Il simbolo nell'anima. La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica [1 ed.] 9788829000647

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Il simbolo nell'anima. La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica [1 ed.]
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"Chi sono?": è questa la domanda fondamentale che decide della vita e delle scelte di ognuno. L'identità individuale, la dimensione dell'interiorità, il rapporto con il cosmo e con la natura, la possibilità di oltrepassare la finitezza dell'umano troppo umano: sono alcune delle questioni cui fa eco il percorso qui proposto neli'ascolto della tradizione sapienziale e iniziatica gTeca. Partendo dalla sentenza fondante dell'oracolo delfico, "Conosci te stesso", e dalla scena deli 'Alci biade platonico- che invita a reperire la radice di sé nel riflesso pupillare del divinosi dipana un viaggio che attraversa le opere di Platino, Porfirio, Giamblico, Sinesio e Proclo: l'universo della mente e il coglimento dell'unità del tutto, la rete dei simboli e dei miti che legano visibile e invisibile, il dominio dell'immaginazione vera, la teoria dei corpi sottili, le pratiche della teurgia, le relazioni tra macra e microcosmo forniscono altrettanti spunti per tracciare le linee di un possibile lavoro su di sé. Un lavoro interiore nutrito da parole e immagini per ridestare la coscienza dal suo sonno e condurre l'anima a divenire ciò che da sempre è.

Davide Susanetti è professore di Letteratura greca all'Università di Padova. Si occupa di teatro antico, di filosofia greca e di tradizioni esoteriche. Per Carocci editore ha pubblicato, tra l'altro: Etmpide. Fra tragedia, mito e filosofia

(3" ri st. 2019); Il teatro dei greci. Feste e spettacoli, eroi e buffoni (IO" rist. 2018); Favole antiche. Mito greco e tradizione letteraria europea (6" rist. 2017); Atene post - occidentale. Spettri antichi per la democrazia contemporanea

V rist. 2015) e ha curato l'edizione delle Baccanti di Euripide (3" rist. 2016) e dell Antigone di Sofocle (2012). '

Recentemente per Bompiani è uscito: Luce delle Muse. La sapienza greca e la magia della parola (I" rist. 2019).

Prop;etto p;rafico, FalcinellJ & Co. In coper1rna, V . Kandinskrj. Geflecht ron Oben. No. �31. 1927. t'o! lezione privata Foro :&l C h r·istie's lmages l Bridgeman Imap;es.

Davide Susanetti

Il simbolo nell'anima La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica

Carocci editore

@ Frecce

1' edizione, maggio 2020 ©copyright 2020 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Impaginazione: Luca Paternoster, Urbino Finito di stampare nel maggio 2020 da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/ caroccieditore www.twitter.com/ caroccieditore

Indice

Premessa

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I.

Al centro di sé e del mondo. Tra Delfi e Platone

13

2.

Il viaggio nella mente. Plotino

39



Intermezzo simbolico. Materie, segni e miti

6s



Sogno e corpi sottili. Sinesio

89



Virtù e vita teurgica. Proclo

117

Epilogo in forma di inno

ISI

Note

ISS

Bibliografia

165

Premessa Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c'è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tienitelo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito. P. P. Pasolini, Medea' Qual è l'elemento risolutivo?

È sempre qualcosa di anti­

chissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un'epoca nuova significa creare. C. G. Jung, l/libro rosso' L'umanità non sa di ballare su di un vulcano, eppure è proprio così. Sulla nostra terra sono iniziate rivoluzioni che rendono necessaria una nuova fase dell'arte reale. Chi non vive in modo incosciente saprà che cosa c'è da fare [ ... ]. riaccenderà una scintilla da simboli antichi. R. Steiner, Natura e scopi

della massoneria'

Il campo universale superliquido che costituisce l'elemento fondamentale della realtà integrale del cosmo psicofisico. E. Laszlo,

Risacralizzare il cosmo•

«Tutto è santo» ripeteva, con una suasiva litania, il Centauro di Pa­ solini, rivolgendosi a un Giasone fanciullo, ancora immerso nell' in­ nocenza degli anni e nell'esultanza di incontrare il mistero della real­ tà. Quell'essere mitico e arcaico insegnava al bimbo quali fossero le potenze invisibili del cosmo : gli insegnava a percepirle, a vederle e a onorarie, perché quella era l'armonia del tutto. Crescendo, Giasone dimenticò quella lezione, si lasciò dietro le spalle quel mondo, per tra­ passare in un universo fatto di razionalità calcolante e strumentale, che reifica, allo stesso modo, natura ed esseri umani: un universo di cose mute, senza centro, dove il Centauro e tutti gli esseri come lui non possono che perdere la loro voce. E, tuttavia, anche il modello di questa razionalità dominatrice, su cui il regno della quantità si è

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' IL SIMBOLO NELL ANIMA

forgiato ed è cresciuto per alcuni secoli, mostra ormai i segni evidenti della sua crisi, nonché dei suoi limiti esiziali: per quanto ancora agito nella prassi, esso ha perso ogni sua storica legittimazione, sprofondan­ do in quel gorgo del postmoderno, in cui, come tante volte ci è stato ripetuto, grandi narrazioni, ideologie, strutture di pensiero e forme di soggettività sono stati portati a termine e sgretolati in una nuvola di frammenti che aleggiano nell 'aria. Età convulsa di transizione e di trasformazione radicali in cui la percezione dell 'essere "dopo" si con­ giunge allo smarrimento di chi si sente imbarcato su una zattera e non vede ancora alcuna terra all 'orizzonte. Niente può più essere come prima, ma nulla di definito, di nominabile con sicurezza, sembra an­ cora profilarsi per essere riconosciuto. Nelle sue contraddizioni e nei suoi conflitti, nel suo gioco spettrale di larve e di inattuabili promesse, il presente globale appare come un' immane "opera al nero", in cui le illusioni della modernità sono destinate a dissolversi in materia pu­ trefatta, e forse anche l'uomo, così come è stato concepito per lungo tempo, è esposto alla cancellazione, «come sull'orlo del mare un vol­ to di sabbia » 1• Ma, nei punti di svolta, nel nero ribollire dell ' atanor, si liberano sempre anche germi e fermenti positivi che annunciano qualcosa d' "altro": la possibilità di pervenire a un nuovo paradigma di pensiero, in cui digitale e analogico, razionalità e intuizione, fisi­ co e psichico, mete immanenti e radici trascendenti, locale e globale trovino una sintesi inedita e feconda. La possibilità di "re-incantare il mondo", non per tornare all ' impossibile ingenuità dell 'arcaico e del mitico, ma per saldare la sapienza della tradizione antica con le punte più avanzate di una nuova scienza: creare la realtà del "post", riaccen­ dendo la "scintilla di simboli antichi", nella rinnovata e diversamente concepita consapevolezza di un universo che non sia materia bruta, mossa da leggi meccaniche in un vuoto inerte, ma un tutto coerente e cosciente, un campo unificato, in cui realtà fisica e realtà spirituale sono il medesimo : «La rispiritualizzazione del cosmo - ha scritto, fra gli altri, Ervin Laszlo - come un'entità coerente e integrale proviene dalle più recenti scoperte delle scienze [ . ] , ma il concetto di base non è nuovo : al contrario, è vecchio quanto la civiltà » 6• Da questo punto di vista, le immagini e i simboli dell 'anti­ co - portati su un diverso piano e spogliati delle superfetazioni er.

.

PREME SSA

Il

meneutiche della modernità - possono offrire strumenti di una ri­ generata soggettività. Parole come "anima" o "spirito" evocano plessi di dottrine e di morali, rifrazioni di fedi religiose, o suscitano sem­ plicemente "intellettuali" imbarazzi. Dovrebbero essere, per contro, assunte, in modo del tutto sperimentale e al di là di ogni letterali­ smo, come modi per indicare piani e livelli differenziati della realtà di cui si può fare, con metodo, osservazione ed esperienza. Modalità di osservazione e di esperienza che, se portate a termine, producono un'espansione e un salto della coscienza stessa in rapporto a sé e al tutto. Il percorso che si delinea in questo volume - riallacciandosi al precedente La via degli dei - prende le mosse dalla "cura di sé" inaugurata dalla tradizione platonica per muovere in una direzione affatto diversa da quella stilizzazione estetica dell 'esistenza che spes­ so, negli ultimi decenni, vi è stata associata. La "cura di sé" apre piut­ tosto, in connessione con aspetti differenti della sapienza antica e tardoantica, un cammino verso quella radice sacra che abita l'uomo, così come ogni altro segmento del reale. Apre la via a un effettivo e vissuto oltrepassamento dell'umano troppo umano, non nei termini di uno stolido superominismo o di un prometeico furore tecnocra­ tico, bensì nelle forme di una rigenerazione che fa evolvere l'uomo e insieme l'universo a un superiore grado di armonia e di intelligenza, a un 'unità di tutto con tutto. Come una possibilità essenziale per disegnare e produrre, appunto, le sorti del postumano secondo mo­ dalità che non siano il mero innesto tecno-macchinico o la manipo­ lazione genetica fine a sé stessa. Dopo la scena fondante dell'oracolo delfico e dell'Alcibiade pla­ tonico - che invita a cercare il sé nel riflesso pupillare del divino - il viaggio interiore che conduce al coglimento dell 'uno, la rete dei sim­ boli e dei miti che legano visibile e invisibile, il dominio dell ' imma­ ginazione vera e del sogno, la teoria dei corpi sottili e la loro connes­ sione con la dimensione propriamente fisica, l'esercizio delle virtù in rapporto ai differenti piani della realtà, la pratica dei riti e delle iniziazioni teurgiche costituiscono altrettante tappe di un 'esplora­ zione dei testi neoplatonici - da Plotino a Proclo, da Giamblico a Sinesio - per tracciare le linee di un possibile lavoro su di sé, per creare appunto il "nuovo" a partire da "cose antichissime". Un lavoro

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che attende alla propria materia fisica e psichica congiuntamente, al di là di inesistenti dualismi. Un lavoro che simboli e parole nutrono e sorreggono, perché dove c 'è anima, là ci sono sempre anche vibra­ zioni che pervengono dalla sfera immaginale e che connettono la contemplazione di ogni forma all'evento della propria personale vis­ sutezza. Un lavoro che "deve" essere fatto da tutti coloro cui sta effet­ tivamente a cuore l 'evoluzione positiva della terra e dei suoi abitanti. Un lavoro, infine, che la tradizione classica esprime con determinati termini e immagini: altre tradizioni sapienziali, variamente collocate nello spazio e nel tempo, si esprimono diversamente, ma, alla radice, dicono il medesimo. E anche questo è un punto essenziale per con­ cepire il lascito delle culture non solo in termini non conflittuali, ma anche alla luce di una concordanza del tutto alternativa all'astratto globalismo delle merci. Per cogliere tutto ciò è evidentemente ne­ cessario transitare dalla letteralità essoterica al cuore esoterico delle cose e dei testi. La consapevolezza storica e filologica delle opere è una precondizione essenziale di un fondato approccio, e, tuttavia, lo sguardo deve procedere alla ricerca di un pensiero vivente, che crea e riplasma incessantemente i mondi.

I

Al centro di sé e del mondo Tra Delfi e Platone

Vi sono luoghi segnati da un particolare incanto, contornati da un'aura che avvolge e trasfigura ogni cosa. Luoghi gravidi di sto­ ria e di storie, perché gli uomini li hanno attraversati e frequentati nei secoli, recando con sé il proprio carico d' inquietudini e di at­ tese, di speranze e di dolori. Eppure non è tanto la memoria degli eventi, la traccia delle mortali vicende, a ingenerare tale incantesimo che sospende e rapisce gli animi in una dimensione altra. Ad agi­ re è un' impalpabile e più sottile forza. Là, come per un subitaneo strappo nel tessuto fuggente dei giorni, il tempo si fa indicibilmente spazio, disegnando un impensabile orizzonte in cui tutto diviene su­ prema unità e presenza assoluta. Là cielo e terra, uomini e dei, storia e natura, passato, presente e futuro paiono coagularsi, con inatteso e sorprendente prodigio, in un unico magico punto che offre, alle anime ricettive, la percezione del principio di ogni cosa. Un punto in cui due linee invisibili s' intersecano : il tracciato orizzontale del divenire e la verticale luminosa dell'essere, il corso sempre differente di quanto accade tra nascita e morte, e l' immutabile identità di ciò che non conosce alterazione perché è origine di ogni accadimento e di ogni manifestarsi. Quando si pervenga in quell' incrocio di linee, in quella decussazione di assi cosmiche, si fa esperienza di ciò che riposa nel centro segreto della vita. Si è al centro di essa. E centri sacri sono, per l'appunto, i luoghi fisici, sparsi per la terra, ove tali istanti, come nel prodursi di un vortice, si danno in un sentire letteralmente

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metafisica, congiungendo visibile e invisibile, umano e sovrumano, molteplice e uno. In Grecia si giunge al più memorabile e numinoso di tali luoghi emergendo da un mare verde e argento di ulivi, per un'erta salita su cui si stagliano in lontananza le pietre scabre e dirupate del Parnaso e si scorge la gola profonda formata dalle rocce Fedriadi, da cui sca­ turiscono fredde acque di cristallina purezza. Al termine della via sacra un bosco di alloro e un santuario si ergono dinanzi agli occhi del viaggiatore venuto da lontano. Questa è Delfi, il cui nome rinvia alla medesima radice da cui in greco viene la parola « utero » . E come si addice a ciò che segnala l 'origine e la matrice delle cose, D elfi non può che essere il sacro « ombelico » del mondo, il suo venerabile e augusto centro, come la leggenda racconta : due regali aquile, inviate da Zeus, volando dai due estremi della terra, si erano incontrate giu­ sto in quel punto, che una pietra di candido marmo, poi custodita tra le pareti del tempio, provvide a segnare. Lì, in un giorno remoto, era giunto il dio Apollo, sprizzando, a ogni passo, scintille di luce dorata. Aveva peregrinato in lungo e in largo per cercare un luogo adatto ave far sorgere il proprio santuario, ave mettere a dimora quello che sarebbe divenuto l'oracolo più insi­ gne e autorevole per i mortali. Ma aveva dovuto combattere per im­ padronirsi di quello spazio che così gli piaceva, perché, ben prima del suo arrivo e da tempi immemorabili, esso apparteneva alla dea Gaia, alla Terra, che, dalle sue profondità oscure, già pronunciava vaticini a beneficio dei mortali. In un'aspra lotta, il solare e celeste Apollo aveva dovuto uccidere il mostruoso serpente, il temibile Pitone, che la dea aveva posto a custodia e difesa del luogo. Perché, in verità, c 'è sempre un serpente ctonio da sgominare, un drago da trafiggere, quando le energie della terra e del cielo s' intersecano, quando basso e alto si fondono sublimandosi reciprocamente. L'apparente spo­ destamento di Gaia, antica signora dell 'utero delfico, non fece che completare e realizzare l' intersezione di orizzontale e verticale, spo­ sando il femminile della Terra al maschile di Apollo, la potenza del materno al fallo divino. Per questo, i resti di Pitone furono lasciati a fermentare e a imputridire sotto i raggi cocenti del sole, affinché una nuova forza e un nuovo centro scaturissero, per trasformazione, da

AL CENTRO DI SÉ E DEL MONDO. TRA DELFI E PLATONE

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quell' incontro. Da allora, in quel perimetro sacro, una donna consa­ crata da Apollo, la Pizia da lui posseduta, avrebbe pronunciato, con voce stravolta e ispirata, gli oracoli che il signore di Delfi avesse vo­ luto trasmettere ai mortali. Quel luogo divenne nel tempo il centro sacro della divinazione ispirata cui, anno dopo anno, Greci e Barbari non smisero mai di rivolgersi per conoscere il disegno del proprio futuro o i misteri occulti e gli errori che riposavano nel passato. Là, appunto, il tempo si faceva spazio e, attraverso la verticale del dio, attraverso la voce della follia estatica che squassava la Pizia, esso si traduceva in parola e in poesia. Il tempio del dio non era stato, tuttavia, costruito da subiw con pie­ tre ben squadrate e teorie di colonne. Da principio, fu composto uni­ camente di rami intrecciati di alloro : la pianta sacra ad Apollo, do­ tata di un' ignea e solare energia. In un secondo tempo, così narra la tradizione, costruttrici operose di un nuovo edificio - se di edificio si può parlare - furono le api, che impastarono la cera da esse prodotta a una gran copia di alate penne di uccello. Ma anche questa inusitata costruzione fu del tutto temporanea. Un giorno, infatti, essa scom­ parve perché ad Apollo piacque trasferirla nei remoti lperborei, ove egli periodicamente spariva per poi tornare, di nuovo, nella stagione di primavera, a visitare la Grecia. L' irraggiungibile e misterioso paese degli Iperborei, coincidente con il Nord assoluto e con l'asse del Polo celeste, era infatti il nucleo invisibile, il cuore occulto e sovrumano, che fondava e sosteneva, con la propria energia, i centri sacri, come Delfi o Delo, che appartenevano al piano della manifestazione e si aprivano alla presenza degli umani. Fu, quindi, la volta di un tempio forgiato interamente nel bronzo, dalle mani abili di Efesto : il padre divino dei fabbri e dei metallurghi donò al fratello Apollo e ai mortali una dimora oracolare scintillante ai raggi dell'astro diurno, brillante come il sole che del dio era imma­ gine. Un giorno, tuttavia, la terra si spalancò all ' improvviso sotto di esso, inghiottendolo nelle sue profondità : il metallo si dissolse nel fuoco degli abissi, cancellando ogni forma di quella mirabile opera. Si giunse, così, da ultimo a un edificio fatto di comune pietra, realiz­ zato da umani architetti, Agamede e Trofonio, che il dio ricompensò

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per la loro maestria, addormentandoli nella pace di un sonno eter­ no, poiché la cosa migliore è sempre, per i mortali, uscire dalla vita immuni da affanni, al culmine della gloria conquistata in un'eccelsa impresa. Che cos'altro, di così grande e mirabile, avrebbero ancora potuto fare Agamede e Trofonio ? Quello era l'apice assoluto del va­ lore che le loro esistenze terrene avrebbero potuto raggiungere. Il prudente Pausania, raccogliendo i dati della tradizione nella sua Guida della Grecia', non mancò di dichiarare la propria incredulità dinanzi a questa sequenza che i racconti locali scrupolosamente rife­ rivano. Eppure, ciò che appare improbabile o alquanto confuso nel dettato letterale può avere una superiore ragion d'essere sul piano sottile del simbolo. Nei materiali e negli artefici coinvolti nella co­ struzione, sembrano riassumersi le età del mondo, i regni della na­ tura e i diversi piani dell'essere. Alloro e cera, bronzo e pietra, api ed Efesto, la terra di Delfi e gli lperborei: vegetali, animali, minerali, dei e uomini concorrono e si uniscono nell' « ombelico » delfico. La natura di un centro sacro appartiene all 'ordine supremo della sintesi in cui ogni cosa trova il suo ruolo e la sua funzione, in cui tutto si ricapitola a memoria del principio e insieme a traccia del divenire. Nel tempo della storia, i visitatori che si affollavano nel santuario in cerca di responsi trovavano, proprio ali' ingresso del tempio, del­ le sentenze ad ammonirli o a istruirli. Appese alle pareti e fra le co­ lonne, vi erano iscrizioni in cui erano tracciate alcune massime sa­ pienziali che sollecitavano l'attenzione a indugiare assorta. La più celebre fra esse, destinata a essere ripetuta e trasmessa in Occidente per secoli, consisteva in una secca ingiunzione : gnothi seauton, « co­ nosci te stesso » '. Parole all'apparenza semplici e perspicue. Tuttavia è proprio ciò che suona semplice, che sembra ovvio ed elementare, a rappresentare sempre la sfida più ardua per un'effettiva compren­ sione. Si crede di aver capito o di poter intendere facilmente, sen­ za scorgere quale abisso d' implicazioni la superficie nasconda. Qui come in altri casi, ciò che è davvero essenziale, l ' insegnamento che può decidere il corso di un'esistenza, si trasmette in una forma che può essere scambiata persino per banalità sconcertante. Il che accade puntualmente quanto più si è convinti di aver già una risposta o una

AL CENTRO DI SÉ E DEL MONDO . TRA DELFI E PLATONE

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soluzione all' invito che viene rivolto. Si crede di afferrare subito il significato di ciò che è espresso con parole piane e comuni. Si ritiene, corrivamente, di essere già all'altezza di ciò cui i termini rinviano : il loro valore appare scontato, se non già noto e praticato da tempo, ma è proprio allora che più facilmente ci si inganna. Tutto si gioca nell'attitudine che ognuno dispiega dinanzi a tale presunta semplici­ tà: nella capacità di aprire domande, di sgranare il senso e i sensi cui ogni termine può rinviare dinanzi alla realtà e dinanzi a sé stessi. Ma occorre andare con ordine e non anticipare troppo il labirinto cui la sentenza conduce. Chi era stato l'autore di quella massima ? Già gli antichi se lo chiedevano, oscillando incerti tra risposte diverse. Forse erano stati i Sette Sapienti - da Biante a Talete, da Solone a Pittaco -, uomini insigni che avevano illuminato l 'età arcaica con la loro saggezza re­ lativa al mondo dell'uomo e della natura. Venuti a Delfi, essi avreb­ bero dedicato ad Apollo tanto il detto « conosci te stesso » quanto l 'altrettanto celebre massima « niente di troppo » , che imponeva di rispettare un'aurea misura in ogni cosa. Secondo altri, sarebbe stata, invece, Femonoe, figlia di Apollo, la prima Pizia consacrata all'ora­ colo, a pronunciare il precetto « affinché fosse di giovamento per tutte le cose umane » \ o ancora Fanotea, figlia di Delfo e anch'essa sacerdotessa del santuario. Ma perché non pensare che fosse stato il dio stesso a donare ai mortali una così preziosa indicazione ? Chilo­ ne, uno dei Sapienti, avrebbe chiesto ad Apollo quale fosse la cosa « migliore » che gli uomini dovessero apprendere e tenere a mente. Perché solo una certa conoscenza dell' driston, dell' « ottimo » con­ sente di indirizzare i propri passi e di operare, con coscienza, delle scelte, senza commettere errori e senza votarsi alla rovina. Attraverso la voce oracolare, il dio avrebbe risposto a Chilone che questo « me­ glio » - su cui i saggi arcaici non cessavano di interrogarsi - consi­ steva appunto nel fatto di « conoscersi » . E il responso fu trascritto a futura memoria dei posteri. Ma che cosa intendeva il dio ? Anche a tale proposito le opinioni antiche si frastagliano. Di primo acchito, sulla soglia del santuario, il monito potrebbe costituire un avvertimento specificamente connes­ so al contesto della consultazione: un invito alla riflessione per chi si

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accingeva a offrire sacrifici al dio e a interrogare la Pizia. Per pregare gli dei, chiedere loro un dono o sollecitare un responso, occorrereb­ be essere ben consapevoli della propria condizione, dell'esistenza che si conduce, del proprio carattere e delle proprie aspirazioni. Non bisogna sprecare l 'opportunità di essere a D elfi, di consultare il dio, rivolgendogli quesiti futili e trascurando, per contro, quelle doman­ de, ben più rilevanti, la cui risposta potrebbe salvare o radicalmente trasformare la vita. Per accostarsi al sacro e trarre da esso il « meglio » è necessario osservarsi ed esaminarsi con attenzione. Inutile interro­ gare l'oracolo se non si sa che cosa è davvero importante per sé stessi, che cosa davvero si vuole, o che cosa è auspicabile in rapporto al pro­ prio modo di vivere. Si possono formulare desideri il cui compimen­ to sarebbe, in verità, del tutto indesiderabile, così come, per sventa­ tezza, si possono far voti per quanto costituisce, soggettivamente, un male e non un positivo vantaggio. Bisogna stare ben attenti a ciò che si chiede perché si potrebbe essere esauditi a proprio danno. Il precetto della conoscenza di sé investe, tuttavia, anche il mo­ mento successivo all' interrogazione, definendo il modo con cui bisogna accogliere il responso, la giusta maniera di trarre frutto da esso. Come insegnava anche Eraclito\ l' « Obliquo » Apollo, signo­ re di Delfi, non dice e non occulta la verità a chi lo consulta, a chi formula trepidi quesiti, ma semplicemente « indica » , « fa segno » : nulla di esplicito o diretto, nessuna dichiarazione che vada intesa alla lettera, ma solo una sorta di cenno, un segno appunto che ognuno deve riuscire a rapportare a sé stesso e alla realtà cui appartiene la sua esistenza. Ogni risposta oracolare è, da questo punto di vista, una domanda che replica a una domanda: una sfida all ' interpretazione. E per interpretare bisogna, da capo, conoscersi perché il rischio co­ stante è farsi fuorviare dalle proprie paure e dalle proprie ambizioni, piegando e storcendo il valore delle parole secondo le proprie aspet­ tative e le proprie inquietudini: ecco che allora accade di scambiare una cosa per un 'altra, di non cogliere l'ovvio che pur sta dinanzi agli occhi, perché ci si ostina a non vedere ciò che di sé non si vuole vede­ re, perché si vela il mondo e il disegno della vita con la trama spessa delle illusioni personali. Il dio, certo, offre il proprio soccorso, ma esige che il mortale si guardi e s' interroghi. Esige che, a partire da

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quel « segno» ispirato, egli veda e si conosca. Le storie antiche non fanno che ripetere gli equivoci esiziali in cui i mortali erano caduti per non aver saputo intendere, per aver confuso indiscriminatamen­ te il dettato divino con i propri caduchi pensieri. È il caso di Creso, re di Li dia, il quale aveva domandato ali 'oracolo se fosse opportuno muovere guerra al regno persiano di Ciro. La Pizia rispose che, se lo avesse fatto, avrebbe distrutto un grande impero1• Ma Creso non fu minimamente sfiorato dal dubbio che quell' impero votato alla distruzione fosse il proprio. Aveva semplicemente inteso quello che più gli piaceva, che gli era più favorevole, senza porsi altre domande, senza chiedersi altro che riguardasse le proprie capacità, le proprie forze o ancora quelle del nemico che si preparava a combattere. Così finì in ceppi, prigioniero di Ciro, rischiando di essere arso vivo. È il caso, ancora, di Edipo, cui Apollo aveva predetto un destino segnato dal parricidio e dall ' incesto. E anch'egli non si era interrogato oltre : aveva continuato a pensare che i suoi genitori fossero davvero il re e la regina di Corinto, come sempre gli era stato detto e come sempre aveva creduto. Non aveva sospettato che altra fosse la verità della sua origine. Altrimenti si sarebbe fatto incontro, con ben diversa cautela, all'uomo e alla donna, più anziani di lui, che le vie del destino gli ave­ vano posto dinanzi in giorni fatali. In tal senso, il precetto parrebbe dunque prescrivere « a chi sia in preda all ' ignoranza » , a chi sia in­ consapevole di sé, di « non offrire agli dei i consueti onori » , di non accostarsi all 'oracolo, perché, nel persistere di tale ottenebramento, sarebbe del tutto preferibile « non ottenere dal dio che le proprie richieste siano esaudite » 6: meglio che nessuna risposta risuoni a mal posti quesiti, offrendosi a chi non ne saprà trarre alcun beneficio. Tuttavia, continuando a far risuonare nella mente quella breve iscrizione, altri valori si possono far emergere. Nell' ingiunzione del­ fica si potrebbe cogliere l'avvertimento di un confine che non è pru­ dente né saggio superare, di una distanza che segnerebbe, in modo ineluttabile, la condizione di coloro che, nel centro sacro, giungevano al cospetto del dio e della Pizia. Nella prospettiva del celeste Apollo, l' invito a conoscere sé stessi equivarrebbe a riconoscere la differenza abissale che separa uomini e dei, mortali e immortali, assegnando a ognuno di essi un rango e una forma di vita. «Una è la stirpe degli

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uomini, una è quella degli dei - cantava Pindaro7 -, da un'unica ma­ dre entrambe hanno respiro, ma la potenza le divide, nulla è l'uomo, mentre il cielo rimane saldo in eterno» . E allora gn othi seauton non sarebbe che il chiaro monito a osservare, sempre, a ogni istante, quel limite costitutivo : ricordati che sei solo un uomo, esigue sono le tue forze e le tue possibilità, vane e illusorie le speranze in cui ti culli fantasticando, sei destinato a finire, non desiderare e non perseguire ciò che non ti è dato in nessun caso di ottenere, sii lieto di ciò che hai ogni giorno e non pretendere più di quanto la sorte ti abbia donato. Facendo eco all ' insegnamento del centro sacro, la tradizione arcaica e classica, in poesia come in prosa, non ha fatto che rimodulare insi­ stentemente questi stessi motivi come indispensabile e salutare am­ maestramento8. Ai mortali si addice thnetd phronéin, «pensare cose mortali » , nutrire ambizioni e pensieri che corrispondano alla loro effettiva ed effimera natura, al tempo limitato della vita e all' impo­ tenza delle loro soggettive risorse9• Chi indulga, per contro, a megdla phronéin, a «pensare cose grandi » , a eccedere i propri limiti, dimen­ ticando la propria finitezza, non può che andare incontro a sventura e rovina, perdendo anche quei beni e quella modesta prosperità di cui pure avrebbe potuto gioire. Inflessibili sono, infatti, gli dei con coloro che si macchiano di hubris, di « superbia » , di « tracotanza » , volendo e agendo al d i sopra dell'umano, elevandosi troppo in alto rispetto alla condizione terrena: con la potenza distruttiva del ful­ mine, il divino suole sempre « stroncare ciò che si innalza » 10• Chi si ignora e, ignorando, eccede i limiti dati, non può che esaltare sé stesso, inorgogliendosi vanamente di ciò che fa, senza avvedersi che, al cospetto del cielo, è « come un bambino che sulla riva del mare costruisce castelli di sabbia » ". Da questo punto di vista, « conosci te stesso » sarebbe, dunque, solidale, nella sostanza, al medén dgan, al « niente di troppo » , che un'altra iscrizione del tempio, come s'è detto, mostrava. Nel cosmo, tutto è métron, tutto è « misura » e pos­ siede una propria « misura » , secondo la funzione e il ruolo che a ogni cosa sono stati, sin dall'origine, attribuiti. Nemmeno il dio Sole, ricordava Eraclito'\ può andare oltre i suoi métra, se non vuole che le temibili Erinni, ministre della Giustizia celeste, lo perseguano e lo puniscano crudamente. E persino al Titano Prometeo - suppliziato

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su una rupe scoscesa del Caucaso per aver sfidato il sommo potere di Zeus - può essere rivolto l ' invito a « conoscere sé stesso » in un ana­ logo senso : egli, che pure è un dio, deve rendersi conto della situa­ zione in cui versa e piegarsi al volere del sovrano celeste : deve porre un freno alla propria rabbia e al proprio orgoglio, cogliendo i precisi confini della realtà e dei rapporti di forza che governano il cosmo•>. A ogni passo, in ogni parola, in ogni pensiero, occorre che ognu­ no sappia e veda, con lucidità, qual è il proprio métron e qual è il métron di ciò che ha dinanzi, per non strappare, in modo inconsul­ to, quell'armonia che regola l'universo, e, insieme, per essere fedele all'esistenza e alla natura che singolarmente gli appartengono. Il che sembra condurre a una conclusione che le fonti antiche, per più versi, segnalano commentando la sentenza. Se l' iscrizione ingiunge l' as­ soluto rispetto della misura, la conoscenza di sé coinciderebbe con il possesso e l 'esercizio della sophrosune: la virtù cardinale che carat­ terizza, letteralmente, lo stato e le facoltà di una « mente sana (sdos phrén) » . Quella virtù che è insieme saggezza e temperanza: modera­ zione che induce, in ogni frangente, a comportarsi come si deve nei confronti di uomini e dei; giusto riconoscimento delle prerogative e dei diritti altrui; controllo dei propri impulsi e delle proprie passio­ ni, consapevolezza che discrimina, in modo sicuro e fondato, ciò che davvero si sa e ciò che si ignora. «A ogni visitatore - scriveva Plato­ ne•4 - il dio non dice altro se non "sii saggio (sophronei)", ma lo dice in modo enigmatico, perché conoscere sé stessi ed essere saggi sono in realtà la medesima cosa » . Il tesoro nascosto nel gnothi seautdn si sgrana così in una serie di sollecitazioni diverse e insieme consonanti con l'orizzonte etico che dovrebbe assicurare una buona vita: rifletti prima di rivolgerei al dio, pensa a ciò che vuoi chiedere, ricordati della tua mortalità, rispetta le potenze che ti sono superiori, sii moderato e saggio in ogni tuo com­ portamento. Ma tutto ciò conduce, nell'approfondirsi del tempo e della meditazione, all'apertura di interrogativi ancor più radicali che tangono il cuore della verità : che cosa mai è l'uomo cui il dio chie­ de di conoscersi ? Qual è la sua natura e quali le componenti che lo costituiscono ? Che cosa corrisponde a questo « sé » il cui sapere è necessario ? E, in rapporto a tale « sé » , che cosa può significare allo-

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ra « essere saggi » ? Perché il significato della saggezza non può che variare a seconda di ciò con cui ognuno, di volta in volta, identifichi quel seauton che il dio gli rivolge. Per conoscere l'uomo occorre, anzi tutto, isolare e osservare ogni sua singola parte e ogni facoltà che a essa inerisca : le membra del corpo e la percezione della fisicità, l'uso e il funzionamento dei sen­ si, il plesso variegato delle emozioni, la ragione e la parola che ne articolano i contenuti, la memoria e l ' immaginazione, fino a giun­ gere a quel pensiero che è capace di intuire al di là del sensibile e della materia. Occorre indagare separatamente ciascuno di questi aspetti e poi, di nuovo, riunirli per studiarne le reciproche relazioni e influenze. Ma è necessario, al contempo, che ognuno faccia que­ sta ricerca da sé e su di sé, come un esperimento, come una pro­ va, senza affidarsi a parole o concezioni altrui, perché non si tratta solo di comprendere che cosa in generale possa definire la natura dell'umano, bensì - questione ben più rilevante - di saper rispon­ dere alla domanda cruciale che il dio implicitamente, come in un agone decisivo, pone a ciascuno : sai tu chi sei ? Puoi dire davvero di conoscerti ? Il nome che si è ricevuto, la famiglia da cui si è nati, l 'educazione con cui si è cresciuti e maturati, l'appartenenza sociale e politica che si può vantare, la storia di ciò che si è compiuto o di ciò che si è subito, i tratti di un temperamento che si manifesta nelle relazioni con gli altri : sono questi altrettanti modi per descriversi e per delineare il profilo di un ' identità. Ma è necessario chiedersi se ciò esaurisca la ricerca che la sentenza sembra suggerire. Conosce­ re sé stessi vorrebbe forse dire essere in grado di narrare la propria storia, conoscerne gli snodi e i fatti salienti ? O c 'è ancora dell 'altro e bisogna pensare che quel « sé » , che è così necessario conoscere, non coincida, se non in parte, con il disegno di una storia ? Non cor­ risponda alla m era articolazione delle funzioni legate al corpo ? Per alcuni, quel « sé » costituirebbe semplicemente un aggregato di ele­ menti e un plesso di tratti, che, dalla determinazione della nascita, si sviluppano e mutano nel tempo, per poi dissolversi nella morte : ciò che di ogni uomo si potrebbe cogliere ed esperire nella durata di una vita e nell ' intreccio delle relazioni e degli eventi che la definiscono; quell ' intreccio di emozioni, pensieri e azioni che ognuno manifesta

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ed esprime nel perimetro della corporeità e nel fluire dei giorni. Per altri, diversamente, quel « Sé » non corrisponderebbe alla sola di­ mensione sensibile e materiale, né, tanto meno, ali' identità prodotta dalle contingenze della natura e della storia: a quell' identità con cui ci si mostra agli altri, a quella forma con cui ognuno si rappresenta e si pensa nel quotidiano. In ogni uomo vi sarebbe, per contro, un « centro » occulto che lo governa e che sta alla radice del suo effetti­ vo essere, determinandolo al di là di ogni apparenza sensibile, al di là persino di quell' « io » che ciascuno continuamente pronuncia. Un nucleo invisibile e indistruttibile che solo in determinate condizioni sarebbe pienamente esperibile e conoscibile : nel raccoglimento del­ la meditazione, nell ' isolamento dal mondo, nella purificazione che libera da ogni scoria, nel sogno o negli stati non ordinari della co­ scienza. Così pensavano gli antichi sciamani venuti dal Nord - forse da quegli lperborei in cui Apollo soleva ritirarsi - la cui tradizione si riverbera, in vario modo, negli scritti degli Orfici, nelle dottrine di Pitagora e nelle pagine di Platone. Quel « Sé » , principio di vita immortale e di intelligenza capace di trascendere il divenire, che avrebbe preso il nome di psuché, « anima » . Dal che deriva, tuttavia, una conseguenza. L'enigmatico motto di Apollo non si limita a suggerire prudenza e moderazione ai suoi visitatori, ma pare indicare, al contempo, con cenno discreto, quel cammino che conduce alla philosophia, all ' inesauribile « amore del­ la sapienza » . Un filo doppio unisce, nel segno del dio, il « centro » sacro e la ricerca della verità. Il « conosci te stesso » , che Apollo co­ manda, sarebbe, allora, in ultima analisi, il punto di partenza e l ' indi­ spensabile ispirazione per chi voglia davvero interrogarsi sull ' ousia, sull ' « essenza » propria dell 'uomo, come notava il neoplatonico Porfirio, commentando la tradizione cui l ' iscrizione delfica avrebbe dato avvio'1• Ma indagare l' ousia umana, chiedersi che cosa caratte­ rizzi l 'uomo rispetto agli altri viventi, che cosa lo distingua e insieme lo avvicini al divino, quale sia il suo posto nell'ordine delle cose si­ gnifica anche, di necessità, interrogarsi sulla natura e la ragione del Tutto. Se l'uomo, per gli elementi e la struttura che lo costituisco­ no può essere pensato come un « microcosmo » - ricordava ancora Porfirio -, « conoscere sé stessi » implicherà lo sforzo di elevarsi alla

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contemplazione stessa dell'universo, alla perfetta theoria di tutto ciò . che è e di tutto ciò che diviene. Il gnothi seauton si risolve così in una tensione alla conoscenza integrale. Una conoscenza per nulla astrat­ ta e fine a sé stessa. Se il dio suggerisce di « conoscere » è perché que­ sto rappresenta l'unico modo per pervenire ali' « acquisizione di vera felicità » , sfuggendo alla « tragicommedia di vite insensate » 1 6 • Non sarà dunque un caso che il centro sacro di Delfi s' inseriva, così profondamente, nella vicenda stessa di Socrate che, per anni, ad Ate­ ne, non smise di invitare i suoi interlocutori a esaminare sé stessi e a mettersi alla prova. Quello era il compito, la missione, che Apollo gli aveva affidato, dal giorno in cui l'oracolo, per voce della Pizia, lo aveva designato come il più sapiente degli uomini. Interrogare sé stesso e interrogare gli altri era il « servizio divino » cui egli si sentiva impegnato per volere del dio17• Mostrare come ognuno fosse sostan­ zialmente inconsapevole della propria vita e s' ingannasse sul proprio conto, presumendo di essere ciò che non era, di avere capacità di cui era in effetti sprovvisto. Mettere a nudo la propria e l'altrui natura, senza riguardi e senza pudori, perché nulla è più facile che nutrire immagini illusorie su di sé, nulla più frequente della cecità rispet­ to alle proprie brutture e ai propri difetti. Risvegliare le coscienze torpide e addormentate, come un tafano che pungoli, con le sue tra­ fitture, un cavallo lento e pigro. Ponendosi egli stesso nella postura di chi s' ignora e ignora - il modo più efficace per invitare gli altri a entrare nel gioco e a impegnarsi in esso - Socrate non si stanca mai di richiamare l'attenzione sulla necessità di questa indagine, che deve avere l 'assoluta precedenza su ogni altra questione : « Non ho tempo per queste cose. E la ragione è questa: io non sono in grado di conoscere me stesso, come prescrive l ' iscrizione di D elfi, e perciò mi pare ridicolo, fintanto che ignoro questo, occuparmi di cose che mi sono estranee [ . . ] , io osservo me stesso per scoprire se sono una bestia più complicata e fumosa di Tifone o un animale più mansueto e più semplice, che per sua natura sia partecipe di una sorte divina e privo di tracotanza » 18• Quel « Sé » che occorre conoscere potrebbe corrispondere a forme del tutto diverse. Potrebbe essere un mostro terribile che, sibilando, spira fuoco e fiamme, una fiera selvaggia dalle .

