Il partito provvisorio : storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano [6. ed.] 9788858108383, 8858108388

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Il partito provvisorio : storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano [6. ed.]
 9788858108383, 8858108388

Table of contents :
1. Due partiti in uno. --
2. Il difficile consolidamento del Psiup. --
3. Un partito vitale ma diviso e le sue coordinate culturali. --
4. Il movimento studentesco e la gelata di Praga. --
5. 'La storia ha la febbre'. --
6. Il declino, lo scioglimento, l'eredità.

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Quadrante Laterza 194

Aldo Agosti

Il partito provvisorio Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione luglio 2013 1

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0838-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

La storia relativamente breve (1964-72) del secondo Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup) – il primo (1943-47) altro non era stato che il vecchio e glorioso Partito socialista italiano, ricostituitosi con un nuovo nome dopo la caduta del fascismo – è un capitolo poco o nulla studiato della vicenda dell’Italia repubblicana. Se ne trovano poco più che rapidi accenni nelle sue sempre più numerose storie generali, e qualche informazione appena più dettagliata nelle non molte storie del socialismo italiano dopo la seconda guerra mondiale. E in generale incombe sul Psiup una sorta di damnatio memoriae: severo o distratto il giudizio degli storici, spesso reticente e al massimo condiscendente quello che molti testimoni e perfino i protagonisti della sua stessa vicenda hanno consegnato alla memorialistica. Può avere un peso in questo l’accusa al Psiup – abbastanza diffusa – di aver sottratto con la sua scissione forze importanti al Partito socialista, consegnandolo indebolito all’alleanza di centro-sinistra e disarmato della sua anima più combattiva nel confronto già impari con la Dc: visto retrospettivamente, alla luce dell’insuccesso del tentativo riformatore più impegnativo dell’Italia repubblicana, il Psiup potrebbe anche essere definito un «partito inopportuno», quale in fondo lo giudicò fin dall’inizio anche il Pci. In realtà le cose sono più complicate, perché in generale le scissioni, e questa più di altre, hanno radici profonde e antiche e le responsabilità, mai come in questo caso, non sono da addebitare ad una parte sola. ­­­­­v

Forse la definizione che meglio rende giustizia al Psiup è quella di «partito provvisorio», che fu coniata, all’indomani del suo II Congresso nel dicembre 1968, da Gaetano Arfè, allora direttore dell’«Avanti!», in un articolo apparso sul quotidiano e poi ripreso e ampliato sulla rivista del Psi «Mondo Operaio». Ma questa definizione, dettata da un’intenzione chiaramente polemica, era, entro certi limiti, condivisa anche da alcuni suoi dirigenti e da una parte della sua base militante. Nella breve vita del Partito socialista italiano di unità proletaria coesistettero infatti sempre due intenti diversi, intrecciati e sovrapposti. Da una parte vi fu fin dall’inizio l’idea di poter essere il perno di una rifondazione dello schieramento politico del movimento operaio nel suo complesso: raramente esplicitata fino al 1967 in modo diretto, questa idea prese slancio e corpo nei due anni successivi, per poi ripiegarsi su se stessa e svanire nella disillusione. Dall’altra parte il Psiup fu senza dubbio il tentativo più ambizioso e più consistente di dare espressione autonoma e organizzata alla sinistra socialista italiana. Se esso fu originato da circostanze legate a una stagione particolare della vita politica della Repubblica (l’ingresso del Psi nell’area di governo all’inizio degli anni ’60), l’aspirazione che ne era alla base aveva accompagnato l’intera storia del socialismo italiano, in una perenne tensione dialettica con quella altrettanto forte all’unità del partito. «Partito provvisorio», comunque, il Psiup lo fu nei fatti, non solo perché la sua esistenza durò soli otto anni e mezzo, di cui almeno due di progressiva decadenza, nei quali ormai la maggioranza dei suoi stessi militanti viveva il partito come «stazione di transito» verso altre destinazioni; ma anche perché nelle sue file passarono – fosse anche solo per pochi mesi – personaggi tra i più diversi, destinati ad avere ruoli importanti nella storia politica italiana: come, per fare solo alcuni esempi fra i molti possibili, Giuliano Amato e Fausto Bertinotti, Peppino Impastato e Pietro Ichino, Alberto Asor Rosa e Sergio Chiamparino. Fu dunque un tentativo di breve durata e alla fine il responso degli elettori certificò il suo fallimento, ma si trattò comunque di un’esperienza significativa. A ben vedere, essa riflette e per qualche aspetto perfino anticipa nel tempo quella del «lungo Sessantotto» italiano, oggetto ancora oggi di tanta attenzione: una stagione fatta di un periodo preparatorio e di un inizio ricco di fermenti e di promesse, ma che si chiuse su sé stessa all’insegna del ripiegamento nel ­­­­­vi

dogmatismo ideologico e che risultò incapace di incidere a fondo nella politica. In qualche misura il Psiup ne rappresentò il paradigma: la cultura politica della sinistra socialista italiana rifletteva e recepiva suggestioni di un più vasto movimento intellettuale europeo, un «revisionismo di sinistra» incentrato sulla critica del neocapitalismo che in quella stagione ebbe un ruolo importante e, quando si organizzò in partito, sembrò, fra le varie forze politiche della «sinistra storica» italiana, quella che meglio sapeva adattarsi alla stagione dei movimenti. La fonte principale di questo libro, finora totalmente inesplorata, è l’archivio del Psiup, interamente conservato presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma, dove è stato depositato insieme all’archivio del Pci, di cui è diventato parte integrante dopo la confluenza del 19721. Oltre ai diversi archivi consultati, che sono citati in nota, esistono numerosi fondi di militanti singoli depositati presso archivi locali sparsi un po’ in tutta Italia: la loro utilizzazione sistematica avrebbe rappresentato un compito improbo per un singolo ricercatore, e una fatica forse sproporzionata rispetto all’oggetto dello studio. Vi ho fatto perciò ricorso soprattutto per un caso, quello di Torino, che può essere considerato di particolare interesse soprattutto per il biennio 1968-69. Ringrazio il personale archivistico e bibliotecario delle istituzioni presso le quali si è svolta la ricerca; la Fondazione Istituto Gramsci di Roma e in primissimo luogo Giovanna Bosman, la Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci e specialmente Matteo D’Ambrosio, e poi tutti coloro che mi hanno aiutato al Centro studi Piero Gobetti e all’Istituto Salvemini di Torino, alla Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco e all’Archivio Centrale dello Stato di Roma.

1  Si tratta di un archivio abbastanza ben ordinato ma non inventariato, la cui consultazione richiede molta pazienza e molto tempo. Il materiale è raccolto in 184 buste, sommariamente ordinate all’origine in fascicoli e sottofascicoli. Solo le buste sono numerate, mentre i fascicoli lo sono in modo molto approssimativo e secondo una classificazione ricorrente ogni anno ma non sempre identica (per esempio 1.100 congressi, 1.200 organismi di direzione), e abbastanza spesso si sono mescolati tra loro. Nelle citazioni si sono riportati perciò sistematicamente l’anno e il numero della busta, e solo dove è possibile individuarlo con certezza si è indicato anche il titolo del fascicolo (per esempio circolari della Direzione, Regioni per province, Corrispondenza singoli).

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Questo libro è stato enormemente facilitato dalla ricerca di Mauro Condò, che mi ha spianato la strada con la sua tesi di dottorato, messami generosamente a disposizione, individuando diverse piste che ho seguito anch’io: il debito nei suoi confronti non si esaurisce nelle citazioni del suo lavoro. Anche Marco Albeltaro e Giulia Strippoli (che hanno letto pazientemente tutto il libro) e Claudio Rabaglino mi sono stati d’aiuto prezioso, come mia moglie Marina in tutte le occasioni in cui ha potuto svolgere il lavoro che predilige di «talpa d’archivio». Ma il debito maggiore di gratitudine, associato a un grande rimpianto, è quello verso Marco Galeazzi, l’amico carissimo scomparso nel novembre 2011: oltre a fruire dell’ospitalità della sua casa romana e ad assaporare il piacere della sua compagnia ironica e discreta, ho avuto dalle conversazioni con lui diversi spunti utili per questo lavoro. Esiste circa una probabilità su mille che i miei nipoti Giorgio ed Edoardo (classe 2003 e 2005) leggano prima o poi questo libro, ma glielo dedico con tutto il mio affetto. Torino, gennaio 2013

A.A.

Il partito provvisorio Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano

Prologo

La scissione – è la festa guastata, certo, le nozze fastose tramutate amaramente in divorzio, con tanto di insulti e avvocati, però commuove e seduce più della festa nuziale. La scissione mette assieme i due piaceri opposti: quello dell’adunata e dell’identità, perché non ci si sente mai così compatti come di fronte al falso compagno che rinnega la bandiera, e quello del sacrificio, perché di niente ci si commuove così perdutamente come di se stessi, della virile forza con la quale ci si strappa via una parte del proprio corpo, persuadendosi che sia doveroso, e dunque saziando il proprio narcisismo1.

Roma, 12 gennaio 1964. La giornata è mite e soleggiata. Al Palazzo dei Congressi dell’Eur, intabarrati in pesanti cappotti palesemente troppo caldi per l’occasione, affluiscono circa ottocento delegati, quasi tutti uomini, molti non giovanissimi: sono i delegati di alcune decine di migliaia di militanti della sinistra del Partito socialista italiano. Sui volti si legge l’espressione tesa di chi si accinge a compiere una scelta importante: di fatto, a sancire ufficialmente l’ennesima scissione nella storia del Psi, e certo 1   A. Sofri, Amleto e Laerte ai congressi di partito, in «la Repubblica», 22 marzo 2007.

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una delle più complicate e delle più sofferte. Lo scenario è quello riprodotto efficacemente da una corrispondenza del settimanale comunista «Vie Nuove»: Non c’erano bandiere; solo, alle spalle della presidenza, una grande scritta: «Fedeltà al socialismo»; e non c’è stata retorica nei discorsi dei leaders [...] il clima non era arroventato ma nemmeno ‘freddo’ come qualche giornale ha scritto: c’era nell’aria un entusiasmo giovane e il riconoscersi uno ad uno dei delegati nella decisione presa e nella speranza [...] ogni intervento dei leaders veniva salutato al canto di «Bandiera Rossa» che gli anziani intonavano lento, e applaudito ritmicamente dalle file dei giovani2.

È, di fatto, il congresso di fondazione di un nuovo partito della sinistra italiana, il Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup): il nome vuole sottolineare una «continuità storica», riproducendo quello che il Partito socialista ha assunto negli anni 1943-47. Il simbolo è la falce e martello, con il globo terrestre sullo sfondo. L’assemblea dell’Eur approva l’atto costitutivo del partito e un «appello ai socialisti» in cui si chiede il sostegno della base del Psi per la nuova formazione politica3. Vengono anche costituiti una Direzione provvisoria, di 19 membri, e un Consiglio nazionale, di 123 membri. Segretario dei «socialisti unitari», come i militanti del nuovo partito preferiranno sempre chiamarsi4, è nominato, come previsto, Tullio Vecchietti, colui che qualche anno dopo Giorgio Bocca perfidamente definirà l’«argenteo robot del conformismo di sinistra»5: cinquantenne, sempre inappuntabilmente vestito di scuro, i folti grigi capelli imbrillantinati ravviati all’indietro come si usava negli anni ’50, ha l’aspetto di un professore di liceo, lo sguardo mite nascosto da lenti spesse, ed è l’uomo che dal 1959 guida

2   A.M. Rodari, Nasce il Psiup. Gli uomini e i perché, in «Vie Nuove», 16 gennaio 1964. 3   Tutti gli interventi sono riprodotti nello stesso numero di «Mondo Nuovo», 19 gennaio 1964; ne esamineremo più avanti il contenuto. 4   I militanti del partito preferiranno sempre, per sé stessi, la definizione di «socialisti unitari» a quelle, più giornalistiche, di «psiuppini» o «socialproletari», che tuttavia finiranno per prevalere, e alle quali faremo anche qui occasionalmente ricorso. 5   «Il Giorno», 23 marzo 1969.

