Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali 9788842089865

Il nesso tra cultura e politica, indissolubile fin dalle origini dell'Italia unita, in questi decenni è stato polve

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Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali
 9788842089865

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Saggi Tascabili Laterza 327

Alberto Asor Rosa

IL GRANDE SILENZIO Intervista sugli intellettuali a cura di Simonetta Fiori

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009 Quinta edizione 2010

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8986-5

Premessa

Tra gli effetti più rilevanti dei recenti cataclismi nazionali e globali s’annovera anche l’estinzione del maître à penser, scomparsa che potrebbe essere accolta dagli zelanti cultori della postmodernità come tempestiva e liberatoria. Le società liquide che subentrano alla modernità – per usare una formula molto di moda – poco s’addicono all’élite colta e all’intellettuale «legislatore», che in nome di un sapere superiore arbitra e sceglie tra opinioni diverse per la realizzazione di un miglior ordine sociale (Zygmunt Bauman docet). Lo spirito del tempo sembra inesorabilmente ostile alla categoria, sfigurata a galleria di palloni gonfiati o musi lunghi irrigiditi da un crampo snobistico-elitario, comunque incapaci di misurarsi con la cultura di massa. Ma per chi resiste alle semplificazioni dello Zeitgeist contemporaneo, che cosa significa davvero la scomparsa degli intellettuali (ammesso che di una vera scomparsa si possa parlare)? Quali colossali cambiamenti, in Italia e nel mondo, hanno condotto negli ultimi tre decenni alla liquidazione di una figura nata all’epoca dei Lumi e destinata a divenire protagonista e simbolo del Novecento? Com’è potuto accadere che il nesso politica e cultura, indissolubile in Italia fin dagli albori della storia unitaria, sia stato negli ultimi tempi polverizzato, e da ciò abbia avuto origine la stagione del grande silenzio (copyright Eugenio Garin), ossia il vuoto del pensiero critico, travolto e neutralizV

zato dal chiacchiericcio della civiltà massmediatica? Più semplicemente, quale «catastrofe» civile e culturale si nasconde in Italia dietro il dissolvimento del ceto intellettuale, attore non innocente del declino più complessivo? A condurci in questa tumultuosa traversata è un intellettuale non sospettabile di indulgenza verso la categoria, alla quale ha dedicato mezzo secolo di riflessione saggistica (e anche un bestiario in forma di racconto) mai convenzionale, mai soltanto accademico-storiografica, sempre attraversata da una vocazione civile e da un sofferto sentimento di italianità. Da Scrittori e popolo alla recentissima Storia europea della letteratura italiana, Alberto Asor Rosa ha composto in questi decenni una storia demistificante del ceto colto italiano, ritratto nelle sue fragilità e nei suoi cedimenti, ma anche nel ruolo fondamentale di tessitore d’una coscienza nazionale che oggi appare sciaguratamente minacciata. Oltre ad averne scritto in innumerevoli pagine – da Intellettuali e classe operaia al volume La cultura nella Storia d’Italia Einaudi, da La cultura della Controriforma a Genus Italicum, dalla Storia della letteratura italiana alla monumentale Letteratura italiana diretta per Einaudi e riproposta recentemente dal Gruppo Editoriale L’Espresso – ed averne discettato per quattro decenni dalla cattedra di Letteratura italiana all’Università La Sapienza di Roma, il ruolo di maître à penser Alberto Asor Rosa l’ha anche interpretato, sempre secondo quello stile palindromico che il destino ha voluto sigillare nel suo singolare cognome (dovuto all’intraprendenza di un avo mugnaio). Indiscusso maestro nel proprio sapere e tenacemente «irregolare», «disobbediente», nel tempo storico in cui ha vissuto. Paladino della classe operaia e difensore della letteratura altoborghese. Rovesciatore d’altari ma anche militante disciplinato. Animatore del Sessantotto e accademico rispettato. Ragionatore «forte», incline ad articolate sistematizzazioni, ed emozionato narratore d’un personalissimo lessico famigliare. Infine, cultore di un’italianità perpetuamente inseguita e mai raggiunta. VI

Classe 1933, romano, figlio d’una famiglia microborghese di tradizione socialista, come molti altri della sua generazione Asor Rosa ha creduto che la sua missione fosse contribuire all’edificazione d’un paese migliore di quello in cui gli è toccato in sorte di nascere. Ha perseguito l’obiettivo anche tra errori e disillusioni, persuaso della funzione risolutiva della classe operaia. Oggi si ritrova a vivere in una democrazia profondamente degradata, logora nel tessuto etico e culturale, un continente oscuro nel quale fatica a raccapezzarsi. Allora evoca l’immagine del brontosauro, condannato all’estinzione dalle mutate condizioni climatiche. Da qui siamo partiti per ripercorrere una storia intellettuale oggi conclusa, tra riflessione storica e ritratto autobiografico. L’analisi di una «catastrofe» civile – «catastrofe» in accezione classica, ossia radicale mutamento, che dunque rifugge dal pensiero catastrofista – s’intreccia con la vicenda pubblica di Asor Rosa, narrata con generosità nei suoi risvolti meno conosciuti, nei suoi ripensamenti, nelle scelte sbagliate (militante del Pci fino al 1956, protagonista dell’operaismo nei primi anni Sessanta, poi di nuovo nel Partito comunista con incarichi di primo piano, fino all’elezione in Parlamento nel 1979, e ancora il lavoro culturale per una Bad Godesberg italiana, la rottura con Achille Occhetto dopo la svolta della Bolognina, l’impegno ambientalista oggi). Ne è scaturito un racconto novecentesco che, dopo aver inquadrato storicamente la figura dell’intellettuale ed averne individuato la tipologia esemplare in Max Weber e Norberto Bobbio, indaga il rapporto tra politica e cultura sin dal principio della storia unitaria, incentrato sul destino di «costrizione» che grava sugli intellettuali italiani in conseguenza della tardiva nascita della nostra nazione nel concerto europeo. La lente del testimone si sofferma sulla sinistra culturale del secondo Novecento, che grazie alla sua irrequieta eterodossia Asor Rosa può restituire nel ruolo fecondo ma anche nelle esclusioni e intolleranze, nelle conquiste civili ma anche nei ritardi, soprattutto nell’eVII

terno ossequio alle gerarchie perfino nel momento della disfatta, quando un’intera storia è stata liquidata e mai ripensata. Quella tracciata dallo studioso è l’illusione coltivata per decenni dal ceto colto di poter intervenire sulla realtà modificandola, fino al progressivo sgretolarsi della sua compagine nella stagione del terrorismo, occasione di lacerazioni e dispersione. Poi l’inizio d’un nuovo periodo, nel segno del balbettio e dell’impoverimento etico, dei falsi miti e delle «celebrità da orecchianti», dello scollamento tra la cultura e la politica, svuotata della sua carica ideale e ridotta a pura macchina di potere. Sono le prime spie del «grande silenzio», attraversato da una malinconica constatazione: che quello tra cultura degli intellettuali e antropologia italiana sia un rapporto storicamente difficile, assai inquieto, condannato a restare drammaticamente irrisolto. Incalzata da eventi di portata storica e da una nuova egemonia massmediatica, tra gli anni Ottanta e Novanta s’è conclusa la lunga storia intellettuale che, sia pure con le «distruzioni culturali» prodotte dai totalitarismi nazifascista e comunista, affondava le proprie radici nell’esperienza dei philosophes. Un’altra ne è cominciata, ma è troppo presto per indicarne forme e modalità. La frattura di questi anni, secondo Asor Rosa, non ha eguali nei secoli passati: né Gutenberg né l’industria culturale tra Otto e Novecento né l’avvento della cultura di massa avevano innescato nella geografia mentale di moltitudini di persone processi analoghi a quelli provocati dalla «civiltà montante», caratterizzata dall’onnipotenza di Tv e web. Gli effetti deflagranti provocati dall’innesto della «civiltà montante» nel fragile tessuto italiano chiamano in causa la congenita debolezza delle classi dirigenti nazionali. All’involuzione istituzionale, etica, culturale del berlusconismo è dedicata una parte importante dell’intervista, tra «la morte dell’opinione pubblica» e le vulgate dei «nuovi reazionari», il trionfo dell’antintellettualismo e la sostanziale liquidazione della tradizione risorgimentale e resistenziale, l’indifferenza degli eterni «apoti» e il conformismo dei nicodemiti di sempre. VIII

Il grande silenzio, tuttavia, non è una ricognizione plumbea, disperata, sprovvista di uscite di sicurezza. Una delle tesi interpretative predilette da Asor Rosa è che, nella secolare storia di questo paese non sempre fortunato, le svolte decisive, le rotture fondamentali, i passaggi più delicati siano stati opera di giovani ingegni. Quando alle giovani generazioni urgerà il cambiamento, un nuovo corso della storia italiana potrà cominciare. E con esso anche un nuovo corso della nostra storia intellettuale. Basta volerlo, e intanto pazientemente lavorare. Al vecchio maître à penser non rimane che indossare i panni del testimone, «coltivatore di memorie», per chi avrà l’interesse di ascoltarlo. Io l’ho fatto nel corso di numerosi incontri con Asor Rosa nell’accogliente casa romana di Borgo Pio, e di questa preziosa testimonianza lo ringrazio. (s.fio.) Roma, luglio 2009

IL GRANDE SILENZIO Intervista sugli intellettuali

Capitolo I

L’ESTINZIONE

D. Nella nuova egemonia massmediologica, la tradizionale figura dell’intellettuale appare tramontata. Se ancora esiste, non è più visibile. Mi viene in mente l’ultima lezione che lei ha tenuto all’università, una sorta di cerimonia degli addii conclusa con un gesto teatrale. R. C’era una nota di ironia, in quel mio commiato. Però l’esempio può essere calzante. Motivai la mia decisione di lasciare l’università in anticipo rispetto al pensionamento con una ragione di tipo paleontologico. D. Paleontologico? R. Sì, paleontologico. In una certa fase della storia del mondo, incredibilmente rapida e breve rispetto a quella lunghissima che l’aveva preceduta, dinosauri e brontosauri si avviarono all’estinzione. Perché? Anche recentemente, testi alla mano, sono tornato con grande curiosità alla questione. Nonostante le molteplici ricerche, gli studiosi non sono arrivati a conclusioni certe. L’ipotesi più accreditata è che quegli animali, molto ingombranti e assai fragili nonostante l’apparenza forte, fossero spinti verso la fine da un mutamento ciclopico del clima e dell’ambiente circostante. Loro erano restati stupidamente quel che erano, ma il clima e l’ambiente si erano profondamente mo3

dificati: non esistevano più per loro le condizioni minimali della sopravvivenza. D. L’apologo è espressivo. R. Quando ero bambino, venuto per la prima volta a conoscenza di tale prodigioso fenomeno, mi ero messo in testa che dinosauri e brontosauri fossero consapevoli che stavano andando in estinzione e che perciò, avviandosi verso l’ultima meta sulle loro smisurate zampacce, si dicessero allegramente l’un l’altro: «È ora». D. Questo è il racconto che lei fece accomiatandosi da quasi cinquant’anni di insegnamento universitario e medio. Prese l’orologio in mano, ripetendo: «È ora». Ma possiamo pronunciarle anche oggi, quelle parole, per salutare la scomparsa del maître à penser? Dobbiamo considerarla una storia finita? R. Bisogna chiedersi se siamo dinanzi alla liquidazione delle forme tradizionali della cultura intellettuale o all’esaurimento della funzione intellettuale tout court. Io propenderei per la prima ipotesi. Sono persuaso che sia andata chiudendosi in questi decenni una storia intellettuale cominciata sotto i Lumi e protrattasi fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sia pure con le tragiche fratture dei totalitarismi nazifascista e comunista. Mutamenti colossali sono intervenuti in tutto l’Occidente; l’Italia, come spesso è accaduto, rappresenta un laboratorio particolare. È finita una lunga storia intellettuale, ma non la possibilità di un esercizio critico dell’intelligenza, anche se oggi è più difficile vederne le manifestazioni. D. La «morte dell’intellettuale» è una di quelle geremiadi che ciclicamente tornano anche nel dibattito novecentesco. Franco Fortini ne fu uno straordinario anticipatore. Oggi però siamo di fronte a qualcosa di nuovo e diverso, un sal4

to epocale la cui portata non ha analogie nella storia precedente? R. Questa è la mia tesi, che sarà oggetto della nostra conversazione. È chiaro che si tratta di un cataclisma culturale, più che paleontologico. Però l’immagine del dinosauro mi aiuta a esprimere meglio i miei sentimenti di allora – quando lasciai l’università – ed anche dell’attuale stagione. Settantasei anni sono una bella età, ma lo diventano ancora di più se il presente viene misurato con le esperienze precedentemente compiute. Provando la sensazione di un cambiamento di grandissima portata, mi sento come il testimone di una lunga serie di tentativi che si sono posti come obiettivo l’incivilimento di questo paese. Perfino quando eravamo ragazzi, e credevamo nella lotta di classe operaia come formula risolutiva di cambiamento del mondo, aspiravamo a una civiltà italiana ed europea migliore di quella che stava dinanzi a noi, e di quella che ci aveva preceduto. Questo lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose – fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta. D. Sono modificate le condizioni di sopravvivenza? R. È dichiaratamente finito il periodo dei grandi conflitti ideologici che corrispondevano ai grandi conflitti storici e sociali e cercavano di spiegarli, sistematizzandoli. Oggi non c’è più il conflitto tra le classi, forse (almeno nel senso tradizionale del termine) non ci sono neppure più le classi che hanno reso possibile l’esercizio della funzione intellettuale. Non ci sono più le grandi ideologie che davano un senso a quel conflitto. E forse, come qualcuno ha teorizzato, non c’è più il senso della storia. D. Che cosa c’è al suo posto? 5

R. La storia è oggi l’onnivoro presente che avanza con la pura oggettività, sia pure solo presunta, delle leggi economiche. La globalizzazione, più che un processo storico, è un gigantesco processo di omogeneizzazione economicosociale. Non avverte alcun bisogno di essere interpretato e necessita soltanto di una regia economica. In questo paesaggio profondamente modificato è sempre più difficile essere ascoltati. Non so in quale lingua parlassero i brontosauri, ma è come se i loro tentativi di comunicare all’esterno fossero impediti da una nebbia così fitta da non consentire loro di parlare con nessun altro se non con i propri simili, anch’essi superstiti. D. Questo sentimento di solitudine intellettuale accomuna molte personalità, al di là di un’appartenenza generazionale. Se ne fece interprete Cesare Garboli in Ricordi tristi e civili, accennando all’agrimensore di Kafka: si riferiva ai tanti cittadini che vivono «reclusi in patria», proprio perché separati dal «vasto e cespuglioso continente politico». È il grande silenzio lamentato – nel libro Maestri e Infedeli di Corrado Stajano – da Eugenio Garin, straordinario biografo degli intellettuali italiani. Sulle voci riflessive dei maîtres à penser si sovrappone un chiacchiericcio indistinto. Un frastuono che azzera il pensiero critico. R. Con Garin, grande studioso oggi troppo dimenticato, siamo stati testimoni delle ultime manifestazioni di un’opera intellettuale fondata sul presupposto che la storia avesse un senso, che si potesse influire su quel senso o, ammesso che quel senso fosse perduto o lacerato, occorresse lavorare per ridefinirlo. Tutto questo non esiste più. Ecco, forse bisogna partire da qui: capire cosa è stato l’intellettuale occidentale nel corso di due secoli, e quali colossali cambiamenti siano intervenuti in questi ultimi decenni. Con sciagurate ricadute soprattutto sul nostro paese, dove il rapporto tra cultura e politica è stato molto forte fin dal principio della storia unitaria. Un rapporto che 6

è andato lentamente polverizzandosi, lasciando un vuoto enorme sia nell’agone politico sia nella sfera dell’intellettualità, frammentata in monadi poco comunicanti tra loro e separate dal resto della società.

Capitolo II

NASCITA E TRAMONTO DI UNA TRIBÙ INQUIETA

D. Chi sono gli intellettuali? Che cosa indichiamo con questa parola? R. Il termine nasce nella seconda metà dell’Ottocento, ma avendo alle spalle tutta la complessa esperienza intellettuale e politica che parte dall’Illuminismo e attraversa la rivoluzione francese ed esperienze successive. La parola intelligencija, usata per la prima volta dal romanziere russo Boborykin, quasi contemporaneamente viene ripresa e diffusa da Turgenev. In precedenza si usavano altri termini, come écrivains o gens de lettres. Nell’Encyclopédie, sotto l’articolo Gens de lettres, Voltaire elenca molti degli attributi che noi saremmo disposti a considerare caratterizzanti per la definizione dell’intellettuale moderno. Gli illuministi in sostanza non arrivarono a coniare un nuovo termine, ma hanno già chiara la funzione. D. Il ruolo nasce prima della parola. Ma come spiega questo ritardo? Perché l’aggettivo ci ha impiegato tanto a sostantivizzarsi? R. Se le fonti sono state indagate correttamente, il termine nasce come sostantivo astratto: intelligencija indica il complesso delle attività, delle funzioni e delle figure corrispondenti a quel concetto. Credo che abbia agito un pro8

cesso di maturazione e individuazione progressivo che si è manifestato storicamente nel momento della più acuta separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale: un processo che dunque si svolge tra il XVIII e il XIX secolo, ossia tra la rivoluzione industriale e il conseguimento di una sua piena maturità in Europa. D. L’intellettuale nasce dunque con il capitalismo? R. Sì, o almeno si definisce (o autodefinisce) quando la rivoluzione industriale specializza al massimo grado le proprie funzioni sociali e quindi in primissimo luogo pone una distinzione – e anche potenzialmente una contrapposizione – tra coloro che svolgono un lavoro manuale e coloro che svolgono un lavoro intellettuale. D. Nella voce «Intellettuali» scritta per l’Enciclopedia Einaudi, lei sostiene che la prima teorizzazione sistematica sulle funzioni del lavoro intellettuale nella divisione sociale del lavoro deve essere attribuita ad Adam Smith, il grande studioso della rivoluzione industriale. R. Smith sostiene una tesi molto suggestiva, che affascinò anche Marx. Secondo lo studioso, i talenti umani sono assai meno diversi tra loro di quanto si pensi. Ciò che li differenzia in modo indelebile è la divisione del lavoro. «Di natura», scrive Smith nel 1776, «un filosofo non è diverso per carattere e disposizione da un facchino di strada, neanche la metà di quanto è diverso un mastino da un levriero, o un levriero da uno spaniel, o uno spaniel da un cane pastore». Questa frase doveva aver colpito così profondamente Marx da indurlo a riprenderla di peso nella Miseria della filosofia. D. Insomma, intellettuali si diventa. Però in questa lettura anche il pensante è arruolato al servizio della grande mac9

china del capitale. Nasce già addomesticato, quando invece in origine fu figura sovversiva. R. No, un momento. Nella società capitalistica viene esercitato un complesso di funzioni sociali e di specializzazioni che tendono enormemente ad aumentare rispetto al passato. Questa proliferazione – e la conseguente valorizzazione del lavoro intellettuale – produce una più forte subordinazione di questa nuova figura al comando del capitale, ma al tempo stesso anche forme molteplici di autonomia, indipendenza, trasgressione e ribellione. Su queste possibilità di autonomia si fonda la storia dell’intellettualità europea e americana nel corso di due secoli, fino agli anni Settanta e Ottanta del Novecento. D. Poi che cosa succede? R. Cambia completamente lo scenario nel quale questa figura è maturata. Naturalmente stiamo parlando di mutamenti strutturali, che hanno un riscontro anche nel paesaggio fisico. Non c’è più la grande fabbrica, o almeno è diminuito il suo peso specifico, culturale e sociale, nel contesto contemporaneo. Non ci sono più gli operai o, se ci sono, sono meno visibili: sono sempre meno «classe generale». Ha perso di significanza l’altra classe sociale che è stata fondamentale per questa nostra storia, ossia la borghesia. Il nuovo capitalismo tecnologico e finanziario ha frantumato il paesaggio classico che fungeva da fondale alle funzioni intellettuali tradizionali. Ne ha annullato le articolazioni sociali. Ma su questo vorrei soffermarmi più avanti. Ora va rilevato che lo spazio di autonomia di cui può godere l’intellettualità nell’ambito della nuova società industrializzata si è enormemente ristretto: è qui che si gioca una dialettica fondamentale. D. Gli esiti, in sostanza, possono essere radicalmente diversi. 10

R. Da un fondo comune emergono due possibilità contrapposte: subordinazione o indipendenza. Ho già detto che la società industriale produce crescenti esigenze di lavoro intellettuale specializzato. Questo lavoro in parte viene reintrodotto nel processo per assicurare una maggiore economicità, in parte se ne autonomizza. D. Ma non erano intellettuali anche i grandi pensatori che precedono la rivoluzione industriale? Come possiamo definirli? R. La definizione più corretta per l’intellettuale premoderno è savant: colui il quale è dotato di specifiche competenze, che in taluni casi è disposto a mettere al servizio della comunità. Il caso di Niccolò Machiavelli è esemplare. Ma il passaggio fondamentale – per la storia intellettuale che stiamo tratteggiando – è segnato dalla rivoluzione capitalistica, che conferisce agli intellettuali una configurazione di ceto che prima non avevano. D. Che cosa s’intende per ceto? R. Mi riferisco a un gruppo di persone che, con una sua specifica organizzazione sociale, entra nel gioco complesso dell’economia, del sapere e della politica, esercitando un ruolo definito. Questo accade a prescindere dal talento individuale; ciò che conta, al limite, è la presenza del gruppo. Il ceto intellettuale in quanto tale precedentemente non era esistito. I savants sono individui isolati perché ancora non c’è la base sociale ed economica che consenta loro di fare il salto a una dimensione di gruppo omogeneo. Precursori di certi caratteri dell’intellettuale moderno sono piuttosto gli ordini religiosi medievali che, per motivi non certo sociali ed economici, ma di tradizione e organizzazione religiosa, si pongono anch’essi come intellettuali collettivi. Un possibile equivalente del termine intellettuale infatti è chierico: equivalenza curiosa perché 11

chierico, inteso nel senso stretto del termine, è il contrario di laico. Però alcuni studiosi ricorrono all’analogia: ad esempio Julien Benda, nel Tradimento dei chierici, si riferisce agli intellettuali laici che hanno tradito la propria professione parareligiosa. D. E alla tradizione umanistica, in questa sua rapida ricostruzione, che ruolo assegna? R. Nella grande storia della cultura europea, come gli enciclopedisti francesi preludono agli intellettuali professionisti di Ottocento e Novecento, cioè a quelli che noi chiamiamo più genericamente intellettuali, così si potrebbe sostenere che la grande fenomenologia dell’umanesimo italiano da Petrarca a – per intenderci – Coluccio Salutati anticipa certi caratteri ideologici e certe tipologie del lavoro culturale propri dell’enciclopedismo francese. Ma sono processi molecolari in formazione, che secondo me si rafforzano solo quando la grande rivoluzione capitalista conferisce a queste esperienze intellettuali una forza e un’autonomia che in precedenza non avevano. D. L’autonomia è un tratto irrinunciabile dell’intellettuale moderno. Ma finché il potere politico è assoluto, questa indipendenza è fortemente coartata. R. Quel meccanismo di produzione capitalistico, che secondo me è all’origine della questione degli intellettuali, sempre meno tollera le varie camicie di forza imposte dall’Ancien régime. Solo con la rivoluzione francese e la fine degli assolutismi nasce la tipologia dell’intellettuale moderno, chiamato in quanto ceto a «lavorare» nei processi di ristrutturazione politica, sociale e istituzionale. È un intellettuale ancora fortemente incardinato nella propria cultura umanistica, ma non prigioniero delle sue regole interne, disponibile anzi ad aprirsi a una comunicazione in12

terdisciplinare: non necessariamente specialistica, ma non per questo dilettantesca. D. Per Voltaire non meritano l’attributo di gens de lettres «coloro che con scarsa dottrina coltivino un solo genere di studi». Al contrario sono inclusi nella categoria i cultori di più materie, messe in relazione tra loro e al servizio del pubblico. R. Sì, d’Alembert vi aggiungerà due attributi fondamentali ai fini del nostro ragionamento: l’affermazione che tra gens de lettres e grands è necessaria la parità e che requisiti fondamentali degli uomini di lettere sono libertà, verità e povertà. Per Voltaire l’intellettuale è una figura che va al di là di un’unica specializzazione troppo marcata perché è in grado di intervenire in campi differenti. In realtà il processo è stato ben più complesso: la storia intellettuale successiva è segnata da un aumento straordinario delle specializzazioni rispetto al passato. Le tipologie otto-novecentesche sono assai più ricche di quelle tradizionali. I grandi pensatori degli ultimi due secoli sono stati anche loro grandi specialisti, che però hanno proiettato il loro specialismo su uno sfondo più vasto, ricavandone un senso di carattere generale. D. Insomma, lei vuole dire che l’intellettuale non è un pensatore generico o un tuttologo, come spesso s’intende. R. Mi sembra un’idea rozza, che è prevalsa solo nel corso degli ultimi decenni. Penso a tre opere fondamentali della prima metà del Novecento: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber (1904-1905), il Trattato di sociologia generale di Vilfredo Pareto (1916) o il Discorso alla nazione europea di Julien Benda (1933). La forza del pensiero di ciascuno di questi tre protagonisti è alimentata da conoscenze assolutamente specifiche e reali. Il discorso intellettuale, quando è autentico, è tutt’altro che generico: 13

consiste nel cavare da un ambito conoscitivo circoscritto interpretazioni e proposte e critiche di carattere generale. D. Gli intellettuali come interpreti di valori universali. Pierre Bourdieu ha coniato la formula di «corporativismo dell’universale», nella quale è possibile rintracciare un paradosso. L’intellettuale parla in nome di valori generali, però è espressione di un ceto caratterizzato e separato. R. Non so se si possa parlare di paradosso. A me interessa rimarcare il valore dello specialismo contro la tuttologia. Fermiamoci a Max Weber, autore di una celebre riflessione raccolta in Il lavoro intellettuale come professione. In realtà il termine tedesco originale, Beruf, indica qualcosa di diverso rispetto alla «professione». Allude a una sorta di «vocazione», sottolineando l’aspetto eticopolitico connesso all’attività intellettuale, e richiamando in qualche modo l’origine religiosa del concetto. La sua decisione di esplorare la sociologia, a cavallo tra i due secoli, rivela una straordinaria presa di coscienza sulla mancanza di quel sapere e sulla necessità di studiarlo per capire le trasformazioni della società contemporanea. Una scelta sicuramente non neutrale. Il lavoro intellettuale come professione è l’opera che meglio sistematizza l’intero processo fino ad allora compiuto, sulla base della persuasione che quella tradizione si fosse sostanzialmente stabilizzata. Ignorando, in sostanza, la possibilità che il cataclisma dei totalitarismi novecenteschi rimettesse in gioco la professione intellettuale. D. Qual è l’italiano del Novecento che incarna meglio questa tipologia? R. Una figura su cui ho molto meditato più di recente è quella di Norberto Bobbio, giurista e filosofo. Bobbio cos’è? Sicuramente un intellettuale specifico, perché il suo sapere è delimitato, rigoroso, concentrato; da questa spe14

cificità e specializzazione disciplinare, anche di tipo universitario, è riuscito però a cavare fuori una serie di ragionamenti che sono valsi a dare indirizzi diversi a parte rilevante del ceto intellettuale. Poi ha cercato anche di fare politica, anche lui riuscendoci molto male, perché forse cultura e politica sono due realtà incompatibili, o comunque protagoniste di una convivenza difficile, aspra, quasi impossibile. Naturalmente anche Bobbio era soggetto all’errore. All’epoca del primo intervento americano in Iraq (1991), quello promosso da Bush senior, lo difese in base al principio di «guerra giusta». Fu inevitabile tra noi una polemica. Quando, l’anno dopo, uscì il mio saggio Fuori dall’Occidente, ovvero Ragionamento sull’Apocalissi, egli s’espresse in termini critici seppur molto cortesi nei miei confronti, e io lo definii, non per celia ma sul serio, un «padre buono» dell’Occidente, non escludendo dunque che ce ne fossero. In ogni caso, sento il bisogno di precisare che per me le «stelle polari» del firmamento intellettuale restano altre, anche dopo le bufere delle revisioni. D. Quali sono? R. Ho cercato di spiegarlo nella prefazione, Vent’anni dopo, alla riedizione einaudiana di Scrittori e popolo (1988). Lì chiamo in causa Marx e Nietzsche: l’uno critico-storico-analista e denunciatore della società capitalistico-borghese; l’altro interprete-analista e denunciatore delle forme di vita e di esistenza capitalistico-borghesi. Tra i venti e trent’anni ho letto furiosamente i testi dell’uno e dell’altro, con passione ma anche con gioia, con un enorme piacere, come si dovrebbe fare con i libri destinati a influenzare per sempre la propria vita. Scegliendo, anche: di Marx soprattutto le Opere filosofiche giovanili, i Grundrisse, il sesto capitolo del Libro I del Capitale; di Nietzsche soprattutto La gaia scienza e Umano, troppo umano. A noi, in quelle precocissime letture tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, i due sembravano tutt’altro che 15

contraddittori, anzi, le due facce della stessa medaglia. Naturalmente, non leggevo solo loro: mi limito qui a richiamare i grandi pensatori, i grandi interpreti. Leggevo però anche molta narrativa, molta poesia. Da Leopardi a Eliot, per intenderci. In quei dieci anni ho letto anche tutto il grande romanzo decadente europeo: Mann, Proust, Joyce, Woolf, Musil... Mi sembrava tutto coerente, tutto assimilabile alla medesima prospettiva, da Nietzsche a Mann, da Marx a Proust: la sensazione era esaltante, trascinante. Ma su questo occorrerebbe fare un discorso a parte. Posso solo aggiungere che io sono l’unico uomo al mondo ad aver letto tutto Dante e tutto Marx, comprese le virgole. È un dato da segnalare, no? D. Le sue letture, fin da principio, sembrano preparare e accompagnare un moto di reazione allo «stato di cose esistente». Possiamo considerarle una sorta di gigantesca iniziazione intellettuale a «non stare tranquillamente dentro il sistema»? R. Beh, sì, la situazione era proprio questa. Quel mondo non ci piaceva. E al tempo stesso non ci piacevano neanche le ideologie che pretendevano di spiegarlo o addirittura di contestarlo. Quando ci si trova in una situazione del genere, bisogna cercare «altrove»: cercare «altrove» nella pratica, ma anche nel pensiero. È quello che abbiamo cercato di fare. Quando negli «anni di formazione» – per chiamare in causa non del tutto inappropriatamente una formula goethiana – si subiscono influenze di colossi tanto forti, uno non se ne libera più, quali che siano le sue evoluzioni e revisioni: si corre il rischio che tutto il resto appaia acqua fresca. Si potrebbe anche osservare, ai fini del nostro discorso, che i nostri legami più forti (nonostante la barriera linguistica, per quanto mi riguarda) sono stati con l’area culturale tedesca, e non francese o anglosassone, e questo continua anche più tardi: Lukács e 16

Benjamin, ad esempio, e Mann, Musil, Hesse, sul piano letterario. D. Siamo tornati alla storia dell’intellettuale novecentesco. Ma forse lei vuole completare il suo «firmamento» più personale. R. Direi di sì. Le letture di cui ho parlato s’intrecciavano a esperienze reali, di pratica politica e di vita. Su questo torneremo. Vorrei sottolineare la grande importanza che in questo ambito hanno avuto il pensiero, la riflessione, il contatto umano di Mario Tronti. Io, tutto sommato, potrei essere definito un trontiano critico; critico, del resto, non diversamente da come mi sono atteggiato nei confronti di tutte quelle posizioni che hanno incontrato il mio consenso (l’adesione senza la critica è priva di senso, per me). Insomma, per tornare al tema: provo ammirazione e rispetto per una personalità come Bobbio, e capisco bene il ruolo positivo da essa svolta nella cultura italiana del nostro tempo, ma resto totalmente all’esterno. Ci sono arrivato, insomma, quando il più era fatto. D. Mi soffermo su Bobbio, perché al principio degli anni Cinquanta egli fu artefice di celebri saggi poi confluiti in Politica e cultura. Quelle sue riflessioni esprimevano in sostanza una forte critica del modello engagé. Il compito dell’intellettuale, scriveva Bobbio, era quello di seminare dubbi, non raccogliere certezze. Il tradimento dei chierici consisteva nel trasformare il «sapere umano, necessariamente limitato e finito», in «sapienza profetica». I suoi bersagli erano il «dogmatismo», «la fede cieca», «gli inganni della propaganda». I saggi furono all’origine di una pubblica discussione con Palmiro Togliatti e Galvano Della Volpe. R. Io allora stavo dalla parte di Togliatti, e ancor più di Della Volpe. La posizione di Bobbio ci sembrava – come allora si diceva – spostata su una nozione di neutralità e 17

imparzialità della cultura che non ci appariva adeguata alle esigenze di trasformazione sociale, politica e istituzionale del paese. Noi, paladini della cultura impegnata, volevamo cambiare il mondo: il dubbio teorizzato da Bobbio ci sembrava del tutto insufficiente. Bisogna forse anche aggiungere, perché sia chiara la profondità storica del discorso – altrimenti finisce che siamo tutti eguali in ogni momento della nostra vita – che io nel 1955 avevo ventidue anni: ne sono passati cinquantaquattro, bisogna tenerne conto. D. Oggi che cosa pensa di quelle riflessioni di Bobbio? R. Contenevano elementi di verità che allora non cogliemmo. Nel corso degli anni ho molto riflettuto sull’autonomia come condizione imprenscindibile della funzione intellettuale, mettendone in discussione dunque qualsiasi forma di organicità. Riesco oggi difficilmente a considerare positiva un’attività del pensiero che decisamente si subordini a un comando, quale che sia. D. Il modello gramsciano era stato già fortemente contestato nei primi anni Sessanta in Scrittori e popolo, scritto però in una stagione in cui ancora credeva nella funzione risolutiva della lotta di classe operaia. R. Per uno svariato numero di anni, l’idea che gli intellettuali dovessero servire a un disegno politico e ideologico generale io l’ho condivisa e praticata. Questa idea non ha funzionato. Oppure, nella misura in cui ha funzionato, ha prodotto risultati mediocri e molto deludenti: qualche volta catastrofici (dove il comunismo è andato al potere). Devo aggiungere tuttavia, a riguardo della mia presunta organicità, che un elemento problematico c’è stato fin dall’inizio. D. Che cosa intende? 18

R. Nei primi anni Cinquanta, quando io mi sono iscritto al Pci, la cosa più semplice per i giovani era diventare comunisti gramsciani. Gramsci, del resto molto più intelligentemente di quanto i suoi esegeti ufficiali non l’abbiano mai interpretato, teorizza la figura dell’intellettuale organico, cioè un intellettuale che intanto oggettivamente non può fare a meno di essere legato a una classe e soggettivamente scopre l’esistenza di questo legame, lo elabora e lo pratica. Quindi ci sono intellettuali organici alla classe operaia, intellettuali organici alla borghesia e così via. Nei confronti di questa teoria, io non ho mai avuto né simpatia né adesione. In un certo senso, Gramsci mi ha aiutato soprattutto a capire meglio la storia dell’intellettualità borghese, e questa soprattutto in area italiana. La mia estraneità all’autore dei Quaderni non ha però impedito che a lungo da parte mia ci sia stata la ricerca di una più diretta funzionalità del lavoro intellettuale nei confronti del lavoro politico, ricerca che è approdata a una serie di disillusioni e fallimenti. Fino ad arrivare a una ricostruzione dell’intera storia dell’intellettualità, non solo italiana ma europea, in cui il mito dell’organicità, o anche semplicemente della funzionalità, viene messo in secondo piano, mentre al contrario tendo a valorizzare il lavoro intellettuale autonomo da qualsiasi forma di organizzazione o dogma: che è poi il principio di ogni buona «rivoluzione intellettuale», come la nostra stessa esperienza dimostra. Se infatti non fossimo stati autonomi rispetto alla «vulgata» allora dominante, nulla di nuovo sarebbe nato, neanche dal punto di vista del pensiero. D. «Per fare della buona letteratura, il socialismo non è stato essenziale». Questo lei lo scriveva già nel 1968 in un saggio su Majakovskij. R. Sì, sintetizzavo così il senso di una mia ricerca contro l’engagement tradizionalmente inteso. «Per fare la rivoluzione», aggiungevo, «non sono essenziali gli scrittori. La 19

lotta di classe, quando è lotta di classe e non protesta populistica, passa per una strada diversa da questa. Ha altre voci per esprimersi e per farsi capire. E la poesia non può starle dietro». D. Ora però nella riflessione su Bobbio va ancora avanti, recuperando in sostanza il modello di intellettuale liberaldemocratico. R. No, attenzione. Forse anche per motivi storico-anagrafici, io resisto a questa conclusione: ancora oggi continuo a vedere i limiti del liberalismo classico, fondato su un individualismo spinto. Quando avevo vent’anni – tanto per restare nella nebulosa delle origini – e frequentavo i primi anni della facoltà di Lettere alla Sapienza di Roma, leggevo puntualmente «Il Mondo», ma mi sono iscritto al Partito comunista. Ripeto: non ci piaceva una realtà in cui fosse istituzionalizzato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (a dir la verità, non ci piace neanche adesso). Quella che io definirei «la promessa comunista» ci apriva un orizzonte di cambiamento, la liberaldemocrazia no. Bisognerebbe aggiungere anche che, all’atto pratico, le rappresentanze politiche di quella bella, bellissima intellettualità liberaldemocratica (Ernesto Rossi, i Convegni del «Mondo» ecc.) sedevano al Governo accanto alla Democrazia cristiana, e questa ci sembrava un’offesa al senso comune, oltre che all’etica politica più rigorosa. Le scelte, soprattutto dei giovani, sono fatte di queste cose, altrimenti saremmo tutti dei polli di batteria. Per questo dico anche: non si può buttar via, soprattutto in questo momento (ripeto: soprattutto in questo momento), la memoria di quella cultura engagée, suscitata dall’idea che il compito storico del Novecento fosse la liberazione del proletariato dalle sue catene: una missione nobile, di cui certo oggi non mi vergogno! Quel che invece voglio dire è che nel corso degli anni, e nell’accumulo delle esperienze, mi è sempre stato più chiaro che la funzione intellettuale si è espressa al più alto livello al20

l’interno dei regimi liberaldemocratici, ossia là dove il capitalismo ha trovato un punto di compensazione e compromesso con le forme politico-istituzionali liberaldemocratiche. Mentre essa s’è fortemente impoverita o interrotta o addirittura soffocata là dove sono prevalse soluzioni totalitarie, poco importa se di destra o di sinistra. D. Vuole dire che gli esiti di nazismo, fascismo e comunismo non sono dissimili? R. Sto dicendo che, ai fini della nostra riflessione, non c’è differenza tra un lager, un gulag o un plotone di esecuzione. Permane certo la giusta perplessità se i due totalitarismi, nazifascista e comunista, siano totalmente assimilabili tra loro – io penso di no – ma rispetto alla storia intellettuale novecentesca rappresentano entrambi fratture colossali e tragiche. D. Con quali conseguenze? R. Sia la tirannide nazifascista che la dittatura sovietica hanno stroncato alla radice quella tradizione intellettuale che affondava le sue radici nella stagione dei Lumi. Fermandoci a questa nostra parte di Europa, soprattutto attraverso l’antifascismo e la resistenza al nazismo, il ceto intellettuale ha tentato di recuperare il senso della tradizione europea del passato, arricchendolo della prospettiva – non importa in questo caso se illusoria o meno – di fare della cultura uno strumento di cambiamento. Indicativo in questo senso fu un congresso internazionale di scrittori «Per la difesa della cultura», svoltosi a Parigi nel 1935. Essendo l’Internazionale comunista in quel momento schierata con l’antifascismo, vi parteciparono in massa scrittori provenienti dall’Urss e da tutti i partiti comunisti europei. Tra i nomi più rilevanti dell’intellighenzia internazionale figurano l’inglese Aldous Huxley, i sovietici Il’ja Erenburg, Aleksej Tolstoj, Boris Pasternak, Isaak Babel’, i francesi Julien Benda, André Gide, 21

