121

Fragmenta

Liber IV

29. D. 34.1.23 (L. 1048) Ti è stato richiesto di educare qualcuno: sei obbligato a garantirgli ciò che è necessario per il vitto. Paulus: perché il legato di alimenti è più completo, dal momento che si reputa contenere anche quello di vestiario e di abitazione? Al contrario i due devono essere equiparati.

121

SIR_XII_03b_Fragmenta.qxp_Layout 1 06/12/21 10:33 Pagina 122

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 123

IV COMMENTO AI TESTI

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 124

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 125

COMMENTO AI TESTI

LIBRO I

F. 1 – D. 7.4.26 (L. 1020) Nel testo si deve riconoscere unicamente la mano di Paolo. Tale attribuzione trova le sue ragioni nell’analisi di elementi contenutistici di cui daremo conto fra breve, risultando opportuno premettere talune riflessioni utili alla comprensione del fenomeno giuridico e sociale sotteso. Il cittadino caduto prigioniero presso il nemico era ritenuto servo (servus hostium) con tutte le note conseguenze che l’ordinamento romano riconnetteva a questo status, fra cui la perdita di diritti e di situazioni soggettive. A mitigare tali effetti soccorreva il ius postiliminii. Figura di origine consuetudinaria1 in virtù della quale il cittadino rientrato libero entro i limina di Roma riacquistava tutte le situazioni giuridiche attive e passive di cui egli era stato titolare prima di cadere in prigionia2. Infatti, secondo una nota distinzione che risale a Pomponio3, oltre che al rientro dei cives entro i confini patrii, il postliminium si presenta come diritto al recupero delle res sottratte dal nemico. Come le fonti testimoniano4, il criterio dell’utilità bellica guidò i giuristi nella formulazione di elenchi delle res suscettibili di essere recuperate in virtù del diritto di postliminio: servi,

1

Su questo specifico punto, di recente, D’Amati 2014, 330 e nt. 27. Nella difficoltà di delineare in una sintesi definitoria unitaria tale figura giuridica (problema ricordato ultimamente da Barbati 2014, 589) rinviamo per un inquadramento complessivo ancora utile ad Amirante 1966, 429 ss. Il tema è stato poi indagato in modo diffuso e circostanziato nella letteratura, si vedano, fra gli altri: Maffi 1992; Cursi 1996; Sanna 1998; Sanna 2001; Periñan Gómez 2008; Barbati 2014, 587 ss. Importanti anche gli studi di F. Bona, che toccano in modo profondo vari profili (cfr. Bona 2003, 3 ss.). 3 Pomp. 3 ad Sab., D. 49.14.14pr. (Cum duae species postliminii sint, ut aut nos revertamur, aut aliquid recipiamus...). 4 Ael. Gall. verb. sign. fr. 1 (Huschke 1879, 94); Cic. top. 36; Marc. 39 dig., D. 49.15.2; Pomp. 37 ad Q.M., D. 49.15.3. Sul punto Maffi 1992, 93 ss.; Cursi 1996, 243 ss. 2

125

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 126

Gianni Santucci cavalli e muli destinati all’impiego bellico, navi da guerra o da carico, purché anche queste destinate ad uso militare. Il frammento in esame richiama il funzionamento del diritto di postliminio per il servo e i fondi. Non v’è dubbio che il primo rientri negli elenchi delle res quae postliminio redeunt: Aelius Gallus, come ci testimonia il grammatico Festo, lo richiama espressamente5, ma è agevole ricavare il medesimo assunto anche da altre testimonianze come i topica di Cicerone6 e da testi giurisprudenziali fra cui anche dello stesso Paolo7. Il richiamo invece all’applicazione del postliminio al fondo (ager) ha posto problemi interpretativi presso la moderna romanistica. Bisogna innanzitutto osservare che non vi è menzione degli agri nelle liste delle res quae postliminio redeunt. Ma, soprattutto, in un passato non troppo lontano si denunciò la difficoltà di concepire il recupero di cose immobili per diritto di postliminio in ragione di un argomento formale che, in un’epoca dei nostri studi dominata dai noti eccessi della critica testuale, godeva di una forza intrinseca: l’etimologia del termine postliminium (post-limen) costituirebbe un ostacolo insormontabile per la configurazione degli agri, che in quanto immobili e non semoventi, sono essenzialmente inidonei a oltrepassare i confini di Roma o rientrarvi8. Tale ragionamento indusse a marginalizzare, oltre D. 7.4.26, anche altre testimonianze giurisprudenziali di rilievo, fra cui Pomp. 36 ad Sab., D. 49.15.20.1, in cui si contempla il recupero da parte degli originari proprietari degli agri che erano stati liberati dall’occupazione del nemico9, e Ulp. 75 ad ed., D. 44.2.11.4, dove si pone il caso di una richiesta giudiziale della proprietà di un fondo, richiesta che diviene superflua poiché l’attribuzione della titolarità della proprietà sul medesimo fondo matura in altro modo, e a questo proposito si fa proprio l’esempio del diritto di postliminio quale causa della successiva attribuzione. Jean Imbert preferì, attraverso esegesi parziali, svuotare di significato tali testimonianze. E così per quanto riguarda il nostro D. 7.4.26 lo studioso francese ritiene che Paolo avesse intenzione di menzionare il regime del postliminium (iure postlimini) solo per l’usufrutto del servo, mentre il riferimento a quello del fondo fosse la conseguenza di una disattenzione dello stesso giurista che lasciò “cette expression venir sous sa plume”10. Siro Solazzi scelse la strada, a lui più consueta, di una radicale critica testuale fondata unicamente su argomenti formali, per giungere ad affermare che Paolo avrebbe scritto soltanto si ab hostibus servus captus liberatus fuerit, giudicando insiticia la menzione dell’ager occupatus11. Nonostante taluni importanti consensi12, la romanistica ha avuto agio di contestare tale impostazione e riconoscere nel pensiero dei giuristi del

5

Ael. Gall. verb. sign. fr. 1 (Huschke 1879, 94). Cic. top. 36. 7 Circostanziata analisi delle fonti pertinenti in Cursi 1996, 243 ss. 8 In questo senso Imbert 1945, 41. Tale argomento era già presente in De Visscher 1939, 289 (che, tuttavia, sembra riconoscere il postliminium ai fondi come estensione della giurisprudenza severiana, giudicando così genuino il nostro D. 7.4.26) e viene ripreso da Solazzi 1949, 157. La lettura di Imbert e Solazzi è seguita da Amirante 1950, 19. 9 Sul rapporto fra il nostro testo e quello di Pomponio cfr le riflessioni di Cursi 1996, 309. 10 Imbert 1945, 40 s. 11 Solazzi 1949, 155 ss. Si deve però osservare che lo studioso non riuscì a trovare indizi formali di alterazione in D. 7.4.26 e si diresse verso gli altri testi alla ricerca delle prove testuali necessarie da cui poi motivare come giustinianeo “l’incastro di ager occupatorius” (Solazzi 1949, 158). 12 La lettura di Imbert e Solazzi fu seguita pienamente da Amirante 1950, 19. 6

126

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 127

Commento ai testi tardo principato il funzionamento del postliminio per i fondi13, recuperando così una lettura già offerta dalla storiografia più risalente14. L’argomento formale del mancato superamento del limen probabilmente aveva giocato un ruolo non secondario presso la giurisprudenza più antica, impedendo ad essa di includere nelle liste delle res quae postliminio redeunt anche gli agri. Posteriormente con la giurisprudenza severiana si giunse a ravvisare l’operatività del postliminio non solo per il recupero di cose che erano stato oggetto di occupazione nemica, ma anche “in ipotesi in cui si contemplava il ripristino dello status quo ante per i beni immobili15. Chiariti i profili contenutistici della testimonianza paolina, veniamo finalmente alla questione dell’attribuzione del testo, dove, come già anticipato all’inizio del commento, non credendo plausibile ravvisare l’eventuale persistenza di un lemma neraziano, riteniamo che per varie ragioni vi si debba leggere unicamente la prosa di Paolo16. Innanzitutto un argomento non decisivo, ma che comunque può avere un suo peso: nell’opera che residua e attribuibile direttamente o indirettamente a Nerazio17, il tema del diritto di postliminio non appare mai trattato. Né il testo, laconico e lineare nella sua semplice struttura organizzata in protasi e apodosi, presenta elementi stilistici che possano in qualche modo segnalare la presenza della scrittura di Nerazio. Paolo, invece, tratta con ampiezza del diritto di postliminio in diverse opere18 ed in particolare prende in considerazione il tema del funzionamento del postliminio con riguardo al servus. In questo specifico ambito appare significativo un commento del giurista severiano ai pithanà di Labeone riportato in Labeo 8 pith. a Paul epit., D. 49.15.3019: Si id, quod nostrum hostes ceperunt, eius generis est, ut postliminio redire possit: simul atque ad nos redeundi causa profugit ab hostibus et intra fines imperii nostri esse coepit, postliminio redisse exsistimandum est. Paulus: immo cum servus civis nostri ab hostibus captus inde aufugit et vel in urbe Roma ita est, ut neque in domini sui potestate sit neque ulli serviat, non dum postliminio redisse existimandum est. Se una cosa nostra, che fu sottratta dal nemico, è di genere tale da poter essere recuperata in virtù del diritto di postliminio; appena questa, con l’intenzione di rientrare, torna a noi dal nemico e inizia ad essere all’interno dei nostri confini, si deve ritenere tornata per diritto di postliminio. Paolo: Anzi, quando il servo di un nostro cittadino, catturato e poi fuggito dal nemico, pur trovandosi in Roma, non è rientrato nella potestà del suo padrone né è servo di nessun altro, non deve essere ritenuto ancora recuperato per diritto di postliminio.

13 Convincenti, per esempio, le riflessioni critiche a Solazzi svolte da Rainer 1986, 462 ss.; si veda poi ampiamente Cursi 1996, 305 ss. Più di recente anche Barbati 2014, 785 ss. 14 Sertorio 1915, 14; Perozzi 1928, 714 s.; Girard 1929, 358 nt. 3. 15 Così per tutti Cursi 1996, 310 s. 16 Il punto non sembra aver interessato gli studiosi, che sembrano dare per scontato che l’intera scrittura sia paolina, cfr., per esempio, Solazzi 1949, 157 s. 17 Cfr. Lenel 1889.I, 763-787. 18 Cfr. Paul. 3 ad leg. Iul. et Pap., D. 49.15.8; Paul. 2 ad Sab., D. 49.15.13 e 17; Paul. 16 ad Sab., D. 49.15.19; Lab. 4 pith. a Paulo ep., D. 49.15.28; Lab. 6 pith. a Paulo ep., D. 49.15.29. 19 Su questa peculiare opera, un’epitome dei pithanà di Labeone, composta da Paolo si vedano, con particolare attenzione ai referenti culturali del pensiero di Labeone: Talamanca 1975, 1 ss.; Bretone 1982, 147 ss., e, con maggior attenzione alle note paoline, Formigoni 1996, 1 ss.; Cannata 1997a, 316 ss.; Vacca 2006a, 144 ss. Cfr. inoltre quanto osservato supra: 43 s.

127

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 128

Gianni Santucci Labeone espone i requisiti per il funzionamento del diritto di postliminio in rapporto alle res, fra questi la presenza nella res dell’intenzione a rientrare (ad nos redeundi causa profugit ab hostibus). Su tale elemento si è concentrata la riflessione critica da parte degli studiosi in quanto logicamente difficile da intendere20. Ma tale impasse può essere superata, osservando come “l’inciso «redeundi causa» – di certo non riferibile a res inanimate (naves) (che peraltro non possono nemmeno profugere) o semoventi, ma non dotate di autonoma volontà (equi, muli) – acquista un senso se riferito allo schiavo. Il servus è l’unica tra le res a poter fuggire dal nemico, con l’intenzione di tornare a Roma”21. Nel prosieguo del passo Labeone considera che sia sufficiente per il servo varcare i limina di Roma perché lo si possa considerare ritornato per postliminio. Paolo nel suo commento rettifica tale opinione, ritenendo che il ritorno per postliminio del servo si configura non solo quando egli sia rientrato nella disponibilità del dominus originario, ma anche quando egli si trovi in condizione servile presso un cittadino romano, altro rispetto al dominus originario (ulli serviat)22. Questo ultimo profilo del commento paolino non è stato negletto in dottrina, poiché costituisce un’anomalia al regime tecnico del postliminium con riferimento all’originario dominus. Amirante ha provato a spiegare tale eventualità sottolineando il fatto che Paolo scrivesse dopo l’emanazione della constitutio de redemptis, la quale, com’è noto23, attribuiva immediatamente la proprietà del servo riscattato al redemptor e questa innovazione normativa “costrinse la giurisprudenza a ripensare l’antico concetto di postliminium”24, perciò il giurista severiano poteva fare riferimento ad un soggetto diverso dall’originario dominus, intendendo proprio il redemptor ab hostibus. Seppur oggetto di critica25, tale lettura non appare destituita di fondamento. Ci convince maggiormente, tuttavia, un’ulteriore interpretazione che in dottrina è stata suggerita più di recente26. Con l’espressione ‘ulli serviat’ si può plausibilmente ritenere che Paolo alludesse a tutte quelle situazioni concrete in cui il servo formalmente rientrava per postliminio al suo dominus, ma, in ragione della presenza di peculiari situazioni giuridiche instaurate prima della cattura del servo stesso, costui andava a servire un soggetto altro dal suo dominus. Si pensi, ad esempio ad un usufruttuario che lo aveva ricevuto in usufrutto prima che quest’ultimo cadesse prigioniero. A sostegno di questa interpretazione è proposto proprio D. 7.4.26, dove, come sappiamo, si contempla il ripristino in capo all’usufruttuario del suo diritto sul servo ritornato per diritto di postliminio. Nel commento ai pithanà labeoniani Paolo pone la questione in termini generali, contemplando la fattispecie in

20

Sertorio 1915, 171 nt. 3; Solazzi 1949, 160; ampiamente e in modo profondo Bona 1961, 245 ss. nt. 30. Così Cursi 1996, 280. Si è riflettuto, di recente, sull’elemento dell’intenzionalità del servo, presente in D. 49.15.30, differenziandola da un vero e proprio animus remanendi, cioè con l’elemento soggettivo di voler rimanere nella comunità di appartenenza, una volta rientrato nei confini del territorio romano, elemento che integra quello oggettivo, appunto del rientro (redire intra fines). Cfr. De Iuliis 2015, 597 s. e nt. 26. 22 Per un inquadramento del testo con particolare attenzione alle differenze fra il pensiero di Labeone e il commento rettificativo paolino, cfr. Formigoni 1996, 157 ss.; Cursi 1996, 277 ss. 23 Per una prima analisi storica e contenutistica della costituzione: Amirante 1967, 1102 s.; più di recente in modo diffuso sul tema con ampia discussione della storiografia precedente si veda Sanna 1998, 7 ss. 24 Amirante 1957, 28 ss. 25 Maffi 1992, 210. 26 Cursi 1996, 281 s. 21

128

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 129

Commento ai testi senso astratto, nel commento ad Neratium, il giurista cala il problema nella concretezza di un’ipotesi specifica. Lo stretto legame che si può quindi cogliere fra i due testi ci conferma nel leggere in D. 7.4.26 unicamente la prosa e il pensiero di Paolo. F. 2 e 3 – D. 7.5.4 e D. 7.5.9 (L. 1021 e L. 1022) Appare opportuno considerare unitariamente i due frammenti in quanto accomunati dallo specifico tema trattato: l’operatività della stipulazione di garanzia (cautio) interposta dal quasiusufruttuario, punto di collegamento già evidenziato dalla contigua collocazione nella restituzione leneliana dei lacerti del primo libro ad Neratium. Come meglio si cercherà di dimostrare nel prosieguo del commento nell’analisi dei profili sostanziali, in entrambi i testi è agevole rinvenire unicamente la scrittura di Paolo. La storiografia fa risalire verisimilmente alla prima età imperiale27 l’emanazione di un senatoconsulto in cui era riconosciuta validità al diritto di usufrutto costituito su tutti i cespiti di un patrimonio, tra cui anche beni consumabili28: le res quae usu consumuntur secondo la rubrica del titolo dei Digesta consacrato dai compilatori a tale figura giuridica29. Non residuano fonti che permettano la conoscenza diretta del dispositivo di tale provvedimento autoritativo, tuttavia gli studiosi ne hanno potuto ipotizzare e ricostruire il tenore in modo indiretto attraverso il corredo dei commenti giurisprudenziali30. Com’è noto, l’obbligo dell’usufruttuario di lasciare inalterata la substantia del bene escludeva naturalmente le res quae usu consumuntur dall’ambito di applicazione dell’usufrutto. Da qui l’intervento del senato che prese in considerazione in modo espresso non solo i legati che interessavano l’intero patrimonio31, ma pure quelli che in modo autonomo avevano per oggetto res consumabili rispetto alle quali “appunto si registrava l’autentico ostacolo giuridico alla piena efficacia dei lasciti in usufrutto omnium rerum”32; si impose così a carico del benefi-

27 La diversa proposta avanzata in modo circostanziato da Giuliano Crifò (Crifò 1972, 427 ss.; Id. 1977, 17 ss.) di anticipare l’emanazione del senatoconsulto all’età di Cesare non sembra avere incontrato i favori della critica (cfr. La Rosa [R.] 2012, 81 ss., e, assai di recente, Lambrini 2020, 29 s.). Rimane consolidata l’attribuzione alla prima età imperiale, tuttavia il problema della ricerca di una più precisa datazione del senatoconsulto ha impegnato ripetutamente la romanistica. In tempi recenti una sintesi bibliografica accurata la offre Longo (S.) 2007, 478 ss. e nt. 4., mentre un’analisi critica si rinviene in La Rosa (R.) 2012, 81 ss, dove si argomenta, seguendo un’intuizione della romanistica italiana maturata nella prima metà del Novecento, ai fini di una possibile datazione del provvedimento nell’età coeva o subito posteriore a quella dell’emanazione del senatoconsulto Neroniano (La Rosa [R.] 2012, 105 ss.). 28 Per cogliere rettamente il significato della qualifica di ‘cose consumabili’ autorevolmente è ricordato il collegamento di tale sintagma con il verbo latino consumere nel suo significato di ‘estinguere’, ‘esaurire’ e non quello prevalente nella lingua italiana di ‘logorare’ (cfr. Nicosia 2013, 119). 29 Espressione comunque che appartiene al patrimonio dei prudentes come testimonia Ulp. 28 ad ed., D. 13.6.3.6: Non potest commodari id quod usu consumitur… 30 Offrono un primo inquadramento della figura del quasi-usufrutto nel suo complesso le seguenti trattazioni: Pugliese 1954, 577 ss.; Grosso 1958, 411 ss.; Wesener 1961, 1071s.; Scapini 1992, 1099 s., a cui si devono aggiungere le ampie esposizioni con carattere istituzionale di Giuffré 1992, 167 ss.; Brutti 2009, 343 ss. In modo più approfondito, e toccando vari profili specifici: Pampaloni 1907, 85 ss.; Grosso 1935, 84 ss.; Sanfilippo 1947, 69 ss.; Crifò 1972, 427 ss.; 1977; Salazar Revuelta 1999, 117 ss.; Cardilli 2000, 102 ss. e 262 ss.; Longo (S.) 2007, 476 ss.; La Rosa (R.), 2012. 31 Emblematico Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.1: Senatus censuit, ut omnium rerum quas in cuiusque patrimonio esse constaret, usus fructus legari possit: quo senatus consulto inductum videtur, ut earum rerum, quae usu tolluntur vel minuuntur, possit usufructus legari. 32 Così Longo (S.) 2007, 485.

129

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 130

Gianni Santucci ciario di un legato relativo a tali res l’obbligo di fornire adeguata cautio33. L’oggetto specifico di questa promessa consisteva nella restituzione di una quantità di cose consumabili identica a quella cui si riferiva il tenore del legato. Lo scopo e la funzione della cautio ex senatusconsulto erano affatto peculiari. In passato, ma talora anche in tempi più vicini a noi34, è stato possibile cogliere una tendenza presso gli studiosi35, evidentemente frutto della ricerca di una dimensione sistematica e ordinante, ad assimilare tale cautio a quella fructuaria propria del regime dell’usufrutto che, nella prospettiva in cui si muoveva il senatoconsulto, avrebbe dovuto costituire il paradigma di riferimento; un “adattamento della cautio fructuaria” secondo Giuseppe Grosso, che osservava come il senatoconsulto, nell’applicare la cautio alla finalità della restituzione del tandundem, avesse conservato l’espressione generica che si trovava nella normale cautio fructuaria ‘cum usus fructus ad legatarium pertinere desierit’36. In realtà, come anche in tempi più recenti si è cercato di dimostrare37, funzione e struttura della cautio ex senatusconsulto appaiono del tutto autonomi rispetto a quella fructuaria e opportunamente si è indugiato con dovizia di argomenti nel verificare la distanza che allontana le due cautiones. Fra questi ricordiamo come la cautio ex senatusconsulto non presenti quel carattere accessorio, tipico di una stipulazione di garanzia, che invece distingue quella fructuaria, la cui mancata attivazione appunto non incide sulla validità della costituzione del diritto di usufrutto, conservando il nudo proprietario altri rimedi a tutela della sua posizione38. Ma soprattutto la prima rivela un ruolo costitutivo ed essenziale per il sorgere del rapporto di quasi-usufrutto. A questo proposito si è opportunamente osservato come la funzione traslativa della proprietà non viene a verificarsi se, accanto alla datio delle cose consumabili da parte dell’erede, non si pone in essere anche la prestazione della cautio da parte del legatario, assumendo quest’ultima un ruolo funzionale all’attuazione del legato39. In questa prospettiva si è sottolineato come il trasferimento della proprietà diventi “sospensivamente condizionato”40 alla prestazione della cautio41. Si deve osservare, inoltre, come la cautio ex senatusconsulto sia naturalmente priva della clausola de utendo essenziale invece nella cautio fructuaria42; non solo, ma se si volge lo sguardo alla clausola de restituendo, balza evidente agli occhi come questa, presente in entrambe le cautiones, tuteli in realtà oggetti ben differenti fra loro. Nella promessa pretoria della cautio fructuaria l’obbligo dell’usufruttuario è quello di un facere e consiste non necessariamente nel restituire l’intera res ricevuta al momento della costituzione dell’usufrutto, ma in via eventuale

33 La ricostruzione dell’originario tenore del senatoconsulto e l’individuazione dei possibili oggetti della cautio sono state oggetto di differenti letture nella romanistica. Una dettagliata esposizione critica di queste si trova ora in La Rosa (R.) 2012, 58 ss. Sul contenuto e l’operatività della cautio ex senatusconsulto ritorna poi di recente in modo approfondito Longo (S.) 2014, 263 ss. 34 Cfr. Giuffrè 1992, 172; Scapini 1992, 1099; Salazar Revuelta 1999, 127 ss. 35 Citazioni bibliografiche e verifica di questa visuale interpretativa in Longo (S.) 2007, 495 s. 36 Cosi Grosso 1934, 115 s. 37 Sanfilippo 1947, 71 ss.; diffusamente Santoro 1971, 206 ss.; Longo (S.) 2007, 494 ss.; La Rosa (R.) 2012, 42 ss. 38 Cfr. Ulp. 18 ad ed., D. 7.9.12 e Ulp. 79 ad ed., D. 7.9.7. 39 In questa precisa direzione si muovono le riflessioni di Longo (S.) 2007, 497. 40 Così Santoro 1971, 211. 41 Cfr. Inst. 2.4.2, in argomento Santoro 1971, 203; Sanfilippo 1947, 73. 42 Sulla struttura e sugli scopi della cautio fructuaria si veda di recente Finkenauer 2010, 294 ss.; Giannozzi 2011, 13 ss.; alcuni riferimenti anche in Santucci 2013, 139 s. e nt. 2.

130

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 131

Commento ai testi anche quanto rimanga di essa (quod inde extabit), purché ovviamente abbia esercitato il suo diritto secondo il giudizio di un vir bonus43. Nella cautio ex senatusconsulto il contenuto della promessa consiste in dare, cioè trasferire in proprietà all’erede l’altrettanta quantità di res dello stesso genere e qualità ricevute al momento della costituzione del quasi-usufrutto. Come si è detto, il senatoconsulto prendeva in considerazione legati che disponevano per l’intero patrimonio, ce lo ricorda, fra gli altri, lo stesso Paolo nel commento ad Sabinum, dove il giurista sembra attingere testualmente dal dispositivo del senatoconsulto: ex senatusconsulto quo cavetur, ut omnium quae in bonis sint usus fructus legari possit (secondo il senatoconsulto nel quale si stabilisce che si possa disporre in legato l’usufrutto di tutte le cose che sono nel patrimonio)44. È verosimile ritenere che, seppur l’applicazione immediata del provvedimento toccasse innanzitutto le res corporali, si pose ben presto la questione di ricomprendere nella tutela anche quelle incorporali, fra cui anche i crediti45. Poche le testimonianze giurisprudenziali che considerano la possibilità di legare l’usufrutto di un credito46. Fra queste47 portiamo la nostra attenzione su Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.3. e, appunto, su D. 7.5.4, il primo dei testi di cui qui si offre il commento. I due frammenti sono infatti presentati in un discorso unitario dai compilatori48: Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.3: Post quod omnium rerum usus fructus legari poterit. an et nominum? Nerva negavit: sed est verius, quod Cassius et Proculus existimant, posse legari. idem tamen Nerva ipsi quoque debitori posse usum fructum nominis legari scribit et remittendas ei usuras. D. eod., 4: ergo cautio etiam ab hoc exigenda erit. Dopo di esso potrà essere disposto in legato l’usufrutto di ogni cosa, ma anche dei crediti? Nerva lo ha negato, ma appare più vero quanto ritengono Cassio e Proculo, cioè che anche dei crediti possa essere disposto in legato l’usufrutto. Lo stesso Nerva, tuttavia, scrive che anche l’usufrutto di un credito può essere disposto in legato, se lo si lega allo stesso debitore, dovendosi così essergli rimessi gli interessi. 4: pertanto, anche da tale debitore si dovrà esigere la stipulazione di garanzia.

In D. 7.5.3 Ulpiano segnala che con l’emanazione del senatoconsulto (post quod)49 è possibile istituire un legato comprendente ogni tipo di cosa, inconsumabile e non. Nell’immediato prosieguo il giurista registra la controversia se potesse o meno anche legarsi l’usufrutto di

43

In argomento Santucci 2013, 139 ss. Paul. 3 ad Sab., D. 33.2.1. 45 Così per tutti Grosso 1958, 421; Giliberti 1984, 60 s. 46 Questi passi furono giudicati interpolati da Pampaloni 1907, 111 ss., argomentando che i prudentes avessero trattato dell’ipotesi di un credito fruttifero considerato quale legato di rendita; lettura che già nel clima coevo dominato dalla critica interpolazionistica non incontrò il favore degli studiosi, propensi ad affermare la genuinità di siffatti testi: Messina Vitrano 1912, 79 ss.; Perozzi 1928, 789 e nt. 2; Bonfante 1925-1933, III, 111. In questa prospettiva si vedano pure Grosso 1958, 421 ss. e Talamanca 1963-1964, 761s. 47 Cfr. anche Pap. 7 resp., D. 33.2.24pr. e Scaev. 13 dig., D. 33.2.37. 48 Discorso unitario che lo stesso Lenel (1889.I, 1140) ripropone nella sua ricostruzione del primo libro ad Neratium. 49 Il quod si riferisce al senatoconsulto richiamato da Ulpiano subito prima in Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.1, i due frammenti sono posti contigui nella ricostruzione palingenetica di Lenel 1889.I, 1074. La menzione indiretta del provvedimento senatorio ha portato parte della dottrina ad occuparsi del passo specificatamente in relazione ai problemi di datazione: Crifò 1972, 428; Id. 1977, 18 ss.; La Rosa (R.) 2012, 84 ss. 44

131

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 132

Gianni Santucci un credito: Nerva non lo ritiene ammissibile, di opinione opposta Cassio e Proculo. Ulpiano segue quest’ultima, esprimendo un apprezzamento in termini di ‘verità’ (sed est verius)50, ma ricorda che sempre Nerva, tuttavia, sarebbe favorevole a riconoscere la validità di un legato dell’usufrutto di un credito purché si istituisca tale legato nei confronti dello stesso debitore, venendo così a rimettergli gli interessi51. Rimangono ignote le ragioni del dissenso52, tuttavia non è del tutto improbabile ritenere che Nerva rimanesse ancora prigioniero di una concezione rigida e tradizionale della nozione di usufrutto. Egli tollerava, in ragione del carattere normativo del provvedimento, il salto concettuale dall’usufrutto di cose inconsumabili a quelle consumabili, purché tale innovazione restasse circoscritta alle cose corporali. Solo queste ultime, infatti, potevano essere oggetto di un’effettiva traditio che il senatoconsulto condizionava alla prestazione della cautio; ostacolo, questo, che proprio nel caso del legato d’usufrutto di credito al debitore invece non sarebbe sorto, poiché in questa circostanza non avrebbe potuto esserci un’effettiva cessione del capitale53. Una sorta di caso speciale di usufrutto di credito “di cui la remissione degli interessi è il tratto caratteristico”54. A quest’ultima specifica fattispecie, che chiude il frammento testé esaminato, i compilatori hanno ‘agganciato’ il nostro D. 7.5.4, in cui, come già ricordato, Paolo afferma la necessità che anche il debitore deve prestare la cautio ex senatusconsulto; non v’è dubbio infatti che l’espressione ‘ab hoc’ contenuta in questo testo non possa che riferirsi al debitore legatario55. Ha ragione Giuseppe Grosso a ritenere che questo frammento illustra solo lo stato del diritto giustinianeo, essendo sconosciuto il riferimento originario56, tuttavia risulta evidente che quanto rimane del passo paolino, per struttura e contenuto, debba essere inteso quale esposizione di un pensiero che si poneva quale conseguenza – il testo si apre con ergo – che veniva a sigillare un discorso certamente più ampio ed articolato eliminato poi per scelta dei compilatori. Si ignora quindi quale sia stato il suo contenuto originario, tuttavia crediamo plausibile avanzare qualche ipotesi al riguardo. Vediamo di procedere con ordine: Lenel, come si è appena visto, con buona congettura, pone in funzione di premessa a D. 7.5.4 la porzione finale di D. 7.5.3. Alla luce di questa connessione si potrebbe ritenere che non solo l’opinione di Nerva, ma pure il contrasto giurisprudenziale che lo aveva visto antagonista a Cassio e

50 Per un inquadramento, anche storiografico, dell’impiego di verus, verius, veritas nelle fonti giurisprudenziali ed in particolare in Ulpiano: Stolfi 2001b, 7 nt. 29 e 22 ss.; Gallo 2009, 83 ss. 51 Per un’ampia analisi dei problemi dogmatici che la soluzione di Nerva (e Ulpiano) pone cfr. per tutti Talamanca 1963-1964, 671 ss., dove l’Autore assume e discute criticamente anche le interpretazioni maturate in seno alla pandettistica e alla romanistica più risalente. 52 L’antica opinione che l’impedimento a concepire il legato di usufrutto di credito a favore di un terzo derivasse dal principio del divieto di trasmissibilità del rapporto obbligatorio è ora ripresa da Lambrini 2020, 27. 53 Così ampiamente Cardilli 2000, 210. 54 Così Messina Vitrano 1912, 81. 55 Lenel 1889.I, 1140; Messina Vitrano 1912, 81. 56 Grosso 1958, 422 s. Appare completamente superata la dottrina per la quale il nostro testo non aveva, nel suo contesto originario, alcun nesso con lo specifico problema dell’usufrutto dei crediti. Cfr. Talamanca 19631964, 676 e nt. 144., che, fra l’altro, si mostra risoluto nell’affermare che “nel l. 1 ad Neratium Paolo trattava sicuramente dell’usufructus pecuniae e del relativo senatoconsulto, cui si rapporta anche il c.d. quasi usufrutto sui crediti”.

132

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 133

Commento ai testi Proculo, costituisse l’oggetto del predetto brano originario. Siffatta ipotesi riposa sull’idea che i compilatori, per non ripetersi in modo pleonastico, tagliarono questa parte più ampia di D. 7.5.4, conservando in esso solo la menzione della necessità di prestare la cautio. Del resto, l’intimo nesso che intercorre fra D. 7.5.3 e D. 7.5.4 costituisce un esempio di un modo di procedere tipico della tecnica compilatoria che in passato era stato anche assunto fra i criteri utili nella ricerca delle interpolazioni57. Né va negletto che la romanistica si era già interrogata circa lo stretto legame fra i due frammenti. Così Cesare Sanfilippo aveva rilevato, a questo proposito, come fosse tecnica consueta presso i Compilatori preferire di sostituire al proseguimento del testo di un giurista un brano di contenuto simile o uguale estratto dall’opera di un altro58; sulla stessa linea si era posto anche Mario Talamanca, che, sempre con riguardo ai nostri passi, osservava “che, con ogni probabilità, il caso normale di questi frammenti brevi si ha quando, disponendo di due passi paralleli raccolti nel lavoro di escerpimento, i compilatori vogliano integrare l’uno, quello da essi prescelto, con qualche dato che invece risulta soltanto nell’altro”59. Si può quindi convenire con relativa certezza che la prosa del frammento in esame è di Paolo, mentre nulla di preciso possiamo ipotizzare circa il ruolo di Nerazio nella stesura originaria paolina fortemente ridimensionata dai compilatori. Tuttavia, anche sulla scorta di una suggestione di Contardo Ferrini secondo cui “il D. 7,5,4 contiene una nota di Paolo… che sembra riferirsi a un responso di Nerva raccolto da Nerazio”60, ci piace pensare – ma si tratta di mera congettura – che, nel più ampio brano originario, accanto alla mano di Paolo vi fosse quella di Nerazio, consueto tramite e collettore agli occhi di Paolo delle opinioni di giuristi precedenti61. Il secondo testo in commento, D. 7.5.9, riguarda l’ususfructus pecuniae62, tipologia di cose consumabili a cui forse faceva diretto riferimento il senatoconsulto63. Come si è già visto, il dispositivo del senatoconsulto, oltre ad occuparsi in modo espresso delle res consumabili64, poneva l’obbligo di prestare la cautio e ne indicava il contenuto65; ma buona parte della disciplina della figura giuridica dipese dall’elaborazione giurisprudenziale che “fu tutta incentrata sulla cautio, quale fulcro della disposizione senatoria”66. In questa prospettiva, con ogni pro-

57 Come lo stesso Emilio Albertario ci ricorda, avvertendo pure che tali “brevi testi allacciati con altri da cui si fanno dipendere… non possono essere che elementi spuri che già trovavansi nel testo classico o intorno al testo classico”: Albertario 1935, 75. Cfr. anche Pampaloni 1907, 117 s. 58 Sanfilippo 1947, 76. 59 Talamanca 1963-1964, 677. 60 Ferrini 1894b, 232 nt. 1. 61 Cfr. supra: 20 s. 62 Non pochi testi vi fanno riferimento, oltre a D.7.5.9, si vedano: Paul. 1 manual., Vat. 46; Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.5pr.-2; Iul. 35 dig., D. 7.5.6; Pap. 17 quaest., D. 7.5.8; Ulp. 79 ad ed., D. 7.5.10pr.-1; Ulp. 79 ad ed., D. 9.7.1; Ulp. 79 ad ed., D. 36.3.1.17. 63 Grosso 1935, 90 s.; Id. 1958, 413. Esprime ragionevole perplessità, data l’obiettiva incertezza che caratterizza le fonti sul punto, Longo (S.) 2007, 494. 64 Cfr. Gai. 7 ad ed. prov., D. 7.5.2.1; Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.5pr.; Pap. 17 quaest., D. 7.5.8; Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.11; Inst. 2.4.2. 65 Ulp. 18 ad Sab., D. 7.5.11; Inst. 2.4.2. 66 Così Giuffrè 1992, 174.

133

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 134

Gianni Santucci babilità, furono i giuristi a definire i termini dell’adempimento, specificando che nella cautio ex senatusconsulto l’impegno per il legatario di restituire il tandundem avveniva solo in due casi; nel momento della sua morte (passando l’obbligo all’erede o al garante) o qualora egli subisse una capitis deminutio (passando l’obbligo all’avente potestà)67. Circa l’ususfructus pecuniae, questa determinazione, oltre ad emergere in modo preciso, benché sullo sfondo, di un caso riportato nei digesta di Giuliano68, pare assumere carattere di direttiva generale in due testimonianze della giurisprudenza severiana69: nel nostro testo in esame e, soprattutto, in un frammento tratto dal commento edittale ulpianeo, che riporto unitamente per un breve confronto: Paul. 1 ad Ner., D. 7.5.9: in stipulatione de reddendo usu fructu pecuniae duo soli casus interponuntur, mortis et capitis deminutionis. Nella stipulazione di garanzia relativa alla restituzione dell’usufrutto di denaro, intervengono solo due eventualità per la restituzione dell’usufrutto, la morte e il mutamento dello stato giuridico dell’usufruttuario. Ulp. 79 ad ed., D. 7.9.7.1 cum usus fructus pecuniae legatus esset, exprimi debent hi duo casus in stipulatione: ‘cum morieris aut capite minueris, dari’: idcirco hi duo soli casus, quoniam pecuniae usus aliter amitti non potest quam his casibus. Quando sia stato disposto in legato l’usufrutto di denaro, nella stipulazione di garanzia devono essere espressi questi due casi: “venga restituito il denaro se morirai o se subirai un mutamento giuridico”. Quindi solo questi due casi, poiché il diritto di usare il denaro non si può perdere se non in questi due casi.

Il passo ulpianeo appare sicuramente più circostanziato e cospicuo nell’argomentazione, corredato anche dalla citazione letterale della parte della cautio pertinente, tuttavia i due testi fra loro sembrano avere un andamento lineare abbastanza simile nel contenuto e talora nella forma (così il richiamo ai duo soli casus). Tant’è che si può rilevare un fatto curioso ma non inconsueto nelle tecniche di compilazione del Digesto70. Ma per comprendere ciò occorre premettere che la frase quoniam pecuniae usus aliter amitti non potest quam his casibus, oltre che chiudere, come appena visto, Ulp. 79 ad ed., D. 7.9.7.1, ritorna testualmente identica in Ulp. 79 ad ed., D. 7.5.10pr71. Ricordato ciò, si può facilmente osservare come i redattori del Digesto nella composizione del titolo 7.5 decisero di saldare in un discorso coerente ed unitario il nostro D. 7.5.9 e Ulp. 79 ad ed., D. 7.5.10pr. quindi i compilatori, invece di conservare integra quella parte tratta dal libro 79 ad edictum di Ulpiano, rifluita poi in D. 7.9.7.1, ne sostituirono la prima frase con il nostro frammento paolino.

67

Sull’argomento da ultima e diffusamente Longo (S.) 2014, 278 ss. Iul. 35 dig., D. 7.5.6pr.: Si tibi decem milia legata fuerint, mihi eorundem decem milium usus fructus, fient quidem tua tota decem milia: sed mihi quinque numerari debebunt ita, ut tibi caveam tempore mortis meae aut capitis deminutionis restiturum iri. Nam et si fundus tibi legatus fuisset, et mihi eiusdem fundi usus fructus, haberes tu quidem totius fundi proprietatem, sed partem cum usu fructu, partem sine usu fructu, et non heredi, sed tibi caverem boni viri arbitratu. 69 Direttiva che ritorna pure nelle Istituzioni di Giustiniano: Inst. 2.4.2 (…) itaque si pecuniae usus fructus legatus sit, ita datur legatario, ut eius fiat, et legatarius satisdat heredi de tanta pecunia restituenda, si morietur aut capite minuetur (…). Testo in cui Contardo Ferrini vede un’ascendenza gaiana: Ferrini 1900, 361. 70 Tornano utili anche qui le riflessioni di Cesare Sanfilippo e Mario Talamanca, appena riportate supra: 133. 71 Ulp. 79 ad ed., D. 7.5.10pr.: quoniam pecuniae usus aliter amitti non potest qua his casibus. 68

134

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 135

Commento ai testi Infatti, basta volgere lo sguardo alla ricostruzione palingenetica del Lenel del libro 79 ad edictum per ritrovarvi l’intero brano ulpianeo, con l’opportuna segnalazione dell’identità fra la frase finale di D. 7.9.1. e D. 7.5.10pr72. La complessiva similitudine sostanziale e formale del nostro frammento in esame con quello ulpianeo, addirittura considerati ‘fungibili’ agli occhi dei compilatori, ci conforta, unitamente alla qualsivoglia assenza di indizi che possano suggerire la presenza della mano di Nerazio, nel vedere nel nostro frammento unicamente la prosa di Paolo. F. 4 – D. 7.8.23 (L. 1023) Il testo è l’unico che residua con l’espressa menzione di Nerazio, seguita poi da quella di Paolo, venendo così ad evidenziare in modo plastico il carattere lemmatico che contrassegna la struttura dell’opera73. Non sorgono quindi problemi di identificazione della parte di scrittura del giurista traianeo rispetto a quella paolina74. Sotto il profilo contenutistico, l’ambito è quello della determinazione dei limiti posti in capo al nudo proprietario al fine di tutelare le prerogative del titolare di un diritto di usufrutto o di uso. Nerazio e Paolo si riferiscono al diritto d’uso; è opportuno tuttavia ricordare che, nonostante risultino evidenti talune differenze fra usufrutto e uso75, nel pensiero dei giuristi romani il diritto di uso non rappresentava altro che “una frazione dell’usufrutto”76; del resto queste figure erano trattate unitariamente nelle loro opere77 poiché “il regime dell’usus ricalcava, per quanto possibile e compatibile, quello dell’usufrutto”78. Di conseguenza anche nell’analisi dottrinale il contenuto del testo in esame è sempre stato letto anche, e direi soprattutto, in rapporto al diritto di usufrutto79. Il tema dei limiti imposti al nudo proprietario aveva già trovato una prima attenzione in Labeone e in Nerva, il cui pensiero è riferito in Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.7.1 e in Ulp. 18 ad Sab., D. 7.1.13.7. Il primo testo è aperto dalla citazione di un Sabinianum80, dove in prospettiva generale si enuncia la completa spettanza di ogni tipo di frutto all’usufruttuario; Ulpiano ne prosegue l’assunto, enucleando le prerogative attribuite al titolare di un diritto di usufrutto

72 L. 1725: D. 7.9.7.1: Cum usus fructus pecuniae legatus esset, exprimi debent hi duo casus in stipulatione: ‘cum morieris aut capite minueris, dari’: idcirco hi duo soli casus, quoniam pecuniae usus aliter amitti non potest quam his casibus. (= D. 7.5.10pr.). D. 7.5.10.1 Si usus tantum pecuniae legatus sit, quia in hac specie usus appellatione etiam fructum contineri magis accipiendum est, stipulatio ista erit interponenda, et quidam aiunt non ante hanc interponi stipulationem, quam data fuerit pecunia, ego autem puto, sive antea sive pecunia data sit, tenere stipulationem. 73 Per tutti Schulz 1946, 217 (= Schulz 1968, 392), il quale, dalla citazione superstite di Nerazio in questo testo, avanza la plausibile ipotesi che per tutta l’opera in origine: “the textual quotation from Neratius was perhaps preceded by Neratius”. 74 Cfr. al riguardo le osservazioni di Landucci 1892, 410 nt. 1. 75 Com’è noto, il contenuto del diritto di usus era più ristretto e legato essenzialmente alle esigenze personali del titolare e della sua famiglia ed inoltre l’usus era indivisibile, mentre il diritto di usufrutto avrebbe potuto essere esercitato pro quota da più usufruttuari. 76 Così Pugliese 1990, 491. 77 Cfr., ad es., il diciassettesimo libro del commentario ad Sabinum di Ulpiano. 78 Marrone 2006, 370. 79 Si vedano, fra gli altri, Grosso 1958, 263 e 485; Scapini 1992, 1095; Brutti 2009, 348. 80 D. 7.1.7pr.: usu fructu legato omnis fructus rei ad fructuarium pertinet. et aut rei soli aut rei mobilis usus fructus legatur. Cfr. per tutti Astolfi 2001, 213.

135

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 136

Gianni Santucci relativo ad un edificio. La medesima ratio suggerisce poi di estendere la riflessione e toccare la posizione del nudo proprietario; a questo proposito Ulpiano ricorda una sententia di Labeone in cui si ritiene illecito il comportamento del nudo proprietario che sopraelevi, contro la volontà dell’usufruttuario, il fabbricato dato in usufrutto oppure che, similmente, edifichi su un’area lasciata in usufrutto81. Il medesimo schema argomentativo si riaffaccia nell’articolato e complesso Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.1382, testo in cui, dopo aver a lungo e variamente insistito sulla posizione dell’usufruttuario, Ulpiano riprende il pensiero di Labeone in cui ritorna l’idea dell’inattuabilità della sopraelevazione dell’edificio lasciato in usufrutto ad opera del nudo proprietario; segue l’opinione di Nerva che specifica l’impossibilità in capo sempre al nudo proprietario di murare le aperture dell’edificio83. A queste testimonianze si potrebbe ancora aggiungere Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.13, se si vuole scorgere il pensiero di Labeone dietro l’affermazione ulpianea per cui contro il nudo proprietario che recide gli alberi del fondo concesso in usufrutto si può agire giudizialmente84. Come si può facilmente osservare, Ulpiano riportava specifiche soluzioni casistiche dei giuristi di scuola proculiana, quella di Labeone, in particolare, anche riferita come sententia85, cui lo stesso Ulpiano ricollegava un giudizio di verità86. Alla luce di questa casistica l’affermazione di Nerazio, che apre D. 7.8.23, per cui il nudo proprietario non può modificare l’identità e la conformazione87 della cosa consegnata in uso, appare perentoria e assume un chiaro carattere di direttiva generale. Nerazio sembra cristallizzare nell’andamento di una regula un pensiero precedente più fluido e schiettamente casistico come ci è testimoniato da Labeone e da Nerva, giuristi che verosimilmente gli erano familiari in virtù dell’appartenenza alla stessa scuola. Sul tema dei limiti che andavano dettati intorno all’uso e al rispetto della condicio della cosa oggetto di usufrutto, Nerazio, in altri due noti testi – uno tratto dalle membranae88 e

81 D. 7.1.7.1: Rei soli, ut puta aedium, usu fructu legato quicumque reditus est, ad usufructuarium pertinent quaeque obventiones sunt ex aedificiis, ex areis et ceteris, quaecumque aedium sunt unde etiam mitti eum in possessionem vicinarum aedium causa damni infecti placuit, et iure domini possessurum eas aedes, si perseveretur non caveri, nec quicquam amittere finite usu fructu, hac ratione Labeo scribit nec aedificium licere tollere, sicut nec areae usu fructu legato potest in aera aedificium poni: quam sententiam puto veram. 82 Per un primo commento al passo con discussione della principale bibliografia mi permetto di rinviare a Santucci 2013, 144 ss. Tocca il tema, assai di recente, Grillone 2019, 406 ss. 83 D. 7.1.13.7: (…) item Nerva eum, cui aedium usus fructus legatus sit, altius tollere non posse, quamvis lumina non obscurentur, quia tectum magis turbatur: quod Labeo etiam in proprietatis domino scribit. Idem Nerva nec obstruere eum posse. 84 D. 43.24.13pr.-2: Denique si arbores in fundo, cuius usus fructus ad Titium pertinent, ab extraneo vel a proprietario succisse fuerint, Titius et lege Aquilia et interdicto quod vi aut clam cum utroque eorum recte experietur. 1. Labeo scribit, si filio prohibente opus factum sit, et te habere interdictum ac sit te prohibente opus factum et filium tuum nihilo minus. 2. Idem ait adversus filium in re peculiari neminem clam videri fecisse; namque, si scit eum filium familias esse, non videtur eius celandi gratia fecisse, quem certus est nullam secum actionem habere. Per il fatto che nei paragrafi 1 e 2 del frammento in esame si rinvengano due espresse citazioni di Labeone, azzardiamo che anche nel principium – la parte del testo che a noi interessa – Ulpiano potesse avere come traccia il pensiero del giurista augusteo. 85 In argomento Stolfi 2001b, 3 ss. 86 Sull’impiego di verus e veritas nelle fonti ed in particolare in Ulpiano cfr. quanto osservato supra: 132 nt. 50. 87 Nella traduzione si è preferito rendere la parola species semplicemente con ‘identità’, per non appesantire con una perifrasi il testo italiano (vedi supra: 107). 88 Richiamato anche da Lenel a proposito di D. 7.8.23.

136

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 137

Commento ai testi l’altro dai responsa89 –, si era espresso rigidamente, negando in radice la possibilità per l’usufruttuario di modificare in qualsivoglia modo lo stato e la condizione complessiva della cosa ricevuta in usufrutto90. In 3 membr. D. 7.1.44 Nerazio non riconosce l’eventualità che l’usufruttuario possa intonacare le pareti grezze dell’edificio ricevuto in usufrutto, al fine di rendere più confortevole e rifinita la sua struttura. Sebbene ciò costituisse un’indubitabile miglioria apportata dall’usufruttuario, Nerazio la respinge con estremo rigore91. La medesima posizione si rinviene pure in 2 resp., D. 7.1.61, dove all’usufruttuario non sono permesse migliorie come quella di aggiungere alle pareti un nuovo canale per l’acqua piovana oppure di portare a termine la costruzione di un edificio92. Questi ultimi due testi relativi ai limiti imposti all’usufruttuario, come pure D. 7.8.23 che, come ben sappiamo, riguarda invece quelli che gravano sul nudo proprietario, sono stati letti nella romanistica come l’espressione di un “rigido e materialistico criterio di valutazione”93, criterio che aveva guidato Nerazio nel definire la sua riflessione sul diritto di usufrutto e di uso. Si è osservato al riguardo come “il rispetto assoluto per la species, più che per la destinazione economica della res (risultato teorico cui pervenne la successiva elaborazione giurisprudenziale) occupava un posto veramente centrale nei canoni interpretativi di Nerazio”94. Veniamo finalmente al commento paolino. L’esito in forma di regula di una casistica precedente che Nerazio aveva condensato in una formulazione efficace e precisa appare congeniale a Paolo. Probabilmente agli occhi del giurista severiano Nerazio aveva avuto il merito, elaborando un criterio generale, di porre in qualche modo un’ultima parola su un tema centrale nella disciplina dell’usufrutto e dell’uso, tema che aveva suscitato interventi e prese di posizione su singoli profili o problemi di cui ci rimangono echi di una casistica che verosimilmente doveva essere più ricca e diffusa. Ciò conferma, passando dal particolare al generale, che la scelta paolina di annoverare Nerazio fra i suoi interlocutori privilegiati fosse anche dettata dal fatto che la sua opera poteva costituire un prezioso ed autorevole supporto al fine di una razionale sistemazione degli ampi e controversi materiali giurisprudenziali95. La rigida impostazione neraziana circa il rispetto della condicio rei in tema di usufrutto appare poi pienamente accolta da Paolo96, il quale conduce il discorso ad un’ulteriore e più radicale conseguenza: perfino un miglioramento della cosa viene ad essere inteso come una

89 Per un’analisi dottrinale di entrambi i testi cfr. Grosso 1958, 119 ss.; Bretone 1962, 113 ss.; Greiner 1973, 173 ss.; Pugliese 1975, 321; Scarano Ussani 1979, 29 s.; Negri 1985, 197. 90 La rigorosa impostazione neraziana è osservata in modo penetrante da Bretone 1962, 113 ss., su cui vedi pure Grosso 1963, 546 s. 91 D. 7.1.44: Usufructuarius novum tectorium parietibus, qui rudes fuissent, imponere non potest. quia tametsi meliorem excolendo aedificium domini causam facturus esset, non tamen id iure suo facere potest, aliudque est tueri quod accipisset an novum faceret. 92 D. 7.1.61: Usufructuarius novum rivum parietibus non potest inponere. Aedificium inchoatum fructuarium consummare non posse placet, etiamsi eo loco aliter uti non possit. Sed nec eius quidem usum fructum esse: nisi in costituendo vel legando usu fructu hoc specialiter adiectum sit, ut utrumque ei liceat. 93 Bretone 1962, 113; nello stesso senso Scarano Ussani 1979, 28 ss. 94 Scarano Ussani 1979, 29 s. 95 Vedi supra: 20 s. e 53 ss. 96 Eccettuata una breve riflessione in Brutti 2009, 348, il commento paolino non sembra essere mai stato considerato autonomamente nella dottrina.

137

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 138

Alvise Schiavon forma di deterioramento della condizione del titolare del diritto d’uso, perché essa finisce sempre e comunque per rappresentare una violazione dello stato attuale della res. Tale ultimo concetto non si rinviene nel dettato neraziano commentato da Paolo, dove ci si limita ad affermare che il nudo proprietario non deve modificare in alcun modo la species della res usuaria. Ciò non deve però far ritenere che il commento paolino contenga una reale portata innovativa ed originale rispetto al pensiero di Nerazio, poiché l’inammissibilità di modifiche alla condicio rei, pur se queste apportassero migliorie allo stato della cosa, era un pensiero elaborato ripetutamente da Nerazio, sebbene a noi sia giunto in rapporto alle facoltà in capo all’usufruttuario, come ci testimoniano D. 7.1.44 e D. 7.1.61 prima illustrati. Tale pensiero verosimilmente non era rimasto estraneo a Paolo, il quale decise di esporlo come criterio qualificante anche in relazione ai limiti del nudo proprietario, seguendo così pienamente il ductus neraziano. F. 5 (L. 1024) e F. 6 (L. 1025) – D. 46.1.66 e D. 16.1.31 I frammenti 5 (D. 16.1.31) e 6 (D. 46.1.66) risultano tematicamente avvicinabili, in quanto entrambi trattano questioni legate all’applicazione dell’actio mandati contraria; in particolare, come vedremo, i due passi affrontano il problema dell’efficacia sanante dell’esperimento di quell’azione rispetto ad atti precedentemente posti in essere da soggetti sprovvisti – o comunque dotati solo di una limitata capacità di agire (rispettivamente la mulier e lo schiavo). Appare dunque opportuno considerarli unitariamente, in quanto la ricostruzione dei profili sostanziali implicati dai due testi si riflette pure su quelli di attribuzione degli stessi a Paolo o a Nerazio97. Il primo frammento – Paul. 1 ad Ner., D. 16.1.31 – è di mano esclusivamente paolina. Tale attribuzione riposa, in primis, sul dato formale costituito dalla presenza del nome Paulus all’inizio del testo, laddove manca invece qualsiasi menzione del giurista precedente; la paternità paolina è poi corroborata anche da ragioni sostanziali, di cui si darà conto subito dopo aver inquadrato il contesto giuridico in cui si inserisce questa testimonianza. Il brano si riferisce, pur non richiamandola esplicitamente, alla disposizione – sancita nel senatus consultum Vellaeanum98 ma probabilmente anticipata da interventi normativi di Augusto e Claudio99 – che limitava la capacità di agire delle donne e, in particolare, escludeva la possibilità di intercedere per altri, ovvero di porre in essere validamente una serie di atti giuridici a vantaggio di terzi: il divieto non riguardava solo la costituzione di rapporti di garanzia (personale o

97 Già Lenel 1889.I, 1140 nt. 4 suggeriva di leggere congiuntamente L. 1024 e 1025, in tema di ratifica del pagamento del servo attraverso l’esperimento dell’actio mandati contraria da parte del suo dominus. Cfr. quanto si dirà infra. 98 Il testo di questo senatoconsulto è riprodotto in Ulp. 29 ad ed., D. 16.1.2.1, testimonianza ritenuta affidabile dagli studiosi. L’emanazione di questo provvedimento è per lo più collocata durante il principato di Claudio (anche se Schulz 1951, 569 propendeva per una più tarda collocazione durante il periodo neroniano): per quanto riguarda la sua datazione esatta le opinioni oscillano tra il 46 d.C. – è l’ipotesi classica di Mommsen 1870, 459 nt. 2 – e il 54 d.C. (datazione già accettata da Kaser 1977, 30, di recente riproposta da Buongiorno 2010, 361). 99 Che la normativa sui divieti di intercessione muliebre contenuta nel senatoconsulto Velleiano possa essere stata anticipata da interventi normativi dei principes Augusto e Claudio è ipotesi che si ricava da Ulp. 29 ad ed., D. 16.1.2pr. su cui cfr. Medicus 1957, 10 ss.

138

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 139

Commento ai testi reale), ma più in generale – come nel caso affrontato da Paolo in questo testo – qualsiasi esposizione patrimoniale a favore di terzi100. Il divieto, come ovvio, limitava gravemente la possibilità per le donne di partecipare ai traffici giuridici101 – sulla base probabilmente non solo di ragioni protettive102 ma soprattutto esclusorie103 – e costituiva un fattore di incertezza, per i soggetti che si trovavano a negoziare con esse, circa la possibilità che le conseguenze degli atti potessero essere rimesse in discussione in un momento successivo. La pretesa che i terzi potessero vantare contro la mulier in ragione dell’atto di intercessione poteva, infatti, essere paralizzata attraverso un’exceptio senatus consulti Vellaeani, concessa dal pretore a favore della donna convenuta in giudizio per l’adempimento del rapporto intercessorio104: l’inefficacia dell’atto operava dunque su un piano esclusivamente pretorio, mentre esso rimaneva valido iure civili. In questo caso, comunque, il pretore riconosceva al creditore, qualora la sua aspettativa fosse stata frustrata dalla incoercibilità dell’intercessione muliebre, la restitutio in priorem debitorem, per cui egli avrebbe potuto agire contro il debitore con un’actio restitutoria (nel caso in cui l’intercessione della donna, se valida, avrebbe estinto il credito) o un’actio institoria (qualora l’intercessione avesse impedito il sorgere di una pretesa del creditore)105. Qualora invece la mulier avesse spontaneamente proceduto alla solutio, in adempimento dell’atto di intercessione, ella poteva ottenere la ripetizione di quanto prestato attraverso l’esperimento di una condictio indebiti, come si deduce da Ulp. 29 ad ed., D. 16.1.8.3106: sul piano del diritto pretorio, del resto, al pagamento non dovuto (solutio indebiti) in quanto effettuato in assenza di un’obbligazione civilisticamente valida era equiparato quello effettuato in ragione di un’obbligazione valida iure civili, ma che avrebbe potuto essere paralizzata da un’eccezione perpetua, come risulta tra l’altro dal brano ulpianeo in Ulp. 26 ad ed., D. 12.6.26.3107.

100 Sul contenuto normativo e la disciplina prevista dal senatoconsulto Velleiano risultano fondamentali le ricerche di Vogt 1952; Medicus 1957, 34 ss.; Talamanca 1958, 101 ss.; Sacconi 1995. Sono tornati da ultimi sul tema Mönnich 1999, 33 ss.; Ernst 1999, 397 ss. (sebbene in prospettiva di comparazione diacronica) e Finkenauer 2013, 17 ss. 101 Per una ricostruzione complessiva della condizione giuridica femminile nel tempo di approvazione del senatoconsulto Velleiano già Kreller 1956, 6 ss.; affronta invece la questione del contesto entro il quale maturò il divieto di intercessione contenuto nel senatoconsulto Velleiano da una prospettiva prevalentemente sociologica Benke 2001, 41 ss. 102 Sottolinea con particolare forza lo scopo ‘protettivo’ del divieto di intercessione contenuto nel senatoconsulto Velleiano, specialmente a partire dalle ipotesi di rinuncia volontaria della tutela come quella presa in considerazione da Paolo in questo brano, Medicus 1957, 7 ss. e 134 ss. e più di recente, con riferimento a un altro caso di delegazione passiva della mulier, Kupisch 1999, 659 ss. 103 Che scopo precipuo di politica legislativa perseguito con questo senatus consultum fosse quello di escludere le donne da una importante sfera delle transazioni commerciali era sostenuto già da Vogt 1952, 1 ss.: contra Medicus 1957, 134 ss.: più sfumata la posizione di Talamanca 1958, 100. 104 Cfr. Lenel 1927, 517. 105 Su tutti questi profili Medicus 1957, 64 ss.; Mönnich 1999, 46 ss.; Finkenauer 2013, 18. 106 Il brano era stato ritenuto interpolato da Beseler 1931b, 69, ma la dottrina successiva riconosce la sostanziale genuinità del testo e, così, la riconducibilità al pensiero di Ulpiano della possibilità per la mulier di esperire una condictio per la restituzione di quanto spontaneamente prestato in esecuzione di un atto vietato dal senatoconsulto Velleiano (ad es. Donatuti 1951, 751 ss. e Medicus 1957, 31 nt. 66; Talamanca 1958, 106). 107 Indebitum autem solutum accipimus non solum si omnino non debebatur, sed et si per aliquam exceptionem perpetuam peti non poterat: quare hoc quoque repeti poterit, nisi sciens se tutum exceptione solvit. Sulla distinzione tra l’indebitum civilistico e quello pretorio come possibili fondamenti dell’esperimento di una condictio è tornata da ultima Fargnoli 2001, 51 ss. Sottolinea la possibilità di agire con una condictio indebiti per la restituzione di quanto prestato in esecuzione spontanea di un atto la cui efficacia sarebbe stata comunque paralizzata dalla exceptio senatus consulti Vellaeani Sacconi 1971, 69 ss.

139

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 140

Alvise Schiavon È proprio a questa ultima ipotesi che si riferisce il passo paolino. Una donna aveva provveduto a pagare un debito altrui, su invito o comunque con il consenso del debitore stesso (cosiddetta delegatio solvendi)108, fattispecie di per sé sicuramente rientrante nel campo applicativo del divieto posto dal senatus consultum Vellaeanum, in quanto atto di disposizione fatto a beneficio altrui: nel caso prospettato in questo brano, però, la mulier non intendeva avvalersi della possibilità di richiedere al creditore, attraverso la condictio, quanto prestato in violazione del divieto posto dal senatus consultum Vellaeanum (nolit repetere), ma preferiva invece agire contro il debitore a favore del quale aveva operato la solutio, facendo valere verso il delegante il suo diritto di regresso con un’actio mandati (contraria)109. Un pagamento efficace del debito altrui, in adempimento di un rapporto di delegazione di pagamento, avrebbe estinto quell’obbligazione e fatto sorgere una pretesa al regresso verso il debitore tutelabile giudizialmente tramite l’actio mandati contraria. Paolo afferma la non operatività del divieto contenuto nel senatoconsulto Velleiano, in un caso in cui il risultato ultimo cui esso mirava poteva essere ottenuto con uno strumento diverso dalla condictio indebiti: alla donna è data la possibilità di scegliere se ottenere quanto pagato con l’azione per la restituzione dell’indebito esperita contro il creditore ovvero facendo valere il suo diritto di regresso verso il debitore attraverso l’esperimento dell’actio mandati. Anche nel caso in cui la mulier agisse in regresso contro il debitore, e non contro il creditore per la restituzione di quanto versato in violazione del divieto posto dal senatoconsulto, non si sarebbe comunque trattato di una vera e propria rinuncia irrevocabile alla tutela accordata dal senatoconsulto Velleiano110, come si evince proprio dalla necessità che, in un’ipotesi del genere, la donna dovesse prestare una cautio de indemnitate reo con cui si impegnava a tenere indenne il debitore da future pretese del creditore. Poiché la circostanza che la donna convenisse in giudizio il debitore, facendo valere il suo diritto di regresso con l’actio mandati, non estingueva per ciò stesso il diritto della donna, derivante dal senatoconsulto Velleiano, di agire contro il creditore con la condictio per la ripetizione di quanto non dovuto (poiché promesso in violazione di quel provvedimento normativo) si rendeva necessaria una cautio che tutelasse il debitore il quale, dopo essere stato condannato nel processo intentato dalla mulier per il regresso, poteva ancora vedersi convenuto in giudizio dal creditore – grazie al meccanismo della restitutio in priorem debitorem – qualora la stessa avesse agito contro costui (tramite condictio) per la ripetizione di quanto pagato ad estinzione del debito111: pertanto,

108

Su cui Sacconi 1971, 1 ss. e Talamanca 1962, 918 ss. Sulla genuinità del riferimento all’actio mandati contraria come strumento per ottenere il risarcimento da parte del debitore principale di quanto pagato con l’atto di intercessione convengono Medicus 1957, 45 ss. e Talamanca 1958, 107. 110 Così in particolare Talamanca 1958, 107; contra Medicus 1957, 45 ss. Diversamente, sembra atteggiarsi a una vera e propria rinuncia alla tutela predisposta dal senatoconsulto Velleiano, ottenuta attraverso l’espediente di una cautio, la fattispecie descritta in Pomp. 1 sen. consult., D. 16.1.32.4 (su cui Medicus 1957, 48 ss.; Mönnich 1999, 94; Finkenauer 2013, 28 ss.): in essa la donna promette attraverso una cautio pretoria di non esercitare, in un futuro processo esecutivo, l’exceptio senatus consulti Vellaeani che le spetterebbe (Vogt 1952, 69 e Talamanca 1958, 107 reputano però la testimonianza non affidabile; contra a favore della sua riconducibilità al pensiero di Pomponio: Medicus 1957, 48 e Finkenauer 2013, 30). 111 Così Talamanca 1958, 107; Finkenauer 2013, 26 ss. Contra Medicus 1957, 46 ss. che ha rigettato la genuinità del riferimento alla cautio de indemnitate reo, imputandola ad un’aggiunta post-classica, obiettando che essa sarebbe stata superflua perché il debitore poteva in qualsiasi momento bloccare la condictio pagando la mulier. Hanno efficacemente rigettato questa posizione Sacconi 1995, 99 ss. e recentemente Finkenauer 2013, 27. 109

140

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 141

Commento ai testi nel processo intentato dalla mulier con l’actio mandati contraria, ella doveva promettere al convenuto che lo avrebbe tenuto indenne da eventuali future pretese del creditore principale112. L’esperimento della actio mandati contraria contro il debitore da parte della donna non può dunque valere come ratifica definitiva dell’efficacia della solutio verso il creditore: la donna non può rinunciare alla tutela offerta dal senatoconsulto Velleiano, nemmeno agendo per il regresso di quanto fatto a favore di altri. Come accennato sopra, il contenuto del frammento appare attribuibile a Paolo anche al di là della espressa menzione del giurista all’inizio del brano. Il tema dell’intercessione muliebre e del relativo divieto sancito nel senatoconsulto Velleiano è infatti stato oggetto di riflessione particolarmente approfondita da parte di Paolo, se solo si considera che nelle fonti sono attestati due libri singulares113 di questo giurista sul tema, uno de intercessionibus feminarum114, l’altro ad senatus consultum Vellaeanum115, oltre a numerosi frammenti tratti da altre opere paoline116 direttamente relativi alla normativa sul divieto di intercessione muliebre. Nelle testimonianze neraziane pervenuteci, invece, il giurista non pare fare menzione neppure indirettamente del senatoconsulto Velleiano e della speciale disciplina de obligationibus feminarum ivi dettata, sebbene affronti in altri passi la questione della incapacità dovuta alla infirmitas sexus117. Il secondo testo (Paul. 1 ad Ner., D. 46.1.66) è suddivisibile in due parti: nella prima, è presentata la soluzione a un caso in tema di fideiussione del servo, non accompagnata da alcuna motivazione; nella seconda, questa decisione viene spiegata con un argomento di carattere generale (introdotto da nam). Nessuna di queste è espressamente attribuita né a Nerazio né a Paolo, tuttavia, come si cercherà di mostrare alla luce dei profili sia contenutistici che formali che emergono da questa testimonianza, il testo appare attribuibile in via esclusiva alla scrittura di Paolo118. La fattispecie presupposta dal passo è sinteticamente descritta nei suoi elementi essenziali. A garanzia del debito di Titius, uno schiavo si impegna con una fideiussio verso il creditore di questi; in esecuzione di tale rapporto di garanzia, il servo procede alla solutio del debito verso il terzo; quindi, il dominus del servo, al fine di far valere il suo diritto di regresso verso Titius,

112 Non emerge con chiarezza dalla fonte la natura di tale stipulatio pretoria né, conseguentemente, il momento del processo in cui essa sarebbe stata richiesta: l’utilizzo dell’espressione audienda est sembrerebbe riferire il caso alla fase in iure dinnanzi al pretore (così Sacconi 1995, 98; Finkenauer 2013, 26), ma Talamanca 1958, 107 appare più prudente, ipotizzando un possibile rimaneggiamento del passo alla luce della mutata struttura del processo giustinianeo. Sull’assetto del divieto di intercessione per le donne nel diritto di età giustinianea si veda Díaz Bautista 1983, 81 ss. 113 In realtà, come già ipotizzato da Lenel 1889.I, 1115 nt. 1, è probabile che si tratti in realtà di un solo libro. 114 Paul. de int. fem., D. 16.1.24 (L. 894). 115 Paul. ad senatus consultum vellaeanum, D. 16.1.23 (L. 1913). 116 Ci si riferisce in primo luogo ai frammenti ad senatus consultum Vellaeanum tratti dal libro XXX ad edictum (Lenel 1889.I, 1026 ss. L. 475 ss.), nonché a quello attribuito ai suoi brevia (Lenel 1889.I, 955 L. 31); un brano tratto dai libri ad Plautium (Lenel 1889.I, 1162 L. 1160); alcuni brani estratti dal VI dei libri regularum (Lenel 1889.I, 1122 s. L. 1433 ss.); un testo tratto dal XVI libro responsorum (Lenel 1889.I, 1248 s. L. 1580). 117 Ner. 1 membr., D. 27.10.9 (L. 5) in tema di requisiti personali per lo svolgimento della carica di curator bonis distrahendis e Ner. 3 reg., D. 26.1.18 (L. 65), in cui sostiene l’impossibilità di nominare un tutore donna. 118 Lenel, come ricordato supra, propone di leggere in questo frammento la continuazione del precedente (Lenel 1889.I, 1140 nt. 4).

141

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 142

Alvise Schiavon debitore dell’obbligazione principale, conviene questi in giudizio con la actio mandati (contraria). Secondo la soluzione che emerge dal passo, è solo a seguito di quest’ultima circostanza – il fatto cioè che il padrone del servo eserciti l’azione di mandato verso il debitore dell’obbligazione a garanzia della quale il proprio servo aveva prestato la fideiussione – che Titius risulta liberato dal suo debito verso il creditore. L’ultima frase del passo, introdotta da nam, spiega questo effetto paragonando l’esercizio dell’actio mandati ad una sorta di ratifica (ratihabitio) del pagamento dello schiavo (ratam habere solutionem) da parte del dominus. Le principali questioni sostanziali sollevate da questo caso sono due: da un lato, la possibilità per il dominus del servo di far valere contro Titius la fideiussione prestata dal suo schiavo e, in particolare, il diritto di regresso nascente dal pagamento; dall’altro, l’effetto liberatorio della solutio dello schiavo rispetto al rapporto obbligatorio principale tra Titius e il creditore. Il tema della validità ed efficacia degli atti giuridici posti in essere dagli schiavi è complesso – soprattutto per la profonda evoluzione che subì durante lo sviluppo dell’esperienza romana – e la bibliografia sul punto ampia e variegata119. Per comprendere le questioni emergenti dalla fattispecie riportata nel testo occorre tuttavia richiamare alcuni dati essenziali. Gli schiavi non erano, in principio, sprovvisti della capacità di porre in essere atti giuridici vincolanti120: secondo lo ius civile, in ragione del vincolo potestativo i diritti nascenti dagli atti posti in essere da schiavi – fossero essi diritti di credito nascenti da contratti o diritti reali trasferiti attraverso gli atti richiesti – erano acquistati direttamente121 in capo al dominus122, ma l’attività dello schiavo non poteva comportare né l’alienazione di diritti né l’assunzione di obblighi da parte del dominus123. Il servus in altre parole, attraverso la sua attività, poteva solo migliorare la condizione giuridica del padrone. Questo principio – cui lo ius civile rimase tenacemente attaccato, ma che rappresentava evidentemente un fattore di incertezza per i terzi contraenti124 – fu peraltro mitigato dagli interventi del pretore e attraverso la interpretatio dei prudentes, che condussero a riconoscere parziale efficacia agli atti obbligatori posti in essere da potestati subiecti e, conseguentemente, rilevanza giuridica alle obbligazioni contratte dallo schiavo125. Al tempo di Nerazio – e a quello di Paolo – l’attività dello schiavo poteva

119 Lo studio più comprensivo dei profili di capacità patrimoniale dello schiavo in diritto romano rimane quello di Buti 1976. L’attivismo degli schiavi nel mondo degli affari è stato particolarmente valorizzato dalle ricerche di Di Porto 1984. 120 Per quanto riguarda invece le conseguenze giuridiche degli atti illeciti compiuti dagli schiavi, i delicta dei soggetti a potestà (anche filii familias, dunque) venivano ricondotti al regime della nossalità: cfr. Sargenti 1949, 39 ss.; Pugliese 1950, 489 ss. e Serrao 1970, 184 ss. 121 Gli effetti giuridici dell’attività dello schiavo si producevano in capo al dominus sulla base del semplice rapporto potestativo: i giuristi non mostrano di dare rilevanza né alla sussistenza di un incarico o dei requisiti per la negotiorum gestio, né ad uno stato di necessità del dominus stesso, per cui non si ravvede in questo fenomeno qualcosa di assimilabile al moderno istituto della rappresentanza diretta (né volontaria né necessaria: per tutti Finazzi 2010, 32 ss.). 122 Gai. 1.52: In potestate itaque sunt servi dominorum. Quae quidem potestas iuris gentium est: nam apud omnes peraeque gentes animadvertere possumus dominis in servos vitae necisque potestatem esse, et quodcumque per servum adquiritur, id domino adquiritur. 123 Gai. 3.104: Praeterea inutilis est stipulatio, si ab eo stipuler, qui iuri meo subiectus est, item si is a me stipuletur. seruus quidem et qui in mancipio est et filia familias et quae in manu est, non solum ipsi, cuius iuri subiecti subiectaeue sunt, obligari non possunt, sed ne alii quidem ulli. 124 Così ad esempio Talamanca 1990, 84 ss. 125 Per una panoramica si veda Finazzi 2010, 64 ss.

142

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 143

Commento ai testi comportare il sorgere di debiti in capo al dominus, ma il loro soddisfacimento dipendeva dal ricorrere dei requisiti cui soggiacevano le c.d. actiones adiecticiae qualitatis o dallo spontaneo adempimento dello schiavo126. Diversamente, la possibilità per lo schiavo di trasferire la proprietà su beni del dominus rimase condizionata all’esistenza di un atto autorizzativo di quest’ultimo, sia che si trattasse di uno iussum con cui avesse specificatamente autorizzato l’atto di disposizione (traditio e, forse, mancipatio)127 sia che l’autorizzazione preventiva assumesse la forma della concessione di un peculio, rispetto ai cui beni lo schiavo poteva porre in essere traditiones utili a far conseguire il possesso128. Questi principii valevano naturalmente anche per le fideiussioni: la validità della fideiussione prestata dal servo a garanzia del debito di un extraneus è affermata in numerose testimonianze di giuristi dell’epoca del Principato129. La fattispecie della fideiussio servi risulta peraltro complicata dalla natura accessoria di questo contratto rispetto all’obbligazione principale130, nel senso che solo con l’estinzione del debito principale si sarebbe determinato

126 Mentre le actiones adiecticiae operavano sul piano dello ius honorarium (infra nota 132), sul piano dello ius civile la giurisprudenza romana giunse a riconoscere una (seppur limitata) rilevanza alle obbligazioni nascenti da contratti conclusi dal servus all’infuori delle ipotesi tipiche di azioni adiettizie attraverso la costruzione della figura della obligatio naturalis (su cui rimangono fondamentali le classiche trattazioni di Burdese 1950b e Longo (G.E.) 1962; più di recente sono tornati sul tema Honsell 2001, 365 ss.; Waldstein 2007-2008, 429 ss.; Longo (S.) 2008; Di Cintio 2009). Il creditore, pur non avendo a disposizione uno strumento giuridico per richiedere giudizialmente l’adempimento del debito servile, godeva della cosiddetta soluti retentio: l’adempimento spontaneo dello schiavo non sarebbe stato ripetibile (repeti non posse) da parte del dominus attraverso l’esperimento della condictio indebiti, poiché non si trattava di indebitum, ma di natura debitum. Inoltre, i debiti contratti dallo schiavo potevano essere garantiti da extranei attraverso istituti di ius civile, in particolare fideiussione o pignus (su questi profili da ultima Longo [S.] 1999, 377 ss.). 127 Sull’efficacia degli atti di alienazione posti in essere da potestati subiecti – e in particolare servi – si vedano in generale Burdese 1950 e 2010, 3 ss. e Coppola 2008, 94 ss. La romanistica, in particolare, appare concorde circa la possibilità per gli schiavi di porre in essere valide traditiones (in presenza di uno iussum o di un peculio); sono invece stati sollevati dubbi circa l’ipotesi di legittimazione ad alienare tramite mancipatio su iussum del padrone (la riconoscono Corbino 1976 e Coppola 2008, 100 ss., la negano Kaser 1950, 66 ss. e Burdese 1950, 21 ss.); infine, l’esclusione della possibilità di alienare tramite in iure cessio è unanimemente affermata (ad es. Kaser 1950, 67; Corbino 1976, 60 ss.). 128 Contro la tesi tradizionale secondo cui in seguito alla concessione del peculio lo schiavo poteva amministrare e disporre, quantomeno mediante traditio, dei beni peculiari (così ad es. Talamanca 1990, 87; analogamente Burdese 1982, 95), si è sostenuto che per gli atti di disposizione dei beni peculiari fosse sempre richiesto il consenso del dominus: cfr. in particolare Buti 1976, 38, secondo cui bisognerebbe distinguere tra i beni peculiari mobili di scarso valore, per l’alienazione dei quali non sarebbe stata necessaria alcuna autorizzazione, e i beni peculiari immobili o mobili di valore, per la cui alienazione, appunto, sarebbe stato necessario un consenso del dominus. 129 Su queste testimonianze si vedano in generale Buti 1976, 119 ss. e Coppola 2008, 149 ss. Tra queste, appare particolarmente significativo il passo paolino in Paul. 4 ad Plaut., D. 15.1.47.1, dove viene riportato un responso di Sabino che individua le condizioni perché la fideiussio del servo potesse dar luogo ad una actio contro il dominus (qualora il servo garantisca ob rem peculiarem o in rem domini). 130 In tema di garanzie personali del credito in diritto romano si può fare riferimento ai classici Segrè 1934, 477 ss. e De Martino 1940, 45 ss. Sui caratteri della fideiussione romana (contratto verbale che poteva accedere a qualsiasi precedente obbligazione, a differenza di sponsio e fidepromissio) rimangono fondamentali Frezza 1962, Talamanca 1968, 326 ss. Sulla natura accessoria della fideiussio in particolare Flume 1932, 64 ss.; Mannino 1992, 1 ss. e 1999, 58 ss.; Talamanca 2003b, 149 ss.

143

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 144

Alvise Schiavon l’adempimento della fideiussione e sarebbe sorto il diritto di regresso contro il debitore principale, azionabile con la actio mandati contraria e la actio negotiorum gestorum131. Nel caso affrontato nel testo, la posizione del creditore principale non appare problematica. Pur non sussistendo i requisiti per l’esperibilità delle c.d. actiones adiecticiae qualitatis contro il dominus132, infatti, l’adempimento spontaneo da parte dello schiavo ha soddisfatto le ragioni del creditore, il quale può trattenere per sé quanto pagato in forza del principio della soluti retentio, che preclude l’esperibilità della condictio indebiti da parte del dominus. Il caso è invece imperniato sul problema dell’idoneità del pagamento dello schiavo ad estinguere l’obbligazione principale di Titius verso il creditore: solo nel caso in cui il pagamento dello schiavo avesse estinto l’obbligazione principale, infatti, si sarebbe configurato il diritto di regresso da parte del dominus e si sarebbe prodotto l’effetto liberatorio a favore di Titius il quale, in caso contrario, avrebbe potuto essere vittoriosamente convenuto in giudizio dal creditore principale anche dopo il pagamento effettuato dallo schiavo. Il pagamento dello schiavo, trovando la sua causa nella obligatio naturalis, non configura sicuramente un’ipotesi di solutio indebiti e dunque non fa insorgere il capo all’accipiens l’obbligo di restituzione attivabile mediante condictio. Per quanto riguarda l’idoneità del pagamento eseguito spontaneamente dal servus ad estinguere (sul piano dello ius civile) l’obbligazione principale, invece, i principii generali sopra abbozzati subordinano l’efficacia degli atti traslativi posti in essere dallo schiavo – compresa la traditio implicata nel pagamento di una somma di denaro, ipotesi che sembra presupposta dal caso in questione – alla sussistenza di uno iussum o di un peculio133. Solo in presenza di un’autorizzazione generica (peculio) o specifica (iussum) il pagamento dello schiavo fideiussore avrebbe con-

131 Il garante poteva dunque agire in regresso sulla base del rapporto sottostante la sua assunzione della posizione di garanzia: se questo si fonda su un invito o incarico del debitore principale garantito, si agirà con la actio mandati contraria (come testimoniato da Gai 3.127 e in Scaev. 6 dig., D. 17.1.62.1 e Ulp. 10 disput., D. 50.17.60); se invece l’assunzione della posizione di garanzia si basava su una spontanea iniziativa del fideiussore si sarebbe utilizzata la actio negotiorum gestorum contraria (si vedano ad esempio Paul. 11 ad Sab., D. 17.1.20.1 e Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.5pr.): su questi profili per tutti Talamanca 1968, 337 ss. e Neumann 2011, 17 ss. La natura della formula della actio mandati contraria utilizzata per ottenere il regresso di quanto pagato dal fideiussor è discussa: l’opinione maggioritaria la ritiene in factum concepta (Lenel 1927, 296 ss. seguito da Frezza 1962, 162 ss. e Neumann 2011, 124 ss.), mentre altra parte della dottrina la ritiene in ius concepta (così in particolare Donatuti 1927, 264 ss.). Qualora la garanzia personale prendesse la forma della sponsio era concesso al garante che avesse pagato quanto dovuto di agire con la actio depensi, prevista dalla lex Publilia de sponsu (di data incerta ma probabilmente anteriore al III sec. a.C.): su questo strumento si vedano Frezza 1962, 160 ss. e Neumann 2011, 17 ss. e 53 ss. 132 Fin dagli ultimi secoli della Repubblica furono concesse al terzo creditore di un’obbligazione contratta da uno schiavo, sul piano dello ius honorarium, le cosiddette actiones adiecticiae qualitatis con le quali questi poteva, a determinate condizioni, far valere direttamente il suo credito nei confronti del dominus. Nel caso affrontato in questo brano, peraltro, nessuna di queste condizioni risulta avverata e dunque nessuna di tali azioni appare applicabile a tutela degli interessi del creditore: in mancanza di ulteriori specificazioni, si deve supporre che lo schiavo abbia agito in assenza di peculio (che legittimerebbe all’esperimento dell’actio de peculio) e di preventiva autorizzazione (iussum) da parte del dominus (che darebbe luogo all’applicazione dell’actio quod iussu: contra Buti 1976, 123 nt. 120, che presuppone invece nel caso affrontato da Paolo un precedente specifico ordine del dominus di procedere alla fideiussio in favore del terzo), né in veste di soggetto preposto a particolari attività commerciali del dominus (circostanza che avrebbe potuto dar luogo all’applicazione dell’actio institoria o dell’exercitoria); infine, non emerge dal passo alcun arricchimento da parte del dominus, che avrebbe potuto legittimare il creditore all’esperimento in via sussidiaria dell’actio de in rem verso. 133 Si vedano le testimonianze riportate e discusse in Coppola 2008, 95 ss.