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la sinistra del Psi. Il suo non è un discorso trionfalistico ma teso e commosso (del resto Vecchietti non è mai a suo agio come oratore) e tradisce il peso che la scelta della scissione comporta: L’unità del Partito non era, non è e non può essere un mito, una formula senza contenuto. [...] Ci sono, fra noi, compagni che hanno sacrificato al Partito tutta la loro vita. Ma, al di sopra del partito, c’è la classe, il socialismo. Posti brutalmente di fronte alla dura necessità di scegliere fra la casa e l’idea per cui la casa fu edificata, non ci possono più essere dubbi in noi6.

Prendono la parola, dopo di lui, tutti i leader della sinistra socialista, che costituiranno il gruppo dirigente del Psiup negli anni successivi. Sui loro discorsi torneremo più avanti, ma fin d’ora dobbiamo citarne due significativi. Lelio Basso, uno dei grandi protagonisti della storia del socialismo italiano, ammonisce che «sarebbe errore fatale se noi ci trascinassimo la mentalità della scissione, se continuassimo a essere la sinistra socialista che muta le forme organizzative ma rimane sostanzialmente la stessa»7: occorre un partito nuovo, in tutto e per tutto. Lo ribadisce in un lungo articolo pubblicato poco dopo, intitolato significativamente Ragioni e speranze della scissione socialista8. Spiega che «se la sinistra avesse piegato il capo sarebbe scomparsa come forza politica, sarebbe stata liquidata come corrente, si sarebbe ridotta a una pietosa accolita di velleitari impotenti»; ma soprattutto insiste sul fatto che il Psiup deve sentirsi «come una componente minore ma attiva delle forze di sinistra anziché come un concorrente degli altri partiti; più che il partito socialista dell’avvenire un momento essenziale, ma temporaneo e parziale, di quel vasto processo di riorganizzazione delle forze socialiste che è necessario in Italia e in Europa»9. E anche Dario Valori, che diverrà vicesegretario   «Mondo Nuovo», 19 gennaio 1964.   Ibid. 8   L. Basso, Ragioni e speranze della scissione socialista, in «Problemi del socialismo», novembre-dicembre 1963, n. 11-12, pp. 1197-1227. Il numero della rivista uscì in realtà nel febbraio del 1964 e l’articolo fu certamente scritto dopo la scissione. 9   Questa convinzione è radicata in Lelio Basso, pur convivendo con una sfiducia pressoché totale che il gruppo dirigente morandiano possa essere all’al6 7

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del partito, un dirigente per molti aspetti lontano dagli orizzonti politici e culturali di Basso, tiene a chiarire che la scissione non significa «un salto indietro, ma [...] un salto in avanti», e deve impegnare il Psiup «a sviluppare una linea di ricerca autonoma, ad affrontare in particolare i problemi del socialismo [...] in un Paese dell’Europa occidentale»10. Vedremo come accenni di questo tipo, che lasciano intravedere la ricerca del Psiup di un proprio ruolo specifico nel movimento operaio italiano, non in concorrenza con il Pci ma nemmeno ad esso subordinato, abbiano scarsa eco nel modo in cui il nuovo partito è accolto sulla scena politica e dall’opinione pubblica italiane. Eppure nel determinare la nascita del nuovo partito quell’esigenza non è secondaria. Essa si alimenta di una tradizione e una cultura politica che affondano le loro radici indietro nel tempo, ed è su queste che è necessario soffermarsi dapprima.

tezza di un tale compito. Scriverà a Domenico Settembrini a pochi mesi dalla scissione: «Mentre mi sembrano nulle le possibilità di poter far qualcosa di serio con questo gruppo dirigente, mi sembrano sussistere notevoli possibilità di riuscita per una spinta che parta dalla periferia, e uso l’espressione non per intendere la base ma i quadri periferici oggi non ancora prigionieri di una mentalità da apparato. Per quanto posso vedere il Psiup nelle province è molto migliore del suo gruppo dirigente e sarebbe veramente imperdonabile se si lasciasse cadere questa nuova occasione storica di fare un partito socialista sul serio, non come fine a sé stesso, ma come strumento di una profonda trasformazione del movimento operaio italiano» (Fondazione Basso, Archivio Basso [d’ora in poi FB, AB], serie XXV, Carteggi, busta 20, fasc. 8/310, Lettera del 12 agosto 1964). 10   Ivi, p. 17.

Capitolo primo

Due partiti in uno

1. La tradizione di sinistra e il partito morandiano Il Partito socialista italiano ha sempre avuto al suo interno una componente di sinistra, a più riprese prevalente, che ne ha fatto a lungo un’eccezione significativa nell’ambito del movimento operaio europeo. In un saggio ancora insuperato per acutezza interpretativa, Leonardo Rapone considera «il rapporto con le vicende del socialismo internazionale, la memoria storica del movimento italiano, le condizioni della lotta politica all’interno del paese» i tre elementi chiave per un’analisi storica di questa diversità1. In effetti, anche a voler prescindere dalla svolta del 1911-12, che porta alla direzione del Psi un gruppo dirigente dichiaratamente antiriformista e provoca la prima di una lunga catena di scissioni, già allo scoppio della prima guerra mondiale la posizione del Psi si differenzia dal «socialpatriottismo» prevalente nella Seconda Internazionale per un richiamo forte ai valori dell’internazionalismo. E una marcata connotazione di sinistra caratterizza il socialismo italiano anche nella crisi del dopoguerra. Tra i primi partiti ad aderire all’Internazionale comunista, il Psi – diretto dalla corrente massimalista – indietreggia poi di fronte alla rinuncia alla propria identità che Mosca gli chiede, finendo lacerato da tre successive scissioni: il ceppo che sopravvive resta fedele però a un’immutata   L. Rapone, Da Turati a Nenni, Franco Angeli, Milano 1992, p. 24.

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intransigenza rivoluzionaria, solo stemperata dalla riunificazione nel 1930 con il Psu di Turati e Treves, il cui riformismo gradualista è comprensibilmente reso inattuale dalla dittatura fascista. La leadership di Nenni – il quale ha sempre conservato un profilo più vicino al massimalismo che al riformismo – asseconda, già prima della comparsa di quel legame politico tra socialisti e comunisti che si concreterà tra il 1934 e il 1939 in un patto di unità d’azione, il ritorno a un orientamento classista e rivoluzionario. Sempre più chiara emerge anche l’appartenenza del socialismo italiano a una specie particolare di «socialismo di sinistra» che ha nell’austromarxismo il suo centro d’irradiazione, con agganci significativi all’emigrazione menscevica russa e a correnti importanti del socialismo francese e spagnolo. Tale appartenenza è connotata da una triade di valori ben riconoscibili: un forte classismo, cioè l’individuazione nella classe operaia del principale fattore di progresso della società, investita della missione del suo totale rinnovamento; una predisposizione, come conseguenza di ciò, a stabilire rapporti unitari con l’altro partito della classe operaia, quello comunista, che persegue – sia pure con metodi diversi – lo stesso obiettivo del superamento del sistema capitalistico; e un robusto internazionalismo, fondato sia sul riconoscimento della Rivoluzione d’ottobre come grande fatto di emancipazione degli sfruttati e motore di una società socialista in costruzione, sia sulla fiducia nel ruolo giocato dall’Unione Sovietica nella sfida che contrappone sul piano europeo fascismo e antifascismo. Questo modo di sentire non costituisce, fino alla seconda guerra mondiale, un’anomalia in Europa: pur rappresentando una posizione di minoranza, si inserisce nella dialettica tra le diverse anime socialiste e ne appare una componente del tutto legittima. Il fatto notevole è che, mentre dopo la guerra il socialismo di sinistra si dissolve come fenomeno internazionale, questi suoi principi ispiratori – ormai largamente incompatibili con l’orientamento delle altre forze del socialismo europeo – rimangono alla base dell’azione politica dei socialisti in Italia almeno per un altro decennio. Un tale radicamento e una tale continuità nella cultura politica e nella constituency sociale del Psi rinviano al secondo dei fattori messi in luce da Rapone, la memoria storica. In questa pesa certamente l’esperienza della dittatura fascista, e la coscienza che la divisione della classe operaia italiana le ha spia­­­­­8

nato la strada: ma un’esperienza simile e anche più drammatica ha vissuto il movimento operaio tedesco, che ne trae, alla fine, una lezione opposta. Conta quindi in Italia soprattutto l’influsso nel lungo periodo della tradizione massimalista, che durante il regime sopravvive, ripiegata su sé stessa ma forse più vitale di quella riformista, non esente da sporadiche tentazioni di compromesso con il fascismo. E i caratteri assunti dalla lotta politica in Italia durante la seconda guerra mondiale favoriscono «la permanenza e anche il rinvigorimento di quell’indirizzo radicale che plasmava la memoria storica del socialismo italiano»2. Il Psi, che è stato uno degli ultimi partiti a rompere con i comunisti dopo il patto tedesco-sovietico, è anche uno dei primi a riallacciare i contatti con loro fin dal 1941, e a rinnovare con il Pci un patto di unità d’azione nel 1943. Quando nell’agosto di quell’anno riprende la guida del ricostituito Partito socialista in Italia, Nenni deve la sua investitura alle forze socialiste dell’interno, e tra queste non solo e non tanto alle più giovani e alle più radicali, provenienti dal Centro interno di Morandi, dal Movimento di unità proletaria di Basso, o dalle nuove leve giovanili dei cosiddetti «giovani turchi» (Corona, Vassalli, Vecchietti), quanto e ancor più agli esponenti della generazione più anziana, formatasi politicamente prima del fascismo (i Lizzadri, i Vernocchi, i Mancinelli), fortemente permeata di cultura massimalista3. Durante la lotta di liberazione, gli equilibri politici del Regno del Sud e la presenza nel Comitato di liberazione nazionale di influenti partiti moderati collocano naturalmente i socialisti a sinistra: alle volte, sulle questioni istituzionali e di principio, addirittura più a sinistra del prudente realismo di Togliatti, anche se la preoccupazione di non rompere il rapporto con il Pci ha in Nenni sempre il sopravvento. Meno rappresentati degli altri partiti di sinistra nella resistenza armata al Nord, dove un gruppo dirigente di grande prestigio deve talvolta vincere le ten-

  Ivi, p. 23.   Sulla prima rifondazione del Partito socialista cfr. in particolare F. Taddei, Il socialismo italiano del dopoguerra. Correnti ideologiche e scelte politiche (19431947), Franco Angeli, Milano 1984; S. Neri Serneri, Resistenza e democrazia dei partiti. I socialisti nell’Italia del 1943-1945, Lacaita, Manduria 1995; Il Movimento di Unità proletaria, a cura di G. Monina, Carocci, Roma 2005. 2 3

