Scritti sul cinema 8868434814, 9788868434816

Unanimemente considerato uno dei grandi maestri del cinema, Yasujir? Ozu, "il più giapponese dei registi giapponesi

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Scritti sul cinema
 8868434814, 9788868434816

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, nato nel 1903 in un quartiere popola­ re di Tokyo, a soli diciannove anni entra come assistente operatore alla Shochiku, la casa di produzione in cui, sal­ vo poche eccezioni, lavorerà per tutta la vita. Nel 1927 dirige il suo primo film, Zange noyaiba, andato perduto. In Giappone è l’epoca d’oro del cinema muto e Ozu gira in quel periodo persino cinque-sei film all’anno. Anche nei prodotti più di genere inizia a inserire quelli che a po­ steriori si riveleranno elementi della sua peculiare poeti­ ca. Questa tenacia nel perseguire le proprie convinzioni artistiche, supportata da uno staff pressoché permanente di amici fedeli, la cosiddetta «squadra Ozu», lo porta in breve tempo a realizzare una serie di capolavori. Già ne­ gli anni trenta firma, fra gli altri, Sono nato, ma..., Storia di erbe fluttuanti, Il figlio unico. L’esperienza della guerra, vissuta in prima linea sul fronte cinese fra il 1937 e il 1939, contribuisce drammati­ camente a un’ulteriore rarefazione del suo stile, subito percepibile in Fratelli e sorelle della famiglia Toda e C'e­ ra un padre. Una rarefazione che nel dopoguerra rag­ giunge quel rigore formale al servizio della rappresenta­ zione del tessuto essenziale dei sentimenti famigliari che lo ha reso inimitabile. Tarda primavera, Il tempo del rac­ colto del grano, Viaggio a Tokyo, Fiori d’equinozio, Il gusto del sake sono tutte pietre miliari della storia del ci­ nema, non solo giapponese. Il 12 dicembre 1963, giorno del suo sessantesimo compleanno, muore di cancro. Sulla sua tomba, situata nel tempio Engakuji, sulla collina di Kamakura dove vis­ se a lungo e ambientò alcuni suoi film, c’è soltanto un ideogramma: mu, il nulla.

lavora presso la Fondazione Giovan­ ni Agnelli. Nel 2010 ha creato Sonatine, un blog speciali­ stico dedicato al cinema giapponese contemporaneo. ( a»n Dario Tornasi ha curato il volume Kaos no kami Sono Sion, Film Art, Tokyo 2011 (trad. it. Il signore del tuoi Sono Sion, CaratteriMobili, Bari 2013).

’ è stata docente di lingua giapponese manageriale presso (’Università Bocconi e di lingua Ipapponesc avanzata presso l’Università di Torino. Tra r sur pubblicazioni, Comunicare giapponese (Egea, Milano 1998); Iwakan no Itarta [Un’Italia straniante], Shinyosha, Tokyo 2008.

Saggi. Arti e lettere

Yasujirò Ozu

SCRITTI SUL CINEMA cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi

Prefazione di Dario Tornasi

DONZELLI EDITORE

©2016 Donzelli editore, Roma via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected]

ISBN 978-88-6843-481-6

SCRITTI SUL CINEMA

Indice

p.

IX

Il cinema dell’umiltà: «Ah sì?», «Eh già», «Sì, è proprio così» Prefazione di Dario Tomasi

XIX

Introduzione di Franco Picollo e Hiromi Yagi

I. «Chiacchiere sul mio mestiere» 5

Un piatto di riso con curry

7

Chiacchiere sul mio mestiere

27

lo, regista in miniatura Quel giorno, quell’epoca

29

Che cosa ho dimenticato?

31

Vado per la mia strada

33 35

Un mio vezzo È qua Narayama

37

La grammatica del cinema

43

Nel cinema non c’è «grammatica» Una considerazione su come faccio i film

23

51 53 55

Cinematograficità Cose che sarebbe meglio non dire

59

Carattere ed espressioni del volto Vorrei ritrarre il fiore di loto nel fango

61

Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo

57

v

_______________ Ozu, Scritti sul cinema_________________________

II. «Qualche parola sui miei film» 67

Cinema e fotografia

75 97

Cose in cui credo Una cosa che mi ha allargato il mondo

99

Vivo d’amore per il cinema

105

Qualche parola sui miei film

III. «Vado un attimo in guerra e torno»

130

La sera prima della partenza, intorno all’equinozio d’autunno, settembre 1937 Shanghai, il giorno successivo al plenilunio d’autunno, 1937 Pensare a un film di guerra al fronte

130

Dal campo di battaglia, novembre 1937

132

Luogo sconosciuto, 2 dicembre 1937

133

Dingyuan, 24 marzo 1938 Bengbu, 3 maggio 1938

129 129

135 137

139 140

Bengbu, 6 giugno 1938 Nanchino, 13 agosto 1938 Xinyang, dopo il 12 ottobre 1938

149

Xinyang, 18 ottobre 1938 Xinyang, 20 ottobre 1938 Al fronte sotto il cielo azzurro autunnale A nord-ovest di Hankou, 15 novembre 1938 Yingcheng, Capodanno 1939

149

Fengxin, 5 aprile 1939

155

A casa Un film sulla guerra tragico, ma fondamentalmente con un po’ di luce

141 142

146 147

158

163

Un appunto sull’amaranto tricolore Perché non ho fatto un film sulla guerra

165

Ecco il primo film dopo il rientro!

159

vi

_______________________ I ndice______________________ ________ 168 170

Nostalgia di una pulce Sakè e sconfitta

IV. «Un’arte ricca di varietà» 175

177 183

L’internazionalizzazione del cinema giapponese Il cinema giapponese da oggi in avanti Un film all’anno

189

Un’arte ricca di varietà L’abuso dello star system

195

Sono uno all’antica...

197

«Kinema Junpò» Hara Setsuko, una straordinaria intelligenza La grande intuitività di Hara Setsuko e Takamine Hideko

185

199 201

203 207

Considerazioni su Ishihara Yùjirò Sono il rompiscatole del mondo del cinema

217

Filmografia

231

Elenco dei testi citati

237

Elenco delle illustrazioni

239

Indice dei film

243

Indice dei nomi

vii

SCRITTI SUL CINEMA

Il cinema dell’umiltà: «Ah sì?», «Eh già», «Sì, è proprio così» Prefazione di Dario Tornasi

Sono un piccolo produttore di tofu. Se si chiede a un piccolo produttore di tofu di preparare un piatto di curry o una cotoletta di maiale impanata, lui non riuscirà mai a farli bene.

Anche oggi il sergente Ozu non cerca di distinguersi con gesta eroiche ma vive con le lacrime agli occhi. Ozu Yasujirò

Non sono molti i registi di cinema che hanno accompagnato i loro film con approfondita riflessione scritta sulla loro opera e sul senso della settima arte. I primi a venire in mente sono i grandi «cinepensatori» dell’avanguardia sovietica - Éjzenstejn, su tutti, Vertov e Pu­ dovkin - e con essi i coevi cineasti dell’avanguardia francese - come Delluc, Epstein e L’Herbier. Sempre in Francia, illuminanti sono le Note sul cinematografo di Bresson, così come fondamentali sono le ri­ flessioni dei registi della nouvelle vague, su tutte quelle di Godard e, tra gli altri, di Truffaut e di Rohmer. Altri «cinepensatori», quali Brakhage e Mekas, del New American Cinema, confermano come sia­ no spesso i cineasti più radicali ad accompagnare volentieri i loro film con un’altrettanto ricca disamina di tipo teorico, come del resto riba­ discono i saggi di Oshima, Rocha e Pasolini. E ancora, in anni più re­ centi, dense osservazioni sono nate dalle fervide menti di Tarkovskij e Wenders e, con quest’ultimo, sempre in area tedesca, di Herzog e di Fassbinder, cui si può aggiungere lo «strano caso» di Paul Schrader: un regista che - come del resto aveva fatto anche Bogdanovich - scrive di altri registi, nel suo essenziale II trascendente nel cinema, dedicato a Dreyer, a Bresson e, proprio, a Ozu. Si tratta tuttavia di una minoranza, ed è logico che sia così. Un ci­ neasta è qualcuno che si esprime, che propone una sua Weltan­ schauung, che elabora un’idea di cinema, o perlomeno racconta una IX

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storia, attraverso quell’impasto di immagini e suoni che è proprio il ci­ nema, e non per forza è tenuto a farlo - o è in grado di farlo - attra­ verso la parola. Il discorso, in buona parte, vale anche per Ozu. Che il regista giapponese, considerato all’unanimità uno dei più grandi del­ l’intera storia del cinema, sia a tutti gli effetti un cinepensatore, qual­ cuno che attraverso i suoi film elabora una vera e propria filosofia del­ la vita e del cinema, è un dato assodato (come, tra il resto, esplicita­ mente dimostrano le pagine che Deleuze gli dedica ne L'immaginetempo. Cinema 2). Tuttavia non è possibile dire che Ozu abbia ac­ compagnato la sua opera con un’organica riflessione teorica su di essa. I suoi scritti sul cinema sembrano essere piuttosto occasionali, estem­ poranei, nati presumibilmente da sollecitazioni esterne (una richiesta da parte di una rivista o quella di un amico), spesso limitati a poche pa­ gine. Anche se già qui qualcosa d’illuminante c’è. Scrivere del proprio cinema, sostenerlo attraverso un intervento teorico e un discorso ben preciso, è comunque segno di un ego forte, e in qualche modo di una certa presunzione. Modi di essere, questi, molto lontani da quell’u­ miltà che è propria del regista di Viaggio a Tokyo (1953) e che traspa­ re con grande evidenza dai suoi film e dai suoi personaggi. Ma c’è dell’altro, molto altro. Gli scritti sul cinema di Ozu sono una miniera di osservazioni in grado di aiutarci a entrare davvero nel mistero dell’opera di uno dei più originali registi che l’Asia e la storia del cinema ci abbiano mai dato.

1. Sulla recitazione.

Del mestiere di un regista, quello della direzione .degli attori è un aspetto fondamentale: se si discute di attori, o di star - cosa che anche in ambito accademico accade più di frequente in questi ultimi anni - si ha la tendenza a «valutarli» sulla base delle loro qualità intrinseche, a prescindere dal fatto che il lavoro dell’attore, in un film, sia sempre mediato da quello del regista. Diversamente dal teatro, o se non altro più di quel che accade su un palcoscenico, la performance attoriale ar­ riva allo spettatore non in sé e per sé ma attraverso un gioco di scelte di regia e messinscena - ad esempio di inquadrature e montaggio - che ne media, e modifica, la prestazione. In sostanza, al «discorso» dell’at­ tore si sovrappone in modo determinante quello del film, che è poi nella maggioranza dei casi, o almeno in quelli che contano, il «discor­ so» del regista. È solo attraverso questo secondo «discorso» che noi x

Il cinema dell’umiltà: «Ah sì?», «Eh già», «Sì, è proprio così»

spettatori possiamo accedere al primo. Il modo in cui Ozu concepisce la direzione degli attori - e così come lo sostiene nei suoi scritti - sta tutto dentro quella più generale idea di «economia della forma» che è propria del suo cinema. Un cinema votato alla sottrazione, alla ridu­ zione del lessico filmico, all’essenzialità dello stile. Un cinema che cer­ ca di dire di più, di giungere al cuore delle cose, con quanti meno mez­ zi sia possibile. Hara Setsuko, Fattrice prediletta da Ozu, scomparsa all’età di no­ vantanni nel 2015, e che si era ritirata dal set nel 1963, lo stesso anno della morte del regista, è più volte citata negli scritti del cineasta. Se si dovesse confrontare l’interpretazione dell’attrice in Non rimpiango la mia giovinezza (1946) di Kurosawa con quella, tre anni più tardi, in Tarda primavera di Ozu, ci troveremmo di fronte a due performance molto diverse tra loro: tanto è sovraccarica e spesso sopra le righe la prima, quanto è trattenuta e minimale la seconda. Se Hara Setsuko non avesse incontrato sulla sua strada Ozu, non è difficile immaginare che la sua carriera sarebbe stata molto diversa, e ancor più lo sarebbe sta­ to il suo modo di recitare. Ozu afferma di aver sempre seguito il lavo­ ro di Kurosawa, e di aver apprezzato in particolare Cane randagio (1949), ma nello stesso tempo, pensando sì a Non rimpiango la mia giovinezza ma anche a L'idiota (1951), scrive che se si utilizza Hara Setsuko «come ha fatto Kurosawa, penso che non venga fuori il suo la­ to migliore». E poi, in un altro articolo, riprende il discorso sull’attri­ ce, affermando: Secondo me, è una persona che non riesce a esprimere gioia e rabbia con una recitazione sovraccarica, ma piuttosto sa trasmettere superbamente le stes­ se emozioni con gesti minimi. In altre parole, si dovrebbe poter esprimere un’esplosione di rabbia anche senza alzare la voce. Se chiedo a Hara di recita­ re in questo modo, lei riesce a farlo senza alcuna difficoltà sin nelle minime sfumature.

Più ancora che per Hara Setsuko, questo minimalismo espressivo dell’attore - di cui echi occidentali troviamo nel cinema di Bresson, e in particolare, forse, ne II diavolo probabilmente (1977), o nell’esperimen­ to herzogiano di recitazione sotto ipnosi di Cuore di vetro (1976) -, que­ sta riduzione del gesto ai suoi minimi termini sono rinvenibili nello stile recitativo di Ryu Chishù, l’attore che più di altri è presente nella filmografia del regista. Ozu, non per nulla considerato «il più giapponese dei registi giap­ ponesi», lega questa modalità recitativa, che impone ai suoi attori, a una realtà antropologica del proprio paese, quando scrive: «I giappo­ nesi non manifestano le proprie emozioni con espressioni del volto acXI

—___________________________ Dario Tomasi

centuate o con grandi gesti. Se si accentuasse la recitazione in quel mo­ do, il risultato sarebbe spesso innaturale e stridente». Tuttavia, di tale recitazione minimale Ozu cerca echi anche altrove, e li trova nel cine­ ma americano classico, in particolare nell’opera di maestri come John Ford e William Wyler. Di Sfida infernale (1941) cita, come esempio di una recitazione che sa «trattenere», la scena in cui Henry Fonda, do­ po essere andato dal barbiere, «sta lì in piedi senza far nulla», prima, e poi, sedutosi, «appoggia i piedi sul palo e si dondola inclinando la se­ dia all’indietro tutto divertito». Di Piccole volpi (1941), invece, ricorda il momento in cui Bette Davis, vicino al marito morente, «prepara una tazza di tè, con l’aria indifferente, come se niente fosse», mentre «si sentono solo i rumori della teiera e delle tazze».

2. A proposito del primo piano.

Si è insistito su come, in un film, il «discorso» dell’attore sia sem­ pre mediato dal «discorso» del regista. Cosa molto evidente, ad esem­ pio, dall’uso che un cineasta può fare dei primi piani che per loro na­ tura danno molto risalto al lavoro fisiognomie© degli interpreti. Il pri­ mo piano cinematografico è, sin dalla sua origine, una soluzione di di­ scorso «forte», un evidente accento visivo, un momento in cui si vuo­ le dirigere con una certa «prepotenza» l’attenzione dello spettatore verso qualcosa di ben preciso. Il suo carattere intrusivo è alquanto lon­ tano dalla discrezione e dall’umiltà dello stile di Ozu, che, nei fatti, tende a stare dai suoi personaggi più distante di quanto stia la gran par­ te dei registi, occidentali e non. Raramente nei film di Ozu si vede un’inquadratura limitata all’ovale di un volto; di solito ci si ferma, più prudentemente, a un mezzo primo piano (dal petto in su). Nei suoi scritti, il regista ritorna più volte sulla questione dell’imma­ gine ravvicinata del volto. Ne indica le sue origini teatrali, nel kabuki, con l’effetto tsura akari (illuminazione facciale), riconoscendo tuttavia che nel cinema tale effetto è usato «in maniera molto più ardita», come per primo ha dimostrato il lavoro dell’americano Griffith. Proprio a partire da quest’ultimo «il primo piano, insieme con lo sviluppo tecno­ logico delle macchine da presa, cominciò a essere in grado di cogliere i sottili mutamenti delle espressioni del volto e il suo impiego diventò una delle “regole grammaticali” per mostrare i sentimenti al loro culmine». Una volta riconosciuto ciò, Ozu tuttavia ne prende subito le di­ stanze quando scrive: «Ci sono casi che, per evidenziare un sentimenXII

Il cinema dell’umiltà: «Ah sì?», «Eh già», «Sì, è proprio così»

to drammatico, richiedono un primo piano e altri che richiedono un campo lungo», per poi aggiungere: «Non penso che sia sempre effica­ ce usare il primo piano per enfatizzare una scena triste. A volte, un ec­ cesso di drammatizzazione può avere un effetto controproducente. Perciò, quando devo girare una scena davvero triste, credo che ripresa in campo lungo non sia invasiva e sia meno didascalica e quindi risul­ ti più incisiva». Anche per Fuso del primo piano, come per quello del­ la recitazione, Ozu privilegia così un rapporto discreto con la propria materia, in cui il «dire» - o se preferite il filmare - si avvicina più all’u­ mile forma del sussurro che a quella perentoria dell’urlo.

3. Per una forma umile: elogio dell'ellissi. Se si può parlare di umiltà della forma nel cinema di Ozu è proprio in conseguenza di questa logica del sussurro, in cui, a volte, il non detto è più importante del detto. Nei film del regista non è raro che eventi car­ dine di una narrazione, come un matrimonio o una morte, siano omes­ si. Nel suo cinema non sono tanto i fatti a contare, ma i sentimenti che essi suscitano in coloro che li vivono (e, attraverso di essi, quelli provo­ cati nello spettatore). Di qui l’importanza che si è riconosciuta nel suo lavoro alla figura retorica dell’ellissi, un’importanza di cui, ancora una volta, Ozu manifesta un’esplicita consapevolezza. L’ellissi, scrive, ha un ruolo fondamentale per far concentrare nel dettaglio l’attenzione de­ gli spettatori su un elemento, omettendone altri. Non è perciò una questio­ ne solo di apparenza ma di sostanza. La stessa cosa avviene nella pittura: se dipingo una parte in maniera poco definita, attrarrò ancor più l’attenzione nei dettagli su un’altra parte del dipinto. Si può proprio dire che il problema dell’ellissi nel cinema sia la chiave essenziale della costruzione drammatica del film stesso.

L’ellissi, così, allo stesso modo dello stile di recitazione che impo­ ne ai suoi attori e al parco uso del primo piano, diventa un aspetto es­ senziale di quell’economia formale così cara al cinema di Ozu. Un ci­ nema dove non conta tanto stare «sulle cose», ma piuttosto «fra» di es­ se. Un cinema che all’esplicito preferisce l’implicito, ai conflitti fra il bianco e il nero le sfumature del grigio, al perentorio del detto il gusto per l’alluso. Come scrive lo stesso cineasta, il problema è quello di «ri­ durre le componenti drammatiche e far sì che scena dopo scena, in ma­ niera impercettibile, si crei una sorta di suggestione che tocca le corde profonde della sensibilità estetica». Non si tratta di raccontare in mo­ do esaustivo qualcosa, xin

------------------------------------------- Dario Tomasi ma piuttosto mostrarne soltanto il settanta-ottanta per cento, lasciando quel che non si vede alla sensibilità estetica dello spettatore [...]. Detto in altre pa­ role, in un romanzo sarebbe una sfumatura tra le righe, in un’opera di pittura giapponese sarebbe l’uso estetico dello spazio vuoto; in ogni modo si tratta di non mostrare l’interazione fra i sentimenti nudi ma di far percepire le cose so­ lo per vaghi accenni.

Così quando c’è la necessità di girare una scena di pioggia, piutto­ sto che ricorrere alle solite immagini cliché della gente che cammina in città con l’ombrello, della pioggia che batte sui vetri delle macchine e schizza sull’asfalto delle strade, afferma Ozu, «vorrei creare un’inqua­ dratura che, mostrando solo la pioggia dalla finestra, fa immaginare in maniera semplice ma profonda anche la pioggia che cade sul mare o sulle montagne». Sarebbe possibile esprimere meglio il senso della propria poetica, del proprio gusto per un cinema che davvero aneli al tutto passando attraverso il poco, o quasi niente? Sì forse è possibile, come quando, ancora Ozu, ci dice che le storie che vorrebbe raccon­ tare dovrebbero essere davvero fatte di nulla, con un tono della narra­ zione del tipo: «Ah sì?», «Eh già», «Sì, è proprio così».

4. La consapevolezza del cinema e la sceneggiatura. Colpisce, in molti passaggi degli scritti di Ozu, il suo profondo senso del cinema, la coscienza di ciò che gli è proprio in contrasto con ciò che non lo è. Si vedano, a questo proposito, le sue osservazioni sul­ la sceneggiatura che sembrano anticipare, pur nella loro minore articolazione, quelle del Pasolini di Empirismo eretico. Convinto che il ci­ nema debba essere fatto «di ciò che è squisitamente cinematografico», da cui Ozu deriva una certa cautela nella prassi degli adattamenti da opere letterarie, il regista di Viaggio a Tokyo è certo che «una sceneg­ giatura deve essere “cinematografica” già fin dal suo contenuto»; che non la si può scrivere come si scrivesse un romanzo, con quella inuti­ le «fioritura di aggettivi», ma sempre tenendo conto di quello che è il suo scopo, ovvero il dover diventare un film, di essere, pasolinianamente, «una struttura che vuole essere un’altra struttura». Il cinema non solo è altra cosa dalla letteratura, ma anche dalla vi­ ta: uno stesso gesto che ha un certo significato nella realtà potrebbe as­ sumerne uno anche molto differente sullo schermo: Per accendere una sigaretta si strofina un fiammifero. Se il fiammifero non si accende subito, lo si strofina due-tre volte e si accende. È una cosa naturale che fa chiunque ma, nel cinema, se non si accende naturalmente la prima vol­

XIV

------------ Il cinema dell’umiltà: «Ah sì?», «Eh già», «Sì, è proprio così» ta, la ripetizione di quell’azione assume un significato particolare e diventa un problema. Potrebbe infatti venire interpretata come il segno di un turbamen­ to emotivo e quindi assume un significato diverso. Anche i dettagli non sono insignificanti.

5. Contro la grammatica. Come si è citato in precedenza, scrivendo del primo piano e del suo uso fattone da Griffith, Ozu vede in questa figura una sorta di «regola grammaticale», atta a «mostrare i sentimenti nel loro culmine». Più vol­ te, nei suoi testi, ricorre l’idea di una «grammatica del cinema», intesa come un consueto insieme di norme espressive cui un regista può fare ricorso per rappresentare una certa situazione. Possiamo pensare a tale «grammatica», così come Ozu la intende, come a una sorta di sistema normativo dominante: un sistema cui il regista non ha potuto fare a me­ no di opporsi lungo tutta la sua carriera. Già nel 1947, scriveva: Anche nel cinema ci si comporta dando per scontato che esistano delle re­ gole come nella scrittura. Per comodità chiameremo queste regole «gramma­ tica del cinema», ma io non credo che nel cinema esista una grammatica. Ciò che viene chiamata grammatica in realtà non lo è in senso stretto e mi sento di dire che non ci si deve preoccupare di attenersi a essa.

Dodici anni dopo, nel 1959, quando ha occasione di ritornare sul­ l’argomento, afferma: «Non penso ci sia una grammatica di come si fanno i film», e poi ancora: «Voglio sottolineare che nel cinema non esiste una grammatica». Anticipando così in modo intuitivo le considerazioni di Metz sul rapporto tra lingua e linguaggio nel cinema, Ozu attacca l’idea di una «grammatica» e, soprattutto, se ne dichiara estraneo. Un’estraneità che non è assolutamente frutto di ignoranza, come testimoniano la sua passione cinefila e la sua profonda conoscenza della storia del cinema. Rievocando gli anni della sua gioventù, Ozu infatti scrive: Studiavo come giravano i registi più anziani senza perdermi un solo parti­ colare. È così che trovai il mio modo di mettere in scena e riprendere, facendo dei passi avanti senza imitare acriticamente nessuno. Sarò testardo ma non c’è rimedio, sono fatto così. Per questo non ho maestri. Ce l’ho fatta contando so­ lo su me stesso.

Conoscenza del cinema e ricerca espressiva sono due attitudini fondamentali del lavoro di Ozu, che i suoi film, così come i suoi scrit­ ti, ampiamente testimoniano. Si vedano ad esempio le osservazioni sul modo di riprendere una scena di conversazione e sul corretto uso dei

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_____________________________Dario Tomasi_____________________________

raccordi di direzione di sguardo. Come si sa, in questi casi, il cinema classico occidentale è sempre attento nel far sì che, attraverso un cor­ retto posizionamento della macchina da presa nelle diverse inquadra­ ture, due personaggi, parlandosi, guardino l’uno verso destra e l’altro verso sinistra, dando così allo spettatore l’impressione di osservarsi re­ ciprocamente. Dopo aver descritto questa consuetudine, Ozu afferma la sua deliberata scelta di non tenerne conto, di non preoccuparsene «minimamente». Molte delle sue scene di conversazione sono costrui­ te in modo tale che gli sguardi dei due interlocutori siano diretti verso un medesimo punto, a volte leggermente a destra, altre un po’ a sini­ stra, non di rado davanti a sé, quasi rivolgendosi allo spettatore, senza che questi sguardi si incrocino affatto. Atsuta Yùharu, il direttore del­ la fotografia più caro al regista, sostiene che questa scelta fosse dovuta al principio armonico che fonda tutto il cinema di Ozu: un principio per cui, anche i suoi personaggi, conversando, non guardano più l’uno contro l’altro, come accade nel cinema tradizionale, bensì in un'identi­ ca direzione, a sottolineare che ciò che conta non è il conflitto ma la ri­ cerca di un punto in comune. Il deliberato rifiuto di seguire i modi della tradizionale «grammati­ ca del cinema» spinge così il regista a modalità espressive sperimentali che di fatto rendono del tutto particolare il suo lavoro, e la visione che di esso ne consegue, come lo stesso Ozu, del resto, dichiara con la massima consapevolezza: «Probabilmente, sono l’unico a riprendere in questo modo in tutto il Giappone, o forse al mondo». 6. Sensibilità e Nuovo Cinema.

La tendenza iconoclastica del regista, questa sua risoluta e determi­ nata vocazione a una personale sperimentazione espressiva, è un aspet­ to importante di Ozu, uomo e regista. Un aspetto che ne modifica un po’ l’immagine di mitezza che si tende spesso ad attribuirgli, e lo spin­ ge, di fatto, anche a un atteggiamento di critica nei confronti dell’in­ dustria cinematografica giapponese, così come di apertura verso la sta­ gione del Nuovo Cinema, di cui peraltro, a causa della sua morte pre­ matura, vive solo l’iniziale manifestarsi. Convinto che più della «grammatica» al cinema conti la «sensibi­ lità», Ozu deplora la diffusa pratica degli studi giapponesi di costringe­ re i propri aspiranti registi al ruolo di assistenti per un lungo periodo: I giovani che hanno finito gli scudi [...J hanno una sensibilità cinemato­ grafica molto viva, poi entrano negli studi di produzione, continuano a fare la

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vita da assistenti registi anche per dieci anni e finiscono per logorare questa sensibilità. Quando poi riescono finalmente a diventare registi veri e propri, sono ormai assimilati all’ambiente circostante, hanno perso la fiducia nella propria sensibilità e cercano il sostegno in qualche regola della messa in scena. Seguire la teoria della grammatica come regola aurea diventa così una forma di sicurezza.

La conclusione non può che essere una: «Io ho definito un mio sti­ le, ma non penso ci sia una grammatica di come si fanno i film. Perciò, ben venga la Nùberu bag* [nouvelle vague]. Forza, nuovi registi ori­ ginali, venite fuori!».

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SCRITTI SUL CINEMA

Introduzione di Franco Picollo e Hiromi Yagi

Yasujiro Ozu è considerato spesso il più giapponese dei registi giapponesi. La scarsità o l’assenza di movimenti di macchina così co­ me delle dissolvenze, la posizione bassa della macchina da presa, mol­ te volte quasi ad altezza del piano terra, la teatralità distaccata imposta alla recitazione, l’apparente ripetitività delle storie, l’uso ricorrente dei parallelismi, il rigore formale costruito sul trattenere, sul non mostra­ re tutto e, più in generale, la serena e dolce sensibilità per la transito­ rietà delle cose - in una parola, le caratteristiche dei suoi film, in par­ ticolare della maturità - hanno sostanziato una lettura della sua opera soprattutto come una rappresentazione emblematica dell’estetica e dello spirito giapponesi. Gli studi su Ozu hanno avuto però una svolta e un arricchimento di prospettive con il lavoro di Tanaka Masasumi (1946-2011), che a partire dalla metà degli anni ottanta ha raccolto e reso disponibili per la prima volta i diari e gli scritti di Ozu1 e, parallelamente, sulla base dell’approfondita conoscenza dei materiali raccolti, ha pubblicato una serie di volumi ricchi di osservazioni acute e innovative che offrono notevoli suggestioni1 2. Tanaka è stato di fatto il primo a fornirci gli strumenti per studiare e comprendere Ozu anche in relazione agli eventi storici del suo tempo, consentendo di inscrivere le analisi basa­ 1 Ozu Yasujiro zenhatsugen 1933-1945 [Ozu Yasujiro. Tutti gli interventi 1933-1945], Tairyùsha, Tokyo 1987; Ozu Yasujiro sengo goroku shùsei Shòwa 21 (1946) nen - Shòwa 38 (1963) nen [Ozu Yasujiro. Raccolta delle cose dette nel dopoguerra, 1946-1963], Film Art, Tokyo 1989; Zennikki Ozu Yasujiro [Ozu Yasujiro. Tutti i diari], Film Art, Tokyo 1993; Ozu Yasujiro * Tòkyo monogatari» hoka [Ozu Yasujiro. Tòkyo monogatari e altri scritti], Misuzu Shobò, Tokyo 2001. 2 Ozu Yasujiro no hò e: modanizumu eigashiron [In direzione di Ozu Yasujiro: moder­ nismo. Uno studio di storia del cinema], Misuzu Shobó, Tokyo 2002; Ozu Yasujiro shùyù [Intorno a Ozu Yasujiro], Bungei Shunjù, Tokyo 2003; Ozu Yasujiro to senso [Ozu Yasuji­ ro e la guerra], Misuzu Shobò, Tokyo 2005; Ozu arikk shirarezaru Ozu Yasujiro [C’era Ozu. Ozu Yasujiro sconosciuto], Seiryù Shuppan, Tokyo 2013.

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Franco Picollo e Hiromi Yagi---------------------------------

te sulle specificità stilistiche della sua opera in una visione più ampia che tiene conto al contempo sia della vicenda artistica e personale sia del contesto storico e culturale. In questo nuovo approccio critico, gli scritti di Ozu hanno un ruolo molto importante. A Ozu non piaceva scrivere. «Scrivere mi pesa, in particolare non mi piace scrivere qualcosa per la pubblicazio­ ne», diceva. Tanaka, però, con pazienza certosina, ha letteralmente se­ tacciato nel corso degli anni quotidiani, riviste, pubblicazioni occa­ sionali e ha scovato e pubblicato diversi materiali, di cui molti inedi­ ti, mettendo a disposizione della comunità degli studiosi e degli ap­ passionati, se non tutto, la maggior parte di ciò che Ozu ha scritto pubblicamente e privatamente. Il risultato è un fenomeno molto raro, se non unico, nel mondo del cinema giapponese, più vicino alle edi­ zioni critiche «definitive» che vengono realizzate per i grandi autori della letteratura, dove ogni sorta di materiali, dai romanzi maggiori agli appunti volanti sul retro di un biglietto, viene raccolta, commen­ tata e presentata in un quadro organico che rende conto della perso­ nalità e delle opere dell’artista. Il presente volume deve molto allo straordinario lavoro di Tanaka e consiste in una selezione degli scritti di Ozu e delle interviste a lui fatte nell’arco di circa trent’anni, dal 1931 al 1962. Il criterio adottato è stato quello di privilegiare i testi che consentono al lettore italiano di meglio avvicinarsi al cinema di Ozu, alla sua personalità di regista e, in ultima istanza, alla sua umanità. Ozu non era un accademico né uno studioso ma piuttosto un uo­ mo di straordinaria sensibilità umana e culturale, dotato di un raffina­ to senso estetico. I suoi scritti sono pervasi da una sincerità genuina e da una giocosità intrinseca, che si esprimono in un gusto ricorrente per la contraddizione e il paradosso. Si percepisce, durante la lettura, un le­ game indissolubile tra la sua persona e i suoi film. Qualunque sua esperienza, qualunque suo pensiero, in qualche modo partono dal ci­ nema e tornano al cinema. «Per me - spiega - il lavoro è una passione divorante. Le altre cose possono anche non andare, ma il lavoro non si tocca». E anche in virtù di questa sua unicità del sentire nella vita e nel lavoro che è difficile, salvo forse per gli scritti dal fronte, operare una suddivisione sistematica dei vari brani. Peraltro, la mera presentazione in ordine cronologico ne renderebbe poco agevole la consultazione a causa dell’eterogeneità dei temi affrontati e poi ripresi, talvolta anche a distanza di molti anni. Si è quindi preferito raggruppare in questa oc­ casione i vari testi in maniera funzionale in poche ampie parti. xx

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La parte I, «Chiacchiere sul mio mestiere », raccoglie considerazioni che Ozu fa su di sé e sul suo cinema. I ricordi degli esordi (Un piatto di riso con curry; Chiacchiere sul mio mestiere; Io, regista in miniatura; Quel giorno, quelTepoca) sono trascinanti nel loro renderci partecipi, seppur per brevi cenni, dell’atmosfera culturale degli anni venti in Giappone e della sua passione per il cinema prima di diventare regista. Poche parole sono più coinvolgenti di molti commenti: Quando aprivo la porta d’ingresso di una sala cinematografica venivo inve­ stito dall’aria calda e soffocante della gente. Una volta le sale non si chiamavano così ma «baracconi delle immagini in movimento» e mi veniva mal di testa già dopo dieci minuti che ero immerso in quell’aria viziata. Ciononostante, quando da una sala cinematografica mi giungeva il suono della piccola banda che accom­ pagnava il film dal vivo, non potevo passarci davanti senza entrare. Quella stra­ na cosa chiamata cinema aveva su di me una sorta di misterioso potere magico.

L’approccio di Ozu è sempre soggettivo, qualunque sia l’argomen­ to che affronta. E qualunque argomento ci consente di cogliere una sfumatura in più della sua personalità, che parli di cosa significhi esse­ re regista o di come intenda la sceneggiatura e la recitazione, o addirit­ tura di eventi della sua vita privata. In questo senso, non stonano, e an­ zi paiono trovare sintonica collocazione, brani come È qua Narayama, commovente dichiarazione d’amore «non dichiarata» per la ma­ dre con cui ha vissuto tutta la vita, oppure Che cosa ho dimenticato?, dove, parlando con leggerezza autoironica del suo essere scapolo, svi­ luppa considerazioni sulla necessità o meno di vivere l’esperienza di­ retta di un fenomeno per poterlo rappresentare in un film. Riflessioni più «teoriche» si trovano nei due scritti contro il con­ cetto di «grammatica del cinema» (La grammatica del cinema e Nel ci­ nema non c'è «grammatica»). Ozu spende molte pagine per argomen­ tare che campo e controcampo, dissolvenze in apertura e in chiusura, dissolvenze incrociate, primi piani per enfatizzare le emozioni, in bre­ ve le presunte regole di ripresa del cinema classico, non sono vere re­ gole cui ci si deve attenere, ma semplici convenzioni o caratteristiche tecniche della macchina da presa che in più di un caso limitano anzi­ ché favorire la creatività. «Quando giro un film, non penso alle regole del cinema, così come un romanziere quando scrive non pensa alla grammatica. Esiste la sensibilità, non la grammatica». La parte il, «Qualche parola sui miei film», raccoglie in particola­ re tre interviste. La prima affronta soprattutto i rapporti tra cinema e fotografia; la seconda si concentra, fra altre cose, sui film Fratelli e so­ relle della famiglia Toda e Cera un padre; la terza su II tempo del rac­ colto del grano e Tarda primavera. Oltre all’indubbio interesse di tan­ XXI

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te osservazioni e spigolature su questi film, ciò che attrae è ancora una volta l’approccio a tutto tondo di Ozu regista e uomo e, in questo ca­ so, l’interazione con i suoi interlocutori. Ozu assegnava molta importanza alla «continuità», intesa come il programmare preventivamente la disposizione sulla scena di pareti, ar­ redi, oggetti, costumi, luci principali e secondarie, filtri e attori in mo­ do che, anche se le inquadrature non vengono riprese in successione cronologica, la continuità temporale e quella logica, in sostanza l’o­ mogeneità della scena, rimangano inalterate. Curando personalmente ogni minimo dettaglio al punto che le riprese diventavano quasi la pu­ ra messa in opera di quanto pianificato, Ozu ha fatto della continuità uno dei pilastri su cui ha edificato la perfezione formale del suo cine­ ma. Nella prima intervista, Cinema e fotografia, egli sviluppa interes­ santi argomentazioni sul concetto di continuità cinematografica, privi­ legiando in questo caso le componenti narrative più che quelle tecni­ che. Le articolate spiegazioni che fornisce all’intervistatore di come sia fondamentale assicurare il collegamento tra le diverse inquadrature per poter creare l’atmosfera che si vuole comunicare, introducono prezio­ si rilievi sulla differenza fra film di finzione e documentari, così come fra cinema e fotografia, e ci mostrano una delle componenti di quel tocco speciale che hanno i suoi film. A chiusura di questa parte è collocata una preziosa raccolta, realiz­ zata dalla rivista «Kinema Junpò», di brevi commenti di Ozu stesso su tutti i film che ha realizzato. In alcuni casi il commento è davvero mi­ nimo, in altri, invece, è possibile rinvenire spunti stimolanti. Ozu partì per la guerra in Cina nel settembre 1937 (la guerra sinogiapponese era iniziata quell’anno), dove trascorse due anni al fronte e tornò in Giappone nel luglio del 1939. Successivamente, quando il conflitto aveva assunto una dimensione mondiale e il nemico princi­ pale erano ormai le truppe americane, nel giugno 1943 partì per Singa­ pore con l’incarico meno drammatico di girare un film (mai realizza­ to) per l’ufficio stampa dell’esercito. La parte ni, «Vado un attimo in guerra e tomo», intervalla lettere dal fronte cinese, spesso indirizzate a vecchi compagni di scuola, con articoli e brani di interviste dello stes­ so periodo o di quando nel 1939 Ozu tornò per la prima volta a casa durante la guerra, in modo da offrire al lettore la corretta sequenza temporale delle sue esperienze e dei suoi pensieri in quel drammatico periodo. Sono scritti che, pur con qualche ripetizione, anzi anche at­ traverso la ripetizione (un paio di lettere e alcuni passaggi qua e là so­ no molto simili e sono stati lasciati volontariamente), offrono uno XXII

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spaccato vivido del suo sentire durante la guerra e su questa, e consen­ tono una visione inedita del suo carattere. Pur essendo materiali fram­ mentari, le lettere dalla Cina come soldato dell’esercito imperiale giap­ ponese gettano nuova luce sulla vicenda umana di Ozu e sono utili an­ che per considerare i successivi sviluppi della sua opera. Ozu speri­ mentò direttamente gli orrori della guerra come membro delle truppe di invasione, senza alcuna agevolazione particolare per il suo status di regista affermato, e tali esperienze, di cui parlò sempre pochissimo, contribuirono anch’esse alla maturazione del rigore formale dei suoi film dagli anni quaranta in avanti. Sebbene in questi scritti i temi principali siano la guerra e le atro­ cità che Ozu vide e visse in prima persona, l’amore per il cinema fa ca­ polino qua e là con accenni ai film del periodo bellico e al proposito, mai realizzato, di fare un film sulla guerra. Guerra e amore per il cine­ ma si incontrano tristemente nei riferimenti alla morte di Yamanaka Sadao, anche lui impegnato sul fronte cinese e scomparso il 17 settem­ bre 1938 all’età di soli ventinove anni. Ozu era molto amico di Yama­ naka - allora genio nascente del cinema giapponese - e Un appunto sull'amaranto tricolore, lo scritto di Ozu in occasione del primo anni­ versario della morte di Yamanaka, ha un’intensità sofferta che ancora oggi colpisce. Anche in questo caso, Ozu è Ozu, e parla di tante cose che non possono essere prese separatamente: di sé, di Yamanaka, del­ la guerra, del cinema e dei film, il tutto legato da quel collante indisso­ lubile che è la sua stessa umanità. La parte IV, «Un'arte ricca di varietà», raccoglie scritti che potrem­ mo definire rivolti all’esterno, in quanto riflessioni sul cinema giappo­ nese in diversi momenti storici, su alcuni film rilevanti al tempo della loro uscita o addirittura su singoli attori particolarmente empatici con la sensibilità cinematografica di Ozu o che costituirono all’epoca un fenomeno di massa. Non mancano spunti contro lo star system e la critica o rilievi sulla contrapposizione tra cinema commerciale e cine­ ma artistico, ma in tutti i casi i suoi ragionamenti, a voler ben vedere, si incentrano soprattutto su un punto a lui molto caro: la qualità del rapporto tra le persone. E la ricerca di armonia nei rapporti umani, il rischio della loro di­ sgregazione e l’ineluttabilità dei cambiamenti ciò che sostanzia il tes­ suto narrativo delle tante storie «non storie» da lui messe in scena: non solo, ovviamente, la famiglia, soggetto centrale della sua opera, ma an­ che le sue principali estensioni, i legami fra vecchi compagni di scuola, colleghi di lavoro, vicini di casa. Un tema, questo, che potrebbe essere XXIII

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il sottotitolo non scritto della maggior parte dei suoi film, in partico­ lare quelli della maturità formale del dopoguerra, e che costituisce un elemento fondante, oltre che della sua poetica, del suo stesso modo di fare cinema. Ozu è molto esplicito: Quando impiego un attore in un film di finzione, se quell’attore è molto bravo a recitare ma umanamente non mi convince, non mi trovo bene. Se non mi piace come persona, non mi viene voglia di lavorare con lui e addirittura non mi interessa fare quel lavoro. Invece, se nella recitazione ha qualche di­ fetto ma è un’ottima persona, allora mi sento stimolato a lavorare con lui. [...] Voglio lavorare con persone con cui mi intendo naturalmente senza riserve.

Ed è questa qualità del rapporto fra persone la materia con cui ha costruito quel sodalizio unico e invariato nel tempo con il suo staff, grazie al quale ha realizzato i capolavori che ci ha consegnato. La presente introduzione non ha né il compito né l’ambizione di fornire un’interpretazione critica del cinema di Ozu. A titolo di chiu­ sura ci piace soltanto citare alcune sue parole che paiono particolar­ mente emblematiche della sua opera. «Far sentire l’esistenza di ciò che chiamiamo vita senza utilizzare avvenimenti particolari. Questo è ciò che ho provato in tutti i modi a mettere in scena».

Desideriamo ringraziare la casa editrice Nihon Tosho Center di Tokyo, il cui volume composto da una serie di scritti di Ozu, dal titolo Bokuwa tdfuyadakara tòfushika tsukuranai^ è stato di notevole utilità come riferimento per il presente lavoro. Si ringraziano anche la casa produttrice Shochiku e la famiglia del foto­ grafo Obi Takehiko per la gentile autorizzazione a utilizzare alcune fotogra­ fie. Un ringraziamento sentito va inoltre alla famiglia Ozu per la disponibiltà manifestata. Siamo profondamente grati a: il National Film Center di Tokyo, in par­ ticolare Mariko Sasanuma, per la straordinaria disponibilità e l’incommensu­ rabile aiuto nel reperimento di varie fonti e informazioni; Hiroshi Yoshida, per la preziosa identificazione dei nomi di città e villaggi cinesi attraversati da Ozu durante la guerra sino-giapponese; il personale della biblioteca Sho­ chiku Otani, per la gentilezza e la disponibilità; Federico Madaro, per l’in­ terpretazione di alcuni versi poetici cinesi; Grazia Paganelli, per le pazienti e accurate riletture. Marianna Cozzi, della casa editrice Donzelli, ci ha assistiti con rara sensi­ bilità e competenza nella preparazione di questo volume.

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Scritti sul cinema

Per non appesantire la lettura, nei brani presentati di seguito nati come in­ terviste o interventi giornalistici sono state omesse alcune brevi frasi descrit­ tive o introduttive a opera dell’intervistatore o di un redattore anonimo del­ l’epoca. Lo stesso dicasi per i lunghi titoli e sottotitoli di articoli comparsi sui quotidiani. I film citati nel testo vengono indicati, salvo casi particolari, la prima vol­ ta con il titolo italiano, se distribuiti in Italia, seguito da quello originale fra parentesi tonde; dalla seconda volta soltanto con il titolo italiano. Quando non risulta siano stati distribuiti, la prima volta vengono indicati con il titolo originale seguito dalla traduzione letterale tra parentesi quadre; dalla seconda volta soltanto con il titolo originale. Per i nomi di persona giapponesi si segue la prassi giapponese di indicare prima il cognome e poi il nome. Nelle citazioni bibliografiche si segue invece la prassi intemazionale di indicare prima il nome e poi il cognome. In alcuni casi, più che altro nomi di grandi città, istituzioni, aziende, si se­ gue la prassi consolidata in Occidente di non evidenziare le vocali lunghe. Si avrà quindi Tokyo, Kyoto, Osaka, Shochiku, Toho ecc. I testi fra parentesi quadra sono sempre dei curatori.

I.

«Chiacchiere sul mio mestiere»

SCRITTI SUL CINEMA

Un piatto di riso con curry*

Al giorno d’oggi, per un giovane è difficile riuscire a diventare un regista vero e proprio, ma io sono stato davvero fortunato perché ce l’ho fatta grazie a un piatto di riso con curry. All’epoca degli studi ci­ nematografici di Kamata’, ero assistente del regista Okubo Tadamoto2. Si comportava come un dio in terra e fare l’assistente sotto di lui era davvero dura, dovevo fare proprio di tutto, al punto che non c’e­ ra neanche il tempo di fumare una sigaretta. Avevo sempre fame. L’u­ nico piacere era mangiare. Un giorno, le riprese andavano per le lunghe e anche quando arrivò l’ora di cena non accennavano a finire. Ero ormai stanco e affamato. Ciononostante, Okubo, trovando sempre nuove motivazioni, non si fermava. Dentro di me mi dicevo che non era poi un film così ecce­ zionale da dover lavorare anche di notte ed ero sempre più irritato. Finalmente le riprese finirono e arrivò il momento di mangiare. Al­ la mensa si faceva la fila e poiché chi prima arrivava prima mangiava, mi affrettai a prendere posto. I piatti fumanti di riso con curry venivano distribuiti seguendo l’ordine dal primo posto occupato. Il piacevole profumo del curry mi arrivava fino alla pancia. Mentre con l’acquolina in bocca mi dicevo ’ Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», 1950,77. 1 Nome della zona nell’area metropolitana di Tokyo dove si trovavano i primi studi del­ la casa di produzione Shochiku, aperti nel 1920 con la fondazione della società e poi chiusi nel 1936, che stabilirono una sorta di standard organizzativo e stilistico per il cinema giap­ ponese. Sul ruolo centrale di Kamata nella costruzione del cinema giapponese classico, sia per quanto riguarda le strutture industriali, sia per l’elaborazione di uno stile della moder­ nità, cfr. M. Wada-Marciano, Nippon Modem. Japanese Cinema of the 1920s and 1930s, University of Hawaii Press, Honolulu 2008, in particolare pp. 4-5,111-29. 3 Okubo Tadamoto (1894-?), regista specializzato in cosiddetti nansensumono (film nonsense), un genere tipicamente giapponese di commedia nato nella seconda metà degù an­ ni venti. Erano film spesso senza costrutto e con il solo scopo dell’intrattenimento, fatti di scene farsesche, gag grottesche, battute iterate, scherzi volgari e, compatibilmente con la mo­ rale dell’epoca, sfumature erotiche.

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che fra poco sarebbe toccato a me, arrivò un regista e si sedette. Il piat­ to che doveva toccare a me venne messo davanti a lui. Furibondo, esplosi: «Ehi! Rispettate l’ordine!». «L’assistente viene dopo», disse una voce. «Cosa?!» e senza neanche ancora capire chi avesse parlato, mi alzai in piedi pronto per fare a pugni ma qualcuno mi trattenne. Io però continuai a urlare «Portatemi il piatto! Rispettate l’ordine!». Co­ munque, non si può certo dire che non mangiai un piatto abbondante di curry. Il mio comportamento venne riferito al direttore degli studi di al­ lora, Kido Shirò3. Non so se abbia pensato «Dev’essere un tipo inte­ ressante» ma il mese successivo mi disse di provare a fare un film, co­ sì cominciai a girare Zange no yaiba [La spada della penitenza, 1927], un jidaigeki* in sei rulli5. Non venni apprezzato per la mia intelligenza o la mia bravura. Fu solo grazie a un piatto di riso con curry. Doveva essere più o meno la primavera del 19276.

’ Kido Shiró(l894-1977), produttore cinematografico della Shochiku, è stato uno dei più importanti tycoon del cinema giapponese di tutti i tempi. È considerato il padre del cosid­ detto director system. Nel corso di cinquantanni, sotto la sua guida paternalistica amorevo­ le e ferrea, trovarono spazio e raggiunsero il successo molti registi che avrebbero segnato la storia del cinema. Per una valutazione aggiornata della figura di Kido, cfr. M. Schilling, Shi­ ro Kido: Cinema Shogun, Amazon Kindle, 2012. ‘ Il jidaigeki, la cui traduzione letterale può essere «film d’epoca» o «film in costume», è uno dei generi che attraversano e connotano in forme diverse, a seconda dei periodi, la sto­ ria del cinema giapponese dalle origini a oggi. In linea di massima, il termine indica un tipo di film d’azione ambientato quasi sempre nell’epoca Edo (1603-1868), dove i protagonisti sono samurai che combattono per i più svariati motivi c ideali. Negli anni venti e trenta, 3uando scrive Ozu, il jidaigeki era soprattutto un genere di puro intrattenimento con forti erivazioni tematiche e recitative dal teatro kabuki e incentrato sui combattimenti con la spada (da cui il nome del sottogenere chanbara, un termine onomatopeico che evoca il clan­ gore delle spade negli scontri). 5 Nel cinema, la lunghezza standard del rullo di pellicola di un film a 35 mm è di 1000 piedi (305 m) e dura, per un film sonoro, circa 11 minuti. 6 Secondo quanto riporta Donald Richie (che cita a sua vola T. Satò, Ozu Yasujirò no geijutsu {L’arte di Ozu Yasujirò], Asahi Shinbusha, Tokyo 1971), il regista che «rubò» il po­ sto a Ozu era Ushihara Kiyohiko e la reazione di Ozu fu di schiaffeggiare il cameriere che gli disse di aspettare visto che Ushihara era un regista mentre lui no. Cfr. D. Richie, Ozu, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1974, p. 202.

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SCRITTI SUL CINEMA

Chiacchiere sul mio mestiere

Sarà forse perché quello del regista cinematografico sembra un la­ voro interessante e con cui si guadagna bene, ma spesso anche da me viene qualcuno a dirmi: «Vorrei fare il regista». È vero che anch’io ho preso questa strada perché mi piaceva e quindi non posso dire niente agli altri ma, sia che lo si faccia per divertirsi, sia che lo si faccia per guadagnare, è certo che in questo lavoro per arrivare a qualcosa biso­ gna avere molta pazienza e fortuna. Già riuscire a entrare in una casa di produzione cinematografica non è per niente facile, poi, una volta entrati, è del tutto normale passare dieci o anche quindici anni a fare la vita dell’assistente* e malgrado tutto ciò, fin che uno non prova, non sa neanche se ce la farà o no. Ecco perché è così complicato. Le probabilità di diventare regista mi sa che sono minori di quelle di riuscire ad aprire uno studio medico privato dopo gli studi. Agli studenti che, pur sapendo benissimo queste cose, mi chiedono: «Cosa bisogna studiare per diventare regista?», io rispondo sempre: «Prima di tutto, studiate bene quello che dovete studiare. La preparazione da regista la farete dopo». A essere sincero, neanche a me è ben chiaro che cosa si debba stu­ diare per diventare registi. Sicuramente bisogna leggere molti libri e prima ancora non si possono non conoscere la società e le cose della vita, ma è anche necessario avere delle nozioni su particolari mestieri. Nel mio caso, mi presentai per fare il regista, ma siccome la sezione ’ Originariamente pubblicato in «Tòkyo Shinbun», 5, 12, 19,26 dicembre 1952. 1 Nel sistema produttivo del cinema giapponese era normale passare molti anni come as­ sistente prima di diventare regista. Nei primi periodi, le promozioni erano relativamente ra­ pide. Mizoguchi fece l’assistente due anni prima di diventare regista, Gosho tre, Ozu quat­ tro. Con lo sviluppo dell’industria cinematografica, i tempi di apprendistato si allungarono e negli anni cinquanta erano in media di quindici anni. Cfr. J. L. Anderson - D. Richie, The Japanese Film. Art and Industry (expanded edition), Princeton University Press, Princeton 1982, p. 348.

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registi era al completo, entrai nella sezione operatori e anche il fatto di aver iniziato dal livello di assistente operatore è stato un addestra­ mento che, contrariamente a quanto si possa pensare, mi è servito molto. Era l’epoca del cinema muto, ovviamente, e allora uno dei la­ vori che toccavano spesso agli assistenti era quello di sistemare le pel­ licole. Anni dopo, quell’esperienza mi tornò estremamente utile. In altre parole, facevo quello che oggi è il lavoro di montaggio del gira­ to. A quell’epoca non c’erano gli addetti specializzati che lo fanno se­ guendo la sceneggiatura e a noi arrivavano le pellicole stampate diret­ tamente dal negativo solo nella quantità che occorreva per le sale. Le tagliavamo e le univamo accuratamente. Bisognava sbrigarsi per la prima visione e una persona da sola non ce la faceva. Gli assistenti si dividevano quindi il lavoro, ma siccome io potevo almeno occuparmi di un film intero, mi regolavo a mio piacimento, come mescolare ri­ prese lunghe e flashback oppure provare a cambiare la posizione del­ le didascalie. Per questi motivi, poteva anche succedere che la copia numero uno di un film avesse ottomila fotogrammi e la copia numero tre solo sei­ mila. Per quei tempi andava bene così. È grazie a quel periodo se ho imparato rapidamente come si possano modificare la struttura di un film e il risultato complessivo in base ai tagli che si fanno. Inoltre, poiché tutti sapevano che volevo comunque diventare re­ gista, pur appartenendo alla sezione degli operatori, venivo tenuto di riserva. Proprio per questo fatto, mi trovavo nella fortunata condi­ zione di avere sia dei momenti liberi, sia la comodità di poter osser­ vare il lavoro di regista da vicino. Lo stipendio, però, era basso. Ven­ ticinque yen al mese2. Per quanto a quei tempi vivere costasse poco, con quei soldi non riuscivo neanche a pagarmi le sigarette. Ma la vita riserva sempre delle opportunità e, oltre al lavoro di montaggio, tut­ te le sere c’era qualche troupe che girava, per cui se gironzolavo dalle loro parti era facile trovare qualcuno che mi dicesse: «Ehi, dacci una mano!». Così potevo farmi pagare lo straordinario notturno e arriva­ re a quaranta-quarantacinque yen. Con quella cifra riuscivo tutto sommato a cavarmela. 2 L’operazione di conversione valutaria e attualizzazione di un importo monetario che si fa di solito, in questo caso perde di rilevanza per l’eccessiva diversità dello scenario economico-sociale. A titolo puramente indicativo, si può citare che nel 1926-27 il primo stipen­ dio mensile di un impiegato laureato era in media circa 75 yen e quello di un diplomato 55 yen, mentre un biglietto del cinema costava da 70 centesimi a 1,50 yen e una birra (633 mi) 23 centesimi. Cfr. J. Iwasaki, Bukka no sesò 100 nen [100 anni di società attraverso i prezzi), Yomiuri Shin bunsha, Tokyo 1982, pp. 60-5.

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Chiacchiere sul mio mestiere

In questo modo, acquisii una certa dimestichezza con l’ambiente degli studi, poi venni chiamato a fare il servizio militare per un anno3 e quando tornai potei finalmente passare alla sezione registi. All’inizio feci l’assistente del regista Okubo Tadamoto, ora ritiratosi dalle scene. Eravamo in tre: io, che naturalmente ero l’ultimo arrivato, Saitò To­ rajirò4, che era il primo assistente, e Sasaki Keisuke'. Okubo era uno specialista di commedie e se è naturale che dalla sua scuola sia venuto fuori Saitò Torajirò, potrà sembrare un po’ strano che sia uscito uno come me. In realtà, anch’io all’inizio feci parecchie commedie. Per esempio, Nydbd funshitsu [Moglie smarrita, 1928], Hikkoshifùfu [Una coppia in movimento, 1928], Nikutaibi [Bellezza del corpo, 1928], Takara no yama [La montagna del tesoro, 1929], Tokkan kozò [Un monello incontenibile, 1929] sono alcuni film di questo tipo che ho fatto tra il 1928 e il 1929. Tornando al discorso di prima, solo ora capisco che il periodo in cui lavorai con Okubo fu un bel periodo. Capitava spesso, infatti, che lui non ci fosse perché aveva mal di pancia o sparisse dicendoci: «Con­ tinuate voi». In sua assenza dirigevamo noi assistenti, discutendone tutti insieme. Grazie a questo potei fare concretamente il lavoro di re­ gista fin dall’epoca in cui ero assistente. In quel periodo cominciai anche a scrivere sceneggiature. Era un’al­ tra delle conseguenze dei ritmi frenetici dell’epoca del cinema muto. Poiché ogni settimana si doveva fare un film di soggetto contempora­ neo (gendaigekib un jidaigeki e talvolta anche qualche comica breve, non solo, ovviamente, gli sceneggiatori, ma spesso anche i registi do­ vevano tirar fuori qualche buona idea per la trama e scrivere una sce­ neggiatura. Così, con Òkubo che ci incalzava dicendoci: «Non avete qualche spunto?» e attratti dal fatto che potevamo guadagnare qualco­ sa in più, scrivemmo varie sceneggiature, sempre consultandoci a vi­ cenda. Anche questa esperienza mi tornò molto utile anni dopo. Il livello culturale degli spettatori dei film giapponesi di quell’epo­ ca era molto basso e di conseguenza le sceneggiature dovevano neces’ Ozu venne chiamato nelle riserve alla fine del 1924 e tornò al lavoro alla fine del 1925, dopo aver trascorso quasi l’intero periodo all’ospedale militare pur senza aver avuto, per for­ tuna, nulla di serio. Cfr. Richie, Ozw cit., p. 199. 4 Saitó Torajirò (1905-1982), regista, soprannominato «il dio della commedia». Ne girò oltre duecento, alcune con i più famosi comici dei vari periodi, e contribuì all’evoluzione del genere. 5 Sasaki Keisuke (1901-1967) trascorse tutta la sua carriera alla Shochiku, dove realizzò cinquantasette film, principalmente di donne, genere per cui era noto. Il suo film La luna sul­ le rovine (Kòjò no tsuki, 1937), fu il primo film giapponese a partecipare alla Mostra Inter­ nazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

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sanamente adeguarvisi. Tuttavia, per quanto sia di basso livello, un film deve avere comunque una struttura, una trama e una descrizione dei personaggi che stiano in piedi, è questo che fa la differenza. Così, anch’io, un po’ alla volta, cominciai a scrivere. Allora come adesso, Ki­ do si basava sulla logica secondo cui «se un regista non sa scrivere, non sa neanche valutare se una sceneggiatura è buona o no» e quando in­ dividuava un assistente che sembrava avere la stoffa per diventare re­ gista, gli diceva sempre: «Portami una sceneggiatura scritta da te». Se­ condo questa prassi, prima o poi ci sarebbe stata anche per me la «chia­ mata imperiale» per portargli una sceneggiatura, così mi dissero confi­ denzialmente i miei «compagni di bravate» Gosho Heinosuke6 e Shi­ mizu Hiroshi7. Se avessi passato l’esame, sarei diventato regista. Mosso da questo proposito, mi misi quindi a scrivere e dopo due o tre giorni, come previsto, Kido mi disse: «Portami una sceneggiatura». Completai in fretta quella che stavo scrivendo e gliela consegnai. Si in­ titolava Kawaraban Kachikachiyama [Kachikachiyama - Una versio­ ne giornalistica]8, da cui qualche anno dopo [1934] Inoue Kintarò9lo trasse un film.

La sceneggiatura di Kawaraban Kachikachiyama la scrissi pensan­ do di essere io il regista del film ma quando gliela presentai, Kido mi disse: «È un buon lavoro ma per un regista esordiente il soggetto non è abbastanza vivace», e finì per essere messa da parte. «Allora che ne 6 Gosho Heinosuke (1902-1981), regista giapponese, maestro dei film sulla gente comu­ ne {shòshimin eiga). Nel 1931 diresse il primo film sonoro giapponese, Madama to nyobò (La signora e mia moglie]. Il suo cinema si distingue per la tensione tra humor e tristezza, quasi sempre in chiave ottimistica, e per l’uso espressivo del montaggio. Nella fase della maturità, dalla metà degli anni cinquanta, diventò progressivamente più critico e pessimista. 7 Shimizu Hiroshi (1903-1966), uno dei talenti del cinema giapponese classico risco­ perto solo in anni recenti, era famoso già per i suoi film muti che descrivevano in dettaglio la società giapponese, grazie anche all’uso frequente di riprese in esterni e con attori non professionisti. Nel dopoguerra, la componente realistica dei suoi film si accrebbe, in parti­ colare con riferimento ai bambini, e trovò la più alta espressione con 1 bambini dell'alvea­ re (Hachi no su no kodomotachi, 1948). Si veda più avanti anche la nota 7, in L’abuso del­ lo star system, p. 192. ’ Kachikachiyama è un racconto folkloristico del medioevo giapponese. La sceneggiatu­ ra si svolge però lungo linee completamente diverse. La storia scritta da Ozu, ambientata a Edo, è quella delle disavventure di un fratello borseggiatore e una sorella giovane geisha. Si trattava quindi di un jidaigeki. Si veda la sceneggiatura originale pubblicata nel numero spe­ ciale di «Kinema Junpò», 7 luglio 1994, 1136, pp. 31-5. v Inoue Kintarò (1901-1954), regista giapponese molto attivo negli anni venti e trenta. Iniziò a lavorare come attore alla Daikatsu, la casa di produzione fondata da Tanizaki, per poi passare alla Shochiku. Fece parte della Narutaki gami, il gruppo formato all’inizio degli anni trenta a Kyoto da otto giovani registi sotto la guida di Yamanaka Sadao con l’intento di riformare il jidaigeki. Cfr. R. Novielli, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia 2001, pp. 65-6.

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dice di questa?», gli dissi portandogliene un’altra, ma questa volta in realtà avevo chiesto a Noda Kógo10 di scriverla. Era Zange no yaiba, un jidaigeki. Alla fine, diventò il mio primo film”. Credo che la colla­ borazione con Noda, che iniziò in quel momento e che dura tuttora, sia stata una specie di incontro del destino. A volerla dire tutta, per la storia avevo preso spunto dal film americano Paraocchi (Hoodman Blind)10 *12*che avevo visto poco tempo prima e avevo reinterpretato a modo mio trasformandolo in un jidaigeki. È una cosa di cui mi vergo­ gno un po’ ma in quel momento ero troppo disorientato dal vedere cosa significasse fare davvero il regista. Quando ero assistente, dentro di me liquidavo sbrigativamente il regista dicendomi: «In quella scena bastava far entrare il personaggio da questa porta e farlo uscire a sinistra. Cosa diavolo sta facendo Oku­ bo?», ma una volta diventato regista io stesso mi resi conto che biso­ gnava cominciare innanzitutto a costruire la scena. Già solo commis­ sionare i costumi o le scenografie era un compito difficile. Inutile dire che quando avessi anche dovuto spiegare come recitare in dettaglio sa­ rebbe stato ancora peggio. Facendo il regista in concreto, toccai con mano che da assistente potevo criticare Okubo proprio perché esiste­ va già il lavoro fatto da lui. Mentre ero immerso nelle riprese, fui ri­ chiamato per le esercitazioni dei riservisti e assegnato al reggimento di Ise. Il montaggio finale dovette perciò essere affidato ad altri e anche le prime scene furono girate da Saitò Torajirò. In caserma mi giunse voce che il film era venuto una cosa abbastanza decente e tirai un so­ spiro di sollievo. Nel frattempo fui congedato, ma quando tornai a Ka­ mata rimasi di stucco. La produzione dei jidaigeki era stata trasferita a Kyoto e la squa­ dra di Kamata era stata sciolta15. Quel poco di utile che avevo impa­ 10 Noda Kógo (1893-1968), storico sceneggiatore di moltissimi film di Ozu (ben venti­ sette) e suo amico fraterno. " Si veda anche il brano precedente. 12 Paraocchi (Hoodman Blind), regia di John Ford, Usa, 1923. La critica occidentale in­ dica di solito come fonte di ispirazione per Zange no yaiba il film Kick In di George Fitz­ maurice (1917, poi rifatto, sempre da Fitzmaurice, nel 1922). Cfr. Richie, Ozu cit., p. 203; D. Bordwell, Ozu and the Poetics of Cinema, British Film Institute, London 1988, p. 183; D. Tornasi, Ozu, La Nuova Italia, Il Castoro, Firenze 1991, p. 19. •’ Il grande terremoto del Kantó del 1° settembre 1923 devastò completamente la città di Tokyo. La maggior parte degli studi e dei teatri di posa fu distrutta e [’intero mondo della produzione cinematografica ne fu investito. Una delle tendenze già in atto che il dopo-terrcmoto accelerò fu la divisione definitiva delle produzioni. 1 jidaigeki vennero prodotti tut­ ti a Kyoto, città antica e ricca di storia, considerata depositaria dei valori giapponesi tradi­ zionali, mentre i film di ambientazione contemporanea vennero realizzati a Tokyo, consi­ derata più moderna e aperta all’Occidente. Cfr. D. Richie, A Hundred Years of Japanese Film, Kodansha, Tokyo 2005, pp. 43-4.

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rato era andato in fumo e così, per lo sconforto, rifiutai una dopo l’al­ tra alcune sceneggiature che mi arrivarono dalla direzione. I miei compagni un po’ più anziani di me, come Gosho Heinosuke, Shigemune Tsutomu14 e Shimizu Hiroshi, mi rimproverarono: «Non rifiu­ tarle, non essere schizzinoso, devi fare qualunque cosa ti proponga­ no», e così mi rimisi a scrivere qualche sceneggiatura. Ciò che ne ven­ ne fuori fu Wakòdo no yume [Sogni di gioventù, 1928], che oggigior­ no verrebbe definita una commedia giovanile leggera. Dopo quel film, andai avanti a lavorare a ritmo sostenuto. Dicono che sono po­ co prolifico ma nel 1928, oltre a Wakòdo no yume, feci altri quattro film e nel 1929 addirittura sette. A quei tempi non esistevano né i giornalieri15 né l’addetto al mon­ taggio16, dovevo fare tutto quanto da solo dall’inizio alla fine, perciò, anche se si trattava dell’epoca del cinema muto, non avevo un attimo libero. Le riprese notturne erano la normalità, non di rado lavoravamo an­ che tutta la notte. Quando girai Takara no yama, per arrivare in tem­ po per la prima visione non chiusi occhio per cinque giorni di fila. Ero in uno stato in cui non capivo più neanche che giorno fosse. La matti­ na del sesto giorno, terminate le riprese, uscii dal teatro di posa; fuori c’erano i miei amici che giocavano a lanciarsi una pallina da baseball e finii per giocare anch’io con loro. Certo che per giovane che fossi, ero davvero resistente. Questi sforzi impossibili, però, dopo li pagai. Da allora ebbi una sensazione di fastidio alla testa, come se dentro ci fosse una pagliuzza. Per fortuna, non è nulla di grave e la salute è la mia unica ricchezza. Nel mestiere di regista, poiché si sovraccaricano sia il corpo sia lo spi­ rito, se non sono entrambi robusti, non ce la si fa. In quel periodo, oltre alle commedie di cui ho parlato prima come Nydbd funshitsuy Kabocha [Zucca, 1928], Hikkoshi Nikutaibi, cominciai a fare film di genere completamente diverso come Daigaku va detakeredo [Mi sono laureato, ma..., 1929], o Kaishain seikatsu [La vita di un impiegato, 1929]. In altre parole, ero diventato un regista che almeno in parte poteva fare i film che voleva. Tuttavia, poiché i registi 14 Shigemune Tsutomu (1896-1971), regista giapponese molto attivo negli anni venti e trenta, anche noto come Shigemune Kazunobu. '* La stampa grezza delle pellicole di ciò che viene ripreso ogni giorno, effettuata per vi­ sualizzare immediatamente il risultato del lavoro fatto. Nel primo cinema, questa era spesso l’unica versione. “ In questo caso il riferimento è a chi taglia le pellicole scegliendo e scartando le inqua­ drature secondo le indicazioni della sceneggiatura.

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di punta di allora, come Nomura Hòtei17, Shimazu Yasujiro18, Ushihara Kiyohiko19, Ikeda Yoshinobu20, si accaparravano tutte le star e gira­ vano i film importanti, noi ultimi arrivati in realtà non potevamo fare granché, gli attori che ci era permesso usare erano tutti esordienti e i film che potevamo girare erano limitati alle commedie o a quelli di ge­ nere studentesco. E sempre eravamo ossessionati dalla scadenza della prima visione. 11 motivo per cui usavo solo attori che di solito inter­ pretavano parti secondarie come Ryù Chishù, Saitó Tatsuo, Yo­ shikawa Mitsuko, Sakamoto Takeshi, Iida Chòko era dovuto anche a questo21. Anche il fatto che attrici come Kawasaki Hiroko22 o Mito Mitsuko25, che da sconosciute sono diventate vere e proprie star, fu il felice esito di quella situazione. Ci sono delle eccezioni, ma in genera­ le penso che le star dovrebbero essere scelte e fatte crescere solo dopo un periodo abbastanza lungo di gavetta. Chi viene dal basso conosce bene l’ambiente degli studi e le difficoltà degli attori non importanti e non crea problemi con gli altri sul lavoro. Ha una gamma espressiva più ampia e accetta l’impossibile. Ne sono convinto. È facendo film in questo modo che venne fuori la serie soprannominata Kihachi-san 17 Nomura Hòtei (1880-1934), regista giapponese, iniziò nel 1897 come aiuto-proiezio­ nista per il cinématograpbe dei Lumière importato in Giappone. Dopo una trafila di vari me­ stieri nel cinema, entrò come regista alla Shochiku e ne diventò poi direttore. Diresse film di successo che contribuirono a costruire la tradizione di melodrammi femminili tipici della Shochiku. È il padre del regista Nomura Yoshitarò. Shimazu Yasujiro (1897-1945), regista giapponese noto soprattutto come pioniere dei film sulla gente comune (shòshimin eiga), caratterizzati da un realismo dettagliato e che di­ vennero la specialità della Shochiku di Kamata. Viene ricordato fra l’altro per i film Tonati no Yae-chan [La nostra vicina, la signorina Yae, 1934] e Ani to sono imòto [Un fratello e sua sorella minore, 1939], Cfr. Wada-Marciano, Nippon Modem cit., pp. 114-29. '* Ushihara Kiyohiko (1897-1985), regista giapponese, fu uno dei nomi di punta della Shochiku negli anni venti. Entusiasta del cinema americano, trascorse vari mesi a Hollywood per studiare tecnica cinematografica con Charlie Chaplin. Fece molti film sportivi di succes­ so con l’attore Suzuki Denmei. La sua stella iniziò a declinare con l’avvento del sonoro. ” Ikeda Yoshinobu (1892-1973), nome d’arte del regista giapponese Ikeda Yoshitomi. Dopo varie esperienze teatrali, nel 1920 entrò alla Shochiku, dove negli anni venti realizzò vari film di successo con la famosa attrice Kurishima Sumiko (si veda più avanti la nota 13, in Qualche parola sui miei film, p. 109), che sposò nel 1924. Nel 1936, con il passaggio degli studi Shochiku da Kamata a Ofuna, diventò assistente di Kido come generai manager. ?l Questi attori diventarono poi tutti famosi e andarono a comporre il cast ricorrente di molti film di Ozu. 22 Kawasaki Hiroko (1912-1976), attrice giapponese. Interpretò oltre settanta film, la maggior parte negli anni trenta e quaranta. Lavorò con molti registi importanti, in partico­ lare Shimizu Hiroshi. Con Ozu fece Hogaraka ni ayume [Andiamo avanti allegramente!, 1930], Shukujo to hige [Le dame e la barba, 1931], Mata au hi made [Fino al giorno in cui ci rivedremo, 1932]. “ Mito Mitsuko (1919-1981), attrice giapponese. Fra il 1935 e il 1973 interpretò oltre cin­ quanta film, fra cui I racconti della luna pallida d’agosto (Ugctsu monogatari, 1953) di Mi­ zoguchi. Con Ozu fece C’era un padre (Chichi ariki, 1942).

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mono. Era il personaggio interpretato da Sakamoto Takeshi24 e qui de­ vo dire una cosa. La sceneggiatura era di Ikeda Tadao25. Era da un po’ che non lavo­ ravo con Noda, mio sodale di vecchia data. Io ero di Fukagawa e Ike­ da era di Shitaya, entrambi venivamo cioè dalla zona popolare di Tokyo e costruimmo così una storia con un protagonista che richia­ mava Kumakò e Hachikó26. Partendo da lì, abbiamo fatto insieme Ca­ priccio passeggero (Dekigokoro, 1933), Una locanda di Tokyo (Tòkyo no yado, 1935) e Storia di erbe fluttuanti (Ukikusa monogatari, 1934). È più o meno da quel periodo che cominciai a fare film lunghi. Sono uno dalle preferenze molto marcate, per cui è inevitabile che anche i miei film abbiano qualche vezzo. Uno di questi è il fatto di po­ sizionare la macchina da presa in basso e di fare sempre delle inqua­ drature dal basso. Ho iniziato a riprendere così con Nikutaibi, quan­ do facevo ancora solo commedie (ili. 9). Giravamo la scena di un loca­ le notturno e a quell’epoca, a differenza di oggi, si lavorava con poche lampade, per cui a ogni ripresa si dovevano spostare le luci da una par­ te o dall’altra e dopo due o tre riprese i fili elettrici erano aggrovigliati ovunque sul pavimento. Riordinare ogni volta prima di passare alla ri­ presa successiva era una scocciatura, allora, per non riprendere il pavi­ mento, posizionai la macchina da presa che guardava dal basso verso l’alto. Le inquadrature che ne vennero fuori non erano male e si ri­ sparmiava del tempo, così presi l’abitudine di fare le riprese in questo modo e di posizionare la macchina da presa sempre più bassa. Finii ad­ dirittura per usare spesso uno speciale treppiede che chiamammo «il coperchio del calderone» (pkama no futa)27. 2* Sakamoto Takeshi (1899-1974) fu uno degli attori fissi di Ozu, con il quale girò più di trenta film. Il riferimento è ad alcuni film - Capriccio passeggero, Una locanda di Tokyo, Sto­ ria di erbe fluttuanti, ma anche Hakoiri musume [Una ragazza cresciuta nella bambagia, 1935], andato perduto - che hanno Sakamoto come protagonista nella parte di un brav’uomo di mezza età. Nei tre film citati, il nome del personaggio è uguale ma i ruoli c i contesti sono diversi. Sempre, però, il Kihachi-san impersonato da Sakamoto è una persona di buon animo, ignorante e irresponsabile, ma spontanea e piena di umanità, che rappresenta la gen­ te della città bassa di Tokyo, in altre parole il popolo vivo e caloroso. Memorabile, in parti­ colare, l’interpretazione di Storia di erbe fluttuanti. 3 Ikeda Tadao (1905-1964), sceneggiatore giapponese. Diresse anche alcuni film ma il suo nome e legato soprattutto al sodalizio con Ozu. A partire dal 1929 con Tokkan kozó, fu lo sceneggiatore di molti film di Ozu fino alla fine della guerra. 26 Famosi personaggi del rakugo (genere teatrale in cui un unico narratore sul palcosce­ nico racconta lunghe e complicate storie comiche) che incarnano figure tipiche del popolo di Edo e, in senso lato, dei quartieri popolari della Tokyo storica. Kumakò (abbreviazione di Kumagorò o Kuma-san) è un sempliciotto irascibile che diventa violento quando beve, Hachikò (abbreviazione di Hachigorò o Hattsuan) è un facilone incauto e sbadato. i? Il treppiede basso chiamato «il coperchio del calderone» era costruito in legno e ri­ cordava il coperchio delle pentole tradizionali per la cottura del riso, da cui il nome. Succes-

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Con questo treppiede che concepii e realizzai con ^operatore2* Shi­ gehara Hideo29, con cui lavoravo sempre, quando si riprendeva biso­ gnava stare con la pancia a terra e guardare in su attraverso il mirino. E per questo che gli operatori che lavoravano con me si lamentavano spesso che gli veniva male al collo. Dopo Shigehara, il problema passò anche al suo allievo con cui lavoro ancora adesso Atsuta Yùharu, ma ultimamente la posizione della cinepresa è stata abbastanza alzata. A proposito dei compagni di lavoro, si discute spesso se sia un be­ ne o un male lavorare sempre con gli stessi, ma io non potrei trovarmi bene con persone con cui non possiamo intenderci subito a vicenda. Scrivo spesso le sceneggiature con Noda Kògo, entrambi alloggiamo a Chigasaki30 per uno o due mesi consecutivi e sia per la quantità di sakè che beviamo, sia per i gusti in fatto di spuntini e persino per la ten­ denza a fare le ore piccole e svegliarci tardi la mattina, siamo perfetta­ mente simili e davvero affiatati. Non potrei lavorare con una persona a cui la sera viene subito sonno e mi lascia lì da solo. Anche per gli at­ tori è la stessa cosa, sarei in difficoltà se dovessi utilizzare un attore che sivamente, venne sostituito da uno in metallo che, per il suo colore rosso, era chiamato da Ozu e dalla sua troupe «il granchio» (kani). Cfr. Y. Atsuta - S. Hasumi, Ozu Yasujirò monogatari [Storia di Ozu Yasujirò], Chikuma Shobò, Tokyo 1989, p. 221. Nel presente volume si utilizza il termine «operatore» poiché nel cinema giapponese delle origini e classico, colui che era responsabile dell’uso della macchina da presa non era la stessa cosa del direttore della fotografia americano o del lighting cameraman inglese. Mano­ vrava personalmente la macchina da presa in qualunque circostanza e pur avendo di solito degli assistenti che lo servivano per le incombenze pratiche, erano i suoi occhi e le sue mani che definivano tutte le inquadrature e realizzavano le riprese. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 335-6. Questa partecipazione diretta, fisica, alle riprese, spiega.il sen­ so di orgoglio esclusivo per la professione e di possessività nei confronti della macchina da presa che ricordano l’attaccamento al proprio strumento di lavoro tipico dei grandi maestri artigiani di tutti i settori e di tutte le epoche. Atsuta Yùharu (cfr. Atsuta - Hasumi, Ozu Yasujiró monogatari cit., p. 45) si definiva con orgoglio «il guardiano della macchina da presa». Altrettanto emblematiche le parole di Miura Mitsuo, un altro dei grandi operatori giappo­ nesi di tutti i tempi, che disse che preferiva fare sempre tutto da solo perché non c’era nes­ suno di cui potesse fidarsi, visto che solo lui possedeva la tecnica necessaria per realizzare ciò che voleva (cit. in Anderson - Richie, The Japanese Film cit., p. 336). n Shigehara Hideo fu uno dei due operatori storici (l’altro fu Atsuta Yùharu) con cui la­ vorò Ozu. L’ideogramma del cognome Shigehara può anche essere letto Mohara. 11 nome originario era Shigehara, ma Ozu lo chiamava spesso con il nomignolo Mocchan («Mo» da Mohara e «chan», vezzeggiativo usato per bambini, amici e colleghi più giovani). Successi­ vamente, Shigehara prese a usare talvolta anche il nome Mohara, in particolare dopo l’inizio dell’attività di sviluppo del sistema di sonorizzazione dei film da lui ideato e chiamato ap­ punto Super Mohara Sound System. Ciò spiega come mai in alcune filmografie venga accre­ ditato come Shigehara mentre in altre come Mohara. Nel presente volume si sceglie di chia­ marlo sempre Shigehara. w Città termale di villeggiatura posta sulla baia di Sagami, a una sessantina di chilometri da Tokyo. Nella locanda in cui Ozu scrisse il soggetto di otto dei suoi film sono riprese al­ cune scene del film di Misawa Takuya, Sanpaku yokka goji no kane [Tre notti e quattro gior­ ni, la campana delle cinque, 2015].

