Intervista sul cinema 8842071803, 9788842071808

"In verità non so mai cosa rispondere perché non so chi è che stai interrogando; voglio dire che l'aspetto più

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Intervista sul cinema
 8842071803, 9788842071808

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Intervista sul cinema

D.

Hai passato la sessantina. Ti secca invecchiare?

R. Beh, ho 64 anni. Me lo ripeto spesso, per convin­ cermene, eppoi rimango come in ascolto, con l’orecchio tuffato dentro di me, per sentire cosa è cambiato, che cosa si è arrugginito, ammaccato, che cosa prova, in­ somma, c che cosa pensa uno che ha 64 anni. I primi tempi che ero a Roma, abitavo in una pensione e avevo per vicino di camera un impiegato romano sulla quarantina, che ci teneva moltissimo ad appa­ rire più giovane: era sempre dal barbiere, impacchi, mascherine di creta, la domenica la passava tutto il giorno a letto, e la sera si addormentava con due lettine di carne cruda, una per guancia, tenute ferme ila due elastici. Spesso la mattina lo vedevo uscire «Lillà sua camera, in vestaglia, chiudersi la porta alle spalle, restare immobile per qualche minuto con la inano posata sulla maniglia, e poi riaprire di colpo, tuffando dentro la testa. Incuriosito, una macina gli ho chiesto perché facesse così; sembrava non avesse voglia di rispondermi, ma poi, alla fine, affrontando il mio sguardo decisamente, ha risposto che quel pre­ cipitarsi con la testa dentro la stanza, dopo aver tenuto chiusa la porta per qualche tempo, gli serviva 3

per sentire se c’era odore di vecchio. Mi invitò a far la prova, socchiudendo lentamente la porta. « Annusi, sente odore di vecchio? » Da qualche tempo, ogni volta che esco dalla mia camera da letto, mi viene in mente quel tipo, e un paio di volte anch’io ho provato ad aprire di colpo la porta della stanza che avevo appena abbandonato, annusando l’aria con un po’ di batticuore. « La vecchiaia », dice Simone de Beauvoir, « ti afferra all'improvviso ». È verissimo. Fino all’altro ieri ero sempre il più giovane in qualunque gruppo, in qualunque comitiva, in qualunque tavolata. Come diavolo è potuto accadere che nel giro di poche ore, un giorno, diciamo anche una settimana, io sia diven­ tato improvvisamente il più vecchio? Eppure non mi sembra di essere cambiato in niente. Forse un po’ di insonnia, la memoria che fa cilecca, una minor dispo­ nibilità che mi fa cancellare, verso le cinque del pome­ riggio, le orge e i bagordi che avevo programmato la mattina. Se nel mio lavoro di regista dovessi mettere in scena verosimilmente un sessantaquattrenne, consi­ glierei all’attore di procedere un po’ più curvo, di tossicchiare ogni tanto, di strizzare gli occhi per guar­ dare e di portarsi all’orecchio la mano tremolante, come facevamo Flaiano ed io una trentina d’anni fa, quando ci divertivamo a spagliacciare fìngendo di es­ sere vecchissimi e ricoverati in un ospizio: « Suora! » chiamava Flaiano strascicando i piedi, « mi sono cacato sotto! ». Io facevo la parte di una suora tedesca, incazzatissima, che arrivava con un secchio d’acqua e lo spazzolone, e lo lavava come fosse un elefantino sudi­ cione; e poi c’era la scenetta dei due vecchietti al giardino pubblico che guardano le ragazze, sbavando 4

di gioia, ma senza più ricordarsi che cosa si faceva con le ragazze. Pinelli, che ci stava a guardare, ri­ deva ma non moltissimo, essendo un po’ più vec­ chio di noi. Ma perché abbiamo cominciato con questa do­ manda?

D. In questa collana sono già apparse interviste di politici, scrittori, filosofi, scienziati. Tu sei il primo uomo di cinema; come ti senti in loro compagnia? R. Un po’ spaesato. Incredulo, poco convinto, anche a costo di apparire un ipocrita che fa il modesto. Non mi sembra di essere cambiato molto da quando avevo diciassette anni e stavo nella vita con una curiosità partecipe ma irresponsabile, rinviando sempre al giorno dopo un atteggiamento eventualmente più serio e impegnato. Mi sembra tutt’ora vergognosamente attuale quel sentimento di golosa attesa del suono della campanella che a scuola annunciava la fine delle lezioni; lezioni che ascoltavo anche con diletto, qual­ che volta, ma chissà cosa succedeva in piazza in quel momento? o laggiù sul molo, o alla pescheria, o sul fiume? Immaginavo sempre che quando non c’ero dovessero succedere chissà quali affascinanti, straor­ dinari eventi, incontri, storie, personaggi... E anche adesso, caro Grazzini, che sto qui con te, non posso fare a meno di pensare che chissà quale splendida donna attraverserà in questo momento la piazza di San Silvestro: perché non andiamo a vedere invece di star qui a intervistarmi? Che senso ha tutto que­ sto scontatissimo rituale di domande e risposte? 5

D. Noh è stato ancora inventato un modo migliore per spiare nel retrobottega degli artisti, e non ci si stanca mai di frugare nel tuo... R. Mi accorgo che a ogni tua domanda chiacchiero a ruota libera per mezz’ora e ti sembrerà quindi con­ traddittorio quanto sto per dirti, ma in verità io non so mai cosa rispondere, perché non so chi è che stai interrogando; voglio dire che l’aspetto più imbaraz­ zante e schizofrenico dell’intervista è che chi la subi­ sce deve accettare di credere di essere un altro, uno cioè che sa, che ha idee generali, una visione del mondo, e dice la sua sull'esistenza, la religione, la politica, l’amore, le bretelle. Io non ho idee generali e mi sembra di sentirmi meglio a non averne. Mi trovo quindi molto a disagio in una intervista che tende comunque a obbligarmi ad esprimerne. Andando avanti con gli anni mi sem­ bra di avere sempre meno bisogno di capire, intendo capire nel senso di razionalizzare il rapporto con la realtà. Almeno per me è così. Io non voglio siste­ mare il mondo; quel poco che ho da dire, e quando ho voglia di dirlo, tento di dirlo nei miei film che mi diverto moltissimo a fare. Vedrai, sarà un tormento questa intervista. A molte domande non risponderò, ad altre mi sottrarrò con i soliti raccontini più o meno inventati, e quando avrai messo insieme il libretto vorrò rivederlo tutto, correggerlo, cercherò di impe­ dirne la pubblicazione, cancellerò le domande, le risposte, tenterò di riscriverlo. Ci aspetta una sta­ gione grama, delusioni, rabbie, avvocati; forse non ci saluteremo più. Comunque, andiamo avanti. 6

D. Conto sul tuo tavolo 129 penne a sfera, 21 lapis e 18 pennarelli. Mi sembrano un po' troppi...

R. All’inizio di ogni film passo la maggior parte del tempo alla scrivania, e non faccio che scarabocchiare chiappe e tette. È il mio modo di inseguire il film, di cominciare a decifrarlo attraverso questi ghirigori. Una specie di filo d’Arianna per uscire dal labirinto.

D. A proposito: è uscito recentemente un libro di tuoi disegni. Prima ancora di essere una raccolta di bei disegni, si ha l'impressione di scorrere un « album di famiglia » dei tuoi film. Qualcuno è entrato nel retrobottega di Mangiafuoco e ha liberato tutti i burattini? R. Non so bene da dove siano saltati fuori tutti questi scarabocchi. Con questo non voglio dire che li disconosco, li ho fatti io, sono quelli che vado schiz­ zando sui fogli extrastrong durante la preparazione dei miei film. È una specie di mania, scarabocchio da sempre, ero piccolissimo e stavo ore a pasticciare con matite, gessi, colori su tutte le superfici bianche che mi trovavo davanti, fogli di carta, pareti, tovaglioli, le tovaglie del ristorante. Persino la patente che ho in tasca è tutta piena di disegnini. Per quanto riguarda i disegnetti che schizzo agli inizi di ogni film, credo si tratti di una maniera di prendere appunti, di fer­ mare idee; c’è chi traccia frettolosamente delle parole, una sensazione, io disegno, abbozzo i tratti di un 7

volto, i dettagli di un vestito, gli atteggiamenti di una persona, le espressioni, certe caratteristiche ana­ tomiche. È il mio modo di accostarmi al film che sto facendo, capire che tipo è, cominciare a guardarlo in faccia. E in seguito questi schizzi, questi appuntini finiscono anche fra le mani dei miei collaboratori; lo scenografo, il costumista, il truccatore se ne ser­ vono come una falsariga su cui avviare il loro lavoro, cominciano anche loro a familiarizzarsi con Tumore della storia, la sua natura, i suoi connotati. Così ac­ cade che il film abbia un’anticipazione, una sorta di speculare frammentarietà, in quegli sketch. Un editore tedesco mio amico cominciò a dire che gli piacevano e che avrebbe voluto farne un album. E quando mi presentò il volume devo dire che rimasi suggestionato anch’io; a parte l’autorità conferita dall’operazione di stampa, la dignità propria di ogni libro, a parte l’eleganza della sistemazione, l’impaginazione, la carta patinata che imponevano una cornice di attenzione inimmaginabile altrimenti, mi sono stupito, rivedendo i miei disegni tutti insieme, a considerarli se non belli, curiosi, sinceri: dei pic­ coli emblemi che contenevano misteriosamente le intenzioni, lo stile del film a cui si riferivano. Laterza volle andare anche oltre, completare quella antologia estemporanea, occasionale, con un impegno più organico, più documentativo, secondo lo spirito, credo, della casa editrice; ed è riuscita a rintracciare un po’ dovunque questi miei disegnini, da amici, conoscenti, collaboratori. Una quantità di scarabocchi e personaggini, caricature, annotazioni, scherzi che spesso, io che non conservo niente, non ricordo nean­ che di aver fatto. 8

D. Bene, partiamo di qui per una rapida scheda autobiografica. Ti sembra di aver fatto « carriera », di essere divenuto un artista passando da disegnatore di vignette umoristiche ad autore di film? C’è un filo che lega la tua storia? Cerchiamo di dipanarlo insieme cominciando dal 20 gennaio 1920 in cui nascesti a Rimini, Capricorno. Credi molto nell’astrologia? R. Mi piace credere in tutto ciò che stimola la fan­ tasia, e mi presenta una visione del mondo e della vita più fascinosa, o comunque più congeniale al mio modo di essere. L’astrologia è un tentativo molto suggestivo e divertente di interpretare il senso delle cose, del perché e del come, e se qualcuno si sente protetto da questo sistema che in fondo ha anche una sua razionalità, a che serve deluderlo e dirgli che sono ridicoli racconti di fate, e che oggi non è più possi­ bile credere a queste sciocchezze? Io non ho l’impressione che le cose siano molto cambiate dentro di noi; in fondo, continuiamo a far sogni identici a quelli che facevano gli uomini di tre o quattromila anni fa, e di fronte alla vita abbiamo le stesse paure di sempre. Mi piace aver paura, è un sentimento ghiotto, che dà un sottile piacere. Sono sempre stato attratto da tutto ciò che mi faceva paura. Credo che la paura sia un sentimento sano, indispen­ sabile, per godersi la vita. Considero assurdo e peri­ coloso tentare di liberarsi dalla paura. I pazzi non hanno paura, o i supermen dei fumetti, i supereroi. Al ginnasio provavo un’istintiva antipatia per Achille: come si poteva essere così disumani e non avere mai paura di niente? Con questo non voglio dire che consulto L’oroscopo di « Novella 2000 » per sapere 9

chi incontrerò nel pomeriggio, o getto per aria le monetine dell’/ King per decidere che cravatta met­ tere questa mattina. Ma è un fatto che mi sento più protetto da tutto ciò che non conosco, e sono più a mio agio nelle situazioni incerte, sfumate, in penom­ bra, e credo che si debba a questo mio naturale atteg­ giamento se qualche volta l’insolito, l’inaudito, il me­ raviglioso, o diciamo forse, più modestamente, lo stra­ vagante, mi aspettano dietro l'angolo di casa. Così ho avuto la stagione dell’astrologia, quella dell’occulti­ smo, quella dello spiritismo, e poiché siamo in argo­ mento lasciami aggiungere che mentre preparavo Giu­ lietta degli spiriti ho conosciuto e frequentato medium e sensitivi dotati di poteri così straordinari da ridurre a più miti consigli le borie, le spocchie, le sicurezze incrollabili di alcuni miei amici che avevano spesso sghignazzato su questa mia inclinazione ad esaltarmi per tutto ciò che rivela realtà più sottili. Del resto anch’io posso testimoniare di esser stato protagonista di episodi inspiegabili. C’è stato un pe­ riodo della mia infanzia in cui, all’improvviso, visua­ lizzavo il corrispondente cromatico dei suoni: un bue muggiva nella stalla di mia nonna? ed io vedevo un enorme tappetane bruno-rossastro, che fluttuava a mezz’aria davanti a me: si avvicinava, si restringeva, diventava una striscia sottile che andava a infilarsi nel mio orecchio destro. Tre rintocchi del campanile? Ed ecco tre dischi d’argento staccarsi lassù dall’interno della campana, e raggiungere fibrillanti le mie soprac­ ciglia, sparendo nell’interno della testa. Potrei conti­ nuare per un’oretta buona; basta credermi. E quanti episodi di « sincronicità » continuano a capitarmi?!

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D. È Jung, se non sbaglio, che parlando di ‘sincro­ nicità ' non si riferisce soltanto a fatti che accadono nello stesso tempo, ma a un fenomeno più misterioso, più inesplicabile.

R. Se posso azzardarmi a ricordare che cosa Jung definisce * sincronicità mi sembra che con questo termine egli intenda il verificarsi di accadimenti esterni in coincidenza con altri interiori, che, a lume di logica, non avrebbero tra di loro nessun collegamento cau­ sale, ma è proprio a motivo di questa loro estraneità che la coincidenza assume un valore profondamente significativo. Forse non mi sono spiegato bene. In­ tendo dire comunque che Jung, elaborando questa sua intuizione, ha tentato di farci capire che è possi­ bile giungere a una più intima comprensione dei rap­ porti che intercorrono tra il mondo della psiche e quello della materia. Ma noi siamo così distratti e così diffidenti verso tutto ciò che non ci appaia con­ trollato dai sensi e dalla ragione, per cui questi avvisi che vengono dal profondo, queste informazioni, que­ sti ammonimenti, questi consigli che nemmeno il più intelligente e amorevole degli amici potrebbe darci, passano completamente ignorati, non li ascoltiamo, e diventiamo sempre più sordi, più ciechi, più stupidi, al punto da non riceverne più. È proprio ubbidendo a questo tipo di esperienza che ho scelto Freddie Jones per la parte del protago­ nista nel mio ultimo film. Ero pieno di dubbi, lo guar­ davo da tutte le parti: di faccia, di profilo, di tre quarti, e non riuscivo a convincermi che quest'attore inglese, rosso di capelli, rosso di pelle, rosso dapper­ 11

tutto, potesse incarnare il mio Orlatalo, giornalista italiano, simpatico e bullone. (ìli avevo scattato cen­ tinaia di fotografie, gli avevo latto ritte lunghi pro­ vini, e adesso, mentre lo riaccompagnavo in macchina verso l’aeroporto, e lui dormicchiava seduto al mio fianco con un sorrisine» beato sulle labbra, io lo fis­ savo quasi con odio. « No, non puoi essere il mio Orlando », pensavo, e mai faccia mi era sembrata più estranea e sconosciuta. « Ma chi sei? » ho mormorato rabbiosamente, e in quello stesso attimo in cui for­ mulavo questa domanda, aldilà dei finestrini della vettura in corsa, dietro il profilo di Freddie Jones che adesso russava, ecco sfilare su di un tabellone lungo venti metri un’enorme scritta: « ORLANDO ». Mi sono arreso di colpo, cancellato ogni dubbio. Scrit­ turato. Lo hai visto nel film? Mi sembra perfetto in quel personaggio. Forse Freddie Jones si risentirà un pochino se viene a sapere che l’ho scelto non tanto per la sua bravura, ma per la pubblicità che una fab­ brica di dolciumi fa così vistosamente a un gelato da passeggio che si chiama appunto « Orlando ». Eppure è stato così: le vie del Signore... Anche per quello che riguarda l’intervista che stiamo facendo ho avuto un avvertimento che spero non appartenga allo stesso tipo di esperienza di sin­ cronicità. Te la dico? Ecco, sono qui nel mio studio, e aspetto te per cominciare la nostra chiacchierata. A che scopo -— mi sto chiedendo — rilasciare l’enne­ sima intervista quando è appena uscito un libriccino che ne raccoglie fin troppe? Sono perplesso, scon­ tento. Non sarebbe meglio lasciar perdere? E mentre formulo questo pensiero, l’occhio mi cade sul giornale che ho lasciato sulla poltrona: un titolo a sei colonne 12

« ERRORE FATALE ». C'è scritto proprio così, senza possibilità di equivoco; o forse sì, la possibilità di equivoco c’è, o meglio di ambiguità, come in tutte le risposte oracolari. L’« errore fatale » sta nel farla, l’intervista, o nel non farla?

D.

Ti senti molto romagnolo?

R. Ma io sono romagnolo a metà, mia madre è ro­ mana, e da moltissime generazioni. Un mio cugino, che si dilettava di genealogia, aveva scoperto che le prime notizie dei Barbiani (è questo il cognome di mia madre) risalgono al 1400, e che c’era un Barbiani presso la corte pontifìcia di papa Martino v. Faceva lo speziale e fu coinvolto in un processo per avvele­ namenti, e buttato in carcere, dove giacque per una trentina d’anni addomesticando topi e ragni. Chissà, forse un po’ della mia inclinazione a fare il regista potrebbe derivarmi da quel lontanissimo antenato. Metà romano, quindi, e a Roma infatti, quando ci sono venuto ad abitare definitivamente nel 1938, mi sono subito trovato meglio che a casa mia. E qual è la mia parte romagnola? Stando alla convenzione che vuole il romagnolo estroverso, sensuale, generoso, molto socievole, amante della compagnia e delle di­ scussioni, della buona tavola, tutto vibrante di foia politica, bestemmiatore che si proclama ateo, ma che però manda la moglie e le figlie in chiesa perché qual­ cuno in famiglia deve pur avere un rapporto con quel pataca del Padreterno... ecco, io non credo di rap­ 13

presentare esemplarmente pregi e difetti così simpa­ tici. Specialmente per quello che riguarda la passione per la politica, più che romagnolo sono esquimese.

D. Afa come è possibile che non li interessi di politica?

R. Non sono un homo politicos, non lo sono mai stato. Politica e sport mi lasciano completamente disinteressato, inerte, non partecipe e quando mi trovo a viaggiare in treno, o ospite in qualche casa privata, le mie possibilità di conversazione sono ridotte a zero. Non mi vanto davvero di questa mia cronica estraneità alla politica che continuamente mi mette in una situazione di disagio. Gli amici, la società, l’indignazione spesso tenderebbero a spingermi verso posizioni ideologiche decise, atteggiamenti di maggior volontarismo, nell’aiutare a imprimere un cambia­ mento, a superare l’inerzia, a far andare una mac­ china grippata fra i cui meccanismi bene o male mi trovo a vivere e a operare, e che quindi desidererei anch’io più oliati, più funzionanti, più giusti, più di­ gnitosi per tutti. Ma quando tutto ciò accenna a tra­ dursi in una azione, in una prassi operativa, in una adesione a gruppi, discussioni, cortei, dichiarazioni, appelli, confronti, il solo sospetto di poter essere coin­ volto in quel mondo squadrato dai dibattiti e dalle riunioni, in quell’attivismo cameratesco, fra vocazio­ nale e dopolavoristico, che c’è sempre nell’ammini­ strazione della « cosa pubblica », mi respinge in un territorio franco, forse irresponsabile e infantile, dove 14

però mi rallegro dello scampato pericolo occupandomi delle uniche cose che mi interessano e cioè fare film. Riconosco che il mio può essere un atteggiamento nevrotico, di rifiuto a crescere, determinato, forse, in parte, dall’essere stato educato durante il fascismo, e quindi diseducato ad ogni partecipazione in prima persona alla politica che non fossero esteriori dimo­ strazioni e cortei; e di aver conservato, nel tempo, la convinzione che la politica è una cosa dei ' grandi ’, fatta da signori pensosi — come si diceva nei libri di storia — dei patrii destini, delle sorti dell’umanità: potevano avere il piglio un po' farsesco di Mussolini, o la grave incombenza di un Giolitti (come veniva raffigurato da Galantara); oppure potevano riferirsi a modelli ancora più risorgimentali e marmorizzati, Crispi, Rattazzi, Minghetti, Ricasoli, il baronetto di ferro; che venivano rappresentati sempre in piedi nell’aula parlamentare, nell’atto di profferire un discorso davanti a colleghi gravi e barbuti, con la redingote nera. Ecco, forse il limite, nel quale sono costretto tutt’oggi, è quello di non aver mai respirato, nell’età della formazione, il vero significato della democrazia, se non, anche quella, attraverso modelli lontani quanto la fantascienza, appresi nelle lezioni di greco, di filo­ sofia: la polis, il governo del popolo, Atene, il citta­ dino, i diritti e i doveri, Platone, Pericle, Socrate, la maieutica. Ma la democrazia così come potevamo viverla noi, o come si poteva intravvedere nei film americani, con la legge difesa dallo sceriffo, e tutti quei volontari che subito venivano nominati vicesce­ riffo e montavano a cavallo per inseguire i delinquenti; oppure come appariva nelle grandi città, coi gratta­ cieli, la gente che usciva dagli uffici, folle di gente che avevano un lavoro, una dignità, un benessere, e 15

una libertà in cui costruire con sfrontato ottimismo la loro esistenza; questa mitologia anglosassone della democracy che il bambino respira fin da quando ha sei mesi e deve imparare a rispettare, se non condi­ videre, la decisione di una maggioranza, perché lui stesso ha in mano gli strumenti per diventare a sua volta maggioranza, e spostare il corso della storia; tutta questa lezione di civiltà e di consapevolezza, forse c’è mancata, non ha fatto parte integrante della nostra cultura, e in qualche modo ci ha lasciati con la convinzione che a far politica siano sempre gli altri, quelli che la sanno fare. Anche quando poi le cose sono andate diversamente, e c’è stata una guerra e la demolizione di un regime e la costruzione di un nuovo periodo, di un nuovo Stato che finalmente sembrava allinearci ai paesi più civili, più avanzati, più importanti; anche allora per noi la democrazia ci è arrivata come una parola ubriacante, un improvviso affrancamento da una con­ dizione individuale di sudditanza con la quale però abbiamo convissuto per tanto tempo, per tanti secoli, che è diventata quasi condizione biologica, un dato somatico, una deformazione funzionale difficile da rimuovere, da ignorare. Sarà dunque perché io sono vissuto in tutta questa confusione, sarà la confusione con cui ho tentato di parlartene, ma ammettendo que­ sto mio limite senza nessun compiacimento debbo confessare che ancora oggi ho l’impressione che altri uomini, altra gente, siano chiamati ad amministrare la cosa pubblica, a prendere decisioni, a gestire prag­ matisticamente quella dimensione del quotidiano, del contingente, e anche dell’effimero a volte, per la quale io mi trovo totalmente sprovveduto, organicamente inadatto. Se bisogna riconoscere certi destini, certe 16

tendenze, mi pare anche di poter capire che un arti­ sta, chi è vocato all’espressione, si muove in campi del tutto diversi, che sono a volte proprio quelli del­ l'immutabile, o quantomeno di una sfera meno sog­ getta a variazioni, a violente rivoluzioni, perché più vicina alla condizione dello spirito, della conoscenza, della rappresentazione dell’interno più che dell’esterno. In quella favoletta orientale sull’apprendista stregone, il libro della sapienza, al quale egli arriva al termine di una lunga ascesi, è composto di fogli che sono specchi: cioè l’unica possibilità di conoscere è cono­ scersi. Non so se ciò potrebbe essere di qualche uti­ lità a chi deve quotidianamente vedersela con tutti i problemi pratici, le mediazioni, gli equilibri, i tempi stretti, le scadenze, l’affanno, il voto, il consenso, derivanti dall’amministrazione della società.

D. Afa perché hai associato nella stessa radicata avversione la politica e lo sport? R. So che in un paese come l’Italia rischio l’impo­ polarità a dire che non ho mai visto una partita di calcio; eppure è così, lo sport non mi ha mai interes­ sato. Non solo, ma quando per caso mi è capitato di assistere a qualche gara, pallacanestro, sci acquatico, maratone, mi sono sempre annoiato. Qualche volta da ragazzino ho fatto il raccattapalle sul campo da tennis del Grand Hotel di Rimini, ma per me restava un mistero il fatto che due signori in mutande potessero divertirsi lanciandosi la pallina da una parte e dal­ l’altra per ore ed ore. Una volta ho seguito il Giro d’Italia come cronista per il « Corriere Padano », e 17

ho solo il ricordo di un’orrenda fatica, di risse bru­ tali, di capitomboli terrificanti; dopo due corrispon­ denze lasciai perdere, o meglio, il direttore mi sosti­ tuì perché sbagliavo nomi c non avevo il tono eroico, partecipe, commosso. Forse la lotta greco-romana, la guardavo con un po’ di interesse. Probabilmente perché sentendomi complessato per la mia magrezza scheletrica, invidiavo quei giovanottoni pieni di muscoli, che potevano mo­ strarsi quasi nudi davanti a tutti. La competizione, l’agone, la gara, la sfida, il rivaleggiare mi trovano ancor più che indifferente, addirittura ostile. È chiaro che di fondo ho una segreta solidarietà per chi perde, e la situazione che mette gli uni di fronte agli altri per stabilire chi è il più forte, il più agile, il più coraggioso e anche il più bello mi provoca da sempre un sentimento di estraneità, di rifiuto, di ribellione. La Mille Miglia! Ecco sì, questa la ricordo volen­ tieri. Costituiva un avvenimento importante, come Natale, la nascita di Roma, il Corso dei fiori, i fuochi d'artificio, tutte date che costellavano l’anno come fatti straordinari, attesi, fatati. Anche la benedizione degli animali nel tempietto dedicato a Sant’Antonio da Padova era una festa entusiasmante. Tra ragli, latrati, coccodè, grugniti, un fratacchio robustissimo pretendeva che polli, tacchini, oche e maiali stessero zitti durante la funzione, altrimenti non li benediva. Con i pugnoni chiusi sotto il muso dei somari, li mi­ nacciava ferocemente: « Un cazzotto in testa ti do, altro che l’acqua benedetta! ». (Divago, lo so, ma è perché sullo sport non so cosa dire.)

D.

Stavi parlando delle Mille Miglia... 18

R. Ah... i preparativi per il passaggio della Mille Mi­ glia cominciavano due giorni prima. Si toglievano tutte le bancarelle sulle piazze all'entrata e all’uscita del Cor­ so, i negozi venivano chiusi, chi aveva finestre e balconi li affittava a peso d’oro, i più poveri si sistemavano pericolosamente sui tetti, staffette in moto e biciclette venivano sguinzagliate fino a dieci chilometri oltre la città, in piena campagna. Il pomeriggio del giorno della corsa, cinque o sei ore prima, non c’era già più nessuno per strada. Tutti sotto i portici, o alle fine­ stre, come nei palchi all’opera, il podestà, il conte, la moglie del federale, fissavano con i binocoli l’arco di Augusto, situato in fondo al Corso, da dove sarebbe spuntata la prima macchina. Molti agitavano bandiere, altri sventolavano coperte, ci si tirava i fichi secchi da una finestra a quella di fronte. Non c’era radio allora. Non si sapeva niente di quello che stava suc­ cedendo nella gara. Si sapeva soltanto, da qualcuno che aveva il telefono, che un’ora fa erano passati a Parma, e quindi facendo i calcoli, fra cinquanta, set­ tanta minuti il primo bolide avrebbe dovuto sfrec­ ciare attraverso il Corso, tutto vuoto e pulito, tranne il solito pazzerello che in un delirio di grandezza veniva giù pedalando come un canguro, e facendo con la bocca il rumore dei tubi di scappamento di una Bugatti. Di solito, al crepuscolo, un motociclista con la trombetta annunciava che la prima macchina stava per arrivare. Urla da tutte le finestre « È Bordino! No, è Campari! Macché, è Brilliperi, mi ha ricono­ sciuto, mi ha fatto un saluto con la testa! ». C’era un altro incosciente che, appena vedeva spuntare una macchina, partiva in quarta sul suo scalcagnato moto­ rino tentando disperatamente di fiancheggiare per qualche secondo la macchina rombante, con in mano 19

un pentolino che a tutti i costi voleva consegnare al corridore: « I passatelli! Li ha fatti la mia mamma! Ti fanno bene! ». Veniva puntualmente arrestato e i passatelli li mangiava lui in questura, magari insieme al maresciallo. Poi veniva il buio, cena fredda alle finestre, sbaciucchiamenti, qualcuno cantava; così tutta la notte, con i rombi terrificanti e gli sprazzi di luce delle macchine subito inghiottite dal buio. All'alba, i più accaniti dormivano con la testa appoggiata sui davanzali, aprivano gli occhi stralunati al passaggio delle auto sempre più rade. « Chi era? ». Le risposte diventavano via via più oscene, e verso le sette della mattina era tutto finito.

D.

Eri bravo a scuola?

