Intervista sull’identità 9788842070085

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Intervista sull’identità
 9788842070085

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Saggi Tascabili Laterza 269

Zygmunt Bauman

INTERVISTA SULL’IDENTITÀ a cura di Benedetto Vecchi

Editori Laterza

© 2003, Gius. Laterza & Figli e Polity Press Prima edizione 2003 Decima edizione 2010 Traduzione di Fabio Galimberti www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7008-5

Premessa di Benedetto Vecchi

La lettura di un testo di Zygmunt Bauman è sempre spiazzante, che si tratti di un saggio, di un libro o di una risposta data a una domanda rivolta con lo scopo di scandagliare il tema dell’identità, come accade in questo libro-intervista. Va subito detto che è un’intervista «anomala», nel senso che non è stata condotta con un registratore, né ha visto l’intervistatore e l’intervistato l’uno di fronte all’altro. Lo strumento scelto è stata la posta elettronica, che ha impresso un ritmo rapsodico all’alternarsi delle domande e delle risposte. Venendo a mancare il vincolo temporale di una conversazione vis-à-vis, il dialogo a distanza è stato infatti segnato da molte pause di riflessione, richieste di chiarimenti, piccoli «sconfinamenti» su territori diversi da quelli che inizialmente si voleva esplorare. Ad ogni risposta di Bauman il sentimento di smarrimento non poteva che aumentare, perché cresceva la consapevolezza di trovarsi, via via che il materiale si accumulava, in un continente sempre più vasto di quello immaginato e dove le mappe conosciute quasi a nulla servivavano per orientarsi in esso. Già, perché Zygmunt Bauman ha una caratteristica V

che lo differenzia da altri sociologi o «scienziati sociali». La sua è infatti una riflessione in progress, che non si accontenta mai di definire o «concettualizzare» un evento, ma punta a stabilire connessioni ed echi con fenomeni sociali o con manifestazioni dell’ethos pubblico che sembrano lontani mille miglia dall’oggetto iniziale di indagine. Nelle pagine che seguono questa erraticità della sua riflessione, che rende impossibile stabilire parentele intellettuali certe o l’appartenenza a scuole di pensiero, è più che evidente. In molte occasioni, Zygmunt Bauman è stato definito come un sociologo eclettico. Una definizione che sicuramente non dispiace all’interessato. E tuttavia la metodologia che egli mette in campo punta a «svelare» principalmente i mille fili che legano l’oggetto indagato con altre manifestazioni del vivere associato. Per il sociologo di origine polacca, è infatti fondamentale cogliere la «verità» di ogni sentimento, stile di vita, comportamento collettivo. E questo è possibile solo se, oltre al tema indagato, si svela il contesto sociale, culturale e politico in cui quel particolare fenomeno si colloca. Da qui dunque il carattere erratico della sua riflessione, sia che affronti la crisi della discussione pubblica, come accade nel volume La solitudine del cittadino globale (Feltrinelli, Milano 2000), sia che si tratti del mutato ruolo degli intellettuali nella società dello spettacolo, argomento che tesse la trama del volume La decadenza degli intellettuali (Bollati Boringhieri, Torino 1992). La sua è quindi manifestazione di un pensiero inquieto, ma rigoroso; aderente al presente, ma attento a definirne la genealogia. O meglio, le genealogie. VI

Nella nostra intervista l’argomento è quello dell’identità, cioè un argomento che per sua natura è sfuggente e ambivalente. Bauman non si è sottratto alla scommessa, anzi è riuscito, in primo luogo, a compiere un doppio salto mortale: ha riletto, cioè, la storia della moderna sociologia alla luce proprio dell’ossessione e della rilevanza che ha l’identità nell’attuale discussione pubblica, per giungere alla conclusione che è meglio non cercare risposte tranquillizzanti nei «sacri testi» del pensiero critico. Nella «modernità liquida» si è proiettati in un mondo dove tutto è sfuggente e le ansie, i dolori, i sentimenti di insicurezza provocati dal «vivere in società» hanno bisogno di un paziente e costante lavoro di interrogazione della realtà e di come i singoli si «posizionano» in essa. Cercare di acquietare il senso di spaesamento, di volatilità e precarietà dei progetti di vita di uomini e donne brandendo certezze del passato, e di conseguenza spiegare quello spaesamento facendo leva solo sui «sacri testi», è come tentare di svuotare il mare con un secchiello. Ci troviamo quindi di fronte ad un intellettuale che considera il principio di responsabilità come l’atto preliminare per qualsiasi partecipazione alla vita pubblica. Per un sociologo questo significa concepire la sociologia non come disciplina «separata» dagli altri campi del sapere, ma come strumento di analisi che stabilisce una tensione vitale con la filosofia, la psicologia sociale, la narrativa. Non c’è quindi da meravigliarsi se i documenti su cui si cimenta la sua propensione a operare «cortocircuiti» tra cultura di massa e cultura «alta» sono articoli apparsi, headlines pubblicitari e la riflessione filosofica di Sören Kierkegaard sulla figura di Don Giovanni. VII

Bauman non ama molto parlare della sua vita, ma qualche dato della sua biografia può essere utile per comprendere l’andamento della sua riflessione. Zygmunt Bauman è nato nel 1925 in Polonia da una famiglia ebrea. Fuggito in Unione Sovietica all’inizio della Seconda guerra mondiale, ha fatto parte dell’esercito polacco che ha combattuto le armate naziste a fianco dell’Armata rossa. Nel libro Società, etica, politica (Raffaello Cortina, Milano 2002) racconta che il ritorno a Varsavia ha coinciso con gli studi e la laurea in Sociologia e che i suoi primi «maestri» sono stati Stanislaw Ossowski e Julian Hochefeld, due intellettuali polacchi poco conosciuti fuori dalla Polonia, ma fondamentali nella sua formazione intellettuale, in primo luogo per avergli trasmesso quella capacità di guardare in «faccia il mondo» senza fare leva su ideologie precostituite. Diventato una delle figure di rilievo della «scuola sociologica» di Varsavia, Bauman, se interrogato, descrive i duri anni Cinquanta e Sessanta senza nessun rancore verso chi osteggiava il suo lavoro. Anzi, usa una sottile ironia per paragonare la difficile libertà accademica nella Polonia con il conformismo dell’accademia europea o statunitense. Ha altresì parole discrete sul suo ruolo nell’«Ottobre polacco» del 1956, quando prese parte a quel forte movimento riformatore che contestava il ruolo guida del Poup al potere e la sottomissione del suo paese al volere di Mosca. Un’esperienza, quella, che ha segnato Bauman, in particolar modo per la «resa dei conti» con l’ideologia ufficiale – il marxismo sovietico – attraverso Antonio Gramsci. Da allora sono stati frequenti i suoi viaggi all’esteVIII

ro. Uno stage di un anno alla London School of Economics, molte conferenze in quasi tutte le grandi università europee. Questo fino al 1968, che deve essere considerato un anno di svolta nella sua vita. Solidale con il giovane movimento studentesco polacco, Bauman è stato infatti messo all’indice dal partito comunista al potere, quando la repressione del dissenso usò l’antisemitismo per colpire gli studenti e i docenti che chiedevano di farla finita con il partito unico per avere finalmente «libertà, giustizia, uguaglianza». Dopo che gli è stato impedito l’insegnamento, Zygmunt Bauman si è quindi trasferito in Inghilterra, il paese dove tutt’ora vive. In quasi tutti i suoi libri, e in particolare in Modernità e Olocausto (Il Mulino, Bologna 1992), esprime gratitudine infinita a Janina, la moglie e compagna di vita a cui è legato da un forte sodalizio sentimentale e intellettuale. È lei forse una delle figure intellettuali più importanti nella riflessione di Bauman sulla «modernità solida» prima e sulla «modernità liquida» dopo. La sua permanenza in Inghilterra ha coinciso con un’intensa fertilità intellettuale. Di alcuni testi si è già fatto cenno. Ma è indubbio che a partire dalle Sfide dell’etica (Feltrinelli, Milano 1996), Bauman si è concentrato soprattutto sull’analisi della globalizzazione, un fenomeno considerato non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto per le conseguenze che ha nella vita quotidiana. Ed è da questo semplice assunto che il decano della sociologia europea, nonché docente all’Università di Leeds, è partito alla scoperta del «nuovo mondo» scaturito dalla crescente interdipendenza del pianeta terra. Così libri come La società dell’incertezza (Il Mulino, Bologna 1999), DenIX

tro la globalizzazione (Laterza, Roma-Bari 2001), Voglia di comunità (Laterza, Roma-Bari 2001), La società individualizzata (Il Mulino, Bologna 2002), Modernità liquida (Laterza, Roma-Bari 2002) e Il disagio della postmodernità (Bruno Mondadori, Milano 2002) fanno quindi parte del grande affresco di Bauman sulla globalizzazione, la quale viene considerata come un mutamento radicale e irreversibile. Una «grande trasformazione» che ha coinvolto gli ordinamenti statali, la condizione lavorativa, i rapporti interstatali, le soggettività collettive, il rapporto tra l’io e l’altro, la produzione culturale e la vita quotidiana di uomini e donne. Anche questo libro-intervista sull’identità può essere considerato come un tassello di quell’affresco. Parafrasando una delle risposte di Bauman si può affermare che la globalizzazione non è un puzzle che può essere composto in base ad una figura prestabilita. Va semmai considerato un processo, così come un processo va considerata la sua analisi e comprensione. E lo stesso si può dire per l’identità, quando si manifesta nella crisi del multiculturalismo e nel fondamentalismo islamico; o quando internet facilita l’espressione di identità prêt-à-porter. O nella crisi dello stato sociale e la conseguente crescita del sentimento di insicurezza e di precarietà che questo comporta. O nel «logoramento del carattere» che la precarietà e la flessibilità nella prestazione lavorativa producono nella società, creando così le condizioni di uno svuotamento delle istituzioni democratiche e di una privatizzazione della sfera pubblica, ridotta sempre più a un talk show, dove tutti possono urlare le loro ragioni senza che questo riesca a trasformare le condiX

zioni di ingiustizia e illibertà presenti nel mondo moderno. Ma quale che sia il campo di indagine su cui si sperimenta l’ambivalenza del tema dell’identità, Bauman è convinto che solo l’agorà è il luogo dove può essere detta la «verità» ed essere squarciato così il velo di opacità che impedisce a quella stessa ambivalenza di diventare il campo di possibilità dove far esperienza del proprio principio di responsabilità. Potrebbe sembrare una contraddizione, per questo uomo mite e geloso della sua privacy. Ma è proprio la centralità che egli assegna all’agorà, in quanto luogo privilegiato dove prendere la parola per criticare l’oramai dilagante privatizzazione della sfera pubblica, che lo rende uno dei critici più lucidi e disincantati dello «spirito del tempo» imperante nella «modernità liquida».

INTERVISTA SULL’IDENTITÀ

Prologo

Secondo l’antica usanza dell’Università Carlo di Praga, durante la cerimonia di conferimento delle lauree honoris causa viene suonato l’inno nazionale del paese di appartenenza del «neolaureato». Quando toccò a me ricevere quest’onore, mi chiesero di scegliere tra l’inno britannico e l’inno polacco... Beh, non trovai facile dare una risposta. La Gran Bretagna era il paese che avevo scelto e che mi aveva scelto offrendomi una cattedra quando la permanenza in Polonia, il mio paese di nascita, era diventata impossibile perché mi era stato tolto il diritto di insegnare. Laggiù, però, in Gran Bretagna, io ero un immigrato, un nuovo venuto, fino a non molto tempo fa un profugo da un paese straniero, un alieno. Poi sono diventato un cittadino britannico naturalizzato, ma quando sei un nuovo venuto puoi mai smettere di esserlo? Non avevo intenzione di passare per un inglese e né i miei studenti né i miei colleghi hanno mai avuto il minimo dubbio che fossi uno straniero, un polacco per essere esatti. Questo tacito gentlemen’s agreement ha impedito ai nostri rapporti di guastarsi: al contrario, li ha resi onesti, tranquilli e 3

nel complesso sereni ed amichevoli. Avrei dovuto quindi far suonare l’inno polacco? Ma anche questa scelta non aveva molto fondamento: trent’anni e passa prima della cerimonia di Praga ero stato privato della cittadinanza polacca... La mia esclusione era stata ufficiale, avviata e confermata da quel potere che aveva la facoltà di distinguere il «dentro» dal «fuori», chi apparteneva da chi no: pertanto il diritto all’inno nazionale polacco non mi competeva più... Janina, la compagna della mia vita e una persona che ha ragionato molto sulle trappole e le tribolazioni dell’identità (d’altronde, è autrice di un libro dal titolo Un sogno di appartenenza) ha trovato la soluzione: perché non far suonare l’inno europeo? Effettivamente, perché no? Europeo lo ero, senza dubbio, non avevo mai smesso di esserlo: ero nato in Europa, vivevo in Europa, lavoravo in Europa, pensavo europeo, mi sentivo europeo; e soprattutto, a tutt’oggi non esiste un ufficio passaporti europeo con l’autorità di emettere o rifiutare un «passaporto europeo», e perciò di conferire o negare il nostro diritto a chiamarci europei. La nostra decisione di chiedere che venisse suonato l’inno europeo era al tempo stesso «inclusiva» ed «esclusiva»... Alludeva a un’entità che includeva i due punti di riferimento alternativi della mia identità, ma contemporaneamente annullava, come meno rilevanti o irrilevanti, le differenze tra di essi e perciò anche una possibile «scissione di identità». Rimuoveva la questione di un’identità definita in termini di nazionalità, quel tipo di identità che mi era stata resa inaccessibile. Anche gli struggenti versi dell’inno europeo contribuivano allo scopo: alle Menschen wer4

den Brüder... L’immagine di «fratellanza» è la sintesi della quadratura del cerchio: differenti eppure uguali, separati ma inseparabili, indipendenti ma uniti. Vi racconto questo piccolo episodio perché contiene, in nuce, molti dei fastidiosi dilemmi e delle ossessionanti scelte che tendono a fare dell’«identità» una questione di gravi preoccupazioni e accese controversie. Chi cerca un’identità si trova invariabilmente di fronte allo scoraggiante compito di «far quadrare il cerchio»: quest’espressione, com’è noto, implica compiti che non possono mai essere completati, ma si presuppone possano giungere a compimento nella pienezza dei tempi, all’infinito... Si dice comunemente che le «comunità» (a cui le identità fanno riferimento come entità che le definiscono) sono di due tipi. Ci sono comunità di vita e destino i cui membri (secondo la formula di Siegfried Kracauer1) «vivono insieme in attaccamento indissolubile», e comunità «saldate insieme unicamente da idee o vari principi». Dei due tipi, il primo mi è stato negato, proprio come è stato negato e lo sarà a un crescente numero di miei contemporanei. Se non mi fosse stato negato, difficilmente avreste avuto occasione di interrogarmi sulla mia identità, e se lo aveste fatto, io non avrei saputo dire a quale genere di risposta puntasse la vostra domanda. La questione dell’identità sorge solo quando si viene a contatto con «comunità» della seconda categoria, e solo perché sono molteplici le idee che creano e tengono insieme le «comunità saldate insieme da idee» con cui si viene a contatto nel nostro polimorfo mondo culturale. È proprio perché ci sono così tante idee e principi attorno a cui crescono «comunità di credenti», che si 5

devono fare paragoni, fare scelte, farle ripetutamente, rivedere le scelte fatte in altre occasioni, cercare di conciliare esigenze contraddittorie e spesso incompatibili... Julian Tuwim, grande poeta polacco di origine ebraica, è famoso per aver detto che il fatto che odiasse gli antisemiti polacchi più degli antisemiti di qualsiasi altra parte del mondo era la prova migliore del suo essere polacco (suppongo che il mio essere ebreo sia confermato dal fatto che le iniquità israeliane mi addolorano più delle atrocità commesse da altri paesi...). Si diventa consapevoli che l’«appartenenza» e l’«identità» non sono scolpite nella roccia, non sono assicurate da una garanzia a vita, che sono in larga misura negoziabili e revocabili; e che i fattori cruciali per entrambe sono le proprie decisioni, i passi che si intraprendono, il modo in cui si agisce e la determinazione a tener fede a tutto ciò. In altre parole, alla gente non viene in mente di «avere un’identità» fintanto che il suo destino rimane un destino di «appartenenza», una condizione senza alternative. Forse costoro cominceranno a concepire questo pensiero solo nella forma di un compito da portare a termine, e da eseguire regolarmente e ripetutamente piuttosto che una tantum. Non ricordo di aver dedicato molta attenzione alla questione della mia «identità», almeno per il suo aspetto nazionale, prima del brutale risveglio del marzo 1968 quando il mio essere polacco venne messo pubblicamente in dubbio. Credo che fino a quel momento mi aspettassi, prosaicamente e senza alcun calcolo né esame di coscienza, di lasciare l’Università di Varsavia per andare in pensione quando sarebbe giunto il momento, ed essere seppellito, quando sa6

rebbe giunto il momento, in uno dei cimiteri di Varsavia. Dal marzo 1968 in poi, però, tutti si aspettano da me che io mi autodefinisca, e danno per scontato che abbia una visione ponderata, attentamente equilibrata, acutamente argomentata della mia identità. Perché? Perché una volta messo in movimento, strappato a tutto quello che poteva passare per il mio «habitat naturale», non c’era nessun posto che mi corrispondesse, come si dice, al cento per cento. In qualsiasi posto, ero – dove leggermente, dove in maniera più sensibile – «fuori posto». È accaduto, dunque, che nel grappolo di problemi chiamato «la mia identità», la nazionalità si è trovata a rivestire un ruolo di particolare importanza: condivido questo fato con i milioni di rifugiati e di migranti che il nostro mondo in rapida globalizzazione produce a ritmo sempre più veloce. Tuttavia scoprire che l’identità è un grappolo di problemi piuttosto che una questione unica è una caratteristica che condivido con un numero molto maggiore di persone, praticamente con tutti gli uomini e le donne dell’era della «modernità liquida». Le peculiarità della mia biografia hanno semplicemente drammatizzato e messo bene in vista quel genere di condizione oggi piuttosto diffuso e in via di diventare quasi universale. Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro. Pochi tra noi, per non dire nessuno, possono evitare di passare attraverso più di una, vera o presunta, ben integrata o effimera, «comunità di idee e principi»; perciò la maggior parte 7

di noi ha difficoltà a risolvere (per dirla con Paul Ricoeur) il problema della mêmeté (la coerenza e la continuità della nostra identità nel tempo). Pochi tra noi, per non dire nessuno, sono in contatto con solo una «comunità di idee e principi» per volta, e perciò la maggior parte di noi ha un’analoga difficoltà col problema della ipséité (la coerenza di tutto ciò che ci distingue come persone). La mia collega e amica Agnes Heller, la cui biografia è piuttosto simile alla mia, si lamentava una volta che essendo donna, ungherese, ebrea, americana, filosofa, era oberata di troppe identità per una persona sola. Beh, avrebbe potuto tranquillamente allungare la lista, ma gli schemi di riferimento elencati erano già abbastanza numerosi da dimostrare l’impressionante complessità del compito. Trovarsi in ogni luogo del tutto o in parte «fuori posto», non essere completamente da nessuna parte (senza cioè restrizioni o diffide, senza alcuni aspetti di sé che «saltano agli occhi» e sono visti come strani dagli altri) può essere un’esperienza sconvolgente, talvolta irritante. C’è sempre qualcosa da spiegare, da giustificare, da nascondere o al contrario da mostrare spavaldamente, da negoziare, da trattare o patteggiare; ci sono differenze da appianare o dissimulare, o al contrario da rendere più evidenti e leggibili. Le «identità» fluttuano nell’aria, alcune per propria scelta, ma altre gonfiate e lanciate da quelli intorno, e si deve stare costantemente in allerta per difendere le prime contro le seconde; c’è maggiore probabilità di malintesi e l’esito delle trattative è sempre incerto. Più si fa esperienza e più si padroneggiano le difficili competenze necessarie per ca8

varsela in una condizione così manifestamente ambivalente, meno acuminati e pungenti si faranno gli spigoli, meno soverchianti le sfide e meno incresciosi gli effetti. Si può perfino cominciare a sentirsi dappertutto chez soi, «a casa», ma il prezzo da pagare è accettare che in nessun posto ci si sentirà pienamente e veramente a casa. Si può aver fastidio di tutti questi disagi e cercare (sperando contro ogni speranza) una redenzione o almeno una tregua in un sogno di appartenenza. Ma si può anche tirar fuori, dal proprio destino di non scelta, una vocazione, una missione, un destino scelto coscientemente: e farlo a maggior ragione per i benefici che una decisione del genere può portare a chi l’assume e la porta fino in fondo, e per i probabili benefici che può apportare agli altri intorno a sé. È famosa la dichiarazione di Ludwig Wittgenstein che i luoghi migliori per risolvere le questioni filosofiche sono le stazioni ferroviarie (si ricordi che non aveva esperienza diretta di aeroporti...). Uno dei più grandi di una lunga serie di raffinatissimi scrittori in lingua spagnola, Juan Goytisolo, che ha vissuto a Parigi e negli Stati Uniti prima di stabilirsi in Marocco, riassumeva la sua esperienza di vita nell’osservazione che «l’intimità e la distanza creano una situazione privilegiata. Sono entrambe necessarie». Secondo l’opinione comune, Jacques Derrida, uno dei più grandi filosofi della nostra epoca di modernità liquida, in perpetuo esilio fin da quando, ragazzino ebreo dodicenne, fu espulso da una locale scuola francese per mano del governo di Vichy, ha costruito il suo imponente edificio filosofico su «incroci culturali». George Steiner, un acuto e brillan9

te critico culturale, ha definito Samuel Beckett, Jorge Luis Borges e Vladimir Nabokov i più grandi scrittori contemporanei: ciò che secondo lui univa questi tre autori, per il resto nettamente distinti, e li faceva torreggiare sopra tutti gli altri, era che ognuno di loro si muoveva a proprio agio in numerosi, differenti universi linguistici. Questo continuo attraversare i confini ha permesso loro di esplorare l’inventività e l’ingegno dell’uomo dietro alle solenni e imponenti facciate di credenze apparentemente invincibili e senza tempo, dando così loro il coraggio necessario per partecipare consapevolmente alla creazione culturale, consci dei rischi e dei trabocchetti di cui, com’è risaputo, le distese sconfinate son piene. Di Georg Simmel, da cui ho imparato molto di più che da qualsiasi altro sociologo e il cui modo di fare sociologia è stato finora (e, credo, rimarrà fino alla fine) per me l’ideale massimo (benché, ahimè, irraggiungibile), Kracauer dice, a ragione, che uno degli scopi fondamentali che hanno guidato il lavoro di tutta la sua vita è stato quello di «liberare ogni fenomeno geistig (spirituale, intellettuale) della sua falsa autosufficienza e mostrarlo incastonato nel più ampio contesto della vita». Al centro della visione di Simmel, e perciò del suo mondo e della sua visione del proprio posto in quel mondo, c’è sempre l’individuo umano, «considerato come portatore di cultura e come un maturo essere geistig (spirituale, intellettuale), che agisce e giudica nel pieno controllo dei poteri della sua anima e collegato con gli altri esseri umani in un’azione e un sentimento collettivi». Se continuerete a esortarmi a dichiarare la mia iden10

tità (vale a dire il mio «io presunto», l’orizzonte verso cui tendo e in base a cui valuto, censuro e correggo le mie mosse), sappiate che questo è il punto massimo a cui potete spingermi. Di più non posso avvicinarmi...

1.

