Città senza cultura. Intervista sull’urbanistica

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Città senza cultura. Intervista sull’urbanistica

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Giuseppe CamposVenuti

CITTÀ SENZA CULTURA Intervista sull’urbanistica a cura di Federico Oliva

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione marzo 2010 Seconda edizione maggio 2010 Terza edizione novembre 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel novembre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9264-3

Una premessa

L’obiettivo di questa lunga intervista è di porre in evidenza, con la massima chiarezza possibile, lo stato di crisi in cui versano in Italia le città, il territorio, l’ambiente e il paesaggio, di individuarne le cause presenti e remote e di proporre, senza presunzioni, ma anche senza timidezze, una prospettiva che consenta di affrontare e risolvere gradualmente i problemi messi in luce. La figura dell’intervistato – che ha alle spalle una lunga attività di urbanista (attività tuttora intensa), di intellettuale, di docente universitario e anche di amministratore pubblico – garantisce quella quantità di esperienze e d’informazioni indispensabile per comprendere le trasformazioni urbane e territoriali italiane degli ultimi cinquanta anni, e le cause che le hanno prodotte; per individuare quali risposte hanno saputo dare la politica, la cultura e la stessa urbanistica e quali sono stati, invece, gli errori commessi e le scelte sbagliate. Così, si è rinunciato a ogni riferimento autobiografico che non fosse finalizzato a meglio evidenziare un problema e la soluzione proposta, tenendo fermo il presupposto, non sempre scontato in Italia, che – anche in materia di città e territorio – per governare bisogna innanzitutto conoscere. V

La prospettiva principale dell’intervista vuole essere dunque propositiva: uno sguardo sul futuro dell’urbanistica italiana, che, se non può prescindere da quanto è avvenuto nel passato, nel bene e nel male, deve però confrontarsi con le circostanze economiche e sociali della situazione attuale, che segnano inevitabilmente i caratteri delle trasformazioni urbane e territoriali del nostro presente. Alle molte tematiche che emergono si è cercato di offrire sempre delle risposte: dal miglioramento della qualità e dell’efficienza delle città e del territorio al rinnovamento radicale del nostro sistema legislativo; dal modo di affrontare oggi le problematiche della rendita fondiaria urbana all’attualità e utilità di un approccio in termini di piano, per quanto radicalmente rinnovato nella forma e nei contenuti. L’intervista è organizzata per capitoli tematici, in modo da agevolare un percorso di lettura attraverso una materia complessa e poco praticata dai media, almeno fuori dai circuiti più specialistici. Per lo stesso motivo, e proprio perché l’intervista non è rivolta solo a un pubblico esperto, si è ritenuto opportuno integrare il testo con sintetiche informazioni sulle persone citate, note o meno note, sui principali provvedimenti legislativi o sugli avvenimenti culturali ai quali si fa riferimento. Federico Oliva

CITTÀ SENZA CULTURA Intervista sull’urbanistica

1.

QUANTO È BRUTTA LA CITTÀ...

D. La prima domanda è molto semplice e corrisponde, probabilmente, a una questione che si pone l’opinione pubblica: perché la città italiana e il territorio che la circonda sono, in genere, così brutti? A questa domanda se ne aggiunge una seconda, che sviluppa la prima: perché la città e il territorio italiano funzionano così male, per quanto riguarda i servizi pubblici, senza che quelli privati siano capaci di far meglio? R. Si può usare il termine «brutto» per definire la situazione insoddisfacente di città e territorio? Tutto sommato, sono d’accordo, perché questo è il modo sintetico con cui la società e l’opinione pubblica li definiscono, indicando le condizioni di vita e le capacità d’uso che in questi si creano. Naturalmente, il termine non va interpretato in modo estetico; brutto o bello, in questo caso, esprimono la qualità, l’efficienza, le prospettive che la città e il territorio possono offrire. Così fanno spesso i bambini, per i quali brutto vuol dire cattivo e bello significa buono. E allora, usiamo pure questa accezione di «brutto» e di «bello» partendo, se vuoi, dal bello. Cos’è che l’opinione pubblica può considerare bello oggi, nel nostro caso? Certamente una parte di ciò che 3

chiamiamo paesaggio, purtroppo non poco deturpato, ma spesso ancora bellissimo; senza dubbio, una buona porzione dei centri storici che si sono salvati, qualche quartiere periferico meglio riuscito, e una quota, non molto estesa, del territorio extraurbano preservato. Tutto il resto, invece, è brutto: a cominciare dalle case, cioè dalle architetture sorte negli ultimi cinquant’anni, che – non si può negarlo – sono il più delle volte davvero brutte. A guardar meglio, è brutto il fatto che la città non eserciti oggi in Italia il ruolo per cui è nata millenni fa: un luogo in cui gli uomini potessero raccogliersi per soddisfare le proprie necessità, creando assistenza reciproca, servizi comuni, necessari per una società allora piccola, che poi si è trasformata diventando sempre più grande. E quando questi servizi pubblici e privati funzionano male come quelli italiani e non soddisfano più le esigenze dei cittadini, questi sono spinti a dire che la città è brutta, perché non funziona. Lo stesso discorso si può fare per il territorio, perché anche il territorio deve svolgere una funzione, avere una propria ragion d’essere; quando questa funzione non è soddisfatta, quando cessa questa ragion d’essere, l’opinione pubblica può dire che, purtroppo, anche il territorio è brutto. Questa bruttezza nasce, anche, dal fatto che leggi e piani esistenti non sono in grado di governare le città e il territorio in modo da soddisfare le esigenze dei cittadini. E il discorso si può allargare dal governo nazionale a quelli locali, incapaci di usare perfino quel che le leggi e i piani esistenti possono comunque offrire: non solo, infatti, sono incapaci di fare leggi e piani nuovi, ma anche di usare quelli disponibili, che consentirebbero di affrontare e risolvere, intanto – e per quanto è possibile –, i problemi delle città e del territorio. 4

Volendo parlare da riformista – perché, in fondo, da decenni, ostento la mia scelta riformista e uso il termine nella sua accezione storica, oggi completamente travisata – la definizione di brutto e di bello potrei usarla anche per spiegare l’incapacità della società e dei cittadini di essere riformisti. Anche a questo proposito, infatti, i cittadini sembrano preferire l’impossibile, e chiedono una soluzione perfetta, teorica, astratta: insomma, «vogliono la luna», come ha detto Pietro Ingrao, invece di chiedere un buon compromesso – certamente non un cedimento, per restare al gergo storico – che sia realizzabile in concreto. Il risultato di questa aspirazione sbagliata non è allora la perfezione, difficile perfino da immaginare, ma il contrario della perfezione, cioè la deregulation, la sregolatezza sistematica. E questo è il brutto. Quanto di bello è rimasto – per esempio, i centri storici ben conservati – sappiamo perché si è conservato: a questo proposito, ho spesso parlato di «fortunata disgrazia», ricordando il ritardo con cui nel nostro paese si sono realizzati l’Unità nazionale e lo sviluppo capitalistico moderno rispetto al resto d’Europa. È proprio quel ritardo che non ci ha consentito di avere la capacità finanziaria di fare quanto, ad esempio, hanno fatto i francesi, i quali, nel 1853, affidarono il governo di Parigi ad Haussmann, che in pochi anni rase praticamente al suolo la città medioevale e inventò una città nuova, oggi considerata storica perché ha centocinquanta anni di vita. La Parigi ottocentesca non conserva quasi più le tracce del Medioevo e delle epoche successive, mentre le città italiane, da Mantova a Ferrara, da Roma a Milano, per «fortunata disgrazia», quelle tracce le hanno in buona parte conservate. Questi centri storici, però, pur avendoli preservati, li abbiamo trattati in modo perverso e irragionevole. Abbiamo salvato gli edifici, ma li abbiamo sommersi con 5

un traffico automobilistico che ne compromette perfino l’aspetto estetico e che è esiziale per gli antichi tessuti. Una volta il tessuto dei centri storici era articolato per funzioni: l’abitazione e il commercio di prossimità, l’assistenza agli anziani e l’istruzione ai bambini, l’artigiano di servizio e la produzione dei beni più popolari. Permettendo che il centro storico – il luogo di massimo valore immobiliare – si riempisse di uffici e si svuotasse di residenze, lo abbiamo compromesso irreparabilmente, azzerando la funzione articolata del complesso sistema urbano. Così il centro della città si riempie di giorno e si vuota la notte, salvo le poche zone dedicate allo svago, che però disturba i residenti rimasti. Dal centro storico sono scomparsi i negozi di prima necessità – che erano disposti lungo le strade e servivano gli inquilini dei piani superiori –, sostituiti ora da «vetrine», strumenti di pubblicità delle multinazionali, la cui economicità non dipende dal mercato locale di quartiere, ma da quello mondiale. E le vetrine hanno raggiunto fitti strepitosi, pagati tranquillamente dalle multinazionali, perché non dipendono dall’economia del posto. Infine, da un centro storico così trasformato, è scomparsa la sicurezza. La città, al contrario, nasce per garantire sicurezza ai propri cittadini: le mura che la cingevano la proteggevano all’esterno e, all’interno, la sicurezza era garantita dalla costante presenza dei residenti. Quanto ai quartieri periferici della città consolidata, questi sono spesso definiti, giustamente, quartieri-dormitorio: cioè luoghi dove i cittadini che lavorano o studiano altrove tornano solo la notte e dove, di giorno, restano quasi soltanto i vecchi e le casalinghe, sebbene la multifunzionalità dei quartieri sia molto aumentata negli ultimi anni. Le periferie sono cresciute in modo congestionato, sotto la spinta della rendita urbana, in gene6

re povere di servizi e quasi sempre sprovviste di verde. Si aggiunga l’assenza di parcheggi, carenza tipica delle città italiane, che trasforma le strade in veri e propri parcheggi, sempre intasate dal traffico delle auto, mentre gli autobus e i pochi tram offrono una assai modesta mobilità. Il territorio extraurbano è stato largamente manomesso e impera lo sprawl, termine inglese che sembra creato apposta per l’Italia e che definisce bene la situazione di «dispersione urbana» che la caratterizza. E così, anche del territorio si deve dire che è brutto. In Italia, insomma, il problema non è tanto l’aver costruito più che altrove, ma che abbiamo disperso le costruzioni nella campagna, disseminandola di insediamenti residenziali e produttivi. In Francia, Germania o Inghilterra il territorio è costellato dai piccoli centri, separati gli uni dagli altri: e così la campagna si è salvata. In Francia, per esempio, ci sono 35.000 Comuni, contro gli 8.000 italiani, ma fuori dai piccoli centri il territorio ha mantenuto la sua funzione produttiva, resta destinato all’agricoltura o al sistema naturale, svolgendo in tal modo anche il suo ruolo paesistico. Non si può dimenticare tuttavia che l’agricoltura, oggetto principale del territorio extraurbano dal punto di vista funzionale, è trattata in Italia come peggio non si potrebbe. È quindi sbagliato considerare l’uso agricolo del suolo una condizione comunque valida. Nella Valle Padana, l’area più ricca del territorio agricolo produttivo italiano, l’agricoltura è gestita molto male: utilizza colture idroesigenti, che consumano il 60% dell’acqua disponibile, ed è condizionata da una strategia della politica agricola comunitaria quanto meno discutibile. La cattiva gestione del territorio agricolo non deve quindi suggerire la destinazione ottimale del suolo 7

per i valori produttivi e naturali, ambientali e paesaggistici. E questo ci spinge a dire che anche il territorio extraurbano è brutto. D. Anche per i servizi il brutto prevale sul bello? R. I servizi, pubblici o privati che siano, rappresentano una funzione chiave della città e dei suoi valori su tutto il territorio, e si identificano, in fondo, con la presenza dello Stato, che, fin dalla sua ritardata unificazione, è stato poco presente, se non come figura autoritaria emersa clamorosamente con il fascismo. Nell’ultimo dopoguerra, questo difetto originario è stato solo parzialmente corretto. Una politica nazionale di interventi a servizio della comunità c’è stata, finché c’è stata, quasi esclusivamente per le case popolari – l’Ina Casa – e le autostrade. Lo Stato centrale ha dimenticato le ferrovie, il sistema idraulico e quello dello smaltimento dei rifiuti, si è occupato di elettricità solo per nazionalizzare quella di origine idrica privata, trascurando per anni quella prodotta da idrocarburi, che poteva nascere pubblica con l’Eni di Mattei. I vecchi Municipi sono rimasti quale centro identitario dei servizi pubblici, con l’assistenzialismo socialdemocratico, fino al fascismo, che li ha sterilizzati affidandoli ai podestà. La loro faticosa ripresa, con la repubblica democratica, è stata mortificata dal grave errore compiuto con la soppressione dell’autonomia fiscale comunale; fino a quando, negli ultimi anni, la destra, generalmente meno presente nelle istituzioni decentrate, ha praticato una politica sistematica di svuotamento delle autonomie locali, riducendo i finanziamenti ad esse destinati, ma non le competenze. Si è arrivati al non senso di dirottare alle spese generali dei bilanci comunali gli 8

oneri di urbanizzazione pagati dagli imprenditori privati per realizzare le opere pubbliche locali. Quanto ai servizi privati destinati alle persone, in Italia sono diffusi soltanto quelli legati alle attività ricreative e del tempo libero, spesso efficienti e fonte di occupazione e di reddito; ma nei settori della sanità e dei trasporti quei servizi difficilmente sopravviverebbero senza un cospicuo sostegno di finanziamenti pubblici. Complessivamente, dunque, anche per i servizi il brutto la vince sul bello. D. In questa situazione, che è evidentemente insoddisfacente, clamorosamente insoddisfacente, di chi sono le responsabilità? Dei politici? Degli operatori economici? Dei privati? Dei proprietari delle aree? Dei costruttori? Degli architetti? Degli urbanisti che progettano e pianificano? R. Di tutti, le responsabilità sono di tutti: dei politici, degli operatori immobiliari, dei tecnici, ma anche dei cittadini, di tutti i cittadini. A me non sembra logico pensare che, anche per la città e il territorio, la responsabilità possa essere attribuita a poche categorie, ai politici definiti qualunquisticamente tutti uguali, agli operatori immobiliari visti da sinistra, ai tecnici visti da destra. Credo, invece, che tutti i cittadini siano responsabili di questo stato di cose, con il proprio comportamento quotidiano di individui singoli che mal sopportano le regole. Con questa affermazione non voglio certo assolvere tutti accusando tutti, ma, piuttosto, attribuire una corresponsabilità alla cultura della società nel suo insieme. E ciò mi fa pensare che è questa cultura che dobbiamo cambiare. Certo, architetti e urbanisti hanno la propria parte di responsabilità. Cito due casi emblematici, scelti appositamente fra i miei amici – uno scomparso, l’al9

tro in ottima salute e ancora impegnato in prestigiose attività – perché la mia valutazione possa considerarsi non polemica. Penso a due architetti che hanno progettato due importanti pezzi di città, i quali, mal realizzati, contribuiscono a far giudicare brutta la città nel suo insieme. Parlo del Corviale1 romano, progettato da Mario Fiorentino, e del quartiere Zen2 palermitano, progettato da Vittorio Gregotti. Il problema è che i due progetti sono stati affrontati con un approccio molto ambizioso ma sottovalutando l’incapacità della società italiana di realizzare interamente un disegno così complesso, e di questa sottovalutazione i progettisti sono indubbiamente responsabili. D. E quale errore è stato commesso? R. Proprio quello di non aver tenuto conto che la società italiana non era pronta all’attuazione di progetti tanto ambiziosi e complessi, sicché la loro realizzazione ha creato una cattedrale architettonica nel deserto urbano. Una più realistica e severa riflessione avrebbe dovuto suggerire un progetto ben diverso. Se non avesse sottovalutato la situazione, Mario Fiorentino non avrebbe 1 Edificio di abitazioni popolari, nella periferia sud di Roma, composto da due corpi di fabbrica, il più grande dei quali è lungo un chilometro e contiene 1.200 appartamenti e rappresenta l’esasperazione dell’idea di Le Corbusier sulle «Unités d’habitation». Abitato dal 1982, non fu mai completamente ultimato ed è stato più volte sottoposto a interventi di manutenzione, anche per le numerose occupazioni abusive di cui è stato oggetto. 2 Zona espansione nord: quartiere di edilizia popolare di Palermo per 16.000 abitanti la cui costruzione è iniziata nel 1969; è tuttora estraneo alla periferia della stessa città e non è mai stato completato anche nelle essenziali opere di urbanizzazione. Versa in condizioni di perenne degrado per l’assenza di manutenzione, per le numerose occupazioni abusive e a causa della complessa tipologia edilizia.

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progettato un palazzo lungo un chilometro, nel quale c’era tutto quello che serve in una città, una «città di fondazione», creata cioè per intero dal nulla, concentrata in un solo edificio. Una concezione utopistica, ideologica e proprio per questo sbagliata, in quanto la società non era in grado di accogliere un simile prodotto; e forse era anche sbagliato che lo accogliesse. Il quartiere Zen di Gregotti non è fuori misura, come il Corviale, ma anch’esso è un progetto complesso e ambizioso e, in questo caso, è la sua qualità molto articolata a essere fuori misura per la società italiana. D. Lo Zen è un quartiere che inventa un tessuto urbano completamente nuovo, fuori dal solco della tradizione del Movimento Moderno, molto diverso da quello di Fiorentino. R. Non sto a discutere se il progetto di Gregotti fosse o meno nel solco del Movimento Moderno, ma credo non fosse realizzabile nel tessuto urbano nel quale era destinato a calarsi. Il vero problema di un nuovo insediamento è quello di inserirsi nel contesto urbano, economico, sociale e istituzionale destinato ad accoglierlo, con la capacità di qualificare il suo intorno, senza compiere necessariamente un’azione dirompente, ma con la sicurezza di realizzarsi per intero. Io apprezzo molto i due architetti che ho citato, ma forse dovevano abbandonare la pretesa di progettare un super-quartiere, o un brano di supercittà, che la società italiana non era in grado di accogliere. D. Rinunciare anche a essere super-architetti... R. Forse sì, fermo restando che sto parlando di due fra i migliori architetti italiani. A me non piace il «super», 11

quartiere o architetto che sia. Come non mi piace il termine «soprintendente», perché non penso che ci sia un uomo «super» rispetto agli altri; neanche se fa il presidente del Consiglio. Nelle loro diverse funzioni, gli uomini svolgono un ruolo che consiste nel contribuire, insieme ai propri simili, alla gestione delle cose, e quindi sono tutti responsabili, anche gli architetti, ma non più degli altri. Gli architetti hanno dato spesso contributi più o meno consapevolmente negativi, ma non possono essere considerati capri espiatori, come per comoda polemica si è spesso fatto. Archistar non è certo un complimento, ma è la società che vuole essere star e non ha la forza né la capacità di esserlo. Le condizioni oggettive vanno comunque sempre ricordate, perché anch’esse sono un fatto con il quale misurarsi per affrontare il problema. L’ho già accennato a proposito dello sviluppo del capitalismo italiano: il ritardo nell’Unità nazionale, il municipalismo che per secoli l’ha anticipato, il fatto che in Italia, rispetto agli altri paesi dell’Europa centro-occidentale, la rendita urbana sia diventata un elemento prevalente del capitalismo, introducendovi un fattore di arretratezza, quando questo si sarebbe dovuto misurare con la modernità del profitto compatibile con il sociale. Tutto questo mi fa dire che, per comprendere l’oggi, bisogna partire dall’ultimo dopoguerra e affrontare il bilancio e la prospettiva della situazione attuale. D. Introduco un altro tema: perché i governi nazionali non hanno saputo approvare leggi capaci di affrontare a fondo i problemi delle città e del territorio? E perché i governi locali, con i loro piani urbanistici, non hanno saputo adoperare le sia pur vecchie leggi esistenti, per risolvere, almeno in parte, quei problemi? 12

R. A me sembra che questo problema di fondo sia stato colto bene da un saggio di Luciano Gallino su quello che chiama il «caso Italia» e che definisce come una «società oltre la legge». Secondo Gallino, ci sono quattro modi con cui la società italiana è oltre la legge. Il primo – quello che io ricordavo – è la violazione delle leggi da parte della stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Il secondo sta nella incapacità di fare, quando sono necessarie, leggi mature e indispensabili, come dimostra proprio il caso dell’urbanistica. La legge urbanistica italiana è ancora quella del 19423, mentre ogni paese d’Europa, dalla Germania alla Spagna, si è già dato, in successione, leggi urbanistiche nuove e diverse, che hanno seguìto l’evoluzione della disciplina, talvolta anche sbagliando, ma comunque seguendo le esigenze delle rispettive società. Il terzo modo italiano di porsi oltre la legge è quello di produrre leggi incivili, a cominciare da quelle destinate a proteggere penalmente il presidente del Consiglio e le altre tre massime autorità dello Stato. Il quarto modo è quello di essere incapaci di riformismo, e cioè di usare le pur discutibili leggi che esistono e che andrebbero utilizzate per quanto possono dare. La sintesi che fa Gallino coincide con la risposta alla tua prima domanda: sono gli italiani che, tutti insie3 Legge 17 agosto 1942 n. 1150, Legge urbanistica. È la legge fondamentale dello Stato in materia urbanistica, tuttora in vigore nonostante che dal 2001, con la riforma del Titolo V della Costituzione, la competenza legislativa in materia di «Governo del territorio» sia stata attribuita alle Regioni e allo Stato spetti solo il compito di emanare una legge sui principi fondamentali. La legge è stata applicata a partire dai primi anni Cinquanta del secolo scorso e istituisce i Piani regolatori generali (Prg) per la scala comunale e i Piani territoriali di coordinamento per quella più vasta.

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me, hanno fatto brutte le loro città, come pure il territorio, l’ambiente e il paesaggio. Ciò non è avvenuto senza contrasti, né senza coraggiosi tentativi di reagire a questo malgoverno; e, d’altra parte, c’è ancora tanto di bello da salvare in Italia, che è indispensabile tentare di riproporre quei contrasti e quelle reazioni, allo scopo di rovesciare la deriva urbanistica del nostro paese.

2.

IN PRINCIPIO ERA LA RENDITA URBANA

D. Tra gli urbanisti italiani sei quello che si è più occupato della rendita urbana. Hai già accennato al peso della rendita sull’economia italiana e sullo sviluppo del territorio. Ma com’era la rendita che, all’inizio della tua attività, descrivevi in «Amministrare l’urbanistica» del 1967? Quali erano gli elementi patologici, come si è cercato di ridurli – se non di eliminarli – attraverso la riforma urbanistica? E quale è stato il contributo della pianificazione? R. Ho già accennato al peso negativo della rendita sulla città e aggiungo subito che la rendita fondiaria urbana rappresenta il principale fattore patologico del regime immobiliare, responsabile dei suoi effetti perversi sulla città, sul territorio, sull’ambiente e sul paesaggio. Io l’ho capito quando, nel 1954, ho partecipato con un gruppo di giovani comunisti a un’indagine che ci fu chiesta da Aldo Natoli, esponente del Pci nel Consiglio comunale di Roma, per preparare un suo intervento sul nuovo Prg della capitale. Quella indagine fornì dei risultati sensazionali e imprevisti; scoprimmo, infatti, che a Roma sette soli proprietari possedevano ben 36 milioni di metri quadrati di terreno, cioè 3.600 ettari, praticamente tutti i terreni sui 15

quali nel 1954 poteva immaginarsi lo sviluppo della città. I sette proprietari erano la Società Generale Immobiliare, che ospitava capitali del Vaticano, della Fiat e dell’Italcementi, mentre alcuni degli altri erano prìncipi di Santa Romana Chiesa, membri dell’aristocrazia papalina, vecchi eredi del latifondo nell’agro romano. Questa scoperta ci fece capire, innanzitutto, il grande condizionamento che pochi soggetti esercitavano sul futuro della città e poi il fatto che queste proprietà erano tutte strettamente legate al potere politico che gestiva il Comune di Roma, utilizzando anche in modo spudorato le scelte della maggioranza consiliare. Ricordo, per inciso, che la rendita fondiaria è quella forma di reddito che, nella distribuzione del prodotto complessivo realizzato dalla società, va al proprietario del fondo, cioè della terra. Questi l’ha ereditata o l’ha comprata, ma in genere non la lavora, affidando questo compito a salariati e assumendo il ruolo di rentier; la rendita agricola, allora, si manifesta in tutti i casi in cui il proprietario non è coltivatore diretto, cioè è estraneo alla produzione e assume, dunque, caratteri speculativi. La terra, però, è una grandezza finita, quindi aumentando la domanda di prodotti della terra il rentier gode di un privilegio di tipo monopolistico, perché il mercato dei suoli agricoli è solo parzialmente concorrenziale e la proprietà agricola, nelle società preindustriali, è in mano a pochi soggetti, detentori del latifondo. La rendita urbana ha le stesse caratteristiche strutturali di quella agricola, cioè è monopolistica e speculativa; in più è anche parassitaria, perché il valore del suolo non è frutto della qualità del terreno, ma è generato dalla esistenza stessa della comunità. Infatti, anche nei casi in cui la proprietà contribuisce alla urbanizzazione del suolo, a determinare il valore dei terreni urbani è so16

lo l’esistenza della città e delle regole pubbliche che ne governano la formazione. Infine, il valore dei suoli urbani sul mercato è incommensurabile con quello dei suoli agricoli e la rendita urbana rappresenta un onere per la società, che non può essere confrontato con quello della rendita agricola. Si può dire, dunque, che, dopo le prime ricerche sul latifondo urbano a Roma, la cultura italiana cominciò a misurarsi con il problema della rendita urbana, organicamente contraria alla qualità della città e di ogni possibile piano urbanistico. La legge urbanistica, approvata casualmente in piena guerra, nel 1942, stava sperimentando in quegli anni le sue prime attuazioni. In base a quella legge era proprio il Prg a riconoscere formalmente i valori immobiliari dovuti alla edificabilità privata dei terreni scelti dal piano. La rendita fondiaria urbana, fenomeno economico proprio del regime immobiliare basato sulla proprietà privata, veniva dunque riconosciuta giuridicamente grazie al Prg. E fu così che il dimensionamento del piano, cioè la quantità dei suoli ai quali veniva attribuita l’edificabilità privata, diventò un protagonista fondamentale del dibattito urbanistico italiano. Ma non senza una certa difficoltà, perché gran parte degli urbanisti italiani razionalisti – pur essendo i più moderni e progressisti – non avvertivano appieno questa problematica. Esemplare, a questo proposito, è il caso del primo piano importante approvato in Italia in base alla legge del 1942, il Prg di Milano del 1953. Ebbene, per il piano milanese – nato dalle prime indicazioni degli architetti razionalisti –, il dimensionamento delle previsioni abitative, legato alla superficie dei suoli edificabili, non era stato neppure calcolato. Quando parecchi anni dopo, con un gruppo di studenti del Politecnico di Milano che preparavano una tesi di laurea, calcolammo per 17

la prima volta la contabilità di quel piano, scoprimmo che consentiva di realizzare 3 milioni di stanze, raddoppiando il patrimonio abitativo della città. Per la verità, le previsioni del piano parlavano di 3 milioni di abitanti, perché l’obiettivo in tutto il paese era quello di raggiungere lo standard di un abitante per stanza. Un obiettivo ambizioso, perché nel 1951, per 47 milioni di abitanti, erano disponibili appena 37 milioni di stanze. D. Allora fu difficile perfino modificare quei parametri, come se i piani non autorizzassero nuove abitazioni ma producessero bambini e come se le abitazioni venissero utilizzate automaticamente dai nuovi abitanti. R. Quell’errore, che dimentica di evidenziare l’effetto strutturale del piano, si continua a fare anche oggi, quando lo standard abitanti-stanze è raddoppiato e in Italia ci sono quasi 120 milioni di stanze: il piano, infatti, stabilisce l’uso dei suoli e non certamente il programma delle nascite. Per tornare al Prg di Milano, questo non qualificava e neppure localizzava i servizi pubblici. Sulle sue tavole erano disegnati dei circoletti, che rappresentavano le scuole medie o le elementari, senza che le norme obbligassero le proprietà immobiliari a fornire né, tanto meno, a localizzare le aree relative. E ciò accadeva mentre la legge urbanistica rendeva il piano immediatamente prescrittivo dal momento dell’approvazione, cioè autorizzava subito l’esercizio dei diritti privati, trascurando invece l’esigenza di servizi pubblici. Il Prg milanese del 1953 era allora il più importante piano italiano. Il numero 18-19 del 1956 della rivista «Urbanistica», ad esso interamente dedicato, ospitava un articolo di Luigi Piccinato – il miglior urbanista ita18

liano moderno – secondo il quale il piano milanese segnava una svolta storica dell’urbanistica italiana. Anche se quel piano non quantificava la quota di rendita attribuita ai suoli edificabili e non individuava quanti e quali servizi pubblici si dovessero realizzare. Pochi anni dopo, nel 1962, lo stesso Piccinato firmò il Prg di Roma. Ma, anche questo, non calcolava il dimensionamento delle residenze, delle attività produttive e dei servizi pubblici. Quando lo analizzammo parecchi anni dopo, risultò che, mentre nel 1962, a Roma, c’erano 2 milioni di stanze e 2 milioni di residenti, quel piano prevedeva complessivamente 5 milioni di stanze, con un incremento di 3 milioni di stanze, oggi diremmo circa un milione di alloggi. Ricordo che allora il dimensionamento si calcolava in stanze, mirando a raggiungere – come ho già detto – una stanza per ogni abitante; oggi si preferisce dimensionare il piano per famiglie e alloggi, come fanno abitualmente anche gli operatori del mercato abitativo. A proposito di questo dibattito, credo sia giusto ricordare l’insegnamento di Plinio Marconi, professore di Urbanistica all’Università di Roma, un accademico e non certo un razionalista, uno dei pochi urbanisti a occuparsi del dimensionamento del piano. La sua interpretazione, che io e altri giovani contestavamo accanitamente, era però sbagliata dal punto di vista teorico oltre che pratico. Marconi, infatti, suggeriva di partire dai trend della produzione abitativa degli ultimi 20 o addirittura 30 anni, convenientemente arrotondati, e di usare questo risultato per dimensionare il piano previsto per i successivi 10-15 anni, come se in questo periodo la città dovesse triplicare il suo patrimonio edilizio. In effetti, mentre eravamo in piena espansione, era comprensibile proporre quei trend, proprio perché i danni creati dalla rendita fondiaria non erano ancora cono19

sciuti. Eravamo usciti dalle distruzioni della guerra con 35 milioni di stanze per 45 milioni di abitanti e la ripresa edilizia era comprensibilmente lenta. Marconi era un docente molto tollerante e i suoi assistenti, quasi tutti comunisti, criticavano il suo insegnamento; cosa che facevo anch’io con gli studenti a me affidati, ricordando loro quanto insegnava l’esperienza, cioè che programmare con il piano molte aree edificabili non ne riduceva il prezzo. Così, tutti gli anni, quando, sul finire del corso di Urbanistica, Marconi faceva la sua lezione sul piano di Bologna, sapevo che avrei dovuto chiarire molte cose ai miei studenti. Il sindaco di Bologna, il comunista Dozza – certamente un grande sindaco –, aveva infatti affidato la consulenza del piano a Marconi solo perché vincitore del concorso bandito nel 1938 dal podestà fascista della città, restando del tutto indifferente alle sue strategie urbanistiche, che anzi finì per condividere con la scelta di un piano per un milione di abitanti, quando Bologna non arrivava ancora a 400.000 residenti. E, a questo punto, mi toccava di spiegare ai miei studenti che quell’enorme dimensionamento non solo era del tutto irrealizzabile, ma riconosceva la rendita urbana su una grande quantità di aree allora destinate all’agricoltura. D. Siamo, dunque, arrivati a parlare della rendita urbana e delle sue manifestazioni patologiche. R. Dico subito che, pur non essendo marxista, ho cercato ostinatamente nel Capitale di Karl Marx1 la sua in1 Karl Marx (1818-1883), Il Capitale, Libro terzo, Il processo complessivo della produzione capitalistica, cap. XLVI, Rendita relativa a terreni fabbricabili. Rendita mineraria. Prezzo della terra, Newton Compton Editori, Roma 2006.

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terpretazione della rendita urbana, e ho spesso ricordato la mia delusione, quando la trovai relegata in un capitoletto del terzo tomo, insieme alla rendita mineraria. La teoria della rendita urbana era, invece, chiaramente illustrata dalla economia classica liberale di origine anglosassone, che esclude le aree fabbricabili dal mercato concorrenziale – il cosiddetto «mercato perfetto» – nel quale la larga disponibilità di una merce ha l’effetto di ridurne il prezzo. Le aree fabbricabili, secondo l’economia classica, appartengono, invece, al mercato oligopolistico, quello in cui pochi grandi proprietari impongono un prezzo che viene accettato dalla moltitudine dei piccoli; e per questo l’oligopolio viene definito collusivo. Su Amministrare l’urbanistica, il mio libro che tu hai prima ricordato, per indicare in poche parole come anch’io valutavo la rendita urbana citai deliberatamente due studiosi democristiani, Pasquale Saraceno e Nino Andreatta. Saraceno, che nel 1962 diresse i lavori della Commissione nazionale per la programmazione, in un convegno del suo partito affermò: «Non può esservi dubbio [...] che tra i vari fattori della produzione non sono certamente compresi i proprietari di aree che beneficiano di plusvalori; l’attribuzione dei plusvalori stessi ai proprietari delle aree si risolve quindi nella sottrazione di una quota di reddito nazionale alle categorie, qualunque esse siano, che lo hanno prodotto. Ed è quindi un fenomeno che, in una società ordinata, non è consentito». Mentre, nello stesso convegno, Andreatta, che poi fu ripetutamente ministro, rincarava: «L’appropriazione privata dell’aumento di rendita urbana derivante dalla crescita delle città è difficilmente giustificabile, anche rispetto alle premesse di valore più ortodossamente capitalistiche». La rendita urbana si forma, infatti, sulle aree che partono dalla originaria condizione agricola e sono 21

coinvolte dallo sviluppo delle città, anche a prescindere dal riconoscimento di un piano regolatore. In teoria, il costo di un’area urbana di proprietà privata dovrebbe essere composto dal suo valore agricolo non più sfruttato e dal costo delle urbanizzazioni indispensabili a farla diventare parte della città; e qualunque plusvalore aggiunto a questi costi, secondo i due studiosi democristiani citati, «non rappresenta un fattore di produzione» e «in una società ordinata non dovrebbe essere consentito». In effetti, le opere di urbanizzazione – le infrastrutture tecniche e le attrezzature sociali – dovrebbero essere finanziate interamente dagli operatori immobiliari privati – anche se ciò inizialmente non avveniva e oggi avviene in misura molto limitata – e comunque è giusto che le stesse siano caricate sul costo dell’area urbanizzata. In tale costo non è, però, compreso il fondamentale contributo al valore finale dell’area urbana, rappresentato dall’esistenza stessa della città; contributo che, essendo fornito dalla comunità nel suo insieme, appartiene a questa e non certo alla proprietà immobiliare privata. Quello che Saraceno chiama plusvalore rappresenta, dunque, l’ammontare della rendita urbana, che si aggiunge al costo finale delle costruzioni. Questo plusvalore nel dopoguerra è cresciuto continuamente in valore assoluto e in percentuale, rispetto ai costi di costruzione e di urbanizzazione. E rappresenta ormai da un terzo alla metà del prezzo delle nuove abitazioni. Ciò conferma largamente la teoria dell’economia classica, secondo la quale la presenza dell’oligopolio collusivo impedisce la formazione di concorrenza fra le aree fabbricabili, anche se presenti sul mercato – perché previste da un piano – in misura assai sovrabbondante rispetto alla domanda. 22

Ciò spiega perché, fin da allora, considerassi erroneamente sovradimensionato il Prg ispirato da Marconi per Bologna, adottato nel 1955 e approvato nel 1958. D’altra parte, se Bologna pianificava un milione di abitanti, le altre città non erano da meno: per Milano si pensava a 3 milioni di stanze, per Roma a 5 milioni e per Genova addirittura a 8 milioni di stanze, un caso paradossale per una città dal territorio così accidentato. La notevole influenza della rendita urbana sul regime immobiliare italiano e il sistematico sovradimensionamento dei piani, fino a tutti gli anni Cinquanta, hanno danneggiato fortemente le città e i cittadini. Penalizzando innanzi tutto quella che oggi viene chiamata la «città pubblica», cioè il sistema dei servizi pubblici urbani e di quartiere, per il quale gli operatori immobiliari non fornivano i finanziamenti e addirittura neppure le aree, così che le città sono cresciute senza buona parte dei servizi indispensabili. La rendita ha poi influito, in Italia più che negli altri paesi europei, sul costo delle costruzioni e in particolare delle abitazioni, danneggiando così direttamente la condizione economica delle famiglie, specialmente dei lavoratori. C’è però un terzo fattore negativo che la forte presenza della rendita ha fatto pagare all’Italia più che ad altri paesi, ed è rappresentato dalla liquidità sottratta in grande misura all’economia nazionale. In sostanza, la rendita urbana è entrata in conflitto con i profitti industriali, sottraendo alla produzione una parte considerevole degli investimenti necessari. E da questa constatazione nasce la mia polemica con gli economisti italiani, per la scarsa attenzione che, in maggioranza, hanno prestato alla rendita urbana, perfino in relazione alla vitalità del sistema industriale e produttivo. 23

In conclusione, riprendendo il tema iniziale dell’intervista, la rendita urbana ha influito anche sulla bruttezza e sulla bellezza delle città, ed è la prima causa di quella che ho definito la città brutta. Poi, naturalmente, ci sono le responsabilità politiche e culturali, l’incapacità di fare leggi e piani che affrontino la rendita e ne riducano, fino ad annullarli, gli effetti negativi. Una situazione che la riforma urbanistica avrebbe dovuto risolvere. D. Affrontiamo allora il tema della riforma urbanistica, un tuo impegno costante, che hai condotto nell’Istituto nazionale di urbanistica2 (Inu), come amministratore e anche come urbanista. Il tuo impegno come assessore al Comune di Bologna, all’inizio degli anni Sessanta, ha rappresentato una nuova linea urbanistica per la sinistra bolognese e regionale, ma anche per la politica urbanistica nazionale. Le due cose, dunque, si sovrappongono. R. A questo punto, in effetti, le vicende urbanistiche si intrecciano fortemente con le mie vicende personali, perché all’inizio degli anni Sessanta mi venne richiesto di candidarmi al Consiglio comunale di Bologna, per essere poi eletto assessore all’Urbanistica, nella lista del Pci, guidata dal sindaco Dozza. Allora gli assessori non erano nominati come oggi dal sindaco, ma erano consiglieri comunali eletti, che, pur restando membri del Consiglio, entravano nell’esecutivo, cioè nella Giunta. 2 Fondato nel 1930, l’Istituto nazionale di urbanistica è stato riconosciuto come «ente di alta cultura» da un regio decreto del 1943 e, nel 1949, da un decreto del presidente della Repubblica sulla base di uno statuto completamente rinnovato. Pubblica regolarmente due riviste: «Urbanistica» dal 1932 e «Urbanistica Informazioni» dal 1973.

