Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico 887606785X, 9788876067853

Le figure del grattacielo proteso verso l'orizzonte e del formichiere chino sulla terra rinviano a una metafora di

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Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico
 887606785X, 9788876067853

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Edizioni Il Foglio

BIBLIOTECA DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI

Biblioteca di scienze politiche e sociali Comitato Scientifico: António Bento, Professore di Teoria politica Universidade da Beira Interior Giuliano Borghi, Professore di Filosofia della politica Università di Teramo Jean-Louis Clément, Professore di Storia contemporanea Institut d’Études Politiques de Strasbourg Alexandre Franco de Sáa, Professore di Filosofia politica Universidade de Coimbra Alexander V. Marey, Professore di Storia del pensiero giuridico e politico occidentale Scuola Superiore di Economia di Mosca Dalmacio Negro Pavón, Professore di Scienza politica e Accademico Universidad San Pablo CEU-Madrid – Real Academia de Ciencias Morales y Políticas Luis R. Oro Tapia, Professore di Teoria politica Universidad Central de Chile Paul-Ludwig Weinacht, Professore Emerito di Scienza politica Julius-Maximilians-Universität Würzburg I titoli della collana sono sottoposti a referaggio anonimo. Direttori: Carlo Gambescia e Jerónimo Molina Coordinamento editoriale e grafico: Carlo Pompei

Edizioni Il Foglio www.ilfoglioletterario.it Via Boccioni, 28 – 57025 Piombino (LI) © Edizioni Il Foglio – 2019 1a Edizione – Novembre 2019 ISBN ISBN 978-88-7606-785-3 Elaborazione grafica copertina: | [email protected]

Carlo Gambescia

Il grattacielo e il formichiere Sociologia del realismo politico

Edizioni Il Foglio

Il grattacielo e il formichiere

Carlo Gambescia 

Prefazione

L

e figure del grattacielo proteso verso l’orizzonte e del formichiere chino sulla terra rinviano a una metafora di Eugenio Montale che scolpisce la natura proteiforme della realtà, segnata da slanci e cadute e da una molteplicità di idee e comportamenti. Si pensi agli inevitabili alti e bassi che innervano il rapporto dell’uomo con la realtà tout court e di riflesso con la realtà politica. Sotto questo aspetto il realismo politico come teoria e pratica dell’azione politica, capace di affascinare gli intellettuali come di ispirare i politici, può essere la chiave giusta per comprendere l’avvicendarsi di grandezze e miserie così ben colto da Montale. Di quale realismo politico si parla però? La tesi che intendiamo sviluppare si basa su una duplice ipotesi: che da un lato esista un realismo politico standard, predomiminante, al quale ci si attiene, imperniato su un’antropologia negativa, chiusa, che talvolta sfocia nella celebrazione dell’inganno e della forza, mentre dall’altro vi sia la possibilità di abbozzare le prime linee di un realismo consapevole, lontano dal mainstream, quindi non di routine, fondato su un’antropologia aperta, sociologicamente caratterizzata, capace di non escludere per principio la leale collaborazione né il duro conflitto. Nei primi due capitoli cercheremo di definire il significato dei concetti di realtà e di realismo politico standard, criticando in particolare quest’ultimo. Nei due capitoli che seguono proveremo invece a schizzare il ritratto di un realismo politico attento alle ironiche lezioni della storia e non dimentico di quelle della sociologia e della metapolitica. Pertanto l’approccio qui usato non rinvia alla storia delle idee, né alla filosofia politica. Rischiamo perciò di scontentare gli appassionati di ghirigori genealogici o gli affetti da libido definitoria. Non che il volume rifugga dalle definizioni, ovviamente di tipo sociologico, ma chi scrive, ripetiamo, si è ben guardato dalla ricerca di soluzioni, perfette e assolute. Come del resto dalla tentazione di fornire risposte definitive. Quanto alla sua stesura, siamo grati a Jerónimo Molina, condirettore della collana, per i suoi preziosi e dotti consigli sine ira et studio. Ringraziamenti che estendiamo a Carlo Pompei, coinvolto anch’egli nella Biblioteca, come coordinatore editoriale e grafico, non meno prodigo di brillanti suggerimenti. Senza dimenticare le preziose suggestioni di Alessandro Litta Modignani. Ovviamente, la responsabilità di eventuali errori e inesattezze è solo nostra.

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I Realtà e senso della realtà

1. Che cos’è la realtà? Non si può trattare il realismo politico, se prima non si è affrontata una questione di fondo: fornire, o almeno provare a fornire una definizione della realtà. E in questo consiste l’argomento del primo capitolo. Che proprio per il taglio spiccatamente epistemologico potrà apparire al lettore impervio. Si è trattato di una scelta inevitabile perché i concetti sviluppati costituiscono la nostra cassetta degli attrezzi per il successivo studio sociologico del realismo politico nei vari aspetti. Il che però non significa che non si possa iniziare queste pagine citando Eugenio Montale. Anzi lo impone. In versi impareggiabili il poeta capace di cogliere «l’infinito tramutarsi delle sostanze più calorose ed eteree in altre più dure e fredde»1, si interroga sul «realismo non magico». Di fatto, egli poeticamente questiona sul senso e sul significato della realtà. E su ciò che essa «realmente» è. Bisogna ammetterlo, candidamente o meno: dove non pervengono, almeno nell’immediato, le scienze sociali, giunge, e maestosamente, la poesia. Come si fa, ripetiamo, a non citare Montale?

«Che cos’è la realtà/il grattacielo o il formichiere/il Logo o lo sbadiglio/l’influenza febbrile/o la fabbrile o quella/del psicagago».

E poi i versi continuano, scendendo lentamente nel vulcano dell’individualità. Un mondo fumoso, forse tossico, ma sempre pronto a eruttare lava incandescente. Un cosmo che probabilmente rimanda all’Ego del poeta. Che però è specchio di una comune interrogante (e interrogata) umanità, e che quindi riguarda anche l’Altro. Infatti, ci si chiede, «che cosa resta incrostato/nel cavo della memoria/la cresima, la bocciatura/, il primo figlio (non ne ho)/, le prime botte prese/o date,/il primo giorno (quale?),/le nozze, i funerali,/la prima multa/la prima grossa impostura».

1 - Così Camillo Pelizzi, riferendosi a Ossi di seppia in una notevole rassegna oggi dimenticata: C. Pelizzi, Le lettere italiane nel nostro secolo, Libreria d’Italia, Milano 1929, p. 363. Pelizzi, pur trovandosi dinanzi al Montale degli inizi, coglie il nodo che distingue la sua poetica, dettato dal contrasto, quasi fisico, tra immobilità e mobilità delle cose, tra il grattacielo e il formichiere.

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Sono esperienze di tutti. Esperienze comuni, piacevoli o meno, del vivere quotidiano. Qualche verso più in là, riflettendo sul destino della fabbrica sociale, Montale osserva,

«che cosa di noi resta/agli altri/(nulla di nulla all’Altro)/quando avremo dismesso/noi stessi/e non penseremo ai pensieri/che abbiamo avuto perché/non lo permetterà/ Chi potrà o non potrà,/questo non posso dirlo».

Ed ecco le conclusioni.

«Ed è l’impaccio,/la sola obiezione che si fa/a chi vorrebbe abbattere il feticcio/ dell’Inutilità»2.

Montale elenca un serie di epifenomeni così come appaiono, ma in realtà non dà alcuna risposta. Non c’è giudizio o sentenza. Sarebbe di «impaccio». La realtà, che pure ci circonda, tutt’altro che magica, resta allora sospesa tra le grandezze e miserie, tra il grattacielo e il formichiere. Può piacere o meno ma la realtà si insinua tra i colossi di cemento, acciaio, vetro, luci e colori che sfidano il cielo, come la biblica Torre di Babele, e che parlano il linguaggio senza parole della grandezza umana che sfida l’orizzonte. Per poi sfiorare – parliamo sempre della realtà – un mammifero, il formichiere, dall’aspetto curioso, per alcuni ripugnante, privo di denti, con una lingua lunghissima, vischiosa e filiforme, per nutrirsi di termiti e formiche, un animale che vive rasoterra, senza mai alzare gli occhi al cielo. Eppure vive e «c’è». Pertanto, per il poeta, dopo tutto, la realtà è il grattacielo e il formichiere insieme. Nulla di miracoloso: qualcosa di misteriosamente statico e dinamico insieme. Un’inspiegabile rarefazione e condensazione di atomi, secondo i dettami di certo materialismo antico. Tuttavia, quel che c’è di «incrostato» nella memoria è patrimonio di tutti gli uomini? Oppure no? La risposta è nelle cose, se le si riesce a trovare, conoscere e ri-conoscere3. In fondo, non si potrebbe descrivere meglio la natura polarizzata della realtà: sospesa, perché unita e divisa al tempo stesso, tra il grattacielo e il formichiere. Ma sempre pronta a protendersi verso l’alto per poi precipitare. E poi di nuovo risalire verso le cime. E così via.

2 - E. Montale, Realismo non magico, in Satura (1962-1970, d’ora in avanti la data tra parentesi tonde, raramente quadre per ragioni grafiche, indicherà la data originale di pubblicazione, se opera tradotta, quella di pubblicazione nel paese di origine), in Id., Poesie, pref. di G. Raboni, MondadoriCorriere della Sera, Milano 2004, pp. 153-154. 3 - Pelizzi, tra l’altro, accenna al possibile rapporto tra Montale «e quelle teorie della fisica recente»: ipotesi che forse sottende il buon uso, forse involontario, della teoria della relatività come giustificazione, scorta dal poeta, per giungere a una necessaria presa di distanza dalle cose (C. Pelizzi, Le lettere italiane nel nostro secolo, cit., p. 363).

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Una realtà che pure è «impaccio» e «sbadiglio», tesa come una corda esistenziale tra febbre di conoscenza, ansia fabbrile, di costruire, mercato di anime condiviso (e conteso) tra educatori e negromanti. Il senso è dato dalla polarità oggettiva delle cose e dalla loro ineludibile presenza. Il significato è un tentativo di andare oltre l’invalicabilità delle cose contrassegnandole, talvolta marchiandole con il ferro e con il fuoco4. Certo, l’invalicabilità, in assoluto, si supera solo con la morte: per andare, e per sempre, in qualche altrove. Dopo di che coloro che restano non potranno non continuare a interrogarsi su quale significato attribuire al grattacielo e al formichiere che sono sempre lì, schierati dinanzi ai sensi di coloro che verranno dopo di noi. L’unico «impaccio», ma prima, molto prima, durante l’esistenza, è dato dall’impossibilità di mutare il formichiere in grattacielo e il grattacielo in formichiere. Si può discutere del loro significato, ma non del loro senso. Il grattacielo e il formichiere possono essere definiti inutili, addirittura privi di qualsiasi capacità di attrazione. Ma in realtà il senso è dettato dal loro stesso apparire, dalla loro stessa presenza, dalla loro stessa invalicabile oggettività e connotazione. Montale insegna che il grattacielo e il formichiere sono le facce della medaglia-realtà. E non possiamo farci nulla. Il significato può cambiare, ma il senso no, perché è oggettivo e ci fronteggia. O grattacieli e/o formichieri: insieme e separati al tempo stesso. Sono elementi o meglio dati oggettivi sganciati in prima battuta da qualsiasi valutazione soggettiva. Del resto «che cosa resta di noi agli altri»? Nulla, in quanto soggetti: «Quando avremo dismesso noi stessi» non più «penseremo ai pensieri che abbiamo avuto». Potrebbe resistere la

4 - Con senso intendiamo la percezione, con significato il giudizio attribuito alla percezione. Ovviamente la nostra è una scelta euristica tra le altre. Nessuna pretesa di compiutezza. Per le numerose e varie nomenclature dei concetti si rinvia a N. Abbagnano, Dizionario filosofico (1960), 3a ed. aggiornata, a cura di G. Fornero, Utet, Torino 2006, p. 984 (“Senso”), pp. 991-996 (“Significato”). Probabilmente, qualche purista storcerà il naso su questo rinvio e altri che seguiranno, perché, per dirla con il Croce durissimo recensore del Lafargue, filosofo dilettante, sono cognizioni, le nostre, che «risentono assai di dizionario enciclopedico» (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica [1900], Editori Laterza, Roma-Bari 1973, p. 170). Chi scrive non è uno storico delle idee ma un umile sociologo, di qui la necessità di rimettersi a chi ne sappia di più, nel caso all’autorità di Abbagnano. Un filosofo, esistenzialista va ricordato, che resta tra i padri rifondatori, quantomeno come apertura mentale, della sociologia italiana del dopoguerra. A riprova si veda N. Abbagnano, Problemi di sociologia, Taylor, Torino 1959. D’altra parte, questa sua magnanimità cognitiva, da sociologo della conoscenza mancato ma non meno profondo, valorizza le voci del Dizionario filosofico e per così dire le rende ai nostri occhi concettualmente attraenti. Simpatia cognitiva che si estende a Camillo Pelizzi che fu uomo politicamente irrequieto, studioso coltissimo, cattedratico di sociologia e traduttore. Di lui si veda Rito e linguaggio, Armando Armando, Roma 1964, nonché la monografia dedicatagli da D. Breschi e G. Longo, Camillo Pelizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003. Troppe citazioni? Quando si tratta di debiti intellettuali non sono mai troppe…

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fama, per i più bravi o fortunati. Ma anch’essa ha i suoi misteriosi cicli legati alla buona o cattiva sorte. Non si parla forse – ironia del caso – nel linguaggio critico dello studio della «fortuna» di questo o quell’autore?5 Riassumendo: la realtà, come momento oggettivo, con le sue grandezze e miserie, dettate dalla realtà stessa. Quindi, ripetiamo, la realtà come senso. Il significato come interpretazione della realtà6. Secondo una definizione elementare, da dizionario filosofico, la realtà «nel suo significato proprio e specifico del termine designa il modo d’essere delle cose in quanto esistano fuori dalla mente umana o indipendentemente da essa»7. Vanno però considerate altre due accezioni. Realtà, come ciò che è «in contrasto con apparenza, illusione e simili». Realtà che allora «significa[…] l’essere in uno qualsiasi dei suoi significati esistenziali». Nonché, altra accezione, realtà come qualcosa «in contrasto con possibilità, potenzialità e talora anche con necessità». Sotto questo aspetto «la parola significa attualità o effettualità o ciò che si è attuato od effettuato e possiede l’esistenza di fatto»8. Da ciò discende, per confermare la metafora di Montale, che il grattacielo e il formichiere: 1) esistono indipendentemente; 2) non sono illusioni, apparenze, né possibilità o potenzialità, ma talvolta, come vedremo, si impongono come ulteriore necessità significativa; 3) rinviano a ciò che si è attuato o effettuato: esistono. Ovviamente, il grattacielo è opera dell’uomo, il formichiere esito di un processo evolutivo biologico, processo che del resto è all’origine stessa degli esseri viventi. Alle cui scaturigini il credente porrà l’opera di dio, il non credente il «Big Bang» o una altra causa che astragga da un creatore divino. La questione «delle origini» è questione importante, e non solo dal punto di vista di una teologia o di una ateologia. Sono questioni ontologiche, che se affrontate su queste pagine, invece schiettamente gnoseologiche, ci porterebbero fuori dai fuochi della nostra ellisse sociologica9. 5 - Come da definizione: «La diffusione che l’opera ebbe, le sue edizioni, gli studi che suscitò, gli influssi su altre opere: quell’insieme che si chiama la “fortuna” di un’opera o di uno scrittore». (Cfr. “Critica”, Enciclopedia Treccani online: http://www.treccani.it/enciclopedia/critica/). 6 - Sulla necessità di tornare a fare i conti con la realtà, come entità non manipolabile ad infinitum come imporrebbe invece l’ermeneutica postmoderna, rinviamo a M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo (2012) Editori Laterza, Roma- Bari 2013. Si veda anche M. Ferraris e M. De Caro (a cura di), Bentornata realtà, Torino, Einaudi 2012. 7 - N. Abbagnano, Dizionario filosofico, cit., p. 908 (“ Realtà”). 8 - Ibid., pp. 910-911. I corsivi sono nel testo. 9 - Anche Maurizio Ferraris per le sue indagini ha scelto il campo della dimensione ontologica, ritenendo di scorgere nella realtà «l’unica tutela dell’arbitrio». Quindi, diversamente dal nostro approccio, realtà come fondamento e non come fattore gnoseologico. Al riguardo si veda di Ferraris, l’au-

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Detto ciò, possiamo finalmente dare una definizione del concetto di realtà. Si dice realtà, sotto il profilo del senso, dunque della sua percezione, un’entità che pre-esiste, esiste e post-esiste nel quadro della continuità dell’uomo come specie10. La realtà-senso, percepita, però rinvia alla realtà-significato, frutto di un giudizio, se si vuole di un’interpretazione, che a sua volta però si solidifica prima in credenze poi in istituzioni. Parliamo, in quest’ultimo caso, di una realtà-significato che, proprio perché chiama in causa il significato, rinvia: 1) a significati differenti, tanti per quanti sono gli attori e gli osservatori degli attori; significati differenti che, 2) pur partendo dalla realtà-senso, possono cogliere o meno la stessa realtà-significato, che può non essere la stessa rispetto all’osservatore e all’osservato11. Comunque sia, gli uomini (singoli e collettivi, come istituzioni) passano, ma la realtà, in quanto tale, di specie, resta. Per dirla con Julien Freund, anticipando le nostre tesi, la politica, come flusso dei contenuti storici, passa, il politico, come forme che si ripetono, rimane. Torneremo sul punto più avanti. Ma c’è dell’altro. La realtà-significato è soggetta a un fenomeno che la psicologia sociale definisce dissonanza cognitiva.

2. La dissonanza cognitiva Partiamo da un esempio classico. Un fumatore scopre che il fumo fa male. Dunque sa che esiste una realtà-fumo-fa-male come fattore negativo per la salute. Sorge quindi una dissonanza cognitiva: si fa una cosa che invece si dovrebbe evitare di fare per il proprio bene. Se il fumatore decidesse di smettere, mutando il comportamento, la dissonanza, si risolverebbe da sola, tornerebbe la consonanza o corrispondenza tra il dato cognitivo, o reale-significativo (il fumo fa male) e il dato comportamentale (non si fuma più).

topresentazione in D. Antiseri e S. Tagliagambe (a cura di), Filosofi italiani contemporanei, Bompiani, Milano 2009, pp. 226-235. 10 - «Specie» in senso riproduttivo, come continuità di individui fecondi in grado di riprodursi. Si potrebbe obiettare che se si estinguesse l’uomo, sparirebbe anche la realtà. No, resterebbe la realtà del formichiere… Con i grattacieli, inutili monumenti di una realtà di specie annientata. Ovviamente, la stessa argomentazione può essere estesa al formichiere. E così via… 11 - Di regola, esistono due forme di attribuzione di significato che riflettono: 1) il significato delle cose come sono e 2) il significato delle cose come dovrebbero essere. Lo studio delle cose come sono, rinvia al metodo scientifico-induttivo-deduttivo (basso→alto/alto→basso), quello delle cose come dovrebbero essere rimanda al metodo etico-deduttivo (alto→basso). A onor del vero, esiste però una terza forma di attribuzione: 3) che non rinvia ai fatti né ai principi, ma al giudizio solipsistico di chiunque rifiuti il mondo fenomenico oggettivo e che quindi guardi alla realtà come a una creatura dell’io, soggettiva: «Del mondo come io vorrei che fosse» (io→alto-basso).

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Se, tuttavia egli decide di non smettere di fumare lo stato di dissonanza, tra la realtà-fumo-fa-male e il fumare permarrà, con conseguenze psico-esistenziali: dal fatalismo alla malinconia oppure dall’attaccamento (al modo di vita «deviante») al nichilismo (del «Tanto peggio tanto meglio»)12. Si potrebbero però imporre altre soluzioni, meno estreme. Quali? C’è un’altra possibilità in particolare. Il fumatore, non pentito può mettersi in cerca di nuove credenze sul fumo (nuovi fatti-significato) che giustifichino la sua protervia da fumatore (ad esempio: «Molti medici fumano, se fumano i medici, allora…»). Oppure punterà su nuove informazioni, scientifiche o meno, che attestino che il fumo ha addirittura effetti positivi (ad esempio: «Il fumo stimola l’attività creativa»). In pratica, egli cercherà invece di rinunciare al fumo, di individuare credenze e informazioni capaci di giustificare la sua decisione di continuare a fumare. Riassumendo: da una parte, abbiamo una realtà (realtà-significato), quella che il fumo fa male, dall’altra la realtà-senso costituita dall’esistenza delle sigarette. Esse esistono proprio come il grattacielo e il formichiere. Lasciamo però la parola a Leon Festinger, psicologo sociale scomparso nel 1989, al quale si deve il concetto di «dissonanza cognitiva»». «1. Possono esistere relazioni dissonanti o incongruenti tra elementi cognitivi. 2. l’esistenza della dissonanza dà origine a pressioni tendenti ad eliminarla e ad evitarne l’aumento. 3. Le manifestazioni di queste pressioni, sul piano operativo, includono cambiamenti di comportamento, di cognizione, e un cauto aprirsi a nuove informazioni e a nuove opinioni»13.

Con «elemento cognitivo» si indicano credenze e opinioni. Si potrebbe parlare di «sapere personale»14.

12 - Ovviamente, si smette di fumare anche per un atto di pura volontà, senza ricorrere a «giustificazioni» di alcune genere: «E dal quel giorno smisi di colpo di fumare, così per un atto di volontà…», come talvolta riferiscono gli ex fumatori. A noi però qui interessa l’aspetto cognitivo e razionalizzante della questione. Diremmo paretiano, come studio delle «derivazioni», ossia delle giustificazioni. Si veda V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), a cura di G. Busino, Utet, Torino 1988, 4 voll., III vol. (“Teoria delle derivazioni”). 13 - L. Festinger, La teoria della dissonanza cognitiva (1957), Angeli, Milano 1973, p. 28. Di questi tempi, la nostra fedeltà epistemologica a Festinger potrebbe stupire. Infatti ai modernissimi cultori della neuroeconomia, oggi sulla cresta dell’onda, l’approccio festingeriano appare arcaico. In realtà, a nostra volta, scorgiamo in questi nuovi sviluppi il forte rischio di approdare al determinismo neurologico delle emozioni studiate a colpi di risonanze magnetiche. Di qui, certo nostro scetticismo. Sull’approccio si veda A. Antonietti e M. Balconi (a cura di), Mente ed economia. Come psicologia e neuroscienze spiegano il comportamento economico, il Mulino, Bologna 2008, raccolta non recente ma bene impostata, pertanto più che sufficiente per intuire i pericoli della deriva deterministica. Per contro, interessanti spunti, peraltro molto critici, in M. De Francesco, La penultima verità? Naturalismo e neurofilosofia, in “Rivista di estetica”, n. 44, 2010, pp. 7-28, consultabile qui: https://journals. openedition.org/estetica/1685. 14 - Si veda P. Amerio, Teorie in psicologia sociale, il Mulino, Bologna 1982, pp. 199-225, dove si

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Osserva Festinger che

«con il termine cognizione, qui e nel resto del libro, intendiamo ogni conoscenza, opinione, o credenza che riguardi l’ambiente, la propria persona o il proprio comportamento.[…] Questi elementi si riferiscono a ciò che è stato chiamato cognizione, cioè alle cose che un individuo sa di se stesso, del suo comportamento, del suo ambiente circostante. […] Questi elementi allora sono “consapevolezze”, se mi è permesso di coniare il plurale di questo termine.[…] Alcuni di questi elementi rappresentano la consapevolezza di se stessi: di ciò che si fa, si sente, si vuole o si desidera, di ciò che si è. […] Altri elementi di consapevolezza riguardano il mondo in cui si vive: cos’è un luogo, che cosa conduce a qualche altra cosa, quali cose sono soddisfacenti o penose, illogiche o importanti»15.

Pertanto il rapporto tra realtà-significato e i differenti saperi personali può divergere. E qui sorge una domanda: si può sostenere che quanto più la dissonanza cognitiva si ridurrà tanto più la credenza ricompositiva incarnerà il senso della realtà? No. O comunque dipende. Perché come abbiamo visto la dissonanza può essere ricomposta sulla base di informazioni cognitive contrastanti. Il fumo fa male o bene? Dipende dal tipo di credenza ricompositiva scelta16. Ricomposizione – ecco il punto centrale – che, per estendere ed esemplificare l’argomentazione, rinvia a informazioni e flussi cognitivi che rimandano ai vari campi della vita sociale e politica. Ci spieghiamo: il lavoro fa male o fa bene? La ricchezza è sempre meritata oppure no? Le istituzioni rappresentative funzionano oppure no? Il socialismo ha fallito oppure no? E così via. Insomma, il senso della realtà, pur non essendo come vedremo una scatola vuota da riempire con quel che piace, non è un bene così diffuso. Da un lato abbiamo la realtà (il fumo, il lavoro, la ricchezza, le istituzioni rappresentative, il socialismo), dall’altra i tentativi di ricomposizione cognitiva della realtà attraverso dei mezzi (il sapere personale). Pertanto il senso della realtà – come fusione – rinvia alla consapevolezza che esistono numerose possibilità ricompositive. Certo, il senso della realtà implica sempre una buona dose di relativismo interpretativo. Senso della realtà che però, come vedremo, non dovrà mai caintroduce il concetto di «sapere personale», come «conoscenza che l’uomo ha di sé e del proprio ambiente anche se non sempre necessariamente consapevolizzata, che sta al centro dell’esperienza, dei processi di previsione e di azione, ed in definitiva del processo di adattamento» (Ibid., p. 201). Concetto che facciamo nostro. 15 - L. Festinger, La teoria della dissonanza cognitiva, cit., pp. 3-8. 16 - In termini cognitivi, la credenza ricompositiva va intesa come unione di senso e significato (ad esempio: credenza ricompositiva = sigarette + fumo-che fa male; oppure sigarette + fumo che fa bene, e cosi via).

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dere nella trappola del relativismo puro. Ovviamente, è vero che la realtà, alla fin fine, sembra essere a portata di mano (sigarette + fumo che fa male), ma è altrettanto vero che le interpretazioni possono essere almeno due (il fumo fa male o fa bene), o comunque partire da due, per poi risalire alla molteplicità delle opinioni e credenze umane giustificatrici o meno del tabagismo. Ma anche come abbiamo visto del lavorismo, del «plutocratismo», del parlamentarismo, del socialismo. Quanto al valore delle differenti ricomposizioni esso rinvia al contesto e agli strumenti cognitivi in senso lato. E quindi, intanto, alle etiche di riferimento degli attori, che fondamentalmente sono due: un’etica della responsabilità (o dei mezzi), oppure un’etica dei principi (o della convinzione). Per dirla con una pagina classica di Max Weber,

«dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ricondotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dall’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel “senso di un’etica dei principi” oppure di un’“etica della responsabilità”. […] La massima dell’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, recita: “Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agire nelle mani di dio”, oppure secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire […]. Se le conseguenze di un’azione derivante da un puro principio sono cattive [ci si difenderà asserendo che] ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati tali. Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media degli uomini. Egli non ha infatti […] alcun diritto di dare per scontata la loro bontà e perfezione, non si sente capace di attribuire ad altro le conseguenze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle»17.

Il grattacielo e il formichiere due indubitabili realtà. Lo dicono i sensi, nonché la dinamica etica dei significati che non può prescindere da un giudizio di valore sul grattacielo e il formichiere. Ad esempio, un ambientalista, ligio all’etica dei principi di conservazione del pianeta, vedrà il grattacielo e il formichiere come antitetici: il primo, come una spregevole forma di innaturale tirannia funzionale e abitativa; il secondo, come un magnifico esempio di organismo spontaneamente autocentrato. Per contro un economista, fedele all’etica della responsabilità, scorgerà nel grattacielo un mirabile esempio di architettura intensiva e produttiva, mentre nel formichiere una curiosità da bioparco per divertire i suoi nipotini. Dove è minore la dissonanza cognitiva? Chi dei due incarna il senso della realtà? Difficile dire. Ci si dovrà accontentare della constatazione – quale por-

17 - Si veda M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione - La politica come professione (1917 e 1919, conferenze), pref. di M. Cacciari, Mondadori, Milano 2006, pp. 121122. L’inserto tra parentesi quadre è nostro.

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tato di una consapevolezza, come piena conoscenza di qualcosa – che esiste la dissonanza cognitiva e che non è così semplice accorciare le distanze, insomma ricomporre e fondere. Il che però – pensiamo alla ricomposizione – non può essere escluso in linea di massima. Ma impone, come visto (e come vedremo più avanti), il ricorso all’etica dei principi e/o all’etica della responsabilità. Ricorso che non sempre sana le cose. Perché, ad esempio, ci sarà sempre chi continuerà a credere in una certa idea politica, nonostante che di fatto essa abbia fallito. Ricomponendo, la sua dissonanza cognitiva, in barba a qualsiasi senso della realtà. Proprio come ogni accanito fumatore…

3. Il senso della realtà Dopo aver definito il concetto di realtà e introdotto quello di dissonanza cognitiva, per spiegare la contrastante dinamica conoscitiva ed etica inerente alla realtà, dovremo approfondire il concetto di senso della realtà. Il terzo polo della concettualizzazione qui inanellata: 1) realtà (come senso e significato); 2) dissonanza cognitiva (come esito di una discrepanza tra sapere personale e realtà-significato; 3) senso della realtà, come tramite o mezzo ricompositivo. Il senso della realtà rimanda, oltre che alla ovvia percezione-senso della realtà, alla realtà-significato: quest’ultima rinvia, chiudendo il circolo cognitivo, alla fusione tra questi due elementi. Cosa non sempre facile, come abbiamo visto. Ricapitolando: la realtà-significato rappresenta la forma, il sapere personale il contenuto immesso nella forma. Facciamo un esempio. La forma-progresso (la realtà-significato) può essere una cosa buona, ma il sapere personale (il contenuto) può giudicarla una cosa cattiva. Ora, a parte i reazionari, tutti gli altri, dai conservatori ai progressisti, sono favorevoli al progresso scientifico (realtà oggettiva), non tutti però condividono alcune applicazioni tecniche della scienza (secondo il proprio sapere personale, dunque il contenuto). Pertanto, il giudizio positivo riguarda la forma, mentre i giudizi negativi o meno i contenuti. Di qui, la possibilità o meno di una concordanza tra realtà-significato e sapere personale. Come abbiano accennato, il grattacielo, ammirato da alcuni, può essere giudicato da altri un pericolo per l’esistenza dei formichieri, dal momento che – si dice – la città come teatro di insediamento molto aggressivo, insidierebbe la campagna, quindi l’habitat del formichiere. Di conseguenza, la contesa tra forma-progresso (o realtà-significato) e interpretazioni contenutistiche (sapere personale), contesa che riflette una dissonanza cognitiva, impone, se si aspira come socialmente necessario alla

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ricomposizione18, il ricorso a una specie di giudice. Ossia a un sistema cognitivo terzo che può essere denominato senso della realtà. Che cos’è allora il senso della realtà? È la capacità di discernere tra realtà-senso e realtà-significato da una parte e sapere personale dall’altra. In sé, il senso della realtà può essere rappresentato come la capacità di individuare ciò che è essenziale da ciò che non è. Capacità che resta un dono, qualcosa di misterioso che non tutti gli individui possiedono. Una questione di Dna? Forse. Inoltre, potrebbe addirittura trattarsi di una virtù che riguarda i migliori: coloro che hanno le doti per far parte, qualora siano presenti anche altre condizioni, della élite sociale, a prescindere dall’ambito di appartenenza politico, economico, culturale, professionale, religioso, artistico, eccetera. Ad esempio, un politico che di una questione colga subito l’aspetto politicamente essenziale; un imprenditore che individui un mercato, tra molti altri, foriero di profitti e crescita; un artista che intuisca, senza perdersi in inutili ghirigori, ciò che renderà la sua opera unica. E così via. Sul piano dell’applicazione sociale – se si vuole della sociologia della conoscenza19 – il senso della realtà può favorire la riduzione o ricomposizione della dissonanza cognitiva e facilitare l’integrazione societaria. Si potrebbe parlare di scoperta o invenzione sociale. L’inventore sociale inizialmente troverà davanti a sé le critiche dei misoneisti, dei pigri, dei conformisti, ma se realmente capace di favorire l’integrazione, la sua conquista supererà ogni problema di senso, per acquisire un significato stabile. Penetrando per convincimento nei piani alti della gerarchia sociale e radicandosi in seguito nei gradini inferiori del circuito societario, all’inizio faticosamente ma via via con crescente velocità, attraverso i processi di emulazione e mimesi collettiva20. Il contrario del senso della realtà è il senso dell’irrealtà: l’incapacità di cogliere l’essenziale della realtà, incapacità che rischia sempre di prolungarsi nei processi di disorganizzazione e disintegrazione sociali. 18 - Socialmente necessario dal punto di vista del vincolo dell’interdipendenza sociale, come vedremo più avanti. 19 - Per una definizione del concetto di sociologia della conoscenza, come individuazione delle varie connessioni («causali, funzionali, logiche, significative…») tra struttura sociale ed elementi culturali, rinviamo a L. Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino 1983, pp. 161-167 (“Sociologia della conoscenza”). 20 - Sono processi, quelli di propagazione dell’invenzione, che di regola si svolgono dall’alto verso il basso, top-down. Sull’intera questione resta insuperabile la pionieristica monografia di G. Bouthoul, L’invention, Marcel Giard, Paris 1930. Su Gaston Bouthoul, si veda la straordinaria introduzione di J. Molina, Gaston Bouthoul, inventor de la polemología. Guerra, demografía y complejos belígenos, Centro de Estudios Políticos y Costitucionales, Madrid 2019. Sul punto cfr. pp. 79-85.