R. Dell'asilo e delle elementari non mi ricordo niente. Ah, sì, la conversa dell’asilo delle suore di San Vincenzo, quelle col cappellone con le ali da gab­ biano. Aveva i capelli rasati come i forzati delle vi­ gnette umoristiche, e la faccia sempre rossa per le eruzioni turbolente del sangue. Non saprei dire l’età della ragazzotta, forse 15, 20 anni. Quello che mi ricordo è che ogni tanto mi abbracciava, mi stringeva, mi si strofinava addosso, in mezzo a un odore di bucce di patate, puzza di brodo rancido, e quell’odore che hanno le sottane delle suore. Sbatacchiato come un pinocchietto contro quel gran corpo solido e caldo, un giorno ho provato un languorino, un solletico, un pizzicore alla punta del naso, che non sapevo cos'era, ma che mi faceva quasi svenire dal piacere. Credo che quella sia stata la prima violenta emozione sessuale, 20

|x?rché ancora oggi l’odore delle bucce di patate mi illanguidisce un po’. Alle elementari, il maestro Giovannini; durante le feste di Natale o di Pasqua, un po’ per volta spariva dietro l’ammucchiarsi dei regali che noi, come una popolazione conquistata e asservita, portavamo inginocchiandoci davanti alla cattedra con sorrisctti ruffiani. Si sentiva la sua voce, sepolta dietro la mu­ raglia dì chili di formaggio, di ceste piene di polli, cassette di vino, anitre, tacchini; una volta Stacchiotti, un ripetente che a sedici anni faceva ancora la terza elementare, arrivò in classe con un maialino vivo, e quell’anno fu promosso. Anch’io credo di essere pas­ sato da una classe all’altra soprattutto per merito del­ l’ottimo parmigiano che mio padre mi faceva regalare al maestro sotto le feste. Gli anni del ginnasio e del liceo li ho raccontati in Amarcord, e da quel film si capisce che se a scuola apprendevo poco, in compenso mi divertivo molto. Forse a scuola, più che il greco, il latino, la matema­ tica, la chimica, di cui non ho mai ricordato niente, nemmeno un verso, una frase, una cifra, una formula, ho imparato a sviluppare lo spirito d’osservazione, ad ascoltate il silenzio del tempo che passa, a ricono­ scere i rumori lontani, gli odori che arrivavano dalle finestre di fronte, un po’ come un carcerato che sa quanto tempo ci mette quel triangolo di sole per arrivare sulla branda, e distingue il suono della cam­ pana del Duomo da quella di Sant’Agostino. Ho un ricordo pigro c piacevole di intere matti­ nate, di interi pomeriggi passati senza far niente, allungando le gambe sotto il banco, pulendomi le unghie con un pennino, pensando alla Volpina che in quell’ora sicuramente stava al mare, a fare l’amore 21

coi pescatori, dietro gli scogli. Era marzo: già si spo­ gliava nuda?

D. Anche per te quella /« dunque una sti. Un giorno peregrinammo da mattina a sera sul delta fangoso del Po alla ricerca di una capanna, detta « Baracca Pancirii » che Rossellini si ricordava di aver visto da piccolo, trenta, trentacinque anni prima. Ceravamo affidati a uno del posto che aveva un occhio coperto da una benda nera; dicevano che una 57

notte, andando a rubare le anguille nella proprietà di una contessa, questa gli aveva sparato dalla finestra una rosa di pallini. Il guercio, che zoppicava anche un po’, ci trascinò per tutto il giorno nel fango, nel­ l'acqua, senza saper ritrovare la capanna; poi, al tra­ monto, si buttò in ginocchio davanti a Rossellini in­ vitandolo a sparargli ncH’altro occhio. Ma non ave­ vamo fucili, niente; eppoi Rossellini si mise a ridere. E adesso era lui che si ostinava a voler girare ancora, trascinandosi dietro tutta la troupe, in un paesaggio da film di Kurosawa, con i camion che ogni tanto sprofondavano nella palude e dei grandi uccellarci neri che volavano sempre più bassi. Ci furono mo­ menti di grande tensione: i portatori volevano tor­ nare indietro, Rossellini salì su una jeep e fece un discorso promettendo a tutti una pinta di rum. Scen­ deva la sera, non sapevamo più dove eravamo e cosa facevamo in quella sconfinata palude. All’improvviso dai canneti sbucò un bambino, avrà avuto tre anni, che dopo aver detto in dialetto veneto « Mi son ciocialista », ci guidò rapidamente alla baracca Pancirli che era proprio a due passi, vicinissima al posto da cui eravamo partiti la mattina. Mangiammo anguille tagliate vive e cotte su un fuoco di sterpi. Era già notte. Come ne\\'Anabasi di Senofonte.

D. No» vai spesso al cinema e si sa. Ma nel pano­ rama internazionale, quali sono i registi — o i film — che più ti incuriosiscono?

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R. Un giorno dopo l’altro ho dimenticato l’abitudine di andare al cinema. Non so darmi spiegazioni con­ vincenti su questa rimozione. Del resto, anche da ra­ gazzo non ero un frequentatore delle sale cinemato­ grafiche. Mi incantavo davanti ai manifesti dei film, alle grandi foto che nei negozi del Corso ne annun­ ciavano l’imminente programmazione; forse mi pia­ ceva più immaginarlo, il rito fascinoso che doveva svolgersi nell’interno del cinema, piuttosto che goderlo di persona. A Rimini, il « cinema » si chiamava Ful­ gor, l'ho già raccontato in quasi tutti i miei film. Adesso, nell’atrio, c'è una mia grande fotografìa. Sto lì, proprio sopra la cassa, e non posso fare a meno di [pensare che quando c’è un film che non piace, la gente uscendo se la prenderà un po’ anche con me, mi guar­ derà con delusione. Moltissimi anni fa, invece, vicino alla cassa, ci stava il proprietario del locale, uno che era convinto di essere il sosia di Ronald Colman; per la verità non gli assomigliava molto, forse un pochino quando si metteva di tre quarti con l’ombra del cap­ pello su di un occhio, ma doveva star fermo, però, e avere la sigaretta tra le dita, sotto il mento, un po' a destra, col fumo che gli saliva dritto come un filo. Lui lo sapeva, e così stava quasi senza respirare, im­ mobile, tra l'ingresso e la biglietteria, dove, dietro il vetro con la finestrella, c’era la moglie che staccava i biglietti e allattava, coprendo seno e bamboccio con uno sciallone a fiori, da dove si sentiva ciucciare e ogni tanto venivano degli strilli da tucano. I film che proiettava nel suo locale, lui andava a vederli qualche giorno prima a Bologna, c quando tornava faceva il misterioso: « Ah, io non parlo », diceva, ma poi, con grandi dondolamenti della testa e una serie in crescendo di « ostcia-burdél », dava 59

chiaramente a capire che lì a Bologna era stato testi­ mone di fatti straordinari. « Muore? », chiedevamo noi sulle spine. « Muore ’sta melanzana! », sghignaz­ zava lui, perdendo un po’ àe\\*aplomb di Ronald Colman. Lo guardavamo ammirati, pieni di invidia. « E Jean Harlow quando viene? » « A Natale è qui », annunciava lui con grande sicurezza. « E Wallace Beery? » « A fine gennaio. Forse. Perché non so se lo faccio venire ». Una domenica mattina, da dietro una tenda, l’ho visto solo solo, seduto in platea, quasi al buio, che guardava il telone bianco fumando in silenzio. E la moglie del farmacista, che andava al Fulgor per farsi tastare? Vedeva i film tre o quattro volte di seguito, e tutto attorno a lei era un gran caro­ sello di giovanotti, anche noi ragazzini tentavamo la grande avventura, cambiando posto in continua­ zione con una lenta marcia di avvicinamento. Lei non guardava nessuno, fumava lentamente, attraverso le maglie della veletta, tendendo i labbroni tumidi, gli occhi quasi strabici fissi sullo schermo, mentre noi, ansimanti e col cuore che scoppiava, ci davamo un gran da fare sulle sue cosce. Poi c’era Baghino, che stava ritto nel buio dietro le tende, per spiare sulle facce degli spettatori la mi­ nima espressione di insofferenza quando sullo scher­ mo, nei cinegiornali, appariva il Duce, e poi correva a dirlo al Fascio. Una volta, in quattro, lo hanno arrotolato dentro la tenda, facendolo girare come un salamene appeso al soffitto c legandolo alle caviglie e sopra la testa. Da là dentro, lanciava urla da bestia, ma nessuno aveva il coraggio di andarlo a liberare. Mi piacerebbe fare un film sul cinema Fulgor, raccontando tutto quello che succedeva in quel cine60

mino, dove un’intera generazione è stata condizionata e in parte protetta, durante gli anni del fascismo, da quelle ombre lucenti che sul telone raccontavano sto­ rie affascinanti, di un paese più ricco, libero, felice e divertente come era l’America. I primi film, dunque, li ho visti al cinema Fulgor. Qual è stato il primo tra i primi? Sono sicuro di ricor­ dare con esattezza perché queU’immagine mi è rimasta così profondamente impressa che ho tentato di rifarla in tutti i miei film. Il film si chiamava Maciste all’in­ ferno. L’ho visto in braccio a mio padre in piedi tra una gran calca di gente con il cappotto inzuppato d'acqua perché fuori pioveva. Ricordo un donnone con la pancia nuda, l’ombelico, gli occhiacci bistrati lampeggianti. Con un gesto imperioso del braccio faceva nascere attorno a Maciste anche lui seminudo e con un tortore in mano un cerchio di lingue di fuoco. E poi Greta Garbo bianca funerea con le ciglia come ventagli e ogni volta che li faceva scendere sugli occhi mia madre mormorava: « Come lavora bene! ». Masticabrodo, Tom Mix, Rin-tin-tin, Chariot che in certi film faceva piangere nonostante quei dentini aguzzi da roditore che non lo rendevano compietamente simpatico, come era invece simpaticissimo l’omaccione baffuto e barbuto che lo inseguiva ar­ rancando col piedone ingessato. Al ginnasio il pro­ fessore di chimica era identico a Giacomone e quan­ do al Fulgor davano un nuovo film di Chariot il giorno dopo in classe era una festa; spudoratamente chiedevamo al professore di rifarci le facce di quando gli- cadeva il lampadario in testa o quelle ancora più comiche delle martellate sulle dita. Più compiaciuto che infastidito il professore muoveva velocissimi i sopracciglioni grossi come salsicce e si soffiava sulle 61

dita colpite dal mio compagno di banco che imitava benissimo Chariot. Noi applaudivamo con entusiasmo buttando in aria i dizionari, finché un giorno lo ve­ demmo arrivare in classe facendo finta di niente ma sembrava nudo perché non aveva più barba né baffi e anche le sopracciglia erano state molto sfoltite; pare che il preside, preoccupato per il prestigio del­ l’istituto, avesse posto condizioni inderogabili: via subito barba e baffi o via l’intero professore.

D. Stai divagando; non bai ancora risposto alla mia domanda. Quali sono i film che ti hanno maggior­ mente colpito? R. I classici del cinema debbo vergognosamente con­ fessare che non li ho mai visti, non ho mai visto Murnau, Dreyer, Eisenstein, nemmeno dopo, quando sono venuto ad abitare a Roma e andavo forse un po’ più spesso al cinema ma soltanto se c’era l’avan­ spettacolo. Molti film li ho visti così, da dietro lo schermo seduto su di un baule insieme a qualche baiIeri netta infagottata nell'accappatoio che col naso in aria e in mano il cappuccino e il maritozzo seguiva commossa le patetiche vicende della Voce nella tem­ pesta. Tornando alla tua domanda sarei tentato di rispon­ derti che sono tanti gli autori che al cinema mi hanno regalato emozioni e meraviglie facendomi credere a tutto quello che raccontavano. Il favoloso Kurosawa, rituale e magico, come un'affascinante cerimonia. Do­ vevamo fare un film insieme, a episodi, dove ci sa­ rebbe stato anche Bergman. Kurosawa mi scrisse dal 62

Giappone, una bellissima lettera piena di inchini, di composte cortesie. Poi il film non l’abbiamo più fatto. Bergman mi sembrava un fratello maggiore, più serio, forse più infelice, o forse meno, perché l’infelicità in lui mi sembra come raggelata in un implacabile dibat­ tito con i suoi fantasmi. Chissà chi vincerà alla fine? Ma intanto c’è il suo cinema che regola tutto il gioco, nitidamente. Mi piacevano i fratelli Marx, autori dei loro film, Stanlio e Onlio, due augusti pieni di innocenza. In Buster Keaton mi ha sempre colpito la distaccata, imparziale visione delle cose, degli uomini, della vita, che non assomiglia in nulla a quella di Chariot, sen­ timentale, romantica, percorsa da segni di critica sociale. John Ford, il cinema allo stato puro: ruvido, in­ consapevole. Mi piace la sua forza, la sua disarmata semplicità priva di sterili e astruse mediazioni cultu­ rali. È uno che ha amato il cinema, che ha vissuto per il cinema, e che ha fatto del cinema una favola da raccontare a tutti, ma prima ancora una favola da vivere egli stesso. Mi sembra ovvio citare Rossellini; il suo abbandono nei confronti della realtà, sempre attento, limpido, fervido, quel suo situarsi natural­ mente in un punto impalpabile e inconfondibile tra l’indifferenza del distacco e la goffaggine dell’adesione, gli permetteva di catturare, di fissare la realtà in tutti i suoi spazi, di guardare le cose dentro e fuori con­ temporaneamente, di fotografare l’aria intorno alle cose, di svelare ciò che di inafferrabile, di arcano, di magico, ha la vita. Mi piacciono Kubrick, Orson Wel­ les, Huston, Losey, Truffaut, non vorrei dimenticare nessuno, Visconti, Hitchcock, Rosi, Lean... Di Anto­ nioni ammiro il rapporto severo e casto che ha con 63

il cinema, da monaco-scienziato. Ma per essere sincero fino in fondo, debbo dire che mi piacciono moltissimo anche certi film di 007. Dietro la superficie smaltata, la concatenazione brillante di fatti avventurosi, senti il fruscio allarmante di un mondo di coleotteri, ter­ ribile, angoscioso: il nostro mondo, affascinante e tre­ mendo come questi film che spesso riescono a captare, dentro una forma gloriosamente convenzionale, il mes­ saggio magari parziale, magari distorto, magari impaz­ zito, dell’uomo di oggi. E poi c’è Bunuel; ho visto un solo film suo, c mi ha entusiasmato, mi ha fatto venir voglia di vederli tutti. Era 11 fascino discreto della borghesia. Che grande incantevole film!

D. Dei tuoi film hai parlato spesso e a lungo, e non voglio perciò costringerti a ripetere cose già dette; ma volevo ugualmente accennarvi un momento. Hai detto spesso che non rivedi mai i tuoi film: ma che rapporti hai con loro? come guardi oggi a questa ' famiglia ’?

R. Mi pare di aver sempre girato lo stesso film; si tratta di immagini e solo di immagini, che ho filmato usando gli stessi materiali, forse sollecitato di volta in volta da punti di vista diversi. Il rapporto che ho con i miei film è quello che si viene delincando man mano che il film cresce e si avvia al suo compimento, un rapporto che si ripete e che vale per tutti. Un bel giorno il film a cui stai lavorando finisce, anche prima della fine effettiva delle riprese. Nei teatri di posa che erano stati tuoi ci sono altre troupe, montano altri set: avverti quelle pre­ senze come un’intrusione, una violazione, un sacrile64

gio, sono dei ‘ guastatori ’. Così la conclusione del lavoro appare come una dispersione, uno smagliarsi. Intanto però arriva qualcosa che assomiglia un po’ a un ricominciare da capo, è la fase del montaggio. Il rapporto diventa privato, personale; niente più con­ fusione, niente più estranei, visitatori, amici che bene o male costituiscono un magma nutriente durante le riprese. Devo restar solo con lui, il film, e col mon­ tatore. Si arriva così alla prima visione in saletta: « lui » esce dallo schermo ridotto della moviola dove aveva connotati dolcemente amichevoli e invade lo schermo a formato regolare. Ha già acquistato auto­ nomia; le immagini sono le sue, quelle che ha saputo guadagnarsi e quelle con le quali l’ho inseguito. £ sempre il tuo film? Lo riconosci ancora? Ha un volto a mezza strada fra il ricattatorio e il fraterno. C'è un cordone ombelicale che ci trattiene vicini, spetta a me spezzarlo. A quel punto comincio ad andarmene, a evitarlo, a non provare più gusto a guardarlo dritto in viso. Il magma al quale volevo sottrarlo si è de­ cantato c ormai il mio interesse va scemando rapida­ mente. Lo finisco, certo che lo finisco; con sempre maggior pignoleria, per distaccarmene sempre di più. Ma senza la contrastata amicizia di prima, o la diffi­ cile solidarietà. Quando il film è proprio finito, lo abbandono con fastidio. Non ho mai rivisto un mio film in una sala pubblica. Sono assalito da una forma di pudore, mi trovo nella condizione di chi non vuol vedere un amico fare cose su cui non era d’accordo. Quando dico che non rivedo mai i miei film, che non li ho più rivisti, anche qualche amico fa un sorrisetto di incredulità. Eppure è così; forse i miei film non sono né lontani né vicini, sono con me, sono me, 65

e non ho bisogno di verifiche annuali, di controlli. Trovarmeli di fronte, sullo schermo, o in televisione, mi provoca una specie di allarme, come quando cam­ minando per strada vedi riflessa in una vetrina o in uno specchio una figura che ti sta guardando, e con sgomento riconosci che sei tu.

D. D’accordo, ma non hai risposto alla mia domanda. Vedo che hai proprio delle forti resistenze a parlare dei tuoi singoli film. Ti propongo allora una sorta di gioco: io nomino un titolo e tu, come nei test delle libere associazioni, dici quello che ricordi, quello che ti viene in mente. Allora cominciamo: Luci del varietà. R. L'alba livida. L'attesa dell’« alba livida », e Pop­ pino De Filippo che nella stalla del grande casale dove eravamo radunati raccontava la Napoli della sua in­ fanzia, il teatro San Carlino, Antonio Petito il mitico Pulcinella chiamato Totonno 'o pazzo, Scarpetta, De Marco, detto Mfrù, e l'altro De Marco, Gustavo, il maestro di Totò; un mondo picaresco di glorie e di stracci, di avventure alla Thyl Eulenspiegel, Pinocchio, Don Chisciotte. Racconti favolosi, di attori geniali, come non ne nascono più, incarnazioni irripetibili. Ascoltavamo incantati, e lo stupendo buffone si diver­ tiva lui stesso ai suoi racconti, con i sogghigni mali­ gni dei suoi personaggi, infingardi e tracotanti: fin­ ché qualcuno della produzione si precipitava dentro gridando: « L’alba livida! Ce sèmo! Fóri tutti! C'è l’alba livida! ». Così era stata definita in sceneggiatura: « alba 66

livida », e tutti, anche i più rozzi capigruppo, avevano adottato questa espressione un po’ letteraria. Per giorni e giorni, scuotendo la testa con esagerata preoc­ cupazione, dicevano a Lattuada e a me: « Voi vede’ che manco stamattina poterne fa’ st’alba livida? Er mese scorso semo stati pieni d’albe livide! ». L’alba livida era diventata una « cosa », come il cestino, come i binari del carrello, una cosa pratica da tro­ vare, da consumare. In fondo sono queste le storie che chi fa il cinema ricorda più volentieri, anzi, le uniche che ricorda: l’acquazzone improvviso, l’atmo­ sfera da scampagnata che naufraga, e ci si ripara alla meglio, chi sotto un albero, chi dentro il camion degli elettricisti; i più furbi in una cascina con un’invasione vagamente soldatesca, benevolmente arrogante, invi­ tando i contadini a preparare subito una frittata. Questa disinvoltura, questo distratto interesse o più simpaticamente quell’aria da gioco con cui noi del cinema trattiamo cose e persone, come se il mondo intero fosse un set a nostra disposizione, un immenso trovarobato su cui mettere le mani senza chiedere permesso, fa parte dell’alienazione, dell’usura del me­ stiere, un po’ come il pittore, per il quale gli oggetti, le facce, le case, il cielo, sono soltanto forme di cui puà disporre. Per il cinema, tutto diventa una. scon­ finata natura morta, anche ! sentimenti deglLaltri sono qualcosa di cui si può disporre. E un delirio, una ebrezza ubriacante di grande potere, semidivina, e questo sentimento che lega potentemente avventu­ rieri, invasori, predatori, guastatori, crea i sodalizi più impegnativi, amicizie definitive, almeno fin quando il nodo magico che è la lavorazione del film trattiene tutti insieme; appena l’ultimo riflettore si spegno e il viaggio è finito, anche la temperatura dell’amicizia, 67

dell’innamoramento, sfebbra rapidamente, ritornano le distanze, l’indifferenza, non ci si riconosce quasi più; fino al prossimo film, che ci ritrova di nuovo tutti assieme ad abbracciarci, con grida d’entusiasmo e diluvii di ricordi.

D. E cosa mi dici dello Sceicco bianco, il tuo primo film da solo? R. Spesso negli anni successivi, preparando Satyricon, Roma, Casanova, macchine produttive complesse e difficili, pensavo con nostalgia allo Sceicco bianco. Mi sarebbe piaciuto rifarlo, con l’esperienza, il di­ stacco di adesso, e con la voglia di giocare più lieve­ mente con il racconto e i personaggi. Come ho già detto tante volte, io non pensavo che avrei fatto il regista. Anche dopo Luci del varietà, che fu un suc­ cessino tiepido tiepido, ero convinto che avrei sog­ giornato chissà ancora per quanto tempo in quella zona limbalc che è la sceneggiatura; un territorio, una dimensione che sembrava appartenermi di più per la irresponsabilità del lavoro collettivo, la man­ canza di un vero impegno, l’aria di bivacco sornione e senza colpa. Il primo giorno di riprese fu un fallimento totale, non girai nemmeno un’inquadratura. Non c’è niente di più diffìcile c disperante che avere la macchina da presa su una zattera in mare aperto e tentare di far restare nell’inquadratura la barchetta con gli attori. Il mare è uno schienone immenso che si muove con­ tinuamente, basta un attimo, e quando rimetti l’occhio 68

alla macchina, dentro al quadro non c’è più niente, solo l’orizzonte o il sole che t’abbaglia. Quella mattina (la mia prima mattina da regista) ero uscito di casa all’alba, dopo aver salutato Giu­ lietta, un po’ emozionata, e aver ricevuto gli auguri un po’ scettici della governante, che sulla porta aveva ripetuto « Ma morirà di caldo, così! », perché io, nonostante fosse già estate, mi ero vestito da regista: maglione, scarponi, gambali, vetrino affumicato al collo e un fischietto come gli arbitri di calcio. Roma era deserta. Scrutavo le strade, le case, gli alberi, cercando un segno propizio, beneaugurante; ed ecco che un sacrestano apre il portale di una chiesa, come lo facesse per me. Cedo a una antica soggezione, scendo dalla macchina ed entro. Volevo pasticciare una preghiera, tentare una invocazione, rendermi me­ ritevole di un aiuto; non si sa mai. Stranamente, data l’ora mattutina, la chiesa era tutta illuminata, e in mezzo c’era un catafalco con centinaia di candele dalla fiammella immobile e dritta. Un uomo pelato, ingi­ nocchiato vicino alla bara, piangeva con la testa den­ tro il fazzoletto. Tornai di corsa in macchina facendo corna a raggiera, dai piedi fino a un metro sopra la testa.

D. Avrei voluto domandartelo prima, ma l'episodio che mi hai raccontato me ne offre adesso l'occasione. Quale è il tuo rapporto con la religione? R. Vorrei poterti rispondere concisamente, senza scivolare nei soliti raccontini che, bambinetto, mi 69

vedono protagonista di paure e terrori nei gelidi cor­ ridoi dei salesiani, nelle immense camerate con cento brande, rischiarate soltanto da una piccola lampadina rossa, posta sopra di un vano buio come la porta del­ l'inferno, aldilà del quale c’era un immenso scalone che scendeva giù verso altri corridoi e stanzoni riem­ piti solo da enormi ritratti di vescovi e in fondo la porticina che immette direttamente nella chiesa dove, una volta alla settimana prima dell’alba, noi ragazzini venivamo fatti inginocchiare nell’oscurità più totale, e ciascuno ad alta voce doveva gridare i propri pec­ cati. Se mi metto a raccontare non la finisco più per­ ché mi piace moltissimo, almeno nel ricordo, questa atmosfera minacciosa, paurosa, a volte davvero terri­ ficante. È una buona religione, quella cattolica, ripen­ sandoci da lontano: ti alimenta la paura verso qual­ cosa che è sempre in agguato, che ti osserva, ti spia. Se è vero che la religione da una parte libera l'uomo dalla paura, da un altro lato la genera potentemente. I miti di qualunque civiltà ci parlano della paura degli dei, e quindi Dio deve essere qualche cosa di spaven­ toso, che ti impone la paura, perché è nascosto, ignoto e quindi è giusto che tutto ciò che non si conosce ti riverberi di spavento. Credo di essere naturalmente religioso, perché il mondo, la vita, mi sembrano avvolti di mistero. E anche se fin da bambino non fossi stato affascinato da questo sentimento mistico che si proietta sull’esi­ stenza e rende tutto inconoscibile, credo che il me­ stiere che faccio mi avrebbe naturalmente condotto verso un sentimento religioso. Faccio un sogno, op­ pure a occhi aperti mi abbandono a immaginare qual­ cosa, e poi firmando un contratto, con un po' di legname, due belle ragazze e un paio di riflettori, 70

riesco a materializzare quel fantasma, e tutti possono vederlo come l’ho visto io mentre dormicchiavo o non pensavo a niente. Chi ci guida nell’avventura creativa? Come è potuto accadere? Soltanto la fiducia in qualcosa o in qualcuno nascosto dentro di te, qual­ cuno che conosci poco, che si fa vivo ogni tanto, una tua parte sorniona e sapiente che si è messa a lavo­ rare al posto tuo può aver favorito la misteriosa ope­ razione. Tu l’hai aiutata questa tua parte inconscia dandole fiducia, non contrastandola, lasciando fare a lei. Questo sentimento di fiducia credo che possa definirsi sentimento religioso. La presunzione, l’erudizione, l’egoismo, la smania di saperne di più, la falsa cultura, molto spesso bloc­ cano questa fiducia, l’obbligano a ritirarsi, a dissol­ versi, e allora quasi sempre accade che i risultati siano meno soddisfacenti.

D.

E come va con la Chiesa cattolica?

R. Questa è una domanda da rivolgere a Maometto, a Lutero, al capo di un’altra chiesa. Cosa posso rispondere? Ti ho già detto che mi piace, e come avrei potuto, nascendo in Italia, sce­ gliere un’altra religione? Mi piace la sua coreografia, le sue rappresentazioni immutabili e ipnotiche, le pre­ ziose messe in scena, i lugubri canti, il catechismo, l’elezione del nuovo pontefice, il grandioso apparato mortuario. Provo un sentimento di gratitudine per tutte le ammaccature, le oscurità, i tabu che hanno costituito un immenso materiale dialettico, le pre­ 71

messe di ribellioni vivificanti, e il tentativo di libe­ rarsi da tutto questo dà un senso alla vita. Ma a parte queste valutazioni personali, i meriti della Chiesa sono quelli di qualunque altra creazione del pensiero che tende a proteggerci dal magma divo­ rante dell’inconscio. Anche il pensiero cattolico, come quello islamico o indù, è un edificio intellettuale che, stabilendo un codice di comportamento, tenta di do­ tarci di una bussola, un orientamento, che ci guidi nel mistero dell'esistenza; un disegno della mente che può salvarci dall’orrore esistenziale della mancanza di un significato. Debbo anche aggiungere che, forse per un ricordo ancestrale, c’è in me un’abbagliata attrazione verso la Chiesa cattolica che è stata la più straordinaria creatrice di artisti, una madre severa, committente vigile e generosa di capolavori esclusivi. Mi rendo conto che è un po’ ridicolo immaginare De Laurentiis in paramenti cardinalizi, eppure mi piace pensare che i produttori, così come gli editori, hanno ereditato immeritatamente una specie di investitura, e che il destino dell’artista è quello di vivere col pane del granduca, del principe e del papa. C’è un tipo di artista che vuole vivere la sua libertà dentro i limiti stabiliti dalla committenza, anche perché in tal modo può sentirsi sollevato dai sensi di colpa dipingendo, per esempio, un crocefisso. Il contratto che io firmo con un produttore è per me il sostituto della veste bianca del papa...

D.

Qual è il tuo modo di pregare? 72

R. Vedo che le domande cominciano a diventare via via più solenni e vagamente inquisitorie. Comincia il processo? Comunque provo a risponderti. Credo ca­ piti a tutti, c anche più volte durante lo stesso giorno, di mormorare a fior di labbra, magari bestemmiando, un’invocazione perché la cosa che ci preoccupa abbia una buona soluzione. Ma forse questo non è pregare. Un atteggiamento simile alla preghiera, o comunque al mio modo di pregare, mi pare di poterlo ricono­ scere quando in situazioni particolarmente complicate, dalle quali non riesco a uscire, all’improvviso smetto di arrovellarmi, ci rinuncio, me ne lavo le mani, come se la faccenda riguardasse un altro. « Pensateci voi », dico, « ci pensi qualcuno, io non so cavarmela ». E di solito la faccenda si risolve.

D. I Vitelloni. Che cos'è che ti viene in mente? Cosa ti lega a quel film? Qual è l’immagine che ti ricollega a quel film?