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non conosco minimamente. Oltre a tutto, fin che si tratta di un film che mostra più che altro l’intreccio non devo fare molta fatica, ma se è un film in cui si deve dipingere più in profondità il carattere dei per­ sonaggi, devo essere molto più esigente. Se ogni volta dovessi stare a spiegare come recitare nei dettagli sce­ na per scena, ci vorrebbe un lavoro di preparazione enorme, perciò tendo a impiegare sempre gli stessi attori che conosco bene. In passa­ to, inoltre, poiché volevo a ogni costo che gli attori recitassero come intendevo io, facevo ripetere più volte e capitava anche che girassimo una sola inquadratura in tutta la notte, ma adesso non ho più quella perseveranza. Mi sono rassegnato al compromesso di accettare il me­ glio che gli attori riescono a dare così come sono. Con il carattere che ho, anche il mio modo di considerare gli atto­ ri credo sia diverso da quello degli altri. Per II tempo del raccolto del grano (Bakushù, 1951) mi venne suggerito di usare l’attore Nihon’ya­ nagi Hiroshi. Andai a vederlo in Senka no hate [Oltre il campo di bat­ taglia, 1950] e mi piacque, allora lo scelsi e risultò perfetto per un per­ sonaggio che volevo fosse un brav’uomo serio e discreto. Yamamura SòJ1, invece, lo vidi mangiare alla mensa degli studi di Ofuna32 mentre era lì per un altro film, mi piacque subito e gli chiesi di fare Muneka­ ta kyòdai [Le sorelle Munekata, 1950]. Anche in quel caso la cosa fun­ zionò. Chiamai Hara Setsuko” per Tarda primavera (Banshun, 1949) e II tempo del raccolto del grano, ma allora su di lei circolavano chiac­ chiere poco simpatiche secondo le quali non sapeva recitare. Quando iniziai le riprese avevo un po’ di preoccupazione ma risultò del tutto infondata. Secondo me, è una persona che non riesce a esprimere gioia e rabbia con una recitazione sovraccarica ma piuttosto sa trasmettere superbamente le stesse emozioni con gesti minimi. In altre parole, si dovrebbe poter esprimere un’esplosione di rabbia anche senza alzare la voce. Se chiedo a Hata di recitare in questo mo­ do, lei riesce a farlo senza alcuna difficoltà sin nelle minime sfumatu­ re. Al contrario, mi è capitato di utilizzare un attore che aveva fama di essere molto bravo ma che mi ha creato dei problemi perché qualunM Yamamura So (1910-2000), attore giapponese conosciuto anche come Yamamura Sa­ toshi, girò anche alcuni film da regista. Recitò in oltre 100 film e comparve in quattro film di Ozu del dopoguerra. “ Nome della cittadina nel comune di Kamakura dove la Shochiku trasferì i suoi studi nel 1936 quando chiuse quelli di Kamata. Gli studi di Ofuna rimasero in funzione fino al 2000. ” Hara Setsuko (1920-2015), una delle più grandi attrici giapponesi di tutti i tempi. Pas­ sata alla storia per le sue interpretazioni dei film di Ozu del dopoguerra, recitò anche con al­ cuni dei principali registi giapponesi, da Yamanaka Sadao a Naruse Mikio e Kurosawa Aki­ ra, per poi ritirarsi dalle scene nel 1963, a quarantatre anni.

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que cosa recitasse la faceva in maniera esageratamente didascalica. Se doveva interpretare un vecchio, per esempio, eccedeva nella mimica di un vecchio. Non posso sopportare attori senza personalità che si muo­ vono sulla scena come se dicessero: «Eccomi qua, che cosa gradisce che le reciti?». Per la parte del presidente d’azienda ne II sapore del riso al tè ver­ de (Ochazuke no aji, 1952) mi permisi di chiamare Ishikawa Kin’ichi*. Lui era realmente un presidente di società e perciò anche solo stando seduto senza parlare era perfetto per la pane. Dicono che sono pignolo per la qualità dei piccoli oggetti di scena o dei vestiti che indossano gli attori. Eppure, se per esempio il rotolo appeso o l’oggetto decorativo collocati nel tokonoma* sono autentici e non finti e creati solo per la scena, per me per primo cambia il modo di sentire. Penso cambi anche per gli attori. In ogni caso, se si posso­ no ingannare gli occhi dell’uomo, non si può ingannare la macchina da presa, le cose autentiche risultano meglio quando vengono riprese. Per come sono fatto io, la recente abitudine degli attori di lavorare contemporaneamente in due film non mi piace affatto. Mi crea pro­ blemi. Anche provando a mettersi nei panni di un attore, non vedo co­ me possa affrontare seriamente due ruoli nello stesso tempo; se impie­ ga tutte le sue energie per il mio film, non potrà dedicarsi adeguatamente a un altro. Questo è un problema del cinema giapponese che bi­ sogna risolvere a tutti i costi il prima possibile. Se si va avanti così, gli attori diventeranno dei semplici mestieranti. Per quanto possa essere bravo, un mestierante ha dei limiti. Per fortuna, dopo la fine della guerra e in particolare in questi ultimi due o tre anni il modo in cui la gente considera il cinema è cambiato. Ai miei tempi, già solo parlare di entrare nel mondo del cinema era una cosa considerata poco rispettabile. Se uno diceva di voler fare l’at­ tore o qualcosa di simile poteva essere solo perché doveva mangiare o perché in famiglia c’era già qualcuno che faceva quel mestiere. Adesso, invece, è diventato un lavoro più che rispettabile. Credo perciò che og­ gi per chi vuole entrare nel mondo del cinema non ci saranno proble­ mi. Da questo punto di vista, i giovani che d’ora in avanti desiderano M Ishikawa Kin’ichi (1895-1958), scrittore e traduttore, lavorò come giornalista presso il quotidiano «Mainichi Shinbun» fino a raggiungere i vertici della società editrice. Diventò poi presidente del quotidiano serale «San Shashin Shinbun», innovativo per l’epoca del dopo­ guerra per l’ampio uso di materiali fotografici. " Piccola rientranza rialzata nel muro presente nella stanza tradizionale giapponese. In essa vengono di solito esposti oggetti artistici o decorativi come un’opera di calligrafia, una pittura sotto forma di rotolo appeso, una composizione floreale.

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fare del cinema sono più fortunati. Anche noi, quindi, dobbiamo im­ pegnarci con costanza in un film dopo l’altro per non tradire le aspet­ tative della gente. Siamo ormai a dicembre. Tutti cominciano a essere indaffarati e anch’io tre o quattro giorni fa sono venuto qua a Yugawara56 per pre­ parare il prossimo film. Come al solito, anche questa volta sono con Noda Kógo e il nostro modo di lavorare insieme non consiste tanto nel partire da una trama definita ma piuttosto nell’abbozzare qualche orientamento mentre chiacchieriamo del più e del meno. Parlando di questo e di quello, comincia a emergere qualche vago proposito sul soggetto da trattare: che tipo di esistenza, che tipo di persona e così via. Successivamente, arriva qualche idea di avvenimenti o episodi da inserire nella storia. Si concretizza anche qualche frammento dei dia­ loghi tra i personaggi. Così, a un certo punto prende corpo la trama vera e propria. Infine vengono definiti i dialoghi in tutti i dettagli. Quindi, per co­ me siamo abituati a lavorare noi, la cosiddetta prima versione della sce­ neggiatura è già quella finale. Naturalmente ci facciamo più o meno un’idea di quali attori vogliamo usare e scriviamo già tenendo presen­ te la personalità e le particolarità di ognuno. Può anche capitare perciò che quando inizio a girare, qualcuno degli attori previsti sia cambiato oppure che un attore che ho scelto reciti in modo completamente di­ verso da quello che avevo immaginato. In questi casi, non so davvero più cosa fare. Si dice che io sia uno che insiste a rifare la stessa inquadratura più volte, ma in realtà questo accade quando voglio che l’interpretazione di un attore sia esattamente come ho progettato oppure quando, come mi succede spesso, una ripresa è venuta abbastanza bene ma io dico: «Ancora una!» proprio perché penso: «Può venir fuori qualcosa di meglio», e in entrambi i casi questo atteggiamento è dovuto alla mia sete di ottenere un risultato soddisfacente. Oppure può capitare che in una scena con gli attori A e B, l’attore A reciti bene mentre l’attore B no o viceversa, e in questi casi diventa ancora più complicato. Se è co­ sì già per il regista, mi immagino sia ancora più deludente per l’autore del soggetto. Il fatto è che difficilmente il personaggio che immagina l’autore e quello interpretato dall’attore combaciano. Rhett Butler in* Cittadina della Prefettura di Kanagawa (nell’area metropolitana estesa di Tokyo, da cui dista circa 100 km), nota fin dal passato per le sue sorgenti termali c le relative struttu­ re turistiche.

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terpretato da Clark Gable in Via col vento è un raro esempio riuscito di questo discorso. Questa è una delle ragioni per cui io faccio spesso film da un mio soggetto originale. Non sono tagliato per il melodramma. È un genere che fa leva sul fatto che alla gente piace versare lacrime nel vedere le sofferenze di chi sta peggio. I suoi personaggi sono spesso sciocchi e senza un minimo di buon senso e anche le cose che accadono non sono naturali. Non riesco proprio a digerirlo. Se volessi far piangere gli spettatori vorrei lacrime vere, non quelle causate da un lacrimogeno. Ho fatto Munekata kyddai su richiesta, con il soggetto originale di Osaragi37 e persino gli attori già scelti. Per Tarda primavera ho preso spunto dal romanzo Chichi to musarne [Padre e figlia] di Hirotsu Ka­ zuo38. In entrambi i casi, sono molti gli aspetti in cui il film differisce dal soggetto originale, ma questo credo sia inevitabile perché è dovu­ to alle differenze fra cinema e letteratura. Un giorno, dopo una proie­ zione in anteprima di Tarda primavera^ Satomi3’ mi disse: «La sera del matrimonio della figlia, il padre torna a casa tutto solo. Manda a casa la donna di servizio, facendola uscire non dall’ingresso ma dalla cuci­ na. Quando sta per entrare nella stanza con i tatami^ guarda verso il piano di sopra dove c’era la camera della figlia. Che ne dici?...». Gli fui grato per il suggerimento. Questo tipo di commenti, anche se arriva­ no dopo, possono essere sempre utili per i film successivi11. Io non uso quasi mai i movimenti di macchina, la dissolvenza in­ crociata o le dissolvenze in apertura e in chiusura. Per queste tecniche, 57 Osaragi Jirò (1897-1973) fu lo scrittore più rappresentativo dell’epoca Taishò (19121926). Era noto, fra l’altro, per i romanzi storici seriali usciti a puntate su quotidiani, il più famoso dei quali c Kurama tengu, durato ben trcntacinque anni. Oltre ai romanzi popolari a larga tiratura, scrisse anche il romanzo storico Tennò no seiki, dedicato alla restaurazione Meiji. Cfr. S. Katò, Storia della letteratura giapponese. Dall'Ottocento ai nostri giorni (1980), trad. it. e cura di A. Boscaro, Marsilio, Venezia 1996, pp. 239-41. u Hirotsu Kazuo (1891-1968), scrittore, critico e traduttore. Negli anni trenta fu attrat­ to dal cosiddetto «Movimento della letteratura proletaria», ma successivamente si avvicinò alle posizioni imperialiste del governo. Nel dopoguerra scrisse biografie, saggi autobiografi­ ci e, all’età di settantuno anni, Shukuzu, considerato il suo capolavoro. w Satomi Ton (1888-1983), nome di penna dello scrittore Yamanouchi Hideo, noto per la ricchezza dei dialoghi dei suoi romanzi e la profondità della conoscenza della lingua giap­ ponese. Conosciuto in Occidente soprattutto per il racconto Tsubaki, collaborò in più oc­ casioni con Ozu, che fece due film tratti da suoi soggetti, poi diventati romanzi: Fiori d'e­ quinozio (Higanbana, 1958) e Tardo autunno (Akibiyori, 1960). Il figlio di Satomi, Yama­ nouchi Shizuo, fu il produttore degli ultimi sei film di Ozu per la Shochiku. ‘° Il tatami è un pannello di paglia di riso rivestito da una copertura di giunco, usato per la pavimentazione di una stanza in stile giapponese. La dimensione standard è di 91 cm di larghezza, 182 cm di lunghezza e 5,5 cm di spessore. La stanza dei tatami è quindi una stan­ za in stile giapponese. 41 Una scena del genere, con la sola eccezione della donna di servizio, si ritrova nel fina­ le dell’ultimo film di Ozu, Il gusto del sakè (Sanma no aji, 1962).

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se non si hanno delle attrezzature di qualità, l’immagine diventa mos­ sa e sporca. La dissolvenza incrociata, in particolare, mi puzza un po’ di imbroglio. Ovviamente ci sono anche film in cui non è un imbro­ glio ma una forma espressiva di alto livello. Esempi di questo genere sono Matrimonio in quattro (The Marriage Circle, 1924) del vecchio Lubitsch, La donna di Parigi (A Woman in Paris, 1923) di Chaplin e il recente Un posto al sole (A Place in the Sun, 1951). Non è certo fa­ cile riuscire a fare ciò che hanno fatto questi registi. Per confessare un altro mio vezzo, a me girare in esterni non piace. Se penso che una scena si possa girare in studio, la giro in studio (ili. 8). Le riprese in esterni sono inevitabilmente condizionate dalla situazio­ ne atmosferica ed è anche difficile riuscire a essere esigenti con le star davanti alla folla, quindi mi sento impedito, non posso lavorare come voglio. Il risultato è che anche quando giro in esterni, mi organizzo co­ me in studio. All’opposto c’era Shimazu Yasujirò. Girava in studio co­ me se fosse stato in esterni. Fra questi due estremi c’è Shimizu Hiro­ shi: lui non ha mai problemi, se è in esterni gira come si gira in ester­ ni, se è in studio gira come si gira in studio. Per quanto riguarda la musica, non si può dire che io sia uno dif­ ficile. Un bel suono che non guasta l’atmosfera e non stona con le im­ magini, per me è sufficiente. Però non mi piacciono le scelte musicali per cui se una scena è tragica c’è una melodia triste o se è comica c’è un brano buffo. Se si raddoppia l’enfasi con la musica, la scena diven­ ta di cattivo gusto. Una musica ridente su una scena triste, contraria­ mente a quanto sembra, può anche accrescerne il tono tragico. E una cosa che mi è capitata. È stato nella seconda guerra sino-giapponese42, durante la battaglia del fiume Xiushui43. Ero in prima linea. Vicino al­ la trincea c’era un albero di albicocco con dei bellissimi fiori bianchi. A un certo punto, iniziò l’attacco nemico e i proiettili dei mortai piovvero sibilando. Il rimbombo dell’artiglieria pesante echeggiava fra il crepitio delle mitragliatrici e dei fucili. A causa del frastuono e del vento, i fiori bianchi cadevano danzando dolcemente, era una co­ sa bellissima. Guardando quei fiori pensai che si poteva raffigurare la " La seconda guerra sino-giapponese (7 luglio 1937-2 settembre 1945) venne combattu­ ta prima e durante la seconda guerra mondiale e terminò con la resa incondizionata del Giap­ pone. Fu il più grande conflitto asiatico del XX secolo. 4’ Fiume della provincia dello Jiangxi, nel Sud-est della Cina. La battaglia del fiume Xiushui si svolse nel marzo del 1939, come parte della più ampia battaglia di Nanchang, capita­ le della provincia. Sebbene nella seconda guerra sino-giapponese l’artiglieria pesante fu po­ co utilizzata, nella battaglia di Nanchang l’esercito giapponese utilizzò il più massiccio dispiegamento di artiglieria pesante di tutta la guerra per sostenere l’attraversamento del fiu­ me Xiushui da parte della propria fanteria.

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Chiacchiere sul mio mestiere

guerra anche così. Anche questo è un esempio del rapporto tra la mu­ sica e le immagini... Sono arrivato anch’io ai cinquant’anni e per fortuna in ottima salu­ te. Adesso, la quantità giusta di sakè per me sono due o tre gò44, non riesco più a lavorare tutta la notte e la mia trasgressione preferita è il pisolino pomeridiano. Mi sto avvicinando ai ventisette anni di vita da regista. A causa della guerra non ho girato film per sette anni45, ma con Il sapore del riso al tè verde sono arrivato a quarantaquattro film. Spe­ ro di vivere ancora a lungo e di riuscire a fare un buon lavoro.

“ Unità di misura tradizionale giapponese per le aree o per i volumi. Nel caso dei liqui­ di, corrisponde a circa 0,18 litri. * Ozu realizza Shukujo wa nani o wasuretaka [Che cosa aveva dimenticato la signora?] nel 1937 e poi, nel mese di settembre dello stesso anno, parte per la guerra. Tornato tempo­ raneamente in Giappone nel 1939, realizza nel 1941 Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Todake no kyòdai) e nel 1942 C'era un padre, dopodiché non può girare per circa cinque anni. Nel 1947 riprende a girare e realizza Nagaya shinshiroku [Il «chi è» dei signori del casa­ mento]. 1 sette anni citati vanno quindi intesi come la somma indicativa dei periodi di inat­ tività forzata a causa della guerra (1937-1939 e 1942-1947).

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SCRITTI SUL CINEMA

Io, regista in miniatura’

Quando aprivo la porta d’ingresso di una sala cinematografica ve­ nivo investito dall’aria calda e soffocante della gente. Una volta le sale non si chiamavano così ma «baracconi delle immagini in movimento» (katsuddgoyaf e mi veniva mal di testa già dopo dieci minuti che ero immerso in quell’aria viziata2. Ciononostante, quando da una sala ci­ nematografica mi giungeva il suono della piccola banda che accompa­ gnava il film dal vivo, non potevo passarci davanti senza entrare. Quel­ la strana cosa chiamata cinema aveva su di me una sorta di misterioso potere magico. Sono nato a Tokyo, ma ho trascorso la mia adolescenza a Matsu­ saka, vicino a Ise ed è lì che ho preso il vizio di andare al cinema. Alla ‘Originariamente pubblicato in Watakushi no shònen jidai, a cura di Yomiuri Shinbun Kyòikubu, Maki Shoten, Tokyo 1953. 1 II termine «immagini in movimento» (katsudò shashin) è inteso come contrapposto a «film» (eiga). Il primo cinema, quello delle «immagini in movimento», è stato definito dagli studiosi «cinema delle attrazioni», cioè un fenomeno tecnico utilizzato per attrarre e stupi­ re la gente a fini di intrattenimento commerciale. 11 cinema successivo si caratterizza invece per una maggiore articolazione narrativa e un uso più avanzato di montaggio, primi piani e altre soluzioni stilistiche a fini espressivi. Il passaggio da un termine all’altro avvenne intor­ no al 1916 a opera di Kaeriyama Norimasa, un innovatore del primo cinema giapponese, che introdusse il termine eiga per enfatizzare la necessità di rompere con il vecchio sistema pro­ duttivo imperniato sui benshi (commentatori dal vivo). Cfr. Richic, A Hundred Years ofJa­ panese Film cit., pp. 32-3; Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 36-7. Sul passaggio paradigmatico del cinema giapponese da fenomeno di attrazione a forma artistica e cultura­ le e sulle modalità percettive di esso nella società, visti nel più ampio contesto della moder­ nizzazione, cfr. A. Gerow, Visions ofJapanese Modernity. Articulations of Cinema, Nation, And Spectatorship, 1895-1925, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Lon­ don 2010, in particolare pp. 40-65; I. Yomota, Storia del cinema giapponese, in Storia del ci­ nema mondiale, iv, Americhe, Africa, Asia, Oceania. Le cinematografìe nazionali, a cura di G. P. Brunetta, Einaudi, Torino 2001, pp. 925-6. 2 Un vivido rendiconto dell’esperienza di andare al cinema a Tokyo nel 1912 è fornita dal quotidiano «Asahi Shinbun» del 14 ottobre 1912, citato in A. Gerow, From Misemono to Zigomar. A Discursive History of Early Japanese Cinema, in Silent Cinema and the Poli­ tics of Space, a cura di J. M. Bean, A. Kapse, L. Horak, Indiana University Press, Blooming­ ton 2014, p. 173.

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fin fine, ciò che mi eccitava più di tutto non era tanto il fatto di anda­ re a vedere i film in sé quanto di divertirmi facendo una cosa proibita dalla scuola. Oggi la gente non riesce forse neanche a immaginarselo: gli adolescenti di allora non solo andavano al cinema ma anche legge­ vano «Kaizó»' o «Chùò kòron»4 e ne parlavano animatamente fra di loro. Non mi ricordo se capivo ciò che leggevo, di certo ero letteral­ mente affamato di quelle letture. A quell’epoca leggevo avidamente anche i romanzi di Tanizaki Jun’ichirò e di Akutagawa Ryunosuke. Per quanto riguardava il cine­ ma, invece, guardavo solo film occidentali. Potrò sembrare presuntuo­ so ma disprezzavo i film giapponesi, erano primitivi in confronto a quelli occidentali. Erano film in cui a malapena si svolgeva la trama, ma non riuscivano ancora a esprimere i sentimenti delle persone. A un certo punto, uscì il film americano Civiltà (Civilization, 1916) di Ince5. Aveva un grosso budget per l’epoca ed era davvero stupendo. Mi impressionò profondamente. Fu proprio in quel momento che mi dissi che volevo diventare un regista. Credo che i miei genitori avrebbero voluto che andassi all’univer­ sità, ma io non mi curai minimamente delle loro aspettative, non ave­ vo nessuna intenzione di proseguire gli studi. In poche parole, forse a me studiare non piaceva. Ripensandoci adesso, avevo fiducia in me stesso ed ero convinto di riuscire a farcela anche senza laurearmi. Non mi smossi più dalla deci­ sione di diventare regista. Per fortuna, un mio zio affittava un terreno alla Shochiku e, grazie a questo, subito dopo il diploma di scuola media entrai nei loro studi, che erano a Kamata6. ’ Rivista generalista pubblicata, con qualche interruzione durante la guerra, dal 1919 al 1955. Nota per i contributi letterari (Tanizaki e Akutagawa, fra gli altri, pubblicarono dei lo­ ro racconti), aumentò molto la visibilità e le vendite con la pubblicazione di vari articoli di matrice socialista sul lavoro e i problemi sociali. 4 Mensile generalista fondato nel 1887 e tuttora esistente. Nel corso dei secoli ha pub­ blicato un’immensa varietà di materiali fra romanzi, fotografie, rapporti su temi filosofici, economici, politici, sociali e culturali ed è considerata una delle riviste culturali più autore­ voli del Giappone. * Civiltà, regia di Reginald Barker, Raymond B. West c Thomas H. Ince (che ne fu an­ che il produttore), è un dramma allegorico pacifista. Fu uno dei primi film a grosso budget, ebbe un enorme successo popolare e fu paragonato a Nascita di una nazione di Griffith. Ozu vide il film nel 1917, all’età di quattordici anni. A quell’epoca, la scuola elementare durava sei anni e la scuola media cinque, venendo di fatto a corrispondere al liceo. In linea di massima, si finiva quindi la scuola media all’età di diciassette anni. Ozu finì la scuola media nel mese di marzo 1921 ed entrò alla Shochiku, la casa di produzione per cui lavorò tutta la vita, nell’agosto del 1923, quindi all’età di di­ ciannove anni.

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Oggigiorno, se dici che fai il regista ti guardano con invidia e puoi anche esserne orgoglioso ma ai miei tempi, quando dicevi che lavora­ vi nel cinema, sotto sotto il commento era: «Che razza di mestiere!». Io però non me ne curavo affatto. I miei si saranno molto dispiaciuti ma io pensai solo a fare ciò che volevo. Quando entrai alla Shochiku avevo diciannove anni secondo il con­ teggio kazoe7; fino ad allora mi ricordo che avevo visto solo tre film giapponesi e il dirigente con cui feci il colloquio rimase scandalizzato. Una volta entrato, però, non potei più sottrarmi e da allora presi a guardarli con fervore. Ora che ero io a fare film, non potevo più trascurarne neanche uno. Studiavo come giravano i registi più anziani senza perdermi un solo particolare. È così che trovai il mio modo di mettere in scena e ripren­ dere, facendo dei passi avanti senza imitare acriticamente nessuno. Sarò testardo ma non c’è rimedio, sono fatto così. Per questo non ho maestri. Ce l’ho fatta contando solo su me stesso. Chi pensa che il mestiere di regista consista nel dirigere le star a proprio piacimento, solo con il megafono in mano, si sbaglia di gros­ so. Senza dormire neanche la notte, bisognava programmare le riprese c organizzare le varie scene, c’era da dimagrire per la fatica già solo a essere lì a guardare da vicino. Ma così facendo, senza nemmeno ren­ dermene conto, pian piano è venuto fuori il piacere di creare. Il mio istinto di non darmi per vinto mi ha portato a diventare regista, senza mai perdermi d’animo di fronte a nessun ostacolo.

' A differenza del sistema occidentale, che conteggia l’età ogni 365 giorni dopo la nasci­ ta (366 negli anni bisestili), il sistema kazoe, in uso in Giappone di fatto fino agli anni cin­ quanta, conteggia un anno di età il giorno della nascita e poi ogni 1 ° gennaio. Di conseguen­ za, per il periodo che va dal 1 ° gennaio al giorno del compleanno, fra il sistema occidentale c il sistema kazoe vi sono due anni di differenza. Quando Ozu afferma perciò di essere en­ trato alla Shochiku a diciannove anni secondo il sistema kazoe, significa che avrebbe avuto effettivamente diciassette anni. In realtà, risulta che Ozu entrò alla Shochiku il 1° agosto 1923, cioè quando aveva diciannove anni secondo il sistema occidentale e ventuno secondo il sistema kazoe.

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SCRITTI SUL CINEMA

Quel giorno, quell’epoca*

È una cosa di tanto tempo fa. Venni a sapere che quando Sono na­ to, ma... (Umarete wa mitakeredo, 1932) risultò primo nei Best Ten di «Kinema Junpò»1, un dirigente della Shochiku disse a Tanaka Saburó2, allora direttore della rivista, che il premio a quel film gli creava solo dei problemi. Era un film che non riusciva proprio ad avere spettatori. Se era per dare un pubblico riconoscimento, premiassero piuttosto I quarantasette ronin (Chùshingura, 1932) di Kinugasa. Oggi, se dico che sono entrato nei Best Ten, almeno qualcuno mi fa le congratulazioni, ma allora le cose andavano così. In pratica era un film apprezzato dai critici e i film apprezzati dai critici di solito non piacevano al pubbli­ co. Quindi anche se un film veniva incluso nei Best Ten, alla Shochiku non erano affatto contenti. Anzi, dicevano che facevo film solo per compiacere i critici senza preoccuparmi che piacessero alla gente e quando un mio film entrava in classifica non osavo farmi vedere in gi­ ro negli studi. Mi sentivo in colpa ed ero in imbarazzo persino a salu­ tare il direttore. In confronto ad allora i film giapponesi sono migliorati e anche il pubblico è maturato. Che non sia merito anche dei Best Ten di «Ki­ nema Junpò»? Fare un film è però diventato un lavoro decisamente più difficile. Ci si deve preoccupare di moltissime cose. Con il colore e gli schermi panoramici ancora di più. Ormai non posso più girare sette o otto film in un anno come facevo una volta. ’ Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», 1957, 168. ' «Kinema Junpò», fondata nel 1919 e tuttora esistente, è considerata la più prestigiosa rivista giapponese di cinema. Dal 1926, salvo l’interruzione dovuta alla guerra, pubblica ogni anno la classifica dei dieci migliori film giapponesi dell’anno. Tale classifica, costruita sulla base delle scelte di moltissimi critici e operatori del settore, è uno dei riferimenti assoluti per il mondo del cinema giapponese. Ozu risultò primo per ben sei volte. Cfr. Anderson - Ri­ chie, The Japanese Film cit., p. 349. J Tanaka Saburó (1899-1965) fu uno dei fondatori e, per un certo periodo, direttore del­ la rivista «Kinema Junpò».

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A proposito dei criteri di scelta dei Best Ten, per quante imperfe­ zioni ci siano, si tratta comunque della sintesi delle opinioni di varie decine di persone e credo che in linea di massima tali scelte siano ab­ bastanza azzeccate. Tuttavia è difficile stabilire una graduatoria in sen­ so rigoroso. Anche quando un mio film è stato messo al primo o al se­ condo posto, più di una volta non ero convinto ma, che dire, c’era po­ co da fare.

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SCRITTI SUL CINEMA._______________________

Che cosa ho dimenticato?’

Non faccio la vita da scapolo per partito preso. Vado avanti così senza un motivo particolare. Una donna mi piace o non mi piace co­ me a tutti i comuni mortali, non ho pretese per i capelli con il taglio tradizionale o con la permanente. Se poi parliamo di qualità persona­ li, penso di avere di gran lunga più requisiti per essere un buon mari­ to di quanti ne abbia Shimizu Hiroshi, tanto per fare un esempio. Ep­ pure lui è già sposato da un pezzo... È una cosa che non mi va giù. Sto scherzando! A proposito, tra i registi degli studi di Ofuna, Ozucchan, come vengo chiamato io, è l’unico scapolo e ci sono degli assistenti re­ gisti che hanno già addirittura due o tre figli. Mi chiedono spesso meravigliati come diavolo faccio a dipingere la vita di persone di mezza età o le stanchezze del matrimonio senza co­ noscere la vita matrimoniale. Benissimo, ma allora, se posso descrive­ re solo ciò di cui ho esperienza diretta, vuol dire che dovrei rubare, uc­ cidere e commettere adulterio per poterne parlare. Non mi piace esse­ re ammirato per questo. Ho iniziato a dipingere lo stato d’animo del­ le persone all’epoca in cui ero esordiente e mi facevano dirigere solo delle insopportabili commedie a cui cercavo di aggiungere un po’ di sapore. Questo atteggiamento cominciò a dare dei frutti più o meno da Kaishain seikatsu in poi. Roba da niente. Più o meno. Essere scapolo può avere però molti inconvenienti... Certo, a casa c’è la mamma. Ha poco più di sessantanni ed è in pie­ na salute. Che si tratti di scegliere e ordinare un kimono o di dare le disposizioni per il bucato, fa tutto da sola e in questo senso ho ogni ge­ nere di comodità. Vedo bene le gioie della vita matrimoniale e capisco lo stato d’animo di chi ha fatto dei figli perché mio fratello maggiore ha già due bambini. In fin dei conti, sto continuando a fare la vita da ' Originariamente pubblicato in «Miyako Shinbun» (ora «Tòkyo Shinbun»), 29 marzo 1937, edizione serale.

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scapolo senza un motivo particolare, forse solo per la spensieratezza tipica del secondogenito. Sorrido ironicamente con le mie fossette «graziose», dicendomi che una volta sarei stato un parassita a casa di mio fratello o avrei cercato di farmi adottare da qualche famiglia ricca. Queste mie fossette piacciono molto alle attrici, in particolare a quelle di mezza età famose come Iida1 o Yoshikawa2. A quanto pare, alla gente sembro più vecchio di quanto non sia realmente. Vorrei che lei cercasse di chiarire questo equivoco3. Tutta­ via mi sento invecchiato rispetto a quando ho iniziato (ill. 1 ). Anche recentemente Saitò Tatsuo4, a proposito del mio modo di lavorare, mi ha detto: «Eh, non sei più un tiranno come una volta». Ero noto per come mi dedicavo maniacalmente al lavoro, ma mi sa che a un certo punto ho perso quella devozione. Questa è una cosa che non posso perdonarmi e mi dico che devo tornare a essere com’ero. Chi è scapo­ lo deve lavorare da scapolo. Che ne dice, eh?

1 lida Chòko (1897-1972), attrice giapponese e moglie di Shigehara Hideo. Con quasi duecento interpretazioni, lavorò con i maggiori registi giapponesi, fra cui Naruse e Kuro­ sawa. Con Ozu fece dodici film. •’ Yoshikawa Mitsuko (1901-1991), attrice giapponese. Annovera più di cento interpre­ tazioni, alcune con i principali registi giapponesi. Con Ozu fece sette film, ma solo fino al primissimo dopoguerra. ’ Ozu si sta rivolgendo all’intervistatore. < Saitó Tatsuo (1902-1968) fu uno degli attori preferiti di Ozu, con il quale, a partire da Wakddo no yume, fece sedici film.

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SCRITTI SUL CINEMA

Vado per la mia strada*

Ho varcato la porta del mondo del cinema nel 1923, ormai trentasei anni fa. Se penso che sono riuscito a cavarmi la pagnotta facendo questo mestiere, la cosa quasi mi sconvolge. Se avessi lavorato in un’a­ zienda normale sarei andato in pensione già l’anno scorso. Ho persino ricevuto vari premi. Il motivo per cui sono entrato nel cinema? Perché mi piacevano i film. Una volta, se si fosse saputo che andavo al cinema sarei stato so­ speso da scuola, così ci andavo di nascosto mascherandomi con un cappello da cacciatore e impazzivo per Douglas Fairbanks e Pearl White1. Sin da quando ero piccolo non avevo intenzione di dedicarmi allo studio e così ho finito per fare il regista. Se allora dicevi di voler entrare nel mondo del cinema, ti chiamavano libertino e venivi consi­ derato un depravato. Al giorno d’oggi, invece, è diventato difficile per­ sino poterci entrare in questo mondo. Se io, che sono uno incostante e capriccioso, ho continuato a seguire questa strada per trentasei anni, sarà probabilmente perché ho sempre sentito la responsabilità di aver­ lo voluto fortemente. Nel 1927 ho esordito come regista con Zange no yaiba, un jidai­ geki. L’anno dopo, la sezione dei jidaigeki venne trasferita da Kamata a Kyoto, così ho fatto solo un film di questo tipo. Ogni tanto però penso che mi piacerebbe girare un jidaigeki realistico. Quelli che fan­ no adesso si attengono rigidamente alle convenzioni: se per esempio c’è un signore feudale, ha sempre la parte anteriore della testa perfet­ tamente rasata a zero, come se fosse un personaggio di Makura no sòshi2. Anche i signori feudali avranno pur avuto dei giorni in cui non ’ Originariamente pubblicato in «Nikkan Sports», 1° dicembre 1959. 1 Sulla considerazione negativa dell’opinione pubblica giapponese nei confronti del ci­ nema nei suoi primi anni, si veda Gerow, From Misemono io Zigomar cit., pp. 157-85. 2 Makura no sòshi di Sci Shònagon (trad. it. di L. Origlia, Note del guanciale, SE, Milano 2002) è una celebre raccolta di osservazioni e riflessioni personali sulla vita di corte dell’e-

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si rasavano perché avevano il raffreddore oppure si ferivano rasandosi e dovevano apparire in pubblico con un unguento sulla testa... Con Ukikusa [Erbe fluttuanti, 1959] ho raggiunto i cinquanta film ma le cose sono completamente cambiate dall’epoca degli albori del ci­ nema quando ho iniziato. Il nostro lavoro, in realtà, deve molto agli sviluppi della tecnologia e quindi in buona parte non dipende solo da noi. Io ho definito un mio stile, ma non penso ci sia una grammatica di come si fanno i film. Perciò, ben venga la Nùberu bàgu\ Forza, nuo­ vi registi originali, venite fuori! Se mi chiede qual è il film che preferisco fra tutti quelli che ho fat­ to, mi mette in difficoltà perché non ne ho fatto nessuno pensando di farlo male. Anche in futuro, finché la salute me lo permetterà e con la compagnia dell’amato sakè, continuerò a fare dei film a modo mio... (ili. 18).

poca Heian da parte di una dama della corte dell’imperatrice Teishi, composte fra gli anni novanta del 900 e il 1002. ' Pronuncia giapponese di nouvelle vague. Il riferimento è al radicale rinnovamento che, in parallelo a quanto avveniva in Francia e in altri paesi, si ebbe nel cinema giapponese a par­ tire dalla metà degli anni cinquanta attraverso l’apertura a un cinema che esprimesse stilisti­ camente e contenutisticamente le tensioni delle nuove generazioni. Cfr. Tornasi, Ozu cit., pp. 137-8. Per un’articolazione più ampia, anche con scritti originali dei registi del nuovo movimento, si veda M. Miiller - D. Tornasi (a cura di), Racconti crudeli di gioventù. Nuovo cinema giapponese degli anni 60y Edt, Torino 1990.

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SCRITTI SUL CINEMA

Un mio vezzo’

Mi piace la scrittura di Shiga’ con la sua levigata bellezza. È uno scrittore che stimo. Siamo molto amici e, al di là delle differenze tra ci­ nema e letteratura, mi piacerebbe riuscire a raggiungere il suo tono so­ brio e terso e creare nei miei film la stessa levigata bellezza. A volte qualcuno mi dice: «Perché ogni tanto non provi a fare un film un po’ diverso?», ma io rispondo sempre che sono un piccolo pro­ duttore di tofu. Se si chiede a un piccolo produttore di tofu di prepara­ re un piatto di curry o una cotoletta di maiale impanata, lui non riuscirà mai a farli bene e perciò anche questa volta sto preparando un film a modo mio che si intitola Inizio di primavera (Sòshun, 1956); ancora un terzo e avrò finito la sceneggiatura. Inizierò a girare verso luglio. Non penso di avere una fissazione particolare, però ci tengo dav­ vero molto all’armonia con le persone2. Guardando i miei film ci sarà chi pensa che io abbia un carattere calmo ed equilibrato, ma state pur certi che ho anche un lato gauden­ te che mi conferisce in maniera naturale un tono comico.

’Originariamente pubblicato in «Yomiuri Gurafu», 7 giugno 1955. 1 Shiga Naoya (1883-1971), figlio di un banchiere di famiglia samurai. Ribellatosi al­ l’ambiente di provenienza e convertitosi al cristianesimo, fu una delle figure più significati­ ve del panorama letterario giapponese dei primi decenni del Novecento. È considerato il maestro del cosiddetto romanzo dell’io (shishòsetsuj per la sua capacità di arrivare, attraver­ so il ricordo e la memoria, all’essenza dell’esperienza e di cristallizzarla in forma di raccon­ to. 1 suoi racconti ebbero successo fin dagli anni giovanili, mentre la sua opera più significa­ tiva è Anya kòro, unico suo romanzo lungo, pubblicato a puntate tra il 1921 e il 1937 sulla rivista «Kaizó». Cfr. Katò, Storia della letteratura giapponese cit., pp. 197-200. L. Bienati (a cura di), Letteratura giapponese, li, Dalla fine dell’ottocento all’inizio del terzo millennio, Einaudi, Torino 2005, pp. 364-5. 2 Sull’importanza del concetto di armonia (wa) nei film di Ozu, si veda D. Tornasi, A Simple Life: un ritratto di Ozu e del suo cinema, in G. Placereani, Ozu Yasujiro, Autunno e primavera, Tucker Film/Far East Film Festival, Udine-Pordenone 2015, p. 11.

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SCRITTI SUL CINEMA

È qua Narayama’

Mia madre è nata nel 1875. Ha avuto tre maschi e due femmine, io sono il secondogenito. Tutti gli altri miei fratelli e sorelle hanno tro­ vato moglie o sono andate in sposa e sono trascorsi ormai più di ventanni da quando siamo rimasti a vivere solo io e lei (ili. 16). Non so se è perché le fa comodo stare con me perché sono scapo­ lo oppure perché pensa che io non sia ancora abbastanza autosuffi­ ciente, fatto sta che insieme viviamo proprio bene. Lei si alza presto la mattina e va a letto presto la sera, io faccio esat­ tamente il contrario, per cui anche se siamo nella stessa casa è molto raro che mangiamo insieme (ili. 17). Fino all’anno scorso era in gamba e faceva tutto da sola, preparava da mangiare, apriva e chiudeva le imposte scorrevoli, sistemava il mio faton', ma da quest’anno non ce la fa più tanto e si fa aiutare da una domestica. È più che naturale. Ha ottantaquattro anni. Quando la guardo mi vien da pensare a quanto possano essere resistenti le perso­ ne. A pensarci, andare in pensione a cinquantacinque o sessant’anni è davvero troppo presto. La casa dove abitiamo adesso è sulla collina di Kita Kamakura2 e c’è da fare una salita, per cui mia madre esce molto raramente. Forse qua lei si sente già un po’ come se fosse a Narayama5. ’ Originariamente pubblicato in «Shùkan Asahi», 10 agosto 1958. 1 II futon è il materasso tradizionale giapponese. In generale, il termine futon indica due componenti separate, anche se utilizzate insieme: lo shikibuton (materasso di cotone su cui si dorme, sottile e pieghevole) e il kakebuton (coperta in cotone o piumino, spesso trapun­ tata). Nella casa tradizionale giapponese, il futon viene disteso sul tatami la sera per dormi­ re e il mattino dopo viene areato e poi riposto, in modo da disporre della stanza per altri usi. 2 Zona nord di Kamakura, cittadina (attualmente di circa 175 000 abitanti) situata a cir­ ca 50 km a sud di Tokyo. Un tempo capitale del Giappone (1185-1333), ha conservato nei secoli un’atmosfera sofisticata e culturalmente ricca. Ozu vi abitò negli ultimi undici anni di vita e Noda ancora più a lungo. A Kamakura e Kita Kamakura Ozu ambientò alcuni film del dopoguerra. La tomba di Ozu si trova sulla collina de) tempio Engakuji di Kita Kamakura. ’ Il riferimento è alla leggenda giapponese deìVubasute (abbandonare un anziano), se­ condo la quale nel lontano passato, quando un genitore era troppo anziano, veniva portato

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Da giovane era una donna alta e robusta e ancora adesso è mas­ siccia per la sua età. Non ho mai provato a portarla sulle spalle, ma mi sa che pesa. Con mia madre sulla schiena piango sotto il suo peso mentre cammino verso Narayama4.

Se Narayama è qua, mi va benissimo che ci resti fino a quando lo desidera. Così non debbo neanche portarla sulle spalle e questo è un sollievo.

a spalle su una montagna e lasciato lì a morire. L’immagine venne ravvivata nell’immagina­ rio collettivo del Giappone contemporaneo nel 1956 con il romanzo di S. Fukazawa, Na­ rayamabushi kò (trad. it. di B. Garufi, Le canzoni di Narayama., Einaudi, Torino 1997). Da esso vennero tratti due film: Ad leggenda di Narayama (Narayamabushi kò, 1958) di Kino­ shita Keisuke e La ballata di Narayama (Narayamabushi kó, 1983) di Imamura Shóhei, che vinse la Palma d’oro al Festival del cinema di Cannes. 4 Parodia di una poesia (tanka) di Ishikawa Takuboku che recita: «Per gioco mi sono messo mia madre sulla schiena/ sorpreso dalla sua inaspettata leggerezza/ per la commozio­ ne non ho potuto muovere un passo» (traduzione nostra).

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SCRITTI SUL CINEMA._______________________

La grammatica del cinema’

Per scrivere ci sono delle regole che si chiamano grammatica. An­ che nel cinema ci si comporta dando per scontato che esistano delle re­ gole come nella scrittura. Per comodità chiameremo queste regole «grammatica del cinema», ma io non credo che nel cinema esista una grammatica. Ciò che viene chiamata grammatica in realtà non lo è in senso stretto e mi sento di dire che non ci si deve preoccupare di atte­ nersi a essa. Si parla di queste cose come se fossero scontate per la messa in sce­ na. Per esempio, si dice che quando si gira una scena in cui vi sono un uomo e una donna che stanno conversando faccia a faccia, la macchi­ na da presa, nel riprenderli alternatamente, non può mai superare la li­ nea che li unisce. Detto in maniera più concreta, come si vede nella fi­ gura A, l’uomo e la donna stanno parlando e la macchina da presa ri­ prende prima l’uomo dal punto 1). Sullo schermo, l’uomo risulterà guardare leggermente verso quella che per gli spettatori è la destra. Poi, la macchina da presa riprende la donna dal punto 2) e il risultato sarà che la donna guarderà leggermente verso quella che per gli spettatori è la sinistra. In questo modo, gli spettatori prima vedono l’uomo che guarda a destra e poi la donna che guarda a sinistra, e percepiscono che i due sono rivolti l’uno verso l’altro. Quando si riprendono due per­ sone che parlano faccia a faccia, è considerato naturale e come una ve­ rità a cui attenersi che la posizione della macchina da presa non debba mai scavalcare la linea che unisce i loro sguardi e debba stare sempre da una parte o dall’altra di quella linea. Io, invece, riprendo questa scena mostrando prima l’uomo che guarda verso sinistra e poi anche la donna che guarda verso sinistra, e gli spettatori che la guardano, naturalmente incluso me stesso, istinti' Originariamente pubblicato in «Gekkan Sukurin Sutéji», 20 giugno 1947.

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vamente capiscono senza problemi che i due stanno faccia a faccia. Questo modo di riprendere ignora la cosiddetta grammatica del cine­ ma e ora vi spiego perché. Guardate la figura B.

Prima si riprende l’uomo dal punto 1. Poi si riprende la donna dal punto 2. Entrambi guardano perciò verso sinistra e la macchina da presa oltrepassa la linea che li unisce da destra a sinistra. Questo mo­ do di riprendere contravviene chiaramente alle regole di cui stiamo parlando. Da quando ho iniziato a riprendere così, mi sono chiesto se qual­ che altro regista usa questo modo di riprendere e ogni volta che guar­ do un film faccio attenzione ma fino a ora, fra più di cento film che ho visto, ho trovato solo una breve scena ripresa in questo modo nel film Konigsmark (Konigsmark, 1935) del regista francese Maurice Tourneur. Questa grammatica del cinema è iniziata con gli ammonimenti che Thomas Kurihara1 rivolse ai giovani registi quando tornò dall’America e che da allora si sono poi imposti nel mondo del cinema giappone­ se come se fossero la norma. Dopo l’anteprima del mio vecchio film II figlio unico (Hitori musuko, 1936), mi ritrovai con altri registi fra cui 1 Kurihara Thomas (1885-1926) nel 1912, sull’onda del successo hollywoodiano del­ l’attore giapponese Hayakawa Sessue, andò a studiare recitazione negli Stati Uniti e parte­ cipò ad alcuni film prodotti da Thomas H. Ince (da) quale prese il nome), fra cui The Wrath of the Gods [L’ira degli dei, 1914], che lo rese famoso. Nei 1918, con lo sviluppo dell’indu­ stria cinematografica giapponese, venne chiamato a fare il regista in Giappone proprio per trasmettere la sua conoscenza del cinema americano, allora considerato il riferimento prin­ cipale. In pochi anni diresse più di trenta film, ma il suo tentativo fallì di lì a poco. Cfr. An­ derson - Richie, The Japanese b'ilm cit., pp. 40, 43; Novielli, Storia del cinema giapponese cit., pp. 32-3.

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Uchida Tomu2, Inagaki Hiroshi5, Shimizu Hiroshi e Takizawa Ei­ suke4. Provai a chiedere loro che cosa ne pensavano di questa mia «vio­ lazione» delle regole e Inagaki mi disse che gli era sembrato strano so­ lo inizialmente ma poi non ci aveva più fatto caso. Dopo di allora non sentii nessuna opinione diversa dalla sua. Se il fatto di non oltrepassare quella linea fosse una regola assoluta, quando la si viola ci dovrebbe essere qualche conseguenza fallimenta­ re, ma se invece non si percepisce nulla di strano, vuol dire che quella teoria non è poi così assoluta. Tuttavia, non vorrei essere frainteso. La grammatica del cinema è comunque una regola di base e poiché a seguirla non si corrono rischi, non è affatto necessario infrangerla apposta. La prima volta in cui ho osato provare a riprendere in questo mio modo eterodosso è stato quando mi sono trovato a girare una scena in una stanza in stile giap­ ponese con i personaggi posti necessariamente in relazione all’ambien­ te circostante e attenendomi a quella regola mi era del tutto impossibi­ le esprimere come volevo i sentimenti e l’atmosfera di quella scena. Nella stanza in stile giapponese, la posizione in cui si siedono le persone è quasi fissa e anche nel caso più spazioso parliamo di una stanza di circa dieci tatami;, per cui l’ambito di manovra della macchi­ na da presa è troppo stretto. Oltre a ciò, se si dovesse seguire quella re­ gola, lo sfondo dietro un personaggio sarebbe sempre il tokonoma e dietro un altro personaggio sarebbe sempre unfasuma*’ oppure il cor­ ridoio che dà sul giardino. Non riuscivo quindi a esprimere l’atmosfe­ ra che desideravo. Mi trovai così costretto a contravvenire alla regola, ma, quando lo feci, capii che non era una regola assoluta. ’ Uchida Tomu (1898-1970), regista giapponese. Riscoperto recentemente, è autore di vari titoli originali che vanno dalla critica sociale alla satira, all’analisi psicologica di persone legate dal reciproco odio, senza trascurare qualche felice incursione nel genere jidaigeki. •' Inagaki Hiroshi (1905-1980), regista giapponese, uno dei maestri del genere jidaigeki. 1 suoi primi lavori restano un esempio del pessimismo lirico dell’epoca del cinema muto. An­ che dopo l’avvento del sonoro continuò a realizzare film originali. Celebre è la sua trilogia degli anni cinquanta sullo spadaccino Miyamoto Musashi. * Takizawa Eisuke (1902-1965), regista giapponese. Diresse oltre ottanta film, fra cui molti jidaigeki e alcuni adattamenti da opere letterarie. Nel 1937 girò Sengoku guntòden (Storie di ladri nell’epoca degli Stati combattenti], un jidaigeki tratto da Schiller e trasposto nel Giappone medievale, su sceneggiatura, fra gli altri, di Yamanaka Sadao (sotto il nome di Kajiwara Kinpachi). 5 Si veda supra, nota 40, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 19. Nel caso specifico, dieci tatami corrispondono a una superficie di circa 16,5 mq. h Nell’architettura tradizionale giapponese, i fusuma sono pannelli verticali rettangolari (simili al tamburato e di solito con dimensione 90 per 180 cm) costituiti da un’intelaiatura di legno e da strati di carta e poi rivestiti da un foglio di carta o di tessuto decorativo. Tali pan­ nelli, scorrendo, ridefiniscono la struttura delle stanze, oppure fungono da porte.

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Da tempo si dice che il primo piano è una tecnica che si usa per esprimere in maggior dettaglio e con maggiore enfasi un determinato sentimento, ma ci sono casi che per evidenziare un sentimento dram­ matico richiedono un primo piano e altri che richiedono un campo lungo. Pensiamo all’esempio concreto di un assistente regista che prende le regole alla lettera e quindi ritiene che il primo piano sia una tecnica per esprimere il culmine della tensione drammatica. Se il regi­ sta va avanti con inquadrature fatte di primi piani, l’assistente è spinto a pensare che quelle inquadrature siano tutte della massima dramma­ ticità e si preoccuperà di come fare l’inquadratura di maggiore impor­ tanza che viene dopo, cioè vorrà fare un primo piano per esprimere il climax, invece se il regista arretra la macchina e fa un campo lungo, l’assistente finirà per non capirci più niente. Nella maggior parte dei casi, l’assistente non capirà le intenzioni del regista fino a quando non vedrà l’anteprima del film. Come per il primo piano, nel cinema c’è un problema ancora più importante che riguarda l’ellissi7. Per esempio, per indicare il passare del tempo, agli albori del cinema si usava la tecnica della dissolvenza in chiusura o in apertura, oppure nei casi più sofisticati si mostrava un orologio o un calendario, ma ora ciò si esprime adeguatamente anche solo con uno stacco8. Tuttavia, l’ellissi non va vista solo in questo senso letterale ma, come posso dire, anche in relazione al ritmo, al tono della tensione drammati­ ca. Ha un ruolo fondamentale per far concentrare nel dettaglio l’atten­ zione degli spettatori su un elemento, omettendone altri. Non è perciò una questione solo di apparenza ma di sostanza. La stessa cosa avviene nella pittura: se dipingo una parte in maniera poco definita, attrarrò an­ cor più l’attenzione nei dettagli su un’altra parte del dipinto. Si può pro­ prio dire che il problema dell’ellissi nel cinema sia la chiave essenziale del­ la costruzione drammatica del film stesso. Penso che le opere di Unkei9 e ’ Nel linguaggio cinematografico l’ellissi indica un salto temporale che interviene tra due azioni differenti, tra due scene, due sequenze o all’interno di una stessa sequenza. Il salto, tal­ volta preceduto da una dissolvenza in nero, può avvenire sia in avanti sia indietro nel tempo della narrazione. Cfr. G. Rondolino - D. Tornasi, Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi. Seconda edizione, Utet, Torino 2011, p. 38. Sull’uso dell’ellissi da parte di Ozu, in particolare in Viaggio a Tokyo (Tòkyo monogatari, 1953), si veda D. Tornasi, Ozu Yasujiro, Viaggio a Tokyo, Lindau, Torino 2002, pp. 46-9. * Nel linguaggio cinematografico, lo stacco indica il passaggio diretto da un piano a quel­ lo successivo. Cfr. Rondolino - Tornasi, Manuale del film cit., p. 206. ’ Unkei (1150 ca.-1223), famoso scultore specializzato in statue di Buddha e altre divi­ nità buddhiste e più importante rappresentante della scuola di scultura Kei. Varie sue opere sono considerate tesoro nazionale giapponese. Fra le sue sculture più famose c’è la statua del­ la divinità Miroku Bosatsu al tempio Kòfukuji di Nara.

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di Tankei10 o gli haiku di Bashò" siano i più straordinari esempi di que­ ste omissioni. Perciò, quando sento che posso rendere più espressiva un’inqua­ dratura con un campo lungo, per valorizzarla meglio la faccio prece­ dere da una serie di primi piani consecutivi, ma questi primi piani non hanno la funzione di enfatizzare qualcosa in particolare, servo­ no solo come preambolo per far meglio risaltare il campo lungo. A coloro che considerano la tecnica del primo piano per esaltare qual­ cosa come se l’avessero imparata a memoria per un esame, dico sem­ pre una cosa. Se per esprimere il dolore della morte di un fratello mi­ nore si fa un primo piano della faccia intera, quando morirà il fratel­ lo maggiore si dovrà fare un primo piano un po’ più grande. Quan­ do poi morirà la madre si dovranno riprendere solo il naso e gli oc­ chi e per la morte della persona amata o della moglie si dovrà fare un primo piano solo degli occhi. Cosa si farà allora quando morirà l’u­ nico figlio? Anche per ciò che riguarda gli attori, è sbagliato prepararsi pensan­ do che sia sufficiente recitare ciò che si è imparato a memoria, per cui in una certa situazione si deve sempre assumere una certa espressione memorizzata in precedenza. Ho chiesto a un’attrice di mostrarmi la faccia addolorata di una che aveva perso dei soldi per la strada. Lei ha fatto una certa espressione. «Quanto pensi di aver perso», le ho chiesto e lei mi ha detto: «Cin­ quanta yen». Allora le ho detto di fare l’espressione di una che ha per­ so cento yen, poi cinquecento e poi ancora mille e via via lei non riu­ sciva più a trovare delle espressioni molto diverse da quelle preceden­ ti. Così l’ho presa in giro dicendole che all’aumentare della cifra che perdeva era sempre meno addolorata. Naturalmente era solo una bat­ tuta dovuta al mio gusto per lo scherzo ma sono convinto che anche per la recitazione degli attori, al di fuori della propria sensibilità, non ci possa essere una vera e propria regola fissa.

Spesso ignoro la grammatica del cinema. Non mi piace dare trop­ po peso alla teoria, però non mi piace neanche trascurarla. Sarà un mio capriccio ma valuto le cose in base al fatto se mi piacciono o no. 115 Tankei (1173-1256), scultore, figlio maggiore e allievo di Unkei (si veda la nota prece­ dente). Una delle sue sculture più famose è quella della divinità buddhista Avalokitcsvara nel tempio Sanjusangendò di Kyoto, considerata tesoro nazionale. " Matsuo Bashò (1644-1694) fu il più famoso poeta dell’epoca Edo e il maestro unani­ memente riconosciuto del?haiku, la forma poetica peculiare giapponese, composta rispetti­ vamente di cinque, sette e cinque sillabe.

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Il cinema è un’arte appena nata rispetto ad altre come la letteratura o le arti figurative. Penso che non ci possa essere una grammatica spe­ cifica. Quando riprendo non voglio essere limitato dal dover obbedi­ re a una grammatica. E poi, se la grammatica fosse una regola assoluta come una legge naturale, allora al giorno d’oggi in tutto il mondo una decina di registi sarebbero sufficienti. Quando giro un film, non penso alle regole del cinema, così come un romanziere quando scrive non pensa alla grammatica. Esiste la sen­ sibilità, non la grammatica.

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Nel cinema non c’è «grammatica»*

Era la fine del periodo Taishó1 quando entrai agli studi di Kamata e iniziai l’apprendistato per diventare regista. A quell’epoca, le cosid­ dette «immagini in movimento»2 stavano finalmente diventando qual­ cosa che assomigliava al cinema ma non si sapeva ancora quale sareb­ be stato l’avvenire di quella cosa chiamata «cinema». Noi giovani di­ scutevamo accanitamente giorno e notte dei film. Bevevamo e parlava­ mo di cinema e quando andavamo in una sala cinematografica perma­ nente5 prendevamo forsennatamente appunti nel buio pesto. Adesso, quando guardo un film più che altro mi diverto, ma a quei tempi non mi divertivo un granché perché ero tutto teso nel cercare di capire do­ ve cambiava un’inquadratura, oppure che tecnica di ripresa avevano usato e così via. Proprio in quel periodo, uscì in America il libro di Victor Free­ burg, L’arte di fare film\ fu tradotto anche in giapponese e venne de­ cantato da tutti. Sosteneva la teoria decisamente banale secondo cui, poiché in un film ci sono una componente letteraria, una pittorica e una musicale, il cinema è arte. Se ci ripenso adesso, era un libro che de­ scriveva apposta in maniera difficile cose insignificanti. In pratica di­ ceva: questo kon'nyaku* è impregnato di salsa di soia, ha un retrogu­ sto dolce e si sente una punta di peperoncino, quindi è buono. ‘ Originariamente pubblicato in «Geijutsu Shinchò», aprile 1959. 1 Secondo il calendario giapponese, l’era Taishó va dal 12 luglio 1912 al 25 dicembre 1926. •’ Si veda supra, nota 1, in Io, regista in miniatura, p. 23. } L’aggettivo «permanente» è dovuto al fatto che nel periodo iniziale del cinema, le sale cinematografiche vere e proprie non esistevano ancora o erano rare e le proiezioni avveniva­ no spesso in baracconi, saloni o teatri utilizzati per l’occasione. 4 V. O. Freeburg, The Art of Photoplay Matting, Macmillan, New York 1918 (trad. it. a cura di M. Guerra, L’arte di fare film, Diabasis, Parma 2013). 5 II kon’nyaku è una gelatina vegetale ricavata dall’amido della konjac, una pianta com­ mestibile nota nei paesi del Sud-est asiatico da più di millecinquecento anni. Nella cucina giapponese il kon’nyaku viene utilizzato in vari piatti.

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Tuttavia, era comprensibile che tutti parlassero di questo libro. In­ fatti, fino a poco tempo prima - cioè fino al tempo dei miei colleghi più anziani - era l’epoca delle «immagini in movimento» e i personag­ gi erano tutti rigidamente convenzionali: se era una donna doveva chiamarsi Hanako, se era un uomo Takeo. Se invece era un film stra­ niero, la donna si chiamava Mary e l’uomo Robert. Una volta Shimi­ zu Hiroshi propose il titolo Nakinureta Maria [Maria in lacrime], ma un dirigente della Shochiku gli disse che Maria era una donna occi­ dentale, quindi occorreva cambiare il titolo in Nakinureta Mary. Ef­ fettivamente, se Maria diventa Mary6, cambia tutto. Allo stesso modo, ai tempi in cui era molto in voga Dòtonbori kdshinkyoku [La marcia di Dòtonbori]7, stavano facendo l’adattamento cinematografico de L’uccellino azzurro\ quello con Tytyl e Mytyl9, e a proposito del titolo la casa produttrice ordinò di modificarlo in L’uccellino azzurro e l’uccel­ lino rosso perché L’uccellino azzurro da solo era un po’ triste; erano tempi del genere. A ripensarci adesso era un’epoca che aveva un suo fascino ed era davvero divertente, ma si trattava di un mondo che non aveva nulla a che fare con l’arte. Fra i film che mi impressionarono profondamente in quel periodo ci furono quelli di Lubitsch. Prima di allora in un film c’erano i buoni e i cattivi che si perseguitavano a vicenda. A volte i buoni sembravano quasi sconfitti dai cattivi, ma alla fine, naturalmente, vincevano sem­ pre. Una volta erano inseguitori, una volta erano inseguiti, lo sfondo poteva essere una città western o un paesaggio innevato dell’Alaska, ma le storie erano sempre le stesse, cambiava solo l’ambientazione. I film di Lubitsch, invece, costituivano un passo avanti, cominciavano a dipingere i sentimenti e gli stati d’animo dei personaggi, erano più convincenti. Oggi possono sembrare scontati, ma allora furono dav­ vero una grande rivoluzione. Era l’epoca dei film muti e quindi senza dialoghi o monologhi. Ciononostante, quando guardavi i film di Lu­ bitsch, Chaplin o Monta Bell, gioia e tristezza ti investivano, e non si • Si noti che i giapponesi di solito non sanno che Mary è il corrispondente inglese di Ma­ ria. Maria è considerato principalmente il nome della madre di Gesù, mentre Mary è sem­ plicemente un nome di donna in inglese. 7 Dòtonbori kdshinkyoku è una famosa canzone del 1929. Fra gli anni venti e trenta, Dòtonbori era il più popolare distretto dei divertimenti di Osaka, noto per i suoi locali di piacere (i café) e per i cabaret dove si suonava jazz. * Opera teatrale del commediografo belga Maurice Maeterlink rappresentata per la pri­ ma volta a Mosca nel 1908 con la regia di Stanislavskij. Il film a cui si riferisce Ozu è Aoi to­ ri [L’uccellino azzurro] di Uchida Tomu del 1928, rimasto poi incompiuto perché bloccato dalla censura. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., p. 69. ’ Nome dei due protagonisti de L'uccellino azzurro.

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trattava di semplice sofferenza ma c’erano certe sottili sfumature com­ plesse per cui, ad esempio, gli attori, mentre ridevano, facevano capire che erano addolorati. Da allora i film trattarono spesso questi aspetti più sofisticati, poi progredirono ulteriormente e, così come già era avvenuto per la lette­ ratura, iniziarono a sviluppare l’espressione dei sentimenti o l’ap­ profondimento del carattere dei personaggi. Il cinema avrebbe poi co­ minciato a ricercare elementi originali propri che la letteratura non era in grado di esprimere, come le scene di movimenti di massa o una im­ mediatezza visiva straordinaria, ma questo venne molto dopo. Mi capita spesso di rivedere anni dopo un film che da giovane mi aveva impressionato e di scoprirlo inaspettatamente poco interessante. Le impressioni della prima volta erano state sublimate, abbellite e in­ grandite nella mia mente dal ricordo, al punto che erano diventate un’immagine a sé stante, diversa dai film stessi. Per esempio, anche Marocco (Morocco, 1930), che viene considerato un capolavoro del primo periodo del cinema sonoro10, quando l’ho rivisto dopo un po’ di anni, mi ha fatto un’impressione completamente diversa. C’era un’in­ quadratura che mi era sembrata un primo piano, invece era semplicemente la macchina da presa ferma che andava avanti a riprendere. Tra i racconti di Akutagawa Ryùnosuke ce n’è uno che si intitola Shùzanzuu e, un po’ come al protagonista di quel racconto, mi capita spesso di sentirmi beffato da una volpe o da un cane-procione12 quando ri­ guardo anni dopo un film che una volta mi aveva colpito. Questo ac­ cade anche per i cambiamenti della sensibilità estetica, dell’ambiente o del senso dei tempi di chi guarda, ma soprattutto per gli incessanti pro­ gressi tecnologici dell’arte chiamata cinema che fanno sentire Inflet­ to Shùzanzu» in maniera particolarmente forte. È ormai da molto tempo che il famoso regista americano Griffith ha introdotto l’uso della tecnica del primo piano. Non c’è da stupirsi, già nel teatro kabuki esisteva l’effetto scenico chiamato tsura akari [ilIS 11 successo di Marocco fu tale che la sua uscita in Giappone segnò simbolicamente l’i­ nizio della scomparsa della figura del benshi (commentatore in sala). Cfr. Richie, A Hundred Years ofJapanese Film cit., p. 16. 11 Shùzanzu (trad. it. di S. Kayser: Paesaggio di montagne in autunno, in S. Kayser, Pae­ saggio di montagne in autunno [Shùzanzu] di Akutagawa Ryùnosuke: il «miraggio» della bel­ lezza, disponibile sul sito Academia, all’indirizzo http://www.academia.edu/2522481/ ), è un racconto breve uscito nel gennaio 1921 sulla rivista «Kaizò». 12 Nel folklore giapponese, la volpe e il cane-procione sono considerati spiriti animali che prendono in giro e ingannano gli uomini con diverse gradazioni di bonarietà.

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luminazione facciale]13, solo che nel cinema viene usato in maniera molto più ardita. Questa tecnica che riprende da vicino la mano che stringe il fazzoletto quando un personaggio è addolorato fu allora una novità espressiva stupefacente. In breve tempo, il primo piano, insie­ me con lo sviluppo tecnologico delle macchine da presa, cominciò a essere in grado di cogliere i sottili mutamenti delle espressioni del vol­ to e il suo impiego diventò una delle «regole grammaticali» per mo­ strare i sentimenti al loro culmine. Tuttavia, non penso che sia sempre efficace usare il primo piano per enfatizzare una scena triste. A volte, un eccesso di drammatizzazione può avere un effetto controproducente. Perciò, quando devo girare una scena davvero triste, credo che ripresa in campo lungo non sia invasiva e sia meno didascalica e quindi risulti più incisiva. Altre volte, invece, uso il primo piano anche in scene in cui non devo enfatizzare nulla. Il motivo per cui lo utilizzo è che con il campo lungo si allarga lo sfondo che viene ripreso e quindi diventa complicato sistemare tutte le cose che non devono entrare nell’inquadratura, perciò uso il primo piano per eliminare tutto ciò che sta intorno. Il primo piano ha anche questa uti­ lità. E ci sono anche molti altri usi, come per esempio quando si vuole scandire il tempo. Perciò, considerare il primo piano alla Griffith come una regola unica mi sembra una visione troppo ristretta. Questo modo di considerare le tecniche cinematografiche come se fossero «regole grammaticali» non è iniziato con il primo piano. In Giappone, quando il cinema diventò un’attività imprenditoriale, ven­ ne dall’America Kurihara Thomas14, che fece conoscere varie tecniche cinematografiche. L’atteggiamento di allora di accettarle come «rego­ le grammaticali» ha probabilmente segnato l’inizio della teoria della grammatica del cinema come se fosse un insieme di regole auree. Per esempio, c’è questa regola. Quando si riprendono con dei pri­ mi piani alternati A e B che conversano, la macchina da presa non de­ ve mai superare la linea che unisce A e B. In altre parole, si fa un pri­ mo piano di A stando un po’ scostati dalla linea AB. In questo modo, sullo schermo la faccia di A viene ripresa rivolta a sinistra. Poi, stando dallo stesso lato della linea AB, si fa un primo piano di B con la mac­ china da presa posizionata in direzione esattamente opposta. In que­ sto modo, sullo schermo la faccia di B è rivolta a destra. Gli sguardi di ” Lo tsura akari, usato principalmente nell’epoca Edo (1603-1868), consisteva nell’illuminare da vicino con una candela fissata su un’asta il volto del protagonista per aumentarne la visibilità. Cfr. D. Miyao, The Aestethics of Shadow. Lighting and Japanese Cinema, Duke University Press, Durham 2013, p. 64. M Si veda supra, nota 1, in Im grammatica del cinema, p. 38.

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entrambi si incrociano sopra la platea e si ha così la sensazione che conversino faccia a faccia. Se invece si oltrepassasse la linea AB si per­ derebbe completamente la sensazione della conversazione. A me, però, questa «regola» sembra solo una spiegazione stirac­ chiata. Io faccio i primi piani scavalcando la linea AB senza preoccu­ parmene minimamente. Così, sia A che B guardano verso sinistra e quindi i loro sguardi non si incrociano sulla platea. Ciononostante, si riesce ad avere lo stesso la sensazione della conversazione fra di loro15. Probabilmente, sono Punico a riprendere in questo modo in tutto il Giappone, o forse al mondo. Ormai sono passati trent’anni da quan­ do ho iniziato a lavorare così. I miei amici, come il compianto Yama­ naka Sadao16, o Inagaki Hiroshi e Uchida Tomu, dicono che i miei film non sono agevoli da guardare. Perché è diverso il modo in cui io ri­ prendo. Ma quando chiedo loro se è così fino alla fine del film, mi ri­ spondono di no, che è solo all’inizio e poi ci si abitua subito. Se all’i­ nizio si mostra quindi con un campo lungo la posizione di A e B in maniera chiara, poi si può riprendere a proprio piacimento da qualun­ que angolazione. L’incrociarsi degli sguardi sopra la platea non mi pa­ re una cosa poi così importante. La cosiddetta teoria della «grammati­ ca» mi puzza di forzatura ed è troppo angusta per doversi attenere a essa. Il cinema deve essere fatto più liberamente. Chissà perché, quando viene introdotta una nuova tecnica, subito si pensa che sia una qualche teoria e viene trasformata in una «regola grammaticale» cui bisogna attenersi. È così, per esempio, anche per la dissolvenza in apertura o in chiusura. Quando in un film il giorno fi­ nisce, bisogna oscurare lo schermo con una dissolvenza in chiusura. Altrimenti il giorno non finisce. Oppure, quando inizia una scena si deve per forza usare una dissolvenza in apertura. In passato si usava'* Per una descrizione semplice ma molto efficace del modo di riprendere di Ozu e dei suoi effetti sullo spettatore, si veda W. Wenders - M. Zournazi, Inventare la pace, Bompia­ ni, Milano 2014, pp. 117-20. '* Yamanaka Sadao (1909-1938), regista giapponese stretto amico di Ozu, morì in guer­ ra sul fronte cinese all’eta di soli ventinove anni. Nella sua breve, talentuosa carriera, in me­ no di sei anni girò ventiquattro film, di cui solo tre sopravvissuti nella loro interezza. Con­ siderato il «Jean Vigo giapponese», fu uno dei geniali rinnovatori del cinema giapponese moderno, in particolare per il genere jidaigeki, dove spostò l’accento della narrazione dal­ l’azione ai personaggi. La sua straordinaria capacità di raffigurare delle comunità credibili gli consentì di ricreare il milieu sociale dell’antica Edo, in particolare del popolo dei mer­ canti e degli artigiani. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 92-5; F. Freiberg, Turning Serious. Yamanaka Sadao's Humanity and Paper Balloons (1937), in Japanese Ci­ nema: Texts and Contexts, a cura di A. Phillips e J. Stringer, Routledge, New York 2007, pp. 50-62. 47

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no anche le tecniche di apertura e chiusura a cerchio chiamate «effetto iride in apertura» e «effetto iride in chiusura»17. Queste tecniche, però, non sono state ideate da chi faceva i film, so­ no solo alcune delle funzioni offerte dalla macchina da presa. Basta premere il pulsante di regolazione e l’otturatore si apre completamen­ te. Il risultato che si ha sullo schermo è la dissolvenza in apertura. È davvero insensato che vi siano persone che considerano le dissol­ venze in apertura o in chiusura «regole grammaticali» fisse e che ti dica­ no dove si deve utilizzare una o l’altra nei vari casi come se fossero ve­ rità assolute. Non sono regole grammaticali, sono solo la manifestazio­ ne sullo schermo di proprietà tecniche della macchina da presa. È come se prima dell’inizio di un libro si inserisse una pagina bianca aggiuntiva. A proposito del linguaggio cinematografico, nonostante io venga considerato un rigoroso sostenitore dell’approccio ortodosso, faccio piuttosto di testa mia. Negli ultimi venticinque o ventisei anni non ho usato neanche una volta una dissolvenza in apertura, in chiusura o in­ crociata. Credo di riuscire a comunicare anche senza far ricorso a que­ sti mezzucci. Sono diventato un oppositore della grammatica cinematografica in­ tesa come regola fissa certamente perché sono fatto a modo mio, ma ai tempi del mio apprendistato questa teoria veniva sostenuta in maniera davvero assillante. Ricordo che un critico cinematografico stroncò ma­ lamente un film come se questa grammatica fosse una realtà innegabile e arrivò a dire che se un film non la rispettava non era cinema. Se si leg­ ge una qualunque guida alla visione cinematografica di quell’epoca, si trova per esempio una definizione precisa di che cos’è la dissolvenza in­ crociata e di quando la si deve usare. Erano manuali per gli spettatori e lo spettatore generico che li leggeva, pensava sicuramente che se in un film non c’era una dissolvenza incrociata era perché il regista non co­ nosceva a sufficienza le regole del cinema. Così, anche i registi finivano per metterne da qualche parte almeno una nei loro film. Non si capisce, però, a beneficio di chi venivano usate queste regole. Nel caso della letteratura, la «grammatica» è una questione per co­ sì dire fisiologicamente connessa alle facoltà di comprensione delle p L’effetto iride è un effetto di apertura o di chiusura dell’immagine da nero, realizzato tramite un diaframma che si muove progressivamente dal centro verso l’esterno o viceversa. Era una tecnica molto utilizzata nel primo cinema, quando le macchine da presa non con­ sentivano ancora di ricorrere agevolmente alla dissolvenza, e serviva per giustificare passag­ gi di tempo o per indicare l’inizio o la fine del film. Cfr. P. G. Vezzoli, Dizionario dei ter­ mini cinematografici: italiano-inglese, inglese-italiano, Hoepli, Milano 2000, p. 82.

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Nel cinema non c’è «grammatica»

persone. Se si sbaglia la coniugazione di un verbo, la lettura diventa difficile e non si capisce neanche il tempo del racconto. Questi aspetti fisiologici vanno perciò rispettati. Nel cinema, invece, quella che viene chiamata «grammatica» non è direttamente connessa alla facoltà di comprensione degli spettatori, ma riguarda gli aspetti tecnici specifici della ripresa. Al giorno d’oggi, inoltre, anche lo sguardo dello spetta­ tore è decisamente maturato. Quando vado al cinema, vedo che la gen­ te ride apertamente di fronte a scene per cui una volta non rideva af­ fatto. Ogni volta rimango stupito dalla loro sensibilità così articolata. In altre parole, sono gli spettatori stessi ad avere acquisito ampiamen­ te la sensibilità specifica del cinema. Così, quando un critico loda un film perché risponde ai dettami della «grammatica», gli spettatori in tutta onestà si annoiano proprio nelle scene che si attengono rigida­ mente alla «grammatica». Ciò che trascina gli spettatori è la sensibilità del regista che riesce a toccare le loro facoltà percettive, non cose co­ me le regole delle tecniche di ripresa. Anche nella scrittura non è det­ to che un brano grammaticalmente perfetto sia un brano superbo. Ciò che conta è la sensibilità espressiva dell’autore. Quando parlo di sensibilità, non intendo poi una cosa così diffici­ le. Si tratta semplicemente di saper attirare l’attenzione degli spettato­ ri secondo le loro facoltà percettive. Se non si tiene conto di queste, è come sbagliare la coniugazione di un verbo, si fa solo confusione e non si riesce a esprimere nulla. Per esempio, anche nel caso sopraccitato della conversazione tra A e B, poco importa quale sia la direzione in cui guardano, ciò che conta è che se non si fa capire prima dove si tro­ vano i due personaggi, gli spettatori si confondono e non riescono a partecipare. È questo ciò che intendo quando dico che è importante te­ ner conto delle facoltà percettive degli spettatori. Recentemente, dei miei amici che fanno dei filmini amatoriali con la cinepresa 8 mm mi hanno chiesto di andare a vederli per avere il mio parere, così una volta ci sono andato. Erano scene di intimità famiglia­ re, tipo picnic o simili, ma quell’intimità non si sentiva. Un bambino si volta in una direzione e chiede un dolce, la madre si volta in un’al­ tra direzione e gli dà il dolce. Chi guarda non riesce minimamente a ca­ pire la posizione del bambino e della madre, né la distanza fra di loro. Se dovessi dire come bisogna fare, ognuno potrà avere la sua opinio­ ne, ma io prima di tutto riprenderei il bambino sulle spalle della ma­ dre. Poi, farei un primo piano della madre e del bambino. Credo che la base della sensibilità cinematografica stia nel riuscire a trasmettere agli spettatori che cosa noi registi pensiamo in partenza 49

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toccando le loro facoltà percettive. Tutto parte da qua. In realtà non è niente di particolare, è una cosa che prova chiunque abbia una sensi­ bilità genuina. I giovani che hanno finito gli studi, invece, hanno una sensibilità cinematografica molto viva, poi entrano negli studi di produzione, continuano a fare la vita da assistenti registi anche per dieci anni e fi­ niscono per logorare questa sensibilità. Quando poi riescono final­ mente a diventare registi veri e propri, sono ormai assimilati all’am­ biente circostante, hanno perso la fiducia nella propria sensibilità e cercano il sostegno in qualche regola della messa in scena. Seguire la teoria della grammatica come regola aurea diventa così una forma di sicurezza. È davvero una cosa triste che i registi non facciano altro che ripetere scene trite e ritrite perché non riescono a sottrarsi all’osses­ sione della grammatica, mentre gli spettatori sono ormai andati mol­ to più avanti. Sono diventato regista relativamente tardi per quell’epoca ma ave­ vo comunque solo ventiquattro anni. Nonostante fosse un’età in cui volevo ancora andare in giro a divertirmi, ero diventato regista e non potevo neanche cenare con calma insieme ai miei e, lamentandomi del­ la mia sfortuna, mi tappavo in camera mia al piano di sopra per prepa­ rare il lavoro da svolgere il giorno dopo. In confronto ad allora, i gio­ vani di oggi che vogliono diventare registi riescono a farcela con mol­ ta più difficoltà. Mi dispiace davvero vedere come durante un appren­ distato di cinque o dieci anni arrivino a consumare quella sensibilità essenziale. Capisco la situazione dei giovani, ma contraffare l’inaridimento della propria sensibilità con la «grammatica» è imperdonabile nei confronti degli spettatori paganti. Se penso al futuro del cinema co­ me arte, mi vengono i brividi. A questo proposito, mi rallegro molto della notizia che ultimamente in Francia sono comparsi uno dopo l’al­ tro vari registi neanche trentenni autori di film che fanno discutere. Mi auguro che anche in Giappone nascano nuovi film fatti da autori gio­ vani con una sensibilità da giovani. È in questo senso, appunto, che vo­ glio sottolineare che nel cinema non esiste una grammatica.

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Una considerazione su come faccio i film*

Il periodo in cui sono sopraffatto dall’ansia e dal nervosismo è quello che va dall’inizio delle riprese al giorno in cui si prevede che più o meno finiscano. Quell’ansia e quel nervosismo sono però almeno in parte naturalmente alleviati dalla speranza di fare un film migliore di quelli precedenti. Il periodo più gratificante, invece, è quello che va dal primo riordi­ no dei negativi, seppure estremamente faticoso, a quando si può vede­ re in anteprima il risultato finale. Ma più di tutto, non credo ci sia sen­ sazione più esaltante di quella che provo se all’anteprima il film viene valutato bene. Ora, mentre sto girando II coro di Tokyo (Tòkyo no kòrasu, 1931), è proprio il periodo dell’ansia. In realtà, la storia di que­ sto film è come se fosse stata scritta apposta per me e corrisponde pro­ prio ai miei gusti. Inoltre, con gli attori che impersonano i protagoni­ sti, Okada Tokihiko1 e Saitò Tatsuo2, ci conosciamo da anni e siamo completamente affiatati. È una combinazione perfetta.

A differenza del mio film precedente, Bijin aishù [Una triste bel­ lezza, 1931], che era un ritratto pieno di romanticismo, il film che ora sto facendo, Il coro di Tokyo, è realista all’estremo opposto. Sarebbe interessante capire quale dei due corrisponda di più alle esigenze della società contemporanea. Tuttavia penso di poter dire che me la cavo a dipingere gli aspetti psicologici in maniera realista. Vorrei fare dei buoni film sia dal punto di vista dell’interesse del pubblico, sia da quel' Originariamente pubblicato in «Kokumin Shinbun», 27 luglio 1931; ripubblicato in Y. Ozu, Baku iva tòfuya dakara tofu shika tsukuranai, Nihon Tosho Center, Tokyo 2010. ' Okada Tokihiko (1903-1934), star del cinema muto giapponese, morì giovanissimo di tubercolosi. Fu uno dei più famosi attori del periodo, protagonista dei drammi contempo­ ranei di registi come Ozu e Mizoguchi. E il padre di Okada Mariko, a sua volta attrice di Ozu e di altri importanti registi. •’ Si veda supra, nota 4, in Che cosa ho dimenticato?, p. 30.