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Detto altrimenti: in questo caso non si scopre un bel nulla, al massimo si valorizza l’inessenziale. Alcuni esempi: un politico che si perda nei dettagli non scorgendo il pericolo principale all’orizzonte; un imprenditore che cada imprigionato nella routine aziendale; un artista che sprofondi nel manierismo. E via di seguito. Il senso della realtà è invece metaforicamente rappresentato dalla capacità, probabilmente intuitiva, di ricondurre all’unità nell’ambito dei significati, pur accettandone la diversità, il grattacielo e il formichiere: di assolutizzare il relativo e di relativizzare l’assoluto. Come dicevamo, l’alto e il basso, il nobile e il plebeo, l’elegante e l’ordinario. E così via. Il senso della realtà è capacità di sintesi e di innovazione, privilegia l’etica dei mezzi, anche materiali, nel senso che, consapevolmente, parte da ciò che ha a disposizione, senza però perdere di vista i fini ultimi, frutto di convinzioni ideali. Di qui il rinvio all’immaginazione, ma non al pensiero mitico. Facciamo subito un esempio di immaginazione-argomentazione non mitizzante. Agostino nel suo capolavoro, per distinguere lo stato da una banda di briganti fa appello al senso di giustizia che deve innervare lo stato e le altre forme di organizzazione sociale. E usa una magnifica immagine. Rileggiamo Agostino.

«Bandita la giustizia, che altro sono i regni se non associazioni di delinquenti? E le bande di delinquenti che altro non sono se non piccoli regni? Si ha infatti un’associazione di uomini quando un capo comanda, è stato accettato un patto sociale, la divisione del bottino è regolata da certe convenzioni. Se questa compagnia recluta nuovi malfattori, occupa un paese, stabilisce le proprie sedi, si impadronisce di città e soggioga i popoli, prende il nome di regno; titolo che le viene conferito non perché sia diminuita la sua cupidigia, ma perché a questa si aggiunge l’impunità. Cosi disse un pirata, fatto prigioniero, con arguzia e verità, ad Alessandro Magno. Interrogato da questo sovrano con quale diritto infestasse il mare. Egli con audace libertà rispose: “Per lo stesso diritto con cui tu infesti tutta la terra. Perché io non ho che una piccola nave, sono chiamato corsaro, e perché tu hai una grande flotta sei chiamato imperatore”»21.

In qualche misura, per riprendere le tesi di Ernst Cassirer, Agostino guarda allo stato di diritto e disdegna uno stato innervato dal solo volontarismo della forza, come del resto uno stato animato da una qualche idea mitica, priva di ricaduta giuridica. Agostino, respinge sia l’idea di Kratos che di Utopia, su questa terra. E lo fa usando l’immagine metaforica della banda di briganti. In Agostino, oltre all’intuizione (descrittiva e in negativo) della dottrina criminogena della politica (sulla quale torneremo più avanti), si ha la fusione, 21 - Agostino, La Città di Dio, Edizione Paoline, Roma 1947, Libro IV, Cap. IV, vol. I, p. 190.

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o quantomeno il tentativo di fusione22, tra etica della responsabilità (il rischio del pirata) ed etica dei principi (l’importanza del diritto). Agostino indica la via maestra, seppure in chiave trascendente, di ogni buon realismo politico fondato sul senso della realtà e perciò consapevole che la ricomposizione della dissonanza cognitiva, ovviamente cauta, mirata, talvolta intesa addirittura solo come tensione «verso», resta un processo faticoso, che non può non partire dai fatti, ossia dalle cose come sono23.

4. Senso della realtà, ironia e immaginazione Il senso della realtà, implica anche il momentaneo distacco dalla realtà. Il saper dominare, a termine e sincronicamente (cioè al momento dato) il proprio sapere personale. Per poter così oggettivare il mondo (momento dall’assolutizzazione) attraverso la presa di distanza diacronica, cioè in termini di sviluppo storico (momento della relativizzazione). Di qui, la necessità del ricorso all’ironia. Però si faccia attenzione: ironia non come annullamento della realtà giudicata alla stregua di un gioco solipsistico. Per capirsi: come ironia che si rivolge a ciò che non esiste, o che addirittura essa stessa crea e ricrea, quale celebrazione dell’Io secondo lo spirito romantico dell’uomo eccezionale. Per inciso, se fosse così, saremmo davanti alla fonte poco miracolosa, se non addirittura avvelenata, di ogni romanticismo politico24. Ironia, intesa invece come sguardo consapevole, sguardo rivolto a dare minore importanza a se stessi e alle cose. Si pensi all’ironica umiltà maieutica di

22 - Come nota Cassirer, in Agostino l’idea di giustizia - a differenza di Platone che da par suo la cognitivizza, idealizzandola in pensieri puri - rinvia ai principi cristiani come pensieri di dio e per ricaduta al concetto, però mitologico, di peccato originale, come portato di una punizione divina. Di conseguenza, Agostino perviene a una super-idealizzazione, valida dal punto di vista interno della teologia cristiana e della fede, ma insoddisfacente da quello esterno di una razionale sociologia del diritto costituzionale. Cfr. in argomento E. Cassirer, Il mito dello stato (1946), premessa di C.W. Hendel Longanesi, Milano 1971, pp. 143-152. 23 - Per inciso, la questione delle «cose come sono» rinvia all’«angolazione» dalla quale si guarda il mondo, o quantomeno al riconoscimento di un’incombenza strutturale che comunque preme sul momento soggettivo-cognitivo, alla quale ci può sottrarre o meno, scegliendo l’oggettività, ossia la visuale di colui che osserva gli attori sociali «in situazione» dall’esterno. Come preservare questa oggettività? Sforzandosi di restare, come vedremo più avanti, a guardia dei fatti, ma in modo particolare, cioè prendendo atto che se i fatti mutano - perché non possono non mutare come contenuti - permane però la realtà, che è imprevedibile ma anche produttrice di regolarità come forme. 24 - Esiste però il pericolo opposto: quello del rifiuto del romanticismo ma anche di ogni gnoseologia, per puntare su una filosofia satirica e aforistica che travisa lo stesso concetto di ironia, riabilitando, sebbene mascherato di pragmatismo, il soggettivismo, quale riduzione delle cose al soggetto pensante. Come esempio si veda R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà (1989), Editori Laterza, Roma-Bari 1989.

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Socrate, «arte ostetrica rivolta alla psyché»25, all’anima. Ora, senza invadere campi che non sono nostri, si tratta, sociologicamente parlando, di un atteggiamento che non significa affatto non dare importanza alle cose ma che implica, diremmo impone, il mutamento di sguardo. Cambiamento di angolazione, se non addirittura rovesciamento. Ciò vuol dire, facendo un passo avanti, senso ironico e senso della tragicità – perché può anche non esservi risposta… – ben temperati insieme. Ad esempio, sulla condizione di imprevedibile-prevedibilità, ossia di prevedere l’imprevedibilità: di accettare, semplificando, l’imprevisto come fattore ricorrente negli eventi umani, di metterlo in conto, si può anche riuscire a sorridere26. Perché no? Certo, ridere sarebbe troppo. Ovviamente, chi voglia sorridere. Anzi chi ne sia capace. Il che – mettere in conto l’imprevisto, ridotto in soldoni – non significa però come giustamente afferma Weber che non si possano valutare le conseguenze del proprio agire, fin dove è possibile prevederle. Certo, oltre non si può andare. Il che è tragico e ironico, perché prevedere è vedere qualcosa prima. Ma ci si può anche ingannare: intravedere, stravedere, eccetera. Comunque sia, nulla si sa sul destino personale degli attori sociali. Ad esempio, guerra e pace si alternano nella storia umana. Perciò si tratta, come vedremo più avanti, di fenomeni che hanno la caratteristica della regolarità. Ma scoppierà «quella» guerra? Sì. E allora chi vincerà? Difficile dire. E chi, soldato, cittadino, politico, che oggi – momento sincronico – si interroga sui suoi esiti, è sicuro che, domani – momento diacronico – una volta finita la guerra, sarà vivo e vegeto? Quesito da morto che cammina (forse), che è tragico e ironico al tempo stesso. Ovviamente nei termini – perché anche questo è possibile – di una fin troppo conciliante riduzione della dissonanza cognitiva. Non si diceva (e dice) forse che «chi per la patria muor vissuto assai»27. Basterà credervi. Pensiamo quindi a una consapevolezza dell’imprevedibilità, che però resta tale, perché c’è sempre l’imprevisto. Certo, la questione la si può chiudere

25 - Sul punto cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica (1975), Vita e Pensiero, Milano 1987, vol. I, pp. 365-369, dove, commentandolo, si riporta per intero il passo del Teeteto platonico in cui Socrate spiega la «maieutica». «Invenzione» che Reale, in contrasto con Maier, sembra attribuire a Socrate non a Platone. 26 - Per una distinzione tra i due tipi di ironia, come «forme fondamentali», socratica e romantica, si rinvia a N. Abbagnano, Dizionario filosofico, cit., pp. 615-617 (“Ironia”). Sull’approccio socratico, torneremo nella chiusa del volume. 27 - Come, per l’appunto, recita il coro dell’opera Caritea regina di Spagna del compositore italiano Saverio Mercadante, anno di grazia 1826, poi modificato in canto di battaglia e morte dei mazziniani Fratelli Bandiera nel Vallone di Rovito, il 25 luglio del 1844. Si veda: http://www.operalibera.net/ joomla/approfondimenti/659-lirica-e-risorgimento-chi-per-la-patria-muor.

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subito: «Se si muore in guerra, si muore per la patria»… Basterà credervi, ripetiamo. Ma vi crederà chi resta? Consapevolezza però, dicevamo, della patria. E di uno stato. Se allarghiamo la visuale politica, si scopre la consapevolezza della necessità di un potere comune per governare – se possibile da lontano – la stessa imprevedibilità dell’uomo come fonte di imprevisti28… Potere comune che poi verrà dottrinalmente articolato secondo modalità diverse da Hobbes e Locke, il primo in chiave assolutistica, il secondo costituzionale: per Hobbes i diritti restano condizionati all’obbedienza, e quest’ultima alla protezione che discende graziosamente dal sovrano; per Locke i diritti naturali precedono l’obbedienza come la protezione. Quel che qui però interessa è il tentativo di trovare soluzioni conoscitive all’imprevedibilità dell’agire umano: come governare le dissonanze. Attenzione, «governare» non eliminare e per sempre. Sforzo sisifico dunque. Ma non inutile come nel famoso mito. Qui il punto si fa interessante anche per un’altra importante ragione. Perché l’imprevedibilità per Hobbes rende l’uomo pericoloso, mentre per Locke, più semplicemente, riflette il benevolo rischio necessario insito nella libertà naturale29. Crediamo che Hobbes – che ovviamente lo si può interpretare in tanti modi – sia il più profondo, perché l’uomo imprevedibile non è buono né cattivo ma più semplicemente pericoloso, il che non rinvia a un’antropologia negativa, o almeno non del tutto30. Apre delle possibilità. Per contro, in talune circostanze per gli uomini, stretti tra una vita guidata dal caso e dalla necessità di protezione, la libertà naturale – colmo dell’ironia – può rivelarsi un peso. Il che è

28 - L’imprevisto è ciò che è dovuto a circostanze fortuite. L’imprevedibilità rimanda a una possibilità estranea a qualsiasi supposizione, quindi dovuta a qualcosa di altrettanto fortuito. Con questi limiti conoscitivi, come vedremo, devono fare i conti le scienze sociali e il realismo politico. Di certo, non vi si può far fronte con la profezia o con il naturalismo. Per un classico antidoto a questi due estremi pseudo-conoscitivi cfr. K.R. Popper, Miseria dello storicismo (1944-1945), Feltrinelli, Milano 1978. 29 - Sul nesso tra stato di natura e imprevedibilità dell’uomo come fonte di pericolosità si veda T. Hobbes, Leviatano, La Nuova Italia, Firenze 1976, nuova traduzione e note di G. Micheli, cap. XIII, pp. 116-137 (“Della condizione naturale dell’umanità per quando concerne la sua felicità e la sua miseria”). Sul nesso tra stato di natura, libertà e imprevedibilità degli effetti di ricaduta dell’agire umano, ma in chiave non puramente ferina, si veda J. Locke, Due trattati sul governo (1690) e altri scritti, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1982, p. 229-239 (Secondo trattato, “Dello Stato di Natura”, II, 4-15). Ma si veda, per contro, quel che Locke osserva a proposito dell’«inquietudine» o meglio del «disagio» (uneasiness) come molla dell’azione umana e probabilmente fonte di imprevedibilità; disagio che trova la sua ragion d’essere nel conflitto tra passioni e interessi. Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano (1690) a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 1971, pp. 275, 297-299, 301-302. 30 - Pertanto non solo nei termini di una ormai canonica antropologia negativa. Per una prima delibazione del pluriverso critico hobbesiano si veda A. Pacchi, Introduzione a Hobbes (1996), Editori Laterza, Roma-Bari 2009.

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ironico, due volte, perché Locke dice cose rassicuranti e perciò a prima vista gradevoli e quindi condivisibili per tale ragione, Hobbes invece inquietanti, perciò meno accettabili, eppure vicine alla realtà31. Che quindi impongono, e con urgenza, la riflessione. Altrimenti non ci sarebbe partita per Hobbes. Ironia, quindi, come consapevolezza dell’imprevedibilità umana. Ironia che affonda le radici nella paradossalità delle azioni, provocata dall’imprevedibilità. Ironia, che sul piano prasseologico, ci ricorda che le azioni umane, anche se non di regola (ma anche questa è imprevedibilità), possono conseguire il contrario di quel che si propongono. Come, per l’appunto, accade all’ironia della parola, che consiste talvolta nell’affermare, verbalmente, il contrario di ciò che si pensa, ma solo per disvelarlo a chi sia di bersaglio32. Nell’ironia della prassi, o storico-sociale, il contrario riguarda gli esiti o finalità dell’azione, mentre nell’ironia della parola, il contrario rinvia ai mezzi che si usano. Di qui, una componente immaginativa, che può andare oltre la figura ironica stessa, come nella metafora agostiniana della banda di briganti. Immaginazione, si diceva, come imporrebbe il senso della realtà, quale momentanea fuoriuscita dalla realtà. Perché momentanea? Perché a differenza dell’immaginazione in senso classico, che significa «evocare e produrre immagini indipendentemente dalla presenza dall’oggetto cui si riferiscono»33, l’immaginazione, da retto uso, se ci si passa l’espressione da bugiardino, è strettamente collegata alla realtàsignificato. E dunque essa esce per subito rientrare nel suo habitat ricco di significati. Ad esempio, il senso della realtà, implica l’immaginazione del non esservi domani come singolo, dopo la guerra, ma non fino al punto di volersi sottrarre, oggi, collettivamente alla guerra. Si razionalizza la propria morte, 31 - Hobbes o non Hobbes (e prescindendo dalla correttezza o meno dell’invasione di campo filosofico-politica da parte di un sociologo) riteniamo che la nostra tesi sulla natura imprevedibile, quindi pericolosa, dell’uomo, sia abbastanza vicina alla realtà. Senza dimenticare, ripetiamo, che definire l’uomo pericoloso perché imprevedibile non implica l’automatica attribuzione di alcuna antropologia negativa e/o positiva. 32 - Qui il pensiero va a due figure letterarie non meno reali e interessanti che meritano di essere citate: il «Candido» di Voltaire e il «Candido (Munafò)» di Leonardo Sciascia, personaggi che però rimandano a una questione a monte dell’ironia: quella della enorme difficoltà sociale, se non addirittura impossibilità, di dire la verità, per non mettere a rischio gerarchie, relazioni, rapporti di deferenza, insomma ogni ordine di relazioni sociali, soprattutto pubbliche e formali. Di qui, le varie scappatoie: reticenza, falsità, credulità, rassegnazione, eccetera. Ognuno di noi reagisce come può e come sa. Diciamo ciò prescindendo dalla cifra stilistica delle due opere, che è ironica, mentre i contenuti, ripetiamo, provengono da più lontano e rimandano alla critica di quell’impasto di verità e menzogna che caratterizza il vivere sociale. Preferiamo però non spingerci oltre, per non uscire dal seminato. Si vedano - rinvio d’obbligo - Voltaire, Candido ovvero l’ottimismo (1759), a cura di G. Fattorini, Bompiani, Milano 1987; L. Sciascia, Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino 1977. 33 - Cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit., p. 562 (“Immaginazione”).

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ma potrebbe anche non finire così. L’ironia però è nel ragionare come un morto mentre si è ancora vivi. Anticipando, quanto affronteremo più avanti, Jerónimo Molina ha definito il realismo politico come prolungamento razionale di una intuizione fulminante: l’«immaginazione del disastro» (imaginación del desastre)34. Detto altrimenti: il realista accetta il mondo, prudentemente, o meglio razionalmente, per quel che è stato, è e sarà (e qui entrano in gioco le regolarità metapolitiche, sulle quali torneremo in seguito). Per quale motivo? Perché il realista politico, sulla via della consapevolezza, intuisce il peggio. E lo teme. O meglio, teme il peggio secondo modalità al tempo immaginarie e ironiche. Perché sa che l’uomo tendenzialmente vuole il bene e consegue il male oppure vuole il male e consegue il bene. Il realista ironico, non teme il peggio in quanto tale, teme l’imprevedibilità, ma può conoscerla e riconoscerla: egli ha la cognizione – ossia è consapevole – dei pericoli insiti nell’eterogenesi dei fini umani35. Il senso della realtà, quello vero, non perde mai di vista il disastro prossimo venturo, addirittura arriva al punto di immaginarlo, intuirlo, come, per l’appunto – ripetiamo – sottolinea Jerónimo Molina, realista, per così dire, sulla via della consapevolezza, quando correttamente parla del realismo politico come capacità di immaginare il desastre, proprio per cercare di prevenirlo. Però, ecco il punto, perché parliamo di realista politico «sulla via» della consapevolezza? Perché l’imaginación del desastre rappresenta solo una faccia della medaglia. Di quale medaglia? Quella bronzea dell’interazione sociale che vede effigiati sui due lati gli effetti non intenzionali delle azioni umane che possono essere positivi o negativi. Insomma, dal male può nascere anche il bene. Deve esistere insomma anche l’immaginazione dell’evento propizio: per dirla nella lingua di Cervantes, dell’imaginación del acontecimiento auspicioso. Però, ecco il punto, non esiste certezza assoluta, l’immaginazione immagina, l’ironia ironizza. E così, quest’ultima ci ricorda che per effetto antifrastico 34 - J.Molina, El realismo politico, in E. Anrubia e Á. de Rueda, Felicidad y conflicto. Filosofías para el mundo de mañana, Editorial Comares, Granada 2015, p. 21. 35 - Torneremo sul punto più avanti. Si veda intanto N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit., p. 437, (“Eterogenesi dei fini”). Qui si apre la questione dell’irrazionale nella storia, che però per essere tale implica la presenza del razionale, anch’esso di non facile individuazione. Benché sia giusto sottolineare che il razionale, di per sé, non esclude il pericolo di produrre, o in contrasto o per imitazione, manicheismi e provvidenzialismi di tipo metafisico e fisico. Sulla questione, sebbene scritto in un’ottica di ricomposizione metafisica e più di cinquant’anni fa, si veda A.M. Moschetti, L’Irrazionale nella storia, Pàtron, Bologna 1964. Particolarmente interessante la Parte Prima, pp. 3-133 (“L’irrazionale come enigma della storia”). Di Moschetti, filosofo tra i curatori della grande Antologia Filosofica di Marzorati, si ricorda un interessante carteggio con Pitirim A. Sorokin, ancora in attesa di un editore. Di Moschetti si veda anche L’unità come categoria, Marzorati, Milano 1952-1959, 2 voll.

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tutto è possibile. Il che però non impedisce il discutere, spesso fuorviante, intorno al senso e significato del realismo politico. Un discutere, talvolta vano, che non aiuta a ricomporre alcuna dissonanza cognitiva, scoraggiando persino chi voglia tentare. Il grattacielo e il formichiere sono davanti agli occhi di tutti. Ma nessuno sembra vederli per ciò che realmente sono.

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II Che cos’è il realismo politico?

1. Realismo politico a quo e ad quem Una volta fissati nelle pagine precedenti alcuni concetti generali, potremmo ora tentare di definire il concetto di realismo politico. Potremmo tentare… In realtà, procederemo per gradi. Perché è vero che le definizioni sono importanti ma è altrettanto vero che il nostro scopo, se ci si perdona la caduta di stile, è innanzitutto di ««smontare» sociologicamente in questo capitolo la definizione «standard» di realismo politico. Come dire? La definizione «corrente», «tipica», «omologata» dall’accademia, se si vuole mainstream, per poi tentare di delinearne nei prossimi capitoli un’altra più ampia e di natura sociologica. Pensiamo a un realismo politico consapevole nel senso cognitivo anticipato nelle pagine precedenti. Intanto, che cosa si intende con il termine «standard», se applicato alla comunità scientifica? Secondo il sociologo Edward Shils,

«i campi particolari delle scienze naturali e perfino la scienza e la cultura erudita come totalità definiscono davvero effettive comunità legate insieme dall’accettazione di standards […]. Tali comunità non sono semplici comunità retoriche; i loro standards comuni vengono di continuo applicati da ciascun membro nel proprio lavoro e nelle istituzioni che valutano e selezionano le opere e le persone che sono da apprezzare o da condannare. Esse operano come un sistema di diritto comune, senza una promulgazione formale delle loro leggi, ma attraverso l’applicazione e la chiarificazione, incessanti e ripetute, delle leggi. I direttori dei periodici specialistici, scientifici culturali e letterari, i “lettori” delle case editrici, i recensori delle opere scientifiche e culturali e letterarie, e i comitati di assunzione o nomina che emettono giudizi sui candidati ai posti nelle università […] rappresentano le istituzioni centrali di queste comunità»1. 1 - E. Shils, Gli intellettuali e il potere, in Id., Centro e periferia. Elementi di macrosociologia, a cura di D. Zadra, Morcelliana, Brescia 1980, p. 139. Si veda però la raccolta in lingua originale, Id., The Constitution of Society (1972), with a New Introduction by the Author, The University Chicago Press, Chicago and London 1982, dalla quale l’edizione italiana ha tratto alcuni saggi (tra cui, per l’appunto, The Intellectuals and the Powers some Perspectives for Comparative Analysis). D’altra parte, la versione Morcelliana contiene un importante studio sul concetto di tradizione. Argomento sviluppato da Shils in una successiva e importante monografia.

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Il che è un eccellente strumento di riproduzione e trasmissione di quelle che Shils chiama«tradizioni della vita intellettuale»2. Di qui però, anche il pericolo del ristagno e del conformismo. Tuttavia, ripetiamo, ci occuperemo della definizione del realismo politico standard solo alla fine di questo capitolo. Si tratta di una specie di marcia di avvicinamento cognitiva per problemi. Il lettore deve avere pazienza. Come quando si sale in montagna, a mano a mano che ci si inerpica, la vista del panorama si allarga e tutto diventa più chiaro. Certo, può anche capitare che il cielo si copra nuvole, sempre più basse, che la foschia risalga da valle. E che di conseguenza il panorama sparisca dalla vista. Sarà il lettore a giudicare le nostre virtù, per così dire, di guida alpina. Veniamo al punto. Abbiamo parlato nel capitolo precedente del rapporto tra buon uso dell’ironia e senso della realtà. Si tratta di uno strumento, quello ironico, molto importante, che in qualche misura contraddistingue un realismo politico consapevole e che quindi può essere utilissimo per delimitarlo. Non prima però di aver ricondotto il concetto di realismo politico nell’alveo di una dimensione diacronica o storica. Partiamo dalla dimensione temporale. Nel latino utilizzato dai giuristi ricorrono frequentemente le espressioni terminus a quo e terminus ad quem. Ma lasciamo la parola al Dizionario Treccani3.

«A quo ‹a ku̯ ò› locuz. lat. (propr. «dal quale»). – Espressione che, spec. nel frasario dei giuristi e degli storici, serve a qualificare un punto di riferimento iniziale: dies a quo, giorno da cui decorre un termine (per terminus a quo, v. terminus); giudice a quo, giudice di cui si è impugnata una sentenza. Il contrapposto costante, esplicito o implicito, di a quo è ad quem»4. «Ad quem locuz. lat. (propr. «al quale»). – Espressione che, spec. nel frasario dei giuristi e degli storici serve a qualificare un punto di riferimento finale: dies ad quem, giorno in cui scade un termine (per terminus ad quem, v. terminus); giudice ad quem, giudice a cui si ricorre impugnando una sentenza di giudice inferiore. Il contrapposto costante, esplicito o implicito, di ad quem è a quo»5.

Viste le definizioni, quindi, passiamo ad analizzarne le applicazioni pratiche al realismo in chiave sociologica e con un esempio chiarificatore. Il concetto che qui desideriamo sviluppare è quello del riferimento iniziale e finale di un fenomeno sociale: ad esempio «dies a quo, giorno da cui decorre un termine» e «dies ad quem, giorno in cui scade un termine». Ma in riferi-

2 - Ibid., p. 140. 3 - Ancora una volta crociano sentore «di dizionario»… 4 - Vocabolario in Linea, Istituto Treccani-Il Portale del Sapere, ad vocem. Consultabile qui: http:// www.treccani.it/vocabolario/ad-quem/. 5 - Ibid., ad vocem. Consultabile qui: http://www.treccani.it/vocabolario/a-quo/.

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mento a cosa? In che modo trasporre le accezioni dal frasario dei giuristi e degli storici al frasario dei sociologi?6 Presto detto. In chiave estensiva il dies a quo può indicare un fenomeno sociale presente, mentre dies ad quem un fenomeno futuro. Se colleghiamo al termine realismo politico questa fenomenologia del presente e del futuro, colta qui nella sua essenza, possiamo allora parlare di realismo politico a quo e di realismo politico ad quem. Insomma, dal punto di vista concettuale, possiamo scorgere un realismo politico, per così dire, sprofondato nel presente e un realismo politico immerso nel futuro. Che cosa però intendiamo dire, più concretamente? Serve, appunto, un esempio. Immaginiamo un dibattito sul ruolo del liberalismo di fronte al populismo oggi dilagante o addirittura al governo come in Italia7. Un confronto che veda confrontarsi due intellettuali liberali: il professor A e il giornalista B8. Domanda il professor A: «In verità, caro giornalista B, forse perché l’ho fatta da giovane per qualche mese, mi pongo di fronte alla politica in modo diverso. Non mi pongo il problema di quanto liberale sia la Lega, o Salvini, o il Pd, o chiunque altro. Parto dalla considerazione seria e realistica delle forze in campo. Bisogna lavorare col materiale esistente e cercare di far passare nelle situazioni reali le proprie idee. Penso che in Italia bisogna oggi prendere atto, per chi è di centrodestra, dell’egemonia conquistata sul campo da Salvini, lavorando affinché ci sia una gamba più liberale nella Lega o nel centrodestra inteso in senso generale».

Risponde il giornalista B:

«Devo dire al professor A, con amicizia, che assolutamente non condivido questo suo punto di vista. Quando si superano certe soglie, il dovere del liberale è di opporsi, qua-

6 - Nel senso della famosa intuizione di Vincenzo Cuoco («non una storia, ma bensì una raccolta di osservazioni sulla storia»), qui però trasposta nei termini di passaggio dalla storia alla sociologia. Perciò nel nostro caso, reiventando il Cuoco, «non una storia ma bensì osservazioni sociologiche sulla storia». Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (1801), a cura di A. Valles Poli, Rizzoli, Milano 1966, p. 30. (“Prefazione alla seconda edizione”). 7 - Sul fenomeno populista la letteratura è ormai sterminata, quindi non è facile muoversi criticamente. In generale M. Anselmi, Populismo. Teorie e problemi, Mondadori Università, Milano 2017; sulla situazione italiana cfr. G. Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018. Nonché la lettura, profonda e anticipatrice, di J. Lukacs, Democrazia e populismo (2005), Longanesi, Milano 2006. Sui rapporti tra populismo e fascismo si veda F. Finchelstein, Dai fascismi ai populismi. Storia, politica e demagogia nel mondo attuale (2017), Donzelli Editore, Roma 2019. 8 - Il confronto tra il professor A e il giornalista B rimanda a una conversazione realmente avvenuta, da noi sollecitata. Naturalmente, per ragioni di privacy, abbiamo omesso i nomi dei protagonisti. Che comunque ringraziamo per il permesso di riprodurre i testi.

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le che sia il prezzo da pagare. Dire “cerchiamo di rendere più liberale la Lega e Salvini” mi riesce intollerabile. Un modo facile per darsi buona coscienza a buon mercato e schierarsi dalla parte del vincitore. I veri liberali non stanno con Salvini e non ammirano Putin. Quelli semmai sono trasformisti, l’Italia ne è sempre stata piena. Come del resto quel noto uomo politico, abilissimo nell’essere liberale, radicale, pannelliano, gandhiano, berlusconiano, fittiano e ora pare meloniano. Eh no! No».

Come si può intuire siamo davanti a due posizioni perfettamente delineate, che rinviano comunque a un comune liberalismo politico, «triste», «archico», realista9. Però c’è qualcosa che non torna. Si può ravvisare una differenza. Che a noi interessa particolarmente.

2. L’ora più buia Il realismo politico del giornalista B è un realismo ad quem, mentre quello del professor A è un realismo a quo. Il che però impone una spiegazione. Il realismo a quo è immerso nel presente e guarda alle conseguenze immediate; il realismo ad quem guarda invece al futuro e alle conseguenze di lunga durata. Il realismo a quo rinvia all’etica della responsabilità, quello ad quem all’etica dei principi, per dirla weberianamente. Il realismo a quo guarda alla distribuzione quantitativa delle forze in campo, il realismo ad quem alla distribuzione qualitativa dei valori. Il che spiega quel «bisogna lavorare col materiale esistente» evidenziato dal professor A (realismo a quo: quantitativo), e per contro quel «dovere» di non «superare» altrettanto realisticamente «certe soglie» ideali e culturali, sottolineato dal giornalista B (realismo ad quem: qualitativo). Per fare un esempio storico i liberali, al netto delle successive resipiscenze, davanti al fascismo si divisero: alcuni ritennero che non si poteva ignorare il «materiale (fascista) esistente», altri che non si doveva superare la «soglia» dello stato di diritto (liberale). 9 - Sulla questione ci permettiamo di rimandare al nostro C. Gambescia, Liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin, Edizioni il Foglio, Piombino (LI), pp. 57-85 e 87-114. Dove si espongono, partendo da un’ipotesi sociologica sulle modalità ricompositive degli interessi sociali, quattro tipologie storiche e concettuali di liberalismo: archico, micro-archico, an-archico, macro-archico (da archia, che dal greco, come secondo elemento di parole composte, significa «governo», «dominio»; ne segue l’uso dimensionale, circa la sfera del potere esercitato dal «politico», dei prefissi micro, macro e an). Per farla breve: il libertarismo rimanda al liberalismo an-archico e micro-archico. Il liberalismo macro-archico è una variante welfarista e liberal del liberalsocialismo. Il liberalismo archico, è un liberalismo, intriso di realismo politico, conservatore, a «guardia dei fatti». Alcuni esempi: Aron e Berlin sono liberali archici, Hayek (micro-archico) Rothbard (an-archico), Rawls (macroarchico). Ovviamente la lista dei pensatori studiati nel libro, al quale si rimanda, è più ricca e circostanziata, come d’altra parte la formulazione concettuale e lessicografica delle quattro tipologie di liberalismo.

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Prevalse la tesi del realismo a quo. E così Mussolini riuscì ad agguantare il potere10. Ovviamente Salvini non è Mussolini, però il realismo del professor A ricorda quello dei liberali a quo. Mentre quello del giornalista B le tesi dei liberali ad quem. Va riconosciuto onestamente che i liberali realisti a quo, a differenza degli storici del fascismo, venuti dopo, non sapevano, prima, assolutamente come sarebbe finita. Tuttavia, dal momento che nell’atto cognitivo c’è sempre, vagamente o meno, una componente predittiva, nel senso di una anticipazione politicamente solenne, più intuitiva che argomentata, i liberali a quo «profetizzavano» alla breve. Del resto, e per la stessa ragione, il liberali realisti ad quem, «profetizzavano» alla lunga, non immaginando, al momento, che la storia avrebbe dato loro ragione. Gli uni e gli altri preannunciavano qualcosa non sulla base di un’ispirazione divina, ma sul fascino, esercitato su di loro, da prosaiche deità (o ideologie) terrene. In senso concettuale (e rispetto all’incalzare degli eventi) il realismo a quo è armato della logica di un presente che appare come potenzialmente vincente, quello ad quem disarmato, perché, sempre apparentemente, dalla parte dei potenziali perdenti, di coloro che come si sente ripetere nelle fasi di crisi non assecondano la «naturale» forza delle cose o addirittura vanno contro la «natura» delle cose11. Qui entra il gioco l’ironia, che in qualche modo sembra difettare sia al professor A sia al giornalista B. Con quali modalità però? Quelle di accettare anticipatamente l’esistenza di un fattore ironico della storia. Il cui ubi consistam è nel ritenere che, piaccia o meno, sia operante un elemento che finisce per incidere, e pesantemente, su ogni realismo a quo o ad quem. Più di preciso, di cosa parliamo? Degli effetti inintenzionali delle azioni sociali e politiche. Effetti che possono essere positivi o negativi, indipendentemente dagli scopi prefissati dai singoli attori. Si vuole il bene si ottiene il male, 10 - Per un ricostruzione concettuale della questione liberali-Mussolini ci permettiamo di rinviare al nostro Liberalismo triste, cit., pp. 124-25. Invece per un affresco storiografico di alto profilo si veda G. Sabbatucci, La crisi dello stato liberale, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, Editori Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 101-167. 11 - «Naturale» forza delle cose o «naturale» disordine delle cose? La questione non è secondaria. Di regola la «naturale» forza delle cose è tale solo per gli storici, che scrivono sempre dopo gli eventi, attribuendo una razionalità sconosciuta agli uomini del tempo in cui sono verificati i fatti. In realtà, anche ai protagonisti, immersi negli eventi, quindi durante l’evento, piace comunque dichiarare, come vedremo, di avere la «storia dalla propria parte». Cfr. al riguardo le interessanti osservazioni di L. Ornaghi, Il realismo politico e la conoscenza scientifica della politica. Fine di una vecchia stagione, inizio di una nuova?, in A. Campi e S. De Luca (a cura di), Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2014, pp. 55-58 (sulla «nozione di “natura delle cose”»). Per quanto ci concerne, propenderemmo per il «naturale» disordine delle cose. Come del resto si può evincere dalle tesi che seguono e sorreggono la nostra analisi.