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denze attendiste di una base sfiduciata e passiva dopo vent’anni di dittatura, i socialisti arrivano comunque all’appuntamento del 25 aprile come una forza di tutto rispetto, che si svilupperà fino a contare 685.000 iscritti alla fine del 1945. Anche dopo la Liberazione la scelta classista e unitaria della maggioranza del gruppo dirigente socialista non solo viene confortata da un imprevisto successo elettorale, ma è sostenuta dalla larga approvazione dei militanti nel partito e nel sindacato, a dimostrazione del fatto che risponde alla sensibilità e alle aspettative di forze reali della società. Mano a mano però che si esaurisce la spinta della Resistenza e che, favorite dalle prime avvisaglie della guerra fredda, prevalgono nel ricostituito equilibrio del sistema politico italiano le tendenze più moderate, quella scelta di campo comporta una serie di prezzi via via più alti: prima la scissione di Palazzo Barberini, a cui concorrono peraltro componenti molto diverse, comprese alcune (come Iniziativa socialista) nelle quali il richiamo alla tradizione rivoluzionaria del socialismo italiano rimane ben vivo; poi, con la decisione tatticamente improvvida di presentarsi al voto del 18 aprile 1948 in una lista unica con i comunisti, una sconfitta bruciante, a cui segue un periodo di disorientamento e di divisioni profonde. Nel giro di tre anni, dalla primavera del 1946 alla primavera del 1949, il Psi vede addirittura dimezzato il numero dei suoi iscritti. Fallito il tentativo di Lelio Basso, nel breve periodo della sua segreteria, di ristrutturare su basi nuove il partito dandogli «una unitaria coscienza di classe, una compatta omogeneità ideologica, un’organizzazione capillare e al tempo stesso articolata»4, naufragata l’esperienza della direzione centrista di Jacometti e Lombardi, il Psi si presenta al XXVIII Congresso (Firenze, maggio 1949) «in una situazione che si era concordi nel definire una situazione caotica, di inefficienza organizzativa, di sbandamento dei quadri e dei militanti e di sfiducia nelle possibilità di ripresa del partito»5. Da quella fase il Partito socialista esce attraverso una sorta di vera e propria rifondazione, che ripropone come segretario del partito Nenni, con il suo patrimonio di radicalismo classista   S. Merli, Il “partito nuovo” di Lelio Basso, Marsilio, Venezia 1981, p. 44.   A. Landolfi, Il socialismo italiano. Strutture, comportamenti, valori, Lerici, Roma 1968, p. 67. 4 5

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plasmato dall’esperienza dei fronti popolari degli anni ’30, ma che ha il suo principale artefice in Rodolfo Morandi. Già leader del Centro interno socialista, l’unica rete clandestina socialista capace di un’elaborazione programmatica originale e di una certa consistenza organizzativa durante gli anni del regime, Morandi è stato sei anni in carcere e si è poi distinto come organizzatore e ideologo della Resistenza, arrivando a rivestire la carica di presidente del Clnai. Dopo essere stato ministro dell’Industria nei governi De Gasperi, si vota completamente alla riorganizzazione del partito. Fin dal 1944, egli avverte l’esigenza di dotare il socialismo italiano di un partito di tipo nuovo: e ne delinea allora le caratteristiche esplicitando la necessità che si differenzi non meno dal modello comunista – da cui devono distinguerlo la democrazia interna e l’indipendenza dalla politica sovietica – che dalla concezione socialdemocratica del partito, imperniata su un’organizzazione di tipo territoriale funzionale ai collegi elettorali, poco assoggettata ai vincoli di un’autorità centrale e troppo fluida sul piano ideologico. Ma nel momento in cui Morandi è investito della responsabilità della riorganizzazione del partito la situazione è profondamente cambiata: sul piano internazionale si è entrati nella fase più tesa della guerra fredda, mentre in politica interna lo scontro sociale raggiunge punte di asprezza senza precedenti e gli stessi spazi garantiti dalla Costituzione alla libertà di organizzazione e di sciopero sembrano rimessi in discussione, in un clima di guerra ideologica e per alcuni aspetti anche di soffocante oscurantismo clericale. Per il Psi – come per il Pci – «la scelta di campo a favore del ‘socialismo reale’ nato dalla rivoluzione del 1917 divenne condizione per non essere tacciati di opportunismo socialdemocratico»6. L’isolamento del partito diventa addirittura, nelle parole di un suo dirigente ‘storico’ come Oreste Lizzadri, un motivo di orgoglio: Avendo rotto ogni rapporto con gli altri partiti socialisti e con la Seconda Internazionale, il Psi era l’unico partito socialista rimasto in Europa sul terreno classista e unitario. Solo, nell’opporsi al patto atlantico; solo, nella lotta contro la guerra coloniale e imperialista; solo, 6   M. Degl’Innocenti, Storia del Psi, vol. 3, Dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 88.

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nella difesa delle conquiste rivoluzionarie dei popoli e della classe operaia in Asia e nell’Est europeo7.

Quella che è stata chiamata «svolta morandiana» nella vita del Psi riveste un’importanza decisiva anche nella genesi del Psiup nei primi anni ’60 e nella struttura che lo sorreggerà, e deve quindi essere richiamata con qualche dettaglio. In sei anni di estenuante lavoro il leader milanese conferisce infatti al partito una nuova impronta dinamica, che sopravvive almeno in parte, sia pure nel quadro di un mutato orientamento politico, fino all’inizio degli anni ’60. Sul piano della consistenza organizzativa, i successi sono notevoli: il pericolo che il partito ha corso di diventare una formazione di rango minore viene scongiurato e il Psi resta saldamente il terzo partito in Italia. Nel volgere di un paio d’anni passa da poco più di 400.000 tesserati denunciati al XXVIII Congresso a oltre 700.0008; raggiunge un’adeguata struttura su tutto il territorio nazionale (con una sensibile espansione nel Mezzogiorno e nelle isole); sviluppa considerevolmente la propria organizzazione di fabbrica imperniata sui Nuclei aziendali socialisti (Nas); immette nel lavoro di partito una leva di quadri giovani e preparati. Alle elezioni del 1953 raccoglie quasi il 13% dei voti: culturalmente, soprattutto dopo il 1953, è un laboratorio d’idee molto ricco e libero, intorno a cui gravitano energie intellettuali di prim’ordine, con una fioritura di pubblicazioni vivacissime. I criteri che Morandi mette alla base della ricostruzione del partito ricalcano quelli che stanno assicurando l’espansione prima e la tenuta poi del Partito comunista: articolazione territoriale, radicamento nei luoghi di lavoro, importanza dell’organizzazione tanto decisiva da comportare nella vita quotidiana del partito un suo primato sulla politica. Implicitamente, questo postula una specie di concorrenza ‘virtuosa’ con il Pci, mirante a stabilire lega-

7   O. Lizzadri, Il socialismo italiano dal frontismo al centro-sinistra. Il filo rosso di una politica unitaria, Lerici, Roma 1969, pp. 140-141. 8   M. Degl’Innocenti, Storia del Psi cit., p. 128 (entrambe le cifre sono con ogni probabilità gonfiate, ma la seconda si stima normalmente nascondere una consistenza reale di almeno mezzo milione di iscritti: cfr. P. Mattera, Il partito inquieto. Organizzazione, passioni e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico, Carocci, Roma 2004, p. 183).

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mi altrettanto profondi e organici dei suoi con l’entità quasi mitica della ‘classe’, e in questo modo a contrastare con maggiore efficacia gli esiti della ricostruzione capitalistica e della restaurazione politica moderata. Di fatto, questa scelta sviluppa una certa competizione, per quanto non conflittuale, con il Pci, mentre rischia di compromettere il ruolo che lo stesso Togliatti tende ad assegnare ai socialisti come organico e naturale: quello di contendere al blocco conservatore l’ampia gamma di ceti intermedi propria della società italiana, e di fungere da cerniera tra questa e il blocco operaio e contadino facente capo al Pci, sottraendo quest’ultimo all’isolamento. Nenni e Morandi sono però restii ad accettare questa parte, che li allontanerebbe dai fondamenti identitari del socialismo italiano e rischierebbe di relegare il Psi al ruolo di partito di opinione. Morandi, in particolare, non ha probabilmente perso di vista la prospettiva che lo ha guidato negli anni del Centro interno, quella di lavorare alla creazione di una formazione politica capace di andare oltre l’orizzonte sia della Seconda sia della Terza Internazionale: ma per renderla operante in un futuro meno condizionato dal pericolo di una nuova guerra mondiale (che percepisce come incombente) ritiene prioritario costruire un’organizzazione ancorata a un solido referente di classe. È però difficile difendere l’unità di classe come patrimonio inalienabile nell’esperienza del partito senza subire il condizionamento del Pci ed essere di fatto relegati a una funzione ausiliaria rispetto alla sua impostazione strategica. È difficile anche fare del Psi un veicolo di istanze rivoluzionarie mentre la sua struttura, la sua composizione sociale, la sua storia poco assecondano quella possibilità9. L’esigenza prioritaria di ricostruire il partito dopo il collasso organizzativo del 1947-49, e di dargli una linea politica vincolan­ te, richiede una rigida centralizzazione e un controllo severo della Direzione sulle spinte centrifughe di una base abbastanza fluida. Fare del Psi un partito «serio oltre che forte» comporta un momento di svalutazione del dibattito interno, per evitare che la linea politica definita sia costantemente rimessa in forse. È in questo contesto che vanno inquadrate le manifestazioni più vistose di

9   Rinvio, per queste considerazioni, a A. Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza, Bari 1971, pp. 452-464.

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intolleranza e di dogmatismo a cui cede anche il Psi, come quella che porta all’emarginazione dagli organi direttivi di Lelio Basso, ritenuto troppo tiepido nel suo appoggio all’unità d’azione e interprete di un pensiero troppo critico per essere compatibile con il marxismo-leninismo di stampo staliniano10. Il metodo di direzione del gruppo morandiano non riesce comunque fino in fondo nel rinnovamento che si prefigge. Strutturalmente, il partito non arriva a mettere radici estese nelle fabbriche: i Nas, sottoposti alla tutela delle sezioni, svolgono funzioni limitate e sopravvivono a stento alla repressione padronale; la corrente sindacale s’isterilisce spesso nel complesso gioco di equilibri interni della Cgil; e soprattutto sopravvive, «sia pure sotto forma di slogans più forti e battaglieri, il vecchio habitus elettoralistico»11. Sul terreno delle lotte di massa, poi, il Psi urta contro la concorrenza insuperabile del Pci che, fondando il suo prestigio su una solidità monolitica, si presenta come un punto di ancoraggio più sicuro. Pur con questi limiti oggettivi, sotto la guida organizzativa di Morandi il Psi conosce una stagione di tensione politica e ideale, riconquista un legame reale con le masse operaie e contadine, esprime una serie di quadri giovani e capaci, molto distanti, per mentalità e metodo di lavoro, dal dilettantismo della tradizione «avvocatesca» del socialismo italiano, e sensibili invece all’esigenza della conoscenza empirica dei processi sociali reali. In un contesto dominato dalla percezione di un rischio elevato di guerra e segnato sul piano interno da un clima di scontro frontale, i valori che hanno caratterizzato la specificità del socialismo italiano negli anni ’30 e durante la Resistenza – classismo, frontismo, internazionalismo – rimangono alla base della politica del Psi, anzi ne marcano ancora più nettamente l’identità, sia pure irrigiditi negli schemi di un marxismo-leninismo promosso a bussola ideologica del partito, e impoveriti dal restringimento degli spazi di una discussione libera. Distaccatesi come foglie secche le componenti «di destra» (Saragat, Romita), le tendenze che 10   Cfr. ampiamente R. Colozza, Lelio Basso. Una biografia politica (19481958), Ediesse, Roma 2010, pp. 119-198. 11   A. Benzoni, V. Tedesco, Il movimento socialista nel dopoguerra, Marsilio, Padova 1968, p. 88.

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oppongono qualche resistenza a questo slittamento «classista» e «frontista», dopo un brevissimo e non felice periodo di direzione del partito, sono nettamente ridimensionate o quasi si mimetizzano, come nel caso del gruppo ex azionista confluito nel Psi (Riccardo Lombardi, Paolo Vittorelli, Vittorio Foa). Così, mentre più o meno ovunque ad ovest della cortina di ferro i partiti socialisti e comunisti si dividono ricollocandosi sui versanti opposti del crinale della guerra fredda, in Italia i legami tra Psi e Pci si stringono come mai in precedenza. Non si tratta solo, come segnala bene Paolo Mattera, di un’opzione di natura politica e ideologica della maggioranza del gruppo dirigente ­socialista: Nell’ambiente comunitario proletario e popolare, sia nei piccoli centri rurali che nei densi quartieri industriali, i legami associativi e personali precedevano quelli politici: i compagni socialisti e comunisti si incontravano sul lavoro e ancora più fuori, nelle osterie, conversando di vicende personali e politiche; l’unità di classe prima ancora che una questione ideologica era una scelta che si vivificava quotidianamente e si alimentava di una solidarietà naturale, frutto di condizioni di vita comuni12.