L’IDENTITÀ COME PROBLEMA

D. Nell’immaginario sociologico, l’identità è sempre qualcosa di evasivo e sfuggente, quasi un apriori. In Émile Durkheim, ad esempio, le identità collettive restano sempre sullo sfondo, ma indubbiamente nel suo libro più famoso, La divisione del lavoro sociale, la divisione del lavoro è un fattore contraddittorio. Da un lato mette a rischio i legami sociali, ma al tempo stesso agisce come fattore di stabilizzazione nella transizione che prepara la creazione di un nuovo ordine sociale. Tuttavia, in questo quadro analitico, l’identità è da considerarsi un obiettivo, uno scopo, piuttosto che un fattore predefinito. Qual è la Sua opinione? R. La stessa Sua. Sì, in effetti, la «identità» ci si rivela unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un «obiettivo», qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora, anche se questo status precario e perennemente incompleto dell’identità è una verità che, se si vuole che la lotta vada a buon 13

fine, dev’essere – e tende a essere – soppressa e laboriosamente occultata. Oggi questa verità è più difficile da nascondere di quanto non lo fosse al principio dell’età moderna. Le entità più determinate a realizzare tale occultamento hanno perso interesse; hanno abbandonato il campo di battaglia e sono fin troppo felici di lasciare a noi, singoli uomini e donne, la fastidiosa incombenza di trovare e costruire un’identità, e di realizzare questo compito singolarmente o a piccoli gruppi, piuttosto che congiuntamente... La fragilità e lo status di perenne provvisorietà dell’identità non possono più essere celati. Il segreto è di dominio pubblico. Ma questo è uno sviluppo nuovo, abbastanza recente. Mi domando perciò se sia giusto chiedere ai padri spirituali della sociologia, che si tratti di Weber o di Durkheim, o anche di Simmel (quello, tra tutti loro, che ha saputo vedere più in là, anticipare i tempi futuri), indicazioni su cosa e come pensare riguardo a una questione che è entrata di prepotenza e si è installata stabilmente nella nostra coscienza comune molto tempo dopo la loro morte... Tutti loro erano impegnati a dialogare con i problemi, le preoccupazioni e le inquietudini degli uomini e delle donne della loro epoca (e nella profondità, scrupolosità e dedizione di questo impegno sta la loro autentica grandezza e il loro più importante lascito per la sociologia posteriore): tra queste inquietudini l’identità non figurava. Suppongo che se avessero potuto rivolgere il loro sguardo, così acuto e penetrante su tutte le grandi questioni della loro epoca, sul tipo di società che sarebbe sorto quasi un secolo dopo – la nostra società – avrebbero considerato il 14

subitaneo apparire del «problema dell’identità» nei dibattiti specializzati e nella coscienza comune un rompicapo sociologico tra i più intriganti. E un rompicapo, nonché una sfida per la sociologia, lo è davvero: basti pensare che ancora pochi decenni fa l’«identità» non era neanche lontanamente al centro dei nostri pensieri, non era altro che un oggetto di meditazione filosofica. Oggi invece l’«identità» è la questione all’ordine del giorno, argomento di scottante attualità nella mente e sulla bocca di tutti. Più che l’identità in sé e per sé, sarebbe stata questa fascinazione repentina per l’identità che avrebbe attirato l’attenzione dei classici, se essi avessero vissuto abbastanza a lungo da confrontarcisi. Avrebbero probabilmente preso spunto dall’affermazione di Martin Heidegger (non erano già più tra noi quando il filosofo tedesco la enunciò): ci si accorge delle cose, ponendole sotto la lente della contemplazione, quando esse svaniscono, vanno in rovina, iniziano a comportarsi stranamente o ti deludono in qualche altro modo... Poco prima dello scoppio dell’ultima guerra mondiale, nel mio paese natale, la Polonia, venne condotto un censimento della popolazione. La Polonia era allora una società multietnica. Alcune zone del paese erano popolate da un insolito amalgama di gruppi etnici, fedi religiose, lingue e costumi. L’obiettivo di riplasmare questo amalgama con conversioni e assimilazioni forzate allo scopo di ottenere una nazione omogenea o quasi, sulla falsariga, diciamo, del modello francese, era forse perseguito con forza da una parte della élite politica, ma era ben lontano dall’essere universalmente accettato e dal15

l’essere ricercato in maniera coerente, un progetto lontanissimo dal compimento. Come normale in uno Stato moderno, gli addetti al censimento erano stati tuttavia addestrati a pensare che ad ogni uomo o donna censiti dovesse corrispondere una nazione di appartenenza. Furono date loro istruzioni di chiedere a ogni suddito dello Stato polacco di dichiarare la propria appartenenza nazionale (oggi si direbbe: la propria «identità etnica o nazionale»). In circa un milione di casi i rilevatori del censimento non riuscirono a ottenere risposta su questo punto: la gente da loro interrogata semplicemente non riusciva ad afferrare il significato di parole come «nazione» e «avere una nazionalità». Nonostante la pressione esercitata (le minacce e uno sforzo davvero titanico per spiegare il significato di «nazionalità») i cittadini censiti continuavano ostinatamente a dare le sole risposte che per loro avevano un senso: «siamo locali», «siamo di questo posto», «siamo di qui», «questa è la nostra terra». Alla fine i responsabili del censimento dovettero arrendersi e aggiungere la voce «locali» alla lista ufficiale delle nazionalità... La Polonia non era certo un caso unico, né sarebbe stato l’ultimo caso del genere. Non molti anni dopo, un ricercatore francese dimostrò che, dopo due secoli di accanito nation-building, per molti francesi della campagna le pays aveva un diametro che non superava i venti chilometri, cinque più cinque meno... Come ha sottolineato recentemente Philippe Robert2, «per la maggior parte della storia delle società umane, le relazioni sociali sono rimaste saldamente rinchiuse nell’ambito della prossimità». 16

Ricordiamo che, per andare da Parigi a Marsiglia, nel XVIII secolo si impiegava lo stesso tempo che durante l’Impero Romano. Per la maggior parte delle persone, la «società» in quanto «totalità» suprema della coabitazione umana (sempre che pensassero in questi termini), coincideva con il proprio immediato circondario. «Si potrebbe parlare di una società di conoscenza reciproca», suggerisce Robert. All’interno di questa rete di familiarità dalla culla alla bara, il posto occupato da ciascuno era troppo evidente per essere valutato, tantomeno negoziato. Qualsiasi situazione di incertezza al riguardo (come nel caso dei relativamente pochi «senza padrone» che vagavano per le strade, anch’esse senza padrone, non avendo trovato di che vivere nella loro comunità natale) non era che un fenomeno marginale e un problema minore, facilmente affrontato e risolto con misure ad hoc come la maréchaussée, la prima forza di polizia della storia occidentale. Ci son volute la lenta disintegrazione e l’affievolirsi della tenuta delle comunità locali, sommati alla rivoluzione dei trasporti, per spianare il terreno alla nascita dell’identità: come problema e, principalmente, come compito. I margini si sono rapidamente allargati, fino a invadere le aree che rappresentano il cuore della coabitazione umana. D’improvviso si poneva la necessità di porre la questione dell’identità, perché non c’era nessuna risposta ovvia a disposizione. Il nascente Stato moderno, messo di fronte all’esigenza di creare un ordine che non veniva più automaticamente rigenerato all’interno delle ben radicate e strettamente intrecciate «società di familiarità 17

reciproca», ha posto tale questione a fondamento delle sue nuove e inusuali rivendicazioni di legittimità. Sembrava naturale supporre che la migliore risposta alla rapida espansione del «problema dell’identità» dovesse essere un’analoga espansione delle attività di controllo dell’ordine come quelle messe in atto e collaudate dalla maréchaussée. Lo Stato-nazione, come ha osservato Giorgio Agamben, era uno Stato che faceva della «natività della nascita» il «fondamento della propria sovranità». «La finzione qui implicita», evidenzia Agamben, «è che la ‘nascita’ diventi immediatamente ‘nazione’, in modo che non possa esserci alcuno scarto fra i due momenti»3. Gli sventurati individui oggetto del censimento polacco semplicemente non erano riusciti ad assorbire questa finzione come una lampante «realtà di fatto». Rimanevano esterrefatti a sentire che si doveva avere un’«identità nazionale» e si poteva essere interrogati su quale fosse questa nazionalità. Non è che fossero persone particolarmente ottuse e prive di immaginazione... Dopo tutto, chiedere «chi sei tu» ha senso solo se tu sai di poter essere qualcosa di diverso da ciò che sei; ha senso solo se hai una scelta, e se cosa scegliere dipende da te; ha senso, cioè, solo se tu devi fare qualcosa per consolidare e rendere «reale» la scelta. Ma è precisamente ciò che non succede ai residenti dei villaggi più isolati e degli insediamenti nelle foreste, che non hanno mai avuto neanche occasione di pensare di trasferirsi in altri luoghi, tantomeno di cercare, scoprire o inventare una cosa così nebulosa (anzi, così im-pensabile) come «un’altra identità». Il loro modo di essere nel 18

mondo spogliava la questione dell’«identità» del significato che altri modi di vita (che le nostre usanze linguistiche ci spingono a chiamare «moderni») rendevano evidente. Jorge Luis Borges avrebbe descritto la situazione dei «locali» molestati come un caso di persone cui viene imposto un compito «che non è vietato agli altri», ma a loro soltanto, come accadde ad Averroè quando si sforzava di tradurre Aristotele in arabo. «Chiuso nell’ambito dell’islam», e cercando di «immaginare che cos’è un dramma senza sapere che cos’è un teatro», Averroè «non poté mai sapere il significato di tragedia e commedia»4. L’idea di «identità», e di «identità nazionale» in particolare, non è un parto «naturale» dell’esperienza umana, non emerge da questa esperienza come un lapalissiano «fatto concreto». È un’idea introdotta a forza nella Lebenswelt degli uomini e delle donne moderni, e arrivata come una finzione. Si è congelata in un «fatto», un «elemento dato», proprio perché era stata una finzione e perché si è allargato un divario, dolorosamente percepito, tra ciò che quell’idea implicava, insinuava, suggeriva, e lo status quo ante (lo stato delle cose precedente, non contaminato dall’intervento umano). L’idea di «identità» è nata dalla crisi dell’appartenenza e dallo sforzo che essa ha innescato per colmare il divario tra «ciò che dovrebbe essere» e «ciò che è», ed elevare la realtà ai parametri fissati dall’idea, per rifare la realtà a somiglianza dell’idea. L’identità può entrare nella Lebenswelt solo come compito, come un compito ancora non realizzato, non compiuto, come un appello, come un dovere e un in19

citamento ad agire: e il nascente Stato moderno ha fatto tutto il necessario per rendere obbligatorio tale compito nell’ambito della sua sovranità territoriale. L’identità nata come finzione aveva bisogno di un gran dispiegamento di coercizione e convincimento per irrobustirsi e coagularsi in una realtà (più correttamente: nella sola realtà pensabile); e nella storia della nascita e maturazione dello Stato moderno questi due elementi abbondano. La finzione della «natività della nascita» ha svolto il ruolo di protagonista tra le formule messe in campo dal nascente Stato moderno per legittimare la propria richiesta di subordinazione incondizionata dei suoi sudditi (aspetto in certo qual modo, e curiosamente, trascurato da Max Weber nella sua tipologia delle legittimazioni). Stato e nazione avevano bisogno l’uno dell’altra, il loro matrimonio, si è tentati di dire, era stato contratto in paradiso... Lo Stato cercava l’ubbidienza dei suoi sudditi rappresentandosi come il compimento del destino della nazione e una garanzia della sua continuazione. Dall’altro lato, una nazione senza uno Stato sarebbe stata destinata a essere dubbiosa del suo passato, insicura nel suo presente e incerta del suo futuro, e perciò fatalmente condannata a un’esistenza precaria. Non fosse stato per il potere dello Stato di definire, classificare, segregare, separare e selezionare, difficilmente l’aggregato di tradizioni locali, dialetti, leggi consuetudinarie e modi di vita, si sarebbe spontaneamente riforgiato in qualcosa di simile alla necessaria unità e coesione, che è il presupposto di una comunità nazionale. Se lo Stato era il compimento del destino della nazione, era anche una condizione necessaria per l’esi20

stenza di una nazione che rivendicava – con clamore, baldanza ed efficacia – un destino comune. La regola cuius regio, eius natio funzionava in doppia direzione... L’«identità nazionale» fu fin dal principio, ed è rimasta per lungo tempo, un concetto agonistico e un grido di battaglia. La sovrapposizione della comunità nazionale coesa con l’aggregato di sudditi dello Stato era destinata a rimanere non soltanto eternamente incompiuta, ma anche perennemente precaria; un progetto, che richiedeva una vigilanza continua, uno sforzo gigantesco e l’impiego di una grande forza per far sì che tale richiesta fosse ascoltata e messa in atto (Ernest Renan chiamava la nazione «un plebiscito quotidiano», nonostante parlasse dell’esperienza dello Stato francese, famoso almeno fin dall’epoca napoleonica per le sue ambizioni tipicamente centralistiche). Nessuna di queste condizioni si sarebbe potuta soddisfare in mancanza della coincidenza tra il territorio di residenza e l’indivisa sovranità dello Stato, che consiste anzitutto, come suggerisce Agamben rifacendosi a Carl Schmitt, nel potere di esenzione. La sua ragion d’essere stava nel tracciare, irrigidire e sorvegliare il confine tra «noi» e «loro». L’«appartenenza» avrebbe perso il suo smalto e il suo potere seduttivo insieme con la sua funzione di integrazione/disciplina, se non fosse stata fortemente selettiva e non fosse stata costantemente rimpolpata e rinvigorita dalla minaccia e dalla pratica dell’esclusione. L’identità nazionale non è mai stata come le altre identità. Diversamente da altre identità che non richiedono una devozione senza riserve e una fedeltà 21

esclusiva, l’identità nazionale non riconosce concorrenza, e meno che mai opposizione. L’identità nazionale accuratamente costruita dallo Stato e dalle sue agenzie (o da «governi ombra» o «governi in esilio» nel caso di aspiranti nazioni, «nazioni in spe» che si limitano a invocare a gran voce uno Stato proprio) mirava al diritto monopolistico di tracciare i confini tra «noi» e «loro». Se non riuscivano a ottenere questo monopolio, gli Stati cercavano di conquistare l’inattaccabile posizione di un tribunale supremo incaricato di pronunciare sentenze vincolanti e senza possibilità di appello sui ricorsi di identità in conflitto. Così come le leggi dello Stato hanno prevalso sopra tutte le altre forme consuetudinarie di giustizia e le hanno rese nulle in caso di contrasto, l’identità nazionale consente o tollera l’esistenza di simili altre identità solo fintanto che queste non suscitino il sospetto di essere in contrasto (in linea di principio o in situazioni concrete) con l’incondizionata priorità della lealtà nazionale. L’unico attributo confermato dall’autorità sulle carte d’identità e sui passaporti era quello di suddito di uno Stato. Altre identità «minori» venivano incoraggiate e/o obbligate a ricercare il riconoscimento e la conseguente protezione da parte di uffici statali autorizzati – e a confermare così indirettamente la superiorità dell’«identità nazionale» – attraverso statuti professionali reali o nazionali, diplomi di Stato e certificati sanzionati dallo Stato. Chiunque tu fossi o aspirassi a diventare, erano le «istituzioni competenti» dello Stato ad avere l’ultima parola. Un’identità non certificata era una frode, e chi la indossava era un simulatore, un millantatore. 22

La severità delle richieste era un riflesso dell’endemica e incurabile precarietà dell’opera di costruzione e tutela della nazione. Mi si consenta di ribadirlo: la «naturalezza» del presupposto che «l’appartenenza per effetto della nascita» significasse, automaticamente e inequivocabilmente, appartenenza a una nazione, fu una convenzione laboriosamente costruita; l’apparenza della «naturalezza» tutto poteva essere fuorché «naturale». A differenza delle «minisocietà di familiarità reciproca», quei luoghi dove la maggior parte degli uomini e delle donne delle epoche premoderne e pre-mobilità passavano l’intera loro vita dalla culla alla tomba, la «nazione» era un’entità immaginata, che poté entrare nella Lebenswelt solo attraverso la mediazione dell’artificio di un concetto. L’apparenza di naturalezza, e pertanto anche la credibilità dell’asserita appartenenza, poté essere solo il prodotto finale di lunghe battaglie passate; e la sua perpetuazione non sarebbe stata possibile se non attraverso le battaglie future. In Italia dovreste saperlo fin troppo bene... A un secolo e mezzo dalla vittoria del Risorgimento, l’Italia a malapena può dirsi un paese con una lingua unica e una piena integrazione degli interessi locali. Di frequente si levano voci che invocano la preminenza di esigenze locali sui vincoli nazionali (accusati di essere artificiali). La priorità dell’identità nazionale è ancora, com’era prima dell’unificazione, una questione aperta e che suscita vivi contrasti. Come ha affermato giustamente Jonathan Matthew Schwartz, più che dire che la totalità è maggiore della somma delle sue parti (come insisteva Durkheim, confidando nel potere dello Stato di realizzare le proprie am23

bizioni), bisognerebbe dire che «l’insieme immaginato è in realtà più fittizio della somma delle sue componenti»5. D. Nel saggio di Georg Simmel sulle forme di vita nelle metropoli e sul conflitto nella società moderna, l’identità è menzionata precisamente come un’espressione di istituzioni quali la Famiglia, lo Stato, la Chiesa, che costituiscono, secondo il sociologo tedesco, gli apriori della vita sociale. In questo caso, gli elementi dell’identità sono disintegrati dalla moderna società di massa. Da qui, l’interesse di Simmel per le forme di vita emerse dalla dissoluzione degli ordini costituiti. Ma anche in questo caso, come è per Durkheim, l’identità è un elemento minore nell’analisi della realtà. Non è d’accordo? R. Ripeto quanto osservato prima: ci sono ragioni serie per non cercare risposte ai nostri «problemi di identità» nelle opere dei padri fondatori. Nemmeno nell’opera di Georg Simmel, che per via delle peculiarità della sua biografia ha potuto intravedere e assaporare quel genere di condizione esistenziale che solo molto più tardi sarebbe diventato il destino – croce o delizia – di tutti. La principale ragione per cui i fondatori della sociologia moderna non sono in grado di rispondere alle questioni poste dalla nostra situazione attuale sta nel fatto che, se cento o più anni fa era il principio cuius regio, eius natio a dar forma al «problema dell’identità», oggi al contrario i «problemi di identità» nascono dall’abbandono di quel principio o dall’esi24

tazione con cui è stato applicato e dall’inefficacia con cui lo si è sostenuto, quando si è tentato di farlo. Dal momento che l’identità perde i suoi ancoraggi sociali che la fanno apparire «naturale», predeterminata e non negoziabile, l’«identificazione» diventa sempre più importante per quegli individui che cercano disperatamente un «noi» di cui entrare a far parte. Come si esprime Lars Dencik, che scrive sulla base dell’esperienza scandinava: Le affiliazioni sociali, più o meno ereditate, che vengono tradizionalmente attribuite agli individui come definizione di identità – razza, [...] genere, paese o luogo di nascita, famiglia e classe sociale – stanno ora [...] diventando meno importanti, diluite e alterate, nei paesi tecnologicamente ed economicamente più avanzati. Al tempo stesso si assiste a un forte desiderio e a tentativi di trovare o fondare nuovi gruppi che possano dare ai membri un senso di appartenenza e facilitare la fabbricazione di un’identità. Ne deriva un crescente sentimento di insicurezza6.

C’è un punto che vorrei sottolineare già adesso (sperando di avere successivamente occasione per discuterlo più approfonditamente, come merita), e cioè che i gruppi che gli individui privati dei quadri di riferimento tradizionali «cercano di trovare o fondare» sono tendenzialmente, al giorno d’oggi, gruppi mediati elettronicamente, fragili, «totalità virtuali», in cui è facile entrare e che è facile abbandonare. Un surrogato assai mediocre di quelle forme di socialità solide (e che pretendevano di essere ancora più solide) che proprio grazie a questa loro solidità vera o presunta potevano promettere quel rassicurante (benché ingannevole e fraudolento) «sentimento di 25

un noi» che la «navigazione su internet» non può offrire. Per citare Clifford Stoll, un internet-dipendente dichiarato, ora guarito7: preoccupati come siamo di cogliere al volo le offerte «iscriviti subito!» che lampeggiano ammiccanti sul nostro schermo, stiamo perdendo la capacità di interagire spontaneamente con la gente reale. Charles Handy, un teorico del management, concorda8: «potranno anche essere divertenti, queste comunità virtuali, ma esse creano soltanto un’illusione di intimità e una finzione di comunità». Non sono validi sostituti del «sedersi insieme intorno a un tavolo, guardarsi in faccia e avere una conversazione reale». Né sono in grado, queste «comunità virtuali», di dare sostanza all’identità personale, la ragione primaria per cui le si cerca. Rendono semmai più difficile di quanto già non sia accordarsi con se stessi. Per usare le parole del professore di pedagogia Andy Hargreaves, analista e osservatore straordinariamente percettivo della scena culturale contemporanea9, negli aeroporti e in altri spazi pubblici gli individui col telefono cellulare e l’auricolare camminano qua e là, parlando ad alta voce da soli, come schizofrenici paranoici, incuranti di ciò che sta loro intorno. L’introspezione è un’attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro. 26

I flâneurs cittadini di Georg Simmel erano famosi per il loro atteggiamento blasé. Ma non portavano cellulare e auricolari. Erano magari, proprio come noi ora, avidi spettatori dei drammi rappresentati sulle strade urbane, ma visitavano quel teatro senza mai unirsi alla sua compagnia. Prendevano le distanze da ciò che vedevano e osservavano. Non era però semplice mantenere la distanza dal palcoscenico: la prossimità fisica poteva facilmente venir confusa con una vicinanza spirituale. Erving Goffman cercò di compilare un inventario degli stratagemmi della «disattenzione civile», quella moltitudine di gesti e movimenti del corpo impercettibili, insignificanti eppure complessi, cui ognuno di noi fa concretamente ricorso ogniqualvolta ci troviamo fra estranei, e che segnalano la nostra intenzione di rimanere distaccati, non esser coinvolti, starcene tranquilli e riservati. I flâneurs urbani di Simmel, e successivamente quelli di Baudelaire/Foucault, e i praticanti dell’arte della disattenzione civile di Goffman non percorrevano le strade delle città alla ricerca di una comunità con cui potersi identificare. Cercavano piuttosto una pubblica incarnazione dell’identità, qualcuno che «avesse bisogno e desiderio di loro», e di cui essi avessero a loro volta bisogno e desiderio, che fosse lì ad attenderli, più o meno «pronto in tavola», più o meno «chiavi in mano», nascosto nella confortevole sicurezza delle case o dei luoghi di lavoro. È in questo che noi, abitanti del mondo della modernità liquida, differiamo. I riferimenti comuni delle nostre identità noi li inseguiamo, li costruiamo e li teniamo insieme mentre siamo in movimento, sforzandoci di tenere il passo di quei gruppi, anch’essi 27

mobili, anch’essi in rapido movimento, che ricerchiamo, che costruiamo e che cerchiamo di tenere in vita ancora per un momento, ma non molto di più. Per fare ciò, non abbiamo bisogno di studiare e padroneggiare il codice di Goffman. Ci penseranno i telefoni cellulari. Possiamo comprarli in un negozio di una via commerciale, completi di tutte le funzioni che possono servire allo scopo. Con le cuffie auricolari saldamente agganciate, ostentiamo il nostro distacco dalla strada in cui stiamo camminando, senza più bisogno di ricorrere a un’elaborata etichetta. Quando accendiamo il cellulare, spengiamo la strada. La vicinanza fisica non è più in contrasto con la lontananza spirituale. Col mondo che corre ad alta velocità e in crescente accelerazione, non si può più fare affidamento su schemi di riferimento che si pretendono utili sulla base della loro presunta durata nel tempo (per non dire eternità!). Non sono più affidabili, e per la verità non ce n’è più bisogno. Faticano ad assimilare contenuti nuovi. Ben presto si rivelerebbero troppo limitati e ingombranti per alloggiare tutte quelle nuove, inesplorate e non sperimentate identità, così allettanti e a portata di mano, ognuna delle quali offre benefici eccitanti perché inconsueti, e promettenti perché ancora non screditati. Gli schemi, rigidi e appiccicaticci come sono, hanno anche un altro difetto: è difficile ripulirli dei vecchi contenuti e sbarazzarsi di loro una volta scaduti. Nel mondo nuovo di opportunità fugaci e di fragili sicurezze, le identità vecchio stile, non negoziabili, sono semplicemente inadatte. La saggezza popolare si è accorta in fretta di questa mutazione dei requisiti e non ha perso tempo a de28

ridere la saggezza ricevuta, ormai manifestamente inadatta a soddisfarli. Nel 1994, un manifesto attaccato sui muri di Berlino sbeffeggiava la fedeltà a schemi che non erano più in grado di rispecchiare le realtà del mondo: «Il tuo Cristo è un ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero»10. Nel periodo del nation-building in Polonia, si insegnava ai bambini a dare le seguenti risposte alle domande sull’identità: «Chi sei tu? Un piccolo polacco. Qual è il tuo segno? L’aquila bianca». Le risposte odierne, come suggerisce Monika Kostera, eminente sociologa della cultura contemporanea, sarebbero abbastanza diverse: «Chi sei tu? Un bell’uomo sui quarant’anni, col senso dell’umorismo. Qual è il tuo segno? Gemelli»11. Il manifesto di Berlino allude alla globalizzazione, mentre il cambiamento della probabile risposta alla domanda «Chi sei tu?» segnala il tracollo della gerarchia (vera o presunta) delle identità. I due fenomeni sono strettamente collegati tra loro. Globalizzazione significa che lo Stato non ha più il potere o la volontà per mantenere inespugnabile il suo matrimonio con la società. I flirt extraconiugali e perfino l’adulterio sono inevitabili e ammissibili, se non addirittura smaniosamente e appassionatamente procurati (per soddisfare le condizioni preliminari stabilite per essere ammessi nel «mondo libero» – prima l’Ocse, poi l’Unione europea – i governi dell’Europa centro-orientale hanno aperto il patrimonio nazionale al capitale globale e hanno smantellato tutte le barriere che ostacolavano il libero flusso della fi29

nanza globale). Avendo ceduto ai mercati globali la maggioranza dei propri compiti ad alto impiego di lavoro e di capitale, gli Stati hanno molto minore necessità di far ricorso al fervore patriottico. Perfino i sentimenti patriottici, il bene più gelosamente custodito dei moderni Stati-nazione, sono stati ceduti alle forze del mercato e da queste ridispiegati sul campo di battaglia per rimpolpare i profitti degli organizzatori di manifestazioni sportive, spettacoli, celebrazioni di anniversari e altre commemorazioni pubbliche. Dal lato opposto, i cercatori d’identità non possono attendersi né rassicurazione né tantomeno garanzie a prova di bomba da poteri dello Stato provvisti ormai solo degli sparuti resti della loro un tempo indomita e indivisibile sovranità territoriale. Pensiamo alla famosa triade di diritti di Thomas Marshall: i diritti economici sono ormai fuori dal controllo dello Stato, i diritti politici che gli Stati possono offrire sono strettamente limitati e compressi all’interno di quello che Pierre Bourdieu ha definito il pensiero unico del neoliberismo e del libero mercato senza alcuna regola, mentre i diritti sociali vengono rimpiazzati uno per uno dal dovere individuale di provvedere a se stessi ed essere sempre un passo avanti agli altri. E così entrambi i partner dello sposalizio Statonazione diventano sempre più tiepidi riguardo alla loro unione e con ritmo lento ma costante prendono la deriva verso il modello oggi di moda delle «coppie bifamiliari». Non più controllate e protette, galvanizzate e invigorite da istituzioni che si vorrebbero monopolistiche, esposte anzi al libero gioco di forze competitive, tutte le gerarchie o pecking orders di identità (e in par30

