Il realismo di Chaplin 8842018910, 9788842018919

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Il realismo di Chaplin
 8842018910, 9788842018919

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Guido Oldrini

Biblioteca di Cultura Moderna Laterza

Prima edizione 1981

Guido Oldrini

IL REALISMO DI CHAPLIN

Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari CL 20-1891-8 Finito di stampare nel giugno 1981 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari

IL REALISMO DI CHAPLIN

Debbo un sentito ringraziamento, per i film e i testi che mi sono stati gentilmente messi a disposizione, a Guido Aristarco e al gruppo dell'istituto di storia del cinema e dello spettacolo dell'università di Torino (segnatamente agli amici Franco Prono e Sergio Coggiola); a Vittorio Boarini della Cineteca di Bologna; a Mr. David Wilson del British Film Institute di Londra; a M.lle Noelle Giret del De­ partement des arts du spectacle della Bihliotheque nationale di Parigi (Bihliotheque de VArsenal); e inoltre, per l'amichevole assistenza nella versione di taluni dei testi inglesi qui utilizzati, a Maria Luisa Bignami, docente di Lingua e letteratura inglese presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'università di Milano. Le illustrazioni fuori testo si pubblicano per gentile concessione di Guido Aristarco e Ugo Casiraghi, dalle cui rispettive fototeche personali esse provengono.

Capitolo primo

PROBLEMI DI CRITICA CHAPLINIANA

Il chiarimento dell’essenza e della consistenza artistica del cinema di Chaplin costituisce un problema tuttora fondamental­ mente irrisolto della storiografia cinematografica marxista. Da sempre il marxismo guarda a Chaplin con la più viva attenzione e con il massimo rispetto. Marxisti illustri, critici, studiosi, arti­ sti di fama internazionale, da Ejzenstejn a Pudovkin, da Brecht a Eisler, hanno ripetutamente formulato giudizi traboccanti di sincero entusiasmo per lui e si sono espressi in termini di pres­ soché costante e incondizionata ammirazione nei suoi confronti. Eppure, tra tutti i grandi autori della cinematografia mondiale, Chaplin è, insieme con Dreyer, forse l’autore su cui meno è riu­ scito al marxismo di portare chiarezza in campo critico. Entusia­ smo e ammirazione da un lato, e dall’altro, in altri settori della critica, un uso incongruo, strumentale e deformato del marxismo hanno finito col far velo alla compiutezza del giudizio critico, con l’impedire che si andasse, nel giudizio, oltre la superficie e si scavasse accuratamente all’intorno e in profondo. Vedremo nel corso del presente lavoro come ragioni oggettive, immanenti al carattere realistico dell’arte di Chaplin, spieghino in parte questa circostanza; come sia proprio il suo concetto di realismo, proprio la forma artistica concreta in cui egli di volta in volta, con im­ placabile determinazione, lo traduce, a fuorviare gran parte della critica (anche marxista), generando equivoci, fraintendimenti e incomprensioni. Di fronte al marxismo sta dunque ancor oggi il compito di un riesame complessivo del caso Chaplin; esso è artisticamente troppo importante perché il marxismo possa per­ mettersi di lasciarlo ulteriormente in balìa delle manipolazioni capziose e interessate dei suoi interpreti borghesi. Nell’impossi­ bilità di assolvere qui in modo esauriente a un tale compito, che, di sua natura straordinariamente complesso, presupporrebbe ben

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altra ampiezza d’orizzonte e di ricerca, chi scrive dichiara subito di porsi, col presente lavoro, un obiettivo assai più limitato: quello di tracciare una mappa orientativa rivolta a far da guida entro i meandri della controversa e imbrogliatissima questione del realismo di Chaplin. Altre questioni estetiche, pur centrali per la sua arte, dovranno di conseguenza venir messe da parte o discusse appena di scorcio. Non si può non cominciare ricordando come il primo com­ piuto bilancio della critica chapliniana sia stato tracciato, oltre venticinque anni fa, proprio da un marxista, Glauco Viazzi, nell’antologia Chaplin e la critica1: testo salutato in Italia, su­ bito al suo apparire, come un avvenimento di grande rilievo1 2, e che si è venuto poi guadagnando a ragione notorietà e presti­ gio anche in campo internazionale. Precipuo tra i meriti con­ cordemente riconosciuti a Viazzi, quello di aver messo finalmente mano — e dato ordine — a una materia tanto informe, priva di ogni confine definibile, pressoché da sempre abbandonata a se stessa, e concresciuta su di sé nel modo più caotico e arruffato. Non senza motivo Viazzi apre la sua introduzione osservando che si tratta probabilmente della più vasta e ricca letteratura disponibile su un artista contemporaneo, eccezion fatta per Pi­ casso:

Diecine di libri, centinaia di saggi critici e analisi di film, mi­ gliaia di articoli e di note, infatti, costituiscono l’imponente corpus della bibliografia chapliniana. In soli quarantanni, questa produzione, pullulata dovunque, è andata dilagando per ogni dove: non c’è na­ zione che non vi abbia contribuito in misura maggiore o minore, 1 G. Viazzi, Chaplin e la critica. Antologia di saggi,. bibliografia ra­ gionata, iconografia e filmografia, Bari 1955 (da noi parzialmente riedita, con ritocchi e varianti, sotto U titolo di Chapliniana. Chaplin e la critica, Roma-Bari 1979). 2 Segnaliamo le recensioni totalmente simpatetiche che gli dedicano subito, tra gli altri, C. Terzi, in «Cinema nuovo», n. 61, 25 giugno 1955, p. 477; Paolo Russo, in «Bclfagor», X, 1955, pp. 342-4; U. Barbaro, Il pubblico di Chariot, nel «Contemporanco», 14 maggio 1955 (rise, in Neorealismo e realismo, a cura di G. P. Brunetta, Roma 1976, II, pp. 679685). Persino l’idealista Vittorio Stella, così lontano da quelle che erano allora le posizioni ideologiche e estetiche (marxiste) di Viazzi, scrivendone pur con qualche riserva sulla « Rivista del cinema italiano » (IV, 1955, n. 2-3, pp. 193-8), non poteva fare a meno di giudicare « degno di nota » il contributo apportato da Viazzi, che — scriveva — « costituisce una vera c propria, sebbene, come è ovvio, non esauriente (nel senso che egli è stato il primo a indicare) enciclopedia chapliniana ».

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così come non vi è movimento o tendenza culturale attiva del mondo moderno che si sia sottratta al compito, evidentemente imperioso e indilazionabile, di dir la sua in proposito, di affrontare i quesiti cri­ tici che l’opera di Chaplin pone, e di cercarne la soluzione \

Ne è derivato — prosegue Viazzi — un bagaglio esegetico multiforme, straripante, diseguale, complesso e anche contraddit­ torio, variamente interessante, dove si può dire non ci sia « epo­ ca, aspetto o momento della vita e del lavoro di Chaplin che non sia stato affrontato di slancio, frugato, scandagliato, sviscerato, rivoltato in tutt’i sensi »: sottoposto, insomma, a un lavoro di reinterpretazione e sistemazione critica volta a volta differente per tutti i differenti metri di giudizio al riguardo adoperati. Ciò che più interessa rilevare, sulla scorta delle testimonianze stesse offerte dalla bibliografia di Viazzi, è che in pochi altri casi come in questo il pullulare e il dilagare della letteratura critica, il moltiplicarsi delle interpretazioni e dei giudizi, l’estendersi per ogni dove del lavoro di scandaglio, tutto questo bagaglio esege­ tico, dopo aver contribuito realmente per qualche tempo (almeno entro certi limiti) alla chiarificazione dei processi stilistico-compositivi dell’opera studiata, del linguaggio di Chaplin, si è ve­ nuto poi sempre più decisamente a urtare, anche in conseguenza dell’ulteriore evoluzione di quel linguaggio, in ostacoli insormon­ tabili: col risultato ultimo di smarrire la giusta via, la giusta direzione di ricerca, di soggiacere in varia guisa a varie preclu­ sioni, e quindi di bloccare — anziché favorire — l’avanzamento dell’esegesi chapliniana in generale. Il realismo di Chaplin, in quanto arte, si è spinto più avanti della sua critica, si è trovato a un certo punto in contrasto con l’irrealismo di essa. Quali sono i motivi di questo blocco, di questa atrofia della critica chapliniana? È possibile isolarne la parabola come un che di autonomo e a sé stante, o non è vero invece che essa va ricondotta e raffrontata a una particolare situazione della cultura, all’ambiente storico internazionale da cui è sorta e in rapporto al quale si è poi determinata e sviluppata? Proprio perché — come osserva ancora giustamente Viazzi — la storia della critica chapliniana rispecchia con molta fedeltà i linea­ menti essenziali della letteratura cinematografica, quale si è andata 3 G. Viazzi, Charlie Chaplin e la letteratura su di lui, introd, a Chaplin e la critica, cit., p. 7 (= Chapliniana, cit., p. 5).