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reazioni inconsulte e dagli impulsi indomabili, una belva il cui cor­ po singolare si divide in cento teste di serpente, o, all'apposto, po­ trebbe rivelarsi come una natura armonica e unitaria, non lacerata da pulsioni contraddittorie e da appetiti incontenibili, una creatura capace di elevarsi al divino in ragione di un'affinità e di una parentela che a esso lo lega. Che cosa ciascuno potrà scoprire quando cominci davvero a guardarsi, come Apollo e Socrate chiedono ? In che cosa ognuno troverà la propria essenza : nella belva inquieta o nel vivente sereno ? Nel teatro sapienziale dei dialoghi platonici - ove Socrate non cessa di torturare con le sue domande chi lo incontra - il motto delfico affiora più volte come principio cardine del sapere che si va cercando, come direzione di un auspicabile percorso. Ma è soprattutto nell'Al­ cibiade Maggiore che l ' iscrizione del tempio gioca un ruolo fonda­ mentale, costellando gli snodi decisivi della conversazione. La natu­ ra dell'uomo è il sottotitolo che gli editori antichi apposero all'opera a esplicitarne il tema e lo scopo. Nella scrittura, passo dopo passo, si dispiega una sorta di scena archetipica, in cui l'accesso a un'adultez­ za consapevole risulta imprescindibilmente legato algnothi seauton. Alcibiade è il modello perfetto del giovane di belle speranze, che si appresta, per così dire, a debuttare in società. Ha, infatti, appena raggiunto la maggiore età, e non vede l 'ora di presentarsi al popolo di Atene, di occuparsi, in modo attivo, dei prdgmata, degli « affari » della città. La sorte con lui è stata benigna. È nato da un'antica e sti­ mata famiglia dell 'aristocrazia ateniese e ha avuto la fortuna di avere, come proprio tutore, il grande Pericle, che, per anni, ha governato in modo incontrastato la polis. Le sue ricchezze sono considerevoli e gli consentono di condurre un'esistenza più che agiata: dato non secondario, poiché il fasto e il lusso sono la sua passione. È di una bellezza straordinaria che fa girare la testa a chiunque : uno stuolo di amanti e corteggiatori gli è sempre intorno, ammiratori desiderosi di godere dello splendido fiore della sua giovinezza. Intelligenza, au­ dacia, prontezza di spirito non gli fanno certo difetto. Un cospicuo intreccio di doti naturali e di beni materiali di cui Alcibiade è stra­ ordinariamente orgoglioso e superbo. È fermamente convinto della

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propria superiorità e di non aver bisogno di nessuno, perché tutti valgono e hanno meno di lui. Crede che gli sarà facile imporsi sugli altri e conquistare un ruolo di primo piano nella politica di Atene : onori e cariche, prestigio e potere sono ciò cui intensamente aspira. Socrate l ' ha osservato a lungo, seguendolo ovunque, in silenzio. Non gli ha mai rivolto la parola né, tanto meno, gli si è proposto come amante, vedendo lo sprezzo con cui egli aveva sempre trattato i suoi spasimanti. Ma ora che altri si sono allontanati da quel dispotico ragazzo, Socrate ha deciso finalmente di avvicinarlo. Alcibiade è a una svolta importante della sua vita, ed è questo il momento giusto per fargli un discorso che potrà lasciare il segno nel successivo svilup­ po dell 'esistenza. Socrate ha ben compreso le ambizioni smisurate del giovane. Egli non si accontenterà certo di primeggiare ad Atene, di dominare la sua scena pubblica, eguagliando la storia e il successo di Pericle. Alcibiade non si darà pace finché non avrà conquistato i beni più grandi, finché non sarà diventato il più potente di tutti i Greci. E neppure la sola Grecia, a ben vedere, sarebbe per lui un tea­ tro d'azione e d' influenza sufficiente : vorrebbe controllare anche gli « affari » dell'Asia, vorrebbe sfidare persino il grande impero della Persia, l' immenso regno che era stato creato da Ciro e da Serse. In sostanza, preferirebbe morire subito se un qualche limite fosse posto al suo desiderio di conquista e di gloria: «Non vorrai vivere se non potrai estendere il tuo nome e la tua potenza, per così dire, su tutti gli uomini. Tu ritieni che all' infuori di Ciro e di Serse non vi siano altri uomini degni della tua considerazione » '9• Ma per raggiungere tali obbiettivi gli sarà indispensabile frequentare Socrate : « Senza di me i tuoi propositi non potranno avere alcuna attuazione [ . . ] , nessun al­ tro, all' infuori, di me potrà darti la dunamis che desideri » 10• Duna­ mis è «potenza » , « forza » , « capacità » e « facoltà » di fare. C 'è da dubitare che Socrate ritenga desiderabile la conquista di imperi o di ricchezze materiali, e che a ciò si riferisca effettivamente il potere cui allude. Ma questa parola è quanto serve a catturare l 'attenzione del giovane ambizioso, facendolo abboccare all 'amo del dialogo : nulla può essere più attraente del segreto per ampliare il proprio potere. Da qui, i due prendono a conversare, esaminando le condizio­ ni che consentirebbero un effettivo realizzarsi di tali intenti. Fare .

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politica, governare una città in pace o in guerra, occuparsi dei suoi « affari » implica la capacità di dare buoni consigli, di indicare, in ogni circostanza, che cosa sia giusto e utile per conservare la concor­ dia dei cittadini e la prosperità della comunità tutta. Perciò Socrate domanda al suo interlocutore dove e quando egli abbia appreso tali necessarie nozioni sulla giustizia e sul bene. Ci devono essere stati un momento e un contesto in cui egli ha acquisito queste conoscenze, perché, presumibilmente, quand'era solo un fanciullo, nulla sapeva di tutto ciò. Incalzato dai quesiti, Alcibiade vacilla perché, a dire il vero, non sa indicare alcuna occasione o persona che gli abbiano pro­ curato il sapere cui Socrate si riferisce : forse ha imparato a riconosce­ re il giusto così come ha appreso, in modo spontaneo, a parlare greco ascoltando e imitando « i più » . Ma la conoscenza del bene è affatto diversa dalla capacità di usare i suoni di una lingua nel quotidiano, così com'è molto dubbio che « i più » , la gente comune, siano affida­ bili maestri nella ricerca della verità. Messo alle strette, il baldanzoso giovane è costretto ad ammette­ re la propria assoluta confusione: « Non so più nemmeno quel che dico, è stranissimo quello che mi succede : quando mi interroghi, mi sembra che le cose ora stiano in un modo ora in un altro » ". Pro­ prio le contraddizioni in cui continuamente cade sono il più patente sintomo della sua sostanziale quanto « vergognosa insipienza » : « In che condizione ti trovi ! [ . . . ] Te lo devo proprio dire: tu vivi, amico mio, nella più grande ignoranza, e di questo ti accusano il nostro discorso e tu stesso, e ti lanci nella vita politica senza la minima edu­ cazione » ". A tale rimprovero si potrebbe cinicamente replicare che anche gli altri uomini politici di Atene sono, per lo più, ignoranti e privi di cultura. Anche senza altro conoscere, Alcibiade potrebbe imporsi in città per quella naturale superiorità di cui si fa senza posa vanto. Ma con i nemici esterni, con i paesi che vorrebbe sfidare ? La discendenza aristocratica, i beni materiali e la bellezza di cui va tanto fiero sono nulla rispetto alle ricchezze immense e alle risorse scon­ finate della Persia, rispetto all 'educazione raffinata e alle tradizioni nobiliari della corte asiatica. Il nome di Alcibiade potrebbe suscitare una qualche ammirazione nel suo paese, ma, al di là del mare, non farebbe alcuna impressione sui suoi ipotetici avversari. Persino la

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madre del Gran re persiano si metterebbe a ridere, considerando del tutto ridicole le pretese di questo giovanotto ateniese. Su che cosa mai pensa di poter fare affidamento per misurarsi con forze tanto superiori alle sue ? « Se noi rispondessimo che confida nella bel­ lezza, nella prestanza fisica, nella sua stirpe, nei suoi averi e nel suo temperamento, ella direbbe che vaneggiamo, paragonando queste cose con tutto ciò che si trova presso di loro » '3• Alcibiade farebbe meglio - osserva a questo punto Socrate - a ricordarsi del gnothi seauton: « Dai retta a me e all' iscrizione di Delfi, "conosci te stesso", perché questi sono i nostri avversari e non quelli che credi tu » '4• Il che vorrebbe dire - secondo uno dei valori già considerati della sen­ tenza - che Alcibiade deve rendersi conto della limitazione del suo stato e dell'assoluta disparità rispetto ai nemici che s' illude di sfidare. Ed è importante che proprio ora, in questo preciso passaggio della vita, egli acquisisca la piena consapevolezza della propria « vergo­ gnosa condizione » , prima che sia troppo tardi: « Se ti fossi accorto di essere in questo stato a cinquant 'anni, sarebbe stato difficile allora prenderei cura di te stesso ; adesso, invece, la tua età è quella giusta per rendersi conto di ciò » '1• Il problema è intendere in che cosa consista tale epiméleia heautou, tale « cura di sé » che Socrate insistentemente raccomanda quale unico mezzo per diventare ed essere « migliori » . Come la maggior parte delle persone, Alcibiade crede che si tratti di occuparsi delle «proprie cose » : dei propri beni e dei propri affa­ ri, del proprio benessere materiale e del proprio successo. Ma non è questo ovviamente ciò che Socrate intende : « Quando ti curi delle cose che ti appartengono, non è di te stesso che ti prendi cura » '6• È un altro l'oggetto dell ' epiméleia, così come totalmente altra è l'arte che conduce a un effettivo e sostanziale miglioramento del proprio stato. E non si può certo individuare né praticare tale arte se si conti­ nua a ignorare « chi siamo noi stessi » . Il discorso si riavvolge da capo e Socrate, per la seconda volta, pone innanzi a Alcibiade il monito di Apollo : « È forse facile conoscere sé stessi ? Era uno sciocco chi ha consacrato quell' iscrizione nel tempio di D elfi ? Oppure è un' im­ presa difficile che non tutti sono in grado di compiere ? » : «A volte mi sembra una cosa alla portata di tutti - confessa Alcibiade -, a volte, invece, la cosa in assoluto più ardua » '7• Perché, come si è già

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osservato, è proprio ciò che appare più ovvio a opporre la difficoltà più estrema. Non resta dunque che ricominciare da capo e chiedersi che cosa mai sia l'uomo nella speranza di individuare anche quel « sé » che occorre far fiorire in tutte le sue potenzialità. In che cosa consiste l'essere dell'uomo ? A che cosa bisogna ricondurre la radice della sua identità ? Al corpo, all'anima o all' insieme che dai due scaturi­ sce ? Per condurre Alcibiade rapidamente al punto, Socrate chiede di osservare quale sia l 'elemento che guida e comanda sull'altro : se il corpo è mosso e governato dalla psuché, vuoi dire che l'uomo è essenzialmente la sua anima. Il che comporta che proprio questo sia l 'oggetto tanto della sentenza delfica quanto della « cura » cui biso­ gna applicarsi: « È l'anima che ci impone di conoscere chi prescrive di conoscere sé stessi » 28• Il ragionamento condotto da Socrate può risultare stringente nella logica dei suoi passaggi e nei suoi termini, ma ciò non assicura affatto che chi ascolta abbia effettivamente col­ to ciò a cui la conclusione fa cenno : in che modo ci si può accostare a un sapere della psuché? Si ha quasi l ' impressione di essere sempre fermi allo stesso punto e che solo gli accostamenti delle parole siano mutati. Accade così che Socrate, ancora una volta, ritorni alla sen­ tenza apollinea per cercarne un'ulteriore inflessione : « Forse - egli osserva cogliendo l ' inevitabile dubbio in cui ancora versa il suo interlocutore - non comprendiamo bene il giusto precetto delfico che abbiamo appena ricordat0 » 29• Per farsi intendere, Socrate pro­ pone un paragone con la vista che, fra tutti i sensi, è quello più lega­ to alla conoscenza della realtà. L'occhio si volge intorno a percepire la variegata natura del mondo, ma come può vedere sé stesso ? Oc­ corre che si specchi su di una superficie riflettente : « Hai mai fatto caso che il volto di chi guarda un'altra persona negli occhi, appare riflesso come in uno specchio nella parte dell'occhio di chi sta di fronte, in quella che chiamiamo pupilla, dato che è un' immagine di colui che osserva ? » 30• È nell ' incrocio reciproco degli sguardi che l'occhio si percepisce e si conosce. Il nome greco della pupilla - in cui quell' éidolon, quell ' immagine si dà a vedere - è kOre, ma questo termine, significativamente, vuoi dire anche « fanciulla » , come se la piccola figura che appare nel traslucido fosse un minuscolo pro-

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filo di donna. Femminile, com'è femminile, quanto al suo genere, la psuché stessa, quell' « anima » di cui, secondo un'antica credenza, l'occhio sarebbe specchio e manifestazione. Ed è appunto alla psu­ ché che il paragone della vista vuole guidare il giovane interlocuto­ re : « Caro Alcibiade, anche l'anima, se vuole conoscere sé stessa, deve guardare in un'altra anima e precisamente in quella parte ove si ingenera la sua stessa virtù, la sapienza, o in altro simile a essa » 3'. Confronto di anime intente l'una all'altra sarebbe dunque la via per adempiere al monito delfico. Psuchdi assorte nella contemplazione reciproca, mentre parole e pensieri fluiscono fra loro, come avviene nell'atto stesso del dialogo che Socrate sta conducendo. Per "saper­ si", per diventare consapevoli di sé, c 'è bisogno di un'anima amante, nel cui nitido specchio riconoscere l' intimo profilo del proprio es­ sere. Ma, nel volgere lo sguardo, occorre mirare esattamente al cen­ tro della psuché in cui ci si riflette, in quella parte in cui essa - libe­ ra dal tumulto delle passioni - raggiunge la propria perfezione e la propria eccellenza: là dove risiede la facoltà intuitiva del nous, della « mente » , là dove la sophia, la « sapienza » , fa balenare la propria luce. Anima con anima, centro con centro, per elevarsi al di sopra della finitudine umana, perché quel nucleo di perfezione è conge­ nere e affine al divino stesso : « È guardando là - conclude Sacra­ te - che si conoscono tutto il divino, la mente e la saggezza, ed è così anche che si riuscirà a conoscere sé stessi nel modo migliore » 3>. La meditazione iterata sul gnothi seauton porta così a un traguar­ do che eccede la mortalità stessa, che supera il confine della terra e della greve corporeità: per chi giunga fino al compimento ultimo del percorso, « conosci te stesso » non vuol dire soltanto diventare coscienti della propria umana psicologia, delle dinamiche che abi­ tano i gesti, le opinioni e le emozioni di ognuno. Significa scoprire, con meraviglia, la radice celeste della natura umana, il seme divino che riposa in essa e che va risvegliato : quelle facoltà sopite con cui l 'uomo trascende sé stesso, assimilandosi agli immortali che sempre sono. Ed è lì che l 'Apollo delfico attende coloro che abbiano pene­ trato fino in fondo il suo imperativo. Alcibiade assente in modo convinto a ciò che Socrate gli ha ri­ velato. Ma comprendere razionalmente il contenuto del discorso,

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convenire sulle conclusioni dell ' indagine è ben altra cosa rispet­ to all' impegno strenuo cui tutte le parole rinviano. Socrate, come una solerte « cicogna » , vorrebbe, con il suo amore, covare il bel giovane, perché la sua natura fiorisca in tutto il suo splendore e il gnothi seauton raggiunga la sua meta oltreumana. Riuscirà, tuttavia, Alci biade a essere costante nella direzione indicata ? Saprà davvero realizzare tutto ciò che il monito implica, senza farsi sviare dalle attrattive mondane, senza ricadere nei falsi valori della gente comu­ ne ? «Vorrei che tu perseverassi (diatelésai) - osserva Socrate -, ma ho paura che la forza della città finisca con il sopraffare te e me » n. Diatelésai, «proseguire » , «portare a termine » : a nulla serve il la­ voro se non perviene al suo télos, alla sua piena « realizzazione » , poiché solo allora s i manifestano, nel centro e nella sostanza della vita stessa, il senso e il valore di ciò che nessuna parola e nessun dia­ logo può dire o far intendere. Altrove Platone formulerà una dottrina dell'anima, postulando­ ne un'articolazione in tre parti distinte : l' epithumetikdn, la parte desiderativa o concupiscibile, legata ai bisogni, agli appetiti e alle funzioni dell 'organismo fisico ; il thumoeidés, la componente « ira­ scibile » , legata alla fiamma delle passioni ; il logistikon, in cui si esprime la ragione e il pensiero. Altrove, ancora, egli affermerà che, per conoscere l'anima in sé stessa, nella purezza delle sue facoltà superiori, occorre operare un radicale chorismos, una « separazio­ ne » che la isoli dalla dimensione corporea : solo raccogliendosi e concentrandosi, la psuché può attivare il suo centro superiore, tangendo la verità dell 'essere e del divino. Ma, al di là e prima di ogni teoria o di ogni fede, l ' « anima » che Socrate addita al giova­ ne debuttante - la psuché cui viene rinviato ogni uomo immerso e assopito nella corrente comune della vita - non è che il nome di ciò che ciascuno di noi ignora o sente solo confusamente nel pro­ prio intimo : il nome di ciò che di noi stessi rimane inavvertito, di cui non siamo affatto coscienti, quando ci muoviamo, percepiamo, reagiamo agli stimoli, ci rapportiamo alle apparenze del mondo o ci illudiamo di pensare, senza sapere che il moto incostante della mente ordinaria non è per nulla pensiero. L' epiméleia, la « cura » di sé è il lavoro straordinario e terribile con cui forse possiamo,

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infine, scoprire che cosa mai sia avere ed essere un'anima. È il dif­ ficile impegno a intendere, nella luce della coscienza, che cosa cor­ risponda a questo nome che la tradizione antica e l ' insegnamento platonico hanno trasmesso. L'Accademia fondata da Platone operò in modo pressoché inin­ terrotto per una decina di secoli fino a che il potere imperiale fece chiudere le scuole dell'antica sapienza, interdicendo la diffusione di dottrine incompatibili con il cristianesimo. Ma, finché appunto ciò non avvenne, discepoli e appassionati, convenendo nel boschetto dell'eroe Academo, continuarono a riflettere sull'opera del maestro, indugiando e riflettendo su quelle pagine in cui Socrate faceva ri­ suonare il richiamo alla verità. Nel tempo parve opportuno deter­ minare una precisa progressione del percorso di studio e di ricerca. Si fissò, per questo, un ordine canonico di lettura dei dialoghi stessi. E non stupisce che agli aspiranti philosophoi, - a coloro che comin­ ciavano a destarsi dal sonno dell' inconsapevolezza - proprio l 'Al cibiade Maggiore fosse affidato come primo scoglio su cui cimen­ tarsi, perché dal gnothi seautdn e dai modi in cui esso debba essere compreso tutto si diparte. Di tappa in tappa, di dialogo in dialogo, come in un percorso ascensionale sempre più arduo, si giungeva in­ fine ai due testi in cui si riteneva racchiuso il vertice stesso dell' inse­ gnamento : il Timeo e il Parmenide34• Dopo occorreva procedere da soli, con le proprie forze, perché non c 'era altro che con il linguag­ gio si potesse comunicare. Il cammino iniziato nel segno dell ' iscrizione apollinea - con la raccomandazione di volgersi alla psuché - trovava Rel Timeo il racconto di come il demiurgo divino, mirando al « meglio » e imi­ tando archetipi ideali, avesse prodotto il cosmo sensibile, quel me­ raviglioso « intero » , vivente e intelligente, di cui gli uomini sono parte. Il racconto - simbolicamente pronunciato in occasione delle Panatenee in onore di Atena, la dea della sapienza è un « mito verisimile » perché solo in forma di mito si può parlare degli ar­ cani supremi della realtà. Ma anche così, a orecchie accorte, esso può dischiudere essenziali prospettive. Per prima cosa, il sommo artefice provvide a plasmare l'anima del mondo, perché è l'ani­

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ma, e solo l'anima, che può dare vita al tutto. Come un esperto alchimista, egli mescolò in un cratere la natura dell' « identico » e del « diverso » , per creare un prodotto « intermedio » : « iden­ tico » come l 'essere immutabile, incorruttibile, sempre uguale a sé stesso, fondamento primo e assoluto di ogni successiva realtà ; « diverso » come tutto ciò che è molteplice e comporta differenza rispetto ad altro, come tutto ciò che si suddivide o diviene trasfor­ mandosi; « intermedio » com'è la natura stessa della psuché, che tange l 'orizzonte divino dell'essere, ma ha il compito di vivificare la dimensione variegata e mutevole del sensibile e dei corpi. Un pre­ ciso criterio orientò l 'operazione della mescolanza : « Anzi tutto, ritagliò una parte, e, dopo questa, ne ritagliò una doppia e poi una terza che era una volta e mezza la seconda e tre volte la prima, poi una quarta che era doppia della seconda e una quinta tripla della terza e una sesta che era otto volte la prima e infine una settima che era ventisette volte la prima . . . » 31• Operazione vertiginosa che si complica nelle ulteriori frazioni con cui il demiurgo dispose e colmò gli intervalli tra le parti ritagliate così da determinare una sequenza di proporzioni tra esse. Da questa operazione matematica sortì un'armonia di quattro ottave, una quinta e un tono : l'anima del mondo fu pensata come una meravigliosa musica che doveva avvolgere e pervadere ogni cosa. Ma un altro passaggio era ancora necessario : « Il demiurgo divise in due, nel senso della lunghezza, tale composizione e mise le due parti l'una sull'altra in forma di x facendole coincidere in un punto. Quindi le piegò in cerchio, unendo le estremità nel punto opposto alla loro prima intersezione [ . . . ] facendo in modo che un cerchio fosse interno ali' altro [ . ] , assegnò il movimento del cerchio esterno alla natura dell ' identi­ co, quello del cerchio interno alla natura del diverso » 36• Il simbolo della psuché cosmica è quest ' immane x formata dall ' intersezione di un doppio cerchio. Linee che s ' incrociano in un punto, come gli assi di ogni centro sacro ove il tempo si fa spazio, perché una stessa ragione metafisica detta l'armonia dell'anima e ogni manife­ stazione sensibile. Nello spettacolo del cielo, tale incrocio si scorge là dove l'equatore attraversa l'eclittica in corrispondenza dei due equinozi che scandiscono le stagioni dell 'anno. .

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La sostanza ancora rimasta nel cratere, dopo questa prima fase, fu quindi utilizzata dal demiurgo per plasmare la molteplicità delle ani­ me destinate ad abitare i corpi. Anche le psuchdi umane sono dun­ que segnate dalla medesima x , riproducendo in sé stesse la medesima struttura animica del cosmo e i suoi ritmi in un accordo idealmente perfetto. Accade, tuttavia, che proprio la relazione con la materia greve del corpo - l ' incontro con il flusso tumultuoso e dirompente della dimensione sensibile - provochi « deviazioni » e « fratture » nel moto dei cerchi, ottenebrando l'anima e le sue facoltà. L'uomo si smarrisce e perde il contatto con il cielo quando la perfezione e la bellezza della sua x s' incrina storcendosi e facendosi agitazione convulsa, incapace di distinguere la verità e l 'essere. La « cura » cui allora si deve attendere è la stessa cura capace di sanare « ogni cosa » che esiste. Si tratta con fatica di ritrovare il giusto movimento dell' i­ dentico e del diverso, di imprimerlo in sé stessi, recuperando la sin­ tonia con il divino e divenendo armonico suono di quella musica: « l movimenti affini a ciò che i n noi è divino sono i medesimi pensieri e movimenti circolari che governano il tutto ; bisogna che ognuno, in accordo con essi, correggendo quelle rotazioni che si siano guastate nella propria testa [ . . . ] contempli le rivoluzioni dell'universo e si renda simile a esse e [ . . . ] , avendo realizzato tale somiglianza, raggiunga così il fine della vita più bella che gli dei hanno predisposto per gli uomini » 17• Realizzare il gn6thi seaut6n è, al fine, far danzare la propria anima all'unisono con gli astri e le stelle : «Noi non siamo piante terrestri, ma celesti: le radici del nostro capo affondano lassù, ove l'anima ha tratto la sua prima nascita, quella parte divina che regge il nostro intero corpo » 18• Se il Timeo è un grandioso « inno » 19 sacro offerto al cosmo e alla dea Atena, una preghiera con cui i sapienti modellano sé stessi nella perfetta assimilazione al tutto, il Parmenide può essere, per altri ver­ si, come un'arcana celebrazione del principio primo da cui ogni altra realtà discende. In una conversazione, analogamente ambientata in concomitanza con la solenne festività panatenaica, il venerando Par­ menide, il suo amato discepolo Zenone e un giovane Socrate si misu­ rano in un vertiginoso scambio dialettico, ove ipotesi si susseguono ad ipotesi in un labirintico intreccio. Secondo la tesi di Parmenide,

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« tutto è uno » , immobile, immutabile, uguale a s é stesso. M a s e l 'u­ no è uno - intero, privo di parti e di differenze, e null 'altro sussiste all' infuori di esso - che ne è della molteplicità delle cose che cadono sotto i nostri sensi e delle forme che di esse sono struttura e model­ lo ? Che ne è della nostra esperienza del tempo e dello spazio, della variegata superficie della manifestazione, ove identità e differenza, essere e divenire paiono reciprocamente implicarsi ? Zenone, difen­ dendo la tesi del maestro, non ha dubbi nell 'affermare che il molte­ plice in sé non esiste : m era illusione, apparenza ingannevole, che un ragionamento rigoroso dissolverebbe come neve al sole. Ma non è possibile pensare diversamente ? Forse - osserva Socrate - tutte le cose sono « uno » e « molte » al medesimo tempo : unità identiche a sé stesse, ma diverse le une dalle altre, e tutte egualmente esistenti, poiché partecipano sia dell'uno che della molteplicità. Per venire a capo delle opposte tesi, è necessario esaminare insieme, con strenuo impegno, le conseguenze che discendono da ciascuna di esse : « Se i molti esistono, bisogna considerare che cosa ne consegue per i molti stessi in relazione a sé e in relazione all'uno, e poi che cosa ne deri­ vi, a sua volta, per l'uno in relazione a sé stesso e rispetto ai molti. Se, d'altro canto, i molti davvero non esistono, si dovrà verificare di nuovo che cosa ne derivi per l 'uno e per i molti, tanto in rapporto a sé stessi quanto nelle relazioni reciproche » 40. È questo il metodo richiesto dalla dialettica: un « lavoro immenso » davanti al quale i veri amanti della sapienza non possono e non devono arretrare. Può accadere - come di fatto avviene nel dialogo - che si finisca per ri­ manere impigliati in una rete inestricabile di aporie, senza giungere ad alcuna conclusione certa e condivisa. Ma ciò che conta è « eserci­ tarsi » 4' senza tregua in tale pratica, poiché essa purifica la mente, al­ lontanandola dalle illusorie parvenze nelle quali ciascuno è immerso e a cui presta ingenuamente fede. Ciò che conta è percorrere, avanti e indietro, tutti i cammini che, ramificandosi e intersecandosi, il pro­ cedimento dialettico disegna, fino al momento in cui un' intuizione, con un balzo improvviso, si produca. Un' intuizione capace di coglie­ re quella verità che, per sua natura, è al di là della parola e della ragio­ ne stessa. La verità dell 'uno e dei molti non è cosa che il linguaggio possa contenere. Assomiglia piuttosto al repentino accendersi di

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una luce sfolgorante che risplende nell'anima, trasformandola per sempre : « La conoscenza di queste cose non è comunicabile come le altre conoscenze, ma dopo molte discussioni condotte su questi argomenti, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come una luce che si accende dallo sprigionare di una scintilla, tale cono­ scenza nasce nell'anima e si nutre di sé stessa. Sfregandosi fra loro queste cose - ovvero nomi, definizioni, visioni e sensazioni [ . . ] risplende all' improvviso la conoscenza e l ' intuizione intellettuale di ciascuna realtà, per chi compia il massimo sforzo possibile alle capa­ cità umane » 4l. Nella tarda Accademia, i seguaci e i continuatori di Platone ri­ tennero che, nella ridda di ipotesi del Parmenide, fosse adombrata, in forma enigmatica e allusiva, quell'articolazione di piani che essi stessi avrebbero contribuito a esplicitare nei loro scritti: l' « uno­ uno » , vertice sommo e assoluto, posto al di sopra dell'essere, al di sopra di qualsiasi determinazione, ciò da cui tutto si origina secondo un'ordinata e digradante processione di « ipostasi » ovvero di suc­ cessive « realtà » ; il nous, la « mente » come mondo vivente delle forme intelligibili e degli archetipi eterni, quell ' « uno-molti » , in cui ogni « idea » è, allo stesso tempo, sé stessa e tutte le altre, senza che la reciproca differenza collida o sciolga la mutua identità; e infine il livello della psuché, dell' « anima » , caratterizzata dall'essere « uno e molti » , poiché essa, da un lato, è volta alla dimensione dell'essere e dell'uno, dai quali deriva, e, dall 'altro, si misura con la molteplicità distinta e discontinua dei corpi appartenenti al divenire sensibile43• Uno, mente, anima: questi sono i tre principi cui il sapiente, per « esercizio » e illuminazione, deve pervenire, per conoscere, radical­ mente, sé stesso. Nell 'Accademia di età imperiale, tuttavia, i dialoghi non erano l'unica lettura che impegnava i discepoli. Accanto all'opera di Pla­ tone, due raccolte erano compulsate e commentate come venerabili libri sacri: i poemi teogonici della tradizione orfica, da un lato, e i co­ siddetti Oracoli caldaici, assemblati da Giuliano il Teurgo, dall 'altro. Nei versi attribuiti a Orfeo si scorgeva l 'espressione mitica e mistica di quella medesima dottrina del divino che Platone aveva espresso nei suoi scritti. Negli esametri caldaici, intrisi di visioni ed esperien-

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ze estatiche, si cercavano, per converso, i precetti di quella ritualità magica, di quella pratica operativa che, affiancando e completando la speculazione filosofica, doveva consentire l 'effettiva reintegrazione dell 'umano nel divino. Esercizi dialettici, simboli e miti tratti dalla poesia, esecuzione precisa di riti erano, e tuttora sono, le vie con­ giunte che riconducono, chi vi si impegni, all' immota pulsazione dell' invariabile « centro » della realtà.

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Il viaggio nella mente Plotino

«E noi ? Chi siamo noi ? » chiede Plotino al letto re delle sue Enneadi'. Perché è questa, ancora e sempre, la domanda fondamentale da cui tutto dipende e la cui risposta impegna la vita intera. In verità - egli aggiunge - « noi siamo polla, molte cose » \ ed è per tale ragione che abbiamo bisogno di conoscerci. Ciò che è assolutamente semplice e uno non ha alcuna necessità di assolvere alla richiesta del motto delfico da cui il nostro percorso ha avuto inizio. Ciò che è semplice sa di sé in modo immediato, con un'evidenza e una trasparenza che sono assolute. Non ha bisogno di muoversi e di ricercare, non ha bi­ sogno di percorrere i confini della propria natura per potersi vedere né tanto meno di mettersi a distanza per osservare ciò che, da troppo vicino, non si lascia scorgere. È sempre presente a sé e in sé. Il motto « conosci te stesso » riguarda unicamente chi è o diviene polla: « Il precetto si rivolge a coloro che, a causa della propria molteplicità, devono enumerare le proprie componenti e rendersi conto di non sapere del tutto, o di non sapere proprio per nulla, quante e quali parti li compongano, quale sia la parte dominante o in che cosa con­ sista il proprio sé » 3• Pléthos è il nome che designa la « molteplicità » , ma, ancora prima, è il termine che indica la « folla » : la « massa» imponente, che si aduna in luogo, senza che si riesca a distinguere in essa il profilo dei singoli. Allo stesso modo, noi siamo complicati e molteplici ed è per tale ragione che non possiamo sottrarci all ' im­ perativo della conoscenza. Noi siamo una « folla » , una massa indi-

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stinta e irrequieta, oscillante fra umori e opinioni diverse, fintanto che non cominciamo a diarithméin, a « enumerare » , distinguendo e separando uno a uno ogni elemento, fintanto che non scopriamo che cosa davvero ci fa essere autoi, « noi stessi » . Questo paziente e arduo lavoro di enumerazione, quest 'opera di distinzione, conduce, peraltro, a lenti passi, verso un deciso cam­ bio di piano, verso un mutamento che estende e rovescia la qualità della visione. Perché se molte sono le cose che ci abitano . e di cui dobbiamo diventare coscienti, molteplici sono anche i piani in cui si articola la realtà. Siamo abituati a scorgerne solo uno, quello che si offre, ogni giorno, ai nostri sensi, quando ci destiamo dal sonno e ci rivolgiamo alle attività che ci attendono. Quello per noi è reale e in quello facciamo consistere la nostra vita. Pensiamo di essere desti e che quanto abbiamo attorno sia tangibile e oggettivo. Al di là e oltre, null'altro esisterebbe, così come noi stessi non saremmo altro che questo corpo senziente e raziocinante nell' incontro delle cose del mondo. Ed è, questa, l ' illusione più tenace da dissipare. Siamo rivolti in un'unica direzione, e fra quella « massa » indistinta di cose scorgiamo solamente - se pur prestiamo attenzione e non siamo troppo distratti - quanto abitualmente ci sta innanzi ed è più prossimo : cogliamo uno strato superficiale di quanto è in noi e di quegli oggetti altri ed esterni tra cui riteniamo di muoverei. Ma che accadrebbe, se in modo brusco, fossimo costretti, nostro mal­ grado, a voltarci, a indirizzare altrove il nostro sguardo, vedendo il « molto » che ignoriamo e nemmeno sospettiamo ? Bisognereb­ be che qualcuno ci tirasse, all' improvviso, per i capelli - afferma suggestivamente Plotino - com 'era accaduto ad Achille all' inizio dell 'Iliade. Furiosamente adirato, l 'eroe stava per scagliarsi contro Agamennone a spada sguainata quando, dal cielo, era discesa Ate­ na a trattener! o e consigliarlo. Invisibile a tutti gli altri, la dea « si fermò alle sue spalle e l 'afferrò per i biondi capelli. Achille, preso da sacro stupore, si voltò e subito la riconobbe, riconobbe quegli occhi che mandavano lampi terribili » 4: ascoltando la voce di Ate­ na, l ' impetuoso guerriero si astenne dalla reazione violenta a cui d ' impulso si sarebbe abbandonato. Dovrebbe accadere così anche a noi, quando siamo irretiti dalle passioni, quando reagiamo con

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foga e d' istinto a quanto consideriamo reale, quando stiamo so­ spesi e incerti dinanzi a situazioni che, lì per lì, ci attanagliano o ci fanno soffrire. Perché, allora, con lo stesso thdmbos di Achille, con quello stesso reverente « stupore » , finalmente vedremmo : « Chi potesse voltarsi per propria virtù o avesse la fortuna di venire tirato da Atena, vedrebbe dio, sé stesso e l'universo » 1• Si accorgerebbe di appartenere al tutto e di coincidere con esso, scoprirebbe come la realtà sia altra da come ha sempre immaginato. Si renderebbe conto che lui stesso, in un' infinita espansione della propria natura, è anche dio e universo. Comprenderebbe che quell ' io con cui è solito identificarsi non è che la parvenza esterna e parziale di una meravigliosa totalità: « Siamo come molte facce rivolte all 'esterno, ma appartenenti, nel proprio interno, a un unico vertice » 6• Ele­ vandoci a un piano differente e ruotando su noi stessi, possiamo divenire « uno » e « tutte le cose » allo stesso tempo. O meglio lo siamo sempre stati, senza saperlo. Nel tempo e nello spazio dell'esistenza mortale, ogni uomo è necessariamente un tis, un « qualcuno » : la sua singolare identità e la sua forma umana sensibile sono frutto di una determinazione particolare che lo distingue e lo isola, assegnandogli un corpo, un nome e una storia. Ma se questa determinazione viene sospesa o si dissolve, quell 'essere che era diventato qualcuno e qualcosa può scoprire di appartenere a un orizzonte ben più vasto di quell 'u­ nico frammento in cui si era chiuso e limitato. Può scoprire che quell 'esistenza, quella vita determinata che riconosceva come pro­ pria è solo una delle sue possibilità : « È come se noi avessimo molte vite » 7, la maggior parte delle quali ci rimane ignota. Per questo è necessario che districhiamo la nostra molteplicità e la nostra inav­ vertita ricchezza, facendo di noi stessi un tesoro che deve essere rinvenuto e dissepolto. Enumerare i propri elementi non signifi­ ca, tuttavia, limitarsi a esaminare le dinamiche del corpo fisico e i moti dell 'animo nel plesso variegato di immagini, desideri e pen­ sieri. Definire il profilo del nostro essere sensibile, della nostra vita ordinaria, è solo il primo passo. Occorre spingersi oltre, superando il confine del frammento con cui ci si identifica, varcando la soglia del sensibile in direzione di quei livelli e piani superiori che restano

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per lo più sconosciuti e silenti. La sapienza è questo viaggio che ci reintegra in ciò che ci appartiene e non sappiamo, in quella pienez­ za che altrimenti noi siamo e abbiamo dimenticato. Plotino non si stanca di ripeterlo, variando le immagini e i termini che addita­ no a ciò che propriamente nessuna parola può contenere. Quella determinazione, quel « qualcosa » che fissa il contorno delle no­ stre ordinarie esistenze - di quella vita che pensiamo essere la sola che abbiamo - possono essere considerati anche come una sorta di « aggiunta » . Un'aggiunta che non comporta alcun incremento, bensì riduzione di prospettiva e di potenza. All'origine, in un altro piano della realtà, noi eravamo « anime pure e menti unite all 'esse­ re intero, parti di un mondo intelligibile, né separate né divise dal tutto, ma a esso appartenenti » 8• A quell 'uomo che era solo anima e mente - spiega Plotino - « si è poi aggiunto un altro uomo che vuole anch'egli esistere » nella dimensione che gli è propria: « Egli ci ha trovati, perché non eravamo fuori dal tutto, si è avvicinato a noi e si è rivestito di quello che ciascuno di noi era allora » 9• In questo modo, inseguiti e raggiunti da questo « altro » che ci recla­ ma, siamo diventati due in uno : « Siamo divenuti sundmpho, una coppia di uomini, entrambi insieme, e non più quello che erava­ mo prima, anzi talvolta siamo solo quest'ultimo che si è aggiunto, quando il primo uomo non è attivo o, in altro modo, non presen­ te » 10• La distinzione temporale s' inscrive nella logica di un rac­ conto che tante voci hanno articolato rappresentando la vicenda di una "caduta" da una condizione perfetta. Tuttavia, al di là della distinzione tra un prima e un poi - tra la vita disincarnata e quell'e­ sistenza umana che sulla terra abitualmente esperiamo -, è il nostro presente che dobbiamo scavare, esplorando le dimensioni multi­ ple, parallele e insieme secanti, che ci caratterizzano. Dobbiamo attraversarle in tutta la loro estensione per non correre il rischio di essere unicamente l' « altro » , per evitare che il «primo » uomo ci manchi, divenendo un vuoto e un'assenza. In realtà, egli è sempre lì, ma è come se non fosse presente, come se non agisse : se la sua attività non s ' irradia in tutto il nostro essere, essa ci sfugge. Non sempre, infatti, « adoperiamo ciò che possediamo » ". C 'è in noi, come in tutte le cose, una vita « segreta » , un tesoro da portare alla

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luce, affinché tutte le nostre potenze, tutte le nostre componenti siano attive, coscienti e in relazione reciproca. Solo così possiamo davvero « essere » . Quando mutiamo prospettiva e ci voltiamo nella direzione oppo­ sta a quella consueta - tirati per i capelli da una divinità benevola o per nostra tenace applicazione - ci accade di fare un' inattesa e sorprendente scoperta : quella che per abitudine consideriamo "veglia" non è che una diversa qualità di sonno. Di fatto, senza rendercene conto, continuiamo a « parlare e ad agire come dor­ mendo » ", trasognati e stranieri a noi stessi. Crediamo di esserci svegliati, mentre non facciamo, per così dire, che «passare da un letto all 'altro » 'l, senza nemmeno accorgercene. E non può essere altrimenti, finché quel thdmbos di cui Omero parlava, quel divino « stupore » non ci abbia afferrato, portandoci altrove. Finché una particolare esperienza non si produca, rendendo evidente, al di là di ogni termine o ragionamento, l 'effettiva differenza fra i diversi stati e la reale natura della veglia. Sono istanti improvvisi, lunga­ mente attesi o preparati, in cui un velo come si squarcia dando accesso a quel mondo ave il primo uomo sempre permane: « Più volte - racconta Platino - mi è successo di destarmi a me stesso, di svegliarmi dal sonno del corpo e di estraniarmi da ogni altra cosa, permanendo nel mio intimo. In quei momenti ho contemplato una bellezza meravigliosa e più che mai ho sentito di partecipare a una condizione superiore : ho raggiunto la forma più alta di vita, sono diventato identico al divino e su di esso mi sono fondato, ho raggiunto quel grado supremo di attività, collocandomi al di sopra di tutto il resto, nel regno della mente » ' 4 • Destarsi significa allontanarsi da tutto ciò che ci circonda, staccarsi da tutto ciò che è altro ed esterno rispetto alla nostra essenza. Significa penetrare, sempre più a fondo, dentro di noi, perché è in questa invisibile e raccolta interiorità, in questo nucleo riposto, che si dà il punto di svolta. È qui che, con un balzo, finalmente ci svegliamo e iniziamo a vedere la trama dell 'essere, che si dischiude dinanzi a noi in uno spettacolo d ' inaudita e meravigliosa bellezza. Allora davvero sia­ mo, allora davvero viviamo, perché abbiamo raggiunto quel piano