144

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 145

Commento ai testi figurato una solutio del debito principale che avrebbe determinato la liberazione del debitore principale e la nascita della pretesa al regresso (esercitabile attraverso l’actio mandati contraria). Nella prima parte di questo brano, invece, l’efficacia liberatoria del pagamento è fatta eccezionalmente dipendere – in assenza di iussum e peculio – dall’esperimento da parte del dominus dell’actio mandati contraria contro Titius, il debitore principale; nella seconda parte, la soluzione è ricondotta al principio per cui l’esperimento della actio mandati vale come ratifica del pagamento (ratam habere solutionem). La ratifica a posteriori di un atto di disposizione (ratihabitio)134 consentiva che si producessero gli effetti traslativi di atti di disposizione posti in essere da terzi anche in assenza dell’assenso preventivo del dominus, normalmente richiesto. Il principio è affermato, in particolare, con riferimento a rapporti di gestione di affari altrui e di delega di pagamento, in molte fonti in cui la ratifica successiva da parte del debitore del pagamento effettuato da un terzo con beni del debitore produce il trasferimento della proprietà sul denaro pagato e l’estinzione del debito135. La particolarità della fattispecie risiede nella circostanza che, in questo caso, il rapporto tra gerito e gerente non è inquadrabile nello schema della negotiorum gestio, come avverrebbe se il fideiussore fosse una persona libera, ma in quello della proprietà, trattandosi di un suo schiavo: pertanto, mentre nel primo caso serve la ratifica come atto che faccia propri ex post i risultati della gestione ed integri l’efficacia degli atti traslativi compiuti dal gerito, nell’ipotesi di servo fideiussore l’assunzione come propri di atti altrui prende la forma dell’esercizio diretto di una pretesa nascente dal contratto tipico posto in essere dal gerente136. Il tono generalizzante della chiusa del brano (nam – fine), dove è affermata l’equiparazione tra esperimento dell’actio mandati e ratihabitio, potrebbe suggerire l’ipotesi che si tratti di una chiosa paolina a un’opinione di Nerazio e dunque, per converso, che la prima parte del brano (si servus – instituit) sia da considerare la trascrizione fedele di un passo neraziano137. Il brano, infatti, sembrerebbe riprodurre una struttura tipica del commentario paolino ad Neratium, che emerge con particolare vividezza dal testo riportato in Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23 (L. 1023):

134 Sulla ratifica degli atti in diritto privato romano si segnalano, oltre il risalente lavoro di Bertolini 1889, le più recenti ricerche di Finazzi 2001, 253 ss. e 2007, 399 ss.; De Filippi 2002; Kacprzak 2002. 135 Talamanca 1990, 611 e 637; Finazzi 2001, 253 ss. (con particolare riferimento ai rapporti di gestione di affari altrui e di mandato) e 2007, 399 ss. (con riferimento ai rapporti tra il dominus e il proprio schiavo). 136 Se si fosse trattato di un’ipotesi di gestione di beni altrui (senza preventiva autorizzazione del titolare) da parte di una persona libera, infatti, il gerito avrebbe potuto esperire – salvo le ipotesi di rilevanza penale della condotta, sanzionabile con la actio furti (Fargnoli 2006, 215 ss.) – la actio negotiorum gestorum contro il gerente. Salvo l’ipotesi dolosa, dunque, non ci sarebbe potuto essere nessun rapporto tra gerito e terzo con cui l’atto fosse stato validamente contratto, anche in caso di ratihabitio (Kaser 1971, 265). La ratihabitio sarebbe servita, da un lato, ad attestare il requisito dell’utilità della gestione e a cristallizzare i rapporti anche risarcitori tra gerito e gerente; dall’altro, a dare effetto agli atti dispositivi eventualmente compiuti con beni del gerito, determinando l’adempimento delle relative prestazioni (Talamanca 1990, 611 e 637). Nonostante l’adagio ratihabitio mandato comparatur, dunque, qualora l’agente avesse agito senza preventivo mandatum o iussum, il gerito avrebbe potuto esperire solo la actio negotiorum gestorum e non la actio mandati (Talamanca 1990, 611; Finazzi 2001, 305 ss.; Wacke 2004, 355; da ultima è tornata sul tema Isola 2015, 107 ss.). 137 Questo è il ragionamento svolto, con riferimento ad un altro brano dei libri ad Neratium di Paolo costruito in modo non dissimile Paul. 3 ad Ner., D. 46.1.67 (L. 1047), da Maifeld 1991, 100 ss.

145

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 146

Gianni Santucci nella prima parte del brano, attribuibile al giurista traianeo, è riportato sinteticamente un caso e la sua soluzione, esposta senza motivazione; nella chiusa, attribuibile a Paolo, vengono enucleate le ragioni della soluzione, riconducendola ad un quadro concettuale più ampio. Come accennato in apertura, ragioni di metodo e di merito suggeriscono però di attribuire l’intero passo a Paolo. Innanzitutto, si deve notare come la generalizzazione della struttura emergente in L. 1023 si basa su una serie di assunti non facilmente dimostrabili tra cui, in particolare, l’idea che il commentario paolino seguisse uno schema unitario, sostanzialmente assimilabile a quello delle notae ad138. Inoltre, non bisogna sottovalutare il collegamento – segnalato da Lenel e già richiamato in precedenza – tra questo brano e l’appena visto Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23 (L. 1024)139: nella sua palingenesi dell’opera paolina ad Neratium, Lenel suggerisce di leggere congiuntamente i due brani, mostrando di considerare unitariamente il discorso paolino svolto in essi. Secondo questa ricostruzione l’intero L. 1025, in quanto continuazione di L. 1024, sarebbe da attribuire esclusivamente a Paolo e la spiegazione qui fornita (nam qui mandati agit, ratam habere solutionem videtur) si riferirebbe sia alla fattispecie dell’intercessione muliebre contemplata in L. 1024 che a quella della fideiussio servi in L. 1025. La connessione tematica con il precedente frammento – dove Paolo tratta della possibilità di sanare, attraverso l’esperimento della actio mandati contraria, un atto di intercessione compiuto da una donna in violazione del divieto posto dal senatoconsulto Velleiano – è evidente, così come l’estraneità alla tematica dell’uso e dell’usufrutto, rilevata dallo stesso Lenel, a cui il primo libro sarebbe dedicato: per entrambi i testi la collocazione palingenetica all’interno del primo dei libri ad Neratium di Paolo appare fondata essenzialmente sulle relative inscriptiones nel Digesto, mentre dal punto di vista contenutistico essi appaiono avvicinabili piuttosto a quelli raccolti nel libro II De mandatis et negotiis gestis. A nostro avviso, non si può escludere che Paolo, nel momento di redazione dei due brani, stesse leggendo un passo neraziano in tema di actio mandati e, in particolare, di efficacia sanante dell’esperimento della actio mandati contraria rispetto ad atti precedenti – evidentemente non riportato nel commentario paolino o caduto nel corso della tradizione testuale. La spiegazione fornita nel finale di L. 1025, poi, si può riferire ad entrambe le fattispecie: in entrambi i frammenti, in effetti, si discutono le conseguenze ‘sananti’ dell’esperimento della actio mandati rispetto a un pagamento (solutio) teoricamente invalido. Infine, anche dal punto di vista stilistico, si deve osservare come il brano riportato in L. 1024 – espressamente attribuito a Paolo – presenti la medesima struttura ipotetica della prima parte di quello qui commentato. In definitiva, come già anticipato in esordio del commento, sembra che l’intuizione leneliana debba essere confermata e che il frammento L. 1025 sia attribuibile a Paolo nella sua interezza. F. 7 – D. 32.25 (L. 1026) Il testo in esame è noto alla letteratura giusromanistica, anche se per lo più con riferimento unicamente alla massima estratta dal § 1: cum in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti

138 139

Tesi sostenuta da Manthe 1982, 33 ss. Lenel 1889.I, 1140 nt. 4.

146

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 147

Commento ai testi voluntatis quaestio, assunta variamente come criterio ermeneutico di valenza astratta negli studi storici e dogmatici in tema di interpretazione degli atti mortis causa140. Il frammento si apre nel principium con la citazione di una clausola testamentaria ove il testatore impone un legato in modo alternativo a due eredi: ‘ille aut ille heres Seio centum dabo’, ad essa segue il commento del giurista che riconosce al legatario la possibilità di scegliere a quale dei due eredi rivolgersi per conseguire quanto a lui promesso in legato. Nel § 1 il registro espositivo muta e si articola in una preposizione di carattere generale posta a giustificazione di quanto precede, in cui il giurista afferma che quando non emerge un’ambiguità nelle parole di una dichiarazione, non si deve procedere ad un’indagine della dichiarazione di volontà del dichiarante. Appare opportuno svolgere subito una riflessione intorno alla possibile identificazione delle scritture rintracciabili nel testo. Circa la prima parte, contenuta nel principium, saremmo propensi a leggervi lo schema stilistico di un responsum: alla citazione dell’estratto della disposizione testamentaria ‘ille aut ille heres Seio centum dabo’, in cui si coglie implicita la domanda se questa sia valida e che effetti possa avere, segue immediatamente la risposta: potest Seius ab utro velit petere. Al riguardo non intravediamo ostacoli nell’ascrivere questa prima parte alla mano di Nerazio, scelta, del resto, su cui hanno già convenuto Lando Landucci e Contardo Ferrini141, studiosi che però si sono poi divisi circa l’attribuzione della parte successiva del frammento. Contardo Ferrini, infatti, esclude “che D. 32,25,1 contenga una glossa di Paolo alla decisione neraziana …poiché non si vede alcun nesso fra le due affermazioni”, ma è poi costretto ad azzardare l’ipotesi che D. 32.25.1 sia stato estratto dai compilatori da un altro luogo del commento di Paolo ad Neratium, non riuscendo, tuttavia “con certezza arguire se dal testo o dalle note”142. Tale congettura appare alquanto remota e perciò difficilmente percorribile, mentre non necessariamente si deve ravvisare estraneità fra le due parti del frammento. Proseguendo l’analisi, la questione legata all’interpretazione della disposizione testamentaria, oggetto di un chiaro e univoco responso da parte di Nerazio, sembra trovare un coerente commento in Paolo che, passando dalla specificità del caso ad una dimensione astratta, vi pone un sigillo teorico. Tale osservazione ci porta quindi ad attribuire a Paolo il seguente § 1; del resto, il giurista ci ha abituato in altri luoghi della sua opera alla formulazione di massime astratte in tema di interpretazione143 e lo stilema ‘non ambigitur’, al fine di richiamare un tema che si pone al di fuori di ogni discussione o perplessità ricorre anche in Paolo144 ed appare tratto distintivo della giurisprudenza severiana145, come altrettanto tipico appare di

140 Ricordo, a titolo di esempio: Lauria 1927, 42 s.; Grosso 1929, 322 s. nt. 23; Maschi 1939, 10; Flume 1951, 226; Dulckeit 1953, 195; Betti 1959, 345; Troje 1961, 117; Betti 1962, 903; Wieacker 1963, 387; Gandolfi 1966, 313 s. e nt. 243; Horak 1969, 93 e 218 nt. 11; Kaser 1971, 240 nt. 37; Wieling 1972, 213; Kaser 1975, 84 nt. 5; Zimmermann 1992, 622; Lantella 1997, 582 nt. 26. Battaglia 2017, 157 nt. 537; Bonin 2019a, 14. 141 Landucci 1892, 415; Ferrini 1894b, 233 nt. 1. 142 Ferrini 1894b, 233 nt. 1. 143 Cfr., per esempio, Paul. 14 ad Plaut., D. 34.5.21pr.; Paul. 3 ad Sab., D. 50.17.12; Paul. 14 quaest., D. 34.5.3. Sul punto cfr. Wieling 1972, 272 s. 144 Paul 1 ed. sec. de iurisdic. tut., Vat. 247; Paul 13 resp., D. 33.7.19pr.; Paul. 49 ad ed., D. 39.3.2.8. 145 In argomento diffusamente Tafaro 1994, 131 ss.

147

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 148

Gianni Santucci questo periodo della storia della giurisprudenza il richiamo alla quaestio voluntatis in tema di ambiguità146. Volendo ora approfondire i contenuti del testo, torniamo al principium del nostro frammento a cui si è soliti accostare un testo tratto dai commentari a Sabino di Pomponio147: Pomp. 2 ad Sab., D. 30.8.1: Si ita scriptum est ‘Lucius Titius heres meus aut Maevius heres meus decem Seio dato’ cum utro velit, Seius aget ut, si cum uno actum sit et solutum, alter liberetur quasi si duo rei promittendi in solidum obligati fuissent quid ergo si ab altero partem petierit? liberum cui erit ab alterutro reliquum petere. idem erit et si alter partem solvisset148. Se è stato così scritto: “o Lucio Tizio mio erede o Mevio mio erede dia una somma di dieci a Seio”, Seio potrà agire, a sua scelta, nei confronti dell’uno o dell’altro; di modo che se Seio avesse agito nei confronti dell’uno e questi abbia pagato, l’altro sarà liberato, come se fossero due condebitori solidali. Che dire invece se Seio avesse chiesto ad uno dei due solo una parte? Egli avrà facoltà di chiedere all’altro la parte rimanente, Lo stesso si dovrà affermare se uno dei due avesse pagato solo una parte.

Anche Pomponio riproduce una clausola testamentaria del medesimo tenore di quella riferita nel testo paolino. Pomponio viene a discutere la questione determinata dal fatto che l’onorato del legato agisca solo per una parte nei confronti di uno degli eredi, riconoscendo in capo a quest’ultimo la facoltà di agire per la parte residua contro l’altro erede, come sarebbe avvenuto nel caso in cui uno degli eredi avesse pagato la sua parte149. Soffermiamoci allora sui profili giuridici che emergono dal tenore di questa clausola testamentaria che ritorna in entrambi i frammenti. Essa consiste nell’istituzione di un legato per damnationem imposto a due eredi150, ma alternativamente in modo che ne sortisca un’obbligazione solidale passiva a carico di questi ultimi. Com’è noto, la formula del legato per damnationem disponeva di una struttura formale, pronta ad adeguarsi ad un ampio e diversificato spettro di contenuti in campo obbligatorio in virtù della conceptio verborum, che si pone in profonda similitudine alla stipulatio, figura di gran lunga principale con cui si era soliti realizzare lo schema dell’obbligazione solidale e che, verosimilmente, aveva costituito in quest’ambito il modello di riferimento per il legato per damnationem151. Di recente, si è opportunamente rimarcato come in entrambi i testi l’uso della disgiuntiva aut costituisca il segnale preciso della configurazione di una responsabilità solidale passiva152.

146

Le fonti sono raccolte in Gandolfi 1966, 313 s. nt. 243. L’identità della fattispecie presente in questi testi è osservata in dottrina; si veda per tutti Voci 1963, 242 nt. 17. 148 Si tenga conto della più articolata ricostruzione palingenetica leneliana: Pomp. 396: Si ita scriptum est ‘Lucius Titius heres meus aut Maevius heres meus decem Seio dato’ cum utro velit, Seius aget ut, si cum uno actum sit et solutum, alter liberetur quasi si duo rei promittendi in solidum obligati fuissent [D. 45.1.9] Si Titius et Seius separatim ita stipulati essent: ‘fundum illum, si illi non dederis, mihi dare spondes? Finem dandi alteri fore, quoad iudicium acciperetur, et ideo occupantis fore actionem. [D. 30.8.1] quid ergo si ab altero partem petierit? Liberum cui erit ab alterutro reliquum petere. Idem erit et si alter partem solvisset. 149 Per un recente commento al frammento cfr. Parenti 2012, 356 s. nt. 66. 150 Grosso 1962, 175. 151 Fra gli altri, mi limito a ricordare Archi 1942, 387 s.; Id. 1966, 44 s.; Talamanca 1979, 51 s. 152 Parenti 2012, 382 s. nt. 127. 147

148

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 149

Commento ai testi Diversamente, i prudentes affermavano la presenza di un’obbligazione parziaria quando il testatore procedesse ad una indicazione nominativa di tutti gli eredi, o solo di alcuni di essi, anche se non si rinviene un’uniformità del pensiero giurisprudenziale sulla natura di tale parziarietà153. Così Nerazio nelle membranae – seppur manifestando cautela, come si evince dal ‘propius est’ con cui il giurista introduce il suo pensiero154 – sosteneva la necessità dell’indicazione nominativa di tutti gli eredi perché solo in virtù di tale enumeratio essi sono parificati fra loro e ciascuno obbligato pro parte virili155. In una prospettiva differente si erano invece posti Atilicino, Sabino e Cassio secondo cui si deve operare fra gli eredi la divisione dell’onere in proporzione alle loro parti ereditarie (pro parte hereditaria) e non in quote virili. Tale opinione ci giunge attraverso un testo del commento ad Plautium di Paolo156, il quale seguiva questa linea di pensiero, addirittura estendendo la divisione in proporzione alle quote ereditarie anche nel caso in cui tutti gli eredi fossero indicati nominativamente157. Diversamente ancora e, si potrebbe dire, in una posizione a metà strada, troviamo Pomponio, per il quale sarebbe stato determinante l’aver indicato tutti gli eredi o solo parte di essi: nel primo caso la qualità di erede sarebbe risultata decisiva e avrebbe comportato che la ripartizione dell’onere avvenisse secondo la proporzione delle quote ereditarie; se invece fossero stati indicati nominativamente solo alcuni eredi si riconosceva a loro carico l’obbligazione pro parte virili158. Veniamo finalmente alla seconda parte del frammento, il § 1 dove si legge la nota massima cum in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti voluntatis quaestio: se nella dichiarazione di volontà non si ravvisa alcuna ambiguità nel dettato159, non si deve procedere ad una indagine intorno alla determinazione della volontà, che può anche avvenire concretamente mediante un’istruttoria presso il giudice; ci troviamo quindi di fronte ad un principio generale che tocca pure la funzione processuale160. Il tema generale è quello relativo ai canoni ermeneutici dell’interpretazione delle disposizioni mortis causa, amplissimo e controverso161, ma che in questa sede può rimanere sullo

153

Sul punto si vedano: Grosso 1962, 161 ss.; Voci 1963, 140 ss. e di recente Parenti 2012, 382 s. nt. 127. Lo osserva Grosso 1962, 162. 155 Ner. 5 membr., D. 30.124: Si heredes nominatim enumerati dare quid damnati sunt, propius est, ut viriles partes debeant, quia personarum enumeratio hunc effectum habet, ut exaequentur in legato praestando, qui, si nominati non essent, hereditararias partes debituri essent. 156 Sull’ad Plautium di Paolo si vedano anche le osservazioni svolte supra: 45 ss. 157 Paul. 8 ad Plaut., D. 45.2.17: Sive a certis personis heredum nominatim legatum esset, sive ab omnibus excepto aliquo, Atilicinus Sabinus Cassius pro hereditariis partibus totum eos legatum debituros aiunt, quia hereditas eos obligat. Idem est, cum omnes heredes nominantur. 158 Pomp. 8 ad Sab., D. 30.54.3: Si pars heredem nominata sit in legando, viriles partes heredes habent, si vero omnes, hereditarias. 159 Sul concetto di ambiguitas nella riflessione dei giuristi romani, si vedano Tafaro 1994; Masuelli 2010, 11 ss.; Battaglia 2017, 148 ss., cui rimando per ulteriori riferimenti bibliografici (148 nt. 507). 160 Così di recente Battaglia 2017, 157 nt. 537. 161 Il tema trova analisi con impostazioni sistematiche e di stampo dogmatico nelle trattazioni dedicate in generale all’interpretazione degli atti negoziali, si vedano, fra gli altri, Betti 1957, 632 ss.; Id. 1960, 329 ss.; Id. 1962, 501 s.; Gandolfi 1966, 83 ss.; Voci 1972, 252 ss.; Burdese 1994, 12 s. Inoltre più specificatamente sull’interpretazione delle disposizioni mortis causa cfr.: Biondi 1943, 574 ss.; Voci 1963, 884 ss. e 1001 ss.; Maschi 1966, 708 ss.; Wieling 1972. Per un ampio e approfondito ragguaglio delle posizioni maturate in seno alla romanistica del secolo scorso in tema di interpretazioni delle disposizioni mortis causa rinvio a Coppola 1999, 8 ss. 154

149

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 150

Gianni Santucci sfondo, in quanto non determinante per la comprensione del testo, che espone un principio che costituisce un momento di ‘chiusura’ o di limite ai problemi interpretativi, una “Grenzregel”, per dirla con Franz Wieacker162. Infatti bisogna osservare che non interessa porre una questione di interpretazione oggettiva (o tipica) o di interpretazione soggettiva (o individuale) in quei casi dove non si ravvisa alcun dubbio circa le parole della dichiarazione che viene intesa dal testatore nel suo significato esteriore ed oggettivo (cum in verbis nulla ambiguitas est), non rimanendo quindi altro da fare se non applicare tale dichiarazione in questo suo significato; ed è proprio a questo ordine di cose, come ricorda Pasquale Voci163, che fa riferimento la nostra massima. Vi è chi ha insistito sull’impostazione squisitamente teorica del passo in esame164, ma noi siamo propensi a leggervi anche un significato pratico, proprio per la sua funzione di principio di ‘confine’ oltre il quale non si deve dare sfogo a questioni interpretative165. Questa idea si ritrova già nella riflessione di Servio, le cui teorie sui rapporti fra pensiero del dichiarante e linguaggio sono riferite, in contrapposizione a quelle di Tuberone, nel noto testo celsino racchiuso in D. 33.10.7166. Un “documento rilevante per la storia dell’interpretazione negoziale da parte dei giuristi romani”167 che si apre con l’etimologia labeoniana di supellex e prosegue con la definizione di Tuberone e la storia della funzione di essa (pr. e § 1), ma di cui è qui sufficiente trascrivere il § 2: Cels. 19 dig., D. 33.10.7.2: Servius fatetur sententiam eius qui legaverit aspici oportere, in quam rationem ea solitus sit referre: verum si ea, de quibus non ambigeretur, quin in alieno genere essent, ut puta escarium argentum aut paenulas et togas, supellectili quis adscribere solitus sit, non idcirco existimari oportere supellectili legata ea quoque contineri: non enim ex opinionibus singulorum, sed ex communi usu nomina exaudiri debere. Id Tubero parum sibi liquere ait: nam quorsum nomina, inquit,nisi ut demonstrarent voluntatem dicentis? Equidem non arbitror quemquam dicere, quod non sentiret, ut maxime nomine usus sit, quo id appellari solet: nam vocis ministerio utimur: ceterum nemo exstimandas est dixisse, quod non mente agitaverit. Sed etsi magnopere me Tuberonis et ratio et auctoritas movet, non tamen a Servio dissentio non videri quemquam dixisse, cuius non suo nomine usus sit. Nam etsi prior atque potentior est quam vox mens dicentis, tamen nemo sine voce dixisse existimatur: nisi forte et eos, qui loqui non possunt, conati ipso et sono quodam καὶ τῇ ἀνάρθρῳ φωνῇ dicere existimamus.

162

Wieacker 1963, 387. Voci 1963, 914 s. 164 Grosso 1929, 322 nt. 28. 165 In argomento appare limpido il pensiero di Lauria 1927, 42 s. 166 Sul passo nel tempo si è depositata una ricca letteratura ora dedicata ai profili dogmatici dell’interpretazione degli atti negoziali, come, fra gli altri, Biondi 1943, 301 e 580 s.; Flume 1951, 220 ss.; Betti 1959, 347 ss.; Gandolfi 1966, 89 ss.; Voci 1963, 835 ss., ora volta ad indagare le tecniche e le logiche dei giuristi romani, così, per esempio, Martini 1966, 107 ss.; Schulz 1968, 129 s. nt. 2; Horak 1969, 225 ss.; Astolfi 1969, 163 ss.; John 1970, 75 ss.; Casavola 1971, 485 ss.; Schiavone 1971, 156 ss.; Martini 1971, 157 ss.; Wieling 1972, 38 ss.; Albanese 1973, 1219 ss.; Astolfi 1974, 1 ss. (cit. dall’estratto); Talamanca 1977a, 202 ss. nt. 578; Scarano Ussani 1979, 176 ss.; Negri 1985, 78 ss.; Bretone 2020, 318 ss.; Cerami 1985, 80 ss.; Schiavone 1992, 130 e 227 nt. 74; Nörr 2002, 26 e nt. 149; Negri 2019, 193 ss.; Bonin 2019a, 14. 167 Così Albanese 1973, 1220, autore di un ampio ed approfondito studio dedicato al frammento celsino di cui, inoltre, si rivendica con sicurezza la genuinità (1219 ss.). 163

150

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 151

Commento ai testi Servio ammette che si deve considerare il criterio soggettivo di chi dispose il legato, osservare come egli fosse solito registrare gli oggetti negli inventari domestici. Tuttavia, se qualcuno ha l’abitudine di ascrivere alla suppellettile cose per le quali è sicura l’appartenenza a un genere diverso (si pensi all’argenteria da tavola o alle pènule o alle toghe), non perciò si deve inferirne che, disposto un legato da suppellettile, anche queste cose siano incluse. Infatti il significato dei nomi non dipende, a suo avviso, dall’opinione dei singoli, ma dall’uso comune. Tuberone considera poco chiaro questo punto di vista: a quale scopo i nomi, egli avverte, se non per esprimere la volontà del parlante? Da parte mia, io non penso che si dica una cosa che non si ha l’intenzione di dire, anche se si adopera il temine idoneo per indicarla secondo l’uso: noi ci serviamo infatti della “voce” come di uno strumento. Del resto, nessuno può dire, crediamo, se non quanto abbia prima agitato nella mente. Ma quantunque abbiano un notevole influsso su di me l’argomentare e l’autorevolezza di Tuberone, tuttavia non dissento da Servio su questo punto: nessuno sembra “dire”, se non ciò per cui si è servito del nome appropriato. È vero, infatti, che, rispetto alla “voce”, è primaria e prevalente l’intenzione; ma non si può dire alcunché senza la “voce”, a meno che non si voglia riconoscere, anche per coloro che sono incapaci di parlare, un “dire”, attraverso il tentativo stesso che fanno e una qualche suono “e la voce inarticolata”168.

In questa sede ci soffermeremo unicamente su taluni aspetti del pensiero serviano circa i limiti che vanno concessi all’interpretazione individuale (o soggettiva). Secondo il giurista si deve innanzitutto accertare il pensiero del disponente (sententia) e si fa obbligo all’interprete di ricercare il significato che il disponente dava abitualmente alle parole; ma siffatta direttiva interpretativa individuale può trovare applicazione solo in quei casi in cui non si riesce a ravvisare univocità di significato nelle parole della dichiarazione. In tutti gli altri casi, dove il significato delle parole non solleva alcun dubbio ed esso appare pacifico (ea de quibus non ambigeretur)169, seppur il disponente non segua gli usi linguistici generali e comuni, le parole della dichiarazione devono essere oggetto di un’interpretazione tipica secondo il senso comune170. All’opzione tuberoniana incline a prediligere l’uso individuale del linguaggio, Servio contrappone come criterio prevalente l’uso sociale e oggettivo del linguaggio (non enim ex opinionibus singulorum, sed ex communi usu nomina exaudiri debere); anche qui, come nel nostro testo in esame, l’assenza di ambiguità sembra assumere un ruolo di chiusura all’affacciarsi di eventuali problemi interpretativi e non a caso, nella storiografia si è voluto instaurare un preciso legame fra la posizione di Servio e quella successiva di Paolo171. Al riguardo si potrebbe anche ipotizzare una linea di pensiero attinente alla scuola proculiana

168

Si ripropone qui la traduzione di Bretone 2020, 320. Nell’ambito dei rapporti fra retorica e giurisprudenza sul significato che D. 30.10.7.2 potrebbe assumere circa lo status ambiguitatis alla luce delle partitiones oratoriae (31.108) e del de inventione (2.40.116 ss.) si vedano Astolfi 1969, 172 ss.; Martini 1971, 163 ss.; Astolfi 1974, 9 ss. (cit. dall’estratto). 170 Sul punto Voci 1963, 839 s.; Maschi 1966, 736 s.; Cerami 1985, 80 ss. 171 Donatuti 1940, 208 nt. 2; Maschi 1939, 54 e nt. 2; Wieacker 1963, 387 s.; Liebs 1982, 49; Battaglia 2017, 157 nt. 537. Di diverso avviso Astolfi 1969, 45 s. nt. 138, che ritiene che “Servio e Celso, invece, proponevano una quaestio voluntatis anche quando il significato obiettivo delle parole era univoco, sia pure al fine di escludere la validità della disposizione”, il che, però, non ci sembra si possa evincere dal testo. 169

151

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 152

Gianni Santucci che attraverso Celso in D. 33.10.7 e Nerazio in D. 32.25 giunge fino al commento finale di Paolo172. F. 8 – D. 35.1.96 (L. 1027) Il frammento in esame presenta due fattispecie fra loro parzialmente differenti. Conviene trattare separatamente il principium e quanto segue. Per quanto riguarda il primo non sembrano sorgere incertezze circa la ripartizione della scrittura fra Nerazio e Paolo; la conservazione nella tradizione testuale dell’espresso incipit del commento paolino consente l’agevole deduzione che quanto precede appartenga verisimilmente a Nerazio173, mentre quanto segue non può ovviamente che essere del giurista severiano. Volgiamo lo sguardo ai contenuti: un testatore dispone un legato di usufrutto in capo ad un servo, tale legato è nella forma per vindicationem, diversamente se fosse stato un legato per damnationem l’erede sarebbe stato obbligato a costituirlo mediante un atto inter vivos, una in iure cessio, ma di ciò non si rinviene traccia nel testo174. All’istituzione del legato il testatore affianca una manomissione sottoposta alla condizione ‘si usufructus ad Titium desiniit pertinere’: qualora il servo avesse cessato di appartenere a Tizio, l’erede avrebbe dovuto concedergli la libertà175. Non sorge difficoltà circa l’efficacia di entrambe le disposizioni: l’istituzione del legato di usufrutto e la manomissione testamentaria sub condicione. Prima il legatario gode dell’usufrutto sul servo, poi, qualora si realizzasse la condizione, il servo acquisisce la libertà176; scrive al riguardo Pasquale Voci: “la proprietà del manomesso rimane infatti presso l’erede, come nel caso normale della statulibertà: pertanto si ha passaggio dalla condizione di schiavo dell’erede a quella di uomo libero”177. La premorienza di Tizio in vita del testatore travolge la disposizione a titolo di legato a favore di Tizio e di conseguenza la manomissione condizionata; va da sé, quindi, che nessuna libertà può essere concessa al servo, perché la condizione non ha neppure preso avvio nel suo stato di pendenza, del resto la morte del legatario avvenuta prima del dies cedens rende caduco il legato178. Nel prosieguo del principium Paolo procede con un’approssimazione suc-

172 173

Un cenno in questo senso in Liebs 1982, 49. Così Lenel 1889.I, 784; Landucci 1892, 409; in questo senso sembra muoversi anche Ferrini 1894b, 233

nt. 1. 174

Sul punto per tutti Grosso 1958, 344. Una situazione analoga era alla base anche di un responso di Sabino riportato da Giuliano: Iul. 1 ad Urs. Fer., D. 7.1.35.1: usus fructus servi mihi legatus est isque, cum ego uti frui desissem, liber esse iussus est: deinde ego ab herede aestimationem legati tuli: nihilo magis eum liberum fore Sabinus respondit (namque videri me uti frui nomine, pro quo aliquam rem habendam), condicionem autem eius libertatis eandem manere, ita ut mortis meae aut capitis deminutione interventu liber futurus esset. Anche qui si pone il caso dell’istituzione di un legato dell’usufrutto di un servo, a cui si accompagna la dazione della libertà sottoposta all’avveramento della condizione al momento in cui il legatario cesserà di usarne e percepirne i frutti. Tale condizione non si verifica qualora il legatario, invece che godere del diritto di usufrutto, ha ricevuto la stima pecuniaria del legato stesso, poiché, ricevendo una somma pari alla stima del legato, è come se il legatario usasse del servo e ne percepisse i frutti. La condizione si avvererà solo quando interverrà la morte o una capitis deminutio del legatario. Cfr. anche Pomp. 8 ad Q.M., D. 33.2.20: Si servum sub condicione liberum esse iubeam et usum fructum eius tibi legavero, valet legatum. 176 In questo senso Astolfi 1959, 141 s. 177 Voci 1963, 578. 178 Voci 1967, 457. 175

152

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 153

Commento ai testi cessiva in chiave analogica e viene ad equiparare il caso della morte dell’usufruttuario a quello della sua incapacità a ricevere il legato179. Ipotesi plausibili di incapacità possono essere quelle determinate dal regime dei caduca della lex Iulia et Papia180: si tratta del caso del celibe, che trascorsi 100 giorni dal momento del conferimento del legato, non ottempera la disposizione di legge, unendosi in matrimonio; oppure di quello del latino giuniano, che, consumato il medesimo lasso di tempo, non consegue lo status di cittadino romano181. Il regime è assimilabile a quello del servo statuliber182; qui, tuttavia, essendo l’avverarsi o meno della condizione indipendente dall’arbitrio del servo, non si pongono le difficoltà specifiche e tipiche del regime della statulibertà quando per l’adempimento della condizione assumevano rilevanza la volontà e l’agire del servo manomesso. Venendo a concludere la riflessione sul principium del testo esaminato, si può qui cogliere uno schema espositivo che ritorna in più luoghi della nostra opera183: dopo aver riferito nell’incipit il contenuto della disposizione testamentaria, Nerazio pone immediatamente la quaestio determinata dal fatto che Titius vivo testatore decessit, a cui segue la sua risposta. Crediamo che in quest’ultima poi si possano riconoscere le tracce di un vero e proprio responsum neraziano, laconico ed essenziale di cui Paolo illustra in modo più circostanziato e logicamente preciso la motivazione184. Alla mano di Paolo va attribuito pure il paragrafo successivo, anche se sul punto converrà tornare ancora dopo aver esaminato i profili sostanziali del passo. Qui si riferisce il tenore di un’ulteriore disposizione testamentaria: l’usufrutto di un servo è legato a favore di una donna, a condizione che costei permanga nel suo stato vedovile (quoad vidua esset), stabilendo lo stesso testatore che qualora la donna si risposasse il servo acquisti la libertà. Segue immediatamente lo stringato dettato: si mulier nubserit, liber erit, a giustificazione del quale si argomenta che il favor libertatis prevale sul contenuto del legato185. Per intendere il significato di questa parte del testo è necessario anche qui avere contezza del regime nor-

179

Sul regime della capacitas del legatario per tutti Voci 1967, 430 ss. Più precisamente la lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a.C. e la lex Papia Poppea nuptialis del 9 d.C. Sul tema, com’è noto, si depositata una ricchissima letteratura. Pe rimanere a taluni dei contributi recenti più significativi: Astolfi 1996; Spagnuolo Vigorita 2010, 10 s., 29 ss.,76 s.; González Roldán 2008, 56 ss.; Astolfi 2006, 17 ss., 191 ss.; Bonin 2019a, 169 ss. 181 Ipotesi menzionate in Tit. Ulp. 17.1: quod quis sibi testamento relictum, ita ut iure civili capere possit, aliqua ex causa non ceperit, caducum appellatur, veluti ceciderit ab eo: verbi gratia si caelibi vel latino Iuniano legatum fuerit, nec intra dies centum vel caelebs legi paruerit vel Latinus ius Quiritium consecutus sit (…). Il punto è osservato in modo puntuale da González Roldán 2019, 262. Sull’incapacità del celibe, assai di recente, Bonin 2019a, 201 ss. 182 ‘Qui testamento sub aliqua condicione liber esse iussus est’, secondo le note parole di Gai. 2.200. Per un primo dettagliato inquadramento complessivo di questa figura assai utile ancora Bretone 1971a, 380 ss. Più specificatamente Donatuti 1940, studio monografico che risente però ancora di una pervasiva critica interpolazionistica; di recente e per tutti: Starace 2006, 101 ss. 183 Cfr. D. 32.25 e D. 35.1.97. 184 Per un commento al passo: Donatuti 1940, 77; Astolfi 1959, 141 s.; Wieling 1972, 160 e, assai di recente, González Roldán 2019, 261 s. 185 Il testo è stato al centro dei bersagli della critica interpolazionistica: Donatuti 1940, 77; Astolfi, 1959, 141 s.; Talamanca 1965, 360 s. nt. 117, sulla quale tuttavia in questa sede crediamo inutile insistere perché possiamo da tempo considerarla del tutto superata (esemplari le posteriori riflessioni al riguardo di Talamanca 1994, 106 e nt. 93). Per un’analisi del passo, indenne dalla critica interpolazionistica, si veda Wieling 1972, 168 s. 180

153

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 154

Gianni Santucci mativo imposto dalla lex Iulia et Papia in età augustea e conservato vigente certamente per tutto il terzo secolo: com’è noto, secondo la lex Iulia de maritandis ordinibus, la capacitas di acquistare eredità e legati era riconosciuta alla vedova solo se questa si fosse risposata entro il lasso temporale di un anno, termine portato a due anni dalla morte del marito dalla lex Papia Poppea186. Dal tenore del testo non è possibile arguire se la donna fosse vedova dello stesso testatore o meno, com’è noto, infatti, la parola mulier “significat universim feminam omnis aetatis et conditionis”187 e va osservato che il regime della lex Iulia et Papia sembra differenziarsi a questo riguardo, come la dottrina ha evidenziato sulla scorta delle fonti188: di certo, se il disponente era persona diversa dal coniuge, in base alla legge si riteneva illecita la condizione tendente ad impedire al destinatario il matrimonio, che pertanto si aveva come non scritta. La donna, quindi, per poter conseguire il legato doveva necessariamente accedere a nuove nozze, contravvenendo così la disposizione testamentaria che le imponeva esattamente la condizione opposta, il cui venir meno avrebbe comportato la libertà del servo legato in usufrutto. Ma anche se a disporre il lascito testamentario fosse stato lo stesso marito, da un testo dei pithanà di Labeone si evince che la vedova che avesse ricevuto in legato un servo a condizione di non accedere a nuove nozze, qualora si fosse risposata, dovendo ottemperare al dettato della lex Iulia et Papia, comunque avrebbe visto riconoscere la libertà del servo189. Sembrerebbe quindi implicita, nella narrazione del nostro testo, la verosimile richiesta sollevata dalla donna se potesse comunque trattenere l’usufrutto sul servo, in quanto la condizione voluta dal testatore di conservare lo stato vedovile era da ritenersi come non apposta in virtù del contrasto con il dispositivo della lex Iulia et Papia190. Assume carattere di diniego la risposta del giurista, che, di fronte alle nuove nozze della donna, afferma comunque la libertà del servo. Se la condizione si doveva considerare come non apposta, avrebbe dovuto essere ritenuto valida solo l’istituzione del legato di usufrutto, venendo meno la condizione che contemplava la libertà del servo; ma in questo caso, in virtù della consueta applicazione del criterio del favor libertatis, il conseguimento della libertà del servo prevale sulla disposizione testamentaria: quia potior est legato libertas191. Come prima si è anticipato, conviene tornare sul tema dell’identificazione della prosa fra Nerazio e Paolo con riguardo alla porzione del testo appena illustrata poiché Contardo Ferrini non sembra nutrire dubbi su fatto che Nerazio sia il diretto autore di tutto D. 35.1.96.1 e ciò in base all’assunto, da lui tuttavia non dimostrato e non dimostrabile, secondo cui sarebbe erroneo “credere che la parte, spettante a Nerazio in questi libri di Paolo, sia solamente quella che precede il nome Paulus”. L’illustre studioso non ritiene pertinente alla mano di Nerazio solo la giustificazione conclusiva quia potior est legato li-

186

Per tutti in argomento Volterra 1975, 771. Così si legge in Forcellini 1940, 301. Cfr. anche Heumann-Seckel 1907, 355, che ricorda significativamente Ulp. 44 ad Sab., D. 34.2.25.9: Mulieres enim omnes dici quaecumque sexus femini sunt. 188 Per tutti si veda la circostanziata analisi di Astolfi 1996, 161 ss. 189 Lab. 3 pith., D. 40.7.42: Si quis eundem hominem uxori suae legaverit et, cum ea nupsisset, liberum eum esse iusserit et ea ex lege nupserit, liber fiet is homo. 190 Così già Donatuti 1940, 77. 191 Sul punto Astolfi 1996, 169. 187

154

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 155

Commento ai testi bertas, intorno alla quale egli si mostra incerto se crederla di Paolo o frutto di un’inserzione compilatoria192. Certamente nella romanistica meno recente una proposizione generalizzante come quia potior est legato libertas poteva facilmente essere intesa come tipico segno di un intervento giustinianeo volto ad offrire una sorta di ‘regola normativa’. Ma proprio in ragione di queste caratteristiche ci pare del tutto plausibile ritenere tale chiusa di mano paolina. L’espressione dal sapore astratto in cui si afferma la poziorità del criterio del favor libertatis rispetto alla volontà testamentaria appare pienamente compatibile con lo stile del giurista severiano che in altri luoghi della sua opera ci ha abituato a simili considerazioni; basti pensare, ad esempio, alla celebre massima ‘in obscura voluntate manumittendum favendum est libertati’ di Paul. 16 ad Plaut., D. 50.17.179, oppure a quanto si legge in Paul. 4 ad Sab. D. 40.4.10.1, a proposito di un servo oggetto di manomissione testamentaria e di istituzione di legato: quod si in obscuro sit, tunc favorabilius respondetur liberum fore: visuali generali animano l’opinione di Paolo sia circa le competenze degli organi giudicanti riguardante le cause di libertà: quia favor libertatis est, ut maiores iudices habere debeat (Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.7), sia in rapporto alla conferma del testatore della validità dei legati viziati comprensiva delle manomissioni, come si legge in Paul. 9 ad Plaut. D. 50.16.80: in generali repetitione legatorum etiam datae libertates continentur; e sempre in questa prospettiva si deve leggere la recezione paolina della riflessione giulianea circa il rapporto fra lo speciale constitutum ius e il favor libertatis in Paul. 16 ad Plaut., D. 40.7.20.3193. Si pensi, infine, al generale riconoscimento del valore assoluto della libertà testimoniato da espressioni quali libertas inaestimabilis res est come si legge in Paul. 2 ad ed., D. 50.17.106, o infinita aestimatio est libertatis di Paul. 13 ad Plaut., D. 50.17.176194. Se quindi non si devono nutrire dubbi sulla paternità paolina del commento finale nel testo, bisogna tuttavia interrogarsi su quanto precede. L’attribuzione a Nerazio del resto del primo paragrafo potrebbe essere plausibile. Sembra infatti ritornare lo schema espositivo che

192 Ferrini 1894b, 232 s. In questa prospettiva si era già collocato Landucci, 1892, 410 s. e nt. 1, il quale addirittura attribuisce l’intero D. 35.1.96 a Nerazio eccettuata la frase “ergo…incipit” che segue immediatamente l’inserzione del nome Paulus e chiude il principium. 193 Paul. 16 ad Plaut., D. 40.7.20.3: Is, cui servus pecuniam dare iussus est ut liber esset, decessit. Sabinus, si decem habuisset parata, liberum fore, quia non staret per eum, quo minus daret. Iulianus autem ait favore liberatis constituto iure hunc ad libertatem perventurum, etiamsi postea habere coeperit decem. Adeo autem constituto potius iure quam ex testamento ad libertatem pervenit, ut si eidem et legatum sit, mortuo eo cui dare iussus est ad libertatem quidem perveniet, non autem et legatum habiturus est. Idque et Iulianus putat, ut in hoc ceteris legatariis similis est. Sul passo suggestive riflessioni in Bretone 2020, 292 ss., fondamentale il circostanziato ed ampio esame di Starace 2006, 215 ss. e, assai di recente, sempre con profondità di analisi: Frunzio 2019, 900 ss. Sul punto si rinvia a quanto osservato supra: 45 ss. 194 Per alcune applicazioni più particolari del criterio del favor libertatis in Paolo: Castello 1956, 358 ss.; Wieling 1972, 168; assai di recente e con discussione della storiografia, Frunzio 2019, 895 ss. Utili anche Hausmaninger 1981, 1139 ss.; Palma 1992, 68 ss.; Frare 2019, 137 ss., in rapporto alle decisioni paoline ispirate al criterio della humanitas (in cui affiora anche il tema del favor libertatis). La presenza di tale criterio nella riflessione giuridica del principato è stata analizzata, con maggiore o minore profondità, seguendo differenti prospettive, qui mi limito a richiamare, fra gli altri: Castello 1956, 348 ss. Härtel 1974-75, 281 ss.; Waldstein 1986, 195 ss., 397 ss.; Faro 1996, 110 ss.; Castello 1984, 2175 ss.; Sicari 1996, 151 ss. e nt. 42; Gamauf 1998, 18 ss.; Ankum 2004, 3237 ss.; assai ampiamente Starace 2006, 55 ss.; Silla 2008, 2 ss., 201 ss.; Sciortino 2009, 155 nt. 380; Quadrato 2010, 382 ss. Da ultima Frunzio 2019, 895 (con ulteriori riferimenti bibliografici).

155

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 156

Alvise Schiavon abbiamo già evidenziato nel principium. Si pone il caso con la descrizione dell’istituzione del legato condizionato; segue la laconica affermazione che se la donna si sposerà il servo sarà libero, affermazione che ci sembra avere il carattere di un responsum senza motivazione, e fin qui si potrebbe pensare che sia Nerazio a scrivere, per poi concludere nuovamente Paolo che offre, attraverso una massima generale, la motivazione del responso neraziano. Tuttavia, altri argomenti fanno propendere per l’intera attribuzione del primo paragrafo al giurista severiano. Innanzitutto esso costituisce una scrittura posta di seguito al nome Paulus che appare verso la fine del principium e questa osservazione nella sua dimensione plastica conserva rilevanza e in ragione di ciò, a nostro parere, Otto Lenel lo assegna integralmente a Paolo195. Neppure da disprezzare, è il ruolo essenziale che, nella comprensione del tenore dell’intero D. 35.1.96, gioca il regime della lex Iulia et Papia, un tema che, se appare estraneo agli interessi specifici di Nerazio almeno per quanto ci residua, risulta ben familiare a Paolo il quale, com’è noto, gli dedicò un commento monografico in 10 libri196; e forse non è un caso che, nel terzo libro di questa opera, dedicato alla capacitas dei soggetti destinati a capere i lasciti testamentari, in un breve frammento, Paul. 3 ad legem Iul. et Pap., D. 50.17.208, si legga: non potest videri desisse habere, qui numquam habuit/non può dirsi di avere cessato di avere chi non ha mai avuto197. Questa idea, cioè che non si può ritenere di avere perduto quanto non si iniziò mai ad avere, collima pienamente con quanto espresso da Paolo in D. 35.1.96pr., quando il giurista scrive: desisse enim non videtur, quod nec incipit198 . Sulle base di queste osservazioni siamo propensi a ritenere di mano paolina tutto il primo paragrafo di D. 35.1.96. F. 9 – D. 40.7.38 (L. 1028) Il passo riporta un’affermazione di carattere generale e non contiene elementi utili a differenziare la paternità delle diverse parti del testo: nonostante risuoni nel brano la eco di temi ‘neraziani’, già segnalata da Lenel e di cui si dirà oltre dopo aver delineato il contesto giuridico necessario a comprendere la soluzione prospettata, a nostro avviso il testo è complessivamente attribuibile al solo Paolo, per le ragioni che si vedranno199. Esso si riferisce al caso di un testamento in cui il de cuius avesse disposto la liberazione (manumissio testamento)200 di uno schiavo appartenente all’asse ereditario, a condizione dell’avverarsi di un determinato evento201: si tratta dell’ipotesi dello statuliber, di cui troviamo una celebre e risalente descri-

195

Lenel 1889.I, 784; cfr. anche Landucci 1892, 409. Cfr. Lenel 1889.I, 1125 ss. In argomento Ferrini 1894b, 237; Berger 1918, 708; Schulz 1968, 335. 197 Su questo testo di recente Frunzio 2017b, 5 s. 198 Astolfi 1996, 385 e nt. 27, nel tentativo di offrire un quadro palingenetico dei dieci libri paolini ad legem Iuliam et Papiam collega a D. 50.17.208 proprio D. 35.1.96pr. 199 Come vedremo Lenel 1889.I, 1140 nt. 5, suggerisce un collegamento sostanziale tra il brano in commento e L. 98, testo collocato tra i frammenti ex incertis libris dei responsa neraziani in cui Pomponio riporta il pensiero di Nerazio in tema di estensione dell’obbligo dello statulibero cui fosse richiesto di restituire i libri contabili come condizione per la liberazione, sui cui torneremo più diffusamente più avanti. 200 Sulle manomissioni testamentarie risulta ancora utile Impallomeni 1963. 201 Vale notare di sfuggita che l’apposizione di un tale requisito per l’efficacia dell’atto (condizione sospensiva) non sarebbe stato possibile nel caso di manumissio vindicta la quale, in quanto actus legitimus, non poteva essere sottoposta né a termine né a condizione: il fenomeno dello statuliber nasce dunque dalla pratica delle manomissioni mortis causa. 196

156

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 157

Commento ai testi zione (tra l’altro) in Fest. 414.32 L.202 laddove si legge che statu liber est, qui testamento certa condicione proposita iubetur esse liber (è statulibero colui per il quale sia stato stabilito in un testamento che sia libero purché si avveri una determinata condizione)203. Con l’avverarsi della condizione, la disposizione testamentaria diviene efficace e lo schiavo manomesso acquisisce lo status libertatis e, nel caso di manomissione di ius civile, pure lo status civitatis e dunque la cittadinanza romana204. I maggiori problemi della disciplina della figura dello statulibero si concentrano, come è ovvio, sul periodo di pendenza della condizione, durante il quale lo schiavo rimane di proprietà dell’erede, ma con un’aspettativa riguardo la sua futura liberazione. Il passo, in particolare, prende in considerazione l’eventualità che l’erede istituito col medesimo testamento impedisca con la sua condotta l’avverarsi dell’evento a cui il de cuius aveva condizionato l’acquisto della libertà da parte dello statuliber. L’erede è evidentemente il soggetto interessato a che la condizione cui è subordinato l’acquisto della libertà non si adempia, poiché in questo caso lo schiavo rimarrebbe nell’asse ereditario e dunque nel patrimonio dello stesso erede. Si deve inoltre immaginare che la condizione imposta dal de cuius non avesse carattere potestativo poiché, in quel caso, l’erede non avrebbe avuto alcuna necessità di impedire l’avverarsi dell’evento, potendo egli limitarsi a manifestare la propria volontà contraria all’acquisto della libertà205. Si tratta dunque di un caso in cui la condotta di colui che aveva interesse al mancato avveramento della condizione ha impedito il suo realizzarsi: in casi simili i giuristi romani applicavano206 il principio per cui condicio pro impleta habetur, si per eum, cuius interest condicionem non impleri, fit, quo minus im-

202

Lindsay 1913, 414. Sulla testimonianza festina si sofferma da ultima Starace 2006, 159 ss. A partire da questa e da altre simili definizioni di statuliber (su cui Donatuti 1940, 8 ss. e di recente Starace 2006, 162 ss.) la dottrina maggioritaria ritiene che rientri nella concezione di statuliber solo l’ipotesi in cui la manomissione testamentaria fosse sottoposta a condizione sospensiva: gli effetti di una disposizione volta ad attribuire libertà potevano solo essere subordinati all’avverarsi di un evento futuro e incerto, mentre non era immaginabile una concessione di libertà sottoposta a condizione risolutiva (come emerge in particolare dalla lettura di Paul. 12 quaest., D. 40.4.33 libertas ad tempus dari non potest, su cui Donatuti 1940, 4); inoltre, si ritiene non rientri nella concezione romana di statuliber la condizione dello schiavo la cui manomissione fosse sottoposta a termine sospensivo, nonostante un testo attribuito proprio a Paolo, e collocato dai compilatori in apertura del titolo 40.7 de statuliberis (Paul. 5 ad Sab., D. 40.7.1pr.), contenga una definizione più ampia di statuliber, comprendente anche i soggetti la cui liberazione fosse subordinata all’avverarsi di un evento futuro ma certo (statuliber ex die). Secondo Donatuti 1940, 9 ss. il brano sarebbe interpolato. Sul punto è ritornato di recente Milazzo, 2014 che riconosce la genuinità del riferimento paolino allo statuliber ex die. Anche in autorevole letteratura istituzionale, del resto, l’ipotesi è ammessa – Marrone 2006, 202 e 641; Voci 1996, 614 – o quantomeno adombrata – ad es. Bonfante 1925-1933.I, 224; Talamanca 1990, 93. Starace 2006, 168 nt. 10 pur non prendendo posizione sul punto sembra propendere per la tesi dell’alterazione testuale. 204 Come testimoniato tra l’altro in Gai. 1.17 (su cui Impallomeni 1963, 31 ss.). 205 Donatuti 1940, 213 ss. 206 Secondo Grosso 1930a, 413 (che riprende un’intuizione di Vassalli 1914, 225 ss.) e Donatuti 1937, 595 ss. le attestazioni di una generale applicazione della regola sulla finzione di adempimento sarebbero frutto di una generalizzazione imputabile ai compilatori giustinianei, mentre in diritto classico essa sarebbe stata limitata al campo delle manomissioni testamentarie: contra Masi 1966, 228 ss. In ogni caso nessuno dubita della generale applicabilità del meccanismo per le condizioni apposte alla manumissioni testamentarie fin dall’epoca del Principato. 203

157

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 158

Alvise Schiavon pleatur (la condizione si considera avverata, qualora colui che aveva interesse a che la condizione non si avverasse abbia operato per impedirne l’avveramento)207. Tale principio era considerato attenere allo ius civile208 e, stando alla testimonianza fornita da un capitolo dei Tituli ex corpore Ulpiani, potrebbe fondarsi addirittura su un antichissimo precetto risalente alle XII tavole209. Le prime applicazioni certe del principio dell’adempimento fittizio risalgono comunque all’età repubblicana210 e concernevano proprio l’ambito delle disposizioni testamentarie e, in particolare, quelle aventi ad oggetto la concessione della libertà – come riportato in un passo di Ulpiano inserito dai compilatori nel titolo de diversis regulis iuris antiqui, Ulp. 77 ad ed., D. 50.17.161 – e un ruolo fondamentale nella sua enucleazione potrebbe essere stato svolto da Servio Sulpicio Rufo211. Stando a questa testimonianza, a partire da questo originario campo applicativo il principio sarebbe stato poi esteso anche alla stipulatio (quibus exemplis stipulationes quoque committuntur), mentre l’applicazione di questa fictio a contratti presidiati da iudicia bonae fidei è attestata solo in due passi del Digesto (Ulp. 11 ad ed., D. 18.1.50 e Pomp. 9 ad Sab., D. 18.1.8pr.)212. Non sorprende che la regola dell’adempimento fittizio della condizione sia stata in origine elaborata in riferimento ai negozi mortis causa aventi ad oggetto la concessione della libertà a uno schiavo appartenente al de cuius: in questo campo si intrecciavano infatti i principi del favor libertatis – criterio ermeneutico e di politica legislativa volto a facilitare l’acquisto della libertà da parte degli schiavi213 – e quello del favor testamenti214 – canone che imponeva di interpretare gli atti mortis causa nel senso più conforme alla volontà del testatore, nonché regola che prevedeva il rispetto della volontà del de cuius come dovere inderogabile degli eredi.

207 Tale regula è riportata con formulazioni largamente sovrapponibili in due testi: Iul. 55 dig., D. 35.1.24 e Ulp. 77 ad ed., D. 50.17.161, su cui infra. I due brani sono considerati leges geminatae ovvero testi che, a causa del peculiare piano di lavoro della commissione giustinianea per la redazione del Digesto, ricorrono identici in due luoghi dello stesso: una panoramica sulla complessa teoria del Bluhme e la questione delle leges geminatae in Pescani 1974, 241 ss. 208 Sarebbe, in particolare, frutto di interpretatio giurisprudenziale: così Donatuti 1937, 588. 209 Tit. Ulp. 2.4. Circa la riconducibilità delle testimonianze dei Tituli ex corpore Ulpiani, almeno nella sostanza, al pensiero ulpianeo cfr. Mercogliano 1997 e Avenarius 2005. Sull’affidabilità nello specifico di questa fonte: Donatuti 1940, 253 ss.; Starace, 2006, 113 ss.; nega che possa rintracciarsi una linea di continuità tra l’assetto decemvirale e l’assetto della disciplina nel periodo del Principato Grosso 1930a, 373. 210 Bianchi 1997, 446 ss. e García Garrido 1957-1958, 335 ss. 211 Così Behrends 2007, 365 ss. e Starace 2006, 175 ss. ma già Donatuti 1937, 587 ss.; Biondi 1955, 538; Voci 1963, 596. Il collegamento tra Servio Sulpicio Rufo e Festo, autore della celebre definizione di statuliber sopra riportata, mediato dall’opera di Verrio Flacco sulle XII tavole, è stato oggetto delle ricerche di Bona 1992, 553 ss. Proprio la testimonianza festina rappresenta una delle più risalenti attestazioni dell’operatività della regola dell’adempimento fittizio nel caso di statulibero: la seconda parte del passo infatti afferma che se dipende dall’erede che lo statulibero non possa prestare ciò che deve prestare, allora egli si ritiene comunque liberato (et si per heredem est, quo minus statu liber praestare possit, quod praestare debet, nihilominus liber esse videtur). 212 Sull’applicabilità della regula a negozi tutelati da giudizi di buona fede sono tornati di recente Behrends 2007, 361 ss. e Di Salvo 2011, 135 ss. 213 Il tema dell’operatività del favor libertatis nell’ordinamento romano è complesso e sfuggente. In questa sede basta osservare come la tesi che lo riconnetteva all’affermarsi della religione cristiana, escludendo che potesse appartenere ai giuristi del Principato (Albertario 1923b, 63 ss.), presupponeva rimaneggiamenti invasivi delle fonti ed è stato già da tempo superato (ad es. Biondi 1952, 386 ss.). Un ragguaglio della letteratura e dei principali problemi in Starace 2006, 23 ss. Cfr. sul punto quanto osservato supra, p. 155 nt. 194. 214 Su cui, per tutti Voci 1963, 835 ss.

158

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 159

Commento ai testi Il principio che imponeva di considerare come adempiuta la condizione qualora il mancato avveramento dell’evento dedotto fosse imputabile al soggetto che aveva interesse all’inefficacia dell’atto era dunque dato corrente nella giurisprudenza del Principato, come risulta tra l’altro dai passi di Giuliano, Iul. 55 dig., D. 35.1.24 e Ulpiano, Ulp. 77 ad ed., D. 50.17.161 in cui esso assume la forma di vera e propria regula215. In particolare, poi, che Paolo conoscesse ed applicasse il meccanismo dell’adempimento fittizio della condizione nel caso di disposizione testamentaria volta ad affrancare uno schiavo, è confermato da un passo del suo commento ad Plautium, Paul. 16 ad Plaut., D. 40.7.20.3216. Nel testo in esame Paolo sembrerebbe però richiedere un requisito ulteriore al fine di riconoscere l’operatività del principio dell’adempimento fittizio della condizione: dal tenore del passo sembra infatti che non fosse sufficiente l’oggettiva imputabilità del mancato avverarsi dell’evento dedotto come condizione alla condotta dell’erede (non omne ab heredis persona interveniens inpedimentum), ovvero al soggetto interessato a che il negozio non dispiegasse i suoi effetti, poiché era necessario accertare l’atteggiamento soggettivo dello stesso (quod impediaendae libertatis factum est). L’interpretazione di questo requisito, e così della restrizione della sfera di applicazione del principio dell’adempimento fittizio operata da Paolo in questo passo, è stata valutata diversamente dagli studiosi. Alcuni autori riferiscono questa precisazione alla necessità di un ‘dolo specifico’ dell’erede interessato (il cosiddetto animus impediendae libertatis), ovvero alla sua intenzione di impedire con la sua condotta il mancato acquisto della libertà da parte dello statuliber, requisito che sarebbe emerso in un’epoca successiva a quella di Nerazio e Paolo e che dunque condurrebbe a considerare non genuina la seconda parte del passo da sed id217. Altri invece ritengono che dal passo emerga solamente la necessità, attestata sicuramente da altre testimonianze coeve218, di un dolo generico dell’erede, ovvero della volontarietà della condotta che ha impedito il verificarsi della condizione219.

215 L’applicazione del meccanismo in diversi contesti – dalle disposizioni testamentarie ai contratti – ne definisce e stabilizza i caratteri, che infine possono essere riassunti in proposizioni semplici: sull’elaborazione delle regulae da parte della giurisprudenza romana la bibliografia è sterminata: basti qui ricordare i classici Stein 1966 e Schmidlin 1970. Un’utile panoramica in Bretone 2020, 303 ss. 216 Il contenuto del passo è molto complesso, riportando le opinioni di Sabino e Giuliano, ed è stato oggetto di ricerche approfondite da parte della dottrina (un ragguaglio da ultimo in Starace 2006, 215 ss.), che ha sollevato dubbi non marginali sulla sua genuinità (così Grosso 1930a, 374 ss.; Liebs 1964, 68 ss.; Masi 1966, 230 ss.); a favore della genuinità sostanziale del passo si sono però espressi Donatuti 1937, 616 ss.; Bund 1965, 60 ss. e di recente Starace 2006, 221 ss. 217 Secondo Grosso 1929-1930, 499 l’emergere del requisito dell’animus impediendae per l’operatività del meccanismo dell’adempimento fittizio sarebbe dovuto ad alterazioni testuali – in parte pre-giustinianee, in parte degli stessi compilatori – volte ad accordare le fonti classiche con la nuova tendenza ‘soggettivistica’. In particolare, poi, per quanto riguarda il brano in esame, l’ultima frase (sed id – fine) sarebbe stata aggiunta a seguito della caduta della seconda parte originale del brano, che avrebbe contenuto l’enunciazione di una serie di casi pratici in cui era esclusa l’operatività del meccanismo dell’adempimento fittizio della condizione per lo statulibero perché il mancato avveramento della condizione non sarebbe attribuibile a un comportamento genericamente doloso del dominus erede. L’aggiunta, di mano compilatoria, avrebbe però tradito la nuova concezione dell’animus impediendae libertatis come ‘dolo specifico’. Sulla stessa scia si muoveva ancora Robbe 1978, 686 ss. 218 È rimasta isolata l’opinione espressa da Daube, 1960, 273 ss. secondo cui, anche nel periodo del Principato, non si sarebbe richiesta nemmeno la volontarietà della condotta del dominus-erede come requisito dell’operatività del meccanismo dell’adempimento fittizio della condizione, essendo sufficiente la colpa dell’interessato. 219 Così in particolare Donatuti 1937, 586 e Masi 1966, 213 ss. Una tale interpretazione del brano sembra essere presupposta anche dalla Glossa (gl. Casus ad h.l.).

159

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 160

Alvise Schiavon Il senso della limitazione sembra invero sia da ricercare nell’intenzione di escludere interpretazioni eccessivamente ampie del principio secondo cui l’inpedimentum proveniente dall’erede ha l’effetto di liberare lo statulibero, il quale, preso nella sua oggettività, avrebbe limitato fortemente la libertà di azione dell’erede stesso. Il requisito dell’imputabilità soggettiva dell’impedimento all’erede servirebbe così a scongiurare applicazioni meccaniche del principio dell’adempimento fittizio220, tendenza che sembrerebbe emergere ad esempio in talune prese di posizione di Salvio Giuliano e Giavoleno221: che nel passo in esame Paolo, richiamandosi all’autorità di Nerazio, di scuola proculiana, abbia voluto contrastare l’interpretazione dei due grandi esponenti sabiniani sulla base della valorizzazione di un elemento soggettivo, è un’ipotesi da non scartare. Del resto, come già notato sopra, l’interesse di Nerazio per il tema della condizione dello statuliber è attestato da diverse altre fonti. Due passi – l’uno pomponiano222, l’altro ulpianeo223 – riportano citazioni di Nerazio in tema di condizione dello statulibero non collocabili con precisione all’interno dell’opera del giurista traianeo, mentre altre due testimonianze appaiono riconducibili – direttamente o indirettamente – a specifiche opere neraziane: un brano risulta infatti attribuito dalla stessa rubrica alle membranae224, mentre un secondo appare indirettamente attribuibile ai responsa di Nerazio225. In questi ultimi due brani, in particolare, Nerazio mostra – spesso in antitesi a prese di posizione di Giavoleno – un atteggiamento molto prudente, propugnando un’applicazione equilibrata del meccanismo dell’adempimento fittizio, sia in tema di adempimento della condizione ‘si decem heredi dedisset, iussus est liber esse’ con denaro non ottenuto dai profitti dello schiavo nella gestione del peculio226, sia nel caso di schiavo liberato a condizione che consegnasse i conti (rationes reddere) della sua gestione227. È

220

Su questi aspetti Grosso 1930b, spec. 437 s. Tra l’altro riportate nel passo di Paolo citato supra (Paul. 16 ad Plaut., D. 40.7.20.3). Starace 2006, 278 ss. rintraccia nel pensiero di Giuliano e di Giavoleno gli spartiacque nella storia della statulibertà. Ancora più nettamente Bretone 2020, 294, nota come il pensiero ‘non formalistico’ di Giuliano in questo ambito “si svolge su un confine estremo; al di là di esso il diritto cesserebbe di essere non solo razionale nel senso dimostrativo del termine, ma anche ragionevole”. 222 È il caso della testimonianza in Pomp. 8 ad Sab., D. 40.7.5pr. su cui ancora González Roldán 2017, 340 ss. 223 Ulp. 19 ad Sab., D. 40.4.7 su cui Donatuti 1940, 26 e 213. 224 Viene in rilievo in particolare Ner. 3 membr., D. 40.7.17 su cui da ultimo diffusamente González Roldán 2017, 338 ss.; per i dubbi di rimaneggiamento del passo cfr. Grosso 1930b, 433 nt. 1 e Greiner 1973, 34. 225 Il riferimento è a Pomp. 12 epist., D. 35.1.112.3, brano che si apre con un’espressione – Priscus respondit – che lascia ipotizzare che Pomponio stesse riportando un responso di Nerazio Prisco: come detto, Lenel 1889.I, 777, colloca la testimonianza sub L. 93 ex libris incertis dei suoi responsa e lo collega direttamente alla testimonianza di L. 1028 (Lenel 1889.I, 1140 nt. 5). Della sua affidabilità non dubitava già Donatuti 1940, 313. 226 In Ner. 3 membr., D. 40.7.17 Nerazio afferma che, in un caso del genere, se il servus avesse consegnato dieci ma non avesse pagato i debiti esistenti derivati dalla gestione del peculio, la condizione non si sarebbe ritenuta adempiuta. Il principio qui affermato è stato ritenuto in contrasto con quanto affermato da Giavoleno in Iav. 4 ex posterioribus Labeonis, D. 40.7.39.2 da Scarano Ussani 1979, 65 ss. 227 In Pomp. 12 epist., D. 35.1.112.3 Nerazio afferma che, in casi del genere, lo statuliber talvolta non era obbligato a presentare i conti dove era morto il pater familias, ma in certe occasioni lo schiavo era tenuto a raggiungere colui che avrebbe dovuto rendicontare. Anche questa soluzione è stata considerata (da Donatuti 1940, 311 ss.) in contrasto con un’opinione di Giavoleno Iav. 6 ex Cassio, D. 40.7.28pr. (su cui Starace 2006, 262 ss.). Una fattispecie simile è affrontata da Nerazio in Pomp. 8 ad Sab., D. 40.7.5pr., laddove la condizione di rendicontazione era considerata avverata, anche qualora l’erede trovasse punti oscuri nei conti, se il servus si propone di garantire per gli eventuali errori esistenti. 221

160

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 161

Commento ai testi proprio il testo attribuito ai responsa di Nerazio quello che appare tematicamente più affine al contenuto del brano paolino in commento, come segnalato dallo stesso Lenel228: il giurista traianeo ritiene che la condotta dell’erede, il quale si fosse allontanato dal luogo dove era morto il pater familias o dove era stato disposto il legato o testamento, rendendo così più gravoso l’adempimento dell’obbligo dello statulibero, non integrasse un’ipotesi di impedimento dell’avveramento della condizione – specialmente nel caso in cui la mancanza fosse dovuta a impegni pubblici. Questa soluzione appare effettivamente compatibile con la affermazione – dal carattere astratto e teorico, come rilevato da alcuni studiosi229 – circa la necessità del requisito dell’animus impediendae per l’applicazione del meccanismo dell’adempimento fittizio. Pur in mancanza di dirimenti indizi testuali che colleghino direttamente il brano in commento e la testimonianza attribuita ai responsa di Nerazio, si può dunque ipotizzare, alla luce dell’articolato ma prudente atteggiamento di Nerazio verso il tema, che il brano conservi solo il pensiero di Paolo il quale, seguendo un modulo ricorrente nei libri ad Neratium, aveva annotato un testo neraziano, magari di natura casistica, come il brano attribuito ai suoi responsa, sviluppando un’osservazione dall’intonazione generale230. F. 10 – D. 46.2.32 (L. 1029) Il passo, nella sua prima parte, riporta la soluzione ad un caso particolare di novazione: un soggetto risulta creditore di due prestazioni di dare (derivanti da due distinte stipulationes)231 da parte di due diversi debitori (te e Seium, nel testo), l’una avente ad oggetto uno schiavo, l’altra una somma di denaro; uno dei due debitori promette poi al creditore, attraverso un’ulteriore e successiva stipulatio, di dare ciò che è dovuto da sé o dall’altro debitore (quod te aut Seium dare oportet)232, con lo scopo di operare una novazione di esse (novandi causa); in questo caso, a seguito della conclusione di questa seconda stipulatio, entrambe le precedenti obbligazioni risultano novate e, dunque, estinte233. La seconda parte del brano, introdotta da Paulus, conferma la validità della soluzione fornita nella prima parte del brano (merito) chiosando che l’effetto novativo della successiva stipulatio dipende dal fatto che in essa risultano in questo modo dedotte entrambe le precedenti obbligazioni. Proprio la circostanza che la seconda parte del brano sia espressamente attribuita a Paolo spinge a ipotizzare che la prima parte sia invece la trascrizione letterale di un passo di Ne-

228

Lenel 1889.I, 1140 nota 5. Così in particolare Grosso 1930b citato supra. 230 Si rinvia comunque alle osservazioni generali sviluppate nell’Introduzione al presente volume. 231 La fonte delle obbligazioni originarie non è specificata nel testo, ma il ricorso al verbo oportere indica che si trattasse di obbligazioni di diritto civile, per la cui costituzione la stipulatio rappresentava l’atto inter vivos più diffuso. 232 Occorre peraltro notare come dal tenore letterale del brano non risulti chiaramente chi sia il debitore della seconda stipulatio: nel testo essa risulta contratta ab altero, che potrebbe indicare genericamente ‘uno dei due’ (come riportato nella traduzione) oppure specificatamente ‘il secondo’ (dunque Seio). In questa seconda ipotesi Seio prometterebbe di dare ‘ciò che è dovuto da me o Seio’, dichiarazione a cui, in base a un’interpretazione tipica, potrebbe essere riconosciuto solo l’effetto di novare l’obbligazione di Seio. 233 Nella prima parte del brano, peraltro, è riportato letteralmente il testo della interrogatio tra creditore e debitore (quod te aut Seium dare oportet) mediante la quale si contrae la stipulazione con efficacia novativa (uno dei pochi casi nel Digesto, come osservato da Bonifacio 1959, 61). 229

161

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 162

Alvise Schiavon razio234. Del resto, il fatto stesso che nella parte attribuita a Paolo si giudichi positivamente (merito) la soluzione proposta nella prima parte, apocrifa, del brano, conferma quantomeno la paternità non paolina della prima parte, dal momento che non avrebbe avuto senso per Paolo approvare una soluzione da lui stesso congegnata. La novazione è un modo di estinzione delle obbligazioni attraverso cui una o più precedenti obbligazioni vengono trasferite in una nuova, risultando così estinte235: avviene dunque ‘la trasfusione o riporto del debito originario in un’altra obbligazione, sia questa civile o naturale’ (prioris debiti in aliam obligationem vel civilem vel naturalem transfusio atque translatio), come affermato in Ulp. 46 ad Sab., D. 46.2.1pr.236; in seguito a questa ‘la prima si estingue, trasferita nella successiva’ (prima tollitur translata in posteriorem, così in Gai. 3.176)237. Nel meccanismo della novazione, quantomeno nella sua configurazione matura, la costituzione del nuovo vincolo obbligatorio e l’estinzione del precedente sono strettamente collegate: lo scopo sarebbe stato allora quello di legare in unico nesso l’estinzione del rapporto obbligatorio anteriore e la costituzione del nuovo, in modo da evitare al creditore il pericolo che quello anteriore si estingua senza che il nuovo, per inadempimento del debitore, si costituisca238. Nonostante autorevoli opinioni circa un’origine antichissima dell’istituto239, prevale l’ipotesi che esso sia un prodotto della giurisprudenza (cautelare) tardo-repubblicana (II-I sec. a.C.)240. L’assunzione della obbligazione novatoria avveniva nella forma della stipulatio241. Secondo l’insegnamento tradizionale242, erano due i requisiti ai quali la giurisprudenza riconobbe a tale contratto verbale l’efficacia di estinguere i precedenti rapporti obbligatori: che il contenuto essenziale della nuova obbligazione corrispondesse al contenuto della precedente (idem debitum)243 salvo l’introduzione, cancellazione o mutamento di qualche elemento accessorio (aliquid novi)244 e che

234 Questo nonostante Lenel non collochi il frammento all’interno dell’opera neraziana, mostrando di non ritenere dirimente l’indicazione del nome Paulus all’interno del brano. 235 La stipulatio novatoria ha dunque due effetti, costitutivo ed estintivo: questi possono manifestarsi in momenti diversi, come nel caso in cui la stipulazione novatoria sia fatta da una donna o da un pupillo sine auctoritate tutoris oppure, come vedremo, nel caso di stipulazione novatoria alternativa (così Talamanca 1990, 649 e Id. 1970, 194 nt. 147). Per un inquadramento dell’istituto Masi 1978, 767 ss. 236 Sulla sostanziale genuinità del testo, collocato in apertura del titolo 46.2 de novationibus et delegationibus, e le precedenti proposte di emendazione cfr. Bonifacio 1959, 44 ss. 237 Sul brano rimangono fondamentali le considerazioni di Bonifacio 1959, 19 ss.; Kaser 1985, 302. Il passaggio delle Istituzioni giustinianee relativo all’istituto della novazione (Inst. 3.29.3) risulta ricco di informazioni storiche ma non appare altrettanto lineare (cfr. Lambrini 2006, 28 ss.). 238 Voci 1965, 154 239 Il riferimento è qui in particolare alle (peraltro risalenti) tesi di Salpius 1864 e Meylan 1935, 177 ss. per una valutazione delle quali Bonifacio 1959, 5 ss. 240 Bonifacio 1959, 18; Masi 1978, 768 ss.; Lambrini 2006, 46. 241 Bonifacio 1959, 57 ss. 242 Così ad esempio Bonifacio 1959, 57 ss.; Masi 1978, 769 ss. Sembra ragionevole pensare che la giurisprudenza in questo ambito si mosse in modo casistico sulle coordinate fornite da questi criteri, di cui però nelle fonti sono attestate applicazioni diversificate in ragione dei casi: sottolinea con particolare forza l’empirismo che guidò in questo campo i giuristi romani Talamanca 1970, 194 ss. 243 Ha di recente sottolineato alcune applicazioni ambigue del principio, e sollevato dubbi sul fatto che quello dell’idem debitum fosse requisito necessario per il verificarsi dell’effetto novativo, Lambrini 2006, 107 ss. 244 Il tipo di mutamento impresso dalla nuova stipulazione all’obbligazione preesistente è tradizionalmente ricondotto ai casi tipici del mutamento soggettivo (cambio di creditore o debitore) o oggettivo-causale (mutamento della causa debendi).

162

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 163

Commento ai testi la stipulatio novativa contenesse un espresso richiamo al debito da novare (c.d. titolazione)245, cioè che richiamasse esplicitamente il dare oportere o debere su cui si basava la precedente obbligazione246. L’effetto novativo della stipulatio successiva poteva però non risultare chiaramente alla luce del solo scambio verbale tra le parti della seconda stipulazione. In particolare, la fattispecie della novazione, caratterizzata dall’effetto estintivo della nuova stipulatio rispetto alla precedente obbligazione, poteva risultare in concreto difficile da distinguere da quelle in cui la successiva stipulatio non produceva l’effetto di estinguere le obbligazioni precedenti ma si cumulava ad esse, dando così luogo ad un rapporto di garanzia personale tra il nuovo debitore e i precedenti247. Va letto in connessione a questo problema il riferimento operato in questo brano all’animus novandi, ovvero alla volontà delle parti di riconoscere alla seconda stipulatio effetto estintivo rispetto alle precedenti248. La rilevanza del requisito dell’animus novandi per determinare l’effetto novativo della stipulatio nel pensiero dei giuristi romani è stata a lungo negata, specialmente dalla dottrina più risalente249. Secondo Salpius250, il requisito sarebbe stato introdotto solo con la riforma giustinianea richiamata in C. 8.41.8, in coerenza rispetto all’importanza della voluntas nel complessivo impianto giustinianeo, mentre per il diritto delle epoche precedenti la novazione si

245 La precedente obbligazione poteva essere richiamata dalla stipulatio successiva in diversi modi. Stando alle testimonianze (tra cui proprio il brano paolino in esame) che conservano in forma diretta il tenore dell’atto di novazione, le conceptiones di stipulazioni novatorie potevano assumere tre forme (così Voci 1965, 161; Bonifacio 1959, 61): decem quae (fundum quem) Titius mihi debet (Titio debes; mihi debes) mihi dari spondes?; quod Titius mihi debet (quod Titio debes; quod mihi debes) id mihi dari spondes?; quidquid te mihi ex vendito dare facere oportet. . . quanti ea res erit, tantam pecuniam mihi dari spondes?. Anche con riferimento alla necessaria titolazione della stipulazione novativa sono stati espressi crescenti dubbi nella dottrina: già Salpius 1864, 171, ammetteva che tale requisito non operasse nell’ipotesi di debito avente ad oggetto un certam rem dari; ulteriormente la ricerca di Feenstra 1961, 397 ss. ha mostrato la possibilità generale di una forma di stipulazione novatoria non titolata (in senso adesivo Kaser 1985, 302); analogamente già Voci 1965, 156 riteneva che la conceptio titolata avesse solo funzione di una demonstratio e che, come tale, non avesse valore giuridico. 246 Bonifacio 1959, 61. 247 Apathy 1975, 253 ss. spiega la particolare frequenza del riferimento alla volontà delle parti nei testi relativi a ipotesi di novazione soggettiva sul lato passivo proprio a partire dalla difficoltà di tracciare in quei casi una netta linea di demarcazione tra novazione e sponsio di garanzia. Frezza 1962, 23 ss., ad esempio, riporta una ricca casistica di formulazioni ambigue, non facilmente riconducibili a novazione o costituzione di garanzia personale. Un analogo rischio di confusione derivante da dichiarazioni ambigue potrebbe aversi tra stipulazioni novatorie e stipulazioni con cui si costituisse un rapporto di solidarietà passiva (ancora Frezza 1962, 26 ss.), anche se normalmente questa richiede la contestualità delle promesse (così Voci 1965, 164). Sui confini tra fideiussione, stipulazione novatoria e solidarietà passiva si considerino anche Talamanca 1968, 329 ss. e Apathy 1971. 248 Che l’espressione causa novandi utilizzata da Nerazio nella prima parte del brano commentato rimandi al requisito dell’animus novandi è pacificamente ammesso dagli interpreti (ad es. per tutti Bonifacio 1959, 183 s.; Apathy 1975, 31 ss.; Lambrini 2006, 35). 249 La diffidenza verso la genuinità dei riferimenti all’animus novandi sembra ricollegarsi ad una più generale concezione, anch’essa risalente nella romanistica, secondo cui in diritto romano ‘classico’ l’interpretazione degli atti giuridici si sarebbe esclusivamente appuntata sul significato delle dichiarazioni esteriori, senza alcuna rilevanza per la voluntas (così Voci 1965, 150 ss.; Lambrini 2006, 34 ss.). Lo studio del pensiero di Nerazio in relazione a quello di Paolo sembra invero contraddire la possibilità di qualsiasi ricostruzione lineare dell’emersione della rilevanza di profili soggettivi nel diritto romano, come emerge anche dal successivo L. 1030, così come l’utilità di qualsiasi schematica contrapposizione tra diritto ‘classico’ e ‘post-classico’. 250 Salpius 1864, 187 ss. Seguito però ancora da Bonifacio 1959, 173 ss.

163

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 164

Alvise Schiavon sarebbe fondata sul dato, puramente oggettivo, della deduzione dell’idem debitum nella successiva stipulatio; altri ritenevano che tale mutamento della disciplina della novazione – come del resto, più in generale, la centralità della volontà nella ricostruzione dell’ordine giuridico – fosse da attribuire non già alla volontà di Giustiniano, quanto a sviluppi maturati in ambiente scolastico orientale251. In questa prospettiva, i riferimenti all’animus novandi erano comunque considerati frutto di alterazioni dei testi dei giuristi precedenti e dunque non attribuibili al loro pensiero. Più di recente, nel quadro della più complessiva rivalutazione del problema dell’emersione dell’elemento soggettivo come perno dell’interpretazione delle dichiarazioni di volontà, diverse voci si sono alzate tra i romanisti a sottolineare come tracce della rilevanza dell’animus novandi per determinare l’effetto novativo di una stipulatio siano rintracciabili in passi attribuibili a giuristi dell’età del Principato252; la genuinità dei riferimenti all’animus novandi non potrebbe dunque essere esclusa a priori, ma andrebbe valutata caso per caso253. Secondo la visione oggi più accreditata, infatti, l’animus novandi avrebbe rappresentato – per i giuristi di quell’epoca – non già un requisito essenziale della novazione, quanto piuttosto un criterio interpretativo accessorio, da utilizzarsi nei casi ambigui in cui il mero riferimento oggettivo all’identità del debitum non sarebbe stato sufficiente a stabilire l’effetto – novativo o meno – da attribuire alla seconda stipulatio254. Questo avveniva con particolare frequenza nel caso in cui la successiva novazione comportasse un mutamento del debitore rispetto all’obbligazione precedente: in casi come questi, come detto, occorreva determinare se la successiva stipulatio avesse prodotto un effetto novativo-estintivo sulla precedente ovvero se avesse costituito un rapporto di garanzia. Proprio il passo di Nerazio commentato da Paolo riporta un’ipotesi di applicazione del criterio dell’animus novandi per risolvere una questione interpretativa non dirimibile facendo ricorso ad un’interpretazione tipica dell’atto, poiché dalla sua considerazione oggettiva non risulta univocamente se le parti con la successiva stipulatio avessero voluto perseguire un effetto novativo-estintivo o di costituzione di garanzia personale255. Una stipulatio con cui un debitore prometta di dare tutto ciò che è dovuto da sé o da un altro debitore poteva – attenendosi solo alla formulazione oggettiva della promessa – essere qualificata sia come novazione che come costituzione di una garanzia personale rispetto alle obbligazioni precedentemente contratte, che in questo modo non sarebbero estinte256.