ticolare quelle gerarchie e pecking orders solide e durevoli) sono poco ricercate e difficili da costruire. Si sono dissolte, o hanno perso gran parte del loro passato potere di seduzione, le ragioni principali per cui le identità dovevano avere contorni chiari e privi di ambiguità (contorni chiari e inequivocabili come la sovranità di uno Stato sul proprio territorio) e mantenere nel tempo una stessa, riconoscibile forma. Le identità ormai svolazzano liberamente e sta ai singoli individui afferrarle al volo usando le proprie capacità e i propri strumenti. La voglia di identità nasce dal desiderio di sicurezza, esso stesso un sentimento ambiguo. Per quanto esaltante possa essere sul breve periodo, per quanto colmo di promesse e vaghe premonizioni di esperienze ancora inedite, questo sentimento, lasciato libero di fluttuare all’interno di uno spazio dai contorni indefiniti, in un ambiente ostinatamente e fastidiosamente «né carne né pesce», diventa sul lungo periodo una condizione sfibrante e ansiogena. D’altra parte, una posizione fissa tra un’infinità di possibilità non è una prospettiva molto più allettante. Nella nostra epoca di modernità liquida in cui l’eroe popolare è l’individuo libero di fluttuare senza intralci, l’essere «fissati», «identificati» inflessibilmente e senza possibilità di ripensamento, diventa sempre più impopolare. Nelle pagine della rubrica «Costume e società» di uno dei più prestigiosi quotidiani inglesi, qualche mese fa si potevano leggere le parole di un autorevole consulente «esperto di relazioni», che ci informava che «quando vi impegnate, anche se con riserva, ricordatevi che state probabilmente chiudendo la 31

porta ad altre possibilità romantiche forse più soddisfacenti e appaganti». Un altro esperto è stato ancora più esplicito al riguardo: «Le promesse di impegno sono prive di senso sul lungo termine. [...] Al pari di altri investimenti, toccano il culmine per poi declinare». E quindi, se volete «relazionarvi», se volete «appartenere» per sentirvi sicuri, mantenete le distanze; se dallo stare insieme agli altri vi attendete e desiderate una realizzazione, non prendete né chiedete impegni. Lasciate sempre aperte tutte le porte. L’abbondanza di impegni sul mercato, ma ancor più l’evidente fragilità di ognuno di essi, non ispirano fiducia e disponibilità per investimenti a lungo termine a livello di relazioni intime e personali. E non ispirano sicurezza e tranquillità neanche riguardo al posto di lavoro, il tradizionale luogo di definizione dello status sociale, quello tramite cui ancor oggi ci si guadagna da vivere e si conquista o si perde il diritto alla dignità personale e al rispetto sociale. In un recente articolo12, Richard Sennett mette in evidenza che «è improbabile che un posto di lavoro flessibile diventi un punto dove voler costruire un nido»; d’altronde, se si considera che la durata di un contratto di lavoro (un «progetto») nelle organizzazioni più avanzate e tecnologiche, come le aziende dell’ammiratissima Silicon Valley, è mediamente di otto mesi, quella solidarietà di gruppo che forniva terreno fertile per la democrazia non ha tempo per mettere radici e maturare. Non c’è ragione per attendersi che la lealtà verso il gruppo o l’organizzazione venga contraccambiata. È poco saggio («irrazionale») offrire a credito tale lealtà, col rischio (probabile) di non ricevere nulla in cambio. 32

Riassumendo: «identificarsi con...» significa concedersi in ostaggio a un fato sconosciuto che non si può influenzare e ancor meno controllare. È forse più saggio, dunque, vestire un’identità come Richard Baxter, il predicatore puritano citato da Max Weber, che raccomandava di vestire le ricchezze terrene, una mantellina che si può togliere in qualsiasi momento? I luoghi cui era tradizionalmente affidato il sentimento di appartenenza (lavoro, famiglia, vicinato) o non sono disponibili o, quando lo sono, non sono affidabili, e perciò quasi sempre incapaci di placare la sete di socialità o calmare la paura della solitudine e dell’abbandono. Da qui nasce la crescente domanda per quelle che potrebbero essere chiamate comunità guardaroba, quelle comunità che prendono corpo, anche se solo in apparenza, quando si appendono in guardaroba i problemi individuali, come i cappotti e i giacconi quando si va a teatro. L’occasione può essere fornita da qualsiasi evento scioccante o superpubblicizzato: un’eccitante partita di calcio, un crimine ingegnoso o efferato, o un matrimonio, un divorzio o altra sventura di una celebrità in quel momento alla ribalta. Le comunità guardaroba vengono messe insieme alla bell’e meglio per la durata dello spettacolo e prontamente smantellate non appena gli spettatori vanno a riprendersi i cappotti appesi in guardaroba. Il loro vantaggio rispetto alla «roba autentica» sta proprio nel breve arco di vita e nella trascurabile quantità di impegno necessario per unirsi ad esse e godere (sia pur brevemente) dei loro benefici. Ma tra queste comunità e il calore sognato e la comunità solidale c’è la stessa differenza che corre tra le copie in serie in 33

vendita nei grandi magazzini e gli abiti originali dei grandi stilisti... Quando la qualità è deludente o non è disponibile, si tende a cercare una compensazione nella quantità. Se gli impegni, e quindi anche gli impegni nei confronti di qualunque identità specifica, sono (come sosteneva autorevolmente l’esperto precedentemente citato) «privi di senso», barattare un’identità sola, scelta una volta per tutte, per una «rete di connessioni» può apparire una soluzione invitante. Una volta effettuato questo baratto, però, assumersi un impegno e dargli stabilità appare persino più difficile (e dunque più sgradevole, addirittura spaventoso) di prima: ti mancano ormai le abilità necessarie per farlo funzionare, o che almeno potrebbero farlo funzionare. Essere in movimento, un tempo un privilegio e una conquista, non è più una questione di scelta: ormai è diventato un must. Mantenere la velocità, un tempo un’esaltante avventura, si è trasformato in un’estenuante corvée; e, più importante di tutto, quella sgradevole incertezza e quella fastidiosa confusione, che speravi di esserti scrollato di dosso correndo veloce, rifiutano di andarsene. La facilità con cui ci si può liberare dell’impegno, mettervi fine a piacimento, non riduce i rischi: si limita a distribuirli in maniera diversa, insieme alle ansie che da essi nascono. Nel nostro mondo di «individualizzazione» rampante, le identità sono croce e delizia. Oscillano tra il sogno e l’incubo e non si può mai dire quando l’uno si trasformi nell’altro. Nella maggior parte dei casi, le due modalità dell’identità in tempi di modernità liquida coesistono, anche quando sono collocate a li34

velli di consapevolezza differenti. In un ambiente di vita di modernità liquida le identità sono forse le incarnazioni più comuni, più intense, più profondamente sentite e gravose dell’ambivalenza. Ciò perché, a mio parere, esse sono saldamente insediate al centro dell’attenzione degli individui nella modernità liquida, al primo posto nelle loro agende. D. Nel corso dei primi vent’anni del XX secolo, l’analisi marxista delle classi sociali ha avuto un grande successo. Da György Lukács a Walter Benjamin, molti intellettuali marxisti si sono interrogati sul rapporto tra collocazione e coscienza sociale. Anche in questo caso, l’identità è una categoria che certo non ha diritto di cittadinanza nel pensiero. C’è forse un’eccezione: Lukács. In Storia e coscienza di classe egli fa spesso riferimento alla proliferazione di forme di vita, di modi di essere, come conseguenze della società di massa, una proliferazione che viene liquidata come espressione di falsa coscienza. Ed è da allora che nella sinistra marxista l’identità comincia a essere un problema. Lei che ne pensa? R. La forma assunta dal «marxismo intellettuale» che è dilagato nei centri accademici europei e americani alla fine degli anni Sessanta era interamente economicistica e nella maggior parte dei casi severamente riduzionista. Negli anni Settanta, che, come ha detto Peter Beilharz13, sono stati «forse l’apogeo del marxismo intellettuale in Occidente», «la politica, l’ideologia e la cittadinanza sono state tutte rimosse o viste come effetti del motore primario dello sviluppo 35

e del crollo capitalistico». Non doveva essere così. Marx, dopo tutto (per citare di nuovo Beilharz), era stato «inizialmente egli stesso un liberale, che dall’enfasi sulla povertà e sulla figura collegata del cittadino era passato, solo alla fine, al più forte concetto dello sfruttamento, in cui la silhouette implicitamente virile del proletario si sostituisce a quella del cittadino». Forse, dunque, non era inevitabile che la teoria marxista in fase di ascesa venisse ridotta al nocciolo duro del determinismo economico, ma questo fu nella sua epoca, per così dire, «sovradeterminato». Una più sfumata e sottile immagine «multifattoriale» della società non sarebbe servita allo scopo. Fu proprio il carattere totalizzante di una spiegazione onnicomprensiva unifattoriale di tutte le sofferenze, le ansie o i disagi – che solo una versione tronca, riduzionista e unidimensionale dell’eredità di Marx poteva fornire – ad attirare quella generazione perplessa e confusa dalla marea di malcontento che i temi ricorrenti dello sviluppo, del progresso e progressivo sviluppo non riuscivano né a prevedere né a spiegare. C’era un travolgente sentimento di urgenza, un’impazienza che solo una teoria in pillole da ingoiare e mandar giù in un sorso poteva, almeno per un po’, placare. Non fu probabilmente la sola e unica causa (sicuramente non causa sufficiente) del vasto entusiasmo per una versione estremamente impoverita e semplificata (o meglio volgarizzata) della visione marxista, ma potremmo considerarla come una sorta di grande fiume in cui poterono riversarsi, come suoi affluenti, altri impulsi, consci e subconsci. Nessun modello unifattoriale avrà mai molte probabilità di esprimere adeguatamente la complessità 36

del «mondo vissuto» e di abbracciare la totalità dell’esperienza umana. Questa regola generale si applica anche alla versione tronca e disseccata del marxismo. Ma non è stata questa l’unica ragione per cui il suo ascendente ha dimostrato di essere nient’altro che un episodio di breve durata, che già negli anni Ottanta ha avuto bruscamente termine. Più importante in tal senso è stato l’allargarsi del divario tra quella visione e i rapidi cambiamenti dell’era Reagan/Thatcher. «La silhouette virile del proletario» che avrebbe dovuto garantire l’«inevitabilità storica», «economicamente determinata», era un modello ideale ormai privo di corrispondenze reali. In tempi di deregolamentazione, «outsourcing», «sussidiarietà», disimpegno manageriale, graduale eliminazione delle «fabbriche fordiste», nuova «flessibilità» dei modelli di assunzione e delle procedure lavorative, e graduale ma inesorabile smantellamento degli strumenti di protezione e autodifesa del lavoro, l’aspettativa di una riorganizzazione dell’ordine sociale sotto la guida del proletariato, destinata a depurare la società dai suoi mali, deve essere apparsa come qualcosa che superava i limiti dell’immaginazione. I capannoni delle fabbriche e i corridoi degli uffici sono diventati il palcoscenico di una competizione furiosa, all’ultimo sangue, tra individui in lotta per farsi notare dai capi e ottenere la loro approvazione, invece di essere il brodo di coltura della solidarietà proletaria in lotta per un mondo migliore. Come ha scoperto Daniel Cohen, economista della Sorbona, ora toccava a ogni dipendente dimostrare, di propria iniziativa, che era migliore degli altri, che portava più profitti agli azio37

nisti dell’azienda e meritava perciò di mantenere il posto di lavoro quando sarebbe arrivata la successiva «ristrutturazione» (leggasi: più esuberi). Gli illuminanti studi di Fitoussi e Rosenvalon, di Boltanski e Chiapello hanno ampiamente ed efficacemente confermato quella conclusione. Pierre Bourdieu e Richard Sennett hanno spiegato perché lo sfaldamento di assetti e consuetudini che prima erano stabili, e la fragilità recentemente emersa di aziende anche grandi e apparentemente solide, non abbia favorito un atteggiamento solidale e abbia impedito che i problemi e le ansietà individuali si condensassero in un conflitto di classe. Per usare le parole di Boltanski e Chiapello, i lavoratori dipendenti si sono ritrovati a vivere in una cité par projets, in cui le prospettive di impiego sono confinate a singoli progetti al momento in corso. E tra persone che vivono tra un progetto e l’altro, individui i cui progetti di vita si trovano sminuzzati in una successione di progetti di breve durata, non c’è tempo perché il malcontento diffuso si condensi nella richiesta di un mondo migliore... Sono persone che desidererebbero un presente diverso per ciascuno, piuttosto che pensare seriamente a un futuro migliore per tutti. Nello sforzo quotidiano per restare a galla, non c’è spazio né tempo per la visione di una «buona società». In definitiva, i padiglioni industriali e i cortili delle fabbriche non apparivano più titoli sufficientemente sicuri su cui investire le speranze di un radicale cambiamento sociale. Le strutture delle imprese capitalistiche e delle routines del lavoro salariato, sempre più friabili e volatili, non sembrano più costi38

tuire il quadro dentro il quale possa prodursi (e ancor meno debba prodursi) l’amalgama delle diverse privazioni e ingiustizie sociali, il loro congelamento e la loro solidificazione in un programma per il cambiamento; né sono più adatte come terreno d’addestramento dove si formino e si preparino le colonne in marcia per le imminenti battaglie. Non esiste nessuna casa comune per i malcontenti sociali. Con lo spettro della rivoluzione guidata dal proletariato che arretra e si dissolve, le rimostranze sociali si ritrovano orfane. Hanno perso il terreno comune dove negoziare obiettivi comuni e progettare strategie comuni. Adesso ogni categoria svantaggiata deve cavarsela da sola, abbandonata alle proprie risorse e al proprio ingegno. Molte di queste categorie svantaggiate hanno risposto alla sfida. Gli anni Ottanta sono stati un decennio di frenetica attività artigianale: nuovi striscioni sono stati cuciti e decorati, nuovi manifesti sono stati composti, nuovi poster sono stati disegnati e stampati. Non essendoci più la classe come perno sicuro su cui far leva per rivendicazioni disparate e diffuse, lo scontento sociale si è disperso in un numero infinito di rimostranze di gruppo o di categoria, ognuna alla ricerca di un proprio ancoraggio sociale. Il genere, la razza e il comune passato coloniale si sono rivelati le più efficaci e promettenti tra di esse. Ognuna, però, cercava di emulare i poteri di integrazione della classe, aspirando ad assumere lo status di «meta-identità», analogo a quello rivendicato dalla nazionalità al tempo della costruzione della nazione: lo status di sovra-identità, la più generale, la più voluminosa e onnivora delle identità, l’identità che for39

nisce significato a tutte le altre identità e le riduce allo status secondario e dipendente di «casi speciali» o «esemplificazioni». Ognuna si comportava come se fosse la sola identità in campo, trattando tutti le concorrenti come false pretendenti. Ognuna si mostrava indifferente, se non sospettosa o apertamente ostile, verso analoghe rivendicazioni di esclusività affermate o udite da altre. L’«effetto non previsto» di tutto ciò è stata un’accelerata frammentazione del dissenso sociale, una progressiva disintegrazione del conflitto sociale in una moltitudine di conflitti tra gruppi e la proliferazione dei campi di battaglia. Vittima collaterale delle nuove guerre di riconoscimento è stata l’idea di «buona società», un’idea che riusciva a stimolare e catturare l’immaginazione solo con l’aggiunta della credibilità apportata dalla presenza di un ipotetico «veicolatore», ritenuto sufficientemente potente e determinato da rendere il verbo carne; niente del genere è ora visibile all’orizzonte. L’idea di un «mondo migliore», se non del tutto scomparsa, è evaporata allo stato di rivendicazioni contingenti di gruppo o di categoria. Rimane indifferente verso altre privazioni e menomazioni e si guarda bene dall’offrire una soluzione universale e onnicomprensiva ai problemi umani. Il discredito della visione di classe, con l’enfasi che poneva sulle radici economiche delle ingiustizie, ha generato una reazione apparentemente esagerata da parte dei «veicolatori» delle nuove visioni. Quasi nessuna tra esse ha preso posizione sugli aspetti economici e le radici della miseria umana, le flagranti e sempre maggiori discrepanze nelle condizioni, possibilità 40

e prospettive umane, la povertà crescente, lo sgretolamento della protezione delle condizioni di vita, le stridenti ineguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del reddito. Le critiche di Richard Rorty ai militanti delle nuove «cause sociali» sono pungenti e perfettamente centrate14: preferiscono «non parlare di soldi». Il loro (presunto) «principale nemico è un atteggiamento mentale piuttosto che un insieme di disposizioni economiche». Il risultato è che la «sinistra culturale», cui tutti loro appartengono, «è incapace di dare battaglia nella politica nazionale». Per riconquistare l’arena politica, «si dovrebbe parlare molto di più dei soldi, anche a costo di parlare di meno di sintomi». Sospetto che la ragione di questa bizzarra cecità verso l’economia sia la tendenza descritta da Robert Reich come la «secessione dei vincenti»: la rinuncia al compito che i critici sociali intellettuali ritenevano fosse il proprio dovere specifico nei confronti del resto dei loro contemporanei, in particolare quelli meno privilegiati e felici di loro. Ora che questo compito non è più riconosciuto come un dovere, i loro discendenti possono concentrarsi sui propri punti deboli, i propri punti sensibili, di sofferenza, e lottare per accrescere il rispetto e l’adulazione di cui godono al livello delle ricchezze economiche che hanno già acquisito. Sono cocciutamente preoccupati di sé e auto-impegnati. La guerra per la giustizia sociale ha dunque subìto una contraffazione, trasformata in una pletora di battaglie per il riconoscimento. La mancanza di «riconoscimento» potrà anche essere percepita da questo o quell’altro settore dei vincenti come una grave 41

lacuna, una cosa che sembra mancare nell’inventario quasi completo dei fattori di felicità. Ma per la gran parte del genere umano (una parte in rapida crescita), il «riconoscimento» è un’idea nebulosa e tale resterà fin tanto che si continuerà a evitare in tutti i modi di parlare di soldi... Valutando le profezie mancate del passato e le gloriose, anche se mal indirizzate, speranze del presente, Rorty invita a rinsavire e ad aprire gli occhi sulle cause profonde della miseria umana. «Dovremmo fare in modo», scrive, che i nostri bambini «si preoccupino del fatto che i paesi che si sono industrializzati per primi siano cento volte più ricchi di quelli che non si sono ancora industrializzati. È necessario che i nostri bambini imparino, e presto, a non vedere le ineguaglianze tra la loro sorte e quella di altri bambini come la Volontà di Dio né come il prezzo necessario per l’efficienza economica, ma come una tragedia evitabile»15. Vorrei far notare che anche l’identificazione è un potente fattore di stratificazione, uno di quelli che creano le maggiori divisioni e differenze. A un’estremità dell’emergente gerarchia globale stanno coloro che possono comporre e decomporre le loro identità più o meno a piacimento, attingendo dall’immenso pozzo di offerte planetario. All’altra estremità stanno affollati coloro che si vedono sbarrare l’accesso alle identità di loro scelta, che non hanno voce in capitolo per decidere le proprie preferenze, e che si vedono infine affibbiare il fardello di identità imposte da altri, identità che trovano offensive ma che non sono autorizzati a togliersi di dosso: identità stereotipanti, umilianti, disumanizzanti, stigmatizzanti... 42

Quasi tutti noi siamo sospesi con disagio tra queste due estremità, mai sicuri di quanto durerà la nostra libertà di scegliere ciò che desideriamo e di rifiutare ciò che non ci piace, mai sicuri se saremo in grado di mantenere la nostra gradita posizione attuale finché ci parrà comodo e desiderabile. Il più delle volte, la gioia di scegliere una stimolante identità è guastata dalla paura. Sappiamo, d’altronde, che se i nostri sforzi dovessero fallire per scarsità di risorse o mancanza di determinazione, un’altra identità, non richiesta e non voluta, verrà appiccicata sopra quella che ci siamo scelti e costruiti. Max Frisch, che vive in Svizzera – un paese dove, secondo l’opinione generale, le scelte individuali (flessibili) sono considerate invalide (e trattate come tali) a meno che non godano del timbro di convalida dell’approvazione popolare (inflessibile) – ha definito l’identità come il rigetto di quello che gli altri vogliono che tu sia... Le guerre di riconoscimento, condotte a livello individuale o collettivo, vengono combattute di regola su due fronti, benché la concentrazione di truppe e armi sull’uno e l’altro fronte vari a seconda della posizione ottenuta o assegnata all’interno della gerarchia di potere. Su un fronte, l’identità prescelta e preferita muove contro gli ostinati rimasugli di identità vecchie, abbandonate e non amate, scelte o imposte in passato. Sul secondo fronte, viene contrastato – e, se la battaglia è vinta, respinto – l’assalto delle altre identità, artefatte e imposte (stereotipi, stimmate, etichette), spalleggiate da «forze nemiche». La zona in cui finiscono le persone cui viene negato il diritto di assumere l’identità di propria scelta (un evento universalmente temuto e aborrito) non è 43

tuttavia ancora la zona più bassa della gerarchia del potere; c’è uno spazio ancora più in basso, uno spazio, potremmo dire, più in fondo del fondo. Una zona dove finiscono (o, più correttamente, dove vengono spinti) tutti coloro cui viene negato il diritto di rivendicare un’identità distinta dalla classificazione attribuita e imposta; persone le cui richieste non vengono accolte e le cui proteste non vengono ascoltate anche se chiedono la cassazione o l’annullamento del verdetto. Sono le persone recentemente qualificate come «sottoclasse» (underclass): esiliate nella regione inferiore, fuori dai confini della società, da quel consesso al cui interno le identità (e quindi il diritto a un posto legittimato nella totalità) possono essere rivendicate e una volta rivendicate devono essere prese in considerazione. Se sei stato assegnato alla sottoclasse (perché hai abbandonato la scuola, o sei una ragazza madre che dipende dall’assistenza dello Stato, o sei o sei stato tossicodipendente, o senzatetto, o mendicante, o fai parte di un’altra categoria che non figura nell’elenco – approvato dalle autorità – delle categorie lecite, ammissibili), qualsiasi altra identità desideri e ti sforzi di ottenere ti è negata a priori. «Identità di sottoclasse» significa assenza di identità; la cancellazione, o la negazione dell’individualità, di un «volto», quell’oggetto di dovere etico e di cura morale. Ti trovi gettato al di fuori di quello spazio sociale in cui l’identità viene cercata, scelta, costruita, valutata, confermata o rifiutata. La «sottoclasse» è un eterogeneo insieme di persone il cui bios (ossia la vita di un soggetto socialmente riconosciuto) è ridotto, come direbbe Giorgio Agamben, a zoè (vita puramente animale, in cui tutte 44

le appendici riconoscibilmente umane sono state tagliate via o annullate). Un’altra categoria che subisce lo stesso fato è quella dei profughi, i senza Stato, i sans papiers, i non territoriali in un mondo di sovranità basata sul territorio. Condividono la situazione dei sottoclasse, ma al tempo stesso patiscono una privazione ancora maggiore, perché viene loro negato il diritto a una presenza fisica nel territorio sotto un governo sovrano, fatta eccezione per dei «non luoghi» concepiti appositamente per loro, denominati campi per profughi o per richiedenti asilo, per distinguerli dallo spazio in cui il resto della gente, la gente «normale», «completa», vive e si muove. La posta in palio dell’imperialismo dell’era della modernità solida era la conquista di territori allo scopo di ampliare il volume della forza lavoro soggetta allo sfruttamento capitalistico. Le terre conquistate venivano sottomesse all’amministrazione dei conquistatori, in maniera che i nativi potessero venire convertiti in forza lavoro vendibile. Era (parafrasando il famoso adagio di Clausewitz) una continuazione, una nuova rappresentazione sul palcoscenico globale dei processi praticati al proprio interno da ognuno dei paesi capitalistici dell’Occidente; e corroborava e riaffermava in maniera eclatante la scelta di Marx della classe come principale fattore di determinazione dell’identità sociale. Ma sul lungo periodo ha assunto rilevanza il fatto che l’effetto più spettacolare, forse addirittura il più importante, dell’espansione planetaria dell’Occidente sia stato la lenta ma implacabile globalizzazione della produzione di scarti umani, o più precisamente di «umani scartati», umani non più necessari per il completamento del ciclo econo45

mico e perciò impossibili da sistemare all’interno della struttura sociale che fa da riflesso all’economia capitalistica. La produzione di «scarti umani» è esistita fin dall’inizio, in ogni regione del mondo dove questa economia è stata messa in pratica. Fintanto, però, che queste regioni si limitavano a una parte del pianeta, un’efficace «industria di smaltimento dei rifiuti», nella forma dell’imperialismo politico e militare, era in grado di neutralizzare le potenzialità più incendiarie dell’accumulo di scarti umani. I problemi prodotti a livello locale cercavano e trovavano una soluzione a livello globale. Questo genere di soluzioni ha cessato di essere disponibile con l’espansione dell’economia capitalistica fino a un’estensione equivalente a quella della dominazione politica e militare dell’Occidente, e la produzione di «umani scartati» è così diventata un fenomeno planetario. «Il problema del capitalismo», la più lampante e potenzialmente esplosiva disfunzione dell’economia capitalistica, è passata, al suo attuale stadio planetario, dallo sfruttamento all’esclusione. È l’esclusione, e non lo sfruttamento come era stato ipotizzato da Marx un secolo e mezzo fa, che è oggi alla base dei più vistosi casi di polarizzazione sociale, di un’ineguaglianza che si fa più profonda e di volumi crescenti di povertà, miseria e umiliazione umana. D. Dobbiamo a Thomas Marshall il primo discorso in cui i diritti sociali di cittadinanza vengono visti come una cornice al cui interno ci si sveste degli abiti delle identità collettive indossando quelli del cittadino. 46