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si vuole il male si ottiene il bene. E non è neppure detto che sia così: perché talvolta il bene consegue il bene, talaltra il male il male. Il vero punto della questione è che domina l’imprevedibilità. O se si vuole, il «naturale» disordine delle cose… Che, attraverso un gioco di azione e reazione, va dagli uomini alle cose e viceversa. Cosa vogliamo dire? Che l’imprevedibilità degli esiti delle azioni umane imporrebbe una riflessione sulla vera natura del realismo politico. Ecco cosa intendiamo per realismo politico consapevole. Diciamo questo come punto di partenza cognitivo. Ci spieghiamo meglio. Quale può essere l’atteggiamento (e di conseguenza la prassi) del realista tout court12, dinanzi all’impossibilità di sapere come andrà a finire? Quali scelte operare? Quale linea d’azione? E se suggeritore politico quali consigli fornire al principe nuovo o meno?13 Pareri basati sul realismo a breve termine? A quo? O a lungo termine? Ad quem? Chiedendo scusa ai lettori per la pesante caduta di stile, ma la prima espressione che sovviene è di registro non propriamente elevato. Il vero punto è: meglio un uovo oggi o una gallina domani? Messa così: il professor A è per l’uovo, il giornalista B per la gallina. Lo stesso ragionamento – ma anche esempio – può essere esteso a un livello decisionale più alto, che rinvia al conflitto, ben documentato nel film L’ora più buia, tra Churchill e Lord Halifax, durante i tragici giorni di Dunkerque14. Churchill vuole combattere fino in fondo contro Hitler, Lord Halifax vuole trattare a ogni costo. Come vedremo il realismo di Churchill è un realismo ad quem. Mentre quello di Lord Halifax a quo. Il passaggio è interessante perché delinea bene il conflitto tra due tipi di realismo politico. Da una parte, quello coraggioso (se non temerario) di Churchill, tipico del politico che non si arrende mai e che rifiuta, – per non scaricarsi astuta12 - Realista tout court, alla breve, nel senso di non categorizzato, come spiegheremo più avanti. 13 - Non brilliamo per originalità («principe nuovo»). Riteniamo però sia impossibile, anche lessicalmente, sfuggire all’eredità culturale di Machiavelli. 14 - L’ora più buia (Darkest Hour), GB, 2017, regista J. Wright. Il film, comunque molto bello, come ogni pellicola condensa però, forse semplificando troppo, nelle figure di Churchill e Halifax, le ragioni della guerra e della pace, anche precedenti all’evacuazione dei soldati britannici da Dunkerque. Per una buona ricostruzione storica del conflitto tra i due realismi, si veda M. Gilbert, Churchill (1991), Mondadori, Milano 1999, pp. 298-299, eccellente biografia dello statista. Ma si veda anche J. Lukacs, Churchill Visionario Statista Storico (2002), Corbaccio, Milano 2004, pp. 83-97, in particolare pp. 92-93. Su Lord Halifax ancora non esistono biografie soddisfacenti, comunque si consultino con cautela (soprattutto il secondo titolo): Birkenhead (Earl of) The Life of Lord Halifax. Hamish Hamilton, London 1965; A. Roberts, “The Holy Fox”: The Life of Lord Halifax, Phoenix, London 1997. Sulle controverse relazioni tra Germania e Gran Bretagna negli anni hitleriani rinviamo a M. Cowling, The Impact of Hitler: British Politics and British Policy, 1933-1940(1975), Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2009.

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mente la coscienza – di prendersela con le strutture (l’esercito che ha fallito, l’economia che non funziona, le politiche di coloro che lo hanno preceduto, eccetera, eccetera). Tipico caso, come abbiamo visto di etica dei principi. Dall’altra, il realismo compromissorio di Lord Halifax, tipicamente a quo, fondato sull’hic et nunc, che vuole arrendersi, considerando la resa un’opzione come un’altra, pur di salvare il salvabile (l’esercito, le strutture economiche, le politiche di coloro che lo hanno preceduto, eccetera, eccetera). Tipico caso di etica della responsabilità. Sono due tipi di realismo che esistono in natura politica. Va detto che talvolta torna utile giocarsi tutto per salvare tutto (Churchill), talaltra, è necessario salvare il salvabile (Lord Halifax). Non esiste una risposta certa e definitiva. Infatti, come capire, una volta per tutte, quale sia il realismo giusto? Difficile rispondere. Per non parlare, sia detto per inciso, di quando si ragioni «non in situazione», ma solo in linea teorica, magari da dietro una scrivania… Insomma, non c’è ricetta sicura, se non quella di confidare nell’intuito politico degli agenti: il sesto senso che trasforma il politico in statista. E l’eventuale suggeritore del principe in prezioso rabdomante politico. In quella «situazione» Churchill, accusato all’epoca addirittura di scarsa comprensione dell’economia per la sua contrarietà alla politica di Appeasement15, aveva visto giusto. Lord Halifax, no. Ovviamente, questo lo si è scoperto dopo, alla fine di una guerra durissima ma vittoriosa. Si tratta di un dilemma, che in politica si ripropone e si riproporrà sempre. Dinanzi alla crisi, i realisti si dividono tra coloro che realisticamente accettano la lotta, quale componente autentica dell’agire politico e coloro che, altrettanto realisticamente, la rifiutano, anche se non in linea di principio, privilegiando all’occasione il compromesso. La risposta in genere viene fornita dalla storia, anch’essa in modo ironico. Ma solo dopo. E forse la cosa è ironica proprio per tale dimensione postevento… Sia detto per inciso: il realista politico consapevole, sia questi un leader o un professore, dovrebbe sempre riuscire a ragionare, ironicamente, in termi15 - Nel dicembre del 1937, Thomas Inskip, Ministro della Difesa del governo presieduto da Arthur Neville Chamberlain, evidenziava, a differenza di Churchill favorevole al riarmo, «i pericoli insiti in un aumento delle spese per la difesa, sottolineando l’importanza fondamentale di preservare le strutture creditizie e la “bilancia commerciale” della Gran Bretagna». Secondo Inskip «il mantenimento della stabilità economica britannica collocato “nella giusta prospettiva, [poteva] essere considerato a buon diritto la quarta arma della difesa a fianco delle tre tradizionali, senza cui uno sforzo puramente militare non [sarebbe servito] a nulla”» (M. Gilbert, Churchill, cit., p. 264. Gli inserti tra parentesi quadre sono nostri). Realismo economico vs realismo politico? Difficile rispondere. Comunque sia, sul realismo economico si veda G. Vestuti (a cura di), Il realismo politico di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, Giuffrè Editore, Milano 1989.

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ni di post-evento. Ecco quel che significa consapevolezza, come via – attenzione, via come cammino da percorrere – per la ricomposizione della dissonanza cognitiva tra le forme di realismo, utili ambedue, quindi ricomposizione tra di esse, ma anche ricomposizione con una realtà storica e umana distinta, e duramente, dall’imprevedibilità. Dicevamo che il realista politico consapevole dovrebbe sempre riuscire a ragionare ironicamente… Il condizionale però è d’obbligo, perché non sempre è facile mantenere la giusta lucidità. Come vedremo, serve uno spiccato senso della realtà. Inoltre, benché difficile, qualcosa sul piano previsionale è possibile fare, come approfondiremo più in là. Ma, in ogni caso, la rabdomanzia politica allo stato puro, addirittura sciamanico, va esclusa. Hitler che gridava ai quattro venti, in un trionfo di heil urlati dal popolo tedesco16, che voleva il bene della Germania, catapultò il Terzo Reich nell’abisso di una catastrofe epocale. Churchill, che secondo molti contemporanei, una volta al potere, sarebbe andato a fondo, e con lui la Gran Bretagna (seppure in piedi con la spada, ma a fondo), ebbe la grande soddisfazione di ammirare la sfilata delle truppe britanniche a Berlino in occasione della Victory Parade, il 21 luglio del 194517. Ma c’è dell’altro. Nel secondo lungo dopoguerra la Germania democratica, riunificata, ma sconfitta, egemonizzerà pacificamente l’Europa18, mentre l’Impero britannico, vincitore, continuerà a tramontare placidamente, ma anche malinconicamente, tornando infine con la Brexit a voltare le spalle all’Europa. 16 - Si veda T. Allert, Heil Hitler! Storia di un saluto infausto (2006), il Mulino, Bologna 2007. Il braccio di molti tedeschi, il che è ironico ma vero, continuò a scattare meccanicamente anche nei primi anni del dopoguerra talmente era forte il condizionamento. Come nota Allert, il saluto nazista «era l’equivalente sul piano degli incontri individuali di ciò che i raduni del partito erano per le masse: l’offerta dell’illusione di un potere magico. Introduceva lo straordinario nell’esistenza di ogni giorno […]. Fu questo a far sì che lo scambio di saluti si trasformasse nel trasferimento da una persona all’altra della fede nel potere messianico del Führer[…]. Il saluto esercita un’azione continua, automatica, che porta alla soppressione di ogni dubbio, diffonde l’indifferenza verso le implicazioni del saluto stesso»(Ibid., p. 55). Di qui la fatica di liberarsene. 17 - Churchill nella sua Storia della Seconda Guerra Mondiale (1948-1953), Mondadori, Milano 1966, vol. VI, pp. 710-757, non ne accenna. Del resto la parata si tenne negli stessi giorni ricchi di impegni della Conferenza di Potsdam. C’è però nell’edizione italiana una foto della sfilata (fr. p. 738). A dire il vero però, gli applausi furono tutti per Clement Attlee, all’epoca Vice Primo Ministro del governo di unità nazionale ma prossimo Primo Ministro laburista. Infatti, di lì a qualche giorno, Churchill avrebbe perso le elezioni. Ironia della storia: l’uomo che maggiormente aveva contribuito alla vittoria, assumendo il supremo comando politico nell’«ora più bella per loro [i nemici]» con la Gran Bretagna in ginocchio, venne punito dalle urne. Sul punto si veda M. Gilbert, Churchill, cit., p. 404. L’inserto tra parentesi quadre è nostro. 18 - Per una eccellente ricostruzione di un secolo e mezzo di miseria e nobilità tedesche, si veda G. Corni, Storia della Germania. Da Bismarck a Merkel, Il Saggiatore, Milano 2017.

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E con regolarità, storicamente cronometrica19. C’è dell’ironia storica in tutto ciò. E ogni buon realismo politico a quo o ad quem, purché consapevole, sia che rinvii all’agire del politico, sia che rimandi al teorizzare dello studioso, ne deve prendere atto. Anche ironicamente. Insomma, qual è l’idea sottesa al nostro ragionamento? Che il formichiere, dai tratti che rimandano al realismo a quo, incapace di alzare gli occhi al cielo, e il grattacielo, quale plastica raffigurazione di un realismo ad quem che altissimo si staglia all’orizzonte, possono convivere, ben temperati, insieme. O almeno tentare di convivere…

3. A lezione da Isaiah Berlin Nella eccellente biografia di Berlin, liberale «archico» e maestro di realismo, scritta da Michael Ignatieff, si scopre che

«in realtà Berlin ammirava Churchill, ma non lo amò mai. A quella stessa cena [dicembre 1949], il vecchio leone ruggì che non vedeva l’ora di tornare al potere e di gettarsi nella lotta contro Stalin. Con autentica ferocia, disse che pensava che sia la Francia che l’Italia potessero cadere nelle mani dei comunisti: contemplava la possibilità di una nuova guerra in Europa con evidente piacere. Berlin era affascinato e al tempo stesso disgustato. “Era troppo volgare, troppo brutale, non volevo che tornasse. Quindi voto per i liberali”»20.

Perché? Come scrive Ignatieff,

«uno dei paradossi del temperamento di Berlin era il fatto di desiderare di essere una delle sue nobili figure di intransigenti – quelli che non si piegarono, ma che fecero sì che altri si sottomettessero alla loro volontà. Guarda i miei eroi diceva. Nessuno di loro era un liberal, simpatico, mite accomodante. Erano tutti personaggi duri difficili, “impossibili” – Toscanini, Churchill, Weizmann21 – uomini ai quali perdonava ogni difetto perché tra di essi non era compreso quel desidero di piacere»22.

Insomma, al di là del dato temperamentale, la politica, secondo Berlin, ha un lato scomodo, talvolta inquietante se non feroce, impossibile da comprendere secondo i parametri di una mitezza programmatica e, come ora vedremo, attraverso lo sguardo di una razionalità protocollare.

19 - Per un denso inquadramento di una questione che ruota intorno ai grandi temi sociologici della «resolution» e del «decline, and adaptability” si veda J. Black, A History of Britain: 1945 to Brexit, Indiana University Press, Bloomington 2017. Black è uno storico britannico. 20 - M. Ignatieff, Isaiah Berlin. Ironia e libertà (1998), Carocci, Roma 2000, p. 217. L’inserto tra parentesi quadre è nostro. 21 - Chaim Weizmann (1874-1952), professore universitario, di orientamento liberale, già a capo dell’Organizzazione sionista mondiale, primo presidente dello Stato di Israele, favorevole a una politica conciliante verso gli arabi. Così E. Barnavi, Storia d’Israele. Dalla nascita dello stato all’assassinio di Rabin (1988), Bompiani, Milano 2002, pp. 150, 155, 166. 22 - M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., pp. 45-46.

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Questo muoversi su due fronti – tra politica vera e studiata – consente a Berlin di formulare probabilmente la migliore definizione di cosa sia il senso della realtà dal punto di vista del realismo politico23. Egli ci parla di un realismo consapevole. Inoltre le sue sono osservazioni mescolate a una buona dose di ironia. «Bismarck produsse danni incomparabilmente più gravi rispetto all’ammirevole Giuseppe II; e tuttavia è ragionevole nutrire una maggiore fiducia nelle qualità di cui era fatto il malvagio ma “realistico” Bismarck, che non quelle che costituivano l’imperatore idealista»24.

Sicché, si noti nella chiusa l’ironico rovesciamento dei piani cognitivi.

«Se essere razionali significa applicare a un materiale dato quei metodi che producono i risultati desiderati dallo sperimentatore, c’è un senso in cui i razionalisti ufficiali si comportano irragionevolmente, mentre gli uomini che si facevano guidare dall’“intuizione” (in questo caso senza dubbio un termine improprio) impiegarono la loro ragione con migliore successo»25.

Detto questo, segue un’importante precisazione che spiega molto bene che cosa sia per Berlin «il senso della realtà» politica e quel che significhi possederlo e riuscire ad usarlo ai fini desiderati.

«Qui non si tratta né di intuizioni mistiche né di metodi non empirici per divinare la natura della realtà. La capacità di giudizio, l’abilità, il senso del tempo, la comprensione immediata del rapporto tra mezzi e risultati dipendono da fattori empirici come l’esperienza, l’osservazione, e soprattutto quel “senso della realtà” che consiste in buona parte di un’integrazione semiconsapevole di un gran numero di elementi apparentemente irrilevanti o impercettibili presenti nella situazione; elementi che presi insieme formano un qualche tipo di disegno che di per sé “suggerisce” (“sollecita”) l’azione appropriata»26.

Ciò significa che

«quest’azione è senza dubbio una forma di improvvisazione, ma fiorisce soltanto sul terreno di una ricca esperienza e di un’eccezionale sensibilità per ciò che è rilevante nella situazione – un dono senza il quale né gli artisti né gli scienziati sono in grado di ottenere risultati originali»27.

23 - Sulla definizione di «senso della realtà» di Berlin e più in generale sul concetto di realtà si leggano le acute osservazioni di L.R. Oro Tapia, El concepto de realismo político, prólogo de J. Abellán, RIL Editores, Santiago de Chile, 2013, pp. 145-152 (“El casillero vacío de los teóricos del realismo político: la noción de realidad”). Anche se nutriamo l’impressione, per usare la nostra terminologia che Oro Tapia in argomento privilegi l’approccio ontologico rispetto a quello gnoseologico. 24 - I. Berlin, Il realismo in politica (1954, saggio), in Id., Il potere delle idee (2000, raccolta), Edizioni Adelphi 2003, p. 215. 25 - Ibid. 26 - Ibid., p. 216. 27 - Ibid.

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L’assenza di queste capacità, anche in politica, e, conseguentemente, del senso della realtà, secondo Berlin, spiega il fallimento di Robespierre, Giuseppe II D’Austria e Lenin, laddove,

«invece, […] riuscirono nell’insieme Bismarck, Lincoln, Lloyd George e Roosevelt [Franklin Delano]. L’Austria nel 1790, la Francia nel 1794 e la Russia nel 1920 non corrispondevano ai sogni dei grandi riformatori. La Germania, l’Inghilterra e l’America erano, ciascuna nel periodo che qui ci interessa, molto più vicine a ciò che i loro più pratici statisti avevano cercato di fare. Si potrebbe dire che questi loro statisti erano meno ambiziosi, che lo scarto tra ciò che volevano e l’esistente non era così grande; ma non sarebbe vero. Furono Bismarck o Roosevelt a fare la differenza si tratta di differenze di immensa portata, che influenzarono in maniera drastica le fortune dell’umanità»28.

Traducendo nella terminologia usata nel precedente capitolo, Lincoln, Bismarck, Lloyd George, Roosevelt seppero tramutare la dissonanza cognitiva in opportunità. Immaginarono disastri prossimi venturi, senza però lasciarsi incatenare dalla logica dell’inevitabilità storica29 o della «naturale» forza o «ordine» delle cose. Nessuna rassegnazione, quindi. Valutarono realisticamente il «materiale a disposizione», senza però trascurare di ricondurlo nell’alveo di una prospettiva storica, meno cupa se non addirittura luminosa e progressiva. Una scelta che nei quattro casi storici, pur con sfumature diverse, permise nell’ordine l’avvio di processi di unificazione politica ed economica (Germania e Stati Uniti), di parificazione fiscale e giuslavorista (Gran Bretagna) e di rilancio socio-economico (ancora Stati Uniti). Sicché in qualche misura Lincoln, Bismarck, Lloyd George, Roosevelt si mossero alla perfezione tra il realismo a quo e il realismo ad quem. Furono realisti consapevoli, capaci, per tornare alla nostra metafora, di conciliare, pur prendendo atto della diversità, il grattacielo con il formichiere, di difendere principi e mezzi, lati nobili e meno nobili. Di conciliare la realtà-significato, come nel caso della forma-progresso e con il contenuto-dei-saperi-personali, specchio del migliore sentire del tempo favorevole al progresso. Se si vuole, raccordarono presente e futuro.

4. L’insostenibile leggerezza delle definizioni Giunti a questo punto non possiamo non fare un rapido riferimento alla letteratura, tra l’altro copiosa, sul realismo politico30. Con quale obiettivo? Giun-

28 - Ibid., p. 214. 29 - Altro «cavallo di battaglia» berliniano. Si veda, I. Berlin, L’inevitabilità storica (1954, saggio), in Id., La Libertà (2002, raccolta), a cura di H. Hardy, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 97-168. 30 - Si vedano due importanti messe a punto: A. Campi e S. De Luca (a cura di), Il realismo politico, cit.; R. Schuett and M. Hollingworth (eds.), The Edinburgh Companion to Political Realism, Edinburgh

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gere, partendo dalle molteplici definizioni, alla circoscrizione del concetto di realismo politico standard, attraverso l’individuazione di alcuni tratti comuni. Si prenda ad esempio la raccolta curata da Alessandro Campi e Stefano De Luca. Si hanno nell’ordine le seguenti definizioni, citiamo senza alcuna pretesa di completezza, per rendere intanto l’idea della grande varietà enunciativa: 1) il «realismo [politico] come strumento di analisi e interpretazione dei fenomeni storico-politici che più di altri stanno segnando il mondo contemporaneo, sino a suggerire nuove linee di analisi e interpretazione improntate alla tradizione del realismo. Che appunto non può essere considerato solo alla stregua di una dottrina politica o di un orientamento ideale, ma anche un metodo d’indagine e di uno strumento (flessibile) di conoscenza utile per l’oggi» (Alessandro Campi e Stefano De Luca)31; 2) il «realismo istituzionale», che «si preoccupa di modellare le istituzioni e di legiferare in conformità delle condizioni date e del materiale umano, tenendo conto di passioni e interessi, raccordando le forme giuridiche alla “costituzione materiale”» (Pier Paolo Portinaro)32; 3) il «realismo-dottrina», quale «interpretazione generale della politica da cui discendono precetti per l’azione» (Angelo Panebianco); 4) il «realismo politico come meta-teoria» che «invece staziona nel territorio della scienza […] potenzialmente utile per scopi conoscitivi», quindi inteso come «tradizione di ricerca», che però a sua volta si qualifica come «contenitore di un nutrito carnet di teorie empiriche» che, se abbiamo capito bene si può suddividere in altre due principali versioni: 4/bis «realismo 1», che rinvia a «un’economia della violenza» con Machiavelli come capostipite; 4/tris «realismo 2», incentrato sul ruolo «ineliminabile delle élites» (Angelo Panebianco)33; 5) il «realismo político» quale «forma-límite» del «pensamento politíco» opposta alla forma utopica, come «altro limite» (Jerónimo Molina)34; 6) il «realismo forte» di Tucidide (Carlo Marcaccini)35; 7) il «realismo (politico) cristiano» o University Press, Edinburgh 2018. Parliamo di due grossi volumi, il primo di quasi mille pagine, il secondo poco meno di ottocento. Purtroppo, come capita nelle miscellanee, contengono, in particolare il primo, saggi talvolta di valore diseguale. La raccolta curata da Campi e De Luca, si concentra sulla tradizione occidentale e italiana, filosofica, politologica e geopolitica, con un occhio agli strumenti euristici, mentre quella edita da Schuett e Hollingwort apre a importanti apporti esterni, sia sul piano storico che concettuale: si vedano i seminali capitoli dedicati a Kautilya e in modo particolareggiato all’India, alla Cina, al Giappone, al Sud Est asiatico, nonché le parti innovative dedicate al rapporto tra realismo politico e Internet, questioni ambientali e società aperta. Comunque sia, sono raccolte notevoli che in qualche misura si completano a vicenda. 31 - A. Campi e S. De Luca (cura di), Il realismo politico, cit., pp. 11-12. L’inserto tra parentesi quadre è nostro. 32 -�Ibid., p. 28. 33 -�Ibid., pp. 35-38. 34 -�Ibid., p. 99. 35 -�Ibid., p. 115.

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«trascendente» di Niebuhr (Luca G. Castellin)36; 8) il «réalisme méthodologique» di Aron (Christian Savés)37; 9) il «realismo dell’imbarazzo» di Ruggiero Bonghi, diviso tra prescrizione e descrizione (Antonio Campati)38; 10) il «realismo politico» come «metodo e non fine» di Croce (Corrado Ocone)39; 11) il «realismo insoddisfatto» di Norberto Bobbio (Alessio Panichi)40. E così via. Ovviamente, per ora, inutile negarlo, si potrebbe dire la stessa cosa della nostra, appena adombrata, definizione di realismo politico consapevole. Torniamo però sul punto. È proprio così? Si può parlare di una insostenibile leggerezza delle definizioni? Al riguardo risulta interessante quanto scrivono, con ammirevole lucidità, sulla questione della eterogeneità, Francesco Raschi e Lorenzo Zambernardi. Pur occupandosi del rapporto tra realismo e politica nell’ambito degli studi internazionali. Considerazioni che però nostro avviso, hanno valore generale.

«La profonda eterogeneità nella riflessione degli autori realisti ha condotto alla nascita di numerose forme di realismo o, se vogliamo, di diversi “realismi”. Abbiamo così assistito al proliferare di una molteplicità di realismi, in cui il realismo viene accompagnato da aggettivi oppure diventa a sua volta un aggettivo attribuito ad altre scuole di pensiero. Ecco dunque il “liberalismo realista” di John Herz, il “realismo neo-classico” di Randall Schweller, il “realismo offensivo” di John Mearsheimer, il “realismo della volontà” di Michael C. Williams, il “costruttivismo realista” di Samuel Barkin, il “realismo illuminista” di Frederick Whelan e, infine ma probabilmente solo per ora il “realismo di sinistra” […] di Noam Chomsky […]. Così numerosi sono i realismi che si potrebbe affermate con il commediografo latino Terenzio, che ci sono tanti realismi quanti realisti»41.

Con garbata ironia, Raschi e Zambernardi, fanno capire che siamo dinanzi a eterogenei esercizi di scrittura accademici. Il che però non interdice la possibilità di proporre un modello concettuale di realismo standard, al quale, pur tra le molteplici divergenze, spesso più figurative che reali, si può fare qui riferimento, anche a costo di semplificare. Forse troppo42.

36 - Ibid., pp. 285-288. L’inserto tra parentesi tonde è nel testo. 37 -�Ibid., pp. 353-354. 38 -�Ibid., p. 489. 39 -�Ibid., p. 513. 40 -�Ibid., p. 633-634. 41 - F. Raschi, L. Zambernardi, Il realismo politico: un concetto polemico?, in A. Campi e S. De Luca (cura di), Il realismo politico, cit., p. 808. Il corsivo è nel testo. 42 - «Forse troppo» nel senso che non vorremmo, perché non è assolutamente nelle nostre intenzioni, che quanto andiamo scrivendo, se ci si perdona la caduta di stile di sapore calcistico, sia interpretato come una specie di finale della «Supercoppa» fra il Realismo-del-Gambescia-Pensiero e il Realismo-del-Resto-del-Mondo. In realtà, indichiamo, come già ricordato, solo alcune linee critiche (decostruttive e ricostruttive), quindi forzatamente sintetiche e riduttive, nulla di esaustivo, nella speranza che ciò che non è altro che un modesto tentativo, un abbozzo, o se si preferisce uno spunto, possa trasformarsi in occasione di confronto e dibattito tra gli studiosi.

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Diciamo allora che, concettualmente parlando, il realismo politico standard nella sua versione base (quasi fosse una autovettura…), accettata, in chiave mainstream, dalla comunità degli studiosi, ha tre caratteristiche principali. La prima rinvia al comune fondamento in un’antropologia di tipo negativo, dell’uomo come essere cattivo (opposto di buono), teso a subordinare l’Altro alla propria volontà per i propri scopi egoistici. Dalla prima deriva la seconda caratteristica, che consiste nel collegamento tra egoismo umano e inevitabilità dei conflitti e della repressione. Inevitabilità massima sul piano esterno. Sicché, e giungiamo, alla terza caratteristica, si attribuisce alla politica una inevitabile natura polemogena43. Di conseguenza, per il realista tipo, o standard, egoismo, conflitto e nemico sono le tre figure fondamentali dell’agire politico e di conseguenza di ogni approccio realista alla politica, in quanto tale44. Quindi siamo ben al di là dei ghirigori eruditi, dei micro-specialismi in continuo divenire o addirittura in funzione dei codici assegnati, anch’essi sempre mutanti, alle classi di concorso a cattedra. Naturalmente, va segnalato anche un altro aspetto non proprio felice del realismo standard che rinvia a un preciso vincolo comunitario, nel senso così elegantemente inteso da Shils. Quale? Quello della rivalutazione scalare dei vari approcci interni al realismo standard in base al tasso di presunta scientificità di ognuno di essi. Ci spieghiamo meglio: si misura, quasi dando voti, la distanza epistemologica o meno dei vari approcci dalla presunta progressione verticale della conoscenza politica dall’antichità ai nostri giorni. Una presunzione, anzi due, di scientificità a nostro avviso contestabili, come lo sono tutte le teorie stadiali, a partire da Comte. Come nel Boléro di Ra-

43 - Il realismo politico standard è un paradigma o un programma di ricerca? Sospendiamo il giudizio. Il paradigma rinvia a una struttura conoscitiva chiusa (T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche [1962 e 1970], Einaudi, Torino 1978). Il programma a una struttura conoscitiva aperta, o comunque meno arroccata (I. Lakatos La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali, in AA. VV., Critica e crescita della conoscenza [1970], con A. Musgrave, a cura di G. Giorello, Feltrinelli, Milano, 1976). Ovviamente a monte di tutto, si staglia, e giustamente giganteggia, il fallibilismo di Karl R. Popper, Miseria dello storicismo, cit. (e gli altri importanti testi epistemologici). Senza dimenticare infine Feyerabend, grande dissacratore, con il suo «anarchismo conoscitivo» che mette in discussione l’idea stessa di una metodologia condivisa (P. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza [1975], Feltrinelli, Milano 1979). In argomento, per approfondire, si veda la nitida sintesi antologica di G. Brianese (a cura di), “Congetture e confutazioni” di Popper e il dibattito epistemologico post-popperiano, Paravia, Torino 2000. Per la ricaduta del dibattito nell’ambito delle scienze politiche e sociali si veda l’imponente studio di G. Sola, Scienza della politica. Teorie, ricerche e paradigmi contemporanei, Carocci, Roma 1998. pp. 11-60. Che sembra propendere per Kuhn (Ibid., pp. 35-36 in particolare). 44 - Pier Paolo Portinaro, parla di «paradigma tucidideo». Si veda P.P. Portinaro, Il realismo politico, Editori Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 67-84.

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vel, la musica cresce fino a diventare assordante via via che si passa dalle massime prudenziali, paganizzanti, del mondo antico e cristianizzanti dell’universo medioevale (stadio teologico), alle prime teorie45 rivendicanti l’autonomia della politica dell’età moderna (stato metafisico) fino al rimbombante trionfo dell’indipendentismo cognitivo otto-novecentesco (stadio positivo)46. In conclusione, la teoria standard risulta inadeguata quantomeno per il fatto di privilegiare una specie di razionalizzazione del male à la carte, dunque micro-disciplinare secondo la bisogna, che però resta prolungamento di una comune antropologia negativa, rivisitata attraverso il filtro di una onnipresente dinamica degli interessi, dipinta come innocua e neutrale47. Nei prossimi due capitoli, tratteggeremo una teoria, che pur non sottovalutando certa razionalità del male (la spinta egoistica alla sopraffazione del forte verso il debole), riconduce il realismo nell’alveo di una antropologia aperta al male come al bene, al conflitto come alla collaborazione e nel quadro di un approccio sociologico e metapolitico. Approccio che promette di tenere conto della difficile determinazione – il che non significa impossibile – degli effetti di ricaduta delle azioni sociali, individuali e collettive. 45 - Usiamo il termine teoria con riferimento agli aspetti descritti ed esplicativi del realismo politico, non a quelli normativi o dottrinari. Anche se non sempre è facile, in pratica, distinguere tra teoria e dottrina, tra prescrittivo e descrittivo. Sulla complessità della distinzione si veda A. Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà, cit., p. 18, n. 2. 46 - Come esempio di approccio scientista al realismo politico, lungo le linee di una specie di Ballo Excelsior tra trionfi di luce e piroette euristiche, si veda A.J. Tellis, Introduzione al realismo politico. La lunga marcia verso una teoria scientifica (1995-1997), a cura di L. Cimmino, Marco Editore, Lungro di Cosenza (CS) 2005. Nel volume sono prese in considerazione, al ritmo di un crescente galop epistemologico, le figure di Tucidide, Machiavelli, Hans Morgenthau, Morton A. Kaplan, Kenneth N. Waltz. Sostanzialmente il realismo politico, oltre che canonizzato, con i suoi santi (scienziati) laici, viene ridotto a puro metodo, confondendo però così la necessaria cassetta degli attrezzi, se si vuole forme (o regolarità) comportamentali, preziose per studiare, con una sostanza antropologica, esclusivamente negativa e conflittualista utile per sentenziare. 47 - Siamo dinanzi - e la cosa andrebbe ripresa e studiata sulla scia delle osservazioni di A.O Hirschman, Le passioni e gli interessi (1977), Feltrinelli, Milano 1990 - alla neutralizzazione del concetto di malvagità e perfino di egoismo, concetti ricondotti nell’alveo di una apparentemente neutrale assiomatica dell’interesse (cfr. infra, p. 42 n. 5), sganciata però da qualsiasi consapevolezza del valore funzionale del vincolo di interdipendenza sociale teorizzato da Geiger, come approfondiremo più avanti. Si veda, intanto, l’elencazione, in estratto da Politics Among Nations, di «The Six Principles of Political Realism» a opera di Hans Morgenthau, specie di Bibbia condensata del realismo politico standard (9 milioni e 280 mila risultati su Google al 3-9-2019), ovviamente senza dimenticare la versione integrale: H.J. Morgenthau. Politics Among Nations. The Struggle for Power and Peace (1948), seventh edition, revised by K.W. Thompson and W.D. Clinton, Mc Graw Hill, New York 2005, pp. 3-17, in particolare i punti 1 e 2. Si vedano però anche le interessanti riflessioni di A. Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà, cit., pp. 37-59 (“Definizioni e interazioni”), nonché Id., Realismo politico e scienze sociali, in A. Campi e S. De Luca, Il realismo politico, cit., pp. 35-67. Come del resto quelle, altrettanto notevoli, di J. Molina, El realismo, una forma-límite del pensamento político, in A. Campi e S. De Luca (a cura di), Il realismo politico, cit., pp. 80-99.