251

Pringsheim 1953, 510 ss. Così in particolare Feenstra 1961, 413 nt. 36; Voci 1965, 149 ss.; Frezza 1965, 225 ss.; Apathy 1975, 253 ss.; Sturm, 1975, 199 ss. e Id. 2007, 5462 (diversamente in Id. 1966, 77 l’autore mostrava più cautela). 253 Occorre peraltro segnalare che un approccio maggiormente conservativo verso le fonti che contenessero un riferimento all’animus novandi era già stato assunto da autori come Costa 1898, 47 ss. e Scialoja 1925, 289 ss. 254 Voci 1965, 154 ss. (che segnala peraltro una diversa funzione dell’animus novandi sul piano dello ius civile e dello ius honorarium); Apathy 1975, 188 ss.; Guarino 2001, 816; Lambrini 2006, 34. 255 Così in particolare Apathy 1975, 190 ss. 256 Masi 1978, 770. Se la successiva stipulazione ‘quod aut te aut Seium dare oportet’ fosse stata conclusa da Seio (vedi supra nt. 232) il ricorso all’animus novandi servirebbe addirittura a riconoscere ad essa effetto novativo anche verso l’obbligazione del tu debitore originario. 252

164

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 165

Commento ai testi Lo conferma la circostanza che, in un caso simile257, Marcello, citato e approvato da Ulpiano, negava che la nuova stipulazione estinguesse le precedenti obbligazioni qualora esse fossero dedotte alternativamente in una stipulazione con un terzo: Ulp. 46 ad Sab., D. 46.2.8.4: Si decem, quae mihi Titius debet, aut decem, quae Seius debet, a tertio stipulatus fuero, putat Marcellus neutrum liberari, sed tertium eligere posse, pro quo decem solvere velit. Se mi sarò fatto promettere attraverso stipulatio da un terzo i dieci che mi deve Tizio o i dieci che mi deve Seio, Marcello ritiene che nessuno dei due risulti liberato, ma che il terzo possa scegliere a nome di chi pagare i dieci.

Nel caso in cui un terzo prometta di pagare ciò che era dovuto da Titius o da Seius (in entrambi i casi la somma di dieci), secondo Marcello questa stipulatio obbliga il terzo, ma non ha l’effetto di liberare nessuno dei due debitori. Il terzo potrà dunque scegliere a nome di chi pagare la somma promessa (dieci) e determinare così, in seguito alla solutio, la liberazione di uno dei due debitori. Risolve in modo analogo un caso simile anche Celso: Cels. 3 dig., D. 46.2.26: Si is, cui decem Titius, quindecim Seius debebat, ab Attio stipulatus est quod ille aut quod ille debeat, dari sibi, novatum utrumque non est, sed in potestate Attii est, pro quo velit solvere et eum liberare. Fingamus autem ita actum, ut alterutrum daret: nam alioquin utrumque stipulatus videtur et utrumque novatum, si novandi animo hoc fiat. Se colui al quale Tizio doveva dieci e Seio quindici si sia fatto promettere da Attio che avrebbe dato ciò che era dovuto da questo o quello, non avviene novazione ma Attio ha la facoltà di scegliere a favore di chi pagare e così chi liberare. Assumiamo comunque che sia stato promesso di dare l’una o l’altra cosa: diversamente, infatti, egli risulterà aver stipulato per entrambi e dunque novato entrambi, si ciò sia stato fatto con il fine di novare.

Il creditore di due prestazioni da due diversi debitori (dieci da Titius e quindici da Seius) si fa promettere da un terzo (Attius) che gli darà ciò che dovevano l’uno o l’altro: anche secondo Celso, in un caso del genere, le precedenti obbligazioni non sono novate e dunque non vengono estinte (novatum utrumque non est), ma ad esse si somma quella di Attius che potrà decidere quale delle due prestazioni eseguire e così liberare uno dei debitori258. Il contrasto tra Nerazio e Paolo da una parte, Celso Ulpiano e Marcello dall’altra259, è stato spiegato alla luce di una diversa concezione del meccanismo della novazione e dell’ob-

257 In realtà le fattispecie differiscono, perché mentre nel passo di Paolo la stipulazione novatoria è conclusa da uno dei debitori originari, nel brano di Ulpiano (così come in quello di Celso citato di seguito) essa è assunta da un terzo. L’osservazione di Wolff 1951, 242 secondo cui la differente soluzione fornita dai giuristi sarebbe da ricondurre a questo dato è stata rigettata da Bonifacio 1959, 127 nt. 36 e da Talamanca 1970, 194 nt. 145. 258 Così in particolare Talamanca 1970, 193 e nt. 146. Nell’ultima parte del brano, Celso specifica che il caso preso in considerazione riguarda una successiva stipulazione alternativa poiché, se Attius si fosse impegnato a dare entrambi le prestazioni cumulativamente, queste sarebbero risultate entrambe novate se ciò risultava dall’intenzione delle parti. 259 Sul contrasto tra Paolo e Nerazio da un lato e Ulpiano, Marcello Celso dall’altro, si vedano Bonifacio 1959, 135 ss. e Talamanca 1970, 192 ss. Sulla sostanziale genuinità di tutte le testimonianze qui considerate, per tutti Talamanca 1970, 192.

165

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 166

Alvise Schiavon bligazione alternativa260: per Marcello, Celso e Ulpiano la successiva stipulazione, con cui un soggetto prometta di adempiere alternativamente due obbligazioni preesistenti, non produce immediato effetto estintivo su di esse, ma impegna semplicemente il nuovo promittente alla medesima prestazione, per cui il suo successivo pagamento di una delle due prestazioni alternativamente garantite libererà il relativo debitore261; secondo Paolo e Nerazio, invece, la nuova stipulazione che deduca nel titolo entrambe le precedenti obbligazioni produrrebbe immediatamente l’effetto estintivo-novativo su di esse, anche qualora l’oggetto della nuova obbligazione non sia ancora individuato, purché essa sia fatta animo novandi262. Da una diversa prospettiva, è stato fatto anche notare che i giuristi potrebbero aver risolto in modo differente le due fattispecie semplicemente perché la ricostruzione della volontà delle parti (animus) al di là del contenuto letterale delle dichiarazioni, conduceva ad esiti differenti nelle diverse fattispecie263. Nerazio e Paolo fondano in effetti la loro identica soluzione circa l’effetto novativo della successiva stipulatio alternativa su due argomenti differenti: in Nerazio appare infatti decisivo il riferimento alle intenzioni delle parti (novandi causa), mentre nella chiosa Paolo sembra rilevare il mero dato oggettivo costituito dal fatto che nella successiva stipulatio, nonostante la sua formulazione alternativa, siano dedotte entrambe le prestazioni precedenti. Si può comunque stemperare l’apparente dissidio tra i due giuristi, ricordando che l’animus novandi di cui parlavano i giuristi “non è un elemento interiore che possa essere in contrasto col significato oggettivo di una dichiarazione o di una manifestazione tacita: esso serve a qualificare e integrare una situazione di cui siano in astratto possibili varie interpretazioni”264. Paolo, dunque, non avrebbe fatto altro che esplicitare il ragionamento sotteso nella soluzione di Nerazio alla luce della struttura dell’obbligazione alternativa265, mentre sarebbe comunque attraverso l’accertamento dell’animus novandi delle parti della seconda stipulazione che i due giuristi giungono a riconoscere che in essa sono dedotte entrambe le precedenti obbligazioni.

260 Pur con differenze non marginali nella ricostruzione, la tesi è sostenuta da Grosso 1966, 182; Bonifacio 1959, 136 ss.; Sacconi 1973, 153. Pur rifiutando eccessive generalizzazioni, riconosce una certa fondatezza a questa ricostruzione anche Talamanca 1970, 195 (seguito da Ziliotto 2004, 268 nt. 66). 261 Si considerino però anche i dubbi sollevati rispetto a questa ricostruzione da Talamanca 1970, 194 nt. 145 che fatica a spiegarsi come in questo caso i giuristi potessero giustificare l’effetto estintivo del pagamento effettuato dal promittente nei confronti della precedente obbligazione senza ricorrere al meccanismo della novazione, dato che sarebbe comunque stato necessario imputare il pagamento all’una od all’altra, e che in questo caso, a differenza delle ipotesi di delegatio, tale imputazione non poteva fondarsi su un precedente iussum. 262 Anche in questo caso però Talamanca 1970, ibidem invita a cautela nel trarre dalla soluzione di Paolo e Nerazio conclusioni eccessivamente generalizzanti circa la loro concezione dell’obbligazione alternativa come quella che ha, in obligatione, entrambe le prestazioni, indipendentemente dalla concentrazione su una di esse, comunque essa accada. 263 Secondo Apathy 1975, 191 i giuristi si sarebbero trovati ad interpretare il testo di una stipulazione alternativa in cui le parti avrebbero in realtà perseguito obiettivi diversi. Si sofferma più diffusamente sui passi discussi Apathy 1971, 381 ss. 264 Così Voci 1965, 192; analogamente Talamanca 1990, 649 e in Lovato, Puliatti, Solidoro 2017, 597 ss. Contra invece Bonifacio 1959, 184, che esclude che le espressioni novandi causa e novandi animo si trovassero già nei passi dei giuristi classici per indicare la necessità della ricerca della volontà dei soggetti. 265 Paolo dunque – seguendo uno schema ricorrente nei suoi libri ad Neratium – avrebbe anche in questo caso esplicitato la motivazione della soluzione, che in Nerazio appare solo implicita (così Talamanca 1970, 193 nt. 145).

166

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 167

Commento ai testi Occorre infine notare che anche in questo caso, come in Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6 (L. 1030), una soluzione di Nerazio laconicamente giustificata alla luce di una forte valorizzazione dell’elemento soggettivo viene ricondotta da Paolo a dati oggettivi, testimoniando di un rapporto critico verso Nerazio in uno degli ambiti in cui si manifestano maggiori convergenze di interessi tra i due giuristi. F. 11 – D. 47.19.6 (L. 1030) Il brano è costituito, confermando una struttura ricorrente del commentario paolino ad Neratium, da una prima parte in cui è riprodotto il pensiero del giurista più risalente e da una seconda parte, introdotta e segnalata anche dal punto di vista editoriale dal nome del giurista successivo (Paulus), contenente il commento di questi al pensiero del primo. Oltre a questi saldi dati testuali, peraltro, l’attribuzione delle due parti del brano ai due giuristi è confermata da ulteriori elementi sostanziali, che sarà più agevole apprezzare dopo una breve ricostruzione del contenuto del passo. Al di là della paternità neraziana della prima parte del testo, rimane peraltro da chiarire da quale opera Paolo abbia letto (e riportato) il pensiero del giurista precedente. La questione, come già notato, è stata oggetto di una controversia storiografica266 tra chi, aderendo a una risalente tesi di Ferrini267, sostiene che Paolo si sia limitato a commentare i responsa di Nerazio e chi, seguendo la più recente opinione di Reinhold Greiner268, ipotizza che Paolo abbia potuto attingere anche da altri scritti, fra cui certamente le membranae, e non solo dai suoi libri responsorum. Un indizio a favore della tesi di Ferrini è fornito proprio dall’espressione utilizzata nella prima parte del brano per riportare la soluzione prospettata da Nerazio: la presenza del verbo respondere, infatti, induce a ritenere che il brano fu scelto da Paolo all’interno da un’opera di responsi di Nerazio e, conseguentemente, esso nella Palingenesia leneliana è inserito tra i passi attribuibili ai libri responsorum del giurista di epoca traianea269. Anche a questo riguardo, un’analisi più approfondita del passo aiuterà a fornire qualche dato aggiuntivo. Entrambi i giuristi si riferiscono al caso dell’impossessamento della cosa ereditaria da parte del non erede. Tale fattispecie si pone al confine tra la figura del crimen expilatae hereditatis – il frammento è stato infatti inserito dai compilatori nel titolo 47.19 Expilatae hereditatis – e gli istituti civilistici del furtum, delitto sanzionato con una poena privata cui si riferiscono entrambi i giuristi nelle loro sententiae, e dell’usucapio pro herede, una speciale forma di usucapione avente ad oggetto l’eredità. Prima di affrontare le diverse opinioni dei giuristi, vale la pena ripercorrere per sommi capi la complessa vicenda storica di questi istituti270. Fin dall’epoca più risalente, l’ordinamento romano ammetteva che un soggetto diverso dall’erede, qualora questi fosse un extraneus271, acquistasse, con il possesso continuato delle

266

Si vedano le osservazioni generali svolte nell’Introduzione al volume, pp. 21 ss. Ferrini 1894b, 230. 268 Greiner 1973, 139 ss. 269 Lenel 1889.I, 776 (L. 83). 270 Un’utile sintesi in Voci 1967, 105 ss. e 216 ss. 271 Ci si riferisce a quella categoria di eredi, chiamati anche voluntarii e contrapposti ai necessarii, che acquistano l’eredità solo a seguito di accettazione della stessa, non automaticamente per il solo fatto della delazione: su questa categoria di successibili le classiche trattazioni di Fadda 1900-1902, 41 ss. e Voci 1967, 587 ss. 267

167

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 168

Alvise Schiavon cose ereditarie, non solo la loro proprietà ma, almeno originariamente, lo stesso titolo di erede (usucapio hereditatis)272: la adprehensio pro herede avrebbe costituito una situazione di iusta possessio valida per l’acquisto dopo un anno273 della titolarità dell’eredità, anche se in mala fede. In età più avanzata, l’usucapio pro herede sarebbe stata limitata alla possibilità di acquistare singoli beni ereditari, ma rimase fermo il principio per cui il soggetto che si fosse appropriato delle cose ereditarie prima dell’acquisto dell’eredità da parte dell’erede legittimo non sarebbe potuto essere chiamato in giudizio da quest’ultimo né con la rivendica di eredità (hereditatis petitio) né con la actio furti. È dunque in connessione con l’istituto della usucapio hereditatis (poi pro herede) che si afferma il principio secondo cui rei hereditariae furtum non fit274: la possibilità che un soggetto diverso dall’erede potesse legittimamente appropriarsi, a determinate condizioni, delle cose ereditarie, escludeva naturalmente la possibilità di configurare un furtum nei confronti della hereditas iacens. Quanto al momento di cessazione della condizione di res hereditaria, gli interpreti hanno discusso se l’istituto della usucapio pro herede – e dunque il principio che esclude il furto delle cose ereditarie – operasse fino al momento della aditio dell’erede legittimo o invece fino al momento in cui questi si fosse impossessato della cosa ereditaria, anche se la dottrina maggioritaria propende per questa seconda ipotesi275. Questa peculiare disciplina, che trovava le sue ragioni in motivi tecnici e sociali del più antico contesto giuridico romano276, subì una profonda evoluzione, come testimoniato da Gai. 2.52 ss.277: l’usucapio pro herede venne considerata, nel diverso contesto del I sec. d.C., improba (et lucrativa) e ad essa, in età adrianea, vennero disconosciuti effetti sul piano dei rapporti proprietari, con un provvedimento che sanciva la possibilità per l’erede legittimo di rivendicare i beni ereditari di cui si fosse impossessato un soggetto terzo in mala fede278. Il riconoscimento dell’inidoneità dell’impossessamento di beni ereditari a determinare l’acquisto della proprietà contro gli interessi dell’erede legittimo aprì la strada alla possibilità di sanzionare quello stesso comportamento sul piano penale o criminale279. Si imboccò la seconda strada: coerentemente con i caratteri tipici di sviluppo dell’ordinamento romano del periodo, il prin-

272

Sull’antica configurazione della usucapio hereditatis Franciosi 1965, 6 ss.; Coppola 1987, 65 ss. Il termine di un anno valeva – in deroga ai principii generali dell’usucapione – anche per gli immobili. 274 Il collegamento tra l’istituto della usucapio ereditaria e il principio rei hereditariae furtum non fit è affermato esplicitamente in Gai 3.201. Che il principio fosse riconosciuto come parte della questione relativa alla disciplina della usucapio è riconosciuto dalla dottrina concordemente: Bonfante 1925-1933, 215; Voci 1967, 104; Thomas ( J.A.C.) 1968a, 494. 275 Bonfante 1925-1930, 280 ss. e 342 ss.; Voci 1967, 216 ss.; Gnoli 1984, 30 ss. Sul fronte opposto, autorevole storiografia ha sostenuto che la cessazione della condizione di res hereditaria coincidesse con la mera aditio, anche a prescindere da un’adprehensio del bene: Krüger (H.) 1934, 88 ss.; Fadda 1900-1902, 4 ss. e da ultima Coppola 1987 e Ead. 2011 cui rinvio anche per una discussione della bibliografia sul tema. 276 Sulla spiegazione fornita da Gai. 2.55 circa il mutato giudizio della coscienza sociale verso l’usucapione dell’eredità cfr. Tomulescu 1971, 434 ss.; Gnoli 1984, 67 ss.; Coppola 1987, 96 ss. 277 Sulla testimonianza gaiana relativa alla storia della usucapio pro herede Franciosi 1965, 132 ss.; Voci 1967, 107 ss.; Tomulescu 1971; Gnoli 1984, 45 ss. 278 Sugli effetti di questo provvedimento – probabilmente un senatus consultum – Talamanca 1956, 86 ss. parla giustamente di effetto rescissorio (in quanto, se non veniva esperita la hereditatis petitio da parte del legittimo erede, l’acquisto si considerava efficace). Sul provvedimento adrianeo è tornato da ultimo González Roldán 2013, 268 ss. 279 Riconoscono esplicitamente il collegamento tra il provvedimento adrianeo e la successiva repressione criminale dell’impossessamento del bene ereditario Talamanca 1956, 114 nt. 206 e – da ultima – Pulitanò 2019, 276. 273

168

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 169

Commento ai testi cipio civilistico per cui l’actio furti non era ritenuta applicabile all’impossessamento di cose ereditarie venne mantenuto fermo, così come quello secondo cui rei hereditariae furtum non fit, ma venne introdotto sotto Marco Aurelio un crimen expilatae hereditatis con cui si reprimeva, nelle forme della cognitio extra ordinem, l’appropriazione di cose ereditarie280. È all’interno dello svolgimento di questa complessa vicenda storica – di cui si sono forniti solo i ragguagli minimi – che vanno lette le differenti opinioni di Nerazio e Paolo281. Secondo il pensiero di Nerazio, la sottrazione di un bene ereditario costituisce furtum qualora l’agente ne ignori la condizione, ovvero la provenienza ereditaria. A questa affermazione segue il commento di Paolo il quale, a distanza di circa un secolo, esplicitamente nega282 che in un caso del genere rilevi l’atteggiamento soggettivo dell’agente, poiché risulterebbe invece assorbente la questione relativa alla particolare condizione oggettiva della res hereditaria per la quale, analogamente alle cose sine domino, non sarebbe configurabile il furtum. Come detto, la circostanza che Paolo contraddica così apertamente Nerazio, peraltro in un caso in tema di elemento soggettivo del possesso, materia sulla quale i due giuristi per il resto mostrano consonanza, appare senz’altro significativa283. La critica di Paolo, peraltro, non sembra circoscritta a profili di dettaglio o alla necessità di operare delle distinzioni circa le possibili configurazioni delle fattispecie concrete, ma investe direttamente la ricostruzione di Nerazio. Il responso di Nerazio e l’argomentazione di Paolo sono però estremamente laconici, per cui il senso di queste due posizioni, e dunque della critica paolina, deve essere indagato in primo luogo ricostruendo il contesto entro il quale maturarono le posizioni dei due giuristi. L’opinione di Nerazio è chiaramente incentrata sulla valorizzazione dell’atteggiamento soggettivo dell’agente, al punto da configurare un’ipotesi di rilevanza penale dell’error facti284. Le ragioni di questa eccezionale rilevanza dell’animus furandi285 nella valutazione di Nerazio circa la sussistenza del furto di cose ereditarie286, sono state ricondotte all’appartenenza di

280 Come ci informa Marc. 3 inst., D. 47.19.1, frammento di apertura del titolo 47.19 expilatae hereditatis. Circa l’effettiva portata innovativa del provvedimento assunto sotto Marco Aurelio sono state proposte ricostruzioni differenti: secondo Solazzi 1936, 547 ss. si tratterebbe non già dell’introduzione di un nuovo crimine ma piuttosto di riconoscimento di un istituto già applicato nelle cognitiones (ipotesi avvallata da Gnoli 1984, 9 ss.; Arcaria 2003, 220 ss.; Pulitanò 2019). Secondo Dursi 2019, 173 ss. l’introduzione del crimen si iscriverebbe in una più generale riforma dell’ordinamento processuale ad opera di Marco Aurelio. Ricollega invece l’introduzione del crimen da parte di Marco Aurelio alla salvaguardia degli interessi del princeps sui beni caducari Lemosse 1998, 258 ss. 281 Sul contrasto Ferrini 1905, 103 ss.; Albanese 1953, 195 ss.; Gnoli 1992; Coppola 2011, 4 ss. Pulitanò 2019, 274 ss. 282 Nella lezione della littera florentina in questa parte del testo manca la negazione (non), per cui l’affermazione paolina finirebbe per confermare – invece di contraddire – la soluzione fornita da Nerazio nella prima parte del brano. Come già segnalato nella sezione Fragmenta, ci siamo attenuti alla diversa lezione accettata dall’edizione Mommsen-Krüger la quale, facendo leva sulla concorde versione di numerosi altri manoscritti, presenta l’affermazione paolina come negativa e, dunque, contrastante con la soluzione neraziana. 283 Sulla consonanza del pensiero neraziano e paolino in tema di elemento soggettivo del possesso si considerino le osservazioni generali svolte supra: pp. 76 ss. 284 Lo notava già Voci 1937, 181 nt. 1. 285 Su cui in generale Thomas ( J.A.C.) 1968b, 21. Una ricostruzione complessiva delle testimonianze neraziane in materia in González Roldán 2019, 189 ss. 286 L’opinione di Nerazio, come osservato da Krüger (H.) 1934, 88 deve essere rimasta isolata nella giurisprudenza romana dal momento che non è riscontrabile in alcuna altra testimonianza.

169

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 170

Alvise Schiavon questo giurista alla secta dei proculiani, all’interno della quale si sarebbe affermata una prevalenza dell’elemento psicologico e intenzionale anche con riferimento alla ricostruzione del delitto di furtum287, nonché alle possibili influenze che su Nerazio poterono esercitare Seneca e lo stoicismo288. In ogni caso, la centralità dell’elemento soggettivo nella ricostruzione della fattispecie di furto di cosa ereditaria in Nerazio289 è confermato dalla considerazione di un altro brano tratto direttamente dai libri responsorum di questo giurista, inserito dai compilatori nel titolo 47.2 de furtis: Ner. 1 resp., D. 47.2.84pr.: Si quis ex bonis eius, quem putabat mortuum, qui vivus erat, pro herede res adprehenderit, eum furtum non facere. Se qualcuno si sarà impossessato a titolo di erede di una cosa appartenente ai beni di qualcuno che egli reputava morto ma che era vivo, questi non commette furto.

Secondo Nerazio, chi si sia appropriato a titolo di erede di una cosa facente parte del patrimonio di qualcuno che egli reputava morto, ma che (in realtà) era vivo, non commette furto. Nella ricostruzione palingenetica di Lenel, il brano in commento è accostato al precedente a completamento del pensiero neraziano in materia290. La connessione tra i due testi è del resto concordemente riconosciuta da tutti gli studiosi che si sono occupati del tema291. Il caso affrontato da Nerazio nel frammento tratto dai suoi responsa è quello di un errore sulla natura ereditaria di una cosa e sul titolo di erede del soggetto che se ne impossessa: l’impossessamento da parte di chi è convinto di avere un titolo di erede valido, che giustifichi la pro herede gestio, non è considerato essere furtum anche qualora la res di cui ci si impadronisca non risulti essere effettivamente una res hereditaria e dunque il titolo pro herede si riveli solo putativo292. Se si considerasse la vicenda sul piano puramente oggettivo, la condotta di chi si impossessa di una tale res non sarebbe coperta dal principio rei hereditariae furtum non fit e integrerebbe dunque furtum di una cosa in proprietà del soggetto creduto morto, ma Nerazio fa prevalere l’atteggiamento soggettivo dell’agente sulla condizione oggettiva di res hereditaria. La considerazione complessiva delle due testimonianze ricompone un quadro coerente293: secondo il responso riportato in Ner. 1 resp., D. 47.2.84pr. l’impossessamento pro herede esclude il furto in ogni caso, anche se il titolo pro herede è solo putativo perché la condizione del bene non è quella di res hereditaria; secondo la testimonianza neraziana in Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6 la condizione di res hereditaria non vale di per sé ad escludere il furto, qualora l’adprehensio non sia pro herede.

287 288

Così Albanese, 1953, 195 ss. Questa in particolare l’interpretazione del passo fornita da Scarano Ussani 1977, 146 ss. e Id. 1979, 14

ss. 289 Notata tra gli altri da Albanese 1953, 195; Mayer-Maly 1962, 61; Sitzia 1983, 40; Scarano Ussani 1989, 55; Gnoli 1992, 169 ss.; González Roldán 2019, 191. 290 Lenel 1889.I, 1140 nt. 6 ad L. 1030. 291 Albanese 1953, 195 ss.; Scarano Ussani 1977, 146 ss. e 1979, 14 ss.; Gnoli 1992, 175. Secondo Greiner 1973, 141 ss. è addirittura ipotizzabile che le due testimonianze di Nerazio – la citazione in Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6 e il brano in Ner. 1 resp., D. 47.2.84pr. – si riferiscano a un medesimo responso di quel giurista. 292 Mayer-Maly 1962, 61; Gnoli 1992, 175. In generale su questi profili Kaser 1982, 221 ss. 293 Così già Thomas ( J.A.C.) 1968b, 21 nt. 90.

170

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 171

Commento ai testi Il commento di Paolo al caso prospettato e risolto da Nerazio segue una logica differente294. Nerazio valorizza in modo assorbente il profilo della consapevolezza dell’agente circa la natura ereditaria del bene, Paolo fonda l’impossibilità del furtum della res ritenuta erroneamente ereditaria esclusivamente sulla sua condizione oggettiva295: se un bene si trova nella condizione di res hereditaria, il suo impossessamento non integra comunque un’ipotesi di furtum, a prescindere dalla interna convinzione soggettiva dell’agente. È possibile che Paolo abbia semplicemente voluto opporsi a un’interpretazione radicale del requisito dell’animus propugnata dai proculiani296. Occorre però richiamare anche l’autorevole tesi di Ferrini, secondo cui Paolo aveva buon gioco nel negare in un caso simile la configurazione del furto sulla base della consapevolezza della natura dei beni, dato che “al suo tempo si nega il furto per far luogo ad un più severo procedimento penale”297, ovvero quello previsto per il crimen expilatae hereditatis. Vero è che Paolo, nella chiosa a Nerazio, non si riferisce all’esistenza di questo provvedimento e fonda invece l’impossibilità sul piano oggettivo del furtum di una res hereditaria (anche se erroneamente ritenuta non tale) sulla mancanza di un proprietario, come pare doversi desumere dall’analogia, da lui stesso proposta, con le altre res sine domino (sicut nec eius, quae sine domino est)298. Se l’esclusione del furtum di una res hereditaria riposasse sull’assenza di un suo attuale proprietario, dovrebbe desumersi che questa diverrebbe passibile di furto dal momento in cui entra nel patrimonio dell’erede attraverso l’aditio hereditatis e non, come afferma la dottrina maggioritaria sopra richiamata, con l’impossessamento dell’eredità da parte dell’erede. La lettura di un altro testo paolino, proveniente dalle Pauli sententiae299, induce però a riconsiderare la spiegazione fornita dallo stesso giurista in Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: PS. 2.31.11: Rei hereditariae, antequam ab herede possideatur, furtum fieri non potest. Non può farsi furto di una cosa ereditaria prima che questa sia posseduta dall’erede.

In questo brano è espressamente affermato il principio per cui una res rimane hereditaria non già fino al momento dell’adizione dell’eredità da parte dell’erede, ma fino al momento in cui

294 Lo notano tra gli altri Bonfante 1925-1930, 291 ss.; Albanese 1956, 210 ss.; Gnoli 1992, 174; Castro Saenz 1999, 283; Coppola 2011, 4 ss.; Pulitanò 2019, 274 ss. 295 Mayer-Maly 1962 83 e 124 vi vede una tendenza generale dei giuristi post-classici a una ricostruzione in chiave oggettiva del problema dei titoli per l’usucapione. 296 Così già Bonfante 1925-1930, 291, secondo cui Paolo non avrebbe fatto altro che opporsi a un’applicazione radicale della tesi proculiana – fondata sull’elemento soggettivo, sulla existimatio del sottrattore – richiamando in contrappunto il principio sabiniano della substantia della res. La tesi è ripresa da Albanese 1953, 197 e Gnoli 1992, 174. 297 Ferrini 1905, 103. La tesi di Ferrini è peraltro più complessa e tende a spiegare con la stessa ragione la soluzione di Nerazio: già ai tempi di questo giurista, infatti, si sarebbe iniziato a vedere nel furto di cosa ereditaria una lesione effettiva di un diritto: tant’è vero che poco dopo nei riguardi dell’erede il diritto di occupare le cose ereditarie fu sostanzialmente eliminato (Gai. 2.52-57) (ibid.). Sotto questo profilo risulta però dirimente la critica di Gnoli 1992, 174, che fa notare come nel caso in esame la res oggetto della adprehensio non fosse, in realtà, hereditaria per cui mancherebbe in radice la possibilità di ledere un diritto. 298 Valorizza particolarmente il collegamento tra la disciplina dell’hereditas iacens – e in particolare il principio secondo cui rei hereditariae furtun non fit – e l’assenza di un proprietario attuale di essa Orestano 1982, 1 ss. 299 L’affidabilità delle Pauli sententiae quali testimonianza del pensiero paolino è stata in passato fortemente dubitata dalla dottrina, ma recentemente pare essersi consolidata l’opinione che ne accetta la paternità di Paolo: sugli indirizzi meno recenti e le attuali prospettive sull’opera in generale si veda Ruggiero 2017.

171

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 172

Alvise Schiavon lo stesso si impossessi della cosa: fino a quel momento non sarebbe dunque possibile parlare di furtum, che sarebbe solo concepibile verso res non solo già entrate nel patrimonio dell’erede, ma anche nel suo possesso. Che la regola rei hereditariae furtum non fit operi fino al momento dell’effettivo impossessamento della cosa da parte dell’erede è del resto affermato nel manuale gaiano (Gai. 3.201) e in Ulp. 9 de off. proc., D. 47.19.2.1300. Le prese di posizione di Paolo nei due brani sembrano dunque divergere insanabilmente quanto alla determinazione del momento in cui risulta configurabile un furtum sulla res hereditaria301. Per stemperare questa contraddizione si è però osservato come, in Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6, non si faccia in realtà riferimento alla questione del termine finale della condizione di res hereditaria e che l’avvicinamento operato da Paolo tra res hereditariae e res sine domino non implichi pertanto una riconduzione delle prime entro il genus delle seconde302, ma importi solo un’analogia sul piano della disciplina relativa al furtum303. In conclusione, si può provare a tirare le fila del discorso riguardo attribuzione, provenienza e collocazione palingenetica delle testimonianze contenute nel passo. L’attribuzione della prima parte del passo a Nerazio è confermata dalla stretta affinità tematica con il brano tratto dal primo libro dei suoi responsa nonché dalla coerenza del quadro concettuale emergente dalla lettura dei due passi, da cui traspare una nozione di furto di res hereditaria fortemente incentrata sul profilo soggettivo. Questo, come ricordato, ha spinto a ipotizzare che entrambe le testimonianze provengano dal primo dei libri responsorum neraziani304 e, addirittura, dallo stesso responso305. Questa osservazione potrebbe avvalorare l’ipotesi che Paolo, quantomeno nella redazione di questo passo del suo commentario ad Neratium, avesse sotto mano i responsa di Nerazio – o materiale comunque tratto da quell’opera. Per quanto riguarda la collocazione palingenetica del passo all’interno del libro I dell’opera paolina ad Neratium relativo a uso e usufrutto (de usu et usufructu), vi è chi recentemente ha visto in questa circostanza una possibile conferma del nesso sostanziale, intuito da Ferrini, tra le ragioni alla base della opinione paolina e la sanzione della radicale illegittimità di qualsiasi usucapio pro herede operata con l’introduzione del crimen expilatae hereditatis.306

300

Potrebbe essere anche adombrato da Marc. 3 inst., D. 47.19.1 con riferimento al crimen expilatae hereditatis. Notano una potenziale contraddizione nel pensiero di Paolo tra gli altri MacCormack 1978, 299; Gnoli 1992, 177. 302 Così in particolare Bonfante 1925-1930, 291 nota come nel testo non sia operata una vera e propria equiparazione tra cose ereditarie e res nullius. 303 In particolare Gnoli 1992, 178 ha notato, sulla scia di Bonfante, come Paolo tenga ben distinte le due nozioni – quella di res sine domino e di res hereditaria – che vengono avvicinate analogicamente solo per lo specifico profilo dell’inammissibilità del furtum. 304 Lenel 1889.I, 776 L. 83. 305 Greiner 1973, 141 ss. 306 L’appartenenza del brano a un titolo dell’opera di Paolo dedicato a uso e usufrutto confermerebbe “un nesso con tutto il ragionamento relativo alla revoca dell’usucapione” secondo Pulitanò 2019, 276. Diversa la questione della collocazione del brano nel titolo relativo al crimen expilatae hereditatis da parte dei compilatori: secondo Gnoli 1992, 179 essa avrebbe avuto la funzione di confermare la regola della esclusione del furtum (e della corrispettiva ammissibilità dell’accusatio expilatae hereditatis) relativamente ai beni ereditari, anche con riguardo a fattispecie a proposito delle quali erano state in passato proposte soluzioni che parevano essersi discostate dal principio, accolto nel Digesto, secondo cui rei hereditariae furtum non fit. 301

172

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 173

Commento ai testi

LIBRO II

F. 12 – D. 3.5.18pr. (L.1031) Nel testo crediamo si debba riconoscere unicamente la scrittura di Paolo poiché in esso, infatti, appare riportata un’inscriptio errata, dovendo essere ricondotto, per i motivi che di seguito illustreremo, al commentario paolino all’editto. Nella restituzione palingenetica leneliana il F. 1031 è, in realtà, costituito, nella prima parte, dal testo di D. 3.5.17 che risulta escerpito dal libro 9 del commentario ad edictum paolino, mentre solo nella seconda parte dal brano proveniente da D. 3.5.18pr., tratto appunto dal libro 2 ad Neratium. Otto Lenel, nella ricostruzione dei libri ad Neratium, proprio in virtù dell’espressa menzione del giurista traianeo nel fr. 17 (idem Neratius), antepone tale passo, tra parentesi quadre, al principium del fr. 18. La congiunzione dei due frammenti da parte dello studioso tedesco si fonda probabilmente non solo sulla base dell’espressa citazione di Nerazio da parte del Severiano nel fr. 17, ma anche su quella dell’elemento contenutistico, in quanto entrambi i testi vertono su una medesima questione in tema di negotiorum gestio307. Nel passo tratto dal commentario edittale, Paolo riporta l’opinione di Proculo e Pegaso308 – condivisa da Nerazio (idem Neratius) – secondo la quale il gestore, che abbia gerito gli affari del dominus, dapprima come servus e poi come libertus, deve garantire la bona fides. Appare opportuno soffermarsi brevemente sull’impiego di tale espressione, che, come è noto, presenta almeno una duplicità di valenze: bona fides come fondamento dell’oportere e buona fede correlata invece con i criteri di imputazione della responsabilità e dunque come assenza di dolo, mancanza di una condotta fraudolenta309. Nel frammento in esame non può certo ravvisarsi tale seconda accezione in quanto il sintagma è impiegato al di fuori del tema della responsabilità, essendo la questione incentrata non appunto sulla responsabilità del gestore, bensì sul contenuto della sua obbligazione. Tale medesimo significato riappare anche in un testo dei responsa di Paolo, stavolta in tema di mandato. Si tratta in particolare del brano trádito in Paul. 4 resp., D. 17.1.59.1:

307 Ritiene che i brani debbano considerarsi unitariamente, rispecchiando la medesima opinione di Otto Lenel, anche Mantovani 1987, 59. Va ricordato che i due testi sono stati al centro dei bersagli della critica interpolazionistica (cfr. per il fr. 17 Bremer 1898-1901.II.2, 167 e per il principium del fr. 18 Beseler 1931a, 172) ormai però da tempo del tutto superata; per la genuinità dei brani v., tra gli altri, Honoré 1975, 233 nt. 86 e Mantello 1979, 218 nt. 53. 308 Sui giuristi menzionati da Paolo nei libri ad edictum, anche per il confronto tra questi e i prudentes citati a sua volta da Ulpiano nell’omonima opera, v. Luchetti 2018, 41 ss. 309 Sui diversi significati da attribuire al sintagma praestare bonam fidem, v., tra gli altri, Cardilli 1995, 159 ss. e Talamanca 2003, 40 ss. In particolare sullo stretto rapporto esistente tra la fides bona e la fides arcaica v. anche Fiori 2008, 237 ss. più in generale sulla nozione di fides bona esiste un’amplissima e sparsa letteratura rinviamo per un primo inquadramento bibliografico a Santucci 1997, 198 nt. 16 e più recentemente a Franchini 2015, 8 s. nt. 11. Per quanto concerne nello specifico l’impiego dell’espressione nel brano in esame v. nello stesso senso qui da noi proposto, sebbene in una ricostruzione generale non condivisibile, Cenderelli 1997, 183 e successivamente Finazzi 2006, 245 ss., che qui seguiamo.

173

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 174

Gianni Santucci Paulus respondit fideiussorem, qui rem pignoris iure obligatam a creditore emit, mandati iudicio conventum ab herede debitoris oblato omni debito restituere cum fructibus cogendum neque habendum similem extraneo emptori, cum in omni contractu bonam fidem praestare debeat310. Paolo rispose che il fideiussore che compra dal creditore la cosa data a garanzia a titolo di pegno, convenuto dall’erede del debitore mediante l’azione di mandato, deve essere costretto a restituire la cosa stessa con i frutti, né deve essere ritenuto simile a un compratore estraneo, poiché in ogni contratto si deve garantire la buona fede.

Un fideiussore ha acquistato dal creditore la cosa data in pegno a garanzia del debito e poi, essendo stato convenuto con l’azione di mandato dall’erede del debitore, ha saldato ogni debito nei confronti di quest’ultimo. Nel responso paolino tale fideiussore non può essere assimilato a un compratore estraneo al debito garantito, ma deve essere costretto a restituire la cosa stessa con i frutti, dovendo prestare la buona fede in ogni fase del ciclo vitale del contratto (cum in omni contractu bonam fidem praestare debeat)311. Nel responsum paolino dunque, proprio come nel brano in esame, il bonam fidem praestare individua non il modo di adempiere, ma un’estensione dell’obbligazione. Specificatamente in D. 3.5.17 il gestore risponde della sua attività, nei limiti del peculio, come se fosse stato libero sin dall’inizio. L’actio negotiorum gestorum trova operatività e ha per oggetto il praestare del liberto-gestore che contiene, in virtù della buona fede: quantum, si alius eius negotia gessisset, servare potuisset, tantum eum, qui a semel ipso non exegerit, ossia quanto chiunque altro avrebbe potuto riscuotere, se avesse amministrato gli affari di quel padrone. La romanistica ha già insistito sull’interpretazione di Proculo, poi condivisa da Pegaso e da Nerazio, volta ad equiparare la gestione del liberto, iniziata in condizione servile, al paradigma del gestore normale312: “proprio la particolare natura di buona fede dell’obbligazione del gestore permette di riconoscere il liberto ugualmente vincolato, sebbene avesse cominciato la gestione in servitute, e obbligato a stare praes come chi, non schiavo, avesse gerito quegli stessi negozi”313. A proposito delle citazioni nominative presenti nel fr. 17, va osservato che Paolo esordisce richiamando Proculus et Pegasus e solo in fine aggiunge la clausola idem Neratius, suggerendo così la consonanza di questi con l’opinione riferita prima. Per tale ragione non sono mancati gli studiosi che hanno letto nella menzione di Nerazio in D. 3.5.17 solo lo spunto per l’inserimento del successivo fr. 18(19), appunto “introdotto dalla citazione espressa del nome del giurista contenuta nel frammento che precede… Il frammento dei libri ad Neratium che segue immediatamente sembra perciò adempiere la funzione di sostituire la citazione dell’originale di Nerazio”314. Si tratta di un’interpretazione difficile da seguire non tanto per il fatto che ci-

310 Ha dubitato della genuinità del brano, in specie dell’ultimo tratto cum in omni-debeat, De Francisci 1916, 463, ma per la classicità sostanziale del medesimo basterà ricordare in tempi recenti Talamanca 2003, 215 ss. 311 Su Paul. 4 resp., D. 17.1.59.1 e in particolare sul significato del bonam fidem debere nonché sull’impiego dell’omnis contractus, che, in questo caso, non indica tutti i contratti, bensì l’intero svolgimento del contratto, v., per tutti, Talamanca 2003, 216 ss. 312 Così già Buckland 1908, 690; Micolier 1932, 210; Schwarz (F.) 1954 ,180 ss.; nella letteratura meno risalente v., tra gli altri, Finazzi 2006, 54 ss. 313 Così Cardilli 1995, 403. 314 Sono parole di Mantovani 1987, 59; nello stesso senso Kaiser 1991, 335.

174

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 175

Commento ai testi tazioni di Nerazio prive di qualsivoglia ulteriore indicazione risultano del tutto consuete nelle opere di Paolo315, quanto piuttosto per il fatto che, come immediatamente si potrà appurare, la veridicità dell’inscriptio di D. 3.5.18 suscita non poche e lievi perplessità. Nel principium del fr. 18 viene preso in esame un caso analogo a quello del precedente fr. 17, con esplicito riferimento questa volta all’obbligazione naturale del gestore (natura debitor fuit)316, il quale, avendo intrapreso in stato servile la gestione nell’interesse del dominus, la continua dopo la manomissione. Pur se in questa parte il discorso appare incentrato maggiormente – volendo prendere in prestito la terminologia di Andreas Wacke – sulla “Konnexitätshaftung”317, ossia sul fatto che l’obbligo di a semet ipso exigere318 operi nei limiti in cui la gestione effettuata in stato servile e quella effettuata successivamente alla manomissione siano fra loro connesse, tuttavia il principium di D. 3.5.18 e il precedente fr. 17 appaiono chiaramente appartenere al medesimo contesto. Paolo non aderisce in forma espressa alla posizione di Proculo, Pegaso e Nerazio, che riporta in D. 3.5.17 e la stessa non sembra comunque influenzare direttamente l’opinione espressa in D. 3.5.18pr., opinione che appare così difficilmente ascrivibile alla mano di Nerazio, atteggiandosi piuttosto a un ampio commento paolino in chiara e salda continuazione con quello di D. 3.5.17. Proprio la stretta connessione con quanto discusso nella parte del libro nono ad edictum contenuta in D. 3.5.17 nonché con il successivo D. 3.5.20, estratto anche questo dal libro nono ad edictum, aveva già indotto Jacques Cujas a ritenere che i paragrafi 1-5 del fr. 18 fossero, in realtà, stati tutti scritti da Paolo nella stesura del nono libro ad edictum, essendo estranei al secondo libro ad Neratium, come vorrebbe invece l’inscriptio319. Nonostante parte della letteratura più recente si sia discostata da tale posizione interpretativa, non pare che le argomentazioni addotte risultino convincenti, argomentazioni che oltretutto incontrano il loro primo ostacolo proprio nello stile dei brani che detta critica cerca di tenere ancorati all’inscriptio320. Prima tuttavia di svolgere ulteriori osservazioni sulla provenienza di D. 3.5.18, pare opportuno muovere innanzi tutto dall’analisi degli altri paragrafi del testo così come ci è giunto nell’edizione mommseniana. F. 13 – D. 3.5.18.1-5 (L. 1032) Anche in questo lungo testo riconosciamo la sola scrittura di Paolo. Il fr. 1 si apre con il richiamo di Quinto Cervidio Scevola ricordato con l’attributo noster. Si tratta della tipica formula stilistica che Paolo usa per indicare il maestro nell’ad edictum nonché nelle altre sue opere (Scaevola noster)321.

315

Così Greiner 1973, 160 nt. 68. Sul punto v. già Kübler 1921, 522. 317 Wacke 1986, 234. 318 Sul punto v. ampiamente Finazzi 2006, 56 ss. 319 Cuiacius 1722, 130; la congettura avanzata da Cujas è accolta in Mommsen-Krüger, 75 nt. 14 e lo stesso Lenel 1889.I, 1141 nt. 1 ammette: “Non sine ratione Cuiacius hoc fragmentum non ex Pauli libris ad Neratium esse desumptum suspicatur, sed ex eiusdem libro non ad edictum…”. Di recente, nello stesso senso, anche Luchetti 2018, 41 nt. 11. 320 Cfr. Finazzi 2003 nt. 389. 321 Sul punto v. Luchetti 2018, 47 nt. 47. Fanno eccezione, tra le opere paoline, i responsa e i libri ad Vitellium, ove appunto il ricordo di Scevola non è accompagnato dall’aggettivo noster; sull’argomento v. di recente anche Viarengo 2020, 24 ss. 316

175

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 176

Gianni Santucci Oltre al richiamo del proprio maestro, inducono a pensare che il frammento in esame fosse originariamente collocato nel commentario edittale anche i profili contenutistici che ora andiamo ad esaminare. Paolo, richiamando il principio enunciato da Sabino e interpretato da Cervidio Scevola (Scaevola noster ait putare se, quod Sabinus scribit), esclude che colui il quale abbia intrapreso la gestione di affari altrui in stato servile risponda per dolo o colpa322. Ora, il Severiano si sofferma sulla commisurazione della responsabilità del gestore al dolo e alla colpa anche nel successivo brano di D. 3.5.20.3, escerpito dal libro nono ad edictum, ove viene presa in specie in considerazione la culpa in eligendo del gestore323. Il registro espositivo non muta nel fr. 2 di D. 3.5.18. È richiamata l’opinione di Labeone (Labeo ait)324 per il caso particolare in cui un uomo libero, che crede erroneamente e in buona fede di essere in stato servile (si libero homini, qui bona fide mihi serviebat, mandem), riceva mandato da parte del dominus apparente. In tale ipotesi non sarà esperibile l’azione di mandato in quanto tale contratto non può dirsi integrato per la “corrispondenza tra il contenuto dello specifico contratto ed i poteri normalmente esercitati dal dominus sullo schiavo, che nel caso di specie impediva di individuare tra il liber homo ed il dominus apparente un rapporto analogo a quello contrattuale”325. Sorge invece un’obbligazione da atto lecito non contrattuale, pertanto si integra la negotiorum gestio e di conseguenza la relativa azione è esperibile. Nell’ambito della voluntas alium sibi obligandi, si pone anche il fr. 3, in cui la fattispecie commentata è quella del gestore, che compra una cosa ignorando l’appartenenza di essa al gerito assente e ne acquista poi la proprietà per usucapione. In un caso del genere per Paolo il gestore non è tenuto ex negotiorum gestione alla restituzione. Tuttavia la sopravvenienza dell’effettiva conoscenza dell’appartenenza della cosa al gerito nel lasso di tempo che intercorre tra l’acquisto e l’usucapione comporta il sorgere in capo al gestore dell’obbligo di trovare un terzo disposto a intentare la rei vindicatio, nell’interesse del gerito, contro il gestore stesso. Con questo escamotage la cosa viene assicurata al gerito e il gestore può avvalersi della garanzia per l’evizione contro il venditore. In caso contrario invece, il gestore avrebbe risposto con l’actio negotiorum gestorum nei confronti del gerito. Il tipico stile dei commentari ai verba edicti prosegue nei paragrafi finali, ove il discorso dà conto di una specifica casistica, sempre ancorata alla medesima questione di fondo. Nel fr. 4 Paolo si sofferma sulla commisurazione della corresponsione degli interessi al gerito per il denaro speso durante la gestione di affari altrui. A tal proposito si specifica che l’obbligo di dare le usurae al gerito non è limitato a quelle corrisposte da terzi, ma esteso a quelle che potevano essere percepite (percipere potuimus), essendo dunque configurato in capo al gestore l’obbligo di mettere a frutto il denaro.

322 L’affermazione è stata ritenuta non genuina per mere ragioni sintattiche in piena temperie interpolazionistica da Perozzi 1903, 65 s. 323 Paul. 9 ad ed., D. 3.5.20.3: Mandatu tuo negotia mea Lucius Titius gessit: quod is non recte gessit, tu mihi actione negotiorum gestorum teneris non in hoc tantum, ut actiones tuas praestes, sed etiam quod imprudenter eum elegeris, ut quidquid detrimenti neglegentia eius fecit, tu mihi praestes. 324 V. ancora Luchetti 2018, 41 ss. 325 Finazzi 2003, 226.

176

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 177

Commento ai testi Infine nel fr. 5 si affronta il problema dell’esperibilità dell’actio negotiorum gestorum contro il captivus ritornato in patria. A tal riguardo Paolo ammette, senza esitazioni, che, malgrado non vi fosse un dominus negotiorum durante la captivitas, il gestore fosse comunque legittimato a esperire l’azione da gestione di affari altrui contro il gerito prigioniero ritornato in patria. Ora, tornando alla provenienza di D. 3.5.18, l’ampiezza dell’esposizione, il tipico stile del commento a specifici lemmi, la stretta connessione con D. 3.5.17 e D. 3.5.20 sembrano tutti elementi che portano a deporre contro la provenienza, non solo dei §§ 1-5, ma anche dello stesso principium, dai libri ad Neratium, inducendo dunque ad accogliere la congettura avanzata già da Jacques Cujas nei suoi Pauli ad edictum Commentari. Appare opportuno a questo riguardo richiamare taluni risultati della verifica che Paul Krüger svolse intorno alla sequenza di frammenti relativa ai libri ad edictum pubblicata a partire dalla decima edizione stereotipa del Digesto326. Com’è noto, tale analisi si fonda sulla ricerca condotta da Bluhme che ipotizza che i frammenti siano collocati nei titoli del Digesto secondo l’ordine di lettura delle opere da cui furono tratti e, nell’ambito della stessa opera, secondo l’originale ordine di collocazione nei libri, escludendo, dunque, con convincenti argomentazioni, che l’ordine di successione dei frammenti all’interno dei titoli sia piuttosto da ricondursi a fattori che prescindano dall’ordine di lettura327. Paul Krüger inserisce i paragrafi 1-5 di D. 3.5.18 nel nono libro ad edictum di Paolo subito dopo D. 3.5.17. Riteniamo quindi plausibile che ai paragrafi 1-5 debba essere aggiunto anche il principium; un blocco unico, pertanto, che, causa non ultima un errore materiale o una mera distrazione, venne collocato dai compilatori giustinianei sotto un’errata inscriptio. F. 14 – D. 15.1.56 (L. 1033) Dal punto di vista della composizione del passo, siamo propensi ad attribuire a Nerazio la prima parte sino al nome di Paulus, assumendo come consueto criterio che detta parte sia di carattere lemmatico328. Il caso prospettato è quello di un servo che assume un debito nei confronti del proprio dominus, debito già gravante verso un terzo. L’intervento di Nerazio329 pare essere rivolto a precisare che la promessa non ha l’effetto di estinguere l’obbligazione preesistente e dunque non potrà evidentemente attribuirsi ad essa alcuna efficacia novatoria ed anzi, l’obbligazione derivante da quella promessa diverrà nomen peculiare solo allorquando il padrone, nel giudizio de peculio, vorrà detrarre la somma dovutagli dal peculio servile330. Paolo, continuando nella

326

Krüger 1905, 951. Cfr. Bluhme 1820, 257 ss. 328 Si veda quanto osservato supra: 26 ss. 329 Che Nerazio avesse scritto a riguardo è fuori discussione, anche agli occhi del Lenel 1889.I, 781, che ipotizza il collegamento del passo con Paul. 32 ad ed., D. 17.1.22.8 in cui appare ‘Neratius scribit’: Si mandaverim servo tuo, ut quod tibi debeam solveret meo nomine, Neratius scribit, quamvis mutuatus servus pecuniam rationibus tuis quasi a me receptam intulerit, tamen, si nummos a creditore non ita acceperit, ut meo nomine daret, nec liberari me nec te mandati mecum acturum: quod si sic mutuatus sit, ut pecuniam meo nomine daret, utrumque contra esse: nec referre, alius quis an idem ipse servus nomine tuo quod pro me solvebatur acceperit. Et hoc verius est, quoniam quotiens suos nummos accipit creditor, non contingit liberatio debitori. 330 Così, Valiño del Río 1988, spec. 429 ss. 327

177

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 178

Marina Frunzio prospettazione del caso, specifica che quanto si intenda dedurre in un’actio de peculio si trasforma in un debito del peculio stesso. Dato degno di interesse del passo e su cui si è a lungo discusso in letteratura, è rappresentato dall’uso del verbo expromittere331, due volte riferito da Nerazio, verisimilmente nell’accezione di assunzione di un debito preesistente (proprio o altrui), che Paolo pare accogliere, limitandosi a specificarne la disciplina332. Ciò sembra avvalorare l’ipotesi, contestata da certa parte della letteratura di stampo interpolazionistico333, secondo la quale l’expromissio avrebbe indicato una promessa qualificata334 già a partire dalla giurisprudenza del principato. A favore della origine non giustinianea del verbo, in realtà, depone, innanzitutto, un altro testo, stavolta di Ulpiano, tratto dal suo commento a Sabino, nel quale l’incipit sembra, con l’opinione maggioritaria335, proprio doversi attribuire a quest’ultimo: Ulp. 48 ad Sab., D. 23.3.36: Debitor mulieris iussu eius pecuniam viro expromisit, deinde vir acceptam eam iussu mulieris fecit. Res mulieri perit. Hoc quomodo accipimus? Utrum dotis nomine an et si alia ex causa? Et videtur de eo debitore dictum, qui dotis nomine promisit. Illud adhuc subest, utrum ante nuptias an post nuptias id factum sit: multum enim interesse videtur. Nam si secutis nuptiis id factum est, dote iam constituta maritus accepto ferendo perdit, si autem antequam nuptiae sequerentur, nihil videtur doti constitutum esse. Il debitore di una donna, per ordine di questa, ha promesso mediante stipulazione a suo marito del denaro. Quindi il marito, per ordine della donna, ha rimesso formalmente il debito. L’estinzione del debito è a carico della donna. In che modo dobbiamo valutare ciò? Vi è validità solo se la stipulazione è stata fatta a titolo di dote oppure anche in base ad un’altra causa? E sembra che sia stato detto in rapporto a quel debitore che promise a titolo di dote. Rimane ancora da chiarire se ciò sia stato fatto prima o dopo le nozze, sembra esserci infatti molta differenza fra i due momenti. Infatti, se ciò è stato fatto a nozze avvenute, la dote si era già costituita e il marito, rimettendo formalmente il debito, perde la dote; se invece ciò sia fatto prima delle nozze, pare non esserci stata alcuna costituzione di dote.

Il debitore di una donna, iussu eius, si impegna, secondo l’interpretazione che appare la più corretta, ad effettuare una promissio dotis, e non una dotis dictio, poiché, si osserva, in quest’ultimo caso la tipicità di tale negozio non avrebbe potuto generare dubbi simili a quelli espressi dal giurista336. In questa accezione ci appare assai probabile intendere allora il verbo expromittere nel senso di assunzione verbis di un debito di cui si era già gravati. Con la conclusione che anche per Sabino l’espressione verbale non starebbe ad indicare un qualsiasi promittere, ma piuttosto una promessa avente ad oggetto l’impegno al pagamento di un debito già esistente.

331 Sull’expromissio si vedano soprattutto, Frese 1930, 435 s.; De Villa 1938, 748; Quagliariello 1953, passim; Heumann-Seckel 1958, 196 s.; Bonifacio 1959, 24; Masi 1968, 1093; Quagliariello 1960, 881; Marrone 1991, 490 nt. 18; Carbone 2005, spec. 417 ss., con ulteriore bibliografia. 332 La dottrina non sembra aver riflettuto troppo sulla struttura stilistica di D. 15.1.56, caratterizzata dalla presenza del ‘Paulus’ che separa con evidenza il parere (un responsum?) di Nerazio dal tratto di paternità paolina, cosa che invece dimostra, come meglio vedremo, un uso consapevole e tecnico del verbo expromittere già in Nerazio e non solo. 333 Cfr., Beseler 1935, 339. 334 Il verbo sarebbe invece usato come “variante banale pour promittere” secondo Roussier 1956, 147. 335 Si veda Lauria 1952, 79 e autori ivi citati. Più di recente Astolfi 2001, 269. 336 Bonifacio 1959, 73. Cfr., pure, Beseler 1925b, 442.

178

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 179

Commento ai testi Indispensabile appare a questo punto verificare in quali altri luoghi e in quale senso Paolo parli di expromissio, al fine di valutare l’esistenza o meno di una tradizione che ancora in età severiana vede nell’expromissio una forma particolarmente intensa di promessa volta a realizzare l’assunzione di un debito pregresso. Cosa che permetterà di leggere anche D. 15.1.56, da cui siamo partiti, nella sua corretta dimensione storico-giuridica. Procedendo in questa direzione, ci risulta che Paolo si sia occupato di tale forma di pagamento in 5 passi, due a proposito degli effetti dell’applicazione della lex Iulia et Papia, uno derivante dalle regulae e due tratti dalla sua opera di commento a Plauzio. Consideriamo dapprima: Paul. 2 ad leg. Iul. et Pap., D. 38.1.37.4: Sed si creditori suo libertum patronus delegaverit, non potest idem dici: solutionis enim vicem continet haec delegatio. Potest tamen dici, si in id, quod patrono promisit, alii postea delegatus sit, posse cum liberari ex hac lege: nam verum est patrono cum expromisse, quamvis patrono nunc non debeat: quod si ab initio delegante patrono libertus promiserit, non liberari eum. Ma non si può dire la medesima cosa se il patrono delegò il liberto al suo creditore, perché infatti questa delegazione fa le veci di un pagamento. Si può tuttavia sostenere che se in ciò che promise al patrono fu successivamente delegato ad un altro, egli possa essere liberato in base a questa legge. Infatti, è vero che egli promise al patrono, sebbene ora non debba più al patrono: Se poi il liberto fin dall’inizio promise per delegazione del patrono, egli non sarà liberato.

Secondo il dettato della lex Iulia et Papia il liberto con almeno due figli sotto la sua potestà non avrebbe dovuto prestare opere o quanto altro promesso al suo patrono libertatis causa337. Nel passo è facile distinguere due ipotesi; la prima: assunzione del debito, da parte del liberto, mediante stipulatio, su delegatio del patrono338, nei confronti del creditore di questi; la seconda: assunzione in capo al liberto, su delegatio del patrono e ancora attraverso stipulatio, di quanto il liberto si era impegnato verbis verso il patrono medesimo. Secondo la storiografia romanistica che coglie nel passo un’applicazione della lex Iulia et Papia solo nella seconda ipotesi, il verbo expromittere sarebbe utilizzato per alludere all’assunzione, mediante stipulatio, delle operae libertorum verso il patrono e dunque si riferirebbe ad una obligatio verbis prima inesistente. Ma, come più di recente e in modo corretto si è ritenuto, anche se l’impegno del liberto esiste solo nella sfera religiosa, in ogni caso il verbo sembra contenere in sé un promittere particolarmente qualificato, per il fatto appunto di riferirsi ad un precedente obbligo, sebbene non avente un carattere giuridico, ma comunque rilevante nella sfera del fas339. Expromittere è ancora presente, come si diceva, in Paul. 6 ad leg. Iul. et Pap., D. 39.6.35.7: Sed qui mortis causa in annos singulos pecuniam stipulatus est, non est simili ei, cui in annos singulos legatum est: nam licet multa essent legata, stipulatio tamen una est et condicio eius cui expromissum est semel intuenda est.

337 Per tutti, Astolfi 1996, passim. Sul passo, Lambert 1934, 230; Biondi 1956, 100 s.; Pescani 1967, 108 s.; Sacconi 1971, 68 ss.; Thielmann 1983, 240; Sacconi 1989, 121 ss.; López-Barajan Mira 2000, 198; Carbone 2005, 425 ss. 338 Sulla delegatio delle operae libertorum, cfr., innanzitutto, Waldstein 1986, 253 ss. e Rainer 1988, 760. 339 Carbone 2005, 427.

179

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 180

Marina Frunzio Ma la posizione di colui, a cui è stata promessa una somma di denaro a causa di una donazione per causa di morte per ogni singolo anno, non è assimilabile a quella del beneficiario di un legato stabilito per ogni singolo anno. Infatti, benché vi siano molti tipi di legato, una sola forma di stipulazione è presente ed in un tempo unitario si deve considerare la condizione di quello a cui fu fatta la promessa.

In letteratura è emersa incertezza circa la possibilità di desumere dal frammento se il debito oggetto della stipulatio mortis causa, expromissum, sia sorto per la prima volta oppure fosse già esistente in capo a colui che si obbliga mediante stipulatio a un terzo cui questi si sia sostituito. In genere si sostiene che qui expromittere sia una variante del semplice promittere340. Tuttavia, parrebbe di non potersi escludere che invece il verbo ricorra in collegamento con il caso di una precedente obbligazione341, argomento ricavabile dalla lettura di Gai. 8 ad ed. prov., D. 36.6.31.3342, che rappresenta l’unico altro luogo dei Digesta sul tema della donatio mortis causa in cui la cessione del credito da parte del donante avviene da chi era già debitore di colui indicato come beneficiario del donante medesimo. E veniamo a considerare adesso Paul. 6 reg., D. 16.1.22: Si mulieri dederim pecuniam, ut eam creditori meo solvat vel expromittat, si ea expromiserit, locum non esse senatus consulto Pomponius scribit, quia mandati actione obligata in rem suam videtur obligari. Se io avrò consegnato del denaro ad una donna per pagare con questo un mio creditore oppure assumere, nel caso in cui ella si sia accollata la mia obbligazione. Pomponio scrive che non trova applicazione il senatoconsulto, poiché, risultando essere obbligata in base all’azione di mandato, si considera essere obbligata nel suo interesse.

Una donna riceve una somma di denaro con l’incarico di versarla al creditore, ovvero di impegnarsi al pagamento con stipulatio. Secondo Pomponio, non troverebbe per la donna applicazione la tutela ex sc. Velleiano, dovendosi considerare la stessa tenuta ad eseguire il mandato e dunque obbligata nel suo stesso interesse. Mentre larga parte degli studiosi343 reputa compilatorio il ‘vel espromittat’, non si hanno invece dubbi sul successivo ‘si ea expromiserit’, con la quale espressione si alluderebbe all’assunzione di un debito già esistente, sebbene non da parte del debitore primario ma di un terzo soggetto344. Né si esclude che qui si possa dare il caso di una vera e propria novazione soggettiva345. Ad ogni modo e per quanto

340

Così, ad esempio, Pringsheim 1930, 365; Bonifacio 1959, 24 nt. 53; Endemann 1959, 13. Carbone 2005, 429. 342 Si iusseris mortis causa mihi donaturus debitorem tuum mihi aut creditori meo expromittere decem (…). 343 In questo senso, con convinzione, si è espresso Eisele 1909, 119 e Id. 1914, 325 seguito poi da Vogt 1952, 62. 344 Cfr. Valiño del Río 1988, 1677 ss. 345 Non è possibile affrontare il problema degli effetti novatori o meno connessi all’expromissio nei testi esaminati. Un solo rilievo: mentre nel passo da cui ha preso le mosse la nostra indagine, D. 15.1.56, sembrerebbe doversi escludere la presenza di una novazione, soggettiva, altrove, come in D. 16.1.22, permane al contrario la forte eventualità che essa sia da ammettersi; cosa che potrebbe spiegarsi supponendo un progressivo riconoscimento dell’istituto in connessione con l’espromissione, quest’ultima in ogni caso intesa come assunzione di un pregresso debito e non come una semplice promissio, dato, quest’ultimo, peraltro avvalorato dal prefisso ex congiunto al verbo promittere. 341

180

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 181

Commento ai testi più ci interessa da vicino, l’expromiserit si riporterebbe ancora ad una fattispecie giuridica caratterizzata dall’esistenza di un’obbligazione pregressa. Infine, guardiamo i due passi paolini tratti, come si diceva, dal commento del Severiano all’opera di Plauzio. Innanzitutto: Paul. 5 ad Plaut., D. 17.1.45.4: Sed si mandavero tibi, ut creditori meo solvas, tuque expromiserit et ex ea causa damnatus sis, humanius est et in hoc casu mandati actionem tibi competere. Se io ti avrò dato mandato di pagare il mio creditore e tu ti sia accollato con stipulazione novatoria il mio debito e per questo titolo sei stato condannato, appare più umano che in questo caso ti spetti l’azione di mandato.

La genuinità della prima parte, ove appare la forma verbale expromisit, non è stata in alcun modo messa in discussione. Il caso trattato è quello di un soggetto che dà incarico ad altri di pagare un suo creditore e il mandatario, invece di effettuare il pagamento, promette verbis di effettuarlo, venendo successivamente condannato a tale titolo. Anche qui appare chiaro come il giurista severiano utilizzi expromittere per indicare l’assunzione di un debito preesistente, altrui. Il passo, viceversa, ha ricevuto molti attacchi per quanto attiene al tratto humaniuscompetere, sebbene oggi del tutto ridimensionati in seguito a studi accurati sul significato e sull’uso di termini quali humanius e humanitas, intesi quali criteri interpretativi ampiamente utilizzati soprattutto in epoca adrianea ed anche precedentemente, all’interno dei quali è parso pure come la genuinità del tratto in questione si giustifichi anche alla luce del paragrafo successivo, il 5, che recita: Quotiens autem ante solutam pecuniam mandati agi posse diximus, faciendi causa, non dandi tenebitur reus: et est aequum, sicut mandante aliquo actionem nacti cogimur eam praestare iudicio mandati, ita ex eadem causa obligatos habere mandati actionem, ut liberemur. In tutti i casi, quindi, in cui abbiamo detto che si può esperire l’azione di mandato prima di aver pagato il denaro, il convenuto sarà tenuto a causa di un fatto non di un pagamento; ed appare equo che, come siamo costretti, acquisita per mandato di altri un’azione, a cederla con l’azione di mandato, così per la stessa causa, in quanto obbligati, dobbiamo avere l’azione di mandato per essere liberati.

La lettura congiunta dei due paragrafi, infatti, rende evidente una complessiva armonia, nella presenza della soluzione più umana del paragrafo 4 cui segue la valutazione in termini di equità del paragrafo successivo346. A ciò forse possono aggiungersi ulteriori riflessioni. Intanto sorprende che l’attenzione degli studiosi non si sia adeguatamente soffermata sulla provenienza del passo dal commento di Paolo a Plauzio. Infatti non si può negare in via di principio che il frammento possa attribuirsi a quest’ultimo, e che dunque non solo il caso trattato, ma anche la soluzione in termini di humanitas, rimonti al giurista del I secolo d.C. A tal fine, un rapido sguardo al commento di Paolo offre qualche risultato interessante. In più luoghi dell’opera ricorrono

346

Così, Palma 1992, 74 s. e Talamanca 1993-1994, 794.

181

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 182

Marina Frunzio termini quali humanius, humanitas, aequum, aequitas o iniquum e forme similari. Circostanza che si lega alla presenza massiccia di richiami a Nerazio, a Giuliano, a Pomponio, ma anche a Sabino e Cassio e a Giavoleno. Il libro 6 dell’ad Plautium paolino, in particolare, reca in ben tre luoghi termini come humanius347 ed espressioni quali aequum esse348 o ex aequitate349. Ora questo dato può essere, in mancanza di uno studio organico sull’opera di Paolo, spiegato in due modi: o già nella composizione di Plauzio ricorrevano soluzioni ispirate a tali criteri, a loro volta verisimilmente desunte da riflessioni giurisprudenziali precedenti, oppure Paolo, nel redigere i suoi libri dedicati al collega, aveva utilizzato non solo materiale direttamente attribuibile a Plauzio, ma anche i commenti che erano stati svolti da Nerazio, Giavoleno e soprattutto da Pomponio. Conclusione che, come si diceva in precedenza, riceve più di una conferma come ci testimoniano, ad esempio, per Nerazio, D. 35.1.43.3350 e per Giavoleno, D. 34.2.8351: in entrambi i casi il passo ben potrebbe riflettere problematiche ed esiti che si collocano in un’epoca anteriore a quella severiana e dunque anche l’accezione del verbo expromittere, come sinora l’abbiamo delineata, va plausibilmente riportata assai più lontano nel tempo. Il secondo passo tratto dai libri di commento a Plauzio in tema di expromissio è: Paul. 1 ad Plaut., D. 23.3.55: Cum dotis causa aliquid expromittitur, fideiussore eo nomine datus tenetur, Quando ci si fa promettere qualcosa novando a titolo di dote, è tenuto il fideiussore concesso in base al precedente titolo,

in cui, secondo la letteratura sarebbe più probabile immaginare che il dotis causa expromittitur sia già dovuto ad altro titolo352: dunque Paolo tratterebbe dell’expromissio nella medesima accezione degli altri passi su indicati. Ciò, soprattutto, si spiega riflettendo sulla presenza dell’inciso fideiussore eo nomine datus tenetur, il quale, se non fosse interpretato nel senso che il

347

D. 24.3.56. D. 42.1.21, con richiamo a Nerazio: Sicut autem cum marito agitur, ita et cum socero, ut non ultra facultates damnetur. An si cum socero ex promissione dotis agatur, in id quod facere potest, damnandus sit? Quod et id aequum esse videtur: sed alio iure utimur, ut et Neratius scribit. 349 D. 22.1.38.7, con richiamo a Sabino e Cassio: Si actionem habeam ad id consequendum quod meum non fuit, veluti ex stipulatu, fructus non consequar, etiamsi mora facta sit: quod si acceptum est iudicium, tunc Sabinus et Cassius ex aequitate fructus quoque post acceptum iudicium praestandos putant, ut causa restituatur, quod puto recte dici. Sul valore dell’aequitas per Nerazio, anche con riferimento al libro 6 dell’ad Plautium paolino, si leggano le nostre osservazioni svolte supra: 64 ss. Analogamente un discorso più approfondito sulla figura di Plauzio e sul valore della sua opera per le generazioni di giuristi successive abbiamo provato a svolgerlo supra: 64 ss. 350 Paul. 8 ad Plaut.: Neratius libro primo responsorum scribit, ex duobus scriptis heredibus si unus rogatus sit tibi hereditatem restituere, tu Titio certam summam dare, et beneficio legis Falcidiae in restituendo heres utatur, quanto minus tibi praestiterit, tanto minus te Titio praestare non esse iniquum. 351 Paul. 9 ad Plaut.: Plautius: mulier ita legavit: “Quisquis mihi heres erit, Titiae vestem meam mundum ornamentaque muliebria damnas esto dare”. Cassius ait, si non appareret quid sensisset, omnem vestem secundum verba testamenti legatam videri. Paulus. Idem Iavolenus scribit, quia verisimile est, inquit, testatricem tantum ornamentorum universitati derogasse, quibus significationem muliebrium accommodasset: accedere eo, quod illa demonstratio “muliebria” neque vesti neque mundo applicari salva ratione recti sermonis potest. 352 Heumann-Seckel 1958, 196. 348

182

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 183

Commento ai testi fideiussor sarebbe ancora tenuto per un debito preesistente, ora assunto dotis causa, finirebbe con l’esprimere un concetto tanto ovvio quanto inutile, e cioè che il fideiussore è vincolato all’adempimento dell’obbligo di garanzia353. Ma anche per questo passo valgono considerazioni analoghe a quelle espresse per D. 17.1.45.4, per cui si è indotti cautamente a ipotizzare che qui si tratti proprio di un caso riferito da Plauzio e che i termini con cui esso è presentato possano essere esattamente gli stessi di quelli adoperati dal giurista. Pertanto, sarebbe secondo noi possibile ricavare, dall’insieme delle testimonianze esaminate, non solo che Paolo conoscesse dell’expromissio quale assunzione di un debito precedente, ma che in tale accezione l’istituto fosse noto anche a Nerazio. Inoltre, le due ultime testimonianze analizzate farebbero pensare che di esso ne avesse trattato anche Plauzio e forse, prima di lui, Sabino, se si vuole prestare fede all’interpretazione di D. 23.3.36, passo ulpianeo (48 ad Sab.), poco sopra riportato, ove si è prospettata la possibilità che l’incipit contenesse un parere del grande giurista proprio sull‘expromissio, come l’abbiamo sin qui delineata354. Questa persistente presenza di Plauzio, il suo legame culturale con Nerazio e dunque con Paolo, avvalorano ulteriormente l’idea dell’esistenza di un ideale ponte che collega i tre giuristi, in cui Sabino sembra assumere un ruolo di primaria importanza: Nerazio, commentatore di Plauzio, attinge a questi come privilegiata fonte di cognizione del diritto privato, recuperando un solido materiale di casi e regulae su cui successivamente interviene in età severiana Paolo. Infine, gioverà rilevare che all’interno del Digesto il nostro D. 15.1.56 è preceduto da un passo, D. 15.1.55, tratto dal libro 1 dei responsa neraziani355. Tale indubbiamente significativa collocazione lascia pensare che anche agli occhi dei compilatori vi fosse una relazione tra i due frammenti, difficile oggi da sciogliere, e che, soprattutto, uno stretto legame esistesse tra l’opera paolina e i responsa di Nerazio356. F. 15 – D. 17.1.61 (L. 1034) La struttura del passo consente agilmente di attribuire il tratto da quod ad agam a Nerazio, laddove, l’indicazione esplicita di Paulus non può che annunziare il pensiero del giurista severiano che, come si vedrà, corregge con la propria nota (formalmente introdotta dal sed), la soluzione cui si ispirava il collega.

353

Sul punto, Carbone 2005, 432. Riportiamo nuovamente il testo per agio del lettore: Debitor mulieris iussu eius pecuniam viro expromisit, deinde vir acceptam eam iussu mulieris fecit. Res mulieri perit. Hoc quomodo accipimus? Utrum dotis nomine an et si alia ex causa? Et videtur de eo debitore dictum, qui dotis nomine promisit. Illud adhuc subest, utrum ante nuptias an post nuptias id factum sit: multum enim interesse videtur. Nam si secutis nuptiis id factum est, dote iam constituta maritus accepto ferendo perdit, si autem antequam nuptiae sequerentur, nihil videtur doti constitutum esse. 355 Is cum quo de peculio agebam a te vi exemptus est; quod tunc enim vi eximeres in peculio fuerit, spectari. Qui cioè, si fa il caso di un tale che, letteralmente, sottrae con la forza alla comparizione il convenuto in un giudizio de peculio: secondo Nerazio in questa ipotesi andrà considerato ciò che era nel peculio al momento della violenza. 356 Non si può escludere che le opere siano state esaminate dalla commissione papinianea una di seguito all’altra: alcune osservazioni sul punto supra: 3 ss. 354

183

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 184

Marina Frunzio Il tema è quello degli atti compiuti dal figlio di famiglia il quale, come noto, aveva capacità di concludere affari e certamente di contrarre obbligazioni nei limiti del peculio357. Come è parimenti noto che con tale termine si usava indicare un insieme di beni (forse dapprima una piccola somma di denaro e successivamente, un complesso anche di res e di diritti) che il pater attribuiva al figlio (o il proprietario al servus) soprattutto allo scopo di conferirgli una minima autonomia patrimoniale durante lo stato di sottomissione potestativa. Il figlio poteva non solo amministrare, ma anche disporre dei beni peculiari, benché tale attività non creasse obblighi direttamente in capo al padre, il quale avrebbe risposto per le obbligazioni assunte dal figlio nei limiti dell’attivo del peculio. L’insolvenza del peculio non corrispondeva alla sua inesistenza, per cui le aspettative creditorie restavano in piedi, dovendo i creditori limitarsi ad attendere che il peculio tornasse in attivo. La configurazione giuridica di tale patrimonio come unità economica distinta dalle res del padre si inizia a declinare col riconoscimento da parte del pretore di una responsabilità paterna nei confronti dei terzi, limitata – si intende – al peculio stesso. Regola generale era che ogni atto incrementativo del patrimonio fosse acquisibile immediatamente al peculio del quale unico titolare era il pater familias, mentre nessuna responsabilità era riconducibile a costui per le obbligazioni contratte dal figlio, in base al principio per cui i figli condicionem eorum, quibus subiecti sunt, non faciunt deteriorem (non rendono peggiore la condizione di coloro ai quali essi sono soggetti)358. Il peculio poteva venir meno per diverse cause: la revoca da parte del padre, disposta ad libitum; morte del figlio; emancipazione. Contro colui che avesse ricevuto l’attivo peculiare il pretore concedeva un’azione da esperirsi, nei limiti dell’attivo medesimo, entro il termine di un anno dalla cessazione del peculio: l’actio de peculio era appunto il rimedio processuale con cui si ammetteva il pater familias ad accogliere su di sé gli effetti della condemnatio relativamente agli affari conclusi dal figlio. Da tutto un insieme di testimonianze, poi, si ricava che questi avrebbe potuto essere convenuto in giudizio. Il nostro passo prende in esame appunto tale legittimazione passiva, quando il filius avesse ricevuto mandato e poi avesse riscosso l’oggetto dell’incarico in seguito alla sua emancipazione. Nerazio intravvede la possibilità di esperire l’actio de peculio anche in seguito alla sua fuoriuscita dallo stato di sottoposto, poiché, è da credere, il mandato era stato conferito quando egli era ancora subiectus359. È presumibile

357 Il figlio in potestà, come lo schiavo, nihil suum habere potest, come dirà Gaio, 2.87, dunque non può avere propri beni ma solo una somma, il cd. peculio appunto, con cui egli può compiere incrementi patrimoniali che vanno direttamente a vantaggio del pater, il quale è e resta l’unico titolare dei beni. Sull’istituto del peculium del filius familias, il peculium profecticium come dopo fu chiamato, si rinvia, a titolo puramente indicativo a Longo (G.) 1928, 184 ss. (= 1966, 367 ss.); Longo (G.) 1930, 29 ss. (= 1966, 387 ss.); Longo (G.) 1935, 392 ss.; La Rosa (R.) 1965, 755 ss.; Brinkhof 1978, passim; Burdese 1982, 69 ss.; Amirante 1983, 1 ss.; Wacke 1994a, 469 ss.; Andrés Santos 1997, 166 ss. Interessantissime considerazioni in Thomas (Y.) 1982, 527 ss. Ulteriore bibliografia in Longo (S.) 2003, 5 ss. nt. 7. 358 Lo riferisce espressamente Paul. 28 ad ed., D. 12.2.24; ma già Gai. 8 ad ed. prov., D. 50.17.133, osservava: Melior condicio nostra per servos fieri potest, deterior fieri non potest. 359 Sull’azione si rinvia, in una immensa letteratura ad essa dedicata, innanzitutto ai celebri studi di Solazzi 1905, 208 ss; Solazzi 1906, 219 ss.; Solazzi 1908, 5 ss.; Solazzi 1912, 133 ss. e Micolier 1932, passim. Di recente, si possono vedere Pesaresi 2008, passim e Pesaresi 2012, passim, senza tuttavia esaminare il nostro testo. Considerazioni di inquadramento complessivo in Miceli 2001, passim, cui si rimanda per ulteriori riferimenti bibliografici.

184

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 185

Commento ai testi che il caso sottoposto all’attenzione del giurista di Saepinum fosse appunto rivolto a comprendere se fosse esperibile un rimedio giudiziale per richiedere gli effetti del mandato, interrogandosi poi su quale eventualmente esso fosse. Nerazio, dunque, individuava nell’azione de peculio, da esercitarsi entro l’anno, il mezzo più idoneo. Paolo che, evidentemente, accoglie la soluzione entro i limiti della possibilità di dare esecuzione al contratto, riferisce, tuttavia, che dovrà essere il figlio e non il padre a rispondere giudizialmente, sebbene l’incarico – appare sottinteso – sia stato conferito quando era ancora sotto la di lui potestas360. Il senso dell’intervento di Paolo pare dunque racchiuso nella necessità da parte del giurista di dare rilievo dominante al fatto che il figlio, avendo ottenuta la soggettività giuridica, è ora capace di essere convenuto in giudizio e di accogliere su di sé gli effetti della condemnatio. Ed è per questa ragione che la storiografia più recente, dedicata al tema, non ha esitato ad intendere il passo quale chiaro esempio dell’impossibilità per il figlio di famiglia di obbligarsi verso terzi, almeno – si osserva – fino al diritto giustinianeo, salvo l’ipotesi di obblighi contratti naturaliter361 e sino appunto al momento dell’emancipazione362.

360 Non nascondiamo una certa difficoltà nell’intendere correttamente il pensiero di Paolo nel passo, che volendo ritenere esente da interpolazioni, mostra più di un problema nella sua traduzione. La locuzione ‘sed et’ infatti lascerebbe spazio anche per una traduzione diversa della nota paolina rispetto a quella che si è proposta in questa sede. Così se si intendesse riconoscere valore autonomo all’et nel senso di ‘anche’, allora Paolo avrebbe detto: “ma anche contro il figlio si deve agire”. In questa accezione verrebbe a sfumarsi il contrasto tra i due giuristi, essendo il Severiano in accordo col collega e limitandosi soltanto a introdurre la necessità di utilizzare ‘anche’ un mezzo diverso dall’actio de peculio, l’azione nascente da mandato, verisimilmente, ammettendo dunque pure il figlio e non solo il padre a subire gli effetti della condanna per la medesima questione giuridica. In tale guisa, Paolo manterrebbe in piedi entrambe le ipotesi, esercizio dell’azione di peculio e azione di mandato contro il figlio, lasciando tuttavia in ombra, nella stringatezza e genericità delle sue parole, i termini giuridici del cumulo tra le due azioni. Per tale motivo abbiamo preferito tradurre dando risalto al valore avversativo del sed e, ritenendo l’et un suo rafforzativo. Analogamente, non possiamo seguire la traduzione offerta da Schipani 2007, 299, che propone: “ma anche contro il figlio si può agire”. Così intendendo, infatti, si verrebbe a snaturare del suo autentico significato la perifrastica passiva ‘agendum est’, la quale contiene inevitabilmente il senso della necessità improcrastinabile. Oltre a ciò, la suddetta traduzione implicherebbe un’alternativa – non meglio chiarita – tra l’azione di peculio e quella contrattuale, conclusione che ci lascia ancora più perplessi. 361 Il riconoscimento delle obligationes naturales in capo ai sottoposti a potestà costituisce un passo in avanti, come d’altronde la progressiva introduzione delle cd. actiones adiecticiae qualitatis, nel processo di autonomizzazione dei potestate subiecti: si trattava di inserire all’interno dei rapporti tra sottoposto e terzo un vincolo che, pur non avendo natura giuridica, integrava tuttavia un debere avvertito come cogente sul piano etico e soprattutto sociale. Sul fenomeno dell’obligatio naturalis si vedano precipuamente, Waldstein 2007-2008, 429 ss.; Longo (S.) 2008, passim; Di Cintio 2009, passim; Longo (S.) 2015, 133 ss., con ulteriori indicazioni bibliografiche. Un discusso caso di riconoscimento del natura debere in connessione agli atti compiuti dal pupillo coinvolge proprio Nerazio, 6 membr., D. 12.6.41, su cui si rinvia da ultima a Giumelli 2010, 217 ss. 362 E ciò sulla base della considerazione per cui la capacità di obbligarsi verso terzi avrebbe dovuto presupporre il riconoscimento dell’autonomia patrimoniale, cosa indimostrabile: così, Longo (S.) 2003, 34 ss. La studiosa perviene alla conclusione, in seguito ad una sensibile lettura delle fonti, che solo in epoca giustinianea si sarebbe dato riconoscimento ad una capacità per il figlio alieni iuris, di obbligarsi pro se sul piano del diritto civile: le fonti classiche sul punto avrebbero pertanto subìto un energico intervento dei compilatori, volto a renderne il contenuto conforme al nuovo regime, a giudizio della studiosa verisimilmente introdotto in Inst. 3.19.6.