Da allora, le identità sono uscite dalla nebbia della grande trasformazione per popolare l’epoca moderna. Come ha luogo questo cambiamento, secondo Lei? R. Questa storia è stata raccontata molte volte: e ogni generazione moderna ha sognato una repubblica che riconosca nei suoi membri l’umanità e offra loro tutti i diritti dovuti agli esseri umani solo in quanto esseri umani, in cui l’umanità sia l’unico criterio di inclusione, e che al tempo stesso sia pienamente tollerante, magari perfino cieca e dimentica, nei confronti dei capricci personali e delle eccentricità dei suoi membri (a patto, naturalmente, che non si facciano del male tra loro); il «patriottismo costituzionale» di Jürgen Habermas è la versione più recente di questo sogno. E non c’è da meravigliarsi. Una repubblica del genere sembra essere la migliore soluzione immaginabile al più straziante dilemma di ogni forma di socialità umana: come fare per vivere insieme con un livello minimo di conflitto e lotta e allo stesso tempo conservare intatta la libertà di scelta e di autoaffermazione? In breve: come ottenere l’unità nella (nonostante la?) differenza e come preservare la differenza nella (nonostante la?) unità? Il grande contributo di Thomas Marshall è stato quello di generalizzare la sequenza degli sviluppi politici in Gran Bretagna in una «legge storica» che conduce inestricabilmente, dovunque, presto o tardi, dall’habeas corpus a leggi politiche e poi sociali. Alla soglia dei «trent’anni gloriosi» di ricostruzione postbellica e «patto sociale», la soluzione britannica al dilemma summenzionato appariva davvero inevitabile e alla lunga irresistibile. Era, dopo tutto, la logica 47

conseguenza dell’essenza del credo liberale, e cioè che per diventare cittadino a tutti gli effetti si debbano possedere le risorse che consentono di non dedicare tutto il tempo e l’energia alla mera lotta per la sopravvivenza. Lo strato più basso della società, i proletari, non possedeva queste risorse ed era improbabile che potesse ottenerle lavorando e risparmiando: era perciò la stessa repubblica che doveva garantire la soddisfazione dei loro bisogni di base in maniera da agevolare la loro integrazione nell’assemblea dei cittadini... In altre parole: c’era la speranza – la convinzione – che una volta raggiunta la sicurezza personale rispetto all’oppressione, la gente si sarebbe unita per regolare i propri affari comuni attraverso l’azione politica, e che il risultato della sempre più vasta – alla fine universale – partecipazione politica sarebbe stato una sopravvivenza collettivamente garantita: protezione dalla povertà, dalla disgrazia della disoccupazione, dall’incapacità di sbarcare il lunario. In poche parole: una volta libere, le persone sarebbero diventate politicamente impegnate e attive, e queste persone a loro volta avrebbero promosso equità, giustizia, aiuto reciproco, fratellanza... Si dovrebbe fare attenzione prima di proclamare che una sequenza storica è espressione delle «ferree leggi della storia» e dell’inevitabilità storica. Si dovrebbe stare ancora più attenti a trarre conclusioni affrettate sulla «logica dello sviluppo» prima che questo sviluppo abbia avuto il suo corso. Nessuno può dire se, o in che punto, una sequenza di eventi si concluderà: la storia umana rimane ostinatamente incompiuta, e la condizione umana sottodeterminata... 48

All’epoca in cui scriveva Marshall, la variante britannica del welfare state (che a mio parere sarebbe meglio chiamare «Stato sociale») appariva il punto d’arrivo della logica moderna, il giusto coronamento di una tortuosa ma inesorabile e inarrestabile tendenza storica, magari concepita localmente ma destinata a venire emulata, con modifiche ma conservando gli elementi essenziali, da tutte le «società sviluppate». Guardando in retrospettiva, quella conclusione appare quantomeno prematura. Appena trent’anni dopo che Lord Beveridge aveva apportato gli ultimi ritocchi al progetto di assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali, e che la rosea, ottimistica visione di Marshall era stata data alle stampe, Kenneth Galbraith registrava la nascita della «maggioranza soddisfatta» che usava i diritti personali e politici recentemente acquisiti per far votare leggi che toglievano ai loro concittadini meno intelligenti o astuti una parte crescente dei loro diritti sociali. Contrariamente alle previsioni di Marshall e di Beveridge, la capacità dello Stato sociale di rendere la maggioranza delle persone sicure di sé e soddisfatte ha finito col minare alla base le sue premesse e le sue ambizioni invece di rafforzarle. Paradossalmente, quel senso di sicurezza di sé che ha indotto la «maggioranza soddisfatta» a ritirare il proprio sostegno al principio fondamentale dello Stato sociale, quello di un’assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali, è stato il frutto del clamoroso successo dello Stato sociale... Arrampicatasi fino al livello di un’autentica disponibilità di risorse, fino a una posizione da cui un vasto assortimento di opportunità appariva alla portata di chiunque avesse a disposizione mezzi suffi49

cienti, questa maggioranza ha dato un calcio alla scala senza la quale salire fino a quel punto sarebbe stato avventuroso se non proprio impossibile. Il processo è stato autopropellente e autoaccelerante. Il cambiamento nei sentimenti popolari ha avuto come risultato il lento ma consistente ridursi della protezione che l’ormai non più onnicomprensivo Stato sociale era disposto a offrire e era in grado di offrire. Per prima cosa, il principio di assicurazione collettiva come diritto universale del cittadino è stato sostituito, tramite il metodo del means testing (l’accertamento delle fonti di reddito), dalla promessa di assistenza diretta solamente a quelle persone che non superavano l’esame della disponibilità di risorse ed autosufficienza, e quindi, implicitamente, l’esame di cittadinanza e di «piena umanità». La dipendenza dalle sovvenzioni statali ha così smesso di essere un diritto del cittadino, diventando un marchio che le persone con rispetto di sé fuggono come la peste. In secondo luogo poi, in omaggio alla regola che le prestazioni per i poveri sono prestazioni povere, i servizi di assistenza sociale hanno anche perso gran parte della loro attrattiva di un tempo. Questi due fattori hanno dato maggiore impulso, velocità e dimensioni alla fuga della «maggioranza soddisfatta» dall’alleanza «trasversale» a sostegno dello Stato sociale. Ciò ha condotto a sua volta a un’ulteriore limitazione e a una graduale interruzione delle successive prestazioni dello Stato sociale e a una generale incapacità ad agire delle istituzioni del welfare, a corto di fondi. Alla fine di questa ritirata dello Stato sociale, rimane la corazza essiccata, infranta e raggrinzita della «repubblica», spogliata degli attributi più attraenti. 50

Gli individui, impegnati a misurarsi con le sfide della vita e a cui è stato detto che devono cercare rimedi privati a problemi prodotti dalla società, non possono attendersi grande aiuto dallo Stato. Gli emaciati poteri statali promettono poco e garantiscono ancora meno. Una persona razionale non ripone più fiducia nella capacità dello Stato di fornire tutto ciò che è necessario in caso di disoccupazione, malattia o invecchiamento, di assicurare cure mediche decenti o un’adeguata istruzione. Soprattutto, una persona razionale non si aspetta che lo Stato protegga i suoi sudditi dai colpi sferrati apparentemente a casaccio dall’azione incontrollata e scarsamente compresa delle forze globali. E vi è perciò una nuova, ma già profondamente radicata, sensazione che, quand’anche si sapesse come debba essere una buona società, non si saprebbe dove trovare un’istituzione che abbia la volontà e la capacità di realizzare i desideri popolari. In definitiva, il significato di cittadinanza è stato dunque svuotato di buona parte dei suoi passati contenuti (veri o presunti che fossero), di pari passo col progressivo smantellamento delle istituzioni gestite o autorizzate dallo Stato su cui esso fondava la sua credibilità. Lo Stato-nazione, come abbiamo già notato, non è più il depositario naturale della fiducia del popolo. La fiducia è stata bandita dal luogo dove ha dimorato per la maggior parte della storia moderna. Ora vaga qua e là alla ricerca di nuovi approdi, ma nessuna delle alternative a disposizione è riuscita fino a questo momento a eguagliare la solidità e l’apparente «naturalezza» dello Stato-nazione. C’è stato un tempo in cui l’identità umana veniva determinata in primo luogo dal ruolo produttivo 51

svolto nella divisione sociale del lavoro, quando lo Stato faceva da garante (nelle intenzioni e nelle promesse, anche se non nella pratica) della solidità e durata nel tempo di quel ruolo, e quando i sudditi potevano chiamare le autorità a rendere conto se lo Stato veniva meno alle sue promesse, e si sottraeva alle responsabilità che si era assunto per la soddisfazione dei cittadini. Questa ininterrotta catena di dipendenza e sostegno poteva plausibilmente fornire la base per qualcosa di simile al «patriottismo costituzionale» di Habermas. Sembra però che un appello al «patriottismo costituzionale» come rimedio per i problemi attuali segua le abitudini della nottola di Minerva, nota fin dai tempi di Hegel per spiegare le sue ali al tramonto, quando il giorno è finito... Si indaga appieno sul valore di una cosa quando questa viene a mancare o va in rovina. Nello stato di cose presente non c’è molto che lasci nutrire speranze sulle chances del patriottismo costituzionale. Perché il moto centripeto dello Stato riesca a prevalere sulla spinta centrifuga degli interessi locali e di settore e altri interessi particolaristici, di gruppo e autoreferenziali, lo Stato dev’essere in grado di offrire qualcosa che non può essere conseguito con efficacia a un livello più basso, e stringere insieme le maglie della rete di sicurezza che altrimenti si sfilaccerebbero. L’epoca in cui lo Stato era capace di una simile impresa e si nutriva fiducia nella sua capacità di fare tutto il necessario per portare a termine il suo compito, è abbondantemente tramontata. Gli abitanti di una società sempre più privatizzata e deregolamentata non vedono più lo Stato come un destinatario affidabile per le loro lamentele e richie52

ste. È stato loro detto, ripetutamente, di far conto solo sulla propria abilità, le proprie capacità e il proprio impegno; di non attendersi la salvezza dall’alto; di dare la colpa a se stessi, alla propria indolenza e accidia se inciampano o si rompono una gamba nel loro percorso individuale verso la felicità. Non si può dar loro torto se pensano che le alte sfere si siano lavate le mani di ogni responsabilità per il loro destino (con la possibile eccezione di azioni come metter dentro i pedofili, ripulire le strade da malintenzionati, fannulloni, mendicanti e altri indesiderabili e far retate di potenziali terroristi prima che diventino terroristi veri). Si sentono abbandonati alle proprie (dolorosamente inadeguate) risorse e alla propria (assai confusa) iniziativa. Cosa sognano, e cosa farebbero se ne avessero la possibilità, questi individui solitari, abbandonati, desocializzati, atomizzati? Una volta che i grandi porti sono stati chiusi, che quelle attrezzature che li rendevano invitanti sono andate perdute e i frangiflutti che li rendevano sicuri smantellati, gli sventurati marinai sarebbero inclini a costruirsi e delimitarsi un piccolo approdo personale dove gettare l’ancora e depositare le loro orfane e fragili identità. Non fidando più nella rete di navigazione pubblica, monterebbero gelosamente la guardia all’ingresso del loro approdo privato, per difenderlo da qualsiasi intruso. Per una mente lucida, l’odierna, spettacolare ascesa dei fondamentalismi non ha niente di misterioso. È tutto fuorché disorientante e inaspettata. Feriti dall’esperienza di abbandono, uomini e donne dei nostri tempi sospettano di essere pedine nel gioco di qualcun altro, senza protezione contro le mosse fatte dai 53

grandi giocatori, e ripudiati e spediti tra i rifiuti non appena i grandi giocatori non li considerano più redditizi. Consciamente o inconsciamente, gli uomini e le donne dei nostri tempi sono ossessionati dallo spettro dell’esclusione. Sono consapevoli, come ci ricorda acutamente Hauke Brunkhorst16, che già milioni di persone sono state escluse, e che per «coloro che cadono al di fuori del sistema funzionale, che sia in India, in Brasile o in Africa, o adesso addirittura in molti quartieri di New York o di Parigi, tutti gli altri diventano presto inaccessibili. Nessuno ode più la loro voce, spesso vengono letteralmente ridotti al silenzio». E hanno dunque paura di rimanere soli, senza la prospettiva di qualcuno che li ami o li aiuti, patendo crudelmente la mancanza del calore, del comfort e della sicurezza della socialità. Non c’è perciò da meravigliarsi che per molte persone la promessa di «rinascere» in una nuova casa calda e sicura come una famiglia rappresenti una tentazione cui riesce difficile resistere. Avrebbero forse preferito qualcosa di diverso dalla terapia fondamentalista, una sicurezza che non comportasse la cancellazione della propria identità e la rinuncia alla propria libertà di scelta, ma questo genere di sicurezza non è disponibile. Il «patriottismo costituzionale» non è un’opzione realistica per questi individui, mentre una comunità fondamentalista appare fascinosamente semplice. E allora non ci pensano due volte a immergersi nel suo calore, anche prevedendo di dover pagare successivamente un prezzo per questo piacere. D’altronde, non sono stati allevati in una società di carte di credito, che insegnano a non posticipare il desiderio? 54

2.

IDENTITÀ-PUZZLE

D. Con la globalizzazione, l’identità è diventata una questione scottante. Tutti i punti di riferimento sono cancellati, le biografie diventano puzzle dalle soluzioni difficili e mutevoli. Il problema, tuttavia, non sono i singoli pezzi del mosaico, ma la maniera in cui si incastrano l’uno con l’altro. Qual è la Sua opinione? R. Temo che la Sua allegoria del puzzle sia solo parzialmente illuminante. È vero, si compone la propria identità (o le proprie identità?) come si compone un disegno partendo dai pezzi di un puzzle, ma la biografia può essere paragonata solamente a un puzzle difettoso, in cui mancano alcuni pezzi (e non si può mai sapere esattamente quanti). Un puzzle comprato in negozio è tutto contenuto in una scatola, ha l’immagine finale già chiaramente stampata sul coperchio e la garanzia, con promessa di rimborso in caso contrario, che tutti i pezzi necessari per riprodurre quell’immagine si trovano all’interno della scatola e che con questi pezzi si può formare quell’immagine e quella soltanto; ciò permette di consultare l’immagine riprodotta sul coperchio dopo 55

ogni mossa per assicurarsi di essere effettivamente sulla strada giusta (l’unica strada corretta) verso la destinazione già nota, e quanto lavoro rimane da fare per raggiungerla. Nessuna di queste agevolazioni è disponibile nel momento in cui componi la tua identità... È vero, sul tavolo sono a disposizione tanti piccoli pezzi che speri di poter incastrare l’uno con l’altro fino a ottenere un insieme dotato di senso, ma l’immagine che dovrebbe emergere al termine del lavoro non è fornita in anticipo, e pertanto non puoi sapere per certo se possiedi tutti i pezzi necessari per comporla, se i pezzi scelti fra quelli sparsi sul tavolo siano quelli giusti, se li hai messi al posto giusto e se servono a comporre il disegno finale. Potremmo dire che la soluzione dei puzzle che si comprano in negozio è orientata all’obbiettivo: parti per così dire dal punto d’arrivo, dall’immagine finale, nota già in precedenza, e poi tiri fuori dalla scatola un pezzo dopo l’altro, cercando di incastrarli insieme. Hai la sicurezza che alla fine, con l’impegno necessario, troverai il posto giusto per ogni pezzo. La completezza dei pezzi e il loro reciproco incastro sono garantiti prima che tu cominci. Nel caso dell’identità non è affatto così: l’intera impresa è orientata ai mezzi. Tu non parti dall’immagine finale, ma da una certa quantità di pezzi di cui sei già entrato in possesso o che ti sembra valga la pena di possedere, e quindi cerchi di scoprire come ordinarli e riordinarli per ottenere un certo numero (quante?) di immagini soddisfacenti. Fai esperimenti con ciò che hai. Il problema non è che cosa ti serve per «andare lì», per arrivare al punto che vuoi raggiungere, ma quali sono i 56

punti che puoi raggiungere sulla base delle risorse già in tuo possesso o di quelle per ottenere le quali vale la pena che tu profonda il tuo impegno. Potremmo dire che la risoluzione dei puzzle segue la logica della razionalità strumentale (scegliere i mezzi adatti per un determinato scopo), mentre al contrario la costruzione dell’identità è guidata dalla logica della razionalità finale (scoprire quanto sono attraenti gli obbiettivi raggiungibili con i mezzi dati). Il lavoro di un costruttore di identità, come direbbe Claude Lévi-Strauss, è un lavoro da bricoleur, che crea ogni sorta di cose col materiale a disposizione... Non è sempre stato così. Quando la modernità ha sostituito i ceti premoderni (che determinavano l’identità in base alla nascita, fornendo pertanto pochissime occasioni per porsi la domanda «chi sono io?») con le classi, le identità sono diventate compiti che i singoli individui dovevano realizzare, come ha correttamente suggerito Lei, attraverso la propria biografia. Per usare le memorabili parole di JeanPaul Sartre: per essere borghesi non è sufficiente nascere borghesi, si deve vivere l’intera vita da borghesi! L’appartenenza alla classe a cui si sostiene di appartenere la si deve dimostrare coi fatti, con «l’intera vita», non semplicemente brandendo il certificato di nascita. Se non si riesce a fornire tale convincente prova si può perdere la propria assegnazione di classe, diventare un déclassé. Per la maggior parte dell’era moderna era chiarissimo in che cosa consistesse tale prova. Ogni classe aveva, per così dire, i suoi percorsi di carriera, una traiettoria tracciata senza ambiguità, corredata lungo tutto il tragitto di indicatori di direzione e co57

stellata di pietre miliari che consentivano ai viaggiatori di controllare il proprio progresso. Non vi era in pratica nessun dubbio su quale genere di vita si dovesse vivere per essere, ad esempio, un borghese ed essere riconosciuto come tale. Soprattutto, quella forma sembrava tracciata una volta per tutte. Si poteva seguire la traiettoria passo dopo passo, acquisendo le onorificenze di classe in successione, secondo il loro ordine appropriato, «naturale», senza preoccuparsi che qualcuno potesse spostare o invertire gli indicatori di direzione prima del completamento del viaggio. Definire l’identità come un compito e lo scopo dell’impegno di tutta una vita era, se paragonato all’attribuzione automatica a un ceto dell’era premoderna, un atto di liberazione: una liberazione dall’inerzia delle strade tradizionali, delle autorità immutabili, delle routines preordinate e delle verità incontestabili. Tuttavia, come ha scoperto Alain Peyrefitte nel corso dei suoi studi storici17, quella libertà di autoidentificazione nuova e senza precedenti seguita alla decomposizione della società dei ceti, è giunta insieme a una fiducia nuova e senza precedenti negli altri, nonché nei meriti dell’associazione di diversi cui era stato dato il nome di «società»: nella sua saggezza collettiva, nell’affidabilità delle sue istruzioni, nella durata nel tempo delle sue istituzioni. Per osare e rischiare, per avere il coraggio necessario per fare delle scelte, questa tripla fiducia (in se stessi, negli altri, nella società) è indispensabile. È indispensabile credere che la fiducia nelle scelte fatte dalla società sia ben riposta e che il futuro appaia certo. È indispensabile che la società sia un arbitro, non un giocatore 58

come gli altri che tiene nascoste le carte e cerca di prendervi di sorpresa... Gli osservatori più percettivi della vita moderna si sono accorti abbastanza presto, già nel XIX secolo, che la fiducia in questione non era così solidamente fondata come la «versione ufficiale», che si sforzava di diventare il credo dominante se non addirittura l’unico, voleva far credere. Uno di questi acuti osservatori fu Robert Musil, che nei primissimi anni dello scorso secolo segnalava che «la società non funziona più come si deve» in un’epoca in cui gli individui hanno «raggiunto i vertici della sofisticatezza»18. Il passaggio della responsabilità della scelta sulle spalle dell’individuo, e lo smantellamento degli indicatori di direzione e la rimozione delle pietre miliari, e insieme la crescente indifferenza delle alte sfere riguardo alla natura delle scelte fatte e alla loro fattibilità, erano due tendenze presenti nella «sfida dell’autoidentificazione» fin dall’inizio. Nel corso del tempo, le due tendenze, strettamente intrecciate fra loro e capaci di rinvigorirsi vicendevolmente, hanno acquisito forza, benché disapprovate, stigmatizzate e censurate come sviluppi preoccupanti, perfino patologici. Ritengo che la principale forza motrice dietro a questo processo sia stata sin dal principio la sempre più rapida «liquefazione» delle strutture e delle istituzioni sociali. In questo momento stiamo passando dalla fase «solida» alla fase «fluida» della modernità: e i «fluidi» sono chiamati così perché non sono in grado di mantenere a lungo una forma, e a meno di non venire versati in uno stretto contenitore continuano a cambiare forma sotto l’influenza di ogni minima for59

za. In un ambiente fluido, dove non si sa se attendersi un’inondazione o una siccità, sarebbe meglio esser pronti a entrambe le eventualità. Le strutture, quando (e se) disponibili, non c’è da aspettarsi che durino a lungo. Non sopporterebbero tutto quell’infiltrarsi, trasudare, gocciolare, versare: in breve tempo sono destinate a inzupparsi, ammollirsi, ammuffire e decomporsi. Le autorità di oggi verranno derise o disprezzate domani, le celebrità saranno dimenticate, gli idoli che fanno tendenza saranno ricordati solo nei quiz televisivi, le novità predilette saranno gettate nella spazzatura, le cause eterne saranno cacciate a spintoni da altre cause che si proclameranno eterne anch’esse (senonché, essendosi già scottata, la gente non crederà più ai loro proclami), i poteri indistruttibili si appanneranno e scompariranno, potenti istituzioni politiche od economiche verranno fagocitate da altre ancora più potenti o semplicemente svaniranno, titoli azionari a prova di bomba diventeranno titoli bombardati, promettenti carriere di una vita si riveleranno vicoli ciechi. Sembra di vivere in un universo di Escher, dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente... La «società» non è più ritenuta un arbitro rigido e intransigente dei tentativi e degli errori umani, occasionalmente severo e spietato, ma che si spera giusto e fedele ai propri principi. Essa fa pensare piuttosto a un impassibile giocatore di poker nel gioco della vita, particolarmente scaltro, astuto e ingannatore, che bara non appena ne ha la possibilità e non tiene conto delle regole ogni volta che gli sia possibile: in breve, un vecchio maestro dei sotterfugi, che immanca60

bilmente coglie impreparati tutti o quasi tutti gli altri giocatori. Il suo potere non risiede più in una coercizione diretta: la società non impartisce ordini su come vivere, e quando lo fa le importa poco se tali ordini vengano eseguiti o meno. Da te la «società» vuole soltanto che non lasci il tavolo da gioco e disponga ancora di fiches sufficienti per continuare a giocare. La potenza della società e il suo potere sugli individui risiede oggi, in effetti, nel suo non essere individuabile con esattezza, nella sua evasività, versatilità e volatilità, nella disorientante imprevedibilità delle sue mosse, nell’abilità alla Houdini con cui fugge dalla più difficile delle gabbie, e nella destrezza con cui sfida le aspettative e si sottrae alle sue promesse, apertamente pronunciate o abilmente lasciate intendere. La strategia giusta per affrontare un giocatore così sfuggente ed evasivo è batterlo al suo stesso gioco... Don Giovanni (così come viene raffigurato da Molière, Mozart o Kierkegaard) può essere definito un inventore e un pioniere di questa strategia. Per stessa ammissione del Don Giovanni di Molière, il piacere dell’amore consiste nel cambiamento incessante. Il segreto delle conquiste del Don Giovanni di Mozart, secondo Kierkegaard, era il suo dono di finire rapidamente e ripartire da un (altro) inizio: Don Giovanni era in uno stato di perpetua autocreazione... Secondo la visione di Ortega y Gasset, Don Giovanni era un’autentica incarnazione della vitalità del vivere spontaneo e ciò faceva di lui la prima manifestazione del fondamentale disagio, delle umane inquietudini e ansietà degli uomini moderni. Tutto ciò ha spinto Michel Serres (in The Apparition of Her61

mes) a nominare Don Giovanni il primo eroe della modernità. Prendendo spunto da Camus (che osservava che un seduttore stile Don Giovanni non ama guardare i ritratti), Beata Frydryczak, acuta filosofa della modernità, ha rilevato che questo «eroe della modernità» non poteva essere un collezionista, perché quel che importava per lui era solo il «qui e ora», l’attimo fuggente. Se qualcosa colleziona, colleziona sensazioni, emozioni, Erlebnisse19. E le sensazioni sono, per loro stessa natura, fragili e di breve durata e altrettanto volatili delle situazioni che le hanno innescate. La strategia del carpe diem è una risposta a un mondo svuotato di valori che pretende di essere duraturo. Quel che ne consegue (secondo me) è che l’ipotesi da Lei avanzata, che il problema consista nella «maniera in cui [i vari pezzi da cui è composta l’identità presumibilmente coesiva] si incastrano l’uno con l’altro», non è corretta. Incastrare insieme pezzi e frammenti fino a ottenere una totalità coerente e coesiva chiamata identità non sembra essere la principale preoccupazione dei nostri contemporanei, assegnati forzatamente e irrevocabilmente a una condizione alla Don Giovanni, e pertanto costretti ad adottare la sua strategia. Forse non se ne preoccupano proprio. Un’identità coesiva, saldamente inchiodata e solidamente costruita, sarebbe un fardello, un vincolo, una limitazione alla libertà di scegliere. Presagirebbe l’impossibilità di aprire la porta quando un’altra opportunità busserà. Per farla breve, sarebbe una ricetta per l’inflessibilità, per una condizione, cioè, che è continuamente biasimata, ridicolizzata o condannata da quasi tutte le vere o presunte autorità dei 62

nostri giorni (mezzi di comunicazione, esperti di problemi umani e leader politici), perché all’opposto di un atteggiamento corretto e prudente, foriero di successo, nei confronti della vita; una condizione di cui si deve diffidare e che quasi tutti all’unanimità raccomandano di evitare con cura. Per la grande maggioranza degli abitanti di un mondo di modernità liquida, atteggiamenti come la preoccupazione per la coesione, l’adesione alle regole, il giudicare sulla base dei precedenti e il restare fedeli a una logica di continuità invece di fluttuare sull’onda di opportunità mutevoli e di breve durata, non sono opzioni promettenti. Se vengono adottati da qualcun altro (di rado volontariamente, se ne può star certi!), vengono prontamente bollati come sintomi di deprivazione sociale e stimmate di insuccesso nella vita, di sconfitta, di scarso valore, di inferiorità sociale. Nella coscienza pubblica, si tende ad associarli a una vita passata in prigione o in un ghetto urbano, relegati nella detestata e aborrita «sottoclasse» o confinati nei campi di profughi senza Stato... I progetti a cui giurare fedeltà per tutta la vita una volta scelti e sposati (Jean-Paul Sartre, ancora mezzo secolo fa, raccomandava di adottare projets de vie) godono di cattiva stampa e hanno perso la loro capacità di attrattiva. La maggior parte della gente, messa alle strette, li definirebbe controproducenti e sicuramente un genere di scelta che non farebbe di buon grado. Continuare ad incastrare insieme i pezzi, sì, non si può far altro. Ma incastrarli insieme una volta per tutte, trovare il miglior incastro possibile, quello che mette fine al gioco di incastro? No, grazie, questo è qualcosa di cui si fa volentieri a meno. 63