Occorre attendere che sull’orizzonte internazionale si delineino le prime, incerte prospettive di distensione e che affiorino in politica interna i primi sintomi di crisi del centrismo perché questa impostazione di fondo sia rivista. La svolta è situabile fra la fine del 1952 e i primi del 1953: è la stessa arretratezza della maggioranza governativa italiana rispetto agli indirizzi nuovi che maturano sulla scena mondiale ad offrire spazio al Psi per una funzione nuova, che si riassume nello slogan dell’alternativa socialista. Alternativa, precisa Nenni, intesa «non in senso di governo e meno che mai in senso di potere», ma come «un ponte largo e solido gettato su una frattura politica e sociale che tende a diventare irreparabile»13. L’idea è destinata a trasformarsi rapidamente, nella sua impostazione, in quella dell’«apertura a sinistra della

  P. Mattera, Il partito inquieto cit., pp. 92-93.   Intervento di Nenni al XXX Congresso del Psi, riportato da F. Pedone, I Congressi del Psi, vol. V, Edizioni Avanti!, Milano 1968, p. 350. 12 13

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maggioranza e del governo», e poi, più esplicitamente, in quella della «formazione di una nuova maggioranza che ridia slancio e unità alla nazione [...] per creare le condizioni di un lungo periodo di ordinato progresso democratico»14. La posizione di Morandi di fronte a questi sviluppi è prudente. Da un lato, egli fa sua la parola d’ordine nenniana, sforzandosi anzi di metterne in luce la continuità con tutta la linea perseguita dal partito dopo la Liberazione, e accetta anche con una sorta di «rissosa inquietudine»15 la prospettiva del dialogo con i cattolici, rilanciata con forza da Nenni al XXXI Congresso del Psi (Torino, aprile 1955); dall’altro lato, intuisce i rischi che essa comporta per il mantenimento dell’unità d’azione, e cerca di tenere agganciato il partito alle lotte unitarie in cui ha ricostituito il suo humus. Quando Morandi muore, nel luglio del 1955, gli scenari della politica italiana stanno lentamente cambiando, ma la tradizione organizzativa e ideale che ha trovato in lui il proprio ispiratore e leader carismatico gli sopravvive in parte notevole. Con la rifondazione di cui era stato protagonista e la successiva stabilizzazione, «il Psi aveva progressivamente sviluppato un sistema di interessi materiali (legati alla burocrazia e alle aspirazioni di carriera dei funzionari) e di fedeltà ideali dovute alle adesioni ideologiche degli attivisti volontari e degli iscritti [che] interagivano e, pur tra non poche latenti contraddizioni, consolidavano l’organizzazione nel suo insieme»16. 2. La divisione in correnti Il terremoto politico del 1956 provoca scosse profonde anche nel Psi. In verità, di fronte alle rivelazioni del rapporto di Chruščëv al XX Congresso del Pcus, il gruppo dirigente del partito reagisce in una prima fase in modo abbastanza concorde. Quando Nenni sostiene al Comitato centrale dell’aprile 1956 che «la via

  Citato in A. Benzoni, V. Tedesco, Il movimento socialista nel dopoguerra cit., p. 109. 15   L’espressione è di R. Rossanda, Coerenza di Morandi, in «Rinascita», 7 agosto 1965, p. 8. 16   P. Mattera, Il partito inquieto cit., p. 206. 14

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democratica è la più conforme e la sola possibile nei paesi di tradizione liberale e democratica e di più alto tenore di vita», nessuno sembra considerare scandalosa l’affermazione. Anche una figura storica della sinistra socialista come Lelio Basso, che con Nenni ha avuto ripetuti motivi di dissenso, scrive il 18 agosto al segretario del partito di essere completamente d’accordo con lui che «l’espressione ‘dittatura del proletariato’ è un’espressione da abbandonare, perché gli stati d’animo ch’essa evoca sono quelli connessi alle vicende della dittatura staliniana e non certo quelli connessi alle analisi marxiste»17. Non è dunque riguardo alla messa in discussione del modello sovietico scaturita dal XX Congresso che si accendono i primi dissensi nel Psi, e nemmeno rispetto alla necessità di rivedere la propria posizione sul ruolo di guida dell’Urss: nessuna esitazione, per esempio, sembra nutrire in proposito Tullio Vecchietti, che nella Direzione del 20 giugno afferma con nettezza: L’Urss cerca disperatamente la distensione perché non può più sopportare il peso degli armamenti e dell’industria pesante che ha come controparte la miseria del popolo [...] Dobbiamo assumere la nostra assoluta indipendenza in campo internazionale e nei confronti della politica internazionale sovietica [...] Quanto più forti saremmo sul piano interno se fossimo indipendenti sul piano internazionale!18

Neppure la sanguinosa repressione, ad opera dell’esercito e della polizia, dei moti operai in Polonia, a giugno, fa registrare divisioni significative nel Psi. Il giudizio di Mosca, fatto proprio dal Pci, che vi vede il frutto della provocazione di agenti controrivoluzionari al servizio dell’imperialismo, è respinto senza mezzi termini. È piuttosto in merito alle prospettive che si aprono nella politica italiana che emergono i primi screzi. Il ferreo rapporto unitario con il Pci si sta incrinando: se ne hanno segnali anche

17   L. Basso, P. Nenni, Carteggio. Trent’anni di storia del socialismo italiano, a cura di L. Paolicchi, Editori Riuniti, Roma 2011, p. 176. Sul ruolo di Basso nel 1956, cfr. T. Nencioni, Il 1956 di Lelio Basso, in «Italia contemporanea», 2006, n. 244, pp. 437-451. 18   Citato in G. Scirocco, Politique d’abord. Il Psi, la guerra fredda e la politica internazionale (1948-1957), Unicopli, Milano 2010, pp. 183-184.

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in periferia, all’indomani delle elezioni amministrative del 27-28 maggio, che vedono il Pci perdere consensi soprattutto nelle città industriali, mentre guadagnano voti sia il Psi sia, in minor misura, il Psdi. Il 2 giugno, all’incontro fra le delegazioni di Pci e Psi, Nenni fa capire che di fronte all’ipotesi di giunte composte da Psi, Psdi e Dc i socialisti non possono respingere in generale la proposta: «non possiamo porre pregiudiziali ‘se non ci sono i comunisti non ci stiamo’»19. Il segretario del Psi cerca di smuovere le acque: Nenni ritiene possibile utilizzare il Psdi come sponda per un’«apertura a sinistra» rispetto alla quale l’interlocutore principale, la Dc, sembra ancora più chiuso che mai. Di qui un incontro fra le due segreterie, avvenuto ai primi di giugno, e il richiamo alla nuova «politica dell’unità socialista» rilanciato nella Direzione del 7 luglio20. A questo punto però le prese di posizione pubbliche del segretario del Psi hanno già cominciato a suscitare reazioni più sospettose, che lui stesso rileva nel suo diario: «C’è stato un certo turbamento anche in una parte dei compagni. Abbiamo i nostri ‘duri’, i nostri ‘staliniani’ accaniti»21. Probabilmente si riferisce alla pubblicazione sull’«Avanti!», il 26 giugno, di un editoriale di Tullio Vecchietti, allora direttore del quotidiano, una personalità che, pur non potendo per il proprio percorso di formazione essere identificato tout court con l’apparato morandiano, ne ha condiviso negli ultimi anni tutte le scelte e che presto emergerà come leader della sinistra socialista. Il messaggio che Vecchietti manda a Nenni è chiaro soprattutto riguardo all’indirizzo del Psi in politica interna: Noi non abbiamo nulla da condannare o da rivedere della politica del Psi in questi ultimi dieci anni [...] ci rifiutiamo di guardare le vacche di notte, di vedere grigio tutto il mondo, laddove rimane viva e più necessaria di prima la lotta di classe, la lotta all’opportunismo,

19   Fondazione Istituto Gramsci (FIG), Archivi del Partito comunista italiano (APC), Palmiro Togliatti, Carte Botteghe Oscure, busta 5, fasc. 20. 20   Archivio Centrale dello Stato, Carte Nenni (d’ora in poi ACS, CN), Serie Partito, busta 90, fasc. 2215, Direzione 21 luglio 1956. 21   P. Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, Sugarco, Milano 1981, p. 740.

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al trasformismo, alle posizioni capitolarde che così generosamente ci offrono gli amici della ventiquattresima ora22.

L’ultimo passaggio è un riferimento chiaro ai progetti di riunificazione fra Psi e Psdi di cui si è cominciato a parlare in quelle settimane e che hanno uno sviluppo improvviso nell’incontro fra Nenni e Saragat a Pralognan, in Savoia, il 25 agosto. La mossa suscita un forte disorientamento nella base del Partito socialista, e un notevole sconcerto anche in molti dirigenti. Lo stesso Lelio Basso scrive a Nenni di aver ricevuto «una valanga di lettere che esprimono avversione o perplessità» e, alludendo chiaramente al Psdi, lo ammonisce: «mi terrorizza l’idea che i primi nuclei di giovani che sono affluiti al partito in questi tempi se ne ritraggano, spaventati dalla prospettiva di poter domani coabitare con gli uomini più screditati della politica italiana»23. L’incontro di Pralognan è in effetti «un punto di coagulo fondamentale, almeno in negativo, per quella che era ormai in procinto di diventare la sinistra socialista»24. Poche settimane dopo, nella Direzione del 26 settembre, Nenni si trova di fronte a un vero e proprio fuoco di fila di critiche. Lo attaccano quasi tutti i dirigenti che non hanno digerito il riavvicinamento al Psdi, ed è Vittorio Foa a toccare il tasto forse più sensibile: «Non possiamo accreditare l’impressione che le vicende del Partito comunista ci siano indifferenti [...]. Nella omogeneità della base sociale è la natura dei rapporti speciali coi comunisti»25. Che il nodo del rapporto unitario con il Pci sia stato rimesso in discussione è comunque ormai chiaro. Il 5 ottobre le Direzioni di Pci e Psi stipulano un «patto di consultazione» che sostituisce il ben più impegnativo patto di unità d’azione firmato nel 1946. Diventava ormai chiaro che «la politica del Psi avrebbe camminato con

22   T. Vecchietti, Nessun revisionismo nessuna capitolazione, in «Avanti!», 26 giugno 1956. 23   L. Basso, P. Nenni, Carteggio cit., p. 180. 24   M. Condò, Per una storia del Psiup (1964-1972). Un tentativo di organizzazione della sinistra socialista, tesi di dottorato in Storia dell’Italia contemporanea, a.a. 2000-2001, XIII ciclo, Università di Roma 3, p. 16. 25   ACS, CN, Serie Partito, busta 90, fasc. 2215, Direzione del 26 settembre 1956.