R. I vitelloni di spalle, su quel pontile che si avven­ tura nel mare, un mare grigio, d’inverno, con un cielo basso, denso, nuvoloso; mio fratello che si tiene la mano sul cappello per impedire che il vento glielo porti via, la sciarpetta di Leopoldo Trieste che sven­ tola sulla faccia di Moraldo, il rumore della risacca, lo stridio dei gabbiani. Anch’io alla fine sono rimasto suggestionato da questa inquadratura del film, che è diventata come un’immagine emblematica, un poster; e poi il faccione di Majeroni. Achille Majeroni che 73

faceva la parte del vecchio attore trombone e omo­ sessuale, che concupisce Leopoldo, il vitellone intel­ lettuale. Majeroni, Febo Mari, Gustavo Giorgi, Moissi: erano queste le firme scritte di traverso con calligrafia svolazzante su grandi fotografìe di personaggi dal­ l’espressione severa, gli occhi lampeggianti, sorrisi amari, profili imperiosi e capelli lunghi, fluenti che a volte cadevano fin quasi sulle spalle, come quelli appunto di Achille Majeroni negli Spettri. Questi volti regali e romantici apparivano all’improvviso, una mattina d'inverno, di solito poco prima del car­ nevale, sulle facciate delle case, dietro le vetrine del Caffè Commercio, in piazza, alla stazione, e da lassù ci guardavano senza vederci, come irraggiungibili di­ vinità, promettendo con appena l'ombra di un sorriso che forse, sì, sarebbero venuti a trovarci, si sareb­ bero materializzati. Un regalo da dei alla nostra po­ vera, sonnacchiosa, dimenticata cittadina. Davvero li credevo esseri soprannaturali, un’altra razza, e l’albergo Leon d’Oro che li ospitava per qualche notte acquistava le mitiche dimensioni del­ l’Olimpo. Tutti guardavamo con invidia il portiere dell’albergo, che poteva vederli da vicino, gli par­ lava, consegnava loro le chiavi. Non riuscivo a imma­ ginare cosa fosse la vita di un attore fuori dal palco­ scenico, o dal telone bianco del cinema. Majeroni avevo avuto la fortuna di vederlo ritto in piedi da­ vanti al bancone della pasticceria Dovesi, con un gran sciarpone di seta bianca, una lobbia grigio perla in testa, pallidissimo, gli occhi quasi chiusi, con ancora una leggera ombra di trucco, sorbire con una can­ nuccia di paglia qualcosa che fumava dentro un pie74

colo bicchiere dal manico d’argento. Punch al man­ darino, ci disse più tardi il cameriere. Su Majeroni quindi mi ero fatto un’idea di cosa potesse essere la sua vita fuori del palcoscenico, ma gli altri, tutti gli altri, quando il grande sipario rosso cancellava le meraviglie che avevo visto e in sala si accendevano le luci sgarbate sulle nostre povere facce di sempre, dove andavano tutti gli altri attori? Questa vaga sensazione di una loro vita irreale mi è rimasta ancora oggi nel rapporto con gli attori e non mi dispiace che sia così. Mi sembra più utile per il mio lavoro. Mi pare di capirli meglio, di intendermi a un livello più segreto. Non ho mai avuto problemi con gli attori, mi piacciono i loro difetti, la vanità, gli aspetti nevrotici, la loro psicologia a volte bambi­ nesca, a volte un po’ schizoide. Ho molta gratitudine per quello che fanno per me, e sono sempre un po’ meravigliato che gli impalpabili fantasmi con cui ho convissuto per mesi nella sfera dell’immaginazione adesso sono vivi, in carne ed ossa, parlano, si muo­ vono, fumano, fanno quello che gli dico io, dicono le battute del film, proprio come avevo immaginato, quando un po’ per volta li facevo nascere. Gli attori comici, li considero dei benefattori dell’umanità. Regalare spensieratezza, divertimento, buon umore, far ridere, che mestiere meraviglioso: avrei voluto nascere con un destino così simpatico. Stan Laurel, Keaton, Oliver Hardy, Chaplin, erano i miei idoli. Macché Greta Garbo, Gary Cooper, Clark Gable, non sopportavo nemmeno che si tentasse il paragone con la bravura e il talento dei miei meravi­ gliosi buffoni. L’incontro con i fratelli Marx mi lasciò come folgorato. In un tema in classe, parlando dei 75

Proci, usurpatori della reggia di Ulisse errabondo per i mari, non so come riuscii a metterci dentro anche i fratelli Marx, e impavidamente sostenni l'occhiata perplessa, tra lo sconcerto e il disgusto, con cui il professore di italiano mi fissò alzandosi gli occhiali sulla fronte. Anche i minori mi piacevano, i fratelli Ritz, Abbott, Costello, Ben Turpin: il solo fatto che fossero comici costituiva per me un grado di merito, la ragione di una predilezione assoluta. Da ragazzino credevo di somigliare un po’ a Harold Lloyd, mi mettevo gli occhiali di mio padre, per assomigliargli di più, gli toglievo le lenti.

D. Con quali attori avresti voluto lavorare? C’è qualcuno che avresti voluto sul set e che per un qua­ lunque motivo non hai potuto avere? R. Scelgo sempre l’attore in funzione del personag­ gio, e se non lo trovo preferisco prendere qualcuno che ha la faccia giusta per quel carattere, per quel tipo, anche se dovrò faticare un po’ per fargli ripro­ porre naturalmente se stesso. Ho lavorato sempre con gli attori che desideravo avere; accettando la tua domanda come un invito a fantasticare, dico i primi che mi vengono in mente: Mae West, con quella camminata guappa e quella faccia tonda da bambina golosa, soddisfatta, e poi di nuovo ancora più golosa; Groucho Marx, e Harpo. Benigni è un personaggetto stimolante, lo Stenterello toscano, arguto e irriverente, un Pierrottino scanzonato, lunare e ter­ restre, che potrebbe entrare in qualunque dimensione 76

e rendere credibile Plauto e le fiabe di Andersen. Di tutti gli attori comici della nuova generazione mi sem­ bra il più originale, il più dotato, quello più vicino a diventare un vero personaggio stilizzato e concreto. De Sica, Vittorio De Sica, ecco, ora mi viene in mente che per I Vitelloni in un primo momento avevo pensato a lui per la parte che poi ha interpretato Majeroni. Veramente, non era una soluzione che avevo suggerito io, bensì il produttore Pegoraro che mi guar­ dava con occhi supplici: « Non c’è un nome in questo filmi Lei, Fellini, viene da un disastro commerciale come Lo Sceicco bianco. Sordi fa scappar la gente. Leopoldo Trieste, che lei si intestardisce a riprendere ancora una volta, non è nessuno! Mi venga incontro almeno in questo: prenda De Sica per quella parte! Lo convinca, vada lei a parlarci, non mi rovini! ». E nascondeva la testa fra le braccia, piegato in due sul tavolo, singhiozzando. Così, una notte d’inverno, andai a cercare De Sica, che stava girando Stazione Termini. L’appunta­ mento era per dopo la mezzanotte, in un vagone di prima classe, situato su un binario morto, lontanis­ simo dalle banchine; bisognava camminare faticosa­ mente sui sassi bagnati, le rotaie umide di nebbia, con il terrore che ogni lucetta nel buio potesse essere un treno in arrivo. L’ometto che mi precedeva mi parlava senza voltarsi, col tono di chi ti sta condu­ cendo dal papa; prima sarebbe salito lui, a vedere, perché poteva darsi che il commendatore dormisse, in tal caso bisognava aspettare che si svegliasse: « Ma­ gari tiro un sassetto contro il vetro del finestrino ». Ma non ce ne fu bisogno, De Sica era sveglio nel­ l’ombra fitta dello scompartimento di prima classe, e mi faceva benevolmente segno di entrare. 77

Non l’avevo mai visto da vicino. Conservava intatto il fascino vellutato e argenteo del suo perso­ naggio. Anche la voce, flautata c lievemente gorgheggiante, era la stessa. De Sica, come Totò, riusciva a mantenere, anche nella vita, quella sfumata, impalpa­ bile qualità, che rende certe creature come viste nella profondità magica di uno specchio, qualcosa di fatato, di irraggiungibile. Era simpaticissimo, la simpatia come professione, come filosofia: siate simpatici, e molto vi sarà perdonato, e De Sica era simpatico anche quando l’investitura di poeta dell’Italia della guerra, delle macerie, della miseria, lo obbligava ad assumere immobilità pensose e toni di voce densi di amara consapevolezza. Nel buio dello scompartimento, seduto di fronte a lui, in una atmosfera ovattata e irreale, raccontai un po’ emozionato il personaggio che volevo offrirgli. Un grande attore drammatico, dicevo, un grande at­ tore che era stato celebre, ma che ora la vita aveva obbligato a compromessi pesanti, recitava in una pic­ cola compagnia d’avanspettacolo. « Una notte questa piccola compagnia di rivista arriva in una sperduta cittadina di provincia, dove un giovane pieno di sogni e di velleità letterarie chiede al celebre attore deca­ duto di ascoltare la lettura di una sua commedia, e l’attore acconsente ». De Sica sorrideva con simpatia, approvando, e mormorava qualcosa sui giovani. Inco­ raggiato, andai avanti nel racconto fino alla scena dove il vecchio libidinoso rivela le sue intenzioni all’inge­ nuo vitellone commediografo. De Sica, che forse si era assopito per una piccola frazione di secondo, con­ tinuava a sorridere benevolmente; di colpo parve ca­ pire, mi fissò sorpreso, perplesso: « Tu vuoi dire che 78

aveva altre mire, un altro scopo? ». Poi, dopo una piccola esitazione, quasi a bassa voce: « Frodo? » Dissi di sì con la testa, un po’ imbarazzato. Cadde un silenzio abbastanza lungo. De Sica guardava fuori del finestrino, non si sentiva nessun rumore: « Però — disse infine guardandomi con serietà — umano? ». « Umanissimo », mi affrettai a dichiarare. De Sica muoveva ora rapidamente la testa, annuendo a suoi pensieri, mordicchiandosi l’interno delle labbra; poi di nuovo, con la sua bella voce cantata affermò: « Perché ci può essere molta umanità nei froci, più di quanto sospettiamo». «Ah, certo», dicevo io, « non c’è dubbio! ». Qualcuno della produzione venne ossequiosamente ad avvertire che le luci erano pronte e gli attori in scena. De Sica si alzò, si aggiustò lo sciarpone attorno al collo, mi diede una bella manona morbida, calda: « Bravo, bel personaggio. Mi piace. Prenda un appun­ tamento col mio avvocato. Ne parleremo. Però mi raccomando: umano! » Per motivi che ora non ricordo, non fu possibile scritturare De Sica, e forse fu meglio così; troppo simpatico, troppo fascinoso, troppo divertente sarebbe stato il personaggio fatto da De Sica, e forse il pub­ blico non avrebbe compreso e avrebbe persino disap­ provato lo smarrimento e la fuga di Leopoldo, nel buio del lungomare, quando con voce dolce e invi­ tante il vecchio attore vuol costringerlo a seguirlo in un posto ancora più appartato e solitario.

D. Quali consìgli daresti a un giovane che si avvia alla carriera d’attore? 79

R. Io non so proprio cosa dire al giovane attore. Di solito lo guardo in faccia in silenzio* molto più imbarazzato di lui. Mi pare di essere la persona meno adatta a dare consigli, indicazioni, a indicare metodi, comportamenti, discipline. In generale non riconosco sistemi all’interno del mio lavoro, e a maggior ragione non so fornirne ad altri. Anche la mia scelta degli attori è un po' particolare, nel senso che con tutta la stima, la simpatia, la complicità che provo da sem­ pre per gli attori, quando mi accingo a sceglierne uno per un personaggio di un mio film non sono attratto dalla sua bravura, nel senso comune che si dà a questo termine, di capacità professionale, impo­ stazione; come, scegliendo un non-attore, non sono trattenuto dalla sua mancanza di esperienza. Per me è il personaggio che deve coincidere con l’attore. Vado in cerca di facce che dicano tutto di sé al primo appa­ rire sullo schermo; tendo anzi a sottolinearne i carat­ teri, a evidenziarli col trucco, col costume, proprio come avviene con le maschere dove è già tutto chiaro, comportamento, destino, psicologia. La scelta dell’at­ tore per il personaggio che ho in mente dipende dalla faccia che mi trovo davanti, da ciò che mi comunica e anche da ciò che mi permette di intuire, di ricono­ scere, di indovinare dietro. Non costringo l’interprete a entrare in panni non suoi, preferisco fargli espri­ mere quello che può. Il risultato, per me, è sempre positivo; ognuno ha la faccia che gli compete, non può averne un'altra: e tutte le facce sono sempre giuste, la vita non sbaglia.

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D. Quali sono i tuoi rapporti col materiale che ma­ nipoli, al di là delle facce degli attori? Vorrei che tu mi parlassi della parte artigianale del lavoro, del tuo modo di tradurre in immagini gli elementi fantastici, del tuo « fare un film », per riprendere il titolo di un tuo libro. R. Mi chiedi di svelare segreti di bottega che non ho, o non mi pare di avere in una accezione così pro­ grammatica, farmaceutica, di dosaggi, come quella che lasci intendere con la tua domanda. Non tutto è sem­ pre riconducibile a formule alchemiche, ad aritmetiche combinazioni di ingredienti, che assicurano la ricetta giusta, la posologia efficace. Non è che voglio amman­ tare di mistero il fatto espressivo secondo la consue­ tudine più frusta, è che non è possibile rispondere, almeno per me, esaurientemente, responsabilmente. Avrebbe senso che io tentassi di ricordare, di elen­ care con la massima esattezza, come in un capitolato, quanti metri di stoffa, quanti telai, quanti chiodi, can­ tinelle, costumi, facce truccate ci sono voluti per tra­ durre nella scena cinematografica l’immagine vaga, fluttuante, fascinosa — proprio per la sua indetermi­ natezza — che mi faceva da riferimento? E tutte le altre migliaia di occasioni che hanno reso possibile questo passaggio? I movimenti, i volumi, le prospet­ tive, le voci intonate a certi dialetti, il ritmo, i motivi musicali, le distanze focali, le penombre, i controluce, i chiaroscuri, e chissà quanti altri elementi e tensioni, e dubbi stimolanti, sgomenti, entusiasmi? Dovrei cer­ care di scrivere un trattato, esaminarmi da cima a fondo, guardarmi dentro con scrupolo maniacale; e 81

poi? Anche se riuscissi a ricordare tutto quello che è andato a comporre quella tale, singola inquadratura, sono sicuro che ugualmente non arriverei a indivi­ duare, a cogliere, a riferire, quella inafferrabile, inde­ scrivibile, misteriosa componente che alla fine amal­ gama tutto, indipendentemente dai miei ragionamenti, dalle mie premesse, dalla buona volontà, dal talento, dal senso artigianale. Non riuscirei mai a scorporare quel momento di aggregazione magnetica che dà uni­ cità e credibilità a tutta la baracca, conservando l’allusività e la seduzione, la simbolicità, dell'immagine fantasticata.

D. Nel corso degli anni che tipo d’attenzione hai prestato, nei tuoi film, ai valori figurativi? E a quelli sonori? R. Probabilmente all’inizio subivo di più il condi­ zionamento narrativo del racconto, facevo un cinema più paralcttcrario che plastico. Andando avanti mi sono fidato di più dell’immagine, e sempre più cerco di fare a meno delle parole mentre giro. È durante il doppiaggio che torno a dare grande importanza ai dialoghi. In questo sono diverso da Antonioni, che talvolta per esprimere tutto mediante l’immagine in­ siste ossessivamente, con monotona severità, sugli oggetti. Io sento il bisogno di dare al sonoro la stessa espressività dell’immagine, di creare una sorta di poli­ fonia. £ perciò che sono contrario, tanto spesso, a uti­ lizzare dello stesso attore il volto e la voce. L’impor­ 82

tante è che il personaggio abbia una voce che lo rende ancora più espressivo. Per me il doppiaggio è indi­ spensabile, è un’operazione musicale con la quale rin­ forzo il significato delle figure. Né mi serve la presa diretta. Molti rumori della presa diretta sono inutili. Nei miei film, per esempio, i passi non si sentono quasi mai. Ci sono dei rumori che lo spettatore ag­ giunge con un suo udito mentale, non c’è bisogno di sottolinearli; anzi, se li senti veramente, disturbano. Ecco perché la colonna sonora è un lavoro da fare a parte, dopo tutto il resto, insieme alla musica.

D. Il gioco dell’invenzione, la magia del creare... C’è molto di mistico nella tua voluttà di assoluto.

R. Il cinema è un modo divino di raccontare la vita, di far concorrenza al padreterno! Nessun altro mestiere consente di creare un mondo che assomiglia così da vicino a quello che conosci, ma anche agli altri sconosciuti, paralleli, concentrici. Per me il posto ideale, l’ho già detto tante volte, è il Teatro 5 di Cinecittà, vuoto. Ecco, l’emozione assoluta, da brivido, da estasi, è quella che provo di fronte al teatro vuoto: uno spazio da riempire, un mondo da creare. 11 massimo dello squallore e della nudità mi dà un respiro di salute. Ho la totale presunzione di essere un demiurgo. Mi piacerebbe fare fotografie formato tessera, ritrattini della gente, qualsiasi cosa. Non sono legato a nessuno stile, mi piacciono tutti i generi. Ho un grande amore per il mio lavoro, e mi pare che 83

tutto il resto — i rapporti con gli altri, i sentimenti stagionali, le alleanze a periodi — si convogli in que­ sto alambicco. Lo sento come la cosa più autentica della mia vita, senza pormi domande, senza puntare i piedi né svicolare. Obbedisco a questa inclinazione. Il punto più alto dell’amore o il massimo della ten­ sione espressiva sono la stessa cosa: un momento misterioso, una illusione perpetua, uno sperare che una volta o l’altra sia mantenuta la promessa della grande rivelazione, e ti appaia un messaggio a lettere di fuoco. Nel mito infatti il mago e la vergine vanno in coppia. Il mago ha bisogno di questa figura fem­ minile intatta per compiere l’operazione della cono­ scenza, e lo stesso accade all’artista che in maniera molto più modesta, nel momento in cui materializza una fantasia, identifica l’espressione con l’am­ plesso.

D. Tra I Vitelloni e La Strada, c’è Agenzia matri­ moniale, uno degli episodi di Amore in città. Nem­ meno quello l’hai più rivisto? R. Ne ho visto un pezzetto, una sera, in un bar, dove ero entrato per telefonare; in una saletta retro­ stante rischiarata soltanto dal televisore acceso c’era seduto qualcuno. Il suono non mi arrivava, vedevo solo Cifariello seduto su un argine erboso, che par­ lava con la patetica e buffa ragazza disposta a spo­ sare il licantropo. Ero tentato di avanzare piano piano fino alla stanzetta, e di restare lì, in piedi, a guardare 84

qualche sequenza di quel film di cui non ricordavo proprio più niente. Ma poi, uno dei ciondolanti spet­ tatori che aveva in mano il telecomando, cambiò all’improvviso programma. Fu Cesare Zavattini a offrirmi di partecipare con un episodio al film che doveva avere il carattere di un reportage, nello stile del cinema americano. Marco Ferreri era il direttore di produzione, e fin da allora cercava di dimagrire, dicendo che non voleva il ce­ stino, ma poi durante la pausa girava dall’uno all’altro con la faccia del povero barbone affamato; tutti gli davamo qualcosa, e così finiva per mangiarne dieci di cestini. Accettai di partecipare a quel film di gruppo con lo spirito polemico dello studentello dìe vuol pren­ dersi sornionamente beffe del suo professore. I Vitel­ loni aveva avuto un gran successo, ma fin da allora la critica di sinistra prendeva le distanze. Pur espri­ mendo consensi, venivo rimproverato di aver ambien­ tato il film in una provincia senza connotati precisi, mi si accusava di insistere troppo sulla poetica della memoria e di non aver saputo dare a) film un chiaro senso politico. Pensai di prendermi una rivincita alle spalle di chi faceva in quegli anni comiziesche dichia­ razioni sul neorealismo, creando le nefande conse­ guenze che ancora perdurano.

D. Quali sarebbero queste nefande conseguenze del­ l'insegnamento neorealistico rosselliniano?

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R. Il fraintendimento, appunto, del neorealismo di Rossellini, che pericolosamente illude che sciatteria e casualità possano costituire il primo imperioso dovere per fare film; il rispetto a ogni costo della realtà come accadimento esistenziale, inalterabile, intoccabile, sa­ cro. L’emozione personale, l’intervento soggettivo, la necessità di selezione, l’espressione, il senso artigia­ nale, il mestiere, sono dei condizionamenti che poli­ ticamente si collegano con la reazione; abbasso i ri­ cordi, le interpretazioni, il punto di vista suggerito dall’emozione, abbasso la fantasia, in castigo l’autore! Sprovvedutezza, ignoranza e pigrizia hanno fatto ac­ cettare questa nuova estetica con entusiasmo, tutti potevano fare film, anzi, tutti dovevano farli. Un’este­ tica della non-estetica che penso abbia contribuito in buona parte alla crisi attuale del nostro cinema. Inventai un’agenzia matrimoniale annidata nelle soffitte di un enorme palazzo fatiscente; e la storia della ragazza che pur di sposarsi accettava di unirsi in matrimonio con un licantropo. Giurai che era tutto vero, e quando mostrai il primo montaggio del mio episodio, gli autori del film-reportage si voltarono verso di me molto soddisfatti: « Hai visto, caro Fel­ lini, che la realtà è sempre più fantastica della più sfrenata fantasia? ».

D. Dopo questo scherzo venne finalmente La Strada. 'Ripensandoci oggi, che cosa ti sembra che abbia rap­ presentato per te questo film?

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R. Mi viene in mente, una frase del critico Pietrine Bianchi; non ricordo se l’ha scritta sul suo giornale o in qualche libro dove ha raccolto le sue recensioni, oppure me l’ha detta direttamente. Il film era stato proiettato al Festival di Venezia in un clima di con­ sensi, anche entusiastici (la critica francese era parti­ colarmente favorevole: abbracci, strette di mano, « Il vostro film è già un classico », disse Cayatte, e André Bazin, piccolo, magro come san Francesco, annuiva guardandomi con occhi di benedizione), e di contestazione totale da parte della maggior parte dei gior­ nalisti di sinistra. In mezzo a questa esaltata, tumul­ tuosa, contrastante accoglienza, mi sembrò che il com­ mento di Pietrino Bianchi fosse diverso da tutti gli altri: « Che film coraggioso! », disse, e ripensandoci, anche oggi mi sembra che almeno in quel momento il suo giudizio fosse il più giusto. La Strada era un film che raccontava contrasti più profondi, infelicità, nostalgie e presentimenti del trascorrere del tempo non puntualmente riconducibili a problematiche sociali ed impegno politico; quindi, in piena ubriacatura neorealistica. La Strada era un film da rinnegare, decadente e reazionario. Mi sembra che Bianchi avesse scorto nel mio film il coraggio di andare contro corrente. Ma i ricordi della Strada sono troppi, e voglio rimuoverli, anche perché rievocarli mi metterebbe su­ bito nella condizione di fare dell’imbarazzante agio­ grafia, dato il singolare destino del film, che ha girato tutto il mondo con una specie di carisma ecumenico.

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D. Ma non vuoi raccontarmi come è nata l'idea della Strada?

R. Come si può rintracciare verosimilmente il mo­ mento in cui si ha un primo contatto con il senti­ mento, o meglio ancora il presentimento, l’anticipa­ zione di ciò che poi sarà il tuo film? Le radici da cui sono nati Gelsoinina e Zampanò, e la loro storia pe­ scano in una zona profonda e oscura, costellata da sensi di colpa, timori, struggenti nostalgie per una moralità più compiuta, rimpianto per un’innocenza tradita. Non mi va di parlarne, tutto quello che dico mi sembra sproporzionato ed inutile. Confusamente mi par di ricordare che andando in giro in automobile, per le campagne attorno a Roma, quel vagabondare pigro e molleggiato, forse mi ha fatto intravedere per la prima volta i perso­ naggi, il sentimento, l’atmosfera di quel film.

D. A proposito d’automobile: ora mi pare che non la usi più, ma in altri tempi era nota la tua passione per le fuoriserie. R. Non ho più la macchina da una decina d’anni. Un bel giorno, all’improvviso, ho deciso di sbarazzar­ mene. Era bellissima, una Mercedes verde metalliz­ zato, con riflessi d'oro, due porte, triplo servosterzo, decappottabile, o meglio, premendo un pulsante si apriva una piccola botola sul tetto, e volendo potevo 88

anche guidare stando in piedi, affacciato e benedi­ cente. Ma un giorno, a Riccione, un ragazzino di 8-9 anni, in Topolino, proveniente da un senso vietato e col semaforo rosso, mi è piombato addosso a un incrocio. Tutta la gente seduta al caffè — era d’esta­ te — irrazionalmente e contro ogni evidenza, dava ragione al bambino, anche la guardia. È stato in quel momento che ho deciso di disfarmi della macchina. Tra gli astanti c’era un tedesco, che quando ha sen­ tito ripetere il mio nome dai poliziotti, mi ha detto che voleva fare un regalo a sua moglie che stava ad Amburgo, compiva gli anni due mesi dopo: credeva che regalargli la macchina del regista della Dolce vita rappresentasse il massimo dell’amore e della devo­ zione. Mi divertì l’idea di vendere una Mercedes a un tedesco, e combinammo l’affare stringendoci la mano in quel crocevia, sotto il semaforo, davanti al ragazzetto criminale e alla folla che adesso applaudiva. Ma forse era già da tempo che mi ero stufato della macchina: troppe contravvenzioni, troppe multe, troppe soste vietate, troppe tasse, il garage troppo lontano e soprattutto troppe occhiate truci, da assas­ sini, da pazzi, dentro le altre macchine che qualche volta mi capitava di affiancare in città. Non ne sento affatto la mancanza: ci sono i tassì (mi piace sedermi davanti e chiacchierare con gli autisti), le automobili delle produzioni dei miei film, e poi tutti i miei amici hanno la macchina e c’è sempre qualcuno disposto ad accompagnarmi. E quando non trovo nessuno e comincia a piovere, ini piazzo in mezzo alla strada spiando nelle macchine che mi vengono incontro, e fingo spudoratamente di essermi sbagliato nel salutare qualcuno che mi era 89

sembrato di riconoscere. Capita sempre che una mac­ china si fermi, e il guidatore o la guidatrice gentile mi offra un passaggio. Ho avuto le macchine più belle, le più costose, le più stravaganti. Mi ricordo una Studebaker color cielo, che sembrava un trimotore, un’astronave. Nei paesini attorno a Roma, quando passavo lentamente, i locali si levavano il cappello, molti si inginocchia­ vano. Facevamo a gara, Mastroianni ed io, nello sfi­ darci con una nuova automobile. Lui comprava la Jaguar? Ed io la Triumph! Anche lui la Triumph? Ed io la Porsche! Anche Marcello la Porsche? Ed io la BMW! Scriteriatamente, sciaguratamente, abbiamo arricchito il vecchio Bornigia che cambiava un vestito al giorno, sempre più elegante, sempre più costoso, e poteva permetterselo, con tutti i soldi che gli davamo lo Snaporaz ed io. È inutile che vi stia a raccontare le emozioni e le fantasie legate alla prima Topolino che mi regalò Rossellini come compenso per una sceneggiatura che non mi aveva mai pagato. Ed è inutile anche elencare tutte le macchine che ho avuto. Ricordo soltanto quelle a cui ero più affezionato: la 1900 Alfa Romeo che mi sembrava elegantissima, ben disegnata, e non capisco perché non si è continuata la produzione di quel modello ben riuscito. Mi piaceva moltissimo la Mercedes Pagodina, e la Lancia Flaminia, anche se, quando la guidavo mi sembrava di essere l’autista di un ministro. All’automobile devo le scoperte di un Lazio favo­ loso, i paesini arroccati sui cucuzzoli di colline zellose, la campagna, le aie assolate coi ricordi della malaria, il favoloso Maccarese che sembrava il Giappone me­ dievale dei film di Kurosawa, e tante altre cose an­ 90

cora. Ma soprattutto devo ai miei vagabondaggi in automobile in città, in campagna e al mare, l’appa­ rizione delle prime immagini dei miei film, le idee, i personaggi, anche i dialoghi perché spesso mi fer­ mavo dovunque mi trovassi e prendevo degli appunti. Quel fluttuare, quel vagare senza meta, con le cose, i colori, gli alberi, il cielo, le facce che sfilano silen­ ziose aldilà dei vetri dell'automobile, ha sempre avuto il potere di collocarmi in un punto indefinibile di me stesso, dove immagini, sensazioni e presentimenti na­ scono spontaneamente.

D. Torniamo ai tuoi film. Nel '53 facesti La Strada, e l’anno dopo II Bidone. Sbaglio, o i primi film si susseguivano con un ritmo più spedito? In altre pa­ role, mi sembra che allora eri più produttivo, facevi un film all'anno.