Verso la fine di una vita passata in interminabili sforzi per comporre la perfetta armonia di puri colori e forme geometricamente pulite (essendo la perfezione lo stato che non può essere migliorato e che chiude quindi la porta a qualsiasi ulteriore cambiamento), Piet Mondrian, il grande poeta visivo della modernità solida, dipinse Victory boogie-woogie, una furiosa, tumultuosa cacofonia di forme senza forma e tonalità discordanti di rosso, arancio, rosa, verde e blu... D. Una delle conseguenze di queste trasformazioni è il riemergere del nazionalismo. Così, se le biografie diventano dei puzzle infranti, abbiamo il paradosso che la parola «comunità» (Gemeinschaft) rientra forzatamente nella discussione. È un paradosso? O questi fenomeni sono invece complementari? R. Anche in questo caso non sono sicuro che la Sua diagnosi sia corretta al cento per cento... È vero, i vari movimenti che cercano una comunità/riconoscimento, che spuntano come funghi in paesi dove la «questione nazionale» sembrava essere stata risolta un centinaio di anni fa o giù di lì (e per lungo tempo, forse in modo definitivo, per sempre), vengono di solito interpretati come il «riemergere del nazionalismo». Quando, dopo il collasso dell’unione statale jugoslava, nei Balcani si è scatenato il finimondo, Tom Nairn ha riassunto la visione dominante degli eventi come il riaffiorare di una forza oscura, arcaica, atavica, irrazionale, che fino a poco tempo prima era dormiente e si pensava ormai passata a miglior vita – ma evidentemente in effetti mai irrevocabilmente 64

morta – e che invece adesso, ancora una volta, «costringeva i popoli ad anteporre il sangue a un ragionevole progresso e ai diritti individuali»20. La domanda che una tale diagnosi suggeriva e spingeva a porsi era: «Perché il morto si è risvegliato?»... Una domanda che è posta di continuo nei film sui vampiri e sugli zombi: una domanda tanto fuorviante e ingannevole quanto fantasiose sono le idee di «risorgere dalla morte» o di una miracolosa conservazione di odi primitivi nel congelatore dell’inconscio collettivo. È peraltro facile comprendere perché si sia usato un vecchio nome per designare fenomeni nuovi e ancora non pienamente compresi: il ricorso a reti da pesca concettuali sperimentate e affidabili ogniqualvolta fanno la loro comparsa creature marine bizzarre e mai viste prima, è, dopo tutto, un’usanza comune e di vecchia data. Ma dovremmo tener conto dell’avvertimento di Derrida ed esser consapevoli che possiamo usare vecchi concetti, inevitabilmente pieni di significati ormai superati, soltanto sous rature... Ci sono due ragioni evidenti per questa recente messe di rivendicazioni di autonomia o di indipendenza erroneamente descritte come il «risveglio del nazionalismo» o la resurrezione/revival delle nazioni. Una è il tentativo smanioso e disperato, anche se maldestro, di cercare protezione dagli ora gelidi ora brucianti venti della globalizzazione, una protezione che le mura sgretolate degli Stati-nazione non sono più in grado di dare. Un’altra è il ripensamento del tradizionale accordo tra nazione e Stato, più che prevedibile in un’epoca in cui gli Stati indeboliti hanno sempre meno benefici da offrire in cambio della lealtà richiesta nel nome della solidarietà nazionale. Come si 65

può vedere, entrambe le ragioni puntano il dito sull’erosione della sovranità dello Stato quale fattore principale. I movimenti in questione manifestano il desiderio di ritoccare la strategia ricevuta della ricerca collettiva degli interessi, trovando o creando nuove poste in palio e nuovi attori del gioco del potere. Possiamo anche (e dobbiamo) disapprovare lo zelo separatista di questi movimenti, possiamo anche condannare l’odio tribale che disseminano e lamentare i frutti avvelenati di questa semina, ma non possiamo accusarli di irrazionalità o liquidarli semplicemente come un rigurgito atavico. Se così facessimo, correremmo il rischio di scambiare ciò che deve essere spiegato per la spiegazione... Gli scozzesi hanno «riscoperto» la loro identità nazionale, con tanto di fervore patriottico, quando il governo di Londra ha cominciato a intascarsi i profitti della vendita di licenze per l’estrazione di petrolio al largo delle coste scozzesi (tra l’altro, questo nazionalismo rinato ha cominciato a perdere molti dei patrioti reclutati di fresco quando ci si è resi conto che i giacimenti di petrolio del Mare del Nord non erano lontani dall’esaurimento). Quando la presa del governo di Roma ha cominciato ad allentarsi ed è sembrato che non ci fosse più molto da guadagnare a restar fedeli allo Stato comune, la gente del ricco Nord ha chiesto perché dovessero essere loro a pagare per alleviare la miseria delle povere e inefficienti popolazioni del Sud, e da qui a mettere in discussione la comune identità nazionale italiana il passo è stato breve. Ai primi segnali di dipartita dello Stato jugoslavo, gli efficienti e benestanti sloveni si sono domandati 66

perché la loro ricchezza dovesse venir dirottata a favore delle parti meno fortunate dell’alleanza slava, finendo in primo luogo nelle mani dei burocrati di Belgrado. Ricordiamo che fu il cancelliere tedesco Helmut Kohl che per primo espresse apertamente l’opinione che la Slovenia meritava l’indipendenza perché era etnicamente omogenea. È stata la sua scintilla ad accendere la miccia che ha fatto esplodere il melting pot balcanico di etnie, lingue, religioni e alfabeti in un delirio di pulizia etnica. La tragedia che ne è seguita è ben nota. Ma i presunti «impulsi atavici» non sono sgorgati dalle oscure profondità dell’inconscio, dove giacevano ibernati da tempo immemorabile in attesa che arrivasse il momento del risveglio. Sono stati laboriosamente costruiti mettendo il vicino contro il vicino, il congiunto contro il congiunto, e trasformando tutti coloro marchiati come membri di una futura, progettata comunità in complici attivi del crimine o favoreggiatori a posteriori. Uccidere il vicino di casa, stuprare, compiere atti bestiali, assassinare gli indifesi, infrangere uno ad uno i più sacri dei tabù e farlo pubblicamente, sotto la luce dei riflettori, erano in realtà atti di creazione di una comunità: per creare dal nulla una comunità tenuta insieme dalla memoria del misfatto originario; una comunità che poteva essere ragionevolmente sicura della propria sopravvivenza per il fatto di diventare l’unico scudo capace di impedire che gli autori dei delitti fossero chiamati criminali invece di eroi, processati e puniti. Ma in primo luogo, perché la gente ha ubbidito a questa chiamata alle armi? Perché il vicino si è rivoltato contro il vicino? 67

Il repentino e spettacolare collasso dello Stato che provvedeva alla struttura che gestiva e regolava i rapporti tra vicini, ha rappresentato indubbiamente un’esperienza traumatica, una buona ragione per temere per la propria sicurezza. Tra le rovine della struttura controllata dallo Stato, è spuntata e si è estesa a macchia d’olio l’erba cattiva dell’angoscia. Ne è seguita un’autentica «crisi sociale» e, come spiega René Girard, in uno stato di crisi sociale, «gli individui, invece di incolpare se stessi, tendono necessariamente a incolpare sia la società nel suo insieme, il che li porta al disimpegno, sia altri individui che sembrano loro particolarmente nocivi per ragioni facili da scoprire». In uno stato di crisi sociale, le persone spaventate si radunano insieme e diventano una folla, e «la folla per definizione cerca l’azione, ma non può agire sulle cause naturali [della crisi]. Cerca dunque una causa accessibile che sazi la sua brama di violenza». Il resto è piuttosto disorientante, ma facile da realizzare e da comprendere: «Allo scopo di riferire alle vittime ‘l’indifferenziazione’ della crisi [cioè la perdita di distinzioni, ndt] le si accusa di crimini ‘indifferenziati’. Ma in realtà sono i loro segni vittimari che designano queste vittime per la persecuzione»21. Quando il tuo mondo cade in pezzi, uno degli effetti più sgradevoli e inquietanti è la pila di detriti che impedisce di vedere i confini e il ciarpame e i rottami che cadendo distruggono gli indicatori di direzione. Le aspiranti vittime non sono temute e odiate perché sono diverse, ma per non essere abbastanza diverse, per il fatto di potersi agevolmente mescolare tra la folla. È necessaria la violenza per renderle spettacolarmente, indubitabilmente, vistosamente differenti. 68

Distruggendole, allora, si può sperare di eliminare l’agente inquinante che ha offuscato le distinzioni e ricreare quindi un mondo ordinato in cui ciascuno sa chi è e le identità non sono più fragili, incerte e precarie. Pertanto, secondo lo schema della modernità, ogni distruzione in questo caso è una distruzione creativa: una guerra santa dell’ordine contro il caos, un’azione con uno scopo, un’impresa mirante a dare ordine... Intendiamoci bene: la crisi sociale causata dai mezzi convenzionali di protezione collettiva non è una specialità dei Balcani. È, a diversi livelli di condensazione e acutezza, un’esperienza comune a tutto il nostro pianeta in rapida globalizzazione. Le sue conseguenze nei Balcani sono state forse insolitamente estreme, ma meccanismi simili sono all’opera ovunque, anche se le cose magari non si spingono tanto avanti come nei Balcani, e il dramma è in sordina, talvolta addirittura non udibile. Ma desideri molto simili e impulsi ineludibili spingono la gente all’azione ogniqualvolta si avvertono gli spaventosi e sconvolgenti effetti della crisi sociale. Ciò che più ampiamente e avidamente si desidera è scavare trincee profonde e possibilmente invalicabili tra il «dentro» di un territorio o di una località categoriale e il «fuori». Fuori: tempeste, uragani, venti gelidi, imboscate lungo la strada e pericoli tutt’intorno. Dentro: comodità, calore, chez soi, sicurezza, incolumità. Dal momento che per rendere sicuro l’intero pianeta (e non aver perciò più bisogno di separarci da un «fuori» inospitale), ci mancano (o quantomeno crediamo ci manchino) gli strumenti adeguati e le materie prime, meglio ritagliare, delimitare e 69

fortificare un’area distintamente nostra e di nessun altro, un’area dentro cui possiamo sentirci i soli e incontestati padroni. Lo Stato non è più in grado di rivendicare poteri del genere per proteggere il suo territorio. Perciò il compito, cui lo Stato ha rinunciato, rimane lì per terra, in attesa che qualcuno lo raccolga. Il passo successivo non è, contrariamente all’opinione più diffusa, una rinascita o addirittura una vendetta postuma del nazionalismo, ma una disperata quanto vana ricerca di soluzioni alternative locali a problemi globali, in una situazione in cui nessuno può più contare, a questo riguardo, sulle convenzionali istituzioni statali. La distinzione tra l’artificio repubblicano del consenso della cittadinanza e l’internità/appartenenza «naturale» risale fino ai tempi della querelle del XVIII e inizio XIX secolo tra i filosofi illuministi francesi e i romantici tedeschi (Herder, Fichte), i teorici del Volk e del Volksgeist, che precede e sovrasta tutte le identità artificiali e le distinzioni che la legge può operare riguardo al vivere sociale dell’uomo. A dare forma canonica a questi due concetti di appartenenza nazionale è stato Friedrich Meinecke, con la sua contrapposizione tra Staatsnation e Kulturnation (1907). Geneviève Zubrzycki22 ha sintetizzato il suo studio sulle definizioni correnti nei dibattiti contemporanei di politica e scienze sociali contrapponendo i due modelli/interpretazioni del fenomeno dell’appartenenza nazionale, quello «civico» e quello «etnico». Secondo il modello civico di appartenenza nazionale, l’identità nazionale è puramente politica: non è altro che 70

la scelta di un individuo di appartenere a una comunità basata sull’associazione di individui che la pensano allo stesso modo. La versione etnica, al contrario, afferma che l’identità nazionale è puramente culturale. L’identità è assegnata alla nascita: si impone da sola all’individuo.

La contrapposizione, in ultima analisi, è tra l’appartenere in virtù di un’assegnazione primordiale o l’appartenere per scelta. In termini pratici, tra un fatto bruto, che precede i pensieri e le scelte dei singoli esseri umani e che, al pari dei tratti del corpo umano geneticamente ereditati e determinati, può essere mascherato, coperto o nascosto in altro modo, ma non può realisticamente essere cancellato o «disfatto»; e un’assemblea di individui in cui si può entrare e uscire a piacimento come in un club o in un’associazione, la cui forma, le cui caratteristiche e le cui procedure possono essere costantemente deliberate e rinegoziate dai membri. Vorrei far notare che il termine «culturale» con cui viene comunemente definito oggi il primo dei due modelli è un termine improprio, dettato dai parametri imperanti del «politicamente corretto». La parola «cultura», d’altronde, è entrata nel nostro vocabolario due secoli fa, con un significato esattamente opposto: quello di antonimo di «natura», che sta a indicare quelle caratteristiche umane che, in netta opposizione con gli ostinati fatti della Natura, sono prodotti, sedimenti o effetti collaterali di scelte umane. Ciò che è fatto dall’uomo può, in linea di principio, dall’uomo essere disfatto. Mi sia consentito aggiungere anche che la concezione romantica ebbe origine in una «nazione senza 71

uno Stato», vale a dire nell’Europa centrale di lingua tedesca, divisa in innumerevoli e per lo più minuscole unità politiche, mentre la concezione illuministicorepubblicana fu elaborata in uno «Stato senza una nazione», in un territorio sottoposto a un’amministrazione dinastica sempre più centralizzata, che si sforzava di introdurre un certo livello di coerenza in un conglomerato di etnie, dialetti e «culture locali» (usanze, credenze, abitudini, mitologie, calendari). Le due concezioni non rappresentano due modelli alternativi di appartenenza nazionale, ma due successive interpretazioni della natura della socialità umana nelle varie fasi di coabitazione, fidanzamento, matrimonio e divorzio tra nazione e Stato. Ognuna delle due fa da cassa di risonanza a un compito e a una prassi politica alquanto differenti tra loro. Una risponde meglio alle esigenze della lotta per la statualità, mentre l’altra è d’ausilio agli sforzi di nation-building dello Stato politico. Non c’è da stupirsi che, di fronte allo spettacolo attuale della separazione e dell’imminente divorzio tra Stato e nazione, dello Stato politico che abbandona le sue ambizioni assimilatrici, dichiara la propria neutralità nei confronti delle scelte culturali e si lava le mani del carattere sempre più «multiculturale» della società da esso amministrata, le cosiddette visioni «culturali» dell’identità stiano tornando in auge tra quei gruppi alla ricerca di approdi sicuri, stabili e affidabili in mezzo alle maree dell’incerto cambiamento. Per le persone confuse, perplesse e spaventate dall’instabilità e dalla contingenza del mondo in cui vivono, la «comunità» appare un’alternativa invi72

tante. È un dolce sogno, una visione paradisiaca: di tranquillità, sicurezza fisica e pace spirituale. Per le persone insofferenti alla stretta rete di vincoli, prescrizioni e proscrizioni, per le persone che si battono per la libertà di scelta e l’autoaffermazione, quella stessa comunità che esige dai suoi membri una fedeltà irremovibile e sorveglia strettamente le vie d’entrata e d’uscita è, al contrario, un incubo: la visione di un inferno o di una prigione. Il fatto è che, alternativamente o simultaneamente, ci sentiamo tutti sopraffatti da «eccessiva responsabilità» o desiderosi di «più libertà», che non può che far aumentare le nostre responsabilità. Per la maggior parte di noi, quindi, la «comunità» è un fenomeno a due facce come il Giano bifronte, assolutamente ambiguo, amato od odiato, amato e odiato, attraente o respingente, attraente e respingente. Una delle più ossessionanti, sbalorditive e sfibranti tra le tante scelte ambivalenti che quotidianamente noi, abitanti del mondo della modernità liquida, ci troviamo di fronte. D. Il filosofo di origine slovena Slavoj Zˇizˇek ha scritto pagine appassionate contro la cosiddetta identità occidentale. Dobbiamo però amaramente osservare che le attuali tensioni internazionali vengono spiegate con la tesi dello scontro tra civiltà. Sembra che tutti i differenti significati annessi all’uso del termine «identità» contribuiscano a minare alla base il pensiero universalistico, attento com’è a mantenere quel fragile equilibrio tra diritti individuali e diritti collettivi. Un autentico paradosso, non le sembra? 73

R. Sì, l’identità è un concetto inguaribilmente ambiguo e una lama a doppio taglio. Può essere un grido di battaglia dei singoli individui, o delle «comunità» che vogliono essere immaginate da essi. Il taglio della lama è rivolto ora contro le «pressioni collettive», da parte di individui che hanno in odio l’ortodossia e tengono molto alle proprie convinzioni (che «il gruppo» definirebbe piuttosto pregiudizi) e al proprio modo di vivere (che «il gruppo» condannerebbe come casi di «deviazione» o «stupidaggini», ma comunque sia di anormalità, casi che necessitano di cure o punizioni); ora è rivolto dal gruppo contro un gruppo più grande accusato di volerlo divorare o distruggere, della malvagia e ignobile intenzione di soffocare la differenza di un gruppo più piccolo, di costringerlo con le buone o con le cattive a rinunciare al suo «io collettivo», a perdere la faccia, a dissolversi... In entrambi i casi, tuttavia, l’«identità» appare come un grido di guerra usato in una guerra difensiva: un individuo contro l’assalto di un gruppo, un gruppo più piccolo e debole (e per questo motivo minacciato) contro un insieme più grande e con maggiori risorse (e per questo motivo minaccioso)... La spada dell’identità può però venire impugnata anche dall’altra fazione, quella più grande e forte, quella che vuole sminuire le differenze, che vuole che le differenze siano accettate come inevitabili e durature, ma che afferma che non sono abbastanza importanti da impedire la lealtà verso una totalità più grande, che abbraccia e fornisce asilo a tutte quelle differenze e a chi le incarna. Nei periodi di nation-building, la spada dell’identità viene brandita da tutte e due le parti in lotta: da 74

un lato in difesa delle lingue, le memorie, le tradizioni e le usanze locali e minori contro «quelli della capitale» che incoraggiano l’omogeneità e chiedono uniformità; e dall’altro lato nella «crociata culturale» condotta dai sostenitori dell’unità nazionale e mirante a estirpare il «provincialismo», il parrocchialismo, il campanilismo delle comunità o etnie locali... Il patriottismo nazionale dispiegava le sue truppe su due fronti: contro il «particolarismo locale», in nome del comune destino e dei comuni interessi nazionali, e contro il «cosmopolitismo senza radici», che vedeva e trattava i nazionalisti proprio come i nazionalisti vedevano e trattavano i «gretti bifolchi provinciali» per la loro fedeltà e la loro difesa di eccentricità etniche, linguistiche e religiose. L’identità – sarà bene esser chiari su questo punto – è un «concetto fortemente contrastato». Ogni volta che senti questa parola, puoi star certo che c’è una battaglia in corso. Il campo di battaglia è l’habitat naturale per l’identità. L’identità nasce solo nel tumulto della battaglia, e cade addormentata e tace non appena il rumore della battaglia si estingue. È dunque inevitabile che abbia una natura a doppio taglio. La si può forse (come fanno comunemente i filosofi che perseguono un’eleganza logica) estromettere dal desiderio, ma non la si può estromettere dal pensiero, e men che mai estromettere dalla pratica umana. L’«identità» è una lotta al tempo stesso contro la dissoluzione e contro la frammentazione; intenzione di divorare e allo stesso tempo risoluto rifiuto di essere divorati... Il liberalismo e il comunitarismo, quantomeno nella loro essenza pura ed esplicitamente dichiarata, 75

sono due tentativi opposti di riforgiare la spada dell’identità facendone una sciabola a un solo taglio. Demarcano i poli immaginari di un continuum lungo cui tutte le battaglie d’identità reali vengono combattute e tutte le pratiche identitarie vengono elaborate. Ogni identità sfrutta fino in fondo uno, e uno soltanto, dei due valori, entrambi amati e ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la libertà di scelta e la sicurezza offerta dall’appartenenza. E ogni identità lo fa, esplicitamente o implicitamente, esaltando uno dei due valori e svilendo l’altro. Le «battaglie che vengono combattute realmente» e le «pratiche che vengono applicate realmente», tuttavia, non si avvicinano neanche da lontano alla purezza delle teorie e delle piattaforme politiche dichiarate. Esse sono – e non possono essere altro che questo – miscele di richieste «liberali» di libertà di autodefinizione e autoaffermazione da un lato, e dall’altro di appelli «comunitaristici» a una «totalità più grande della somma delle sue parti» e alla priorità di questa sulle spinte disgregatrici di ognuna delle parti. I due postulati fanno un po’ a pugni fra loro. Hanno «senso» insieme quando vengono enunciati nei termini concreti di conflitti specifici, veri o presunti («Devi rinunciare ai tuoi interessi personali in nome della solidarietà di cui il tuo gruppo ha bisogno per resistere a un gruppo ancora più grande che intende sopprimere tutto ciò che ti è caro e violare i tuoi interessi: l’unione fa la forza»); ma non, se vengono espressi in termini di principi universali, che sono e rimangono incompatibili. Nella pratica delle guerre d’identità, i principi comunitari e quelli liberali ven76

gono arruolati e dispiegati sul campo di battaglia fianco a fianco. Distillati dall’infuocato disordine del campo di battaglia e passati sotto il freddo getto d’acqua del giudizio razionale, la loro contrapposizione torna immediatamente a riaffermarsi. La vita è più ricca, e meno elegante, di qualsiasi principio che dovrebbe farle da guida... Questo non significa, tuttavia, che i filosofi smetteranno mai di cercare di raddrizzare ciò che è contorto e conciliare l’incompatibile (un esempio recente è il tentativo operato da Will Kymlicka di sottrarre la contesa dalla confusione del campo di battaglia, con l’ambizione non solo di raggiungere un temporaneo armistizio, ma di affermare l’essenziale affinità e una permanente alleanza tra i principi liberali e le aspre richieste comunitaristiche. Si è tentati di portare il ragionamento di Kymlicka ad absurdum e suggerire che ciò che egli propone, in ultima analisi, è che il compito di accettare la pressione del gruppo e cedere alle sue richieste sia un elemento indispensabile della carta liberale dei «diritti dell’individuo»). Per quanto ingegnosi ed eleganti da un punto di vista logico, gli sforzi filosofici per eliminare quest’autentica contraddizione, difficilmente potranno avere un qualche apprezzabile impatto sulle attuali guerre d’identità (se non nel senso di fornire un’assoluzione e una benedizione). Possono tuttavia esercitare un’influenza negativa sulla nostra visione e comprensione del problema. La direzione in cui procedono è pericolosamente vicina alla «neolingua» di Orwell... Penso che tutte queste considerazioni confermino il sospetto da Lei espresso che «i differenti significati annessi all’uso del termine ‘identità’ contribuisca77