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formando negli ultimi quarantanni, col nascere e svilupparsi e con­ trapporsi non solo di vari modi di esercizio critico ma anche di varie poetiche cinematografiche, dalle prime prove, intese a stabilire un’este­ tica del cinema autonoma, alle più recenti, e più mature e attendi­ bili, posizioni, che mirano, viceversa, ad un inquadramento del ci­ nema come arte nel complesso più largo ed ampio di un’estetica generale4, proprio per questo non è possibile rendersi conto del significato, positivo e negativo, che in tale ateo di tempo ha acquistato la critica chapliniana senza raffrontarla, nelle sue diverse fasi, con la diversa impostazione del problema dei rapporti tra cinema ed estetica generale. Un raffronto che non siamo naturalmente in grado di condurre qui neanche in via di prima approssimazione. Accenneremo soltanto a taluni dei nodi più rilevanti nella genesi di questa complessa problematica. Che la prima fase della critica chapliniana corrisponda in modo stretto alla fase della elabora­ zione e costruzione di un’« estetica del cinema autonoma » è fenomeno di non scarso péso e influenza sull’orientamento suc­ cessivo degli studi, fenomeno al quale lo stesso Viazzi — pur sottolineandolo in linea di principio — non dà poi forse storica­ mente e praticamente il giusto rilievo: omettendo di tener con­ to, o non tenendo abbastanza conto, della grande forza di penetrazione avuta dall’idealismo e dalle correnti a esso affini sugli studi cinematografici di questo primo periodo, e di documentare quanto un determinato tipo di ricerca, in armonia con tale con­ dizione egemonica dell’idealismo nell’estetica, abbia agito da pa­ radigma ideale per la comprensione e la valutazione dell’opera chapliniana. La costruzione di un’« estetica del cinema autonoma » avanza in Europa sulla spinta delle forti insorgenze idealistiche domi­ nanti l’estetica generale. L’impostazione « figurativa » che infor­ ma la teorica cinematografica italiana durante il fascismo e quella « visualistica » (spiritualistica e figurativa insieme) della teorica francese dello stesso periodo — le due teoriche maggiormente responsabili e determinanti della piega assunta in Europa dalla critica chapliniana — contengono già da sole in se stesse, come anche nei loro complessi rapporti reciproci, elementi parecchio rivelatori al riguardo; i loro schemi, le loro proposizioni di fon­

4 Ivi, p. 8 (= p. 6).

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do, se da un lato si estendono ben oltre la cerchia dei rispettivi confini nazionali, dall’altro si trovano ad assorbire inversamente, proprio in virtù di questa estensione, esigenze e motivi derivanti da altre correnti teoriche — come la corrente tedesca e la bri­ tannica — con le quali hanno in comune le coordinate essen­ ziali: la restituzione della cosiddetta dimensione «visibile » dello spirito, a esempio, e la determinazione degli elementi formativi dell’immagine in movimento (si confrontino certe pagine del pri­ mo Balàzs, di Arnheim, di Paul Rotha). Naturale che anche gli studi chapliniani non rimangano in­ sensibili alle sollecitazioni provenienti da questa temperie cultu­ rale, da questa concentrazione del gusto in direttive di univoco orientamento. Le loro ripercussioni sono anzi tali e di tale im­ portanza che nella tradizione più generale della critica borghese vengono scambiate per categorie e schemi universali di giudizio quelle che sono soltanto espressioni circostanziate e storicamente condizionate di una certa forma di cultura, di un certo corso (ideologico) di pensiero a un certo grado del suo sviluppo. Ciò appare per la prima volta con molta chiarezza, in Italia, negli studi di Ragghiami e Chiarini5, che rivestono in proposito un valore assiomatico. Tutto il loro esame critico delle opere di Chaplin, gli asserti in esso contenuti, le conclusioni ora positive (rispetto al primo Chaplin) e ora negative (rispetto al secondo) cui gli asserti conducono, sono regolati completamente dal cri­ terio idealistico-figurativo di partenza, cioè da princìpi — eretti 5 C. L. Ragghiatiti, Cinematografo rigoroso [1933], in Cinema arte fi­ gurativa, Torino 1952, pp. 28-36 (rist. in Arti della visione, Torino 1975-79, I, pp. 14-20); L. Chiarini, Parabola di Chariot e di Chaplin, in «Bianco e nero », IX, 1948, n. 3, pp. 12-22 (rist. in append, a 11 film nei pro­ blemi dell'arte, Roma 1949, pp. 171-87); Il film nella battaglia delle idee, Milano-Roma 1954, pp. 235-45 (rifuso col precedente in Cinema e film. Storia e problemi, Roma 1972, pp. 158-76). Il primo dei due scritti di Chiarini è a giusta ragione riportato nella sua antologia da Viazzi {Chaplin e la critica, cit., pp. 191-203 = Chapliniana, cit., pp. 119-34), il quale trascura però di sottolinearne le vaste implicazioni e conseguenze storiche (così come del resto non fa mai neanche il nome di Ragghiami). Sui pe­ ricoli della tendenza chiariniana alla « destoricizzazione dell’opera di Cha­ plin » si sofferma anche P. Baldelli, Il problema critico dei film di C. Chaplin, in Sociologia del cinema, Roma 1963, pp. 80 sgg. (rifuso in Charlie Chaplin, Firenze 1977, pp. 87 sgg.); salvo poi cadere egli stesso neirequivoco di scambiare per « sfasature storiche » di Chaplin artista quelli che non sono altro se non — lo aveva visto già bene Viazzi — originali e importanti tratti del suo realismo critico. (Cfr. anche Appendice I, § 3; e per Viazzi, Mezzo secolo con Charlie Chaplin [1957], in Scritti sul cinema 1940-1958, a cura di C. Fragaglia, Milano 1979, pp. 170-1.)

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miihc a paradigmi di giudizio — quali la determinazione del • campo visivo », il rapporto tra ritmo o stile mimico e^movi­ mento, la cadenza del « passo », il senso delle pause e del tem­ po, del « taglio », delle « scansioni ritmiche » e via/aicendo: donde il privilegiamento di certe componenti deU’arte'di Chaplin su certe altre, la difesa a oltranza della «visività» dei suoi film (« visività che lo stesso Chaplin ha espresso resistendo al parlato »), la dissociazione tra Chaplin come autore e Chariot come * maschera ’ o personaggio, in funzione dell’autonomia del secondo, e la conseguenza cui arriva esplicitamente Chiarini — tanto meno consenziente nei confronti di Chaplin, quanto più il peso e il significato dei mezzi espressivi di quest’ultimo si vengono spostando dall’immediatezza dell’articolazione visiva ver­ so un grado di oggettività maggiormente complesso — che «la nascita di Chariot è molto più importante di quella di Chaplin ». Si può dar credito ancor oggi a un’asserzione come quella qui formulata da Chiarini? O non appartiene essa piuttosto, come del resto tutto il contesto del discorso critico die essa sintetizza e riflette, a uno stadio primitivo, superato, anacronistico della letteratura chapliniana, pago della elaborazione e fissazione di categorie e schemi astratti di giudizio? La risposta è già implicita negli esiti cui mette capo la prassi della letteratura così orien­ tata. Di fronte alla supposta universalità e validità critica di quelle categorie, di quegli schemi di giudizio, gli interpreti bor­ ghesi assumono in genere un atteggiamento di deferenza, di sot­ tomissione (anziché di vigile e consapevole verifica della ragione storica della loro genesi), che li induce a radicalizzare e a irrigi­ dire ulteriormente i postulati figurativi di partenza, e a ripren­ dere, a sostegno della tesi dell’andamento parabolico (e quindi involutivo) dell’opera chapliniana, il motivo della progressiva scissione che in essa la forma subirebbe dalle giunture del so­ strato ideologico, in vista di una inserzione surrettizia — logica e discorsiva — nella vocazione mimico-figurale dello stile primi­ tivo. Anche dove l’orientamento di questo tipo di cultura non predetermina in senso assoluto e immediato il contenuto figura­ tivo della ricerca, esso lascia ugualmente profondi strascichi; le sue risultanze incidono anche sulla natura di giudizi espressi in base a premesse estetiche diverse. Si verifica qui in sostanza il fenomeno che un certo gruppo di risultanze prodotte dalla cor­ rente di pensiero idealistica (e coerentemente, in quell’ambito) vengono distaccate dalla loro matrice teorica e vengono tenute in 8

vita e rilanciate come formule autonome, dotate di un valore proprio: di qui il sorgere di ipostasi formalistiche, la preferenza conferita all'analisi rispetto alla sintesi, la contemplazione de­ scrittiva che assorbe e annulla in sé il processo di ricostruzione critica dell’opera nell'unità e centralità del suo insieme: da un’esi­ genza di scomposizione visiva dei valori della forma si passa alla sussunzione di questi valori sotto il concetto di una certa regola (di sentimento o di esperienza o di vita) come categoria immu­ tabile nel tempo. Questo punto di intersezione della pregiudiziale idealisticofigurativa con la tradizione più comune della critica borghese si riscontra in forma abbastanza precisa nelle analisi svolte da Pierre Leprohon, Sotto Io stimolo di garantire l’universalità della figura di Chariot e insieme l'individualità dello stile di Chaplin, l’autore è indotto volta per volta a riunire oppure a diversificare nella loro assolutezza i tratti che contraddistinguono entrambi i poli dell’alternativa. Chariot che imita il cittadino — scrive a esempio una volta (a pro­ posito di Sunnyside) — non è forse l’umanità che vuole innalzarsi al di là delle sue possibilità? E il nostro perpetuo desiderio, la no­ stra perpetua impotenza. La sua tristezza, quando s'accorge di non esserci riuscito, è il nostro disperare in un miglior avvenire, i nostri poveri sogni delusi, le nostre ambizioni che urtano contro l’indif­ ferenza...;

ma poi sottolinea ed esalta nella Febbre dell’oro, oltre a questa universalità centrale di contenuto, il « movimento », i « gesti lirici », il « giuoco dei toni », il « valore visivo incomparabile » delle immagini, la creazione di un’« armonia cinematica mediante l’opposizione dei neri e dei bianchi ». È del resto l’intera collo­ cazione artistica di Chaplin, la * purezza ’ del suo linguaggio, che per Leprohon si definiscono secondo una forma prima mimica che narrativa (o dialogica): Notiamo che Chaplin mima il suo dialogo in luogo di parlarlo, come facevano i comici dello schermo. Soltanto raramente fa uso del discorso [...]. Per esprimere il suo pensiero, i suoi sentimenti, gli basta un gesto, lo stupore dello sguardo, un atteggiamento. Que­ sta volontà di restare costantemente e strettamente visivo trovava proprio nel cinema muto un’espressione ideale6.