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Io ho fatto l’assessore per sei anni, dal 1960 al 1966, ma, anche quando mi sono dimesso dalla Giunta, sono rimasto fino al 1970 consigliere comunale, continuando a lavorare attivamente per il piano in un altro ruolo. Lo spostamento a Bologna, a parte il dover cambiare la mia esistenza, mi pose in una condizione di oggettiva leadership nella regione e addirittura nel paese, per ciò che riguardava la politica urbanistica del Pci: allora il Comune di Bologna era la sola grande amministrazione diretta dai comunisti. In quegli anni m’è capitato talvolta di scrivere un articolo di fondo per «l’Unità», cosa abitualmente riservata ai dirigenti del partito, e così ho finito per assumere un ruolo di responsabilità nazionale; sapendo, però, che non avrei scelto l’attività politica per la vita, ma che, finita l’esperienza, sarei tornato a fare l’urbanista e il professore universitario. Anche se «amministrare l’urbanistica», in un Comune grande o piccolo, è comunque, secondo me, un lavoro professionale, come è successo in Europa, a partire dalla Germania di Weimar, prima del nazismo. E io l’ho quasi teorizzato, pensando che un buon urbanista aveva tutto da imparare da una esperienza come amministratore pubblico. Per dimostrarlo, ho appunto scritto anche un libro, Amministrare l’urbanistica. Ma penso pure il contrario, cioè che gli amministratori pubblici non possono considerare l’urbanistica soltanto una disciplina tecnica e che, tanto per riprendere un discorso già fatto, le principali scelte urbanistiche di una città sono scelte apertamente politiche. Il che, del resto, spiegava l’invito, che mi era stato fatto, di essere eletto assessore per cambiare la linea politica dell’urbanistica bolognese, per costruire una linea alternativa a quella che c’era oggettivamente. Infatti, a Dozza, che proponeva la sua Bologna da un milione di abitanti, una vol25

ta chiesi scherzando, ma polemicamente: «Scusa, Pippo, siccome gli abitanti della provincia di Bologna sono 840.000, quelli che mancano al milione, dove li andremo a prendere, a Ferrara o a Modena?». Dozza ci rise su, ma cominciò a rendersi conto che la scelta di un piano per un milione di abitanti era una scelta politica, e non una scelta politica di sinistra. Così, con un impegno personale che mi ha spinto a essere un uomo dai molti mestieri – il consulente dei piani, il professore universitario e anche l’amministratore pubblico –, mi sono trovato a essere uno di coloro che hanno costruito la riforma urbanistica basata sul contrasto alla rendita. La riforma – devo dirlo esplicitamente – nacque culturalmente nell’ambito dell’Inu e proponeva una soluzione pienamente capitalista. Con la riforma, infatti, i terreni agricoli che l’espansione faceva diventare urbani attraverso il piano andavano espropriati a prezzo di mercato agricolo e urbanizzati a spese del Comune: resi urbani, cioè, perché dotati di tutti i servizi necessari, e poi rivenduti agli utilizzatori, gravando sul costo del terreno soltanto le spese che il Comune aveva sostenuto per le urbanizzazioni. E gli utilizzatori sarebbero stati in gran parte i costruttori privati che realizzavano case, fabbriche, negozi e uffici, mentre nelle mani del Comune restavano soltanto i terreni dei servizi già costruiti. D. Ti interrompo per chiederti una precisazione: questa soluzione, che, come tu hai ricordato, nasce all’interno dell’economia capitalista, non era un’invenzione italiana, ma era già stata sperimentata in altri paesi. È stata forse trasferita in Italia in modo sbagliato? R. Ecco, ci sarei arrivato: quel meccanismo di acquisizione generalizzata – urbanizzazioni a spese del Comu26

ne e rivendita dei suoli al costo di produzione senza aggiunte speculative, riconoscendo soltanto la rendita agricola – è stato applicato in Italia con il grave errore che tu mi hai suggerito di ricordare. In base alla riforma, infatti, la città può nascere rispettando pienamente il piano, buono o cattivo che sia; uno strumento in base al quale tutti i servizi vengono realizzati, la rendita urbana non grava sugli utenti e la liquidità non è rastrellata dagli investimenti immobiliari, ma resa libera per gli investimenti produttivi. Questa operazione politica è fatta propria dal ministro Fiorentino Sullo, il primo degli avellinesi della sinistra democristiana, che aveva accettato come consulenti gli uomini dell’Inu e gli economisti della sinistra democristiana. L’operazione fu appoggiata peraltro dalla Nota aggiuntiva del ministro del Bilancio La Malfa, come risulta dai documenti che io stesso preparai per i suoi principali consulenti, gli economisti Paolo Sylos Labini e Giorgio Fuà. Per questa scelta politica si schierano insieme i tre grandi partiti di massa, la Dc, il Psi e il Pci, con un vero e proprio accordo. Io ne sono stato testimone, quando facemmo incontrare, nella vecchia sede romana dell’Istituto nazionale di urbanistica, in via Santa Caterina da Siena, un rappresentante dei socialisti, Riccardo Lombardi, che avevo conosciuto dopo la Resistenza nel Partito d’Azione, e Aldo Natoli, responsabile dell’urbanistica per il Pci, amico di vecchia data. Per la Dc partecipò il presidente dell’Inu, Camillo Ripamonti, sindaco di Gorgonzola, della sinistra democristiana lombarda, che rappresentava a pieno titolo il suo partito. Gli uomini dell’Inu presenti nella commissione di consulenza per la legge erano Giuseppe Samonà, Luigi Piccinato e Giovanni Astengo. Astengo, in particolare, è stato quello che ha più lavorato ai testi, insieme a Michele 27

Martuscelli, un grand commis dello Stato, direttore dell’Urbanistica al ministero dei Lavori Pubblici, che ha rappresentato un punto di forza di tutta l’operazione. Appariva un accordo politico trasversale, certamente difficile, perché i comunisti erano feroci avversari dei democristiani e polemici contro il centro-sinistra di allora, formato da democristiani, socialisti e repubblicani; eppure, un incontro fra forze riformiste di partiti in quel momento schierati in campi diversi si mostrava possibile, almeno sull’urbanistica. A questo punto, però, commettemmo l’errore che probabilmente fece fallire l’operazione, un errore che nasce dall’avere meccanicamente applicato l’esperienza a cui ci ispiravamo, quella dell’espansione delle città inglesi agli inizi dell’Ottocento. Allora in Inghilterra la proprietà fondiaria era in mano ai landlord, i grandi proprietari terrieri, e in fondo sei dei sette proprietari romani del 1954 – a parte l’Immobiliare – erano anch’essi landlord. Tuttavia, sia i latifondisti sia gli imprenditori, che allora rappresentavano le forze emergenti della città, non disponevano certamente di grandi liquidità, e ricorsero a un meccanismo con il quale i costruttori affittavano per novantanove anni i terreni, versando annualmente una quota modesta, cioè un novantanovesimo del valore del terreno. E su quei terreni presi in affitto, gli imprenditori costruirono le case a schiera, le terrace houses caratteristiche delle espansioni urbane londinesi e poi di tutte le città inglesi, abitazioni anche queste da affittare. Quindi, terreni in affitto, edificati con case in affitto. Nessuno si domanda perché originariamente in inglese la parola rendita non esisteva, ma rent, in inglese, vuol dire affitto. E allora, la rendita che cos’è? Praticamente, è l’affitto capitalizzato per novantanove anni. 28

Molti fautori della riforma urbanistica, come il mio amico Nino Andreatta, consulente del presidente Moro, temevano che le grandi immobiliari, dopo aver comprato i terreni al netto della rendita, poi, edificandoli e dandoli in affitto, avrebbero potuto far riemergere la rendita urbana sopra una notevole quantità di suoli edificati, che, dopo venti o trenta anni, potevano essere demoliti, ricostruiti e venduti a prezzi speculativi. Per aggirare questa eventualità, si pensò di utilizzare un meccanismo che non cedesse la proprietà dell’area dopo averne eliminato la rendita: usando il diritto di superficie, figura giuridica già esistente, si consentiva a chi costruiva la proprietà della casa, ma non dell’area, la quale restava di proprietà comunale e per la quale, all’inglese, si pagava un affitto. Questa soluzione, dal punto di vista tattico, rappresentò il tallone d’Achille della riforma. Infatti, la destra politica ed economica sferrò un attacco micidiale contro la proposta di legge, accusata di voler nazionalizzare i suoli e, perfino, di espropriare le abitazioni già costruite. I parenti di Sullo accusarono il ministro di volerli privare delle antiche case di famiglia! Questo aspetto della proposta di legge ne diventò l’elemento essenziale e fece presa sull’opinione pubblica, consentendo al Partito Liberale, che in Italia rappresentava la destra reazionaria e contava dall’1 al 2% dei voti, di crescere all’8%; la Dc si spaventò e finì per ritirare clamorosamente il disegno di legge. Dunque, fu un grave errore tattico non aver capito come la soluzione del diritto di superficie, che separava il diritto di proprietà dell’area dal diritto di edificarla, era particolarmente sgradita in Italia ai proprietari esistenti, ai molti potenziali e, in particolare, alle banche, abituate a considerare casa e terreno indissolubili qua29

le garanzia principale di ogni prestito concesso. All’errore tattico – che non capirono urbanisti ed economisti, ma anche i politici – si aggiunse un errore culturale, disciplinare e questo, per urbanisti ed economisti, fu, in fondo, più grave. Infatti, sottovalutammo completamente un processo già iniziato agli inizi degli anni Sessanta, quello della diffusione della casa in proprietà, stimolato dalla sistematica politica promossa dalla Dc. Ho spesso citato ai miei studenti del Politecnico di Milano un manifesto democristiano stilato in un’epoca non sospetta, che, in polemica con la sinistra, recitava: «Non tutti proletari, ma tutti proprietari». Affermazione allora straordinariamente profetica, che esprimeva la linea politica tesa a potenziare fortemente la diffusione delle case in proprietà, rispetto a quelle in affitto, tipiche di un regime immobiliare più diffuso in Europa che in Italia – ma che alla lunga si è affermato anche fuori d’Italia – e che ha portato il nostro paese a superare oggi l’80% degli alloggi in proprietà. Ebbene, la prospettiva di una proprietà privata diffusissima escludeva il pericolo che grandi immobiliari proprietarie di alloggi in affitto potessero condurre, dopo l’applicazione della riforma, massicce operazioni speculative. La proprietà privata diffusa, che giustamente ci preoccupava per altre ragioni – rigidità sociale e territoriale, impegno prevalente del risparmio familiare –, da questo punto di vista riduceva il rischio che la rendita riemergesse nelle mani delle grandi immobiliari. Aggiungere il diritto di superficie all’esproprio generalizzato dei suoli che, da agricoli, diventavano urbani fu, dunque, un grave errore, perché non era in alcun modo necessario a sconfiggere la rendita urbana. A posteriori non possiamo dire che la riforma sarebbe passata se, nella proposta di legge, non avessimo aggiunto il diritto di 30

superficie. Resta, comunque, la valutazione dell’errore commesso, tattico, ma anche strategico, che, in un’operazione riformista, fu un errore di inconsapevole massimalismo. D. Dunque, fu il diritto di superficie a indurre le forze politiche di governo a non approvare la legge Sullo. Cosa avvenne dopo quella decisione? R. Il leader socialista Nenni dichiarò, tempo dopo, che, per impedire la riforma, gli avevano «fatto sentire rumore di sciabole», arrivando vicini al colpo di Stato. Persa la battaglia, ancora per qualche tempo le forze politiche che avevano sostenuto la riforma tentarono di riproporla, sollecitate dall’Inu, ma ormai la Dc l’aveva sacrificata e non era più possibile risuscitarla. I riformisti, però, non si persero d’animo e, fallita la riforma generale, si impegnarono per le riforme parziali. Rilanciando in primo luogo la legge per l’acquisizione delle aree per l’edilizia economica e popolare, che numerosi Comuni presero ad applicare in forma estensiva, destinandole largamente alle abitazioni cooperative e all’edilizia residenziale convenzionata, che, in cambio delle aree a basso costo, riduceva i propri prezzi di mercato. La legge 167 del 19623, che era stata approvata come un’anticipazione della riforma poi mancata, veniva ora usata come soluzione di riserva, perché consentiva di 3 Legge 18 aprile 1962 n. 167, Disposizioni per l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare. La legge istituisce il Piano per l’edilizia economica e popolare, che consente di acquisire tramite esproprio le aree necessarie. È stata integrata dalla legge 22 ottobre 1971 n. 865, la cosiddetta «legge sulla casa», che ha introdotto indennità espropriative commisurate al valore agricolo dei suoli, misura successivamente giudicata incostituzionale.

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espropriare le aree a un prezzo inferiore a quello di mercato e di realizzare parzialmente gli obiettivi riformisti, se applicata su buona parte delle previsioni del Prg. Questa legge offriva, infatti, aree a prezzo ribassato al settore più debole del mercato edilizio e, per questo settore, pianificava quartieri organici, ricchi di servizi, realizzando così alcuni aspetti strategici dei piani regolatori. Successivamente, nel 1967, si riuscì ad approvare un’altra legge che, con enfasi immeritata, fu chiamata «legge ponte»4, alludendo alla riforma come meta finale. La legge, comunque, servì a sbloccare alcune situazioni di arretratezza dell’urbanistica italiana: istituendo i Piani di lottizzazione convenzionata, che obbligano gli operatori a proporre progetti organici di insediamenti, per i quali i privati pagano per la prima volta gli oneri di urbanizzazione in precedenza sempre a carico della comunità. Infine, un escamotage semplice, ma efficace, riuscì a costringere i Comuni a redigere in gran numero i piani regolatori, che, venti anni dopo la guerra, erano ancora poche centinaia. La «legge ponte», infatti, pone forti limitazioni di cubatura alle costruzioni da realizzare in assenza di piano, spingendo in tal modo proprietari e costruttori a chiedere l’approvazione di Prg che consentissero densità edilizie urbane altrimenti vietate. E alla «legge ponte» seguì il decreto sugli standard dei servizi pubblici del 19685, che obbligava i Prg a ri-

4 Si tratta della legge 6 agosto 1967 n. 765 che introduce importanti modifiche alla legge urbanistica, tra le quali una forte limitazione dell’attività edilizia per i Comuni sprovvisti di Prg e l’introduzione del Piano di lottizzazione convenzionata, molto usato da allora in poi. 5 Decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444. Il decreto introduce, fra l’altro, gli standard urbanistici, cioè quantità minime di aree pubbliche per scuole, verde, attrezzature pubbliche e parcheggi da prevedere nei Prg per ogni abitante insediato e insediabile.

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servare le aree necessarie per le necessità collettive, sia pure in misura più ridotta di quanto già disponessero i parametri utilizzati in Emilia Romagna. Sempre nel 1968, la Corte costituzionale emise un’importante sentenza6 che, secondo lo slogan con il quale titolai un mio libro pubblicato in fretta e furia, rischiava di rendere tutta l’Urbanistica incostituzionale. Le obiezioni giuridiche che provocarono la sentenza riguardavano le proprietà sottoposte dal Prg a vincolo espropriativo in base alla legge urbanistica vigente dal 1942, sulle quali l’edificabilità privata non era consentita a tempo indeterminato prima dell’attuazione dell’esproprio. Le tesi sostenute dal presidente della Corte per giustificare la sentenza finivano quasi per affermare l’edificabilità naturale di tutti i suoli, cancellabile solo da vincoli ambientali posti con legge. In fondo, però, l’obiettivo della sentenza era di chiedere al legislatore di fissare una scadenza per l’attuazione degli espropri e per la corresponsione dell’indennizzo relativo. Il che fu fatto, fissando l’irrealistica scadenza a 5 anni dall’approvazione del piano. Sul momento il dibattito riguardò la tesi, tutto sommato assai difficile da far prevalere anche giuridicamente, che tutti i suoli abbiano diritto a costruire salvo indennizzo: tesi, purtroppo, abbastanza radicata nella testa degli italiani, che amano poco le regole comuni. Però l’obiezione più importante alla sentenza, che allora i riformisti non avanzarono – a cominciare da me stesso –, fu quella che tutte le destinazioni del piano,

6 Sentenza n. 55/1968 che ha dichiarato incostituzionali i vincoli espropriativi a tempo indeterminato dei Prg. In base a tale sentenza è stata approvata la legge 19 novembre 1968 n. 1187 che ha fissato in cinque anni la validità di tali vincoli.

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pubbliche e private, dovrebbero godere di pari trattamento, cioè avere la stessa scadenza e gli stessi modi di reiterazione; e che la sentenza aveva, dunque, trascurato di affrontare il problema nella sua interezza, proponendo una soluzione alla scadenza delle previsioni riguardante le destinazioni pubbliche, ma dimenticando di fare altrettanto per quelle private. Le riforme parziali furono, dunque, perseguite con modeste ma significative leggi, certamente utili per affrontare la difficile situazione urbanistica. Un contributo altrettanto importante all’evoluzione riformista fu contemporaneamente offerto da alcuni piani, che, usando la legge generale vigente e i suoi miglioramenti, trasformarono concretamente il modo di governare le città e il territorio. In sostanza, l’obiettivo di questi piani innovatori era quello di applicare volontariamente il modello urbanistico che la legge Sullo, se approvata, avrebbe reso obbligatorio: quello cioè di acquisire in maniera massiccia le aree di espansione dei Prg, per indirizzare lo sviluppo della città, garantire la realizzazione di tutti i servizi pubblici e rivendere agli utilizzatori i suoli urbanizzati senza sovrapprezzo speculativo. D. In pratica, un’applicazione della riforma, nonostante che non fosse stata approvata. È così? R. Proprio così. Suggerendo di applicare questa linea politica ai Comuni per i quali ero consulente e ricordando l’errore fatto proponendo il diritto di superficie, finii talvolta per dire che, paradossalmente, avremmo fatto meglio a sostenere, invece della legge Sullo, un semplice emendamento alla legge urbanistica del 1942 vigente, quello all’articolo 18, che attribuisce ai Comuni la facoltà di espropriare le aree di espansione, da so34

stituire con l’obbligo di espropriarle. E forse il paradosso era qualcosa di più che una battuta, perché i Comuni che elaborarono i piani riformisti negli anni Sessanta e Settanta si comportarono di fatto in questo modo. In qualche caso, si cominciò a vincolare per le abitazioni economiche e popolari le migliori aree già edificabili dei Prg vigenti, sempre sovradimensionati, destinandole agli espropri previsti dalla legge 167/1962; per poi adottare nuovi Prg fortemente ridimensionati nelle destinazioni industriali e direzionali, con alte previsioni per i servizi pubblici. Così fu fatto nel 1964 e 1965 a Modena e a Rimini, con la mia consulenza: nel primo caso creando le premesse per una pianificazione riformista poi largamente conosciuta e, nel secondo caso, dimezzando le megalomani densità delle precedenti previsioni turistiche e tentando di creare varchi verdi fra la spiaggia e il retroterra, che purtroppo non sempre si sono conservati nel tempo. Mi è poi successo di prestare la mia consulenza per un Prg che ha applicato la linea dell’esproprio diffuso a Reggio Emilia, dove un Piano per l’edilizia economica e popolare di grande qualità e di ampie previsioni era già stato curato da Osvaldo Piacentini; così per la redazione del Prg di Reggio, poi adottato nel 1967, nacque fra me e Piacentini un sodalizio culturale e umano che sarebbe durato fino alla sua scomparsa. E, insieme, nacque un rapporto urbanistico fra me e la «città del Tricolore», che mi avrebbe impegnato nei decenni per ben tre volte a lavorare per il piano comunale di Reggio Emilia. Infine, il Prg che avevo iniziato per Bologna come assessore all’Urbanistica, fu concluso da Armando Sarti nel 1970, con caratteristiche tali da farmelo considerare come mio, senza nulla togliere al merito dell’assessore 35

che ne terminò i lavori. Quel piano era stato deliberatamente iniziato quale piano-processo, proponendo tappe successive che perseguivano un disegno organico, ognuna delle quali largamente innovatrice della disciplina urbanistica dell’epoca, avendo, comunque, sempre sullo sfondo la contestazione strutturale della rendita urbana. Proprio da Bologna partì la linea che suggeriva di usare in larga misura il Piano delle aree per l’edilizia economica e popolare e di farne uno strumento che anticipava la linea riformista del successivo Prg. Quel piano utilizzava le migliori aree edificabili della città, permettendo di realizzare quartieri di edilizia sociale assai più centrali di quelli ultimati anni prima per le abitazioni popolari; fra questi il quartiere Fossolo, presto conosciuto come modello anche fuori d’Italia, che oggi, sommerso nel verde, è diventato uno dei più belli della città. La pianificazione continua bolognese affrontò poi un’altra operazione innovativa: quella del modello di salvaguardia generalizzata del centro storico nel suo insieme, che sostituì il modello della vecchia legge Bottai, approvata durante il fascismo nel 1939. Questa legge, derivata dalla legislazione francese, proteggeva soltanto i monumenti, selezionati uno per uno e affidati alle cure dei soprintendenti, funzionari statali, e non ai Comuni. Il nuovo approccio, invece, metteva in pratica la Carta di Gubbio per i centri storici del 19607, che rifiuta di isolare gli edifici di maggior valore dal tessuto cir7 Si tratta della risoluzione finale del Convegno nazionale per la salvaguardia e il risanamento dei centri storici promosso da otto Comuni (Ascoli, Bergamo, Erice, Ferrara, Genova, Gubbio, Perugia e Venezia) tenutosi a Gubbio nel settembre 1960 con la partecipazione di architetti, urbanisti ed esperti di restauro. In essa sono indicati i principi di una nuova politica per i centri storici e gli elementi fondamentali di una legge al riguardo, che non è stata mai approvata.

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costante, considerando monumento l’intero centro storico, da proteggere con uno strumento complessivo, il Prg comunale. Tuttavia, la responsabilità dei soprintendenti, che si sperava di far collaborare alla redazione del piano, non veniva eliminata. L’operazione trasformava radicalmente l’urbanistica delle zone più antiche, da pianificare insieme all’intera città e a tutto il territorio comunale. E la sua novità fu compresa dalla cultura e dalla politica nazionali e adottata come pratica urbanistica anche fuori d’Italia. Dalla nuova forma di salvaguardia pianificata sistematicamente e non gestita unilateralmente per ogni singolo edificio, scaturì per Bologna e per il paese la politica di alleggerire la pressione funzionale e immobiliare rappresentata nel centro storico dagli uffici e in genere dal terziario, stimolando la nascita di Centri direzionali alternativi, collocati all’esterno degli antichi tessuti urbani. A Bologna, l’operazione fu decentrata nella zona di espansione intorno alla nuova Fiera, con uffici pubblici e privati a partire dalla sede della Regione Emilia Romagna, dalle Borse, da sedi delle Cooperative, degli Artigiani e degli Industriali, ma anche dalla Galleria d’Arte Moderna. Gli espropri comunali pianificati riguardarono poi le nuove zone industriali, che servirono a rallentare la delocalizzazione delle fabbriche da Bologna; altri espropri esemplificarono la salvaguardia generalizzata della collina con l’attuazione di diversi parchi collinari, che rappresentarono così l’esempio concreto del vincolo ambientale applicato ai rilievi appenninici prospicienti la città, ormai caso unico in Italia di colline non edificate. Il tessuto connettivo della pianificazione continua bolognese riguarda, infine, la diffusione capillare dei servizi pubblici, iniziata nel settore della scuola media unica gravemente carente nelle periferie operaie e con37

clusa con l’applicazione degli standard urbanistici dei servizi pubblici, che quasi raddoppiarono i parametri del decreto nazionale. L’unico serio insuccesso del mio contributo all’urbanistica di Bologna riguardò, purtroppo, la mobilità, per la quale si riuscì a programmare e realizzare una buona rete di grandi arterie urbane a servizio del decentramento, ma fu di fatto rifiutata una moderna rete di trasporto urbano su ferro, con l’illusione classista che la diffusione dell’«auto per tutti» risolvesse il problema del traffico in città. L’applicazione volontaria a Bologna del modello riformista, basato sull’esproprio quasi generalizzato, sulla urbanizzazione comunale e sulla ri-cessione delle aree edificabili a prezzi non speculativi, negli anni Sessanta e Settanta della grande espansione governò felicemente la città, con risultati più che buoni. In quei venti anni, sui 2.000 ettari di suoli agricoli che diventarono urbani in base al Prg, 1.700 ettari, cioè l’85% del totale, furono espropriati o acquistati su proposta di esproprio; e la parte non acquisita fu quella dei piani particolareggiati privati, che realizzarono in periferia gli insediamenti del mercato libero, la cui qualità urbanistica dovette competere con quella assai notevole dei quartieri economici e popolari più centrali. Di fatto, per quei vent’anni a Bologna si è applicata la legge Sullo e, in larga misura, si è eliminata la rendita urbana, liberando, tra l’altro, capitali che sono andati al settore produttivo. D. Infatti – e ciascuno può verificarlo direttamente – parlando ancora di bello e di brutto, la periferia bolognese degli anni Sessanta e Settanta, al di là delle architetture, è una periferia di qualità, è una periferia diversa da quella delle altre città italiane. 38

R. Io direi anche architetture comprese, perché nel quartiere Fossolo, che ho illustrato nel libro Amministrare l’urbanistica, il verde oggi sommerge gli edifici, che sono di una corretta architettura razionalista, alti da sei a nove piani. Posso magari aggiungere una valutazione critica a posteriori, di cui ho la responsabilità culturale. L’impianto di questo quartiere è chiaramente razionalista e ha eliminato sistematicamente la strada corridoio, che, in chiave razionalista, secondo Le Corbusier, è una scelta sbagliata. Lasciammo sì i portici ai piedi degli edifici, sperando di poter ospitare successivamente i negozi, ma intanto si realizzarono i centri commerciali, e i negozi sotto le abitazioni non arrivarono più. Sotto questo aspetto, la nuova città, pure esteticamente bella, presenta una discutibile discontinuità con la vecchia, perché ha applicato in forma troppo ortodossa il modello urbanistico razionalista. Vorrei ricordare che le vicende urbanistiche determinano anche difetti oggettivi, che si aggiungono a quelli soggettivi citati per i quartieri Zen e Corviale. A Bologna è successo, per esempio, che una buona tipologia edilizia firmata da Federico Gorio al Cavedone – un progetto di belle corti a quattro piani, con giardini interni ed edifici di mattoni a vista – fu contestata dai titolari dei futuri alloggi, dopo le prime quattro realizzate. Gli assegnatari delle successive contestarono la soluzione progettata dal Comune, con un atteggiamento ostile alle corti, imponendo alla fine una tipologia a torre con 14 piani. Io, che difendevo le corti, fui sconfitto e la Giunta decise di cambiare la tipologia. Questo atteggiamento, mai apertamente confessato, ha una spiegazione puramente psicologica: gli assegnatari, immigrati dalla campagna della provincia e della regione, consideravano queste corti troppo simili alle abitazioni 39

agricole che abbandonavano. Per essi, venire in città e abitare una casa bassa, simile a quella che avevano lasciato al paese d’origine, contraddiceva l’immagine della città e, quindi, volevano la casa alta. Nel giro di pochi anni, capirono l’errore che avevano commesso e gli inquilini delle vecchie case a corte vantarono la loro condizione privilegiata, commiserando gli sfortunati che vivevano nei palazzi a 14 piani, con quattro alloggi per piano, dove i bambini giocano sul pianerottolo davanti all’ascensore e le madri devono urlare dalle finestre per chiamarli quando sono in giardino. Insomma, quasi una critica di degrado urbano. Le vicende urbanistiche sono anche queste e fare i conti con la realtà significa misurarsi con gli errori dell’opinione pubblica; ma questa è semplicemente la democrazia. Per concludere, a Bologna e a Reggio Emilia, a Modena e a Brescia, nella minoranza di Comuni che praticarono la politica riformista finché questa fu possibile, si realizzarono città a misura d’uomo e fu la città bella a imporsi. Questa politica, però, non fu praticata da tutti i Comuni amministrati dalla sinistra, che pure non erano pochi nel paese. La battaglia contro la rendita urbana restò nelle affermazioni di principio, ma nell’attuazione fu spesso trascurata sotto la pressione delle forze politiche ed economiche di destra, talvolta perfino dietro lo schermo delle necessità occupazionali e produttive del settore edilizio. La cultura economica, anche a sinistra, non ha in fondo mai ritenuto condizionanti le problematiche del regime immobiliare, isolandole dal sistema produttivo, trascurandone il peso negativo sull’economia in generale. E questo, alla lunga, sarà uno degli errori che le forze politiche riformiste e di sinistra finiranno per pagare a caro prezzo.

3.

LA SOCIETÀ NON AMA L’URBANISTICA

D. L’uso e la gestione del territorio sono stati considerati in Italia come tema di interesse generale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta; poi, progressivamente, la società ha perso quell’interesse, in parte sostituendolo con altri temi – dall’ambiente al paesaggio –, in parte considerando superata la stessa disciplina urbanistica. Come si è manifestato in concreto questo nuovo atteggiamento nella società in generale, nella cultura, nella politica, nell’Università? R. Certo, non posso fare a meno di riconoscere che l’urbanistica – ieri tutti la chiamavano così e a me, in fondo, piace spesso usare questo sostantivo tradizionale – dagli anni Cinquanta agli anni Settanta era considerata nel paese un tema di grande interesse, e che questa condizione è cambiata negativamente negli anni Ottanta e peggiorata prima e dopo la svolta del secolo. Questo giudizio deve, però, tener conto di quale fosse allora il soggetto di quell’interesse, perché è questo in fondo ad essere cambiato. Allora facevano attenzione all’urbanistica ristretti ambienti culturali e universitari, i vertici economici, politici e sindacali del paese, la stampa con i quotidiani e i settimanali per intellettuali; 41

insomma, una ristretta cerchia di persone, che decideva di quell’interesse senza tener conto dell’opinione pubblica. La maggioranza dei cittadini era sì oggetto dell’urbanistica, ma ignorava del tutto l’argomento, di cui raramente veniva investita, come invece accadde con lo sciopero per la casa indetto dai sindacati, con l’istituzione dell’Ina Casa, organismo statale per le case popolari, o con il lancio pubblicitario del piano autostradale governativo, che toccò forse il picco dell’interesse da parte dell’opinione pubblica; la quale, però, non sapeva che quegli eventi erano momenti importanti delle vicende urbanistiche nazionali. Che l’interesse per l’urbanistica sia indiscutibilmente scemato riguarda oggi, però, una fascia abbastanza ampia dell’opinione pubblica, informata ormai delle vicende del paese attraverso la televisione, il cui controllo è indubbiamente nelle mani di vertici economici e politici più ristretti e assai meno pluralisti di quelli di ieri; mentre la stampa ha visto pesantemente ridotta la sua influenza e gli ambienti culturali e universitari sono cresciuti di numero, ma ormai contano ben poco nell’indirizzare l’opinione pubblica. Spiegare il perché di questa trasformazione in fin dei conti negativa – perché l’informazione ha aumentato il suo raggio di influenza, ma non certamente la sua obiettività – non è lo scopo di questa intervista, che, però, non può prescindere dalla stessa, perché sarebbe sbagliato parlare delle vicende urbanistiche immaginando come non esistente il fondamentale cambiamento che ha investito la società italiana nell’ultimo mezzo secolo. D. E allora, dato che hai ricordato come la riforma urbanistica sia nata nell’ambito dell’Inu, potresti parlare di questo cambiamento cominciando a descrivere quello av42

venuto negli ambienti culturali ed emblematicamente nell’Istituto nazionale di urbanistica. R. L’Inu era nato durante il fascismo e, dopo la Liberazione, era stato democratizzato formalmente, finché nel 1950 si riuscì a eleggere presidente Adriano Olivetti, il grande industriale di Ivrea. Il quale, oltre a finanziare e modernizzarne la rivista «Urbanistica», fece uscire l’associazione dall’accademia e dal provincialismo, diede forza ai migliori urbanisti prima emarginati e pose esplicitamente l’obiettivo di rinnovare i piani urbanistici e la legge che li regolava. I più attivi in questa operazione furono Piccinato, Quaroni, Astengo, Zevi, Samonà, Detti, Bottoni, Belgioioso, che inizialmente – tranne Samonà – erano tutti fuori dall’Università e poi faticarono a entrarci, pur essendo i migliori urbanisti della loro generazione. La linea dell’Inu, durante gli anni Cinquanta della presidenza Olivetti, fu quella del dialogo critico con il governo nazionale e con i maggiori Comuni, evitando di arrivare a irreparabili fratture con le istituzioni, ma senza mai rinunciare alla più totale autonomia politica e disciplinare. Il prestigio di Olivetti si trasmise all’Inu che presiedeva. Molto al di là delle iniziative di Comunità, che era il suo movimento culturale e politico, Olivetti riusciva, infatti, a creare intorno a sé una possibilità di dialogo, di intesa, di collaborazione che coinvolgeva persone e addirittura partiti, altrove abituati a competere e a scontrarsi. E l’Inu usufruì dello speciale carisma del suo presidente per proporre al governo la riforma dell’urbanistica e vedersene riconoscere ufficiosamente la consulenza. D’altra parte, la personalità di Adriano Olivetti va ricordata ben oltre quanto ha fatto per l’Inu: grande industriale moderno e lungimirante, uomo di cultura 43

solidamente democratica, personalità generosa e sensibile alle problematiche sociali, ha lasciato un monumento all’urbanistica moderna nei «quartieri olivettiani» di Ivrea realizzati dalla sua azienda. Devo confessare che mi sono indignato quando c’è stato chi ha osato metterlo sullo stesso piano di Berlusconi, in un libro stampato dalla casa editrice di quest’ultimo. Arrivando alla sfrontatezza di paragonare i mirabili «quartieri olivettiani» di Ivrea, firmati da quasi tutti i migliori architetti italiani moderni, al quartiere di Milano 2, nato da una variante speculativa, che ha moltiplicato per cento i valori immobiliari dei terreni destinati in precedenza all’uso agricolo. Oggi gli splendidi «quartieri olivettiani» sono oggetto di un Museo a cielo aperto, visitati da studiosi di tutto il mondo. Invece, le abitazioni di Milano 2, passata l’euforia dei primi anni, durante i quali gli acquirenti si sono creduti dei privilegiati per la selezione di classe che li distingueva, attraversano una fase di comprensibile delusione, per il relativo isolamento del sito, che si traduce in una conseguente riduzione dei suoi valori immobiliari. Tentare di porre sullo stesso piano Olivetti e Berlusconi è un’operazione impossibile sia dal punto di vista etico che culturale; e squalifica indubbiamente chi l’ha messa in atto. In ogni modo, il gruppo dirigente dell’Inu, anche dopo la scomparsa di Olivetti nel 1960, è rimasto abbastanza coeso, malgrado le forti personalità che lo componevano. Esso non aveva, però, ampie basi periferiche e agiva come organismo nazionale, sia per il contributo dato alla legge di riforma, sia per le diverse iniziative locali, come il dibattito su Roma e Milano, Venezia e Firenze, o settoriali, come il convegno di Gubbio dal quale è uscita la nuova teoria sui centri storici. Questo gruppo dirigente – nel quale fui cooptato assai giovane, per44

ché nel comitato direttivo nazionale rappresentavo il Comune di Bologna – aveva una grande autorevolezza culturale, che sfruttava ampiamente nei rapporti con i politici, ministri o sindaci, e con la stampa. Nel 1968, però, in risposta alla dura quanto irrazionale contestazione del congresso dell’Inu da parte del movimento studentesco, l’intero gruppo dirigente – con un gesto di democrazia un po’ vecchio stile – si dimise; e nell’Inu s’interruppe il ventennio di gestione riformista iniziato con la presidenza Olivetti. È la fine di quella che ho definito «l’Inu dei maestri», che gli stessi studenti contestatori riconoscevano come tali. Per l’Inu iniziava un periodo più incerto e meno brillante, in bilico tra riformismo e movimentismo, durante il quale, però, prende forza la base regionale e cresce progressivamente un nuovo gruppo dirigente più giovane e numeroso, anche se meno prestigioso individualmente, ma portatore di una nuova vitalità. Si formò così «l’Inu dei saperi diffusi», di cui, in un momento di difficoltà dell’associazione, accettai di assumere per un anno la presidenza, riuscendo a formalizzare il cambio della guardia e a consegnare l’istituto ai nuovi giovani dirigenti prima di tornare al ruolo ormai per me più confacente di presidente onorario. Un cambiamento del gruppo dirigente che appare inevitabile dal punto di vista generazionale, la cui linea cambia modo di essere: una linea centralistica saggia, ma verticistica, diventa una linea diffusa, radicata sul territorio e di impronta meno protagonista, che, al posto del centralismo illuminato, ha veri e propri gruppi dirigenti locali e regionali. Ed è questo l’Inu che, consapevole della nuova situazione immobiliare del paese, si impegna per la riforma necessaria ad affrontare la crisi che ancora una volta investe l’urbanistica italiana. 45

D. Se questo dell’Inu rappresenta il modo con cui la cultura disciplinare registra il nuovo atteggiamento per quanto riguarda l’urbanistica, più complesso è il cambiamento per quanto riguarda la politica nazionale e locale. R. Abbiamo visto come le maggioranze politiche si siano alla fine orientate contro la riforma, ma negli anni Settanta la politica non mette al bando l’urbanistica; anzi, proprio la vicenda della riforma generale rifiutata e delle riforme parziali realizzate al suo posto, ha finito per stimolare un diverso approccio all’urbanistica da parte della politica, quello della partecipazione popolare ai temi della città. La formazione dei primi Consigli di Quartiere, organi rappresentativi che suddividono e allargano la base democratica comunale, avvenne a Bologna proprio durante la fase conclusiva del Prg adottato nel 1970. Successivamente, la soluzione bolognese si istituzionalizzò a livello nazionale con la elezione dei Consigli di Circoscrizione, anche se il termine usato è certamente meno gradevole e più burocratico di quello originario. Il primo compito impegnativo dei Consigli a Bologna fu, comunque, quello di discutere e indirizzare le scelte urbanistiche del piano nei Quartieri e, in particolare, di quelle relative ai servizi pubblici. Le decisioni comunali per la nascita e la diffusione dei nuovi servizi nella città diventarono uno degli argomenti privilegiati della politica locale negli anni Sessanta e Settanta, durante i quali si realizzò una diffusione capillare dei servizi scolastici, assistenziali, sanitari e ricreativi nei tessuti urbani, che in precedenza erano mancati quasi completamente. Emblematico il caso del Comune di Pavia, nel quale, all’inizio degli anni Settanta, la revisione del Prg mise in luce che tutti gli interstizi rimasti inedificati nella città erano destinati all’edili46

zia privata, non restando alcuna area per i servizi. L’amministrazione comunale decise allora di adottare una variante di salvaguardia allo scopo di vincolare all’uso pubblico le ultime aree rimaste disponibili; e, a tal fine, fece distribuire ai cittadini una analisi dettagliata che, quartiere per quartiere, segnalava sia i terreni urbani ancora inedificati, sia i servizi pubblici localmente mancanti. La mobilitazione popolare fu superiore a ogni attesa e la variante urbanistica che scaturì da questa partecipazione ebbe il contributo diretto di un gran numero di cittadini. Si trattò di una variante generale relativa a tutto il Comune, che prese il nome di Piano dei servizi pubblici di quartiere e dalla quale scaturì uno standard in metri quadri per abitante, che la Regione Lombardia trasformò in parametro obbligatorio per tutti i Comuni. Con gli anni Ottanta, però, la politica urbanistica entra nella fase della deregulation. Sono gli anni che a scala mondiale propongono la privatizzazione selvaggia dell’economia e in campo urbanistico diffondono in Italia l’abusivismo – fenomeno all’estero sconosciuto – al quale il governo Craxi fa seguire il primo condono edilizio, altra anomala operazione italiana. Per preparare al condono l’opinione pubblica, i media e le stesse informazioni statistiche avevano dipinto a fosche tinte il quadro di una grave crisi edilizia, che era indispensabile affrontare sopprimendo i lacci e lacciuoli imposti dall’urbanistica. Si trattava di un clamoroso falso che, però, emerse solo dopo il varo del condono edilizio; infatti, il decennio 1971-1981 è quello della massima produzione abitativa della storia nazionale, che sfiora i 23 milioni di stanze costruite. L’opposizione di sinistra non si impegnò contro la deregulation urbanistica come aveva fatto in passato per la riforma, e i Comuni, anche 47

quelli che avevano applicato l’urbanistica riformista, non furono da meglio con i loro piani. E la stessa Direzione Urbanistica del ministero dei Lavori Pubblici, generalmente aperta al dialogo con la linea politica sostenuta dall’Inu, promosse provvedimenti legislativi tesi a istituzionalizzare le varianti ai piani comunali che perseguissero singole trasformazioni sociali e funzionali nei tessuti urbani consolidati. La buona intenzione, come era prevedibile, servì il più delle volte a permettere operazioni speculative che, in cambio di modeste concessioni alla comunità, mascheravano pesanti aumenti di cubatura o cambiamenti di destinazione a esclusivo vantaggio della proprietà immobiliare. Né l’Inu, dando troppa fiducia alle buone intenzioni, seppe assumere una decisa posizione contraria all’operazione. Del resto, gli interventi più impegnativi di questo tipo furono fin da allora condotti sulla linea antiurbanistica del «progetto contro piano», con la firma di archistar di fama internazionale, che i media s’incaricarono di presentare con clamorosi apprezzamenti. All’inizio degli anni Novanta, quando le inchieste di «mani pulite» indicano che il vento sembra cambiare, i salutari processi milanesi riguardano appalti e opere pubbliche, ma non investono mai le vicende urbanistiche, e le varianti clamorosamente sospette dei piani regolatori non furono mai indagate. Perfino la positiva evoluzione disciplinare dell’urbanistica verso il territorio in generale, verso l’ambiente e il paesaggio, è stata spesso usata dalla politica, purtroppo, per dilatare a dismisura l’ambito delle scelte operative, e indirizzare l’attenzione alle problematiche planetarie ha, di fatto, allontanato le soluzioni concrete. Perché attribuire la responsabilità delle scelte a politiche di scala mondiale scarica quelle del governo nazionale e degli enti locali. 48

Mentre enfatizzare il tema degli attentati al paesaggio, se investe singoli episodi, rischia di spingere a valutazioni opinabili, e, se riguarda episodi diffusi, può anche sfociare in atteggiamenti di rifiuto indifferenziato. Insomma, anche la crescita disciplinare ha contribuito a spingere la politica più verso l’ideologia che verso precisi impegni di programmi e piani. In questo quadro, quando negli anni Novanta, sperando che il vento cambiasse, l’Inu propose una nuova riforma urbanistica adeguata ai tempi, il centro-sinistra in maggioranza non fu capace di approvarla, per dissidi tutti ideologici, e la riforma venne raccolta fortunatamente da alcune Regioni. Negli ultimi anni, la politica ha marginalizzato l’urbanistica perché, in fin dei conti, la sua visione del piano e delle sue regole – per moderne e flessibili che siano – è quella di uno scomodo impegno da mantenere, strumento poco funzionale a quelle che sembrano le esigenze attuali della politica. Insomma, la politica non ama l’urbanistica. D. A questo punto la questione riguarda anche i media, che tendono a privilegiare l’architettura piuttosto che l’urbanistica, che parlano spesso solo degli archistar, mai dei plannerstar, se posso chiamarli così. Tu hai sempre ricordato il tuo legame tra architettura e urbanistica: come si è sviluppato questo rapporto nella cultura italiana e qual è la situazione attuale? R. La mia valutazione è forse polemica. Infatti, credo che la definizione di plannerstar sia impropria, perché il planner non può identificarsi con il ruolo di star. Il planner, infatti, contribuisce direttamente all’amministrazione dell’urbanistica come consulente all’interno di una struttura pubblica, nella quale il politico ha precise 49

responsabilità, che il planner ha, però, contribuito a definire e, in qualche modo, quindi, condivide. Certo, anche l’urbanista può subire scelte fondamentali contrarie alle sue opinioni, come l’architetto può accettare le imposizioni di un politico, ma una politica e un piano urbanistici sono costruiti nel tempo in stretta combinazione fra elementi disciplinari e strategie politiche ed è questo che, durante la formazione del piano, unisce il planner e l’amministratore. Mancando questa unione, un urbanista corretto passa la mano e lascia l’incarico a un altro più malleabile. A me qualche volta è successo di farlo. La frattura fra i due ruoli è più facile che si verifichi dopo l’approvazione del piano, quando il planner ha finito il suo compito, magari l’amministratore è cambiato e con lui la linea urbanistica. Spesso è così che succede e a me non di rado è successo. Se penso, del resto, alle mie vicende personali, non posso dimenticare, però, che – a parte Bologna, dove sono stato assessore e, molti anni dopo, consulente – mi è accaduto di lavorare nel corso dei decenni a più piani successivi nello stesso Comune, esercitando per tre volte il ruolo di planner a Reggio Emilia, due volte ad Ancona, a Molinella, a Cervia e a Rimini. E, in questi casi, si è formato fra me e quelle amministrazioni un organico rapporto disciplinare, a prescindere dal rapporto con i diversi politici che si sono succeduti nel tempo. Un certo prestigio di urbanista, quindi, l’ho guadagnato, ma non credo di poter essere considerato una star; almeno lo spero, perché non lo gradirei. Quanto al legame fra architettura e urbanistica, lo rivendico perché la mia formazione di urbanista è avvenuta in Italia, e credo che ciò mi abbia condizionato a non gradire la deriva burocratica che nell’urbanistica è sempre in agguato, e ad avere una visione del territorio 50

attenta all’insieme, ma anche al dettaglio, a coniugare l’importanza delle funzioni con quella delle forme spaziali. Naturalmente, non dimentico che, al suo inizio, l’urbanistica nasce in Italia come disciplina moderna nelle Facoltà di architettura, mentre in Inghilterra tanti anni prima nasce dalle problematiche sanitarie, in Francia origina dalla geografia insegnata alla Sorbonne1, in Germania ha subìto dal principio le modellistiche spaziali di Christaller e Loesch, e che oggi ovunque è giustamente considerata una disciplina sistemica, che deve attingere a una quantità di contributi da combinare organicamente. Malauguratamente la polemica «progetto contro piano» nasconde, dietro alla disputa disciplinare – già irragionevole in quanto tale, come proporre «scultura contro pittura» –, operazioni immobiliari il più delle volte speculative. È vero, però, che l’urbanistica italiana si era trasformata negli anni Ottanta, in quanto tecnica disciplinare, in termini fortemente burocratizzati, che non si identificavano certamente con i contenuti riformisti, ma che nella polemica venivano confusi ad arte con quei contenuti. E il superamento della vecchia forma burocratizzata dell’urbanistica è sembrato a taluni potersi ottenere soltanto accantonando la disciplina in quanto tale, da sostituire con l’architettura. Io mi sono trovato in Spagna a discutere con Oriol Bohigas, un amico, grande architetto catalano – e non so se amerebbe sentirsi definire un archistar –, il quale si è fatto conoscere nel mondo internazionale per aver diret1 La più antica Università di Parigi (1253), fondata come Università teologica. Soppressa nel 1792 e riaperta nel 1821, fu definitivamente soppressa nel 1885 con l’abolizione delle Università teologiche. L’antico nome fu però conservato per la nuova Università costruita tra il 1885 e il 1901, per molti anni la più prestigiosa di Parigi.