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gambe proprie, anche se [...] questo avrebbe potuto provocare gravi dissidi interni»26. I «fatti d’Ungheria», come entrambi i partiti di sinistra a lungo definiscono eufemisticamente la repressione sovietica dell’insurrezione popolare a Budapest, fanno precipitare la situazione. Diversamente dal Pci, il Psi condanna già il primo intervento sovietico, quello del 23 ottobre, in modo netto e unanime. Secondo Nenni, l’insegnamento di una tragedia che «il movimento operaio non aveva vissuto mai prima» è che «la difesa di una rivoluzione proletaria o è affidata ai petti e alle armi dei lavoratori o diviene impossibile»27. Nella riunione di Direzione del 31 ottobre anche alcuni dirigenti che hanno mostrato di considerare irrinunciabile il rapporto unitario con i comunisti assumono un atteggiamento molto critico. Panzieri giudica «irresponsabile l’atteggiamento dell’Unità fondato su una mistificazione, quale è l’identificazione dell’esercito sovietico col potere socialista e rivoluzionario»; e Valori dichiara di non riuscire a capacitarsi della posizione presa dai comunisti, che giudica «un suicidio»28. Anche il secondo, risolutivo e ben più tragico intervento, quello del 3-4 novembre, suscita una dura condanna nell’intero gruppo dirigente socialista. Al Comitato centrale del 14-17 novembre solo una piccola minoranza ha un atteggiamento diverso: Petronio e Targetti (e con qualche maggiore distinguo Pertini, che definisce Nagy «un Kerenskij alla rovescia») parlano infatti, a proposito dell’intervento sovietico, di «dura necessità» a fronte di una «controrivoluzione in atto» e di «propositi di reazionaria restaurazione»29. È rispetto a posizioni come queste, che approvano l’impiego dei carri armati sovietici a Budapest, che la stampa «indipendente» e di destra comincia a usare il termine «carristi»30, presto esteso impropriamente all’intera sinistra del Psi. 26   P. Di Loreto, La difficile transizione. Dalla fine del centrismo al centrosinistra 1953-1960, il Mulino, Bologna 1993, p. 191. 27   P. Nenni, L’insegnamento di una tragedia, in «Avanti!», 28 ottobre 1956. 28   ACS, CN, Serie Partito, busta 90, fasc. 2215, Direzione del 31 ottobre 1956. 29   Citato in M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 19. 30   Pare che il termine sia stato usato per la prima volta al XIII Congresso della federazione milanese del Psi da esponenti della corrente autonomista: cfr. A. Benzoni, V. Tedesco, Il movimento socialista cit., p. 128.

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Chi ha analizzato le reazioni della base socialista ha tratto la conclusione che lo choc dell’Ungheria fu assai forte, e il giudizio in generale di indignata condanna; ma ha anche opportunamente notato che «il timore di spaccare il mondo del lavoro e fare così il gioco del nemico di classe divenne immediatamente un’angoscia ulteriore, che si aggiungeva a quelle già causate dai carri armati a Budapest»31. Questo timore si rispecchia fedelmente anche nelle prese di posizione di alcuni dirigenti. Il 9 novembre Vecchietti respinge sull’«Avanti!» «i rigurgiti del solito anticomunismo che si ammanta di condanna morale per contrabbandare il fascismo degli industriali», aggiungendo che «sfruttare i dolorosi avvenimenti d’Ungheria per tentare il ritorno alla politica delle discriminazioni significa volere la rissa in Italia»32. Al Comitato centrale del 14-17 novembre emergono distinguo ulteriori: Foa invoca per la critica del modello sovietico «canoni socialisti» che non si confondano con le posizioni socialdemocratiche, e Valori osserva che dal giudizio sui paesi dell’Europa orientale e dalla stessa posizione assunta in merito dai comunisti non può desumersi «una negazione del carattere democratico della lotta del Pci in Italia»33. È dunque il rapporto con il Pci il vero nodo da sciogliere, e il modo in cui scioglierlo comporta posizioni radicalmente diverse rispetto alla politica italiana. Questa appare ancora congelata in una fase di stallo, ma qualcosa si muove, in una società in cui si stanno già accumulando le energie e le contraddizioni destinate a cambiare il volto del paese. In quella situazione, che richiederebbe un coraggioso sforzo di analisi e una capacità inventiva di grande respiro, prevale nel Psi una logica diversa. Vittorio Foa, ripensando molti anni dopo all’esperienza del socialismo italiano negli anni ’50, ne individuerà acutamente un «connotato tipico»: «il primato dello ‘schieramento’ rispetto al progetto, al contenuto dell’azione politica»34. Così, mentre Nenni è sempre più assillato dall’esigenza di far uscire il partito dall’isolamento, in una prospettiva che non può non con  P. Mattera, Il partito inquieto cit., p. 271; e con altrettanta ampiezza G. Scirocco, Politique d’abord cit., pp. 214-220. 32   T. Vecchietti, Rigurgiti fascisti, in «Avanti!», 9 novembre 1956. 33   Entrambi gli interventi in «Avanti!», 17 novembre 1956. 34   V. Foa, Il cavallo e la torre, Einaudi, Torino 1991, p. 205. 31

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durre a un’alleanza con la Democrazia cristiana, prende forma all’interno del Psi una sinistra molto articolata e anche abbastanza divisa, che si aggrega intorno a tre principi: la solidarietà di classe, l’irrinunciabilità dell’alleanza con il Partito comunista, il riconoscimento del ruolo decisivo di progresso dell’Urss e degli altri paesi socialisti. Ciascuno di questi principi, nella percezione della sinistra socialista, è minacciato dall’evoluzione che la tendenza «autonomista», come si definisce la maggioranza del partito raccolta intorno a Nenni, sta imprimendo alla sua identità. Anche questa tendenza è tutt’altro che omogenea, e in essa coesistono posizioni differenziate. Riccardo Lombardi, anche più risoluto del segretario del partito nel superare l’impianto teorico del marxismo-leninismo e nel riconoscere la possibilità di una progressiva modifica dei rapporti di forza all’interno dello Stato borghese, resta fermo nel promuovere, attraverso le riforme, lo sviluppo di un modello economico alternativo a quello capitalistico35. E Francesco De Martino si mostra preoccupato di salvaguardare terreni specifici di convergenza con il Pci, come l’impegno per la trasformazione del Mezzogiorno. Agli occhi della sinistra, però, queste differenze appariranno sempre più secondarie. La prima occasione di confronto è rappresentata dal XXXII Congresso del partito, che si tiene a Venezia dal 6 al 10 febbraio 1957. Fin dal dibattito precongressuale si registra una divisione fra gli autonomisti e la sinistra, con i seguaci di Lelio Basso e anche i sindacalisti del partito (Foa, Giovannini, Lettieri) in una posizione intermedia, ma più vicini alla seconda che ai primi. La relazione della Direzione ridimensiona la politica unitaria, principale motivo di contrasti all’interno del partito, a coscienza delle responsabilità del partito verso i lavoratori nel loro insieme e impegno a mantenere intatti i legami di classe nel sindacato e nelle pubbliche amministrazioni. Come quella di Nenni, che ne ricalca i punti principali, non incontra nel corso del dibattito nessuna opposizione esplicita: entrambe sono approvate all’unanimità. Ma, al momento dell’elezione dei membri del Comitato centrale, Nenni è scavalcato nell’ordine delle preferenze da Vittorio Foa, e 35   A. Ricciardi, Riccardo Lombardi e l’apertura a sinistra, in Per una società diversamente ricca. Scritti in onore di Riccardo Lombardi, a cura di A. Ricciardi e G. Scirocco, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2004, pp. 71-72.

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gli autonomisti eletti risultano meno numerosi dei rappresentanti della sinistra sommati ai seguaci di Lelio Basso. Nenni viene rieletto segretario, ma affiancato da una segreteria in cui è potenzialmente in minoranza36. Gli autonomisti accreditano subito l’idea di una «pugnalata alla schiena», cioè di un risultato congressuale predeterminato dall’apparato, composto in prevalenza da funzionari ex morandiani, ora schierati contro Nenni. In realtà su 550 delegati al congresso i funzionari di partito erano solo 127, per di più divisi tra autonomisti e sinistra37, e la loro capacità di influire sul voto non può essere sopravvalutata. Ma nella vicenda degli organismi politici la percezione della realtà conta spesso più della realtà stessa, e in questo caso acuisce una divisione che si approfondirà sempre di più. Il partito, indubbiamente, è diviso, benché secondo una linea di frattura meno verticale di quanto si è stati poi portati a credere. In fondo, si è ben lontani dalla contrapposizione del primo dopoguerra fra riformisti e massimalisti: «il dissidio riguardava unicamente scelte di natura tattica e in particolare si concentrava sulla questione delle alleanze»38. Anche da un altro punto di vista non era così scontato definire i confini delle correnti e delle posizioni all’interno del Psi. Con enfasi forse eccessiva ma non senza fondamento Stefano Merli ha notato «quale importante laboratorio di strategie» fosse il partito in quel momento, soprattutto a paragone delle chiusure dei comunisti: «Il Pci è riversato su se stesso, si lecca le ferite e cerca di uscire dall’impasse con una continuità senza traumi; il Psi è in movimento, riscopre i valori che rendono diversi i socialisti dai comunisti, esplora strade nuove, crea e innova per tutta la sinistra»39. Effettivamente, sul piano della produzione intellettua-

36   Sul congresso di Venezia si veda V. Evangelisti, S. Sechi, L’autonomia socialista e il centrosinistra (1956-1968), in Storia del socialismo italiano, vol. VI, Il Poligono, Roma 1981, pp. 22-28, e M. Degl’Innocenti, Storia del Psi cit., pp. 219-233. 37   I dati, forniti da Valori sull’«Avanti!» del 23 febbraio, sono citati da A. Benzoni, V. Tedesco, Il movimento socialista cit., e ampiamente commentati da G. Scirocco, Politique d’abord cit., pp. 232-234. 38   V. Evangelisti, S. Sechi, L’autonomia socialista cit., pp. 25-26. 39   S. Merli, Prefazione a R. Panzieri, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra 1956-1959, Marsilio, Venezia 1986, p. xxviii.

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le, dopo il 1956 si ha «una delle stagioni migliori della cultura socialista in Italia»40. È tutto un brulicare d’iniziative intellettuali, di riflessioni, di riviste: «Mondo Operaio», l’organo mensile del partito di cui Panzieri è nominato condirettore dopo Venezia, diventa la sede privilegiata di un generale ripensamento della strategia del socialismo italiano, che esplora le alternative storiche allo stalinismo, con particolare attenzione a quelle che avevano proposto «un innesto tra rivoluzione e democrazia diretta»41, e si sforza anche di liberare Gramsci dalle ipoteche dell’interpretazione ufficiale, valorizzandone – a partire dall’esperienza dei consigli di fabbrica – gli aspetti più inediti e libertari. Il periodico diventa un laboratorio di discussione su temi che si fanno strada all’interno del dibattito politico-culturale della sinistra italiana, a partire da quello, centrale, del «neocapitalismo». Un’altra rivista, «Ragionamenti», diretta da Roberto Guiducci, già distintasi dalla sua fondazione, nel 1955, per l’apertura a ogni forma di marxismo critico e anche alle scienze sociali anglosassoni, diventa la tribuna più vivace del «revisionismo» di ogni colore e ospita un libero scambio di opinioni sul ruolo della ricerca culturale in rapporto all’azione politica e sulle forme possibili di una «democrazia socialista». La pars destruens, antistalinista e antisocialdemocratica, di questo fervido dibattito cela differenze di prospettiva politica non irrilevanti, che il futuro porterà alla luce e aggraverà, ma per ora attraversa senza distinzioni le tendenze presenti nel partito e le energie intellettuali che esso mobilita42. Nel 1958, alle elezioni politiche del 25 maggio il Psi registra un buon successo (il 14,2% e quasi un milione di voti di incremento rispetto al 1953), che sembra dar forza alle tesi di Nenni. E questi in effetti, frustrato dalla tattica di logoramento che gli oppone la sinistra interna, intervenendo di continuo a rettificare o sfumare le sue posizioni praticamente su ogni questione, si decide a forzare la situazione. Alla Direzione di metà ottobre, la sua relazione