André Malraux, Paul Nizan, l’austriaco Robert Musil, i tedeschi Bertolt Brecht, Anna Seghers e i due fratelli Mann riavvicinati dagli eventi. Tra gli italiani spicca il nome di Gaetano Salvemini. Fu un evento di grande portata, destinato però a soccombere dinanzi all’oppressione barbarica dei totalitarismi. Anche in Italia, nell’immediato dopoguerra, la parola d’ordine con cui il 29 settembre del 1945 s’inaugura il «Politecnico» di Elio Vittorini – «La cultura prende il potere» – vuol dire proprio questo: riprendere il filo della cultura autonoma precedente, affidandole però l’obiettivo d’un mutamento della società. «Non più una cultura che consoli dalle sofferenze», si legge sul primo numero del «Politecnico», «ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». Esperimento destinato presto al fallimento. Le formulazioni di Vittorini, fondate sul presupposto che politica e cultura si muovessero su piani distinti e autonomi, non piacquero a Togliatti, e la rivista cessò le pubblicazioni. Quel che a me interessa rimarcare è che le lacerazioni prodotte sul tessuto culturale europeo dai fenomeni verificatisi tra la prima e la seconda guerra mondiale furono immense. Il ceto intellettuale esce dalle dittature fortemente in crisi, in qualche modo predisposto a una maggiore debolezza nei confronti di quell’altro gigantesco fenomeno del Novecento che è la democrazia di massa. D. La classe dei colti – per usare una celebre espressione di Prezzolini – non è però del tutto innocente. Non c’è regime totalitario novecentesco che nella fase iniziale non sia stato sostenuto e incoraggiato da larga parte del ceto intellettuale. Edward Said, in Dire la verità. Intellettuali e potere, lo esprime in altro modo: «Non esiste rivoluzione importante nella storia moderna senza intellettuali; per altro verso, nessun movimento controrivoluzionario di rilievo ha fatto a meno di essi». R. Sì, questo è vero. Ma non dobbiamo dimenticare quelle componenti che scelgono cambiamenti meno traumati22

ci. È indubbio che gli intellettuali del Novecento abbiano espresso spesso la tendenza a identificarsi in soluzioni di rinnovamento drastico e totalitario, non nel senso di aderire ipso facto e ab origine alle prospettive di uno Stato totalitario, ma nel senso di aderire a una prospettiva di rinnovamento totale, che poi non di rado s’è orientata verso forme totalitarie. Questo è accaduto in Russia, in Italia, più tardi anche in Germania. Come si spiega? Proprio perché predica e coltiva la propria autonomia, l’intellettuale europeo – in questa specifica epoca che è il Novecento – tende a schierarsi a favore di soluzioni estreme. Volgarizzando un po’: l’intellettualità si è presentata spesso come fattore di estremismo, subendone poi tutte le conseguenze. D. Il Novecento stesso fu l’età degli estremi, per riprendere una formula di Eric J. Hobsbawm. Impegnandosi in politica – ed era difficile sottrarsi a questo imperativo – gli intellettuali quasi fatalmente toccarono gli estremi. R. Fu un’epoca nella quale era impossibile non schierarsi. Pur in forme più moderate, un caso emblematico è quello di Thomas Mann. Egli parte programmaticamente come intellettuale di tipo ascetico. I Buddenbrook, La morte a Venezia, Tonio Kröger sono tutti sotto questo segno, che corrisponde anche alla scelta di una tradizione tedesca non impegnata. Poi lo scrittore diventa testimonianza egli stesso di una trasformazione profonda, perché con la Grande Guerra comincia a schierarsi, inizialmente a favore dei valori germanici, uno dei quali consiste appunto nel disimpegno. Nelle Considerazioni di un impolitico (1918) compie una grandiosa operazione d’impegno per sostenere una cultura del disimpegno, contrapponendo la Kultur – tutta fondata sull’interiorità dello spirito e sulla riflessione intellettuale (Nietzsche, Wagner, Freud) – alla Zivilisation, ossia una concezione della cultura fondata sui suoi effetti sociali e sul suo progressismo illuministico-giacobino. Mal gliene incolse. Sceso su quel terreno, si trova 23

a fare i conti con le forze della barbarie e dell’irrazionalismo, crescenti nella Germania weimariana, e finisce per diventare un intellettuale dell’impegno democratico. In due straordinari appelli scritti in quegli anni – Appell an die Vernunft (Appello alla ragione, 1930) e Achtung, Europa! (Attenzione, Europa!, 1935) – egli decide che non basta più la denuncia, ci vuole l’azione. «Ciò che oggi sarebbe necessario», scrive, «è un umanesimo militante». Mann incarna in sostanza l’impossibilità dell’ascesi nel mondo contemporaneo. D. Fin dal principio, al suo apparire nella lingua russa nella seconda metà dell’Ottocento, la parola intellettuale evoca una figura segnata da radicalismo e protesta. Non ha un significato neutrale neppure sul finire del secolo, nel 1898, quando il termine compare ufficialmente in Francia nel «Manifesto per la revisione del processo a Dreyfus». Sotto la parola Intellectuels è incluso un partito trasversale – da Émile Zola a Marcel Proust, da Anatole France a Léon Blum – impegnato nella lotta contro gli abusi del potere. La stampa nazionalista di destra, rappresentata da Maurice Barrès, protesta contro l’appropriazione ideologica del termine da parte di uno schieramento che viene liquidato come fazione politica. Come se in questa parola ci fosse un destino di ribellione e disobbedienza. R. Dipende però dalle situazioni storiche concrete. Il ceto intellettuale nasce proprio in quanto rivendica la propria autonomia, collocandosi in posizione dialettica e talvolta antagonistica rispetto al potere dominante. Tuttavia si sono verificati anche dei momenti di consensualità rispetto alla vicenda storica contemporanea. Sempre per rimanere in Russia, l’esempio da cui siamo partiti, una frazione rilevante dell’intellettualità russa sostenne l’esperimento leninista, salvo poi andare incontro a disillusioni e conflitti ancora più gravi rispetto a quelli da cui era uscita. Oppure penso a quella stagione, breve ma significativa, scaturita in 24

Italia dalla Resistenza e segnata da una convergenza reale tra ceto intellettuale e ceto politico progressista. Sono i momenti in cui gli intellettuali coltivano la persuasione di essere in grado di intervenire nelle decisioni: cosa che in realtà non è, ma è un’illusione coltivata a lungo. D. La persuade la definizione suggerita recentemente dallo storico inglese Tony Judt a proposito del Novecento come secolo degli intellettuali? R. Solo in parte. Mi sembra una storia assai più lunga, visto che risaliamo all’Illuminismo. Pur attraverso le tragedie e le rotture del XX secolo, il maître à penser novecentesco non si differenzia di molto né nella tipologia né nelle funzioni dal profilo che ho cercato di delineare per i due secoli precedenti. Da Max Weber fino a Bobbio, l’intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e usa quest’ultimo come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l’antropologia circostante. Di questo tipo di intellettuale, c’è una variante di destra, che viene travolta e in parte cancellata dal totalitarismo fascista e nazista. E c’è una variante di sinistra, che invece sopravvive in forme eretiche al fallimento del totalitarismo comunista, proprio perché non si identifica totalmente nel modello dell’intellettuale organico. Tornando alla domanda, il Novecento è il secolo in cui il potere degli intellettuali raggiunge il proprio culmine, per poi essere combattuto in forme molteplici: dalle dittature ma anche – come vedremo – dalla democrazia di massa. D. Il Novecento, in sostanza, è il secolo del suo declino. Prima delle dittature l’intellettualità europea appariva più agguerrita. R. Sì, come ho già detto i totalitarismi hanno rappresentato un fattore di grave indebolimento, una sorta di «di25

struzione culturale», come l’ho definita nella mia Storia europea della letteratura italiana. Alcuni fili che connettevano la tradizione europea al proprio passato si spezzarono irrimediabilmente, producendo una specie di vuoto delle coscienze. Analogo destino investì l’altra grande protagonista di questa nostra storia che è la borghesia. Per motivi non dissimili da quelli che caratterizzano le vicende degli intellettuali, nel secondo dopoguerra la borghesia attenua di molto la sua presenza o addirittura scompare di scena, come accade in Italia, segnata in questo come in molti altri campi da una maggiore fragilità rispetto al resto d’Europa. La scomparsa o la presenza sempre meno significativa della borghesia trascina con sé il tramonto degli intellettuali. Borghesia e intellettualità, secondo me, appaiono legate sul piano storico da un nesso indissolubile. D. Anche qui c’è stata un’evoluzione della sua riflessione. Mi viene da ricordare l’elogio negli anni Sessanta della «rude razza pagana», come dicevano gli operaisti d’un tempo. R. Quella era un’espressione del mio amico Mario Tronti, non tra le sue più felici. Sicuramente l’intellettualità progressista ha tardato nel riconoscere alla classe borghese, a lungo considerata un’antagonista, una funzione positiva e feconda. Anche io mi sono mosso su strade opposte. Sul finire degli anni Sessanta scrissi Intellettuali e classe operaia, nel cui sottotitolo esplicitavo la finalità del libro: Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza. D. Che cosa intendeva per «una possibile alleanza»? R. Volevo dire che tra intellettuali e classe operaia c’erano sempre stati separazione, incomprensione e conflitto. Bisognava lavorare, e lavorare a lungo, perché tra i due «gruppi sociali», le due «intelligenze collettive», così diverse ma non contraddittorie, non necessariamente anta26

gonistiche, s’incontrassero e imboccassero la medesima strada di liberazione collettiva. Da sola, nessuna delle due ce l’avrebbe potuta fare; unite, forse sì. Se vogliamo proprio essere precisi al centesimo, potremmo ricordare che questa è la stagione in cui la rivista «Contropiano» (1968), di riflessione culturale, storica e filosofica, subentra a «Classe operaia», più operativa, più d’intervento. Dovevamo preparare le condizioni, culturali e ideali, perché questo incontro finalmente si verificasse. D. Ma non vi fermaste a una riflessione puramente intellettuale, lavorando parallelamente all’interno delle fabbriche. R. Sì, bisognerebbe intrecciare a questo punto i due percorsi, quello intellettuale e quello pratico-politico: i due «altrove» cui ho accennato prima. Molte delle riflessioni di cui finora s’è parlato trovarono infatti la loro verifica o il loro compimento in concrete esperienze di impegno politico al fianco degli operai romani sulla Tiburtina, o nelle fabbriche di Terni, di Torino, di Milano, di Porto Marghera, di Firenze. Fu una stagione molto intensa, segnata da un lavoro culturale diverso da quello tradizionale – includendo in questa categoria sia il lavoro accademico sia quello organico al Pci, che in fondo erano molto simili e ben si tolleravano a vicenda –, ma anche differente dalle modalità di engagement di un Albert Camus o di un Vittorini, impegnati soltanto in una sfera intellettuale. D. Lei prima ha ricordato la rivista «Classe operaia» (19641967), preceduta nel 1961 da «Quaderni Rossi», nate entrambe alla sinistra del Pci. R. Queste riviste si riproponevano il compito di rappresentare e far emergere soprattutto ampi pezzi di società nascosti dal comunismo e dal sindacato ufficiali dietro l’ideologia del nazional-popolare. Un personaggio formidabile come il socialista Raniero Panzieri radunò tra gli altri 27

a Torino un gruppo di giovani comunisti romani fuoriusciti dal partito di Togliatti dopo il Cinquantasei. Io ero tra questi. Ricordo i giovani economisti Vittorio Rieser e Giovanni Mottura, sociologi sul campo come Romano Alquati e Romolo Gobbi, e poi i romani Umberto Coldagelli, Rita Di Leo, Aris Accornero, Gaspare De Caro e naturalmente Mario Tronti, autore nel 1966 di Operai e capitale, l’opera teorica più importante di questa tendenza. La nostra prospettiva di lavoro consisteva nell’avvicinare il più possibile gli strumenti di osservazione e le discipline – la sociologia, la storiografia, la letteratura – agli oggetti di osservazione, ossia gli operai, cercando di scavalcare le mediazioni rappresentate dalle ideologie dei partiti, da noi liquidate come coperture ed anche mistificazioni. La nostra ricerca non aveva niente di astratto: era legata all’osservazione diretta soprattutto di Torino, città laboratorio. D. Se non ci fosse stato Togliatti, come disse una volta Panzieri, avreste fatto la rivoluzione. E il Pci mal vi tollerava. R. Nel 1962, all’indomani dello storico sciopero della Fiat, che culminò in piazza Statuto con l’attacco alla sede della Uil, considerata una sorta di sindacato padronale, «l’Unità» ci redarguì pesantemente con il titolo: Chi li paga?. Non erano tempi facili. D. Era anche a lei che si riferiva Fortini nel descrivere questi gruppi intellettuali per i quali era «perfettamente compatibile la stesura di un saggio di critica letteraria con il volantinaggio ai cancelli della Fiat e dell’Alfa»? R. Non lo escludo. Io ho il ricordo di una straordinaria esperienza dal punto di vista politico e umano, forse la più entusiasmante che io abbia mai compiuto in vita mia. Intorno a Stura, stabilimento della Fiat a Torino, uno dei più grandi del paese in quel momento, c’erano migliaia di operai in sciopero nel luglio del 1962, e noi eravamo lì a di28

stribuire volantini e a discutere con loro. Alcuni di loro dicevano: «Gli altri hanno scioperato per conto nostro per dieci anni, ora tocca a noi scioperare anche per gli altri, dare il buon esempio». Non dimentichiamo che era un periodo d’incontrollato predominio padronale, gli operai sindacalizzati e comunisti erano stati relegati nei «reparti confino». A noi pareva la riconquista di una coscienza generale di classe, soprattutto se nel pomeriggio di quella stessa giornata una massa enorme di operai, spontaneamente autoconvocati, assediava per lunghe ore la sede della Uil a piazza Statuto, come ho ricordato. Del resto, non mi pare di esagerare: questo era solo l’inizio di un movimento che solo qualche anno dopo sarebbe sboccato nel 1968-69 studentesco e operaio. D. Poi però la «possibile alleanza» tra operai e intellettuali non è andata avanti. R. Non è andata avanti, e forse non poteva andare avanti. C’era una sproporzione gigantesca tra le forze messe in campo e gli smisurati obiettivi proposti. D. Eravate dei velleitari? R. No, eravamo dei marxisti conseguenti, noncuranti peraltro delle conseguenze delle nostre azioni. Certo, inseguivamo un progetto «inverosimile». Ma nel campo dei fenomeni intellettuali, «inverosimile» non corrisponde automaticamente a «sbagliato». Forse sarà il caso di metterlo in chiaro sin da principio: una cosa di cui non ho mai sofferto – una di quelle per cui a un certo punto ho smesso di essere un cattolico credente – è la pratica del pentimento. Non lo dico per vanagloria o testardaggine, ma perché penso seriamente che un’esperienza fatta, sia di pensiero che di azione, meriti un’attenzione e un rispetto che vanno oltre la dichiarazione di fallimento. Data la moltitudine degli errori commessi, do per scontato che l’erro29

re sia sempre possibile. Non è però l’errore commesso che caratterizza il senso dell’esperienza, piuttosto il fatto di averla compiuta. Sono impudente? D. Ora, a distanza di quattro decenni da quella esperienza operaista, sostiene il nesso indissolubile tra intellighenzia e borghesia. R. Sì, voltandomi indietro per la mia Storia europea della letteratura italiana recentemente apparsa, non ho potuto fare a meno di constatare che le opere più importanti prodotte dagli intellettuali nel corso di questi due ultimi secoli sono il frutto di un punto di vista autonomo: antagonistico, talvolta, ma autonomo. Autonomia la cui pratica è stata consentita storicamente solo all’interno d’una società borghese. Questo non vuol dire che l’intellettuale abbia potuto essere soltanto «borghese»: vuol dire che la società borghese ha almeno consentito la formulazione e la possibilità del conflitto. Esperienze storiche e politiche anche molto recenti lo confermano. D. Già in Scrittori e popolo – scritto e pensato tra il 1962 e il 1964 – tesseva le lodi della grande letteratura borghese: in Italia Verga, Svevo, Montale, Gadda e in parte Pirandello; in Europa Joyce, Kafka, Proust. Era una premessa per spazzare via il modello populistico e nazionalpopolare della cultura militante comunista. Fu un libro scandaloso, programmaticamente antistoricista e antiprogressista. R. Sì, tentavo una definitiva resa dei conti con tutta la tradizione democratico-progressista e populista della letteratura italiana, dal Romanticismo in poi. Ma l’attenzione si appuntava soprattutto sul periodo successivo alla seconda guerra mondiale. L’idea di fondo era che la ricerca inesausta e prepotente da parte dei critici progressisti di una letteratura socialmente impegnata avesse contribuito a impedire la nascita in Italia di una grande e moderna lettera30

tura borghese di livello europeo, confinando i nostri quattro o cinque nomi di rilievo dell’intero periodo in una solitudine quasi disperata. Per quell’epoca, una vera bestemmia! Fui accusato di reazionarismo. Su «l’Unità» apparve una lunga stroncatura di Carlo Salinari: Il piccolo borghese sul piedistallo. Naturalmente il titolo alludeva a me, che pure all’università ero stato un suo allievo. Carlo Muscetta mi fece una telefonata al calor bianco: avevo commesso la cattiveria di inserire anche lui tra i critici di orientamento populistico. Il mio maestro Natalino Sapegno, invece, reagì in tutt’altro modo: lo trovai una mattina, seduto dietro la sua scrivania, mentre leggeva Scrittori e popolo. Ridacchiava. I miei saggi erano quanto di più lontano dal suo stile e dai suoi percorsi, ma lo divertivano profondamente. «Io queste cose le ho sempre pensate!», mi disse malizioso. Sapegno non volle mai creare dei cloni, in questo un grande maestro. D. Era una guerra tra piccolo-borghesi. Lei accusava tutta l’intellettualità di sinistra – da Pratolini a Pavese, da Vittorini a Cassola e Pasolini – di gravitare in quell’area sociologica: in sostanza di volare basso. R. Pasolini non reagì, ma una volta lo incontrai a un’assemblea universitaria e mi disse: «Asor Rosa, l’uomo che mi ha fatto più male nella mia vita». Aveva l’occhio sbarrato, colmo d’odio. D. Riscriverebbe alcuni di quei suoi giudizi? R. Ho ripreso in mano di recente Scrittori e popolo, credo che la linea generale resti sostanzialmente giusta. A rileggerla, ci si accorge che persino quella nei confronti di Pasolini non fu una stroncatura impietosa, tutt’altro: rispetto ai romanzi romani, liquidati come ideologici e nazionalpopolari, mostravo di prediligere le poesie e gli scritti narrativi in friulano. Il primo al secondo Pasolini, in sostanza. 31

Un giudizio che più tardi è stato condiviso da larga parte della critica, ma io lo formulai quando Pasolini era ancora un personaggio indecifrabile e misterioso. Il discorso vale anche per Pratolini, Vittorini e Pavese: stronco i lavori «populistici» come Metello, Uomini e no, Il compagno per valutare positivamente le loro opere meno intaccate dall’ideologia progressista, ad esempio Cronaca familiare, Conversazione in Sicilia e La luna e i falò. D. Molto severo è il giudizio su Metello, «romanzo ideologico» per eccellenza. R. Con Pratolini la frequentazione personale risaliva agli anni universitari, avendogli io dedicato la mia tesi di laurea. Mentre vi stavo lavorando, scoppiò la celebre contesa su Metello. Da una parte Muscetta, feroce stroncatore; dall’altra Salinari, nelle vesti del difensore. Il caso voleva che entrambi, Muscetta e Salinari, insegnassero a Lettere, dunque la querelle finì per travolgermi, mentre Sapegno ostentava la più totale indifferenza. Tra i due contendenti, mi schierai con Muscetta, condividendone le critiche al tessuto narrativo e alla ricostruzione storica. Pratolini mi scrisse una lunga lettera, che recentemente ho pubblicato, poi ci perdemmo di vista. D. Riconferma anche il giudizio su Vittorini? In sostanza, lei stigmatizzava il direttore del «Politecnico» perché dinanzi al bivio tra cultura e politica privilegia la prima, non la seconda. Lo rifarebbe? R. Questa è un’osservazione giusta. La mia tendenza di allora – da qui anche l’errore – era di pensare che la politica fosse l’attività superiore in cui tutte le cose si sarebbero armonizzate e chiarite. Pura illusione. Questa della primazia della politica, su ogni altra sfera del pensiero e anche dell’azione, è una forma ricorrente di estremismo giovanile. 32

D. Però dove non c’è vera lotta politica, ha scritto più di recente, la vita tutta marcisce e la società precipita nella nevrosi. R. Mi richiamavo al protagonista di un racconto di Saul Bellow, un vecchio americano intellettuale ebreo di nome Wulpy. La politica può essere anche una piccolissima cosa rispetto alla dimensione complessiva dell’esistenza: ma quella piccolissima cosa bisogna che esprima onestamente e lucidamente la natura, i contenuti, gli obiettivi degli interessi in gioco. Bisogna dire sempre con chiarezza con chi e contro chi si è. In caso contrario ne nasce un’orribile confusione e tutto ne risulta inquinato e corrotto. D. Oggi Scrittori e popolo non potrebbe riscriverlo. Non c’è più il popolo e gli scrittori scarseggiano. R. È radicalmente mutato il quadro, tanto che quando ho dovuto scrivere l’ultimo capitolo della mia Storia europea della letteratura italiana mi sono imbattuto in più di un problema. Se fino agli anni Settanta riesci a collocare gli scrittori entro categorie definite, già nel decennio successivo il quadro appare disintegrato. Oppure, più semplicemente, io non riesco più a vederlo. Non vorrei sovrapporre la mia esperienza allo svolgimento dei fenomeni reali, però credo che abbia qualche senso il fatto che, mentre riorganizzando il discorso storico sulla materia letteraria fino agli anni Settanta, il panorama si compone di scelte nitide, dagli anni Ottanta in poi, e in misura crescente, questo non è più possibile. Si pensi agli ultimi narratori degni di considerazione: Mazzucco, Ammaniti, Vinci, Giordano... Ognuno di loro, necessariamente, va per proprio conto: la cosiddetta «società letteraria» si è totalmente disintegrata (è un aspetto particolare, del resto, della più generale disintegrazione di una «società intellettuale»). Oggi conta di più il rapporto diretto tra l’autore e una qualche redazione editoriale. Io infatti li definisco «esploratori del magma», esprimendo il massimo rispetto per il loro 33

sforzo di conoscenza e di ri-formalizzazione dell’esistente (anche quando mi sembra che i loro «prodotti» siano, per esprimersi all’antica, letterariamente insufficienti). D. Perché in Italia il rapporto tra politica e cultura è sempre stato così forte? R. Da noi scarseggiano gli intellettuali ascetici, avendo prevalso fin dal principio della storia italiana una stretta relazione tra vicende politiche e intellettualità. Già in La montagna incantata di Thomas Mann, che è del 1924, l’intellettuale cui è simbolicamente affidato il compito di rappresentare una cultura politicamente impegnata, ancorata ai valori illuministici di ragione e libertà, è un italiano, e si chiama (e chissà da dove gli viene questa felice suggestione) Settembrini*. In Italia, dall’Illuminismo in poi, e attraverso tutte le vicende del Risorgimento, quel nesso è sempre stato importantissimo. Negli ultimi decenni il rapporto si è attenuato fin quasi a scomparire, contribuendo al «grande silenzio» italiano. Per capirne le ragioni, forse bisogna ripercorrere a ritroso questa storia. * A questo proposito, il lettore Vincenzo Carone – che ringraziamo – ci segnala una nota di Benedetto Croce nel capitolo XII della sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915: «Fu creduto, e io credetti, che con questo nome [Settembrini] egli [Thomas Mann] alludesse al nostro Luigi Settembrini; ma alcuni anni dopo, in un incontro col Mann in Germania, egli mi confessò di avere ignorato affatto l’esistenza di Luigi Settembrini, e di avere composto quel nome, derivandolo dal ‘20 settembre’!».

Capitolo III

POLITICA E CULTURA

D. Abbiamo detto che nel nostro paese, con rare eccezioni, l’intellettuale è sempre stato immerso nella lotta politica. Quali sono le cause di questa perpetua militanza? R. Come ho cercato di argomentare all’inizio, in Italia, paese profondamente frammentato e diviso, e a lungo sottoposto a una forte egemonia della Chiesa cattolica, gli intellettuali si schierano decisamente a favore di questa o di quella posizione fin dagli albori del processo di unificazione nazionale: cioè, per intenderci, almeno secondo me, dalla metà del XVIII secolo (Illuminismo, ma non solo: perfino alcuni studiosi gesuiti «illuminati» potrebbero essere collocati in questo contesto). Ed è appena il caso di ricordare il ruolo esercitato dagli intellettuali nel corso del nostro Risorgimento. È vero però che l’«impegno» si accentua e si chiarisce soprattutto tra Ottocento e Novecento, quando gli intellettuali risultano fortemente impegnati nella costruzione di qualche cosa che in precedenza non c’era, e cioè l’Italia come nazione: prima in veste di ideologi e organizzatori della cospirazione, più tardi come edificatori di questo organismo assai tardivo e anomalo che è la nazione italiana. È qui che si forma una tipologia intellettuale che segnerà i decenni successivi, caratterizzata da un nesso indissolubile tra politica e cultura: modello che reggerà fino agli anni Settanta e Ottanta, quando subirà 35

(come ho già accennato) un tremendo scossone ad opera di mutamenti strutturali e di esperienze storiche italiane e internazionali. Un personaggio esemplare di questo doppio impegno può essere individuato in Francesco De Sanctis, che si pone esplicitamente il compito di costruire un tessuto ideologico, politico e culturale nazionale. Patriota, ministro della Pubblica Istruzione, critico militante, nella celebre Storia della letteratura italiana (18701871) egli compose la storia civile d’un popolo, dando vita a un’opera che può essere considerata esemplare della rinascita nazionale italiana. Un altro saggio rivelatore dell’atteggiamento etico di De Sanctis è L’uomo del Guicciardini, pubblicato nel 1869: Guicciardini è per lui il prototipo dell’intellettuale italiano colto e sagace, intelligente e sapiente, ma preoccupato unicamente del proprio tornaconto personale, del proprio «particulare», della propria privata «riputazione», astrattamente capace di riconoscere la via giusta, ma «impotente» a batterla. All’«uomo italiano» della decadenza si contrappone l’«uomo italiano» del Risorgimento, pronto a schierarsi e a combattere. D. In sostanza lei dice che l’impegno politico dell’intellettuale italiano è da attribuirsi al ritardo con cui la nazione italiana nasce rispetto alle altre nazioni europee? R. Sì, sono persuaso che questo nesso sia stato così forte e così determinante nella storia italiana proprio perché gli intellettuali vengono chiamati a edificare una coscienza e anche strutture intellettuali nazionali, che nei secoli precedenti non avevano avuto modo di formarsi. In Italia esisteva un problema che altrove neanche si poneva o si poneva in forma molto più attenuata: quello di creare una cultura che, conformemente a quanto si veniva facendo nel campo delle strutture (scuola, alfabetizzazione ecc.), favorisse la crescita di un comune sentire nazionale. Pensiamo al ruolo che nell’istituzione scolastica hanno esercitato personalità come De Sanctis, Gaetano Salvemini, 36

Giovanni Gentile, Lucio Lombardo Radice, per fare solo pochi nomi. Più recentemente un grande linguista come Tullio De Mauro ha dedicato alla scuola italiana molte delle sue energie. Del resto, di questa simbiosi tra cultura e costruzione nazionale è viva la coscienza anche sul piano europeo, come ricordavo poc’anzi a proposito di Thomas Mann. E se si volesse allargare un po’ più lo sguardo, bisognerebbe pensare in Francia a una personalità come Émile Zola e all’importanza europea assunta dall’«affaire Dreyfus». D. Un matrimonio, quello tra cultura e politica, destinato però a mostrare fin da principio qualche irrequietezza. R. Su questo impegno nazional-unitario, determinato dalla situazione storica, si innesta un secondo elemento rappresentato inizialmente dalla giovane intellettualità dissidente e critica di primo Novecento. Essa si muove in una direzione del tutto diversa rispetto all’intellettuale patriota di tipo risorgimentale e nazionale, rompendo schieramenti politici e ideologici organici e organizzati. Ha così avvio un filone costitutivo della storia intellettuale italiana del Novecento, affidato all’idea che i maîtres à penser dovessero influire sulle scelte della politica con i propri strumenti, dunque in modo autonomo e spesso contrappositivo rispetto ai partiti tradizionali e ai loro intellettuali. D. Nasce cioè il progetto d’un «partito degli intellettuali», altra costante della storia d’Italia. R. Sì, nasce la «classe dei colti» di Giuseppe Prezzolini e non è casuale che essa trovi espressione in una rivista che si chiama «La Voce»: i suoi artefici aspirano a essere «una voce» che non si identifica nei partiti esistenti e negli schieramenti dominanti. Manifestano una critica serrata nei confronti dell’esistente. Sono antisocialisti e insieme antigiolittiani (ne parlarono molti anni fa alcuni miei giovani 37

allievi, Abruzzese, Micocci, Strappini, nel bel volume laterziano intitolato appunto La classe dei colti). Il rifiuto dell’Italia contemporanea è totale. «Questa Italia non ci piace» era il loro motto. Nasce una sorta di «psicologia intellettuale collettiva» – se così possiamo chiamarla – che attraverserà anch’essa la storia italiana, anche in tempi più recenti. Questo filone a un certo punto urta clamorosamente – questo è un passaggio fondamentale – con l’insorgenza di una terza ipotesi politico-istituzionale, quella rappresentata dal fascismo, che non è né socialista né giolittiana esattamente come non lo erano loro, gli attivisti della «classe dei colti». In presenza di questa terza strada – che, diversamente dalla loro, si fa pratica e diventa politica e storia – il partito degli intellettuali si dissolve. A quel punto Prezzolini fonda la Società degli Apoti, cioè di quelli che non la bevono, in dura polemica con il suo allievo prediletto, Piero Gobetti. Essa altro non è che la riproposizione d’un partito degli intellettuali che in presenza d’un conflitto radicale, come quello che si manifesta negli anni Venti tra proposta fascista e sistema liberaldemocratico, rinuncia a prendere partito, con il pretesto di «volare alto». Non si schiera, né di qua né di là. Una fenomenologia intellettuale che perdura fino a oggi. D. Sta dicendo che la Società degli Apoti in Italia non s’è mai sciolta? R. È un filone che, spesso senza dichiararsi, attraversa tutto il Novecento italiano. Quando nel 1931 il fascismo impone il giuramento di fedeltà ai professori universitari, soltanto quattordici su circa milleduecento rifiutano di firmare. Non è che tutti gli altri fossero fascisti: la maggior parte apparteneva al perdurante partito degli Apoti, nel senso che giuravano fedeltà a una specie di nicodemismo di massa, cioè la bugia collettivizzata e interiorizzata. D. Una volta lei ha scritto che il corpo letterario italiano è in38

dissolubilmente legato a un destino di sconfitta e di dolore. Estenderebbe il giudizio a tutto il ceto dei colti? R. No, esso mi sembra assai più vano, più ondivago. I grandi letterati sono doloranti, il ceto colto oscilla tra sofferenza e vanità. Il rapporto con il fascismo da questo punto di vista è significativo: solo in pochi si schierano «contro», a costo di sofferenze e sacrifici; la gran parte si piega. Anche la pratica dell’esilio fu molto più forte in Germania; da noi coinvolse soltanto eroiche minoranze. Emigrarono (in fretta) dal loro paese personalità del calibro dei fratelli Mann, di Theodor Adorno, di Walter Benjamin. Quando l’Austria fu invasa, furono costretti a fuggire Sigmund Freud, Franz Werfel e altri. Quando anche la Francia fu invasa, Benjamin, in fuga verso i Pirenei, preferì uccidersi che cadere nelle mani dei nazisti. Dall’Italia scapparono solo gli studiosi più politicizzati, gruppi ristretti di antifascisti militanti. È vero che il totalitarismo nazista ebbe caratteristiche più cruente rispetto al totalitarismo italiano, ma i nostri intellettuali non mostrarono davvero una tempra da resistenti. D. Una pagina ancor più nera fu quella rappresentata dall’ossequio della cultura italiana alle leggi razziali. Le ricerche tratteggiano un’intellettualità codarda, servile, in alcuni casi zelante nel rivendicare il proprio arianesimo. Quando nel 1938 fu diffuso negli istituti di cultura un foglio di censimento per discriminare gli ebrei, l’intero corpo culturale italiano – con la sola eccezione di Benedetto Croce e Gaetano De Sanctis – accettò di compilarlo. Come è stato possibile? R. All’origine di tutto, ancora prima della nascita del fascismo, c’è lo scollamento di ampie zone della cultura italiana rispetto allo stesso modello liberaldemocratico. Non è possibile dimenticare che, quando Mussolini prese il potere, poté contare sul contributo di personalità di alto profilo quali Giovanni Gentile e Alfredo Rocco, Gioacchino 39

Volpe e Luigi Pirandello. Il mondo accademico nazionale presto vi si adeguò, non opponendo resistenza. Questa subalternità, corale e con poche increspature, raggiunse il suo fondo più vergognoso con l’accettazione delle leggi razziali, con il beneficio tratto dall’esclusione degli ebrei dalle università e dalle case editrici, in qualche caso con il delirio di una fiera rivendicazione di arianesimo. Perché accadde tutto ciò? Ma questo è il destino storico della cultura italiana, soprattutto quando non c’è all’orizzonte la possibilità di un’alleanza con una forza o un potere che si presenti seriamente come alternativo. Gli intellettuali, in Italia, si sono sempre adeguati, salvo che nei momenti di più acuta crisi (la Resistenza, ad esempio, cambia le cose per alcuni, soprattutto giovani, se non per molti). D. Il nicodemismo è una malattia nazionale permanente? R. Anche oggi, dinanzi a una democrazia fortemente degradata sul piano politico ed etico, non vedo moltissime sentinelle pronte a lanciare l’allarme. La tendenza più diffusa è quella a «non schierarsi» oppure, ma è più o meno la stessa cosa, a «stare sopra la mischia». Ma sulle analogie che legano il fascismo al berlusconismo torneremo più avanti. Per continuare con la famiglia degli Apoti, essa è andata raccogliendo nel corso dei decenni simpatizzanti organici come Giovanni Ansaldo o Mario Missiroli, non provinciali, abbastanza cosmopoliti ed europei, ex liberali o ex filosocialisti, e pure accomunati agli altri da questo inesorabile, estenuato scetticismo, strumento di qualsiasi opportunismo, e dunque destinati esemplarmente a far da ponte tra il fallimento delle testate indipendenti prefasciste e la soggezione delle stesse testate nel postfascismo alla volontà dei potentati democristiani. È insomma quella tipologia intellettuale che dice male con gran gusto e con grande umorismo del potere, per poterlo poi servire meglio. La frase di Indro Montanelli «Mi turo il naso e invito a votare Democrazia cristiana» è la cifra immortale di 40

un’educazione: poi negli ultimi anni di vita il giornalista si riscuoterà dal suo atteggiamento più consueto, opponendosi a Berlusconi con tutte le sue energie. Berlusconi aveva passato il segno anche per il suo estenuato scetticismo. D. Apotismo in sostanza è collusione con il potere dominante. Il partito di Prezzolini fu sostanzialmente inglobato dal fascismo. R. Sì, il nesso tra politica e cultura riemerge in forma diversa, anzi antagonistica, solo in quelle forze generalmente giovani o molto giovani che non rifiutarono la «scelta», cioè la considerarono imprenscindibile dalla propria vocazione intellettuale. È significativo che questa «scelta» si manifesti fin dal principio nei due indirizzi che costituiranno l’ossatura della cultura impegnata nei decenni successivi: un’opzione liberaldemocratica e un’opzione socialisticomarxista. Dunque, per fare i nomi dei due eroi eponimi, Piero Gobetti da una parte, Antonio Gramsci dall’altra. D. In questa sua ricostruzione colpisce l’assenza di Benedetto Croce. R. La figura di Croce, secondo me, resta ancorata fino alla fine alla stagione liberale postunitaria e prefascista. È importante, ovviamente, anzi importantissima: però volta tutta a riallacciare i fili con il passato. Non a caso è sua l’inverosimile tesi secondo cui il fascismo fu «una parentesi» nella storia italiana. Vorrei però insistere su un nodo essenziale di tale storia. Abbiamo già detto che fin da principio gli intellettuali furono chiamati a collaborare alla costruzione dell’unità nazionale, intesa non soltanto in termini istituzionali, ma come sintesi di diverse tendenze politiche e culturali. Ora va ricordato che il compito fu assunto anche dal fascismo, che non a caso reclutò nel proprio pantheon i medaglioni patriottici di Garibaldi e Mazzini, Cattaneo e Pisacane. Questo significò che anche sul 41

fronte opposto – sia pure in una visione radicalmente rovesciata – fosse stata preminente la questione del contributo dei maîtres à penser alla edificazione dell’identità italiana. Paradigmatico in questo senso il profilo di Antonio Gramsci: fondatore del Pcd’I, dirigente della Terza Internazionale guidata da Stalin, figura quasi leggendaria del comunismo internazionale, eppure egli dedicò larga parte della sua lunga prigionia a riflettere sull’incompiutezza dell’unità nazionale e sul rapporto tra intellettuali e potere politico. Si potrebbe quasi dire che il nesso intellettuali e impegno sia il frutto di una costrizione storica alla quale la nostra cultura è stata piegata per le circostanze tipiche di questa anomala identità nazionale italiana. D. Una vocazione alla quale non ci si può sottrarre. R. Sì, una sorta di «costrizione» storica che più tardi, nell’Italia repubblicana, avrà delle varianti diverse – comunista, socialista, liberaldemocratica, liberalconservatrice, cattolica ecc. – legate ai movimenti sociali e alle trasformazioni del paese. D. Ma se l’intellettualità italiana è chiamata fin da principio a questa missione nazionale, e se i suoi destini sono indissolubilmente intrecciati a quelli dell’identità italiana, oggi che viviamo in un’Italia sempre più frammentata, lacerata, confusa, non possiamo non riconoscerne il sostanziale fallimento o quanto meno l’incompiutezza del compito. R. Su questo non avrei dubbi. Senza enfatizzare il bilancio negativo – l’Italia di oggi nella sua grande imperfezione non è paragonabile al paese diviso tra il dominio asburgico e quello dei Borbone –, l’impresa nazionale non si può ancora considerare realizzata. Anche nella mia recente Storia europea della letteratura italiana, la contemporaneità viene racchiusa tra un capitolo postunitario intitolato «Nascita di una nazione» e un paragrafo conclusivo in42

titolato «Una nazione non nata?», che ne mette in discussione la compiutezza. L’elenco dei problemi è sterminato, quasi angosciante. C’è un problema di unità del paese. C’è un problema di laicità dello Stato. C’è un problema – per dirla con De Sanctis, Gobetti e Gramsci – di «rivoluzione intellettuale e morale». C’è un problema di preservazione dello Stato di diritto. C’è un problema di separazione tra interessi privati e interesse pubblico. C’è un problema di ceto politico, mediocre e autoreferenziale. C’è un problema di alfabetizzazione reale. C’è un problema di priorità nelle politiche delle istituzioni scolastiche e formative. C’è un problema di difesa dell’ambiente. C’è un problema di ricerca scientifica e buona cultura. Insomma, per farla breve, i problemi tipici di «una fondazione nazionale» non ancora iniziata. D. Il ceto colto non se ne può tirare fuori. R. Forse l’aspetto se non più critico almeno più evidente è quello rappresentato dallo scollamento tra il ceto intellettuale, che in qualche modo ha coltivato l’ambizione di essere la coscienza militante di questo popolo, e il popolo che va per suo conto. Le responsabilità sono tante e diverse: gli intellettuali hanno quella di non essere riusciti a dare segnali più concordi e unitari, rifluendo su posizioni di carattere parziale e settario. Hanno scelto di coltivare animosamente e polemicamente (e talvolta faziosamente) ognuno le ragioni della sua «parte», piuttosto che porsi il problema di parlare agli italiani come ad un’entità se non unitaria per lo meno unita tendenzialmente da interessi e caratteri comuni, al di là delle pur inevitabili e feconde divisioni politiche e ideologiche. Ma l’Italia anche da questo punto di vista è sempre stata un paese difficile: il definire «una visione identitaria comune» come l’obiettivo da perseguire può essere considerato in taluni casi il punto di approdo di un percorso tormentato. 43