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lo del metodo sistematico proprio del cinema. Per me la continuità3 è fondamentale. Dedico sempre la massima cura possibile nel preparare i miei film in modo che non venga mai meno la continuità cinemato­ grafica propriamente intesa. Ora sto facendo tutti gli sforzi per cerca­ re di realizzare queste mie convinzioni ne II coro di Tokyo. Oggi il cinema è ormai diventato il principale divertimento di mas­ sa. Ritengo perciò che debba essere considerato come una disciplina con una propria articolazione sistematica. Che tristezza sarebbe se i film venissero fatti e valutati con lo spirito di un organizzatore dei pri­ mi baracconi di immagini in movimento. Allora i film erano puro in­ trattenimento. Bastava che facessero guadagnare dei soldi, senza la mi­ nima preoccupazione per il contenuto o la struttura. Al giorno d’oggi è necessario ormai un metodo solidamente strutturato. Almeno, io quando preparo un film, tengo sempre in considerazione questo aspetto. Se così facendo potessi contribuire al miglioramento del cinema giapponese, ne sarei onorato. Mi sto im­ pegnando perché II coro di Tokyo possa diventare la miccia che in­ nesca quel processo.

’ Per continuità nel linguaggio cinematografico si intende il disporre scenografie, ogget­ ti, costumi e attori sulla scena in modo che, anche se le inquadrature vengono riprese in mo­ menti diversi, la continuità temporale e l’omogeneità della scena rimangono inalterate. A sua volta, richiama la continuità fotografica, necessaria per rendere fotograficamente omogeneo il film poiché le inquadrature a volte non sono riprese in successione cronologica. La conti­ nuità fotografica si ottiene per esempio pianificando il posizionamento delle luci, mante­ nendo inalterato il diaframma di lavoro e le eventuali filtrature in macchina e sui proiettori, c ancora non cambiando il tipo di pellicola o mantenendo costante il rapporto tra la luce principale e quella secondaria. Cfr. Rondolino - Tornasi, Manuale del film cit., pp. 223-4; Vezzoli, Dizionario dei termini cinematografici cit., p. 60.

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Cinematograficità*

Fra i miei film non ci sono, almeno fino a ora, adattamenti di ope­ re letterarie’. Sono quasi tutti soggetti originali. Prendiamo il caso di un libro straordinario che mi ha emozionato profondamente. Quell’emozione non è per me un motivo per trasfor­ mare il romanzo in un film. È tutta un’altra cosa. Provo a immaginare di ricreare quell’emozione in un film. La diversità del cinema la fa di­ ventare un’altra cosa e se diventa un’altra cosa, si può anche non adat­ tare il romanzo in un film. Un soggetto originale scaturito da quell’e­ mozione è di gran lunga più preciso e articolato e mi consente di lavo­ rare più liberamente. Almeno, non devo fare l’impossibile per ugua­ gliare il romanzo. Naturalmente, se si tratta di un romanzo banale, il discorso cambia. Per fare un esempio, nel caso di Shunkinshò2 l’adattamento cine­ matografico è diverso dal romanzo. È poco interessante. Certamente la storia è la stessa ma la profondità del contenuto è diversa. Gli ap­ prezzamenti per la novità del progetto cinematografico o per il vigo­ roso entusiasmo del regista nel realizzarlo hanno avuto come effetto di ’ Originariamente pubblicato in «Yomiuri Shinbun*, 2 giugno 1947. 1 L’affermazione va intesa con riferimento ai romanzi. Al momento in cui scrive, Ozu ha realizzato due film tratti da racconti: Sono yo no tsuma [La moglie, quella notte, 1930], tratto dal racconto From Nine to Nine di Oscar Schisgall, e Bijin aishù, tratto dal racconto La femme de marbré di Henri de Régnier. 2 Shunkinshò (trad. it. di G. Ricca e A. Ricca Suga, La storia di Shunkin, con la revisio­ ne di G. Baccini, in J. Tanizaki, Opere* a cura di A. Boscaro, Milano, Bompiani 2002) è un romanzo breve di Tanizaki Jun’icnirò del 1933. L’adattamento cinematografico cui si riferi­ sce Ozu, dal titolo Shunkinshò: Okoto to Sasuke [Episodi della vita di Shunkin: Otoko e Sasuke], venne fatto nel 1935 da Shimazu Yasujirò, con protagonisti Tanaka Kinuyo e Takada Kòkichi. Successivamente anche Ito Daisuke, Kinugasa Teinosuke e Shindò Kaneto realiz­ zeranno dei film ispirati a questa storia. Per un’analisi articolata dei rapporti tra il romanzo e il film di Shimazu che illustra anche l’insoddisfazione di Tanizaki stesso per come venne adattato il suo lavoro, cfr. E. Cazdyn, The Flash of Capital: Film and Geopolitics in Japan, Duke University Press, Durham 2002, pp. 102-5.

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rimpicciolire ulteriormente il film stesso. Comunque, la differenza tra Tanizaki e Shimazu non si può certo ridurre solo alla differenza tra let­ teratura e cinema. L’adattamento cinematografico di un’opera di Izu­ mi Kyòka3, se mai riuscisse a ricreare la fragranza dell’originale, sareb­ be solo frutto delle acrobazie virtuosistiche del regista. È ora di prestare una rinnovata attenzione al cinema come cinema. È un bene che il cinema sia fatto di ciò che è squisitamente cinemato­ grafico. Almeno per me. Per gli altri non so.

' Izumi Kyòka (1873-1939), nome di penna dello scrittore Izumi Kyòtaró, fu il cantore nostalgico con opere esteticamente perfette della cultura del popolo di artigiani e commer­ cianti di Edo, l’attuale Tokyo. È ricordato per come seppe sfruttare al massimo le possibilità liriche e descrittive della prosa giapponese in termini di risonanza, delicatezza ed eleganza, basando il suo stile su quello dell’epoca Edo (1603-1868). Cfr. Katò, Storia della letteratura giapponese cit., pp. 117-9. Delle sue opere, in lingua italiana si trova la raccolta II monaco del monte Kòya e altri racconti, trad. it. e cura di B. Ruperti, Marsilio, Venezia 2001.

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Cose che sarebbe meglio non dire’

Fra le opere di Tanizaki ce n’è una che si intitola Bunshòdokuhon [Manuale di composizione, 1934]. E una guida alla scrittura davvero insostituibile sia per chi conosce la grammatica sia per chi non la conosce e le cose che dice si potreb­ bero applicare direttamente quando si scrive una sceneggiatura. Scrivere una sceneggiatura è ovviamente diverso dallo scrivere altre cose ma se si presta attenzione innanzitutto all’aspetto tipicamente ci­ nematografico, ritengo che un modello superbo di scrittura di una sce­ neggiatura sia Kinosaki ni te di Shiga Naoya'. Non c’è neanche bisogno di dire che dai romanzi dei grandi scritto­ ri traggo varie indicazioni dal punto di vista della struttura del racconto.

Arte oratoria cinematografica... Per accentuare la «cinematograficità» di un film ci sono le varie componenti dell’«arte oratoria» come il ritmo del discorso, il modo di recitare, le parole colorite, ma non vorrei che d’altro lato queste cose diventassero degli espedienti per una mistificazione. Se si applica l’«arte oratoria» per accrescere il carattere squisita­ mente cinematografico di un film non c’è nulla di cui vergognarsi, ma se la si usa per sistemare sbrigativamente una parte della sceneggiatu­ ra, allora è solo un mezzo per evitare di descrivere le cose come si de­ ve, e questa è una cosa che va assolutamente evitata. Questo uso dell’«arte oratoria», se continua, porterà il cinema su una strada completamente sbagliata. ‘ Originariamente pubblicato in «Kinema Junpó», 1935, 528. 1 Su Shiga Naoya si veda supra, nota 1, in Un mìo vezzo, p. 33. Kinosaki ni te [A Kino­ saki] è un racconto breve del 1917, originato da un soggiorno di tre settimane che Shiga, ma­ lato di tubercolosi, fece nel 1913 nella cittadina di Kinosaki, nota per gli stabilimenti termali. La traduzione inglese, di Edward Scidcnsticker, At Kinosaki, è disponibile all’indirizzo: http://archives.evergreen.edu/webpages/curricular/2005-2006/asiancultureart/kinosaki.html .

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Non sono particolarmente legato al cinema muto ed essere consi­ derato come se lo fossi è una cosa davvero fastidiosa. Semplicemente, fino a ora non ho avuto l’occasione di girare un film sonoro. Se mi capiterà, sarò felice di farlo. Credo che il cinema muto abbia i giorni contati. Se comparisse qualche genio e facesse vedere qualcosa di radical­ mente rivoluzionario nelle forme espressive o nella struttura del film, il discorso sarebbe diverso, ma nella situazione attuale, se non cambia nulla, il cinema muto procederà sempre più sulla strada del tramonto e del declino definitivo. L’apparizione del cinema sonoro non è casuale. Una sceneggiatura deve essere «cinematografica» già fin dal suo contenuto. Deve essere la base su cui si costruisce un film e non deve avere al­ tro scopo. C’è chi scrive sceneggiature come se fossero libri invece che basi per i film. Se fossero dei libri e basta è un conto, ma se le si usa concretamen­ te come sceneggiature, allora tutta quella fioritura di aggettivi non è necessaria. Non è forse triste per uno sceneggiatore essere l’unico, in mezzo a tutti i film che vengono realizzati, a sostenere faticosamente come se fosse un punto d’onore il fatto di aver scritto una sceneggiatura piena di aggettivi minuziosi che danno un forte tono letterario? Anche a questo proposito, invito a consultare gli esempi di cattiva scrittura che indica il manuale di Tanizaki. A quale scopo si scrive una sceneggiatura? È questa la cosa più im­

portante. Per quanto il regista possa maltrattare una sceneggiatura, se non emerge il progetto che lo sceneggiatore aveva in testa, significa che que­ sti, prima di fare del sarcasmo su come sia stata maltrattata, dovrebbe innanzitutto riflettere a fondo sulla validità del suo lavoro. Solo dopo potrà tranquillamente fare del sarcasmo, è un suo pieno diritto. Conosco Noda Kógo. Conosco Ikeda Tadao. Se si parla di persone che sanno quale sia il vero spirito di una sce­ neggiatura, devo dire di aver trovato dei compagni per la vita.

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Carattere ed espressioni del volto*

Non basta essere bravi con le espressioni del volto. Non è suffi­ ciente saper fare abilmente una faccia triste o allegra, saper muovere come si vuole i muscoli facciali. È troppo facile. Oggigiorno, per quanto riguarda le espressioni del volto, agli atto­ ri giapponesi non manca proprio niente. Si dice spesso che i giappone­ si siano poco espressivi ma, almeno per quanto riguarda gli attori, non credo siano meno espressivi di quelli americani. Però non si può dire che siano dei buoni attori solo perché sono bravi a fare le espressioni con il volto. Secondo me, non è questo il punto. Ciò che conta è il carattere. Cogliere il carattere del personaggio. Bi­ sogna esprimere i sentimenti dopo aver colto il carattere. Se non si coglie il carattere del personaggio e si cerca solo di rappresentare i sentimenti, vengono fuori degli attori bravi solo a muovere i muscoli della faccia. Se è per piangere quando si è tristi o ridere quando ci si diverte, chiunque, anche se non è un attore, può farlo. Per esprimere i sentimenti, le espres­ sioni del volto servono solo per il trenta o quaranta per cento. Il regista non deve tirar fuori i sentimenti agli attori, piuttosto de­ ve contenerli. Ti riferisci1 alla figura di donna bonacciona in Nagaya shinshirokuì... In quel caso, lida Chòko ha capito fin troppo bene le mie intenzioni. Tanto più che non intendevo affatto allontanarmi dal­ le caratteristiche di donna che lei recita di solito. Che cosa intendo con carattere? Direi la personalità (ili. 11). La personalità deve assolutamente venir fuori. Questo è ineludibile per qualunque tipo di arte. Non basta che il volto esprima le emozioni, ci deve essere personalità. Anche se si riesce a controllare le espressioni del volto al cento per cento, questo non esprime il carattere. Detto in maniera drastica, è piuttosto l’abilità delle espressioni del volto che fi­ nisce per disturbare le espressioni del carattere. ‘ Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», 1947, 24. 1 Ozu si riferisce a un intervistatore anonimo che non compare nel testo qui riportato.

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È una questione di saper trattenere. Bisogna esprimere il carattere trattenendo, trattenendo - Henry Fonda in Sfida infernale (My Dar­ ling Clementine, 1946) si lascia mettere il profumo dal barbiere, poi sta lì in piedi senza fare nulla -, è proprio quella la grandezza di John Ford. Fonda appoggia i piedi sul palo e si dondola inclinando la sedia all’indietro tutto divertito. Invidio realmente l’intesa tra John Ford e Henry Fonda. Non solo in Sfida infernale. Henry Fonda è sempre no­ tevole nei film di Ford. In Furore (The Grapes of Wrath, 1940) come inX/Zm di gloria (Young Mister Lincoln, 1939). Chissà se arriverà in Giappone qualche film di William Wyler. Vor­ rei vederne qualcuno, tipo La signora Miniver (Mrs. Miniver, 1942). A proposito di Wyler, nei suoi film Bette Davis migliora al punto da sem­ brare un’altra persona. In Piccole volpi (The Little Foxes, 1941), Bette Davis sta in piedi vicino al marito morente, interpretato da Herbert Marshall, e prepara una tazza di tè o di caffè. Il suo volto non esprime nulla. Prepara il tè con aria indifferente come se niente fosse. Si sento­ no solo i rumori della teiera e delle tazze. Anche in Ombre malesi (The Letter, 1941) è stupenda. Non vorrei sembrare irriguardoso ma ho la sensazione che Wyler abbia un po’ una tendenza masochista. Sia guar­ dando Ombre malesi che Piccole volpi ho avuto questa sensazione. An­ che Bette Davis è completamente diversa rispetto a com’è in altri film. Diventa straordinaria. Chissà se arriverà anche Duello al sole (Duel in the Sun, 1951) di King Vidor. Certo che i suoi film vorrei proprio vederli. Lui è l’unico che riesce a far bene i film a colori. La più grande avventura (Drums along the Mohawk, 1939) di Ford, invece, è decisamente poco riusci­ to. Ford ha imparato a proprie spese e dopo quel film non ne ha fatti altri a colori2* . Anche Wyler non gira in technicolor. Il prossimo film, Tsuki wa noborinu [È sorta la luna]5, voglio farlo con un cast di alto livello, con cinque grandi attori. Nagaya shinshiroku l’ho fatto con attori anonimi4. 2 Ozu scrìve nel 1947. Ford tornerà al colore l’anno successivo con In nome di Dio (Three Godfathers, 1948). J Ozu scrisse la sceneggiatura del film, ma per varie circostanze (fra cui l’indisponibilità di Takamine Hideko, l’attrice pensata come protagonista) non riuscì a girarlo. Si veda anche più avanti, Qualche parola sui mie film, p. 105. Ozu regalò poi la sceneggiatura a Tanaka Kinuyo, più nota come attrice che come regista (si veda più avanti, nota 8, in Qualche parola sui miei film, p. 108), la quale nel 1955 ne fece un film dallo stesso titolo con la sceneggiatu­ ra rivista da Saitò Yòsuke. 4 L’intero periodo va inteso in senso sottilmente scherzoso, tipico àe\V understatement di Ozu. 11 cast, infatti, annovera vari attori di valore assoluto, fra cui alcuni degli attori più amati e utilizzati da Ozu: fida Chòko, Ryù Chishù, Sakamoto Takeshi,Yoshikawa Mitsuko.

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Vorrei ritrarre il fiore di loto nel fango*

Che intenzioni ho? Niente di particolare, faccio le cose con i miei soliti modi. Detto in breve, giro come mi è naturale. Questa però è una questione di metodo, se invece mi si chiede qualcosa più di sostanza, non so che dire, ci devo pensare un po’ su. Per esempio, vorrei che la gente mi comprendesse sulla base dei film che ho fatto dopo la guerra, ma forse dicendo così non sono ab­ bastanza onesto... Comunque, la cosa fondamentale a cui penso ogni volta che giro un film è che attraverso di esso vorrei riflettere a fondo sulle cose e ri­ trovare quella ricca umanità che le persone hanno per natura... Certo, nel dopoguerra i costumi o il modo di sentire del cosiddetto aprèsguerre' non saranno più come prima ma vorrei capire come si possa esprimere nel modo migliore possibile in un film ciò che scorre dal fondo della società; forse è troppo astratto se dico quell’umanità, quel calore umano che mi commuove... Questo è ciò che ho sempre in mente e che vorrei realizzare. Il fiore di loto nel fango... quel fango è una realtà e anche il fiore di loto naturalmente è una realtà. Il fango è sporco, ma il fiore di lo­ to è bellissimo, però anche il fiore ha le sue radici nel fango... Io cre­ do che in un caso come questo esista un modo per esprimere il fiore ritraendo solo le sue radici e il fango in cui è immerso. Al contrario, però, si può ritrarre solo il fiore facendo capire l’esistenza del fango e delle radici. ' Originariamente pubblicato in «Asahi Geinó Shinbun», 8 novembre 1949. ‘ Il termine après-guerre in Giappone è riferito più che altro al periodo immediatamen­ te successivo alla prima guerra mondiale, quindi va inteso come «prima della seconda guer­ ra mondiale». Fu un periodo di fervore culturale e di relativa prosperità, a differenza di quel­ lo successivo alla seconda guerra mondiale, che per il Giappone, segnato dalla bomba ato­ mica, dai bombardamenti a tappeto e dalla sconfitta definitiva seguita dall’occupazione ame­ ricana, fu un’epoca di disordine, miseria e degradazione.

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I costumi del dopoguerra sono davvero sporchi; prevalgono ovun­ que il caos e il degrado. Li detesto ma la realtà è anche questo. Nel mondo ci sono altresì persone che vivono in maniera pulita, sobria e bella, e anche questo è la realtà. Occorre considerare i due aspetti in­ sieme, altrimenti non si può dire di essere un autore. Come ho illu­ strato poco fa con la metafora del fango e del loto, vi sono comunque due modi possibili per ritrarre la realtà... In quest’ultimo caso, però, se cerco di dipingere la sfera dei buoni sentimenti, subito mi dicono che sono troppo nostalgico o lirico. 11 cli­ ma del dopoguerra non è forse proprio quello di avere un’unica visio­ ne delle cose? Non credo che la verità sia tutta lì. I miei film come Tar­ da primavera e Kaze no naka no mendori [Una gallina nel vento, 1948], e prima ancora Nagaya shinshiroku, si basano proprio su que­ sto pensiero... La sceneggiatura non funziona, la macchina da presa è tutta scassa­ ta, come si fa a esprimere la ricchezza delle sfumature in condizioni così cattive?2... Per questo, bisogna prestare attenzione a ogni singolo fotogramma, forse viene da qui il soprannome di perfezionista che mi hanno affibbiato...

•’ Riferimento alle condizioni tecniche disperate del cinema giapponese dopo la guerra. Mancavano le lampadine, l’energia elettrica arrivava a sbalzi, non c’erano riserve di pellico­ la e le macchine da presa erano consumate all’estremo; non c’erano addirittura chiodi per tenere insieme le scenografie. Non era insolito che registi, attori e staff smettessero presto di girare per andare in campagna a cercare cibo. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., p. 160.

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Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo’

Il fatto che io sia diventato membro dell’Accademia delle arti1 mi fa dire che forse lo Stato ha finalmente riconosciuto che il cinema è un’ar­ te. Cose da matti, ho finito per diventare un’istituzione. Se Mizoguchi fosse stato ancora vivo, sicuramente avrebbero scelto lui come primo uomo di cinema membro dell’Accademia... Però, anche se sono entrato a far parte dell’Accademia, non dico: «Allora, farò solo film artistici». Continuerò come ho fatto fino ades­ so. Ognuno può solo cercare di fare del proprio meglio nel contesto in cui si trova. Io sono alla Shochiku e poiché il personale della Shochiku è composto tutto di miei amici, devo anche pensare al bene della Sho­ chiku. Il cinema ha sempre avuto questa caratteristica fin dall’inizio. Non si può pensare solo a se stessi. Oltre a tutto, i costi di produzio­ ne dei film si stanno gonfiando sempre più. Nel mese di febbraio è morta mia madre e tutti quindi mi dicono: «Quest’anno c’è stata una cosa brutta e una cosa bella...», ma la mor­ te è un volere divino. Non è una cosa brutta. Anche se tenessi le sue ceneri a casa, non potrei recitare i sutra ogni giorno e quindi sono an­ dato ai Monti Kòya per tumularla nell’ossario2. Fra schermi panoramici e 70 mm anche il cinema sta pian piano cambiando ma io ho intenzione di continuare a girare per lo schermo ' Originariamente pubblicato in «Tòkyo Shinbun», 14 dicembre 1962. ' L’Accademia delle arti (Nihon geijutsuin) è la più alta istituzione artistica giapponese. Creata nel 1907 dal ministero dell’Educazione, ha il ruolo di discutere e promuovere l’arte nelle sue varie forme. I suoi membri, fino a un massimo di 120, sono nominati a vita. 11 monti Kòya, situati a sud di Osaka, ospitano più di cento templi buddhisti e sono sta­ ti designati patrimonio dell’umanità in quanto siti di culto e percorsi di pellegrinaggio. In particolare, il tempio Kongòbuji è la sede centrale della scuola di buddhismo Shingon, una delle più note e grandi del Giappone. Secondo la dottrina, è un luogo purificato e il defunto le cui ceneri vengono depositate lì può andare nel paradiso buddhista. E quindi uno dei luo­ ghi più rinomati e prestigiosi per il deposito delle ceneri.

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standard e di riprendere ciò che con lo schermo gigante non si può ri­ prendere3. Questo pensiero è stato molto forte in me mentre giravo il recente II gusto del sakè. Gli stacchi sono perciò numerosissimi. Cre­ do siano più di mille. Il cinema è iniziato come semplici riprese statiche della scena come se fosse il palcoscenico del teatro. Successivamente, nel primo periodo dell’epoca Shòwa4, io, Yamanaka Sadao, Uchida Tomu e Ito Daisuke5 abbiamo cercato di dare profondità alla scena. Invece, dicono che con gli schermi giganti bisogna fare delle inquadrature estremamente lar­ ghe. Non mi resta molto da vivere, non ho voglia di girare un film co­ me se sbirciassi dalla feritoia della buca delle lettere. Il cinema sono le impressioni che ti rimangono dopo. Ultimamen­ te, è pieno di gente che pensa che i drammi debbano dare forti stimo­ li, mostrando per esempio un mucchio di omicidi, ma quella non è una cosa drammatica. È un avvenimento accidentale. Io mi dico invece che vorrei raccontare per bene una storia senza quel genere di avvenimen­ ti e con un tono del racconto tipo «Ah sì?», «Eh già», «Sì, è proprio così». Naturalmente le possibilità del cinema sono ampie e ci possono essere film di tutti i tipi... D’ora in avanti, per lavorare come si deve, potrò fare solo un film all’anno. Se ne facessi di più, potrei permettermi qualche bottiglia di ' Fino agli anni cinquanta quasi tutti i film realizzati utilizzavano una pellicola larga 35 mm e gli schermi avevano un rapporto di 4:3 tra larghezza c altezza dell’immagine. Negli anni cinquanta, anche per rispondere al boom della televisione, si affermarono nuovi for­ mati più ampi. Il più conosciuto fu il cinemascope (1953), dove il rapporto tra larghezza e altezza dello schermo è di circa 7:3, poi seguito e in parte modificato da molti altri. Anche la dimensione delie pellicole subì dei cambiamenti, con la nascita di pellicole larghe, a se­ conda dei casi, 55,65 o 70 mm, che consentivano maggior ricchezza di inquadrature e suo­ ni e si integravano a loro volta con particolari formati dello schermo. Le riserve di Ozu si riferiscono soprattutto al fatto tecnico per cui, in particolare in Giappone, nel cinemascope l’immagine, guadagnando in ampiezza, perdeva profondità, caratteristica fondamentale del suo cinema. In generale, come fanno notare anche Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 254-5, lo schermo panoramico del cinemascope costituì un particolare problema per i registi giapponesi poiché le proporzioni non si prestavano bene ai set giapponesi. Le stan­ ze della casa giapponese sono piccole e quindi difficili da fotografare e l’obiettivo grandan­ golare tendeva a ingrandirle innaturalmente. Inoltre, poiché molte scene erano incentrate sugli attori seduti sul tatami ripresi da una camera bassa, sullo schermo panoramico c’era parecchia distorsione. 4 Nella calendarizzazione giapponese, l’epoca Shòwa, corrispondente al regno dell’im­ peratore Hirohito, inizia il 25 dicembre 1926 e finisce il 7 gennaio 1989. 5 Ito Daisuke (1898-1981), regista giapponese, maestro del genere jidaigeki, al pari di Inagaki Hiroshi. A differenza di quest’ultimo, le sue grandi opere appartengono soprattut­ to all’epoca del cinema muto, mentre dalla fine degli anni trenta la sua stella iniziò a decli­ nare. In alcuni suoi film degli anni cinquanta, sempre del genere jidaigeki., ritrovò però il ta­ lento originario.

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_________ _Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo

sakè in più la sera a casa ma... Anche con il prossimo film6 non potrò fare diversamente, sono sempre io. È una bella cosa che anche la Sho­ chiku cominci ad annoverare diverse attrici in gamba. Iwashita Shima7, per esempio, ha un sapore di ragazza candida come se ne trova una so­ lo ogni dieci anni, un’attrice tipica da Shochiku. Anche Okada Ma­ riko8 ha una qualità speciale per i ruoli comici e quando glieli fanno fa­ re, non ha rivali.

‘ Riferimento a Daikon to ninjin [Rafano bianco e carote]. Ozu scrisse la sceneggiatura con Noda Kògo ma non potè realizzare il film a causa della sua morte, avvenuta il 12 di­ cembre 1963. Il film venne poi girato nel 1964 da Shibuya Minora. ' Iwashita Shima (1941), famosa attrice giapponese, in particolare dagli anni sessanta agli anni ottanta. Con Ozu girò Tardo autunno e II gusto del sakè. * Okada Mariko (1933), nota attrice giapponese, in particolare dagli anni cinquanta agli anni settanta. Con Ozu girò Tardo autunno e II gusto del sakè.

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II.

«Qualche parola sui miei film»

SCRITTI SUL CINEMA

Cinema e fotografia*

Chiedo scusa per il disturbo...

Prego, entri. Sono appena tornato dagli studi. Ecco, ho visto su giornali e riviste fotografie che la ritraggono al fronte con la sua Leica e ho capito che quando era in guerra faceva fotografie. Ho visto quasi tutti i film che ha fatto finora e noi che ci occupiamo di fotografia siamo molto interessati alle fotografie che con quello stesso spinto ha scattato come soldato al fronte con la sua Leica.

Ah, davvero? Come sa, un soldato non può portare in battaglia co­ se come una macchina fotografica e quindi le scattavo nei momenti li­ beri, quando ero di guardia o nelle retrovie. Inoltre, le condizioni tec­ niche per lo sviluppo erano pessime: con l’acqua di cattiva qualità che c’era in Cina era molto difficile trattare adeguatamente le pellicole pancromatiche1, particolarmente lunghe, per la Leica. Perciò il mio in­ tento principale era di fare delle fotografie per mia memoria, con l’in­ tenzione non confessata di utilizzarle forse in futuro. La guerra si riesce a fotografare bene?

Direi di no. Mi sono reso conto che più la guerra si fa cruenta, me­ no le fotografie o le registrazioni sonore sono affidabili. Le fotografie hanno dei limiti intrinseci e da questo punto di vista credo che le foto di « Asahi Graph»2 siano abbastanza apprezzabili. Le foto dal fronte o i cinegiornali recenti non sembrano cambiati minima­ mente da quando è iniziata la guerra sino-giapponese*, si ha la sensazione che ’ Intervista a Ozu originariamente pubblicata in «Shashin Bunka», maggio 1941. ' Le pellicole pancromatiche sono un tipo di pellicole fotografiche in bianco e nero mol­ to sensibili, in grado di riprodurre quindi una scena in maniera realistica simile a come ap­ pare all’occhio umano. 1 Rivista fotografica settimanale attiva dal 1923 al 2000. ’ Si veda supra, nota 42, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 20.

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_________________________Ozu, Scritti sul cinema_________________________

di qualunque luogo ci vengano mostrate sempre le stesse fotografie. Credo che questa ripetitività e le notizie sulla guerra in generale entusiasmino il pubblico meno che in passato...

È una questione piuttosto difficile. Prenda per esempio questa fo­ tografia fatta a me e Yamanaka Sadao. Ci eravamo incontrati fortuita­ mente a Yamanaka faceva parte del servizio di sorveglianza e io mi trovavo lì perché ero in viaggio per la prima linea, così abbiamo chiesto a un altro soldato di farci una fotografia per ricordo. Era il pri­ missimo mattino. Yamanaka morì poi al fronte poco dopo e questa fo­ tografia di me e lui insieme è diventata così l’unica in cui siamo en­ trambi in divisa (ili. 4). Esiste anche questo uso delle fotografie come pura documentazione e sono grato dell’occasione che mi capitò in quel caso. Anche questa mi sembra sia una strada per la fotografia. La vicenda di Yamanaka è davvero molto triste. Fratelli e sorelle della famiglia Toda, questo film non vedevo l'ora che uscis­ se. È lei che decide sempre tutte le posizioni della macchina da presa?

Di solito decido tutto personalmente. Si vede anche in Fratelli e sorelle della famiglia Toda, ma da tempo nei suoi film lei posiziona la macchina da presa molto bassa e quindi utilizza spessissi­ mo un 'angolazione di ripresa molto inclinata dal basso verso l'alto. In questo tipo di utilizzo c'è un'intenzione particolare?

Ah, di questo parlano spesso, ma a dire il vero non ho uno scopo particolare nell’utilizzare la macchina in questo modo. In genere, quando si riprende l’interno di una stanza giapponese, se si usa un’an­ golazione di ripresa in cui i fusuma e il loro binario inferiore tagliano l’inquadratura, ciò costituisce un fastidio nella composizione della sce­ na. Ecco, questo è uno dei motivi. Nella vita quotidiana, di solito i giapponesi guardano le cose stando seduti per terra. Non pensa che per loro sia più naturale guardare le cose da una posi­ zione bassa?

Sì, si potrebbe anche dire così. In genere, quel guardare verso l’al­ to, con una posizione della macchina per cui l’occhio è in basso, a me ■* Ozu non menziona il luogo perché, nel momento in cui scrive (1941), la censura di guerra lo impedisce. L’incontro avvenne in Cina il 12 gennaio 1938, a Jurong, a breve di­ stanza da Nanchino, dove era di stanza il battaglione di Yamanaka. Si veda, nella parte ni, la lettera del 20 ottobre 1938 che rievoca l’incontro. La fotografia venne pubblicata sulla rivi­ sta «Eiga Hyòron», aprile 1938.

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piace. Non sto dicendo che mi piace per un motivo particolare, sem­ plicemente si può dire che sia un mio gusto. A qualcuno piacciono le inquadrature dall’alto verso il basso, altri amano tenere la macchina al­ l’altezza del petto oppure all’altezza dei propri occhi. In un film, occorre che il raccordo tra un’inquadratura e quella suc­ cessiva abbia quella continuità che crea l’effetto desiderato. Per esem­ pio, se vogliamo riprendere noi due che parliamo, facciamo un’inqua­ dratura in campo lungo con la macchina da presa in posizione bassa da quell’angolo, poi all’improvviso facciamo un primo piano su di lei dal­ l’alto verso il basso. Anche se entrambe queste inquadrature dal punto di vista della composizione5 sono eccellenti, per ciò che riguarda il loro collegamento, visivamente non sono fluide. Se non c’è questa sensazio­ ne di fluidità, non si può dipingere facilmente una certa atmosfera6. Ah, ecco, anche nel decidere la posizione della macchina da presa ci sono delle considerazioni specifiche del cinema.

Se visivamente si vuole ottenere quella fluidità, a un’inquadratura dal basso verso l’alto se ne fa seguire una con la normale angolazione all’al­ tezza degli occhi e poi un’altra dall’alto verso il basso, così lo spettatore ha una percezione naturale delle immagini, ma per fare questo occorre inserire un’inquadratura in più e il lavoro diventa più complesso. Quindi, nel decidere la posizione della macchina da presa, oltre all'angola­ zione di ripresa che renda nel modo migliore il soggetto della scena, c'è anche un problema che riguarda la relazione delle immagini in sequenza. Effettiva­ mente, anche per noi fotografi, quando vogliamo comporre una storia attra­ verso una serie difotografie, ci sono casi in cui può capitare di dover tenere con­ to di queste considerazioni.

Nei documentari, però, ogni singola inquadratura ha un preciso si­ gnificato e il raccordo fra un’inquadratura e l’altra non è fondamentale come per i film di finzione7. Per esempio, se si riprende la produzione * Il termine «composizione» si riferisce all’inquadratura dell’immagine e a come i vari componenti della messa in scena appaiono in essa: la disposizione degli attori e degli ogget­ ti, le geometrie, la prospettiva, i punti di luce, il modo in cui è presentato l'ambiente. ‘ Per un’analisi che illustri in concreto i meccanismi di continuità e il modo particolare in cui li utilizzava Ozu, si veda Tornasi, Ozu Yasujiro, Viaggio a Tokyo cit., pp. 75-82. ' Il termine originario è «film drammatico» (geki eiga), inteso come film di dramma­ tizzazione, contrapposto a «film documentario» (bunka eiga). Oggi si utilizzano piutto­ sto i termini «film ai finzione» e «documentario». Cfr. H. Komatsu, Questions Regarding the Genesis of Nonfiction Films, trad, di A. Gerow, in «Documentary Box #5», yidff, 15 ottobre 1994 (ora disponibile online all’indirizzo http://www.yidff.jp/docbox/5/box5-le.html).

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delle viti, è importante scegliere la posizione della macchina da presa che meglio illustra come si svolgono le varie fasi del processo di produzio­ ne e la cosa migliore è, diciamo, un’angolazione di ripresa dall’alto ver­ so il basso. Poi, quando si mostra come si avvita una vite, è meglio se per esempio si riprende stando proprio di fianco. In questo caso, più anco­ ra che la fluidità nella successione delle immagini, è importante sceglie­ re una posizione della macchina da presa che a ogni inquadratura illustri bene cosa sta avvenendo. A questo proposito si può dire che i docu­ mentari si avvicinano a una composizione di fotografie in sequenza. Quindi, nei documentari ogni inquadratura è a sé stante e rispetto a un film di finzione, che è una sequenza di immagini in movimento, si tiene in minor considerazione la posizione della macchina da presa per assicurare quel tocco di fluidità fra un'inquadratura e l'altra. Anche se ogni singola inquadratura è se­ parata dalle altre non è un problema, purché si illustrino bene le cose.

Se si escludono particolari documentari in cui è fondamentale l’at­ mosfera emotiva, in generale si può anche dire così. Non sto dicendo che per i documentari non ci si debba preoccupare del collegamento tra un’inquadratura e l’altra, sto dicendo che questo collegamento pro­ duce un risultato diverso. Grazie per queste illuminanti considerazioni Credo che un fotografo, nel de­ cidere l'angolazione delle sue fotografìe, senza rendersene conto sia influenzato dai film che vede. Se tiene conto di queste sue considerazioni, scopre cose nuove anche nel proprio modo di fotografare. Inoltre, anche quando realizza una com­ posizione di una serie difotografie, per esempio quando si tratta di descrivere una situazione emotiva molto dolce e tranquilla, effettivamente le decisioni sulle an­ golazioni di ripresa di un film di finzione credo siano estremamente utili. Quel film, Urna8, di Yamamoto, l'ha visto?

Non ancora. Parla della vita nel lohoku\ E un film drammatico ma ritrae così bene i co­ stumi locali che per certi aspetti vale anche come documentario. L'ho trovato molto interessante.

D’ora in avanti il cinema avrà questa tendenza. E probabilmente anche nei documentari verranno inseriti elementi drammatici. * Urna [Il cavallo], di Yamamoto Kajirò, 1941. Il film venne completato (non accredita­ to) dall’assistente alla regia, Kurosawa Akira. * Territorio che raggruppa sei Prefetture e costituisce la parte nord-orientale di Honshu, l’isola maggiore del Giappone.

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E la nuova tendenza del cinema giapponese?

Se il cinema giapponese saprà allargare il suo campo per documen­ tarsi meglio, sarà così necessariamente. Sul numero di aprile della rivista «Shashin bunka»™ c’è un articolo di Shi­ bata Ryùji che sostiene che le fotocronache richiedono che ci sia un dramma. La recente tendenza tedesca delle composizioni fotografiche non consiste nell’allineare semplicemente delle fotografie didascaliche, ma sono sempre più nume­ rosi i lavori in cui una fotografia crea un interrogativo in chi guarda e quella successiva propone uno sviluppo come se si trattasse di una storia drammatica. Credo che questa tendenza indichi una prospettiva per la composizione foto­ grafica molto vicina al cinema drammatico. Anche nel mondo della fotografia si sta discutendo di questi aspetti".

Un film di finzione con elementi documentaristici o un documen­ tario con elementi drammatici. Semplificando un po’, si può dire che in entrambi i casi è importante introdurre abilmente questi elementi in modo da non danneggiare le caratteristiche specifiche di ognuno dei due tipi di film. Se non si fa attenzione, un aspetto uccide l’altro e quindi non funziona. Nel caso di un film di finzione, la componente didascalica tipica del documentario non deve disturbare l’andamento della storia e, viceversa, anche in un documentario non va bene se la componente di finzione tipica del film di finzione emerge in maniera evidente. Non le sembra che si potrebbe dire la stessa cosa anche nel caso di quelle fotocronache con una componente drammatica? Quali sono le tendenze attuali del mondo della fotografia? Effettivamente è un periodo di novità. Ora si discute molto di quali siano i soggetti da fotografare, una questione che sta ancora prima dello scatto vero e proprio. Inoltre, con le composizioni fotografiche, si percepisce una tendenza a voler raccontare le grandi cose che fino a ora non si potevano raccontare con una singola fotografia. Quando gira, cura la recitazione degli attori fin nei minimi particolari, per esempio indica loro come la mano deve prendere una tazza per bere il tè?

Di solito sì. Però prima dico loro di provare un po’ da soli. Poi, se va bene, li riprendo così come hanno fatto. Tuttavia, gli attori, quan10 «Shashin bunka» [Cultura fotografica] era una rivista di fotografia pubblicata dal 1941 al 1943 e poi, con il titolo «Shashin kagaku» [Scienza fotografica], fino alla metà del 1945. 11 La fotografia, insieme con il cinema, era al centro della rivoluzione della cultura visuale che negli anni trenta investì tutte le sfere della vita sociale e culturale in Giappone. In quegli anni si assistette all’affermazione del fotogiomalismo, di nuove tecniche di stampa fotogra­ fica e soprattutto alla comparsa e diffusione di gruppi e riviste di fotografia. Cfr. A. Phillips,

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do sono davanti all’obiettivo, vogliono recitare «per» la macchina da presa. Questo è normale, ma se, per esempio, proviamo una scena con un attore che sta prendendo il tè in un modo naturale che va benissi­ mo e gli dico che allora giriamo con quella mano così, che non deve cambiare nulla, a quel punto lui comincia a concentrarsi su quell’at­ teggiamento, diventa poco naturale e la scena non viene bene. Quindi non gli dico niente, giro e basta, ma anche così ogni tanto la seconda volta non viene bene come la prima. Per accendere una sigaretta si strofina un fiammifero. Se il fiammi­ fero non si accende subito, lo si strofina due-tre volte e si accende. È una cosa naturale che fa chiunque, ma nel cinema, se non si accende naturalmente la prima volta, la ripetizione di quell’azione assume un significato particolare e diventa un problema. Potrebbe infatti venire interpretata come il segno di un turbamento emotivo e quindi assume un significato diverso. Anche i dettagli non sono insignificanti. Anche quando è in mezzo alla gente osserva sempre con tale attenzione queste gestualità minime?

Non è proprio così... I giapponesi non manifestano le proprie emozioni con espressioni del volto accentuate o con grandi gesti. Se si accentuasse la recitazione in quel modo, il risultato sarebbe spesso in­ naturale e stridente. Credo che nel cinema contemporaneo la recita­ zione accentuata fatta di gesti ed espressioni troppo cariche tenderà via via a diminuire. Pensiamo a una scena che tocca il cuore e strappa le lacrime: prima c'è una serie di inquadrature esplicative preparatorie e poi un primo piano. In questo modo, la commozione arriva al culmine. Il primo piano riesce a far emergere bene l'interiorità e i sentimenti.

Sì, è vero. Possiamo dire che il primo piano riesce a esprimere age­ volmente i sentimenti. Ma è difficile usarlo bene e soprattutto usarlo in maniera efficace. Prendiamo per esempio un volto che da un’e­ spressione normale passa pian piano alle lacrime e poi scoppia in un pianto a dirotto. Questo è un uso del primo piano tipico del cinema muto, con il cinema sonoro non le sembra una cosa superata? The Salaryman's Panic time. Ozu Yasujirò's «I was Bom, But... (1932)», in Japanese Cine­ ma: Texts and Contexts cit., p. 31. Nella stessa pagina e in quella successive, Philips accenna anche a un confronto tra lo stile visuale di Ozu e le tendenze fotografiche dell’epoca.

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Nel cinema, riprendere una scena credo sia una grossa fatica.

Sì. Quando non funziona qualcosa o quando una ripresa è diffici­ le, in tutta una giornata non riesco a girare che poche inquadrature. Non pensa che, rispetto a un film, le normali fotografie si scattino troppo fa­ cilmente?

Anche nel cinema, per esempio nelle riprese in esterni, spesso si riprende in maniera relativamente troppo facile. Di solito, prima si esamina il luogo dove si intendono fare le riprese e si scelgono le ore del giorno in cui la luce è migliore. Quando però si devono ripren­ dere varie inquadrature nello stesso giorno, anche se so che aspet­ tando un’ora la luce sarà migliore, può succedere che vengano fuo­ ri le nuvole e inoltre non si sa quali saranno le condizioni per le ri­ prese nel posto successivo. Per le riprese in esterni vengono coin­ volte sempre molte persone, vi sono un sacco di vincoli di tempo e si verificano impedimenti di ogni tipo, per questo spesso si accetta­ no condizioni di ripresa non ottimali e si gira comunque per poter poi passare alla ripresa successiva. In questi casi, con una normale macchina fotografica è tutto più facile, basta tornare quando la luce sarà migliore. Eh già, poiché si mobilitano molte persone, i problemi non mancano.

Anche in Fratelli e sorelle della famiglia Toda c’è stata una situa­ zione di questo tipo. Quando in precedenza ero andato a vedere i luo­ ghi di alcune riprese, su un lato della strada c’era un muretto e metà della strada era in ombra. Al fondo di quella strada c’era una villa in stile occidentale completamente bianca in pieno sole. Quindi, si aveva l’effetto che c’erano due figure scure che camminavano all’ombra con la villa bianca in piena luce sullo sfondo, anche la composizione era perfetta e mi dispiaceva molto rinunciare a quella inquadratura, ma poiché mancava il tempo, abbiamo dovuto girare subito e non mi è riuscito di riprendere come volevo. Nel cinema come nella fotografia è così, la luce condiziona fatal­ mente. Nel cielo nuvoloso c’è la bellezza delle nuvole, così come se piove c’è la bellezza della pioggia ma quella bellezza spesso non viene fuori al momento giusto. questo punto Ozu mi chiede se voglio vedere la sua Leica.)

È vecchia. Fino a cinque, sei anni fa facevo molte foto e le svilup­ pavo ogni sera ma ultimamente non la uso. L’ho comprata all’epoca in cui probabilmente avevano appena iniziato l’importazione in Giappo­ 73

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ne. (E così dicendo tira fuori dal cassetto della scrivania una Leica mo­ dello A, Elmar 5 cm, con numerazione oltre il 40000'2.) Le lenti sono di qualità straordinaria. Ora mi interessa riprendere le immagini in movimento più che fa­ re fotografie con questa. Però una Leica come questa è un oggetto d'amore. Specialmente se si trat­ ta della macchina che ha condiviso le sue sofferenze al fronte.

La Leica A con lenti Elmar 5 cm, prodotta dalla metà degli anni venti a circa la metà degli anni trenta, è considerata la più importante macchina fotografica da 35 mm di tutti i tempi perché fu la prima macchina a 35 mm che venne commercializzata con successo, sep­ pure a un prezzo per l’epoca altissimo. Ozu risulta già in possesso di questa macchina nel 1933. Cfr. Ozu, "Zennikki Ozu Yasujirò cit., pp. 59-60.

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SCRITTI SUL CINEMA

Cose in cui credo* Un dialogo fra Ozu Yasujiro e Ueno Kòzò'

UENO: Quando ho sentito che questa stessa rivista aveva in pro­ gramma di dedicare ampio spazio ai commenti su Cera un padre* ho pensato di dire anch’io la mia, anche se in realtà in passato - saranno sette, otto anni fa - avevo già fatto un intervento su «Eiga Hyòron»2 dal titolo Lettera a Ozu Yasujiro. Da allora ho un grande interesse per i suoi lavori; detto in una parola, nutro una profonda stima nei suoi confronti e spero che continui a fornire molti altri contributi al cine­ ma giapponese. Recentemente, in particolare da quando l’anno scorso è uscito Fra­ telli e sorelle della famiglia Toda* questo mio sentimento si è ulterior­ mente rafforzato. Allora, invece, molti critici apprezzarono più Uma' che Fratelli e sorelle della famiglia Toda. Dirlo al diretto interessato può sembrare un po’ strano, ma la cosa mi aveva fatto davvero irrita­ re. Ciononostante non scrissi nulla al proposito. Naturalmente Urna è un buon film e per il cinema giapponese non ci si può certo lamenta­ re, ma avrei voluto scrivere che, al confronto, Fratelli e sorelle della fa­ miglia Toda è di livello decisamente diverso. C’è una scena, verso la fi­ ne, in cui il protagonista schiaffeggia la sorella minore4. A quanto ho ‘ Originariamente pubblicato in «Nihon Eiga», giugno 1942. 1 Ueno Kòzò (1908-1981), regista di documentari, critico e teorico cinematografico. Nel 1930 partecipò alla Nihon puroretaria eiga dòmei [Alleanza proletaria cinematografica del Giappone]. Dopo la guerra fondò la Kirokueigasha, azienda di produzione di documentari, di cui fu anche presidente. Le sue opere principali come regista di documentari sono: Wagu no ama [Le pescatoci di perle di Wagu, 1941], Kariboshi kiri uta [Canto della lavorazione dell’erba elefantina, 1959] e Fujisan - Sono sbokubutsu shakai [Il Monte Fuji con la sua ve­ getazione, 1973]. : «Eiga Hyòron», rivista di cinema attiva dal 1925 al 1975. ’ Si veda supra* nota 8, in Cinema e fotografia* p. 70. 4 Nelle versioni attualmente in circolazione tale scena non risulta. Di essa si parla però anche in una tavola rotonda sul film stesso con Satomi Ton, Mizoguchi Kenji, Uchida Tomu, Ozu Yasujiro, Ikeda Tadao, Tsumura Hideo e Nanbu Keinosukc, pubblicata con il ti­ tolo Todake no kyòdai kentd dalla rivista «Shin Eiga», aprile 1941. Cfr. Tanaka (a cura di), Ozu Yasujiro zenhatsugen cit., p. 179.

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Ozu, Scritti sul cinema____________________________.

sentito in giro, molti dicevano che la scelta dell’autore di mettere in scena un tipo che si dà arie da uomo di mondo e rimprovera aspra­ mente i fratelli e le sorelle solo per il fatto di essere stato un anno in Cina era oltraggiosa. Quando ho sentito dire così, mi sono chiesto an­ ch’io per un attimo se quel tipo non volesse darsi delle arie ma in realtà proprio quella scena è liberatoria e ci si sente sollevati. Ho pensato molto a quelle critiche e mi sono reso conto che il protagonista non è uno che perché è stato in Cina si dà arie da uomo di mondo e schiaf­ feggia la sorella ma, fin dalla prima scena in cui viene fatta la fotogra­ fia di gruppo, viene presentato come un tipo che in quella circostanza si sarebbe comportato così. Ci può raccontare qualcosa a questo pro­ posito e, anche se so che le chiedo troppo, potrebbe dirci cosa pensa di questo tipo di critiche?

OZU: È così. Fin dall’inizio volevo dipingere quel personaggio come un uomo che ha un lato schietto e irruente, non come uno che va un an­ no in Cina e quando torna si mette a schiaffeggiare la sorella. Diciamo che è una questione di gusto personale ma a me non piace il tipo di uo­ mo senza difetti, mite e armonioso, che consapevolmente si comporta così e si fa strada nel mondo grazie a quel modo di essere. Come pos­ so dire, non mi piace uno che alla scuola elementare faceva il capoclas­ se e anche da adulto non si è ancora tolto di dosso quel modo di fare e si atteggia a persona ragionevole e di buon senso. Per esempio, anche nel recente Cera un padre, Horikawa Ryòhei5 alla fine va ad Akita6. Pa­ recchi hanno detto che in quella scena avrebbe dovuto portare sempre la scatola delle ceneri di suo padre sulle ginocchia7. Ha perso l’amato padre c sta portando a casa le sue preziose ceneri. Quindi dovrebbe trattare quella reliquia con i guanti bianchi tenendola sulle ginocchia senza mai mettersi comodo per tutto il viaggio fino ad Akita. Ma que­ sto modo di ostentare le proprie nobili qualità non mi piace affatto per­ ché mi sembra troppo pretenzioso e fin arrogante nei confronti degli al­ tri passeggeri. Si tratta di un viaggio molto lungo e quindi gli può capi­ tare, per esempio, di dover chiedere a sua moglie di tenere un attimo le ceneri del padre perché deve andare in bagno. Poi, quando torna dal ba­ gno, le riprende, oppure vuole appoggiarle sul sedile accanto per fu­ marsi una sigaretta ma non sa che persone si erano sedute lì*. Allora, più ' Nome del figlio del protagonista, impersonato da adulto dall’attore Sano Shùji. * Città del Giappone settentrionale, capitale dell’omonima Prefettura. 711 viaggio si svolge in treno e Ryóhci è seduto, mentre l’urna delle ceneri è sulla rete so­ pra il sedile. * Il riferimento implicito è al concetto di impurità che permea la cultura materiale giap­ ponese c si manifesta per esempio con il togliersi le scarpe prima di entrare in casa o in un

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Cose in cui credo._______________________________

clic sul sedile, preferisce metterle sulla rete per i bagagli che c’è sopra di lui. Può aver fatto anche queste considerazioni. Portare le ceneri del pa­ tii e morto sulle ginocchia per tutta la notte non dimostra l’intensità dell.i devozione filiale dell’uomo, le ceneri si possono anche mettere sulla relè sopra il sedile. La cosa importante è avere lo spirito giusto.

UENO: Capisco cosa intende, la penso anch’io così. Lei ha detto che c una questione di gusti personali ma io non credo si tratti solo di quel­ lo. La vera arte non è forse questa? Cogliere i sentimenti genuini delle persone. Oggi la gente, in particolare nelle metropoli, è diventata fri­ vola. Quest’aria investe tutti, anche me, ma io, forse perché sono cre­ sciuto in campagna, mi risento quando vedo certi comportamenti. In quegli atteggiamenti frivoli non c’è sostanza. Di conseguenza, quando vedo film come i suoi sono molto contento, sento con forza che do­ vrebbe essere proprio così. Una simile sensazione ce l’ho per esempio quando leggo un grande romanzo straniero: le usanze possono essere molto diverse dalle nostre ma sono convinto che ci sia una verità uma­ na condivisa c quando vengono mostrati questi aspetti mi commuovo lino alle lacrime. La stessa cosa mi accade per i suoi film. Quindi non credo si tratti di un gusto personale, penso piuttosto che si debba in­ sistere con forza su questi valori.

OZU: Ho usato l’espressione «gusto personale» ma ciò che volevo dipingere non sono tanto i comportamenti ordinari della vita di tutti i giorni quanto piuttosto una determinazione e una risolutezza che han­ no radici più profonde. Per esempio, non mi fido granché di chi dice baldanzosamente di essere sempre pronto a combattere come se nien­ te fosse. Non si sa come reagirà concretamente una persona così quan­ do i proiettili cominciano a volare e la battaglia si fa cruenta. Avere sempre la faccia da bravo capoclasse non è importante, la cosa impor­ tante c avere quella determinazione e quella risolutezza nei momenti critici. Anche nel caso di Toda Shòjirò9, non so se sono riuscito a rap­ presentare adeguatamente quello spirito, ma in ogni modo ho cercato ili presentarlo come un uomo che non ostenta un atteggiamento da eterno capoclasse. UENO. Nel caso di Toda Shòjirò, come ho detto prima, l’indole del­ la persona emerge fin dall’inizio e non solo perché va in Cina e quanii'iupio. In questo caso, il timore è di appoggiare le ceneri sul sedile dove potevano essersi se­ delle persone non pulite. ’ Nome del personaggio del film Fratelli e sorelle delia famiglia Toda citato in precedenza.

lline

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do torna schiaffeggia la sorella. Nel film, il fatto di andare in Cina vie­ ne presentato come una tendenza in voga, per cui si potrebbe anche fraintendere ma, al contrario, lui è una persona che va in Cina con una motivazione profonda, in altre parole una persona schietta e sincera, questa è una cosa che si percepisce chiaramente, e quindi anche il fat­ to di schiaffeggiare la sorella è l’espressione della sua intima natura. Cambio un po’ argomento. Prima della sua partenza per la guerra, cioè prima di Fratelli e sorelle della famiglia Toda, anche se non ho vi­ sto proprio tutti i suoi film, i piccoli oggetti utilizzati sulla scena sono sempre estremamente raffinati, e questa credo sia proprio una sua que­ stione di gusto. Poiché fra l’altro io dipingo, ho trovato molto bella ogni singola inquadratura dei suoi film. Questa caratteristica potrebbe però essere scambiata per quello che spesso viene chiamato «atteggia­ mento di raffinato preziosismo» e ho la sensazione che ciò non vada molto a beneficio della grandezza della sua opera. Invece, in Fratelli e sorelle della famiglia Toda non c’è traccia di questa minuziosa ricerca della bellezza degli oggetti di scena. Non dico che sia sparita completamente ma non ci sono nelle ri­ prese quella meticolosità e quel preziosismo e questo l’ho trovato con­ sono al contenuto del film. A questo proposito, ho percepito una gros­ sa differenza tra i suoi film di prima e dopo la guerra. «Ah - mi sono detto, - Ozu, andando in guerra, è diventato ancora più grande». Ho percepito che la guerra ha cambiato qualcosa in lei. Invece, ora con C’era un padre, fin dalla prima scena sul ponte, la composizione e le sfumature di ogni singola inquadratura sono curate all’estremo. Mi ha dato la sensazione che si sia riavvicinato allo stile dei film di prima di Fratelli e sorelle della famiglia Toda e questo mi ha fatto un po’ preoc­ cupare. Allo stesso modo, non ci sono minimamente dissolvenze in apertura e in chiusura, ad esempio, o dissolvenze incrociate e movi­ menti di macchina; in Fratelli e sorelle della famiglia Toda mi pare ci fosse un movimento di macchina10 ma, ora, il suo stile di procedere so­ lo per mezzo di stacchi mi ha un po’ spiazzato perché mi è sembrata quasi un’insistenza voluta...

OZU: Forse ho una rigorosità un po’ strana. I movimenti di macchi­ na, se devo dire, mi piacciono. Ma le scene in cui vorrei usare un movi­ mento di macchina, in pratica dipendono dalla situazione delle apparec­ chiature - per fare un movimento di macchina, come sa, occorrono mol!6 Nel film, perlomeno nella versione pervenutaci, c’è effettivamente un unico movimento di macchina, nella scena finale.

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te attrezzature, vetture, carrelli e se non si riesce ad avere tutto perfetta­ mente a disposizione, l’effetto che si vuole ottenere con il movimento di macchina non si raggiunge. Per esempio, se uso un movimento di mac­ china e la macchina da presa sobbalza, l’immagine traballa e la scena non dà un senso di stabilità. Allora mi dico che è meglio procedere solo per mezzo di stacchi. Sotto un ceno profilo, è una questione che riguarda la qualità delle attrezzature. Se potessi fare gli spostamenti senza problemi, userei i movimenti di macchina in molti più casi. Invece le dissolvenze incrociate non mi piacciono proprio. Le sopporto ancora meno delle dissolvenze in apertura o in chiusura. Anche quando guardo un film straniero di cui si dice che le dissolvenze incrociate sono belle, a me non piacciono affatto. Se proprio devo dire, i film di cui più mi è piaciuto l’u­ so della dissolvenza incrociata sono la scena della conversazione tra donne del film muto di Lubitsch Matrimonio in quattro (The Marriage Circle, 1924)" o quella della donna alla finestra ne La donna di Parigi (A Woman of Paris, 1923) di Chaplin'2. Anch’io, agli inizi, ho usato una volta una dissolvenza incrociata in Kaishain seikatsu. Per essere comoda è comoda, ma nonostante sia un metodo facile e semplice da usare, in tutta sincerità è una tecnica che non mi dice molto.

UENO: Nella prima parte di Cera un padre, quando si parla della gita scolastica, c’è una scena in cui l’insegnante dice in classe che an­ dranno a visitare Tokyo, Hakone e Kamakura13, poi c’è uno stacco brusco e si vede direttamente il Grande Buddha di Kamakura. Ho vi­ sto il film in sala, ma a questo punto ho sentito un brusio di stupore del pubblico intorno a me (ili. 6). Erano perplessi. In quel punto, mi sono detto, ci voleva proprio una dissolvenza incrociata o una dissol­ venza in chiusura seguita da una in apertura, bisognava usare uno di questi espedienti tecnici, un semplice stacco non funziona. Come ha detto poco fa, mi è sembrato che sia una questione di gusto personale. OZU: Capisco cosa intende quando dice che gli spettatori erano di­ sorientati. ” Riferimento alla scena del dialogo fra Mizzi e Charlotte nella parte iniziale del film. La macchina da presa inquadra le due protagoniste in una posizione fissa e una rapida sequen­ za di dissolvenze incrociate sostituisce il volto dell’una con quello dell’altra a seconda di co­ lei che parla. 2 il riferimento è alla sequenza iniziale del film. Chaplin presenta allo spettatore la pro­ tagonista attraverso quattro inquadrature e tre rapide dissolvenze incrociate che partono da un’inquadratura della casa in campo lungo e finiscono con l’immagine della protagonista al­ la finestra in campo medio. ° Hakone e Kamakura sono due delle località turistiche per eccellenza raggiungibili fa­ cilmente da Tokyo.

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UENO: Ho visto Cera un padre due volte e anche la seconda volta la reazione del pubblico è stata la stessa: di fronte alla scena del Gran­ de Buddha si è levato un brusio di stupore. Anche in una scena suc­ cessiva, non mi ricordo bene quale fosse, c’era di nuovo uno stacco im­ provviso e di nuovo la reazione del pubblico è stata di stupore, anche se un po’ meno; poi, dopo un po’ di volte in cui c’erano altri stacchi si­ mili, la gente è sembrata abituarsi. Quando la scena si sposta a Tokyo, c’è di nuovo un salto violento ma a quel punto anche il pubblico ordi­ nario seguiva senza più sussultare. Vedendo queste reazioni, ci ho ri­ pensato e mi sono detto che è solo una questione di abitudine, anche procedere per stacchi secchi può andar bene. Piuttosto, se per un film che dura circa un’ora, nei primi dieci minuti si preparassero gli spetta­ tori a ciò che stanno per vedere e al modo di raccontare specifico, al­ lora non ci sarebbe nessun problema. Nei casi in cui lei usa uno stac­ co, di solito si usa una dissolvenza incrociata ma ho pensato che non era poi una cosa così fondamentale. Naturalmente non si può genera­ lizzare ma la seconda volta che ho guardato il film mi sono reso con­ to che se non c’è un salto incoerente dal punto di vista narrativo, an­ che degli stacchi secchi vanno bene. OZU: Le dissolvenze in apertura e in chiusura potrei usarle anche in futuro, così come mi è già capitato di usarle in precedenza... Come sa, con la macchina da presa che uso adesso con il sonoro, anche quando voglio inserire una dissolvenza in apertura o in chiusura, dal punto di vi­ sta tecnico non posso farlo in maniera automatica. Dopo aver girato una scena, si marca la pellicola del negativo e successivamente se ne toglie un pezzo. Anche così, però, mi resta sempre l’incertezza se l’operazione di taglio e congiunzione venga fatta nel modo da me desiderato. Quando fa freddo14, poi, per colui che esegue questa operazione è un problema, anche se io non sono uno che si preoccupa molto di queste cose...

UENO: Oggi questa operazione si fa a mano, ma c’è chi dice che si dovrebbe poter fare a macchina e che il fatto di farla ancora a mano è la prova di come non vi sia il giusto spirito di intraprendenza... OZU: Alla Shochiku si fa a mano.

UENO: Lei non mi pare abbia molto a cuore questi sviluppi, vero? 14 A differenza che in Occidente, in Giappone, perlomeno fino alla guerra, il riscalda­ mento era limitato principalmente ai bracieri. Anche negli studi le condizioni del riscalda­ mento erano estremamente sommarie. In molti film degli anni trenta e quaranta è normale vedere il fiato emesso da chi parla, il che fa comprendere come anche la recitazione in inter­ ni avvenisse senza riscaldamento.

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OZU: Esatto. La dissolvenza, in apertura o in chiusura, non è una tecnica ideata dal regista ma è semplicemente una delle caratteristiche tecniche dell’apparecchiatura e cioè la regolazione dell’apertura e del­ la chiusura dell’otturatore della macchina da presa. Quando ero gio­ vane, ero fortemente convinto che introdurre questa tecnica in un film fosse poco interessante. Veniva usata come se fosse una regola fissa della struttura della narrazione per indicare il passaggio fra una scena e l’altra. Così, si vedeva solo quest’uso canonico, per cui se si iniziava una scena con una dissolvenza in apertura, per forza bisognava termi­ narla sempre con una dissolvenza in chiusura, ma io sono convinto che si può benissimo anche iniziare una scena con una dissolvenza in aper­ tura e chiuderla con un semplice stacco, oppure, al contrario, chiude­ re con uno stacco e aprire con una dissolvenza, insomma c’è anche un altro modo di utilizzare queste tecniche. UENO: Qualche mio collega l’ha fatto. Io non l’ho ancora fatto, ma nel film Yamato'5 queste tecniche sono state usate nel modo in cui di­ ce lei e in effetti il pubblico sembra aver reagito bene. OZU: Penso sia proprio una buona cosa. Fino a ora queste tecniche sono state usate solo in modo passivo come se fossero un modo ob­ bligato per concludere una scena, invece a me sembra molto più inte­ ressante cercare di fare un passo avanti innalzando il loro livello di uti­ lizzo come qualcosa di legato direttamente al contenuto del film. Sin­ ceramente non mi piace l’uso di queste tecniche per cui ogni volta che finisce una scena, gli attori vengono disposti come se fosse il finale di un atto teatrale e arriva dolcemente la dissolvenza in chiusura. Agli amici che mi dicono di usare le dissolvenze, io rispondo, al contrario, di provare a fare una volta un film senza usarle.

UENO: Parliamo ora della sua relazione con gli attori e con lo staff. Lei ha sempre lavorato alla Shochiku ma, anche all’interno della Sho­ chiku, nel corso del tempo le star sono cambiate. Lei, però, non so se si tratti di una sua preferenza personale, di fatto ha utilizzato impassi­ bilmente sempre gli stessi attori e ancora oggi mi pare che non si di­ scosti da questa linea. È una cosa che mi colpisce e che quasi ammiro... OZU: Per quanto riguarda lo staff, come sa, fin da quando sono di­ ventato regista ho sempre lavorato con l’operatore Shigehara Hideo, •’ Il riferimento c al documentario Yamato - Dentò no sangyòhen [Yamato - Le attività produttive tradizionali], 1941, prodotto dalla casa distributrice Daimai Tònichi Eigabu, con la quale aveva collaborato anche la casa produttrice di Ueno.

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che ora è impegnato con il suo sistema sonoro Mohara16. A sua volta, l’attuale operatore Atsuta Yùharu, all’epoca era l’assistente di Shigeha­ ra e da quando lavoriamo insieme sono già passati quindici o sedici an­ ni. Ci intendiamo quindi a meraviglia. Voglio lavorare con persone con cui mi intendo naturalmente senza riserve. Anche per quanto ri­ guarda gli attori, dopo che li ho impiegati una volta, voglio impiegarli di nuovo anche la volta dopo. Per esempio, Ryù, il protagonista di Cera un padre., lo conosco ormai da quattordici o quindici anni. Co­ sì, piuttosto che chiamare ogni volta un attore magari bravo ma che non conosco, preferisco un attore forse un po’ meno bravo che però conosco bene. Forse è a causa di questa mia preferenza sempre per le stesse persone con cui mi sento a mio agio che i miei film danno l’im­ pressione di essere sempre gli stessi (ili. 15).

UENO. Torno quasi all’inizio di questa conversazione ma c’è una cosa che desidero chiederle veramente, più ancora di quanto le abbia chiesto finora - non che non mi interessino le cose dette, anzi - dicia­ mo piuttosto che riguarda un mio problema personale che non ha a che vedere direttamente con lei. Potrà sembrarle strano il fatto che senza conoscerci personalmente le chieda all’improvviso questa cosa ma desidero proprio sentire il suo parere. Mi spiego: lei è una persona che conosce bene la natura degli individui e qualunque sia la questio­ ne che mi tormenta, fosse anche sentimentale, sento che posso per­ mettermi di chiederglielo perché sono sicuro che lei può darmi qual­ che suggerimento. Per esempio, a proposito dello staff attuale, io sono un esordiente e quando ho fatto Wagu no ama)7y hanno formato una squadra tutta per me: operatore, tecnico della registrazione sonora, re­ sponsabile delle musiche e così via, ma poiché ero proprio un princi­ piante, l’operatore mi trattava come un incompetente. Eravamo sem­ pre in conflitto, lo sono uno che di carattere dice chiaramente ciò che pensa e mostra in faccia i propri sentimenti. In altre parole non riesco a essere diplomatico e così ho finito per litigare con quell’operatore. Anche senza considerare questi aspetti, resta il fatto che lui non vole­ va sforzarsi di migliorare. Insomma, avevo la precisa sensazione che '* Ozu rinviò il suo esordio nel cinema sonoro per aspettare la realizzazione del Super Mohara Sound System, il sistema di sonorizzazione ideato da Shigehara. Si veda più avanti anche la nota 25, in Qualche parola sui mìei film, p. 113. 17 Wagu no ama, citato in precedenza, è un documentario che mette in contrasto la du­ rezza della vita delle pescatoci di perle con notevoli riprese subacquee che conferiscono va­ lore estetico al film. Cfr. A. M. Nornes, Póru Ruta/Paul Rotha and the Politics of Transla­ tion, in «Screening the Past», 1999, 7.

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fosse del tutto impossibile lavorare con uno che non mostrava il mini­ mo impegno. Nel film successivo, però, non c’era un altro operatore disponibile e poiché anche il presidente dalla casa di produzione mi ha detto di provare a collaborare ancora una volta con lui, abbiamo di nuovo la­ vorato insieme. Questa volta le cose sono state molto diverse. Si può dire che il nostro lavoro sia tutto in esterni e quindi si pernotta nello stesso albergo e spesso si passa anche il tempo libero insieme. In que­ sto caso, abbiamo affittato una casa in campagna e siamo stati insieme dal mattino alla sera e forse anche per questo abbiamo piano piano co­ minciato a capirci a vicenda. Così la seconda volta sono riuscito a la­ vorare piuttosto bene con lui. Mi sono quindi convinto che per lavo­ rare bene non è sufficiente scegliere una persona o l’altra solo in base a, diciamo, un punteggio e quindi preferire, per esempio, uno che ab­ bia sessanta punti a uno che ne abbia cinquanta e poi, dopo un po’, sce­ glierne un altro sempre in questo modo. Non è così che funziona. Non so se lo si possa sostenere in assoluto, ma ora sono convinto di questo. E poi, anche con riferimento a queste cose penso ancora una volta che lei sia una persona molto saggia... OZU: Un film sembra fatto tutto dal regista, in realtà il regista da solo non può fare nulla. Nel film non si vede direttamente, ma il con­ tributo dello staff è davvero fondamentale (ili. 10). Per quanto mi ri­ guarda, fino adesso ho potuto lavorare come desideravo proprio per­ ché sono circondato da uno staff eccellente e tutto composto da per­ sone che riescono a capire bene ciò che intendo. Se, per esempio, un grande regista della casa di produzione A si trasferisce alla casa di pro­ duzione B, la differenza di qualità tra le opere di quello stesso regista realizzate nei due casi dipende moltissimo da come ha funzionato lo staff con cui ha lavorato. Fino a quando lo staff non si è compietamente abituato e non ha compreso cosa voglia il regista, i risultati sembrano essere effettivamente inferiori a quelli raggiunti con la so­ cietà A. È così in ogni campo, ma in particolare per il cinema il ruolo dello staff è fondamentale. Anche per quel che riguarda la direzione degli attori, se tutto lo staff capisce cosa intende il regista, il lavoro è molto facilitato. Per esempio, quando c’è un attore che non si impe­ gna, se tutti i componenti dello staff nei vari settori lavorano sodo, an­ che lui, pur senza accorgersene, si fa coinvolgere dall’atmosfera e si mette a lavorare sul serio. Invece, per quanto il regista si possa impe­ gnare, se gli altri non lo seguono, da solo non potrà mai trasmettere a quell’attore quello spirito trascinante. In questo senso il contributo 83

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dello staff è decisivo ed esercita una forte influenza sulla qualità com­ plessiva dei film stesso. UENO: Lei dice che ha avuto la fortuna di avere uno staff eccellen­ te ma in pratica è lei che ha creato una simile squadra. Ciò che deside­ ravo chiederle riguarda proprio questo aspetto. Se io mi impegno con tutto me stesso, va bene anche non essere diplomatico nei confronti degli interlocutori? Posso anche litigare con loro? Se faccio tutti gli sforzi possibili per realizzare un film, poiché non vi sono persone cat­ tive di natura, posso confidare nel fatto che prima o poi si lasceranno coinvolgere?

OZU: Come posso dire, per me il lavoro è una passione divorante. Le altre cose possono anche non andare, ma il lavoro non si tocca. Se si ha questo spirito, pian piano esso si diffonde a tutto Io staff e si crea un’intesa unica. Fare un lavoro perfetto è difficile, però se ci si impe­ gna al massimo, anche quando non si raggiunge il risultato perfetto, pazienza. Se invece non si prova neanche a impegnarsi e si fanno le co­ se superficialmente, allora non ha neanche senso. Perciò certe volte si deve avere pazienza e accettare un compromesso. In ogni modo, ciò che conta è tenere più alta possibile la soglia fra ciò che si accetta e ciò che non si accetta. Cerco di fare quello che penso sia il mio meglio e se poi vedo che il risultato non è buono, ripenso a come farlo. Ecco, io lavoro così. UENO: Condivido questo suo spirito. Se uno fa onestamente del proprio meglio, i risultati verranno, ne sono convinto. In realtà, però, ci sono anche altri fattori. Di sicuro a causa del mio carattere irascibi­ le, se c’è qualche problema mi irrito subito. «Ma cosa diavolo sta fa­ cendo quello lì!», mi dico. Capisco che all’inizio non si possa preten­ dere troppo e se vedo che lui si sta impegnando e quindi la situazione un po’ per volta migliora, allora va bene; ci sono però anche casi in cui non vedo nessun segno di impegno. Quando è così, se si sta lavoran­ do da lungo tempo come lei, anche se il regista non dice nulla perso­ nalmente, quella persona verrà coinvolta nel clima generale di impe­ gno dello staff. Per quanto mi riguarda, invece, poiché dobbiamo an­ cora costruire quel clima, è tutto più complicato. In realtà, se io aves­ si un carattere generoso per cui quando c’è un problema aspettassi che le cose piano piano si risolvano, allora andrebbe bene, invece mi ar­ rabbio subito. Se potessi cambiare il mio carattere sarebbe l’ideale, però non posso farlo in quattro e quattr’otto e quindi mi dico che for­ se dovrei cercare di essere un po’ più diplomatico; anche se me lo im84

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pongo non ci riesco, è più forte di me, e se cerco di farlo a forza il ri­ sultato è ancora peggiore. Non si può cambiare facilmente il carattere di una persona. Dovrei correggere i miei difetti ma se non c’è un vero cambiamento e si fa solo finta di essere generosi e disponibili, lo staff lo capisce subito. Se facessi così, persino coloro che avevano compre­ so le mie intenzioni sincere penserebbero che sono un tipo strano e poco affidabile. Tutto sommato l’unica cosa è lavorare sodo. Se poi ci sarà qualcuno che non mi capirà, pazienza. OZU: Bisogna cercare di comprendersi a vicenda, per ciò che ri­ guarda i pregi e i difetti. All’inizio non funziona come si vorrebbe. Ero appena diventato regista e dovevamo girare in esterni ma, poiché il cie­ lo era nuvoloso, l’operatore disse che lui non girava. Dovevo fare in fretta perché la consegna del film era vicina e quindi lo pregai, dicen­ dogli che bastava che girasse, anche se le riprese non venivano partico­ larmente bene. Aggiunsi che sicuramente sarebbe capitato il caso in cui lui avrebbe voluto girare e io avrei detto di no... Lo dissi solo per con­ vincerlo in quel momento, poi successe davvero che una volta era nu­ voloso e io mi ostinai ad aspettare che venisse fuori il sole solo per te­ ner fede a quanto avevo detto in passato, ma lui ebbe pietà di me. Le cose però non vanno così dopo uno o due film, solo dopo lungo tem­ po ci si intende davvero l’uno con l’altro. Specialmente se l’operatore svolge il ruolo di «moglie» sul set, dopo quindici-sedici anni in cui si lavora insieme, in ogni momento si capisce al volo l’umore dell’altro e l’operatore avrà la bontà di dire: «Quando il regista è di cattivo umo­ re, se anch’io mi irrigidissi a mia volta, non si andrebbe avanti e quin­ di devo portare pazienza». Quando ci si sostiene a vicenda le cose fun­ zionano alla perfezione. Nel mio caso, devo dire però che è sempre lui a sostenermi...

UENO: Ma anche a lei capita ogni tanto di arrabbiarsi? OZU: Eh sì, ogni tanto mi arrabbio anch’io. Non si dovrebbe fare. Io non me ne rendo conto, però l’operatore mi dice che quando co­ mincio a lavorare divento un’altra persona e mi si guasta l’umore... Però, anche se mi arrabbio, come finisco di lavorare mi tolgo di dosso tutte le preoccupazioni di quel giorno ed è come se non fosse succes­ so nulla. Dirigere lo staff non è facile, ma quando si riesce a collabora­ re tutti insieme uniti dallo stesso spirito, non c’è situazione migliore.

UENO: Attinente a questo aspetto c’è anche la questione legata ai nuovi accordi tra i produttori cinematografici sull’utilizzo degli atto85

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ri18. Qualcuno sostiene che sia meglio che gli attori abbiano dei con­ tratti liberi e non più, com’è avvenuto finora, di esclusiva con un’uni­ ca casa di produzione, la Shochiku o la Toho che sia. Per esempio, una casa di produzione vuol girare un film su Omura Masujirò19 ma non ha un attore adatto per quella parte, mentre un’altra casa ce l’ha. In que­ sto caso, si dice, sarebbe bene fosse possibile utilizzare l’attore di qucll’altra azienda. Chiunque direbbe che è ragionevole. Però, se penso a quanto mi ha detto ora, anche se in teoria questa soluzione sembra funzionare, in pratica potrebbe non essere così. Naturalmente, dipen­ de anche dal tipo di film. Lei come la vede? OZU: Effettivamente penso di non riuscire a lavorare bene con un attore che non conosco. Per esempio, c’è un attore che conosco bene ed è molto serio anche se non è bravissimo. Io preferirei avere lui per fare la parte di Omura Masujirò. È molto più interessante impiegare questo attore in quel ruolo piuttosto che un attore che è perfetto per la parte, per cui chiunque lo utilizzi andrà comunque bene. Per esem­ pio, se per quel ruolo ci vuole un attore che vale dieci, gli si chiede di venire e lui fornisce senza fatica una prestazione da dieci punti. Se in­ vece ho un attore che vale solo otto e lavoriamo insieme per portarlo faticosamente a una prestazione da dieci punti, trovo la cosa molto più appassionante... Lavorare facendo questo tipo di sforzi: questo è ciò che mi interessa... UENO: Tirar fuori qualcosa dove non si trova naturalmente. E il fa­ scino inspiegabile dell’arte. Chi pensa superficialmente che ciò sia im­ possibile, non potrà fare un buon film. OZU. Quando impiego un attore in un film di finzione, se quell’at­ tore è molto bravo a recitare ma umanamente non mi convince, non mi trovo bene. Se non mi piace come persona, non mi viene voglia di lavorare con lui e addirittura non mi interessa fare quel lavoro. Invece, se nella recitazione ha qualche difetto ma è un’ottima persona, allora mi sento stimolato a lavorare con lui. Anche nel caso in cui, se impie­ gassi un attore che recita benissimo, il film risultasse decisamente me­ glio, ci penserei su due volte prima di farlo. Potrà sembrare un discorII riferimento è al generale processo di concentrazione e irrigidimento dell’industria cinematografica imposto dai governo con io svilupparsi della guerra. Tale processo ridusse a tre le case di produzione e, visto l’alto grado di concentrazione, ciò fece nascere le ipotesi di condividere anche gli attori. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 142-5. 17 Omura Masujirò (1824-1869), leader militare e teorico attivo fra la fine dell’epoca Edo e l’inizio dell’epoca Meiji, introdusse l’uso delle armi occidentali c deH’addestramento mili­ tare nelle forze armate giapponesi. È considerato il padre del moderno esercito giapponese.

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so estremamente capriccioso, ma quando si tratta di fare un film di fin­ zione, questa è una cosa per me tutt’altro che trascurabile. UENO: Anche la teoria deve tener conto di questi aspetti. La gente dice che la teoria è questa, però la realtà è un’altra: se si vuole capire co­ sa occorra per fare un buon film, come è il caso di cui stiamo parlando, la teoria deve essere basata su una profonda conoscenza delle caratteri­ stiche delle persone. Una teoria puramente astratta a me non... OZU: La teoria va bene, ma in pratica, quando si fa un film, non si può pensare di applicare un’unica teoria meccanicamente. Su questo non posso essere d’accordo. Anche se un unico corpo teorico unifor­ me come riferimento va bene e anzi, in generale, è necessario, nella realtà del lavoro del cinema ci sono casi in cui gli aspetti umani non possono essere trattati con la teoria. In questi casi, anche se la si appli­ casse forzatamente, non funzionerebbe comunque. Non bisogna esse­ re ossessionati dalla teoria ma considerarla piuttosto con un ampio margine di elasticità. Per quanto riguarda lo staff, ciò che conta è che stia dentro questo margine, se invece lo si costringe all’interno di nor­ me teoriche rigide non ci può essere quell’unità di sentire e di azione che è fondamentale. A volte, più che un’unica, rigida teoria astratta è infinitamente meglio la sensibilità di ognuno.

UENO: Personalmente ritengo che ciò che lei mi ha appena detto sia un ragionamento giusto, però in genere la gente non la pensa così... ha la presunzione di voler applicare la teoria a ogni cosa... Specialmente per ciò che riguarda il modo di sentire, per esempio la diversità nel sen­ tire dei giapponesi e dei cinesi, la teoria, basandosi sulla storia della so­ cietà o sul sistema di produzione di ciascuno dei due paesi, è in grado di spiegare le ragioni delle differenze ma non completamente. Non può spiegare perché, ad esempio, a uno piace la musica di Beethoven e quali analisi occorra fare per capire perché gli piace o non gli piace. In futuro forse si potrà spiegare, per il momento non ancora e quindi penso che si dovrebbe ammettere che la teoria ha dei limiti. OZU: Diciamo che la cosa migliore sarebbe tener presente la teoria come orientamento senza cercare di applicarla rigidamente ai casi con­ creti. Questo vale non solo a proposito del discorso sullo staff fatto pri­ ma, ma anche per i critici. È la stessa cosa con le critiche dei film: mi trovo d’accordo o meno a seconda della larghezza di vedute di chi le scrive. Una critica ben fatta, basata su una visione aperta, mi illumina e mi rallegra, invece coloro che hanno una visione ristretta e autocom­ 87

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piaciuta, basata su un punto di vista poco attinente e parlano vantan­ dosi come fossero i primi della classe, non mi piacciono. Per esempio, a proposito della questione del matrimonio di Ryóhei in Cera un pa­ dre, il professor Horikawa è una persona che ha un forte senso morale ma per quanto riguarda il matrimonio di Ryóhei c’è chi ha sostenuto che il suo comportamento viene meno a questo forte senso morale. Se Ryóhei va a fare il soldato, ciò significa che andrà in guerra e in guerra si muore; ciononostante, dicono, il professor Horikawa, senza riflette­ re a sufficienza, decide di far prendere in moglie a suo figlio la figlia del professor Hirata. Ecco, questa critica a me non piace perché è il frutto di una visione ristretta e pavida che dice: ha passato l’esame di recluta­ mento a pieni voti ed è andato a fare il soldato, ma fare il soldato vuol dire andare in guerra e in guerra si muore. Ma allora, dico io, un uomo che supera a pieni voti la prova di ammissione per fare il soldato non può sposarsi? In questo momento in cui non si sa se la guerra in Cina durerà ancora dieci, venti o cento anni, tutti i giovani uomini che van­ no a fare il soldato devono avere dei dubbi se sposarsi? Se ci si chiede se questa sia una decisione superficiale, la risposta mi pare evidente. UENO: Anche fra i miei amici c’è chi dice che non va bene prende­ re moglie così leggermente in tali circostanze20.