  G. Galli, Storia del socialismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 223.   Testimonianza di P. Ferraris, in Figure e discrasie nel socialismo degli anni Cinquanta e Sessanta. Colloquio con Vittorio Foa e Pino Ferraris, a cura di A. Ricciardi, in «Il Ponte», maggio 2000, pp. 95-124. 42   Su questo cfr. soprattutto M. Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Ediesse, Roma 2011. 40 41

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è una dura requisitoria contro quello che giudica l’immobilismo imposto al partito dalla sinistra. La reazione di questa (Vecchietti parla di «posizioni terrificanti») è altrettanto aspra. È evidente che «la divaricazione politica tra le componenti interne del Psi era diventata tale che non era più possibile mantenere la prassi unanimistica. Anche in ciò il partito morandiano stava declinando»43. Le armi si affilano in vista del nuovo appuntamento congressuale di Napoli (15-18 gennaio 1959). La corrente autonomista avvia un ricambio dei quadri intermedi per limitare la presa del vecchio apparato: anche parecchi dei quadri ex morandiani, inclusi quelli considerati «stalinisti», come Giusto Tolloy, sono da tempo entrati a farne parte. La sinistra, nelle sue varie componenti, denuncia la tendenza a «eliminare i funzionari e sgominare i morandiani», esprimendo la preoccupazione che «se [i nenniani] imposteranno con questo spirito l’attività post-congressuale, metà partito passerà al Pci»44. Al congresso, il vero motivo del contendere – il rapporto con i comunisti – rimane abbastanza sullo sfondo nelle relazioni presentate da Nenni e da Vecchietti. Il primo ostenta sul problema delle alleanze una certa intransigenza, dichiarando che «se di tattica della disponibilità si dovesse parlare, sarebbe una disponibilità per delle grandi cose [...], per fondamentali riforme di struttura che comportassero una trasformazione dei rapporti di classe e di produzione, cioè una modificazione effettiva dei rapporti di potere nella società e nello Stato»45. Ma è chiaro che queste «grandi cose» si farebbero semmai con la Dc, non con il Pci. Vecchietti riconosce che la «via democratica al socialismo» non ha alternative, ma tiene a tracciarle un percorso ben preciso: perché essa non si riduca «nella buona amministrazione della società borghese», occorre che si allarghi «a nuovi istituti di controllo effettivo della classe lavoratrice», si attui cioè «attraverso conquiste di potere reale degli operai e degli altri lavoratori nel corso stesso delle

  M. Degl’Innocenti, Storia del Psi cit., p. 257.   FB, AB, Titolo XXV, Carteggio, busta 12, fasc. 12/383, Lettera di Lelio Basso a Elio Giovannini, 27 dicembre 1958. 45   La relazione Nenni in Partito socialista italiano, 33° Congresso Nazionale, Napoli, 15-18 gennaio 1959. Resoconto stenografico, Edizioni Avanti!, MilanoRoma 1959, pp. 10-41. 43 44

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riforme»46. È questa una concessione alle tesi che Panzieri e Libertini hanno pubblicato l’anno prima su «Mondo Operaio», oggetto come si vedrà di un vivace dibattito nel partito e fuori di esso; ed è un modo in cui Vecchietti cerca di smarcarsi da una troppo stretta identificazione con un’etichetta «frontista». Ma resta un discorso abbastanza astratto, e non a torto Lelio Basso, che per molti aspetti appare più critico della relazione di Vecchietti che di quella di Nenni, rimprovera al primo «un linguaggio oscuro che nega a parole il frontismo [...] ma lo nasconde nelle pieghe di una spiegazione dell’azione di massa che si muove quasi da sé e trascina i partiti»47. Nel contrasto tra le correnti il socialista milanese nega di voler svolgere un ruolo di «arbitro» («noi che siamo autonomisti e unitari»), ma la sua irriducibile ostilità ad ogni ipotesi di alleanza con la Democrazia cristiana lo spinge sulle posizioni della sinistra. L’esito del congresso è nettamente favorevole a Nenni: la sua corrente ottiene il 58,3%, la sinistra di Vecchietti il 32,6% e Alternativa democratica di Basso l’8,7%. Benché le diverse posizioni non si siano manifestate ancora insanabilmente in contrasto, gli autonomisti decidono, allo scopo di avere mano libera in vista di un accordo con la Dc, di escludere la sinistra interna e i bassiani dalla Direzione e anche da alcuni ruoli di rilievo: a Panzieri viene tolta la condirezione di «Mondo Operaio», e l’«Avanti!» rimane saldamente in mano loro. Tutto ciò non fa che cristallizzare le tendenze interne in frazioni permanenti, e finisce per cementare in un’unica corrente le anime della sinistra. Queste, in effetti, sono almeno quattro, ed è venuto il momento di tracciarne un profilo. 3. Le sinistre socialiste Per consistenza numerica e forza organizzativa la prima è la componente che si è formata negli anni della direzione morandiana. Per lo più essa proviene dal famoso «apparato», ma non si identifica con esso: uomini che vi hanno ricoperto ruoli importanti sono passati alla corrente autonomista. Anche il leader ricono  Relazione della sinistra, ivi, pp. 447, 448, 456, 462.   Ivi, pp. 42-83. La citazione è dalla replica, p. 392.

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sciuto della sinistra morandiana, Tullio Vecchietti, ha alle spalle un percorso particolare e non è semplicemente una «creatura» di Morandi48. Nato a Roma nel 1914, e quindi un po’ più anziano degli altri compagni che lo hanno riconosciuto leader, ha iniziato nel 1936 a frequentare gruppi antifascisti romani e due anni dopo, borsista alla Sorbona, è entrato in contatto con i socialisti e i militanti di Giustizia e libertà emigrati nella capitale francese. Allo scoppio della seconda guerra mondiale è soprattutto un giovane intellettuale, studioso del Risorgimento (e di Gioberti in particolare49); più tardi fa parte a Roma di un piccolo gruppo, l’Unione dei socialisti rivoluzionari, che è collegato con il Mup di Basso a Milano, e che come questo confluisce nell’estate del 1943 nel Partito socialista: nelle file di questo partecipa alla Resistenza nella capitale, su posizioni di intransigenza rivoluzionaria spesso al limite della rottura con il Cln. Entrato a far parte della Direzione, si schiera nel 1945 accanto a Saragat, su posizioni nettamente contrarie ad ogni ipotesi di fusione con il Pci, ma poi aderisce alla linea frontista di Nenni, mentre il suo legame con Morandi si cementa quando nel 1951 viene nominato direttore dell’«Avanti!». Dopo la morte del vicesegretario si trova quasi naturalmente a capo dell’ala sinistra del Psi. Con l’inasprirsi dello scontro interno, Vecchietti si caratterizza per una posizione ideologicamente ostile al riformismo, considerando una pericolosa illusione l’idea che la classe lavoratrice, inserita nella «dinamica del capitalismo», possa piegarla ai suoi fini: «La classe lavoratrice, fino a quando non entra in possesso delle leve di comando politico ed economico, non può rimuovere le cause di una politica capitalistica, può e deve invece combatterne gli effetti»50. Degli esponenti della sinistra socialista è forse il più sensibile ai temi della politica internazionale: per lui «il problema centrale, fondamentale, al di sopra di tutto»

48   Manca sulla figura di Tullio Vecchietti uno studio degno di nota. Tra i necrologi in occasione della sua morte si segnala Vecchietti, un ribelle molto realista, in «il manifesto», 16 febbraio 1999. 49   Cfr. T. Vecchietti, Il pensiero politico di Vincenzo Gioberti, Industrie Grafiche Amedeo Nicola, Milano 1941. 50   T. Vecchietti, Il MEC e i socialisti (1958), in Il revisionismo socialista. Antologia di testi 1955-1962, «Quaderni di Mondo Operaio», Palombi, Roma 1975, p. 95.

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è «la sfida mondiale in corso, fra capitalismo e socialismo»51, e che l’Urss sia in questa sfida il punto di riferimento resta – malgrado le tragedie che hanno segnato la sua storia e gli errori che può aver commesso – un fatto fermo e indiscutibile. Su questo punto concorda anche Dario Valori, nato nel 1925, che è entrato nel partito subito dopo la guerra e, molto stimato da Morandi, ha in breve scalato i gradini più importanti verso ruoli direttivi: dopo aver guidato il movimento giovanile socialista dal 1950, è eletto nella Direzione del partito nel 1951, diventando responsabile della Sezione centrale di organizzazione dal 1955 fino al 1958, quando viene eletto deputato52. Condirettore per un certo periodo dell’«Avanti!» con Vecchietti, è di fatto il suo vice nella sinistra Psi, con una visione politica affine alla sua, cioè imperniata sul classismo e decisa ad evitare in qualunque modo «l’integrazione» della classe operaia nel sistema capitalistico. Tra gli altri protagonisti del gruppo dei morandiani, che prima ancora che la sinistra socialista si organizzi in corrente ricoprono ruoli chiave nel Psi, emergono Vincenzo Gatto, che dopo essere stato un importante esponente del partito in Sicilia ha diretto dal 1955 la Sezione lavoro di massa, e Lucio Luzzatto, che come Vecchietti non ha una formazione d’apparato: ha fatto parte già del Centro socialista interno di Morandi negli anni 1934-37, e poi del Mup di Basso nel 1943, ricoprendo successivamente ruoli di primo piano nel movimento dei Partigiani della pace, nella Lega delle cooperative e nell’associazione dei Comuni democratici; dal 1955 ha diretto la Sezione enti locali del Psi. Quanto ai quadri intermedi della corrente, comune a una buona parte di loro è l’esperienza nei cosiddetti «organismi unitari di massa» (sindacati, cooperative, enti locali, movimento pacifista, organizzazioni femminili e giovanili), in cui socialisti e comunisti lavorano fianco a fianco, non senza occasionali contrasti ma cementando un rapporto di unità e, inevitabilmente, di una certa subalternità della componente più debole rispetto a quella più forte. Questa

  T. Vecchietti, I socialisti per la svolta a sinistra, «Quaderni di Mondo Nuovo», Arti Grafiche Privitera, Roma 1962, p. 16. 52   Per queste notazioni biografiche su Valori si vedano i necrologi pubblicati in occasione della sua morte, in particolare sull’«Unità» e sull’«Avanti!», 21 marzo 1984. 51

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esperienza contribuisce certo a definirne il profilo che ne traccia Silvano Miniati, un militante sindacale che avrà parte attiva nella scissione del 1964 e, dopo aver ricoperto ruoli importanti nel Psiup, sarà il primo ad abbozzarne una storia: «compagni che erano maestri nel condurre le battaglie interne, nell’uso della tattica, nel far pesare fino al millesimo un pacchetto di tessere o un articolo statutario»53. Ma è limitativo dire, come fa lo stesso Miniati, che il loro rapporto con la base era «paternalistico e autoritario», e che «la loro concezione della corrente assomigliava a quella di un reparto militare». C’è in realtà qualcosa di più: molta parte del radicamento che il Psi mantiene in una base popolare di operai, di contadini, in qualche caso anche di ceti medi proletarizzati, è assicurata dai quadri morandiani, la cui rappresentazione di aridi e ottusi apparaticki, sedimentatasi nel tempo, è ingenerosa e fuorviante. Qualche punto di affinità con la sinistra morandiana presenta un’altra componente della sinistra socialista: una componente, peraltro, non molto omogenea, e destinata infatti a prendere strade diverse in occasione della scissione del 1964. Il comune denominatore di questa aggregazione è difficile da definire, ma potrebbe essere indicato in una sorta di socialismo «sentimentale» rafforzatosi in una coerente e in alcuni casi attivissima militanza nella lotta contro il fascismo, patrimonio condiviso di una generazione di militanti più anziana sia dei morandiani che dei bassiani. Se ne possono indicare come esponenti significativi uomini quali Lussu, Schiavetti, Malagugini, Lizzadri e, in modo atipico, Pertini, tutti nati fra il 1887 e il 1896. Non si tratta di personaggi particolarmente influenti nella vita del Psi, ma rappresentativi di un sentimento che vedremo profondamente radicato alla base, un impasto di massimalismo e orgoglio di partito, con venature di anticonformismo «pregiudiziale»54.