D. Eugenio Garin, in un libro-intervista curato da Mario Ajello, lamentò una sorta di ignavia dell’intelligenza italiana, sostanzialmente incapace di divenire «una categoria operante» nella società. Questo per ragioni storiche che il grande studioso dell’Umanesimo riconduceva all’assenza di una Riforma religiosa. R. Il giudizio di Garin non mi persuade del tutto. L’anomalia italiana, come ho cercato di dire, comportò al contrario una maggiore rilevanza degli intellettuali negli snodi fondamentali della storia nazionale. Soprattutto nel XIX secolo gli intellettuali ci furono, e mi verrebbe da aggiungere che ci furono anche troppo, nel senso che una loro eccessiva presenza finì per surrogare (o aspirare a surrogare) una classe dirigente fragile e malconcia, nel nostro paese più che altrove. D. Con quali effetti? R. Qualcosa si è combinato se, nel ristretto periodo di due secoli, un’Italia divisa e frantumata in una miriade di Stati e staterelli è diventata un paese unitario, accolta in Europa dopo una vacanza plurisecolare. Non trascurabile, ad esempio, è stato il lavoro di unificazione linguistica. Pur faticosamente, il processo di adeguamento alle strutture mentali e culturali europee è andato avanti. Non mancano, certo, enormi contraddizioni e colossali regressioni: il fascismo rappresentò un gravissimo arretramento, ma anche il berlusconismo può essere considerato tale. Di fronte alla regressione presente, il giudizio sull’educazione civile degli italiani non può che essere sconsolato e in questo l’intellighenzia – come ho già detto – deve assumersi più di una responsabilità. Ma escluderei, nel bene come nel male, una sua irrilevanza nella storia nazionale. D. Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi de44

gl’Italiani, Leopardi rilevava la non coincidenza tra «opinioni» e «costumi». Un’anomalia che si ripete? R. Secondo Leopardi, nel corso dei decenni precedenti – il testo in questione risale molto probabilmente agli anni 1824 o 1826-27 – l’Italia s’era avvicinata alle altre nazioni europee più progredite. Ma la «conformità» delle «opinioni» non era arrivata tuttavia a influenzare allo stesso modo i «costumi», i quali erano restati qui da noi «notabilmente diversi dagli altri popoli civili». Bellissima proposizione di tesi: le «opinioni» non coincidono necessariamente con i «costumi». In sostanza, si tratta dello scollamento a cui alludevo prima. Il giudizio di Leopardi, in genere pesantemente critico, sull’incivilimento e sul progresso è noto. Non c’è più una sola nazione civile in Europa – sosteneva – in cui la convivenza abbia un fondamento morale davvero consistente. E però: in Francia, in Inghilterra, in Germania agisce al tempo stesso un principio di coesione che salva le società dal caos, e questo secondo Leopardi è la società stessa, ovvero quel «commercio più intimo degl’individui fra loro», che fa sì che le nazioni civili più progredite si comportino quasi come «una famiglia» (Leopardi la definisce «società stretta»). In Italia nulla di tutto questo: l’eventuale avanzamento delle opinioni, considerato in astratto, non produce di conseguenza effetti positivi sulla società. Quello tratteggiato da Leopardi è un grande affresco italiano, ancora prezioso per comprendere il nostro paese, soprattutto il nostro modo di essere di fronte alla cultura. Mi soffermerei solo su di un dato: scritto negli anni Venti dell’Ottocento, il testo fu pubblicato soltanto nel 1906. Analogo destino capitò a un altro bellissimo saggio, Frammento sulla rivoluzione nazionale di Ippolito Nievo, che investiga con altrettanta efficacia le deficienze della vita culturale nazionale e lo scollamento tra le plebi contadine e il potere: scritto tra il 1859 e 1861, fu pubblicato nel secolo successivo. 45

D. Che cosa se ne ricava? R. È singolare che questi scritti non vengano conosciuti dai contemporanei: segno anche questo di disinteresse, persino di una sconsolata sfiducia nella loro efficacia da parte dei loro stessi autori. La storia che stiamo ripercorrendo è sicuramente storia di minoranze che non riuscirono mai a divenire maggioranza. A questo scarto Gramsci ha dedicato larga parte delle riflessioni dal carcere, e da allora non molto è cambiato. Forse dobbiamo concludere che l’elaborazione di un più corretto rapporto tra la cultura degli intellettuali e l’antropologia italiana non è riuscita. D. Bobbio rilevò questo scollamento a proposito degli anni Cinquanta, ma forse lo si potrebbe estendere con qualche parentesi per diversi decenni: da una parte una cultura «illuministica», «vivace», «irrequieta»; dall’altra una politica «oscurantistica», attraversata da «tentazioni reazionarie», sostanzialmente «immobile». R. Dal 1945 fino al decennio dei Settanta, con qualche interruzione, quella italiana è stata prevalentemente una cultura d’opposizione, nitidamente orientata verso un mutamento degli assetti politici, sociali, economici e istituzionali dell’Italia risorta sulle ceneri del fascismo. È in quest’ambito che si dispiegò l’egemonia culturale della sinistra, sui cui risultati ci si può interrogare a lungo, ma non sulla reale influenza dei suoi artefici. Parlo di egemonia, non di dittatura culturale di Botteghe Oscure, come si è sempre più comunemente frainteso: esisteva un libero mercato di consumi culturali, la scelta non era certo frutto di un’imposizione.

Capitolo IV

LA SINISTRA TRA EGEMONIA E CATASTROFE

D. Che giudizio dà della cosiddetta «egemonia di sinistra» sulla cultura italiana nell’arco più o meno di mezzo secolo, tra il 1945 e il 1989? R. Innanzi tutto bisogna dire che essa nacque da dati reali, non da manovre di corridoio. L’Italia usciva dal fascismo: a beneficiarne, dal punto di vista dell’influenza sugli intellettuali, fu soprattutto il Partito comunista, che di quella lotta era stato innegabilmente il principale protagonista. Poi il partito si attrezzò presto per «coltivare» questa influenza: la cosa presentò molte durezze, e io ne sono stato talvolta protagonista e vittima, ma dimostrava un’attenzione che spesso si tradusse in potere reale (si pensi a quella straordinaria e ingegnosa creazione che fu nel Parlamento italiano il gruppo della Sinistra Indipendente, dove lavorarono in sostanziale autonomia intellettuali non iscritti di grande valore, da Luigi Anderlini a Luigi Spaventa e Stefano Rodotà). Non bisogna dimenticare che in quello stesso periodo, fino agli inizi degli anni Ottanta, vige una più reale e indiscussa egemonia, quella democristiana, che invade pesantemente i vari campi dell’organizzazione politico-culturale, dalla scuola e dall’università fino alla televisione. Avversarla divenne il compito fondamentale della cultura di sinistra, che su questo costruì, del resto molto faticosamente, le sue fortune. Quando io sono 47

entrato all’università, agli inizi degli anni Cinquanta, di sinistra eravamo quattro gatti, altro che egemonia! Poi le cose sono cambiate, ma non automaticamente, bensì come frutto di una battaglia pluridecennale, che io tutto sommato continuo a considerare positiva. La scuola, ad esempio, ha acquisito lentamente un profilo laico e liberale anche in conseguenza di tale lunga battaglia: per questo oggi è tanto odiata e la si vuole distruggere. In seguito, e sia pure per un breve periodo, all’egemonia democristiana è subentrata quella craxiana, anticamera del berlusconismo. Capirai! Come si poteva non essere di sinistra, e magari di estrema sinistra, in presenza di un tale processo degenerativo? Questi sono dati reali, non chiacchiere da salotto. D. In questo processo, tuttavia, non mancarono esclusioni, conformismi, intolleranze anche gravi. R. Senza dubbio. Nell’apparato dell’organizzazione culturale comunista ci furono molti intolleranti e dogmatici (ma anche, ad essere sinceri, alcuni dirigenti di orientamento liberale, se così si può dire). Nego però che ci siano state distorsioni profonde, soprattutto di natura costrittiva. Non leggevamo, è vero, Popper e Hayek (Aron sì, però, e piuttosto interessatamente). Non li leggevamo perché preferivamo Marx e Nietzsche, Benjamin e Adorno... anche Lukács e Brecht e Mann e Musil e Babel’... E allora? Ho sotto il naso l’ultimo catalogo della casa editrice Einaudi, 1933-2008: splendido esempio di una casa editrice di sinistra, sostanzialmente aperta e tollerante, anche se tra difficoltà, incomprensioni, rotture, e anche se non pubblicava Popper (ora però, a dir la verità, anche lui). E la Laterza, dove la mettiamo? Strumento anch’essa dell’oppressivo regime culturale comunista, visto che ha pubblicato testi di Carlo Muscetta e Rosario Villari, Tullio De Mauro e Giuliano Procacci, Lucio Colletti (il Colletti di un tempo, fervidamente comunista, intendo) e Asor Rosa? E, tanto per restare a un personaggio simbolo della cultura 48

non comunista (pur essendo stato comunista anche lui da giovane, come tanti altri), e cioè Renzo De Felice, la sua monumentale biografia di Mussolini l’ha pubblicata Einaudi, la sua intervista sul fascismo con Michael Ledeen è uscita da Laterza. E allora? Questa, non altra, è la cultura sostanzialmente laica e moderna, fortemente innovativa, che ha influenzato la scuola e l’università italiane e tuttora impedisce loro d’essere egemonizzate dalla degradante – questa sì – ideologia oggi dominante. Insomma, bisogna stare attenti: l’effetto disgregatore del «neorevisionismo» è arrivato a stravolgere perfino la storia dell’Italia repubblicana e democratica. D. È indubbio che per circa quattro decenni il Pci abbia esercitato un’influenza significativa sul ceto colto. R. Sì, fin da principio apparve come l’interlocutore più naturale. Nell’immediato dopoguerra il Partito comunista usciva libero da compromissioni con il fascismo e prometteva una società nuova. L’egemonia in Italia nacque così, rafforzata dal messaggio internazionale di liberazione e progresso lanciato dagli anni Venti dal comunismo in Europa, in Oriente, negli Stati Uniti e in parte del Sudamerica. Messaggio che nel nostro paese – per le ragioni che abbiamo illustrato – fu consapevolmente innestato su una tradizione nazionale. D. Antonio Gramsci con i Quaderni sembrò offrire all’intellighenzia uno strumento formidabile. R. Togliatti colse l’originalità del pensiero gramsciano, così diversa dalla rozza ripetitività del marxismo d’impronta staliniana. Il suo fu un capolavoro politico-culturale: i Quaderni divennero un caposaldo della cultura comunista in Italia, che così fu ancorata alla tradizione nazionale. L’operazione di Togliatti fu essenziale per la costruzione di un partito bifronte che, pur legato saldamente all’Unione So49

vietica, si radicava nella storia italiana. È nello stretto rapporto del Pci con la tradizione culturale nazionale che vanno cercate le ragioni del consenso di larghissima parte dell’intellettualità italiana. Non bisogna poi trascurare un elemento essenziale: affidandogli la lotta per il cambiamento sociale, Gramsci rimarca la centralità del ceto colto, appagato nella sua ansia di protagonismo. Sono convinto che l’essere stati chiamati, come ceto oltre che come individui, a far parte del disegno strategico della rivoluzione comunista italiana abbia costituito un elemento di grande seduzione. D. Il riformismo storicamente ha esercitato meno fascino. R. Il Pci ha offerto agli intellettuali una possibilità che al maître à penser piace moltissimo: una prospettiva di palingenesi radicale, di trasformazione globale, che va oltre l’occasione nazionale. D. Quel che si capisce meno è perché il fervore delle intelligenze non sia stato raffreddato dalle notizie che arrivavano da Mosca, tra purghe staliniane e persecuzioni feroci. R. Penso che in Italia tutto ciò sia arrivato molto tardi. Paradossalmente il regime fascista con le sue censure ha impedito tra i comunisti una libera discussione sull’involuzione del regime sovietico, con l’effetto di rimandare la questione all’indomani della Liberazione. D. Discussione che in realtà è stata ritardata di parecchi decenni. Anche Pietro Ingrao ha raccontato che sul finire degli anni Trenta qualche notizia cominciò a circolare, ma si preferì guardare altrove. R. Quando si ripercorre quella stagione, bisognerebbe fare lo sforzo di non astrarsi dal clima ideale in cui erano immersi simpatizzanti e iscritti: perfino le accuse più infami che venivano mosse ai dirigenti del comunismo interna50

zionale – tradimento, collusione – potevano essere tranquillamente considerate attendibili e al tempo stesso messe da parte, considerate trascurabili rispetto agli effetti, positivi, del grande movimento storico complessivo. D. Un accecamento collettivo? R. No, qualcosa di diverso. A vent’anni lessi Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, un libro straordinario, scritto da un comunista che aveva smesso di esserlo. D. Uno dei più straordinari atti d’accusa contro lo stalinismo. Ma lei lo lesse quando era già iscritto al Pci? R. Sì, avevo già cominciato a frequentare la cellula universitaria alla Sapienza di Roma, insieme a Mario Tronti, Umberto Coldagelli, Gaspare De Caro e altri miei compagni della facoltà di Lettere e Filosofia. Tra i più «grandi» ricordo Paolo Chiarini, Renzo De Felice, Cesare Garboli. Nell’ambito della mia disciplina, la letteratura italiana, tra gli iscritti al Pci figuravano studiosi di primo piano come Natalino Sapegno, Carlo Salinari, Carlo Muscetta. Tra gli scienziati, Marcello Cini, Giulio Cortini e Giovanni Berlinguer. Il nostro, in particolare, era un gruppetto di «smandrappati» decisi a recuperare la verità dal verbo marxiano. Alla curvatura storicistico-idealista sostenuta dal modello di Gramsci opponevamo direttamente il materialismo di Karl Marx, ma di questo ho già detto. Oggi non saprei spiegare con lucidità le ragioni di quell’innamoramento. Forse c’entra qualcosa il fatto che noi eravamo tutti intellettuali di prima generazione, anzi, se si può dir così, di primissima generazione: alle nostre spalle non c’era un solo professore o avvocato o medico o giornalista, ma solo modesti impiegati di concetto, piccolissimi borghesi o contadini o semplicemente dei proletari. Insomma, venivamo dal basso: e chi viene dal basso, e tende a salire, o si corrompe o è costretto a fare resistenza. Noi abbiamo scelto la seconda. Del resto, 51

non ci mancavano alcuni battipista di prim’ordine: ci influenzò molto in questo senso un giovane e brillantissimo professore di filosofia, Lucio Colletti, con cui nei decenni successivi non sarebbe mancata la discussione. D. Lei veniva anche da una famiglia di sinistra. R. Mio padre Alessandro era un ferroviere di salde convinzioni socialiste. Un progressista autentico e coerente, per tradizione famigliare e per attitudine antropologica. Fu lui ad educarmi al valore della politica, fin da bambino. Nella Roma occupata dai tedeschi, svolgeva attività clandestina, con materiali propagandistici nascosti sotto la soletta delle scarpe. Ho ancora negli occhi la piazza dei Re di Roma, a un tiro di schioppo da casa nostra, dove nel 1946 sfilammo con decine di migliaia di persone per sostenere la Repubblica. Io poi lo sorpassai a sinistra, iscrivendomi al partito di Togliatti. Ero persuaso che occorresse un passo in avanti, dal riformismo alla rivoluzione. Ma la mia formazione politica avvenne anche nella biblioteca del Dopolavoro ferroviario, di cui mio padre fu uno dei dirigenti. A lui e a mia madre Assunta ho dedicato di recente un «racconto politico» intitolato Le formiche: senza le «formiche», lavoratori tenaci e integri, l’Italia sarebbe andata a rotoli. Continuo a credere nella funzione salvifica delle «formiche». D. Quando s’iscrisse al Pci? R. Sarà stato il 1952, al mio secondo anno di università: fu il segretario nazionale della Fgci a consegnarmi la tessera in mano, in un locale della sezione Salario. Enrico Berlinguer pronunciò scarne parole, taciturno e indecifrabile. Fu una cerimonia per me molto solenne. Non avevo ancora vent’anni. D. Conobbe mai Palmiro Togliatti? 52

R. Sì, a una manifestazione che si tenne al cinema Quattro Fontane. Fui incaricato di fare l’intervento a nome della Sezione universitaria. Parlai subito prima di lui. Alla fine mi fece dei complimenti. Alla sua maniera: poco espansivo, essenziale, eloquio da professore universitario. Mi colpì molto questa sua aria intellettuale, accompagnata da una naturale freddezza di comportamenti, riconducibile al suo drammatico soggiorno moscovita in situazioni molto difficili. Stargli accanto mi parve una cosa quasi impossibile. D. Tornando al libro di Koestler, i suoi argomenti non furono tali da dissuaderla? R. No. Ma la spiegazione è fornita dallo stesso Koestler, quando con un colpo di genio descrive alla perfezione il meccanismo grazie al quale anche la confessione d’una colpa non commessa – confessione alla quale è costretto il dirigente comunista giudicato traditore – potesse rappresentare per lui l’ultima grande manifestazione di fede e di fedeltà agli ideali del comunismo. Un meccanismo aberrante, ma allora condiviso da molti. Voglio dire che non bastavano le denunce delle nefandezze staliniane per arrivare a un’esplicita sconfessione del comunismo da parte di molti intellettuali del tempo. D. Un atto di fede, più che una scelta politica. R. Oggi è difficile spiegarlo, perché si presume che il rapporto tra verità ed errore sia univoco e che chi non è colpevole semplicemente non debba essere perseguito. Allora la percezione era radicalmente diversa: anche se la vittima era consapevole della sua innocenza, e di conseguenza non gli sfuggiva la perversione manifestata dal potere comunista, si lasciava andare alla confessione come supremo sacrificio personale, nella inscalfibile convinzione che il processo storico del comunismo andasse avanti nono53

stante i colossali errori. Per capire come siano andate le cose, bisognerebbe essere non più indulgenti ma più comprensivi delle dinamiche di quei meccanismi. D. Ma il libro di Koestler non lo trovò nella biblioteca di sezione. R. No, allora frequentavo una biblioteca americana in via Veneto, l’Usis. La sigla sta per United States Information Service. Gli Stati Uniti avevano creato dei centri culturali con il proposito di arrestare le correnti filocomuniste all’epoca molto diffuse. La frequentavo perché il prestito era molto facile, una straordinaria opportunità per chi come me non aveva un soldo. Oltre a Koestler, lessi anche Il dio che è fallito, una raccolta di testimonianze sul comunismo di Ignazio Silone, Stephen Spender, Richard Wrights e altri fuoriusciti. Ma anche in questo caso non fui dissuaso dal continuare a militare nel Pci. Pur non guardando a questi testimoni con ostilità stalinista – cosa che nella vita non credo mi sia mai capitata – li consideravo come attori di un processo più complessivo, la cui causa finale era assai più importante della catena eventuale di «errori» e «deviazioni». D. Insomma, divenne comunista leggendo libri anticomunisti in una biblioteca statunitense. R. Sì, la sintesi può apparire paradossale, ma fu così. In fondo anche la biblioteca di via Veneto era manifestazione di quella grande e contraddittoria democrazia che è l’America. Fu in quel periodo che, come ho già ricordato, lessi furiosamente Marx, Nietzsche e Freud. Se fossi stato in Unione Sovietica, sarei finito davanti a un plotone d’esecuzione. Trovandomi in Italia, mi sono limitato ad ascoltare le rampogne prima di Emilio Sereni, poi di Carlo Salinari e Mario Alicata: tutte persone di gran54

de intelligenza, ma pervertite dalla totale soggezione alla ragione di partito. D. Per molti comunisti – lo rievoca con efficacia Nello Ajello in Intellettuali e Pci – la militanza nel partito è stata esperienza esistenziale prima ancora che politica. Per lei? R. Sì, certo: era un’esperienza che andava al di là della militanza stretta, con coinvolgimenti che oggi sarebbe facile giudicare senza dubbio eccessivi. Agiva l’idea che occorresse essere diversi in tutti i campi, nei rapporti umani e nell’interpretare la storia, nei sentimenti privati e nelle questioni morali. Nasceva allora quella che con enfasi è stata definita la «diversità comunista», il sogno di rinnovamento totale. D. Che per lei e altri s’infranse nell’ottobre del 1956, con la repressione della rivolta ungherese. R. Qualche incrinatura c’era stata anche prima, nel marzo del 1955, con la sconfitta della Cgil alle elezioni per le commissioni interne alla Fiat. Avevano trionfato i sindacati autonomi e la Cisl. Per alcuni di noi fu un trauma. Il crollo della Cgil ci rivelò che il rapporto tra il Partito comunista e la classe operaia non era in sé per sé organico e indistruttibile. Qualcuno potrebbe obiettare: non ci voleva molto a capirlo! Ma nel 1955... Poi in Ungheria questa dialettica esplode: da una parte il Circolo Peto´´fi e gli operai delle fabbriche che propugnano un comunismo dal volto umano, facendo i conti con la tradizione della democrazia borghese; dall’altra i carri armati mandati da Mosca. E, ancora, la prigionia di Lukács, deportato in Romania, più tardi l’impiccagione di Nagy. Mi apparve difficile accettare l’idea che per difendere il socialismo nel mondo fosse necessario prendere a cannonate la classe operaia ungherese e impiccarne o deportarne i rappresentanti intellettuali più prestigiosi. La pubblicazione del Rapporto Chrušcˇëv sui crimini 55

dello stalinismo fece il resto, e i principali nodi vennero al pettine. All’università cominciarono assemblee infuocate. D. Il Pci vi mandò Pietro Ingrao. R. Sì, secondo una consuetudine tipica del partito: inviare dai dissenzienti il dirigente a loro più vicino. Lo guardavamo con ammirazione e rispetto, ma non ricordo nessuna incrinatura nella sua ortodossia. Nell’autobiografia Ingrao ha raccontato che fu uno dei periodi più tormentati della sua lunga militanza, e non ho ragioni per non credergli: ma né nei raduni universitari, né negli incontri all’«Unità» con le delegazioni studentesche, né nella grande assemblea in Federazione, che allora era in centro, in piazza Sant’Andrea della Valle, egli manifestò un minimo cedimento. Se devo dire tutta la verità, sembrava perfettamente convinto di quel che diceva. Se non lo era, questa è la testimonianza di come «tempi di ferro» richiedessero «comportamenti di ferro». L’ipocrisia, la finzione, il mascheramento facevano parte di questa situazione: la guerra era finita – tuttavia neanche da troppo tempo, eravamo nel 1956, erano passati poco più di dieci anni – però un’altra ne era cominciata, anche più subdola e più globale, quella «fredda»; e ritenevamo non improbabile che da lì a poco ne cominciasse un’altra ancora, la terza guerra mondiale. «Non dire la verità», se la situazione lo richiedeva, era obbligatorio per un «rivoluzionario di professione». Chi dimentica questo tratta la conoscenza storica come una barzelletta. D. Anche lei firmò la lettera dei Centouno, il documento della ribellione culturale romana. R. Sì. Poi non rinnovai la tessera e la faccenda finì lì: senza clamori, ovviamente. Alcuni – ma soltanto alcuni – uscirono tra grida ed eccessi: fu l’occasione per costruire nuove carriere. Molti altri seguirono percorsi più seri, ad 56

esempio Antonio Giolitti e Alberto Caracciolo, che diedero vita a una rivista molto importante, «Passato e presente», finendo per confluire naturalmente nel Psi. D. Nel rievocare recentemente il Cinquantasei, il suo bilancio sul conformismo dei militanti comunisti è apparso molto malinconico. R. Attenzione: l’ultima cosa che potrebbe venirmi oggi in mente è prendermela con «il popolo comunista» che nella sua stragrande maggioranza scelse nel 1956 il partito. Semplicemente, esso non fu neppure toccato da quella ventata critica. Al contrario, la percepì come un pericolo, come un attacco demolitore, da fronteggiare in modo intransigente. Quando facevamo le nostre assemblee nella sezione Italia, dove confluivano molti lavoratori dell’Atac – eravamo a due passi dal deposito dei tramvai e degli autobus vicino alla Stazione Tiburtina –, quei compagni ci guardavano come delinquenti. La fedeltà superava ogni ostacolo: se Togliatti indicava una strada, bisognava seguirla. Senza discussioni. D. Il rapporto tra politica e intellettualità, al contrario, subì allora un primo scossone. R. Sì, c’era già stato il divorzio tra Vittorini e Togliatti, ma solo con il Cinquantasei avvenne il primo importante strappo. Fu il principio di una scoperta anche dolorosa, per noi intellettuali presunti «organici»: la rivelazione improvvisa e perciò tanto più traumatica che i politici seguono logiche proprie, non sempre coincidenti con quelli che, a un diverso tipo di osservazione, potrebbero apparire «interessi generali». La differenza rispetto all’oggi è che per una lunga fase, perlomeno nei politici comunisti, l’interesse di gruppo, l’«etica della comunità», ha prevalso sull’interesse individuale, e questo stabiliva una qualche regola, e perfino un insieme rigoroso di comportamenti 57

(che nel gruppo dirigente comunista fu a lungo fortissimo: Enrico Berlinguer ne fu un rappresentante esemplare). Esaurito il primo, gli interessi individuali sono venuti dilagando in maniera clamorosa. D. Italo Calvino, anche lui fuoruscito, espresse questa disillusione con le parole del protagonista della Giornata di uno scrutatore: in politica contano solo due principi, «non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire». R. L’uscita dal Pci non comportò infatti il disimpegno. S’incrinò quel modello organico, ecclesiale, che aveva caratterizzato la sinistra intellettuale fino al Cinquantasei. Ma certo non tramonta l’engagement, che assume modalità differenti. D. A che cosa si riferisce? R. Il decennio successivo, quello degli anni Sessanta, può essere letto come un lungo processo di liberazione di energie e fermenti che vanno al di là degli schemi tradizionali, dunque non più identificabili nelle ideologie dei partiti politici. Ho già accennato alla nostra esperienza operaista, affidata alla volontà di disfarsi del «ciarpame ideologico». Esaltante fu la scoperta di una realtà che fino a quel momento era rimasta nascosta dietro il discorso degli altri, l’ideologia appunto. Ci sembrò di percorrere, ma in pratica, nella nostra esperienza, il cammino di Marx e di Engels per arrivare alla grande «decostruzione» dell’Ideologia tedesca. Non bisogna dimenticare inoltre che in quegli anni muta clamorosamente il paesaggio umano italiano, con la crescita di una gigantesca classe operaia di fabbrica. In poco tempo cambiò il volto dell’Italia. I lavoratori impiegati nell’industria superarono di gran lunga quelli impiegati nell’agricoltura. È lecito domandarsi se si consolidi allora anche una «borghesia» di tipo tradizionale, con precise 58

ambizioni culturali e di governo. Alcuni osservatori come Eugenio Scalfari lo escludono, rilevando che l’atteggiamento prevalente nel ceto proprietario è rappresentato in questa fase dalla delega al ceto politico dominante, ossia la Democrazia cristiana, di quanto attiene al «pubblico» e al «sociale». Non mancarono gli esiti perversi. D. Il bersaglio da colpire, a sinistra, è quella tradizione Croce-De Sanctis-Gramsci che aveva costituito nel decennio precedente il modello ufficiale. Abbiamo già detto del suo Scrittori e popolo. Ma si potrebbe citare anche la metafora inventata da Arbasino della mancata gita a Chiasso, cioè il rifiuto di sprovincializzare la cultura italiana. R. Sì, cambia un po’ tutto rispetto alla fase della supremazia ideologica dello storicismo comunista. Sono gli anni in cui Umberto Eco pubblica Opera aperta e Apocalittici e integrati, i tentativi più riusciti di comprendere la nuova società di massa e la letteratura di massa. Esplode la neoavanguardia con il Gruppo 63. Tullio De Mauro licenzia la sua Storia linguistica dell’Italia unita, un lavoro radicalmente innovativo perché investe anche storia sociale e storia delle istituzioni scolastiche: lo studioso rivoluziona tutti i criteri per la ricostruzione storica delle vicende linguistiche nazionali e apre una prospettiva straordinaria di studio e confronto sui rapporti tra lingua e società, lingua e dialetti, lingua letteraria e lingua d’uso. È il momento in cui Franco Fortini scrive Verifica dei poteri, mostrando la consapevolezza di dover fare i conti con un’industria culturale che tende a integrare critici e scrittori all’interno dei propri meccanismi di mercato. Sempre in quegli anni don Milani firma con i suoi alunni di Barbiana Lettera a una professoressa, argomentata contestazione del modello scolastico dominante. Potrei continuare a lungo, ma forse è necessaria una sintesi: fu uno dei periodi più intensi nel tentativo di adeguare gli strumenti intellettuali alle nuove realtà sociali e antropologiche di un’Italia in radicale trasformazione. 59

D. Che cosa è rimasto di tutto ciò? R. Nella pur rapida storia che stiamo tratteggiando, quella è forse l’ultima stagione in cui il pensiero ha cercato di cambiare la realtà, e in parte vi è anche riuscito. Se mi è consentito usare la metafora leopardiana, quello è un periodo in cui le «opinioni» cambiano i «costumi» degli italiani. Viene meno – e tutto sommato io penso per sempre – una certa concezione gerarchica e familistica del nostro popolo. Irrompono sulla scena prendendosi la parola, in taluni casi per la prima volta, le cosiddette classi subalterne e – non dimentichiamolo – i giovani, le nuove generazioni, intese come protagoniste effettive del processo. Il quadro sarebbe incompleto se non ricordassimo che in quegli anni, tra i Sessanta e i Settanta, esplode anche in Italia una straordinaria rivoluzione femminista. In una ricostruzione storica diversa da quella cui io, per anagrafe e biografia, sono più incline, tale esperienza rivestirebbe – e giustamente – un ruolo molto maggiore. Quel che io mi sento di dire è che le donne, imponendo le loro presenze e le loro culture, spezzano per un verso anch’esse le vecchie egemonie mono-ideologiche e mono-partitiche (rappresentano cioè un ulteriore elemento di crisi del sistema da cui siamo partiti, ma da intendersi – questo sì – in senso positivo). Per un altro verso le donne introducono nel dibattito e nel movimento alcune novità di portata eccezionale. Per esempio, nozioni diverse di soggettività e oggettività, di partecipazione ed esclusione. Cambia tutto: dagli statuti delle singole discipline scientifiche ai modi di vita praticati, anche i rapporti tra le persone. Cos’altro sono l’introduzione del divorzio, nel 1970, e quella dell’aborto, nel 1978, ambedue confermati da referendum vinti nelle urne, se non il frutto di questo processo di laicizzazione della società italiana, in cui le élites intellettuali – questa volta per giunta di uomini e donne – hanno avuto un qualche peso? Certo, il fatto che noi oggi siamo qui a difendere quella laicizzazione contro il degrado 60

morale e intellettuale del berlusconismo e contro la reazione clericale è il segnale della nostra presente sciagura. Ma appunto perciò non è bene dimenticare quanto allora è accaduto. D. Noi fin qui abbiamo parlato della cultura d’opposizione. Ma anche il centro-sinistra riformatore si nutre del contributo dell’intellighenzia liberal rappresentata dal «Mondo» e dai suoi celebri convegni. Furono numerosi gli studiosi d’eccellenza che sostennero quella esperienza di governo, da Giorgio Ruffolo a Franco Momigliano, da Paolo Sylos Labini a Federico Caffè e Luigi Spaventa. L’operazione condotta nel Psi da Antonio Giolitti fu supportata dai repubblicani di Ugo La Malfa e anche da esponenti della cultura cattolica come Pasquale Saraceno. R. Sì, certo, sul versante riformista, anche grazie all’operato di Riccardo Lombardi, la vivacità fu notevole. Naturalmente noi vedevamo ancora quel tentativo riformatore come un cedimento all’egemonia capitalistica. D. Ma non è stata una grande occasione mancata? Visto «lo stato presente dei costumi degli italiani», ripensando a quella esperienza starebbe ancora tra i contestatori, tra gli «estremisti»? R. Queste domande appartengono al genere della storia retrospettiva, un genere che mi persuade poco e non mi appassiona. Sono ragionamenti un po’ difficili da sostenere fuori dal clima di quegli anni. Insomma, la parola d’ordine che fosse necessario superare nei suoi cardini fondamentali il sistema capitalistico – da noi giudicato come sistema di sfruttamento e di oppressione – era talmente forte che impediva di vedere i vantaggi di una possibile correzione di quel sistema da parte del riformismo. D. Il conflitto classico tra riformismo e rivoluzionarismo. 61

R. Sì, ma anche qualcosa di più: un conflitto che oggi è difficile sciogliere con un astratto giudizio di merito, senza entrare nelle atmosfere storiche corrispondenti. Allora gran parte di noi confidava in un’istanza di trasformazione globale, che andava oltre le nazionalizzazioni e il possibile miglioramento della macchina statuale. Del resto, il movimento sociale allora in atto, al quale presumevamo di cooperare, era di proporzioni tali da potervi non illegittimamente costruire sopra una strategia. Tornando alla sua domanda, io oggi non mi ritroverei totalmente nelle scelte radicali d’un tempo, o meglio: anche una minima progressione mi sembra una conquista importante. Sono allora diventato riformista da rivoluzionario? Non lo so se il passaggio possa essere definito in questo modo. Forse sono solo cambiati i parametri di riferimento. Visto che il riformismo oggi fa pena, quando non fa schifo (anche Berlusconi si proclama riformista), forse è diventato più evidente che anche un cambiamento limitato e parziale potrebbe avere un impatto radicale sul «sistema» com’è venuto via via costruendosi. In campo ambientalista, ad esempio, la cosa è del tutto evidente: si tratta di difendere palmo a palmo quel che c’è ancora da difendere e di riconquistare trincea dopo trincea il terreno perduto. In quest’ambito che cos’è «rivoluzionario» e che cos’è «riformista»? Si tratta, se è possibile, di vincere una battaglia dopo l’altra. Alla fine si vedrà cosa avremo combinato. D. Prima lei parlava degli anni Sessanta come la stagione più intensa del «pensiero al potere». L’ultima fiammata si consumò nel Sessantotto? R. Sì, questa è sempre stata la mia tesi: il Sessantotto rappresentò il punto di arrivo di quella stagione, non il punto di partenza. Fu la manifestazione più aperta e anche più positiva delle conquiste fino ad allora realizzate. Potremmo riprendere qui il discorso iniziato in precedenza sul nostro impegno operaista. Naturalmente, lungi da me il 62

convincimento che quell’improvvisa accelerazione e massificazione del movimento dipendesse da quel che noi prima avevamo pensato e tentato di fare. Con la maggiore discrezione possibile, non mi pare però illegittimo stabilire almeno delle relazioni: noi avevamo visto un processo in movimento; a un certo punto, quel processo assunse dimensioni tali da diventare «storia». Mi pare giusto ricordare che solo in Italia – solo in Italia, in tutto il mondo – movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente, tendendosi la mano. Dov’altro mai, e quando mai, è accaduta una cosa del genere? Il deprezzamento del 1968-69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni. Si dimentica che questo è stato un punto alto della storia d’Italia, un momento europeo e internazionale, come in Italia ne capitano pochi. Cambiò il modo di considerare la politica. Si fece politica di massa anche fuori dei partiti. Le donne conquistarono un posto che prima non avevano. Partiti e sindacati furono costretti a prenderne atto, a registrare i loro obiettivi e le loro metodologie organizzative. Insomma, l’Italia diventò più libera rispetto al proprio passato. E gli intellettuali, piccoli e grandi (che altro sono gli studenti se non intellettuali in formazione?), vi recitarono una parte non certo minore, e sicuramente positiva. D. Lei vi partecipò da protagonista. Però fu anche contestato dagli studenti. R. Alcuni ragazzi calarono dall’alto della facciata del rettorato universitario, alla Sapienza, un gigantesco striscione verticale con su scritto: «Asor, sei un palindromo». Ci si riferiva al fatto che da una parte avevo sostenuto il movimento, dall’altro non appartenevo alla schiera dei «ringiovaniti». D. Chi erano i «ringiovaniti»? 63

R. Quei professori quarantenni e cinquantenni che si collocarono dentro il movimento studentesco come fossero studenti di primo pelo. Io, in fondo, avevo solo trentacinque anni, il travestimento avrebbe potuto essere più credibile. Però non l’ho mai fatto, perché non mi sembrava giusto. Le identità rimangono: si può camminare affiancati, ma non tentare impossibili confusioni. Poi c’era la questione del voto di gruppo all’esame: io distinguevo tra l’interrogazione, che può essere anche collettiva, dalla valutazione, che deve essere necessariamente differenziata. Per questo ero considerato da taluni un «reazionario», o meglio un palindromo: in quel caso, uno che gioca su due tavoli. D. Però lei stesso ha scritto d’essere un intellettuale con vocazione palindromica, nel senso di difficilmente incasellabile. È stato anche coniato il neologismo di «asorrosismo», alludendo a una sua persistente eterodossia nell’ortodossia, e viceversa. Nel nome una vocazione? A proposito di questo singolare cognome, mi può raccontare l’origine? R. Pare sia stata una curiosa operazione compiuta da un antenato bolognese, negli anni Trenta del XIX secolo. Si chiamava Alessandro, proprio come mio padre. E faceva il mugnaio. Qui entriamo nella mitografia famigliare, ma pare che il mugnaio Alessandro avesse due famiglie: una regolare, che portava il più normale e diffuso cognome Rosa; l’altra illegittima, ma che egli fu costretto dall’allora governo pontificio a riconoscere. Con quale nome? Non poteva estendere alla famiglia spuria il cognome dell’altra. Qui il colpo di fantasia, non sappiamo se del mugnaio o del parroco: fu accostato alla parola Rosa il suo contrario Asor, ottenendo quel che si definisce nella retorica un palindromo. Per oltre un secolo e mezzo, le generazioni successive portarono questo cognome totalmente inventato, Asor-Rosa, con tanto di trattino. Poi negli atti ufficiali il trattino è caduto. Però è rimasto il palindromo, che è un po’ la mia «condanna». 64