OZU: Per esempio, nel caso di C'era un padre., se il padre affrontas­ se la questione del matrimonio dopo un’approfondita considerazione, la vicenda avrebbe una certa coerenza ma non sarebbe comunque con­ vincente perché sembrerebbe che il figlio si è sposato solo per rispet­ tare la volontà del padre defunto. Se si volesse proprio trattare il tema del matrimonio in tempo di guerra, la storia di Cera un padre non sa­ rebbe adatta. Bisognerebbe costruire tutta un’altra storia e affrontarla da una diversa angolazione, diventerebbe insomma un altro film. Di questi tempi, non è certo considerata una cosa straordinaria superare a pieni voti l’esame per fare il soldato e andare in guerra, anzi è una co­ sa ormai normale, ovvia. Bisognerebbe riprendere il ragionamento a partire da qui.

UENO. Effettivamente è così. E un ragionamento sbagliato. Spesso, quando discutiamo fra di noi di un nuovo documentario, diciamo: 25 In una versione precedente della sceneggiatura, risalente al 1937, cioè prima che Ozu partisse per la guerra, il matrimonio non era improvviso. Ryóhei, infatti, si trasferiva a Tokyo per vivere con il padre e lì frequentava la famiglia del professor Hirata. Era prevista anche la scena di un picnic con la figlia del professor Hirata. Cfr. ’Kanaka (a cura di), Ozu Yasujirò zenhatsugen 1933-1945 cit., p. 273.

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«Quel fatto è troppo sottolineato, c’è quest’aspetto, perché il regista non ha messo quello?»; ma tutte queste aggiunte che si pretendono non sono vere critiche né veri ragionamenti. La questione del matri­ monio in C'era un padre per me non è affatto strana. OZU: La critica che si chiede perché sono state messe certe cose è più pesante di quella che si chiede perché non sono state messe certe cose. Per esempio, piove. Dalla finestra si vede la pioggia cadere. In città la gente cammina con l’ombrello, la pioggia batte sui vetri delle macchine e schizza sull’asfalto delle strade. Ci sono tante immagini possibili della pioggia che cade e chi critica non è mai contento se non riprendo parecchie di quelle immagini e le metto tutte in sequenza. In­ vece, io vorrei creare un’inquadratura che, mostrando solo la pioggia dalla finestra, fa immaginare in maniera semplice ma profonda anche la pioggia che cade sul mare o sulle montagne. A mostrare tante im­ magini di pioggia rapidamente, una dopo l’altra, si ottiene solo un ef­ fetto visivo superficiale.

UENO: Nelle sue opere, le cose che mi ha detto funzionano molto bene ma chi, come me, non ha il suo talento, non riesce a esprimere tutto con una sola inquadratura. Certo sarebbe meglio, ma non mi sento sicuro e finisco purtroppo per farlo con più inquadrature.

OZU: Succede spesso anche a me. Mi dico che sono necessarie cin­ que inquadrature, poi provo a farlo con quattro. E da queste quattro, con rammarico ne tolgo ancora una, ma in realtà non è che cambi mol­ to. L’idea di farlo con cinque inquadrature era dovuta solo a una mia convinzione iniziale, ma in realtà con cinque o con tre è la stessa cosa. È difficile capire quale sia la misura minima necessaria. UENO: Si dice che la vera arte non abbia niente di superfluo e che occorra capire quale sia la misura giusta. Da questo punto di vista pen­ so sia giusto ciò che lei ha detto prima. Io, invece, anche se mi dico che devo farcela con una sola inquadratura, poiché non sono così bravo, ne faccio due o anche tre. Eppure c’è anche chi si lamenta se non au­ mento il numero delle inquadrature. Visto che è un documentario bi­ sogna aggiungere questo e anche quello, dicono. Ha voglia di dirmi qualcosa in merito ai documentari?

OZU: Se guardiamo per esempio i documentari che sono stati rea­ lizzati dalla Shochiku in passato, ve ne sono alcuni girati da registi che aspiravano a fare un film di finzione e quindi hanno messo nel docu­ mentario elementi di ciò che avrebbero desiderato fare in realtà. Per 89

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esempio, in una scena di paesaggio viene inserita un’immagine del fu­ mo che esce da una ciminiera. Oppure delle piante di fiori che on­ deggiano al vento. In un film di finzione queste sarebbero delle im­ magini con un significato preciso, ma in un documentario nella mag­ gior parte dei casi non hanno alcun significato particolare. In questo modo, il regista che fa un documentario con la segreta aspirazione di fare un film di finzione posiziona la macchina da presa con un’ango­ lazione non abbastanza precisa per un documentario e il risultato è totalmente inadeguato. Anche soltanto se si riprende per esempio un bicchiere, il significato di questo bicchiere, la composizione dell’in­ quadratura con il bicchiere, l’inquadratura precedente, quella succes­ siva, il collegamento tra di esse, tutti questi elementi concorrono fin dall’inizio a creare un’atmosfera coerente. Il senso di questa scena con il bicchiere cambia molto nel caso di un film di finzione o di un do­ cumentario e da questo punto di vista anche la posizione della mac­ china da presa deve essere adeguata di conseguenza, perché è diverso il punto di osservazione. Sotto questo profilo, quei documentari mi sembrano molto confusi.

UENO: Non riguarda solo quelli della Shochiku, ma in molti docu­ mentari ci sono scene che non hanno senso. È una tendenza abbastan­ za generale dei registi di documentari. Lo dico sempre a ogni incontro di studio: al giorno d’oggi il primo problema è che i registi non hanno i piedi per terra. Non è necessario fare adesso un capolavoro. Non lo si può neanche fare subito. Ciò che occorre, piuttosto, sono docu­ mentari di cui si capisca chiaramente l’intenzione. È pieno di docu­ mentari campati per aria. Mi chiedo come mai si sia arrivati a questa mancanza di senso della realtà. Forse c’è qualche relazione con la dif­ fusione del surrealismo nelle arti figurative. Fare assiduamente eserci­ zi di disegno è faticoso e molti non ne hanno la pazienza. Allora, qua­ lunque forma o qualunque colore vanno bene. Si usa il primo colore che capita. In questo modo si può imbrogliare. Ci si può sentire un grande artista. Insomma, mi sembra una scappatoia per nascondere la mancanza di capacità. In definitiva, anche la mancanza di senso della realtà dei documentari attuali credo derivi da questo. Per non mostra­ re i propri difetti, anche se si riprende una filatura, più che mostrare in maniera comprensibile lo stabilimento, si cerca di introdurre qualche ripresa diversa dal solito per sbalordire gli spettatori. In altre parole, si fa di tutto per sfuggire alla propria mancanza di preparazione. Anch’io mi trovo a combattere contro questa tentazione, ma almeno ne sono consapevole. Cerco di illustrare in maniera comprensibile ciò che ri90

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prendo. Se non facessi così, andrebbe bene per un po’, ma quando si tratta del lavoro di una vita, dove ciò che conta è realizzare delle cose buone per il futuro, ingannerei solo me stesso. Quando guarda dei do­ cumentari non ha questa sensazione? OZU: Come posso dire, per certi film mi capita di avere questa im­ pressione. Nei film di finzione ci sono gli attori, si costruiscono le sce­ ne, si posizionano le luci, si crea uno spettacolo di finzione dal nulla. In questo caso artifici ed enfatizzazioni introdotti dal regista sono am­ messi. Invece, nei documentari, dipende naturalmente dal soggetto, le cose vengono riprese così come sono e artifici ed enfatizzazioni non sono ammessi. La questione è cosa si intende quando si dice «artifici ed enfatizzazioni non sono ammessi». Naturalmente non si possono cambiare le cose come sono, però l’enfatizzazione espressiva dovreb­ be essere presente nella giusta misura. È come un accento posto nella composizione e la misura di quell’accento è fondamentale. Di fatto, si riprende una cosa così com’è, ma colui che la riprende deve scegliere su quale inquadratura mettere l’accento. Per esempio, è meglio avvici­ nare ancora un po’ la macchina da presa oppure, per suscitare nello spettatore un’impressione più forte, fare un lungo primo piano? Oc­ corre dare un peso diverso a ogni inquadratura, non basta riprendere le cose in maniera indifferenziata come se si passasse sopra di esse a vo­ lo d’uccello. Bisogna intervenire di più nel costruire la composizione di ogni inquadratura. UENO: Questo è perché noi non siamo preparati a sufficienza... È diffusa l’opinione secondo cui nei documentari non ci deve essere nul­ la di artificiale, bisogna riprendere le cose così come stanno, non ci de­ ve essere l’intervento del regista.

OZU: Io credo invece che possa esserci una componente soggettiva. Non solo può esserci, a volte ci deve proprio essere. Non stiamo par­ lando di immagini frammentarie sparse qua e là, ma di una vera e pro­ pria composizione. UENO: Sono d’accordo con lei. Infatti si dice sempre di riprendere le cose come sono, eppure io vorrei sapere in che modo si possono ri­ prendere le «cose come sono». Per esempio, se si riprende una casa, la luce è diversa se si gira la mattina, il pomeriggio o la sera e poi biso­ gnerebbe inquadrarla da tutte le angolazioni. Se si mettessero davanti alla casa diverse macchine da presa e si usassero decine di migliaia di metri di pellicola per girare in continuazione durante la giornata, for91

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se si riuscirebbe a riprendere la casa «così com’è», ma questa è una co­ sa impossibile. E anche se fosse possibile, che senso avrebbe? Che sia un documentario o qualunque altra cosa, nell’arte o nella scienza, si tratta sempre di cose create dagli uomini. E le cose create dipendono da come il creatore le compone in base al suo punto di vista. È nor­ male. La tendenza imperante nei documentari è di dire che la compo­ nente di artificio introdotta dall’autore non va bene. Ecco, vorrei chie­ derle cosa pensa anche di questo. OZU: Gli artifici ci possono essere, non sono un problema in sé. Se non dà nell’occhio e se serve a migliorare la qualità dell’opera, qualun­ que tecnica o qualunque artificio va bene...

UENO: Invece, poiché non siamo abbastanza capaci, gli artifici si notano. Bisogna cercare di non far percepire allo spettatore l’artificio, ma non ci si deve neanche sottrarre al fatto di comporre attivamente le inquadrature. Penso che si debba affrontare la questione con determi­ nazione.

ozu: Proprio così. Per esempio, c’è una fila di una decina di perso­ ne. Voglio mettere a fuoco il terzo uomo da sinistra. Per far questo la posizione della macchina da presa è troppo lontana c quindi vorrei av­ vicinare la macchina e fare un primo piano dell’uomo, ma se facessi co­ sì, il mio intervento sarebbe troppo evidente. Gli artifici ci possono es­ sere, l’importante è che l’insieme non risulti innaturale. Anche per me è la stessa cosa, come posso dire, mi piace fare riprese chiare e precise, come il lancio di una palla che può decidere un incontro. UENO: Torno al discorso precedente. Quando ho visto per la se­ conda volta C'era un padre, c’è stato un punto su cui ho avuto qual­ che dubbio. È quando gli ex allievi organizzano una cena con i loro vecchi professori. C’è una scena di recitazione di una poesia e un pri­ mo piano, mi pare fosse di Saburi Shin21 con gli occhi lucidi dalla com­ mozione, che è bellissimo e anche gli spettatori partecipano commos­ si. Ma nel punto in cui il professor Hirata si mette a piangere, mi sa­ rebbe piaciuto che gli spettatori venissero coinvolti di più nel parteci­ pare al suo sentimento22. È una cosa, questa, che ho pensato la secon­ da volta che l’ho visto. Saburi Shin (1909-1982), attore giapponese presente in molli film di Ozu. In C’era un padre interpreta la parte di un ex studente del professor Horikawa. 22 Nella versione attualmente in circolazione la scena non è presente. Venne tagliata dal­ le forze di occupazione americane, che la censurarono perché ritennero la poesia, una cele­ brazione del sacrificio per l’imperatore, troppo patriottica. Il film, originariamente lungo 94

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Cose in cui credo--------------------------------------- —

OZU: Effettivamente quella scena non mi è venuta troppo bene... UENO:

Non poteva fare un primo piano del professore?

OZU: Sì, potevo anche farlo... Però vorrei dire un’altra cosa. Fratelli e sorelle della famiglia Toda come storia è un melodramma, ma ho cer­ cato una messa in scena il più possibile distaccata, evitando ogni enfa­ tizzazione e devo dire che sono abbastanza soddisfatto del risultato. C'era un padre è il contrario, la storia ha un andamento molto piano e gli elementi drammatici sono molto pochi. Perciò, al contrario di Fra­ telli e sorelle della famiglia Toda, l’ho girato come se fosse stato un me­ lodramma. Fino a quando non ho visto l’anteprima non me ne sono re­ so conto, ma era completamente diverso da come intendevo. Se un sog­ getto non è drammatico per sua natura, anche se lo si mette in scena nel modo più drammatico possibile, non funziona. Nel caso da lei citato, sa­ rebbe stato meglio riprendere con un campo lungo in modo da cogliere la dolce emozione che scaturisce dall’atmosfera dell’intera scena, così avrei forse potuto ottenere un sapore più tenero e profondo. Invece ho fatto un primo piano dopo l’altro come in un film di finzione, senza cu­ rare abbastanza il collegamento fra le inquadrature e questa atmosfera un po’ nostalgica non è venuta fuori. Durante tutta la lavorazione non me ne sono reso conto e l’ho capito solo dopo aver visto l’anteprima... UENO: Mi potrebbe spiegare meglio cosa intende quando dice che ha voluto dare al film un taglio drammatico proprio perché non lo era... OZU: Volevo provare a fare così per vedere cosa ne veniva fuori. Pensavo che in questo modo il film si sarebbe arricchito, ma quando ho provato a farlo concretamente mi sono detto che, se il risultato era questo, sarebbe stato meglio girarlo in maniera normale come avevo sempre fatto. Potremmo dire che, anziché cercare di fare un film alla John Ford, sarebbe stato meglio farlo alla John M. Stahl25... Però, po­ trò sembrare troppo presuntuoso, la prossima volta che mi capita di fare un film del genere vorrei di nuovo provare a farlo così.

UENO: Questo fatto di metterlo in scena come se fosse un film drammatico, in concreto cosa... minuti, subì vari tagli. Oggi ne esistono due versioni: una non in circolazione, di 72 minuti, ritrovata dall’esercito sovietico in Manciuria, contenente la scena citata, e una in circolazio­ ne, di 87 minuti, senza la scena citata. John M. Stahl (1886-1950), regista e produttore cinematografico americano ricordato per i suoi vibranti melodrammi come La donna proibita (Back Street, 1932), Lo specchio del­ la vita (Imitation of Life, 1934), Al di là delle tenebre (Magnificent Obsession, 1935) e Fem­ mina folle (Leave Her to the Heaven, 1945).

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OZU: Per esempio, la scena nella stanza dell’ospedale è fatta tutta di primi piani. Invece, si poteva fare un campo lungo per seguire lo svol­ gersi della scena e ogni tanto inserire qualche primo piano... Un altro esempio è quando Ryòhei si siede davanti al butsudan1*, accende un bastoncino d’incenso, fa risuonare due volte la campana25 e prega. Fra i suoni della campana e la preghiera ho inserito un primo piano del pa­ dre. Anche questa scena sarebbe stato meglio riprenderla tutta con un campo lungo e solo dopo la preghiera inserire il primo piano del pa­ dre. Spezzando la sequenza di ogni suo singolo gesto, ho cercato di mostrare tramite questi stacchi gli sbalzi del suo stato d’animo.

UENO: Quando ho visto la scena del butsudan ho pensato che era stupenda come l’aveva fatta, ma nella scena dell’ospedale c’erano un paio di primi piani di Saburi che mi sono sembrati un po’ forzati. OZU: A forza di fare un primo piano dopo l’altro è venuto fuori così. UENO: Io comunque sono rimasto ammirato di fronte a quasi ogni inquadratura. Per esempio, nella scena del tempio quando mettono la carta nuova agli $hdji2f>. Al cambiare delle stagioni lo faccio anch’io, ma finisco sempre per fare un pasticcio. Vedendo quella scena invece ho pensato che è bello fare quel lavoro. «La prossima volta quasi qua­ si mi piacerebbe fare anch’io così», mi sono detto. Per tutto il film ho provato questa sensazione di ammirazione... Poi, è un’inezia, ma nel­ la scena ad Hakone27 si vede due o tre volte il lago: la prima volta in cui c’è la barca sembra pieno giorno, mentre la seconda volta sembra di sera... OZU: Quello è stato un errore nell’uso dei filtri.

UENO: Cambio ancora discorso. Lei mi pare che non scriva mai nulla, come mai? ’■* Altare buddhìsta utilizzato nelle case giapponesi consistente in un armadio di legno con le ante, spesso appoggiato su un supporto. All’interno contiene un’icona religiosa, come una statuina o un dipinto del Buddha, vari oggetti di culto (per esempio candele, campane, bastoncini d’incenso, tavolette che ricordano i defunti) e le offerte di frutta e altri alimenti dei parenti dei defunti. 25 II riferimento è a una piccola campana a forma di ciotola metallica, nota come orin, che viene fatta risuonare una o due volte, prima della preghiera per i defunti. ■k Nella casa tradizionale giapponese lo shòji è una porta o una finestra o una parete scor­ revole fatta di una struttura leggera di legno e di carta bianca. La carta viene sostituita pe­ riodicamente per usura o sfondamento. 27 Località turistica a sud di Tokyo citata in precedenza come una delle mete della gita scolastica del film.

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OZU: Scrivere mi pesa, in particolare non mi piace scrivere qualco­ sa per la pubblicazione. Quando mi chiedono di scrivere anche solo una pagina di quattrocento caratteri, sto su tutta la notte per farlo. UENO: E le sceneggiature...

OZU: Le sceneggiature sono un’altra cosa... Scrivere altre cose non fa per me.

UENO: Le lettere, neanche quelle le scrive volentieri? OZU: Mah, sono pigro, però quando si tratta di persone che cono­ sco bene, le scrivo.

UENO: Io invece preferisco più scrivere che parlare.

OZU: A volte mi capita di leggere qualche critica e mi viene in men­ te qualcosa che vorrei dire, però quando mi metto a scrivere è fatico­ so e mi passa la voglia. «Scrivano pure quello che gli pare», mi dico... Lo so che così non va bene ma alla fine non scrivo.

UENO: La ringrazio infinitamente di questa ricca conversazione.

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SCRITTI SUL CINEMA

Una cosa che mi ha allargato il mondo. Ripensando a Capriccio passeggero’

Ho affrontato questo film, alla fine dell’epoca del cinema muto, per cercare di aprire nuovi orizzonti sviluppando ulteriormente i temi del­ la vita della gente comune che ho sempre descritto. Non ne potevo più del clima deprimente della vita quotidiana in Giappone e volevo aprirmi a tutto ciò che era moderno’. Persino per il dentifricio o il sapone e tutti i piccoli oggetti di scena utilizzai pro­ dotti di importazione e scrissi la sceneggiatura stando in un hotel2. A ripensarci adesso, allora mi comportavo proprio come un dandy. Quello però fu anche un tentativo di far percepire in un film muto le novità del cinema sonoro. Lasciando da parte la bontà o meno dei risultati, ciò che vorrei che comprendeste era la mia forte intenzione sottostante di mostrare, per così dire, una ukiyoe * come se fosse un’acquafòrte4. * Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», Nihon riga daihyó sfamano zenshù (2), marzo 1958, numero speciale. 1 In giapponese la parola modan (moderno) implicava interesse e spesso emulazione del­ le cose occidentali, vissute come nuove per eccellenza. La modernizzazione della società giapponese sulle linee di quelle occidentali avvenne negli anni venti del Novecento e il cine­ ma fu uno dei veicoli principali nella costruzione dell’immaginario di massa dei giapponesi. Sul cinema giapponese come espressione della modernizzazione e sulla reciproca influenza fra cinema e modernizzazione, cfr. Wada-Marciano, Nippon Modem cit. 1 La parola hotel (hoteru, in giapponese) indicava un albergo in stile occidentale. All’i­ nizio degli anni trenta, quando Ozu scrisse la sceneggiatura di Capriccio passeggero, gli ho­ tel erano ancora pochissimi. Ozu cita perciò come una novità il ratto di non aver soggior­ nato in una locanda tradizionale giapponese, come faceva spesso con Noda per scrivere le sceneggiature. * Le ukiyoe, la cui traduzione corrente è «stampe del mondo fluttuante», sono le xilo­ grafie a colori che si sviluppano lungo tutta l’epoca Edo (1603-1868) e che toccano il loro apice nella seconda parte del XVIII secolo e nella prima parte del XIX secolo con artisti co­ me Hokusai, Utamaro, Hiroshige. Le ukiyoe influenzeranno poi molti artisti occidentali co­ me per esempio Monet e Van Gogh. 4 L’acquafòrte era una tecnica di incisione (e quindi una varietà di stampe) allora pretta­ mente occidentale.

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SCRITTI SUL CINEMA

Vivo d’amore per il cinema*

Maestro, dai primi film importanti come Sono nato, ma... e II figlio unico, poi dopo la guerra con Nagaya shinshiroku o Tarda primavera, fino a questo 11 tempo del raccolto del grano', lei ha fatto un lungo percorso. Airintemo di questo percorso, che significato ha II tempo del raccolto del grano, cosa vuole realizzare con esso?

Il tempo del raccolto del grano assomiglia più di altri a Tarda pri­ mavera. Non so se ci riuscirò, ma ciò che in sostanza vorrei fare con questo film è ridurre le componenti drammatiche e far sì che scena do­ po scena, in maniera impercettibile, si crei una sorta di suggestione che tocca le corde profonde della sensibilità estetica (mono no aware)2 e dopo lascia un buon sapore... ecco, questo è un po’ quello che volevo fare quando ho iniziato a girare. In realtà, se dal film non viene fuori niente, è inutile parlarne prima di averlo finito, comunque questa è la cosa cui ambisco. Insomma, ciò a cui punto non è raccontare una sto­ ria in maniera esaustiva, ma piuttosto mostrarne soltanto il settantaottanta per cento, lasciando quel che non si vede alla sensibilità esteti­ ca dello spettatore. Se riuscirò nell’intento, vorrei girare film di questo tipo anche in futuro; se invece non ci riuscirò, intendo continuare a studiare come riuscirci. Detto in altre parole, in un romanzo sarebbe ’Pubblicato originariamente in «Eiga Shinchò», novembre 1951. 1 L’intervista venne realizzata presso la mensa gli studi Shochiku di Ofuna nella fase fi­ nale della lavorazione de 11 tempo del raccolto del grano, che uscì il 3 ottobre 1951. Cfr. Ta­ naka (a cura di), Ozu Yasujiro sengo goroku shùsei cit., p. 106. 2 II termine utilizzato da Ozu, mono no aware, è un concetto chiave della cultura e del­ la sensibilità giapponese. Alcuni critici hanno voluto trovare proprio nel mono no aware la cifra stilistica ed esistenziale del cinema di Ozu. La locuzione - il cui significato può essere «il pathos delle cose» o «l’empatia verso le cose* o ancora «la sensibilità verso l’effimero» sta a indicare l’accettazione serena della transitorietà delle cose e, al contempo, un senso di dolce tristezza che dà senso estetico alla vita. Cfr. P. Schrader, Trascendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer, University of California Press, Berkeley 1972 (trad. it. di C. Raimo, Il trascendente nel cinema, Donzelli, Roma 2010, pp. 27-32); Richie, Ozu cit., pp. XIV-XV, 51-5; Tornasi, Ozu cit., pp. 12-3; Wenders - Zournazi, Inventare la pace cit., pp. 103-4.

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una sfumatura tra le righe, in un’opera di pittura giapponese sarebbe l’uso estetico dello spazio vuoto; in ogni modo si tratta di non mo­ strare l’interazione fra i sentimenti nudi ma di far percepire le cose so­ lo per vaghi accenni. Quindi con il soggetto di questo film penso di correre un certo rischio. Non dico che prima di adesso non abbia mai fatto nulla in questo senso, ora sento però che posso puntare a realiz­ zare queste cose. (Così si è espresso Ozu, pensandoci su, dicendo una frase, poi pensandoci di nuovo.) A questo proposito, nell'intervista a Ryù Chishùy uscita l'altro giorno sul «Tòkyo Shinbun», c'è scritto che lei è andato a vedere la mostra di Matisse* e ha detto: «Che serenità! Sembra che giochi con l'arte. E proprio da lui».

In verità, io non ho detto proprio così. Sono rimasto molto colpito dal commento che ha scritto Shiga, che diceva qualcosa del genere. Co­ me posso dire, Shiga sostiene che in un modo o nell’altro sono opere fat­ te, rifatte e rifinite un’infinità di volte; non si può certo dire che non sia arte, eppure bisogna considerare che chi le ha realizzate non si è diver­ tito affatto, per alcuni aspetti sembra quasi un lavoro da artigiano. In questo senso io, per esempio, non mi sento di essere ancora andato al di là del livello di artigiano. (Qui Ozu ha sorriso. Non un sorriso di auto­ derisione ma il sorriso sereno di chi conosce bene se stesso.) Maestro, prima della guerra lei ritraeva con affetto i gasometri, i campi di er­ bacce e la gente che abitava in quelle aree, ma nel dopoguerra quelle immagini sono scomparse dalle sue scene. Sentiamo un po' di nostalgia per la scomparsa del­ la mamma recitata da lida Chòko o di quegli amabili monelli'. Cosa ne dice?

A questo proposito, mi dispiace dirlo, non riesco più a sentire lo stesso affetto di una volta nei confronti della gente che vive in quelle zone. In passato, quelle persone non erano così senza cuore come so­ no oggi e avevano anche degli atteggiamenti gentili, come per esempio mettere delle piante di fiori di convolvolo davanti alla propria casa, ma ultimamente lasciano addirittura i rifiuti abbandonati, sembra proprio ’ Ryu Chishù (1904-1993) fu l’attore-feticcio di Ozu, di cui interpretò la maggior pane dei film. In una conversazione avuta nel 1963 con Donald Richie, Ryù disse che aveva inter­ pretato tutti i film di Ozu, eccetto Bijin aishù e Shukujo wa nani o wasuretaka. Sono parec­ chi i critici che hanno sostenuto che l’atmosfera di alcuni film di Ozu non avrebbe potuto esistere senza Ryù e che egli ebbe consapevolezza di impersonare in ultima istanza Ozu stes­ so. Cfr. Richie, Ozu cit., pp. 209-10. 4 Riferimento alla mostra Henri Matisse, tenutasi al Museo nazionale di Tokyo dal 3 marzo al 13 maggio 1951. 4 La citazione si riferisce a film come Capriccio passeggero (1933), Una locanda di Tokyo (1935) o II figlio unico (1936).

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Vivo d’amore per il cinema

che il loro livello di vita sia sceso, comunque non vedo più gli aspetti amabili di una volta. (Lunga pausa.) Mettiamola così. Quando si deve ritrarre una cosa sporca, se la si ritrae come una cosa pulita è una menzogna, ma se la si ritrae in ma­ niera eccessivamente sporca viene accettata senza problemi. Neanche questo, però, è realistico e in questo senso neanche i film di ispirazio­ ne comunista sono realistici. D’altro canto, noi6 forse tendiamo a sot­ tolineare troppo gli aspetti puliti, a questo proposito siamo entrambi colpevoli. (Ride.) Comunque, non è che nei miei film i gasometri o i monelli sono stati cancellati e non ci saranno più. Non sono mica di­ ventato all’improvviso un nuovo ricco. (Tutti hanno riso. I cinque mi­ nuti che Ozu mi aveva concesso all'inizio sono passati da un pezzo7 e lui stesso sembra non ricordarsene più. L'impressione iniziale di perso­ na rigida è svanita e ora dà la sensazione di essere un amabile zio.) Allora possiamo sperare che, dopo gli ambienti di Tarda primavera e II tem­ po del raccolto del grano, potremo ritrovare le case dei lavoratori in mezzo ai campi di erbacce e le file di anguste case popolari in legno unite dallo stesso tet­ to («nagaya»)? Quelle mamme anche oggi hanno nostalgia di lei.

Quello è il punto di partenza dei miei film, quindi non posso certo negarlo. Però non desidero dipingere figure sgradevoli. Se dovesse tornare a ritrarre quelle persone, possiamo aspettarci o almeno sperare che non le ritragga con quella tristezza desolante ma in maniera più at­ tuale e propositiva?

Sì. Se dovessi rifarlo adesso, non vorrei dipingerle con i colori del­ la rassegnazione o della disperazione, vorrei cercare piuttosto di co­ glierne gli aspetti più luminosi. In passato, illustravo delle situazioni di desolazione totale ma ora mi sentirei irresponsabile se lo facessi. A ri­ pensarci adesso, credo quindi che tratterei cose molto diverse da quel­ le di una volta. Inoltre, se dovessi farlo ora, probabilmente mi direb­ bero che ho smussato la componente realistica; d’altra parte non in­ tenderei fare un film educativo, anche se vorrei comunque ritrarre le cose da quel punto di vista. (In questa parte, Ozu parla rapidamente, in maniera appassionata.) ‘ 11 «noi» è riferito ai registi della Shochiku, di cui Ozu fa parte, noti per film spesso ba­ sati sui valori tradizionali in cui il senso di armonia tende in molti casi a prevalere sugli aspet­ ti critici. 7 Riferimento alla parte introduttiva dell’intervista, qua non pubblicata, in cui viene spie­ gato che l’intervistatore era riuscito a incontrare Ozu alla mensa della Shochiku e a ottenere cinque minuti di intervista. Cfr. Tanaka, Ozu Yasujirò sengo goroku shùsei cit., p. 106.

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Ci dovrebbero essere degli aspetti luminosi, vero?

Sì, ci dovrebbero essere. Tuttavia, sarebbe difficile farlo in maniera credibile senza cadere nella falsità. D’altra parte, non vorrei fare un film poco naturale come un film educativo... Maestro, sono ormai più di ventanni che fa film. Durante questo lungo periodo la società è molto cambiata. Gli stessi soggetti dei film sono cambiati notevolmente. Quali sono le cose che lei ha sempre perseguito e che non sono mai cambiate?

Per quanto mi riguarda, direi probabilmente che sono i sentimenti umani. Lei intende i sentimenti umani veri, non quelli di «naniwabushi»? . * ..

Certo. Ciò che io chiamo i sentimenti umani sono cose che non mutano, anche se potremmo dire che cambia il modo di esprimerli. Lei non è cambiato, però è cambiato il mondo circostante. Inoltre ha spo­ stato le sue attenzioni... perciò anche i luoghi e ipersonaggi sono cambiati Dal­ la gente dei quartieri popolari di Tokyo alla famiglia del professore universita­ rio che vive nei dintorni di Kamakura?, i suoi affetti si sono visibilmente con­ centrati sulle tipiche ragazze di buona famiglia che tardano a sposarsi?

Sì, le mie attenzioni si sono spostate. Fondamentalmente, però, non è cambiato nulla. Le persone non cambiano così facilmente... A pro­ posito poi dell’affetto nei confronti dei personaggi dei miei film, io ri­ traggo spesso donne. Di solito le prostitute per i soldati americani o le vedove o ancora le geisha sono donne che hanno in sé caratteristiche particolari o una certa tipicità che si coglie facilmente. Invece, le si­ gnorine di buona famiglia, e questo accade anche nei romanzi, sono una tipologia di donna piuttosto difficile da illustrare. Proprio per questo, ho un forte desiderio di ritrarre signorine vere. A proposito, è stato influenzato in qualche modo dagli autori occidentali?

Decisamente. Per esempio, mi piacciono molto William Wyler o John Ford. Quando ho visto L’ereditiera (The Heiress, 1949) sono ri­ masto molto colpito. Se devo dire ciò che mi ha colpito di più è la sensi­ bilità cinematografica nel trattare le cose. È stato per me illuminante su * Naniwabushi è un genere di racconti cantati della tradizione popolare giapponese. Poi­ ché i soggetti erano spesso dolenti, la parola viene usata gergalmente con il significato di «strappalacrime». Uno spettacolo di naniwabushi costituisce la scena iniziale ai Capriccio passeggero. * Si veda supra, nota 2, in E qua Narayama, p. 35.

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molti punti e in futuro vorrei fare anch’io così. Non intendo però nel senso: «Qua lui ha ripreso così, allora riprendo anch’io così», ma nel mo­ do di trattare le cose. Ovviamente loro sono americani, quindi mettono direttamente il burro nella padella per friggere, noi prepariamo prima il brodo con scaglie di tonno secco; in sostanza, però, per quanto riguarda il modo di trattare le cose, ne siamo istintivamente influenzati. Per esem­ pio, se guardo un film di William Wyler, poi magari in qualche occasio­ ne mi viene in mente che in quel film c’era una certa scena e mi viene una nuova idea. Non si tratta della scena in concreto, ma del modo di girare. Per quanto riguarda i contenuti, da dove trae le sue ispirazioni? Dalle al­ tre arti, come la letteratura?

Sì, a volte anche dalla letteratura. In concreto, quali opere?

Mah, per esempio nelle opere di Shiga sono molto presenti, come posso dire, gli affetti e il modo di guardare le cose. In altre parole, non c’è solo lo svolgersi degli eventi, ma anche lo sguardo partecipe e la considerazione personale degli eventi narrati da parte di chi scrive. Partecipare in modo immediato agli eventi e alla turbolenza del mondo non è forse un sentimento umano molto naturale?

Quello lo lascio a chi è portato. C’è chi produce il nattò^y chi i’aburaage"y chi il tofu. Fosse per me, mi andrebbe bene produrre anche so­ lo il natte. E poi, sempre di riattò si tratta, ma vorrei fare un natte deci­ samente diverso, io sono immerso fino al collo nel natte che devo fare. Che ne dice di un nattò più popolare?

Quella è una questione di soggetti e se ci fosse un soggetto interes­ sante, lo farei volentieri. Tuttavia, dal punto di vista della produzione, un film ambientato nella zona dei casamenti popolari (nagayamono) non starebbe in piedi e quindi mi chiedono di fare cose più piacevoli o più sontuose. Forse lei dirà che si potrebbero ritrarre masse di mamme del popolo e mocciosi frignanti, ma quello sarebbe piuttosto difficile. Allora lei accetta quel tipo di discorso commerciale e fa opere come Tarda primavera e II tempo del raccolto del grano?

Vorrei fare film in cui credo e che allo stesso tempo stiano in piedi dal punto di vista commerciale. Per lo stesso film, il reparto commer10 Alimento tradizionale giapponese composto di fagioli di soia fermentati dall’odore e il sapore intensi. Viene mangiato soprattutto a colazione con il riso. " Alimento tradizionale giapponese composto di tofu fritto nell’olio.

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dale pensa agli incassi c il reparto produttivo pensa agli aspetti artisti­ ci e anche se collaboriamo reciprocamente, siamo completamente di­ versi. Perciò, mentre giro un film, non penso che con quel film si gua­ dagnerà. Poi c’è spesso un altro motivo. Quando prepariamo il set per un film c’è un divario tra le possibilità di realizzazione scenografica e la mia immaginazione e questo crea a volte grossi problemi. Invece, se si tratta della casa di una famiglia medio-borghese di uno studioso a Kamakura, basta mettere un po’ di libri vecchi e il set è pronto. Anche le scene in esterni si girano facilmente. Questo però se lo tenga per lei. Tornando un attimo indietro, lei ha detto che, in confronto al passato, nel­ la vita del popolo sono sparili i sentimenti umani. A cosa è dovuto secondo lei questo fatto?

Non è colpa delle persone, ma della società, però dire che è colpa della società non serve a niente. D’altra parte, se la gente vede che in un film i personaggi si comportano male come se niente fosse, si sente tranquilla a comportarsi allo stesso modo, cioè se i film fanno sentire i delinquenti a loro agio, il mondo finisce male. Io vorrei dipingere co­ se completamente diverse. Su questo sono d'accordo. Tuttavia, la sentita dolcezza dei rapporti umani che appare nel mondo de II tempo del raccolto del grano la capisco fino a un certo punto, in realtà mi sembra sia solo una breve pausa in fuga da una realtà disumanizzata...

A questo proposito, come ho detto prima, io faccio solo nattò... Non le sto chiedendo di condannare ciò che non va nella società. Dico solo che mi piacerebbe che lei illustrasse il lato bello di esistenze piu dure e più vici­ ne a noi. Per esempio, ne 11 tempo del raccolto del grano la moglie del fratello maggiore e la sorella minore mangiano una fetta di torta alle fragole da nove­ cento yen '-. In quella scena, la moglie del fratello maggiore, mentre dice che è un peccato perché con quella somma si poteva comprare una certa quantità di tessuto, la mangia comunque con gusto. Per la gente comune una fetta di torta alle fragole da novecento yen non è troppo cara?

(Ci riflette un po' su, poi risponde con tono deciso.} La mangia co­ munque. Pensa che sia un peccato e ciononostante mentre la mangia si dice: «Quanto è buona!»...

• Nel 1951, anno dell’intervista, 900 yen corrispondevano a circa 1500 lire italiane. Nello stesso periodo un caffè al bar o un giornale costavano 20 lire c un biglietto de) tram 30 lire.

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j Yasujiro, un ritratto. \ quanto pare, alla gente sembro più vecchio di quanto non sia realmente. [...] Tuttavia mi sento invecchiato • r.|1 io a quando ho iniziato» (p. 30).

i 1

2. Ozu sul set di Sono nato, ma... con Sugawara Hideo (a sinistra) e Aoki Tornio (Tokkan Kozó) (a destra), 1932.

«Questo film nacque dal desiderio di fare un film con i bambini» (p. 112). 3. Tanaka Kinuyo (a sinistra) e Oka Jóji (a destra) in Hijòsen no onna, 1933.

«È la storia di un giovane delinquente, non ne facevo dai tempi di Hogaraka niayume. Un melodramma» (p. 114).

I 1 >zu (a sinistra) c Yamanaka Sadao (a destra) ni fronte cinese, Jurong, 12 gennaio 1938. • Era il primissimo mattino. Yamanaka morì i"'i il fronte» (p. 68). •

• >z.u al fronte fa il bagno in un bidone di benii i, Xinyang, 18 ottobre 1938.

• Mi sono tolto di dosso tutta la sporcizia deli i i terra che mi portavo dietro» (p. 142).

4

6. Fotografia di classe davanti al Grande Buddha di Kamakura in C'era un padre., 1942.

«Ueno Kózò: “Nella prima parte di C'era un padre, quando si parla della gita scolastica, c’è una scena in cui l'iii segnante dice in classe che andranno a visitare Tokyo, Hakone c Kamakura, poi c’è uno stacco brusco e si vede di rettamente il Grande Buddha di Kamakura. 1 lo visto il film in sala, ma a questo punto ho sentito un brusio di sin pore del pubblico intorno a me”» (p. 79).

!•’ ii Chishu (a sinistra) e Tsuda Haruhiko (a destra) in C era un padre, 1942.

( ’onte nacque l’idea di fare questo film:] Ryù nel ruolo del padre che vende tonkatsu nc II figlio unico era di..... .. . proprio bravo. "Chissà cosa starà facendo adesso Tsuda, quel ragazzino che ha impersonato il figlio”, mi dis। XIi piacerebbe rivederlo”» (p. 118).

s < )zu gira in esterni il film Buon giorno, 1959.

«A me girare in esterni non piace. Se penso che una scena si possa girare in studio, la giro in studio» (p. 20).

'* 1 >zu e la macchina da presa in posizione bassa. «Sono uno dalle preferenze molto marcate, per cui è inevitabile che anche i miei film abbiano qualche vezzo. 11 n> di questi è il fatto di posizionare la macchina da presa in basso e di fare sempre delle inquadrature dal basso. I h iniziato a riprendere così con Nikutaibi, quando facevo ancora solo commedie» (p. 14).

I

Tarda primavera, foto ricordo dello staff per il completamento del film. Al centro Ozu; alla sua destra Hara Set1949. Un film sembra fatto tutto dal regista, in realtà il regista da solo non può fare nulla. Nel film non si vede dii niente, ma il contributo dello stali c davvero fondamentale» (p. 83).

11. Iida Chóko e Aoki Tornio (Tokkan Kozó) in Nagaya sbinshiroku, 1947. «Il regista non deve tirar fuori i sentimenti agli attori, piuttosto deve contenerli. Ti riferisci alla figura di donna Bonacciona in Nagaya shinshiroku"!... In quel caso, Iida Chóko ha capito fin troppo bene le mie intenzioni. [...] Che cosa intendo con carattere? Direi la personalità» (p. 57).

IOzu trucca Hara Setsuko sul set di Viaggio a Tokyo, 1953. •zu dirige a Tokyo, 1953. Ilo provato a dipingere la disgregazione del sistema famigliare in Giappone attraverso l’evoluzione dei rap,j fra genitori c figli nel corso del tempo» (pp. 121-2).

15. Hara Setsuko e Ryii Chishu in Viaggio a Tokyo, 1953. «Anche per quanto riguarda gli attori, dopo che li ho impiegati una volta, voglio impiegarli di nuovo anche la volta dopo. [...] Porse è a causa di questa mia preferenza sempre per le stesse persone con cui mi sento a mio agio che i mici film danno l’impressione di essere sempre gli stessi» (p. 82).

18. Ozu e il sake. «Anche in futuro, finché la salute me lo permetterà e con la compagnia dell’amato sakè, continuerò a fare del film a modo mio...» (p. 32).

SCRITTI SUL CINEMA

Qualche parola sui miei film’

Zange no yaiba [La spada della penitenza, 1927] Se devo essere sincero, a quell’epoca non è che avessi tutta quella fretta di diventare regista. Un assistente regista può spassarsela spen­ sieratamente, ma quando si diventa registi bisogna passare la notte a scrivere il diario di continuità1 senza poter chiudere occhio. Tutti però mi dicevano che dovevo girare un film. Se avessi dovuto fare un film avrei voluto realizzare Kawaraban Kachikachiyama, una sceneggia­ tura che avevo scritto io, tuttavia alla fine venne deciso di realizzare questa sceneggiatura di Noda. Nell’agosto del 1927 ricevetti la comu­ nicazione dalla società. «Nomina a regista. Limitatamente alla sezio­ ne jidaigeki». C’era questa espressa limitazione. A quell’epoca, la sezione dei ji­ daigeki era considerata un gradino più in basso di quella dei film di soggetto contemporaneo. Come se non bastasse, dopo aver ricevuto la nomina, la sezione dei jidaigeki di Kamata venne sciolta e mi tro' I commenti seguenti, fino a quando diversamente indicato, sono stati pubblicati origi­ nariamente in «Kinema Junpò», giugno 1952, 39. Vista la natura di questo scritto, vengono indicati per comodità anche i titoli italiani o la traduzione letterale dei film già citati in pre­ cedenza e l’anno di produzione. Sempre per ragioni di comodità, diversamente dalle altre pani del volume, viene indicato prima il titolo giapponese e poi il titolo italiano tra parente­ si tonde o, in mancanza, la traduzione letterale tra parentesi quadre. 1 II termine utilizzato da Ozu è konte (continuità) e si riferisce in questo caso non tanto al concetto di continuità di cui egli è strenuo assertore quanto piuttosto allo strumento per la sua applicazione pratica, cioè la sceneggiatura tecnica, a metà fra il decoupage e lo story­ board, fatta di una varietà di appunti, schizzi, disegni di scena e materiali. «Diario di conti­ nuità» è un termine usato, fra gli altri, da Luchino Visconti. Nel metodo di lavoro di Ozu, la creazione della sceneggiatura consisteva nell’individuare un soggetto di base - a volte un personaggio, a volte un fatto che lo aveva incuriosito o che ricordava - e nel drammatizzar­ lo quasi solo attraverso i dialoghi. Questa fase era, per lui e per lo sceneggiatore con cui la­ vorava, abbastanza definitiva, con un grado avanzato di definizione del carattere dei perso­ naggi e degli eventi che componevano la storia. Solo quando la sceneggiatura era considera­ ta soddisfacente, Ozu pensava a girare e a scrivere il diario di continuità. Cfr. Chiacchiere sul »iio mestiere, nella parte l di questo volume; Richie, Ozu cit., pp. XV, 18-24.

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_________________________ Ozu, Scritti sul cinema_________________________

vai davvero spiazzato. Mentre stavo girando questo film venni ri­ chiamato al servizio militare. Girai più in fretta possibile, ma non fe­ ci in tempo a finirlo. Mi presentai al reggimento di Ise e Saitò Torajirò diresse solo le prime scene al posto mio. Quando tornai c’era già stata la prima. Lo vidi poi al cinema Denkikan2, ma non lo sentii come una cosa mia. Perciò, nonostante fosse il mio primo film, l’ho visto solo una volta. Wakòdo no y urne [Sogni di gioventù, 1928] Dopo Zange no yaiba, rifiutai di fare sei o sette film imposti dalla produzione. Si vede che non avevo tutta quella fretta di diventare re­ gista. Me la prendevo davvero comoda. Dopodiché venne deciso che girassi un film da una mia sceneggiatura. Fu ovviamente una cosa che scrissi su progetto della produzione. La collaborazione con Shigehara, l’operatore con cui lavorai a lungo, iniziò con questo film. Era un col­ laboratore insostituibile e sapeva dare alle immagini una morbidezza particolare. Atsuta, che è ora il mio operatore, fu l’aiutante di Shi­ gehara e anche lui iniziò a lavorare con me a partire da questo film.

Nyòbò funshitsu [Moglie smarrita, 1928] Questo film veniva da un soggetto che aveva vinto il premio di una qualche rivista, ma non posso dire che fosse granché interessante. Se devo essere sincero, non mi ricordo bene neanche la storia. Era un film che mi era stato assegnato dalla produzione.

Kabocha [Zucca, 1928] Questo era un film molto breve. Però è forse proprio a quell’epo­ ca che cominciai finalmente a capire come si doveva organizzare la continuità. Hikkoshi fùfu [Una coppia in movimento, 1928] Anche questa fu una sceneggiatura assegnatami dalla produzione. Si trattava di un soggetto obbligato, ma allora accettavo quando senti­ vo che era una cosa che potevo fare. Anche perché con quel film vole­ vo sperimentare un po’ di cose. A quell’epoca i registi avevano la li; La sala cinematografica Denkikan, aperta nell’ottobre 1903 nel quartiere di Asakusa (allora il Quartiere degli spettacoli di Tokyo), fu la prima sala in Giappone dedicata espres­ samente ai cinema. Dopo il successo iniziale, in tutto il paese vennero aperte innumerevoli sale con lo stesso nome (nella sola zona di Tokyo erano più di dieci). Fino al 1942 la sala di Asakusa era utilizzata per le prime visioni e molte repliche dei film della Shochiku, per cui presumibilmente Ozu si riferisce a essa.

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Qualche parola sui miei film

berta di fare i loro esperimenti. Dopo che ebbi finito, però, lo taglia­ rono parecchio e risultò decisamente inferiore alle mie aspettative. Nikutaibi [Bellezza del corpo, 1928] Credo che i miei film abbiano cominciato a prendere una forma compiuta più o meno da questo film in avanti. La società di produzione apprezzò per la prima volta il mio lavoro. Il critico Uchida Kimio scris­ se su «Kinema Junpò» una recensione bellissima, me la ricordo ancora adesso. Anch’io cominciai a capire come si deve fare per girare un film. I registi di oggi, fin da quando iniziano, possono girare film di sette o ot­ to rulli, invece a quei tempi agli esordienti veniva consentito di girare so­ lo film da tre rulli. Era quindi difficile imparare come organizzarsi al meglio per un lavoro lungo. Ci voleva molto tempo per capirlo. Takara no yama [La montagna del tesoro, 1929] Mi ricordo che questo film me lo fecero fare in tutta fretta. Girai giorno e notte senza mai dormire per cinque giorni di fila. Stranamen­ te, però, non sentii la stanchezza e il mattino del sesto giorno giocai persino con gli amici a lanciarci una pallina da baseball. Non avevo il minimo problema a vederla arrivare. Beata giovinezza! Dopo, però, ebbi problemi di salute e ne pagai le conseguenze a lungo. Wakaki hi (Giorni di gioventù, 1929) Era una commedia studentesca incentrata sul tema dello sci3. Il pro­ tagonista è uno studente che mette un annuncio di affitto della came­ ra della pensione in cui vive. Se viene a vedere la stanza qualcuno che non gli va a genio, gli dice: «Ah, mi spiace, l’ho appena presa io» e lo caccia via. Se invece arriva una ragazza carina, le cede la stanza sacrifi­ candosi e se ne va, lasciando però lì le sue cose. Poi fa finta di venire a riprendersi gli oggetti dimenticati e ne approfitta per attaccare botto­ ne con la ragazza. A quei tempi, io e Fushimi Akira4, di storie come questa ne ideam­ mo diverse. Fra i miei film dell’epoca ce ne sono molti fatti in collabo' Dopo una prima introduzione isolata da parte del console norvegese a Kobe nel 1902, lo sci arrivò in Giappone nel 1911 tramite le lezioni di un ufficiale dell’esercito austriaco sul Monte Kanaya, nella zona di Niigata. Fu però solo negli anni trenta che si diffuse fra la po­ polazione quando il governo giapponese finanziò una serie di lezioni collettive per migliaia di persone sulle pendici del Monte Fuji. Il film presentava perciò un fenomeno che stava di­ ventando di moda. Esso si svolge per circa metà della sua durata in una stazione sciistica. At­ suta Yùharu, l’operatore di Ozu, riferisce che gli esterni vennero girati nel piccolo paese di Akakura, a cinque chilometri da Taguchi, nella Prefettura di Niigata. Cfr. Atsuta - Hasumi, Ozw Yasxjirò monogatari cit., p. 31. 4 Fushimi Akira (1900-1970), amico e sceneggiatore di Ozu fino al primo dopoguerra. Scrisse le sceneggiature di sette film di Ozu.

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razione con lui. A fine pomeriggio andavamo insieme a Ginza5. Man­ giavamo, bevevamo e, chiacchierando chiacchierando, ci dirigevamo verso casa mia a Fukagawa6. Lì continuavamo a chiacchierare di cose di poco conto, ascoltavamo musica sul grammofono e a notte fonda bevevamo tè inglese. Così, all’arrivo del mattino, una sceneggiatura era pronta. Ogni notte ne veniva invariabilmente fuori una. A ripensarci adesso, mi sembra davvero incredibile. Wasei kenka tomodachi (Rissa tra amici in stile giapponese, 1929) Una storia che ideò Noda. Ci sono due uomini che girano intorno a una ragazza, una vicenda abbastanza comune, per questo forse ag­ giunse wasei [alla giapponese]. Daigaku wa detakeredo [Mi sono laureato, ma..., 1929] Questo è il film in cui impiegai per la prima volta Takada Minoru7 e Tanaka Kinuyo8. Tra i miei lavori ci sono vari film studenteschi’, se volevo usare degli attori giovani potevo solo fargli fare gli studenti o gli impiegati. A quell’epoca, però, gli impiegati erano un po’ tutti del­ lo stesso genere, invece gli studenti, a differenza di oggi, non si azzuf­ favano con i poliziotti ed erano molto più spensierati, quindi erano ot­ timi soggetti per i film nansensu™. Questo film voleva farlo Shimizu Hiroshi, ma venne passato a me. Se volevo saper fare qualunque cosa, allora dovevo accettare anche questo lavoro. Un regista deve certo ave­ re l’ispirazione artistica, ma è fondamentale che abbia anche la capacità di un artigiano di realizzare con maestria i soggetti più svariati. D’al­ tra parte, non va bene neanche essere solo un artigiano e basta. In que­ sto senso, è stata una fortuna che io a quei tempi abbia potuto fare tan­ ta pratica con questo tipo di film. Potevo fare tutto ciò che volevo sen$ Ginza era il quartiere dei locali di lusso di Tokyo. In misura minore lo è ancora oggi. * Quartiere di Tokyo, allora una delle tipiche aree della città bassa, cioè popolare, in cui Ozu nacque e visse, con intervalli, fino al 1936. 7 Takada Minoru (1899-1977), attore giapponese noto negli anni venti e trenta e attivo fino a tutti gli anni sessanta. Con Ozu fece, oltre a Daigaku wa detakeredo, anche Kekkongaku nyùmon e Hogaraka ni ayume. 8 Tanaka Kinuyo (1909-1977), una delle più grandi attrici giapponesi di tutti i tempi. Nell’arco di cinquantanni interpretò oltre duecentocinquanta film e ne realizzò anche al­ cuni come regista. Lavorò con i più importanti registi giapponesi ed è ricordata in partico­ lare per le sue intense interpretazioni di figure femminili emblematiche in alcuni film di Mi­ zoguchi (cfr. anche C. Kinoshita, Choreography of Desire: Analysing Kinuyo Tanaka's Ac­ ting in Mizoguchi’s Film, in «Screening the Past», 1° dicembre 2001, 13). Con Ozu inter­ pretò otto film. * I film studenteschi (gakuseimono) erano un genere tipico della commedia dell’epoca. Si veda supra, nota 2, in Un piatto di riso con curry, p. 5.

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Qualche parola sui miei film

za vincoli e controlli. Non so se i giovani di oggi avranno il coraggio di osare altrettanto... Kaishain seikatsu [La vita di un impiegato, 1929] Questo fu per così dire il primo di una serie di film sugli impiegati (kaishainmono)". Era la solita commedia nansensu, ma in particolare volevo darle un tocco abbastanza realistico. Ah, a proposito, cosa per me molto rara, in questo film usai la dissolvenza incrociata. Fu solo quella volta. La usai per esprimere la sensazione del mattino. Provai a usarla e devo dire che è una tecnica comoda, anche se poco esaltante. Certamente dipende da come la si utilizza e potrebbe anche essere in­ teressante. Tuttavia, mi sa che nella maggior parte dei casi venga usata per nascondere le proprie incapacità. La dissolvenza incrociata dell’in­ ganno non mi piace proprio. Tokkan kozò [Un monello incontenibile, 1929] Nel film Kaishain seikatsu c’era tra gli attori un bambino che si chiamava Aoki Tornio. Era un bel tipo che si addormentava persino durante le riprese. Che forte, facciamo un film con lui come protago­ nista, pensai, e tirammo fuori una storia. Se devo dirla tutta, allora c’e­ ra una nuova birra importata dalla Germania e fu per provarla che de­ cidemmo di scrivere tutti insieme una sceneggiatura. L’autore del sog­ getto originale, Nozu Chùji, non era altro che la sintesi di Noda, Ozu, Ikeda e Okubo [Tadamoto]... e poi io girai il film. Le riprese duraro­ no mi pare solo tre giorni.

Kekkongaku nyùmon [Introduzione al matrimonio, 1930] Prima di questo film, nella lista dei miei lavori qualcuno aveva mes­ so Ikiru chikara [La forza di vivere]12, ma quello era solo un annuncio pubblicitario, in realtà non avevo neanche scritto la sceneggiatura. Questo Kekkongaku nyùmon era un film per le festività di Capodan­ no [del 1930], quindi di fatto era stato realizzato nel 1929. Per essere un film di Capodanno la storia era fin troppo sobria. È il film in cui utilizzai per la prima volta Kurishima Sumiko”. " I film sugli impiegati (kaishainmonó) erano un altro genere diffuso di quei tempi. 11 film venne poi realizzato nel 1930, sempre per la Shochiku Kamata, dal regista Ni­ shio Yoshio. 13 Kurishima Sumiko (1902-1987), famosa attrice e danzatrice tradizionale, è spesso con­ siderata la prima star femminile del cinema giapponese (fino all’inizio degli anni venti i ruo­ li femminili erano interpretati da uomini, come nella tradizione del teatro kabuki). Negli an­ ni venti fu «la» diva del cinema giapponese, con una rivista interamente dedicata a lei e il sin-

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Hogaraka ni ayume [Andiamo avanti allegramente!, 1930] Mi pare fosse la storia del ravvedimento di un giovane gangster. Il soggetto era di Shimizu Hiroshi, anche se lo fu per modo di dire, nel senso che, chiacchierando, lui mi diede un’idea.

Rakudai wa shitakeredo [Sono stato bocciato, ma..., 1930] Questa storia era un po’ l’altra faccia di Daigaku wa detakeredo. Uno studente che deve sostenere l’esame di laurea scrive affannosa­ mente tutte le possibili risposte sui polsini della sua camicia bianca14. Il giorno dell’esame, però, la figlia dell’affittacamere presso cui vive lo studente, piena di buone intenzioni, lava la camicia, con il risultato che lo studente viene bocciato. Peraltro, quelli che hanno superato l’esame e si sono laureati, cercano lavoro ma non trovano nulla, così l’unico che se la passa bene con i soldi che riceve dalla famiglia c proprio lo studente bocciato. Un film breve. Ah, da questo film iniziai a impie­ gare Ryù Chishù in ruoli significativi. Anche prima era già presente nei miei film ma... Sono yo no tsuma [La moglie, quella notte, 1930] Il soggetto originale era un racconto tradotto, mi pare su «Shin sei­ nen»15. Da questo film iniziai a lavorare con Okada Tokihiko16. Tutti i sette rulli di cui si compone il film, eccetto il primo, vennero girati completamente in un unico ambiente costruito in studio. Mi dovetti perciò preoccupare della continuità tutte le notti senza chiudere oc­ chio. Fu davvero faticoso. Proprio per questo, fu per me molto istrut­ tivo. Quando lo finii, Kido si complimentò con me e mi disse addirit­ tura di andare alle terme per riprendermi. golare record di quattromila sue fotografie vendute in un solo giorno. Cfr. Anderson - Ri­ chie, The Japanese Film cit., pp. 42-5. Con Ozu fece Kekkongaku nyùmon e Shukujo wa na­ ni o wasuretaka. 14 Ozu mescola i ricordi di due suoi film. Sulla base delle copie oggi in circolazione, in Rakudai wa shitakeredo, lo studente copia le risposte sul retro della sua camicia, in modo da farle leggere al compagno seduto dietro di lui, che poi gliele passerà. L’episodio dei polsini si trova invece in Giorni di gioventù. Anche la frase successiva sembra pre­ sentare qualche imprecisione. Non si tratterebbe della figlia della governante, ma della governante stessa; inoltre la camicia non è ancora stata lavata, ma viene mandata a lavare in tintoria. 14 «Shin seinen» [Nuova gioventù], rivista culturale esistita in Giappone dal 1920 al 1950. Alfiere del modernismo, «Shin seinen» era una delle riviste in voga tra i giovani intellettuali dell’epoca. Il racconto tradotto che viene citato è From Nine to Nine di Oscar Schisgall, pub­ blicato originariamente il 9 aprile 1927 sulla rivista «Detective Story Magazine» e tradotto in giapponese nel marzo 1930. Cfr. Miyao, The Aesthetics of Shadow cit., p. 157. “ Si veda supra, nota 1, in Una considerazione su come faccio i film, p. 51.

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Qualche parola sui miei film

Erogami no onryd [Lo spirito vendicativo di Eros, 1930] Kido mi disse di andare alle terme, ma in cambio voleva che lì gi­ rassi un altro film. Io replicai che quello non era riposo, però non servì a niente. Questo è il film che girai alle terme. Potei riposare meno an­ cora che se non ci fossi andato. Era un film per il periodo di Obon’7. Non mi ricordo neanche la storia...

Ashi ni sawatta kòun [Fortuna sfiorata, 1930] Dunque, che film era questo? Non mi ricordo proprio. Ojdsan [Signorina, 1930] Questo film venne fatto su espressa indicazione della produzione che voleva una commedia di rilievo. Utilizzai alcune star allora piut­ tosto importanti e lo affrontai con notevole impegno. Nello staff vie­ ne indicato come ideatore di gag James Maki. Credevano che fossi io, ma in realtà era un nome d’arte che inizialmente avevamo creato io, Fushimi [Akira], Ikeda [Tadao] e Kitamura Komatsu e che pensavamo di usare insieme. Poi, invece, nessuno lo usò e finì per diventare di mio uso esclusivo.

Shukujo to hige [Le dame e la barba, 1931] In questo film Okada” fu estremamente bravo e divertente. Lo completai in circa otto giorni, ma fu più apprezzato di Ojdsan, al qua­ le mi ero dedicato con molto impegno. Pensai che il cinema era dav­ vero una cosa strana.

Bijin aishù [Una triste bellezza, 1931] Con questo film provai a cambiare rotta rispetto ai nansensu e cer­ cai per la prima volta di fare un film sentimentale realistico, ma ne ven­ ne fuori una cosa prolissa e poco incisiva. Lavorai accanitamente ma non funzionò. Shukujo to hige, che girai spensieratamente, ebbe più successo di Ojòsan, per il quale mi ero impegnato di più, e questo Bijin aishù, dove ce la misi tutta, risultò il peggiore... Non capivo più il ci­ nema. Mi rendevo però conto che dovevo uscire da quello stallo.17 17 Obon è il momento dell’anno in cui si onorano i morti. Secondo la tradizione, in tale periodo lo spirito dei defunti torna alle rispettive famiglie. Sul piano pratico la festività si tra­ duce in un ritorno di massa al paese d’origine per visitare le tombe dei propri cari. In molte parti del Giappone, Obon viene celebrato in alcuni giorni del periodo intorno al 15 di ago­ sto, quando si fanno tre o quattro giorni di ferie. 1H Okada Tokihiko, protagonista maschile.

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Tòkyo no kòrasu (Il coro di Tokyo, 1931) Avevo imparato la lezione e decisi di girare questo film senza por­ mi troppi problemi. Le riprese erano in estate, ma quando il tempo era bello, addirittura non giravo in esterni, faceva troppo caldo. Era pro­ prio il periodo in cui non capivo più cosa dovessi fare con il cinema. Pensavo che del lavoro di regista alla fine non resta nulla e mi sembra­ va che il cinema fosse una cosa inutile. Ora, al contrario, penso che il fascino del cinema stia proprio nella sua evanescenza... Haru wa gofujin kara [In primavera vengono prima le signore, 1932] Anche questo film appartiene al mio periodo di sfiducia, ho di­ menticato i dettagli. Più o meno da dopo Shukujo to hige, giravo sen­ za preoccuparmi della continuità. Certamente, se giro dopo aver scrit­ to il diario di continuità posso stare più tranquillo, ma alla fine non è che cambi poi tanto, anzi se si gira senza preoccuparsi della continuità si ha più libertà inquadratura per inquadratura”.

Umarete wa mitakeredo... (Sono nato, ma..., 1932) Questo film nacque dal desiderio di fare un film con i bambini (ili. 2). È una storia che comincia con i bambini e finisce con gli adulti... Ini­ zialmente doveva essere una cosa relativamente allegra, ma durante le riprese cambiò parecchio. Alla fine ne venne fuori una vicenda così cu­ pa che la produzione disse che non si aspettava un film del genere e aspettò quasi due mesi prima di mandarlo in sala. Con questo film, inoltre, decisi consapevolmente di non usare la dissolvenza in apertura o in chiusura ma di usare gli stacchi per passare da una scena all’altra. Dopo, se non ricordo male, non le ho più usate. Le dissolvenze in aper­ tura, in chiusura o incrociata non sono elementi di una grammatica del cinema. Sono semplicemente caratteristiche tecniche della cinepresa.

Seishun no yume ima izuko [Dove sono ora i sogni di gioventù?, 1932] Nelle riprese di Sono nato, ma... si era ferito un bambino e così, durante la sospensione, girammo questo film. È una storia dolce che ricorda un po’ Tadanaokyò gydjdkì2Z. ” Queste affermazioni sullo scarso rilievo della continuità, apparentemente contraddit­ torie con il «credo» di Ozu, vanno lette come riflessione a distanza sulla crisi momentanea che stava attraversando vent’anni prima del momento in cui parla (lo scritto è del 1952, men­ tre i film in oggetto sono del 1931 -32). Peraltro, in un commento dell’epoca in cui realizzò i film della «crisi» (si veda supra, Una considerazione su come faccio i film, p. 52), afferma esplicitamente il ruolo fondamentale della continuità. Cfr. anche Tanaka, Ozu Yasujirò sengo goroku shùsei cit. p. 440. x Riferimento al racconto di Kikuchi Kan, Tadanaokyò gyòjòki [Cronaca della vita del signor Tadanao], 1918.

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Qualche parola sui miei film

Ripensandoci, a quell’epoca anch’io giravo quattro o cinque film piuttosto impegnativi all’anno, ma ciononostante non mi sembrava di essere particolarmente indaffarato. Adesso, invece, anche girandone uno solo all’anno non mi sembra di essere molto libero.

Mata an hi made [Fino al giorno in cui ci rivedremo, 1932] In questo film utilizzai per la prima volta Okada Yoshiko21. Era un’attrice piuttosto brava. Inoltre questo fu il mio primo film musica­ to2223 . L’anno precedente, nel 1931, negli studi di Kamata girarono Madamu to nyòbcP e man mano tutti passarono al sonoro. Io però avevo i miei motivi e fui l’unico a resistere ancora per un pezzo a fare film muti24. In quel periodo, Shigehara, il mio operatore, stava sviluppando un suo sistema sonoro originale e io gli avevo promesso che quando fosse stato pronto lo avrei adottato. Ecco perché non usai il sistema Tsuchihashi che usavano gli altri a Kamata25. Tòkyo no onna [Una donna di Tokyo, 1933] Questo film dovetti girarlo in estrema fretta, mi pare che le riprese durarono più o meno otto giorni. Cominciai a girare prima ancora che venisse completata la sceneggiatura. È la storia di un’impiegata che la sera lavora in un locale notturno poco raccomandabile, un’idea che mi venne guardando con gli amici delle donne che danzavano dal vivo in un locale del genere. Il nome straniero dell’autore del soggetto origi­ nale [Ernst Schwartz] è un nome di fantasia. Ne venne fuori un film carino ed equilibrato. Da questo film in avanti cominciai a sentirmi più sicuro nel posizionare la macchina da presa.

21 Okada Yoshiko (1902-1992), attrice giapponese nota negli anni venti e trenta. Nel 1938 seguì il suo compagno, il regista Sugimoto Ryòkichi, nella fuga in Unione Sovietica pensando di trovare sollievo dall’oppressione del governo imperialista giapponese. Sugimo­ to fu però arrestato e giustiziato come spia l’anno successivo e Okada trascorse circa dieci anni in un campo di prigionia. Con Ozu, oltre a Mata au hi made, girò Una donna di Tokyo e Una locanda di Tokyo. 22 Nei primi anni dell’avvento del sonoro in Giappone vennero ancora realizzati vari film muti sonorizzati in fase di post-produzione. 23 Madama to nyòhò, di Gosno Heinosuke, fu il primo film sonoro giapponese comple­ tamente riuscito. Dopo l’uscita di Madama to nyòbò (1u agosto 1931), Ozu fece ancora quattro film muti. 25 La resistenza di Ozu al sistema Tsuchihashi causò seri problemi nel rapporto tra la Shochiku e la Tsuchihashi, al punto che quando nel 1936 Ozu - dopo una parziale speri­ mentazione con il sistema Tsuchihashi fatta nel 1935 con il documentario Kagamijishi - uti­ lizzò per la prima volta il Super Mobara Sound System per il film II figlio unico, la produ­ zione del film venne spostata da Ofuna ai vecchi studi di Kamata in corso di dismissione.

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Hijòsen no onna [La donna della retata, 1933] È la storia di un giovane delinquente, non ne facevo dai tempi di Hogaraka ni ayume. Un melodramma (ili. 3). Dekigokoro (Capriccio passeggero, 1933) Sono cresciuto a Fukagawa e fra le persone che allora frequentava­ no casa mia c’era un tipo bonario e spensierato che si può dire sia sta­ to il modello per il personaggio di Kihachi. Anche Ikeda, abitando a Okachimachi, conosceva bene quel tipo di persona ed è così che creammo insieme il personaggio. In questo film c’è una scena in parti­ colare che, se ci fossero le pellicole, non mi dispiacerebbe rivedere. Un bambino, dopo essere stato deriso dai compagni perché il padre non lavora e passa il tempo con una donna, torna a casa e per la rabbia di­ strugge le foglie del bonsai del padre. Quando questi rientra tutto di buon umore dal locale della donna, visto il bonsai, schiaffeggia il figlio per punirlo ma il bambino reagisce dandogli dei pugni. Dopo un po’ il padre improvvisamente si rattrista e il figlio, vedendolo così, smette di colpirlo e scoppia a piangere. Haha o kowazuya [Chi non ama la propria madre?, 1934] Questo era un film la cui sceneggiatura richiedeva ancora qualche intervento. La storia era incentrata sulla decadenza di una famiglia im­ portante. Se fosse stato oggi, quel tema da solo sarebbe andato bene, ma a quell’epoca non era sufficiente. Così, pensammo di aggiungere la vicenda del difficile rapporto fra i due fratelli nati da madri diverse, però con quest’aggiunta la storia diventò poco incisiva. Mi ricordo be­ ne tutto perché durante le riprese morì mio padre.

Ukikusa monogatari (Storia di erbe fluttuanti, 1934) Questo è un film che riuscì relativamente bene. Anche se si dice Kihachimono2b, non è proprio un film di quella serie, sebbene Kihachi fosse un personaggio che aveva sempre lo stesso carattere. In quel pe­ riodo facevano ormai tutti film sonori, solo io continuai a fare film muti nel 1932, nel 1933 e ancora nel 1934 fino a questo, che ottenne il primo posto nella classifica di «Kinema Junpò», ma l’anno dopo, co­ me immaginabile, non fu più possibile.

Hakoiri musume [Una ragazza cresciuta nella bambagia, 1935] Si parlava di fare una serie chiamata Hakoiri musume ma poi si fe­ ce soltanto questo film. Doveva uscire nella seconda settimana dopo Si veda supra, nota 24, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 14.

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Qualche parola sui miei film

Capodanno27. Dovevamo finirlo entro il 30 dicembre, ma a causa del­ la rottura di una macchina da presa eravamo in ritardo, così lavoram­ mo tutta la notte dell’ultimo dell’anno e finimmo solo il mattino di Capodanno. Mi ricordo ancora che mangiammo lo zòni rituale tutti con la barba ancora da fare28. Tòkyo no yado (Una locanda di Tokyo, 1935) Nello stesso periodo di Una locanda di Tokyo, ripresi lo spettaco­ lo Kagamijishi con Onoe Kikugoró vi29, anche se non era un film di finzione. Era un documentario. A quell’epoca, era ormai chiaro che i film muti non si potevano proprio più fare. Anche in questo film, che pure era muto, dovetti per forza aggiungere qualche aspetto dei film sonori. Per esempio, in una scena di conversazione a due azzardai a inserire sul primo piano di B che sta ascoltando, le didascalie dei dialoghi di A che sta parlando30. Daigaku yoitoko [L’università è un bel posto, 1936] Era la storia di un gruppo di studenti che abitano nella stessa pen­ sione e fanno una vita poco divertente. Una storia triste.

Hitori musuko (Il figlio unico, 1936) Questo fu il mio primo film sonoro. La sceneggiatura era quella già pronta di Tòkyd yoitoko... avevo anche cominciato a girarla, poi non mi ricordo perché la abbandonai... così la rividi e la adattai per il sonoro. Dalla documentazione risulta un film realizzato a Ofuna. In realtà venne girato a Kamata. Gli studi [della Shochiku] erano stati tutti tra­ sferiti a Ofuna ma questo film usava il sistema audio di Shigehara e quindi non potevamo usare gli studi di Ofuna31. Così utilizzammo gli studi di Kamata dove non c’era più nessuno perché erano stati di*” In passato, i festeggiamenti e soprattutto il clima festoso del Capodanno duravano più a lungo di oggi. Il film era quindi considerato come appartenente a quel clima, un po’ come i nostri film natalizi. Lo zòni è una zuppetta con gnocchi di riso che si mangia nelle festività di Capodanno. Nella tradizione giapponese, lavarsi accuratamente e indossare abiti nuovi o completamente puliti per iniziare il nuovo anno è una pratica molto importante. Ozu cita quindi l’episodio come indicatore di quanto fu occupato. ” Onoe Kikugoró VI (1885-1949), famosissimo attore del teatro kabuki. 50 Nelle versioni attualmente in circolazione, non si tratta di una sovraimpressione ma piuttosto deH’inserimento di fotogrammi di solo testo che inframmezzano il dialogo delle due persone. M La Shochiku aveva adottato nei suoi studi di Ofuna il sistema Tsuchihashi.

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smessi52. A causa del rumore dei treni che passavano, durante il giorno non potevamo girare. Giravamo da mezzanotte alle cinque, ogni not­ te riuscivamo a completare circa cinque inquadrature. Era divertente. Ero impregnato fino al midollo del modo di lavorare tipico dei film muti, al punto che mi trovai in difficoltà. Sapevo bene che i film sono­ ri erano diversi per natura rispetto ai film muti, ma ciò che giravo fini­ va sempre per sembrare un film muto. Ero completamente disorienta­ to e in ritardo di quattro o cinque anni rispetto agli altri, pensai persi­ no che fosse troppo tardi. A ripensarci adesso, però, sono convinto che sia stato per me molto utile aver esplorato fino in fondo le possibilità del cinema muto. Shukujo wa nani o wasuretaka [Che cosa aveva dimenticato la signo­ ra?, 1937] Ciò che distingue questo film da quelli precedenti è lo spostamen­ to dell’ambientazione dai quartieri popolari a quelli borghesi. In quel periodo anch’io mi trasferii da Fukagawa a Takanawa Minamichó55, ma non fu per questo, è che i film ambientati nei quartieri borghesi erano tutto sommato pochi e quindi decisi di affrontare questo mon­ do. Ancora adesso, i film che si svolgono nei quartieri popolari o fuo­ ri città sono molti, ma quelli che ritraggono la vita degli ambienti bor­ ghesi sono pochi. Dopo scrissi la sceneggiatura di C’era un padre e partii per la guer­ ra. Ah, dimenticavo, prima di partire scrissi il soggetto di Kagirinaki zenshin [Un avanzamento senza fine] di Uchida TomuM. L’avevo inti­ tolato Tanoshiki kana Yasukichi-kun [Yasukichi, sei contento?]. Vo­ levo girarlo io. Ne avevo parlato con la produzione ma poiché fino a quel momento i miei film non avevano avuto successo, non avevano acconsentito. Quando lo raccontai a Uchida, mi disse di regalargli il soggetto e anche la Shochiku mi disse di darglielo. Nel film di Uchida la storia è però cambiata molto. Il mio soggetto non era così dramma­ tico, era una commedia. Un impiegato con trent’anni di onorato serNel 1936 la Shochiku, anche per rispondere alle nuove esigenze imposte dal sonoro, chiuse gli studi di Kamata, non insonorizzati, e aprì i nuovi studi di Ofuna, insonorizzati. " Takanawa è un quartiere di Tokyo, nella circoscrizione di Minato, con una popola­ zione di estrazione borghese benestante. M Si veda più avanti anche la lettera Dal campo di battaglia, p. 130. Il film venne girato da Uchida Tomu nello stesso anno (1937) e risultò il migliore nella classifica annuale di «Ki­ nema Junpò». Cfr. P. B. High, The Imperial Screen. Japanese Film Culture in the Fifteen Years’ War 1931-1945, University of Wisconsin Press, Madison 2003, pp. 177-9, che evi­ denzia i cambiamenti apportati alla storia originale da Uchida e dallo sceneggiatore Yagi Yasutarò, soprattutto nel finale.

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vizio all’improvviso mette in discussione tutta la sua vita e decide di provare a fare tutto ciò che gli passa per la testa. Finge di essere im­ pazzito e per un giorno si comporta come se fosse uno dei grandi ca­ pi. Manda in fumo la posizione faticosamente costruita in tanti anni, ma qualunque cosa gli si dica, per lui quell’unico giorno di follia è sta­ to più bello dei trent’anni di fatiche precedenti. Dopo quell’episodio, nell’azienda diventa di moda comportarsi da pazzi. Uchida ne ha fat­ to la storia della tragedia di un determinato personaggio, è una cosa completamente diversa. Se mi capitasse l’occasione, vorrei fare il film con la storia originale. Quindi andai al fronte e quando tornai, nel 1939, scrissi la sceneg­ giatura de II sapore del riso al tè verde. Era molto diversa da quella che scrissi nel dopoguerra. È la storia di un uomo che parte per la guerra e la sera prima della partenza mangia nell’intimità con la moglie Vochazxke*. Invece, proprio questo dettaglio incappò nelle maglie della cen­ sura. In sostanza, dissero, dove mai si è visto che la sera prima della par­ tenza per il fronte si mangia Vochazuke, bisogna festeggiare con il sekihan*. Hochazuke non è una cosa seria, commentarono. Se avessi potuto aggiustare le cose l’avrei fatto, ma era impossibile. Così rinunciai.

Todake no kyddai (Fratelli e sorelle della famiglia Toda, 1941) In questo film, c’è un’atmosfera della famiglia che è simile a quella de Il sapore del riso al tè verde. Perciò ho avuto cura di incentrare la storia sull’amore materno. L’ultima parte dovetti finirla in fretta e furia perché mi dissero che se non finivo quel giorno non saremmo arrivati in tem­ po per l’uscita in sala, mi rimanevano solo due ore. Non avevo scelta e me la cavai facendo tutti campi lunghi. Mentre giravo ero molto preoc­ cupato, ma quando venne proiettato non si notava praticamente nulla. I film in cui mi diverto durante le riprese mi piacciono comunque venga­ no e in tal senso si può dire che questo film mi piace. Fu anche la prima volta in cui lavorai con Saburi Shin37 e Takamine Mieko38. Per quel peL’ochazuke, costituito da semplice tè (o acqua calda) versato sul riso cotto con l’ag­ giunta di qualche sapore o un pezzetto di pesce, è per eccellenza il piatto casalingo giappo­ nese, spesso fatto con qualche avanzo. * Nella tradizione giapponese, il sekihan (riso cotto con i fagioli rossi) è da sempre il ci­ bo simbolico delle celebrazioni private come nascite, compleanni, matrimoni ecc. Nella re­ torica del governo imperialista giapponese, partire per il fronte era un evento da festeggiare e quindi occorreva mangiare il riso rosso. Saburi Shin (1909-1982), famoso attore giapponese. Idolo delle folle negli anni trenta, fu una delle grandi star della Shochiku. Dopo la guerra girò anche alcuni film come regista. ” Takamine Mieko (1918-1990), attrice e cantante giapponese. Sorella della più famosa Takamine Hideko, nel corso di circa cinquant’anni girò oltre ottanta film con vari registi fra cui Mizoguchi e Shimizu Hiroshi. Con Ozu fece Fratelli e sorelle della famiglia Toda.

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riodo fu un film sfarzoso, con tante star. Probabilmente per questo interruppe la tradizione consolidata secondo cui i miei film non ave­ vano successo e registrò un grosso afflusso di pubblico. È forse da al­ lora che ho cominciato finalmente a riscuotere un po’ di successo.