6 P. Leprohon, Charles Chaplin, Paris 1957, pp. 87-8, 116-7, 135.

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Non è possibile seguire qui tutti gli svolgimenti e i tramassi, le nicdinzioni tra i due poli dell’alternativa ricordata. Qu/ci in­ tricali soprattutto di mettere in luce l’affinità delle basr e delle conseguenze ideologiche di orientamenti a matrice apparentemen ­ te diversa. Li collegano tra loro, nonostante le apparenze, nume­ rosi vincoli, numerosi addentellati culturali. Già cól primissimo avvio del nostro secolo, sopra la fondamentale stratificazione ir­ razionalistica della cultura europea, vengono a 4nserirsi e a in­ trecciarsi suggestioni di derivazione idealistica, coscienzialistica, spiritualistica, da Bergson e dal giovane Cróce sino a Husserl; e il connubio tra idealismo e spiritualismo finisce col sollecitare o potenziare quel culto del lirismo rarefatto, quella celebrazione del frammentismo, quel vagheggiamento di un dinamismo vita­ listi™, che trovano il loro punto di congiunzione e di supporto nella comune pregiudiziale speculativa dell’intuizione, e che poi conducono, sul terreno della prassi artistica (letteraria e poetica, non meno che cinematografica), alla formulazione di programmi avanguardistici accentrati intorno alla mistica del « panestetismo », della vita intesa come « totalità estetica ». Leprohon valga dunque qui soltanto da caso emblematico di una tendenza della critica volta principalmente al rilevamento di stilemi formalistici, le cui ripercussioni si estendono ben oltre la cerchia dei presupposti di partenza. Le conseguenze non si fanno attendere. Distaccati dalla loro matrice, estrapolati dalle loro premesse, quegli stilemi formalistici si convertono in ipo­ stasi, perdendo in elasticità quanto guadagnano nel senso di una astratta e rigida compattezza, di una rigidezza metafisica, mistica (anzi, come vedremo subito, mitologistica); e vanno a incana­ larsi con frequenza lungo un filone apologetico, che si esprime sia nella forma dell’apologià diretta (la quale si compiace di schizzare l’immagine del personaggio charlottiano come simbolo di purezza e di speranza, inibito nei suoi sogni da una fatalità che lo sovrasta e che lo schiaccia, vittima ora di coincidenze e ora di ingiustizie, ma sempre troppo remissivo, troppo sprovvisto di fronte al mondo per reagire o per porsi sulla difensiva), sia nella forma dell’apologià indiretta (la quale, incontrandosi anche con schemi caratterologici e sociologici di derivazione americana, insiste invece sul tema dell’antagonismo di principio tra indivi­ duo e società, sull’incapacità di- adattamento del personaggio alle prescrizioni della vita sociale, sulle inquietudini individualistiche e anarchiche che lo dominano), e che perviene sempre comun­

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que soltanto, in entrambe le forme, alla falsificazione apologetica delle contraddizioni da cui germina e si sviluppa l’arte di Cha­ plin. Ecco quanto, a esempio, in linea con la retorica del * vitti­ mismo 5 di Chariot, scrive lo storico spagnolo Angel Zuniga (e proprio mentre Chaplin fa uscire un film della spregiudicatezza di Monsieur Verdoux): Chariot come ente universale si rivela sempre contro la violenza come metodo, contro l’impiego del terrore come strumento per ren­ dere schiavo del timore lo spirito degli uomini. Chaplin ha conosciuto l’amarezza umana, e per questo eleva al cielo il clown eterno, pieno di dolcezza, inadattato in una società piena di inutili rancori, sempre disposto con il sorriso a esercitare il supremo magistero della conci­ liazione 7.

Via via che con il dissolvimento della metodologia idealistica in senso proprio si dissolve anche la consapevolezza della genesi di certi risultati, la ricerca si viene determinando sempre meno in funzione della cernita delle articolazioni visive e figurative come nodo decisivo dello stile chapliniano, e, liberatasi da ogni nesso col sottofondo storico-sociale a cui lo stile in ultima istan­ za aderisce, assume come essenza specifica della forma talune componenti fisio-psicologiche del personaggio che si trovano con essa solo in una lontana analogia, ma che tuttavia permettono, grazie alle loro segrete suggestioni, di raccogliere intorno a sé il centro di gravitazione del discorso critico, fino a costituirsi e a cristallizzarsi in formule, in involucri ideali, in vere e proprie ipostasi: fino a dar luogo, insomma, ai « miti » di Chariot e a Chariot come « mito ». In breve il mitologismo diventa una seconda fortissima ten­ denza della critica chapliniana: la più forte, anzi, insieme con la tendenza idealistico-figurativa e in stretta connessione con essa 7 A. Zuniga, Una bistorta del cine, Barcelona 1948, I, p. 95. Posi­ zioni del genere sono o sono state a lungo diffuse particolarmente presso la critica cattolica: si vedano, a titolo esemplificativo, i saggi di M. Pontet, La signification hwnaine de l’oeuvre de Chaplin) in « Études », CCLXXXH, 1954, pp. 254-62; A. Solmi, Charlie Chaplin: il clown romantico) in Tre maestri del cinema, Milano 1956, pp. 159-287; M. Orsoni, La giovinezza di Chaplin, in «Cinefonim», Vili, 1968, n. 74 (inserto non paginato); ta­ luni degli interventi (M. Motta, E. G. Laura) al Dibattito per “Un re a New York"', in «Bianco e nero», XVIII, 1957, n. 12, pp. 45-63; nonché, da ultimo, C. Tagliabue, Charlie Chaplin. Un cinema per Tuomo, Roma 1981 (con pref. di Laura).

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(benché anche in patte con radici sue proprie), di tutta quinta tale critica in generale. La sua nascita avviene non a cmo in Francia, e proprio dal tronco teorico che si è già richiamato: dalla teoria, cioè, del « visualismo », della « cineplastior », della « fotogenia del movimento ». Basti pensare a nomi come quelli di Louis Delluc, di Epstein, di Faure, allo sforzo compiuto so­ prattutto dagli ultimi due, sul piano della teoria/generale, per cercare di riannettere all’ambito delle costruzioni/armonico-visive (ossia di ciò che essi chiamano variamente «dramma plastico », « architettura ideale », « sinfonia visuale » é via dicendo) un fondo mistico, il dominio della « mistica^/el cinema»: domi­ nio al quale si richiama tutta la tendenza del ontologismo. Se fin dal 1919 Delluc avanza la definizione, in sé innocua, di Chariot come « ombra interiore » di Chaplin artista *, è forse in una formulazione di Faure sul « concettualismo » di Chariot (« Chariot è un concettualista. Appone alle apparenze, ai mo­ vimenti, alla natura stessa, all’anima degli uomini e degli oggetti, la sua realtà profonda »)’ che può ritrovarsi il nucleo primitivo dello stravolgimento mistico-soggettivistico operato da questa ten­ denza, cioè a dire la traslazione di ogni significato oggettivo, con­ creto, ddl’qpera chapliniana al soggetto ideato nella rappresenta­ zione artistica, alla dinamica della vita spirituale quale si con­ centra in esso, indipendentemente non solo dalla mediazione delle circostanze storiche reali che ne complicano lo sviluppo, ma an­ che da ogni aggancio e ricongiungimento diretto con la perso­ nalità dell’autore. Le componenti della presunta autonomia del personaggio, del­ la sua dinamica interna, prevalgono sulle ideazioni dell’autore, e ogni deviazione dà esse viene inevitabilmente presentata come una degradazione, come la contraffazione di un motivo poetico più autentico, più aderente al significato originario del mito. Per rendere attuabile la riduzione del significato dell’opera cha­ pliniana a un modello unico, omogeneo, l’ipotesi del mito esige in mólti casi 1’esdusione dal suo ciclo storico di svolgimento (o, viceversa, l’inclusione forzata e deformante in esso) di quei suoi molteplici tratti e aspetti che si mostrano irriducibili sotto l’ipotesi di partenza, che non trovano posto nelle connessioni 8 L. Delluc, Cinéma et *C , Paris 1919, p. 226. 9 E. Faure, Chariot [1921], in Fonction du cinéma. De la cinéplastique à son desti» social (1921-1937), Paris 1953, p. 50 (trad, da G. Viazzi, Chaplin e la critica, dt., p. 81 = Chapliniana, dt, p. 71).

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della « leggenda del vagabondo » in quanto riferita alla staticità di un suo germe ontologico. Non a caso i dottrinari chapliniani del mitologema accolgono suggestioni metodologiche provenienti dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo. Metodologicamente, secondo la loro impostazione, conditio sine qua non per la sus­ sistenza e il riconoscimento del mito è infatti il primato conferito al fenomeno immediatamente esperito, all’intuizione diretta del reale. Essi simpatizzano proprio con quei procedimenti di inda­ gine improntati al criterio della « percezione » nel senso della fenomenologia, che consentono di risalire fino alla scoperta di un dato o un sostrato preriflessivo, depositario del mito, e di essi si avvalgono per battere in breccia e scardinare le pretese dei canoni psicologistici, idealistici, spiritualistici, e per operarne l’allargamento verso un orizzonte più comprensivo; il nucleo di originalità racchiuso in molte delle loro interpretazioni si ricol­ lega appunto alla1 capacità di sostituire gli schemi unilaterali del filone della critica borghese puramente apologetica, irrigidita in­ torno alla descrizione dei predicati del comportamento charlottiano già assunto come univoco, con una varietà di prospettive idonee a riconoscere e a giustificare la possibilità, volta a volta condizionata, di comportamenti di diverso livello. La gamma .di questi comportamenti forma bensì, nel suo insieme, una totalità, ma una totalità completamente indeterminata a riguardo dei suoi elementi costitutivi, tra loro in certo senso intercambiabili, sfu­ mati e dai contorni incerti. La personalità del ‘ vagabondo ’ viene così rappresentata in uno stato continuo di tensione, per essenza insuperabile, tra fattori antinomici, che pure si richiamano l’un l’altro e nel loro germe ontologico, il mito, coincidono: proprio la tensione definita dalla filosofia di Merleau-Ponty, non meno che da tanta parte della letteratura mitologistica chapliniana, col termine di « ambiguità », e che non esprime un’imperfezione, ma piuttosto il momento dell’anteriorità comune rispetto a ogni differenziata determinazione storica. Questa incidenza della problematica mitologistica sull’inter­ pretazione dell’opera chapliniana risale, come si è detto, alquanto indietro. Già fin dal titolo del primitivo abbozzo del suo lavoro su Chaplin, nel 1936, Leprohon fa riferimento al mito 10 come 10 P. Leprohon, Chariot ou la naissance à'un mythe, Paris 1936. Nei successivi rifacimenti del lavoro (Charles Chaplin, Paris 1946; ed. riveduta e ampliata, ivi 1957; poi Le Cannet 1970) egli vi torna sopra senza so­ stanziali modifiche né di metodo critico né di argomentazione.