D. Tornando alla nostra storia della sinistra intellettuale, abbiamo visto come il Pci perda appeal rispetto alla cultura militante, almeno fino ai primi anni Settanta. Con la segreteria di Berlinguer, nel marzo del 1972, c’è una ripresa smagliante del controverso matrimonio. Nello Ajello, storico degli intellettuali comunisti, nel suo secondo volume sul rapporto tra il Pci e la cultura italiana, Il lungo addio, dedica un ampio capitolo alla «corte di re Enrico». L’elenco dei compagni di strada – alla vigilia della vittoria comunista alle elezioni amministrative nel giugno del 1975 – è impressionante: da Arrigo Benedetti ad Altiero Spinelli, da Leonardo Sciascia a Paolo Volponi. L’anno successivo s’insedia alla guida di Roma uno storico dell’arte del profilo di Giulio Carlo Argan. Convegni promossi da Botteghe Oscure hanno per oratori Eugenio Garin e Carlo Tullio Altan. Nei primi anni Ottanta arriverà in Parlamento Natalia Ginzburg. Come si può interpretare questo consenso intellettuale di massa? R. Sì, quella di Ajello è la storia più completa e persuasiva della intellettualità di sinistra in Italia e può colpire che a scriverla sia stato un intellettuale liberaldemocratico (ma forse è proprio così che accadono le cose). Gli anni Settanta rappresentano effettivamente un passaggio molto delicato. La straordinaria crescita economica, politica e culturale del decennio precedente non produce gli esiti sperati. S’intrecciano, mi pare, due ordini diversi di fenomeni. Innanzi tutto va ricordato che il movimento studentescooperaio, di cui ho parlato, disperde la sua forza nel «gruppettarismo», cioè nella divisione politico-ideologica di frazioni contrapposte: Avanguardia operaia, Potere operaio, Servire il popolo, Lotta continua, Maoisti rossi e neri... Dio mio. L’estremismo produce anche questi effetti: invece di catalizzare, divide. C’è anche da dire che in questo processo di divisione e poi di disgregazione rientra la componente italica della ricerca di purezza, che porta a frammentazioni sempre più «particulari»... Su questo sfinimento del 65

movimento di massa s’innesta quella che potremmo chiamare una ripresa dell’«egemonismo comunista». In fondo, il «vecchio, grande partito» c’era ancora, faceva politica a tutto spiano ed era – lui sì, diversamente dai «gruppi» – un catalizzatore di prim’ordine. Inoltre, nel 1968, la presa di posizione avversa all’intervento di Mosca a Praga aveva rappresentato un distanziamento dall’ortodossia filosovietica e l’apertura di una stagione nuova, o almeno questo era ciò che si vedeva (o che volevamo vedere). In questo senso l’elezione nel 1972 di Enrico Berlinguer a segretario del Pci fu estremamente importante. Non c’è dubbio che la sua politica e la sua ideologia possano essere discusse, e infatti anche allora furono appassionatamente dicusse. E però la sua serietà, il suo incontestabile disinteresse personale, la sua lungimirante visione strategica avevano un fascino che contribuì molto a quel riavvicinamento. D. La tribù dei maîtres à penser si divise intorno alla proposta del «compromesso storico», ossia dell’intesa con la Democrazia cristiana. Nella sua recente Storia europea della letteratura italiana, può colpire un suo giudizio benevolo. Allora non la pensava così. R. Osservata a posteriori, con lo sguardo di oggi, la linea indicata da Enrico Berlinguer e Aldo Moro – altro grande protagonista di quella stagione – può essere considerata, nel periodo che va dalla liquidazione dell’unità antifascista fino ai nostri giorni, l’ultima rilevante proposta strategica formulata dal ceto politico italiano. Dopo – per dirla banalmente – s’è navigato a vista. Ora è difficile dire dove quella strada avrebbe portato, se fosse stata percorsa fino in fondo. A interromperla, oltre alle ovvie resistenze in campo moderato, intervennero il terrorismo e l’uccisione di Moro. Rimane il fatto che si trattò dell’ultima grande invenzione della politica italiana, a cui Berlinguer approdò sulla spinta di diversi fattori. Poco di quegli straordinari rivolgimenti che avevano contraddistinto il decennio pre66

cedente era penetrato negli assetti politico-istituzionali italiani. Lo sfondo internazionale, nel frattempo, s’era gravemente turbato per il golpe militare in Cile (settembre 1973). Fu allora che il segretario comunista lanciò la proposta di «compromesso storico» tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano. Progetto che fu accolto da Aldo Moro, ben consapevole della debolezza d’un paese – come lui lo definiva – dalla passionalità estrema e dalle strutture fragili. Non è senza significato che, in uno snodo così importante, Berlinguer abbia puntato su una rinnovata alleanza con i savants. Aldo Tortorella esercitò in tale direzione un ruolo notevole. D. Berlinguer avvertiva anche il bisogno di svecchiare la cultura comunista. R. Sì, voleva darsi una nuova identità, arricchita da nuove aspirazioni pluralistiche. Non dimentichiamo, in quegli anni, l’importanza della cultura cattolica, chiamata a partecipare al progetto di rinnovamento della società italiana. La Sinistra Indipendente ne includeva una nutrita lista con Raniero La Valle, Adriano Ossicini, Piero Pratesi, Angelo Romanò, Mario Gozzini, Paolo Brezzi, Ettore Masina. Naturalmente sarebbe impossibile dimenticare il ruolo, anche personale, svolto da Franco Rodano e dal suo gruppo nei confronti di Berlinguer: si tratta dell’esperienza che, più o meno correttamente, si definisce del «comunismo cattolico». Non mancavano discussioni anche animate. Il compromesso storico fu osteggiato con veemenza da una parte del ceto colto, ma si agiva sempre in un contesto unitario. Il convegno organizzato nel gennaio del 1977 dalla sezione culturale del Pci, al teatro Eliseo di Roma, può essere considerato il simbolo di quella temperie. La dispersione sarebbe arrivata poco più tardi, con l’incalzare del terrorismo e poi con il sequestro Moro. D. Anche lei intanto era rientrato nel Pci. 67

R. C’è stato un passaggio intermedio. Nel 1968 mi ero iscritto al Psiup, partito della sinistra socialista, nato da una scissione del Psi, quando questo aveva consolidato la sua collaborazione governativa con la Dc. Il Psiup era un partito scombinato, ma interessante: aveva raccolto molte spinte espresse dal movimento di massa degli anni Sessanta e del 1968-69. Ne erano dirigenti personalità di primo piano come Lelio Basso, Tullio Vecchietti, Vittorio Foa e Fausto Bertinotti. Esercitava, inoltre, molta influenza sulla Cgil. Nel 1972, però, dopo una dura sconfitta elettorale, che ne aveva provocato l’esclusione dal Parlamento, la sua maggioranza decise di confluire nel Pci di Enrico Berlinguer. Io aderii a quella proposta – anzi, ne fui un convinto sostenitore – e rientrai nel Pci, confidando in una nuova stagione. Trovai il partito cambiato parecchio, soprattutto nei confronti dell’Unione Sovietica. Però le gerarchie erano sempre molto compatte: parlare di correnti e posizioni personali, al di fuori delle sedi ufficiali, era come bestemmiare. Tuttavia le correnti esistevano: ma bisognava essere «iniziati» per coglierne l’esistenza. Il ri-ambientamento non fu semplice. I «vecchi comunisti» non avevano dimenticato. Con Giorgio Napolitano, che in quel momento era responsabile della Cultura, il rapporto fu subito buono: organizzammo persino insieme un convegno sui rapporti tra partito e classe operaia a Padova, con Tronti, Cacciari e altri. Ebbi delle responsabilità nazionali e locali nel settore universitario. E nel 1979 fui «mandato» – come allora si diceva – in Parlamento. D. Prima di rievocare la sua esperienza a Montecitorio, c’è una questione su cui soffermarsi. Gli anni Settanta furono anche la stagione del terrorismo, i cosiddetti «anni di piombo». Parte della cultura militante di sinistra non fu estranea a una sorta di civettamento con la violenza, ben espresso recentemente da un romanzo di Domenico Starnone, Prima esecuzione. Davanti al gesto sanguinario dei brigatisti, non pochi avevano un moto di disgusto, però in sostanza ne giu68

stificavano la spinta. Un grumo di sentimenti contraddittori tra repulsione e condivisione. Su questa zona opaca e poco confessata di contiguità con le «ragioni» dei terroristi è sceso un lungo silenzio. R. Sì, allora era abbastanza diffusa una sorta di indulgenza, incline a spiegare e talvolta a giustificare. Io però stavo da tutt’altra parte. Nel partito ero responsabile del settore «Università» a Roma. Andavo in giro per le sezioni a spiegare come la lotta armata fosse atrocemente sbagliata: sbagliata sul piano morale, ma soprattutto su quello politico. Ne fui convinto fin dalle prime avvisaglie, con lucidità e determinazione. Forse è stata una delle mie previsioni più azzeccate. Gli effetti nefasti del terrorismo sulla vita pubblica italiana sono ancora sotto gli occhi di tutti. Quel che i servizi segreti di mezzo mondo avrebbero voluto, le Brigate Rosse lo ottennero nel modo più semplice. Con l’assassinio di Moro, i brigatisti soppressero uno dei soggetti del cambiamento, raggiungendo l’effetto esattamente contrario a quello che si proponevano (l’eterogenesi dei fini esiste anche per gli estremisti). Anche in questo caso, nessuno può dire cosa sarebbe accaduto se Moro fosse stato restituito alla sua attività politica, però sappiamo quel che accadde dopo la sua morte: il rapido riassetto politico-istituzionale delle tradizionali forze di governo, con qualche diversa ripartizione dei compiti e del potere. D. La violenza dilagava nel paese. Il 17 febbraio del 1977, la cosiddetta generazione del Settantasette ebbe il suo exploit nella cacciata di Luciano Lama dall’Università di Roma. Lei fu tra gli organizzatori di quella visita. R. Sì, da un mese la Sapienza era quasi militarmente occupata dagli studenti ai margini della legalità. I confini tra contestazione, sovversione e lotta armata erano allora piuttosto labili. Per i corridoi della facoltà di Lettere passavano con i volti trionfanti, segnati a dito con ammira69

zione, gli eroi della clandestinità. Ero persuaso che l’incontro di questi ragazzi con il grande leader sindacale potesse sbloccare la situazione, con l’effetto di allontanare ampie frange del movimento dalla linea più dura e violenta. Fu un clamoroso errore. Si creò un baratro tra il movimento studentesco e il resto del mondo. E fu enfatizzata la possibilità, da parte dei gruppi più estremi, di fare una battaglia violenta contro il sistema. Lama dovette fuggire a gambe levate sotto una pioggia di sassi. Io corsi fuori dalla Sapienza insieme a lui. D. Che cosa ricorda di quei momenti? R. Fu un trauma spaventoso. Dietro i cancelli dell’università, i contestatori gridavano al nostro indirizzo: «Via via la nuova polizia»; fuori, il gruppo ricomposto dei sostenitori di Lama – sindacalisti, operai e studenti – rispondeva agli estremisti con «Via via la nuova borghesia» (intendendo, cioè, che i contestatori alla fin fine facessero il gioco del potere). Oggi tutto questo può perfino apparire comico. Allora fu un dramma politico. Ripensando al clima animoso e violento, quegli anni furono i peggiori della mia vita. Anche le forze intellettuali ne uscirono frantumate. Era come se, su quello che nei decenni precedenti era stato un organizzato e programmatico confronto tra cultura e politica, fosse caduta una bomba atomica. D. Quando parla di dispersione, allude alle lacerazioni prodotte dalla discussione sulla violenza? R. Sì, anche. Quelle furiose polemiche furono certamente occasione di spaccatura. Allora – siamo nei primi mesi del 1977 – c’era chi cavalcava apertamente la tigre della contestazione, giustificando violenze e aggressioni. Tra le più agguerrite ricordo la rivista bolognese «Il cerchio di gesso», legata al movimento studentesco. Ma c’era anche chi si poneva «sulla linea di confine», come fu titolato 70

sull’«Espresso» un articolo di Umberto Eco. Per carità, non dico che Umberto civettasse con i violenti o giustificasse la «politica della P38». Però era tra i più disponibili a cercare di comprendere. I suoi articoli ammonivano: prima di giudicare, capire. D. Eco cercava di cogliere le radici culturali dei gruppi giovanili confluiti nel Movimento, la «generazione dell’anno Nove» – lui la chiamava – trovandole in Céline o Beckett, o nei «profeti della devianza» delle avanguardie storiche del Novecento. Il suo tentativo di «comprendere» suscitò un coro di reprimende. Gli risposero tra gli altri Giorgio Amendola ed Edoardo Sanguineti. R. Intervenni anche io sull’«Espresso», il 1° maggio, con un articolo espressivamente titolato dalla redazione: Ma mentre noi parliamo quelli lì fanno bum. Il ragionamento di Eco sulla cultura giovanile era ineccepibile, ma tralasciava un aspetto della questione che era soprattutto politico. Se è vero – come sosteneva Eco – che ogni cosa è cultura – anche la P38, il sequestro di persona, la violenza programmata e programmatica, l’intimidazione e così via – bisognava chiedersi se questa nozione estensiva di cultura non conducesse troppo lontano rispetto alla necessità di agire, fermando quella violenza. D. Eco si difese dicendo che «non bisognava cedere all’isteria maccartista per cui chi cerca di capire viene additato come complice». R. Io non ero certo sospettabile di maccartismo. Il mio saggio su Le due società, nel quale cercavo di esplorare la realtà e la cultura dei «non garantiti», fu duramente stroncato sull’«Unità» da Gerardo Chiaromonte. La teoria delle due società – da una parte gli operai occupati, sindacalmente organizzati e politicamente impegnati; dall’altra i giovani, senza occupazioni e senza prospettive, fuori e 71

contro il «sistema dei partiti» – cercò già allora di dare una spiegazione razionale, non demonizzante, di questa tragica contrapposizione. Però trovavo sbagliato continuare a interrogarsi in modo sterile sul rapporto tra violenza e repressione. Non vedevo sbocchi proficui. Eco ammoniva: innanzitutto, capire. E io gli ricordavo che la cultura non viene prima della politica, ma bisognava sforzarsi di farle marciare insieme. D. Sempre nel 1977 cominciò la discussione su «coraggio e viltà» degli intellettuali. R. Interpellato dal «Corriere della Sera» sulla possibilità di essere convocato come giudice popolare a un processo contro le Brigate Rosse, Eugenio Montale rivendicò la propria libertà di sottrarsi all’incarico. «Sono uomo come gli altri e avrei paura come gli altri», rispose a Giulio Nascimbeni. «Non si può chiedere a nessuno di essere un eroe». Ne nacque un acceso dibattito che vide schierati da una parte Alessandro Galante Garrone, Italo Calvino, Giorgio Amendola, fermi nel condannare «la viltà» del poeta; dall’altro Leonardo Sciascia, solidale con Montale, e deciso «a non fare da cariatide» al disfacimento di questo Stato. D. «Il coraggio fisico», sentenziò Amendola, «non è mai stato una qualità diffusa in larghe sfere della cultura italiana», alludendo al nicodemismo praticato sotto il fascismo. Fortini gli replicò veemente che la sua posizione era paragonabile «a quella di Scelba contro il culturame». R. Mi consenta di aprire una piccola parentesi su una figura così importante come Giorgio Amendola. Amendola era, per così dire, un dirigente di orientamento «liberale», come dimostrò a un certo punto la sua precoce proposta di «fondere» Pci e Psi. Al tempo stesso, era uno dei più intolleranti nei confronti di qualsiasi voce critica: que72

sto spiega, forse, la reazione stizzita di Fortini. Ed era anche uno dei più fedeli al rapporto con l’Urss. Insomma, se ne deve concludere ancora una volta che la storia è piuttosto complicata. Per tornare a quella celebre tenzone su «coraggio e viltà», l’animosità della discussione fu piuttosto forte. Sciascia arrivò a proclamarsi equidistante tra lo Stato e le Brigate Rosse, o a essere più precisi «contro questo Stato e contro le Br». Alberto Moravia ne condivise le ragioni: anche a lui lo Stato appariva un guscio vuoto, reso fragile da tre decenni di cinismo, affarismo, provvidenzialismo. A me lo slogan «Né con lo Stato né con le Br» appariva insensato: lo sforzo da compiere era semmai proprio quello di superare una contrapposizione come questa, stolta e dissennata. D. Le lacerazioni furono insanabili. R. Quella stagione rappresentò il culmine d’una storia intellettuale nata tre decenni prima. A un ceto colto di sinistra fino ad allora omogeneo subentrò un arcipelago frammentato in una miriade di gruppi separati e di posizioni individuali contrastanti. Per dirla con una celebre battuta di Nanni Moretti, s’era esaurito il desiderio di «non perdersi di vista». L’intellettuale comunista, definizione peraltro sempre un po’ generica o astratta, si frammenta e moltiplica in una serie numerosa e variata di tribù, le cui distinte identità assumono una spiccata attitudine centrifuga. D. Colpa dei «cattivi maestri»? R. Ma io sono un «cattivo maestro». Anzi un «buon cattivo maestro». D. Che cosa vuol dire? R. Io non sono un «non violento» per convinzione. Non potrei essere definito neppure un pacifista stricto sensu, 73

nel senso che per formazione ed esperienze mi riesce difficile concepire il conflitto senza una dose più o meno elevata di violenza. Ma, ripeto, la violenza terroristica di quegli anni fu tremendamente sbagliata sotto il profilo etico – per le distruzioni e il sangue ingiustamente versato – e sotto il profilo politico per la catastrofe civile che ne derivò. D. L’assassinio di Moro segnò una sorta di cesura nella compagine intellettuale. Non mancano testimonianze anche dolorose. Cesare Garboli avrebbe collocato in quel «truce episodio» il principio d’una malattia, «una nube plumbea e lucida», una sorta di estraneità a un paese sempre più indecifrabile, fino alla dichiarazione conclusiva: «La mia vita civile, di animal politicum, poteva dirsi conclusa». Nel saggio In questo Stato, Alberto Arbasino ripropone lo spaesamento e anche l’impazzimento del ceto colto. R. Beh, francamente i nomi che lei mi fa non avevano mai brillato per un eccesso di impegno. È vero tuttavia che la compattezza (per quanto spesso solo presunta) del ceto intellettuale di sinistra cominciò a venir meno proprio in quel tragico biennio 1978-79. Ero risolutamente contro il terrorismo: ma anche il modo con cui questo fu combattuto rivelò impreparazione e imperizia. Sotto le apparenze riformiste, riemergeva il vecchio nocciolo staliniano. Ricordo che una volta un alto dirigente comunista, cui ero molto affezionato, di fronte alle mie obiezioni si mise a gridare infuriato: «Ci vogliono i campi di concentramento! Ci vogliono i campi di concentramento!». Il modo, ad esempio, come fu sviluppato il cosiddetto «teorema Calogero», mandando in galera buona parte del gruppo dirigente di Potere operaio, ne è una dimostrazione. Umberto Eco e io scrivemmo insieme una lettera di critica su tale argomento, che «Repubblica» ci pubblicò con una certa evidenza. Ma le cose continuarono ad andare più o meno nello stesso modo. 74

D. Vorrei soffermarmi sulla sua elezione alla Camera dei deputati, nel 1979. Anche quella vicenda, forse, è rivelatrice d’un disagio, d’una difficoltà nel rapporto tra ceto politico e ceto intellettuale. R. Occorre allora ricostruire l’atmosfera e l’ambiente. Nel 1979 eravamo in un momento critico della democrazia italiana: alle spalle avevamo, a una distanza in fondo di pochi mesi, l’aggressione del movimento studentesco a Lama e l’uccisione di Moro. Io ero stanco, frustrato e deluso: mi sembrava che tutto quello per cui avevo lavorato nel corso dell’ultimo decennio andasse in pezzi. Si cominciò a parlare di una mia candidatura alla Camera dei deputati: feci sapere a chi di dovere che non ne volevo neanche sentir parlare. Un giorno fui convocato da Luigi Petroselli, allora – credo – segretario regionale del Pci nel Lazio. Petroselli era un personaggio singolare: apparentemente molto rozzo, ma in realtà intellettualmente fine, e di grande prestigio popolare. Andai all’appuntamento accompagnato da Paolo Ciofi, segretario della Federazione di Roma, che conoscevo dai tempi della mia formazione studentesca. Petroselli mi comunicò molto solennemente che la direzione del partito aveva deliberato che io entrassi nella Camera dei deputati. Feci le mie obiezioni. Petroselli cambiò subitamente tono e cominciò a urlare come un ossesso: «In questo partito un iscritto non discute i deliberati della direzione! Ubbidisci e basta! Vai e preparati alla campagna elettorale!». Io, in quel momento, non ero più un ragazzino. Avevo quarantasei anni, e qualche libro alle spalle. Tuttavia, nonostante i miei fermi propositi, non seppi più che cosa obiettare. Sia pure metaforicamente, scattai sull’attenti come una recluta. Era meglio o era peggio di adesso? Non lo so: forse era peggio, ma almeno un certo ordine c’era. Uscendo da quella stanza, per i corridoi gelidi della leggendaria sede della Federazione in via dei Frentani (ahimè, sparita anche quella!), Ciofi mi sussurrò complice: «Non lo sai come fanno?». Detto questo: 75

feci in lungo e in largo la mia campagna elettorale, che ad onor del vero andò oltre le aspettative del partito. Risultai secondo eletto dopo Pietro Ingrao, che a Roma era giustamente una leggenda. D. Tuttavia la sua esperienza a Montecitorio fu molto deludente. R. Forse dipende anche questo dai tempi. Il gruppo parlamentare comunista era governato con mano ferma dai suoi dirigenti, che a loro volta dipendevano rigorosamente dalla segreteria del partito. Ha presente il «centralismo democratico»? Beh, funzionava ancora splendidamente. Lo stipendio parlamentare era magro (si potrebbe misurare la decadenza dell’istituzione parlamentare seguendo la curva crescente degli aumenti di stipendio dei parlamentari in questo trentennio), e metà era consegnato alla fonte, ossia al partito. Le assemblee del «gruppo» servivano praticamente quasi soltanto per «comunicare la linea»; siccome l’obbligo di presenza era rigoroso, si passavano giorni e giorni in aula nell’inerzia più completa, ciondolando e sbadigliando. Devo dire, tuttavia, che nel corso di quell’anno cooperai fortemente a varare l’unico provvedimento di riforma universitaria che abbia avuto un senso progressivo nelle sorti della nostra istruzione superiore. Lo so che ad ognuno piace di più la legge che lui stesso ha fatto; però in questo caso è un po’ più giustificato: i dipartimenti e la ricerca scientifica organizzata e finanziata, che sono seriamente l’unica cosa buona accaduta nell’università italiana da cinquant’anni a questa parte, nascono con questo provvedimento, il cosiddetto Dpr 382. Ma neanche questo mi bastò. D. Mi sta dicendo che non era possibile continuare a fare l’intellettuale dentro il Palazzo, per usare una metafora di Pasolini? 76

R. Onestamente, non saprei cosa rispondere. Il rapporto tra cultura e politica, teorizzato e praticato fino a quel momento, si rivelò molto più complicato e difficile nell’esperienza vissuta dentro le istituzioni. Mi accorsi che, per praticarlo in questa nuova forma, sarei stato costretto ad accettare dei vincoli, che a me risultavano intollerabili. Lo ammetto: può darsi che non fossi geneticamente disponibile a varcare la soglia che separa il libero discorso intellettuale dalla soggezione al sistema di regole che comunque, a sinistra come a destra, governano la Politica, quella appunto con la «p» maiuscola. Insomma: forse ero un intellettuale e non un politico (o almeno: non un politico a quella maniera). Aggiungo che la linea politica del Pci mi sembrava sempre più senza uscita e che non approvavo affatto la linea tenuta nel voto sulle leggi eccezionali contro il terrorismo e sull’ordine pubblico. Così l’anno successivo mi dimisi, l’unico che l’abbia mai fatto nel corso della storia parlamentare repubblicana italiana con l’unico motivo dichiarato ed esplicito di volersene andare, di voler tornare ai propri studi e all’insegnamento. Quando decisi di andarmene, fui convocato nel suo studio da Nilde Iotti, allora presidente della Camera. Temevo un’intemerata, invece fu molto cortese e quasi m’incoraggiò. D. Intanto nel varco apertosi tra Pci e società italiana, altre forze di tutt’altra natura cominciarono a insinuarsi. L’astro nascente di Bettino Craxi, incoronato all’hotel Midas il 15 luglio 1976, tenta di scalfire l’egemonia culturale esercitata fino a quel momento dal Pci. Al suo progetto, inizialmente, aderiscono intellettuali di primo piano quali Norberto Bobbio, Paolo Flores d’Arcais, Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Mario Soldati. R. Sì, l’esperienza di Bettino Craxi si configura come il tentativo consapevole di subentrare alla tradizionale egemonia del Pci, sostituendovi la propria. Al principio il se77

gretario del Psi ebbe il merito di intuire la necessità di una modernizzazione del paese, ormai inserito stabilmente nel novero delle realtà mondiali più sviluppate. Ma all’intuizione corrispose una semplificazione estrema delle soluzioni prospettate. L’idillio con l’intellighenzia durò di conseguenza pochi anni. Nell’ottobre del 1979, Norberto Bobbio, Paolo Flores d’Arcais, Giuliano Amato, Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia, Giorgio Ruffolo, Massimo L. Salvadori – forse mi sfugge qualche altro nome – sottoscrissero un documento assai critico sui metodi usati da Craxi, attribuendogli settarismo e tendenza alla gestione personale. Era quel Führerprinzip che trovò un critico implacabile in Riccardo Lombardi. Io ricordo l’impressione che mi fece leggere sull’«Espresso» nell’agosto del 1978 l’elogio celebrato da Craxi di un ideologo confuso e pasticcione come Proudhon. Era il tentativo evidente e conclamato di rompere ogni legame con la cultura del Pci. D. Craxi liquidò i suoi contestatori apostrofandoli come «casta». Soleva ammonire: io questi intellettuali posso sostituirli a piacere, ne ho centinaia a disposizione. R. Alcuni come Cafagna e Amato entrarono poi nello stretto entourage craxiano, ma molti altri – a partire da Bobbio – si allontanarono. Nel 1984 anche «MondOperaio», la rivista ufficiale del Psi, cambiò direzione. L’impoverimento ideale ed etico incarnato dal craxismo, con successivo coinvolgimento del codice penale, risospinse parte della cultura liberaldemocratica a guardare con maggiore interesse verso il Pci. Dopo l’iniziale fiammata, mi pare che di quel tentativo egemonico sia rimasto ben poco. Se non la trasformazione dell’intellettualità craxiana in funzionariato fedele, con un livello di elaborazione culturale in progressiva diminuzione. D. A chi si riferisce? 78

R. L’intellettualità socialista si divise sostanzialmente in due gruppi. Ci sono quelli che optano per una nuova progettualità riformatrice d’impianto genericamente liberalsocialista, volta a superare i limiti di una dottrina marxista pura e di un egemonismo politico-culturale comunista, peraltro entrato anch’esso in una fase di crisi. E ci sono quelli per cui il riformismo è prevalentemente un modo di intervenire sulle cose esistenti, modificandole nella misura in cui questo appare opportuno e, soprattutto, possibile. Giuliano Amato è un personaggio simbolo di questo secondo raggruppamento: il riformismo è un’arte del governo delle cose; esso arretra la propria linea rinnovatrice fin quasi a scomparire. Alla fine il confine tra cultura moderata e cultura socialista risulta totalmente sfumato. Non è un caso che, dopo la bufera di Tangentopoli, una parte cospicua del gruppo dirigente socialista divenga una componente organica del berlusconismo (magari passando per la porta stretta della P2). E ora i socialisti ne rappresentano una delle punte di diamante (Cicchitto, Sacconi, Brunetta). D. Allude alla «mutazione morfogenetica» dei socialisti craxiani? R. Quando scrissi su «Repubblica» della «mutazione morfogenetica» – definizione di cui rivendico la paternità (maggio 1984) – mi riferivo alla trasformazione del Psi in una macchina di potere, totalmente svuotata di valori e radicalmente sfigurata nella sua base sociale e nelle forme della militanza. Considero Bettino Craxi uno dei tre o quattro uomini più nefasti della storia italiana postunitaria: egli riduce la politica a pura occupazione di potere, radicalmente spogliata di quelle mediazioni culturali che avevano caratterizzato fino a quel momento la nostra storia nazionale. Un’involuzione che coinvolge altre formazioni politiche, attraverserà tutto il decennio, fino a trovare una sublimazione in quel Silvio Berlusconi non a caso 79

nato come imprenditore alla corte del segretario socialista. Craxi, naturalmente, è solo la punta di un iceberg. D. Questo impoverimento etico e culturale ebbe un lucido interprete in Norberto Bobbio. Un suo articolo, Le gocce d’acqua, uscito nell’estate del 1981 sulla «Stampa», accende la discussione nell’intellighenzia. In sostanza egli non faceva distinzione tra cittadini e classe politica, accomunati nella medesima deriva morale. Andrea Barbato, sempre sulla «Stampa», aggiunse un altro responsabile: gli intellettuali. «È vero quel che va dicendo da tempo Bobbio: gli intellettuali non contano nulla. Anzi, la domanda è così scarsa che non c’è neppure l’offerta, e gli intellettuali – anch’essi – somigliano agli altri, non hanno spicco né grandezza, non creano modelli, contribuiscono solo alla riproduzione sociale». In questo deserto creativo – ammoniva Barbato – in questa mediocrità, si possono far strada «messaggi autoritari», «progetti di regime travestito», «falsi miti», «celebrità da orecchianti». Parole che oggi suonano profetiche. R. Sì, ma non condivido in toto l’atto d’accusa contro il ceto colto. Forse sono mosso paradossalmente da spirito corporativo, ma non credo d’essere sospettabile di un eccesso d’ossequio nei confronti della categoria. Gli intellettuali allora non ebbero particolari responsabilità: più semplicemente, cessarono di essere ascoltati. Ebbe inizio un processo involutivo, fondato essenzialmente sull’autoreferenzialità della politica. I partiti tendevano sempre più a ignorare l’apporto culturale, mettendolo in un angolo. Questo è accaduto alla corte di Bettino Craxi, of course, ma anche nella Democrazia cristiana, dove pure non erano mancati gli scambi con l’intellettualità cattolica, e comincia a manifestarsi nello stesso Pci, dove il rapporto fino a quel momento era stato tra i più attivi e fecondi. La società italiana perse definitivamente la capacità di darsi un orientamento organico e positivo. 80

D. Che cosa intende? R. Fino a quel momento la politica nazionale era stata governata da progetti definiti, alimentati dai diversi filoni culturali. Mi riferisco all’elaborazione dei partiti intervenuti – tra guerra e dopoguerra, dal giugno del 1944 al maggio del 1947 – nella formazione dei gabinetti ministeriali di unità antifascista, che consentirono all’Italia di entrare nel novero delle nazioni dotate di uno statuto riconosciuto e riconoscibile. Mi riferisco perfino alla strategia democristiana di ricostruzione politica ed economica che fece seguito alla grande vittoria del Quarantotto. Mi riferisco all’esperienza del centro-sinistra, su cui ci siamo soffermati prima. Dopo l’esaurimento del compromesso storico, non c’è più stata in Italia un’ipotesi di trasformazione dell’assetto politico, economico e culturale, destinata a durare nel tempo. Ci si è persi in svariati tentativi molto confusi, che hanno avuto scarsa presa sull’opinione pubblica italiana, fino alla presente stagione segnata dal riconquistato predominio berlusconiano: la sua cifra distintiva mi pare consista proprio nel tentativo di smantellare tutto ciò che in Italia sia stato costruito sul piano politico e istituzionale dal dopoguerra a oggi. Se questo è lo sfondo, non me la sentirei di addossare la responsabilità al ceto intellettuale. Non mancarono allora virulenti prese di posizione, volte a sanzionare il deterioramento delle cose. Non ho mai avuto particolare simpatia per Pier Paolo Pasolini, ma tra gli anni Sessanta e Settanta fu molto lucido nell’indicare con chiarezza il pericolo d’una corruzione del sistema politico dominante. Norberto Bobbio stesso s’è impegnato fino a quando ha potuto nell’indicare soluzioni adeguate. Una nutrita schiera di intellettuali militanti di ispirazione eterogenea ha cercato di volta in volta di elaborare proposte di ammodernamento politico, ma è rimasta penosamente inascoltata. Quel che si chiede agli intellettuali – da allora in avanti – è di fungere da commessi del potere. 81

D. Sta dicendo che negli anni Ottanta comincia a dissolversi il binomio tra cultura e politica che segna il Novecento italiano? R. Sì, lentamente si sgretola fino a divenire drammaticamente irrisolto dopo le radicali trasformazioni avvenute sul finire di quel decennio. Il rapporto non viene recuperato neppure dopo Tangentopoli, come forse sarebbe potuto accadere. E – a parte qualche tentativo di collaborazione fallito, ad esempio l’esperimento dell’Ulivo, a cui parteciparono intellettuali di vaglia – si è venuto estenuando e mortificando sempre di più fino ai nostri giorni. D. Ma perché accade questo? Che spiegazione si è dato? R. Occorrerebbe ripercorrere la storia del ceto politico italiano nel corso degli ultimi tre decenni. In questa fase esso diventa sempre più autoreferenziale: ossia sempre più autosufficiente, chiuso a riccio su se stesso, disposto a tutto pur di non concedere nulla a qualsiasi apporto esterno, che potrebbe suonare anche come controllo, verifica, denuncia. A provocare la crescita di autoreferenzialità dei partiti intervengono diversi fattori, tra cui la crisi e poi la morte delle grandi ideologie. D. Non è stato un bene, per molti aspetti? R. Se si intende per «ideologia» un credo cieco e catechistico, responsabile nel Novecento di molti crimini, allora sì, il suo esaurimento è stato un bene: credo di averlo fatto intendere più volte nel corso di questa conversazione. Ma se l’ideologia è un sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa per diversi decenni in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro, allora la sua estinzione non è stata positiva. Quando le grandi ideologie entrano in crisi, la politica si riduce a pura 82

amministrazione. E quando si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina politica prevale sugli obiettivi che la stessa macchina dovrebbe proporsi. Insomma l’esercizio del potere per il potere, senza alcuna motivazione ideale. Poi interviene un altro fattore, che è tipicamente italiano. D. Quale? R. L’autoperpetuazione del ceto politico: non ce ne sono eguali in Europa, forse nel mondo. La durata della vitalità politica del singolo individuo è enormemente superiore rispetto a quella esibita in qualsiasi altra nazione europea. In Italia la sconfitta politica non comporta necessariamente la scomparsa di chi l’ha subita e ne è più o meno responsabile. Siamo circondati da sconfitti, che si presentano presuntuosamente come i futuri, possibili vincitori. I processi di selezione del ceto politico sono rigorosamente governati dall’alto, con la conseguenza che esso tende a riprodursi con caratteristiche sempre eguali. Ma come capita in analoghi processi, un meccanismo selettivo di questa natura tende a mediocrizzare il prodotto. La produzione è autoriproduzione. E l’uomo politico tende a riprodurre dei cloni che sono peggiori di lui, facilmente addomesticabili. D. Ma questo meccanismo che lei ha descritto vale per l’intera classe dirigente, intellettuali inclusi. R. Sì, non c’è dubbio. Se il fenomeno è così generalizzato, forse ne è responsabile un «gene nazionale». Perché non c’è stata in Italia quella frattura storica che ha permesso a Blair di succedere alla Thatcher o a Sarkozy di prendere il potere dopo la lunga era socialista? Si potrebbe dire che il ceto politico italiano inventa dei sistemi istituzionali appositamente per consentire il mantenimento di questo meccanismo di autoperpetuazione. La solidarietà all’interno di tale 83

ingranaggio, tra le diverse componenti politiche, è ancora più forte del conflitto che pure all’esterno sembrerebbe dividerle (e per cui chiedono all’elettorato il voto): sono capaci di inventarsi qualsiasi cosa pur di non scalfire questo sistema. D. A che cosa più esattamente si riferisce? R. Mi riferisco a molte cose, ma in modo particolare al nostro sistema elettorale, che più iniquo non si può. D. È la «casta» quella che lei disegna. Ma c’è anche una «casta» accademica, che investe l’università e altri poteri culturali. R. Anche nell’università questo meccanismo autoriproduttivo è molto forte, certo, e gli effetti oggi si vedono. Perché l’autoriproduzione non divenga il fattore dominante, ci vogliono forse soggetti più piccoli, più ristretti e necessariamente più concorrenziali. Quali? Penso ai vecchi circoli intellettuali, alle riviste, ad alcune case editrici. Penso anche a personaggi estremamente solitari – e anche questo rischia di essere un dato significativo – quali Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Franco Fortini: furono proprio loro tra i primi a denunciare il processo involutivo, che ha poi prodotto la separazione tra politica e cultura. Autoreferenzialità e autoriproduzione hanno provocato un taglio netto tra partiti e intellighenzia. La politica non sa più che farsene della cultura: né per la conquista del consenso, né per la ricerca intellettuale intesa in senso stretto. Alla liquidazione del ceto colto ha poi contributo quel potentissimo e gigantesco intellettuale collettivo che è la televisione di massa. Ma su questo, credo, dovremo soffermarci più in là. D. In quel decennio di disgregazione, lei ha continuato a militare dentro il Pci. 84

R. Non lasciai il partito, ma cominciò per me una nuova fase. Era evidente che, dopo la scomparsa di Berlinguer (1984), e in presenza dell’offensiva craxiana, la grande «macchina» comunista andasse verso la sclerotizzazione. Alessandro Natta, il dirigente che aveva sostituito Berlinguer alla segreteria, era una bravissima persona, ma non era in grado di elaborare una linea che non fosse puramente difensiva. Altro che «grande bonaccia» preconizzata da Italo Calvino per il Pci dopo il 1956! Sembrava ormai di stare nel pieno del Mar dei Sargassi, con le alghe che avviluppavano la chiglia della nave. Cominciai perciò una seria battaglia culturale per la modernizzazione e la democratizzazione del partito. Bisogna dire che ciò non sarebbe stato possibile senza Eugenio Scalfari, il quale mi offrì la collaborazione su «Repubblica», il giornale che da tempo sollecitava un’evoluzione democratica del Pci senza però costringerlo a un appeasement nei confronti del craxismo. Per me questa fu un’occasione straordinaria. Mi ero sempre considerato intimamente un outsider, un borderline, con atteggiamenti poco consoni a una collaborazione di questa natura, per giunta con un giornale della portata e del prestigio di «Repubblica»: la cosa mi colpì molto, anche sul piano umano, e mi ci impegnai anima e corpo. Ricordo con nostalgia quel sodalizio, durato fino alla fine degli anni Ottanta. D. Lei auspicava una sorta di Bad Godesberg italiana, la trasformazione del Pci da «giraffa a cavallo», ossia in un moderno e agile partito riformatore. Ma quando poi Achille Occhetto nel 1989 fece in sostanza ciò che lei aveva auspicato, annunciando alla Bolognina la fine del Pci, lei ruppe clamorosamente con lui e anche con il giornale che ne aveva incoraggiato la svolta. La sua scelta sorprese molti. R. Questa svolta, tuttavia, è assai più complicata. Tanto complicata da apparire, ed essere, in molti punti contorta. Achille Occhetto diventa segretario extra-congressuale del 85

Pci nel giugno del 1988. Intorno a lui si ricompatta la parte più significativa della residua intellettualità comunista, non importa se di destra o di sinistra. Il XVIII Congresso del Pci, nel marzo dell’anno successivo, conferma trionfalmente la leadership di Occhetto e consolida la sua alleanza con gli intellettuali. Uno dei primi effetti di questa nuova situazione è che a me fu affidata la direzione di «Rinascita», la rivista ufficiale del partito. Figuriamoci! Asor Rosa che dirige la rivista fondata da Palmiro Togliatti! Ci furono proteste, ma soprattutto dalla destra del partito (Chiaromonte, Napolitano, Macaluso). Si comincia a lavorare: nella redazione di «Rinascita», a sancire la nuova alleanza, entra il fior fiore dell’intellettualità di sinistra dell’epoca, da Mario Tronti a Stefano Rodotà, da Massimo Cacciari a Rita Di Leo, da Laura Balbo a Laura Pennacchi, da Adriana Cavarero a Umberto Coldagelli, da Manfredo Tafuri a Giacomo Marramao. Nessuno lo ha mai più ricordato, perché non si ricorda mai veramente quello che è stato travolto dalla catastrofe, ma si tratta dell’ultimo tentativo di coalizzare una frazione cospicua di ceto intellettuale italiano in funzione politica progressista. Su tutto questo arriva come una bomba la decisione unilaterale e solitaria espressa da Achille Occhetto nel raduno della Bolognina (novembre 1989): mettere fine all’esperienza del Pci. In quel modo? Naturalmente si potrebbe discutere a lungo se il modo migliore di reagirvi fosse quello da me praticato di fare corrente con i più intransigenti difensori dell’«identità comunista», bravi compagni, con cui però non avevo mai avuto rapporti né di comprensione né di simpatia, e con i quali ci trovammo a remare nella stessa barca. La verità è che mi sentii tradito. Andai da Occhetto, glielo dissi veementemente, lui reagì con la medesima asprezza, e la cosa finì lì. La sua operazione, inattesa e fulminea, improvvisata ed estemporanea, era passata come un ciclone sul lavoro culturale condotto in quegli anni insieme. D. Si riferisce anche alla rivista «Laboratorio Politico»? 86