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supremo della « mente » che in sé contiene tutti gli archetipi ideali e da essi produce l ' intera realtà, quel piano supremo che coincide con la verità e il fondamento del tutto. Là vi è la pienezza assoluta dell 'ariste zoé, della « vita migliore » , perché, a quel livello, essere, vita e pensiero coincidono nel vertice della loro massima realizza­ zione. Ma quando essere, vita e pensiero sono una cosa sola, ciò che ne scaturisce è un' enérgeia, un' « attività » altrettanto assoluta, che non conosce ostacoli né limitazioni di sorta, un' « energia » che può diventare e produrre qualsiasi cosa. Siamo soliti attribuire agli dei quella zoé e quell' enérgeia, a considerarle prerogative del mondo abitato dagli immortali, ma esse riposano ugualmente alla radice di noi stessi, se solo potessimo ridestarle e ridestarci. Perché l'uomo che si è destato a sé stesso, che ha raggiunto l'ariste zoé della mente, distaccandosi dalla presa del « secondo » uomo, non può che scoprirsi, egli stesso, parte essenziale di quel divino. Da quei momenti di beatitudine e di visione estatica della veri­ tà, da quelle sommità dell'essere si ridiscende, di necessità, ai livel­ li inferiori del divenire e del sensibile. Dall' intuizione folgorante della mente si ritorna alla comune ragione discorsiva che trascorre da un termine all'altro, tentando di dipanare in una fila ordinata di concetti ciò che lassù si dava come immediata sintesi e certez­ za. Così accade fintanto che si dimori in un corpo, fintanto che si appartenga all 'orizzonte della manifestazione finita. Ogni sforzo è teso, però, a ripetere, ancora e di nuovo, quell' ineffabile « stasi in seno al divino » 'S, a prolungarla perché essa duri sempre di più, a fare in modo che divenga, via via, più agevole e controllato il pas­ saggio da un piano all'altro, quando lo si voglia compiere, per tra­ sportarsi dentro di sé e, allo stesso tempo, nel centro della realtà. Bisognerebbe, al fine, rendere lo stato di « veglia » una condizione permanente, o, quanto meno, non perdere mai del tutto il contatto e la coscienza di quella « vita migliore » , che, a un livello più alto, in eterno si muove, restando in sé stessa. Rimanere concentrati in quell 'orizzonte interiore, in quel sé divino, anche quando si è in­ sieme ad altri o in altre cose impegnati, come faceva Platino stesso : una prosoché, un' « attenzione » e un' « applicazione » ininterrotta che lo mantenevano desto anche nell 'angusto perimetro del corpo

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o tra le incombenze del mondo, pronto ad ascendere nuovamente alla suprema enérgeia dell'essere. Vero è, d'altro canto, che dopo simili esperienze di risveglio, nulla potrà più essere come prima, per quanto la materia greve del « secon­ do uomo » minacci sempre di assopirci. Dopo aver visto, non è più possibile, in nessun caso, aderire alle opinioni o ai comportamenti che altrimenti segnavano l 'esistenza. Non è più possibile dar credito agli « insensati fantasmi » , agli « assurdi simulacri » che il « sonno » del corpo incessantemente genera'6• Quando si è gustata l'ariste zoé e si è provata la piena identificazione con il divino, una trasformazione radicale si compie, e non vi è più necessità di ricercare o di attendere ad alcuno studio. Semplicemente si sa con inscalfibile certezza e da lì ogni altra cosa discende. Ragionare, riflettere sulle opere della tradi­ zione antica, applicarsi alla pratica della dialettica, ampliare le pro­ prie conoscenze sono solo strumenti iniziali, tappe provvisorie, per giungere a quell'evento fondamentale'7• Ma è solo quello che conta. Allo stesso modo, per chi abbia una volta raggiunto il piano della mente assoluta, scrivere e parlare cesserebbero di avere un qualche valore in sé stessi. Il loro unico scopo dovrebbe essere quello di « in­ dicare la via a chi voglia vedere » : « destare » altri uomini affinché possano transitare, anch'essi, « dal sonno delle parole alla veglia della visione » '8• Finché ciò non avvenga come propria e personale espe­ rienza, come evento che sovverta la prospettiva dell'umana esistenza, bisogna continuare a insistere, ripetere le solite cose, i soliti discorsi, come per farsi un « incantesimo » , per fissare nell'anima, in modo sempre più netto e indelebile, i termini di una pratica di sé e insieme la meta finale da raggiungere'9• Perciò anche a noi non resta che ripe­ tere, da capo, l ' insegnamento di Plotino, le parole con cui cercava di additare il cuore pulsante della sua veglia. Chi è compiutamente desto si accorge, con meraviglia e ammirazio­ ne, che l' intera realtà è pervasa di intelligenza: « Ogni forma di vita è noesis, pensiero » 10, perché è il pensiero che produce ogni cosa, facen­ dola essere ciò che essa è. Pensare ed essere - lo aveva già insegnato in età arcaica Parmenide - sono infatti il medesimo : l'uno non si dà senza l'altro. Non solo il cielo, con i suoi movimenti perfetti, non

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solo l'uomo con la propria ragione, ma anche gli animali, le piante e financo le pietre sono, in diverso modo, esseri viventi e pensanti. A variare è l ' intensità e la chiarezza di tale noesis, ora più lumino­ sa e potente, ora più oscura e debole, a seconda della posizione che ciascuna cosa occupa nell'ordine digradante della realtà intera: è come uno splendore che, prorompendo con forza accecante, si atte­ nui progressivamente, mano a mano che si discende dal sottile allo spesso, dalla cristallina trasparenza dell' incorporeo all'opacità dei corpi. Ed è questo medesimo ordine, questa sequenza di piani, che chi veglia - divenendo egli stesso puro pensiero, intelligenza nitida e rifulgente - riesce a cogliere nella sua interezza. A partire da quel principio primo che chiamiamo « uno » o « bene » , per giungere, di gradino in gradino, fino alla consistenza dei corpi che vediamo e toc­ chiamo con i sensi del nostro stesso corpo. L'uno - spiega Plotino - è «potenza di tutte le cose : se esso non fosse, null'altro potrebbe esistere, e neppure la mente potrebbe esse­ re vita originaria e universale » " di cui ogni altra vita, a livello infe­ riore, è rifrazione. L'uno, immobile in sé stesso e scaturigine dell ' in­ tera molteplicità, è come un punto senza dimensione, da cui una luce abbagliante s' irradia per ogni dove, in un allargarsi progressivo di cerchi concentrici. È come una sorgente inesauribile da cui l'acqua sgorga fluendo senza mai arrestarsi: « Immagina una fonte che non ha alcuna origine e che si effonda in tutti i fiumi senza esserne impo­ verita, mentre i fiumi che escono da lei, dapprima scorrendo insieme, già sanno, uno per uno, la direzione della propria corrente » ". O an­ cora è come « la vita di un albero immenso che scorre ovunque, men­ tre il suo principio rimane in sé stesso senza disperdersi, ben saldo alla propria radice » L3• Luce, sorgente, radice dell'albero della vita : solo per immagini si può tentare di evocare ciò che, per sua natura, è impensabile e indicibile, al di là e prima di ogni possibile determi­ nazione. Da quel centro trabocca una prima forma di vita che, appena fuoriuscita dalla sorgente, rivolge lo sguardo verso il proprio prin­ cipio, venendo istantaneamente fecondata e riempita da quella po­ tenza. Da lì essa riceve il proprio « essere » e, così essendo, si volge allora verso sé stessa per guardarsi e conoscersi. È , questa, la nascita

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del n6us, della « mente » eterna, che contiene al proprio interno l ' intero cosmo intelligibile, la molteplicità di quelle idee da cui il sensibile e il corporeo derivano la propria forma. La « mente » è « essere » in senso primo, ma insieme è anche «pensiero » che pensa sé stesso, divenendo in quest 'atto molteplice. La mente è il « vivente perfetto » , perché essere e pensiero sono vita, e le idee stesse, di cui la mente si sostanzia, sono, a loro volta, esseri pen­ santi e viventi. Ma anche dall 'universo della mente qualcos 'altro trabocca e fuoriesce, poiché « è proprio della natura di ogni essere produrre qualcosa dopo di sé e svilupparsi, come un seme che da un prin­ cipio indivisibile culmina in un fenomeno sensibile » '4• Così dal n6us p romana, a propria volta, il piano della psuché, dell ' « anima » , come terza ipostasi o realtà, a partire da quel principio primo. Come il n6us si volge in direzione dell 'uno, così, allo stesso modo, l'anima si protende verso la mente per guardare il principio cui deve la propria nascita. E, in quest'atto, essa determina la propria natura, colmandosi della visione delle idee che nel n6us sono rac­ colte. Ne riceve in sé stessa la rifrazione come ragioni formali che dovranno plasmare l ' intero cosmo sensibile. Perché questo è, ap­ punto, il compito preciso della psuché: produrre, vivificare e gover­ nare il mondo della materia. Creatura « anfibia » , dalla « duplice vita » , posta al confine tra essere e divenire, l'anima, da un lato, guarda intenta il cosmo della mente e, dall'altro, concentrando ­ si in sé stessa, genera la molteplicità della manifestazione. Psuché è l'anima cosmica che, come un ' invisibile rete'S, sostiene il corpo deli ' universo. È l ' intero spettro delle anime individuali che s ' in­ carnano nelle singole forme di vita. Ma psuché è anche, nel suo lembo inferiore, l 'essenza della phusis stessa : la « natura » è pro­ priamente « anima » , perché tutto ciò che nel sensibile si genera e ha forma compiuta è sempre e comunque frutto del suo pensiero e della sua potenza. Estrema scaturigine dell 'anima è infine il piano indeterminato e oscuro della materia, che essa genera come una sorta di inconsistente « fantasma » di sé stessa. Là, la luce radiante dell' Uno, trasmessa da una dimensione all 'altra, raggiunge il mi­ nimo assoluto della propria intensità.

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Questo mirabile processo, che sempre è e avviene, è come lo svol­ gersi di una catena ininterrotta di anelli, connessi saldamente gli uni agli altri, secondo una dinamica che si ripete al medesimo modo nella transizione dall'uno all'altro. Ogni piano non solo deriva da quello che lo precede, ma si compie e si perfeziona riferendosi a esso. Ogni realtà, per essere, si fa visione del principio che le è immedia­ tamente superiore, così come si fa visione di sé stessa, generando un livello a lei successivo. « Se scherzando dicessimo che tutti gli esseri - non solo quelli dotati di ragione, ma anche gli animali che ne sono sprovvisti, la natura che è nelle piante e la terra che li produce - aspirano alla contemplazione e tendono a questo fine ? Se dicessimo che tutti la raggiungono secon­ do le possibilità della propria natura, chi in un modo, chi in un altro, chi cogliendo direttamente la verità, chi limitandosi a un' immagine o un' imitazione ? » '6• Può suonare come un'affermazione «parados­ sale » , come uno « scherzo » appunto, e Plotino è ben consapevole di come tali parole contrastino con il senso comune, con quella menta­ lità ordinaria per cui le cose del mondo sono solo oggetti o quantità, materia inerte o, tutt 'al più, vita bruta di scarso valore. Ma chi, nella veglia perfetta, ha visto, sa che la theoria, la « contemplazione » , è il vero cardine della realtà: la «processione » dall 'uno immateriale al molteplice corporeo non avviene in altro modo che contemplan­ do. Per diffusa e ingenua convinzione si ritiene che la theoria sia un qualcosa di sterile, una pratica priva di frutto : una forma di inerzia o un'astrazione che non genera, per così dire, nulla di concreto. Si è convinti che la contemplazione sia l'opposto dell'azione e che solo l'azione - l'azione che si esplica nella dimensione esterna, che ope­ ra sui corpi e sulla materia - sia tangibile nei suoi effetti e nei suoi risultati. Contemplare sarebbe una sorta di stasi improduttiva, e la conoscenza che pure da essa possa derivare avrebbe bisogno, in ogni caso, di trovare una successiva applicazione perché qualcosa di reale ne scaturisca. Per Plotino, come per tutti i risvegliati, è vero, invece, l'esatto contrario : la theoria non è che poiesis, la « contemplazione » è, essa stessa, immediata «produzione » , quando davvero si colga l' invisibile e intangibile principio che governa la genesi dell'univer-

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so. Tutto ciò che si genera è « il risultato di una contemplazione che rimane pura contemplazione senza fare null'altro, ma produce per il fatto stesso di essere contemplazione » 27• E ancora: «Tutte le real­ tà che veramente sono derivano dalla contemplazione e sono con­ templazione, e tutte le cose che sono generate da quelle realtà, sono generate appunto perché queste ultime contemplano, ed esse, a loro volta, sono oggetto di contemplazione » 28• Contemplando l'uno, la mente produce l'anima, e l 'anima, contemplando la mente, produce l'universo sensibile, in un riverberarsi continuo del medesimo pro­ cesso. La theorta è pensiero che, rimanendo immobile in sé stesso, nella pura concentrazione del vedere, crea tutto ciò che esiste, crea realtà ed esseri di ogni ordine e grado. Produrre è sempre produrre una « forma » , portare alla luce o dar corpo a un' « idea » . Ma ciò significa che, al cuore di ogni genere di poiesis, vi è il desiderio di « riempire ogni cosa di contemplazione » 29, di colmare il mondo del­ la visione dell'essere, di trasformare ogni materia nello spettacolo di un ordine intelligente : fare del cosmo un orizzonte radioso di anime e di idee. La natura stessa, se potesse esprimersi a parole, se potesse rispon­ dere alle domande dell'uomo, spiegherebbe come il suo silenzioso operare non consista che in tale principio : « Non dovresti fare do­ mande - ella potrebbe dire -, ma dovresti comprendere anche tu in silenzio, come faccio io che non ho l'abitudine di parlare. Compren­ dere che cosa ? Che quello che nasce è il risultato di ciò che io vedo stando in silenzio, è l 'oggetto della mia naturale contemplazione, e io stessa sono nata da un simile contemplare e tendo, per mia essen­ za, a esso. Ciò che in me contempla produce un oggetto della con­ templazione, come i geometri che, contemplando, tracciano le loro figure. Con la differenza che io non disegno figure, ma contemplo soltanto, e le linee dei corpi prendono forma, come fuoriuscendo da me » 30• Rimanere in silenzio, raccogliersi in sé stessi, destare dentro di sé la capacità di « vedere » i piani superiori dell 'essere e colmarsi di tale visione : allora non ci sarebbe bisogno di fare alcunché, non ci sarebbe bisogno di progettare e compiere alcuna azione, perché da quello stesso vedere-pensare discenderebbe ogni possibile realizza­ zione. Se ne potrebbe concludere, in modo altrettanto «paradossa-

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le » , che l'azione, così come gli uomini normalmente la intendono e la praticano, sarebbe una forma di debolezza o di incapacità. Gli uomini quando non sono in grado di « contemplare » , quando non sono capaci di elevarsi alla pura theoria, ricorrono all'azione, usano il loro corpo o altri strumenti materiali, per poter produrre un og­ getto o un effetto tangibile e per poter vedere, in tal modo, con gli occhi, ciò che non possono cogliere, né tanto meno produrre, con il solo pensiero. Ma ciò significa anche, all' inverso, che ogni azione contiene in sé, in maniera consapevole o meno, un'aspirazione alla contemplazione, un desiderio di vedere e conoscere al di là dei sensi e della materia. È come se, non potendo raggiungere direttamente un oggetto, si cercasse di « afferrarlo girandogli attorno » 3': si tentasse di impadronirsene attraverso le « cose esterne » e gli effetti sensibili che ne sono un mero riflesso o un' inferiore riproduzione. Sonno e veglia, unità originaria e diffrazione molteplice, stasi dell'e­ terno e fluire cangiante del divenire : sono, questi, i poli opposti, gli estremi della realtà, tra cui l 'anima muove in una sorte di perenne oscillazione che è propria della sua natura. Potenza irrequieta ed errante, grande vagabonda del cosmo3>, l 'anima ora si fa cerchio perfetto, per ruotare intorno all 'essere della mente e al centro fisso dell'uno ; ora, invece, si dipana lungo la linea del tempo, diviene una retta che disegna il profilo dei corpi nell'estensione sensibile dello spazio. Essa è insieme l ' identico e il diverso, l' indivisibile e il diviso. Rapita e immobile nella visione del principio che l ' ha generata, nel­ la perfetta identità con sé stessa, la psuché è al contempo desiderio di « trascorrere » in « altro » , di diventare « altro » , trasmettendo e recando altrove quell 'orizzonte di forme che ha contemplato nel­ la mente e in sé stessa. È un cosmo intelligibile di idee eterne, ma, al medesimo tempo, è un principio di disseminazione che rifrange ovunque il contenuto di quello stesso cosmo. È colei che attraversa i piani della realtà e ne oltrepassa le frontiere, ascendendo o declinan­ do, perché « essa possiede qualcosa di inferiore che entra in relazione con il corpo e qualcosa di superiore che è in rapporto con la men­ te » n. Abitatrice di « entrambi i piani » , dell ' « alto » e del « basso » , non s i stanca d i fare l a spola tra essi, perché questa è , al fondo, l a sua

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funzione : produrre e vivificare tutto il sensibile a partire da quella dimensione divina da cui l'anima stessa è scaturita. L'essenziale è che tale movimento non si arresti a causa di un peso, di una forza di gra­ vità, che la trattenga esclusivamente al suo limite inferiore. L'essen­ ziale è che il moto si concluda, infine, con un'ascesa, quando ogni psuché abbia adempiuto al proprio compito tra i corpi e le esistenze mortali, quando abbia a sufficienza « colmato di contemplazione » e di « forma » le cose di « quaggiù » , portando a perfezione il cosmo. Il che comporta un'ulteriore acquisizione. Se la radice di ogni uomo è la propria anima, conoscere sé stessi significa anche cogliere la dinamica di questa stessa oscillazione, il ritmo e il modo di questo movimento «psichico » , in tutta l 'estensione che lo caratterizza, riu­ scendo a controllarlo e a padroneggiarlo. In virtù di esso, la psuché è « tutte le cose » , sia le superiori che le inferiori, e a tutte, per così dire, si volge, fino al confine estremo della vita: « Ragione ultima di quan­ to appartiene al regno della mente e ragione prima di quanto è nel sensibile » 34. La sua natura screziata e cangiante è qualcosa di thau­ maston e di semnon, di « meraviglioso » e di « venerando » 31, proprio per questa sua capacità di corrispondere a ogni cosa, toccando il visi­ bile e l' invisibile, il corporeo e l ' incorporeo, il « sempre » e il « qui e ora » . Ma ciò vuoi dire che anche l'uomo può essere « tutto » , dalla luce immateriale dell ' idea alla compagine del corpo, purché sappia di sé stesso, purché sia in grado di indirizzare, con sapienza, il movi­ mento del proprio oscillare. Nell'esperienza viva dell 'anima, Plotino non si stanca di sottoli­ neare un'equivalenza che si produce a ogni possibile stazione di que­ sto moto. Lapsuché, pur dotata di un' inalterabile essenza, « diviene » , di volta in volta, « ciò a cui si accosta » , assumendone la configura­ zione corrispondente, quasi fosse un « danzatore » che conforma i propri passi al tema che gli viene, in ogni diversa circostanza, assegna­ to36. Avvicinandosi al corpo, essa si fa corporea, vibrante di passioni e desideri, ebbra di piaceri e di paure, avvinta dal sortilegio e dalle necessità di quel « luogo » in cui è venuta a dimorare. Accostandosi al molteplice dell 'universo materiale, essa si fa sensazione, opinione e ragione discorsiva nel tentativo di cogliere e governare le apparenze del mondo. Muovendosi nella dimensione della finitezza, essa clivie-

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ne, a propria volta, entità finita e particolare, che cerca, con l'azione, di intervenire sulla realtà attorno a sé. Quando, per converso, si eleva al piano della mente, essa è intuizione immediata della verità, puro essere, vita incorruttibile, realizzazione piena e istantanea, potenza infinita della totalità. L' « attività » dell'anima muta, dunque, a sewnda del piano che la sua oscillazione tange. Si trasforma in rapporto all'orizzonte verso cui essa inclina il proprio centro. Ogni anima - ripete Plotino come un prezioso monito - «è e diviene ciò che guarda » , «è e diviene ciò che ricorda » 17, così come ciascuno di noi si determina in base al livello in cui sceglie di « operare » 38, attivando il «primo » o il « secondo » uomo che sono in lui. Ci nutriamo di immagini e di visioni, ma, appunto, la natura di quanto viene contemplato, di ciò su cui l'attenzione si ferma ha un preciso effetto. Ci identifichiamo, in modo adesivo, talora senza neppure accorgercene, con lo spetta­ colo su cui il nostro sguardo suole indugiare in maniera più insistita. Diventiamo la visione di cui ci nutriamo, coincidendo perfettamen­ te con il piano a cui l'oggetto della visione stessa appartiene. E tale coincidenza comporta che, in noi, si attivino unicamente le facoltà congruenti con quello stesso piano, lasciando sopiti tutti gli altri te­ sori che stanno al fondo della nostra anima. Così « ci ricordiamo » solo di una parte, peraltro esigua, di noi stessi, relegando nel più completo oblio l' interezza che ci costituisce. Il contenuto della con­ templazione, ciò che decidiamo di guardare, può limitare o espande­ re il nostro essere, così come può ottundere o potenziare meraviglio­ samente la memoria della nostra vera identità. Conoscere sé stessi è « ricordarsi » di sé nella completa appropriazione di tutte le facoltà e di tutti i livelli con cui possiamo esercitare la nostra enérgeia, la nostra « attività » di anime. È scegliere di contemplare il « tutto » , muovendo lo sguardo dall 'alto al basso e dal basso all 'alto, per di­ ventare uno con il tutto. Ma « diventare » - come le affermazioni di Plotino rimarcano - equivale semplicemente a « essere » . Non c 'è un momento, infatti, in cui la nostra anima non sia già quell'unità con il tutto. Non c 'è un momento, propriamente, in cui la psuché già non « sia » senza alcuna necessità di « diventare » . È sufficiente che non si distragga, che non « si assenti » da sé stessa, perché il suo essere

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rifulgal9• «Noi siamo belli quando siamo conformi a noi stessi » 40, ma questa bellezza, questa conformità con sé non è un processo che comporti un punto di arrivo a una meta distante ed esterna, non è una dinamica che implichi un effettivo andare altrove. È tutto già lì, presente nell'anima, ma occorre accorgersene. Il medesimo paradosso si osserva a proposito della felicità a cui l'essere sé stessi di necessità si lega. Tutti gli uomini desiderano esse­ re felici e tentano in vario modo di perseguire questo risultato con l'acquisizione di beni materiali, con l ' impegno nell'azione, con la ricerca del successo o di altre gratificazioni. Si tende a pensare che l'eudamonia, la « felicità » sia qualcosa da conquistare : un oggetto che manca e deve essere raggiunto, una condizione o uno stato che solo un intreccio di circostanze e di iniziative possono produrre. E, invece, l' eudamonia ci appartiene sempre e non lo sappiamo. La fe­ licità è nostra come nostro è l 'essere, senza alcuna necessità di anda­ re altrove o di trapassare in altro da ciò che è il nostro sé. Secondo Plotino, c 'è una parte dell'anima che non perde mai il proprio con­ tatto con la mente e con il regno delle idee. Non tutta la psuché è « discesa » nel corpo, non tutto di essa è immerso nella dimensione del divenire e della materia. La sua sommità - se si può usare tale immagine per comprendere - svetta, infatti, al di sopra del sensibi­ le, al di sopra dello spazio e del tempo, permanendo in una perenne contemplazione dell'eterno e del divino. Il vertice della nostra anima gode sempre e ininterrottamente della felicità della « vita migliore » . Siamo « noi » che non vediamo e non sappiamo quale sommo bene sia in nostro perenne possesso. Il che si spiega, di nuovo, con l'orien­ tazione del nostro sguardo e la disposizione del nostro « centro » . La parte mediana della psuché è come uno « specchio » a due facce, ove si riflettono tutti gli oggetti e le attività che ineriscono all 'anima stes­ sa: da un lato, i dati provenienti dai sensi e dalla realtà esterna, unita­ mente alle opinioni e ai ragionamenti che essi inducono ; dall'altro, i contenuti della contemplazione, le rifrazioni del mondo ideale e il pensiero intuitivo che è proprio di tale livello. Noi percepiamo e di­ veniamo consapevoli di entrambe le dimensioni nella misura in cui un' immagine di esse si produca in questa superficie interiore, come « quando un oggetto si riflette in uno specchio che sia liscio, lucido

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e immobile » : « Se c 'è lo specchio, si produce un' immagine. Ma, se non c 'è o non è fermo, non vuol dire che l 'oggetto che vi si potreb­ be riflettere non esista. Lo stesso vale per l'anima. Se la parte di noi ove si riflettono le immagini della ragione e della mente è calma, noi vediamo tali immagini e le percepiamo in modo quasi sensibile così come, insieme a esse, percepiamo l'attività della mente e dell'anima. Ma se lo specchio è infranto a causa di qualche turbamento presente nell'armonia del corpo, la ragione e la mente esercitano la loro atti­ vità senza riflettersi in esso » 4'. In tale caso, il frutto della contempla­ zione, il contatto pieno e realizzato con l 'essere eterno e con la vita divina, l'attività del vertice dell'anima rimangono del tutto inavver­ titi. Ma non per questo cessano di esistere o costituiscono una mera illusione. La felicità di cui pure disponiamo, l' eudamonia che da tale attività superiore perennemente scaturisce, resta semplicemente in­ conscia. O forse sarebbe meglio dire sovracosciente, perché, se non la percepiamo, vuol dire che il piano della nostra coscienza è tutto assorbito da quanto avviene nel corpo e nei sensi: vuol dire che la coscienza si è tutta chiusa e identificata nei confini del nostro « se­ condo » uomo. Non resta, perciò, che pulire bene tale « specchio » , renderlo quieto ed immobile come quei laghi di montagna che riflettono tut­ to l 'azzurro del cielo. Non resta che tener! o saldamente rivolto ver­ so l'alto perché riceva tutta la luce che da là discende. Adempiere al gnothi seauton è ancora - con ulteriore sfaccettatura - questo lavoro teso a rendere la coscienza quanto più verticale ed estesa sia possibile. Allora la nostra felicità e la nostra bellezza non si sfuggiranno, tra­ sformandosi in immagine di assoluta presenza. Anche a Narciso, figlio di una liquida ninfa, accadde un giorno di specchiarsi, ma il risultato fu alquanto differente dall 'azione di quello specchio interiore su cui si fonda la felice realizzazione di sé. Giunto in una radura al centro del bosco, tra erbe alte e rigogliose, il giovane si accostò, per bere, a una fonte, trasparente e tersa come cristallo. Piegandosi sulla superficie dell 'acqua, scorse un' immagine bellissima di cui si invaghì perdutamente. Che cos 'era mai quella fi­ gura così seducente ? La desiderava senza sapere di desiderarsi, bru-

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ciava di passione senza rendersi conto che egli stesso aveva acceso quella fiamma. Avrebbe voluto abbracciare quel che vedeva. Avrebbe voluto che quella forma incantevole uscisse dall'acqua, per poterla fare sua e coprirla di baci. Finché, a un certo punto, la verità gli di­ venne manifesta: « Ma quello sono io ! » 4'. E con ciò la sua dispe­ razione crebbe sino al delirio, per l ' impotenza di raggiungersi e di possedersi: mai, infatti, avrebbe potuto staccarsi da sé stesso, per potersi amare come se fosse stato un altro. Non gli restò che strug­ gersi, restando avvinto all' immagine, sino a esalare l'ultimo respiro. Non gli restò che precipitare nella fonte, nel folle tentativo di unirsi all'oggetto del suo amore. Così racconta la storia trasmessa dall'anti­ ca tradizione. Ma, per Plotino, quel mito non concerne tanto il folle desiderio di sé o le torsioni dell'umana psicologia, quanto piuttosto l'errore di tutti coloro che, addormentati nel sonno del corpo, non colgono l'effettiva struttura della realtà. A tale pericolosa ignoran­ za la vicenda farebbe simbolica « allusione » . Narciso è chi si volge ai beni esteriori, profondendo ogni sua energia per conquistarli. È chi persegue, come un ostinato cacciatore, le bellezze sensibili, per­ ché gli paiono tanto desiderabili, perché gli mancano e vuole averle, riponendo nella conquista di esse la speranza della propria felicità: « Se uno si precipitasse volendo afferrare tali bellezze, come fossero vera realtà, incorrerebbe nel medesimo destino di colui che, volen­ do afferrare una bella parvenza - come un mito mi pare lasci allu­ sivamente a intendere - s' inabissò giù nella corrente e scomparve. Allo stesso modo, chi è tutto preso dai bei corpi e non li abbandona, sprofonderà, non con il corpo, ma con l'anima, in abissi pieni di te­ nebra » 43. I corpi e tutte le bellezze dell 'universo sensibile non sono che riflesso e immagine del mondo superiore, delle forme eterne, così come « un disegno o un riflesso sull'acqua sono il fantasma di ciò che sembra collocato davanti all'acqua o a chi disegna » 44. Ma quelle for­ me e quel mondo superiore sono, da sempre, un possesso dell'anima, una dimensione di cui la psuché non solo è partecipe, ma principio costitutivo. Il fatale fraintendimento è non vedere che tutte le cose inscritte nel sensibile, tutto il dominio della natura materiale e dei corpi, sono un prodotto della mente e dell'anima stessa: sono il ri­ sultato della contemplazione cui l'uno e l'altra attendono. L'origine

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della bellezza che accende la passione non appartiene, dunque, a ciò che sta « fuori » , ma è nell' intima radice della psuché, perché è lei che ha dato vita ai corpi e li sostiene, è lei che ha generato il cosmo, guar­ dando alle idee. In verità, « tutto è dentro » 41 e il « fuori » ne è solo un' irradiazione. « Noi non siamo abituati - insiste Plotino - a os­ servare l ' interno delle cose e lo ignoriamo e così inseguiamo ciò che è esteriore [ . . . ] , come se qualcuno, vedendo la propria immagine, la inseguisse, non sapendo da dove proviene » 46• Ma è appunto tale ahi­ tudine che deve essere corretta, per non precipitare nella tenebra di Narciso. Chi, rovesciando lo sguardo, conosce sé stesso impara che il mondo non è altro da sé e che non c 'è nulla da conquistare, perché ogni cosa è già nella propria anima, ogni cosa è già nel proprio « sé » . Piuttosto che seguire l'esempio rovinoso d i Narciso, occorre­ rebbe modellarsi sul profilo di Odisseo47, sull'esempio dell'uomo dall' intelligenza astuta, capace di attraversare la navigazione del sen­ sibile senza farsi catturare da esso, senza cadere negli incantesimi di Circe e Calipso, ma rimanendo ben desto e vigile, orientato verso una meta che gli consentirà di tornare a essere sé stesso. Una meta che coincide con la possibilità di uscire dai flutti e dall'oscurità della materia, con l'ascesa ai piani superiori della realtà: Odisseo è, nella tradizione neoplatonica, l'emblema per eccellenza di chi è riemerso dai flutti della materia e del divenire, di chi si è risvegliato, toccando il porto del mondo divino. Anabatéon, « bisogna risalire » , ammonisce Plotino48• Bisogna salpare e «prendere il largo » affinché l'anima, allontanandosi dai corpi, s' innalzi al livello della mente. Per compiere questo viaggio, di cui Odisseo sarebbe simbolo, è necessario procedere al di là delle coordinate dello spazio e del tempo, al di là delle quattro dimensioni cui i nostri sensi e la nostra ragione sono avvezzi, al di là della mate­ ria che siamo abituati a toccare. Per suggerirne la natura e insieme per darne un' indicazione d'avvio, Plotino propone di esercitarsi in una sorta di meditazione guidata che è insieme assorta preghiera e propiziazione dell'esperienza: « Crea nella tua anima l ' immagine luminosa di una sfera che contenga in sé tutte le cose, esseri in movi­ mento e in quiete, e poi, conservando tale rappresentazione, imma­ gina un'altra sfera, ma questa volta, priva della sua massa: elimina in

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essa anche lo spazio e la rappresentazione della materia, e stai attento a non farla diversa dalla prima, attribuendole solo una dimensione più piccola. E, a questo punto, invoca il dio che ha prodotto ciò che stai immaginando, e pregalo di venire. Ed egli giunga portando il suo universo e tutti gli dei che sono in esso, dal momento che egli è uno e tutti, e ognuno è tutti » 49• Il dio che viene invocato è il dominio del nous, della « mente » , e gli dei che in esso risiedono sono le « idee » stesse. Un universo in cui ciascuna idea è sé stessa e insieme tutte le altre, senza che ciò comporti il venir meno di ciò che la contraddi­ stingue. Un universo in cui la differenza non comporta separazione e alterità come accade nel sensibile : le idee divine sono come tan­ ti « Centri » che coincidono in un unico « centro » 10• « Potremmo immaginarla - suggerisce ancora Plotino - come una sfera vivente di una vita molteplice, o ancora come una realtà composta di molti volti e splendente per la loro vitalità, o come una somma di anime pure che convergono in un unico essere » 1'. Unità molteplice dell'es­ sere, in cui regna uno splendore infinito e nessuna opacità ostacola la visione, in cui nessuna esteriorità si oppone ali' intima conoscenza e nessuna determinazione locale o temporale separa gli esseri: « Tutto è trasparente, nulla è oscuro o impenetrabile, ogni cosa è evidente a ogni altra nel proprio intimo [ . . ] , ogni cosa porta in sé tutto e in ogni altra vede tutto : ogni cosa è dappertutto [ . . ] e il fulgore è senza fine » 1\ « tutto è simultaneo » 1\ La mente è un universo vivente che contiene, a un grado più alto, come archetipi immutabili, le forme di tutti gli esseri e di tutti gli elementi che popolano il nostro mondo : « C 'è anche lassù una terra che non è più deserta, bensì più popo­ lata della nostra: essa ha in sé tutti gli animali che quaggiù vengo­ no chiamati terrestri, e ci sono tutte le piante [ . . ] , lassù c 'è anche il mare e ogni acqua, la cui corrente fluisce di una vita immobile, e tutti gli animali acquatici, e l'aria e i viventi dell'aria » 14• Archivio di ogni possibilità di vita e di manifestazione, pensiero di ogni possibile pensiero, la mente raccoglie in sé, in unità indivisa, tutte le qualità che, nell'universo materiale, si offrono ai sensi: « È come se un'unica qualità possedesse e conservasse tutte le altre : dolcezza mescolata a profumo, gusto del vino mescolato al sapore di ogni altro succo, vi­ sioni di colori e sensazioni tattili quante se ne possono conoscere, e .

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pure suoni, tutti quelli che l'udito può cogliere, e ritmi e melodie di ogni genere » ss_ Accedere alla mente equivale a conoscere non solo il proprio sé come forma divina - chi è attivo sul piano della mente è come un « dio » 16 -, ma l' intera realtà in ogni sua articolazione e nell' intensità suprema che la vita raggiunge nella .coincidenza con il pensiero. Tale conoscenza si dà come sintesi intuitiva, uguale allo stesso splendore trasparente della mente, senza alcuna suddivisione in parti o sequenze determinate da nessi, senza alcuna espressione in termini distinti. È una forma di sapienza e di visione unitaria che Platino paragona alla natura dei geroglifici: « Gli Egizi, quando vo­ levano esprimere qualche cosa in base alla sapienza, non impiega­ vano i segni delle lettere [ ... ] , ma disegnavano figure (agdlmata) e incidevano nei loro templi una figura particolare per ciascuna cosa, mostrando la natura non discorsiva della mente ; ogni singola imma­ gine è, infatti, una forma di scienza e di sapienza, corrispondente al suo oggetto, qualcosa di unitario, diverso dal ragionamento e dal­ la deliberazione » 17• La mente si esperisce e si coglie, senza parole e senza discorso, come un dgalma, come un' « immagine sacra » che rifrange l'unità molteplice di altrettante « immagini » . Ma, proprio per questo, tutto ciò che si può dire in merito al regno della mente, a proposito del suo contenuto, può avere solo carattere analogico. P lo­ tino ricorre spesso all 'espressione hoion , « come » , a segnare l' appros­ simazione e insieme la distanza di quel che viene affermato : la lettera del testo è un perenne asintoto rispetto alla pulsazione dell'evento vissuto al di là della misura umana. Sfera, volto, luce, geroglifico sono unicamente termini simbolici per evocare l'aura di un indicibile. Chi si fosse avvicinato al divino Glauco, creatura del mare, per ot­ tenere un oracolo dalla sua bocca profetica, avrebbe assai faticato a indovinare il suo effettivo aspetto, a discernere la sua forma primiti­ va. Tale era stata, infatti, la trasformazione che il suo corpo aveva su­ bito per effetto dei flutti e della perenne immersione nella salsedine : « Parte delle sue membra era stata frantumata dalle onde, parte era stata consumata o del tutto deformata dai flutti, e su di esse si erano aggiunte incrostazioni di conchiglie, di alghe e di pietre, al punto da farlo apparire un mostro invece di ciò che in origine era » 18• Allo

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stesso modo - aveva spiegato Platone attraverso questo celebre raf­ fronto - la nostra anima, immersa nel mare somatico, annegata nel corpo e nella materia, appare come un' irriconoscibile mostruosità, deturpata da concrezioni « ruvide » e «petrose » , irrigidita da aspe­ rità irregolari, appesantita da quella sostanza « terrosa » che è pro­ pria di quanto sta in basso. In tali condizioni non è possibile coglier­ ne l 'essenza né, tanto meno, è possibile che la psuché stessa riesca a conoscersi e vedersi. E la conseguenza forse più grave è proprio que­ sto ottundimento, questa paralisi, che affligge le potenze superiori dell'anima, impedendo a esse ogni attività. Per vedere e conoscere, per risalire dalla materia all'anima e dali' anima alla mente, vi è la necessità di una radicale « catarsi » , di una drastica purificazione che liberi il prezioso nucleo dell'anima da quell' involucro di impurità. Bisogna eliminare tutte le scorie determinate dalla complice e com­ piaciuta solidarietà con il sensibile. Bisogna sciogliere quella rigidi­ tà e quelle deformazioni che ne ostacolano l'originario movimento, rendendola simile a un « sasso » inerte. È necessario - spiega Plati­ no - procedere alla maniera di un artigiano che, con fatica e sudore, si applica a trarre una bella forma da un irregolare blocco di pietra: « Opera come opera uno scultore con una statua che deve diventa­ re bella: da una parte egli elimina, dali ' altra assottiglia, qui leviga, lì ripulisce, finché sulla statua non appare un bel volto ; così anche tu elimina ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto, purifica e rendi luminoso ciò che è oscuro e non cessare di scolpire la tua statua (dgalma), finché il divino fulgore della virtù non risplenderà in te e la temperanza non sarà collocata su un puro piedistallo » 19• Il fulcro del lavoro si riassume nell'atto di aphairéin, di « togliere » tutto ciò che non è anima e, insieme, tutto ciò che dell'anima è « inclinazione » al somatico. Non perché il corpo o l'universo fisico siano un male, o il male in assoluto, come ritenevano gli gnostici combattuti da Plati­ no. Ma unicamente perché le facoltà superiori e lo specchio interiore non possono svolgere integralmente la loro funzione se non in con­ dizioni di isolamento, di semplicità e di purezza. La psuché non deve essere « mischiata » ad altro né da altro turbata nella sua raccolta so­ litudine : deve trovarsi da sola, in sé e per sé, se il conoscere al grado più alto è qualcosa di « unitario » , e tale unità si ottiene attraverso un

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movimento di ritorno a sé, un rivolgimento che sprofonda nell' in­ teriorità più riposta. È un atto di denudamento, una spogliazione di quei « rivestimenti » di cui ci si era ammantati, consapevolmente o meno, nella « discesa » verso il corpo, in modo analogo a chi si appresti a entrare nella camera più segreta e sacra del tempio : « Egli deve compiere delle purificazioni, spogliarsi delle vesti che prima in­ dossava e salire nudo » 60• L' aphairéin, l ' « eliminare » rende all'anima la sua essenziale bel­ lezza: lo splendore di un dgalma, di una « statua » , di un' « immagine divina » . E così deve essere se essa vuole contemplare gli agdlmata viventi e intelligenti della mente, se essa intende conoscere il cosmo trasparente delle forme ideali. Perché - secondo l'antico adagio già ricordato da Omero - solo il simile può conoscere il simile, così come l 'occhio per vedere il sole deve acquisire, a propria volta, una virtù « solare » 6'. Purificata e restituita a sé stessa, la psuché, che si volge alle idee, è, anche lei, puro éidos: « idea » eterna e « forma » perfetta dell'esseré>, che non « declina » più, in alcun modo, dal proprio verticé'. E allora diviene capace di ogni visione nella pie­ na enérgeia di quella facoltà che « tutti hanno, ma pochi usano » 64• Diviene, con tutta sé stessa, un « Occhio » immateriale che « vede tutto » , un occhio « spalancato » sull' invisibile e l' incorporeo: un occhio che attende, ali' alba, il sorgere del sole abbagliante deli'essere, per farsi inondare e nutrirsi di quella lucé1• Come coloro che salen­ do sulla vetta di una montagna irradiata dal sole assumono quello stesso colore biondo della terra su cui camminano66• Raggiunto tale livello, l' opsis, la « vista » dell'anima diviene ancor più penetrante e potente. Non vi è più, propriamente, un soggetto che si volga a una realtà posta dinanzi a sé, ma si produce un vedere che trasporta l 'oggetto direttamente dentro l 'occhio veggente, den­ tro l'anima contemplante, in un processo di compiuta identificazio­ ne : «Non vi è più da un lato chi contempla e dall'altro la cosa con­ templata, come due realtà l'una esterna all'altra, ma il veggente dalla vista acuta ha l'oggetto dentro di sé [ ] , occorre trasferire, infatti, nel proprio intimo ciò che si vede e vederlo come una cosa sola con sé stessi, vederlo come sé stessi, quasi che uno, posseduto da un dio, da Apollo o da una delle Muse, provocasse dentro di sé la contempla. . .