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di concetto centrale per la comprensione dell’essenza della ora­ zione chapliniana. In seguito la cerchia dei mitologi si atterga. Autori come — per citarne solo alcuni — André Bazin, TrcquesBcrnard Brunius, Barthélemy Amengual, Jean DuvignaWa, Jean Mi try » José-Augusto Franca, Henry Raynor, Robert Payjfe, Parker Tylcr, si muovono tutti, a diverso livello e con divèrse fonti e risultati, nell’ambito di questa impostazione; tutti concordano sul concetto di mito, se ne servono da canone interpretativo, lo ele­ vano a paradigma ultimo o unico di giudizio; e se un Tyler, poniamo, si preoccupa soprattutto di garantire compattezza alla « leggenda del vagabondo », non manca chi, come Payne, per scrupolo di conseguenza, si spinge sino al punto di separare le short-stories in cui la ‘ maschera ’ è « out of character » dà quelle in cui essa « comes into his own », negando o comunque riducendo il valore delle esperienze del primo tipo11. Quando per parte sua Franga libera senz’altro il personaggio del vaga­ bondo « dalla contingenza corporale di Chaplin », calandolo en­ tro una dimensione propria, entro il paradigma di quella « am­ biguità essenziale che permette e impone l’organizzazione del mito di Chariot »11 12, non solo batte su un tasto caratteristico per tutto l’orientamento esaminato (di ambivalenza, di amletismo del per­ 11 P. Tyler, Chaplin: Last of the Clowns, New York 1948, p. 61; R. Payne, The Great Charlie, London 1952, p. 152. Per gli altri autori sopra menzionati, ci riferiamo principalmente a A. Bazin, Introduction à une symbolique de Chariot [1948] e Le mythe de M. Verdoux [1948], in Qu’esf-ce que le cinéma?, Paris 1958-62, I, pp. 97-106, e III, pp. 89-113 (trad, di A. Apra, Che cosa è il cinema?, Milano 1973, pp. 53-63, 219-43), ora in Bazin-Rohmer, Charlie Chaplin, Paris 1972, pp. 11-22, 36-64; J.-B»’ Brunius, Monsieur Verdoux encore et toujours aux ordres de Vamour, nella « Revue du cinéma», II, 1948, n. 11, pp. 29-42 (trad, da G. Viazzi, Chaplin e la critica, cit., pp. 141-55, dove si legge anche là trad, del saggio di Bazin, Il mito di Monsieur Verdoux, pp. 159-82 = Chapliniana, cit., pp. 135-60); H. Raynor, Chaplin as Pierrot, in « Séquence », n. 7, 1949, pp. 30-3; B. Amengual, Évolution et signification du mythe de Chariot, Alger 1950 (poi come Le mythe de Chariot, in «Raccorda», II, 1951, n. 9, pp. 21-4); Chaplin est-il le frère de Chariot?, Alger 1952 (rifuso in Charles Chaplin, fase, di «Premier plan», n. 28, 1963, pp. 5 sgg.); J. Duvignaud, Le Mythe Chaplin, in «Critique», X, 1954, pp. 389-99; J. A. Franca, Charles Chaplin, le “ self-made-myth ”, Lisborme 1954; J. Mitry, Chariot et la “tabulation” chaplinesque, Paris 1957; Hisfoire du cinéma, Paris 1968 sgg., II, pp. 64 sgg., e III, pp. 48 sgg. (Di tutti questi autori, e del problema del mitologismo in generale, si è detto più ampia­ mente nel saggio I limiti figurativi e mitologici della critica chapliniana [III e IV], in « Ferratila », XIV, 1960, nn. 9 e 10. Cfr. anche Appendice I, $ 2.) 12 J.-A. Franca, Charles Chaplin, cit., pp. 10-1, 55 sgg.

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sonaggio parlano del resto esplicitamente, prima e dopo di lui, anche Tyler, Mitry ecc.), ma riassume in un tratto un convinci­ mento comune: quello secondo cui il « mito di Chariot » è « intraducibile in un linguaggio diverso dal mitologico », po­ tendo solo un linguaggio di questo tipo accoglierne e spiegarne anche le svolte, le inversioni, e quindi ricondurre le occulte vi­ brazioni del mito, comprese nell’arco di estremi opposti, alla loro radice mitologica unitaria: si ricordi quanto Tyler, Brunius, Bazin scrivono a proposito del rovesciamento del mito in Mon­ sieur Verdoux, e in particolare la tesi di Bazin — accolta anche da Leprohon — secondo cui Verdoux non sarebbe altro che la metamorfosi di Chariot, o « Chariot travestito da suo contrario ». È significativo che per costoro, e per molti altri che a loro in seguito si riallacciano o si avvicinano (Isabel Quigly, a esem­ pio), il Chaplin che conta sia proprio il Chaplin della prima fase, il Chaplin della « leggenda », cioè quello che al limite si con­ fonde interamente, ancora una volta, col suo personaggio, e ne assorbe ogni ulteriore evoluzione 13. In un autore come Marcel Martin, il quale pure muove dal proposito di distinguere tra cor­ rente e corrente della critica chapliniana, e di tener conto, nella sua sintesi, di tutte, questa confusione viene resa esplicita e teorizzata anzi come tale. Per me — egli afferma — è Chariot che ha creato Chaplin [...]. Si potrebbero analizzare lungamente le tappe della trasformazione progressiva di Chariot: si sarebbe obbligati a constatare simultanea­ mente che Chaplin fa evolvere il suo personaggio, ma che il perso­ naggio non fa che evolversi secondo la necessità sua propria, passando dall’infanzia all’adolescenza; si può dire che Chaplin somigli a Chariot, e non l’inverso:

come appunto suppone e sancisce il canone interpretativo che viene preso a guida dalla critica di indirizzo mitologico, e che l’autore stesso — in contraddizione coi suoi intenti eclettici — finisce per accettare: Il concetto di mito si impone irresistibilmente C’è mito perché Chariot esiste in quanto tale, indipendentemente dal si­ gnor Charles Chaplin che è sotto la maschera, indipendentemente

13 I. Quigly, Charlie Chaplin. Early Comedies, London-New York 1968, pp. 71, 149 sgg.

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«bilie । ih(iMrtnzr, dulie peripezie e dalla logica delle avventure ydle »|imIi egli piinrcipa u. /

Ma così torniamo anche a conclusioni ben poco discòste da quelle cui perviene la critica idealistico-figurativa. La tendenza alla mistificazione del significato formale oggettivo, e insieme alla progressiva elevazione della ‘ maschera ’ a mito, procede paralle­ lamente alla tendenza idealistico-figurativa che — come si è vi­ sto — induce Chiarini a elaborare la teoria del sempre più netto antagonismo tra la figura dell’autore e quella del personaggio. Basta d’altronde scorrere qualcuno dei luoghi già citati di Leprohon, o le pagine (non esenti da influenze della poetica « visuale » del Faure) di Claude Mauriac, ovvero la saggistica del primo Amengual, per rendersi subito conto della possibilità e plausibilità di questo collegamento lo stesso Bazin, assertore tra i più eminenti e intransigenti delle ragioni del mitologema. adotta nei suoi scritti uno degli schemi che ricorre con maggior frequenza nella critica figurativa: quello, cioè, della presunta resistenza opposta dal nu­ cleo originario del mito, sia pur con qualche impaccio, al « pa­ rassitismo della ideologia », via via che essa cresce sino alle proporzioni di una « malattia », di una « infezione perniciosa del personaggio »14 *16. In ragione delle affinità ideologiche già richia­ mate, i punti di contatto tra le due metodologie, quella ideali­ stico-figurativa e quella mitologica, risultano tutt’altro che tra­ scurabili. Entrambe si compenetrano e completano reciprocamen­ te; piuttosto che impedire il formarsi di cristallizzazioni mitolo­ gistiche, l’idealismo ne anticipa i procedimenti essenziali: qui e là i nodi restano, ripetiamo, la consapevole astrazione dal sup­ porto ideologico delle opere di Chaplin, la denegazione del va­ lore umanistico e realistico dei suoi temi, e la trasfigurazione 14 M. Martin, Charles Chaplin, Paris 1966 (ried. 1972), pp. 97-8, 100. Sui lavori di Martin e della Quigly, cfr. anche Appendice I, § 1. 13 Per Leprohon, cfr. sopra, nota 6; per Mauriac, Charles Chaplin, in Lamour du cinéma, Paris 1954, pp. 51-7; per Amengual, i testi del 1950-52 citati alla nota 11 (con espresso rinvio a Chiarini: cfr. Charles Chaplin, cit., p. 20). Più tardi, a partire dall’aggiornamento dei suoi saggi (1963), Amengual si sbarazza per altro totalmente del canone mitolo­ gistico di interpretazione dell’arte di Chaplin, riconoscendo che, da « alle­ gorica » che era, essa « si supera e si fa realistica », acquisendo una pre­ cisa « dimensione storica » [ibid., pp. 25, 33; Style et conscience de classe (sur “ Les temps modernes”), in «Positif», n. 152-153, 1973, pp. 24-32]. 16 A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, cit., Ili, pp. 100, 109 (trad, cit., pp. 229, 238), ora in Bazin-Rohmer, Charlie Chaplin, cit., pp. 48, 59.