185

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 186

Marina Frunzio Al contrario, altra e cospicua parte degli studiosi ha sostenuto il riconoscimento, più o meno precoce363, della capacità per il filius di obbligarsi nei confronti di extranei364, impostazione questa, come già sostenuto365, che non riuscirebbe, tuttavia, a liberarsi di alcuni problemi, quali, ad esempio, quello relativo alla legittimazione del figlio di famiglia all’actio iudicati. Infatti, si dovrebbe essere costretti ad escludere l’esercizio di tale rimedio giudiziale soprattutto in ragione del fatto che il suo riconoscimento introdurrebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra la posizione del figlio in potestà, esposto alla procedura esecutiva, e la posizione del figlio emancipato (ovvero exheredatus o abstentus) il quale, al contrario, si troverebbe avvantaggiato da una condanna all’id quod facere potest, ove convenuto per debiti assunti durante la sua condizione di sottomissione: il figlio emancipato, in altre parole, godrebbe di un’agevolazione negata al figlio in potestà366. Quanto al connesso problema di pervenire ad una soddisfacente lettura dell’editto relativa ai filii emancipati, exheredati e abstenti, si è osservato che se è plausibile pensare che “l’azione contro il figlio emancipato o diseredato o astenuto dall’eredità paterna, in quantum facere potest, preceduta nell’editto da promessa pretoria della sua concessione, non presupponesse, nel momento in cui esso fu emanato, la capacità del filius di obbligarsi civilmente in proprio”367, non parrebbe tuttavia improbabile vedere in esso un precedente storico del riconoscimento di detta capacità, riconoscimento che “sarebbe risultato tutt’altro che inutile, rendendo il filius, con effetti perduranti dopo che fosse divenuto sui iuris, responsabile senza limiti, ancorché eventualmente pro quota, a prescindere dalla responsabilità adiettizia paterna nella quale preesisteva già il suo subentrare iure hereditario, pur se l’effettivo soddisfacimento del creditore era rinviato a dopo che il figlio fosse divenuto sui iuris”368. In questa sede ci limitiamo innanzitutto a rilevare gli indubbi meriti della lettura più recente sul punto, la quale, come si è pure autorevolmente affermato369, sottopone a nuova e incondizionata analisi l’interpretazione di testi ormai orientata in modo tralaticio, sollevando

363 Autorevole parte della romanistica meno recente ha ritenuto la capacità del filius di obbligarsi pro se come ‘originaria’: così, Keller 1827, 420 s.; Savigny 1888, 92. Più di recente gli studiosi appaiono divisi tra collocarla in epoca repubblicana (ad es., Talamanca 1990, 122), o piuttosto nell’età del principato: Valiño del Río 1980, 208; García Garrido 1982, 452 s.; Cannata 2001, 55. 364 L’opinione è fondata innanzitutto sulla interpretazione del mutilo Gaio veronese 3.104, per il quale il figlio sarebbe escluso dalla categoria di alieno iuri subiecti incapaci di contrarre obbligazioni verso estranei. 365 Si vedano, nella letteratura più risalente, Squitti 1886, 20; Karlowa 1901, 91. Venendo in tempi più recenti: Senn 1958, 170; La Rosa (F.) 1963, 191. 366 In verità, facciamo nostre al riguardo le acute considerazioni di Longo (S.) 2003, 100 ss., per cui l’esperibilità dell’actio iudicati non andrebbe, a rigore, fatta coincidere con l’effettiva esecuzione della sentenza, essendo la prima piuttosto un mezzo non esecutivo di per sé, ma utilizzabile allo scopo di avviare all’esecuzione. Detto in termini, “se si riconosce che il creditore potesse agire direttamente contro il filius quando questi era ancora alieni iuris, si deve per coerenza ammettere che, ottenuta la pronuncia di condemnatio, il terzo avrebbe anche potuto esperire un’actio ex condemnatione contro il filius, sempre in potestate manens: la mancanza di un patrimonio in capo al debitore, ove non avesse impedito …l’utilizzabilità dell’azione contrattuale per inadempimento, non avrebbe dovuto per conseguenza esser d’ostacolo neppure al successivo esercizio dell’actio iudicati per insolvenza”. 367 Burdese 2005, 476. 368 Burdese 2005, 476. 369 Burdese 2005, 483.

186

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 187

Commento ai testi questioni sulle quali nel tempo gli studiosi hanno finito col non interrogarsi più. D’altra parte, tuttavia, resta da accogliere la non facile conclusione di dover ammettere, con riguardo ad una significativa mole di testi della compilazione, un intervento massiccio – corruttivo – e quasi in serie da parte dei commissari giustinianei, quando cioè si dovette finalmente riconoscere la possibilità per il filius di contrarre obbligazioni verso terzi, conclusione che non può non essere avvertita come esageratamente gravosa370. Senza contare che sostenere il rimaneggiamento di D. 17.1.61, se, per un verso, consentirebbe di tradurre il passo con maggiore agio371, imporrebbe tuttavia un’analisi più approfondita dei libri di Paolo a Nerazio, atteso che secondo un’influente opinione, a partire dal Lenel372, l’opera, di natura lemmatica, sarebbe, sostanzialmente, da reputarsi genuina373. Resta per fermo che, per l’intelligenza del nostro passo, si è costretti logicamente a interpretare le parole di Paolo come intese ad ammettere la convenibilità processuale del figlio per affari richiesti durante il suo stato di sottomissione, circostanza che, evidentemente, ove non si voglia credere ad una corruzione del testo, spinge a concludere che tra Nerazio e Paolo vi sia stato un sostanziale mutamento di regime: infatti, mentre a giudizio di Nerazio appare predominante la condizione di sottoposto del figlio che richiede, pur in seguito alla sua emancipazione, l’esercizio dell’azione di peculio; per Paolo, al contrario, il momento della liberazione dallo stato di sottomissione paterna implica la sopraggiunta possibilità per il figlio di rispondere in proprio, affrontando, in veste di convenuto, le conseguenze di un giudicato. Ciò rende inclini a supporre che, almeno a partire da una certa epoca, il figlio avrebbe acquistato la capacità iure civili di obbligarsi verso terzi e che, dunque, plausibilmente, proprio in questo sopraggiunto mutamento di regime consista il nucleo della specificazione operata dal giurista severiano nel testo in osservazione; infatti, intendendo in altro modo il parere, esso non avrebbe un’evidente giustificazione e risulterebbe, allo stato, niente di più che il residuo di un’incomprensibile annotazione di Paolo a Nerazio. F. 16 – D. 32.26 (L. 1035) Il parere riferito da Paolo ma, secondo noi, ascrivibile, come a breve si cercherà di dimostrare, a Nerazio, ci informa che colui che è tenuto da una disposizione fedecommissaria dovrà restituire tanto ciò che è maturato (frutti ed usurae), quanto ogni damnum arrecato al fedecommissario post moram. Esso riflette una regola, a sua volta parte di una disciplina composita,

370 Limitazioni ulteriori per i figli di famiglia sono, ad esempio, previsti per il compimento di taluni atti giuridici, come ci attesta Gai. 2.96: In summa sciendum est his, qui in potestate manu mancipiove sunt, nihil in iure cedi posse; cum enim istarum personarum nihil suum esse possit, conveniens est scilicet, ut nihil suum esse in iure vindicare possint. 371 Il ‘sed et’ potrebbe infatti essere un’aggiunta, malaccorta, dei compilatori per adeguare la soluzione paolina al nuovo regime giustinianeo. Quale fosse, però, il pensiero di Paolo, successivamente alterato dai giustinianei, non è allo stato ricostruibile. 372 Lenel 1889.I, 1020-1048. 373 Sulla delicatissima questione cfr., Ferrini 1894b, 229 ss. Diversa l’opinione di Greiner 1973, 137 ss., per il quale i commissari giustinianei avrebbero avuto sotto gli occhi una rielaborazione di epoca tardoantica dell’opera di età traianea, contro la quale ipotesi si è schierato Bona 1974, 508 ss. che giudica la conclusione “sorprendente”: si vedano le osservazioni svolte supra: 3 ss.

187

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 188

Marina Frunzio valevole per legati e fedecommessi374, la cui ricostruzione storica è parzialmente visibile attraverso un brano delle Istituzioni gaiane, Gai. 2.280: Item fideicommissorum usurae et fructus debentur, si modo moram solutionis fecerit, qui fideicommissum debebit; legatorum vero usurae non debentur, idque rescripto divi Hadriani significatur, scio tamen Iuliano placuisse, in eo legato, quod sinendi modo relinquitur, idem iuris esse, quod in fideicommissis; quam sententiam et his temporibus magis optinere video. Così per i fedecommessi si debbono interessi e frutti, se il debitore del fedecommesso abbia ritardato la prestazione; per i legati invece non sono dovuti interessi, e ciò è indicato in un rescritto del divo Adriano, so però essere stata opinione di Giuliano che nel legato con ingiunzione di permettere si debba applicare la stessa disciplina dei fedecommessi; la quale opinione anche adesso vedo che incontra il maggior favore.

Ci informa il giurista antoniniano dell’esistenza di un rescritto dell’imperatore Adriano in base al quale, nel caso di un legato, a differenza di un fedecommesso, il ritardo nell’acquisizione della res, da parte dell’onorato, non avrebbe comportato il pagamento delle usurae moratorie. Segue, secondo la trattazione gaiana, un parere di Salvio Giuliano che aveva riscontrato un generale consenso (placuisse) e secondo cui nel legato sinendi modo si sarebbe applicata la regola valevole per i fedecommessi e, dunque, la mora solutionis avrebbe avuto come conseguenza quella del pagamento tanto dei fructus quanto delle usurae. Non è difficile scorgere, ponendo insieme le due testimonianze, le tappe significative della disciplina delle usurae moratorie per le disposizioni di ultima volontà, potendo rappresentare il dictum del brano paolino l’espressione della regola in tema di fedecommessi post moram – obbligo alla restituzione di frutti ed interessi –, regola specificata per i legata dal rescritto adrianeo e in base alla quale l’onorato sarebbe stato tenuto esclusivamente alla restituzione dei fructus. Giuliano avrebbe invece precisato che, diversamente da quanto disposto dallo stesso imperatore, nel legato sinendi modo la disciplina sarebbe stata uguale a quella dei fedecommessi375. E ciò, a detta di Gaio, non solo aveva ottenuto consensi ma avrebbe nel tempo superato la forza del rescritto imperiale: et his temporibus magis optinere

374 Su tale disciplina, Desanti 1999, spec. 76 ss. Per un più ampio inquadramento dei rapporti tra erede, fedecommissario e legatario, cfr. Biondi 1943, spec. 367 ss. Considerazioni di rilievo in Arces 2012, con ragguagli bibliografici, 7 e nt. 30. 375 Di ardua soluzione si presentano due problemi, tra loro connessi, che il brano gaiano ha sollevato presso la storiografia romanistica. Innanzitutto, ci si può chiedere se Gaio riprenda la regola valevole per i fedecommessi da Nerazio o da una parte del rescritto adrianeo non riportato. Certamente, come si è rilevato da parte di Giodice Sabbatelli 1984, 2138 e nt. 20, Gaio era un attento conoscitore di Nerazio, come si evince da Gai. l. s. de cas., D. 12.6.63, da Gai. l. s. de cas., D. 38.1.49, ma soprattutto da Gai. 2 fideic., D. 36.1.65.12, cioè proprio in tema di fedecommessi e ciò induce con un certo grado di probabilità a credere che quel parere Gaio lo avesse appreso direttamente dall’opera di Nerazio. Tuttavia, e veniamo al secondo dubbio, non si può escludere che, a sua volta, il provvedimento imperiale sia stato elaborato sulla base del parere di Nerazio, posto che anche altrove è dato constatare in un rescritto adrianeo il precipitato di una sententia Neratii, Ulp. 59 ad ed., D. 42.4.7.16, ma sotto quest’ultimo profilo la dimostrazione ci sembra assai più tenue ed esigua.

188

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 189

Commento ai testi video376, di cui si ha notizia certa non solo dalle parole di Gaio ma da numerose testimonianze dell’epoca severiana377. La regola della prestazione dei frutti e delle usurae nei fedecommessi di cui parla Gaio in apertura potrebbe ben essere allora il portato della riflessione neraziana, scandita dal giurista antoniniano come il momento iniziale di un’evoluzione in cui il segno fondamentale sarebbe stato poco dopo espresso dal parere di Giuliano378. Già in base a tali considerazioni sembra opportuno attribuire il contenuto di D. 32.26 a Nerazio379, conclusione che risulta, inoltre, avvalorata dalla lettura di Paul. 14 resp., D. 22.1.14pr.-1380: Respondit Paulus moram in solvendo fideicommisso factam partus quoque ancillarum restituendos. 1. Heres rogatus erat post mortem suam sine reditu hereditatem restituere: quaesitum est, an partus ancillarum etiam vivo herede nati restituendi essent propter verba testamenti, quibus de reditu solo deducendo

376 Il brano gaiano è stato letto anche sotto una differente luce. Esso infatti testimonia del superamento della forza di un rescritto imperiale ad opera di un parere della giurisprudenza: Salvio Giuliano corregge la disciplina di un intervento autoritativo che finisce così per restare definitivamente isolato. Al riguardo, Brutti 2012, 123, osserva: “Il rapporto giuristi-imperatore ci appare in questo caso capovolto rispetto al quadro fornito nella parte generale dell’esposizione gaiana. Non è il princeps che dà forza all’uno o all’altro responso, ma è l’affermazione del giurista (di un giurista eminente come Giuliano) che corregge una costituzione imperiale vicinissima nel tempo. Questa ricade così all’interno dello ius controversum. Fa parte della dialettica giurisprudenziale: non la scioglie né tanto meno può impedirla”; e conclude, 124: “Dalla scienza nasce – dopo la costituzione imperiale ed in contrasto con essa – una nuova «regle de droit», che sarà circondata da consensi. Gaio scrive: quam sententiam et his temporibus magis optinere video. Riconosce che l’opinione giulianea si è rivelata più persuasiva del rescritto. Così, in definitiva, la sua narrazione mostra come l’autorevolezza della giurisprudenza possa prevalere sull’autorità politica degli imperatori”. Che quello di Giuliano, poi, sia da intendersi come una sorta di ‘intervento correttivo’ rispetto alla decisio adrianea è opinione piuttosto diffusa: cfr., ad esempio, Palma 2016, 30 e nt. 68. Il consenso che si evidenzia nel brano gaiano potrebbe dunque rappresentare il punto di arrivo di una vicenda interpretativa complessa che Gaio evidenzia con la locuzione ‘quam sententiam ... magis optinere video’: così, Giaro 2011, 2249. 377 Ne abbiamo una chiarissima enunciazione in Ulpiano per il quale, nei legati e nei fedecommessi la disciplina di frutti e usurae è la medesima, Ulp. 15 ad ed., D. 22.1.34: Usurae vicem fructuum optinent et merito non debent a fructibus separari: et ita in legatis et fideicommissis et in tutelae actione et in ceteris iudiciis bonae fidei servatur. Hoc idem igitur in ceteris obventionibus dicemus, su cui si leggano le osservazioni di Cardilli 2000, 300 ss. 378 Riccobono jr. 1962, 282 ss., ha sul punto parlato di “un movimento dottrinario” che avrebbe avuto come suo autore di spicco Nerazio o, comunque questi ne avrebbe rappresentato uno dei suoi più convinti assertori. Sul brano si veda pure Cervenca 1966, 26 ss. e 1969, 170 ss. Secondo il Voci 1936, 117 nt. 6, il rescritto di Adriano sarebbe limitato al solo caso dei legata, soprattutto in base ad una considerazione di carattere stilistico-formale, per cui Gaio parrebbe tenere distinta nella sua esposizione la disciplina della mora nei fedecommessi da quella successiva dei legati, contenuta nella costituzione imperiale. Ma non sembra tale, per quanto acuta, lettura della prosa gaiana decisiva nel senso di negare, al contrario, un andamento del brano in una direzione di sviluppo storico di entrambe le discipline, quella per i fedecommessi e per i legati, che, anzi, tradiscono all’interno dello stesso discorso una logica comune. 379 Se si assume a modello della struttura dell’opera Paul. 1 ad Ner., D. 7.8.23, in cui il passo si inizia con Neratius e poi segue l’annotazione di Paolo introdotta da Paulus, bisogna concludere che qui come altrove una parte sia caduta forse per mano di un compilatore, nel caso particolare la seconda, quella appunto recante l’opinione del giurista severiano, lasciandoci soltanto il parere di Nerazio. 380 Lenel 1889.I, 1141 nt. 3, propone il confronto tra D. 32.26 e D. 22.1.14.1, senza tuttavia meglio chiarire il suo pensiero e senza suggerire per quest’ultimo una precisa collocazione, che infatti è dallo studioso posizionato genericamente in un opus incertum. Tuttavia, proprio da quel confronto possiamo desumere che egli fosse propenso a porre uno stretto raccordo tra i due testi.

189

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 190

Marina Frunzio testator sensit. Paulus respondit ante diem fideicommissi cedentem partus ancillarum editos fideicommisso non contineri. Neratius libro primo ita refert eum, qui similiter rogatus esset, ut mulierem restitueret, partum eius restituere cogendum non esse, nisi tunc editus esset, cum in fideicommisso restituendo moram fecisset. Neque interesse existimo, an ancilla specialiter an hereditas in fideicommisso sit. Paolo rispose che, se si è in mora nell’adempimento di un fedecommesso, si deve dare anche la prole delle schiave. 1. Ad un erede era stato chiesto (a titolo di fedecommesso) di trasferire dopo la sua morte l’eredità privata del reddito. Si pose il quesito se anche i parti delle schiave venuti alla luce quando l’erede era in vita, dovessero essere dati, seguendo le parole contenute nel testamento con le quali il testatore volle dedurre soltanto il reddito. Paolo rispose che i parti generati prima della scadenza del termine da cui il fedecommesso aveva acquistato efficacia non erano compresi. Nerazio nel libro primo riferisce che colui al quale fosse stato chiesto similmente di trasferire la serva, non è tenuto a consegnare (anche) i parti, salvo che fossero venuti alla luce durante il periodo di mora nell’adempimento del fedecommesso. Non ritengo che sia di interesse se nel fedecommesso sia compresa la schiava in particolare o l’eredità tutta.

Nel passo, prima facie, si riferisce di un responso di Paolo secondo cui, se si è in mora nell’adempimento di un fedecommesso, si è tenuti anche a dare i partus ancillarum. Segue il caso: ad un erede era stato chiesto a titolo di fedecommesso di trasferire ad un terzo l’eredità sine reditu. Il quesito si incentrava sull’esistenza o meno dell’obbligo di trasferire i parti venuti alla luce quando l’erede era in vita, obbligo previsto espressamente all’interno del testamento (verba testamenti). Paolo aveva risposto che i nati prima della scadenza del termine dal quale fosse divenuto efficace il fedecommesso non erano inclusi in esso. Di poi si ricorda un secondo responso (refert…rogatus esset), stavolta di Nerazio e tratto dal libro 1, verisimilmente dei suoi responsa, in cui è riportato il caso simile di colui al quale fosse stato chiesto di dare la schiava: costui per Nerazio non sarebbe stato tenuto pure a consegnare i parti, salvo che questi fossero venuti alla luce durante il periodo di mora. Più specificamente, nel testo si possono distinguere due parti: nella prima si porrebbe il problema se i parti delle schiave vadano ricompresi nelle rendite, avuto riguardo all’ipotesi in cui l’erede fosse invitato, in un fedecommesso a titolo universale, di restituire l’eredità dopo la morte, dedotte le rendite stesse. Nella seconda parte sarebbe invece contenuto un parere di Nerazio formulato per il caso in cui l’erede in fideicommisso restituendo moram fecisset381. Il responso di Nerazio, come si evince facilmente, viene evocato da Paolo quale autorevole opinione in materia, benché quello del collega traianeo fosse un parere relativo al caso di un fedecommesso avente ad oggetto la restituzione del solo partus ancillae382. Dato che avvalora la paternità neraziana della regola in tema di usurae propter moram e che incoraggia a ritenere che pure il contenuto di D. 32.26 altro non sia se non un lacerto di un responsum del giurista sepinate.

381

Riccobono jr. 1962, 283 s., sulla cui scia si pone pure Giodice Sabbatelli 1984, 2135. Secondo Kaser 1958, 162 ss., il parere di Nerazio in D. 22.1.14pr. sarebbe frutto di un’interpolazione visibile nella diversità delle fattispecie, ma di contrario avviso e con ottimo fondamento, Giodice Sabbatelli 1984, 2135 s., la quale osserva come l’andamento complessivo del discorso ricordi una tecnica espositiva propria dei libri responsorum paolini, cioè quella di riportare responsi di altri giuristi evidenziati dall’indicazione del nome del respondente. 382

190

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 191

Commento ai testi Un ulteriore indizio in quest’ultima direzione ci viene offerto da Paul. 8 ad Plaut., D. 35.1.43.3383 ove con chiarezza si riconduce al libro 1 dei responsa neraziani la riflessione del giurista traianeo in materia di fedecommesso e della quota spettante al fedecommissario. Da rilevare ancora una volta il collegamento tra Plauzio, Nerazio e Paolo, dato che ci conforta nel supporre che Paolo, commentando Nerazio, leggesse non solo l’opera di questi, ma anche il suo commento a Plauzio. Soccorre in questa prospettiva anche Ulp. 5 disp., D. 36.1.23.3384, ove ugualmente, a proposito di un fedecommesso universale, si riporta un parere di Nerazio, anche esso tratto dal libro 1 dei suoi responsa385. Volendo, pertanto, provare a collocare con maggiore precisione il responso di D. 32.26 all’interno dell’opera neraziana, non parrà inverisimile pensare proprio al libro 1 dei responsa, che, certamente, avevano contenuto un’ampia riflessione del giurista sulle problematiche connesse agli effetti della mora nei fedecommessi e forse più ampiamente toccato diversi aspetti dell’acquisto dei beni ereditari386. F. 17 – D. 35.1.97 (L. 1036) Non si possono nutrire dubbi sull’attribuzione a Nerazio della prima parte del testo fino alla menzione di Paulus, alla cui mano si deve ovviamente la scrittura del restante. Per il giurista traianeo la condicio iurisiurandi, apposta ad un legato disposto a favore di un municipio, non era da ritenersi una condizione impossibile387. La motivazione di tale scelta, che emerge solo

383 Neratius libro primo responsorum scribit, ex duobus scriptis heredibus si unus rogatus sit tibi hereditatem restituere, tu Titio certam summam dare, et beneficio legis Falcidiae in restituendo heres utatur, quanto minus tibi praestiterit, tanto minus te Titio praestare non esse iniquum. 384 Sed enim si quis rogetur restituere hereditatem et vel servi decesserint vel aliae res perierint, placet non cogi eum reddere quod non habet: culpae plane reddere rationem, sed eius quae dolo proxima est. Et ita Neratius libro primo responsorum scribit. Sed et si, cum distrahere deberet, non fecit lata culpa, non levi et rebus suis consueta neglegentia, huiusmodi rei rationem reddet. Sed et si aedes ustae sunt culpa eius, reddet rationem. Praeterea si qui partus extant et partuum partus, quia in fructibus hi non habentur. Sed et ipse si quem sumptum fecit in res hereditarias, detrahet. Quod si sine facto eius prolixitate temporis aedes usu adquisitae sint, aequissimum erit nihil eum praestare, cum culpa careat. 385 Osservando questa congiuntura, e non solo, Ferrini 1894b, 229 ss., concludeva che l’opera di commento di Paolo a Nerazio avesse avuto come oggetto i libri di responsa del giurista sannita, diversamente dalle ipotesi avanzate da Krüger, Schulz e Grainer per citarne solo alcuni, e su cui si leggano le nostre considerazioni svolte supra: 3 ss. 386 Rileviamo che il nostro passo è preceduto nel Digesto da D. 32.25, tratto dal libro 1 del commento di Paolo a Nerazio e incentrato sul tema dell’interpretazione dei testamenta; si potrebbe supporre dunque che anche questo testo sia stato escerpito dal libro 1 dei responsa neraziani, ma si tratta, come ovvio, di una suggestione che allo stato non può non rimanere tale. 387 Il nostro passo appare collocato nel libro 2 dell’ad Neratium, la cui rubrica seguendo Lenel 1889.I, 141, doveva essere de mandatis et negotiis gestis. Ed in effetti, nonostante le apparenze, esso risulta del tutto coerente rispetto alla tematica della negotiorum gestio, ove si consideri che anche l’adempimento della condizione, ove apposta, finì nel tempo per concretizzare un vero e proprio comportamento di erede, esteso in seguito anche ai beneficiari di fedecommessi e legata. Sull’elaborazione della pro herede gestio: Talamanca 1961, 362; Beduschi 1976, spec. 52. Per un quadro generale: Coppola 1987, passim e Ead. 1999, passim. Chiarissimo circa l’evoluzione della pro herede gestio, Iav. 1 ex post. Lab., D. 29.2.62pr.: Antistius Labeo ait, si ita institutus sit ‘si iuraverit, heres esto’, quamvis iuraverit, non tamen eum statim heredem futurum, antequam pro herede aliquid gesserit, quia iurando voluntatem magis suam declarasse videatur. Ego puto satis eum pro herede gessisse, si ut heres iuraverit: Proculus idem, eoque iure utimur. Labeone riteneva che l’heres institutus, gravato della condicio iurisiurandi, non diveniva erede se non compiva un effettivo atto di pro herede gestio, in quanto il giuramento poteva soltanto integrare una manifestazione di volontà di essere erede, su cui Tondo 1957, 37 ss. e Beduschi 1976,

191

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 192

Marina Frunzio implicitamente nella stringatezza del dictum neraziano, si evince piuttosto dalla costruzione retorica di Paolo, domanda e risposta, che assume al suo interno quella che avrebbe potuto essere la causa dell’impossibilità stessa della condizione, e cioè che il giuramento non avrebbe potuto essere prestato da un ente giuridico. Di fronte a tale supposta evenienza ecco la risoluzione avanzata da Paolo in forma di risposta: la condizione non è impossibile dal momento che a prestare il giuramento saranno i funzionari del municipium medesimo, dunque la paventata impossibilità dipendente dall’essere il municipio un ente giuridico viene superata dal conferimento dell’onere del giuramento alle persone fisiche che lo rappresentano. A ben vedere di grande interesse ai fini della comprensione della struttura del passo, ma anche dell’apporto del Severiano alla questione sollevata da Nerazio, è proprio questa caratteristica dell’essere la motivazione del responso evidente nelle parole di Paolo e non in quelle di Nerazio con cui viene effettivamente introdotto il caso e affermata la soluzione. Caratteristica che parrebbe suggerire, in prima battuta, l’idea per cui, innanzitutto, quel che appare un responso neraziano non viene riferito nella sua integrità, ma solo in un segmento epurato dal cuore centrale della motivazione; e, in secondo luogo, che Paolo potrebbe essersi qui semplicemente limitato ad aderire alla soluzione del collega, facendola propria, sussumendo anche la motivazione su cui quest’ultima si fondava. Nel merito della quaestio trattata, sembra corretta l’opinione388 per cui dal testo in esame non sia possibile ricavare alcun elemento a favore della tesi della non conoscenza in epoca traianea dell’editto sulla condicio iurisiurandi, considerato che il contesto in cui si agitano le riflessioni di entrambi i giuristi, Nerazio e Paolo, verte sul problema della realizzazione della condizione da parte di un ente collettivo. Un’attenzione che si spiega bene al tempo di Nerazio ove solo si consideri il riconoscimento per i municipi di ricevere legati avvenuto proprio con Nerva ed Adriano389, ma che si giustifica in modo altrettanto comprensibile nel VI secolo d.C., se solo si vogliano ricordare i numerosi problemi inerenti all’acquisto di res hereditariae per le persone giuridiche, risolti infine da Giustiniano390. Perplessità maggiori sono state avanzate in letteratura in merito allo stesso inserimento del frammento all’interno del Digesto, posto che per i giustinianei la condicio iurisiurandi negli atti mortis causa era da ritenersi nulla in quanto condizione turpe. È stato al riguardo rilevato391 che il contesto nel quale il passo è inserito non riguarda tanto il problema della condicio nelle disposizioni di ultima volontà, ma il fatto che la condizione fosse posta a carico di un ente collettivo: sarebbe questa pertanto, si nota giustamente, la prospettiva del caso introdotto da Nerazio, nel cui ambito aveva preso corpo la soluzione suggerita da Paolo ed evidentemente accolta dai compilatori.

198 ss. Diversamente, Giavoleno, seguendo Proculo, riteneva che l’aver giurato ut heres integrasse un vero e proprio comportamento da erede. Con Ulp. 61 ad ed., D. 29.2.20pr. abbiamo il segno di una consolidazione del nuovo modo di intendere la pro herede gestio: Pro herede gerere videtur is, qui aliquid facit quasi heres, sancito da Giustiniano in via definitiva, Inst. 2.19.7, per cui Pro herede autem gerere quis videtur… quoquo modo si voluntatem suam declaret vel re vel verbis de adeunda hereditate. Sul connesso processo di ‘smaterializzazione’ dell’hereditas, Sanfilippo 1947-1948, 168 ss.; Biondi 1948, 56 ss.; Orestano 1968, 135 ss. e Calore 1988, 188 ss. Sul discusso problema, in riferimento al pensiero di Labeone, del gerere in funzione del contrahere, Schiavone 1971, 37 ss.; Albanese 1972, spec. 242 s. 388 Calore 1988, spec. 191 ss. Diversamente Astolfi 1957, 293. 389 Tit. Ulp. 24.28. 390 Approfondita trattazione in Voci 1960, 492 e 657 s. 391 Calore 1988, 192 s.

192

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 193

Commento ai testi Che poi vi fosse una particolare attenzione al tema delle condizioni impossibili da parte di Nerazio è ricavabile da Pomp. 3 ad Sab., D. 35.1.6.1, in cui lo scolarca proculeiano affronta il problema di un’istituzione di erede sottoposta alla condizione di manomettere taluni schiavi, una quota dei quali era morta ‘ante’, dunque ostacolando la possibilità per l’erede istituito di adempiere392. L’erede chiede – e tale doveva essere l’oggetto della domanda rivolta al giurisperito – se dunque in tale circostanza egli possa ancora ritenersi tale. Il responsum neraziano si muove su una linea restrittiva: la condizione non può comunque dirsi adempiuta e pertanto viene a cadere la qualifica di erede. Ciò che rileva è l’atteggiamento di Nerazio il quale, di fronte all’evenienza della mancata realizzazione della condizione, risolve, senza troppe spiegazioni apparenti393, con uno stile analogo a quello rilevato per D. 35.1.97, nel senso di considerare l’istituzione di erede nulla, senza conferire rilievo al dato, invece decisamente importante agli occhi dei giuristi poi richiamati, a cominciare da Pomponio, che l’evento dedotto in condizione fosse già di per sé addivenuto impossibile a realizzarsi. Un esempio questo ancora di soluzione che si ritaglia in modo sorprendentemente aderente all’oggetto del quesito, senza lasciare spazio ad ulteriori e meno stringenti valutazioni circostanziate che possano giustificare più ariosamente il ‘dispositivo’ del responso. Si tratta in

392 Pomp. 3 ad Sab., D. 35.1.6.1: si servos certos quis manumisisset, heres esse iussus erat. Quibusdam ex his ante mortuis Neratius respondit defici eum condicione nec aestimabat, parere posset condicioni nec ne. Sed Servius respondit, cum ita esset scriptum “si filia et mater mea vivent” altera iam mortua, non defici condicione. Idem est et apud Labeonem scriptum. Sabinus quoque et Cassius quasi impossibiles eas condiciones in testamento positas pro non scriptis esse, quae sententia admittenda est. 393 Sul passo, con ampiezza di argomentazioni, da ultimo Cossa 2013, 291 ss., del quale, tuttavia, non si ritiene di condividere fino in fondo l’inquadramento dell’atteggiamento di Nerazio nell’alveo delle controversie tra sabiniani e proculeiani, così come appare insufficiente spiegare la complessità delle soluzioni del giurista tirando in ballo, con la dottrina meno recente, note teorie sulla visione ‘conservatrice’ che avrebbe ispirato sue molteplici decisioni: il dictum è troppo esiguo per spingerci oltre la mera constatazione, testuale, che la morte ‘ante’ degli schiavi per Nerazio ‘deficit condicionem’, senza poter ricavare da ciò nessuna supposizione che abbia sufficiente grado di verisimiglianza. Invece, assai più ragionevole è, con l’Autore (Cossa 2013, 299), ritenere che il riferimento temporale contenuto nell’‘ante’ sia da rapportarsi al momento “della morte del testatore e dell’apertura delle procedure ereditarie”, diversamente da quanto supposto da Cosentini 1952, 115, seguito da Voci 1963, 613, per cui si tratterebbe del venir meno degli schiavi prima della perfezione del testamento. Sul punto si veda anche Stolfi 1997, 18 e autori citati in Cossa 2013, 299 nt. 191. Ulteriore questione che pone l’analisi di D. 35.1.6.1 e che possiamo affrontare solo in via del tutto marginale in questa sede, è quella di stabilire se l’utilizzo della forma verbale defici che compare due volte, risalga a Nerazio o a Pomponio. Certamente il sintagma ‘condicio deficit’ si trova per la prima volta citato in questo passo, sebbene come è stato rilevato, Cossa 2013, 296, “per la costruzione del verbo al passivo si può ottenere anche qualche risultanza anteriore, pur se realmente episodica”, con la conseguenza, secondo L’Autore, (Cossa 2013, 298), per cui “immaginare una ‘rilettura’ pomponiana’” dell’espressione permetterebbe “di valorizzare anche la struttura complessiva del brano, in cui si staglia, in maniera abbastanza pronunciata anche sul piano linguistico, il contrappunto tra le due soluzioni avverse”. A noi pare che tale ultima acuta lettura, più che rivelare, tuttavia, un preciso disegno pomponiano volto, nell’utilizzazione della medesima espressione del collega, a rimarcare il contrasto dottrinario e soprattutto, ancora, la dialettica tra le due sectae di appartenenza, mostri, semmai, un altro dato non meno significativo, vale a dire la capacità creatrice di un linguaggio tecnico ad opera di Nerazio ed il successivo impiego, anche se a scopo di dissenso, di quel medesimo linguaggio da parte di Pomponio. Il quale, a giudizio di Nörr 2002, 208, sembra rivendicare per se stesso un ruolo neutrale di fronte alle controversiae tra sectae e dimostrare, piuttosto, un chiaro sentimento di intolleranza per quella giurisprudenza sempre più strutturata nell’amministrazione burocratica degli imperatori, della quale, ai suoi occhi, doveva far parte pure il più anziano collega. Non sarebbe infatti casuale, seguendo sempre Nörr 2002, 240, l’ammirazione che Pomponio lascia trasparire verso Labeone, avvertito come un modello di giurista ed esaltato per la sua capacità di essere un innovatore, ma libero e solido nella sua formazione giuridica: sul punto, cfr. anche Stein 1966, 64 s.; Bretone 1971b, 21; Stein 1972, 8 ss. e letteratura citata in Nörr 2002, passim.

193

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 194

Marina Frunzio altre parole di quello stile conciso e stringato, privo di orpelli ma anche più semplicemente di un corredo argomentativo-razionale di accompagnamento al responsum del giurista che in entrambi i passi, D. 35.1.97 e D. 35.1.6.1, lasciano il lettore solo parzialmente soddisfatto e che ancora troveremo nell’analisi dei testi riportabili a Nerazio. Vero è che per D. 35.1.97 non v’è sicurezza circa la sua provenienza dai responsa neraziani. Tuttavia la rilevata analogia di stile ed il fatto che in D. 35.1.6.1 invece la questione, anche essa in tema di condizione impossibile, fosse tratta proprio da quell’opera del Sepinate induce a ritenere con un sufficiente grado di serenità che anche la fattispecie di D. 35.1.97 fosse ricavata dalla medesima sede. Tale conclusione poi potrebbe ricevere un’ulteriore conferma dalla lettura del titolo 1 del libro 35 dei digesta, de condicionibus et demonstrationibus et causis et modis eorum, quae in testamento scribuntur, ove D. 35.1.97 appare costruito all’interno di una sequenza di letteratura problematica: D. 35.1.96 è tratto dal libro 1 di Paolo ad Neratium e presenta una struttura stilistica ed argomentativa assai simile a quella rilevata per i passi sino ad ora esaminati; D. 35.1.98 ancora tratto dal commento di Paolo a Nerazio, stavolta dal libro 3; segue poi D. 35.1.99, libro 18 delle quaestiones papinianee; D. 35.1.100, escerpito dal libro 7 dei responsa di Papiniano; D. 35.1.101, libro 8 dei responsa di Papiniano; D. 35.1.102, libro 9 dei responsa ancora di Papiniano; D. 35.1.103, libro 14 delle quaestiones di Paolo; D. 35.1.104, libro 14 dei responsa di Paolo. Singolare anche la sequenza dei tre passi tutti escerpiti dal commento di Paolo a Nerazio e ordinati dal libro 1 al libro 3 dell’opera. Potrebbe ciò, sebbene non ve ne sia la certezza, non essere una coincidenza, così come tale ordine seguito dai compilatori potrebbe rivelare una precisa consapevolezza da parte di questi ultimi nel senso di ordinare un intero segmento in tema di condizione sulla base di un materiale – come si diceva – tipicamente appartenente ad un certo tipo di letteratura giuridica in cui la forma del responso doveva rivestire un importante ruolo. F. 18 – D. 40.2.24 (L. 1037) Il frammento presenta la consueta struttura stilistica della composizione ‘a doppio livello’, una prima parte introdotta dal nome Neratius ed una seconda ove compare quello di Paulus, circostanza che ci consente agilmente di attribuire il primo tratto al giurista di Sepino e il secondo, da Paulus in poi, appunto, al giurista severiano, come peraltro cercheremo di dimostrare anche di seguito. Per la sua comprensione dobbiamo riferirci all’emanazione della lex Aelia Sentia, avvenuta nel 4 d.C., consoli Sestio Elio Cato e Caio Senzio Saturnino, con la quale si porta ad una disciplina controllata, sebbene di favore e conforme alla politica augustea, il regime giuridico in materia di manomissioni394. La legge introdusse numerose novità, tra cui, innanzitutto, la

394 Tra i numerosissimi studi dedicati alla legge nei suoi molteplici aspetti, in questa sede preme segnalare, almeno, Pais 1904, passim; Guarneri Citati 1926, 425 ss.; Schulz 1928, 197 ss.; De Dominicis 1939, 93 ss.; 1949, passim; Volterra 1956, 695 ss.; Metro 1961, 459 ss.; Impallomeni 1963, passim; Di Paola 1964, 1075 ss.; Biondi 1965, 77 ss.; Jaubert 1965, 5 ss.; Giménez Candela 1996, 64 ss.; Impallomeni 1964, 99 ss.; De Dominicis 1966, 1419 ss.; Wagner 1967, 163 ss.; D’Ors (X.) 1974, 425 ss.; Rodríguez Álvarez 1978, passim; Cogrossi 1979, 159 ss.; Zoz 1982, 131 ss.; D’Ors (A.) 1982, 161 ss.; Boulvert, Morabito 1982, 98 ss.; Maestranzi 1998, 423 ss.; Terreni 1999, 333 ss.; Camodeca 2006, 887 ss.; Corbier 2008, 313 ss.

194

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 195

Commento ai testi repressione di atti di manumissio in frode ai creditori e la concessione della cittadinanza romana ai servi affrancati (liberti), salvo che si fossero macchiati di atti turpi. Secondo quanto ci riferisce Gaio, (Gai. 1.38), la legge imponeva al dominus di età inferiore ai 20 anni di manomettere solo vindicta, dopo aver dimostrato, presso un apposito consilium, l’esistenza di una iusta causa manumissionis395. Dunque, l’atto della manumissio non aveva luogo in ogni caso, ma solo dopo che la iusta causa manumissionis fosse stata approvata dal consiglio medesimo. Quest’ultimo, sempre a detta di Gaio (Gai. 1.20)396, era composto in Roma da 5 senatori e 5 cavalieri romani puberi, mentre, in territorio provinciale, da un consesso di 20 recuperatori, cittadini romani. Dovevano essere fissati specifici dies per le adunanze del consiglio, laddove, trattandosi di schiavi maggiori di 30 anni, le manomissioni erano consentite senza limiti di tempo e di luogo (Gai. 1.20). Per quel che ci riguarda più da vicino, la legge prescriveva il divieto agli infantes, a prescindere dai motivi, di effettuare atti di liberazione; mentre gli infantes maiores, vale a dire i maschi di età compresa tra i 7 e i 14 anni (12 trattandosi di femmine), potevano manomettere se muniti dell’auctoritas tutoris innanzi al consiglio, dimostrando la causa dell’atto di affrancazione. Paolo che dedica ampia attenzione al tema, specifica poi che anche un tutore cieco avrebbe potuto concedere validamente la propria auctoritas, 1 ad l. Ael. Sent., D. 26.8.16 (etiamsi tutor caecus factus sit, auctor fieri potest). Il nostro passo si inquadra perfettamente in tale disciplina. Nerazio infatti conferma che il pupillus non infans avrebbe potuto correttamente compiere manomissioni innanzi al consiglio, dunque dando dimostrazione di una iusta causa manumissionis. Paolo interviene specificando che l’atto, però, avrebbe dovuto essere accompagnato dall’auctoritas tutoris, salvaguardando il peculio da riservarsi al pupillo. Le fonti non forniscono un quadro immediato di quali situazioni avrebbero potuto con certezza integrare validamente per il consiglio una iusta causa. Tuttavia dalla lettura di Gaio (Gai. 1.19)397, Ulp. 6 de off. proc., D. 40.2.11398 e Ulp. de off. proc., D. 40.2.13399 è possibile ricavare l’esistenza di una iusta causa in diverse situazioni, in cui emergono le ipotesi di legame familiare o parafamiliare tra il dominus e il servo o quando lo schiavo si fosse distinto per un comportamento particolarmente meritorio nei confronti del dominus. È da presumere che la casistica fosse assai più ampia e che fosse di spettanza esclusiva del consiglio la valutazione nel merito.

395 Gai. 1.38: Item eadem lege minori XX annorum domino non aliter manumittere permittitur, quam si vindicta apud consilium iusta causa manumissionis adprobata fuerit. 396 Gai. 1.20: Consilium autem adhibetur in urbe Roma quidem quinque senatorum et quinque equitum Romanorum puberum; in provinciis autem viginti recuperatorum civium Romanorum, idque fit ultimo die conventus; sed Romae certis diebus apud consilium manumittuntur. Maiores vero triginta annorum servi semper manumitti solent, adeo ut vel in transitu manumittantur, veluti cum praetor aut pro console in balneum vel in theatrum eat. 397 Gai. 1.19: Iusta causa manumissionis est veluti si quis filium filiamve aut fratrem sororemve naturalem, aut alumnum, aut paedagogum, aut servum procuratoris habendi gratia, aut ancillam matrimonii causa consilium manumittat. 398 D. 40.2.11: Si minor annis viginti manumittit, huiusmodi solent causae manumissionis recipi: si filius filiave frater sororve naturalis sit. 399 D. 40.2.13: Si collactaneus, si educator, si paedagogus ipsius, si nutrix, vel filius filiave cuius eorum, vel alumnus, vel capsarius (id est qui portat libros), vel si in hoc manumittatur, ut procurator sit, dummodo non minor annis decem et octo sit. praeterea et illud exigitur, ut non utique unum servum habeat, qui manumittit. Item si matrimonii causa virgo vel mulier manumittatur, exacto prius iureiurando, ut intra sex menses uxorem eam duci oporteat: ita enim senatus censuit.

195

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 196

Marina Frunzio In materia le fonti ci riferiscono pure di un rescritto di Antonino Pio in base al quale si disponeva l’irrevocabilità delle cause già provate, Marc. 13 inst., D. 40.2.9.1400, circostanza che contribuisce a rendere chiaro il motivo al fondo del lacerto neraziano, posto che la materia, come dimostrato dall’esistenza di un rescritto del divus Pius, doveva essere di grande attualità. Ma la lex Aelia Sentia, come tanti provvedimenti legislativi incidenti in ambiti socio-economici, fu oggetto di numerosi adattamenti nel corso dei secoli: Paolo ed Ulpiano vi dedicarono un apposito liber, provando a rifinirne il regime alla luce delle fattispecie via via verificatesi nella prassi. Fino all’abolizione della legge, voluta da Giustiniano, per il quale essa doveva apparire eccessivamente restrittiva del favor libertatis. Interessante, anche per cogliere il rapporto tra Nerazio e Paolo in merito alla disciplina ex lege Aelia Sentia, si presenta la lettura di D. 28.5.56, tratto dal libro 1 di commento di Paolo alla legge: Si is qui solvendo non est primo loco Stichum, secundo eum cui ex fideicommissi causa libertatem debet liberum et heredem instituerit, Neratius secundo loco scriptum heredem fore ait, quia non videtur creditorum fraudandorum causa manumissus401. Se colui che non è solvibile istituisce libero ed erede in primo grado Stico, in secondo grado colui al quale deve la libertà a titolo di fedecommesso, Nerazio afferma che sarà erede colui che è stato scritto in secondo grado, poiché è considerato manomesso in frode ai creditori.

Dal testo si evince con tutta evidenza la lettura di Nerazio da parte di Paolo in merito ad un caso che, pur nella sua specificità, ricavava la propria ratio entro i confini della disciplina della legge. Dato che dunque rende il passo da cui abbiamo preso le mosse vieppiù comprensibile, ove posto all’interno di un rapporto ideale tra i due giuristi entrambi interessati alla materia. Sul problema, poi, di quale possa essere il locus onde Paolo trae il parere neraziano, un indizio ci proviene da D. 28.5.55, immediatamente precedente, attribuito a Nerazio ed escerpito dal libro 1 delle membranae, in cui il Sepinate tratta dell’istituzione d’erede di un servo cum libertate in un secondo testamento402: non è forse troppo azzardato ritenere, pertanto, che anche la fattispecie affrontata in D. 28.5.56 abbia trovato un adeguato spazio proprio in quella sede.

400 D. 40.2.9.1: Sciendum est, qualiscumque causa probata sit et recepta, libertatem tribuere oportere: nam divus Pius rescripsit causas probatas revocari non oportere, dum ne alienum servum possit quis manumittere: nam causae probationi contradicendum, non etiam causa iam probata retractanda est. Sul passo, De Dominicis 1949, 57 s., secondo il quale l’espressione nam causae…contradicendum si riferirebbe chiaramente ad una procedura basata sul contraddittorio e tendente ad indirizzare le decisioni del consiglio. 401 Lenel 1889.I, fr. 912, 1120. La ratio, del tutto comprensibile, della soluzione riposa, ci sembra, sul fatto che la disposizione fedecommissaria attributiva della libertà per il secondo erede faccia parte di altra successione, dunque il beneficiario risulta escluso da qualsiasi atto compiuto per frodare i creditori le cui aspettative erano rivolte al patrimonio della prima successione. 402 Ner. 1 membr., D. 28.5.55: Pater filio impuberi servum heredem substituit liberumque esse iussit: eum pupillus vendidit Titio: Titius eum iam primo testamento facto in secundo testamento liberum heredemque esse iussit. Superius testamentum Titii ruptum est, quia is servus et heres potest esse et, ut superius testamentum rumpatur, sufficit ita posterius factum esse, ut aliquo casu potuerit ex eo heres existere. Quod ad vim autem eius institutionis pertinet, ita se res habet, ut, quamdiu pupillo ex ea substitutione heres potest esse, ex Titii testamento libertatem hereditatemque consequi non possit: si pupillus in suam tutelam pervenerit, perinde ex Titii testamento liber heresque sit ac si pupillo substitutus non fuisset: si pupillo heres exstitit, propius est, ut Titio quoque, si velit, heres esse possit.

196

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 197

Commento ai testi In verità, il commento di Paolo alla legge Aelia Sentia sorprende anche per il fatto che in esso, oltre a rinvenirsi il richiamo all’autorità di Nerazio, il Severiano rievochi pure un parere di Giuliano (Iulianus ait, D. 37.14.6) e, cosa ancora più interessante, un responso di Aristone403, collega di Nerazio, come si è già rilevato, nel consiglio di Traiano (Aristo respondit, D. 40.9.16.3). Ma l’interesse di Paolo alla disciplina delle manomissioni assume riferimenti vieppiù antichi. È ancora il caso del giurista Plauzio a cui il Severiano sembra attingere anche in questa occasione: Paul. 16 ad Plaut., D. 40.1.14pr.-1: Apud eum, cui par imperium est, manumittere non possumus: sed praetor apud consulem manumittere potest. 1. Imperator cum servum manumittit, non vindictam imponit, sed cum voluit, fit liber is qui manumittitur ex lege Augusti404. Non possiamo manomettere presso chi vanta il medesimo imperio: ma il pretore può manomettere presso il console. 1. L’imperatore quando manomette un servo non impone la festuca, ma esprimendo la sua volontà rende libero colui che è manomesso secondo la legge di Augusto.

Difficile dire se il frammento vada attribuito a Plauzio o a Paolo, ma è altresì difficile contestare che, pur ammettendosi la paternità paolina, il tema non fosse stato trattato da Plauzio405. In ogni caso, la regola in tema di manomissioni è quella per cui non è possibile manomettere innanzi a chi abbia il medesimo imperium; tuttavia, il pretore può manomettere presso il console. Al paragrafo 1 è ben probabile che sia proprio Paolo a spostare il discorso sul problema delle manomissioni compiute dall’imperator, il quale non avrebbe potuto manumittere apud se, né, tantomeno, innanzi ad alcun’altra magistratura, rispetto alla quale il suo imperium sarebbe stato superiore. La questione viene risolta attraverso una finzione, per cui, come osserva Valerio Marotta406, la manifestazione della volontà del princeps fu equiparata allo iussum populi: l’espressione ‘ex lege Augusti’ parrebbe riferirsi alla lex de imperio Vespasiani, che introduceva la solutio legibus per il princeps. Secondo lo studioso, proprio a partire dall’età severiana, vi sarebbe stata un’estensione della lex de imperio, in base alla quale il princeps sarebbe stato autorizzato ad agire in via discrezionale e nel pubblico interesse, anche ove ciò avesse comportato la violazione di disposizioni legislative407. Questa testimonianza già da sola dimostra, per un verso,

403 Sul giurista, autore di un numero non precisato di libri di digesta, cfr. Lenel 1889.I, 59 ss. Qui ci si limita a rilevare la circostanza che numerose volte i suoi pareri sono collegati a Pomponio il quale dovette verisimilmente assumerlo come fonte, v. quanto osserva Lenel 1889.I, 61, nt. 1. 404 Sul testo, Marotta 2016, 72 ss. 405 Il passo si inserisce in un lungo squarcio del libro 16 di Paolo ad Plautium dedicato alle manomissioni, Lenel 1889.I, 1171., fr. 1219-1230, in cui, peraltro, a detta dello stesso Lenel 1889.I, 1171, nt. 2, il fr. 1228 sarebbe proprio dedicato alla legge Aelia Sentia, trattandosi di concessione testamentaria della libertà in frode ai creditori, verisimilmente di fattura paolina. Da notare che il libro 16 ad Plautium si chiude con due famosissime regulae, D. 50.17.179, con la nota enunciazione del favor libertatis in tema di manomissioni e la celeberrima regula delle regulae, D. 50.17.1, su cui supra: 45 ss. 406 Marotta 2016, 73. 407 Marotta 2016, 73. Secondo Evangelisti 2018, 191, tuttavia, non si tratterebbe di una dispensa di carattere assoluto.

197

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 198

Marina Frunzio la risalenza delle problematiche connesse agli atti di affrancazione e, dall’altro, la persistenza delle stesse attraverso i secoli ed il loro complicarsi via via di fronte a nuove ed impreviste esigenze. Finché, come si accennava, non si giunse con Giustiniano ad una serie di radicali modifiche, una vera e propria complessiva opera di aggiornamento degli istituti relativi alle manomissioni, di cui forse il segno più evidente è rappresentato da Inst. 1.6.7 (Qui ex quibus causis manumittere non possunt). Il punto di partenza è pur incentrato nella trattazione gaiana, 1.38, 1.39 e 1.40, di cui si colorano i paragrafi immediatamente precedenti. Di poi, non senza accenti polemici408, i compilatori attaccano i limiti della legge Aelia Sentia, ponendo come cornice, e giustificazione della stessa riforma, la considerazione che la libertas inestimabilis est (Inst. 1.6.7)409: il dominus maggiore di 17 anni potrà manomettere per testamento, anche in assenza di una iusta causa. Testimonianza, questa, di straordinaria importanza anche perché costituisce un caso di innovazioni introdotte da Giustiniano all’interno del manuale istituzionale410. La riforma non può dirsi però ancora conclusa. Solo con la legislazione novellare, Nov. 119.2 del 544, sarà ufficialmente abolita ogni limitazione alla capacità di manomettere mortis causa. Giunge così a compimento la parabola di una delle discipline giuridiche più significative, per tutte le sue complesse implicazioni sociali ed economiche, del diritto di Roma, di cui il nostro D. 40.2.24 rappresenta solo un esiguo frammento, capace tuttavia di evocare una straordinaria messe di problematiche che si snodano tra giurisprudenza e cancellerie imperiali nel corso dei secoli. E che ancora una volta permette di cogliere le tracce di un importante dialogo atemporale di cui sono interpreti Paolo e Nerazio. F. 19 – D. 47.2.85 (L. 1038) Il testo trova la propria collocazione all’interno dell’ampia riflessione giurisprudenziale in merito agli atti ritenuti efficaci al fine di integrare validamente una reversio ad dominum della cosa furtiva e va, come si avrà modo di verificare, ascritto con ogni probabilità a Paolo. In seguito all’emanazione nel II sec. a.C. della lex Atinia de rebus subreptis411 gli oggetti di provenienza furtiva erano marchiati da un vizio che li rendeva inusucapibili per chiunque,

408 Ulteriormente inaspriti nel corrispondente passo della Parafrasi di Teofilo ove la legge Elia Senzia è addirittura definita καταγέλαστος: sulla testimonianza, De Francisci 1965, 69 ss. e Melluso 2000, 80. 409 Cum ergo certus modus manumittendi minoribus viginti annis dominis per legem Aeliam Sentiam constitutus sit, eveniebat ut qui quattuordecim annos aetatis expleverit, licet testamentum facere possit et in eo heredem sibi instituere legataque relinquere possit, tamen, si adhuc minor sit annis viginti, libertatem servo dare non poterat. quod non erat ferendum, si is, cui totorum bonorum in testamento dispositio data erat, uni servo libertatem dare non permittebatur. quare nos similiter ei quemadmodum alias res ita et servos suos in ultima voluntate disponere, quemadmodum voluerit, permittimus, ut et libertatem eis possit praestare. sed cum libertas inaestimabilis est et propter hoc ante vicesimum aetatis annum antiquitas libertatem servo dari prohibebat: ideo nos, mediam quodammodo viam eligentes, non aliter minori viginti annis libertatem in testamento dare servo suo concedimus, nisi septimum et decimum annum impleverit et octavum decimum tetigerit. cum enim antiquitas huiusmodi aetati et pro aliis postulare concessit, cur non etiam sui iudicii stabilitas ita eos adiuvare credatur, ut et ad libertates dandas servis suis possint pervenire. 410 Sul punto, Bonini 1971, 40 e s., secondo il quale, volendo usare un’espressione incisiva, si potrebbe anche dire che “Inst. 1.6.7 contiene una costituzione emanata da un organo diverso dalla cancelleria imperiale”. Si leggano inoltre le ampie osservazioni di Melluso 2000, 78 ss. 411 Non si tratta dell’unica denominazione della legge adottata in dottrina, ma di quella che a nostro modo di vedere ne riflette in modo più fedele il dettato: così già in Frunzio 2017a, 7 nt. 1. Cfr, inoltre, Berger 1925, 2331. Il divieto probabilmente confermava una precedente proibizione contenuta nelle XII Tavole, se si vuole prestare fede, almeno in parte, ad alcune testimonianze alquanto tormentate ed, in primis a Gai. 2.45. e 2.49, su cui, da ultima, Frunzio 2017a, 35 ss.

198

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 199

Commento ai testi salvo il caso in cui fossero rientrati nella potestas eius cui subreptum est412. I giuristi verisimilmente interpretarono l’inciso nel senso che per aversi purgazione della furtività occorresse il recupero da parte del proprietario anche qualora il furto fosse stato effettivamente perpetrato ai danni di un diverso soggetto413. È assai probabile che inizialmente e comunque secondo il tenore della disposizione legislativa, il rientro del bene nella potestas domini fosse concepito come recupero fisicamente inteso dell’oggetto sottratto414. Reversio, difatti, implica logicamente un percorso della cosa opposto a quello subìto a causa del furto, dunque è difficilmente dubitabile che si richiedesse, ai fini dell’usucapibilità, che il proprietario rientrasse nel possesso materiale del bene415. Ad ogni modo, si hanno testimonianze chiarissime di un costante e imponente processo interpretativo compiuto dai giuristi, a partire da Labeone, per cui nel tempo si ammise che tutto un complesso di atti realizzati dal dominus potessero integrare una corretta reversio, anche in assenza di un recupero materiale e purché sorretti dalla piena consapevolezza da parte del proprietario di disporre giuridicamente del proprio bene. Questo percorso interpretativo per cui si passò da una reversio fisicamente intesa ad una reversio concepita in termini giuridici è ben evidente nel passo in esame, sin dall’incipit che introduce, con l’avverbio quamvis, un regime di carattere eccezionale rispetto a quello che rappresentava la regola e cioè che la res furtiva sarebbe stata purgata dalla furtività solo ove recuperata dal proprietario. Infatti a tale ipotesi per così dire ‘normale’ di reversio, nel passo si equiparano il caso in cui il dominus abbia effettuato la rei vindicatio (ed accettato,

412 Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4.6: Quod autem dicit lex Atinia, ut res furtiva non usucapiatur, nisi in potestatem eius, cui subrepta est, revertatur, sic acceptum est, ut in domini potestatem debeat reverti, non in eius utique, cui subreptum est. Sul testo da ultima, Frunzio 2017a, 20 ss. con bibliografia. 413 Si ricava dalla lettura di Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4.7 che riferisce espressamente di un parere di Labeone in merito (Labeo quoque ait), subito dopo cioè l’interpretazione della reversio in potestà come reversio ad dominum di D. 41.3.4.6, su cui, Albanese 1966, 45 e nt. 32; Misera 1974b, 449; Frunzio 2017a, 105 s. 414 Così, tra l’altro, depone apertamente Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4.13, a breve nel testo. 415 Il termine reversio letteralmente indica ‘ritorno’, da ‘re’ e ‘verto’, nel senso di ‘percorso all’indietro’ ed equivale ad una figura retorica corrispondente all’ἀναστροφή, consistente nell’inversione dell’ordine di due parole normalmente contigue (così pure, Quint. inst. orat. 8.6.65), da cui si ricava che la res, ai fini dell’usucapibilità, avrebbe dovuto compiere il percorso opposto a quello determinatosi per effetto del furto. Ciò induce a credere che la lex Atinia avesse avuto riguardo alle cose mobili, le uniche per le quali sarebbe stato immaginabile uno spostamento fisicamente inteso tanto nel momento del furto che in quello del successivo recupero. Questa conclusione risulta suffragata, d’altronde, da un altro dato rappresentato dal fatto che la legge, secondo quanto riferiscono Gell. noct. Att. 17.7 (Legis veteris Atiniae verba sunt: ‘Quod subruptum erit, eius rei aeterna auctoritas esto’) e Paolo (D. 41.3.4.6: res subrepta, più sopra riportato) avrebbe espressamente parlato di subreptio del bene, con allusione alla specifica modalità del furto commesso clam. La clandestinità sorregge, infatti, a sua volta l’idea che la disciplina introdotta dalla legge Atinia avesse riguardo solo ai beni mobili, gli unici per i quali si sarebbe potuta parlare di una sottrazione tecnicamente intesa. È poi verisimile che la legge avesse ribadito un precedente divieto di usucapione di carattere assoluto, forse caduto in desuetudine, cosa che doveva essere particolarmente significativa in pieno II secolo a.C., con l’intensificarsi delle relazioni commerciali. In questo quadro, inibire l’usucapione per chicchessia della cosa mobile subrepta avrebbe, c’è da credere, posto un argine indispensabile al commercio di quei beni di provenienza illecita che, per la loro stessa natura, cose mobili, e per la modalità dell’asportazione, furto clandestino, avrebbero potuto sfuggire per sempre dal patrimonio dei loro proprietari, soprattutto avuto riguardo ai tempi brevissimi dell’usucapio mobiliare e all’emergente figura della possessio bonae fidei. Sul regime, poi, dell’impossessamento dei fondi avvenuto clam non convince l’idea di rinvenirne la causa nella regola della possessio animo retenta: a parte la scarsezza delle fonti sul punto (su cui, già Ferretti 2009, 193 ss.), appare evidente come tale ipotesi dovesse essere nella pratica alquanto marginale e comunque riportabile nell’ambito di applicazione dell’interdictum uti possidetis (cfr., Frunzio 2017a, 67 ss. e Ferretti 2018, 527 ss.).

199

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 200

Marina Frunzio dunque, all’interno del giudizio rivendicatorio la litis aestimatio) e quello in cui addirittura egli abbia venduto la res furtiva al ladro, sulla base di una nota analogia di effetti che per i giuristi avrebbe accomunato litis aestimatio e vendita416. Va detto che questa non è l’unica testimonianza in cui la reversio si realizza attraverso la litis aestimatio o il trasferimento del bene417. Il libro 54 ad edictum di Paolo contiene un lungo squarcio interamente dedicato alle problematiche connesse alla circolazione delle cose furtive, da D. 41.3.4.6 a D. 41.3.4.21418. In particolare, D. 41.3.4.13 e 14 così recitano: Sed et si vindicavero rem mihi subreptam et litis aestimationem accepero, licet corporaliter eius non sim nactus possessionem, usucapietur. 14. Item dicendum est etiam, si voluntate mea alii tradita sit. Ma anche se avrò rivendicato la cosa sottratta e avrò accettato per essa la stima della lite, sebbene non abbia acquistato il possesso fisicamente, si produce l’usucapione. 14. Ugualmente va detto anche nel caso in cui la cosa sia trasferita ad altri per mia volontà.

Il sed di D. 41.3.4.13 introduce, come il quamvis di D. 47.2.85, una fattispecie di reversio diversa da quella ‘normale’, che nel primo testo viene assai più chiaramente esplicitata e consistente nell’acquisto del possesso corporaliter in capo al proprietario419. In D. 41.3.4.14 si fa il caso

416 Cfr. Ulp. 16 ad ed., D. 6.2.7.1: Si lis fuerit aestimata similis est venditionis e, soprattutto, Ulp. 75 ad ed., D. 41.4.3: Litis aestimatio similis est emptioni, su cui Levy 1921, 549; Carrelli 1934, 102 nt. 2.; Russo Spena 1935, 21, sulle orme di Betti 1915, 54, ha ritenuto insiticia la frase ‘vel…vendiderit’ del testo in esame, ma il sospetto non trova fondamento proprio nell’ambito dell’ampia prospettiva in cui esso deve essere necessariamente calato: precisare che tanto l’ottenimento della litis aestimatio quanto il pretium all’interno di una vendita determinano l’effetto di purgare la res dalla furtività non doveva essere di secondaria importanza. 417 In verità, già Sabino e Cassio, il cui parere è significativamente riferito ancora da Paolo, l. s. ad leg. Fuf. Can., D. 50.17.215, ammettono la reversio anche in assenza del recupero materiale della res: ‘Potestatis’ verbo plura significatur: in persona magistratuum imperium: in persona liberorum patria potestas: in persona servi dominium. At cum agimus de noxae deditione cum eo qui servum non defendit, praesentis corporis copiam facutatemque significamus. In lege Atinia in potestatem domini rem furtivam venisse videri, et si eius vindicandae potestatem habuerit, Sabinus et Cassius aiunt. Si è già avuta occasione di occuparsi del testo, sostenendo, sulle orme di Gandolfo 1885, 232 ss., che la potestas vindicandi non si identifica con il diritto di rivendicare la cosa (cd. ius vindicandi), giammai perduto in seguito al furto (opinione, questa, sostenuta da Doneau 1841, 1181, secondo cui “Potestatis verbum hic possessionem significat; habendi, tenedique potestatem, qualem dominus seu prior possessor prius habuit, ut redire in potestatem sit redire in hanc ipasam possessionem”, concezione che non tiene in conto della complessità del termine potestas presente nelle fonti e in merito alla quale si possono leggere le brillanti osservazioni di Gallo 1970, spec. 56), ma con la possibilità, concreta, di esercitare la rei vindicatio: il dominus, in seguito al furto, rintraccia la cosa ed è dunque nelle condizioni di esercitare la rei vindicatio (in argomento, da ultima Frunzio 2017a, 97 ss.). Ora è chiaro che anche se egli poi rinunci all’esperimento dell’azione, la cosa potrà dirsi reversa efficacemente perché rientrata nella disponibilità giuridica del proprietario: la potenziale rivendicabilità del bene assurge per Sabino e Cassio a criterio per consentire comunque la purgazione dal vizio della furtività. D’altronde, a fronte del divieto di usucapire la cosa furtiva la reversio del bene e soprattutto i modi ad essa equivalenti, costituiscono un necessario correttivo la cui disciplina viene ritagliata con rigore dai giuristi per favorire le esigenze della circolazione dei beni. Sul passo, si vedano, inoltre, Lauria 1953, 26; Pescani 1974, 241 ss.; Falchi 1976, 158 e nt. 35. 418 Cfr. Lenel 1889.I, 1070. 419 L’avverbio corporaliter è stato espunto da Beseler 1920, 79. Diversamente Rotondi 1930, 525 s., per il quale tutt’al più esso, non avendo il compito di qualificare specialmente la possessio, potrebbe essere avvertito come un’aggiunta superflua. Al riguardo va detto che l’avverbio sembra, al contrario, assumere la funzione - nient’affatto trascurabile - di rafforzare il concetto della non indispensabilità del recupero materiale ai fini di un’efficace reversio, concetto sul quale Paolo costruisce l’architettura complessiva delle ipotesi ‘giuridiche’ di reversio in potestà.

200

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 201

Commento ai testi della traditio, verisimilmente venditionis causa, della stessa res furtiva sulla base della voluntas domini, dunque pur non essendoci alcun riferimento alla vendita della cosa dal proprietario al ladro, si rinvia più in generale ad ogni ipotesi in cui l’oggetto sia stato trasferito ad un terzo in base ad un atto di disposizione consapevole del proprietario medesimo420. L’attenzione che Paolo sembra offrire alla disciplina delle res furtivae è molto ampia e il nostro D. 47.2.85 non ne costituisce che un’ennesima dimostrazione, coerentemente alla disamina che il Severiano svolge più in generale sulla disciplina delle cose furtive. Il fatto, anzi, che in quest’ultimo passo ci si riferisca al caso specifico della vendita dal proprietario al ladro, rende verisimile ipotizzare che esso esprima un momento precedente della riflessione di Paolo al tema, la quale poi acquista una connotazione più generale all’interno della sua più propria sedes materiae, il libro 54 ad edictum, dedicato al possesso e all’usucapione421. Ci si potrebbe forse addirittura spingere nel ritenere che Paolo abbia accolto un parere di Nerazio in tema di reversio – di cui è traccia nel nostro D. 47.2.85 – e che poi abbia, partendo da quella base, ulteriormente interpretato la disciplina in via estensiva, per cui dalla specifica ipotesi di vendita della res furtiva al ladro si sarebbe passati ad ogni altro caso di traditio della res furtiva ad un terzo, purché compiuta nel rispetto della voluntas domini. Cosa che permetterebbe anche, seppur con estrema cautela, di supporre il carattere recenziore almeno di quel passaggio del libro 54 ad edictum rispetto alla composizione del parere contenuto nei libri di commento a Nerazio. Resta la forte impressione che proprio Nerazio abbia influenzato la visione ermeneutica di Paolo sull’acquisto del possesso della cosa furtiva, impressione avvalorata dall’attenzione del giurista di Sepino per le problematiche all’interno della dottrina del furto e, sotto altro versante, per lo studio dei confini e dei limiti dell’elemento soggettivo al-

420 Si può pensare innanzitutto al caso di un furto operato ai danni di un terzo: costui si trova per una qualsiasi ragione nella posizione di poter disporre nuovamente del bene, cosa che se ‘autorizzata’ dal proprietario evidentemente può integrare una vera e propria reversio ad dominum. 421 Va menzionata in questa sede l’ipotesi avanzata da Pugsley 1970, 260, il quale traduce l’espressione di D. 47.2.85 ‘non interpellari iam usucapionis ius dicendum est’ nel senso che l’usucapione non sarebbe interrotta (non interpellari) a causa degli atti eventualmente compiuti dal proprietario, quali l’accoglimento della litis aestimatio e l’esecuzione di un contratto di compravendita col ladro. Ciò postula evidentemente che ci sia un soggetto in corso di usucapione (in buona fede? Accipiente dal ladro?), la cui posizione giuridica non sarebbe, pertanto, disturbata dal comportamento del proprietario. Tralasciando qui tutta una serie di considerazioni più ampie sulla disciplina delle res furtivae per le quali si rinvia ancora a Frunzio 2017a, passim, e limitandoci ad alcune considerazioni preliminari, va rilevato subito che nel testo non è fatta questione in alcun modo di un precedente possesso; né tale presupposto potremmo considerarlo contenuto implicitamente nell’infinito passivo ‘interpellari’ innanzitutto perché, avendo la funzione di caratterizzare la quaestio difficilmente sarebbe stato taciuto; e in secondo luogo perché il verbo non ha solo il significato di ‘essere interrotto’: nelle fonti esso spesso si trova nel senso di ‘fare richiesta’ (es.: interpellare debitorem) e assai spesso di ‘impedire’ (così, ad es., Iul. 13 dig., D. 17.1.30, cfr. Forcellini, Facciolati, Bailey 1828, 1010). Al contrario, il testo, alla luce di quanto detto, ribadisce, secondo una linea interpretativa propria della giurisprudenza, che il ius usucapionis non è impedito ove il dominus, sebbene (quamvis) in assenza di un recupero per così dire ‘fisico’ della sua res, abbia accettato per essa la litis aestimatio o l’abbia venduta al ladro. Il senso finale è dunque quello di confermare che esistono atti equivalenti alla reversio materiale della res furtiva, giustificati dal rispetto della voluntas domini e chiaramente improntati, come poc’anzi si diceva, all’esigenza di consentire la libera circolazione dei beni.

201

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 202

Marina Frunzio l’interno degli atti di acquisto del possesso422, come ad esempio, ci testimonia Ner. 7 membr., D. 41.3.41423: Si rem subreptam mihi procurator meus adprehendit, quamvis per procuratorem possessionem apisci nos iam fere conveniat, nihilo magis in eam potestatem meam redisse usque capi posse existimandum est, quia contra statui captiosum erit. Se il mio procuratore entra in possesso della cosa a me sottratta, sebbene adesso quasi convenga che attraverso il procuratore si acquisti a noi, nondimeno bisogna ritenere che sia tornata nella mia potestà nel senso che possa essere usucapita, perché sarebbe dannoso sostenere il contrario.

Si tratta di un testo ben noto agli studiosi, inserendosi nell’ampio dibattito circa l’acquisto del possesso per mezzo dei rappresentanti ed utilizzato per dimostrare l’esistenza o l’inesistenza della regola, al tempo di Nerazio424, secondo la quale il possesso sarebbe stato conseguibile anche per extraneam personam. Sospetti di alterazione sono stati visti dal Beseler425 relativamente alla frase finale quia…erit, e numerosi i problemi interpretativi che esso ha generato. Infatti, Nerazio dapprima afferma che sarebbe quasi (fere) pacifico che il dominus possa acquistare il possesso attraverso il procurator; ma, nella seconda proposizione tale acquisto non è ritenuto efficace per integrare la reversio in potestatem della cosa sottratta al proprietario e recuperata dal suo procurator. Non è mancato chi ha rilevato come si possa riconoscere valore positivo all’apodosi, intendendo nihilo magis nel senso di ‘nondimeno’, ovvero valore negativo, traducendo l’espressione ‘tuttavia non’, ‘in nessun modo’: nel primo caso dovremmo leggere “per quanto sia pacifico che attraverso il procurator si acquisti il possesso, nondimeno si deve ritenere che la cosa sia tornata nella mia potestà e possa essere usucapita”. Mentre, cioè, nella protasi l’acquisto del possesso non sarebbe certo, nell’apodosi non si dubiterebbe della realizzazione di una vera e propria reversio in potestà. Nella seconda ipotesi, Nerazio affermerebbe: “per quanto sia pacifico che attraverso il procurator si acquisti il possesso, tuttavia non è da credersi che la cosa sia rientrata nella mia potestà e che possa essere usucapita”. In questo caso, si ar-

422 Un esempio importantissimo dell’attenzione rivolta da Nerazio all’elemento soggettivo in correlazione col delitto di furto è rappresentato da Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6: Si rem hereditariam, ignorans in ea causa esse, subripuisti, furtum te facere respondit. Paulus: rei hereditariae furtum non fit sicut nec eius, quae sine domino est, et nihil mutat existimatio subripientis, da confrontare con Ner. 1 resp., D. 47.2.84pr.: sul punto, cfr. supra: 76 ss. 423 Tuttavia, va rilevata l’interessante collocazione di D. 47.2.85 all’interno del Digesto, che, come altre volte si è notato, viene preceduto da un frammento, D. 47.2.84, tratto dal libro 1 dei responsa neraziani; si tratta di un dato il quale, come già supposto, lascia supporre da parte dei compilatori lo spoglio delle due opere, responsa di Nerazio e commento di Paolo, una di seguito all’altra. 424 Una costituzione di Severo e Antonino ne consacra ufficialmente l’operatività, C. 7.32.1, ma si vedano anche Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1.20; Pap. 2 def., D. 41.2.49.2; D. 41.3.47; Paul. 3 ad Ner., D. 41.2.34.1; PS. 5.2.2. 425 Beseler 1920, 59, seguito da Perozzi 1928, 858 e nt. 2. Contra, Rotondi 1922, 212 nt. 3; Hägerström 1927, 101; Betti 1935, 403; Arnò 1936, 101; Albertario 1939, 310; Serrao 1947, 95; van Oven 1948, 132; Jörs-KunkelWenger 1949, 101 nt. 4; Arangio-Ruiz 1949, 50; Voci 1952, 71 e 165; Meylan 1953, 111; Bretone 1955, spec. 291 ss.; Nicosia 1960a, 190 ss.; Watson 1967, 191; Kaser 1971, 332 nt. 15; Behrends 1971, 193, Frunzio 2017a, 100 ss. con ulteriore bibliografia.

202

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 203

Commento ai testi gomenta, permarrebbe comunque la distonia, ma ne deriverebbe pure un insanabile contrasto di fondo, perché se è vero che attraverso il procurator si acquista il possesso, è altrettanto indubitabile che esso lo si acquista anche nel caso in cui il procurator recuperi la res furtiva426: la negazione della reversio si fonderebbe allora sull’inesistenza all’epoca di Nerazio dell’acquisto del possesso per procuratorem. Tuttavia, il recupero del possesso non è di per sé sufficiente a realizzare la reversio ad dominum: altro, infatti, è il “riacquisto del possesso, altro il verificarsi della reversio ad dominum”427. Come abbiamo già rilevato, la giurisprudenza non richiede necessariamente che la res ritorni materialmente nel patrimonio del proprietario, quanto piuttosto che costui abbia riacquistato la capacità di disporne giuridicamente. Ammettendo pure che il procurator recuperi il possesso al dominus, se però costui non è consapevole (perché ha ignorato del furto, ovvero ha ignorato del recupero successivo del suo bene ovvero di entrambe le circostanze), quel possesso non potrà equivalere ad una valida reversio in potestà. Tutto sommato, potremmo anche concludere nel senso del riconoscimento da parte di Nerazio dell’acquisto del possesso per procuratorem e dunque domino ignoranti428, ma ciò, ed è questo che Nerazio intendeva sostenere, non è sufficiente ad integrare la reversio della res furtiva ai fini dell’usucapibilità. Così concependo, il passo acquista una sua logica all’interno della costruzione della disciplina delle res furtivae e soprattutto una sua coerenza all’interno della riflessione di Nerazio, del tutto in linea con quella successiva operata dal collega Paolo due secoli dopo. Inoltre, il passo, se confrontato con quello da cui siamo partiti, D. 47.2.85, offre lo spunto per ulteriori e interessanti considerazioni. Entrambi infatti sembrano accomunati da una certa analogia nello stile, soprattutto nell’uso dell’avverbio ‘quamvis’ che in D. 47.2.85 caratterizza l’apertura del passo, mentre in D. 41.3.41 si presenta all’interno di un assai rilevante inciso, contenente la regola dell’acquisto per extraneam personam. L’uso dell’avverbio non è affatto estraneo al linguaggio di Nerazio, contraddistinto da uno stile, lo si è rilevato429, contratto ed incisivo, come ci dimostra, ad esempio, anche Paul. 3 ad Ner., D. 24.1.63430. Ciò induce a concludere che, pur nell’indiscussa attribuzione di D. 47.2.85 a Paolo, la riflessione di Nerazio sul punto a cui il Severiano guarda con interesse può aver avuto una sua forza condizionante nell’adozione di un certo stile della prosa del testo. Anche la chiusa del passo nel tratto ‘non …est’

426

Bretone 1955, 291 s. Così, giustamente, Nicosia 1960a, 196 ss. 428 È lo stesso Nerazio a sostenerlo chiaramente in Ner. 6 reg., D. 41.1.13: Si procurator rem mihi emerit ex mandato meo eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, id est proprietas adquiri etiam ignoranti. Et utor pupilli pupillae similiter ut procurator emendo nomine pupilli pupillae proprietatem illis adquirit etiam ignorantibus. Sul testo, ampiamente, Coppola 2008, 214 ss., con bibliografia ed analisi accurata dei problemi esegetici. 429 In particolare si è notato in Nerazio l’uso sovente del quamvis col congiuntivo e quello del quia con l’indicativo da parte di Scarano Ussani 1977, 190. Cfr., inoltre, Melillo 1964, 76. Anche per questa ragione di carattere formale si ritiene di non poter accogliere la proposta di eliminazione della frase ‘quamvis…conveniat’ sostenuta da Bretone 1955, 291 sulla scia di Perozzi 1928, 858 nt. 2. 430 Si tratta di una testimonianza particolarmente significativa circa lo stile neraziano, considerato che la prima parte, senza alcun dubbio, vada ascritta a Nerazio, e da Paulus in poi a Paolo; ed è proprio la prima a brillare non solo per le catene di incisi, ma anche, ancora una volta, per l’utilizzo dell’avverbio quamvis seguito dal congiuntivo presente di esse (sit). Sul passo si veda infra: 207 ss. 427

203

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 204

Paolo Ferretti evoca un dibattito che certamente, per quanto ci è dato di verificare, aveva agitato soprattutto le generazioni di giuristi precedenti a Paolo, quando ancora si discuteva circa le varie ipotesi di reversio diverse da quella materiale, dibattito al quale Nerazio, come attesta pure D. 41.3.41, aveva fornito il suo importante contributo scientifico. In fondo, l’estensione dell’efficacia della reversio operata in D. 47.2.85 si giustifica sulla base di un unico presupposto, sul quale i giuristi insisteranno tutti, da Labeone a Sabino e Cassio, da Giuliano a Paolo e poi sino a Trifonino, la sussistenza della scientia domini431, dunque, di un criterio che può rinvenirsi solo attraverso un’indagine squisitamente psicologica del comportamento del proprietario.

LIBRO III

F. 20 – D. 13.1.19 (L. 1039) Nel testo riconosciamo soltanto la scrittura di Paolo, come sembra provare la citazione iniziale di Giuliano432. Il caso sul quale il giurista interviene rimanda ad un furto433 commesso da una filia familias. Come è noto, il delitto viene sanzionato attraverso una azione penale ed azioni reipersecutorie. Attraverso il primo rimedio – actio furti –, l’offeso conviene l’autore dell’illecito per ottenere una condanna ad una sanzione pecuniaria, la quale riveste funzione punitiva. Se, tuttavia, il furto è stato compiuto da un individuo sottoposto a potestà, ad esempio una figlia come nell’ipotesi in esame, la formula viene data come noxalis contro il pater il quale, qualora soccomba, si trova di fronte all’alternativa tra pagare la pena oppure dare a nossa l’autore del furto, ossia colui che è soggetto alla sua potestas. In concorso cumulativo con l’actio furti vengono poi concessi al derubato altri rimedi, aventi natura reipersecutoria: la condictio ex causa furtiva e la rei vindicatio. Gaio434 scrive che odio furum, ‘affinché con una pluralità di azioni siano meglio tenuti, si è ammesso che, a parte la pena del doppio o del quadruplo, siano tenuti, in rapporto al recupero della cosa, anche

431 Si vedano, ad esempio, D. 41.3.4.7 (Lab.); D. 50.16.215 (Sab. et Cass.); D. 41.4.7.7 (Iul.); D. 41.3.12 (Paul.); D. 47.2.87 (Trif.). 432 Dalla citazione di Giuliano, Ferrini 1894b, 233 nt. 1, trae la sicura conclusione che si tratti di un passo che contiene soltanto la scrittura di Paolo. 433 Più che nota è la definizione paolina di furto, riportata in Paul. 39 ad ed., D. 47.2.1: Furtum est contrectatio rei fraudulosa lucri faciendi gratia vel ipsius rei vel etiam usus eius possessionisve. quod lege naturali prohibitum est admittere. Nella vastissima bibliografia sul furto, ci limitiamo a segnalare: Huvelin 1915; Albanese 1953, 5 ss.; Albanese 1956, 85 ss.; Thomas ( J.A.C.) 1962, 70 ss.; Id. 1968a, 1 ss.; MacCormack 1983, 271 ss.; La Rosa (R.) 1990; Guarino 1994, 184 ss.; Zimmermann 1994, 761 ss.; Pepe 2004; Ferretti 2005; Fargnoli 2006; Pelloso 2008; Fenocchio 2008; Lucrezi 2015; Frunzio 2017a. 434 Gai. 4.4: … plane odio furum, quo magis pluribus actionibus teneantur, receptum est, ut extra poenam dupli aut quadrupli rei recipiendae nomine fures etiam hac actione teneantur: si paret eos dare oportere, quamuis sit etiam aduersus eos haec actio, qua rem nostram esse petimus.