Chichi ariki (C’era un padre, 1942) Ryù [Chishù] nel ruolo del padre che vende tonkatsu™ ne II figlio unico era diventato proprio bravo. «Chissà cosa starà facendo ades­ so Tsuda, quel ragazzino che ha impersonato il figlio», mi dissi. «Mi piacerebbe rivederlo» (ili. 7). Per questo film utilizzai una sceneggia­ tura che avevo scritto tempo prima, modificandola per l’occasione. Il cinema, con gli anni, diventa sempre più sofisticato e una cosa scrit­ ta molto tempo addietro non può essere utilizzata così com’è. Quin­ di anch’io scrivo e riscrivo e in questo senso penso di aver fatto qual­ che progresso. Dopo questo film, scrissi la sceneggiatura di Harukanari fubo no kuni [Quanto è lontana la patria dei miei genitori]40 e partii per il fron­ te meridionale41. Tornai all’inizio del 1946. La sceneggiatura l’avevo conservata ma chissà come è finita con tutti quegli incendi42. Era una storia con Sano [Shùji] e Ryù [Chishù] militari. Se avessi potuto rea­ lizzarla credo sarebbe stata una cosa interessante, ma a quanto pare non ero in sintonia con gli orientamenti delle autorità militari... Mi dissero di fare una storia più eroica e allora lasciai perdere. ” Cotoletta di maiale molto spessa (anche due centimetri), impanata e fritta in olio ab­ bondante. Nei film di Ozu del dopoguerrra è spesso utilizzata come segno dell’occidenta­ lizzazione dei gusti dei giapponesi. 40 Nel 1942, gli alti comandi militari commissionarono a ciascuna delle tre maggiori ca­ se di produzione (Shochiku, Toho e Daiei) un film sulla guerra. La Shochiku diede l’inca­ rico di realizzare un film sulla Birmania a Ozu, che scrisse con Akiyama Kósaku e Saitò Ryósuke la sceneggiatura di Harukanari fubo no kuni, un film di guerra (in realtà tutt’altro che impregnato di spirito bellico) con la coppia di attori Ryù Chishù e Sano Shùji. Il film non venne mai realizzato. La sceneggiatura venne poi ritrovata molti anni dopo nel­ l’archivio di Makino Mamoru ed è riportata per intero e commentata da P. B. High, Ozu's War Movie «Haruka nari fubo no kuni», in In Praise of Film Studies. Essays in Honor of Makino Mamoru, a cura di A. Gerow e A. M. Norncs, Kinema Club, Yokohama-Ann Ar­ bor 2001, pp. 199-216. 41 Arrivato a Singapore, avrebbe dovuto realizzare Harukanari fubo no kuni, ma le sor­ ti della guerra erano peggiorate e non fu possibile girare. Iniziò allora un documentario su Subhas Chandra Bose e il movimento indipendentista indiano che non fu mai finito e venne distrutto alla fine della guerra. Cfr. S. Hasumi, Toru eiga naku - Senchù Shingapdru de no kòfuku [Senza film da girare - La felicità a Singapore durante la guerra], in «Yomiuri Shin­ bun*, 13 gennaio 1986. 45 Riferimento ai bombardamenti c ai frequenti incendi nella città di Tokyo alla fine del­ la guerra.

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In quel periodo ero decisamente poco produttivo, ma in tempo di pace facevo perlomeno un film al Panno. Se non ci fosse stata la guer­ ra, avrei fatto almeno altri sette film.

Afcgiyrf shinshiroku [11 «chi è» dei signori del casamento, 1947] Appena tornai dalla guerra45, esausto, la produzione mi assalì chie­ dendomi di fare subito un film. Scrissi la sceneggiatura in dodici gior­ ni. «Puoi scrivere le sceneggiature in così breve tempo?», mi chiesero, ma io risposi che era solo per quella volta, dalla successiva non sareb­ be più stato così. Il fatto è che a Singapore avevo visto più film stra­ nieri che in tutta la mia vita44. Qualcuno forse pensò quindi che sta­ volta fossi cambiato almeno un po’. Invece, feci Nagaya shinshiroku e allora dissero che non ero cambiato affatto, che ero testardo come un mulo. Kaze no naka no mendori [Una gallina nel vento, 1948] Dopo Nagaya shinshiroku scrissi la sceneggiatura di Tsuki wa noborinu, ma per varie circostanze finora non sono ancora riuscito a gi­ rarlo45. Ormai quella sceneggiatura, così com’è, non va più bene. Fra i film che si fanno, ce ne sono ovviamente alcuni che non rie­ scono bene, ma se si tratta di errori utili, che insegnano qualcosa, mi va bene. Questo film, però, non fu granché un errore utile.

Banshun (Tarda primavera, 1949) Dopo Hakoiri musarne, per questo film mi ritrovai con Noda do­ po parecchio tempo. Quando sceneggiatore e regista lavorano insieme, se non sono simili anche «costituzionalmente», le cose non funziona­ no. Se uno si alza tardi e l’altro va a letto presto, non si trovano e di­ venta stancante per entrambi. Da questo punto di vista, che si tratti di bere o dell’orario in cui andare a letto o alzarsi, con Noda o con Saitò Ryósuke46 siamo proprio in sintonia, è una cosa fondamentale per me. ° Dopo la resa del Giappone, Ozu fu internato in un campo controllato dall’esercito in­ glese dove fece lavori manuali e tornò in Giappone il 2 febbraio 1946. 44 Con la complicità di Atsuta, responsabile della sala proiezioni dell’esercito, Ozu re­ cuperò più di cento film americani destinati a essere fusi e li guardò di notte all’insaputa del­ le ronde di ispezione. Cfr. S. Hasumi, Hirakareta kokusaisei - Saiwai shita Amerika eiga taiken [Internazionalità aperta - La fortunata esperienza dei film americani], in «Yomiuri Shinbun», 14 gennaio 1986. 4$ Si veda supra., nota 3, in Carattere ed espressioni del volto, p. 58. 46 Saitó Ryósuke (1910-2007), sceneggiatore giapponese attivo dagli anni trenta a tutti gli anni sessanta. Con Ozu fece Kaze no naka no mendori. Fu anche lo sceneggiatore di Tsuki wa noborinu, il soggetto scritto da Ozu e poi realizzato da Tanaka Kinuyo.

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Quando parlo di una sceneggiatura fatta da me e Noda, intendo ov­ viamente dire che pensiamo insieme fino a ogni singola battuta. E an­ che se non concordiamo insieme le scene nei dettagli o i costumi, le immagini che ognuno di noi ha in testa di queste cose si accordano perfettamente, non c’è mai stato il minimo disaccordo. Ci intendiamo persino nella scelta dei suffissi come -wa o -yo a fine frase47. Non so di­ re, è una cosa incredibile. Una volta raccontai queste cose a Satomi48 e lui, ascoltandomi, si convinse che anche i fratelli Goncourt scrivessero così i loro romanzi49. Ovviamente vengono fuori anche idee diverse. Entrambi siamo testardi e difficilmente scendiamo a compromessi. Munekata kyddai [Le sorelle Munekata, 1950] Osaragi50 mi disse «Questo film è il vostro Munekata kyddai» e in effetti scrivemmo la sceneggiatura in maniera abbastanza agevole. Era la prima volta che lavoravo per la Shintoho51, ma molti vecchi amici collaborarono con entusiasmo e risultò una cosa piacevole. Se devo essere sincero, però, sono sempre un po’ in difficoltà a fa­ re un film tratto da un romanzo. In altre parole è tutt’altro che facile dipingere una storia nata dall’immaginazione dell’autore con le star che sono disponibili in un certo momento. Di solito, quando scrivo una sceneggiatura ho già in mente le ca­ ratteristiche e i limiti di ogni attore che prevedo di utilizzare per un certo ruolo. In questo modo è più semplice anche per loro. In passa­ to impiegavo degli esordienti facendo una grossa fatica ma ora pre­ ferisco avere attori bravi che recitino bene. Non ho più le energie per 47 Nella lingua giapponese, in particolare parlata, si aggiunge spesso alla fine della frase una sillaba che in certi casi ammorbidisce la durezza dell’espressione che la precede, in altri casi implica cortesia o famigliarità, in altri ancora può connotare il sesso del parlante. 48 Noto scrittore giapponese amico di Ozu. Si veda supra, nota 39, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 19. 4’ Edmond (1822-1896) c Jules (1830-1870) de Goncourt furono due fratelli inseparabi­ li nella vita e nella scrittura. La loro collaborazione costituì un esempio pressoché unico nel­ la storia della letteratura. Oltre che per i romanzi, sono noti per il loro diario che, iniziato nel 1851 e terminato con la morte di Edmond nel 1896, offre una straordinaria visione dal­ l’interno della società letteraria francese della seconda metà dell’Ottocento. K Osaragi Jirò, scrittore giapponese (si veda supra, nota 37, in Chiacchiere sul mio me­ stiere, p. 19), è l’autore del romanzo da cui è tratto questo film. " Per effetto dei lunghi scioperi alla Toho (si veda più avanti, nota 1, in Un’arte ricca di varietà, p. 186), nella primavera del 1947, parte dei dipendenti della Toho creò la Shintoho (letteralmente «nuova Toho»), una casa produttrice a tutti gli effetti, anche se all’inizio di­ pendente dalla casa madre. Attraverso alterne fortune, la Shintoho proseguì poi autonoma­ mente le attività fino all’inizio degli anni sessanta, creando nuove formule dei vari filoni del cinema di exploitation. Cfr. M. Schilling, NUDES, GUNS, ghosts? The Sensational Films of Shintoho, Centro Espressioni Cinematografiche, Udine 2010.

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Qualche parola sui miei film

faticare con chi non è dotato. Alla fine, più che essere bravi o meno a recitare, ciò che conta è la qualità delle persone. Quelli che mi crea­ no più problemi sono gli attori abbastanza bravi, ma che si compor­ tano come se fossero bravissimi. Le persone di qualità cerco di aver­ le anche nei film successivi e a volte finisco per creare dei ruoli ap­ posta per loro.

Bakushù (Il tempo del raccolto del grano, 1951) In questo film, più che la storia in sé, volevo illustrare qualcosa di più profondo, come il samsàra52 o l’impermanenza di ogni cosa Quindi ho faticato molto. Qualcuno ha detto che il bambino che compare nel film è troppo vivace e indisciplinato. Ma è l’età, quan­ do crescerà cambierà anche lui. Ho cercato quindi di non raccontare ogni cosa esaustivamente, e di lasciare piuttosto qua e là un che di in­ definito per dare al film un gusto piacevole da assaporare successiva­ mente. Credo che le persone che hanno questo tipo di sensibilità l’ab­ biano capito... Hara [Setsuko] è una persona squisita. Vorrei averne altre quattro o cinque di attrici così (ili. 12).

Ochazuke no aji* (Il sapore del riso al tè verde, 1952) Era una sceneggiatura scritta durante la guerra e accantonata a cau­ sa della censura di allora, però era un peccato e così l’ho ritirata fuori. Nella prima versione, il protagonista partiva per la guerra, ma ora i tempi sono cambiati e l’ho modificata facendolo partire per il Sud America. A causa di questo, va detto che la drammaticità della storia si è indebolita. Tuttavia, ciò che volevo comunicare era che in un uomo ci sono delle qualità propriamente maschili che vanno al di là degli aspetti che di solito guardano le donne, come la bellezza del viso o l’a­ vere buon gusto. Non mi è però riuscito molto. Tòkyo monogatari (Viaggio a Tokyo, 1953) Ho provato a dipingere la disgregazione del sistema famigliare in Giappone attraverso l’evoluzione dei rapporti fra genitori e figli nel M Nel pensiero buddhista e hinduista, il samsàra è il ciclo ininterrotto di nascita-vitamorte attraverso la reincarnazione. M impermanenza è una delle dottrine fondamentali del buddhismo. Essa postula che tutte le cose sono transitorie e perciò attaccarsi a esse è fonte di sofferenza. La vita stessa è transitoria e muta attraverso il samsàra. M 1 commenti seguenti sono stati pubblicati originariamente in «Kincma Junpò», dicem­ bre 1960, numero speciale Nihon eiga kantoku tokushà.

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corso del tempo (ili. 14). Tra tutti i miei film, questo è quello che ha una più marcata tendenza al melodramma.

Sòshun (Inizio di primavera, 1956) Con questo film che ritrae la vita degli impiegati ho ripreso dopo tanto tempo a fare un film di genere. La gioia di laurearsi e di entrare nel mondo adulto, le speranze del momento in cui si viene assunti, il loro progressivo sfaldarsi, la percezione che dopo trentanni di lavoro non si è arrivati pressoché a niente. Ho ritratto la vita degli impiegati attraverso le differenze generazionali e ho cercato di far emergere le lo­ ro amarezze. Fra i film che ho fatto dopo la guerra, questo è il più lun­ go. Ho però evitato per quanto possibile le scene drammatiche e ho voluto accumulare scene ordinarie per far sì che dopo averlo visto gli spettatori arrivassero a percepire la tristezza di quel tipo di vita. Tòkyo boshoku (Crepuscolo di Tokyo, 1957) Hanno detto che questo film dipinge Resistenza sbandata di una giovane donna, ma in realtà io volevo ritrarre la vita del personaggio interpretato da Ryù [Chishu], un uomo lasciato dalla moglie che cerca di tirare avanti nella vita, insomma un film incentrato su una persona della vecchia generazione. I giovani avevano per così dire solo il ruolo di far risaltare la vicenda, il pubblico sembra però aver concentrato la propria attenzione più su questa componente decorativa. Higanbana (Fiori d’equinozio, 1958) E stato il mio primo film a colori e poiché potevo disporre anche di Yamamoto Fujiko” ho pensato di fare una commedia vivace. Ori­ ginariamente non avevo intenzione di fare un film a colori. La produ­ zione però mi chiese di farlo perché c’era la Yamamoto e così accettai.

Ohayd (Buon giorno, 1959) Questa storia l’avevo in mente da molto tempo. Tra le persone si parla sempre solo di cose insignificanti, ma quando si cerca di affron­ tare questioni davvero importanti non si riesce tanto agevolmente. Vo­ levo fare un film su questi aspetti. Quando però ho pensato di realiz­ zarlo è stato tutt’altro che facile. Ho provato a raccontare la storia a “ Yamamoto Fujiko (1931), famosa attrice giapponese. Prima Miss Giappone, fu per ec­ cellenza una «bellissima». Attrice di punta della Daiei, fra il 1953 e il 1963 recitò in più di cento film. Nel 1963, litigò per il rinnovo del contratto con il dispotico presidente della Daiei, Nagata Masaichi, che fa licenziò e le impedì di lavorare presso altre case produttrici. Dopo di allora, comparve solo più in teatro e in televisione.

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Qualche parola sui miei film

qualche incontro dell’Associazione registi e tutti mi dicevano che era interessante. Allora ho detto che se qualcuno voleva realizzarla gliela regalavo, ma neanche uno si è azzardato a farsi avanti. Così ho pensa­ to di provarci io e ho fatto questo film. La storia originale che avevo concepito in passato aveva toni molto più contenuti. Invecchiando, però, penso anche agli aspetti commerciali e così l’ho trasformata in una vicenda che potesse divertire il pubblico. O meglio, più che la preoccupazione per gli aspetti commerciali, volevo che il film rag­ giungesse il più ampio pubblico possibile. Ukikusa [Erbe fluttuanti, 1959] La Daiei mi aveva invitato a girare un film già dai tempi in cui c’e­ ra Mizoguchi56. Poi la richiesta mi pervenne ripetutamente anche da Nagata57, ma io ero legato alla Shochiku da un contratto per fare un film all’anno. Di solito quel film mi prendeva tutto l’anno. Proprio quell’anno, però, avevo finito presto Buon giorno e mi rimaneva giu­ sto il tempo di girare il film per la Daiei e allora lo feci. Così potei ri­ spettare quella mia promessa di vecchia data. Avevo già fatto un film all’epoca del cinema muto con questa sto­ ria58. Volevo farne un altro, sempre con la Shochiku, ambientato sulle nevi dell’Hokuriku59 con una sceneggiatura intitolata Daikon yakusha [Attori da strapazzo], ma quell’anno non c’era abbastanza neve e, pur andando a Takata60 o a Sado61, le riprese non venivano bene. Sospesi momentaneamente il lavoro e lo riscrissi completamente cambiando la stagione e l’ambientazione, così lo realizzai con la Daiei. Il tema, come dire, è il cosiddetto mono no aware*2, una storia di al­ tri tempi, il periodo è quello attuale ma con un sapore un po’ antiqua­ to dell’epoca Meiji65. Qualcuno potrebbe dire che allora era meglio % Mizoguchi realizzò con la Daiei alcuni dei suoi capolavori assoluti, come La vita di Oharu donna galante (Saikaku ichidai onna, 1952) e / racconti della luna pallida d'agosto. 57 Nagata Masaichi, presidente della Daiei dal 1947 al 1971. Storia di erbe fluttuanti-, 1934. Regione del Nord-ovest del Giappone. M Takata (ora Jòetsu) è una città della Prefettura di Niigata (nella regione dell’Hokuriku), nota per le precipitazioni nevose abbondanti, che non a caso fu la zona dove lo sci ven­ ne introdotto in Giappone. Nella stessa area, Ozu aveva girato il film Giorni di gioventù. Si veda sopra la nota 3. La valle di Sado, nota per i campi di sci, si trova sull’isola omonima, nella Prefettura di Niigata. 62 Sul concetto di mono no aware si veda supra, nota 2, in Vivo d'amoreper il cinema, p. 99. 63 Secondo il calendario tradizionale giapponese, l’epoca Meiji va dall’8 settembre 1868 al 30 luglio 1912. Fu l’epoca della modernizzazione e dell’apertura all’Occidente, con infini­ te trasformazioni nella società, nell’economia e nei modi di vita. Negli anni cinquanta del Novecento, nel cinema giapponese ci fu un revival del film d’epoca e i «bei giorni del passa-

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raccontare direttamente una storia dell’epoca Meiji, ma anche quello non era così necessario. Tanto più che se si fa un film ambientato in un’altra epoca, le ricerche storiche per documentarsi diventano molto laboriose. Diciamo che alla fine ho fatto rivivere ai nostri tempi una storia di una volta. L’operatore Miyagawa KazuoM mi è stato molto d’aiuto e anch’io ho finalmente cominciato a capire come si lavora con il colore. Il fatto è che a seconda del tipo di colore bisogna usare una luce con intensità diversa. I colori che vediamo a occhio nudo sono di­ versi dai colori che vediamo in un film. Perciò quando si vuole creare un contrasto fra due colori, se si usa una luce con la stessa intensità per entrambi i colori, uno dei due si spegne. Bisogna allora mettere in qualche modo l’altro in ombra per smussarne il tono. Ecco, ho impa­ rato per la prima volta cose di questo tipo. Inoltre, il cinemascope si è andato diffondendo sempre più65. Non ho nessuna intenzione di fare film per gli schermi di grandi dimensio­ ni, però ho iniziato intenzionalmente a cambiare un po’ la tecnica di ripresa. Ovviamente, anche se dico che la sto cambiando, non signifi­ ca che lo faccio drasticamente tutto in una volta. Cambio piano piano, senza che la gente se ne accorga. Per esempio, i primi piani sono au­ mentati e le riprese sono diventate più brevi. Credo che fra i film giap­ ponesi, i miei ultimi film abbiano il maggior numero di riprese. Akibiyori (Tardo autunno, 1960) In questo mondo, tutti riescono a far diventare difficili anche le co­ se più semplici. Anche se sembra complicata, la sostanza della vita può essere inaspettatamente molto semplice. Ecco, questo è ciò che volevo esprimere con questo film. È una cosa che penso da tempo e che ho in­ serito nei miei film un po’ per volta. È facile esprimere una storia mo­ strando le emozioni. Con il pianto e il riso si può trasmettere agli spet­ tatori un sentimento di tristezza o di gioia. In questo modo, però, ci si io» vennero identificati con il periodo Meiji. Dopo il 1953, tale epoca divenne molto popo­ lare e i cosiddetti Meijimono (film ambientati nell’epoca Meiji) fiorirono. Cfr. Anderson Richic, The Japanese Film cit, pp. 278-80. M Miyagawa Kazuo (1908-1999), uno dei più grandi operatori del cinema giapponese di tutti i tempi, è noto per le sue carrellate, come quelle di Rashomon (Rashomon 1950) di Ku­ rosawa Akira. È considerato l’inventore del cosiddetto bleach bypass, l’effetto ottico con cui si sovrappone un’immagine in bianco e nero a un’immagine a colori, che sperimentò per la prima volta nel film Otòto (Il fratello minore, 1960] di Ichikawa Kon. Si veda il commosso necrologio di R. Bergman, Kazuo Miyagawa. The Innovative Japanese Cinematographer Whose Reputation Was Made by *Rashomon», in «The Guardian», 20 agosto 1999. w 11 cinemascope e, in parallelo, gli schermi panoramici, si diffusero in Giappone fra il 1954 e il 1956. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cìl, pp. 252-4. Si veda supra an­ che la nota 3, in Un film è fatto dalle impressioni che rimangono dopo, p. 62.

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Qualche parola sui miei film

ferma alla pura apparenza, ma per tanto che si faccia appello ai senti­ menti, il carattere e le qualità dei personaggi non vengono espressi. Far emergere una tristezza dignitosa togliendo tutte le componenti dram­ matiche e non facendo piangere i personaggi. Far sentire l’esistenza di ciò che chiamiamo vita senza utilizzare avvenimenti particolari. Que­ sto è ciò che ho provato in tutti i modi a mettere in scena. È dall’epo­ ca di Fratelli e sorelle della famiglia Toda che pensavo a queste cose. Però è molto difficile metterle in pratica. Anche con questo film pen­ so di esserci riuscito abbastanza, ma non certo completamente. Kohayagawake no aki* (L’autunno della famiglia Kohayagawa, 1961) Così scrive Noda. Ozu annotò questo commento nel diario di Tateshina67: «Dalla prima de­ cade del febbraio 1961 mi sono rifugiato qua a Tateshina e stiamo scrivendo la sceneggiatura de L’autunno della famiglia Kohayagawa. Un momento è sere­ no, un momento è nuvoloso, giorno dopo giorno stiamo andando verso il te­ pore della primavera. I villeggianti sono meno numerosi del solito e quindi non osano andare in giro schiamazzando per l’ebbrezza. Grazie a questo, il nostro lavoro ha potuto procedere a grandi passi e già il 21 di aprile abbiamo potuto vederne la conclusione». Questo film è stato prodotto dalla Takarazuka Film della Toho6*, l’opera­ tore era Nakai Asakazu. Lo staff era composto tutto da persone della Toho e quindi Ozu non aveva portato nessuno da Ofuna, ma era stato contentissimo perché lì tutti avevano collaborato molto e avevano lavorato bene. La storia prendeva spunto da un fatto veramente accaduto: il padre di una ragazza che veniva spesso a Tateshina in vacanza era improvvisamente colpito da infarto, i figli si riunivano drammaticamente intorno a lui ma il mattino dopo l’uomo era completamente ristabilito.

Sanma no aji (Il gusto del sakè, 1962) Così scrive Noda. Durante le riprese de L'autunno della famiglia Kohayagawa negli studi della Takarazuka, la Shochiku continuava ad assillarci perché decidessimo il ti“ I commenti seguenti sono stati pubblicati originariamente in Ozu Yasujiro. Hito to geijutsu [Ozu Yasujiro. L’uomo e l’opera], numero speciale di «Kinema Junpò», febbraio 1964. 67 Nell’agosto del 1954, Ozu fece visita per la prima volta alla casa di montagna di No­ da nel piccolo paese di Tateshina, nella Prefettura di Nagano, sulle alpi giapponesi. In quel­ l’occasione Noda iniziò un diario della casa in cui sia lui sia i vari ospiti annotavano com­ menti di ogni tipo c che portò avanti fino alla sua morte, avvenuta nel 1968, per un totale di diciotto volumi. Nel 2013, i commenti di Ozu, Noda e altri amici e colleghi sul cinema e sul­ la collaborazione tra Ozu e Noda, corrispondenti a circa un sesto dei diciotto volumi, sono stati estratti e pubblicati autonomamente nel volume Tateshina Nikki Kankòkai (a cura di), Tateshina nikki [Diari di Tateshina], Tateshina Nikki Kankòkai, Chino 2013. M Takarazuka è il nome di una città del Giappone dove nel 1913 Kobayashi Ichizò il futu­ ro padrone della Toho, creò l’omonima compagnia di teatro musicale composta di sole donne, il cui successo unico perdura ancora oggi. Nel 1951, Kobayashi fondò la Takarazuka Motion Picture Company con l’intento di trarre vantaggio dall’utilizzo nel cinema delle varie attrici sotto contratto della Takarazuka. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit, pp. 235-6.

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tolo del film successivo e noi sul momento scegliemmo Sanma no aji. Non avevamo nessun progetto in testa, non intendevamo neanche far mai apparire il pesce del titolo6*, volevamo solo provare a fare una cosa che nel complesso avesse un sapore di quel tipo. Quando finalmente cominciammo a scrivere la sceneggiatura, ci fu una riunione dei cinque presidenti70 e la Shochiku decise di non utilizzare attori di altre case ma solo attori propri o senza contratto fisso, con l’unica eccezione di chiedere in prestito Katò Daisuke71 alla Toho. Mentre scrivevamo, venne a mancare la madre di Ozu e quando, finito il funerale, tornò a Tateshina, Ozu scrisse sul diario questo commento72: «[Non era la foschia che avvolge la montagna vicino al villaggio,] giù in pianura è piena primavera, nuvole luminose di ciliegi in fiore. Ora sono qua assente, in difficoltà per Sanma no aji. I fiori di ciliegio mi immalinconiscono come se fossero abiti logori, il sakè è amaro per le mie budella come se fosse genziana75, [Quanto mi è dolorosa la primavera, quanto mi è doloroso bere questo sakè. Mentre parlo di cose che non hanno posto nel mio cuore cresce già il rimpianto per la primavera che passa]».

w Sanma è il nome in giapponese del luccio sauro del Pacifico, un pesce di mare della fa­ miglia degli scomberesocidi dal sapore intenso che in Giappone è un piatto tipico dell’au­ tunno. Un esemplare molto simile della stessa famiglia, la costardella, è presente anche nel Mar Mediterraneo, in particolare nello Stretto di Messina. La traduzione letterale del titolo è perciò: Il sapore del luccio sauro del Pacifico. 70 II riferimento è all’intesa vigente fra le cinque maggiori case di produzione dell’epo­ ca (Shochiku, Toho, Toei, Daiei, Nikkatsu). Nel settembre del 1958, cinque grandi azien­ de cinematografiche giapponesi (Shochiku, Toho, Toei, Daiei, Shintoho), dopo aver stret­ to un accordo nel 1953 per impedire l’impiego di attori di altre case e soprattutto per cer­ care di boicottare la rinascita della Nikkatsu, siglarono con questa un accordo, per regola­ mentare l’impiego di attori e registi. Nel 1961 l’accordo tornò a cinque per la bancarotta della Shintoho. 71 Katò Daisuke (1911-1975), attore giapponese. Partecipò a oltre 150 film, lavorando con i principali registi delle varie epoche, come Yamanaka, Mizoguchi, Naruse e Kurosawa Akira. Con Ozu fece L'autunno della famiglia Kohayagawa e 11 gusto del sakè. 71 Fra parentesi quadre vengono indicate le due brevi frasi originariamente scritte da Ozu e omesse da Noda per l’occasione. 7i II riferimento esatto è alla genziana verde giapponese o swertia japonica (in giapponese, senburì), considerata la pianta medicinale giapponese più amara c usata con finalità digestive.

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Hl.

«Vado un attimo in guerra e torno»

Lettere dal fronte e altri scritti dell’epoca di guerra

Le lettere presentate in questa parte sono state edite orginariamente, quan­ do non diversamente indicato, in K. Okishio, E. Isaka, S. Okuyama, Y. Yoshi­ da (a cura di), Ozu Yasujirò-kun no tegami, pubblicazione privata, Kobe 1965.

SCRITTI SUL CINEMA

La sera prima della partenza, intorno all’equinozio d’autunno, settembre 1937 Vado un attimo in guerra e torno. Ozu Yasujirò

Shanghai, il giorno successivo al plenilunio d’autunno, 1937 Ieri era il plenilunio d’autunno. La veduta della luna sul fiume Huangpu non era niente male. Una luna come quella che una volta ispirò ad Abe no Nakamaro la poesia Amanohara furisakemireba'. Cerco di immaginarmi cosa provò Nakamaro. In questi giorni il tem­ po è sempre bello. Anche qua ci sono le cosmee2 in fiore e le averle testaditoro1 che cinguettano. Se poi potessi mangiare anche il sanma sa­ rebbe perfetto, ma non si può avere tutto. Sto proprio bene, stia tran­ quillo. Mi saluti tutti. In particolare, la prego di presentare i miei omaggi a sua moglie. Corpo di spedizione a Shanghai, Armata Matsui, Unità Morita, sigillo Ya4. 1 Abe no Nakamaro (698 o 701-770), anche noto come Chao Heng, discendente dell’imperatore Kògen, fu un valente studioso e poeta che visse a Nara (a quell’epoca capitale del Giappone). La poesia citata, composta guardando la luna in Cina la sera prima di imbar­ carsi per tornare in Giappone, è forse la sua più nota e venne inclusa in due delle più famo­ se raccolte storiche di tutta la poesia giapponese: Kokin wakashù (905-912 ca.) (trad. it. a cu­ ra di I. Sagiyama, Kokin Waka shù. Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne, Milano, Ariele 2000, p. 278) e Ogura hyakunin isshu (trad. it. di A. Maurizi, Cento poesie di cento poeti, in Introduzione allo studio della lingua giapponese, a cura di A. Maurizi, Carocci, Ro­ ma 2012, pp. 189-90). Essa recita così (nella versione di I. Sagiyama): «Se guardo lontano/ nell’infinita pianura celeste,/ ecco la luna,/ sorta sul monte Mikasa/ della terra di Kasuga!». La poesia viene recitata da uno dei personaggi del film Tsuki iva noborinu [È sorta la luna, 1955], di Tanaka Kinuyo, il cui soggetto venne scritto da Ozu. Si veda supra, nota 3, in Ca­ rattere ed espressioni del volto, p. 58. 1 La cosmea (cosmos bipinnatus) è una pianta ornamentale dalle ampie foglie colorate ti­ pica delle zone a clima temperato. ’ L’averla tcstaditoro (lanius bucephalus, in giapponese mozù) è un uccello passeriforme presente in Asia orientale. * Ya sta per Yasujiro, il nome di Ozu.

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Pensare a un film di guerra al fronte* Da quando sono al fronte, naturalmente non mi aspetto di uscirne vivo... Adesso che provo l’esperienza della guerra sulla mia pelle, sen­ to di poter fare un film sulla guerra vera. Vedendo la realtà della guer­ ra, posso dire che i film che ho fatto fino a ora, dipingendo ambienti a me sconosciuti, mi fanno l’effetto di cose così blande che non vale neanche la pena di parlarne. Partecipare in prima persona alla guerra è davvero un’esperienza preziosa. Se riesco a tornare vivo, vorrei pro­ prio fare un film realistico basato su di essa1.

Dal campo di battaglia* [novembre 1937]

Ho ricevuto lo yòkan di Surugaya1 e ieri, con un giorno di ritardo, anche la sua lettera. Di questi tempi, se parlo di ydkan mi viene l’acquolina in bocca an­ che per loyó^w di Narita, ma questo è una vera prelibatezza di lusso, così ho subito preparato un tè con l’acqua del canale e l’ho mangiato con gioia. Quando si è in queste condizioni, il desiderio di mangiare è uno dei desideri umani più forti ed è davvero curioso che modi di dire legati al desiderio di mangiare come oyaji no sune o kajiru2 facciano intrawedere anche l’attaccamento alla vita. Tratto da una breve intervista realizzata a Shanghai e originariamente pubblicata in «Hòchi Shinbun», 17 ottobre 1937, edizione serale. 1 L’idea di fare un film basato sull’esperienza della guerra ricorre più volte nei brani qua presentati. Di fatto, Ozu annunciò alcuni progetti legati al tema della guerra che non furo­ no però realizzati. Di essi, soltanto uno, realizzato nel periodo tra il ritorno dalla Cina e la partenza per Singapore, dal titolo Harukanari fubo no kuni [Quanto è lontana la patria dei miei genitori], arrivò alla fase della sceneggiatura. Si vedano al proposito le considerazioni dello stesso Ozu in questo volume alle pp. 146, 157-8, e in particolare 158, e la nota 40, in Qualche parola sui miei film, p. 118. ’ Originariamente pubblicata in «Shin Eiga», 1938, febbraio. 1 Lo yòkan è un dolce tipico giapponese presentato in barrette gelatinose e fatto di pasta di fagioli rossi, agar-agar e zucchero. Surugaya era il nome della più antica e famosa azienda di produzione di yòkan, fondata nel 1461 e cessata nel 2014. Loyófem venduto a Narita è in­ vece citato poco dopo come esempio di yòkan dozzinale e poco gustoso. 2 Espressione ricorrente la cui traduzione letterale è «rosicchiare le gambe del padre» e che significa vivere a carico dei genitori.

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«Vado un attimo in guerra e torno»

Il fatto che Hayashi Chójirc? si sia ritirato è una buona cosa. È l’occasione giusta per gli studi di Shimogamo1*4 per abbandonare lo star system e far crescere buoni registi puntando soprattutto sulla qualità dei film. Chòjiró ha intralciato notevolmente la crescita del cinema giappo­ nese. Il fatto di cambiare casa di produzione per potersi dedicare pie­ namente al lavoro secondo la propria coscienza artistica eccetera ecce­ tera mi sembra un atteggiamento presuntuoso. Una cosa del genere si dice dopo aver fatto un film artisticamente importante oppure è mol­ to meglio dire semplicemente che è una questione di soldi. La Sho­ chiku non paga molto, questo lo so anch’io. A proposito di Angelo5 ho letto la sceneggiatura con interesse, ma mi ha dato la sensazione di una cosa superata perché è fin troppo pie­ na di finezze. Parlo dei passaggi da una scena all’altra. La parte che leg­ gerò nel prossimo numero mi aspetto che sia migliore. Non vorrei di­ ventasse di moda questa maniera di trattare lo svolgimento della nar­ razione. Yamanaka è al fronte e forse è meglio così. Credo che pubblicare la sceneggiatura di Capra [Frank] possa esse­ re interessante. Ha già dimostrato a sufficienza di saper gestire molto bene un’unica scena lunga come nel caso della sequenza del tribunale in È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town, 1936) o quella del­ la banca ne La follia della metropoli (American Madness, 1932). La sceneggiatura mi sembra difficile, ma non credo che per lui sia stato un problema realizzarla.

1 Hayashi Chòjiró, nome d’arte utilizzato dal 1927 al 1937 dal famoso attore Hasegawa Kazuo (1908-1984), una delle grandi star del genere jidaigeki degli anni venti e trenta. Sotto contratto per la Shochiku, fra il 1927 e il 1937 girò oltre cento film (in tutta la sua carriera arrivò a circa trecento). Quando nel 1937 passò alla Toho riprendendo il suo nome vero, venne aggredito da un sicario, si dice, assoldato per vie traverse dai dirigenti della Shochiku, che lo ferì al volto con un rasoio, lasciandogli una cicatrice per tutta la vita. Cfr. Anderson Richie, The Japanese Film cit., pp. 86-7. * A partire dal 1927, a Shimogamo vennero girati molti jidaigeki di grande successo, in­ centrati proprio sulla star Hayashi Chòjiró (si veda la nota precedente). s Riferimento al film Angelo (Angel), di Ernst Lubitsch, uscito in sala negli Stati Uniti il 29 ottobre 1937 e in Giappone nel 1946. Quando Ozu scrisse la lettera qui riportata non l’a­ veva quindi ancora visto e ne parlava sulla base della sceneggiatura pubblicata in due parti sulla rivista «Shin Eiga», 1937, numeri di novembre e dicembre. Successivamente, al rientro dalla Cina, Ozu partecipò il 5 dicembre 1939 a una tavola rotonda della rivista «Kinema Junpó» nel corso della quale affermò di aver visto il film. Cfr. «Kinema Junpò», 1° gennaio 1940, 702. Secondo Tanaka Masasumi (cfr. Ozu Yasujirò zenhatsugen 1933-1945 cit., pp. 126,278, 306), Ozu vide il film a un’anteprima riservata dopo il rientro dalla Cina tra il 16 luglio e il 4 dicembre 1939.

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Ieri mi è arrivata una lettera di Hazumi6 che dice che Kagirinaki zenshin7 di Tomu potrebbe essere il miglior film dell’anno. Mi ha fat­ to tanto piacere. Però mi preoccupa che nel complesso la parte satirica non funzio­ ni. La personalità di Nonomiya Yasukichi [il protagonista del film] pa­ re essere troppo marcata e temo che il film sia diventato troppo la sto­ ria della sua vita. Invece, questa non è solo la sua storia, io l’avevo con­ cepita come la storia di A, B e C. Volevo fare una storia di un gruppo di impiegati nel loro insieme, ma sono un po’ preoccupato che la per­ sonalità di Kosugi [l’attore che impersona il protagonista] sia troppo forte, vorrei proprio vedere come è venuto. Da Uchida non ho ancora ricevuto nulla... eh già, io sono al fron­ te a combattere. In tutto il Giappone c’è l’emergenza per la guerra e il cinema non fa notizia. I soldati giapponesi... per il momento lasciamo stare... Per quanto riguarda me, mi dà molto fastidio il fatto di puzzare come un cane, visto che è da un po’ che non posso fare il bagno. E peggio ancora, l’odore è quello di un cane randagio; vorrei farmi un bagno prima di ogni altra cosa. La battaglia di Shanghai sta finalmente arrivando al culmine e an­ che noi presto andremo in prima linea. Su di me avrei qualche dub­ bio, ma come unità siamo pronti a tutto e anche la preparazione del­ l’equipaggiamento è completata. Domani sera o dopodomani, insom­ ma, andiamo. Naturalmente non mi aspetto di ritornare vivo, ma, se ce la faccio, tornerò. Allora, faccio un salto e torno. Bye-bye! Good luck! Come soldato non ho forse una bella calligrafia?

Luogo sconosciuto, 2 dicembre 1937 Ho ricevuto la tua lettera. Insieme alla tua ne è arrivata anche una di Okuyama. In questi giorni ci stiamo avvicinando in linea retta a Nanchino attraverso un ininterrotto paesaggio desolato. Per dopodo­ mani, anche la nostra unità sarà avanzata di circa 30 ri1. A quel punto parteciperemo all’attacco generale di Nanchino2. Sto benissimo. Oltre G Hazumi Tsuneo (1908-1958), famoso critico cinematografico sia prima sia dopo la guerra. 7 Si veda Qualche parola sui miei film, parte II di questo volume.

1 11 ri è un’unità di misura giapponese corrispondente a 3927 m. - La battaglia di Nanchino durò dal 1° al 13 dicembre 1937. L’attacco finale avvenne dal 10 al 13 dicembre. Dopo la presa della città, l’esercito giapponese avviò un periodo di uccisioni in

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a decine di migliaia di soldati nemici vorrei incontrare almeno una fa­ mosa bella donna cinese con le sopracciglia dipinte di blu3. Per Natale anche Nanchino dovrebbe essere sistemata. Il prossimo Capodanno credo che lo passerò a Nanchino. Ho già trentasei anni4. Una cosa che mi rende piuttosto triste. Mi trovo pro­ prio nella patria di quel famoso verso che recita «Non mi sono ancora svegliato dal sogno delle erbe di primavera ed è già svanito»5. Vorrei mangiare le verdure cotte con il tofu fritto. Mi meraviglio di me stesso che ho voglia di mangiare proprio quelle cose. Salutami tua moglie. Ti scriverò di nuovo più avanti. Ya

Dingyuan, 24 marzo 1938 Grazie di tutti quei buonissimi cracker di riso! Oggi è il 24 marzo, è anche il giorno in cui finisce l’equinozio di primavera1. Sono partito dal porto di Osaka proprio il giorno centrale dell’equi­ nozio d’autunno dell’anno scorso, quindi in pratica è passato metà anno. Shanghai-Nanxiang-Jiading-Taicang-Changshu-Wuxi-ChangzhouJintan-Danyang-Zhenjiang. Da lì, attraversato lo Yangtze, siamo anda­ ti lungo la strada principale del Sud della Cina per Yangzhou-YizhengLuhe-Chuxian-Dingyuan, per una distanza di oltre centocinquanta ri. Adesso mi trovo a Dingyuan. Di salute sto benissimo. Abbiamo preso la città il 3 febbraio. Sono qua da cinquanta giorni, ho perso molti compagni. massa di militari e civili, unite a stupri e saccheggi, tristemente noto come «massacro di Nan­ chino», che ancora oggi costituisce un elemento problematico nelle relazioni sino-giapponesi. J Nell’antica Cina le sopracciglia erano una componente importante dell’aspetto. In par­ ticolare tra le donne di rango elevato, era diffusa la pratica di rimuovere le sopracciglia e ri­ dipingerle con colori particolari come, appunto, il blu intenso o il nero. Cfr. V. Sherrow (a cura di), Encyclopedia of Hair. A Cultural History, Greenwood Press, Westport 2006, pp. 80-1. Anche in Giappone una pratica simile si affermò dall’epoca Heian (794-1185) e, sep­ pure in minor grado, continuò nei secoli successivi fino alla proibizione avvenuta nel 1870. 4 L’età indicata da Ozu va intesa come calcolata secondo il sistema kazoe. Si veda supra, nota 7, in Io, regista in miniatura, p. 25. Secondo il calendario occidentale aveva trentaquattro anni. 5 Verso tratto dal poema Oucheng, normalmente attribuito al filosofo neoconfuciano Zhu Xi (1130-1200), considerato il più influente esponente razionalista del neo-confuciane­ simo e uno dei più grandi pensatori della storia cinese.

1 Nella calendarizzazione tradizionale giapponese l’equinozio (higan) è un periodo di sette giorni.

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Uno di loro che era un monaco è stato colpito alla testa. Sangue e cervello si sono sparsi ovunque ed è morto sul colpo. Un farmacista ha avuto il braccio trapassato da una pallottola che gli ha spezzato l’osso. I caduti sono stati cremati e i feriti sono stati spediti nelle retrovie, co­ sì siamo rimasti in pochi. Nei dintorni si aggirano ancora molti nemi­ ci, soldati di Li Zongren2, e a solo una ventina di ri a sud-ovest c’è an­ che Luzhou, quindi non ci si può certo distrarre. Da due o tre giorni, in particolare, il nemico è passato all’offensiva approfittando del buio della notte, ha accerchiato il castello di Dingyuan e ci bombarda con i mortai. Però conservo la calma. Ormai sono abbastanza abituato an­ che ai proiettili e dormo tranquillo senza curarmene. I proiettili non vanno poi granché a segno. Se lo facessero spesso, sarebbe insostenibile. In questo momento, la vista fuori del castello di Dingyuan è davvero splendida. I salici stanno germogliando, il fiume è in piena e i fiori di colza sono al colmo della fioritura. La pianura si estende a perdita d’occhio fino a sfumare in lontananza, bianche nu­ vole tondeggianti galleggiano nel cielo. Quando il tempo è bello, poi, qualunque aggettivo nobile, come «soffia dolcemente il venticello di primavera», «giorni di primavera piacevolmente tiepidi», «giorni di primavera che trascorrono dolcemente», si adatta perfettamente a que­ sto dolce paesaggio. Specialmente il verde dei salici o il giallo della col­ za sono talmente puri che si avvicinano ai colori primari, formando una composizione molto riposante che sembra proprio una delle foto­ grafie del secondo volume di Crown Reader*. I giorni in cui non ci sono combattimenti sonnecchio tutto il tem­ po. A fine pomeriggio, faccio il bagno in un gigantesco vaso di terra­ cotta e gioco a shdgi* con i miei compagni alla luce di una lanterna. Il caposquadra è il più schiappa. Sono completamente entrato nel ruolo di soldato e ogni giorno, an­ che se a fatica, riesco in qualche modo a sopravvivere. State tranquilli. Vorrei mangiare il tendon^. Vorrei mangiare Vabekawab. Mi vengo­ no in mente all’improvviso cibi a cui non ho mai pensato e che ora mi stuzzicano l’appetito. 7 Li Zongren ( 1890-1969), grande comandante militare dell’esercito cinese sia nella guer­ ra sino-giapponese sia nella guerra civile cinese. Nel 1948 venne eletto vicepresidente della Repubblica di Cina sotto la presidenza di Chiang Kai-shek e, quando quest’ultimo diede le dimissioni nel 1949, ne assunse le funzioni fino al 1950. J Noto manuale di inglese molto utilizzato in passato nelle scuole giapponesi. 1 Gioco tradizionale giapponese da tavolo, in parte simile al gioco degli scacchi, non a caso chiamato anche scacchi giapponesi. ’ Il tendon è un piatto composto di riso c tenpura (verdure e pesce fritti in pastella). 6 Dolce originario della zona intorno al fiume Abekawa, vicino alla città di Shizuoka, consistente in una pasta di riso cotto a vapore e pestato (mochi), ricoperta di farina di soia tostata (kinako) e zuccherata.

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«Vado un attimo in guerra e torno»

Vorrei bere dell’acqua. Mi viene spesso un impulso feroce di attac­ carmi con la bocca direttamente alla grande teiera piena di tè bancha7, mi sembra di trasformarmi sempre più in un selvaggio. Ogni tanto viene fuori anche il discorso del ricambio. Si dice che una parte di noi verrà rimpiazzata. Non so se io farò parte di coloro che verranno sostituiti, ma anche se è solo una frottola va bene lo stes­ so. Chiacchiere di questo tipo danno un po’ di vivacità. Ho sentito che il generale Matsui ha fatto un ritorno trionfale8. «Chissà se in questo momento, finito di fare il bagno, seduto sul tatami starà gustando una bottiglietta di sakè con l’accompagnamento di un sashimi? di tonnet­ to», mi vengono pensieri inutili come questo. Per un po’ di tempo starò qua a fare lavori di manutenzione. Abbiate cura di voi. Grazie ancora. Ya

Bengbu, 3 maggio 1938 3 maggio. Sono a Bengbu. Ho ricevuto la tua lettera del 14 aprile. Bengbu. Alla stazione c’è scritto Pengpu. I soldati lo leggono in vari modi. Banpu, Hanpu, Penpu, Ponpu. Qualunque sia la lettura, si capisce. Siamo partiti da Dingyuan il 15 aprile. Avanziamo verso nord. Sem­ bra che la nostra missione attuale sia di assicurare il controllo della linea ferroviaria Tianjin-Pukou salendo dal sud della Cina verso nord fino a incontrare le nostre truppe che da nord scendono verso sud. Strada fa­ cendo, le acacie in fiore, il vento fragrante che accarezza le spighe di fru­ mento, il cielo di un tenue colore verdeazzurro, la gradevolezza sulla pelle del nuovo fundoshi\ mi fanno quasi pensare che la guerra non sia poi così male. Continuiamo ad andare verso nord. Il luogo di concen­ tramento provvisorio è Bengbu, che straripa di truppe. Soldati, cavalli, cannoni e carri armati vanno e vengono ovunque. Sul bordo della stra7 Varietà di tè giapponese. * Dopo il massacro di Nanchino (si veda supra, nota 2, in Luogo sconosciuto (2 dicembre 1937), p. 132), nel 1938 il generale Matsui Iwane, comandante del corpo di spedizione giap­ ponese in Cina, venne richiamato in Giappone e si ritirò dall’esercito. Nel 1948 venne poi processato e giustiziato come criminale di guerra dalle forze d’occupazione americane. * Piatto di fettine di pesce crudo.

' Il fundoshi è un perizoma in cotone. Fino alla seconda guerra mondiale era la bianche­ ria intima maschile tipica in Giappone.

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da, in mezzo a nuvole di polvere, la gente del posto vende manjù2*cotti al vapore. I carretti dei venditori di udori* passano rumorosamente. Ve­ do spinaci dalle foglie cresciute troppo. Costano dieci seri* al mazzo. Con dieci sen si comprano anche quattro uova. Le mosche arrivate fin qua sulla pancia dei cavalli, cominciano a svolazzare in giro. Manjù, cestelli di bambù per cuocere al vapore, udori, sterco di ca­ valli, tutto è ricoperto dalle mosche. Se un’unità parte, ne arriva subito un’altra. Detto in termini medi­ ci, la città di Bengbu unisce esattamente l’appetito famelico di uno sto­ maco con la gastrite cronica alla diarrea di un’enterite acuta. Detto in termini fisici, assomiglia al meccanismo della «pistola di carta»5. Beng­ bu ha sempre la pancia piena. Dietro alla città scorre il fiume Huai. Il ponte in ferro sul fiume è distrutto. Adesso i genieri ne stanno co­ struendo uno nuovo e quindi ci sono lunghe giornate di attesa. Quando siamo arrivati pensavo che ci saremmo fermati solo una notte, invece oggi è già il 3 maggio. Non so fino a quando staremo qua in attesa di ordini o quando dovremo metterci immediatamente in marcia. Mi sento come un portatore di risciò che aspetta con aria as­ sente all’angolo della strada con un braciere in mezzo alle gambe per scaldarsi. O come una prostituta da due soldi che all’inizio della sera­ ta macina con premura il tè6. Non ho neanche l’ansia continua che ave­ vo a Dingyuan di essere circondato da tutte le parti dai nemici e che arrivassero gli shrapnel e le bombe dei mortai, ora posso persino ac­ cendere un lume sopra la scrivania, fare il tè e scrivere lettere. In città c’è anche una struttura del servizio di conforto7. Questo locale prospera come non mai, ma se non fossi preda della voluttà delle passioni al punto da impazzire urlando e non prendessi 2 Dolce farcito di marmellata di fagioli rossi. ’ Tipo di pasta bianca di farina di frumento giapponese simile alle trenette. * Il sen è un centesimo di yen. ' Gioco di bambini dell’epoca che consisteva nello «sparare» una pallina di carta sof­ fiando in un foglio di giornale arrotolato a mo’ di cerbottana. ‘ Riferimento alla pratica in uso all’epoca Edo secondo la quale le prostitute senza clien­ ti macinavano il tè nell’attesa. Di qua l’uso di «macinare il tè* come sinonimo di far passare il tempo quando non si ha lavoro. ' Espressione per indicare eufemisticamente un bordello per i soldati dall’esercito giap­ ponese. Durante la seconda guerra mondiale, decine se non centinaia di migliaia di donne (principalmente coreane, ma anche cinesi e giapponesi) vennero reclutate e indotte con vio­ lenze e abusi alla prostituzione come schiave sessuali delle truppe giapponesi. Le «donne di conforto» hanno costituito un enorme caso di violazione dei diritti umani che ancora oggi ha conseguenze sia nella memoria della gente sia nelle relazioni diplomatiche fra Corea (e Ci­ na) e Giappone. Solo a fine 2015 il governo giapponese si è scusato ufficialmente con quello coreano riconoscendo le colpe delle autorità militari giapponesi dell’epoca e ha proposto la creazione di un fondo per le vittime.

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coraggio dall’alcol non potrei avvicinarmi così imprudentemente a queste chimimdryd . * Secondo il regolamento (estratto): - Coloro che per imprudenza contrarranno una malattia venerea infettiva verranno segnalati ai rispettivi sindaci e capi villaggio dei paesi di provenienza. - Per preservare in salute le forze combattenti in vista delle prossime ope­ razioni, assicurarsi sempre di indossare correttamente il dispositivo che con­ sente di attraversare qualunque zona ad alta tossicità9. - Nel caso in cui si senta il colpo di cannone dell’appello di emergenza per gli incendi, anche se ci si trova nel corso di un combattimento, tornare imme­ diatamente all’unità di appartenenza10.

Quei dispositivi protettivi che mi avevi procurato a Osaka si stan­ no dimostrando molto utili quaggiù. Ho scritto delle sciocchezze. Non mostrarle a tua moglie. Sono passate da poco le undici. Smetto. Le stelle sono bellissime. Adesso faccio una lunga pisciata sotto l’acacia che sta davanti alla finestra e poi me ne vado a dormire. Abbi cura di te, io sto benissimo. Ya

Bengbu, 6 giugno 1938 Yoshida parte per la Manciuria. Ho ricevuto da Ikuyo la lettera con tutti i vostri saluti. Il timbro postale è del 2 marzo a Osaka sud. Ho sa­ puto da una lettera di Okuyama che Yoshida è tornato sano e salvo, poi mi ha scritto anche lui. Oggi è già il 6 giugno. Piove. Sono a Bengbu. Ho partecipato all’attacco di Xuzhou e sono arrivato fino a Suxian, poi sono rientrato. Sia Xuzhou sia Suxian sono cadute lo stesso gior­ no, il 19 maggio. L’esercito giapponese si muove sempre sulla base del presupposto che una cosa sia realizzabile. Con audacia temeraria ren­ de possibili anche gli obiettivi più irrealizzabili. Ci viene ordinato di • L’ideogramma utilizzato da Ozu è maihime (danzatrice). Per creare contrasto estremo fra l’immagine affascinante e la realtà ripugnante, Ozu ha imposto a questo ideogramma la lettura forzata di chimtmàryó, mostro delle montagne e dei fiumi che secondo le credenze in­ ganna gli uomini e talvolta ne mangia i cadaveri. ’ Eufemismo indicante l’obbligo di utilizzare il preservativo nei rapporti con le «donne di conforto». 10 Eufemismo indicante l’eventualità di un allarme durante la consumazione del rappor­ to sessuale.

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sopportare durezze e privazioni. Durezze e privazioni senza limiti. Prendere un castello o far cadere una fortezza, solo a quel punto si rag­ giunge il limite. L’avanzata è stata rapida. Abbiamo proceduto lasciando i caduti come si trovavano nei campi di frumento, coprendogli solo il viso con la bandiera giapponese. Con questo caldo, anche solo dopo due giorni i corpi pullulano di larve. Se si prova a togliere la bandiera dalla faccia, le cavità orbitali so­ no piene di larve. Una scena terribile che non si riesce neanche a im­ maginare lontanamente quando si sentono le parole retoriche di quel­ la canzonetta che fa «Se vado in montagna sarò un cadavere nell’er­ ba»1. Mi si mettono a prudere gli occhi. Mi guardo allo specchio. Non ci sono larve, ma mi prudono gli occhi. I campi di frumento si susseguono senza sosta sotto il sole cocen­ te. Sudore, polvere e dappertutto una continua mancanza d’acqua. Al­ la fine dell’anno scorso, durante la presa di Chuzhou abbiamo usato un’acqua verdastra piena di pulci d’acqua per cuocere il riso nelle ga­ vette. Puzzava. Era disgustosa. Una cosa impossibile. Adesso, invece, se ci fossero state le pulci d’acqua l’avrei bevuta con piacere. Ho scacciato i girini in superficie, mi sono disteso a pancia in giù e ho bevuto l’acqua di un canale. Si dice che il nemico, mentre si ritira, avveleni l’acqua. Ho anche sentito che a Mengcheng quarantaquattro dei nostri sono morti fra mille sofferenze per aver bevuto l’acqua del pozzo che si trovava den­ tro il castello. Se ci sono le pulci d’acqua è la prova che non c’è veleno, ma che prova sconsolante! Dopo averla bevuta, mi sono fatto prendere dal panico e ho preso delle pastiglie di creosoto2. In quel momento ero così fuori dal mondo che non potevo neanche concepire che esistessero cose come, che so, un gelato o un sorbetto! Il 25 giugno siamo tornati nuovamente a Bengbu. Faccio il bagno. Compro della birra allo spaccio, c’è la luce, c’è la radio. In mezzo a in­ dicibili rumori di ogni tipo arriva alle mie orecchie la melodia fami­ 1 Riferimento alla seconda strofa del canto patriottico Umi yukaba [Se vado al mare], basato su una poesia di Otomo no Yakamochi contenuta nel Man’yòshù, la più antica rac­ colta esistente di poesie giapponesi (raccolte principalmente fra il 347 e il 759 ca.). La poe­ sia originaria venne musicata nel 1937 per rafforzare il sentimento nazionale e diventò mol­ to popolare come canzone per salutare chi partiva per la guerra o per le missioni dei cosid­ detti Kamikaze. •’ Prodotto chimico derivato dal catrame di legno spesso usato, soprattutto in passato, come disinfettante e analgesico. Oggi l’uso del creosoto sulle persone è in declino per i pos­ sibili effetti cancerogeni.

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gliare di quella nagauta? che si intitola Ayame yukata. Potrei dire che è il paradiso. Non so se staremo per qualche tempo a Bengbu. Oppure se parti­ remo per un’altra operazione. Si dice che a luglio ci daranno il cambio. Si dice che verremo spostati per l’attacco di Anqing e Hankou. È im­ possibile sapere cosa succederà. In quanto alla salute, sto benissimo. Sono arrivate le mosche, le zanzare e le cimici. Ci sono gli scorpio­ ni. Per un po’ di tempo dovrò combattere accanitamente con questi animaletti. Ma non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ya

Nanchino, 13 agosto 1938 È il 13 di agosto 1938, sono a Nanchino. Sul calendario, alla data dell’8 agosto c’è scritto che è l’inizio del­ l’autunno'. È pieno di libellule rosse che svolazzano e anche il cielo è particolarmente aperto e limpido12, o almeno così mi sembra. Credo che il culmine della stagione calda sia ormai passato. Durante la giornata c’è un sole bruciante. È ovvio che faccia anco­ ra caldo, ma rispetto a prima è molto più sopportabile. Il giorno 23 parto per il fronte. Di salute, sto benissimo. Farò un salto in una città che si chiama Hankou. A Nanchino sono stato per circa due mesi in piena estate. Ho anche fatto un giro su un battello turistico sul fiume Qinhuai e al lago di Xuanwu ho persino visto i fiori di loto. Quando ho fatto una richiesta per via aerea, mi sono arrivati i sol­ di da Tokyo in meno di dieci giorni, qua e là ho anche provato la cu­ cina cinese. È stato piacevole. ’ La nagauta [canzone lunga] è un tipo di musica tradizionale giapponese che accompa­ gna le rappresentazioni del teatro kabuki. Uno strumento molto usato nelle naganta è lo shamisen, sorta di liuto a tre corde. 111 riferimento è al calendario giapponese tradizionale secondo cui le stagioni seguivano il calendario lunisolare con i solstizi e gli equinozi a metà di una stagione. Secondo tale calendarizzazione, l’autunno iniziava 1’8 agosto e finiva il 6 novembre. 2 Per i giapponesi, le libellule rosse sono un simbolo dell’autunno e il cielo azzurro ter­ so ne è l’immagine principale.

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Ormai mancano meno di dieci giorni alla partenza e mi godo i pi­ solini pomeridiani che per qualche tempo non potrò più fare. Se la mia vita deve finire^ finisca pure dove germoglia l'erba dell'estate E all'orizzonte sorgono le nuvole. Vorrei dirti sinceramente che sono pronto ad andare incontro a una morte eroica, ma mi viene da sorridere perché sono convinto che il de­ stino sarà sfacciatamente dalla mia parte. Per qualche tempo non po­ trò scriverti, ma non voglio che ti preoccupi per me. 13 agosto del quindicesimo anno del ciclo sessagesimale'

Xinyang’ [dopo il 12 ottobre 1938]

Chiedo scusa del mio lungo silenzio. Ora sono a Xinyang, sulla li­ nea Pcchino-Hankou. Ho saputo della morte di Yamanaka al fronte, ne sono estremamente addolorato. Come promesso in occasione della festa per la mia partenza da Tsuruya, comincio con lo spedirle una bozza. Qoe\\'okaribayaki' mi torna spesso in mente nei momenti più diversi. Noi soldati abbiamo sempre la pancia vuota e pensiamo con­ tinuamente al cibo. In quei momenti mi torna in mente la promessa che le ho fatto. Poiché il limite di peso della posta militare è di venti grammi, per sicurezza l’ho divisa in due. In totale, il manoscritto è di nove fogli, quindi ho fatto una busta di quattro fogli e una di cinque. Da Xinyang non c’è ancora il servizio postale. Appena si presenta l’oc­ casione di contattare le retrovie, chiedo se me le possono spedire ma non so quando arriveranno a Tokyo. Per arrivare a Hankou, passan3 Riferimento al calendario lunare cinese usato tradizionalmente in Asia orientale per contare i giorni e gli anni e consistente in un calendario ciclico sessagesimale costituito da cinque sottocicli di dodici anni risultanti dalla combinazione di due sottosistemi: quello dei cinque clementi, ciascuno in forma yin c yang, e quello dei dodici animali dello zodiaco ci­ nese. Ozu usa questa notazione della data perché la lettera ha il tono dell’ultima lettera pri­ ma di morire e quindi anche la data viene espressa con stile retoricamente solenne. ' Lettera inviata alla rivista «Kinema Junpò* come accompagnamento a un testo da pub­ blicare e pubblicata come nota redazionale di fondo in «Kinema Junpò», 1° gennaio 1939,667. ’■ Il riferimento c a un piatto mangiato alla festa citata. L,’okaribayaki era il piatto tradi­ zionale dell’imperatore nelle battute di caccia. In Giappone veniva cotto con una piastra di ferro su un fornello a carbone ed era composto da carne di anatra (o selvaggina o cinghiale), uova, funghi, verdure, con salsa di soia o di miso e condito da una salsa al daikon (rafano bianco giapponese). Nei tempi moderni è un piatto particolare per amatori.

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do per i Monti Dabie, mancano circa quaranta ri. Questa volta mi im­ pegnerò anche per Yamanaka. Alla fiaccolata la prego di portare due lanterne, una per ognuno di noi. Le sarò grato se presenterà i miei sa­ luti a tutti. La prego di riguardarsi. Xinyang, 18 ottobre 1938 Sono a Xinyang, sulla linea ferroviaria Pechino-Hankou. È il 18 ot­ tobre. Sto benissimo. Xinyang si è arresa alle 11,30 del mattino del 12 ottobre. Il giorno dopo siamo entrati nella città. Da Nanchino abbiamo risalito il fiume con delle imbarcazioni fino a Anqing e di lì abbiamo proseguito per Tongcheng, Shucheng, Lu’an, Gushi, Guangzhou1, Luoshan, Xinyang. Ho la sensazione di essere ar­ rivato in un posto lontanissimo. Fuori del castello di Tongcheng scorre un fiume dalle acque fresche e limpide e sulla riva ci sono dei fiori di giglio ragno rosso2. Ho fatto il bagno. Ho lavato il fundoshi. Scanso i rossi fiori dei gigli, bisogni corporali all"aria aperta0. È stato un tranquillo fine pomeriggio d’autunno. A Lu’an il colera si è diffuso furiosamente. Più di trecento di noi sono stati contagiati. Tutti distesi fianco a fianco, sono dimagriti a vista d’occhio come bambù vecchi che si spezzano e la maggior parte è morta spegnendosi con sconcertante facilità. A Gushi abbiamo alloggiato nelle aule di una scuola media. Il sof­ fitto era coperto di giornali in inglese. Su uno di essi c’era una foto a colori di un’invitante torta di fragole con la panna. Quando mi sdraia­ vo, ce l’avevo proprio sopra la faccia. Ogni giorno pensavo la stessa cosa nello stesso ordine: non è possibile mangiare tutta quella torta. Siamo stati fermi dieci giorni con una pioggia che non finiva più. Guangzhou è una città con un castello antico. Siamo entrati nel ca­ stello al tramonto. Nell’oscurità delle strade deserte, un orologio bat­ teva le ore. 1 Antico nome della città cinese di I luangchuan, nella provincia di Henan, nel Sud-est del­ la Cina. Da non confondere con l’omonimo Guangzhou, nome cinese della città di Canton. 2 II giglio ragno rosso (Lycoris radiata) è una pianta della famiglia delle amarillidi dal bul­ bo velenoso, originaria di Cina, Corea e Nepal. In Giappone, dove è chiamato higanbana (da cui il titolo di uno dei film di Ozu), è un simbolo dell’autunno ed è usato in molte ceri­ monie buddhiste per celebrare l’arrivo dell’autunno. J I .a frase originale di Ozu ha la forma di un haiku (componimento poetico di tre stro­ fe di cinque-sette-cinque sillabe).

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Quando siamo arrivati a Luoshan la battaglia era appena iniziata. Sono finito in prima linea. 1 proiettili dei cannoni piovevano su di noi. Gli aerei ci bombardavano. O dea Kannon! O grande Buddha! O grande bodhisattva Hachiman! Tutti gli dèi del mondo mi hanno guardato dall’alto dei cieli e con la mano della loro benevolenza divi­ na mi hanno concesso la grazia. Sono vivo. Sono a Xinyang. Ora, men­ tre bevo un Postum* istantaneo, ti scrivo questa lettera al lume di una candela. Hankou si trova a poco più di quaranta ri oltre le montagne. An­ cora un piccolo sforzo. Oggi abbiamo tolto il fondo a un bidone da cinquanta galloni di benzina, l’abbiamo riempito con l’acqua del canale e abbiamo fatto il bagno. Mi sono tolto di dosso tutta la sporcizia della guerra che mi portavo dietro (ili. 5). Quando ci si trova in situazioni estreme, una so­ luzione la si individua quasi sempre. La sensazione di piacere dopo un bagno caldo non è molto diversa da quella delle terme di Hakone. Ho anche un fundoshi nuovo. Ehi, brutti musi cinesi! Se volete spararmi con un cannone, adesso è il momento giusto. Una tazza di Postum cal­ do mi fa sentire quasi infantilmente come un re senza corona. La pros­ sima lettera te la scriverò da Hankou. Ya

Xinyang, 20 ottobre 1938* Ora sono a Xinyang, nella provincia di Henan. È il 20 ottobre. Sto benissimo. La città è caduta alle 11,30 del mattino del 12 ottobre. Il giorno della ricorrenza della morte di Nichiren'. Da Nanchino - dove ho incontrato Sano Shùji2 - abbiamo risalito il fiume con delle imbarcazioni fino a Anqing, e poi Tongcheng, Shu* Surrogato del caffè composto da cicoria e semi tostati inventato da C. W. Post a fine Ottocento. ’ Originariamente pubblicata con il titolo Tegami [Lettera] in «Kìnema Junpó», 1“ gen­ naio 1939,667. 1 Riferimento alla celebrazione della ricorrenza della morte di Nichiren Daishónin, fon­ datore del buddhismo Nichiren, oggi il ramo di insegnamento del buddhismo più diffuso in Giappone. La morte di Nichiren avvenne non il 12, ma il 13 ottobre 1282. La sera del 12 ot­ tobre, però, si celebra la vigilia con la festa delle lanterne. 2 Sano Shùji (1912-1978), noto attore giapponese. Entrato alla Shochiku nel 1936, du­ rante la sua lunga carriera interpretò circa 150 film. Con Ozu fece, prima della guerra, Shukujo iva nani o wasuretaka (1937) e C’era un padre (1942) e, dopo la guerra, Kaze no naka no mendori (1948) e // tempo del raccolto del grano (1951).

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cheng, Lu’an, Yehuaji, Gushi, Guangzhou, Luoshan, Xinyang. Ho pro­ prio la sensazione di essere arrivato in un posto estremamente lontano. Fuori del castello di Tongcheng scorreva un fiume dalle acque fre­ sche e limpide e sulla riva c’erano dei fiori di giglio ragno rosso di un colore impressionante. Ho fatto il bagno. Ho lavato il fundoshi. Scanso i rossi fiori dei gigli, bisogni corporali all'aria aperta. È stato un tranquillo fine pomeriggio d’autunno. A Lu’an il colera si è diffuso furiosamente. I contagiati sono stati trecentosei. Tutti di­ stesi fianco a fianco, sono dimagriti a vista d’occhio come bambù vec­ chi che si spezzano e la maggior parte è morta spegnendosi con scon­ certante facilità. A Gushi abbiamo alloggiato nelle aule della scuola media provin­ ciale. Fuori della finestra c’era un banano giapponese3 con le foglie spiegate che riflettevano tutto di verde fin dentro le aule. Il soffitto era coperto di giornali in inglese. Su uno di essi c’era una foto a colori di un’invitante torta di fragole con la panna. Quando mi sdraiavo, ce l’a­ vevo proprio sopra la faccia. Ogni giorno pensavo la stessa cosa nello stesso ordine: non è possibile mangiare tutta quella torta. Siamo stati fermi dieci giorni con una pioggia che non finiva più. Guangzhou è una città antica. Siamo entrati nel castello al tramon­ to. Nell’oscurità delle strade deserte, un orologio batteva le ore. Quando siamo arrivati a Luoshan la battaglia era appena iniziata. I proiettili dei cannoni piovevano su di noi. Un’esplosione assordante ha scosso il terreno intorno facendomi piovere sul casco di metallo er­ ba sradicata, terra e sassi. Gli aerei ci bombardavano. Con le loro ali verde scuro che si stagliavano sul sole accecante nel cielo azzurro, sganciavano le bombe e poi si abbassavano fin quasi sulle nostre teste per spazzarci con raffiche di mitragliatrice. Le bombe dei mortai esplodevano ovunque e i proiettili dei fucili semi-automatici cecoslo­ vacchi4 e di altri fucili fendevano l’aria da ogni parte. Non sono stato colpito da niente. Sono rimasto vivo. Sono a Xinyang. Sui bastioni del castello garrisce al vento la bandie­ ra giapponese, in questi giorni prosegue il bel tempo mite dell’autunno. Sono qua da cinque giorni. Ho sentito parlare della morte di Ya­ manaka Sadao. Non potevo crederci. Nella mia mente Yamanaka era ’ Banano giapponese è il nome comune della musa basjoo, una pianta della famiglia del­ le musacee diffusa in Cina e Giappone e dalle foglie simile a quelle del banano. 4 Riferimento allo ZI 1-29, inventato in Cecoslovacchia alla fine degli anni venti, uno dei primi fucili semiautomatici.

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sempre in piena salute. Ieri, però, senza volerlo ho visto la notizia su un giornale. Non ho parole per descrivere cosa ho provato. Dopo che ci eravamo visti a Tokyo, l’ho incontrato una volta in Ci­ na, il 12 gennaio, a Jurong. Avevo saputo che l’unità *** era accampa­ ta presso la caserma della scuola di fanteria di Jurong, che dista 9 ri da Nanchino. Mi trovavo sulla strada di Chuxian5 di ritorno dal centro di smistamento logistico di Shanghai, dove avevo portato le ceneri di al­ cuni miei compagni. La mattina presto andai a quella caserma per fare visita a Yamanaka. Tutto era bianco di brina. Lo trovai subito. Era ap­ pena finito l’appello del mattino e Yamanaka era alle latrine. All’idea di poter incontrare proprio lui in un posto come quello, provai una sensazione strana. Arrivò poco dopo. Non si era lavato le mani ma ce le stringemmo ugualmente. Era un po’ dimagrito e aveva la barba lun­ ga dalle guance al mento. Stava bene. Quel giorno dovevo rientrare entro il tramonto a Chuxian attra­ versando lo Yangtze e non avevo minimamente il tempo per chiac­ chierare con calma. Parlammo in maniera frammentaria. Della guerra, del fatto che eravamo contenti di essere entrambi vivi, di Tokyo, delle lettere degli amici, della fame. Mi disse che da quando era militare era­ no cominciati a piacergli i dolci. Mi chiese se quando fossi tornato a casa avrei fatto un film sulla guerra. Gli risposi che non lo sapevo. Quando lo chiesi a lui, sorrise e disse che neanche lui lo sapeva, anche se aveva pronte molte gag. Yamanaka tirò fuori una pipa. «Ne ho ricevuta una anch’io». La ti­ rai fuori e gliela mostrai. Entrambi le riempimmo con del tabacco Cra­ ven. Ci mostrammo a vicenda i guanti di lana. Erano il regalo di fine anno che ci aveva affettuosamente spedito Uchida Tomu. Scrivemmo insieme un biglietto per gli amici. «Saluti da due che hanno una fortuna sfacciata. Yamanaka Sadao», scrisse e, ridendo, me lo passò. «Durante l’attacco di Nanchino, ero in crisi senza tabacco. Il ritmo della battaglia era così frenetico che non arrivavano neanche i riforni­ menti e così ho fumato le erbe secche sull’argine del fiume. La miglio­ re era l’artemisia», mi disse. Mi commossi. Yamanaka se l’era passata peggio di me. Guardai di nuovo la sua faccia con la barba lunga. Non passò neanche mezz’ora. Cominciai a muovermi. Mi accompagnò fi­ no alla porta della caserma. «La prossima volta ci vediamo a Tokyo». Ci stringemmo ancora una volta la mano e ci separammo. ' L’attuale Chuzhou.

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Poco dopo il rientro a Chuxian, venni a sapere che Punita di Yama­ naka era partita via nave da Nanchino. Subito dopo, anche la mia unità iniziò a muoversi verso nord. Da allora sono già passati nove mesi. Da ieri sera sono all’ospedale da campo, dove ho assistito all’ope­ razione di appendicite di un mio compagno che era ricoverato da cir­ ca tre giorni. L’ospedale è stato ricavato da una scuola e le aule servo­ no come stanze per i pazienti. Nella sala operatoria tramezzata con dei teli, hanno tagliato il ventre del mio amico legato mani e piedi. Ogni volta che si contorceva per il dolore, gli intestini fuoriuscivano dal ta­ glio. Durante l’operazione, la lampada ad acetilene si è spenta più vol­ te. Ogni volta, il medico ha tamponato gli intestini esposti con una garza tutta sporca di sangue aspettando che tornasse la luce. Nell’o­ scurità, mentre tenevo ferme le braccia del mio amico recitavo Jikku Kannon gyd6. È lo stesso ospedale da campo in cui è stato ricoverato Yamanaka. Soffitti bianchi, letti bianchi, stanze d’ospedale solo di nome, senza neanche un fiore, letti fatti di paglia sparsa sulle porte divclte. Me lo sono immaginato in mezzo ai compagni allineati fianco a fianco e proprio in quel momento ho avuto la percezione lacerante della per­ dita di Yamanaka, che se ne è andato solo e silenzioso senza nessuna fortuna. Era una brava persona. Un amico insostituibile. Mi sono asciugato gli occhi. Anche oggi è stata una bella giornata autunnale. Abbiamo tolto il fondo a un bidone da cinquanta galloni di benzina, l’abbiamo riempi­ to con l’acqua del canale e abbiamo fatto il bagno. Un bagno con le er­ be galleggianti. Non è stato niente male. Quando sono uscito ero pie­ no di erba appiccicata alle spalle e al petto. Mi sono tolto di dosso tut­ ta la sporcizia della guerra che mi portavo dietro. Ho anche un fundoshi nuovo. Quando ci si trova in situazioni estreme, una soluzione la si trova quasi sempre. La sensazione di piacere dopo il bagno caldo non è molto diversa da quella delle terme di Izu7. Mentre scrivo que­ sta lettera al lume di una candela, tiro fuori dallo zaino un Postum istantaneo che ho conservato come un tesoro e me lo bevo. E proprio buono. Ehi, brutti musi cinesi! Se volete spararmi con un cannone, adesso è il momento giusto. Una tazza di Postum caldo mi fa sentire quasi infantilmente come un re senza corona. 6 Sutra dedicato alla dea Kannon cantato nelle scuole zen Sòtò c Tendai del buddhismo giapponese. È una preghiera per l’allungamento della vita ed è considerato il sutra più colto esistente poiché composto di soli 42 ideogrammi. ' Riferimento alla penisola di Izu, nella Prefettura di Shizuoka (sud-ovest di Tokyo), no­ ta per le sorgenti termali.

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Dopodomani ci muoviamo verso Hankou. Passando per le monta­ gne ci sono poco più di quaranta n, ancora uno sforzo. Anche se an­ drò ad Hankou, non potrò più incontrare Yamanaka. Però potrò ave­ re dai suoi compagni notizie dettagliate dei suoi ultimi giorni. Ce la metterò tutta. Per fortuna sto molto bene. Proverò anche a fumare Partemisia secca. Voglio che ti riguardi. Lo farò anch’io. La prossima lettera te la scriverò da Hankou.

Al fronte sotto il cielo azzurro autunnale" Sono al fronte da più di un anno e la cosa non mi fa più effetto. Se il destino lo vorrà, quando torno a casa vorrei fare un film sulla guer­ ra. A Nanchino ho visto La pattuglia (Gonin no sekkòhei, 1938)' e Hotaru no hikari [La luce delle lucciole, 1938J; a differenza che a Tokyo, guardare un film come spettatore pagante è una cosa rilassan­ te. Durante la proiezione, i soldati in sala schiamazzano urlando per incitare o criticare gli attori sullo schermo. È proprio divertente. Di La pattuglia non è piaciuto che il capo rientri per primo, avrebbero volu­ to che tornasse almeno per terzo, e neppure il fatto che la recitazione sia enfatizzata. Al di là di tutte queste critiche, però, come film di guer­ ra che segue le linee della Politica Nazionale2 penso si possa dire che sia riuscito. Nel film, i soldati avevano tante sigarette, ma quella è una bugia. Al fronte, a volte non si trovano neanche i fiammiferi. Sarebbe interessante mettere in un film una scena in cui per accendere una si­ garetta si fa prendere fuoco alla polvere da sparo con una lente che concentra la luce del sole. ' Tratto da un’intervista realizzata a Xinyang e originariamente pubblicata in «Asahi Shinbun», 6 novembre 1938. 1 Gonin no sekkòhei (La pattuglia) [Cinque ricognitori], regia di Tasaka Tomotaka, 1938. Fu uno dei primi film di guerra giapponesi significativi e per molli critici il migliore dal pun­ to di vista estetico. Vinse la Coppa del ministro della Cultura popolare alla Mostra Interna­ zionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 1938 e risultò primo nella classifica di «Kine­ ma Junpò» del 1939. Cfr. Richie, A Hundred Years ofJapanese Film cit., pp. 98-9; Miyao, The Aesthetics of Shadow cit., pp. 219-22. • Dalla seconda metà degli anni trenu, il governo imperialista giapponese elaborò un ric­ co arsenale propagandistico volto sia a persuadere le popolazioni dei territori occupati della bontà del progetto dì «Grande Asia» guidato dal Giappone, sia a presentare, all’interno, la guerra come un fenomeno positivo costituito da continue vittorie. Nel mondo del cinema ciò si espresse innanzitutto con la legge sul cinema (si veda // cinema giapponese da oggi in avanti, nella parte IV di questo volume), che impose la realizzazione di film sotto la supervi­ sione dello Stato per la diffusione dei valori nazionali basati sulla tradizione e l’etica del sa­ crificio. Cfr. H. Salomon, National Policy Film («kokusaku eiga») and Their Audiences. New Developments in Research on Wartime Japanese Cinema, in «Japonica Humboldtiana», 2000, 8, pp. 161-76.

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Il film illustra piuttosto bene fin nei dettagli azioni come la prepa­ razione e la consumazione del rancio nelle gamelle o il caricamento dei fucili. Grazie all’appassionata interpretazione di Kosugi3 e degli altri attori, è venuto proprio bene. I film che vengono proiettati ai soldati al fronte non hanno né sto­ ria né regia. Basta che compaia una bella ragazza e sono tutti contenti. A Nanchino ho incontrato Sano Shùji. La morte di Yamanaka Sa­ dao è stata una grande perdita. Quando ho letto la notizia sull’« Asahi » sono rimasto di sasso. Sembra abbia sofferto parecchio. Raccontava che al posto delle sigarette che erano finite aveva provato a fumare va­ rie erbe e la migliore era l’artemisia. La mia compagnia adesso è a riposo e trascorro le giornate in pace, andando a pescare o mangiando patate e grazie a questo, come si vede, mi sono ripreso completamente.

A nord-ovest di Hankou, 15 novembre 1938 15 novembre. Ho ancora la divisa estiva. Ora siamo nel piccolo villaggio di Changjiangbu tra Xiaogan e Yingcheng, a poco più di trenta ri a nord-ovest di Hankou. Nella pro­ vincia di Hubei. Qua sono nel servizio di sorveglianza. Sul lago pieno d’acqua e sulle risaie circostanti, ovunque un unico vento autunnale scuote i giunchi selvatici e scorre sulla superficie del­ l’acqua, increspandola con leggere onde sfavillanti che giorno dopo giorno portano l’inverno. Già due autunni senza mangiare il sanma se ne sono andati. Fa così freddo che non ce la faccio più con la divisa estiva. Anche oggi il sergente Ozu - sono stato nominato il primo di giu­ gno - non cerca di distinguersi con gesta eroiche, ma vive con le lacri­ me agli occhi. Non mi curo di fare bella figura né mi preoccupo delle chiacchiere altrui. Ci hanno concentrati a Nanchino e abbiamo partecipato all’attac­ co di Hankou. Prima abbiamo risalito il fiume con le imbarcazioni fi­ no ad Anqing. Poi, via terra, Tongcheng, Shucheng, Lu’an, Gushi, ' Kosugi Isamu (1904-1983), attore giapponese, fu il protagonista de La pattuglia e di al­ tri film importanti del periodo. Famoso per la sua capacità di recitare con personalità, dopo la guerra passò alla regia, realizzando soprattutto commedie e film d’azione. Cfr. Novielli, Storia del cinema giapponese cit., p. 79.