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apologetica delle asperità del capitalismo — che trovano in quei temi corrispondenze oggettive — mediante la loro subordina­ zione all’unità astratta di modelli o stilemi formalistici già pre­ determinati. (Epifenomeni di questo influente connubio critico si possono rintracciare ancora nella letteratura chapliniana più recente.) Ciò appare come una diretta conseguenza della debolezza della metodologia impiegata. In realtà, se gli spunti della teo­ rica a sfondo lato sensu « visualistico » (idealistico-figurativo o mitologico che sia) riescono a offrire gli strumenti per una com­ prensione almeno in parte giusta della prima fase di sviluppo dell’arte chapliniana, si può caratterizzare l’irrigidimento formali­ stico successivamente intervenuto nell’uso di questi strumenti — parafrasando Marx e Engels — come una « caricatura » or­ mai senza nerbo del metodo originario, che si appaga di elevare una qualsiasi determinazione concreta della ricerca al rango del­ l’idealità più comprensiva, per poi disporsi a giudicare senten­ ziosamente tutto l’insieme dall’alto dell’astrazione così ottenuta; la poesia vi è allora scambiata con il raggiungimento della mas­ sima purezza, la coesione con la cosmicità; e proprio la riso­ nanza dei tratti individuali specifici e particolarmente significativi della creazione artistica vi si disperde nella vacuità di formule come il « tipo astratto », l’« universale umano » o altre consi­ mili, del tutto isolate e avulse dalla mobilità della storia, dal fluire del processo reale. Semplificando all’estremo la densa, in­ trecciata tessitura della tematica di Chaplin in favore di una sola delle sue componenti, e sacrificando tutte le altre al ruolo di componenti subalterne, si dimentica per necessità che la categoria del « generale » — come osserva Marx nelle pagine iniziali dei Grundrisse — è essa stessa un qualcosa di complessamente arti­ colato e che l’elemento comune, ricavato mediante comparazio­ ne, va fissato e posto in rilievo soltanto nei limiti in cui per l’unità non si cancellino le differenze essenziali: cioè, nella fatti­ specie, i diversi gradi e aspetti di evoluzione del realismo cha­ pliniano, l’intersecarsi in esso di una pluralità di piani e pro­ spettive. la maggiore o minore efficacia nella scelta dell’angolo visuale del rispecchiamento e delle relative soluzioni formali, in corrispondenza alla dinamica dei rapporti tra le classi nella vita della società. Non è per caso che insistiamo sul problema della presunta « universalità » della ‘ maschera ’. La bontà, il tono dimesso, il 17

pcMimfomo, l’anarchismo, e in genere tutto quanto la cufica borghese apologetica (nell’accezione sia diretta che indiretti) si immagina come sua sostanza ed essenza specifica, non costitui­ scono affatto un reale fondamento per l’interpretaziofìe della personalità di Chaplin, ma ne suggeriscono piuttosto un’imma­ gine parziale, deformata, scissa da ogni relazione dialettica con la storia, e così gonfiata artificiosamente fino a includere in sé una categoria, come quella di « universalità », che svolge una fun­ zione di straordinaria importanza nell’apologià del capitalismo, e che mostra anzi in modo del tutto chiaro — sottolinea Lukàcs — perché, specialmente con la crisi ideologica della borghesia, si determini una decisa affinità tra economia apologetica e ideali­ smo filosofico. Nell’&terictf Lukacs argomenta come segue in­ torno alla necessità di respingere la « categoria confusa e sviante dell’ “ universalmente umano ” »: l’idea dell * “ universalmente umano ”, nella teoria e nella prassi este­ tica, ha per effetto di porre l’umanità in un rapporto di opposizione assoluta, metafisica con le relazioni umane concrete, a cominciare dalla classe e dalla nazione. Considerati, così, come qualcosa di in­ feriore e di secondario, di cui il pensiero non deve tener conto, que­ sti vincoli e rapporti concreti dell’umanità si determina anche e necessariamente una concezione sbiadita, astratta ed esangue del­ l’uomo stesso. E anche i conflitti che riempiono la vita degli uomini, e le azioni e i sentimenti che essi provocano, sono elementi essenziali di ogni individualità concreta, Se sono omessi e trascurati, respinti in secondo piano, l’astrattezza dell’ " universalmente umano ” diventa ancora maggiore17.

Proprio qui, in questo « orientamento diretto e unilaterale sull’essenza generica dell’uomo », si vedono emergere con chia­ rezza i presupposti ideologici comuni alle due correnti critiche che abbiamo esaminato, alla corrente mitologistica e a quella fi­ gurativa in senso stretto, e ancora le cause della loro insensibile ma reciproca e continua implicazione: Tuna e l’altra conseguono infatti, in diversa forma, a una stessa lacerazione dell’unità della creazione artistica chapliniana nei suoi momenti singoli fermati come tali. Lo studio dei piani, dei volumi, delle invenzioni di 17 G. Lukàcs, Estetica, Torino 1970, I, pp. 545-6. L’osservazione di Lukàcs che precede rinvia a Prolegomeni a un’estetica marxista, Roma 1957, pp. 82-4 (dove è anche menzione del passo citato dei Grundrisse di Marx).

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luce, l’impiego in genere del criterio « visualistico » non è in grado ancora per sé solo di definire esaurientemente, dal punto di vista estetico, mediante Panalisi delle componenti visive delFinquadratura tra loro variamente combinate, il valore di uno stile, di un linguaggio, di dar esatto conto dell’esperienza filmica di un autore: in special modo quando si tratta dell’esperienza di un autore multiforme e complesso come Chaplin, che si se­ gnala per la capacità di trasformazione interna continua, per la mobilità e l’evoluzione della prospettiva in rapporto ai problemi del suo tempo. Si può e si deve senz’altro convenire sul fatto che le componenti visive invocate — la « pantomima dell’attore stilizzato », il « ritmo danzante » dei personaggi, lo « spazio ri­ gorosamente determinato », e così via — rientrano tutte nel linguaggio chapliniano, almeno in una sua prima fase, così come ne fanno certo parte integrante il « taglio », le fini e vigilate «scansioni ritmiche», F« esaltazione lirica del movimento»; ma ciò non significa che esse, e esse soltanto, costituiscano l’es­ senza di questo linguaggio, che questo linguaggio sia insomma unicamente — come pretende Chiarini — « linguaggio mimico nel pieno significato tradizionale » (« gesti, espressioni, danza »), a esclusione di ogni altro suo fattore e valore. Esclusivismi del genere comportano inevitabilmente chiusure e restrizioni, una precettistica inammissibile dal punto di vista dell’arte. Persino un idealista estetizzante come Francesco Flora, che pure si esal­ tava di gran lunga più per il « passo favoloso e fatale » di Chariot che non per l’umanesimo di Chaplin, ammoniva con ac­ cortezza generalmente inascoltata: Porre la questione: il vero cinema è questo o quello, è sempre un arbitrio; e soltanto può valere come legge particolare della since­ rità espressiva d’un singolo artista: quel che fu sentito come la pro­ pria apprensione del mondo, sotto una specie lirica, da un artista, non può essere la legge dell’altro, che sarà diversa e farà tutt’uno con la sua capacità sensibile. È dunque arbitrario ricondurre tutto il cinema a quella plastica in movimento nella quale, a primo colpo, parrebbe risiedere il suo carattere distintivo: arbitrario ricondurlo a quel complesso fonoplastico che sembra assumere oggetti e parole come elementi non realistici o verbali, ma note di una nuova lingua sinfonica18.

1S F. Flora, Civiltà del Novecento [1934], Bari 19493, pp. 93-4.

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Tanto più ciò deve valere in relazione allo svolgimento in­ terno della poetica di un artista come Chaplin. Chi, in nome del linguaggio mimico e delle pregiudiziali figurative e mitologiche, pretende di espungere dal Dittatore, da Monsieur Verdoux, da Luci della ribalta o da re a New York le inserzioni cosid­ dette prosastiche, discorsive, oratorie, ne altera e sminuisce sen­ za rimedio la portata espressiva, e finisce insieme con l’abolire ogni possibile accorgimento per dare di queste opere una valuta­ zione che non rimanga, rispetto ad esse, in posizione critica ar­ retrata, non adeguata al loro elevato grado di avanzamento nel campo dell’arte e della cultura: come sappiamo che di fatto troppe volte accade anche presso interpreti e esegeti contempo­ ranei. Che il teatro, la letteratura ecc. offrano molte situazioni analoghe, da Manzoni a Melville, da Goethe a Thomas Mann, non sembra insegni loro nulla, non suggerisca loro cautela al­ cuna. Chi mai liquiderebbe i Wilhelm Meisters Wanderjahre e il secondo Faust, oppure il Doktor Faustus di Mann, solo per la constatazione della circostanza — indubitabile — del crescere dei motivi astratti di pensiero nel cosiddetto « stile della vec­ chiaia » dei loro autori? Eppure ciò accade di frequente col vec­ chio Chaplin. Qui vengono clamorosamente in luce miopie cri­ tiche, inconseguenze, fraintendimenti e inciampi metodologici. Ora, di tutti questi limiti, radicati in profondo, della lettera­ tura chapliniana, e di molti altri che qui non vale neanche la pena di stare a discutere, si era reso conto con chiarezza già il Viazzi di Chaplin e la critica. L’ampio materiale antologico da lui raccolto, inquadrato e discusso in quel testo fornisce, circa gli orientamenti (e i limiti) della letteratura chapliniana sino alla metà degli anni cinquanta, tutti i necessari ragguagli del caso. Negli oltre venticinque anni trascorsi da allora a oggi la situa­ zione della ricerca non è fondamentalmente cambiata. Certo oggi, a tanta distanza di tempo, le prospettive si delineano con mag­ gior nettezza di contorni, e a noi riesce molto più facile di quanto non riuscisse allora a Viazzi scorgere, con i meriti, le insufficienze e i difetti di taluni degli interventi anche tra i più decisamente antiformalistici inclusi nella sua antologia: ci rife­ riamo qui non soltanto all’astratto sociologismo del saggio di Arthur H. Grace (che già Viazzi rilevava e criticava a dovere), bensì anche a un saggio come quello del sovietico Lejtes, pe­ santemente inficiato, sia. nei giudizi che nel metodo, da molte