204

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 205

Commento ai testi con l’azione si paret eos dare oportere, sebbene pure contro di loro spetti l’azione con cui affermiamo che la cosa è nostra’. Premesso questo, ritorniamo al testo che sottende un interrogativo, riguardante l’azione da esercitare contro il pater nel caso in cui la filia familias abbia posto in essere una sottrazione: Giuliano435, citato da Paolo436, respondit che l’offeso può esperire contro il padre437 una condictio in peculium. La brevità del passo lascia nell’ombra alcuni particolari della fattispecie, primo tra tutti l’identità del derubato, potendo questo essere individuato tanto nel marito della figlia quanto in un terzo. Diversi indizi, benché non decisivi, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Innanzitutto, l’utilizzo della forma verbale amovere, che sembra rimandare alle sottrazioni compiute ai danni del coniuge438; poi, una considerazione di ordine generale: se il giurista avesse voluto prospettare un caso di furto realizzato da un sottoposto alla potestas paterna, forse non avrebbe optato per una filia, bensì per un filius439. Altro elemento che rimane nel dubbio è l’azione concessa contro il pater, ossia la condictio in peculium. Su tale strumento processuale, infatti, la dottrina è divisa. Alcuni studiosi440 hanno suggerito che, in luogo della condictio, Paolo menzionasse l’actio rerum amotarum441; altri442, al contrario, hanno identificato l’azione con la condictio ex iniusta causa, la quale sarebbe stata accordata de peculio contro l’avente potestà; altri443, infine, hanno pensato alla condictio ex causa furtiva, benché con due varianti, che la vedono concessa in via nossale444 oppure per il solo arricchimento del padre445. Sul punto, appare significativo un passo di Ulpiano che cita Labeone: Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.3.12: Ex furtiva causa filio quidem familias condici posse constat. an vero in patrem vel in dominum de peculio danda est, quaeritur: et est verius, in quantum locupletior dominus

435 Sempre Giuliano è richiamato da Paolo, a proposito dell’actio rerum amotarum, in Paul. 7 ad Sab., D. 25.2.1: Rerum amotarum iudicium singulare introductum est adversus eam quae uxor fuit, quia non placuit cum ea furti agere posse: quibusdam existimantibus ne quidem furtum eam facere, ut Nerva Cassio, quia societas vitae quodammodo dominam eam faceret: aliis, ut Sabino et Proculo, furtum quidem eam facere, sicuti filia patri faciat, sed furti non esse actionem constituto iure, in qua sententia et Iulianus rectissime est: 436 Non verosimile l’opinione di Landucci 1892, 415, che attribuisce il testo a Nerazio. Contra, per tutti, Ferrini 1894b, 233 nt. 1, secondo cui il passo riporta unicamente la scrittura di Paolo, come proverebbe la citazione di Giuliano. 437 Miceli 2001, 246 e nt. 36. Contra, per tutti, Buti 1976, 192 nt. 101 e 201. 438 Sul punto, tuttavia, Zanzucchi 1910, 18, ha messo in luce che il termine amotio si rinviene impiegato dai giuristi anche al di fuori delle sottrazioni compiute ai danni del coniuge. 439 L’argomentazione si legge, ad esempio, in Biondi 1925, 104. Sul punto, tuttavia, Santoro 1971, 347 nt. 51, sottolinea che si tratta di un caso concreto, in quanto la decisione è un responsum. 440 Von Mayr 1900, 194 s.; Riccobono 1917, 556 nt. 4 e 634, secondo cui la condictio non ha mai avuto la natura di un’azione di arricchimento, essendo diretta alla ripetizione della prestazione eseguita o allo scioglimento del vincolo contratto; Levy 1918, 452 s.; Marrone 1957, 571. 441 Tuttavia, alcuni studiosi ritengono l’actio rerum amotarum una sottospecie della condictio ex causa furtiva, come ad esempio Guarino 1964c, 33: secondo l’autorevole studioso l’actio rerum amotarum sarebbe stata anche denominata condictio, come proverebbe Gai. 4 ad ed. prov., D. 25.2.26: Rerum amotarum actio condictio est. 442 Zanzucchi 1910, 18; Wacke 1963, 144 ss. 443 V. note seguenti. 444 Pampaloni 1899, 71 ss. 445 Solazzi 1898-1900, 23; Betti 1915-1916, 1385 s.; Micolier 1932, 694 e nt. 85; Niederländer 1952, 229 ss.; Burdese 1964, 334; Santoro 1971, 351.

205

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 206

Paolo Ferretti factus esset ex furto facto, actionem de peculio dandam: idem Labeo probat, quia iniquissimum est ex furto servi dominum locupletari impune. nam et circa rerum amotarum actionem filiae familias nomine in id quod ad patrem pervenit competit actio de peculio. Risulta che si può esperire l’azione di ripetizione a causa del furto nei confronti del figlio in potestà, mentre si pone la questione se questa azione debba essere data nei limiti del peculio nei confronti del pater o del padrone; ed è più vero che l’azione nei limiti del peculio debba essere data nei confronti del padrone per quanto il padrone si sia arricchito dal furto commesso; lo stesso approva Labeone, poiché è assai iniquo che il padrone possa guadagnare impunemente dal furto del servo. Infatti, anche riguardo all’azione sulle cose sottratte, l’azione nei limiti del peculio spetta contro il padre, in nome della figlia in potestà, per ciò che ad esso è pervenuto.

A parte la responsabilità del filius446 per il furto commesso, dalle parole ulpianee traspare ancora qualche margine di dubbio in relazione alla responsabilità dell’avente potestà, convenuto in via adiettizia con la condictio ex causa furtiva447. Il giurista severiano pensa che la condictio debba essere concessa nei limiti dell’accrescimento del peculio, in quanto il pater in forza del furto locupletior factus esset. Della medesima opinione già Labeone, il quale giudicava iniquissimum che dall’illecito commesso dal sottoposto il dominus potesse impunemente arricchirsi. Lo stesso deve dirsi poi a proposito dell’actio rerum amotarum448, concessa per la sottrazione posta in essere da una filia familias nei confronti del marito: anche in questa ipotesi, all’offeso spetta contro il pater l’azione per ciò che ad esso è pervenuto449. Altri riferimenti450 ad una locupletazione da parte dell’avente potestà si leggono in un testo dello stesso Paolo che cita Proculo: Paul. 7 ad Sab., D. 25.2.3.4: … sed mortua filia in patrem rerum amotarum actionem dari non oportere Proculus ait, nisi quatenus ex ea re pater locupletior sit. Proculo afferma che, morta la figlia, non si deve concedere contro il padre l’azione dei beni sottratti, se non nei limiti di quanto si sia arricchito.

Dunque, dai diversi testi richiamati – che documentano una riflessione giurisprudenziale risalente nel tempo – sembra di capire che il pater, in seguito al furto posto in essere dal sottoposto, sarebbe stato chiamato a rispondere adiettiziamente soltanto sul presupposto di un incremento patrimoniale derivante dal medesimo delitto.

446 Parrebbe di capire che secondo Ulpiano sia possibile agire con la condictio ex furtiva causa nei confronti di un filius che abbia commesso un furto. In questo senso, si legga anche Paul. 9 ad Sab., D. 13.1.5: Ex furtiva causa filio familias condici potest: numquam enim ea condictione alius quam qui fecit tenetur aut heres eius. 447 Oppure con l’actio rerum amotarum. 448 Diversa l’opinione avanzata da Wacke 1963, 128 ss., secondo cui la condictio ex causa furtiva sarebbe stata concessa contro l’avente potestà nei limiti dell’incremento del peculio (D. 15.1.3.12), mentre l’actio rerum amotarum sarebbe stata concessa indipendentemente da siffatto incremento (D. 25.2.3.4 e D. 25.2.5). 449 Cfr. anche Ulp. 41 ad Sab., D. 13.1.4: Si servus vel filius familias furtum commiserit, condicendum est domino id quod ad eum pervenit: in residuum noxae servum dominus dedere potest. 450 Cfr. anche Pap. 11 quaest., D. 25.2.5: Viva quoque filia, quod ad patrem ex rebus amotis pervenit, utili iudicio petendum est. Secondo Papiniano, pur essendo la figlia in vita, si può chiedere con un’azione in via utile quanto, dalle cose sottratte, è pervenuto al pater.

206

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 207

Commento ai testi In questa prospettiva si sarebbe mosso anche Paolo (D. 13.1.19), il quale, richiamando Giuliano, affermava, a proposito del caso in cui la filia fornita di peculio avesse sottratto determinati beni al marito, che il marito medesimo potesse esperire la condictio451 in via adiettizia contro il pater, verosimilmente nei limiti dell’arricchimento conseguito452. F. 21 – D. 24.1.63 (L. 1040) Il testo rientra tra quelli in cui appare il riferimento a Paulus453. Seguendo, pertanto, i criteri che abbiamo individuato al fine della identificazione del giurista e tenendo conto delle osservazioni di ordine contenutistico che svilupperemo in seguito, siamo propensi a intravvedere nel brano sia la scrittura di Nerazio454 – dall’inizio fino a coniunctae essent455 – che di Paolo – da Paulus al termine. Il passo, inserito dai giustinianei nel titolo de donationibus inter virum et uxorem456, documenta con molta verosimiglianza un caso di donazioni tra coniugi457. La regola, secondo cui ne inter virum et uxorem donationes valerent, si afferma negli anni successivi alla lex Cincia de donis et muneribus458, la quale, come è noto, includeva vir et uxor tra le persone exceptae459. Ulpiano460 collega ai mores il divieto, la cui ratio non appare ben chiara agli stessi giuristi: il medesimo461 la individua nella necessità che gli sposi per reciproco amore non si spoglino con eccessiva generosità dei loro beni, mentre Paolo462 richiama il bisogno di non distogliere

451

Betti 1915-1916, 1385 s., parla di una condictio ex causa furtiva utilis. Cfr. autori citati alla nota 444 e alla nota

445. 452 L’assenza del riferimento al limite dell’arricchimento del pater è spiegata da Burdese 1964, 334, attraverso un possibile adattamento compilatorio: la limitazione della responsabilità del pater era forse esistente nell’originale, ma poi sarebbe scomparsa, insieme alla descrizione della fattispecie. In questo senso, già Solazzi 1898-1900, 23. 453 Si tratta dell’unico testo dei libri ad Neratium in cui il termine Paulus è seguito dal verbo notare. 454 Cfr. infra le osservazioni svolte nel testo. In questa prospettiva segnaliamo fin da ora la significativa lettura di Ferrini 1894b, 232. 455 Lenel 1889.I, 783, attribuisce a Nerazio la prima parte del testo, fino a coniunctae essent. 456 D. 24.1: de donationibus inter virum et uxorem. Sulle donazioni tra coniugi, si veda, nella vasta letteratura, Dumont 1928; Lauria 1937, 513 ss.; Aru 1938; Scherillo 1940–1941, 69 ss.; Giuffrè 1972, 1 ss. (dall’estratto); Misera 1974a; Zannini 1978, 365 ss.; Baltrusch 1989, 63 ss.; Manzo 1991, 345 ss.; Vincenti 1997; Id. 1999, 456 ss.; Andrés Santos 2000-2001, 317 ss.; Gade 2001; Stagl 2017, 141 ss.; Buongiorno 2018. 457 Che si tratti di una donazione da parte della moglie al marito si può desumere, con un certo grado di verosimiglianza, sia dal fatto che il testo è stato inserito dai giustinianei nel luogo dedicato alle donationes inter virum et uxorem (D. 24.1), sia dal fatto che nel prosieguo del passo si comprende che l’unione del materiale all’edificio è stata posta in essere con il consenso della donna. In questo senso, si veda, per tutti, Dumont 1928, 67; Scarano Ussani 1979, 67 s. 458 Sulla legge Cincia si è formata un’ampia letteratura. Si veda, tra gli altri, Ascoli 1893, 173 ss.; Garofalo 1903, 310 ss.; Appleton 1931, 423 ss.; Dénoyez 1951, 146 ss.; Casavola 1960; Melillo 1962, 62 ss.; Stein 1985, 145 ss.; González 1987, 161 ss.; Ferretti 2000, 9 ss. 459 Paul. 71 ad ed., ad Cinciam, Vat. 302: Excipiuntur et adfinium personae ut privignus privigna, noverca vitricus, socer socrus, gener nurus, vir et uxor, sponsus sponsa. 460 Ulp. 32 ad Sab., D. 24.1.1: Moribus apud nos receptum est, ne inter virum et uxorem donationes valerent. hoc autem receptum est, ne mutuo amore invicem spoliarentur donationibus non temperantes, sed profusa erga se facilitate. 461 V. nota precedente. 462 Paul. 7 ad Sab., D. 24.1.2: ne cesset eis studium liberos potius educendi. Sextus Caecilius et illam causam adiciebat, quia saepe futurum esset, ut discuterentur matrimonia, si non donaret is qui posset, atque ea ratione eventurum, ut venalicia essent matrimonia.

207

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 208

Paolo Ferretti i coniugi dall’educazione dei figli o, come suggerito da Sesto Cecilio, di preservare il vincolo nuziale da rotture imputabili a cause venali463. La regola implica la nullità dell’atto compiuto in violazione del divieto. L’invalidità è poi temperata in parte da un senatoconsulto emanato sotto Settimio Severo e Antonino Caracalla464 – senatoconsulto che prevede la conferma della donazione nel caso in cui il coniuge donante non l’abbia revocata in vita – e da alcune eccezioni, come per esempio quella che, per ammissione di Giustiniano, rende valida la donatio propter nutpias465, liberalità maschile data in contraccambio della dote anche dopo la conclusione delle nozze. Premesso questo, veniamo a D. 24.1.63, passo che può essere scomposto in due parti, delle quali la prima – fino a coniunctae essent – sarebbe ascrivibile a Nerazio466: un marito ha unito al proprio edificio del materiale donatogli dalla moglie, materiale che potrebbe rivelarsi di qualche utilità una volta separato dalla struttura principale. Trattandosi di donazione tra coniugi, l’atto di trasferimento è, come abbiamo appena detto, nullo, con la conseguenza che proprietaria delle cose congiunte alla costruzione del consorte continua ad essere l’uxor467. Da qui l’interrogativo su cui l’intero testo si regge: quale rimedio processuale la donna può esperire nei confronti del marito in relazione a quod in aedificium viri ita coniunctum est? Sul punto, sembrano delinearsi due diverse opinioni. La prima, forse attribuibile a Nerazio468, suggerisce, sul presupposto dell’assenza di azioni, di agire per ragioni di opportunità ex lege duodecim tabularum, ossia con l’actio de tigno iuncto. La legge delle XII tavole, infatti, conteneva una disposizione che da un lato vietava la separazione della trave furtiva unita alla struttura altrui469 – norma cui un’interpretazione successiva diede una portata ben maggiore, estendendola ad ogni materiale470 –, ma dall’altro permetteva al proprietario della

463 Forse, una motivazione più appagante può essere rinvenuta nella diffusione dei matrimoni sine manu e nel conseguente tentativo di conservare gli equilibri economici tra i gruppi famigliari romani. 464 Ulp. 33 ad Sab., D. 24.1.32. 465 Cfr. Inst. 2.7.3; C. 5.3.20.2-4. Sulla donatio ante nuptias vel propter nuptias, si veda, tra gli altri, Mitteis 1891, 286 ss.; Brandileone 1892; Vismara 1935; Anné 1941; Luchetti 1989-1990, 332 nt. 9; Lozano Corbì 1995, 221 ss.; Luchetti 1996, 176 nt. 70; Ferretti 2000, 129 ss.; Id. 2020, 655 ss. 466 Si tratta della prima parte del passo, fino a coniunctae essent. Cfr. Lenel 1889.I, 783, che inserisce il testo nei loci incerti di Nerazio; Ferrini 1894b, 232, il quale pensa ai libri responsorum del giurista traianeo; Schulz 1968, 392, il quale è incerto se il commento paolino riguardasse una o più opere di Nerazio; rinviano invece ai libri regularum di Nerazio, Grelle 1972, 110 e 163; Scarano Ussani 1979, 67 s.; Buongiorno 2018, 116. 467 Si sarebbe trattato, come è noto, di un diritto di proprietà quiescente fino al momento della demolizione dell’edificio. 468 In questo senso, si veda, tra gli altri, Melillo 1962, 73 ss.; Grelle 1972, 110 e 163; Scarano Ussani 1979, 68, che giudica l’ipotesi non inattendibile; Musumeci 1988, 93 ss., il quale muta l’inciso quia-est in quia nulla a[c]tio est; Buongiorno 2018, 116. Contra, Quadrato 1967, 44 ss., il quale, invertendo il quia e il quamvis, ritiene che Nerazio, sulla base della nullità della donazione, fosse favorevole alla concessione di un’actio alla uxor, ma non precisasse il rimedio ed escludesse l’actio de tigno iuncto. 469 In questo modo, la legge impediva al proprietario dei materiali, uniti all’edificio altrui, di rivendicarli. Il proprietario medesimo avrebbe dovuto attendere la demolizione dell’edificio e, solo in quel momento, avrebbe potuto agire. In argomento, si veda, ad esempio, Cursi 2018. 470 La ratio sarebbe consistita nella necessità di impedire, sotto il pretesto dell’alienità del materiale, la demolizione degli edifici. Si legga, infatti, Ulp. 37 ad ed., D. 47.3.1pr.: Lex duodecim tabularum neque solvere permittit tignum furtivum aedibus vel vineis iunctum neque vindicare (quod providenter lex effecit, ne vel aedificia sub hoc praetextu diruantur vel vinearum cultura turbetur): sed in eum, qui convictus est iunxisse, in duplum dat actionem.

208

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 209

Commento ai testi medesima di esperire l’actio de tigno iuncto, azione penale per il doppio del valore delle cose adoperate. Il rimedio, come è stato messo in luce471, avrebbe avuto l’innegabile merito di riuscire a raggiungere un buon contemperamento tra le opposte ragioni: avrebbe tutelato l’interesse del vir, vietando lo scioglimento, e al contempo avrebbe favorito l’uxor, concedendole un’actio in duplum. Sennonché, la legge delle XII tavole richiedeva che le cose aggiunte all’edificio altrui fossero furtive. Proprio quest’ultimo requisito fa difetto nel passo in esame, nel quale quod coniunctum est è stato donato dalla moglie al marito. Si sarebbe pertanto trattato di un agire improprio472, come del resto si legge in D. 24.1.63, visto che i decemviri non intendevano certo tutelare i proprietari che avessero acconsentito all’inserimento degli oggetti propri, bensì i proprietari a cui fossero stati sottratti gli oggetti medesimi, per poi essere uniti alla costruzione altrui. Sulla base di questa considerazione, Paolo si oppone all’indirizzo ora descritto, negando con decisione la possibilità di esperire l’actio in duplum: il fatto che il materiale sia stato unito sciente domino473 ostacola il perfezionarsi del furto e, con esso, la fattispecie prevista dalla legge decemvirale. Dunque, l’unica azione a disposizione della moglie rimane, secondo Paolo, la rei vindicatio, esperibile una volta verificatasi la separazione delle cose. Accanto alla lettura ora esposta, lettura che vede Nerazio e Paolo su posizioni diverse, occorre dare conto anche di un diverso indirizzo interpretativo474, che non scorge contrasti tra il pensiero dei due giuristi. Secondo questa opinione, entrambi si limiterebbero ad escludere azioni ex lege duodecim tabularum, sulla considerazione, condivisa, che non si possa considerare furtivo ciò che viene unito all’edificio altrui con la consapevolezza del proprietario. A tale conclusione è forse possibile giungere anche senza immaginare particolari modifiche del passo, come alcuni hanno suggerito475. Infatti, non è escluso che Nerazio, nella prima parte476, si limitasse a riassumere il caso e a riportare l’opinione che permetteva alla moglie di agire ex lege duodecim tabularum, salvo subito dopo intervenire per criticarla, argomentando dalla difficoltà di estendere la norma anche a coloro quorum voluntate res eorum in alienum aedificium coniunctae essent. Quindi, Paolo avrebbe ‘annotato’ l’unico rimedio processuale accordato alla moglie – sola vindicatio –, le condizioni per il suo esercizio – soluta re – e, infine, avrebbe ribadito l’assenza della furtività dei materiali quale elemento impeditivo dell’agire in duplum ex lege duodecim tabularum477.

471

Melillo 1962, 82. Secondo Buongiorno 2018, 117, Nerazio avrebbe astratto dalla legislazione decemvirale un principio e lo avrebbe adattato alle esigenze connesse al divieto di donazioni tra coniugi. 473 Su questo requisito è utile la lettura di Gai. 3.198. 474 Cfr., per tutti, Ferrini 1894b, 232, secondo cui Paolo sarebbe intervenuto soltanto per chiarire i limiti in cui occorreva intendere il responso di Nerazio il quale, pronunciandosi su un caso concreto, non li aveva precisati; Siber 1928, 59 nt. 12. 475 Siber 1928, 59 nt. 12, ricostruisce la prima parte del testo nel seguente modo: De eo, quod uxoris in aedificium viri coniunctum est, nulla actio est ex lege duodecim tabularum… Per una critica a questa opinione, si veda, per tutti, Melillo 1962, 66 ss. 476 Fino a Paulus notat. 477 Come detto supra, secondo Ferrini 1894b, 232, Paolo si sarebbe limitato a precisare una opinione di Nerazio. 472

209

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 210

Paolo Ferretti F. 22 – D. 28.2.27 (L. 1041) Nel passo riconosciamo soltanto la mano di Paolo. Il giurista tratta dell’istituzione d’erede di un figlio postumo. Sul tema è opportuno premettere alcune considerazioni generali sulla capacità di succedere di un individuo non ancora nato. Per quanto concerne la successione legittima, è noto che già la legge delle XII tavole478 contemplava il concepito fissando in dieci mesi479 la durata della vita intrauterina e, non è da escludere, inserendolo tra i sui heredes480. Si legga ad esempio481: Gai. 3.1-2.4482: Intestatorum hereditates lege XII tabularum primum ad suos heredes pertinent. 2 Sui autem heredes existimantur liberi qui in potestate morientis fuerunt, veluti filius filiave, nepos neptisve , pronepos proneptisve ex nepote filio nato prognatus prognatave… 4 Postumi quoque, si vivo parente nati essent, in potestate eius futuri forent, sui heredes sunt. Le eredità di coloro che muoiono senza aver fatto testamento spettano in primo luogo, per la legge delle XII Tavole, agli eredi propri. Si considerano eredi propri i discendenti che sono stati in potestà del morente, come il figlio o la figlia, il nipote o la nipote nati dal figlio, il pronipote o la pronipote figli del nipote nato dal figlio… Anche i postumi, che se fossero nati in vita dell’ascendente sarebbero stati in sua potestà, sono eredi propri.

Sempre in argomento, Giuliano menziona anche il nipote, ricordando che, per poter succedere secondo l’antica legge, occorre ‘esistere’ al momento della morte dell’ereditando, ossia essere quantomeno concepiti483:

478 Cfr., ad esempio, Gai. 3.1-4; Ulp. 14 ad Sab., D. 38.16.3.9; Iul. 59 dig., D. 38.16.6. Interessante si rivela la lettura di Gell. noct. Att. 3.16.12, in cui Gellio, a proposito di una donna che partorì nell’undicesimo mese dalla morte del marito, riferisce di una discussione in merito al conteggio del tempo. Con ogni verosimiglianza, alcuni sostenevano che il concepimento fosse avvenuto dopo la morte del coniuge e che il figlio, pertanto, fosse da considerarsi illegittimo; altri, all’opposto, asserivano che il concepimento fosse avvenuto prima della morte del marito e che il figlio, di conseguenza, fosse legittimo. Tra le due possibili alternative, sembra che si propendesse per la prima, la quale trovava un valido sostegno nella legge delle XII Tavole, secondo cui in decem mensibus gigni hominem, non in undecimo. Sul testo e sulle diverse problematiche che si originano, si veda, tra gli altri, Nörr 1974a, 242 ss.; Guarino 1982, 291 ss.; Nardi 1988-1989, 723 ss.; Scarano Ussani 1989, 114; Diliberto 1992, 205. 479 Alcuni riferimenti si colgono anche nelle leggi regie: si legga Ovid. fast. 1.27-28.33-36; Plut. Numa 12.2. 480 Sul punto, la maggior parte degli studiosi ritiene che il diritto del concepito all’eredità legittima del pater si debba attribuire all’opera di interpretazione della giurisprudenza, limitandosi l’antica legge a confermare la figura del postumo delineata dalle leggi regie. Cfr., ad esempio, Voci 1967, 402; Lamberti 1996, 55 ss., 73 ss.; Astolfi 1999, 153. Sulla problematica, si veda anche Thomas (Y.) 1986, 223 ss.; Id. 1990, 137. 481 Si legga anche Ulp. 14 ad Sab., D. 38.16.3.9: Utique et ex lege duodecim tabularum ad legitimam hereditatem is qui in utero fuit admittitur, si fuerit editus. inde solet remorari insequentes sibi adgnatos, quibus praefertur, si fuerit editus: inde et partem facit his qui pari gradu sunt, ut puta frater unus est et uterus, vel patrui filius unus natus et qui in utero est. Sulle problematiche del passo, si veda, tra gli altri, Latorre Ségura 1955, 199 s.; Torrent 1969, 205 s.; Péter 1991, 304 e nt. 27; Astolfi 2001, 78. 482 È noto che le affermazioni di Gaio non sono documentate dal manoscritto veronese e sono state ricostruite sulla base di Coll. 16.2 e Inst. 3.1. Cfr., per tutti, Huschke 1879, 284; Kniep 1914, 1 ss.; De Zulueta 1953, 120 ss.; Nelson, Manthe 1992, 51 ss. 483 In questa prospettiva, si legga anche Ulp. 12 ad Sab., D. 38.16.1.8: … nam dicendum erit suos posse succedere, si modo mortis testatoris tempore vel in rebus humanis vel saltem concepti fuerint: idque et Iuliano et Marcello placet.

210

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 211

Commento ai testi Iul. 59 dig., D. 38.16.6: Titius exheredato filio extraneum heredem sub condicione instituit: quaesitum est, si post mortem patris pendente condicione filius uxorem duxisset et filium procreasset et decessisset, deinde condicio instituti heredis defecisset, an ad hunc postumum nepotem legitima hereditas avi pertineret. respondit: qui post mortem avi sui concipitur, is neque legitimam hereditatem eius tamquam suus heres neque bonorum possessionem tamquam cognatus accipere potest, quia lex duodecim tabularum eum vocat ad hereditatem, qui moriente eo, de cuius bonis quaeritur, in rerum natura fuerit, Tizio, dopo aver diseredato il figlio, ha istituito un erede estraneo sotto condizione: si domanda, se dopo la morte del padre e pendente la condizione il figlio ha sposato una donna e ha procreato un figlio ed è deceduto, poi la condizione dell’erede istituito è venuta meno, se la legittima eredità dell’avo possa spettare a questo nipote postumo. Risponde: colui il quale è stato concepito dopo la morte del suo avo, né la legittima eredità come erede proprio né il possesso dei beni come cognato può ricevere, poiché la legge delle XII tavole chiama all’eredità colui che esisteva al momento della morte di quello della cui eredità si discute.

Giuliano è consultato in merito al diritto del nipote postumo alla successione legittima dell’avo484. La risposta del giurista non ammette incertezze: colui il quale è concepito dopo la morte dell’avo non può ricevere la legitima hereditas, ‘poiché la legge delle XII Tavole chiama all’eredità soltanto colui il quale, al momento della morte dell’ereditando, è in rerum natura’485. Dalla circostanza che la legge decemvirale venga citata per escludere dalla successione legittima il nipote non ancora concepito al momento della morte dell’ereditando, si può implicitamente ricavare che la medesima legge chiamava ad hereditatem il nipote già concepito al momento della morte dell’ereditando medesimo486. Detto della successione legittima, passiamo a quella testamentaria, considerando D. 28.2.27. Paolo – non ci sembra di intravvedere elementi che consentano di attribuire il testo a Nerazio487 – riferisce che è valida l’istituzione d’erede di un figlio postumo, nato ex qualibet vidua. L’aggettivo indefinito quaelibet fa intuire che l’istituzione d’erede del figlio non è subordinata al fatto che, al momento della confezione del testamento488, il de cuius sia sposato né che il figlio sia concepito. Sul punto, molto chiaro si rivela un testo ulpianeo: Ulp. 3 ad Sab., D. 28.2.4: Placet omnem masculum posse postumum heredem scribere, sive iam maritus sit sive nondum uxorem duxerit: nam et maritus repudiare uxorem potest et qui non duxit uxorem, postea maritus

484 Il caso è il seguente: Tizio, dopo aver diseredato l’unico figlio, ha istituito un erede estraneo sotto condizione. Morto il padre e pendente ancora la condizione, il figlio diseredato si è sposato, ha avuto a sua volta un figlio e quindi è deceduto. In seguito, la condizione, cui era stata sottoposta l’istituzione d’erede, non si verifica, determinando così la caduta del testamento. A Giuliano è chiesto di pronunciarsi sul diritto del nipote postumo all’eredità legittima dell’avo. 485 Sull’espressione in rerum natura esse e in rerum natura non esse, si veda, per tutti e con altra letteratura, Ferretti 2008, 70 ss. 486 Un accenno all’eredità legittima si legge anche nel noto Iul. 69 dig., D. 1.5.26: Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse. nam et legitimae hereditates his restituuntur… 487 Cfr., per tutti, Landucci 1892, 415. 488 Rispetto al limite temporale rappresentato dalla perfezione del testamento, non vi era alcun divieto di istituire colui il quale fosse nato soltanto dopo. Il concepimento, invece, valeva come limite estremo, da cui derivava l’impossibilità di istituire colui il quale non fosse stato ancora concepito al momento del decesso del testatore (cfr. ad esempio Paul. 41 ad ed., D. 37.11.3).

211

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 212

Paolo Ferretti effici. nam et cum maritus postumum heredem scribit, non utique is solus postumus scriptus videtur, qui ex ea quam habet uxorem ei natus est, vel is qui tunc in utero est, verum is quoque, qui ex quacumque uxore nascatur. Pare bene che ogni maschio, tanto che già sia marito quanto che non abbia ancora preso moglie, possa istituire erede un postumo: infatti, il marito può ripudiare la moglie e chi non ha preso moglie può poi diventare marito. Infatti, anche quando un marito istituisce erede il postumo, non si considera affatto istituito soltanto il postumo nato da colei che ha come moglie, oppure il postumo che in quel momento è nell’utero, ma anche il postumo nato da qualsiasi moglie.

Ulpiano informa che ad ogni uomo è consentito scrivere tra i propri eredi un postumo, tanto nel caso in cui abbia già contratto matrimonio quanto nel caso in cui non lo abbia ancora fatto; come il primo, infatti, può ripudiare la moglie, così il secondo può sposarsi. Ne consegue che, nominato un figlio postumo quale erede, questo possa individuarsi non solo in colui che nasca dalla attuale moglie del testatore o che si trovi nell’utero di costei, ma anche in colui che nasca da una eventuale e successiva consorte. Nell’ultimo secolo della repubblica viene poi riconosciuta la possibilità di istituire erede anche il nipote da figlio premorto, già concepito ma non ancora nato al momento della morte dell’avo testatore. Al riguardo, Scevola riferisce la formula d’istituzione d’erede proposta da Aquilio Gallo489, formula alla quale secondo alcuni studiosi490 sarebbe da attribuire il merito di aver introdotto la possibilità di istituire eredi i nipoti postumi, mentre secondo altri491 il merito di aver eliminato ogni possibilità di controversia: Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29pr.-1: Gallus sic posse institui postumos nepotes induxit: ‘si filius meus vivo me morietur, tunc si quis mihi ex eo nepos sive quae neptis post mortem meam in decem mensibus proximis, quibus filius meus moreretur, natus nata erit, heredes sunto’. 1 Quidam recte admittendum credunt, etiamsi non exprimat de morte filii, sed simpliciter instituat, ut eo casu valeat, qui ex verbis concipi possit. Aquilio Gallo stabilì che i nipoti postumi possano essere istituiti così: ‘Se mio figlio morirà quando io sono ancora vivo, e se, dopo la mia morte, nei dieci mesi successivi a quelli in cui sia morto mio figlio, da lui sarà nato a me un nipote o una nipote, costoro siano eredi’. Alcuni giuristi correttamente credono che si debba ammettere che, benché il testatore non si sia espresso sulla morte del figlio ma semplicemente istituisca eredi i nipoti, l’istituzione sia valida nel caso in cui la sua volontà possa essere dedotta dalle parole.

La formula attribuita ad Aquilio Gallo è la seguente: ‘se mio figlio, vivo io, muoia, allora se qualche nipote a me da lui o qualche nipote femmina dopo la mia morte nei dieci mesi successivi alla morte di mio figlio, sarà nato o nata, siano eredi’492.

489 Si legga anche Afric. 2 quaest., D. 28.6.33.1: Si filius et ex eo nepos postumus ita heredes instituantur, ut Gallo Aquilio placuit… 490 Cfr., tra gli altri, Karlowa 1901, 863; Robbe 1937, 197; Sachers 1953, 967; Voci 1967, 404; Finazzi 1991-1992, 118. 491 Cfr., per tutti, Lamberti 1996, 153 ss., secondo cui Aquilio Gallo non avrebbe introdotto la possibilità di istituire eredi i nipoti postumi, ma avrebbe elaborato una nuova possibilità di institutio/exheredatio, prevedendo una formulazione esaustiva, in grado di eliminare ogni perplessità. 492 In argomento, si legga anche Gai. 2.130-131: Postumi quoque liberi vel heredes institui debent vel exheredari. 131 Et in eo par omnium condicio est, quod in filio postumo et in quolibet ex ceteris liberis sive feminini sexus sive masculini

212

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 213

Commento ai testi Questo il regime del postumus suus. Per quanto concerne, invece, il postumus alienus493, sappiamo che egli non può essere istituito erede494 né essere onorato di un legato e, a partire da un senatoconsulto approvato su iniziativa di Adriano, nemmeno destinatario di un fedecommesso495. Tuttavia, il postumo alieno viene soccorso dal pretore496, che gli concede il possesso dei beni ereditari497. F. 23 – D. 33.1.16 (L. 1042) Nonostante il testo non contenga il termine Paulus, che potrebbe suggerire la paternità neraziana per la sezione antecedente, siamo propensi ad individuare non solo la scrittura di Paolo, ma anche quella di Nerazio. Come meglio si cercherà di dimostrare nel prosieguo del commento, infatti, il brano appare suscettibile di essere suddiviso in due parti, di cui la seconda si pone quale parziale correzione della prima. La mano di Nerazio si scorgerebbe dall’inizio fino a legatum debebitur, mentre la mano di Paolo sarebbe ravvisabile nel breve periodo conclusivo. È noto che il dominus possa manomettere il proprio servo attraverso il testamento498. Altrettanto noto è che il dominus possa apporre alla disposizione testamentaria una condizione sospensiva499, al cui verificarsi il servo, nel frattempo definito statuliber, acquista la libertà:

praeterito valet quidem testamentum, sed postea agnatione postumi sive postumae rumpitur, et ea ratione totum infirmatur. Ideoque si mulier, ex qua postumus aut postuma sperabatur, abortum fecerit, nihil impedimento est scriptis heredibus ad hereditatem adeundam. Sui problemi di ricostruzione del testo, rimandiamo, per tutti e con altra bibliografia, a Lamberti 2001, 93 ss. 493 È noto che l’agnato postumo viene detto postumus legitimus o, per contrapposizione al postumus suus, anche postumus alienus o extraneus. Cfr., ad esempio, Gai. 1.147; Gai. 2.241. 494 Gai. 2.242: Ac ne heres quidem potest institui postumus alienus; est enim incerta persona. Il postumo alieno non può essere istituito erede, in quanto è una persona incerta. È tuttora discusso se i postumi altrui si annoverassero tra le incertae personae. Voci 1967, 415 e nt. 61, propende per una soluzione negativa, argomentando dal fatto che il maggior numero di testimonianze documenta il postumo altrui accanto alla incerta persona (Gai. 2.241; Gai. 2.287; Inst. 2.20.26; Inst. 2.20.28) e che soltanto in un caso il postumo altrui è incluso in tale ambito (Gai. 2.242, in cui le parole est enim incerta persona sono ritenute un glossema). 495 Gai. 2.287: Item olim incertae personae vel postumo alieno per fideicommissum relinqui poterat, quamvis neque heres institui neque legari ei posset. sed senatusconsulto, quod auctore divo Hadriano factum est, idem in fideicommissis, quod in legatis hereditatibusque constitutum est. 496 Oltre al passo riportato nel testo, cfr. anche Gai. 1.147; Gai. 2.242; Gai. 2.287; Inst. 2.20.26-27; Inst. 3.9pr.; Ulp. 41 ad ed., D. 37.9.6; Paul. 7 quaest., D. 37.9.10; Paul. 41 ad ed., D. 37.11.3. In argomento, si veda, tra gli altri, Impallomeni 1967, 167; D’Ors (X.) 1977, 118 e 122 s.; Ferretti 2008, 126 ss. Sul punto, Biondi 1943, 116, prospetta che l’editto fosse costruito in termini generali, senza alcuna distinzione tra postumus suus e postumus alienus. 497 Dell’intervento giustinianeo è data notizia in Inst. 3.9pr.: Ius bonorum possessionis introductum est a praetore emendandi veteris iuris gratia nec solum in intestatorum hereditatibus vetus ius eo modo praetor emendavit, sicut supra dictum est, sed in eorum quoque, qui testamento facto decesserint. nam si alienus postumus heres fuerit institutus, quamvis hereditatem iure civili adire non poterat, cum institutio non valebat, honorario tamen iure bonorum possessor efficiebatur, videlicet cum a praetore adiuvabatur: sed et hic a nostra constitutione hodie recte heres instituitur, quasi et iure civili non incognitus. Sui riferimenti contenuti a C. 6.48.1, si veda, tra gli altri, de Robertis 1971, 625 ss. (con altra bibliografia alla nota 1); Luchetti 1996, 301 ss.; Desanti 2003, 310 ss. 498 Si legga, ad esempio, Gai. 2.267: At qui directo testamento liber esse iubetur, velut hoc modo: Stichus servus meus liber esto, vel hoc: Stichum servum meum liberum esse iubeo, is ipsius testatoris fit libertus. nec alius ullus directo ex testamento libertatem habere potest, quam qui utroque tempore testatoris ex iure Quiritium fuerit, et quo faceret testamentum et quo moreretur. Sulla manumissio testamento, si veda, tra gli altri, Impallomeni 1963, 20 ss.; Voci 1967, 73 ss.; Robleda 1976, 121 ss. 499 Cfr., per tutti e con altra bibliografia, Donatuti 1940; Bretone 1971a, 380 ss.; Starace 2006; Milazzo 2014, 1 ss.

213

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 214

Paolo Ferretti Fest., s.v. ‘statu liber’ (L. 414): Statu liber est, qui testamento certa condicione proposita iubetur esse liber500. È statulibero quello di cui è stato disposto nel testamento sotto una certa condizione che sia libero. Gai. 2.200: Illud quaeritur, quod sub condicione per vindicationem legatum est, pendente condicione cuius sit: nostri praeceptores heredis esse putant exemplo statuliberi, id est eius servi, qui testamento sub aliqua condicione liber esse iussus est, quem constat interea heredis servum esse… Si chiede a chi appartenga, durante la pendenza della condizione, ciò che è stato legato per rivendicazione sotto condizione. I nostri maestri ritengono che sia dell’erede, sull’esempio dello statulibero, ossia del servo a cui è data nel testamento la libertà sotto condizione e di cui è risaputo che nel frattempo è servo dell’erede… Tit. Ulp. 2.1: Qui sub condicione testamento liber esse iussus est, statu liber appellatur. È definito statulibero il servo di cui è stata ordinata la liberazione nel testamento, subordinata ad una condizione.

Anche Paolo ci fornisce una definizione, nella quale affianca alla menzione della condizione un riferimento al termine iniziale501: Paul. 5 ad Sab., D. 40.7.1pr.: Statuliber est, qui statutam et destinatam in tempus502 vel condicionem libertatem habet. È statulibero colui al quale la libertà è concessa, ma al contempo subordinata ad un termine o ad una condizione.

Proprio ad un caso di manomissione testamentaria sottoposta a termine iniziale accenna D. 33.1.16. Nel testo, infatti, si legge che il testatore ha disposto per un servo la libertà dopo un periodo di dieci anni. Inoltre, sempre il de cuius ha previsto, a partire dal giorno della sua morte, un legato periodico a favore del medesimo sottoposto. Il problema, affrontato e risolto nella seconda parte del passo, consiste nel fatto che, dopo la morte dell’ereditando, il servo non sia divenuto libero con l’acquisto dell’eredità da parte dell’erede, bensì soltanto dopo una certa frazione di tempo. Da qui l’interrogativo riguardante il momento dal quale l’erede sia tenuto ad ottemperare l’obbligo: fin dalla morte del testatore oppure soltanto dall’acquisto della libertà da parte del servo? Nel testo sembrano avanzate due risposte: innanzitutto si legge che l’erede è tenuto per gli anni nei quali il servo è libero. Tuttavia, di seguito, si aggiunge che l’erede medesimo deve

500 Nel testo si rinvengono tutti gli elementi che consentono di addivenire alla definizione di statuliber: il servo viene manomesso nel testamento, ma la liberazione è sottoposta ad una condizione sospensiva. 501 Il fatto che Paolo menzioni anche un termine iniziale, ha condotto parte della dottrina a ritenere il passo interpolato. Cfr., tra gli altri, Guarneri Citati 1926, 491 ss.; Perozzi 1928, 540 nt. 3; Schulz 1928, 234 ss.; Kupiszewski 1979, 227 ss.; Metro 1961, 191 ss. Sulla problematica, si veda, da ultimo e con altra bibliografia, Milazzo 2014, 1 ss. 502 Sull’uso di tempus per indicare il termine, si veda, per tutti, Musumeci 1992, 183 nt. 20.

214

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 215

Commento ai testi prestare gli alimenti al servo nel periodo intercorrente tra la morte del dominus e l’acquisto della libertà503. Per comprendere se in questo testo possa intravvedersi, e in che misura, la scrittura di Nerazio, si rivela utile richiamare un passo di Marciano, passo che autorevoli studiosi504 hanno messo in collegamento con D. 33.1.16: Marcian. 7 inst., D. 30.113.1: Si quis post tempus libertatis servo suo dederit et interea rogaverit heredem, donec ad libertatem perveniat, cibaria ei dare, testatoris voluntati obtemperandum esse divi Severus et Antoninus rescripserunt505. Se uno abbia disposto nel testamento che il servo acquisisse la libertà dopo un periodo di tempo e abbia richiesto all’erede di fornirgli nel frattempo il vitto, finché non sarà pervenuto alla libertà, i divini Settimio Severo ed Antonino Caracalla stabilirono per rescritto che è necessario ottemperare alla volontà del testatore.

Si tratta, anche in questo caso, di una manomissione testamentaria sottoposta a termine iniziale: il testatore dispone che il servo acquisti la libertà soltanto dopo una determinata frazione di tempo e, per il periodo precedente, prega l’erede di prestargli cibaria. Dal prosieguo del passo sembra di capire che, a fronte del rifiuto dell’erede di fornire gli alimenti al servo, Settimio Severo ed Antonino Caracalla impongono all’erede medesimo di ottemperare alla volontà dell’ereditando. La notizia di questo rescritto ha fatto supporre506 che la regola, secondo cui gli alimenti sono dovuti al servo anche per il periodo di tempo anteriore alla sua liberazione, debba farsi risalire a qualche statuizione imperiale di età severiana. Se così fosse, non è da escludere la possibilità507 di suddividere il testo in due parti e di attribuire la prima a Nerazio: D. 33.1.16: Servus post decem annos liber esse iussus est legatumque ei ex die mortis domini in annos singulos relictum est. eorum quidem annorum, quibus iam liber erit, legatum debebitur… Ad un servo è stata concessa la libertà dopo dieci anni e gli è stato lasciato un legato annuo a

503 Una questione analoga si può leggere in Scaev. 19 dig., D. 34.1.17: Servos ad custodiam templi reliquerat et his ab herede legaverat his verbis: ‘peto fideique tuae committo, ut des praestes in memoriam meam pedisequis meis, quos ad curam templi reliqui, singulis menstrua cibaria et annua vestiaria certa’. Quaesitum est, cum templum nondum esset extructum, ex die mortis an vero ex eo tempore, quo templum explicitum fuerit, percipere servi debeant legatum. respondit officio iudicis heredem compellendum servis relicta praestare, donec templum exstrueretur. Scevola informa di un lascito alimentare ad alcuni servi, i quali avrebbero dovuto provvedere alla cura del tempio funerario costruito in memoria del testatore. Sennonché, alla morte dell’ereditando, il tempio non è ancora ultimato. Ci si domanda – verosimilmente a causa del fatto che l’erede si rifiuta di ottemperare –, se l’erede medesimo sia tenuto già dal giorno del decesso del testatore oppure soltanto dal momento in cui è terminata la costruzione del tempio. Scevola accenna all’officium iudicis, il quale avrebbe costretto l’erede a somministrare ai servi ciò che ad essi è stato lasciato fintanto che il tempio non fosse stato innalzato. Sul testo, si veda per tutti Donatuti 1934, 227; 1940, 162. 504 Cfr., per tutti, Voci 1967, 309 nt. 219. 505 In argomento, si legga anche Pap. 9 resp., D. 34.1.10.1: Verbis fideicommissi pure manumisso praeteriti quoque temporis alimenta reddenda sunt, quamvis tardius libertatem reciperaverit nec heres moram libertati fecerit: tunc enim explorari moram oportet, cum de usuris fideicommissi quaeritur, non de ipsis fideicommissis. 506 Voci 1967, 309 nt. 219.

215

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 216

Paolo Ferretti partire dal giorno della morte del padrone. Invero, il legato sarà dovuto per gli anni, nei quali il servo è già divenuto libero…

E la seconda a Paolo: D. 33.1.16: … interim autem heres ei alimenta praestare compellitur508. … ma nel frattempo l’erede sarà tenuto a prestare gli alimenti.

Ricapitolando, Nerazio espone il caso – un testatore ha disposto per un servo la libertà dopo un periodo di dieci anni e ha previsto, a partire dal giorno della sua morte, un legato periodico a favore del medesimo sottoposto – e lo risolve con una frase concisa e chiara: il legato è valido limitatamente alla frazione di tempo successiva alla acquisita libertà da parte del servo. A questo punto interviene Paolo per adeguare la soluzione ad una regola verosimilmente elaborata in un periodo successivo a Nerazio, regola secondo cui l’erede, prima della liberazione del servo, ha l’obbligo di prestare gli alimenti al servo medesimo509. F. 24 – D. 33.7.24 (L. 1043) A circa metà del testo si legge il riferimento a Paulus. A questo dato formale si aggiungono altre ragioni di ordine sostanziale, che suggeriscono di riconoscere tanto la mano di Nerazio510 quanto quella di Paolo. Il passo riguarda il legato di un fundus cum instrumento511, tema di cui Nerazio ha senza dubbio una conoscenza approfondita – il giurista, come è noto, proviene da una nobile famiglia originaria di Sepino512 –, documentata in numerosi testi che lasciano intravvedere una specifica competenza in materia di disposizioni mortis causa, di fondi rustici e di economia agraria513. In argomento, occorre innanzitutto premettere che la giurisprudenza romana ha cercato di individuare i tipi più comuni di legato, dando loro un nome e descrivendone con minuzia gli elementi che ne facevano parte514. Questo attento lavorìo, se da un lato non esclude la

507

Landucci 1892, 414; Ferrini 1894b, 233, il quale scorge il pensiero di Nerazio fino a debebitur. Così Landucci 1892, 414. Contra, per tutti, Ferrini 1894b, 233 nt. 1, il quale ritiene più verosimile che quest’ultimo periodo debba ascriversi ai compilatori. 509 Cfr., in argomento, anche Astolfi 1979, 119, il quale scrive della possibilità di costringere l’erede, nell’ambito della cognitio extra ordinem, a conferire gli alimenti al servo prima della sua liberazione. 510 Lenel 1889.I, 784, attribuisce a Nerazio la prima parte del brano fino a legato cedit. 511 Si vedano, per esempio e con altra bibliografia, Ligios 1996, 1 ss.; Giomaro 2011, 105 ss.; Ligios 2013, 1 ss.; González Roldán 2014, 135 ss.; Bellodi Ansaloni 2021, 400 ss. 512 Cfr., tra gli altri, Grelle 1972, 156 ss.; Camodeca 1976, 32 ss.; Pentiti 1978, 544 ss.; Casavola 1980, 272 ss.; Vidman 1981, 377 ss.; Eck 1983, 195 ss.; Masiello 2005, 7 ss.; Camodeca 2007, 291 ss. 513 Cfr., tra i numerosi testi, Ulp. 32 ad ed., D. 19.2.19.2; Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.12.4.35.43; Paul 4 ad Sab., D. 33.7.13pr.-1; Paul. 2 ad Vitell., D. 33.7.18.2. 514 Nel Digesto si conservano alcuni titoli dedicati alle singole figure di legato, come ad esempio D. 33.1: De annuis legatis et fideicommissis; D. 33.2: De usu et de usu fructu et reditu et habitatione et operis per legatum vel fideicommissum datis; D. 33.3: De servitute legata; D. 33.4: De dote praelegata; D. 33.5: De optione vel electione legata; D. 33.6: De tritico vino vel oleo legato; D. 33.7: De instructo vel instrumento legato; D. 33.8: De peculio legato; D. 33.9: De penu legata; D. 33.10: De suppellectile legata; D. 34.1: De alimentis vel cibariis legatis; D. 34.2: De auro argento mundo ornamentis unguentis veste vel vestimentis et statuis legatis; D. 34.3: De liberatione legata. 508

216

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 217

Commento ai testi possibilità per il de cuius di ricorrere ad un legato non tipizzato – l’elenco non era tassativo –, dall’altro gli permette di impiegare la denominazione legale e di non aggiungere altro oppure, ben conoscendo ciò che era incluso, di eliminare o di inserire alcuni beni che, in caso contrario, sarebbero rientrati o meno nella disposizione515. Tra i diversi tipi figurano il legato avente ad oggetto il fundus cum instrumento e quello avente ad oggetto il fundus instructus516, legati che nel pensiero di Labeone sembrano identificarsi: Lab. 1 pithanà a Paul. epit., D. 33.7.5: Si cui fundum et instrumentum eius legare vis, nihil interest, quomodo leges ‘fundum cum instrumento’ an ‘fundum et instrumentum’ an ‘fundum instructum’. Paulus. immo contra: nam inter ea legata hoc interest, quod, si fundo alienato mortuus fuerit qui ita legavit, ex hac scriptura ‘fundum cum instrumento’ nihil erit legatum, ex ceteris poterit instrumentum esse legatum. Se vuoi legare a qualcuno un fondo e le cose strumentali al suo sfruttamento, nulla importa in quale modo tu leghi: ‘il fondo con le cose strumentali’ oppure ‘il fondo e le cose strumentali’ oppure ‘il fondo attrezzato’. Paolo: non è così; infatti, tra questi legati vi è una differenza, che, se colui che legò ‘il fondo con le cose strumentali’ sia morto dopo aver alienato il fondo, in base a questa scrittura nulla sarà legato; in base alle altre, potranno essere legate le cose strumentali.

Altri giuristi, invece, preferiscono distinguere i due tipi di legato517: Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.12.27: Sed si fundus non sit cum instrumento legatus, sed ita ut instructus sit, quaesitum est, an plus contineatur, quam si cum instrumento legatus esset. et Sabinus libris ad Vitellium518 scribit fatendum esse plus esse, cum instructus fundus legetur, quam si cum instrumento: quam sententiam cottidie increscere et invalescere videmus. quanto igitur hoc legatum uberius est, videndum est. et Sabinus definit et Cassius apud Vitellium notat: omnia quae eo collocata sunt, ut instructior esset pater familias, instructo, inquit, continebuntur, id est quae ibi habuit, ut instructior esset. hoc ergo legato non agri instrumentum, sed proprium suum instrumentum reliquisse videtur. Ma se il fondo non sia stato legato ‘con le cose strumentali’, ma ‘così come è attrezzato’, si è posta la questione se vi sia compreso di più che se quello stesso fondo sia stato legato ‘con le

515 Qualora, invece, il testatore avesse impiegato la denominazione legale non conoscendone l’esatto significato e, dunque, avesse inteso indicare un legato con un contenuto più ampio o più ristretto, se non addirittura differente, sarebbe sorto un problema di interpretazione. Sul punto, Voci 1963, 270, prospetta diverse ipotesi: “quando il testatore usa il termine in senso più stretto, il legato è invalido, ma solo in parte: nella parte che rientra nella definizione legale, ma non rientra nella nozione soggettiva. Vale a dire, resta invalido per la parte non coperta dalla volontà. Il caso è analogo a quello in cui il testatore, volendo legare 50, scrive 100: il legato è valido per 50. Quando il testatore usa il termine in senso più ampio, si ha la situazione inversa: il legato resta valido per la parte coperta dalla dichiarazione. È come se, volendo legare 100, il testatore scrive 50: non possono essere dovuti che 50. Quando il testatore usa il termine legale in senso diverso da quello comune, il legato è completamente invalido”. 516 Paul. 4 ad Sab., D. 33.7.1pr.: Sive cum instrumento fundus legatus est sive instructus, duo legata intelleguntur. 517 Cfr., tra gli altri, Astolfi 1969, 12 ss.; González Roldán 2014, 136 ss. 518 Cfr. anche la citazione che si legge in Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.8pr.: In instrumento fundi ea esse, quae fructus quaerendi cogendi conservandi gratia parata sunt, Sabinus libris ad Vitellium evidenter enumerat…

217

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 218

Paolo Ferretti cose strumentali’. E Sabino nei Libri a Vitellio scrive che deve ammettersi esservi di più quando il fondo sia legato ‘attrezzato’ che quando sia legato ‘con le cose strumentali’: questo parere quotidianamente vediamo acquistare consenso e dimostrarsi valido. La misura con cui questo legato sia più ampio è da vedere. Sabino definisce e Cassio presso Vitellio annota: tutte quelle cose che sono state collocate là affinché il padre di famiglia fosse meglio attrezzato, cioè quelle cose che abbia avuto lì affinché fosse lui stesso meglio attrezzato, saranno comprese nella sua attrezzatura. Dunque, si considera avere lasciato con il legato, non solo le cose strumentali del fondo, ma anche le sue cose strumentali.

Sabino, forse per primo, avanza un’interpretazione che al tempo di Ulpiano appare increscere et invalescere. Secondo questa sententia, non c’è identità tra i due tipi: il legato di fundus instructus sembra avere una maggiore estensione rispetto al fundus cum instrumento, comprendendo quest’ultimo e plus519. Riguardo al legato dell’instrumentum fundi, sappiamo che questo si compone delle cose mobili che il testatore ha predisposto in modo stabile al servizio e all’utilizzo del fondo520: servi, animali, attrezzi, sementi, contenitori per i prodotti del suolo e altro ancora secondo la destinazione economica che il dominus ha impartito al bene521. Proprio un legato di fundus cum instrumento è l’oggetto di D. 33.7.24: un fondo, oggetto di locazione, viene dato in legato insieme all’instrumentum, ossia, come abbiamo appena detto, insieme alle cose destinate all’uso del medesimo fondo, tra cui anche l’instrumentum quod colonus in eo habuit. Di questo instrumentum non si dice altro, in particolare non si precisa a chi appartenga, se al testatore, al colono o ad entrambi. Tuttavia, è ragionevole credere che la discussione sia sorta in merito ad una situazione di non immediata soluzione e, pertanto, con riguardo al caso in cui l’instrumentum fosse del colono522 oppure sia del colono che del testatore. Da qui l’interrogativo se l’instrumentum coloni cedesse al legato. La prima risposta, formulata in uno stile conciso, è positiva: instrumentum legato cedit.

519 Nel legato di fundus instructus sono compresi diversi beni, tra cui, oltre al fondo, ad esempio la suppellettile, le vesti, l’oro, l’argento, i vini, la biblioteca, i libri, le cose destinate agli usi personali del dominus e i servi che curano la villa e le persone che la abitano. Si legga, tra gli altri, PS. 3.6.50-51; Paul. 4 ad Sab., D. 33.7.1; Lab. 1 pithanà a Paul. epit., D. 33.7.5; Scaev. 16 dig., D. 33.7.6; Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.12.28-36; Alf. 2 dig. a Paul epit., D. 33.7.16; Scaev. 3 resp., D. 33.7.20. 520 Cfr., ad esempio, PS. 3.6.48; Pomp. 2 ad Sab., D. 32.44; Marcian. 7 inst., D. 32.67; Paul. 2 ad Vitell., D. 32.78pr.7; Modest. 9 reg., D. 32.82; Proc. 5 epist., D. 32.86; Pap. 7 resp., D. 33.7.2.1; Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.8pr.; Paul. 2 ad Vitell., D. 33.7.18.12; Scaev. 3 resp., D. 33.7.20.1.3.5-6; Iav. 5 ex post Lab., D. 33.7.26pr.; Scaev. 6 dig., D. 33.7.27pr.-1. Sugli oggetti ricompresi nell’instrumentum, si veda, per tutti, Astolfi 1969, 1 ss. 521 Si pensi ad un fondo destinato alle colture arboree e cerealicole oppure destinato al pascolo o alla caccia. 522 Se l’instrumentum appartenesse soltanto al colono, si sarebbe trattato di legato di cosa altrui, legato rispetto al quale Nerazio aveva avanzato l’opinione che dovesse considerarsi valido, a condizione che il testatore sapesse che la cosa era altrui. Si legga Pap. 19 quaest., D. 31.67.8: Si rem tuam, quam existimabam meam, te herede instituto Titio legem, non est Neratii Prisci sententiae nec constitutioni locus, qua cavetur non cogendum praestare legatum heredem: nam succursum est heredibus, ne cogerentur redimere, quod testator suum existimans reliquit: sunt enim magis in legandis suis rebus quam in alienis comparandis et onerandis heredibus faciliores voluntates: quod in hac specie non evenit, cum dominium rei sit apud heredem. In argomento si veda anche Pomp. 2 ad Q.M., D. 32.85; Inst. 2.20.4.

218

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 219

Commento ai testi Dopo questa proposizione si legge il termine Paulus. Proprio la menzione del giurista severiano porta a ipotizzare che quanto segue riferisca il suo pensiero, mentre quanto precede contenga l’opinione di Nerazio. Se così è, possiamo arrivare ad una prima conclusione: Nerazio, riguardo al caso di un legato di fondo cum instrumento appartenente al colono oppure sia al colono che al testatore, propendeva per attribuire al legatario l’intero. Veniamo ora a Paolo, il quale si chiede se la soluzione appena ricordata – instrumentum legato cedit – trovi applicazione per le cose strumentali del colono oppure soltanto per quelle del testatore. La risposta del giurista severiano è articolata e affonda la propria ratio nella titolarità dell’instrumentum: se questi beni appartengono sia al colono che al testatore, il legato è valido soltanto per l’instrumentum testatoris; al contrario, se l’instrumentum è composto di beni su cui il dominus non vanta alcuna titolarità, essendo di proprietà esclusiva del colono, allora l’instrumentum del colono medesimo legato cedit. In quest’ultima ipotesi, il legato vale per intero, in quanto, così parrebbe ragionare il giurista, il legato poteva avere soltanto quel riferimento523. Non è facile valutare il rapporto tra il pensiero di Nerazio e quello di Paolo. Ci sembra che le alternative possano essere due, sulla base del quesito posto al giurista traianeo. Se Nerazio fosse stato interrogato sulla sorte di un instrumentum appartenente al colono, il responso sarebbe coinciso con quello di Paolo, il quale avrebbe soltanto aggiunto alcune precisazioni e limiti524. Se, invece, Nerazio fosse stato interrogato sulla sorte di un instrumentum appartenente sia al colono che al testatore, il responso non sarebbe coinciso con quello di Paolo, il quale sarebbe intervenuto per correggere l’opinione avanzata dal giurista anteriore525. Sul punto, utile si rivela la lettura di alcuni passi in materia di legato avente ad oggetto l’instrumentum tabernae: Nerat. 2 resp., D. 33.7.23: Cum quaeratur, quod sit tabernae instrumentum, interesse, quod genus negotiationis in ea exerceri solitum sit. Quando si domanda quali siano le cose strumentali di un locale, ha rilevanza quale genere di attività d’impresa in quello sia solita essere esercitata.

Secondo Nerazio, per determinare quale sia l’instrumentum di una taberna, occorre osservare il genere di attività commerciale che in quella è solita essere esercitata. Una conferma si trova in: Paul 4 ad Sab., D. 33.7.13pr.: Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum tabernae cauponiae et instrumentum cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta sint, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici, item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum negotiationis nomen sit, etiam institores.

523 524 525

Cfr., per tutti, Voci 1963, 279 s. Ferrini 1894b, 232; González Roldán 2014, 136 ss. Tra gli altri, Voci 1963, 280; Astolfi 1969, 31 s.

219

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 220

Paolo Ferretti Legate le cose strumentali di una locanda, Nerazio stima che vi si comprendano anche i servi institori; ma occorre vedere se non vi sia differenza tra le cose strumentali del locale della locanda e le cose strumentali per l’esercizio della locanda, cosicché le cose strumentali del locale non siano se non le giare, i vasi, i boccali, i calici, i mestoli per attingere il vino che sogliono essere fatti girare durante la cena, e anche i contenitori di bronzo della misura di un’urna, quelli della misura di un congio e di un sesto di congio e simili; tra le cose strumentali della locanda, designando tale nome un’attività commerciale, anche i servi institori.

Secondo Nerazio, citato da Paolo, il legato dell’instrumentum tabernae comprende, oltre all’arredo del locale – botti, vasi, boccali, calici, tazze, imbuti, urne e altro – anche gli schiavi adibiti allo svolgimento dell’attività. Il giurista traianeo, dunque, al fine di individuare il contenuto del legato fa riferimento al genus negotiationis. Paolo526, al contrario, distingue tra instrumentum negotiationis ed instrumentum loci: il primo è relativo ad una determinata professione e abbraccia tutto quanto occorre al suo esercizio, schiavi institores compresi, mentre il secondo è relativo soltanto all’arredamento del luogo in cui si svolge l’attività e, di conseguenza, non include gli schiavi institores. Avanzata la distinzione, si apre il problema di interpretare la volontà del testatore, ossia capire se egli abbia voluto legare l’instrumentum loci oppure l’instrumentum negotiationis: Paul 2 ad Vitell.527, D. 33.7.18.1: Instrumento legato aliquando etiam personas legantium necesse est inspici. ut ecce pistorio instrumento legato ita ipsi pistores inesse videri possunt, si pater familias pistrinum exercuit: nam plurimum interest, instrumentum pistoribus an pistrino paratum sit. Legate le cose strumentali, talvolta è anche necessario avere riguardo alle persone che hanno legato. Così, a maggior ragione, legate le cose strumentali di un panificio, possono essere considerati compresi i fornai, se il padre di famiglia esercitò il mestiere di fornaio: infatti, è di grande importanza se le cose strumentali siano state predisposte per i fornai o per il panificio.

Il criterio distintivo individuato da Paolo sembra focalizzato sul soggetto che svolge l’attività: se era il testatore o erano i suoi servi ad esercitare la professione, si tratta di instrumentum negotiationis; se, invece, l’attività era svolta da altri, cui l’ereditando aveva locato il luogo, si tratta di instrumentum loci. A ben vedere, dunque, non è escluso che anche in D. 33.7.24 si possa registrare un analogo approccio in relazione al legato di un fundus cum instrumento. Nerazio pone il caso e lo risolve, attribuendo in ogni caso al legatario l’intero. Paolo, al contrario, interviene per distinguere: se l’instrumentum fosse appartenuto soltanto al colono, allora sarebbe valso per intero; se invece l’instrumentum fosse appartenuto sia al colono che testatore, il giurista avrebbe negato al legatario la parte dell’instrumentum di cui era titolare il colono.

526

Paul. 4 ad Sab., D. 33.7.13pr. Sui libri ad Vitellium, rimando, da ultimo e con altra bibliografia, ai diversi contributi che si leggono in Baldus, Luchetti, Miglietta 2020, 1 ss. 527

220

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 221

Commento ai testi F. 25 – D. 35.1.98 (L. 1044) Nel testo si deve riconoscere unicamente la mano di Paolo. Tale attribuzione trova le sue ragioni nell’analisi di elementi contenutistici di cui daremo conto a breve, dopo aver premesso alcune riflessioni utili alla comprensione del passo. Il legato528, come tutti sanno, è una disposizione a titolo particolare – una delibatio hereditatis, come lo definisce Fiorentino529 –, attraverso la quale il testatore, con spirito di liberalità530, ‘toglie qualcosa che spetterebbe all’erede per attribuirla al legatario’531. L’onorato, dunque, acquista un diritto, reale o di credito, e ciò accade con l’aditio da parte dell’erede. Tuttavia, tra la morte del de cuius e l’aditio dell’eredità sarebbero potuti sopraggiungere avvenimenti tali da pregiudicare la sua aspettativa, come ad esempio la morte dello stesso legatario. Da qui il celebre rimedio elaborato, verosimilmente in età repubblicana, dalla giurisprudenza, la quale distingue tra il momento dell’acquisto del diritto al lascito (con la conseguente possibilità di trasmissione ai propri eredi532) e il momento dal quale il diritto può essere fatto valere. Il primo momento – dies cedens – coincide con la morte dell’ereditando533, mentre il secondo – dies veniens – con l’aditio dell’eredità534. Rimane sottinteso che l’acquisto del diritto presuppone che il legato, come ogni altra disposizione testamentaria, non sia inficiato da invalidità originaria e successiva. Tra le ipotesi di invalidità originaria, si pensi, ad esempio, al difetto di legittimazione nel testatore o, all’opposto, al difetto di capacità nel destinatario, al difetto di forma, laddove richiesta, o di contenuto o ancora nella manifestazione della volontà. Tra le ipotesi di invalidità successiva, si faccia il caso del venir meno della legittimazione nel testatore, nella morte del destinatario una volta perfezionato il testamento, nell’impossibilità sopravvenuta della prestazione e, infine, nella revoca535. Inoltre, restando sempre in argomento, è noto che ai legati si applica la regula Catoniana536, la quale regola vuole che i requisiti di validità sussistano già al momento della perfezione del testamento. Si tratta, a ben vedere, di una regola generale in materia di invalidità testamen-

528 Sul legato, si veda, tra gli altri, Ferrini 1889; Voci 1936; Grosso 1962; Voci 1963, 223 ss.; Astolfi 1964; Id. 1969; Id. 1979; Di Salvo 1973; Ligios 2012, con altra letteratura. 529 Florent. 11 inst., D. 30.116pr.: Legatum est delibatio hereditatis, qua testator ex eo, quod universum heredis foret, alicui quid collatum velit. 530 Legatum est donatio testamento relicta scrive Modestino in Mod. 3 pand., D. 31.36. 531 Florent. 11 inst., D. 30.116pr. Accanto a questa troviamo altre definizioni, che pongono l’accento sul significato etimologico del termine – legatum da lex (Tit. Ulp. 24.1) – o sulla natura liberale dell’atto, come abbiamo detto alla nota precedente. 532 Nel caso in cui il legatario deceda dopo la morte del testatore, ma prima dell’aditio da parte dell’erede, l’acquisto del legato avviene in capo all’erede del legatario medesimo. 533 Il termine viene spostato dalla lex Papia (Tit. Ulp. 24.31) o da senatoconsulti successivi (C. 6.51.1.1c) al momento dell’apertura del testamento. Con Giustiniano si ritorna alla morte del testatore. 534 La distinzione perde di significato nel caso in cui l’erede sia necessarius. Infatti, l’acquisto dell’eredità data dal giorno della morte del de cuius, con conseguente inutilità dell’anticipazione del dies cedens. 535 Cfr., per tutti, Manfredini 1991. 536 Non conosciamo a chi sia attribuibile la regola, se a Catone censore oppure a suo figlio. Da D. 49.17.20 apprendiamo che Paolo è autore di un liber singularis ad regulam Catonianam. In argomento, si veda, tra gli altri, Ferrini 1889, 547; Lambert 1925; Biondi 1937, 412; Machelard 1962, 331 ss.; Voci 1963, 998 ss.; Sáinz-Ezquerra 1976.

221

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 222

Paolo Ferretti taria, secondo cui la disposizione nulla fin dall’origine non può essere successivamente convalidata537: Cels. 35 dig., D. 34.7.1pr.: Catoniana regula sic definit, quod, si testamenti facti tempore decessisset testator, inutile foret, id legatum quandocumque decesserit, non valere. quae definitio in quibusdam falsa est. La regola Catoniana stabilisce che quel legato, che sarebbe invalido se il testatore fosse morto al tempo della redazione del testamento, non è valido in qualunque momento egli muoia. Questa definizione in taluni casi è falsa.

Celso informa che secondo la regola Catoniana i requisiti di validità di un legato debbono sussistere non solo al tempo della morte del testatore, bensì anche al tempo della perfezione del testamento. Pertanto, traendo spunto dalle fonti, il legato di marmi e di colonne unite all’edificio è nullo fin dall’origine e la sua disciplina non muta nel caso in cui marmora vel columnae fuerint separatae ab aedibus538; lo stesso per il legato in favore del proprio servo, nel caso in cui a quest’ultimo non sia stata lasciata anche la libertà, ottenuta soltanto in un momento successivo: hoc legatum non constitit539; e ancora il legato a favore di una persona che si trova nella potestà dell’erede: ‘per quanto infatti l’onorato possa cessare in vita del testatore d’essere in potestà dell’erede, tuttavia il legato dovrebbe intendersi inutile, perché sarebbe assurdo che quel che non avrebbe avuto alcun effetto se il testatore fosse morto appena fatto il testamento, valesse perché era vissuto di più’540. A queste ipotesi si aggiunge quella del legato di cosa del legatario: anche questo inutile legatum est, ‘perché quello che è in proprietà di lui non può diventare suo e anche se il legatario abbia alienato il bene, non è dovuto il bene né la stima dello stesso’541. Sennonché, in D. 35.1.98 Paolo – non ci sembra di intravvedere elementi che consentano di attribuire il testo a Nerazio542 – ci informa di una eccezione543 alla regola: se il legato di

537 Tuttavia, per i legati esiste una regola specifica, appunto la regola Catoniana. Sul punto, Voci 1963, 1000, riconduce il motivo di una formulazione particolare all’istituto del dies cedens. 538 Ulp. 21 ad Sab., D. 30.41.2: Tractari tamen poterit, si quando marmora vel columnae fuerint separatae ab aedibus, an legatum convalescat… 539 Paul. 2 man., D. 28.5.90 (89): Si socius heres institutus sit ex asse et servo communi legetur pure sine libertate, hoc legatum non constitit... Si veda anche Paul. 8 ad Plaut., D. 33.5.13. 540 Gai. 2.244, in cui sono tuttavia esposte diverse opinioni: An ei, qui in potestate sit eius, quem heredem instituimus, recte legemus, quaeritur. Servius recte legari putat, sed evanescere legatum, si quo tempore dies legatorum cedere solet, adhuc in potestate sit; ideoque sive pure legatum sit et vivo testatore in potestate heredis esse desierit, sive sub condicione et ante condicionem id acciderit, deberi legatum. Sabinus et Cassius sub condicione recte legari, pure non recte putant; licet enim vivo testatore possit desinere in potestate heredis esse, ideo tamen inutile legatum intellegi oportere, quia quod nullas vires habiturum foret, si statim post testamentum factum decessisset testator, hoc ideo valere, quia vitam longius traxerit, absurdum esset. sed diversae scholae auctores nec sub condicione recte legari, quia quos in potestate habemus, eis non magis sub condicione quam pure debere possumus. 541 Inst. 2.20.10: Sed si rem legatarii quis ei legaverit, inutile legatum est, quia quod proprium est ipsius, amplius eius fieri non potest: et licet alienaverit eam, non debetur nec ipsa nec aestimatio eius. 542 In assenza di elementi utili ad attribuire il passo a Nerazio o a Paolo, non adottano alcuna posizione, tra gli altri, Berger 1918, 709; Masi 1966, 107. 543 Altre eccezioni sono documentate ad esempio in Pap. 15 quaest., D. 34.7.3; Ulp. 22 ad Sab., D. 34.7.5.

222

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 223

Commento ai testi cosa del legatario sia sottoposto a condizione544, occorre valutare non il momento nel quale il testamento è stato perfezionato, ma il momento del verificarsi della condicio. Pertanto, se al momento del verificarsi della condizione la cosa sia entrata nel dominio di altri545, il legato è valido. Sempre Paolo546 informa di un legato condizionato alla circostanza che filia mea nupta erit: Paul. 4 ad Plaut.547, D. 34.7.2: Sed et si sic legaverit: ‘si filia mea Titio nupta erit’, sufficere visum est, si mortis tempore nupta inveniatur, licet testamenti facti tempore fuerit impubes. Ma pure se uno ha legato in questo modo: ‘se mia figlia sposerà Tizio’, è sembrato sufficiente che la figlia sia sposata al tempo della morte del testatore, anche se era impubere nel momento della redazione del testamento.

Si tratta di un legato sottoposto ad una condizione sospensiva: si filia mea Titio nupta erit. In questo caso, scrive il giurista, è sufficiente che la figlia risulti sposata al tempo della morte del testatore, benché nel momento della perfezione del testamento essa fosse ancora impubere. La ragione della deroga va verosimilmente ricercata nel rispetto della intenzione del testatore: se questo ha individuato un evento successivo alla perfezione del testamento per la validità del legato, applicare la regola Catoniana avrebbe comportato una violazione di questa volontà, poiché si sarebbe richiesta la validità della disposizione mortis causa proprio per il tempo nel quale il de cuius l’ha intesa escludere. F. 26 – D. 41.3.47 (L. 1045) Il brano tratta dell’acquisto del possesso e della proprietà per procuratorem. L’argomento è stato oggetto di studio sia da parte di Nerazio che di Paolo548, i quali risultano aver condiviso numerosi aspetti della disciplina che si andava elaborando. Tuttavia, nonostante questo, non ci sembra di scorgere elementi che possano far intravvedere nel testo la scrittura neraziana. Siamo pertanto dell’avviso, come daremo conto nel prosieguo, che nel passo si debba riconoscere soltanto la mano di Paolo. Un procuratore549 ha ricevuto a nome del rappresentato una cosa comprata per il medesimo, benché quest’ultimo lo ignorasse. Il rappresentato acquista il possesso della cosa,

544 Cfr. anche Tit. Ulp. 24.23: Ei, qui in potestate, manu mancipiove est scripti heredis, sub condicione legari potest, ut requiratur, quo tempore dies legati cedit, in potestate heredis non sit. E ancora Ulp. 21 ad Sab., D. 30.41.2; Cels. 35 dig., D. 34.7.1.1-2. 545 Voci 1963, 998 s. 546 Cfr. anche Paul. 2 man., D. 28.5.90 (89): Si socius heres institutus sit ex asse et servo communi legetur pure sine libertate, hoc legatum non constitit. plane sub condicione ei utiliter et sine libertate legabitur, quoniam et proprio servo ab herede recte sub condicione legatur. quare etiam heres institui sine libertate ut alienus socio herede scripto poterit, quia et proprius cum domino heres institui poterit. 547 Cfr. cap. I, par. 2. 548 Cfr. cap. II, par. 8. 549 Sull’acquisto per procuratorem, si veda tra gli altri Albertario 1921, 497 ss.; Frese 1929, 327 ss.; Riccobono 1930, 389 ss.; Arangio-Ruiz 1949; Burdese 1950b, 37 ss.; Watson 1961; Mecke 1962, 109 ss.; Quadrato 1963, 1 ss.; Watson 1967, 189 ss.; Angelini 1971; Negri 1994, 666 ss.; Briguglio 2007; Miceli 2008; Coppola 2008.

223

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 224

Paolo Ferretti ma non la proprietà tramite usucapione, in quanto è stato deciso che ignorantes si possano usucapire soltanto i beni che fanno parte del peculio. Iniziamo dalla possessio, su cui ci informa Gaio in un noto passo: Gai. 2.89-90; 94-95: Non solum autem proprietas per eos quos in potestate habemus adquiritur nobis, sed etiam possessio; cuius enim rei possessionem adepti fuerint, id nos possidere videmur; unde etiam per eos usucapio procedit. 90. Per eas vero personas, quas in manu mancipiove habemus, proprietas quidem adquiritur nobis ex omnibus causis, sicut per eos qui in potestate nostra sunt; an autem possessio adquiratur, quaeri solet, quia ipsas non possidemus… 94. De illo quaeritur, an per eum servum, in quo usumfructum habemus, possidere aliquam rem et usucapere possimus, quia ipsum non possidemus. Per eum vero, quem bona fide possidemus, sine dubio et possidere et usucapere possumus. Loquimur autem in utriusque persona secundum definitionem quam proxime exposuimus, id est si quid ex re nostra vel ex operis suis adquirant [id nobis adquiritur]. 95. Ex his apparet per liberos homines, quos neque iuri nostro subiectos habemus neque bona fide possidemus, item per alienos servos, in quibus neque usumfructum habemus neque iustam possessionem, nulla ex causa nobis adquiri posse. Et hoc est quod vulgo dicitur per extraneam personam nobis adquiri non posse. Tantum de possessione quaeritur, an 550 personam nobis adquiratur. Per mezzo di coloro che abbiamo in potestà, a noi si acquista non solo la proprietà, ma anche il possesso: invero, la cosa di cui abbiano ottenuto il possesso, risultiamo possederla noi; onde, per mezzo loro, ha luogo anche l’usucapione. 90. Tramite le persone che abbiamo in mano o in mancipio si acquista a noi la proprietà per qualunque causa, allo stesso modo che tramite coloro che sono in nostra potestà; se si acquisti anche il possesso, lo si suol discutere, dato che quelle persone non le possediamo ... 94. Si discute se per mezzo del servo su cui abbiamo usufrutto ci sia possibile possedere ed usucapire qualche cosa, dato che lui non lo possediamo. Per mezzo invece di colui che possediamo in buona fede possiamo senza dubbio possedere e usucapire. Parliamo con riferimento ad entrambi in funzione del criterio poco sopra esposto: cioè che se acquisiscano alcunché con mezzi nostri o opera loro, ciò si acquista a noi. 95. Risulta da ciò che per mezzo di uomini liberi né soggetti al nostro potere né posseduti in buona fede, e così per mezzo di servi altrui sui quali non abbiamo né usufrutto né giusto possesso, in nessun caso noi possiamo acquistare. Ed è quel che comunemente si dice: non potersi da noi acquistare per mezzo di un estraneo. Solo del possesso si discute: se a noi si acquisti per mezzo di un procuratore.

Il possesso si acquista innanzitutto per mezzo di coloro che abbiamo in potestà. La stessa cosa, invece, non si può dire per coloro i quali abbiamo in mano o in mancipio: dell’acquisto del possesso tramite questi, infatti, si discute, in quanto noi non possediamo personae quas in manu mancipiove habemus. Altrettanto si discute in merito al servo di cui abbiamo l’usufrutto, sempre per la ragione che ipsum non possidemus551. Lo stesso infine accade con riguardo all’acquisto del possesso per procuratorem. Su quest’ultimo aspetto, conosciamo l’opinione di Nerazio:

550 Sul punto segnaliamo la lacuna del manoscritto veronese, lacuna che è stata colmata inserendo l’espressione ‘per procuratorem’ oppure l’espressione ‘per extraneam personam’. La maggior parte degli studiosi ha propeso per la prima. Sulla problematica, si veda, per tutti e con altra bibliografia, Miceli 2008, 266 ss. 551 Al contrario, per eum quem bona fide possidemus possiamo senza dubbio possedere (Gai. 2.94).

224

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 225

Commento ai testi Ner. 7 membr., D. 41.3.41: Si rem subreptam mihi procurator meus adprehendit, quamvis per procuratorem possessionem apisci nos iam fere conveniat, nihilo magis eam in potestatem meam redisse usuque capi posse existimandum est, quia contra statui captiosum erit. Se il mio procuratore prende una cosa che mi è stata rubata, per quanto si sia già quasi convenuto che si possa acquistare il possesso per mezzo di un procuratore, non è da credere che la cosa sia ritornata nella mia potestà e che possa essere usucapita, poiché sarebbe ingannevole stabilire il contrario.

Nerazio, in tema di res furtiva e di reversio ad dominum, presenta un caso nel quale la cosa rubata non viene consegnata al dominus, ma al suo procuratore. Sugli effetti dell’adprehensio, il giurista afferma che ‘per quanto si sia già quasi convenuto che si possa acquistare il possesso per mezzo di un procuratore, non è da credere che essa sia ritornata nella mia potestà e che pertanto possa essere usucapita’. Tra le due affermazioni – acquisto del possesso, ma sua insufficienza ai fini della reversio in potestà della cosa – è stato visto un insanabile contrasto552, che tuttavia viene meno se si pensa che la cosa, per essere di nuovo usucapibile, avrebbe dovuto ritornare nella disponibilità giuridica del dominus. In altri termini, il dominus avrebbe dovuto essere a conoscenza non solo del furto, ma anche del rientro del bene nella sua potestà553. Dunque, si potrebbe ipotizzare che il giurista traianeo, constatata la mancata scientia554 del dominus, ammettesse l’acquisto del possesso per procuratorem555, pur sottolineando il sussistere ancora di opinioni contrastanti, ma negasse la reversio in potestatem. Sulla base di questa ricostruzione, pertanto, ci sembra ragionevole pensare che Paolo, con molta verosimiglianza prendendo spunto da un caso su cui Nerazio si era pronunciato556, riportasse una regola che risulta consolidata nei giuristi di età severiana557 – tra cui lo stesso Paolo558 –: il rappresentato, anche se ignorans, acquista il possesso della cosa comprata dal procuratore559.