R. Il mio grande rammarico è di non poter lavorare sempre, con quella continuità, quella speditezza fe­ stosa e operosa, quel cammino leggero con cui mi è stato possibile muovermi negli anni Cinquanta. La struttura finanziaria dei miei film che è venuta via via appesantendosi, ha creato giganteschi appetiti attorno e una specie di ipertrofismo, certo non dipen­ dente da me, che rende tutto il processo più impac­ ciato e macchinoso. Se da un lato sono stato fortunato perché sono sempre riuscito a fare i film che ho voluto, nella ma­ niera in cui ho voluto, e col minimo indispensabile di attriti e di contrasti, d’altro canto mi dispiace 91

di non aver incontrato, in tutti questi anni, un compagno di strada, un grande impresario in grado di programmare il mio lavoro e di proteggermi da tutte le dispersioni a cui bene o male la vanità, o la curiosità, o l’impazienza certe volte mi inducono. Mi è mancata la fortuna di un incontro determinante, qualcuno di cui avere soggezione e di cui parlare anche male, come nell’indispensabile rapporto fra il papa e il pittore, fra il granduca e il poeta di corte. Quando un produttore americano mi fa sapere di volersi incontrare con me al Grand Hotel o all’Excel­ sior, per discutere un film, un progetto da realizzare negli Stati Uniti, vado sempre puntuale all’appunta­ mento pur sapendo che non andrò mai in America. Mi dispiace deluderli, mi incuriosisce sentirli parlare, e così mi invischio; perdo magari mesi e non faccio quello che dovrei fare: stare in teatro di posa e dire « Motore! ».

D. Fellini e l’America: finirai una volta o l'altra per andarci a girare un film?

R. In America avrei potuto farne parecchi di film, se avessi voluto, ma davvero non so se posso. De Laurentiis, che sta lì da parecchi anni, e due volte al mese mi telefona alle tre, alle quattro di notte, fa­ cendo finta di ignorare l’esistenza dei fusi orari, mi ha offerto di dirigere praticamente tutti i film che ha fatto laggiù, da King Kong a Flash Gordon, ma io ho sempre nicchiato e alla fine dicevo di no, anche se, a dire il vero, un bel favolone psicanalitico come 92

King Kong son convinto che mi sarei divertito a farlo, perché girando in un’isola del Pacifico o in uno studio californiano la tentazione di fare il testimone della realtà americana non ti viene proprio. Gliel’ho detto a Dino, dopo che il film è uscito, che l’avrei fatto volentieri. Non ho fatto a tempo a finire la frase, che lui subito, con un urlo di gioia: « Bravo Fefé! È Dio che ti illumina! Facciamo subito La figlia di King Kong'. ». Che sciocco sono stato, ho detto di no anche quella volta... Dubito che riuscirò mai a fare un film in America. Mi invitano ad andare lì, a starci dodici o quindici settimane, attraverso questo contatto a farmi venire delle idee. Gli amici americani, gentili, generosi, vo­ gliono ospitarmi, mettermi a disposizione le loro case, il loro tempo, gli spettacoli, gli scrittori, i viaggi da una costa all’altra; e mi dicono che posso visitare le grandi città, e la provincia, e chiedere di vedere tutto quello che voglio perché sarei accontentato in tutto. Ancora una volta ci sarebbero meeting con artisti, uomini di cultura, tutti coloro che mostrano di essere contenti di incontrarmi, da Mailer a Woody Alien, a Capote, e a quell’affascinante, gentile spettro che è Andy Warhol; mi mostrerebbero di certo le cose, i posti, le persone che loro giudicano più « fel­ liniane » e che mi mettono in un imbarazzo totale. Il risultato può essere solo di rinuncia, di ritirata e di disagio per giustificarmi, mettermi a spiegare loro che non sono capace, non lo so fare un film in Ame­ rica, perché anche se il loro paese mi affascina, mi seduce e mi sembra un immenso set molto congeniale alla mia visione delle cose, non saprò mai raccontarlo in un film. New York! È stupenda, una immensa astronave librata nel cosmo, non ha radici, profon93

dirà, ma è sospesa su un’infinita lastra di cristallo, Ninivc, Venezia, Damasco, Marte, Benares, tutte le città del mondo fuse insieme in una abbagliante sce­ nografia avveniristica e decadente. £ dolce New York, violenta, bellissima, terrificante: ma come potrei rac­ contarla? Solo qui, nel mio paese, potrei tentare la titanica impresa, a Cinecittà, nel capannone del Tea­ tro 5, dove qualunque rischio io affronti trovo sem­ pre a proteggermi dai precipizi delle cadute la gran­ de rete delle mie radici, dei miei ricordi (i ricordi di quella New York, intendo) delle mie abitudini, la mia casa, insomma il mio laboratorio. Inoltre una cosa è vivere, emozionarsi, avere sensazioni, provare sentimenti di fronte a una realtà nuova — certo, questo possiamo farlo tutti, tutti vediamo, tutti ci esaltiamo, ci meravigliamo, tutti abbiamo un impatto, uno stimolo, un rapporto con le cose che non cono­ sciamo — ma raccontarle, esprimerle, riproporle cre­ dibili e vive senza equivoci e fraintendimenti, puoi farlo solo esprimendoti nella tua lingua, l’unico modo che hai a disposizione per comunicare con te stesso ancor prima che con gli altri. L'equivoco nasce dal fatto che si pensa che il cinema sia una cinepresa piena di pellicola e una realtà, fuori, già pronta per essere fotografata. Invece davanti all’obiettivo uno mette solo se stesso. Altrimenti il cinema può solo offrire qualche contraddittoria informazione. In America le idee mi giungerebbero attraverso una lingua che non è la mia, attraverso una realtà che non conosco nelle sue allusioni, che mi sfugge nella sua stratificazione, che mi elude nelle compo­ nenti in cui affonda le sue radici. Il mio, del cinema, è un lavoro che ha bisogno di una totale padronanza della lingua come visione del mondo, dei miti, delle 94

fantasie collettive. Non pretendo certo di sapere tutto sull’Italia. Ma almeno qui mi riferisco alla mia igno­ ranza, alle mie emozioni, sono padrone anche delle cose che non so. Posso dire che uno è di Bergamo dalla sua cravatta. Beh, forse è un po’ esagerato; ma certo della realtà italiana mi illudo di conoscere le intese speculari che si sono costruite tra i diversi sistemi di rappresentazione, tra i giornali, la televi­ sione, la pubblicità, gli ammiccamenti e le sintesi delle immagini che tutti conosciamo...

D. Però altri registi, e non di scarso prestigio ci lavorano tranquillamente. R. Sì, lo so, Milos Forman, Roman Polanski c tanti altri ce l’hanno fatta ad entrare in pieno nella cultura americana e ad esprimersi. Ma vengono da un mondo diverso, sono ebrei, sono mitteleuropei, provengono da una dimensione culturale e psicologica che li ha abituati a diventare dappertutto più indigeni degli in­ digeni. Da sempre hanno un talento particolare che permette loro di assorbire vampiristicamente la storia, la cultura, i ricordi degli altri. Ed è vero che sono diventati più americani degli americani. Venticinque anni fa avevo sottoscritto un impegno con tre volenterosi produttori americani, i quali ave­ vano deciso di staccarsi dalle Major Companies e dalla loro politica, per fare film all’italiana; il « neoreali­ smo » li aveva contagiati, esaltati e anche loro vole­ vano uscire dai teatri di posa e raccontare storie vere, con i personaggi, come si diceva allora, « presi dalla 95

Strada ». Io ero a Los Angeles per gli Oscar, e i tre producers mi guardavano approvanti. Gli piaceva tutto di me, non solo I Vitelloni e La Strada, ma anche le mie cravatte, il taglio dei capelli, il modo come par­ lavo l’inglese. Una volta battei il ginocchio contro lo spigolo di un mobiletto, una cosa da niente, soltanto un po' di dolore; beh, ho dovuto mettermi a urlare per impedire di esser portato in ospedale e, chissà, operato subito. Con molta riluttanza accettai di firmare un accordo che prevedeva appunto un’ospitalità di dodici setti­ mane, dopodiché o ero pronto a girare un film op­ pure tornavo a casa. Ma loro erano strasicuri che que­ sta seconda eventualità non si sarebbe mai presentata. Cominciò così il mio vagabondaggio per gli Stati Uniti. Mi misero a disposizione segretarie, interpreti, amici, giornalisti. E un mafioso; molto simpatico, pit­ toresco, si chiamava Serenella. Avrà avuto settant’anni, ma era fortissimo, vigorosissimo, con un bel faccione buio da vecchio gladiatore, le guance pesanti uncinate dal vaiolo. I capelli bianchi invece di aggiungergli nobiltà lo rendevano ancora più losco. Sentimentalis­ simo. Si commuoveva solo a guardarmi. Un nonno truce ma zuccheroso, che si toglieva i guanti per acca­ rezzarmi la testa. E aveva un potere straordinario che qualche volta mi allarmava un po’: tutto quello che gli chiedevo — vorrei vedere questo, vorrei visitare quello, posso andare a spasso con Mae West? E Joan Blondell? E Jane Russell? — anche le cose impossi­ bili che domandavo per pura provocazione erano su­ bito raggiunte, non c’erano limiti. Un gran boss, con due alberghi di sua proprietà a Las Vegas, ammirato c temuto, e quando canticchiava il motivo di Gelsomina dopo un po' si soffiava il naso e col ditone mi 96

indicava i suoi occhi rossi, feroci, ma velati di lacri­ me... Eppure è successo che dopo un mese svenivo di nostalgia. Passavo interi pomeriggi chiuso in albergo a telefonare a tutti gli amici di Roma o anche a sem­ plici conoscenti, anche a persone con le quali avevo rotto ogni rapporto da anni. Svenivo di nostalgia per piccole cose, ma strazianti, come andare a comprare i giornali di notte a via Cola di Rienzo, o entrare nella penombra chiesastica dell’Albergo Plaza solo per fare una telefonatina o scuriosare senza tempo nelle librerie. L’America mi piaceva moltissimo, mi seduceva, mi affascinava, mi sembrava che tutto fosse già pronto, come un grande set già predisposto, con le sue sce­ nografie perfette, le luci e le comparse vestite proprio come desideravo. Mi erano venute molte idee, e quando le accennavo ai miei produttori, si entusiasmavano. « That’s it! » dicevano, « Terrific! ». Ma io sentivo che non è possibile vivere e immediatamente raccon­ tare, esistere ed esprimersi, non ho la vocazione né il talento del giornalista. Le mie possibilità di testi­ moniare con verosimiglianza sono pressoché inesistenti, anzi, mi pare di poter essere un buon testimone solo a patto di inventare. Così, facendo una figuraccia da ragazzina fragile e nevrotica, dopo neanche quattro settimane ho detto che volevo tornare a casa, che non mi ricordavo più come si faceva il regista, che non lo sapevo più fare. E Serenella, con la sua lobbiona nera, la sciarpa bianca di seta svolazzante e il suo cappotto col bavero di velluto in puro stile George Raft, mi accompagnò all’aeroporto. Non disse niente, non fece nessun commento. Accettava la mia deci­ sione e la rispettava, sicuramente convinto che se avevo deciso così, voleva dire che era più interessante 97

per me, più vantaggioso, « more money » andare in qualche altro posto. All’ultimo momento, prima di lasciarmi, mi diede l’indirizzo di un suo amico, che era stato espulso dagli Stati Uniti come ‘ indesidera­ bile ' e che adesso era in Italia (no, il nome non lo voglio fare, e poi non c’è più): « È un santo » mi disse, « ha fatto del bene a tutti, ma non l’hanno capito. My dear boy, quando ne hai bisogno, vai da lui e Rissalo per me ». Non ci sono andato, non gli ho portato i baci di Serenella, nonostante la gran curiosità di conoscere questo sant’uomo. Un paio di volte, di fronte alle insormontabili difficoltà per mettere in piedi un film che volevo fare, mi sono trovato a riguardare per­ plesso il biglietto che il bravo e sinistro vecchione mi aveva dato; ma poi, proprio il giorno dopo, quando forse, chissà... ecco apparire Peppino Amato che con aria guappa mi dice: « Lo faccio io, La Dolce Vita'. Sarà un successo lapidario! Firma qua! In America ci tornerai con me, dopo il film, c vedrai tu, gli ame­ ricani quando ci vedranno insieme, tutti a farci ‘ salamelek, salamelek ’! ».

D.

Nell’Europa (iell’Est ti sentiresti forse meglio?

R. L’Europa dell’Est mi sembra Gambettola, il paese vicino a Rimini dove stava mia nonna. Il modo di baciarsi dei russi e di trattenersi le mani prima di salutarsi definitivamente mi è sempre parso segnato da quella religiosità campagnola che respiravo in casa della nonna durante la settimana santa insieme al pro­ 98

fumo di certi dolcetti. In Russia, quando ci sono stato, ho provato soprattutto questo tipo di familia­ rità, quel senso cristiano dell’esistenza che ti fa pen­ sare più a Tolstoj che a Majakovskij, ti ridà la me­ moria di una vita racchiusa fra cielo e terra, scandita da lunghe, avvolgenti stagioni, intiepidita da sapori e profumi d'altri tempi, di quand’eri piccolo c avevi i sensi ancora tutti dilatati sulle cose che ti circonda­ vano, le persone, le piante, gli alberi, gli odori di casa... Quella dimensione aurorale che lega l’uomo alla terra, alle vicende dell’atmosfera, delle nuvole, a una certa fratellanza con gli altri, ai piccoli riti, alle ricorrenze, alle feste, alla gratitudine per qualcuno che ti ha regalato tutto ciò. Naturalmente tanta della suggestione sarà anche letteraria, ma poi ti accorgi, con le persone, che le cose in un certo senso stanno proprio così come le senti. Evtushenko, che ho incontrato la prima volta in occasione della premiazione di Otto e mezzo al Festi­ val di Mosca, mi è parso subito un compagno di gin­ nasio; ci hanno presentato cd erano tutti intorno a noi due, giornalisti, fotografi, tutti in attesa delle cose importanti che ci saremmo detti pubblicamente; gli interpreti pendevano dalle nostre labbra, ma noi non sapevamo proprio cosa dire di storico, di definitivo. Ci eravamo soltanto simpatici. Quando poi, anni dopo, è venuto a trovarmi, a Fregene, e in tre giorni è riu­ scito a imparare l'italiano, parlavamo come vecchissimi amici. Una notte, sulla spiaggia mi ha raccontato che in Groenlandia, una sera d’inverno, una di quelle sere che dura sei mesi, su una baleniera in mezzo ai ghiacci c’era un eschimese, con una macchina da proiezione, che proiettava Le Notti di Cabiria, e che tutti si diver­ tivano, si commuovevano, anche gli orsi. Poi disse 99

anche un’altra cosa bellissima che mi torna sempre in mente quando penso a Evtushenko: disse che le foche hanno lo sguardo umido, tenero, come quello di sua moglie. Adesso io non so se per una donna sentirsi dire che ha gli occhi come una foca possa essere piacevole; ma da quella volta ho guardato alle foche con un sentimento diverso; ed è vero che hanno degli occhi bellissimi, di una dolcezza straziante, che ti fanno sentire colpevole. Camminando lungo la riva avevamo distanziato gli amici; sentivamo le voci, nel buio, alle nostre spalle, l’estate non era ancora cominciata, era una notte bellissima e un po’ fredda c Sergej, all’improv­ viso si è spogliato e in mutande, dicendo versi, è entrato nell’acqua. Non lo vedevo già più. E quando gli altri mi hanno raggiunto, mi hanno rimproverato, mi hanno detto che noti dovevo farlo entrare nell'ac­ qua, che era pericoloso; e tutti a chiamarlo: « Evtu­ shenko! »; ma davanti a noi c’era l’oscurità assoluta, qualche scintillio lontano, una distesa d’acqua immensa che si confondeva con le stelle... Che dovevamo fare? Telefonare alla capitaneria di porto? All’ambasciata russa, a Kruscev? E già qualcuno lacrimando diceva: « Era un grande poeta! ». E davvero si pensava al peggio, perché era già passata un’ora dalla scomparsa, e c'eravamo veramente decisi a organizzare dei soc­ corsi, quand’eccolo spuntare dal buio lungo la riva. Aveva fatto una gran nuotata ed era tornato a terra un paio di chilometri più avanti; e adesso voleva sapere se secondo me era più grande il Tasso o l’Ariosto; che glorioso vitellone, che amico d’infanzia! Ma perché tutto questo? Per dire se mi sentirei meglio nell’Europa dell’Est? Non mi pare, abituati ormai come siamo in Italia a disporre di una libertà 100

che a volte siamo addirittura portati a considerare eccessiva, non avremmo più la forza, o la pazienza, di sopportare l’avvilente grigiore della solerzia cen­ soria di un regime comunista. Quando Amarcord do­ veva uscire in Russia, fui convocato qui a Roma per un colloquio all’ambasciata. C’era il caviale, la vodka, e un ministro gentile e impenetrabile che voleva che io acconsentissi a fare dei tagli al film. Non capivo perché, e che tagli bisognasse apportare, e natural­ mente mi opposi. « Il ministro le chiede — mi tra­ duceva l’interprete — perché lei vuole privare il po­ polo russo della visione del suo film ». « Io non lo voglio privare affatto, anzi sono felice che il mio film esca in Unione Sovietica ». L'interprete riferiva, stava a sentire e poi si rivolgeva a me: « Allora bisogna tagliare la scena della tabaccaia ». « Il ministro è stato turbato dalle tette della tabaccaia? », chiedevo. L’in­ terprete un po' confusa, traduceva, poi si accalorava subito a rassicurarmi: « No, niente allatto! ». E an­ che il ministro con aria seria scuoteva rassicurante il testone. « Allora si può sapere — insistevo io — perché lo spettatore russo deve essere considerato diverso dal ministro? Se va bene per l’uno andrà bene anche per l’altro! ». È continuato così per un po’, con l’interprete sempre più imbarazzata a tra­ durre le mie argomentazioni, e il ministro a insistere che io non potevo voler privare il popolo sovietico della gioia di assistere al mio film. Alla fine me ne sono andato con i regali, la vodka, il caviale, i sorrisi di tutti, le massime manifestazioni di stima e ammi­ razione, ma Amarcord, in Russia, è uscito mutilato della scena della tabaccaia e di quella dove i ragazzi si masturbano nella vecchia automobile: il popolo non è stato privato del mio film, ma un po’ della 101

sua dignità sì. Questo aspetto censorio, restrittivo, autoritario nel senso più confessionale, chiesastico, oscurantista del termine, rende vana ogni altra con­ genialità.

D. E con la censura italiana hai mai avuto noie? Se ben ricordo, Le Notti di Cabiria sollevò molte pro­ teste negli ambienti cattolici, R. La censura l’aveva proibito e io non volevo che bruciassero i negativi. Così, seguendo il con­ siglio di un amico gesuita intelligente e forse un po’ spregiudicato, padre Arpa, andai a Genova da un cardinale famoso, considerato uno dei papabili e forse anche per questo assai potente, per chiedergli di vedere il film. In una minuscola saletta di proie­ zione situata proprio dietro il porto, aveva fatto met­ tere, al centro, una poltrona comprata il giorno prima da un antiquario, una specie di trono con un gran cuscino rosso e le frange dorate. Il cardinale arrivò a mezzanotte e mezza nella sua Mercedes nera. A me non fu concesso di restare nella sala e non so se l’alto prelato vide davvero tutto il. film o se dormì; proba­ bilmente padre Arpa lo svegliava nei momenti giusti, quando c’erano processioni o immagini sacre. Fatto sta che alla fine disse: « Povera Cabiria, dobbiamo fare qualcosa per lei! ». E penso che gli sia bastata una semplice telefonata. Qualcuno mi accusò pubblicamente di essere una specie di Richelieu, che invece di combattere alla luce 102

del sole, tramavo dietro le quinte; per fortuna allora c’era la possibilità di perdere tempo in polemiche di questo genere. Ma insomma, il film fu salvato. A una stranissima condizione, però, posta dal cardinale: che fosse tagliata la sequenza dell’uomo del sacco.

D.

E che c'era mai in quella sequenza?

R. L’episodio mi era stato ispirato da uno straordi­ nario personaggio col quale avevo passato due o tre notti in giro per Roma: una specie di filantropo, un po’ mago, che in seguito a una visione s’era dedicato a una particolare missione: raggiungeva i diseredati nei punti più strani della città e distribuiva a tutti cibi e indumenti che teneva in un sacco. Questo ogni giorno. Con lui ho visto cose da fiaba. Sollevando la grata di certi tombini dove immaginavi ci fossero solo fango e topi, trovavi una vecchina che dormiva. Nei corridoi di un sontuoso palazzo di via del Corso, dove adesso c’è il Partito socialista, cerano dei vagaIxmdi che dormivano fino alle cinque della mattina, fatti entrare di nascosto dal guardiano di notte. L’uo­ mo del sacco conosceva tutti questi posti: a uno faceva una iniezione, all’altro dava da mangiare. Nel film immaginai che Cabiria lo incontrasse sull'Appia Antica, mentre tornava a casa alle prime luci dell’alba brontolando perché un cliente mascalzone non l’aveva pagata. Vedeva l’uomo del sacco scendere da una macchinetta e avviarsi verso le cave di tufo, 103

fermarsi sul ciglio di una specie di grande voragine e chiamare per nome una donna; da un lurido anfratto usciva allora una vecchia puttana che Cabiria cono­ sceva come la Bomba Atomica, ridotta ormai a con­ durre una vita da topa. Poi Cabiria accettava di tor­ nare a casa sulla macchinetta dell'uomo del sacco e restava molto colpita dai suoi racconti. Era una scquenzina commovente, ma che fui costretto a togliere; evidentemente in certi ambienti cattolici dava fastidio che nel film ci fosse quell’omaggio a una filantropia del tutto anomala, affrancata da mediazioni ecclesiastiche. E non è ridicolo che il sindaco di Roma, quando uscì Cabiria, protestasse perché avevo messo le put­ tane in un luogo — la Passeggiata Archeologica — che lui s’era tanto adoperato a render degno della capitale?

D. Se la censura fosse abolita e i codici lasciassero totale libertà faresti un film pornografico?

R. La parola implica una certa consapevolezza di volgarità, e uno che è consapevole di essere volgare non può esserlo. Io non saprei uscire da questa con­ traddizione, e l’abitudine ai valori figurativi trasfigu­ rerebbe la faccenda in modo che non sarei forse gra­ dito né ai committenti né a quel tipo di pubblico. Del resto non ho mai trovato qualcuno che abbia detto « Ah, ho visto un bel film pornografico ». Ho sempre sentito dire che c’erano donne brutte, che sembrava di stare alla morgue, in macelleria. Quindi 104

vuol dire che si respira aria postribolare, che il cinema pornografico dà la sensazione di saperne meno di pri­ ma e d’aver partecipato a un rito collettivo degradante.

D. Non hai parlato del Bidone, che è precedente alle Notti di Cabiria. Perché scegliesti un attore americano? Broderick Crawford, fu la produzione a importelo? R. Ho avuto la fortuna e il piacere di lavorare con produttori che non mi hanno mai imposto niente e nessuno. Se i nostri punti di vista non riuscivano a coincidere, scioglievamo l’impegno, di comune accor­ do; e anche se è vero che questi scioglimenti si sono verificati un centinaio di volte, i miei rapporti con tutti i produttori, sia con quelli con cui ho fatto film sia con quelli con cui ho risolto il contratto, sono rimasti amichevoli. In fondo, a fare il cinema siamo sempre gli stessi, da tempo immemorabile, e ci si conosce senza illusioni. Broderick Crawford l'ho scelto dopo aver molto penato a cercare il protagonista tra tantissime facce. Una sera, a piazza Mazzini, ho visto su un muro un gran manifesto di un film, che qualcuno aveva stracciato verticalmente, Si vedeva una mezza fac­ cia, e sotto un mezzo titolo, e mezzo nome del­ l’attore: « Tutti gli uom » e « Broderi ». L’occhietto di quel mezzo faccione mi ricordava l’espressione arguta e canagliesca di un certo Nasi, che a Rimini era famoso per aver venduto a un tedesco un pezzo di mare davanti al Grand Hotel. Questa almeno era 105

la storia che raccontavano sul bidonista Nasi, e quando al Caffè Commercio qualcuno lo invitava a confermare se era vero o no, Nasi voleva prima farsi pagare da bere, dopodiché se ne usciva con frasi da saggio orien­ tale, tipo: « Non sappiamo più vedere la verità, per­ ché non sappiamo curvarci fino in terra ». Se qual­ cuno chiedeva spiegazioni, bisognava prima pagargli un altro bicchiere di vino, e la faccenda, tra risposte sibilline e ulteriori quartini di Sangiovese, poteva andare avanti l’intero pomeriggio, finché l’oracolante, completamente ubriaco, si allontanava nella nebbia cantando a squarciagola. Che magnifico faccione aveva Broderick Crawford! La testimonianza più clamorosa della fotogenia cine­ matografica: bastava alzasse un sopracciglio ed era già un racconto. Quegli occhietti affondati sopra le guancione, sembrava sempre che ti guardassero da dietro un muro, come due pertugi in una parete. Il produttore, preoccupato da certe voci che insistente­ mente circolavano su una cerca propensione del bravo Brod verso gli aperitivi, aveva voluto cautelarsi, nel contratto con l’attore, aggiungendo in una paginetta l’elenco delle bevande consentite. Ma forse qualche infrazione deve esserci stata, da parte di Brod, per­ ché mi ricordo che una mattina quando eravamo quasi alla fine del film, e cioè dopo circa quattro mesi che si trovava in Italia, a Roma, insisteva via via accalo­ randosi, perché un segretario di produzione andasse a prendergli delle sigarette persiane che si trovavano solo in una tabaccheria dopo il sesto isolato della 14’ Strada.

106

D,

La Dolce Vita.

R. Come nel test delle associazioni, rispondo subito: Anita Ekberg! A distanza di venticinque anni il film, il suo titolo, la sua immagine, anche per me sono inseparabili da Anita. La prima volta la vidi in una fotografia a piena pagina su una rivista americana; la potente panterona faceva la bimbetta a cavalcioni sulla ringhiera di una scala. « Dio mio — ho pensato — non fate­ mela mai incontrare! ». Quel senso di meraviglia, di stupore rapito, di incredulità che si prova davanti alle creature eccezio­ nali come la giraffa, l’elefante, il baobab, lo riprovai qualche anno più tardi quando nel giardino dell’Hotel de la Ville la vidi avanzare verso di me preceduta, seguita, affiancata, da tre o quattro ometti, il marito, gli agenti, che sparivano come ombre attorno all’alone di una sorgente luminosa. Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è anche fosforescente. Voleva sapere del copione, se il personaggio era positivo, chi erano le altre attrici e intanto beveva un bicchierone di quei cocktails pieni di colori bandierine pesciolini e par­ lava con una vocina da bambina raffreddata che la rendeva ancora più sconvolgente. Mi sembrava di sco­ prire le idee platoniche delle cose, degli elementi, e in un totale rincoglionimento mormoravo fra me e me: « Ah, ecco, questi sono i lobi delle orecchie, queste sono le gengive, questa è la pelle umana ». Quella sera stessa volli vedere Marcello che ascol­ tava sfumacchiando, un po’ turbato, ma non voleva darlo a vedere: « Ma va’! — diceva — Davvero?! Però! E va beh, — concludeva accondiscendente 107

alzando il sopracciglio alla Clark Gable — vediamola questa signora! ». Da profonda conoscitrice di uomini Anita, quando Marcello le fu presentato, gli tese distrattamente la mano guardando già da un’altra parte, e per tutta la sera non gli rivolse mai la parola. Più tardi Marcello, parlando d'altro, mi disse che la Ekberg non era poi questa gran cosa. Gli ricordava troppo un soldato tedesco della Wehrmacht che una volta, in una retata a viale delle Milizie, aveva tentato di farlo salire su un camion. Forse s’era sentito offeso, trascurato; quella gloria da divinità elementale, quella salute da squalo, quel riverbero da solleone, invece di esaltarlo avevano infastidito il vecchio Snaporaz.

D. La Dolce Vita rimane una chiave di volta della cultura e dell’immaginazione del Novecento; sono passati più di vent’anni, che cosa ne pensi oggi, fino a che punto eri consapevole delle sue componenti sociologiche? R. Deludendo puntualmente amici e giornalisti ho sempre detto che la Roma della Dolce Vita era una città interiore e che il titolo del film non aveva nes­ suna intenzione moralistica o denigratoria, voleva sol­ tanto dire che nonostante tutto la vita aveva una sua dolcezza profonda, irrinnegabile. Sono d’accordissimo con coloro che sostengono che l’autore è l’ultimo a parlare consapevolmente delle sue opere, e non voglio apparirti come uno che per civetteria o esibizionismo tende a smitizzare o a ridurre 108

ciò che ha fatto. Ma non mi sembra di aver mai avuto la lucida intenzione di denunciare, criticare, fustigare, fare della satira; non ribollivo di insofferenze e di sdegni, di rabbie; non volevo accusare nessuno. Via Veneto? Mai frequentata. Non credo di averne mai parlato neanche una volta con Flaiano, di via Veneto. La sequenza dei nobili? L’ho aggiunta durante le riprese, suggestionato da certi racconti che mi faceva Brunello Rondi gran frequentatore di parties e feste nelle case dei patrizi romani. L'orgia finale? Credendo che Pasolini fosse un competente di orge, una sera lo invitai a cena. Ma Pier Paolo mi disse subito che gli dispiaceva ma di orge borghesi non sapeva niente, non vi aveva mai partecipato. « E non conosci nes­ suno che vi partecipa? », gli chiedevo. No, non cono­ sceva nessuno. Jacopetti? Ma in quel momento era in Africa. Iniziai la sequenza senza un'idea. Sistemavo gli attori suggerendo poco convinto atteggiamenti di deboscia. Avevo un’assistente olandese, una bella ra­ gazza che mi seguiva con occhi attenti e fiduciosi nel­ l'attesa eccitata di vedermi produrre chissà quali stre­ gate turpitudini. Dopo due orette l’ho sentita che mormorava molto delusa: « Vuol fare il porco e non lo sa fare ».