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delle peggiori distorsioni del marxismo del periodo staliniano. Si sono inoltre nel frattempo prodotti, su Chaplin, svariati studi nuovi; nuovi e più moderni strumenti di indagine (semiologia, strutturalismo ecc.) sono stati sperimentati e messi all’opera; tutta la ricerca nel suo complesso si è fatta più accorta, raffi­ nata, smaliziata, meno platealmente incline alle distorsioni apo­ logetiche. Significativo che anche nella manualistica si sia co­ minciato a guardare a Chaplin in prospettiva, col dovuto distacco critico; che manuali, testi divulgativi, schizzi e profili critici si situino sempre più spesso in una zona che sta al di sopra o al di fuori di quella fin qui battuta dalla pubblicistica corrente, e di essa si lascino già decisamente indietro molte (false) assunzioni, molti dei più tenaci pregiudizi e luoghi comuni. Sarebbe tuttavia un errore scambiare questo più consapevole orientamento prospettico della critica chapliniana per una salda impostazione storicistica. Se si prescinde da un certo ammoder­ namento e affinamento nella maniera di porre le questioni, se non ci si fa abbagliare dallo sfoggio di un frasario che, nutren­ dosi delle più disparate e insignificanti correnti alla moda, si atteggia a profondo, allora gran parte delle riserve avanzate a suo tempo da Viazzi conservano ancor oggi pieno valore. Oggi come ieri si può, con Viazzi, imputare alla critica chapliniana di ispirarsi a teoriche che sono « quasi tutte, per lo più, antistori­ cistiche sino al limite estremo »; oggi come ieri si può lamentare che essa tenga « quasi sempre un atteggiamento per così dire ‘ isolazionistico ’ », staccando Chaplin « non solo dalla storia so­ ciale e politica dell’America contemporanea, ma anche dalla sto­ ria stessa della cultura americana, e persino del cinema america­ no » ,9. Neppure nel corso del dibattito riapertosi in tono così vivace subito dopo la comparsa di Un re a New York (1957) si sono fatte registrare, sul fronte della critica, novità di rilievo. Sono semmai riemerse, e sono state ribadite e confermate, posi­ zioni note: ossia, da un lato, l’insistenza sul rigido contrasto tra giovinezza e maturità di Chaplin, naturalmente a tutto vantag­ gio della prima; dall’altro, per quanto attiene alla sua maturità, un approccio viziato da pregiudizi e diffidenze di principio, se non anche da sentimenti di aperta ostilità: tanto che — come 19 G. Viazzi, Charlie Chaplin e la letteratura su di lui, cit., pp. 19, 25 (= Chapliniana, cit., pp. 17, 23).

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osserva Guido Aristarco nella sua recensione al film20 — «di Ironie a Un re a New York si inette in dubbio addirittura tutta l’opera ‘ sonora ’ di Chaplin, si parla con più insistenza di de­ clino, di fine, la quale apparirebbe evidente anche ai suoi ‘ ze­ latori * ». Ci si scontra qui in realtà con difficoltà e contraddizioni estremamente generalizzabili nell’ambito della letteratura critica su Chaplin, che documentano una volta di più, se mai occorresse, il suo immobilismo, la sua grave situazione di impasse o di stallo. Essa non sa in genere affrontare l’oggetto del suo studio con compiutezza e rigore, con chiarezza razionale di ipotesi critiche e metodo di verifica, e finisce così spesso col restarne soverchiata. Manca infatti in essa (nella più gran parte di essa) la capacità di inserire l’indagine nel vivo dell’arte, della cultura, della ci­ viltà del nostro tempo; poiché vi dominano preoccupazioni dida­ scaliche e informative, o descrizioni capziosamente liriche o mi­ tologiche o mistiche, o anche accenni nella direzione dello stori­ cismo, ma di uno storicismo quanto mai rarefatto e ambiguo, le sfuggono le matrici storiche del processo che permette a Cha­ plin, via via che la sua opera si sviluppa dalle short-stories (già esse intrinsecamente ‘ sociali ’) fino agli ultimi grandi romanzi, di portare a concretezza i tratti specifici più pregnanti del suo realismo, cioè — sono sempre parole di Aristarco — « di do­ cumentare ancor più i costumi e le contraddizioni della società e dell’epoca in cui vive, e di cui è partecipe e attore»21. E 20 G. Aristarco, bT« re a New York, in « Cinema nuovo », VI, 1957, n. 117, pp. 230-2 (recens. rifusa in Da Chariot a Chaplin, nel «Verri», III, 1959, n. 4, pp. 17-38, e poi nel cap. Chaplin, il cuore e la mente del volume II dissolvimento della ragione. Discorso sul cinema, Milano 1965, pp. 133-53, donde in seguito citeremo; rist. in Chapliniana, cit., pp. 209-33). Che non si tratti affatto di casi isolati, limitati nel tempo e nello spazio, lo provano le reazioni generalmente ostili al film di gran parte della stampa quotidiana, della pubblicistica e della storiografia inter­ nazionale, compresa una rivista come « Sight and Sound », senza parlare naturalmente della posizione assunta dalla più piatta e conformistica cri­ tica nostrana (Bianchi, Castello, Laura, Di Giammatteo, Rondolino ecc.). Contro la presunta « capitolazione » nei confronti del fonofilm di tutto il vecchio Chaplin, da Tempi moderni in poi, si schierano altresì pesante­ mente il tedesco-federale F. Luft, Vom grossen sebònen Schweigen. Arbeii und Leben des Charles Spencer Chaplin, Berlin 1957, pp. 25 sgg., e lo statunitense D. W. McCaffrey, The Golden Age of Sound Comedy. Films and Comedians of the Thirties, South Brunswick and New York-London 1973, pp. 29-30; e anche qui non si tratta certo di casi isolati. 21 G. Aristarco, Chaplin, il cuore e la mente, cit., p. 137 (= Cha­ pliniana, cit., pp. 216-7).

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dove non si riescano a fermare le componenti della socialità immanente di un autore, i nessi storici col suo tempo, non si è poi neppure in grado di pervenire al chiarimento della fisiono­ mia delle opere dal lato della loro consistenza estetica, e alla ricostruzione dei loro diversi problemi di elaborazione e strut­ turazione formale. Proprio per questo non crediamo che la via del rinnova­ mento della critica chapliniana passi per le formalizzazioni semiologiche della ricerca ora di moda22. Perché la ricerca si rin­ novi davvero, in profondo, e gli studi progrediscano e guada­ gnino spessore, occorre altro: occorre mettere definitivamente da parte le assunzioni formalistiche, per loro natura restrittive, fin qui dominanti, penetrare e approfondire con spregiudicatezza, ricchezza di vedute e duttilità di metodo, alla luce del marxi­ smo, i nessi concreti esistenti tra linguaggio delle opere chapli­ niane e basi materiali della società, affrontare insomma come que­ stione centrale della ricerca — in conformità ai suggerimenti di Gramsci — le « analisi del contenuto, la critica della ‘ struttura ’ delle opere; cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente»23: che è pro­ prio ciò su cui viene insistendo da anni Aristarco. Studi di tal fatta — avvertiva già del resto anche Viazzi — por­ terebbero airesame approfondito dei caratteri e della natura dell’uma­ nesimo chapliniano, ad una individuazione precisa del carattere del suo personaggio centrale, e del significato storico e sociale che esso ha; permetterebbero di abbandonare le definizioni generiche per una identificazione della reale natura charlottiana. Questioni, codeste, tutte strettamente legate a quelle degli elementi strutturali dell’arte di Chaplin, dalla recitazione alla struttura figurativa delle inquadrature e al loro legarsi nel montaggio 24.

Solo da un riesame molto attento della totalità dei fattori confluenti entro il vasto quadro dei rapporti tra Chaplin e il suo 22 Un palese esempio negativo di questa moda, che rappresenta nello stesso tempo un ritorno al mitologismo, è offerto dal recente lavoro di A. Nysenholc, L’dge d'or du comìque. Semiologie de Chariot, Bruxelles 1979. (Cfr. anche Appendice I, § 5.) 23 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino 1975, III, p. 2188. 24 G. Viazzi, Charlie Chaplin e la letteratura su di lui, cit., pp. 64-5 (= Chapliniana, cit., p. 57).

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tempo; solo dall’acquisizione della giusta prospettiva, del giusto orientamento, a riguardo della definizione storica di questo qua­ dro, possono derivare presupposti atti a spingere ulteriormente e proficuamente avanti la ricerca critica in questo campo: tra l’altro, a intendere e valutare come si conviene, nelle loro con­ crete proporzioni, i motivi del presunto individualismo e anar­ chismo di Chaplin, delle sue « sfasature storiche » (o di quelle che tanta parte della critica, anche recente, prende erroneamente per tali), e insieme i loro profondi legami con una determinata disposizione morale, con un’appassionata difesa della dignità uma­ na e umanistica: ciò che naturalmente non ha nulla a che vedere col fenomeno — pure da taluno lamentato — di un « accaparra­ mento ideologico » dell’arte di Chaplin. In realtà, contrariamente alla convinzione espressa da Chia­ rini, la nascita più importante non è la nascita di Chariot, ma quella di Chaplin. Chaplin, non Chariot, deve essere posto al centro dell’odierno riesame critico. Un ancoraggio puro e sem­ plice ai valori del linguaggio mimico charlottiano, concepito nei termini della storiografia tradizionale (non importa se con qual­ che abbellimento o ritocco a opera della semiologia), significhe­ rebbe oggi soltanto una scelta anacronistica, come recupero di motivi appartenenti a uno stadio del passato, già assorbiti e su­ perati dal corso oggettivo della storia, dai mutamenti intervenuti sia nella poetica dell’artista che nella concezione storica del mon­ do e nell’estetica in generale. La propria concezione del mondo risponde a determinati problemi posti dalla realtà, che sono ben determinati e * originali ’ nella loro attualità. Come è possibile — si chiede una volta ancora Gramsci — pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è ‘ anacronistici ’ nel proprio tempo, che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi25.

Poiché si è visto che la critica chapliniana di * anacronismi ’ di questo genere (che cioè guardare alle opere del Chaplin maturo con borato per le opere del passato), l’unica via viene battere ci sembra appunto quella da

soffre per lo più essa pretende di un pensiero ela­ che oggi le con­ noi indicata. Un

25 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., II. p. 1377.