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Un’ultima cosa, non meno importante. Per facilitare la comprensione di come sia complicato il rapporto tra il realismo politico, come teoria, e il realismo politico, come pratica – ci riferiamo in particolare all’interazione tra politici e professori – ricorreremo nuovamente a Berlin, questa volta a proposito del suo incontro con il presidente John Fitzgerald Kennedy nel ottobre del 1962. «Dopo cena [Kennedy] prese Berlin da una parte e i suoi modi divennero più seri e concreti. Voleva sapere, perché i russi non creavano più problemi a Berlino? Qual era il comportamento tipico dei russi quando erano messi alle strette dal punto di vista politico? Berlin rispose come meglio poté, mentre Kennedy ascoltava con un’attenzione terrificante. Come Isaiah ricordava in seguito con Schlesinger: “Non ho mai conosciuto un uomo che ascoltasse con una simile attenzione ogni singola parola che venisse pronunciata. I suoi occhi sporgevano lievemente, si chinava un poco verso di te, e ti faceva sentire nervoso e responsabile perché capivi che ogni parola veniva registrata”»48.

I politici, soprattutto se di levatura, non chiedono definizioni generaliste, ma risposte accurate, conformi al vero e su problemi specifici. Una volta giunto davanti alla prova del fuoco, il pericolo per ogni studioso-consigliere è quello di dire troppo o troppo poco. Torneremo sull’intera questione nell’ultimo capitolo. Come, osserva, ancora Berlin, a proposito di Kennedy, egli sentiva che «per il presidente, la vita era una serie di ostacoli da superare a prezzo di una concentrazione e di uno sforzo enormi»49. E gli ostacoli storici non si superano con i protocolli metodologici o la razionalità tabellare. Insomma, l’epistemologia non può addomesticare la storia. O ridurre di colpo la dissonanza cognitiva tra la politica dei libri e la politica della spada. Forse l’ironia, come dissimulazione mirata, senza per questo ricadere nel nicodemismo, può essere d’aiuto allo studioso come al politico. Soprattutto come metro di giudizio storico ex post e talvolta ex ante (senza tuttavia aspettarsi troppo). Ironia, però, che molti politici, anche quando di razza, da amanti del sarcasmo, come forma di personale compiacimento nell’umiliare il subordinato, non sempre sanno adoperare. Kennedy, invece, «poteva sfinire la gente ascoltandola»50. 48 - M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 262. 49 - Ibid. Resta istruttivo, anche a riprova delle affermazioni di Berlin, la lettura di Ritratti del coraggio, opera scritta dal Kennedy giovane membro del Senato. Un testo, molto particolare, dove egli affronta le biografie di otto senatori quasi in soliloquio, rivelando di possedere una enorme fibra politica che cederà solo davanti a un fucile Carcano Modello 91. Cfr. J.F. Kennedy, Ritratti del coraggio (1956), Oaks, Milano 2017. Si leggano anche le osservazioni, concordanti con quelle di Berlin, di A.M. Schlesinger, I mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca (1965), Rizzoli Editore, Milano 1966, p. 653-661. 50 - A.M. Schlesinger, I mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca, cit., p. 654. L’espressione è di Berlin. Una dote, sempre a suo avviso, che aveva anche Lenin...

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Di qui, l’imbarazzo di Berlin, che potrebbe essere l’imbarazzo di ogni serio professore di realismo politico. Consapevole però della necessità di un realismo politico che non sia solo verbo ex cathedra o pura razionalizzazione del male e del conflitto. O peggio ancora una pura e semplice dottrina criminogena della politica.

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III Sociologia del realismo politico

1. La dottrina criminogena della politica Saremo assiomatici. Esiste una dottrina criminogena, quindi prescrittiva, della politica già individuata da Agostino. E come abbiamo visto giudicata dal filosofo illegale. Perché, come egli osserva, gli stati privi di leggi e diritto in nulla divergono nei comportamenti dalle bande di briganti. In realtà, ancora prima di Agostino, i veri padri, e per giunta addirittura orgogliosi, di questa visione sono il Callicle del Gorgia e il Trasimaco della Repubblica: sostenitore, il primo, dell’idea che la legge non sia altro che un espediente dei deboli contro i forti; il secondo della tesi che scorge nella giustizia solo l’utile del più forte1. Si evince, insomma, una specie di compiacimento nel commettere il male. Al di là della contestualizzazione storica e lessicografica del pensiero dei sofisti, e delle successive ragionate remore stoiche e cristiane va rilevato un altro fatto. L’impostazione criminogena, una volta affermatisi nella prima modernità stato assoluto e autonomia della politica, sarà progressivamente recepita, nonostante «l’epoca delle rivoluzioni democratiche»2, nei termini di una riduzione della politica e del diritto a inutili schermi dietro cui celare il puro esercizio della forza: del Kratos, come giustamente documentato da geniali storici delle idee come ad esempio Friedrich Meinecke3. Ripetiamo: stiamo parlando di una dottrina criminogena della politica dalle radici antiche, venuta a graduale compimento con la modernità4. Certo, l’espressione – dottrina criminogena – può apparire forte, ma non ne ab-

1 - Platone, Gorgia, XXXVII-XLII, 482c-486d, trad. di F. Adorno, in Opere complete, Editori Laterza, Roma-Bari 1980, vol. 5, pp. 195-202; Id., La Repubblica, I, 336b, trad. di F. Sartori, in Opere Complete, cit., vol. VI, pp. 50-51. 2 - Dal titolo della celebre opera dello storico americano Robert Roswell Palmer: The Age of the Democratic Revolution: A Political History of Europe and America, 1760-1800 (1959-1964), trad. it., Id., L’era delle rivoluzioni democratiche Rizzoli 1971. 3 - Cfr. ad esempio sul conflitto «tra cratos ed ethos» F. Meinecke, L’idea della Ragion di Stato nella storia moderna (1924), Sansoni, Firenze 1977, p. 5. 4 - Pier Paolo Portinaro parla di «realismo della forza e di realismo della frode». Cfr. P.P. Portinaro, Il realismo politico, cit., pp. 85-103.

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biamo trovata una migliore, dal momento che deve esprimere un senso di compiacimento verso il male. Del resto le argomentazioni a suo sostegno non sono fondate sul soddisfatto placet all’uso spregiudicato della forza? Pensiamo a tesi che riaffiorano regolarmente anche ai nostri giorni nelle varie versioni spesso contrastanti della teoria realistica della politica internazionale. Scuole o correnti che però ufficialmente si vantano tutte insieme di studiare al microscopio gli interessi in conflitto, conferendo però ad essi un valore assiomatico5. Di fare scienza, insomma, senza nessun compiacimento. In sintesi, la dottrina criminogena, in candido camice bianco o senza, scorge nel riflesso carnivoro degli stati la causa prima della politica internazionale. Politica che avrebbe un andamento anarchico, legato per l’appunto alla disparità delle forze in campo e degli appetiti, anche in politica interna ovviamente. Tesi, come anticipato, che si riallaccia all’antichissima idea della forza come creatrice del diritto e prolungamento dell’utilità. Insomma, in sintesi, la dottrina criminogena ritiene che in politica, non solo estera, esista e conti solo la forza, come mezzo e fine. Si può distinguere tra realismo politico standard e dottrina criminogena della politica? Diciamo che dietro un lessico apparentemente neutrale e oggettivo i realisti della politica internazionale della seconda metà XX secolo, come Morgenthau, Kaplan, Waltz, celebrati nel libro scientista di Tellis, nascondono durezze inaudite. Tuttavia il realismo politico standard si limita alla trasformazione del realismo da orientamento-dottrina a metodo che poggia sul conflitto tra interessi divergenti: lo si accademizza, autonomizza, perfezionandone i rotismi interni, lasciando però insoluti due problemi: 1) quello di stabilire un confine esterno tra lecito e illecito (insomma, su dove ci si debba fermare); 2) quello di indagare sui rapporti, anch’essi esterni tra accademia e politica, così come descritti da Berlin a proposito del colloquio con Kennedy. Un rapporto tra la spada e il libro per il quale sembra valere una sorta di deontologia dai confini molto labili, come per la dinamica lecito-illecito. Si registra insomma un senso di indifferenza verso il male. 5 - In realtà, l’assiomatica degli interessi o dell’interesse (useremo le due forme indistintamente), rinvia a una concezione antropologica che in chiave ontologica, quindi tutt’altro che neutrale, pone nell’interesse individuale e nei vari modi di composizione ricomposizione degli interessi individuali la causa di ogni interazione sociale. Ovviamente quanto più si fa leva sul valore assiomatico dell’interesse, estendendone il raggio d’azione, tanto più si riduce il valore del ruolo esplicativo. Sulle origini storiche dell’assiomatica dell’interesse resta fondamentale É. Halévy, La formation du radicalisme philosophique, Alcan, Paris 1901-1904, 3 voll. dedicati rispettivamente, sintetizzando, alla giovinezza di Bentham (I), all’evoluzione della dottrina utilitaria 1789-1815 (II), al pensiero maturo di Bentham e James Mill e relativo dibattito (III). Del primo volume abbiamo curato un’edizione italiana parziale É. Halévy, Bentham, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002. Sul concetto di interesse e sulla varietà di enunciazioni cfr. L. Ornaghi e S. Cotellessa, Interesse, il Mulino, Bologna 2000, nonché, L. Ornaghi (a cura di), Il concetto di «interesse», Giuffrè Editore, Milano 1984.

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Sicché, rimane uno spazio vuoto, una specie di terra di nessuno, di cui approfittano i mezzi di comunicazione sociale e gli attori politici. Cosa del resto inevitabile. Ovviamente, non vogliamo sostenere, come già osservato, che Politics among Nations di Hans Morgenthau sia un specie di libretto delle istruzioni per politici influenzabili dal fascino dark della politica e per giornalisti, opinionisti, influencers e haters assetati di novità istituzionali e vendette geopolitiche. Più semplicemente pensiamo a un processo traspositivo e diffusivo, mestastatico e asintomatico (per usare il lessico medico), quindi apparentemente indolore e neutrale, dall’ambito scientifico-accademico a quello della discussione storico-politica e politico-mediatica. E di cosa? Di concetti studiati, se ci si passa l’analogia forse frettolosa, in stile Los Alamos6. Da inquilini, in camice bianco, della torre d’avorio, senza badare troppo alle conseguenze reali. Ovviamente formuliamo una pura ipotesi da sviluppare meglio in altre sedi. Come immagine, visto che siamo in tema, si pensi a una serie di reazioni a catena, per scissione concettuale, che convertono per fissioni cognitivo-nucleari successive l’asettico concetto di interesse nazionale in quello già politicamente in ebollizione di preferenza nazionale e, quest’ultimo, una volta giunti al nocciolo scoperto del nazionalismo, nel terrificante fungo atomico della preferenza sovrana e imperiale. Si guardi ad esempio alla rinascita nell’ultimo ventennio (almeno) del pensiero geopolitico, seguita dalla sua brutale volgarizzazione giornalistica e digitale. Parliamo di un pensiero che nega per principio la pericolosità del nazionalismo7. Negazione il cui primo gradino potrebbe essere per l’appunto rappresentato dall’assimilazione in altri ambiti dell’apparentemente asettico concetto di interesse nazionale. Che non è erroneo in sé, e che neppure può essere respinto sul piano prasseologico, ma che una volta, uscito dal laboratorio, senza alcuna precisa deontologia dei limiti, rischia di tramutarsi in res nullius cognitiva pronta a favorire le pretese politiche più assurde8. 6 - Sulla questione, terreno di dilemmi etici e contraddizioni politiche, si veda il classico reportage (oggi si parlerebbe di giornalismo d’inchiesta) di R. Jungk, Gli apprendisti stregoni. Storia degli scienziati atomici (1956), Einaudi, Torino 1964 (ultima ed. Pigreco Editore, Roma 2016). 7 - Ma si pensi anche ai revisionismi politici e ideologici rifiorenti in Europa sull’onda anomala del populismo politico che ricorrendo a un gioco di parole, neppure abile, si autodefinisce sovranista. Insomma, siamo dinanzi a un processo traspositivo e diffusivo, dell’idea nazionalista, che andrebbe ricostruito dagli storici delle idee e dagli studiosi di comunicazione sociale. Per un primo tentativo in questa direzione si veda G. da Empoli, Gli ingegneri del caos. Teoria e tecnica dell’internazionale populista, Marsilio, Venezia 2019, nonché, ma con cautela L. Sini e M. Andretta (a cura di), Populismi, nuove destre e nuovi partiti, Pisa University Press, Pisa 2017. Altri notevoli spunti di lettura, nel senso processuale, qui espresso, si possono rinvenire in C.R. Kaltwasser, P. Taggart, P. Ochoa Espejo, and P. Ostiguy (eds.), The Oxford Handbook of Populism, Oxford (UK) 2017. 8 - Sulla natura a dir poco fluida degli interessi nazionali si veda C. Jean, Manuale di geopolitica, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 291-293. A proposito della possibilità di fissare, da parte di po-

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Tuttavia, per ora, ripetiamo, si tratta soltanto di un’ipotesi da verificare. D’altra parte, il rimbalzo più lungo, da Callicle e Trasimaco alla scienza politica del XX e XXI secolo, rimanda ai percorsi accidentati del nazionalismo9. Un contesto incendiario in cui la politica viene vista dai suoi attori – pensiamo in particolare al Novecento – come un «luogo» dove tutto sarebbe permesso, pur di raggiungere lo scopo in nome di un’entità superiore e inglobante: la nazione. Ne consegue la celebrazione distorta degli uomini politici capaci di compiere azioni nefande ma in nome del sacro interesse nazionale, riveduto e corretto, come sta di nuovo accadendo alla luce di riletture aggressive della storia nazionale e addirittura imperiale10. Si torna persino a parlare – e non da oggi, anche in sedi inaspettate – di alta divulgazione scientifica, di un chimerico «bisogno di appartenenza collettiva proprio dell’individuo difficile da trascendere» rispetto «ai valori e principi universalistici» evidentemente trascendibili, come impone – quando si dice il caso – lo schema classico della «tentazione fascista»11. litici e consiglieri, gli interessi nazionali, addirittura per iscritto in testi e documenti, Jean osserva che «poiché [gli interessi nazionali] debbono essere perseguiti in un contesto imprevedibile, perché le intenzioni dei possibili avversari e competitori non sono preventivabili, tali documenti sono per loro natura generali e ambigui e spesso prescrivono tutto e il contrario di tutto, lasciando così la massima libertà di azione, necessaria per adattarsi pragmaticamente alle circostanze mutevoli» (Ibid., p. 292). Il Manuale di Jean, oltre che per il tratto ironico (e spesso, crediamo, autoironico) resta un utile strumento per la comprensione delle ambiguità racchiuse nel pensiero geopolitico, limpidamente non negate dallo stesso autore. 9 - Dal punto di vista del passaggio al nazionalismo novecentesco La Politica di Heinrich von Treitschke resta un testo storicamente esemplare per il brutale naturalismo polemico con il quale sono configurati i rapporti tra nazioni. «In generale - egli scrive - noi riconosciamo, che il grande della vita storica si fonda assai più sul carattere che sulla istruzione; le forze attive della storia sono a ricercarsi entro la cerchia in cui si perfeziona il carattere. Solamente i popoli prodi hanno una vera storia. Nelle grandi ore di prova della vita dei popoli ciò che decide sono le virtù guerriere […]. Appunto perché la guerra è forma violenta della politica. Il decisivo in essa non è mai unicamente la tecnica ma anzitutto la politica che la guida» (E. Treitschke, La Politica [1897-1898], Gius. Laterza & Figli, Bari 1918, vol. IV, p. 16). 10 - Come esempio di rilettura, che si pretende addirittura alta, della storia russa, ma in chiave di una geopolitica dura, eurasista, si veda il pastiche filosofico-politico di A. Dugin, La Quarta Teoria Politica (2012), NovaEuropa, Milano 2018. Ma, per altro verso, si leggano anche le sorprendenti riflessioni di L. Canfora, Intervista sul potere, a cura di A. Carioti, Editori Laterza, Roma-Bari 2103, p. 98, dove in nome della «realpolitik […] che non è una parolaccia ma una dura necessità per chi si trova dirigere uno stato», si giustifica in chiave occasionalista Stalin, ma non Francisco Franco. Esisterebbero, insomma, nazionalismi buoni e nazionalismi cattivi… 11 - Così A. Campi, Nazione, il Mulino, Bologna 2004, p. 211. Per una insostituibile eziologia della «tentazione fascista» che non studia il fascismo storico, ma delinea i fattori del ricorrente appeal fascista si veda la preziosa micro-enciclopedia del «non conformismo» cripto-fascista scritta da T. Kunnas, La tentazione fascista, (1972), pref. di M. Tarchi, Akropolis, Napoli 1981 (2a ed., Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2017).

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In realtà, lo stato-nazione, per usare un termine insoddisfacente, come moderna incarnazione del politico, ragiona sia in termini di forza che di diritto12. E soprattutto ha necessità o meno di alleati a vario titolo, dal momento che esso non è una monade politico-sociale. In realtà, la dottrina criminogena della politica, sorta di Convitato di Pietra o fantasma che volteggia ghignando intorno alla tavola imbandita del realismo politico standard, una volta recepita nella prassi volgarizzata, necessita purtroppo di cittadini da nazionalizzare o rinazionalizzare, da tramutare in obbedienti sudditi attraverso i meccanismi di una propaganda all’insegna di un sordido etnocentrismo e di una feroce xenofobia. Propaganda alimentata dall’ubriacatura collettiva intorno alle botti del vino, neppure novello, del carisma di capi che non sbagliano mai13. Risulta chiaro che va chiamata in causa la questione a tutt’oggi insoluta del nazionalismo. E soprattutto del rapporto tra realismo politico volgarizzato e nazionalismo. Perché, fermo restando il sostrato callicleo-trasimacheo, variamente interpretato ed emendato storicamente, le radici novecentesche della dottrina criminogena della politica sono ravvisabili nei fluttuanti confini tra volgarizzazione del realismo politico, affievolirsi della sensibilità etica e cognitiva (insomma, di sapere e capire dove fermarsi) e vulcanica nazionalizzazione delle masse. Come ha scritto, Hans Khon, grande storico del fenomeno, «con l’avvento del nazionalismo, le masse non furono più nella nazione, ma della nazione»14. Leggiamo.

«La nazionalità, che non è nient’altro che un frammento di umanità, tende a sistemarsi come un tutto. Generalmente, non si enuncia questa conclusione finale, perché idee anteriori all’era del nazionalismo continuano ad esercitare la loro influenza»15.

A quali «idee anteriori» si riferisce Khon?

12 - Sulle origini dello stato-nazione, come fenomeno storicamente recente, rinviamo a W. Reinhard, Storia del potere politico in Europa (1999), Il Mulino, Bologna 2001, pp. 531 e sgg. Sul rapporto tra stato e nazione come «pervertimento dello stato in uno strumento della nazione», resta insuperato, anche per l’analisi delle terribili conseguenze, H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Bompiani, Milano 1978, 3 voll., pp. 317-339, per il passo cit. p. 322. 13 - Sulla divinizzazione di capi ritenuti erroneamente onniscienti, si leggano le interessanti osservazioni dello storico Piero Melograni: «Un capo conosce molto poco il mondo che lo circonda, e molto poco riesce a trasformarlo. Quanto più grandi sono le responsabilità che un capo assume, tanto più grandi sono gli ostacoli che egli incontra nel conoscere e nell’agire». Cfr. P. Melograni, Saggio sui potenti, Editori Laterza, Roma-Bari 1977 (2a ed., Einaudi, Torino 2019), p. 1, in particolare capitolo I, pp. 3-17 (“L’ignoranza dei potenti”). 14 - H. Kohn, L’idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico (1944), La Nuova Italia, Firenze 1956, p. 24. 15 - Ibid., p. 25.

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«Queste idee formano l’essenza della civiltà occidentale, del cristianesimo come del razionalismo illuminista: la fede nell’unità dell’umanità e il valore finale dell’individuo. Solo il fascismo, nemico intransigente della civiltà occidentale, ha spinto fino al suo limite estremo, fino al nazionalismo totalitario, nel quale l’umanità e l’individuo scompaiono e non rimane altro che la nazionalità, che è diventata l’uno e il tutto»16.

Esatto. E che in realtà le cose non stiano come auspica la dottrina criminogena della politica non sarebbe poi così difficile da capire. Solo lo si volesse. Infatti, la necessità di avere alleati, implica quella dei trattati, e quella dei trattati, le organizzazioni internazionali in grado di gestirli. È vero che i trattati non hanno mai del tutto impedito le guerre, ma è altrettanto vero che la storia è segnata da lunghi periodi di pace, grazie proprio ai trattati, alle leghe e alle alleanze, dunque a forme di leale collaborazione. Piaccia o meno, non si registra «in natura» sociale, e per giunta in chiave esclusiva, né una volontà di conflitto né una volontà di pace. Sono forme sociali che coesistono. Detto altrimenti, se proprio di «natura» si vuole parlare allora abbiamo sia il contratto, sia il fucile17. Sia il grattacielo, sia il formichiere. E il senso della realtà deve tenerne conto. I sostenitori della dottrina criminogena della politica sostengono, invece, che la volontà di pace sia solo un trucco per vincere la guerra. E, dal momento che conta solo il fucile, sia inutile perdere tempo in chiacchiere. Oppure, si può anche chiacchierare, ma soltanto per prendere tempo e ingannare il nemico. Sotto questo profilo Hitler sarebbe allora uno statista modello. Anzi, stando così le cose, addirittura un esempio storico di enorme valore. Da seguire. In realtà, tra Bismarck, grande realista politico, e Hitler, grande criminale politico (non troviamo altro termine per un uomo così malvagio), esiste una bella differenza. Per capirlo basta leggere un qualsiasi manuale di storia della 16 - Ibid. 17 - Sul piano storico, esistono, e probabilmente sono la maggioranza del quieta non movere et mota quietare, governanti che sebbene non si siano sottratti alle guerre, non si sono mai completamente piegati a una visione criminogena della politica di sistematica conquista e distruzione del nemico. Al riguardo l’antichità ha conosciuto le figure, piuttosto note, di Ashoka (304-232 a.C.), sovrano indiano, e di Marco Aurelio (121-180 d.C.), imperatore romano. A dire il vero resta difficile individuare il punto di discrimine tra realismo politico e realismo criminogeno. E a maggior ragione nel quadro di un realismo standard che si nasconde dietro la neutralità metodologica dell’assiomatica dell’interesse. Si può però ritenere che il Novecento con figure come Hitler e Stalin e altri ferocissimi dittatori abbia dato un importante contributo di chiarimento al riguardo. Fermo restando il fatto di quanto sia veramente difficile stilare una lista storica (come dire?) di buoni e cattivi: Attila, Gengis Khan, Tamerlano tra i cattivi? Alessandro Magno, Cesare, Carlo Magno tra i buoni? Come si può intuire, qui, il pregiudizio etnocentrico, potrebbe portare fuori strada… Comunque sia, sul fanatismo e le ossessioni dei capi assoluti, per quel che riguarda la seconda metà del Novecento e il mondo non occidentale, si veda la messa appunto di D. Vecchioni, Tiranni e dittatori. Volti, manie, deliri e crimini del potere assoluto. Da Bokassa al dispotismo irreale di Shwe, Editoriale Olimpia, Firenze 2010.

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politica internazionale del XIX e del XX secolo18. Si tratta della stessa distanza che corre, sul piano del realismo pensato, tra Niccolò Machiavelli e Houston Stewart Chamberlain. Tra Il principe e Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts19. Come del resto va ricordata, sia detto per inciso, la differenza tra Cavour e Bismarck, statisti che incarnano due tipi di realismo. Quello di Cavour, ad quem, attraversato da un’inquieta etica dei principi. Quello di Bismarck, a quo, dietro cui si scorge il solido esecutore di un’etica della responsabilità20. Inoltre, la dottrina criminogena ignora sia i meccanismi dell’economia, che si nutrono di liberi scambi economico-sociali, sia le dinamiche dell’egemonia politica, fenomeno legato alle dimensioni politiche, nonché ovviamente anche ad altri fattori e non necessariamente cruenti21. Per fare solo un esempio vicino a noi, l’Albania comunista e la Romania «socialista», si proclamavano indipendenti dal colosso sovietico, ma in realtà, rispettivamente, dipendevano, anche se obtorto collo, dalla Cina (almeno fino al 1978) e dagli aiuti trasversali dell’Occidente22. La soglia egemonica, spesso dettata da dimensioni e risorse, non è un dettaglio, al quale si possa ovviare con la pura e semplice autarchia economica23. 18 - Per tutti si veda la equanime ricostruzione di R. Albrecht-Carrié, Storia diplomatica d’Europa 1815-1968 (1958, 1973, 2a ed. riv. e agg.), Editori Laterza, Roma-Bari 1978. Notevole, a prescindere, l’acuto giudizio di Albrecht-Carrié su Bismarck (giudicato comunque rispetto a Hitler «uomo di stato eccezionale»), circa i suoi sistemi di alleanze: eccellenti nelle sue abili mani, meno in quelle di coloro che sarebbero venuti dopo. Privi, ci permettiamo di aggiungere, del suo spiccato senso della realtà (Ibid., p. 201). 19 - Tra un classico del realismo politico e un brutale centone antisemita. Sui rapporti tra Machiavelli e il nazionalsocialismo, dal punto di vista però di un «machiavellismo, sregolato e divenuto come “pazzo”», criminogeno, per dirla con la nostra terminologia, cfr. J.-J. Chevalier, Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai giorni nostri (1949), il Mulino, Bologna 1974, p. 52. Va ricordato a titolo di curiosità che Chamberlain, nella sua opera maggiore non cita mai Machiavelli. Cfr. H.S. Chamberlain, Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts (1899), Bei F. Bruckmann A.-G., München 1922, 2 voll., vol. II, pp. 769-777 (sull’Italia e gli italiani) e ad indicem, pp. 1135-1137. 20 - G.E. Rusconi, Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo, il Mulino, Bologna 2011. Va però ricordato, a proposito di Bismarck, che alcuni storici reputano, e a ragione, l’inimicizia del «sistema Bismarck» verso la liberal-democrazia, tra le cause delle successive tragedie tedesche, dalla Prima guerra mondiale alla Seconda. Si veda ad esempio G. Mann, Storia della Germania moderna 1789-1958 (1958), Garzanti, Milano 1978, pp. 286-287. Nonché per certi aspetti altrettanto critici, il già citato Albrecht-Carrié. 21 - Sul punto cfr. la classica opera, purtroppo oggi dimenticata, di H. Triepel, L’egemonia (1938), Edizioni Leonardo Casa Editrice Sansoni, Firenze 1949, pp. 162-215 (“Eziologia dell’egemonia”). 22 - Si vedano A. Biagini, Storia dell’Albania contemporanea, Bompiani, Milano 2005; F. Costantiniu, Storia della Romania (1997), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2015. 23 - Sono aspetti approfonditi nel nostro C. Gambescia, Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza, Edizioni il Foglio, Piombino (LI) 2016, pp. 129-166 (“La cassetta degli attrezzi”).

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Insomma, il sovranismo populista, oggi sulla cresta dell’onda, potrebbe rivelarsi un bluff politico. Per fare un esempio, fin troppo vicino a noi, l’Italia, di cui oggi si proclama ai quattro venti la necessità di recuperare la sovranità nazionale, qualora vincesse o crescesse l’influenza delle tesi sovraniste, in quanto potenza di taglia medio-piccola uscirebbe inevitabilmente dall’orbita americana e tedesca per finire sotto quella russa o cinese24. Certo, per gli ammiratori dei governi autoritari sarebbe un progresso. Gli «stati sovrani» non sono navi dei pirati o immaginari isolotti di Mompracem armati fino ai denti. Lo sono soltanto per certo romanticismo politico, cattivo maestro di disavventure individuali e catastrofi politiche. Come osserva Carl Schmitt, «ogni vera attività politica – sia che consista nella tecnica di conquistare, conservare ampliare la potenza politica, sia che si fondi su decisioni giuridiche o morali – si trova in intima contraddizione con l’essenza estetica del romanticismo. Un uomo dotato di energia politica o morale è ben consapevole della confusione delle categorie operata dai romantici, e sa ben distinguere l’interesse romantico per gli oggetti dagli oggetti stessi […]. Infatti, il punto concreto dal quale si origina il romanzo romantico, è sempre soltanto occasionale; così ogni forma della realtà viene romanticizzata, ed in un modo siffatto tutte le distinzioni politiche e religiose si dissolvono in quell’ambiguità che, sola, interessa i romantici. Il re è una “figura” romantica quanto il congiurato anarchico, ed il Califfo di Bagdad non è meno romantico del Patriarca di Gerusalemme. Nel mondo romantico, tutto si scambia con tutto»25.

Il romanticismo politico ricompone quasi di getto la dissonanza cognitiva ma ricorrendo al mito e all’occasionalismo politico. L’Italia «si scambia» con gli Stati Uniti, o con la Cina e la Russia, «tutto si scambia con tutto». E così via. Di volo pindarico in volo pindarico. Per riprendere l’esempio delle sigarette usato nel Primo capitolo, l’avventuriero romantico della politica, ritiene che il fumo faccia crescere la creatività… E poi, come è noto, «chi per la patria muor vissuto assai»… Va pure detto che in questo modo rischia di venire meno quello che Guy Hermet ha chiamato il «catechismo civico» liberale, portato a distinguere tra spirito di nazionale e nazionalismo26.

24 - Per una buona sintesi, anche per problemi, cfr. G. Mammarella e P. Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Editori Laterza, Roma-Bari 2010. 25 - C. Schmitt, Romanticismo politico (1919), a cura di C. Galli, Giuffrè Editore, Milano 1981, p. 233. 26 - Sul punto rinviamo ai classici studi di Lewis B. Namier e Federico Chabod (un polacco naturalizzato britannico e un valdostano), dove si distingue assai bene, pur su piani diversi (maggiore l’accentuazione semantica in Chabod, cfr. la seconda parte sulle «variazioni»), tra spirito di nazione e nazionalismo; tra libertà, come valore patriottico, che vale anche per gli altri popoli, e oppressione, come negazione dell’altrui libertà, nel nome della nazione; tra risorgimenti nazionali e stato ridotto a serbatoio della razza. Cfr. L.B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull’Ottocento europeo (1952), Einaudi, Torino 1972, in particolare pp. 165-194 (“Nazionalità e libertà”); F. Chabod, Storia dell’idea di nazione (1961), a cura di A. Saitta e E. Sestan, Editori Laterza, Roma-Bari 1972.

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Secondo Hermet il senso comune (e non solo in Europa) non «tende più a vedere nel nazionalismo il principio ispiratore di tutte le guerre e di tutti i genocidi moderni»27. Hitler ne sarebbe felice, Bismarck, prenderebbe tempo per rispondere, Cavour ne sarebbe addolorato. In realtà, la dottrina criminogena della politica, non tiene conto del reale funzionamento della società. Ne scorge solo un lato, come del resto il realismo politico standard: quello conflittuale, estremizzandone però, in chiave occasionalista i contenuti criminogeni. Diciamo, forse esagerando, che in virtù della comune antropologia negativa, tra la teoria standard del realismo politico e quella criminogena c’è una differenza di grado e non di specie. Quella che può passare tra un uomo cattivo e un uomo malvagio, tra chi resta indifferente e chi si compiace del e nel male.

2. Ironia della storia e funzionamento della società Un passo indietro. Abbiamo più volte accennato alla necessaria natura ironica del realismo politico consapevole, non sempre condivisa, ma si potrebbe anche dire quasi mai, dall’approccio realista standard. E per quale ragione? Perché l’ironia, quella autentica, resta consustanziale a un certo modo di porsi nei riguardi della vita storica e sociale. Ne è l’ancora di salvezza in quanto rifiuto programmatico delle antropologie chiuse o negative. Se si sposa l’idea del realismo politico standard (per non dire del criminogeno), di giudicare la storia alla stregua di una razionalizzazione del conflitto tra gli interessi, a sua volta, esito di una antropologia negativo-conflittuale, la storia non potrà non apparire come svolgersi di una tragedia necessaria, alla quale assistere dall’alto, dominando le rovine dei Fori al tramonto, come un Gibbon che però abbia perso il treno illuminista (se ci si passa l’espressione)28. Inoltre, la razionalizzazione della tragedia non coglie l’imprevedibile che costituisce la materia prima dell’ironia. Ossia non bada alle conseguenze inintenzionali di un atto politico. Conseguenze, attraverso le quali la storia ironicamente si vendica del bene, ripagando con il male e viceversa. Facciamo qualche esempio. 27 - G. Hermet, Nazioni e nazionalismi in Europa (1996), il Mulino, Bologna 1997, p. 281. A più di venti anni di distanza dalla pubblicazione del libro di Hermet, il «catechismo civico» liberale vanta purtroppo un numero di lettori ancora più ridotto. 28 - Gibbon, che in realtà non perse alcun treno illuminista, osserva nella Autobiografia, che ebbe l’idea di scrivere il suo magnum opus mentre «sedev[a] meditando tra i ruderi del Campidoglio e i frati scalzi cantavano i vespri nel Tempio di Giove». Citato in P. Angarano, Introduzione a E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano (1776-1788), Newton Compton, Roma 1973, vol. I, pp. 11-12.