1). Sì, ma c'è anche molto di più. La Dolce Vita ha segnato un periodo della vita italiana, ne è diventata il simbolo stesso. Suscitò discussioni, polemiche, scandalo...

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R. Mi rendo conto che La Dolce Vila ha costituito un fenomeno che è andato al di là del film stesso. Dai punto di vista del costume; ma anche forse di qualche innovazione: era il primo film italiano che durava tre ore e tutti, anche gli amici, volevano che lo tagliassi. Ho dovuto difenderlo con le bombe. Io l’ho fatto come faccio tutti i film: per liberarmene e soprattutto per la mia spudorata voglia di raccontare. Mi pare che il nutrimento, anche per quanto riguarda la forma­ zione delle immagini, fosse rappresentato dalla vita proposta dai rotocalchi, « l’Europeo », « Oggi »; in­ sensate passerelle di aristocrazia nera e fascismo, quel loro modo di fotografare le feste, e quella loro este­ tizzante impaginazione. I rotocalchi sono stati lo spec­ chio inquietante di una società che si autocelebrava in continuazione, si rappresentava, si premiava; di una nobiltà papalina, nera c contadina, che prendeva il Caravelle e si faceva fotografare su « Lo Specchio ». Una vecchia Italia secentesca e codina che si incro­ ciava con quella dei Nastri d’Argento e sulla quale mi piaceva esercitare una mia propensione a fare sberleffi. Ma come potevo spiegarlo, tutto questo, a quella vecchina vestita di nero, con paglietta, trine e nastri, che un paio di mesi dopo l’uscita del film, quando lo scandalo era scoppiato e « L’Osservatore Romano » ogni giorno scriveva cose di fuoco contro La Dolce Vita e il suo autore, e si parlava di ritirare il visto di censura al film, di bruciare il negativo, di togliermi il passaporto... cosa potevo dire a quella vecchina che precipitatasi fuori di una lussuosa Mercedes nera, rifiutando l'aiuto dell’autista che voleva sorreggerla, ha attraversato come un topo piazza di Spagna per raggiungermi e attaccarsi alla mia cravatta come alla 110

corda di una campana, rantolandomi sulla faccia: « Meglio legarsi una pietra al collo e affogare nel più profondo dei mari piuttosto che dare scandalo alle genti! ». Sorreggendola assieme all’autista l’ho riaccompa­ gnata alla macchina dandole ragione; e davvero mi sentivo un po’ turbato. Come quell’altra volta che a Padova, alle due di un pomeriggio di agosto, solo soletto, ho visto sul portale di una chiesa un enorme manifesto listato a lutto con sopra scritto: « Pre­ ghiamo per la salvezza dell'anima di Federico Fellini pubblico peccatore ».

D, Affrontare la realtà in cui si vive, capire il mo­ mento storico, è considerato in genere un obbligo morale. Non lo è per te? Cosa pensi del mondo in cui viviamo?

R. Non riesco a farmi delle opinioni, ci rinuncio in partenza. Mi è sempre parsa un’impresa disperata risalire alle premesse politiche dei fatti, fare diagnosi: non ho gli strumenti e nemmeno la passione. Mi rendo conto che è un limite bambinesco, ma non mi rico­ nosco la maturità di riflessione né il distacco, né l’in­ tuito straordinario che mi sembrano necessari a capire chi dirige la società e per quali oscuri labirinti essa è arrivata a certe situazioni stagnanti. Non credo che il mondo sia guidato da una supermente tenebrosa e profetica. Temo che vada avanti a rotoloni. Forse una volta c’era un progetto, che poi è stato dimcnti111

cato, come è accaduto al progetto della Chiesa per la salvezza dell’uomo. In origine deve esserci stato un messaggio sul quale è stata poi costruita una tale rete di protezioni e di cerimoniali che l’ha fatto dimenti­ care. È rimasto soltanto il labirinto dei rituali, senza più ricordarsi l’entrata e l'uscita, e anche il senso del labirinto. Forse il senso è avventuratasi comunque e trasformare l'angoscia in nutrimento per te e per gli altri. Il fascino dei racconti di Kafka o di Borges deriva da questo. Chi, come me, non ha una visione scientifica delle cose, né calcola il progresso in termini razionali, si abbandona a più o meno compiaciute fantasie, o ai suoi oscuri complessi di colpa, crede già a volte di scorgere nel quotidiano i lampi promessi nell’Apoca­ lisse di san Giovanni o nelle profezie di Nostradamus. La tentazione più forte è di dire che il futuro è già finito. Forse sarà perché ho letto molti racconti di fantascienza, ma in certi momenti sento proprio di condividere l’aggressivo sgomento, il mostruoso egoi­ smo che si impossessa dell’umanità di fronte all’im­ poverimento delle risorse naturali del pianeta. La prospettiva è catastrofica, ma la accetto da tutti i punti di vista; sia perché come cineasta la trovo seducente, sia per quel tanto di ammaccamento cat­ tolico che ci portiamo dietro da duemila anni. Anche tentando dei pallidi e stentati ragionamenti sui limiti del progresso, mi sembra che la faccenda sia di una irreversibilità entusiasmante per chi, tutto sommato, vorrebbe trovarsi su un’altra arca di Noè e viaggiare in mezzo al disastro con pochi eletti e qualche animale.

112

D.

Ma a te quali responsabilità sembra di avere?

R. L’unica responsabilità che sento è quella di evi­ tare l’approssimazione che è la secrezione più diretta dell’ignoranza e della stupidità. Essere approssimativi è un connotato nostro, tipicamente italiano, un’attitu­ dine psicologica che coltiviamo da sempre con cura compiaciuta, a volte persino con presunzione, come se fosse una risorsa, una qualità genetica che gli altri ci possono solo invidiare; mentre quasi sempre non è altro che la squallida rassegnazione a sopravvivere: ancora e solo approssimativamente, s’intende. Sento la responsabilità di non ingannare, di non acconten­ tarmi, di testimoniare, con un’applicazione rigorosa degli strumenti espressivi di cui dispongo, il pasticcio nel quale di volta in volta mi trovo. Non rinunciare al rigore: il colore, la luce, la prospettiva giusta al momento giusto. Senza con ciò dimenticare che la espressione artistica ha anche un aspetto ludico: pro|K>nendo una visione delle cose, partecipando agli altri un mio momento di buonumore o di malumore, invito al gioco della fantasia. Che può sembrare un lusso, una perversione, in un momento così denso di inquietudini e paure che ci fa sembrare una colpa sol levare gli occhi dal basso, dal pratico, dal quoti­ diano. Anziché riacquistare il senso del gratuito siamo indotti a sentire come un obbligo anche l’occupazione del tempo libero, che diventa cosi un tempo vuoto, dove non è favorito nessun rapporto con se stessi e la vita. Abbiamo sempre meno spazio per la contem­ plazione estetica, intesa in senso greco come dispo­ sizione al piacere del bello. Il bello sarebbe meno ingannevole e insidioso se cominciasse a venir consi­ 113

derato bello tutto ciò che dà un’emozione, indipen­ dentemente dai canoni stabiliti. Comunque venga toc­ cata, la sfera emotiva sprigiona energia, e questo è sempre positivo, sia dal punto di vista etico che este­ tico. Il bello è anche buono. L’intelligenza è bontà, la bellezza è intelligenza: l’una e l’altra comportano una liberazione dal carcere culturale.

D.

Che cos'altro c'è che ti emoziona di più?

R. L’innocenza. Davanti a un innocente mi arrendo subito, e mi giudico pesantemente. I bambini, gli animali, gli sguardi con cui ti fissano certi cani. La estrema modestia che certe volte ravviso nei desideri di gente umile, ha il potere di turbarmi. E natural­ mente, la bellezza mi emoziona, lo sguardo di certe donne, incantevolmente belle, che sembra riempire lo spazio d’aria di un’altra luce. Apparizioni emozio­ nanti. E poi l’espressione. Uno scrittore, un pittore, che sono riusciti a fissare in una pagina o in un qua­ dro, un sentimento delle cose del mondo, una visione che durerà per sempre, mi comunicano un'emozione profonda. Rimango indifferente c inerte, invece, davanti alla natura. Lo so, è mostruoso, è patologico, e non sono riuscito a far chiarezza su questo mio limite. Non riesco a vederla, la natura, e la vivo solo nei ricordi: i boschi visti da bambino, il mare, l’arrivo della sera... ma oggi un bel paesaggio, un tramonto, la grandio­ sità primordiale delle montagne, il silenzio con cui 114

scende la neve, mi emozionano solo se riesco a ripro­ durli a Cinecittà, in teatro, pasticciando con sete e gelatine.

D.

Di che cosa li vergogni di più?

R. Delle insensatezze che dico durante le interviste, del parlare a vuoto, delle chiacchiere che faccio anche senza sollecitazione, e dei silenzi in cui sprofondo quando invece dovrei parlare. Mi vergogno di essere vago, accomodante, imprudente. Qualche volta mi vergogno anche un po’ di non essere sicuro di niente. Davanti a chi, in maniera innocente e disarmata, dichiara le sue certezze, io mi sento sempre un po’ a disagio, imbarazzato, fluttuante, inconsistente. Un turista curioso e indifferente, un passante, uno che c'è c non c’è. Anche chi s’arrabbia con passione, si stravolge, tira un moccolo convinto, odia e si innamora ciecamente, lo guardo con un sen­ timento misto di stupore e di ammirazione. Non ricordo dove ho letto che il tipo psicologico definito ‘ artista ’, oscilla continuamente tra questi due sentimenti di se stesso, uno esaltato, abbagliato, e di soddisfazione semi divina, l’altro invece di depressione, di colpa, di demerito, di castigo. Questi due contra­ stanti modi di sentire sono l’aspetto vissuto della estraneità più o meno conscia, che l’artista sente a volte come una maledizione, e altre invece come uno stato eccezionalmente gratificante. La Chiesa cattolica, con quella sua profonda cono­ 115

scenza dell’animo umano, ha trattato giustamente gli artisti come bambini, da una parte stimolando la loro creatività con doni e ricompense, affinché testimonias­ sero con il loro talento la gloria dei suoi santi, dei suoi martiri, dei suoi miti, ma nello stesso tempo ali­ mentando implacabilmente il sentimento di colpa che prova l’artista verso un lavoro che non ha un’imme­ diata utilità, e una vita fuori dalla regola, insidiata da potenze oscure che ti portano a commettere viola­ zioni contro il lecito, il legittimo, il comandamento, e l’ordine delle convenzioni.

D. Parli dei doni e delle ricompense con cui la Chiesa ha retribuito gli artisti. Il denaro che posto ha nella tua vita?

R. Ho una nozione molto imprecisa del valore reale del denaro e quindi dei suoi rapporti con le cose e il loro valore. Mi può capitare, per esempio, di restare del tutto indifferente davanti a cifre rilevanti (e che perciò posso prodigare dissennatamente), e di avere invece dei sopprassalti di sorpresa ridicola nei con­ fronti di cifre modestissime da cui mi separo dopo esitazioni e riluttanze da derubato. Credo che questa mia mancanza di realismo nei riguardi del denaro affondi radici emozionali in episodi della mia prima giovinezza quando, arrivato a Roma da poco e nel periodo prima e durante la guerra, sbarcare il lunario poteva diventare una esperienza drammatica. In quella situazione la valutazione del denaro subisce dilata­ ne

zioni iperboliche: mille lire diventano la pace, la tran­ quillità, il premio Nobel. I primissimi tempi ho avuto un periodo di bohè­ me, ma è stato molto breve: quanto bastava perché nei racconti successivi lo potessi romanzare, inven­ tando cene a caffelatte, e fughe dagli alberghetti con la valigia calata dalle finestre. Ho guadagnato denaro abbastanza presto, e con una relativa facilità. Non sono ricco, e non so organizzarmi per diventarlo per­ ché non mi interessa. Non ho il senso del possesso, possedere cose mi disturba, non amo possedere niente, mi disfo persino delle penne, degli orologi da polso; anche il guardaroba pieno mi fa venire voglia di sbaraccarlo. Non gioco. Non vado in vacanza. Non riesco a capire cosa si possa fare con una barca, e anche l’au­ tomobile, come ho già raccontato, non mi attira più. Possedere, collezionare, conservare, non ne sono pro­ prio capace. Per fortuna, sia pure in limiti modesti, Giulietta, come la maggior parte delle donne, ha il sentimento del possesso delle cose, che garantisce una amministrazione non meschina ma un po’ più avve­ duta della mia. Ho delle pidocchierie stravaganti, ridicole, che mi durano qualche giorno, per naufragare all’improvviso in sperperi scriteriati. Per un mese intero, ad esem­ pio, sono andato in autobus: basta con venti tassì al giorno, viva l’Atac! Non so come è scattata questa voglia d’autobus e di tram: se è un desiderio di tor­ nare ai tempi in cui ero molto giovane, o una specie di inconscio suggerimento a rituffarmi tra la gente. Forse la voglia di reinventarsi un nuovo periodo. Ri­ fare le cose che facevo nel 1937, stare alla fermata di 117

un tram, insieme a una massaia col suo fagottino della spesa, deve essere un modo di reagire, davanti all’età che implacabilmente avanza.

D. Facciamo una piccola parentesi prima di tornare ai film. Come è la tua giornata quando non lavori? Sei mattiniero? Ti svegli presto? R. Sì, e senza bisogno di essere chiamato. Ho un orologino mentale che posso fissare con uno scarto di solo qualche minuto, e sempre in anticipo, e in qualunque letto mi trovi. Ho un risveglio repentino, immediato, come accendere una lampadina. Ho sem­ pre dormito poco, anche da piccolo. Cerco di far venire a galla qualche frammento di sogno, che la notte, per pigrizia, nel dormiveglia, ho dimenticato di appuntare, convinto che me lo sarei ricordato, e invece non me lo ricordo più. Poi mi aggiro per la casa vuota c silenziosa, apro le porte, accendo le luci, siedo su una poltrona, sul divano, dietro al tavolo, come un gatto matto che vuol provare tutti i posti, canticchio, sbadiglio, apro e chiudo un gran numero di cassetti scoprendovi un sacco di cose che appartengono alla casa e che io igno­ ravo o avevo dimenticato. Infine apro le finestre, e mi sembra di fare l’unica cosa utile che io possa fare in casa, dove la mia inettitudine manuale è as­ soluta. Non ho mai acceso il gas, ignoro i gesti da compiere per far sprigionare la fiammella, mi vergo­ gno a dirlo ma anche accendere il televisore è sempre un po' un’avventura, e se sono solo lascio perdere. 118

Nel bagno passo e ripasso come per caso tre o quat­ tro volte davanti allo specchio, spiandomi con la coda dell’occhio. Poi mi decido e mi osservo: nuovi danni? Nuove devastazioni? Crolli? E lo sguardo? Ci si può fidare di uno che ha una faccia così?

D.

Num sai nemmeno cuocerti un uovo?

R. No, niente, non ho pazienza. Il mio mestiere di regista esige una pazienza da fachiro; sto ore ed ore, a volte interi pomeriggi per trovare l’esatta sistema­ zione di una luce; invece dover aspettare anche pochi minuti per riscaldare un caffè non lo sopporto. Altra contraddizione: io mi riconosco una certa abilità manuale; disegno, pasticcio con la creta, so fare modellini, sul set poi mi piace occuparmi di tutto, attacco quadri, sistemo parrucche, sposto tavoli, insomma so usare abbastanza bene le mie mani. In cucina divento un disastro, un personaggio da vec­ chia scena comica: piatti rotti, scivoloni, ferimenti, scottature. Una volta, a Fregene ho fatto da mangiare. Per una cinquantina di gatti che miagolavano minacciosi nel giardino. Era inverno e la nostra era l’unica vil­ letta rimasta abitata. Ho fatto un gran minestrone vuotando tutto il frigidaire, ci ho messo dentro anche una bottiglia di Activaròl un ricostituente che non prendevo più. È stato un successo.

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D. Va molto di moda parlare del corpo. Che mi dici del tuo? R. Istintivamente tendo a farlo star bene, e anche ragionandoci sopra, voglio avere salute per poter lavo­ rare. Temo la malattia come un intoppo imprevisto, come gli avvisi di accertamenti delle tasse, la cancel­ lazione di un volo, l’incontro con un compagno di scuola di cui non ti ricordi più niente, ma lui invece sì. Sono parco a tavola, temperante, non mi concedo all’eccesso. Almeno mi pare. Però non ho mai fatto ginnastica, e me ne pento, perché mi piacerebbe essere fortissimo, e rispondere alle prepotenze verso i deboli come un personaggio da fumetti. Invece, da ragazzo, mi atteggiavo a malaticcio, forse un altro retaggio cattolico, per apparire vittima, perseguitato, e lamen­ tarsi di ingiustizie patite.

D.

No» frequenti i saloni di bellezza?

R. Tu sì? Qualche volta, vedendo i disastri della calvizie, certi giallini sulla pelle, grinze, smottamenti, penso che un giorno o l’altro telefonerò a un mio caro amico che sta a Milano, e che mi ha parlato di una clinica in Russia (?) dove entri settantenne e ne esci che ne hai settantuno, anagrafìcamente, perché la tera­ pia dura un anno; ma l’aspetto è quello di un sessantanovenne che se li porta bene. Così mi ha detto que­ sto mio amico, che è un po’ più giovane di me, ma ha tutti i capelli bianchi e non si ricorda più dov’è questa clinica. 120

D. Te la senti di dire lapidariamente cos’è che ti piace e cos’è che non ti piace? R. Una rivista — mi pare « l’Espresso » — tempo fa fece un test simile. Lo chiesero anche a me. L’elenco, grosso modo, è rimasto invariato. Non mi piace: i parties, le feste, la trippa, le in­ terviste, le tavole rotonde, la richiesta della firma, le lumache, viaggiare, far la fila, la montagna, la barca, la radio accesa, la musica nei ristoranti, la musica in generale (subirla), la filodiffusione, le barzellette, i tifosi di calcio, il balletto, il presepe, il gorgonzola, le premiazioni, le ostriche, sentir parlare di Brecht c anche Brecht, i pranzi ufficiali, i brindisi, i discorsi, essere invitato, la richiesta di pareri, Humphrey Bo­ gart, i quiz, Magritte, essere invitato alle mostre di pittura, alle prime teatrali, i dattiloscritti, il rè, la camomilla, il caviale, l’anteprima di qualsiasi cosa, il teatro della Maddalena, le citazioni, il vero uomo, i film dei giovani, la teatralità, il temperamento, le domande, Pirandello, le crèpes suzettes, il bel pae­ saggio, le sottoscrizioni, i film politici, i film psico­ logici, Ì film storici, le finestre senza gli scuri, l’im­ pegno e il Disimpegno, il ketchup. Mi piace: le stazioni, Matisse, l’aeroporto, il ri­ sotto, le querce, Rossini, la rosa, i fratelli Marx, la tigre, aspettare agli appuntamenti sperando che l’altro non venga più (anche se è una donna bellissima), 'Potò, non esserci stato, Piero della Francesca, tutto quello che ha di bello una donna bella, Omero, Joan Blondell, settembre, il gelato di torroncino, le ciliege, il Brunello di Montalcino, le culone in bicicletta, il treno e il cestino in treno, Ariosto, il cocker e i cani 121

in generale, l'odore di terra bagnata, il profumo del fieno, dell’alloro spezzato, il cipresso, il mare d’in­ verno, le persone che parlano poco, James Bond, l’One Step, i locali vuoti, i ristoranti deserti, lo squal­ lore, le chiese vuote, il silenzio, Ostia, Torvajanica, il suono delle campane, trovarmi la domenica pome­ riggio da solo a Urbino, il basilico, Bologna, Venezia, tutta l'Italia, Chandler, le portinaie, Simenon, Dic­ kens, Kafka, London, le castagne arrosto, la metro­ politana, prendere l’autobus, i lettoni alti, Vienna (ma non ci sono mai stato), svegliarsi, addormentarsi, le cartolerie, le matite Faber n. 2, l’avanspettacolo, la cioccolata amara, i segreti, l’alba, la notte, gli spi­ riti, Wimpy, Stantio e Onlio, Turner, Leda Gloria, ma anche Greta Gonda mi piaceva tanto, le soubrette ma anche le ballerine.

D. Torniamo ai tuoi film. Siamo arrivati, mi pare, all’episodio di Boccaccio ’70, Le tentazioni del dottor Antonio; uno sberleffo ai censori della Dolce Vita e il tuo primo film a colori. Perché a colori? Quando lo preferisci al bianco e nero? R. Non c’è una regola per cui il colore debba sosti­ tuire il bianco e nero o viceversa. A un brutto film a colori è sempre preferibile un film in bianco c nero, soprattutto pensando a quanto un uso del colore pedissequo o sciattamente naturalistico faccia impo­ verire la fantasia. Più ci si avvicina mimeticamente alla realtà, più si scade nell’imitazione. E il bianco e 122

nero, in questo senso, offre margini più ampi alla immaginazione. Quando si sceglie il colore? Quando è il film che ti si presenta così, quando le sue prime immagini ti si rivelano a colori e il colore diventa materiale total­ mente espressivo, diventa storia, struttura, sentimento del film, diventa il mezzo con cui tradurre, raccontare tutto ciò. Come nel sogno, dove il colore è concetto, sentimento; come nella pittura. La domanda che tanti fanno: « Sogni in bianco e nero o a colori? » è oziosa: come chiedere se nel canto ci sono i suoni, quando tutti sanno che il suono è il modo di espres­ sione del canto. Chi sogna può vedere un prato rosso, un cavallo verde, un cielo giallo: e non sono assurdità. Sono immagini intrise del sentimento che le ispira. Il problema semmai consiste nella traduzione tec­ nica del colore. Nell’immagine cinematografica non è possibile definire il colore con altrettanta precisione in tutte le sue sfumature tonali come è possibile ad esempio ncll’immagine pittorica, che gode di una luce fissa, ferma, immutabile. Fra i colori di una scena esiste un vero contagio, uno scambio fluidico che si risolve in uno sconfinamento costante. Penso però che a parte il senso di impotenza che spesso ti prende di fronte agli imprevisti e che ti fa rimpiangere il bel­ lissimo, suggestivo, amatissimo bianco e nero, il co­ lore arricchisce il film di una nuova dimensione, quella simbolista del sogno al cui modo di esprimersi il cinema è profondamente legato.

D.

E la luce? Che cos’è per te la luce? 123

R. La luce è la materia del film, quindi nel cinema — l’ho già detto altre volte — la luce è ideologia, sentimento, colore, tono, profondità, atmosfera, rac­ conto. La luce è ciò che aggiunge, che cancella, che riduce, che esalta, che arricchisce, sfuma, sottolinea, allude, che fa diventare credibile e accettabile il fan­ tastico, il sogno, o, al contrario, rende fantastico il reale, dà miraggio alla quotidianità più grigia, aggiunge trasparenze, suggerisce tensioni, vibrazioni. La luce scava un volto, o lo leviga, crea espressione dove non c’è, dona intelligenza all’opacità, seduzione all’insi­ pienza. La luce disegna l’eleganza di una figura, glo­ rifica un paesaggio, lo inventa dal nulla, dà magia a uno sfondo. La luce è il primo effetto speciale, inteso come trucco, come inganno, come malìa, bottega alche­ mica, macchina del meraviglioso. La luce è il sale allucinatorio che bruciando sprigiona le visioni; e ciò che vive sulla pellicola vive per la luce. La sceno­ grafìa più elementare e rozzamente realizzata può con la luce rivelare prospettive inattese, insospettate, e calare il racconto in una atmosfera sospesa, inquie­ tante; oppure, spostando appena un cinquemila, e accendendone un altro in controluce, ecco che ogni senso di angoscia si dissolve e tutto diventa sereno, familiare, rassicurante. Il film si scrive con. la luceT lo stile si esprime con la luce.

D. E veniamo a Otto e mezzo che molti conside­ rano il tuo film migliore, imitatissimo, tanto da diven­ tare un genere. Come c'è il western, il poliziesco, il film storico, il fantascientifico, il film di guerra, così c’è il film ‘ tipo Otto e mezzo In quasi tutti i paesi 124

del mondo c’è stato, c’è e probabilmente ci sarà an­ cora per tanto tempo un regista che ha rifatto, vuol rifare o rifarà Otto e mezzo. R. E io invece non volevo farlo più. Alla vigilia delle riprese confuso, disperato, scrivevo al vecchio Rizzoli una lettera che cominciava così: « Caro An­ gelino, mi rendo conto che quanto sto per dirti chiu­ derà in modo irreparabile i nostri rapporti di lavoro. Anche l’amicizia ne sarà compromessa. Avrei dovuto scriverti questa lettera tre mesi fa, ma fino a ieri sera ho sperato che... ». La troupe e molti attori erano stati già impegnati, le costruzioni in via di allestimento, dall’ufficetto dove stavo scrivendo sentivo infatti i martelli dei carpen­ tieri. Perché dunque volevo ritirarmi, mandar tutto all’aria, scappar via? Cosa era successo? Soltanto questo: non mi ricordavo più che cos’era il film che volevo fare. Il sentimento, l’essenza, il profumo, quel­ l’ombra, quel guizzo di luce che mi avevano sedotto e affascinato erano scomparsi, dissolti, non li ritro­ vavo più. Nelle ultime settimane, con ansia crescente, avevo tentato di ripercorrere l’itinerario della gestazione di quel film al quale non avevo saputo dare neanche un titolo, sulla cartella dove raccoglievo gli appunti avevo scritto provvisoriamente « 8'2 », riferendomi al nu­ mero dei film che avevo girato fino a quel momento. Dunque: come era nata l’idea? Cos’era stato il primo contatto, presentimento del film? 11 vago e confuso desiderio di fare il ritratto di un uomo, in un giorno qualunque della sua vita. Il ritratto di un uomo mi dicevo, nella sua contraddittoria, sfumata, inafferra­ 125

bile somma di diverse realtà; e in cui traspaiono tutte le possibilità del suo essere, i livelli, i piani sovrap­ posti, come un palazzo al quale è crollata la facciata, e che rivela il suo interno, tutto insieme, scale, cor­ ridoi, stanze, solai, cantine, e i mobili di ogni stanza, le porte, i soffitti, e le condutture, gli angoli più in­ timi, più segreti. Il tortuoso, cangiante, fluido labirinto dei ricordi, dei sogni, delle sensazioni, un ^groviglio. inestricabile di quotidiani^, di memoria, di immaginazione, di sen­ timenti, di fatti che sono accaduti tanto tempo prima, e convivono con quelli che stanno accadendo, si con­ fondono tra nostalgia e presentimento, in un tempo fermo c magmatico, e non sai più chi sei, o chi eri, e dove va la tua vita, che appare soltanto un lungo dormiveglia senza senso. Ne parlai una sera a Flaiano, guidando la mac­ china verso il inare di Ostia. Nel racconto, cercavo di chiarire a me stesso le intenzioni del film. Flaiano stava zitto, non disse una parola, non fece nessun commento, mi sembrò come insospettito, diffidente, geloso. Ebbi l'impressione che pensasse che il teina non poteva appartenere al cinema, e che il mio rac­ conto fosse uno sconfinamento presuntuoso, smodato, arrogante, in una dimensione dove solo alla lettera­ tura era concesso realizzarsi. Anche Tullio Pinelli, al quale qualche giorno dopo tentai di comunicare il senso di quella sfuggente fantasia, taceva perplesso, forse dubitoso circa la possibilità di architettare una storia su un impulso così velleitario e difficilmente traducibile in fatti c situazioni. Chi invece aderì col solito straripante entusiasmo fu Brunello Rondi, che è un ascoltatore impagabile, gli piace tutto, si eccita a qualunque progetto, pronto 126

a partire e a collaborare in qualunque direzione, con qualunque proposta. Cominciammo a scrivere separa­ tamente. Suggerivo un tema, un argomento, una situa­ zione, e Pinelli, Flaiano e Brunello sceneggiavano cia­ scuno per proprio conto la sequenza. Non avevo ancora deciso però chi era l’uomo di cui volevo tentare il ritratto, che professione facesse: un avvocato? un ingegnere? un giornalista? Un giorno decisi di mettere il mio fantasmatico protagonista in una cittadina termale per la cura delle acque, tipo Chianciano. Mi parve che le intenzioni del film comin­ ciassero a rivelare possibilità più concrete. Scrivemmo la sequenza dell'harem, la notte alle terme con l’amico ipnotizzatore; adesso il protagonista aveva anche una moglie, un’amante, ma il racconto sbandava da tutte le parti. Non aveva un centro su cui crescere, né un inizio, né immaginavo come potesse finire. Pinelli tutte le mattine mi domandava che professione faceva il nostro eroe. Continuavo a non saperlo, e non mi sembrava importante, anche se cominciavo a essere un po’ inquieto. Un giorno poi decisi che era inutile continuare con la sceneggiatura; sentivo che se volevo risolvere il film dovevo cominciare a vedere in faccia chi erano i personaggi, scegliere gli attori, fare i sopralluoghi, decidere un’infinità di cose, andarlo a cercare, il mio film, fra la gente: nelle sartorie, a Fiuggi, a Montecatini, nei teatri, organizzare la troupe, parlare con lo scenografo, con l’operatore, far finta, insomma, che il film era pronto, e che fra un mese cominciavo a girare. Decisi per Mastroianni, scelsi la Milo, feci venire da Parigi Anouk Aimée; in un bosco vicino a Roma cominciarono a costruire il palazzo delle terme e, nei 127

teatri della Scalerà, il casale della nonna, le stanze dell'albergo. La gran macchina produttiva si era messa in moto: date, contratti, piani di produzione, plani­ metrie, preventivi; ma io, chiuso nel mio ufficetto, non riuscivo più a ritrovare il mio film: non c’era più, se ne era andato; ammesso che fosse mai esistito. Ed eccoci al raccontino della lettera che stavo scrivendo a Rizzoli, un raccontino edificante, da libro Cuore. Ero a metà della lettera, quando mi sento chia­ mare dalla vociaccia di Menicuccio, il capo macchi­ nista, che dal cortile dello stabilimento mi dice se vado un attimo in teatro, perché Gasparino (un altro macchinista) festeggia gli anni, e offre un bicchiere di spumante, gli farebbe piacere che ci fosse anche « il dottore ». Ed eccomi in teatro. Carpentieri, macchinisti e pittori mi stavano aspettando, tutti col bicchiere in mano, nella costruzione della grande cucina che ripro­ duceva, dilatata però dal ricordo, quella della casa di campagna di mia nonna. Gasparino con un cappel­ letto da muratore in testa e il martello che gli pende sulla coscia, stappa la bottiglia: « Questo sarà un gran film, dottore, alla salute! Viva Otto e mezzo'. ». Riempie i bicchieri, tutti battono le mani, e io mi sento sprofondare nella vergogna, mi sento l’ultimo degli uomini, il capitano che abbandona la ciurma. Non salgo su nell’ufficio, dove mi aspetta a metà la mia lettera di fuga, ma siedo, vuoto e smemorato, su una panchina del giardinetto, in mezzo a un grande andirivieni indaffarato di operai, di tecnici, di attori appartenenti ad altre troupes al lavoro. Rifletto che mi trovo in una situazione senza via d’uscita. Sono un regista che voleva fare un film che non ricorda 128

più. Ecco, proprio in quel momento si è risolto tutto; sono entrato di colpo nel cuore del film, avrei raccon­ tato tutto quello che mi stava accadendo, avrei fatto il film sulla storia di un regista che non sapeva più qual era il film che voleva fare.