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to l’operazione della Villa Olimpica di Barcellona. La strategia che, in questo caso, ha investito tutta la costa settentrionale della città, in origine un’area degradata di fabbriche abbandonate che ostruivano l’accesso al mare, è stata quella di realizzare una zona con destinazioni turistiche, residenziali, direzionali, stabilimenti balneari e ormeggi. I finanziamenti e le scadenze delle Olimpiadi hanno permesso di attuare rapidamente l’operazione come progetto urbano complesso, di cui solo apparentemente l’architettura rappresenta la disciplina utilizzata, perché la caratteristica dell’operazione è indubbiamente quella di una strategia di trasformazione urbanistica qualitativa. La discussione mi coinvolgeva come consulente del piano di Madrid e ai catalani non dispiaceva contrapporre il loro lavoro a quello della Capitale; si trattava, infatti, del primo piano di Madrid approvato dopo il franchismo, con una larghissima partecipazione popolare che aveva imposto una forte strategia di riequilibrio sociale fra la periferia nord-occidentale, più ricca e assai dotata di servizi, e la periferia sud-orientale, più povera e gravemente carente di servizi. Nel caso di Madrid, dunque, era la strategia di lungo periodo che i media preferivano descrivere, mentre nel caso di Barcellona era la rapidità dell’intervento attuato a colpire maggiormente l’opinione pubblica. Successivamente, Bohigas ebbe sempre più occasioni di frequentare l’Italia e qui cominciò a rendersi conto che la posizione dei riformisti come me non era certo ostile ai progetti urbani come quelli di Barcellona. Così, in un dibattito pubblico, proprio in Italia, dopo che Bohigas aveva schizzato con pochi segni essenziali l’operazione della Villa Olimpica, gli dissi chiaro e tondo che quello era un perfetto Piano strutturale dell’urbanistica riformista. Per me, infatti, l’operazione di Bar52

cellona confermava la validità del modello urbanistico riformista, la cui flessibilità è predisposta con intenzione per realizzare il piano usando largamente il progetto urbano. Di questo Bohigas si è convinto e, nel suo contributo all’Homenaje che gli amici spagnoli molto generosamente mi hanno dedicato nel 2004, è arrivato a definirmi, con amichevole paradosso, un «riformista rivoluzionario»; e in seguito si è espresso più organicamente sulla questione scrivendone sul numero 137 di «Urbanistica», in appoggio al nuovo piano riformista di Reggio Emilia, dove il rapporto fra progetto urbano e strategia urbanistica diventava fondamentale. Su questa linea, trovo con Bohigas un punto d’incontro sulla necessità che l’architettura e l’urbanistica concorrano al governo effettivo del territorio, secondo momenti diversi, che non possono essere contrapposti, ma che devono essere, al contrario, organicamente integrati. Quanto agli archistar a me sembra che, oggettivamente, siano la negazione dell’urbanistica, anche se in qualche caso cercano di non esserlo. Il caso della vecchia Fiera di Milano è abbastanza tipico: un’area per la quale in tanti anni non si era accettata l’ipotesi del decentramento, poi avvenuto soltanto verso Rho-Pero. Questo è successo, però, solo quando i valori immobiliari da sfruttare su quell’area sono diventati così alti da rendere vantaggioso l’abbandono dell’uso fieristico. D. Stiamo parlando del cosiddetto «Progetto Citylife» sull’area dell’ex Fiera? R. Appunto. Si tratta di un’operazione che ha rifiutato un’ipotesi, non certo indifferente agli interessi immobiliari, come quella del progetto di Renzo Piano, sicuramente un bel disegno di un archistar, che però teneva in 53

considerazione, entro certi limiti, le esigenze della città circostante, cioè del fatto che il carico urbanistico di un’area centrale di Milano non fosse troppo appesantito. Il progetto Piano è stato accantonato, per approvare quello di tre archistar, che hanno sottoscritto una soluzione ad altissimo sovraccarico urbanistico, obbedendo soltanto alle pretese della valorizzazione immobiliare, tali da provocare alla fine una forte perplessità nel mercato finanziario. Con un risultato architettonico largamente discutibile, se perfino il premier, abituato a mettere il becco dappertutto, ha ironizzato sulle caratteristiche morfologiche di uno dei tre stravaganti grattacieli del progetto Citylife. Il progettista prima si è indignato, ma poi si è pentito, dicendosi disponibile a qualche cambiamento. Questo caso mi sembra confermi che gli archistar sono generalmente, magari in maniera inconsapevole, strumenti usati dal regime immobiliare quale copertura di operazioni francamente discutibili. D. Per concludere su questo punto, ricordo che la scelta di quel progetto milanese è un po’ strana, nel senso che la valutazione non è avvenuta sulla qualità architettonica fra progetti diversi che, oltre a quello di Piano, erano migliori del prescelto. Di fatto non si è trattato di un concorso di architettura, ma si è premiato il maggior vantaggio economico che l’Ente Fiera avrebbe ricavato dall’operazione immobiliare. Chi ha giudicato questa gara è stato il Consiglio di amministrazione della Fiera e non una giuria di esperti mondiali che abbia detto «Questo è bello, quello è brutto». R. Ho citato Citylife perché è l’esempio recente forse più clamoroso. Il ruolo degli archistar, però, è stato prevalentemente usato per il fine che anche tu hai ricordato, cioè per sostenere gli interessi immobiliari del sog54

getto proponente. Anche se qualche volta, per fortuna, un grande architetto viene usato per realizzare una buona soluzione architettonica, inserita in un contesto urbanistico pianificato di qualità. Cito spesso il caso di Reggio Emilia, dove si è scelta una soluzione architettonica di qualità perfettamente coerente con il piano urbanistico: si tratta di un concorso privato gestito dal proponente immobiliare per dare attuazione al piano urbanistico e non per variarlo, come è successo a Milano, concorso che è stato vinto da Aimaro Isola. Non so se possiamo chiamare Isola un archistar, ma si tratta certamente di un valente architetto. L’operazione è oggi in corso di realizzazione, con una soluzione urbanistica di valore e con un’architettura sicuramente significativa. Il che vuol dire, in fin dei conti, che l’architetto non deve sempre subire le scelte della committenza, può scegliere ed essere lo strumento di buone o cattive operazioni urbanistiche, al servizio della comunità o degli interessi immobiliari. D. Su questo rapporto difficile tra urbanistica e architettura, in che modo pesa la riduzione dell’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura? E sempre a proposito di Università, i tuoi primi anni milanesi, a partire dal 1967, hanno segnato una svolta che si è nel tempo consolidata e che univa gli aspetti strutturali, il regime immobiliare e la rendita, di cui in precedenza non si era mai parlato nell’Università, ai temi dell’attualità: la casa, i servizi, le trasformazioni del sistema produttivo e della città. Il successivo affievolirsi di tale approccio non ha forse contribuito alla marginalizzazione culturale e sociale dell’urbanistica nelle stesse Università? R. Credo fosse molto difficile, quasi impossibile, che l’Università riuscisse a essere pienamente alternativa al 55

processo involutivo che investiva il regime immobiliare del paese. Era inevitabile che la crisi dell’urbanistica arrivasse nelle Università, così com’era logico che – e tu l’hai ricordato – io mi presentassi al Sessantotto milanese, nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano nel ’67-68, con una proposta didattica coerente con le mie tesi già sperimentate per i piani emiliani e per la riforma urbanistica. Una proposta che allora non definii riformista, ma che di fatto lo era; un insegnamento teso a modificare radicalmente la didattica accademica precedente e, per far questo, ad allacciarsi organicamente alle necessità di trasformazione delle città e del territorio, all’interno di una problematica largamente interessata ai temi strutturali e immobiliari. Come tu hai ricordato, nell’Università la rendita non esisteva neppure come terminologia e la lotta pianificata alla rendita era del tutto sconosciuta. I temi poi emersi gradualmente – la casa, i servizi, le aree dismesse da riutilizzare – sono tutti temi che hanno sviluppato questa didattica riformista dell’Università, nella quale mi sono espresso in coerenza con le mie visioni di urbanista. Certo, il ridursi progressivo dell’importanza dell’urbanistica nella società ha penalizzato fortemente il ruolo dell’urbanistica nell’Università e, in particolare, nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove ha avuto un ruolo particolarmente significativo, più che in altre Facoltà italiane. È triste da rilevare, ma forse era inevitabile perché la sconfitta sociale ha ridotto sia gli spazi, sia il ruolo che l’Università aveva avuto fino a quel momento; infatti, quell’insegnamento, che usciva deliberatamente dall’Università, si confrontava in maniera critico-propositiva con le amministrazioni pubbliche, nazionali e locali, occupandosi della problematica urbanistica generale e non sol56

tanto di una astratta didattica, estranea alla società. Non vedo come avrebbe potuto essere diverso: la società registra una trasformazione negativa e il contraccolpo arriva inevitabilmente a uno dei centri principali della sua cultura, che è quello dell’Università. D. Però per molti anni il tuo insegnamento, insieme a quello di un buon gruppo di docenti, ha esercitato un ruolo significativo, verso i giovani che rivendicavano l’innovazione e verso la società che si è dovuta misurare con le critiche e le proposte alternative provenienti dalla cultura universitaria. R. Io ho avuto, in effetti, la fortuna di insegnare urbanistica per 33 anni nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, sfruttando a fondo la possibilità aperta dal Sessantotto per trasformare completamente la vecchia struttura accademica ereditata dal fascismo, che nel dopoguerra ha resistito a lungo al necessario cambiamento democratico. Certamente, il Sessantotto ha avuto le sue manifestazioni estremiste e addirittura folcloristiche, ma il bilancio della trasformazione nella didattica e perfino nel costume delle Università milanesi e italiane, al Politecnico e specialmente nel settore urbanistico della Facoltà di Architettura, è stato indiscutibilmente molto positivo. Volendo rientrare all’insegnamento dopo il periodo dedicato al Comune di Bologna, non approfittai dell’ospitalità offertami a Venezia e accolsi, invece, uno stimolo proveniente da un gruppo di studenti milanesi. La Facoltà di Venezia mi sembrava allora una fortezza assediata, dove si erano asserragliati i docenti moderni, mentre la Facoltà di Milano mi offriva una battaglia in campo aperto, dove bisognava conquistare nuovi spazi alla nuova didattica. Io 57

che agli assedi preferisco le libere contese, scelsi perciò Milano, dove fui accolto senza difficoltà, pur non essendo milanese, né avendo studiato a Milano. La nuova didattica che proposi mi inserì direttamente nel clima innovativo degli anni Settanta, e nel mio primo corso feci elaborare agli studenti i piani particolareggiati di due quartieri operai e i piani regolatori di due Comuni della cintura popolare. Svolgere all’Università un lavoro di concreta esperienza professionale non era mai successo prima e fece sensazione. L’operazione era per l’epoca talmente innovativa che la neonata cooperativa editrice del Politecnico richiese gli elaborati dei piani, che pubblicò nel primo volume della sua collana. I miei studenti avevano lavorato con entusiasmo, anche se un gruppetto, pur accettando il metodo di insegnamento, non lo considerò abbastanza rivoluzionario. Da quel corso, comunque, è uscita una dozzina degli attuali docenti della Facoltà; tu lo ricorderai bene, perché eri fra quelli. Del resto, il mio non era un orientamento didattico destinato a restare isolato, e tutto l’insegnamento dell’urbanistica fu per anni valorizzato nella Facoltà di Architettura del Politecnico, aprendosi sistematicamente ai problemi urbanistici di Milano, del comprensorio intercomunale e della Regione Lombardia. I miei corsi, i lavori sperimentali svolti dai miei studenti, le loro tesi di laurea, spesso di buon valore scientifico oltre che di spregiudicata denuncia, ebbero per oggetto la realtà sociale e un’attenzione critica verso il governo urbano e territoriale. Ricordarlo sembra una ovvietà, ma ciò che oggi è dato giustamente per scontato, allora rappresentava il cambiamento più radicale. Posso soltanto ricordare che, anche quando l’orientamento e il prodotto didattico dei docenti più avanzati 58

erano in fiera polemica con la politica maggioritaria nel paese, la Facoltà nel suo insieme difese sempre la libera espressione culturale; e che all’interno dell’Università – ad eccezione del periodo in cui la Facoltà fu commissariata dal governo centrale – non ebbe sostanzialmente limiti o costrizioni. Se il Politecnico milanese fu forse la punta di diamante dell’urbanistica fra le Facoltà italiane, anche nelle altre sedi la cultura non si arrese all’involuzione prevalente, e la presenza della alternativa disciplinare conservò dalle Università un suo spazio, che era invece minoritario nella società. È solo sul finire degli anni Novanta che l’ordinamento nazionale universitario cominciò a contrarre lo spazio accademico dell’urbanistica, riducendo cattedre e finanziamenti; linea alla quale non si oppose, purtroppo, il governo di centro-sinistra, sintomo indicatore dell’insufficiente impegno riformista in questo settore della cultura. Di quanto è successo per l’insegnamento dell’Urbanistica nelle Università italiane negli anni Duemila, non sono stato testimone diretto, ma ne ho avuto la continua sconsolante notizia dai più giovani ex colleghi ed ex allievi. La sensazione che ricavo da queste informazioni è quella che, alla riduzione degli spazi materiali, corrisponda una riduzione della presenza culturale, e che la crisi, che oggi attraversa l’urbanistica nella società, stia intaccando anche la capacità di resistenza del ridotto culturale universitario. Perché riducendo di fatto il numero di giovani che l’Università avvicina all’urbanistica si riducono automaticamente le possibilità di sopravvivenza della disciplina e, in particolare, la sopravvivenza delle sue istanze innovative e riformiste. D. Un’ultima domanda sull’Università, relativamente a uno sviluppo recente degli insegnamenti urbanistici, cioè 59

la creazione dei corsi di laurea in Pianificazione, in un caso addirittura di una Facoltà di Pianificazione a Venezia, che in realtà non ha funzionato. Cosa hai da dire su questo argomento? R. Forse ricorderai che, pur molto amico di Giovanni Astengo, su questo terreno non lo seguii nella iniziativa da lui promossa a Preganziol2; infatti, non ero per nulla convinto che, addirittura in una sede spazialmente separata da quella veneziana, si potesse fare una mini-Facoltà di Pianificazione. E poi, andando sul concreto, ero preoccupato per la potenzialità professionale dei laureati, cioè per il riconoscimento del loro titolo, problema che per anni, infatti, non è stato risolto, penalizzando i laureati di quella sede. L’obiezione di fondo riguardava, però, la mia opinione che in Italia – dove l’insegnamento dell’urbanistica è nato da una costola di quello dell’architettura – non fosse utile separare l’insegnamento dell’urbanistica da quello generale della Facoltà di Architettura. E prima ho cercato di spiegare il perché. Che, invece, anche l’insegnamento dell’urbanistica debba dilatare la sua concezione originaria, passando – come gradualmente stiamo facendo da decenni – a una disciplina sistemica, che spazia dalla città al territorio, all’ambiente, al paesaggio, è una linea che ho sempre sostenuto e ho contribuito, credo, a favorire. Voglio ricordare che, quando per aspirare a una cattedra universitaria si doveva superare l’esame di «libera docen-

2 Comune in provincia di Treviso, dove è ubicata la settecentesca villa Franchetti, sede dal 1971 al 1985 (con una breve interruzione) del corso di laurea in pianificazione dell’Iuav voluto da Giovanni Astengo.

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za», ho preso per prima la docenza in Pianificazione territoriale urbanistica e solo dopo ho sostenuto l’esame per la docenza in Urbanistica. Ho sempre lavorato perché l’urbanistica nata per occuparsi delle sole città dovesse diventare un’urbanistica sempre più intrecciata con le problematiche territoriali, ambientali, paesistiche, ecologiche e anche sociali ed economiche; e in questa direzione il mio insegnamento si è sempre mosso nella Facoltà di Architettura. Purtroppo, mentre la disciplina allargava la propria dimensione culturale, il suo spazio in Italia – nelle Università e fuori – si è sempre più ridotto per scelta politica; e questa mi sembra un’altra prova della crisi che attraversa la politica del nostro paese.

4.

SIAMO ALLA QUARTA GENERAZIONE DELL’URBANISTICA

D. La città italiana è passata dall’espansione, alla trasformazione, alla metropolizzazione: la città contemporanea è, dunque, cambiata profondamente. Come si è giunti a questo? Quali sono le patologie della città metropolizzata e quali i problemi che questa propone? R. Hai citato la mia interpretazione delle Generazioni urbanistiche, considerate come grandi periodi caratteristici dell’urbanistica italiana ed europea di questo dopoguerra. Partendo dall’ultimo dopoguerra, le Generazioni urbanistiche sono iniziate con il periodo che hanno in comune tutti i Paesi, anche quelli che la guerra non l’hanno avuta, cioè con la Generazione urbanistica della ricostruzione; a questa è seguìta la Generazione della espansione urbana, che è stata sostituita gradualmente dalla Generazione della trasformazione urbana. Un amico urbanista, poco convinto della validità dell’analisi generazionale, ebbe a dire che gli sembrava «inutile come l’analisi degli strati geologici»; ma l’analisi degli strati geologici è riuscita a spiegare la tettonica a placche e la deriva dei continenti e oggi è ritenuta indispensabile per affrontare gli effetti dei terremoti. Se il paragone derisorio del mio amico fosse corret62

to, dovrei, dunque, ritenere che l’analisi generazionale urbanistica è utilissima per affrontare il governo del territorio. Oggi mi sembra, comunque, di poter dire che, dopo queste tre generazioni dell’urbanistica (Ricostruzione, Espansione e Trasformazione), siamo arrivati a individuarne una quarta: quella della Metropolizzazione. Credo, cioè, che la Metropolizzazione rappresenti l’attuale fase del processo di cambiamento urbano e territoriale, caratteristico delle nazioni dell’Europa sviluppata, esattamente come è successo in precedenza per la Ricostruzione, l’Espansione e la Trasformazione. Ricordo che il termine metropoli viene dal greco e significa «città madre»: indica, quindi, un sistema urbano dove, intorno a un insediamento centrale, si dispongono – generalmente in modo radiocentrico – insediamenti minori, più o meno grandi. Le metropoli hanno cominciato a formarsi nel ventesimo secolo in Europa e negli Stati Uniti, finché nelle aree del mondo di più recente sviluppo si sono diffuse metropoli con dimensioni demografiche e spaziali anche superiori a quelle dei Paesi sviluppati in precedenza, a cui è stato dato il nome di «megalopoli». In Italia, con l’eccezione di Napoli, le metropoli si sono formate in ritardo rispetto all’Europa e con dimensioni più contenute, finché la legge pochi anni fa ha stabilito di definire città metropolitane le dodici città di maggiore dimensione demografica. Più recentemente, il fenomeno della formazione di sistemi urbani metropolitani si è diffuso in tutto il paese, facendo nascere il brutto neologismo: metropolizzazione. Mi sembra giusto ricordare che il maggiore studioso italiano del fenomeno è Francesco Indovina, il quale se ne occupa in modo sistematico fin dal 1990. 63

La formazione della metropoli rappresenta l’ultimo effetto della rendita urbana sullo sviluppo territoriale. Perché, almeno in Europa, i centri delle città, aumentando il valore immobiliare dei propri suoli, tendono a espellere e a decentrare le funzioni che producono meno rendita, cioè industrie e abitazioni popolari, trattenendo, invece, quelle con rendita urbana più elevata, cioè abitazioni di lusso e terziario. In gergo si dice che le funzioni ricche scacciano quelle povere e questo rappresenta la fondamentale patologia strutturale del processo di crescita prima urbano e poi metropolitano. Un altro effetto patologico del processo è costituito dall’aumento forzato della produzione edilizia, che la proliferazione insediativa produce. Confrontando i dati del 1961, quando la metropolizzazione è iniziata gradualmente, con quelli del 2001, ci si accorge che lo stock abitativo italiano è praticamente raddoppiato, passando da 14 a oltre 27 milioni di alloggi, realizzati negli ultimi decenni in maggioranza nei centri medi e piccoli, mentre la popolazione cresceva soltanto da 52 a 60 milioni di abitanti. Altra ricaduta negativa della proliferazione insediativa è rappresentata dalla necessità di duplicare i servizi pubblici nelle periferie metropolitane; fra questi il principale è, in ogni caso, quello dei trasporti collettivi, in Italia ovunque cronicamente carenti. Il degrado nelle cinture intercomunali è una ulteriore ricaduta negativa del processo, che per altro si manifesta anche nelle aree centrali senza che se ne possa attribuire la diretta responsabilità alla metropolizzazione. Nella città tradizionale la politica urbanistica riformista si impegna, comunque, a riportare verso il centro gli insediamenti popolari e a decentrare le sedi direzionali, per combattere la rendita, ma insieme per preservare almeno in parte il mix sociale e funzionale della 64

città. Un processo analogo si riproduce nella città metropolitana: industrie e abitazioni popolari sono espulse e decentrate nella prima e seconda cintura intercomunale, mentre la città centrale si terziarizza e fa prevalere le abitazioni dei ceti più abbienti. In linea di massima, allora, anche per la città metropolitana, la linea riformista tenterà di conservare o di riportare nella città centrale le abitazioni dei cittadini più deboli economicamente e le industrie meno impattanti, provando a decentrare nella periferia metropolitana una parte del settore terziario. Alla situazione attuale si è arrivati con un processo di urbanesimo che in Italia è iniziato in ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Nel 1967 iniziavo il mio libro Amministrare l’urbanistica proprio ricordando il vertiginoso urbanesimo sviluppatosi dopo l’industrializzazione. Negli ultimi cento anni, le città con oltre 50.000 abitanti erano passate da 20 a 94 e la relativa popolazione era aumentata quasi di sette volte. Nel primo dopoguerra, tutto l’incremento demografico si concentra nei 32 Comuni che contano oltre 100.000 abitanti e il 43% nelle quattro maggiori città, Roma, Milano, Napoli e Torino. Il decennio 1951-1961 vede il crollo della popolazione dedita all’agricoltura, che passa dal 40% al 29%, fino a quando ai giorni nostri gli addetti all’agricoltura superano appena il 5% del totale. Questo cambiamento occupazionale sposta definitivamente la popolazione dalla campagna alla città, prima dal Mezzogiorno verso il Triangolo industriale nord-occidentale (Milano, Torino, Genova), poi verso tutte le città medie e piccole del Nord-Est, del Centro e del Sud. È negli anni Settanta che le grandi città smettono di crescere e l’incremento demografico si sposta nelle città medie e nei centri delle cinture intercomunali, dando 65

inizio alla metropolizzazione. Il fenomeno metropolitano passa poi alle seconde cinture e la crescita demografica oggi si distribuisce verso una pluralità di centri medi e piccoli, mentre il calo delle città maggiori sembra arrestarsi. In ogni modo, il fenomeno della crescita demografica riguarda ormai anche centri urbani che non gravitano sul polo centrale dei primi sviluppi metropolitani. Vorrei sottolineare che il processo di profondo riassetto demografico dell’intero paese, nell’ultimo mezzo secolo, si è prodotto senza che lo Stato abbia manifestato alcun interesse per il fenomeno, trascurando di contrastarne le patologie e di valorizzarne gli aspetti positivi. Solo negli ultimi tempi le patologie del degrado urbano sono state affrontate, in genere in termini di sicurezza e non di prevenzione sociale, e oggi si esalta strumentalmente l’aspetto razziale dell’immigrazione, che rappresenta l’ultima componente della crescita demografica in Italia. Non molto di più hanno fatto, però, gli altri Paesi d’Europa. Nel Regno Unito si sono realizzate con grande impegno urbanistico e sociale le new towns, per decentrare la crescita della grande Londra, ma il loro bilancio non sembra assai positivo; mentre le villes nouvelles, nate anni dopo intorno a Parigi per decongestionare la banlieue rouge, rappresentano oggi pericolose sacche di degrado e di reazione popolare D. Si tratta, dunque, di fenomeni europei generalizzati? R. La metropolizzazione è certamente un fenomeno comune ai diversi Paesi europei. Voglio subito aggiungere che, come per le altre Generazioni urbanistiche, anche la metropolizzazione può manifestarsi in termini positivi o negativi e l’interpretazione per generazioni è soltanto 66

l’individuazione di un periodo e non un giudizio di valore, positivo o negativo. In Italia, più di quanto è successo altrove, la metropolizzazione tende oggi a coinvolgere tutti gli insediamenti, i grandi, i medi e i piccoli centri. E si manifesta secondo due tipologie: la prima tipologia è quella che avevamo fino a ieri conosciuto come sola forma di metropolizzazione, quella che posso chiamare «centrale», perché si forma intorno a un insediamento centrale di caratteristiche significative, che spesso coincide con un capoluogo di Regione o di Provincia, intorno al quale nascono una o più corone di centri minori. In Italia, però, negli ultimi dieci anni si è formata anche un’altra tipologia d’insediamento metropolitano, quella che posso chiamare «plurale», cioè una forma di metropolizzazione che nasce senza un centro prevalente sugli altri, come insieme di poli, più o meno equivalenti per dimensione e valore. La caratteristica di eccellenza o di marginalità che possiamo ravvisare per un sistema metropolitano dipende dal ruolo che questo sistema riesce ad assumere nel contesto nazionale, nel suo complesso. Certamente la nuova tipologia di metropolizzazione, quella senza capoluogo centrale, è più facile che presenti una condizione di marginalità rispetto al territorio nazionale, ma il fatto di avere un capoluogo non significa automaticamente che il sistema metropolitano sia un sistema di eccellenza rispetto al paese. Se la metropolizzazione, come sembra, si confermerà nel tempo quale fenomeno generazionale italiano ed europeo, essa non andrà contrastata in quanto tale, così come era giusto non fare per gli altri modelli generazionali, ma anche in questo caso dovrebbe essere governata perché assuma una condizione fisiologica e produca il massimo di qualità per il suo territorio. L’esempio più noto della qualità metropolitana riguarda la mo67

bilità gestita attraverso il Servizio ferroviario metropolitano, che adopera i treni cadenzati funzionanti da venticinque-trent’anni in numerose città metropolitane tedesche: a Monaco, Francoforte, Stoccarda, Norimberga, Hannover, Brema, Colonia, Düsseldorf, nella conurbazione della Ruhr con Dortmund, Essen, Duisburg e oggi a Lipsia e Dresda. La tipologia di decentramento metropolitano come quella tedesca, molto equilibrata in termini funzionali e sociali, non ha in genere evitato, o comunque ridotto, i fenomeni di degrado delle periferie parigine, che pure sono state pianificate per intervento pubblico. Il modello di mobilità tedesco ha invece valorizzato al massimo la condizione metropolitana, con ricadute positive per i cittadini che utilizzano la rete dei trasporti. Si tratta quasi sempre di sistemi metropolitani a caratteristica centrale, che sfruttano la rete ferroviaria esistente in forma plurima, utilizzando gli stessi binari per far passare i treni ad alta velocità, i treni merci, i treni nazionali e regionali e, infine, i treni del Servizio ferroviario urbano e metropolitano. Il sistema funziona meglio nelle città metropolitane centrali, proprio perché nasce da un nodo principale e lo collega radialmente ai centri minori delle cinture esterne, nei quali ha stimolato la nascita di insediamenti residenziali, industriali e spesso anche terziari e direzionali. A questo proposito, posso rilevare come l’uso migliore del Servizio ferroviario metropolitano è quello di non duplicare in genere le attrezzature decentrate grazie alla rete di trasporti cadenzati, valorizzando, invece, le specializzazioni insediative. D. Tu sei sempre stato un sostenitore del trasporto su ferro, non in polemica ideologica contro il trasporto su gomma, ma deprecando la marginalizzazione che in Italia il 68

primo ha subìto rispetto al secondo. Mi sembra questa l’occasione buona per sottolineare l’argomento. R. Come hai detto tu, la mia non è una posizione ideologica, ma piuttosto basata su precisi elementi di conoscenza. Ho sempre rilevato, infatti, che le città italiane soffrono di una «anomalia genetica» perché, al momento dello sviluppo industriale, non sono cresciute con il sostegno del trasporto collettivo su ferro. Le altre grandi città europee sono invece passate dalle vetture a cavalli, a quelle a vapore, ai tram elettrici, e solo decenni dopo hanno visto nascere gli autobus. Questa diversità, anche quando è arrivata la grande motorizzazione, privata e pubblica, non ha mai cancellato il trasporto su ferro, in superficie e sotterraneo, mentre in Italia non solo siamo rimasti indietro con la rete ferroviaria nazionale, per i passeggeri e per le merci, ma siamo in gravissimo ritardo con lo sviluppo del metrò e abbiamo perfino smantellato una parte delle reti tranviarie urbane realizzate fra le due guerre. Quanto al modello tedesco del Servizio ferroviario metropolitano, che sfrutta l’uso plurimo della rete statale del ferro, solo pochi anni fa si è cercato di applicarlo a Roma, dove sono in esercizio molto positivamente tre linee, che sfruttano la circonvallazione ferroviaria e si spingono in periferia anche fuori dal Comune e fino all’aeroporto. A Milano, invece, hanno sbagliato a copiare il passante sotterraneo che a Monaco collega numerose linee dell’hinterland perché nel capoluogo lombardo le linee periferiche ancora non sono state riattrezzate. In Italia, il Servizio ferroviario metropolitano si sta appena oggi cominciando a disegnare, ma soffre della concezione originaria dei treni per i pendolari, né sembra aver imboccato ancora con decisione una visione moderna. 69

Il metrò sotterraneo che bene o male garantisce gran parte degli spostamenti nelle metropoli europee, offre un discreto servizio a Milano, è clamorosamente insufficiente a Roma, e si sta realizzando con impegno a Napoli e Torino, ha in funzione una breve linea a Genova, mentre i primi tratti sono in costruzione e Palermo. Altrove le iniziative sono le più disparate e irrazionali: Bologna ha progettato una sola linea di metrò sotterraneo, breve e fuori scala per i bisogni della città, e non riesce a farla partire, mentre Parma, per la quale, come a Bologna, era necessario un servizio moderno di superficie, sta realizzando un costosissimo, quanto sopradimensionato metrò sotterraneo. Infine Firenze, che aveva progettato un’ampia rete tranviaria di superficie, con tre linee che servivano città e territorio, dopo il primo tronco stazione-periferia, si è bloccata sul secondo tronco che serve il centro storico, per colpa di un problema ideologico sulla possibile convivenza dei mezzi moderni con i monumenti, lasciati per mezzo secolo alla mercé del traffico motorizzato. D. Tornando alle criticate duplicazioni concorrenziali sul territorio e alle specializzazioni insediative da valorizzare, vorrei chiederti di spiegare meglio questo concetto. Per esempio: un’Università è un servizio urbano generale che esiste in una città metropolitana e che è inutile spostare in altre parti. Basta che sia collegato bene in ogni punto del sistema territoriale. Si tratta di questo? R. Ottimo esempio. A parte il fatto che sono contrario alla proliferazione delle sedi universitarie che c’è stata in Italia, anche a prescindere dalle potenzialità che oggi può offrire un sistema metropolitano. Infatti, disseminare di sedi universitarie un’area metropolitana cre70

dendo che la proliferazione sia positiva di per sé, significa ridurre l’effetto di eccellenza che il servizio speciale dovrebbe, invece, determinare non a vantaggio del luogo in cui si localizza, ma a vantaggio di tutto il sistema metropolitano; a condizione che una rete di efficace trasporto metropolitano renda accessibile il luogo dell’insediamento che, in tal modo, diventa centrale anche se non lo è. Ti faccio un altro esempio più circoscritto, di un caso che conosco bene: a Budrio, piccolo centro dell’area bolognese di 16.000 abitanti, è nata da tempo una attrezzatura sanitaria particolarmente moderna nel settore dell’ortopedia, specializzata negli arti artificiali, dove i pazienti arrivano da tutta Italia. Forse la spinta iniziale alla sua nascita l’ha data il più conosciuto Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, ma oggi l’iniziativa vive e prospera per conto suo. Credo che in futuro si dovrà curare la qualità e l’efficienza di questo insediamento, ma specialmente la sua accessibilità con il Servizio ferroviario metropolitano, evitando in ogni modo di farlo assorbire dal sistema ortopedico del capoluogo. La condizione perché questa autonoma attrezzatura singolare si mantenga e si sviluppi nel tempo è quindi la sua reale accessibilità metropolitana che, senza cancellarne l’identità, renda questo centro raggiungibile come qualunque altra località di Bologna. D. Insomma la qualità principale della città metropolitana sembra risiedere nell’accessibilità di ogni suo centro? R. Il modello tedesco del Servizio ferroviario metropolitano – che in Germania chiamano S-bahn, dal primo impianto berlinese nato all’inizio del Novecento – risulta anche in base all’esperienza quello più adatto a garanti71

re il massimo di accessibilità nei vari centri del sistema, con il costo più contenuto. La S-bahn ha permesso di delocalizzare residenze in aree di alto valore naturale e ambientale, e industrie che si dovevano spostare dalla città centrale o far nascere con grande disponibilità di spazio, ma anche di realizzare fuori dal centro, ma altamente accessibili, i «superluoghi» tipici dei moderni sistemi metropolitani, aeroporti, fiere, centri commerciali, interporti. E, infine, di creare nuove Università o istituzioni culturali in zone ricche di verde e allo stesso tempo facilmente raggiungibili da ogni centro della metropoli. In una parola, almeno oggi in Europa, la soluzione più funzionale per le metropoli di media dimensione sembra quella servita da una rete ferroviaria prevalentemente di superficie, che sfrutta in modo plurimo i binari delle ferrovie nazionali. A questa rete, crescendo la dimensione demografica della metropoli, si aggiungono poi le linee ferroviarie sotterranee, che i tedeschi chiamano U-bahn e che sono integrate alle S-bahn. Un altro tema oggi molto attuale, a proposito della governance metropolitana, è quello della concorrenza fra metropoli, nelle regioni, nel paese e a livello internazionale. Anche in questo caso, come prima accennavo, eviterei la duplicazione delle specializzazioni funzionali. Quando un sistema metropolitano acquista una sua specificità qualitativa, la concorrenza fra metropoli dovrebbe evitare di duplicarla, tentando invece di sviluppare una diversa specificità. La duplicazione concorrenziale risulterebbe in questo caso dannosa, perché finirebbe per impoverire l’intero sistema regionale e nazionale, impegnando risorse usate per contrastarsi reciprocamente. Mi riferisco alle sedi alternative localizzate in un altro Comune e non a quelle che decongestionano le sedi localizzate nel Comune originario. In altri 72

termini, credo che la concorrenzialità fra sistemi metropolitani vada sviluppata nella creazione di eccellenze originali e non in competizioni sulla stessa specificità. D. Tu hai parlato di una quarta Generazione dell’urbanistica italiana, quella della metropolizzazione, il che presuppone, oltre che un problema generale, anche delle risposte significative. Così è stato almeno per le altre Generazioni, quando tu le hai teorizzate citavi alcuni esempi della prima, della seconda, della terza generazione urbanistica come punti di riferimento e i relativi piani. Esistono oggi punti di riferimento urbanistici? R. Ho parlato largamente in termini generali dei modelli territoriali della Generazione della metropolizzazione e vorrei ora ricordare i piani di area vasta che in passato li hanno preceduti. I primi piani di area vasta in Italia sono stati i Piani intercomunali, iniziati negli anni Sessanta. I più noti sono quello milanese, il Pim e il Pic bolognese, ma potrei ricordare anche quelli di Torino, Roma, Firenze, Venezia e quelli tentati intorno ad alcuni capoluoghi di provincia in Emilia Romagna e Toscana. Salvo quelli milanese e bolognese, gli altri piani intercomunali non hanno avuto grande influenza sulle relative trasformazioni territoriali e specialmente non hanno ostacolato l’espulsione delle «funzioni povere» indotta dalla rendita urbana. A questo proposito ricordo il dibattito con Giancarlo De Carlo che, avendo suggerito un disegno a turbina come modello morfologico del Pim, rimproverava il Pic bolognese di accettare il disegno territoriale radiocentrico esistente, preoccupandosi esclusivamente delle politiche destinate a misurarsi con la rendita urbana. A distanza di tempo, si può dire che la grande disponibilità di aree per servizi ottenuta dalla politica 73

urbanistica bolognese ha garantito oggi una grande ricchezza di dotazioni territoriali in tutti i Comuni dell’area vasta. In entrambi i casi, comunque, si è almeno ottenuta una relativa omogeneità della disciplina urbanistica attraverso il coordinamento intercomunale. Ma a Milano il Pim non è purtroppo riuscito a evitare le operazioni speculative, come quella ben nota dell’Edilnord1 per Milano 2 nel Comune di Segrate. Negli anni Settanta il tentativo di pianificazione intercomunale ha perfino spinto alcune Regioni del Nord e del Centro a suddividere il proprio territorio in Comprensori, istituzione presto lasciata cadere perché non prevista dalla piramide istituzionale rappresentativa, ma specialmente perché negli anni Ottanta le principali interrelazioni territoriali hanno superato l’ambito comprensoriale e raggiunto quello della Provincia. Alla quale poco dopo è stata conferita la potestà pianificatoria, attribuendo alle Province i Piani territoriali di coordinamento provinciale (Ptcp), previsti in modo vago dalla legge urbanistica del 1942. Questi piani si sono rapidamente diffusi grazie all’attivismo delle Province, allargando le tematiche originarie all’ambiente e al paesaggio. Per la verità, non si può dire che i Ptcp siano riusciti ad assumere reali capacità di governo per l’area vasta corrispondente: variando il loro modello redazionale, per alcuni, a un dettaglio che li fa assomigliare a piani comunali estesi a tutto il territorio e, per altri, a una genericità pianificatoria che li priva di qualunque riferimento cogente. Fra i più recenti Ptcp si possono ricor-

1 Società immobiliare che realizza i primi interventi dell’imprenditore Berlusconi nel Nord Milanese, tra i quali Milano 2 nel Comune di Segrate. Ad essa si affianca l’Edilnord Progetti, un’efficiente struttura di progettazione.