R. Sì, con «Laboratorio Politico» – apparsa tra il 1981 e il 1983 presso Einaudi con un discreto successo di vendite, poi travolta dalla crisi di questo editore – avevamo tentato di demolire la vecchia armatura ideologica del Pci, senza però distruggerne l’insediamento sociale. Il comitato di direzione – tra Aris Accornero e Remo Bodei, Massimo Cacciari e Stefano Rodotà, Gian Enrico Rusconi ed Ezio Tarantelli, Mario Tronti e Carlo Donolo, Rita Di Leo e Piero Bevilacqua – includeva le diverse componenti politico-culturali della sinistra italiana, tra filone comunista, liberaldemocratico e socialista. La rivista rappresentava il passaggio da una visione palingenetica a una concreta proposta riformatrice, con aperture alla politologia, alla teoria delle istituzioni, alla sociologia, discipline ancora in quegli anni guardate con sospetto dai guardiani dell’ortodossia. D. Ci furono problemi con Botteghe Oscure? R. Aldo Tortorella non era per niente persuaso dell’iniziativa. «Perché diavolo volete fare una rivista? Perché non scrivete su ‘Critica marxista’?». Ne ho combinate tante in vita mia: ma su «Critica marxista» non ho mai scritto. Una rivista, fondata e gestita da un gruppo di intellettuali, peraltro tutti iscritti o almeno simpatizzanti con il Pci, rappresentava una novità troppo forte per il partito, ancora impermeabile a un tipo di ricerca che non fosse immediatamente riconoscibile e in qualche modo governabile. D. Ma stiamo parlando degli anni Ottanta. R. Il Pci aveva mantenuto una fisionomia ecclesiale che, pur favorendo in linea di principio uno scambio fecondo con le energie intellettuali, poneva loro dei limiti. Quel limite era rappresentato dall’autorità del partito. Ancora in quegli anni persistevano delle «verità ufficiali», che non potevano essere oggetto di discussione. Questo accadeva 87

rigorosamente per chi stava dentro il partito. Fuori, le dinamiche potevano essere già allora diverse. Rientra in questa logica l’invenzione della Sinistra Indipendente. Come abbiamo già detto, il Pci favorì l’immissione in Parlamento di una gran quantità di studiosi di diversa ispirazione perché contribuissero a migliorare le leggi. Iniziativa di straordinario valore: ma quello era un gruppo a sé stante, svincolato almeno parzialmente dalle logiche di Botteghe Oscure. Al contrario, gli intellettuali del Pci vi soggiacevano in toto. D. Che cosa accadde nella redazione di «Laboratorio Politico»? R. Poco prima di andare in stampa, Giuseppe Vacca e Biagio De Giovanni – che erano molto, molto più «organici» di me – preferirono lasciare il comitato direttivo della rivista. Al contrario Occhetto collaborò in modo sistematico con questo gruppo di lavoro. Il sodalizio si sarebbe fortificato con la mia nomina a direttore di «Rinascita», che nelle mie intenzioni voleva essere la prosecuzione su diversa scala del lavoro nato con «Laboratorio Politico». D. Per questo lei si sentì escluso dalla svolta della Bolognina. R. Il problema è come Occhetto condusse la storica svolta. Scassò tutto, come un bambino viziato. Scelse consapevolmente di smontare radicalmente il suo partito. Non mi impressionava veder crollare l’impalcatura politico-organizzativa del comunismo italiano: non sono mai stato sospettabile di simpatia per la vulgata marxista comunista, neanche nella sua versione più addolcita. Mi impressionava la disinvoltura suicida con cui tutto questo veniva fatto. La dispersione intellettuale che ne scaturì non è stata più né affrontata né tanto meno rimediata. 88

D. «Rinascita», che doveva essere l’organo portatore delle istanze di rinnovamento, divenne di fatto il foglio del «no». R. No, questo non è vero. Quella era la posizione del direttore, non di tutti i collaboratori, che potevano liberamente esprimersi sulla testata. Fu un periodo molto doloroso. Mi pesò la rottura di amicizie storiche molto profonde, come quella che mi legava a Massimo Cacciari fin dai tempi di «Classe operaia» e anche più indietro. Per non parlare della sia pure temporanea sospensione di rapporti con «Repubblica», alla quale tanto dovevo. Ho già detto che ho avuto in seguito molti ripensamenti sui miei nuovi compagni di strada, molti dei quali erano comunisti conservatori con cui avevo polemizzato negli anni precedenti. Ma, a distanza di vent’anni, conservo tutte le mie riserve su quell’inizio. La storia successiva, fino alla formazione del Partito democratico, è stata segnata da quell’esordio sbagliato. La frantumazione della comunità comunista italiana s’è accompagnata in primo luogo – e non poteva essere diversamente – alla frantumazione della comunità intellettuale comunista e di tutto quel sistema di alleanze e di scambi ideali e culturali che avevano caratterizzato il periodo precedente. D. Pensa che Occhetto avrebbe potuto fare diversamente? Il crollo del Muro di Berlino aveva impresso una forte accelerazione. R. È molto difficile rispondere oggi. L’impresa storica alla quale eravamo tutti chiamati consisteva in una trasformazione radicale del partito che non comportasse traumi laceranti ed emorragia di consensi, ma soprattutto – insisto: soprattutto – non il suo sradicamento sociale. Chi può dire oggi se ci saremmo riusciti? Dopo quella storica svolta, qualcuno della comunità intellettuale ha detto: bene, anzi benissimo! Non se ne poteva più di stare tutti assieme, fratelli-coltelli, nemici odiosi gli uni agli altri, tribù di89

verse non più contraddistinte dall’uso di una lingua comune. Potrei essere anche d’accordo. Ma insieme al crollo della compagine intellettuale c’è stata la desertificazione della ricerca collettiva, la scomparsa di ogni rivista o centro di riflessione teorica, il deperimento ormai irreversibile dell’intellettuale critico. Bisogna tenere conto anche del fatto che esisteva un contesto più vasto. Gorbacˇëv provò a riformare il comunismo in Unione Sovietica. Lo guardavamo con attenzione e simpatia. Insieme a Tronti scrissi un articolo sull’«Unità» che raccomandava di sostenere quella iniziativa. Gorbacˇëv è stato sconfitto, ed è prevalso un vero mascalzone come El’cin, da cui poi discende l’attuale zar Putin, con tutte le aberrazioni antidemocratiche che contraddistinguono la Russia attuale. La storia è fatta così: non ha logica. Se ne avesse una, la vicenda umana sarebbe stata (e sarebbe) diversa. D. Nostalgia del passato? R. Come potrei averne? Quel passato mi ha riserbato una montagna di delusioni. Ma trovo che sia mancata nell’intellighenzia di sinistra una seria discussione sulla storia comunista italiana, nel bene e nel male: sulla partecipazione del Pci alla crescita civile del paese come sul suo controverso e ambiguo rapporto con l’Urss. Dopo la fine del Pci, gli intellettuali postcomunisti scelsero il silenzio e la rimozione. Oppure si produssero in un’autocritica impietosa, puramente liquidatoria: e i più «organici» sono stati i più lesti a negare tutto, persino la loro origine. Sull’altro versante si fecero sentire le sentinelle dell’ortodossia, chiamate nel teatrino mediatico a recitare la parte dei comunisti puri. Un disastro! In sostanza, è stata buttata via l’intera storia del Pci, senza alcuna distinzione. Pensavo allora – e penso tuttora – che tutta la vicenda italiana dal 1943 al 1989 sarebbe stata diversa e peggiore senza il contributo del Pci: una presenza certamente ambigua, attraversata da una duplice tentazione – filosovietica da un lato, riformi90

stico-occidentale dall’altro –, e tuttavia positiva nel suo complesso, se si tiene conto della italiana fragilità strutturale. Anche il «compromesso storico» – mi ripeto, ma voglio chiarirlo bene – è stato una tappa fondamentale di quel lungo processo cominciato con la Guerra di Liberazione e poi la Svolta di Salerno. Al di là delle sue opacità e dei suoi equivoci, il Pci s’è sempre posto come un attore prezioso del sistema politico italiano. Era davvero impossibile dunque, in quell’Ottantanove, tentare di recuperarne per intero la tradizione democratica, pur denunciandone tutti i cedimenti all’Urss? Non si trattava di difendere l’identità comunista nella sua ortodossia ideologica e dottrinaria, figuriamoci; si trattava di ripercorrerne e riutilizzarne la presenza storica dentro la realtà italiana. Il silenzio e la viltà di molti intellettuali postcomunisti allora hanno indebolito la sinistra italiana in modo mortale. D. Non ritiene però che l’imbarazzo di larga parte della cultura ex comunista fosse da attribuire anche ai silenzi precedenti? Il Muro di Berlino in macerie rese evidente una realtà su cui – anche dopo lo storico «strappo» di Berlinguer – s’era preferito glissare. Le critiche al socialismo reale – espresse da storici come Rosario Villari – avevano incontrato a Botteghe Oscure molte resistenze. R. Sono silenzi che si allacciano l’un l’altro, come una catena ininterrotta. Insomma, se uno è abituato a stare zitto, o a dire soltanto le cose che immagina gradite ai capi, alla fine starà zitto sempre. Questo è un altro grande dilemma. Nel Pci dialettiche reali tra intellettuali e dirigenza politica ce ne sono sempre state, ma spesso finite male. Potrei tornare al caso emblematico di Elio Vittorini, escluso malamente da Palmiro Togliatti. Dopo la fine della guerra fredda, spazi di dibattito interno ce ne sono stati, ma sorvegliatissimi. Prima riferivo la mia esperienza (negli anni Ottanta, addirittura!) con la rivista «Laboratorio Politico», guardata con diffidenza da Botteghe Oscure; casi co91

me questi erano piuttosto frequenti. La tendenza a frenare la dialettica con i savants è stata predominante. Possiamo allora dire così: è esistita una componente intellettuale comunista che ha accettato tranquillamente questa mancanza di spazio, rinunciando a smarcarsi da un organico ossequio alla politica. Il paradosso ha voluto che questa componente sia stata tra le più zelanti nella liquidazione d’un passato verso cui precedentemente aveva manifestato la più totale devozione. Una genuflessione verso i gruppi dirigenti che continuerà a produrre i suoi frutti. D. Che cosa vuol dire? R. Che sempre più marginale mi appare – nella successiva storia del rapporto tra partito postcomunista e intellettuali – il contributo del pensiero critico. Anzi, l’operazione di trasformazione del Pci in un diverso attore politico si spoglia progressivamente di qualsiasi nervatura intellettuale, traducendosi in operazione politicistica e autoreferenziale. La rottura tra attività politica e ricerca culturale è sempre più netta. Fino agli esiti catastrofici di oggi. Il progetto è stato sostituito dal marketing e dall’immagine. Scarseggiano le idee, ma non le scoppiettanti iniziative mediatiche. I politici non si giudicano per quello che dicono, ma per come lo dicono. Non ci sono più riferimenti certi. Dove sono finite le culture politiche che hanno arricchito la discussione dei precedenti decenni, divenendo patrimonio di milioni di persone? D. Siamo al requiem dell’intellettuale di sinistra. Lei lo celebrò nel 1996 con il saggio La sinistra alla prova. R. Sì, l’intellettuale di sinistra critico è divenuto nel tempo il relitto di un’età in cui si pensava per grandi sistemi e per grandi contrapposizioni, e si osava aspirare a grandi obiettivi. Poi s’è trattato di governare la mediocrità, e per questo sono occorsi strumenti più circoscritti, neutri, e più 92

parziali. Se serve una collaborazione – ma questo accade sempre più di rado, direi quasi mai – viene richiesto un contributo su singoli segmenti. All’intellettuale critico è subentrato quello flessibile, «usa e getta». Oggi nel Partito democratico non c’è più nessuna discussione di tipo culturale. D. Se il vecchio Pci si nutriva di Storia fino a rischiare l’indigestione, ora il Pd appare del tutto digiuno. Il rapporto con la storia, a sinistra, continua a oscillare tra imbalsamazione e liquidazione. R. Sì, sono d’accordo. Quello che sostanzialmente non si stabilizza, non diventa «costume» né intellettuale né politico (per riprendere l’espressione leopardiana), è il rapporto critico con il proprio tempo, quel momento magico e in sé per sé straordinario in cui si conosce e contemporaneamente si indicano le coordinate per cambiare. Invece, o si soggiace al «senso comune» dominante o si liquida qualsiasi rapporto con il passato, storia, ideologia o valori che siano. In ambedue i casi si fa il deserto. D. Ora che ci troviamo a recitarne il requiem, devo chiederle quali contributi reali abbiano portato gli intellettuali di sinistra ai processi di trasformazione in Italia. Sono stati fattori di innovazione o – come alcuni sostengono – di ritardo e freno? R. Se si parla di bilanci, bisogna partire da dati di fatto. Il dato di fatto fondamentale è rappresentato dall’Italia com’era. Su quest’Italia, tradizionalmente, gravavano tre ataviche fragilità: la netta separazione tra paese ufficiale e paese reale; un debole senso dello Stato; il disprezzo per le forme di educazione collettiva, di massa. Su questi tre terreni la presenza comunista, più politica che intellettuale a dire il vero, ha agito positivamente: ha avvicinato di più le masse alla politica, le ha sottoposte a un processo di educazione collettiva, ha – paradossalmente per un partito ten93

denzialmente antisistema, rivoluzionario – rafforzato presso quelle masse il senso dello Stato. È vero poi che a quella cultura risultavano prevalentemente estranei le innovazioni culturali, i nuovi specialismi, le nuove frontiere del sapere: su tutto questo ho indicato i nomi e i luoghi dell’innovazione, a proposito degli anni Sessanta, che da questo punto di vista furono decisivi. Chi impediva in Italia agli intellettuali comunisti di prenderne atto? Mica c’era il Kgb! Se qualcuno l’ha fatto e altri no, senza che questo abbia provocato delle stragi, vuol dire che si poteva scegliere. D. Il Grillo-parlante muore schiacciato sotto il martello di Pinocchio. È una sua metafora di qualche anno fa. R. Se si rilegge Pinocchio – questo straordinario apologo del nostro «essere italiani» – colpiscono le battute conclusive del dialogo tra il burattino discolo e indisciplinato e il suo Grillo-parlante. «Povero Pinocchio, mi fai proprio compassione», dice il Grillo-parlante. «Perché ti faccio compassione?». «Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno». A queste ultime parole, prosegue Collodi, «Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno lo scagliò contro il Grillo-parlante. Forse non credeva nemmeno di colpirlo: ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare cri-cricri, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete». D. È questo il destino dell’intellettuale? R. La metafora vale soprattutto per gli ultimi anni che ho tentato sia pur schematicamente di tratteggiare. È la raffigurazione simbolica dell’irritazione provocata dai Grilliparlanti nell’agone della politica, fino a restare inascoltati o schiacciati sotto una martellata: più o meno la stessa cosa! A spiazzarli è intanto intervenuto uno straordinario competitore, che è la televisione. 94

Capitolo V

LA «CIVILTÀ MONTANTE»

D. Il ruolo pedagogico esercitato dai partiti di massa, e in parte anche dalla stessa classe dei colti, nel corso degli ultimi vent’anni è stato ereditato dalla Tv. R. Sì, la televisione è un grande intellettuale collettivo, persuasore di massa, con una strumentazione e un radicamento enormemente più allargati rispetto a quelli del più tradizionale maître à penser; essa supera agevolmente tutte le barriere costituite dall’analfabetismo, dall’assenza di cultura e perfino dalle differenze politiche e ideologiche. L’intellettuale tradizionale può contare soprattutto sulla parola scritta, che richiede pur sempre un certo livello di alfabetizzazione. La televisione conta soprattutto sulla parola detta e sull’immagine, che invece non hanno confini. È insomma uno strumento fondamentale di una civiltà di massa globalizzata (anche se ormai non più il solo: basti pensare ai processi di comunicazione telematica). Per uno come me è difficile giudicare questo processo. Mi rendo conto di essere portato a coglierne più gli aspetti negativi che quelli positivi. Alcuni dati, però, mi sembrano oggettivamente incontestabili. Questo straordinario mezzo non solo non è divenuto mediatore di nuove figure intellettuali che ereditassero la parte più autentica dell’esperienza passata, lo spirito critico e l’autonomia di giudizio. Ma è anche un potentissimo strumento di ap95

piattimento dell’immaginario. In Italia le personalità che esprime non hanno generalmente quel tratto di «grandezza» proprio di talune star televisive americane: l’individualità spiccata è da noi sostituita da una medietà affollata e indistinta. D. Questo perché è accaduto? Forse perché c’è stata un’iniziale resistenza al mezzo televisivo da parte del ceto colto? Uno spaesamento indagato, tra gli altri, da Karl Popper. R. Probabilmente questa resistenza è reale. Io stesso confesso la mia inettitudine a confrontarmi da pari a pari con il mezzo televisivo, preferendo di gran lunga quelli tradizionali. Ma non credo che il problema sia solo nella goffaggine mediatica dei savants. Se tracciamo una storia della televisione italiana, l’elemento culturale – che pure era presente nella sua prima fase – è andato sempre più esaurendosi a vantaggio della componente commerciale. In Rai, al principio, lavoravano personalità sofisticate quali Umberto Eco e Raffaele La Capria; oggi prevale il Gabibbo, il pupazzo di Canale 5 che parla in modo insensato. Un tempo esisteva L’Approdo, raffinata tribuna di cultura; oggi le sorti della sinistra si giocano intorno all’Isola dei famosi. Del resto, accade progressivamente dentro il piccolo schermo quel che succede nella società e nel costume italiani. Sono tra gli effetti devastanti dell’innesto nella nostra particolarissima storia della più globale «civiltà montante». D. Che cosa intende per «civiltà montante»? R. Distinguerei la riflessione in due parti. Prima occorre analizzare che cos’è questa nuova «civiltà montante» nel mondo globalizzato. Poi però occorre soffermarsi sugli esiti nefasti della civiltà massmediatica sull’anomalia italiana, segnata già in passato da arretratezza culturale, da una debole identità nazionale e una congenita fragilità delle sue classi dirigenti. L’Italia, infatti, distrugge siste96

maticamente le proprie élites: sociali, politiche, culturali e persino produttive. Le minoranze intelligenti e attive sono sempre state cancellate dall’azione concorde delle maggioranze passive e di potere (finte élites più masse). Ma su questo ci soffermeremo più avanti. Più in generale, la «civiltà montante» si compone di fattori diversi, però in stretta relazione tra loro. Il primo elemento è rappresentato dalla crescente e smisurata diffusione degli strumenti di informazione, che mettono in rapida comunicazione segmenti anche molto distanti dell’universo umano. Per la prima volta nella storia, e non senza forme di resistenza anche sanguinose, si determinano nel mondo forme sempre più omogenee del vivere e del pensare. Questo processo di omogeneizzazione universale non sarebbe possibile se non si verificasse contemporaneamente un processo analogo nell’economia e negli assetti industriali. L’omologazione intellettuale viaggia sui binari dell’omologazione economica e sociale, che tende ad azzerare le colossali differenze che ancor pochi decenni fa caratterizzavano i diversi comparti mondiali. Tutto ciò incide sulle condizioni di vita di miliardi di persone, che tendono a muoversi in una direzione sostanzialmente identica, pur nella perdurante diversità dei sistemi politici. D. Questo che cosa significa? R. Non è stato necessario che la Cina comunista cambiasse regime per adottare tale modello, peraltro nelle sue manifestazioni più estreme. Questo significa che il modello economico è più forte delle contrapposizioni politico-istituzionali. È stato insomma smentito il dogma secondo cui capitalismo e democrazia costituivano una sintesi inscindibile (anche se, in un più lungo futuro, è facile prevedere che la questione si riproporrà). Per la «civiltà montante» questo è un fattore di potenza straordinaria. È difficile immaginare di introdurre delle varianti 97

significative in questo processo che avanza in modo inarrestabile. Anche se sono portato a ritenere che l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti possa rappresentare un tentativo anche in questo senso: sviluppo capitalistico sì, ma governato e regolato. D. Nella «civiltà montante» è cambiato anche il paesaggio umano. R. Qui interviene il terzo elemento, fondamentale: l’avanzare sulla scena d’una enorme e indistinta massa di persone, una moltitudine che viene dopo la fine dei grandi conflitti sociali otto-novecenteschi. Essa si distingue in modo netto dalle masse comparse in Europa come effetto della rivoluzione industriale. Quelle erano caratterizzate da un forte spirito conflittuale, alimentato dall’aspirazione (nutrita, come abbiamo visto, anche dalle sollecitazioni degli intellettuali) a una società più giusta. Molto schematizzando, nel corso del XIX e XX secolo, la lotta contro lo sfruttamento accomuna in una visione di fondo comunisti e socialdemocratici, fino al totale trionfo dell’economia capitalistica, che riduce significativamente l’efficacia di qualsiasi ideologia alternativistica. Questa vittoria segna l’ingresso nella geografia sociale di enormi masse prive di caratterizzazioni precise, in cui l’elemento antagonistico sembra attenuarsi a vantaggio di comportamenti sempre più omogenei. Ne parla Toni Negri nel suo volume Impero, ma con una connotazione positiva che francamente non capisco. Sarei tentato di dire che in questa nuova massa tendono sempre più a confondersi – nell’elaborazione e nella difesa dei valori – le tradizionali componenti proletarie, piccolo-borghesi, medio-borghesi. Al tempo stesso le élites economiche e finanziarie diventano sempre più potenti e sempre più ristrette. Ne discende una progressiva emarginazione di quelle forze politiche, sociali e intellettuali le quali facevano tradizional98

mente appello alla possibilità di una società più giusta o semplicemente di un «mondo migliore». D. Insomma, non c’è più il popolo tradizionalmente inteso. Questa massa ha preso il posto della classe operaia, da lei un tempo quasi mitizzata. R. È da qui che nasce quel singolare fenomeno, che molti analisti hanno descritto senza spiegarlo, per cui le tradizionali forze progressiste, sia politiche che intellettuali, sembrano pensare ed agire in difesa del vecchio, a sostegno di ciò che muore, e da «progressiste» quali erano si presentano sempre più come «conservatrici»: difendono infatti gli spezzoni del mondo che fu, mentre gli homines novi, i «berluscones», pensano ed agiscono in perfetta coerenza con gusti, tendenze e valori della massa globalizzata. Non so se nessuno l’abbia mai confessato apertamente, ma per molti di noi l’operaismo ha rappresentato anche l’idea che la classe operaia fosse il nuovo ceto dirigente, dotato di caratteristiche intellettuali più forti e più innovative rispetto alla classe sociale contro cui il movimento operaio combatteva. La sua scomparsa dal paesaggio sociale e antropologico italiano è stata motivo di grande impoverimento politico e culturale. D. Però oggi rivaluta la classe avversaria. Allora non agiva anche un elemento di santificazione? R. Non direi. Negli anni Sessanta la classe operaia ha giocato un ruolo enorme nello svecchiamento dei parametri culturali. Si potrebbero fare innumerevoli esempi, anche al di fuori dell’esperimento operaista. La rottura degli equilibri gerarchici tradizionali, soprattutto a livello giovanile, l’acquisizione di nuovi valori solidaristici e umanitari, persino la diffusione di nuove discipline scientifiche (la sociologia, la scienza delle comunicazioni, la psicologia) hanno contratto un debito con le lotte operaie di quel decennio. 99

D. I processi di sfaldamento del ceto operaio, in Italia, furono analizzati da economisti come Paolo Sylos Labini. Intanto è cresciuta enormemente l’«omologazione» avvistata con lucidità profetica da Pier Paolo Pasolini. Fu lo scrittore a denunciare fino all’ultimo «l’ideologia del consumo», il progressivo dilagare di un nuovo potere definito «totalitario», «degradante» e «corruttore». Come premessa del riscatto, il benessere sostituisce la cultura. R. Alla visceralità di Pier Paolo Pasolini affiancherei – da parte mia privilegiandola – la razionalità di Italo Calvino, e forse non è un caso che a lanciare l’allarme siano stati i due più grandi scrittori italiani di questo secondo Novecento. Nell’ultima fase della sua produzione letteraria, Calvino era dominato dall’ossessione d’una nuova «pestilenza», che contagiava il linguaggio ma anche la vita. Essa si caratterizzava come opacità e piattume – della lingua e del pensiero – che finiva per neutralizzare le stesse forme espressive e la conoscenza. È quella civiltà del chiacchiericcio che caratterizza la comunicazione di massa. Ho recentemente ripreso in mano le sue Lezioni americane, scritte nel 1985, e le ho trovate addirittura profetiche. Scrive Calvino: «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione nelle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze». Il ragionamento calviniano non si ferma alle parole, ma invade anche il mondo delle immagini, che è quello ormai più diffuso: «una pioggia ininterrotta di immagini», «immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato» ecc. Si dovrà ammettere che si tratta di una descrizione impressionan100

te. Certo, si potrà pur sempre dire che Calvino, come e più di me, appartiene a un mondo del passato, dove vigevano regole e costumi che sono stati spazzati via, appunto, dalla «civiltà montante». Non è illecito chiedersi, però, se nel grido d’allarme dei due grandi trapassati non ci sia qualcosa di cui tener conto, se si vuol evitare il declino della civiltà, di «ogni» civiltà. D. Perché sottolinea che a lanciare l’allarme siano stati due scrittori? R. Perché la loro disperata protesta dimostra che non v’è stata distrazione da parte del ceto colto. Smentisce in sostanza un altro luogo comune sulla storia degli intellettuali che consiste nel sottolineare il loro algido disimpegno. Pasolini e Calvino si preoccupano che questa nuova cultura di massa, nelle forme in cui si manifesta, possa divenire un elemento molto negativo per la stessa coscienza civile degli italiani. E accosterei alle loro analisi le battaglie condotte negli stessi anni da Tullio De Mauro, insieme ad altri studiosi, sul piano delle conoscenze linguistiche. D. De Mauro richiama l’attenzione sulla qualità dell’alfabetizzazione degli italiani. R. Il livello di conoscenze linguistiche negli anni Ottanta era sicuramente cresciuto, rispetto alla palude dell’Italia postunitaria, grazie all’espansione del sistema scolastico, ma anche grazie ai nuovi strumenti di comunicazione di massa. È ormai un luogo comune sostenere che l’italiano negli anni Ottanta diventa per la prima volta una lingua nazionale di massa in conseguenza anche del messaggio televisivo. Però gli studiosi mettono in guardia: attenzione, questa alfabetizzazione può rovesciarsi nel suo contrario se non viene accompagnata da un’educazione critica e da una reale capacità di lettura, che la Tv da sola non può dare. Occorrevano altre forme di pedagogia collettiva. 101

D. E invece? R. È accaduto che una più diffusa pratica della lingua italiana non sia stata accompagnata da quella accresciuta coscienza civile che solo può consentire una reale espansione della conoscenza nei diversi campi del sapere. Gli studiosi lo chiamano «analfabetismo di ritorno»: la gente in teoria sa leggere, ma non capisce ciò che legge, e di conseguenza smette di leggere, e alla fine non sa più leggere. Ed è qui che si spezza il processo «tradizione culturale scritta-mezzi di comunicazione di massa-accresciuta alfabetizzazione», con conseguenze disastrose: l’alfabetizzazione più diffusa, invece di essere uno strumento in più, diventa un ostacolo nel percorso che potrebbe ricondurre a quella tradizione intellettuale da cui era partito il processo. D. Un’alfabetizzazione solo apparente. R. Un’educazione così elementare che è facile dimenticarla. Ed essendo limitata all’interpretazione dei segni, rinuncia a scoprirne i significati più profondi. C’è un sacco di gente, in Italia, anche nelle classi alte, che non ha mai letto un solo libro in vita sua. D. Lo straordinario successo della Tv commerciale, e dei suoi programmi più scadenti, può essere interpretato anche con questa scarsa alfabetizzazione degli italiani? R. Mi pare che cominci a delinearsi in questo modo un circolo poco virtuoso, al quale aggiungerei un elemento: gli stereotipi televisivi attecchiscono con straordinaria facilità nell’immaginario collettivo, con l’effetto di forgiarlo uniformandolo. Certo, questo contribuisce a creare una «civiltà unica mondiale», che senza ombra di dubbio rappresenta il nostro destino. Ci si può chiedere, però, se è proprio necessario che questo avvenga sotto forma di appiattimento mentale generalizzato. Forse in questo sen102

so la «vecchia cultura» ha ancora un compito da svolgere: quello della «contraddizione» che migliora la qualità complessiva del processo. D. A proposito del falso che sostituisce il vero, è d’accordo con Jean Baudrillard secondo cui la Tv uccide la realtà? Il delitto perfetto è anche il titolo del suo saggio. R. Non sarei così categorico. Il mezzo televisivo – questo sì – collabora alla costruzione di un immaginario molto diverso da quello tradizionale, che è parte essenziale della nuova «civiltà montante». Qual era l’immaginario tradizionale? Naturalmente faccio riferimento a quello delle classi dominanti, più facile da ricostruire sulla base della produzione artistica, letteraria ed anche filosofica degli ultimi secoli. La mia tesi, come ho più volte ripetuto, è che il suo carattere preminente consista nella valorizzazione assoluta dell’individualità. Questo spiega perché arte, letteratura, musica e filosofia vengano messe ai vertici del sapere umano: l’homo faber, l’uomo creatore, impersona un «tipo» in cui la «differenza» conta di più, molto di più, di ciò che è identico, comune. Al «prototipo», certo, possono seguire delle repliche, delle ripetizioni: è ciò che costituisce le tradizioni. Però quel che «vale» veramente è il primo esemplare, quello da cui ha inizio la catena: in fondo, letteratura, poesia ecc., non sono che forme di grande artigianato. Al contrario, l’attuale immaginario collettivo predilige modelli seriali e ripetivi. Ciò che è comune finisce per essere apprezzato più di ciò che è diverso. Ora la Tv è soggetto e insieme oggetto (e persino vittima, talvolta) di questo immaginario massificato, nel senso che essa si afferma come potentissimo mezzo di comunicazione solo quando le platee sono pronte a ricevere questo messaggio indifferenziato, alimentandolo in una spirale senza fine. Per tornare a Baudrillard: la Tv, secondo me, non uccide la realtà, ma la rappresenta così come le grandi masse immaginano che sia. 103

D. Non c’è un aspetto di falsificazione? R. No, quella televisiva è per molti milioni di persone l’unica realtà percepita. Nel sistema di valori, il primo precetto è comparire in Tv. Non importa se mortificati, sbeffeggiati, ridicoli, persino resi in una versione oscena, come capita così spesso nel Grande Fratello: l’importante è passare nella scatola magica. La nuova filosofia mediatica è fondata su di un principio assoluto, secondo il quale si esiste in quanto si è visti in Tv. Il successo dei cosiddetti reality si spiega in questa chiave: là trionfano gli eroi del nuovo immaginario collettivo. Una seduzione ipnotica alla quale sono esposti molti bambini e ragazzi, con effetti talvolta sconvolgenti: protagonisti di tragedie familiari che improvvisamente s’animano davanti alle telecamere. Contro questa pedagogia di massa l’intellettuale ha armi assai spuntate. D. Siamo dinanzi a una cultura globale di massa essenzialmente dispotica. Il linguista Raffaele Simone l’ha definita in un suo saggio recente «il mostro mite», la faccia metamorfica che il Leviatano ha assunto nell’era globale. È «un’entità che non ha corpo né indirizzo postale, che non risiede in nessun luogo ma ha una sede diffusa, perché costituita da quanti governano la cultura delle masse del pianeta». Il «mostro mite» appare incentrato sui consumi, l’ubiquità dei media, l’entertainment. Promette benessere, ha un fascino irresistibile. R. Sì, l’analisi di Simone mi sembra calzante. In questa nuova civiltà massmediatica, il pensiero critico non ha diritto di cittadinanza. Non so se sia ortodosso in termini marxistici, ma io stabilirei una relazione molto stretta tra rilevanza dell’individualità e atteggiamento critico nei confronti del contesto circostante. Tanto più l’individualità viene appiattita, tanto meno vive lo spirito critico: e anche viceversa. È una fenomenologia non immune da in104

clinazioni totalitarie, nel senso che le sue conseguenze – seppure ottenute con mezzi radicalmente diversi – non sono dissimili dall’appiattimento voluto e praticato con strumenti coercitivi dal totalitarismo novecentesco: omogeneità di giudizio, conformismo di massa, uniformità nei consumi, tutti imposti da strategie di carattere economico e antropologico. Questa forza di omologazione universale attraversa tutti i campi, dal cibo all’informazione, dalla politica alla cultura. D. Pur segnata da una progressiva omogeneizzazione della produzione intellettuale, in questi ultimi due decenni abbiamo assistito a un’enorme crescita dei consumi culturali, in Europa e negli Stati Uniti. Ma un uomo di sinistra come lei non dovrebbe valutare positivamente questa espansione? Non è un po’ aristocratico rimpiangere le élites del passato? R. Ogni passaggio della storia mondiale, nel corso degli ultimi millecinquecento anni – come vede, risalgo alla crisi del mondo antico – ogni passaggio ha significato un allargamento della sfera delle possibilità intellettuali. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che dal V secolo in poi non c’è mai stata interruzione in questo processo. Persino i fenomeni religiosi più rilevanti – si pensi alla Riforma, ad esempio – si sono mossi in questa direzione. Ed è vero che ogni passaggio è stato accompagnato dalle lamentele nostalgiche di quelli che nella fase precedente occupavano un posto di preminenza, anche in ragione del fatto che la sfera delle competenze culturali si presentava (almeno apparentemente, e almeno all’inizio) più ridotta, o comunque talmente trasformata da sembrare scomparsa. Ciascuna svolta ha segnato in sostanza il declino della classe intellettuale e insieme della classe sociale precedenti. E la società è divenuta sempre meno aristocratica. D. Che cosa intende? 105

R. L’ultima simbiosi «positiva» è stata rappresentata dal nesso borghesia-intellettuali, che ha sostituito il precedente nesso nobiltà-gens de lettres recuperandone alcune delle dinamiche originarie: mi riferisco al rapporto dialettico, talvolta molto conflittuale, tra la classe dominante, che aspira anche a «governare» il potere culturale, e il ceto preposto alla produzione di conoscenza. Potrei anche aggiungere che l’«operaismo» ha rappresentato un tentativo di riprodurre un rapporto analogo tra intellettuali e classe operaia: ma con esiti incomparabilmente minori, per la tremenda sproporzione delle forze di cui altrove ho parlato. L’ultimo caso davvero operante nella storia è stato dunque il rapporto tra borghesia e ceto intellettuale, che attraversa l’Ottocento e gran parte del Novecento. Non essendo né un sociologo né un analista delle classi sociali, sarei in difficoltà se mi si chiedesse che cosa oggi ha rimpiazzato la borghesia, cioè in che termini si possa definire il ceto che ha sostituito nel potere politico la vecchia borghesia, ma non avrei dubbi sul fatto che essa sia scomparsa. Questa ondata impetuosa del capitalismo globale non mi sembra abbia prodotto una classe sociale dotata della medesima identità. Il ceto imprenditoriale che gestisce oggi la globalizzazione è molto distante dalla borghesia che operava in Europa fino a qualche decennio fa. Forse è anche per questo che il nuovo ceto non avverte la necessità di una classe intellettuale che lo rappresenti nel campo della conoscenza. D. Se posso sintetizzare in modo brutale: non c’è più la classe operaia, non c’è più la borghesia, non ci sono più i maîtres à penser. In sostanza è profondamente modificato quel paesaggio sociale e antropologico in cui era nato l’intellettuale come ceto. L’abbiamo ricordato al principio di questa conversazione: lei colloca la nascita dell’intellighenzia all’inizio della rivoluzione industriale. Il turbocapitalismo finanziario ne celebra l’epitaffio. 106