D. Sì, ma nella « storia di un regista che non sapeva più qual era il film che voleva fare » — come lo hai or ora definito — si inseriscono anche alcuni elementi con un nuovo rilievo, come i sogni, lo stesso linguag­ gio onirico. Come sono venuti fuori questi elementi che caratterizzano originalmente il film? R. La lettura di qualche libro di Jung, la scoperta della sua visione della vita, ha avuto per me un carat­ tere di una gioiosa rivelazione, una entusiasmante, inattesa, straordinaria conferma di qualcosa che mi sembrava di avere in piccola parte immaginato. Devo questo provvidenziale, stimolante, affascinante incon­ tro a uno psicoterapeuta tedesco, il professor Bern­ hard. Io non so se il pensiero junghiano abbia influen­ zato i miei film da Otto e mezzo in poi, so soltanto che la lettura di qualcuno dei suoi libri ha indubbia­ mente incoraggiato e favorito il contatto con zone più profonde, stimolando e sollecitando la fantasia. Ho sempre pensato di avere un grosso limite: quello di non avere idee generali su niente. Mi è del tutto estranea la capacità di organizzare le mie preferenze, i miei gusti, i miei desideri, in termini di genere, di categoria. Mi sembra, leggendo Jung, di sentirmi af129

francato e liberato dal senso di colpa e dal complesso di inferiorità che il limite a cui accennavo sopra mi ha sempre provocato.

D. Pensi che la psicanalisi, aiutando l'uomo a cono­ scersi meglio, l’abbia anche reso più felice? R. Non so rispondere a questa domanda, perché non so definire cosa debba intendersi per felicità. Penso che la psicanalisi dovrebbe essere materia di studio nelle scuole, una scienza da insegnare ancora prima delle altre, perché mi sembra che, tra le tante avventure della vita, quella che più di ogni altra vale la pena di affrontare, è quella in cui ti tuffa il viaggio nelle tue dimensioni interiori, l’esplorazione della parte sconosciuta di te stesso. E nonostante tutti i rischi che comporta, quale altra avventura può essere così affascinante, meravigliosa ed eroica?

D. La tua mi pare una visione rigidamente junghiana. Non ti pare di negare il giusto rilievo al ruolo di Freud? R. Non sono assolutamente in grado di darti una risposta di tipo scientifico o critico su due pensatori di tale statura, così complessi, e che hanno incarnato aspetti fondamentali dell’animo umano, riuscendo a farli penetrare nella nostra cultura. Del loro pensiero 130

infatti siamo partecipi e tributari aldilà di quanto possiamo rendercene conto. Di Freud ho letto meno, posso soltanto esprimere qualche mia arrischiata, imbarazzata impressione. Forse Freud sul piano letterario, è uno scrittore più dotato di Jung, ma il suo rigore, anche se desta la mia ammi­ razione, mi mette a disagio. È un insegnante che mi schiaccia con la sua competenza e la sua sicurezza. Jung è un compagno di viaggio, un fratello più grande, un saggio, uno scienziato veggente, che mi sembra presuma meno di sé e delle sue meravigliose scoperte. Freud vuole spiegarci ciò che siamo, Jung ci accom­ pagna sulla porta dell’inconoscibile e lascia che ve­ diamo e comprendiamo da soli. L’umiltà scientifica di Jung di fronte al mistero della vita mi sembra più simpatica. I suoi pensieri, le sue idee, non pretendono di diventare dottrina, ma solo di suggerire un nuovo punto di vista, un diverso atteggiamento che potrà arricchire ed evol­ vere la tua personalità, guidandoti verso un compor­ tamento più consapevole, più aperto, e riconciliandoti con le parti rimosse, frustrate, mortificate, malate di te stesso. Indubbiamente, Jung è più congeniale, più amico, più nutriente per chi crede di dover realizzarsi nella dimensione di una fantasia creativa. Freud, con le sue teorie, ci obbliga a pensare; Jung invece ci permette di immaginare, di sognare, e ti sembra, ad­ dentrandoti nell’oscuro labirinto del tuo essere, di avvertire la sua presenza vigile e protettrice. Del non molto che ho letto, una cosa tra le altre mi ha impressionato e ricordo: la maniera diversa di Freud e Jung di vedere il fenomeno del simbolismo. 11 problema mi ha interessato dato che, da regista 131

cinematografico, sono portato ad adoperare nel mio lavoro immagini simboliche. Per Jung simbolo è un mezzo atto ad esprimere una intuizione per la quale non si possono trovare espressioni migliori. Per Freud, il simbolo viene usato come sostituto di qualcosa che è soggetto a rimozione e che quindi non è possibile esprimere, ma invece è necessario dimenticare. Per Jung il simbolo dunque è un modo di realizzare l’ine­ sprimibile, seppure ambiguamente. Per Freud è una maniera di nascondere quanto non è permesso espri­ mere. Mi pare che in questo problema siano manifeste le diverse maniere di essere dei due grandi pensatori. Sono, ripeto, due differenti modi di declinarsi del­ l’animo umano. Quello di Jung a me sembra più affascinante.

D. Tra Giulietta degli spiriti e Toby Dammit, l'epi­ sodio di Tre passi nel delirio in cui mi sembrò di sen­ tire un rintocco quasi funebre, ci sono tre anni d'in­ terruzione. Avesti una grave malattia e pensasti al viaggio di Mastorna. R. Chissà chi è questo signore che sta sull’elenco telefonico di Milano, che io ho aperto volutamente a caso, per cercarvi appunto il nome per il protago­ nista di quella storia che avevo in animo di fare, e che fino a quel momento si chiamava soltanto II viag­ gio?! Dino Ruzzati, che era bravissimo nel trovare nomi strani e nello stesso tempo verosimili, ne aveva proposti una ventina, e ogni volta, prima di dirne 132

uno, faceva un risolino divertito e un po’ sinistro: « Accerchiati », risatina. « Ingegner Ermete Squoiato, col c però! » si raccomandava. « Rondò, Tullio Rondò. Scidmeno. No, meglio Scimno, Paolo Scimno ». Mi divertiva moltissimo ascoltarlo, ma dopo una mez­ z’oretta ho chiesto l’elenco del telefono. Ed ecco venir fuori « Mastorna ». Ho parlato tanto di questo film. Puntualmente, due o tre volte all'anno, l’amico giornalista mi chiede notizie sulla sua salute, e mi domanda se questa è la volta buona, e se lo farò finalmente questo benedetto Mastorna. Io in buona fede dico di sì; alla fine di ogni film, infatti, il suggestivo fantasmone si ripre­ senta come per chiedermi di essere realizzato, e ogni volta accade qualcosa che lo fa riaffondare, glorioso relitto, nelle profondità abissali dove giace da una ventina d’anni ormai, e da dove, prodigiosamente, continua a mandare fluidi, correnti radioattive che hanno nutrito tutti i film che ho fatto al posto suo. Sono sicuro che senza il Mastorna, non avrei im­ maginato il Satyricon, o almeno non lo avrei imma­ ginato così come poi l’ho realizzato; né il Casanova, c nemmeno La Città delle donne. Anche E la nave va, e Prova d’orchestra, hanno un piccolo debito con il Mastorna. La cosa strana è che quella storia pur es­ sendosi generosamente dissanguata in tanti altri miei film, rimane miracolosamente integra nella sua strut­ tura narrativa, non si è rimpicciolita né scarnificata, ed è sempre la più attuale di tutte le storie che posso immaginare. Non so far chiarezza sullo strano destino di questo film; forse non è nemmeno un film, ma un monito, uno stimolo, un raccontino guida, forse ha la stessa funzione di quei battelli che conducono fuori dal porto i transatlantici; qualcosa, insomma, nato 133

non per essere fatto, ma per permettermi di fare del­ l’altro. Una specie di uranio creativo inesauribile. Una volta all’aeroporto di Copenhagen, nella sa­ letta d’attesa, ho visto una valigia di metallo con gli angoli un po’ ammaccati. Qualcuno l’aveva lasciata in terra, vicino a me. Sul bigliettino accanto al manico c’era scritto « Mastorna », « J. Mastorna ». Mi son guardato attorno cercando il proprietario, ma l’alto­ parlante annunciava la partenza del mio volo, e anche se io ero tentato di restare per vedere in faccia il misterioso viaggiatore, mi trovavo già incolonnato verso l’uscita fra i passeggeri che si stavano imbar­ cando. La valigia era sempre sola soletta, abbando­ nata sul pavimento della sala d’attesa che adesso era deserta, e si stava lentamente riempiendo di nuovi viaggiatori. Soltanto all’ultimo momento, quando ero già sull’autobus che si muoveva per portarmi all'aereo, mi è sembrato di vedere attraverso il finestrino, qual­ cuno che si curvava a raccogliere la valigetta. Era una donna. Una negra. Mah! Sempre più improbabile questo Mastorna.

D. Ma non vuoi accennare neanche in questa occa­ sione che cos’è questo Viaggio di Mastorna?

R. Non ci provo nemmeno. Mi sembra di poter dire che da sempre quando qualcuno mi chiede notizie sul film che sto per fare, scatta un inconscio timore, che rapidissimo si organizza per occultarlo, come una cor­ tina fumogena che altera, deforma, nasconde, per pro­ 134

teggere qualcosa. E così accade che agli amici gior­ nalisti racconto un’altra storia, un altro film. Forse è una forma esasperata di pudore, di gelosia, temo per la vita del progetto che giace inerme e spellato in una zona vulnerabilissima, e riferirne mi sembra di tradirlo o, peggio, di modificarne pericolosamente l’ipotetica, indefinibile forma. Ho anche la sensazione mortificante che parlando del film prima di farlo manco di discrezione, come quei boriosi e sgraziati millantatori che si mettono a sparlare su di una signora appena conosciuta. A cosa servono queste « spiate »? Queste anticipazioni su qualcosa che quando sarà rea­ lizzata probabilmente sarà molto diversa da come era stata immaginata a chi giovano? .'"Se infine, per cortesia, per stanchezza, per amitizia, o per vanità mi mettessi a chiacchierare sul Ma­ storna, e dicessi che ancora una volta è un viaggio, immaginato, sognato, un viaggio nella memoria, nel rimosso, in un labirinto che ha un’infinità di uscite ma un solo ingresso e quindi, il vero problema non è uscire ma entrare, e spudoratamente continuassi a snocciolare definizioni e proverbi, non credo riuscirei a suggerire il senso del film, che io per primo non so cos’è. È il sospetto di un film, l’ombra di un film, forse anche un film che non so fare.

D. Probabilmente è un frutto proibito. Lasciamo quindi stare il Mastorna, e parliamo di un altro viag­ gio, quello nel mondo pagano, nel mondo di Petro­ nio, il Satyricon.

135

R. Insieme al Casanova, al Decameron e M'Orlando Furioso, Satyricon faceva parte, fin dai tempi dei Vitelloni, dei film che promettevo ai produttori, come un contentino, in cambio della Strada e di quant’altro mi interessava davvero. Ma non avevo mai pensato di mantenere davvero quelle promesse. Durante la convalescenza dalla pleurite allergica avevo riletto Petronio ed ero rimasto affascinato da un particolare che prima non avevo saputo notare: le parti man­ canti, cioè il buio, fra un episodio e l’altro. Già a scuola, quando si studiavano i prepindarici, avevo cercato di riempire con l’immaginazione il vuoto fra i vari frammenti. Il professore era comicissimo quando pretendeva che dei mascalzoni di sedici anni fossero presi da entusiasmo perché lui declamava con la sua vocina l’unico verso rimasto di un poeta: « Bevo ap­ poggiato alla lunga lancia »; c io allora mi facevo promotore di ilarità sgangherate inventando tutta una serie di frammenti che andavamo sfacciatamente a riproporgli... Ma quella faccenda dei frammenti mi affascinava davvero. Mi colpiva l’idea che la polvere dei secoli avesse conservato i battiti di un cuore ormai spento. Convalescente a Manziana, nella bibliotechina di una pensione, mi capitò in mano Petronio: tornai a pro­ vare una grande emozione. Mi fece pensare alle co­ lonne, alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografìa cimiteriale dell’Appia Antica o in generale ai musei archeologici. Sparsi frammenti, brandelli riaffioranti di quello che poteva anche essere considerato un sogno, in gran parte rimosso e dimen­ ticato. Non un’epoca storica, filologicamente ricostrui­ bile sui documenti, positivisticamente accertata, ma una grande galassia onirica, affondata nel buio, fra lo 136

sfavillio di schegge fluttuanti, galleggianti Ano a noi. Mi pare di essere stato sedotto dall’occasione di rico­ struire questo sogno, la sua trasparenza enigmatica, la sua chiarezza indecifrabile. Con i sogni, appunto, succede la stessa cosa. Essi hanno dei contenuti che ci appartengono profondamente, attraverso i quali noi esprimiamo noi stessi, ma alla luce del giorno il solo rapporto conoscitivo che possiamo avere con essi è di natura concettualistica, intellettuale. Per questo i sogni appaiono alla nostra coscienza così sfuggenti, incomprensibili ed estranei. Il mondo antico, mi dissi, non è mai esistito, ma non c’è dubbio che ce lo siamo sognato. Lo sforzo sarebbe stato quello di annullare il confine fra sogno e fantasia, di inventare tutto e poi oggettivare questa operazione fantastica, distac­ carsene, per poterla esplorare come qualcosa allo stesso tempo di intatto e irriconoscibile.

D.

E come ricordi il suo impatto col pubblico?

R. Satyricon fu presentato in anteprima all’American Square Garden, subito dopo un concerto rock. Ci saranno stati diecimila ragazzi. L’eroina e l’hascisc arrivavano in bocca portati dal fumo. Era uno spet­ tacolo stupendo quell'armata favolosa di hippies arri­ vati su motociclette incredibili e automobili •colora­ tissime accese di lampadine: nevicava e i grattacieli di Manhattan erano illuminati da tutte le parti, tersi lastroni di ghiaccio sfavillante. La proiezione fu entusiasmante. A ogni fotogram­ ma i ragazzi applaudivano; molti dormivano, altri 137

facevano l’amore. Nel caos totale il film andava avanti implacabilmente su uno schermo gigantesco che sem­ brava restituire l’immagine riflessa di ciò che acca­ deva in sala. Imprevedibilmente, misteriosamente, in quell’ambiente fra i più improbabili, Satyricon sem­ brava aver trovato una sua naturale collocazione. Non pareva neanche più mio nell'improvvisa rivelazione di un’intesa così segreta, di legami tanto sottili e mai interrotti, fra l’antica Roma della memoria e quel pubblico fantastico dell'avvenire.

D.

Ti sembra di trovarti bene con i giovani?

R. Non so chi sono, come sono, non li conosco, non so dove stanno, cosa fanno. Certo, si potrebbe ten­ tare di sapere tutto questo, ma non è già abbastanza agghiacciante una necessità del genere? Mi chiedo che cosa sia accaduto a un certo punto, quale razza di maleficio abbia colpito la nostra generazione, per cui all’improvviso si è guardato al giovane come al mes­ saggero di chissà quale verità assoluta. I giovani, i gio­ vani, i giovani... Sembrava che fossero arrivati con delle astronavi... Sanno tutto, non diciamogli più niente, non confondiamoli con la nostra ignoranza, i nostri errori... Deve essere stato il desiderio di veder ricomin­ ciare tutto da capo e la consapevolezza di essere stati vinti dalla sfiducia in noi stessi che ci ha spinti, scioc­ camente, a dare le chiavi di tutto a dei ragazzi che non sapevano oltretutto come usarle. È affascinante e tremendo quanto è accaduto fra il ’50 e il ’70, 138

quando le generazioni che sapevano hanno consegnato il potere a chi era appena uscito dai giochi dell’infan­ zia. Soltanto un delirio collettivo può averci fatto con­ siderare maestri, depositari di tutte le verità, dei ra­ gazzi di quindici anni. Forse è per la nostra stanchezza di falsi maestri che, di fronte alle macerie di tutte le ideologie, ci è sembrato di non dover più tentare di dir niente...

D. E il terrorismo? Ti pare che in una certa misura possa essere stato una conseguenza, una appendice di tutto ciò?

R. Nemmeno per questo ho una risposta; ma le cose non mi paiono così semplifìcabili. Il terrorismo è una realtà che ho cercato di rimuovere. Come può un ragazzo sparare alla testa di uno che non conosce e credere di poter convivere con quel delitto per tutta la vita? Quale morbo lo ha aggredito? Sia pure con una disinvoltura eccessiva siamo stati abituati a pen­ sare, anche dai poeti più amati, che la guerra giustifica l'assassinio; ma quando la guerra non c’è tutto sem­ bra infinitamente più feroce e insopportabile. Posso, sebbene a fatica, arrivare a capire che si spari contro chi sentiamo nemico, ma mi riesce difficile immagi­ nare che cosa possa compensare e cancellare il senso ili colpa. Hitler, Stalin, i grandi tiranni erano posseduti dalla potenza di un inconscio collettivo che si incar­ nava in loro, diventavano il centro di oscure proie­ zioni, esprimevano una follia organizzata. Ma la ma­ 139

novalanza, il sicario, quello che non è abbagliato da nessun ideale, e nel buio della sua spenta ragione, del suo rozzo sentimento, accetta di ammazzare? Bi­ sogna pensare che in qualche posto della psiche sono conservati certi aspetti mostruosi dell’animale uomo. E non mi interessano affatto quelli che dicono di avere il senso storico, per cui ci dovremmo tratte­ nere dal condannare il terrorismo soltanto perché po­ trebbe darsi che in futuro certi delitti saranno consi­ derati azioni patriottiche. Non ho assolutamente quel genere di senso storico, è una prospettiva che non mi riguarda. Mi riguarda il quotidiano, quanto c'è men­ tre io sono vivo: tutto il resto mi sembra una spe­ culazione.

D. Come hai vissuto tu gli « anni di piombo » ita­ liani? Non ti chiedo una analisi del terrorismo o della P2; vorrei sapere come li hai vissuti tu, che segno ti hanno lasciato dentro.

R. Ho sempre continuato a lavorare, e il lavoro è un grande schermo protettivo, una corazza d’amianto, anche se, di fronte a fatti così aberranti, rifugiarsi nel lavoro può apparire una forma di viltà o di fuga. Il sentimento che provavo, era quello dell’impo­ tenza; la sensazione paralizzante di non poter far niente, come se la vita intorno a te fosse mostruosa­ mente cambiata per una oscura, assurda, irrazionale condanna; sembrava di aver messo in moto qualcosa di ineluttabile, di aver tutti commesso una colpa oscura, non rintracciabile, tale da scatenare un altret­ 140

tanto indecifrabile processo distruttivo, come il can­ cro, un organismo colpito dal cancro. Ma dove, come, quando è successo che hai sbagliato, per subire senza scampo una conseguenza così atroce? E poi lo sgo­ mento che veniva dal vedere lo Stato impotente, i carabinieri, le forze dell’ordine, allo sbaraglio; e la rassegnazione spaventosa, abnorme, davanti ai titoli dei giornali, ai commenti dei notiziari televisivi, al rituale dei funerali, alla litania insopportabile delle esecrazioni da parte degli uomini di governo. Un incubo. Aggravato dallo sconcerto, dallo smar­ rimento di vedere che qualche corsivista, qualche giornale, trovava delle giustificazioni; che amici imbe­ cilli si sentivano in qualche modo confortati da que­ sti vendicatori delle loro nevrosi, e nc parlavano con simpatia, con malcelata solidarietà; che qual­ che onorevole chiamava quei sanguinari i « compagni che sbagliano », i « compagni assassini ». E il mistero insondabile di quelle facce, di quelle barbe, baffi, pas­ samontagna. Le chiacchiere degli psicanalisti da roto­ calco: « cercano di uccidere il vuoto che hanno den­ tro se stessi », « sparano contro il loro terrore di non esistere »; o le analisi ancora più stridule di socioioghi e politologhi intese a far accettare il fenomeno come una fatalità, un processo inevitabile. Ecco, forse ancora più dell’atrocità dei fatti, della ferocia, di quei poveri carabinieri di diciotto anni mitragliati nei bar col cappuccino in mano, all’alba, in periferie nebbiose; al di là di tutto questo orrore, delle immagini da mattatoio che la televisione orren­ damente mostrava, di quei poveri corpi di anziani crivellati come bestie al macello, la cosa più spaven­ tosa erano proprio gli atteggiamenti abiettamente, vi­ gliaccamente giustificatori di tanti intellettuali; l’im­ 141

mediata risonanza data a quel gergo insopportabile fatta di odiosi neologismi, « gambizzare », « alzare il tiro »; il diluvio di comunicati pubblicati dalle prime pagine dei giornali; quel correre affannoso, come per un’orrenda « caccia al tesoro » a cercare nei cestini dei rifiuti dichiarazioni e messaggi; i centralinisti dei giornali, eccitati e tremebondi, a stenografare il lin­ guaggio di morte di questi assassini. L’unico conforto erano le facce della gente, ai funerali. Il silenzio della gente, opposto come un fronte compatto a quella follia che voleva travolgere e contagiare tutto. A tutte le possibili ragioni storiche o filosofiche, sempre troppo generali e disinvoltamente impersonali, oppongo le mie ragioni, il fatto di aborrire prima di tutto la violenza, in ogni sua forma, manifestazione, ideologia. Credo che chi ha una certa inclinazione artistica sia naturalmente conservatore e abbia biso­ gno di ordine attorno; il chiasso, i canti, i cortei, gli spari, le barricate, danno fastidio, disturbano, bisogna chiudere le finestre. Non ho temperamento di rivo­ luzionario, non mi sembra neanche di avere mai avuto amici rivoluzionari; mi è completamente estraneo il ribellismo chiassoso che non tien conto della tranquil­ lità dell’altro. Ho bisogno di ordine perché sono un trasgressore, anzi mi riconosco un trasgressore, e per esercitare la trasgressione ho bisogno di un ordine molto rigido, con molti tabu, contravvenzioni a ogni passo, moralismi, processioni, sfilate e cori alpini. Ed essere poi premiato dalle autorità costituite, dal sin­ daco, dal cardinale: come un trasgressore che si è fatti» onore.

142

D. Tiriamo un po’ di somme. Sei contento dell’uso che hai fatto, in tutti questi anni, della tua immagi­ nazione? Pensi che sia servita a rendere più intenso il nostro ritmo vitale, più trasparenti le cose, più sopportabile l'esistenza?

R. Ho il mortificante sospetto che, quando firmo un contratto per fare un film, nemmeno una volta ho pensato che mi impegnavo a rendere più intenso il ritmo vitale del pubblico, più trasparenti le cose, e più sopportabile l’esistenza. È grave? Faccio film perché non so fare altro. Almeno mi sembra.

D. Questa intervista esce a trentanni dalla tua pri­ ma regia. Coraggio, un po’ di bilancio. Rimpianti, rimorsi, speranze.

R. lo non ho rimpianti. E quelli che ho non mi va di confessarli in questa occasione. Ho fatto i film che volevo fare e come li sapevo fare. Piuttosto mi piace­ rebbe non firmarli più da adesso in poi, perché sono sicuro che senza il ridicolo e paralizzante senso di re­ sponsabilità della firma, li farei meglio, con più libertà, con più disinvoltura, come un gioco leggero e irrespon­ sabile. Mi sarebbe piaciuto nascere vent’anni prima, e fare il cinema dei pionieri, con Za-la-Mort, Za-laVie e Polidor, quell'aria da saltimbanchi, il sole con le tende. Partecipare alla nascita del cinema sarebbe stato molto più gratificante per il mio temperamento che arrivarci quando se n’erano già impossessati lo specifico filmico, lo strutturalismo e la semiologia. 143

Cose inevitabili, le quali gli danno una sua consape­ volezza di fatto artistico e culturale, ma che gli tol­ gono quell’atmosfera fracassona e inquietante, quel­ l’allegria un po’ feroce, che lo imparentava al circo e gli dava il sapore d’una riduzione simbolica delle trame della vita. Rimpiango di aver perduto troppo tempo tra un film e l’altro, di averne alcuni lasciati marcire e altri sparire. Ma non rinnego niente. Mi pare che date le premesse — la pigrizia, l’appros­ simazione, l’ignoranza, la tendenza al vagabondag­ gio — è andato tutto benissimo. Come potevo aspet­ tarmi tanto? Anche la mia vita personale è andata in maniera provvidenziale. Sono stato molto protetto, ma forse io ho contribuito a farla andar bene lasciandomi tra­ sportare: quando le cose premevano, invitavano e suggerivano, non ho mai fatto resistenza. Se il senso generale della mia vita era quello di dover raccontare delle storie per immagini, mi sembra che anche la vita privata si sia organizzata in modo che il lavoro diven­ tasse la parte più importante. La moglie, gli amici, gli affetti o l’assenza di certi affetti: direi che non c’è stata dissipazione, obblighi di responsabilità o prese di coscienza che abbiano tolto tempo al lavoro. Se invece doveva andare in un'altra maniera, e io invece ho continuato a fare cinema, allora il rendi­ conto diventa più imbarazzante. Ma è certo che sul lavoro, non mi sento cambiato. Ho approfondito l’aspetto figurativo, mi sono affrancato da schemi pre­ disposti da altri, ma l’universo in cui vivo è sempre lo stesso. Col passare degli anni ho vissuto a livelli diversi ma non più profondi o più vasti. Da ragaz­ zino, sotto il tendone del circo, guardavo le cose in­ cantato: ora la baracca mi appartiene, la determino 144

e la provoco. Arrivato ospite in un albergo, ora me ne sento il padrone: posso fare il portiere e il fac­ chino ma anche il maraja che prende la suite del primo piano. Speranze? Ma io non mi faccio tante illusioni, non ho neanche bisogno di proiettarmi nel futuro. E se ci fossero dei vuoti da riempire, hai voglia le cose che avrei da fare. Mi sono così poco dedicato agli amici, agli altri, anche a mia moglie. Non avrei che l’imbarazzo della scelta...

D. C’è chi dice che ormai vivi del tuo mito e fai poco per rinnovare la tua inventiva. Dimmi la verità: andando in là con gli anni avverti un appannarsi del­ l’ispirazione? R. Non so qual è il mio mito, e in quanto all’appannarsi dell'ispirazione mi sembra che il guaio e allo stesso tempo la fortuna è che uno non se ne accorge. Non avverto, se è questo che intendi, un esaurirsi della voglia di fare, e neppure un venir meno delle idee, degli stimoli, che mi pare di avere in continua­ zione e nella stessa misura di prima, di quando anagraficamente ero più giovane. Quello di cui avverto sempre più la mancanza, come ho già detto, è di un programmatore, di qualcuno che programmi il mio lavoro. Uno che dicesse: « Va bene, ho capito: nono­ stante tu abbia più di sessantanni, ti diverti ancora a fare i teatrini. Ci penso io, le grane te le levo io. Che cosa vuoi fare? I Tre Moschettieri? Va bene, fa’ I Tre Moschettieri. L’Isola misteriosa? Tutto Poe? I racconti di Chandler? E questo Mastorna lo fai sì 145

o no? ». Ecco, io non voglio diventar ricco, mi basta uno stipendio mensile e qualcuno che mi organizzi il lavoro. Se lo trovassi non avrei minimamente l’im­ pressione di sentirmi esaurito. Dopo che mi è stato concesso di fare un cinema così privato, una specie di masturbazione dilettevolissima ma tutta per me, farei i salti mortali dalla contentezza se qualcuno mi obbligasse a trarre un film dal Conte di Montecristo o da qualche altro racconto popolare ottocentesco.