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autentico incontro con la personalità di Chaplin, uomo e ar­ tista, nell’interezza del suo sviluppo è — ripetiamo — il solo mezzo idoneo a far sì che la critica torni all’altezza del compito che le spetta, saldando definitivamente la frattura, in essa tuttora avvertibile, tra ‘ passato ’ e * presente \ ossia tra la valutazione della giovinezza e quella della maturità di Chaplin, tra la no­ stalgia per il perduto candore della ‘ maschera ’ e lo sforzo di seguirne la complessa evoluzione, tra la definizione dell’universo chapliniano (charlottiano) come simbolo del destino generico dell’umanità e la determinazione delle relazioni concrete, storica­ mente mutevoli, che volta per volta esso intrattiene con questo ‘ destino

Capitolo secondo CHAPLIN E IL SUO TEMPO

Che in buona parte della letteratura critica chapliniana sia invalso il criterio di trattare il caso Chaplin come un caso as­ solutamente a sé, come un unicum senza riscontri altrove, non è soltanto il portato delle sue insufficienze e inadempienze — an­ corché clamorose — di metodo. Per sorprendente che ciò ap­ paia, ci sono in realtà motivi anche più profondi alle radici della posizione ricordata, e alcune ragioni che, se non la giustificano, la spiegano. La cerchia degli interessi estetici e ideologici entro cui si iscrive la tematica chapliniana sembra modellarsi secondo una conformazione tale da escludere ogni accostamento a espe­ rienze precedenti, concomitanti o ulteriori, e da sussistere e va­ lere quindi effettivamente come autonoma: sia perché il con­ catenarsi dei temi testimonia del fatto che l’itinerario artistico di Chaplin è, salvo cedimenti di scarso conto, «preciso e coe­ rente, di una precisione e una coerenza esemplari, quasi solita­ rie nella storia dell’arte del film » sia perché quei temi stessi prendono origine e si sdipanano, senza soluzione di continuità, da un periodo che è anteriore alla prima catastrofe mondiale, e quindi in parte ancora affondato nelle diverse matrici della tra­ dizione ottocentesca. Di qui le singolarità contenutistiche e for­ mali attraverso cui si attua il * miracolo ’ dell’arte di Chaplin, che sconvolge i canoni di ogni metodologia formalistica e mette del resto in imbarazzo ogni ricerca non ancorata a un saldo fon­ damento storico; e anche la necessità di comprendere e giustifi­ care, con opportuni criteri di valutazione, tali singolarità, tale so­ litudine e isolamento: ciò insomma che la critica corrente suole presentare — abbiamo visto — come individualismo, egocentri1 G. Aristarco, Chaplin, il cuore e la mente, cit., p. 134 ( = Chapli­ niana, cit., p. 212).

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sino, anarchismo, come il portato delle « sfasature storiche » di Chaplin artista. Il contesto della tematica chapliniana si dispone in prosecu­ zione diretta dei problemi del secolo decimonono; appartiene o, meglio, sembra appartenere all’Ottocento più che al Novecento, così come ricche di sfumature ottocentesche appaiono le forme espressive della sua articolazione, lo stile e il linguaggio delle sin­ gole opere: quel tanto di trascurato e antico e ingiallito, quella patina romantica, tipica delle composizioni ottocentesche a gran­ de respiro, che esse indubbiamente posseggono. Si tratta di un’eredità che a Chaplin perviene forse attraverso l’insegnamento e la forte influenza diretta di Griffith, o indirettamente attraverso Sennett, e che appartiene in ogni caso, come sua caratteristica specifica, al cinema americano degli inizi. Il primo cinema americano, dalle origini fino agli anni ’20 — sot­ tolineava in un articolo non più ripubblicato Viazzi —, ebbe molti tratti che lo legavano alla civiltà dell’ottocento. Fu un organismo complesso e vitale, nel quale s’andò elaborando la trasformazione, il trapasso dalle concezioni, dalle ideologie, dai gusti del secolo scorso a quelli del Novecento, ma molti dei «suoi aspetti di maggior rilievo furono tipicamente ottocenteschi, derivati soprattutto dal vittorianesimo e da quella visione del mondo che aveva trovato una delle sue espressioni più compiute nel sentimento dickensiano. In quegli anni, sul continente americano si incrociavano ideologie e concezioni le più disparate e contrastanti, penetravano flussi di idee e di modi di vita di origine assai diversa Il primo cinema americano, anche se in modi rozzi e semplificati, risentì, elaborò ed espresse queste contraddizioni, traverso le quali gli Stati Uniti andavan assumendo fisionomia di nazione davvero moderna. E tra i molti elementi che concorsero a questo processo di formazione e di sviluppo, preminente fu appunto quello ottocen­ tesco 2.

Si pensi agli intrecci da melodramma di quasi tutti i film di Chaplin, alla frequente evocazione in essi di un certo desueto clima romantico, alla smaccata artificiosità del loro impianto sce­ nografico; e ancora, al gusto che Chaplin vi manifesta per l’uso di inquadrature frontali fisse, per i toni scialbi, opachi, delle im­ magini e, nella musica, per il ricercato passatismo e patetismo dei 2 G. Viazzi, L’epoca di Edna, nel « Contemporaneo », 25 gennaio 1958, p. 4.

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irmi di commento (valzer ‘ rubati ’, slows, promenade themes ecc., quali “ Won’t somebody buy my violets ”, leitmotiv di Luci tifila città, o “ Smile ”, leitmotiv di Tempi moderni, o, in Luci della ribalta, il tema dell’arlecchinata; lo stesso vale per i temi di commento alle riedizioni sonorizzate di film muti). Si ag­ giunga che tutto ciò si accompagna sempre in lui a una scrittura limpida e agevole, popolare nel senso migliore del termine: donde un ulteriore elemento di analogia, sia pure di natura estrinseca, con l’Ottocento del grande realismo romantico, notoriamente ri­ volto ancora, a differenza dell’arte del Novecento, a strati assai vasti di pubblico. L’opera di Chaplin viene così a trovarsi bilanciata, nel suo nucleo dinamico, tra il corso di due epoche storiche diverse, che si scavalcano e si urtano per l’antagonismo sempre più profondo tra le condizioni sodali di relativa sicurezza e stabilità durante il trionfo delle monarchie borghesi e la crisi del moderno capi­ talismo, quando la sicurezza e la stabilità si eclissano, e l’indivi­ duo, reso ormai problematico a se stesso, assiste a un processo sempre più intenso di disgregazione della propria unità per­ sonale. Il nuovo secolo è pieno di contrasti così profóndi e l’unità della sua visione è così minacciata — scrive Arnold Hauser — che il prin­ cipale, spesso l’unico tema dell’arte diventa la congiunzione degli estremi, la sintesi delle massime contraddizioni3. L’esatta comprensione dei contrasti e delle contraddizioni sto­ riche del secolo ventesimo, nonché del loro diverso grado di ripercussione e reazione sul corpo della tematica chapliniana, è assolutamente pregiudiziale all’analisi sistematica di quest’ultima. Non è qui possibile far ricorso a un’esemplificazione molto circo­ stanziata; basti sottolineare, a un livello estremo di astrazione e generalizzazione, come le direttive fondamentali di lavoro non coincidano, in Chaplin, con le tendenze prevalenti nell’ambito della letteratura, della pittura, della musica, del teatro e dello stesso cinematografo del primo Novecento. H cinema, appena da poco padrone delle proprie forze, già manifesta una ricchezza sintomatica di fermenti e inquietudini; tenta di abbattere le barriere che lo dividono dalla cultura rico­

3 A, Hauser, Storia rodale dell’arte, Torino 1955-%, IV, p. 359.

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nosciuta, accende intorno a sé le prime discussioni teoriche, si trasforma in strumento operativo di poetiche e di scuole, inse­ guendo le più esasperate deformazioni soggettivistiche, dal fu­ turismo (negli anni intorno al 1915-16) all’espressionismo (negli anni intorno al 1919-20), sino a quelle ricerche astratte d'avan­ guardia che, orientate verso il « movimento puro », mettono per la prima volta consapevolmente le immagini in relazione diretta con il tempo, e, più tardi, alle correnti del dadaismo e del surrea­ lismo. Si tratta per il cinema, come è noto, solo del contraccolpo di fenomeni artistici generali, particolarmente evidenti nella pit­ tura e nella musica. Così la musica si incammina decisamente nel senso dell’impiego coerente e totale del materiale cromatico. All’artista non basta più l’armonia sonora della tradizione clas­ sica; egli aspira a nuove sensazioni musicali, a un modo di com­ porre meno vincolato dalla norma, alla distruzione di ogni in­ tralcio formale oggettivo, che cancelli la differenza tra conso­ nanza e dissonanza, promuova il dissolvimento del senso tonale nella struttura del linguaggio e determini una proporzionale ra­ refazione della concretezza sonora, una progressiva elisione dei legami discorsivi tra i suoni. E analogamente avviene in pittura, dove, di contro alla spazialità definita e concreta dell’esperienza figurativa tradizionale, emerge l’aspetto soggettivo della nozione di spazio, una spazialità cioè entro la quale le forme della na­ tura non hanno più peso né spessore, e perdono in organicità, in consistenza, in coesione di nessi reciproci. Nel frattempo anche il problema dell’impostazione del ro­ manzo subisce un completo rimaneggiamento. Al rapporto tra l’autore e la realtà, che l’Ottocento mantiene sempre costante, al racconto costruito in terza persona, succedono altri tipi di racconto e di tecniche narrative, poggianti sull’io autobiografico, sul flusso delle associazioni mentali lasciate scorrere liberamente (il “ monologo interiore ”) o sulla narrazione * oggettiva ca­ ratterizzata sia dalla scomparsa totale di un punto di vista estra­ neo agli avvenimenti narrati, e perciò di ogni realtà diversa da quella soggettiva della coscienza dei personaggi, sia dalla soppres­ sione dell’identità tra tempo sintattico (oggettivo) e tempo se­ mantico (psichico). Ci sono stretti legami di continuità tra la rappresentazione della coscienza unipersonale in Proust, connes­ sa al flusso di ricordi di un’unica memoria, e quella joyciana della « coscienza pluripersonale », mirante alla sintesi di molte impressioni soggettive avute da molte persone in diversi mo­