552

Cfr., ad esempio, Perozzi 1928, 858 nt. 2; Bretone 1955, 281 ss. Cfr., da ultima e con ricca bibliografia, Frunzio 2017a, 102. 554 Numerosi sono i testi che fanno riferimento alla scientia del dominus al fine della reversio: ad esempio, Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4.12; Iul. 44 dig., D. 41.4.7.7; Paul. 2 ad Ner., D. 47.2.85 (84); Tryph. 9 disp., D. 47.2.87 (86). 555 Cfr., tra gli altri, Nicosia 1960a, 190 ss.; Claus 1973, 182 ss., secondo cui il iam fere che si legge in D. 41.3.41 indica una oscillazione verso l’affermarsi definitivo della regola; Briguglio 2007, 121, secondo cui Gaio avrebbe con eccessiva enfasi dato conto di un lieve dubbio espresso dal fere di Nerazio – di cui richiama a sostegno anche Ner. 6 reg., D. 41.1.13pr. Contra, per tutti, Coppola 2008, 216, la quale, mettendo in relazione il fatto che non si fosse verificata la reversio ad dominum e che la cosa non fosse pertanto divenuta usucapibile, pensa che Nerazio richiedesse ancora la scientia domini per l’acquisto del possesso per procuratorem. 556 Se poniamo a confronto Paul. 3 ad Ner., D. 41.3.47 con Ner. 7 membr., D. 41.3.41, non si può non rimarcare la stretta affinità semantica. Diversi sono i termini in comune: procurator, adprehendere, possidere / possessionem apisci. 557 Si veda, tra i numerosi testi, Ulp. 16 ad ed., D. 6.2.7.10; Ulp. 7 disp., D. 39.5.13; Ulp. 7 disp., D. 41.2.34.1; Ulp. 4 reg., D. 41.2.42.1; Pap. 2 def., D. 41.2.49.2. Su questo aspetto, si veda per tutti Briguglio 2007, 121 ss. 558 Cfr., ad esempio, Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1.20: Per procuratorem tutorem curatoremve possessio nobis adquiritur. cum autem suo nomine nacti fuerint possessionem, non cum ea mente, ut operam dumtaxat suam accommodarent, nobis non possunt adquirere. alioquin si dicamus per eos non adquiri nobis possessionem, qui nostro nomine accipiunt, futurum, ut neque is possideat cui res tradita sit, quia non habeat animum possidentis, neque is qui tradiderit, quoniam cesserit possessione. 559 In questo senso, tra gli altri, Lenel 1889.I, 778 nt. 2 e 785; Landucci 1892, 415; pare anche Ferrini 1894b, 233 nt. 1; Nicosia 1960a, 194 nt. 24; Benöhr 1972, 88 s.; Briguglio 2007, 127 nt. 194; Miceli 2008, 270. 553

225

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 226

Paolo Ferretti Detto del possesso, veniamo alla seconda parte di D. 41.3.47: i rappresentati, ignari dell’acquisto effettuato dal procurator a loro nome, non usucapiscono la cosa, in quanto ignorantes possono usucapire soltanto i beni che fanno parte del peculio’560. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, già Nerazio aveva ‘risposto’561: Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8pr.: Labeo Neratius responderunt ea, quae servi peculiariter nancti sunt, usucapi posse, quia haec etiam ignorantes domini usucapiunt: idem Iulianus scribit. Labeone e Nerazio risposero che le cose, che i servi hanno acquistato con il patrimonio peculiare, possano essere usucapite, poiché queste cose i padroni usucapiscono anche ignorando: lo stesso Giuliano scrive.

Paolo riferisce che Nerazio, e con lui Labeone e Giuliano, risposero che il dominus può usucapire le cose acquistate dai servi peculiariter, poiché queste cose etiam ignorantes domini usucapiunt. Rimane infine da indagare l’acquisto della proprietà per procuratorem562. La regola che sembra affermarsi in età severiana è che il rappresentato, per ottenere il dominium, debba essere consapevole e in qualche modo partecipare al negozio, rendendo riconoscibile in maniera certa il suo interesse ad acquisire la proprietà563. La casistica è variegata. Il dominus pone in essere personalmente il negozio causale che giustifica la traditio poi compiuta al procurator564: Ulp. 29 ad Sab., D. 41.1.20.2: Si ego et Titius rem emerimus eaque Titio et quasi meo procuratori tradita sit, puto mihi quoque quaesitum dominium, quia placet per liberam personam omnium rerum possessionem quaeri posse et per hanc dominium565. Se io e Tizio abbiamo comprato una cosa e questa è stata consegnata a Tizio come mio procurator, penso che io abbia acquistato la proprietà, in quanto è stato stabilito che attraverso una persona libera si possa acquistare il possesso di ogni cosa e, tramite esso, la proprietà.

Secondo Ulpiano il contratto di compravendita, concluso dal dominus negotii, consente a quest’ultimo di acquistare la proprietà della cosa consegnata dal venditore al procurator. Accanto a questa ipotesi, l’interesse del dominus poteva manifestarsi attraverso la ratihabitio566:

560 Il periodo finale (quia ut ignorantes usuceperimus, in peculiaribus tantum rebus receptum est), è ricondotto a Paolo da Benöhr 1972, 88 s., mentre Nicosia 1960b, 224, pensa che si tratti di una aggiunta giustinianea. 561 Il collegamento tra D. 41.3.47 e D. 41.3.8pr. si legge in Ferrini 1894b, 231. 562 Gai. 2.95: Ex his apparet per liberos homines, quos neque iuri nostro subiectos habemus neque bona fide possidemus, item per alienos servos, in quibus neque usumfructum habemus neque iustam possessionem, nulla ex causa nobis adquiri posse. Et hoc est quod vulgo dicitur per extraneam personam nobis adquiri non posse… 563 In questa prospettiva, si legga Impp. Severus et Antoninus AA. Attico, C. 7.32.1: Per liberam personam ignoranti quoque adquiri possessionem et, postquam scientia intervenerit, usucapionis condicionem inchoari posse tam ratione utilitatis quam iuris pridem receptum est. PP. VI k. dec. Dextro II et Prisco conss. (a. 196). Su questo testo, si veda, per tutti Coppola 2008, 217 ss. 564 Ulp. 7 disp., D. 39.5.13; Ulp. 20 ad Sab., D. 41.1.20.2; Iul. 44 dig., D. 41.1.37.6; Ulp. 29 ad Sab., D. 47.2.14.17. 565 Sul testo rimandiamo, per tutti e con altra bibliografia, a Briguglio 2007, 219 ss. e 272 ss. 566 Cfr. anche PS. 5.2.2: Per liberas personas, quae in potestate nostra non sunt, adquiri nobis nihil potest. Sed per procuratorem adquiri nobis possessionem posse utilitatis causa receptum est. Absente autem domino comparata non aliter ei, quam si rata sit, quaeritur.

226

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 227

Commento ai testi Paul. 24 ad ed., D. 3.5.23 (24): Si ego hac mente pecuniam procuratori dem, ut ea ipsa creditoris fieret, proprietas quidem per procuratorem non adquiritur, potest tamen creditor etiam invito me ratum habendo pecuniam suam facere, quia procurator in accipiendo creditoris dumtaxat negotium gessit: et ideo creditoris ratihabitione liberor. Se io consegno al procuratore del denaro con l’intenzione che diventi del creditore, la proprietà non si acquista tramite il procurator. Tuttavia, il creditore può mio malgrado fare suo il denaro, poiché il procurator, nel riceverlo, ha amministrato soltanto un affare del creditore stesso e, in questo modo, con la ratifica del creditore io sono liberato.

Mancando un accordo – la giustificazione causale – tra colui che paga e il creditore, la consegna del denaro al procurator non determina l’acquisto della proprietà in capo al creditore medesimo, a meno che non intervenga la ratifica da parte del dominus negotii. Veniamo ora ad un ultimo passo, che ci permette di conoscere il pensiero di Nerazio567: Nerat. 6 reg., D. 41.1.13pr.568: Si procurator rem mihi emerit ex mandato meo eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, id est proprietas569, adquiritur etiam ignoranti. Se il procurator ha comprato una cosa per me, in forza del mandato da me conferito, e la cosa gli è stata consegnata a mio nome, io acquisto la proprietà anche a mia insaputa.

Dal testo570 apprendiamo che se il procurator, munito di un mandato speciale da me conferitogli, ha comperato una cosa per me e la cosa medesima gli è stata consegnata a mio nome, io acquisto la proprietà, etiam ignorans571. Parte della dottrina572 ha visto nel mandato speciale una sorta di autorizzazione preliminare, un riconoscimento anticipato degli effetti della traditio ex iusta causa. Nel mandato speciale a comperare, pertanto, Nerazio avrebbe individuato la partecipazione del rappresentato, in quanto il rapporto causale sorto in capo al procurator è attribuibile alla volontà del dominus negotii, cosicché la successiva traditio, fatta al procurator in nome del dominus, determina l’acquisto della proprietà in capo a quest’ultimo573. Orbene, ritornando a D. 41.3.47, ci pare di poter dire che anche il tema dell’acquisto della proprietà per procuratorem fosse conosciuto da Nerazio. Entrambi i giuristi, e non solo Paolo, sembrano contribuire all’elaborazione di una regola che appare consolidarsi in età severiana

567 Al riguardo, Briguglio 2007, 352, fa notare come il passo di Nerazio documenti l’unico caso in cui si fa espressamente cenno sia ad una compravendita compiuta dal procurator su mandato speciale del dominus negotii sia alla circostanza che il procurator riceve la traditio a nome del dominus. 568 Ner. 6 reg., D. 41.1.13.1: Et tutor pupilli pupillae similiter ut procurator emendo nomine pupilli pupillae proprietatem illis adquirit etiam ignorantibus. 569 L’espressione id est proprietas è ritenuta da molti studiosi un glossema: ad esempio, si veda Greiner 1973, 123; Flume 1990, 88; Cannata 1991, 335 ss. 570 La sostanziale genuinità del testo è sostenuta, tra gli altri, da Grosso 1932, 158 ss.; Voci 1952, 75 nt. 3; Meylan 1953, 110; Burdese 1985, 458; Flume 1990, 89; Miceli 2008, 293. 571 Ci sembra che questi ultimi termini vadano riferiti al fatto che il rappresentato fosse ignorans soltanto con riguardo all’esecuzione del mandato. 572 Cfr., tra gli altri, Beseler 1929, 55; Betti 1933, 183; Briguglio 2007, 353. 573 Briguglio 2007, 355.

227

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 228

Paolo Ferretti e che prevede, per l’acquisto della proprietà per procuratorem, un atto di volontà da parte del rappresentato. In questa luce, il testo andrebbe attribuito a Paolo, il quale sarebbe intervenuto mettendo a profitto la precedente riflessione neraziana, per negare la possibilità di usucapire la cosa consegnata al procurator nell’ignoranza del dominus negotii574. F. 27 – D. 45.1.140 (L. 1046) Anche in questo brano si rinviene il riferimento a Paulus. Il dato formale, unito ad alcune considerazioni di ordine contenutistico, suggerisce di riconoscere tanto la mano di Nerazio575 quanto quella di Paolo576. Nel prosieguo approfondiremo l’argomento, ma prima è opportuno premettere alcune riflessioni utili alla comprensione del fenomeno giuridico e sociale sotteso. Il passo è in tema di stipulatio577, contratto verbale attraverso il quale, come è noto, un soggetto (promittente) si obbliga nei confronti di un altro (stipulante) al compimento di una determinata prestazione, il cui contenuto deve rispettare soltanto il limite del lecito e del possibile578. Il contratto si compone di una domanda e di una risposta: il debitore, interrogato dal creditore, daturum facturumve se quod interrogatus est responderit579. I verba possono essere differenti – spondere580, promittere, dare, facere e altri –, ma il verbo impiegato nella domanda deve coincidere con quello impiegato nella risposta581. Il dialogo richiede poi l’immediatezza582 e la presenza delle parti583.

574 Attribuisce, invece, il passo a Nerazio Landucci 1892, 415. Incerto si dichiara Ferrini 1894b, 233 nt. 1; secondo Benöhr 1972, 88 s., sarebbe riconducibile a Nerazio tutta la prima parte, fino a non usucapiam, mentre apparterrebbe a Paolo il tratto finale (quia-est). 575 Dall’inizio fino a varium fuit. Invece, Lenel 1889.I, 786, attribuisce a Nerazio soltanto la prima parte del par. 1 (e non il principium): De hac stipulatione: ‘annua bima trima die id argentum quaque die dari?’ apud veteres varium fuit. 576 Da Paulus al termine del brano. 577 Sulla stipulatio e sulla sua evoluzione, si veda, tra gli altri, Brandileone 1928, 60 ss.; Scherillo 1928, 10 ss.; Biondi 1953; Pastori 1961; Knütel 1976; Zuccotti 1987, 51 ss.; Sacconi 1989; Zuccotti 1992, 307 ss.; Biscotti 2002; Iodice 2004; Ferretti 2011, 523 ss.; Scognamiglio 2018; Casella 2018. 578 Cfr., ad esempio, Gai. 3.97-98: Si id, quod dari stipulamur, tale sit, ut dari non possit, inutilis est stipulatio, uelut si quis hominem liberum, quem seruum esse credebat, aut mortuum, quem uiuum esse credebat, aut locum sacrum uel religiosum, quem putabat humani iuris esse, dari stipuletur. 97a. Item si quis rem, quae in rerum natura esse non potest, uelut hippocentaurum, stipuletur, aeque inutilis est stipulatio. 98. Item si quis sub ea condicione stipuletur, quae existere non potest, uelut ‘si digito caelum tetigerit’, inutilis est stipulatio. Cfr., per tutti, Albanese 1982, 206 ss. 579 Cfr. anche Pomp. 26 ad Sab., D. 45.1.5.1: Stipulatio autem est verborum conceptio, quibus is qui interrogatur daturum facturumve se quod interrogatus est responderit. 580 È noto che in origine viene impiegato il verbo spondere, da cui il termine sponsio per indicare il contratto, negozio dello ius civile e proprio dei soli cives romani. Si legga infatti Gai. 3.93: … haec quidem verborum obligatio dari spondes? Spondeo propria civium Romanorum est; ceterae vero iuris gentium sunt, itaque inter omnes homines, sive cives Romanos sive peregrinos, valent. 581 Gai. 3.92: Verbis obligatio fit ex interrogatione et responsione, veluti dari spondes? spondeo, dabis? dabo, promittis? promitto, fidepromittis? fidepromitto, fideiubes? fideiubeo, facies? faciam. 582 Venul. 1 stip., D. 45.1.137pr.: Continuus actus stipulantis et promittentis esse debet (ut tamen aliquod momentum naturae intervenire possit) et comminus responderi stipulanti oportet: ceterum si post interrogationem aliud acceperit, nihil proderit, quamvis eadem die spopondisset. 583 Ulp. 48 ad Sab., D. 45.1.1pr.: Stipulatio non potest confici nisi utroque loquente: et ideo neque mutus neque surdus neque infans stipulationem contrahere possunt: nec absens quidem, quoniam exaudire invicem debent. si quis igitur ex his vult stipulari, per servum praesentem stipuletur, et adquiret ei ex stipulatu actionem. item si quis obligari velit, iubeat et erit quod iussu obligatus.

228

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 229

Commento ai testi Sennonché, può accadere che il contratto presenti una certa complessità, perché ad esempio è formato da numerose clausole, che solo il ricorso alla forma scritta può consentire di descrivere correttamente. In tale ipotesi, pertanto, si rende opportuno realizzare un collegamento tra lo scritto e la parola, una sorta di ‘rinvio’ che le parti fanno a quanto concordato in precedenza: haec, quae supra scripta sunt, ea ita dari fieri neque adversus ea fieri? Alla prassi584 – la redazione di un documento585 precede la dichiarazione orale – allude Nerazio586, la cui scrittura è verosimilmente riprodotta nella prima parte di D. 45.1.140 (fino a Paulus): in questo caso, scrive il giurista traianeo, si realizzano ‘tante stipulazioni quante sono le cose’ (tot stipulationes, quot res sint). Si tratta, come è stato notato587, di un buon compromesso tra oralità e scrittura: da una parte, si preserva il principio dell’oralità e, dall’altro, si persegue il vantaggio della certezza dello scritto, soprattutto laddove le clausole della promessa sono numerose e complesse. A questa specie di stipulatio il giurista affianca poi un’altra, connotata dal fatto che un soggetto promette di dare una determinata quantità di argento nei tre anni successivi, impegnandosi a distinti conferimenti articolati uno per anno: annua bima trima die id argentum quaque die dari? All’interrogativo – si può individuare un’unica stipulatio oppure una pluralità di stipulationes? – non viene data subito risposta, ma notizia del fatto che i veteres hanno avanzato soluzioni differenziate. Come è stato autorevolmente sostenuto588, è probabile che l’intera proposizione – apud veteres varium fuit – sia ascrivibile allo stesso Nerazio, il quale, sulla base delle fonti a noi pervenute, risulterebbe così il primo ad aver impiegato il termine veteres per riferirsi ai giuristi del passato589. A questo punto, Paulus, applicando in maniera estensiva il principio tot stipulationes quot res, chiude l’antico dissenso asserendo che debbono intravvedersi tre diverse stipulazioni. Su come poi valutare il commento paolino non è facile pronunciarsi: l’intervento del giurista severiano è stato interpretato come una critica alla decisione neraziana590, ma non ci sembra che ci siano argomenti tali da escludere che egli in realtà la avvalorasse a fronte della varietà di pareri che erano stati dati e che forse continuavano a circolare.

584 Alla prassi allude anche Paul. 3 epit. Alfeni digest., D. 17.2.71pr.: Duo societatem coierunt, ut grammaticam docerent et quod ex eo artificio quaestus fecissent, commune eorum esset: de ea re quae voluerunt fieri in pacto convento societatis proscripserunt, deinde inter se his verbis stipulati sunt: ‘haec, quae supra scripta sunt, ea ita dari fieri neque adversus ea fieri? si ea ita data facta non erunt, tum viginti milia dari?’. V. ancora Paul. 15 resp., D. 45.1.134.1.3: Idem respondit: plerumque ea, quae praefationibus convenisse concipiuntur, etiam in stipulationibus repetita creduntur, sic tamen, ut non ex ea repetitione inutilis efficiatur stipulatio. 3 Idem respondit, quotiens pluribus specialiter pactis stipulatio una omnibus subicitur, quamvis una interrogatio et responsum unum subiciatur, tamen proinde haberi, ac si singulae species in stipulationem deductae fuissent. 585 Pastori 1961, 243, secondo cui nel principium è documentata la prassi di far precedere alla dichiarazione orale un documento scritto, con verosimile efficacia probatoria. Sulla prassi, vedi anche Biondi 1953, 303. 586 Cfr., tra gli altri, Landucci 1892, 411; Ferrini 1894b, 232 s.; Mantovani 2017a, 279 e nt. 80. 587 Voci 1963, 70. 588 Mantovani 2017a, 279 e nt. 80. 589 Il termine veteres risulta impiegato anche da Giuliano in Iul. 86 dig., D. 9.2.51.1. Secondo Mantovani 2017a, 291 ss., Labeone sarebbe stato l’ultimo dei veteres e Masurio Sabino il primo dei “moderni”. 590 Ferrini 1894b, 232.

229

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 230

Paolo Ferretti Segue un lungo periodo, pure questo da alcuni591 ricondotto a Nerazio. Tuttavia, in assenza di ulteriori elementi di valutazione, a noi sembra più verosimile attribuirlo a Paolo. In questa parte si discute sulla regola secondo cui l’obligatio si estingue al verificarsi di una circostanza che avrebbe impedito alla stessa obbligazione di sorgere, in quanto vi sono alcune ipotesi in cui la regola medesima non trova applicazione. Ad esempio, è noto che la servitù non si possa costituire pro parte592 e questo implica il fatto che la medesima servitù non possa essere acquistata da un solo comproprietario né dallo stesso costituita. Di conseguenza, la stipulatio avente ad oggetto la costituzione di via iter actum ad fundum communem non può essere conclusa da un socius593. Ma, qualora l’unico titolare del fondo prometta la costituzione di via iter actum ad fundum e poi muoia, l’obbligazione nascente dalla stipulatio non si estingue nel caso in cui il de cuius lasci due eredi594. La situazione si trova descritta anche in un passo di Pomponio: Pomp. l.s. reg., D. 8.1.17: Viae itineris actus aquae ductus pars in obligationem deduci non potest, quia usus eorum indivisus est: et ideo si stipulator decesserit pluribus heredibus relictis, singuli solidam viam petunt: et si promissor decesserit pluribus heredibus relictis, a singulis heredibus solida petitio est. Non può essere dedotto in obbligazione la costituzione di una quota parte della via, del passaggio di persone, del passaggio di bestiame e carri e dell’acquedotto, perché l’uso di queste servitù è indivisibile; pertanto, nel caso in cui muoia colui il quale abbia stipulato di costituire la servitù, avendo lasciato più eredi, ciascuno di questi può chiedere giudizialmente la via per intero e, nel caso in cui muoia colui il quale abbia promesso di costituire la servitù avendo lasciato più eredi, vi è una azione petitoria per l’intero nei confronti dei singoli eredi.

La stipulatio avente ad oggetto l’obbligo di costituire una quota parte di via iter actus aquae ductus non è consentita, in quanto l’uso di simili servitù è indivisibile. Pertanto, nel caso in cui muoia colui il quale abbia stipulato di dare vita alla servitù, lasciando più eredi, ciascuno di essi potrà chiederla per l’intero e, in maniera speculare, essere convenuto sempre per l’intero dallo stipulante. La stessa eccezione si applica alle servitù. Anche queste, infatti, non possono essere costituite da uno solo dei comproprietari a vantaggio oppure a carico del fondo comune. Numerose sono le testimonianze595 che si possono addurre al riguardo, alcune dello stesso Paolo596.

591 Ferrini 1894b, 233, secondo cui questo periodo avrebbe la struttura del responso e non sarebbe paragonabile, quanto a forma, alle aggiunte di Paolo, bensì ai brani sicuri di Nerazio. 592 Cfr., per tutti e con altra bibliografia, Tuccillo 2009. 593 Si veda, ad esempio, Mod. 6 diff., D. 8.1.11; Paul. 6 ad Sab., D. 8.3.19; Paul. 12 ad Sab., D. 45.1.2.1; Paul. 5 sent., D. 45.1.136.1. 594 Cfr., per tutti, Solazzi 1935, 280; Grosso 1969, 154; Bonfante 1962-1979, 186. 595 Si veda, ad esempio, Ulp. 17 ad ed., D. 8.1.2; Pomp. l.s. reg., D. 8.1.17; Cels. 27 dig., D. 8.3.11; Ulp. 14 ad Sab., D. 8.3.18; Afric. 6 quaest., D. 8.3.32; Iav. 2 epist., D. 8.4.5; Ulp. 28 ad Sab., D. 8.4.6.1; Cels. 5 dig., D. 8.6.6.1; Paul. 21 quaest., D. 33.3.7. 596 Si legga Paul. 1 man., D. 8.4.18: Receptum est, ut plures domini et non pariter cedentes servitutes imponant vel adquirant, ut tamen ex novissimo actu etiam superiores confirmentur perindeque sit, atque si eodem tempore omnes cessissent. et ideo si is qui primus cessit vel defunctus sit vel alio genere vel alio modo partem suam alienaverit, post deinde socius cesserit, nihil agetur: cum enim postremus cedat, non retro adquiri servitus videtur, sed perinde habetur, atque si, cum postremus

230

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 231

Commento ai testi Tuttavia, una volta che l’unico proprietario dell’immobile ha costituito la servitù, questa viene conservata anche nel caso in cui una porzione del fondo, sia esso servente oppure dominante, inizi ad appartenere all’altro proprietario. Lo stesso concetto Paolo ribadisce nel commento ad Plautium: Paul. 15 ad Plaut.597, D. 8.1.8.1: Si praedium tuum mihi serviat, sive ego partis praedii tui dominus esse coepero sive tu mei, per partes servitus retinetur, licet ab initio per partes adquiri non poterat. Se io ho una servitù sul tuo fondo, sia che io cominci ad essere proprietario di una parte del tuo fondo, sia tu di una parte del mio, la servitù si conserva per parti, sebbene non potesse acquistarsi per parti fin dall’inizio.

Se io ho una servitù sul tuo fondo – scrive il giurista –, tanto nel caso in cui io inizi ad essere titolare di una parte del tuo fondo quanto tu di una parte del mio, la servitus viene conservata, benché ab initio non avrebbe potuto essere costituita per partes. F. 28 – D. 46.1.67 (L. 1047) Il brano non menziona il termine Paulus. Tuttavia, nonostante l’assenza dell’indizio che ci ha suggerito di riconoscere la paternità neraziana alla sezione antecedente il nome del giurista severiano, ci sembra ragionevole dividere il testo in due parti e assegnare la prima – dall’inizio a aequius est – a Nerazio e la seconda – da scilicet598 alla fine – a Paolo. Infatti, come si vedrà meglio nel prosieguo, il periodo conclusivo risulta correggere quanto precede, specificando una condizione di cui prima non si rinviene traccia alcuna. Il creditore, come è noto, può pretendere dal debitore delle garanzie, reali o personali, a tutela del proprio diritto599. Le garanzie personali600 consistono nell’affiancare al debitore un altro soggetto, il quale si obbliga nei confronti del creditore ad adempiere la stessa prestazione601: Gai. 3.115-116: Pro eo quoque, qui promittit, solent alii obligari; quorum alios sponsores, alios fidepromissores, alios fideiussores appellamus. 116. Sponsor ita interrogatur: idem dari spondes? fidepromissor ita: idem fidepromittis? fideiussor ita: idem fide tua esse iubes? videbimus de his autem, quo nomine possint proprie appellari, qui ita interrogantur: idem dabis? idem promittis? idem facies? A favore di chi promette sono soliti obbligarsi anche altri soggetti, alcuni dei quali chiamiamo sponsori, altri fidepromissori, altri fideiussori. 116. Lo sponsor è interrogato così: spondes (pro-

cedat, omnes cessissent: igitur rursus hic actus pendebit, donec novus socius cedat. idem iuris est et si uni ex dominis cedatur, deinde in persona socii aliquid horum acciderit. ergo et ex diverso si ei, qui non cessit, aliquid tale eorum contigerit, ex integro omnes cedere debebunt: tantum enim tempus eis remissum est, quo dare facere possunt vel diversis temporibus possint, et ideo non potest uni vel unus cedere… 597 Cfr. cap. I, par. 2. 598 Sul punto, Lenel 1889.I, 1143 e nt. 1, annota prima del termine scilicet: “Paulus notat ins.?”. 599 Gai. 3.117: Sponsores quidem et fidepromissores et fideiussores saepe solemus accipere, dum curamus, ut diligentius nobis cautum sit… 600 Sulle garanzie personali, si veda tra gli altri Levy 1907; De Martino 1940; Frezza 1962; Talamanca 1968a, 117 ss.; Talamanca 1968b, 326 ss.; Zimmermann 1992, 114 ss.; Mannino 1992; Briguglio 1999; Mannino 2001, 907 ss.; Vacca 2003; Mannino 2004; Steiner 2009; Parenti 2012; Fenocchio 2014; Cardilli 2016, 543 ss. 601 È noto che svolgevano funzione di garanzia anche il mandatum credendi e il constitutum debiti alieni.

231

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 232

Paolo Ferretti metti) che sarà dato lo stesso? Il fidepromissore così: fideprometti lo stesso? Il fideiussore così: presti fideiussione per lo stesso? Vedremo poi con quale nome propriamente si possano chiamare quelli che sono interrogati così: darai lo stesso? Prometti lo stesso? Farai lo stesso?

Sponsio, fidepromissio e fideiussio, nonostante alcune differenze602, sono tutte assoggettate ad alcune regole, considerata la comune natura di essere concluse in funzione di un’altra obbligazione: ad esempio il garante non può essere tenuto ad una prestazione più gravosa rispetto a quella del debitore principale603; l’invalidità dell’obbligazione principale si riflette sull’obbligazione di garanzia604; ancora, se il debitore principale adempie ed estingue la propria obbligazione, anche l’obbligazione di garanzia si estingue605, così come, parallelamente, se il garante adempie la prestazione, l’obbligazione principale si estingue, con conseguente effetto liberatorio per il debitore606. In quest’ultimo caso, tuttavia, il garante può rivolgersi nei confronti del debitore principale per chiedere il rimborso, facendo valere il diverso rapporto intercorrente con il medesimo debitore, rapporto che gli consente di agire con l’actio mandati607 oppure, in assenza di quest’ultima, con l’actio negotiorum gestorum608: Paul. 32 ad ed., D. 17.1.22pr.: Si mandavero tibi, ut pro me in diem fideiubeas tuque pure fideiusseris et solveris, utilius respondebitur interim non esse tibi mandati actionem, sed cum dies venerit. Se io ti avrò conferito mandato di prestare fideiussione con un termine iniziale a mio favore e tu avrai prestato fideiussione puramente ed avrai pagato, il responso più utile sarà che, nell’intervallo, a te non spetta l’azione di mandato, ma quando sarà scaduto il termine. Paul. 11 ad Sab., D. 17.1.20.1: Fideiussori negotiorum gestorum est actio, si pro absente fideiusserit: nam mandati actio non potest competere, cum non antecesserit mandatum. Al fideiussore spetta l’azione di gestione di affari altrui, se ha prestato fideiussione a favore di un assente: infatti, non può spettargli un’azione di mandato, se non ci sia stato un precedente mandato. Paul. 9 ad ed., D. 17.1.40: Si pro te praesente et vetante fideiusserim, nec mandati actio nec negotiorum gestorum est: sed quidam utilem putant dari oportere: quibus non consentio, secundum quod et Pomponio videtur609.

602 Si legga, ad esempio, Gai. 3.118-127. La sponsio, forma di garanzia più antica, è propria dei cittadini romani, mentre la fidepromissio può concludersi anche tra cittadini e stranieri; entrambe accedono esclusivamente ad obbligazioni verbis contractae. Con la fideiussio, invece, si può garantire ogni obbligazione – sia questa sorta verbis, litteris, re o consensu –, sia civile che naturale. Inoltre, sponsio e fidepromissio obbligano il garante soltanto per un biennio e sono intrasmissibili agli eredi, al contrario della fideiussio, la quale è perpetua e trasmissibile agli eredi. 603 Gai. 3.126, secondo cui ‘uguale è la posizione di tutti, sponsores e fidepromissores e fideiussores, anche dal punto di vista che non si possono obbligare in modo da dovere di più di quanto dovuto da colui in favore del quale sono intervenuti’. Cfr. anche Ulp. 47 ad Sab., D. 46.1.8.7; Iul. 53 dig., D. 46.1.16.1; Pap. 27 quaest., D. 46.1.49.2. 604 Ulp. 24 ad Sab., D. 24.1.5.4; Ulp. 48 ad Sab., D. 45.1.1.2; Iul. 53 dig., D. 46.1.16pr. 605 Scaev. 1 resp., D. 46.1.60; Marcian. 3 reg., D. 46.3.46. 606 Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.10.11; Iul. 90 dig., D. 46.1.18; Ulp. 50 ad Sab., D. 46.4.13.7. 607 Gai. 3.127; Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.10.11; Pomp. 3 ex Plaut., D. 17.1.47.1; Scaev. 6 dig., D. 17.1.62.1; Ulp. 10 disp., D. 50.17.60; Imp. Gordianus A. Aelio Sosibio militi, C. 4.35.6. 608 Ulp. 45 ad Sab., D. 46.1.4pr.; v. anche Paul. 11 ad Sab., D. 17.1.20.1. 609 In argomento si legga anche Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.6.2.

232

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 233

Commento ai testi Se avessi dato fideiussione per te, che eri presente e me lo vietavi, non spetta l’azione di mandato né di gestione di affari altrui; ma taluni reputano che si debba concedere un’azione in via utile; io, secondo quanto è parso anche a Pomponio, non concordo con questi.

Sennonché, la regola ora esposta soffre alcune limitazioni610, una delle quali può leggersi in D. 46.1.67: ti sei obbligato in qualità di garante – è ragionevole pensare, pur in assenza di una espressa terminologia, che si tratti di un’ipotesi di fideiussione611 – nei confronti di un creditore, in forza di un mandato ricevuto dal debitore principale. Quindi, sei stato chiamato in giudizio dal creditore e hai sollevato una eccezione allo scopo di essere assolto, ma non sei riuscito ad evitare la condanna iniuria iudicis. Da qui l’interrogativo che ispira il prosieguo del passo: tu, in seguito alla condanna subita a favore del creditore, puoi chiedere il rimborso al debitore principale facendo valere il rapporto di mandato? Il responso è negativo: ‘niente a te sarà dato iure mandati, in quanto è più equo che l’ingiustizia che ti è stata fatta rimanga a tuo carico, anziché essere trasferita ad altri’. Segue un’ultima proposizione, introdotta da scilicet, nella quale si precisa che la soluzione appena fornita viene ad essere subordinata al fatto che tu (mandatario-garante) abbia offerto motivo culpa tua all’ingiusta condanna612. Visto il contenuto, veniamo alla paternità del testo, rispetto al quale siamo propensi a intravvedere, come sopra accennato, sia la scrittura di Nerazio (fino a aequius est) che quella di Paolo (da scilicet alla fine), seguendo autorevoli studiosi che assegnano al giurista traianeo la parte del passo almeno fino a iure mandati613 o fino a aequius est614. L’indizio che ci suggerisce questa duplice attribuzione risiede nel fatto che a partire da scilicet si riscontra una discontinuità rispetto a quanto precede e un deciso cambiamento della soluzione. Ripercorriamo brevemente il caso: il garante, chiamato in causa dal creditore, solleva un’eccezione, ma viene condannato iniuria iudicis. Si chiede se il mandatario-garante possa ottenere il rimborso dal debitore principale. La prima risposta a questo interrogativo è negativa, in quanto è più equo che l’ingiustizia fatta ad uno (garante) non si rifletta sull’altro (debitore principale). L’argomentazione, dunque, è incentrata su un dato oggettivo, che prescinde da profili di colpevolezza615; il regresso è escluso perché il debitore principale, estraneo al processo, non è responsabile della condotta del giudice: è pertanto aequius est che egli non debba farsi carico dell’ingiusta condanna subìta dal garante.

610 Si veda, tra i numerosi casi, Paul. 32 ad ed., D. 17.1.22.1: Item tractatum est, si, cum in diem deberem, mandatu meo in diem fideiusseris et ante diem solveris, an statim habeas mandati actionem. et quidam putant praesentem quidem esse mandati actionem, sed tanti minorem, quanti mea intersit superveniente die solutum fuisse. sed melius est dici interim nec huius summae mandati agi posse, quando nonnullum adhuc commodum meum sit, ut nec hoc ante diem solvam. 611 Cfr., tra gli altri, Marrone 1955, 160 e 175; Stein 1958, 123; Pugliese 1962, 756. 612 Pertanto, nel caso in cui il mandatario-garante non avesse avuto alcuna colpa nell’ingiusta condanna, avrebbe potuto chiedere il rimborso al debitore principale. 613 Cfr., per tutti, Ferrini 1894b, 233. 614 Cfr., ad esempio, Landucci 1892, 414. Sul punto, Lenel 1889.I, 1143 nt. 1, annota dopo aequius est “Paulus notat ins.?” 615 Cfr., in questo senso e in maniera assai lucida, Maifeld 1991, 98 ss.

233

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 234

Paolo Ferretti Sennonché, come detto sopra, questo responso viene sovvertito nell’ultima parte, in cui il mancato rimborso al garante-mandatario viene ancorato al fatto che il medesimo garante abbia culpa dell’ingiusta condanna616. Si passa, pertanto, da un criterio oggettivo ad un criterio soggettivo, segno, questo, del probabile intervento paolino617. Per ulteriori considerazioni in argomento, utile si rivela la lettura di: Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.8.8: Quod et ad actionem fideiussoris pertinet. et hoc ex rescripto divorum fratrum intellegere licet, cuius verba haec sunt: ‘Catullo Iuliano. Si hi, qui pro te fideiusserant, in maiorem quantitatem damnati, quam debiti ratio exigebat, scientes et prudentes auxilium appellationis omiserunt, poteris mandati agentibus his aequitate iudicis tueri te’. igitur si ignoraverunt, excusata ignorantia est: si scierunt, incumbebat eis necessitas provocandi, ceterum dolo versati sunt, si non provocaverunt. quid tamen, si paupertas eis non permisit? excusata est eorum inopia. sed et si testato convenerunt debitorem, ut si ipse putaret appellaret, puto rationem eis constare. E questo riguarda anche l’azione del fideiussore. Ciò si può dedurre anche da un rescritto dei divini imperatori fratelli, le cui parole sono queste: ‘A Catullo Giuliano. Se coloro che hanno prestato fideiussione per te sono stati condannati per una quantità maggiore di quella che esigeva il rendiconto del debito e in maniera consapevole e deliberata non hanno approfittato del rimedio dell’appello, tu potrai difenderti in forza dell’equità in base alla quale deve valutare il giudice nel momento in cui costoro agiscano contro di te con l’azione contraria di mandato’. Pertanto, se essi ignoravano di poter proporre appello, la loro ignoranza è scusata; se lo sapevano, avevano l’obbligo di proporre appello e, se non lo hanno fatto, hanno agito con dolo. Che dire, tuttavia, se la povertà non glielo consentì? La loro indigenza li scusa. Ma io reputo che il loro comportamento abbia una ragione di giustificazione anche qualora, davanti a testimoni, abbiano convocato il debitore affinché, qualora lo reputasse conveniente, egli stesso proponesse appello.

Ulpiano riporta un rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero: i fideiussori sono stati condannati per una somma più elevata rispetto a quella garantita618. Ciononostante, i medesimi, in maniera consapevole e deliberata, non promuovono appello e si rivolgono al debitore principale per chiedere il rimborso. A quest’ultimo prestano soccorso i divi fratres, ricordando che egli può difendersi invocando l’aequitas619. Si notano alcune differenze con D. 46.1.67: Nerazio, a fronte di una ingiusta condanna del garante, nega in ogni caso il rimborso, mentre i divi fratres sembrano al contrario ammettere una pretesa al risarcimento in forza del rapporto di mandato, ad eccezione dei casi

616

In altri termini, il garante avrebbe diritto al rimborso nel caso in cui non avesse culpa dell’ingiusta condanna. Frezza 1962, 174 s., ha ritenuto il tratto finale (scilicet – praebuisti) oggetto di una glossa. Dunque, la giustificazione della colpa, quale causa di esclusione del regresso, non sarebbe genuina: il giurista avrebbe motivato sull’idea che l’onere della condotta del processo possa implicare anche l’alea di una ingiusta condanna. A mio avviso, invece, la postilla può essere attribuita a Paolo (rimando alle argomentazioni esposte nel testo). 618 Nel passo nulla si dice circa la ragione di questa maior quantitas. 619 Nel testo si leggono alcune situazioni a favore dei fideiussori o, al contrario, del debitore principale: se i garanti non sapevano di poter proporre appello, la loro ignoranza è scusata, mentre sono reputati agire con dolo se lo sapevano; se poi la povertà non ha consentito loro di proporre appello, sono scusati; Ulpiano pensa infine che una ragione di giustificazione possa intravvedersi nel fatto che i garanti, davanti a testimoni, abbiano convocato il debitore ut si ipse putaret appellaret. 617

234

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 235

Commento ai testi in cui sia ravvisabile nei garanti una sorta di colpa, consistente nel caso specifico nell’avere essi, scientes et prudentes, omesso di impugnare l’errata sentenza in appello. Di iniuria iudicis, di exceptio e di appellatio si legge poi in una costituzione più tarda: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Aurelio Papio, C. 4.35.10620: … fideiussorem vero seu mandatorem exceptione munitum et iniuria iudicis damnatum et appellatione contra bonam fidem minime usum non posse mandati agere manifestum est (a. 293). … È altresì manifesto che il fideiussore o il mandante, munito di eccezione e condannato per l’ingiustizia del giudice e che non è ricorso al rimedio dell’appello contro la buona fede, non possa agire con l’azione di mandato.

Anche Diocleziano e Massimiano sembrano riconoscere al garante, condannato iniuria iudicis621, la possibilità di ottenere il risarcimento dal debitore principale, tranne il caso in cui il medesimo garante non abbia fatto ricorso al rimedio dell’appellatio contro la buona fede622. Dunque, questi ultimi testi potrebbe documentare, come è stato sostenuto623, uno sviluppo normativo iniziato posteriormente a Nerazio, avvalorando così l’ipotesi di riconoscere in D. 46.1.67 due diverse ‘mani’; fino a aequius est è Nerazio a scrivere: egli introduce il caso e lo risolve attraverso parametri di natura oggettiva; poi, da scilicet interviene Paolo: egli corregge l’opinione del giurista traianeo subordinandola a criteri di natura soggettiva, seguendo le modifiche nel frattempo introdotte.

LIBRO IV F. 29 – D. 34.1.23 (L. 1048) Il brano riporta le differenti opinioni di Nerazio e di Paolo circa l’interpretazione di un fedecommesso avente ad oggetto l’obbligo di educare qualcuno: nella prima parte, in un passaggio attribuibile a Nerazio624, è riportato il contenuto essenziale di tale disposizione (ut quendam educes) e la soluzione di questo giurista, secondo cui l’erede fedecommissario sarebbe obbligato a fornire al beneficiario ciò che risultasse necessario per il vitto (ad victum necessaria);

620 C. 4.35.10. Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Aurelio Papio. Si pro ea contra quam supplicas fideiussor seu mandator intercessisti et neque condemnatus es neque bona eam dilapidare postea coepisse comprobare possis, ut iustam metuendi causam praebeat, neque ab initio ita te obligationem suscepisse, ut eam possis et ante solutionem convenire, nulla iuris ratione, antequam satis creditori pro ea feceris, eam ad solutionem urgueri certum est. fideiussorem vero seu mandatorem exceptione munitum et iniuria iudicis damnatum et appellatione contra bonam fidem minime usum non posse mandati agere manifestum est. (a. 293). 621 Anche in questo caso, sembrerebbe che il giudice non abbia rilevato l’exceptio sollevata dal garante. 622 Cfr., per tutti, Pothier 1842, 30. 623 Così Maifeld 1991, 104 ss. 624 In proposito non sono stati sollevati dubbi dagli interpreti che, sulla scia di Lenel 1889.I, 784 (L. 162), mostrano di considerare la prima parte del brano come la trascrizione letterale di un passo neraziano.

235

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 236

Alvise Schiavon nella seconda, introdotta da Paulus, il giurista posteriore ne propone un’interpretazione estensiva, secondo cui una tale disposizione implica anche il dovere di garantire vestiti e abitazione, come avviene nel caso di legato di alimenti. Per quanto concerne la natura della disposizione mortis causa oggetto della riflessione di Paolo e Nerazio e riportata nella prima parte del brano, la sua qualificazione come fedecommesso discende dall’uso del verbo rogare: esso infatti viene tipicamente ricollegato a disposizioni precative come i fedecommessi625 ed esso potrebbe addirittura rimandare all’antica prassi delle rogationes mortis causa – da cui si sviluppò l’istituto del fedecommesso sanzionabile nelle forme della cognitio extra ordinem626 – con cui un soggetto pregava un amico, sulla base della fides, di eseguire la sua ultima volontà627. Già nell’età del Principato, peraltro, come conseguenza della riflessione dei giuristi nonché degli interventi normativi imperiali, si pervenne ad una sostanziale equiparazione del fedecommesso con il legato e le altre disposizioni testamentarie di ius civile628. Si tratta dunque di un fedecommesso a titolo particolare, con cui si impone all’erede istituito l’obbligo di provvedere all’allevamento o educazione di qualcuno: di esso è riportato solo il contenuto essenziale (ut quendam educes) e si pone dunque il problema di individuare i limiti dell’obbligo dell’erede onerato e, di conseguenza, l’ampiezza del diritto in capo al beneficiario della disposizione fedecommissaria; l’interpretazione dei due giuristi sembra prescindere dall’esistenza di eventuali codicilli o altri rapporti intercorrenti tra i soggetti. La prassi di provvedere alla necessità di fornire a un soggetto i mezzi di sussistenza per vivere e mantenersi attraverso disposizioni mortis causa si diffuse a Roma in tempi antichi e assunse diverse forme giuridiche629: fin da tempi risalenti si diffuse la prassi, attestata in fonti giuridiche630 e in papiri631, di istituire un legato di vettovaglie (legatum penoris)632 con cui il testatore imponeva

625 La distinzione tra disposizioni testamentarie – in particolare istituzione di erede e legati – che dovevano essere disposte utilizzando forme solenni, tassative ed imperative (tra i tanti Voci 1963, 121 ss.) e disposizioni fedecommissarie, sia a titolo particolare (analoghe dunque ai legati) che universale (analoghe all’istituzione di erede), che sarebbero disposti in forma libera ma con precativo modo, è insegnamento tradizionale basato su talune fonti (tra cui in primis Tit. Ulp. 24.1), ma la dottrina più autorevole nega che la distinzione tra forme precative e imperative possa essere assunta come sicuro criterio per distinguere le due figure (Biondi 1955, 290 e 305; Talamanca 1990, 50) specie se si considera la totale libertà di forma valevole per le disposizioni fedecommissarie, che erano ritenute valide ed efficaci anche se espresse in forma imperativa. 626 Secondo il racconto riportato nelle Istituzioni di Giustiniano (Inst. 2.25pr.), a tali disposizioni mortis causa venne riconosciuta piena tutelabilità sul piano giuridico dopo che Augusto decise, su consiglio del giurista e amico Trebazio Testa, di considerare come vincolanti e dunque di adempiere le volontà manifestate da L. Lentulo nel suo testamento con cui aveva istituito erede l’imperatore, al contempo onerandolo di fedecommessi in codicilli confirmati. In seguito a questa vicenda, della cui storicità gli studiosi non dubitano, il compito di provvedere extra ordinem a sanzionare le disposizioni fedecommissarie fu affidato prima ai consoli e poi a una speciale magistratura (praetor fideicommissarius). Su questa testimonianza e, in generale, sull’evoluzione storica dell’istituto del fedecommesso si può fare riferimento a Grosso 1962, 30 ss.; Kaser 1968, 176 ss. e Watson 1971, 36 ss. 627 Biondi 1955, 286 e Impallomeni 1967, 156 ss. 628 Grosso 1962, 126 ss.; Impallomeni 1967, 180. 629 Un’utile panoramica del fenomeno in Boyer 1965, 341 ss. 630 Fonti inserite dai compilatori nel titolo 33.9 de penu legata. Su questo legato Ormanni 1962, 617 ss.; Astolfi 1969, 77 ss. e di recente Biavaschi 2007, 177 ss. 631 Sulle attestazioni di obblighi di mantenimento alimentare nei papiri egizi Taubenschlag 1936, 505 ss. 632 L’etimologia più accreditata riconduce l’espressione penus all’area semantica collegata alle divinità dei penates: cfr. sul tema le osservazioni di Lauria 1975, 544 ss.

236

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 237

Commento ai testi all’onerato l’obbligo, assistito da una clausola penale633, di fornire a un soggetto, spesso la moglie, le provviste presenti in casa634; il testatore poteva poi attribuire direttamente al beneficiario un diritto reale su uno o più beni, tipicamente attraverso un legato di usufrutto635 (ma anche di proprietà)636; ovvero, ancora, obbligare l’erede a fornire al beneficiario una serie di prestazioni ricorrenti, sia nella forma di un legato che, come in questo caso, di una disposizione fedecommissaria. Un tale legato (o fedecommesso) obbligatorio a prestazioni ricorrenti poteva avere ad oggetto una somma di denaro, dando così luogo a un legato di rendita637, ovvero la prestazione continuativa di cibaria638, vestiaria639 ovvero – con termine più generico – alimenta640. Non bisogna confondere queste pratiche con gli obblighi ex lege al mantenimento641 che, a partire dall’età del Principato, vennero riconosciuti prima nei rapporti tra liberto e patrono642 e, più tardi (ma forse già a partire da Vespasiano)643, anche verso membri della fa-

633 Il legatum penoris assumeva dunque la forma di un legato per damnationem assistito da clausola penale (così Ormanni 1962, 579 ss.; Biavaschi 2007, 133 ss.). 634 La giurisprudenza ebbe modo di discutere ampiamente i limiti della obbligazione dell’onerato (e così l’interpretazione del termine penus): si vedano Astolfi 1969, 123 ss.; Biavaschi 2007 e 2009; Felici 2020, 8 ss. 635 Sull’origine dell’usufrutto dalla prassi, invalsa dalla fine del III sec. a.C. con finalità essenzialmente cautelari e di mantenimento, di legare tale diritto reale minore alla uxor la romanistica appare concorde: cfr. tra i molti Grosso 1958, 13 ss.; Bretone 1962, 20 (ma si consideri la recente ipotesi di Pietrini 2008, 63 ss. che non sembra però aver cambiato la communis opinio). 636 Mod. 10 resp., D. 34.1.4pr. e Val. 1 fideic., D. 34.1.22.1. Secondo Voci 1963, 308 in questo caso il legato conserverebbe il regime suo proprio, mentre la dichiarazione da parte del testatore della sua funzione alimentare assumerebbe solo il carattere di causa o demonstratio. 637 Voci 1963, 308 e Astolfi 1979, 91 ss. 638 Mod. 11 resp., D. 34.1.5; Scaev. 17 dig., D. 34.1.15.1; Ulp. 2 fideic., D. 34.1.21. 639 Pomp. 4 ad Q.M., D. 34.2.33. 640 Sui legati e i fedecommessi di alimenta, cui nella compilazione giustinianea è dedicato il titolo 34.1 de alimentis vel cibariis legatis, le trattazioni più esaurienti, per quanto risalenti, rimangono Biondi 1955, 461 ss.; Voci 1963, 307 ss.; Astolfi 1979, 104 ss. 641 Sul tema si sono susseguiti diversi interventi e ricerche, tra i quali vale la pena senz’altro segnalare il risalente saggio di Albertario 1925, 249 ss.; le più recenti riflessioni di Zoz 1970, 323 ss. e Albanese 1979, 268 ss.; in anni più vicini sono tornati sulla questione De Francesco 2001, 29 ss.; Sandirocco 2013; Centola 2013 e Saccoccio 2014, 3 ss. 642 La lex Aelia Sentia del 4 d.C., infatti, sanzionava l’inosservanza di un tale dovere, sia da parte del patrono che del liberto, con la perdita della libertà, da un lato, e la perdita delle aspettative successorie dall’altro: Zoz 1970, 325; Saccoccio 2014, 7. L’origine di queste primigenie forme di tutela degli obblighi di mantenimento tra liberti e patroni affondano le radici nella giurisdizione consolare, come si deduce dal fatto che molte testimonianze conservate nella sedes materiae del titolo 25.3 sono estratti da libri de officio consulis di Ulpiano (così ad esempio Albertario 1925, 251; Zoz 1970, 323). 643 Si è a lungo discusso circa le ragioni dell’emersione relativamente ‘tarda’ di questi obblighi. Secondo la dottrina tradizionale, il riconoscimento di un obbligo alimentare sarebbe stato radicalmente incompatibile con la struttura familiare romana, alla luce dello ius vitae ac necis del pater (e conseguente ius exponendi) nonché dalla mancanza di capacità patrimoniale e processuale del filius (così in particolare Albertario 1925, che ne riconosceva un’origine giustinianea; ma cfr. anche già le precisazioni di Lanfranchi 1940, 17 ss. circa la presunta incompatibilità tra ius exponendi e obbligo alimentare). Di contro alla rigida impostazione di questo autore è oggi ammesso che obblighi di prestazione di alimenta tra membri della famiglia sanzionabili giurisdizionalmente si siano affermati fin dall’epoca del Principato nel quadro della cognitio extra ordinem (in questo senso già la ricostruzione di Orestano 1957, 482 ss.): un primo riconoscimento legislativo di un tale diritto potrebbe essere avvenuto con il SC Plancianum, del periodo di Vespasiano (Zoz 1970, 325). Alcune fonti retoriche e giuridiche suggeriscono che potrebbe trattarsi di una progressiva attrazione entro l’ambito giuridico di obblighi che si erano affermati nella prassi come ‘doveri morali’ (così Sachers 1951, 311; Centola 2013) ovvero ‘obblighi non giuridicizzati’ (così Saccoccio 2014, 7).

237

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 238

Alvise Schiavon miglia in situazione di bisogno. Peraltro, anche con riferimento a queste figure di obbligazione ex lege agli alimenta644 la giurisprudenza venne posta davanti all’esigenza di delimitare il contenuto645 dell’obbligo alimentare, per cui l’interpretazione dei due istituti – legati e fedecommessi alimentari e obblighi ex lege al mantenimento – si influenzò reciprocamente646. Il termine tecnico che finisce gradualmente per assorbire l’intero spettro dei doveri di fornire assistenza materiale è proprio quello di alimenta, attorno alla cui interpretazione, di conseguenza, si imposta la discussione circa l’estensione dell’obbligazione di mantenimento, fosse essa prevista ex lege o sulla base di una disposizione mortis causa a titolo particolare avente ad oggetto, genericamente, la prestazione degli alimenta647. Peraltro, l’estensione della nozione giuridicamente rilevante di alimenta appare diversamente intesa non solo dai diversi giuristi, ma pure dal medesimo giurista in diversi contesti: così, in alcune testimonianze, gli alimenta sembrano ricomprendere solo cibaria (o diaria) e vestimenta648, mentre in altre essi ricomprendono anche la habitatio649. È probabile che, anche in questo ambito, i giuristi romani si siano mossi in modo casistico, declinando le diverse soluzioni all’evoluzione sociale e alle singole fattispecie che di volta in volta si presentavano650. Molti autori ravvedono comunque nelle testimonianze pervenuteci la traccia di un’evoluzione nell’interpretazione del contenuto tipico delle obbligazioni alimentari sia di origine negoziale651 che ex lege652, al termine del quale il termine alimenta “a été considérablement élargi dans sa significat”653, finendo per ricomprendere, accanto agli elementi minimi di cibaria e vestimenta, anche il dovere di fornire un luogo di dimora (habitatio). Ancora al tempo della giurisprudenza severiana, e in particolare di Paolo, gli esatti confini dell’obbligo di alimenta – fosse esso di fonte legale o negoziale – non appaiono comunque delineati in modo univoco e alcune testimonianze sembrerebbero annoverare tra i doveri del soggetto debitore di un’obbligazione alimentare anche la prestazione di cure mediche (medicinae)654 o, come vedremo subito, di ciò che era necessario per l’avviamento a una professione (disciplina)655.

644

Sulla natura di tali obbligazioni è tornato di recente Saccoccio 2014, 11 ss. Zoz 1970, 353 ss. 646 Riconosceva l’unità dell’evoluzione degli obblighi alimentari negoziali e legali già Orestano 1957, 482 ss.; la prospettiva è esplicitamente sviluppata in Wycisk 1972, 205 ss. e Saccoccio 2012, 139 ss. 647 In questo senso Wycisk 1972, 206 e Saccoccio 2012, 148. 648 Mod. 10 resp., D. 34.1.4pr.; Paul 14 resp., D. 34.1.12; Scaev. 18 dig., D. 34.1.16pr.; Scaev. 3 resp., D. 34.20.1; Scaev. 20 dig., D. 38.1.18.1. 649 Iav. 2 ex Cassio, D. 34.1.6; Scaev. 18 dig., D. 34.1.16.2; Ulp. 2 fideic., D. 34.1.21. Su queste oscillazioni concettuali e terminologiche cfr. Wycisk 1972, 209; Astolfi 1979, 104. 650 Ammette la difficoltà di ricondurre il diritto degli alimenti a un quadro concettuale chiaro già Orestano 1957, 483; spiegano questa difficoltà col carattere ‘casistico’ della giurisprudenza romana esplicitamente Wycisk 1972, 205 e Astolfi 1979, 105. 651 Astolfi 1979, 105 ss.; Saccoccio 2012, 148 ss. 652 Sandirocco 2013, 3 ss. 653 Wycisk 1972, 211. Tale progressivo allargamento dell’area semantica del termine alimenta si svolge in parallelo ad un equivalente allargamento del significato di victus (così in particolare Wycisk 1972, 209 ss. e Saccoccio 2012, 147 ss.). 654 Wycisk 1972, 210 ss. con riferimenti alla letteratura precedente, e Astolfi 1979, 106. 655 Alcuni testi mostrano che la giurisprudenza senz’altro giunse a porsi il problema: Iav. 2 ex Cassio, D. 34.1.6; Iul. 21 dig., D. 27.2.4; Paul. 41 ad ed., D. 37.10.6.5. 645

238

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 239

Commento ai testi La posizione di Paolo sul tema, come risulta dal passo in esame e dal complesso delle testimonianze paoline pervenuteci, appare emblematica del progressivo ampliamento della nozione rilevante di alimenta e, al contempo, delle difficoltà ad individuare un contenuto tassativo del relativo obbligo: in Paul. 14 resp., D. 34.1.12, nell’interpretazione di un legato di cibaria e vestimenta, egli non nomina la habitatio, mentre nel brano in esame egli sostiene, contro all’opinione di Nerazio, che il legato di alimenta contiene anche l’elemento della habitatio656; commentando l’obbligo ex lege del tutore di mantenere il pupillo, Paolo in Paul. 41 ad ed., D. 37.10.6.5657 insiste sul fatto che esso ricomprende non solo il dovere di prestare gli alimenti ma anche, laddove le condizioni economiche dell’onerato lo consentano (pro modo facultatium), il dovere di avviarlo agli studi658. La romanistica è, da un lato, concorde659 nell’affermare che Paolo fu tra quanti si opposero a un’interpretazione restrittiva del concetto di alimenta, risalente alla giurisprudenza repubblicana e ancora fatta propria da Nerazio nel brano riportato660, e che aderì quindi a quel filone sempre più cospicuo di giuristi che, a partire dal Principato661, forse anche sulla scia del progressivo riconoscimento legislativo degli obblighi di mantenimento, aveva propugnato un allargamento della nozione di alimenta a vestiti e dimora. D’altro lato, per quanto concerne la riconducibilità, nella prospettiva paolina, dell’obbligo di fornire un’educazione al soggetto beneficiato tra gli oggetti dell’obbligazione alimentare mi pare che lo stato delle fonti non consenta eccessive generalizzazioni: il brano in parola sembra, effettivamente, presupporre un’equivalenza, dal punto di vista contenutistico, tra fedecommesso ‘ut educes’ e legatum alimentare662, ma non specifica se tra i doveri tipici dell’onerato del fedecommesso ‘ut educes’ sia da annoverare quello di fornire un’educazione in senso moderno663, e

656 Diversamente si è espresso recentemente González Roldán 2019, 177 ss., secondo il quale Nerazio avrebbe ricompreso entro il concetto di victus sia la cibaria che la habitatio, come si dovrebbe dedurre dal confronto con Ulp 58 ad ed., D. 50.16.43, da cui si ricava che già Labeone contava i vestiaria tra il victus, e da Ner. 1 resp., D. 38.1.50.1, che però riguarda una fattispecie peculiare in tema di relazioni tra liberto e patrono. 657 Non solum alimenta pupillo praestari debent, sed et in studia et in ceteras necessarias impensas debet impendi pro modo facultatium (non si devono prestare al pupillo solo gli alimenti, ma deve spendersi anche negli studi e nelle altre spese necessarie, a seconda delle possibilità). 658 Poco si può dedurre dal confronto con un’altra testimonianza tratta dal medesimo libro XIV dei suoi responsa – Paul. 14 resp., D. 34.1.7. Essa consiste in una laconica chiosa circa la rilevanza della diversa volontà del testatore (nisi aliud testatorem sensisse probetur): dalla sua collocazione nella compilazione sembrerebbe che Paolo si riferisse, specificandola ma condividendola, alla precedente affermazione di Giavoleno in Iav. ex Cassio, D. 34.1.6 secondo cui sulla base di un legato di alimenti si devono gli alimenti, i vestiti e la abitazione, poiché senza questi il corpo non può essere alimentato; le altre cose che riguardano la disciplina non sono contenute nel legato (legatis alimentis cibaria et vestitus et habitatio debebitur, quia sine his ali corpus non potest: cetera quae ad disciplinam pertinent legato non continentur). 659 Voci 1963, 308 nt. 214; Boyer 1965, 343 ss.; Wycisk 1972, 216 ss.; Astolfi 1979, 105; Saccoccio 2012, 152. 660 Vale la pena ricordare che diverse fonti testimoniano di una peculiare attenzione di Nerazio alla definizione dell’oggetto del legato con cui veniva attribuito un bene (fundus, domus, taberna) ‘cum instrumento’, su cui di recente González Roldán 2014. 661 Le testimonianze maggiormente significative in questo senso sono quella di Ofilio citato in Gai. 2 ad leg. duod. tab., D. 50.16.234 e quella di Labeone riportata in Ulp. 58 ad ed., D. 50.16.43. 662 Come giustamente notato da Voci 1963, 308 nt. 214 e Zoz 1970, 354. 663 In realtà la stessa traduzione di tale fedecommesso ‘ut educes’ come ‘fedecommesso di istruzione’ (così ad es. Voci 1963, 308 nt. 214) o ‘di educazione’ (così Saccoccio 2012, 152) può risultare fuorviante, ed appare più precisa una qualifica come ‘fedecommesso di allevamento’ (Astolfi 1979, 105).

239

SIR_XII_04_Commento.qxp_Layout 1 06/12/21 10:34 Pagina 240

Alvise Schiavon anzi il confronto tra le due figure sembra finalizzato a propugnare l’estensione del contenuto del fedecommesso, più che del legato664. Per quanto riguarda la collocazione palingenetica del passo, Lenel ha seguito le indicazioni contenute nell’inscriptio e collocato dunque l’intero frammento quale unico elemento del libro IV ad Neratium di Paolo665, di cui ha rinunciato ad individuare la possibile rubrica. Mancano invero elementi testuali che consentano un’attribuzione più precisa, anche se vale la pena forse notare come esso appartenga a una serie di brani del commentario paolino ad Neratium aventi ad oggetto la materia ereditaria (L. 1028 e 1030) che fu sicuramente oggetto di ampie riflessioni da parte di Nerazio666.

664 Giusta in questo senso l’osservazione di Glück 1907, 146 secondo cui proprio il fatto che Paolo confronti queste due specie di disposizioni mortis causa confermerebbe che alimenti e educazione sarebbero stati considerati oggetti distinti. Contro questa impostazione ha argomentato González Roldán 2019, 180 secondo cui la finalità di Paolo non sarebbe stata quella di allargare il concetto di victus al vestito ed all’abitazione, ma soltanto quella di sottolineare l’importanza degli stessi. L’argomentazione di Paolo non avrebbe mirato dunque ad estendere l’oggetto del fedecommesso di educazione, ma di allargare quello del legato di alimenti a ricomprendervi l’educazione, tendenza che emergerebbe anche in Paul. 14 resp., D. 34.1.7. 665 Lenel 1889.I, 1143. 666 Come testimoniano, tra l’altro, le ricerche di González Roldán 2019.

240

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 241

APPARATI E INDICI

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 242

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 243

BIBLIOGRAFIA

Albanese 1949 – 1953 – 1956 – 1958 – 1966 – 1970 – 1972 – 1973 – 1979 – 1982 – 1985 – 1992 Albertario 1921 – 1923a

B. Albanese, La successione ereditaria in diritto romano antico, in «AUPA» 20 (1949) 127 ss. B. Albanese, La nozione del «furtum» fino a Nerazio, in «AUPA» 23 (1953) 5 ss. B. Albanese, La nozione del «furtum» da Nerazio a Marciano, in «AUPA» 25 (1956) 85 ss. B. Albanese, La nozione del «furtum» nell’elaborazione dei giuristi romani, in «Jus» 9 (1958) 315 ss. = Scritti giuridici, I, Palermo 1991, 99 ss. B. Albanese, Contributo alla storia dell’interpretazione della “lex Atinia”, in «Labeo» 12 (1966) 18 ss. = Scritti giuridici, I, Palermo 1991, 409 ss. B. Albanese, Definitio periculosa: un singolare caso di ‘duplex interpretatio’, in Studi in onore di G. Scaduto, III, Padova 1970, 229 ss. = Scritti giuridici, I, Palermo 1991, 703 ss. B. Albanese, “Agere” “gerere” e “contrahere” in D.50.16.19. Congetture su una definizione di Labeone, in «SDHI» 39 (1972) 189 ss. = Scritti giuridici, II, Palermo 1991, 1113 ss. B. Albanese, Tre studi celsini, in «AUPA» 34 (1973) 77 ss. = Scritti giuridici, II, Palermo 1991, 1189 ss. B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979. B. Albanese, Gli atti negoziali nel diritto privato romano, Palermo 1982. B. Albanese, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano, Palermo 1985. B. Albanese, Pactum e iudicatum in due testi retorici, in Brevi studi di diritto romano, in «AUPA» 42 (1992) 5 ss. E. Albertario, Procurator unius rei, in «Studi dell’Istituto giuridico dell’Università di Pavia» 16 (1921) 87 ss. = Studi di diritto romano, III, Milano 1936, 497 ss. E. Albertario, Infanti proximus e pubertati proximus (A proposito di un recente studio), in «AG» 89 (1923) 253 ss. = Studi di diritto romano, I, Persone e famiglia, Milano 1933, 79 ss. 243

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 244

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Albertario 1923b – 1925 – 1935 – 1939 Alibrandi 1896

Amirante 1950 – 1957 – 1966 – 1967 – 1983 Andrés Santos 1997 – 2000-2001 Angelini 1971 Anné 1941 Ankum 2004

Apathy 1971 – 1975 – 1982 Appleton 1930 – 1931 Arangio-Ruiz 1949 Arcaria 2003 Arces 2012

E. Albertario, Schiavitù e favor libertatis, in «BIDR» 33 (1923) 50 ss. E. Albertario, Sul diritto agli alimenti, Milano 1925 = Studi di diritto romano, I, Persone e famiglia, Milano 1933, 249 ss. E. Albertario, Introduzione storica allo studio del diritto romano giustinianeo. Parte prima, Milano 1935. E. Albertario, Corso di diritto romano. Il possesso, Milano 1939. I. Alibrandi, Teoria del possesso secondo il diritto romano, Roma 1871 = Opere giuridiche e storiche del prof. Ilario Alibrandi, raccolte e pubblicate a cura della Accademia di conferenze storico-giuridiche, I, Roma 1896, 215 ss. L. Amirante, Captivitas e postliminium, Napoli 1950. L. Amirante, Appunti per la storia della redemptio ab hostibus, in «Labeo» 3 (1957) 2 ss. e 171 ss. L. Amirante, s.v. Postliminio (diritto romano), in «NNDI» XIII, Torino 1966, 429 ss. L. Amirante, s.v. Redemptio ab hostibus, in «NNDI» XIV, Torino 1967, 1103 ss. L. Amirante, Lavoro dei giuristi sul peculio: le definizioni da Q. Mucio a Ulpiano, in Studi in onore di C. Sanfilippo, III, Milano 1983, 1 ss. F.J. Andrés Santos, Subrogación real y patrimonios especiales en el derecho romano clásico, Valladolid 1997. F.J. Andrés Santos, En torno al origen y fundamento de la prohibición de donaciones entre cónyuges: una reconsideración crítica, in «BIDR» 103-104 (2000-2001) 317 ss. P. Angelini, Il procurator, Milano 1971. L. Anné, Les rites des fiançailles et la donation pour cause de mariage sous le Bas-Empire, Louvain 1941. H. Ankum, L’espressione “favor libertatis”nelle opera dei giuristi romani, in «Revista de Direitos difusos» 23 (2004) 3237 ss. = Extravagantes. Scritti sparsi di diritto romano, a cura di J.E. Spruit, C. Masi Doria, Napoli 2007, 457 ss. P. Apathy, Zur Abgrenzung von Novation un Bürgschaft, in «RIDA» 18 (1971) 381 ss. P. Apathy, Animus novandi, Wien-New York 1975. P. Apathy, Die actio Publiciana beim Doppelkauf vom Nichteigentümer, in «ZSS» 99 (1982) 158 ss. Ch. Appleton, Le trésor et la iusta causa usucapionis, in Studi in onore di P. Bonfante, III, Milano 1930, 1 ss. Ch. Appleton, La sanction de la “loi Cincia” sous les Actions de la loi et en cas de délégation, in «RHDFE» 10 (1931) 423 ss. V. Arangio-Ruiz, Il mandato in diritto romano, Napoli 1949. F. Arcaria, Oratio Marci, Torino 2003. P. Arces, La matrice genetica comune nell’introduzione del testamento librale e del fedecommesso, in «RDR» 12 (2012) 1 ss. 244

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 245

Bibliografia Archi 1942 – 1966 Arnò 1936 Arnold 1911 Aru 1938 Ascoli 1887 – 1893 Astolfi 1957 – 1959 – 1964, 1969, 1979 – 1974 – 1996 – 1999 [2003] – 2001 – 2006 Avenarius 2005 – 2011

Baldus, Luchetti, Miglietta 2020 Baltrusch 1989 Barbati 2014 Barton 1989 Battaglia 2012

G.G. Archi, La funzione del rapporto obbligatorio solidale in «SDHI» 8 (1942) 197 ss. = Scritti di diritto romano, I, Milano 1981, 371 ss. G.G. Archi, Le obbligazioni corso di diritto romano, Firenze 1966. C. Arnò, Corso di diritto romano. Il possesso. Lezioni raccolte dagli studenti E. Banchiero e F. Palieri (a.a. 1935-1936), Torino 1936. E.V. Arnold, Roman Stoicism, Cambridge 1911. L. Aru, Le donazioni fra coniugi in diritto romano, Padova 1938. A. Ascoli, Sull’«usucapio pro herede», in «AG» 38 (1887) 317 ss. A. Ascoli, Sulla legge Cincia, in «BIDR» 6 (1893) 173 ss. R. Astolfi, La ‘condicio iurisiurandi’ negli atti ‘mortis causa’, in «SDHI» 23 (1957) 265 ss. R. Astolfi, Studi sull’interpretazione della revoca implicita in materia di legati e di manomissioni, in «SDHI» 25 (1959) 128 ss. R. Astolfi, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, I, II, III Padova 1964, 1969, 1979. R. Astolfi, Legato di una categoria economico-sociale, in «Labeo» 20 (1974) 374 ss. R. Astolfi, La lex Iulia et Papia, Padova 1996 (19984). R. Astolfi, Sabino e i postumi, in «Iura» 50 (1999) [pubblicato nel 2003] 161 ss. R. Astolfi, I libri tres iuris civilis di Sabino, Padova 20012. R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Padova 2006. M. Avenarius, Der pseudo-ulpianische liber singularis regularum. Entstehung, Eigenart und Überlieferung einer hochklassischen Juristenschrift, Göttingen 2005. M. Avenarius, Sabinus und Cassius. Die Konstituierung der sabinianischen Schultradition in der Retrospektive und ihre vermuteten „Gründer“ im Wandel der Wahrnehmung, in Römische Jurisprudenz – Dogmatik, Überlieferung, Rezeption. Festschrift für D. Liebs zum 75. Geburtstag, Berlin 2011, 33 ss. C. Baldus, G. Luchetti, M. Miglietta (a cura di), Prolegomena per una palingenesi dei libri ‘ad Vitellium’ di Paolo. Atti dell’incontro di Studi italo-tedesco (Bologna-Ponte Ronca 26-29 maggio 2016), Alessandria 2020. E. Baltrusch, “Regimen morum”, München 1989. S. Barbati, Sui presupposti di applicazione e la natura giuridica degli effetti del postliminium, in «AARC» 20 (2014) 587 ss. J.L. Barton, Animus and possessio nomine alieno, in New Perspectives in the Roman Law of Property. Essays for B. Nicholas, Oxford 1989, 43 ss. F. Battaglia, Furtum est contrectatio. La definizione romana del furtum e la sua elaborazione moderna, Padova 2012. 245

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 246

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Battaglia 2017 Bauman 1989

Baviera 1898 – 1899 – 1909 Beduschi 1976 – 2010 – 2017 Beggio 2020

Behrends 1957 – 1971 – 1995

– 2007 Bellodi Ansaloni 2021 Benke 2001

F. Battaglia, Iuliani De ambiguitatibus liber singularis. Una monografia romana di lingua del diritto fra esegesi e storiografia, Pavia 2017. R.A. Bauman, Lawyers and Politics in the Early Roman Empire: A Study of Relations between the Roman Jurists and the Emperors from Augustus to Hadrian (Münch. Beitr. zur Papyrusfor. antik. Rechtsgesch. 83), Munich 1989. G. Baviera, Le due scuole dei giureconsulti romani, Firenze 1898. G. Baviera, Di una congettura sull’indole dei ‘libri ad Vitellium’ di Masurio Sabino, in «AG» 3 (1899) 1 ss. = Scritti giuridici, I, Palermo 1909, 123 ss. G. Baviera, Sul nome dei ‘Proculiani’ e dei ‘Sabiniani, in Scritti giuridici, I, Palermo 1909, 109 ss. C. Beduschi, Hereditatis aditio, Milano 1976. C. Beduschi, Il “ius controversum” tra razionalità e giustizia, in «RDR» 10 (2010) 1 ss. = in Scritti scelti (a cura di L. Nogler, G. Santucci), Napoli 2017, 277 ss. C. Beduschi, Omnis definitio in iure periculosa est? Profili romanistici, in Scritti scelti (a cura di L. Nogler, G. Santucci), Napoli 2017, 205 ss. T. Beggio, Vitellius: lo ‘status quaestionis’ e prospettive, in C. Baldus, G. Luchetti, M. Miglietta (a cura di), Prolegomena per una palingenesi dei libri ‘ad Vitellium’ di Paolo. Atti dell’incontro di Studi italo-tedesco (Bologna-Ponte Ronca 26-29 maggio 2016), Alessandria 2020, 32 ss. O. Behrends, Begriff und Definition in den Quellen, in «ZSS» 74 (1957) 352 ss. O. Behrends, Die Prokuratur des Klassischen römischen Zivilrecht, in «ZSS» 88 (1971) 215 ss. O. Behrends, Der Kommentar in der römischen Rechtsliteratur, in J. Assmann, B. Gladigow (hrsg.), Text und Kommentar, Archäologie der literarischen Kommunikation, IV, München 1995, 423 ss. = M. Avenarius, R. Meyer-Pritzl, C. Moller (hrsg.), Institut und Prinzip. Siedlungsgeschichtliche Grundlagen, philosophische Einflüsse und das Fortwirken der beiden republikanischen Konzeptionen in den kaiserzeitlichen Rechtsschulen. Ausgewählte Aufsätze, Göttingen 2004, 225 ss. O. Behrends, Eine Bibliothek wird verkauft! Zum Ursprung der Bedingbarkeit des Kaufes und der Erfüllungsfiktion bei treuwidriger Bedingungsvereitelung, in Fides Humanitas Ius, I, Napoli 2007, 361 ss. A. Bellodi Ansaloni, Il legato di libri e l’interpretazione della voluntas testatoris, in «AG» 153 (2021) 371 ss. N. Benke, Why Should the Law Protect Roman Women? Some Remarks on the Senatus Consultum Velleianum (ca. 50 A.D.), in K.E. Børresen, S. Cabibbo, E. Specht (ed.), Gender and Religion, Roma 2001, 41 ss. 246

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 247

Bibliografia Benöhr 1972 Berger 1918 – 1925 – - 1953 Berneisen 1959 Bertolini 1889 Beseler 1920 – 1925a – 1925b – 1925c – 1929 – 1930 – 1931a – 1931b – 1935 Betti 1915 – 1915-1916 – 1933 – 1935 – 1957 – 1959 – 1960 – 1962 Bianchi 1997

H.P. Benöhr, Der Besitzerwerb durch Gewaltabhängige im klassischen römischen Recht, Berlin 1972. A. Berger, s.v. Iulius Paulus, in «RE» X.1, Stuttgart 1918, 690 ss. A. Berger, s.v. Lex Atinia de rebus subreptis, in «RE» XII.2, Stuttgart 1925, 2331. A. Berger, s.v. Paulus, Iulius, in Encyclopedic dictionary of Roman law, Philadelphia 1953, 623. E. Berneisen, ‘Per liberam personam’, in «RIDA» 6 (1959) 249 ss. C. Bertolini, La ratifica degli atti giuridici nel diritto privato romano, Roma 1889. G. von Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, IV, Tübingen 1920. G. von Beseler, Miscellanea, in «ZSS» 45 (1925) 188 ss. G. von Beseler, Miszellen, in «ZSS» 45 (1925) 396 ss. G. von Beseler, Einzelne Stellen, in «ZSS» 45 (1925) 433 ss. G. von Beseler, Juristische Miniaturen, Leipzig 1929 (rist. Napoli 1989, con nota di lettura di A. Guarino). G. von Beseler, Miscellanea graecoromana, in Studi in onore di P. Bonfante, II, Milano 1930, 51 ss. G. von Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, V, Leipzig 1931. G. von Beseler, Et ideo - Declarare - Hic, in «ZSS» 51 (1931) 54 ss. G. von Beseler, Eigentumsübergang und Kaufpreiszahlung, in Acta congressus iuridici internationalis, I, Roma 1935. E. Betti, Studi sulla litis aestimatio nel processo civile romano, fasc. I, Il litis aestimationem sufferre ed il jusiurandum in litem, Città di Castello, 1915. E. Betti, Responsabilità nossale o peculiare, e responsabilità del pater (dominus) ne’ limiti dell’arricchimento in diritto romano classico, in «AAST» 51 (1915-1916) 1363 ss. E. Betti, L’attuazione di due rapporti causali attraverso un unico atto di tradizione. Contributo alla teoria della delegazione di dare, in «BIDR» 41 (1933) 143 ss. E. Betti, Diritto romano, I, Padova 1935. E. Betti, s.v. Animus, in «NNDI» I.1, Torino 1957, 632 ss. E. Betti, Lezioni di diritto romano. Rischio contrattuale-Atto illecitoNegozio giuridico, Roma 1959. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino 19602. E. Betti, s.v. Interpretazione dei negozi giuridici (diritto romano), in «NNDI» VIII, Torino 1962, 902 s. E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997. 247

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 248

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Biavaschi 2006 – 2007 – 2009 Biondi 1925 – 1937 – 1943 – 1948 – 1952 – 1953 – 1956 – 1965 Biscotti 2002 Bluhme 1820 Bona 1961 – 1974 – 1980 – 1987

– 1992 – 2003

P. Biavaschi, Ricerche sul precarium, Milano 2006. P. Biavaschi, Penus est quod esculentum aut posculentum est, in «Alessandria» 2 (2007) 177 ss. P. Biavaschi, Ofilio e il legatum penoris: qualche osservazione in merito a D.33.9.3, in Scritti in onore di G. Melillo, I (a cura di A. Palma), Napoli 2009, 133 ss. B. Biondi, Le actiones noxales nel diritto romano classico, in «AUPA» 10 (1925) 1 ss. B. Biondi, Corso di diritto romano. Successione testamentaria, Milano 19372. B. Biondi, Successione testamentaria. Donazioni, Milano 1943 (19552 ed. riv.). B. Biondi, Istituti fondamentali di diritto ereditario romano, Milano 1948. B. Biondi, Diritto romano cristiano, II, La giustizia - le persone, Milano 1952. B. Biondi, Contratto e stipulatio. Corso di lezioni, Milano 1953. B. Biondi, Appunti intorno agli effetti estintivi della delegazione nel diritto romano, in Studi in onore di U. E. Paoli, Firenze 1955 = Scritti giuridici, III, Milano 1965, 291 ss. B. Biondi, La legislazione di Augusto, in Scritti giuridici, II, Milano 1965. B. Biscotti, Dal pacere ai pacta conventa: aspetti sostanziali e tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcaica all’editto giulianeo, Milano 2002. F. Bluhme, Die Ordnung der Fragmente in den Pandectentiteln, in «ZRG» 4 (1820) 257 ss. = «Labeo» 6 (1960) 50 ss. F. Bona, Sull’animus revertendi nel postliminio, in «SDHI» 27 (1961) 186 ss. = Lectio sua: studi editi e inediti di diritto romano, I, Padova 2003, 223 ss. F. Bona, Recensione a R. Greiner, Opera Neratii, Drei Textgeschichten, in «SDHI» 40 (1974) 504 ss. F. Bona, L’ideale retorico ciceroniano ed il ‘ius civile in artem redigere’, in «SDHI» 46 (1980) 282 ss. = Lectio sua: studi editi e inediti di diritto romano, II, Padova 2003, 717 ss. F. Bona, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in M. Sargenti, G. Luraschi (a cura di), La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Padova 1987= Lectio sua: studi editi e inediti di diritto romano, II, Padova 2003, 919 ss. F. Bona, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII tavole 1. Gli auctores di Verrio Flacco, in «Index» 20 (1992) 211 ss. = Lectio sua: studi editi e inediti di diritto romano, I, Padova 2003, 553 ss. F. Bona, Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, I-II, Padova 2003. 248

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 13/12/21 15:27 Pagina 249

Bibliografia Bonfante 1915 – 1916-1926 – 1925-1933 Bonifacio 1959 Bonin 2019a Bonin 2019b Bonin 2020

Bonini 1971 Boulvert, Morabito 1982 Boyer 1965 Bozza 1964 Brandileone 1892 – 1928 Bremer 1898, 1901 Bretone 1955 – 1962 – 1971a – 1971b – 1973 – 1978

– 1982 – 1987

P. Bonfante, I limiti originari dell’usucapione [estr. dal volume delle onoranze al prof. Simoncelli], Napoli 1915, 1 ss. = Scritti giuridici vari, II, Torino 1916-1926, 683 ss. P. Bonfante, Scritti giuridici vari, II, Torino 1916-1926. P. Bonfante, Corso di diritto romano I-VI, Roma 1925-1933 (rist. corretta delle lezioni a cura di G. Bonfante e G. Crifò I-VI, Milano 1962 – 1979). F. Bonifacio, La novazione nel diritto romano, Napoli 19592. F. Bonin, Intra ‘legem Iuliam et Papiam’. Die Entwicklung des Augusteischen Eherechts im Spiegel des Rechtsquellenlehren der klassichen Zeit, Bari 2019. F. Bonin, Struttura e forma dei frammenti dei «libri ad Vitellium» di Paolo, in «RDR» 19 (2019). F. Bonin, Tratti formali e stratificazioni testuali nei libri paolini ‘ad Vitellium’, in C. Baldus, G. Luchetti, M. Miglietta [a cura di], Prolegomena per una palingenesi dei libri ‘ad Vitellium’ di Paolo. Atti dell’incontro di Studi italo-tedesco (Bologna-Ponte Ronca 26-29 maggio 2016), Alessandria 2020, 81 ss. R. Bonini, Note sul primo libro delle Istituzioni giustinianee (I. 1.6.7 e 1.8.2), in «AG» 180 (1971) 35 ss. G. Boulvert, M. Morabito, Le droit de l’esclavage sous le Haut-Empire, in «ANRW» II.14, Berlin-New York 1982, 98 ss. L. Boyer, La fonction sociale des legs d’après la jurisprudence classique, in «RHDFE» 43 (1965) 333 ss. F. Bozza, La nozione della possessio, II, Epoca classica, Siena 1964. F. Brandileone, Sulla storia e la natura della donatio propter nuptias, Bologna 1892. F. Brandileone, Le enunciazioni scritte della stipulatio nella età classica e nella giustinianea e la supposta degenerazione della stipulatio in Occidente, in «RAL» Serie 6, 4 (1928) 62 ss. F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, voll. II.1, II.2 Lipsiae 1898-1901, rist. 1985. M. Bretone, Adquisitio per procuratorem?, in «Labeo» 1 (1955) 281 ss. M. Bretone, La nozione romana di usufrutto I Dalle origini a Diocleziano, Napoli 1962. M. Bretone, s.v. Statuliber, in «NNDI» XVIII, Torino 1971, 380 ss. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1971. M. Bretone, Ricerche labeoniane. Pithana, in «PP» 28 (1973) 171 ss. M. Bretone, Postulati e aporie nella «History» di Schulz, in Festschrift für Franz Wieacker zum 70. Geburstag, Göttingen 1978, 37 ss. = Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 19842, 333 ss. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 19822. M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987 (201013; 201616, 201718, 202021). 249