D. Saltiamo di palo in frasca. Secondo te la com­ media all’italiana è il genere più congeniale al nostro cinema? R. La commedia all’italiana ha fotografato un certo momento della nostra società. Adesso, a distanza di tempo, siamo portati a riconoscerle una consapevo­ lezza critica che probabilmente non aveva; ci incurio­ sisce o ci diverte come potrebbe accadere sfogliando un vecchio album di fotografie, dove ci viene da ridere perché ci troviamo buffi, o sgraziati, o patetici, condizionati come eravamo da mode ridicole; tutte cose di cui il fotografo non aveva allora nessun so­ spetto, limitandosi a rappresentarci per quel che eravamo. La commedia all'italiana mi pare che appartenga più a questo genere di coincidenze, di raffigurazioni; talmente compiaciute, ammiccanti, a caccia di simpa­ tie, che tutto l’aspetto critico, censorio, di indigna­ zione viene fatalmente messo in crisi. Senti che sono tutti soddisfatti, produttore, sceneggiatore, regista, 146

attori, e poi, naturalmente anche il pubblico. La pla­ tea si specchia nel film, il film nella platea in un gioco di identificazione che va avanti all’infinito in trasparenze sempre più sfocate, in intenzioni sempre meno riconoscibili. Mi sembra che su tutto aleggi una allegrezza un po’ sciagurata, un riso stridulo da liberti, una liberatorietà da fescennino che offende il Console proprio per sancirne il trionfo e accaparrarsene l’in­ dulgenza. Non vorrei apparire ingeneroso, o essere ingene­ roso, parlando di film che nella maggior parte non ho visto, e che comunque non andrebbero mai rac­ colti a casaccio in un genere, ma distinti volta per volta. Ma mi pare di capire che lo sdegno della de­ nuncia ha poco a che vedere con delle storie che indu­ cono costantemente alla solidarietà, al compiacimento, a un equivoco di fondo che è quello di ritenersi mi­ gliori della rappresentazione della nostra parte peg­ giore. Certo, è vero che perché questo fosse possibile, è stato necessario disporre di bravi attori comici, veri concentrati di caratteristiche nazionali, vizi, difetti, virtù, tic, tratti somatici; autentici talenti comici, maschere entusiasmanti che si sono potute rivelare su questo terreno. Ma chi ha detto che non avrebbero comunque trovato il loro spazio per altre strade e in altri contesti?

C’è chi dice che, sebbene in modo spesso igno­ bile, la commedia all’italiana rispecchia certi aspetti della nostra realtà e che invece tu la deformi... D.

147

R. A me non pare affatto di deformare la realtà. Tutt’al più la rappresento. Rappresentandola uso una categoria, come quella dell’espressione, che scarta, sceglie, seleziona c ricompone secondo un equilibrio che è quello del racconto, del narrare, della necessità cioè di far partecipare gli altri, il pubblico, a un mio punto di vista, a un mio sentimento. In questo senso l’espressione può essere sempre equivocata come de­ formazione, forse lo è, essendo una realtà filtrata, riorganizzata nella rappresentazione. La realtà è de­ formata dalla poesia, da un dipinto, anche il più naturalistico, dalla musica. È l’arte come ordine, come armonia ritagliata dall’indifferenziato e dal caos, che allude a una riconoscibilità tutta interiore secondo quello che viene catalogato come sentimento estetico. Quindi non capisco mai bene quando si parla della * mia necessità di deformare la realtà ’. È un po’ un luogo comune che mi ritrovo appiccicato addosso, e che spesso induce gli altri a domandarmi con ammi­ rato stupore, ma anche con un’aria di affettuoso rim­ provero: « Ma dove li trova lei tutti quei tipi? ». Domanda senza risposta perché io i tipi non li cerco e non li trovo. Semplicemente li vedo. Mi sembra che basti guardarsi intorno o allo specchio e ci si accorge di essere circondati da volti comici, spaventevoli, dif­ formi, ghignanti, attoniti. Le nostre facce, le facce della vita.

D. Hai sempre avuto intorno molti collaboratori, spesso importanti, celebri. Ma ce n'è uno più pre­ zioso, più speciale degli altri? 148

R. È vero, ho avuto collaboratori preziosi, non solo per il talento, la fantasia, l’intelligenza, ma per il festoso sentimento di amicizia per cui si lavorava in­ sieme con la gioia e l’eccitazione di una scampagnata, un viaggio, una gita. Voglio ricordarne qualcuno: Piero Gherardi, lo scenografo della Dolce Vita, di Giulietta degli Spiriti, aristocratico e clochard, un ospite intellettuale in casa Trimalcione, saggio e in­ differente come un bonzo, e avido, goloso, immaturo come un neonato. Mi ricordo certe notti passate a dormire insieme dentro l’automobile sperduta nel fondo di un vallone di briganti; cercavamo una radura per il Paese dei Balocchi. Non l’ho mai detto, ma fra i progetti mai realizzati c’è stato anche Pinocchio. Un altro collaboratore molto intonato e conge­ niale è Danilo Donati, fantasioso, ricchissimo inven­ tore di costumi e oggetti di scena. Dal punto di vista figurativo, considero Satyricon e Casanova tra i miei film più affascinanti. Per un autore di cinema, i collaboratori più im­ portanti, non sono soltanto gli scenografi, gli opera­ tori, gli sceneggiatori, ma anche uno svelto, furbo, tempestivo, piratesco direttore di produzione può diventare una molla fondamentale del film. Considero Tullio Pinelli, con il quale ho scritto tante sceneggiature, un inventore di storie, un costrut­ tore di trame, di situazioni c di personaggi, che ha la vocazione e il temperamento di un autentico ro­ manziere. Con Flaiano, l’equilibrio fra noi tre mi sembrava perfetto. Pinelli si preoccupava della struttura narra­ tiva, era quello il suo chiodo fisso, e Flaiano faceva di tutto per farla crollare, mandarla in frantumi: a volte era più disastroso di un cinghiale in un campo 149

di fave. Eppure, proprio per queste tendenze così opposte, quelle parti di mura che restavano in piedi tra le macerie, potevano considerarsi le strutture por­ tanti del racconto. Mi univa a Flaiano lo stesso senso umoristico delle cose, la tendenza a sdrammatizzare, lo scherzo, la buffoneria, e una nota di nevrotica malinconia che me lo faceva sentire molto amico. Anche l’incontro con Bernardino Zapponi è stato stimolante. Abbiamo lavorato bene insieme. Le stesse esperienze, le stesse avventure, il « Marc’Aurelio », l’avanspettacolo, gli stessi entusiasmi e amori, Poe, Dickens, Lowencraft, l’occulto, lo spettrale, l’avven­ tura mitologica, la fantascienza, i siparietti, e un senso impiegatizio del lavoro tra ribalderia e timore di licenziamento. Con Tonino Guerra ho scritto Amarcord e E la nave va. Ci lega lo stesso dialetto, un'infanzia pas­ sata tra quelle stesse colline, la neve, il mare, la mon­ tagna di San Marino. I due paesi dove siamo nati distano l’uno dall’altro nove chilometri; da ragazzino andavo in bicicletta con altri amici fino a Sant’Arcan­ gelo, e ci sembrava che parlassero un’altra lingua. Noi di Rimini consideravamo Sant’Arcangelo un paese da colonizzare, neanche i missionari vi erano ancora arrivati: « Capo, i portatori vogliono tornare indie­ tro! », diceva Titta, alludendo allo stato selvaggio e inospitale di Sant’Arcangelo. Ma il collaboratore più prezioso di tutti, posso rispondere senza riflettere, era Nino Rota. Tra noi c’è stata subito un’intesa piena, totale, fin dallo Sceicco bianco, il primo film che facemmo insieme. La nostra intesa non ha avuto bisogno di rodaggio. Io mi ero deciso a fare il regista e Nino esisteva già come premessa perché continuassi a farlo. Aveva una 150

immaginazione geometrica, una visione musicale da sfere celesti, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo quali motivi aveva in mente per commentare questa o quella sequenza avvertivo chiaramente che le imma­ gini non lo riguardavano: il suo era un mondo in­ terno, in cui la realtà aveva scarsa possibilità di accesso. Viveva la musica con la libertà e la facilità di una creatura che viva in una dimensione che le è spontaneamente congeniale. Era una creatura che portava con sé una qualità rara, quella qualità preziosa che appartiene alla sfera dell'intuizione. Era questo il dono che lo manteneva così innocente, aggraziato, lieto. Ma non vorrei essere frainteso. Quando si presentava l’occasione, o anche quando l’occasione non si presentava, diceva delle cose acutissime, profonde, dava giudizi di impressio­ nante esattezza su uomini e cose. Come i bambini, come gli uomini semplici, come certi sensitivi, come certa gente innocente e candida, diceva improvvisa­ mente delle cose abbaglianti... Durante la lavorazione dei miei film ho l’abitu­ dine di usare certi dischi in sottofondo; la musica può condizionare una scena, darle un ritmo, suggerire una soluzione, un atteggiamento del personaggio. Ci sono dei motivi che mi porto dietro da anni, vergognosa­ mente, La Titina, la Marcia dei Gladiatori, che sono legati a precise emozioni, a temi viscerali. Poi ovvia­ mente capita che quando ho finito di girare il film mi affeziono a quella colonna sonora improvvisata e non vorrei più cambiarla. Nino mi dava subito ra­ gione, diceva che i motivi con i quali avevo girato iiano bellissimi (anche se si trattava della più zuc। hrros.t e sgangherata canzonetta), che erano proprio 151

quelli giusti e che lui non avrebbe saputo fare di meglio. E mentre diceva così giocherellava con le dita sul pianoforte. « Che cos’era questo? », domandavo io dopo un po’; « Cosa suonavi? » « Quando? » chie­ deva Nino con aria distratta. « Adesso — insistevo — mentre parlavi hai suonato qualcosa ». « Ah, sì? — di­ ceva Nino — Non so, non mi ricordo più ». E mi sorrideva con l’aria di volermi tranquillizzare: non dovevo aver rimorsi o scrupoli, i dischi che avevo usati erano bellissimi. E intanto continuava ad acca­ rezzare la tastiera del pianoforte come per caso qua e là. Nascevano così i nuovi motivi del film che mi conquistavano subito, e mi facevano dimenticare le suggestioni delle vecchie canzonette usate durante le riprese. Io mi mettevo lì, presso il piano, a raccon­ targli il film, a spiegargli cosa avevo voluto suggerire con questa o quella immagine, con questa o quella sequenza; ma lui non mi seguiva, si distraeva, pur se annuiva, pur se diceva di sì con grandi gesti di assenso. In realtà stava stabilendo il contatto con se stesso, con i motivi musicali che già aveva dentro di sé. E quando quel contatto veniva stabilito, non ti seguiva più, non ti ascoltava più, metteva le mani sul pianoforte e partiva come un medium, come un vero artista. Alla fine gli dicevo: « È bellissimo! ». Ma lui mi rispondeva: « Non me lo ricordo già più ». Erano delle catastrofi alle quali in seguito facemmo fronte con i magnetofoni, i registratori, Ma bisognava met­ terli in funzione senza che se ne accorgesse, altrimenti il contatto con la sfera celeste si interrompeva... Era una vera gioia lavorare con lui. La sua crea­ tività te la sentivi così vicina che ti comunicava una 152

sorta di ebbrezza fino a darti la sensazione che la musica la stessi facendo tu. Nino arrivava alla fine, quando lo stress per le riprese, il montaggio, il doppiaggio era al massimo, ma come arrivava lo stress spariva c tutto si trasfor­ mava in una festa, il film entrava in una zona lieta, serena, fantastica, in un’atmosfera dalla quale rice­ veva come nuova vita. Ed era sempre una sorpresa che dopo aver messo nel film tanto sentimento, tanta emozione, tanta luce, si girasse verso di me per chie­ dermi, alludendo al protagonista: « Ma quello chi è? ». « È il protagonista », gli rispondevo. « E che fa? — aggiungeva con tono di rimprovero — Tu non mi dici mai niente! ». La nostra era un’amicizia vis­ suta sui suoni. Al di fuori del mio lavoro la musica preferisco invece non sentirla. Mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto. Mi difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni. Forse sarà ancora un condizionamento cattolico. Il fatto è che la mu­ sica mi immalinconisce, mi carica di rimorsi, è come una voce ammonitrice che ti strugge perché ti ricorda una dimensione di armonia, di pace, di compiutezza, dalla quale sei stato escluso, esiliato. La musica è i rudcle. Ti gonfia di nostalgia e di rimpianto, e quando finisce non sai dove va. Sai solo che è irraggiungibile c questo ti rende triste. Io non posso sentire uno che picchietti con le dita sul tavolo che subito sono disturbato e succhiato in quella specie di respiro diverso che quel ritmo prol>onc. Invece Nino, nel bel mezzo di una banda che suonava fragorosamente un suo motivo, riusciva a m rivcrc le note di un altro motivo che stava sentendo 153

soltanto lui. Una sorta di operazione fachiresca che mi sgomenta!

D. E come mai non ti sei mai lasciato convincere a fare la regia di un'opera di Nino Rota? Anche verso l’opera lirica hai le stesse riserve che per la musica in generale? R. L’opera ha un aspetto di follia davvero affasci­ nante. Le mie riserve? È che non so niente di niente. Cioè: lo so: l’opera fa parte della mia italianità come i bersaglieri, Garibaldi, gli imperatori romani. « Cele­ ste Aida », « Questa o quella per me pari sono », « Stride la vampa »: sono voci che ci hanno accom­ pagnato da sempre. Le ho sentite da sempre. Tutte le zie, tutte le cugine le abbiamo viste lacrimare sul pizzo a tombolo, mentre cantavano «Mi chiamano Mimi», e gli zii andare in bestia, cantando « Se quel guerrier io fossi ». Queste cose sono talmente nostre che di­ ventano estranee come l'inconscio. Io provo per l’ope­ ra una familiare estraneità, la stessa che si prova per la scuola, per il campeggio Dux, per tutto ciò che ap­ partiene a una casta, che ha un carattere di cerimonia e che mi ha sempre piombato in una condizione di estraneamento, di solitudine. Il fabbro che veniva ad aggiustare la caldaia e cantava, la materassaia che imbottiva quei materassi morbidi c girava per la casa, cantando; i lavori dome­ stici e quelle apparizioni da fiaba dell’arrotino, dello spazzacamino come un folletto. Non ce n’era uno che a un certo punto non canticchiasse qualcuna delle 154

frasi misteriose che appartengono all’opera. E se io chiedevo « Perché dici se quel guerrier io fossi? », mi rispondevano che era un’opera e si mettevano a raccontarla, ed erano, questi, sempre racconti cupi, macellareschi, di vendette feroci, amanti che si lascia­ vano morire vivi nella tomba. Eppoi gli ubriachi che cantavano Vecchia zimar­ ra. Ho sempre un po' confuso l’opera con gli ubria­ chi. Di notte, in piazza da soli, con la giacca che dalle spalle era scivolata in terra, cantavano a squarciagola tutte le opere. I primi cantanti d’opera per me sono stati loro, gli ubriachi. La nostra casa a Rimini, quand’ero bambino, era l’ultima del Borgo San Giuliano; subito dopo c’era lo stradone di campagna che arrivava fino a Cesena. A Rimini noi ce l’avevamo il teatro, il Vittorio Ema­ nuele, ma, non ricordo bene perché, era spesso chiuso per restauri. C’era sempre qualcosa di rotto, così l’opera la facevano a Cesena, al Bond. Allora, sic­ come i manifesti li avevano messi anche a Rimini, più della metà dei riminesi, coi calessi, in corriera, col trenino, andavano a Cesena a vedere l’opera. E alle quattro del mattino si sentivano le voci av­ vinazzate che tornavano da Cesena cantando duetti, cori, romanze. Guardando quella truppa scalcagnata in bicicletta, a piedi, in calesse, in carrettino, che tor­ nava da Cesena ed era ancora buio, mi sembrava pro­ prio l’invasione di un’armata dopo chissà quale razzia. Si faceva giorno a poco a poco, e in quel chiarore vago un certo Ubaldini, un saldatore, melomane, una mat­ tina si ferma sotto la nostra finestra e mi dice: « Chia­ ma il babbo e la mamma ». Aveva visto I pescatori di perle. Con una voce bellissima, mentre la soldatesca «■filava alle sue spalle, si mette a cantare « Un dì m’era 155

di gioia... ». Poi si sentì male per il vino bevuto, fu trascinato in casa nostra, lo misero a sedere sopra un seggiolone a dondolo, faceva una grande impressione, sembrava morto. Invece, dopo un po’ sempre con gli occhi chiusi, con un filino di voce, si rimise a cantare. Mi sono sempre sentito un estraneo, con un vago senso di colpa per non voler partecipare a questo rito italico, caldo, avvolgente, appassionato, collettivo. Ma perché non sapevo accettare questa mia oscura italianità, il rito profondo e vagamente osceno, come in un sacco amniotico? Eppure, mi sembra che l’opera — col suo stordimento, gli aspetti brigante­ schi, le tumulazioni, le vendette, l’amore dilatato al di là dell’immaginabile, l'aspetto patologico — si esprima assai bene anche mediante i suoi errori. Non esiste l’opera separata dal suo farsi propria. In tanti anni è passata attraverso l’unità d’Italia, le guerre, il fascismo, la resistenza... Come si può andare a resti­ tuirle la sua purezza originaria? L’opera è un rito, una messa, una cantata di pastori. Essa va rispettata così come la si fa, persino con le varie cadenze regionali italiane. Perché portare rigore, espressione, in un epi­ sodio che invece trova la sua vitalità nel fatto che è giusto così com’è, così come avviene quella certa sera, alla pari di una processione o di un funerale? Non credere che sia il timore di uno scivolone, non ho di queste paure! Darei per scontato un risul­ tato deludente. Invece è proprio il rispetto per il mio lavoro, che mi trattiene, mi rende impotente. Sono troppo ignorante c invece sul palcoscenico, mi sentirei guardato come uno che, qualunque cosa chieda, deve essere soddisfatto. Al contrario, dovrebbero essere loro a dirmi come si fa. Almeno avessi idee rivoluzionarie 156

sull’opera! Invece a me pare che vada benissimo così com’è, proprio così com’è. Un sera, in tivù, ho visto una ripresa delirante della Traviata. Il regista, o i cameramen, andava avanti e indietro sul palcoscenico come chi aspetta un figlio alla maternità, zoomando con l’obiettivo su tutto: sui tappeti per terra, sulle scarpe, i chiodi dell’impiancito, le protesi d’oro dei cantanti. Avrebbe potuto aggiun­ gere anche l’immagine di un detersivo. Non stava mai fermo. Primi piani debordanti dallo schermo: così si capiva che il tenore era un casertano e il sovrano una veneziana. Bene, nonostante il massacro di quella ripresa, no­ nostante le facce dei cantanti, nonostante fossi solo, con la luce accesa seduto in una stanzetta di casa mia e ogni tanto si sentivano giù dalla strada gli ululati delle auto della polizia che correvano chissà dove, no­ nostante tutto questo, ho pianto per l’intera serata. Finiva il primo atto e piangevo. Iniziava il secondo atto, e subito, alla terza nota, ricominciavo a piangere. Contento di piangere. Forse quell’opera, La Traviata, è la perfezione as­ soluta: una sfera, il sentimento puro. Il pazzo con la televisione in mano non era riuscito a distruggerla. Allora, se le cose stanno così, cosa resta da fare in più di quello che ha fatto Verdi?

I). I Clowns, Roma, Amarcord... l'inizio degli anni Settanta ha coinciso con un’altra stagione piena di invenzioni. Erano tutti progetti che covavi già da prima? 157

R. A me sembra che tutti i progetti che poi finisco per realizzare esistono non soltanto da prima, ma da sempre, salvo poi a rendersi riconoscibili con parti­ colare seduzione quando è il loro momento di farsi prendere in considerazione. È come se piccole citta­ delle, piccoli organismi, piccoli nuclei si fossero fab­ bricati per conto loro mentre io ero occupato a lavo­ rare e che a me basti riconoscerli, accoglierli. La sen­ sazione che mi ha accompagnato in tutti questi anni non è stata quella di sviluppare, ma semplicemente di percorrere un itinerario creativo già predisposto, che io dovevo limitarmi a seguire col compito di pre­ cisare, stabilire confini, dare contorni, compiere cioè tutta quella serie di operazioni artigianali, da labora­ torio, da attrezzeria, che nel mio caso era rappresen­ tato dal cinema, coincideva col cinema. Da sempre, per esempio, mi capita di arrivare al primo giorno delle riprese di un film senza aver an­ cora scelto tutte le facce dei personaggi. La produ­ zione si dispera, gli organizzatori mi guardano con rancore, ma io, con superstiziosa fiducia, voglio par­ tire lo stesso: i personaggi arriveranno. È successo decine di volte e continuerà ad accadere. È accaduto anche per E la nave va. Tra gli altri personaggi che non avevo ancora trovato, alla vigilia dell’inizio, ce n’era uno importantissimo, la principessa di una corte austro-ungarica, cieca dalla nascita. Non sapevo bene nemmeno io cosa cercavo, chi volevo, quale faccia, quale attrice. Non avevo punti di riferimento precisi per scegliere una principessa austro-ungarica. Non ne ho mai conosciute. Ma ecco che lì davanti a me, una sera, nell’andirivieni confuso e sudato dei camerini del teatro Argentina, tra uno svolazzare di asciuga­ mani e porte aperte e sbattute, timida, composta, dia­ 158

fana, vestita di scuro, c’era la mia principessa austriaca. Era Pina Bausch. Una monaca col gelato, una santa coi pattini a rotelle, un volto da regina in esilio, da fondatrice di un ordine religioso, da giudice di un tribunale metafisico che all’improvviso ti strizza l’oc­ chio... Col suo volto aristocratico, tenero e crudele, misterioso e familiare, chiuso in una enigmatica im­ mobilità, Pina Bausch mi sorrideva per farsi ricono­ scere. Che bella faccia. Una di quelle facce destinate a fissarci, gigantesche e conturbanti, dagli schermi del cinema. Ma io non sapevo nulla di Pina Bausch. D’altra parte, confesso i miei limiti, io non ho mai saputo quasi niente su tutto quello che riguarda le opere e i balletti... Sto seduto in platea, e ho subito voglia di andare a curiosare nei corridoi, di andare a vedere cosa succede dietro il palcoscenico, o nell’ingresso vuoto... Mi vergogno a dirlo, ma faccio fatica a re­ stare fino alla fine. Lo spettacolo di Pina Bausch l’ho visto dall’inizio alla fine, e avrei voluto che conti­ nuasse ancora. Mi sono sentito subito preso da una grande simpatia, complice di tanta grazia, un venti­ cello allegro che spirava sulla scena. E quando alla fine dello spettacolo ho voluto conoscerla, ho avuto un’altra prova della buona fortuna che mi assiste durante la preparazione di un film. Buona fortuna, come dicevamo all’inizio, di un percorso che va spon­ taneamente a definirsi. Non mi ricordo più bene chi ha detto che, allo stesso modo in cui l’individuo attraverso i sogni espri­ me quella parte di se stesso più segreta, misteriosa, inesplorata che corrisponde all’inconscio, così la col­ lettività, l’umanità farebbe la stessa cosa attraverso la creazione degli artisti. La produzione artistica cioè, 159

non sarebbe altro che l’attività onirica dell’umanità; il pittore, il poeta, il romanziere c anche il regista, risponderebbero a questa funzione, di elaborare, or­ ganizzare col proprio talento i contenuti dell’inconscio collettivo, esprimendoli, rivelandoli sulla pagina, sulla tela o sullo schermo. Mi sembra che se questa visione delle cose può funzionare, allora cada ogni questione di limite o di restrizione all’attività artistica. Può esau­ rirsi, può avere limiti l’inconscio? Finiscono i sogni? L’attività dell’uomo sognante, che sembra auto­ matica, nell'artista si conforma a una tecnica, a un linguaggio della rappresentazione, a una simbologia, e l’artista riconosce nel suo creare una maniera di mettere ordine in qualcosa che già esiste, un farlo affiorare alla percettibilità sensoriale e intellettuale; è l’archetipo della creazione che si rinnova, cioè il pas­ saggio dal caos al cosmos, dall’indifferenziato confuso e inafferrabile, all'ordine, e cioè all'espresso, al com­ piuto. Ancora: dall’inconscio alla coscienza. Per que­ sto penso anche che nell'artista sia più forte il senso del fare che la sua finalità. Mi pare che chi opera nell’espressione è all’interno di questa che ricerca soprattutto la propria giustificazione e anche la pro­ pria felicità; e che qualsiasi valutazione che lo sbalzi fuori da questa collocazione faccia parte di una peri­ colosa, annebbiarne infatuazione di se stesso che lo porta, per vanità, a chiacchierare a sproposito su quello che ha fatto e sul perché lo ha fatto; tradendo quasi sempre l’ineffabilità del fenomeno in sé.

D. E veniamo al Casanova. Qual è la prima cosa che ti viene in mente? 160

R. Lo sguardo allarmato, ansioso, di Donald Suther­ land, che teme da parte mia agguati, tranelli, tradi­ menti. Ogni volta che mi avvicinavo per suggerirgli l’azione, si irrigidiva come chi fiuta un pericolo senza scampo. Mi veniva da ridere, quelle paure erano dav­ vero comiche, ma se ridevo tutto precipitava ancor più pericolosamente: gli si inumidivano gli occhi di lacrime, pensava che io mi prendessi beffe di lui, e il naso, il mento, i tiranti, la parrucca c le ciglia finte si scollavano; sembrava Lionel Atwill in La maschera di cera, quando nella sequenza dell’incendio gli si scioglie la faccia. Sono convinto però che questo femmineo disagio, questo cronico timore, questa inguaribile diffidenza, ha indubbiamente giovato al personaggio, rendendolo ancora più strano, distante, spettrale, proprio come lo avevo immaginato. « Ma, dear Feffy, perché il tuo Casanova deve essere così? », mi diceva il produttore americano dell’Universal, un omaccione dalla faccia simpatica come Walter Matthau che si ostinava a chiamarmi Feffy e aveva due rnanoni come due cu­ scini, con le quali afferrava le mie, tentando di farmi ragionare: « Casanova is life! È vita. Casanova è la forza, il coraggio, la fiducia. He is the joy of living. Understand, Feffy? Perché ne hai fatto uno zombie? ». Davanti a quel faccione di bravo americanone pieno di dollari, che aveva fatto un sacco di film con Gary Cooper, Clark Gable, la Crawford, Houston. Billy Wilder e che era stato amico intimo di tre o quattro presidenti e che tutti i sabati sera invitava Nixon a casa sua, per dargli dei consigli, non »ii|»cvo cosa rispondere; farfugliavo qualcosa sul imw nmnto tico, Casanova rinchiuso nel sacco amniotno di him madre-prigione, madre-meditcrranca-lagumtic VnwrM 161

e di una nascita continuamente rinviata, mai avve­ nuta: « Casanova — concludevo alla disperata — non è mai nato. £ una non-vita la sua, understand? ». Una rassegnata tristezza riempiva tutto il faccione dell’americano, che scuoteva sconsolato il testone: « Feffy, Feffy, queste sono mental masturbations. Pippe per intellettuali! ». E poi cominciava a rac­ contarmi di quella volta che aveva fatto cambiare tutto il finale di un racconto a Truman Capote, e « Tru » adesso lo considera un padre c non scrive una riga senza telefonargli. E di quando aveva obbli­ gato Sturges a rifare sei volte la sceneggiatura, o lo storico giorno che disse a Brando, via i baffi, e tre chili di meno. Ho già detto fino alla noia che non rivedo i miei film, e quindi non sono in grado di dare un giudizio obiettivo, distaccato; comunque Casanova mi sembra il mio film più compiuto, più espresso, il più corag­ gioso. Proprio tu l’hai ben definito come un film che poteva coincidere con una lugubre resa dei conti. Quella fu l’unica volta che mi parve di non essere d’accordo.