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zione di quel dio, quand'avesse la forza di guardare, appunto, il dio nella propria interiorità » 67• Ma, allora, l'anima, congiuntasi e iden­ tificatasi con il dominio della mente, è pronta a compiere l'ultima transizione, l'ultima tappa del proprio viaggio. È pronta a slanciarsi verso l'uno, a innalzarsi verso di esso. Tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario portare il denudamento a un esito radicale. «Elimina tutto » , intima Plotino : l'uno non è pensiero, non è esse­ re, non è forma, e l'anima che voglia accostarlo deve, allo stesso modo, spogliarsi di ogni forma e di ogni contenuto. Deve cessare di essere « idea » e « mente » , se vuole raggiungere ciò che eccede l'una e l'al­ tra, in quanto ne è causa e principio. Deve diventare « informe » come . « informe » è l 'uno : trasformarsi in « pura luce » così come l'uno è « luce » infinita, assolutamente priva di misura, che non può essere in alcun modo localizzata né circoscritta da alcuna figura, che non si sa da dove emani e da dove arrivi, che non fa vedere alcun oggetto, perché, là, non c 'è propriamente nulla da vedere, se non il mezzo lu­ minoso stesso che dona l'essere e la conoscenza. Questo è, in sintesi, il télos, il « fine » dell'anima: «Toccare quella luce e vederla per mezzo di quella luce stessa [ . . ] la luce da cui l'anima è illuminata è infatti la luce stessa che deve vedere » 68• È un punto su cui Plotino ritorna insi­ stentemente nel tentativo di evocare che cosa accada in quegli istanti. Chi è giunto sulla soglia di tale esperienza - spiega altrove - è « come sollevato da un flutto che si gonfia e allora vede improvvisamente e non vede come : la visione gli riempie gli occhi di luce, ma non fa vede­ re altro attraverso di essa; ciò che vede è la luce stessa [ . . ] uno splendo­ re che genera » , lo splendore da cui p romana ogni realtà 69• Ma anche il « vedere » , così spesso ripetuto, non è forse un ter­ mine adeguato o sufficiente per rendere il nucleo di quell'evento. Si tratterebbe piuttosto di un' aphé, di un « contatto » ineffabile, di un « toccare » , come di due centri che vengano a coincidere o di due amanti che si fondano nell'estasi d'amore. Contatto intimo e pro­ fondo nella solitudine di un incontro « da solo a solo » , ove ogni pensiero viene meno, ogni distinta identità si dilegua e tutto si so­ spende nell'oltre di un'unità assoluta. « Chiunque abbia visto sa ciò che dico » 70, osserva Plotino. E non potrebbe essere altrimenti dato che quanto si afferma nelle pa.

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gine delle Enneadi rinvia incessantemente alla memoria vissuta e alla necessità di provare e compiere, soggettivamente, il medesimo percorso. Si comprende, se di comprensione è giusto parlare, solo facendo. Per questa stessa ragione, subito dopo aver tratteggiato il conseguimento dell 'uno, Plotino ricorda la « famosa prescrizione dei misteri: non divulgare nulla ai profani » 7'. Non perché ci sia un segreto da custodire gelosamente, escludendo i non iniziati, o perché si voglia proibire qualsiasi discorso intorno al divino. Le Enneadi, d'altro canto, non parlano che di questo. La questione è un'altra: solo conoscendo sé stessi, solo « vedendo » e « toccando » da sé, è dato cogliere il valore e il fine del viaggio, è dato sperimentarne la ve­ rità. Dusphraston to théama, « la visione è difficile da esprimersi » 7': questo è l'unico indicibile segreto. La sapienza è un «palazzo » di cui bisogna percorrere, ordinata­ mente, le diverse stanze, osservando, con i propri occhi, che cosa cia­ scuna contenga e che risonanza abbia in noi, fino a che vi sia la possi­ bilità di incontrare « quello » che della dimora è signore. L' incontro può essere fulmineo e sfuggente, a volte inatteso, a volte lungamente bramato, ma vi è sempre la possibilità di tornare in quella stanza più segreta, di tornare da « Lui » . Basta ridestare la virtù interiore, già ampiamente sviluppata, e concentrarsi nuovamente sull ' « ordine » del proprio « sé » , per ritrovare la « leggerezza » necessaria al volo dell'anima: « Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati : distacco dalle cose estranee di quaggiù, vita che non si compiace di quanto è terreno, fuga da solo a solo » 73• L'opera di Plotino, così come ora la conosciamo, è frutto del lavoro editoriale del suo allievo Porfirio, che decise di mettere ordine nelle pagine del maestro, disponendole in una sorta di sequenza ideale di temi e di questioni, dai trattati concernenti l 'uomo e la virtù a quelli che vertono sull ' ipostasi dell'uno. Plotino, in verità, non si curava molto dei suoi scritti. Non aveva l'abitudine di rileggerli né di cor­ reggerne la forma o l 'ortografia. Scriveva in preda all ' enthousiasmos, a una sorta di esaltante «possessione » , in cui l 'espressione del pa­ thos, della sua intima « vissutezza » , prendeva spesso il sopravvento su ogni sistematicità espositiva74• Quelle righe erano il semplice ma-

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terializzarsi su un piano inferiore di quel pensiero vivente che lo abi­ tava. E solo di questo gli importava veramente. Quando ne parlava, durante le lezioni, una luce gli brillava sul viso e una sorprendente grazia sembrava attraversare il suo sembiante75• Un giorno, Amelio, un altro suo discepolo, fu preso dall' idea di compiere un gesto ana­ logo a quello che, tanti secoli prima, aveva condotto Cherefonte a Delfi, per interrogare l'oracolo sul conto di Socrate. È storia nota : la Pizia aveva risposto che Socrate era il più sapiente degli uomini, dando l'avvio a quella missione di risvegliare gli Ateniesi, che egli non avrebbe deposto se non con la morte. Nel caso di Platino, Ame­ lio aveva ima più specifica curiosità da rivolgere al dio : voleva sape­ re « in quale luogo fosse la sua anima » , ovvero a quale rango essa appartenesse dopo che questi aveva abbandonato le proprie spoglie mortali. Apollo non si fece troppo pregare e, nell'ampio responso, affermò senza reticenze che Platino era ormai un ddimon, un essere divino partecipe della sorte degli dei, del tutto sciolto dai vincoli del­ la necessità che altrimenti gravano sui mortali: « Mai il dolce sonno chiuse del tutto le tue palpebre. Tu le hai tenute aperte, squarciando l'oscura cortina di nebbia, e, portato nel vortice, hai scorto molte bellezze che difficilmente sarebbero visibili ad altri cercatori della sa­ pienza [ . . . ] , ora sei giunto ormai alla schiera dei demoni [ . . . ] , là dove dimorano il santo Platone e il bel Pitagora e quanti compongono il coro dell' immortale Amore » 76• Il viaggio si era concluso con suc­ cesso. Lasciando la condizione umana, Platino era divenuto ciò che era. Aveva realizzato il proprio sé divino, contemplando lo specchio dell 'anima e della mente, come Socrate aveva, un tempo, raccoman­ dato a Alcibiade.

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Intermezzo simbolico Materie, segni e miti

« Questo nostro universo è davvero un vivente animato e intelligen­ te, generato dalla provvidenza » . Così scriveva Platone nel Timeo, celebrando il cosmo come un dgalma, un' « immagine sacra » , che rappresenta e riproduce, nel divenire, l 'eterna perfezione dell'es­ sere'. Un grande e meraviglioso « animale » , un organismo che ha zoé, « vita » , sensazione e pensiero. In esso nulla è irrelato perché un' invisibile harmonia ne connette saldamente gli elementi, crean­ do una trama occulta di corrispondenze e di mutui effetti. È come se un unico « respiro » lo attraversasse da un capo all'altro e ciascu­ na cosa inalasse ed esalasse questo soffio, secondo un impercettibile, ma regolare ritmo che riverbera ovunque. Una divina sumpnoia, una « con-spirazione » che si espande e si contrae dal centro alla perife­ ria, pervadendo ogni cosa di energia e intelligenza. La tradizione neoplatonica non si stanca, al pari di Platone, di ribadire il valore di questa visione integrata e integrale della vita co­ smica. Non si stanca di inneggiare alla mirabile coesione dell'univer­ so, rivolgendosi a tutti coloro che non riescono, per contro, a coglier­ ne la complessa bellezza. Accecati dall' ignoranza e tormentati dalle proprie idiosincrasie, i mortali guardano alla terra e al cielo, ma non vedono altro che un « confuso ammasso di cose » \ da cui temono di essere feriti o travolti. Non riescono, in alcun modo, a cogliere il disegno compatto e ordinato di quel tessuto cosmico che la spola del demiurgo ha saputo intrecciare. Sfugge ai più quella suprema sun-

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taxis, quel « co-ordinamento » , che governa il mondo, assegnando specifiche funzioni alle sue componenti e organizzandole le une ri­ spetto alle altre : «Di necessità - afferma Plotino - tutte le cose sono dipendenti le une dalle altre come in una catena. Ciò non avviene solo nell'unità costitutiva dei singoli individui, secondo quella che è stata felicemente definita "cospirazione unitaria", ma si dà, a mag­ gior ragione e in primo luogo, nell'universo stesso. Qui, infatti, un unico principio unifica le molteplici parti e da tutte queste compone un solo vivente. E, come in ogni individuo, ciascuna parte compie una propria specifica funzione, così, nell 'universo, ogni essere ha il proprio compito [ ... ] , ciascuno, procedendo da una medesima fonte, compie la propria attività ed è utile agli altri, perché nessuno è sepa­ rato dal tutto » 3• È la dimensione dell' « insieme » a prevalere in ogni istante e in ogni punto, quand'anche, per l'angustia della percezione, lo spettacolo del mondo possa apparire come il moto convulso di sparsi frammenti. È la dimensione del sun, del « con » , a costituire la legge suprema della realtà cui ogni cosa appartiene. Non è solo sumpnoia, ma anche sungéneia, « comunanza di origine » , intrinseca e innata «parentela » , poiché unica è la causa generante da cui tutto scaturisce. È ancora sumpdtheia, «com-passione » , ovvero « com­ partecipazione » di affetti e di effetti, che ridondano da un elemento all'altro : universale « con-sentire » delle cose che fanno eco le une alle altre, nel reciproco gioco dell 'agire e del patire, perché, se tutto è intrecciato, nessun atto e nessuna sensazione rimane chiusa in sé stessa o circoscritta in un ristretto ambito. Si suole opinare che un evento o un gesto esercitino un' influenza solo in ciò che è prossimo o immediatamente contiguo. Si suole pen­ sare che quanto avviene in un luogo inerisca esclusivamente a esso. Ma la legge del «con » , il principio della sumpdtheia e della sungéneia smentisce l ' ingenua credenza che gli eventi e gli effetti delle cose sia­ no limitatamente "locali". Nel grande « vivente » è, semmai, la "non­ località" a dominare, per chi sappia rompere il guscio del proprio pic­ colo « io » ed estendere l'orizzonte della propria visione : « Questa unità è prodotta dalla "simpatia" e, poiché si tratta di un'unità viven­ te, anche il lontano è, in realtà, vicino - osserva ancora Plotino -, così come accade in ciascun singolo animale con artigli, corna, dita o

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altre membra che non sono immediatamente contigue: le parti frap­ poste creano una discontinuità e non provano alcuna affezione, men­ tre ciò che è distante sente e subisce un' influenza. Le parti fra loro simili, anche quando non siano a contatto, bensì separate da altri corpi intermedi, "simpatizzano" proprio in ragione della loro somi­ glianza, e così un agente non vicino spinge la propria influenza agli elementi più lontani » 4• Nel grande tutto, non c 'è cosa che sia tanto lontana dal punto di vista spaziale da non risultare vicina a un'altra, se la sumpdtheia le connette, se un'affinità di natura ed essenza o un preciso rapporto le pone in necessaria e reciproca comunicazione. Ne è esempio - come i neoplatonici amano ricordare - la musica stessa, quando, pizzicando la corda «più bassa » della lira, ci si ac­ corge che anche l' « intermedia » e la «più alta » si mettono a vibrare al preciso rapporto di un intervallo di quarta e di ottava, mentre le corde contigue restano immote1: « La lontananza non impedisce in alcun modo che corde reciprocamente accordate reagiscano recipro­ camente per simpatia, e la prossimità non è sufficiente a produrre simpatia tra corde dissonanti » 6• La « simpatia » può dunque essere intesa come una suprema « sinfonia » che risuona nel cosmo in ac­ cordi di note e in impercettibili melodie. Una « danza » universale in cui un passo s'accorda con un altro in base alla tessitura armonica che accompagna e detta il movimento di ogni singolo essere?. Il che comporta un'ulteriore e rilevante implicazione. Se le cose sono fra loro connesse, se determinate relazioni legano le une alle altre in base a una precisa grammatica di affinità reciproche, somi­ glianze innate o proprietà comuni, è possibile agire su una cosa per produrre un effetto a distanza su di un'altra, così come, osservando ciò che è visibile e prossimo, si può conoscere il lontano e l' invisibile : «Tutte le cose - osserva Sinesio sulla scorta di Plotino - si danno come segni le une delle altre in virtù della parentela che le avvince [ .. ] , esse sono come lettere di vario genere scritte in un libro » 8• L'u­ niverso è un libro vergato di lettere, un tracciato di segni in recipro­ ca rispondenza, una lingua segreta di attrazioni e di vincoli. Opera essenziale è decifrare l'arcano di tale scrittura così da impadronirsi magistralmente della sua « sintassi » , diventando capaci non solo di interpretare il significato di quei « segni » , ma di usarne sortendo .

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mirabili risultati. La conoscenza della « simpatia » è la chiave di vol­ ta per poter agire sul sensibile attraverso il sensibile stesso, per mo­ dificare la condizione dei corpi o predirne gli sviluppi: basterà ma­ nipolare opportunamente un « segno » perché, in modo infallibile e senza diretto contatto, si compia ciò cui quel segno rinvia; basterà osservare il manifestarsi di una « lettera » per sapere il futuro che essa significa e anticipa. «Tutte le cose - prosegue Sinesio - si at­ traggono a vicenda così come si significano reciprocamente. Sapien­ te è colui che conosce il legame di parentela che stringe le varie parti dell'universo. Egli sa attirare una cosa per mezzo di un'altra, avendo presso di sé i pegni, per così dire, di ciò che è lontano, ovvero figu­ re, incantesimi e sostanze materiali » che attivano immediatamente i rapporti di connessione desiderati. È questo il principio fondante che spiega e insieme consente il dispiegarsi di ogni magia naturale. Conoscere le intime dinamiche della phusis, la nascosta armonia della « natura » - di cui l'uomo incarnato è parte -, per diventar­ ne signore e veggente, secondo una modalità completamente altra da coloro che credono oggettiva solo l'esperienza dei loro sensi e la consistenza materiale e discontinua dei singoli corpi. Mago è chi leg­ ge, nel libro della phusis, l' intera rete delle arcane corrispondenze e, senza muoversi dalla sua stanza, fa vibrare le corde della musica uni­ versale, scegliendo la melodia confacente ai propri fini e realizzando, senza intermissione di spazio o di tempo, quanto desidera. Connessione universale, non località, attrazione vicendevole di forze o di sostanze : pdnta en pdsi, « tutto è in tutto » , come recita un antico adagio caro ai neoplatonici9• Ma tale compresenza e mutua embrica­ zione non significano affatto che le cose siano fra loro confuse e in­ distinguibili. Vi è una ratio sottile che presiede ai nessi cosmici. Una ratio basata, come si sarà ormai compreso, sul criterio dell' homoiotes, della « somiglianza » , che non concerne tanto le esterne e superficiali apparenze delle cose, quanto piuttosto la loro più intima natura. Una somiglianza che non opera, per così dire, solo in orizzontale, ma rin­ via, in modo ben più rilevante, alla dimensione verticale dei principi primi, da cui il tutto deriva in una successione ordinata di piani. La sumpdtheia non si limita a legare fra loro le cose simili che appar-

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tengono al perimetro del cosmo sensibile, ma esprime, alla sua radi­ ce, quel nesso essenziale e generativo che avvince la dimensione del sensibile alla trascendenza immateriale e noetica delle cause divine, poiché esse presiedono, nell' immobilità della loro eterna sussistenza, allo svolgersi di ogni cosa inscritta nel divenire. Suprema simpatia è il vincolo che unisce le cose visibili al variegato plesso delle forze invisibili che abitano la mente divina e la dimensione sovraessenziale dell 'uno. Come gli antichi sapienti compresero attraverso la profon­ dità di una visione intuitiva, la sungéneia, la «parentela » , che unisce la realtà in tutta la sua estensione, non ha altro fondamento che la potenza degli dei. La rete che innerva l'universo materiale è, infatti, se colta da una diversa e superiore prospettiva, il frutto di una serie di incorporei fili, di « catene » che discendono dall'alto al basso, dai vertici supremi dell'essere fino agli estremi inferiori della �orporeità, dall'attività « mentale » e « sovramentale » delle essenze divine alla determinazione ultima della natura finita : « È fonte di meraviglia ve­ dere come nei termini primi delle catene siano presenti i termini più infimi di esse, e come, viceversa, negli ultimi siano presenti i primi: in cielo, le cose terrestri sussistono nelle cause da cui traggono origine, secondo una modalità che è propria del cielo, mentre, in terra, le cose celesti esistono in modo appropriato alla terra [ . . . ] , quaggiù si pos­ sono vedere, secondo una modalità terrestre, soli e lune, così come è possibile vedere in cielo tutte le piante, le pietre e gli animali secon­ do una modalità di vita intelligibile » '0, ovvero alla maniera di puri pensieri e di principi archetipici. Ogni cosa terrena conserva in sé un legame con l'essere divino che l'ha prodotta nella sua particolare natura e nei suoi specifici tratti, così come ciascun dio contiene, nel proprio seno, ogni realtà da lui derivata. Ed è precisamente in questo che le seirdi, le « serie » o « catene » verticali, consistono : « Il carat­ tere distintivo delle potenze divine, irradiandosi dali ' alto, risiede in tutte le cose che vengono da esse generate - spiega Proclo -, poiché ciascuna cosa riceve dalla sua causa il carattere distintivo grazie al quale quella medesima causa sussiste. Per esempio, se c 'è una divi­ nità purificatrice, c 'è un potere purificante anche nelle anime, negli animali, nelle piante e nelle pietre. [ . . ] La pietra parteciperà di tale potere solo in modo corporeo, la pianta in modo più elevato ossia .

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come vita, l'animale anche come istinto, l'anima razionale secondo la ragione, la mente nel modo che le è proprio [ ... ] . L' intera cate­ na deriva il medesimo potere da un'unica causa divina [ . . . ]. Tutte le cose sono connesse agli dei: alcune sono irradiate da certe divinità, altre da altre, e le catene si estendono fino ai termini ultimi. Alcuni esseri dipendono direttamente dagli dei, altri da un numero varia­ bile di intermediari [ .. ] . Ciò che ciascuna cosa possiede per propria natura deriva dalla divinità » ". Ogni cosa partecipa, dunque, del di­ vino secondo una caratteristica determinata e racchiude in sé stessa la dunamis, la «potenza » che in tale caratteristica si manifesta. La modalità della partecipazione varia, tuttavia, in rapporto al livello e al dominio specifico cui ogni cosa appartiene : dal regno minerale a quello vegetale, dal mondo animale a quello psichico, dal piano degli elementi al livello della mente, una medesima forza divina si rifrange con gradi differenti di intensità ed effetto. Tali considerazioni conducono ad ampliare ulteriormente l 'o­ rizzonte da cui si è partiti. Se, volgendo lo sguardo tra la terra e il cielo, le diverse e magnifiche realtà della natura sensibile si possono intendere come « segni » le une delle altre, nella prospettiva verti­ cale delle catene divine queste stesse realtà assumono un diverso e ben più alto valore : tutte le « cose » appartenenti al cosmo mate­ riale si rivelano, nella folgorazione intuitiva della sapienza, come altrettanti « simboli » degli esseri divini da cui più specificamente dipendono e di cui sono, al livello inferiore delle reciproche « se­ rie » , ultima ed estrema espressione. Il termine sumbolon nel suo valore originario e, per così dire, più comunemente pratico - indi­ cava un mezzo utilizzato per il reciproco riconoscimento. Mutui legami di ospitalità e di amicizia tra persone o stirpi erano testimo­ niati da un oggetto spezzato in due : ciascuno dei soggetti coinvol­ ti nella relazione ne conservava una metà, che poteva trasmettere anche ai propri eredi. In un successivo incontro, anche a distanza di lungo tempo, il sumbdllein, il « combaciare » dei due pezzi era non solo l 'evidente prova dell ' identità dei contraenti, ma anche la riattualizzazione del loro stesso rapporto : l'unità ricomposta era il positivo inveramento di un legame ancora valido ed effettivamente operante. La medesima dinamica, trasposta nella catena dell 'essere, .

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suggella e insieme attiva, di volta in volta, la relazione fra i diversi piani della realtà e gli enti che in essi sono compresi. Una pietra, un fiore, un animale, una sostanza, ma anche un determinato di­ segno, un numero o una parola possono essere la metà spezzata che rinvia a un particolare dio : il frammento che, in ricomposta unità, richiama a sé la potenza divina o che, al contrario, eleva sino a essa. Gli dei riconoscono i propri simboli e attraverso di essi si fanno conoscere, rendendosi presenti nelle materie che più « somi­ gliano » loro. Come afferma uno degli Oracoli caldaici, autorevol­ mente citati da Proclo, la mente divina « ha inseminato di simboli il cosmo intero » Il. In questa mirabile prospettiva, l 'universo non è solo ordinata armonia di parti, ma anche e soprattutto un' im­ mensa costellazione simbolica che mette in relazione il visibile con l ' invisibile, l 'esprimibile con l' « ineffabile » , ciò che ha forma e im­ magine con tutto ciò che è superiore a ogni immagine e ogni rap­ presentazione'3. Ed è proprio in virtù di tale indissolubile relazione che ogni simbolo racchiude in sé stesso un nucleo di energia, una vibrazione che, in modo istantaneo, raggiunge il vertice della se­ rie divina cui originariamente appartiene. Ciascun simbolo ha, in un certo senso, la medesima dunamis, la stessa «potenza » del dio che in esso si riflette'4• Nelle pagine dei neoplaronici - così come nelle citazioni degli Oracoli che esse ospitano -, sumbolon spesso si avvicenda a un termine altrettanto pregnante qual è sunthema: alla lettera una « cosa posta insieme » , che assume il valore di « segna­ le concordato » , « messaggio in codice » o ancora «parola d 'or­ dine » . Nell 'uso prevalente, i due vocaboli sono sostanzialmente sinonimici. Solo talora è forse possibile cogliere una distinzione : sumbolon corrisponderebbe alla materia con cui una certa divinità mostra affinità, mentre sunthema indicherebbe, in modo più speci­ fico, la « cifra » o meglio la « segnatura » , tracciata in seno a ogni singola sostanza e rinviante alla sua causa divina. Se la pietra sele­ nite è, ad esempio, simbolo della dea della luna, il sunthema insito nella pietra stessa costituirebbe il potere attivo della loro reciproca connessione. Come Proclo spiega, ogni cosa porterebbe, nella sua più intima natura, un sunthema, un « contrassegno » capace di far­ la risalire alla specifica divinità che l ' ha generata'1•

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Considerando tutto ciò, una domanda può spontaneamente emergere, se si pensa alla dottrina che, più di ogni altra, è legata al nome di Platone. L' intera realtà del divenire non sarebbe che il riflesso, nella materia, di quel mondo di idee eterne che risiedono al di là del cielo, nella pianura dell ' iperuranio. Quale rapporto sussiste tra tale teoria, che l 'Accademia ha continuato a insegnare, e la rete simbolica su cui alcuni neoplatonici hanno così insisten­ temente richiamato l ' attenzione ? Tanto le idee quanto i simboli concernono, infatti, la genesi e la natura della realtà. Ma la diffe­ renza - si potrebbe dire con estrema semplificazione - sta nella loro funzione. Le idee danno conto della struttura del mondo e delle cose : spiegano perché esse sono come sono. Simboli e segna­ ture sono dotati, per contro, di un potere « anagogico » , poiché attraverso di essi è possibile entrare in diretta comunicazione con le forze trascendenti che quella stessa struttura hanno posto in es­ sere. L' idea è forma che si contempla con gli occhi della mente. Il simbolo è energia che muove ed eleva. L' idea è oggetto di scienza e conoscenza. Il simbolo è forza che conduce agli dei. Un gallo, un leone e un girasole hanno strutture del tutto differenti e ciascuno di essi partecipa di idee diverse. Ma tutti e tre, in egual modo, sono simboli di un'unica divinità « eliaca » che, a livello sensibile, risplende nel disco luminoso del sole. Ciò non toglie che le due dimensioni finiscano per sovrapporsi. A un determinato livello della realtà, le idee sono anche forze, così come i simboli sono an­ che forme e gli dei paradigmi ideali. Tutto dipende, come sempre, dalla prospettiva da cui si guarda e dal fine che ci si propone. Quel che appare all 'uomo sul piano della manifestazione è tutt 'altro da quel che vale ed è vero per gli dei. Nella saggezza degli Oracoli, i pensieri della « mente paterna » sono, al medesimo tempo, folgori di energia luminosa, sciami di vibrazioni sonore, archetipi ideali, cifre simboliche e formule magiche che, come in un'opera di so­ vrana oreficeria, « cesellano » il prezioso gioiello del cosmo : « La mente del dio padre ronzò, con volontà potente, intuendo idee di ogni forma, e tutte si slanciarono da quell 'unica sorgente [ . . . ] , il signore dispose per il cosmo multiforme un ' impronta mentale indistruttibile, e il cosmo, ancora informe, si affrettò a seguirne

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la traccia, [ . . . ], completamente inciso di caratteri di ogni genere [ .. ] , forme che, ronzando, si dividono e si frangono nei corpi del cosmo [ ... ] aggirandosi a sciami, balenando qui e là in varie dire­ zioni » '6. .

Il sapere e la pratica dei simboli costituiscono una risorsa impa­ reggiabile e insostituibile : una risorsa che ha un proprio preciso ruolo nel ricongiungere il nucleo essenziale dell 'uomo alla sua fonte originaria, nel riportare il « sé » al suo principio causale. Un cospicuo gruppo di neoplatonici non riteneva - come aveva affermato invece P lo tino - che l'anima incarnata in un corpo po­ tesse mantenere un effettivo e costante contatto con il dominio della mente e con i piani superiori della realtà. Non credevano che solo una parte dell 'anima discendesse nella dimensione sensibile e che, per contro, il suo vertice, la sua parte apicale, si stagliasse al di sopra della materia, immune da qualsiasi compromissione e da qualsiasi vincolo. Diverso era il loro sentire e forse anche la loro esperienza soggettiva. In una linea ideale che andava da Giambli­ co a Proclo, per poi estendersi ad altri ancora, si era delineata la recisa e opposta convinzione che la « discesa » della psuché nella dimensione somatica fosse completa e senza residui: una « cadu­ ta » tale da determinare un mutamento sostanziale nella natura stessa dell'anima. Benché la catena dell 'essere non conoscesse di per sé interruzioni, veniva comunque a crearsi, a loro avviso, uno iato e una distanza che limitavano, in modo rilevante, i poteri della psuché. Per colmare tale separazione il pensiero umano, da solo, non sarebbe stato sufficiente. Non bastava spostare il centro della coscienza per vedere il divino e vivere in esso. Solo la forza dei simboli poteva rendere l'anima capace di procedere al di là del corporeo. Solo l 'efficacia dei riti, che di quei simboli sapevano fare un uso conveniente, poteva davvero ripristinare la connessio­ ne perduta con gli dei e con i livelli più alti dell 'essere : « Non è il pensiero che unisce agli dei - scriveva Giamblico - [ . . . ] , sono altri i mezzi che producono tali effetti : l 'esecuzione di azioni segrete, compiute in modo adeguato agli dei stessi, il potere di simboli ineffabili, che solo gli dei comprendono [ ... ] ; senza l ' intervento

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del nostro pensiero sono i contrassegni stessi (sunthémata) che, per propria virtù, agiscono e la potenza degli dei, cui tali contras­ segni appartengono, riconosce, essa stessa e da sé stessa, le proprie immagini [ ... ) , non si dà che quanto è perfetto sia mosso da ciò che è imperfetto [ . ] I nostri pensieri, le migliori condizioni della nostra anima e la nostra stessa purezza sono prerequisiti e concau­ se, ma quello che desta e muove la volontà divina sono gli stessi simboli divini » '7• La psuché vincolata al corpo e da esso modificata è affetta da un' irrimediabile impotenza : l 'essere umano, così com'è conforma­ to nell 'unione di questi due elementi, è pura oudéneia, « nullità » , rispetto alle potenze che hanno generato e presiedono alla vita del tutto'8• Purificarsi, abituare il pensiero ad allontanarsi dalla materia e dalle illusorie apparenze, disporre l'anima alla quiete e alla concentrazione interiore sono pratiche di indubbio valore per attenuare gli effetti devastanti di tale « nullità » . Sono condizioni preliminari indispensabili. Ma per mutare radicalmente tale stato, per reintegrarsi nella pienezza dell 'essere, per compiere il definiti­ vo salto a un'altra dimensione, occorre volgersi ai « simboli » e ai « contrassegni » in cui la potenza stessa degli dei è racchiusa e si comunica. Occorre volgersi alla pratica della theourgia, che, come indica il suo nome, è « opera divina » , perché deriva dagli dei e ricongiunge a essi nella perfetta saldatura di un cerchio : érgon huperphués, « lavoro sovrannaturale » , che dischiude le porte dell ' invisibile con le giuste «parole di passo » e con le preci­ se « cifre » derivanti dalle cause del tutto. La teurgia è hieratiké téchne, « arte sacra » , che, ridestando l ' anima dali ' ottenebramento dell ' incarnazione, la assimila e la unifica al potere demiurgico de­ gli immortali, al potere di fare e di produrre proprio dei principi primi : « La teurgia - ribadisce Giamblico - conduce e accosta l'anima al demiurgo universale, unendo la alla potenza automotri­ ce che [ . ] ordina l'universo [ ) , la salda alle singole potenze de­ miurgiche, una a una, cosicché l'anima, trasformata dalla pratica teurgica, si stabilisce in modo perfetto e compiuto fra le attività, i pensieri e le creazioni di quelle potenze » '9• Ascesa a tale livello, la psuché « vive diversamente ed esercita un 'altra attività al punto . .

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di non essere più un essere umano, e in ciò non si sbaglia, perché essa, abbandonando la propria vita, assume la beatissima attività degli dei » w. In tale prospettiva, philosophia e theourgia divengono dimensioni complementari, piuttosto che alternative, di un unico cammino iniziatico. Come osserva Olimpiodoro con efficace sintesi, l' érgon, l 'effetto proprio della philosophia, è « renderei mente » , portandoci nella sfera del nous, mentre il « lavoro » della teurgia è « unificarci agli esseri intelligibili così da poter operare al loro stesso modo » , éondividendone l'attività e l 'energiall. Se, da un lato, è necessario percorrere le vie dell 'arte dialettica e della teoria per i frutti che essa porta sul piano del pensiero, dall'altro diviene, tuttavia, al­ trettanto indispensabile, sviluppare una pratica rituale che sappia utilizzare i sumbola e i sunthémata con l 'opportuno metodo e con una sorta di gradazione progressiva che riproduca, per così dire, la stessa catena dell 'essere : da ciò che ha solida consistenza corporea a quanto è solo ineffabile forma che risuona nella mente. In tal senso, come si è già accennato, i primi e più immediati « simboli » sono rappresentati da « sostanze » che appartengono alla dimen­ sione materiale : «pietre, erbe, aromi e altri oggetti sacri » o anco­ ra « animali » che presentano « intrinseche affinità con ciascuno degli dei » e con le potenze che presiedono alla loro particolare natura". I fondatori dell 'arte ieratica - ricorda Proclo - avevano scoperto come entrare in contatto con le potenze superiori « a partire dalle cose che s i trovano sotto i nostri occhi, mescolan­ do alcuni elementi e togliendone altri in modo appropriato » >\ Se ogni singola sostanza ha in sé il carattere di un dio e può essere sufficiente, da sola, a richiamarne la presenza, un risultato ancora più efficace e potente può scaturire dalla reciproca mescolanza di « una pluralità di sostanze » connesse alla medesima natura divina. A tal fine - prosegue Proclo - i teurghi « riuniscono in un unico composto le singole emanazioni e rendono l'unità risultante da tutte le componenti simile a quell ' intero che preesiste a essi [ . . ] ; raccogliendo in un 'unica mistura i vari simboli particolari, otten­ gono, attraverso l'arte, una qualità che risponde all 'essenza del dio .

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nell'unione dei diversi poteri [ . . ] , la mescolanza così prodotta si innalza alla forma del suo modello divino » 24. Ma, al pari delle sostanze, sono simboli anche i « caratteri » , le « cifre » e i « grafi » che vengono tracciati al suolo per convocare la presenza divina o demonica da essi rappresentata: segni che poi, alla chiusura del rito, devono essere cancellati per « sciogliere » nuova­ mente le forze evocate e insieme liberare gli operatori dal loro influs­ so21. Di natura simbolica sono, ancora, le insegne e gli abiti che devo­ no essere indossati durante la pratica cerimoniale. «Vestire la figura degli dei » , il cui potere viene invocato, è un modo infatti per im­ medesimarsi in essi, fino a una completa ed estatica identificazione : coloro che celebrano un rito teurgico « portano tuniche e cinture di diversi colori a imitazione delle vite divine alle quali essi riferiscono nelle loro azioni cultuali » , e così pure i « turbanti » e le « bende » che cingono i loro capi hanno il medesimo scopo di connettere le loro « vite ieratiche agli dei cui esse sono consacrate » 26. Simboli e « contrassegni» sono, del pari, le parole e le formule che risuonano nelle preghiere e nelle « suppliche ieratiche » . Gli dei vengono chiamati a manifestarsi attraverso la pronuncia dei « nomi sacri » che a essi appartengono. «Nomi » efficaci perché rivelati dal­ le divinità stesse attraverso la trance o insegnati da sapienti ispirati. « Nomi » che, per la loro origine trascendente, sono come agdlmata, « immagini sacre » , in cui si riverberano e si manifestano, con veridi­ ca e consustanziale corrispondenza, l'essere e la potenza delle cause divine>7• Può trattarsi di termini greci - epiteti cultuali o poetici fis­ sati dalla più antica tradizione - , come pure di « nomi barbari » , vo­ caboli mutuati da una lingua altra o sconosciuta, espressioni che ap­ paiono prive di significato. A volte il simbolico fonico può limitarsi all'arcana modulazione delle sette vocali della lingua greca, poiché ciascuna di esse corrisponde a una delle sfere .planetarie>8• O ancora possono darsi combinazioni apparentemente inintelligibili di suoni : sequenze d i consonanti o perfino « urla sconnesse » , « esclamazio­ ni » , versi di animali, sibili o schiocchi nell'aria29. In nessun caso si tratta, comunque, di arbitrarie convenzioni umane. I « nomi sacri » , le formule rituali, i suoni incomprensibili, e all 'apparenza bestiali, non sono frutto d' invenzione o di inconsulta esaltazione. Anch'es.

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si sono vibrazioni specifiche di energia, forme e forze determinate che si connettono, per natura, agli elementi del cosmo e alle entità che lo abitano. Per questo, i « nomi » e i « suoni » tramandati non devono essere alterati: « Non cambiare i nomi barbari » - ammo­ nisce un Oracolo caldaico - poiché essi contengono una «potenza ineffabile » 30• I nomi - siano essi conosciuti o sconosciuti a « noi » , siano essi comprensibili o incomprensibili agli umani - « hanno in ogni caso un significato per gli dei [ . . . ] , un significato intuitivo e non pronunciabile, migliore e più semplice » 3'. Per tale ragione, bisogna . astenersi da tutte le spiegazioni razionali e da ogni riferimento a ele­ menti della natura materiale : « Quel carattere simbolico, intuitivo e divino della rassomiglianza con gli dei si deve supporlo presente anche nei nomi » , ed è grazie a essi che l'anima umana può cogliere e custodire, in sé stessa, un' « immagine mistica e impronunciabile degli dei » , quale mezzo potente ed infallibile per elevarsi al divino3'. Simboli delle realtà trascendenti sono, a un livello di maggior astrazione e immaterialità, i « numeri » stessi, come già avevano in­ segnato i Pitagorici nei loro « misteri matematici » 33, attraverso la venerazione della sacra tetraktus: la sequenza dei primi quattro nu­ meri naturali, che, rappresentati geometricamente, danno luogo alla perfezione del triangolo equilatero, e, sommati tra loro, alla sintesi suprema della decade. Dall'uno al dieci si racchiude il segreto delle « misure eterne » di tutto ciò che esiste in terra, in cielo e nei piani superiori dell'essere fino al principio primo34• Nell'operatività teur­ gica, il ricorso alla simbologia numerica non fa, nella sostanza, che riprodurre, in modo inesprimibile, la genesi di ogni realtà. Il demiur­ go stesso - come si racconta nel Timeo platonico - aveva plasmato la sostanza dell 'anima universale attraverso una complessa operazione determinata da rapporti matematici e proporzioni geometriche. Ser­ virsi teurgicamente di simboli numerici non significa, dunque, altro che riconnettersi alla dinamica demiurgica originaria. Se tutto viene dall' « uno » che si sdoppia nel « due » per creare - nella forma del « tre » - un universo di idee e di esseri eterni, il « quattro » è, per contro, il numero del cosmo materiale e della natura creata. Per que­ sto, un Oracolo avverte, con modalità altrettanto simbolica, di « non approfondire la superficie » 31. Se tre punti definiscono geometrica-

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mente un piano, passare al « quattro » significa trasformare la sem­ plice superficie nella dimensione di un corpo solido. Ma l' iniziato all'arte ieratica non ha altro desiderio che uscire dal . Le ultime ore della notte, poco prima che l'alba sorga, sono, per antica tradizione, le più propizie ai sogni veridici e alla profezia. Sono le ore in cui la facoltà intuitiva dell'anima pare più sensibile e attiva. L'opera si sarebbe ingenerata da un impellente suggerimento celeste, da una coartante e rapinosa « visione » divina che avrebbe quasi da sé composto il testo : quella che in altri tempi si sarebbe detta scrittura automatica. La sensazione di essere divenuto héteros, « altro » da sé, di sentirsi e di vedersi come da fuori, sono segni altrettanto eloquenti di una condizione di trance intensa: uno di quegli stati non ordinari di coscienza che permettono di guardare e vivere ciò che sta letteralmente al di là del corpo materiale. Date le premesse della composizione, non ci si potrà aspettare un testo pia­ namente didascalico o ordinatamente espositivo. Né troppa chiarez­ za sarebbe forse opportuna, perché su certi argomenti appare sempre preferibile mantenere una discreta obliquità, un'arcata oscillazione tra il dire e non dire, impegnando direttamente il lettore nel com­ pito di integrare e scoprire il tesoro celato nel tessuto delle parole : « Credo sia un uso antico, soprattutto platonico - egli scrive a mo' di avvertimento nella premessa - occultare le questioni filosofiche .