no a minare alla base il pensiero universalistico». Le battaglie d’identità non possono svolgere il loro lavoro di identificazione senza essere fonte di divisione almeno quanto lo sono, o forse più, di unione. Le loro intenzioni inclusive si mescolano (o per meglio dire si complementano) con le intenzioni di segregare, esonerare ed escludere. C’è soltanto un’eccezione a questa regola, l’allgemeine Vereinigung der Menschheit di Kant, l’universale unificazione dell’umanità, quell’identità veramente, completamente inclusiva, che nella sua visione era esattamente ciò che la Natura, avendoci messo su un pianeta sferico, doveva avere in serbo per il nostro futuro comune. Nella nostra pratica corrente, tuttavia, l’«umanità» è soltanto una delle innumerevoli identità attualmente impegnate nella guerra di logoramento reciproco. A prescindere dalla giustezza o meno della supposizione di Kant che l’unità del genere umano sia l’esito predestinato di questa guerra, l’«umanità» non sembra godere di alcun chiaro vantaggio bellico o strategico rispetto ad altri combattenti, di minori dimensioni ma manifestamente più versatili e con maggiori risorse. Come altre identità ipotizzate, l’ideale dell’«umanità» come identità che abbraccia tutte le altre identità può contare, in ultima analisi, solo sulla dedizione dei suoi ipotizzati aderenti... In compagnia dei suoi meno inclusivi concorrenti, l’«umanità» appare, fino ad ora, menomata e più debole, piuttosto che privilegiata e più forte. A differenza di molte altre identità concorrenti, le mancano armi coercitive (istituzioni politiche, codici legali, tribunali, polizia) che potrebbero infondere co78

raggio ai pavidi e determinazione agli incerti, e consolidare le conquiste delle missioni di proselitismo. Come abbiamo già visto, lo «spazio di flussi» planetario è un’«area a-politica e a-etica». Tutti gli ancoraggi a disposizione per i principi politici, legali, etici, si trovano fino a questo momento sulla sponda delle identità meno inclusive, più parziali e foriere di divisione. Per quanto in là spinga la mia immaginazione, la battaglia dell’umanità per l’autoaffermazione non sembra facile, men che mai dall’esito scontato. Il compito che ha davanti non è semplicemente ripetere una volta di più un’impresa che è stata realizzata molte volte nella lunga storia del genere umano: sostituire un’identità con un’altra, più inclusiva, e spingere più in là i confini dell’esclusione. Nessuno si è mai misurato col genere di sfida che l’ideale di «umanità» ha di fronte a sé, perché una «comunità onnicomprensiva» non è mai stata all’ordine del giorno nell’agenda del genere umano. Ed è un’umanità frammentata e profondamente divisa a doversi oggi misurare con questa sfida, armata di nient’altro che l’entusiasmo e la dedizione dei suoi militanti... D. C’è tuttavia una nazione che ha cercato di istituzionalizzare la compresenza di identità collettive, ma specifiche, e nel fare ciò ha quasi finito per relegare il carattere universalistico del diritto moderno a poche norme soltanto. Sto naturalmente parlando degli Stati Uniti. Perfino in questo caso, però, dobbiamo osservare che l’introduzione di un quadro istituzionale mutevole basato sul riconoscimento di identità parziali è sta79

to portato avanti in nome di identità ancestrali. Cosa non ha funzionato nel melting pot? R. Ancora una volta le Sue osservazioni sono azzeccate... Le due cose vanno insieme: l’esiguità dell’insieme di credenze, simboli, regole che legano insieme tutti i membri della polis, e la ricchezza, densità e diversità dei segni alternativi di identità (etnici, storici, religiosi, sessuali, linguistici, ecc.). Esistono altri esempi simili a quello degli Stati Uniti (anche se il melting pot è un’invenzione e un sogno specificamente americano). La situazione è abbastanza simile in altre «terre di colonizzazione» (Australia, Canada), dove gli immigrati non hanno trovato una cultura storicamente formata, dominante e incontestata che potesse servire da schema di adattamento e assimilazione per qualsiasi altro nuovo arrivato, richiedere e ottenere un’ubbidienza universale. Una quantità non trascurabile di immigrati sceglievano al contrario il nuovo paese nella speranza di poter conservare, sviluppare e praticare indisturbati le proprie differenze religiose o etniche minacciate nel paese d’origine. Negli Stati Uniti, in Australia o in Canada l’unica cosa richiesta ai nuovi venuti era di giurare fedeltà alle leggi del paese (una cosa simile al «patriottismo costituzionale» di Habermas); per il resto, era promessa (e garantita) libertà assoluta in tutte le questioni di cui la costituzione non parlava esplicitamente. I requisiti obbligatori per ottenere la condizione di cittadinanza avevano troppo poca sostanza per bastare a costruire un’identità forte e vigorosa, così il compito di fabbricare un’identità completa assunse lì, molto più che altrove, le caratteristiche di un lavo80

ro «fai da te». E in questo modo fu intrapreso e praticato. L’America non è solo una terra dalle molte etnie e denominazioni religiose, ma è anche una vasta, continua, ossessiva sperimentazione con le «materie prime» che possono essere utilizzate per dar forma a un’identità. Praticamente ogni materia prima è stata collaudata, e tutto ciò che ancora non è stato collaudato lo sarà in futuro; e il mercato dei beni di consumo se ne rallegra e riempie magazzini e scaffali di segni identitari sempre nuovi, originali, allettanti perché ancora non assaggiati e non collaudati. C’è anche un altro fenomeno da segnalare: il rapido ridursi dell’aspettativa di vita della maggior parte delle presunte identità unito alla crescente velocità del loro ritmo di ricambio. Le biografie individuali sono spesso storie di identità scartate... Se giudichiamo i risultati di tutto ciò dal caso americano, dobbiamo concludere che questa risposta ai problemi dell’identità non è stata un completo successo. Con lo Stato politico programmaticamente indifferente e neutrale nei confronti del «lavoro a domicilio» delle identità e che si astiene dall’emettere un giudizio sul valore relativo delle scelte culturali e dal promuovere un modello di socialità condiviso, i valori comuni che tengono insieme la società sono pochi per non dire nessuno. L’American way of life di cui i politici americani parlano in continuazione si riduce in ultima istanza all’assenza di un qualsiasi way of life condiviso e universalmente praticato che non sia il consenso, convinto o riluttante, a lasciare all’iniziativa privata e alle risorse a disposizione dei singoli cittadini il compito di scegliere il proprio way of life. Quando si scende sul piano delle preferenze e scelte cultu81

rali, c’è forse più disgregazione e antagonismo che unità, i conflitti sono numerosi e tendenzialmente aspri e violenti. Ciò costituisce una minaccia costante all’integrazione sociale, nonché al sentimento individuale di sicurezza e fiducia. Questo a sua volta crea e mantiene un elevato stato di ansia. Mettere insieme la propria identità, renderla coerente e presentarla alla pubblica approvazione richiede, trattandosi di un compito individuale, condotto con pochi punti di orientamento (e in costante cambiamento), un’attenzione costante, una vigilanza continua, una gigantesca e crescente quantità di risorse e uno sforzo incessante senza speranza di un attimo di respiro. Il risultato è un’ansia acuta che cerca vie di sbocco: un sovraccarico che da qualche parte deve scaricarsi... Di qui la tendenza a ricercare nemici comuni su cui la rabbia accumulata possa trovare sfogo, un’inclinazione al panico morale e ad attacchi di paranoia collettiva. C’è una costante richiesta di nemici pubblici (come «il pericolo rosso», la «sottoclasse» o semplicemente «quelli che ci odiano» o «che odiano il nostro stile di vita americano») contro cui individui gelosi della propria privacy e reciprocamente diffidenti possano unirsi nel quotidiano spettacolo dei «cinque minuti d’odio» di orwelliana memoria. Il patriottismo nella sua forma «costituzionale» può diventare, a quanto sembra, una faccenda violenta. La lealtà alle leggi del paese chiede a gran voce di essere integrata da odi condivisi o paure condivise... D. Per continuare la discussione sul melting pot, vorrei suggerire un argomento che implica risposte ambi82

valenti. Mi riferisco alle critiche che alcune studiose e filosofe femministe hanno rivolto al concetto di identità. Anche in questo caso potremmo dire, parafrasando Jean-Paul Sartre, che nascere donne non è sufficiente per essere donne. Mi sembra che ciò sia presente in alcuni recenti contributi della teoria femminista: il fatto, cioè, che l’identità non sia vista come un dato immodificabile, ma piuttosto come un qualcosa in divenire, come un processo. Un buon modo per uscire dalla gabbia dell’identità, non è d’accordo? R. La natura provvisoria di qualsivoglia identità e di qualsivoglia scelta tra l’infinita moltitudine di modelli culturali a disposizione non l’hanno scoperta, né tantomeno inventata, le femministe. L’idea che nulla, nella condizione umana, venga dato una volta per tutte e senza il diritto di appellarsi ed emendare, che tutto ciò che è debba prima essere «fatto» e una volta fatto possa essere modificato all’infinito, ha accompagnato l’età moderna fin dal suo inizio: in effetti, il cambiamento ossessivo e compulsivo (chiamato ora «modernizzazione», ora «progresso», ora «miglioramento», ora «sviluppo», ora «aggiornamento») è l’essenza del moderno modo di essere. Cessi di essere «moderno» non appena smetti di «modernizzare», non appena metti giù le mani e smetti di armeggiare con ciò che sei tu e ciò che è il mondo che ti sta intorno. La storia moderna è stata (ed è ancora) uno sforzo continuo per spingere sempre più in là i limiti di ciò che può essere modificato dagli esseri umani a loro piacimento e «migliorato» per adattarsi meglio alle esigenze e ai desideri umani; la storia moderna è 83

stata anche un’instancabile ricerca degli strumenti e dell’abilità tecnica in grado di consentire di annullare e abolire i limiti estremi. Siamo arrivati al punto di sperare di manipolare la composizione genetica degli esseri umani, che fino a poco tempo fa era il modello stesso di immutabilità, della «natura» a cui gli esseri umani dovevano sottomettersi. Sarebbe stato davvero strano se l’identità (perfino quegli aspetti che si supponevano più tenaci come le dimensioni o la forma del corpo e il sesso) fosse rimasta a lungo un’eccezione capace di resistere a questa onnicomprensiva tendenza moderna. C’è voluto qualche secolo perché i sogni di Pico della Mirandola (dell’essere umano che diventa come il leggendario Proteo, cambiando forma da un momento all’altro e attingendo liberamente qualsiasi cosa gli piaccia in quell’istante dal contenitore senza fondo delle possibilità) si innalzassero al livello di credo universale. La libertà di cambiare ogni aspetto e ornamento dell’identità individuale è vista oggi da molti individui come qualcosa di realizzabile all’istante o quantomeno come una prospettiva realistica per il futuro prossimo. Selezionare i mezzi necessari per ottenere un’identità alternativa di propria scelta non è più un problema (se si ha, cioè, abbastanza denaro per acquistare tutti i necessari accessori): nei negozi c’è un qualche aggeggio che non aspetta altri che voi, pronto a trasformarvi sul momento nel personaggio che volete essere, in come volete essere visti ed essere riconosciuti. Faccio un solo, recentissimo esempio: dopo l’introduzione della congestion charge, la tassa per gli automobilisti che vogliono circolare in auto 84

nel centro di Londra, essere uno «scooterista» è subito diventato un obbligo per i londinesi alla moda. Non è semplicemente lo scooter a essere diventato un must, ma anche un abbigliamento appositamente disegnato, indispensabile per chiunque voglia sfoggiare in pubblico la sua nuova «identità di scooterista»: giacca di pelle Dolce&Gabbana, scarpe da ginnastica alte e rosse dell’Adidas, casco argentato Gucci o sciarpa gialla Jill Sander intorno agli occhiali da sole... Dall’altro versante, il problema reale e la maggiore preoccupazione odierna è il dilemma opposto: quale delle diverse identità selezionare e per quanto tempo mantenerla una volta operata la scelta? Se in passato «l’arte della vita» consisteva prevalentemente nel trovare i giusti mezzi per un determinato fine, oggi si tratta di sperimentare, uno dopo l’altro, tutti gli (infinitamente numerosi) fini che si possono ottenere con l’aiuto dei mezzi già ottenuti o alla propria portata. La costruzione dell’identità ha assunto la forma di un’inarrestabile sperimentazione. Gli esperimenti non finiscono mai. Si prova un’identità alla volta, ma molte altre, ancora non collaudate, aspettano dietro l’angolo di venire raccolte. Molte altre ancora, neanche sognate, verranno inventate e desiderate nel corso della vita. Non si saprà mai per certo se l’identità che si sfoggia al momento sia la migliore che si possa avere e quella che potrebbe dare maggior soddisfazione. L’equipaggiamento sessuale corporeo è solo una di quelle risorse a disposizione che, come tutte le altre risorse, può essere usata per gli scopi più diversi e messa al servizio di un intero assortimento di obbiet85

tivi. La sfida, sembra, è estendere al massimo il potenziale di creazione di piacere di questo «equipaggiamento naturale» sperimentando uno dopo l’altro tutti i diversi generi di «identità sessuale», e magari inventandone qualcun altro lungo la strada.

3.

LA COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ, I MEDIA E LA GLOBALIZZAZIONE

D. Uno dei mezzi, uno degli strumenti per giocare con l’identità è internet. Nel World Wide Web, infatti, possiamo comunicare creando false identità. Non pensa che la questione dell’identità, proprio nel ciberspazio, finisca disintegrata diventando solo un passatempo? R. Nel nostro mondo fluido impegnarsi per tutta la vita nei confronti di un’identità, o anche non per tutta la vita ma per un periodo di tempo molto lungo, è un’impresa rischiosa. Le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da mettere da parte e tenere al sicuro... Tutto questo segue da quanto abbiamo detto finora. Ma se questa è la condizione in cui tutti, volenti o nolenti, svolgiamo i nostri affari quotidiani, sarebbe sciocco dare la colpa di questo stato di cose agli strumenti elettronici, come le chat-line su internet o le «reti» di telefonia mobile. È semmai vero il contrario: è perché siamo costretti a torcere e modellare senza posa le nostre identità senza poter rimanere legati saldamente a una sola di esse anche se lo volessimo, che lo strumento elettronico che svolge proprio questa funzione è sembrato comodo e utile 87

ed è stato abbracciato con tanto entusiasmo da milioni di persone. Lei dice: «false identità»... Ma ciò è vero solo se si presuppone che esista una cosa come una sola e unica «vera identità». Ma si tratta di un presupposto che appare poco credibile a persone che corrono dietro ai cambiamenti della moda: sempre e soltanto mode, ma sempre obbligatorie finché sono di moda... Così l’eroe di Henrik Ibsen, Peer Gynt, ossessionato per tutta la vita dall’idea di trovare la sua «vera identità», riassumeva la sua strategia di vita: «Voler arrestare il tempo saltellando e ballando!». Tutti coloro che oggi si sentono confusi e infastiditi dall’elusività dell’identità (il che vuol dire praticamente tutti), dovrebbero leggere e riflettere sul Peer Gynt, l’opera teatrale pubblicata nel 186723. Lì tutti i problemi dei nostri giorni sono, profeticamente, previsti ed esplorati. Ciò che Peer Gynt temeva sopra ogni altra cosa era «la certezza che non potrò mai tornar libero», rimanere inchiodato a un’identità «fino al termine dei miei giorni». A questa storia «che non potrò mai più tornare indietro, [...] io non acconsentirò mai». Perché una simile prospettiva era terrificante? Perché «chi può sapere cosa c’è dietro l’angolo?»; quello che ora ci sembra bello e confortevole e dignitoso può rivelarsi, una volta girato l’angolo, brutto, inadatto e spregevole... Per sfuggire a una simile, non invidiabile eventualità, Peer Gynt aveva optato per quelli che si possono definire solo come «colpi preventivi»: «l’arte di osare, l’arte di avere il coraggio di agire è: restar libero di scelta», «sapere di certo che col giorno di lotta non hanno termine i giorni», «sapere che 88

ci resta aperto un ponte che permette la ritirata». Perché questa strategia desse frutti, Peer Gynt decise (sbagliando, come viene fuori alla fine della storia) di «spezzare, da ogni parte, i vincoli che ci legano alla patria, agli amici, buttare al vento tesori e ricchezze... dare l’addio alla felicità d’amore...». Perfino essere un imperatore era affare troppo rischioso, con tutto quel carico di obblighi e legami. Gynt desiderava essere soltanto «l’imperatore della vita umana». Seguì questa strategia fino alla fine, solo per chiedersi, al termine della sua lunga vita, confuso, triste e disorientato: «Sai dove sia stato Peer Gynt in tutti questi anni? [...] Dov’era il mio io vero, intero?». Nessuno poteva rispondere a questa domanda tranne Solvejg, il grande amore della sua giovinezza, rimasta fedele al suo amore anche quando il suo innamorato aveva deciso di diventare l’imperatore della vita umana, e lei rispose. Dov’eri? «Nella mia fede, nella mia speranza e nel mio amore». Noi siamo oggi, un secolo e mezzo più tardi, consumatori in una società di consumatori. La società del consumo è una società di mercato: noi siamo tutti nel mercato e sul mercato, simultaneamente consumatori e beni di consumo. Non c’è da stupirsi che l’uso/logorio delle relazioni umane e quindi, per procura, anche delle nostre identità (noi ci identifichiamo in riferimento alle persone con cui siamo in relazione) assomigli sempre più all’uso/logorio delle automobili, a imitazione di quel ciclo che comincia con l’acquisto e finisce con la discarica. Un crescente numero di osservatori ritiene che gli amici e le amicizie ricopriranno un ruolo vitale nella nostra società completamente individualizzata. Con 89

le strutture dei supporti tradizionali della coesione sociale in rapido processo di sgretolamento, le relazioni di amicizia potrebbero diventare i nostri giubbotti salvagente o le nostre scialuppe di salvataggio. Ray Pahl24 – sottolineando che nella nostra epoca di scelta, l’amicizia, «l’archetipo della relazione sociale per scelta», è la nostra scelta naturale – chiama l’amicizia la «guardia del corpo sociale» della vita tardomoderna. La realtà sembra tuttavia meno lineare. In questa vita «tardo-moderna» o della modernità liquida le relazioni sono una faccenda ambigua e tendono a essere il punto focale di un’acutissima e snervante ambivalenza: il prezzo da pagare per un sodalizio che noi tutti desideriamo ardentemente è invariabilmente la rinuncia almeno parziale all’indipendenza, anche se si vorrebbe a tutti i costi avere il primo senza rinunciare alla seconda... L’ambivalenza continua sfocia in una dissonanza cognitiva, uno stato mentale notoriamente degradante, invalidante e difficile da sopportare. Questa a sua volta sollecita il ricorso al consueto repertorio di stratagemmi lenitivi, tra i quali il più comune è deprezzare, sminuire, svalutare uno dei due valori inconciliabili. Soggetta a pressioni contraddittorie, più di una relazione (in ogni caso concepita come un rapporto «fino a nuovo avviso») finisce con lo spezzarsi. La rottura di una relazione è qualcosa che è ragionevole aspettarsi, a cui è meglio pensare in anticipo e che è bene essere pronti ad affrontare. Con una così alta probabilità che il processo di allacciamento di legami relazionali produca prodotti di scarto, la lungimiranza e la prudenza consigliano di predisporre con largo anticipo le strutture di smalti90

mento dei rifiuti. D’altronde, l’accorto costruttore edilizio non rischierebbe di cominciare i lavori di costruzione di un edificio senza aver ottenuto un permesso di demolizione; i generali rifiuterebbero di mandare le loro truppe in battaglia prima di disporre di un credibile scenario di uscita dal conflitto; i datori di lavoro di tutto il mondo si lamentano che assumere è praticamente impossibile se ci si deve accollare i diritti acquisiti dei dipendenti e se si deve sottostare ai vincoli che regolano il licenziamento. Questi rapporti ad avvio istantaneo, consumo rapido e smaltimento su richiesta hanno tuttavia anch’essi i loro effetti collaterali. Lo spauracchio di finire nella discarica è sempre in agguato. D’altronde, la velocità di consumo e il sistema di smaltimento rifiuti sono opzioni a disposizione di entrambi i partner. Potremmo finire col ritrovarci in una condizione simile a quella descritta da Oliver James25, avvelenati «da un costante sentimento di mancanza degli altri nella vita, con sensazioni di vuoto e solitudine non dissimili dal lutto». Potremmo stare «sempre con la paura di venir lasciati da amanti e amici». Ciò che tutti apparentemente temiamo, affetti da «depressione da dipendenza» o no, in piena luce del giorno o tormentati da allucinazioni notturne, è l’abbandono, l’esclusione, l’essere respinti, banditi, ripudiati, abbandonati, spogliati di ciò che siamo, il vederci rifiutare ciò che vogliamo essere. Temiamo che ci vengano negati compagnia, amore, aiuto. Temiamo di venir gettati tra i rifiuti... Ciò di cui sentiamo più ferocemente la mancanza è la certezza che tutto questo non accadrà, non a noi. Sentiamo la mancanza di 91

un’esenzione dall’universale e onnipresente minaccia di esenzione... Gli orrori dell’esclusione prendono corpo da due fonti, sebbene raramente si sia certi della loro natura, e ancor meno capaci di distinguere l’una dall’altra. Vi sono movimenti, cambiamenti e slittamenti apparentemente casuali, fortuiti e totalmente imprevedibili di quelle che in mancanza di un termine più preciso chiamiamo «forze della globalizzazione». Esse modificano in maniera irriconoscibile e senza preavviso i paesaggi familiari dove eravamo abituati a gettare l’ancora della nostra duratura e affidabile sicurezza. Rimescolano gli individui e mandano in rovina le loro identità sociali. Ci possono trasformare, dall’oggi al domani, in vagabondi senza casa, senza un indirizzo o un’identità fissa. Possono ritirarci i certificati di identità o invalidare le identità certificate. E ogni giorno ci ricordano che possono farlo impunemente, gettando davanti alle nostre porte quegli individui che sono già stati respinti, costretti a scappare via, a fuggire affannosamente da casa loro per cercare i mezzi per restare in vita, derubati dell’identità e dell’autostima. Se ai giorni nostri non c’è argomento di cui si parli con maggiore solennità o con più gusto che di «reti», «connessioni» o «relazioni», è solo perché la «roba autentica» – le reti strettamente intrecciate, le connessioni salde e sicure, le relazioni a tutto tondo – in pratica si è sgretolata. Questa lunga digressione mi era necessaria per affrontare la Sua domanda: per spiegare che se parliamo costantemente di reti e cerchiamo ossessivamente di evocarle (loro o almeno i loro simulacri) con gli «appuntamenti-lampo» e i magici incantesimi dei 92

«messaggini» via cellulare, è perché avvertiamo acutamente la mancanza del sistema di protezione che le reti reali di parentela, amicizia, fratellanza fornivano concretamente, con o senza i nostri sforzi. Le rubriche dei cellulari sostituiscono la comunità mancante e fanno le veci (o almeno si spera) dell’intimità mancante: portano un carico di aspettative che non hanno neanche la forza di sostenere, figuriamoci di mantenere. Andy Hargreaves26, mi si permetta di citarlo ancora, scrive di «sequele episodiche di mini interazioni» che sostituiscono sempre di più «le prolungate conversazioni e relazioni familiari». Esposti ai «contatti resi facili» dalla tecnologia elettronica, perdiamo la capacità di entrare spontaneamente in interazione con le persone reali. In effetti siamo diventati più timidi nei contatti faccia a faccia. Afferriamo i nostri cellulari e pigiamo furiosamente bottoni e impastiamo messaggi per evitare di «darci in ostaggio al destino» e fuggire dalle complesse, disordinate, imprevedibili, difficili da interrompere e da concludere, interazioni con le «persone reali» presenti fisicamente intorno a noi. Più vaste (anche se più vuote) sono le nostre comunità fantasma, più scoraggiante appare il compito di cucire e tenere insieme quelle vere. Come sempre, il mercato consumistico è fin troppo felice di aiutarci a uscire da questa situazione. Prendendo spunto da Stjepan Mestrovic´ 27, Hargreaves osserva che «le emozioni vengono estratte da questo mondo affamato di tempo, questo mondo di relazioni sempre più esigue, e reinvestite in oggetti di consumo. La pubblicità associa le automobili alla passione e al desiderio, e i telefoni cellulari al93

l’ispirazione e alla lussuria». Per quanti sforzi i mercanti possano prodigare, la fame che promettono di saziare non si placherà. Gli esseri umani sono stati forse riciclati in beni di consumo, ma i beni di consumo non possono essere trasformati in esseri umani. Non in quel genere di esseri umani che ispirano la nostra disperata ricerca di radici, parentela, amicizia e amore, non quegli esseri umani con cui potersi identificare. Bisogna ammettere che i succedanei consumistici hanno un vantaggio sulla «roba autentica». Essi promettono la libertà dalle fatiche di interminabili trattative e scomodi compromessi: si impegnano a farla finita una volta per tutte con quella seccante necessità di sacrifici, concessioni, accordi insoddisfacenti che tutti i legami intimi e sentimentali prima o poi richiedono. Vi offrono la possibilità di recuperare le perdite se troverete tutte queste tensioni troppo dure da sopportare. E per giunta i venditori garantiscono una facile e frequente sostituzione della merce, quando cesserai di trovarla utile o quando altre merci, nuove e migliorate, più seducenti, appariranno all’orizzonte. In breve, i beni di consumo incarnano il punto estremo di non definitività e revocabilità delle scelte e il punto estremo della facoltà di disporre a piacimento degli oggetti scelti... Cosa ancora più importante, fanno sembrare che il controllo sia nelle nostre mani. Siamo noi, i consumatori, che tracciamo la linea divisoria tra cose utili e cose da buttare. Con i beni di consumo come partner, possiamo forse smettere di preoccuparci di finire nel bidone dei rifiuti. O forse no?