D. Prova d’orchestra l’hai fatto per la televisione. C’entra in qualche modo la crisi del cinema? R. Sono trent’anni che faccio cinema e ho sempre sentito dire, ogni anno, che quello era l’ultimo, che il cinema era finito, che era morto, e che bisognava rimettersi a scarabocchiare per i giornali, telefonare a qualche vecchio direttore, oppure tornare a frequen­ 162

tare la facoltà di giurisprudenza nel tentativo di pren­ dere una laurea. Da quanto tempo ormai la gente non va più al cinema? E quante volte ciascuno di noi è stato invitato a pronunciare diagnosi in proposito? Abbiamo detto tutto: la gente ha paura di uscire la sera, il prezzo dei biglietti, la concorrenza della tele­ visione, il cinema che si mangia la coda e la trova buona e continua a mangiarsela, la permissività (il fatto che adesso se fai l’amore in macchina tutt’al più ce qualche guardone che applaude o qualche pazzo assassino che approfitta di te e della tua ragazza, ma non capita più che ti facciano la multa e la raman­ zina), quindi la gente va meno al cinema perché va in macchina, o parte per il safari. Tutti oggi vanno a fare week-end nei posti piti irraggiungibili del pia­ neta, che bisogno c’è di ammirarli al cinema i « bei posti » quando con i voli charter sabato mattina sei lì con tutta la famiglia? Qualcuno intelligentemente ha fatto delle analisi più profonde c ha detto che la crisi del cinema con­ siste soprattutto nel fatto che il cinema ha esaurito tutte le storie possibili, nel senso classico della pa­ rola, e che noi oggi dal cinema vogliamo qualcosa di più, qualcosa che sta fra lo scientifico, il sociale, il religioso, il filosofico, insomma un cinema che sia veramente uno specchio molto profondo in cui non solo rifletterci così come siamo, ma come siamo stati, come saremo e forse, chissà, come avremmo dovuto essere. Certo mi piacerebbe riuscire a immaginare che faccia può avere quel produttore capace di ascoltare interessato il progetto di un film proposto in questi termini. Comunque, anch’io penso che il cinema abbia perso di autorità, di prestigio, di mistero, di magia; 163

quello schermo gigantesco che incombe su una platea devotamente raccolta davanti a lui, fatta di uomini piccoli piccoli, che guardano incantati immensi fac­ cioni, labbroni, occhioni, che vivono c respirano in un'altra, irraggiungibile dimensione, fantastica e nello stesso tempo reale, come quella del sogno, quel gran­ de, magico schermo non ci affascina più. Ormai ab­ biamo imparato a dominarlo. Siamo più grandi di lui. Guardate come l’abbiamo ridotto: eccolo là, piccolo come un cuscino, tra la libreria e un portafiori. A volte sta persino in cucina, vicino al frigidaire. È di­ ventato un elettrodomestico e noi, seduti in poltrona, muniti di un telecomando, esercitiamo su quelle pic­ cole immagini un potere totale, facendo scempio di ciò che ci è estraneo o ci annoia. In una sala cinematografica anche se il film non ci piaceva, la soggezione intimorita e affascinata di quel grande schermo ci obbligava a rimanere seduti, fino alla fine, se non altro per una coerenza di tipo economico, avendo pagato un biglietto; ma adesso, in una sorta di rivincita rancorosa, appena ciò che vediamo tende a richiederci un’attenzione che non vogliamo concedere, taci, un colpo di pollice e to­ gliamo la parola a chiunque, cancelliamo le immagini che non ci interessano, siamo noi i padroni. Che noia quel Bergman! Chi l’ha detto che Bunuel è un grande regista? Via da questa casa, voglio vedere la partita, o il varietà. È nato così uno spettatore tiranno, de­ spota assoluto, che fa quello che vuole ed è convinto -sempre più di essere lui il regista, o perlomeno il montatore delle immagini che sta vedendo. Come sarà possibile per il cinema tentare di sedurre ancora uno spettatore così? I produttori e i registi americani cer­ cano di captare subito l’attenzione di questo spetta164

tore distaccato, indifferente, diffidente, realizzando grandi spettacoli con mirabolanti avventure, catastrofi galattiche, magie, orrori, l’imprevedibile, il mai visto, l’inaudito, insomma un ritorno alle origini, al cinema di Mélics, alla meraviglia. In questi grandi spettacoli della produzione ame­ ricana, però, mi sembra che la tendenza a privilegiare l’aspetto prevalentemente esornativo, scenografico, la girandola pirotecnica dei trucchi sensazionali, vada a discapito non solo del senso del racconto, ma a volte anche della stessa narrazione. È un cinema dove l’au­ tore scompare, un cinema di ingegneri, e chi merita l’applauso sono appunto loro, i tecnici degli effetti speciali. L’ideale sarebbe, come nel caso di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, che queste straor­ dinarie équipes di tecnici fossero al servizio di una idea, di un sentimento, della fantasia di un autore. Quando questo accade il risultato è ‘ meraviglioso ’ — da meravigliare — e il cinema viene restituito alla sua dimensione di spettacolo unico, che non ras­ somiglia a nessun altro, non è teatro, non è lettera­ tura, non è musica, non è pittura, ma tutte queste espressioni d’arte fuse insieme. Un cinema così è possibile farlo qui in Italia? Non sembrerebbe. L’autore che voglia realizzare que­ sto tipo di cinema ha assoluto bisogno di un colla­ boratore d’eccezione, insostituibile, vitale, che è... la banca, e banchieri sinceramente preoccupati per la crisi del nostro cinema, almeno sul piano delle scelte, degli indirizzi, non mi pare che ce ne siano tanti. Ma qui mi addentro in una dimensione nella quale mi muovo male, sono poco informato. So che da sem­ pre gli amici produttori invocano una legge che pro­ tegga il nostro cinema, non lo lasci morire soffocato. 165

Quando con pazienza mi spiegano come dovrebbe essere fatta questa legge, mi sembra che abbiano ragione, anche se gli interventi assistenziali dello Stato mi comunicano un senso di mortificazione, mi pare di vedere subito in agguato il mediocre, il fur­ bastro, il falsario pronto a godere degli stessi vantaggi. Lavorare per la televisione? Vuol dire entrare in quell’oceano di immagini indistinte, accavallate, in un magma che si annulla da solo, sostituendosi anche quantitativamente alla realtà. Hai la sgradevole sen­ sazione di concorrere all’allagamento catastrofico di immagini che la televisione ci sottopone in ogni mi­ nuto del giorno e della notte, alla cancellazione pro­ gressiva di ogni linea di separazione fra il reale e il rappresentato, una specie di derealizzazione cui è stato condotto il nostro modo di guardare, due specchi che si fronteggiano replicandosi in infinita monotonia e vacuità. Non è questione di stile, o di estetica; non so quale dovrebbe essere il linguaggio da adottare per un film televisivo. Ho fatto per la TV Prova d’orchestra col solo, grande vantaggio della leggerezza; una macchina pro­ duttiva più agile, spigliata, meno faticosa da con­ durre, meno aggravata da zavorre, appesantimenti, meno pachidermica, con la quale senti meno il peso della responsabilità e quindi puoi districarti con più freschezza, con maggiore spontaneità. A parte ciò non mi pare di aver fatto niente di diverso dal solito: nei miei limiti, e con le poche lire a disposizione, raccon­ tare storie, seguire la mia naturale inclinazione a mera­ vigliare, a esprimere quella che di volta in volta mi appare come una visione inquietante, misteriosa o affascinante della vita. Insomma, anche se può apparirti paradossale, o 166

ridicolo o impertinente, provocatorio, mi sembra che l’unica strada da battere per il nostro cinema, è quella di fare film, film migliori, film più intelligenti, film fatti bene, film più belli; o invece dobbiamo comin­ ciare a rassegnarci all’idea che il cinema ormai appar­ tiene a qualcosa che va archiviato insieme a tanti altri modelli generazionali e fra poco si dovrà dire che come l’Ottocento è stato il secolo del melodramma, il Novecento è stato il secolo del cinema?

D. Prova d’orchestra suscitò le reazioni più dispa­ rate. Che ricordo ne hai? R. Se dovessi tentare di ricavare un senso da alcune reazioni del pubblico che mi hanno raggiunto o che mi sono state riferite, davvero non saprei più nem­ meno io da che parte cominciare per definire il mio film (smarrimento forse salutare, soprattutto come esempio da seguire). Come conciliare infatti la com­ mozione di coloro che a fine film commentavano ram­ maricati: « Che peccato che il film non finisca quando gli orchestrali riprendono a suonare lutti insieme! Ma perché quello si mette improvvisamente a parlare in tedesco? Che c’entra? Che significa? », con il guizzo demenziale di quel pazzo (perché mi sembra che si debba essere irrimediabilmente pazzi per intendere il film così) che nel guardaroba di un ristorante, mentre stavo infilandomi il cappotto, mi ha sussurrato con bieca soddisfazione: « Ho visto il film. Sono con lei. Qui ci vuole lo zio Adolfo! »? Domando costernato: ma è mai possibile che il 167

film si presti a un equivoco così mostruoso? O me­ glio, che cosa può voler dire, che cosa può testimo­ niare o rivelare una tale aberrante reazione? Che nel mondo di oggi, sotto il crollo delle sue strutture orga­ nizzate, nella cancellazione di tutti i suoi valori e punti di riferimento, ciascuno reagisce alla confusione, al malessere, al male che ci circonda, generalizzando una propria personale patologia e proiettando quindi su quanto ci sta attorno, sia esso un film o un evento, le proprie paure e i propri desideri? Forse è proprio così, dal momento che quel film rappresentava una situazione di follia generata da una caduta nell’irrazionale e, poiché questa situazione di follia fa paura, si reagisce proponendo una forma di follia organizzata, istituzionalizzata, quella appunto di una dittatura. Ed ecco che il cerchio si chiude: se la politica non ci riguarda, noi riguardiamo la politica dalla quale veniamo totalmente condizionati; chi vuol essere protetto si deve rassegnare ad essere protetto fino in fondo.

D. Anche La Città delle donne affrontava un tema di grande attualità. Richiamandolo alla memoria, qual è la prima immagine che affiora? R. Marcello. Il caro, bravissimo Marcello; l’amico fedele, devoto, saggio; un amico così si trova soltanto nei racconti degli scrittori inglesi. Io e Marcello ci si vede pochissimo, quasi mai. Forse è anche questo uno dei motivi della nostra amicizia, un’amicizia che non pretende, non obbliga, non condiziona, non sta­ 168

bilisce regole e confini. Una vera, bella amicizia ba­ sata su di una sana sfiducia reciproca. Lavorare con Marcello è una gioia: delicato, di­ sponibile, intelligente, entra nei personaggi in punta di piedi, senza chiederti mai nulla, senza nemmeno aver letto il copione. « Che gusto c’è — dice — a saper prima quello che succede? Preferisco scoprirlo giorno per giorno, proprio come accade al personag­ gio ». Si lascia truccare, vestire, pettinare, senza fare obiezioni, domandando soltanto le cose strettamente indispensabili; con lui è tutto morbido, pacato, di­ steso, naturale, una tale naturalezza che gli può per­ mettere a volte di dormire durante le riprese dove lui è in scena, magari in primo piano. Farò altri film con il vecchio Snaporaz? Me lo auguro sinceramente. La sera che gli parlai della Città delle donne, senza però avergli ancora detto se lui ne sarebbe stato il protagonista, anzi, il produttore in quel momento insisteva per Dustin Hoffman, e devo dire che l’attore americano piaceva anche a me e che consideravo questa scelta molto stimolante, Mar­ cello ascoltava con una attenzione appena interessata, come chi sa che la cosa non lo riguarda, ma è obbli­ gato per amicizia e cortesia a mostrarsi tiepidamente incuriosito. « È la storia — dicevo — di un uomo che gira attorno alla donna guardandola da tutte le parti, e ne rimane affascinato e sbigottito. Sembra che la guardi senza neanche tanta voglia di capirla, ina piuttosto per il piacere di rimanerne sbalordito, ammirato, di provarne entusiasmo, sconcerto, e un po’ di tenerezza. È uno che sembra sia alla ricerca di una donna, della donna, ma con la voglia di non tro­ varla mai. Forse ha paura, perché pensa che trovare la donna, ottenerla, vuol dire soccombere, sparire, 169

morire. E allora preferisce continuare a cercarla senza mai raggiungerla ». Mi ero leggermente turbato raccontando il film in quel modo, quasi commosso; continuai a guidare in silenzio, anche Marcello taceva. Evitammo di guar­ darci in faccia per un bel pezzo. In quel momento, quasi a nostra insaputa, si era deciso che avremmo lavorato insieme nella Città delle donne.

D. E veniamo al tuo ultimo film. Una cosa volevo chiederti: chi ha assistito alle riprese assicura che tutto è scivolato via quasi giocondamente, senza i nervosismi e gli intoppi di altre volte. E i tempi sono stati rispettati con una disciplina quasi teutonica. Merito della produzione, stagione felice o cos'altro? R. Anche E la nave va è già alle mie spalle, e mi ricordo ben poco della lavorazione. A essere sinceri mi ricordo sempre meno delle cose che sono accadute; e dei vari film che ho fatto mi rimangono dettagli indecifrabili e inutili: il maglione verde di un mac­ chinista, la pioggia, in esterni, che crepita sulla tenda di plastica improvvisata e noi tutti, lì sotto, rannic­ chiati, al buio, come in trincea. Devo fare uno sforzo ingrato, e secondo me anche vano, per ricordare l’atmosfera di un mio film. Che in fondo è sempre lo stesso. È forse per questo che mi pare incredibile di avere 64 anni, dal momento che sono sempre rima­ sto dentro un teatro ad accendere c spegnere un riflet­ tore, a gridare dentro un megafono e a chiedere il * cestino in bianco ’ nell’ora di pausa. 170

Non mi sembra che la lavorazione di E la nave va sia filata via più liscia che negli altri film. Forse è un’impressione che hanno riportato gli altri, soltanto perché le riprese sono durate esattamente, e anche meno, il numero di settimane previste dal piano di lavoro. Non esistono condizioni ideali per la realizzazione di un film, o meglio, le condizioni sono sempre ideali, perché sono quelle che in definitiva ti hanno permesso di fare il film cosi come lo stai facendo. Il mestiere è fatto di rigore e di elasticità insieme. Devi essere intransigente, ma anche morbido, attento a cogliere resistenze, diversità, anche gli errori, con uno spirito di vigile responsabilità. L’imprevisto non è sempre e soltanto una difficoltà, spesso è anche aiuto; tutto fa parte della lavorazione di un film, tutto è il film. E la nave va l’abbiamo scritto, Tonino Guerra ed io, qualche tempo fa — come ho già detto in altra sede — perché dovevo consegnare un’idea non ricordo bene più tanto a chi. Dopo due o tre giorni di chiac­ chiere vaghe e di confidenze svogliate, in sole tre set­ timane abbiamo approntato soggetto e sceneggiatura. Se tre settimane sembrano poche per fare un buon copione, bisogna però tenere conto del fatto che dalle prime suggestioni del racconto all’inizio delle riprese sono passati tre anni, e mi pare che tre anni siano un tempo abbastanza lungo per garantire l’attesa di un film non del tutto indegno. In principio doveva farlo la Gaumont, poi la Vides, poi Dino De Laurentiis, poi Aldo Nemni, un industriale milanese innamorato del cinema... E infine fu la Rai che riuscì a mettere d’accordo tutti (senza De Laurentiis), affidando la produzione a Franco Cristaldi. 171

Come mi capita puntualmente ormai da una quin­ dicina d’anni in qua, la troppo lunga convivenza con la progettazione di un film finisce per rendermelo odioso: tento di rimuoverlo, non lo voglio più fare. È questo il momento in cui il film si fa davvero. Adesso che E la nave va è finito, non sono più in grado di dire quale era il mio sentimento origi­ nario. Esiste solo il film: quello che volevo fare si è come dissolto. Ricordo che allora parlavo di perso­ naggi dal fascino struggente, come quello che hanno le fotografie di persone sconosciute. Dicevo di voler fare un film con lo stile delle prime pellicole, che doveva essere quindi tutto in bianco e nero, anzi rigato, con macchie di umidità, come un reperto di cineteca. Un falso, insomma, e proprio questo mi seduceva, perché penso che il vero cinema debba essere così. Non so più quanto di quelle intenzioni sia rima­ sto nel film, perché poi, al momento di girare, le cose si presentano provvidenzialmente secondo i modi di sempre. Forse questa volta ho impiegato un pochino più di tempo del solito nella scelta delle facce. Mi pareva di aver bisogno di volti che potessero vero­ similmente sembrare quelli di persone che non esi­ stono più, scomparse nel tempo, e che ci toccano, ci incuriosiscono, perché ci sembra che quella petti­ natura che non si usa più, queU'abito di cent’anni fa, quel modo di sorridere, di fissarci con uno sguardo perduto per sempre, vogliano rivelarci il senso di una storia, il racconto di un’esistenza. Ho pensato allora che forse attori di un altro paese, di un’altra società, di usi e costumi diversi, potessero meglio esprimere questo tipo di remota lontananza, di toccante estra­ neità. Credo sia questo il vero motivo per cui nel 172

film, oltre a molti attori italiani, ce ne sono altri inglesi, francesi, tedeschi, resi verosimili anche dal fatto che interpretano personaggi di quelle nazionalità. Circondato dalle foto delle loro facce appese alle pareti del mio studiolo a Cinecittà, ho sentito il biso­ gno di sviluppare le loro storie, di curiosare di più nei loro rapporti, di aggiungervi amici, parenti, nuove conoscenze e inventare nuove situazioni; insomma, di fare anch’io il viaggio con loro. Perché il film è la storia di un viaggio, un viaggio per mare, per com­ piere un rito, un viaggio che si suppone sia avvenuto sessantanni fa, alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale.

D. Ancora su E la nave va. L’hai girato a colori tua pai lo hai riversato in modo che in certe parti lo vedremo virato. C’è qualche rapporto con la versione commerciale di Otto e mezzo, dove la ' realtà ‘ era in bianco/nero e il sogno era virato? R. Nel film si parla di un mondo lontano che ha vissuto, amato, sofferto, quando noi tutti non esiste­ vamo. Il mio sentimento verso i personaggi di questa storia voleva essere quello che si prova quando si guarda una vecchia fotografia; non importa che quel tipo di fotografie di inizio secolo siano marroncine e fatiscenti, abbiano quella tinta seppia da dagherro­ tipo; io credo che anche se fossero coloratissime e sgargianti, interverrebbe comunque quel nostro par­ ticolare sentimento a scolorirle, a renderle fatiscenti, perché per noi sono ombre. Così la fotografia di li la 173

nave va ha una inconsueta chiave cromatica; i rossi, gli azzurri, i verdi perdono l’aggressività della realtà per assumere il contorno vago della memoria, i toni sfumati dei ricordi. Come per tutti i viaggi nel tempo, le incursioni fra le pieghe del passato, la realtà che si giunge a toccare, a evocare, ha sempre il sapore del reperto, del documento riportato a galla, sottratto alla polvere di uno scavo archeologico, liberato dalla sabbia che lo avvolge sul fondo del mare. L’immagine risulta in qualche modo distorta, velata, tremolante; c’è sempre qualche cosa fra noi e quell’immagine. Questo velame, questa distanza ho voluto conservarla sullo schermo, a suggerire quel processo di decanta­ zione che, col trascorrere degli anni, si svolge nella nostra mente, per cui le reminiscenze appaiono in una loro fantasmatica, fluttuante dimensione. Nulla a che fare con l’infame viraggio di Otto e mezzo che, come forse molti non sanno, fu stupida­ mente deciso dalla produzione, contro la mia volontà, nella grossolana convinzione di facilitare allo spetta­ tore la visione del film differenziando i sogni dalla realtà.

D. In generale, le lavorazioni successive alle riprese, che problemi presentano per te? R. Senza problemi, che gusto ci sarebbe a lavorare? Ogni fase della lavorazione di un film presenta diffi­ coltà, imprevisti; fa parte del lavoro superarli o cer­ care di conviverci. Il doppiaggio è per me uno dei momenti più impegnativi; devo riscrivere completa­ 174

mente tutti i dialoghi, perché il mio modo di girare non mi permette di usare nemmeno un metro della colonna sonora originale che è una torre di Babele di lingue di ogni nazionalità, di dialetti, di voci che in­ vece delle battute dicono numeri, preghiere, oppure sollecitati da me raccontano cosa hanno mangiato la sera prima. È come rifare nuovamente il film; questa volta, secondo le necessità del racconto sonoro, che presenta a volte problemi espressivi altrettanto im­ portanti quanto quelli deH’immagine. Un'altra fase delicatissima è il montaggio. Se du­ rante le riprese io non sono affatto disturbato da visite di amici, conoscenti o dall’ingresso in teatro, come adesso c’è l’abitudine, di intere scolaresche e dal c hiasso che fanno, i loro commenti non mi distur­ bano, anzi, mi sembra di sentirmi stimolato nella mia parte di istrione, di saltimbanco, nella saletta del mon­ taggio, invece, non tollero nessuna presenza, tranne ovviamente, quella del montatore e delle assistenti. Devo essere solo. È questa la fase in cui il film co­ mincia a rivelarsi per quello che sarà. È come quando il Dr. Frankenstein faceva salire verso il ciclo tempe­ stoso la barella con il mostro composto da diversi jK-zzi anatomici per fargli ricevere la vita dalla scarica tonante del fulmine. È al montaggio che il film comin­ cia a respirare, a muoversi, a guardarti in faccia.

I). Prima di mandare il tuo film a Venezia, hai avuto modo di rivederlo molte volte? L'hai corretto, ritoccato, rifinito in tutti i suoi dettagli o, come spesso capita, il film, per l'incalzare delle date, ti è stato quasi tolto'di mano? 175

R. Sarebbe augurabile — come ho già avuto occa­ sione di dire spesso — una volta che il film è defi­ nitivamente licenziato, lasciar passare almeno un me­ setto senza più vederlo, senza più pensarci, senza più parlarne, in modo che possa essere consentita una visione meno condizionata dalla fretta e più serena. Ma non capita mai. Per E la nave va le cose sono andate come vanno sempre. Ho fatto una prima proie­ zione, dopo il montaggio, con la colonna sonora costel­ lata dalla mia voce, dalle mie grida, dai miei sugge­ rimenti; la copia cosiddetta « di lavorazione » che, credete a me, rimane sempre la più bella perché è ancora confusa, sporca, piena di segnacci, e tu guardi il tuo film illudendoti che dopo, sarà più seducente, più affascinante. Raramente invece accade questo. Di solito, in queste proiezioni, spenta la luce e regolato il sonoro, io lascio i due o tre amici che ho invitato (sempre gli stessi, perché di loro mi fido, e so che comunque mi diranno che gli è piaciuto), e vado a scuriosare su in cabina, a far due chiacchiere con i proiezionisti, gettando ogni tanto qualche oc­ chiata attraverso la finestrella c spiando, come per caso, il mio film che laggiù, lontanissimo sullo scher­ mo, comincia a fare il suo mestiere di seduttore. Oppure mentre la proiezione continua, esco fuori, mi siedo sui gradini della sala di proiezione di Cine­ città, annusato a distanza dal gruppetto di cani che di notte diventano i padroni dello stabilimento. Un amico mi ha detto che ha trovato il film « ter­ ribile »; intendiamoci, non credo si riferisse alla qua­ lità, ma forse voleva dirmi che era rimasto molto impressionato. Un autore gongola dalla gioia a sen­ tirsi dire che ha realizzato qualcosa che fa paura, ci si sente importanti; in questo caso però, non mi pare 176

di essere d’accordo con il mio amico; se posso azzar­ dare un commento sul mio film, è che mi sembra allegro; mi sembra un film che fa venir voglia di farne subito un altro.

I). Hai sempre mostralo una dichiarata avversione per le manifestazioni mondane. A Venezia però ci tei andato. Non mi dire ti ci hanno costretto!

R. Diciamo la verità: tutti — come già sai — vo­ gliamo andare al Festival, anche quei colleghi che in passato poco coerentemente contestavano Venezia e |m>ì correvano a Cannes, in frac e cilindro. Qualche rischio c’è, è vero; ma come in qualun­ que arena dove si svolgono riti competitivi. In fondo, anche non partecipare è un rischio. D’altra parte, quando il produttore è contento, il distributore an­ che, le attrici e gli attori addirittura raggianti, perché mettersi a fare il guastafeste? I direttori dei festival, l>oi, si fanno in quattro per assicurarti che non corri nessun pericolo, in quanto sei fuori concorso; sem­ bra infatti che a una certa età sia più elegante pre­ sentare il proprio film fuori concorso, e i miei mugugiuimenti, che tendono a far capire che io invece sarei disposto anche a concorrere perché mi sembra ancora piti elegante, vengono accolti come battute scherzose. La verità è che se mi assicurassero il premio, io andrei molto volentieri in concorso. E a proposito del premio: non si è sempre detto che i festival ser­ vono a incoraggiare, a favorire un cinema che almeno nelle intenzioni non rientra nello spettacolo di con177

sumo? E allora, perché non decidersi finalmente a dare premi in denaro? Quel festival che per primo inaugurasse la consuetudine di dare ai film che si sono più distinti un conspicuo assegno, diventerebbe il più importante del mondo. Ho fatto venti film (circa), e questa è la vente­ sima volta che vengo invitato ad un festival. L’espe­ rienza dovrebbe avermi reso un po’ scettico e scan­ zonato; devo ammettere invece che per me è ancora eccitante e riesce a turbarmi un pochino: l’arrivo al Lido in motoscafo, o alla Croisette nella Mercedes con l’aria condizionata, lo sventolio delle bandiere di tutti i paesi del mondo sui palazzi dove si svolgono le proiezioni, l’andirivieni frenetico c ozioso, sganghe­ rato e sudaticcio di tutti gli addetti ai lavori nelle halls dei grandi alberghi, l'incontro con l’immanca­ bile produttore dall'accento esotico, tutto vestito di bianco tranne la faccia verde oliva, che ti invita a girare un film ad E1 Badush, perché E1 Badush sem­ bra fatto per te, le conferenze stampa...

D. Già... le conferenze stampa. Pare che non le ami troppo. Ma non fanno parte del mestiere?

R. Trovarmi bloccato dietro un tavolo alle due del pomeriggio, d’agosto, con tre o quattro microfoni sotto al naso — l’ho già detto altre volte — per spiegare perché nel mio film c’è un rinoceronte, non è proprio la situazione che preferisco. Provo un disa­ gio quasi invincibile a chiacchierare di quello che ho fatto. Ho la sconfortante sensazione di dovermi di­ 178

fendere, adesso o mai più, imbellettando il film, inci­ priandolo a parole, inventando giustificazioni, nel di­ sperato tentativo di conferirgli profondità di pensiero, originalità figurative; prendo tutto troppo sul serio, non riesco ad avere distacco, non sono spiritoso, insomma, sto male. Qualche volta ho cercato di evitare la conferenza stampa, ma il mio gesto è apparso arrogante, sgar­ bato, anche qualche amico si è risentito, invece era solo timidezza, senso delle proporzioni, desiderio di non annoiare. Se dico che nel mio film c’è un rino­ ceronte perché studiosi di cose di mare mi hanno assicurato che nel 1914 tutte le navi avevano l’ob­ bligo di imbarcarne uno nella stiva, gli amici della stampa pensano, e giustamente, che tento di fare, con scarso successo, lo spiritoso; se invece dico che nel ventre della nave cioè nel profondo si annida l’Es, cioè la nostra parte inconscia animale che vi­ vendo al di fuori del tempo e dello spazio sostiene purtuttavia la nostra esistenza, obbligandoci ncccssaminiente e provvidenzialmente a convivere con lei, ini accorgo che qualcuno è più contento di una rispo­ sta così, ma io mi sento un po’ ridicolo... Mi piacerebbe una conferenza stampa silenziosa; « i si guarda, ci si sorride, ci si fa dei salutini, ci si '.cambia anche dei doni ma sempre senza dire una parola e poi ognuno se ne va per i fatti suoi.

Il Rivedendo il film a Venezia, hai provato una emozione diversa da quella che ti aspettavi?

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R. Anche in questo caso ripeto cose già dette. È un rito crudele quello che obbliga l’autore ad assi­ stere alla masticazione, all’inghiottimento, al trangugiamento del proprio film nello stomaco di un’im­ mensa platea. Il tuo film sullo schermo ha un suo respiro, e tu avverti che la platea respira in un altro modo, non c’è sintonia, i cuori battono artmicamente, sfasati, e questo dislivello, questa asincronicità passa attraverso di te, ti dissesta, ti fa star male, ti strazia. Come salvarsi da questa tortura, quando perdipiù sei seduto vicino al ministro, a una bella signora, al Doge, c non puoi sgattaiolare via? Io chiudo gli occhi e mi metto a ricordare vicende passate, incontri pia­ cevoli, avventure golose, faccio anche dei calcoli, quante volte in un anno ho fatto una certa cosa, im­ magino di rispondere con gran diligenza a delle let­ tere che ho ancora in tasca, insomma, mi allontano in tutti i modi dalla proiezione che implacabilmente si sta svolgendo, c non finisce mai. Ogni tanto socchiudo un occhio e guardo il mio film, che mi fa anche un po’ pena, abbandonato com’è al suo destino, davanti a migliaia d’occhi che chissà come lo vedono. Anche ai miei stessi occhi qualche volta i film appaiono diversi. Dipende dalla città dove lo vedi, dal cinema, dalle persone con cui stai. I film sono mutevoli, cangianti, umorali, a seconda dei luo­ ghi, delle ore, delle stagioni in cui ti appaiono. Ri­ specchiano gli umori della sala. La sala si annoia? E il film diventa ancora più noioso. Il pubblico non capisce il film? E lui diventa ancora più indecifrabile. Per questo non voglio mai rivedere i miei film, o forse soltanto nella vecchiaia più avanzata, quando, 180

avendoli completamente dimenticati, potranno appa­ rirmi per la prima volta per quello che sono.

I). Di nuovo la vecchiaia. Vogliamo chiudere l'in­ tervista come l’abbiamo cominciata? Fellini a ottant’anni, Fellini a novant'anni, come ti vedi, come ti programmi? R, La memoria. Se ne sta andando. I nomi delle jwrsone, e a volte anche certe parole, faccio fatica a ricordarle. Molti anni fa pensavo che nella vecchiaia avrei letto i libri che fedelmente mi hanno aspettato, sarei andato a scuriosare nei musei che non ho mai visitato, l’india, il Tibet. Ho un amico a Benares; » i scriviamo spesso, una volta mi ha detto che con l.i forza del pensiero era riuscito a materializzare il mio doppio nel giardino della sua casa. Questo pro* digio mi toglie la voglia di andare a trovarlo. Mi conforto pensando ai grandi vecchi, di Cui nel mio bel libro parla Simone De Beauvoir; le paghM < he ho letto e riletto sono quelle dedicate S Tolstoj, Verdi, Victor Hugo. Speravo di trovarvi l'accenno