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Guangzhou, Luoshan, Xinyang, dove siamo entrati il 13 di ottobre. Queste cose te le ho già scritte da Xinyang. A Xinyang sono stato una dozzina di giorni. Da Xinyang per andare a Hankou si superano la catena dei monti Dabie, il passo Pingjing, il monte Yingshan in poco più di quaranta ri. La strada però è stretta, la salita è ripida e riescono a passare solo la fanteria e i cavalli. Per il momento, l’artiglieria pesante, i carri armati e i convogli sono tornati indietro fino a Guangzhou. Guangzhou, Shangcheng, Shawo, qua abbiamo superato la catena dei monti Dabie, Fulihe, Macheng, Songbu, Huangdui, di qua abbiamo svoltato verso nord, Hekouzhen, poi abbiamo proseguito verso ovest, Xiaju, Huayuan, Anlu, verso sud Yunmeng, Changjiangbu. Anche se Hankou è caduta, non è che qualunque unità possa en­ trarvi. Si dice che la sorveglianza verrà affidata a un battaglione scelto fra le divisioni che hanno partecipato alla presa della città sotto la gui­ da di un comandante di reggimento. Sono immerso nella polvere e nel sole d’autunno da oltre centoses­ santa ri, qua sul camion; il veicolo corre fra le gole nel cuore delle montagne le foglie gelate sono più rosse dei fiori di febbraio1 nel cielo azzurro non c’è l’ombra di una nuvola. Quando scende la notte, il camion si ferma e ci stendiamo sul pavi­ mento in terra battuta delle case dei contadini coprendoci con la pa­ glia. Poco dopo, la luna si affaccia sul bordo delle montagne. Le notti d’autunno sono lunghe. Ho fame. Ho messo fra le braci del falò le patate che ho raccolto durante il giorno. Si sentono degli spari. Ovunque, gruppetti di nemici sconfitti fuggono sulle creste del­ le montagne. Ci sparano dalle cime prendendo come riferimento le lu­ ci dei falò. Resto qua disteso perché il tepore della paglia è piacevole e gli spari sono solo in lontananza. Dopo un po’ arriva l’alba. Viaggia­ mo tutto il giorno fino al tramonto. Abbiamo fatto oltre centosessanta ri in undici giorni, di cui quat­ tro siamo stati ad Anlu. Qua i locali continuano a vivere come se nulla fosse. Riescono per­ sino a mantenere l’ordine pubblico. Il mattino e la sera c’è anche il mercato. Mescolati alla rinfusa, sulla strada lastricata si trovano verdu­ re, carne di maiale, carpe e carassi, caramelle, arachidi, tofu. Con la ma­ 1 Riferimento all’ultima strofa della poesia Shànxing del poeta cinese Du Mu (803-852). Secondo il calendario moderno, il mese di febbraio della poesia originaria corrisponde al­ l’attuale mese di marzo.

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no in cui si è soffiato il naso, un venditore prende delle caramelle e me le offre. Non è certo igienico. Però le compro e le mangio. Anche la linea Pechino-Hankou nel giro di quattro o cinque giorni arriverà fino a Huayuan. Così si potrà andare a Hankou in un giorno. Starò qua per un po’. È probabile che anche il Capodanno lo pas­ serò qua. Sono già trascorsi più di quattordici mesi, il tempo scorre inesora­ bilmente. Mi sono abituato completamente anche al mestiere di solda­ to. Non ci sono né cose tremende né cose piacevoli. Anche il mio tren­ taseiesimo anno è ormai quasi passato2. Al mattino e alla sera la schie­ na mi fa male per il freddo. Mi stiro nel vento autunnale e penso di es­ sere ancora giovanissimo. Sto benissimo. Abbiate cura di voi, vi auguro ogni bene. Ya

Yingcheng, Capodanno 1939 Sergente di retroguardia Con il naso che cola Felicitazioni Capodanno del sedicesimo anno del ciclo sessagesimale' Yingcheng, provincia di Hubei - Ozu Yasujirò

Fengxin, 5 aprile 1939* Tutto bene. Sono a Fengxin, nella provincia di Jiangxi. È il 5 apri­ le. La colza è in piena fioritura. Sulla porta del dormitorio, su carta ci­ nese rossastra, è scritto: «Una pioggia di primavera bagna un bue che tira l’aratro Un dolce venticello accarezza un cavallo che corre»1. •’ Si veda supra, nota 4, in Luogo sconosciuto, 2 dicembre 1937, p. 133. 1 Si veda supra, nota 3, in Nanchino, 13 agosto 1938, p. 140. ’ Originariamente pubblicata con il titolo Zoku tegami [Lettera successiva], in «Kinema Junpó», 1° luglio 1939,685. 1 Parole di augurio che in occasione della Festa di primavera (comunemente nota come Capodanno cinese) vengono messe ai lati della porta di casa o di un portone. In questo caso erano probabilmente incollate sul portone di una sulla, ora utilizzau come dormitorio, per esprimere l’augurio che i buoi e i cavalli fossero sempre in salute.

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Lì davanti un bufalo mangia l’erba. Una pigra giornata di primavera. Ho appena lavato le mutande in un canale e ora stanno asciugando sul ramo di una pianta di paulownia tomentosa in fiore, sopra la qua­ le si stende il cielo nuvoloso primaverile. Per un attimo, metto da par­ te il richiamo dei versi «Non mi sono ancora svegliato dal sogno delle erbe di primavera ed è già svanito», mi siedo sull’erba dell’argine e mi dico che ora scriverò questa lettera con il pisello all’aria. Chiedo scusa del mio lungo silenzio. Dunque, da dove comincio? Nella mia ultima lettera ti avevo detto che la volta successiva ti avrei scritto da Hankou. Tuttavia, anche se la città di Hankou è caduta, non significa che qualunque unità possa entrarvi. Ho fatto il servizio di sorveglianza in giro per le campagne lontano da Hankou, verso nordovest, fino a Changjiangbu, Xiaogan e Yingcheng. Changjiangbu era un piccolo villaggio vicino a un lago. Il vento au­ tunnale scorreva sul lago, increspandolo con onde che agitavano le canne secche, portando giorno dopo giorno l’inverno. Già due autunni senza mangiare il sanma se ne sono andati. Ho ricevuto la divisa invernale. La taglia però è troppo piccola e non posso usarla. Anche Kyùshùzan2 da qualche parte avrà lo stesso problema. Mi tengo la divisa estiva. La mattina e la sera, il colletto luc­ cicante di nero per lo sporco mi sfiora la nuca facendomi rabbrividire. È arrivata la brina. A Xiaogan c’era un ospedale per lebbrosi gestito da un inglese. Da­ to che ero lì, sono andato a vederlo. Dicono che la lebbra esista solo tra gli esseri umani. Ma sicuramente c’è anche tra i pesciolini rossi. È certo il caso del ranchi?. La scena di questo ospedale era più penosa di quelle di tutti gli ospedali da campo che ho visto. Con l’avvicinarsi del Capodanno sono andato a Hankou per fare ac­ quisti. Dal quinto piano del centro logistico, collocato nell’edificio di un ristorante cinese, ho visto le bandiere giapponesi sventolare sulla città. Ho incontrato Sano Shùji. Siamo stati fotografati per un servizio dell’«Asahi»4. Abbiamo bevuto birra, mangiato un’insalata di verdure e bevuto il caffè. Ero così soddisfatto che sulla strada del ritorno per Yingcheng ho intagliato i bambù per le decorazioni di Capodanno. • Kyùshùzan Jùrò (1889-1927), famoso lottatore di sumò degli anni venti. Ozu seguiva con interesse i tornei di sumò. ’ Genere di pesce rosso dalla testa dilatata allevato in Giappone. Ozu aveva in casa uno stupendo esemplare di ranchù. Cfr. Atsuta - Hasumi, Ozu Yasujiro monogatari cit., p. 19. ‘ «Asahi Shinbun», uno dei principali quotidiani giapponesi.

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L’ultimo giorno dell’anno c finalmente arrivata una divisa inverna­ le allargata con delle aggiunte di stoffa. Ho trascorso il Capodanno a Yingcheng con la divisa invernale. È stato il secondo Capodanno che ho passato al fronte. L’unità che qua fa il servizio di sorveglianza è quella in cui stava Yamanaka. Se lui fos­ se stato vivo, avremmo potuto passare insieme il Capodanno in que­ sto posto. Sapevo che era inutile pensarci, ma non sono riuscito a to­ gliermelo dalla testa. Alla fine di gennaio la mia unità è stata richiamata all’improvviso ad Hankou. Si diceva di tutto. Torniamo in Giappone. Ci danno il cambio. Facciamo il servizio di sorveglianza di Hankou. Potremo al­ loggiare in edifici con la luce elettrica. Ma erano tutte sbagliate. Parte­ cipiamo all’attacco di Nanchang. Il giorno immediatamente successi­ vo abbiamo attraversato il fiume per Wuchang. Era una bella giornata tiepida di inizio primavera, sopra le nostre teste il grande orologio del­ la torre di Jianghan Guan risuonava tranquillo. In trincea ormai si sollevano nuvole di vapore luccicante. Una far­ falla volteggia, poi Paul, in All'Ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, 1930), allunga una mano per prenderla e viene ucciso. Io invece non allungo nessuna mano. Però se trovassi per terra un bor­ sellino bello gonfio, cosa farei? A Wuchang sono salito sulla collina della Torre della Gru Gialla5. Il giorno successivo pioveva a dirotto. Da Wuchang a Day e, da Daye a Yangxin, la strada era tutto un pantano. Il giorno di Setsubunh abbiamo dovuto spingere i veicoli fin dal mattino per quasi cinque ri e poiché si è fatto buio ci siamo fermati a dormire in mezzo ai monti. Dopo poco, la luna piena è apparsa sopra le montagne. Quando mi so­ no allontanato per fare i miei bisogni nella natura, gli uccelli della montagna cantavano. Ruichang. Jiujiang. Jujiiang era in pieno caos tra soldati, cavalli, veicoli, cannoni, carri ar­ mati. I giorni di pioggia continuavano. Nei pochi momenti senza pioggia ci aggiravamo intorno alle falde del monte Lushan verso est, in direzio­ ne di De’an e Wushimen. Per strada c’erano dei segni tombali appena messi. Erano innumerevoli. Ovunque c’erano resti di battaglie cruente. J La Torre della Gru Gialla, costruita per la prima volta nel 223 e ricostruita più volte nei secoli, è considerata una delle quattro grandi torri storiche della Cina ed è uno dei luoghi sa­ cri del taoismo. b In Giappone, Setsubun è il giorno prima dell’inizio della primavera (di solito il 3 feb­ braio). In associazione con il calendario lunare, era anche una sorta di vigilia del nuovo an­ no ed era perciò accompagnato da un rituale purificatore per scacciare gli spiriti maligni lan­ ciando dei chicchi di soia tostati e mangiandone nel numero corrispondente alla propria età. ’l’ale pratica, senza più cerimonie, è rimasta tuttora come abitudine nella vita quotidiana.

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Le piogge sono continuate per quaranta giorni. La linea del fronte è diventata un mare di fango, i soldati avevano la schiena ricoperta di schizzi di fango, i furgoni galleggiavano nella melma. Da Wushimen a Yueshan, da Yueshan alla riva del lago Yantouhu, dove l’unità si è posizionata in modo da potersi muovere in ogni momento. La prima linea ha fronteggiato il nemico per oltre quattro mesi con in mezzo il fiume Xiushui. La larghezza del fiume è di circa tre-quattrocento metri, dicono che nelle sere tranquille si possa addirittura sentire il nemico fare l’appello sulla sponda opposta. Entrambe le par­ ti vanno al fiume per prendere l’acqua per cucinare. In quei momenti, nessuno spara. Al di fuori di questo caso, però, se qualcuno inizia a sparare, dall’altra parte rispondono con il triplo dei proiettili. «In guerra, dunque, vale una pronta vittoria, poiché il lungo protrarsi del­ le operazioni non porta a nulla»7. Questo è un principio basilare del­ l’arte della guerra già stabilito molto tempo fa da Sun Tzu. Allo stesso tempo, velocità e audacia sono anche le caratteristiche tipiche dell’e­ sercito giapponese. Ma sono fortunato a non dovermi preoccupare di queste cose come se fossi il produttore del film. Questa battaglia però non è stata come quella teorizzata da Sun Tzu, è stata condotta abil­ mente ma è risultata molto lunga e lenta. L’attacco comincia con l’attraversamento del fiume di fronte al ne­ mico che si è fortificato saldamente sull’altra sponda. Per preparare l’at­ traversamento, la prima linea si è spinta fino alla riva. Mi rannicchio e scavo una buca nell’oscurità. Sotto i cumuli di terra c’era un cimitero. Le punte delle nostre pale toccano spesso una bara facendo un suono sordo. A ogni rumore, dal bunker sull’altra riva rispondono con delle mitragliate alla cieca. La voce delle mitragliatrici si spandono sulla su­ perficie del fiume ed echeggiano nel cielo notturno gravido di pioggia. 1 preparativi sono terminati. Siamo tutti schierati. Le munizioni e le razioni alimentari sono pronte. Alle 16,30 del 20 marzo, tutto d’un colpo viene aperto il fuoco per l’attraversamento del fiume Xiushui per l’attacco di Nanchang8. Il rombo dei cannoni risuona senza sosta. I proiettili dei mortai si incro­ ciano sopra le nostre teste lasciando una scia ed esplodendo, scompi­ gliano gli albicocchi in piena fioritura. Ore 19,30. Abbiamo iniziato l’attraversamento del fiume. Come i soldati riempiono le imbarcazioni metalliche tirate fuori dai cespugli, 7 Sun Tzu, L'arte della guerra, a cura di A. Andrcini e M. Biondi, Einaudi, Torino 2011 c2014,p. 15. * Si veda supra, nota 43, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 20.

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queste si allontanano dalla riva e si dileguano nell’oscurità profonda. Dopo qualche istante, il bunker sull’altra riva prende a sputare fuoco ancora più intensamente. Il mio turno di attraversamento è il terzo dal punto di partenza numero tre. Come il fondo dell’imbarcazione tocca terra, scendo al volo. L’acqua mi arriva al ginocchio. I proiettili mi sfiorano. Mi metto a correre e mi butto pancia a terra sulla riva. Nel bunker ci sono ancora soldati nemici. Non ho neanche il tempo di ti­ rar fuori la pala e scavo nella sabbia con le mani. Metto in posizione il fucile. Intorno è tutto buio. Scrutando nell’oscurità, vedo che proprio davanti a me c’è un reticolato di filo spinato. Al di là di esso c’è il bunker. Cerco in tutti i modi di vedere qualcosa nel buio. Non mi ac­ corgo neanche che è cominciato a piovere. Se arriva l’alba in queste condizioni, dovremo attaccare per forza. Ho i crampi alle gambe. Mi si sono ammollate le dita e le unghie mi fanno molto male. La faccio breve. Terminato l’attraversamento del fiume Xiushui proprio sotto gli occhi del nemico, abbiamo iniziato un attacco senza sosta. Wugulin, Mantoushan, Caishi, Anyi, Fengxin, Gulougang, Zhaoshan, Xiongzu. Da qui, una parte dell’unità ha attraversato il fiume Gan, ha bloccato la linea ferroviaria Zhe-Gan'' e ha minacciato Nanchang da dietro; l’al­ tra parte è andata a sinistra e ha preso Nanchang, dove per il momen­ to è terminata l’operazione. Inizialmente, la mia unità era quella che aveva i veicoli e i carri ar­ mati. In questo caso, invece, l’unità combattente è stata separata dalla fanteria e dai carri armati. Fin da giovane, camminare non è mai stato il mio forte. Questa volta però ho camminato. Ho tirato fuori tutto quello che avevo e ho camminato e stracamminato. Le piante dei pie­ di si sono completamente ricoperte di vesciche in tutti i venticinque centimetri e mezzo della loro lunghezza. Le caviglie sono tutte gonfie. È piuttosto dura resistere a ogni sorta di difficoltà e privazioni. Per l’e­ sercito giapponese, però, non ci sono limiti alle difficoltà e alle priva­ zioni. Far cadere un castello o prendere una fortezza, quello può esse­ re un limite, ma lo spingerci senza limiti è sempre basato su una soli­ da probabilità di riuscita. Dieci giorni di cambiamenti continui fra pioggia e sereno, dieci giorni di attacchi concitati senza sosta. Ovunque la colza in fiore. Il so­ le tramontava sulla colza e sorgeva sulla colza. Ero distrutto. Mi sen­ tivo stordito. Come ci fermavamo un attimo mi addormentavo in pie' La linea Zhe-Gan portava da Shanghai a Hangzhou e a Nanchang. Oggi arriva fino a Guangzhou e a Hong Kong.

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di, perdevo l’equilibrio e andavo a sbattere contro lo zaino del com­ pagno che mi precedeva. Avevo la testa pesante. La luce accecante dei fiori di colza nei miei occhi ancora vivi. Non avevo più paura dei proiettili. Il mio unico desiderio era di po­ ter dormire allungando le gambe. Poco dopo aver superato Anyi, sulla strada c’erano i corpi di un sol­ dato nemico e di un indigeno. Vicino a essi, c’era un neonato, nato mira­ colosamente in quella situazione, che si baloccava candidamente con un sacchetto di gallette. Aveva quell’espressione imperturbabile che si ha dopo aver pianto a lungo. Era una scena di fronte alla quale chiunque si sarebbe impietosito. La caccia ai nemici però era frenetica e nessuno po­ teva preoccuparsi del neonato. Tutti acceleravano il passo per superarlo prima che si rimettesse a piangere. Le quattro file di soldati in marcia, ar­ rivate davanti al bimbo, si biforcavano a destra c a sinistra. Scarponi con le ghette. Il bimbo, che se fosse stato calpestato sarebbe morto immedia­ tamente, giocava spensierato in mezzo allo scorrere dei soldati. Quella scena, con lo sfondo di fiori di colza, era naturalmente una sce­ na cinematografica. Era persino più che cinematografica. Non mi è ve­ nuto di fotografarla, mi è mancato quell’atteggiamento cinico di cogliere senza riserve quell’immagine. Anch’io ho accelerato con passo pesante. Dall’inverno alla primavera il clima cambia molto lentamente, ma io avevo appesi al collo la pistola, la sacca da viaggio, la borraccia, la fondina, la pala, una tenda, la mantella, lo zaino. Dovevo portare tut­ te queste cose un po’ da una parte e un po’ dall’altra, mentre al fianco avevo una spada fatta da Minamoto Kiyomaro10. Mentre camminavo, dall’elmetto di ferro mi scendevano gocce di sudore. Voglio bere dell’acqua. Voglio tracannare l’acqua del rubinetto. Mi sono disteso a pancia in giù sull’argine e ho bevuto l’acqua della risaia. Sulla superficie si rifletteva il cielo di primavera. Sul fondo nuotavano i girini. Come l’ho bevuta si è trasformata in sudore. Dopo solo qual­ che passo era già tutta uscita dal mio corpo. Verrò colpito da un proiettile. Cadrò sul campo. Verrò cremato con il vestito che ho indosso, sporco e sudato, senza neanche poter es­ sere purificato". Verrò messo in una scatola di legno bianco12 e quani: Mìnamoto Kiyomaro (1813-1855), famosissimo produttore di spade della tarda epoca Edo. " Riferimento alla pratica di origine shintoista (yukan), normalmente in uso, di lavare il cor­ po del defunto prima della sepoltura per togliere le impurità e i peccati e anche per preservare il defunto e i vivi dall’inquinamento della morte. Cfr. 11. Suzuki, The Japanese Way of Deaths in Handbook of Death and Dying, a cura di C. D. Bryant, Sage, Thousand Oaks 2003, p. 658. Riferimento alla pratica di mettere le ceneri dei caduti in guerra in una scatola di legno chiaro per spedirle ai famigliati. Il chiarore naturale del legno è inteso come simbolo di pu­ rezza adatto ad accogliere le ceneri dei defunti.

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do tornerò a Tokyo vorrei che la mettessero sotto il rubinetto e faces­ sero scorrere a lungo l’acqua sopra la mia testa. Pensavo queste cose mentre camminavo in silenzio fissando la punta dei miei piedi. In realtà, nel profondo dì me stesso ero convinto che non sarei stato col­ pito da nessun proiettile. Non so dire perché. Per fortuna, sto bene. Per la prima volta in vita mia, ce l’ho proprio messa tutta. Ho fatto tutto il possibile. Ho potuto fare molto più di quanto mi immaginassi. È stata un’esperienza preziosa. D’ora in poi, se mi dovessi trovare in una situazione estrema, come se fosse l’ultima spiaggia, questa tenacia sarà la mia arma migliore. Il cielo nuvoloso di primavera, senza quasi che me ne accorgessi, si e appesantito ed è diventato stagnante. Sulla colza e sui rami di paulownia tomentosa sta già incombendo il tramonto. Anche sul muro bianco del dormitorio e su una canzone della guerra perduta che qualcuno ha scarabocchiato su di esso. La ricostruzione della Cina dipende tutta dagli sforzi degli ultimi cinque minuti Se sopporteremo tutte le sofferenze fino ad allora, non sarà lontano il momento in cui Il sole bianco nel cielo azzurro su sfondo rosso del nostro potente e tragico vessillo nazionale Sventolerà sopra le nostre teste.

La guerra si deve vincere. La prossima lettera chissà da dove la scriverò. È da stamattina che ho un desiderio irresistibile di mangiare avidamente del pane ripieno di marmellata di fagioli rossi.

A casa’ E così, in qualche modo sono tornato sano e salvo, ma ciò che mi dispiace è che ho perso tanti compagni e che sebbene mi vantassi di es­ sere robusto e di non essermi mai ammalato, proprio quando stavo per tornare, a Jiujiang1 mi sono preso la malaria. Comunque, anche questo ‘ Tratto da una intervista realizzata al rientro in Giappone e originariamente pubblicata in «Miyako Shinbun» (ora «Tòkyo Shinbun»), 16 luglio 1939, edizione del mattino. Si noti che l’articolo si riferisce non alla fine della guerra, ma al fatto che il 16 luglio 1939 Ozu ter­ mina il servizio in Cina e torna in Giappone dopo l’esperienza di due anni di guerra. Suc­ cessivamente a questo articolo e a quelli presentati di seguito, nel 1943, Ozu verrà inviato a Singapore. ' Jiujiang, situata sul fiume Yangtze, dopo la capitale Nanchang è la seconda città della provincia dello Jiangxi, nel Sud-est della Cina.

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in qualche modo l’ho superato. Però, il fatto di essere dimagrito addi­ rittura di sette chili e mezzo non mi va giù. Il Giappone non è cambiato. Quando ero al fronte, avevo sentito di­ re che non c’erano più le insegne luminose, perciò quando le abbiamo ritrovate, tutti abbiamo esultato e lì ho capito che anch’io non ero cam­ biato. Inoltre, anche se ovviamente ho visto pochissimi film, mi sono mantenuto più o meno aggiornato poiché giornali e riviste, in partico­ lare le riviste, si potevano trovare abbastanza anche a Nanchino. Di film ho visto solo Sannin kyòdai [Tre fratelli] di Naruse2 e La pattuglia di Tasaka3. Quest’ultimo, poiché ne ho parlato bene, il co­ mandante ha portato tutti a vederlo. Per il resto non ho pensato mol­ to al cinema. Solo il percorso che abbiamo fatto, in tutto saranno cir­ ca millecinquecento o milleseicento ri. Da Shanghai a Dachang4, dalla battaglia del fiume Suzhou5 a Zhenjiang, Chuxian, Dingyuan, dove ab­ biamo fatto il servizio di sorveglianza nella battaglia di Xuzhou6. Poi Suxian, Bengbu, Nanchino, Anqing, girando attorno ai monti Dabie, Xinyang, Hankou7 e da lì siamo andati verso nord, da Yucheng a Nan­ chang8. Quanto ho camminato! Per fortuna non sono mai rimasto in2 Non risulta esistere un film con questo titolo né di Naruse né di altri registi. Occorre anche tenere conto che il testo è un’intervista. Nella lingua giapponese, la parola kyòdai, fra­ telli, si usa talvolta anche come lettura di &$$, sorelle. E quindi possibile cne Ozu abbia det­ to Sannin kyòdai intendendo «sorelle» e che l’intervistatore abbia trascritto l’ideogramma di «fratelli». Secondo Tanaka Masasumi, potrebbe quindi trattarsi di Otomegokoro sannin kyòdai [Tre sorelle con il cuore di fanciulla], regia di Naruse Mikio dal romanzo di Kawaba­ ta Yasunari, 1935. Cfr. Tanaka (a cura di), Ozu Yasujiro zenhatsugen cit., p. 101, nota 1. Nel brano Al fronte sotto il cielo azzurro autunnale (in questo volume), scritto circa due anni pri­ ma di questo, Ozu racconta di aver visto al fronte due film, La pattuglia e Hotaru no hikari 3 Si veda supra, nota 1, in Al fronte sotto il cielo azzurro autunnale, p. 146 4 Dachang è oggi un quartiere di Shanghai su un’area di circa ventisette chilometri qua­ drati. Al tempo della guerra sino-giapponese era una città nell’area settentrionale di Shanghai e durante la battaglia di Shanghai (13 agosto-26 novembre 1937) fungeva da anello di con­ giunzione tra le truppe cinesi nel centro di Shanghai e quelle del Nord. La caduta di Da­ chang, che avvenne il 25 ottobre 1937, diede inizio alla fase finale della disfatta cinese. s II fiume Suzhou taglia in due il centro di Shanghai e durante la seconda guerra mon­ diale divideva gli insediamenti stranieri dalla concessione giapponese. La battaglia per l’at­ traversamento de) fiume Suzhou si colloca nella fase finale della battaglia di Shanghai. 6 Xuzhou, città prefetturale della provincia di Jiangsu. La battaglia di Xuzhou, nota an­ che come battaglia di Hsuchow o di Suchow, si svolse fra il 24 marzo e il 1° maggio 1938, e si concluse con 30000 caduti giapponesi e oltre 100000 cinesi. Nonostante la vittoria, i giap­ ponesi non riuscirono a circondare e catturare le truppe cinesi, che all’inizio della battaglia ammontavano a 600 000 uomini. ' Hankou o Hankow era una delle tre città che oggi formano la città di Wuhan, la capi­ tale della provincia di Hubei, nella Cina centrale. Importante centro logistico e portuale, la città fu catturata dai giapponesi il 25 ottobre 1938, dopo una battaglia che durò quattro mesi. * Una ricostruzione dei percorsi fatti da Ozu durante la guerra in Cina si trova in J. Yo­ naha, Teikoku no zan’ei - Heishi, Ozu Yasujiro no Shòwa shi [Vestigia dell’impero - Storia dell’epoca Shòwa del soldato Ozu Yasujiro], NTT Shuppan, Tokyo 2011, p. 70.

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dietro, ma quando c’è stata l’ultima battaglia di Nanchang mi sono do­ vuto fermare per l’infiammazione a una caviglia. La prima esperienza dei proiettili del nemico è stata a Chuxian, mi vergogno a dirlo ma ho avuto paura. Però, un po’ alla volta mi sono abituato. All’inizio non facevo altro che bere senza motivo ma, pen­ sandoci adesso, forse tutto quello non era nient’altro che il comporta­ mento normale della mente in simili circostanze. Alla fine non si sen­ te più nulla. Anche quando un avversario veniva tagliato con la spada sembrava di essere in un jidaigeki. Chi veniva colpito stava un attimo immobile, poi cadeva a terra. Non immaginavo che lo spettacolo del­ la battaglia venisse messo in scena così bene. Riuscivo persino a co­ gliere queste cose. La bravura dei soldati cinesi nel lanciare le bombe a mano, quella è una cosa che mi ha impressionato. Non si avvicinavano mai oltre una certa distanza. Facevano un urlo fingendo di lanciarsi contro le nostre linee, poi tiravano le bombe con tutta la forza che avevano in corpo. All’inizio abbiamo subito molti danni, poi anche noi abbiamo escogi­ tato un modo per fronteggiarli. Fingevamo di lanciare l’urlo dell’at­ tacco e così li spingevamo a lanciare tutte le bombe che avevano, poi attaccavamo veramente, mettendoli in difficoltà. Ci sono stati molti episodi che mi hanno commosso. Ad esempio, durante la battaglia di Nanchang, sono rimasto davvero sbalordito di fronte allo spirito combattivo del comandante lida: nonostante fosse ferito gravemente, continuava a dare ordini stando sulle spalle di un soldato; alla fine, il giorno dopo è crollato a causa di una forte emor­ ragia. Tuttavia, ho potuto vedere anche il suo lato umano. Presso un ponte, abbiamo messo in fuga i soldati cinesi che volevano farlo salta­ re e un vecchio soldato era rimasto indietro. Si è seduto sui talloni e ha cominciato a inchinarsi a ripetizione. lida gli ha puntato la pistola con­ tro, ma non gli ha sparato e, gridandogli: «Scappa! Scappa!», lo ha la­ sciato andare. La cosa che durante la guerra mi ha creato più problemi è stata la mia statura. Per la divisa ho la taglia extralarge. Al fronte non c’erano ricambi. Ho anche provato a cercare un sarto ma non l’ho trovato. È per questo che fino all’ultimo giorno dell’anno sono andato avanti per due anni con la divisa estiva. Dunque, se parliamo di che tipo di esperienza ho fatto in guerra e di come penso di utilizzarla, è ancora prematuro per dirlo, ho solo de­ gli appunti disordinati e, per di più, una buona metà di essi è rimasta in Cina. Prima di partire avevo lasciato solo la sceneggiatura di Cera 157

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un padre ma credo sia impossibile realizzarla9. Per fortuna anche il di­ rettore10 mi dice di riposarmi con calma, quindi voglio ricominciare con spirito rinnovato dopo aver meditato a fondo su ogni cosa.

Un film sulla guerra tragico, ma fondamentalmente con un po’ di luce* Se sono a Tokyo, tutto ciò che guardo e tutto ciò che ascolto lo as­ sorbo pensando al cinema ma, al fronte, dove mi muovevo al confine tra la vita c la morte, non ho potuto pensare per niente al cinema. Non avendo ancora raggiunto la maturità professionale e con i due anni di assenza per il servizio militare, penso di essere rimasto indietro dal punto di vista delle tecnologie e per questo intendo impegnarmi per affrontare ogni cosa come se ricominciassi da capo. Non ho ancora de­ ciso su cosa lavorerò, ma prima di tutto penso che baderò più che al­ tro a girare in abbondanza, in modo da farmi l’esperienza tecnica per poter affrontare con tranquillità un film impegnativo. Naturalmente, vorrei fare un film sulla guerra e i soldati. Forse tutti penseranno che «quell’Ozu», tornato dalla guerra, gi­ rerà qualcosa di diverso. Certo, al fronte ho fatto delle esperienze du­ re che magari qualcosa in me avranno cambiato, ma ho deciso tutto sommato di non fare una cosa cupa. Vorrei cercare la serenità anche nella sofferenza e persino al fondo di questa sofferenza vorrei assolu­ tamente riuscire a mettere degli aspetti positivi. Al fronte si sopravvi­ ve solo con il realismo che viene dall’avere uno spirito positivo c ho imparato a guardare le cose così come sono. D’ora innanzi, vorrei ap­ plicare questo spirito al cinema. Inoltre, quando farò io un film di guerra, vorrei documentarmi a fondo sulle polveri da sparo e anche sugli effetti sonori di una mitra­ gliatrice giapponese, una ceca e una raffreddata ad acqua, oppure di un mortaio, poiché ognuna di queste armi ha un suono peculiare che la di­ stingue dalle altre. Occorre spingersi fino a quel punto. Non voglio fa­ re un film di guerra con i suoni e i rumori prodotti dietro le quinte da tutti i presenti con tamburi e altri strumenti musicali. * Ozu, che sta scrivendo nel 1939, girerà poi il film nel 1942. IC11 riferimento è a Kido Shirò. Si veda supra, nota 3, in Un piatto di riso con curry, p. 6.

‘ Tratto da una intervista realizzata presso gli studi della Shochiku di Ofuna e origina­ riamente pubblicata in «Hòchi Shinbun», 31 luglio 1939, edizione serale.

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Al fronte ho letto le ultime parole del mio caro amico Yamanaka Sadao c mi ha colpito profondamente il fatto che anche in mezzo alla guerra avesse una passione così ardente nei confronti del cinema. Do­ po averle lette, mi sono messo a studiare perché debbo impegnarmi di più. Mah, ora andrò a portare le mie condoglianze alle famiglie dei miei compagni caduti, poi intraprenderò la mia battaglia, che prevedo sarà molto lunga.

Un appunto sull’amaranto tricolore4 Nel primo anniversario della morte di Yamanaka Sadao

Il giorno in cui a Yamanaka arrivò la cartolina precetto faceva mol­ to caldo. Se ricordo bene, era il 25 agosto 1937. All’improvviso, sentii la guerra molto vicina a me. Il pomeriggio del giorno successivo, Yamanaka venne a casa mia nel quartiere di Takanawa con Takizawa Eisuke e Kishi Matsuo1. Sta­ vo lavorando a una sceneggiatura con Ikeda Tadao e Yanai Takao2, sgombrammo velocemente le nostre carte dal tavolo, stappammo del­ le birre e brindammo. Chiacchierammo per un po’ della battaglia di Shanghai, poi pas­ sammo a discutere dei vari oggetti personali di uso quotidiano che si dovevano portare al fronte e io scrissi tutto minuziosamente. Taccui­ no, coltellino, Mcntholatum1, rasoio, Dymol4. «Ehi, Occhan5, hai piantato dei bei fiori, eh!», mi sentii dire e mi ac­ corsi che Yamanaka stava guardando fuori. Nel giardino, sotto un so­ le che annunciava il prossimo arrivo dell’autunno, l’amaranto tricolo­ re era in piena fioritura6. C’era una quiete irreale, se si pensa che in quel 'Pubblicato originariamente in «Kinema Junpò», 11 settembre 1939, 692. ' Kishi Matsuo (1906-1985), importante critico cinematografico sia di «Kinema Junpò» sia di «Eiga Hyòron». Lavorò anche alla Toho come regista ma fu soprattutto sceneggiatore, fra gli altri, di Naruse e Shimizu. Fu lui a scoprire e promuovere Yamanaka. Cfr. Freiberg, Turning serious. Yamanaka Sadao's Humanity and Paper Balloons (1937) cit., pp. 52, 59. 2 Yanai Takao (1902-1981), scrittore per il cinema e sceneggiatore. Insieme con Ozu e Ikeda Tadao, fu lo sceneggiatore di Haru wa gofujin kara e C'era un padre. J Famosa pomata lenitiva intramuscolare presente ancora oggi in varie parti del mon­ do. In Giappone si diffuse negli anni dieci e dal 1920 venne commercializzata con il nome Menturm. • Farmaco antidolorifico e antiinfiammatorio. 5 Diminutivo con cui Ozu veniva chiamato dagli amici stretti. 6 L’amaranto tricolore è una pianta ornamentale con foglie dai colori molto vivaci, spes­ so rosso e giallo. Originaria del Sud America, c molto diffusa anche in Asia. Va distinta da altre piante simili della grande famiglia dell’amaranto, che sono commestibili.

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momento a Shanghai era in corso una violenta battaglia. Da quelle scarne parole emergeva la commozione di Yamanaka. Poco dopo se ne andò. Quel giorno presso gli studi della Toho ci sarebbe stata la festa d’addio in suo onore. Quindici giorni dopo ar­ rivò la cartolina anche a me.

L'autunno dell'anno seguente Anche in Cina, qua e là c’erano dei fiori di amaranto tricolore. A Tongcheng, Gushi, Guangzhou, Xinyang, nel giardino soleggiato di una casa distrutta o sul ciglio della strada, ogni volta che li vedevo mi tornava in mente quel giorno, con Yamanaka e il giardino della casa di Takanawa. Poco tempo dopo, mi giunse la notizia della sua morte al fronte7. Nel tardo autunno, l’amaranto tricolore comparve in due lettere che mi arrivarono da Tokyo. «L’altro giorno sono andato a casa tua a far visita a tua madre. L’ho trovata sorprendentemente in salute. In giardino c’era una pianta di amaranto tricolore il cui colore rosso in controluce penetrava negli oc­ chi. Era triste vedere sotto i fiori le foglie ormai scolorite e cadenti. Istintivamente, tua madre e io ci siamo messi a parlare di Yamanaka» (Uchida Tomu). «Nei vari posti in cui sono andato per girare Kodomo no shiki [Le quattro stagioni dei bambini, 1939] ho trovato i fiori di amaranto tri­ colore. Erano belli, mi dicevo che erano belli, ma non mi sono senti­ to di riprenderli. Quando torni dalla Cina, voglio piantare con te tan­ ti fiori di amaranto tricolore intorno alla tomba di Yamanaka» (Shi­ mizu Hiroshi). Due autunni dopo Quando sono tornato dal fronte, sono andato a Kyoto, dove le truppe di stanza nella città stavano rientrando una dopo l’altra. Se Yamanaka fosse stato ancora vivo, avrei potuto incontrarlo uno di questi giorni. Pensavo queste cose mentre bevevo sakè da Naruse8. Il tokkurì* era piuttosto piccolo e il choko™ sottile. Ho mangiato i gam­ beretti e i cosciotti di pollo abbrustoliti che tanto gli piacevano, in compagnia di Okubo Tadamoto e Inoue Kintarò. Ripensandoci, era­ 7 Yamanaka morì il 17 settembre 1938 di infiammazione intestinale al fronte, presso la città di Kaifeng, nella provincia di Henan. * Nome di un ristorante tradizionale di Kyoto, esistente ancora oggi. * Bottiglietta in terracotta per sakè. :c Coppetta per bere il sakè.

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no stati proprio loro che me lo avevano fatto conoscere. I ricordi di lui hanno sempre stranamente qualcosa a che fare con l’esercito. Era l’autunno del 1933. Avevo appena finito di girare Capriccio passeggero e venni richiamato per le esercitazioni dei riservisti nel tren­ tatreesimo reggimento di fanteria di stanza a Tsu", dove trascorsi una quindicina di giorni. Sulla strada del ritorno, passai da Kyoto. La sera in cui arrivai, c’era la luna piena d’autunno ed ebbi il piace­ re di bere sakè con loro due seduto al ristorante Shin Miura, sulla riva del fiume Kamogawa. La luna splendeva sui monti Higashiyama. Do­ po aver parlato di varie cose, Inoue Kintarò mi chiese se volevo cono­ scere Yamanaka Sadao. In quel periodo, Yamanaka stava lavorando a una sceneggiatura. Mi sembra che fosse Nezumikozò Jirokichi2 e ri­ sposi che se lui avesse potuto, io ne sarei stato felice. A quell’epoca, Yamanaka lavorava già alla Nikkatsu. Dopo aver gi­ rato Bangaku no isshd [Vita di Bangaku, 1933]°, era considerato un grande talento. La sera successiva, Yamanaka venne a Shimogamo14. Indossava un kimono blu scuro con piccoli motivi bianchi (kongasuri) con la vita fa­ sciata da un ampio oZ??5 morbido nero e aveva un paio di getaxh consu­ mati. Sembrava raffreddato, aveva un asciugamano sul collo e non si era fatto la barba. Akiyama Kòsaku’7 fece le presentazioni. «Yamanaka, piacere». Fui sorpreso dal fatto che era trasandato, completamente diverso dall’idea di brillante talento che mi ero fatto vedendo il suo film. " Città portuale capitale della Prefettura di Mie, nel Giappone centrale. 12 Nezumikozò (il piccolo topo) è il soprannome di Nakamura Jirokichi, Robin Hood giapponese del periodo Edo realmente vissuto nei primi decenni dell’Ottocento e poi im­ mortalato un secolo dopo nei romanzi di Osaragi Jirò. All’inizio degli anni trenta uscirono almeno cinque film sulle gesta di questo eroe popolare e nel 1933 Yamanaka ne diresse tre, tutti perduti: Nezumikozò Jirokichi: Edo no maki [Jirokichi il piccolo topo: a Edo], Nezu­ mikozo Jirokichi: dòchù no maki [Jirokichi il piccolo topo: in viaggio] c Nezumikozo Jiroki­ chi: hutatahi Edo no maki [Jirokichi il piccolo topo: di nuovo a Edo]. 15 II film, perduto, fu salutato dalla critica come un capolavoro in quanto primo jidaigeki che utilizzava, reinventandolo, il metodo dei film di ambientazione contemporanea (gendaigeki) di combinare le commedie farsesche con i film di tendenza per esprimere una critica sociale. Cfr. Freiberg, Turning serious. Yamanaka Sadao’s Humanity and Paper Balloons (1937) cit., p. 52 c p. 60, nota 2. 14 Zona di Kyoto, nel quartiere di Sakyo-ku, dove la Shochiku, dopo il grande terremo­ to del Kantó del 1923, aprì nuovi studi e li destinò inizialmente soprattutto alla produzione di jidaigeki. Cfr. supra, nota 4, in Dal campo di battaglia, p. 131. 15 Fascia in tessuto che svolge una funzione di cintura del kimono, mantenendolo chiuso. '* Zoccoli tradizionali giapponesi di legno sollevati da due regoletti posti orizzontal­ mente rispetto alla pianta del piede. 17 Akiyama Kòsaku (1903-1954), regista giapponese. Fra il 1931 e il 1952 realizzò circa quaranta film.

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Quella sera mangiammo al ristorante Okina, dalle parti del tempio Takoyakushi, poi andammo a Gion18. Bevendo e parlando di cinema, facemmo l’alba. Yamanaka non parlava molto c per la maggior parte del tempo bevve e ci ascoltò. Quando ci congedammo davanti al tem­ pio di Yasaka19, se ne andò incurante del rumore dei geta che risuona­ va nella città che si stava svegliando. Pur essendo in un periodo di grande lavoro e per di più raffreddato, trascorse pacatamente l’intera notte con una disponibilità ammirevole. Percepii distintamente in lui una piacevole tenacia.

Da allora sono passati sette anni. Anche da Naruse20 ci sono dei ricordi intensi. Questo, per esempio. Era la tarda primavera del 1934. Era morto mio padre e al ritorno dai monti Kòya dove con mia ma­ dre avevamo portato le sue ceneri21, la sera del giorno in cui facem­ mo un giro per visitare Uji22 e Obakuzan2’, lasciai mia madre da sola da Hiiragiya24 e ci raccogliemmo tutti da Naruse. Naturalmente c’e­ ra anche Yamanaka. La conversazione fu così animata che facemmo mattino. All’alba, Yamanaka, che aveva sonnecchiato un paio d’ore sul pa­ vimento usando uno zabuton* come guanciale, si alzò all’improvviso e aprì lo shdji. Fuori c’era il cielo turchese di maggio. «Niente da fare, è una bella giornata!» e, senza neppure lavarsi la faccia, infilò la sceneggiatura nell’oM dietro la schiena e se ne andò di buon animo dove stava girando gli esterni di Ashigaru shussetan [Sto­ ria di successo di un fante, 1934J. In quel momento non c’era più traccia in me della profonda com­ mozione che avevo provato la sera di due giorni prima, quando, nel to­ tale silenzio dei monti Kòya, avevo lasciato cadere con un secco ru’ Gion è storicamente il quartiere delle geisha più esclusivo di Kyoto e, per estensione, di tutto il Giappone. È sede ogni anno di una grande festa popolare (Gion matsuri). ’* È il più grande tempio shintoista del quartiere di Gion e uno dei più importanti del Giappone. 20 Si veda sopra la nota 8. 21 Si veda supray nota 2, in Un film èfatto delle impressioni che rimangono dopoy p. 61. - Cittadina alla periferia di Kyoto, famosa in tutto il Giappone per le bellezze naturali, la coltivazione del tè verde di alta qualità e i numerosi siti storici, fra cui templi shintoisti e buddhisti c luoghi ricchi di celebri richiami letterari. ” Il monte Obakuzan si trova a Uji (si veda la nota precedente) e ospita il noto tempio Manpukuji, sede di una delle tre scuole di buddhismo zen, chiamata appunto Òbaku, con ol­ tre quattrocento templi diffusi in tutto il Giappone. Nota locanda tradizionale di Kyoto, esistente ancora oggi. 3 Cuscino di forma quadrata, usato al posto della sedia per sedersi sul tatami o sul pa­ vimento di legno.

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more leggero le reliquie di mio padre attraverso il piccolo sportello dell’ossario centrale dell’ofc# no in2b.

Quella commozione che avevo perso, l’ho ritrovata in questa occa­ sione proprio da Naruse. All’improvviso è arrivato Mimura Shintarò27. Era uno molto vicino a Yamanaka, ma non avevo mai avuto occasio­ ne di incontrarlo prima, questa è stata la prima volta. Il giorno successivo sono andato a casa del fratello di Yamanaka a Yoshida Honmachi28, per rendere omaggio all’altare con le ceneri di Yamanaka. Il ricordo di quando l’avevo incontrato a Jurong, nella provincia di Jiangsu, il 12 gennaio dell’anno precedente29, ha reso an­ cora più straziante questa visita. Poco dopo essere tornato a Tokyo, mi hanno chiesto di scrivere il necronimo di Yamanaka per la sua tomba30. Secondo la logica dell’età sarebbe dovuto essere lui a scrivere il mio nome, invece ho steso un fo­ glio di carta, ho preparato l’inchiostro31 e ho scritto io. Shidòin Junzan Teiyù Koji?1. In giardino, anche quest’anno l’amaranto tricolore è fiorito in tut­ ta la sua bellezza.

Perché non ho fatto un film sulla guerra* Il primo film che ho fatto dopo il rientro non è stato un film sulla guerra. Il motivo è che non mi pare che adesso esistano le condizioni “ L’oku no in è il luogo sottostante il tempio centrale di Kòya dove si trova il sepolcro di Kùkai (Kòbòdaishi), iniziatore della scuola Shingon. Si veda supra, nota 2, in Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo, p. 61. r Mimura Shintarò (1897-1970), sceneggiatore molto attivo soprattutto negli anni tren­ ta e quaranta. Per Yamanaka scrisse le sceneggiature di Gantarò kaidò [I viaggi di Gantarò, 1934], Tange Sazen yowa: hyakuman ryò no tsubo [Tange Sazen e la giara da un milione di ryò, 1935], Seki no Yatappe [Yatappe di Seki, 1935], Kóchiyama Sòshun [id., 1936] e il capo­ lavoro Ninjò kamifùsen [Sentimenti umani: palloni di carta, 1937] " Quartiere di Kyoto. * Ozu incontrò Yamanaka al fronte il 12 gennaio 1938. Si veda sopra la lettera del 20 ot­ tobre 1938. M In Giappone e pratica comune che la famiglia di un defunto ottenga da un monaco buddhista a fronte di un’offerta al tempio, un necronimo, chiamato kaimyo, cioè un nome buddhista per la vita nell’aldilà. In passato, sulle pietre tombali veniva inciso solo il necroni­ mo, mentre oggi sono presenti sia il nome in vita sia il necronimo. ” Per scrivere con il pennello, si prepara l’inchiostro strofinando un bastoncino di in­ chiostro di china solido e aggiungendovi l’acqua. w Necronimo di Yamanaka. Di solito, la lettura dei necronimi è fatta secondo l’antico si­ stema di pronuncia cinese chiamato go-on, utilizzato nella lingua giapponese particolarmen­ te in ambito buddhista. In questo caso, però, si segue la prassi di lettura corrente, secondo le indicazioni del National Film Center di Tokyo.

' Tratto da una intervista originariamente pubblicata in «Miyako Shinbun» (ora «Tòkyo Shinbun»), 16 gennaio 1940, edizione del mattino.

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opportune nei vari ambiti1 per girare un film di guerra come io pense­ rei di fare. Almeno una volta, però, vorrei farlo. Penso che persino Hi­ no Ashihei scriverà probabilmente d’ora in avanti un romanzo più ap­ profondito e meditato sulla realtà della guerra2. Ho anche intenzione di girare un film come II figlio unico. Ho scritto Kareshi Nankin e iku [Lui va a Nanchino] insieme con Ikeda Tadao. C’è un gruppo di signore ricche e sfaccendate. Vanno in giro a di­ vertirsi, trascurando i mariti. Partono per un viaggio. Una di loro rice­ ve un telegramma che dice che il marito è stato chiamato alle armi. Sconvolta, torna a casa interrogandosi su cosa stia facendo il marito, ma scopre che lui dorme russando come se niente fosse. La donna si rende conto per la prima volta della solidità del marito. Nella storia, Nanchino non c’è per niente. Il contenuto, direi, è una commedia ma questo è solo il terzo film sonoro che faccio e temo di incontrare notevoli difficoltà. Ci sono tantissimi dialoghi, saranno il triplo rispetto a II figlio unico.

Da quando sono tornato a casa, ho visto parecchi film stranieri e mi pare che ormai dal cinema americano non ci sia più granché da impa­ rare. Se proprio si vuole parlare di qualcosa che dobbiamo ancora ap­ prendere, si potrebbero forse citare gli aspetti tecnologici, in partico­ lare la tecnologia delle macchine da presa. L’ultimo film americano che ho visto è Avventurieri dell'aria (Only Angels Have Wings, 1939) e l’ultimo film francese è Prigione senza sbarre (Prison sans barreaux, 1938) e sono rimasto ammirato dal lavoro di Jules Furthman, lo sce­ neggiatore di Avventurieri delParia. È veramente bravo nel preannun­ ciare gli avvenimenti con delle allusioni velate e nel modo in cui porta la narrazione al culmine. Tutto combacia esattamente con la precisio­ ne di un ingranaggio. Ma proprio per questo mi dà la forte sensazione che sia una cosa ormai superata. ' Lo scritto è del 1940. Il termine «ambiti» è un riferimento al clima politico e alla cen­ sura in tempo di guerra. ’ Hino Ashihei (1907-1960), scrittore giapponese molto noto durante la guerra per i suoi romanzi dal fronte. Nel 1937, mentre combatteva in Cina, vinse il prestigioso premio lette­ rario Akutagawa per il miglior scrittore esordiente con il romanzo Fun'nyòtan [Racconti di escrementi e urina]. L’anno successivo scrisse il romanzo di guerra Mugi to heùaì (trad. it. di L. Fabbri, Orzo e soldati, Bompiani, Milano 1942), che vendette oltre un milione di copie e fu poi seguito da Tsuchi to heitai [Terra e soldati] e Hana to heitai [Fiori e soldati]. Dopo la guerra venne progressivamente dimenticato e morì suicida.

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In Prigione senza sbarre ci sono varie cose che non mi convincono, ma penso che sia comunque un film egregio. I film americani tendono quasi sempre a essere spettacolari. Quando vedo che vengono impie­ gate somme di denaro enormi per quel tipo di film, io che lavoro in questo settore, a volte penso sia davvero assurdo. I miei film sono fatti quasi sempre partendo da un soggetto origi­ nale, anche se ce n’è qualcuno tratto da un soggetto preesistente. Questo non perché non mi piaccia fare un film a partire da un ro­ manzo o da un lavoro teatrale, piuttosto perché non ho trovato nulla che volessi adattare in un film e anche se l’avessi trovato, nella mag­ gior parte dei casi, avrei preferito decisamente lasciarlo nella forma in cui era. Però, se trovassi qualcosa di davvero adatto, lo trasformerei volentieri in un film. La sceneggiatura del prossimo film, come ho detto prima, l’ho scritta con Ikeda Tadao. Sono convinto che sia meglio scrivere in col­ laborazione con qualcuno piuttosto che da soli. Per esempio, se scrivo da solo a volte mi capita di avere dei dubbi su quale sia la battuta più adeguata in una certa scena. Invece, se lavoriamo in due, anche se na­ scono dei dubbi, vengono subito risolti.

Ecco il primo film dopo il rientro!’ È da parecchio che non ci vediamo!1 Comincia a fare freddo, ve­ ro? Quando sento questo freddo mi viene in mente il fronte. Chissà dov’ero un anno fa a quest’ora? Dovevo essere dalle parti di... Dico che fa freddo ma questo è niente in confronto a quello che ho pro­ vato al fronte. Vogliamo troppo. Adesso non posso stare senza questo braciere ma l’anno scorso in questo stesso periodo marciavo incurante di tutto nel vento gelido. Se ci penso, stare vicino al braciere è fin troppo per me, mi sembra di sognare. Da qualche giorno sto riordinando le fotografie che ho fatto in Cina con la mia Leica (così dicendo, il nostro Ozu ha ti­ rato fuori un album da sotto la scrivania e me lo ha mostrato. Era tutto perfettamente in ordine.)2 In tutto sono circa quattromila fotografie. A volte, mentre le metto a posto, tutto d’un tratto rivivo le sensa­ zioni che ho provato in quei momenti. Non mi ricordo dove fosse, ma Originariamente pubblicato in «All Shochiku», febbraio 1940.

1 Ozu si sta rivolgendo a un intervistatore. 2 Nota dell’intervistatore.

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una volta un proiettile di mortaio è caduto di fianco a me a meno di un ken'. Il fango mi è schizzato con violenza sulla faccia. Mi hanno col­ pito!, ho pensato. Effettivamente, quanto duri la vita di una persona non è una cosa che si possa prevedere. Anche se si riesce a tornare a casa senza essere colpiti da un proiettile, può sempre capitare di morire di malattia, no? Quando avrò finito di sistemare queste fotografie, ho intenzione di spedirle ai miei compagni d’armi per capodanno. Qualcuno è soprav­ vissuto, qualcuno ha fatto una morte onorevole. Penso che ai fami­ gliati dei caduti farà sicuramente piacere vedere come hanno combat­ tuto eroicamente i loro cari. Credo che questo sia il minimo che pos­ sa fare per i propri compagni chi è tornato vivo come me. Ultimamente mi è tornata la malaria. Sono stato a letto fino a ieri. Meno male che almeno la prossima sceneggiatura è più o meno pron­ ta. Adesso Iketada4 sta facendo gli ultimi ritocchi. Era da parecchio che non scrivevo una sceneggiatura, quindi ho proprio faticato. Non riu­ scivo a ritrovare la scioltezza di prima. Perciò ho chiesto a Iketada di sistemare lui la maggior parte delle cose. Inoltre, poiché si tratta del primo film dopo il rientro*, sia la casa produttrice sia la gente mi stanno addosso. Non credo ci siano grandi differenze tra l’Ozu Yasujiro di prima della guerra e l’Ozu Yasujiro di adesso. Se proprio si vuol dire cosa è cambiato in me, direi che sono diventato più allegro. I film di Ozu non vanno bene, sono cupi, senza salvezza, così dicevano prima. D’ora in avanti non sarà più così. La guerra non è una cosa che si può affrontare senza speranza. Detto in maniera più complessa, non la si può affrontare con spirito negativo. Bisogna accettare ogni cosa con spirito positivo. È così che viene fuo­ ri la forza degli uomini. In altre parole non si può combattere piagnu­ colando con la tua vita in gioco. Bisogna avere coraggio. Ci vuole la forza di rialzarsi anche se si viene messi a terra. Se parliamo di cinema con questo spirito, ci deve essere la salvezza. È necessario che ci sia la speranza del domani. Da questo punto di vista, debbo riconsiderare i film che ho fatto fino a ora più severamente di chiunque altro. Per esempio, Il figlio unico o Sono nato, ma... sono davvero incompleti. Mi sembrano fatti da un altro Ozu Yasujiro, così mi appaiono ora. Bi­ sogna andare avanti partendo di lì. In altre parole, il profondo senti­ mento interiore rappresentato da Sono nato, ma... non è un sentimen' Unità di misura tradizionale giapponese, corrispondente a circa 1,82 m. * Abbreviazione amicale del nome dello sceneggiatore Ikeda Tadao. 5 Ozu si sta riferendo al suo primo rientro dal fronte, avvenuto nel luglio del 1939.

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to assolutamente necessario per le persone6. Si deve essere grati di es­ sere nati. A fronte del fatto che viviamo effettivamente in questo mon­ do, bisogna avere fiducia in se stessi e impegnarsi a vivere per uno sco­ po concreto. Occorre essere forti e avere sempre qualcosa cui ambire. Se non è così, non si riesce ad attraversare questa cosa chiamata vita. Che cosa? 11 prossimo film? Non sarà un film di guerra. Prova a pensarci. Per più di due anni sono stato ogni giorno immerso nel fan­ go, non posso mica ripetere subito la stessa cosa in un film. Così la mia vita sarebbe troppo monotona. Intendo custodire den­ tro di me l’esperienza della guerra come una cosa unica e preziosa. Ma­ gari in futuro farò un film di guerra. Adesso non mi sento di farlo e se lo facessi non sarei in grado di fare una cosa buona. L’esperienza è an­ cora troppo viva. Voglio trattenerla il più possibile dentro di me e ru­ minarla finché non l’ho fatta diventare una parte di me. Il prossimo film, come posso dire?, ricordi che ho fatto un film che si intitola Shukujo wa nani o wasureta-ka, vero? Mah, diciamo che po­ trebbe essere una specie di seguito. Ti racconto la trama a grandi linee. Ci sono tre signore ricche e sfaccendate. Hanno tempo e denaro e ogni giorno non fanno altro che escogitare qualcosa per divertirsi. Una di loro ha un marito molto diverso da lei. Non è raffinato e non si cu­ ra minimamente nel vestirsi. Gli piace mangiare il riso versandoci so­ pra il brodo di miso7, fuma sigarette fiat8 e in treno gli piace andare so­ lo in terza classe. Vive, quindi, in un mondo completamente diverso da quello delle tre donne. A un certo punto l’uomo deve partire per il fronte. La moglie, cioè la signora ricca e sfaccendata, è sconvolta. Lui invece non si scompo­ ne minimamente. In quel momento la donna comprende per la prima volta il vero valore del marito. Ciò che vorrei fare non è tanto descri­ vere quale dei due modi di vivere e di pensare - quello della donna ric­ ca e svogliata o quello di quest’uomo - sia giusto. Piuttosto, sarò pre­ suntuoso, ma vorrei ritrarre persone che vivono in due mondi diversi per cercare la reazione della gente, insomma capire quale gli piace di più, ecco, la mia intenzione è più o meno questa. 6 Sono nato, ma... (1932), primo film di Ozu a vincere la classifica annuale di «Kinema Junpó», si distingue da altri suoi film del periodo per il tono grave e socialmente critico, che sfocia in un finale segnato dall’amarezza. Cfr. Tornasi, Ozu cit., pp. 43-7. ' Il brodo di miso (miso shiru) accompagna regolarmente il pasto tradizionale giappone­ se. Versarlo sul riso è considerato rozzo, un po’ come se noi versassimo del brodo di verdu­ ra sugli spaghetti. * Abbreviazione colloquiale di Golden Bat, marca di sigarette giapponesi senza filtro. Immesse sul mercato nel 1906 e in commercio ancora oggi, le Golden Bat sono le sigarette più economiche e popolari, un po’ come le nostre Nazionali o Alfa.

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Non è che nella nostra vita abbiamo dimenticato qualcosa di im­ portante? Questo vorrei provare a far capire allo spettatore. Anche se non sono sicuro di riuscirci, comunque ci voglio provare e poi si vedrà. Da quando sono tornato a casa, di film ne ho visti parecchi. Ho pensato che ormai sono tutti ben fatti ma gli manca qualcosa. Non c’è quel qualcosa che ti tocca dentro. La tecnica di regia è fin troppo per­ fetta ma... Temo che questo sia oggi il maggiore problema del cinema giapponese. Detto questo, non posso dire se il mio prossimo film ne sarà esente. Mah, diciamo che per riprendermi bene ho intenzione di fare un paio di film in maniera rilassata, un po’ come se fosse una vacanza. So­ no ancora giovane e inoltre fare film non è certo un lavoro che si fa in un giorno solo. Voglio affrontarlo con i tempi dovuti. Chissà quando inizierò a girare. Anche se dico a inizio anno, poi­ ché ai primi di gennaio ci sono già parecchi altri film programmati, penso sia difficile che riesca ad iniziare presto. Secondo me andrebbe bene se si riuscisse a girare in modo di andare in sala per marzo o apri­ le. Non ho ancora neanche deciso il titolo. Io direi Kareshi Nankin e iku\ ma non so. Dopo questo lavoro, ho intenzione di girare Cera un padre. Co­ me sai, è una sceneggiatura che avevo scritto prima di partire per il fronte, sebbene adesso anch’essa richieda parecchie modifiche. Mah, voi parlate tanto del primo film dopo il ritorno, ma io non lo intendo affatto così. Girerò esattamente come prima, senza preoccupar­ mi di nulla in particolare, e vorrei che anche voi lo consideraste così.

Nostalgia di una pulce’ La presa di Nanchang avvenne in primavera1.

È iniziata con la battaglia per l’attraversamento del fiume Xiushui, attacchiamo senza interruzione giorno e notte. * Il titolo venne poi modificato in Ochazuke no aji [Il sapore del riso al tè verde], ma fu bocciato dalla censura e accantonato. Il film venne realizzato solo nel 1952 con questo se­ condo titolo e riprendendo l’impianto qua illustrato con alcune varianti. Per esempio, il pro­ tagonista, anziché partire per la guerra, partirà per lavoro per l’Uruguay e, anziché fumare sigarette Golden Bat, fumerà sigarette Asahi. Il primo film dopo il rientro nel 1939 fu quin­ di Fratelli e sorelle della famiglia Toda, uscito il 1° marzo 1941.

' Originariamente pubblicato in «Asahi Shinbun», 4 agosto 1941. ’ Si veda supra, nota 43, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 20.

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I fiori di colza2 in piena fioritura si stendono all’infinito, la luce del giorno sorge sui fiori di colza, il buio della notte scende sui fiori di colza. All’alba, socchiudo gli occhi assonnati per il giallo vivido illumi­ nato dal sole e mi viene da esprimermi con un verso come «La luce accecante dei fiori di colza nei miei occhi ancora vivi». Allo scendere della notte, il giallo infinito che sbianca il cielo notturno mi rimane negli occhi. Con addosso gli stessi vestiti da chissà quanto tempo, ricoperto di sudore, polvere e untume, l’equipaggiamento mi penetra dolorosa­ mente nelle spalle, le piante dei piedi, misura 25,5 centimetri, sono pie­ ne di vesciche. Voglio bere dell’acqua. Voglio bere dell’acqua del rubinetto. Mo­ rirò così, colpito da un proiettile. Se torno a Tokyo nella scatola di legno chiaro5, fate scorrere per un po’ su di me l’acqua impetuosa del rubinetto. Mi sono disteso a pancia in giù su un argine e ho bevuto l’acqua della risaia. Nell’acqua si rispecchiava il cielo di primavera e nuotava­ no i girini. Continuo a camminare in silenzio, guardando dove metto i piedi. Già dopo pochi passi, sono in un bagno di sudore. Alzo gli occhi. La distesa infinita di fiori, il cielo limpido e azzurro e in mezzo una interminabile fila serpeggiante di soldati in cammino. È una scena bellissima. Ognuno dei soldati stringe i denti e sopporta in silenzio ogni sorta di stenti e privazioni. E in questa bellissima fila che avanza, ci sono anch’io. D’un tratto, sento una pulce sulla schiena. «Fin che c’è tempo, ab­ buffati quanto vuoi!». Morirò trafitto da un proiettile. Pian piano, il mio corpo si raffredderà. La pulce sicuramente si dirà che sono fred­ do. Senza il minimo rincrescimento, si separerà dal mio corpo e si tra­ sferirà su quello di un altro. All’improvviso, sento un indicibile affetto per questa pulce. Sicura­ mente lei avrà assistito da qualche parte alla morte di un mio compa­ gno d’armi e poi sarà venuta da me. Mi dico che finché lo spirito e le energie me lo consentono, farò tutto il possibile per portarla con me fino a Nanchang. •’ La colza è una pianta dal fiore giallo brillante (o bianco a seconda della varietà), colti­ vata come foraggio per animali, fonte di olio vegetale alimentare e come combustibile. ' Si veda supra, nota 12, in Fengxin, 5 aprile 1939, p. 154.

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Ora, due anni dopo essere tornato in Giappone, in un albergo di Chigasak? vicino al mare, sto incontrando notevoli difficoltà nello stendere la sceneggiatura del prossimo film. Nel mezzo della notte, una pulce mi tormenta. Accendo un fiam­ mifero sotto la zanzariera per cercare dov’è. Mi viene una forte nostal­ gia per quella scena stupenda con quella pulce a cui mi ero affezionato.

Sakè e sconfitta* Quando finì la guerra ero a Singapore nell’ufficio stampa dell’eser­ cito. Fra quelli che come me lavoravano all’interno degli uffici milita­ ri, già da vari giorni prima circolava la voce che la guerra sarebbe fini­ ta. Guardando fuori dalla caserma, nella città, che di solito sottostava a un severo oscuramento, si vedevano qua e là delle luci accese. Men­ tre pensavo che forse stava davvero per finire, arrivò il 15 agosto1. Questo evento, perciò, fu per me come una lunga dissolvenza e non un trauma improvviso. Ciò che però mi è rimasto impresso e che man mano che la scon­ fitta stava diventando un fatto evidente, tutti gli ufficiali erano infu­ riati e dicevano che se avessero perso la guerra si sarebbero tagliati il ventre2. Tagliarmi il ventre non mi andava, ma neanche potevo rimanere in vita soltanto io. Non avendo perciò altra scelta, mi procurai il sonni­ fero di produzione tedesca Veronal e pensai di prenderlo mescolato al sake, così, se fossi morto allegramente da ubriaco, sarebbe stato pro­ prio nel mio stile. Quando arrivò effettivamente la fine, però, il modo in cui si arre­ sero coloro che avevano minacciato a gran voce il suicidio, mi lasciò senza parole. Si arresero senza la minima resistenza, con la stessa fa< Si veda supra, nota 30, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 15. ’ Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», agosto 1960, 265. ' A mezzogiorno del 15 agosto 1945, l’imperatore Hiroito pronunciò alla radio il Re­ scritto imperiale sulla fine della guerra. Il discorso, diffuso in tutto l’impero giapponese, an­ nunciò la resa del Giappone alle forze alleate. La formalizzazione e la fine incondizionata delle ostilità avvennero poi il 2 settembre 1945 con la firma dell’Atto di resa da parte del mi­ nistro degli Esteri giapponese. : Come è noto, nella cultura giapponese, il taglio del ventre (seppuku, più noto in Occi­ dente come harakiri) c la forma rituale del suicidio dei samurai. Ancora nel 1970, lo scritto­ re Mishima Yukio, dopo il suo fallito tentativo di incitare le forze armate al colpo di Stato, si suicidò pubblicamente in questo modo.

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------------------ - -------«Vado un attimo in guerra e torno»

cilità con cui si gira una mano. Guardando quella scena, mi dissi che i giapponesi hanno una famigliarità con la sconfitta. Anche se allora si diceva che in tutta la sua storia il Giappone non era mai stato scon­ fitto, «È certo che nel nostro sangue scorre l’esperienza della scon­ fitta», mi dissi.

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IV.

«Un’arte ricca di varietà»

SCRITTI SUL CINEMA

L’internazionalizzazione del cinema giapponese’

Non vedo Fora che venga completato Atarashii tsuchi [La nuova terra, 1937] del dottor Fanck’. Il motivo è che è il primo film interna­ zionale prodotto in Giappone e spero che a partire da questa occasio­ ne le produzioni internazionali si sviluppino sempre più2. Nel nostro paese non esiste essenzialmente un sistema di produ­ zione cinematografica dotato di grandi capitali, per cui è impossibile soddisfare immediatamente le eventuali richieste; tuttavia sarebbe au­ spicabile che da più parti ci si impegnasse a portarle avanti. Questo, secondo me, non deve avvenire semplicemente sulla base della ristretta visione di promuovere le arti tradizionali giapponesi, ma piuttosto nell’ottica di far conoscere in maniera artistica attraverso il cinema i costumi, la natura della gente e la cultura del Giappone. Siamo nell’epoca del cinema sonoro e qualcuno si chiede se il fatto di non capire le parole giapponesi possa essere un ostacolo; non credo ci si debba preoccupare molto di questo, visto quanto piacciono ai no­ stri connazionali i film stranieri. Dobbiamo solo perfezionare al mas' Originariamente pubblicato in «Hòchi Shinbun», 17 dicembre 1936. ' Atarashii tsuchi è un film di Arnold Fanck c Itami Mansaku, uscito a Tokyo il 4 feb­ braio 1937, mentre 1‘articolo di Ozu è di poche settimane prima. Il film fu la prima co-pro­ duzione internazionale del Giappone con la Germania nazista (l’Asse Roma-Berlino-Tokyo sarebbe stato sottoscritto il T7 settembre 1940) e venne realizzato tramite le cure di Kawaki­ ta Nagamasa, maggiore importatore cinematografico giapponese di film occidentali, che ave­ va anche studiato in Germania. Cfr. Y. Tezuka, Japanese Cinema Goes Global: Filmworkers’ Journeys, Hong Kong University Press, Hong Kong 2012, p. 47. Durante la lavorazione, Ita­ mi c Fanck, regista di film di montagna molto legato al regime nazista, litigarono aspramen­ te, al punto che alla fine nei due paesi uscirono due diverse versioni del film, ognuna a firma di un singolo regista: quella giapponese con il titolo Atarashii tsuchi e quella tedesca con il titolo Die Tochter des Samurai [La figlia del samurai]. In Italia venne presentata la versione tedesca con il titolo Mitsucho la figlia del samurai. 1 Sul cinema giapponese nei paesi occupati e le coproduzioni internazionali negli anni trenta, si veda Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 148-58; Yomota, Storia del ci­ nema giapponese cit., pp. 953-62.

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simo la nostra tecnica, altrimenti non possiamo sperare che il cinema giapponese avanzi sulla strada dell’internazionalizzazione, perché at­ tualmente è del tutto emarginato dalla scena mondiale. È ora di buttarsi. Nello stesso tempo, ci dovrebbe essere un mi­ glioramento qualitativo del cinema giapponese. Come ho detto prima, però, ci sono innanzitutto dei problemi finanziari, mi rivolgo quindi a quegli imprenditori sensibili a questi aspetti. È da tempo che penso che nel nostro paese il costo dei biglietti del cinema sia un po’ basso. Si po­ trebbe attingere almeno in parte a quella fonte per finanziare la pro­ duzione dei film.

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SCRITTI SUL CINEMA

Il cinema giapponese da oggi in avanti*

Il cinema giapponese prima della guerra

Prima della guerra, in Giappone, i film stranieri, in particolare quelli americani, erano accolti con entusiasmo; gli intellettuali li ap­ prezzavano e non tenevano in considerazione i film giapponesi. Dalla metà degli anni trenta, però, anche tra i film giapponesi sono apparsi lavori eccellenti che sul piano della qualità hanno raggiunto un livello per cui possono ormai competere con quelli stranieri. Così, sono riu­ sciti ad attirare l’attenzione non solo delle masse, ma anche degli intel­ lettuali. Tuttavia, con l’evolversi della situazione politica, le importa­ zioni di film stranieri sono state sottoposte a restrizioni e poi proibite; dallo scoppio della guerra sono state vietate anche le proiezioni di tali film. D’altro canto, i film giapponesi, con l’entrata in vigore della leg­ ge sul cinema', sono diventati via via sempre più mediocri. Gli spetta­ tori, non potendo vedere altro, andavano lo stesso a vederli pur non essendo soddisfatti della situazione. Questa era la tendenza generale, ma va detto che anche in questo periodo, sfidando le tante condizioni avverse, sono usciti alcuni buoni film. Ciò che ha provocato il decadimento del cinema giapponese è stata sì l’insipienza di chi si occupava di cinema in Giappone, però credo an' Originariamente pubblicato in «Bunka Jiron», 11 gennaio 1946, 10, ripubblicato in Y. Ozu, Bokuwa tòfuyadakara tòfushika tsukuranai, Nihon Tosho Center, Tokyo 2010, pp. 115-22. «Bunka Jiron» era una rivista periodica realizzata in ciclostile dai giapponesi, fra cui Ozu, raccolti nel campo di detenzione di Jurong (Singapore) dopo la resa. Ozu partecipò at­ tivamente alla redazione della rivista. Cfr. Tanaka, Oz« Yasujirò lo senso cit., pp. 105-21. 1 La legge sul cinema (Eigahò) venne approvata il 5 aprile 1939 ed entrò in vigore il 1° ottobre 1939. Essa sancì un maggiore, se non totale, controllo dello Stato sull’industria cine­ matografica attraverso la censura delle sceneggiature, la regolamentazione della produzione e della distribuzione, la registrazione obbligatoria di registi, operatori e attori, la promozio­ ne di film propagandistici, documentari o di impronta realistica, detti anche «film culturali» (bunka riga), e l’obbligo di proiettarli in ogni sala. Per una illustrazione del funzionamento della legge e dei suoi sviluppi, si veda Novielli, Storia del cinema giapponese cit., pp. 101-4. Per l’indicazione del significato ideologico e delle figure che idearono ed effettivamente rea­ lizzarono la legge sul cinema, si veda High, The Imperial Screen cit., pp. 70-6.

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che che una delle grosse cause sia stata una cattiva applicazione della leg­ ge sul cinema. Originariamente, tale legge, che venne promulgata nel­ l’ottobre del 1939, aveva lo scopo di favorire un sano sviluppo del cine­ ma come mezzo per promuovere la crescita della cultura popolare na­ zionale, ma con la sua applicazione l’attività cinematografica diventò un mestiere sottoposto ad autorizzazione, per cui registi, operatori, attori furono costretti a sottostare a un sistema di registrazione obbligatoria. Inoltre, non solo vennero sottoposti a censura i film realizzati, co­ me era avvenuto fino ad allora, ma anche prima di iniziare le riprese le sceneggiature dovevano passare il vaglio della severa censura del mini­ stero dell’istruzione, del ministero degli Interni e delle altre autorità competenti. Anche se ciò era più che naturale dal punto di vista dello spirito della legge, la sua applicazione concreta produsse spesso dei ri­ sultati in contrasto con quello spirito. Per esempio, se si fosse voluto rappresentare il processo con cui un operaio beone senza spirito di fe­ deltà verso il proprio lavoro si rende conto della situazione di emer­ genza della patria, si pente improvvisamente e diventa un altro uomo, ecco, un film del genere non si sarebbe potuto fare. La censura, infat­ ti, avrebbe ritenuto che in un momento simile, un operaio beone, in­ fedele nei confronti del proprio lavoro, non doveva esistere. In questo modo, se si illustrava il bene in contrasto con il male, non veniva au­ torizzato. In altre parole, non si poteva rappresentare il bianco in con­ trasto con il nero, anche se il nero serviva solo per far risaltare più chia­ ramente il bianco; dato che l’uso del nero era vietato, si doveva espri­ mere il bianco usando solo il bianco. In questi termini, la Germania nazista, che pure aveva un sistema di controllo del potere statale ben più severo del nostro, era molto più tollerante. A ciò si deve aggiungere che gli uffici della censura, per evitare di ricevere richieste o critiche di qualunque tipo nei confronti del loro operato da parte delle varie autorità competenti, imponevano di loro iniziativa alle case di produzione di cambiare preventivamente le sce­ neggiature in modo che non ci fosse motivo per nessuna critica. La sceneggiatura è la mappa progettuale di un film ed è la materia prima per dar vita a un dato contenuto, ma i censori non erano in grado di prevedere cosa sarebbe uscito da questa materia prima. L’intervento sulle sceneggiature venne perciò usato molte volte come giustificazio­ ne o difesa preventiva per la possibile ingerenza delle varie autorità competenti. Questa mancanza di sensibilità nei confronti del cinema da parte dei funzionari della censura faceva sì che, com’è facile imma­ ginare, in molti casi le sceneggiature venissero modificate in peggio. 178

Il cinema giapponese da oggi in avanti

Per quanto riguarda il sistema di registrazione, con l’entrata in vi­ gore della legge sul cinema, tutti coloro che desideravano diventare re­ gisti, operatori, attori dovevano superare l’esame di competenza tecni­ ca e chi non lo superava non poteva lavorare. Io ero uno dei membri della commissione esaminatrice, quindi so bene di cosa parlo. Per esempio, nel caso degli attori, anche se l’aspetto fisico e la capacità re­ citativa venivano ritenuti idonei, se per l’esame di cultura generale il punteggio minimo per la promozione era, mettiamo, cinquanta punti e si prendevano quarantacinque punti, per soli cinque punti non si ot­ teneva il visto di approvazione come attore e si veniva bocciati. A pri­ ma vista ciò potrebbe sembrare logico ma penso che in realtà sia illo­ gico. In questo caso, la cultura generale necessaria per superare l’esa­ me poteva anche essere acquisita mentre si svolgeva effettivamente il lavoro. Ciò che è importante è valutare come idoneo uno che ha la stoffa per fare l’attore, per cui chiudere le porte in questo modo signi­ fica scambiare la cosa fondamentale con una secondaria. Questi non sono che alcuni esempi degli effetti negativi di un’erra­ ta applicazione della legge sul cinema. È sotto gli occhi di chiunque che tutto ciò ha portato nella direzione radicalmente opposta allo sco­ po iniziale di promuovere un sano sviluppo del cinema. Il cinema giapponese da oggi in avanti La legge sul cinema, comunque, ora è stata abrogata dal Parlamen­ to2. Almeno nella forma, il mondo del cinema è tornato allo stato di prima dell’ottobre 1939 ed è stato liberato dalle varie regolamentazio­ ni che lo limitavano. La censura verrà ora esercitata dal quartier gene­ rale di MacArthur e si spera che anche il cinema venga rivitalizzato al­ l’insegna della democratizzazione. Non credo però che, con l’attuale situazione degli studi e delle attrezzature, possano nascere subito ope­ re importanti. A Singapore ho visto più di cento film americani3. Per la maggior parte erano film fatti fra il 1938 e la prima parte del 1941 e ho pensato che le tendenze del cinema americano di quegli anni fossero proprio uguali a quelle del cinema giapponese dello stesso periodo. - La legge sul cinema venne abrogata formalmente il 26 dicembre 1945. Di fatto, aveva cessato di valere dal 16 ottobre 1945, con la pubblicazione da parte delle forze di occupa­ zione americane del «Memorandum Concerning Elimination of Japanese Government Con­ trol of Motion Picture Industry». Cfr. K. Hirano, Mr. Smith Goes to Tokyo: The Japanese cinema under the American Occupation, 1945-1952, Smithsonian Institution Press, Wa­ shington-London 1992, p. 39. ’ Si veda supra, nota 44, in Qualche parola sui miei film, p. 119.

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I film americani di questo periodo si possono dividere grosso mo­ do in tre gruppi: gli adattamenti di opere letterarie (bungei riga)4, i film che seguono le regole dello star system e i film a colori (technicolor), ma il fenomeno più interessante sono gli adattamenti di opere lettera­ rie. Per esempio, La via del tabacco (Tobacco Road, 1941), che ha avu­ to un enorme successo a teatro e poi è stato adattato per il cinema, op­ pure Furore (The Grapes of Wrath, 1940), il romanzo di Steinbeck da cui John Ford ha tratto l’omonimo film, appartengono a questa cate­ goria. Entrambi ritraggono in maniera estremamente realistica le con­ dizioni di vita miserabili, simili alle bestie, dei contadini poveri ameri­ cani e nei ruoli da protagonista non ci sono le cosiddette star, ma atto­ ri il più possibile anonimi. Nello stesso tempo, le commedie sofistica­ te, che una volta costituivano l’aspetto migliore del cinema americano, sono tramontate e il loro posto è stato preso dai film realistici. Questi, però, non vogliono semplicemente denunciare la cruda realtà della vi­ ta in America, ma sono animati da uno spirito di osservazione della realtà più profondo e costituiscono ormai la tendenza più importante. Peraltro, i film prodotti nell’ambito dello star system, dal punto di vista quantitativo continuano a sopravanzare di gran lunga quelli del­ la categoria precedente. Il cinema in technicolor è stato realizzato per la prima volta in Ame­ rica con l’impiego di capitali enormi e di straordinarie tecnologie scien­ tifiche5. La produzione di film in technicolor ha raggiunto numeri di­ screti ed è anche stata realizzata qualche opera eccellente, come Via col vento, che nel 1939 ha vinto l’Oscar. Anche fra i film di animazione in technicolor, pur non essendo film con attori, vi sono molte cose note­ voli. Dumbo o Fantasia per esempio. Fino adesso, comunque, i film a colori sono di solito film leggeri appartenenti allo star system e non vengono realizzati se non si prevedono incassi eccezionali6. 4 Per una analisi articolata del corrispondente ruolo dell’industria cinematografica giap­ ponese nel fenomeno degli adattamenti di opere letterarie e teatrali (bungei eiga) dal 1935 al 1941, si veda K. McDonald, From Book to Screen: Modem Japanese Literature in Film., M. E. Sharpe, Armonk 2000, pp. 17-45. ’ Il termine technicolor indica uno specifico processo di produzione integrale di un film a colori che venne definito nel 1916 e modificato e arricchito nel corso dei decenni. I legami con i centri di ricerca tecnologica risalgono alle origini del sistema technicolor. La società omonima che lo brevettò fu fondata nel 1914 da ex studenti del Massachusetts Institute of Technology (Mit), che ispirò anche il prefisso tech- del nome. Noto e apprezzato per i suoi colori saturi, è stato il processo a colori più utilizzato dal cinema hollywoodiano grosso mo­ do dalla metà degli anni venti alla metà degli anni cinquanta. 6 Per un lungo periodo iniziale il technicolor venne usato soprattutto per i musical e i film in costume con grandi attori, oppure per i film di animazione. Basti pensare, tanto per fare un esempio, che ancora nel 1945, Io ti salverò (Spellbound) di Hitchcock aveva alcune scene colorate a mano.