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D. Eppure, e nonostante la crisi del multiculturalismo, le «politiche delle identità» occupano un posto d’onore tanto nella riflessione teorica sulla crisi delle democrazie occidentali che nell’azione dei nuovi movimenti sociali. E sono proprio i new media il medium attraverso il quale le politiche delle identità trovano legittimazione e rappresentazione pubblica. In fondo, non sono proprio i new media che contribuiscono allo sviluppo del caleidoscopio delle mutevoli identità sociali? R. Abbiamo trattato già prima questa intricata questione, il «multiculturalismo». Ho osservato che ciò che è nutrimento per alcuni può essere veleno per altri. La proclamazione dell’«era multiculturale» riflette secondo me l’esperienza di vita della nuova élite globale che trova, ovunque viaggi (e viaggiano molto, in aereo o sulla rete), altri membri della stessa élite globale che parlano lo stesso linguaggio e si preoccupano delle stesse cose. Tenendo conferenze in Europa e in altre parti del mondo sono rimasto colpito dal fatto che le domande che mi venivano rivolte dal pubblico erano dovunque le stesse... La proclamazione dell’era multiculturale è tuttavia al tempo stesso una dichiarazione di intenti: del rifiuto di emettere giudizi e prendere posizione, di indifferenza, un lavarsi le mani delle insignificanti querelles su stili di vita o valori preferiti. Una dichiarazione della nuova «onnivora insaziabilità culturale» dell’élite globale: trattiamo il mondo come un gigantesco grande magazzino con scaffali colmi delle offerte più svariate, sentiamoci liberi di girovagare da un piano all’altro, di provare e gustare ogni articolo in esposizione, di prenderli a nostro piacimento. 95

È un atteggiamento tipico di persone in viaggio, in viaggio anche quando stanno fermi, nelle loro case o nei loro uffici. Ma è un atteggiamento difficile da assumere per la gran maggioranza dei residenti del pianeta, che rimangono fissi nel luogo di nascita e che, se volessero andare da qualche altra parte in cerca di una vita migliore o semplicemente diversa, verrebbero fermati al confine più vicino, ristretti in campi per «immigrati clandestini» o «rispediti a casa». Questa maggioranza è esclusa dalla grande festa planetaria. Niente «bazar multiculturale» per loro. Questi individui si trovano spesso, come ha osservato Maria Markus28, in uno stato di «esistenza sospesa», fedeli a un’immagine di un passato che è stato perduto e si sogna di ristabilire, e che vedono il presente come un’aberrazione e un’opera delle forze del male. Costoro si tappano le orecchie per non sentire la frastornante cacofonia di messaggi culturali... Non c’è mai stato, negli ultimi due secoli, un divario quale c’è oggi tra il linguaggio parlato rispettivamente dall’élite istruita e benestante e quello parlato dal resto della «gente», un così grande divario fra le esperienze che questi linguaggi descrivono. Fin dall’avvento dello Stato moderno, l’élite istruita si è considerata (a torto o a ragione, nel bene o nel male) come l’avanguardia, le unità più avanzate della nazione: noi siamo qui per guidare il resto del popolo fino al punto dove noi siamo già arrivati; gli altri ci seguiranno e il nostro compito è quello di farli muovere velocemente. Questo sentimento di una missione collettiva ci ha ormai del tutto abbandonato. Il «multiculturalismo» è un’interpretazione di questa ritirata (o una scusa per essa). È come se quelli che 96

elogiano ed applaudono le divisioni multiculturali volessero dire: noi siamo liberi di diventare qualsiasi cosa vogliamo essere, ma la «gente» preferisce rimanere attaccata al posto e alle cose in cui è nata e dove è stata istruita a rimanere. Che lo facciano pure: è un problema loro, non nostro. Lei in precedenza ha chiesto del ruolo dei media nella produzione delle identità attuali. Io direi piuttosto che i media forniscono la materia prima che gli spettatori usano per fare i conti con l’ambivalenza della loro collocazione sociale. La maggior parte degli spettatori televisivi sono dolorosamente consapevoli del fatto che è stato sbarrato loro l’ingresso alle feste planetarie «policulturali». Non vivono, e non possono sognare di vivere, nello spazio globale extraterritoriale in cui risiede l’élite culturale «cosmopolita». I media forniscono «extraterritorialità virtuale», «extraterritorialità sostitutiva», «extraterritorialità immaginata» a quella moltitudine di persone che si è vista negare l’accesso all’extraterritorialità reale. L’effetto di «extraterritorialità virtuale» si ottiene sincronizzando a livello planetario gli spostamenti dell’attenzione e gli oggetti di tali spostamenti. Milioni, centinaia di milioni di persone guardano e ammirano le stesse star del cinema o le stesse celebrità della musica pop, si spostano all’unisono dall’heavy metal al rap, dai pantaloni svasati alle scarpe da ginnastica all’ultimo grido, si scagliano contro lo stesso nemico pubblico (globale), temono lo stesso cattivo (globale) e applaudono lo stesso salvatore (globale). Ciò consente loro di innalzarsi spiritualmente per un poco da quel luogo da dove non gli è permesso di spostarsi fisicamente. 97

La sincronizzazione dell’attenzione e degli argomenti di conversazione, naturalmente, non equivale a un’identità condivisa, ma attenzione ed argomenti mutano con tale rapidità che quasi non rimane tempo per cogliere questa verità. Hanno tendenza a sparire dalla vista e venire dimenticati prima che si abbia il tempo di scoprirne il bluff. Ma prima di scomparire riescono ad alleviare il dolore dell’esclusione. Creano quella stessa illusione di libertà di scelta che Peer Gynt coltivava e apprezzava, anche se vivere all’altezza di quell’illusione era un compito demoralizzante e una battaglia in salita, che produceva tanta frustrazione e lasciava dietro di sé un magro guadagno. I momenti di felicità erano inframmezzati da lunghi periodi di preoccupazione e tristezza. Per cercare di riannodare insieme i fili dei molti temi che abbiamo cominciato a intrecciare, ma senza quasi mai portarli a compimento, direi che l’ambivalenza che quasi tutti sperimentiamo quasi sempre quando cerchiamo di dare una risposta al problema della nostra identità è genuina. Ed è genuina anche la confusione che essa provoca nella nostra mente. Non esiste nessuna ricetta infallibile per risolvere i problemi a cui questa confusione conduce, e non ci sono riparazioni rapide o soluzioni prive di rischi per tutto ciò. Direi anche che, a dispetto di tutto quanto detto, dovremo continuare a farci carico del compito dell’«autoidentificazione» e che ci sono poche possibilità che questo compito venga mai completato in maniera efficace e soddisfacente una volta per tutte. Siamo probabilmente destinati a dibatterci tra il desiderio di un’identità di nostro gusto e di nostra scelta e il timore che una volta acqui98

sita quest’identità si finisca con lo scoprire, come successe a Peer Gynt, che non c’è nessun «ponte che permetta la ritirata». E dobbiamo guardarci dall’idea di rinunciare ad accettare questa sfida. Ricordiamo le parole di Stuart Hall29: Dal momento che la diversità culturale è sempre di più il destino del mondo moderno, e l’assolutismo etnico una caratteristica regressiva della tarda modernità, il pericolo maggiore nasce oggi da forme di identità nazionale e culturale – nuove e vecchie – che tentano di assicurare la loro identità adottando versioni chiuse di cultura o comunità o rifiutando di impegnarsi [...] con i difficili problemi che sorgono dal cercare di convivere con la differenza.

Cerchiamo, per quanto possibile, di tenerci alla larga da questo pericolo. D. Negli ultimi anni siamo stati testimoni della crescita di un variegatissimo movimento sociale che si oppone alla globalizzazione neoliberista. Un movimento che parla spesso i linguaggi delle identità locali, minacciate dallo sviluppo economico. Ciononostante, ho la sensazione che in questo stesso movimento ci sia una forte ambivalenza. L’identità può essere una via per l’emancipazione, ma può anche essere una forma di oppressione. R. È naturalmente troppo presto per emettere un giudizio finale sull’importanza storica dei cosiddetti movimenti «anti-globalizzazione». Ritengo, peraltro, che il termine sia fuorviante. Essere «contro la glo99

balizzazione» è come essere contro le eclissi di sole: il problema, e il tema più adatto per il movimento, non è come «disfare» l’unificazione del pianeta, ma come imbrigliare e controllare i processi di una globalizzazione fino a questo momento selvaggia, e come trasformarli da una minaccia in un’opportunità per l’umanità. Una cosa sembra tuttavia chiara: lo slogan «pensa globalmente, agisci localmente» è improprio, forse addirittura dannoso. Non esistono soluzioni locali a problemi globali. I problemi globali possono essere risolti soltanto (sempre che possano essere risolti) con azioni globali. Cercare salvezza dai perniciosi effetti di una globalizzazione sfrenata e incontrollata ritirandosi nell’accogliente familiarità del proprio circondario, sbarrando i cancelli e serrando le finestre, non fa altro che perpetuare le condizioni di assenza di regole da «Far West», da «terra di frontiera», perpetuare le strategie alla «chi può s’arrangi», l’ineguaglianza rampante e la vulnerabilità universale. Le incontrollate e distruttive forze globali prosperano sulla frammentazione dello scenario politico e sullo spezzettamento di una politica potenzialmente globale in un insieme di egoismi locali perennemente in lotta, impegnati a contrattare una porzione più larga delle briciole che cadono dalla tavola imbandita dei baroni-predoni globali. Chiunque proponga le «identità locali» come antidoto ai misfatti dei globalizzatori, non fa altro che fare il loro gioco e portare acqua al loro mulino. La globalizzazione ha raggiunto ormai il punto di non ritorno. Ora dipendiamo tutti gli uni dagli altri, e la sola scelta che abbiamo è tra l’assicurarci reci100

procamente la vulnerabilità di ognuno rispetto a ognuno e l’assicurarci reciprocamente la nostra sicurezza condivisa. Detto brutalmente: nuotare insieme o annegare insieme. Credo che per la prima volta nella storia dell’uomo l’interesse personale e i principi etici di rispetto e aiuto reciproco puntano nella stessa direzione e richiedono la stessa strategia. Da maledizione, la globalizzazione può perfino trasformarsi in una benedizione: l’«umanità» non ha mai avuto un’occasione migliore! Se ciò accadrà effettivamente e si riuscirà a cogliere l’occasione prima che vada perduta è una questione ancora aperta. La risposta dipende da noi. Non viviamo alla fine della storia, e nemmeno all’inizio della fine. Siamo alla soglia di un’altra grande trasformazione: le forze globali sguinzagliate e i loro ciechi e dolorosi effetti devono essere messi sotto controllo democratico popolare e obbligati a rispettare e osservare i principi etici della coabitazione umana e della giustizia sociale. È di gran lunga troppo presto per fare congetture su quali forme istituzionali produrrà questa trasformazione: nessuno ha un diritto di prelazione sulla storia. Ciò di cui, però, si può essere ragionevolmente sicuri è che tali forme, per svolgere il ruolo che si propongono, dovranno dimostrare di essere capaci di innalzare la nostra identità a livello planetario, al livello dell’umanità. Presto o tardi, dovremo trarre conclusioni dalla nostra irreversibile dipendenza reciproca. Se non lo faremo, tutti i vantaggi di cui i ricchi e potenti godono nelle condizioni di disordine globale (osteggiando e ostacolando per questo motivo qualsiasi tentativo di introdurre istituzioni planetarie di controllo de101

mocratico, diritto e giustizia) rimarranno solo temporanei e continueranno a essere ottenuti al prezzo enorme della qualità di vita e della dignità di un gran numero di esseri umani e accresceranno la già formidabile insicurezza e fragilità del mondo che tutti quanti congiuntamente abitiamo.

4.

IDENTITÀ, SENTIMENTI E RELIGIONE

D. In questo rimescolamento, perfino le forme basilari di relazione sociale subiscono una mutazione. Dalle relazioni sentimentali alla religione, ogni cosa diviene instabile, liquida. Ma come cambiano le relazioni sentimentali? R. Qui Lei ha messo il dito su un’altra formidabile ambivalenza della nostra epoca di modernità liquida. Le relazioni interpersonali con tutti i loro corollari (amore, associazione, impegni, diritti e doveri reciprocamente riconosciuti) sono oggetti al tempo stesso di attrazione e apprensione, desiderio e paura; luoghi di incertezza ed esitazione, di ricerca interiore, di angoscia. Come ho osservato in altra occasione (in Liquid Love, Polity, Cambridge 2003), dopo il Mann ohne Eigenschaften di Musil, oggi in tempo di modernità liquida abbiamo il nostro Mann ohne Verwandtschaften. La maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, è incerta su questa novità di una «vita senza legami», di relazioni «senza impegno». Le desideriamo ardentemente e allo stesso tempo ne abbiamo paura. Non torneremmo indietro, ma ci sen103

tiamo a disagio dove siamo ora. Non siamo sicuri di come fare per costruire le relazioni che desideriamo: peggio ancora, non siamo sicuri di che genere di relazioni desideriamo... Credo che Erich Fromm abbia colto il dilemma nella sua essenza quando ha osservato30: «La soddisfazione nell’amore individuale non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio», aggiungendo però subito dopo, con tristezza, che in «una cultura in cui queste qualità scarseggino, il raggiungimento della capacità di amare è destinato a rimanere una conquista rara». Amare significa essere determinati a condividere e mescolare due biografie ognuna delle quali reca con sé un differente carico di esperienze e memoria e percorre un suo corso proprio; significa, nello stesso senso, accordarsi per un futuro che è una grande incognita. In altre parole, come osservato da Lucano due millenni fa, e come ripetuto da Francesco Bacone molti secoli dopo, significa darsi in ostaggio al destino. Significa anche rendersi dipendenti da un’altra persona, dotata di analoga libertà di scegliere e della volontà di seguire la scelta, e perciò piena di sorprese, imprevedibile. Il mio desiderio di amare ed essere amato può essere soddisfatto solo se sostenuto dalla genuina disponibilità a concepirlo «nella buona e cattiva sorte», a rinunciare, se necessario, alla mia libertà perché non sia violata la libertà dell’amato. Nel Simposio di Platone31, Diotima di Mantinea (ossia la profetessa Temi-il-Signore della Città-dei-Profeti) faceva notare a Socrate, con convinta approvazione di quest’ultimo, che «l’amore [...] non è amore del bello, come 104

credi tu». È amore della «generazione e del partorire nel bello». Amare è desiderare di «concepire e generare», e perciò l’amante «va in cerca del bello in cui partorire». In altre parole, non è nella ricerca smaniosa di cose finite, complete, già pronte, che l’amore trova il suo significato, ma nell’impulso a partecipare e contribuire al divenire di tali cose. L’amore è affine alla trascendenza: è solo un altro nome per l’impulso creativo, ed è gravido di rischi come lo sono tutti i processi creativi di cui non si è mai certi di quale sarà l’esito. Ci ritroviamo con un paradosso. Siamo partiti guidati dalla speranza di una soluzione, per finire solo col trovare nuovi problemi... Cercavamo l’amore per trovare soccorso, sicurezza, incolumità, ma le indefinitamente lunghe, forse interminabili fatiche dell’amore generano i loro conflitti, le loro incertezze, le loro insicurezze... In amore non ci sono riparazioni veloci, soluzioni valide una volta per tutte, assicurazioni di piena e perpetua soddisfazione, garanzie di risarcimento in caso la piena soddisfazione non sia istantanea e priva di problemi. Tutti quegli strumenti antirischio a pagamento che la nostra società dei consumi ci ha insegnato a dare per scontati, nell’amore sono assenti. Ma noi, viziati dalle promesse di cui sono prodighi i negozianti, abbiamo perso le capacità necessarie per fronteggiare i rischi per conto nostro. E siamo quindi inclini ad appiattire le relazioni amorose al livello della modalità «consumistica», la sola con cui ci sentiamo sicuri e a nostro agio. La «modalità consumistica» esige che la soddisfazione debba essere, è meglio che sia, istantanea, laddove l’unico valore, il solo «utilizzo» degli oggetti è la 105

loro capacità di dare soddisfazione. Quando la soddisfazione cessa (perché gli oggetti si usurano o si rompono, perché diventano eccessivamente, sempre più noiosamente, familiari, oppure perché li si può sostituire con altri oggetti meno familiari, ancora non sperimentati e pertanto eccitanti), non c’è ragione per ingombrare la casa con gli oggetti inutili. Da sempre uno dei regali di Natale preferiti per i bambini inglesi è un cane (di solito un cucciolo). Riferendosi all’attuale stato di salute di questa consuetudine, Andrew Morton ha recentemente commentato32 che i cani «dovrebbero cominciare a ridurre la loro aspettativa di vita da 15 anni circa a una cifra più in sintonia con i tempi di attenzione moderni: diciamo un tre mesi» (questo è in media il tempo che passa prima che i cani, accolti con gioia al loro arrivo, vengano buttati fuori di casa). Un’alta percentuale delle persone che cacciano via di casa i loro animali domestici «si sbarazzano di loro per far posto a un altro cane, più alla moda»... Per gli umani da compagnia funziona come per gli animali da compagnia. Barbara Ellen, editorialista dell’«Observer Magazine», parla nei suoi articoli di «scaricare il partner» come di un evento normale. «Ci hanno sempre detto che la morte è una parte importante della vita. Perché allora la rottura non dovrebbe essere una parte importante della relazione?»33. Sembra che la rottura sia ormai vista come un evento «naturale» quanto la morte nella vita, poiché le relazioni, un tempo ambite da noi umani mortali come passerella per l’eternità, si sono trasformate in eventi «fissipari» e mortali; afflitte, anzi, da un’aspettativa di vita assai più breve di quella degli individui, che si 106

mettono insieme solo per lasciarsi di nuovo... Un altro arguto editorialista inglese osserva che il matrimonio è come «imbarcarsi per un viaggio in mare su una zattera fatta di carta assorbente». Animali o esseri umani, cani o partner, ha importanza? Sono tutti qui per lo stesso scopo: soddisfare (o quantomeno è per questo che li teniamo). Se non soddisfano, diventano privi di qualsiasi scopo e quindi anche di qualsiasi ragione per tenerli con noi. Possiamo citare la famosa osservazione di Anthony Giddens, secondo cui la vecchia idea romantica dell’amore come associazione esclusiva «finché morte non ci separi» è stata sostituita, nel corso della liberazione individuale, dall’«amore confluente», una relazione che dura solo fintanto, e non un istante di più, che dura la soddisfazione che essa porta ai due partner. Nel caso delle relazioni, si desidera ottenere un permesso per entrare e insieme il permesso per uscire quando non si vede più ragione per restare. Giddens vede questo cambiamento della natura delle relazioni come liberatorio: ora i partner sono liberi di proseguire a cercare soddisfazione da qualche altra parte se non riescono ad attingerla, o non riescono più ad attingerla, dalla relazione precedente. Trascura però il fatto che, dal momento che per iniziare una relazione è necessario il consenso di due individui mentre per terminarla la decisione di uno dei due è sufficiente, tutti i rapporti sono destinati a essere perennemente tempestati dall’ansia: che succede se l’altra persona si stufa prima che mi sia stufato io? Un’altra conseguenza di cui Giddens non si rende conto è che è la stessa disponibilità di una facile via d’uscita a rappresentare un formidabile ostacolo alla 107

realizzazione dell’amore. Ciò rende assai meno probabile la presenza di quell’impegno a lungo termine che sarebbe necessario per giungere a tale realizzazione, e assai più probabile che quell’impegno si interrompa ben prima che si possa raggiungere una conclusione gratificante, e venga rigettato come una merce «poco conveniente», o guardato con fastidio per via del prezzo elevato che appare poco giustificato di fronte ai sostituti apparentemente più economici disponibili sul mercato. Tre mesi è davvero quasi il tempo massimo per cui i piccoli figli della società dei consumi riescono ad apprezzare dapprima e a tollerare poi la compagnia dei loro animaletti domestici. È probabile che portino con sé questa abitudine acquisita nei primi anni per tutta la loro vita successiva, quando gli esseri umani sostituiranno i cani come oggetti d’amore. Morton dà la colpa all’accorciarsi del «tempo d’attenzione», ma si potrebbe cercare la causa anche altrove. Se i nostri antenati venivano plasmati ed addestrati dalla loro società prima e innanzitutto come produttori, noi veniamo plasmati e addestrati in primo luogo come consumatori, e tutto il resto viene dopo. Attributi considerati dei pregi in un produttore (acquisire abitudini, seguire le usanze, tollerare la routine e schemi comportamentali ripetitivi, rimandare la gratificazione, avere esigenze stabilite), nel caso di un consumatore si trasformano nei difetti più spaventosi. Qualora diventassero comuni, o restassero comuni, suonerebbero come una campana a morto per un’economia incentrata sui consumi. L’educazione di un consumatore non si fa in un colpo solo. Comincia presto, ma riempie il resto del108

la vita; la coltivazione delle abilità del consumatore è forse l’unico caso riuscito di quella «educazione permanente» che i teorici e quelli che lavorano nel campo dell’educazione generalmente consigliano. Le istituzioni dell’«educazione continua del consumatore» sono innumerevoli e onnipresenti, partendo dalla quotidiana inondazione di pubblicità alla TV, sui giornali, sui poster e sui cartelloni, passando per la marea di riviste patinate «tematiche» che fanno a gara a pubblicizzare gli stili di vita delle celebrità che fanno tendenza – i grandi maestri delle arti del consumismo –, e arrivando fino agli ossessionanti esperti-consulenti che offrono le ricette più all’avanguardia, frutto di accurate ricerche e sperimentazioni di laboratorio, per individuare e risolvere i «problemi della vita». Soffermiamoci un istante su questi esperti specializzati in ricette per le relazioni umane, e in particolare per i rapporti di coppia. «Le coppie bifamiliari» sono da lodare come elementi «rivoluzionari dei rapporti di coppia che hanno fatto scoppiare la coppiabolla», scrive uno di questi esperti in una rivista molto autorevole e molto letta. Un altro esperto-consulente informa i lettori che «quando vi impegnate, anche se con riserva, ricordatevi che state probabilmente chiudendo la porta ad altre possibilità romantiche forse più soddisfacenti e appaganti». Un altro esperto suggerisce che le relazioni, come le automobili, vadano periodicamente sottoposte a un test di tenuta su strada, e ritirate dalla circolazione in caso di risultati negativi. Un altro esperto ancora è addirittura più brusco: «Le promesse di impegno sono prive di senso sul lungo termine. [...] Al pari di altri inve109

stimenti, toccano il culmine per poi declinare». E dunque, se volete «relazionarvi», mantenete la distanza; se cercate appagamento dallo stare insieme, non prendete né richiedete impegni. Lasciate sempre tutte le porte aperte. A conti fatti, quello che impariamo dagli esperti di relazioni è che l’impegno, e in particolare l’impegno a lungo termine, è la trappola che chi cerca di «relazionarsi» dovrebbe evitare più di qualsiasi altro pericolo. Il tempo di attenzione umana si è ristretto, ma ancor più significativo è il restringimento del tempo dedicato alla previsione e alla pianificazione. In tutte le epoche il futuro è stato incerto, ma la sua capricciosità e volatilità non è mai stata avvertita con tanta intensità come oggi, nel mondo di modernità liquida del lavoro «flessibile», dei legami umani fragili, degli stati d’animo fluidi, delle minacce aleggianti e dei pericoli invisibili. Non si è mai sentito con tanta forza che il futuro è, come osservò Lévinas, «l’altro assoluto», inscrutabile, impermeabile, inconoscibile, e in definitiva al di là del controllo umano. In un mondo in cui il dis-impegno è praticato come strategia comune della lotta per il potere e l’autoaffermazione, sono pochi, per non dire nessuno, i punti nella vita sulla cui durata si possa scommettere con sicurezza. Il «presente», perciò, non vincola il «futuro», e non c’è nulla nel presente che consenta di indovinare, ancor meno di visualizzare, la forma delle cose a venire. Il pensiero a lungo termine, ed ancor più gli impegni e gli obblighi a lungo termine, appaiono davvero privi di significato. Ancora peggio: sembrano controproducenti, decisamente pericolosi, un passo sconsiderato, una zavorra da gettare fuori 110