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Secondo Fernand Braudel nel 1914 l’Europa sembrava pronta a diventare tutta socialista, prossima a trasformarsi in un’isola di pace. Invece in un pugno di giorni esplose il grande conflitto mondiale, che condusse, riavvolgendo il nastro della storia, al cupo inverno delle dittature nazista, fascista e comunista: conseguenze inimmaginabili nella primavera del 191429. Il paradiso, che sembrava a portata di mano (il socialismo) si tradusse in inferno (il totalitarismo). La «forza delle cose» sembrava spingere verso il bene, il socialismo. In realtà si stava correndo a precipizio verso il male: la guerra e i totalitarismi successivi. Nel 1914, per un realista a quo la guerra sarebbe stata solo un incidente di percorso per poi riprendere il luminoso cammino verso una più alta forma di civiltà. Si pensi al riguardo alla posizione di un Salvemini, padre dell’interventismo democratico e realista a quo. Per contro, per Croce, realista ad quem, dalla guerra lo spirito di libertà europeo non sarebbe uscito indenne30. Oggi noi sappiamo che la ragione era dalla parte di Croce. Altro esempio. Nel marzo del 1917, Nicola II, al momento della sua abdicazione, decisione presa quasi d’impeto, bloccato nella stazione ferroviaria di Pskov, per «mettere fine alla rivoluzione e preservare la Russia dagli orrori dell’anarchia», così salmodiavano i suoi aiutanti di campo. Nicola II, dicevamo, poteva immaginare che una decisione presa per il bene del popolo russo, almeno così egli riteneva, avrebbe condotto alla eliminazione fisica dei Romanov e alla guerra civile? Che l’abdicazione, la cui prima conseguenza fu di accrescere la disunione tra le forze moderate, avrebbe favorito la radicalizzazione del conflitto e la vittoria dei bolscevichi e settant’anni e più di dittatura comunista31? Insomma, che il bene – il farsi da parte dello zar per il bene del popolo – avrebbe prodotto il male? 29 - F. Braudel, Il mondo attuale (1963), Einaudi, Torino 1966, pp. 452-453. 30 - Sulla questione si veda l’eccellente ricostruzione, raramente citata, a opera di J.A. Thayer, L’Italia e la Grande Guerra. Politica e cultura dal 1870 al 1915 (1964), Vallecchi, Firenze 1973, 2 voll. In particolare, vol. II, pp. 405-578. 31 - L’episodio è ben ricostruito da P. Macry, Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento, il Mulino, Bologna 2009, pp. 165-174; per la citazione, Ibid., p. 7. Il volume di Macry è molto utile perché illustra in modo innovativo come la meccanica dissolutiva dei regimi politici e statuali sia frutto non solo di debolezze costitutive, ma anche, soprattutto nelle sue fasi finali, di carenze e errori informativi a livello decisionale. Errori, spesso madornali, che innescano effetti di ricaduta di segno contrario rispetto agli scopi prefissi dai diversi attori, facilitando il crollo finale. Sotto questo profilo alla lettura di Macry va affiancata quella di Melograni, Saggio sui potenti, cit., dove in modo analogo si pone l’accento sull’interazione tra azione politica, caso e necessità: due fattori che mettono sempre a dura prova le apparentemente ferree dottrine politiche e storiografiche sui poteri decisionali assoluti di politici e statisti.

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Ovviamente, Nicola II, non poteva sapere. Oggi però noi sappiamo. Forse le cose dovevano andare così. Del resto Nicola II viene ritualmente descritto come un monarca debole32. La storia è piena di esempi del genere. Ironia della storia, appunto. Vediamone alcuni altri, tra i più noti. Il periodo che va dall’inizio delle rivolte degli schiavi in Sicilia (135 a.C.) e dall’assassinio dei Gracchi (133 e 121 a.C.) e che giunge fino all’inizio della presa di potere di Ottaviano poi innalzato ad Augusto (31 a.C.), e che vide battagliare con armi e parole in nome della Repubblica un’intera classe dirigente, produsse prima Cesare e poi Augusto. Soprattutto quest’ultimo pose le basi del potere imperiale e del progressivo esautoramento del Senato e dello sfinimento dei poteri popolari. L’esatto contrario di ciò che si erano prefissi generali, senatori e notabili romani, sia conservatori come democratici33. Il Parlamento inglese, nemico delle guerre esterne, e indeciso persino sull’intervento in favore dei protestanti nella Guerra dei Trent’anni, non si sottrasse a una disastrosa guerra civile, sebbene provocato da Carlo I, re autocrate, poi giustiziato e temporaneamente sostituto con la dittatura di Cromwell. Si ottenne l’esatto contrario del messaggio di pace racchiuso nella libertà dalla Ship Money, tassa per il finanziamento delle navi da guerra, reintrodotta ingiustamente nel 1634 da Carlo I, invisa al Parlamento che ne aveva reclamato a gran voce l’abolizione o, comunque, ne aveva denunciato l’iniquità34. La Rivoluzione Francese, in nome della libertà, decapitò Luigi XVI (1793) per incoronare imperatore Napoleone (1804), sovrano ancora più occhiuto e bellicoso del re Borbone. L’esatto contrario dei disegni di libertà, in primis fiscale, vagheggiati dal Terzo Stato proclamatosi Assemblea Nazionale (1789)35. Sono tutti effetti inattesi delle azioni sociali, anche quelle rivoluzionarie, dunque le macro-azioni. Di qui, la necessità di farne tesoro. Potremmo parlare di ironia riflessa nel senso di un necessario – per chi comprenda – ragionamento sull’ironia della storia. Detto altrimenti, qui innanzitutto è in gioco una cosa importantissima: il rifiuto di credere, non in nome del moralismo o dell’immoralismo bensì di una visione ironica della storia, che il male produca sempre il male e il bene il bene. 32 - Si veda H. Troyat, Nicola II. L’ultimo zar e la tragica fine dei Romanov (1991) San Paolo, Milano 2001, storico francese e finissimo letterato di origine russo-armena. Inoltre, resta importante per ricostruire il dramma interiore dello zar, E. Bing (a cura di), La vita intima dell’ultimo zar. Carteggio inedito fra Nicola II e l’imperatrice madre Maria Feodorovna, Mondadori, Milano 1938. 33 - Si veda, a volo d’uccello, ma con i crismi del serio lavoro storiografico, J.A. Garraty e P. Gay (a cura di), Storia del Mondo (1972), 3 voll. Mondadori, Milano 1973, vol. I, pp. 191-204. 34 - Ibid., vol. II, pp. 563-567. 35 - Ibid., vol. II, pp. 735-745 e pp. 746-760.

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Insomma, vanno respinte tre tesi: la prima, sostenuta dal realismo politico standard che in nome di un’antropologia conflittuale scorge animali carnivori ovunque; la seconda, difesa dalle varie antropologie della pace, sposate dai pacifisti che credono in un mondo erbivoro e pacifico; la terza, propugnata dalla dottrina criminogena, tesa a fare un solo boccone di carnivori ed erbivori. L’ironia storica insegna invece, ripetiamo, che accade l’esatto contrario. E ripetiamo, uomini politici e studiosi, dovrebbero «di riflesso» tenerne conto. Si chiama, non ci stancheremo mai di ripeterlo, realismo politico consapevole. A guardia dei fatti. E soprattutto della realtà. Detto questo, cerchiamo di capire come funziona la società. Procederemo in modo apodittico o quasi. Diciamo in senso dimostrativo piuttosto che dogmatico. Anche se il rischio di apparire dogmatici resta sempre in agguato. Punto primo. L’azione individuale, come motore principale delle azioni sociali, collettivamente intese, non è mai «conseguenza meccanica della socializzazione». Come osservano Raymond Boudon e François Bourricaud,

«per comprendere un’azione, bisogna conoscere le intenzioni e, più in generale, le motivazioni dell’attore […]. I mezzi di cui si dispone o crede di disporre, la valutazione di questi diversi mezzi da lui effettuata. Tutto ciò determina il campo dei possibili esiti della situazione di interazione nella quale l’attore è immerso […]. L’azione non è quindi riducibile agli effetti di un condizionamento. Ma è d’altra parte chiaro che sulle “preferenze” dell’attore come sui mezzi di cui dispone o crede di disporre incidono le “strutture sociali”»36.

Il che significa, punto secondo, che pur ammesso il ruolo del dato strutturale in termini di motivazione delle «preferenze», l’ultima parola è dettata dal comportamento dell’individuo, che ad esempio, davanti a un evento, che si presume vantaggioso, si sottrae o magari commette un errore in fase di esecuzione, innescando degli effetti sociali imprevisti. Lasciamo di nuovo la parola a Boudon e Bourricaud. Anzi a un loro esempio.

«A seguito della “privatizzazione” del matrimonio e del divorzio decretata dai bolscevichi dopo il loro successo del 1917, si sviluppa in Russia un’intensa crisi degli alloggi. Perché? Perché le nuove istituzioni, rendendo la coppia fragile, spingono ciascuno

36 - R. Boudon - F. Bourricaud, Azione, in Idd., Dizionario di sociologia (1982), a cura di L. Infantino, Armando Editore, Roma 1991, p. 39. In realtà, si tratta di un eccellente trattato di sociologia, diviso per voci ben collegate e rafforzato dal vivace individualismo metodologico condiviso dagli autori. Come approfondimento si vedano R. Boudon, Effetti perversi delle azioni sociali (1977), Feltrinelli, Milano 1981, opera seminale per capire la dinamica al contrario delle società; F. Bourricaud, L’individualisme institutionnel. Essai sur la sociologie de Talcott Parsons, Puf, Paris 1977, studio prezioso che va ben oltre Parsons affrontando il tema strategico del rapporto tra scelte individuali e pressioni istituzionali.

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degli sposi a cercare di disporre di un alloggio da utilizzare nel caso in cui l’unione dovesse rompersi»37.

Ciò vuol dire,

«che il mutamento istituzionale ha modificato il campo di azione e di razionalità degli individui e i loro comportamenti in materia di alloggi. [Tuttavia] l’aggregazione di questi comportamenti ha provocato a livello macrosociologico un evento: l’apparizione di una crisi degli alloggi che ha costretto le autorità a tornare sulla decisione di consentire l’unione libera»38.

Ma di esempi in argomento, su come funzionino le società, se ne possono trovare altri. Uno celebre risale addirittura al nostro Alessandro Manzoni che ne I promessi sposi, chiarisce come le misure calmieratrici e le scelte mercantilistiche delle economie – non solo seicentesche, nel caso di raccolti scarsi – provochino l’esatto contrario di ciò che si propone di perseguire, per il bene del popolo, il decisore politico: la sparizione di quel poco di grano disponibile e il conseguente assalto ai forni, frutto velenoso di paranoie cospirative popolari39. Come scrive Manzoni, «il Gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo […] vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine bastasse a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto a trentatré lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine che pensasse di ringiovanire, alterando la fede di battesimo»40.

37 - R. Boudon - F. Bourricaud, Azione, in Idd., Dizionario di sociologia, cit., p. 37. 38 - Ibid. 39 - Si legga questa stupenda, sociologicamente stupenda, pagina manzoniana sulla massa in tumulto: «Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia son le parole che mandan fuori più volentieri». Non sembra il clima che si respira oggi sui Social? E, purtroppo anche nelle «piazze» italiane televisive e non? Esageriamo? Per la citazione si veda A. Manzoni, I promessi sposi (1840-1842, 2a def. rivista), a cura di P. Mazzamuto, Palumbo, Firenze 1969, pp. 277-278, vecchia edizione liceale, basata sulla «quarantana», integrale e ottimamente curata, alla quale siamo affezionati. 40 - Ibid., p. 255. Il corsivo è nel testo. Per questa osservazione e per altre sparse nelle sue opere Manzoni avrebbe meritato di essere incluso, come sociologo liberale ante litteram, tra I cattolici a difesa del mercato, titolo di un volume antologico, comunque interessante, curato da Dario Antiseri e Flavio Felice (Rubbettino, Soveria Mannelli [CZ] 2005).

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Quel «che un suo ordine bastasse a produrlo», prova evidente di costruttivismo puro contrario a ogni argomentazione sulla spontaneità della vita sociale, apre un’altra questione che spesso sfugge al realismo politico standard, racchiusa in due teoremi fondamentali di sociologia: il primo è quello dell’evoluzione spontanea per selezione delle istituzioni sociali; il secondo, quello degli ordini sociali spontanei, esito di libere interazioni individuali. Parliamo di teoremi che rappresentano a tutt’oggi la migliore spiegazione logica del funzionamento della società. E se si vuole, passando al piano storico, la più verosimile41. Teoremi, forse termine eccessivo per concetti che per l’elaborazione intellettuale, varia, discontinua e in qualche misura ironicamente inintenzionale, rimandano a Hayek e alla robusta tradizione che lo precede e che annovera tra i padri della teoria dell’evoluzione spontanea delle istituzioni sociali i nomi di David Hume, Adam Ferguson, Edmund Burke, Carl Menger e Karl Popper. Mentre per la teoria degli ordini sociali spontanei, resta d’obbligo il rimando a Bernard Mandeville, Adam Smith, Michael Polanyi42. Pensatori che, volens nolens, rinviano sul piano della dinamica sociale, propriamente intesa43, alla teoria dell’eterogenesi dei fini sociali, nel senso che, come osserva Wundt, che «i fini che la storia», come la società,

41 - Teoremi, ovviamente, non nel senso stretto matematico del termine bensì, più semplicemente, nel significato con cui comunemente si parla di proposizioni dimostrate logicamente a partire da un postulato. Nel caso quello dell’individualismo metodologico con al centro l’individuo agente. Ferma restando la questione della riprova storica, qui evidenziata con numerosi esempi, che va ad affiancare con i fatti storici, dunque «verosimilmente», la dimostrazione logica. Sull’individualismo metodologico, nonostante gli anni trascorsi, resta ineludibile, pur nella sua brevità, R. Boudon, Individualismo metodologico, in G. Bedeschi et alii (sotto la direzione di), Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1994, vol. IV, pp. 625-630, ora consultabile qui: http:// www.treccani.it/enciclopedia/individualismo. 42 - Sui vari riferimenti, anche genealogici, ricordati, cfr. S. Moroni, L’ordine sociale spontaneo. Conoscenza, mercato e libertà dopo Hayek, Utet, Torino 2005. con ricca bibliografia hayekiana. Di Friedrich August von Hayek si veda anzitutto Legge, legislazione e libertà (1973, 1976, 1979, 3 voll.) autentica summa anticostruttivista (il Saggiatore, Milano 1986, in un volume). Anticostruttivista, nel senso, per riferirci all’esempio manzoniano sul mercato del grano, che «non basta un ordine» dall’alto per fissare il prezzo di un bene. Così come, a maggior ragione, non basta un «piano» politico, calato sempre dall’alto, per fissare il valore di presunti beni collettivi o addirittura per «costruire» ex novo un ordine sociale e politico. 43 - In senso proprio, sociologico. Sulla distinzione tra statica e dinamica sociale (e sociologica) rinviamo a G. Bouthoul, Trattato di sociologia (1968, 3 ed. riv. e agg.), Città Nuova Editrice, Roma 1974, 2 voll., I vol., pp. 30-33. La statica è lo studio degli elementi essenziali che si ritrovano in tutte le società: funzioni e agenti funzionali (politici, culturali, sociali, economici), se si preferisce le forme del sociale; la dinamica studia invece le variazioni istituzionali (grado, fattori, modi di azione, tipologie in ambito politico, culturale, sociale, economico), se si vuole i variabili contenuti storici immessi dagli uomini nelle forme. Sul punto in particolare si veda J. Molina, Gaston Bouthoul, inventor de la polemología, cit., pp. 353-364 (“Estática, dinámica, cinemática”).

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«realizza non sono quelli che gli individui e le comunità si propongono, ma sono piuttosto la risultante della combinazione, del rapporto e del contrasto delle volontà umane tra loro e con le condizioni oggettive»44.

Ricordiamoci dell’osservazione di Braudel a proposito dell’Europa del 1914 beatamente addormentata sull’orlo del socialismo… Detto in altri termini, più semplici, se non semplicistici: gli antichi romani costruirono l’impero senza sapere ciò che stavano facendo; gli uomini del medioevo il feudalesimo45, ignorando cosa edificavano; gli uomini dell’età moderna, il capitalismo, senza avere nozione precisa di quel che costruivano. Solo in seguito storici ed economisti hanno denominato questi fenomeni con i nomi che oggi tutti conosciamo. Di qui però, ne è derivata la «presunzione fatale»46 di poter costruire a tavolino, ex ante, la realtà sociale. Di decidere dall’alto, schioccando le dita, come nell’esempio manzoniano, il prezzo del grano. Ad esempio, la dottrina di Marx, mescolanza di economicismo e positivismo, ne è in qualche misura, riprova47. Come, a maggior ragione, i disastri politici che sono comunque de-

44 - Wilhelm Wundt, padre fondatore di una disciplina oggi quasi dimenticata, la psicologia dei popoli. La citazione è tratta da N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit., p. 437 (“Eterogenesi dei fini”). Un inciso: tra i padri nobili degli effetti inintenzionali vanno annoverati Hegel e Vico. Ma con una avvertenza: il pericolo insito nel loro approccio è di ricondurre gli effetti inintenzionali a una superiore razionalità divina (Vico) oppure alla superiore razionalità dello spirito oggettivo (Hegel). Si rischia, seguendoli, di cadere in una specie di provvidenzialismo di ritorno, secolarizzato in Hegel. Inoltre tra i «padri fondatori» va ricordato François Guizot che sottolineò l’importanza degli «influssi indiretti»: non visibili subito, perché magari al tempo indesiderati, ma che dopo alcuni secoli di lenta penetrazione, e talvolta arretramento, divengono visibili e condivisi da tutti (o quasi…), come accadde ai principi di libertà religiosa e politica (cfr. F. Guizot, Storia della civiltà in Europa [1829-1832], a cura di A. Saitta, il Saggiatore, Milano 1973, pp. 232-234). Principi che a dire vero, fuori dell’Occidente, e talvolta ancora al suo interno, incontrano tuttora qualche «problema», per così dire. 45 - Dei Romani abbiamo già detto. Sul «Feudalesimo», come invenzione degli storici, restano pregnanti le tesi di Vilfredo Pareto che riassumendo quanto scritto nel Trattato di sociologia generale, dove si prova ad abundantiam la precedenza dei fatti sulle teorie, asseriscono che «le teorie sulla feudalità sono state piuttosto la conseguenza che la causa della feudalità»: cfr. V. Pareto, Trasformazione della democrazia (1921), a cura di C. Gambescia, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2018, pp. 56 (sul feudalesimo) e 61 (sull’autorità dei fatti). Quanto al Trattato, si veda tutta la parte sulle «Azioni non logiche», ricchissima di esempi. Cfr. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., vol. I., in particolare da § 583 a §590 (pp. 502-510), sulla pretesa di spiegare a priori i fatti con «l’autorità delle idee». 46 - Ovvero The Fatal Conceit dal titolo originale del celebre libro di F.A. von Hayek, La presunzione fatale. Gli errori del socialismo (1988), a cura di W.W. Bartley III, ed. it. a cura di D. Antiseri, Rusconi, Milano 1997. 47 - Sul curioso mix positivista-economicista marxiano, resta sempre utile la lettura cacofonica di C. Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino 2004. Scrive Preve, in quel suo particolare stile, anche umano, indimenticabile, per chi lo abbia oltre che letto conosciuto, che «Marx ha fatto grandi cose, oggi non ancora superate, pagando i due prezzi della rinuncia al riconoscimento del valore conoscitivo della filosofia e dell’accettazione della centralità dell’economia

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rivati dalle manipolazione marxista di un pensiero, il marxiano, già di per sé fonte di invitanti oscurità48.

3. Interdipendenza sociale: le riflessioni di Geiger Tornando sui due teoremi, nel primo caso, si riconduce la diffusione delle istituzioni, per evoluzione spontanea e selettiva, all’adozione di esse da parte di gruppi, per i manifesti vantaggi che queste istituzioni recano in termini di crescita qualitativa e quantitativa del gruppo. Insomma, se ci si consente la semplificazione, nessuno si svegliò un bel giorno e decise di «costruire» una cosa chiamata capitalismo49. Gli uomini ne scoprirono e apprezzarono i benefici col tempo. Un processo di apprendimento ancora in atto. Nel secondo caso, si riconduce la formazione di ordini sociali spontanei alla libera divisione della conoscenza specializzata, conoscenza che favorisce vantaggi diffusi, attraverso il libero svolgersi di azioni indipendenti. Parliamo di vantaggi legati ai singoli interessi all’interno di una sfera protetta dall’obbedienza a poche regole astratte e generali. Per fare alcuni esempi classici nel quadro di una società aperta, segnata dalla libertà di decisione individuale e da leggi costituzionali che la sanciscono50, il ricco perseguendo il lusso crea opportunità di lavoro e guadagno per altri uomini; l’imprenditore perseguendo la crescita dei propri profitti crea occasioni di lavoro per altri operai, e così via per tutti coloro che perseguono una qualche forma di profitto, reddito, compenso, dividendo, tornaconto, vantaggio. Il che però è qualcosa che va oltre la fredda assiomatica degli interessi se politica, con tutti i rischi connessi di economicismo e nichilismo, la cui somma è la deficienza di universalismo» (Ibid., p. 60). Preve, in altre parole, ci dice, in modo dissonante dal mainstream «marxiologico», soprattutto pseudo-scientista, che Marx è un ontologo sociale, un filosofo puro. Sicché suo avviso «chi non abbia letto» Platone, Aristotele, Spinoza, Kant, Hegel, Heidegger e il Luckas dei Prolegomi all’ontologia sociale, non è assolutamente in grado di capirlo (Ibid., pp. 204 e 207). Il suo giudizio che condividiamo, perché nega giustamente la falsa rappresentazione di Marx scienziato sociale, fa di Preve la continuazione di Popper con altri mezzi. 48 - Come massiccia raccolta di prove storiche delle tesi di Hayek sugli «errori del socialismo» e della centralizzazione, per limitarsi alla Russia sovietica, si veda il magnifico affresco di A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007; Id., L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, il Mulino, Bologna 2008. 49 - Per «scoprirlo» basta sfogliare qualsiasi manuale di storia economica moderna, come ad esempio N. Rosenberg e L.E. Birdzell, Come l’Occidente è diventato ricco. Le trasformazioni economiche del mondo industriale (1986), il Mulino, Bologna 1988, testo comunque notevole. Benché in argomento effetti inintenzionali resti tuttora impareggiabile H. de Soto, Il mistero del capitale (2000), Garzanti, Milano 2001. 50 - Secondo Popper si definisce «aperta […] la società nella quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali», in contrasto con la «società chiusa» quale «società magica o tribale o collettivista», dove l’individuo subisce quelle prese da entità impersonali a sfondo comunitario. Cfr. K.R. Popper, La società aperta e suoi nemici (1945), a cura di D. Antiseri, Armando Armando, Roma 1981, vol. I, pp. 244-245.

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gli attori sociali riescono a comprendere, come vedremo più avanti, il valore funzionale – attenzione non morale – del vincolo dell’interdipendenza sociale che travalica, e riassume una dinamica più generale, fondata sulla fiducia circa la bontà del sistema, che, ripetiamo, va oltre il puro calcolo individuale degli interessi stessi. Il meccanismo generale che presiede alla diffusione 1) per selezione evolutiva delle istituzioni e 2) alla formazione degli ordini sociali, si serve di libere variazioni sperimentali – frutto di una divisione del lavoro – nei comportamenti relativi a competizioni multilaterali, propagazione e acquisizione della soluzione istituzionale vincente. Si tratta di un meccanismo che consente – altro paradosso – la riproduzione sociale senza sapere al momento, da parte del singolo, di travailler pour le Roi de Prusse della riproduzione sociale51. La teoria dell’evoluzione selettiva delle istituzioni e la teoria della dinamica degli ordini spontanei rimandano insieme, via effetti inintenzionali, al concetto di mano invisibile, che per l’aura addirittura provvidenziale che alcuni le attribuiscono, preferiamo tenere fuori dalla nostra trattazione52. Anche se, almeno nell’accezione di Adam Smith, resta una formulazione di grande fascino53. In realtà, la dinamica degli effetti inintenzionali e degli ordini selettivi e spontanei (semplificando), rinvia in primis alla fondamentale questione funzionale dell’interdipendenza sociale e di riflesso al suo valore oggettivamente vincolante. A Theodor Julius Geiger dobbiamo un’eccellente messa a punto del concetto di interdipendenza sociale. Il sociologo tedesco, riconduce la questione dell’interdipendenza, per funzioni e interessi specifici contrastanti eppure

51 - Si tratta del popolare ritornello di una canzone che si cantava a Parigi contro il Maresciallo de Soubise, battuto a Rossbach da Federico il Grande nel 1757, come si narra, per aver disposto male sul campo le sue truppe, dunque favorendo il re di Prussia. Cfr. G. Fumagalli, Chi l’ha detto (1894), Editore Ulrico Hoepli, Milano 1968, p. 199, nr. 698. L’espressione è qui usata per indicare la natura apparentemente acefala della dinamica sociale. 52 - C’è una tendenza, inutile negarlo, ad attribuire un significato provvidenziale agli effetti inintenzionali delle azioni sociali, individuali e collettive, in particolare in ambito economico. Diciamo pure che si registra una tendenza a privilegiare solo gli esiti inintenzionali positivi di un’economia di mercato. Insomma, benché affascinante, esiste una specie di mitologia della mano invisibile. Sul punto si veda, con prudenza, A. Roncaglia, Il mito della mano invisibile, Editori Laterza, Roma-Bari 2005. 53 - Citazione smithiana famosissima. «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale» (A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni [1776], Mondadori, Milano, vol. I, p. 18, Libro I, 2, con una modifica di nostro pugno). Si noti come nel passo vi sia più che un accenno all’importanza, certamente dell’interesse individuale, ma soprattutto di un vincolo di interdipendenza sociale, al quale non si può sfuggire, dettato dall’interazione dei diversi interessi. Tema, che poi è anche quello della divisione del lavoro, ripreso e sviluppato, come ora vedremo, da Geiger.

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complementari, al rapporto di dipendenza reciproca tra persone, che connota socialmente l’uomo. Qualcosa di insopprimibile, sul piano della pressione sociale, che non dipende direttamente dal regime politico o dalle forme economiche: un quid che se limitato o ignorato, finisce sempre per vendicarsi, come ogni specie di regolarità sociale. Da ciò discende l’importanza di due fattori valorizzati da Geiger: 1) la «disciplina intellettuale» e 2) l’«interdipendenza sociale». Vediamo meglio. Egli parla, e con giusta enfasi, dell’unico «cemento sociale che possa tenere assieme la società globale». Quale? Quello costituto dall’«ordine» o obbedienza a un vincolo di «interdipendenza sociale», obbedienza che discende però da una forma di «disciplina intellettuale» e non da un riflesso sociale pavloviano54. Ascoltiamolo. «Il motivo dell’obbedienza non è pertanto il timore della sanzione (intimidazione), bensì la comprensione della interdipendenza sociale e della necessità di inserirsi in essa in maniera disciplinata e responsabile. Il cittadino accetta la ineluttabilità della interdipendenza sociale e comprende l’importanza che essa funzioni in maniera possibilmente ineccepibile sulla base di una reciprocità generale. È questo ciò che innanzi designammo come disciplina intellettuale: essa consiste nell’inserirsi affermativamente e volontariamente nella interdipendenza sociale, anziché nel rischiare di essere sensibilmente ammoniti, mediante la sanzione o altra reazione sociale, dell’impossibilità dell’agire arbitrario»55.

Di conseguenza,

«il riconoscere oggettivo e concreto di una necessità sociale e il subordinarsi ad essa sono cosa diversa dall’“opportunistico freddo calcolo”. Soltanto all’ipocrisia sociale, gravida di morale filistea, può venire in mente di equiparare i due atteggiamenti»56.

Si tratta di una scelta «intellettuale» che si fonda sulla consapevolezza del fatto che il cambiamento di regime, ad esempio da liberale a illiberale, peggiora la qualità della libertà, senza garantire in cambio nulla, non potendo gli uomini fare a meno del vincolo dell’interdipendenza sociale, di cui rimarrebbero solo gli inconvenienti. Ci spieghiamo meglio. In un regime illiberale la mancanza di libertà finisce sempre per influire sulle frizioni legate alla divisione del lavoro, come ad esempio in ambito economico, minando nel tempo i contenuti di obbedienza. Questo per dire che la divisione del lavoro disgiunta da un quadro di libertà favorisce la crescita, spesso vertiginosa, del tasso di stress sociale. Si può perciò parlare di un nesso indiretto tra regime politico e interdipendenza sociale. 54 - T.J. Geiger, Democrazia senza dogmi. La società tra sentimento e ragione (1963), in Id. Saggi sulla società industriale, a cura di P. Farneti, Utet, Torino 1970, p. 484. L’inserto tra parentesi quadre è nostro. 55 - Ibid., p. 505. 56 - Ibid.

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In sintesi, nel passaggio da un regime liberale a uno illiberale si ha la ovvia conservazione dell’interdipendenza sociale con le sue frizioni di sempre, ma terribilmente potenziate dall’assenza della libertà di voice (protesta) e molto spesso anche di exit (defezione). Rimane soltanto, fino alla sempre possibile crisi di regime, una conformistica loyalty (lealtà)57. Va inoltre ricordato che la divisione sociale del lavoro in ambito economico è solo una delle forme di interdipendenza. Di qui, secondo Geiger, il ruolo della scuola e dell’intellighenzia (ceto distinto dai politici, dagli accademici e dagli organizzatori culturali) nel favorire l’adattamento critico del cittadino all’idea di interdipendenza sociale, dai sistemi di status e ruolo alle forme di deferenza e gerarchia in tutti gli ambiti organizzativi. Adattamento critico come comprensione del fatto, se ci si passa l’espressione, di essere tutti nella stessa barca. E di esserlo non per un misterioso e irrazionale senso di unità sociale, metafisica, comunitaria e tribale, bensì grazie ai meccanismi di interdipendenza sociale, la cui accettazione rimanda, non alla mistica dell’atto di fede, ma alla persuasione razionale. Pertanto, sul piano delle idee condivise, va favorita l’integrazione cognitiva alla democrazia. E non la sua disintegrazione intellettuale, magari promuovendo l’utopia acritica e irrazionale della rivoluzione sociale e politica tesa all’eliminazione di ogni vincolo di interdipendenza sociale. Insomma, predicando la via più breve per finire in rovina58. Anche perché, come scrive Geiger, nella chiusa, «se qui è stato tentato di trovare una via per conservare la democrazia, questo tentativo ne implica forse la elevazione del valore a sacramento? Nient’affatto. Esso non costituisce che un modus vivendi per quanti siano discordi. Niente per cui sventolare bandiere e cantare inni di gloria. Nella sua sobria semplicità la democrazia è, tra le forme politiche finora escogitate e messe alla prova, quella che più rende relativamente sopportabile a tutti l’inevitabile coercizione esercitata dalla collettività sull’individuo, la pressione dell’interdipendenza sociale. Questo è il meglio che di una qualsivoglia forma di vita politica possa dirsi. A me basta per preferire la democrazia a ogni altra forma statale conosciuta»59”.

Il realismo politico standard, partendo da una antropologia negativa che vede l’uomo sempre in conflitto per le risorse, sottovaluta sia il lato cooperativo, come accettazione razionale del vincolo dell’interdipendenza (il «cemento

57 - Usiamo l’eccellente terminologia foggiata da A.O. Hirschman, Lealtà Defezione Protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato (1970), Bompiani, Milano 1982. 58 - Sull’impossibilità delle rivoluzioni di influire sui vincoli di interdipendenza sociale, che «dopo» si ripropongono inevitabilmente, crediamo resti interessante la lettura di P.A. Sorokin, The Sociology of Revolution, J.B. Lippincott Company, Philadelphia and London 1925. Sebbene si tratti di un’opera datata per certo impianto teorico determinista. 59 - T.J. Geiger, Democrazia senza dogmi., cit., pp. 620-621.

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sociale» come lo definisce Geiger), sia il lato effetti inintenzionali, anche per quel che concerne la stessa azione polemica. Per farla breve, il realismo politico standard riduce i rotismi sociali e politici, nella peggiore delle ipotesi a puri e inesorabili rapporti di forza, nella migliore a una apparentemente neutrale assiomatica degli interessi in conflitto, che esclude però l’importante ruolo del vincolo di interdipendenza sociale. Per dirla con Geiger, il realismo politico standard, sostituisce la disciplina polemica alla disciplina intellettuale intesa dal sociologo tedesco, ripetiamo, come «il riconoscere oggettivo e concreto di una necessità sociale e il subordinarsi ad essa». In sostanza, Geiger riconduce l’ordine sociale nell’alveo di una ragionata accettazione, da parte dell’individuo, della pressione sociale esercitata dalla collettività su di lui attraverso le varie forme di interdipendenza.