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dare i piani di Milano e di Roma. Anche questi, però, al di là delle scelte urbanistiche poco influenti, non sembra siano entrati concretamente nel sistema pianificatorio, interagendo e collaborando con i piani comunali della Provincia. Per esperienza personale credo, invece, di poter dire che il Ptcp di Bologna del 2004 rappresenta un’eccezione positiva ai difetti citati. Il piano, infatti, è riuscito a individuare e a padroneggiare concretamente le poche scelte strategiche essenziali, necessarie per governare le trasformazioni dell’area in questione, e insieme ha contribuito a generare otto associazioni intercomunali che stanno pianificando in forma coordinata le diverse parti del territorio provinciale. Il Comune capoluogo ha riconosciuto l’operazione e collabora – cosa che normalmente non succede – e tutti i Comuni della Provincia adottano, grazie al Ptcp, comportamenti omogenei sui fondamentali parametri urbanistici, ambientali e paesistici. Una singolare conferma della utilità del Ptcp bolognese si è avuta quando un imprenditore – già presidente della locale squadra di calcio e candidato sindaco senza successo nel 2009 – ha richiesto una enorme lottizzazione di 300 ettari in un Comune della Provincia, nel mezzo della campagna fra Bologna e Imola. Lo scopo era quello di edificare in piena zona agricola residenze, uffici e grandi attrezzature commerciali e sportive, per destinarne il ricavato alla costruzione di un nuovo stadio di calcio privato. Le previsioni del Ptcp bolognese, però, escludono che un nuovo polo funzionale di tali dimensioni possa nascere senza il sostegno diretto delle reti ferroviaria e autostradale già esistenti, che in questo caso mancava completamente. E di fronte alle incertezze della Regione e dello stesso Comune di Bologna, la Provincia – forte del suo strumento di governo del territorio – 75

è intervenuta senza esitazioni, scongiurando così una operazione che avrebbe avuto un disastroso esito paesistico, ambientale e urbanistico. Le esperienze dei Piani territoriali di coordinamento provinciale non sono entusiasmanti e i pochi casi positivi come quello bolognese non rappresentano, indubbiamente, una garanzia; eppure questo strumento di piano è il solo legittimo che oggi esiste in Italia per tentare una pianificazione metropolitana. Una pianificazione di contenuto «strutturale», cioè uno strumento di governo del territorio con valore giuridico, che non va confuso con il Piano strategico, cioè con uno strumento politico, i cui contenuti sono insieme economici, sociali, culturali, finanziari, che oggi in Italia non ha una formulazione istituzionale riconosciuta. Anche se per qualche tempo il ministero dei Lavori Pubblici, poi delle Infrastrutture, ha finanziato nel Mezzogiorno Piani strategici che ambivano a occupare quello spazio, ma che stranamente erano collegati con uno strumento operativo, il Piano urbano della mobilità (Pum), aumentando così l’equivocità dello strumento, che caso mai andava gestito per suo conto dal ministero del Bilancio. Resta il fatto che la cultura del Piano strategico è da tempo riconosciuta in Europa e suggerisce uno strumento di cui le grandi città e le maggiori Regioni dovrebbero dotarsi; uno strumento che individua le grandi scelte, il destino prefigurato, la vision di una comunità, sulla quale al limite gli elettori dovrebbero essere consultati. Un Piano strategico non può essere confuso in alcun modo con uno strumento di governo del territorio a scala comunale, provinciale e metropolitana. E allora, per tornare alle aree metropolitane, insisto nel proporre il Ptcp quale Piano strutturale per il governo 76

del territorio, fino a quando non se ne avrà uno migliore a disposizione. D. Il caso di Roma non rappresenta, invece, quello di un’area metropolitana che il recente Prg ha affrontato a scala comunale? R. Proprio così. È un paradosso, ma a Roma il piano comunale ha affrontato direttamente in modo molto innovativo la tematica metropolitana. Questa non aveva influenzato in passato la pianificazione comunale, anche se ricordo un mio intervento su «Urbanistica» scritto nel 1960, nel quale giudicavo indispensabile affrontare il Prg di Roma con un progetto di riequilibrio metropolitano da Civitavecchia a Latina. Parlando dell’urbanistica romana si dimentica, però, troppo spesso, la grandissima dimensione del Comune, che nel 1960 misurava circa 1.500 chilometri quadrati, oggi ridotti a poco meno di 1.300 per il distacco di Fiumicino. Nel 1960, comunque, Roma non arrivava a 2 milioni di abitanti, con una superficie urbanizzata di circa 70 chilometri quadrati, isolata nel semideserto agro romano. Pochi confronti sono sufficienti a capire come stanno le cose. Infatti, la superficie delle Province di Milano o di Napoli è inferiore a quella del Comune di Roma, ma nelle due Province intorno al capoluogo non c’è il vuoto, perché esistono antichi vitalissimi centri urbani come Legnano e Abbiategrasso, o Pozzuoli e Torre del Greco. Grosso modo, le due Province sono, quindi, due aree metropolitane. La superficie totale del Comune di Parigi è, invece, di soli 100 chilometri quadrati, sui quali oggi vivono poco più di 2 milioni di abitanti; la Grande Parigi – cioè l’area metropolitana – è estesa su tre dipartimenti, nei quali vivono circa 6 milioni di abi77

tanti, su una superficie che è poco più della metà di quella del Comune di Roma. Nei 1.600 chilometri quadrati della Grande Londra metropolitana vivono oggi 8 milioni di persone che, però, sono amministrate da 33 Comuni. Roma, invece, conta oggi una popolazione effettiva di 3 milioni di abitanti e la sua superficie urbanizzata è cresciuta ad oltre 330 chilometri quadrati. Questa enorme crescita urbana – quasi cinque volte in meno di mezzo secolo – si è, però, distribuita in disordine nell’agro romano, formando numerosi insediamenti autonomi, composti di residenze, industrie e terziario. Dei 19 Municipi (così chiamano a Roma le Circoscrizioni previste dalla legge) in cui oggi Roma è suddivisa, tutti, meno due, superano i 100.000 abitanti. Si tratta di vere città, che per dirsi realmente tali hanno, però, bisogno ciascuna di un proprio centro, caratterizzato da attività private e pubbliche, capace di dare una reale identità a queste città decentrate. È nata così per Roma la strategia delle nuove centralità, con un Prg comunale che si propone di creare numerosi centri secondari, alternativi al centro storico e all’unico nuovo centro, quello dell’Eur. E il Prg si propone di collegare le nuove centralità con un Servizio ferroviario metropolitano che utilizzi la rete statale del ferro sul modello tedesco; operazione già iniziata con tre linee, una delle quali è quella che unisce l’aeroporto di Fiumicino alla stazione centrale. Insomma, a Roma oggi un sistema metropolitano si è già realizzato, paradossalmente all’interno del Comune capoluogo, dove si è formata ciò che oggi si chiama «una città di città». Il che non esclude di considerare area metropolitana un territorio più ampio, anche oltre i limiti della Provincia, magari, come suggerii nel 1960, 78

da Civitavecchia a Latina. E una strategia per la metropoli è già stata proposta dal piano comunale: da un lato, basata su un Sistema ferroviario metropolitano che sfrutti la rete statale e si integri con quattro linee sotterranee, di cui due nuove da costruire; dall’altro, con l’obiettivo originale di dotare di nuove centralità le principali città esistenti del sistema policentrico, condizione indispensabile per far decollare la qualità urbanistica dell’intera metropoli. D. Abbiamo parlato a lungo della nuova Generazione urbanistica, quella della metropolizzazione. Però, nella città contemporanea le problematiche della trasformazione e della stessa espansione non sono ancora esaurite. E mi sembra il caso di ricordarle. R. Certamente, le componenti della trasformazione, cioè quelle relative alla sostituzione di tessuti urbani esistenti, muovono ancora in larga misura il regime immobiliare della città contemporanea, e le componenti dell’espansione, cioè quelle relative alla edificazione di terreni nudi, non sono da meno. La tematica della trasformazione è sollecitata dall’insorgere della rendita differenziale nei tessuti edilizi che da tempo fanno parte della città consolidata e sono tutt’ora urbanisticamente validi, ma anche dal dato oggettivo, riguardante parti di città che, sempre più numerose, risultano obsolete, degradate o semplicemente superate dal punto di vista funzionale. Queste parti di città sono state definite in gergo aree dismesse, anche se spesso dismesse ancora non sono, se non per opportunità urbanistica o interessi immobiliari. Talvolta la nascita delle aree dismesse è stata addirittura provocata e anticipata dalle ingenue buone intenzioni dell’urbanistica razionalista. Il Prg mi79

lanese del 1953, per citare l’esempio più clamoroso, ha destinato a residenza o terziario circa 1.000 ettari di industrie pienamente funzionanti, sperando così di stimolarne la delocalizzazione «nel sole e nel verde della campagna» e bonificare la città dalle industrie inquinanti, senza sapere che l’inquinamento allontanato così dai tessuti urbani tornava alla città nell’atmosfera e nelle falde freatiche. Quelle fabbriche hanno continuato a lavorare per anni, ma intanto i bilanci delle aziende potevano moltiplicare il valore patrimoniale dell’area, passata dalla destinazione industriale a quella residenziale o terziaria e, quando quei valori differenziali hanno raggiunto alti livelli, hanno inevitabilmente prodotto la delocalizzazione della fabbrica nella periferia metropolitana, o perfino all’estero. Le buone intenzioni dei razionalisti che hanno ispirato quel piano milanese hanno invece soddisfatto gli interessi della rendita, che allora era un fenomeno non conosciuto e del tutto trascurato, come del resto ancor oggi. Il regime immobiliare nel corso degli anni Ottanta ha prodotto un forte incremento dei valori dei suoli urbani, e in particolare di quelli centrali e semicentrali già edificati e ancora utilizzati per industrie. E proprio a Milano nasce così una strategia urbanistica che programma la trasformazione delle aree dismesse; purtroppo, questa strategia è in larga misura tesa a soddisfare gli interessi immobiliari e non quelli della comunità. Il modello è quello di riusare le aree sempre per il terziario, meglio se direzionale, e per la residenza ad alto costo, escludendo l’edilizia economica e popolare e una ampia quota destinata al verde e ai servizi pubblici. La strategia milanese per le aree dismesse è, dunque, sostanzialmente al servizio della rendita – sì alle funzioni ricche, e no alle funzioni povere – e per realizzarsi 80

non prende la forma del Prg, grazie anche a specifiche leggi regionali che promuovono singole varianti alla disciplina vigente, contrattate con la proprietà caso per caso. Purtroppo il modello milanese, sistematizzato dopo il 2000 con un «Documento di Inquadramento» di fatto sostitutivo del Prg, non solo si diffonde fra i Comuni lombardi grandi e piccoli, ma genera anche una legge nazionale, che promuove varianti sistematiche ai piani vigenti, con pretesi fini sociali e funzionali. Lo scopo della legge 179/1992 è, infatti, quello di realizzare singoli interventi non previsti dal Prg vigente, interventi il cui obiettivo enunciato è quello di trasformare parti degradate di città con riqualificazioni sociali e integrazioni funzionali; quasi che non fosse possibile approvare una legge che, magari con sostegni finanziari, incentivasse non le singole varianti, ma l’adozione comunale di Prg basati su questa strategia innovativa. Invece, sia con l’operazione milanese, sia con la legge 179/92, si è scelto di cambiare singole destinazioni dei piani vigenti, fuori da ogni contesto generale, a esclusivo vantaggio delle proprietà, contrattando con questa qualche concessione in edifici sociali o in aree pubbliche. Giustamente, questo modello viene definito criticamente «urbanistica contrattata». La nascita della Generazione della metropolizzazione alla scala di area vasta non cancella certamente i fenomeni propri della trasformazione nella città esistente, né quelli dell’espansione che continua a investire sempre nuovi suoli periferici inedificati, con edifici residenziali destinati agli acquirenti a reddito non elevato, o con attrezzature private o pubbliche che necessitano di grandi spazi, dalle multisale cinematografiche ai centri commerciali. Mentre fra gli edifici residenziali a minor costo comincia a diffondersi in Italia, in modo sistematico, la 81

tipologia dell’alloggio mono o bifamiliare con giardinetto, che prende il posto delle lottizzazioni selvagge a scacchiera del dopoguerra, generalmente abusive. Quelle villette che Le Corbusier negli anni Venti detestava definendole univers pavillonnaire e che in Italia oggi i critici schizzinosi chiamano «villettopoli», che nascono per l’esigenza combinata di abitazioni a costo non eccessivo, in genere nelle periferie metropolitane, e di alloggi allontanati dall’inquinamento e dal caos della città. Senza volerne in alcun modo prenderne le difese, ma rifiutandomi di demonizzarle, le abitazioni mono e bifamiliari, talvolta nell’accezione più elaborata delle case a schiera, vanno considerate come dato oggi presente della domanda abitativa, ma specialmente vanno conosciute al di là dell’ideologia, anche perché sono state poste all’ordine del giorno nel 2009 dal «piano-casa» del governo Berlusconi2. E allora è necessario sapere che, fra i paesi sviluppati, l’Italia è quello che ha meno abitazioni monofamiliari, che sono pari al 32,8% del totale, mentre in Spagna sono il 38%, in Francia e in Germania superano il 50%, negli Stati Uniti sono il 70% del totale e nel Regno Unito oltrepassano l’80%. Se in Italia aggiungiamo le abitazioni bifamiliari, si arriva al 40% di tutti gli alloggi. Dunque il 60% delle abitazioni italiane è ospitato in edifici a diversi piani e il condominio è la tipologia edilizia più diffusa. Lo dimostra il dato imprevisto che l’Italia è il paese del mondo con il maggior numero di ascensori funzionanti in valore assoluto, più degli Stati Uniti e della Cina. 2 Si tratta del cosiddetto «piano-casa» del governo, il cui decreto riguarda le Misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica e opere pubbliche, mentre le norme per gli ampliamenti o la sostituzione degli edifici esistenti sono state disciplinate dalle singole Regioni.

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Sfatati alcuni miti, resta il fatto che in Italia la trasformazione, cioè il riuso della città esistente – bene o male che sia condotto – non prevale ancora sull’espansione, cioè sulla costruzione di suoli non edificati. E questo fatto pone diverse questioni di strategia urbanistica nazionale, al di là della denuncia spesso mal documentata del drammatico consumo di suolo che nel nostro paese si sta facendo. Pur occupando oggi un ampio spazio fra le problematiche attuali sull’uso generale del territorio, la questione non è nuova per il dibattito urbanistico e, nella misura in cui era consentito dalle leggi vigenti, i migliori piani urbanistici hanno tentato in passato di affrontare il problema del riuso virtuoso della città esistente. D. Puoi fare un esempio concreto di come il piano urbanistico poteva affrontare ieri i problemi della trasformazione e dell’espansione e di come può farlo oggi? R. Le recenti leggi regionali riformiste hanno certamente fornito un grande contributo per affrontare il problema. Il Comune di Reggio Emilia ha adottato nel 1999 un Prg con la vecchia legge del 1942 e nel 2009 ha adottato il nuovo Piano strutturale comunale con la legge regionale riformista, e fornisce, dunque, un buon esempio che permette di fare un confronto diretto fra le due soluzioni. Infatti, il piano del 1999, del quale sono stato consulente, si era dato esplicitamente l’obiettivo di intervenire per la qualificazione della città esistente, ma si era scontrato con le difficoltà provocate dalla legislazione nazionale vigente, cioè con il Prg immediatamente prescrittivo per qualunque intervento, e con la necessità di riproporre nel nuovo piano le previsioni non attuate residue su aree inedificate – in genere nu83

merose – del vecchio piano da sostituire. Per non lasciare equivoci, in gergo urbanistico prescrittivo significa che le previsioni del piano – su aree nude o già costruite – sono formalmente obbligatorie non appena il piano è approvato. Dunque, la prescrittività del vecchio Prg proponeva interventi rigidi nello spazio e nel tempo per i quali, mancando la disponibilità manifesta della proprietà alla trasformazione di aree già edificate, le indicazioni del piano erano destinate a restare sulla carta o, peggio, a doversi attuare a spese del Comune con insostenibili espropri preventivi. D’altra parte, la volontà di non sovradimensionare le previsioni del Prg, una volta forzatamente confermate le vecchie previsioni residue su aree inedificate, non lasciavano ampi margini per nuove previsioni su aree già edificate da trasformare. In conclusione, per le riqualificazioni di aree già edificate, nel 1999 furono selezionate a Reggio Emilia un certo numero di aree dismesse, industrie o attrezzature tecnologiche, delle quali era certa l’immediata disponibilità all’attuazione della proprietà privata o pubblica, e sembrò in questa situazione un buon risultato che le proposte di riqualificazione della città esistente arrivassero al 20% di tutte le previsioni residenziali e terziarie. Per il nuovo piano del 2009, di cui sono stato ancora consulente, la legge regionale riformista – naturalmente ne riparleremo in seguito – eliminava del tutto gli ostacoli giuridici al raggiungimento dell’obiettivo desiderato. Non essendo più il Piano strutturale comunale uno strumento prescrittivo, ma programmatico – cioè un piano di indirizzi, da realizzare con strumenti successivi –, cadevano gli ostacoli posti dal piano precedente. In primo luogo, infatti, per indicare un insediamento esistente, di cui il nuovo piano sollecita la tra84

sformazione, non è più necessaria la sostanziale disponibilità a operare da parte della proprietà, eliminando ogni impegno alternativo del Comune. Né il Piano strutturale esplicita i confini catastali dell’auspicabile intervento, perché la proposta di trasformazione è programmatica e flessibile nello spazio e nel tempo. La programmaticità stimola la maturazione dell’operazione da parte della proprietà, senza obbligarla, e quando a tempo debito questa disponibilità arriverà, l’intervento potrà essere incluso nel Piano operativo comunale. Il piano operativo è uno strumento prescrittivo valido per 5 anni, scaduti i quali l’edificabilità attribuita pro tempore decade, mentre la dimensione spaziale dell’intervento sarà definita solo al momento dell’esecutività. Della trasformazione il Piano strutturale programma l’opportunità e definisce preventivamente i parametri urbanistici e ambientali minimi, che dovrà rispettare quando sarà decisa l’attuazione. Tanto per capirci, dunque, flessibilità attuativa, ma nessuna contrattazione. Inoltre, la non prescrittività dello strumento generale non costringe il nuovo piano a farsi carico dei residui inutilizzati del vecchio, che vengono sospesi e potranno o meno essere riproposti nelle attuazioni future. Tali residui, che nel vecchio Prg rappresentano un fattore di insostenibilità, non sarebbero in ogni caso un contributo al dimensionamento rigido del nuovo piano; infatti, il nuovo Piano strutturale non ha dimensioni prescrittive, ma solo indirizzi previsionali, di cui i piani operativi quinquennali terranno conto liberamente al momento dell’attuazione. E i Piani operativi potranno ridurre l’attuazione sulle aree inedificate, finché il mercato non sarà disponibile all’attuazione delle aree già edificate da trasformare. In questa totalmente mutata strumentazione giuridi85

co-urbanistica è stato assai più facile affrontare l’obiettivo di privilegiare la trasformazione della città esistente. Così, nel nuovo Piano strutturale comunale di Reggio Emilia, la riqualificazione della città esistente ammonta al 67% delle previsioni per residenze e terziario. Il piano ha scelto di programmare un certo numero di poli di eccellenza, che trasformeranno gradualmente la città dall’interno, riqualificando anche l’intera fascia di tessuto urbano che si è sviluppata nel tempo ai lati della via Emilia fuori dal centro storico. E il 33% di previsioni che riguardano ancora terreni non edificati è per lo più relativo agli insediamenti resi necessari dalla nuova stazione ferroviaria Mediopadana dell’Alta Velocità, che si trova alla periferia della città. In conclusione, con la vecchia legge, si era riusciti a destinare alla riqualificazione appena 1/5 delle previsioni; con la nuova legge riformista la riqualificazione riguarda i 2/3 degli interventi programmati dal piano. La riforma della strumentazione urbanistica consente, dunque, di perseguire scelte strategiche che erano improponibili con la vecchia strumentazione. Per concludere, la città contemporanea è cambiata radicalmente negli ultimi decenni, come sono cambiate le sue patologie e i suoi problemi. È la politica riformista che ha individuato le une e gli altri, ricercando i mezzi per affrontarli, e per far questo ha dovuto necessariamente cambiare gli strumenti legislativi e pianificatori che in passato aveva utilizzato, anche con esiti positivi.

5.

ARRIVERÀ LA RIFORMA NAZIONALE?

D. Il grande incremento dei valori immobiliari degli anni Ottanta, non a caso gli anni in cui è esploso l’enorme debito pubblico di oggi, è stato generalmente sottovalutato da economisti e politici. Intanto chi ha comprato la casa ha pagato fior di quattrini per quell’incremento. Mentre i pochi Comuni che avevano applicato la riforma dell’acquisizione diffusa dei terreni da urbanizzare, realizzando settori urbani di qualità, furono costretti a smettere. È così che emerge la necessità di una nuova riforma urbanistica? R. Il tema del debito pubblico in Italia è stato sempre sottovalutato e oggi lo è più che mai. Ci siamo sempre più curati del deficit che del debito. Certamente il deficit annuale è la spia più evidente del distacco italiano dai parametri europei di Maastricht, è l’indice del nostro comportamento sbagliato in un dato anno. Però il debito pubblico è l’indice di un comportamento del medio e lungo periodo e rappresenta la somma di anni e decenni di deficit. E allora, sottovalutare la gravità del debito è un grave errore da parte di politici ed economisti. Noi che ci occupiamo di urbanistica e di opere che servono all’urbanistica, il significato del debito 87

pubblico lo capiamo meglio di altri. Il debito alto in Italia è cominciato negli anni del Caf, nel periodo CraxiAndreotti-Forlani, negli anni Ottanta; contrastato da Ciampi e Prodi, si è aggravato pesantemente con Berlusconi e continua oggi a penalizzare l’Italia, costretta a impegnare tutte le sue risorse per pagare gli interessi di questo elevatissimo debito. D. E oggi si parla di 80 miliardi all’anno di interessi per il debito pubblico. R. Il dato è grave in assoluto, ma è più grave in confronto con gli altri paesi d’Europa, che hanno invece un debito, rispetto al Pil, percentualmente molto più basso del nostro. La Spagna, che ha un Pil leggermente inferiore al nostro, ha però un debito pubblico intorno al 40% (per la verità in aumento con la crisi), quando il nostro è oggi pari al 117% del Pil e minaccia di arrivare al 120% nel 2010; e quindi, la Spagna, pagando interessi del debito assai inferiori, ha una disponibilità di risorse di gran lunga superiore a quella italiana per investimenti sociali e infrastrutturali. Francia e Germania hanno un debito pubblico percentualmente un po’ più alto, ma che grosso modo è la metà del nostro, e quindi, ancora una volta, una potenzialità di investimento assai maggiore di quella italiana. Me ne sono accorto lavorando contemporaneamente in Spagna e in Italia. Nel 1983, quando è stato approvato il piano di Madrid al quale avevo collaborato come consulente, nella città esistevano 5 linee di metropolitana; nello stesso anno a Roma ne esisteva una sola, anche se più lunga. Dopo 20 anni, nel 2003, quando ho finito di lavorare al piano di Roma, nella capitale italiana si era realizzata una seconda linea metropolitana e a Madrid altre sette. Perché la Spagna aveva una disponibilità di investimenti per la 88

sua capitale che, nel caso delle metropolitane, era sette volte superiore. Che poi, negli anni Ottanta, i valori immobiliari siano aumentati proprio in parallelo al debito pubblico, non è certamente una coincidenza, ma la conseguenza di una situazione in cui crescono le rendite urbane e finanziarie. In quegli anni in Italia la rendita finanziaria ha prevalso largamente sugli investimenti industriali e i capitali già investiti in larga misura sulla rendita urbana si sono sempre più spostati verso le rendite finanziarie, ancora una volta sottratti al settore produttivo. E nel lungo periodo emerge, anche in questo caso, la sottovalutazione del processo di aumento delle case in proprietà. Una linea voluta dalla Dc per ragioni socio-politiche, delle cui ricadute indirette sulla struttura economica nazionale la stessa Dc non era pienamente consapevole, prevedendo soltanto il contributo alla maggiore tranquillità sociale che il processo determinava nel sistema. In questo caso, per la verità, la Spagna ha fatto molto peggio di noi: ha messo in atto un processo di proprietarizzazione più rapido del nostro, avvenuto con tassi superiori al nostro, coincidenti addirittura con quelli degli Usa. Gli Stati Uniti, infatti, non sono il paese dei grattacieli, ma il paese dei suburbia estesi a dismisura, dove le case unifamiliari rappresentano il tessuto urbano prevalente, ma sono la negazione del rapporto sociale, della integrazione economica, della funzionalità del sistema dei trasporti. Dove però il regime immobiliare – e in questo gli Usa hanno un regime immobiliare più efficiente del nostro – è quello nel quale un investimento in edilizia residenziale deve dare il suo rendimento entro 30 anni, e dopo 30 anni la casa può essere anche rottamata. E, infatti, le case americane sono quasi tutte di legno e di cartone, proprio perché destinate a essere so89

stituite in capo a 30 anni, il che naturalmente favorisce il processo di trasformazione fisica della città e perfino una maggiore mobilità delle famiglie. Negli Usa la casa si compra e si vende come l’automobile, il che in Italia e in parte anche in Europa non è concepibile. Nel corso degli anni Ottanta i valori immobiliari sono cresciuti a dismisura e il loro peso è ricaduto tutto sugli acquirenti. Infatti, l’incidenza della rendita urbana in Italia è mediamente pari a un terzo del costo della casa, e nelle grandi città arriva spesso al 50%; un dato che non ha confronti con nessun paese d’Europa. Insomma, i cittadini italiani, in mancanza di una seria politica dello Stato per le abitazioni sociali, si sono indebitati per arrangiarsi da soli, fino a diventare proprietari di casa nella misura di quattro famiglie su cinque, pagando un prezzo esorbitante alla rendita urbana. Perché, allora, politici ed economisti hanno sottovalutato in grande maggioranza il peso della rendita urbana sul sistema economico italiano? Tranne l’esiguo gruppo che agli inizi degli anni Sessanta aveva condotto la battaglia per la riforma urbanistica, politici ed economisti con la rendita urbana hanno poca confidenza, o addirittura non ne riconoscono l’aspetto patologico in un paese moderno. Trascurano il fatto che la rendita urbana si è inserita con un ruolo arretrato nel capitalismo italiano in formazione, al momento della tarda unificazione nazionale, e ha continuato a inquinarne la crescita durante il «miracolo economico» fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Un miracolo che ha sfruttato largamente i bassi salari competitivi – come oggi quelli delle «tigri asiatiche» –, il capitalismo di Stato allora poco diffuso in Occidente e le stesse rimesse degli emigranti; evenienza, quest’ultima, che forse faremmo bene a ricordare oggi. Da quella stagione, economisti e politici sono usciti 90

convinti che i suoi effetti positivi fossero strutturali e non contingenti, e sono andati avanti scoprendo in ritardo la nascita della piccola e media industria, specialmente nelle regioni della «Terza Italia», le regioni Nord-Est-Centro, Nec, come le chiamava Giorgio Fuà, essendo ancora legati al vecchio dualismo fra Mezzogiorno arretrato e Triangolo di Nord-Ovest a far da locomotiva. La proposta che, insieme a Osvaldo Piacentini, avanzai nel 1965 sulla rivista «Urbanistica» con «Due alternative per l’assetto territoriale dell’Italia Padana» non fu raccolta da politici ed economisti italiani, che della Terza Italia si accorsero solo dieci anni dopo, insieme ai distretti e al «piccolo è bello». Quanto all’Italia Padana da riequilibrare e valorizzare, secondo quella proposta del 1965, doveva arrivare la Lega oltre vent’anni dopo perché i politici si accorgessero che esisteva. In poche parole, politici ed economisti non riuscivano a capire quanto l’urbanistica condizionasse l’economia e perfino la politica, a livello territoriale come a livello urbano. Infatti, politici ed economisti, in grandissima maggioranza, non ritengono intollerabile che al suolo urbano, valorizzato di fatto dall’esistenza della comunità, la proprietà possa attribuire un prezzo di mercato pari a un terzo o alla metà di quello della casa, così come non hanno capito in quale misura gli investimenti immobilizzati per sfruttare la rendita urbana rappresentino tutta liquidità sottratta al settore produttivo. È per questo che non si sono resi conto di quanto l’approvazione della legge Sullo non solo avrebbe cambiato il destino delle città italiane, ma avrebbe anche liberato una grande mole di investimenti a favore dello sviluppo industriale. D. Dunque, il forte aumento dei valori immobiliari è all’origine della crisi urbanistica degli anni Ottanta. Quali 91

sono le vicende con cui l’urbanistica riformista comincia a prendere forma? R. Coloro che, dopo la sconfitta della legge Sullo, avevano condotto una politica di piano riformista, talvolta con qualche successo, cominciano in questa situazione a comprendere che l’uso del modello dell’esproprio diffuso, legittimo anche se faticoso da gestire, era diventato non più difficile, ma impossibile. Infatti, l’applicazione volontaria di quel modello era condizionata dai prezzi delle aree urbane, cresciuti ormai al punto da non renderne più praticabile l’esproprio, l’urbanizzazione e la cessione agli utilizzatori. Alle nuove condizioni le aree urbanizzate dal Comune non erano più convenienti per i costruttori, che ormai preferivano partecipare direttamente al meccanismo speculativo, guadagnando assai più con quello. D’altra parte, anche lo Stato a un certo punto sembra convenire che, alla «urbanistica regolata» dal Comune con il Prg e gli espropri diffusi, è necessario sostituire la «urbanistica contrattata» con varianti singole promosse per legge (legge 179/1992). E l’esempio del Comune di Milano, che promuove direttamente le operazioni di contrattazione, si diffonde nel paese, come conferma il clamoroso caso fiorentino per le aree della Fiat e della Fondiaria, nel quale fui coinvolto perché consulente del Prg con Giovanni Astengo. A Firenze, sulla valida direttrice di sviluppo individuata dallo storico piano Detti del 1962, furono proposte per l’attuazione due aree di grande pregio, una occupata da edifici della Fiat a Novoli e l’altra inedificata a Castello di proprietà della Fondiaria, massima potenza finanziaria fiorentina. Le richieste delle proprietà, formalizzate da un’apposita variante, sembrarono ad 92

Astengo e a me palesemente eccessive, anche se consideravamo più che valida la direttrice di crescita nordoccidentale del piano Detti. Nel 1989 suggerimmo, quindi, di inserirle nel nuovo Prg, ma di ridurre le volumetrie richieste per Castello a 1/3 e quelle per Novoli a 2/3 e di cedere gratuitamente al Comune l’80% di entrambe le aree. Questa diversità di vedute sull’operazione fu resa nota dalla stampa e alimentò una forte polemica nell’opinione pubblica, al punto da interessare la segreteria nazionale del Pci, partito di maggioranza dell’amministrazione comunale. Bei tempi, mi verrebbe da dire oggi... A questo punto la vicenda si trasformò in un caso nazionale perché Occhetto, allora segretario del Pci, dopo avermi chiesto se insistevo a non sottoscrivere la proposta Fiat-Fondiaria – cosa che confermai ancora una volta –, telefonò alla segreteria fiorentina del suo partito, informandolo che la segreteria nazionale si dissociava dalle scelte fatte localmente. Nel 1989 i modi della politica erano, nel male e nel bene, assai diversi da quelli odierni, perché la segreteria fiorentina del Pci, sentendosi sconfessata dal proprio partito, si dimise in blocco. E il posto di segretario federale fu preso da un giovane comunista, che si presentò con il biglietto da visita di ambientalista, allora assai di moda nel Pci. Quel giovane, Leonardo Domenici, era destinato anni dopo a diventare sindaco di Firenze. Astengo ed io non accettammo un reincarico di consulenza che non fosse legato a un preciso programma e la nuova Giunta, senza il Pci, non ci ripropose, con o senza programma. Comunque, alla fine il dimensionamento iniziale dell’operazione è stato sostanzialmente ridotto, anche se la proposta di Astengo e mia, a questa strettamente legata, di non riutilizzare l’aeroporto piccolo e orogra93

ficamente mal collocato, ma di usare invece il vicino aeroporto di Pisa come grande scalo nazionale, è stata drasticamente respinta. E dopo venti anni una nuova vertenza è nata oggi sull’area della Fondiaria: riguarda l’opportunità di accettare le nuove richieste di Ligresti – azionista di riferimento della Fondiaria – e la possibile convivenza del parco nell’area di Castello con il nuovo stadio di calcio proposto per la Fiorentina da Della Valle. I retroscena della questione interessano poco, anche se non è chiaro il rapporto dell’operazione con la nuova legge riformista della Regione Toscana. Ciò che, però, mi ha sorpreso è stata la clamorosa valutazione negativa del parco territoriale da parte di Domenici, che tanti anni fa aveva esordito come ambientalista. Mentre fra le tante scelte urbanistiche che oggi a Firenze vengono rimesse in discussione, c’è quella del tunnel ferroviario, al posto del quale qualcuno riesuma l’idea della stazione dell’Alta Velocità a Campo Marte, cioè la soluzione caldeggiata allora da Astengo e da me, che fu rifiutata da tutti. Proprio a Firenze si tenne nel 1992 un convegno dell’Inu che pose formalmente il problema di sostituire il modello attuativo dell’esproprio diffuso, mentre in alcuni Comuni piccoli e medi (Misano Adriatico, Casalecchio di Reno) il meccanismo della perequazione urbanistica era già stato anticipato quale soluzione alternativa all’esproprio da Stefano Pompei, che ne aveva fatto la battaglia della sua vita. Per la verità, la perequazione urbanistica era già stata inserita nelle norme adottate nel 1962 da tutti i Prg del comprensorio intercomunale bolognese, secondo le quali il 50% di tutte le aree di espansione andava ceduto gratuitamente al Comune per i servizi pubblici e per l’edilizia popolare. Quelle norme furono illegalmente bocciate dai control94

li prefettizi e sostituite poco dopo pragmaticamente con la soluzione dell’esproprio diffuso volontario. Il Prg di Torino adottato nel 1993 fu il primo importante strumento urbanistico ad applicare parzialmente la perequazione, in particolare per acquisire gratuitamente grandi aree a parco con il trasferimento della edificabilità attribuita, perché non realizzabile in loco; attribuendo, però in generale, quale contropartita alle cessioni gratuite, una edificabilità di gran lunga troppo elevata. Assai più equilibrata l’applicazione della perequazione urbanistica nel progetto preliminare del Prg di Reggio Emilia nel 1994, che riduce drasticamente gli espropri, mentre utilizza, nella grande maggioranza degli interventi previsti dal piano, l’acquisizione gratuita compensativa di edificabilità non certo esagerate. Finché il XXI Congresso dell’Inu, tenutosi a Bologna nel 1995, propose esplicitamente i principi e le regole della riforma urbanistica1, assumendo la perequazione urbanistica fra le innovazioni fondamentali. In occasione di quel congresso Stefano Pompei presentò un elaborato che criticava il rifiuto di usare la perequazione urbanistica per il Prg bolognese adottato nel 1985, come avevo invece sperato di fare, dimostrando per il settore nord-occidentale del territorio municipale che, a compenso dell’edificabilità privata attribuita dal Prg, il Comune poteva ricevere gratuitamente in perequazione urbanistica tutte le aree previste per la città pubblica. D. A questo punto dovrai illustrare i contenuti della nuova proposta di riforma urbanistica, magari comin1

La nuova legge urbanistica: i principi e le regole, documento preparatorio per il XXI Congresso dell’Inu, in Luigi Falco (a cura di), Le riforme possibili, in «Urbanistica Quaderni», n. 6/95, Inu Edizioni.