bordo e che sarebbe ancora meglio non prendere proprio a bordo fin dal principio. Sono tutte notizie preoccupanti, anzi spaventose. Sono colpi che vanno dritti al cuore del modo umano di stare al mondo. Dopo tutto, il nocciolo duro dell’identità – la risposta alla domanda «Chi sono io?» e soprattutto la credibilità nel tempo di qualsiasi risposta si possa dare a questa domanda – può formarsi solo in riferimento ai legami che connettono l’io ad altre persone e alla presunzione di affidabilità e stabilità nel tempo di tali legami. Abbiamo bisogno di relazioni, e abbiamo bisogno di relazioni su cui poter contare, una relazione cui far riferimento per definire noi stessi. Nell’ambiente della modernità liquida, però, a causa degli impegni a lungo termine che notoriamente ispirano o inavvertitamente generano, le relazioni possono essere gravide di pericoli. E ciononostante ne abbiamo bisogno, ne abbiamo ferocemente bisogno, non soltanto per la preoccupazione morale per il benessere di altre persone, ma anche per il nostro stesso bene, per la coesione e la logica del nostro stesso essere. Quando ci si trova ad avviare e mantenere una relazione, la paura e il desiderio combattono per la supremazia. Ci battiamo ardentemente per la sicurezza che solo una relazione impegnata (sì, proprio un impegno a lungo termine!) può offrirci, eppure temiamo una vittoria non meno della sconfitta. Il nostro atteggiamento nei confronti dei legami tende a essere dolorosamente ambivalente, e le chances di risolvere questa ambivalenza sono oggigiorno esigue. Non ci sono facili vie d’uscita da questa situazione, e certamente nessuna cura radicale praticabile 111

per i tormenti dell’ambivalenza. E assistiamo dunque a un’accanita e furiosa ricerca di soluzioni secondarie, mezze soluzioni, soluzioni temporanee, palliativi, placebo. Si farà tutto il possibile per spinger via dubbi divoranti e domande cui è impossibile dare risposta, rimandare il momento della resa dei conti, e permetterci quindi di continuare a muoverci, anche se la destinazione è, a voler esser buoni, avvolta nella nebbia. Se della qualità non ci si può fidare, forse la salvezza può venire dalla quantità? Se ogni relazione è fragile, forse l’espediente di moltiplicarle e accumularle ci farà sentire meno insidioso il terreno? Grazie a Dio accumularle è possibile, proprio perché ogni relazione è friabile e «usa e getta»! E così cerchiamo riparo nelle «reti», che hanno il vantaggio, rispetto ai legami ferrei, di potercisi connettere e disconnettere con la stessa facilità (come illustrato recentemente da un ragazzo di 26 anni di Bath, in Inghilterra, che ha spiegato di preferire gli «appuntamenti su internet» ai «bar per single», perché se qualcosa va storto «basta premere il tasto ‘canc’»; in un incontro faccia a faccia non sarebbe possibile scaricare con tanta facilità il partner non gradito). E usiamo i nostri telefoni cellulari per chiacchierare e spedirci messaggi, così da poter sentire costantemente il comfort dell’«essere in contatto» senza i disagi che il «contatto» effettivo può riservare. Sostituiamo le poche relazioni profonde con una massa di esili e vuoti contatti. Credo che gli inventori e i venditori di «videocellulari», fatti per trasmettere immagini oltre alla voce e ai messaggi scritti, abbiano fatto male i loro calcoli: non troveranno un mercato di massa per i loro arti112

coli. Credo che la necessità di guardare negli occhi il partner del «contatto virtuale», di entrare in uno stato di prossimità visiva (benché virtuale), priverebbe la comunicazione via cellulare del suo principale vantaggio, quello che le ha permesso di conquistare quei milioni di persone che desiderano ardentemente «stare in contatto», mantenendo allo stesso tempo la distanza... Ciò che questi milioni di persone desiderano ardentemente trova più facilmente appagamento nei «messaggini Sms», che eliminano dallo scambio la simultaneità e la continuità, stoppando così sul nascere la possibilità che questo si trasformi in dialogo autentico, e perciò rischioso. Il contatto uditivo viene per secondo. Il contatto uditivo è un dialogo, ma felicemente privo di contatto visivo, quell’illusione di vicinanza che comporta il pericolo di tradire inavvertitamente (coi gesti, la mimica, l’espressione degli occhi) tutto ciò che i chiacchieranti preferirebbero tener fuori dalla «relazione». Questi rapporti così ridotti, «sterilizzati», si incastrano a dovere con tutto il resto, il mondo liquido di identità fluide, il mondo dove le regole del gioco sono finire in fretta, proseguire e ripartire di nuovo, il mondo di oggetti che generano e brandiscono sempre nuovi e allettanti desideri per soffocare e dimenticare i desideri di un tempo. Il premio è la libertà di movimento, ma un’opzione che non siamo liberi di scegliere è quella di smettere di muoverci. Come già ci aveva avvertito Ralph Waldo Emerson molto tempo fa, quando si pattina sul ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità. 113

D. E come cambia l’atteggiamento nei confronti del sacro? R. È una domanda a cui è difficile rispondere. Tanto per cominciare, il «sacro» è un concetto notoriamente vago e accesamente dibattuto, ed è terribilmente difficile mettersi d’accordo e sapere con certezza di cosa stiamo parlando. Alcuni autori si spingono fino ad affermare che il sacro sia confinato a quello che succede all’interno di una chiesa o di un suo equivalente; altri invece sostengono che lavare la macchina la domenica o andare con la famiglia al centro commerciale sia l’odierna incarnazione del sacro... Ma anche se lasciamo da parte e non ci curiamo di osservazioni tanto estreme e abbastanza stupide (esse stesse, secondo me, manifestazioni della «crisi del sacro») e diamo per scontato che quello cui qui facciamo riferimento sono fenomeni del genere che Rudolph Otto ha cercato di esprimere con il concetto di «tremendo» o Immanuel Kant con il concetto di «sublime», il compito non si fa molto più facile. Forse il lavoro si semplificherebbe se chiarissimo in che cosa consistono questi fenomeni? Nel tentativo di svelare il mistero del potere umano, terreno, Michail Bachtin, uno dei più grandi filosofi russi del secolo scorso, partì dalla descrizione della «paura cosmica», un’emozione umana, fin troppo umana, generata dall’ultraterrena, inumana magnificenza dell’universo; nella sua ottica, quel tipo di paura che serve al potere creato dall’uomo per trovare la propria fondazione, il prototipo e l’ispirazione34. La paura cosmica è, nelle parole di Bachtin, la trepidazione che si avverte «di fronte all’incommensurabilmen114

te grande e immensamente potente: di fronte ai cieli stellati, alla massa di materia delle montagne, al mare, e la paura di sconvolgimenti cosmici e disastri degli elementi». L’essenza centrale della «paura cosmica», vorrei far notare, è la non entità del terrorizzato, esangue ed effimero essere umano confrontato all’enormità eterna dell’universo, la pura e semplice debolezza, incapacità di resistere, vulnerabilità del fragile e molle corpo umano che la vista dei «cieli stellati» o della «massa di materia delle montagne» rivela; ma anche la presa di coscienza che non è nel potere dell’uomo di afferrare, comprendere, assimilare mentalmente quella maestosa potenza che si manifesta nella pura e semplice grandiosità dell’universo. Pascal ha descritto35 in maniera impeccabile questa sensazione, e la sua fonte: Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita dall’eternità che la precede e da quella che la segue [...] il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell’infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là [...] ora piuttosto che un tempo.

È un universo che sfugge a ogni comprensione. Le sue intenzioni sono sconosciute, i suoi «prossimi passi» sono imprevedibili. Se c’è un piano o una logica premeditata nella sua azione, essa sfugge di certo alla capacità di comprensione umana (per il potere della mente umana di riuscire a immaginare una condizione «prima dell’universo», il big bang non sembra molto più comprensibile della creazione in sei giorni). E la «paura cosmica» è dunque anche l’orrore dell’ignoto, il terrore dell’incertezza. 115

È anche un terrore più profondo, il terrore dell’impotenza, di cui l’incertezza non è altro che uno dei fattori costitutivi. L’impossibilità di difendersi diventa evidente quando la ridicolmente breve vita mortale è comparata all’eternità, e il minuscolo appezzamento di terreno che il genere umano occupa è comparato all’infinito dell’universo. Possiamo dire che il sacro è un riflesso di questa esperienza di impotenza. Il sacro è ciò che trascende i nostri poteri di comprensione, comunicazione, azione. Bachtin sostiene che la paura cosmica viene utilizzata (riprocessata, riciclata) da tutti i sistemi religiosi. L’immagine di Dio, il supremo reggitore dell’universo e dei suoi abitanti, è plasmata sul modello della familiare emozione di paura, di vulnerabilità e tremore che si prova di fronte a un’incertezza impenetrabile e irreparabile36. Leszek Ko¢akowski spiega la religione con la convinzione dell’insufficienza delle risorse del genere umano. La mentalità moderna non è stata necessariamente atea. La guerra contro Dio, la frenetica ricerca di prove che «Dio non esiste» o che «Dio è morto», è stata lasciata alle frange radicali. Ciò che la mentalità moderna ha fatto, però, è stato rendere Dio irrilevante per gli affari umani sulla terra. La scienza moderna è emersa quando è stato costruito un linguaggio che consentiva di narrare tutto ciò che si era appreso sul mondo in termini non teologici, ossia senza riferimenti a uno «scopo» o un’intenzione divina. Se la mente di Dio è imperscrutabile, smettiamola di perder tempo a cercare di leggere l’illeggibile e concentriamoci su quello che noi, esseri umani, possiamo comprendere e fare. Questa strategia ha condot116

to a trionfi spettacolari della scienza e del suo braccio tecnologico. Ma ha anche avuto conseguenze di grande portata, e non necessariamente benigne e benefiche, sul modo di stare al mondo degli esseri umani. L’autorità del sacro, e più in generale l’interesse per l’eternità e i valori eterni, sono stati le sue prime e più eminenti vittime. La strategia moderna consiste nello sminuzzare le grandi questioni che trascendono il potere umano in compiti più piccoli alla portata dell’uomo (per esempio, la sostituzione della battaglia senza speranza contro l’inevitabile morte con l’efficace cura di molte malattie evitabili e curabili). Le «grandi questioni» non vengono risolte, ma lasciate in sospeso, messe da parte, tolte dall’agenda: non tanto dimenticate, quanto raramente evocate. La preoccupazione per il momento presente non lascia spazio né tempo per riflettere sull’eterno. In un ambiente fluido e in costante cambiamento, l’idea di eternità, durata perpetua o valore duraturo immune dallo scorrere del tempo, non trova fondamento nell’esperienza umana. La velocità del cambiamento assesta un colpo mortale al valore della durevolezza: «vecchio» o «durevole» diventano sinonimi di «superato», «fuori moda», qualcosa che «resiste pur avendo perso la sua utilità» e perciò destinato entro breve a finire nel bidone della spazzatura. Se comparata all’arco di vita degli oggetti utili alla vita umana, delle istituzioni entro cui questa si svolge e dello stesso stile di vita, l’esistenza (corporale) del singolo uomo sembra avere un’aspettativa di vita maggiore: sembra anzi l’unica entità a veder crescere, invece di ridursi, la propria aspettativa di vita. Sono 117

sempre meno, fatta eccezione per gli oggetti sottratti al flusso della vita quotidiana e mummificati per il piacere del turista, le cose che hanno visto epoche precedenti alla nascita dell’individuo; e ancora di meno quelle che, nate più tardi, abbiano ragionevoli speranze di sopravvivere ai loro spettatori. La regola del «rinvio della gratificazione» non sembra più un consiglio assennato come ancora appariva ai tempi di Max Weber. Le inquietudini registrate da Pascal hanno preso una piega diversa e inaspettata: chiunque abbia interesse per cose di lunga durata, farà meglio a investire nel prolungamento della propria vita corporale che in «cause eterne». Noi, soldati delle unità più avanzate dell’esercito della modernità liquida, non riusciamo più a comprendere gli attentatori suicidi che sacrificano la propria vita, con tutti i piaceri che essa potrebbe avere in serbo, in nome di una causa immortale o della beatitudine eterna. Palesemente fragili e transitorie, tutte le cose diverse dalla sopravvivenza individuale appaiono investimenti di scarso valore. L’unico loro uso sensato è al servizio della sopravvivenza individuale. È meglio assaporare e consumare subito, qui sul posto, il loro potenziale di gratificazione e piacere, prima che esso cominci a svanire come di sicuro farà ben presto. Si potrebbe dire che questa sia la sfida più grande che il «sacro» abbia mai affrontato nella sua lunga storia. Non è che oggi noi ci giudichiamo autosufficienti e onnipotenti e abbiamo smesso di sentirci inadeguati, indifesi, senza risorse sufficienti (non ci siamo, in altre parole, liberati di quelle che Ko¢akowski identificava come la fonte dei sentimenti religiosi). È 118

piuttosto che siamo stati addestrati a smettere di preoccuparci di cose che apparentemente continuano a rimanere ostinatamente al di là del nostro potere (e dunque anche di quelle cose che si estendono oltre l’arco della nostra vita), e a concentrare invece la nostra attenzione ed energia sui compiti alla nostra (individuale) portata, competenza e capacità di consumo. Siamo reclute diligenti e intelligenti; e perciò chiediamo che le cose e le tematiche, prima di cercare di ottenere, e avere garantito, il nostro interesse, ci spieghino perché meritano la nostra attenzione. E possono farlo offrendoci una prova convincente della loro utilità e della loro capacità di consegnare rapidamente ciò che promettono. Non essendo più considerata sensata la scelta del rinvio della gratificazione, la consegna e l’utilizzo delle merci, così come la gratificazione che esse promettono, devono essere istantanei. Le cose devono essere pronte per essere consumate sul posto, i compiti devono produrre risultati prima che l’attenzione si rivolga da un’altra parte e si concentri su altre imprese, le tematiche devono portare frutti prima che l’entusiasmo si esaurisca. Immortalità? Eternità? Bene: dov’è il parco a tema dove posso sperimentarle, subito? Siamo atterrati in un paese completamente e veramente straniero... Una terra sconosciuta, inesplorata, di cui non esiste mappa: non siamo mai stati qui prima d’ora, non ne abbiamo mai sentito parlare. Tutte le culture di cui sappiamo, in tutte le epoche, hanno cercato, con alterno successo, di colmare il divario fra la brevità della vita mortale e l’eternità dell’universo. Ogni cultura ha offerto una formula per l’alchimistica impresa: riforgiare sostanze umili, fragili ed effi119

mere in metalli preziosi resistenti all’erosione ed eterni. Noi siamo forse la prima generazione che entra nella vita e la vive senza una simile formula. Il cristianesimo ha caricato di un tremendo significato il nostro ridicolmente breve soggiorno sulla terra come unica chance per decidere la qualità dell’esistenza spirituale eterna. Baudelaire vedeva la missione dell’artista nell’estrarre il nocciolo immortale dal guscio dell’attimo fuggente. Da Seneca a Durkheim, i saggi non hanno fatto altro che ricordare, a tutti coloro avveduti abbastanza da ascoltare, che la vera felicità (a differenza degli inafferrabili e momentanei piaceri) si può ottenere soltanto legandosi a cose che durano più a lungo della vita corporale di un essere umano. Per il lettore medio contemporaneo, queste affermazioni sono incomprensibili e suonano ridondanti. I ponti che collegano la vita mortale all’eternità, laboriosamente costruiti nel corso di millenni, sono stati banditi dall’uso. Gli uomini non sono ancora mai stati in un mondo privo di questi ponti. È troppo presto per dire cosa potrebbero scoprire, o in quale condizione potrebbero trovarsi vivendo in una terra siffatta. D. Uno dei fenomeni più inquietanti a cui assistiamo in questo periodo è il fondamentalismo religioso. Al di là delle dispute teologiche che hanno accompagnato la diffusione di questi movimenti, il loro carattere essenzialmente politico mi sembra lampante, si tratti dell’India, del mondo arabo o della moral majority negli Stati Uniti. Questo fenomeno è arrivato perfino a lam120

bire le coste dello Stato di Israele. Cosa ne pensa del fondamentalismo religioso? R. Tutte e tre le grandi religioni – cristianesimo, islam ed ebraismo – hanno i loro fondamentalismi. E possiamo avanzare l’ipotesi che il fondamentalismo religioso contemporaneo sia l’effetto combinato di due sviluppi in parte collegati e in parte separati tra loro. Uno di questi sviluppi è l’erosione, e la minaccia di un’erosione ancora maggiore, del «nocciolo duro», il solido canone che tiene insieme la congregazione dei fedeli: i suoi margini si fanno sempre più sfilacciati e confusi, le commessure si allentano o saltano via. Le sette, che le Chiese vedono con apprensione, e a ragione, come la maggiore minaccia alla loro unità, si moltiplicano, e le Chiese ripiegano su posizioni di fortezza assediata o permanente controriforma. Il canone della fede deve essere difeso con le unghie e coi denti e riaffermato quotidianamente, la disattenzione è un suicidio, l’ordine del giorno è vigilanza, la «quinta colonna» (gli indifferenti e gli incerti all’interno della congregazione) deve essere individuata per tempo e stroncata sul nascere. Un altro sviluppo può forse essere ricondotto alle stesse radici (vale a dire alla nuova forma liquida che la nostra vita moderna ha assunto), ma concerne in primo luogo gli sceglitori involontari/compulsivi che noi tutti siamo diventati nel nostro ambiente sociale deregolamentato, frammentato, sottodefinito, sottodeterminato, imprevedibile, disarticolato, sgangherato e largamente incontrollabile. Ho già sottolineato diverse volte che, pur con tutti i suoi ambitissimi van121

taggi, la condizione di vita di uno sceglitore-per-necessità è anche un’esperienza assolutamente sfibrante. La vita di uno sceglitore è una vita insicura. Il valore di cui si sente grande mancanza è la sicurezza di sé e la fiducia, e perciò anche la fiducia in sé. Il fondamentalismo (anche il fondamentalismo religioso) offre quel valore. Invalidando preventivamente tutte le proposte concorrenti e rifiutando un dialogo e un dibattito con i dissenzienti e gli «eretici», instilla la sensazione di certezza e offre un codice di comportamento semplice e facile da assorbire, da cui tutti i dubbi sono stati spazzati via. Elargisce quel confortevole senso di sicurezza che si prova all’interno delle alte e impenetrabili mura che tagliano fuori il caos che regna all’esterno. Certe varietà di Chiese fondamentaliste sono particolarmente attraenti per quella parte della popolazione svantaggiata e impoverita, spogliata di dignità umana e umiliata, persone che non possono fare molto di più che guardare con un misto di invidia e risentimento lo stile di vita spensierato e la baldoria consumistica dei più abbienti (i Musulmani Neri negli Stati Uniti, o la sinagoga orientale in Israele che raccoglie gli immigrati sefarditi in un paese governato dagli askenaziti sono esempi spettacolari, anche se certo non gli unici). Per queste persone, le congregazioni fondamentaliste forniscono un invitante e gradito riparo che non trovano altrove. Queste congregazioni raccolgono i compiti e i doveri abbandonati dallo Stato sociale in ritirata. Forniscono inoltre quell’ingrediente di una vita umana decente di cui più dolorosamente è sentita la mancanza e che la società nel suo insieme ha rifiutato di offrire: il senso di uno sco122

po, di una vita che abbia significato (o di una morte che abbia significato...), di un posto legittimo e dignitoso nello schema generale delle cose. Promettono inoltre di difendere i fedeli dalle «identità» conferite, stereotipanti e stigmatizzanti imposte dalle forze che governano l’ostile e inospitale «mondo di fuori», o addirittura rivoltano le accuse contro gli accusatori, proclamando che «nero è bello» e rovesciando così presunti deficit in punti a favore. Il fondamentalismo (anche il fondamentalismo religioso) non è solo un fenomeno religioso. Attinge la sua forza da diverse fonti. Per comprenderlo appieno, lo si deve inquadrare nel contesto della nuova ineguaglianza globale e della sfrenata ingiustizia che regna nello spazio globale.

NOTE

1 Vedi Siegfried Kracauer, Ornament der Masse, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1963. 2 Une généalogie de l’insécurité contemporaine, entretien avec Philippe Robert, in «Esprit», dicembre 2002, pp. 35-58. 3 Giorgio Agamben, Mezzi senza fine: note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 24-25. 4 Jorge Luis Borges, La ricerca di Averroè, in Idem, L’Aleph, Feltrinelli, Milano 20012, p. 100. 5 Jonathan Matthew Schwartz, Pieces of Mosaic, Intervention Press, Højbjerg 1996, p. 132. 6 Lars Dencik, Transformation of Identities in Rapidly Changing Societies, in Mikael Carleheden e Michael Hviid Jacobsen (a cura di), The Transformation of Modernity: Aspects of Past, Present and Future of an Era, Ashgate, Aldershot 2001, p. 194. 7 Clifford Stoll, Silicon Snakeoil, Doubleday, New York 1995, p. 58 (trad. it. Miracoli virtuali, Garzanti, Milano 1996). 8 Charles Handy, The Elephant and the Flea, Hutchinson, London 2001, p. 204. 9 Andy Hargreaves, Teaching in the Knowledge Society: Education in the Age of Insecurity, Open University Press, Buckingham 2003, p. 25. 10 Cit. da Hanna Mamzer, Tozsamosc w podrózy, Wydawnictwo Naukowe w Poznaniu, Pozna’ 2002, p. 13. 11 Monika Kostera, Postmodernizm w zarz1dzaniu, Polskie Wydawnictwo Ekonomiczne, Warszawa 1996, p. 204. 12 Richard Sennett, Flexibilité sur la ville, in «Manière de voir», 66, novembre-dicembre 2002, pp. 59-62. 13 Peter Beilharz, The logic of polarization; Exclusion and exploitation, ms. 14 Richard Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo: l’eredità dei

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movimenti progressisti americani del Novecento, Garzanti, Milano 1999, pp. 82, 92. 15 Richard Rorty, Philosophy and Social Hope, Penguin Books, London 1999, p. 203. 16 Hauke Brunkhorst, Global Society as the Crisis of Democracy, in Carleheden, Hviid Jacobsen, The Transformation of Modernity cit., p. 233. 17 Alain Peyrefitte, La société de confiance, Odile Jacob, Paris 1998, pp. 515 sgg. 18 Robert Musil, Diaries 1899-1941, Basic Books, New York 1998, p. 52 (ed. or. Tagebücher, Rowohlt, Hamburg 1955). 19 Beata Frydryczak, Œwiat jako kolekcja [Il mondo come collezione], Humaniora, Pozna’ 2002, pp. 52-55. 20 Tom Nairn, Demonizing Nationalism, in «London Review of Books», 23 febbraio 1993. 21 René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987, pp. 33, 34, 42. 22 Geneviève Zubrzycki, The Classical Opposition between Civic and Ethnic Models of Nationhood: Ideology, Empirical Reality and Social Scientific Analysis, in «Polish Sociological Review», 3, 2002, pp. 275-295. 23 Henrik Ibsen, Peer Gynt, Einaudi, Torino 1959, pp. 83, 39, 6263, 84-85, 133-134. 24 Vedi Ray Pahl, On Friendship, Polity Press, Cambridge 2000. 25 Oliver James, Constant Craving, in «Observer Magazine», 19 gennaio 2003, p. 71. 26 Hargreaves, Teaching in the Knowledge Society cit. 27 Stjepan Mestrovic´, Postemotional Society, Sage, London 1997. 28 Maria M. Markus, Cultural pluralism and the Subversion of the “Taken for Granted” World, in Philomena Essed e David Thea Goldberg (a cura di), Race Critical Theories, Blackwell, Oxford 2002, p. 401. 29 Stuart Hall, Culture, Community, Nation, in «Cultural Studies», 3, 1993, pp. 349-363. 30 Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori, Milano 1963, p. 5. 31 Citazioni tratte dall’edizione Rizzoli, Milano 1986. 32 In «Observer Magazine», 15 dicembre 2002, p. 43. 33 Barbara Ellen, Breaking up may be hard, but there is no harm in men learning the etiquette, in «Observer Magazine», 5 gennaio 2003, p. 7. 34 Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale, Einaudi, Torino 1979. Si veda anche l’ottimo compendio di Ken Hirschkop in Fear and De-

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mocracy: an essay on Bakhtin’s theory of carnival, in «Associations», 1, 1997, pp. 209-34. 35 Blaise Pascal, Pensieri, Garzanti, Milano 1994, p. 26. 36 Mi limito a mettere in evidenza, senza sviluppare l’argomento, che la vulnerabilità – incertezza e impotenza – è anche la caratteristica della condizione umana su cui viene modellata la paura ufficiale: la paura del potere umano, del potere creato e tenuto dall’uomo. Questa «paura ufficiale» è costruita sul modello del potere inumano riflesso (o piuttosto emanato) dalla «paura cosmica». I poteri terreni devono plasmarsi a somiglianza di Dio per poter avere un po’ del suo grandioso, terrificante potere. Essi si sforzano di fare di sé stessi la fonte dell’incertezza e dell’incomprensione (la glasnost, così come la intendeva Gorbaciov, sarebbe devastante per qualsiasi potere, non solo per la dittatura comunista): attingono la loro potenza e la loro autorità dalla vulnerabilità dei propri sudditi...

INDICE

Premessa di Benedetto Vecchi

V

Prologo

3

1. L’identità come problema

13

2. Identità-puzzle

55

3. La costruzione dell’identità, i media e la globalizzazione

87

4. Identità, sentimenti e religione

103

Note

125