4. «Democrazia emotiva» Geiger, sul piano prescrittivo, propone come antidoto alle varie utopie politiche e sociali, una democrazia verbalmente spartana capace di temere ironicamente i valori come una sorta di rischiosissimo supplemento di pericolosità. Di conseguenza, secondo Geiger, solo una democrazia fondata sugli interessi – attenzione, funzionali – potrebbe intercettare un elettore educato alla sobrietà di parole. Egli propone una democrazia vicina ai principi di un illuminismo critico che si rifiuti di cambiare il mondo secondo i valori armati di una ragione astratta. Geiger propugna, come forma di «sapere personale» per usare la nostra terminologia, una specie di illuminismo popolare, consapevole per un verso dell’impossibilità della democrazia diretta, e per l’altro rigorosamente attento, non solo allo spreco di parole a effetto, ma alla cruciale dinamica dell’interesse funzionale, così importante nella moderna società di massa, fondata sulla divisione della produzione, dello scambio e del consumo. Secondo Geiger, come ha osservato Renato Treves, padre italiano della contemporanea sociologia del diritto, «all’illuminismo classico degli enciclopedisti e della rivoluzione francese […] si deve quindi opporre l’illuminismo critico consapevole dei propri limiti, l’illuminismo che nega l’esistenza di una verità conoscitiva nel campo pragmatico dei rapporti morali, politici e sociali e che ci avverte “che chiunque pretenda di pronunciare una verità su tali rapporti, in virtù di questa pretesa dice una falsità”»60.

Non esiste, insomma, alcuna dottrina societaria dalla verità assoluta e definitiva. Inutile perciò fomentare le masse agitando, come davanti al toro, lo straccio rosso di missioni societarie impossibili.

60 - R. Treves, Sociologia del diritto. Origini, ricerche, problemi, Einaudi, Torino 1987, p. 177.

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Esiste invece l’opportunità di trovare accordi su una visione funzionale degli interessi, fiduciaria, per così dire meta-individuale, sistemica, senza nascondersi dietro la fumosa tirannia retorica dei valori. Non dimentichiamo che Geiger, come ricorda Farneti61, appartiene alla generazione sociologica «post-classica tedesca» di Carl Schmitt e Hans Freyer. Ne segue quel grande timore per la tirannia dei valori e per il romanticismo politico62, pur prendendo giustamente la strada – parliamo sempre di Geiger – dell’opposizione al nazismo. Come convincere uomini che spesso al capire preferiscono il credere, dell’importanza democratica di privilegiare la funzionalità degli interessi rispetto al puro gioco delle passioni? O comunque come garantire un quadro generale, anche normativo, fiduciario, all’interno del quale possano liberamente muoversi gli individui? Agire come persone consapevoli della vitale importanza dei meccanismi della produzione, dello scambio e dei consumi? Geiger qui introduce, come accennato, il concetto di consapevolezza dell’interdipendenza degli interessi. Per fare un esempio eclatante: non si deve rapinare una banca, perché si ha paura di finire in prigione, ma perché l’atto del rapinare una banca mette a rischio le certezze di tutti sui vantaggi della reciprocità sociale in tema di regole. Una rapina, innanzitutto uccide la fiducia. Sono concetti affrontati da Geiger in chiave di rispetto ragionato delle leggi, nei suoi Studi preliminari di sociologia del diritto63.

61 - P. Farneti, Introduzione a T.J. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., p. 9. 62 - Sarebbe quasi inutili citarli perché studi notissimi: C. Schmitt, Tirannia dei valori (1960), pref. di G. Accame, Antonio Pellicani Editore, Roma 1987, Id., Romanticismo politico, cit. Si veda pure, ma con cautela, di H. Freyer, Theorie des objektiven Geistes. Eine Einleitung in die Kulturphilosophie. B.G. Teubner, Leipzig 1923. Va però aggiunto che in particolare, anche per sua stessa ammissione, Geiger, che visse e insegnò per un periodo in Svezia (1943-1945), riconobbe l’influenza sul suo pensiero della scuola filosofica di Uppsala, e di conseguenza del neopositivismo di Axel Hägerström, il caposcuola, scomparso nel 1939, del cosiddetto «Nihilismo teorico dei valori», critico di ogni ideologia perché ritenuta falsa in quanto inconfutabile. Come scrive Geiger«chi è criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei valori» (T.J. Geiger, Democrazia senza dogmi, cit., p. 553). Siamo dunque ben oltre il relativismo weberiano. Sul punto si vedano le interessanti riflessioni, partendo da Geiger, di M.L. Ghezzi, Nichilismo e nihilismo, in Id. Il diritto come estetica, pref. di E. Severino, postfazioni di A. Carrino e P. Renner, Mimesis, Milano 2016, pp. 81-92. 63 - Si veda l’eccellente edizione italiana, a cura di M.L. Ghezzi, N. Bersier Ladavac e M. Marzulli, T.J. Geiger, Studi preliminari di sociologia del diritto, Mimesis, Milano 2018. Geiger, semplificando la sua tesi, introduce una distinzione tra freddo calcolo (come accettazione mimetica, nella pratica, da parte del singolo dell’assiomatica individuale dell’interesse) e interesse ragionato (come accettazione consapevole da parte del singolo del vincolo funzionale dell’interdipendenza collettiva degli interessi). La distinzione meriterebbe un approfondimento nell’ambito di una teoria dell’azione sociale libera da presupposti esclusivamente utilitaristi e conflittualisti, ovviamente dall’angolazione dell’individualismo metodologico e nel quadro di un realismo politico consapevole.

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Geiger in Democrazia senza dogmi conia il termine «democrazia emotiva»64. A suo giudizio la democrazia emotiva è una democrazia di massa sopraffatta dai valori, incapace di ragionare pacatamente in termini di funzionalità degli interessi, e per questo ipnotizzata da profeti, che a detta di Geiger, risultano regolarmente falsi. Ma lasciamo la parola al sociologo tedesco.

«Abbiamo attualmente il caso del partito contadino danese che si sbarazza del proprio esponente più qualificato, un professore di economia sociale, perché capace com’è di pensare in termini economici è temuto dalle masse contadine. Egli dice loro la spiacevole verità che una ottusa politica degli interessi a breve scadenza si vendicherà nel futuro. Ed eccoci al punto centrale: mentre la sostanza della politica viene oggettivata e richiede perciò qualificazioni puramente oggettive, le masse degli elettori non avvezze a dare giudizi oggettivi, reagiscono emotivamente. L’uomo che non si faccia schiavo delle loro vedute viene eliminato»65.

Si pensi ad esempio, per venire ai nostri giorni, alla criminalizzazione politica dei tecnici e professori al governo66. Che, da esperti, non possono non dire cose spiacevoli ma vere. E per contro, si rifletta sui successi elettorali della demagogia populista, soprattutto post-marxista, in cerca di una problematica «autenticità», sorta di nuova Dulcinea del Toboso. paradossalmente fondata sulle fake news67. Secondo Geiger il punto è che, «mentre la sostanza e la tecnica della politica vengono crescentemente oggettivate e sviluppate nel senso della sobria Realpolitik, la decisione elettorale del cittadino viene anch’essa spersonalizzata, ma non in senso oggettivo, bensì in senso ideologico emotivo. I partiti ed i loro esponenti si fanno addirittura sostenitori di questa evoluzione, dal momento che non pensano in termini di cittadini ma di masse»68.

Le riflessioni di Geiger illustrano chiaramente i pericoli insiti in un dibattito politico totalmente ideologizzato, dove nessuno ascolta più nessuno. Un caso deteriore di politica della logica. O meglio di inversione cognitiva che

64 - T.J. Geiger, Democrazia senza dogmi, cit., p. 604. 65 - Ibid., p. 606. 66 - Al riguardo, per un esempio italiano, tra i tanti, a metà strada tra populismo e radicalismo di destra, si veda A. Grandi, D. Lazzeri, A. Marcigliano, Il grigiocrate Mario Monti. Nell’era dei mediocri, pref. di P. Sansonetti, Fuorionda, Arezzo 2012. 67 - In argomento si veda C. Fieschi, Populocracy. ������������������������������������������������� The Tyranny of Authenticity and the Rise of Populism, Agenda Publishing Limited, Newcastle (UK) 2019. Su come certo radicalismo di sinistra, ufficialmente post-marxista e post-sessantottino, non abbia mai rinunciato a teorizzare una chimerica «authenticity» si veda J.C. Häberlen, M. Keck-Szajbel, and K. Mahoney (eds.),The Politics of Authenticity Countercultures and Radical Movements across the Iron Curtain, 1968-1989, Berghahn Books, New York (USA) - Oxford (UK), 2018. Un esempio da manuale. Negativo, ovviamente. 68 - T.J. Geiger, Democrazia senza dogmi, cit., p. 606.

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vede la logica piegarsi alla politica, e non viceversa. E di conseguenza, si vedono volare solo insulti che incrudeliscono le masse: «Tanto peggio, tanto meglio», questa sembra essere la morale politica di ogni forma di demagogia, di ieri come di oggi. Forse, esagerando, potremmo dire di sempre. Geiger, socialista disilluso come Michels69, non crede però nel cesarismo fascista. Anzi, scorge invece nell’ascesa di Mussolini e Hitler un esempio storico dell’abisso dove può condurre la democrazia emotiva: un miscuglio apparentemente imbevibile di anti-intellettualismo e potere carismatico dei capi, gaiamente trangugiato da un elettore che «non si rivolge […] né al carattere irreprensibile di un personaggio politico, né alle qualifiche oggettive o all’abilità politica di un funzionario politico, bensì alla dottrina ideologica di un partito. Ad una personalità essa si rivolge tuttalpiù se, in virtù del suo bell’aspetto o di un eloquenza seducente, essa diviene il simbolo dell’ideologia di massa»70.

Ideologia che oggi sembra assumere la veste dottrinaria del partito-antipartito tipico della forma politica populista. Un abito ideologico di massa che una volta rilanciato e benedetto da leader carismatici, si nutre del belluino richiamo della foresta alla xenofobia e al protezionismo economico e sociale71. Quanto ai piani alti del pensiero. Uno dei rischi, forse il più grave del realismo politico standard, è di piegarsi agli eventi, alla cosiddetta forza delle cose. Insomma, di razionalizzare l’esistente, accettando la logica del successo, amplificata dai mass media e dalla potente cassa di risonanza dei social72. Può ridursi il realismo politico standard, come abbiamo già ricordato, a equivocare ad esempio sulle rimasticate ragioni dei nuovi nazionalismi? E in-

69 - Sul percorso costruttivista di Michels si veda C. Gambescia e J. Molina, Introduzione a R. Michels, Studi sulla democrazia e sull’autorità, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2015, pp. 3-15. 70 - T.J. Geiger, Democrazia senza dogmi, cit., p. 606. Il corsivo è nel testo. Si legga a tale proposito, quanto scrive Melograni: «Se è abbastanza facile ammettere le manchevolezze e difetti di un potere nemico, è molto più arduo accettare che anche il potere dei capi più stimati, delle ideologie più amate, e delle masse con le quali ci si identifica, resta e resterà sempre un potere pieno di contraddizioni e di incoerenze. Ma, per crescere e maturare, è necessario rinunziare alle mitiche figure dei capibuoni e dei capi-cattivi, così comode per semplificare i problemi. È necessario rinunziare alle fantasie infantili volte a immaginare che esista una società politica manovrabile da una “stanza dei bottoni”» (P. Melograni, Saggio sui potenti, cit., pp. 123-124). 71 - Si deve però distinguere tra la critica della partitocrazia di impianto realista e liberal-democratico e la critica antipolitica dei partiti strumentalizzata dai movimenti populisti e neofascisti. Purtroppo va registrata una volgarizzazione e distorsione mediatica di concetti, che presi di per sé, possono avere un valore analitico. Sull’esperienza italiana, e conseguenti fenomeni distorsivi, si veda E. Capozzi, Partitocrazia. Il regime italiano e i suoi critici, Guida, Napoli 2009. Nonché, con valore più generale, G. Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, cit. 72 - Sul punto cfr. le interessanti osservazioni di S. Ventura, I leader e le loro storie. Narrazione, comunicazione politica e crisi della democrazia, il Mulino, Bologna 2019.

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direttamente favorire la marcia trionfale della «democrazia emotiva», verso la tirannia della maggioranza? In direzione di una democrazia composta di primitivi ultrademocratici che come i selvaggi di Montesquieu, per cogliere un frutto tagliano l’albero73? Geiger parla di sobria «Realpolitik». Noi continueremo a parlare di realismo del grattacielo e del formichiere. Un realismo capace di contenere queste due realtà. O quantomeno, ripetiamo, di tentare. Aspetto che affronteremo nel prossimo e ultimo capitolo.

73 - Montesquieu, C.-L. de Secondat de, Lo spirito delle leggi (1748), a cura di S. Cotta, Utet, Torino 1965, 2 voll., Parte I, Libro V, Capo XIII, vol. I, p. 136. Il passo recita così: «Quando i selvaggi della Luisiana vogliono della frutta, tagliano l’albero alle radici e la raccolgono. Ecco il governo dispotico».

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IV Realismo politico tra sociologia e metapolitica

1. Il governo delle dissonanze Una volta giunti qui, non resta che affrontare la questione del governo delle dissonanze cognitive: «governare» come sinonimo di «manovrare». Si pensi a una nave sballottata dalle onde del mare in tempesta: il comandante e i suoi secondi dovranno fare del proprio meglio per non affondare, ridurre i danni, restare a galla, non perdere la rotta e toccare di nuovo terra. Sono situazioni eccezionali? No. Perché chi va per mare sa che tempeste, rotture e guasti possono sempre capitare, come gli ammutinamenti degli equipaggi ribelli o stanchi. Perciò si dovrà «governare» bene, pronti a tutte le evenienze. Senza abbassare mai la guardia. E per ogni traversata, per quella in corso e per quelle verranno. Chi sia al timone politico può contare sull’aiuto del senso della realtà e sul ricorso alle etiche della responsabilità e dei principi. Ma non è così semplice: ci sarà sempre, come dicevamo chi continuerà a credere in una certa idea politica, nonostante di fatto essa abbia fallito. Ricomponendo la sua dissonanza cognitiva contro qualsiasi senso della realtà. Sicché la nave potrebbe sempre affondare. O l’equipaggio ammutinarsi. Ma è necessario andare avanti, perché così impone la vita1. Fuor di metafora, nelle pagine precedenti abbiamo ricostruito l’aspetto sociologico del realismo politico consapevole e in qualche misura fatto giustizia della sua visione standard. 1 - Come del resto scrisse prima e meglio di noi, il purtroppo dimenticato, almeno per le scienze sociali, Giuseppe Ferrari: «Siamo sul nostro pianeta, come l’equipaggio di una nave; giungerà esso in porto? Potrà attraversare l’oceano del vuoto? Havvi un porto? I venti possono sommergere la nave, gli scogli possono infrangerla […]. Ma conviene avanzare, il cielo vuole che si passi. Uccide chi si ferma: vieta il retrocedere. Bisogna operare come se vi fosse un porto. Come se i venti fossero destinati a condurci. Come se le rupi, le sabbie, le correnti fossero create a bella posta per tenere desta l’attenzione dell’equipaggio. La vita vuole che si viva» (G. Ferrari, Filosofia della rivoluzione [1851], in Id., Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi, Utet, Torino 1973, p. 667. Insomma, la dissonanza cognitiva e la sua ricomposizione come sfide esistenziali. Di Ferrari, nato nel 1811 e morto nel 1876, singolare figura di proto-sociologo (oltre che di patriota italiano, repubblicano con punte socialiste e insofferente deputato del Regno), merita di essere riscoperta la Teoria dei periodi politici, Hoepli, Milano 1874, vulcanico esempio di una sociologia storica capace di coniugare teoria delle generazioni e sociologia ciclica della rivoluzione e delle riforme.

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Intanto, per fare ordine, diciamo che il realismo politico consapevole: 1) si impegna a studiare le cose come sono, prendendo atto 2) che le cose come sono rinviano da un lato 2a) agli effetti perversi (positivi e negativi), e per l’altro 2b) al vincolo di interdipendenza, ragionevolmente accettato o meno dagli attori sociali. A sua volta, il concetto di effetti perversi rinvia: a) all’evoluzione selettiva delle istituzioni sociali e b) agli ordini sociali spontanei. Siamo dinanzi a due configurazioni sociali, confermate sia logicamente (teoreticamente) sia fattualmente (storicamente), che prese insieme rappresentano la migliore spiegazione-descrizione del funzionamento della società. Ciò significa che il governo delle dissonanze cognitive rinvia a una questione precisa: a come inglobare teoricamente, in quanto fonte di dissonanza cognitiva, l’impasse, per così dire, degli effetti inintenzionali delle azioni che come abbiamo detto possono essere perversi e virtuosi. Per capirsi e fare qualche esempio, le misure di welfare, implementate nel Secondo dopoguerra in Europa occidentale che avrebbero dovuto liberare l’individuo, lo hanno invece reso dipendente dai poteri pubblici dando vita, di rimbalzo, a un tipo di problematica sociale felicemente definita come la «cultura del piagnisteo»2. Per contro, una misura storica, come il servizio militare obbligatorio, quindi costrittiva della libertà individuale ha prodotto, sempre in Europa, l’innalzamento del tasso di alfabetizzazione, e perciò, almeno in linea di principio, delle scelte libere e consapevoli3. Dunque della libertà individuale. Parliamo di provvedimenti politici, quindi frutto di scelte politiche, che rimandano, per la fase precedente alla decisione politica, a dialoghi, impressionanti per il loro valore esemplare, come quello tra Kennedy e Berlin. Il punto è che l’azione politica rinvia alla decisione, la decisione rimanda all’informazione e l’informazione in una società complessa e aperta, per quanti scenari si possano ipotizzare, resta sempre imperfetta.

2 - In argomento si veda un testo di alta divulgazione che però centra il bersaglio: R. Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto (1993), Adelphi, Milano 1994. Volume dove si affronta il tema di certo conformismo progressista, prima che se ne impadronisse il radicalismo populista per imporre il proprio, di conformismo. Su questo processo di appropriazione-legittimazione si veda G. da Empoli, Gli ingeneri del caos, cit. Per un disamina storica esemplare del ruolo, funzione ed effetti di ricaduta del Welfare State si veda J. Molina, La Política social en la historia, Ediciones Isabor, Murcia 2004. 3 - Per l’Italia, ma la ricostruzione è paradigmatica (con le debite differenze), si veda l’agile, documentato e interessante D. Quirico, Naja. Storia del servizio di leva in Italia, Mondadori, Milano 2008. Per un approccio alto, scientificamente alto, dove tra l’altro sono messi in luce anche gli effetti perversi della militarizzazione, anche nelle democrazie (accentramento, disciplinamento sociale, imperativi di deferenza), si veda C. Tilly, L’oro e la spada. Capitale, guerra e potere nella formazione degli stati europei 990-1990 (1990), Ponte alle Grazie, Firenze 1991.

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Pertanto il realismo politico consapevole, o se si preferisce del grattacielo e del formichiere, deve prendere atto di tale incompiutezza, se si vuole dell’errore o di un certo margine di errore. Non è possibile trasformare il realismo politico in una scienza esatta che elimini ogni dissonanza. Il governo delle dissonanze implica il pericolo di non riuscire. Di qui la necessità di accettare l’incompiutezza di ogni dinamica sociale e politica. Ovviamente, come vedremo più avanti, esistono margini previsionali legati all’uso cognitivo di regolarità. Ma non è tutto. Resta fondamentale l’uso dell’ironia, come strumento per mettere in contabilità gli effetti inintenzionali4. Perché, non potendo però misurarli caso per caso, resta importante la forma mentis ironica: la cornice invece del dipinto. Qui torna utile una citazione, tratta da un grande scrittore che ha fatto politica, pagando di persona, Ignazio Silone. In Vino e pane egli osserva che «dato che il patetico non può essere espulso dalla vita umana, per renderlo sopportabile mi pare che sia sempre utile accompagnarlo con un po’ di ironia»5.

Chi sono i patetici? Coloro che sognano di trasformare il realismo politico, ripetiamo, in una scienza esatta, o in subordine in un metodo magari flessibile, vincolato però alla fluttuazione degli interessi conflittuali, in chiave, magari, politicamente occasionalista. Di qui, la necessità, per fuoriuscirne, quasi vitale, dell’ironia. Che va intesa, nella sua essenza, come lo sforzo di cogliere il meta-senso dell’eterogenesi dei fini. Ci spieghiamo meglio. Il realista consapevole alla stregua del medico prudente e preparato sa che un determinato farmaco che salva la vita, superata una certa quantità da assu-

4 - Sul punto desideriamo segnalare M. Wight, Fortuna e ironia politica, a cura di M. Chiaruzzi, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2014. Martin Wight, storico, politologo e internazionalista britannico, scomparso nel 1972, resta con Reinhold Niebuhr, tra i pochi realisti a interrogarsi sul rapporto tra ironia e storia. Nel libro curato da Chiaruzzi, Wight fornisce anche una genealogia storica di pensatori, scrittori, diplomatici e statisti che si sono confrontati con e sul problema. Di Niebuhr, morto nel 1971, ricordiamo invece, L’ironia della storia americana (1952) a cura di A. Aresu, Bompiani-Il Pensiero Occidentale, Milano 2008. In realtà, due pensatori solo apparentemente sono vicini. Ad esempio, Wight sostiene che il non poter far nulla per impedire una guerra atomica, non è tragico, come ritiene Niebuhr, è ironico: il massimo della forza che coincide con il massimo dell’impotenza. Non capire questo, come accade a Niebuhr, e per giunta continuando a lamentarsi, significa privilegiare l’autocommiserazione, che, a differenza del tragico, è sentimento privato non collettivo. Insomma, l’autocommiserazione ottunde e paralizza, il tragico risveglia e mobilita. Con Wight, ci troviamo davanti a un realista dalla profondità intellettuale straordinaria. Si veda anche M. Chiaruzzi, Fortuna e ironia nella storia come categoria del realismo politico, in A. Campi e S. De Luca (a cura di), Il realismo politico, cit., pp. 723-760. 5 - I. Silone, Vino e pane, (1937, 2a ed. riv. 1955), Mondadori, Milano 1989, Nota dell’Autore, p. 21. Sull’accanimento politico nei confronti di Silone, persino da morto, si veda il bel libro di G. Tamburrano, Il caso Silone, Utet, Torino 2006.

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mere, può tramutarsi in veleno. Naturalmente il punto di discrimine tra quantità che salva e quantità che uccide resta questione di intuito, che presuppone buoni studi e conoscenza degli uomini, che però da soli non bastano. Il bravo medico, intuendo le condizioni del paziente, sa dove fermarsi. Lo sente. La medicina, benché i medici siano sempre piuttosto riservati sul piano della prognosi, resta il terreno di caccia preferito degli effetti inintenzionali: una forte chemioterapia può salvare ma anche uccidere… Qui entra in gioco, come rileva Dalmacio Negro, l’importante ruolo della «política farmacológica», così denominata per distinguerla dalla «política utópica», frutto di distruttive fantasie sociali e politiche, nonché dalla «política cratològica», basata sul puro uso della forza, che, ci permettiamo di aggiungere, spesso sfocia nella «politica criminogena». Osserva Negro che bisogna prendere atto del carattere naturale dei contrasti, tra gli uomini, senza esagerarne la portata, come fa il bravo medico con le malattie. E poiché, i conflitti «non desaparecerán jamás», la «política farmacológica», che è «política de la libertad se diferencia de la cratológica y la utópica en que deja vivir a los ombres libremente, a su aire. Se concentra en los medios de la acción human en general y en los del poder político en particular, limitándose a proscribir el empleo de medios ilícitos, a garantizar la vigencia del Derecho – que pertenece al pueblo, no a los poderosos -, y a sanar los males del cuerpo político conteniendo los excesos susceptibles de desequilibrarlo come un orden político»6.

Si tratta di una tesi che ritroviamo in un altro eccellente pensatore come Gaston Bouthoul. «L’Art Politique est celui de gérer les affaires de la communauté. Mais en même temps il est celui de satisfaire (ou de décevoir) les vocations d’autorité publique. Par la large part de création personelle et imprévisible qu’il contient, il échappe aux rigueurs du raisonnement scientifique. Cependant, de même que la médicine, quoique restant en grande partie un art, doit s’appuyer sur l’expérience et sur des techniques, l’Art Politique devrait tenir compte des enseignements et sourtout de l’appareil critique de la sociologie»7. 6 - D. Negro, La tradición de la libertad, Prólogo de J.M.a de la Cuesta Rute, Unión Editorial - Centro Diego Covarrubias, Madrid 2019, p. 21. Il corsivo è nel testo. 7 - G. Bouthoul (textes recueillis par), L’Art de la politique, Seghers, Paris 1962, p. 11. Bouthoul, senza tante preoccupazioni di galateo metodologico, raccoglie il pensiero di statisti, politici, pensatori e accademici. Si va da Kautilya a Tucidide, da Ibn Khaldun a Machiavelli. Ma si lascia spazio a Gregorio Magno, Bonifacio VIII, Richelieu, Luigi XIV. E così via fino a Weber Aron, Ferrero, Duverger, ma anche Barthou, Churchill, De Gaulle, Hitler, Mussolini e tanti altri. Il criterio, al di là dell’ordinamento diacronico degli autori scelti, è sincronico: gli autori sono messi sullo stesso piano. In qualche misura siamo davanti a un approccio orizzontale, non verticale (come invece quello di Tellis), dove da ogni pensatore si può imparare qualcosa. Un vero gioiello di antologia, di una «semplicità biblica», come in fondo quella delle idee politiche. Sul punto, ben colto da Jerónimo Molina, e sul rapporto tra

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Di qui, l’importanza, per ogni buon realista politico di provare a «sanar los males del cuerpo político», nella consapevolezza che in politica «de même que la medicine […] doit s’appuyer sur l’expérience et sur des techniques». E come muoversi concretamente? Si deve ricorrere all’uso analitico delle regolarità metapolitiche, ossia di ciò, che come forma invariabile, si ripete nel tempo, prescindendo dai contenuti storici, e perciò variabili8. Doppia cornice dunque: ironica e formale. Bisogna dare una forma alla consapevolezza dei fatti.

2. Le regolarità necessarie Facciamo un passo indietro. Come abbiamo definito il concetto di realtà? Come qualcosa che precede, accompagna e supera l’esistenza dell’uomo. Parliamo di una realtà-senso percepita, alla quale si sovrappone una realtà-significato, frutto della dinamica delle interpretazioni sociali, dei caratteri umani, delle scelte etiche e dei contesti storici. Come osserva Domenico Fisichella,

«vi è certamente una realtà, fisica o anche sociale che esiste indipendentemente dalle teorie, cioè dalle nostre concettualizzazioni. Lo sappiamo personalmente e immediatamente sulla base della percezione sensoriale, e per quel che riguarda il passato, cioè il tempo in cui la generazione alla quale apparteniamo non esisteva, lo sappiamo dai documenti, dai monumenti, dai reperti, ivi compresi i documenti relativi alle teorie elaborate nel passato. Solo che noi non possiamo conoscere la realtà indipendentemente dalle nostre teorie, la conosciamo attraverso e grazie e mediante le nostre teorie, che perciò svolgono il compito di “ordinare concettualmente la realtà” (Weber), la quale altrimenti ci apparirebbe incomprensibile»9.

Nel primo caso, la «percezione sensoriale» ricordata da Fisichella, siamo davanti alla nostra definizione di realtà-senso, nel secondo caso, le «teorie» che ordinano «concettualmente la realtà», il rinvio è alla nostra definizione di realtà-significato. Fermo restando che le due le realtà sono imprescindibili. Ora, come osserva sempre Fisichella, alcune pagine più avanti, una teoria «comprende più proposizioni che esprimono regolarità (o costanti o probabili) […]. Solitamente al discorso delle regolarità si connette il problema della previsione: in principio, più alta è la regolarità maggiore è la prevedibilità del fenomeno e del pro-

Bouthoul e il realismo politico cfr. J. Molina, Gaston Bouthoul, inventor de la polemología, cit., pp. 87-102, per la cit. p. 98. 8 - Si pensi anche alla distinzione già ricordata di Bouthoul tra sociologia statica e dinamica (cfr. supra, p. 54, n. 43). Ovviamente, la distinzione, una volta trasposta all’interno delle coordinate dell’individualismo metodologico, andrebbe concettualmente approfondita e definita meglio. 9 - D. Fisichella, Lineamenti di scienza politica. Concetti, problemi, teorie (1988), Carocci, Roma 1998, p. 21. Opera giunta alla terza edizione (Carocci, 2010).

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cesso […]. [Ma] proprio perché impostata su basi condizionali, la previsione scientifica in un contesto policondizionale è essenzialmente costruzione di scenari futuri alternativi, edificati incrociando, combinando e connettendo le diverse condizioni in gioco: e ogni scenario sarà dato da una specifica combinazione, incrocio e connessione delle condizioni»10.

Ciò significa che in un contesto di ricerca che veda uso delle regolarità,

«lo spazio per la libertà, teoria e pratica non è offuscato, tra l’altro perché le condizioni non sono sottratte, o almeno alcune possono di volta in volta non essere sottratte, all’influenza dell’azione umana, anche tenendo presente che “i diversi fenomeni più sono complessi, più divengono in generale modificabili dall’intervento umano” (Comte)»11.

Il che rispetta a un tempo sia la possibilità degli effetti inintenzionali, sia quella di poter introdurre, attraverso le regolarità, fattori previsionali su ciò che si può ritenere probabile o ancora meglio possibile, in quanto frutto di esempi nel passato grazie all’osservazione storica. Certo, il probabile rinvia a vere e proprie leggi generali, come in ambito fisico12, non facilmente trasferibili alle scienze sociali. Benché, di recente, si sia ribadita, e non in modo banale, la possibilità dell’esistenza di una «legge di gravità del potere»13. Ma, per tornare in argomento, a cosa rinviano regolarità o costanti? Insomma, a cosa rimanda il sociologicamente immutato? Innanzitutto, esse rinviano al concetto geigeriano di interdipendenza sociale. Una vera e propria realtàsenso. Che può variare per grado, nella quantità, attirando su di sé interpretazioni a livello di realtà-significato, ma non nella specie, quindi nella qualità. Detto altrimenti: si può dare un giudizio negativo o positivo dell’interdi-

10 - Ibid., pp. 44-45. L’inserto tra parentesi quadre è nostro. 11 - Ibid., p. 45. Ovviamente, per venire subito al punto, abbiamo ridotto la sottile argomentazione di Fisichella in cui ricorrono i nomi, solo per ricordare i più importanti, di Hempel, Popper, Kuhn, Oppenheim, Ortega, Bobbio, Jouvenel, Comte. Diciamo che in Fisichella, rispetto a Boudon e Bourricaud, c’è una maggiore attenzione per gli aspetti strutturali dell’atto cognitivo, ma non una sottovalutazione della cognizione individuale. Diciamo che i due approcci, francese e italiano, si integrano a vicenda. 12 - Sul punto cfr. le icastiche osservazioni di V. Pareto, Trasformazione della democrazia, cit. p. 51, dove riprende argomenti approfonditi nel Trattato di sociologia generale, cit., vol. I, § 134, § 556 e sgg., pp. 134-135, p. 487 e sgg. 13 - Si veda A. Vitale, Alla ricerca di una “legge di gravità del potere”, in A. Campi e S. De Luca, Il realismo politico, cit., pp. 835-849. Osserva Vitale, sviluppando intuizioni che vanno almeno da Montesquieu a Miglio, che «uno dei fenomeni più macroscopici - che balzano agli occhi con imponente evidenza, nello studio del fenomeno politico - è quello della tendenza del potere (e della potenza, in campo internazionale) ad autoaccrescersi indefinitamente, a espandersi una volta insediatosi, laddove non incontri ostacoli. Sembra infatti quasi che il potere obbedisca a una sorta di “legge di gravità”, che fa sì che esso tenda a dilagare concentrandosi, a occupare tutti gli ambiti disponibili e occupabili e ad assolutizzarsi, in assenza di ostacoli in grado di arrestarne l’espansione. Ogni potere tende ad ampliare il proprio ambito. Punta a occupare l’ultima nicchia libera» (Ibid., p. 835).

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pendenza sociale (realtà-significato), ad esempio della divisione del lavoro, ma essa rimane una realtà-senso alla quale non si sfugge, se non fuggendo da ogni consorzio umano, prima con la testa poi a piedi… L’interdipendenza rinvia alla ripetizione delle varie forme sociali, in essa distribuite e redistribuite funzionalmente, ovvero rimanda al dato costante, a ciò che si ripete con regolarità. Rimanda, per eccellenza, all’universo delle regolarità o costanti della sociologia, ma anche della politica, come ciò che costantemente torna e ritorna. Di qui la possibilità di un uso sinonimico dei due termini (regolarità e costanti). Pensiamo a qualcosa di vincolante che però può essere al tempo stesso fonte di eventi fisiologici o patologici. Di salvezza o veleno. Qualcosa di regolare o costante, che ogni buon realista politico, dallo studioso al politico di razza, deve conoscere e saper intuire. Del resto, per usare il nostro lessico, cosa scrive, come accennato, Julien Freund? La politica, come contenuto, passa il politico, come forma, resta.

«Il faut sans cesse insister sur ce point: la politique est une activité circonstancielle, casuelle et variable dans ses formes et son orientation, au service de l’organisation pratique et de la cohésion de la société. C’est dire que la politique dépend de l’intelligence, de la volonté et de la liberté de l’homme. C’est elle qui donne à la société ses structures, ses formes, qui crée les conventions, les institutions, les lois et les règlements, qui modifie les situations et permet à l’homme de s’adapter aux conditions variables selon l’espace et le temps. Le politique par contre n’obéit pas aux désirs et aux fantaisies de l’homme, qui ne peut pas faire qu’il ne soit pas ou bien qu’il soit autre chose que ce qu’il est. Il ne peut le supprimer ou alors l’homme se supprime lui-même, c’est-à-dire il devient un autre être»14.