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ciando con la perequazione urbanistica, che hai già indicato come sua componente fondamentale. R. Quando ho ricordato la prima volta che la perequazione urbanistica compare nella pianificazione con i Prg della cintura bolognese nel 1962, volevo anche illustrare l’essenza dello strumento. Che nasce in quei Comuni all’inizio dell’espansione urbana, come elementare meccanismo indispensabile per l’attuazione, quando prevede la cessione gratuita al Comune delle aree per i servizi e l’edilizia popolare. Ricordo che, non so per quale motivo, i sindaci di quei Comuni dicevano in inglese ai proprietari delle aree di espansione «Fifty-fifty (Cinquanta-cinquanta), facciamo a metà: il Prg attribuisce l’edificabilità privata ai vostri terreni oggi agricoli e voi cedete gratis al Comune la metà di quei terreni per le necessità pubbliche». E per la verità, nel 1962, quei proprietari, che vedevano moltiplicare il valore dei loro suoli agricoli, erano assolutamente d’accordo, né capivano perché il Prefetto avesse bocciato la norma che li riguardava. Loro non ci perdevano nulla, perché l’indice di edificabilità veniva applicato su tutta l’area e, in cambio, il Comune provvedeva ai servizi – con il modesto contributo degli oneri di urbanizzazione – indispensabili a valorizzare i loro suoli. Da allora la questione non mi sembra cambiata di molto, anche se il valore di quei suoli è diventato urbano da decenni, e anche se la perequazione urbanistica oggi si applica sia alle aree inedificate di Espansione, sia a quelle già edificate di Trasformazione. Infatti, l’edificabilità si applica su tutta l’area di ogni intervento e di questa la comunità riceve gratis la parte necessaria agli usi pubblici, che oggi sono sia quelli locali a servizio diretto dell’area stessa, sia quelli urbani a servizio dell’in96

tera città. La particolarità della perequazione urbanistica consiste nel fatto che è nata ed è stata applicata prima della riforma, cioè che era già compatibile con la vecchia legge urbanistica nazionale del 1942. E il caso che continuo a citare di Reggio Emilia, adottato nel 1999, cioè prima della riforma regionale, illustra meglio di altri l’aggiornamento della perequazione urbanistica rispetto al primo esempio bolognese del 1962. Anche perché il nuovo Piano strutturale comunale (Psc) di Reggio Emilia, adottato nel 2009, in questo non ha sostanzialmente cambiato il meccanismo della perequazione urbanistica usato per il piano precedente, che classificava le aree per «perequarle» in modo molto semplice: in aree edificate da trasformare, aree inedificate già edificabili in base al piano precedente, aree inedificate destinate a servizi pubblici da espropriare con il piano precedente e, infine, aree inedificate destinate a uso agricolo dal piano precedente. E la quota di cessione gratuita cresce dalla prima all’ultima classe di aree: chiedendo, in cambio della edificabilità privata concessa, un minimo del 40% per le aree edificate da trasformare – le aree dismesse –, fino a un massimo dell’80% per le aree già destinate a servizio pubblico da espropriare o all’uso agricolo dal piano precedente. Né il nuovo Psc ha cambiato sostanzialmente le norme della perequazione urbanistica, già positivamente sperimentate con le prime attuazioni. In proposito, devo confessare che non apprezzo molto i meccanismi sofisticati talvolta impiegati per realizzare la perequazione nei nuovi Piani strutturali perché, a mio parere, condizionano troppo la percentuale di cessione gratuita in funzione del valore immobiliare di partenza dell’area in questione. E temo anche che, in questo processo valutativo, possa riemergere, magari in mode97

sta misura, l’urbanistica contrattata. Al di là di queste sottigliezze, mi sembra da apprezzare il fatto che gran parte delle nuove leggi regionali propongono formalmente la perequazione urbanistica per l’acquisizione gratuita delle aree della città pubblica. Quel che ancor oggi non riesco a capire è la tenace ostilità di alcuni urbanisti e politici che si considerano di sinistra verso la perequazione urbanistica, mentre continuano, invece, a ritenere l’esproprio, con gli attuali prezzi stratosferici, il meccanismo attuativo da preferire. Sembrano dimenticare che, nell’attuale situazione del regime immobiliare, la perequazione urbanistica è l’unica alternativa possibile all’urbanistica contrattata e, specialmente, dimenticano che l’esproprio – tranne casi marginali, chiaramente individuabili – con gli altissimi prezzi di oggi, riconosciuti dalle sentenze della Corte Costituzionale, è diventato uno strumento organicamente funzionale agli interessi della rendita urbana. Il che, per chi si professa di sinistra, è chiaramente una contraddizione in termini. È vero che, se l’edilizia privata non tira e quella pubblica non è finanziata, la disponibilità di nuove aree per servizi si riduce in proporzione. Ma fino ad oggi il reale problema è stato quello di non avere aree per servizi pubblici, quando gli insediamenti privati si realizzavano in quantità. Se oggi, però, l’intero processo di sviluppo urbano, magari rallentato, disporrà di aree pubbliche in misura sempre superiore a quelle private, come la perequazione urbanistica consente, avremo già fatto un buon passo in avanti; e il rapporto pubblicoprivato misurato in aree, comunque, migliorerà. Perché tale rapporto possa migliorare per tutta la città ci vorrà del tempo. Ricordando, però, che negli anni Sessanta e Settanta le città che hanno applicato volontariamente la riforma Sullo, perché era allora l’unico meccanismo ef98

ficiente possibile, hanno ribaltato le vecchie carenze di servizi pubblici, che poi purtroppo sono riemerse. In ogni caso, l’applicazione della perequazione urbanistica già prima della riforma ha confermato la validità del metodo e ha già dato buoni risultati. In Emilia Romagna, dove ciò è avvenuto, la disponibilità di aree per servizi pubblici è mediamente soddisfacente, proponendo piuttosto il problema di finanziare le opere pubbliche relative. Mi sembra il caso di aprire a questo proposito una parentesi, su un tema che tutti sembrano trascurare. Amministratori locali e urbanisti sanno bene che gli oneri di urbanizzazione, cioè i finanziamenti che gli operatori privati sono obbligati a corrispondere per realizzare almeno i servizi locali, erano insufficienti e non sono stati aggiornati adeguatamente. Però la dissennata politica finanziaria del governo di destra, dopo aver sottratto cespiti ai Comuni – ultimo in ordine di tempo l’Ici, cioè la tassa sulla prima casa –, ha consentito ai bilanci comunali di attingere agli oneri di urbanizzazione per le spese generali estranee alla destinazione originaria del contributo versato dai costruttori; cosa che tutti i Comuni sono stati costretti a fare per pagare gli stipendi ai vigili o alle maestre d’asilo. È però gravissimo il fatto che il governo Prodi non abbia ritenuto di cancellare il provvedimento, di cui quindi il centro-sinistra è corresponsabile. Ha perseguito con ottimi risultati l’evasione fiscale, ma per aumentare le entrate non ha esitato a sottrarre alle città una parte dei modesti finanziamenti per i servizi pubblici. E siccome piove sempre sul bagnato, l’Unione Europea – che della deviazione ai bilanci comunali degli oneri di urbanizzazione non s’è in alcun modo curata – ha preteso che in Italia si generalizzasse una norma che obbliga in ogni caso la gara d’appalto per le opere pub99

bliche, applicandola anche alle opere che gli 8.000 Comuni italiani pretendevano generalmente fossero realizzate direttamente dai costruttori a scomputo degli oneri di urbanizzazione da versare al Comune. Così, nel 2009, il governo di destra, che in genere poco si cura delle richieste dell’Unione Europea, questa volta che mettono in difficoltà i Comuni ha rapidamente accolto la richiesta, invece di spiegare come quello utilizzato in Italia sia il metodo più semplice e corretto per garantire che le urbanizzazioni siano realizzate dai privati a vantaggio della comunità. Il risultato di questa malintesa richiesta da parte dell’Unione Europea, è che i Comuni, anche i numerosissimi piccoli Comuni, dopo aver incassato gli oneri di urbanizzazione anche per la residua parte destinata alle opere, saranno costretti a redigere in proprio i progetti delle opere stesse e poi a bandirne l’appalto, che spesso viene contestato in giudizio da un concorrente sconfitto nella gara. Morale, le esigue quote degli oneri di urbanizzazione non dirottate ai bilanci comunali stanno scomparendo nei tanti adempimenti imposti impropriamente dalle norme europee, e di servizi locali se ne realizzano sempre meno. D. Torniamo alla riforma nel suo insieme, così come proposta al congresso di Bologna nel 1995, variamente ripresa da molte leggi regionali riformiste. R. I principi e le regole della riforma sono ripresi per primi dalla Regione Toscana – che, per la verità, formalmente li anticipa – e poi raccolti più o meno completamente da numerose Regioni che, approfittando dell’adeguamento del Titolo Quinto della Costituzione, hanno fatto ampio uso dell’autonomia legislativa regionale sulla materia urbanistica. Alcune leggi regionali ri100

propongono fedelmente le proposte dell’Inu e fra queste è certamente la legge della Regione Basilicata, che ho avuto la possibilità di sperimentare a Potenza. Ma la più aderente alle proposte dell’Inu è indubbiamente la legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna, ed è a questa che voglio riferirmi per illustrare esemplarmente una soluzione legislativa che presenta già numerose applicazioni soddisfacenti. Scopo della legge era quello di risolvere equamente le contraddizioni dell’urbanistica italiana provocate dalla legislazione vigente, troppo vecchia per affrontare la nuova situazione e frutto di sovrapposizioni successive che avevano prodotto un corpus giuridico irrazionale e conflittuale. La prima contraddizione da risolvere era quella determinata dal piano generale direttamente prescrittivo, al contrario di quanto faceva lo storico strumento razionalista del masterplan indicativo e flessibile. Questa contraddizione determina una prima insopportabile iniquità per l’opposto trattamento delle previsioni private e pubbliche nel piano. Infatti, le destinazioni private del piano comportano per la proprietà un diritto edificatorio valido sine die, mentre le destinazioni pubbliche ancor oggi sarebbero per legge da realizzare entro 5 anni, ai noti costi insopportabili, pena la decadenza. Su questo tema ho presto rinunciato a discutere con gli urbanisti massimalisti fedeli al piano generale prescrittivo, perché non è facile stabilire quale sia la interpretazione giuridica scelta per decadenza delle edificabilità private previste dai vecchi Prg; e purtroppo la giurisprudenza italiana è ricca in proposito di risposte contraddittorie. Ritengo quindi difficile per ragioni politiche, ma anche etiche, chiedere la drastica decadenza dei diritti privati attribuiti per anni da un Prg che ha genera101

to innumerevoli compravendite sulla base di quelle previsioni di piano. Inoltre, a prescindere dalle contraddittorie interpretazioni della giurisprudenza in materia, abbiamo purtroppo centinaia di sentenze che obbligano i Comuni a risarcire i privati per aver cancellato con un successivo strumento urbanistico diritti edificatori di cui avevano legittimamente goduto per anni. Bisognava, dunque, eliminare la disparità di trattamento fra previsioni pubbliche e private, eliminando la prescrittività del piano generale e restituendo ad esso la programmaticità del masterplan, sottraendo così a entrambe le previsioni la validità sine die e stabilendo poi per entrambe lo stesso periodo di validità e la stessa scadenza. E qui bisognava inserire nell’operazione la perequazione urbanistica, che anche in questo caso equiparasse il trattamento delle previsioni pubbliche e private, con una procedura concettualmente simile al semplice Fifty-fifty del Piano intercomunale bolognese, che assegna al privato i diritti edificatori di tutta l’area di intervento e al Comune, in cambio, la cessione gratuita di una parte consistente dell’area stessa. Un meccanismo semplice, logico, facile da inserire nel complicato apparato giuridico italiano, che sostituisca radicalmente il vecchio impianto della legge urbanistica del 1942 con un impianto tutto nuovo, riformista. Per far questo, il Prg viene scomposto in tre parti: il Piano strutturale (Ps), il Piano operativo (Po) e il Regolamento urbanistico edilizio (Rue). Il Ps è il piano generale, programmatico e non più prescrittivo, quindi non più ancorato ai confini catastali, perché non crea diritti e doveri, ma solo indirizzi. Anche graficamente è un prodotto più schematico – assai diverso dal vecchio iperdefinito Prg – di cui le sole parti eccezionalmente prescrittive – non a caso definite invarianti – sono quel102

le relative ai vincoli paesistici e ambientali, che derivano da leggi o provvedimenti sovraordinati dello Stato e delle Regioni. Proprio quelle che, in base alla famosa sentenza della Corte Costituzionale del 1968, permettono la non edificabilità privata di un’area urbana senza bisogno di indennizzo. Il Po è il piano dei nuovi interventi di rilievo, questo sì prescrittivo quinquennale perché registra le operazioni private e pubbliche che vanno in attuazione entro 5 anni e scadono in caso contrario. Gli interventi da inserire nel Po in forma di Piano urbanistico attuativo (Pua) sono da realizzare in base a parametri urbanistici e ambientali stabiliti a priori dal Ps, quindi senza nessuna contrattazione perché la proprietà è disposta ad attuare gli indirizzi del Ps, o perché il Comune mette a concorso diversi interventi che considera equivalenti, scegliendo quelli che superano più largamente i parametri urbanistici e ambientali prefissati. Ed è nel Po che entra in gioco la perequazione urbanistica, che garantisce la realizzazione completa della città pubblica, insieme agli interventi privati. Il Rue rappresenta in effetti il piano di governo della città esistente, non destinato alle trasformazioni rilevanti ed è stato certamente un errore dell’Inu dare l’impressione, per come lo ha definito, che in questa parte del piano l’aspetto regolamentare prevalesse sulla governance urbana, errore che tutte le leggi regionali hanno puntualmente ripreso. Il Rue è uno strumento prescrittivo a tempo indeterminato, come il vecchio Prg, che disciplina tutte le operazioni non rilevanti delle proprietà private e pubbliche, di cui è prevista l’attuazione per intervento diretto e attraverso i Pua già approvati dal Consiglio comunale. Le normative del Rue che, appunto, più assomigliano a quelle del vecchio Prg rap103

presentano, però, l’insieme della «trasformazioni leggere» che la città governa giorno per giorno, avendone preventivamente misurato la plausibilità urbanistica e ambientale e le ricadute che complessivamente potrebbero produrre. D. Il vecchio Prg è stato, dunque, suddiviso in tre strumenti che si completano a vicenda. Ma, insomma, perché la sinistra radicale è ostile alla riforma? R. Mi spiego meglio. Il piano è suddiviso in tre strumenti che, lungi dal complicarla, ne semplificano la gestione. Affida la quotidianità a uno strumento rigido (il Rue), ma che consente solo trasformazioni leggere, di cui si è valutata preventivamente la complessiva sostenibilità nel quadro del piano generale. Mentre le trasformazioni rilevanti sono affidate a uno strumento prescrittivo a breve termine (il Po), ma a scadenza prefissata, che di fatto garantisce quella attuazione che il Prg non ha mai garantito, con la realizzazione della città pubblica ieri impossibile e oggi assicurata dalla perequazione urbanistica. E infine la regia di tutta la strumentazione è affidata al Ps, flessibile nel tempo e nello spazio, ma non contrattabile, perché stabilisce a priori i parametri principali delle singole trasformazioni impegnative dell’attuazione quinquennale. Un modello riformista di piano, che l’amico scomparso Nino Andreatta apprezzò molto quando ne apprese le caratteristiche, lasciandomi in eredità una delle sue brillanti definizioni: «È il piano delle tre E – mi disse – Etica, Equità, Efficienza». E ancor oggi non saprei trovare una definizione più appropriata della sua. Più ci penso e meno capisco l’ostilità dei massimalisti, urbanisti e politici, che rifiutano questo moderno e 104

attuabile modello riformista. Non capisco perché essi difendono il piano generale prescrittivo, che favorisce le destinazioni private e danneggia quelle pubbliche; non capisco perché rifiutano le scadenze quinquennali degli interventi di piano privati e pubblici, preferendo che le previsioni private valgano di fatto sine die e quelle pubbliche vadano realizzate entro 5 anni; non capisco perché preferiscono l’esproprio che opera con enormi vantaggi per la rendita urbana, a fronte della perequazione urbanistica che fornisce gratuitamente tutte le aree per la città pubblica; e non capisco perché non prendano atto che il Piano strutturale, stabilendo a priori i parametri urbanistici e ambientali dei futuri interventi, elimina ogni rischio di contrattazione. L’unica spiegazione possibile di questo atteggiamento è quella di un attaccamento irrazionale alla vecchia soluzione riformista, che l’Inu – pur avendola inventata – ha saputo accantonare perché nata in una situazione datata, oggi totalmente cambiata. Atteggiamento ideologico e non ideale, culturalmente e politicamente sbagliato, specie quando orienta scelte politiche che favoriscono o danneggiano gli interessi dell’intera comunità nazionale. D. Sono queste le cause che hanno impedito alle maggioranze di centro-sinistra, dal 1996 al 2001 e nei due anni di Prodi dal 2006 al 2008, di approvare la nuova riforma urbanistica? R. Non vorrei uscire dal tema dell’intervista, ma le maggioranze di centro-sinistra, che ci hanno portato in Europa e all’Euro, hanno però mancato numerose delle altre riforme indispensabili. Fra le tante riforme mancate, c’è anche quella del Governo del Territorio, che i massimalisti del centro-sinistra, da Rifondazione comu105

nista ai Verdi, hanno ostacolato sistematicamente. Gli ispiratori di questa opposizione sono un gruppo minoritario di urbanisti, vicini a forze politiche che, in fondo, cercavano solo pretesti per marcare la propria diversità dal resto della compagine, senza nessuna sollecitazione specifica da parte dell’opinione pubblica. Per esempio, la forte associazione ecologista di massa Legambiente era a favore della riforma e il suo ex presidente Ermete Realacci, diventato deputato, ha continuato ad appoggiarla; ma il partito verde, che aveva scelto una collocazione di sinistra massimalista, ha sempre mantenuto posizioni ostinatamente contrarie alla nuova legge per il governo del territorio. Così i primi cinque anni del centro-sinistra sono andati persi per la riforma perché i governi Prodi, D’Alema e Amato hanno rinunciato a prendere l’iniziativa, mentre la Commissione Parlamentare incaricata della legge ha perso tempo in ostruzionismi vari e diatribe fuorvianti con i rappresentanti del centro-destra, ai quali la mancata scelta unitaria del centro-sinistra aveva attribuito un ruolo imprevisto. Il governo Prodi (2006-2008) ha avuto vita breve e drammatica e ha lasciato che la legge restasse affidata a un Parlamento disinteressato all’urbanistica; la sua maggioranza ha presentato un suo progetto di legge, al quale gli uomini dell’Inu hanno attivamente contribuito, ma sapendo che non sarebbe mai andato in aula. Un piccolo, ma non irrisorio, risultato positivo, l’ha dato l’ultima legge finanziaria 2008 del governo Prodi, inserendo due commi nell’articolato, con i quali si considera l’Edilizia residenziale sociale (Ers) alla stregua dei servizi pubblici del vecchio decreto del 1968. Così facendo, in tutti i casi – a cominciare da quelli previsti dalle leggi regionali riformiste – in cui le aree dei servi106

zi pubblici sono cedute gratuitamente ai Comuni in perequazione urbanistica, le abitazioni dell’Ers saranno realizzate su aree a costo zero: una vera e propria rivoluzione per l’edilizia economica e popolare, le cui aree acquisite a costi più convenienti negli anni Sessanta e Settanta erano diventate oggi assai costose. Permettendo, invece, di favorire i ridottissimi finanziamenti per le abitazioni pubbliche, ma anche l’edilizia privata convenzionata a prezzi ribassati, con aree assegnate per concorso in cambio di abitazioni pubbliche cedute gratuitamente ai Comuni. D. L’ostruzionismo di principio della sinistra massimalista non ha, dunque, fatto approvare la riforma nazionale, ma non ha impedito in molti casi le riforme regionali. Quali sono stati in generale gli effetti di questa dannosa frattura politica? R. L’ostruzionismo dei massimalisti è riuscito intanto a rinviare l’approvazione della legge riformista in alcune Regioni di centro-sinistra, come le Marche e il Piemonte, che però è ora in corso, sperando che la concludano prima che finisca la legislatura regionale. Mentre alcune Regioni di destra hanno raccolto almeno parte dei principi dell’Inu, come il Veneto per la perequazione urbanistica. Il caso più negativo è, invece, quello della Regione Lazio che, sotto l’influenza degli urbanisti massimalisti, ha adottato una legge regionale esplicitamente controriformista. Una legge che irrigidisce la vecchia legge urbanistica del 1942, ribadendo la prescrittività immediata del piano generale – a favore delle previsioni private e a danno delle previsioni pubbliche – e confermando l’esproprio quale strumento per realizzare la città pubblica, indifferente all’effettiva possibilità di at107

tuare l’esproprio e ai vantaggi che offrirebbe ai privati la sua costosissima applicazione. L’adozione di questa legge controriformista è stata la causa di tutte le successive vicende negative per il Prg di Roma, a cui l’amministrazione Rutelli aveva coraggiosamente messo mano dal 1993. La permanenza del piano generale prescrittivo ha impedito di sospendere – come hanno fatto le leggi riformiste – buona parte delle elevate previsioni residue del piano romano 19621967 e il Comune – di cui ero fra i consulenti – usando la legge ha potuto cancellare soltanto quelle che confliggevano con l’area dei nuovi parchi regionali. Le altre previsioni residenziali residue sono state, in parte, trasferite in aree più adatte perché prossime alle stazioni del trasporto metropolitano esistenti o programmate e, in parte, trasformate in previsioni direzionali, utilizzate per creare le nuove centralità dei grandi insediamenti acefali nel territorio comunale metropolizzato. Con la legge regionale controriformista approvata dai massimalisti, questa era la migliore soluzione possibile. Contemporaneamente, il Prg elaborato sotto la responsabilità dei sindaci Rutelli e Veltroni ha scelto – perché consentito anche dalla vecchia legge urbanistica del 1942 – di applicare in buona parte dei casi la perequazione urbanistica in alternativa all’esproprio, allo scopo di garantire, nella maggior parte degli interventi, la realizzazione senza oneri della città pubblica. A piano già ultimato e presentato, il sindaco Veltroni fu però costretto dalla parte massimalista della sua maggioranza a rovesciarne la strategia attuativa, presentando un emendamento della Giunta che sostituiva buona parte delle operazioni di perequazione urbanistica con altrettanti espropri. Lo scopo era quello di riproporre l’esproprio cancellato e anche di ottenere una modesta riduzione 108

delle previsioni private. Il prezzo – che i proponenti si guardarono bene dal calcolare – risulterà superiore a 5 miliardi di euro, che il Comune non potrà certo pagare entro cinque anni pena la decadenza, con il rischio di veder riassegnare le aree ai privati dalla magistratura. All’adozione del Prg di Roma nel 2003, condizionata dall’emendamento ricattatorio dei massimalisti, io ritirai la firma dal piano, pur confermando a Veltroni la disponibilità a lavorare con la sua amministrazione per limitare i danni provocati dall’avventurosa adozione. Purtroppo queste buone intenzioni non produssero risultati concreti e il piano di Roma – che non esito, anche qui, a definire complessivamente innovativo e antiveggente, a dispetto del colossale errore che ne impedirà in parte l’attuazione – fu approvato definitivamente con l’emendamento richiesto dai massimalisti. L’esito elettorale successivo, che ha consegnato il Comune di Roma alla destra e a un sindaco ex fascista, sembra la nemesi inattesa di una scelta urbanistica sbagliata. Certo, le cause della sconfitta del centro-sinistra romano sono più complesse, ma il sacrificio del piano di Roma sull’altare dell’ideologia massimalista controriformista sembra emblematico dell’errore di fondo della sinistra su tutta la questione urbanistica nazionale. D. Certamente quello di Roma è il più vistoso dei danni provocati dalla frattura della sinistra nella vicenda urbanistica. Ciò nonostante le leggi regionali riformiste hanno prodotto piani innovativi, aprendo una nuova strada all’urbanistica italiana. Vuoi concludere questa parte dell’intervista con qualche cenno positivo? R. Sai bene che, per abitudine, evito, se posso, di terminare i miei interventi con una nota negativa, e volevo con109

cludere questa parte citando due esempi positivi a cui sono legato personalmente, parlando del piano di Potenza e, ancora una volta, di quello di Reggio Emilia. A Potenza – insieme a te – siamo capitati perché il sindaco Santarsiero cercava di mettere in piedi una coraggiosa operazione intercomunale con i Comuni vicini, seguendo la linea dell’Inu già applicata dalla Regione Basilicata per la sua nuova legge urbanistica riformista. È stata una esperienza difficile, ma appassionante, perché oggettivamente la situazione urbanistica che abbiamo trovato non era delle più brillanti. In compenso l’impegno degli amministratori è stato veramente ammirevole, come pure quello dei tecnici che hanno lavorato all’operazione, della quale per ora è stata realizzata solo la prima parte, cioè l’adozione del Regolamento urbanistico (Ru), in attesa di concludere la seconda, cioè il vero e proprio Piano strutturale metropolitano (Psm); il cui titolo è un po’ enfatico, essendo soltanto l’indice dell’impegno con cui si sta lavorando al piano di area vasta. Contrariamente alla legge dell’Emilia Romagna, quella della Basilicata prescrive che al Regolamento urbanistico sia affidato non solo il governo della città esistente e dei «diritti acquisiti» già sanzionati dal Consiglio comunale, ma anche un certo numero di nuovi piani urbanistici attuativi. Lo scopo è quello di raccogliere, regolamentandola, una parte dei molti stimoli immobiliari che premono sull’amministrazione; un’anticipazione con scadenza quinquennale, che già applica i parametri urbanistici e ambientali del futuro Piano strutturale. La diversità con la legge dell’Emilia Romagna, che invece esclude questa anticipazione, risiede nella diversità delle due situazioni regionali. Infatti, in Emilia Romagna i Comuni sono già all’approvazione del quarto o del quinto piano dal dopoguerra, quindi 110

non esiste un eccessivo accumulo di stimoli immobiliari da smaltire; mentre in Basilicata l’intervallo fra un piano e l’altro è molto più ampio – a Potenza siamo solo al secondo piano – e sarebbe dannoso scaricare sul nuovo Piano strutturale le attese di 20 o 25 anni di urbanizzazioni regolamentate. L’adozione del Regolamento urbanistico di Potenza è costata una dura battaglia in Consiglio comunale perché il provvedimento cambia radicalmente la gestione urbanistica della città, ma alla fine la tenacia di Santarsiero è stata premiata ed è stato confermato sindaco nelle ultime elezioni. Il Ru propone una crescita residenziale non molto superiore al trend quinquennale della produzione edilizia, ma dalla operazione ricava in perequazione urbanistica una cessione gratuita di aree per servizi pubblici ed edilizia sociale, pari a oltre la metà del patrimonio di aree pubbliche del Comune. Inoltre, gli oneri di urbanizzazione previsti serviranno a completare un tracciato stradale di gronda periferica (per cui non bastavano i finanziamenti comunali già disponibili), concludendo così il disegno di una rete viaria principale che interessa l’intero sistema urbano e non solo le nuove proposte. Insieme al Ru è stato adottato un Piano urbano della mobilità di scala metropolitana, che utilizza le vecchie ferrovie esistenti in concessione, per proporre una rete di trasporto pubblico per tutta l’area vasta; soluzione innovativa che ha trovato grande interesse presso tutti gli enti interessati. Posso solo augurarmi che la seconda parte dell’operazione, il Piano strutturale metropolitano, abbia lo stesso esito positivo della prima. Quanto al Piano strutturale comunale di Reggio Emilia, se torno a parlarne è perché si tratta di un piano esemplare della nuova linea urbanistica riformista. Infatti, è riuscito per prima cosa a dimezzare l’indirizzo 111

previsionale abitativo, rispetto all’ultimo trend della produzione edilizia. È vero che la scelta dimensionale con la nuova legge non è più prescrittiva, ma programmatica, però un orientamento politico così perentorio non è mai stato deciso in Emilia Romagna da quando negli anni Sessanta furono ridotte le previsioni bolognesi di un milione di abitanti. Insieme a questa scelta dimensionale, c’è un’altra forte scelta innovativa, già citata: quella di aver ridotto le previsioni su aree libere da costruzioni a un terzo di quelle che trasformano la città esistente. E mi sembra giusto sottolineare che un piano urbanistico basato non più su zone di espansione, magari interstiziali, comunque esterne alla città consolidata, ma al contrario, su poli di eccellenza che programmano la trasformazione della città, non era mai stato adottato in Emilia Romagna e in Italia. La strategia innovativa del piano utilizza tre linee ferroviarie in concessione esistenti per realizzare il Servizio ferroviario metropolitano; applica, come ho già detto, la perequazione urbanistica per l’acquisizione di tutte le aree della città pubblica; regolamenta una politica ambientale che moltiplica gli spazi verdi pubblici e privati, con il risultato di assorbire largamente l’anidride carbonica prodotta dalle auto ospitate nei nuovi insediamenti; e infine sistematizza per tutti i futuri interventi le norme sul risparmio energetico, che dimezzano il consumo di energia e le emissioni inquinanti degli edifici. Insomma, un meccanismo di piano altamente innovativo, al quale corrispondono contenuti auspicati, ma mai perseguiti a fondo in passato. Sia a Reggio Emilia che a Potenza, i piani devono ancora affrontare la prova dell’attuazione. A Potenza si tratterà di rispettare fedelmente una cessione di aree e una realizzazione di opere, in precedenza sconosciute. 112

Mentre a Reggio Emilia il Piano operativo comunale affronterà scelte ancora tutte da definire perché l’indirizzo è quello di ridurre il trend produttivo degli anni scorsi, ma si tratterà di applicarlo selezionando la tipologia e la localizzazione degli interventi e sfruttando le disponibilità di un mercato in difficoltà, reso più complesso dall’infelice proposta governativa sulla casa. Potendo, comunque, utilizzare la flessibilità regolata prevista dalla legge riformista. In conclusione, nessun trionfalismo, anche perché alla crisi urbanistica si somma la crisi edilizia nazionale e internazionale, ma la consapevolezza che la nuova legislazione riformista, dove esiste, offrirà un valido aiuto per affrontare la crisi. Sperando che tutte le Regioni finiscano per adottare la soluzione legislativa riformista e addirittura che il Parlamento abbia la saggezza di dare alle leggi regionali la tanto attesa sanzione nazionale. E che i piani comunali, provinciali e metropolitani sappiano fare buon uso delle riforme urbanistiche legislative.

6.

AMBIENTE E PAESAGGIO, MEGLIO TERRITORIO

D. Abbiamo già visto come l’urbanistica non sia più un tema popolare e il territorio, che ne aveva allargato il significato, ceda di conseguenza il passo all’ambiente e al paesaggio. Di fronte allo sforzo di integrare la pianificazione urbanistica e territoriale con quella ambientale e paesaggistica emerge, invece, la tendenza a contrapporle. Perché questo conflitto? Non nasconde forse un altro limite della cultura e un’altra insufficienza della politica? R. Per la verità, recentemente il termine «territorio» è tornato di moda nel centro-sinistra, perché è il soggetto dei commenti quotidiani sulla flessione politica ed elettorale del Partito Democratico. Purtroppo ne hanno cambiato il significato: usano territorio per indicare il popolo, i cittadini, l’opinione pubblica e il rapporto con il territorio è, dunque, quello che un partito politico è capace di mantenere con la gente. Il discorso sul territorio ha sostituito la discussione affrontata in termini ideologici sul partito «leggero» o «pesante», e siccome sostenere la necessità di un partito «pesante» non sembra politicamente corretto, ora si dice che bisogna fare come la Lega, che pare abbia realizzato uno stretto rapporto con il territorio. Quando sarebbe più onesto 114

confessare che i dirigenti politici di centro-sinistra non hanno più l’abitudine di frequentare quotidianamente i propri iscritti e anche i cittadini non iscritti al partito. Senza per questo diventare tutti funzionari di partito, non dovrebbero però accontentarsi di un rapporto affidato soltanto ai media, rapporto che è loro in gran parte precluso dal proprietario delle televisioni e dalle sue intimidazioni ai giornali che potrebbero ospitarli. Non voglio certo affrontare nell’intervista la questione del partito «pesante» o «leggero», ma vorrei piuttosto restituire al termine «territorio» il suo valore lessicale, citando una mia definizione di territorio, scritta quasi trenta anni fa e allora accettata come valida. «Con il termine territorio – scrivevo allora – non si indica oggi soltanto il suolo delle campagne e delle città, costruito o inedificato, ma anche l’intero sistema urbano e agricolo di residenza, di produzione, di comunicazioni; territorio è l’ambiente naturale residuo e quello più o meno intensamente antropizzato, come pure le condizioni vitali in questi determinate; sono le materie prime disponibili, ma finite e le risorse energetiche riproducibili o no e lo stesso uso che le società fanno di quelle materie prime e di quelle risorse». E aggiungevo: «Territorio è un termine di confronto con cui l’uomo si è misurato sempre nella sua storia, ma solo negli ultimissimi anni l’umanità si è impadronita degli strumenti capaci di sconvolgerne radicalmente i millenari equilibri, come di risolverli a proprio non effimero vantaggio. Se per secoli il confronto ha inciso in prevalenza sulla società umana, da pochi decenni il rapporto è diventato reciproco e incide anche fortemente sull’organizzazione naturale». La citazione che ho ripreso è tratta da un saggio scritto in occasione del terremoto che colpì Napoli e 115

l’Irpinia nel 19801 e che affrontava il tema di una più avanzata cultura del territorio; affermando, anche allora, che occorre «conoscere per governare». Partendo ieri, come faccio anche oggi, dalla critica che la nostra cultura di governo è basata assai più sulle convinzioni che sulle conoscenze; e che anche la sinistra era più legata alle convinzioni, cioè alle posizioni ideologiche, che alle conoscenze, cioè a precisi programmi da realizzare, frutto di analisi e di esigenze che queste fanno emergere. Ideologie allora capaci di garantire solidi risultati elettorali, ma che alla lunga avrebbero dovuto fare i conti con la realtà, mentre i programmi andavano basati sulla approfondita conoscenza dei problemi concreti e sulla cruda valutazione della possibilità di realizzarli, magari con gradualismo riformista. Per l’urbanistica come per il territorio, anche quando si trattava di argomenti riconosciuti, era solo una minoranza di politici e di intellettuali che, sulla base di fondate conoscenze, formulava la riforma come proposta di governo, mentre gli altri la sostenevano perché era di sinistra, ma non ne coglievano il profondo valore culturale. Questi ultimi avvertivano il modo rozzo e prepotente con cui erano usate le città e il territorio – «quanto è brutta la città...» – ma non gli effetti patologici sul sistema economico e sociale e tanto meno quelli a più lungo periodo sul sistema ambientale e paesistico, che rappresentavano, invece, le motivazioni effettive individuate dagli urbanisti riformisti. Per i quali, abbandonare la cultura delle convinzioni – per buone che fossero – e abbracciare la cultura delle conoscenze si1

Saggio pubblicato su «Problemi della transizione», n. 6/1981 dal titolo Dopo il terremoto. Una cultura per il territorio, che presentava la relazione di Barberi e Grandori sul Progetto Geodinamica.

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gnifica accettare l’idea di una «economia non indifferente al territorio», un territorio interpretato nel senso che ieri suggerivo e che ancor oggi mi sembra valido. Non essere riusciti a rendere maggioritaria a sinistra l’idea di una economia non indifferente al territorio è stata forse la causa remota della progressiva emarginazione dell’urbanistica, il cui spazio è stato occupato nell’opinione pubblica dalle tematiche ecologiche, ambientali e paesaggistiche. D. Mi sembra di cogliere nelle tue affermazioni l’eco di quel libro, «Urbanistica e austerità», con cui tu aggiornavi e allargavi verso il territorio l’evoluzione delle problematiche riformiste degli anni Sessanta, dopo le esperienze fatte nei piani degli anni Settanta. R. È così. Si tratta di esperienze che riguardano prima l’impatto con il terremoto di Ancona, proprio mentre si stavano decidendo le strategie del piano di cui ero uno dei consulenti; e poi della problematica interdisciplinare del piano di Pavia, che sviluppò a livello urbanistico le scelte paesistiche del Parco del Ticino. Credo, però, di dover ricordare anche che, in quel libro, sostenni con decisione la politica della austerità berlingueriana, mal compresa e criticata dalla sinistra politica e intellettuale italiana – e contestata, scrissi nel 1981, «da Bobbio ad Asor Rosa» –, legata, pure in questo caso, alle convinzioni più che alle conoscenze. A proposito dei politici e degli intellettuali, nel libro ricordo polemicamente come, nella disputa su partito e cultura, Togliatti e Vittorini avessero in comune solo la convinzione che intellettuali fossero i letterati, gli storici, gli artisti e non i fisici, i chimici, i biologi. E che da questo vecchio impianto culturale, l’austerità berlingueriana suggeriva di 117

uscire con una visione culturale largamente interdisciplinare, nel nostro caso allargando l’urbanistica al territorio, ma anche all’ambiente e al paesaggio. Quanto alle esperienze di piano, in quello di Pavia i suggerimenti originati dalla presenza del Parco paesistico regionale del Ticino furono per la prima volta elaborati in dettaglio da un Prg. Specificando l’esigenza di formalizzare in veri e propri parchi naturali le aree agricole da acquisire alla mano pubblica – forti della giurisprudenza che in questo caso non riconosce uno specifico indennizzo alla non edificabilità dell’area –, di salvaguardare l’integrità paesistica delle aree agricole di maggior interesse naturale e, infine, di proteggere la morfologia idraulica dei corsi d’acqua e del sistema golenale ad essi connesso. Mentre la consulenza al piano di Ancona mi impegnò nella scelta di arrestare lo sviluppo lineare costiero, scegliendo in alternativa la penetrazione verso il retroterra regionale, oltre a coinvolgermi per la prima volta nel rapporto fra territorio e terremoto; in particolare, riuscendo a evitare che lo sviluppo della città si spingesse sull’area di una frana storica, che il sisma del 1972 investì direttamente con conseguenze disastrose per i manufatti costruiti nella zona. D. Finché il terremoto del 1980 ti coinvolse nella battaglia per sostenere le proposte del Progetto Geodinamica del Cnr di Barberi e Grandori, che impose per la prima volta in Italia in termini scientifici la prevenzione legislativa degli effetti dei terremoti. Come si è sviluppata da allora la situazione, fino al recente terremoto dell’Aquila? R. Con Barberi e Grandori dopo il 1980 ho lavorato per qualche anno nel Gruppo nazionale difesa terremoti. La tesi del Progetto Geodinamica, che ne costituiva la pre118

messa, tendeva ad affermare per la prima volta in Italia una legge elaborata su basi scientifiche e tecniche moderne, che consentisse pienamente la difesa dai terremoti degli insediamenti umani. Effettivamente da quel momento, almeno in teoria, la politica italiana sui terremoti ha marcato una svolta: si è finalmente accettata l’idea che dai terremoti ci si può difendere con la prevenzione e che non si deve più attendere passivamente di piangere le vite umane perdute e di riparare i danni materiali subìti; e si è smesso di considerare un balzello l’obbligo di realizzare costruzioni antisismiche nelle zone selezionate che, con vari gradi di pericolosità, coprono buona parte del paese. Anche se assai spesso tali norme non sono state rispettate, al punto che in passato c’è chi si è fatto un titolo di merito per aver cancellato un Comune da quelli obbligati ad applicare le norme antisismiche. Gli effetti del Progetto Geodinamica hanno inoltre spinto a programmare una politica di prevenzione antisismica non solo per le nuove costruzioni, ma anche adeguando il patrimonio edilizio esistente. La proposta che formulai nel saggio citato suggeriva, infatti, di accompagnare l’adeguamento antisismico degli edifici esistenti a un risanamento igienico-edilizio spesso indispensabile per il vecchio patrimonio e addirittura agli interventi necessari per il risparmio energetico negli edifici; cominciando con lo scegliere le zone più pericolose dal punto di vista sismico. Formulato nel 1981, si trattava certamente di un programma coraggioso, pensato per stimolare una complessa riqualificazione dello stock abitativo, con agevolazioni finanziarie e sgravi fiscali, che nel periodo di trenta anni avrebbero potuto mettere in sicurezza e, più in generale, qualificare le costruzioni delle aree sismicamente più delicate del paese. Norme antisismiche – e anche quelle per la 119

qualità igienica ed energetica – da applicare naturalmente con rigidità a tutte le nuove costruzioni da realizzare. Se una simile proposta avesse trovato ascolto fra politici ed economisti, avrebbe in qualche modo cambiato il paese, non solo garantendo la sicurezza sismica e il risparmio energetico, ma anche affrontando una trasformazione strutturale del regime immobiliare, influenzato da questo diverso stock produttivo. La proposta non fu raccolta e anzi fu completamente ignorata, anche a sinistra. Se questo nuovo approccio ai temi del territorio avesse sollecitato, solo in parte, l’interesse della politica e della cultura, all’Italia sarebbero state risparmiate le perdite umane ed economiche dei successivi terremoti, fino all’ultimo più grave, quello del 6 aprile 2009 a L’Aquila. La cui gravità riguarda l’altissimo numero delle vittime, ma anche la dimensione assai vasta delle distruzioni che, a parte i danni ingentissimi dei centri minori, hanno messo in ginocchio il prezioso centro storico della città; dimostrando scandalosamente che, non solo all’Aquila nulla era stato fatto per mettere in sicurezza il patrimonio storico-monumentale, ma che buona parte delle costruzioni realizzate negli ultimi venti anni – a cominciare da quelle pubbliche – avevano quasi sempre clamorosamente violato le leggi antisismiche. È certamente difficile parlare a caldo degli eventi che stiamo vivendo in questi mesi; però le esperienze passate suggeriscono, purtroppo, una lettura fortemente critica di come si stia operando dopo il terremoto dell’Aquila. Non mi sembra opportuno commentare la gestione dei terremotati affidata alla Protezione Civile, mentre credo sia giusto apprezzare vivamente il contributo offerto dal volontariato. Però, la strategia prescelta per uscire dal terremoto non sembra abbia voluto utilizzare le migliori esperienze del passato, che sono sem120

pre legate alla ricostruzione edilizia dei luoghi identitari dei centri colpiti. A L’Aquila, il luogo identitario per eccellenza è senza dubbio il centro storico ed è questo che doveva essere il perno intorno al quale far ruotare tutta la strategia dell’intervento. Invece si è parlato subito con grande superficialità di costruire una new town, quasi si avesse in mente Milano 2; poi si è dovuto ripiegare su 19 piccoli quartierini del tutto nuovi, disseminati a corona oltre la periferia della città e destinati a ospitare «prima dell’inverno 17.000 persone». Si è lavorato, comunque, su tanti piccoli insediamenti nuovi di zecca, aggiunti al corpo martoriato di una città per cui non si è programmata nessuna strategia urbanistica generale. Per la ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati non è chiaro quanti finanziamenti siano resi disponibili, né con quale scadenza erogati; ma tale ricostruzione è stata affidata a decisioni che il governo ha scaricato esclusivamente sugli enti locali, dichiarando di non esserne coinvolto e non garantendo i finanziamenti indispensabili in tempi certi. Insomma, non si sa qual è il piano di recupero del centro storico, né il programma dei recuperi diffusi nella periferia aquilana. Il governo se ne è lavato le mani, provvedendo – almeno secondo le dichiarazioni fatte – a quelle che ha chiamato impropriamente piccole new towns e abbandonando la ricostruzione dell’Aquila agli amministratori abruzzesi, lasciati praticamente soli e senza garanzie finanziarie. L’errore più madornale è quello di aver trascurato le positive esperienze degli ultimi terremoti in Umbria e Marche, per i quali erano stati realizzati oltre 6.000 miniappartamenti mobili, oggi accantonati, allora utilizzati durante la non breve ricostruzione delle cittadine, cominciata dai centri storici. Invece a L’Aquila a fine 2009 121

si stanno costruendo lontano dalla città 5.000 nuovi alloggi definitivi, in edifici a tre piani su piattaforme antisismiche sovradimensionate, nei quali si dovrebbero trasferire e disperdere gli aquilani rimasti senza casa. In queste condizioni, non è pessimistico prospettarsi un futuro incerto e preoccupante per il destino dell’Aquila e degli aquilani. D. Un’economia non indifferente al territorio ci avrebbe permesso di affrontare efficacemente i terremoti, così come – per fare un altro esempio – suggerisce un approccio interdisciplinare con le problematiche ambientali. Perché con questo approccio la pianificazione urbanistica e territoriale può anche contribuire localmente agli obiettivi del Protocollo di Kyoto2. R. Perfino dopo il terremoto, insistiamo a trascurare la necessità di una strategia urbanistica, che sia capace di produrre scelte meno episodiche e strutturalmente organiche. Né la posizione ideologica di certi ambientalisti sembra disponibile a sporcarsi le mani con gli strumenti del piano e, quando i piani riformisti si sono fatti carico direttamente degli obiettivi ambientali, non hanno trovato l’appoggio militante del mondo ambientalista. Eppure, i piani urbanistici possono offrire potenzialità non indifferenti per combattere l’effetto serra, disciplinando opportunamente le trasformazioni urbane e territoriali; obiettivi parziali, certamente, ma tutt’altro che disprezzabili. 2 Si tratta di un accordo internazionale sottoscritto a Kyoto (Giappone) nel 1997 al quale hanno aderito oltre 160 paesi di tutto il mondo (tra i non aderenti gli Stati Uniti), per la riduzione dei «gas serra», causa prima del riscaldamento globale. Misure ancora più incisive sono state adottate nel 2008 dall’Unione Europea.