R. La «civiltà montante» ha liquidato figure socialmente caratterizzate e dotate di una forte e autonoma identità come operai, borghesi e intellettuali (per riassumere un po’ schematicamente il nostro discorso). Una marginalizzazione, beninteso, che non sempre corrisponde alla realtà, nel senso che esistono ancora milioni di operai che lavorano nelle fabbriche o esistono gruppi di savants più o meno funzionanti nelle diverse realtà nazionali. Ma sono meno visibili, non essendo più chiamati a svolgere le funzioni che tradizionalmente svolgevano, oppure essendo stati anche ferocemente combattuti quando tentavano di farlo (le veementi campagne antioperaie che hanno caratterizzato il panorama italiano negli ultimi trent’anni ne sono una testimonianza). Potremmo dire che l’esaurimento del modello taylorista dalla fabbrica s’è riverberato sulla realtà sociale e intellettuale, cancellando anche qui le differenze. D. Questa trasformazione è stata sintetizzata metaforicamente da Zygmunt Bauman nel passaggio dalla figura dell’intellettuale «legislatore» a quella dell’«interprete»: da «chi arbitra e sceglie in base al proprio superiore sapere tra opinioni diverse per la realizzazione del miglior ordine sociale» a «chi, abbandonate le ambizioni universalistiche, mette la propria competenza professionale al servizio della comunicazione tra soggetti sovrani». La «decadenza degli intellettuali» – questo il titolo del saggio di Bauman – si colloca nel passaggio tra moderno e postmodernità. R. Le dico subito che io diffido di quelle formule concettuali e storiche fondate sulla posticipazione o sull’anticipazione di categorie fondative del ragionamento storico-culturale. Mi pare che il ragionamento diventi approssimativo. D. I paladini del postmoderno hanno però avuto un’influenza rilevante anche all’interno della comunità intellettuale. In La condizione postmoderna Lyotard teorizza l’e107

saurimento delle grandi narrazioni come l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo. Qualsiasi visione del mondo è liquidata come una favola. Converrà anche ricordare la riflessione di Bauman sul concetto di postmodernismo, originariamente circoscritto alla storia dell’arte e poi esteso alla filosofia e alle scienze sociali. Secondo lo studioso, esso segna un nuovo clima intellettuale fondato su un’unica convinzione: la modernità è finita e con essa si sono esaurite le sue certezze. Il mondo postmoderno non è più adatto ai maîtres à penser addestrati a fare i «legislatori». R. Secondo me (credo più esattamente) il moderno compie un gigantesco percorso lineare che va dall’Umanesimo e dal Rinascimento italiano fino alla seconda metà del Novecento: un tragitto segnato essenzialmente da tre categorie. Intanto, come ho già detto, la creatività individuale. La creatività individuale non ha la medesima rilevanza nell’età che precede questo lungo viaggio, ossia nel Medio Evo, il che non esclude che vi fossero anche allora espressioni di creatività individuale, ma perfino esse si manifestarono in forme che negano la categoria fondativa dell’individualità. Certo, sembra difficile non riconoscere che Tommaso d’Aquino, concependo e scrivendo la Summa Theologiae, compia un’opera di altissima creatività e individualità: il suo sforzo concettuale, però, è volto a dimostrare che tutto nell’individualità umana è riconducibile a un principio superiore, che, nel risolverla, la nega (non si dovrebbe dimenticare che il filosofo di papa Ratzinger è Tommaso, e questo spiega anche razionalmente perché la Chiesa di Roma stia sviluppando uno sforzo colossale per riportarci al Medio Evo: lo dico sine ulla ira et studio, ma è inequivocabilmente così). Secondo elemento della modernità è la concezione del lavoro economico come produzione di beni utili alla collettività, naturalmente commercializzabili, quindi fonte di profitti, ma in un contesto caratterizzato da una visione etica dell’economia. Il terzo elemento è costituito da una conce108

zione della politica come gestione del bene comune. Dentro questo percorso c’imbattiamo in Machiavelli, ma anche nella rivoluzione egalitaria di Robespierre e nell’ottobre rosso di Lenin. Potrà apparire un po’ azzardato interpretare Lenin o Robespierre come i Machiavelli della rivoluzione, ma forse non lo è del tutto. Accanto a queste concezioni, diciamo così, estremistiche del processo, ci sono Bodin, Montesquieu, Tocqueville, e c’è lo «Stato sociale», ossia la versione socialdemocratica e liberaldemocratica, moderata e riformistica, della modernità. D. Poi che cosa è accaduto? R. Nel corso del Novecento questa triade – individualità, etica economica, politica come gestione del bene comune – è entrata fortemente in crisi. A demolirla hanno provveduto innanzitutto i totalitarismi novecenteschi, non a caso anche loro tutti antiborghesi e antielitari, a loro modo omogeneizzanti e omologanti, illiberali, espressione del potere tirannico di una minoranza sulla collettività (ma in questo discorso non bisognerebbe dimenticare il largo, larghissimo consenso popolare, che ad un certo momento conseguirono i tre grandi totalitarismi novecenteschi, fascismo, nazismo e comunismo: assomiglia molto al consenso popolare democratico di massa, cui oggi assistiamo). Poi è intervenuto il colossale processo di cui stiamo parlando, la «civiltà montante», che ha trovato un corpo intellettuale già indebolito, messo in ginocchio, non più capace di opporre resistenza al nuovo dispotismo del consumismo e della cultura di massa. Ecco, io direi che il moderno finisce nel corso del Novecento, quando quelle tre caratteristiche dominanti – da me indicate ovviamente in modo molto schematico – sono messe in discussione, prima dai totalitarismi nazifascista e comunista, successivamente in maniera meno cruenta, assai meno dolorosa, ma molto più efficace, dal sormontare della civiltà democratico-capitalistica di massa. Se tutto questo è «postmoder109

nità», io non lo so. Però occorrerebbe trovare una definizione in positivo, non cavandosela con i «pre» o i «post». D. Quel che sottolinea Bauman – che non è un celebratore della postmodernità – è la rinuncia della «ricerca della verità». Il tratto prevalente oggi – egli dice – è l’insicurezza. Se i pensatori dell’età moderna non hanno mai smesso di cercare i fondamenti della logica, della moralità, dell’estetica, dei precetti culturali, delle regole del vivere civile, e soprattutto non hanno mai smesso di credere che la ricerca avrebbe avuto successo, il postmoderno si distingue proprio per l’abbandono della ricerca, nella persuasione che essa sia futile. In questi decenni, in sostanza, è stato screditato lo status particolare che la tradizione illuminista assegnava alla conoscenza. Non esiste più una «verità universale», per dirla con Michel Foucault. R. Mi verrebbe da dire, al contrario di quanto sostengono i guru della postmodernità, che in questa civiltà massmediatica ogni singolo fenomeno assurge a verità assoluta. Tutto è straordinariamente vero, anche il falso. Pensi a quello straordinario fenomeno dell’intrattenimento di massa fondato sulla riproduzione mimetica della realtà: per i milioni di turisti che ogni anno si riversano al Venetian – complesso di Las Vegas meticolosamente e mostruosamente a ricalco della nostra Venezia – non c’è differenza tra vero e falso. Il falso ha sostituito il vero, talvolta superandolo in efficacia e credibilità. Questo secondo me accade proprio perché si è esaurita l’intelligenza critica, la cui funzione non è consistita – come sostengono a posteriori gli adoratori del postmoderno – nell’affermare verità assolute, ma nel gerarchizzare le diverse verità e nello spiegare perché una cosa è più o meno importante di un’altra. Il giudizio critico non si fonda su verità assolute ma sul senso del relativo. Anche nelle sue manifestazioni più sistematizzate, la cultura occidentale ha dato prova di questa capacità. Prendiamo pensatori come Kant 110

o Hegel: nei diversi segmenti del loro sistema più complessivo, essi insegnano a riconoscere gerarchicamente i diversi fenomeni della storia, distinguendo – mi si perdoni la mostruosa schematicità – ciò che è progressivo da ciò che non lo è, il bene dal male. L’«intellettuale legislatore» non è dunque quello che elargisce pensiero assoluto, ma quello che formula e propone pensiero critico. D. Lei contesta anche la definizione di «intellettuale universalista» di cui Foucault celebra l’estinzione. R. Assolutamente. L’ho già detto all’inizio, e lo ripeto: i grandi e più autentici maîtres à penser del Novecento erano dei grandi specialisti, spesso scopritori di nuovi territori della conoscenza. Il messaggio che queste scoperte specialistiche veicolavano diventava materia di riflessione collettiva e finiva per improntare altri comportamenti intellettuali. Ora il venir meno di queste figure non solo ha impoverito il dibattito pubblico del contributo che in tal modo proveniva dai singoli specialismi, ma ha indebolito gli stessi specialismi. La crisi è rifluita all’interno della stessa ricerca, venendole meno il nutrimento rappresentato dalla relazione con il sociale. D. Può farmi degli esempi? R. Pensiamo alla funzione formativa esercitata dalla cultura scientifica, in particolare dalla fisica, tra metà Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Al principio del XX secolo la teoria dei quanti cambiò la geografia mentale di diverse generazioni, così come – venendo alla nostra storia nazionale – la Scuola di via Panisperna a Roma ha modificato comportamenti intellettuali fino a quel momento egemonizzati dal modello idealistico-crociano e dunque – possiamo dire – umanistico in senso tradizionale. Ora la ricaduta formativa degli specialismi sulle masse s’è completamente esaurita. E la stessa università – mi ri111

ferisco soprattutto all’Italia – sembra aver perso questa funzione, sempre più corpo separato rispetto alla società. D. Nel suo requiem per la scomparsa del maître à penser, Bauman sostiene che nella società dei consumi la funzione dell’intellettuale legislatore è stata espropriata dal mercato. È quindi il meccanismo del mercato che si fa carico del ruolo di giudice, di guida dell’opinione, di verificatore dei valori. R. Non mi pare però che siamo in presenza di un materialismo feticistico. Anche la corrispondenza, che pure si verifica, tra valori dominanti e mercato è il frutto di una serie di mediazioni. Siamo dinanzi a un nuovo sistema culturale, ramificato e diffuso, in cui è tramontata quella figura intellettuale tradizionale il cui fondamento consisteva nello stabilire gerarchie e indicare valori. A questo nuovo sistema concorrono diversi fattori: il mercato è senz’altro uno di questi. Ma non trascurerei la politica o le trasformazioni economiche più generali. Insomma, il sistema può anche fare spavento, ma non è univoco, come sembra risultare dalle analisi più catastrofiste. Le relazioni e le interazioni contano ancora molto: bisognerebbe tenerle più presenti, invece di cadere anche noi «intellettuali critici» nella trappola della seduzione dell’«assoluto presente», che da sé spiega tutto. D. È indubbio però che oggi a decretare il successo di uno scrittore, di uno spettacolo o di un programma televisivo siano soprattutto i grandi numeri. Sempre più prepotenti appaiono le logiche dell’industria culturale: la critica letteraria è stata soppiantata dal marketing, la ricerca della qualità viene sostituita da quella spasmodica dell’audience. Perfino nell’amministrazione del patrimonio artistico la tentazione mercantile è fortissima. R. Sì, certo. La tentazione di considerare la cultura del passato un «giacimento» da sfruttare alla maniera d’un 112

pozzo di petrolio è fortissima. Così come da tempo ormai la società letteraria s’è dissolta, fagocitata dall’industria editoriale. E insieme ad essa sono tramontate le riviste e qualsiasi «ricerca di tendenza». Si è spezzato un filo. Però la partita non mi pare chiusa, anzi, semmai la si dovrebbe considerare programmaticamente aperta. Forse la questione va posta in altro modo. Noi assistiamo attualmente alla dissoluzione del vecchio impianto umanistico della conoscenza, rispetto al quale tentiamo di opporre degli antidoti. Per Italo Calvino uno strumento essenziale per resistere all’incombente epidemia pestilenziale nel linguaggio e nelle immagini è rappresentato dalla letteratura. Ci possiamo però chiedere se il nostro modo di guardare alla «civiltà montante» – mutuato da Calvino ma anche da Pasolini o Fortini – non sia in qualche modo vecchio, ancorato ai valori della tradizione culturale. D. Che cosa intende? R. Per spiegare tale passaggio, nella mia Storia europea della letteratura italiana ricorro alla categoria di «ultimi classici». Chi sono gli «ultimi classici»? Sono quegli scrittori che continuano a scrivere animati dal senso di un rapporto profondo con la tradizione, che è poi l’operazione che gli scrittori hanno sempre fatto: innovare sì, ma nel solco della cultura letteraria. Gli ultimi classici italiani, per portare degli esempi, sono Fortini, Pasolini e Calvino, assai più vicini ora di quanto apparisse quando erano all’opera e litigavano tra loro. Sono tutti e tre grandi innovatori, ma robustamente legati al filo della tradizione. A Pasolini sembrava un autore dell’altroieri Peire Vidal, e Calvino aveva lo stesso rapporto con Guido Cavalcanti. Non è un caso che un altro tratto che potentemente li accomuna sia l’allarme per la «civiltà montante». Ci si può chiedere però se queste forme di resistenza, queste forme di critica, non siano il prodotto di personalità intellettua113

li che agiscono e ragionano certo nobilmente ma in base a vecchi criteri, di cui la «civiltà montante» tende a disfarsi. D. Lei in sostanza si pone il problema se disponiamo di un’attrezzatura intellettuale adatta a cogliere le novità dell’attuale evo massmediatico. R. Mi chiedo se queste forme di resistenza – pur nella loro elevatissima qualità intellettuale – non siano però né in grado di contrastare i pericoli della nuova civiltà massmediatica né capaci di coglierne la ricchezza, pur nella diversità rispetto all’esperienza passata. Mi pare che la situazione presente sia proprio questa: la cultura della tradizione letteraria, ma anche della più ampia tradizione intellettuale occidentale, si infrange contro questo «mostro mite» – per riprendere l’immagine di Raffaele Simone – un Moloc dotato di straordinari poteri che nessuna forza intellettuale né individuale né collettiva ha mai avuto nella storia. Il grande dilemma è se il Moloc porti con sé valenze positive che il vecchio sguardo non è grado di cogliere. D. È come andare a una guerra assai sofisticata sul piano tecnologico, ma armati solo di baionette. R. Questo esempio è calzante. Pensi che nell’Orlando Furioso Ludovico Ariosto pronuncia una straordinaria condanna delle armi da fuoco. Esse, secondo l’autore, sono pestilenziali – tanto per riprendere la metafora di Calvino – perché sottraggono alla guerra i suoi valori di nobiltà ed eroismo individuale. Il più umile fante può spacciare – con un colpo della sua arma – il più illustre cavaliere. Perché dico questo? In ogni campo la tecnologia procede nel senso di sottrarre potere e qualità all’azione individuale, per attribuirli a una potenza superiore che è la tecnologia medesima (qualche richiamo a Heidegger a questo punto andrebbe pur fatto). Evidentemente nel campo degli armamenti e dello scontro bellico l’eroismo individuale ha 114

perso potere di fronte alle tecnologie messe in campo. E in fondo Ariosto reagiva nei confronti delle armi da fuoco non diversamente da come Calvino reagisce nei confronti della Tv o delle tecnologie informatiche. D. Mi sta dicendo che la tecnica – da sempre – è fonte di traumi per i paladini della cultura umanistica? In La cultura degli europei, lo storico inglese Donald Sassoon si diverte a fare una breve storia delle geremiadi con cui gli intellettuali di ogni evo hanno accolto le novità. Si parte da Socrate, che guarda con sospetto al testo scritto perché «avrà l’effetto di introdurre la dimenticanza», per arrivare a Baudelaire che nel 1859 biasima la fotografia, come causa dell’«impoverimento del genio artistico francese». Nel 1937 Paul Valéry si domanda se l’avvento della radio e dunque «d’una letteratura puramente orale o auditiva» non sostituisca la letteratura scritta. In quegli stessi anni Walter Benjamin, in un celebre saggio, suggerisce che «nell’era della riproducibilità tecnica» più un’opera d’arte viene riprodotta più perde la sua aura di unicità. Nell’era del web, a più riprese la morte del libro è stata annunziata e poi smentita. R. La storia della cultura umanistica è tutta punteggiata dai traumi legati ai passaggi storici della tecnologia, mutamenti vissuti il più delle volte come una minaccia al valore e alla qualità del lavoro individuale. Ci sono stati anche autori che hanno perfino lamentato il passaggio dalla scrittura manuale al testo stampato, per l’effetto innegabile di uniformazione che questo comportava. Tanto è vero che i libri a stampa sono stati a lungo immaginati e composti in maniera tale da non risultare troppo diversi dai codici manoscritti, paragonabili a loro volta ad autentiche opere d’arte. Di passaggi di questa natura ve ne sono stati altri, nella storia della cultura occidentale. L’industria editoriale, nell’Ottocento, cambia radicalmente i rapporti tra l’autore e il pubblico, trovando zelanti stroncatori in Sainte-Beuve e Thomas Carlyle. Più tardi la cul115

tura di massa avrà dei furiosi oppositori in intellettuali di ispirazione eterogenea, da Spengler ad Adorno, e ancora Marcuse e Horkheimer. D. La modernità di massa fin da principio ha inquietato l’intellighenzia occidentale, nelle sue diverse componenti. R. Sì, il filone «catastrofista» non è certo nuovo. Tra i suoi progenitori novecenteschi potremmo annoverare Ortega y Gasset o lo Spengler del Tramonto dell’Occidente, Julien Benda e anche – per certi versi – la Scuola di Francoforte. Sin dalla Grande Guerra, l’espansione crescente delle masse viene guardata con sospetto e malinconia, nella consapevolezza di una crescente marginalità del ruolo intellettuale. Ma se ci ponessimo in quel filone critico, dovremmo arrestarci davanti al «mostro mite» come paralizzati davanti a una sorta di Ananke da cui non può provenire che errore e catastrofe. Il nostro sforzo è invece di capire, trovando però anche degli anticorpi a un suo sviluppo incontrollato. D. Senza inclinare al catastrofismo, si può invece recuperare un pensatore come Alexis de Tocqueville, che anticipò gli aspetti di totalitarismo morbido della democrazia di massa. In La democrazia in America profetizza che «se il dispotismo venisse a stabilirsi presso le nazioni democratiche dei nostri giorni, sarebbe più esteso e più mite, e degraderebbe gli uomini senza tormentarli». Il «mostro mite» – secondo Raffaele Simone – fu anticipato con straordinaria lucidità in quelle pagine. R. Sì, Tocqueville fu un pensatore dal profilo bifronte, figlio dell’aristocrazia e politico della nascente società industriale di massa. Lo ha ben investigato il mio amico Umberto Coldagelli, anche in tempi molto recenti. Egli guardò con acume alla democrazia americana, una realtà sideralmente distante sia dal vecchio mondo feudale di 116

provenienza, sia dalla società francese liberalconservatrice in cui egli si trovò ad operare, tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. Del nuovo mondo colse profeticamente una nuova forma di totalitarismo beneducato, esercitato non con gli strumenti della brutalità poliziesca, ma attraverso i meccanismi di formazione e controllo del consenso. La sua descrizione fenomenologica della società di massa è esemplare. «Vedo una folla innumerevole di uomini simili e uguali che girano senza tregua su sé stessi per procurarsi piccoli piaceri volgari, con cui s’appagano l’anima. Ciascuno di loro, preso da canto, è come estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui l’intera specie umana; quanto al resto dei suoi concittadini, li ha accanto ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso e, se una famiglia gli resta pur sempre, si può almeno dire che non ha più patria». Stupefacente, no? Però Tocqueville non vide solo questo. Egli in sostanza provava ammirazione per un sistema dialettico nel quale al pericolo di un «totalitarismo beneducato» si potevano contrapporre degli antidoti. Fu un intellettuale per certi versi esemplare. D. In che senso «esemplare»? R. Veniva dal passato, visse nel presente e seppe guardare al futuro, cogliendone gli aspetti contraddittori. Questo l’hanno saputo fare in pochi nella storia intellettuale occidentale degli ultimi tre secoli. Con questo filone del grande pensiero critico moderno – in cui recluterei anche Karl Marx, capace di cogliere nell’ingranaggio capitalistico, prima di criticarlo, una straordinaria carica rinnovatrice – bisognerebbe cercare ancora di fare i conti, accantonando tentazioni catastrofiste. Ecco, io avvertirei l’esigenza di guardare al nuovo con questi strumenti. D. Però anche un mostro sacro come Tocqueville è stato in 117

anni recenti demolito da Edward Said per la sua politica coloniale in Algeria. Said lo liquida come «incarnazione tipica del maître à penser che pontifica sulle prevaricazioni in atto da qualche altra parte, giustificando le medesime pratiche in casa propria». Se da una parte Tocqueville non esita a criticare i maltrattamenti inflitti in America agli indiani e agli schiavi neri, dall’altra – nel sovrintendere alla politica francese condotta in Algeria dal maresciallo Bugeaud – sembra non tenere più conto degli stessi principi. R. Ma questo è assolutamente possibile e non mi scandalizza affatto. Tutti i ragionamenti che noi abbiamo fatto finora sui maîtres à penser valgono per una tradizione intellettuale fino a pochi decenni fa rigidamente circoscritta al mondo occidentale. Le altre culture e gli altri popoli venivano considerati entità trascurabili, ma qui dovremmo aprire un capitolo che forse ci porterebbe lontano. Mi limiterò a dire che il messaggio di tolleranza, che proviene dalla tradizione intellettuale occidentale, non ha eguali nel nostro mondo contemporaneo, nonostante i suoi limiti e i suoi innegabili egoismi. D. Torniamo alla nostra «civiltà montante». Visto che s’è presentata altre volte nella storia culturale occidentale, sotto specie di innovazione tecnologica, bisogna chiedersi se il passaggio che stiamo attraversando sia analogo a quelli precedenti o di portata ancora più dirompente. R. È una questione aperta. Mi domando se oggi non siamo nella stessa condizione dei nostri illustri progenitori che preferivano la lamentazione alla comprensione del nuovo. Oppure se questo nuovo passaggio sia di portata tale da costituire un vero salto, impensato e totalmente nuovo, rispetto alle forme precedenti. In altre parole, la trasformazione che stiamo vivendo è paragonabile al passaggio dal codice miniato all’era Gutenberg o è qualcosa di diverso? 118

D. Per quale direzione propende? R. Sarei tentato di dire che l’attuale civiltà massmediatica rappresenti un passaggio assai più radicale rispetto alla rivoluzione introdotta da Johann Gutenberg (1394/13991468) o alla pur smisurata crescita dell’industria culturale nel corso del Novecento. Le «civiltà montanti» precedenti erano comunque fondate sulla preminenza del testo scritto. Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, il tipografo di Magonza mette la tecnologia al servizio della parola scritta, che ne risulta sì modificata, ma non al punto da vedere mutate le proprie regole costitutive. Anzi, assicurandone una migliore diffusione, la stampa amplifica il potere delle parole. Aldo Manuzio (1450-1515), umanista erudito e fondatore di una celebre stamperia a Venezia, fa un’operazione straordinaria: s’incarica di ricostruire con le sue scelte, che oggi chiameremmo «editoriali», il canone della letteratura precedente, operandone una scelta intelligente e sensata. Egli seleziona ciò che a suo avviso vale la pena di mettere sotto torchio e ciò che deve rimanere codice manoscritto, destinato prevalentemente a biblioteche pubbliche e conventi. Il suo intervento si ferma su questa soglia: Manuzio non cambia i testi, anzi li valorizza, mettendoli in mano a un pubblico più vasto e socialmente più composito. Usa la tipografia per continuare una tradizione, diversa anche nel merito, ma tradizione. Anche le altre rivoluzioni nei secoli successivi conservano questo ossequio alla tradizione scritta. D. Ora invece? R. È cambiata la gerarchia dei linguaggi. La nostra tradizione culturale – che per Calvino e Pasolini era ancora fortemente operante – tende a diventare un fatto museale. Una persona colta deve certamente sapere che cos’è la Divina Commedia o l’Orlando Furioso, chi ha scritto Il Paradiso perduto o Gargantua e Pantagruel. Le possiamo 119

accreditare come nozioni proprie di una cultura media diffusa, come sapere che esiste la Primavera del Botticelli o il Tondo Doni di Michelangelo. Ma queste conoscenze sono come mummificate, non entrano nel circolo della formazione-informazione oggi dominante, nel senso che a queste due funzioni presiedono gli strumenti della tecnologia contemporanea, i cui esiti creativi e immaginativi sono ancora da scoprire. D. Sta dicendo che siamo «analfabeti molto informati»? Oggi si può essere a conoscenza di molte cose senza aver mai letto un rigo. Un tratto caratteristico di questa nuova era è il dispotico prevalere dell’immagine sulla parola scritta. L’atto del vedere si è dilatato fino a costringere a sudditanza qualsiasi altra attività conoscitiva. R. Anche questo è un fattore di novità. Nella cultura occidentale l’elemento visivo è presente, ma non tende mai a prevaricare sulla parola scritta. La grande tradizione figurativa s’affianca alla tradizione letteraria, in un confronto anche fecondo fondato sulle rispettive autonomie. Nella nostra «civiltà montante» non è più così. La parola scritta, nella grande comunicazione mediatica, scivola progressivamente in una zona di marginalità. Perfino gli scrittori non sono più capaci di salvaguardarla: la scrittura dei narratori italiani più giovani appare plasmata da codici estranei, rubati dalla Tv o dal computer. Ne scaturisce uno stile «volatile», che non ha più rapporto con il patrimonio semantico della nostra lingua. La sudditanza ai nuovi media è evidente anche nei discorsi dei nostri politici, semplificati e televisivi anche quando la luce dei media s’è spenta. In questa cornice la funzione intellettuale tradizionale – fondata essenzialmente su spirito critico, spiccata individualità, riconoscibilità pubblica – appare inesorabilmente destinata al tramonto. D. Un’esclusione antropologica e anche sociale? 120

R. Sì, il modello dominante è sideralmente distante dalle abitudini mentali del maître à penser, l’esclusione sociale ne è quasi conseguenza: la «civiltà montante», nella formazione del consenso, non ha più bisogno della sua mediazione. D. Però viviamo anche in un mondo ultratecnologizzato, che ha enorme bisogno di conoscenza. Se è vero che è stata la stessa tecnologia a mettere in un angolo il ceto colto, essa si nutre costantemente di nuove acquisizioni. Quindi c’è ancora richiesta di savants, pur con caratteristiche differenti rispetto alle figure tradizionali. Edward Said li definisce «professionisti della conoscenza», riferendosi ad analisti informatici, a coloro che lavorano nell’industria radiotelevisiva, a consulenti aziendali e di governo. R. Certo, è tramontata quella tipologia che ho cercato di tratteggiare nella prima parte della nostra conversazione, ossia l’intellettuale di tipo umanistico (anche quando è uno scienziato o un sociologo) che riflette sulle condizioni generali della convivenza sociale, partendo dal proprio specialismo ma superandone sistematicamente i confini. Questo modello, che esemplarmente s’incarna in un Norberto Bobbio o in un Jean-Paul Sartre, mi sembra ovunque in Europa condannato al tramonto, e non è un caso che i pochi sopravvissuti significativi abbiano oltre settant’anni. Il paese che più conserva questa tradizione intellettuale è la Francia, ma spesso con personalità d’impronta caricaturale, che quasi mimano una storia che non c’è più. Ciò a cui abbiamo assistito in questi anni è la proliferazione di figure al servizio di un accresciuto bisogno di conoscenze tecnologiche, ma anche in questi casi viene meno il rapporto diretto tra queste figure e la società circostante. D. Può spiegare meglio? R. Per funzionare utilmente, queste tipologie hanno bisogno d’intermediazione. L’ingegnere informatico determi121

na sì un cambiamento nelle abitudini culturali e perfino nell’antropologia dei soggetti che utilizzano il prodotto della sua intelligenza, ma l’intermediazione di cui non può fare a meno è così forte da cancellare quella presenza intellettuale originaria. Di Microsoft, noi conosciamo il volto del padrone, Bill Gates, oltre che il software; lo staff creativo, al contrario, rimane anonimo. Ciò che la gente vede è il prodotto, non gli ingegneri che presiedono all’invenzione. È vero che Gates al principio è stato l’ideatore, ma poi l’impero s’è sviluppato grazie al contributo di professionisti anonimi. La collettività vede sempre più macchine, e non individui. O meglio, vede solo gli strateghi di quegli oggetti capaci di cambiare le loro vite. D. I nuovi mediatori della trasformazione collettiva non sono più i maîtres à penser ma i magnati della comunicazione? R. Sì, sarei tentato di dire che quella funzione è stata ereditata dagli imprenditori del web e della Tv. Sono essi a fare messaggio, incidendo profondamente sui comportamenti collettivi. Naturalmente in questa schiera iscriverei anche Silvio Berlusconi, il «venditore» per eccellenza, ma sull’anomalia italiana vorrei soffermarmi più avanti. D. Può essere interessante riflettere su un dato: il World Wide Web ebbe origine in Svizzera, presso il Cern, il più grande centro di fisica nucleare del mondo. Fu uno scienziato inglese a creare un sistema per uno scambio d’informazioni paritario tra studiosi di varie università sparse nel mondo. Internet, che è uno dei pilastri della «civiltà montante», quella stessa che ha polverizzato il vecchio maître à penser, proviene da una delle più prestigiose comunità intellettuali. R. Bisogna chiedersi se questa possibilità di comunicare universalmente abbia incrementato davvero la capacità di elaborare il pensiero. Questa relazione non è così automatica come si potrebbe pensare, quindi sull’universalità 122

della comunicazione bisognerebbe costruire un nuovo modello culturale, che per ora non c’è, o almeno io non vedo che ci sia o dove sia. In passato, all’invenzione d’una nuova macchina è seguita l’invenzione d’un nuovo modello più confacente alle nuove potenzialità. Questo è accaduto con l’introduzione della stampa. La macchina internettiana non ha dato ancora origine a una nuova cultura, quindi al momento lavora su elementi della vecchia con un effetto prevalente, mi pare, di frammentazione e dispersione. Forse potremmo concludere su questo punto che all’ordine del giorno c’è soprattutto la creazione di una «nuova cultura» che renda operativo per molti il salto, ossia il passaggio di conoscenza rappresentato dalla diffusione delle nuove tecnologie di informazione e di comunicazione. In attesa di questo, ciò che inquieta è ad esempio il progressivo sostituirsi del nuovo sistema a quei canali fondamentali – nei processi di formazione culturale – che sono stati finora i giornali quotidiani. D. Una tendenza sempre più accentuata in tutto il mondo. R. Anche i giornali – per dirla gramscianamente – sono intellettuali collettivi. La storia della cultura italiana tra Otto e Novecento sarebbe fortemente incompleta, se prescindesse dal giornalismo, che è innanzitutto un formidabile fatto organizzativo, ma in taluni momenti ha saputo esprimersi con gli accenti generosi della passione e del convincimento etico. Per dirla più solennemente, della missione in senso weberiano. Un «mestiere difficile» – lo definii in un saggio einaudiano – che in questi anni ha subito profonde modificazioni, efficacemente denunciate da Giorgio Bocca in un suo recente libro autobiografico: la tendenza al gigantismo ha finito per appannarne la fisionomia, in una disperata concorrenza con gli altri mezzi di comunicazione di massa. Il declino che ora li minaccia, sulla spinta di un flusso incontrollato e incontrollabile di notizie proveniente dal web, procede parallela123

mente all’indebolimento del pensiero critico nella civiltà massmediatica globale. È un altro segnale del mutamento in atto, tra i più preoccupanti. La loro scomparsa, ne sono convinto, equivarrebbe a una catastrofe civile. D. Secondo alcuni critici – ad esempio Pierluigi Battista in Il partito degli intellettuali – il ceto colto italiano è stato incapace di misurarsi con la civiltà di massa, compattamente ostile negli anni Ottanta allo spettacolo d’evasione e all’egemonia dei media americani. Quest’ostilità negli anni Novanta sarebbe cresciuta fino a divenire «crampo snobisticoelitario» o «sussiego oligarchico rivendicato». Una sorta di «sindrome da tribù accerchiata dai neobarbari», malattia contagiosa che attecchisce ovunque. R. C’è qualcosa di vero in ciò che dice Battista. Un certo disdegno per la civiltà di massa ha pervaso, senza dubbio, l’intellettualità di sinistra. Però questo è vero fino a un certo punto, e non per tutti. Io ho insegnato per quarant’anni in una università come La Sapienza di Roma, che – giusto in questo periodo – è diventata un’università di massa, da elitaria qual era quando la frequentavo da giovane studente. Ho forse gettato la spugna, ho abbandonato gli studenti, mi sono ritirato in biblioteca a scrivere libri? Ho chiesto, come forse potevo, di andare a insegnare in qualche lussuoso ghetto universitario all’estero, come qualcun altro ha fatto? No, ho cercato di favorire un processo che in sostanza ritenevo positivo (sbagliavo? chi lo sa, ma questo ormai non importa). Ho fatto lezione a platee di centinaia di studenti, ho dato decine e decine di tesi, sforzandomi di seguirle tutte, ottime, buone o mediocri che fossero. Ho «ricevuto» – come si usava dire – migliaia di ragazzi. È stato il mio modo di affrontare – e fronteggiare – un pezzo della montante «civiltà di massa», quello che la sorte e le mie scelte professionali mi avevano riservato. E la stessa cosa hanno fatto centinaia di miei colleghi. Insomma, se si passa dai di124

scorsi teorici alle singole realtà, forse il quadro cambia un pochino: magari non ho capito fino in fondo il fenomeno televisivo, ma che cosa sia un insegnamento universitario di massa, questo lo so bene, ed è stata un’esperienza non da poco.

Capitolo VI

L’EVO BERLUSCONIANO

D. Prima abbiamo visto la «civiltà montante» nei suoi tratti globali. Come avanza «il mostro mite» nella storia italiana? R. Partirei dalla nostra devastante anomalia, intorno alla quale però non registro sufficiente allarme, o se viene espresso è immediatamente liquidato come stanco piagnisteo o vano moralismo. L’anomalia consiste in una circostanza unica nel mondo: uno di quei nuovi padroni dell’immaginario collettivo – a cui ho dedicato la riflessione precedente – è anche dominus della cosa pubblica, detentore di grandi poteri d’intervento nella politica, nell’economia e nella finanza, controllore dell’informazione televisiva pubblica e privata, proprietario di giornali e titolare del primo gruppo editoriale librario. Una condizione che neppure in Italia, il paese che ha inventato il fascismo esportandolo in Europa e nel mondo, s’era mai verificata. D. Più del fascismo è anche il titolo d’un suo articolo uscito la scorsa estate sul «manifesto» tra molte polemiche. R. Sì, vi ho sostenuto che il terzo governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità a oggi. Più del fascismo, appunto. Le mie tesi hanno suscitato grande scandalo, ma più recentemente anche molti altri opinionisti parlano disinvoltamente di una caratterizzazione «populistico-autoritaria». Dov’è 126

poi la differenza? Nessuno dei regimi fascistici del Novecento in Europa fu mai contraddistinto dai caratteri di un putsch militare e poliziesco (l’unico regime rivoluzionario arrivato al potere con un atto di rottura violenta delle istituzioni legittime costituite fu quello bolscevico). In fondo Berlusconi non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza – l’involuzione del sistema liberaldemocratico – cui nessuno per trent’anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo. Egli è figlio naturale del craxismo. È figlio naturale anche dell’affarismo democristiano dell’ultima stagione (ben altro, s’intende, è il blasone storico della Democrazia cristiana). È figlio naturale di quella tendenza che in lui ha assunto forme parossistiche, ossia il culto dell’interesse personale. È figlio naturale di un diffuso degrado morale, di cui al tempo stesso rappresenta un esemplare fomentatore. La «democrazia» che incarna presenta gravi aspetti di degenerazione, come ha ben evidenziato la spallata istituzionale contro il Quirinale a proposito del «caso Englaro»: il disprezzo per la Carta Costituzionale; l’evidente estraneità alle forme e alla sostanza del sistema democratico; la denegazione crescente della separazione dei poteri; la tendenza a sottomettere tutto a un potere unico, anzi personale. Mi sembra che tutti i suoi gesti rappresentino con chiarezza la scalata, talvolta provocatoria e nevrotica, più spesso paziente e tenace, verso una diversa forma dello Stato, dove le procedure elettorali avranno una valenza solo immaginaria. D. Quel che colpisce nella sua riflessione è il paragone con il fascismo, da cui il regime di Mussolini esce vincente. Ma si può paragonare una democrazia, pur logora e profondamente degradata, con un assetto di tipo dittatoriale? R. Il mio è un ragionamento di carattere storico – non semplicemente etico-politico – in relazione alla vicenda nazionale italiana. Quando si parla dell’Italia come nazio127

ne, gli indicatori fondamentali non possono che essere tre: l’unità (e il senso dell’unità), il rapporto del cittadino con le istituzioni (anche il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto della situazione presente con la tradizione italiana. Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o – come ho già scritto – si sforza tenacemente di esserlo. D. Dunque lei circoscrive il paragone al «sentimento nazionale» espresso dal fascismo e dal berlusconismo. R. Sì, mi interessa in modo particolare questo nodo essenziale, nelle sue articolazioni. Partiamo dal senso dell’unità d’Italia. Nel governo Berlusconi siede come ministro delle Riforme un signore il quale si batte fieramente per la frammentazione dell’unità politico-economica-istituzionale e identitaria del paese. Devo ricordare gli insulti e i gestacci del leader della Lega all’indirizzo della bandiera italiana? Oppure i tentativi di demolire le figure del Risorgimento italiano, fino al punto di domandarsi se esso sia stato un processo positivo? Questa «fenomenologia dell’antitalianità» – non so se possiamo chiamarla così – viene inglobata dal berlusconismo: non che il premier sia appassionato al tema dell’unità o non unità nazionale – quel che gli interessa è che la macchina del potere resti in ogni caso nelle sue mani. D. Il sentimento di italianità del fascismo era però assai discutibile. In caso contrario dovremmo rivalutare la fede patriottica dei repubblichini di Salò. R. Guardi, a rischio di essere interpretato come il più agguerrito «neorevisionista», preferirei andare avanti nella pericolosa analogia. Qual è il rapporto del fascismo con la tradizione italiana? Seppur distorto, ottenuto in modo esecrabile e con esiti inaccettabili, il regime volle stabilire 128

un rapporto molto stretto con il Risorgimento. Mazzini e Garibaldi, anche se svuotati della carica libertaria e democratica, vennero reclutati con convinzione nel pantheon littorio. Insomma: Mussolini presunse di interpretare a modo suo la tradizione italiana, che ai suoi occhi i liberali prima, poi i socialisti avevano invece svuotato e tradito. A Berlusconi della tradizione italiana non gliene importa puramente e semplicemente nulla: ne fa a meno. È il miglior protagonista di un film di fantascienza: quel che gli importa è l’«eterno presente», il suo. D. Ma il progetto fascista di educazione nazionale fu condotto con metodi totalitari. Secondo alcuni storici – l’ultimo è Christopher Duggan – contribuì a disintegrare la già fragile identità italiana. R. Questo è incontestabile, e tuttavia insisto: pur con effetti rovinosi, il fascismo intendeva restare dentro una tradizionale nazionale italiana. Tradizione con cui l’attuale evo berlusconiano non ha nessun rapporto, né buono né cattivo. Questa è la straordinaria rottura storica con cui dobbiamo fare i conti. L’homo novus berlusconiano ha tagliato le nostre radici storiche. Né Risorgimento né Resistenza – ossia le pagine fondative della storia italiana – fanno parte del suo patrimonio genetico-identitario. Se a Berlusconi nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole, perché dovrebbe appassionarsi alla Resistenza o allo stesso Risorgimento, da cui ha avuto inizio quel faticoso processo di costruzione di una società democratica italiana nel rispetto delle regole? L’uscita da questa tradizione storica – per la prima volta segnata dal berlusconismo – pone la premessa per un assetto politicoistituzionale di tipo monocratico, del tutto estraneo al patrimonio nazionale unitario che fin dal 1848 – sia pure in forme tra loro del tutto discordi e contraddittorie – arriva fino ai nostri giorni. Da questo punto di vista può essere 129

particolarmente espressivo un episodio raccontato da Berlusconi nell’autobiografia. D. Quale? R. Poco prima delle elezioni del 2001 fu distribuito nelle case un’utile pubblicazione dal titolo: Una storia italiana. Era un (auto)ritratto apologetico di Berlusconi. All’inizio il candidato premier parla di sé in prima persona, rievocando gli anni giovanili in coincidenza della grande crisi aperta con l’8 settembre del 1943. Il cavaliere racconta del padre, militare al momento della disfatta. «I tedeschi avevano cominciato la caccia al soldato italiano, così lui si fece convincere da alcuni amici a riparare in Svizzera». Mi colpì la frasetta che segue: «Fece la scelta giusta. Salvò la sua vita e salvò il futuro di tutti noi». Raramente in una scrittura autobiografica m’è capitato di trovare in una proposizione così breve significati così profondi. Se tutti i giovani di allora avessero fatto come il suo Babbo, la Resistenza non ci sarebbe stata, ma tante, tantissime famiglie italiane avrebbero potuto pensare tranquillamente al loro futuro, non importa se sotto il tallone tedesco oppure imbellamente liberate. D. Però quest’anno, per la prima volta, Berlusconi ha celebrato il 25 aprile, rendendo omaggio alla Resistenza e alla Costituzione come patrimonio fondante della democrazia. R. Ma figuriamoci. Silvio Berlusconi è la negazione vivente di quanto la Resistenza ha sperato, voluto, pensato e fatto. Perché la sua «conversione» sia considerata autentica, egli dovrebbe cambiare tutto nella sua politica, nella sua strategia, nel suo modo di essere. Dovrebbe cioè diventare un altro. Dovrebbe metter fine spontaneamente al conflitto di interessi, piegarsi alle inchieste della magistratura, perseguire scrupolosamente la separazione dei poteri, cercare di attuare la Costituzione invece di tentare continua130

mente di cancellarla. Può fare tutto questo senza rinunciare alle caratteristiche fondative del suo potere? Ovviamente no. Dunque il suo 25 aprile si spiega con la sua solita astuzia, consistente nello svuotare le posizioni dell’avversario, facendole formalmente proprie: facilitato in questo dalla dabbenaggine dei suoi avversari politici, che gliene hanno offerto il destro su un piatto d’argento. Dunque, si potrebbe dire che al danno s’è aggiunta la beffa. Non solo Berlusconi liquida nella sostanza la parte migliore della nostra storia più recente, ma finge che non sia vero, perché ha capito che così gli conviene di più. Davvero sconvolgente. Ancora più sconvolgenti le reazioni di quei politici e intellettuali della ex sinistra che hanno gridato: «Che bello! Finalmente abbiamo una memoria condivisa!». D. Ma come è stata possibile la sostanziale liquidazione di una parte importante della nostra tradizione repubblicana? R. La congenita debolezza nazionale – la storica fragilità delle sue strutture sociali, economiche e culturali – è stata tale da permettere che con il consenso popolare si rendesse possibile un progetto politico che di fatto nega la stessa storia italiana. Il nostro è un paese dall’identità recente, nel quale i particolarismi hanno funzionato sempre più delle forme aggregative nazionali. Innestato su questa endemica gracilità, il processo globale di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti – con il décalage di borghesia, classe operaia e dello stesso ceto intellettuale – ha assunto valenze ancora più drammatiche, producendo un unicum nella storia occidentale e nella storia italiana, che incombe sul nostro destino assai pesantemente. D. Alla «democrazia in bilico», al decadimento etico e istituzionale che colpisce il paese, è dedicato un drammatico appello di Libertà e Giustizia, Rompiamo il silenzio, firmato da intellettuali non inclini a facili allarmismi come Gustavo 131