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d i maggiore importanza sotto l'apparenza d i più futili argomenti, per evitare, da un lato, che quanto è stato acquisito con fatica venga nuovamente a cadere dalla memoria, dall'altro, che esso, venendo divulgato, subisca l ' impuro contatto della massa dei non iniziati » '3• Lo sforzo prolungato per intendere ciò che si nasconde è condizio­ ne perché la sapienza, una volta raggiunta e fatta propria, s ' incida per sempre nella mente : «L'oscurità - egli aggiunge - è un qualcosa di magnifico e venerabile, come lo è nel caso dei riti iniziatici il se­ greto » '4. Occultare corrisponde, allo stesso tempo, alla necessità di proteggere sempre e comunque ogni insegnamento che possa essere frainteso da chi non abbia preparazione e requisiti consoni. Il testo si sviluppa così in un percorso sinuoso, in cui le questioni più rile­ vanti sono frammiste e diluite in apparenti divagazioni e i nessi de­ vono essere, per certi versi, ricostruiti e dedotti, collegando sezioni differenti della trattazione. Non resta che adeguarci, a nostra volta, ai medesimi criteri, non senza lesinare qualche slancio di maggiore generosità. A prima vista, lo scopo di Sinesio parrebbe concentrarsi in una lode appassionata del «potere divinatorio dei sogni » : «Le visioni oni­ riche presentano all'uomo in modo enigmatico gli eventi che poi accadranno nella realtà » '1• E la mantéia, la forma di « divinazione » che su di esse si fonda, rappresenterebbe una risorsa di ineguaglia­ bile valore qualora si sia in grado di praticarla nella maniera miglio­ re : «A dio per conoscere è sufficiente la propria natura. L'uomo invece può conseguire, proprio grazie alla divinazione, molto più di quanto spetterebbe in genere alla sua natura » '6, varcando l'an­ gusto limite del presente in cui l'esistenza mortale è comunemente confinata. Non v 'è nessuno che non provi il desiderio di sapere che cosa gli accadrà, che non abbia la curiosità di prevedere il corso del proprio destino o non vagheggi l 'arrivo di un qualche bene. Stretti dal dolore o dal bisogno, i mortali cercano di intravedere nei sogni l'annuncio di una svolta positiva, la premonizione che le loro sof­ ferenze avranno un termine. Tesi al raggiungimento di una meta o alla realizzazione di un progetto, essi tentano di trarre dalle proprie visioni notturne il segno che i loro sforzi saranno compensati o l'av-

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vertimento di ostacoli che si potrebbero frapporre. In tal senso, la divinazione per mezzo dei sogni costituirebbe una fonte non solo di sapere, bensì anche di elpis, di « speranza » e di provvida caute­ la: « Ciò che di vantaggioso e di dolce offrono le speranze [ . . ] , ciò che di utile e preveggente c 'è nel timore, tutto questo si trova nei sogni. Da nessun'altra cosa siamo così indotti ad avere fiducia. E il valore della speranza è per natura così grande e salutare che gli uo­ mini non vorrebbero nemmeno vivere se dovessero sempre restare nella condizione in cui si trovano da principio » '7• Se tale è la di­ sposizione comune dei mortali e naturale è del pari la loro tensione ad anticipare gli eventi futuri, la mantéia costituisce, senza dubbio, una delle « migliori attività cui ci si possa dedicare » per il tesoro di conoscenze che essa dispensa. Ed è proprio il sapere, d'altro canto, ciò che, più di ogni altra cosa, « apparenta » gli uomini al divino. In tal senso - osserva ancora Sinesio - l' oniromantica, la divinazione promanante dai sogni, ha un indubbio e palese vantaggio rispetto ad altre possibili pratiche divinatorie : « È soprattutto a questa for­ ma di conoscenza che ci si deve rivolgere perché ha la sua origine in noi, promana dal nostro intimo ed è un possesso dell'anima di ciascuno » '8• Proprio perché l 'esperienza onirica si genera éndothen, « dentro di noi » , essa è sempre a nostra disposizione e ogn !lno può fare di sé stesso e del letto in cui dorme una sorta di sede oracolare, capace di concorrere con i vaticini del « tripode » su cui si siede la Pizia delfica per profetizzare. L'oniromantica è quanto mai demo­ cratica poiché non fa distinzioni di censo o di età: è aperta a tutti coloro che vogliano servirsene e non distoglie in alcun modo dal la­ varo e dagli impegni cui ciascuno deve attendere. In quel tempo cui comunque la natura ci costringe al riposo, essa opera con ineffabile generosità: « L'essere accessibile a tutti fa di questa forma di divina­ zione una benefattrice del genere umano. La sua naturalezza e la sua semplicità sono degne della filosofia e il fatto di trovarsi ovunque e di non consistere in acque, pietre o spaccature della terra è veramen­ te divino [ ... ] , per essa non siamo costretti a occuparci di un'unica attività né a perdere alcuna occasione opportuna. Nessuno, infatti, abbandonando una faccenda che ha per le mani, correrebbe a casa per non mancare all'appuntamento di un sogno. Ma il tempo che il .

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vivente deve spendere per soddisfare la propria natura - poiché non è possibile sostenere di continuo l'attività di veglia - questo tem­ po arriva portando all'uomo quel che si suol dire un'aggiunta più importante della cosa principale » '9• Oltre a ciò, la mantéia onirica non comporta alcuna spesa né alcun ingombro. Non è necessario comprare materiali particolari per eseguire complessi riti, come ac­ cade per altre pratiche, né portarsi appresso, ovunque si vada, un va­ riegato « armamentario » , con il rischio supplementare di suscitare sospetti o maligne curiosità per le attività cui ci si dedica: «Della divinazione per mezzo dei sogni siamo noi stessi lo strumento, sic­ ché non è possibile lasciare l 'oracolo neanche volendolo. Se rima­ niamo a casa, resta con noi. Se partiamo, ci accompagna. E le leggi di uno stato sospettoso e diffidente [ . . . ] non possono proibire in al­ cun modo questa forma di divinazione [ . . ] . Commettiamo forse un reato dormendo ? [ .. ] . Questa forma di divinazione è disponibile a chiunque e ovunque, sempre pronta a dispensare vaticini, consiglie­ ra affidabile e discreta [ . . ], sollecita nel portarci lieti annunzi, così che possiamo prolungare il piacere pregustandolo, e nel rivelarci il male, così che possiamo stare in guardia » w. Queste parole di « lode » per i benefici dell 'oniromantica, que­ ste considerazioni retoricamente costrutte e variegate incontra­ no, senza dubbio, aspettative diffuse, compiacendo, all'apparenza, mentalità e bisogni del tutto ordinari. E, nel condurre il discorso, Sinesio fa vista di un'attitudine altrettanto democratica. Tuttavia, attraverso la dimensione onirica e le dinamiche a essa relative, può accadere di scoprire anche qualcosa di totalmente diverso dal co­ mune orizzonte mortale. Per godere, durante la notte, di fruttuose indicazioni relative all'avvenire, sarebbe, infatti, buona norma non consumare cibi pesanti né indulgere durante il giorno a piaceri smodati. Adottare un regime di vita sobrio e regolato costituirebbe la migliore garanzia per potersi assicurare la visita di sogni profetici. Ma tali condizioni, perseguite per fini del tutto mondani, possono dischiudere, nella perseveranza della pratica, un sapere che nulla ha a che fare con le futili e contingenti preoccupazioni per la propria esistenza finita : « Alcuni, attirati dalla gustosa prospettiva di cono­ scere in anticipo il futuro, hanno preferito adottare un vitto sano .

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e frugale [ . . . ] e si sono accontentati di un letto puro e incantami­ nato. Chi infatti usa del proprio letto come del tripode di Delfi è ben lontano dal rendere le notti trascorse in esso testimoni di atti di intemperanza. Costui, anzi, si prostra dinanzi al dio e recita pre­ ghiere. Così, ciò che si mette insieme poco a poco alla fine diventa molto, e ciò che viene fatto per un motivo finisce in qualcosa di più grande : capita, allora, che procedendo, prendano a amare dio, e ta­ lora si uniscano a lui, persone che sulle prime si erano mosse in vi­ sta di tutt 'altro scopo » 2'. Ed è, per l'appunto, su questo « qualcosa di più grande » che Sinesio intende, in realtà, attirare fermamente l'attenzione del suo lettore, mimando nel testo il doppio movimen­ to di un risultato inatteso in seno a finalità differenti. Si tratta, del resto, di un metodo affatto consueto nei percorsi iniziatici: parti­ re dalle opinioni e dai desideri più ovvi dei soggetti - talora anche dalle loro stesse debolezze - per poterli condurre progressivamente altrove. Ma, per comprendere come tutto ciò possa avvenire, biso­ gna ripartire da capo e osservare a quale sostanza o facoltà il sognare inerisca, e in quale modo visioni e immagini si possano, in generale, produrre. Il che ci riconduce al tema iniziale del corpo « sottile » della psuché. Nella sua discesa verso il divenire - spiega Sin esi o - l'anima «prende a prestito » dalle sfere celesti una sostanza sottile ed eterea di cui si ri­ veste e, « imbarcatasi su di essa come su di una nave, scende nel mon­ do corporeo » 22, per chiudersi in quel « guscio a forma di ostrica » , in quel rivestimento « terrigno » 2\ che è il soma « solido » e carnale comunemente inteso. Il punto di contatto o, per così dire, di unione tra tale sostanza astrale e il corpo fisico, sarebbe costituito dalle ca­ vità della testa, dai « ventricoli del cervello » 2\ ove esso avrebbe la propria sede elettiva o, secondo il parere di altri neoplatonici, al di sotto della « spalla destra » 21• Pnéuma o « veicolo » sono, per l'appunto, i nomi con cui viene designato questo particolare periblema, « rivestimento » o « involu­ cro » , che funge da elemento di mediazione e di contatto tra l' im­ materialità assoluta dell 'anima e la dimensione in cui essa è chiamata a incarnarsi, tra ciò che per sua essenza è totalmente incorporeo e

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ciò che è, all'opposto, costituito da spessa e opaca corporeità. Soma augoeidés, « corpo luciforme » o « radioso » , éidolon, « simulacro » , e psuché pneumatiké sono ulteriori modi di denominarlo a seconda dei contesti. n primo termine rinvia ad augé, lo « splendore » che emana dai raggi del sole e caratterizza il mondo divino16• Il secondo si rapporta, da un lato, alla sfera dell' « immagine » - con cui il vei­ colo presenta particolari affinità, essendo il « luogo » in cui esse si producono - e, dall'altro, alla consistenza « spettrale » che il pnéu­ ma talora assume dopo la morte. L'ultimo, infine, sottolinea come il veicolo possa essere considerato un'estensione inferiore della psuché stessa, nel momento in cui essa entra in contatto con le dinamiche del divenire e della natura sensibile. Al veicolo pneumatico si lega­ no, infatti, alcune facoltà che ineriscono a questo specifico piano di esistenza entro i confini del cosmo materiale. La più rilevante di esse è la phantasia, l' « immaginazione » , grazie alla quale si formano le rappresentazioni tanto di ciò che proviene dalla realtà sensibile quanto di ciò che appartiene ai livelli superiori dell'essere. È in virtù di questo singolare corpo «pneumatico » che percezione e pensiero possono realizzarsi e reciprocamente integrarsi nel tempo e nella di­ mensione della vita terrena. Il nous, la mente - ricorda da principio Sinesio - « COntiene le idee delle cose che sono, come afferma l'antica filosofia [ . . . ] , men­ tre l'anima contiene le idee delle cose che divengono. La mente, infatti, sta all'anima come l'essere sta al divenire » 17• Gli éide, le « idee » sono gli archetipi eterni di cui partecipa e si struttura l' in­ terna realtà. In senso primo e originario essi appartengono, come ben sappiamo, al dominio del nous. Da qui gli éide si riversano o si rifrangono, per così dire, sul piano dell'anima, che, per sua natura e funzione, presiede all' intera sfera del sensibile, di ciò che nasce e perisce nel tempo. Se la psuché può conoscere sé stessa e il mondo, nonché produrre e creare a propria volta, ciò si deve alle « idee » che essa attinge dalla mente e conserva nella propria intima essenza come «principi razionali » della propria attività. « L'anima - ag­ giunge ancora Sinesio - ha dentro di sé tutte le idee, ma proietta (probdllei) solo quelle che risultano opportune e si serve dell' imma­ ginazione (phantasia) come di uno specchio. [ .. ] Noi non possia.

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mo percepire le idee che si trovano nella parte superiore dell'anima finché le loro impronte non sono pervenute all' immaginazione » 18• Proiettati sulla superficie del corpo pneumatico, gli éide - che per loro essenza sono unità indivise e inarticolate - si traducono in im­ magini e in rappresentazioni compiute : assumono estensione e fi­ gura, divenendo « pensabili » e urilizzabili dall'anima che, in tal modo, acquista consapevolezza, nel suo insieme, dei propri conte­ nuti e della propria sostanza. «Noi infatti - sottolinea - non pos­ siamo pensare senza immagini, a meno che non capiti in un istante di cogliere l' idea totalmente smaterializzata » 19• Solo in rari casi si dà un' « intuizione » immediata delle idee, che si svincoli dalle ca­ tegorie del tempo e dello spazio. Solo pochi sviluppano il mirabi­ le potere di cogliere in modo folgorante l'unità assoluta di ciò che non ha dimensione alcuna: « Protendersi oltre la sfera dell' immagi­ nazione - annota discretamente Sinesio - è conquis�a ardua quan­ to felice » 30• In genere, il pensiero dell 'anima incarnata appartiene al livello della « ragione discorsiva » , che necessita di dispiegarsi in rappresentazioni e in parole, che ha bisogno di svilupparsi in transi­ zioni di parti e di momenti. Se il veicolo sottile fa da « specchio » ai principi sup�riori che vi si riflettono, un ruolo non meno importante esso svolge rispetto alla realtà esterna e ai dati provenienti dagli organi di senso. « L' im­ maginazione - prosegue Sinesio - è sensazione delle sensazioni : il pnéuma phantastikdn è il sensorio più generale, il corpo primo dell'a­ nima. Risiede dentro di noi e da lì governa l 'organismo vivente come dall'alto di un'acropoli [ . . ] . Vista e udito non sono loro stessi sen­ si, ma organi al servizio del senso comune. Sono, per così dire, gli uscieri dell 'organismo che annunziano alla padrona i sensibili che hanno bussato alla porta dei sensori esterni. Il senso comune è, nel suo insieme, un senso perfetto e unitario : esso con l' intero pnéuma ascolta, con l' intero pnéuma vede e ha la facoltà di fare tutte le al­ tre cose. Il senso comune distribuisce le diverse facoltà ai vari organi [ ... ] , esse sono come delle rette che si dipartono da un centro e che in esso si riunificano » 3'. Il veicolo sottile - contestualmente rideno­ minato « sensorio generale » o « senso comune » - sarebbe dunque responsabile dell ' intera dinamica percettiva: un centro unitario che .

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non solo coordina quanto proviene dai sensi, ma di fatto ne genera l'attività stessa. Esso è, infatti, origine prima e termine ultimo del processo, tanto nel suo insieme quanto nel differenziarsi delle fa­ coltà che vi sono implicate. « È di natura assolutamente animale la percezione che avviene per mezzo degli organi protesi all 'esterno, anzi - aggiunge Sinesio - non è nemmeno una percezione finché non perviene al senso primo » , finché non giunge al pnéuma che ne traduce i dati in rappresentazioni significanti. Immagini delle idee, rappresentazioni sensoriali: la duplice orientazione del « veicolo » è, al medesimo tempo, strumento di mediazione e connessione tra alto e basso, tra interno ed esterno. Se i dati della realtà esterna vengono colti in una determinata forma ciò si deve al fatto che il loro contenuto, elaborato interiormente in immagini, viene messo in rapporto alle « idee » presenti nella par­ te superiore dell'anima e interpretato attraverso di esse. E viceversa, l'anima può agire sul mondo corporeo per mezzo delle « immagi­ ni» che, sul suo veicolo, si delineano. La superficie «pneumatica » di cui parla Sin esi o coincide, d'altro canto, nella sua funzione, con quella parte mediana dell'anima che Plotino associava alle dina­ miche della coscienza e della consapevolezza di sé, utilizzando, per farsi intendere, l 'analoga metafora dello « specchio » 3'. Il rapporto tra i diversi livelli è, con più sistematica chiarezza, ben indicato in un testo di Proclo attraverso l 'esempio di una figura geometrica33: tra l ' « idea » immateriale del cerchio - come principio intelligibile ed eterno, privo di dimensione - e una qualsiasi figura « circolare » colta dai sensi nella realtà materiale vi è l ' « immagine » elaborata dal pnéuma. Ed è propriamente attraverso tale immagine che noi possiamo pensare a un cerchio, vederlo o, a nostra volta, disegnarlo. Il veicolo dell'anima, si potrebbe concludere, « corporeizza » i prin­ cipi incorporei così come « spiritualizza » , in astrazioni e concetti, la datità dei corpi. Il pnéuma è il « confine comune » in cui tali op­ posti livelli si incontrano e si trasformano reciprocamente : « Esso da entrambi gli estremi raccoglie, come da dei vicini, un contributo conveniente e in un'unica natura appaiono immagini di cose che si trovano tanto distanti » 34• Saldando il contenuto che deriva dal­ la « mente » , dal piano superiore delle idee, con i dati provenienti

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dal sensibile, il pnéuma, nella propria funzione mediatrice, consen­ te, dunque, di comprendere e interpretare la realtà nella sua intera estensione. La « Vita » e l'attività del veicolo pneumatico possono svolgersi, tut­ tavia, anche in modo affatto indipendente dalle sollecitazioni che giungono dall'esterno e dal conseguente raccordo di esse con i con­ tenuti del!' anima. Il pnéuma ha, infatti, «proprie facoltà sensoriali » del tutto autonome rispetto a tale processo : « Prova ne è che noi ve­ diamo colori, udiamo suoni, abbiamo vivissima la sensazione del tat­ to, anche quando i vari organi del corpo sono inattivi » 35• Ed è preci­ samente quel che accade durante i sogni o quando, pur essendo desti, ci ritiriamo dal mondo circostante per assorbirci totalmente in quella dimensione parallela che un' immaginazione attiva disegna per noi: « Un uomo, avvinto in ceppi [ . . ] si libera e fa il soldato, diventa [ . . . ] capo di compagnia e poi addirittura comandante : combatte, vince, offre agli dei sacrifici di ringraziamento e indossa la corona, facendosi imbandire una mensa a suo piacere [ . . ] : tutto questo è la realtà di chi sogna e il sogno di chi è sveglio » 16• Pur pregiando il « conforto » e il « buon umore » che tali immagini possono ingenerare in noi, Sine­ sio punta, tuttavia, l'attenzione a un più cospicuo guadagno. Il libero « fantasticare » lenisce e sostiene la vita mortale, consente di evade­ re dalle sue angustie, alimentando la « fiducia » che le cose possano andare altrimenti. Ma l ' immaginazione, opportunamente indirizza­ ta e seriamente intesa, permette un conseguimento ben più elevato dei vagheggiamenti in cui l 'uomo comune può indugiare. L'attività del veicolo pneumatico può dischiudere - in sogno, ma anche in ve­ glia - l'accesso alle visioni più alte e nobili, permettendo di « Otte­ nere un beato contatto con l ' intelligibile » e con il divino. Durante la vita mortale e dopo di essa, il pnéuma è strumento di « ascesa » ai livelli superiori del!' essere. Facendo ricorso ali' autorità degli Oracoli caldaici17, Sinesio annota: «Dopo un elenco completo dei mezzi di cui disponiamo per ascendere e per accrescere quel seme divino che è in noi, l'oracolo afferma che "agli uni dio ha concesso di acquisire, con lo studio, la conoscenza della luce, altri, invece, li ha fecondati, mentre dormivano, con la sua forza" [ . . . ] E fecondare è ben più che .

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insegnare » 38• Le immagini di origine divina ingenerano alké, « vigo­ re » e « forza » , donando la possibilità di enkarpizein, di « far frutti­ ficare » quel seme celeste insito nellapsuché. «Se vedere dio è felicità, coglierlo per mezzo dell' immaginazione è proprio di una visione di natura più elevata » 39• Sinesio designa questo più prezioso e nobile « coglimento » come autopsia, « visione diretta » , « faccia a faccia » . Il termine appartiene al lessico specifico degli Oracoli e delle pratiche teurgiche caldaiche : «Vi è autopsia quando l ' iniziato vede egli stesso le luci divine » 40, divenendo spettatore privilegiato di un'epifania in cui le potenze dell 'essere si rivelano all 'anima e la traggono a sé. Con la sua consueta brachilogica allusività, Sinesio non indugia a illustra­ re come ciò avvenga. Vi provvedono altri neoplatonici, esplicitando come sia proprio la sostanza pneumatica del veicolo l ' indispensabile supporto dell'autopsia: « Il veicolo etereo e luminoso che circonda l'anima - annota Giamblico - viene illuminato di luce divina e, in tal modo, immagini divine, messe in moto dalla volontà degli dei, colgono la nostra potenza immaginativa » 4'. Con tono ancor più diffuso e didascalico, Proclo spiega come il pnéuma abbia appunto il compito di far apparire o meglio di « visualizzare » come figure e forme ciò che è del tutto superiore a tali determinazioni: « Gli dei sono incorporei, ma i loro spettatori hanno un corpo. Perciò le visio­ ni che si originano dagli dei, presentandosi a coloro che ne sono de­ gni, partecipano di un tratto derivante da coloro che le inviano e, al medesimo tempo, di un carattere congenere a chi le vede. Per questo, tali immagini sono e insieme non sono propriamente oggetto della vista. Infatti [ . . . ] esse vengono colte attraverso i rivestimenti lumino­ si dell'anima, e spesso ciò avviene a occhi chiusi. Nella misura in cui tali immagini hanno un'estensione [ . . . ], esse risultano congeneri agli spettatori. Ma, in rapporto alla luce divina che viene proiettata, esse sono dotate, invece, di una loro efficacia: attraverso la rappresenta­ zione dei simboli degli dei, tali visioni riproducono l' immagine della loro potenza e dipendono dagli stessi dei che le inviano. In tal modo i simboli ineffabili delle divinità ricevono una forma, proiettando ora una figura ora un'altra » 4>. Talora l ' irradiamento della potenza divina si può tradurre anche in una sorta di « audizione » interiore. Quella voce demonica che Socrate diceva di avvertire nel corso delle

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sue giornate non sarebbe stata altro che un particolare e differente effetto ingeneratosi sul pnéuma nel momento in cui il suo ddimon lo metteva in « movimento » 43• Tanto durante il sonno quanto in determinati stati di veglia, propiziati dai riti misterici e dalle pratiche teurgiche, il veicolo dell'anima - in quanto pnéuma phantastikon, « soffio immaginativo » - diviene letteralmente il « luogo » di ogni genere di ierofania e di visione celeste : è il luogo del « simbolo » che vi appare come forma e potenza anagogica a sommo beneficio dell'a­ nima incarnata. Una serie di obiezioni potrebbe, tuttavia, essere avanzata dai più scettici. È davvero possibile prestare fede a quanto il veicolo produ­ ce ? Non si correrà il rischio che quelle immagini siano mere « illu­ sioni » con cui una mente inquieta si balocca ? Come essere sicuri che le visioni offerte dallo « specchio » pneumatico siano attendibili rappresentazioni del reale e del divino, e non piuttosto deformi allu­ cinazioni e ingannevoli parvenze ? Tutto dipende - osserva Sinesio prevenendo tali dubbi - dalle condizioni in cui versa il corpo astrale, dal suo stato di « salute » o di « malattia » : « Se pregiando i sensi fisici per la loro capacità di offrire conoscenza - dato che conoscia­ mo soprattutto ciò che vediamo - condanniamo l' immaginazione perché la consideriamo meno degna di fede dei sensi, sembriamo di­ menticare che neppure l'occhio mostra tutte le cose secondo verità, ma ora addirittura inganna, sia per la natura degli oggetti visti sia per il mezzo attraverso il quale essi sono colti. A seconda della distanza, le cose sembrano più grandi o più piccole [ . . ] . L'occhio stesso per la propria debolezza produce tali effetti. Se è cisposo, mostra gli oggetti in modo confuso e indistinto. Così, chi ha un pnéuma sofferente non si aspetti immagini nitide e chiare. Quale sia la malattia del pnéuma, per quali cause esso possa diventare cisposo e si ispessisca, con qua­ li mezzi possa purificarsi e ritornare allo stato naturale, tutto ciò si può apprendere dall 'occulta filosofia a opera della quale il pnéuma [ . . ] diviene ispirato dagli dei » 44• In origine, il corpo astrale si pre­ senta luminoso e diafano : un terso splendore capace di accogliere e riflettere in modo perfetto ogni genere di realtà. Ma se, durante l'e­ sistenza mortale, l'anima manifesta un'eccessiva « inclinazione » per .

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il sensibile, il suo veicolo diviene progressivamente più « torbido » e opaco41• Se la psuché nutre - come altrove segnala Porfirio46 - una sempre maggiore prospdtheia nei confronti del « corpo solido » , un' « adesione appassionata » alle realtà inferiori, tutto ciò si traduce in una trasformazione deteriore del suo rivestimento astrale. In tali circostanze, il veicolo tende a « ispessirsi » , ad « acquisire una consi­ stenza terrosa » o ancora ad « appesantirsi » , diventando sempre più « umido » . Nella prospettiva condivisa dai neoplatonici, l'acqua è sostanza e insieme simbolo di tutto ciò che si inscrive nella sfera della génesis, della « nascita » e del « divenire » : acqua è la vita sensibile con tutto il suo plesso di passioni e di desideri, di bisogni fisici e di coartanti reattività. Fluida e insieme impetuosa, come acqua corrente, è la na­ tura stessa della hu.le, della « materia » di cui si so stanziano i corpi e il mondo fisico. «Umidi » sono « coloro che si trovano nel divenire, perché umide sono le loro anime : esse, infatti, amano il sangue e il seme umido » : il sangue che scorre nelle vene alimentando l'attività del soma, e lo sperma che genera altri esseri, trasmettendo vita e for­ ma corporea47• Già in età arcaica, d'altro canto, il sapiente Eraclito aveva sentenziato che « morte delle anime » è diventare « acqua » 48• Morte è sprofondare sempre più in basso, in quell' « abisso informe e indeterminato, avvolto dalle tenebre, folle e sozzo, che si compiace di vani simulacri » , come, a propria volta, afferma icasticamente uno degli Oracoli caldaici49• La schésis, il « modo d'essere » dell 'anima - la « maniera » con cui essa entra in relazione con i diversi livelli della realtà, accostan­ dosi maggiormente all 'uno o all'altro di essi - ha, dunque, un' im­ mediata e precisa conseguenza sullo stato e sulla conformazione del suo corpo astrale : «A seconda del modo in cui è disposta - spiega dettagliatamente Porfirio -, l'anima trova un corpo determinato dal rango e dal luogo che gli sono propri. Quando si trova in condizioni di purezza, le è connaturale il corpo più prossimo ali ' immaterialità, che è quello etereo. Quando essa procede dal pensiero razionale ver­ so l' immaginazione, le conviene un corpo solare. All 'anima, invece, che si femminilizza, appassionandosi alla forma sensibile, è connatu­ rato un corpo lunare. Ma, quando cade nei corpi composti da vapori

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umidi [ .. ] , il risultato cui va incontro è perfetta ignoranza dell'esse­ re, ottenebramento e puerilità » 10• Diviene, perciò, del tutto essenziale e decisivo assumere una mo­ dalità congruente con il fine e con il livello che ci si propone di con­ seguire. Se « la torbidezza del pnéuma - prosegue Sinesio - è incapa­ ce di contenere l'attività degli enti » , non vi che è una strada per far diventare l'anima un « tesoro di verità » o addirittura una « dea » 1'. Da un lato, occorre improntare ogni istante della vita in accordo con il piano del nous, della « mente » e delle idee. Dall'altro, è necessario attendere, con assiduità e impegno, ai riti dell ' drrethos philosophia, della « segreta » o « occulta filosofia » , che fornisce i metodi adatti alla purificazione del corpo sottile. «Non possiamo elevarci al divi­ no - afferma, infatti, la sapienza caldaica discretamente evocata da Sinesio - se non dando forza e potenza al veicolo dell'anima me­ diante riti teurgici materiali [ . ] ; pietre, erbe e incantesimi purificano l'anima, rendendole agevole l'ascesa » s • . Considerazioni analoghe vengono svolte da !erode che salda in uno la tradizione sapienziale e l' aritmosofia dei Pitagorici con gli insegnamenti neoplatonici e cal­ daici: « Per il perfezionamento dell'anima abbiamo bisogno di verità e di virtù; per la purificazione del nostro corpo dobbiamo, invece, rimuovere tutte le contaminazioni materiali, ricorrendo all' impie­ go di sacre purificazioni e alla forza che ci unisce al dio, facendoci spiccare il volo da quaggiù [ ... ] . Le purificazioni dell 'anima razionale sono le scienze matematiche e la liberazione che eleva l'anima è la piena visione dialettica degli enti [ . . ] . Ma per il corpo luminoso è ne­ cessario che le purificazioni matematiche dell 'anima vadano di pari passo con le purificazioni iniziatiche e che la liberazione dialettica segua l'elevazione teurgica [ . ] . Come è opportuno ornare l'anima con la scienza e con la virtù, affinché possa unirsi agli esseri eterni, così bisogna rendere puro e immateriale il corpo luminoso, affinché sia in grado di accostarsi ai corpi eterei » 13• Tutto ciò comporta - ed è quasi superfluo sottolinearlo - un la­ voro particolarmente arduo e prolungato. Senza un'assoluta deter­ minazione che coinvolge l' intero essere e tutte le sue risorse interiori, senza una coerente corrispondenza tra pensieri e atti, non si giunge a nulla. L' intento deve essere saldo e immutabile in ogni istante e in .

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ogni gesto, perché la pratica risulti efficace: «Nel lavoro di purifica­ zione - puntualizza Sin esi o - la volontà gioca un ruolo grandissimo. Da lei dipendono parole e azioni. Quando manca la volontà, qualsia­ si rito purificatorio risulta inefficace perché manca della condizione più importante » H. Il risultato compensa, d'altro canto, l'enorme fatica. Ed è possi­ bile misurare i progressi compiuti - o talora, purtroppo, le eventuali ricadute - con un'osservazione attenta della natura e del contenuto delle immagini che si producono sulla superficie del veicolo, discri­ minandone il valore e l'attendibilità ai fini del percorso iniziatico stesso. Solo chi riesca a ottenere un pnéuma puro e scintillante può ricevere, sia durante la veglia sia nel corso dei sogni, « impronte degli enti » , che « corrispondano a verità » 11• Solo chi abbia reso il proprio veicolo una superficie immacolata può sperare di « essere ispirato dagli dei » , di essere raggiunto dalla loro luce vivificante e di levarsi sino a essi. Quando si è liberato di ogni sozzura e di ogni umidore, il pnéuma immancabilmente « sale in salto, per attrazione naturale, a causa della secchezza e del calore » : le « ali dell'anima » , di cui par­ lava Platone nel Fedro « non sono altro che questo - precisa Sinesio esplicitando l'effettivo significato della tradizionale immagine del volo - e riteniamo che questa medesima cosa volesse indicare Eracli­ to quando diceva che l'anima sapiente è secco splendore » 16• Ma che cosa accade al momento del distacco dall'esistenza terrena ? Nell'affrontare questo deciso snodo, Sinesio tratteggia, con sugge­ stione di immagini, il romanzo « gnostico » dell 'anima nella sua ardua traversata dei piani della realtà. Se i due estremi della sua av­ ventura - nonché le polarità opposte del moto relativo al suo vei­ colo - sono, nei termini degli Oracoli caldaici, il «luogo circonfuso di luce » e lo spazio « avvolto di tenebra » , la psuché appare come un atleta impegnato nella corsa del diaulos, del « doppio stadio » . Deve percorrere lo stadio in tutta l'estensione, girare intorno alla meta e far ritorno al punto di partenza, senza ritardare, senza farsi bloccare da ostacoli: dal mondo divino alla terra e, poi, di nuovo, con passo veloce e deciso, dalla terra al cielo. La discesa dell 'anima, infatti, non è e non deve essere un viaggio senza ritorno. L' incarna-

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zione è un'essenziale, ma transitoria leitourgia, un « servizio » reso « alla natura del cosmo » , per abbellirlo, per vivifìcarlo con l'energia e l ' intelligenza che l'anima vi porta e fa risplendere. È un érgon da realizzare, un « compito » che l'anima affronta, da principio e per sua originaria essenza, come una théssa, come una « libera prestatrice d'opera » , una « bracciante a giornata » , che svolge il proprio lavoro per un tempo determinato e per una mercede pattuita, senza che ciò comporti ulteriori obbligazioni. Accade, tuttavia, che essa, entrando nel sensibile, dimentichi la propria condizione e la propria libertà: « i dolci allettamenti terreni » sono una « bevanda letéa » , che la confonde e la rende obliosa. Allora, sedotta dal piacere e inconsa­ pevole di sé, l'anima decade al rango di « schiava » , di prigioniera, proprio come « quegli uomini di condizione libera che siano stati pagati per un servizio, ma che poi, conquistati dalla bellezza di una serva, vogliano continuare a rimanere, accettando di diventare schia­ vi del padrone dell 'amata » 17• La natura del mondo è una seduzio­ ne cui è difficile resistere, ma pericoloso è l' innamoramento per la bella serva: « Quando con profondo assentimento godiamo di una di quelle cose corporali ed esterne che del bene hanno l'apparenza, sembriamo arrenderci alla natura della materia e riconoscere che è tanto bella. Ed essa accoglie questo nostro assenso come un tacito atto di obbligazione e se, reputandoci liberi, desideriamo andarce­ ne, essa dichiara che siamo dei fuggiaschi e ci riconduce indietro : si riappropria di noi come suoi schiavi, citando i termini del contrat­ to » 58. Consentire alla realtà inferiore, farsene coinvolgere, indugia­ re ciecamente in essa produce un attaccamento sempre più intenso, un'adesione profonda e non meno vincolante per il fatto di essere in­ conscia. Intanto il laccio si stringe, il vincolo si cementa, e muoversi in altra direzione sembra diventare impossibile. È lì che si apre il vero e terribile agon, la « prova » , la « sfida » per tentare di divincolarsi dalla presa: durissima e implacabile è la « natura » contro «coloro che si ribellano alle sue leggi » e alla sua signoria, cercando di scio­ gliere l' incauta obbligazione. Terribile è la morsa della materia e del corpo quando si cerchi di contraddirlo : « Impugnare il proprio con­ tratto e fors'anche violarlo non implica una lotta di poco momento [ ... ] . Queste sono le cosiddette fatiche che Eracle, secondo quanto

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affermano i sacri discorsi, ha dovuto sostenere, e, come lui, chi altri abbia tentato di riconquistare a forza la libertà, sin quando non si sia trasportato il pnéuma là dove le mani della natura non possono più raggiungerlo » 19• Il tracciato degli antichi miti non farebbe altro che parlare all 'anima per istruirla e fortificarla con i propri simboli: le dodici « fatiche » di Eracle, le sue celebri imprese contro mostri di ogni specie non sarebbero che immagini di questa lotta, di que­ sto « travaglio » , nelle diverse fasi del suo svolgersi verso la sospirata libertà. Per riuscire vittoriosa come Eracle, l'anima deve farsi eroica, ed eroica deve essere la sua forza, perché, se appena ha un cedimento, se « ricade » e viene riacciuffata nei « confini » della materia, finisce per essere « trascinata giù » in modo ancor più crudo e selvaggio : allora «la natura non risparmia più i suoi colpi contro chi considera 6 ormai come suo nemico » 0• Occorre, dunque, saggezza, metodo, vigore e indefettibile costan­ za per sottrarsi a un potere che tende, in maniera inesorabile, a far valere le proprie ferree catene. In questo senso, persino i mali e le sventure che segnano l'esistenza mortale possono rivelarsi delle oc­ casioni preziose per scuotersi di dosso l' impuro gravame dei ceppi corporei: « Quelle che a torto si chiamano disgrazie - osserva Sine­ sio - contribuiscono enormemente a eliminare l' inclinazione per le cose di quaggiù; proprio attraverso di esse si manifesta la provviden­ za prima a coloro che hanno senno [ . . . ] . Non è possibile che l'anima riesca ad allontanarsi dalla materia se non è incappata in alcun male nella vita terrena [ ... ] . Le fortune tanto decantate sono in realtà degli 6 agguati tesi alle anime dagli efori infernali » ' . Il dolore, l' insuccesso mondano, la malattia, le perdite sono altrettanti eventi che ridestano dal sonno dell ' inconsapevolezza, che sciolgono dagli attaccamenti eccessivi, divenendo, insieme alla pratica dei riti, un mezzo di puri­ ficazione : «La prima vita è preparazione alla seconda » cui la morte fisica dischiude le porte. Se l'anima non ha portato a termine le proprie « fatiche » , se non è riuscita a liberarsi dagli « allettamenti » del sensibile, il suo veicolo, al momento dell 'uscita dal corpo « solido » , risulta del tut­ to incapace di sollevarsi e di raggiungere il traguardo del suo « dop­ pio stadio » : il pnéuma, intriso di scorie, sprofonda « nella regione

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sotterranea » , portando giù anche « l 'anima che gli ha permesso di farsi pesante » . Le « cavità della terra » , l'oscurità assoluta del mondo « che sta in basso » , corrispondono all' immagine tradizio­ nale dell'Ade, al regno degli inferi. Ma questo sprofondamento in un aldilà tenebroso non va inteso alla lettera per quanto concerne propriamente l'anima: « Si dice - precisa altrove Porfirio - che l'a­ nima scende sotto terra non perché la sua essenza passi da un luogo all'altro, ma in quanto essa assume i modi di essere dei corpi » 61 con i quali la sua disposizione la mette in relazione. La psuché non penetra in alcun oltretomba infero, bensì rimane vincolata alla materia - che il nome di Ade, per l'appunto, simboleggia - senza riuscire a risalire. Non più dotata di un corpo fisico, essa subisce la gravità del suo vei­ colo impuro ed è costretta a « trascinarselo » dietro come una skid, come un' « ombra » , o ancora come un éidolon, come un « simulacro spettrale » , che le impedisce il movimento e perpetua la sua relazione con la realtà inferiore. Quell' « ombra » sozza e deforme diviene il « luogo » e lo strumento del suo tormento, come se si trattasse di un incubo angosciante : gli Oracoli caldaici, alla cui autorità Sinesio si appoggia, « concordano » , infatti, nel comparare le pene dell'aldilà con le « immagini di un sogno » 6l. Resta, tuttavia, da chiedersi che cosa avvenga, nell' ipotesi con­ traria, ove l'anima, dotata di un veicolo secco e leggero, sia in grado di ricongiungersi al mondo di luce da cui proviene. A tale propo­ sito, nella cerchia neoplatonica, le opinioni si frastagliano. Alcuni, come Porfirio, ritengono che, durante l'ascesa, il veicolo si dissolva e che le sue componenti tornino alle sfere celesti cui erano state, come si diceva, «prese a prestito » per le necessità del divenire : alla fine del viaggio, l'anima tange il divino da sola, rimanendo in sé e per sé, come le essenze eterne che abitano quel piano della realtà. Al­ tri, come Giamblico, sostengono invece che il corpo « sottile » non sia soggetto ad alcuna distruzione, ma si accompagni eternamente alla psuché cui è stato originariamente associato. Altri ancora, come Proclo, sdoppiano il corpo sottile in due entità distinte : la sua par­ te eterea, plasmata direttamente dal demiurgo divino, il cosiddet­ to «primo » veicolo, sarebbe incorruttibile e permarrebbe insieme all'anima. A venire meno sarebbe, invece, la sua componente infe-

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riore, il « secondo » veicolo, derivante dali' attraversamento delle sfere celesti e propriamente connesso alla sfera della generazione : una volta che l'anima abbandoni il sensibile, non avrebbe più alcuna necessità di conservare tale « rivestimento » 64• Per parte sua, Sin esio sembra accennare, con il suo consueto tono allusivo, a un'ulteriore possibilità. A determinate condizioni, si realizzerebbe una sorta di transustanziazione alchemica degli elementi aggiuntisi ali'originaria sostanza eterea del pnéuma: le componenti più pure assunte nella discesa potrebbero elevarsi al di sopra del « luogo » che per natura è loro proprio. Questo è quanto, a suo parere, il dettato degli Ora­ coli suggerirebbe : « Aguzzando la vista si potrebbe leggere in questi versi qualcosa di più. L'anima, infatti, non fa risalire alle sfere solo la natura che da lì deriva, ma [ . . ] rispedisce in alto, insieme alla sua parte migliore, anche ciò che, scendendo, ha strappato dai vertici del fuoco e dell 'aria e immesso nella natura del suo corpo immaginativo [ ... ] . Sarebbe ragionevole pensare che gli elementi che partecipano a una stessa natura e concorrono a formare un'unità non siano privi di relazione fra loro, soprattutto se si trovano vicini, come il fuoco, il quale è contiguo all'etere, che si muove circolarmente, e non alla terra, che è la più bassa e lontana delle cose esistenti. Se gli elementi superiori, abbassandosi verso gli inferiori, godessero dell'unione con questi e insieme portassero a perfezione [ . . ] un corpo puro, assimila­ to alla parte a cui nel composto è stato dato di dominare, forse anche gli elementi inferiori [ . . ] potrebbero diventare eterei ed essere inviati in alto [. . ] e godere così del luogo circonfuso di luce » 61. Il veicolo sarebbe, allora, eterno non solo nella sua componente eterea, di per sé incorruttibile, ma anche in quella parte inferiore connessa alla sfe­ ra del divenire. Il corpo « SOttile » raggiungerebbe - benché Sinesio non indugi in spiegazioni - la perfezione di quello che, in altri con­ testi, prende il nome di corpo « glorioso » . Considerando che, du­ rante l 'esistenza terrena, il pnéuma non risulta connesso solo ali ' im­ maginazione, ma anche alla facoltà della memoria - poiché in esso si imprimono le tracce delle esperienze vissute - si può supporre che il processo descritto implichi una forma di sopravvivenza dell ' indivi­ dualità soggettiva, nonché il ricordo di vite trascorse. Il veicolo può essere definito éidolon, « simulacro » o « immagine » , anche perché .