53   S. Miniati, Psiup 1964-1972. Vita e morte di un partito, Edimez, Roma 1981, p. 10. 54   Su Lizzadri e Malagugini si vedano le voci in Dizionario biografico degli italiani, voll. 65 e 67, e Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1977; su Schiavetti, per gli anni centrali della sua biografia, E. Signori, M. Tesoro, Il verde e il rosso. Fernando Schiavetti e gli antifascisti nell’esilio fra repubblicanesimo e socialismo, Le Monnier, Firenze 1987.

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La biografia di Emilio Lussu, nato nel 1890, che è «la storia di un’evoluzione dal liberismo rurale al socialismo pragmatico, al socialismo consapevolmente premarxista, al marxismo»55, è da questo punto di vista paradigmatica. Da quando è entrato nel Psi, nel 1949, carico del bagaglio della lunga militanza prima in Giustizia e libertà, di cui era stato tra i fondatori, e poi nel Partito d’azione, si è segnalato come un attivo protagonista dei dibattiti del socialismo italiano, su posizioni di sinistra ma sempre con un’impronta personale: critico verso il Pci ma sostenitore della politica unitaria, è stato «carrista» in occasione della tragedia ungherese del 1956, ma il suo ideale di socialismo è federalista, autogestionario e libertario. Un socialista «diverso», dunque, attento al potenziale rivoluzionario non solo delle grandi fabbriche, ma anche del mondo contadino del Mezzogiorno e delle isole: ed è proprio questa sua «diversità» a renderlo «impermeabile a qualsiasi infiltrazione riformistica»56. È in questo spirito che nel 1959 aderisce alla corrente di sinistra di Vecchietti, di cui pure non ama affatto la leadership. Pertini può essere per alcuni aspetti paragonato a Lussu: un passato di combattente antifascista, di prigioniero politico e di esule, di prestigioso leader anche militare della Resistenza, e un temperamento simile, passionale, insofferente di tatticismi57. È stato nel partito di Turati e Matteotti, ma ha sempre sentito fortissima l’aspirazione all’unità dei lavoratori, e dal 1943 ha considerato prioritario il rapporto con i comunisti. Sente però come una priorità assoluta la difesa dell’identità del partito, e infatti si presenta come il leader della mozione antifusionista nel 1946: ma nel 1956 appare uno degli avversari più battaglieri della svolta autonomista di Nenni, e anche in seguito il suo orientamento favorevole alla politica di centro-sinistra è sempre temperato dalla considerazione che l’autonomia socialista non deve mai significa-

55   G. Fiori, Il cavaliere dei Rossomori. Vita di Emilio Lussu, Einaudi, Torino 1985, p. 365. 56   V. Foa, Emilio Lussu tra realtà e leggenda, in «il manifesto», 9 marzo 1975. 57   Sulla prima fase della vita di Pertini cfr. A. Gandolfo, Sandro Pertini. Dalla nascita alla Resistenza 1896-1945, Aracne, Roma 2010; su quella successiva G. Scroccu, La passione di un socialista. Sandro Pertini e il Psi dalla Liberazione agli anni del centro-sinistra, Lacaita, Manduria 2008.

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re «autonomia dalla classe operaia», e dal timore che una rottura con i comunisti possa snaturare l’identità del partito. Una terza componente della sinistra socialista, non molto consistente dal punto di vista numerico ma culturalmente certo assai più influente di quella appena esaminata, è quella di Alternativa democratica, la corrente raccolta intorno a Lelio Basso, senz’altro una delle personalità più complesse e affascinanti della sinistra italiana, al quale anche la storiografia ha incominciato a dedicare l’attenzione che merita58. Negli anni in cui si realizza la sua convergenza con la sinistra dei quadri morandiani, Basso è considerevolmente più anziano di tutti loro, essendo nato nel 1903. Benché si sia iscritto al Psi fin dal 1921, è sempre stato, in sostanza, un «irregolare» del socialismo italiano. Fra il 1934 e il 1939 ha partecipato all’attività clandestina del Centro interno socialista e, dopo un periodo di internamento al confino nel 1940, è riuscito a riprendere i collegamenti con i gruppi socialisti clandestini con il progetto di ricostituire un embrione di partito unico del proletariato, democratico nell’organizzazione interna, libero da ogni dogmatismo e contrario ad ogni soluzione di compromesso «democratica» della crisi del fascismo. È nato così, con un certo seguito nell’Italia del Nord, il Movimento di unità proletaria (Mup)59. Basso è però abbastanza realista da convincersi che, di fronte alla grande forza del Pci e al crescente afflusso di militanti nel ricostituito Psi, non vi è spazio per la sopravvivenza della sua creatura, e opta per l’unificazione del Mup con il Psi, che infatti assume la denominazione di Psiup: un segno abbastanza chiaro del suo peso politico e del suo prestigio. Ma Basso assume presto un posizione di dura critica contro la rinuncia agli obiettivi di classe e la genericità dell’alleanza antifascista che gli vale, soprattutto da parte comunista, aspre accuse di attesismo e una duratura 58   Cfr. in particolare R. Colozza, Lelio Basso. Una biografia politica cit. Fra le raccolte di saggi più significative, Lelio Basso teorico marxista e militante politico, in «Problemi del socialismo» (quarta serie), 1978, n. 12; Lelio Basso nel socialismo italiano, «Quaderni di Problemi del socialismo», Franco Angeli, Milano 1981; Ripensare il socialismo: la ricerca di Lelio Basso, Mazzotta, Milano 1988; Novecento contemporaneo. Studi su Lelio Basso, a cura di G. Monina, Ediesse, Roma 2009. 59   Cfr. Il Movimento di Unità proletaria (1943-1945), a cura di G. Monina, Annali della Fondazione Basso Issoco 2004, Carocci, Roma 2005.

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diffidenza. All’indomani della Liberazione cerca di far passare le sue teorie sul ‘partito nuovo’ che dovrebbe superare sia il modello socialdemocratico che quello comunista e aprire la strada al partito unico della classe operaia italiana; in realtà, ottenuta la segreteria del Psi nel 1947 a seguito della scissione di Saragat, è soprattutto impegnato ad assicurarne la sopravvivenza60. Nel frattempo svolge un ruolo centrale nella redazione della Costituzione, scrivendo la norma dell’articolo 3 sull’eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini (che lui stesso riteneva la «pietra angolare di tutto l’edificio costituzionale»61) e l’intero articolo 49, sulla funzione dei partiti politici. Fautore della politica di unità d’azione con i comunisti, Basso ha però aderito con qualche perplessità all’idea della lista unica del Fronte popolare. Sostituito alla segreteria del partito nel 1949, dopo la sconfitta elettorale e la momentanea prevalenza della corrente centrista, negli anni successivi viene emarginato, come abbiamo visto, dalle cariche direttive di partito. Solo nel 1956, con la destalinizzazione, torna a giocare un ruolo importante nel Psi: condivide con Nenni l’idea di una maggiore autonomia del partito, ma vede come il fumo negli occhi una riunificazione con il Psdi e un’eventuale alleanza con la Dc, che concepisce come «partito-Stato» o «partito-regime», antidemocratico e clericale, gradualmente trasformatosi nel «partito del grande capitale, dei grandi interessi monopolistici»62. Lungo questo travagliato percorso, e a dispetto di un certo orgoglioso isolamento, il dirigente milanese non ha mai perso un notevole carisma nel mondo del socialismo italiano, e soprattutto tra gli intellettuali. Il suo marxismo è «una singolare fusione di filoni di pensiero diversi» e fa di lui, come è stato scritto, un «uomo della Seconda Internazionale» che accetta «la sfida della Terza»63. Componente fondamentale del suo marxismo è anche un 60   S. Merli, Il “partito nuovo” di Lelio Basso cit., e E. Giovannini, Lelio Basso e la rifondazione socialista del 1947, Lerici, Cosenza 1980. 61   L. Basso, Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Feltrinelli, Milano 1958, p. 194. 62   Ivi, pp. 278, 212. V. anche, dello stesso Basso, la raccolta di scritti Due totalitarismi, Fascismo e Democrazia Cristiana, Garzanti, Milano 1951. 63   M. Salvati, Un socialista “difficile”, in Ripensare il socialismo: la ricerca di Lelio Basso cit., p. 15.

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internazionalismo che ritiene l’esperienza sovietica «storicamente positiva e valida», ma respinge «la pretesa, lungamente sostenuta, che quella esperienza possa rappresentare la via esemplare verso il socialismo»64. Tra i primi a parlare di una «sinistra europea», continua a pensare che la rivoluzione si produrrà nei punti alti dello sviluppo capitalistico, cioè nelle società occidentali. Questa posizione fa di lui il solo autentico interlocutore della sinistra socialista italiana nell’intenso dibattito che nel socialismo europeo comincia a svilupparsi già negli anni ’50, imperniato sul rifiuto del binomio neo­capitalismo-socialdemocrazia e a cui «Problemi del socialismo», la rivista che fonda e dirige dal 1958, è subito molto attenta e aperta. È stato attribuito a Basso, non a torto, il «curioso destino di essere stato formatore di intelligenze e vocazioni militanti più di qualsiasi altro uomo del socialismo italiano, e di aver perduto quasi tutti coloro che aveva formato»65, i cosiddetti «bassiani». Ciò non toglie che intorno a lui gravitino, sul finire degli anni ’50, alcune delle energie più vive del Partito socialista. Sono spesso quadri di estrazione intellettuale, come Piero Ardenti, che diventerà direttore di «Mondo Nuovo»; o Franco e Lucia Zannino, tra i più assidui collaboratori di «Problemi del socialismo»; o brillanti quadri sindacali, tra i quali spiccano soprattutto Elio Giovannini, Antonio Lettieri e Pino Tagliazucchi. Dentro alla sinistra socialista in formazione, la primazia nell’originalità dell’elaborazione intellettuale è contesa ai bassiani da un’altra più composita galassia, che con qualche forzatura si può definire «operaista». Anch’essa non è omogenea, non ha anzi alcuna struttura di corrente né legami istituzionalizzati di qualche tipo al proprio interno. La accomunano però la centralità di alcune tematiche, in particolare quella della fabbrica e della ristrutturazione in atto nel sistema capitalistico. Queste ultime attraversano una parte consistente della componente socialista della Cgil, in cui si distinguono uomini come Gino Guerra (segretario nazionale della Federmezzadri), Luigi Nicosia (vicesegretario nazionale confederale), Vincenzo Ansanelli (dirigente della Lega delle cooperative), Silvano Andriani (dell’Ufficio studi economici) e, a livello locale,   L. Basso, Da Stalin a Krusciov, Edizioni Avanti!, Milano 1962, p. 37.   r.r. [Rossana Rossanda], Il socialista scomodo, in «il manifesto», 17 dicembre 1978. 64 65