Ciò significa che,

«Toutefois, par l’activité politique concrète, l’homme se forme lui-même en façonnant la société. En effet, il n’est pas désarmé devant la société, pas plus qu’il ne l’est devant la nature. Celle-ci il la maîtrise par la technique scientifique ou autre, celle-là par les conventions. Il est donc capable de transformer la société à la manière d’un démiurge, mais uniquement dans le limites des présupposés du politique. Autrement dit, la société se laisse discipliner, former et déformer. L’instrument de la manœuvre est l’unité politique qui introduit, avec l’aide subsidiaire de l’économie, de la religion et des autres activités humaines, la cohésion partitive dans l’hétérogénéité sociale. Le démiurge est le maître des formes et non des essences»15.

Freund, probabilmente «essenzializza», o se si vuole ontologizza troppo le forme, così come noi qui le intendiamo, trasformandole in «essences», per

14 - J. Freund, L’essence du politique (1965), postface de P.-A. Taguieff, Dalloz, Paris 2004, p. 45. I corsivi sono nel testo. 15 - Ibid. Il corsivo è nel testo. Su Freund si veda J. Molina, Julien Freund, lo político y la política, prólogo de D. Negro, Ediciones Sequitur, Madrid 2000. Lettura imprescindibile.

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ricondurle nell’alveo di una più generale filosofia, o meglio ontologia, che va addirittura oltre le tesi di Schmitt16. Tuttavia, forme o «essenze» che siano, si apre la possibilità, gnoseologica, ripetiamo, di una scienza politica fondata su se stessa e su conseguenti regolarità o costanti. Ma anche aperta all’ironia, se vi affianchiamo la lezione di Gaetano Mosca, attenta a «ciò che non può e non potrà mai avvenire». Una consapevolezza che di riflesso illumina, a contrario, ciò che nei fenomeni sociali e politici resta immutabile, qualcosa di ben diverso – quasi inutile evidenziarlo – da ciò che trascorre, e quindi muta. Lasciamo la parola a Mosca. «Ci sembra evidente che opera assai più efficace si potrà svolgere mercé la conoscenza esatta delle leggi che regolano la natura sociale dell’uomo; la quale conoscenza se non altro insegnerebbe a distinguere ciò che può avvenire da ciò che non può e non potrà mai avvenire, evitando così che molti intenti generosi e molte buone volontà si disperdano improficuamente, e anche dannosamente, nel volere conseguire gradi di perfezione sociale che sono irraggiungibili, e renderà inoltre possibile di applicare alla vita politica lo stesso metodo che la mente umana mette in pratica quando vuole padroneggiare le altre forze naturali. Metodo che, come già si è accennato, consiste precisamente nel comprenderne il meccanismo mediante un’attenta osservazione e nel sapere dirigere l’azione senza mai brutalmente violentarle»17.

Ne consegue il necessario ricorso preventivo, diremmo addirittura profilattico, all’ironia storica e sociologica verso chiunque proponga riforme utopiche rivolte a forzare non solo la socialità, ma anche gli stessi processi di socializzazione, ignorando, come è di rito, la libertà degli individui e promettendo, come sempre, una libertà superiore.

16 - Come esempio del tentativo freudiano si veda J. Freund, Philosophie philosophique, Éditions La Découverte, Paris 1990. 17 - G. Mosca, Elementi di scienza politica (1896, Prima parte, 1923, Seconda parte), in Scritti politici, a cura di G. Sola, Utet, Torino 1982, vol. II, p. 1081. Ovviamente, le certezze di Mosca, che facciamo nostre, non escludono, gli eventi inaspettati, unici, come si evince dalla recente rielaborazione della teoria del cigno nero dell’epistemologo N.N. Taleb, Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita (2007), Il Saggiatore Milano 2008. Tuttavia, se una rivoluzione, può avvenire all’improvviso, al di fuori di qualsiasi previsione, quindi assurgere a cigno nero (l’impossibile che si è fatto possibile), resta invece a prova di cigno nero l’impossibilità e l’improbabilità («ciò che non può e non potrà mai avvenire» di Mosca) della sparizione di regolarità come conflitto, amico-nemico, movimento-istituzione, predominio di una élite e altre ancora come vedremo più avanti, regolarità ben provate dallo studio dei fenomeni rivoluzionari. In linea con quanto andiamo affermando (o comunque abbastanza) anche quel che osserva Popper. Il quale offre numerosi esempi tratti dalle scienze fisiche e sociali sul fatto che non si possa fare a meno della formulazione «tecnologica», nel senso di evidenziare ciò che tecnicamente è impossibile, riguardo alla «tal cosa [che] non può accadere» e «a ciò che non può essere realizzato», come ad esempio portare acqua in un setaccio o fare una rivoluzione senza causare una reazione, e così via. Cfr. K.R. Popper, Miseria dello storicismo, cit., pp. 65-67.

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Conoscere ciò che non sarà è un primo passo sulla previsione degli effetti sociali perversi, ad esempio, di quelle azioni politiche che pretendono di violare il geigeriano «cemento sociale» dettato dal riconoscimento intellettuale dal vincolo dell’interdipendenza sociale. Altrimenti cosa può accadere? Che azioni che pretendono di aspirare alla libertà, conducano invece, e di fatto, alla schiavitù18. Ma torniamo sulla questione delle regolarità, vere e proprie, in particolare politiche, anzi metapolitiche, come ora vedremo. A cosa ci riferiamo? Lasciamo la parola a Gianfranco Miglio.

«Così, forse, è ormai possibile tentare – con una ipotesi più generale circa la struttura e la dinamica della “sintesi politica” – l’unificazione, in un solo e comprensivo sistema delle “verità parziali” di Tucidide (la “regolarità” della ricerca del dominio “esterno”), di Machiavelli (la “regolarità” degli egoismi concorrenti), di Bodin (la “regolare” presenza in ogni sistema politico del capo decisivo), di Hobbes (il “regolare” carattere fittizio di ogni comunità, e la radice ultima della rappresentanza politica), di Mosca e Pareto (la “regolarità” della “classe politica”), di Tönnies (la “regolarità” della antitesi Comunità-Società), di Weber (la “regolarità” delle forme ideologiche di legittimazione), e infine di Schmitt (la “regolarità” della contrapposizione “amicushostis”)»19.

Riassumendo: conflitto (Tucidide e Machiavelli); sovranità e contratto (come scambio protezione–obbedienza tra governanti e governati, scambio che però implica il momento cooperativo) (Bodin e Hobbes, ma anche Locke20); élites e ferrea legge delle oligarchie (Mosca, Pareto e anche Michels21); comunità– società (Tönnies), potere (Weber22); amico–nemico (Schmitt, ma anche Freu-

18 - Non si possono non citare due evergreen teorici in argomento: F.A. von Hayek, La via della schiavitù (1944), intr. di A. Martino, Rusconi, Milano 1995; Id., L’abuso della ragione (1952), Vallecchi editore 1967. 19 - G. Miglio, Le regolarità della politica. Scritti scelti raccolti e pubblicati dagli allievi, Giuffrè Editore, Milano 1988, vol. II, p. 600. La questione di individuare nei termini di «verità parziali» - i «patterns» della cultura sociologica anglofona - quel che persiste e si ripete in chiave di comportamenti collettivi (nello spazio e/o nel tempo) in campo politico, rimanda, in termini di tradizioni politiche europee, a quella capacità di «pensare per millennî», evocata da Gianfranco Miglio (cfr. Id., Le regolarità della politica, cit., vol. I. p. XXXII). Si vedano anche Id., Lezioni di politica. 2. Scienza della politica, a cura di A. Vitale, il Mulino Bologna 2011, pp. 81-89. Per un inquadramento del pensiero di Miglio, e più in generale per il processo di inclusione-esclusione che ha distinto l’istituzionalizzazione della scienza politica nel Secondo dopoguerra, interessante anche punto dello sviluppo del realismo politico standard, si veda D. Palano, Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia, Vita e Pensiero, Milano 2005. 20 - Ovviamente ci riferiamo a J. Locke, Due trattati sul governo (1690) e altri scritti,cit. 21 - Ci riferiamo R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911), il Mulino, Bologna 1966. Ma si veda anche l’ottima messa a punto della questione di D. Negro, La ley de hierro de la oligarquía, rev. di A. Zerolo, Ediciones Encuentro, Madrid 2015. 22 - Il concetto di potere è troppo importante per non essere ricordato. Scrive Weber: «La potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a una opposizione,

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nd23). A queste regolarità ne accostiamo altre tre24: la regolarità identificata da Francesco Alberoni, movimento-istituzione25; la seconda, quella scoperta da Pitirim A. Sorokin sull’alternarsi di progresso-decadenza (o se si vuole ordine-disordine: della arché e della anarché)26; la terza, quella individuata da Edward Shils: sulla regolarità della presenza in ogni società di una tradizione, come centro di irradiazione di valori, intorno al quale ruotano i comportamenti sociali27. Riconosciamo che la nostra è per ora una enumerazione: un mettere in fila le regolarità. E che il nostro «governo delle dissonanze» è una specie di scheletro: mancano i muscoli e tutto quel viene dopo. Però un esempio si può fare: si prenda la regolarità «élites e ferrea legge delle oligarchie» che insegna, che a prescindere dal regime politico, sono sempre in pochi a comandare e in molti a obbedire. Ora, un marxista e un ultrademocratico non possono non scorgere in questa regolarità, e soprattutto nella realtà che la attesta, un’ingiustizia, alla quale si deve assolutamente riparare: vi ravviseranno una dissonanza cognitiva. Al contrario, il realista politico tout court, pre-categorizzazione (realismo standard, criminogeno, consapevole), diciamo il realista che si trova in una specie di stato di natura politologico, non vi vedrà alcunché di dissonante: «Così va il mondo», ripeterà a se stesso. la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità. Per potere si deve intendere la possibilità di trovare obbedienza presso certe persone, ad un comando che abbia determinato contenuto» (M. Weber, Economia e società (1922), intr. di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1968, vol. I, p. 51). E più avanti: «Per “potere” deve quindi intendersi il fenomeno per cui una volontà manifestata (“comando”) del detentore o dei detentori del potere vuole influire sull’agire di altre persone (del “dominato” o dei “dominati”) ed influisce effettivamente in modo tale che il loro agire procede in un grado socialmente rilevante, come se i dominanti avessero per loro stesso volere, assunto il contenuto del comando per massima del loro agire (“obbedienza”)» (Ibid., vol. II, pp. 251-252). Definizioni classiche, di valore descrittivo, alla cui autorità ci rimettiamo. Tuttavia, per un aggiornamento del concetto, in chiave critica, di cui non si può non tenere conto, si veda il denso studio di H. Popitz, Fenomenologia del potere. Autorità, dominio, violenza, tecnica (1992), il Mulino, Bologna 2001. Scrive Popitz: «Questa definizione [di Weber, in particolare il primo passo] non cammina imperturbabilmente sulle acque come potrebbe sembrare, ma riflette il processo storico che ha portato alla generalizzazione del sospetto di potere» (Ibid., p. 13). L’inserto tra parentesi quadre è nostro. 23 - Ovviamente, il riferimento è J. Freund, L’essence du politique, cit. 24 - Si veda C. Gambescia, Metapolitica, cit., in particolare il capitolo I (Che cos’è la metapolitica). 25 - F. Alberoni, Movimento e istituzione, il Mulino, Bologna 1978 (nuova edizione, Sonzogno, Milano 2014). 26 -��������������� P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics (1937-1941), The Bedminster Press, New York 1962, 4 voll., in particolare il IV (Basic problem, Principles and Methods). 27 -����������� E. Shils, Tradition (1981), Chicago University Press, Chicago 2006. Shils preferisce parlare di «tradizionalità» (traditionality o substantive traditionality), per distinguerla dalle concezioni puramente tese a difendere il passato in quanto tale. Si tratta dell’opera anticipata da Shils nel saggio incluso in Id., Centro e periferia, cit., pp. 71-123 (“La tradizione”), come da noi ricordato, supra, p. 23, n. 1.

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Però, ecco il punto, il realismo una volta fuori per così dire dallo stato di natura, quindi categorizzato in tre forme di realismo (standard, criminogeno, consapevole), pur continuando a non scorgere alcuna dissonanza (assoluta), darà vita a tre reazioni differenti (per così dire relative). Pur non potendo cambiare la «ferrea legge delle oligarchie», 1) il realismo politico consapevole, non ignorerà le altrui dissonanze cognitive né le istigherà. Si attiverà per impedire l’esplosione di conflitti sociali. Affronterà il male, non sottovalutando il momento cooperativo o collaborativo. Per contro, 2) il realismo standard sosterrà invece che il conflitto è inevitabile e incrocerà le braccia. Si proporrà come indifferente al male. Infine, 3) il realismo, per così dire criminogeno, si avvarrà dell’idea di inevitabilità del conflitto per provocare e schiacciare l’avversario. Si compiacerà del male. Ovviamente, abbiamo semplificato, forse troppo, ma la consapevolezza, implica – certo, quando possibile – l’idea di evitabilità del conflitto. Il che non significa fuga dal conflitto. Si pensi al realismo ad quem di Churchill. Troppo schematismo? Il realismo standard è più complesso e sfumato di come lo abbiamo fin qui descritto? Può darsi. Diciamo che ci siamo limitati a formulare alcune linee argomentative di partenza e di possibile futuro sviluppo, che dal punto di vista dell’economia del nostro volume, crediamo siano più che sufficienti. Anche perché non stiamo scrivendo un trattato. Almeno per ora. Regolarità che, come detto, definiamo metapolitiche. Perché? Innanzi tutto occorre definire il concetto di metapolitica, in chiave gnoseologica non ontologica. La metapolitica rimanda a un approccio generalizzante che studia i mezzi sociali concreti (si pensi al ruolo della triade interattiva decisione, scambio, minaccia28), attraverso i quali si conquista, si detiene, si perde il potere, nonché i significati effettuali dei differenti fini o valori collettivi professati dai diversi attori sociali. Di riflesso la metapolitica, viene temporalmente «dopo» la politica, nel senso che parte dallo studio storico della realtà politica, sociale, culturale, economica come è, e non come dovrebbe essere. Ma va anche «oltre» la realtà storica, perché in quanto scienza dei mezzi e dei fini, si avvale concettualmente delle regolarità o costanti sociologiche e politiche (di ciò che nei comportamenti politici e sociali si ripete). E pertanto studia gli effetti di ricaduta dell’uso di certi mezzi e fini sociali in luogo di altri29. E ciò perché la metapolitica rappresenta, per ricaduta, una specie di riflessione generale sulle differenti e numerose divinità terrene che colui che fa 28 - Sul punto specifico si veda G.E. Rusconi, Scambio, minaccia, decisione. Elementi di sociologia politica, il Mulino, Bologna 1984. 29 - C. Gambescia, Metapolitica, cit., pp. 33-35.

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politica (dove c’è il nemico) rischia a un tempo di servire e offendere, per usare le perspicaci parole di Max Weber30. Di riflesso, la metapolitica è consapevolezza della natura conflittuale dei valori. Insomma, quando si giunge al suo fondo, la metapolitica disvela un volto tragico. Che rinvia a un sapere sulla vita (o sull’essere delle cose come sono dal punto di vista sociologico e politico) diffidente di ogni dover essere (come si presume le cose debbano essere dal punto di vista etico o morale). Di qui, un approccio cognitivo che pur consapevole del conflitto dei valori non vuole piegarsi alle presuntive necessità del conflitto in quanto tale. La metapolitica – semplificando, forse troppo – sa che c’è il nemico, ma che c’è anche l’amico, l’alleato. Quindi nessuna antropologia negativa. Il realismo consapevole – e valga come definizione – che ha assorbito la lezione, anche antropologica, della metapolitica, circa il buon uso delle regolarità, come qui esposto, resta sempre a guardia dei fatti: del grattacielo come del formichiere. Come impone il senso della realtà, ma con ironia e lasciando spazio all’intuito. Capisce le ragioni a quo come le ragioni ad quem, come quelle delle etiche corrispondenti della responsabilità e dei principi, nonché avverte la necessità di ricomporre fin dove possibile la dissonanza cognitiva tra le cose come sono e le cose come dovrebbero essere, tra la politica che passa il politico che resta. Si comporta come un buon medico fedele al giuramento ippocratico che sa però che ogni farmaco può trasformarsi in veleno. Non sottovaluta gli effetti inintenzionali delle azioni, come l’interdipendenza del vincolo sociale e la necessità di un ordine sociale che guardi con sospetto all’uso retorico dei valori affidandosi alla funzionalità degli interessi ma non al culto del «freddo calcolo», come speriamo di avere chiarito. Sicché, per questo suo universalismo cognitivo il realista politico consapevole rischia sempre di trasformarsi nel nemico di tutti i contendenti, di regola in larga parte particolaristi: per parafrasare Dante, rischia di spiacere a dio e ai suoi nemici (Inferno, Canto III, vv. 61-69). Ma non per viltà. Anzi, per un coraggio che sfiora spesso la temerarietà. Non è ironico e paradossale tutto questo?

3. La spada e il libro Come abbiamo visto a proposito del confronto tra Kennedy e Berlin, tra il presidente e il professore, qui eretto, per così dire, a paradigma del rapporto tra spada e libro, i politici dai professori pretendono risposte non definizioni. E in tempi brevi. Sicché anche il realista politico più dotto e scaltro, quindi 30 - Si veda M. Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione - La politica come professione, cit., p. 41.

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abituato a spaccare il capello in quattro, rischia sempre di trovarsi davanti al gigantesco muro della semplificazione politica. Molto dipende ovviamente dalla tipologia dell’intellettuale, ma soprattutto del politico. Un politico-intellettuale come Lenin non chiederà mai consiglio a nessuno, certo potrà ascoltare, anche a lungo, senza però rivelare all’interlocutore di avere già preso le sue decisioni31. Un politico solitario ma colto come De Gasperi, ascolterà, per poi decidere da solo, perché, come, spesso egli ripeteva, da perfetto uomo di stato, su di lui ricadevano tutte le responsabilità32. L’intera questione «tipologica» fu ben sintetizzata da Harold D. Lasswell e Abraham Kaplan in Potere e società33. «Il tratto distintivo del tipo politico di personalità, comune a tutti i leader, è la pronunciata domanda dei valori di deferenza, soprattutto del potere e del rispetto, e in misura minore della rettitudine e dell’affetto. Il leader, come tipo di personalità, è eminentemente un politico: la sua condotta è determinata da considerazioni relative all’acquisto ed al godimento dei valori di deferenza»34.

Di conseguenza,

«si possono distinguere, nell’ambito di questo tipo generale, diversi sottotipi. Il leader può essere un agitatore o un amministratore. Può attribuire grande valore alla risposta sentimentalizzata dei seguaci in generale, o può legarsi più strettamente a particolari individui, e occuparsi di coordinare le pratiche di coloro che fanno parte del suo ambiente immediato. Può fare assegnamento sull’efficacia dei simboli – le formule ed i gesti, gli slogan e le polemiche – per trasformare le relazioni interpersonali, o può fare assegnamento al contrario sulle operazioni e le strutture organizzative. A queste differenze nelle identificazioni e nelle aspettative possono corrispondere differenze

31 - Si tratta di un aspetto ben colto da Solženicyn nel suo Lenin a Zurigo (1975), Mondadori, Milano 1976. Un romanzo storico di una profondità incredibile nel delineare l’insofferenza tacita di Lenin verso qualsiasi opinione altrui. Un capolavoro di storia e psicologia, a differenza del Mussolini figlio del secolo di Antonio Scurati (Bompiani, Milano 2018), che come modello narrativo sembra rinviare alla commedia all’italiana di Risi e Monicelli. O forse la Russia è un paese tremendamente serio mentre l’Italia non lo è? 32 - De Gasperi era buon lettore delle Storie di Tucidide. Oltre che attento ascoltatore delle altrui argomentazioni. Si veda il ritratto che ne fa la figlia Maria Romana in un libro che non invecchia mai: M.R. Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Mondadori, Milano 1964 (su Tucidide, Ibid., p. 280). 33 - H.D. Lasswell e A. Kaplan, Potere e società. Uno schema concettuale per la ricerca politica (1950), intr. di M. Stoppino, Etas Libri, Milano 1979. Si veda anche H.D. Lasswell, Potere e personalità (1948), in Id., Potere, politica e personalità, a cura di M. Stoppino, Utet, Torino 1975, pp. 399-594. Abraham Kaplan, scomparso nel 1993 filosofo di orientamento pragmatista, che collaborò con Lasswell, per gli aspetti, semplificando, terminologici e logico-significativi di Potere e società, non va confuso con Morton A. Kaplan, mancato nel 2017, studioso di politica internazionale, autore di System and Process in International Politics (1957), inserito da Tellis tra i magnifici cinque di Id., Introduzione al realismo politico, cit., pp. 71-90. 34 - H.D. Lasswell e A. Kaplan, Potere e società, cit., p. 170.

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nelle domande: l’agitatore orienta le domande verso fini lontani ed astratti, l’amministratore verso fini più immediati e più concreti»35.

Lo schema concettuale, semplificando (incrociandolo anche con quello di Potere e personalità, saggio uscito due anni prima), può essere ricondotto almeno a quattro grandi tipologie: a) l’agitatore, dal carattere drammatizzante; b) l’amministratore, freddo e distaccato nel trattare gli uomini ; c) l’agitatore, divenuto amministratore che può applicare i principi drammatizzanti, impregnati di manichee e infuocate astrattezze teoriche, alla gestione politica. Può anche darsi, per contro, il caso d) dell’amministratore che perso tutto il suo potere, si trasformi in agitatore, o che addirittura, deluso, si tramuti, distaccandosi dalla politica attiva, in studioso puro36. Va sottolineato che il leader agitatore che orienta le domande verso fini lontani ed astratti (etica dei principi), può essere ricondotto nell’alveo di un realismo politico apparentemente ad quem che invece in realtà è a quo: perché l’agitatore provoca sconquassi a breve. Mentre l’amministratore che sembra avere fini più immediati e più concreti (etica della responsabilità) e quindi rimandare al realismo a quo, in realtà rinvia al realismo ad quem, dal momento che l’amministratore, con il suo lavoro quotidiano pone basi più solide per il futuro. Ciò indica che una differenza aggiuntiva tra il tipo agitatore e il tipo amministratore può essere data, come abbiamo appena visto, dall’inversione delle etiche dei principi e della responsabilità assunte o scelte. Qui si scende, veramente, nei meandri della psiche umana. E il pericolo è quello di perdersi. Rischiando ora di scivolare nell’attualità di tipo giornalistico tentiamo una timida applicazione delle tipologie di Lasswell alla contemporaneità37. Donald Trump e Matteo Salvini – fatte, ovviamente, le debite proporzioni, soprattutto geopolitiche – appartengono, per ora, alla categoria dell’agitatore diventato amministratore. Due personalità politiche, nelle quali, di fatto, sembra però prevalere ancora la tipologia «agitatoria». Sicché, sebbene al governo, sembra che in Trump e Salvini prevalga tuttora la categoria degli agitatori puri. Di qui la loro imprevedibilità e incapacità di rapportarsi con i criteri di una normale amministrazione. 35 - Ibid. I corsivi sono nel testo. 36 - Su quest’ultimo aspetto, che riteniamo riguardi non tanto il leader quanto l’altro corno del problema, quello del realista politico come intellettuale, studioso, accademico, pensatore, cfr. le osservazioni di A. Campi, Le radici psicologiche del realismo politico, in A. Campi e S. De Luca (cura di), Il realismo politico, cit., pp. 697-798. Diciamo che, per ora, questi gli auspici di Campi ai quali ci uniamo, manca una classificazione per il pensatore realista, magari più accurata sotto il profilo psicologico, come quella elaborata da Lasswell per il leader politico. 37 - Premettiamo che si tratta anche per il prosieguo di un’enumerazione, quasi un elenco di nomi, dal taglio apodittico, magari con qualche eccezione, comunque senza i necessari apparati critici, a cominciare dai riferimenti bibliografici.

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Berlusconi, invece, appartiene alla categoria dell’agitatore puro (ma con cuore da amministratore). Corbyn e Mélenchon sono agitatori puri38. Boris Johnson un agitatore. Per contro, possono essere definiti amministratori con capacità agitatorie, Reagan, la signora Thatcher, Clinton, Blair. Putin è un amministratore con cuore di agitatore, soprattutto in politica estera, dove mostra di sognare la grandezza sovietica di un tempo. Amministratori puri: lo scomparso Andreotti, lo spagnolo Rajoy, la teutonica signora Merkel. Il vero amministratore, in realtà, non formula mai richieste estreme, proprio per evitare disonoranti dietrofront. Può accadere invece che l’agitatore diventato amministratore, ma con capacità agitatorie intatte, minacci, e che senza alcun sussulto di responsabilità in quanto amministratore, faccia poi seguire i fatti. Del resto il ridicolo è sempre in agguato. Ma anche il tragico. La foto, oggi storica, di un agitatore diventato amministratore come il cileno Allende, leader di Unidad Popular, descritto come uomo di pace, ma immortalato, nelle sue ultime ore, in raffazzonati abiti civili con un mitra ed elmetto militare, resta come sospesa fra tragico e ridicolo39. E che dire, sempre sulla stessa linea, di un Mussolini, ultranazionalista, in fuga, sorpreso dai partigiani con cappotto ed elmetto tedeschi?40 Quanto alle figure storiche, rischiando sempre forzature, Giulio Cesare era un generale romano, autentico agitatore delle sue truppe, poi divenuto amministratore. Augusto un amministratore puro e molto abile. Come Giustiniano e Carlo Magno del resto. Federico II di Svevia agitatore-amministratore. Carlo V un amministratore (con un cuore da agitatore cattolico in cerca di però pace),

38 - Difficile invece inquadrare Marco Pannella, leader storico dei radicali italiani, scomparso nel 2017. Probabilmente, agitatore, ma dotato di carisma organizzativo, per così dire amministratore per caso… Interessante, a proposito del concetto di consapevolezza, la sua definizione del concetto di volontà: «In senso proprio - sottolinea Pannella - la volontà implica una scelta. Molto spesso sono voglie, semplicemente, presentate come necessità e con respiro di volontà. […]. Quindi il presupposto di una volontà è che abbia come oggetto un obiettivo e un comportamento consapevoli, che sia capace, inoltre, di governare il tuo tempo; e non come accade con le voglie che sono espressioni, molto spesso, del tempo che ti governa» (A.G. D’Errico, Segnali di distensione. Marco Pannella si racconta e commuove, Edizioni Anordest, Villorba [TV] 2012, pp. 159-160). 39 - Sul personaggio Allende, ma soprattutto, sulla canonizzazione politica, si veda, ma con grande cautela V. Farías, Salvador Allende. La fine di un mito. Il socialismo tra ossessione totalitaria e corruzione. Nuove rivelazioni, Medusa Edizioni, Milano 2007. 40 - Cfr. F.W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò (1962), Einaudi, Torino 1970, vol. II, p. 1081: «Verso le tre, sei ore dopo il blocco, i partigiani lasciarono proseguire la colonna a patto che di essa non facessero parte gli italiani. Il tenente tedesco di scorta al “duce” compì il suo ultimo dovere: persuase Mussolini ad indossare, a quel che sembra senza attirare l’attenzione, un cappotto e un elmetto tedesco e a prender posto in un autocarro tedesco. I partigiani insistettero per ispezionare tutti i veicoli e uno dei comandanti locali riconobbe la figura confusa in fondo all’autocarro».

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il figlio Filippo II (un agitatore, «allucinato e triste»41, con una vena di follia dentro). Richelieu e Mazzarino amministratori. Luigi XIV un amministratore egocentrico che ridusse la Francia sul lastrico. Robespierre, un agitatore. Napoleone un amministratore divenuto agitatore. Napoleone III, un agitatore divenuto amministratore. Cavour, un amministratore (con cuore di agitatore), Mazzini e Garibaldi, agitatori. Il «Caudillo» Franco un amministratore, costretto a farsi agitatore, il dittatore portoghese Salazar un amministratore puro. Sempre per il Novecento, buoni esempi storici di agitatori divenuti amministratori sono rappresentati da Hitler, Mussolini, Lenin e Mao. Stalin invece un amministratore. De Gaulle un amministratore con cuore di agitatore. Kennedy un agitatore, come del resto Nixon il suo avversario alle presidenziali 1960, solo in apparenza dal carattere ingessato. Lo stesso vale per i due Roosevelt (Theodore e Franklin Delano), e per tornare ai nostri giorni, “Bill” Clinton e soprattutto per Barack Obama, nonostante l’aplomb da professore: tutti presidenti con un’anima robusta. E la stessa cosa si potrebbe dire, facendo un passo indietro, di Thomas Woodrow Wilson, altro presidente professore con tempra di agitatore. I due Bush, padre e figlio? Puri amministratori (forse più il figlio che il padre), trovatisi in guerra quasi per caso. Si tratta di una lista incompleta e nei giudizi frettolosa e imperfetta. Anzi, potrebbe addirittura assomigliare a un game storico-politologico tra professori. Sempre a proposito del lato tragico e ironico al tempo stesso, l’agitatore può trasformarsi in amministratore, conservando tuttavia gli aspetti più oscuri della sua personalità politica primaria. Si pensi a Hitler e Mussolini, alle loro terribili politiche antisemite e al comune e cupo tramonto finale. Insomma, il leader agitatore, convertito o meno all’amministrazione, è una mina vagante. In qualche misura, per l’agitatore la politica è la continuazione di quella letteratura catastrofista o cospirativa, oggi tornata moda. Hitler scrisse un libro catastrofista e «complottista» per eccellenza: il Mein Kampf 42. Ora, come vedremo meglio più avanti, il consigliere politico, di stampo realista, standard o meno, avrà difficoltà ad essere ascoltato dall’agitatore puro, al quale ricorderà i limiti di una politica utopistica, come ne incontrerà nei riguardi dell’amministratore che legato alla propria routine e specializzazio41 - Così G. Spini, Storia dell’età moderna (1960), Einaudi, Torino 1974, 3 voll., vol. I, p. 271. Altro che il «Rey Prudente» di certa storiografia cattolica… 42 - Rinviamo all’eccellente edizione critica italiana curata da V. Pinto, Mein Kampf, Free Ebrei, Torino 2017, premessa di R. Overy, trad. di A. Cambatzu e V. Pinto. Sugli aspetti esoterici del nazionalsocialismo, che vanno di pari passo con quelli cospirativi, si veda N. Goodrick-Clarke, Le radici occulte del nazismo (1985), pres. di M. Introvigne, Sugarco Edizioni, Milano 1993, nonché il divulgativo G. Galli, Hitler e il nazismo magico. Le componenti esoteriche del Reich millenario (1989), Bur, Milano 1993.

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ne, guarderà di cattivo occhio un consigliere generalista. Infine, il suggeritore realista potrebbe essere ascoltato, il condizionale è d’obbligo, dall’agitatore divenuto amministratore, ma a termine. La durata dell’incarico dipenderà dalla effettiva trasformazione dell’agitatore in amministratore e dalle variazioni del tasso di sospettosità, che il potere, soprattutto quando assoluto, con i suoi scopi conservativi fa impennare verso l’alto. Quanto all’amministratore tramutatosi in agitatore, si pensi a un Napoleone, al cui cospetto la vita del consigliere politico rischiava di essere ben grama, una volta rinunciato alle armi dell’adulazione e della servile obbedienza43. Dove l’agitatore è al potere, come del resto l’amministratore – Napoleone e Stalin – l’esistenza, e non in senso figurato, del consigliere del principe è sempre in pericolo. Ovviamente Napoleone promuoveva e allontanava, raramente imprigionava e uccideva. Stalin invece aveva meno scrupoli44. Come si può intuire, il ruolo di suggeritore del potere, e talvolta di intellettuale prestato alla politica, risulta altrettanto complicato. Come provano, per citare una specie di canone, le vite di Platone, Cicerone, Seneca, Boezio, Dante, Machiavelli, Moro, Bruno, Campanella45. Anche qui sviluppando alcune intuizioni di Edward Shils46 sui rapporti tra intellettuali, potere e società potremmo parlare dell’intellettuale associativo, che facilita l’integrazione sociale e politica e dell’intellettuale dissociativo che oltre a non facilitare la coesione favorisce i fenomeni disgregativi47. Le due denominazioni non sono molto originali ma, per ora, non abbiamo trovato di meglio48.

43 - Si veda la notevole biografia di J. Toulard, Napoleone. Il mito del salvatore (1977), Rusconi, Milano 1980, pp. 372-373 (“Al servizio di un uomo”), vi si parla di arti, ma non solo… 44 - Su Stalin si veda R. Conquest, Stalin (1991), Il Giornale-Biblioteca Storica, Milano 2003, pp. 192246 (“Il terrore”). Sulle «malefatte» di Napoleone si veda J. Toulard, L’anti-Napoleone (1964), pref. di R. De Felice, Veutro Editore, Roma 1970. 45 - A dire il vero Melograni, sia detto per compensazione, stila una lista, per quel che concerne l’età contemporanea, dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta del Novecento, di presidenti, re, ministri e politici assassinati: Abramo Lincoln (1865), Alessandro II di Russia (1881), Sadi Carnot Presidente della Repubblica francese (1894), Umberto I re d’Italia (1900) Carlo I Re del Portogallo (1908), Giorgio I di Grecia (1913), l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo (1914), lo Zar Nicola II (1917). E così via enumerandone una cinquantina. Cfr. P. Melograni, Saggio sui potenti, cit., pp. 68-71. 46 - E. Shils, Gli intellettuali e il potere, in Id., Centro e periferia, cit., pp. 132-133. 47 - Certo, ci si potrebbe sempre chiedere intellettuali associativi e dissociativi rispetto a che cosa… Evidentemente, si tratta di scelte di valore. Bisogna, laicamente, prenderne atto. 48 - Non siamo certamente i primi a tentare la «tipologizzazione» sociologica degli intellettuali. La lista dei tentativi non è breve. Solo per fare tre nomi importanti: Sorokin (ideazionali, idealisti, sensisti), Toynbee (zeloti e erodiani), Eco (apocalittici e integrati). Cfr. P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics, cit., vol. II (Fluctuation of Systems of Truth, Ethics, and Law); A. Toynbee, A Study of History, Oxford University Press, London, New York, Toronto, 1963, vol. VIII (1954), pp. 580-623 (“Zealotism and Herodianism”); U. Eco, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani, 1964.