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Indubbiamente i piani non potranno impedire agli utenti dei nuovi interventi edilizi di ospitare le proprie auto negli edifici, ma possono condizionare alla piantumazione di alberi la nascita dei nuovi insediamenti, anche fra quelli realizzati trasformando la città esistente. Le auto dei nuovi insediamenti nei loro percorsi urbani emettono anidride carbonica e la quantità di questa emissione dipende dalla qualità dei carburanti e da quella dei motori. Tematiche, queste, che il mondo degli ambientalisti ha forse un po’ trascurato, da qualche tempo, ma che, comunque, la disciplina urbanistica non può influenzare. Sappiamo, però, che gli alberi assorbono anidride carbonica e sugli alberi da piantare la disciplina urbanistica ha un potere condizionante. La discussione sulla quantità di emissioni di anidride carbonica di un’auto media e sulla capacità di assorbimento di un albero medio, di età media, lascia margini di incertezza. Però una norma di piano che impone di piantare 100 o 150 alberi per ettaro in un nuovo insediamento di media densità ha come effetto certo la garanzia di assorbire tutte o quasi tutte le emissioni di anidride carbonica nei percorsi urbani delle auto ospitate in quell’insediamento. Interventi, questi, assai più concreti ed efficaci delle pareti verdi oggi tanto di moda con soluzioni forse divertenti, ma dal contributo ecologico irrisorio. E i piani urbanistici riformisti hanno spesso sfruttato la piantumazione sistematica regolamentata, anche prima delle leggi regionali riformiste. Infatti, la linea degli «alberi in città» non è nuova nell’urbanistica italiana, legata prima alla piantumazione in aree pubbliche e poi al «verde ecologico condominiale» in aree private. Inizialmente, l’investimento in alberature ha mostrato la convenienza per le proprietà immobiliari a mettere sul mercato edifici con abbondanza di verde, finché il van123

taggio estetico-commerciale è diventato anche ambientale, rappresentando a questo punto un contributo non indifferente agli obiettivi del Protocollo di Kyoto. Dopo aver indirizzato con i piani urbanistici questa tipologia ecologica per i nuovi insediamenti, si dovrà proseguire programmando diffusamente la creazione di spazi verdi alberati, ben oltre la necessità di parchi pubblici, ma attribuendo al contrario la responsabilità delle alberature agli operatori privati in tutti gli interventi che questi realizzeranno nella città. Del resto, quanto in Italia siamo costretti a fare con le norme dei piani, in Germania o in Svezia lo fanno di propria iniziativa gli operatori immobiliari e i piani servono allora soltanto a stimolare e a coordinare scelte che il mercato fa spontaneamente. Di conseguenza, una parte notevole dell’area urbana nelle città del Centro e del Nord Europa è occupata da suoli alberati e permeabili, che nelle città contribuiscono a equilibrare il clima, a ravvenare le falde freatiche, oltre che ad assorbire l’anidride carbonica emessa dalle auto circolanti. Né i piani urbanistici servono soltanto a perseguire questa misconosciuta realizzazione degli obiettivi di Kyoto. Perché, per fare un altro esempio, i piani urbanistici stanno sempre più spesso rendendo obbligatorie le norme per il risparmio energetico degli edifici. Ancora una volta, l’innovazione viene dai paesi europei più avanzati: ha cominciato il Comune di Bolzano a ispirarsi ai modelli tedeschi e austriaci, creando CasaClima3, una procedura di certificazione energetica che sfrutta la di-

3 In tedesco KlimaHaus, è un metodo di certificazione energetica degli edifici in vigore dal 2005, ideato dall’Ufficio «Aria e Rumori» della Provincia di Bolzano in ottemperanza alle direttive Ue conseguenti al Protocollo di Kyoto.

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sciplina urbanistico-edilizia, con la quale ha diffuso soluzioni di elevato risparmio energetico e di ridotte emissioni inquinanti degli edifici, in generale almeno dimezzandoli. Vorrei ricordare a questo proposito l’assessore bolzanino Silvano Bassetti, già mio studente nel ’68 al Politecnico milanese, poi dirigente dell’Inu e giovane amico troppo presto scomparso. Il modello di Bolzano ha fatto scuola e Reggio Emilia ha creato con successo Ecoabita4, analoga procedura di certificazione energetica. Ora diverse Regioni hanno approvato apposite leggi e in numerosi Piani strutturali le norme per il risparmio energetico non sono più premiali, ma sistematicamente obbligatorie. Ricordando, comunque, che il risparmio energetico non solo offre un valido contributo agli obiettivi ambientali di Kyoto, ma nel giro di pochi anni consente vistosi risparmi economici sui consumi agli inquilini di edifici che hanno superato positivamente i controlli di certificazione energetica. D. Se per gli obiettivi di Kyoto si dimentica troppo spesso l’uso dell’urbanistica, per il paesaggio siamo addirittura all’alternativa. Quando, invece, il paesaggio di cui giustamente ci occupiamo è quello creato dall’uomo nel corso dei secoli e la pianificazione urbanistica nella sua accezione moderna non può essere esclusa dalla forma del territorio. R. Mi spiace di dover ripetere dei concetti scontati, ma questi sono evidentemente indispensabili per fare chiarezza. Il paesaggio italiano – e ormai quello di quasi tutto il Pianeta – è certamente quello creato dall’uomo nel 4 Progetto della Provincia di Reggio Emilia (2008) per la diffusione della certificazione energetica degli edifici, finalizzato soprattutto a informare gli utenti sui costi di gestione degli stessi, in particolare per quanto riguarda il riscaldamento.

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corso dei millenni; le pinete costiere le hanno piantate i romani e le abetaie del Cadore i veneziani, e se c’è un paesaggio artificiale è quello fin troppo noto della campagna toscana. E il paesaggio italiano artificiale è bello, quello extraurbano, come quello urbano, e va salvaguardato nella sua interezza. Salvaguardia, però, non deve significare intangibilità in ogni caso, perché per sua natura il paesaggio va gestito dall’uomo e perché la stessa difesa dei valori paesistici dovrà essere frutto degli interventi dell’uomo. Il che, tanto per non generare equivoci, non vuol dire in alcun modo mano libera per qualunque intervento umano, più o meno speculativo. Tutto questo ce l’hanno spiegato prima Emilio Sereni e poi Lucio Gambi. Eppure la tendenza oggi prevalente, pur con le migliori intenzioni, non sembra tenerne conto perché assume il più delle volte un atteggiamento in cui la salvaguardia dei valori paesistici si manifesta proprio con la linea della più rigida intangibilità. Ricadendo nella visione idealistica, romantica, ottocentesca del paesaggio, quando il viaggio in Italia degli intellettuali europei si traduceva nell’ammirazione estatica dei ruderi del Foro Romano, abbandonati in pittoresco disordine fra le foglie d’acanto, la pianta dei capitelli corinzi. Questa visione è comprensibilmente condizionata dalla deregulation urbanistica oggi imperante, con danni gravissimi sul territorio, non soltanto a carico del paesaggio. È indubbio che, con questo punto di partenza, la legge Bottai del 1939, di derivazione francese e illuminista, rappresentasse un notevole passo in avanti, e Ranuccio Bianchi Bandinelli se ne servì con passione e in termini evolutivi. Quella concezione, però, considerava del paesaggio urbano ed extraurbano i singoli elementi da salvaguardare: i monumenti e i luoghi panoramici im126

portanti. Nei confronti dei quali l’intangibilità era il comportamento più facile da proporre: quel palazzo non si tocca, a costo di non realizzare un ascensore per arrivare al quarto piano, e quel panorama deve restare come la cartolina che lo immortala, anche se poi il famoso pino contro il golfo di Napoli e il Vesuvio non c’è più. Dimenticando, però, che in quel palazzo nel frattempo hanno messo la luce elettrica, i bagni e il riscaldamento centrale e che, intorno a quel pino scomparso, abbiamo lasciato costruire tutto un quartiere napoletano. Una versione culturale evolutiva del paesaggio l’abbiamo data in Italia con un certo successo, affrontando il tema del centro storico. Perché con la Carta di Gubbio del 1960 – basata sulla relazione che fecero al convegno Antonio Cederna e Mario Manieri Elia – si disse esplicitamente che il centro storico, cioè l’intera città preindustriale, andava considerato un monumento nel suo insieme e che la salvaguardia del centro storico era affidata al suo organico inserimento nel piano urbanistico di tutto il Comune. E il piano urbanistico – secondo il ben noto modello bolognese degli anni Sessanta – assicurava la salvaguardia del centro storico, pianificando la modalità di intervento morfologico delle diverse tipologie di edifici, ma anche la destinazione d’uso e la conservazione dei gruppi sociali insediati. Per ciò che riguarda i valori culturali del paesaggio urbano storico, con la soluzione bolognese che fece scuola, fu dunque accettata per la prima volta la tesi che la salvaguardia, lungi dall’essere affidata alla scelte sul singolo edificio più o meno monumentale, doveva essere frutto delle scelte sistematiche fatte dal piano sull’intero tessuto urbano. La gestione del centro storico di Bologna, nei fatti, mantenne pienamente nel tempo solo le scelte della sal127

vaguardia morfologica, non riuscendo ad applicare che in modesta misura la salvaguardia funzionale e cedendo a una troppo alta terziarizzazione; mentre la salvaguardia sociale dei ceti meno abbienti non si realizzò per l’elevata crescita del reddito medio cittadino, che spinse tra l’altro molti proprietari di estrazione popolare a vendere a prezzi convenienti le vecchie abitazioni, che furono restaurate dagli operatori immobiliari nel pieno rispetto della salvaguardia morfologica. Successivamente, alle soglie del Duemila, dai piani urbanistici di Roma e di Ivrea scaturì un aggiornamento del modello bolognese, con il passaggio dalla linea del centro storico a quella della Città Storica; togliendo il limite della storicità alla rivoluzione industriale e applicando il principio che, sia pure in forme diverse, i valori storico-culturali includono non solo l’Ottocento e il Novecento, ma gli stessi interventi realizzati ai giorni nostri, con caratteristiche di storicità meritevoli di salvaguardia e conservazione. L’esempio classico di tali interventi è rappresentato dai quartieri romani di Ridolfi e Quaroni e dai quartieri olivettiani di Ivrea, questi ultimi oggetto dell’ormai noto Museo a cielo aperto. La tematica del paesaggio che Lucio Gambi affronta con la visione antropica della geografia del territorio è, dunque, per quanto riguarda l’ambito urbano, quella affidata a un piano urbanistico comunale, che in Italia investe anche l’aspetto morfologico, ma non solo quello. Assai meno risolto è, invece, l’approccio paesistico per quanto riguarda l’ambito extraurbano. Molto più realisti e pragmatici, i tedeschi utilizzano da tempo il Landschaftprogramm (programma paesistico), strumento pienamente integrato con la pianificazione generale, come dimostra quello adottato a Berlino nel 1993, ben conosciuto anche in Italia. 128

D. Non mi sembra che l’orientamento italiano, dal Codice Urbani alle polemiche sulla stampa, si muova in questa direzione. Quali sono i punti deboli del dibattito e quali dovrebbero esserne, secondo te, le prospettive? R. La Costituzione italiana afferma che lo Stato tutela il paesaggio: ma se lo Stato conferma in qualche modo la legge Bottai e le Soprintendenze, organismo statale che si occupa di beni culturali e di paesaggio, per l’urbanistica e il territorio, la riforma del titolo V della Costituzione ha sancito in buona misura l’autonomia regionale della materia; quindi sull’argomento le Regioni non solo controllano gli strumenti della pianificazione, ma si danno anche le proprie leggi. Il conflitto di competenze che nasce fra urbanistica, territorio e paesaggio nasce, dunque, da questa contraddizione istituzionale. Però nessuno può contestare che le problematiche paesaggistiche si intreccino oggettivamente con quelle urbanistico-territoriali; anche se bisogna tener conto che le rispettive competenze sono attribuite a organismi diversi, dei quali quello statale sembra avere una prevalenza istituzionale su quello comunale, provinciale e regionale. Da questa contraddizione scaturisce una contrapposizione sbagliata fra difensori d’ufficio delle Soprintendenze e urbanisti riformisti, considerati avversari solo perché ritengono il piano uno strumento di governo del territorio da preferire, anche per il paesaggio, alla soluzione caso per caso delle singole operazioni. Il che non significa che magari il piano difenda una scelta radicalmente sbagliata e invece la battaglia del Soprintendente nella singola vicenda sia sacrosanta. Il fatto è che, comunque, i Soprintendenti sono preziosi per la difesa del paesaggio, anche se, in parte per legge e molto per formazione culturale, sono per principio contra129

ri al piano; mentre il contributo di competenze di molti Soprintendenti sarebbe di inestimabile valore per la costruzione dei piani territoriali, non solo per le questioni del paesaggio. Il conflitto di competenze, già pesante giuridicamente, è infatti aggravato dalla diversa concezione con cui operano i due livelli. Perché il livello locale, che nasce dalle Regioni, è legato a una concezione pianificatoria individuata a priori, cioè a regole generali che il piano definisce e applica in modo organico su tutto il territorio. Al contrario, il livello statale, che nasce dal ministero e dalla Soprintendenza, è legato storicamente a una concezione puntuale della disciplina, che va applicata caso per caso, da individuare a posteriori, cioè nel momento in cui l’intervento viene proposto. E l’esperienza ci ricorda che gli organi della Soprintendenza raramente hanno accettato di contribuire alla formazione di un piano, proprio per evitare di doverlo rispettare in futuro. Purtroppo il Codice dei beni culturali e del paesaggio5 non ha per nulla risolto questa contraddizione, in quanto propone un modello di piani paesaggistici, che deve essere elaborato congiuntamente da ministero e Regioni, soltanto per alcune aree e categorie di immobili. Piani che naturalmente non sono ancora formati e di cui è ignoto il futuro. Negli anni Ottanta, ad affrontare la questione ci aveva provato la legge Galasso6, con la quale lo Stato 5 Dlgs 22 gennaio 2004 n. 40, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 4 luglio 2002 n. 137. 6 Legge 8 agosto 1985 n. 431, così chiamata dal nome del promotore, il sottosegretario ai Beni culturali e ambientali Giuseppe Galasso. La legge, oltre a istituire i Piani territoriali paesistici a livello regionale, vincola senza bisogno di ulteriori atti formali, categorie morfologiche come i boschi, i laghi, le coste, le sponde fluviali, ecc.

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affidava alle Regioni il compito di elaborare il Piano paesaggistico regionale, precisandone le caratteristiche. Purtroppo, soltanto l’Emilia Romagna riuscì ad adottare il piano entro il 1986, termine fissato dalla legge, mentre alcune altre regioni scelsero di elaborare piani parziali, che in genere non coprivano l’intero territorio regionale. Finché con la legge 20/2000 l’Emilia Romagna attribuì anche l’aspetto paesaggistico ai Piani territoriali di coordinamento provinciale. In questo caso si tratta di piani territoriali che disegnano in forma prescrittiva tutte le scelte paesaggistiche, che vengono poi assunte dai Piani strutturali comunali quale unica previsione prescrittiva dello strumento generale. Questa soluzione disciplinare sarebbe completa e funzionale; peccato, però, che non sia formalmente inserita nel meccanismo del Codice dei beni culturali e del paesaggio dello Stato. Non a caso, l’Inu parla di «pianificazioni separate», impegnandosi, come fa da anni, a coordinare il rapporto fra governo del territorio e beni culturali e paesaggistici. Il ruolo che svolge in proposito il piano territoriale di coordinamento della Provincia di Bologna rappresenta un buon esempio di soluzione efficiente, anche se non è organico all’approccio mal definito dei piani paesaggistici previsti dal Codice. Dalle indicazioni del Piano provinciale i Piani strutturali dei Comuni bolognesi ricavano l’intera disciplina paesaggistica e ambientale, la sola a essere formulata in termini prescrittivi fin dal piano generale. Queste indicazioni cogenti – non a caso chiamate invarianti – sono comunque coerenti con tutta la strategia di piano espressa nel Psc in termini programmatici e la condizionano. Da un lato, infatti, affrontano le presenze storico-testimoniali: centri e nuclei storici, insediamenti sparsi di rilievo storico-architettonico, percor131

si di derivazione storica, zone di interesse archeologico fra le quali la grande matrice spaziale della centuriazione romana. E, dall’altro lato, indicano gli elementi di carattere più naturale, che in Emilia Romagna spesso derivano dalla lunga attività di bonifica: alvei e invasi dei bacini idrici, corsi d’acqua e relative fasce di tutela, aree esondabili e casse di espansione, zone umide, dossi, aree forestali e gruppi di vegetazione, nodi e corridoi ecologici, Siti di importanza comunitaria (Sic) e Zone di protezione speciale (Zps). E a queste indicazioni va aggiunto l’obbligo di ambientalizzare le infrastrutture viarie e ferroviarie di un certo rilievo, cioè di rimodellare appositamente il territorio circostante per adeguarlo al contesto dal punto di vista paesaggistico. La Regione Toscana ha fatto di più: nel 2007 ha approvato il Piano di indirizzo territoriale (Pit) a scala regionale, conferendogli valenza di piano paesaggistico; e insieme ha sottoscritto un’intesa con il ministero dei Beni Culturali per la copianificazione paesaggistica di tutto il territorio regionale. È questa la soluzione più impegnativa presa dalle Regioni, di cui, naturalmente, oggi non è possibile prevedere l’esito. In qualche modo, però, è questa la strada da sviluppare in futuro perché accetta un rapporto organico fra Stato e Regioni, ma lo lega a uno strumento di copianificazione; e «piano» significa una gestione che, anche per il paesaggio, non è affidata alle scelte casuali di un pur ottimo funzionario statale, ma discende da uno strumento elaborato e approvato a priori, aggiornabile e modificabile solo con certe procedure: insomma, un elemento di sicuro riferimento per tutti gli utenti del territorio. D. La tua illustrazione rende assai chiaro il quadro della questione, ma anche le serie difficoltà da superare per ri132

solvere la contraddittoria visione del paesaggio, a seconda che lo si integri o meno al territorio. Né il dibattito si sviluppa in modo da far accettare la chiarezza che tu proponi. Al punto che la questione del «consumo di suolo», tema organicamente legato al territorio nella sua visione complessiva, viene oggi invece affrontato dai media parlando del paesaggio. R. Confesso che anch’io mi sono fatto coinvolgere in una polemica nata male, a proposito di un brutto insediamento di poche decine di casette, definito «ecomostro», realizzato a Monticchiello, grazioso Comune del senese. Partendo dalla giusta critica a questo insediamento, era stata lanciata l’informazione terroristica di «30.000 chilometri quadrati cementificati nell’ultimo decennio in Italia». Io replicai smentendo il dato, frutto di un malinteso statistico. Intendiamoci, il consumo di suolo è un dato indiscutibile e va combattuto decisamente, ma per governare l’operazione bisogna conoscere i dati reali di partenza, che sono semplici: una visione ideologica della questione ha fatto dimenticare che la riduzione della superficie coltivata (la Superficie agricola utilizzata, Sau nelle statistiche) non è dovuta che in parte alla cementificazione, ma in più larga misura all’abbandono della attività agricola; anche perché la politica agricola comunitaria con il set aside finanzia la eliminazione di certe coltivazioni, per far crescere il valore dei prodotti. Per citare un teste non urbanista, si può usare il libro di Corrado Barberis, direttore dell’Insor7, che l’autore ha 7 Istituto nazionale di sociologia rurale, fondato nel 1959 da Manlio Rossi-Doria, Giuseppe Medici e Umberto Zanotti-Bianco, il primo uno dei maggiori esperti di politica agraria, il secondo più volte ministro e il terzo archeologo ed esperto di beni culturali.

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intitolato La rivincita delle campagne, nel quale si parla di «analfabetismo statistico». Barberis, pur informando che la superficie coltivata in Italia fra il 1962 e oggi è passata da 158.000 a 127.000 chilometri quadrati (pari a 31.000 chilometri quadrati persi in 46 anni), fornisce una serie di dati socio-economici che fanno pensare a un certo rilancio dell’agricoltura italiana. Resta il fatto che la riduzione della superficie coltivata è di 31.000 chilometri quadrati in 46 anni, e non nell’ultimo decennio, e non è neppure tutta cementificata. Inoltre, i dati del Corine Land Cover, un’indagine affidata al telerilevamento, confermano quelli dell’Insor, con 155.000 chilometri quadrati di territorio agricolo, ai quali però vanno aggiunti 128.000 chilometri quadrati di territori boscati e di ambienti seminaturali (cioè spesso incolti), nonché oltre 10.000 chilometri quadrati di corpi idrici e zone umide. Secondo il Corine i territori modellati artificialmente (che, agli edifici e alle strade, sommano le cave a cielo aperto) misurano in totale, al Duemila, circa 14.000 chilometri quadrati, pari alla metà di quelli cementificati soltanto nell’ultimo decennio secondo gli «analfabeti statistici». È vero che l’unità superficiale di riferimento del Corine è molto ampia (25 ettari), e che in tal modo perde i piccolissimi insediamenti sparsi, ma la correzione necessaria non sarà troppo alta. Infatti, l’Insor parla oggi complessivamente di 27.000 chilometri quadrati di territorio urbanizzato, quasi il 9% della superficie nazionale: una cifra più alta di quella del Corine, che deve in ogni caso suggerire una radicale inversione di tendenza nella gestione del territorio. Operazione, però, che sarà meno difficile se costruita su corrette informazioni statistiche e non su cifre sbagliate, destinate inevitabilmente a non rendere credibile la strategia innovativa. 134

Il problema del consumo di suolo è, infatti, una questione di quantità, come di qualità. In primo luogo, perché il suolo è compromesso dalla dispersione insediativa: ho già ricordato come, nel resto d’Europa, i piccoli centri sono numerosi quanto in Italia, ma fra un centro e l’altro il territorio è quasi tutto occupato dalle coltivazioni, dai boschi e dall’incolto naturale. Da noi, invece, capannoni industriali, depositi, gruppetti di abitazioni, edifici di ogni genere, tutto è disperso nella campagna, con il risultato di occupare il suolo, ma, peggio ancora, di compromettere l’uso agricolo e naturale per buona parte del suolo non occupato. Una tesi, questa, recentemente sostenuta anche dal Rapporto annuale della Società geografica italiana. Inoltre, manca completamente una politica nazionale, fiscale e variamente premiale, che stimoli il riuso di suoli già edificati e occupati con destinazioni obsolete o improprie, allo scopo di ridurre il consumo di suolo. Quando gli amministratori comunali di Reggio Emilia vantano il successo del loro piano, che programma i due terzi delle nuove abitazioni su aree già edificate della città, sanno di non aver molti altri casi a far loro concorrenza. In secondo luogo, il consumo di suolo si presenta anche come questione qualitativa. Perché in un regime immobiliare dominato dalla rendita urbana, sono i fattori differenziali a stimolare l’edificazione nei luoghi speciali. Le coste del mare sono il principale di questi luoghi speciali e in Italia presentano ormai una edificazione quasi continua, alla quale non si sono opposte le scelte locali, né certamente quelle nazionali. Quando il governatore della Sardegna ha tentato di contenere la lebbra costiera con una legge regionale, è stato attaccato dalla sua stessa maggioranza di centro-sinistra e poi ha perso duramente le elezioni contro un candidato sostenuto addirittura dal presidente del Consiglio. Mentre la So135

printendenza non ha fatto molto per aiutarlo. Del resto, le coste dei tre maggiori comprensori balneari, Veneto, Romagna e Toscana – uno amministrato in prevalenza dalla destra e due dal centro-sinistra –, non sono sfuggite alla edificazione continua, mentre in Liguria tanti anni fa nacque il neologismo rapallizzare, per indicare lo sfruttamento brutto e speculativo di tutto il fronte a mare. Negli anni Sessanta, quale urbanista consulente, ebbi la fortuna di veder adottato a Rimini un piano che conservava a verde tutti i varchi ancora aperti fra il retroterra e il mare; quaranta anni dopo, di quei varchi n’è rimasto uno solo perché, nel parco a cui fu destinato, inserimmo un quartiere economico e popolare, che è stato così il buon guardiano del verde. Forse il solo comprensorio turistico non compromesso dall’assalto edilizio è quello del Trentino-Alto Adige, dove la storica serietà dell’amministrazione asburgica influenza ancor oggi l’amministrazione italiana. Ora, una delle campagne più belle d’Italia, quella toscana, sta subendo l’attacco già toccato alle coste e alle zone alpine. Non è un caso che la polemica su Monticchiello sia nata in Toscana. Anche in questo caso, il problema non è tanto quello di ridurre o spostare le casette che non ci piacciono – cosa che però con le leggi regionali riformiste si poteva fare e non si è fatto –, ma un altro: è quello di affrontare il consumo di suolo nella visione complessiva di un piano territoriale, capace di metter mano insieme ai temi del paesaggio, dell’ambiente, dell’urbanistica. Perché solo il piano è in grado di trovare il punto di equilibrio fra tutte le scelte, quelle della indispensabile tutela e quelle di un eventuale sviluppo sostenibile. D. Tutti i problemi che nascono per l’ambiente e il paesaggio non possono, dunque, essere affrontati se non so136

no integrati al territorio in forma più generale, come hai appena spiegato per quanto riguarda il consumo di suolo. Che dire allora del «piano-casa» recentemente proposto da Berlusconi? R. La prima cosa da dire, a proposito del cosiddetto «piano-casa», che il governo ha faticosamente trattato con le Regioni, non è stata detta dai media, né dall’opposizione: si tratta, di fatto, del terzo condono edilizio approvato dall’ex costruttore Berlusconi. Peggio, è una proposta che programma e legalizza l’abusivismo edilizio, quando i due precedenti si limitavano a condonare gli abusi già effettuati. Il principio del terzo condono, infatti, è la violazione legalizzata delle norme previste dai piani urbanistici vigenti, senza neppure una contropartita per la comunità. Aggravando quanto avveniva con i condoni precedenti: perché, al grave danno alla collettività effettuato appesantendo il carico urbanistico delle città, si somma il danno fatto ai molti privati, che vedono nascere di fronte alle proprie finestre una edificazione non prevista quando essi hanno costruito o comprato il loro edificio. Si viola, dunque, non solo l’interesse pubblico – che in Italia in genere vale poco, anche per numerose sentenze – ma perfino l’interesse privato, che in teoria avrebbe il diritto di essere indennizzato perché la legge autorizza una evidente riduzione di valore per numerosi immobili. Tutto questo dovrebbe essere giustificato da un forte interesse pubblico, che in questo caso sarebbe quello di mobilitare verso la produzione edilizia un’iniezione di liquidità altrimenti latente. Ciò presuppone che la miriade di piccoli proprietari di alloggi – in maggioranza quelli degli edifici mono e bifamiliari, che grazie alle successive leggi regionali possono crescere del 20% – dispon137

ga di riserve bancarie inutilizzate. Non sono in grado di smentire questa ipotesi, anche se a occhio e croce non mi sembra molto plausibile; e la sua validità sarà dimostrata o meno dai fatti, nel giro di uno o due anni. Se la liquidità privata già disponibile non esistesse, i soggetti interessati dovrebbero far ricorso alle banche, che notoriamente sono restie a prestare denaro perfino alle imprese industriali o terziarie. E qualora lo prestassero, questa liquidità destinata in tal modo al settore edilizio sarebbe probabilmente sottratta ai costruttori già impegnati nel settore sulla base di programmi legati alla disciplina urbanistica vigente. Finanzieremmo, cioè, l’abuso legalizzato a danno delle normali operazioni edilizie legali. In ogni caso, però, il decreto-casa introdurrà un fattore negativo di squilibrio nel sistema produttivo delle costruzioni, perché le piccole operazioni edilizie incentivate dalla legge saranno molto probabilmente affidate a piccole imprese occasionali. Queste lavorano spesso in nero e con mano d’opera non regolare per ridurre i costi, danneggiando così le altre imprese, anche queste di piccole dimensioni, che lavorano abitualmente per un mercato regolare, rispettando le norme urbanistiche, i contratti sindacali, la sicurezza nei cantieri. Al momento non è certo possibile prevedere l’esito quantitativo dell’operazione innescata dal governo: se una liquidità già disponibile sarà spinta verso la produzione, se il sistema produttivo sarà turbato o meno dai nuovi investimenti, se le nuove costruzioni stimolate saranno aggiuntive o no rispetto al mercato già esistente. Certamente, lo sviluppo delle città sarà danneggiato dal carico urbanistico imprevisto, anche rispetto ai piani vigenti, e lo stesso risparmio di suolo realizzato aggiungendo volumi edilizi alle aree già urbanizzate sarà abbastanza irrisorio. 138

Un controllo fatto in qualche Comune aumenta le perplessità avanzate in linea generale. Per esempio, nel Comune di Molinella, che ha adottato il suo Psc mentre si discuteva del decreto-casa, ho fatto una verifica molto significativa. Esaminando le concessioni edilizie degli ultimi 12 anni per gli edifici mono e bifamiliari, ho trovato che il 56% non hanno sfruttato interamente l’edificabilità permessa dalle norme vigenti e solo il 44% ha costruito interamente quanto consentito. Il nuovo piano non ha cancellato i diritti edificatori non utilizzati: quindi, non c’era bisogno della proposta governativa per stimolare il completamento delle costruzioni esistenti, dato che, presumibilmente, le sole crescite del prossimo futuro saranno quelle che i proprietari avevano già programmato. Però a Molinella potrebbero crescere le abitazioni che avevano già raggiunto l’indice di edificazione del piano, appesantendo in modo discutibile il carico urbanistico della cittadina e danneggiando le abitazioni che vedranno crescere l’edificio vicino in modo fino ad oggi non consentito: una doppia ingiustizia. Mi sembra di poter concludere confermando la supremazia del modello del piano rispetto a quello delle scelte da fare caso per caso. Il modello del piano – e non il piano in sé, che può essere giusto o sbagliato – serve, infatti, ad affrontare tutti i problemi che si generano sul territorio: quelli dell’urbanistica, quelli dell’equità e dell’equilibrio edilizio, quelli del paesaggio e dell’ambiente. Sempre che il piano e le sue scelte siano basati su conoscenze corrette e complete, che potranno evitare il più delle volte scelte sbagliate, arrivando così a governare le trasformazioni del territorio sempre nell’interesse generale della comunità.

7.

CONOSCERE PER GOVERNARE

D. Siamo alla conclusione di quest’intervista. Abbiamo sviluppato sistematicamente l’esigenza di conoscere e ora dobbiamo farne scaturire una proposta per come governare l’urbanistica, con un approccio riformista. Intanto, cosa significa oggi «urbanistica riformista»? R. Ancor oggi penso sia corretta la definizione che ho dato in un volume prodotto insieme a te per Etas Libri nel 1991: «L’urbanistica riformista» è quella «che riconosce il mercato e le sue esigenze, ma impone però regole di comportamento che, senza soffocare anzi stimolando l’iniziativa imprenditoriale, sono necessarie a difendere e a garantire gli interessi della comunità urbana e nazionale». L’urbanistica riformista è, quindi, una visione ideale e insieme una concezione pragmaticamente operativa; un quadro strategico di riferimento, ma anche un modo di attuazione graduale, come quello che a Bologna nel 1960 chiamai «pianificazione continua» – allora apprezzata da tutta la sinistra culturale e politica –; e che a Roma nel 1994, con una innocente civetteria esterofila, fu chiamata planning by doing, ma questa volta attaccata e criticata dalla sinistra massimalista. È l’approccio che abbiamo costruito con «i principi e le 140

regole» per la riforma al XXI Congresso dell’Inu del 1995, come pianificazione generale flessibile, ma regolata a priori nell’attuazione; non affidata alla contrattazione caso per caso, ma applicata sempre rispettando i parametri urbanistici e ambientali stabiliti preventivamente e spesso mettendo diverse proposte a confronto fra loro in termini concorsuali, e scegliendo quella che più ampiamente supera quei parametri. Però i massimalisti ancor oggi difendono gli espropri, impossibili ai Comuni per il costo intollerabile e vantaggiosi ormai solo per la rendita urbana; rifiutano il piano generale programmatico che non favorisce la proprietà privata, ma piuttosto le acquisizioni pubbliche; e, infine, non accettano la scadenza quinquennale delle previsioni private formulate in attuazione del piano. Agli urbanisti massimalisti, allora, vorrei ricordare che l’approccio attuale dell’urbanistica riformista rappresenta, di fatto, la sola concezione antagonista capace di contrastare oggi lo sviluppo speculativo e l’espansione edilizia spinta solo dalla rendita, e che permette di affrontare le problematiche attuali della trasformazione urbana con il coinvolgimento delle istituzioni elettive decentrate comunali, provinciali e regionali. D. Fin’ora abbiamo descritto la situazione critica delle città e del territorio, esaminando gli aspetti principali del problema. Forse sarebbe utile ricordarli. R. All’inizio abbiamo descritto icasticamente «quanto è brutta la città». Poi siamo partiti affrontando di proposito la questione della rendita urbana, che rappresenta l’origine di tutte le patologie del sistema immobiliare e che genera tutte le malformazioni della città e del territorio. Non senza ricordare che il tema – causa prima di tutti gli 141

effetti negativi nell’urbanistica – è oggi totalmente dimenticato dalla politica e, in larga misura, anche dai media e dagli intellettuali. Questi ultimi, infatti, preferiscono spesso dedicarsi alla denuncia degli effetti scandalosi, non offrendo però all’opinione pubblica e alla politica una organica soluzione alternativa, che tenga conto realisticamente di tutte le componenti della situazione. Una parte significativa del percorso dedicato nell’intervista a «conoscere» si è occupata della metropolizzazione, brutto neologismo che però descrive con efficacia una novità complessa dell’assetto territoriale italiano ed europeo degli ultimi venti anni e di cui sarà indispensabile tener conto per «governare» utilmente. E la definizione del nuovo regime immobiliare ci ha condotto ad analizzare le nuove proposte regionali in corso di sperimentazione e la necessità di riuscire a portarle verso una sintesi nazionale. Infine, abbiamo affrontato largamente la questione dei nuovi contenuti della riforma urbanistica, evitando di occuparci soltanto del meccanismo legislativo e pianificatorio da riformare, errore che – per la verità – in qualche momento anche l’Inu ha commesso. Nuovi contenuti dell’urbanistica resi più espliciti dall’attualità, anche se storicamente sempre perseguiti dai riformisti, ma oggi indispensabili per cambiare alla radice la politica urbana e territoriale del paese: dall’ambiente, al paesaggio, all’ecologia, fino agli aspetti più specifici e drammatici, come quello riproposto recentemente dal terremoto dell’Aquila. Da tutto questo approccio analitico affrontato fin’ora cercherò di far nascere delle conclusioni concrete, delle proposte organicamente coordinate, senza alcuna pretesa di formulare una soluzione globale, presuntuosa quanto impegnativa. Avanzando, dunque, un sistema di proposte che nascono da una medesima visione rifor142

mista e che, proprio per questo, potrebbero realizzarsi anche per punti; punti coerenti fra loro, ma pragmaticamente utilizzabili anche parzialmente. D. Mi sembra chiaro che tu vuoi aggiungere alle leggi di riforma urbanistica relative ai meccanismi di pianificazione, classici cavalli di battaglia dell’Inu, le leggi di politica urbanistica relative ai contenuti della pianificazione. E, fra le prime e le seconde, dovrà trovare posto la riforma fiscale, capace di affrontare globalmente la rendita urbana e dalla quale ricavare i finanziamenti indispensabili per riformare il governo delle città e del territorio. R. Quest’ultima indicazione è vera e lo stesso Inu non l’ha proposta ancora esplicitamente, perché, con realismo, ritiene che il terreno politico-culturale non sia ancora maturo per accogliere la sfida. Cosa che, invece, personalmente, posso fare, ben sapendo però che ci vorrà del tempo per arrivare a quella maturazione. Tanto per essere chiari, era certamente ragionevole che l’ultimo debole governo Prodi non volesse ridurre le disponibilità della finanza pubblica, fornita dalla quota di «prime case» non ancora esentate dall’Ici. Tuttavia, l’Inu e io stesso non abbiamo mai amato l’Ici, che tassava un valore d’uso, magari di un miliardario tassabile in altro modo su cespiti assai più consistenti. Infatti, l’Ici sulla prima casa poneva i Comuni in un contraddittorio conflitto di interessi: perché, incentivando la produzione di prime case, da un lato aumentava le entrate comunali, ma dall’altro contrastava una seria politica di moderazione della crescita edilizia. Gli stessi ministri dell’ultimo governo Prodi, Bersani e Visco, sembrano non aver ben capito la cosa: hanno pensato all’obiettivo di aumentare le entrate fiscali, 143

che hanno per altro ottimamente perseguito con la guerra agli evasori; ma hanno spinto i Comuni delle regioni che già applicavano le leggi riformiste a tassare gli «indirizzi» dei Piani comunali strutturali, con un provvedimento di fatto illegittimo, perché le previsioni in indirizzo sono programmatiche e non prescrittive e sono destinate a diventarlo solo con i piani operativi quinquennali. Questa vicenda contribuisce a mettere in evidenza la questione fondamentale: quale è il cespite immobiliare strutturale da tassare per risolvere il problema alla radice. Cioè l’incremento di valore delle aree edificabili, tassando il quale si realizzerà finalmente la «tassa sulla rendita urbana». Se infatti il Piano strutturale annuncia una preferenza programmatica di indirizzo su determinate aree, già edificate o ancora libere che siano, non attribuisce in alcun modo a queste aree un diritto edificatorio e, dunque, non può essere tassato, perché la tassa può esistere soltanto nel momento il cui il piano assegna il diritto edificatorio. Sarà, infatti, la fase attuativa, con il Piano operativo, a far incontrare le scelte specifiche comunali con gli interessi privati, con indicazione unilaterale del Comune accettata dalla proprietà, o mediante concorso fra più aree di pari interesse urbanistico. Sempre, comunque, rispettando i minimi parametri urbanistici e ambientali fissati a priori dal Piano strutturale. E allora sono le scelte del Piano operativo a essere quelle prescrittive, creando diritti privati edificatori e doveri di cessione gratuita di una elevata quota di aree pubbliche; e quei diritti privati edificatori, solo a questo punto prescrittivi, dovranno essere tassati in base all’incremento di valore delle aree in questione. L’ammontare della tassa, dunque, misurerà la quota di rendita urbana che la comunità avrà la forza politica 144