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 250

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Bretone 1989 – 2006 – 2007 – 2008 Bretone, Talamanca 1981 Briguglio 1999 – 2007 Brinkhof 1978 Brutti 2009 – 2012 – 2020 – 2021 Buckland 1908 Bund 1965 Buongiorno 2010 – 2018 – 2020

Burdese 1950a – 1950b – 1955 – 1964 – 1971

M. Bretone, Il testo giuridico, in Lo spazio letterario in Roma antica, I, La produzione del testo, Roma 1989, 442 ss. M. Bretone, Aequitas. Prolegomeni per una tipologia, in «Belfagor» 3 (2006) 338 ss. M. Bretone, Labeone e l’ordine della natura, in A. Schiavone, D. Mantovani (a cura di), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 249 ss. M. Bretone, Ius controversum nella giurisprudenza classica, in «AAN» 9, vol. XXIII, fasc. 3, Roma-Bari 2008. M. Bretone, M. Talamanca, Il diritto in Grecia e a Roma, RomaBari 1981. F. Briguglio, Fideiussoribus succurri solet, Milano 1999. F. Briguglio, Studi sul procurator, I, L’acquisto del possesso e della proprietà, Milano 2007. J.J. Brinkhof, Een Studie over het peculium in het klassike romeinse Recht, Meppel 1978. M. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, Torino 2009. M. Brutti, Gaio e lo ius controversum, in «AUPA» 55 (2012) 75 ss. M. Brutti, Le violenze politiche e il valore del passato. Un’ipotesi su Giulio Paolo, in «AUPA» 63 (2020) 19 ss. M. Brutti, Iulius Paulus. Decretorum libri tres. Imperialium sententiarum libri sex, «SIR» 6, Roma 2021. W.W Buckland, The Roman law of slavery, Cambridge 1908. E. Bund, Untersuchungen zur Methode Julians, Köln-Graz 1965. P. Buongiorno, Senatus consulta Claudianis temporibus facta, Napoli 2010. P. Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi nell’esperienza giuridica romana, I, Origini e profili del dibattito giurisprudenziale fra tarda repubblica ed età antonina, Lecce 2018. P. Buongiorno, Ipotesi su Vitellio, in C. Baldus, G. Luchetti, M. Miglietta (a cura di), Prolegomena per una palingenesi dei libri ‘ad Vitellium’ di Paolo. Atti dell’incontro di Studi italo-tedesco (BolognaPonte Ronca 26-29 maggio 2016), Alessandria 2020, 57 ss. A. Burdese, Recensione di K. Olivecrona, Three Essays in Roman Law, in «Iura» 1 (1950) 349 ss = Recensioni e commenti. Sessant’anni di letture romanistiche, I, Padova 2009, 5 ss. A. Burdese, Autorizzazione ad alienare in diritto romano, Padova 1950. A. Burdese, La nozione classica di naturalis obligatio, Torino 1955. A. Burdese, Recensione a A. Wacke, Actio rerum amotarum, KölnGraz 1963, in «Iura» 15 (1964) 334 = Recensioni e commenti. Sessant’anni di letture romanistiche, I, Padova 2009, 207 ss. A. Burdese, Possesso tramite intermediario e ‘possessio animo retenta’, in Studi in onore di E. Volterra, II, Milano 1971, 381 ss. 250

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 251

Bibliografia Burdese 1982 – 1984 – 1985 – 1994 – 2005

– 2010

Buti 1976 Cadoppi 1996 Calore 1988 Camodeca 1976 – 2006

– 2007 Canfora 2011 Cannata 1960 – 1961 – 1976

– 1991

– 1996

A. Burdese, Considerazioni in tema di peculio cd. profettizio, in Studi in onore di C. Sanfilippo, I, Milano 1982, 69 ss. A. Burdese, Capacità naturale e perdita del possesso, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, II, Napoli 1984, 759 ss. A. Burdese, s.v. Possesso (Diritto romano), in «ED» XXXIV, Milano 1985, 452 ss. A. Burdese, s.v. Interpretazione nel diritto romano, in «DDP» X, Torino 1994, 3 ss. A. Burdese, Recensione a S. Longo, Filius familias se obligat? Il problema della capacità patrimoniale dei filii familias, in «SDHI» 71 (2005) 597 ss. = Recensioni e commenti. Sessant’anni di letture romanistiche, II, Padova 2009, 469 ss. A. Burdese, Agire per altri e autorizzazione ad alienare in diritto romano, in A. Padoa Schioppa (a cura di), Agire per altri. La rappresentanza negoziale, processuale, amministrativa nella prospettiva storica. Convegno Università di Roma Tre, 15-17 novembre 2007, Napoli 2010, 3 ss. I. Buti, Studi sulla capacità negoziale dei servi, Napoli 1976. A. Cadoppi (a cura di), Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Padova 1996. A. Calore, La rimozione del giuramento. ‘Condicio iurisiurandi’ e ‘condicio turpis’ nel testamento romano, Milano 1988. G. Camodeca, La carriera del giurista L. Neratius Priscus, in «AAN» 87 (1976) 19 ss. G. Camodeca, Cittadinanza romana, Latini Iuniani e lex Aelia Sentia: alcuni nuovi dati dalla riedizione delle Tabulae Herculanenses, in Tradizione romanistica e Costituzione I, Napoli 2006, 887 ss. G. Camodeca, Il giurista L. Neratius Priscus cos. suff. 97. Nuovi dati su carriera e famiglia, in «SDHI» 73 (2007) 291 ss. L. Canfora, Il mondo di Atene, Bari 2011. C.A. Cannata, L’ ‘animo possidere’ nel diritto romano classico, in «SDHI» 26 (1960) 71 ss. C.A. Cannata, Dalla nozione di ‘animo possidere’ all’ ‘animus possidendi’ come elemento del possesso (epoca postclassica e diritto bizantino), in «SDHI» 27 (1961) 46 ss. C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea I. La giurisprudenza romana e il passaggio dall’antichità al medioevo, Torino 19762.. C. A. Cannata, Atto giuridico e rapporto giuridico (a proposito del volume di Werner Flume, Rechtsakt und Rechtsverhältnis. Römische Jurisprudenz und modernrechtliches Denken), in «SDHI» 57 (1991) 335 ss. C.A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, Catania 1996. 251

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 252

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Cannata 1997a – 1997b

– 1998

– 2001 – 2002 Carbone 2005 Carcaterra 1938 – 1981 – 1984 Cardilli 1995 – 2000 – 2016 Carrelli 1934 Carusi 1889 Casavola 1960 – 1971 – 1980 Casella 2018 Cascione 2016 Castello 1956

C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I, Dalle origini all’Opera di Labeone, Torino 1997. C.A. Cannata, Non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat: alcune osservazioni su di un passo del Digesto (Paul. D. 50,17,1), in Nomen Latinum. Mélanges de langue, de littérature et de civilisation latines offerts au professeur André Schneider à l’occasion de son depart à la retraite, Geneve 1997, 125 ss. C.A. Cannata, Lo splendido autunno delle due scuole, in A. Dufour, I. Rens, R. Meyer-Pritzl, B. Winiger (ed.) Pacte, convention, contrat. Mélanges en l’honneur du Professeur B. Schmidlin, Bâle et Francfort-sur-le-Main 1998, 433 ss. C.A. Cannata, Corso di Istituzioni di diritto romano I, Torino 2001. C.A. Cannata, Qualche considerazione sull’ambiente della giurisprudenza romana al tempo delle due scuole, in Cunabula iuris. Studi storico-giuridici per G. Broggini, Milano 2002, 53 ss. M. Carbone, Tanti sunt mi emptae? Sunt. Varr. de re rust. 2.2.5, in «SDHI» 71 (2005) 387 ss. A. Carcaterra, Possessio. Ricerche di storia e di dommatica, Roma 1938 (rist. anast. 1967). A. Carcaterra, Facti interpretatio nella epistemologia di Nerazio (D.22.6.2), in «BIDR» 23 (1981) 35 ss. A. Carcaterra, “Ius finitum” e “facti interpretatio” nella epistemologia di Nerazio Prisco (D. 22.6.2), in Studi in onore di A. Biscardi, V, Milano 1984, 405 ss. R. Cardilli, L’obbligazione di «praestare» e la responsabilità contrattuale in diritto romano (II sec. a.C. - II sec. d.C.), Milano 1995. R. Cardilli, La nozione giuridica di fructus, Napoli 2000. R. Cardilli, Garanzie personali e obbligazione, in I. Piro (a cura di), Scritti per A. Corbino, Tricase 2016, 543 ss. E. Carrelli, L’acquisto della proprietà per ‘litis aestimatio’ nel processo civile romano, Milano 1934. E. Carusi, L’azione Publiciana in diritto romano, Roma 1889 (ed. anast. Roma 1967). F. Casavola, Lex Cincia. Contributo alla storia delle origini della donazione romana, Napoli 1960. F. Casavola, Il modello del parlante per Favorino e Celso, in «AAN» 82 (1971) 485 ss. F. Casavola, Giuristi adrianei, Napoli 1980. V. Casella, La trasmissibilità ereditaria della stipulatio, Milano 2018. C. Cascione, Profondità e margini di una ricerca, in Regulae iuris. Ipotesi di lavoro tra storia e teoria del diritto, Napoli 2016, 201 ss. C. Castello, In tema di «favor libertatis», in «SDHI» 22 (1956) 348 ss. = Scritti scelti di diritto romano. Servi filii nuptiae, Genova 2002, 161 ss. 252

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 253

Bibliografia Castello 1984 Castro Saenz 1999

Cavaliere 2000 Cenderelli 1997 Centola 2013 Cerami 1985 – 1993 Cervenca 1966 – 1969 Claus 1973 Cogrossi 1979 Coing 1952 – 1953 Coppola 1987 – 1999 – 2008 – 2011 Corbier 2008 Corbino 1976

C. Castello, «Humanitas» e «favor libertatis» schiavi e liberti nel I secolo, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, V, Napoli 1984, 2175 ss. A. Castro Saenz, Los elementos personales y materiales en la herencia yacente según los textos de Paulo, in Règle et pratique du droit dans les réalités juridiques de l’antiquité. Atti 51a sessione SIHDA, Catanzaro 1999, 273 ss. A. Cavaliere, L’errore sulle discriminanti nella teoria dell’illecito penale, Napoli 2000. A. Cenderelli, La negotiorum gestio. Corso esegetico di diritto romano, I, Struttura, origini, azioni, Torino 1997. D.A. Centola, Alcune osservazioni sull’origine del diritto agli alimenti nell’àmbito familiare, in «TSDP» 6 (2013) 1 ss. P. Cerami, La concezione celsina del «ius». Presupposti culturali e implicazioni metodologiche, I, L’interpretazione degli atti normativi, Palermo 1985. P. Cerami, “Ignorantia iuris”, in «SCDR» 4 (1993) 57 ss. G. Cervenca, A proposito di Gai.2.163 e 2.280, in Gaio nel suo tempo. Atti del simposio romanistico, Napoli 1966. G. Cervenca, Contributo allo studio delle “usurae” c.d. legali nel diritto romano, Milano 1969. A. Claus, Gewillkürte Stellvertretung im römischen Privatrecht, Berlin 1973. C. Cogrossi, Preoccupazioni etniche nelle leggi di Augusto sulla manumissio servorum?, in M. Sordi (a cura di), Conoscenze etniche e rapporti di convivenza nell’antichità, Milano 1979, 158 ss. H. Coing, Zum Einfluss der Philosophie des Aristoteles auf due Entwicklung des römischen Recht, in «ZSS» 69 (1972) 24 ss. H. Coing, Zur Methodik der republikanischer Jurisprudenz: Zur Entstehung der grammatisch logischen Auslegung, in Studi V. ArangioRuiz, I, Napoli 1953. G. Coppola, Studi sulla pro herede gestio I. La struttura originaria del «gerere pro herede», Milano 1987. G. Coppola, Studi sulla pro herede gestio II. La valutazione dell’animus nel «gerere pro herede», Milano 1999. G. Coppola Bisazza, Dallo iussum domini alla contemplatio domini. Contributo allo studio della storia della Rappresentanza. Corso di diritto romano, Milano 2008. G. Coppola, Annotatiunculae (I). «Usucapio pro herede» - «Aditio hereditatis»: un rapporto da chiarire, in «RDR» 11 (2011) 1 ss. M. Corbier, Famille et intégration sociale: la trajectoire des affranchi(e)s, in La fin de statut servile? Affranchissment, libération, abolition II, Besançon 2008, 313 ss. A. Corbino, La legittimazione a ‘mancipare’ per incarico del proprietario, in «Iura» 27 (1976) 50 ss. 253

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 254

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Corbino 2014 Cornil 1929 Cortese, Tomasi 2016 Cosentini 1952 Cossa 2013 – 2018a – 2018b Costa 1898 – 1909 Crifò 1972 – 1977 Cristaldi 2020 Cuiacius Cursi 1996 – 2018 D’Amati 2014 D’Angelo 2007 Daube 1952 – 1960 De Iuliis 2015 De Dominicis 1939 – 1949 – 1966

A. Corbino, Caso, diritto e regola. Limiti alla funzione normativa al caso deciso nella visione romana, in «RIDA» 61 (2014) 47 ss. G. Cornil, Cause et consequences de l’apparition tardive de l’animus novandi, in Mélanges Paul Fournier, Paris 1929, 87 ss. F. Cortese, M. Tomasi (a cura di), Le definizioni nel diritto. Atti delle giornate di studio 30-31 ottobre 2015, Trento 2016. C. Cosentini, Condicio impossibilis, Milano 1952. G. Cossa, ‘Regula sabiniana’. Elaborazioni giurisprudenziali in materia di condizioni impossibili, Milano 2013. G. Cossa, Sulla soglia delle Institutiones: Paolo e il genere isagogico, in «SDHI» 84 (2018) 93 ss. G. Cossa, Per uno studio dei libri singulares. Il caso di Paolo, Milano 2018. E. Costa, ’Animus novandi’, in Studi giuridici dedicati e offerti a F. Schupfer, Torino 1898, 47 ss. E. Costa, Storia delle fonti del diritto romano, Torino 1909. G. Crifò, Il suicidio di Cocceio Nerva «pater» e i suoi riflessi sui problemi del quasi usufrutto, in Studi in onore di Gaetano Scherillo, I, Milano 1972, 427 ss. G. Crifò, Studi sul quasi-usufrutto romano I. Problemi di datazione, Padova 1977. S.A. Cristaldi, In tema di doppia vendita a non domino: alcune considerazioni su D.19.1.31.2 e D.6.2.9.4, in «CGDV» 7 (2020) 25 ss. J. Cuiacius, Pauli ad edictum Commentarii, in Opera Omnia V, Neapoli 1722. M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella Repubblica e nel Principato, Napoli 1996. M.F. Cursi (a cura di), XII Tabulae. Testo e commento, I-II, Napoli 2018. L. D’Amati, Servitus del civis ab hostibus captus. Ancora una riflessione, in «LR» 2 (2014) 321 ss. G. D’Angelo, La perdita della possessio animo retenta nei casi di occupazione, Torino 2007. D. Daube, The Palingenesia of Digesta 50.17.110 and the construction of asyndetons, in «RIDA» 1 (1952) 385 ss. D. Daube, Condition Prevented from Materializing, in «T» 28 (1960) 271 ss. F. De Iuliis, «Animus remanendi»: una aporia nel ius postliminii della tarda antichità? in «KOINΩNIA» 39 (2015) 591 ss. M.A. De Dominicis, Il requisito dell’età per l’efficacia delle manomissioni, in «AUPE» 52 (1939) 93 ss. M.A. De Dominicis, Sulla “probatio causae”, Padova 1949. M.A. De Dominicis, La “latinitas Juniana” e la legge Elia Senzia, in Mélanges offert à A. Piganiol, III, Paris 1966, 1419 ss. 254

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 255

Bibliografia De Francisci 1965 De Filippi 2002 De Francesco 2001 Dekkers 1953 De Liegt 1999 De Martino 1937 – 1940 Dénoyez 1951 – 1953 de Robertis 1971 Desanti 1999 – 2003 De Villa 1938 De Visscher 1939 De Zulueta 1953 Díaz Bautista 1983 Di Cintio 2009 – 2019 Di Lella 1984 Diliberto 1992 Di Maria 2019 Di Marzo 1899

P. De Francisci, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni di Giustiniano, in Studi in onore di B. Biondi I, Milano 1965, 1 ss. M. De Filippi, Ratihabitio, Bari 2002. A. De Francesco, Il diritto agli alimenti tra genitori e figli. Un’ipotesi ricostruttiva, in «Labeo» 47 (2001) 28 ss. R. Dekkers, Reciperare possessionem, in Studi in memoria di E. Albertario, I, Milano 1953, 143. M. De Liegt, Legal History and Economic History: The Case of the Actiones Adiecticiae, in «T» 67 (1999) 205 ss. F. De Martino, L’«ignorantia iuris» nel diritto penale romano, in «SDHI» 3 (1937) 387 ss. F. De Martino, Le garanzie personali dell’obbligazione, Roma 1940 = Diritto economia e società nel mondo romano, I. Diritto privato, Napoli 1995, 45 ss. J. Dénoyez, Les donations visées par la loi Cincia, in «Iura» 2 (1951) 146 ss. J. Dénoyez, Le Défendeur à la pétition d’érédité privée en droit romain, Paris 1953. F.M. de Robertis, Sui legati a ‘incertae personae’: C. 6.48.1.10 e la sua estraneità alla materia associativa, in Studi Volterra, III, Milano 1971, 625 ss. L. Desanti, Di nuovo sul regime dei frutti nel ‘fedecommesso’ de residuo e sul presunto contrasto tra D.22.1.3.2 (Pap. 20 quaest.) e D.36.1.60(58).7 (Pap. 9 resp.), in «SDHI» 65 (1999) 67 ss. L. Desanti, Restitutionis post mortem onus. I fedecommessi da restituirsi dopo la morte dell’onerato, Milano 2003. V. De Villa, s.v. Expromissio, in «ND» XVI, Milano 1938, 748. F. De Visscher, Aperçus sur les origines du postliminium, in Festschrift Paul Koschaker, Weimar 1939, 367 ss. = Nouvelles études de droit romain public et privé, Milano 1949, 275 ss. F. De Zulueta, The Institutes of Gaius, II, Oxford 1953. A. Díaz Bautista, L’intercession des femmes dans la legeislation de Justinien, in «RIDA» 30 (1983) 81 ss. L. Di Cintio, Natura debere. Sull’elaborazione giurisprudenziale romana in tema di obbligazione naturale, Soveria Mannelli 2009. L. Di Cintio, “Ordine” e “ordinamento”. Idee e categorie giuridiche nel mondo romano, Milano 2019. L. Di Lella, Formulae ficticiae. Contributo allo studio della riforma giudiziaria di Augusto, Napoli 1984. O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992. S. Di Maria, I compilatori giustinianei e i libri ad Vitellium di Paolo, in «CGDV» 6 (2019) 1 ss. S. Di Marzo, Di una recente congettura sull’indole dei ‘libri ad Vitellium’ di Masurio Sabino, Palermo 1899. 255

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 256

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Di Paola 1964 Di Porto 1984 D’Ippolito 2009 Di Salvo 1973 – 2011 Donatuti 1925 – 1927 – 1937 – 1934 – 1940 – 1951 Doneau 1841 D’Ors (A.) 1982 D’Ors (X.) 1974 – 1977 Dulckeit 1953 Dumont 1928 Dursi 2019 Eck 1983 Edelstein 1968 – 1989 Eisele 1892 – 1909 – 1914

S. Di Paola, “Leges perfectae”, in A. Guarino, L. Labruna (a cura di), Synteleia Arangio-Ruiz, II, Napoli 1964, 1075 ss. A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo «Manager» in Roma antica (II sec. a. C. -II sec. d. C.), Torino 1984. F.M. D’Ippolito, Al di là del principio di autosufficienza, in Saggi di storia della storiografia romanistica, Napoli 2009, XI ss. S. Di Salvo, Il legato modale in diritto romano: elaborazioni dommatiche e realtà sociali, Napoli 1973. S. Di Salvo, Adempimento fittizio della condizione e interesse al mancato avveramento, in «BIDR» 105 (2011) 135 ss. G. Donatuti, Dal regime dei verba al regime della voluntas, in «BIDR» 34 (1925) 185 ss. G. Donatuti, L’actio mandati dell’adpromissor, in «AUPE» 38 (1927) 1 ss. = Studi di diritto romano, I, Milano 1976, 261 ss. G. Donatuti, Sull’adempimento fittizio delle condizioni, in «SDHI» 3 (1937) 585 ss. = Studi di diritto romano, II, Milano 1976, 595 ss. G. Donatuti, La schiavitù per condanna, in «BIDR» 42 (1934) 227 ss. G. Donatuti, Lo statulibero, Milano 1940. G. Donatuti, Le causæ delle condictiones, in «Studi Parmensi» 1 (1951) 1 ss. = Studi diritto romano, II, Milano 1976, 703 ss. H. Doneau, Opera omnia. Commentarius de iure civili, Tomus I, vol. V, Firenze 1841. A. D’Ors, Sobre la manumisión por el proprietario cónsul, del esclavo menor de treinta años, (Ulp. 2 de off. cons. D. 1.10.1.1=40.2.20.4), in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, I, Milano 1982, 159 ss. X. D’Ors, La ley “Aelia Sentia” y la manumisiones testamentarias, una exégesis de D. 40,9,5,2 y D.40, 1,21, in «SDHI» 40 (1974) 425 ss. X. D’Ors, ‘Liberum esse volo’, in «Iura» 28 (1977) 95 ss. G. Dulckeit, Plus nuncupatum minus scriptum. Ein Beitrag zur Entwicklung des römischen testamentsrechte, in «ZSS» 70 (1953) 179 ss. F. Dumont, Les donations entre époux en droit romain, Parigi 1928. D. Dursi, Aelius Marcianus, Institutionum libri I-V, «SIR» 4, Roma 2019. W. Eck, Zur Familie der Neratii aus Saepinum, in «ZPE» 50 (1983) 195 ss. L. Edelstein, The meaning of Stoicism, Cambridge 1968. L. Edelstein, I.G. Kidd (eds.), Posidonius. The Fragments, Cambridge 19892. F. Eisele, Beiträge zur Erkenntnis der Digesteninterpolationen, III, Beitrag, in «ZSS» 13 (1892) 118 ss. F. Eisele, Weitere Studien zum Texte der Digesten, in «ZSS» 30 (1909) 99 ss. F. Eisele, Zu D.16,1,22, in «ZSS» 35 (1914) 325 ss. 256

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 257

Bibliografia Endemann 1959 Ernst 1999

Evangelisti 2018 Fadda 1900-1902 Falchi 1976 – 1981 Falcone 2007-2008 Fargnoli 2001 – 2006 Faro 1996 Feenstra 1961 Felici 2020 Fenocchio, 2008 – 2014 Ferrary 1982 – 1997

Ferretti 2000 – 2005 – 2008

W. Endemann, Der Begriff der Delegatio im Klassischen römischen Recht, Marburg 1959. W. Ernst, Interzession. Vom Verbot der Fraueninterzession über die Sittenwidrigkeit von Angehörigenbürgschaften zum Schutz des Verbrauchers als Interzedeneten, in R. Zimmermann, R. Knütel, J.P. Meincke (hrsg.): Rechtsgeschichte und Privatrechtsdogmatik, Heidelberg 1999, 395 ss. M. Evangelisti, Principato, auctoritas, solutio legibus, Torino 2018. C. Fadda, Concetti fondamentali del diritto ereditario romano. Lezioni dettate all’Università di Napoli, Napoli, I, 1900 e II, 1902 (rist. I-II, Milano 1949). G.L. Falchi, Ricerche sulla legittimazione passiva alle azioni nossali. Il possessore di buona fede del servo, Milano 1976. G.L. Falchi, Le controversie tra Sabiniani e Proculiani, Milano 1981. G. Falcone, Ius suum cuique tribuere, in «AUPA» 52 (2007-2008) 133 ss. I. Fargnoli, Alius solvit alius repetit. Studi in tema di indebitum condicere, Milano 2001 I. Fargnoli, Ricerche in tema di furtum. Qui sciens indebitum accipit, Milano 2006. S. Faro, La libertas ex divi Claudii edicto. Schiavitù e valori morali nel I secolo d.C., Catania 1996. R. Feenstra, L’effect extintif de la novation, in «T» 29 (1961) 397 ss. M. Felici, Spunti di ricerca sull’interpretatio dei giuristi e il destino del legatum penoris, in «Forum historiae iuris», 2020 https:// forhistiur.net2020-05-felici M.A. Fenocchio, Sulle tracce del delitto di furtum: genesi, sviluppi, vicende, Napoli 2008. M.A. Fenocchio, La «fideiussio indemnitatis». Aspetti attuali e linee ricostruttive dal diritto romano classico a Giustiniano, Napoli 2014. J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’epoca repubblicana, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali I, Torino 1982. J.-L. Ferrary, Les titres des textes juridiques, in J.-C. Fredouille, M.-O. Goulet-Caze, PH. Hoffmann, P. Petitmenging (ed.), Titres et articulations du texte dans les oevres antiques, Actes du Colloque international de Chantilly (13-15 decembre 1994), Paris 1997, 240 ss. P. Ferretti, Le donazioni tra fidanzati nel diritto romano, Milano 2000. P. Ferretti, Complicità e furto nel diritto romano, Milano 2005. P. Ferretti, In rerum natura esse / in rebus humanis nondum esse. L’identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico, Milano 2008. 257

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 258

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Ferretti 2009

– 2011

– 2017 – 2018 – 2020 Ferrini 1885

– 1889 – 1891 – 1894a

– 1894b

– 1900

– 1905 Festa 1932-1935 Finazzi 1991-1992

P. Ferretti, Alcune osservazioni sulla perdita della possessio animo retenta nei casi di occupazione, in L. Desanti, P. Ferretti, A.D. Manfredini (a cura di), Per il 70. compleanno di Pierpaolo Zamorani. Scritti offerti dagli amici e dai colleghi di Facoltà, Milano 2009, 193 ss. P. Ferretti, Azione atipica di accertamento negativo: l’‘actio negativa’ e la regola ‘de suo iure agere oportet’, in L. Garofalo (a cura di), ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’. In ricordo di Mario Talamanca, Padova 2011, 523 ss. P. Ferretti, Animo possidere. Studi su animus e possessio nel pensiero giurisprudenziale classico, Torino 2017. P. Ferretti, Recensione a M. Frunzio, Res furtivae. Contributo allo studio della circolazione degli oggetti furtivi in diritto romano, in «SDHI» 84 (2018) 527 ss. P. Ferretti, La recezione della donatio ante nuptias nel diritto romano, in «KOINΩNIA» 44/1 (2020) 655 ss. C. Ferrini, Saggi intorno ad alcuni giureconsulti romani, in «RIL» serie II.18 (1885) 865 ss. e 900 ss. = Opere di Contardo Ferrini, II (a cura di E. Albertario), Studi sulle fonti del diritto romano, Milano 1929, 11 ss. C. Ferrini, Teoria generale dei legati e dei fedecommessi secondo il diritto romano con riguardo all’attuale giurisprudenza, Milano 1889. C. Ferrini, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, in «BIDR» 4 (1891) 1 ss. = Opere di Contardo Ferrini, II (a cura di E. Albertario), Studi sulle fonti del diritto romano, Milano 1929, 171 ss. C. Ferrini, I libri ad Plautium di Paolo, in «Memorie della R. Accademia di scienze e Lettere ed Arti di Modena», 10 (1894) 169 ss. = Opere di Contardo Ferrini, II (a cura di E. Albertario), Studi sulle fonti del diritto romano, Milano 1929, 206 ss. C. Ferrini, I libri di Paolo ad Neratium, in «Memorie della R. Accademia di scienze e Lettere ed Arti di Modena», 10 (1894) 295 ss. = Opere di Contardo Ferrini, II (a cura di E. Albertario), Studi sulle fonti del diritto romano, Milano 1929, 229 ss. C. Ferrini, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, in «BIDR» 13 (1900) 101 ss. = Opere di Contardo Ferrini, II (a cura di E. Albertario), Studi sulle fonti del diritto romano, Milano 1929, 307 ss. C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in E. Pessina (a cura di), «Enciclopedia del Diritto Penale Italiano» I, Milano 1905, 1 ss. (rist anast. Roma 1976, 1 ss.). N. Festa, I frammenti degli Stoici antichi, 2 voll., Bari 1932-1935. G. Finazzi, ‘Heredem esse’ ed ‘in tutelam suam venire’: riflessioni sulla natura della sostituzione pupillare, in «BIDR» 94-95 (19911992) 118 ss. 258

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 259

Bibliografia Finazzi 2001 – 2003 – 2006 – 2007 – 2010 Finkenauer 2010 – 2013 – 2014 Fiori 2008 – 2011 Fitting 1908 Flume 1932 – 1951 – 1990 Forcellini 1940 Forcellini, Facciolati, Bailey 1828 Formigoni 1996

Franchini 2015 Franciosi 1965 Frare 2019

G. Finazzi, Ulp. 10 ‘Disp.’ D. 50,17,60: ‘Ratihabitio’ e natura del rapporto tra gestore e gerito, in Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, III, Napoli 2001, 253 ss. G. Finazzi, Ricerche in tema di negotiorum gestio, II.1, Requisiti delle actiones negotiorum gestorum, Cassino 2003. G. Finazzi, Ricerche in tema di negotiorum gestio, II.2, Obbligazioni gravanti sul gestore e sul gerito e responsabilità, Cassino 2006. G. Finazzi, Riflessioni in margine al rapporto fra ‘ratihabitio’ e ‘iussum’, in Studi per Giovanni Nicosia, III, Milano 2007, 399 ss. G. Finazzi, L’agire per altri nei rapporti obbligatori, in A. Padoa Schioppa (a cura di), Agire per altri. La rappresentanza negoziale processuale amministrativa nella prospettiva storica, Napoli 2010, 25 ss. Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, Tübingen 2010. Th. Finkenauer, Der Verzicht auf die exceptio SCti Velleiani im klassischen Recht, in «T» 81 (2013) 17 ss. Th. Finkenauer, Iustitia und iustus bei den römischen juristen, in «Fundamina» 20.1 (2014) 287 ss. R. Fiori, Fides, bona fides. Gerarchia sociale e categorie giuridiche, in AA.VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, III, Napoli 2008, 237 ss. R. Fiori, Bonus vir. Politica filosofia retorica nel de officiis di Cicerone, Napoli 2011. H. Fitting, Alter und Folge der Schriften romischer Juristen vom Hadrian bis Alexander, Halle a. d. Saale 1908. W. Flume, Studien zur Akzessorietät der römischen Bürgschaftsstipulationen, Böhlau 1932. W. Flume, Irrtum und Rechtsgeschäft im römischen Recht, in Festschrift Fritz Schulz, I, Weimar 1951, 209 ss. W. Flume, Rechtsakt und Rechtsverhältnis. Römische Jurisprudenz und modernrechtliches Denken, Paderborn-München-Wien-Zurich 1990. Ae. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, III (cur. F. Corradini), Patavii MCMXXXX. E. Forcellini, J. Facciolati, J. Bailey, Totius latinitatis lexicon, vol. I, s.v. ‘interpello’, Londra 1828. W. Formigoni, ΠΙΘΑΝΩΝ a Paulo epitomatorum libri VIII. Sulla funzione critica del commento del giurista Iulius Paulus, Milano 1996. L. Franchini, La recezione nel ‘ius civile’ dei ‘iudicia bonae fidei’. Questioni di metodo e di merito, Napoli 2015. G. Franciosi., Usucapio pro herede: contributo allo studio dell’antica hereditas, Napoli 1965. M. Frare, L’humanitas romana. Un criterio politico normativo, Napoli 2019. 259

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 260

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Frese 1929 – 1930 Frezza 1933 – 1951 – 1962 – 1965 – 1974 Frunzio 1996 – 2015 – 2017a – 2017b – 2017c – 2019 Gade 2001 Galgano 1913 Gallo 1970 – 1992 – 2009

Gamauf 1998 Gandolfi 1966 Gandolfo 1885 García Garrido 1957-1958

B. Frese, Prokurator und Negotiorum gestio im römischen Recht, in Mélanges Cornil, I, Paris 1929, 325 ss. B. Frese, Defensio, solutio, expromissio des unberufenen Dritten, in Studi in onore di P. Bonfante, IV, Milano 1930, 397 ss. P. Frezza, Osservazioni sopra il sistema di Sabino, in «RISG» 8 (1933) 412 ss. = Scritti, I, Roma 2000, 193 ss. P. Frezza, Recensione a M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung I, Gottingen 1948, in «SDHI» 17 (1951) 288 ss. P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano, I, Le garanzie personali, Padova 1962. P. Frezza, ‘Animus novandi’, in Studi in onore di B. Biondi, I, Milano 1965, 225 ss. P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, Roma 19743. M. Frunzio, Sabino e l’usucapione delle «res furtivae», in «Labeo» 42 (1996) 403 ss. M. Frunzio, La medicina del corpus publicus e la retorica del potere, in «CGDV» 2 (2015) 1 ss. M. Frunzio, Res furtivae. Contributo allo studio della circolazione degli oggetti furtivi in diritto romano, Torino 2017. M. Frunzio, Riflessioni sul valore delle cose, in «RDR» 16-17 (20162017) 1 ss. M. Frunzio, Il leneliano titolo de furtis dei libri ad Plautium di Paolo, in «StudUrb» 84 (2017) 57 ss. M. Frunzio, Atilicino e l’institutio heredis del servus sine libertate, in «AG» 151.4 (2019) 879 ss. G.D. Gade, Donationes inter virum et uxorem, Berlin 2001. S. Galgano, I limiti subbiettivi dell’antica usucapio. Appunti critici, Napoli 1913. F. Gallo, ‘Potestas’ e ‘dominium’ nell’esperienza giuridica romana, in «Labeo» 16 (1970) 17 ss. F. Gallo, Synallagma e conventio, II, Ricerche degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne, Torino 1992. F. Gallo, La ‘verità’: valore sotteso alla definizione celsina del diritto, in A. Trisciuoglio (a cura di), Valori e principii del diritto romano. Atti della Giornata di studi per i 100 anni di Silvio Romano Maestro di Istituzioni (Torino, 12 ottobre 2007), Napoli 2009, 83 ss. R. Gamauf, Sklavenschutz und römische Jurisprudenz, in «OIR» 4 (1998) 18 ss. G. Gandolfi, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, Milano 1966. E. Gandolfo, La “reversio ad dominum” delle cose furtive (Studi sulla lex Atinia), in «AG» 35 (1885) 161 ss. M.J. García Garrido, Sobre los verdaedros limites de la ficcion, in «AHDE» 27-28 (1957-58) 305 ss. 260

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 261

Bibliografia García Garrido 1982 Garofalo 1903 Gerkens 1995 Giannozzi 2011 Giaro 1992 – 2000 – 2011 Giliberti 1984 – 2014 Giménez Candela 1996 Giodice Sabbatelli 1984 Giomaro 2011 – 2016 Girard 1929 Giuffré 1972 – 1992 – 2015 Giumelli 2010 Glück 1826 Gnoli 1984 – 1992 González 1987

M.J. García Garrido, Derecho privado romano, I, Instituciones, Madrid 19822. F.P. Garofalo, La “lex Cincia de donis et muneribus”, in «BIDR» 15 (1903) 310 ss. J.F. Gerkens, Exégèse de Paul. D. 39.3 (de aqua et aquae pluviae arcendae), 2.6, in «T» 63 (1995) 11 ss. E. Giannozzi, Uti frui arbitrio boni viri: standard of behaviour or reference to an arbitrator?, in «Krakowskie Studia z Historii Państwa I Prawa» 4 (2011) 13 ss. T. Giaro, Von der Genealogie der Begriffe zur Genealogie der Juristen. De Sabinianis et Proculianis fabulae, in «RJ» 11 (1992) 508 ss. T. Giaro, Der Fiktion des Eigentlichen Eigentümers, in Mélanges W. Wolodkiewicz I, Varsovie 2000, 277 ss. T. Giaro, Diritto come prassi. Vicende del discorso giurisprudenziale, in Fides Humanitas Ius. Studi L. Labruna, IV, Napoli 2011, 2233 ss. G. Giliberti, Legatum kalendarii. Mutuo feneratizio e struttura contabile del patrimonio nell’età del Principato, Napoli 1984. G. Giliberti, Constitutio e costituzione, in «CGDV» 1 (2014) 1 ss. T. Giménez Candela, Bemerkungen über Freilassungen “in consilio”, in «ZSS» 113 (1996) 64 ss. V. Giodice Sabbatelli, Un rescritto di Adriano. Legati e fedecommessi, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, V, Napoli 1984, 2131 ss. A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum e viceversa nell’ economia della Roma antica, in «StudUrb» 62 (2011) 105 ss. A.M. Giomaro, La presenza di Papiniano e Paolo nella formazione giuridica offerta dalle scuole tardo antiche e giustinianee, in «StudUrb» 67 (2016) 7 ss. P.F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, Paris 19298. V. Giuffrè, Vicende del divieto di donatio inter virum et uxorem, in «AAN» 83 (1972) 1 ss. V. Giuffré, L’emersione dei «iura in re aliena» ed il dogma del ‘numero chiuso’, Napoli 1992. V. Giuffrè, “Regulae iuris” e metodi della “scientia iuris”. Prospettive di approfondimenti, in «QLSD» 5 (2015) 11 ss. A.S. Giumelli, Quia nec natura debet. Una riflessione di Nerazio sulla solutio del pupillo, in «RIDA» 57 (2010) 217 ss. C.F. Glück, Ausführliche Erläuterung der Pandecten, XXVIII, Erlangen 1826 = trad. it. Commentario alle Pandette, XXV, Milano 1907. F. Gnoli, Hereditatem expilare, I, Il principio ‘rei hereditariae furtum non fit’ e la ‘usucapio hereditatis, Milano 1984. F. Gnoli, Nerazio e Paolo sul furto di ‘res hereditaria’, in Testimonium amicitiae, Milano 1992, 169 ss. A. González, The Possible Motivation of the Lex Cincia de donis et muneribus, in «RIDA» 34 (1987) 161 ss. 261

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 262

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon González Roldán 2013 – 2014 – 2017 – 2019 Gordon 1960 Greiner 1973 Grelle 1972 Grillone 2019

Grosso 1929 – 1929-1930

– 1930a – 1930b

– 1932

– 1935 – 1958 – 1962 – 1966 – 1969

Y. González Roldán, Il diritto ereditario in età adrianea. Legislazione imperiale e senatus consulta, Bari 2013. Y. González Roldán, Il legato dell’“instrumentum” nel pensiero di Nerazio, in «QLSD» 4 (2014) 135 ss. Y. González Roldán, Problemi di diritto ereditario nei VII libri Membranarum di Nerazio, in «GLOSSAE. European Journal of Legal History» 14 (2017) 312 ss. Y. González Roldán, Hereditas e interpretazione testamentaria in Nerazio, Napoli 2019. W.M. Gordon, Studies in the transfer of property by traditio, Aberdeen 1970. R. Greiner, Opera Neratii. Drei Textgeschichten, Karlsruhe 1973. F. Grelle, L’autonomia cittadina tra Traiano e Adriano. Teoria e prassi dell’organizzazione municipale, Napoli 1972. A. Grillone, Nuove riflessioni sugli impianti termali privati nei primi secoli dell’impero: conflittualità inter-prediali e oneri organizzativi nella loro messa a profitto, in «Roma e America. Diritto romano comune» 40 (2019) 391 ss. G. Grosso, Sulla falsa demonstratio nelle disposizioni d’ultima volontà, Pavia 1929 = Scritti storico giuridici, III, Diritto privato persone obbligazioni successioni, Torino 2001, 313 ss. G. Grosso, Sulla volontarietà dell’impedimento al verificarsi della condizione, in «AAST» 65 (1929-30) 1 ss. = Scritti storico giuridici, III, Diritto privato persone obbligazioni successioni, Torino 2001, 490 ss. G. Grosso, La finzione di adempimento della condizione, Modena 1930 = Scritti storico giuridici, III, Diritto privato persone obbligazioni successioni, Torino 2001, 429 ss. G. Grosso, Contributo allo studio dell’adempimento della condizione, in Memorie dell’Istituto Giuridico della Regia Università di Torino, Torino 1930 = Scritti storico giuridici, III, Diritto privato persone obbligazioni successioni, Torino 2001, 372 ss. G. Grosso, Congetture di glossemi pregiustinianei nei frammenti dei ‘libri regularum’ di Nerazio contenuti nel Digesto, in «AAST» 67 (1932) 158 ss. = Scritti storico giuridici, I, Storia diritto società, Torino 2000, 24 ss. G. Grosso, Sul quasi usufrutto, in «BIDR» 43 (1935) 237 ss. = Scritti storico giuridici, II, Diritto privato cose e diritti reali, Torino 2001, 87 ss. G. Grosso, Usufrutto e figure affini nel diritto romano, Torino 19582 G. Grosso, I legati nel diritto romano. Parte generale, Torino 19622. G. Grosso, Obbligazioni. Contenuto e requisiti della prestazione, obbligazioni alternative e generiche, Torino 19663. G. Grosso, Le servitù prediali nel diritto romano, Torino 1969. 262

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 263

Bibliografia Grosso 1976 Guarino 1939a – 1939b – 1942 – 1963 – 1964a – 1964b – 1964c – 1968 – 1982 – 1992 – 1994 – 1997 – 2001 Guarneri-Citati 1926 Hägerström 1927 Hamza 1980 Härtel 1974-1975 Hausmaninger 1964 – 1972

G. Grosso, Influenze aristoteliche sulla sistemazione delle fonti delle obbligazioni nella giurisprudenza romana, in La filosofia greca e il diritto romano, Colloquio italo-francese I, Roma 1976. A. Guarino, Il ‘beneficium competentiae’ del “promissor dotis”. Contributo storico-dommatico alla teoria del così detto “beneficium competentiae”, in «RISG» 17 (1939) 153 ss. e 207 s. A. Guarino, Pauli variarum lectionum liber singularis, in «SDHI» 5 (1939) 468 ss. A. Guarino, Appunti sull’ignorantia iuris nel diritto penale romano, in «AUMA» 15 (1942) 166 ss. = Pagine di diritto romano, VII, Napoli 1995, 266 ss. A. Guarino, Ad Vitellium, in «BIDR» 66 (1963) 1 ss. = Studi in onore di G. Zingali, III, Milano 1965, 391 ss. = Pagine di diritto romano, V, Napoli 1994, 337 ss. A. Guarino, Libri ad, in Synteleia Arangio Ruiz, II, Napoli 1964, 768 ss. = Pagine di diritto romano, V, Napoli 1994, 300 ss. A. Guarino, Salvius Iulianus. Profilo bio-bibliografico, in «Labeo» 10 (1964) 380 ss. = Pagine di diritto romano, V, Napoli 1994, 183 ss. A. Guarino, Res amotae, in «AAN» 75 (1964) 253 ss. = Pagine di diritto romano, VII, Napoli 1995, 105 ss. A. Guarino, D. 50,17,202: “Interpretatio simplex”, in «Labeo» 14 (1968) 65 ss. A. Guarino, Il convitato di pietra, in «AAN» 93 (1982) 219 ss. = Pagine di diritto romano, V, Napoli 1994, 283 ss. A. Guarino, Il «furtum» nelle «XII Tabulae», in «Labeo» 38 (1992) 326 ss. = Pagine di diritto romano, IV, Napoli 1994, 184 ss. A. Guarino, Il diritto e I mistagoghi. Postilla prima: L’ “inevitabilità” dell’ignoranza giuridica, in Pagine di Diritto romano, V, Napoli 1994, 26 ss. A. Guarino, I «pithanà» tra Labeone e Paolo, in «Labeo» 43 (1997) 108 ss. A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli 200112. A. Guarneri-Citati, En matière d’affranchissement frauduleux, in Mélanges Cornil, Paris 1926, 425 ss. A. Hagerström, Der Obligationsbegriff im Lichte der allgemeinen römischen Rechtsanschauung, I, Uppsala-Leipzig 1927. G. Hamza, Aspetti della rappresentanza negoziale in diritto romano, in «Index» 9 (1980) 193 ss. G. Härtel, Der ‘favor libertatis’ im ‘Imperium romanum’und sein gesellaschaftlicher Zusammenhang nach den Digesten im 2-3 Jahrundert u.Z., in «Index» 5 (1974-75) 281 ss. H. Hausmaninger, Die bona fides des Ersitzungsbesitzers im klassichen römischen Recht, Wien-München 1964. H. Hausmaninger, Besitzerwerb solo animo, in Festgabe für A. Herdlitczka, München-Salzburg 1972, 113 ss. 263

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 264

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Hausmaninger 1981 Heinemann 1932 Heumann, Seckel 1907 Honoré 1962 – 1975 – 2002 Honsell 2001 Horak 1969 – 1992

Huschke 1879 Huvelin 1915 Imbert 1945 – 1949 Impallomeni 1963 – 1964 – 1967 Iodice 2004 Isola 2015 Jaubert 1965 Jhering 1889 Jörs, Kunkel, Wenger 1949

H. Hausmaninger, “Benevolent” and “humane” opinions of classical Roman jurists, in «Boston University Law Review» 61 (1981) 1139 ss. J. Heinemann, Poseidonios’ metaphysiche Schriften, 2 voll., Breslau 1932. H. Heumann-E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen Rechts, Jena 190711. A.M. Honoré, The Severan Lawyers: a preliminar Survey, in «SDHI» 28 (1962) 162 ss. A.M. Honoré, A Study of Neratius and a Reflection on Method, in «T» 43 (1975) 223 ss. T. Honoré, Ulpian. Pioneer of human rights, Oxford 20022. H. Honsell, ‘Naturalis obligatio’, in Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, IV, Napoli 2001, 365 ss. F. Horak, Rationes decidendi. Entscheidungsbegründungen bei den alteren römischen Juristen bis Labeo, I, Aalen 1969. F. Horak, Wer waren die “veteres”? Zur Terminologie der klassischen römischen Juristen, in G. Klingenberg, J.M. Rainer, H. Stiegler (hrsg.), Vestigia Iuris Romani. Festschrift für Gunter Wesener zum 60. Geburtstag am 3. Juni 1992, Graz 1992, 201 ss. Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, Lipsiae 18794. P. Huvelin, Études sur le furtum dans le très ancien droit romain, II, Lyon- Paris 1915 (rist. anast. Roma 1968). J. Imbert, Postliminium. Étude sur la condition juridique du prisonnier de guerre en droit romain, Paris 1945. J. Imbert, Favor libertatis, in «RHDFE» 27 (1949) 273 ss. G. Impallomeni, Le manomissioni mortis causa. Studio sulle fonti autoritative romane, Padova 1963. G. Impallomeni, In tema di manomissioni fraudolente, in Synteleia Arangio-Ruiz, II, Napoli 1964, 922 ss. = Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova 1996, 99 ss. G. Impallomeni, Prospettive in tema di fedecommesso, in Conferenze romanistiche, II, Milano 1967, 275 ss. = Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova 1996, 151 ss. C. Iodice, Ricerche sulla stipulatio in età postclassica, Napoli 2004. L. Isola, D. 3,5,8 und die Regel ‘ratihabitio mandato comparatur’?, in «T» 83 (2015) 107 ss. P. Jaubert, La lex Aelia Sentia et la locatio-conductio des operae liberti, in «RHDFE» 43 (1965) 5 ss. R. Jhering, Der Besitzwille. Zugleich eine Kritik der herrschenden juristischen Methode, Jena 1889. P. Jörs, W. Kunkel, L. Wenger, Römisches Privatrecht, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1949. 264

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 265

Bibliografia Kacprzak 2002 – 2007 Karlowa 1901 Kaser 1950 – 1956 – 1958 – 1968 – 1971 – 1974 – 1975 – 1977 – 1982 – 1985

– 1986 Kaiser 1991 Keller 1827 Klink 2004 Kniep 1886 – 1900 – 1914 Knütel 1974 – 1976 Kohlhaas 1986

A. Kacprzak, La ‘ratihabitio’ nel diritto romano classico, Napoli 2002. A. Kacprzak, L’ ‘actio aquae pluviae arcendae’ ed il concetto labeoniano di natura, in A. Schiavone, D. Mantovani (a cura di), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 271 ss. O. Karlowa, Römische Rechtgeschichte, I, Leipzig 1885. M. Kaser, Über Verfügungssakte Gewaltunterworfener mit Studien zur Nature der ‘manumissio vindicta’, in «SDHI» 16 (1950) 59 ss. M. Kaser, Eigentum und Besitz im älteren römischen Recht, Köln– Graz 19562. M. Kaser, ‘Partus ancillae’, in «ZSS» 75 (1958) 156 ss. M. Kaser, Gli inizi della “cognito extra ordinem”, in Antologia giuridica romanistica, I, Milano 1968 M. Kaser, Das Römische Privatrecht 1. Das altrömische, das vorklassiche und klassiche Recht, München 1971. M. Kaser, Stellvertretung und “notwendige Entgeltlichkeit”, in «ZSS» 91 (1974) 146 ss. M. Kaser, Das römische Privatrecht, II, Die nachklassichen Entwicklungen, München 1975. M. Kaser, Über Verbotsgesetze und verbotswidrige Geschäfte im römischen Recht, Wien 1977. M. Kaser, Pro herede vel pro possessore, in Studi in onore di A. Biscardi, II, Milano 1982, 221 ss. M. Kaser, Zu Novation und Delegation, in J.A. Ankum, J.E. Spruit, F.B. Wubbe (curr.), Satura Roberto Feenstra: sexagesimum quintum annum aetatis complenti ab alumnis collegis amicis oblata, Fribourg 1985, 141 ss. = Römische Rechtsquellen und angewandte Juristenmethode, Köln-Graz-Wien 1986, 301 ss. M. Kaser, Römische Rechtsquellen und angewandte Juristenmethode, Wien-Köln-Graz 1986. W. Kaiser, Digestenenstehung und Digestenüberlieferung, in «ZSS» 108 (1991) 330 ss. L.F. Keller, Über Litis Contestation und Urtheil nach Klassischen römischen Recht, Zürich 1827. F. Klink, Erwerb durch Übergabe an Dritte nach klassischem römischen Recht, Berlin 2004. F. Kniep , Vacua possessio, Jena 1886. F. Kniep, Der Besitz des Bürgerlichen Gesetzbuches gegenübergestellt dem römischen und gemeinen Recht, Jena 1900. F. Kniep, Gai Institutionum. Commentarius tertius, Jena 1914. R. Knütel, Rez. Greiner, Opera Neratii, in «Iura» 25 (1974) 146 ss. R. Knütel, Stipulatio poenae: Studien zur römischen Vertragsstrafe, Wien 1976. C. Kohlhaas, Die Überlieferung der libri posteriores des Antistius Labeo, Pfaffenweiler 1986. 265

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 266

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Kreller 1956 Krenz 1997 Krüger (H.) 1934 Krüger (P.) 1888 –1905 Kübler 1890 – 1921 Kunkel 2001 (1967) Kupisch 1999

Kupiszewski 1979 – 1984 Lambert 1925 – 1934 Lamberti 1996 – 2001 Lambrini 1998 – 2006 – 2015a – 2015b – 2020

H. Kreller, Das Verbot der Fraueninterzession von Augustus bis Justinian, in Anzeiger der phil.-hist. Klasse der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 1, Wien 1956. U. Krenz, Der Besitzerwerb «per procuratorem», in «Labeo» 43 (1997) 345 ss. H. Krüger, Die usucapio pro herede nach klassischem Recht, in «ZSS» 54 (1934) 80 ss. P. Krüger, Geschichte der Quellen und Literatur des Römischen Rechts, Leipzig 1888 (19122). P. Krüger, Additamenta, I-III, in Corpus iuris civilis. Editio stereotypa decima. Volumen primum. (…) Digesta recognovit Th. Mommsen, Berolini 1905. B. Kübler, Emendationen des Pandektentextes, in «ZSS» 11 (1890) 45 ss. B. Kübler, Atquin. Kritische Studien zur Interpolationenforschung, in «ZSS» 42 (1921) 522 ss. W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Unveränderter Nachdruck der 2. Auflage von 1967 mit einem Vorwort von Detlef Liebs, Köln-Weimar-Wien 2001. B. Kupisch, Die römische Frau im Geschäftsleben. Ein Anweisungsbeispiel: Ulpian, Julian, Marcellus D.16,1,8,2, in U. Hübner, W. F. Ebke (hrsg.), Festschrift für Bernhard Großfeld zum 65. Geburtstag, Heidelberg 1999, 659 ss. H. Kupiszewski, Les remarques sur les statuliberi en droit romain classique, in Actes du colloque sur l’esclavage, Warszawa 1979, 227 ss. H. Kupiszewski, ‘Ignorantia iuris nocet’, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, III, Napoli 1984, 1357. J. Lambert, La règle Catonienne, Paris 1925. J. Lambert, Les Operae liberti. Contribution à l’histoire des Droits de patronat, Paris 1934. F. Lamberti, Studi sui «postumi» nell’esperienza giuridica romana, I, Napoli 1996. F. Lamberti, Studi sui «postumi» nell’esperienza giuridica romana, II, Profili del regime classico, Milano 2001. P. Lambrini, L’elemento soggettivo nelle situazioni possessorie del diritto romano classico, Padova 1998. P. Lambrini, La novazione. Pensiero classico e disciplina giustinianea, Padova 2006. P. Lambrini, La possessio tra corpo e animo, in «SCDR» 28 (2015) 563 ss. P. Lambrini, ‘Corpus’ e ‘animus’ da Lucrezio a Labeone, in Noctes iurisprudentiae. Scritti in onore di Jan Zabłocki, Bialystok 2015, 155 ss. P. Lambrini, L’efficacia dei senatoconsulti nel pensiero della prima giurisprudenza classica, Napoli 2020. 266

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 267

Bibliografia Landucci 1892 Lanfranchi 1940 Lantella 1979 – 1997

Lanzi 2018 La Rosa (F.) 1963 – 1965 La Rosa (R.) 1990 – 2012 Latorre Ségura 1955 Lauria 1927 – 1937 – 1952 – 1953 – 1955 – 1975 Lemosse 1998 Lenel 1889 – 1892 – 1927 Levy 1907 – 1918

L. Landucci, Indole dell’opera del giureconsulto Paolo ad Neratium, in Per il XXXV anno d’insegnamento di F. Serafini. Studi giuridici, Firenze 1892, 405 ss. F. Lanfranchi, “Ius exponendi” e obbligo alimentare nel diritto romano classico, in «SDHI» 6 (1940) 5 ss. L. Lantella, Le opere della giurisprudenza romana nella storiografia, Torino 1979. L. Lantella, Dall’interpretatio iuris all’interpretazione della legge, in Nozione formazione e interpretazione de diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, III, Napoli 1997, 559 ss. M. Lanzi, Error iuris e sistema penale. Attualità e prospettive, Torino 2018. F. La Rosa, L’“actio iudicati” nel diritto romano classico, Milano 1963. F. La Rosa, s.v. Peculium, in «NNDI» XII, Torino 1965, 756 ss. R. La Rosa, La repressione del furtum in età arcaica. Manus iniectio e duplione damnum decidere, Napoli 1990. R. La Rosa, Ricerche sul quasi-usufrutto nel diritto romano, Torino 2012. A. Latorre Ségura, «Uxor praegnas relicta», in «Labeo» 1 (1955) 195 ss. M. Lauria, L’errore nei negozi giuridici, in «RDC» 3 (1927) 313 ss. = Studi e ricordi, Napoli 1983, 1 ss. M. Lauria, Il divieto delle donazioni fra coniugi, in Studi in memoria di A. Albertoni, II, Diritto romano e bizantino, Padova 1937, 511 ss. = Studi e ricordi, Napoli 1983, 341 ss. M. Lauria, Matrimonio-Dote in diritto romano, Napoli 1952. M. Lauria, Possessiones. Età repubblicana I, Napoli 1953. M. Lauria., Dal possessore del tesoro all’ «inventor» (D. 41.2.3.3), in «Labeo» 1 (1955) 21 ss. = Studi e ricordi, Napoli 1983, 466 ss. M. Lauria,‘Penus, penus legata’, in «AAN» 49 (1975) 233 ss. = Studii e ricordi, Napoli 1983, 544 ss. M. Lemosse, Crimen expilatae hereditatis, in «RHDFE» 76 (1998) 255 ss. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, II, Lipsiae 1889 (rist. Graz 1960). O. Lenel, Das Sabinussystem, in Festgabe der Rechts- und Staatswissenschaftlichen Fakultät zu Strassburg zum Doctor-Jubilaum von Rudolf von Ihering, Strassburg 1892 (= rist. 2013), 1 ss. O. Lenel, Das Edictum perpetuum, Leipzig 19273. E. Levy, Sponsio, fidepromissio, fideiussio. Einige Grundfragen zum römischen Bürgschaftsrechte, Berlin 1907. E. Levy, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen im klassischen römischen Recht, I, Berlin 1918. 267

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 268

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Levy 1921

E. Levy, Die Enteignung des Klägers im Formularprozess, in «ZSS» 42 (1921) 476 ss. Licandro 2015 O. Licandro, L’irruzione del legislatore romano-germanico. Legge, consuetudine e giuristi nella crisi dell’Occidente imperiale (V-VI sec. d.C.), Napoli 2015. Liebs 1964 D. Liebs, Hermogenians Iuris Epitomae, Göttingen 1964. – 1967 D. Liebs, s.v. Iulius Paulus, in «Der Kleine Pauly. Lexicon der Antike» II, Stuttgart 1967, 1550 s. – 1971 D. Liebs, ‘Variae lectiones’ (Zwei Juristenschriften), in Studi in onore di E. Volterra, V, Milano 1971, 51 ss. – 1976 D. Liebs, Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, in «ANRW» II.15, Berlin-New York 1976, 197 ss. – 1980 D. Liebs, Nichtliterarische römische Juristen der Kaiserzeit, in D. Liebs, K. Luig, Das Profil des Juristen in der europäischen Tradition, Ebelsbach 1980, 123 ss. – 1982 D. Liebs, Lateinische Rechtsregeln und Rechtssprichwörter, München 1982. – 1997a D. Liebs, Jurisprudenz, in K. Sallmann (hrsg.), Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, IV, Die Literatur des Umbruchs. Von der Römischen zur Christlichen Literatur 117 bis 284 n. Chr., München 1997, 83 ss. – 1997b D. Liebs, Iulius Paulus, in K. Sallmann (hrsg.), Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, IV, Die Literatur des Umbruchs. Von der Römischen zur Christlichen Literatur 117 bis 284 n. Chr., München 1997, 150 ss. Ligios 1996 M.A. Ligios, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi» tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., Napoli 1996. – 2012 M.A. Ligios, Studi sull’alienazione del bene oggetto di legato in diritto romano, I e II, Vercelli 2012. – 2013 M.A. Ligios, Nomen negotiationis. Profili di continuità e di autonomia della negotiatio nell’esperienza giuridica romana, Torino 2013. Lindsay 1913 W.M. Lindsay, De verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, Leipzig 1913. Lombardi 1967 L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967. Longchamps de Bérier 1997 F. Longchamps de Bérier, Il fedecommesso universale nel diritto romano classico, Varsavia 1997. Longo (G.) 1928 G. Longo, Il concetto classico e il concetto giustinianeo di ‘administratio peculii’, in «AG» 100 (1928) 184 ss. – 1930 G. Longo, Libera administratio peculii: i limiti e lo spirito di una innovazione giustinianea, in «BIDR» 38 (1930) 29 ss. – (G.) 1935 G. Longo, Appunti in tema di peculio, in «SDHI» 1 (1935) 392 ss. Longo (G.E.) 1962 G.E. Longo, Ricerche sull’«obligatio naturalis», Milano 1962. Longo (S.) 1999 S. Longo, Actio contro il fideiussor servi e actio de peculio contro il dominus, in «Labeo» 44 (1999) 377 ss. 268

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 269

Bibliografia Longo (S.) 2003 – 2007 – 2008 – 2014 – 2015 López-Barajas Mira 2000 Lovato 2001 – 2019 – 2020 Lovato, Puliatti, Solidoro 2017 Lozano Corbí 1995 Luchetti, 1987 – 1989-1990 – 1996 – 2018 Lucrezi 2015 John 1970 MacCormack 1967 – 1969 – 1978 MacCormack 1983 Machelard 1962

S. Longo, Filius familias se obligat? Il problema della capacità patrimoniale dei filii familias, Catania 2003. S. Longo, Alle radici dell’usufrutto di res quae usu consumuntur, in Studi per Giovanni Nicosia, IV, Milano 2007, 477 ss. S. Longo, Naturalis obligatio, in H. Heiner (hrsg.) Handwörterbuch der antiken Sklaverei (HAS), CD-ROM I-II, Stuttgart 2008. S. Longo, Sul «legatum usufructus» di cose ‘consumabili’: la «cautio senatusconsulti», in «Index» 42 (2014) 261 ss. S. Longo, Il credito del servus nei confronti di un extraneus: ‘naturale’ creditum?, in «AUPA» 58 (2015) 131 ss. M. R. López-Barajas Mira, Sobre delegación y novación, in «Labeo» 46 (2000) 189 ss. A. Lovato, Traditio e conventio nel settimo libro delle Disputationes ulpianee, in «SDHI» 67 (2001) 90 ss. A. Lovato, Giustizia e giuristi al tempo di Traiano, in «MEP» 22 (2019) 209 ss. A. Lovato, Giuristi e prìncipi nel II secolo, in L. Franchini (a cura di), Armata Sapientia. Scritti in onore di Francesco Paolo Casavola in occasione dei suoi novant’anni, Napoli 2020, 545 ss. A. Lovato, S. Puliatti, L. Solidoro, Diritto privato romano, Torino 20172. E. Lozano Corbí, Las donaciones nupciales en el Derecho Romano, in «RIDA» 42 (1995) 221 ss. G. Luchetti, I “libri iuris civilis” di Sabino. A proposito di un recente studio di R. Astolfi, in «AG» 207 (1987) 49 ss. G. Luchetti, Il matrimonio ‘cum scriptis’ e ‘sine scriptis’ nelle fonti giuridiche giustinianee, in «BIDR» 92–93 (1989–1990) 325 ss. G. Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996. G. Luchetti, Paolo e i commentari edittali di epoca severiana: il legame con il passato, in G. Luchetti et alii, Iulius Paulus ad edictum libri I-III, «SIR» 2, Roma 2018, 37 ss. F. Lucrezi, Il furto di terra e di animali in diritto ebraico e romano, Torino 2015. U. John, Die Auslegung des legats von Sachgesamtheiten im römischen Recht bis Labeo, Karlsruhe 1970. G. MacCormack, Naturalis possessio, in «ZSS» 84 (1967) 47 ss. G. MacCormack, The Role of Animus in the Classical Law of Possession, in «ZSS» 86 (1969) 105 ss. G. MacCormack, Usucapio pro herede, res hereditariae and furtum, in «RIDA» 5 (1978) 293 ss. G. MacCormack, Ope consilio furtum factum, in «T» 51 (1983) 271 ss. E. Machelard, Etude sur la règle catonienne en droit romain, in «RHDFE» 8 (1862) 313 ss. 269

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 270

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Maestranzi 1998

Maffi 1992 Maganzani 2007 Maifeld 1991 Manfredini 1991 Mannino 1992 – 2001 – 2003

– 2004 Mantello 1979 – 1991-1992 – 1997

– 2007 Manthe 1982 Mantovani 1987 – 1988 – 2003

– 2009 – 2017a

P. Maestranzi, A proposito di una ricostruzione sistematica della legge Aelia Sentia, in Atti del II Convegno sulla problematica contrattuale in diritto romano in onore di A. Dell’Oro (11-12 maggio 1995), Milano 1998, 423 ss. A. Maffi, Ricerche sul postliminium, Milano 1992. L. Maganzani, Formazione e vicende di un’opera illustre. Il ‘Corpus Iuris’ nella cultura del giurista europeo, Torino 2007. J. Maifeld, Die aequitas bei L. Neratius Priscus, Trier 1991. A.D. Manfredini, La volontà oltre la morte. Profili di diritto ereditario romano, Torino 1991. V. Mannino, L’estensione al garante delle eccezioni del debitore principale, Torino 1992. V. Mannino, Fideiussione e accessorietà, in «Europa e diritto privato» (2001) 907 ss. V. Mannino, Fideiussione e accessorietà, in L. Vacca (a cura di), La garanzia nella prospettiva storico-comparatistica: V Congresso internazionale ARISTEC: Salisburgo, 13-15 settembre 2001, Torino 2003, 55 ss. V. Mannino, Strutture e forme di tutela contrattuali, Padova 2004. A. Mantello, ‘Beneficium’ servile e ‘debitum’ naturale, Milano 1979. A. Mantello, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sule concezioni giuridiche di Paolo, in «BIDR» 94-95 (1991-1992) 349 ss. A. Mantello, Un’etica per il giurista? Profili d’interpretazione giurisprudenziale nel primo principato, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 147 ss. A. Mantello, Natura e diritto da Servio a Labeone, in A. Schiavone, D. Mantovani (a cura di), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 211 ss. U. Manthe, Die libri ex Cassio des Iavolenus Priscus, Berlin 1982. D. Mantovani, Digesto e masse bluhmiane, Milano 1987. D. Mantovani, Sull’origine dei ‘libri posteriores’ di Labeone, in «Labeo» 39 (1988) 271 ss. D. Mantovani, Contardo Ferrini e le opere dei giuristi, in D. Mantovani (a cura di), Contardo Ferrini nel I centenario della morte. Fede, vita universitaria e studio dei diritti antichi alla fine del XIX secolo, Milano 2003, 129 ss. D. Mantovani, Cicerone e il doppio ritratto di Tuberone il vecchio. Il liber de iure civili in artem redigendo, in «SDHI» 75 (2009) 113 ss. D. Mantovani, Quando i giuristi romani diventarono “veteres”. Augusto e Sabino, i tempi del potere e i tempi della giurisprudenza, in Augusto. La costruzione del Principato. Atti del Convegno di Roma 4-5 dicembre 2014, Roma 2017, 257 ss. 270

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 271

Bibliografia Mantovani 2017b

– 2018 Manzo 1991 Marcone 1996

– 2019 Marotta 2016 Marrone 1955 – 1957 – 1991

– 2006 Martini 1966 – 1971 Maschi 1939 – 1966 – 1976 – 1981 Masi 1966 – 1968 – 1978 Masi Doria 2011

D. Mantovani, Aspetti dell’edizione critica di opere giurisprudenziali. L’esempio del ‘De officio proconsulis’ di Ulpiano, in A. Schiavone (a cura di), Giuristi romani e storiografia moderna. Dalla ‘Palingenesia iuris civilis’ agli ‘Scriptores iuris Romani’, Torino 2017, 257 ss. D. Mantovani, Les juristes écrivains de la Rome antique: les oeuvres des juristes comme litterature, Paris 2018. A. Manzo, Sull’origine del divieto di donazioni tra coniugi, in «Labeo» 37 (1991) 342 ss. A. Marcone, I giuristi romani di inizio II sec. d.C.: la base prosopografica, in D. Mantovani (a cura di), Per la storia del pensiero giuridico romano. Da Augusto agli Antonini. Atti del seminario di S. Marino 12-14 gennaio 1995, Torino 1996, 220 ss. A. Marcone, L’evoluzione della circolazione libraria in età imperiale: la letteratura giuridica e cristiana, in «SHHA» 37 (2019) 269 ss. V. Marotta, Esercizio e trasmissione del potere in età imperiale (sec. I-IV d.C.). Studi di diritto pubblico romano, Torino 2016. M. Marrone, L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in «AUPA» 24 (1955) 5 ss. M. Marrone, Actio ad exhibendum, in «AUPA» 26 (1957) 177 ss. M. Marrone, Trasferimento della proprietà e pagamento del prezzo, in Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva storicocomparatistica II, Atti del Congresso Internazionale Pisa-ViareggioLucca, 17-21 aprile 1990, Milano 1991, 481 ss. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo 20063. R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966. R. Martini, Ancora sul legato di vesti, in «Labeo» 17 (1971) 157 ss. C.A. Maschi, Studi sull’interpretazione dei legati. Verba e voluntas, Milano 1939. C.A. Maschi, Il diritto romano, I, La prospettiva storica della giurisprudenza classica (Diritto privato e processuale), Milano 19662. C.A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica all’età dei Severi: Iulius Paulus, in «ANRW» II.15, Berlin-New York 1976, 667 ss. C.A. Maschi, La scienza del diritto all’età dei Flavi, in Atti del congresso internazionale di studi vespasianei, Rieti 1981, 59 ss. A. Masi, Studi sulla condizione nel diritto romano, Milano 1966. A. Masi, s.v. Expromissio, in «NNDI» VI, Torino 1968, 1092 s. A. Masi, s.v. Novazione (diritto romano), in «ED» XXVIII, Milano 1978, 767 ss. C. Masi Doria, Principii e regole. Valori e razionalità come forme del discorso giuridico, in A. Lovato (a cura di), Tra retorica e diritto. Linguaggi e forme argomentative nella tradizione giuridica. Incontro di studio Trani, 22-23 maggio 2009, Bari 2011, 19 ss. 271

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 272

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Masi Doria 2013 Masiello 1999 – 2005 Masuelli 2010 Mattioli 2020

Mayer-Maly 1962a – 1962b – 1962c – 1968 – 1980 – 2001 Mecke 1962 Medicus 1957 Melillo 1962 – 1964 Melillo, Palma, Pennacchio 1995 Melluso 2000 Mercogliano 1997 Messina Vitrano, 1912 Metro 1961

C. Masi Doria, Francesco De Martino e l’«ignorantia iuris»: un problema storico-giuridico tra Italia e Argentina, in Tra Italia e Argentina. Tradizione romanistica e culture dei giuristi, Napoli 2013. T. Masiello, Le Quaestiones di Cervidio Scevola, Bari 1999. T. Masiello, Prefazione all’opera di S. Nappi, Ius finitum, Bari 2005, 7 ss. S. Masuelli, Interpretazione chiarezza e oscurità nel diritto romano e nella tradizione romanistica, in «RDR» 10 (2010) 1 ss. F. Mattioli, I libri di Sabino ‘ad Vitellium’: un primo approccio ai contenuti, alle caratteristiche dell’opera e agli aspetti problematici, in C. Baldus, G. Luchetti, M. Miglietta (a cura di), Prolegomena per una palingenesi dei libri ‘ad Vitellium’ di Paolo. Atti dell’incontro di Studi italo-tedesco (Bologna-Ponte Ronca 26-29 maggio 2016), Alessandria 2020, 81 ss. Th. Mayer-Maly, Studien zur Frühgeschichte der Usucapio, III, in «ZSS» 79 (1962) 86 ss. Th. Mayer-Maly, Das putativtitelproblem bei der Usucapio, GrazKöln 1962. Th. Mayer-Maly, s.v. Vitellius, in «RE» Suppl. IX, Stuttgart 1962, 1743. Th. Mayer-Maly, Problemi della condizione, «Labeo» 14 (1968) 299 ss. Th. Mayer-Maly, Error iuris, in Ius Humanitatis. Festschrift zum 90. Geburstag von A. Verdross, Berlin 1980, 147 ss. Th. Mayer-Maly, Partes iuris, in J. Cairns, O. Robinson (eds.), Critical Studies in Ancient Law, Comparative Law and Legal History: Essays in Honour of Alan Watson, Portland 2001, 103 ss. B. Mecke, Die Entwicklung des ‘procurator ad litem’, in «SDHI» 28 (1962) 100 ss. D. Medicus, Zur Geschichte des Senatus consultum Velleianum, Köln-Graz 1957. G. Melillo, Arnobio e l’ultima vicenda della “lex Cincia”, in «Labeo» 8 (1962) 62 ss. G. Melillo, Tignum iunctum, Napoli 1964. G. Melillo, A. Palma, C. Pennacchio, Labeone nella giurisprudenza romana. Le citazioni nei giuristi successivi, le Epitomi, i Pithana, i Posteriores, Napoli 1995. M. Melluso, La schiavitù nell’età giustinianea: disciplina giuridica e rilevanza sociale, Parigi 2000. F. Mercogliano, Tituli ex corpore Ulpiani, Storia di un testo, Napoli 1997. F. Messina Vitrano, Il legato di usufrutto nel diritto romano. Parte prima, Palermo 1912. A. Metro, La lex Aelia Sentia e le manomissioni fraudolente, in «Labeo» 7 (1961) 147 ss. 272

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 273

Bibliografia Metro 1966 Mette 1954 Meyer 2006 Meylan 1935 – 1953 Miceli 2001 – 2008 Micolier 1932 Miglietta 2012 Milazzo 2014 Misera 1974a – 1974b Mitteis 1891 Möhler 1960 Mönnich 1999 Montel 1930 Mommsen 1870 Morgera 2007 Murga 1997

Musumeci 1988 – 1992

A. Metro, L’obbligazione di custodire nel diritto romano, Milano 1966. H.J. Mette, Ius civile in artem redactum, Göttingen 1954. C. Meyer, Le système doctrinal des aliments. Contribution à la théorie générale de l’obligation alimentaire légale, Bern 2006. P. Meylan, La réforme Justinienne de la novation: son sens et sa portée (C. VIII, 41. 8), in Acta congressus juridici internationalis, I, Roma 1935, 277 s. P. Meylan, Per procuratorem possessio nobis adquiri potest, in Festschrift H. Lewald, Basel 1953, 105 ss. M. Miceli, Sulla struttura formulare delle ‘actiones adiecticiae qualitatis’, Torino 2001. M. Miceli, Studi sulla «rappresentanza» nel diritto romano, I, Milano 2008. G. Micolier, Pécule et capacité patrimoniale. Etude sur le pécule dit profectice, depuis l’édit “de peculio” iusqu’à la fin de l’époque classique, Lyon 1932. M. Miglietta, Giurisprudenza romana tardorepubblicana e formazione della “regula iuris”, in «SCDR» 25 (2012) 187 ss. A. Milazzo, Statuliber ex die, in «RDR» 14 (2014) 1 ss. K. Misera, Der Bereicherungsgedanke bei der Schenkung unter Ehegatten, Köln-Wien 1974. K. Misera, Recensione a H.P. Benöhr, Der Besitzerwerb durch Gewaltabhängige in Klassichen römischen Recht, in «ZSS» 91 (1974) 443 ss. L. Mitteis, Reichsrecht und Volksrecht in den Östlichen Provinzen des Römischen Kaiserreichs, Leipzig 1891 (rist. anast. Hildesheim 1963). R. Möhler, Der Besitz am Grundstück, wenn der Besitzmittler es verläßt, in «ZSS» 77 (1960) 52 ss. U. Mönnich, Frauenschutz vor riskanten Geschaeften, Interzessionsverbote nach dem Velleianischen Senatsbeschluß, Köln-WeimarWien 1999. A. Montel, La mora del debitore. Requisiti nel diritto romano e nel diritto civile, Padova 1930. Th. Mommsen (a cura di), Digesta Iustiniani Augusti, I, Berlin 1870. G. Morgera, Studi su Masurio Sabino, Napoli 2007. J.L. Murga, La original influencia de Séneca en la jurisprudencia Romana, in Séneca a dos mil años después. Actas del Congreso Internacional del Bimilenario de su nacimiento (Córdoba, 24 a 27 de septiembre 1996, Córdoba 1997, 143 ss. F. Musumeci, Inaedificatio, Milano 1988. F. Musumeci, s.v. Termine (Diritto romano), in «ED» XLIV, Milano 1992, 183 ss. 273

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 274

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Nardi 1988-1989

Nappi 2005 Neumann 2011 Negri 1985 – 1994 – 1996

– 2010

Nelson, Manthe 1992 Nicosia 1960a – 1960b – 2013 Niederländer 1952 Nitsch 2007 Nörr 1974a – 1974b – 1981

E. Nardi, Tempo di formazione del feto secondo gli antichi, in «Atti dell’Accademia Sc. Istituto di Bologna, cl. Sc. mor., Rendiconti» 76 (1988-1989) 49 ss. = Scritti minori, I, Bologna 1991, 723 ss. S. Nappi, Ius finitum, Bari 2005. A. Neumann, Der Bürgenregress im Rahmen des römischen Auftragsrechts. Studien zur formula in factum concepta, Berlin 2011. G. Negri, Diritto minerario romano, I. Studi esegetici sul regime delle cave private nel pensiero dei giuristi classici, Milano 1985. G. Negri, La gestione d’affari nel diritto romano, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje a Murga Gener, Madrid 1994, 661 ss. G. Negri, Riflessioni sparse sui ‘posteriores Labeonis’ di Giavoleno, in D. Mantovani (a cura di), Per la storia del pensiero giuridico romano. Da Augusto agli Antonini. Atti del seminario di S. Marino, 12-14 gennaio 1995, Torino 1996, 57 ss. G. Negri, I legati nella giurisprudenza tra tarda repubblica e primo impero: oggetto, regime, metodo, in F. Milazzo (a cura di), Scientia rerum e scientia iuris. Fatti, linguaggio discipline nel pensiero giurisprudenziale romano. Relazioni del Convegno internazionale di Diritto Romano Copanello, 8-11 giugno 2010, Milano 2010, 193 ss. H.L.W. Nelson, U. Manthe, Gai Institutiones III 1-87. Intestaterbfolge und sonstige Arten von Gesamtnachfolge, Berlin 1992. G. Nicosia, Acquisto del possesso per procuratorem e reversio in potestatem domini delle res furtivae, in «Iura» 11 (1960) 190 ss. G. Nicosia, L’acquisto del possesso mediante i «potestati subiecti», Milano 1960. G. Nicosia, Nuovi profili istituzionali di diritto privato romano, Catania 20136. H. Niederländer, Die außernoxale Haftung des Gewalthabers für Delikte der Gewaltunterworfenen im klassischen römischen Recht, in «ZSS» 69 (1952) 211 ss. C. Nitsch, “Exceptio firmat regulam”. Un contributo sul ragionamento giuridico, in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di Luigi Labruna, VI, Napoli 2007, 3787 ss. D. Nörr, Drei Miszellen zur Lebensgeschichte des Juristen Salvius Julianus, in Daube noster, Essays in Legal History for David Daube, Edinburgh-London 1974, 233 ss. D. Nörr, Die Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974. D. Nörr, I giuristi romani: tradizionalismo o progresso? Riflessioni su un problema inesattamente impostato, in «BIDR» 23 (1981) 9 ss. 274

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 275

Bibliografia Nörr 2002

D. Nörr, Pomponio o “dell’intelligenza storica dei giuristi romani” (con una “nota di lettura” di Aldo Schiavone, a cura di Michele Antonio Fino ed Emanuele Stolfi), in «RDR» 2 (2002) 167 ss. (traduzione dalla versione rivista dall’autore di Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in «ANRW» II.15, Berlin-New York 1976, 497 ss.). – 2007 D. Nörr, Alla ricerca della vera filosofia. Valori etico-sociali in Giulio Paolo, in A. Schiavone, D. Mantovani (a cura di), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 521 ss. Olivecrona 1938-1949 K. Olivecrona, The Acquisition of Possession, in Lunds universitets årsskrift, Lund 1938 = Three Essays in Roman Law, Copenhagen 1949, 52 ss. e in italiano L’acquisizione del possesso in S. Castignone, C. Faralli, M. Ripoli (a cura di), La realtà del diritto. Antologia di scritti, Torino 2000, 273 ss. (trad. di Simona Tarozzi). Orestano 1957 R. Orestano, s.v. Alimenti (dir. rom.), in «NNDI» I.1, Torino 1957, 482 ss. – 1965 R. Orestano, s.v. Paolo (Julius Paulus), in «NNDI» XII, Torino 1965, 362 s. – 1968 R. Orestano, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, Torino 1968. – 1973 R. Orestano, s.v. Ulpiano (Domitius Ulpianus), in «NNDI» XIX, Torino 1973, 1106 ss. – 1975 R. Orestano, s.v. Masurio Sabino, in «NNDI» XX, Torino 1975, 294 ss. – 1982 R. Orestano, Hereditas nondum adita, in «Iura» 33 (1982) 1 ss. = Scritti, IV, Napoli 1998, 2053 ss. Ormanni 1962 A. Ormanni, Penus legata. Contributo alla storia dei legati disposti con clausola penale in età repubblicana e classica, in Studi in onore di Emilio Betti, IV, Milano 1962, 579 ss. Pais 1904 E. Pais, Dionigi d’Alicarnasso e la legge Aelia Sentia, Napoli 1904. Palma 1992 A. Palma, Humanior Interpretatio. Humanitas nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino 1992. – 2016 A. Palma, Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano, Torino 2016. Pampaloni 1899 M. Pampaloni, La complicità nel delitto di furto (furtum ope consilio), in «Studi Senesi» 16 (1899) 8 ss. = Studi sopra il delitto di furto, II.I, Torino 1900, 1 ss. – 1907 M. Pampaloni, Sull’oggetto del quasi usufrutto, in «BIDR» 19 (1907) 85 ss. Parenti 2012 L. Parenti, «In solidum obligari». Contributo allo studio della solidarietà da atto lecito, Napoli 2012. J. Paricio, J. Paricio, A. Fernández Barreiro, Historia del derecho romano y A. Fernández Barreiro 2010 su recepción europea, Madrid-Barcelona-Buenos Aires 20109. Pastori 1961 F. Pastori, Appunti in tema di sponsio e stipulatio, Milano 1961. 275

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 276

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Pelloso 2008 Pentiti 1978 Pepe 2004 Periñan Gómez 2008 Pernice 1873 Perozzi 1888 – 1903 – 1928 Pesaresi 2008 – 2012 Pescani 1962 – 1967 – 1971 – 1974 Péter 1991 Pietrini 2008 Pininski 1888 Pohlenz 1948 Pothier 1842 Pontoriero 2018 – 2020 Prado Rodríguez 2010 Pringsheim 1921 – 1930