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conserverebbe, in sé, le immagini del proprio « divenire » , oltre che le forme ideali dell'essere cui l'anima è congenere. Se « l 'ascesa dell'anima è il frutto migliore di un pnéuma sano, un guadagno veramente santo » , non meno rilevante è, tuttavia, la sua « utilità terrena » , come Sinesio rileva tornando a ragionare della vita nel corpo e della divinazione per mezzo dei sogni. Quando il veicolo pneumatico è nel suo stato migliore, esso è in grado di di­ spensare, nel tempo della notte, benefici di ogni genere : le rappre­ sentazioni che si formano sul pnéuma trasmettono e dispiegano una messe di illuminazioni celesti, di soluzioni creative e di anticipazioni profetiche. La divinazione « onirica » non è solo un « valido aiuto quando navighiamo e quando rimaniamo a casa, quando ci diamo ai commerci o comandiamo un esercito o facciamo qualsiasi altra cosa » 66• Essa non soccorre l'uomo solo nelle faccende del quotidia­ no, ma anche - ed è quel che forse più importa - nell'esercizio e nell 'evoluzione stessa del pensiero : « In nessun'altra attività, questa divinazione viene in aiuto all'uomo come nella pratica della filoso­ fia, e molte delle difficoltà che si presentano durante il giorno, poi, quando dormiamo, essa ce le chiarisce completamente o ci fornisce i mezzi per risolverle » 67• Quando, durante il sonno, l'anima si libera dal corpo, la phantasia del corpo sottile si attiva in tutta la sua po­ tenza, divenendo fonte di un' ispirazione superiore alla razionalità della veglia: la dimensione analogica e intuiti va cui attinge l' imma­ ginazione onirica integra e sopperisce ai limiti di quell 'orizzonte, per così dire, digitale, che contrassegna, d'abitudine, il pensiero durante il giorno. Anche se nulla ovviamente impedisce che ciò si verifichi quando si è desti, ove si entri in una condizione particolare, silen­ ziando tutto ciò che riguarda il sensibile e le attività dell 'anima a esso connesse. « Spesso, la divinazione onirica ha persino collabo­ rato - confessa Sinesio - alla stesura delle mie opere. Ha messo a punto un' idea, ha reso lo stile più acconcio, ha eliminato una cosa, ne ha introdotto un'altra [ . . ] mi ha ammonito per opera di un dio, il quale mi diede suggerimenti, mi spiegò il significato di alcune cose, mi indicò espressioni che andavano modificate » 68• I risultati più fe­ lici del pensiero come della scrittura si raggiungerebbero, dunque, .

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i n stato d i sogno, portandosi in una modalità del tutto differente dall ' incarnazione e prossima, invece, all' immaterialità degli dei. Lo stesso trattato di cui ci stiamo occupando sarebbe stato, d'altro can­ to, composto in tale maniera, per ammissione del suo stesso autore : « L'anima è sapiente - egli ribadisce ancora una volta - quando rie­ sce a essere libera dall' invasione delle percezioni volgari ed esterne, che introducono in lei elementi estranei di ogni tipo. Quando è sola con sé stessa, per contro, essa porge a coloro che si sono convertiti all' interiorità le forme che ha in sé e quelle che riceve dalla mente, e inoltre trasmette quanto proviene dal divino » 69• Le immagini oniriche consentono anche di « congetturare quanto si attuerà in futuro » , purché si sappia come accoglierle e interpre­ tarle. Da tutte le cose che sono in natura e nel divenire - « da tutte le cose che sono, che sono state e che saranno » - si distacchereb­ be un flusso incessante di éidola, di « simulacri » , di « immagini » , che ne riproducono i tratti: rimbalzando via per ogni dove, parte di essi « s' imbatte nei pneumi psichi ci e vi si poggia, fermandosi come a casa propria » . Vi è tuttavia una differenza nella loro nitidez­ za. Gli éidola delle cose passate sono più chiari, poiché provengono da quanto ha già raggiunto, in un determinato momento, la piena attualità del proprio essere. Definiti sono pure i simulacri relativi al presente, dato che si riferiscono a cose che ancora sussistono ; i « simulacri » delle cose future appaiono, al contrario, assai più in­ distinti e appena abbozzati: mere « efflorescenze di una natura an­ cora incompiuta, come enigmi che germogliano e scaturiscono da semi riposti » 70• Ed è proprio per questo - per cogliere il senso di tali immagini enigmatiche - che occorre una specifica quanto raffinata téchne, un' « arte » acconcia allo scopo. Nella tradizione antica era alquanto diffuso il cosiddetto metodo a chiave, che interpretava il contenuto dei sogni in base a una griglia di corrispondenze : ogni im­ magine avrebbe rinviato a un determinato significato o annunciato un certo evento secondo un repertorio elaborato dalla generalizza­ zione dell'esperienza dei sognatori stessi, come testimonia ad esem­ pio la celebre Onirocritica di Artemidoro di Daldi. Sinesio, tuttavia, contraddice apertamente l'attendibilità di tale approccio, proprio in

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ragione delle differenze e delle particolarità proprie di ogni sogget­ to e, più precisamente, delle variabili inerenti al corpo sottile di cia­ scuno: « Come potrebbero manifestarsi in cose dissimili per natura, abitudini e affezioni, le medesime immagini a opera delle medesime cause ? Non è possibile né potrebbe esserlo. Forse che l'acqua torbi­ da e quella trasparente, l'acqua stagnante e quella corrente riflettono nello stesso modo una medesima forma ? » 7'. Analogamente, « uno specchio piano, uno curvo e uno composto di materiali diversi non potranno mai restituire in maniera simile la forma di un oggetto che venga posto loro innanzi » 7l. Il che vale anche per il veicolo dell'ani­ ma, se esso, come ormai è assodato, funziona esattamente come una superficie specchiante. I libri che pretendano di stabilire valori fissi e generici sono del tutto « risi bili » , così come è mero spreco di denaro e di energie farne raccolta, sperando di diventare esperti in questa particolare ermeneutica: «Non vi sono leggi valide per tutti gli uo­ mini. Ciascuno deve fare di sé stesso materia dell'arte divinatoria » 73• Ognuno deve apprendere, da sé, quale significato abbiano le visio­ ni che lo raggiungono durante la notte. A tal fine, Sinesio suggerisce, in modo del tutto originale rispetto al panorama antico, di registrare i propri sogni e di osservare poi quanto accade durante la veglia, così da comprendere, progressivamente, i nessi tra immagini ed eventi in rapporto alla propria personale esperienza e alla conformazione del proprio corpo sottile. Bisognerebbe, più in particolare, attendere alla stesura di un diario onirico che faccia da complemento al diario della veglia : «Noi riteniamo opportuno far seguire alle cosiddette "effemeridi': ovvero alla registrazione degli eventi del giorno, quelle che proponiamo di chiamare "epinittidi" per fissare l'andamento di entrambe le nostre vite. Il nostro discorso ha affermato l'esistenza di una forma di vita che consiste nell' immaginazione, vita ora migliore, ora peggiore rispetto a quella ordinaria, a seconda dello stato di salu­ te o di malattia del pnéuma. Contribuiremo perciò all'osservazione dei sogni, grazie ai quali l'arte divinatoria si sviluppa, se non lascia­ mo cadere alcunché dalla nostra memoria » 74• Dal che, tuttavia, si comprende, ancora una volta, che a essere in gioco non è tanto o non solo la mera previsione del futuro, per quanto utile essa possa indub­ biamente risultare. Registrare con costanza e puntualità tutto ciò

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che accade in sonno e in veglia, redigere un accurato diario di « en­ trambe » le nostre vite costituisce, in ultima analisi, un metodo per conoscere sé stessi, per diventare coscienti delle proprie inclinazioni, dei propri atti nonché delle condizioni effettive della propria anima e del proprio veicolo, al di là di quanto spesso ci immaginiamo, di­ menticando quanto ci succede e quanto davvero facciamo. Scrivere le proprie « effemeridi » e le proprie « epinittidi » , come raccoman­ da Sinesio, è strumento di una personale consapevolezza che nessun libro composto da altri può, in alcun modo, fornire. Per ogni autore di poesia o di prosa, così come per ogni oratore che voglia essere eloquente, la pratica del diario notturno comporta, pe­ raltro, un ulteriore vantaggio : insegna a usare le risorse della lingua e dello stile, a sviluppare le proprie capacità espressive a un livello irraggiungibile con differenti forme di esercizio : « Chiunque può rendersi conto di quanto sia ardua l' impresa non appena tenti di far corrispondere le parole alle immagini oniriche che separano quanto in natura è unito e uniscono quanto è invece distinto. E per mezzo del linguaggio bisogna far sì che chi non ha concepito una certa im­ magine la concepisca » 7'. Si dovrebbe essere capaci di parole « mo­ bili e animate » , così come sono mobili e cangianti i sogni, per poter trasmettere a chi ascolta o legge le medesime « affezioni » che si sono provate. L' immaginazione che opera attraverso il veicolo rappresen­ ta una vera e propria sfida rispetto ai limiti dell'ordinario raziocinio e alle leggi che governano il sensibile. Ma, proprio per questo, essa è così importante, in quanto «produce qualcosa che va al di là dell'or­ dinario opinare » 76, elevando a una dimensione del tutto differente rispetto all'esperienza comune. « È caratteristica peculiare dei so­ gni - mette in evidenza Sinesio - annullare lo spazio e agire al di fuo­ ri del tempo » , sovvertendo tanto le differenze quanto le identità che tramano la percezione fisica dell'universo materiale : ciò che su un piano appare distinto, sull 'altro si rivela come il medesimo ; ciò che a un livello si configura come un'unità compatta, sull 'altro si dissolve in componenti eterogenee. Ma al di là del tempo e dello spazio non è forse anche tutto ciò che appartiene al dominio dell' invisibile, tutto ciò che si inscrive nella sfera superiore al mondo della generazione ?

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Divinità, forme eterne e simboli non si manifestano, per l'appunto, attraverso lo specchio della phantasia ? « Ritengo - aggiunge il no­ stro autore - che anche i muthoi traggano licenza dai sogni » , poiché promanano da una medesima facoltà e da una medesima « forma di vita » . Con apparente limitazione, Sinesio esemplifica, citando quelle « favole » in cui « la volpe, il pavone o il mare sono perso­ naggi dotati di parola » , in cui animali ed elementi fanno intendere la loro voce, uscendo da quel silenzio che altrimenti li caratterizza, per dispensare insegnamenti o modelli etici, come avviene nell'opera di Esopo. Ma muthoi sostanziati di immaginazione non sono uni­ camente le favole dotate di valore morale. Sono anche - al di là di quanto il nostro reticente autore fa mostra di intendere - le storie degli dei e degli eroi cantate dai poeti: quei « miti » sul cui valore occulto e animico altri neoplatonici più esplicitamente si espressero. Per gli amanti della sapienza, la scrittura, con tutto l'accurato la­ vorio che essa implica, non costituisce certo una delle attività più importanti cui dedicarsi. Scrivere è paidid, un « gioco » , aveva det­ to Platone nel Fedro. Le « cose di maggior valore » sono quelle che « si seminano » e « si scrivono » nell ' interiore superficie dell 'anima. Qualora il philosophos si dedichi a com porre « giardini di scrittura » , lo farà, appunto, solo per « divertimento » , per « accumulare un te­ soro di ricordi per sé e per coloro che seguono le sue stesse orme » 77• Si scrive - aggiunge per parte sua Sinesio - allo scopo di « allentare la tensione così come gli Sci ti allentavano il loro arco » 78• Mentre abita in un corpo, l'anima non riesce a sostenere, in maniera costan­ te, il tonos, lo « sforzo » che la contemplazione comporta. Non reg­ ge, oltre una certa misura, la « tensione » necessaria per muoversi nel puro dominio della mente e delle idee. A un certo punto, esausta, ricade indietro, ridiscende nella sfera della corporeità. E lì, dedicarsi alla composizione di lOgoi, di « discorsi » , tenere il proprio duplice diario, intrattenersi nelle opere delle Muse, costituisce il modo mi­ gliore per recuperare energia e ritrovare, con entusiasmo, lo slancio dell 'ascesa. Il modello della paidéia greca, della formazione e dell'e­ ducazione inscritti nella tradizione ellenica - osserva altrove Sine­ sio -, non è altro che questo : « Le scienze ci resero capaci di tendere

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ai vertici più alti, ma, una volta che ci trovammo lassù, esse, accortesi che le nostre anime erano madide di sudore e che la nostra natu­ ra cominciava a cedere, ci richiamarono indietro con dolcezza. E la Musa Calliope allora ci accolse, quando scendemmo stremati: ci fece riposare su prati in fiore, così che lo sforzo non ci fiaccasse del tutto. Ci imbandì una mensa di raffinati testi in lingua attica e di delizie poetiche. Grazie al loro effetto, ella, dapprima, distese i nostri ani­ mi, per poi, in modo inavvertito e occulto, ridestarci e ricondurci, a poco a poco, sulla via, disponendoci, infine, a un nuovo agone » 79• I doni delle Muse sono il « vestibolo dell' iniziazione » so al mondo superiore e, insieme, la stazione ove ritemprarsi, quando non si rie­ sca più a mantenere quella vertiginosa altezza. Anche questo è un aspetto del diaulos, di quel « doppio stadio » , con cui si sviluppa il romanzo della psuché. Resta essenziale che il « gioco » delle parole e della scrittura, il «prato fiorito » in cui rilassarsi, non si riduca a retorici lenocini o a sofistiche vacuità, a «profluvi » di discorsi se­ gnati da una totale « aridità di pensiero » , sull'esempio, così diffuso, di uomini « che sanno parlare, ma non hanno nulla da dire » 8'. Ogni parola deve partire da un'autentica e concreta esperienza di « sé » . Bisogna « trarre profitto » dalla verità, cercata e osservata, del pro­ prio bios, della propria « vita » 8'. Dalla sostanza dell'anima e del suo corpo sottile.

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Virtù e vita teurgica Proclo

« Per il dio tutte le cose sono belle, buone e giuste. Gli uomini, inve­ ce, alcune le considerano giuste, altre ingiuste » . Così scriveva Eracli­ to', segnando la divaricazione tra la sapienza divina e il plesso varie­ gato delle opinioni mortali. Gli uomini, di necessità, discriminano e distinguono per poter dare un qualche ordine alla loro esistenza finita, per avere un qualche criterio di azione ed entrare reciproca­ mente in rapporto. Differenze e contraddizioni screziano, d'altro canto, il loro opinare perché diverse sono le esperienze e il sapere di cui ciascuno dispone. Diverso è, nella prassi di ogni soggetto, il modo di intendere le medesime parole e i medesimi valori, ancor­ ché tutti si immaginino di dire e di intendere la stessa cosa. Tutti sono d'accordo nel riconoscere il valore del bello, del buono e del giusto. Tutti consentono nel desiderio e nel dovere di perseguire ciò che tali termini paiono designare. Ma è nel momento di agire - e, ancor prima, di esprimersi - che il consenso si frastaglia in una ridda di incoerenze e di contrasti, mostrando come la presunta evidenza e l'apparente forza di certe parole si scontrino con una sostanziale opacità del pensiero soggettivo. I mortali dimenticano assai spesso che ogni cosa è determinata da una prospettiva. Il che non significa che tutto sia relativo e contingente, e che ogni affermazione si equi­ valga, come spesso si crede o si ripete. Vuoi dire, piuttosto, che paro­ le e cose, nella loro reciproca relazione, si colorano di implicazioni differenti a seconda della qualità dello sguardo e del punto da cui lo

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sguardo stesso si origina. Se - come diceva Plotino - ogni anima è e diviene a seconda di ciò a cui il suo sguardo si orienta, anche le parole e le cose sono e divengono in rapporto al piano della realtà, in cui ci si pone a osservarle. Al di sopra della dimensione orizzontale in cui gli uomini si incontrano, convergendo o contendendo sul buono e sul giusto, vi è un asse verticale in cui valore e senso mutano mano a mano che si ascende. Quel distinguo e quella significazione che, alla base dell'asse, vigono ( ove gli uomini riescano ad accordarsi), all'altro estremo della retta possono cessare di valere o suonare in tutt 'altro modo. La prospettiva del dio non è quella dei mortali, così come non è lo stesso il livello in cui la loro reciproca attività si eser­ cita. Un caso esemplare - per chiarire il senso di tali considerazio­ ni - è rappresentato dalla « Virtù » , che nei discorsi umani non solo è celebrata come un auspicabile possesso, ma è anche additata come un dovere cui tendere. Nella vita di tutti giorni, nella dimensione dei corpi e della materia, vi è bisogno di una certa « Virtù » per trovare la misura di un'armonia e di un equilibrio con sé stessi e con gli altri. Ma, nel divino, la virtù e le discriminazioni cui essa dà luogo non hanno alcun senso perché il dio non ha affatto necessità di trovare una misura e un equilibrio cui riferirsi, perché egli stesso è, nella so­ stanza della propria vita e del proprio pensiero, quell 'ordine che, a un livello inferiore e in una forma differente, gli uomini si sforzano di imprimere alle loro esistenze, in quanto esse ne sono prive o solo parzialmente dotate : gli esseri divini, « gli esseri che appartengono al piano della mente non hanno bisogno di accordo, di ordine o di pro­ porzione, né la virtù è per loro di alcuna utilità » '. I comuni mortali, se ben educati e se vivono in un contesto propizio, aspirano a essere virtuosi nonché a venire apprezzati come tali. Ma tale aspirazione non vale per il divino e neppure per il sapiente, o per l' iniziato, che a quel divino vuole assimilarsi con tutto sé stesso. Il sapiente - afferma senza mezzi termini Plotino - non vuole essere virtuoso, vuole essere dio : non desidera « vivere la vita dell 'uomo dabbene, ma quella degli dei » l . Il che comporta, di conseguenza, una diversa valutazione del bene e del male. Non perché il sapiente possa volere il male o agirlo, ma perché altra è appunto la direzione del suo sguardo, perché altro è lo scopo cui egli tende. Ed è in rapporto a tale scopo che la sua

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nozione di bene si definisce, scostandosi da quella degli altri uomini, comunemente immersi nella finitezza del sensibile. Nella prospettiva del sapiente e dell ' iniziato, la morale è del tutto relativa, ma non nel senso che ogni cosa è possibile e ugualmente legittima, come accade nella sofistica o nei relativismi della modernità. La morale è relativa in quanto vi è un assoluto al di là e al di sopra di essa. È relativa per­ ché vi è una verità che la eccede, superando l'orizzonte dei fenome­ ni e delle contingenze. Per comprendere tutto ciò, sarà opportuno, tuttavia, ripartire, da capo, richiamando alla mente quei molteplici piani dell'essere su cui ci si è già soffermati e vedere come, nella tra­ dizione neoplatonica, virtù e morale si declinino in rapporto a essi. Una perspicua sintesi in tal senso è offerta da Porfirio in una delle sue Sentenze, ove egli mostra come, salendo di grado in grado nella verticale dei piani, significato e sostanza dell' areté, della « virtù » , vengano a mutare, perdendo progressivamente ogni connotazione propriamente umana. Il punto di partenza comune sono le quattro virtù cardinali che già Platone, nella sua Repubblica, aveva fissato : giustizia, coraggio, temperanza e sapienza. Ma esse - spiega Porfirio - operano diver­ samente in relazione ali ' ambito in cui sono inscritte, o meglio in relazione al livello in cui ognuno le esercita con differente finalità : « Altre sono le virtù dell'uomo che appartiene alla città, altre quelle di chi si protende verso la contemplazione [ . . . ] , altre ancora quelle di chi ha ormai raggiunto la contemplazione e per tale ragione è detto contemplativo, altre infine quelle della mente in sé stessa, separatasi dall'anima » 4• Sul piano della polis, della « città » - ovvero di quella dimensione comunitaria in cui la maggior parte degli uomini spen­ de la propria esistenza - le quattro aretdi consistono essenzialmen­ te nel controllo delle passioni, nel seguire i principi della ragione e nell'adeguarsi a essi quando si devono compiere tutti quei doveri inerenti alla vita pratica. In tale orizzonte «politico » o « civico » , le virtù mirano alla socialità e alla socievolezza, così da garantire la « sicurezza » di ciascuno in seno alla comunità: la sapienza consiste­ rà nell'esercizio della razionalità; la temperanza nell'accordo tra la parte « concupiscibile » e la parte « razionale » dell'anima di ciascu­ no ; il coraggio, a propria volta, nel buon funzionamento della com-

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ponente « animosa » della psuché; e la giustizia, infine, nel fatto che ciascuna di tali parti svolga il proprio compito specifico in perfetto accordo con le altre. Ma, se si sale di grado, queste stesse virtù dovranno essere deno­ minate e intese diversamente. Chi infatti desideri elevarsi alla con­ templazione dell'essere e delle idee, chi voglia innalzarsi dal mondo delle apparenze a quello della verità, dovrà distaccarsi da tutte le cose di quaggiù. Il fine non concerne più la « sicurezza » e l'armonia del singolo in un contesto sociale. Ciò che conta qui è la messa in atto di una « purificazione » radicale, che desti l 'occhio dell'anima, che risvegli la facoltà di vedere l' invisibile. Da «politiche » , le aretdi di­ vengono, dunque, « catartiche » , poiché il loro obbiettivo è l'asti­ nenza da tutte quelle azioni che si compiono con il corpo, nonché dai quei vincoli di « simpatia » che al corpo comunemente ci legano. Se le virtù politiche « abbelliscono l'uomo » , quelle catartiche ap­ partengono all'anima che si sforza di cogliere il puro ente. Appar­ tengono alla psuché che, per fare questo, deve anzi tutto conoscere sé stessa nella propria incontaminata e semplice purezza, cessando di mischiarsi ad altro : « Fondamento della purificazione è conoscere sé stessi come un'anima vincolata a un elemento estraneo e di diver­ sa essenza » . In tale senso, la saggezza si rapporta allo sforzo della psuché che cerca di agire da sé sola, di raccogliersi in sé stessa, senza farsi complice delle « opinioni » del corpo. La temperanza mira al pieno distacco dalle passioni, piuttosto che al loro semplice con­ trollo, com'era nel grado inferiore. Il coraggio è non aver paura di staccarsi dalla corporeità, « come se si trattasse di cadere nel vuoto o nel nulla » . La giustizia, infine, consiste nell' imporsi della ragione e della mente su tutte le facoltà inferiori. In tale prospettiva catartica, il « bene » si definisce unicamente nel fatto di riuscire ad accostarsi ai principi superiori della realtà ; il « male » nel « restare insieme alle cose inferiori » . Città e corpo, con le ragioni e i bisogni che a essi sono connessi, cessano di avere alcuna rilevanza. Procedendo oltre, l'anima purificata perviene al livello delle vir­ tù « contemplative » , in cui essa diviene « attiva » sul piano della mente e dell ' intuizione. La gnosis , la « conoscenza » dell 'essere le si dispiega compiutamente : sapienza diviene « visione di ciò che è

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nella mente » ; temperanza è la « conversione intima » dell'anima verso la realtà che le è superiore ; il coraggio è assoluta « impassi­ bilità » , perché nessuna affezione può aver luogo nel dominio di ciò che è eterno e immutabile ; la giustizia riposa nell 'atto stesso dell'anima che si fa guidare dalla mente e a essa aderisce. Al termi­ ne ultimo dell'ascesa si attua l'assimilazione al divino, e le virtù ac­ quistano il nome di «paradigmatiche » , così come sono paradéig­ mata, « modelli » perfetti le idee e gli esseri che abitano questo piano della realtà: « Le virtù paradigmatiche risiedono nella mente [ . . . ] e mente è ciò in cui si trovano le realtà che hanno funzione di modello : sapienza è la mente che conosce, temperanza è il suo volgersi verso di sé, suo compito è attendere alla propria funzione, coraggio è infine la sua identità, ovvero il permanere in sé stessa per sovrabbondanza di potenza » . È , questo, il conseguimento di quella piena « realizzazione » cui Plotino accennava, affermando, forse con qualche scandalo rispetto alla mentalità comune, che non si accontentava di essere un « uomo perbene » . Se, al prin­ cipio del percorso, l' areté rinvia a un sapere e a una pratica dei comportamenti corretti, nell 'attingimento del vertice, essa è pura perfezione, sovrana eccellenza. È « forma » superiore del divino, « forma » che trascende la natura mortale così come i giudizi che da essa promanano. Tutto è bello perché il tutto è bellezza. Ma ciò comporta, anche, che il sapiente realizzato, ridiscendendo ai piani inferiori, potrà, con la luce dell 'assoluto, orientare diversamente l 'orizzonte di quei comportamenti etici di cui i comuni mortali non colgono la radice e il fondamento. Essendosi congiunto ai pa­ radéigmata, potrà essere egli stesso parddeigma, cui accordare le norme della realtà inferiore. Il che ci riconduce alla considerazione iniziale : ogni parola varia, nel suo valore, in rapporto alla posizio­ ne gerarchica dell ' « attività » e della forma d 'essere cui, di volta in volta, rinvia. Ed è questo che deve essere compreso, anziché con­ tendere, sul piano orizzontale, per i modi del tutto soggettivi che ogni termine assume nella finitezza delle vite mortali. Ed è a parti­ re dal vertice che ogni altra implicazione discende, per immediata intuizione, senza necessità di fissare codici linguistici o morali che siano. Tornando a citare, circolarmente, Eraclito, si può affermare :

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« Le leggi umane traggono tutte nutrimento da un'unica legge, che è la legge divina: essa realizza ciò che vuole, sostiene tutte le cose e tutte le sovrasta » 1• In seno alla tradizione neoplatonica, la sequenza illustrata da Podi­ rio conosce, talora, variazioni terminologiche o inserti di ulteriori articolazioni fra i diversi piani. Come si vedrà, il livello più alto vie­ ne, in alcuni testi, denominato « ieratico » o « teurgico » , anziché «paradigmatico » . Medesimo rimane, tuttavia, l' impianto e la logica che lo sostiene. I diversi gradi corrispondono, come ormai sarà evi­ dente, allo svolgersi delle tappe a cui l'amore della sapienza indirizza i propri iniziati. E non è un caso che il racconto di una vita - la bio­ grafia di un sapiente divino - possa essere organizzato secondo lo stesso principio. Ne è esempio l'opera che Marino di Neapoli scrisse per testimoniare le « innumerevoli doti » possedute e dimostrate da Proda durante la sua esistenza. Omaggio di un discepolo a un mae­ stro, in cui la narrazione si stempera, per così dire, in celebrazione e in agiografia. Ma ciò che conta è il « modello » in tal modo offerto alla meditazione e alla pratica di sé. Modello da imitare per giun­ gere a quella medesima pienezza che il sottotitolo segnala: Proclo o dell'eudaimonia, perché - afferma Marino - « egli fu il più felice fra gli uomini celebri del lungo passato che ci sta alle spalle [ . . . ] e non in­ tendo solo la felicità del sapiente [ . . . ], né il fatto che possedesse virtù sufficiente a condurre una buona vita, ( . . . ) , né parlo di quella fortuna materiale che viene tanto apprezzata dai più [ . . . ] , mi riferisco a un perfetto stato di beatitudine cui non manca nulla » 6• Come quella di cui godono gli dei. Ma per afferrarne il disegno e l'origine occorre, appunto, seguire il mirabile ordine delle aretdi. L'aspetto fisico del sapiente deve far trasparire l'ordine e l'armonia del suo universo interiore ? Nel caso di Socrate, il sembiante contra­ stava significativamente con le straordinarie qualità della sua anima. Naso schiacciato, occhi sporgenti, corpo appesantito : in lui, guardan­ do dall'esterno, non vi era nulla di aggraziato. Quei tratti, semmai, lo facevano assomigliare a un Satira incontinente e violento. Tale involucro celava, però, al proprio interno, un tesoro di meravigliosi

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agdlmata, di « immagini divine » , e di straordinarie virtù, di cui non tardava ad accorgersi chi lo frequentasse, prestando ascolto ai suoi discorsi?. Il contrasto stridente tra profilo esterno e dimensione inte­ riore poteva, d'altro canto, essere letto come un corrispondente so­ matico di quell' « ironia » , di quell'arte sovrana della « dissimulazio­ ne » , che egli esercitava sempre nella conversazione come strumento per catturare il proprio interlocutore e rovesciarne, a sorpresa, ogni prospettiva e ogni opinione. Diversamente, nel caso di Pitagora, l'ab­ bagliante bellezza del corpo era parsa a chiunque il segno evidente e indubitabile che una natura superiore, un essere divino, si era incar­ nato a beneficio degli umani8• Nell' integrità fisica e nell'avvenenza esteriore è come se la forma spirituale si imprimesse nella materia, dominandola perfettamente : in ragione della sua perfezione, il vero sapiente non può che essere bello. Così era stato anche per Proclo di cui Marino, nel dare avvio al racconto, espone, anzi tutto, le cosiddet­ te virtù « naturali » ovvero « innate » : «Non solo il suo corpo era ar­ monioso e proporzionato, ma vi era anche una sorta di luce vitale che, dall'anima, si manifestava nelle membra, e risplendeva in modo indi­ cibile [ . . . ] . Era così bello che nessun pittore riuscì a farne un ritratto fedele » 9• Quella bellezza era, sul piano fisico, il tratto corrispondente alla temperanza, se tale virtù deve essere intesa come ordine e pro­ porzione perfetta delle parti. Nella mirabile « acutezza dei sensi » , di cui Proclo era dotato, si poteva, per converso, cogliere la « sapienza » innata del corpo, così come nella « salute » , che lo rese a lungo immu­ ne da malattie, vi era l' immagine di quella « giustizia » , che sempre si produce quando ogni elemento compie la propria funzione in seno al tutto. Del pari, nell' inesauribile vigore fisico, che gli consentiva di sostenere ogni fatica, si esprimeva il corrispettivo dell ' andréia, di quel « coraggio » che, nel suo etimo, significa propriamente « valore virile » . Come ormai si sarà compreso, le quattro aretdi cardinali si declinano in modo appropriato sin dal piano più basso della realtà. Virtù « innate » sono, d'altro canto, anche quelle che l'animo spontaneamente manifesta prima che un qualsiasi genere di educa­ zione intervenga. A suo tempo, Platone aveva delineato quali fossero le disposizioni naturali che facilitano il cammino verso la sapienza. E lo aveva fatto prendendo ad esempio il giovane Teeteto : un « fan-

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ciullo meraviglioso » , capace di imparare e ricordare ogni cosa senza alcuna difficoltà, dotato di ingegno acutissimo, di spirito alacre e in­ stancabile, di indole generosa e priva di qualsiasi grettezza, ma anche di un temperamento mite ed equilibrato, che lo faceva procedere, nello studio, come un placido e regolare « rivo lo d 'olio » , a differenza di altri, che, ugualmente provvisti di intelligenza, avevano un carat­ tere incostante e tempestoso10• Analoghe caratteristiche si sarebbero manifestate, sin da subito, anche nel giovane Proclo : « memoria » , « facilità d i apprendere » , « magnanimità » , « mitezza » e « socievo­ lezza » nei rapporti con gli altri, sovrano « disprezzo » per i piaceri materiali, nonché indifferenza rispetto alla ricchezza e ai beni mon­ dani, che pure i suoi genitori gli avevano lasciato : « Mancanza di li­ beralità e avarizia gli erano estranee perché aspirava al tutto e all'uni­ versale tanto divino quanto umano [ . . . ], in virtù della sua grandezza d'animo riteneva che la vita umana fosse nulla » , osserva Marino rie­ cheggiando, non a caso, termini ed espressioni dell'opera platonica. Proclo nacque a Bisanzio, città che era posta sotto la protezio­ ne della dea Atena, ma trascorse i suoi primi anni a Xanto in Licia, patria dei suoi genitori, nonché luogo sacro ad Apollo. Le due di­ vinità, che più di tutte le altre erano legate alla luce della sapienza, parevano aver segnato, sin dali' inizio, il tracciato del suo destino. Da lì, crescendo, si trasferì ad Alessandria, che, per la sua vivacità e ricchezza culturale, era un primo luogo adatto a compiere i ne­ cessari studi. Ed è a questa fase che il racconto biografico assegna il corrispondente sviluppo delle virtù « etiche » , che sorgono quando i principi appresi in una seria educazione divengono, con l 'esercizio e la pratica, « abito » e stabile modo d'essere. Nella capitale alessan­ drina, egli si dedicò, con rapidi progressi e significativo successo, alla grammatica, alla retorica e al diritto : quegli studi liberali che non solo concorrono alla formazione morale dell'uomo, ma costituisco­ no anche una premessa necessaria per la stessa filosofia. Se, in un pri­ mo tempo, egli aveva pensato di fare l' « avvocato » , l'amore della sapienza non tardò, tuttavia, a conquistarlo. Da qui la decisione di recarsi ad Atene, come unica sede ove fosse possibile dar corso a tale desiderio. Un trasferimento benedetto e sostenuto dagli dei stessi, come un evento, apparentemente casuale, parve da subito segnalare.

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Da poco sbarcato, egli stava salendo in città, ma, stretto dalla sete e affaticato dal viaggio, si fermò, senza saperlo, là ove vi erano una fonte e un tempietto dedicati alla memoria di Socrate. Sostare, in modo ignaro, in quel luogo e dissetarsi di quell'acqua erano il chia­ ro presagio di un' investitura sapienziale che il trascorrere del tempo avrebbe inverato. Poco più tardi, salì verso l 'Acropoli per rendere omaggio alla dea Atena che sempre lo aveva spronato alla philoso­ phia. All' ingresso dei Propilei, il custode, che stava già per chiudere le porte e non lo conosceva affatto, pronunciò, per incondita e spon­ tanea ispirazione, parole altrettanto profetiche : « Meno male che sei arrivato, altrimenti avrei chiuso » ". Il che, evidentemente, si riferiva a ben altro che al materiale accesso alla rocca di Atene : è raro trovare nature adatte cui affidare la continuità della tradizione, e ancor più raro quando i tempi e la cultura coeva siano decisamente avversi ai contenuti tradizionali stessi. Sotto la guida di Plutarco e di Siriano, maestri dell'Accademia, si applicò, con tutto sé stesso, al percorso previsto dalla scuola. In meno di due anni, divorò l ' intera opera di Aristotele, dalla logica alla metafisica, dall 'etica alla politica. Ed era, questo, l'addestramen­ to iniziale che là si praticava per poter poi passare all'effettiva lettu­ ra di Platone : l'esame e la famigliarità con le dottrine aristoteliche erano considerati come « misteri preliminari » , come primo « grado iniziati co » in vista dei « misteri realmente divini contenuti nelle opere platoniche » . L' insegnamento di Platone non era inteso come mero esercizio intellettuale, come una pratica, per quanto raffinata, della ragione umana. Era una vera e propria mustagogia, un percorso « iniziatico » alla conoscenza intima del divino e alla realizzazione di sé su un piano superiore : « L' iniziazione m isterica relativa alle realtà divine stesse, posta in modo puro su un sacro piedistallo e perpetua­ mente fondata sugli dei stessi [ ... ] fu rivelata a coloro che, vivendo nella dimensione del tempo, potevano trame profitto, da un solo uomo, da colui che non si sbaglierebbe a chiamare "guida" e "iero­ fante" degli autentici riti misterici a cui sono iniziate le anime una volta che si sono distaccate dalla regione terrestre » '•. E quel supre­ mo « ierofante » era appunto Platone così come guide e sacerdoti si consideravano gli scolarchi dell'Accademia.