di prelevare. La dimensione della quota di rendita urbana prelevata fiscalmente ci dirà in quale misura la trasformazione della città e del territorio sarà realmente finanziata all’interno del sistema immobiliare e in quale misura quei finanziamenti dovranno arrivare invece da altre fonti. In poche parole, ci dirà fino a che punto la battaglia contro la rendita urbana sarà più o meno coronata dal successo. Anche questa sarà una concezione da maturare nel tempo, quando saremo riusciti a convincere l’opinione pubblica che tutte le attrezzature d’uso comune indispensabili al buon governo della città e del territorio sono oggi in Italia generatori di rendita, e che dalla rendita è giusto e ragionevole prelevare le risorse necessarie per realizzare e far vivere quelle attrezzature pubbliche. La «tassa sulla rendita», se mai riusciremo a introdurla, avrà, dunque, il doppio scopo di ridurre la componente speculativa dal costo delle costruzioni e di finanziare, assai più di quanto facciano oggi i modesti oneri di urbanizzazione, la spesa per i servizi. Vorrei, comunque, fosse chiaro come la tassa sull’incremento di valore delle aree edificabili sia strutturalmente diversa – al di là della dimensione – dagli oneri di urbanizzazione, anche se finiscono entrambi per gravare sul costo finale degli edifici. La tassa, infatti, non è direttamente proporzionale alla quantità dell’edificazione, ma dipende largamente dal luogo e dalla funzione delle costruzioni realizzabili, mentre gli oneri di urbanizzazione sono prevalentemente proporzionali alla dimensione dell’edificabile. La tassa, dunque, colpisce la rendita, mentre gli oneri colpiscono l’intervento edilizio. D. Dato che hai scelto il metodo di affrontare i problemi generali e le soluzioni finali, ma anche le più modeste e 145

immediate operazioni graduali, dovresti sottolineare ancora la questione dello scomputo degli oneri di urbanizzazione, reso impossibile da una norma proposta burocraticamente dall’Unione Europea e messa in pratica dal governo italiano recentemente. R. Ho già criticato l’irregolare pratica italiana di sottrarre parte degli oneri di urbanizzazione alla funzione naturale di costruire servizi pubblici per finanziare invece i bilanci comunali ai quali il governo ha sottratto i proventi dell’Ici. Con il nuovo provvedimento scompare un’altra quota degli oneri, che per prassi la disciplina urbanistica italiana destinava a realizzare servizi pubblici a scomputo degli oneri di urbanizzazione, da parte degli stessi operatori che costruiscono gli edifici privati; condizionando così la parte privata dell’insediamento alla sicura costruzione della parte pubblica. Un solo cantiere, una sola impresa, un contestuale controllo comunale degli edifici privati e di quelli pubblici: questa condizione positiva per la comunità è cancellata, per affermare il principio teorico che tutte le opere pubbliche devono andare a concorso. Io insisto a proporre che la legge italiana generata dalla teoria applicata burocraticamente dell’Unione Europea sia corretta con una nuova legge, o con una interpretazione legislativa che ripristini la realizzazione delle opere pubbliche a scomputo degli oneri di urbanizzazione, quando ciò garantisca la piena realizzazione dei servizi previsti dal Piano strutturale a favore degli interventi. Sarebbe stato meglio che il governo si facesse carico in prima battuta di questo problema, ma ormai il danno è fatto e bisogna ripararlo. Né il suggerimento mi sembra tale da generare grandi polemiche politiche e culturali: migliaia di Comuni italiani ne sareb146

bero avvantaggiati e la certezza dei servizi pubblici negli insediamenti sarebbe ripristinata. E, naturalmente, torno a ripetere che la possibilità di destinare parte degli oneri al Bilancio Comunale andrebbe cancellata, reperendo nuove fonti fiscali, dirette o indirette, a colmare il vuoto che si è creato nelle già esangui disponibilità finanziarie dei Comuni. D. Prima di concludere sulla problematica fiscale, dovresti fare un breve accenno alla fiscalità differenziata che hai suggerito per il patrimonio edilizio esistente, che, oltre la prima casa, ha destinazioni terziarie o secondarie. R. L’accenno che vorrei ricordare riguarda una novità da approfondire ed elaborare, rendendo sistematico e abituale il rapporto fra fisco e urbanistica, al di là della radicale innovazione della «tassa sulla rendita». Infatti, oltre la prima casa, ormai esclusa dalla tassazione, l’edilizia esistente presenta una gamma di destinazioni e di ubicazioni, oggi tassate disordinatamente, casualmente, o non tassate; quando sarebbe utile che la disciplina urbanistica della città esistente avesse un corrispettivo fiscale che ne confermasse la strategia. Il che, purtroppo, non è mai stato neppure tentato. Un esempio chiarirà meglio la proposta. Nei centri storici, o nelle aree che oggi definiamo Città Storica, il processo di sostituzione delle abitazioni con gli uffici è stato generale, creando situazioni negative da tutti riconosciute; e spesso i piani urbanistici si sforzano di contrastare questa sostituzione, ma il fisco non fa altrettanto. In molti casi, nelle periferie urbane o intercomunali, i piani urbanistici prospettano decentramenti direzionali, che riguardano uffici e terziario: questo è il caso tipico dove sarebbe necessaria una fiscalità differen147

ziata, che colpisca fortemente il terziario centrale e alleggerisca quello decentrato, stimolando fisicamente l’operazione urbanistica progettata. L’esempio può essere riproposto per molti casi analoghi. È il caso di un problema che, specialmente negli ultimi anni, si è imposto per la sua gravità, cioè quello della diffusione delle abitazioni nella campagna: sia sfruttando, più o meno irregolarmente, il diritto degli agricoltori conduttori a costruire la propria residenza sul fondo da coltivare, sia restaurando edifici agricoli – abitativi o produttivi – esistenti, ma abbandonati e magari con caratteristiche storiche. Molti anni fa l’una e l’altra operazione erano considerate addirittura positive; oggi sappiamo che la disseminazione di abitazioni non legate alla produzione nella campagna crea un grave problema, specialmente per l’alto costo dei servizi tecnologici diffusi. Evitare l’invasione residenziale della campagna è allora diventato un obiettivo che i piani urbanistici perseguono, o dovrebbero perseguire. Questo è un altro caso dove il fisco deve andare di pari passo con l’urbanistica, colpendo fortemente le situazioni esistenti e scoraggiando del tutto quelle che si vorrebbero creare. D. Del meccanismo legislativo pianificatorio ti sei occupato ampiamente, indicando anche le soluzioni proposte; quindi, a questo punto basterà ricordarlo brevemente. R. Delle leggi di riforma urbanistica in questa intervista ho parlato a lungo e qui basterà ricordarle. Credo che la più corretta soluzione generale della materia sia oggi quella rappresentata dal progetto di legge formulato dall’Inu, dopo aver tentato per anni, con risultati più o meno buoni, di contribuire ai progetti di legge che il centrosinistra ha presentato, ma che ha sempre trascurato di 148

portare avanti con decisione. Questa situazione politica, però, non mi sembra molto cambiata; e non vorrei che, con la prepotenza attualmente tipica della maggioranza parlamentare di destra, finisse per passare una brutta nuova legge urbanistica, magari ispirata al nefasto «piano-casa» voluto inaspettatamente da Berlusconi. Ritengo allora di proporre un suggerimento già avanzato più volte e citato anche in queste pagine: quello di formulare una proposta legislativa sintetica che sia possibile far approvare da tutti i settori politici del Parlamento, allo scopo, preferibilmente con un articolo unico, di tutelare e garantire le riforme che, variamente, numerose Regioni hanno già approvato e applicano da tempo; di fronte a una legge nazionale urbanistica del 1942, ormai anacronistica, ma che potrebbe generare un conflitto giuridico con alcune innovazioni urbanistiche regionali. Ho già indicato, e ripeto, i tre punti che questa legge bipartisan dovrebbe risolvere con un solo articolo. Il primo riguarda la soppressione dell’obbligo di prescrittività diretta per il piano comunale generale, che diventerebbe programmatico. Il secondo concerne il trasferimento della prescrittività agli strumenti attuativi, che potrebbero essere di diverso tipo, ma per i quali dovrebbe essere fissata una scadenza definita – cinque anni, probabilmente non più –, oltre la quale diritti privati e impegni pubblici perderanno la validità. Il terzo è il riconoscimento sistematico della perequazione urbanistica gratuita compensativa, per garantire l’attuazione della città pubblica, non escludendo, naturalmente, l’esproprio, che in taluni casi resterà comunque necessario. Così formulati i tre punti soddisfano, infatti, esigen149

ze che nascono dalle leggi regionali adottate dalla destra e dal centro-sinistra. Con la speranza che tale soluzione equa e ragionevole sventi il rischio di una legge di urbanistica di destra, destinata a peggiorare ed esaltare le divergenze concluse anni fa in Parlamento con una cattiva soluzione, quando la rottura fra sinistra massimalista e centro-sinistra fece fallire la soluzione riformista che allora aveva i numeri per essere approvata. Per concludere sul meccanismo legislativo pianificatorio, bisogna aggiungere un aspetto che non tutte le leggi regionali hanno affrontato con efficacia, di cui l’esperienza già dimostra ampiamente la necessità e che si renderà comunque indispensabile per introdurre nei piani i nuovi contenuti affrontati fin’ora nell’intervista, ricorrendo ad apposite leggi e finanziamenti settoriali. Questo aspetto riguarda l’inquadramento intercomunale, provinciale, regionale – e in particolare il piano metropolitano –, che va concepito in modo da evitare l’impraticabile pianificazione a cascata, nella quale il piano comunale finisce stritolato, ma usato al contrario per assicurare che le scelte di area vasta siano utilmente raccolte a tutti i livelli, in base a una politica per il governo territoriale organica e finanziata. Esperienze soddisfacenti dimostrano che i Piani territoriali di coordinamento provinciale possono funzionare ottimamente per realizzare la pianificazione metropolitana; solo che ci sia la volontà politica di collaborare da parte dei Comuni coinvolti e specialmente dei capoluoghi, normalmente restii a farlo, ma anche che la Provincia non pretenda – come spesso succede – di prevaricare le singole scelte comunali. Nei casi migliori, su stimolo delle stesse leggi regionali, nascono le Associazioni Intercomunali, che redigono schemi di Piano strutturale intercomunale, concordati nell’assemblea 150

dei sindaci; dai quali schemi – che fissano gli indirizzi dimensionali e infrastrutturali generali – i Comuni sviluppano i relativi Piani strutturali comunali. È a questo punto che nasce la contraddizione fra pianificazione territoriale e politiche e finanziamenti regionali e nazionali, specialmente per quanto riguarda le infrastrutture. Di questo parleremo nuovamente. E già che sono in tema di proposte concrete, vorrei suggerire una modesta modifica al provvedimento che, in genere nelle regioni meridionali, istituì e finanziò a suo tempo i Piani strategici collegati al Piano urbano della mobilità. Due iniziative benemerite, ma non organicamente collegate sul piano istituzionale. Mi sono imbattuto qualche volta in questa «strana coppia», che per sopravvivere deve essere disarticolata. Il Piano strategico – iniziativa politica generale, economica, sociale, tesa a individuare la cosiddetta vision della città e del suo territorio – deve muoversi alle dipendenze del sindaco, incontrarsi con le categorie economiche, le associazioni, i gruppi culturali; mentre il Piano della mobilità, possibilmente non urbano, ma intercomunale o meglio metropolitano e provinciale, dovrà raccordarsi alla pianificazione strutturale, o meglio esserne un suo elemento particolare. Basterebbe un’iniziativa del ministero delle Infrastrutture che fin’ora ha gestito la «strana coppia», magari d’accordo con la Conferenza Stato-Regioni, e senza tante complicazioni la questione potrebbe risolversi facilmente. D. E finalmente dovrai trattare di quelle che hai chiamato «leggi di politica urbanistica», relative ai contenuti della pianificazione, cioè leggi nazionali relative a un singolo settore, leggi da disciplinare e finanziare nell’interesse generale del paese, che influenzano direttamente le scelte di piani ai diversi livelli. E che sarebbero utili se la 151

situazione politica le rendesse possibili. Magari iniziando con il settore della mobilità, oggi decisiva per l’assetto territoriale metropolitano. R. Ho già accennato al fatto che, in altri Paesi europei, oltre alle leggi necessarie per aggiornare il meccanismo di pianificazione territoriale, sono state spesso adottate leggi specifiche, relative a temi che hanno un rapporto diretto o indiretto con l’urbanistica e i suoi contenuti, dalle nuove periferie alla mobilità. In Italia sono mancate sia le prime che le seconde e il mio suggerimento è quello di colmare entrambe le carenze. È forse opportuno iniziare con la mobilità, che a mio parere rappresenta oggi il fattore decisivo per risolvere i problemi della città, affrontandoli a scala metropolitana. La mobilità è stata, invece, trattata fin’ora come tema esclusivamente infrastrutturale, trascurandone completamente le ricadute strategiche sulle città e sul territorio. Prima di disegnare col pennarello infrastrutture che non hanno mai i finanziamenti disponibili, credo si debba fare la scelta politica preliminare delle risorse pubbliche destinate alla mobilità per il breve periodo; scelta da rispettare con le leggi finanziarie degli anni successivi. Per la verità neppure i governi di centro-sinistra hanno avuto il coraggio di precisare quante sono le risorse disponibili destinate alle infrastrutture, quante agli investimenti sociali, a quelli economici e così via. Sarebbe almeno necessario quantificare a posteriori le quantità degli investimenti destinati ai diversi settori; cosa non facile, perché quegli investimenti arrivano da scelte pregresse, o da finanziamenti non utilizzati. Toccherà agli esperti di Bilancio ricostruire le effettive destinazioni delle risorse impiegate e, nel caso che ci interessa, la quota destinata alle infrastrutture della mobilità, permettendoci 152

così di valutare quanto è toccato alla strada e quanto alla rotaia; infatti, pur rifiutando ogni preconcetto ideologico, continuo a sostenere la necessità di riequilibrare il trasporto su ferro rispetto a quello su gomma. Questo vale per il completamento della T dell’Alta Velocità: facendo quanto è ancora possibile per trasformarla realmente in Alta Velocità, ma anche in Alta Capacità, modificando il progetto iniziale troppo «alla francese», semplificando i tratti iniziale e finale della trasversale settentrionale, e continuando, però, a curare tutta la residua rete storica che va ammodernata. Anche perché una parte considerevole di questa dovrà essere utilizzata per il Servizio ferroviario metropolitano, senza trascurare l’uso della rete storica e delle residue ferrovie in concessione nei sistemi urbani-metropolitani meno grandi, magari con materiale rotabile più leggero, ma sempre integrato alla nuova rete generale del ferro. In questo quadro, non trova posto il Ponte stradale e ferroviario sullo Stretto, per ragioni geosismiche, ma anche perché clamorosamente inutile per raccordare Calabria e Sicilia, dove purtroppo oggi esistono modestissime reti stradali e ferroviarie. La mobilità territoriale nazionale sarà fortemente integrata con quella locale, dove i finanziamenti statali dovrebbero andare ai metrò sotterranei soltanto a Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova e Palermo, mentre nelle conurbazioni più piccole – a cominciare da Bologna e Firenze – dovrebbero andare alle reti moderne di superficie, come succede a Firenze e non come avviene a Bologna. E nelle dodici città metropolitane dovrebbero arrivare i finanziamenti pubblici del Servizio ferroviario metropolitano, con numerose stazioni urbane e una rete integrata ai metrò sotterranei e alle reti moderne di superficie. Bisognerà evitare la proliferazione di altri mez153

zi di trasporto collettivo, in aggiunta alle reti da qualificare dei bus esistenti e delle nuove reti tranviarie. La rete autostradale e stradale nazionale è ormai una delle meno valide d’Europa, ciò nonostante non dovrebbe essere privilegiata nei futuri finanziamenti pubblici: dovrebbe essere esclusivamente autofinanziata, magari trasformando in autostrade in concessione superstrade importanti come la Romea, da Venezia a Ravenna, Orte e Civitavecchia. In ambito urbano, dovranno essere scoraggiate le nuove circonvallazioni, che per decenni sono servite solo alla rendita; mentre le reti urbane di bus esistenti dovranno essere rigidamente protette, usando i parcheggi scambiatori per mirare alla soppressione del parcheggio lungo le strade, magari anche favorendo i parcheggi privati sotto gli edifici esistenti, con una politica comunale appositamente mirata. E, infine, la politica nazionale della mobilità dovrà stimolare le realizzazioni degli interporti, indispensabili strumenti di interscambio ferro-gomma. D. Hai parlato di mobilità su terra, ma non trascurare quella su acqua e per aria. R. In Italia non è mai successo, ma in Europa la strategia politica della mobilità ha sempre interessato anche il trasporto aereo e via mare. La disseminazione di aeroporti ai margini settentrionali della Padania è stata certo la causa prima delle difficoltà di Malpensa e, in parte, anche del fallimento Alitalia. Firenze ha rinunciato al grande aeroporto dell’Italia Centrale, rifiutando lo scalo di Pisa, mentre gli aeroporti siciliani, con tutti i loro difetti, lavorano sfruttando la condizione di monopolio dell’isola altrimenti irraggiungibile. Volendo evitare altri danni al sistema aeroportuale nazionale, do154

vremo impedire con decisione la proliferazione di nuovi aeroporti e selezionare quelli esistenti. Quanto al sistema portuale, questo esige di rafforzare decisamente le attrezzature esistenti. La proposta delle «autostrade del mare» – sul Tirreno, da Genova a Palermo e, sull’Adriatico, da Trieste a Brindisi – andrebbe rilanciata, magari per iniziativa delle città e dei porti interessati. Ma rafforzare i porti significa collegarli efficacemente alla rete ferroviaria e autostradale. La carenza di collegamenti infrastrutturali ha forse compromesso la possibilità che Gioia Tauro aveva di diventare il principale polo mediterraneo per i container, mentre la modesta attrezzatura portuale italiana non sfrutta le rotte mediterranee, alle quali viene preferita la più lontana, ma efficiente e ben collegata Rotterdam. Amministratori e urbanisti che si sono occupati di pianificazione sembrano i soli a sapere come le scelte per le città e il territorio siano pesantemente condizionate dalla totale mancanza di una politica nazionale delle infrastrutture per la mobilità. Così i piani disegnano spesso prospettive mirabolanti che non hanno nessuna speranza di realizzarsi e, in qualche raro caso, non sfruttano occasioni che sembrano possibili. Purtroppo il primo caso è assai più frequente del secondo e un piano urbanistico, per altri aspetti serio e positivo, è destinato così al più totale fallimento. Questa politica infrastrutturale non rappresenta certo un’opzione direttamente urbanistica, ma è comunque necessaria perché le scelte per le città e il territorio siano inserite in un quadro preciso e realizzabile. D. Fra le leggi di politica urbanistica, una legge sul «consumo di suolo» ha certamente un rapporto diretto con la pianificazione territoriale, ma riguarda soltanto un setto155

re specifico della disciplina. Se sei d’accordo con l’esigenza di regole nazionali sulla materia, prova a indicarne le caratteristiche. R. Direi che una «legge sul consumo di suolo» sia l’esempio tipico di come indirizzare la pianificazione territoriale in tutto il paese su un tema di importanza decisiva. Un tema assai curato in Europa, se in Germania si è riusciti a collocare i due terzi dei nuovi interventi sulla trasformazione dei tessuti edilizi esistenti, degradati, obsoleti o anche soltanto incoerenti con le nuove esigenze della città. In particolare, avendo costruito molto negli ultimi decenni nelle periferie metropolitane sostenute dai trasporti collettivi, i tedeschi sembrano oggi molto attenti a intervenire trasformando positivamente le zone centrali delle città. Proprio questo deve essere l’approccio corretto di una politica sul consumo di suolo. Resta importante, naturalmente, non sottrarre nuove aree alla produzione agricola o alla destinazione naturale, ma occorre affrontare direttamente il tema della trasformazione urbana e metropolitana adeguando l’edilizia esistente, invece che continuando ininterrottamente l’espansione edilizia iniziata mezzo secolo fa. Riducendo, dunque, il consumo di suolo, ma principalmente lavorando a qualificare il patrimonio costruito che è pieno di difetti, o anche solo di tessuti edilizi mal utilizzati. La soluzione più semplice sarebbe quella di vietare il nuovo consumo di suolo, oltre una certa quota, ma questo approccio dirigista non sembra oggi quello più logico, né sicuramente è gradito alle istituzioni locali, che tale legge dovranno condividere consapevolmente per applicarla nei fatti. L’alternativa sarà allora un orientamento condizionante della legge, come già fece 156

la «legge ponte», che nel lontano 1967 diffuse la pianificazione comunale non riuscita con i decreti impositivi, consentendo densità edilizie di carattere urbano soltanto alle nuove costruzioni previste da un Prg. Il nuovo approccio non dovrebbe essere altrettanto drastico. Invece, ad esempio, i finanziamenti statali per infrastrutture e attrezzature comunali potrebbero essere erogati solo alle città che rispetteranno una certa quota di riqualificazione urbanistico-edilizia; oppure, o insieme, potrebbe essere eliminato il vincolo del patto di stabilità dei Bilanci per quei Comuni che raggiungeranno negli indirizzi di piano un minimo di trasformazioni della città esistente. Per chiarire meglio, l’obiettivo è quello di ridurre al massimo le nuove edificazioni su aree non ancora edificate e di aumentare al massimo le nuove edificazioni su aree già edificate; scegliendo le prime quasi esclusivamente fra gli interstizi del tessuto edilizio attuale e le seconde in tessuti urbani da riqualificare, o valorizzati dalla presenza di trasporti collettivi su ferro. La legge nazionale potrebbe stabilire le percentuali di riuso della città esistente e di nuovo consumo di suolo, ripercorrendo le esperienze ricordate in precedenza (per esempio, a Reggio Emilia, alla città esistente toccano i 2/3 e, al nuovo, 1/3) e che dovrebbero, comunque, raggiungere almeno la quota di metà e metà. È una legge che continueremo per comodità a chiamare del «consumo di suolo», ma che meglio andrebbe definita della riqualificazione della città esistente. È una legge che dovrebbe anche suggerire scelte da operare a scala metropolitana perché, pur essendo la situazione urbanistica italiana ben diversa da quella tedesca, anche da noi sarà necessario favorire il riuso dell’esistente nei capoluoghi metropolitani o nei centri principali delle co157

nurbazioni minori. Si potrebbe distribuire, ad esempio, la percentuale dei 2/3 fra Comune centrale e periferia territoriale: assai più nel Comune centrale che in quelli della periferia territoriale. Lasciando, comunque, al piano metropolitano o intercomunale la responsabilità di specificare meglio l’applicazione della legge, che potrebbe in qualche caso richiedere un rapporto inverso di quello citato. E specialmente attribuendo al piano territoriale la responsabilità di indicare la quota di Edilizia residenziale sociale (Ers) da riservare nel centro e in periferia, quota che, indubbiamente, dovrà essere favorita nel centro, dal quale l’edilizia destinata ai ceti economicamente meno abbienti è stata per decenni eliminata. Un aspetto particolare della legge sul «consumo di suolo» dovrà riguardare una decisa politica contro la diffusione residenziale nella campagna, di cui ho già accennato l’aspetto fiscale. Bisogna, infatti, trovare una soluzione capace di penalizzare i piani urbanistici che trascurano questa politica e che, in particolare, permettono nuove intrusioni insediative nella zona agricola, consentendo edificazioni sparse o concentrate fuori dall’area urbana. Bloccando, insomma, con tutti gli accorgimenti possibili, la proliferazione urbanistica nel tessuto agricolo e naturale, che rappresenta forse l’aspetto più negativo del consumo di suolo in Italia. D. Hai appena accennato all’Ers, che rappresenta oggi come ieri uno dei contenuti significativi dell’urbanistica. Non ti sembra che, per questo settore, sia necessaria una legge specifica? R. All’Ers è stata dedicata nel 1962 la prima legge di riforma urbanistica. Allora si chiamava Edilizia Economica e Popolare e la storica legge 167 ne fece un’antici158

pazione della riforma generale, che poi fallì; e la 167 restò una riforma parziale, destinata a rivoluzionare il settore, per il quale disponeva appositi piani comunali – i Piani per l’edilizia economica e popolare (Peep) – e acquisiva aree a un costo più basso di quello di mercato. Alla lunga, però, la legge è invecchiata, il costo delle aree è cresciuto e – bisogna ammetterlo – i Comuni spesso ne hanno fatto un uso clientelare e distorto. Proprio questo impiego diverso da quello originario rende difficile eliminare i Peep, che possono però essere sostituiti da una nuova soluzione, innovativa oggi quanto lo era allora la legge 167. Ho già accennato all’ultimo buon provvedimento del governo Prodi, con la Finanziaria del 2008: questo stabilisce che l’area destinata dai piani urbanistici a servizi pubblici secondo le prescrizioni dell’apposita legge del 1968 può essere utilizzata anche per l’Edilizia residenziale sociale, come era fin’ora per le strade, i giardini o le scuole. Già prima delle leggi regionali riformiste, le aree per servizi pubblici dei piani attuativi, privati o pubblici che fossero, erano cedute gratuitamente ai Comuni dalle proprietà immobiliari. Con le leggi regionali, poi, la perequazione urbanistica garantisce un’abbondante cessione gratuita di aree per tutta la città pubblica. E ciò produce due considerevoli novità per l’Ers: sarà realizzata su aree a costo zero e sarà inoltre integrata ai nuovi insediamenti e non più relegata in appositi quartieri separati. Insomma, il costo dell’Ers potrà ridursi di un terzo e l’Ers sarà mescolata alla edilizia privata. Sarà per la sua novità, ma questa importante occasione non sembra ancora recepita dai Comuni e perfino dagli organismi responsabili delle abitazioni popolari, mentre potrebbe rappresentare, specialmente nei Piani 159

strutturali comunali formulati in applicazione delle leggi regionali riformiste, un fattore strategico della nuova politica urbanistica e un salto di qualità nella politica dell’Ers. È infatti noto come i finanziamenti per l’Ers siano oggi ridotti al più basso livello toccato in Italia, da sempre fra i paesi più avari in questo settore. La richiesta di aumentare i finanziamenti statali per le abitazioni pubbliche in affitto, almeno nelle aree in crisi residenziale per le categorie economicamente più deboli, è certamente indispensabile e le nuove abitazioni pubbliche in affitto costeranno comunque meno perché realizzate su aree a costo zero. Però l’innovazione citata consente di reperire altre risorse non statali, con una nuova politica generale dell’Ers. Infatti, in primo luogo, la disponibilità di aree a costo zero consente di abbassare fortemente i prezzi degli affitti e anche dei riscatti dell’edilizia privata convenzionata, fino ad oggi non troppo ridotti rispetto a quelli di mercato dell’edilizia residenziale privata. E il vantaggio offerto dall’area a costo zero richiede, in secondo luogo, una gara fra gli operatori che si candidano a realizzare l’edilizia convenzionata in affitto e a riscatto su quelle aree privilegiate. Una gara che potrebbe essere vinta dagli operatori che offriranno gratuitamente al Comune il maggior numero di abitazioni destinate al patrimonio pubblico in affitto: dunque, edilizia residenziale privata convenzionata a basso prezzo e nuove risorse da privati per l’edilizia residenziale pubblica in affitto. Le nuove possibilità offerte per l’Ers devono suggerire ai Comuni strategie urbanistiche di riequilibrio territoriale per le abitazioni sociali, all’interno della città e in tutto il sistema metropolitano. Il dibattito sulla quota di Ers da riservare negli indirizzi programmatici sul totale delle previsioni residenziali mi sembra però fuor160

viante e indotto dalla vecchia concezione dei Peep e dell’edilizia convenzionata a prezzi moderatamente inferiori a quelli di mercato. Il parametro del 20% scelto in Emilia Romagna potrebbe essere alto nei Comuni della periferia metropolitana e basso nei capoluoghi; ma comunque sarà una percentuale che scaturirà da una attuazione di cui ancora non conosciamo i risultati. Non sappiamo ancora in che misura gli operatori vorranno rischiare producendo edilizia convenzionata, realizzata su aree a costo zero ottenute dando in cambio ai Comuni una quota più o meno alta delle abitazioni costruite. Incertezze dovute alla novità della situazione e in particolare della crisi economica ed edilizia, che vanno verificate, avendo a sostegno non soltanto una politica urbanistica comunale, ma anche una legge nazionale che inquadri gli interventi locali. E proprio a questo sarebbe utile una legge nazionale di contenuto urbanistico sull’Ers. D. Hai affrontato tre temi di contenuto per i quali ti sembra necessaria una specifica legge di politica urbanistica, ma contenuti specifici e pianificazione territoriale si incontrano su molti temi. A parte la scarsa possibilità che oggi i politici siano disposti a impegnarsi per queste leggi, ritieni che sarebbero realmente necessarie, su temi più o meno mal regolamentati come ad esempio i Beni Culturali e il Paesaggio? R. Anche facendo professione di ottimismo, la politica oggi non sembra certo interessata alle tematiche territoriali, quindi ho indicato le tre leggi di politica urbanistica meno improbabili, specialmente per offrire un supporto concreto alla discussione. Comunque, numerosi contenuti sui quali in Europa si adottano leggi ur161

banistiche specifiche, in Italia sono affrontati con leggi nazionali in genere assai discutibili; e allora la migliore soluzione credo sarebbe quella di correggere i principali difetti di queste leggi esistenti, o almeno – questo è lo scopo di tutte le mie proposte – di trovare il raccordo concreto fra queste leggi e la pianificazione urbanistica, che oggi si ignorano del tutto. Il caso dei Beni Culturali e del Paesaggio urbano ed extra-urbano è tipico di questa situazione. Ho già indicato due soluzioni corrette per affrontare la questione. La prima, scelta dalla Regione Toscana e tutta da verificare, è quella di elaborare un Piano paesistico regionale dove lo Stato, che è rappresentato dalla Soprintendenza, e la Regione, rappresentata dalle autonomie locali elettive, collaborino. È l’aspirazione di sempre, che sappiamo difficile, ma che è giusto tentare per far coincidere quelle che l’Inu chiama da sempre «le pianificazioni separate». La seconda – forte del solo Piano paesistico regionale adottato in Italia nel 1986 in base alla legge Galasso, correttamente aggiornato nel tempo – è quella applicata pragmaticamente con il piano territoriale di coordinamento della Provincia di Bologna, che con le sue indicazioni paesaggistiche impegna i successivi Piani strutturali comunali a scelte «invarianti», le uniche prescrittive del piano generale. Una soluzione che la Soprintendenza accetta, perché si riserva il più delle volte un parere specifico sui singoli interventi, anche a prescindere dal Ptcp, realizzando una convivenza scomoda, ma non impossibile. In entrambi i casi, una soluzione non facile da generalizzare. Anche perché il Codice dei Beni Culturali ha confermato una scelta difficile da gestire in Italia, dove le burocrazie statali e locali abitualmente non collabora162

no di buon grado. E il vero problema da risolvere è questo perché la Costituzione, oggi, assegna la responsabilità dell’Urbanistica alla Regione, cioè alle burocrazie autonome locali, e il Paesaggio allo Stato, cioè alle burocrazie statali, centrali e periferiche. La scelta reale allora non è di carattere istituzionale, ma piuttosto culturale: se insomma deve prevalere una visione dei Beni Culturali che rispetti seriamente i valori storici, ma li consideri in termini di pura conservazione, oppure ne ricerchi la convivenza con l’indispensabile futuro. E altrettanto vale per i valori naturali. La risposta a questa alternativa non può essere data con una legge, ma è inevitabilmente affidata alla maturazione culturale della società. D. Seguendo la strada di questa realistica risposta, non ti sarà difficile fare altrettanto su altri argomenti di contenuto, come ad esempio quello legato alle problematiche ambientali, che nascono in particolare dal Protocollo di Kyoto. R. Vorrei confermare intanto l’idea che in Italia dovremmo concepire una «economia non indifferente al territorio», cioè ispirare alle esigenze ambientali ed ecologiche, oltre che paesaggistiche, molte scelte di governo ben al di là dell’urbanistica. Ciò significa, per esempio, che se anche concentriamo la tematica ambientale sugli obiettivi necessari a rispettare il Protocollo di Kyoto, bisognerà che la legislazione relativa trovi un piccolo spazio per integrarsi all’urbanistica. Se, come pare, pagheremo sulle future bollette dell’elettricità i nostri ritardi nel rispettare gli impegni presi con l’Unione Europea su Kyoto, per ridurre questi ritardi non potremo rifiutare anche il ricorso alla gestione urbanistica. La politica che è stata definita del «verde in città» è, 163

come ho già ricordato, applicata da tempo attraverso molti piani urbanistici, legando direttamente la costruzione di nuove abitazioni alla piantumazione di nuovi alberi nel tessuto cittadino, capaci entro pochi anni di assorbire le emissioni di anidride carbonica nei percorsi urbani delle auto ospitate negli alloggi. E facendo altrettanto per gli uffici, come per gli edifici direzionali e produttivi. Il governo potrebbe da un lato generalizzare questa norma in tutto il paese, magari rimborsando le spese per le alberature ai privati e ai Comuni che le metteranno a dimora, garantendosi così in breve tempo una bella quota di diritti di emissione, ma anche innescando uno sviluppo consistente dell’industria vivaistica nazionale. E, naturalmente, contribuendo nello stesso tempo a qualificare l’ambiente urbano e perfino a valorizzare dal punto di vista commerciale gli immobili realizzati nei nuovi «condomini ecologici». Né l’operazione va limitata al solo ambiente edilizio, perché potrebbe riguardare tutte le nuove grandi infrastrutture per la mobilità, ma anche le principali fra quelle esistenti. Autostrade, superstrade e nuove linee dell’Alta Velocità sono state, infatti, fin’ora, inserite brutalmente nel territorio, violando il paesaggio e innescando ai margini edifici in totale disordine. Alcuni piani urbanistici hanno preso da qualche tempo a chiedere la «ambientalizzazione» di queste infrastrutture: questo significa progettare e realizzare, insieme all’infrastruttura, una fascia più o meno larga in cui il terreno sia rimodellato e sistemato a verde naturale, talvolta anche densamente alberato, talvolta con visuali aperte su panorami di qualche interesse. Dunque, una nuova soluzione di valore paesaggistico, ma anche di valore ecologico per il rispetto del Protocollo di Kyoto. La «ambientalizzazione» comincia ad avere la prima applica164

zione spontanea, ma i provvedimenti legislativi per Kyoto dovrebbero renderla obbligatoria, calcolando fra nuovi interventi e adeguamenti su infrastrutture esistenti le quote di emissione per combattere i gas serra e riconoscendo all’operazione un rapporto diretto con la pianificazione territoriale. Vorrei aggiungere un cenno a una problematica ambientale che ha un rapporto solo indiretto con la battaglia contro i gas serra e che, incomprensibilmente, è stata cancellata dall’agenda politica e perfino da quella culturale. Mi riferisco al sistema idrogeologico, che investe il regime dei corsi d’acqua e la tenuta dei versanti montani e collinari. Una situazione storicamente disastrosa in Italia, dove l’Appennino, ma anche le Alpi, sono stati da secoli dissennatamente disboscati, mentre prima erano resi stabili da alberi e arbusti; e intanto i corsi d’acqua sono stati prima canalizzati e cementificati e poi quasi svuotati dai più diversi prelievi, ma alle ricorrenti piogge torrenziali tracimano su insediamenti e città, con effetti talvolta catastrofici. Qui non si tratta di paesaggio, oggi così alla moda, e neppure del gas serra incombente sulle nostre bollette elettriche, ma del territorio nazionale che non regge più e di cui ci dimentichiamo, fino alla prima devastante inondazione o al prossimo disastroso smottamento franoso. Così successe a Sarno nel 1998 e poi in cento altri casi, fino a quello di Giampilieri di Messina nel 2009. La cifra di cui si parla oggi è di 25 miliardi di euro per la messa in sicurezza di tutto il territorio nazionale; qualche anno fa si disse 40; ma, in questo caso, sì che ci vorrebbe una legge generale, con forti investimenti nazionali, ormai quasi scomparsi dalle Finanziarie annuali. E il raccordo con la pianificazione urbanistica sarà solo quello di registrare un vincolo di salvaguardia per 165

boschi e corsi d’acqua, la cui protezione effettiva sarà però affidata a una politica nazionale. D. Altrettanto si può fare allora per la legislazione ecologica sul risparmio energetico. R. Anche in questo caso c’è un sistema disordinato di provvedimenti nazionali, regionali e di norme urbanistiche provinciali e comunali; e servirebbe un puntuale coordinamento normativo, perché fra questi non si creino contraddizioni e reciproci ostacoli. E anche pensando ai diritti di emissione del Protocollo di Kyoto, credo che una legge nazionale dovrebbe disciplinare le norme sul risparmio energetico in edilizia, rendendo obbligatoria non solo la certificazione energetica, ma anche il rispetto di quote minime di risparmio per le nuove costruzioni. Evitando drasticamente, comunque, la visione premiale con cui il governo di destra oggi concede aumenti di volume a chi rispetta la nuova normativa energetica. Le Regioni saranno in ogni caso libere di alzare lo standard minimo di risparmio energetico obbligatorio e i piani comunali normeranno il tutto, disciplinando anche il progressivo adeguamento del patrimonio edilizio esistente al risparmio energetico. Potrebbero inoltre tenerne conto ai fini fiscali per le costruzioni turistiche, direzionali e produttive, perché in questo caso una visione premiale non incrementa il carico urbanistico, ma riduce il carico energetico di una città. D. Pensi, infine, che, dopo il terremoto dell’Aquila, la disciplina antisismica andrebbe modificata? R. Non credo di essere troppo polemico se rispondo positivamente, almeno per stimolare la discussione – anche in questo caso – e per fare chiarezza su quanto si 166

doveva fare a L’Aquila. Inizio da ciò di cui l’attuale maggioranza politica non è responsabile: la previsione, nei piani urbanistici di tutti i Comuni a rischio sismico, di aree attrezzate per accogliere gli alloggi provvisori – non tende, né container più o meno arrangiati a miniappartamento – già esistenti, stoccati e mantenuti dalla Protezione Civile. Per L’Aquila ce ne sarebbero stati diverse migliaia, anche se pare non tutti in buono stato di conservazione. Le aree attrezzate vanno realizzate in tutti i Comuni, con finanziamenti statali, sistemate a verde e collegate con le reti fognarie, idriche, elettriche, telefoniche e del gas, pronte per essere usate in caso di necessità. Sapevamo che queste aree servivano nei Comuni sismici, ma nessuna legge nazionale le ha previste e finanziate. Subito dopo il sisma – e qui siamo alle clamorose responsabilità che per L’Aquila si è assunto direttamente il presidente del Consiglio – l’attenzione va concentrata su due operazioni. La prima è quella di ospitare gran parte degli abitanti evacuati in appartamenti provvisori localizzati in aree attrezzate prossime alla città – e non parcheggiarli in tendopoli, che finiscono per diventare lager, né sistemarli per mesi in strutture turistiche momentaneamente non sature – in attesa di individuare le abitazioni prontamente riutilizzabili, dopo il controllo statico e il riallaccio alle reti urbane. La seconda, ma contemporanea alla prima, è quella di affrontare subito l’intero controllo della città esistente, centri storici e tessuto urbano consolidato, allo scopo di selezionare subito gli edifici – da quelli completamente distrutti a quelli intatti –, di realizzare le condizioni di sicurezza, di individuare le reti urbane da ricostruire o anche solo da riallacciare, di sgomberare progressivamente le strade dalle macerie, di accertare in particolare la statica dei 167

monumenti e delle attrezzature pubbliche. Questa operazione potrà essere difficile se, dopo il terremoto, perdurasse uno sciame sismico consistente, ma deve essere condotta anche con qualche rischio, per dare ai cittadini terremotati – e al paese intero – la sensazione che la città, abitanti ed edifici, sarà ricostruita nella sua storica identità e non dispersa casualmente. Appena possibile la gente deve poter circolare nelle zone colpite, tornare nelle sue strade comprando nei negozi riaperti, dormire nelle abitazioni risultate intatte. Si devono vedere i monumenti sui quali sono cominciati i consolidamenti più facili, si devono riaprire gli edifici pubblici considerati agibili. Rendendo tutti consapevoli che i lavori non saranno brevi, né facili, ma sono già iniziati con decisione e che i cittadini si sono già riappropriati della loro città. E per quanto riguarda l’intervento edilizio antisismico, bisognerà utilizzare i sistemi perfettamente sperimentati che garantiscono l’adeguamento degli edifici recuperabili, impiegando le piastre antisismiche solo per ricostruire da zero non edifici, ma interi isolati di consistente carico urbanistico. Se infine si rendesse necessario ricorrere a una modesta quota residenziale aggiuntiva, questa dovrà essere realizzata sulla base del piano urbanistico comunale già esistente, e non disseminando le nuove abitazioni come si sta facendo a L’Aquila in 19 quartierini distribuiti lontano dalla città, su aree selezionate non si sa bene con quali criteri, edificate su piastre antisismiche capaci di sostenere costruzioni molte volte più grandi e grosse. Infine, almeno per centri importanti come L’Aquila, sarà giusto immaginare una nuova strategia per la città, una visione delle sue prospettive future, da tenere presente fin dai primi passi della ricostruzione. Da tutti i grandi terremoti, oggi quello dell’Aquila come ieri fu 168

per quello di Napoli e dell’Irpinia, dovrebbe nascere infine la spinta a una politica nazionale di consolidamento antisismico, che, investendo tutti i Comuni a rischio sismico, ponga di fatto le basi per una nuova politica generale della casa in tutto il paese, che rappresenti una svolta rispetto alla ininterrotta espansione e al relativo consumo di suolo. Una politica nazionale della casa che scelga di trasformare il patrimonio edilizio già esistente; ma non secondo le scelte del «piano-casa» di Berlusconi, che, favorendo la rendita, mira ad appesantire pericolosamente l’attuale carico urbanistico della città, ma realizzando, invece, la riqualificazione sistematica dei tessuti urbani oggi largamente compromessi. Una politica che renderebbe necessaria una diversa economia nazionale integrata al territorio, all’ambiente, al paesaggio, alla ecologia. Dal terremoto potrebbe nascere, insomma, una nuova politica italiana per la città e il territorio, che ci permetta di tornare a dire «quanto è bella la città»...