C. Pelloso, Studi sul furto nell’antichità mediterranea, Padova 2008. G.A. Pentiti, Iscrizioni inedite della gens Neratia di Saepinum, in «StudRom» 26 (1978) 544 ss. L. Pepe, Ricerche sul furto nelle XII Tavole e nel diritto attico, Milano 2004. B. Periñan Gómez, Un estudio sobre la ausencia en Derecho romano: absentia y postliminium, Granada 2008. A. Pernice, Marcus Antistius Labeo I, Halle 1873. S. Perozzi, L’editto Publiciano, in «BIDR» 7 (1894) 45 ss. S. Perozzi, Le obbligazioni romane, Bologna 1903. S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano I, Roma 19282. R. Pesaresi, Ricerche sul peculium imprenditoriale, Bari 2008. R. Pesaresi, Studi sull’actio de peculio, Bari 2012. P. Pescani, De Digestorum archetypo, in Studi in onore di E. Betti, III, Milano 1962, 587 ss. P. Pescani, Le operae libertorum. Saggio storico-romanistico, Trieste 1967. P. Pescani, Potentior est quam vox mens dicentis, in «Iura» 22 (1971) 121 ss. P. Pescani, Il piano del Digesto e la sua attuazione, in «BIDR» 16 (1974) 221 ss. O.M. Péter, “Liberorum quaerundorum causa”. L’image idéale du mariage et de la filiation à Rome, in «RIDA» 38 (1991) 285 ss. S. Pietrini, Deducto usu fructu. Una nuova ipotesi sull’origine dell’usufrutto, Milano 2008. L.G. Pininski, Der Thatbestand des Sachbesitzerwerbs nach gemeinem Recht. Eine zivilistische Untersuchung, II, Leipzig 1888. M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung I, Göttingen 1948. R.G. Pothier, Le Pandette di Giustiniano, IV, versione italiana a cura di A. Bazzarini, Venezia 18423. I. Pontoriero, Una biografia “enigmatica”, in G. Luchetti et alii, Iulius Paulus. Libri ad edictum I-III, «SIR» 2, Roma 2018, 3 ss. I. Pontoriero, I vizi del consenso nella tradizione romanistica, Torino 2020. J.C. Prado Rodríguez, Aspectos procesales de la condemnatio in quod debitor facere potest en favor del insolvente, in «RIDA» 57 (2010) 359 ss. F. Pringsheim, Beryt und Bologna, in Festschrift O. Lenel, Leipzig 1921, 282 ss. = Gesammelte Abhandlungen I, Heidelberg 1961, 391 ss. F. Pringsheim, Eigentumsübergang beim Kauf, in «ZSS» 63 (1930) 333 ss. 276

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 277

Bibliografia Pringsheim 1953 Pugliese 1950 – 1954 – 1962 – 1963 – 1975 – 1990 Pugsley 1970 Pulitanò 2019 Quadrato 1963 – 1967 – 2010 Quagliariello 1953 – 1960 Quaglioni 2016 Rabel 1936 Raggi 2007 Rainer 1986 – 1988 – 1999 Rascio 1888

Riccobono 1893a

F. Pringsheim, Zur Geschichte des ‘animus novandi’, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, I, Napoli 1953, 509 ss. = Gesammelte Abhandlungen I, Heidelberg 1961, 360 ss. G. Pugliese, Appunti in tema di azioni nossali, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, II, Padova 1950, 153 ss. = Scritti giuridici scelti, I, Diritto romano, Napoli 1985, 489 ss. G. Pugliese, Usufrutto uso-abitazione, in F. Vassalli (dir.), Trattato di diritto civile italiano, IV t.5, Torino 1954. G. Pugliese, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Studi in onore di E. Betti, III, Milano 1962, 725 ss. = Scritti giuridici scelti, II, 27 ss. G. Pugliese, Cicerone tra diritto e retorica, in Scritti in onore di A.C. Jemolo IV, Milano 1963, 563 ss. = Scritti giuridici scelti, III, Camerino 1985, 71 ss. G. Pugliese, s.v. Usufrutto (diritto romano), in «NNDI» XX, Torino 1975, 316 ss. = Scritti giuridici scelti, II, 437 ss. G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, Torino 19902. D. Pugsley, The misinterpretation of the lex Atinia, in «RIDA» 17 (1970) 259 ss. F. Pulitanò, Per uno studio del crimen expilatae hereditatis: considerazioni palingenetiche su D. 47,19, in «BIDR» 113 (2019) 259 ss. R. Quadrato, Dal procurator al mandatario, in «Annali Bari» 18 (1963) 1 ss. R. Quadrato, Tignum iunctum ne solvito (dalle XII tavole a Giustiniano), Bari 1967. R. Quadrato, Gaius dixit. La voce di un giurista di frontiera, Bari 2010. G. Quagliariello, L’espromissione, Napoli 1953. G. Quagliariello, s.v. Espromissione, in «NNDI» VI, Torino 1960, 885. D. Quaglioni, Il diritto e le definizioni, in F. Cortese, M. Tomasi (a cura di), Le definizioni nel diritto. Atti delle giornate di studio 30-31 ottobre 2015, Trento 2016, 13 ss. E. Rabel, Zum Besitzverlust nach klassischer Lehre, in Studi in onore di S. Riccobono, IV, Palermo 1936, 203 ss. L. Raggi, Il metodo della giurisprudenza romana, Torino 2007. J.M. Rainer, Zum ‘ius postliminii’ an Sachen im Register Innozenz III, in «ZSS» 103 (1986) 460 ss. J.M. Rainer, Humanität und Arbeit, in «ZSS» 105 (1988) 745 ss. J.M. Rainer, Ancora sull’error iuris e lo ius finitum, in Mélanges en l’honneur de C.A. Cannata, Bâle-Genève-Münich 1999, 67 ss. G. Rascio, Sistema positivo del diritto di possesso e proprietà, con la critica delle opinioni dei dottori, leggi romane e codice patrio, Napoli 18882. S. Riccobono, Proposta di emendazione del fr. 25 § 2 D. 41,2 (Pomp. ad Q.M.), in «BIDR» 6 (1893) 229 ss. 277

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 278

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Riccobono 1893b – 1893c – 1895-1896 – 1913 – 1917 – 1930 – 1946 – 1957 – 1968 Riccobono jr. 1962 Robbe 1937 – 1978 Robleda 1976 Rodríguez Álvarez 1978 Romano 2006 Roth 1999 Rotondi 1910

– 1920

– 1922 – 1930

S. Riccobono, La teoria del possesso nel diritto romano, in «AG» 50 (1893) 227 ss. S. Riccobono, Studi critici sui libri XVIII di Paulus ad Plautium, in «BIDR» 6 (1893) 119 ss. = Scritti di diritto romano, I, Studi sulle fonti, Palermo 1957, 5 ss. S. Riccobono, Interpretazione e critica del fr.63 D.24-1 Paulus III ad Neratium ed il requisito della furtività dell’actio de tigno iuncto, in «AG» 53 (1895-1896) 521 ss. S. Riccobono, Traditio ficta, in «ZSS» 34 (1913) 159 ss. S. Riccobono, Dal diritto romano classico al diritto moderno, in «AUPA» 3-4 (1917) 165 ss. = Scritti di diritto romano, II, Palermo 1964. S. Riccobono, Lineamenti della dottrina della rappresentanza diretta in diritto romano, in «AUPA» 14 (1930) 389 ss. S. Riccobono, La giurisprudenza classica come fattore di evoluzione nel diritto romano, in Scritti di Diritto romano in onore di C. Ferrini, Milano 1946, 17 ss. S. Riccobono, Studi critici sui libri XVIII di Paulus ad Plautium, in Scritti di diritto romano I, Studi sulle fonti, Palermo 1957. S. Riccobono, s.v. Regulae juris, in «NNDI» XV, Torino 1968, 360 s. S. Riccobono jr., Profilo storico della dottrina della mora nel diritto romano, in «AUPA» 29 (1962) 105 ss. U. Robbe, I postumi nella successione testamentaria romana, Milano 1937. U. Robbe, La fictio iuris e la finzione di adempimento della condizione nel diritto romano, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, IV, Milano 1978, 664 ss. O. Robleda, Il diritto degli schiavi a Roma, Roma 1976. L. Rodríguez Álvarez, Las leyes limitadoras de la manumissiones en epoca augustea, Oviedo 1978. E. Romano, L’ambiguità del nuovo: res novae e cultura romana, in «Laboratorie italien. Politique et societé» (on line) 6 (2006). H.-J. Roth, Alfeni Digesta. Eine spätrepublikanische Juristenschrift, Berlin 1999. G. Rotondi, I ritrovamenti archeologici e il regime dell’acquisto del tesoro, in «RDC» 2 (1910) 311 ss. = Studii varii di diritto romano ed attuale, Milano 1922, 347 ss. G. Rotondi, Possessio quae animo retinetur. Contributo alla dottrina classica e postclassica del possesso e dell’animus possidendi, in «BIDR» 30 (1921) 153 ss. = Studii varii di diritto romano ed attuale, Milano 1922, 94 ss. G. Rotondi, Scritti giuridici, III, Pavia 1922. G. Rotondi, Contributi alla dottrina romana del possesso I. “Possessio naturalis”, in «RIL» 63 (1930). 278

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 279

Bibliografia Roussier 1956 Ruch 1972 Ruggiero 2017 Russo Spena 1935 Sacchi 2005 Saccoccio 2012 – 2014 Sacconi 1971 – 1973 – 1989 – 1995 Sachers 1951 – 1953 Sáinz-Ezquerra 1976 Salazar Revuelta 1999 Salpius 1864 Sandirocco 2013 Sanfilippo 1947 – 1947-1948 Sanna 1998 – 2001

J. Roussier, Satisfacere, in Studi in onore di P. De Francisci, II, Milano 1956, 113 ss. M. Ruch, Le theme de la croissance organique dans la pensée Historique de Romains, de Caton a Florus, in «ANRW», I.2, BerlinNew-York 1972, 827 ss. I. Ruggiero, Ricerche sulle Pauli sententiae, Milano 2017. R. Russo Spena, “Litis aestimatio ed “emptio”. Estratto dalla Rassegna bibliografica della Scienze Giuridiche Sociali e Politiche, 1935. O. Sacchi, Le nozioni di stato e di proprietà in Panezio e l’influenza della dottrina stoica sulla giurisprudenza romana dell’epoca scipionico-cesariana, in «RIDA» 52 (2005) 325 ss. A. Saccoccio, Victus e alimenta nelle fonti giuridiche romane: storia di una evoluzione dogmatico-concettuale, in «Roma e America. Diritto romano comune» 33 (2012) 139 ss. A. Saccoccio, Dall’obbligo alla prestazione degli alimenti alla obligatio ex lege, in «Roma e America. Diritto romano comune» 35 (2014) 3 ss. G. Sacconi, Ricerche sulla delegazione in diritto romano, Milano 1971. G. Sacconi, Studi sulle obbligazioni solidali da contratto in diritto romano, Milano 1973. G. Sacconi, Ricerche sulla stipulatio, Napoli 1989. G. Sacconi, Appunti sul ‘senatus consultum Velleianum’, Camerino 1995. E. Sachers, Das Recht auf Unterhalt in der römischen Familie der klassischen Zeit, in Festschrift F. Schulz, I, Weimar 1951, 310 ss. E. Sachers, s.v. Postumi, in «RE» XXII.1, Stuttgart 1953, 956 ss. J.M. Sáinz-Ezquerra, La regula Catoniana y la imposibilidad de convalidación de los actos jurídicos nulos, La Laguna 1976. M. Salazar Revuelta, Sobre el régimen juridíco del usufructo de cosas quae usu consumuntur: particolar importancia de la cautio ex senatusconsulto, in «SDHI» 65 (1999) 117 ss. B. von Salpius, Novation und Delegation Nach Römischen Recht: Ein Civilistischer Versuch, Berlin 1864. L. Sandirocco, Non solum alimenta praestari debent, in «RDR» 13 (2013) 1 ss. C. Sanfilippo, Note esegetiche in tema di usufrutto, in «BIDR» 4950 (1947) 69 ss. C. Sanfilippo, La valutazione dell’“animus” nella “pro herede gestio”, in «Annali del Seminario giuridico Catania» 2 (1947-1948) = estr. Napoli 1948, 1 ss. M.V. Sanna, Ricerche in tema di redemptio ab hostibus, Cagliari 1998. M.V. Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, Cagliari 2001. 279

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 280

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Santalucia 1965 Santoro 1971 – 2014 Santucci 1997 – 2001 – 2012

– 2013

– 2018 Sargenti 1949 Savigny 1865 – 1888 Scacchetti 1984 – 1994 Scapini 1992 Scarano Ussani 1977 – 1979 – 1987 – 1989 Scherillo 1928

B. Santalucia, Le note pauline ed ulpianee alle “Quaestiones” ed ai “Responsa” di Papiniano, in «BIDR» 68 (1965) 49 ss. R. Santoro, Studi sulla condictio, in «AUPA» 32 (1971) 181 ss. R. Santoro, Perpetuari obligationem, in «AUPA» 57 (2014) 177 ss. G. Santucci, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, Padova 1997. G. Santucci, Operis novi nuntiatio iuris publici tuendi gratia, Padova 2001. G. Santucci, La scienza romanistica tedesca vista dall’Italia: il «dogma» della fungibilità dei giuristi romani, in Chr. Baldus, M. Miglietta, G. Santucci, E. Stolfi (a cura di), Dogmengeschichte und historische Individualität der römischen Juristen-Storia dei dogmi e individualità storica dei giuristi romani. Atti del Seminario Internazionale (Montepulciano 14-17 giugno 2011), Trento 2012, 133 ss. G. Santucci, Il giudizio del vir bonus nel diritto di usufrutto, in A. Lovato (a cura di), Vir Bonus. Un modello ermeneutico della riflessione giuridica antica. Incontro di studio Trani 28-29 ottobre 2011, Bari 2013, 139 ss. G. Santucci, Il sistema aperto del diritto romano. Antologia di testi, Torino 20182. M. Sargenti, Contributo allo studio della responsabilità nossale, in Pubblicazioni dell’Università degli Studi di Pavia, Pavia 1949 = Scritti di Manlio Sargenti, Napoli 2011, 39 ss. F.C. von Savigny, Das Recht des Besitzez: Eine civilistische Abhandlung, Wien 18657. F.C. von Savigny, Sistema del diritto romano attuale II (trad. di V. Scialoja), Torino 1888. M.G. Scacchetti, Note sulle differenze di metodo fra Sabiniani e Proculiani, in Studi in onore di A. Biscardi, V, Milano 1984, 369 ss. M.G. Scacchetti, Il doloso depauperamento dell’eredità giacente operato dallo schiavo manomesso nel testamento. Lettura esegetica del titolo 47,4 del Digesto, Milano 1994. N. Scapini, s.v. Usufrutto (dir. rom.), in «ED» XLV, Milano 1992, 1088 ss. V. Scarano Ussani, Ermeneutica, diritto e valori in L. Nerazio Prisco, in «Labeo» 23 (1977) 146 ss. V. Scarano Ussani, Valori e storia nella cultura giuridica fra Nerva e Adriano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli 1979. V. Scarano Ussani, L’utilità e la certezza. Compiti e modelli del sapere giuridico in Salvio Giuliano, Milano 1987. V. Scarano Ussani, Empiria e dogmi. La scuola Proculiana fra Nerva e Adriano, Torino 1989. G. Scherillo, La trasmissibilità della “stipulatio in faciendo”, in «BIDR» 36 (1928) 29 ss. 280

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 13/12/21 15:27 Pagina 281

Bibliografia Scherillo 1930 – 1940-1941 – 1950 – 1953 Schiavone 1970 – 1971 – 1992 – 1996 – 2017 – 2018 – 2021 Schiavone, Giorgio Cassandro 1982 Schiller 1978 Schipani 2007 Schmidlin 1970 – 1976 Schulting 1828 Schulz 1906 – 1928 – 1931

G. Scherillo, Contributi alla dottrina romana del possesso I. “Possessio naturalis”, in «RIL» 63 (1930). G. Scherillo, Sulle origini del divieto delle donazioni tra coniugi, in Studi A. Solmi, I, Milano 1940–1941, 169 ss. = Scritti giuridici, II.1, Studi di diritto romano, Milano 1995, 69 ss. G. Scherillo, Note critiche su opere della giurisprudenza romana, in «Iura» 1 (1950) 205 ss. G. Scherillo, Il sistema civilistico, in Studi in onore di Vincenzo Arangio-Ruiz, IV, Napoli 1953, 445 ss. = Scritti giuridici, I, Studi sulle fonti, Milano 1992, 15 ss. A. Schiavone, Retorica e giurisprudenza, in «Labeo» 16 (1970) 240 ss. A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani. Nova negotia e transactio da Labeone a Ulpiano, Napoli 1971. A. Schiavone, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, RomaBari 19922. A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma-Bari 1996. A. Schiavone. Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 20172. A. Schiavone (a cura di), Giuristi romani e storiografia moderna. Dalla «Palingenesia iuris civilis» agli «Scriptores iuris Romani», Torino 2018. A. Schiavone, Introduzione, in J.-L. Ferrary, V. Marotta, A. Schiavone (a cura di), Cnaeus Domitius Ulpianus. Institutiones. De censibus, «SIR» 8, Roma 2021, 53 ss. A. Schiavone, A. Giorgio Cassandro (a cura di), La giurisprudenza romana nella storiografia contemporanea, Bari 1982. A.A. Schiller, Roman Law. Mechanisms of Development, The Hague-Paris-New York 1978. S. Schipani (a cura di), Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Testo e traduzioni (l. 13-19), Milano 2007 (on line). B. Schmidlin, Die römischen Rechtsregeln. Versuch einer Typologie, Köln-Wien 1970. B. Schmidlin, Horoi, pithana und regulae. Zum Einfluß der Rhetorik und Dialektik auf die juristische Regelbildung, in «ANRW» II.15, Berlin-New York 1976. A. Schulting, Notae ad Digesta seu Pandectas, edidit atque animadversiones suas adjecit N. Smallenburg, VI, Lugduni Batavorum 1828. F. Schulz, Sabinus-Fragmente in Ulpians Sabinus-Commentar, Halle a. d. S., 1906, 1 ss. = «Labeo» 10 (1964) 50 ss. e 234 ss. F. Schulz, Die fraudatorische Freilassung im klassischen und justinianischen römischen Recht, in «ZSS» 48 (1928) 197 ss. F. Schulz, Überlieferungsgeschichte der Responsa des Cervidius Scaevola, in Symbolae Friburgenses in honorem Ottonis Lenel, Leipzig 1931, 143 ss. 281

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 282

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Schulz 1946 – 1961 – 1968 Schwarz (B.) 1951

Schwarz (F.) 1954 Scialoja 1925 Scognamiglio 2018 Segré 1934 Seidl 1962 Senn 1958 Serrao 1947 – 1970 Sertorio 1915 Siber 1928 – 1951 Sicari 1996 Silla 2008 Sitzia 1983 – 1999 Solazzi 1898-1900 – 1905 – 1906 – 1908

F. Schulz, History of Roman Legal Science, Oxford 1946. F. Schulz, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, Weimar 1961. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana (trad. a cura di G. Nocera), Firenze 1968. B. Schwarz, Das strittige Recht der römischen Juristen, in Festschrift F. Schulz II, Weimar 1951, 201 ss. = Atti del Congresso Internazionale di Diritto Romano e di Storia del Diritto II. Verona, 2729 settembre 1948, Milano 1953, ora tradotto in italiano da A. Lovato, in Itinerari di lettura. Per un corso di diritto romano, Bari 2011, 171 ss. F. Schwarz, Die Konträrklagen, in «ZSS» 71 (1954) 111 ss. V. Scialoja, Le interpolazioni dei testi delle Pandette e l’ipotesi del Bluhme. Un esempio: ‘animus novandi’, in Studi in onore di S. Perozzi, Palermo 1925, 407 ss. = Studi giuridici, II, Roma 1934, 289 ss. M. Scognamiglio, Ricerche sulla stipulatio poenae, Torino 2018. G. Segrè, In materia di garanzie personali, in «BIDR» 47 (1934) 497 ss. = Scritti vari di diritto romano, Torino 1952, 477 ss. E. Seidl, Die Methode der Kommentatoren in der römischen Rechtsgeschichte, in Studi Betti, IV, Milano 1962, 119 ss. F. Senn, Les obligations naturelles. La leçon de la Rome antique, in «RHDFE» 35 (1958) 151 ss. F. Serrao, Il ‘procurator’, Milano 1947. F. Serrao, Responsabilità per fatto altrui e nossalità, in «BIDR» 73 (1970) 146 ss. = Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa 1989, 184 ss. L. Sertorio, La prigionia di guerra e il diritto di postliminio, Torino 1915. H. Siber, Römisches Recht. In Grundzügen für die Vorlesung, II, Römisches Privatrecht, Berlin 1928. H. Siber, s.v. Plautius, nr. 60, in «RE» XXI.1, Stuttgart 1951, 45. A. Sicari, Leges venditionis. Uno studio sul pensiero giuridico di Papiniano, Bari 1996. F.M. Silla, La ‘cognitio’ sulle ‘libertates fideicommissae’, Padova 2008. F. Sitzia, Il conservatorismo di Nerazio, in «Labeo» 29 (1983) 33 ss. F. Sitzia, Aqua pluvia e natura agri, Cagliari 1999. S. Solazzi, Sulla capacità del filius familias di stare in giudizio, in «BIDR» 11 (1898-1900) 113 ss. = Scritti di diritto romano, I, Napoli 1955, 1 ss. S. Solazzi, Studi sull’ actio de peculio. I. Actio de peculio contro venditore e compratore, in «BIDR» 17 (1905) 208 ss. S. Solazzi, Studi sull’actio de peculio II. Actio de peculio contro usufruttuario e proprietario, in «BIDR» 18 (1906) 228 ss. S. Solazzi, Studi sull’actio de peculio. III. Actio de peculio “aucto peculio”, in «BIDR» 20 (1908) 5 ss. 282

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 13/12/21 15:28 Pagina 283

Bibliografia Solazzi 1911

– 1912 – 1931 – 1933 – 1935 – 1936 – 1949 Solidoro Maruotti 1989 – 2013 Soubie 1960 Spagnuolo Vigorita 2010 Squitti 1886 Stagl 2017 Starace 2006 – 2015 Stein 1958 – 1962 – 1966 – 1972 – 1977 – 1985 – 1996

S. Solazzi, Di alcuni punti controversi nella dottrina romana dell’acquisto del possesso per mezzo dei rappresentanti, in «Memorie della R. Accademia delle Scienze in Modena» 11 (1911) 147 ss. = Scritti di diritto romano, I, Napoli 1955, 295 ss. S. Solazzi, Le azioni del pupillo e contro il pupillo per i negozi conclusi dal tutore II, in «BIDR» 25 (1912) 116 ss. S. Solazzi, Sul possesso del suus heres, in «BIDR» 39 (1931) 5 ss. = Scritti di diritto romano, III, Napoli 1960, 379 ss. S. Solazzi, Diritto ereditario romano, II, Napoli 1933. S. Solazzi, L’estinzione dell’obbligazione nel diritto romano, I, Napoli 19352. S. Solazzi, Sul ‘crimen expilatae hereditatis’, in «RIL» 69 (1936) 978 ss. = Scritti di diritto romano, III, Napoli 1960, 547 ss. S. Solazzi, Studi Romanistici, in «RISG» 3 (1949) 1 ss. = Scritti di diritto romano, V, Napoli 1972, 155 ss. L. Solidoro Maruotti, Studi sull’abbandono degli immobili nel diritto romano. Storici giuristi imperatori, Napoli 1989. L. Solidoro Maruotti, Tra morale e diritto. Gli itinerari dell’aequitas. Lezioni, Torino 2013. A. Soubie, Recherches sur les origines des rubriques du Digeste, Tarbes 1960. T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, Napoli 20103. B. Squitti, Del senatoconsulto Macedoniano, Napoli 1886. J.F. Stagl, Die Ratio des Schenkungsverbotes unter Ehegatten, in «T» 85 (2017) 141 ss. P. Starace, Lo statuliber e l’adempimento fittizio della condizione: uno studio sul favor libertatis fra tarda Repubblica ed età antonina, Bari 2006. P. Starace, Sulla tutela processuale del communiter agere. Intorno a D.17.2.62, Bari 2015. P. Stein, Fault in the Formation of Contract in Roman Law and Scots Law, Edinburgh 1958. P. Stein, The Digest Title de diversis regulis antiqui and the general principles of Law, in Essays in Jurisprudence in honor of Roscoe Pound, Indianapolis-New York 1962, 1 ss. P. Stein, Regulae iuris. From Juristic Rules to Legal Maxims, Edinburgh 1966. P. Stein, The two schools of Jurists, in «Cambridge Law Journal» 31 (1972) 8 ss. P. Stein, Sabino contro Labeone: due tipi di pensiero giuridico romano, in «BIDR» 80 (1977) 55 ss. P. Stein, Lex Cincia, in «Athenaeum» 63 (1985) 145 ss. P. Stein, Le scuole, in D. Mantovani (a cura di), Per la storia del pensiero giuridico romano. Da Augusto agli Antonini. Atti del II Seminario, Torino 1996, 1 ss. 283

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 284

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Stein 2003

Steiner 2009 Stolfi 1997 – 2001a – 2001b – 2007 – 2011

– 2014 – 2016 – 2017

Sturm 1962 – 1966 – 1975 – 2007 Syme 1957 – 1962 Tafaro 1994 Talamanca 1956

P. Stein, I giuristi e le scuole, in F. Milazzo (a cura di), Ius controversum e auctoritas principis. Giuristi principe e diritto nel primo Impero. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 11-13 giugno 1998, Napoli 2003, 299 ss. A. Steiner, Die römischen Solidarobligationen, München 2009. E. Stolfi, Il modello delle scuole in Pomponio e Gaio, in «SDHI» 63 (1997) 1 ss. E. Stolfi, Studi sui “Libri ad edictum” di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano 2001. E. Stolfi, Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi romani: le «sententiae prudentium» nella scrittura di Papiniano, Paolo, Ulpiano, in «RDR» 1 (2001) 1 ss. E. Stolfi, Plurima innovare instituit: spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), in Studi in onore di G. Nicosia, VIII, Milano 2007, 57 ss. E. Stolfi, ‘Argumentum auctoritatis’, citazioni e forme di approvazione nella scrittura dei giuristi romani, in A. Lovato (a cura di), Tra retorica e diritto. Linguaggi e forme argomentative nella tradizione giuridica. Incontro di studio, Trani, 22-23 maggio 2009, Bari 2011, 85 ss. E. Stolfi, I casi e la regula: una dialettica incessante, in L. Vacca (a cura di), Casistica e giurisprudenza. Convegno Aristec, Roma 22-23 febbraio 2013, Napoli 2014. E. Stolfi, Brevi note su ‘Interpretatio’ e ‘auctoritas’ fra tarda repubblica ed età dei Severi, in «Interpretatio Prudentium» I.1 (2016) 170 ss. E. Stolfi, Fra «Kunstgeschichte» e «Künstlergeschichte». Il problema dei generi letterari, in Giuristi romani e storiografia moderna. Dalla «Palingenesia iuris civilis» agli «Scriptores iuris Romani», Torino 2017, 49 ss. F. Sturm, Zur ursprünglicher Funktion der actio Publiciana, in «RIDA» 9 (1962) 357 ss. F. Sturm, Novation durch Versprechen des Geldwerts?, in «ZSS» 83 (1966) 68 ss. F. Sturm, Recensione a P. Apathy, Animus novandi, in «Iura» 26 (1975) 198 ss. F. Sturm, La novation des obligations de bonne foi en droit romain classique, in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di Luigi Labruna, VIII, Napoli 2007, 5447 ss. R. Syme, The Jurist Neratius, in «Hermes» 85.4 (1957) 480 ss. R. Syme, La rivoluzione romana, Torino 1962 (ed. orig. Oxford 1939). S. Tafaro, Il giurista e l’”ambiguità”. Ambigere ambiguitas ambiguus, Bari 1994. M. Talamanca, Studi sulla legittimazione passiva all’hereditatis petitio, Milano 1956. 284

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 285

Bibliografia Talamanca 1958 – 1961 – 1962 – 1963-1964 – 1965 – 1968 – 1970 – 1975 – 1977a – 1977b – 1979 – 1990 – 1991-1992 – 1993-1994 – 1994 – 2000 – 2003a

– 2003b

M. Talamanca, La storia del senatoconsulto Velleiano, in «Labeo» 1 (1958) 101 ss M. Talamanca, Recensione a P. Voci, Diritto ereditario I, in «Iura» 12 (1961) 355 ss. M.Talamanca, s.v. Delegazione, in «ED» XI, Milano 1962, 918 ss. M. Talamanca, Intorno ad una recente ipotesi sulla liberatio legata, in «Studi economico-giuridici dell’Università di Cagliari» 44 (1963-64) 627 ss. M. Talamanca, Sul concorso fra legato e manomissione, in Studi in onore di Biondo Biondi, II, Milano 1965, 311 ss. M. Talamanca, s.v. Fideiussione (parte storica), in «ED» XVII, Milano 1968, 326 ss. M. Talamanca, Alia causa e durior condicio come limite dell’obbligazione dell’adpromissor, in Studi in onore di G. Grosso, III, Torino 1970, 115 ss M. Talamanca, I ‘pithana’ di Labeone e la logica stoica, in «Iura» 26 (1975) 1 ss. M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in «BIDR» 80 (1977) 195 ss. M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in La filosofia greca e il diritto romano (Roma, 14-17 aprile 1973), II, Roma 1977, 3 ss. M. Talamanca, s.v. Obbligazioni Storia a) Diritto romano, in «ED» XXIX, Milano 1979, 1 ss. M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990. M. Talamanca, Recensione a V. Scarano Ussani, Empiria e dogmi. La scuola proculiana fra Nerva e Adriano, in «BIDR» 33-34 (19911992) 545 ss. M. Talamanca, Recensione a A. Palma, Humanior Interpretatio. Humanitas nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino 1992, in «BIDR» 96-97 (1993-1994) 695 ss. M. Talamanca, Osservazioni sul concorso di affrancazioni testamentaria, in «SDHI» 60 (1994) 83 ss. M. Talamanca, Otto Lenel e la Palingenesia, nella ristampa dell’opera curata da G. Capogrossi Colognesi, I, Roma 2000, 1 ss. M. Talamanca, La ‘bona fides’ nei giuristi romani, in L. Garofalo (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza storica e contemporanea. Studi in onore di A. Burdese, IV, Padova 2003, 1 ss. M. Talamanca, L’accessorietà della garanzia fideiussoria, in L. Vacca (a cura di), La garanzia nella prospettiva storicocomparatistica: V Congresso internazionale ARISTEC: Salisburgo, 13-15 settembre 2001, Torino 2003, 149 ss. 285

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 07/12/21 09:48 Pagina 286

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Talamanca 2006

– 2008

Tandoi 1992

Taubenschlag 1936 Terreni 1999 Thielmann 1983 Thomas ( J.A.C.) 1962 – 1968a – 1968b – 1976 Thomas (Y.) 1982 – 1986 – 1990 Thür 1972 Tomulescu 1971 Tondo 1957 Torrent 1969 Troje 1961

M. Talamanca, L’aequitas nelle costituzioni imperiali del periodo epiclassico, in G. Santucci (a cura di), “Aequitas”. Giornate in memoria di Paolo Silli. Atti del Convegno. Trento 11 e 12 aprile 2002, Padova 2006, 53 ss. M. Talamanca, Il diritto romano fra modello istituzionale e metodologia casistica, in L. Vacca (a cura di), Diritto romano, Tradizione romana e formazione del diritto europeo. Giornate di studio in ricordo di Giovanni Pugliese, Padova 2008. V. Tandoi, Medicina e politica (da Platone a Cic. De rep. IV. 1 e all’Epistula ad Octavianum), in F. E. Consolino et alii (a cura di), Vincenzo Tandoi, Scritti di Filologia e di Storia della cultura classica, Pisa 1992, 287 ss. R. Taubenschlag, Die Alimentationspflicht im Rechte der Papyri, in Studi in onore di S. Riccobono, I, Palermo 1936 (rist. Aalen 1974) 505 ss. C. Terreni, Gaio e l’error causae probatio, in «Labeo» 45 (1999) 333 ss. G. Thielmann, Unwirksame Vollzugs verhältnisse bei der Delegation, in «ZSS» 101 (1983) 229 ss. J.A.C. Thomas, Contrectatio, complicity and furtum, in «Iura» 13 (1962) 70 ss. J.A.C. Thomas, Animus furandi, in «Iura» 19 (1968) 1 ss. J.A.C. Thomas, Rei hereditariae furtum non fit, in «T» 36 (1968) 489 ss. J.A.C. Thomas, Textbook of Roman Law, Amsterdam–New York–Oxford 1976. Y. Thomas, Droit domestique en droit politique à Rome. Remarques sur le pécule et les ‘honores’ des fil de famille, in «MEFRA» 94 (1982) 527 ss. Y. Thomas, Le «ventre». Corps maternel, droit paternel, in «Le genre humain» 14 (1986) 211 ss. Y. Thomas, La divisione dei sessi in diritto romano, in P. Schmitt Pantel (a cura di), Storia delle donne in occidente. L’antichità, Roma-Bari 1990, 103 ss. G. Thür, Justinians Publiciana und directa “in rem”, in «ZSS» 89 (1972) 362 ss. C. St. Tomulescu, Gaius 2,55 e l’«usucapio pro herede», in Studi in onore di G. Grosso, IV, Torino 1971, 417 ss. S. Tondo, Osservazioni intorno alla “pro herede gestio”, in «AG» 153 (1957) 3 ss. A. Torrent, Interpretacion de la “voluntas testatoris” en la jurisprudencia republicana: la “causa curiana”, in «AHDE» 39 (1969) 173 ss. H.E. Troje, ‘Ambiguitas contra stipulatorem’, in «SDHI» 27 (1961) 93 ss. 286

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 287

Bibliografia Tuccillo 2009 Vacca 1973

– 1982 – 1988

– 2003 – 2006a – 2006b

– 2012 – 2013 – 2016 Valiño del Río 1980 – 1988 van Oven 1948 Vassalli 1914 Varvaro 2017 Vegetti 1995

F. Tuccillo, Studi su costituzione ed estinzione delle servitù nel diritto romano. Usus, scientia, patientia, Napoli 2009. L. Vacca, Ancora sul problema del procurator e della rappresentanza nell’acquisto del possesso. A proposito di alcuni studi recenti, in «RISG» 17 (1973) 20 ss. = Appartenenza e circolazione dei beni. Modelli classici e giustinianei, Padova 2006, 25 ss. L. Vacca, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano, Milano 1982. L. Vacca, Il c.d. ‘duplex dominium’ e l’‘actio Publiciana’, in E. Cortese (a cura di), La proprietà e le proprietà, Atti del Convegno della Società Italiana di Storia del diritto. Pontignano 30 settembre - 3 ottobre 1985, Milano 1988, 39 ss. = Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica: materiali per un corso di diritto romano, Torino 1997, 107 ss. = Possesso e tempo nell’acquisto della proprietà. Saggi romanistici, Padova 2012, 97 ss. L. Vacca (a cura di), La garanzia nella prospettiva storico-comparatistica, Atti del V Convegno internazionale Aristec (Salisburgo 2001), Torino 2003. L. Vacca, Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova 2006. L. Vacca, L’‘aequitas’ nella ‘interpretatio prudentium’, in G. Santucci (a cura di), ‘Aequitas’. Giornate in memoria di Paolo Silli. Atti del Convegno. Trento 11 e 12 aprile 2002, Padova 2006, 21 ss. L. Vacca, Possesso e tempo nell’acquisto della proprietà. Saggi romanistici, Padova 2012. L. Vacca, Interpretatio e caso concreto, in L. Vacca (a cura di), Scienza giuridica interpretazione e sviluppo del diritto europeo. Convegno Aristec Roma 9-11 giugno 2011, Napoli 2013. L. Vacca, La doppia vendita e la rilevanza dell’affidamento nella casistica della giurisprudenza romana, in M. Lupoi (a cura di), Le situazioni affidanti, Torino 2016, 609 ss. E. Valiño del Río, Instituciones de Derecho Privado Romano, Valencia 1980. E. Valiño del Río, Paulo, D.16.1.22, in Estudios Iglesias, III, Madrid 1988, 1677 ss. J. Ch. van Oven, Leerboek van Romeinsch Privaatrecht, Leiden 1948. F. Vassalli, Dies vel condicio, Studi sulla dottrina della condizione, in «BIDR» 27 (1914) 192 ss. = Studi giuridici, I, Milano 1960, 225 ss. M. Varvaro, La Giustizia, la spada e la bilancia, in «ὁρμος Ricerche di storia antica» 9 (2017) 594 ss. M. Vegetti, La medicina in Platone, Venezia 1995. 287

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 288

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Viarengo 2020

Vidman 1981 Villey 1945 Vimercati 2000 – 2004 – 2007 Vincenti 1997 – 1999 Vismara 1935 Voci 1936 – 1937 – 1952 – 1960-1967 – 1965 – 1972 – 1996 Vogt 1952 Volterra 1956 – 1975 von Mayr 1900 Wacke 1963

G. Viarengo, I commentari di giuristi romani intitolati a persone con particolare riferimento all’opera di Paolo, in C. Baldus, G. Luchetti, M. Miglietta (a cura di), Prolegomena per una palingenesi dei libri ‘ad Vitellium’ di Paolo. Atti dell’incontro di Studi italotedesco (Bologna-Ponte Ronca 26-29 maggio 2016), Alessandria 2020, 1 ss. L. Vidman, Die Familie des L. Neratius Marcellus, in «ZPE» 43 (1981) 377 ss. M. Villey, Recherches sur la littérature didactique du droit romain, Paris 1945. E. Vimercati, Il pensiero filosofico-politico di Panezio: ipotesi per una sua ricostruzione, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» 92 (2000) 386 ss. E. Vimercati, Il mediostoicismo di Panezio (Presentazione di Roberto Radice), Milano 2004. E. Vimercati, Tre studi recenti sull’ oikeiosis e sul fondamento della morale stoica, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» 4 (2007) 573 ss. U. Vincenti, Presunzione muciana e divieto di donazione tra coniugi (Opuscola XV, a cura del Centro di Studi romanistici V. Arangio-Ruiz – edizione fuori commercio -), Napoli 1997. U. Vincenti, La presunzione muciana e la sua connessione con il divieto di donazione tra coniugi, in «Index» 27 (1999) 456 ss. G. Vismara, La donazione nuziale nel diritto ebraico e nelle fonti cristiane in relazione al diritto romano postclassico, in Cristianesimo e diritto romano, Milano 1935, 295 ss. P. Voci, Teoria dell’acquisto del legato secondo il diritto romano, Milano 1936. P. Voci, L’errore nel diritto romano, Milano 1937. P. Voci, Modi di acquisto della proprietà, Milano 1952. P. Voci, Diritto ereditario romano I, Milano 1960 (19672) e II, Milano 1963. P. Voci, Per la storia della novazione, in «BIDR» 68 (1965) 147 ss. = Studi di diritto romano, I, Padova 1985, 291 ss. P. Voci, s.v. Interpretazione del negozio giuridico (diritto romano), in «ED» XXII, Milano 1972, 252 ss. P. Voci, Istituzioni di diritto romano, Milano 19965. H. Vogt, Studien zum Senatus consultum Velleianum, Bonn 1952. E. Volterra, Manomissione e cittadinanza, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze 1956, 695 ss E. Volterra, s.v. Matrimonio (diritto romano), in «ED» XXV, Milano 1975, 726 ss. R. Von Mayr, Die condictio des römischen Privatrechtes, Leipzig 1900. A. Wacke, Actio rerum amotarum, Köln-Graz 1963. 288

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 289

Bibliografia Wacke 1986 – 1994a

– 1994b – 2004 – 2007 – 2010 Wagner 1967 Waldstein 1986 – 2007-2008 Watson 1961 – 1962 – 1967 – 1968 – 1971 Wenger, 1953 Wenley 1924 Wesener 1961 – 1972 Wieacker 1953 – 1963

A. Wacke, Tilgungsakte durch Insichgeschäft. Zur Leistung eines Tutors oder Prokurators an sich selbst, in «ZSS» 103 (1986) 223 ss. A. Wacke, Die Notbedarfseinrede des enterbten Haussohns. Wirkungen der Erbschaftsausschlagung für das peculium und Abwicklung der Pekuliarschulden bei Beendigung der Hausgewalt, in «SDHI» 60 (1994) 469 ss. A. Wacke, Die adjektizischen Klagen im Überblick, in «ZSS» 111 (1994) 281 ss A. Wacke, Ratum habere. Dogmengeschichtliche Grundlagen von Bestätigung und Genehmigung, in «ZSS» 121 (2004) 344 ss. A. Wacke, Brocardi giuridici e assimilazione dei diritti nazionali europei, in φιλία. Scritti per Gennaro Franciosi IV, Napoli 2007, 2825 ss. A. Wacke, Zur Einrede des Notbedarfs (‘ne egeat’) bei Schekungsverspruchen und im Dotalrecht, in Studi in onore di A. Metro, VI, Milano 2010, 447 ss. H. Wagner, Zur Freiheitserteilung an dem einem Generalpfandnexus unterliegenden Sklaven, in «SDHI» 33 (1967) 163 ss. W. Waldstein, Operae libertorum. Untersuchungen zur Dienstpflicht freigelassener Sklaven, Stuttgart 1986. W. Waldstein, Natura debere, ius gentium und natura aequum im klassischen römischen Recht, in «AUPA» 52 (2007-2008) 429 ss. A. Watson, Contract of mandate in Roman Law, Oxford 1961. A. Watson, Acquisition of Possession and Usucapion per Servos et Filios, in «LQR» 78 (1962) 205 ss. A. Watson, Acquisition of ownership by “traditio” to an “extraneus”, in «SDHI» 33 (1967) 189 ss. A. Watson, The Law of Property in the Later Roman Republic, Oxford 1968. A. Watson, The Law of succession in the later Roman Republic, Oxford 1971. L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953. R.M. Wenley, Stoicism and its Influence, Boston 1924. G. Wesener, s.v. Usus fructus, «RE» IX A, Stuttgart 1961, 1137 ss. G. Wesener, Pendenz, vor Wirkungen und Rückwirkung der Aufschiebenden Bedingung im römischen Recht, in Festgabe für A. Herdlitczka, München-Salzburg 1972, 265 ss. F. Wieacker F., Der Besitzverlust an den heimlichen Eindringling, in Festschrift H. Lewald, Basel 1953, 185 ss. F. Wieacker, Irrtum, Dissens oder gegenstandlose Leistungsbestimmung?, in Mélanges Philippe Meylan, I, Droit romain, Lausanne 1963, 383 ss. 289

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 290

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Wieacker 2006

Wieling 1972 Winkel 1985 – 2002 Wolf 2007 Wolff 1951 Wubbe 1960 Wycisk 1972 Zamorani 1977 Zannini 1978 Zanzucchi 1910 Zilletti 1961 Ziliotto 2004 Zimmermann 1992 – 1994 Zoz 1970 – 1982 – 1999 Zuccotti 1987

– 1992

F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, II. Die Jurisprudenz vom frühen Prinzipat bis zum Ausgang der Antike im weströmischen Reich und die oströmische Rechtswissenschaft bis zur justinianischen Gesetzgebung. Ein Fragment aus dem Nachlass von F. Wieacker, hrsg. von J.G. Wolf, München 2006. H. Wieling, Testamentsauslegung im römischen Recht, München 1972. L. Winkel, “Error iuris nocet”: Rechtsirrtum als Problem der Rechtsordnung I. Rechtsirrtum in der griechischen Philosophie und im römischen Recht bis Justinian, Zutphen 1985. L. Winkel, Parerga et paralipomena ad errorem iuris, in Iurisprudentia universalis. Festschrift für Theo Mayer-Maly zum 70. Geburtstag, Köln-Weimar-Wein 2002, 901 ss. J.G. Wolf, Die Scaevola-Responsen in Paulus’‘libri ad Vitellium’, in Studi per G. Nicosia, VIII, Milano 2007, 472 ss. E. Wolff, Recensione a F. Bonifacio, La novazione nel diritto romano, in «Iura» 2 (1951) 238 ss. F.B.J. Wubbe, Res aliena pignori data, Leiden 1960. F. Wycisk, ‘Alimenta’ e ‘victus’ dans le droit romain classique, in «RHDFE» 50 (1972) 205 ss. P. Zamorani, Possessio e animus, I, Milano 1977. P. Zannini, s.v. Rapporti personali e patrimoniali fra coniugi (Diritto romano), in «ED» XXXVIII, Milano 1978, 365 ss. P.P. Zanzucchi, Il divieto delle azioni famose e la ‘reverentia’ tra coniugi in diritto romano, in «RISG» 47 (1910) 307 ss. U. Zilletti, La dottrina dell’errore nella storia del diritto romano, Milano 1961. P. Ziliotto, Studi sulle obbligazioni alternative nel diritto romano, Padova 2004. R. Zimmermann, The law of obligations. Roman foundations of the civilian tradition, Oxford 1996. R. Zimmermann, «Furtum», in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al profesor Murga Gener, Madrid 1994, 761 ss. M.G. Zoz, In tema di obbligazioni alimentari, in «BIDR» 73 (1970) 323 ss. M.G. Zoz De Biasio, L’invalidità delle manomissioni in frode al patrono disposte “inter vivos”, in «Iura» 33 (1982) 131 ss. M.G. Zoz De Biasio, Alimenti: tentativo di ordinare in modo sistematico le fonti autoritative citate dai giuristi, in Mélanges Sturm, I, Liège 1999, 595 ss. F. Zuccotti, Congettura sulle origini della “stipulatio”, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano, 7-9 aprile 1987), II, Milano 1987, 51 ss. F. Zuccotti, “Symbolon” e “Stipulatio”, in Testimonium amicitiae, Milano 1992, 307 ss. 290

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 291

ABBREVIAZIONI

«AAST» «AAN» «AARC» «AG» «AHDE» «ANRW» «AUMA» «AUPA» «AUPE» «BIDR» «CGDV» «DDP» «ED» «LR» «MEFRA» «MEP» «ND» «NNDI» «OIR» «PP» «QLSD» «RAL» «RDR» «RE» «RHDFE» «RIDA» «RIL» «RISG» «RJ» «SCDR» «SDHI»

Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche della Società nazionale di Scienze, Lettere ed Arti di Napoli Atti dell’Accademia romanistica costantiniana Archivio Giuridico Anuario de Historia del Derecho Español Aufstieg und Niedergang der römischen Welt Atti della Regia Università di Macerata Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo Annali dell’Istituto Giuridico della R. Università di Perugia Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialoja” Cultura giuridica e diritto vivente Digesto delle Discipline Privatistiche Enciclopedia del Diritto Legal Roots. The International Journal of Roman Law, Legal History and Comparative Law Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité. Minima Epigraphica et Papyrologica Nuovo Digesto italiano Novissimo Digesto Italiano Orbis Iuris Romani La parola del passato Quaderni Lupiensi di Storia e Diritto Rendiconti dell’Accademia dei Lincei Rivista di Diritto Romano Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft Revue Historique de Droit Français et Étranger Revue Internationale des Droits de l’Antiquité Rendiconti dell’Istituto lombardo Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche Rechtshistorisches Journal Seminarios Complutenses de Derecho Romano Studia et Documenta Historiae et Iuris 291

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 292

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon «SIR» «T» «TSDP» «ZPE» «ZRG» «ZSS»

Scriptores iuris Romani Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis Teoria e storia del diritto privato Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Zeitschrift für Rechtsgeschichte Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte – Romanistische Abteilung

292

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 293

GIURISTI CITATI*

Africano, Sesto Cecilio 18; 72.135; 207.462; 208; 212.489; 230.595. Alfeno Varo 5.22; 218.519. Aristone 18; 18.126; 19.133; 33; 33.5; 40; 45.50; 49.68; 50.71; 55.86; 197.

Fulcinio Prisco 12.81; 33.5; 45.54. Gaio 76; 81.176; 83; 83.183; 87; 87.199; 90; 91; 92; 92.227; 93; 93.232; 93.233; 184.357; 186.364; 188; 188.375; 189; 189.376; 189.378; 195; 204; 210.482; 224; 225.555. Gallo, Aquilio 55.86; 212; 212.489; 212.491.

Atilicino 12.81; 14; 19.133; 20; 45.50; 45.54; 50.71; 53.82; 149; 149.157. Bruto, Marco Giunio 7; 77; 78; 78.160. Cassio, Gaio Longino 12.81; 20; 20.143; 21; 43; 45.54; 49.71; 50.71; 51.71; 61.101; 62; 131; 132; 149; 149.157; 182; 182.349; 182.351; 193.392; 200.417; 204; 205.435; 217; 218; 222.540. Cecilio, Sesto 208. Celso, Publio Giuvenzio, filius 14.105; 18; 18.127; 33.5; 35.10; 37; 37.19; 37.20; 38; 39; 39.24; 40; 40.27; 69; 69.129; 151.171; 152; 165; 165.257; 165.258; 165.259; 166; 222. Celso, Publio Giuvenzio pater 14.105; 33.5. Cervidio Scevola, Quinto 6.30; 13; 19.132; 54.85; 102.16; 110; 111; 175; 175.321; 176; 215.503.

Giavoleno Prisco 6.27; 10; 11; 11.72; 11.76; 12; 12.83; 15.110; 15.116; 45.50; 49; 49.71; 50.70; 54; 54.85; 55.85; 85.190; 160; 160.221; 160.226; 160.227; 182; 182.351; 192.387; 239.658. Giuliano, Salvio 6.30; 12; 15; 18; 19.132; 19.133; 21; 35.10; 38; 39; 43; 45.50; 50.71; 62; 70; 72.135; 81.177; 116; 117; 134; 152.175; 159; 159.216; 160; 160.221; 182; 188; 189; 189.376; 192.387; 197; 204; 204.432; 205; 205.435; 205.436; 207; 210; 210.483; 211; 211.484; 226; 229.589. Labeone, Marco Antistio 6; 9; 6.27; 6.28 12.81; 15; 15.116; 16; 19.132; 19.133; 22.157; 33.5; 41; 41.31; 43; 44.47; 45.50; 46; 47; 47.63; 48.68; 51; 52; 53.81; 53.84; 54.85; 55; 55.86; 55.88; 55.89; 57; 57.95; 59; 59.100; 60; 62; 62.102; 63; 64; 64.108; 74; 74.143; 75; 75.141; 76.153; 77.155; 79; 80.169; 81.177; 84.187; 103.16; 110; 111;

* I nomi dei giuristi sono stati ordinati talvolta secondo il nomen, in altri casi secondo il cognomen, seguendo l’uso più consueto.

293

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 294

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 193.392; 193.393; 194; 195; 196; 197; 198; 201; 202; 202.422; 202.423; 203; 203.428; 203.429; 203.430; 204; 205.436; 207; 207.455; 208; 208.466; 208.468; 209; 209.472; 209.474; 209.477; 211; 213; 215; 216; 216.507; 216.510; 218.522; 219; 220; 222; 222.542; 223; 224; 225; 225.555; 226; 227; 227.567; 228; 228.574; 228.575; 229; 230; 230.591; 231; 233; 234; 235; 236; 239; 239.656; 239.660; 240.

127; 127.19; 128; 128.22; 135; 136; 136.81; 136. 83; 136.84; 154; 176; 191.387; 192.387; 193.392; 193.393; 199; 199.413; 204; 205; 206; 217; 226; 229.589; 239.656; 239.661. Manilio, Manio 77; 78; 78.160. Marcello, Ulpio 18; 18.128; 18.129; 165; 165.259; 166; 210.483.

Mucio Scevola, Quinto 6; 15; 48.67; 55.86; 57; 81.174; 81.175; 81.177; 111.

Nerva, Marco Cocceio, pater 12.81; 19.133; 20; 21; 43; 45.54; 48.67; 50.71; 51.71; 104; 105; 131; 132; 132.51; 135; 136; 136.83; 205.435.

Namusa, Aufidio 74; 75.141.

Ofilio, Aulo 7; 45.50; 239.661.

Nerazio Prisco, Lucio 3; 4; 5; 10; 11; 11.72; 12.83; 14; 14.102; 14.105; 15; 16; 17; 17.120; 17.121; 18; 19; 19.133; 19.138; 20; 21; 22; 22.157; 23; 24; 25; 26; 27; 28; 29; 30; 30.207; 30.209; 33; 33.5; 34.6; 34.7; 35.10; 36; 36.17; 37; 37.18; 38; 39; 39.24; 39.25; 40; 40.26; 40.27; 41; 41.25; 44; 45; 45.50; 47.66; 48; 48.67; 48.68; 49; 49.68; 49.69; 50; 50.71; 51; 51.71; 51.72; 52; 53; 54; 54.85; 56; 56.93; 57; 57.94; 58; 62; 63; 64; 64.108; 65; 66; 67; 67.123; 69; 71; 71.134; 72; 72.138; 73; 74; 76; 77; 78; 78.158; 79; 80; 81.177; 82; 83; 83.185; 84; 84.187; 85; 85.190; 85.191; 86; 86.194; 87; 87.199; 88; 90; 94; 94.240; 95; 95.241; 96; 96.247; 99; 100; 101; 101.4; 101.7; 102; 102.16; 103; 106; 107; 110; 111; 127; 133; 135; 135.73; 136; 137; 138; 141; 142; 145; 147; 149; 152; 153; 154; 155; 155.192; 156; 156.199; 159; 160; 160.225; 160.226; 160.227; 161; 163.248; 163.249; 164; 165; 165.259; 166; 166.262; 166.265; 167; 169; 169.282; 169.286; 170; 170.291; 171; 171.207; 172; 173; 174; 175; 177; 177.329; 178; 178.332; 182; 182.348; 182.349; 183; 183.355; 184; 185; 185.361; 187; 188.375; 189; 189.378; 189.379; 190; 190.382; 191; 191.385; 191.386; 192; 193;

Ottaveno 45.50.

Marciano, Elio 92.230; 215.

Papiniano, Emilio 6; 6.30; 6.32; 9; 15.115; 16.119; 42; 61; 62; 88.204; 194; 206.450. Pattumeio, Publio Clemente 45.50. Pedio, Sesto 63.104. Pegaso, Plozio 19.133; 102.16; 110; 111; 173; 174; 175. Plauzio 5; 10; 11; 11.69; 11.72; 12; 12.79; 12.81; 14; 15; 15.110; 16; 21; 39.24; 44; 45; 45.50; 45.52; 45.55; 46; 46.57; 46.58; 49; 49.71; 50; 50.71; 51; 51.71; 52; 52.77; 52.79; 53; 53.82; 56; 57; 71; 72.138; 73; 74; 179; 181; 182; 182.349; 182.351; 183; 191; 197. Pomponio, Sesto 9.54; 10; 10.56; 11.76; 12; 12.83; 13.94; 14.105; 15.110; 18; 19.133; 36; 45.50; 45.51; 45.52; 49; 49.71; 50.71; 55.88; 61.101; 62; 62.102; 79.167; 80; 80.173; 81; 81.177; 94.237; 140.110; 125; 126.9; 148; 149; 156.199; 160.225; 180; 182; 193; 193.393; 197.403; 230; 232; 233.

294

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 295

Giuristi citati Proculo 12.81; 14; 19; 19.133; 20; 20.140; 20.142; 33; 33.5; 38.22; 43; 45.50; 45.54; 50.71; 73; 76; 77; 77.155; 78; 78.158; 80; 80.172; 80.173; 81.177; 102.16; 110; 111; 131; 132; 133; 173; 174; 175; 191.387; 192.387; 205.435; 206.

Terenzio Clemente 61.101; 62. Trebazio Testa 236.626. Trifonino, Claudio 13.91; 204. Tuberone, Elio 150; 151.

Sabino, Masurio 9; 9.52; 9.54; 12.81; 13; 13.93; 14; 14.98; 15; 19.132; 19.133; 20; 20.141; 20.143; 21; 43; 44; 45; 46; 46.58; 47; 48.68; 49; 50.71; 51; 51.71; 52; 52.76; 53.82; 53.84; 54.85; 57; 61.101; 62; 63.104; 73; 74; 77; 78; 81.178; 102.16; 110; 111; 143.129; 148; 149; 149.157; 152.175; 155.193; 159.216; 176; 178; 182; 182.349; 183; 193.392; 200.417; 204; 205.435; 217; 217.518; 218; 222.540.

Ulpiano, Domizio 10; 13.91; 10.57; 13.91; 14; 17; 18.124; 19.135; 37.20; 42; 45.50; 50.71; 56; 61; 61.101; 62; 62.102; 63.104; 79; 92; 93; 93.232; 93.234; 93.235; 131; 131.49; 132.51; 134; 135.77; 136; 136.86; 139.106; 158; 159; 165; 165.257; 165.259; 166; 173.308; 178; 189.377; 196; 205; 206.446; 207; 212; 218; 226; 234; 234.619; 237.642.

Servio Sulpicio Rufo 7; 12.81; 33.5; 55.86; 222.540; 150; 151; 158; 158.211; 193.392.

Vitellio, Aulo 13.91; 13.93; 14; 15; 44; 217; 217.518; 218.

295

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 296

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 07/12/21 09:49 Pagina 297

FONTI ANTICHE

Cicero (Marcus Tullius) I. Orationes Pro Caecina 26.74 p.

36.17

III. Opera rhetorica De inventione 2.40.116 p.

151.169

Partitiones oratoriae 31.108 p.

151.169

Topica 5.28 p. 36 p.

70 125.4, 126.6

IV. Opera philosophica De finibus bonorum et malorum 3.20.67 p.

69.127

De legibus 3.5.12 p.

42

De officiis 1.9.30 p. 2.12.42 p. 2.21.73 p. 3.33.117 p.

40.27 70.132 68; 69 42.38

De re publica 2.38 p.

42.38 297

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 298

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Collatio legum Mosaicarum et Romanarum 4.2.3.4 12.7.7 16.2

18.128 17.121 210.482

Corpus iuris civilis Institutiones 1.2.14pr. 1.6.7 2.4.2 2.7.3 2.20.10 2.14pr. 2.19.7 2.20.4 2.20.26 2.20.27 2.20.28 2.25pr. 3.1 3.9pr. 3.19.6 3.29.3

53.82 198; 198.409; 198.410 130.41; 133.64; 133.65; 134.69 208.465 222.541 9.51 192.387 218.522 213.494; 213.496 213.496 213.494 236.626 210.482 213.496; 213. 497 185.362 162.237

Digesta 1.1.11 1.2.2.44 1.2.2.48-50 1.2.2.53 1.3.20 1.3.21 1.3.36 1.3.37 1.5.26 1.8.1pr. 1.8.10 2.4.3.15.1-2 2.11.10.2 2.14.27pr. 2.14.58 3.2.11.3 3.3.27.1 3.5.5pr.

75.147; 75.149 7 9.54 14.105; 33.5 35; 35.10; 42 34; 39.25; 51; 54.85 43.44 43.44 211.486 93.231 50.71 19.137 50.71 17.120; 19.133; 20; 20.140 33.5 17.121; 55.86 17.121 144.131 298

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 299

Fonti antiche 3.5.17(18) 3.5.18(19) 3.5.18(19)pr. 3.5.18(19).1 3.5.18(19).2 3.5.18(19).3 3.5.18(19).4 3.5.18(19).5 3.5.18(19).1-5

[F. 12]

[F. 13]

3.5.20(21) 3.5.20(21).3 3.5.23(24) 4.4.23 4.6.15.3 4.8.32.7 5.3.13.3 6.2.7.1 6.2.7.6 6.2.7.8 6.2.7.10 6.2.9.3 6.2.17 7.1.7pr. 7.1.7.1 7.1.7.3 7.1.12pr. 7.1.13 7.1.13.7 7.1.35.1 7.1.44 7.1.61 7.2.3pr. 7.2.3.2 7.2.13 7.4.26 7.5.1 7.5.2.1 7.5.3 7.5.3.4 7.5.4 7.5.5pr. 7.5.5pr.-2

[F. 1]

[F. 2]

299

17.120; 19.133; 103; 173; 174; 175; 177 173; 174; 175; 177 102.16; 103; 110; 111; 173 175 176 176 176 177 15; 19.132; 102.16; 103.16; 110; 111; 112; 113; 175; 177 175; 177 176; 176.323 89; 90.219; 227 18.128 17.121 155 17.121 200.416 66.114 66.114 85.193; 225.557 17.121 35.10; 65; 66.115 135.80 27.192; 135; 136.81 17.121 17.121 136 27.192; 135; 136.83 152.175 24; 24.166; 137; 137.91; 138 22.157; 24; 24.167; 49.69; 137; 137.92; 138 17.121; 40.27 17.121 45.55 104; 105; 125, 126; 126.11; 128 129.31; 131.49 133.64 131; 132; 133 133 48.67; 104, 105; 129; 131, 132; 133 133.64 133.62

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 300

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 7.5.6 7.5.6pr. 7.5.8 7.5.9 7.5.10pr. 7.5.10pr.-1 7.5.10.1 7.5.11 7.6.1.1 7.8.10.2 7.8.23

133.62 134.68 133.62; 133.64 104; 105; 129; 133; 133.62; 134 134; 134.71; 135; 135.72 133.62 135.72 133.64; 133.65 49.69 17.121 3.2; 3.4; 22.157; 23; 23.164; 24; 25; 26.186; 27; 27.191; 48.67; 99; 106; 107; 135; 136; 136.88; 137; 145; 146; 189.379 135 130.38 134; 135.72 130.38 230.595 231 230.593 230; 230.595 17.120; 20; 20.142; 21.145 17.121 17.121 14; 17.121; 45.50; 50.71 230.595 230.595 230.593 230.595 230.595 230.595 230.596 17.121 230.595 40.27 17.121 17.121 17.121 35.10 229.589 17.121 133.62 17.121 17.121

[F. 3]

[F. 4]

7.9.1 7.9.7 7.9.7.1 7.9.12 8.1.2 8.1.8.1 8.1.11 8.1.17 8.2.19pr. 8.3.3.3 8.3.3.3pr.-2 8.3.5.1 8.3.11 8.3.18 8.3.19 8.3.32 8.4.5 8.4.6.1 8.4.18 8.5.2.2 8.6.6.1 8.6.12 9.2.9.2 9.2.23pr. 9.2.27.9 9.2.51 9.2.51.1 9.4.21.6 9.7.1 10.2.20.7 10.4.5.4 300

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 301

Fonti antiche 11.7.14.13 12.2.24 12.4.3.5 12.4.8 12.6.6pr. 12.6.26.3 12.6.41 12.6.46 12.6.63 12.6.65.4 13.1.4 13.1.5 13.1.12.2 13.1.19 13.6.3.6 13.7.11.6 13.7.16.1 14.6.7pr. 15.1.3.12 15.1.9.1 15.1.47.1 15.1.55 15.1.56 15.3.19 16.1.2pr. 16.1.2.1 16.1.8.3 16.1.22 16.1.23 16.1.24 16.1.31 16.1.32.4 16.2.4 16.3.1.20-21 16.3.31.1 17.1.6.2 17.1.8.8 17.1.10.11 17.1.12.5 17.1.20.1 17.1.22pr. 17.1.22.1 17.1.22.8

[F. 20]

[F. 14]

[F. 5]

301

73.140 184.358 17.121 33.5 18.127 139; 139.107 185.361 50.71 188.375 74 206.449 206.446 17.121 15; 19.132; 116; 117; 204; 207 129.29 85.193 18.128 17.121; 40.27 205; 206; 206.448 17.121 143.129 22.154; 183; 183.355 3.2; 3.4; 22.154; 22.155; 25; 26.187; 30; 30.205; 100; 112; 113; 177; 178.332; 179; 180.345; 183 17.120; 19.131; 21.144 138.99 138.98 139 180; 180.345 141.115 141.114 3.4; 106; 107; 138 140.110 17.120; 19.133; 21.145 17.121 73.140 232.609 29.200; 234 232.606; 232.607 17.121 144.131; 232; 232.608 232 233.610 17.120; 177.329

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 07/12/21 09:50 Pagina 302

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 17.1.26.7 17.1.30 17.1.39 17.1.40 17.1.45.4 17.1.45.5 17.1.47.1 17.1.59.1 17.1.61

[F. 15]

17.1.62.1 17.2.52.16-17 17.2.71pr. 18.1.8pr. 18.1.34.1-2 18.1.50 18.1.57pr. 18.1.57pr.-1 18.3.4.1 18.3.5 18.3.35 19.1.11.7-11 19.1.11.12 19.1.11.13 19.1.13-14 19.1.31.2 19.2.19.2 19.4.2 20.2.3 20.3.3 21.1.25.3 21.1.30.1 21.1.56 21.2.37.2 22.1.11.1 22.1.14pr. 22.1.14pr.-1 22.1.14.1 22.1.34 22.1.38.7 22.6.1 22.6.1.1 22.6.1.2 22.6.1.3 302

17.120 201.421 33.5 232 181; 183 181 232.607 173; 174.311 3.2; 3.4; 26.187; 29; 29.202; 100; 112; 113; 183; 187 144.131; 232.607 17.121 229.584 158 75.147 158 17.120; 19.133; 20; 20.143; 50.71 21.145 17.121 55.86 33.5 17.121 17.121 17.121 17.121 67 17.121; 49.68; 216.513 18.126 17.121 18.126 17.121 18.126 18.128 17.121 18.128 190.382 189; 190 17.120; 19.131; 22.157; 102; 189.380 189.377 182.349 58; 60; 61.101 61.101 61.101 61.101

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 303

Fonti antiche 22.6.1.4 22.6.2 22.6.3 22.6.3.1 22.6.4 22.6.5 22.6.6 22.6.7 22.6.8 22.6.9pr.-6 23.3.5.6 23.3.5.8 23.3.20 23.3.30 23.3.36 23.3.55 23.3.67 24.1 24.1.1 24.1.2 24.1.5.4 24.1.5.5 24.1.13.2 24.1.26.1 24.1.28.3 24.1.28.7 24.1.32 24.1.63

[F. 21]

24.3.17 24.3.17pr. 24.3.17.2 24.3.27pr. 24.3.56 25.1.15 25.2.1 25.2.3.4 25.2.5 25.2.6.5 25.2.6.6 25.2.26 25.3 26.1.18 26.7.16 303

61.101 34; 58; 61.101 61.101 61.101 61.101 61.101 61.101 61.101 61.101 58; 59; 60 17.121 17.121 17.120; 19.133; 21.145 18.126 178; 183; 183.354 182 38.22 207.454; 207.457 207.460 18.129; 207.462 232.604 17.121 17.121 17.120; 21.144 45.55 18.127 208.464 3.2; 3.5; 26.187; 30; 30.206; 100; 116; 117; 203; 207; 208; 209 19.137; 17.120; 19; 19.130; 19.133; 19.136; 73 17.120; 19.130; 19.133; 20; 20.141 73 182.347 54.85 43; 205.435 206; 206.448 206.448; 206.450 18.126 95.245 205.441 237.642 141.117 18.128

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 304

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 26.8.16 27.2.4 27.3.9.1 27.10.9 28.2.4 28.2.9.2 28.2.27 28.2.29pr.-1 28.5.9.14 28.5.18 28.5.55 28.5.56 28.5.65 28.5.90 (89) 28.6.33.1 29.2.20pr. 29.2.60 29.2.62pr. 30.8.1 30.10.7.2 30.41.2 30.54.3 30.113.1 30.116pr. 30.124 31.36 31.67.8 32.24 32.25

[F. 22]

[F. 7]

32.25.1 32.26

[F. 16]

32.44 32.67 32.78pr.-7 32.82 32.85 32.86 33.1 33.1.16

[F. 23]

33.1.43.3 33.2 304

195 238.655 17.121 35.10; 141.117 211; 212 18.128 116; 117; 210; 211 212 17.121 14.98 196; 196.402 17.120; 21.144; 196 93.231 222.539; 223.546 212.489 192.387 6.27 191.387 148; 148.148 151.169 222.538; 223.544 149.158 28.197; 215 221.529; 221.531 101; 149.155 221.530 218.522 22.154 22.154; 25; 25.178; 26.187; 27; 27.188; 101; 101.8; 102; 106; 107; 146; 153.183; 191.386 146; 147; 149 22.154; 22.157; 25.176; 101; 101.10; 112; 113; 187; 189; 190; 191 218.520 218.520 218.520 218.520 218.522 218.520 216.514 25; 26.187; 28; 28.196; 102; 102.12; 116; 117; 213; 214; 215; 216 19.131 216.514

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 305

Fonti antiche 33.2.1 33.2.20 33.2.24pr. 33.2.37 33.3 33.3.7 33.4 33.5 33.5.13 33.6 33.7 33.7.1 33.7.1pr. 33.7.2.1 33.7.5 33.7.6 33.7.8pr. 33.7.8pr. 33.7.10.2 33.7.12.4 33.7.12.27 33.7.12.28-36 33.7.12.35 33.7.12.43 33.7.13pr. 33.7.13pr.-1 33.7.13.1 33.7.16 33.7.18.1 33.7.18.2 33.7.18.12 33.7.19pr. 33.7.20 33.7.20.1 33.7.20.3 33.7.20.5-6 33.7.23 33.7.24

[F. 24]

33.7.26pr. 33.7.27pr.-1 33.8 33.8.9.1 33.9 33.10 305

131.44 152.175 131.47 131.47 216.514 230.595 216.514 216.514 222.539 216.514 216.514 218.519 217.516 218.520 217; 218.519 218.519 217.518 218.520 21.144 17.121; 216.513 217; 218 218.519 17.121; 216.513 17.121; 216.513 17.120; 21.144; 219; 220; 220.526 216.513 19.131 218.519 220 17.120; 216.513 218.520 147.144 218.519 218.520 218.520 218.520 22.154; 219 3.2; 3.4; 22.154; 25; 26.187; 28; 28.198; 100; 116; 117; 216; 218; 220 218.520 218.520 216.514 18.128 216.514; 236.630 216.514

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 306

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 33.10.7 33.10.7pr.-1 33.10.7.2 34.1 34.1.4pr. 34.1.5 34.1.6 34.1.7 34.1.10.1 34.1.12 34.1.15.1 34.1.16pr. 34.1.16.2 34.1.17 34.1.21 34.1.22.1 34.1.23

[F. 29]

34.2 34.2.8 34.20.1 34.2.25.9 34.2.32.5 34.2.33 34.3 34.5.3 34.5.21pr. 34.7.1pr. 34.7.1.1-2 34.7.2 34.7.3 34.7.5 35.1.6.1 35.1.7pr. 35.1.24 35.1.37 35.1.43.3 35.1.96

[F. 8]

35.1.96pr. 35.1.96.1 35.1.97

[F. 17]

306

150 150 150; 151; 151.169 216.514; 237.640 237.636; 238.648 237.638 238.649; 238.655; 239.658 239.658; 240.664 215.505 238.648; 239 237.638 238.648 238.649 215.503 237.638; 238.649 237.636 3.2; 3.4; 25.176; 26.187; 29; 29.204; 100; 120; 121; 235 216.514 15.110; 49.71; 182; 182.351 238.648 154.187 17.120; 19; 19.133 237.639 216.514 147.143 147.143 222 223.544 223 222.543 222.543 193; 193.392; 193.393; 194 17.121 158.207; 159 17.120; 21.144 17.120; 21.144; 35.10; 71; 182; 182.350; 191; 191.383 3.2; 3.4; 24; 26.187; p.28; 28.193; 99; 106; 107; 152; 156; 194 24.171; 156; 156.198 154 3.2; 3.4; 25; 26.187; 27; 27.190; 100; 112; 113; 153.183; 191; 191.387; 193; 194

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 307

Fonti antiche 35.1.98 35.1.99 35.1.100 35.1.101 35.1.102 35.1.103 35.1.104 35.1.112.3 35.2.1.9 35.2.1.19 35.2.3.2 35.2.36.4 35.2.82 36.1.1.19 36.1.17 36.1.20.1 36.1.23.3 36.1.65.12 36.3.13 36.6.31.3 37.1.10 37.9.6 37.9.10 37.10.6.5 37.10.9 37.11.3 37.12.5pr. 37.14.6 38.1.18.1 38.1.37.4 38.1.49 38.1.50.1 38.15.2.5 38.16.1.8 38.16.3.9 38.16.6 39.2.18.10 39.2.47 39.3.1.2 39.3.2.6 39.3.2.8 39.5.13

[F. 25]

39.6.21 39.6.35.7 307

118; 119; 194; 221; 222 194 194 194 194 194 194 85.190; 160.225; 160.227 18.126 18.128 18.128 18.129 17.121 17.121 133.62 18.126 17.121; 191; 191.384 188.375 33.5 180; 180.342 62.102 213.496 213.496 238.655; 239 33.5 211.488; 213.496 75.148 197 238.648 179 188.375 239.656 62.102 210.483 210.478; 210.481 210.478; 211 18.126 33.5 17.121 74 147.144 85.193; 88.209; 90.218; 225.557; 226.564 85.190 179

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 308

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 39.6.43 40.1.14pr.-1 40.2.9.1 40.2.11 40.2.13 40.2.24 40.4.7 40.4.10.1 40.4.33 40.7 40.7.1pr. 40.7.5pr. 40.7.17 40.7.20.3 40.7.28pr. 40.7.38 40.7.39.2 40.7.42 40.9.16.3 41.1.13 41.1.13pr. 41.1.13.1 41.1.20.2 41.1.37.6 41.2.1 41.2.1.1 41.2.1.2-5 41.2.1.5 41.2.1.20

[F. 18]

[F. 9]

41.2.1.21 41.2.3.1 41.2.3.1.6 41.2.3.3 41.2.3.7-8 41.2.3.14-15 41.2.3.18 41.2.6pr. 41.2.6.1 41.2.7 41.2.25.2 41.2.27 308

33.5 197 196 195; 195.398 195; 195.399 3.4; 25; 25.179; 26.187; 28; 28.194; 100; 112; 113, 194; 198 17.121; 160.223 155 157.203 157.203 157.203; 214 160.222; 160.227 160.224; 160.226 155; 155.193; 159; 160.221 160.227 108; 109; 156 160.226 154.189 18.126; 197 83.185; 88; 90.217, 203.428 23; 23.163; 49.69; 87; 225.555; 227 87.201; 227.568 88.209; 90.218; 226; 226.564 88.209; 90.218; 226.564 47.63 78.163 84.189 84.189 84.189; 85; 86.194; 202.424; 225.558 17.120; 84; 84.189; 86.194 78.163 78 17.120; 19.133; 76; 77; 76.152; 78.158; 78.163 82 78.163 78.163 69.167 79; 79.165; 80.169 17.120; 21.144; 79; 79.166; 80; 81 41.2.8 79 80; 81 80.171

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 309

Fonti antiche 41.2.34.1 41.2.42.1 41.2.44.1 41.2.49.2 41.2.51 41.3.4.6 41.3.4.7 41.3.4.12 41.3.4.13 41.3.4.14 41.3.4.21 41.3.8pr. 41.3.12 41.3.27 41.3.41 41.3.47

[F. 26]

41.4.2.6 41.4.2.11 41.4.2.13 41.4.2.14 41.4.3 41.4.7.7 41.4.11 41.4.41pr. 41.5.1 41.10.3 41.10.5pr. 41.10.5pr.-1 42.1.21 42.4.7.16 43.16.1.25 43.24.7.1 43.24.13 43.24.13pr.-2 43.24.13.5 43.26.6.1 44.2.9.1 44.2.11.4 44.3.14pr. 44.4.5.1 309

85.193; 202.424; 225.557 85.193; 225.557 78.162 85.193; 88.204; 202.424; 225.557 76.152; 76.153 199.412; 199.413; 199.415; 200 199.413; 204.431 225.554 199.414; 200 200 200 17.120; 19.131; 19.133; 22.157; 84.187; 226; 226.561 204.431 37 23.159; 49.69; 82; 87.199; 202; 203; 204; 225; 225.555; 225.556 22.157; 23; 23.161; 83; 84; 88; 90.219; 118; 119; 202.424; 223; 225.556; 226; 226.561; 227 17.120; 21.144; 85.190 18.127 18.127 18.127 200.416 204.431; 225.554 37; 38 23 94.237 36; 37.18 38 35 17.120; 19.130; 19.138; 21.144; 35.10; 71; 72; 182.348 17.121; 188.375 80.171 17.121 27.192; 136 136.84 93.231 85.193 17.121 126 54.85 18.128

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 310

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 44.4.4.18 44.4.11.1 45.1.1pr. 45.1.1.2 45.1.2.1 45.1.4.1 45.1.5.1 45.1.8 45.1.9 45.1.40.1 45.1.40.1-2 45.1.83.1 45.1.83.5 45.1.91.3 45.1.134.1 45.1.134.3 45.1.136.1 45.1.137pr. 45.1.140

[F. 27]

45.2.17 46.1.4pr. 46.1.8.7 46.1.16pr. 46.1.16.1 46.1.18 46.1.49.2 46.1.60 46.1.66 46.1.67

[F. 6] [F. 28]

46.2 46.2.1pr. 46.2.8.4 46.2.26 46.2.32

[F. 10]

46.3.46 46.3.98.8 46.4.13.7 46.7.16 47.2 47.2.1 310

17.121 39.25 228.583 232.604 230.593 18.128 228.579 18.128 148.148 3.2 3.4 18.126 75.147 18.127; 38; 39; 42; 69.129 229.584 229.584 230.593 228.582 15; 25.176; 26.187; 30; 30.208; 30.209; 48.67; 100; 100.3; 118; 119; 228; 228.575; 228.576; 229 149.157 232.608 232.603 232.604 232.603 232.606 232.603 232.605 106; 107; 138; 141 26.187; 29; 29.199; 71; 71.134; 102; 102.14; 118; 119; 145.137; 231; 233; 234; 235 162.236 162 165 165 25.176; 26.187; 27; 27.189; 99; 100; 100.1; 108; 109; 161 232.605 18.127 232.606 35.10 170 204.433

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 311

Fonti antiche 47.2.14.17 47.2.43.1 47.2.65(64) 47.2.65(64).5 47.2.83(82)pr. 47.2.84(83) 47.2.84(83)pr. 47.2.85(84)

[F. 19]

47.2.87(86) 47.3.1pr. 47.10.1.8-9 47.10.7.5 47.19 47.19.1 47.19.2 47.19.2.1 47.19.6

[F. 11]

49.14.14 49.15.2 49.15.3 49.15.8 49.15.13 49.15.17 49.15.19 49.15.20.1 49.15.28 49.15.29 49.15.30 49.17.20 50.16.13.1 50.16.43 50.16.80 50.16.215 50.16.234 50.17.1

311

85.193; 88.209; 90.218; 226.564 17.121; 95.241 40.26 72.135 22.157 22.154; 202.423 22.157; 94; 95; 95.242; 96.248; 96.249; 96.250; 96.251; 170; 170.291; 202.422 22.154; 22.155; 23; 23.158; 114; 115; 198; 201; 201.421; 202.423; 203; 204; 225.554 204.431; 225.554 208.470 17.121 17.121 92.230; 167; 169.280 92.230; 169.280; 172.300 92 93; 172 3.3; 3.4; 22.157; 24; 26.187; 29; 29.201; 47.66; 94; 94.236; 95; 95.243; 96.248; 96.250; 96.252; 96.253; 96.254; 99; 108; 109; 167; 170; 170.291; 171; 172; 202.422 125.3 125.4 125.4 127.18 127.18 127.18 127.18 126 127.18 127.18 127 221.536 63.104 239.656; 239.661 155 204.431 239.661 46; 46.58; 48.68; 49; 50; 51; 52; 52.76; 52.77; 53.84; 54.85; 57; 62; 197.405

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 07/12/21 09:51 Pagina 312

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 50.17.2 50.17.12 50.17.40 50.17.60 50.17.106 50.17.133 50.17.153 50.17.161 50.17.168 50.17.176 50.17.179 50.17.180 50.17.191 50.17.202 50.17.208 50.17.215

46.58 147.143 46.58 144.131; 232.607 155 184.358 79 158; 158.207; 159 46.58 155 155; 197.405 46.58 40.27 54.85 156; 156.198 200.417

Codex Iustinianus 1.18 1.18.2 1.18.3 1.18.12 4.35.6 4.35.10 5.3.20.2-4 6.48.1 6.51.1.1c 7.29.3 7.32.1 7.32.8 8.41.8

58.98; 63.104; 63.106 63.106 58.98 232.607 29.200; 235; 235.620 208.465 213.497 221.533 94.237 87.199; 202.424; 226.563 85.193; 87.199 163

Novellae Iustiniani 119.2

198

Festus Grammaticus (Sex. Pompeius Festus) (Lindsay) De verborum significatu 1 414 414.32

126 214 157; 157.202

312

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 313

Fonti antiche Fragmenta Vaticana 1 46 54 71 75 77 79 83 85 247 302

18.127 133.62 17.120; 21.144 17.121 17.121 45.55 17.121 17.121 17.121 147.144 207.459

Frontinus (Agennius Urbicus) (Thulin) De controversiis agrorum 33.26 34.5 34.9-12 34.18-21 34.22-25

81.178 81.178 81.178 81.178 81.178

Gaius Institutiones 1.17 1.19 1.20 1.38 1.39 1.40 1.52 1.147 2.9 2.45 2.49 2.52 2.52-57 2.52-58 2.52.54 2.54 2.55-58 2.56

157.204 195; 195.397 195; 195.396 195; 195.395; 198 198 198 142.122 213.493; 213.496 93.231 198.411 198.411 91.223; 168 171.297 90.220 90.220 91.220; 91.223; 91.225 91.220; 168.276 91.224 313

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 07/12/21 09:52 Pagina 314

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon 2.86 2.87 2.89-90 2.91-92 2.94 2.94-95 2.95

4.4 4.153

86 184.357 76.151; 83.183; 224 87.197 224.551 76.151; 83.183; 224 86; 87.199; 90.215; 90.216; 226.562 187.370 212.492 153.182; 214 213.493; 213.494 213.494; 213.496 222.540 213.498 188 213.494; 213.495; 213.496 210 210.478 210 228.581 228.580 228.578 228.578 228.578 142.123; 186.364 231 232 231.599 232.602 232.603 144.131; 232.607 162 91 209.473 91; 91.223; 92.227; 93; 168.274; 172 204.434 76.151; 78.162; 80.173; 81.176

Gallus (Aelius) (Huschke) fr. 1

125.4; 126.5

2.96 2.130-131 2.200 2.241 2.242 2.244 2.267 2.280 2.287 3.1-2 3.1-4 3.4 3.92 3.93 3.97 3.97a 3.98 3.104 3.115-116 3.116 3.117 3.118-127 3.126 3.127 3.176 3.195 3.198 3.201

314

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 315

Fonti antiche Gellius (Aulus) Noctes Atticae 3.16.12 11.5.6-8 12.13.3 13.10.1 13.28.1-4 17.7

210.478 40.29 43.41 47.62 66.116 199.415

Historia Augusta, vedi Scriptores Historiae Augustae

Martialis (Marcus Valerius) Epigrammata 14.184

34.6

Ovidius (Publius Ovidius Naso) Fasti 1.27-28 1.33-36

210.479 210.479

Panaetius (Παναίτιος) De officiis (Περὶ τοῦ καθήκοντος) 8 21-37

66.118 66.118

Pauli Sententiae 2.31.11 3.6.48 3.6.50-51 5.2.1 5.2.2 226.566

95.245; 171 218.520 218.519 79 86; 86.195; 89; 90.219; 202.424;

315

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 316

Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon Plutarchus Vite parallele (Βίοι Παράλληλοι) Numa 12.2

210.479

Quintilianus (Marcus Fabius) Declamationes minores 309.9.5

34.7

Institutio oratoria 8.6.65

199.415

Rhetorica ad Herennium 2.13.19

70.130

Scriptores Historiae Augustae Vita Hadriani 4.8

33.4

Seneca (Lucius Annaeus) rhetor Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores Suasoriae I Controversiae VII.7.19

41.35 41.35

Tituli ex corpore Ulpiani 2.1 2.4 11.28 17.1 24.1 24.23 24.28 24.31

214 158.209 17.121; 85.190 153.181 221.531; 236.625 223.544 192.389 221.533

316

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 317

SIR_XII_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 06/12/21 10:35 Pagina 318

Finito di stampare nel mese di dicembre 2021 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28 00012 - Guidonia - Roma