Zagrebelsky, Umberto Eco, Claudio Magris, Gae Aulenti, Salvatore Veca e Guido Rossi. R. Quel che inquieta è l’accentramento nella stessa persona del potere politico, di quello economico e dell’informazione televisiva. Fu lo stesso Berlusconi a dire un giorno a Marcello Dell’Utri: «Non capisci che se qualcosa non passa in televisione non esiste? Questo vale per i prodotti, i politici, le idee». Non sappiamo poi che cosa stia accadendo nel mondo della carta stampata. La notizia della condanna per corruzione di David Mills, l’avvocato britannico di Berlusconi che si occupava dei conti off-shore di Mediaset, non è stata data con il dovuto risalto. O meglio: in pochi hanno evidenziato che, se il suo governo non avesse varato con tempestività il lodo Alfano, Berlusconi molto probabilmente sarebbe stato condannato. Per non dire della stampa al servizio del premier, che ha duramente attaccato il giudice responsabile della sentenza. Nella battaglia ingaggiata da «Repubblica» contro Berlusconi e le sue bugie su Noemi Letizia – la ragazza minorenne frequentata dal presidente del Consiglio – la testata ha ricevuto appoggio e solidarietà più dalla stampa internazionale che da quella italiana. In Italia rischia di scomparire quel che il pubblicista americano Walter Lippmann indicava nel 1922 come «opinione pubblica». Il processo attraverso cui si forma la mente collettiva è per larga parte controllato da chi detiene il potere esecutivo, ossia dallo stesso inquilino di Palazzo Chigi. Ci avviamo verso una strana forma di «dittatura» di tipo democratico-populistico, fondata (almeno per ora!) sul consenso ed esercitata con un astuto mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. O, se sembra troppo forte la parola dittatura, potrei usare la formula di «democrazia totalitaria»: essa conserva gli aspetti formali della rappresentanza, ma appare sempre più difficile rintracciarvi gli strumenti per modificare gli attuali assetti di potere. Insomma, tra la massa italiana «post-popolare» e «post-operaia» e l’imprendito132

re-politico Berlusconi si è stabilita un’intesa, un’intesa genetica e antropologica, che sarà difficile rimuovere. D. Lei faceva prima riferimento all’azzeramento storico introdotto da Silvio Berlusconi, sostanzialmente estraneo – al di là dell’ossequio rituale messo in scena il 25 aprile del 2009 – alla tradizione risorgimentale e alla storia repubblicana fondata sul patto costituzionale. Non ritiene che abbia trovato il terreno già concimato da quegli opinionisti e studiosi di varia ispirazione che lo storico Claudio Pavone ha definito – per distinguerli da un più rigoroso revisionismo storiografico – i «neorevisionisti»? R. Non c’è dubbio. Molto attivi negli anni Novanta sulle pagine culturali di diversi quotidiani e intorno alla rivista «Nuova Storia Contemporanea», presenti in varie tribune televisive, sono stati i paladini di una forma aggiornata di «anti-antifascismo», zelanti nell’enfatizzare gli orrori partigiani della guerra civile, oltre che viltà, cedimenti, debolezze degli intellettuali democratici passati attraverso il fascismo. L’orchestrazione mediatica è stata molto efficace. Nell’arco d’un decennio il senso comune su quelle vicende è apparso quasi rovesciato, sostanzialmente funzionale al disegno berlusconiano. L’operazione politico-culturale dei «neorevisionisti» ha certamente favorito la lacerazione di cui è stato artefice Berlusconi, modificando radicalmente l’approccio alla storia nazionale. Un’operazione astuta quanto mistificatoria. Essa è fondata non sull’invenzione di dati inesistenti, ma sulla enfatizzazione di elementi che, pur essendo marginali e ininfluenti, vengono elevati ad architrave di una lettura contrapposta al passato antifascista e resistenziale. D. Lei ha scritto una volta che il Grande Fratello tende a diventare il nuovo universale canone dell’interpretazione storica. Che cosa intendeva? 133

R. Si è buoni o cattivi, beati o reietti, si entra e si esce dalla Storia, a seconda degli umori del pubblico televisivo, e magari delle maggioranze di governo. Questo avviene in assoluta coerenza con l’ideologia dominante di massa. Prevale l’idea che la storia sia riducibile a una somma di casi individuali, ognuno preso per sé e dunque, nell’assoluta singolarità esistenziale, tutti giustificabili. Partigiano o repubblichino, torturato o torturatore non contano per i valori di cui sono stati i portatori, ma per lo spettacolino che hanno rappresentato sulla scena del passato. Così si perde il senso della storia e dunque il valore di quegli ideali di giustizia e libertà da cui essa è animata. Ma questo appare il vero senso della storia, oggi. Si rilegge il passato in quel modo, perché si vive il presente in quel modo. D. Quel che colpisce è che spesso vengono annunciate come sconvolgenti e nuove, naturalmente «occultate dalla lunga dittatura intellettuale comunista», acquisizioni storiografiche che sono proprie di una tradizione antifascista. Una tecnica retorica che, declinata con una scrittura efficace, ha fatto vendere libri per centinaia di migliaia di copie. R. Soprattutto, sono state ignorate letture fondamentali. Italo Calvino, nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, spese sull’argomento parole definitive. Era – non dimentichiamolo – il 1947. Rinunciando a ogni tentazione celebrativa e trionfalistica, lo scrittore sceglie di ritrarre partigiani che sono sostanzialmente degli irregolari, individui marginali, tutt’altro che contraddistinti da una definita consapevolezza politica. Sono mossi da un sentimento di rabbia, furia, di «inutile furore» (scrive lo stesso autore), che certo non li distingue dagli altri, dai nemici, dai repubblichini in camicia nera. Che cosa invece li distingue? Ne discutono, nel corso di una notte che precede la battaglia contro i tedeschi, il comandante di brigata Ferriera, un operaio di fabbrica salito in montagna per combattere, e il commissario politico 134

Kim, studente universitario di psichiatria alla ricerca di spiegazioni meno schematiche. Quest’ultimo spiega pacatamente che le radici di entrambi gli schieramenti potrebbero essere anche le stesse (la violenza cieca, la ferocia, l’assenza di pietà). Ma a dividere gli uni dagli altri interviene la storia: la storia che dà un senso giusto, positivo, alla furia degli uni; e ricaccia gli altri nel gorgo distruttivo degli «inutili furori», che tendono a riprodurre senza fine l’oppressione e la schiavitù. Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica. Insomma, da una parte c’è «il giusto»; dall’altra «lo sbagliato». Se si dimentica questo, si perde il senso della storia. È esattamente quello che sta accadendo nell’Italia di oggi. D. Lei non è certo sospettabile di essere custode d’una vulgata antifascista. Nei primi anni Sessanta, anche con Scrittori e popolo, partecipò al disvelamento del passato fascista di Elio Vittorini. R. Sì, tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta la mia generazione cominciò a non poterne più delle celebrazioni resistenziali più rituali. Cominciammo a scoprire che una parte consistente dei più giovani intellettuali antifascisti (Vittorini, Pratolini, Bilenchi, ma non solo) era stata fascista senza poi fare autocritica. E scoprimmo anche che molti altri, più adulti, pur non essendo mai stati fascisti, non erano stati alieni da debolezze, compromessi e compiacenze nei confronti del regime. Insomma, fummo noi i primi a rivelare tutta una zona di grigiore e ambiguità. Non c’era letteratura sull’argomento; andavo in emeroteca, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, per spulciare le testate del fascismo. D. Come la presero? 135

R. Vittorini, invece di starsene zitto – come avrebbe potuto, visto il pulpito poco autorevole da cui veniva la predica – mi rispose dalle colonne di «Rinascita» che «si usciva dall’utero sozzo che era la storia di allora. Da quell’utero sozzo non potevamo che uscire populisti». Era imbarazzato, ma almeno colse uno dei nodi della questione. I processi postumi di quarant’anni dopo mi fanno un po’ sorridere. Qualcuno di questi «neorevisionisti» ha tentato di reclutarmi nelle proprie file, ma la cosa non mi è piaciuta affatto. D. Che cos’è che le ha fatto cambiare idea? Perché oggi è infastidito da queste operazioni? R. Spesso sanno di «vecchio», nonostante l’intonazione inutilmente scandalistica. Poi mi preoccupa l’equivoco politico-culturale in cui siamo immersi fino al collo: l’equiparazione in un magma indistinto di fascisti e antifascisti, partigiani e repubblichini. Non se ne può più di questa denuncia retrospettiva, che serve soltanto a dire: siamo tutti eguali, abbiamo tutti peccato, inutile alzare la voce quando qualcun altro pecca. Le compromissioni sotto il fascismo, che toccarono la vergogna dell’ossequio alle leggi razziali, erano fondate sul patto di scambio che il regime offrì al ceto intellettuale: gli scrittori fanno gli scrittori – non c’è niente di littorio nei romanzi pre-neorealisti di Moravia, Alvaro e Bontempelli tra gli anni Venti e Trenta – e i fascisti fanno le loro leggi infami. Su questa quietistica spartizione di ruoli si fondò il clima culturale dell’Italia fascista. Gli intellettuali furono lasciati più o meno liberi di fare le loro ricerche, purché non invadessero il campo degli argomenti proibiti. D. La rivista «Primato» di Giuseppe Bottai esemplifica questo patto di scambio. R. Sì, vi figurano molti dei cospiratori antifascisti. Molto 136

più facile dire chi non c’era che chi c’era. Non c’era Moravia, non c’era De Céspedes, non c’era Vittorini. Chi altro? In altre parole, le pratiche di «nicodemismo intellettuale» e di «dissimulazione (pretesa) onesta» erano ancora così diffuse da impedire qualsiasi tipo autentico di reazione. Ora sarebbe interessante chiedersi se quel modello sia riproducibile oggi. D. Ossia? R. Mi domando se nell’attuale assetto italiano – democratico ma fondato sull’esercizio indiscriminato di potere – si possa riprodurre una situazione analoga a quella del conformismo del ceto colto sotto il fascismo: gli intellettuali che si adeguano, magari invocando il «dialogo», e l’esecutivo guidato da Berlusconi che promuove leggi inammissibili. In fondo, è il ragionamento sugli «apoti», che abbiamo fatto in un altro momento. D. Secondo lo storico Emilio Gentile, il nostro paese non ha mai davvero fatto i conti con il totalitarismo fascista, minimizzato ovviamente a destra, ma liquidato nel lungo dopoguerra dalla stessa cultura di sinistra, che giudicandolo una «nullità storica» non ne volle riconoscere il radicamento e la portata. Questa «defascistizzazione» del fascismo – oggi sostenuta da parte dei suoi eredi e dagli opinionisti «falsi liberali» – ha prodotto come conseguenza il non misurarsi veramente con l’eredità fascista nelle istituzioni, nella politica, nella società e nei costumi degli ultimi sessant’anni. R. Credo che Gentile abbia ragione. La presunzione, in fondo autoconsolatoria, che il fascismo fosse un «totalitarismo morbido» ci ha spinto più a rimuoverlo che ad approfondirlo criticamente, per sbarazzarcene in profondità. Il risultato è che non siamo stati storicamente vaccinati: appena si verificano un vuoto o un cedimento, lo vediamo ripresentarsi ovunque, magari in forme nuove. 137

D. Ma come si sente un «revisionista» ante litteram in questo nuovo clima culturale? R. Noi non mettevamo in discussione il carattere fondativo dell’esperienza resistenziale; pensavamo semmai che fosse necessario non fermarsi lì, che occorresse andare avanti. Oggi il senso comune va in tutt’altra direzione, in questo favorito dalla crescente afasia culturale della sinistra. Mentre da una parte è prevalsa questa lettura distorta e strumentale della storia d’Italia, la sinistra politica ha preferito rifugiarsi nel silenzio. L’ho già detto, ma voglio ripetermi: essa non fa i conti né con la storia nazionale né con la memoria identitaria dei suoi militanti. All’orizzonte storico – in una formazione politica che aveva fatto dello storicismo la sua stella polare – si preferisce l’appiattimento sul presente, mostrando una sostanziale subalternità al «nuovismo» inventato da Berlusconi. D. Che cosa intende per «nuovismo»? R. Il nostro premier, abbiamo detto, non è portatore di alcuna memoria. La storia ricomincia da lui. È l’«uomo a una dimensione» interpretato in una maniera che Herbert Marcuse nella sua raffinatezza filosofica postmarxista non sarebbe mai riuscito a immaginare. Nei suoi discorsi non c’è mai un riferimento al passato. Il liberalismo di cui si fregia è soltanto l’ideologia-fotografia che rappresenta ciò che egli pensa sia legittimo in quel momento. Ecco: a questa ideologia onnivora del presente anche la sinistra s’è mostrata acquiescente, arrivando a negare le proprie radici storiche e rifiutando una riflessione sul passato e sulle culture politiche da esprimere oggi. D. Lei insiste sulla discontinuità introdotta da Berlusconi. Però gode di larghissimi consensi tra gli italiani. Ne sa anticipare gli umori, se ne fa abile interprete. Qualcuno ha sostenuto che la massima gobettiana per cui il fascismo è «au138

tobiografia di una nazione» potrebbe essere calzante per il berlusconismo. R. Berlusconi è contemporaneamente autobiografia degli italiani, ma anche astuto autobiografo di se stesso. La sua capacità persuasiva – diversamente dai politici di vecchio stampo – consiste nel raccontare sempre in pubblico se stesso, coinvolto personalmente nella storia italiana che sta edificando. Persino quando parla del suo abominevole privato, cerca la complicità dei più: in fondo non abbiamo tutti qualche debolezza? Egli non dice: «La scuola va riformata perché non funziona», piuttosto si erge a protagonista di questo processo narrando alle platee tutte le sofferenze e i sacrifici personali che il passaggio gli comporta. Una retorica di grande impatto comunicativo. Aggiungo che, nella sua totale mancanza di coscienza critica e storica, Berlusconi vede l’Italia come una cera da manipolare e totalmente reimpostare. Cos’altro sono le misure proposte recentemente per l’edilizia se non un modo, tra i tanti, di cambiare, per una volta e per sempre, il volto, il volto anche fisico, e dunque la storia, i connotati identitari, il rapporto con le tradizioni di questo sventurato paese? Corrompere dentro e distruggere fuori, questo potrebbe essere il nuovo verbo dell’era berlusconiana. Per farlo, non c’è dubbio, Berlusconi fa appello ai peggiori istinti delle masse; accondiscendendo ai peggiori istinti delle masse, li gestisce e rafforza; rafforzando i peggiori istinti delle masse, rafforza se stesso, rafforza la negazione di ogni intelligenza e di ogni cultura. Non so come si possa spezzare questo circolo vizioso, ma so che bisogna farlo. D. Il caso ha voluto che la prima vittoria elettorale di Berlusconi a Roma, nel marzo del 1994, sia stata conseguita contro un rappresentante del ceto colto. Era già segnato un destino? R. Sì, il primo confronto elettorale fu con Luigi Spaventa, 139

economista serio ed apprezzato. Fu subito evidente l’insofferenza che lo studioso gli procurava. Il ragionamento del candidato premier era più o meno questo: «Io ho creato un impero televisivo, sfamo moltissime famiglie, sono l’uomo del fare. Ma quale beneficio ricaviamo dal professor Spaventa? Per quale dei suoi insegnamenti gli dobbiamo essere immensamente grati?». A Spaventa che gli chiedeva spiegazioni di politica economica, ripose stizzito: «Prima di provare a competere con me, cerca almeno di vincere uno scudetto». Ricordo che mi fece una certa impressione: in quello scontro era già detto tutto. D. Esiste una tradizione di critica antintellettualistica, che secondo alcuni studiosi ha origine nello scontro tra Napoleone e gli idéologues. L’imperatore, giunto al potere, non esitò a sbarazzarsi degli eredi del pensiero illuminista, togliendo loro cariche e fondi. Nel corso del Novecento gli intellettuali sono stati ripetutamente accusati di astrattezza, dottrinarismo, faziosità, sostanziale incapacità di comprendere le reali esigenze della politica. Negli anni Cinquanta in America fu inventato l’epiteto di egg head, teste d’uovo, raffinate ma fragili. Perdura tuttora anche in Italia la liquidazione della sinistra culturale come «radical chic». In che misura l’antintellettualismo di Berlusconi può essere ricondotto a un tratto non estraneo alla tradizione italiana? R. Anche in questo caso sono più portato a vedere la discontinuità, il salto, che non la continuità e le ripetizioni. Antintellettualismo? Ci sono state polemiche anche feroci, certo, tra un settore e l’altro dello schieramento intellettuale, o anche all’interno dello stesso schieramento (per esempio, quello di sinistra). Nessuno però ha mai messo in dubbio, come dire, la «legittimità costituzionale» delle diverse opinioni intellettuali contrapposte: socialisti, comunisti, socialdemocratici, democristiani, liberaldemocratici, liberali, radicali ecc. – oppure, su tutt’altro piano, cattolici, marxisti, strutturalisti ecc. Il confronto è stato in certi 140

momenti alto e positivo. Berlusconi non ha con tutto questo il minimo rapporto. La cancellazione di qualsiasi ipotesi culturale è la sua unica ipotesi culturale. D. Un salto pericoloso. R. Una scelta omogenea con la dispotica «civiltà montante» che prima ho tentato di tratteggiare. Nella tradizione politica italiana – fino alla fine della Prima Repubblica – i leader agiscono nella convinzione che il proprio modo di governare sia più o meno coerentemente riferibile a una certa cultura politica. Aldo Moro ha un sistema culturale alle spalle, così Enrico Berlinguer, perfino Bettino Craxi, sia pure in una forma strumentale e raffazzonata: abbiamo già rievocato l’elogio di Proudhon. Silvio Berlusconi è indifferente a questo modo di procedere, e ciò non è stato ancora avvertito nella sua gravità con sufficiente allarme. Si potrebbe dire che è il personaggio tipico dell’incultura nazionale, nel senso che se i modelli politico-culturali scelti dai leader storici erano accettati da una parte del popolo italiano, un’altra parte non irrilevante li ha sempre avvertiti con insofferenza ed estraneità, impermeabile a qualsiasi suggestione intellettuale e concentrata sul proprio «particulare». Sull’altro fronte – occorre aggiungere – non sembra ancora conclusa la costruzione di nuove identità che non siano semplicemente l’accumulo dei detriti delle vecchie. Si direbbe che oggi l’Italia sia chiamata imperiosamente a fare i conti con le colossali inadempienze storiche che le impediscono una presa di coscienza del suo ruolo per se stessa e nel mondo. D. In questo vuoto di culture politiche che lei ha disegnato, s’inserisce il tentativo egemonico della Chiesa, l’unica «agenzia valoriale» oggi rimasta. R. Guardi, nel rispondere a questa domanda, mi posso giovare dell’esperienza acquisita pensando e scrivendo ne141

gli ultimi anni la mia Storia europea della letteratura italiana. In quest’opera, che copre circa otto secoli, la questione «Chiesa di Roma» è costantemente presente. Sulla base di questa osservazione, sempre ricorrente nella «lunga durata», è facile costruire questo diagramma secolare: quanto più forte, egemonica e invasiva è la presenza della Chiesa, tanto più fragile, dispersa e sottomessa è la vicenda italiana. Si pensi al periodo Controriforma-periodo delle dominazioni straniere. Oppure al primo Ottocento, fase Restaurazione. È significativo altresì che a ogni periodo di preminenza – diciamo così – politico-istituzionale da parte della Chiesa corrisponda una fase di intransigentismo dogmatico e morale. Insomma, il potere eccessivo corrompe la Chiesa: come del resto ogni altra istituzione umana. Umana perché, detto fra noi, se si dovessero attribuire all’ispirazione divina il rogo di Giordano Bruno, la tortura di Galilei, le carcerazioni e le impiccagioni dei patrioti nel corso del Risorgimento, il disumano accanimento nella vicenda Englaro, ne verrebbe fuori un Dio talmente sciagurato e cattivo da farci davvero tremare. Oggi siamo sulla vetta di uno di questi picchi negativi: l’enorme potere creato dal vuoto del gioco democratico in Italia disfrena la rincorsa della Chiesa ai peggiori fantasmi del passato. Il discorso sulla devastante influenza del clericalismo in Italia si connette perfettamente a quanto siamo venuti finora argomentando. Il direttore di «Repubblica», Ezio Mauro, ha parlato efficacemente di un’alleanza tra il rozzo paganesimo laico di Silvio Berlusconi e il potere ecclesiastico di Roma, deprivato di ogni spirito cristiano. D. Nel lungo «inverno culturale» nel quale siamo immersi – uso la formula del fisico Carlo Bernardini – appare sempre più diffusa la domanda di «maestri». L’estinzione del maître à penser è segnata da un accresciuto bisogno di bussole e «punti di riferimento» (una volta, scherzando, un insigne storico e giurista, che non ne poteva più di essere definito tale, mi disse che era tentato di scriverlo sul bi142

glietto da visita: «Alessandro Galante Garrone, Punto di Riferimento»...). R. Bisogno di maestri? Preferirei parlare di bisogno di nuove autorevolezze e nuove certezze: magari più limitate e meno palingenetiche di una volta, ma più autentiche del groviglio osceno di chiacchiere, da cui siamo avviluppati. Non c’è dubbio che dobbiamo ricostruirci una nuova strategia, con nuove forze e nuovi protagonisti. In questo senso, se ne avessimo voglia, esisterebbe già un nuovo spazio di iniziativa per gli intellettuali, vecchi o giovani che siano. D. «... e quindi uscimmo a riveder le stelle». Lei ha scelto di chiudere la sua Storia europea della letteratura italiana – una narrazione che attraversa otto secoli di vita culturale nazionale – con uno dei più bei versi danteschi. Uno spiraglio nella notte? R. Occorre prima spiegare qual è la «situazione dantesca». Dante ha disceso, di cerchio in cerchio, tutta la cavità conica dell’Inferno, alla cui estremità inferiore si trova il Cocito, il lago gelato nel quale sono puniti i peccatori peggiori, i traditori (non dimentichiamolo). Di lì Dante, con l’aiuto indispensabile di Virgilio (anche questo sarebbe da non dimenticare), s’arrampica lungo il dorso villoso di Belzebù, a un certo punto, entrando nell’emisfero opposto, «si arrovescia» su se stesso (cioè recupera il proprio equilibrio), indi passando per uno stretto pertugio torna all’aria aperta e... «quindi uscimmo [lui e Virgilio, ovviamente] a riveder le stelle». Ho sempre pensato che in questo verso, di per sé straordinario, bellissimo, fosse contenuta una parte rilevante del «destino italiano». Nel caso della Storia europea, cui lei accenna, esso suona più come un auspicio che una constatazione. Infatti il mio è un epilogo drammatico, a conclusione di una storia drammatica. Non sempre la sorte ci consente di passare dove vorremmo. Occorre adattarsi alle circostanze, sopportare le sof143

ferenze, affrontare i disagi e le fatiche di condizioni apparentemente inaccettabili. Dante è arrivato a scorgere la volta stellata del cielo a conclusione di un cupo viaggio infernale. Non è un arrivo, il suo; è un’uscita. Un’uscita dal buio, dalla costrizione, dalla paura. Una nuova storia è cominciata, ma noi siamo ancora nel pieno della notte.

Capitolo VII

SCUOLA E UNIVERSITÀ: LA NUOVA RESISTENZA

D. È cambiato il senso comune degli italiani su fascismo e antifascismo. Il «berlusconismo» si connota come azzeramento del senso storico. Avanza numerosa la tribù dei nouveaux réactionnaires. Siamo in presenza di un’egemonia culturale di segno radicalmente diverso? R. Su questo io avrei qualche dubbio. È vero – l’abbiamo più volte sottolineato – che a questa lettura storica rovesciata, o all’ideologia onnivora del presente, non si contrappongono efficacemente né grandi organismi collettivi come i partiti né i tradizionali artefici dell’opinione pubblica. Tra i giornali, alcuni sono consenzienti, altri non sufficientemente avvertiti. Sono pochi i quotidiani che tentano di opporsi a un uso pubblico della storia distorto e strumentale. Ho l’impressione che non vi sia lucida consapevolezza intorno a una fenomenologia che pure è allarmante. Quindi l’operazione in apparenza conosce pochi ostacoli. Sono persuaso però che nel paese vi siano ancora zone di resistenza molto forti, ed è da queste che dovremmo ripartire, quando avremmo deciso di iniziare il nuovo «percorso». D. Quali sono queste «zone di resistenza»? R. Guardi, sono perfettamente consapevole di non essere in grado di farle un elenco ragionato. Del resto, se non fos145

se così, la diagnosi non sarebbe così pessimistica. Penso dunque che sia più utile parlare in questa fase di «zone di resistenza» che, nonostante tutto, si annidano pressoché ovunque all’interno dell’opinione pubblica, rifiutandosi di farsi coinvolgere nell’operazione corruttrice del berlusconismo. Naturalmente non parlo di operazioni stricto sensu politiche, che richiederebbero un discorso tutto diverso. Continuo ad aggirarmi, sia pure in un’ottica diversa, nel campo delle funzioni intellettuali, che hanno il peso più rilevante in questa storia. Siccome non è più lecito aspettarsi granché dai tradizionali maîtres à penser, come abbiamo più volte ripetuto, dobbiamo pensare ad aree di «pensiero diffuso», spesso organizzate istituzionalmente, con funzioni pubbliche storicamente definite. Da tempo penso di scrivere qualcosa che cominci con questa frase: «Vorrei parlar bene della scuola italiana». Chi mi ha seguito finora, capirà. Unità nazionale, spirito critico, modelli culturali: da Sondrio a Capo Pachino non c’è altro tessuto che possa sostituire questo. Funziona male? Funziona, io penso, a macchia di leopardo, come qualsiasi macchina istituzionale comporta. Ma complessivamente è ancora un baluardo di dimensioni difficilmente espugnabili. E tuttavia, non casualmente, hanno già cominciato a provarci. L’accanimento con cui in questi mesi s’è tentata una disarticolazione pesante della struttura scolastica italiana, non a caso ripensata e ridimensionata, è segno rivelatore che in questi luoghi formativi il messaggio «neorevisionistico» o il nuovismo berlusconiano non sono penetrati. Naturalmente parlo sulla base di percezioni limitate e settoriali, che forse varrebbe la pena di approfondire. Come la pensano i professori di storia, di italiano, di latino, di filosofia, di scienze, di matematica, di arte su questa fase della vita pubblica nazionale? Da quel che avverto, l’egemonismo della nuova cultura è rimasto fuori dalle aule scolastiche. D. Sta dicendo che l’ideologia della «civiltà che avanza» ha trovato un bastione di resistenza nella scuola più che altrove? 146

R. Non è un fattore secondario se consideriamo il ruolo formativo svolto da queste strutture sulle generazioni più giovani. Recentemente, come già le dicevo, sono stato tentato di scrivere un «elogio della scuola italiana», proprio per quest’attenzione ai valori civili che altrove sembrano calpestati. Tra gli insegnanti, più che in altri settori della vita nazionale, persiste un livello di autonomia molto alto. Rispetto alla sciagurata smemoratezza dilagante nel paese, ai vuoti di memoria che contagiano pesantemente anche la sinistra, allo spirito del tempo celebrato da Berlusconi, la scuola è l’ultima frontiera: le sue strutture, i suoi docenti, i suoi libri di testo rimangono saldamente ancorati alla tradizione storica italiana. L’homo novus italico – plasmato dai Grandi Fratelli e dalle lusinghe della «civiltà montante» – s’imbatte qui in un grosso ostacolo. D. Ed è per questo che si cerca di indebolire la scuola? R. Il disegno mi sembra abbastanza evidente. Per il nuovo potere dominante, questo spazio formativo non ancora omologato allo «spirito del tempo» risulta intollerabile. Non è casuale l’attacco parallelo all’altro polo autonomo per decisioni e scelte, ossia la magistratura. Scuola e magistratura sfuggono al pensiero unico che si vorrebbe egemone: per questo devono essere smantellate. D. Perché la scuola pubblica italiana riesce oggi ad assolvere una funzione del genere? R. La scuola pubblica italiana è un’istituzione più che secolare, che ovviamente ne ha viste di tutti i colori, ma che neanche sotto il fascismo si è degradata ad ancella del regime. Del resto la riforma «fascista» della scuola era più una riforma idealistico-umanistica che non una riforma totalitaria, subalterna del regime, e portava il nome di uno che si chiamava Giovanni Gentile. Gentile, non Gelmini, mi spiego? Dopo l’antifascismo e la Resistenza, la scuola 147

pubblica italiana s’è conformata allo spirito pubblico per decenni dominante, e per molti versi ha attinto alle culture migliori del periodo, quella cattolico-democratica, quella liberalsocialista e quella comunista; e poi, per una fase più vicina a noi, alle istanze progressiste, laiche, egualitarie e libertarie degli anni Sessanta e Settanta. Una miscela del genere può essere difficilmente devitalizzata. Poi, come sua caratteristica strutturale, la scuola ha a che fare con i processi formativi e con le giovani generazioni: un meccanismo che per sua natura rilutta all’incasellamento nelle maglie strette del «pensiero unico» e della dittatura mediatico-politica del berlusconismo. Uno non ci pensa mai, o ci pensa poco, ma dove altro mai gli italiani, i giovani italiani, hanno la possibilità di conoscere e praticare una cultura anch’essa di massa, ma non mediatica, e sufficientemente compatta e omogenea, se non nella scuola? Forse nelle famiglie? Lo escludo nel modo più assoluto. Anche qui si potrebbe osservare, sia pure marginalmente nell’ambito del nostro discorso: possibile che la «politica di sinistra» non se ne sia accorta, privilegiando fino in fondo il discorso su questo fondamentale bastione di resistenza? D. Prima di arrivare all’università, a partire dal 1956 lei ha anche insegnato nelle scuole superiori. R. Sì, per nove anni, e mi sono divertito moltissimo. Se insegnare significa soprattutto saper guardare negli occhi i propri allievi, io l’ho imparato lì. I primi tre anni di insegnamento li «ho fatti» nel liceo classico di Tivoli, dove arrivavano i figli della piccola borghesia del poverissimo retroterra collinare e montagnoso tra Lazio e Abruzzi, e c’era pure una consistente porzione che proveniva dalla sede locale del Convitto Nazionale, figli della borghesia benestante e professionistica, che arrivavano lì per vari motivi da diverse parti d’Italia: una curiosa miscela (c’erano anche figli di contadini), animata da una prepotente spinta 148

di ascesa culturale e sociale, dalla quale ho molto imparato. Nel 1965 ho vinto il concorso per un posto di assistente ordinario, all’università. E da quel binario non sono poi uscito. D. Lei ha scritto una volta che fin oltre i trent’anni aveva pensato che il suo compito fosse cambiare il mondo. Solo quando s’è persuaso che non poteva cambiare il mondo, si è adattato al pensiero che poteva cambiare l’università. È riuscito nell’intento? R. Sì, ho partecipato al passaggio storico da un’accademia elitaria a un’università di massa, e di questo processo sono in parte responsabile. Ma prima di arrivare al bilancio critico di oggi, sarà necessario fornire qualche cifra. Quando arrivai all’università, nell’autunno del 1951, all’interno della facoltà di Lettere e Filosofia insegnavano non più di venti professori ordinari, circondati da un ristretto manipolo di assistenti, figure tipiche di un’organizzazione didattica rigorosamente gerarchica. Oggi, rimettendo insieme gli spezzoni sparsi di quella facoltà, nel frattempo segmentata in quattro, i docenti sono circa cinquecento. Questo dà l’impressione tangibile del mutamento. I venti docenti di allora erano quasi tutti luminari. Oggi, se di luminari si può ancora parlare, sono dispersi all’interno di una massa sicuramente mediocre, perché non esiste istituzione al mondo che nel gigantismo riesca a coniugare in questa spropositata misura qualità e quantità. D. Rimpianto per il passato? R. Come sarebbe possibile? Quella che io ho conosciuto da studente era un’università di eccellente qualità, ma molto elitaria, con un numero limitato di studenti e di laureati, espressione di un paese ancora verticistico e d’un ceto colto molto ristretto. Anche le discipline erano strutturate secondo una visione del sapere che risaliva al Sette149

cento. Esisteva un corso di letteratura italiana, ma non di letteratura italiana moderna e contemporanea. Non c’era ancora una filologia italiana. La storia della lingua era, tutto sommato, una branca minore delle discipline letterarie. Anche nel campo umanistico, s’avvertiva la necessità di un rinnovamento disciplinare. La scommessa del Sessantotto sarebbe consistita nel creare un’università di massa senza perdere i caratteri di qualità originari. D. Prima di proseguire, vorrei soffermarmi sui maestri di allora. Chi furono i suoi «maggiori»? R. All’inizio rimasi molto impressionato da Federico Chabod, un signore nordico di grande fascino e discrezione. Le sue lezioni su Machiavelli ci lasciavano a bocca aperta. Leggeva le pagine del Principe a voce alta, interpretandone con maestria il senso. Poi chiudeva il libro con un gesto secco della mano, cominciando a spaziare sull’intera storia del periodo. Ero ipnotizzato dal suo rigore di storico, al punto da ripensare la scelta – per me chiara fin dal principio – di laurearmi in Storia della letteratura. Poi fu più forte il mio amore per la letteratura, così scelsi una tesi su Vasco Pratolini. D. Lei si laureò con Natalino Sapegno, altro mito dell’epoca. R. Sì, un alpigiano anche lui, apparentemente freddo, abituato a un autocontrollo illimitato, ma soprattutto – penso – molto timido e riservato. Io gli devo molto, essendo stato scelto da lui quasi subito come assistente volontario. Mi colpirono le sue lezioni sull’Illuminismo italiano, in particolare su Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri. Però nell’esposizione era più monotono di Chabod. Ricordo ancora lo storico dell’arte Lionello Venturi, uno di quelli che non avevano giurato fedeltà a Mussolini, afflitto da uno strano intercalare. C’erano anche Mario Praz, Pietro Paolo Trompeo, Angelo Monteverdi, Ugo Spirito, ex fascista 150

«di sinistra» di enorme intelligenza. Tutti maestri distanti e inaccessibili. D. A soli ventidue anni lei scrisse sulla rivista «Riforma della scuola» un intervento molto polemico nei confronti di questa aristocratica chiusura. Il suo bersaglio prediletto era Ettore Paratore, simbolo di un’accademia reazionaria. R. Paratore era un insegnante tecnicamente assai attrezzato, ma espressione di una cultura terribilmente arretrata. L’esame di latino era una prova atletica di forza mnemonica. Ricordo ancora le sue lezioni meticolose e pedantissime su Tertulliano e Minucio, scrittori cristiani del IIIII secolo: lunghe disquisizioni per stabilirne la primazia nella produzione apologetica. Roba da rimanere secchi, soprattutto se si era matricole come me. Quel mio intervento uscì sulla rivista diretta da Lucio Lombardo Radice, insigne matematico ed esponente di spicco dell’intellettualità comunista. L’articolo scaturiva da un confronto con Guido Calogero, che insegnava Storia della filosofia antica. Io l’ammiravo sia come studioso che come militante antifascista. A questo proposito varrebbe la pena di soffermarsi su di un episodio. D. Quale? R. Quello stesso anno, o forse anche prima, Calogero aveva invitato all’università per parlare di Vittorio Alfieri Umberto Calosso, collaboratore di Gobetti e tra le voci più conosciute di Radio Londra. Gli studenti fascisti pensarono di organizzare una manifestazione di protesta contro quel «traditore della patria»: a centinaia circondarono l’edificio, tra schiamazzi, urla, insulti indecenti. Quando il clamore divenne intollerabile, dalla cattedra Calogero fece un salto verso la porta dell’aula, brandendo un ombrello ben ripiegato di fattura anglosassone. E noi dietro, solo poche decine, a scontrarci con gli odiosi manifestanti. In 151

quei primi anni Cinquanta, alla Sapienza, i fascisti erano molto presenti: il che la dice lunga su quel passaggio d’epoca tra fascismo e Resistenza. D. Tornando all’articolo, qual era la sua idea dell’università a quel tempo? R. Cominciavo allora la battaglia per aprire il mondo accademico ai filoni più vivi della cultura contemporanea. Quel che lamentavo era la mancanza di alcuni insegnamenti fondamentali, come la cattedra di Storia della scienza o di Filosofia della scienza, segno di separatezza da una società in trasformazione. Prevaleva il modello umanistico sul genere di Paratore, chiuso e dogmatico. Contestavo anche le proposte di Calogero, a mio giudizio insufficienti. In realtà egli aveva avuto il merito di proporre un’università più democratica ed «autogovernata», nella tradizione anglosassone. Ma a noi giovani comunisti, appannati da un eccesso di ideologismo, non parve un’elaborazione adeguata. Ci accomunava l’esigenza di allargare i ristretti confini accademici. Come vede, quello dell’università di massa è un percorso che ha radici antiche. D. Però in un’università accusata di elitarismo, lei a ventidue anni poteva interloquire con un maestro come Calogero. Oggi non sarebbe più possibile. Un paradosso? R. Sì, mancano le opportunità e sono meno numerosi i talent scout. Quella era un’università molto più autoritaria, governata da alcune divinità, ma poteva capitare che con le divinità nascesse un rapporto dialettico, rendendo più riconoscibile il merito. Oggi, nell’università mediocrizzata, le individualità più brillanti rischiano di essere sopraffatte dal grigiore generale. D. Perché lei scelse la facoltà di Lettere? 152