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11 cinema giapponese da oggi in avanti

Credo che ora, finita la guerra, anche i film giapponesi andranno probabilmente nella stessa direzione di quelli americani. Con l’impo­ verimento dovuto alla guerra e nel pieno del caos del dopoguerra, la gente vive in condizioni di estrema ristrettezza e temo che tanti arrivi­ no alla disperazione. In una situazione del genere, la tendenza princi­ pale dei film che verranno potrà mai avere una colorazione romantica che distoglie lo sguardo dalla realtà circostante? Io credo proprio di no. Mi ricordo che, dopo la prima guerra mondiale, nella Germania immiserita ed esausta, i movimenti culturali non erano inclini al ro­ manticismo e, al contrario, tendevano a rafforzare il loro orientamen­ to realistico di prima della guerra. Anche il cinema giapponese, d’ora in avanti, sarà caratterizzato soprattutto da quei film realistici che, sep­ pur non numerosi, al pari del caso tedesco, non distolgono lo sguardo dalla dura realtà, ma la affrontano con determinazione. E credo anche che questo tipo di realismo sarà ancora più radicale nell’andare a fon­ do dei problemi rispetto a quello di prima della guerra, non può non essere così. Prima di arrivare a questi lavori realistici, ci saranno pro­ babilmente molti film - commedie superficiali e improvvisate, film sensazionalistici - che approfittano della situazione caotica del dopo­ guerra, ma saranno solo fenomeni transitori che dovrebbero essere spazzati via dall’arrivo dei film realistici impegnati. La cosa che più mi interessa però è quanta luce positiva si possa infondere in questo realismo. È ovvio che tale luce non deve essere su­ perficiale. Deve essere sostenuta fino in fondo da uno spirito di osser­ vazione severamente realistico e anche tale spirito va ulteriormente rinvigorito. Oltre a questi film realistici di rilievo, ci saranno probabilmente film appartenenti allo star system. Gli spettatori erano dispiaciuti per il fatto che dall’inizio del periodo bellico il cinema aveva perso lo star system. Il cinema di intrattenimento, infatti, richiede bei ragazzi e bel­ le ragazze. Anche le star affermate dovranno naturalmente passare al vaglio della selezione. Credo che le star attuali saranno quasi tutte so­ stituite, ne verranno create delle nuove, lo star system verrà di nuovo adottato e si faranno di nuovo film con bei ragazzi e belle ragazze. Anche nel nostro paese erano in corso varie ricerche sui film a co­ lori ma prima di vederne l’esito è scoppiata la guerra ed è stata impo­ sta tutta una serie di restrizioni, con il risultato che fino a oggi non è stato realizzato nulla. Tuttavia, così come prima della guerra venivano noleggiate su licenza le apparecchiature della Western Electric per i film sonori, ora verranno noleggiate dalle aziende produttrici le at181

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trezzature per i film a colori e questo stimolerà ancor più la realizza­ zione dei film a colori anche in Giappone. Credo però che anche do­ po questi sviluppi continuerà la tradizionale produzione di film che utilizzano le tonalità del bianco e nero. Gli attuali film a colori hanno fatto notevoli passi avanti sul piano tecnologico ma il loro punto de­ bole è che non riescono ad esprimere le delicate sfumature delle parti buie della scena come riescono a fare i film in bianco e nero. Non a ca­ so, i più importanti registi americani non si sono ancora messi seria­ mente a fare film a colori. I film a colori mi fanno l’effetto di mangiare un tendon7 in una cio­ tola dai colori sgargianti. Noi, che ogni tanto amiamo mangiare le me­ lanzane in salamoia in una ciotola di porcellana decorata in blu8, con­ tinueremo ad amare il tradizionale film in bianco e nero. E credo sarà così fino a quando i film a colori non arriveranno a possedere una ca­ pacità espressiva perfetta9.

’ Si veda supra, nota 5, in Dingyuan, 24 marzo 1938, p. 134. * Riferimento alle porcellane bianche decorate con l’ossido di cobalto. Tale tecnica de­ corativa e stilistica venne sviluppata compiutamente in Cina nel XIV secolo e poi esportata in altri paesi. L’esempio di Ozu è un riferimento alla sensibilità estetica tradizionale di una certa raffinatezza. * Ozu farà il suo primo film a colori {Fiori d’equinozio) nel 1958, dodici anni dopo la scrittura del presente articolo.

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SCRITTI SUL CINEMA

Un film all’anno*

Se dovessi dire francamente che effetto mi fa la situazione attuale del cinema giapponese, direi: «Sebbene sia trascorso un anno dalla fi­ ne della guerra, se la prendono tutti comoda eh!». E questo vale sia per i contenuti dei film, sia per le case produttrici. Per esempio, quante nuove star sono state create? Per tanto che si dica, l’industria cinema­ tografica continua a essere incentrata sulle star e si devono formare in­ cessantemente nuove star dotate di talento. Adesso a Ofuna ci sono anche attori di cui non conosco la faccia, ma mi chiedo fino a che punto saranno effettivamente preparati. Fra quelli che conosco da tempo, lida Chóko e Yoshikawa Mitsuko sono sempre in forma, però sono rimasto sconcertato nel vedere che le trat­ tano come attrici da commedia. Io non le ho mai impiegate come at­ trici da commedia. Anche gli spettatori sono cambiati o, meglio, si dice che il livello degli spettatori si è abbassato, ma questa è la conseguenza negativa del fatto che durante la guerra sono stati fatti solo film che non si preoccupavanp minimamente di migliorare il livello degli spettatori. Allora che tipo di film si devono fare per questi spettatori? Tutto sommato, io vorrei offrire loro dei film con dei contenuti positivi. Anche se vi sono aspetti cupi, vorrei che l’angolazione da cui li si af­ fronta contenesse della luce. In realtà, sembra che molti siano contrari. Vanno bene anche i film di denuncia, ma ci devono essere un preciso atteggiamento critico e un’osservazione costante e severa della realtà. Anche se il pessimo stato delle attrezzature è una cosa che ci pena­ lizza, c’è gente che si preoccupa di rincorrere il ritmo incalzante dei film americani, ma secondo me non è il caso di curarsene troppo. Il rit­ mo dei giapponesi è naturalmente diverso da quello degli americani. Se si facesse l’impossibile per eguagliare a tutti costi il ritmo americano, il ' Originariamente pubblicato in «Tòkyo Shinbun», 22 luglio 1946.

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cinema giapponese non sarebbe più tale. Piuttosto, vorrei che ci fosse­ ro più passione e più serenità. E poi, il regista deve fare il regista. La messa in scena è solo una par­ te del suo lavoro. Anche recentemente, con Shimizu Hiroshi, Inoue Kintarò e Mizoguchi Kenji ci siamo detti che d’ora in avanti, approfit­ tando della nostra età, faremo solo i film che vogliamo. Per quanto mi riguarda, il mio prossimo film sarà pronto per fine anno o il prossimo anno e comunque riesco a fare al massimo un film all’anno.

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SCRITTI SUL CINEMA

Un’arte ricca di varietà"

Nel cinema, arte e industria non possono essere considerate due cose completamente distinte. Anzi, si potrebbe piuttosto dire che si tratta di realizzare opere artistiche nell’ambito dell’attività imprendi­ toriale. Nelle arti individuali come la letteratura o la pittura, l’aspetto artistico può esistere anche senza tener conto degli aspetti economici, ma per un’arte complessa e integrata come il cinema, anche quando si tratta di un film di alto livello artistico, sarebbe fuorviarne considera­ re solo l’artisticità senza tenere conto delle esigenze imprenditoriali. Al contrario, naturalmente, poiché il cinema non può assolutamente esistere come mero discorso commerciale, se le aziende che produco­ no film pensassero solo a fare profitti e se chi fa i film pensasse solo a realizzare opere d’arte senza preoccuparsi minimamente dei giorni che si impiegano e dei costi di produzione, ciò sarebbe dannoso per lo svi­ luppo del cinema stesso. Quando un regista gira un film, non pensa affatto di fare un pro­ dotto commerciale con un valore artistico. Mentre gira è compietamente preso dalla sua sensibilità artistica. Anche per me e i miei colle­ ghi è così. Credo però che nel processo di produzione di un film, ci debba essere un’integrazione tra la componente commerciale e quella artistica. Da questo punto di vista, non può mancare una reciproca comprensione fra chi produce il film e chi lo realizza. Fondamentalmente, non condivido il fatto che di solito un artista si autodefinisca tale con facilità. E inconcepibile parlare così con pre­ sunzione del proprio lavoro, come se si stesse realizzando un’opera d’arte o di alta cultura. A pensarci bene, credo che molti di coloro che sbandierano ai quattro venti che stanno realizzando o realizzeranno un’opera d’arte, in realtà usano la parola arte per giustificare le proprie insufficienze. Nell’attuale situazione produttiva del cinema giappone‘ Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», giugno 1948, 36.

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se, se si vogliono realizzare dei film di qualità artistica all’interno del discorso aziendale, occorre farli con un budget dato e con la collaborazione tra la produzione e chi realizza i film. Se in questa situazione non si riescono a fare dei buoni film, anche se si viene considerati sen­ za talento, pazienza. Questo mio atteggiamento a prima vista potrà sembrare troppo conciliante, ma bisogna capire che il cinema non si può realizzare solo con la carta, la penna e l’inchiostro, non si può ignorare che richiede dei capitali. Non è una cosa che si può fare su piccola scala a proprio pia­ cimento. Per fare un film sono necessarie molte persone che con que­ sto lavoro ci vivono e notevoli attrezzature, quindi ci vogliono molti soldi; se i film, una volta realizzati, non portano perciò profitti, l’impresa-cinema non regge. Naturalmente, se avessi un mucchio di soldi, anche a me piacerebbe provare a fare dei film a mio piacimento, ma in realtà il cinema esiste solo come attività imprenditoriale e quindi si de­ ve fare del proprio meglio all’interno di questa dimensione. Se poi non viene fuori una cosiddetta opera d’arte, va bene lo stesso. Vorrei che i film fossero essenzialmente delle cose piacevoli da guardare. A pretendere che ogni film debba essere un’opera d’arte se­ riosa, non si finirebbe forse con il limitare la varietà stessa del cinema? Considerando l’attuale situazione del cinema giapponese, non si ri­ schierebbe di concentrarsi troppo su una cosa sola? Si dice spesso che lo si fa in nome dell’arte, ma a me sembra che si parli dell’arte in ma­ niera troppo confidenziale. Si dovrebbe avere un maggior timore. La vera arte è una cosa più elevata e i veri artisti hanno verso di essa una maggiore soggezione. Per fare un’opera di valore artistico bastano for­ se solo denaro e giornate di lavoro in quantità? L’arte non è questo. Occorre riflettere molto a fondo sul valore artistico del cinema come attività imprenditoriale e, partendo da questo presupposto, trovare il modo per fare buoni film. L’arte cinematografica, qualunque ne sia la forma, se non è realiz­ zata imprenditorialmente non può esistere. Sarebbe opportuno che i produttori, al pari di quanto avviene in America, pensassero a conte possano esistere film con un valore artistico all’interno di un discorso commerciale. Invece, nel recente caso della Toho1, si è andati incontro ' La «democratizzazione» imposta dall’alto dalle forze di occupazione americane con­ dusse anche alla nascita dei sindacati in diversi settori, incluso quello del cinema. Unioni dei lavoratori vennero create nelle principali case di produzione e, in particolare alla Toho, fu­ rono molto agguerrite. Nel 1946-47, anche a causa del fatto che la Toho venne scelta dal sin­ dacato nazionale come terreno di prova per lo scontro sociale in vista di un futuro sciopero generale, gli scontri si inasprirono e condussero a un progressivo ingresso dei sindacati nel-

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al fallimento perché i produttori, che sono i responsabili effettivi della realizzazione di film di qualità, non erano persone capaci. Chiunque è in grado di capire che, se si guarda all’attuale situazione, non basta di­ re: «I produttori non capiscono l’arte. Ciò che noi vogliamo realizza­ re e che realizzeremo sono opere d’arte. Anche se l’azienda fallisce, ba­ sta che noi possiamo realizzare opere d’arte. Se possiamo fare dei film di qualità non c’è problema». D’altra parte, non si può assolutamente sostenere che basta solo guadagnare dei soldi. I film del tipo che ha fat­ to la Toho si potevano fare senza finire in bancarotta, quindi è stato il management a essere incapace. Se guardiamo la gestione della Toho e la confrontiamo con quella di un’altra casa di produzione come la Shochiku, vi sono notevoli diffe­ renze di cifre. La Toho sta proprio facendo tanto, mi dicevo sorpreso all’inizio. Mi sembrava incredibile che potesse andare avanti con quel livello di spese e quei tantissimi giorni di lavorazione. E infatti, come pensavo, non ce l’ha fatta. A differenza di quanto accade in America, da noi il mercato è ristretto e quindi se ci si mette a fare film lunghi più di diecimila piedi2 uno dopo l’altro, è ovvio che si va incontro al fallimen­ to. A pensarci adesso, mi vien da dire che la Toho era in una situazio­ ne di piena anarchia. Entrambe le parti [la proprietà e i sindacati] han­ no sbagliato a non darsi subito da fare per trovare una soluzione. Tut­ tavia, anche dal punto di vista umano, non posso essere d’accordo con il loro modo di risolvere il problema adesso licenziando... Tenuto conto delle attuali condizioni della produzione cinemato­ grafica, se consideriamo quei film della Toho lunghi più di diecimila piedi, credo che si sarebbero potuti realizzare bene con settemila pie­ di. Ci sono troppe cose superflue. Se mi si dice che i film realizzati con quell’abbondanza eccessiva sono artistici, allora non posso fare altro che star zitto. Probabilmente anch’io alla Shochiku faccio dei film po­ co redditizi commercialmente, ma almeno seguo il più possibile le in­ dicazioni della direzione e come regista cerco di tenere in considera­ la gestione della produzione. Nell’aprile del 1948, in seguito alla decisione del nuovo ammi­ nistratore delegato di licenziare 1200 persone, i sindacati interni, guidati dalla componente comunista, procedettero all’occupazione degli studi e al controllo definitivo della produzio­ ne. La battaglia si chiuse nell’agosto del 1948 (quindi dopo il momento in cui Ozu scrisse il presente articolo) con l’evacuazione degli occupanti da parte della polizia e dell’esercito ame­ ricano. La Toho rimase segnata dalle perdite economiche dovute alla politica gestionale de­ gli occupanti e sospese addirittura la produzione, limitandosi per qualche tempo all’affitto degli studi e alla distribuzione di film di altre case. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 164-71. •’ Il piede (foot) è un’unità di misura in uso negli Stati Uniti e corrisponde a 0,3048 me­ tri. Mille piedi (circa 305 m) corrispondono a circa 11 minuti di film e 10000 piedi a circa 110 minuti.

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zione gli interessi dell’azienda. Questa intesa in fin dei conti non è al­ tro che la completa fiducia reciproca tra persone, credo non sia im­ possibile discuterne insieme e trovare un accordo. Non conosco le co­ se in dettaglio ma ho la sensazione che il caso della Toho sia partito fin dall’inizio da conflitti personali, probabilmente i legami tra le varie persone non erano abbastanza profondi perché si tratta di un gruppo di persone tutto sommato raccogliticcio. I punti di vista di entrambe le parti sono abbastanza comprensibili. Il cinema giapponese non è ancora arrivato al livello di poter im­ porre al pubblico film solo per la loro qualità artistica ed è per questo che le case produttrici, che siano la Nikkatsu o la Tòkyo Hassei o la Daiichi Eiga, hanno sempre avuto difficoltà quando lanciavano un film di qualità. Anche per la Toho è stato così, ma in quel caso ha fat­ to buoni film ed è fallita, è una cosa inconcepibile. Secondo me, la cosa migliore è avere uno sguardo lungimirante e, fa­ cendo sia film di qualità sia film più di cassetta, cercare progressiva­ mente di educare il pubblico e nello stesso tempo migliorare la qualità dei film. Adesso non ha senso litigare a proposito dell’arte. Tutti vo­ gliamo far migliorare il cinema giapponese rapidamente, ma questo non significa che si debba sbandierare l’arte a ogni piè sospinto. In questo senso, mi auguro che anche l’azienda accetti la proposta del sindacato dei lavoratori della Toho di realizzare per quest’anno ventotto film’. Anche se ci sarà qualche titolo messo solo per fare numero, in ogni mo­ do mi pare positivo che abbiano fatto questa proposta pensando alla componente artistica all’interno di un discorso commerciale. L’insistenza dei sindacati nel presentare come prodotti artistici film che hanno impiegato un numero di giorni di lavorazione eccessivo ha finito per essere controproducente. A forza di invocare sempre l’arte, si diventa condizionati e si finisce per far diminuire il valore dell’arte stessa, è proprio una stupidaggine. A insistere nel fare un’opera d’arte, si finisce solo per affermare che l’arte richiede soldi e tempo ma non fa guadagnare niente. Film di valore artistico... dovrebbero essere una cosa piacevole che si può realizzare all’interno dell’attività imprenditoriale e che dovreb­ be essere aperta a tutte le possibilità. ’ Il numero di film realizzati in un anno delle case produttrici giapponesi del periodo era più alto, per cui 28 film sembravano pochi, ma nel 1946 (primo anno dello sciopero) la Toho fece solo 18 film e nel 1947 i sindacati imposero la produzione di 13 film, considerati tutti di qualità (mentre la Shochiku, con lo stesso numero di occupati, ne fece 42). In realtà, nel 1948, anno in cui scrive Ozu, la Toho riuscì a produrre solo 4 film, per poi decidere di abbandonare la pro­ duzione per qualche tempo. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 168-71,235.

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SCRITTI SUL CINEMA

L’abuso dello star system

Lo star system è da sempre considerato come uno dei sistemi tipi­ ci della produzione cinematografica. Se prendiamo il Motion Picture Almanac', vediamo che si parla della popolarità delle star attraverso un sondaggio fatto presso i gestori delle sale cinematografiche di tutto il paese che dice, per esempio, chi erano le money making star2 nel 1947 o nel 1948. Per anni, al primo posto c’è sempre stata Shirley Temple e ciò significa che la popolarità degli attori considerata dal punto di vi­ sta degli incassi delle sale è una voce che ha estrema importanza per le decisioni dell’industria cinematografica. Il fondamento dello star system trae origine proprio da questo fat­ to e anch’io ho sempre pensato che fosse naturale poiché i film sono prodotti da imprese private. In altre parole, visto che è la popolarità delle star ciò che attira le masse, un film non può ignorare questa gran­ de risorsa, a meno che non sia realizzato da un particolare produtto­ re3. In realtà, lo star system esisteva già nel mondo del teatro sia in Oc­ cidente sia in Oriente prima della nascita del cinema. In Giappone, in particolare, il teatro kabuki ha sempre avuto marcatamente questa ca­ ratteristica. Il cinema ha preso la forma della recitazione drammatica, gli attori sono diventati indispensabili e di conseguenza è diventato un mondo simile a quello del teatro, così anche nel cinema è nato lo star system. Tuttavia, le differenze che derivano dalla storia e dalle rispet­ tive tradizioni sono notevoli e fanno sì che lo star system nel cinema e nel teatro siano sostanzialmente due cose molto lontane fra di loro. 'Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», aprile 1949, 55. 1 Annuario di riferimento per informazioni, dati e notizie dell’industria cinematografica americana e delle persone che ruotano intorno a essa. Fondato nel 1928 da Martin J. Qui­ gley, continua le sue pubblicazioni tuttora. 1 Riferimento al sondaggio che viene fatto ancora oggi e si chiama Top len Money Making Stars. ' Il riferimento implicito è alla produzione associativa, istituzionale o statale, ma co­ munque non guidata da motivi commerciali, di un film.

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Nel caso del cinema, la comparsa di una star non avviene in un luo­ go circoscritto, una star può nascere da qualunque parte. Da questo punto di vista, il cinema è davvero un ambiente aperto e non ha bar­ riere. È una buona cosa poter scegliere liberamente un attore per la sua faccia o per il suo carattere, ma proprio per questo, una volta diventa­ ti star, molti di loro non pensano più a studiare per migliorarsi e si fan­ no l’idea sbagliata di essere arrivati in cima da soli. In confronto, nel mondo del teatro, per arrivare al livello di attore protagonista c’è una lunga scala da percorrere che richiede molto tempo, per cui non si può in qualunque momento entrare e salire facilmente in cima. In partico­ lare nel mondo del kabuki, dove permangono famiglie storicamente dominanti e regole tramandate rigorosamente dal passato feudale, non si può fare liberamente carriera. A fronte di questi difetti, però, gli at­ tori hanno uno spirito appassionato per migliorare la propria arte e si dedicano anima e corpo allo studio fino a quando non raggiungono una capacità riconosciuta. Per questo, quando finalmente diventano star, sono in genere artisticamente maturi. Questa è una differenza molto importante rispetto alle star del ci­ nema. La forza dello star system del teatro sta in questo, mentre non mi sentirei di dirlo con altrettanta tranquillità per il cinema. Tuttavia, non sto affatto dicendo che gli attori del cinema non pos­ sono diventare delle star se non sono maturi artisticamente. Se dicessi una cosa del genere, vorrebbe dire che le star giovani non potrebbero più comparire sugli schermi. A differenza del teatro, nel cinema sono molti coloro che diventano star anche se non hanno ancora raggiunto la maturità artistica. Shirley Temple ne è un esempio. Ciò che però vo­ glio sottolineare è che è pericoloso quando le giovani star si sentono piene di sicurezza e dormono sugli allori. A pensarci su, le star sono un fenomeno davvero curioso. Soprat­ tutto quelle del cinema, come ho detto prima, vengono osannate dalle masse non per la loro bravura come attori. Più che per la capacità re­ citativa o la sensibilità artistica, conquistano la popolarità di massa per la loro faccia o per qualche caratteristica innata. In altre parole, se un attore ha un volto o un tratto del carattere che per un qualche motivo incontra i gusti del tempo, quando ciò combacia perfettamente con i sogni delle masse e risponde alla sensibilità contemporanea, raggiunge una popolarità che probabilmente neanche lui avrebbe immaginato. Questa popolarità non è certo la stessa cosa della venerazione che si ha nei confronti di un grande artista. E dovuta piuttosto alle passio­ ni delle masse, ai loro gusti e al fascino degli idoli. L’industria cinema­ 190

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tografica, poi, cerca di sfruttare questo fenomeno, perché questo è ciò che interessa alle masse che vanno al cinema. Le masse sono attratte da quel certo fascino inspiegabile che emana la figura di una star. A se­ conda dei casi, può essere la grazia di una giovane innocente, la sen­ sualità di una donna matura, la toccante compostezza di una donna malinconica, oppure un bell’uomo allegro e gioviale, o dolce e gentile. O ancora, il fascino di un raffinato intellettuale, l’incarnazione della barbarie o un simbolo di decadenza. Comunque sia, di solito uno di questi tipi incontra i «gusti» della gente. La popolarità di Mori Masayuki4 dopo Anjòke no butòkai’ ne è un esempio, così come il fatto che con L’angelo ubriaco^ Mifune Toshirò all’improvviso ha cominciato ad attrarre l’attenzione del pubblico. Detto in maniera radicale, anche questo è vicino all’idolatria di massa. D’altra parte, se devo dire cosa penso come regista di questo siste­ ma incentrato sulle star, non ho intenzione di negarlo del tutto. Cer­ tamente, gli eccessi dello star system non vanno bene, ma credo sia più che naturale riconoscere loro una certa importanza. In breve, un film con una star è una garanzia dal punto di vista commerciale. Cionono­ stante, io non intendo appoggiarmi a questo sistema. Penso di saper fare film anche senza star, ma se ci sono non mi di­ sturbano certo, anzi, è una cosa comoda, molte star hanno uno spirito collaborativo e anche in questo senso, quindi, le accolgo a braccia aperte. In particolare, mi trovo benissimo a lavorare con le star che sanno recitare e sono dotate di una forte sensibilità, con alcune di loro ho già lavorato più volte. Le difficoltà nascono quando ci viene impo­ sta una star creata solo per uno scopo commerciale temporaneo, ma se ha del talento, non c’è nessun problema. Se parliamo di saper recitare, va detto che in molti casi la durata della vita artistica di una star dipende proprio da questo. Per tanto che un attore incontri i gusti dell’epoca e sia osannato dalla gente, se non sa recitare bene, il pubblico si stuferà senza che lui abbia neanche il • Mori Masayuki (1911-1973), attore giapponese molto noto nel dopoguerra. Recitò in moki film dei più importanti registi giapponesi dell’epoca. In particolare, si ricorda anche in Occidente per le sue interpretazioni in Rashòmon di Kurosawa e 7 racconti della luna palli­ da d'agosto di Mizoguchi. s Anjòke no butòkai [Il ballo di casa Anjó], regia di Yoshimura Kòzaburó su soggetto di Shindò Kaneto, 1947. Storia della decadenza di una famiglia della nobiltà in cui le uniche per­ sone attive sono le donne, mentre gli uomini, Mori Masayuki, in particolare, si lasciano vi­ vere mollemente nel declino e nella decadenza. * L'angelo ubriaco (Yoidore tenshi), di Kurosawa Akira, 1948. Miglior film dell’anno se­ condo la classifica di «Kinema Junpó». Fu il film con cui iniziò la lunga collaborazione tra Kurosawa e Mifune.

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tempo di rendersene conto. Per un attore, le cose più importanti sono la capacità di recitazione e la maturità artistica. A cominciare dalle star, la condizione fondamentale per tutti gli attori è il non venire mai me­ no all’impegno assiduo per migliorare le proprie capacità, ma se guar­ do il mondo del cinema giapponese attuale, mi chiedo quanti siano gli attori che si comportano in questo modo. È una situazione sincera­ mente preoccupante. Come se non bastasse, la maggior parte delle star si crogiola nella propria popolarità momentanea, trascura lo studio per migliorarsi ed è sempre indaffarata a strappare contratti più vantaggiosi, non facendo altro che correre freneticamente da un produttore all’altro. È una co­ sa proprio deplorevole. Ci sono registi a cui non piace utilizzare le star. Evitando l’uso di star affermate, possono organizzare il cast con attori selezionati fra gli esordienti in gamba, ma i loro progetti non potrebbero funzionare se non avessero una forte fiducia in se stessi e non ci fosse una solida pia­ nificazione. Dal punto di vista degli incassi i loro film rischiano mol­ to. Se però hanno successo, possono anche diventare opere decisa­ mente originali che fanno epoca e il regista potrà raccogliere i frutti delle sue aspirazioni, quindi non c’è dubbio che possa valerne la pena. I bambini dell'alveare di Shimizu Hiroshi è un esempio riuscito di co­ me si possano raggiungere dei buoni risultati in questo modo7. Fra i registi che non vogliono usare le star, ce ne sono molti che in genere tendono a fare dei film semi-documentari. Questo perché, in parte per la natura stessa del tipo di film, se apparisse una star affer­ mata guasterebbe l’impressione vissuta dal pubblico. La vividezza ti­ pica dei semi-documentari richiede che i film di questo genere, in cui non si monta neanche il set, diano la sensazione di vivere l’atmosfera del luogo in cui avvengono effettivamente i fatti narrati. Di conse­ guenza, anche i personaggi non funzionerebbero se entrassero in sce­ na con la faccia di una nota star dello schermo. Poiché è meglio che ’ In questo film, Shimizu, uno dei registi giapponesi che più hanno posto i bambini al centro della loro opera e che dopo la guerra addirittura contribuì finanziariamente alla crea­ zione di un orfanotrofio, descrive la terribile condizione di dieci orfani di guerra che, so­ pravvivendo con espedienti di ogni tipo, vagano per il Giappone guidati da un reduce alla ri­ cerca di un luogo in cui poter vivere. Il film, prima produzione indipendente di Shimizu do­ po l’uscita dalla Shochiku, costituì una grossa novità per il cinema giapponese per l’uso di at­ tori non professionisti. Il successo fu tale da dare origine nel 1951 a un seguito dal titolo So­ no go no bachi no su no kodomotachi [I bambini dell’alveare: che cosa è accaduto dopo] e an­ cora nel 1952 a Daibutsusama to kodomotachi [I bambini e la statua di Buddha], entrambi diretti da Shimizu. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., p. 192; A. Jacoby, A Cri­ ticai Handbook ofJapanese Film Directors. From the Silent Era to the Present Day, Stone Bridge Press, Berkeley 2008, pp. 268-73.

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gli attori siano il meno possibile conosciuti al pubblico, la scelta del cast avverrà seguendo questo criterio. Utilizzando attori sconosciuti si crea un’atmosfera più autentica. Il successo di La città nuda*, per esempio, è dovuto secondo me all’attuazione senza sbavature di que­ sta impostazione. Infatti, noi non conosciamo nessun altro oltre a Barry Fitzgerald. Per questo, nei film semi-documentari non si impiegano star cono­ sciute. Questo non vuol dire però che le star non siano adatte per i film semi-documentari. A seconda dei ruoli, ci sono anche casi in cui sono necessarie. Di solito, però, vengono impiegati soprattutto esordienti non conosciuti. C’è poco da fare, nei film semi-documentari ciò che conta è il regista e quindi lo star system con essi c’entra poco. Tornando di nuovo al discorso sulle star, credo che uno dei difetti del cinema giapponese sia il fatto che attualmente nessuno stia seria­ mente pensando a come creare nuove star. C’è una competizione ac­ canita per fare un film con delle star affermate e si fa di tutto, persino strisciare, pur di accaparrarsele, ma questo riguarda le star che già og­ gi garantiscono il successo al botteghino, senza prestare la minima at­ tenzione alla formazione di quelle che dovrebbero essere le figure por­ tanti del cinema giapponese di domani. Se si va avanti così, si arriverà alla terribile situazione in cui, da un lato, l’attuale utilizzo selvaggio ro­ vinerà le star esistenti e dall’altro non si sarà più in grado di crearne di nuove. È una cosa inevitabile. Nel giro di cinque o sei anni, nel cine­ ma giapponese non ci sarà più neanche l’ombra di una star degna di questo nome. Penso che nel mondo del cinema si debba riflettere mol­ to seriamente su questo aspetto. A questo proposito, straordinario era Kido Shirò9, il direttore degli studi di Ofuna di una volta10. Veniva addirittura chiamato «il re dei creatori di star» e aveva una lungimiranza e un talento per la loro for­ mazione incredibili. Sapeva bene come addestrarle fra gli esordienti e crescerle fino a far raggiungere loro una posizione. A quell’epoca, suc’ l^a città nuda (The Naked City), di Jules Dassin, Usa, 1948. Il film è per metà un ri­ tratto documentario della città di New York e dei suoi abitanti e per metà fiction incentrata sulla caccia all’assassino di una modella da parte dei detective della polizia, uno dei quali è impersonato dall’attore Barry Fitzgerald. Girato completamente in esterni, vinse due Oscar (fotografia in bianco e nero e montaggio). ’Kido entrò nel management della Shochiku nel 1924 e ne diventò poi presidente, gui­ dandola fino alla fine della guerra. Processato dalle forze di occupazione americane come cri­ minale di guerra per il contenuto propagandistico dei film prodotti durante il periodo belli­ co, venne poi riabilitato e nel 1953 tornò alla Shochiku. Ozu ne parla al passato poiché scri­ ve nel 1949, quando non si sapeva ancora del suo ritorno. 13 Si veda supra, nota 3, in Piatto di riso con curry, p. 6.

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cedeva molto spesso che le altre case di produzione sottraessero le star agli studi di Ofuna, ma per quante ne sottraessero, lui, senza perdersi d’animo, continuava imperturbabile a crescerne di nuove. Questa sua capacità va davvero apprezzata. In genere, quando si promuove un esordiente, la cosa migliore è di lanciarlo insieme a una star solida­ mente affermata. E più sicuro e riscuote popolarità più in fretta. Inol­ tre, il segreto è di assegnargli una parte che susciti compassione anzi­ ché antipatia. Specialmente se si tratta di un’attrice, funziona bene se la prima volta le si assegna il ruolo della sorella minore o di qualcuno che sta dalla parte della star che interpreta la protagonista. Agli spettatori risulterà simpatica quella giovane che sostiene la loro beniamina. È in questo modo che l’esordiente, recitando quel ruolo altre volte, verrà a piacere al pubblico. Kido creava così le nuove star. Anche molte attrici che oggi hanno un nome hanno cominciato facendo la parte della sorella minore di Kurishima Sumiko". Inoltre, Kido proponeva ai registi di inserire gli esordienti nel cast per qualche ruolo minore che andasse bene per lo­ ro ed essi accettavano di buon grado. Oggi, invece, anche se glielo si propone, non accettano facilmente. A differenza del passato, ora i re­ gisti lavorano con un sistema contrattuale per cui ogni singolo film è decisivo e non vogliono perciò avventurarsi in nulla che sia al di fuori delle loro intenzioni iniziali. Per ottenere la garanzia del successo al botteghino vogliono poter scegliere il più possibile tra star già affer­ mate. In ultima analisi, anche questa è una ragione per cui non nasco­ no nuove star. Considerando queste cose, penso si debba prestare più attenzione alla formazione delle nuove star. In sostanza, se vengono a mancare le retrovie, le imprese cinematografiche perdono la loro risorsa più im­ portante. Non ci tengo particolarmente al mantenimento dello star sy­ stem. Ma è una cosa triste immaginare il cinema giapponese di doma­ ni desolatamente spoglio di star.

" Su Kurishima Sumiko si veda supra, nota 13, in Qualche parola sui miei film, p. 109.

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Sono uno all’antica../

Siamo nel 1950 ma a me non sembra che ci sia granché di nuovo. Le cose il cui valore permane nel tempo sono sempre nuove, mentre le mode come le gonne lunghe o altre cose simili di cui è pieno il mondo sono solo fenomeni passeggeri. Un fenomeno non passeggero... quel­ la sarebbe una cosa veramente nuova, però, visto che tutti guardano solo i fenomeni passeggeri dicendo vecchio o nuovo, allora quest’an­ no voglio dedicarmi apposta a ciò che è considerato vecchio. Sicuramente le attrezzature tecniche degli studi verranno rinnova­ te e questo è il mio primo desiderio. Il sentimento con cui guardo le macchine da presa che utilizziamo attualmente negli studi è lo stesso di chi, ridendo, guarda arrancare per la città un’auto tutta scassata e in­ vidia i nuovi modelli di auto straniere. Da questo punto di vista è fon­ damentale che gli studi cinematografici del nostro paese vengano do­ tati prima possibile di nuove macchine da presa e nuovi impianti di re­ gistrazione sonora. Dicono spesso che i film giapponesi hanno una gamma di temi ri­ stretta, ma questo è inevitabile perché è il Giappone a essere ristretto. L’industria cinematografica stessa dovrebbe svilupparsi in maniera so­ lida e dovrebbe assicurare a sceneggiatori e registi un’adeguata base economica. Per quanto mi riguarda, certo, anche trovare nuovi temi c impor­ tante, ma soprattutto penso di poter fare dei film migliori con i miei ingredienti consueti. Quest anno farò ogni sforzo per realizzare un’o­ pera di livello superiore. Sono già passati cinque anni dalla fine della guerra e anche la capa­ cità critica degli spettatori è aumentata. Per rispondere all’innalzamen­ to del livello del pubblico bisogna innanzitutto fare dei buoni film. Se c’è un buon film, gli spettatori arrivano di sicuro. Per i film che valgo' Originariamente pubblicato in «Yomiuri Shinbun», 1° gennaio 1950.

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no bisogna quindi assolutamente introdurre già da adesso il sistema della programmazione delle proiezioni di lungo periodo, così la qua­ lità dei film in generale migliorerà sicuramente. Anche le case produt­ trici dovrebbero rendersi conto che gli spettatori sono ormai stufi di come è stata gestita la distribuzione fino a ora, come se si volessero pe­ scare i carassi1 usando come esca sempre solo lombrichi. Per quanto riguarda invece gli esordienti, sia registi sia attori, il pro­ duction system12 attualmente esistente nel nostro paese tende a impedi­ re che emergano, ed è quindi fondamentale che le aziende cinemato­ grafiche riflettano su cosa fare affinché i produttori possano intra­ prendere fin da subito strade più coraggiose a favore degli esordienti.

1 Pesce d’acqua dolce, con lunghezza media di 20-30 cm e peso medio di 3-4 hg, molto simile al pesce rosso selvatico e in parte alla carpa (da cui si distingue però per la mancanza assoluta di barbigli). 2 II riferimento è al sistema di produzione dei film in cui chi prende le principali deci­ sioni, dalla scelta degli attori alla sceneggiatura e fino alle singole scene, è il produttore e non il regista. In quanto tale, si contrappone al director system, di cui la Shochiku, sotto la guida del produttore Kido Shirò, è stata per decenni il modello (e Ozu ne è stato l’emblema). Cfr. Schilling, Shiro Kido: Cinema Shogun cit.

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«Kinema Junpò»’

Sarà una trentina di anni fa che cominciai a leggere «Kinema Junpó». Non posso che felicitarmi per il fatto che abbia raggiunto i qua­ rantanni di attività. Credo che in tutto il mondo non ci sia probabil­ mente un’altra rivista di cinema che continua ininterrottamente da quarantanni. Ciò che personalmente trovo molto utile è il suo valore di documentazione. Quando penso a un film, anche di quattordici o quindici anni fa, e mi dico: «Ma com’era la storia?», se tiro fuori «Ki­ nema Junpò» di quel periodo lo posso trovare e questa è una cosa di cui bisogna essere riconoscenti. Credo sia davvero una caratteristica degna di nota, più delle critiche a cui non posso dare molto peso. Vor­ rei che anche in futuro venisse rafforzato questo aspetto. La classifica dei Best Ten, poi, è di anno in anno sempre più in vi­ sta. Inizialmente forse era troppo onesta e poiché i film prescelti era­ no un fiasco dal punto di vista commerciale, le case di produzione non gradivano molto il riconoscimento. Ora, invece, con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, questo tipo di notizia viene diffuso ovunque e i film considerati migliori dalla classifica stanno venendo a coincidere con quelli di maggior successo commerciale. Nel mio caso, i film che sono entrati nei Best Ten sono relativamente numerosi e questo una volta mi creava dei problemi. Quando i miei film sono sta­ ti per tre anni di fila al primo posto1, avrei voluto sprofondare sotto­ terra. Alla Shochiku, infatti, mi dicevano che facevo solo film artistici perché arrivassero primi nella classifica dei Best Ten, ma che non gua­ dagnavano niente. ‘ Originariamente pubblicato in «Kinema Junpò», luglio 1958,208. ' 1 film cui fa riferimento Ozu sono: Sono nato, ma... (1932), Capriccio passeggero (1933) e Storia di erbe fluttuanti (1934). Successivamente, un film di Ozu risultò primo nella clas­ sifica per altre tre volte: Fratelli e sorelle della famiglia Toda (1941), Tarda primavera (1949) e II tempo del raccolto del grano (1951).

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Hara Setsuko, una straordinaria intelligenza*

Faccio film da più di vent’anni, ma è raro che un’attrice capisca in profondità ciò che intendo e reciti in maniera superba come Hara Set­ suko (ill. 13). La sua gamma espressiva è ristretta» però è un tipo di at­ trice tagliata per certi ruoli, che sviluppa in profondità. Per esempio, c’è chi arriva a dire «Hara Setsuko è un disastro» perché con la sua fac­ cia e la sua personalità non riesce a interpretare una donna che urla, o una piccola bambinaia o la padrona di un locale. Credo tuttavia che in quei casi sia piuttosto il regista a rivelarsi incapace, non rendendosi conto che lei non è adatta per quei ruoli. Un film dipinge le persone e quindi devono emergere l’intelligen­ za e la cultura anche nei personaggi. In questo senso, si può dire che il modo di recitare di Hara abbia un contenuto profondo. Naturalmen­ te, se si sposasse verrebbero fuori altri lati diversi... «Hara Setsuko piace solo ai giapponesi», dicono i critici. Questo è un eccellente commento, una cosa molto positiva. Ritengo infatti senza complimenti che lei sia la migliore attrice ci­ nematografica del Giappone.

’ Originariamente pubblicato in «Asahi Geinó Shinbun», 9 settembre 1951.

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La grande intuitività di Hara Setsuko e Takamine Hideko*

Se un regista straniero venisse a girare un film in Giappone sareb­ be importante per molti motivi e, dal nostro punto di vista, sarebbe particolarmente auspicabile perché spingerebbe a migliorare le attrez­ zature degli studi. Per questo, sarebbe opportuno se venissero registi di prim’ordine. Ho sempre seguito Kurosawa e mi piace molto Cane randagio (Nora inu, 1949). Ultimamente, però, sono un po’ preoccupato che Kurosawa possa ripetere lo stesso errore di Uchida Tomu. Tomu ha fatto parecchi film eccellenti ma, continuando a speri­ mentare sempre qualcosa di nuovo, è diventato troppo teorico e ha fi­ nito, secondo me, per accanirsi a fare film poco interessanti. Fra le attrici che hanno lavorato con me, le migliori sono Hara Set­ suko e Takamine Hideko1. Entrambe capiscono esattamente ciò che intendo e lo eseguono con naturalezza. Takamine, adesso, ha un’età un po’ scomoda, per cui risulta difficile capire se è meglio utilizzarla co­ me ragazza o come donna. Per Hara Setsuko, invece, è palese come ci siano ruoli che le vanno decisamente bene e ruoli che non le vanno be­ ne affatto. Se la si utilizza come ha fatto Kurosawa2, penso che non venga fuori il suo lato migliore. Se si guardano le attrici sul lungo periodo, si può dire che se un’e­ sordiente sta sempre per conto suo, diventerà brava. Se invece sta sem­ pre con qualche amica con la quale va ovunque e fa qualunque cosa, è ' Originariamente pubblicato in «Mainichi Shinbun», 22 gennaio 1952. 1 Takamine Hideko (1924-2010), una delle grandi attrici giapponesi di tutti i tempi, insie­ me a Yamada Isuzu, Tanaka Kinuyo e Hara Setsuko. Soprannominata la Shirley Temple del Giappone (esordì a cinque anni), recitò con i maggiori registi giapponesi, in particolare Kino­ shita e Naruse, diventando l’attrice più amata degh anni cinquanta e dei primi anni sessanta. Con Ozu fece 11 coro di Tokyo, Fratelli e sorelle della famiglia Toda e Le sorelle Munekata. 1 Con Kurosawa, Hara Setsuko fece due film: Non rimpiango la mia giovinezza (Waga seishun ni kuinashi, 1946) e L'idiota (Hakuchi, 1951). Questo secondo film fu giudicato ne­ gativamente sia dalla critica sia dal pubblico.

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quasi sicuro che non diventerà brava. Finiscono per farsi complimen­ ti l’una con l’altra. Kawasaki Hiroko3 (è tornata sugli schermi con Wakaregumo [Nubi separate, 1951]) stava sempre completamente da sola. Davanti alla macchina da presa, però, recitava con ardimento, co­ me se fosse un’altra persona. Gli attori che recitano parti secondarie e non riescono a emergere tendono a dire che è per colpa dei registi che non li utilizzano, ma in realtà i registi hanno sempre gli occhi aperti alla ricerca di nuovi talen­ ti. Il regista che ha scoperto Igawa Kuniko4 ha detto che ha capito che era una brava attrice quando l’ha vista riporre le scarpe nella scarpiera. Quando recitano da soli davanti allo specchio, gli attori pensano: «Ma quanto sono bravo!», però quando sono effettivamente davanti alla macchina da presa è difficile che riescano a recitare bene. È un po’ co­ me quando si scrive con un dito nell’aria e si pensa di avere una bella calligrafia e poi, quando si usa realmente il pennello sulla carta, non è affatto così.

’ Kawasaki Hiroko (1912-1976), nota attrice giapponese (soprattutto prima della guer­ ra), è ricordata in particolare per la sue interpretazioni nei film di Shimizu Hiroshi, Gosho Heinosuke e Mizoguchi Kenji. Per Ozu fu la protagonista di Shukujo to hige (1931). * Igawa Kuniko (1923-2012) esordì (ancora con il nome originario di Kòno Toshiko) nel 1940 con Kinuyo no hatsukoi [Il primo amore di Kinuyo], di Nomura Hiromasa e di­ ventò famosa grazie ai film che fece con Kinoshita Keisuke. Con Ozu girò II tempo del rac­ colto del grano.

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Considerazioni su Ishihara Yujiro’

Ho incontrato Ishihara Shintarò1 un paio di volte, è un giovanotto decisamente simpatico. Tutto qua. Per questo mi hanno chiesto di di­ re qualcosa su suo fratello minore Yùjirò2, ma in tutta sincerità io non ho visto neanche uno dei suoi film. Mi interessa però moltissimo. Ho quindi raccolto in giro un po’ di informazioni su di lui, mi sono fatto una mia idea su che tipo di giovane possa essere e con questo spirito ve la racconto. Dicono tutti che lui abbia davvero qualcosa di nuovo. Per esempio, in apparenza sembra svogliato e invece è sveglio e attivo, ed è anche in­ telligente. Oppure dicono che sembra un bravo ragazzo diligente, in’ Originariamente pubblicato in «Eiga Hyòron», marzo 1958. 1 Ishihara Shintarò (1932), romanziere e, a partire dagli anni settanta, politico giappone­ se noto per le risolute e talvolta bizzarre posizioni di destra. Dal 1999 al 2012 è stato gover­ natore di Tokyo. La sua fama letteraria è dovuta soprattutto a) romanzo Taiyó no kisetsu [La stagione del sole], che nel 1956 vinse il premio Akutagawa. Dal romanzo venne tratto un film con lo stesso titolo, con la regia di Furukawa Takumi, e Ishihara, autore anche della sceneg­ giatura, impose il fratello minore Yùjirò come protagonista. Il romanzo e il film, nel dipin­ gere crudamente una gioventù sbandata e priva di ideali e una generazione di padri deboli e latitanti, diventarono oggetti di culto quali prime espressioni del disagio giovanile dopo i drammi della guerra e i sacrifici della ricostruzione e, sebbene furono un fenomeno passeg­ gero, diedero il via a una vera e propria nuova stagione letteraria e cinematografica che sa­ rebbe poi sfociata in forme diverse nella nouvelle vague giapponese. A proposito dell’im­ patto che queste tendenze ebbero sul contesto di riferimento di Ozu e in particolare sulla Shochiku, cfr. Tornasi, Ozu cit., pp. 120-1, 124-5. 2 Ishihara Yùjirò (1934-1987), attore e cantante, fu la più popolare star del cinema giap­ ponese fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, prima come giovane arrabbiato e poi come eroe maschile più tradizionale. Esordì nel 1956 con Taiyó no kisetsu [La stagione del sole], citato alla nota precedente, subito seguito da Kurutta kajitsu [Frutto pazzo, 1956, uscito in Italia con il titolo del film precedente, La stagione del so/e] di Nakahira Kò, e da decine di film di grande successo in cui impersonò quasi sempre la figura del ribelle o del duro. Seb­ bene sia morto prematuramente molti anni fa a soli cinquantadue anni per un cancro al fe­ gato, il suo culto non si è ancora spento del tutto. Ancora oggi, il 17 luglio, giorno dell’an­ niversario della sua morte, può capitare che qualche canale televisivo ritrasmetta la cronaca dei suoi funerali.

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vece ha piuttosto un fascino da mascalzone. Il suo modo di recitare è decisamente secco e non cerca di manifestare le emozioni in maniera sdolcinata. Se fosse solo questo, però, si tratterebbe delle caratteristi­ che tipiche delle figure che da sempre piacciono al pubblico e non ci sarebbe quindi granché di nuovo. In genere si dice che sono le caratte­ ristiche della nuova generazione, ma io non credo che la componente generazionale possa creare delle differenze così marcate nel carattere delle persone. La gente non è cambiata così radicalmente né durante la guerra né dopo. Se qualcosa è cambiato, è piuttosto sul piano sociale, come per i costumi o le regole comportamentali. Queste sono cose che balzano facilmente all’occhio e quindi tutti dicono che c’è stato un grande cam­ biamento; in realtà l’indole di base delle persone non è una cosa che cambia così facilmente. C’è poi chi dice che addirittura all’interno di una stessa generazio­ ne ci sono sfumature diverse tra chi ha appena compiuto vent’anni e chi sta andando verso i trenta, oppure che Ishihara Yùjirò rappresenta la figura tipica di una certa generazione, però io non credo che sia ne­ cessario spingersi a fare distinzioni del genere. Yùjirò ha acquisito repentinamente una grande popolarità con una serie di film d’azione come Notti calde a Tokyo (Shòrisha [Il vincitore], 1957), Tokyo di notte (Arashi o yobu otoko [L’uomo che chiamava le tempeste], 1957), Yoru no kiha [Le zanne della notte, 1958], ma secon­ do quanto mi hanno detto degli amici del cui giudizio mi fido, sembra che sia stato piuttosto interessante nel ruolo di un giovane di buona fa­ miglia schietto e genuino in Ubaguruma [La carrozzina, 1956] di Ta­ saka Tomotaka. Ho la sensazione che se sviluppasse piuttosto quel ti­ po di caratteristica potrebbe essere ancora più interessante. Una perso­ na dolce e schietta, rilassata, che si gode la vita spensieratamente. Ovviamente questa è solo una mia supposizione, dal momento che non l’ho mai visto recitare. Non so neanche valutare se questa popo­ larità sia come quella di suo fratello Shintarò per Taiyd no kisetsu\ che è stata costruita a forza dai mass media per imporla al pubblico, al pun­ to quasi da non considerare l’opera stessa, oppure se come attore ab­ bia qualcosa che tocca davvero la gente ma, se in lui c’è qualcosa di ve­ ramente nuovo, a mio avviso credo che sia qualcosa del genere che ho accennato prima. Con gli attori c’è un problema, ora mi spiego. Il regista indica co­ me l’attore deve recitare davanti alla macchina da presa. Supponiamo 5 Si veda sopra la nota 1.

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che un attore debba mostrare la faccia di profilo. Sebbene basti rima­ nere naturali mostrando il profilo, l’attore cerca invece di esprimere qualcosa con il lato della faccia rivolto verso la macchina da presa. Non è un’espressione dell’intera figura ma solo della parte inquadrata dalla macchina da presa. Una cosa esagerata e del tutto innaturale. Ep­ pure, in molti casi gli attori sono fermamente convinti che sia questo il modo di recitare. Quando ricevono la sceneggiatura, molti entrano nel ruolo che devono recitare attraverso le espressioni del volto, per cui a seconda del tipo di personaggio, pensano basti fare una certa espressione facciale. Nel caso di Yùjiró, invece, a quanto pare intuisce istintivamente le caratteristiche del personaggio che deve interpretare e le espressioni del volto vengono solo dopo. Immagino che si muova sulla scena sen­ za preoccuparsi di quale parte del suo corpo venga ripresa. Oppure ancora, quando uno di questi attori impersona un ruba­ cuori e fa un gesto o un’espressione tipica da rubacuori, anche se ha stoffa e una bella faccia, a me risulta antipatico. Vorrei che si muoves­ se in maniera spontanea e mostrasse qualcosa di magnifico con disin­ voltura, invece non è quasi mai così. Yùjiró sembra muoversi istintivamente e senza paura davanti alla macchina da presa, non si risparmia e non sembra neppure rendersi conto di dove si trovi la macchina da presa. Forse è proprio questo at­ teggiamento che dà a tutti la sensazione che lui abbia qualcosa di nuo­ vo. Il problema più grosso è che tutti gli attori vogliono interpretare ogni ruolo secondo modelli ideali. La cosa importante, invece, è che sullo schermo l’attore risulti vivo e vero. Questo è il punto. Le star di oggi pensano solo ai modelli astratti. Credono che recitare sia rappre­ sentare una forma tipica. Se le mie intuizioni su Yùjiró sono esatte, vorrei proprio che lui svi­ luppasse serenamente queste sue caratteristiche. In questo senso, pen­ so che i giovani esordienti d’ora in poi avranno un approccio diverso rispetto alle star di oggi. Potranno esprimere se stessi in maniera natu­ rale, anche senza atteggiarsi in maniera artificiosa. La mia speranza è che nasca questo tipo di attori.

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Sono il rompiscatole del mondo del cinema" Non mi vanno proprio giù quelli che dicono: «Basta guadagnare, anche a costo di rubare»!

Gli spettatori vengono anche se il regista è un imbecille Ogni volta che osservo le formiche rimango sempre ammirato. La­ vorano sodo e anche se potrebbero schiacciare un pisolino all’ombra di un sasso, non se ne vede una che lo faccia. Rispetto a loro, noi uo­ mini siamo fortunati. Possiamo fare come ci pare, anche prendercela comoda. Se dovessi rinascere, non so cosa mi toccherà ma non vorrei proprio essere una formica. Il fatto che io faccia solo un film all’anno non significa che sia un poltrone, ma poiché quest’anno l’intero mondo del cinema giappone­ se è percorso da un estremo fervore1, ho deciso che anch’io girerò en­ tro l’anno un altro film dopo Fiori d’equinozio. Quest’ultimo sembra sia andato molto bene, d’altra parte con tutte quelle star è ovvio che abbia avuto un grande successo, la produzione ha voluto mettersi al si­ curo fin dall’inizio per quanto riguarda gli incassi. Anche se il regista fosse stato un imbecille, il pubblico sarebbe accorso comunque. Tut­ tavia, se mi si consente un tocco di vanità, credo si possa dire che se il regista fosse stato un imbecille, forse tutte quelle star non avrebbero partecipato. Hanno accettato per la simpatia che nutrono nei miei con' Originariamente pubblicato in «Bungei Shunjù», 1958, novembre. Il termine originario utilizzato da Ozu per «rompiscatole», Kogoto Kòbee, è il nome di un popolare personaggio di Shakuya garì, una famosa pièce di rakugo (genere teatrale in cui un unico narratore sul pal­ coscenico racconta lunghe e complicate storie comiche). L’uomo è un padrone di casa tigno­ so e insopportabile che ha sempre qualcosa da ridire con tutti. Ozu, utilizzando questo ter­ mine riferito a se stesso, vuole anticipare scherzosamente che sarà un po’ polemico. 1 II 1958 fu un anno chiave per il cinema giapponese. Da un lato registrò il più alto af­ flusso di pubblico di tutti i tempi fino ad allora: 1 127450000 persone. Cfr. Yomota, Storia del cinema giapponese cit., p. 969. Dall’altro, riflettendo anche i fermenti sociali e le contestazioni politiche che si stavano coagulando intorno al rinnovo dell’Anpo (Trattato di mu­ tua cooperazione e sicurezza tra Usa e Giappone), segnò l’inizio della svolta che avrebbe condotto alla nascita della nouvelle vague giapponese e alla trasformazione dell’intero siste­ ma produttivo c creativo dell’industria cinematografica nipponica. Cfr. Mùller - Tomasi (a cura di), Racconti crudeli di gioventù cit.

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fronti e che ha fatto dire loro: «Non è un ruolo importante ma va be­ ne lo stesso» e se con questa parata di star il pubblico non fosse accor­ so, la produzione non solo sarebbe rimasta sorpresa ma mi avrebbe annullato il contratto su due piedi. Se un film viene bene e in più ha anche successo al botteghino è la cosa migliore, ma da giovane pensavo che il discorso commerciale e quello artistico fossero due cose in conflitto. Lavoravo tantissimo, ani­ mato dall’ardore di fare i film che volevo io, senza curarmi del succes­ so commerciale. Così facendo, ho riscosso l’apprezzamento dei critici ma non credo che la produzione fosse contenta. Tuttavia, poiché si di­ ceva: «I film di Ozu non costano molto, quindi anche se incassano po­ co, pazienza», mi lasciavano fare come volevo. Se invece si fosse trat­ tato di film su cui la produzione aveva aspettative di grossi guadagni e poi non fossero andati come previsto, penso che non mi avrebbero la­ sciato così tranquillo. Quando si è giovani, si ha voglia di fare tante cose ma non se ne ha la capacità. Anche se sbandieravo concetti complicati come popolarità e artisticità, a ripensarci ora, non ero in grado di esprimere adeguatamente le cose che pensavo. Se uno pensa di affrontare una grande ope­ ra come per esempio la realizzazione di una statua di Buddha, ma non ne ha le capacità e non è neanche in grado di costruire il telaio o la tra­ versa di uno shóji, non ce la farà mai e non sarà neppure considerato degno del nome di artigiano. Secondo me basta fare tranquillamente dei film che incassano, sen­ za parlare troppo di arte. Quando dico incassare, rischio di essere frainteso ma le due cose debbono andare insieme: il mio lavoro per realizzare film che piacciano a molte persone e il fatto che per la pro­ duzione siano redditizi. Anche i registi da giovani hanno molte ambizioni però, non hanno le capacità adeguate per realizzarle. Quando ambizioni e capacità so­ no in un rapporto di equilibrio, allora le cose vanno bene; avere gran­ di idee senza abilità tecnica, oppure essere molto bravi ma senza idee, è invece un problema. Questo equilibrio nasce spontaneamente lavo­ rando in continuazione su qualsiasi cosa, poi ognuno deve concen­ trarsi su ciò per cui è più portato. Film che si possano vedere con i figli Anche per fare un film ordinario occorrono varie decine di milioni di yen2 e ciò significa che il regista lo realizza spendendo questa gros­ 2 Nel 1958, 1 yen valeva 1,72 lire italiane.

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sa somma come crede. Anche la produzione ha un certo coraggio nell’affidare un simile incarico a uno sbarbatello tra i trenta e i qua­ rantanni. I registi affermati hanno grosso modo quest’età. Al giorno d’oggi, in un’azienda, se si esclude il caso di coloro che dirigono per­ sonalmente la propria impresa, non capita che a uomini di quell’età vengano affidati lavori da diverse decine di milioni di yen. Quando gli uomini d’affari sentono che la realizzazione di un film avviene sotto l’unica responsabilità di un regista di trentaquattro o trentacinque an­ ni, si stupiscono per come sia possibile affidare un lavoro del genere a dei giovani di quell’età, e va detto che non hanno tutti i torti. I registi devono perciò dimostrarsi affidabili per poter essere inca­ ricati di un grosso lavoro. Naturalmente, le società di produzione stanno diventando molto caute prima di promuovere un assistente a regista. Per raggiungere il livello di capacità convincente per la produ­ zione, ci vuole parecchio tempo ed è inevitabile che l’età per diventare regista si sposti sempre più in avanti. Mi chiedo se, rispetto a una volta, il livello dei film giapponesi sia mai effettivamente progredito. Mi sembra che i contenuti non siano poi cambiati granché. Sono gli stessi, è solo cambiata la confezione: una volta si usava la carta da pacchi, oggi si usano i materiali plastici come il pvc o il polietilene. E ci sono anche casi in cui l’unico intento è di giocare con la confezione. Una volta si apprezzavano le cose che, pur se imperfette, avevano un non so che di delicato e toccante, ma oggi piacciono quelle di gu­ sto asciutto. Anche questo è un cambiamento non tanto della so­ stanza ma della confezione, che segue le mode. Se il contenuto non è cambiato, a me sembra sia meglio mantenere la forma consona a quel contenuto. Qualche giorno fa, sono andato al cinema in città e ho visto le pre­ sentazioni dei prossimi film in uscita. C’era una donna che, con le tet­ te coperte ma con le mutande basse quasi all’altezza dell’ombelico, ballava con un uomo. Ballando, lo portava in una zona in penombra e si sedeva sul letto. Nella scena seguente, i due si baciavano dietro una tenda e mentre si baciavano, ballavano... Ultimamente, imperversano scene di questo tipo. Non voglio parlar male di un’altra azienda cinematografica, ma se io fossi un genitore direi a mio figlio di non andare al cinema. Far sol­ di con il cinema va bene, ma c’è modo e modo di farli. Vorrei che ci fosse un po’ più di senso morale. Anche fare il ladro è un modo per ar­ ricchirsi, ma se si comincia con il fare il ladruncolo, poi si diventa un 209

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ladro vero e proprio, poi ancora un rapinatore e si finisce per essere uno stupratore armato di coltello, sarebbe la fine del mondo. Vorrei che le aziende cinematografiche ci pensassero bene e facessero dei film che si possano guardare con i figli senza arrossire. Anche noi registi diciamo sempre di voler fare dei film dignitosi, ma il pensiero esclusivo delle aziende cinematografiche di far soldi e la nostra superficialità si incontrano e si finisce così per trasformare il la­ druncolo in rapinatore. Ciò è dovuto anche alla decisione di produrre un numero eccessivo di film. In questo senso, sono contrario alla de­ cisione di introdurre il doppio spettacolo di film nuovi5. In altre paro­ le, già adesso gli studi lavorano a pieno ritmo. Non c’è un’attrezzatu­ ra ferma o un addetto con le mani in mano. Se si va verso il sistema del doppio spettacolo, si dovranno fare ancora più film, ma se già così la manodopera è piena di lavoro fino al collo e bisogna condividerla, sarà sempre più difficile fare buoni film. Si parla di doppio spettacolo ma non aumentano né gli studi né il personale. Non è che si proiettano due film per una scelta attiva ma per­ ché si è alla cosiddetta ultima spiaggia ed è quindi naturale che non si abbiano le risorse sufficienti. È ovvio che anche la qualità diminuisca. Quando si vedrà che non si guadagna con il doppio spettacolo, cre­ do che dopo un po’ i produttori torneranno a pensare allo spettacolo singolo. In ogni modo, mi sa che questo, per il cinema giapponese, sia un periodo transitorio. Qualche giorno fa è venuto da me un inviato dell’NHK4 e mi ha det­ to: «E così il cinema sta scivolando nel doppio spettacolo, come mai una cosa del genere?». Aveva un tono così dispregiativo che mi sono arrabbiato e gli ho risposto: «Parli del doppio spettacolo ma la tua azienda ha sempre avuto una doppia offerta, anche se la chiama primo e secondo canale ...». E lui ha detto qualcosa tipo «No, il primo cana' Il doppio spettacolo {double feature o double bill', in giapponese, nihondate) è un tipo di programmazione che consiste nell’offrire due film consecutivi al prezzo di uno. Ideato ne­ gli Stati Uniti per il teatro dell’opera, venne introdotto nel cinema durante la Grande de­ pressione dalle case di produzione indipendenti che lottavano per affermarsi contro le major. In breve tempo divenne il modello di programmazione predominante nel cinema americano degli anni trenta e quaranta, in particolare, ma non solo, nel vasto mercato nazionale delle seconde visioni, dei cinema di provincia e dei drive-in. L’affermazione del doppio spettaco­ lo fu strettamente legata ai cosiddetti B movies, materia prima per eccellenza di tale sistema. Anche in Giappone nacque negli anni trenta ma la legge sui cinema del 1939 (si veda supra, nota 1, in II cinema giapponese da oggi in avanti, p. 177) lo proibì esplicitamente. All’inizio degli anni cinquanta, con la nascita di molte compagnie di produzione indipendenti, venne ripreso inizialmente dalla Tóhei, presto seguita da quasi tutte le altre compagnie. Cfr. An­ derson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 239-41. ‘ L’nhk, sigla di «Nippon Hòsó Kyòkai», è il servizio pubblico radiotelevisivo giap­ ponese. 210

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le è di intrattenimento, il secondo canale è soprattutto educativo...». Io ho ribattuto: «Il cinema è la stessa cosa. Non ha senso considerarlo strano solo per il cinema». Lui ha annuito... poi però ho visto che so­ lo queste frasi erano state cancellate dall’intervista. Se è redditizio, anche la rivista «Bungei Shunjù»5 fa delle edizioni straordinarie e se non rendono più, smette di farle. Tutti fanno così, mi sembra discutibile parlarne come di una cosa degradante solo per il ci­ nema. Inoltre, le edizioni straordinarie si fanno anche perché nell’edi­ zione ordinaria non ci sta tutto. Allo stesso modo, con il sistema del doppio spettacolo si amplia lo spazio per gli esordienti e da questo punto di vista anche a me va bene. La freschezza degli esordienti Secondo me, nel cinema non c’è una grammatica. Non c’è una for­ ma a cui attenersi. Quando esce un film che si distingue dagli altri, quello diventerà esso stesso la grammatica, perciò basta che un film venga fatto come si è convinti vada fatto e gli spettatori lo seguiranno. Anche i giovani assistenti registi, quando arrivano negli studi di produzione hanno tutti invariabilmente grandi aspirazioni. Però, con­ tinuando a correre per lunghi anni come fattorini dei registi, la fre­ schezza di idee che avevano in testa si spegne. Assorbendo giorno do­ po giorno il piatto modo di lavorare esistente, giungono al compro­ messo con se stessi di pensare che quella sia davvero la grammatica del cinema. A quel punto, anche se diventano registi, il loro modo di gira­ re finisce per essere sempre quello consueto. È per questa ragione che nel cinema giapponese è raro vedere cose fresche. Ci sono degli esordienti messicani o italiani che mi capita di vede­ re, i cui film, girati appena arrivati negli studi ancora da dilettanti, dan­ no una sensazione di freschezza sbalorditiva. Non ho ancora visto il film che Ishihara Shintarò ha fatto come regista ma credo che abbia qualcosa di interessante6. C’è stato quell’episodio in cui tutti gli assistenti registi hanno pro­ testato contro Ishihara7 ma mi sembra una cosa un po’ assurda. Sono 4 Autorevole rivista culturale conservatrice, pubblicata dalla casa editrice omonima, na­ ta nel 1923 ed esistente ancora oggi. Ogni anno la rivista conferisce vari premi letterari, il più significativo dei quali e il premio Akutagawa, il più prestigioso del Giappone. È la rivista su cui venne pubblicato originariamente il presente articolo. ‘ Su Ishihara Shintarò scrittore e poi uomo politico si veda supra, nota 1, in Considera­ zioni su Ishihara Yùjiró, p. 203. Il film in questione è Wakai kemono [La giovane bestia] del 1958, tratto da un romanzo dello stesso Ishihara. 7 Nel mondo del cinema, suscitò vibranti proteste la decisione della casa produttrice Toho di affidare la direzione di un film a Ishihara senza che egli avesse percorso la tipica tra­ fila di anni per diventare regista.

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certo che avranno detto che è inaccettabile che un dilettante giri un film di punto in bianco ma se un assistente regista pubblicasse all’im­ provviso un romanzo, FAssociazione degli Scrittori si arrabbierebbe? Se questa non si arrabbia per il fatto che qualcuno del mondo del ci­ nema scrive un romanzo, risentirsi perché un romanziere gira un film è indice di una ristrettezza di vedute scandalosa. Anche se si è arrab­ biati, perché, invece, non si collabora comunque alla realizzazione del film e solo dopo si valuta criticamente il lavoro realizzato? È inutile fa­ re chiasso se non si è neanche cominciato a girare. Ultimamente sono davvero numerosi coloro che aspirano a fare i registi. L’esame è piuttosto difficile. Chi riesce a superare un esame del genere, secondo me, addirittura non è adatto a fare il regista. Persone che hanno simili conoscenze, farebbero meglio a utilizzarle in altri campi. Se avessimo fatto l’esame adesso, credo che sia io sia Kinoshita Keisuke8 saremmo stati bocciati. Per fare il vuotacessi9 basta avere braccia robuste, spalle e schiena in grado di portare i grossi secchi delle feci ed essere onesti. Non è asso­ lutamente necessario conoscere Shòtoku Taishi10. Anche Shòtoku Tai­ shi avrà avuto i suoi problemi con i vuotacessi ma questo non c’entra nulla. Allo stesso modo, far sostenere agli aspiranti registi un esame si­ mile a quello di chi vuole entrare in un quotidiano o in una rivista, non ha senso. Piuttosto, penso che sarebbe più opportuno valutare la ca­ pacità di guardare e immaginare le cose o di saper disegnare gli ogget­ ti. In particolare, sarebbe necessario richiedere di saper disegnare un cono quando viene inclinato di sessantacinque gradi. Questo è fonda­ mentale quando si deve disegnare la continuità". * Kinoshita Keisuke (1912-1998), sebbene meno noto all’estero di Kurosawa, Mizogu­ chi e Ozu, è stato uno dei grandi registi giapponesi dal dopoguerra a tutti gli anni sessanta. Fu uno dei pilastri dello stile «Shochiku Ofuna» e nella sua lunga carriera realizzò varie de­ cine di film, spesso connotati da un sapore sentimentale e popolare, spaziando da un genere all’altro. Le sue opere più famose appartengono comunque al dramma e al melodramma. ’ 11 termine si riferisce non tanto al comune bottinaio o vuotatore di pozzi neri, quanto alla pratica, ampiamente diffusa in Giappone fino alla seconda guerra mondiale, di vendere quotidianamente le feci da riutilizzare come concime. Il vuotacessi era quindi colui che nel­ la notte raccoglieva le feci delle varie case con dei grossi secchi di legno e, appesi all’estremità di una pertica, li portava a spalle ai luoghi di raccolta. La pratica si perse sia perché le forze di occupazione americane la proibirono, sia per lo sviluppo dei fertilizzanti chimici. 10 Shòtoku Taishi (572-622), principe ereditario della famiglia imperiale e leggendario reggente e politico. Dopo la morte entrò nella tradizione buddhista e fu venerato come pro­ tettore del Giappone, della famiglia imperiale e del buddhismo. I: Si veda supra, nota 1, in Qualche parola sui miei film, p. 105.11 termine «disegnare» non è casuale. Ozu, infatti, era famoso per la meticolosità con cui disegnava preventivamente le sce­ ne fin nelle singole inquadrature anche dal punto di vista delle prospettiva architettonica. Cfr. K. Sakamura - S. Hasumi (a cura di), Dcjitaru Ozu. Kyameraman Atsuta Yùharu no me/ From Behind the Camera: A New Look at the World of Director Yasujirò Ozu. Based on Private Ma-

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Gli assistenti registi di oggi sono intelligenti perché sono laureati e arrivano dopo aver superato un esame difficile. Portano avanti le cose sistematicamente e hanno una buona memoria, perciò per i registi è molto comodo utilizzarli. Tuttavia, penso sempre che sia un peccato che non ci sia un modo per valorizzarli meglio. Una popolarità fuggevole Per Fiori d'equinozio ho chiesto alla Daiei di prestarmi Yamamoto Fujiko12. Il presidente della Daiei, Nagata”, quando ha visto il copio­ ne, pare che abbia chiesto di riscriverlo perché il ruolo della Yamamo­ to era secondario e poco interessante. Da parte mia, ero convinto che se una bella attrice come Yamamoto Fujiko avesse interpretato il pic­ colo ruolo di una bella ragazza allegra e spensierata, ciò non l’avrebbe minimamente danneggiata, anzi, le avrebbe fatto riscuotere simpatia e consentito di allargare la sua gamma interpretativa. L’ho incontrata e le ho chiesto che cosa voleva fare, lei mi ha rispo­ sto: «Lo farò volentieri» e allora ho cominciato le riprese seduta stante. Yamamoto Fujiko, non a caso gelosamente custodita dalla Daiei, possiede tutte le doti naturali per diventare una star di primaria gran­ dezza. La cosa che più mi ha colpito in lei è che non ha vezzi. Spesso le belle donne hanno delle fissazioni su come farsi riprendere in modo da venire bene, oppure cercano di avere dei gesti o delle inclinazioni dello sguardo che nascondano gli aspetti che a loro non piacciono. Lei non ha di queste fisime, è veramente genuina, non ha nessuna strana posa da attrice consumata. È intelligente, appassionata e non si risparmia. Va detto però che sia Arima Ineko14 sia Kuga Yoshiko15, le nostre star attualmente di punta16, si impegnano realmente e lavorano dediterials of the Late Yuharu Atsuta, Tokyo University Digital Museum, Tokyo 1998, che ripro­ duce fotograficamente varie pagine e disegni dei diari di continuità; Richie, Ozw cit., pp. 74-104. 12 Si veda supra, nota 55, in Qualche parola sui miei film, p. 122. Yamamoto Fujiko era sotto contratto in esclusiva per la Daiei. " Nagata Masaichi (1906-1985), produttore cinematografico, nel 1931 iniziò a lavorare al­ la Nikkatsu ma nel 1934, dopo un contrasto con il presidente, ne uscì e fondò la Daichi Eiga, che diventò poi la Daiei, di cui fu presidente dal 1947 al 1971. Sotto la sua guida vennero rea­ lizzati sia alcuni capolavori assoluti come Racconti della luna pallida d’agosto di Mizoguchi e Rashomon di Kurosawa, sia alcune serie di film d’azione di enorme successo, come quella di Zatòichi. Per la Daiei, Ozu girò nel 1959 Ukikusa, uno degli unici tre film che non fece per la Shochiku. Si veda Qualche parola sui miei fdm, nella parte II di questo volume. M Arima Ineko (1932), famosa attrice giapponese degli anni cinquanta e sessanta. Fra film e sceneggiati televisivi, la sua filmografia sfiora i 150 titoli. Con Ozu girò Crepuscolo a Tokyo (1957) e Fiori d’equinozio (1958). ,s Kuga Yoshiko (1931), famosa attrice giapponese dalla fine degli anni quaranta alla fine degli anni sessanta. Lavorò con i principali registi giapponesi dell’epoca, in particolare Kuro­ sawa, Mizoguchi, Naruse. Con Ozu girò Fiori d’equinozio (1958) e Buon giorno (1959). «Nostre» è riferito alla Shochiku, la casa di produzione presso cui Ozu ha lavorato tut­ ta la vita.

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candosi anima e corpo. D’altra parte, se non fosse così, non potrebbe­ ro mantenere la loro posizione. Se l’indomani si gira e la sera prima bi­ sogna studiare il copione, non c’è nessuna star di primo livello che ac­ cetti un invito a uscire. Di solito, arrivano sul set già con un’idea pre­ cisa di come recitare ogni scena e avendo imparato adeguatamente le loro battute. È molto facile perdersi nella propria fama. Quando si raggiungono i vertici delle classifiche della popolarità, si ha l’illusione di godere del­ la stima di tutti. Ma la popolarità può esistere anche senza la stima, è una cosa del tutto effimera e senza radici. Per questo, fintanto che du­ ra, bisogna impegnarsi per migliorare la propria arte ed emanciparsi dalla popolarità stessa. La popolarità è una cosa crudele che cambia in un batter d’occhio se ci si monta la testa e ci si crogiola nell’ozio convinti che tutti adori­ no il proprio sorrisetto. Poiché è spietata, si dissolve in un istante. Quando accade, è una cosa triste ma si raccoglie ciò che si è seminato. Come dice anche il proverbio, «Prepara il fieno finché c’è il sole». Fin che c’è la popolarità, se ci si impegna a raffinare la propria arte, anche quando finisce si può benissimo continuare a essere una star. Qualunque regista vorrebbe provare a utilizzare diversi attori ma il numero delle persone realmente disponibili è piuttosto limitato. An­ che fra gli attori, quelli che lavorano con molti registi sono probabil­ mente pochi. Ciò deriva dal sistema dei contratti in esclusiva17 e dall’Accordo tra le sei aziende produttrici18, ma sarebbe auspicabile che ci fossero più flessibilità e collaborazione reciproca. Un esordiente che un’azienda di produzione ha curato e cresciuto investendo su di lui, quando final­ mente è pronto, viene portato via da un’altra azienda. Per evitare que­ sto, l’azienda che lo ha cresciuto non gli dà il permesso di apparire nei film dei concorrenti. Così è stato anche per Tsugawa Masahiko19. Non so bene come sia­ no andate le cose, ma non consentire a un attore di talento di lavorare 17 Riferimento alla pratica delle case produttrici di vincolare gli attori con contratti plu­ riennali in esclusiva. A metà del 1957, le principali case di produzione cinematografica con­ cordarono una politica di «non prestito» del personale: chi era sotto contratto con una casa produttrice non poteva lavorare per un’altra casa di produzione. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 257-8. M Nel settembre del 1958, le sei maggiori aziende cinematografiche giapponesi (Sho­ chiku, Toho, Daiei, Shintoho, Toei e Nikkatsu) siglarono un accordo per regolamentare l’impiego di attori e registi sotto contratto in esclusiva delle rispettive case. Si veda supra, no­ ta 70, in Qualche parola sui miei film, p. 126. '* Tsugawa Masahiko (1940), attore giapponese. Esordì all’età di cinque anni. Nella sua lunga carriera ha interpretato oltre 150 film. Nel 1958, quando Ozu scrisse il presente arti-

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Sono il rompiscatole del mondo del cinema

per un’altra casa di produzione è una brutta cosa. Certo, non sarà pia­ cevole ma una casa di produzione dovrebbe essere più generosa, per cui dovrebbe consentire a un attore di lavorare anche con altre case e in cambio l’attore dovrebbe tornare quando l’azienda ha bisogno di lui. Se il risultato è che le star di ogni casa cinematografica non posso­ no andare a lavorare in un’altra, l’Accordo tra le sei case produttrici di­ venta un ostacolo per la crescita del cinema giapponese. Dicendo «accordo» sembra sia una cosa pacifica ma in realtà ha più un significato del tipo: quando si litiga non si usa la pistola ma la spa­ da, quanto deve essere lunga la spada, fino a quanti padrini si possono portare al seguito e così via. Critiche cinematografiche che non dicono niente C’è una frase di Renard20 che dice «Nonostante sia bravo a scrive­ re le critiche dei lavori degli altri, non è bravo a scrivere le critiche del mio lavoro» (traduzione nostra). Se guardo la caricatura di qualcuno, mi diverto per la somiglianza ma se mi capita di vedere la mia, dirò che non mi somiglia affatto. Questo è il limite della critica. Anche a proposito della critica cinematografica, quando riguarda i film degli altri, la troviamo perfettamente azzeccata ma quando ri­ guarda noi, sembra che l’autore dica delle sciocchezze. I commenti dei critici spesso non dicono niente. Le critiche dei compagni di lavoro, invece, sono molto più concrete, quindi più utili, anche se pungenti. In un film c’è sempre inevitabilmente qualche incoerenza, qualche bugia. Se non ci fossero incoerenze, sarebbe un documentario. Per esempio, in Fiori d'equinozio, Sada Keiji21, senza consultarsi prima con la fidanzata, va improvvisamente a far visita al padre di lei [per chie­ derla in sposa]. Quella è un’incocrenza. Nella realtà sarebbe impensa­ bile. Se non ci fosse questo, però, il film non starebbe in piedi. Un altro esempio, che forse non è simpatico citare, è quello di Hyòheki [Parete di ghiaccio, 1958], dove Yamamoto Fujiko commetcolo, Tsugawa, allora diciottenne, era sotto contratto esclusivo con la Nikkatsu, dove, dopo i ruoli da bambino con la Daiei, aveva esordito come giovane attore con l’enorme successo di La stagione del sole (Kurutta kajitsu, 1956) al fianco di Ishihara Yùjirò. L’anno successi­ vo sarebbe passato alla Shochiku. M Jules Renard (1864-1910), scrittore e poeta francese. Il suo diario è considerato un ca­ polavoro di introspezione, ironia e pensieri naturalisti. È noto al pubblico di tutto il mondo per il romanzo Pel di carota, 21 Sada Keiji (1926-1964), nome d’arte dell’attore giapponese Nakai Kan’ichi. Fu molto attivo e famoso negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, fino a quando morì improv­ visamente in un incidente d’auto. Con Ozu girò Fiori d’equinozio, Buon giorno, Tardo au­ tunno e II gusto del sake.

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te una volta l’errore di passare una notte con un uomo. Guardando il film, non sembra assolutamente possibile che lei possa aver commesso una simile leggerezza (in questo senso, è stato un errore sceglierla per quel ruolo). Il film, però, si basa fin dall’inizio su questa trovata im­ probabile e se la si criticasse, tutta la storia cadrebbe. Non bisogna puntare il dito contro queste incoerenze. Ciò che conta è quanto si è abili a presentarle dissimulandole. I critici si sca­ gliano spesso contro di esse, ma se si contraddice la base stessa della trama, non ha senso discutere. Noi registi ne siamo pienamente con­ sapevoli e quindi anche se questi punti vengono criticati dicendo che sono un’assurdità, la cosa mi lascia totalmente indifferente e non ha al­ cuna utilità. La critica consente di dire ciò che si vuole e, a proposito dei dram­ mi televisivi, anch’io voglio dire che penso siano davvero banali. Avrei molti suggerimenti per come fare a migliorarli ma, meglio di no, se mi­ gliorassero diventerebbero una minaccia per il cinema e poiché da que­ sto io mi cavo la pagnotta, me ne sto ben zitto22. I drammi televisivi, se non li guardi fino alla fine non capisci se so­ no una sciocchezza o meno e questa è una bella seccatura. In sostanza, si butta via del tempo. Prima di iniziare, dovrebbero dire qualcosa ti­ po: questo è proprio da vedere; per quello lo sponsor ha messo pochi soldi, quindi non è un granché ma se avete un po’ di tempo da perde­ re, prego, guardatelo pure. Se facessero annunci del genere sarei mol­ to grato allo sponsor... I drammi televisivi ci attirano come se si trat­ tasse di uno spettacolo molto interessante e poi non fanno altro che rendere pigra la gente. Sebbene tutti sappiano benissimo che le persone hanno solo due occhi, il fatto di trasmettere nella stessa fascia oraria programmi mol­ to simili è una vera sciocchezza. È vero che c’è stato anche un caso di ventiquattro pupille23, ma le persone normali di occhi ne hanno solo due e quindi il fatto che ci siano vari canali è uno spreco inutile. An­ zi, visto che ci siamo, se si riducesse anche il numero di film, ci fosse solo un canale radiofonico e un unico quotidiano, sarebbe un note­ vole sollievo. 22 Qualche anno dopo, Ozu, insieme con Satomi Ton, scriverà per l’unica volta la sce­ neggiatura di un drama (cioè uno sceneggiato televisivo), Seishun hòfeago [11 doposcuola dei ragazzi], che venne trasmesso dalla NHK (la televisione pubblica giapponese) il 21 marzo 1963. Ritenuto perduto, è stato ritrovato, digitalizzato e ritrasmesso, sempre dalla NHK, il 14 ottobre 2013. Gioco di parole riferito al titolo del famoso film di Kinoshita Keisuke del 1954, Nijùsbi no hitomi [Ventiquattro pupille].