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menti ; Puna sorge dall'altra, e talvolta il loro impiego è comune 4. Se già con Proust « ha inizio la disintegrazione della psiche coinè particolare entità », in quanto « l’ordine cronologico delle esperienze cede alla commutabilità dei contenuti della coscien­ za », Joyce oltrepassa lo stesso Proust nella spazializzazione del tempo e presenta gli avvenimenti psichici non solo in sezione longitudinale, ma anche trasversale: tramite il “ monologo inte­ riore ”, immagini, idee, fantasie, ricordi si riversano improvvisi c in contiguità immediata gli uni con gli altri, lasciando traspa­ rire dell’universo esterno, filtrato dalla coscienza, «unicamente frammenti, cose atomizzate, mai connessioni più ampie »5. Joyce riduce l’universo a espressione della coscienza, e nel processo stesso di tale riduzione lo distrugge. Egli dà così la dimostra­ zione nel campo del romanzo, come Eliot in quello della poesia, che i valori della società che rappresenta sono in uno stato de­ cisivo di decadimento; che il mondo dell’uomo, in quanto mondo ilei l’individuo singolo, è privo di ogni significato sociale; e che perciò il problema del destino umano, della ‘ prospettiva ’, deve necessariamente scomparire dall’orizzonte degli interessi decisivi dell’artista. Sul fondamento di « questa deformazione dell’esperienza, che naturalmente non a caso cresce sul terreno della realtà sociale tardo-capitalistica e particolarmente imperialistica », sorge e di­ viene consapevole — osserva Lukàcs — la radicale scissione del decorso temporale individuale da quello fisico-storico: scissione concettualmente elaborata nella filosofia moderna da Bergson, Dilthey ecc. sino a Heidegger e oltre, e che artisticamente, da un punto di vista letterario, « domina tutte le innovazioni for­ mali nella narrativa epica dell’epoca imperialistica e, in partico­ lare, del periodo successivo alla prima guerra mondiale ». In­ tanto che il mondo interiore dell’io si va trasformando in un Unire misterioso e inconoscibile, astratto e vuoto, a rappresen­ tare il tempo 4 autentico ’, * genuino ’, viene chiamato il tempo puramente soggettivo, ossia il tempo dell’esperienza vissuta: 4 Cfr. E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 19632, II, pp. 320 sgg. 5 Cfr. A, Hauser, Storia sociale dell'arte, cit., IV, pp. 363 sgg,; J. W. Beach, Tecnica del romanzo novecentesco, Milano 1948, pp. 395 sgg.; R. Humphrey, Stream of Consciousness in the Modern Novel, BerkeleyLos Angeles 1954, pp. 24 sgg., 49 sgg. (con rimandi anche a Beach); J. Schramke, Teoria del romanzo contemporaneo, Napoli 1980, pp. 112 sgg,

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11 tempo non appare più come il naturale, Soggettivo mezzo sto­ rico del movimento e dell’evoluzione degli uomini, ma si snatura in una potenza esteriore che è di per sé morta e apportatrice di morte: nel decorso temporale si esprime la degradazione della vita indivi­ duale; questo stesso decorso, ormai resosi indipendente, diventa una inesorabile macchina autonoma che appiattisce, livella, annienta ogni desiderio individuale di evoluzione, ogni tratto peculiare, anzi la per­ sonalità stessa6.

Ora il lungo arco di sviluppo compreso tra gli esordi arti­ stici di Chaplin e il compimento della sua maturità espressiva si colloca in un periodo in cui l’isolamento dell’artista moderno è un fatto compiuto: quando cioè in letteratura si dibattono, esasperate, le eredità proustiane e joyciane, e nell’arte musicale e in quella figurativa — con l’emancipazione rispettiva dall’ar­ monia consonante e dalla formulazione oggettiva della nozione di spazio — il rivolgimento di stampo soggettivistico assume un carattere sempre più netto, estremo. Quale atteggiamento tiene Chaplin in proposito? Non poniamo qui, si badi, la questione del grado di consapevolezza teorica dell’orientamento di Chaplin come artista, questione che è in fondo esteticamente secondaria. Rare volte o quasi mai l’artista si trova nelle condizioni sogget­ tive migliori per districare a pieno il senso della sua opera, per scorgere con chiarezza le categorie sociali decisive che, median­ dola, la determinano. Ma se appare generalmente rischioso e pro­ blematico in estetica tentar di ricavare il senso di un’opera par­ tendo dalle confessioni o dichiarazioni o enunciazioni teoriche dell’autore, ciò vale certo tanto più nel caso di un autore come Chaplin, che ha sempre mostrato — e talvolta anche dichia­ rato — di comprendersi poco e male, di fondarsi più che altro, nella sua prassi artistica, sul suo istinto. Le rare enunciazioni teoriche che egli formula intorno a questa prassi non contribui­ scono in alcun modo a illuminarla; spesso anzi la velano e la oscurano, o ne danno un’interpretazione riduttiva. (Già soltanto la constatazione di questo fatto dovrebbe mettere in guardia la critica, più di quanto solitamente non accada, dall’utilizzazione mas­ siccia e indiscriminata dei suoi scritti autobiografici, delle sue interviste ecc.)

6 G. Lukàcs, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, Milano 1956, p. 89.

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La questione che poniamo è di altro genere. Dall’intenziona­ lità soggettiva e consapevolmente orientata dell’artista diverge quell’altra e più profonda, immanente intenzionalità — l’unica artisticamente decisiva — che scaturisce dall’opera stessa come totalità organica, dal contesto organico dei suoi nessi oggettivi. Analogamente a ciò che si verifica presso tanti altri grandi crea­ tori realisti di ogni tempo e ogni campo, in Chaplin l’inconse­ guenza, la contraddittorietà o la scarsa chiarezza dei propositi non sono quasi mai di ostacolo al manifestarsi di questa inten­ zionalità dell’opera e quindi al conseguimento di risultati arti­ stici compiuti. Egli appartiene al novero di quegli artisti, la cui profondità creativa, il cui realismo, risiedono nella capacità di afferrare e rappresentare istintivamente, con vera sensibilità ar­ tistica, la trama di fenomeni, accadimenti, azioni, processi ecc. rivelatori dell’essenza di una certa situazione di vita. Qui si esprime anche il suo sentito rapporto con la modernità. Posto di fronte al rivolgimento soggettivistico dell’arte del Novecento, alle innovazioni prodotte dall’avanguardia, egli non si rinserra nell’espediente accorto, ma assai comodo, di respingerne le sem­ plici conseguenze e affinità formali, ignorando il problema — sto­ ricamente decisivo — della loro genesi; se così fosse, la sua opera non renderebbe giustizia alle determinazioni sociali di cui è materiata, e finirebbe con lo scomparire tra la massa delle pro­ duzioni mediocri, scarsamente significative o anacronistiche. Il punto di vista soggettivo come misura regolatrice dei rappor­ ti oggettivi della società del nostro tempo occupa in Chaplin un posto di un certo rilievo. Egli si mostra sensibile, dal lato della problematica, alle istanze dell’avanguardia, e ne accoglie, ne re­ cepisce le sollecitazioni, avvalendosene per il suo proprio metodo creativo; numerosi fenomeni di disgregazione e deformazione consapevole del reale si affacciano nelle sue opere; e, specialmente nelle più recenti, vi divengono visibili alcune delle ten­ denze sociali che sfigurano la personalità dell’uomo e ne alterano il rapporto col mondo oggettivo. Ciò non tocca tuttavia — ed è quanto qui interessa — il principio in sé della rappresenta­ zione artistica, che, restando di stampo saldamente umanistico, media l’antagonismo soggettivo del contenuto e si contrappone così decisamente al principio stilistico da cui muove la narrativa novecentesca. Chaplin non pretende, affinandosi, di spersonaliz­ zarsi, invisibile e indifferente al proprio lavoro (secondo l’ideale joyciano dell’artista), ma questo lavoro via via definisce e con33

(rolla, non solo stilisticamente, in tutta quanta la sua struttura­ zione prospettica. Non è d’altronde affatto una circostanza senza rilievo che egli tenti e attui il passaggio dalle short-stories alla narrazione distesa, al romanzo, proprio nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, cioè negli anni in cui Joyce, impe­ gnato a fondere nella complicata orchestrazione polifonica delrUZywes le escogitazioni del futurismo e quelle del vorticismo di un Wyndham Lewis, di Ezra Pound e del loro gruppo, si accinge alla dissoluzione conclusiva della forma del romanzo. (Valga il confronto delle comiche chapliniane realizzate per la Keystone, l’Essanay o la Mutual, con II monello, con 11 pellegrino, con La donna di Parigi, o meglio ancora con la grande epopea satirica della Lebbre dell'oro.) In qual senso si può quindi individuare in Chaplin la coe­ sistenza entro lo stesso principio artistico di forme che si pre­ sentano come antitetiche nella loro sostanza di fondo? E più particolarmente: quale tratto specifico giustifica il saldarsi della duplice forma in una struttura organica unitaria? La saldatura può avvenire e avviene soltanto nella misura in cui la visione del mondo ispirata dalla rotale assenza di prospettive circa gli accadimenti sociali e il destino dell’umanità non viene anche perseguita attraverso la deformazione delle determinazioni della realtà oggettiva adattata a questa assenza di prospettive. Proprio come nell'opera di un altro grande artista del nostro secolo, di Thomas Mann, il «soggettivismo del periodo imperialistico [...] resta oggetto della rappresentazione, e non principio direttivo di essa »; alla soggettività moderna, rappresentata in quanto tale, viene qui contrapposto un mondo esteriore indipendente, che si muove secondo leggi oggettive autonome, provoca continue interazioni con la soggetti­ vità e forma il milieu storicamente adeguato per il dispiegamento di essa, ma le cui decisive categorie strutturali non sono determinate da quella, anzi, determinano la sua natura, la sua crescita, il suo dispiegamento 7.

Sulla base di un criterio che relativizza la deformazione sem­ plicemente filistea come quella eccentrico-patologica, e colloca

7 Ivi, p. 121.

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l’ima e l’altra al posto che loro spetta nel quadro della società « l’oggi, Mann riesce infatti a calare il contenuto diretto dell’ere