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Secondo quel preciso ordine di lettura cui si è già accenna­ to1l - e che garantiva di non « fare il passo più lungo della gam­ ba » , saltando alcun « gradino » necessario14 - Pro do si immerse nei dialoghi del maestro, applicandosi indefessamente allo studio e all 'esercizio « giorno e notte » , al fine di epoptéuein, di godere di quella « visione suprema » che, al termine dei misteri, si apriva a coloro che erano compiutamente iniziati. Penetrando nel pen­ siero e nell ' immagine di quelle venerabili pagine, Proclo riuscì a cogliere le differenti modalità con cui Platone si era espresso, di volta in volta, per additare ai suoi lettori la luce divina della ve­ rità : « Occorre distinguere i modi in base ai quali Platone ci ha istruito sulle dottrine misteriche concernenti le realtà divine. Non sempre egli ha seguito, infatti, lo stesso metodo di insegnamento sui principi divini. Talora egli sviluppa la verità su di essi secondo una modalità divinamente ispirata, altre volte ricorre al metodo della dialettica oppure utilizza dei simboli che suggeriscano le pro­ prietà ineffabili dei principi stessi, o ricorre ancora a immagini per risalire [ . . . ] attraverso di esse alle cause originarie del tutt0 » 15. Di­ mostrazioni, immagini, enigmi e simboli sono, infatti, tutti stru­ menti complementari di un'unica traiettoria dalla materia all 'uno, strumenti per toccare, a un grado ancora superiore, quell' « estasi bacchica » , quello stato non ordinario di coscienza, che distingue i veri iniziati da coloro che semplicemente «portano la ferula » 16, ovvero esibiscono esteriori insegne senza alcuna esperienza diretta di ciò che sta in alto. Dalla meditazione sulla Repubblica e sulle Leggi di Platone - tutte incentrate sui caratteri e sull 'ordine che deve essere impresso a una comunità civica perché vi possa essere una vita buona e devota agli dei - Proclo ricavò l 'essenziale in merito alle virtù « politiche » che, tuttavia, non esercitò in prima persona, ricoprendo cariche o ruoli in seno ad Atene, « essendo impegnato in cose di mag­ gior importanza » . Ma, in un percorso così concepito, la « teo­ ria » non può essere del tutto avulsa dalla « pratica » in nessuno dei gradi che, via via, si attraversano ; altrimenti il requisito della completezza e dell'esperienza verrebbe a mancare. Pur non allon-

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tanandosi dalle proprie primarie attività, Proclo decise quindi di essere « politico » in modo indiretto, dedicandosi all ' istruzione e alla formazione dell 'amico Archiada affinché fosse lui ad ave­ re un ruolo attivo nella comunità : « Gli indicava quali fossero le virtù politiche e come si dovessero esercitare. In modo analogo a coloro che fanno il tifo incitando i corridori, egli lo esortava non solo a occuparsi degli affari della città, ma anche a benefica­ re ciascuno in privato, in modo conforme a tutte le virtù, ma in modo particolare alla giustizia » '7• Era quel ruolo di educatore e di consigliere dei governanti che Platone aveva tentato di esercitare nella corte siracusana di Dionigi. Non mancarono, tuttavia, an­ che alcune occasioni di un intervento più diretto : facendo ricorso alla parrhesia - a quel « franco parlare » che sempre dovrebbero avere i veri filosofi - Proclo ebbe modo di esprimere con saggez­ za il proprio parere dinanzi ai cittadini riuniti in assemblea o al cospetto dei singoli magistrati, così che « a ognuno fosse dato il suo » secondo giustizia. Ma la franchezza e la libertà costano care e, in un tempo sempre più dominato dalla religione cristiana, la mistagogia e la cultura pagana dei fedeli platonici non potevano che suscitare sospetto e crescenti forme di intolleranza. Quando « venti di tempesta » presero a spirare contro la sua « vita integer­ rima » e « uomini violenti » cercarono di metterlo sotto accusa per le sue opinioni e le sue credenze, egli non esitò ad abbando­ nare Atene, così come si trovava, per riparare temporaneamente in Asia, finché quella burrasca non fosse cessata. Fu, quella, la sua esperienza più propriamente «politica » in cui mostrò « un corag­ gio degno di Eracle » , un' intrepida fermezza nella difesa di quella sapienza cui aveva dedicato la sua intera esistenza. « Politica » , in altro senso, era la virtù della philia, del! ' « amicizia » che egli non cessò mai di esercitare, soccorrendo i propri affezionati discepoli, gli amici e i loro congiunti. Non essendosi mai sposato né avendo avuto figli, era quella la sua « famiglia » , ed egli si prendeva cura di tutti loro come « un padre comune » , prevenendone i bisogni e assistendoli nei momenti di difficoltà o di malattia. Del resto, ancor prima dell 'Accademia platonica, erano stati i Pitagorici a valorizzare la dimensione della philia che deve legare tra loro gli

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uomini impegnati nella ricerca della divina sapienza. In una con­ fraternita iniziatica, tutti sono « amici » e « tutti i beni degli amici sono comuni » 18• Nel Fedone, attraverso la figura di Socrate, Platone insiste lunga­ mente su un punto essenziale su cui già più volte la nostra atten­ zione si è fermata: per dare la « caccia all'essere » i « veri filosofi » devono attendere strenuamente alla meléte thandtou, all' « esercizio di morte » , poiché non vi è altro modo di accedere all' invisibile9• Tale pratica non consiste - come talora si è affermato - in una mera meditazione sulla finitezza della vita umana, in un pensiero della morte come limite ultimo con cui misurarsi per dare senso e valore alle proprie giornate e alle proprie scelte. Meléte thandtou indica, piuttosto, lo sforzo di raggiungere, già durante la vita, quello sta­ to di « separazione » dalla materia, che altrimenti si compie al suo termine naturale. Si tratta di produrre, con metodo e per quanto possibile, le condizioni di una lusis, di uno « scioglimento » della psuché dalla « comunanza » con l ' involucro « terroso » che la rio­ serra, affinché essa possa giungere a una vera ed effettiva esperienza di un'altra dimensione. Ed è in rapporto a tale scopo che si compie la transizione a quelle virtù « catartiche » poste al di sopra della vita ordinaria. Se, sul piano morale e politico, la tensione a una pratica virtuosa si prefigge l 'obbiettivo della metropdtheia, del « mi­ surato controllo delle passioni » , qui occorre invece protendersi in direzione dell' apathia, di una completa immunità da ogni affezio­ ne che renda l'anima prigioniera della realtà inferiore. Fondandosi sull 'autorità platonica e sulla dottrina di suoi predecessori, Proclo insegnava diffusamente, nel corso delle sue lezioni, quale fosse la natura di tali virtù centrate sulla purificazione e come « esse fossero alla portata degli uomini » , ancorché, di primo acchito, si potes­ se dubitare o persino aver timore dinanzi a un fine così estremo e arduo10• Ma egli non si limitava, certo, alle spiegazioni dottrinali, perché l'essenziale resta sempre la pratica individuale ed è la sola cosa che provi il valore delle teorie. Proclo si preoccupava di attuare concretamente quelle aretdi catartiche, procurando « di vivere in conformità a esse » in ogni istante delle sue giornate. Per questo

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cercava sempre di « compiere quelle azioni grazie alle quali l'anima si isola dal corpo » : « notte e giorno celebrava riti apotropaici » per allontanare le influenze ottenebranti e provvedeva a purificarsi in tutti i modi indicati dalla tradizione. Ogni mese, scendeva in mare per mondarsi nell 'acqua salata, come facevano anche gli iniziandi dei misteri di Eleusi. Di norma limitava il cibo e le bevande alla misura necessaria per il sostentamento, evitando accuratamente l'a­ limentazione carnea. Ma, in aggiunta a ciò, in alcuni giorni presta­ bilici del calendario mensile, si atteneva a un rigoroso digiuno per una pulizia più completa : « Non toccava cibo ogni ultimo giorno del mese lunare, senza aver neppure cenato la vigilia, e celebrava con particolare solennità i noviluni » ,'. Allo stesso modo e con la medesima devozione, aveva cura di celebrare tutte le festività più importanti in onore degli dei, tanto greci quanto stranieri. Ritene­ va, infatti, che in ogni tradizione e in ogni forma del divino vi fosse qualcosa di prezioso e di essenziale che meritava di essere onorato e compreso al di là delle differenze geografiche ed etniche, perché molte sono le vie, ma tutte conducono a un'unica meta e irraggiano da un medesimo principio trascendente : « Spesso ripeteva che l 'a­ mante della sapienza non deve essere ministro dei culti di un'unica città né di un unico popolo, ma deve essere, invece, in modo uni­ versale, ierofante del cosmo intero » ». Ogni credo particolare, che si proponesse in via esclusiva come l'unico vero e l'unico valido, doveva sembrargli risibile. La celebrazione di ogni rito si accompagnava alla recitazione di « inni » che intonavano l'anima non solo alla solennità della parti­ colare circostanza, ma ancor più alle forze divine che vi presiedevano e che in essa si rendevano presenti. Senza limitarsi al solo repertorio tradito, Proclo provvide, nel tempo, a stendere, di proprio pugno, ulteriori inni agli dei, che potessero favorire il contatto con la realtà superiore. Talora si dedicava a tale attività in quel tempo raccolto della notte in cui aveva l'abitudine di vegliare, opponendo resisten­ za all'assopimento del corpo. Questo impegno creativo, così come l'entusiasmo profuso nella recitazione dei testi innodici in genera­ le, si legava a una precisa valorizzazione della preghiera in rapporto all'obbiettivo ultimo della realizzazione di sé. Era, questo, un aspet-

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to su cui anche altri sap i enti neoplatonici avevano richiamato l' at­ tenzione. In tal senso si era espresso, con entusiastica convinzione, Giamblico, sottolineando come la preghiera abbia il triplice effetto di « elevare, perfezionare e colmare » l'anima che cerca di ascende­ re a un livello superiore dell'essere. Veicolo di « illuminazione » , il pregare si configura come una sorta di « azione comune » in cui le forze divine e la psuché si fondono e cooperano nel conseguimen­ to di un sublime risultato : « Soffermarsi a lungo in preghiera - egli scrive - nutre la nostra mente e rende più ampio lo spazio della no­ stra anima destinato ad accogliere il divino, apre agli uomini la porta degli dei, li abitua a ricevere le scintille di luce, perfeziona, a poco a poco, il nostro essere, predisponendoci al contatto con gli dei, fino a portarci al vertice sommo [ ... ] . La preghiera solleva lentamente i no­ stri sentimenti e il nostro pensiero, manifestandoci quelli degli dei. Essa risveglia in noi persuasione, comunione e amicizia indissolubile [ . . . ] e infiamma l'elemento divino dell 'anima, purificandola da tutto ciò che vi è di estraneo » 'l. Condividendo tale prospettiva, Proclo si premurò, d'altro can­ to, di spiegarne il fondamento metafisico'4• Se la preghiera è, effet­ tivamente, « una parte importante dell' intera ascesa dell'anima » e ha gli effetti appena ricordati, ciò si può comprendere in base alla dinamica stessa da cui si origina l' intera realtà. Come si è già visto, tutto promana dall'uno, dando luogo a una successione di piani in­ terdipendenti, nonché a un triplice movimento che si riproduce in seno a ciascuno di essi: proodos, moné, epistrophé, «processione » , « manenza » , « conversione » . Ogni essere «procede » dal principio che gli è immediatamente superiore e, una volta generato, «perma­ ne » in sé stesso, nello stato e nella condizione che gli sono propri. A tale « manenza » , tuttavia, si connette e fa seguito un movimen­ to opposto con cui l 'essere torna a « volgersi » e a « guardare » ciò che l'ha generato, trovando in esso la radice della propria esistenza e insieme il termine della propria perfezione. Ogni essere generato conserva, infatti, all' interno di sé, una traccia del principio causale da cui deriva, così come il principio superiore contiene, da sempre, il modello del suo prodotto. Ogni realtà inferiore, per quanto costi­ tuitasi come livello autonomo, continua in eterno a permanere nel

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proprio principio, così come ogni principio abbraccia in sé stesso la totalità dei suoi derivati. Si può dire che generante e generato siano, in certo modo, presenti l'uno all'altro, l'uno dentro l'altro, in un le­ game indissolubile che li avvince. Ma, proprio in ragione di questo legame, ogni prodotto vuole, per così dire, far « ritorno » alla pro­ pria causa e ricongiungersi attivamente con essa. La realtà si compo­ ne, così, in una sorta di perfetto movimento circolare, in cui tutto procede dall 'uno e all'uno, allo stesso tempo, ritorna per una sorta di desiderio consustanziale e necessario. Lo stesso vale per l'anima e la preghiera non è che uno strumento della sua epistrophé: il mezzo per attualizzare il suo moto di conver­ sione e ritorno al piano da cui deriva. Gli dei - spiega Proclo - han­ no generato tutte le anime e, in ognuna, hanno impresso un dupli­ ce « segno » : il primo fa essere ciascuna psuché ciò che essa è nella « manenza » della propria particolare natura; il secondo è ciò che le consente di riconnettersi ai propri celesti genitori. Nella sostanza di tale dinamica sono gli dei stessi che chiamano le anime a sé ed è per questo che le preghiere hanno efficacia reale : sono essi la causa efficiente dell' intera conversione. Pregare significa, dunque, attivare questo secondo segno, questo secondo «potere » da cui scaturisce la facoltà dell'ascesa e della riunificazione con il divino e, contempora­ neamente, la possibilità di condividere ogni bene che dagli dei pro­ mani. Rovesciando la prospettiva si può, tuttavia, giungere a un'ulte­ riore conclusione sul filo di tale struttura metafisica. Se la preghiera, così come di norma è praticata e intesa, appartiene agli uomini e alle anime, ai loro atti di culto e di devozione, è altrimenti vero che anche l' intero cosmo, a suo modo, prega, dato che pregare non significa altro che convertirsi alla causa del proprio essere. «Tutte le cose, al livello proprio di ciascuna, pregano e levano inni ai principi delle serie universali » 21 da cui derivano, poiché tutte, indefettibilmente, tendono all ' epistrophé. Come il girasole che muta posizione in ac­ cordo con il moto del luminare celeste, in una sorta di silente cele­ brazione della sua divina maestà26• L'universo, nel suo insieme, non è che un'unica grande e ininterrotta preghiera. Una celebrazione poli­ fonica e insieme armoniosa, fondata su quei « segni» e quei simboli ovunque disseminati dagli dei27•

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Tuttavia, tornando a quanto riguarda lapsuché e le sue catartiche vir­ tù, occorre considerare quali siano le condizioni e i gradi attraverso cui si possa sviluppare una preghiera che sia, in tutto, « vera e perfetta » . In primo luogo - osserva Proclo - è necessaria lagnosis, la « conoscen­ za » di tutti gli ordini divini cui intende accostarsi chi prega: «Non è possibile, infatti, avvicinarsi agli dei in modo appropriato se non si conoscono le loro proprietà e le loro peculiarità » '8• In secondo luogo, occorre uno stile di vita conforme al divino e tale da renderei simili e intrinseci a esso : la castità, l'educazione, l'ordine sono, insieme alla purezza, elementi che concorrono alla realizzazione di quella oikéiosis, di quella « famigliarità » che « attira su di noi la benevolenza degli dei e sottomette le nostre anime a loro » . Una volta realizzate queste pri­ me due condizioni, si deve poter realizzare un « contatto » attraverso il quale il vertice della nostra anima riesca a « toccare » ineffabilmente la « divina essenza » . Ma ciò ancora non basta. Occorre procedere ol­ tre, compiere un' empélasis, un « avvicinamento » alla luce divina af­ finché essa divenga intimo possesso. E da qui protendersi all' hénosis quell' « unificazione » che « salda la nostra attività e la nostra energia a quelle degli dei, così che noi non apparteniamo più a noi stessi, bensì a loro, venendo come assorbiti dalla luce divina e circondati da essa » : « È questo - conclude Proclo - il fine supremo della preghiera, far in modo che la conversione dell'anima si aggiunga, in salda connessione, al suo iniziale permanere in sé stessa, e che ogni cosa derivata dall'unità divina possa di nuovo stabilirsi in essa » '9• Nella prassi quotidiana, le preghiere si distinguono, d'altro canto, per le finalità specifiche cui possono, di volta in volta, mirare. Nella classificazione proposta da Proclo30, si definiscono « demiurgiche » quando esse sono indirizzate agli dei che presiedono alla vita del co­ smo con l ' intento di generare precisi effetti sulla natura sensibile, come il levarsi di un vento propizio o il cessare di una nefasta sicci­ tà. Sono «purificatrici » nel caso in cui si persegua l'eliminazione di ogni impurità e la liberazione da influenze nocive. Si dicono « vivifi­ canti » , invece, le orazioni rivolte alle divinità che governano le cause della generazione, affinché tutte le forze vitali ne vengano ,rafforzate. Sono, infine, telesiourgoi, «perfezionatrici » le preghiere elle aiutano l'anima nel suo sforzo di « conversione » e « ritorno » , grazie alla

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connessione e al potente ausilio delle divinità che sono dette, a loro volta, «perfezionatrici » o « elevanti » , nella triade costituita da Er­ mete, Afrodite e Apollo : il signore dell' intuizione fulminea e della comunicazione tra alto e basso, la dea della bellezza e del desiderio, il dio della luce e del « conosci te stesso » . L' intensità e la potenza della preghiera « vera e perfetta » pos­ sono rendersi manifeste non solo nel conseguimento dei voti for­ mulati, ma anche nella persona stessa dell 'orante, nel momento in cui la sua anima e la sua mente sono profondamente concentrate nell'atto che sta compiendo. Si raccontava che, quando Giamblico era assorto in preghiera, il suo corpo si sollevasse a mezz 'aria e iniziasse a risplendere di una luce dorata : segno evidente di una riuscita connessione con il divino''· A chi lo interrogava sul feno­ meno, egli soleva rispondere minimizzando, se non negando il fat­ to stesso, poiché un divino amante della sapienza è sempre discreto e cerca di stornare le insistenze dei curiosi. Per quanto concerne Proclo, il racconto biografico non offre analoghi esempi di levi­ razione. Ma attesta per contro come, nel corso della sua esistenza, egli non abbia mai smesso di pregare, di intonare inni e di compor­ ne. Quando, nell 'estrema malattia, le forze gli vennero meno e la fine si approssimava, furono i più affezionati allievi a farlo per lui intorno al suo capezzale. E anche allora il pregare dimostrò tutta la sua efficacia e insieme il suo radicamento nell' intima vita dell 'a­ nima : « Ci chiedeva di recitare degli inni e, mentre essi venivano intonati, si verificava in lui una completa pace e imperturbabilità rispetto a ogni sofferenza. Fatto ancor più straordinario, egli si ri­ cordava di ciò che veniva recitato, benché la sua memoria si fosse ormai allontanata da tutte le cose umane » '1• D 'altro canto, non l'aveva detto anche Platone ? La cosa migliore per gli uomini è tra­ scorrere la vita mortale, dali ' inizio alla fine, giocando i giochi più belli: « sacrificando, cantando e danzando » , così da rendersi gli dei propizi e avvicinarsi sempre di più alla loro natura". Il compiersi di un' integrale « catarsi » - attraverso la rigorosa ap­ plicazione delle pratiche sin qui descritte - dischiude l'accesso alla theoria, facendo germogliare e sviluppare quelle virtù « contem-

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plative » che donano all'anima il potere di conoscere l'essere. È un passaggio decisivo nella progressione « iniziati ca » : « Già perfetta­ mente purificato, P rodo aveva ormai oltrepassato il mondo della ge­ nerazione [ . . . ] e sperimentava uno stato di estasi dionisiaca, potendo godere - come in una sorta di faccia a faccia - dell' immediata e di­ retta visione di quegli spettacoli beati che appartengono alla realtà superiore » 34• Non aveva più bisogno di sillogismi o di dimostrazioni per cogliere la verità, perché adesso, finalmente, « vedeva » . Elevatasi a un diverso stato di coscienza, la sua anima aveva conseguito quella facoltà di « intuizione » che oltrepassa ogni umano ragionamento e che, sola, consente di cogliere la luce del vero come integrale pos­ sesso e assoluta certezza: « Per mezzo di semplici intuizioni vedeva i modelli presenti nella mente divina, pervenendo a una virtù che non si poteva più chiamare saggezza, ma si doveva definire con il nome di vera e propria sapienza, o con un altro termine ancora più eccel­ so » ll. Egli aveva raggiunto il piano della « mente » e, in esso, era divenuto pienamente « attivo » , portandosi oltre la comune misura umana. Era in grado di contemplare e comprendere per immediate folgorazioni « tutta la teologia, sia greca che barbara » , così come tutti i segreti del divino « adombrati nei racconti mitici » . Ma egli si preoccupò, al contempo, di dispensare il frutto di quella superiore theoria cui si era innalzato. Decise di farsi tramite di quella sapienza in un' incessante opera di insegnamento e di scrittura rivolti a chi volesse e potesse seguirlo nell'ardua strada. Sostenuto da una sorta di in esausta « ispirazione » , provvide a illustrare, con articolata « esege­ si » , l' intero spettacolo dell 'essere che aveva contemplato. Allo stesso modo, consultò e mise a confronto « tutte le opere degli antichi » , sottolineandone i punti di contatto e le « feconde » indicazioni per il cammino sapienziale e la realizzazione iniziatica, perché soltanto chi ha « visto » può davvero intendere i tesori disseminati nei testi del passato. Questo enorme lavoro si concretò, da un lato, in com­ mentari e organiche trattazioni - come l'esemplare Teologia platoni­ ca -, dall 'altro, nelle lezioni che quotidianamente dispemava : «Nei suoi corsi, trattava ciascuna questione in dettaglio, con competenza e chiarezza, per poi raccoglierle nei suoi scritti. Con un ardore e un'a­ lacrità infiniti, ogni giorno, teneva cinque lezioni di esegesi, qualche

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volta anche di più, e scriveva almeno una trentina di pagine. A volte usciva per incontrare altri sapienti, mentre la sera teneva altre lezioni per un uditorio meno avanzato. A tutto questo si aggiungevano le veglie notturne, consacrate al culto degli dei, e la pratica del saluto al sole, che compiva all'alba, a mezzogiorno e infine al tramonto » 36• Come il suo stesso ammirato biografo osserva, un tale regime di vita ripeteva e inverava l'aspirazione, apparentemente provocatoria, di Plotino : non accontentarsi di vivere la « vita degli uomini onesti » , ma abbandonare questa per « vivere la vita degli dei » 37• Giorno dopo giorno, il tesoro di quella divina contemplazione si tradusse in un vertiginoso disegno che egli fissò nelle parole dei suoi molteplici scritti. All' interno di ogni ipostasi, di ogni piano del­ la realtà, egli distinse e descrisse - così come il linguaggio umano consente - tutte le ulteriori e sottili articolazioni degli esseri divini e delle cose che sono. Dall'uno inconoscibile e ineffabile, egli intuì il dispiegarsi del regno delle « enadi » : supreme « unità » divine, mol­ teplicità indivisa delle potenze raccolte nel seno infinito del princi­ pio primo. Scaturente dalle enadi gli apparve il piano della « mente » come un dominio indicibilmente diviso in tre livelli: al gradino più basso, quello delle pure intelligenze che fanno da cerniera tra l'es­ sere e l'anima; nel mezzo, gli esseri che sono al contempo « intel­ ligibili » e « intellettivi » , che sono insieme forme di vita eterna e atti di pensiero assoluto ; al vertice i puri noetoi, gli « intelligibili » come supremi archetipi dell'essere stesso. E tutte quelle entità, pre­ senti nell'unica mente eterna, gli sembravano procedere per gruppi di triadi e di eptadi in corrispondenza di ciascun livello di attività e potenza. Al di sotto di esse, attraverso un'ulteriore moltiplicazione triadica, egli vide l'estensione multiforme delle divinità ipercosmi­ che ed encosmiche, delle forze che governano l'universo permanen­ do al di sopra di esso o in esso direttamente agendo. In quel plesso di esseri e potenze, colti nella contemplazione, Proclo riconobbe i volti degli dei omerici e orfici: volti e nomi che si rifrangevano da un piano all 'altro, nello specificarsi delle funzioni corrispondenti ai di­ versi livelli. Zeus apparteneva ali' eptade degli dei intellettuali come pura attività di pensiero, e tuttavia una sua rifrazione operava come forza demiurgica fra le triadi ipercosmiche, così come un suo ulte-

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riore riflesso si esprimeva tra le potenze planetarie. E così era anche per le altre figure del pantheon trasmesso dalla tradizione antica. Il prodotto della theorfa sembrava così concretarsi in un tracciato di linee che, discendendo, si ramificavano ad albero e insieme si inter­ secavano nell 'unitaria formazione dei mondi. Solo una rappresen­ tazione grafica poteva rendere intelligibile quella serie di connessio­ ni e di reciproche dipendenze che i testi di Proclo evocavano con ipnotica suggestione immaginativa. Se la scrittura di Plotino voleva comunicare la vibrazione di un'anima veggente e l 'esperienza dell'e­ stasi, quella di Proclo voleva essere una sorta di guida attraverso ogni singolo nodo di quella magnifica rete in cui l 'essere intero si era svol­ to. Occorreva ripercorrere avanti e indietro tutti i luoghi di quella costruzione, salirne e scenderne i piani, sostare a ogni stanza e quindi passare alla successiva. Un esercizio di pensiero e di immaginazio­ ne che invitava a riprodurre e imprimere nella propria anima ogni dettaglio di quell'architettura labirintica. Solo così, solo divenendo abitatori esperti di quell'edificio, si sarebbe potuto, a propria volta, giungere al medesimo traguardo : trasformare il grafo dell'essere in visione vivente. I cosiddetti teatri della memoria, messi a punto dagli ermetisti rinascimentali, funzioneranno nello stesso modo, riprodu­ cendo l'ordinato assetto del cosmo, affinché l'anima e la mente si immedesimino in esso. Il vertice iniziatico è, tuttavia, rappresentato dal conseguimento delle virtù « teurgiche » . Non si tratta più solo di contemplare e di conoscere, ma di « operare » , unificandosi agli dei e assimilando la propria « attività » e la propria « energia » a quella dei supremi principi della realtà : théion érgon - giusto l'etimo già esaminato di teurgia - è « opera divina » , « atto » che discende dalla dimensio­ ne sovraumana e che, al contempo, rende l ' iniziato capace di agire in modo analogo alle potenze sovrane del tutto, cooperando con esse all'armonia e alla felicità dell'universo. Come scriveva Olim­ piodoro, un altro maestro del tardo neoplatonismo, questo plesso di virtù - da lui definite « ieratiche » o « sacre » - appartengono e si destano « nella parte deiforme dell'anima » : « Esse superano tut­ te le altre precedenti virtù. Mentre queste ultime s' inscrivono nel

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dominio dell'essere, le virtù ieratiche uniscono a un'entità superiore all'essere stesso. Fu Giamblico a farle conoscere, ma Proclo le espose in modo più perspicuo » '8• Nella narrazione biografica di Marino, l'approssimazione a tale livello è associata, anzi tutto, alla lettura di due raccolte in cui - come si è già accennato - i segreti dell' intera teologia si trovavano sintetizzati in versi di suprema densità « misti­ ca » e « simbolica » . Da un lato, l'ampia messe dei Poemi e delle Teo­ gonie Orfiche con la loro articolata sequenza di episodi mitici ove, come in una vasta tessitura di « enigmi » , si adombrava la genesi della realtà nei suoi diversi piani, indicando allo stesso tempo la via per percorrerli a ritroso : « Gli adepti di Orfeo, resi perfetti da Dio­ niso e Kore - annotava lo stesso Proclo -, ottengono di abbando­ nare il ciclo delle nascite » '9• Dall'altro, il tesoro dei Logia, com'era­ no semplicemente denominati: quegli « Oracoli » cui fu associato l'aggettivo di « caldaici » , poiché sembrava che in essi lo spirito della tradizione platonica si incontrasse e si fondesse con l 'eredità immemoriale di una sapienza sorta nel Vicino Oriente, nella terra dei Caldei e dei Babilonesi. Ed erano Logia, « Oracoli » perché quei versi - formulati in esametri al pari dei responsi di Apollo a Del­ fi - erano frutto di enthousiasmos, di « possessione divina » : espe­ rienze di trance e visioni ispirate, concesse dagli dei stessi, perché i mortali potessero elevarsi al di sopra del dominio bruto della neces­ sità e della materia. Lo studio e la meditazione attenta di entrambe le raccolte erano già, di per sé stessi, un primo gradino del lavoro iniziatico in senso teurgico : tali erano la potenza e la suggestione delle immagini, che si imprimevano nell'anima, non solo solleci­ tando connessioni intuitive, ma anche predisponendo al destarsi di un ulteriore stato. Non stupisce, pertanto, il fatto che Proclo abbia dedicato cinque anni di intenso lavoro al loro sistematico e insieme analogico commento : compose ben settanta « tetradi » di scritti specificamente dedicati alla sapienza caldaica, così come disseminò le altre sue opere, centrate su Platone, di riferimenti e di allusioni a tali versi oracolari. Del pari indefessa e costante, nel tempo, fu la sua frequentazione dei poemi orfici cui dedicava ampio spazio nelle le­ zioni dirette ai suoi discepoli più avanzati. Anche su di essi avrebbe voluto scrivere un commentario sistematico, ma un sogno lo trat-

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tenne ripetutamente da tale intento. Gli compariva il suo defunto maestro Siriano che, ammonendolo, lo distoglieva dal progetto. Forse perché Siriano stesso, mentre era in vita, aveva già composto un'ampia e illuminante esegesi di quei testi, che rimaneva in qual­ che modo insuperata. E Proclo, dunque, si limitò, saggiamente, ad aggiungere annotazioni e scolii interpretativi a quanto il maestro aveva già compiutamente illustrato. Ma lo studio e la meditazione erano, ovviamente, solo la premessa di una dimensione operativa nella quale tutti i principi e gli insegna­ menti dovevano diventare pratica agita ed efficace : «Attendendo a tali attività, egli acquisì una virtù ancora più grande e perfetta [ . . ] . In tal modo, egli non si limitava più al livello della contemplazione, non viveva più utilizzando solo una delle due proprietà specifiche degli dei, accontentandosi cioè di esercitare unicamente l'attività in­ tuitiva della mente e di accostarsi, con essa, agli esseri superiori. Ora, poteva esercitare un'attività superiore alla mente, prendendosi cura anche delle realtà inferiori secondo il modo che è proprio degli dei, e non secondo la dimensione politica di cui si è già parlato » 40• Il conseguimento del livello teurgico comporta non solo la transizione dell' iniziato alla forma di vita più alta, ma anche l'acquisizione di un vero e proprio potere « demiurgico » che è in tutto simile alla «provvidenza divina » : benefico potere di « cura » che sostiene e vi­ vifica tutte le « realtà seconde » . Far piovere, consentendo alla terra dell 'Attica di tornare a germogliare dopo che la persistente vampa del sole ne aveva disseccato ogni pianta; fornire profezie su cui orientare svolte e scelte decisive dell 'esistenza; strappare alla morte un malato che i medici, dopo aver tentato ogni genere di cura, avevano ormai dato per spacciato : sono, questi, alcuni esempi della mirabile e pro­ digiosa attività di cui Proclo divenne capace, come già Empedocle e altri grandi sapienti dell'età arcaica avevano fatto. Un'attività che possiamo definire, a tutti gli effetti, "terapeutica", perché dona salute e integrità a tutto ciò a cui si applica. I suoi tangibili effetti sono uno degli scopi della teurgia e insieme il segno evidente dello stadio di avanzamento raggiunto da ciascuno in essa. Ma, a tal fine, occorre impratichirsi dei « riti segreti » , occorre saper usare, nel giusto modo, tutti gli strumenti e i simboli che la .

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rituaria stessa esige per « congiungersi » alle potenze celesti e sovra­ celesti e - estremo traguardo - innalzarsi al piano delle « enadi » , rifrazioni divine dell 'uno supremo. Con l'aiuto e l a guida d i Ascle­ pigeneia, figlia del suo maestro Plutarco - il cui nome rinviava, per l'appunto, ad Asclepio, dio della medicina e di ogni salvifica tera­ pia -, Proda si impadronì progressivamente di ogni aspetto della pratica rituale. Ottenne ripetutamente l'epifania di Ecate, così come divenne esperto nell'uso delle « divine e ineffabili trottole » proprie della dea e necessarie a produrne le apparizioni. Elementi, questi, su cui merita soffermarsi per meglio cogliere alcuni aspetti essenziali dell 'esperienza teurgica. Dea della magia, signora della notte e della luna nelle sue differenti fasi, sovrana di spettri e di entità demoniche, venerata agli incroci delle strade, accompagnata nel suo apparire dall'ululare furioso dei cani: questa era stata, sin dalla più remota età arcaica, la poten­ te Ecate, cui la stessa Medea, maestra di filtri potenti e irresistibili incantesimi era devota. Nell 'universo caldaico, essa, tuttavia, si ca­ rica di diverse e più alte implicazioni. Madre feconda e, allo stesso tempo, vergine incontaminata - in modo simile all'egizia lside -, Ecate era la suprema mediatrice dei mondi superiori e inferiori. Come un incorporeo « imene » , come una noetica « membrana » , ella era collocata tra il «primo » e il « secondo intelletto » 4'. In altre parole, Ecate rappresentava il principio femminile interposto all'es­ sere e all'attività delle due supreme divinità maschili : da un lato, il «padre » o « mente paterna » , l' « uno » al di là di ogni cosa, scatu­ rigine di tutti gli archetipi della realtà ; dall 'altro, l' intelletto « de­ miurgico » , il dio che aveva il compito di presiedere alla genesi e al mantenimento del cosmo sensibile. Posta in mezzo a essi, Ecate li separava e insieme li connetteva, poiché era lei, come «potenza » 42 del padre, a trasmettere al secondo intelletto le forme necessarie a strutturare l'universo. Era lei a trasporre in molteplicità articolata e divisa il contenuto dell 'unificata « mente paterna » , così che quel molteplice archetipico potesse discendere nella materia attraverso la successiva azione del demiurgo. Il suo ruolo era in questo, per certi versi, analogo a quello che la femminile Binah, l' «Intelligenza » , la

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«Grande Madre » , avrebbe avuto nell'albero sefirotico della Kab­ balah, rispetto a Chokmah, il « Padre » , la suprema « Sapienza » , e a Chesed, l ' « Amore » che presiede ai successivi stati della creazione e della formazione. Se Chokmah è l'atto unitario del pensiero assoluto, Binah è ciò che articola tale potenza noetica nei termini necessari a ogni ulteriore piano di creazione, coordinandosi con Chesed che è libertà e grazia del produrre. Nei versi caldaici, Ecate è il « grembo fecondo » e « terribile » in cui si riversano e prendono « misura » le « idee intuite dalla mente del padre » 43: idee-forze archetipiche, simili a « folgori » di « fuo­ co inestinguibile », simili a uno « sciame » di api che ronzano nel « seno splendente » della dea44, perché sibilo e ronzio è lo sprigio­ narsi di quell'energia primordiale che prende forma e dà forma nella coagulante natura della dea, elemento passivo e recettivo tra le due menti che la circondano. La sua duplice orientazione non la costitui­ sce solo a necessario metaxu, a fondante « intermedio » fra il primo Padre e il Demiurgo, ma la pone anche come potenza sovrabbon­ dante che, come un centro, governa il passaggio tra essere e divenire, tra mondo ideale e universo della genesi. Amphiprosopos, « dal du­ plice volto » , è uno dei suoi più pregnanti epiteti, in modo analogo al latino Giano bifronte : Ecate, rappresentata nelle statue con torce accese in ambo le mani, « risplende da ogni lato e da ogni lato ha un volto [ . ] poiché - come spiegava lo stesso Proclo - riceve nel suo utero l'emanazione delle idee e, divenuta ricolma di vita intelligente, essa promana dalla sua essenza i canali della vita corporea, contenen­ do in sé stessa il centro della processione di tutti gli esseri » 41• Nell'e­ statica visione caldaica, duplice e differenziata è pure la sua figura, posto che l' immateriale divino, privo di dimensione, possa essere concepito come figura. Il « suo fianco destro » , là « dove le cartila­ gini s ' infossano nello sterno » , è come una fonte da cui « zampilla il fiotto dell'anima primordiale, che vivifica completamente la luce, il fuoco, l'etere e i mondi » 46• Perché lei è l 'origine dell'Anima mundi, che drden, « da cima a fondo » , « dall'alto al basso » , pervade e so­ stiene ogni cosa, come eterna forza di moto e di intelligenza, come « fluido » che diffonde calore e vita. Nel suo fianco sinistro, per con­ tro, « risiede la sorgente della perfezione, che permane tutta raccolta .

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nel proprio intimo, senza perdere la sua verginità » : come la candi­ da luna, Ecate illumina i mondi con il suo vivificante fulgore, ma con essi non ha alcun immediato contatto né da essi può essere in alcun modo contaminata, come una casta e immacolata vergine che preservi, nella più ascosa intimità, l ' intatta natura della sua areté, di quella perfetta « virtù » che è pre-condizione e originario fonda­ mento di ogni successivo generare47. Sul dorso della dea, infine, sta sospesa, in perfetto equilibrio, l' dpletos phusis, la « natura immen­ sa » 48, quella natura naturans che è origine di ogni vita corporea: dai quattro elementi - fuoco, aria, acqua e terra - a tutte le piante, agli animali e agli umani stessi. Quella forza che cresce e declina al ritmo della luna. Da tutto ciò si comprende la rilevanza assoluta che assume, per il teurgo, il privilegio di entrare in comunione con la divina « Signo­ ra » , che anima i mondi e li mette in reciproca comunicazione, con colei che rappresenta il « centro » 49 di ogni via che si protende tan­ to verso la dimensione superiore quanto verso quella inferiore. Pro­ gredendo nella sapienza rituale, Proclo riuscì a godere di phdsmata autoptoumena della dea: « apparizioni dirette » , « visioni faccia a faccia » di Ecate in un turbinare di luci intense10• Meraviglioso, ma anche terrificante è il momento in cui gli dei si muovono per mate­ rializzarsi, in forme ora stabili ora cangianti, dinanzi ali'operatore che, nel silenzio della notte, li abbia evocati con le formule e i riti appropriati: « La volta del cielo si oscura » , scompaiono le stelle, la luna si eclissa'' e la terra « sussulta » , come scossa da un terremoto, finché il bagliore di una folgore squarcia l'oscurità e un fuoco di­ vampa, come se scaturisse dagli « abissi profondi dell'universo » 11• Per quanto agognata possa essere l 'epifania e per quanto benigna possa dimostrarsi la dea al suo devoto, non è certo esperienza ano­ dina quell'autopsia, quel « faccia a faccia » con l' indicibile potenza della Madre dell'universo. Ci vuole cuore indomito, mente infles­ sibile e forza altrettanto potente per reggere l' incontro senza farse­ ne travolgere, per riuscire a « vedere » in quel fuoco, che, all' inizio, vortica « informe » , traendo poi dal suo seno una ridda di figure stordenti: è il corteggio di entità demoniche o spirituali che prece­ dono l'apparire tremendum etjàscinans di Ecate stessa. Per questo

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gli Oracoli nella loro saggezza preparano e guidano, con opportu­ ne istruzioni, chi, come Proclo, volesse accedere a tale esperienza : «Dopo aver pronunciato le formule, tu vedrai un fuoco che si leva a balzi nel flutto dell 'aria, simile a un bimbo, o un fuoco informe da cui scaturisce una voce, o ancora una luce abbagliante che si av­ volge a spirale attorno alla terra, un cavallo più splendido della luce stessa, o un fanciullo montato sul dorso veloce dell 'animale, un fan­ ciullo infuocato o coperto d'oro, oppure nudo, ritto sul dorso che scaglia dardi da un arco » 1l. Le manifestazioni potevano variare a seconda del momento in cui il rito era condotto e in rapporto alle condizioni dell'operatore stesso. Bimbi avvampati di fuoco, destrie­ ri lanciati al galoppo, nudità di giovani forme, dardi scagliati da in­ corporei archi sono i segni delle anime di cui Ecate si circonda: i morti prematuri, le vite stroncate prima dell'adultezza e delle noz­ ze, i giovani eroi periti nella furia della battaglia, nonché gli animali cari alla dea, che veniva rappresentata con capo teriomorfo di giu­ menta, di cagna e di lupa. Ma proprio il comparire di tali segni era prova che il rituale stava funzionando. Non restava che attenderne la culminazione. Non restava che continuare a fissare intensamente quel fuoco, ascoltandone la voce arcana, fino a che la dea non com­ parisse, dispensando il suo potere e la sua profetica sapienza. Come aveva sottolineato anche Giamblico, le epifanie divine, il prodursi delle luminose apparizioni degli dei recano benefici di inestimabi­ le valore : « La presenza degli dei dona salute al corpo, perfezione all 'anima, purezza alla mente e, per dirla in breve, ascesa di tutte le cose che sono in noi verso i principi a esse affini. Tale ascesa fa spa­ rire il freddo e ogni forza corruttrice, accresce il calore rendendolo più forte e potente, produce una perfetta proporzione in rapporto all'anima e alla mente, fa risplendere la luce di un'armonia intelligi­ bile e, per mezzo degli occhi, fa apparire alla vista dell 'anima come corpo ciò che corpo non è » 14• Strumento principe di Ecate era lo strophalos, la magica « trottola » . Ed era, appunto, facendola vorticare che Proclo era riuscito a pro­ vocare la pioggia e a produrre altri mirabili prodigi. Come spiega­ va Michele Psello nei suoi Commentari agli Oracoli11, tale oggetto,

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indispensabile all'operatività, era costituito da « una sfera d 'oro » : « Essa aveva al suo centro uno zaffiro e veniva fatta girare per mezzo di una cinghia di pelle taurina. In tutta la sua superficie, era ricoperta di simboli magici. Grazie a essa si compivano le invocazioni. Tali og­ getti venivano anche detti iunges, sia che la loro forma fosse appunto sferica oppure triangolare o di altro genere ancora. Facendo vorticare la trottola, gli operatori emettevano suoni indistinti o urla mostruo­ se [ . . . ] frustando l'aria. L' Oracolo insegna che quanto rende efficace il rito è proprio il suo movimento circolare, dotato di un' ineffabile potenza » . Circolare - come aveva illustrato il Timeo platonico - è il moto del tutto, nella duplice intersezione del cerchio del diverso e dell' identico. Non vi è quindi altro modo per agire sul cosmo che riprodurne il movimento, attivandone i simboli e le rispettive forze. Il segreto di tale attivazione è, peraltro, alluso dal nome alternativo dello strumento « ecatico » . All'origine, infatti, iunx era l'appellati­ vo di un singolare uccello, il cosiddetto « torcicollo » , dal piumaggio variegato e cangiante : la sua caratteristica più cospicua era la capacità di ruotare il capo in ogni direzione mentre il corpo restava fermo. Sempre irrequieto e mobile, non si stancava mai di girare la testa in avanti e indietro, agitando il piumaggio della coda ed emettendo un suono che gli antichi paragonavano a quello del flauto16• Un giorno, la dea Afrodite decise di servirsi del volatile per produrre un nuovo invincibile incantesimo d'amore : inchiodò il povero animale a una ruota e consegnò l'oggetto a Medea, affinché ella, facendolo roteare per mezzo di una corda, riuscisse ad ammaliare il cuore di Giasone17• Da allora iunx - noto anche come l' « uccello del delirio » per la sua perpetua agitazione - divenne simbolo della passione amorosa e fu usato nelle più potenti magie per indurre le anime a un altrettanto incontenibile furore erotico : suscitando repentine passioni o facen­ do ritornare amanti che si erano allontanati18, lo strumento ideato da Afrodite era in grado di avvicinare e unire ciò che era separato e distante. Da qui, assunta e trasposta nel sistema caldaico, la iunx diviene il mezzo che, in modo del tutto corrispondente, avvicina e unisce l'alto e il basso, stringendoli in forza d'amore : atto « seduttivo » che chiama la potenza divina, mettendola a disposizione del teur-