UN POSCRITTO

Le proposte avanzate nell’ultimo capitolo sono formulate in modo concretamente operativo, a formare un sistema coerente che in teoria sarebbe applicabile, magari in parte e gradualmente. Anche se ho ripetutamente precisato che non ritengo ci siano oggi le condizioni politiche per utilizzarle largamente; e che ho ritenuto di avanzarle quasi soltanto per facilitarne la discussione. Purtroppo il vero problema va oltre le condizioni attuali delle forze politiche di governo e di opposizione: temo infatti che oggi in Italia sia la maggioranza dei cittadini ad avere tutt’altra aspirazione. Ciò nonostante continuo ancora a impegnarmi in termini culturali e professionali, offrendo un contributo personale certamente più utile a me, perché dà senso alla mia vita, che alla società cui è destinato. Così è stato, in fondo, per la mia ultima presenza politico-istituzionale, quando ho accettato un compito riformista, presiedendo dal 2000 al 2001 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il cui ruolo avevo apprezzato tanti anni fa, quando i suoi pareri erano spesso decisivi in campo urbanistico. E sono grato a Ciampi, che mi ha nominato quando era presidente della Repubblica e mi ha stimolato e difeso nella difficile operazione della rifor170

ma tesa a restituire alla invecchiata istituzione prestigio e funzionalità nazionale; offrendomi il miglior premio possibile per il mio lavoro, una bella lettera di apprezzamento, quando ha approvato la riforma di quello che doveva essere il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, per il Territorio, l’Ambiente e le Infrastrutture. Il clima negativo che oggi il paese registra era, però, già iniziato. Non solo la riforma è stata perentoriamente cancellata dalla nuova maggioranza politica di destra, ma l’opposizione di centro-sinistra – dopo le mie, a questo punto, inevitabili dimissioni – non ne ha neppure rivendicato la validità. Facendomi capire che il mio contributo non era stato raccolto e la riforma non era considerata necessaria, né condivisa. Forse questo libro – e in particolare l’ultimo capitolo – non è in sintonia con l’interesse prevalente dell’opinione pubblica ed è consapevolmente pensato per una minoranza di persone; anche se mira a influenzare sia l’una che le altre. Ho, comunque, la speranza che possa essere considerato fra quegli «anticorpi» di cui parlava l’amico Paolo Sylos Labini e che il mio editore sembra apprezzare. Un contributo al dibattito sulla riforma del governo della città e del territorio. Giuseppe Campos Venuti

PERSONAGGI CITATI

Giuliano Amato (1938). Giurista e uomo politico. Prima di dedicarsi alla politica ha intrapreso la carriera universitaria, lasciata nel 1987 quando, come aderente del Psi, viene nominato ministro nel governo di Giovanni Goria (Dc). Due volte presidente del Consiglio dei ministri (1992-1993 e 20002001), è stato più volte ministro nei governi Prodi e D’Alema. Deputato dal 1983 al 1994 e dal 2006 al 2008, prima come esponente socialista e poi nelle coalizioni di centro-sinistra. Nel 2008 ha lasciato la politica. Beniamino Andreatta (1928-2007). Economista e uomo politico. Laureato in giurisprudenza, ha compiuto successivi studi di economia a Milano e Cambridge. Professore ordinario dal 1962 presso l’Università di Urbino, poi in quella di Trento e, infine, a Bologna. Consigliere economico di Aldo Moro, è stato deputato per la Dc dal 1976 a 1992, europarlamentare dal 1984 al 1987, ministro del Bilancio e della Programmazione economica (1979-1980), del Tesoro (1980-1982), degli Esteri (1993-1994). Ha aderito al Partito Popolare prima e all’Ulivo poi ed è stato ministro della Difesa nel 1996 nel primo governo Prodi. Giulio Andreotti (1919). Uomo politico. Uno degli esponenti principali della Dc, sette volte presidente del Consiglio (tra le quali il «governo di unità nazionale» sostenuto dal Pci duran173

te il rapimento di Aldo Moro) e ventidue volte ministro. Dopo aver fatto parte dell’Assemblea Costituente è stato deputato dal 1948 al 1991, quando è stato nominato senatore a vita. Giovanni Astengo (1915-1990). Architetto. Docente di elementi costruttivi alla Facoltà di Architettura di Torino dal 1943 e di urbanistica dal 1949 presso l’Iuav di Venezia, dal 1966 al 1985 è stato professore ordinario nella stessa Università, dove nel 1970 ha fondato il corso di laurea di pianificazione. Dal 1948 è stato dirigente nazionale dell’Inu e direttore (1952-1976) di Urbanistica. Autore di numerosi piani e progetti urbanistici, tra i quali i Prg di Assisi, Gubbio, Genova, Bergamo e Firenze, la sua eredità culturale è soprattutto legata alla costruzione del sistema delle conoscenze. Iscritto al Psi, è stato assessore comunale a Torino (1966-1967) e negli anni Settanta assessore regionale in Piemonte. Franco Barberi (1938). Vulcanologo. Dopo aver insegnato a Pisa, dal 2001 è professore ordinario di vulcanologia presso l’Università di Roma 3. Dal 1977 al 1982 ha diretto il Progetto finalizzato geodinamica del Cnr e dal 1981 al 1995 è stato presidente della Commissione rischio vulcanico della Protezione Civile di cui è stato sottosegretario dal 1995 al 2000. Attualmente è presidente vicario della Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi, la più importante struttura scientifica del dipartimento della Protezione Civile. Corrado Barberis (1929). Tra i massimi esperti italiani di sociologia rurale. Professore ordinario di sociologia presso l’Università La Sapienza di Roma fino al 2004 e membro dell’Académie d’agriculture de France. Come presidente dell’Insor (Istituto nazionale di sociologia rurale) ha svolto un ruolo fondamentale per la valorizzazione dei prodotti tipici italiani. Lodovico Barbiano di Belgioioso (1909-2004). Architetto. Fondatore nel 1932 del gruppo Bbpr (con Gian Luigi Banfi, 174

Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers), le cui architetture caratterizzeranno il volto della Milano contemporanea, si è mosso dapprima nell’ambito del Movimento Moderno per poi superarlo negli anni della maturità grazie anche alle riflessioni teoriche di Rogers. Docente di architettura degli interni a Milano (1949-1953), di caratteri distributivi all’Iuav (19541962), dal 1963 e fino al 1984 è stato titolare della cattedra di composizione architettonica presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Tra le architetture dei Bbpr si ricordano la Torre Velasca, gli edifici per abitazioni e uffici di corso Vittorio Emanuele e di piazza Meda, mentre in campo urbanistico va ricordata la partecipazione al piano A/R per la Milano del dopoguerra, i piani di sviluppo turistico di Sestrière e Pila e il piano della Valle d’Aosta (con Olivetti). Silvano Bassetti (1944-2008). Architetto. Dopo gli studi a Milano, è rientrato a Bolzano svolgendo attività professionale soprattutto di tipo urbanistico. È tra i fondatori della sezione altoatesina dell’Inu e della rivista «Atlas». Dal 2000 al 2008 è stato assessore all’urbanistica di Bolzano. Silvio Berlusconi (1936). Imprenditore e uomo politico. Ha costruito la sua fortuna prima nell’edilizia, poi nell’editoria, nelle assicurazioni, nella pubblicità, nella grande distribuzione e, soprattutto, nella televisione commerciale. Nel 1994 fonda il movimento politico Forza Italia, che diventa subito il partito di maggioranza relativa. Presidente del Consiglio dei ministri nel 1994, dal 2001 al 2006 e dal 2008, sempre alla guida di coalizioni di centro-destra. Pier Luigi Bersani (1951). Uomo politico. Presidente della Regione Emilia-Romagna dal 1993 al 1996, anno in cui viene nominato ministro dell’Industria nel primo governo Prodi (carica che ha mantenuto fino al 1999). Deputato dal 2001 e parlamentare europeo dal 2004, è stato ministro per lo Sviluppo economico (2006-2008) nel secondo governo Prodi. Dal 2009 è segretario del Partito democratico. 175

Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975). Uno dei maggiori archeologi italiani e uno degli intellettuali più vicini al Pci. Docente prima a Pisa e poi a Cagliari, nel 1938 ha ottenuto una cattedra a Firenze. Dal 1964 si è trasferito all’Università di Roma, dove ha insegnato fino al 1964. Dal 1945 al 1947, a Roma, è stato direttore generale delle Antichità e delle Belle Arti occupandosi del restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra. Dopo il 1960 ha impresso una svolta fondamentale all’archeologia italiana creando una scuola di grande spessore culturale e scientifico. Oriol Bohigas (1925). Architetto catalano. Dal 1951 con Joseph Martorell e dal 1961 anche con David Mackay (MBM Arquitects) ha realizzato oltre cinquecento progetti di architettura e di urbanistica in diversi paesi del mondo. Presente in Italia con diversi progetti, tra i quali il Prg di Salerno e la sistemazione dell’area della stazione di Parma. Noto soprattutto per la gestione di Barcellona come assessore all’urbanistica (1980-1984) e come responsabile del progetto per le Olimpiadi del 1992. Dal 1977 al 1980 è stato direttore della Escuela técnica superior de arquitectura de Barcelona, nella quale è stato, dal 1966, professore di progettazione e dal 1971 fino al 2000 titolare della cattedra nella stessa materia. Giuseppe Bottai (1895-1959). Uomo politico. Ministro delle Corporazioni e dell’Educazione nazionale. Nel 1943 fu uno dei membri del Gran Consiglio che votarono le dimissioni di Mussolini. Condannato a morte nel 1944 dal tribunale della Repubblica sociale italiana e poi all’ergastolo, fu amnistiato nel 1947. A lui si devono la legge 1° giugno 1939 n. 1089, Tutela delle cose di interesse artistico e storico, e la legge 14 ottobre 1939 n. 1497, Protezione delle bellezze naturali, entrambe confluite nell’attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004. Piero Bottoni (1903-1973). Uno dei principali esponenti del razionalismo italiano. Iscritto al Pci dal 1944, dopo la Liberazione è nominato commissario straordinario della Triennale di 176

Milano, nell’ambito della quale promuove e realizza il Quartiere sperimentale QT8. Tra le sue opere si ricordano il palazzo Ina in corso Sempione a Milano e il municipio di Sesto San Giovanni; in campo urbanistico ha partecipato alla redazione di diversi Prg, a partire dal piano A/R per la Milano del dopoguerra. Docente di tecnica urbanistica alla Facoltà di Ingegneria di Trieste (1955-1962) e di elementi di architettura alla Facoltà di Architettura di Milano (1963-1964), dove, dal 1965 al 1973, è stato titolare della cattedra di urbanistica. Antonio Cederna (1921-1996). Giornalista e ambientalista. Come giornalista e scrittore si è sempre impegnato per la difesa del territorio, dell’ambiente naturale, del paesaggio e del patrimonio culturale, scrivendo sul «Mondo», l’«Espresso», il «Corriere della sera» e «la Repubblica». Tra i fondatori di Italia Nostra, è stato anche deputato come indipendente nel Pci per la Legislatura 1987-1992. A lui si deve la costituzione del Parco regionale dell’Appia Antica. Walter Christaller (1893-1969). Geografo tedesco. Ha sviluppato una teoria modellistica (modello delle localizzazioni) sulle relazioni che si instaurano tra centri urbani egemoni e centri minori. Carlo Azeglio Ciampi (1920). Economista e uomo politico. Governatore della Banca d’Italia dal 1979 al 1993, è stato presidente del Consiglio dei ministri dal 1993 al 1994 e ministro dell’Economia dal 1996 al 1999 con il governo Dini e ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica nel primo governo Prodi e nel primo governo D’Alema. Decimo presidente della Repubblica dal 1999 al 2006, anno in cui è stato eletto senatore a vita. Bettino Craxi (1934-2000). Uomo politico. Segretario del Psi dal 1976 al 1993, è stato il leader incontrastato della corrente autonomista. Presidente del Consiglio dei ministri dal 1983 al 1987, fu travolto dallo scandalo di «Tangentopoli» che nel 177

1993 lo costrinse alle dimissioni e a lasciare l’Italia senza più farvi ritorno. Massimo D’Alema (1949). Uomo politico. Già dirigente del Pci (segretario della federazione giovanile dal 1975 al 1980) è stato segretario del Pds dal 1994 al 1998, presidente dei Ds dal 2000 al 2007, fino all’adesione al Pd nello stesso anno. Deputato dal 1987, è stato presidente del Consiglio dei ministri dal 1998 al 2000, primo esponente ex comunista a ricoprire tale carica, e ministro degli Esteri nel secondo governo Prodi. Giancarlo De Carlo (1919-2005). Ingegnere e architetto. Dopo aver partecipato alla Resistenza, ha mantenuto posizioni politiche sempre vicine al pensiero libertario. Nel 1956 ha rotto con le iniziali posizioni di adesione al Movimento Moderno per sviluppare una propria architettura lontana da ogni scuola o corrente, come nei progetti dei campus universitari di Urbino e Pavia o del villaggio Matteotti a Terni. Ha progettato diversi piani urbanistici, tra i quali il Prg di Urbino, quelli dei centri storici di Rimini e Palermo, sperimentando nuove forme di partecipazione popolare. Nel 1976 ha fondato la rivista «Spazio e Società». Professore ordinario di urbanistica presso l’Iuav dal 1955 al 1982, dopo un breve periodo presso la Facoltà di Architettura di Milano si è trasferito in quella di Genova dove ha insegnato fino al 1994. Visiting professor presso varie Università straniere, tra le quali il Mit di Boston. Diego Della Valle (1953). Imprenditore. Creatore di alcuni dei più famosi marchi del made in Italy (Hogan, Fay, Tod’s), ha sviluppato la propria attività dal campo della moda a quello della finanza. Dal 2002 è proprietario della squadra di calcio della Fiorentina della quale è presidente il fratello. Edoardo Detti (1913-1984). Architetto. Docente presso la Facoltà di Architettura di Firenze dai primi anni del dopoguerra, è stato titolare della cattedra di urbanistica dal 1966 fino alla sua scomparsa. Autore di numerosi Prg toscani, ha 178

seguito l’elaborazione di quello di Firenze negli anni Sessanta in qualità di assessore all’urbanistica nella Giunta La Pira. È stato presidente dell’Inu dal 1970 al 1976. Leonardo Domenici (1955). Uomo politico. Deputato Pds (poi Ds) dal 1994 al 1999, è stato sindaco di Firenze per due mandati, dal 1999 al 2009, alla guida di un’amministrazione di centro-sinistra. Aimaro d’Oreglia Isola (1928). Architetto. Dopo aver partecipato alla Resistenza, ha iniziato un solidissimo sodalizio professionale e culturale con Roberto Gabetti, scomparso nel 2000. Docente presso la Facoltà di Architettura di Torino dalla fine degli anni Cinquanta, è stato titolare della cattedra di composizione architettonica dal 1974 al 2003. Lo studio Gabetti e Isola (dopo il 2000 Isolarchitetti) ha realizzato molti interventi sviluppando soluzioni originali che insieme a elementi della tradizione utilizzano le tecnologie più moderne. Tra le opere principali si ricordano il Centro residenziale Ovest Olivetti a Ivrea, parzialmente interrato («Talponia»), e il Quinto Palazzo Uffici Snam a San Donato Milanese. Giuseppe Dozza (1901-1974). Uomo politico. Iscritto al Pci dalla fondazione, è stato condannato all’esilio durante il fascismo. Rientrato clandestinamente in Italia nel 1943, ha organizzato la Resistenza in Emilia-Romagna e, dopo la Liberazione, è stato sindaco di Bologna per 21 anni (1945-1966). Mario Fiorentino (1918-1982). Architetto e urbanista attivo soprattutto nell’area romana. Dopo aver partecipato alla Resistenza è stato tra i fondatori dell’Apao, l’Associazione per l’architettura organica voluta da Bruno Zevi. Ha partecipato alla realizzazione del quartiere di edilizia popolare Tiburtino e successivamente del quartiere San Basilio. Docente di tecnica urbanistica presso la Facoltà di Ingegneria e in seguito di composizione architettonica presso quella di Architettura, è ricordato soprattutto come coordinatore del gruppo di pro179

gettisti del Corviale. Ha fatto parte del gruppo di progettazione del Prg 1962-1965 di Roma. Arnaldo Forlani (1925). Uomo politico. Dirigente della Dc di cui è stato segretario nazionale dal 1989 al 1992, quando fu costretto a dimettersi per lo scandalo di «Tangentopoli». Presidente del Consiglio dei ministri dal 1980 al 1981, è stato più volte ministro e deputato. Giorgio Fuà (1919-2000). Economista. Tra gli economisti contemporanei più importanti, ha fondato la Facoltà di Economia di Ancona (1959) e l’Istao (1967), Istituto Adriano Olivetti di studi per la gestione dell’economia e delle aziende. È stato professore ordinario di economia politica presso l’Università di Urbino prima (sede di Ancona) e di Ancona poi dal 1959 al 1997. Luciano Gallino (1927). Sociologo. Ha iniziato la sua attività presso la Olivetti di Ivrea dove ha diretto il Servizio di ricerche sociologiche e di studi sull’organizzazione. Docente dal 1965 presso la Facoltà di Lettere e Magistero dell’Università di Torino, ha tenuto la cattedra di sociologia nella Facoltà di Scienze della formazione della stessa Università dal 1971 al 2002. Lucio Gambi (1920-2004). Tra i più importanti geografi italiani, ha insegnato prima a Milano e poi a Bologna dove ha tenuto la cattedra di geografia politica ed economica fino al 1995. È stato uno dei protagonisti del dibattito politico e culturale che, dalla fine degli anni Sessanta, ha accompagnato la nascita e l’attuazione delle Regioni. Federico Gorio (1915-2008). Ingegnere. Dal primo approccio neorealista, evidente nei progetti per i borghi La Martella e Torre Spagnola di Matera o nei diversi interventi di edilizia popolare a Roma, ha sviluppato un linguaggio tecnologicamente fondato, lontano dalla tradizione del razionalismo italiano. Il suo progetto più noto e apprezzato è il quartiere 180

Cavedone di Bologna, realizzato negli anni Sessanta. È stato docente di urbanistica a Roma e successivamente all’Università dell’Aquila, come professore ordinario, fino al 1990. Giuseppe Grandori (1921). Ingegnere. Ha iniziato la carriera universitaria al Politecnico di Milano per poi trasferirsi a Cagliari. Dal 1960 e fino al 1996 è stato titolare a Milano della cattedra di scienza delle costruzioni. Vittorio Gregotti (1927). Architetto e urbanista. Professore di composizione architettonica dal 1965 all’Università di Palermo e poi all’Iuav di Venezia fino al 2002, direttore della rivista «Casabella» dal 1982 al 1996. Fondatore dello studio Gregotti Associati e Gregotti International, ha realizzato progetti in oltre venti paesi, tra i quali l’Università della Calabria, il quartiere di abitazioni a Cannareggio (Venezia), la trasformazione dell’ex zuccherificio di Cesena e dell’ex area PirelliBicocca a Milano, la nuova città di Jangwan e un nuovo quartiere residenziale nell’area di Pujiang a Shanghai in Cina. Con Augusto Cagnardi ha anche redatto diversi Prg italiani, tra i quali quelli di Torino e Livorno. Georges Eugène Haussmann (1809-1891), meglio conosciuto come Barone Haussmann. Alto funzionario dello Stato durante il Secondo Impero, in qualità di prefetto di Parigi (dal 1853) fu artefice della più importante trasformazione urbanistica di quella città in epoca moderna con una serie sistematica di interventi (1853-1870) di demolizione dell’antico tessuto medievale, regolamenti edilizi e urbanistici per le nuove costruzioni, apertura di boulevards, avenues e piazze, creazione di nuovi parchi e costruzione di edifici pubblici. Francesco Indovina (1933). Professore ordinario di analisi dei sistemi urbani e territoriali presso l’Iuav fino al 2005, si è occupato prevalentemente del rapporto tra processi economico-sociali e trasformazioni del territorio. Autore di numerosi scritti, è direttore della rivista «Archivio di studi urbani 181

e regionali» da lui fondata. Nel 2005 è stato coordinatore della ricerca cui è seguita la mostra L’esplosione della città alla Triennale di Milano. Pietro Ingrao (1915). Uomo politico. Partigiano, deputato del Pci (di cui rappresentò sempre l’ala sinistra) dal 1948 al 1994 direttore dell’«Unità» dal 1947 al 1957, presidente della Camera dei deputati dal 1976 al 1979, ha partecipato alla fondazione del Pds che tuttavia ha lasciato nel 1992 per aderire al Partito della Rifondazione comunista. Le Corbusier (1887-1965), pseudonimo dell’architetto svizzero Charles-Edouard Jeanneret. È stato il più geniale e creativo dei maestri del Movimento Moderno. Ha progettato opere fondamentali per la storia dell’architettura, dalle più rigorose forme razionaliste dell’inizio a quelle più libere della maturità. In campo urbanistico teorizzò la «Ville radieuse», cioè la «città verticale» ma con grandi dotazioni di verde, il cui modello cercò di applicare senza successo nei piani di Rio de Janeiro, San Paolo, Buenos Aires, Montevideo e Algeri; appartiene a questo filone anche l’«Unité d’habitation», un frammento di questa città ideale che riuscì a realizzare in cinque esemplari. Salvatore Ligresti (1936). Imprenditore e finanziere. Tra i più importanti immobiliaristi di Milano, è stato condannato nell’inchiesta milanese di «Mani Pulite». Dopo la condanna scontata presso i servizi sociali, ha ripreso la propria attività di immobiliarista e di finanziere, diventando amministratore delegato di Rcs MediaGroup e presidente di Fondiaria Sai, uno dei principali gruppi assicurativi italiani. August Loesch (1906-1945). Economista tedesco noto per i suoi studi di economia spaziale. Oppositore del regime nazista, incontrò molte difficoltà fino alla morte avvenuta pochi giorni dopo la fine del regime. Pur praticando gli stessi studi, subì l’ostilità di Christaller aderente al nazismo. 182

Riccardo Lombardi (1901-1984). Uomo politico. Ingegnere, ha svolto fin dagli anni Venti un’intensa attività antifascista. Tra i fondatori nel 1942 del Partito d’Azione, ha partecipato alla Resistenza come comandante generale delle brigate Giustizia e Libertà e, dopo la Liberazione, è stato nominato prefetto di Milano. Ha aderito nel 1947 al Psi, di cui ha rappresentato sempre l’ala critica (la «corrente lombardiana»), ed è stato eletto ininterrottamente deputato dal 1948 al 1983, senza però mai assumere incarichi di governo. Mario Manieri Elia (1929). Architetto. Professore ordinario di storia dell’architettura presso l’Università di Roma 3 fino al 2004, attualmente dirige il master di secondo livello Architettura/Storia/Progetto. Si è occupato prevalentemente del rapporto tra architettura, urbanistica e storia, coniugando il rigore scientifico con un approccio sempre orientato al progetto. Plinio Marconi (1893-1974). Ingegnere. È stato assistente di Marcello Piacentini a Roma dal 1933 al 1938, anno in cui ha ottenuto l’incarico di insegnamento presso la Facoltà di Architettura dove sarà anche preside e svolgerà l’intera carriera accademica dal 1950 al 1968. Autore di una trentina di piani urbanistici, tra i quali i più importanti sono quelli di Verona (sua città natale) e di Bologna. Michele Martuscelli (1918-2003). Ingegnere. Ha sempre associato una grande capacità di gestione a uno spiccato senso di responsabilità nei confronti dell’interesse pubblico. Direttore generale di urbanistica al ministero dei Lavori Pubblici (1965-1983), ha partecipato direttamente alla redazione dei principali provvedimenti di riforma in campo urbanistico di quel periodo. Enrico Mattei (1906-1962). Imprenditore e dirigente pubblico. Partigiano, ha fondato nel 1953 l’Eni (Ente nazionale idrocarburi) che ha portato a un rapido sviluppo contribuendo a rompere l’oligopolio delle grandi compagnie petrolifere americane. Vicino alla sinistra Dc, è stato parlamen183

tare dal 1948 al 1953. È morto in un misterioso incidente aereo che l’ultima inchiesta della magistratura (2005) ha accertato essere di origine dolosa. Aldo Natoli (1913). Uomo politico. Partigiano, dopo la guerra è stato segretario del Pci a Roma dove è stato consigliere comunale. Deputato per cinque legislature consecutive, nel 1969 è stato radiato dal partito in quanto tra i fondatori del gruppo dissenziente del «Manifesto». Pietro Nenni (1891-1980). Uomo politico. Iscritto al Psi nel 1921, è stato costretto all’esilio a Parigi nel 1926 e ha partecipato dal 1936 alla guerra di Spagna. Segretario quasi senza interruzioni dal 1932 al 1963, durante la Resistenza ha perseguito l’unità tra Psi, Pci e Giustizia e Libertà. Membro della Costituente e ministro degli Esteri, ha sostenuto l’alleanza con il Pci, fino alla sconfitta elettorale del Fronte popolare nel 1948. Dopo il 1956 ha preso progressivamente le distanze dal Pci, fino a portare i socialisti al governo nel 1963. Nel 1970 è stato nominato senatore a vita. Achille Occhetto (1936). Uomo politico. Ultimo segretario del Pci (dal 1988), è stato protagonista nel 1989 della cosiddetta «svolta della Bolognina», processo politico che ha portato nel 1991 allo scioglimento del Pci e alla nascita del Pds, che ha guidato nei due anni successivi. Sconfitto da Berlusconi nelle elezioni del 1994, ha lasciato i Ds nel 2004 dopo anni di contrasti con il gruppo dirigente. Deputato dal 1976 al 2006, da quell’anno e fino al novembre 2007 è stato parlamentare europeo. Adriano Olivetti (1901-1960). Industriale e intellettuale. Impegnato nello sviluppo dell’azienda di famiglia a Ivrea, ha fondato nel dopoguerra il Movimento Comunità, attento a una nuova dimensione del lavoro operaio e del rapporto tra fabbrica, territorio e società. Cultore di urbanistica, è stato uno dei promotori della riorganizzazione dell’Inu, di cui ha ricoperto la carica di presidente dal 1950 al 1960. Con lui 184

Ivrea è stata al centro delle migliori sperimentazioni di urbanistica, architettura e design del paese. Osvaldo Piacentini (1922-1985). Architetto e urbanista. Ha partecipato alla Resistenza nelle formazioni cattoliche e nel 1970 ha ricevuto l’ordinazione diaconale. Fondatore della Cooperativa architetti e ingegneri di Reggio Emilia, ha lavorato a diversi Prg tra i quali quelli di Reggio Emilia e Modena negli anni Sessanta, assumendo un ruolo di rilievo nell’urbanistica italiana. Renzo Piano (1937). Tra i più importanti architetti contemporanei, si è formato in varie esperienze internazionali tra le quali il progetto del Centre Pompidou a Parigi, insieme con Richard Rogers, con il quale ha stabilito una partnership professionale (1971-1978). Ha fondato nel 1981 il Renzo Piano Building Workshop, con sedi a Genova, Parigi e Osaka. Tra le sue opere principali, la Cité Internationale di Lione, l’Auditorium di Roma, il masterplan di Potsdamer Platz a Berlino, l’aeroporto di Osaka, il Times Building a New York, il Zentrum Paul Klee a Berna. Luigi Piccinato (1899-1983). Urbanista. Legato culturalmente al Movimento Moderno, ha iniziato l’attività di docente a Napoli nel 1937 e, dopo essere diventato professore ordinario, si è trasferito all’Iuav di Venezia (1950-1963) e successivamente alla Facoltà di Architettura di Roma (1964-1975). Ha firmato oltre 150 piani urbanistici in Italia e all’estero, tra i quali si ricordano quelli di Sabaudia, Napoli, Matera, Padova, Siena e Roma. Dirigente dell’Inu, di cui ha ricoperto la carica di vicepresidente dal 1954 al 1962 e dal 1965 al 1968, è stato più volte membro della Giunta esecutiva fino al 1971. Stefano Pompei (1934-2005). Urbanista. Dirigente dell’Inu e progettista di numerosi Prg, soprattutto in Emilia-Romagna e nelle Marche, è stato uno dei fautori della perequazione urbanistica, che ha sperimentato nei suoi piani (il modello più noto 185

è quello di Casalecchio di Reno) e teorizzato nell’importante testo Il piano regolatore perequativo, Hoepli, Milano 1996. Romano Prodi (1939). Economista e uomo politico. Professore ordinario di economia politica e industriale presso l’Università di Bologna fino al 1999, ha insegnato in diverse Università straniere. Presidente dell’Iri dal 1982 al 1989 e dal 1993 al 1994, è stato presidente del Consiglio dei ministri dal 1996 al 1998 e dal 2006 al 2008 a capo di coalizioni di centro-sinistra (in tali periodi è stato anche deputato). Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004, nel 2007 ha partecipato alla fondazione del Pd. Ludovico Quaroni (1911-1987). Architetto. Ha sviluppato un’intensa attività progettuale con la ricerca di un linguaggio sempre nuovo che lo ha portato a soluzioni assai diverse tra loro, come il quartiere Tiburtino a Roma o il coevo borgo La Martella a Matera o il successivo quartiere Casilino. Tra i suoi progetti più noti, si ricordano la chiesa della Sacra Famiglia a Genova, la Cassa di Risparmio di Ravenna, il teatro dell’Opera di Roma. Come urbanista ha progettato diversi Prg, tra cui quello di Bari. È stato vicepresidente dell’Inu dal 1950 al 1952 (con Olivetti presidente). Docente universitario prima a Napoli (19511955), poi a Firenze (1957-1964) e infine a Roma, dove ha tenuto la cattedra di composizione architettonica fino al 1981. Ermete Realacci (1955). Ambientalista e uomo politico. Fondatore di Legambiente, l’associazione dell’«ambientalismo scientifico» di cui è stato presidente dal 1987 al 2003, è deputato dal 2001. Dal 2007 ha aderito al Pd. Mario Ridolfi (1904-1984). Architetto. Al primo periodo razionalista degli anni Trenta si devono due opere fondamentali quali l’edificio delle Poste di piazza Bologna a Roma e l’Istituto tecnico Bordoni a Pavia. Nel dopoguerra ha aderito alla corrente neorealista, esprimendosi con grande maestria nella rivisitazione in chiave moderna dei materiali e delle tec186

niche tradizionali. Ma il suo linguaggio più riconoscibile è quello dell’ultimo periodo a Terni (la città della madre nella quale si trasferì da Roma) e dintorni dove ha realizzato vari interventi dotati di grande creatività e originalità. Camillo Ripamonti (1919-1997). Uomo politico, dirigente della Dc. Ingegnere, sindaco di Gorgonzola (Milano) dal 1946 al 1980, è stato eletto deputato per due legislature dal 1958 e senatore per quattro legislature dal 1968, nonché europarlamentare dal 1976 al 1979. Dal 1968 al 1974 è stato più volte ministro (Sanità, Ricerca scientifica, Commercio estero, Beni culturali e Turismo). Francesco Rutelli (1954). Uomo politico. Segretario e deputato del Partito Radicale dal 1983 al 1990, è stato tra i fondatori dei Verdi-Arcobaleno con i quali viene eletto deputato nel 1992. Nel 1993 viene eletto sindaco di Roma a capo di un’amministrazione di centro-sinistra, carica che mantiene fino al 2001 quando si candida per competere con Berlusconi. Vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro dei Beni culturali con il secondo governo Prodi, nel 2008 è eletto senatore per il Pd, che ha lasciato nel 2009. Giuseppe Samonà (1898-1983). Ingegnere. Ha iniziato la carriera accademica all’Università di Palermo, per spostarsi successivamente a Messina e a Napoli. Ordinario di composizione architettonica dal 1936, ha insegnato alla Facoltà di Ingegneria di Padova per poi passare all’Iuav di Venezia, che ha diretto dal 1945 al 1971, trasformando quella scuola da marginale e periferica in uno dei centri più avanzati della cultura architettonica e urbanistica italiana. Autore di testi fondamentali per la cultura urbanistica italiana, come architettourbanista ha realizzato progetti e piani importanti in Italia e all’estero. Nel 1972 è stato eletto al Senato come indipendente nelle liste del Pci. Vito Santarsiero (1955). Uomo politico. Presidente della Provincia di Potenza dal 1999 al 2004, è stato sindaco di Poten187

za dal 2004 al 2009, sempre alla guida di amministrazioni di centro-sinistra. Nel 2009 è stato rieletto sindaco. Pasquale Saraceno (1903-1991). Economista. È stato uno dei maggiori meridionalisti cattolici. Ha iniziato lavorando all’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), che ha sempre ritenuto strategico ai fini della programmazione economica, fin dalla sua fondazione (1933). Sostenitore dell’istituzione della Cassa del Mezzogiorno e fondatore della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno), di cui è stato anche presidente, ha collaborato con diversi governi sui temi della programmazione. Dal 1947 è stato professore di economia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dal 1959 presso l’Università di Venezia. Armando Sarti (1927-2000). Uomo politico. Combattente partigiano, iscritto al Pci, è stato consigliere comunale e assessore a Bologna dal 1960 al 1976. Deputato dal 1976 al 1987, è stato membro del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro dal 1989 al 2000. Emilio Sereni (1907-1977). Scrittore e uomo politico. Iscritto al Pci dal 1926, durante il fascismo fu più volte arrestato e condannato a più di trent’anni di carcere. Evaso nel 1944, diventò comandante generale delle brigate Garibaldi e dopo la Liberazione fu due volte ministro nei governi De Gasperi. Senatore dal 1948, è autore di testi fondamentali soprattutto sulla questione agraria, tra i quali si ricorda la Storia del paesaggio agrario italiano (1961), ancora oggi attualissimo. Fiorentino Sullo (1921-2000). Uomo politico. Deputato all’Assemblea Costituente nel 1946 per la Dc, è stato rieletto ininterrottamente per sei legislature fino al 1976. Considerato uno dei capi storici della sinistra democristiana, ha ricoperto vari incarichi di governo e in particolare quello di ministro dei Lavori pubblici nel governo Fanfani (1962-1963). Per contrasti con la linea conservatrice della Dc ha lasciato il partito e il gruppo 188

parlamentare e nel 1979 è stato eletto nelle liste del Psdi. In seguito è rientrato nella Dc ed è stato rieletto deputato nel 1983 fino al 1987, quando ha abbandonato la vita politica. Paolo Sylos Labini (1920-2005). Economista. Laureato in economia, specializzato a Harvard e Cambridge, ha insegnato nelle Università di Sassari, Catania, Bologna e della Calabria. Dal 1962 al 1995 è stato titolare della cattedra di economia politica presso l’Università La Sapienza di Roma. Palmiro Togliatti (1893-1964). Uomo politico. Dopo l’arresto di Gramsci riparò in Urss e, successivamente, partecipò alla guerra di Spagna. Al rientro in Italia nel 1943 guidò il Pci (di cui è stato segretario dal 1927 al 1964) nel processo democratico, anche nei giorni drammatici dell’attentato di cui fu vittima nel 1948. Membro dell’Assemblea Costituente e deputato dal 1948 al 1964, è stato anche ministro di Grazia e Giustizia (1945-1946) e vicepresidente del Consiglio (19441945) nel primo governo De Gasperi, quando varò l’amnistia per i reati di guerra, in un quadro di pacificazione nazionale. Walter Veltroni (1955). Uomo politico. Vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro dei Beni culturali con il primo governo Prodi, è stato segretario dei Ds dal 1998 al 2001. Nel 2001 è stato eletto sindaco di Roma, carica che ha mantenuto fino al 2008 quando si è candidato, per competere con Berlusconi, a capo del Pd, di cui è stato uno dei fondatori e il primo segretario fino al 2009. Deputato dal 1987, con esclusione degli anni in cui è stato sindaco di Roma. Vincenzo Visco (1942). Economista e uomo politico. Laureato in giurisprudenza, si è specializzato in economia a Berkeley e a York. Nel 1973 ha iniziato l’insegnamento di scienza delle finanze presso l’Università di Pisa, dove è diventato titolare della cattedra nel 1980. Dal 2001 è professore ordinario della stessa materia presso l’Università La Sapienza di Roma. Deputato (Pci) dal 1983 al 2008, è stato mi189

nistro delle Finanze nel governo Ciampi (1993), nel primo governo Prodi (1996-1998) e nei successivi governi D’Alema (1998-2000), mentre nel secondo governo Amato (20002001) ha ricoperto la carica di ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica. Viceministro nel secondo governo Prodi (2006-2008), si è occupato con grande impegno della lotta all’evasione fiscale. Elio Vittorini (1908-1966). Uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento. Dopo aver partecipato alla Resistenza, si trasferì dalla Sicilia a Milano dove fondò la rivista «Il Politecnico» e dove visse fino alla morte. Fino alla crisi dell’Ungheria (1956) fu uno degli intellettuali più vicini al Pci. Celebri le sue traduzioni di autori americani contemporanei. Bruno Zevi (1918-2000). Architetto, storico e critico dell’architettura. Si è laureato a New York dopo aver abbandonato l’Italia a causa delle persecuzioni razziali. Sempre impegnato sul fronte dei diritti civili, ha militato in Giustizia e Libertà, nel Partito d’Azione e nel Partito Radicale, per il quale è stato anche deputato. Fondatore nel 1944 dell’Apao, l’Associazione per l’architettura organica, i cui fondamenti teorici sono rintracciabili in Verso un’architettura organica (1945) e nella rivista «Metron», da lui diretta fino al 1955 quando diventa «L’Architettura. Cronache e storia». La sua Storia dell’Architettura del 1950 ha influenzato la cultura architettonica italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1959 ha fondato l’In/Arch (Istituto nazionale di architettura), ma è stato anche segretario generale dell’Inu dal 1952 al 1957 e dal 1959 al 1968. Professore ordinario di storia dell’architettura dal 1948, ha insegnato fino al 1962 all’Iuav e dal 1963 al 1980 alla Facoltà di Architettura di Roma.

INDICE

Una premessa di Federico Oliva 1. Quanto è brutta la città...

V

3

2. In principio era la rendita urbana

15

3. La società non ama l’urbanistica

41

4. Siamo alla quarta generazione dell’urbanistica

62

5. Arriverà la riforma nazionale?

87

6. Ambiente e paesaggio, meglio territorio

114

7. Conoscere per governare

140

Un poscritto di Giuseppe Campos Venuti

170

Personaggi citati

173