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SCRITTI SUL CINEMA

Filmografia*

Zange no yaiba [La spada della penitenza] Soggetto: Ozu Yasujirò; sceneggiatura: Noda Kógo; operatore1: Aoki Isamu; interpreti: Azuma Saburó, Ogawa Kunimatsu, Kawara Kanji, Nodera Shòichi, Atsumi Eiko, Hanayagi Miyako, Konami Hatsuko, Kawamura Reikichi; pro­ duzione Shochiku Kamata; lunghezza: 7 rulli, 1919 metri; durata: 70 minuti; prima: Cinema2 Denkikan, Tokyo, 14 ottobre 1927. Perduto.

Wakòdo no yume [Sogni di gioventù] Soggetto e sceneggiatura: Ozu Yasujirò; operatore: Shigehara Hideo3; inter­ preti: Saitò Tatsuo, Wakaba Nobuko, Yoshitani Hisao, Matsui Junko, Saka­ moto Takeshi, Oyama Kenji; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 5 rul' La presente filmografia si basa su diversi riferimenti. 1 principali sono i seguenti: S. Hasumi, Kantoku Ozu Yasujirò [Ozu Yasujirò, regista], Chikuma Shobò, Tokyo 1992, pp. 346-58; Tanaka (a cura di), Ozu Yasujirò 1933-1945 zenhatsugen cit., pp. 297-304; Snochiku (a cura di), Ozu Yasujirò shin hakken [Ozu Yasujirò, nuovi ritrovamenti], Kòdansha, Tokyo 2002, pp. 225-97; D. Tornasi, Ozu, La Nuova Italia, Il Castoro Cinema, Firenze 1991; Tateshina Nikki Kankòkai (a cura dì), Tateshina nikki [Diari di Tateshina], Tateshina Nikki Kankòkai, Chino 2013, pp. 580-90; Tòkyo Kokuritsu Kindai Bijutsukan, Firumusenta shozò eiga mokuroku. Nihon gekieiga [Museo Nazionale di Arte Moderna di Tokyo, Catalogo dei film in possesso del Film Center. Film di finzione giapponesi), Tòkyo Kokuritsu Kindai Bijutsukan, Tokyo 1986; «Eureka», Ozu Yasujirò: seitan hyakujùnen botsugo gojùnen: sòtokushù [Ozu Yasujirò: 110 anni dalla nascita e 50 anni dalla morte], in «Eureka», 2013, 636, pp. 283-93. Di ogni film vengono indicati il titolo originale, il titolo italiano fra parentesi tonde, se distribuito, e la traduzione letterale fra pa­ rentesi quadre quando non distribuito o quando il titolo scelto dalla distribuzione è lon­ tano dal significato originale. Per quanto concerne la durata, viene riportata quella origi­ naria indicata dalla casa produttrice Shochiku in Ozu Yasujirò shin hakken cit., salvo se­ gnalare casi particolari in cui la durata delle copie esistenti o in circolazione differisca sen­ sibilmente da quella indicata. 1 Sull’uso del termine «operatore» al posto dei consueti «fotografia» o «direttore della fotografia», si veda supra, nota 28, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 15. 2 Per facilitare la comprensione, viene utilizzato sempre il nome «Cinema», anteposto al nome del luogo dove si tenne la prima proiezione pubblica del film. Di fatto, negli anni ven­ ti, i film venivano proiettati anche nei teatri. ' Sull’uso del cognome Shigehara, si veda supra, nota 29, in Chiacchiere sul mio mestiere, p. 15.

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_________________________ Ozu, Scritti sul cinema________________________ li , 1534 metri; durata: 56 minuti; prima: Cinema Denkikan, Tokyo, 28 aprile 1928. Perduto.

Nyòbò funshitsu [Moglie smarrita] Soggetto: Takano Ononosuke; sceneggiatura: Yoshida Momosuke; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Saitò Tatsuo, Okamura Fumiko, Kunijima Sòichi, Sugano Shichirò, Sakamoto Takeshi, Seki Tokio, Matsui Junko, Ogura Shige­ ru; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 5 rulli, 1502 metri; durata: 55 minuti; prima: Cinema Denkikan, Tokyo, 15 giugno 1928. Perduto. Kabocha [Zucca] Soggetto: Ozu Yasujirò; sceneggiatura: Kitamura Komatsu; operatore: Shi­ gehara Hideo; interpreti: Saitò Tatsuo, Hinatsu Yurie, Sakamoto Takeshi, Kozakura Yòko, Handa Hidemaru; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 5 rulli, 1175 metri; durata: 43 minuti; prima: Cinema Denkikan, Tokyo, 31 ago­ sto 1928. Perduto.

Hikkoshi fùfu [Una coppia in movimento] Soggetto: Kikuchi Ippei45; sceneggiatura: Fushimi Akira; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Watanabe Atsushi, Yoshikawa Mitsuko, Okuni Ichiro, Nakahama Ichizò, Naniwa Tomoko, Oyama Kenji; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 3 rulli, 1116 metri; durata: 41 minuti; prima: Cinema Denkikan, Tokyo, 28 settembre 1928. Perduto.

Nikutaibi [Bellezza del corpo] Soggetto e sceneggiatura: Fushimi Akira, con interventi di Ozu Yasujirò; opera­ tore: Shigehara Hideo; interpreti: Saitò Tatsuo, Iida Chóko, Kimura Kenji, Oya­ ma Kenji; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 5 rulli, 1505 metri; durata: 55 minuti; prima: Cinema Denkikan, Tokyo, 1° dicembre 1928. Perduto. Takara no yama [La montagna del tesoro] Soggetto: Ozu Yasujirò; sceneggiatura: Fushimi Akira; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Kobayashi Tokuji, Okamura Fumiko, Iida Chóko, Hinat­ su Yurie, Aoyama Mariko, Naniwa Tomoko, Wakami Takiko, Itokawa Kyòko; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 6 rulli, 1824 metri; durata: 67 minuti; prima: Cinema Asahiza, Osaka, 7 febbraio 1929. Perduto.

Gakusei romansu-Wakaki hi* (Giorni di gioventù) [Amori studenteschi - Giorni di gioventù] Soggetto e sceneggiatura: Fushimi Akira, con interventi di Ozu Yasujirò; operatore e montaggio: Shigehara Hideo; assistente alla regia: Ogawa Jirò, 4 Nome di fantasia di Gosho Heinosuke, Noda Kògo, Okubo Tadamoto, Saitò Torajirò. Cfr. Tanaka (a cura di), Ozu Yasujirò zenhatsugen 1933-1945 cit., p. 297. 511 titolo originale era Omoide [Ricordi], poi modificato appunto in Gakusei romansu Wakaki hi. Anche se nei titoli di testa il titolo compare per esteso, di solito il film è citato con il titolo abbreviato Wakaki hi.

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_____________________________ Filmografia______________________________ Fukada Shùzó; assistente operatore: Atsuta Yùharu, Yamaguchi Tatsuo; lu­ ci: Nakajima Toshimitsu; scenografìa: Kadota Yonekazu; interpreti: Yùki Ichiro, Saitó Tatsuo, Matsui Junko, Iida Chóko, Takamatsu Eiko, Kofujita Shoichi, Okuni Ichiro, Sakamoto Takeshi, Himori Shin’ichi, Yamada Fusao, Ryu Chishu, Ogura Shigeru; produzione Shochiku Kamata; lunghezza: 10 rulli, 2854 metri; durata: 104 minuti; prima: Cinema Asahiza, Osaka, 10 apri­ le 1929.

Wasei kenka tomodachi (Rissa fra amici in stile giapponese) Soggetto e sceneggiatura: Noda Kógo; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Watanabe Atsushi, Yoshitani Hisao, Takamatsu Eiko, Okuni Ichiro, Naniwa Tomoko, Yùki Ichiro, Wakaba Nobuko; produzione Shochiku Kamata; lun­ ghezza: 7 rulli, 2114 metri; durata: 77 minuti; durata della copia esistente6: 14 minuti; prima: Cinema Asahiza, Osaka, 3 luglio 1929.

Daigaku wa detakeredo [Mi sono laureato, ma...] Soggetto: Shimizu Hiroshi; sceneggiatura: Aramaki Yoshio; operatore: Shi­ gehara Hideo; interpreti: Takada Minoru, Tanaka Kinuyo, Suzuki Utako, Oyama Kenji, Himori Shin’ichi, Kimura Kenji, Sakamoto Takeshi; produzio­ ne Shochiku Kamata; lunghezza: 7 rulli, 1916 metri; durata: 70 minuti; durata della copia esistente: 11 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 6 settem­ bre 1929. Kaishain seikatsu [La vita di un impiegato] Soggetto: Ozu Yasujiro; sceneggiatura: Noda Kógo; operatore: Shigehara Hi­ deo; interpreti: Saitó Tatsuo, Yoshikawa Mitsuko, Kofujita Shóichi, Katò Seii­ chi, Aoki Tomio, Ishiwata Teruaki, Sakamoto Takeshi; produzione Shochiku Kamata; lunghezza: 5 rulli, 1552 metri; durata: 57 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 25 ottobre 1929. Perduto.

Tokkan kozò [Un monello incontenibile] Soggetto: Nozu Chùji (Ikeda Tadao, Okubo Tadamoto, Noda Kógo, Ozu Ya­ sujiro); sceneggiatura: Ikeda Tadao; operatore: Nomura Hiroshi; interpreti: Saitó Tatsuo, Aoki Tomio, Sakamoto Takeshi; produzione Shochiku Kamata; lunghezza: 4 rulli, 1031 metri; durata: 38 minuti; durata della copia esistente: 14 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 24 novembre 1929. Kekkongaku nyùmon [Introduzione al matrimonio] Soggetto: Okuma Toshio; sceneggiatura: Noda Kógo; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Saitó Tatsuo, Kurishima Sumiko, Nara Shin’yó, Okamura Fumiko, Takada Minoru, Tatsuta Shizue, Yoshikawa Mitsuko; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 7 rulli, 1943 metri; durata: 71 minuti; prima: Ci­ nema Teikokukan, Tokyo, 5 gennaio 1930. Perduto. * Si tratta di frammenti di una versione per proiezioni domestiche a 9,5 mm che sono sta­ ti rimontati per un totale di 14 minuti.

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_________________________ Ozu» Scritti sul cinema_________________________ Hogaraka niayume [Andiamo avanti allegramente!] Soggetto: Shimizu Hiroshi; sceneggiatura: Ikeda Tadao; operatore e montaggio: Shigehara Hideo; assistente alla regia: Ogawa Jirò, Sasaki Kò; assistente opera­ tore: Kuribayashi Minoru, Atsuta Yùharu; luci: Yoshimura Tatsumi; scenogra­ fia: Mizutani Hiroshi; interpreti: Takada Minoru, Kawasaki Hiroko, Matsuzono Nobuko, Suzuki Utako, Yoshitani Hisao, Mòri Teruo, Date Satoko, Saka­ moto Takeshi; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 8 rulli, 2704 metri; durata: 99 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 1° marzo 1930.

Rakudai wa shitakeredo [Sono stato bocciato, ma...] Soggetto: Ozu Yasujirò; sceneggiatura: Fushimi Akira; operatore e montag­ gio: Shigehara Hideo; assistente alla regia: Ogawa Jirò, Sasaki Kò; assistente operatore: Kuribayashi Minoru, Atsuta Yùharu, Yamada Noboru; luci: Nakajima Toshimitsu; scenografia: Kadota Yonekazu; interpreti: Saitò Tat­ suo, Futaba Kaoru, Aoki Tomio, Wakabayashi Hiroo, Okuni Ichirò, Tanaka Kinuyo, Yokoo Dekao, Seki Tokio, Tsukita Ichirò, Ryù Chishù, Yamada Fusao; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 6 rulli, 1765 metri; durata: 64 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 11 aprile 1930. Sono yo no tsuma [La moglie, quella notte] Soggetto: dal racconto From Nine to Nine di Oscar Schisgall; adattamento e sceneggiatura: Noda Kògo; operatore e montaggio: Shigehara Hideo; assisten­ te alla regia: Sasaki Kò, Kiyose Akira; assistente operatore: Kuribayashi Minoni, Atsuta Yùharu, Watanabe Kenji; luci: Yamamoto Shigeru, Nakajima Toshimitsu; scenografia: Kadota Yonekazu; interpreti: Okada Tokihiko, Yagumo Emiko, Ichimura Mitsuko, Yamamoto Tògò, Saitò Tatsuo, Ryù Chishù; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 7 rulli, 1809 metri; durata: 66 mi­ nuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 6 luglio 1930.

Erogami no onryò [Lo spirito vendicativo di Eros] Soggetto: Ishihara Seizaburò; sceneggiatura: Noda Kògo; operatore: Shigeha­ ra Hideo; interpreti: Saitò Tatsuo, Hoshi Hikaru, Date Satoko, Tsukita Ichi­ ro; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 3 rulli, 750 metri; durata: 27 mi­ nuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 27 luglio 1930. Perduto.

Ashi ni sawatta kòun [Fortuna sfiorata] Soggetto e sceneggiatura: Noda Kògo; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Saitò Tatsuo, Yoshikawa Mitsuko, Aoki Tomio, Ichimura Mitsuko, Seki Tokio, Mòri Teruo, Tsukita Ichirò, Sakamoto Takeshi, Okuni Ichirò; produ­ zione: Shochiku Kamata; lunghezza: 7 rulli, 2032 metri; durata: 74 minuti; pri­ ma: Cinema Teikokukan, Tokyo, 3 ottobre 1930. Perduto. Ojòsan [Signorina] Sceneggiatura: Kitamura Komatsu; ideatori di gag: Fushimi Akira, James Maki (Ozu Yasujirò), Ikeda Tadao; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Kurishima Sumiko, Okada Tokihiko, Saitò Tatsuo, Tanaka Kinuyo, Okada Sòtarò, Okuni

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_____________________________ Filmografia______________________________

Ichirò, Yamamoto Togo, Ogura Shigeru, Tatsuta Shizue, Mòri Teruo, Naniwa Tomoko, Wakabayashi Hiroo, Sakai Ichizó, Hikari Kimiko, Hata Jòji, Yokoo Dekao; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 12 rulli, 3705 metri; durata: 135 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 12 dicembre 1930. Perduto. Shukujo lo hige [Le dame e la barba] Soggetto e sceneggiatura: Kitamura Komatsu; ideatore di gag: James Maki (Ozu Yasujirò); operatore e montaggio: Shigehara Hideo, Kuribayashi Mino­ ru; assistente alla regia: Sasaki Kò, Kiyose Akira; assistente operatore: Atsuta Yùharu; luci: Nakajima Toshimitsu; scenografia: Kadota Yonekazu; interpre­ ti: Okada Tokihiko, Kawasaki Hiroko, Iida Chóko, Date Satoko, Tsukita Ichiro, Iizuka Toshiko, Yoshikawa Mitsuko, Sakamoto Takeshi, Saitò Tatsuo, Okada Sòtarò, Nanjò Yasuo, Katsuragi Fumiko, Tokkan Kozò (Aoki Tomio); produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 8 rulli, 2051 metri; durata: 75 mi­ nuti; prima: Cinema Asahiza, Osaka, 24 gennaio 1931.

Bijin aishù [Una triste bellezza] Soggetto: dal racconto La femme de marbré di Henri de Régnier; adattamen­ to: James Maki (Ozu Yasujirò); sceneggiatura: Ikeda Tadao; operatore: Shi­ gehara Hideo; interpreti: Okada Tokihiko, Saitò Tatsuo, Okada Sòtarò, Inoue Yukiko, Nara Shin’yò, Yoshikawa Mitsuko, Wakamizu Teruko, Iizuka To­ shiko; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 15 rulli, 4327 metri; durata: 158 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 29 maggio 1931. Perduto. Tòkyo no kdrasu [Il coro di Tokyo] Soggetto originale: Kitamura Komatsu; sceneggiatura: Noda Kògo; operatore e montaggio: Shigehara Hideo; assistente alla regia: Kiyose Akira, Hara Kenkichi, Negishi Hamao; assistente operatore: Atsuta Yùharu, Fujita Eijirò, Kuribayashi Minoru; luci: Nakajima Toshimitsu; scenografìa: Kadota Yo­ nekazu; interpreti: Okada Tokihiko, Yagumo Emiko, Sugawara Hideo, Taka­ mine Hideko, Saitò Tatsuo, Iida Chóko, Sakamoto Takeshi, Tani Reiko, Miyajima Ken’ichi, Yamaguchi Isamu; produzione: Shochiku Kamata; lun­ ghezza: 10 rulli, 2487 metri; durata: 90 minuti; prima: Cinema Teikokugekijó, Tokyo, 15 agosto 1931. Haru iva gofujin kara [In primavera vengono prima le signore] Soggetto: James Maki (Ozu Yasujirò); sceneggiatura: Ikeda Tadao, Yanai Takao; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Shirota Jiró, Saitó Tatsuo, Inoue Yukiko, Izumi Hiroko, Sakamoto Takeshi, Tani Reikò; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 7 rulli, 2021 metri; durata: 74 minuti; prima: Ci­ nema Shinjuku Shochiku, Tokyo, 29 gennaio 1932. Perduto.

Otona no mirti ehon: Umarete wa mila keredo (Sono nato, ma...) [Libro illustra­ to per adulti: Sono nato, ma...] Soggetto: James Maki (Ozu Yasujirò); sceneggiatura: Fushimi Akira, con in­ terventi di Ibushiya Geibei (Ozu Yasujirò); operatore e montaggio: Shigehara

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Hideo; assistente alla regia: Kiyose Akira, Hara Kenkichi; assistente operato­ re: Atsuta Yùharu, Irie Masao; scenografia: Kadota Takejirò, Kimura Yoshio; luci: Nakajima Toshimitsu; interpreti: Saitò Tatsuo,Yoshikawa Mitsuko, Su­ gawara Hideo, Tokkan Kozò (Aoki Tomio), Sakamoto Takeshi, Hayami Teruyo, Kato Seiichi, Kofujita Shoichi, Nishimura Seiji, Fujimatsu Shòtaró, Hayama Masao, Nomura Akio, Ishiwata Teruaki; produzione: Shochiku Ka­ mata; lunghezza: 9 rulli, 2507 metri; durata: 91 minuti; prima: Cinema Shòchikuza, Nagoya, 22 aprile 1932. Seishun no yurne ima izuko [Dove sono ora i sogni di gioventù?] Soggetto e sceneggiatura: Noda Kógo; operatore e montaggio: Shigehara Hi­ deo; assistente alla regia: Kiyose Akira, Hara Kenkichi; assistente operatore: Kuribayashi Minoru, Atsuta Yùharu, Irie Masao; luci: Nakajima Toshimitsu; interpreti: Egawa Ureo, Tanaka Kinuyo, Saitò Tatsuo, Takeda Haruo, Oyama Kenji, Ryù Chishù, Sakamoto Takeshi, Iida Chòko, Katsuragi Fumiko, Date Satoko; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 9 rulli, 2523 metri; durata: 92 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 13 ottobre 1932.

Mata au hi made [Fino al giorno in cui ci rivedremo] Sceneggiatura: Noda Kògo; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Okada Yoshiko, Oka Jòji, Nara Shin’yo, Kawasaki Hiroko, Iida Chòko, Date Sa­ toko, Yoshikawa Mitsuko; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 10 rul­ li, 2127 metri; durata: 78 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 24 no­ vembre 1932. Perduto.

Tòkyo no onna [Una donna di Tokyo] Soggetto: dal romanzo Twenty-Six Hours, di Ernst Schwartz7; adattamento e sceneggiatura: Noda Kògo, Ikeda Tadao; operatore: Shigehara Hideo; mon­ taggio: Ishikawa Kazuo; scenografia: Kanasu Takashi; assistente alla regia: Kiyose Akira, Hara Kenkichi, Kashiwabara Masaru, Hiratsuka Hiroo, assi­ stente operatore: Atsuta Yùharu, Irie Masao, Kuribayashi Minoru; luci: Nakajima Toshimitsu; interpreti: Okada Yoshiko, Egawa Ureo, Tanaka Ki­ nuyo, Nara Shin’yò; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 7 rulli, 1275 metri; durata: 47 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 9 febbraio 1933.

Hijòsen no onna [La donna della retata] Soggetto: James Maki (Ozu Yasujiro); sceneggiatura: Ikeda Tadao; operatore: Shigehara Hideo; montaggio: Ishikawa Kazuo, Kuribayashi Minoru; scenogra­ fia: Kadota Yonekazu; assistente alla regia: Kiyose Akira, Hara Kenkichi, Sano Toyotomi, Hiratsuka Hiroo; assistente operatore: Atsuta Yùharu, Irie Masao, ' Sia il romanzo sia l’autore non esistono. Ernst Schwartz è un nome di finzione che Ozu, Noda e Ikeda Tadao (i veri ideatori del soggetto) inventarono prendendo a prestito Ernst da Ernst Lubitsch e Schwartz da Hanns Schwartz (regista austriaco attivo negli anni venti e trenta). Ozu si divertì addirittura a inserire nei titoli di testa le date di nascita e di mor­ te di Schwartz (1882-1928). Si veda supra anche l’indicazione di Ozu stesso a proposito di questo film in Qualche parola sui miei film, p. 113.

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_____________________________ Filmografia______________________________ Irisawa Ryóhei, Hoshii Hideo, Hiroki Masamiki, Kinoshita Shòkichi (nome originario di Kinoshita Keisuke); luci: Nakajima Toshimitsu; interpreti: Tanaka Kinuyo, Oka Joji, Mizukubo Sumiko, Mitsui Hideo, Aizome Yumeko, Takayama Yoshiro, Kaga Koji, Nanjo Yasuo, Tani Reiko, Nishimura Seiji; con la collaborazione speciale di: Teikoku Kentòkai [Associazione giapponese boxe], Florida Dance Hall; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 10 rulli, 2730 metri; durata: 100 minuti; prima: Cinema Asahiza, Osaka, 15 aprile 1933.

Dekigokoro (Capriccio passeggero) Soggetto: James Maki (Ozu Yasujirò); sceneggiatura: Ikeda Tadao; operatore: Sugimoto Shòjirò; montaggio: Ishikawa Kazuo; scenografia: Kadota Yonekazu; assistente alla regia: Kiyose Akira, Hara Kenkichi; assistente operatore: Nagaoka Hiroyuki, Hoshii Hideo; luci: Nakajima Toshimitsu; interpreti: Sakamoto Takeshi, Fushimi Nobuko, Obinata Den, Iida Chòko, Tokkan Kozo (Aoki Tomio), Tani Reiko, Nishimura Reiji, Katò Seiichi, Yamada Naga­ masa; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 10 rulli, 2759 metri; durata: 100 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 7 settembre 1933. Haha o kowazuya [Chi non ama la propria madre?] Soggetto: Komiya Shùtarò (Ozu Yasujirò); adattamento: Noda Kògo; sceneg­ giatura: Ikeda Tadao; assistente alla sceneggiatura: Arata Masao; operatore: Aoki Isamu; interpreti: Iwata Yukichi, Yoshikawa Mitsuko, Obinata Den, Katò Seiichi, Mitsui Hideo, Nomura Shusei, Nara Shin’yò, Ryù Chishù, Ai­ zome Yumeko, Iida Chòko; produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 9 rul­ li11, 2559 metri; durata: 93 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 11 mag­ gio 1934.

Ukikusa monogatari (Storia di erbe fluttuanti) Soggetto: James Maki (Ozu Yasujirò); sceneggiatura: Ikeda Tadao; operatore e montaggio: Shigehara Hideo; scenografia: Hamada Tatsuo; assistente alla re­ gia: Hara Kenkichi, Negishi Hamao, Tanaka Tokio, Ishikawa Kazuo; assi­ stente operatore: Atsuta Yùharu, Irie Masao; luci: Nakajima Toshimitsu; in­ terpreti: Sakamoto Takeshi, Iida Chòko, Mitsui Hideo, Yagumo Rieko (nota di solito come Yagumo Emiko), Tsubouchi Yoshiko, Tokkan Kozó (Aoki Tomio), Tani Reiko, Nishimura Seiji, Yamada Nagamasa, Aono Kiyoshi, Aburai Munenobu, Agata Shùsuke; produzione: Shochiku Kamata; lunghez­ za: 10 rulli, 2438 metri; durata: 86 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 22 novembre 1934.

Hakoiri musume [Una ragazza cresciuta nella bambagia] Soggetto: Shikitei San’u*; sceneggiatura: Noda Kògo, Ikeda Tadao; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: lida Chòko, Tanaka Kinuyo, Sakamoto Takeshi, ’ Le versioni correntemente in circolazione del film risultano mancanti di due rulli, il pri­ mo e l’ultimo. ’ Nome di fantasia di Ozu. Cfr. Tateshina Nikki Kankòkai (a cura di), Tateshina nikki cit., p. 585.

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_________________________ Ozu, Scritti sul cinema________________________ Tokkan Kozò (Aoki Tomio), Takeuchi Ryóichi, Aono Kiyoshi, Yoshikawa Mitsuko, Agata Shùsuke, Oyama Kenji; produzione: Shochiku Kamata; lun­ ghezza: 8 rulli, 1847 metri; durata: 67 minuti; prima: Cinema Osaka Gekijò, Osaka, 11 gennaio 1935. Perduto.

Tòkyo no yado (Una locanda di Tokyo) Soggetto: Uinzaato Mone”; sceneggiatura: Ikeda Tadao, Arata Masao; opera­ tore e montaggio: Shigehara Hideo; assistente alla regia: Hara Kenkichi, Negi­ shi Hamao, Nishikawa Nobuo, Ishikawa Kazuo; assistente operatore: Atsuta Yùharu, Irie Masao, Sakurai Seiju; registrazione sonora: Tsuchihashi Haruo; composizione e direttore d’orchestra: Ito Senji; musica: Horiuchi Keizò; sce­ nografìa: Hamada Tatsuo; luci: Nakajima Toshimitsu; interpreti: Sakamoto Takeshi, Tokkan Kozò (Aoki Tomio), Suematsu Takayuki, Okada Yoshiko, Kojima Kazuko, Iida Chòko, Ryù Chishù; produzione: Shochiku Kamata; lun­ ghezza: 10 rulli, 2191 metri; durata: 80 minuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 21 novembre 1935.

Daigaku yoitoko [L’università è un bel posto] Soggetto: James Maki (Ozu Yasujiro); sceneggiatura: Arata Masao; operatore: Shigehara Hideo; interpreti: Konoe Toshiaki, Ryù Chishù, Kobayashi Tokuji, Oyama Kenji, Ikebe Tsuruhiko, Kusakabe Akira, Takasugi Sanae, Saitó Tat­ suo, Sugano Kiyoshi, Iida Chòko, Izumo Yaeko, Sakamoto Takeshi, Bakudan Kozò (Yokoyama Jun); produzione: Shochiku Kamata; lunghezza: 13 rulli, 2352 metri; durata: 86 minuti; prima: Cinema Osaka Gekijò, Osaka, 14 marzo 1936. Perduto. Kikugorò no Kagamijishi" [Kagamijishi di Kikugorò] Operatore: Shigehara Hideo; interprete: Onoe Kikugorò vi; produzione: Kokusai Bunka Shinkòkai, Shochiku Ofuna; lunghezza: 2 rulli, 530 metri; du­ rata: 19 minuti; prima: Teikoku Hoteru, Tokyo, 29 giugno 1936 (proiezione privata).

Hitori musuko (Il figlio unico) Soggetto: James Maki (Ozu Yasujiro); sceneggiatura: Ikeda Tadao, Arata Ma­ sao; operatore: Sugimoto Shòjirò; registrazione sonora: Shigehara Hideo, Ha­ segawa Eiichi; scenografia: Hamada Tatsuo; musica: Ito Senji; assistente alla regia: Hara Kenkichi, Negishi Hamao, Nishikawa Nobuo; assistente operato­ re: Atsuta Yùharu, Sakurai Seiju, Unosawa Hitoshi; luci: Nakajima Toshimit­ su; interpreti: Iida Chòko, Himori Shin’ichi, Hayama Masao, Tsubouchi Yo­ shiko, Yoshikawa Mitsuko, Tokkan Kozò (Aoki Tomio), Ryù Chishù, Na,c Nome di fantasia di Ozu, Ikeda Tadao e Arata Masao nato dalla distorsione della pro­ nuncia giapponese di without money. Cfr. ibid.., p. 585. " Questo documentario venne commissionato dalla fondazione Kokusai Bunka Shinkòkai (l’attuale Japan Foundation) per promuovere la cultura tradizionale giapponese e non andò in sala.

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______________________________ Filmografia______________________________ niwa Tomoko, Bakudan Kozò (Yokoyama Jun), Takamatsu Eiko, Katò Seii­ chi, Kojima Kazuko, Aono Kiyoshi; produzione: Shochiku Ofuna; lunghez­ za: 10 rulli, 2387 metri; durata: 103 minuti; durata della copia esistente: 82 mi­ nuti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 15 settembre 1936.

Shukujo wa nani o wasuretaka [Che cosa aveva dimenticato la signora?] Sceneggiatura: Fushimi Akira, James Maki (Ozu Yasujirò); operatore: Shi­ gehara Hideo, Atsuta Yùharu; registrazione sonora: Tsuchihashi Takeo, Se­ noo Yoshisaburò; montaggio: Hara Kenkichi; scenografia: Hamada Tatsuo; musica: Ito Senji; luci: Nakajima Toshimitsu; assistente alla regia: Negishi Hamao, Nishikawa Nobuo, Ishikawa Kazuo, Yoshimura Kòzaburò; interpreti: Kurishima Sumiko, Saitò Tatsuo, Kuwano Michiko, Sano Shùji» Sakamoto Takeshi, Iida Chóko, Uehara Ken, Yoshikawa Mitsuko, Hayama Masao, Tokkan Kozò (Aoki Tomio), Izumo Yaeko, Oyama Kenji, Naniwa Tomoko; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 8 rulli, 2051 metri; durata: 71 minu­ ti; prima: Cinema Teikokukan, Tokyo, 3 marzo 1937. Todake no kyòdai (Fratelli e sorelle della famiglia Toda) Sceneggiatura: Ikeda Tadao, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; musica: Ito Senji; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; luci: Naitò Kazuji; interpreti: Fuji­ no Hideo, Katsuragi Fumiko, Yoshikawa Mitsuko, Saitò Tatsuo, Miyake Ku­ niko, Saburi Shin, Tsubouchi Yoshiko, Konoe Toshiaki, Takamine Mieko, Kuwano Michiko, Kawamura Reikichi, Iida Chóko, Hayama Masao, Oka­ mura Fumiko, Ryù Chishu, Sakamoto Takeshi, Nishimura Seiji» Tani Reiko, Fumiya Chiyoko, Izumo Yaeko, Takeda Haruo, Yamaguchi Isao; produzio­ ne: Shochiku Ofuna; lunghezza: 11 rulli, 2896 metri; durata: 105 minuti; pri­ ma: tutte le sale di proprietà della Shochiku in Giappone, 1° marzo 1941.

Chichi ariki (C’era un padre) Sceneggiatura: Ikeda Tadao, Yanai Takao, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; scenografia: Hamada Tatsuo; registrazione sonora: Senno Yoshisaburó; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; assistente alla regia: Nishikawa Nobuo, Suzuki Kiyoshi, Yamamoto Kózò, Tsukamoto Yoshio; assistente operatore: Saitò Takeshi, Suzuki Kazuo, Inoue Yasuji, Takeuma Giichi; luci: Naitó Ka­ zuji; musica: Saiki Gyóichi; interpreti: Ryù Chishù, Sano Shùji» Tsuda Ha­ ruhiko, Saburi Shin, Sakamoto Takeshi, Mito Mitsuko, Otsuka Masayoshi, Himori Shin’ichi, Nishimura Seiji, Tani Reikò, Kawara Kanji, Miyajima Ken’ichi, Fumiya Chiyoko, Nara Shin’yó, Oyama Kenji, Mitsui Hideo, Hayama Masao, Nagai Tatsuo, Fujimatsu Shótaró; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 11 rulli, 2588 metri; durata: 94 minuti; durata della copia at­ tualmente in circolazione: 87 minuti; prima: tutte le sale della ripartizione hakkeiu, 1° aprile 1942. 11 Con l’intensificarsi della guerra, il governo, per controllare meglio il contenuto dei film e risparmiare sui costi delle pellicole, impose la concentrazione delle ca$e cinematogra-

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Ozu, Scritti sul cinema_____________________ .— Nagaya shinshiroku [Il «chi è» dei signori del casamento] Sceneggiatura: Ikeda Tadao, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; musica: Saitò Ichirò; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Isono Haruo; montaggio: Sugihara Yoshi; assistente alla regia: Hongò Takeo, Tsukamoto Shòkichi, Yamamoto Kòzò, Tashiro Kòzò, Take­ da Yoshiharu; assistente operatore: Nakamura Kiyoharu, Kawamata Takashi, Inoue Haruji, Oikawa Motoshige; interpreti: Iida Chòko, Aoki Hòhi (Tomihiro), Ozawa Eitaro, Yoshikawa Mitsuko, Kawamura Reikichi, Ryù Chi­ shù, Sakamoto Takeshi, Takamatsu Eiko, Nagafune Fujo, Tani Yoshino, Tonoyama Taiji, Nishimura Seiji; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 7 rulli, 1973 metri; durata: 72 minuti; prima: 20 maggio 1947.

Kaze no naka no mendori [Una gallina nel vento] Sceneggiatura: Saitò Ryòsuke, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; sce­ nografia: Hamada Tatsuo; musica: Ito Senji; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Isono Haruo; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; assistente al­ la regia: Yamamoto Kòzò, Tsukamoto Shòkichi, Tashiro Kòzò, Nakagawa Yoshinobu; assistente operatore: Inoue Haruji, Akamatsu Takashi, Kawama­ ta Takashi, Oikawa Motoshige,Tonegawa Yoshitsugu; interpreti: Sano Shùji, Tanaka Kinuyo, Murata Chieko, Ryù Chishù, Sakamoto Takeshi, Takamatsu Eiko, Fumiya Chiyoko, Nagao Toshinosuke, Okamura Fumiko, Shimizu Ichiro, Mitsui Kòji, Tani Yoshino, Nagafune Fujo, Aoki Hòhi; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 10 rulli, 2296 metri; durata: 83 minuti; prima: Ci­ nema Kokusai Gekijò, Tokyo, 17 settembre 1948.

Banshun (Tarda primavera) Soggetto: Chichi to musume [Padre e figlia] di Hirotsu Kazuo; sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; scenografia: Hamada Tat­ suo; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Isono Haruo; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; musica: Ito Senji; assistente alla regia: Yamamoto Kòzò, Tsukamoto Shòkichi, Tashiro Kòzò, Saitò Takeichi; assistente operatore: Inoue Haruji, Kawamata Takashi, Oikawa Motoshige, Tonegawa Yoshitsugu, Matsu­ da Takeo; interpreti: Ryù Chishù, Hara Setsuko, Tsukioka Yumeji, Sugimura Haruko, Aoki Hòhi, Usami Jun, Miyake Kuniko, Mishima Masao, Tsubouchi Yoshiko, Katsuragi Yòko, Shimizu Ichirò, Tanizaki Jun, Takahashi Toyoko; in­ terpreti della scena Koi no mai dello spettacolo di teatro nò Kakitsuhata della Scuola Kanzeryù: Umewaka Manzaburò, Nojima Makoto; produttore: Yama­ moto Takeshi; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 12 rulli, 2964 metri; du­ rata: 108 minuti; prima: Cinema Kokusai Gekijò, Tokyo, 13 settembre 1949. fiche in tre sole compagnie. Cfr. Anderson - Richie, The Japanese Film cit., pp. 142-5. Allo stesso modo, all’inizio del 1942, riorganizzò le attività di distribuzione in un’unica casa di­ stributrice, la Eiga Haikyùsha. La distribuzione venne ripartita in tutto il paese in due grup­ pi: le sale rosse (kòkeiì) e le sale bianche (hakkeì). Cfr. H. Okada, Nitrate Film Production in Japan: A Historical Background of Early Days, in The Oxford Handbook ofJapanese Cine­ ma, a cura di D. Miyao, Oxford University Press, New York 2014, p. 285.

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______________________________ Filmografia______________________________

Munekata kyòdai [Le sorelle Munekata] Soggetto: Osaragi Jirò; sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujiro; operatore: Ohara Jòji; luci: Fujibayashi Kò; registrazione sonora: Kamiya Masakazu; mu­ sica: Saitò Ichirò; scenografia: Shimogawara Tomoo; assistente alla regia: Uchikawa Seiichiro; montaggio: Goto Toshio; produttore: Koi Eisei, Higo Hiroshi; interpreti: Tanaka Kinuyo, Takamine Hideko, Uehara Ken, Takasu­ gi Sanae, Ryù Chishù, Yamamura Sò, Hori Yuji, Saitò Tatsuo, Fujiwara Kamatari, Tsubouchi Yoshiko, Ichinomiya Atsuko, Sengoku Noriko, Kawamu­ ra Reikichi; produzione: Shintoho; lunghezza: 12 rulli, 3080 metri; durata: 112 minuti; prima: Cinema Marunouchi Piccadilly, Tokyo, 25 agosto 1950. Bakushù (Il tempo del raccolto del grano) Sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujiro; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Taka­ shita Itsuo; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; musica: Ito Senji; assistente al­ la regia: Yamamoto Kòzò; assistente operatore: Kawamata Takashi; interpre­ ti: Hara Setsuko, Ryù Chishù, Awashima Chikage, Miyake Kuniko, Sugai Ichirò, Higashiyama Chieko, Sugimura Haruko, Nihon’yanagi Hiroshi, Igawa Kuniko, Takahashi Toyoko, Kódò Kuninori, Miyaguchi Seiji, Murase Zen, Shirosawa Isao, Ito Kazuyo, Tanizaki Jun, Sano Shùji; produttore: Ya­ mamoto Takeshi; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 13 rulli 3410 me­ tri; durata 124 minuti; prima: 3 ottobre 1951. Ochazuke no aji (Il sapore del riso al tè verde) Sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujiro; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Taka­ shita Itsuo; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; musica: Saitò Ichirò; assistente alla regia: Yamamoto Kòzò; assistente operatore: Kawamata Takashi;interpreti: Saburi Shin, Kogure Michiyo, Tsuruta Kòji, Ryù Chishù, Awashima Chikage, Tsushima Keiko; produttore: Yamamoto Takeshi; produzione: Sho­ chiku Ofuna; lunghezza: 12 rulli, 3156 metri; durata 115 minuti; prima: 1° ot­ tobre 1952.

Tòkyo monogatari (Viaggio a Tokyo) [Un racconto di Tokyo] Sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujiro; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Taka­ shita Itsuo; musica: Saitò Takanobu; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; assi­ stente alla regia: Yamamoto Kòzò; assistente operatore: Kawamata Takashi; interpreti: Ryù Chishù, Higashiyama Chieko, Hara Setsuko, Sugimura Ha­ ruko, Yamamura Sò, Miyake Kuniko, Kagawa Kyòko, Tòno Eijirò, Nakamu­ ra Nobuo, Osaka Shirò, Toake Hisao, Nagaoka Teruko, Sakura Mutsuko, Takahashi Toyoko, Abe Tòru, Murase Zen, Mòri Mitsuhiro, Nagao Toshinosuke; produttore: Yamamoto Takeshi; produzione: Shochiku Ofuna; lun­ ghezza: 14 rulli, 3702 metri; durata 135 minuti; prima: 3 novembre 1953. 227

_________________________ Ozu, Scritti sul cinema,________________________ Sòshun (Inizio di primavera) [Primavera acerba] Sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Katò Masao; musica: Saitò Takanobu; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; assisten­ te alla regia: Tashiro Kòzò; assistente operatore: Kawamata Takashi; interpre­ ti: Awashima Chikage, Ikebe Ryò, Takahashi Teiji, Kishi Keiko, Ryù Chishù, Yamamura Sò, Fujino Takako, Taura Masami, Sugimura Haruko, Urabe Kumeko, Miyake Kuniko, Tòno Eijirò, Mitsui Kòji, Katò Daisuke, Suga Fujio, Tanaka Haruo, Nakakita Chieko, Yamamoto Kazuko, Nagai Tatsuo, Moro­ zumi Keijirò, Nakamura Nobuo, Miyaguchi Seiji, Nagaoka Teruko, Masuda Junji, Sugawara Tsùsai, Sugita Hiroko, Murase Zen; produttore: Yamanouchi Shizuo; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 16 rulli, 3956 metri; durata 144 minuti; prima: 29 gennaio 1956.

Tòkyo boshoku [Crepuscolo a Tokyo] Sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; registrazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Aomatsu Akira; musica: Saitò Takanobu; montaggio: Hamamura Yoshiyasu; as­ sistente alla regia: Yamamoto Kòzò; assistente operatore: Kawamata Takashi; interpreti: Hara Setsuko, Arima Ineko, Ryù Chishù, Yamada Isuzu, Takaha­ shi Teiji, Taura Masami, Sugimura Haruko, Yamamura Sò, Shin Kinzò, Fujiwara Kamatari, Nakamura Nobuo, Miyaguchi Seiji, Suga Fujio, Urabe Kumeko, Miyoshi Eiko, Tanaka Haruo, Yamamoto Kazuko, Nagaoka Te­ ruko, Sakura Mutsuko, Masuda Junji, Shimamura Toshio, Sugawara Tsùsai; produttore: Yamanouchi Shizuo, produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 15 rulli, 3841 metri; durata 140 minuti; prima: 30 aprile 1957. Higanbana (Fiori d’equinozio) Soggetto: Satomi Ton; sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; scenografia: Hamada Tatsuo; registrazione sonora: Senoo Yo­ shisaburò; musica: Saitò Takanobu; luci: Aomatsu Akira; montaggio: Hama­ mura Yoshiyasu; colore: Oikawa Motoshige; assistente alla regia: Yamamoto Kòzò; assistente operatore: Kawamata Takashi; interpreti: Saburi Shin, Tanaka Kinuyo, Arima Ineko, Kuga Yoshiko, Sada Keiji, Takahashi Teiji, Kuwano Miyuki, Ryù Chishù, Naniwa Chieko, Watanabe Fumio, Nakamura Nobuo, Kita Ryùji, Takahashi Toyo (Toyoko), Sakura Mutsuko, Nagaoka Teruko, Toake Hisao, Suga Fujio, Egawa Ureo, Sugawara Tsùsai, Takeda Norikazu, Kobayashi Tokuji, Yamamoto Fujiko; produttore: Yamanouchi Shizuo; pro­ duzione: Shochiku Òfuna; lunghezza: 12 rulli, 3225 metri; durata 118 minuti; prima: Cinema Tokyo Gekijò, Tokyo, 7 settembre 1958.

Ohayò (Buon giorno) Sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo; musica: Mayuzumi Toshirò; registrazione sonora: Se­ noo Yoshisaburò; luci: Aomatsu Akira; montaggio: Hamamura Yoshiyasu;

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_____________________________ Filmografia _ _____________________________ colore: Oikawa Motoshige; assistente alla regia: Tashiro Kòzò; assistente ope­ ratore: Tonegawa Yoshitsugu; interpreti: Sada Keiji, Kuga Yoshiko, Ryù Chi­ shù, Miyake Kuniko, Sugimura Haruko, Shitara Kòji, Shimazu Masahiko, Takahashi Toyo, Sawamura Sadako, Tòno Eijirò, Nagaoka Teruko, Miyoshi Eiko, Tanaka Haruo, Suga Fujio, Tonoyama Taiji, Morozumi Keijirò, Sakura Mutsuko, Takeda Norikazu, Shimamura Toshio, Sugawara Tsùsai; produtto­ re: Yamanouchi Shizuo; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 7 rulli, 2570 metri; durata 94 minuti; prima: 12 maggio 1959.

Ukikusa [Erbe fluttuanti] Sceneggiatura: Noda Kógo, Ozu Yasujiro; operatore: Miyagawa Kazuo; sce­ nografia: Shimogawara Tomoo; musica: Saitò Takanobu; registrazione sono­ ra: Suda Takeo; luci: Ito Sachio; colore: Tanaka Shòzò; istruzione teatrale: Ue­ da Kichijirò; assistente alla regia: Nakamura Baiya; montaggio: Suzuki Tòyò; interpreti: Nakamura Ganjirò, Kyó Machiko, Wakao Ayako, Kawaguchi Hi­ roshi, Sugimura Haruko, Nozoe Hitomi, Ryù Chishù, Mitsui Kòji, Tanaka Haruo, Hoshi Hikaru, Urabe Kumeko, Takahashi Toyo, Sakura Mutsuko, Shimazu Masahiko, Sugawara Tsùsai; progettazione: Matsuyama Hideo; pro­ duttore: Nagata Masaichi; produzione: Daiei; lunghezza: 9 rulli, 3259 metri; durata 119 minuti; prima: 17 novembre 1959. Akibiyori (Tardo autunno) [Una bella giornata d’autunno] Soggetto: Satomi Ton; sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujiro; operatore: Atsuta Yùharu; scenografia: Hamada Tatsuo; musica: Saitò Takanobu; regi­ strazione sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Ishiwatari Kenzò; montaggio: Ha­ mamura Yoshiyasu; colore: Oikawa Motoshige; assistente alla regia: Tashiro Kòzò; interpreti: Hara Setsuko, Tsukasa Yòko, Okada Mariko, Sada Keiji, Kuwano Miyuki, Mikami Shin’ichiró, Saburi Shin, Ryù Chishù, Nakamura Nobuo, Miyake Kuniko, Sawamura Sadako, Kita Ryùji, Watanabe Fumio, Chino Kakuko, Tashiro Yuriko, Suga Fujio, Takahashi Toyo, Sakura Mut­ suko, Toake Hisao, Iwashita Shima, Sugawara Tsùsai, Shitara Kòji, Shimazu Masahiko, Takeda Norikazu; produttore: Yamanouchi Shizuo; produzione: Shochiku Ofuna; lunghezza: 11 rulli, 3518 metri; durata 128 minuti; prima: 13 novembre 1960. Kohayagawake no aki (L’autunno della famiglia Kohayagawa) Sceneggiatura: Noda Kògo, Ozu Yasujiro; operatore: Nakai Asakazu; sceno­ grafia: Shimogawara Tomoo; luci: Ishii Chòshiró; musica: Mayuzumi Toshi­ ro; registrazione sonora: Nakagawa Kóichi; assistente alla regia: Takemae Jùkichi; montaggio: Iwashita Kóichi; interpreti: Hara Setsuko, Tsukasa Yòko, Aratama Michiyo, Kobayashi Keiju, Takarada Akira, Katò Daisuke, Dan Reiko, Shirakawa Yumi, Sazan Kakyù, Fujiki Yù, Sugimura Haruko, Mochi­ zuki Yùko, Naniwa Chieko, Ryù Chishù, Togo Haruko, Tamaki Michiyo, Shimazu Masahiko, Endó Tatsuo, Uchida Asao, Morishige Hisaya, Nakamu­ ra Ganjirò; produttori: Sugimoto Sanezumi; Kaneko Masakatsu, Teramoto

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____________________ .Ozu, Scritti sul cinema

Tadahiro; produzione: Takarazuka Eiga/Toho; lunghezza: 7 rulli, 2815 metri; durata 103 minuti; prima: 29 ottobre 1961.

Sanma no aji (Il gusto del sakè) [Il sapore del luccio sauro del Pacifico] Sceneggiatura: Noda Kógo, Ozu Yasujirò; operatore: Atsuta Yùharu; sceno­ grafia: Hamada Tatsuo, Ogiwara Shigeo; musica: Saito Takanobu; registrazio­ ne sonora: Senoo Yoshisaburò; luci: Ishiwatari Kenzò; montaggio: Hamamu­ ra Yoshiyasu; assistente alla regia: Tashiro Kòzò; assistente operatore: Oikawa Motoshige; interpreti: Ryù Chishù, Iwashita Shima, Sada Keiji, Okada Ma­ riko, Yoshida Teruo, Maki Noriko, Mikami Shin’ichiró, Nakamura Nobuo, Tono Eijiro, Miyake Kuniko, Kishida Kyoko, Tamaki Michiyo, Kita Ryùji, Takahashi Toyo, Suga Fujio, Katò Daisuke, Sugimura Haruko, Sugawara Tsùsai; produttore: Yamanouchi Shizuo; produzione: Shochiku Ofuna; lun­ ghezza: 9 rulli, 3087 metri; durata 113 minuti; prima: 18 novembre 1962.

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SCRITTI SUL CINEMA

Elenco dei testi citati

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_______________________ SCRITTI SUL CINEMA

Elenco delle illustrazioni

1. Ozu Yasujirò, un ritratto. 2. Ozu sul set di Sono nato, ma... con Sugawara Hideo (a sinistra) e Aoki Tomio (Tokkan Kozò) (a destra), 1932. 3. Tanaka Kinuyo (a sinistra) e Oka Jòji (a destra) in Hijósen no onna, 1933. 4. Ozu (a sinistra) e Yamanaka Sadao (a destra) sul fronte cinese, Jurong, 12 gennaio 1938. 5. Ozu al fronte fa il bagno in un bidone di benzina, Xinyang, 18 ottobre 1938. 6. Fotografia di classe davanti al Grande Buddha di Kamakura in Cera un pa­ dre, 1942. 7. Ryù Chishù (a sinistra) e Tsuda Haruhiko (a destra) in Cera un padre, 1942. 8. Ozu gira in esterni il film Buon giorno, 1959. 9. Ozu e la macchina da presa in posizione bassa. 10. Tarda primavera, foto ricordo dello staff per il completamento del film. Al centro Ozu, alla sua destra Hara Setsuko, 1949. 11. lida Chòko e Aoki Tornio (Tokkan Kozò) in Nagaya shinshiroku, 1947. 12. Ozu trucca Hara Setsuko sul set di Viaggio a Tokyo, 1953. 13. Ozu (al centro) sul set di Viaggio a Tokyo con Ryù Chishù (a sinistra) e Ha­ ra Setsuko (a destra di spalle), 1953. 14. Ozu dirige Viaggio a Tokyo, 1953. 15. Hara Setsuko e Ryù Chishù in Viaggio a Tokyo, 1953. 16. Ozu e l’amata madre con cui visse tutta la vita. 17. Ozu gioca con la madre danzando Torà torà in occasione del 23° anniversa­ rio della morte del padre, 1956. 18. Ozu e il sakè.

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SCRITTI SUL CINEMA

Indice dei film *

Akibiyori, vedi Tardo autunno Alba di gloria (Young Mister Lincoln, 1939), 58 Al di là delle tenebre (Magnificent Obses­ sion, 1935), 93n All’Ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, 1930), 151 Angelo (Angel, 1937), 13 In Angelo ubriaco, L’ (Yoidore tenshi, 1948), 191 e n Ani to sono imóto [Un fratello e sua sorella minore, 1939], 13n Anjòke no butòkai [Il ballo di casa Anjò, 1947], 191n Aoi tori [L’uccellino azzurro, 1928], 44n Ashi ni sawatta kòun [Fortuna sfiorata, 1930], 111 Atarashii tsuchi, vedi Mitsucho, la figlia del samurai Avventurieri dell’aria (Only Angels Have Wings, 1939), 164 Bakushù, vedi II tempo del raccolto del grano Ballata di Narayama, La (Narayamabushikò, 1983), 36n Bambini dell’alveare, I [Hachi no su no kodomorachi, 1948], lOn, 192 Bangaku no isshò[Vitadi Bangaku, 1933], 161

Banshun, vedi Tarda primavera Bijin aishù [Una triste bellezza, 1931], 51, 53n, lOOn, 111 Buon giorno (Ohayò, 1959), 122,123,213n, 215n

Cane randagio (Norainu, 1949), XI, 201 Capriccio passeggero (Dekigokoro, 1933), 14 e n, 97n, lOOn, 102n, 114,161,197n C’era un padre (Chichi ariki, 1942), XXI, 13n, 2In, 75, 76, 78-80, 82,88,89,92 e n, 93,116,118,142n, 159n, 168 Chichi ariki, vedi C’era un padre Città nuda, La (The Naked City, 1948), 193 en Civiltà (Civilization, 1916), 24 e n Coro di Tokyo, Il (Tòkyo no kòrasu, 1931), 51,52,112,201 n Cuore di vetro (Herz aus Glas, 1976), xi

Daibutsusama to kodomotachi [I bambini e la statua di Buddha, 1952], 192n Daigaku wa detakeredo [Mi sono laureato, ma..., 1929], 12,108 e n, 110 Daigaku yoitoko [L’università è un bel po­ sto, 1936], 115 Daikon to ninjin [Rafano bianco e carote, 1964], 63n Dekigokoro, vedi Capriccio passeggero Diavolo probabilmente, Il (Le Diable probablement, 1977), xi

* I titoli dei film del presente elenco vengono riportati così come sono citati nel testo. In dettaglio: per i film non usciti in Italia viene indicato il titolo originale seguito, fra parentesi quadre, dalla traduzione letterale; per i film usciti in Italia viene indicato il titolo italiano seguito, fra parentesi tonde, dal titolo originale e dalla traduzione letterale quando questa è palesemente lontana dal titolo dell’edizione italiana. Per Ì soli film di Ozu, in aggiunta a que­ sto criterio, vengono inseriti per facilità di consultazione anche i titoli originali dei film usci­ ti in Italia, con il rimando al titolo italiano.

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Ozu, Scritti sul cinema________________________ Hitori musuko, vedi II figlio unico Hogaraka ni ayume [Andiamo avanti alle­ gramente!, 1930], 13n, 108n, 110,114 Hotaru no hikari [La luce delle lucciole, 1938], 146, 156n Hyóheki [Parete di ghiaccio, 1958], 215

Donna di Parigi, La (A Woman in Paris, 1923), 20, 79 Donna proibita, La (Back Street, 1932), 93n Duello al sole (Duel in che Sun, 1951), 58 Dumbo (Dumbo, 1941), 180 È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town, 1936), 131 Ereditiera, L’ (The Heiress, 1949), 102 Erogami no onryó [Lo spirito vendicativo di Eros, 1930], 111

Idiota, L’ (Hakuchi, 1951), XI, 201n Ikiru chikara (La forza di vivere, 1930], 109 In nome di Dio (Three Godfathers, 1948), 58n Inizio di primavera (Só shun, Primavera acerba, 1956), 33, 122 Io ti salverò (Spellbound, 1945), 180n

Fantasia [Fantasia, 1940], 180 Femmina folle (Leave Her to the Heaven, 1945), 93n Figlio unico, Il (Hitori musuko, 1936), 38, 99,100n, 113n, 115,118,164,166 Fiori d’equinozio (Higanbana, 1958), 19n, 122, 182n, 207,213 e n, 215 e n Follia della metropoli, La (American Mad­ ness, 1932), 131 Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Todake no kyódai, 1941), XXI, 21n, 68,73,75,77n, 78,93, 117 e n, 125,168n, 197n, 201 n Fujisan - Sono shokubutsu shakai [II Monte Fuji con la sua vegetazione, 1973], 75n Furore (The Grapes of Wrath, 1940), 58, 180

Kabocha [Zucca, 1928), 12, 106 Kagirinaki zenshin [Un avanzamento senza fine, 1937], 116,132 Kaishain seikatsu [La vita di un impiegato, 1929], 12, 29, 79,109 Kariboshi kiri uta [Canto della lavorazione dell’erba elefantina, 1959], 75n Kawaraban Kachikachiyama [Kachikachiyama - Una versione giornalistica, 1934], 10,105 Kaze no naka no mendori [Una gallina nel vento, 1948], 60,119 e n, 142n Kekkongaku nyùmon [Introduzione al ma­ trimonio, 1930], 108n, 109, HOn Kick In [Kick in, 1922], 1 In Kinuyo no hatsukoi [Il primo amore di Ki­ nuyo, 1940], 202n Kóchiyama Sóshun [Kóchiyama Sòshun, 1936], 163n Kodomo no shiki [Le quattro stagioni dei bambini, 1939], 160 Kohayagawake no aki (L’autunno della fa­ miglia Kohayagawa, 1961), 125 Konigsmark (Konigsmark, 1935), 38 Kurutta kajitsu, vedi La stagione del sole

Gakusei romansu - Wakaki hi, vedi Giorni di gioventù Gantarò kaidó [I viaggi di Gantarò, 1934], 163n Giorni di gioventù (Gakusei romansu Wakaki hi, Amori studenteschi - Giorni di gioventù, 1929), 107, 1 lOn, 123n, 218n Gusto del sakè, Il (Sanma no aji, Il sapore del luccio sauro del Pacifico, 1962), 19n, 62,63n, 125, 126n,215n

Haha o kowazuya [Chi non ama la propria madre?, 1934], 114 Hakoiri musume [Una ragazza cresciuta nella bambagia, 1935], 14n, 114,119 Haru wa gofujin kara [In primavera vengo­ no prima le signore, 1932], 112, 159n Hijósen no onna [La donna della retata, 1933], 114 Higanbana, vedi Fiori d’equinozio Hikkoshi fùfu [Una coppia in movimento, 1928], 9, 12, 106

Leggenda di Narayama, La (Narayamabu­ shi kó, 1958), 36n Locanda di Tokyo, Una (Tokyo no yado, 1935), 14 e n, lOOn, 113n, 115 Luna sulle rovine, La (Kó jó no tsuki, 1937), 9n Madamu to nyóbó [La signora e mia mo­ glie, 1931], lOn, 113en Marocco (Morocco, 1930), 45 e n

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------------------------------------------ Indice dei film Mau au hi made [Fino al giorno in cui ci ri­ vedremo, 1932], 13n, 113 e n Matrimonio in quattro (The Marriage Cir­ cle, 1924), 20, 79 Mitsucho la figlia del samurai (Atarashii tsuchi, La nuova terra, 1937), 175 e n Munekata kyòdai [Le sorelle Munekata, 1950], 16,19, 120,201n Nagaya shinshiroku [Il «chi è» dei signori del casamento, 1947], 2In, 57, 58, 60,99, 119 Nascita di una nazione (The Birth of a Na­ tion, 1915), 24n Nezumikozò Jirokichi: dóchù no maki (Jirokichi il piccolo topo: in viaggio, 1933J, 161 e n Nezumikozò Jirokichi: Edo no maki [Ji­ rokichi il piccolo topo: a Edo, 1933] 161 en Nezumikozò Jirokichi: hutatabi Edo no maki [Jirokichi il piccolo topo: di nuovo a Edo, 1933], 161 e n Nijùshi no hitomi [Ventiquattro pupille, 1954], 216n Nikutaibi [Bellezza del corpo, 1928], 9, 12, 14,107 Ninjó kamifùsen [Sentimenti umani: palloni di carta, 1937], 163n Non rimpiango la mia giovinezza (Waga seishun ni kuinashi, 1946), XI, 201 n Notti calde a Tokyo (Shòrisha, Il vincitore, 1957), 204 Nyòbò funshitsu [Moglie smarrita, 1928], 9, 12,106 Ohayò, vedi Buon giorno Ochazuke no aji, vedi II sapore del riso al tè verde Ojòsan [Signorina, 1930], 111 Ombre malesi (The Letter, 1941), 58 Otomegokoro sannin kyòdai [Tre sorelle con il cuore di fanciulla, 1935], 156n Otòto [Il fratello minore, 1960], 124n

Paraocchi (Hoodman Blind, 1923), lien Pattuglia, La (Gonin no sekkòhei, Cinque ricognitori, 1938), 146 e n, 147n, 156 e n Piccole volpi (The Little Foxes, 1941), xn, 58

Più grande avventura, La (Drums along the Mohawk, 1939), 58 Posto al sole, Un (A Place in the Sun, 1951), 20 Prigione senza sbarre (Prison sans barreaux, 1938), 164, 165

Quarantasette ronin,I(Chushingura, 1932), 27 Racconti della luna pallida d’agosto, I (Ugetsu monogatari, 1953), 13n, 123n, 191n,213n Rashomon (Rashòmon, 1950), 124n, 191 n, 213n Rissa tra amici in stile giapponese (Wasei kenka tomodachi, 1929), 108 Rakudai wa shitakeredo [Sono stato boccia­ to, ma..., 1930], HOen

Sanma no aji, vedi II gusto del sakè Sanpaku yokka, goji no kane [Tre notti e quattro giorni, la campana delle cinque, 2015], 15n Sapore del riso al tè verde, Il (Ochazuke no aji, 1952), 17,21,117,121,168 Seishun no yume ima izuko [Dove sono ora i sogni di gioventù?, 1932], 112 Seki no Yatappe [Yatappe di Seki, 1935], 163n Sengoku guntòden [Storie di ladri nell’epo­ ca degli Stati combattenti, 1937], 39n Senka no hate [Oltre il campo di battaglia, 1950], 16 Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946), xn, 58 Shukujo to hige [Le dame e la barba, 1931], 13n, 111,112,202n Shukujo wa nani o wasuretaka [Che cosa aveva dimenticato la signora?, 1937], 2In, lOOn, 11 On, 116,142n, 167 Shunkinshò: Okoto lo Sasuke [Episodi del­ la vita di Shunkin: Okoto e Sasuke, 1935], 53n Signora Miniver, La (Mrs. Miniver, 1942), 58 Sono go no hachi no su no kodomotachi [I bambini dell’alveare: che cosa è accaduto dopo, 1951], 192n Sono nato, ma... (Umarete wa mitakeredo, 1932), 27, 99,112, 166,167n, 197n, 221n

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_________________________ Ozu, Scritti sul cinema_________________________ Sono yo no tsuma [La moglie, quella notte, 1934], 53n, 110 Sòshun, vedi Inizio di primavera Specchio della vita, Lo (Imitation of Life, 1934), 93n Stagione del sole, La [Kurutta kajitsu, Frut­ to pazzo, 1956], 203n, 215n Storia di erbe fluttuanti (Ukikusa monoga­ tari, 1934), 14 e n, 114,123n, 197n

Taiyò no kisetsu (La stagione del sole, 1956], 203n, 204 Takara no yama [La montagna del tesoro, 1929], 9,12,107 Tange Sazen yowa: hyakuman ryò no tsubo [Una storia sconosciuta di Tange Sazen: la giara da un milione di ryò, 1935], 163n Tarda primavera (Banshun, 1949), XI, XXI, 16,19,60,99,101, 103, 119, 197n Tardo autunno (Akibiyori, Una bella gior­ nata d’autunno, 1960), 19n, 63n, 124, 215n Tempo del raccolto del grano, Il (Bakushù, 1951), XXI, 16, 99 e n, 101, 103, 104, 121, 142n, 197n, 202n Todake no kyòdai, vedi Fratelli e sorelle della famiglia Toda Tokkan kozò [Un monello incontenibile, 1929], 9,14n,109 Tòkyo boshoku [Crepuscolo a Tokyo, 1957], 122 Tokyo di notte (Arashi o yobu otoko, L’uo­ mo che chiamava le tempeste, 1957), 204 Tòkyo monogatari, vedi Viaggio a Tokyo Tòkyo no kòrasu, vedi II coro di Tokyo Tòkyo no onna [Una donna di Tokyo, 1933], 113 e n Tòkyo no yado, vedi Una locanda di Tokyo Tonati no Yae-chan [La nostra vicina, la si­ gnorina Yae, 1934], 13n

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Tsuki wa noborinu [È sorta la luna, 1955], 58,119en, 129n Ubaguruma [La carrozzina, 1956], 204 Ukikusa [Erbe fluttuanti, 1959], 32, 123, 213n Ukikusa monogatari, vedi Storia di erbe fluttuanti Uma [Il cavallo, 1941], 70n, 75 Umaretc wa mitakeredo, vedi Sono nato, ma...

Via col vento (Gone with the wind, 1939), 19,180 Via del tabacco, La (Tobacco Road, 1941), 180 Viaggio a Tokyo (Tòkyo monogatari, Un racconto di Tokyo, 1953), X, XIV, 40n, 121 Vita di Oharu donna galante, La (Saikaku ichidai onna, 1952), 123n

Wakai kemono (La giovane bestia, 1958], 211n Wakaregumo [Nubi separate, 1951], 202 Wagu no ama [Le pescatrici di perle di Wagu, 1941], 75n, 82 e n Wakaki hi, vedi Giorni di gioventù Wakòdo no yume [Sogni di gioventù, 1928], 12,30n, 106 Wasei kenka tomodachi, vedi Rissa tra ami­ ci in stile giapponese Wrath of the Gods, The [L’ira degli dei, 1914], 38n Yamato - Dentò no sangyòhen [Yamato Le attività produttive tradizionali, 1941], 81 e n Yoru no kiba [Le zanne della notte, 1958], 204 Zange no yaiba [La spada della penitenza, 1927], 6,11 e n, 31,105,106

SCRITTI SUL CINEMA-----------------------------------

Indice dei nomi

Abe no Nakamaro, 129 e n Akiyama, Kòsaku, 118n, 161 e n Akutagawa, Ryunosuke, 24 e n, 45 Anderson, Joseph L., 7n, 15n, 27n, 38n, 44n, 47n, 60n, 62n, 86n, HOn, 124n, 125n, 131n, 175n, 187n, 188n, 192n, 210n, 214n, 226n Andreini, Attilio, 152n Aoki, Tornio, 109 Arata, Masao, 224n Arima, Ineko, 213 e n Atsuta, Yùharu, xvi, 15 e n, 82, 106, 107n, 119n, 150n

Baccini, Giovanna, 53 n Barker, Reginald, 24n Bashò, 41 e n Bean, Jennifer M.» 23n Bell, Monta, 44 Bergman, Ronald, 124n Bienati, Luisa, 33n Biondi, Micol, 152n Bogdanovich, Peter, IX Bordwell, David, 1 In Boscaro, Adriana, 19n, 53n Bose, Subhas Chandra, 118n Brakhage, Stan, IX Bresson, Robert, IX, XI Brunetta, Gian Piero, 23n Capra, Frank, 131 Cazdyn, Eric, 53n Chao, Heng, vedi Abe no Nakamaro Chaplin, Charlie, 13n, 20,44, 79 e n Chiang Kai-shek, 134n Dassin, Jules, 193n Davis, Bette, Xll, 58

Deleuze, Gilles, X Delluc, Louis, IX Dreyer, Carl Theodor, ix Du, Mu, 148n Epstein, Jean, IX Éjzenstejn, Sergej Michajlovic, IX

Fairbanks, Douglas, 31 Fanck, Arnold, 175 e n Fassbinder, Rainer Werner, IX Fitzgerald, Barry, 193 e n Fitzmaurice, George, Un Fonda, Henry, xn, 58 Ford, John, xil, Un, 58 e n, 93, 102, 180 Freeburg, Victor, 43 e n Freiberg, Freda, 47n, 159n, 161n Fukazawa, Shichiró, 36n Furthman, Jules, 164 Furukawa, Takumi, 2O3n Fushimi, Akira, 107 e n, 111 Gable, Clark, 19 Garufi, Bianca, 36n Gerow, Aaron, 23n, 3In, 69n, 118n Godard, Jean-Luc, IX Goncourt, Edmond de, 120 e n Goncourt, Jules de, 120 e n Gosho, Heinosuke, 7n, 10 e n, 12, 113n, 202n, 218n Griffith, David Wark, XII, XV, 24n, 45,46 Guerra, Michele, 43n Hara, Setsuko, xi, 16 e n, 121,199,201 e n Hasegawa Kazuo, 131 e n Hasumi, Shigehiko, 15n, 107n, 118n, 119n, 150n, 212n, 217n Hayakawa, Sessue, 38n

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_________________________ Ozu, Scritti sul cinema__________________ _______ Hayashi, Chójirò, vedi Hasegawa Kazuo Hazumi, Tsuneo, 132 e n Herzog, Werner (psudonimo di Werner Stipetic), IX High, Peter B., 116n, 118n, 177n Hino, Ashihei, 164 Hirano, Kyóko, 179n Hirohito, 62n Hiroshige, 97n Hirotsu, Kazuo, 19 e n Hitchcock, Alfred, 180n Hokusai, 97n Horak, Laura, 23n Ichikawa, Kon, 124n Igawa, Kuniko, 202 e n lida, Chòko, 13, 30 e n, 57, 58n, 100,183 Ikeda, Tadao, 14 e n, 56,75n, 109,114,159 e n, 164, 165, 166n, 224n Ikeda, Yoshinobu, 13 e n Ikeda Yoshitomi, vedi Ikeda Yoshinobu Imamura, Shòhei, 36n Inagaki, Hiroshi, 39 e n, 47,62n Ince, Thomas H., 24n, 38n Inoue, Kintarò, 10 e n, 160,161,184 Isaka, Eiichi, 128 Ishihara, Shintaro, 203 e n, 211 e n Ishihara, Yùjirò, 204,21 In, 215n Ishikawa, Kin’ichi, 17 e n Ishikawa, Takuboku, 36n Itami, Mansaku, 175n Ito, Daisuke, 53n, 62 e n Izumi, Kyòka, 54 e n Izumi, Kyòtarò, 54n Jacoby, Alexander, 192n

Kaeriyama, Norimasa, 23n Kajiwara, Kinpachi, 39n Kapse, Anupama, 23n Katò, Daisuke, 126 e n Katò, Shuichi, 19n, 33n, 54n Kawabata, Yasunari, 156n Kawakita, Nagamasa, 175n Kawasaki, Hiroko, 13 e n, 202 e n Kayser, Sascha, 45n Kido, Shiro, 6 e n, 10, 13n, 110, 111, 158n, 193 en, 194, 196n Kinoshita, Chika, 108n Kinoshita, Keisuke, 36n, 201 n, 202n, 212 e n, 216n

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Kinugasa, Teinosuke, 27, 53n Kishi, Matsuo, 159 e n Kitamura, Komatsu, 111 Komatsu, Hiroshi, 69n Kòno, Toshiko, 202n Kosugi, Isamu, 132, 147 e n Kuga, Yoshiko, 213 e n Kurihara, Thomas, 38 e n, 46 Kurishima, Sumiko, 13n, 109 e n, 194 e n Kurosawa, Akira, XI, 16n, 30n, 70n, 124n, 126n, 191n, 201e n, 212n, 213n Kyùshùzan, Jùrò, 150 e n L’Herbier, Marcel, ix Li, Zongren, 134 e n Lubitsch, Ernst, 20,44, 79, 131n, 222n Lumiere, Auguste, 13n Lumière, Louis, 13n MacArthur, Douglas, 179 Maeterlink, Maurice, 44n Maki, James, 111 Makino, Mamoru,! 18n Marshall, Herbert, 58 Matisse, Henri, 100 Matsui, Iwane, 135 e n Maurizi, Andrea, 129n McDonald, Keiko, 180n Mekas, Jonas, IX Mifune, Toshirò, 191 e n Mimura, Shintarò, 163 e n Minamoto, Kiyomaro, 154 e n Misawa, Takuya, 15n Mishima, Yukio, 170n Mito, Mitsuko, 13 e n Miura, Mitsuo, 15n, 161 Miyagawa, Kazuo, 124 e n Miyao, Daisuke, 46n, 1 lOn, 146n, 226n Mizoguchi, Kenji, 7n, 13n, 51 n, 61, 75n, 108n, 117n, 123 e n, 126n, 184, 191n, 202n, 212n, 213n Mohara Hideo, vedi Shigehara Hideo Monet, Claude, 97n Mori, Masayuki, 191 e n Muller, Marco, 32n, 207n

Nagata, Masaichi, 122n, 123 e n, 213 e n Nakahira, Kò, 203n Nakai, Asakazu, 125 Nakai, Kan’ichi, 215n

____________________________ Indice dei nomi____________________________ Nanbu, Keinosuke, 75n Naruse, Mikio, 16n, 30n, 126n, 156 e n, 159n, 160,162,163,201n,213n Nichiren, 142 e n Nihon’yanagi, Hiroshi, 16 Nishio, Yoshio, 109n Noda, Kógo, 11 c n, 14,15,18,35n, 56,63n, 97n, 105,108,109,119,120,125 e n, 126n Nomura, Hiromasa, 202n Nomura, Ho"tei, 13 e n Nomura, Yoshitaro, 13n Nornes, Abé Mark, 82n, 118n Novielli, Roberta, lOn, 38n, 147n, 177n Nozu, Chu"ji, 109 Okada, Hidenori, 226n Okada, Mariko, 5In, 63 e n Okada, Tokihiko, 51 e n, 110, 111 e n, Okada, Yoshiko, 113 e n Okishio, Kò, 128 Òkubo, Tadamoto, 5 e n, 9, 11, 36n, 109, 160,218n Okuyama, Shùji, 128, 132, 137 Omura, Masujiró, 86 e n Onoe Kikugoró vi, 115 e n Osaragi, Jiro, 19 e n, 120 e n, 161 n Oshima, Nagisa, ix Otomo no Yakamochi, 138n

Pasolini, Pier Paolo, IX, XIV Phillips, Alastair, 47n, 71 n Pudovkin, Vsevolod Illarionovic, IX

Quigley, Martin J., 189n Raimo, Christian, 99n Renard, Jules, 215 e n Ricca, Giuseppe, 53n Ricca Suga, Atsuko, 53n Richie, Donald, 6n, 7n, 9n, 11 n, 15n, 23n, 27n, 38n, 44n, 45n, 47n, 60n, 62n, 86n, 99n, lOOn, 105n, HOn, 124n, 125n, 131n, 146n, 175n, 187n, 188n, 192, 21 On, 213n, 214n,226n Rocha, Glauber, IX Rohmer, Eric (pseudonimo di Jean-MarieMaurice Scherer), IX Rondolino, Gianni, 40n, 52n Ryù, Chishù, XI, 13, 58n, 82, 100 e n, 110, 118 en, 122 Saburi, Shin, 92 e n, 94,117 e n Sada, Keiji, 215 e n

Sagiyama, Ikuko, 129n Saitò, Ryosuke, 118n, 119 e n Saitò, Tatsuo, 13, 30 e n, 51 Saitò, Torajiró, 9 e n, 11,106 Saitò, Yosuke, 58n Sakamoto, Takeshi, 13,14 e n, 58n Sakamura, Ken, 212n Salomon, Harald, 146n Sano, Shùji, 76n, 118 e n, 142 e n, 147, 150 Sasaki, Keisuke, 9 e n Sato, Tadao, 6n Satomi, Ton, 19 e n, 75n, 120, 2I6n Schiller, Friedrich, 39n Schilling, Mark, 6n, 120n, 196n Schisgall, Oscar, 53n, 11 On Schrader, Paul, IX, 99n Schwartz, Ernst, 113 Schwartz, Hanns, 222n Sei Shònagon, 31 n Seidensticker, Edward, 55 n Sherrow, Victoria, 133n Shibata, Ryùji, 71 Shibuya, Minoru, 63n Shiga, Naoya, 33 e n, 55 e n, 100,103 Shigehara, Hideo, 15 e n, 30n, 81, 82 e n, 106,113,115,217n Shigemune, Kazunobu, vedi Shigemune Tsutomu Shigemune, Tsutomu, 12 e n Shimazu, Yasujirò, 13 e n, 20, 53n, 54 Shimizu, Hiroshi, 10 e n, 12,13n, 20,29,39, 44,108,110,117n, 159n, 160,184,192 e n, 202n Shindo, Kaneto, 53n, 191n Shòtoku Taishi, 212 e n Stahl, John M., 93 e n Stanislavskij, Konstantin, 44n Steinbeck, John, 180 Stringer, Julian, 47n Sugimoto, Rybkichi, 113n Sun Tzu, 152 Suzuki, Hikaru, 154n Takada, Kòkichi, 53n Takada, Minoru, 108 e n Takamine, Hideko, 58n Takamine, Mieko, 117 e n, 201 e n Takizawa, Eisuke, 39 e n, 159 Tanaka, Kinuyo, 53n, 58n

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Ozu, Scritti sul cinema------------------------------------Tanaka, Masasumi, XIX, XX, 75, 88n, 131n, 156n,217n,218n Tanaka, Saburó, 27 e n Tanizaki, Jun’ichirò, lOn, 24 e n, 53n, 54-6 Tankei, 41 e n Tarkovskij, Andrei Arsenevic, ix Tasaka, Tomotaka, 146n, 156, 204 Temple, Shirley, 189,190,201n Tezuka, Yoshiharu, 175n Tomasi, Dario, 1 In, 32n, 33n, 40n, 52n, 69n, 99n,167n, 203n, 207n, 217n Tourneur, Maurice, 38 Truffaut, Francois, IX Tsugawa, Masahiko, 214 e n, 215n Tsumura, Hideo, 75n Uchida, Kimio, 107 Uchida, Tomu, 39 e n, 44n, 47,62, 75n, 116 en, 117, 132,144,160,201 Ueno, Kòzò, 75 e n, 77, 79, 80, 81 e n, 82, 84-95 Unkei, 40 e n, 41 n Ushihara, Kiyohiko, 6n, 13 e n Utamaro, 97n

Van Gogh, Vincent, 97n Vertov, Dziga, IX Vezzoli, P. Giuseppe, 48n, 52n Vidor, King, 58

Vigo, Jean, 47n Visconti, Luchino, 105n Wada-Marciano, Mitsuyo, 5n, I3n, 97n Wenders, Wim, IX, 47n, 99n West, Raymond B., 24n White, Pearl, 31 Wyler, William, XU, 58, 102, 103 Yamada, Isuzu, 201 n Yamamoto, Fujiko, 122 e n, 213 e n, 215 Yamamoto, Kajiró, 70 e n Yamamura, Satoshi, vedi Yamamura So Yamamura, Só, 16 e n Yamanaka, Sadao, xxni, lOn, 16n, 39n, 47 e n, 62, 68 e n, 126n, 131, 140,141,1437,151,159 e n, 160 e n, 161 e n, 162,163 en Yamanouchi, Hideo, 19n Yamanouchi, Shizuo, 19n Yanai, Takao, 159 e n Yomota, Inuhiko, 23n, 175n, 207n Yonaha, Jun, 156n Yoshida, Yozd, 128 Yoshikawa, Mitsuko, 13,30 c n, 58n, 183 Yoshimura, Kózaburò, 191n

Zhu, Xi, 133n Zournazi, Mary, 47n, 99n

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Unanimemente considerato uno dei grandi maestri del cinema, Yasujirò Ozu, «il più giapponese dei registi giapponesi», continua a essere oggetto di culto. Il suo cinema pacato e delicatissimo è letteral­ mente venerato da registi e cinefili: in un recente sondaggio della pre­ stigiosa rivista «Sight & Sound», 358 registi di tutto il mondo hanno indicato il suo Viaggio a Tokyo come il più bel film di tutti i tempi. La pubblicazione di questo libro è un vero e proprio evento edito­ riale: per la prima volta è a disposizione del pubblico occidentale una ricca selezione di scritti del maestro giapponese, concepiti in un arco di circa trent’anni, dal 1931 al 1962. Pagine intense, segnate da un amore incondizionato per il cinema, inteso come ragione di vita, che consen­ tono di percorrere dall’interno la personalità del regista e, in ultima istanza, la sua umanità. Sono testi che coinvolgono a distanza di decen­ ni e offrono spunti e commenti inediti sui suoi film, le tecniche e le teo­ rie del cinema (famosa è la sua avversione per la «grammatica del cine­ ma»), il cinema americano degli anni trenta e quaranta, la tragedia del conflitto sino-giapponese vissuta in prima persona come soldato al fronte, la dicotomia tra finzione e documentario. È la ricerca di armonia nei rapporti umani, il rischio della loro di­ sgregazione e l’ineluttabilità dei cambiamenti ciò che sostanzia il tes­ suto narrativo delle tante storie «non storie» da lui raccontate. «Far sentire l’esistenza di ciò che chiamiamo vita senza utilizzare avveni­ menti particolari», così Ozu descriveva il suo lavoro di cineasta, e for­ se è proprio questo che ha fatto dire a Wim Wenders: «Mai prima di lui e mai dopo di lui il cinema è stato così prossimo alla sua essenza e al suo scopo ultimo».

Yasujirò Ozu (Tokyo 1903-1963) è un maestro del cinema giapponese e uno dei massimi registi di tutti i tempi. In quarantanni di cinema Ozu ha realizzato cinquantaquattro film, nei quali, di fatto, ha affrontato in vari modi lo stesso tema: la vita familiare e quasi sempre nell’ambiente della piccola o media borghesia. Tra i suoi film più celcbr ricordiamo: Tarda primavera (1949), Viaggio a Tokyo (1953), Ilgusto del sakè (1962).