R. La letteratura era ciò che amavo di più al mondo. Per me non esiste meccanismo più complesso, più ricco, più seducente e più consolante della parola letteraria. Essere chiamato a esplorarne i meccanismi è stato per me un mestiere esaltante. Anche di questo sono debitore nei confronti di mio padre Sandro, il più prodigioso fabbro di parole della mia infanzia. D. Lei ne ha parlato diffusamente nel volume autobiografico L’alba di un mondo nuovo. R. Mio padre era fondamentalmente un piccolo borghese, che in gioventù aveva frequentato i caffè letterari romani ricavandone un’enorme passione per i libri. In casa nostra c’era una piccola ma scelta biblioteca, che andava dalle edizioni della «Voce» ai «Classici del ridere» Formiggini. Fin da quando ero piccolo mi aveva regalato libri. Jules Verne ed Emilio Salgari, Pinocchio e Il giornalino di Giamburrasca. Nei racconti che leggevo quel che mi colpiva di più non era tanto lo stile quanto la trama, ossia i giochi intrecciati e inesauribili della buona e della cattiva sorte. A sedici anni lessi La montagna incantata (tirata fuori dalla leggendaria biblioteca del Dopolavoro ferroviario di Roma), magari capendoci poco ma molto sedotto dal gioco dei personaggi e delle situazioni. Prediligevo i romanzi d’avventura, Verne più di Salgari, ma soprattutto Jack London: la sua fine romantica accendeva la mia immaginazione. Forse sono state anche queste letture a spingermi su una strada sbagliata. D. In che senso? R. Mi impedivano di sentirmi appagato, inducendomi a inseguire la novità o l’imprevisto, sia che si trattasse dei viaggi nei sommergibili o della ricerca dell’oro nel Klondike. Allora si leggeva molto anche a scuola, grazie a bravi insegnanti che sapevano esercitare bene il loro ruolo pe153

dagogico. Oggi i bravi insegnanti ci sono ancora, ma dovrebbero essere aiutati di più a mantenere quella preziosa funzione di promozione sociale che la scuola italiana ha svolto per diversi decenni. D. Nel porre riparo alle diseguaglianze sociali, il nostro sistema scolastico è tra i più arretrati in Europa. L’Italia appare ancora un paese diviso in caste, immobile e disattento alle capacità individuali. L’università di massa ha finito per liquidare definitivamente il merito. R. Darei un giudizio più articolato. Certo non erano quelle le intenzioni dei riformatori. Bisognerebbe ricordare le misure prese nel Sessantotto da Tristano Codignola, intellettuale liberalsocialista, tra i fondatori del Partito d’Azione e deputato dell’Assemblea Costituente. Egli introdusse la liberalizzazione degli accessi, che consentiva l’ingresso all’università indipendentemente dal tipo di scuola media superiore frequentata. Questo provocò un ciclopico innalzamento delle iscrizioni, inaugurando una gara forsennata tra le facoltà e i loro fruitori per tentare di mantenere in piedi il rapporto sempre più precario tra quantità e qualità. La scommessa era educare molti, senza far scendere il livello. D. Scommessa che poi è stata perduta. R. Sì, per vari motivi anche contraddittori tra loro, ma non si può spingere la critica fino a rimettere in discussione quelle scelte. Non giocare quella partita avrebbe significato rinunciare alla possibilità che nel nostro paese s’allargassero le élites culturali e il mondo delle professioni. Qualcuno arriva alla ricusazione totale, sostenendo che è stata sbagliata la partenza. Era invece un percorso obbligato, che dovevamo fare a tutti i costi. Poi l’esito non è stato quello desiderato, la quantità ha soffocato la qualità: per dirla in termini statistico-documentari, all’au154

mento del gettito dei laureati non ha corrisposto quel rafforzamento della qualità intellettuale e culturale delle professioni che era nel progetto iniziale dei riformatori. L’università di massa si presenta attualmente asfittica, abnorme e disarmonica. D. Questo da che cosa è dipeso? R. Da diversi fattori, ma il principale è rappresentato dallo scadimento dei meccanismi di selezione del corpo docente. Faccio un solo esempio, che riguarda prevalentemente – credo – le facoltà umanistiche: fino a un certo punto, nelle selezioni concorsuali, si sono confrontati due schieramenti, quello dei progressisti e quello dei cattolici moderati. Questo modo di procedere aveva degli inconvenienti, perché l’appartenenza all’uno o all’altro campo non implicava automaticamente una maggiore o minore qualità del candidato. Tuttavia rispondeva ancora a un criterio di carattere culturale: si confrontavano due opzioni che nella storia italiana avevano radici profonde. Questo sistema è stato poi disaggregato. Ne è risultata la contrapposizione tra compagini accademiche ostili l’una all’altra per ragioni personali o di gruppo, estranee dunque il più delle volte a motivazioni culturali. Un meccanismo mortifero che non può che peggiorare nel tempo. A questo s’è aggiunto quel fenomeno che potremmo definire con un’espressione irrispettosa licealizzazione dell’insegnamento universitario. D. Allude alla riforma di Luigi Berlinguer? R. Sì, essa rappresenta un passaggio significativamente negativo nel percorso che sto cercando di tratteggiare. Al momento della sua introduzione mi sono detto: aspettiamo un momento, vediamo che cosa succede. Quel che è successo è stato il peggio. L’insegnamento universitario è stato sottoposto a una procedura parcellizzante, che ne ha 155

fortemente ridotto il respiro culturale. Il momento della specializzazione è stato spostato in avanti, mentre io resto convinto che esso debba cominciare fin dall’inizio del corso universitario, altrimenti non potrà mai cominciare: la specializzazione è solo lo sviluppo coerente di un discorso unitario che si fa all’interno di ciascuna disciplina, scegliendo un determinato argomento piuttosto che un altro. Il risultato finale di questi mutamenti mi pare pessimo. D. Le pare redimibile l’università oggi? R. È come chiedersi se l’Italia sia redimibile. Per riportare l’istituzione universitaria a un livello di sufficiente qualità bisognerebbe compiere un’operazione titanica, prosciugando un meccanismo che negli anni ha acquistato proporzioni abnormi. Occorrerebbe ripensare da un punto di vista scientifico-disciplinare la struttura dell’insegnamento nei diversi comparti, facendo riemergere le travi portanti e liberandosi del resto. Ma liberarsi del resto è operazione complicatissima, perché coinvolge migliaia di lavoratori. Per far riemergere gli architravi del sapere contemporaneo, bisognerebbe prosciugare questa gigantesca palude in modo sensato, tagliando dunque sedi, insegnamenti, corsi di laurea. Ma guardando alla qualità, al sapere, alle esigenze della ricerca, alle effettive identità culturali dei docenti e dei ricercatori: invece preminenti appaiono sempre di più le questioni di bilancio e di potere. L’università dovrebbe essere in grado di rappresentare la mappa dei saperi in evoluzione; ora invece questa geografia del sapere s’è dilatata al di là di ogni criterio consentito. D. Che cosa pensa dei nuovi criteri di valutazione della ricerca scientifica universitaria o, più in generale, della cosiddetta «produttività» universitaria? R. Guardi, per convinzione e per anagrafe, io sono rimasto a quella fase dell’istituzione universitaria in cui il ruo156

lo di giudice della produzione scientifica di un singolo docente poteva essere svolto soltanto da altri membri, non importa se vicini o lontani, di quella medesima comunità: sul merito, intendo, non sulla base di dati esteriori. L’idea che uno possa essere considerato «non meritevole» se non pubblica un certo numero di articoli in un certo numero di anni, la trovo aberrante; e certo non si può dire che io abbia prodotto troppo poco, semmai troppo. Ci può essere una ricerca che dura dieci anni, prima di produrre il proprio risultato. Mi rendo conto che nell’università di massa sia più difficile trovare criteri di valutazione della qualità: però cercare di migliorare la qualità con indicatori di tipo quantitativo significa aggiungere la beffa al danno, significa scambiare la prolificità – che può essere anche di un cretino – con una innovazione reale. Vede come sono antiquato? Per me la qualità di un testo si prova leggendolo: tutto il resto è ciarpame burocratico. D. Il bilancio mi sembra piuttosto sconsolato. R. La situazione è critica, molto critica, ma non irrimediabile. Qualche ritorno alle origini, preminenza della qualità e della ricerca, centralità dell’autorevolezza, intreccio critico costante con il mondo dei saperi, non farebbero male. Ci vorrebbe però ad occuparsene non un ignorante venuto dal nulla ma almeno un’onesta Falcucci. Tuttavia, per concludere: neanche nell’università pubblica italiana l’ideologia dominante del «pensiero unico» è ancora entrata trionfalmente, per ragioni non molto dissimili da quelle che ho esposto a proposito della scuola. C’è da aspettarsi perciò un più duro attacco da parte del potere berlusconiano per dividere, segmentare, impoverire, sottomettere. Vedremo allora se i docenti universitari avranno la stessa tempra dei magistrati o dei professori e maestri della scuola dell’obbligo e media superiore, oppure se si comporteranno come ai tempi del giuramento al fascismo. 157

D. Lei tra gli anni Sessanta e Settanta ha partecipato al processo di «liberalizzazione» dell’università italiana, mantenendo però sempre una fisionomia «baronale». «Barone rosso» era anche l’epiteto con cui veniva chiamato in facoltà. R. Così mi chiamavano i contestatori, ma io non mi sono mai riconosciuto tale. Avendo conquistato un ruolo di rilievo culturale all’interno dell’università, ma anche fuori dall’accademia, ho certamente influito su scelte di carattere generale ed anche sulla selezione del corpo docente. Se questo è il «baronato», esercitato nel rispetto delle regole e senza interessi personali in gioco, esso fa parte di un sistema universitario sano, che si perpetua producendo una filiera di ricerche e di personaggi adatti a interpretarle per le generazioni future. Detto in altre parole: ho cercato di creare una scuola. Naturalmente, soprattutto in campo umanistico, è difficilissimo stabilire con esattezza matematica quale aspirante ricercatore sia meglio d’un altro. Interviene un elemento di altissima discrezionalità. Il rigore delle decisioni dipende dalla coltivazione etica di regole non scritte che escludono scelte favoritistiche o clientelari. Quel che ho fatto per svariati decenni è stato di riversare nel mio insegnamento quanto di meglio pensavo di aver conseguito nell’ambito della mia ricerca. Nella mia visione delle cose, l’insegnamento universitario è stato questo: il tentativo di rendere fruibile a molti il risultato di un lavoro di ricerca personale. Oggi, nel nuovo meccanismo dei tre anni più due, un corso può essere preparato in brevissimo tempo. Una volta ci si poteva impiegare anche degli anni. D. In quasi quattro decenni di insegnamento non ha mai fatto un corso identico a un altro. R. Sì, mi sono sfilate davanti agli occhi quasi dieci generazioni studentesche – dagli studenti nati nel 1942-43 a quelli nati tra il 1982 e il 1983 – e non mi sono mai presentato 158

a una lezione senza averla preparata. M’è capitato di dire, scherzosamente, che alle scintille ondivaghe del genio ho sempre preferito una lenta e paziente preparazione. Ho svolto corsi sulla poesia italiana delle origini, su Dante, su Boccaccio, su Machiavelli, su Guicciardini, sulla trattatistica e la storiografia della Controriforma, sulla poesia e la narrativa del Seicento, su Leopardi, su Verga, su Campana, su Svevo, su Pirandello, su Italo Calvino. Dai miei predecessori – da Sapegno, ad esempio – ho ricavato il convincimento che il vero italianista è lo studioso in grado di dominare l’intero percorso storico della letteratura italiana. Le conclusioni della nostra vicenda letteraria si illuminano dalla conoscenza delle origini, e viceversa. L’eccessivo specialismo corre il rischio di uccidere la visione d’insieme. Per tornare all’insegnamento universitario, esso non è degno di questo nome senza una ricerca alle spalle. D. Nell’accomiatarsi dall’insegnamento lei disse di non aver avuto un rapporto facile con i suoi allievi. Che cosa intendeva? R. Ho avuto spesso l’impressione che si aspettassero di più da me, ma io ho sempre resistito alla tentazione di diventare per loro una necessità irrinunciabile. Soprattutto – a differenza di altre scuole – ho evitato di produrre dei «cloni». Sono persuaso che ciascuno debba trovare la propria strada autonomamente dal maestro, anche se questo all’inizio può produrre sofferenza per gli uni e per l’altro. Si può aiutare a mettere in mare un’imbarcazione, ma l’imbarcazione quand’è entrata in mare deve trovare la rotta da sé. Forse per questo, tra i miei allievi, oltre a una moltitudine di professori di scuola media – a cui sono molto legato – accanto a illustri storici della letteratura, miei diretti prosecutori, come Giorgio Inglese, si trovano anche storici tout court come Piero Bevilacqua, giornalisti culturali come Paolo Mauri e Pierluigi Battista, linguisti e filo159

logi, sociologi della cultura e della comunicazione di massa come Alberto Abruzzese, perfino un importante ex sottosegretario al ministero del Tesoro, Laura Pennacchi. D. Perché nel 2003 ha lasciato l’università con due anni d’anticipo? R. In realtà avrei potuto continuare ancora per cinque anni, ma ho ritenuto di dover chiudere con quell’esperienza. La mia scelta ha coinciso con l’introduzione della riforma Berlinguer, forse nel mio subconscio è stata una spinta in più: mi bastò un anno di lavoro nel nuovo sistema, per ricavarne un’impressione fortemente negativa. Ma io non ho mai voluto drammatizzare: avendo svolto il mio lavoro nei quarant’anni precedenti in modo molto diverso, nel nuovo meccanismo era naturale incontrare qualche difficoltà. Me ne sono andato via perché ho avvertito nitidamente che si chiudeva un ciclo. Ho preso questa decisione con serenità, tuttora non provo rammarico né nostalgia. Ho lasciato perché era arrivata l’ora. Si ricorda l’apologo dei brontosauri?

Capitolo VIII

«A OGNUNO PUZZA QUESTO BARBARO DOMINIO»

D. Lei prima ha sostenuto che non ci si può arrendere alla «civiltà montante», come paralizzati dinanzi a un’apocalisse culturale. Ma quali prospettive s’aprono per chi vuole esercitare una funzione intellettuale seppure in forme nuove e diverse dal modello tradizionale? R. Non è facile rispondere, se non chiamando in causa in toto il destino dell’Occidente. La sua storia è stata sempre profondamente intrecciata a quella dei maîtres à penser, essendo entrambi il prodotto della stessa immaginazione biologico-sociologica (se così si può dire). D. Potrebbe spiegare meglio? R. In una sintesi un po’ scolastica, si potrebbe dire – come ho cercato di fare nel corso di tutta questa conversazione – che l’intellettuale occidentale è stato contraddistinto fondamentalmente dalla presenza più o meno equilibrata di tre componenti: pensiero forte, pensiero critico, valori. Per pensiero forte intendo un pensiero che si basa su grandi progetti e guarda a obiettivi alti. Per collocarsi dentro il contesto sociale e culturale in cui nasce, esso deve compiere un’operazione preliminare che consiste nella critica dell’esistente, e quindi nell’indicazione di un suo superamento. Pensiero forte e pensiero critico sono le due 161

facce di una stessa medaglia. Vuole un esempio? Hegel rappresenta esemplarmente la tipologia del filosofo che reinterpreta la storia criticamente, elaborando un progetto complessivo che va dalle istituzioni del diritto all’estetica, sulla base di valori riconoscibili e gerarchicamente ordinati come la giustizia, l’eguaglianza, la libertà. Questa tipologia intellettuale non è immaginabile, mi pare, fuori dall’Occidente. Il maître à penser non sarebbe potuto nascere senza il patrimonio storico-politico della rivoluzione francese, senza i diritti dell’uomo, senza l’hegeliana filosofia della storia e senza la marxiana teoria delle classi. Il loro destino dunque mi appare inesorabilmente intrecciato. D. E dunque? R. Nel 1992, dopo la prima guerra irachena, scrissi, come ho già ricordato, il saggio Fuori dall’Occidente, in cui ipotizzavo che ci si dovesse liberare dai lacci e lacciuoli di una società che produceva disastri di quella natura. Considero quell’atto d’accusa tuttora totalmente valido (potrei dire che la storia successiva mi ha tolto gli ultimi dubbi). Mi pongo però il problema: come ottenere che il «fuori dall’Occidente» da me allora invocato, invece di collocarsi in un «altrove» generico e indeterminato, che non riusciremo mai a raggiungere, diventi concreto, sia effettivamente esperito? Un grande compito potrebbe consistere nel traghettare «questo» Occidente a un «altro Occidente», facendo leva proprio sui suoi elementi originari fondativi, quel mix di libertà e di socialismo, di progresso e di solidarietà sociale, di rispetto delle regole e di rinnovamento politico e culturale, che ne hanno contraddistinto i momenti più alti. Si tenga presente che questo mix è attualmente a rischio per le pulsioni autoritarie e il décalage politico e intellettuale provenienti dal suo stesso interno, com’è possibile vedere in primo luogo nel nostro paese, in Italia (ma la Francia di Sarkozy mi sembra anch’essa a rischio). Non è azzardato sostenere che la questione del de162

clino degli intellettuali sia collegata, più in generale, alla crisi del modello liberaldemocratico classico: se così fosse, meriterebbe qualcosa di più della superficiale attenzione che le si presta. Inoltre, non sono sottovalutabili in questa fase gli attacchi che a quel mix cui facevo riferimento prima provengono da possenti agenti esterni: il che rende ancora più urgente e vitale una sua difesa. D. A chi si riferisce? R. La componente islamica più radicale e intransigente tende a un’applicazione integrale, quindi medievalistica, del Corano: qui c’è poco da mediare, siamo in piena rotta di collisione. Ovviamente non mi sfugge il contributo dato dalla tradizione cristiana alla formazione di quel mix, in cui individuo la chance «buona» dell’Occidente: però è difficile non prendere atto che nella Chiesa di Roma prevalgono attualmente gerarchie orientate anch’esse a un ritorno dottrinario e pratico ai fasti del Medio Evo, nel rapporto di convivenza civile oltre che nelle regole private. Molto significativi, da questo punto di vista, sono l’accusa di «statolatria» rivolta al governo spagnolo di Zapatero, o i richiami esercitati continuamente in Italia per affermare la superiorità della legge di Dio (che coincide con il verbo attuale della Chiesa) rispetto alla legge dell’uomo. Un contributo non irrilevante alla creazione di questo clima di revanche politica, culturale e ideologica è fornito anche dalle componenti più oltranziste del pensiero ebraico contemporaneo, che tradiscono vistosamente lo spirito della loro stessa tradizione, secolarmente orientata alla tolleranza e al rispetto degli altri. Si potrebbe dire, in conclusione e molto sinteticamente, che l’attacco al mix occidentale che ho definito «buono» venga anche da questa colossale ripresa di influenza delle tre grandi religioni monoteiste sul piano mondiale? Direi proprio di sì (qui, al contrario di quel che scrive Huntington, c’è più un’«alleanza» che uno «scontro» di civiltà: «alleanza» dei religiosi più fidei163

stici ai danni d’un comune avversario, la tradizione di tolleranza e di apertura intellettuale propria di quella parte dell’Occidente che io definisco «buona»). Con questa ulteriore precisazione, che serve anche ai fini del nostro discorso: l’opzione religiosa intesa in senso stretto poggia in realtà su fondamenti assai traballanti; il processo di laicizzazione e desacralizzazione della società, non più soltanto occidentale, ma mondiale e globale, è andato troppo avanti per lasciarsi riassorbire da seduzioni extramondane. Per reggersi, anzi per rilanciarsi, le gerarchie integraliste delle tre religioni monoteiste devono perciò trasformarsi o riversarsi in opzioni politiche, calarsi sul terreno del temporale e lì costruire il proprio sistema di alleanze. Questo spiega perché in Italia – come ho già avuto occasione di rilevare – il più perfetto pagano che esista, il più conseguente adoratore di Mammona, Silvio Berlusconi, venga coccolato dalla Chiesa di Roma come il suo più fedele difensore. D. Ma la civiltà occidentale è in grado di esportare oggi quella tradizione intellettuale fondata su pensiero forte, pensiero critico e valori etici? Non abbiamo detto che il modello economico dominante ha prodotto una sorta di geografia mentale globalizzata in cui c’è poco spazio per il pensiero critico? R. Esattamente questa è la scommessa del futuro, legata alla grande questione se l’Occidente sia in grado di esportare autentica democrazia, e non certo con i mezzi bushiani degli interventi militari. D’altra parte, se venissero a mancare i presupposti fondanti della stessa storia occidentale, l’espansione del modello tenderebbe a farsi sempre più disarmonica e incoerente. Questo accade in Cina, dove all’affermazione del modello economico occidentale non è corrisposta una crescita civile e democratica, con la conseguenza che molti intellettuali finiscono in galera proprio perché si ispirano ai valori della nostra tradizione. 164

D. Lei in sostanza sta dicendo che, se la rotta non venisse corretta, andremmo verso una sorta di autonegazione della società democratico-capitalistica nata dalla rivoluzione francese? R. Sì, è un rischio che corriamo, ma non senza la possibilità di uscirne. Adesso dirò qualcosa che potrà apparire – ma non è – un omaggio dovuto all’evento più nuovo recentemente accaduto nel mondo, l’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America di Barack Obama. Di Obama io do un giudizio molto cauto, ma tutt’altro che liquidatorio, come quello che è uscito recentemente dalla penna di Mario Tronti (così, fedele alla mia vocazione, finisco anche questa parte finale della nostra conversazione con un rilievo critico a un mio amico fraterno). A giudicare da quel che finora ha fatto, si direbbe che Obama aspiri a passare alla storia come l’inventore di un nuovo modello, che io definirei «il socialismo americano»: togliere ai ricchi per dare ai poveri (se non proprio come Marx, almeno come Keynes); allargare comunque la base sociale del benessere; venire incontro ai bisogni dei diseredati; cambiare la struttura della produzione economica e controllare dall’alto e dal centro i meccanismi finanziari. Egli naturalmente ipotizza che tutto questo serva non ad acuire la crisi, ma ad uscirne. Se non ci vogliamo spingere così in là, limitiamoci almeno a constatare che nei suoi discorsi il neo presidente richiama costantemente l’urgenza di tenere insieme sviluppo capitalistico, modello politico democratico (fondato sul consenso ma altresì sul rispetto delle regole), e pensiero forte (cioè l’idea che la politica si fa ispirandosi a valori, e non agli interessi bruti). Il messaggio vincitore di Obama è stato questo. Ma, insieme con il messaggio, è cambiato – la cosa non mi pare irrilevante – l’uomo, come sempre accade quando la novità è effettiva e di grande portata (se non enfatizzo troppo). Certo, bisogna almeno riconoscere che un Occidente che porta il volto di Obama è già un «altro Occidente», per riprendere la mia 165

precedente metafora. Evidentemente il multiculturalismo e il multietnicismo fanno bene all’Occidente: lo sottraggono alle sue secolari ossessioni (la volontà di potenza, che si trasforma facilmente in delirio di onnipotenza, la smisurata adesione ai valori materiali dell’esistenza), e fanno riemergere il nucleo positivo dei valori fondativi: per esempio, «l’americanismo dei padri», al quale Obama non a caso si richiama costantemente. Non è poi un caso che il nuovo presidente americano incarni personalmente un riavvicinamento tra politica e cultura. Provvisto di due lauree, proviene da una lunga esperienza universitaria: anche il suo stile retorico mostra un richiamo alla tradizione intellettuale. Parla come un professore, non come un politicante. Il paragone con la nostra classe politica è mortificante. Come è stato possibile che da una civiltà massmediologica che tende all’appiattimento e all’omogeneizzazione sia potuta scaturire una personalità così forte e unica? Quello di Obama è un fenomeno che andrebbe approfondito: comunque un segnale in controtendenza. D. Ma, per tornare alla nostra storia intellettuale, lei dunque è persuaso che il «pensiero critico» non possa eclissarsi. Scompaiono dunque gli intellettuali, ma non il pensiero forte di cui sono stati per due secoli mediatori. R. Sì, è questa la mia tesi. Scompaiono le figure che, se volessimo accoglierne la versione più negativa, presumevano di «avere il diritto» di far lezione alla storia, ma non può scomparire il pensiero forte che è connaturato alla storia occidentale. Esso si manifesterà in forme diverse, in un quadro politico-intellettuale radicalmente mutato. Una delle mie tesi interpretative preferite è che nella secolare storia di questo nostro paese non sempre fortunato, le svolte, i passaggi, le rotture decisive sono stati opera di giovani ingegni. La letteratura può essere un buon terreno per sperimentarlo. A vent’anni Giacomo Leopardi ha scritto L’infinito. Alla stessa età Ugo Foscolo scrive l’Ortis 166

e a ventotto i Sepolcri. Entro i trenta, pur più lento nella maturazione, anche Alessandro Manzoni ha tracciato il suo percorso. Quando s’affacciano l’onda rinnovatrice del Resistenza e i fervori del secondo dopoguerra, i protagonisti sono i giovanissimi Italo Calvino, Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli, Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello. A ventisette anni, dopo due trascorsi nei lager nazisti, Primo Levi trova la forza di stendere Se questo è un uomo. Insomma, perché il mutamento sia effettivo, bisogna che ci sia una spinta generazionale che rimetta spontaneamente in discussione tutto. D. Lei crede che ce ne siano oggi le condizioni? R. Tra i più giovani riscontro preparazione, serietà, attenzione specialistica. Quello che manca ancora è il senso prepotente della distinzione – e quindi il rifiuto aperto – rispetto allo stato esistente delle cose, senza il quale il meccanismo critico non s’innesca. Perché queste energie emergano, anche sul piano pubblico, è necessario cambiare la politica o, meglio, il modo in cui i nostri politici intendono la politica. Da qualche anno mi sono impegnato in un nuovo lavoro ambientalista, in difesa del territorio e del paesaggio. Quest’attività si fonda sulla spontanea associazione dei comitati di base, che stanno fuori dal meccanismo politico istituzionale. Dentro queste nuove esperienze circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso si potrebbe dire delle associazioni nel campo dei diritti civili. Naturalmente non penso che si tratti di esperienze in sé risolutive: penso però che si tratti di esperienze che si muovono nella direzione giusta. Il problema è come farle emergere, le nuove forze, sottraendole agli ingranaggi attualmente mortiferi della politica. D. Il «grande silenzio» che avvolge il paese non è dunque un destino ineludibile. 167

R. Ogni ragionamento, anche il più critico, ha bisogno di finire con la formulazione di una speranza. Guardi, so bene che a farsi illusioni ci si rimette sempre. Per giunta il nostro paese, l’Italia, è passato attraverso una catena ciclica addirittura secolare di speranze, attese, delusioni, sconfitte. Ma è vero anche che ogni volta ha ripreso da capo il suo cammino. Quando si parla della «prospettiva» italiana, mi viene in mente quel che Machiavelli ha scritto nelle conclusioni del suo Principe (una conclusione che io amo mentalmente accostare a quella dell’Inferno dantesco: si vede che gli italiani, per pensar bene, devono «chiudere» un’esperienza, tirarsene fuori). Machiavelli scrive, parlando della prepotente presenza di truppe straniere in Italia, che ormai «a ognuno puzza questo barbaro dominio». Per il disincanto nazionale, è doveroso ricordare che il suo ammonimento agli italiani a liberarsene doveva concludersi solo qualche anno dopo in quella che io, nella mia Storia, chiamo «la grande catastrofe italiana», foriera di più di tre secoli di dominazione straniera in Italia: la «virtù» spesso non basta, ci vuole anche la «fortuna». Però Hic Rodhus, hic salta: per tornare a riveder le stelle bisogna compiere per intero il percorso infernale ed arrampicarsi faticosamente per la «natural burella». Quando alle giovani generazioni, quando ai nostri giovani davvero «puzzerà questo barbaro dominio», un nuovo corso della storia italiana, anche della nostra storia intellettuale, potrà cominciare. Nel frattempo bisogna lavorare pazientemente, e anche oscuramente, senza timori né requie, per questo nuovo inizio. D. E il vecchio maître à penser? R. Per chi avrà la pazienza di ascoltarlo, potrà fungere da coltivatore di memoria, tramite tra passato e futuro, testimone di un’epoca che non c’è più.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Si danno qui di seguito i riferimenti bibliografici (della traduzione italiana per gli autori stranieri) delle opere più rilevanti citate o richiamate nell’Intervista. OPERE DI ALBERTO ASOR ROSA (IN ORDINE CRONOLOGICO)

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INDICE DEI NOMI

Abruzzese, Alberto, 38, 160. Accornero, Aris, 28, 87. Adorno, Theodor, 39, 48, 116. Ajello, Mario, 44. Ajello, Nello, 55, 65. Alembert, Jean-Baptiste Le Rond d’, 13. Alfano, lodo, 132. Alfieri, Vittorio, 150-151. Alicata, Mario, 54. Alquati, Romano, 28. Alvaro, Corrado, 136. Amato, Giuliano, 78-79. Amendola, Giorgio, 71-72. Ammaniti, Niccolò, 33. Anderlini, Luigi, 47. Ansaldo, Giovanni, 40. Arbasino, Alberto, 59, 74. Argan, Giulio Carlo, 65. Ariosto, Ludovico, 114-115. Aron, Raymond, 48. Asor Rosa, Alberto, VI-IX, 31, 48, 63, 86. Asor Rosa, Alessandro, 64. Asor Rosa, Alessandro (Sandro), 52, 153. Asor Rosa, Assunta, 52.

Aulenti, Gae (Gaetana), 132. Babel’, Isaak Emmanuilovicˇ, 21, 48. Balbo, Laura, 86. Barbato, Andrea, 80. Barrès, Maurice, 24. Basso, Lelio, 68. Battista, Pierluigi, 124, 159. Baudelaire, Charles, 115. Baudrillard, Jean, 103. Bauman, Zygmunt, V, 107-108, 110, 112. Beckett, Samuel, 71. Bellow, Saul, 33. Benda, Julien, 12-13, 21, 116. Benedetti, Arrigo, 65. Benjamin, Walter, 17, 39, 48, 115. Berlinguer, Enrico, 52, 58, 6568, 85, 91, 141. Berlinguer, Giovanni, 51. Berlinguer, Luigi, 155, 160. Berlusconi, Silvio, 41, 62, 79, 122, 126-133, 137-142, 147, 164. Bernardini, Carlo, 142. Bertinotti, Fausto, 68.

175

Bevilacqua, Piero, 87, 159. Biagi, Enzo, 77. Bilenchi, Romano, 135. Blair, Tony, 83. Blum, Léon, 24. Bobbio, Norberto, VII, 14-15, 17-18, 20, 25, 46, 77-78, 8081, 121. Boborykin, Pëtr Dmitrievicˇ, 8. Bocca, Giorgio, 77, 123, 150. Boccaccio, Francesco, 159. Bodei, Remo, 87. Bodin, Jean, 109. Bontempelli, Massimo, 136. Borbone, dinastia, 42. Bottai, Giuseppe, 136. Botticelli, Sandro (Alessandro di Mariano Felipepi), 120. Bourdieu, Pierre, 14. Brecht, Bertolt, 21, 48. Brezzi, Paolo, 67. Brunetta, Renato, 79. Bruno, Giordano, 142. Bugeaud de la Piconnerie, Thomas-Robert, 118. Bush, George, Sr., 15.

Chabod, Federico, 150. Chiarini, Paolo, 51. Chiaromonte, Gerardo, 71, 86. Chrušcˇëv, Nikita Sergeevicˇ, 55. Cicchitto, Fabrizio, 79. Cini, Marcello, 51. Ciofi, Paolo, 75. Codignola, Tristano, 154. Coldagelli, Umberto, 28, 51, 86, 116. Colletti, Lucio, 48, 52. Collodi (Lorenzini), Carlo, 94. Cortini, Giulio, 51. Craxi, Bettino, 77-80, 141. Croce, Benedetto, 39, 41, 59. Dante Alighieri, 16, 143-144, 159. De Caro, Gaspare, 28, 51. De Céspedes, Alba, 137. De Felice, Renzo, 49, 51. De Giovanni, Biagio, 88. Della Volpe, Galvano, 17. Dell’Utri, Marcello, 132. De Mauro, Tullio, 37, 48, 59, 101. De Sanctis, Francesco, 36, 43, 59. De Sanctis, Gaetano, 39. Di Leo, Rita, 28, 86-87. Donolo, Carlo, 87. Duggan, Christopher, 129.

Cacciari, Massimo, 68, 86-87, 89. Cafagna, Luciano, 78. Caffè, Federico, 61. Calogero, Guido, 151-152. Calogero, Pietro, 74. Calosso, Umberto, 151. Calvino, Italo, 58, 72, 84-85, 100-101, 113-115, 119, 134, 159, 167. Campana, Dino, 159. Camus, Albert, 27. Caracciolo, Alberto, 57. Carlyle, Thomas, 115. Cassola, Carlo, 31. Cattaneo, Carlo, 41. Cavalcanti, Guido, 113. Cavarero, Adriana, 86. Céline, Louis-Ferdinand, 71.

Eco, Umberto, 59, 71-72, 74, 96, 132. Einaudi, casa editrice, 9, 48-49, 86. El’cin, Boris Nikolaevicˇ, 90. Eliot, Thomas Stearns, 16. Engels, Friedrich, 58. Englaro, caso, 127, 142. Erenburg, Il’ja Grigor’evicˇ, 21. Falcucci, Franca, 157. Fenoglio, Beppe, 167. Flores d’Arcais, Paolo, 77-78. Foa, Vittorio, 68.

176

Fortini, Franco, 4, 28, 59, 7273, 84, 113. Foscolo, Ugo, 166. Foucault, Michel, 110-111. France, Anatole, 24. Freud, Sigmund, 23, 39, 54.

Inglese, Giorgio, 159. Ingrao, Pietro, 50, 56, 76. Iotti, Nilde, 77.

Gadda, Carlo Emilio, 30. Galante Garrone, Alessandro, 72, 143. Galilei, Galileo, 142. Galli della Loggia, Ernesto, 78. Garboli, Cesare, 6, 51, 74. Garibaldi, Giuseppe, 41, 129. Garin, Eugenio, V, 6, 44, 65. Gates, Bill, 122. Gelmini, Mariastella, 147. Gentile, Emilio, 137. Gentile, Giovanni, 37, 39, 147. Gide, André, 21. Ginzburg, Natalia, 65. Giolitti, Antonio, 57, 61. Giordano, Paolo, 33. Gobbi, Romolo, 28. Gobetti, Piero, 38, 41, 43, 151. Gorbacˇëv, Michail Sergeevicˇ, 90. Gozzini, Mario, 67. Gramsci, Antonio, 19, 41-43, 46, 49-51, 59. Guicciardini, Francesco, 36, 159. Gutenberg, Johann, VIII, 118119.

Kafka, Franz, 6, 30. Kant, Immanuel, 110. Keynes, John Maynard, 165. Koestler, Arthur, 51, 53-54.

Joyce, James, 16, 30. Judt, Tony, 25.

La Capria, Raffaele, 96. Lama, Luciano, 69-70, 75. La Malfa, Ugo, 61. Laterza, casa editrice, 48-49. La Valle, Raniero, 67. Ledeen, Michael, 49. Lenin (Vladimir Il’icˇ Ul’janov), 109. Leopardi, Giacomo, 16, 45, 159, 166. Letizia, Noemi, 132. Levi, Primo, 167. Lippmann, Walter, 132. Lombardi, Riccardo, 61, 78. Lombardo Radice, Lucio, 37, 151. London, Jack, 153. Lukács, György, 16, 48, 55. Lyotard, Jean-François, 107. Macaluso, Emanuele, 86. Machiavelli, Niccolò, 11, 109, 150, 159, 168. Magris, Claudio, 132. Majakovskij, Vladimir Vladimirovicˇ, 19. Malraux, André, 21. Mann, Heinrich, 21. Mann, Thomas, 16-17, 21-24, 34, 37, 39, 48. Manuzio, Aldo, 119. Manzoni, Alessandro, 167. Marcuse, Herbert, 116, 138.

Hayek, Friedrich August von, 48. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 111, 162. Heidegger, Martin, 114. Hesse, Hermann, 17. Hobsbawm, Eric J., 23. Horkheimer, Max, 116. Huntington, Samuel, 163. Huxley, Aldous, 21.

177

Occhetto, Achille, VII, 85-86, 88, 89. Ortega y Gasset, José, 116. Ossicini, Adriano, 67.

Marramao, Giacomo, 86. Marx, Karl, 9, 15-16, 48, 51, 54, 58, 117, 165. Masina, Ettore, 67. Mauri, Paolo, 159. Mauro, Ezio, 142. Mazzini, Giuseppe, 41, 129. Mazzucco, Melania, 33. Meneghello, Luigi, 167. Michelangelo Buonarroti, 120. Micocci, Claudia, 38. Milani, Lorenzo, 59. Mills, David, 132. Minucio Felice, Marco, 151. Missiroli, Mario, 40. Momigliano, Franco, 61. Montale, Eugenio, 30, 72. Montanelli, Indro, 40. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de, 109. Monteverdi, Angelo, 150. Moravia (Pincherle), Alberto, 73, 136, 137. Moretti, Nanni, 73. Moro, Aldo, 66-67, 69, 74-75, 141. Mottura, Giovanni, 28. Muscetta, Carlo, 31-32, 48, 51. Musil, Robert, 16-17, 22, 48. Mussolini, Benito, 39, 49, 127, 129, 150.

Panzieri, Raniero, 27-28. Paratore, Ettore, 151-152. Pareto, Vilfredo, 13. Parini, Giuseppe, 150. Pasolini, Pier Paolo, 31-32, 76, 81, 84, 100-101, 113, 119. Pasternak, Boris Leonidovicˇ, 21. Pavese, Cesare, 31-32. Pavone, Claudio, 133. Peire Vidal, 114. Pennacchi, Laura, 86, 160. Petrarca, Francesco, 12. Petroselli, Luigi, 75. Pirandello, Luigi, 30, 40, 159. Pisacane, Carlo, 41. Popper, Karl, 48, 96. Pratesi, Piero, 67. Pratolini, Vasco, 31-32, 135, 150. Praz, Mario, 150. Prezzolini, Giuseppe, 22, 37-38, 41. Procacci, Giuliano, 48. Proudhon, Pierre-Joseph, 78, 141. Proust, Marcel, 16, 24, 30. Putin, Vladimir Vladimirovicˇ, 90.

Nagy, Imre, 55. Napoleone Bonaparte, 140. Napolitano, Giorgio, 68, 86. Nascimbeni, Giulio, 72. Natta, Alessandro, 85. Negri, Toni, 98. Nietzsche, Friedrich, 15-16, 23, 48, 54. Nievo, Ippolito, 45. Nizan, Paul, 21.

Ratzinger, Joseph (papa Benedetto XVI), 108. Revelli, Nuto, 167. Rieser, Vittorio, 28. Rigoni Stern, Mario, 167. Robespierre, Maximilien-François-Isidore de, 109. Rocco, Alfredo, 39. Rodano, Franco, 67. Rodotà, Stefano, 47, 86-87. Romanò, Angelo, 67.

Obama, Barack, 98, 165-166.

178

Tarantelli, Ezio, 87. Tertulliano, Quinto Settimio Florente, 151. Thatcher, Margaret, 83. Tocqueville, Charles-AlexisHenri-Maurice Clérel de, 109, 116-118. Togliatti, Palmiro, 17, 22, 28, 49, 52, 57, 86, 91. Tolstoj, Aleksej Nikolaevicˇ, 21. Tommaso d’Aquino, 108. Tortorella, Aldo, 67, 87. Trompeo, Pietro Paolo, 150. Tronti, Mario, 17, 26, 28, 51, 68, 86-87, 90, 165. Tullio Altan, Carlo, 65. Turgenev, Ivan Sergeevicˇ, 8.

Rossi, Ernesto, 20. Rossi, Guido, 132. Ruffolo, Giorgio, 61, 78. Rusconi, Gian Enrico, 87. Sacconi, Maurizio, 79. Said, Edward, 22, 118, 121. Sainte-Beuve, Charles-Augustin de, 115. Salgari, Emilio, 153. Salinari, Carlo, 31, 32, 51, 54. Salutati, Coluccio, 12. Salvadori, Massimo Luigi, 78. Salvemini, Gaetano, 22, 36. Sanguineti, Edoardo, 71. Sapegno, Natalino, 31-32, 51, 150, 159. Saraceno, Pasquale, 61. Sarkozy, Nicolas, 83, 162. Sartre, Jean-Paul, 121. Sassoon, Donald, 115. Scalfari, Eugenio, 59, 85. Scelba, Mario, 72. Sciascia, Leonardo, 65, 72-73. Seghers, Anna, 21. Sereni, Emilio, 54. Silone, Ignazio, 54. Simone, Raffaele, 104, 114, 116. Smith, Adam, 9. Socrate, 115. Soldati, Mario, 77. Spaventa, Luigi, 47, 61, 139140. Spender, Stephen, 54. Spengler, Oswald, 116. Spinelli, Altiero, 65. Spirito, Ugo, 150. Stajano, Corrado, 6. Starnone, Domenico, 68. Strappini, Lucia, 38. Svevo, Italo (Ettore Schmitz), 30, 159. Sylos Labini, Paolo, 61, 100.

Vacca, Giuseppe, 88. Valéry, Paul, 115. Veca, Salvatore, 132. Vecchietti, Tullio, 68. Venturi, Lionello, 150. Verga, Giovanni, 30, 159. Verne, Jules, 153. Villari, Rosario, 48, 91. Vinci, Simona, 33. Virgilio Marone, Publio, 143. Vittorini, Elio, 22, 27, 31-32, 57, 91, 135-137. Volpe, Gioacchino, 39. Volponi, Paolo, 65. Voltaire (François-Marie Arouet), 8, 13. Wagner, Richard, 23. Weber, Max, VII, 13-14, 25. Werfel, Franz, 39. Woolf, Virginia, 16. Wrights, Richard, 54. Zagrebelsky, Gustavo, 131-132. Zapatero Rodríguez, José Luis, 163. Zola, Émile, 24, 37.

Tafuri, Manfredo, 86.

179

INDICE DEL VOLUME

Premessa

V

I.

L’estinzione

3

II.

Nascita e tramonto di una tribù inquieta

8

III. Politica e cultura

35

IV.

La sinistra tra egemonia e catastrofe

47

V.

La «civiltà montante»

95

VI. L’evo berlusconiano

126

VII. Scuola e università: la nuova resistenza

145

VIII. «A ognuno puzza questo barbaro dominio» 161 Nota bibliografica

169

Indice dei nomi

175

181