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go. Ma tale dinamica riposa su un presupposto ben più essenziale : iunges sono chiamate, in coerente continuità tra i piani dell'essere, le idee-forze scaturite dalla mente paterna e raccolte nel grembo di Ecate. Esse sono le divine « traghettatrici » 59, che, con la media­ zione della dea, trasmettono in ogni realtà inferiore i «pensieri » concepiti dall'unità del primo dio, facendo in modo che il cosmo sia un gioiello « cesellato di forme » . E, in tale moto discensivo, le iunges idee emettono, per l'appunto, un roizos, un sibilante « ron­ zio » 6 0, in tutto simile a quello prodotto dalla « trottola » . Così come traghettano verso l 'orizzonte materiale le forme archetipiche, le iunges, tuttavia, trasmettono anche le « formule magiche » indi­ spensabili per risalire al divino : anzi, sono esse stesse « formule » e « incantamenti » 6 '. Si delinea così una salda e vertiginosa conti­ nuità analogica che garantisce la certezza degli effetti, secondo il criterio proprio di ogni magia e di ogni teurgia: la sfera d'oro e di zaffiro, l 'uccello « delirante » di Afrodite, i legami irresistibili dell' éros, la forza del pensiero e delle idee, la vita primordiale che sgorga dal fianco di Ecate, le formule degli incantesimi, il tracciato dei simboli che costellano la trottola insieme al « cesello » delle for­ me impresse nella materia si saldano in un'unica enérgeia, in un'u­ nica « attività » - « energia » che plasma la realtà, così come i divini demiurghi hanno plasmato l 'universo. In quella lontana Babilonia, in cui la saggezza caldaica affondava le proprie radici, la sala del trono era ricoperta da un soffitto che rappresentava la volta celeste : in corrispondenza dei punti cardinali pendevano le alate raffigura­ zioni di quattro iunges d'oro, a suggellare simbolicamente la con­ nessione tra gli dei e il sovrano che, al centro della sala, garantiva la giustizia e l 'ordine della terra6 1• -

Nella sua intensa pratica, Proclo giunse alla certezza che la sua anima era un saldo anello della seird hermaiké, della « catena di Ermete » , come anche un sogno provvide a confermargli. E non poteva essere altrimenti: celeste mediatore tra piani inferiori e superiori, maestro di ogni segreto, signore del linguaggio e delle formule arcane, ispiratore di intuizioni fulminee e di azioni altrettanto istantanee ed efficaci, Ermete aveva, nei secoli, vegliato sui sapienti che avevano cercato la

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vera conoscenza e si erano sforzati di insegnarla agli uomini. Lo stes­ so Pitagora aveva, un giorno, compreso di essere la reincarnazione di uno dei figli prediletti del dio, così come Proclo capì che, in lui, abi­ tava l'anima un tempo appartenuta al pitagorico Nicomaco. Gli dei avevano sostenuto e guidato il suo destino, nutrendone le molteplici e progressive virtù: Atena lo aveva spronato alla philosophia, Apollo lo aveva irradiato della sua luce, Asclepio con i suoi figli Macaone e Podalirio gli avevano conferito poteri di guarigione, Ecate lo aveva condotto ai supremi livelli della teurgia. Ma una relazione particolare - una vera e propria philia, « ami­ cizia » - lo legava anche a Rea e a Pan63• Titana generata dal Cielo e dalla Terra, Rea era la grande Madre degli dei: identificata con l'asia­ tica Cibele, ella è « la sorgente degli dei intelligenti e delle divinità demiurgiche, che governano gli dei astrali del cosmo visibile, madre e sposa del grande Zeus [ . . . ] , sovrana dell' intera vita, causa di ogni generazione, immediata realizzatrice di ogni produzione » , come lo stesso imperatore Giuliano aveva scritto per celebrarla64• Proprio in virtù di tali poteri, la sua figura si accostava, nella ritualità caldai­ ca, a quella della stessa Ecatél, facendo facilmente comprendere la ragione dell' intensa philia che i teurghi avevano nei suoi confronti. Nella tradizione del mito, Rea-Cibele era legata da intenso affetto al bellissimo Attis. Accadde, tuttavia, che il giovane, benché prediletto e onorato dalla dea, si invaghisse di un'avvenente ninfa. Il clamoro­ so tradimento suscitò l' immancabile punizione divina, e Attis, nei boschi, perì evirato dalla zanna di un cinghiale. Favola simbolica e mistica in cui si cela l'arcano stesso della «processione » e della « ge­ nesi » di quella vita sensibile scaturente dal fianco di Rea-Ecate. Attis è, infatti, uno degli aspetti dell' « intelligenza demiurgica, che genera ogni cosa giungendo fino all 'estremo livello della materia » , e la sua « castrazione » mortale non fa che segnalare il limite necessario e inoltrepassabile dell'atto generativo : « Per opera della provvidenza demiurgica, la genesi è contenuta entro un numero delimitato di for­ me » , compiute le quali il « vigore » di Attis dilegua e il suo potere è richiamato in alto, presso la sua divina madre e amanté6• Non sor­ prende, pertanto, come Proclo non solo fosse devoto alla dea, ma le avesse anche dedicato un' intera opera, continuando a meditare su

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quelle dinamiche così essenziali tanto per la nascita del cosmo sensi­ bile quanto per lo sviluppo dei poteri teurgici operanti su di esso. E in rapporto al cosmo si coglie ancora la particolare ragione del culto di Pan, il cui nome è, giustappunto, espressione del « tutto » , di quel meraviglioso « universo » vivente, celebrato dal Timeo platonico e onorato dagli Orfici, come Proclo ben sapeva: « Cielo e mare e ter­ ra di tutto sovrana e fuoco immortale » sono « membra » del dio, « genitore di tutte le cose, signore del mondo, potere di crescita e dispensatore di luce » 67• In questa continua koinonia, in questa « comunanza » con il divino, che scandiva i suoi giorni, Proclo aveva compreso, con una sicurezza che oltrepassava il ragionamento, come tutti gli esseri superiori fos­ sero ricolmi di « bontà, sapienza e bellezza » di cui gli umani posso­ no nutrirsi, accendendo in sé stessi il fuoco della pistis, dell' alétheia e dell ' éros, della « fede » , della « verità » e dell' « amore » . Sono, questi, d'altro canto, i principi stessi su cui si fonda l'accrescimen­ to delle « virtù » superiori perseguite dal filosofo teurgo : «Tutte le cose - annotava Proclo - sono conservate attraverso tali elementi e si uniscono alle loro cause originarie, le une attraverso il delirio dell'a­ more, le altre attraverso il desiderio della conoscenza, le altre ancora per mezzo della potenza teurgica, che è superiore a ogni sapienza e a ogni scienza umana, in quanto racchiude in sé stessa [ ... ] tutti gli ef­ fetti prodotti dalla divina possessione » 68• Sublimi energémata, « ef­ fetti » ottenuti in uno stato di « esaltazione » della mente e dell'ani­ ma. Null'altro che questo è, infatti, la divina mania: una condizione d' intensità straordinaria che supera ogni altra ordinaria attività della psuché. Ed è proprio in questa esaltazione - in cui fede, amore e ve­ rità si fondono - che si produce quella sustasis, quella « congiunzio­ ne » con il divino, di cui Proclo giunse a goderé9• Tuttavia, il dono della sustasis, che consente di « curare » il mondo insieme agli dei e attraverso la loro stessa potenza, non costituisce il termine ultimo del lavoro teurgico. L'obbiettivo sommo dell'operatore, il culmine della sua iniziazione è dato, invece, dall' agogé, dall ' « elevazione » suprema, che conduce stabilmente l'anima in seno agli dei, affran­ candola per sempre dalla natura inferiore e ponendola al di sopra

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del fato. In virtù di essa, come sottolineano gli Oracoli7°, i compiuti teurghi « non ricadono più nel gregge sottomesso al destino » , nel gregge insensato e ottuso dei comuni mortali, sprofondati nell'oscu­ rità della materia. È questa, d'altro canto, la sezione più riservata e protetta della dottrina e della rituaria caldaica. Ne è esempio, fra gli altri, la circo­ spetta cautela dell ' imperatore Giuliano che, al pari di altri neoplato­ nici, aveva di essa compiuta esperienza: « Se toccassi la segreta mista­ gogia di cui il Caldeo ha parlato nel linguaggio dell'estasi a proposito di quel dio [ . . ], grazie al quale egli riusciva a far ascendere le anime, rivelerei cose ignote, soprattutto alla plebe, ma ben conosciute dai beati teurghi, e quindi manterrò il silenzio » 7'. Se il preciso svolgersi dell ' agogé e i dettagli indispensabili di ogni sua fase non sono ogget­ to, per tali ragioni, di diffusa descrizione, alcuni cenni sparsi nei testi permettono, tuttavia, di afferrarne le linee essenziali e la dinamica complessiva. Ed è lo stesso Proclo a disseminare, nei suoi commenta­ ri platonici, preziose e illuminanti indicazioni, che, associate ai cen­ ni reticenti di Giuliano e ai lacerti di papiri magici, concorrono ad abbozzare un quadro che ogni cercatore, come avviene da sempre, dovrà poi completare da sé. Come in ogni percorso iniziatico tradizionale, la reintegrazione nel divino non può che essere preceduta dal passaggio attraverso la morte, attraverso l'abbandono e la disintegrazione della compagine terrena. Nella sua Teologia platonica, Proclo metteva in stringente parallelo l'ascesa delle anime all' iperuranio, descritta nel Fedro, con il «più segreto dei riti teurgici » , in cui l' iniziando veniva calato in una fossa e progressivamente coperto di terra, come fosse un defunto che andava sepolto. Il suo « io » ordinario e la sua fisicità doveva­ no essere uccisi: quel corpo con cui s' identificava doveva, a tutti gli effetti, diventare un cadavere inerte da restituire alla terra. Un vo­ lontario e deliberato suicidio « mistico » - esperito con un rituale tanto impressionante quanto traumatico - per affrancare l'anima dai suoi vincoli. Solo il capo restava, alla fine, scoperto, emergendo dalla sepoltura, libero di volgere lo sguardo nell'aria in direzione del cie­ lo : l' involucro rotondeggiante del cranio - cui il vertice della psuché era stato connesso all'atto dell' incarnazione - era la parte che più .

' IL SIMBOLO NELL ANIMA

somigliava alla perfetta forma sferica dei corpi astrali e del mondo intelligibile. Era quella la meta cui dirigersi, così com'era quella la componente superiore che andava liberata dal residuale guscio che la tratteneva. I teurghi sapevano, al pari di Platone, che « solo essendo puri e non sepolti in questa tomba che ci portiamo appresso e che chiamiamo corpo» possiamo «partecipare alla più beata delle ini­ ziazioni » 7'. Non restava dunque che proseguire oltre. Preso definitivo con­ gedo dalla pesantezza opaca del soma terreno - simbolicamente dis­ solto nei suoi elementi costituitivi - occorreva che l'anima trovasse la forza necessaria per ascendere. Nella parte successiva del rito bi­ sognava « dinamizzare » la psuché e il suo corpo astrale al massimo grado della loro potenza73, affinché, in modo rapido e sicuro, essi potessero attraversare i piani della realtà, in vertiginoso volo verti­ cale, fino a toccare il livello più alto consentaneo alla loro essenza. Alcune delle operazioni necessarie a tale fine erano misticamente alluse da una celebre scena posta nella parte finale dell'Iliade ome­ rica. I teurghi leggevano quei versi composti in età arcaica dal cieco cantore come un'espressione simbolica dei loro stessi procedimenti: formulazione cifrata di una sapienza ancora più antica di Omero. Proclo ne aveva appreso il significato dal suo maestro Siriano che, un giorno, aveva commentato, nella loro pregnanza iniziatica, i detta­ gli compresi nella narrazione epica dei solenni funerali di Patroclo. Quando gli agoni in memoria del defunto si erano conclusi, Achil­ le aveva deposto il corpo esanime dell'amato compagno sulla pira funebre. Lo aveva interamente cosparso, dalla testa ai piedi, con il grasso di pingui pecore e di buoi sacrificati in suo onore, perché più rapidamente le spoglie ardessero nella fiamma. Tutt 'attorno, egli aveva posto anfore di miele e di olio. E ancora aveva sgozzato due cani e, insieme a essi, dodici prigionieri troiani, gettando tutti quei corpi sulla catasta destinata a un immane rogo. Aveva ordinato, in­ fine, di appiccarvi il fuoco. Ma la pira non riusciva ad ardere. Allora Achille, con felice ispirazione, prese a pregare Zefiro e Borea, signori dei venti e dell'aria, perché essi venissero e l ' incendio potesse divam­ pare, consumando, fino all'ultimo residuo, quelle spoglie mortali. In risposta ali' intensa e devota supplica, «i venti infine si levarono

VIRTÙ E VITA TE URGI CA. PRO CLO

1 49

con immenso fragore [ ... ] e si avventarono sulla pira, dove la fiamma divina crepitò con violenza. Tutta la notte, essi aizzarono il fuoco al sibilo dei loro soffi e, tutta la notte, Achille attinse vino da una coppa d'oro e lo versò a terra, chiamando l'anima di Patroclo » 74• « Tutte le azioni » compiute dall'eroe - annotava Proclo, ripetendo la lezione di Siriano75 - « imitano » velatamente alcuni precisi passaggi dell'a­ pothanatismos teurgico, di quella pratica di « immortalizzazione » che, per così dire, fissava definitivamente la natura e la sorte della psuché nell'eternità della vita divina. Lo spirare violento dei venti, il loro sibilare protratto per l ' intero tempo notturno non sono che l' « appropriato trattamento » di una purificazione definitiva, affin­ ché l'anima e il suo corpo astrale si possano levare in volo, guidati dalle forze traenti dell'aria, della luna e del sole. Le invocazioni ripe­ tute da Achille senza interruzione sono potenti formule « ieratiche » che, proprio in virtù della tenace e incantatoria ripetizione, « chia­ mano » la psuché fuori dalla materia, aiutandola a divincolarsi dalla stretta soffocante della natura inferiore. La preziosa coppa d 'oro è immagine di quel « cratere » in cui il demiurgo aveva prodotto l'ani­ ma del mondo : « simbolo della sorgente » celeste la cui fluida e invi­ sibile sostanza è versata a « terra » per donare a ogni anima incarnata « il fiotto di una vita superiore » e, con esso, il potere di ritornare efficacemente all'origine. Le giovani vittime immolate sul rogo sono dodici quante le costellazioni zodiacali del cielo e le processioni degli dei che guidano i cori delle anime alla contemplazione dell'essere : un invincibile corteggio di potenze, che deve scortare la psuché nel suo viaggio oltre i confini della natura sensibile. Cadaverizzazione rituale, catarsi dell'aria, incantamenti e scon­ giuri liberatori, connessione con la sostanza animica universale, ri­ chiamo sacrificale di un cerchio di forze propizie e protettrici. Quan­ to ancora doveva compiersi nel vertice notturno di quest'ultima iniziazione balena, qua e là, nelle parole degli Oracoli che, con icastici cenni, lasciano cogliere la culminazione dell' agogé. Ormai consuma­ ta ogni scoria mortale - come in quel rogo che divora interamente i resti di Patroclo -, l'anima del teurgo si scioglie dai suoi lacci e torna a espandersi come una vela riempita dal vento. « Coloro che spin­ gono fuori l'anima - istruiscono gli Oracoli - e le fanno riprendere

' IL SIMBOLO NELL ANIMA

il suo respiro sono prossimi a liberarsi » 76• Nel ritmo segreto di una respirazione incorporea, la psuché prende a inalare un « soffio infuo­ cato » che la rende « leggera » , infondendole sottigliezza e vigore al di là di ogni possibile immaginazione77• Concentrandosi, essa ritro­ va l' ochetos, il « canale » 78, per cui era discesa nel corpo, e, adesso, imboccandolo all' inverso, lo risale, sostenuta dai « raggi » del sole divino che l'attirano irresistibilmente verso il sospirato «porto » del Padre. Scintille del divino Eros che tutto connette, luce di Aion, che è eternità di vita, folgori della « monade paterna » , correnti vitali di Ecate : tutto la sorregge e le viene incontro nel suo innalzarsi attra­ verso i mondi, mentre, come a cavallo di un rapido destriero, essa tende le sue « redini infuocate » 79• Ed ecco che, allora, l'anima stessa diviene fiamma e ardore che divampa: splendore abbagliante, come il regno divino verso cui si slancia, pura e assoluta incandescenza di fuoco che si mescola a fuoco. Interamente « rivestita di luce » , « ar­ mata di forza » , come un guerriero vittorioso80, come un atleta che si approssima al traguardo, ella, allora pronuncia, nell'abisso del suo intimo silenzio, la parola ineffabile della reintegrazione suprema: il simbolo del proprio sé che si ricongiunge, per sempre, con la natura divina. Nella lucida ed esaltante ebbrezza della propria virtù teurgi­ ca - là dove il « fiore » dell'anima sboccia in aureo fulgore di po­ tenza intuitiva e in intensità di unità perfetta - Proda, che tutto aveva sperimentato e ottenuto, non poté che ripetere ad altri l' invito a quella culminazione iniziatica. A tutti coloro che fossero in grado di intendere in ogni tempo a venire, egli rivolse, suggellando il pro­ prio commento agli Oracoli, il monito imperituro della tradizione : « Corriamo verso il calore, rifuggiamo il freddo. Diventiamo fuoco e attraverso il fuoco si compia il nostro viaggio. Libera dinanzi a noi è la via dell 'ascesa. Il padre ci guida, dispiegando cammini infuocati. Non disperdiamoci nel misero flutto dell'oblio » , nella dimentican­ za di ciò che davvero siamo e possiamo diventare8'.

Epilogo in forma di inno

«Togli tutto » aveva detto Plotino. « Percorri le vie ieratiche » era stato l ' invito di Giamblico e Proclo. Entrambe le indicazioni erano, al fondo, un modo di rispondere, nella maniera più radicale, al moni­ to del dio di Delfì e alla ricerca cui Socrate aveva invitato Alcibiade. Le differenti inflessioni dottrinali, che appaiono nei testi, sono, nella loro sostanza vitale, differenze di natura e di inclinazione. Ognuno parte dal punto e dal contesto in cui si trova. Ognuno lavora la ma­ teria della propria anima, addentrandosi nel sentiero che più appare, da principio, consentaneo alle caratteristiche individuali. Ma l'asce­ si del pensiero, che procede per eliminazione e semplificazione, così come l'applicazione intensiva alle pratiche rituali, che opera con la forza dei simboli, si incontrano nel medesimo punto, sulla soglia di quell 'uno con cui, se mai sia possibile, si coincide per fuoco d'amo­ re assoluto. Nell 'attesa può essere propizio farci un quotidiano « in­ cantesimo » , come il Socrate platonico raccomandava', rileggendo ad alta voce e rimeditando interiormente tre testi che richiamano il senso e la direzione del percorso sin qui delineato. Il primo deriva da una Sentenza di Porfìrio che, alla sua maniera, riformulava l' insegna­ mento del maestro nella relazione tra il piccolo « io » individuale e il grande tutto. Il secondo è uno degli Inni che Proclo compose come parte essenziale della sua quotidiana pratica teurgica. Il terzo è frutto della poesia orfìca, che celebra, nell ' immagine dell'uovo, l'unità asso­ luta e primordiale, da cui, un giorno, scaturì, in un turbinare di venti, l'androgina natura di un dio dai molti nomi: Phdnes, il «Lumino-

' IL SIMBOLO NELL ANIMA

so» , Protogonos, il « Primo Nato» , Eriképaios, il « Datore di vita » , colui che diede avvio alla genesi del mondo. Ma egli è anche Priapo, il signore del fallo e dell'energia sessuale, è anche Amore, il grande « mago » •, che tutto avvince e tutto libera. L'antico testo suggeriva di recitare i versi bruciando la resina dolce e suadente della mirra. Se non cerchi nulla, riposando in te stesso e sulla tua essenza, tu ti rendi simi­ le al tutto, senza rimanere più impigliato in alcuna cosa che da esso deriva. Non dici più « lo sono tanto grande >> , perché hai abbandonato quel « tanto grande >> e sei diventato tutto. Certo, anche prima, eri tutto, ma oltre al tutto c 'era in te qualcos 'altro, un'aggiunta che ti rendeva piccolo, perché non derivava dall 'essere : all 'essere nulla si può aggiungere. Chi nasce dal non essere, non è tutto : la povertà lo affiigge e ha bisogno di ogn i cosa. Ma se abbandona il non essere, allora è tutto, ed è pienezza di sé stesso. Se lascia andare tutte quelle miserie che lo avviliscono, allora egli ritrova sé stesso, proprio quando credeva che quelle piccole cose fossero lui e non sapeva chi fosse. Perché si era allontanato da sé e insieme dall 'essere. Ma se rimane in sé stesso ed è presente a sé stesso presente, allora è presente anche all 'essere, perché questo è ovunque'. Ascoltatemi, dei che governate la santa sapienza, voi che avete acceso il fuoco dell 'ascesa, voi che elevate agli immortali le anime umane purificate dai misteri ineffabili dei vostri inni, lontano dai tenebrosi recessi della caduta. Ascoltatemi, dei della grande salvezza, concedetemi, dai sacri libri, una pura scintilla di luce, una scintilla che dissolva la nebbia: un chiaro segno che un dio immortale dall 'uomo distingua. Che mai un demone nefasto mi sommerga nei flutti dell 'oblio, spegnendo il ricordo dei beati. Che mai un gelido castigo m' incateni quaggiù : fredde sono le onde della nascita, la mia anima non vuole più a lungo vagare. S ovrani della fiammante sapienza, rivelate i m isteri, rivelate i riti delle sacre parole a chi si affretta sul sublime cammino•. lo ti invoco, Protogono, primo nato dall 'androgina natura, tu, immenso, vagabondo dell 'etere, uscito dall'uovo, gioia di ali dorate, dalla voce di toro, tu, origine dei beati,

E PILO GO IN FORMA DI INNO

padre degli uomini, seme glorioso, orgia di sacri riti, signore della vita, suono sibilante, ineffabile e occulto, germoglio di luce, che hai dissipato ogni caligine dagli occhi, nel vortice cosmico delle tue ali, splendore santo, io ti invoco : tu Luminoso, tu Priapo signore, tu Occhio lucente. O beato, dalle mille astuzie, essere fecondo, vieni con gioia al rito sacro e sottile dei tuoi iniziati�.

1 53

Note

Premessa 1. P. P. Pasolini, Per il cinema, vol. 1, Mondadori, Milano 1.001, p. I l74· l. C. G. Jung,

Il libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino 1.010, p. li7 (Liber secun­

3· R. Steiner,

Natura e scopi della massoneria, Editrice Antroposofìca, Milano

dus, 1.0 ) .

1.0 1 4 , P · 9 3 · 4· E. Laszlo,

Risacralizzare il cosmo. Per una visione integrale della realtà, Feltri­

nelli, Milano 1.0 1 9, p. 1 0 5 .

S· M. Foucau!t, Le parole e le cose, Rizzol i , Milano 1 970, p. 4 1 4 . 6. Laszlo, Risacralizzare il cosmo, cit., p. I l i .

I

Al centro di sé e del mondo. Tra Delfi e Platone 1. Pausania,

Guida della Grecia w, s.

l. lvi IO,l4. 3 · Porfìrio,

Conosci te stesso, fr. l73 Smith.

4· Eraclito, fr. 93 Diels-Kranz. S · Erodoto, Storie 1,9 1 . 6. Porfìrio,

Conosci te stesso, fr. l7 3 Smith.

7· Pindaro, Nemee 6,1-5. 8. Cfr. Archiloco, frr. 1 3 1 - I 3 l; Alcmane, fr. 1,37-3 9 ; Pindaro,

Olimpiche l,3 3-34; Bacchilide, Epinici 3 ,75-84; Sofocle, Edipo re 977-979; Euripide, Alcesti 7 8 0 - 7 9 0 e Eracle sos- S I S ; Erodoto, Storie 1,3l e 1.07. 9· Cfr. Pindaro, Istmiche 5 , 1 6 ; Eschilo, Persiani 8l7-8l8 ; Sofocle, Trachinie 47 3 ; Euripide, Alcesti 799 e Baccanti 3 9 6.

' IL SIMBOLO NELL ANIMA

IO. Erodoto, Storie 7,IO. II. Porfìrio,

Conosci te stesso, fr. 2.74 Sm ith.

12.. Eraclito, fr. 12.0 Diels-Kranz. 1 3 . Eschilo, Prometeo 309. 1 4 . Platone,

Carmide 1 6 4 d- 1 6 5 a . 1 5 . Porfìrio, Conosci te stesso, fr. 2.7 3 Smith. 1 6. lvi, frr. 2.73-2.74.

17. Platone, Apologia 3 0 a. 1 8. Platone, Fedro 2.30 a. 19. Platone, Alcibiade Maggiore I 0 5

c.

2.0. lvi I05 d-e. 2.1. lvi II 6 d-e. 2.2.. lvi I I 8 b. 2.3. lvi 1 2.3 d. 2.4. lvi 12.4 b. 2.5. lvi 1 2.7 d. 2.6. lvi 1 2.8 d. 2.7· lvi 1 2.8 e. 2.8. lvi 130 e. 2.9. lvi 132. c. 30. lvi 1 3 3 a. 3 1 . lvi 1 3 3 b. 32.. lvi 1 3 3 c. 33· lvi 135 e. 34· Anonimo, Prolegomeni allafilosofia di Platone 2.6. 35· Platone,

Timeo 3 5 d-e.

3 6. lvi 3 6 b-e. 37· lvi 9 0 d. 3 8. lvi 9 0 a. 39· lvi 36 e. 40. Platone, Parmenide 1 3 6 a. 41. lvi 135 d. 42.. Platone, Lettera settima 341 c-d, 343 b. 43· Plotino, Enneadi 5,1,8.

2 Il viaggio nella mente. Platino 1. Plotino, Enneadi 6,4,14. 2. . lvi I,1,9. 3 · lvi 6,7,41.

NOTE

4· O mero, Iliade 1,197-:too. S· Plotino, Enneadi 6,p. 6.

Ibid.

7· lvi s,3,9. 8. lvi 6,4,14. 9· I O.

Jbid. Ibid.

I I. lvi I, I, I I . I L Eraclito, fr. 7 3 Diels-Kranz. I 3· Plotino, Enneadi 4,8,I. I 4 . lvi 3,6,6. IS. lvi 4,8,I. I 6. lvi 3,6,s. I7. lvi 6,7,36. I 8. lvi 6,9,4. I 9 . lvi 5,3,I7. w.

lvi 3,8,8.

li. lvi 3,8,10. ll. :t3.

Jbid. Ibid.

l4. lvi 4,8,6. lS. lvi 4,3,9· :t6. lvi 3,8,1. l7. lvi 3,8,3. :t8. lvi 3,8,7. :t9.

Ibid.

30. lvi 3,8,4. 3 1 . lvi 3,8,6. 31.. lvi 4,3,I l . 3 3 · lvi 4,8,8. 34· lvi 3,4,3; 4,6,3 ; 6,7,6. 3S· lvi 4,4, I 6 ; 4,6,3. 3 6 . lvi 6,7,7. 37· lvi 4,3,4; 4,3,8. 3 8 . lvi 6,7,6. 39· lvi 6,9,8. 40. lvi s,8,I3. 41. lvi I,4,10. 4l. Ovidio, Metamorfosi 3 , 4 6 3 . 43· Plotino, Enneadi I,6,8. 44· lvi 6,:t,n. 4S· lvi 3,8,6.

1 57

158

' IL SIMBOLO NELL ANIMA

46. lvi 5,8,2. 47· lvi 1,6,8. 48. lvi 1,6,7. 49· lvi s,8,9. so. lvi 6,s.s . 5 1 . lvi 6,7, 1 5 . 5 2 . lvi s . 8 , 4 . 5 3 · lvi 5.9,10. 54· lvi 6,7, 1 2 . 55·

Ibid.

s6. lvi 1,2,s-6. s 7· lvi s,8,6. s8. Platone, Repubblica 611 d. 59· Platino, Enneadi 1,6,9. 6o. lvi 1,6,7. 6 1 . lvi 1,6,9. 62. lvi 6,7.33. 6 3 . lvi 3 ,7,5 · 64. lvi 1,6,8. 6s. lvi s.3 n ; s.s.s ; s.s ; 6,8,19. 66. lvi 5 , 8,10. 67.

Jbid.

6 8 . lvi s.3.I?· 6 9 . lvi 6,7,36. 70. lvi 6,9,9. 71. lvi 6,9, 1 1 . 72. lvi 6,9,10. 73· lvi 6,9,1 1 . 74· Porfirio,

Vita di Plotino 1 4 .

7 5 · lvi 1 3 . 7 6 . lvi 22.

3

Intermezzo simbolico. Materie, segni e miti 1. Platone,

Timeo 3 0 b, 37 d-e.

2. Eraclito, fr. 124 Diels-Kranz. 3· Platino, Enneadi 2,p. +· lvi 4.4.32. 5 · Sinesio, I sogni 2. 6. Porfirio,

Sull 'animazione degli embrioni 1 1 .

1 59

NOTE

7· Plotino, Enneadi 4,4,33· 8. Sinesio, I sogni 2.. 9· Proclo, Arte ieratica 148. IO.

Ibid.

1 1 . Proclo, Elementi di teologia I 4 S · I 2. .

Oracoli caldaici, fr. 1 0 8 des Places.

I 3 . Giamblico, I misteri egizi I,2.I. I 4 . lvi I,Is. I S . Proclo,

Commento al Timeo I,2I0 - 2 I r . Oracoli caldaici, fr. 37· I 7. Giamblico, I misteri egizi 2.,9. I 6.

I8. lvi I,Is. I 9 . lvi w,s. 2.0. lvi I,I2.. 2.I. Olimpiodoro,

Commento al Fedone 8,2.2..

2.2.. Giamblico, I misteri egizi 5.2.3-2.4. 2.3. Proclo, Arte ieratica I S O. 2.4. lvi I S I . 2. s . Giamblico,

I misteri egizi 3 , 1 3 ; Porfìrio, L afilosofia degli Oracoli frr. 2. 4 8 , 2SO

Smith.

2.6. Proclo,

Commento alla Repubblica 2.,2.46-2.47· Commento al Cratilo S I . 2. 8 . Demetrio, Sullo stile 7 I ; Giamblico, Teologia dei numeri I 2. - I 8 , s 6 -S7· 2.9. Proclo, Commento al Cratilo 7 I ; Michele Psello, Commento agli Oracoli cal­ daici 1 1 3 3 a. 30. Oracoli caldaici, fr. I S O des Places. 3 I . Giamblico, I misteri egizi 7,4. 32.. Ibid. 3 3 · Giamblico, Vita di Pitagora I2.2.. 34· Giamblico, I misteri egizi I,2.I. 3 S · Oracoli caldaici, fr. 104 des Places. 36. Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I,6 ; Marziano Capella, Le nozze di Filologia e Mercurio I,ws- w 8 ; 7,7 3 I -742.. 37· Proclo, Commento al Cratilo s6. 3 8. Platone, Repubblica 377 d. 2.7. Proclo,

39· lvi 378 b-e. 40. lvi 378 a. 4I. lvi 378 d. 42.. Plutarco, Iside e

Osiride 3S9 a. Papiro di Derveni 7· 44· Salustio, Sugli dei e il mondo 3· 4S· Pseudo-Eraclito, Allegorie americhe 76. 43·

160

' IL SIMBOLO NELL ANIMA

46. Porfirio, L 'antro delle Ninfe 4· 47· Proclo,

Commento alla Repubblica 1,77.

48. lvi 1,82-83. 49· S alustio, Sugli dei e il mondo 3 · so. Proclo,

Commento alla Repubblica 1,8o

5 1 . lvi 1,79. 52. lvi 1,83-84. 53· lvi 1,81. 5 4 · Cfr.

infra, p. 135.

SS· Proclo, Estratti dal commento allafilosofia s 6.

caldaica S ·

Oracoli caldaici, fr. 1 0 9 des Places.

s 7· lvi, fr. 11 o. sS. Proclo, Estratti dal commento allafilosofia caldaica 4· 59·

Oracoli caldaici, fr. 1 des Places.

4

Sogno e corpi sottili. Sinesio 1. Pindaro, fr. 1 3 1 . 2 . Platone, Fedro 2 4 6 a-25 6 e . 3 · Platone,

Timeo 41 e .

4 · Platone, Fedone 1 1 3 d . S · Platone, Leggi 8 9 8 a-8 9 9 a . 6. Plotino, Enneadi 4,3,15. 7· lvi 2,2,2. 8. lvi 1,6,7.

Oracoli caldaici, fr. 1 20. 10. Aristotele, La generazione degli animali 7 3 6 b, 744 a; Il moto degli animali 9·

7 0 3 a-b. 1 1 . Ermete Trismegisto,

Corpus Hermeticum I0,13.

1 2 . Sinesio, Lettere 154. 1 3 . Sinesio, I sogni, Premessa. 1 4 . lvi 3· 1 5 . lvi 1. ! 6.

Ibid.

17. lvi 1 3 . 1 8 . lvi 4· 1 9 . lvi 12. 20. lvi 1 2 - 1 3 . 2 1 . lvi 1 1 . 22. lvi 6 .

161

NOTE

23. lvi 9· 24. lvi IO. 25.

Lessico Suida a 4 4 1 1 .

2 6 . Platone, Fedro 250 c . 27. Sinesio, I sogni 4 · 28.

Ibid.

29. lvi 6. 30.

Ibid.

3 I . lvi 5 · 3 2 · Cfr. supra, p. 5 3 · 3 3 · Proclo,

Commento a Euclide 5 2 - 5 3 .

34· Sinesio, I sogni 6 . 3 5 · lvi 4· 36. lvi I3. 37·

Oracoli caldaici, fr. 118 des Places. I sogni 4 ·

3 8. Sinesio, 39· lvi 5 ·

4 0 . Proclo, 4I. 42. 43· 44· 45· 46. 47·

Commento alla Repubblica 2 , 1 1 9 . Giamblico, I misteri egiziani 3,I4. Proclo, Commento alla Repubblica I,39· Proclo, Commento all'Alcibiade So. Sinesio, I sogni 6. Ibid. Podìrio, Sentenze 29. Porfirio, L 'antro delle Ninfe IO.

48. Eraclito, fr. 36 D iels-Kranz. 49·

Oracoli caldaici, fr. I 6 3 . Sentenze 29. Sinesio, I sogni IO. Michele Psello, Commento agli Oracoli caldaici 1 1 3 2 a. lerocle, Commento ai Versi aurei di Pitagora 26. Sinesio, I sogni 8.

s o . Porfirio, SI. 52. 53· 54·

55· lvi IO. 56. lvi 7· 57· lvi 8. 58.

Ibid. Ibid. 6o. Ibid. 6 I . Ibid. 59·

62. Porfirio, Sentenze 29. 6 3 . Sinesio, I sogni 7· 64. Proclo,

Commento al Timeo 3,297-298.

' IL SIMBOLO NE LL ANIMA

6 5 . Sinesio, I sogni 9· 6 6. lvi I 4 . 67.

Ibid. Ibid. 6 9 . Ibid. 68.

70. lvi I 5 . 7 I . lvi I 7. ?l.

Ibid.

7 3 · lvi I8. 74·

Ibid. Ibid. 76. Ibid. 75·

77· Platone, Fedro l76 a-e. 78. Sinesio, J sogni lO. 79· Sinesio, Dione I I . 8 o.

Ibid.

8 I . Sinesio, I sogni lO. 8l.

Ibid.

s

Virtù e vita teurgica. Proclo I . Eraclito, fr. IO l Diels-Kranz. l. Plotino, Enneadi I,l,I 3· lvi I,l,7. 4· Porfìrio,

Sentenze 3l.

5 · Eraclito, fr. 1 1 4 Diels-Kranz. 6. Marino, Proclo l. 7· Platone,

Simposio l i 6 d-e. Vita di Pitagora 5-9. 9· Marino, Proclo 3 · 1 0 . Platone, Teeteto I 4 4 a-b. 1 1. Marino, Proclo IO. I l . Proclo, Teologia platonica I,I. 8. Giamblico,

I3. Cfr. CAP. I, p. 3l. I 4 . Marino, Proclo I 3 .

Teologia platonica 1,4. Platone, Fedone 6 9 d ; Marino, Proclo ll. Marino, Proclo I4. Porfìrio, Vita di Pitagora n. Platone, Fedone 65 a ss.

I 5 . Proclo, I 6. I 7. I8. I9.

NOTE

2.0. Marino, Prodo I9. Ibid. 2.2.. Ibid. 2.3. Giamblico, I misteri egizi 5,2.6. 2.4. Proclo, Commento al Timeo I,2.o6 ss. 2.5. Proclo, Arte ieratica I 48. 2.6. Ibid. 2.1.

2.7. Cfr. CAP. 3 , pp. 6 8 ss. 2.8. Proclo,

Commento al Timeo I , 2. I I .

2.9. lvi, 2. I 2. . 3 0 . lvi, 2. I 3 . 3 I. Eunapio,

Vite deifilosofi e dei sofisti s , I .

32.. Marino, Prodo 2.0. 33· Platone, Leggi 8 0 3 e. 34· Marino, Prodo 2.2.. 35· 36.

Ibid. Ibid.

37· lvi 2.5.

Commento al Fedone I,I44· Commento al Timeo I,2.97· 40. Marino, Prodo 2.8. 4I. Oracoli caldaici, fr. 6 des Places.

38. Olimpiodoro, 39· Proclo,

42.. lvi, fr. s6 des Places. 43· lvi, fr. 32. des Places. 44· lvi, fr. 37 des Places. 45· Proclo, 46.

Commento al Timeo 2.,I30. Oracoli caldaici, fr. S I des Places.

47· lvi, fr. 52. des Places. 48. lvi, fr. 54 des Places. 49· lvi, fr. s o des Places. so. Marino, Prodo 2.8. SI. Giamblico, I misteri egizi 2.,4. 5 2. .

Oracoli caldaici, frr. I 47- I 4 8 des Places.

5 3 · lvi, fr. I 4 6 des Places. 54· G iamblico, I misteri egizi 2.,6.

Commento agli Oracoli caldaici 1 1 33 a. Storia degli animali 504 a; Eliano, La natura degli animali 6,I9. 57· Pindaro, Pitiche 4,3 8 0 - 3 3 5 · s8. Teocrito, Idilli 2. , I 7 ss. 59· Oracoli caldaici, frr. 76-78 des Places. SS· Michele Psello, s6. Aristotele,

6o. lvi, fr. 37 des Places. 61. lvi, fr. 2.2.3 des Places.

' IL SIMBOLO NELL ANIMA

62.. Filostrato,

Vita di Apollonio di Tiana 1,2.5.

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Inni orftci n . Proclo, Teologia platonica 1,2.5. Marino, Proclo 2.8. Oracoli caldaici, fr. 1 5 8. Giuliano Imperatore, Alla Madre degli dei 1 2. . Proclo, Teologia platonica 4 , 1 9 ove si cita Platone, Fedro 2.50 c . Michele Psello, Commento agli Oracoli caldaici u 3 2. a. Omero, Iliade 2.3,2.1 2.-2.2.1. Proclo, Commento alla Repubblica I,152.- 1 5 3 · Oracoli caldaici, fr. 1 2.4.

77· lvi, frr. 1 2.2.-12.3. 78. lvi, frr. 65-66. 79· lvi, fr. 1 2.7. S o. lvi, fr. 2.. 8 1 . Proclo, Estratti dal commento allafilosofia caldaica 3·

Epilogo in forma di inno 1. Platone, Fedone l l 4 d. 2. . Plotino, Enneadi 4,4,40. 3· Porfìrio,

Sentenze 40,17-30.

4· Proclo, Inni 4: A tutti gli dei. 5·

Inni orftci 6.

Bibliografia

Vasta è la bibliografia inerente ai temi trattati. Quanto indicato qui di seguito co­ stituisce solo una prima selezione di edizioni e di studi che possono essere utili al lettore desideroso di approfondire in modo autonomo la conoscenza delle opere antiche e le prospettive critiche a esse inerenti. Per le opere antiche prese in considerazione ci si è confrontati con le edizioni moderne disponibili; le traduzioni presenti nel testo sono, tuttavia, elaborazione di chi scrive. Per i testi frammentari (come nel caso dei presocratici o di Porfìrio) la nume­ razione segue l 'edizione che viene richiamata dal nome dello studioso moderno riportato dopo il numero stesso e reperibile nell 'elenco delle opere antiche qui sotto (es. Porfìrio, fr. 27 8 Smith) . Nell 'auspicio di raggiungere un vasto pubblico, nel volume tutti i termini greci sono traslitterati nel modo più semplice : si è usato sempre l'accento acuto, senza indicazione di quantità delle vocali e ponendolo sul primo elemento dei ditton­

u; si rammenta, per la pronuncia, che g corri­ sponde sempre in italiano a gh e che ou si legge u.

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