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L’intellettuale associativo accetta gli standard professionali, politici e sociali, li perfeziona, migliora ed eventualmente critica dall’interno, privilegiando la continuità rispetto alla rottura. L’intellettuale dissociativo rifiuta gli standard, tende a criticarli e ridicolizzarli punta sulla rottura e disdegna qualsiasi continuità intrasistemica. Ovviamente, siamo davanti a idealtipi, la realtà è più complessa. Gli intellettuali che agiscono come consiglieri e suggeritori del potere costituito sono associativi, o comunque presumono di esserlo. Si pensi in particolare ai rapporti tra Platone e Dionisio I e II, tiranni siracusani, tra Aristotele e Alessandro, di Boezio e Cassiodoro con Teodorico, di Alcuino con Carlo Magno, di Hobbes con Carlo II, di Milton con Cromwell, e saltando non pochi secoli, di Keynes con il Tesoro britannico, nonché ai numerosi «Trust di cervelli» che a far tempo da Franklin Delano Roosevelt caratterizzano il cuore pulsante delle amministrazioni presidenziali statunitensi49. Per contro, gli intellettuali che rifiutano qualsiasi compromesso con il potere costituito, o che comunque interagiscono conflittualmente possono essere definiti dissociativi. Si pensi ai profeti biblici, sempre pronti a contrapporre la parola di Dio a quella dei leader terreni; ai sofisti, benché talvolta prezzolati anche dal potere, comunque portatori di una critica delle istituzioni, spesso ritenuta dissolvitrice; ai primi Padri della Chiesa fino al tempo di Costantino; alle vivaci correnti teologiche nominaliste e in particolare alla figura di Guglielmo di Ockham, idealmente alla destra della spada sguainata di Lodovico il Bavaro50. Per tacere, si fa per dire, dell’Illuminismo, che con il potere costituito, in particolare laico, ebbe un rapporto ambiguo, ma non meno conflittuale, va ricordato che per i tempi più vicini a noi Marx, l’ultimo dei profeti biblici51, resta l’esponente più significativo dell’imponente corrente dissociativa e con lui molti marxisti dalle varie sfumature. Ma il discorso può essere esteso al pensiero controrivoluzionario e agli intellettuali fascisti e nazionalsocialisti, nemici acerrimi dell’ordine liberale e di qualsiasi forma di collaborazione con esso. Nonché al pensiero politico della decolonizzazione, personificato dalla figura del Mahatma Gandhi, come da quella di altri pensatori terzomondisti disgregatori del potere coloniale come Frantz Fanon, citandone uno per tutti52. 49 - Per alcuni nomi siamo debitori a Shils, altri li abbiamo aggiunti noi. 50 - Su Ockham, in particolare, spunti di partenza e informazioni bio-bibliografiche in The Cambridge Companion to Ockham (1999), a cura di P.V. Spade, Cambridge University Press, Cambridge (UK), pp. 17-30 (sul mondo intellettuale), pp. 302-325 (scritti politici). 51 - Al riguardo si veda il curioso lavoro di E. Dussel, Le metafore teologiche di Marx (1994), Inschibboleth, Roma 2018. 52 - In argomento si veda con cautela F. Marchianò, I grandi rivoluzionari che hanno cambiato il mondo, Newton Compton, Roma 2017. Una sgroppata in argomento che include nell’ordine, affinché ci si possa fare un’idea dell’ampiezza prospettica del lavoro: Spartaco, Gesù di Nazareth, Francesco d’As-

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Va infine osservato che esiste una terza tipologia rilevata da Shils, al quale lasciamo la parola.

«Nell’ultimo secolo e mezzo in condizioni di politica di partito liberale-democratico, Benjamin Disraeli, William Gladstone, F.P. Guizot, Woodrow Wilson, Jawaharlal Nehru, Tomáš Masarik, ecc., hanno fornito degli esempi impressionanti di intellettuali che sono riusciti, con i loro sforzi e grazie ad un ampio apprezzamento delle loro doti politiche e civili, arricchite da serietà di interesse e di applicazione intellettuale, a svolgere un ruolo notevole nell’esercizio di un’alta autorità politica. Questo non è stato un fatto fortuito: la politica liberale e costituzionale nei grandi Stati moderni e nei movimenti nazionalisti liberali e “progressivi” in certi territori sottomessi, è stata in larga misura “politica di intellettuali”»53.

Quest’ultima figura di intellettuale può essere definita consociativa, nel senso di un intellettuale politico che riunisce o meglio consocia cultura e politica intorno alla condivisione delle conquiste della modernità54. Dal punto di vista delle dinamiche del realismo politico sarebbe interessante tentare di incrociare tra di loro queste figure: da un lato, le figure politiche dell’agitatore e dell’amministratore, dall’altro quelle dell’intellettuale associativo, dissociativo e consociativo. Per ora, ci limiteremo solo ad alcuni accenni. La trattazione della materia è talmente ampia che porterebbe troppo lontano. Si pensi all’esplosivo rapporto, sotto l’aspetto politico-sociale, tra un politico agitatore e un intellettuale dissociativo. L’esperienza negativa dei totalitarismi novecenteschi può descrivere a sufficienza gli effetti disastrosi di questa rincorsa verso l’estremismo politico55. Il discorso andrebbe esteso al Sessantotto e alla successiva trasformazione di non pochi intellettuali dissociativi e politici agitatori in occhiuti politici amministratori56.

sisi, Lutero, Müntzer, Copernico, Masaniello, Cromwell, Robespierre, Saint-Just, Napoleone, Bolívar, Mazzini, Pisacane, Garibaldi, Marx, Bakunin, Zapata e Villa, Rosa Luxemburg, Lenin, Gandhi, Gramsci, Mao, Fidel Castro, Che Guevara, Martin Luther King e Malcolm X, Samora Machel e Nelson Mandela. 53 - E. Shils, Gli intellettuali e il potere, in Id., Centro e periferia, cit., p. 132. 54 - Tipologia, per giocare a carte scoperte, nella quale ci riconosciamo. 55 - Su questi aspetti rinviamo alla eccellente trilogia sugli intellettuali tra le due guerre di M. Serra, L’esteta armato, il Mulino, Bologna 1992 (2a ed., La Finestra Editrice, Lavis [TN] 2015); La ferita della modernità, il Mulino, Bologna 1992; Al di là della decadenza, il Mulino, Bologna 1994. Ovviamente l’approccio è quello dello storico delle idee, non del sociologo della conoscenza. Comunque sia, Serra offre allo scienziato sociale materiali ricchissimi e di prima mano. 56 - A dire il vero questo processo di trasformazione, per così dire, del rivoluzionario in poliziotto del pensiero è tuttora studiato, non solo in Italia, in chiave controversistica, quindi non è facile disporre di studi imparziali. Comunque stiano le cose, si veda l’interessante raccolta di testimonianze a cura di G. Orsina e G. Quagliariello, La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2005. Sul successivo rapporto tra cultura permissiva del Sessantotto e politicamente corretto, come fonte di un nuovo autoritarismo pseudo-libertario, cfr. E. Capozzi, Politicamente corretto. Storia di un’ideologia, Marsilio, Venezia 2018.

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Andrebbe preso in considerazione anche il rapporto tra politici amministratori e intellettuali associativi. Si pensi a certo conformismo universitario, a certa standardizzazione del sapere, vittima dell’ingegneria sociale, favorita dalla stessa politica e non sgradita a un’accademia sospesa tra banalizzazione del sapere e ostentata erudizione57. Il che spiega, perché dopo le esperienze totalitarie novecentesche, che hanno visto sparire, e non in senso figurato, molti intellettuali prestati o meno alla politica, oggi si viva una specie di tregua tra cognizione e rivoluzione. Sicché il realismo politico rischia di trasformarsi, passando da un eccesso all’altro, in pura esercitazione di virtuosismo accademico. Si scopre, sempre più spesso, quel gusto ricercato di coltivare rare orchidee politologiche, senza però possedere la genialità di Nero Wolfe, del quale invece abbonda il lezioso culto per le abitudini58. Di sicuro, per citare di nuovo due acuti conoscitori dell’argomento, viviamo in «un’età dell’oro per i realisti, ma forse non così aurea per il realismo politico»59.

4. Realismo politico e retorica della transigenza Dietro questo complesso rapporto tra politica e intellettuali, tra potere e realismo politico, c’è qualcosa di più profondo. Indubbiamente è vero come osserva Shils, che «le esigenze di adulare un principe o di compiacere un mecenate o il pubblico dei lettori o un editore spesso sono entrate dall’esterno – e non di più – nel processo centrale della creazione, il quale di per sé si è sempre dimostrato come il risultato di una scelta e di un adattamento liberi»60.

E che di conseguenza

«lo sforzo di evitare le restrizioni imposte dal censore o lo sfavore di un tiranno è sempre stato anch’esso solamente un fattore estraneo nel processo della creazione individuale. Per tale motivo, la creazione […] non è mai stata organizzata secondo un corpo strutturato: l’uomo di lettere ha sempre rappresentato un’entità con impulso d’azione autonomo»61.

57 - Si veda con cautela F. Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo (2004), Raffaello Cortina Editore, Milano 2007. Mancano purtroppo, e questo sembra essere il cruccio di Furedi, intellettuali consociativi. Riformisti per usare un termine giornalistico. 58 - Per chi scrive, al di là dei pur eccellenti romanzi di Rex Stout, il solo e autentico Nero Wolfe resta Tino Buazzelli, scomparso non ancora sessantenne nel 1980, protagonista indiscusso dell’omonima serie televisiva dello sceneggiato Rai diretto da Giuliana Berlinguer (1969-1971). Citazione, quasi fuori che tema, che però valga come meritato ricordo di un grandissimo attore realista consapevole nella vita come nella morte, a detta di coloro che lo conobbero. 59 - F. Raschi, L. Zambernardi, Il realismo politico: un concetto polemico?, in A. Campi e S. De Luca, Il realismo politico, cit., p. 808. 60 - E. Shils, Gli intellettuali e il potere, in Id., Centro e periferia, cit., p. 134. 61 - Ibid.

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Però deve esservi dell’altro, qualcosa di collegato alla lotta politica e intellettuale in quanto tale, capace di recepire l’«impulso autonomo» per tramutarlo in arma retorica dal valore positivo. In un libro di grande interesse Hirschman osserva che in generale «gli uomini traggono un senso di compiacimento e di sicurezza dal sapere, sia pur vagamente, che “hanno la storia dalla loro parte”»62. Punto sul quale non si può non concordare. Un aspetto, quest’ultimo, che secondo Hirschman apre la questione della retorica, o meglio del bisogno umano di retorica. A suo avviso, da questa necessità discenderebbe la retorica dell’intransigenza. Di che cosa si parla? Ad esempio del fatto che vede i conservatori strumentalizzare sotto l’aspetto retorico la tesi degli effetti perversi delle azioni politiche, ovviamente giudicati sempre negativi. A che scopo? Per bloccare le riforme e per evidenziare sulla scia di Tocqueville e Taine63 (pensatori geniali ma non proprio amichevoli verso le rivoluzioni), come anche le riforme finiscano sempre per accentrare il potere dello stato, limitando le libertà individuali attraverso una specie di gioco al rialzo dell’autoritarismo politico. Sicché, sottolinea Hirschman, guardandosi indietro, nei conservatori, «l’“inintenzionale” stinse facilmente nell’“indesiderato”, e di qui nell’“indesiderabile”»64. Per contro, il riformista tende a scorgere solo il lato positivo delle riforme, o comunque a vedere solo gli effetti inintenzionali positivi dei processi riformisti, capaci, a suo avviso, di evitare le rivoluzioni così temute dai conservatori65. In fondo, anche questa è una retorica dell’intransigenza. Cambia solo il colore politico, la retorica da conservatrice si fa progressista. E Hirschman, pur essendo riformista, ne è onestamente consapevole. Pertanto, è vero che c’è un «impulso autonomo» alla creazione, come un uso cattivo della retorica, ma è altrettanto autentico il bisogno di un ricorso alla retorica, alla retorica buona si intende. 62 - A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio (1991), il Mulino, Bologna 1997, p. 161. 63 - Ci riferiamo a due classici come L’Ancien Régime et la Révolution (Alexis de Tocqueville, 1856) e Les origines de la France contemporaine (Hippolyte Taine, 1876-1894). 64 - A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza, cit., p. 41. 65 - In realtà, in particolare nelle democrazie, specie nella fasi istituenti, i processi riformisti che si fermano a metà strada spesso favoriscono crisi di regime e rivoluzioni, dal momento che i risultati non collimano con le aspettative dei cittadini. Come del resto i processi riformisti che vanno oltre le aspettative, rischiano, per saturazione, di provocare colpi di coda controrivoluzionari. Per uno studio classico in argomento cfr. J.J. Linz, P. Farneti, M.R. Lepsius, La caduta dei regimi democratici, il Mulino, Bologna 1978.). In particolare, sui contraccolpi dei processi di modernizzazione resta seminale G. Germani, Sociologia della modernizzazione. L’esperienza dell’America Latina (1962-1969), Editori Laterza, Roma-Bari 1971. Ma si veda anche S.J. Eisenstadt, Paradossi della democrazia. Verso democrazie illiberali? (1999), il Mulino, Bologna 2002, pp. 69-140 (sul processo politico, le riforme e i movimenti di protesta).

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Come uscire dall’impasse? Una volta scesi sul terreno della retorica, bisogna risalire – ecco la lezione di Hirschman – verso le vette non della partecipazione desiderante ma, per quanto possibile, della neutralità affettiva. E come? Tenendo conto del fatto che gli effetti inintenzionali possono essere positivi e negativi. Il che significa, tornando sul piano retorico, che si deve trascorrere da una retorica dell’intransigenza a una retorica della transigenza. Semplificando: impulso creativo + retorica buona. Si tratta di una «addizione» che non può non caratterizzare un realismo che voglia spingersi oltre il realismo politico standard. E in che modo? Attraverso lo strumento dell’ironia, come abbiamo già accennato più volte. Si tratta perciò di approfondire una componente non secondaria del realismo consapevole. Prima però una precisazione, fondamentale: retorica, certamente, come arte del persuadere, del convincere, nel senso antico, sofistico e tecnico, ma anche come consapevolezza dei limiti inerenti a ogni discorso pubblico, limiti radicati nella relatività delle diverse posizioni difese. E di riflesso, per venire al punto, della necessità, quantomeno cognitiva, della tolleranza consapevole dei limiti, ossia del buon uso della transigenza quale strumento di autodifesa da parte di un relativismo mite66. Si tratta dunque di pervenire a una retorica della transigenza dove i fini rischiarino i mezzi e viceversa. Ricompositiva, sul piano del realismo politico – e per quanto umanamente possibile – della dissonanza cognitiva tra senso e significato, tra la società come è e come dovrebbe essere. Una retorica rafforzata dallo spirito di tolleranza. Che ad esempio sul piano tecnico rifugga dal lessico dell’estremismo politico. E dalla volgarissima credenza racchiusa nel detto «una risata vi seppellirà»67. L’ironia non è mai satira. 66 - In tema si veda H. White, Retorica e storia (1973), Guida, Napoli 1978, vol. I, pp. 295-296; benché le sue siano intuizioni tese alla disamina della storiografia del XIX secolo. White intravede nell’ironia non solo una tecnica formale di esposizione del pensiero, ma come nel caso di Tocqueville, vi scorge un forma di autodifesa intellettuale di chi aderisca al mutamento sociale, anche rivoluzionario, magari suo malgrado e rendendosi perfettamente conto della persistenza delle istituzioni e di alcune costanti del comportamento dell’uomo non propriamente pro-sociali, nonostante le palingenetiche promesse rivoluzionarie. L’ironia nasce allora, addirittura come quella forma mentis capace di cogliere il contrasto tra uomini che asseriscono in teoria di volere il bene, per poi nella pratica, anche involontariamente, portare acqua al mulino del male (Ibid., pp. 256-308, “Tocqueville. Il realismo storico come tragedia”). 67 - Espressione di paternità insicura, da alcuni attribuita a Michail Aleksandrovič Bakunin, il padre ottocentesco dell’anarchismo, poi ripresa dai movimenti di contestazione, in particolare giovanili, degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Poi negli anni Duemila, dilagata, come in Italia, nel più volgare immaginario di massa, attraverso la sarcastica comicità, politicizzata in chiave populista, di un Beppe Grillo ad esempio. Si veda al riguardo: http://www.beppegrillo.it/una-risata-li-seppellira/.

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Hirschman, parte dal presupposto che i progressisti siano sempre pronti a plasmare e riplasmare la società, secondo una certa idea di essa, mentre i conservatori, per contro, sembrano temere il cambiamento, in quanto tale. Di qui però, come visto, due retoriche, uguali e contrarie dell’intransigenza. Altro che tolleranza… Dicevamo dell’arma dell’ironia per edificare una retorica realista della transigenza. O comunque come sembra asserire Hirschman, una retorica che sia «oltre l’intransigenza». Ma entriamo nei dettagli. Come egli osserva, spezzando una lancia per i conservatori, «in generale, una vena scettica e beffarda verso gli sforzi dei progressisti e i risultati della loro azione è un elemento essenziale (ed altamente efficace), dell’atteggiamento conservatore moderno. Invece i progressisti sono rimasti impantanati nella serietà. In generale, abbondano d’indignazione morale, ma gli fa difetto l’ironia»68.

Una vena scettica, e se serve beffarda, che però va rivolta contro coloro che, da conservatori, riducono il senso della storia a puro Kratos, o essendo progressisti a pura utopia perfettista-costruttivista. Mentre la storia non è riducibile né all’uno né all’altro senso. E neppure alle visioni criminogene o cospirazioniste69. La storia come l’uomo è imprevedibile contraddittoria, comunque complessa. E dunque, proprio perché tale, talvolta può essere irta di pericoli. Di qui la necessità di un realismo politico sostanziale, consapevole, non come puro metodo da applicare a pagamento, anche con la moneta sonante e fugace delle apparizioni televisive, come tanti politici e professori, davanti a mediatiche piazze dall’acre sapore tersiteo. La retorica della transigenza rimanda a un realismo politico, ippocratico, come prolungamento di una politica intesa come «farmacología» per dirla con Dalmacio Negro. 68 - A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza, cit., p. 168. 69 - Sul punto lasciamo la parola a Popper: «Cospirazioni avvengono, bisogna ammetterlo. Ma il fatto notevole che, nonostante la loro presenza, smentisce la teoria della cospirazione, è che poche di queste cospirazioni alla fin fine hanno successo. I cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione. […] Perché le realizzazioni differiscono così profondamente dalle aspirazioni? Perché ciò è quanto normalmente avviene nella vita sociale, ci siano o non ci siano cospirazioni. La vita sociale non è solo una prova di forza fra gruppi in competizione, ma è anche azione entro una più o meno elastica o fragile struttura di istituzioni e tradizioni, azione che provoca – a parte qualsiasi contro-azione consapevole – molte reazioni impreviste, e alcune di esse forse anche imprevedibili, in seno a questa struttura. Cercar di analizzare queste reazioni e di prevederle per quanto possibile è, a mio giudizio, il compito essenziale delle scienze sociali. È il compito di analizzare le inintenzionali ripercussioni sociali delle azioni umane intenzionali, quelle ripercussioni la cui importanza è trascurata sia dalla teoria della cospirazione che dallo psicologismo, come abbiamo già indicato.» (K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., vol. II., p. 127, il corsivo è nel testo).

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Anche solo come immagine, se ci si perdona la divagazione letteraria, si pensi alla pazienza, dedizione e tolleranza del medico condotto di un tempo. Ben esemplificata dal dottore del siloniano Vino e pane, il dottor Nunzio Sacca, che chiamato per una visita, prima accorre per puro dovere al capezzale di un malato che invece si rivela Pietro Spina, antico compagno di collegio, ora comunista, rientrato clandestinamente in Italia, stanco di fare in Francia la vita dell’«impiegato di partito», il burocrate dell’antifascismo delle scartoffie. Sacca borbotta, si mostra scettico sulle scelte di Spina, interroga e si interroga. Tuttavia in realtà, si preoccupa, transige, assiste. Fa il suo dovere e qualcosa di più70. Ma facciamo un passo indietro. Quali sono gli effetti delle retoriche dell’intransigenza, conservatrici e progressiste? Innanzitutto, come osserva, Hirschman, il catastrofismo a senso unico, di destra o sinistra, è erroneo. Chi retoricamente, «invoca la situazione disperata in cui un popolo si trova imprigionato, e afferma altresì il fallimento dei precedenti tentativi riformatori, sostiene implicitamente o esplicitamente, che il vecchio ordine dev’essere abbattuto, e un nuovo ordine ricostituito dalle fondamenta senza alcun riguardo per le eventuali conseguenze generali dell’operazione»71.

Incoscienza allo stato puro. Altro che consapevolezza… Siamo invece al cospetto, per dirla con Geiger, di una «politica emotiva»: la vera nemica di ogni realismo politico consapevole. Di conseguenza solo l’arma dell’ironia può aiutarci a capire i pericoli dell’emotività politica. Per parafrasare il titolo di un vecchio film, per il realista politico consapevole ogni situazione è disperata ma non seria: c’è sempre una via d’uscita72. Dal momento che accanto all’immaginazione del disastro c’è sempre (come dire?) l’immaginazione del non disastro, dell’esito felice o quasi, o comunque non sempre infausto. La possibilità, se si riesce a mantenere il giusto equilibrio, superando acredine, indifferenza, rassegnazione, di porre le giuste domande e perciò incamminarsi sulla giusta strada delle soluzioni.

70 - I. Silone, Vino e pane, cit., pp. 53-67. Per inciso, la critica siloniana agli «impiegati di partito», che in qualche misura è una critica ai professionisti dell’antifascismo, (si pensi al colloquio tra Spina e il violinista Uliva, comunista disilluso, Ibid., pp. 251-259), anticipa e rinvia all’affilata definizione di Sciascia sui cosiddetti «professionisti dell’antimafia» (“Corriere della Sera”, 10 gennaio 1987). Ora consultabile qui: http://www.archivioantimafia.org/sciascia.php. 71 - A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza, cit., p. 164. Corsivo nel testo. 72 - Situazione disperata, ma non seria (Situation Hopeless-But Not Serious), Usa 1965, pellicola diretta da Gottfried Reinhardt e interpretata da Alec Guinness, tratta dal romanzo The Hidding Place di Robert Shaw. Durante la Seconda guerra mondiale, due aviatori americani, abbattuti, atterrano con il paracadute in Germania e riescono a salvarsi grazie all’aiuto di uno strambo tedesco, che li chiude in cantina, non avvisandoli tuttavia, quando viene il momento, della fine del conflitto per non perderne la compagnia… I due piloti ne verranno fuori comunque, cogliendo l’attimo giusto… Quindi situazione disperata, ma non seria.

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E a tale proposito l’ironia rimanda all’arte dell’interrogazione. Anche a scopo dissimulatorio, ma solo come tecnica retorica. Come osserva Giovanni Reale,

«Socrate per costringere l’interlocutore a dar conto di sé fino in fondo e per poterlo così confutare e liberare dall’errore, mette in atto un molteplice gioco di finzioni e di travestimenti, che sotto l’apparenza di scherzo, mirano invece allo scopo più serio»73.

Ci siamo riservati questa citazione proprio per le ultime pagine, perché il metodo socratico, rinvia alle sempre verdi radici cognitive del pensiero occidentale. Ciò significa che un realismo consapevole, pur apprezzando come mostra Bouthoul il pensiero altrui, non dimentica mai le sue origini. E soprattutto, altra lezione, non deve mai smettere di interrogare e interrogarsi, come il medico di Silone. Anche in modo paradossale, secondo la lezione socratica. Perché le domande sono più importanti delle risposte. Ma non solo, come vedremo nelle Conclusioni.

73 - G. Reale, Storia della filosofia antica, cit., vol. V, Lessico Indici Bibliografia, 1983, p. 149 (“Ironia”).

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Conclusioni A proposito di risposte, si potrebbe sospettare che Geiger talvolta pecchi di ingenuità, ritenendo che basti il riconoscimento «mediante l’illuminismo critico»1 dell’interdipendenza sociale e delle regolarità che ne derivano. E con quale scopo? Per un verso, come accennato, per fuoriuscire dalla gabbia della «democrazia emotiva». Per l’altro, per evadere dall’altra gabbia weberiana, quella del conflitto dei valori, per entrare nel maestoso universo pacificato o quasi degli interessi. Dal momento, come osserva, che una volta posto termine «al culto collettivo dei valori […], fronti di interessi opposti continueranno a lottare per imporre i loro desideri, ma non per configurare la società sulla base dei valori. Il conflitto degli interessi sarà mitigato dal rispetto per la interdipendenza sociale, dall’istinto di autoconservazione»2.

È possibile? Nulla può essere escluso a priori. L’idea del vincolo «intellettualizzato» dell’interdipendenza sociale, come fatto funzionale, è quanto di più verosimile sia stato scritto sul reale funzionamento della società. Del resto, ciò che dice Geiger è sempre più accettabile della faciloneria di Bertrand Russell che pretendeva di insegnare ai bambini a non farsi uccidere dalla guerra, quindi a ripudiarla, come si insegna loro a non farsi uccidere dalle automobili3… Ma illuminare i cittadini è ancora più difficile che illuminare gli uomini politici. Ad esempio, quanto più si manifestano le capacità agitatorie di un leader, tanto più cresce intorno al «capo» l’appeal politico-elettorale. La gente comune, a prescindere dalle logiche (condizionali) di contesto storico, in prima battuta crede alle parole e vi crede quanto più esse erompono nella routine, compiacendo il risentimento sociale e promettendo miracoli. Parole, spesso in libertà, che risultano tanto più affascinanti e credibili, quanto più si crea un clima da carpe diem istituzionalizzato, che sembra sorvolare su qualsiasi giudizio di realtà. È la logica – parola impegnativa –

1 - T.J. Geiger, Democrazia senza dogmi, cit., pp. 614. «Il cittadino illuminato sa tacere al momento giusto per affidare la parola - e la decisione - a chi ne è competente» (Ibid., 615). 2 - Ibid., p. 620. 3 - B. Russell, Il potere. Una nuova analisi sociale (1938), intr. di M. Dal Pra, Feltrinelli, Milano 1976, p. 219.

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del cinema e della letteratura di evasione, che risponde a una razionalmente inspiegabile domanda, racchiusa nel cuore di ogni uomo. Un semplicissimo, perché no? Perché non può essere vero? Un domanda, terribilmente moltiplicata però per mille dai mezzi di comunicazione sociale. Come si può intuire dalla natura ardua delle risposte non è facile invertire i trend sociali. Figurarsi nel mondo dei social e della comunicazione iperveloce. Il punto è che se un uomo giudica una situazione reale, le conseguenze di quella situazione diventano reali4. Da ciò discendono gli effetti inintenzionali, sui quali ci siamo interrogati. Quali conclusioni? Niente di travolgente o esaustivo. Ci siamo limitati a esporre il nostro pensiero in argomento per linee generali. Crediamo, come ripetuto più volte (probabilmente fino alla noia), che l’arma più forte del realismo politico sia l’ironia. Che però non può discendere da una pura e semplice convinzione personale sgorgata dal nulla. Quindi da un puro fatto soggettivo. Il «sapere personale» delle persone non muta come per incanto, con un colpo di bacchetta magica. Certo, l’opzione individuale è sempre necessaria. Ma va comunque coniugata a una visione disincantata della storia, qualcosa da acquisire. Che si appoggi, come abbiamo visto, alla sociologia e quindi per un minimo di previsione alle regolarità della metapolitica. Per quel che riguarda il piano storico, anzi dello sviluppo storico, conveniamo con le famose osservazioni di Herbert A.L. Fisher, racchiuse nell’Avvertenza che precede la sua sempre godibile e istruttiva Storia d’Europa. «Una grande soddisfazione intellettuale mi è stata negata. Uomini più saggi e dotti di me han saputo discernere nella storia un disegno, un ritmo, un piano prestabilito. Tale armonia mi sfugge. Io riesco a vedere soltanto le circostanze che si succedono l’una all’altra, come onda dopo onda, e a cogliervi un solo elemento importante, che non può essere generalizzato perché unico, un solo criterio sicuro per lo storico: e cioè la necessità di riconoscere la forza del contingente e dell’imprevisto nello svolgimento del destino degli uomini. Questa dottrina non conclude però al cinismo o alla disperazione: la realtà del progresso è scritta a grandi lettere sulle pagine della storia. Ma il progresso non è una legge di natura; il terreno conquistato da una generazione può essere perduto dalla generazione seguente; il pensiero umano può fluire lungo strade errate, conducenti alla rovina e alla barbarie»5.

4 - Si tratta del nota formula del sociologo W.I. Thomas sulla profezia che si autoadempie, formula ripresa e sviluppata da Robert K. Merton, studioso che si formò con Sorokin e Parsons, in un libro oggi poco letto, Teoria e struttura sociale (1949), intr. di F. Barbano, il Mulino, Bologna 1968, 3 voll., vol. II, pp. 765-789. 5 - H.A.L. Fisher, Storia d’Europa (1935), pref. di A. Saitta, Editori Laterza, Roma-Bari 1973, 3 voll., I vol., p. XXIII.

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Il progresso esiste ma può subire arresti. E quando e in quale modo resta imprevedibile. Come del resto sono imprevedibili, o comunque non al sicuro dell’imprevisto, le azioni e reazioni degli esseri umani. Il che ci riporta alla necessità dell’ironia, verso un uomo capace al tempo stesso di costruire grattacieli e di non alzare mai lo sguardo da terra come un formichiere. Di compiere, come la storia riporta, le imprese più nobili come le più ignobili. Sicché la cosa più difficile, per chi studi o faccia politica resta raggiungere la consapevolezza di questa duplice possibilità. E naturalmente del rischio implicito in essa. Insomma, mai confidare nella presunta onnipotenza dell’uomo. Ma neppure disperare dell’intelligenza e della volontà umane. Occorre un senso della realtà non privo di capacità intuitive. Dote, quest’ultima, che è il sale di un realismo politico consapevole, come osserva ottimamente Berlin. Ciò però non significa che il peso del contingente e dell’imprevisto non si possa attutire in politica. Crediamo sia possibile, non ci stancheremo mai di ripeterlo, almeno in due modi: prima sul piano formale dell’analisi, attraverso l’uso di regolarità, poi sul piano decisionale, interrogandosi su come, dove e fin quando assecondare o contrastare gli eventi. E qui, di nuovo, gioca un ruolo fondamentale la capacità intuitiva dell’attore politico. Che se ben temperata dalla metapolitica – come delineata, forte di un buon uso, ripetiamo, della sociologia – può aiutare il realista politico, dallo statista al professore, non solo a interrogare e interrogarsi, ma a porre le domande giuste. Come, in qualche misura, si è tentato di fare in questo libro.

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Il grattacielo e il formichiere

Carlo Gambescia 

Indice Prefazione I Realtà e senso della realtà 1. Che cos’è la realtà? 2. La dissonanza cognitiva  3. Il senso della realtà 4. Senso della realtà, ironia e immaginazione

II

5 9 13 16

Che cos’è il realismo politico? 1. Realismo politico a quo e ad quem 2. L’ora più buia 3. A lezione da Isaiah Berlin  4. L’insostenibile leggerezza delle definizioni

III

23 26 31 33

Sociologia del realismo politico 1. La dottrina criminogena della politica 2. Ironia della storia e funzionamento della società 3. Interdipendenza sociale: le riflessioni di Geiger 4. «Democrazia emotiva» 

IV

41 49 56 60

Realismo politico tra sociologia e metapolitica 1. Il governo delle dissonanze 2. Le regolarità necessarie  3. La spada e il libro 4. Realismo politico e retorica della transigenza

Conclusioni

65 69 76 84

95

Biblioteca di scienze politiche e sociali

1 2 3

Carlo Gambescia, Liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin, 2012, pp. 160, € 14,00.

Dalmacio Negro, Il Dio Mortale. Il mito dello Stato tra crisi europea e crisi politica, prefazione di Aldo la Fata, 2014, pp. 110, € 12,00.

Roberto Michels, Studi sulla democrazia e sull’autorità, introduzione di Carlo Gambescia e Jerónimo Molina, 2015, pp. 100, appendice iconografica, € 12,00.

4 5

Carlo Gambescia, Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza, 2016, pp. 200, € 14,00.

Gaetano Mosca, Il Principe di Machiavelli quattro secoli dopo la morte del suo autore, con un saggio introduttivo di Carlo Gambescia, 2017, appendice iconografica, pp. 108, € 12,00.

6

7

Vilfredo Pareto, Trasformazione della democrazia, con un saggio introduttivo di Carlo Gambescia, 2018, appendice iconografica, pp. 116 € 12,00.

Carlo Gambescia, Il Grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, 2019, pp. 100, € 12,00.

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