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Gianni Alasia e Angelo Dina a Torino, Antonio Costa e Gastone Sclavi a Milano, Guido Biondi e Silvano Miniati a Firenze66. L’esponente più noto e anche più popolare nel partito è Vittorio Foa. Anche lui ha alle spalle uno straordinario curriculum antifascista, prima con l’attività clandestina condotta nelle file di Giustizia e libertà fino all’arresto, nel 1935, e poi, dopo otto anni di carcere, con la militanza nel Partito d’azione, del quale è stato uno dei più prestigiosi dirigenti nell’Italia del Nord. Durante la Resistenza è stato tra gli interpreti più originali dell’idea di una «rivoluzione democratica», con una carica di fiducia utopistica nella costruzione degli organismi di autogoverno delle masse, che i partiti possono promuovere e assecondare, ma di cui non sono «lo strumento esclusivo ed essenziale»67. La fine del Pd’A lo ha visto approdare al Psi da cui, dopo la breve parentesi della direzione centrista – alla quale è stato vicino –, si è in qualche modo autoesiliato nella Cgil, ricoprendo prima la carica di segretario della Fiom e poi quella di segretario a fianco di Di Vittorio e Santi. Foa ha partecipato intensamente al dibattito sul rinnovamento della politica della Cgil dopo la sconfitta del 1955 alle elezioni delle commissioni interne alla Fiat, distinguendosi come convinto assertore del «ritorno alla fabbrica». Foa si segnala anche, in quegli anni, come studioso e interprete del neocapitalismo, contestando la diagnosi, che pur da punti di vista diversi Nenni e Togliatti condividono, di un capitalismo italiano arretrato e incapace di vera crescita, ma smentendo al tempo stesso che questo possa piegare o «integrare» la conflittualità operaia nel sistema. Egli mostra di condividere con Basso l’idea «che i germi di rottura con l’ordinamento capitalistico si manifestino proprio nel cuore del capitalismo più avanzato»68; e arriverà ad affermare perentoriamente nell’estate del 1961, di fronte alla ripresa che si delinea delle lotte operaie, che «il problema della lotta per il potere si pone oggi»69.   Cfr. S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., pp. 11-12.   [C. Inverni] I partiti e le masse, in V. Foa, Lavori in corso 1943-1946, a cura di F. Montevecchi, Einaudi, Torino 1999, p. 88. V. anche la più recente raccolta V. Foa, Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947), a cura di C. Colombini e A. Ricciardi, Bollati Boringhieri, Torino 2010. 68   V. Foa, Meno tattica più socialismo, in «Mondo Nuovo», 20 novembre 1960. 69   V. Foa, Lotte operaie e democrazia socialista. Contributo a una discussione, in «Mondo Nuovo», 16 luglio 1961, che sarà riproposto con il titolo Lotte ope66 67

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Questa conclusione porta il percorso di Foa e della sinistra sindacale a incrociarsi con quello di un’altra componente, che può essere identificata con i nomi di Raniero Panzieri e di Lucio Libertini. Anche qui, in realtà, si tratta di personaggi con itinerari molto diversi alle spalle, e destinati già prima della scissione del 1964 a imboccare strade differenti. Panzieri, nato nel 1921, è certamente una delle figure più significative nel panorama intellettuale del marxismo italiano del dopoguerra70. Entrato nel Partito socialista nel 1944, si è guadagnato la stima di Morandi per la sua attività nell’Istituto di studi socialisti, e ha rinunciato alla prospettive della carriera universitaria (era assistente di Filosofia del diritto a Messina con Galvano della Volpe) per lavorare nei primi anni ’50 alla ricostruzione del partito in Sicilia, assumendo poi la responsabilità della Sezione centrale stampa e propaganda negli anni 1953-55. Condirettore di «Mondo Operaio» dal 1957 al 1959, ha cercato di rinnovare la cultura politica socialista restituendo al marxismo la «sua originaria ed essenziale funzione di metodo di analisi antidogmatico, critico, scientifico». Panzieri pensa che il dogmatismo imperante nell’analisi della ricostruzione capitalistica abbia precluso una lettura efficace delle nuove modalità di organizzazione del lavoro; e vede la radice della «via democratica» al socialismo «nell’essere l’azione di classe, all’interno stesso del sistema e delle strutture esistenti, portatrice di un nuovo ordine, nell’essere di fatto nella sua azione nuova classe dirigente»71. Libertini ha un anno meno di Panzieri e una pluralità di esperienze politiche alle spalle che già ne definiscono «la peculiare personalità di ‘nomade’ della sinistra italiana»72 che lo distinguerà raie nello sviluppo capitalistico nel primo numero dei «Quaderni Rossi», nati in quello stesso anno per iniziativa di Raniero Panzieri. 70   Di Panzieri sono stati pubblicati vari volumi di scritti: La ripresa del marxismo leninismo in Italia, a cura di D. Lanzardo, Sapere Edizioni, Milano 1972; L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944-1956, Einaudi, Torino 1982; Dopo Stalin. Una stagione della sinistra 1956-1959, a cura di S. Merli, Marsilio, Venezia 1986; Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni Rossi” 1959-1964, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1994. Di grande interesse anche i suoi carteggi con esponenti politici della sinistra di quegli anni: cfr. R. Panzieri, Lettere 19401964, a cura di S. Merli e L. Dotti, Marsilio, Venezia 1987. 71   Il dogmatismo ha ostacolato le lotte operaie, in Dopo Stalin cit., p. 10. 72   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 45. Per un profilo biograficopolitico si veda Lucio Libertini. 50 anni nella storia della sinistra, a cura di E.

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anche in seguito. Entrato in politica nel 1944-45 nella Democrazia del lavoro di Meuccio Ruini, aderisce nel 1946 al Psiup, nel quale si schiera nella corrente di Iniziativa socialista, caratterizzata da un antistalinismo di sinistra, europeista, e da vaghe suggestioni «terzaforziste»73. Aderisce così alla scissione di Saragat del 1947, ma deluso dal progressivo scivolamento del Psdi verso l’atlantismo e la subalternità alla Dc lascia il partito, fondando nel 1951 l’Unione socialista indipendente (Usi) con Valdo Magnani, che è stato espulso dal Pci con l’accusa di «filo-titoismo»74. Quando l’Usi nel 1957 confluisce nel Psi Libertini diventa subito uno dei principali esponenti della sinistra interna, e si lega in particolare a Panzieri, collaborando intensamente a «Mondo Operaio». Nel febbraio del 1958 i due pubblicano sul periodico del Psi le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, un documento che resta «un piccolo classico della cultura socialista di sinistra»75 e il cui nocciolo è che nella strategia del movimento operaio l’accento deve spostarsi dal terreno istituzionale e parlamentare alla fabbrica: «La forza reale del movimento di classe si misura dalla quota di potere e dalla capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione»76. Le tesi sono a lungo discusse su «Mondo Operaio» e l’accusa, soprattutto da parte del Pci, è quella di «intellettualismo astratto» e perfino di «anarco-sindacalismo». Ma anche le altre anime della sinistra socialista si mostrano abbastanza fredde77: e la stessa corrente di Vecchietti e Valori, che pure nella relazione al congresso di Napoli del 1959 non lesina riferimenti alla tematica delle tesi, finisce per far coincidere il controllo operaio con un più generico Santarelli, supplemento a «Liberazione» del 1° ottobre 1993; e G.M. Bravo, Lucio Libertini. La coerenza politica e ideale di un militante, in M. Quirico, L’Unione culturale di Torino. Antifascismo, utopia e avanguardie nella città-laboratorio (1945-2005), Donzelli, Roma 2010, pp. 129-142. 73   Sulla corrente di Iniziativa socialista cfr. F. Taddei, Il socialismo italiano del dopoguerra cit., pp. 202-207. 74   Sui rapporti con Magnani e sull’Usi si veda la testimonianza dello stesso Libertini: 1951-1957. Testimonianza sull’Usi, in Lucio Libertini cit., pp. 59-64. 75   A. Mangano, Il dibattito sui consigli e la “corrente Panzieri”, in «Il Ponte», novembre-dicembre 1989, p. 134. 76   Ibid. 77   P. Tagliazucchi, I “consigli” nascono da un’azione di classe più agguerrita, in «Mondo Operaio», 1958, n. 6-7, p. 35.

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«controllo dello Stato e delle strutture della società»78. Panzieri e Libertini difendono le loro tesi e le confermano, con qualche sfumatura79; peraltro il sodalizio politico-intellettuale fra i due, che è proseguito con la stesura delle Tredici tesi sulla questione del partito di classe80, sta ormai volgendo al termine. All’inizio del 1959, dopo la vittoria degli autonomisti al congresso di Napoli, Panzieri, come si è visto, perde la condirezione di «Mondo Operaio» e accentua la sua distanza dalla sinistra socialista e da Libertini stesso. «Si avviò così quel processo un po’ paradossale nel corso del quale Panzieri, ‘morandiano’ (sia pure sui generis) per storia e cultura, finì per uscire dal Psi e fondare un gruppo autonomo da ogni partito (e sarà l’esperienza dei ‘Quaderni Rossi’) e Libertini, politicamente nato e vissuto sempre in gruppi eterodossi e marginali, divenne sempre più ‘uomo di partito’, prima nella sinistra socialista e poi nel Psiup»81. 4. Il piano inclinato della scissione Tocca proprio a Lucio Libertini dirigere «Mondo Nuovo», il nuovo organo di stampa che la sinistra, ormai costituitasi a tutti gli effetti in corrente82, decide di darsi nell’estate del 1959, presentandolo come rivista politico-culturale. In realtà tutti sanno che le cose stanno diversamente: tra l’altro, il giornale è stampato, «con scarsissima avvedutezza»83, dalla stessa tipografia dell’«Unità», e questo alimenta i sospetti degli autonomisti sul «collateralismo» fra la sinistra e i comunisti84.

  T. Vecchietti, Alternativa democratica e socialista, ivi, 1958, n. 2, p. 2.   L. Libertini, R. Panzieri, Conclusioni al dibattito sul controllo operaio, ivi, 1958, n. 3. 80   L. Libertini, R. Panzieri, Tredici tesi sulla questione del partito di classe, ivi, 1956, n. 11-12. Questo testo fu poi ripreso da Libertini dieci anni dopo, per le sue Tesi sul partito di classe (cfr. infra, p. 121). 81   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 49. 82   Data dal settembre 1959 la costituzione di un archivio separato della corrente, che insieme a quello del Psiup è depositato presso la Fondazione Istituto Gramsci, buste 3900-3925. 83   V. Evangelisti, S. Sechi, L’autonomia socialista cit., p. 59. 84   Secondo i dati forniti da V. Riva, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al Pci dalla Rivoluzione d’ottobre al crollo dell’Urss, Mondadori, Milano 1999, 78 79

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Il periodico comincia ad uscire il 13 settembre 1959 e per la verità, soprattutto nel primo anno di vita, sembra abbastanza fedele all’impostazione che i suoi promotori hanno annunciato di volergli dare: un settimanale di attualità politica e culturale, con largo rilievo ad inchieste e corrispondenze dall’Italia, attente alle tensioni della società e alle lotte che generano, e con un notevole spazio per l’analisi della situazione internazionale. L’impostazione e la grafica sono assai simili a quelle dell’«Espresso» e abbastanza distanti da quelle sia di «Mondo Operaio» sia di «Rinascita» (allora ancora mensile): con molte fotografie, qualche disegno, un ampio spazio alle discussioni sulla cultura. Solo dopo qualche tempo il giornale assume più apertamente il carattere di portavoce della sinistra socialista. Proprio la lettura di «Mondo Nuovo», comunque, se condotta in parallelo con quella di «Mondo Operaio» e dell’«Avanti!» – tribune quasi esclusivamente a disposizione della componente autonomista – permette di vedere come fra le due correnti si stia scavando un solco sempre più profondo. Praticamente su ogni tema rilevante esiste una notevole differenziazione di giudizio. Per fare solo qualche esempio, all’indomani del congresso di Firenze della Dc, un editoriale non firmato di «Mondo Nuovo» afferma che hanno vinto «le forze più retrive della conservazione italiana, che arretrano inorridite anche di fronte ad ogni timido tentativo neocapitalista di fare concessioni marginali per salvare l’essenziale»85, mentre Gaetano Arfè su «Mondo Operaio» controbatte che «prendere atto che qualcosa si è mosso nella Democrazia cristiana, e prendere coscienza che si è formato in essa con una propria forza un nucleo consapevolmente autonomista e democratico è doveroso da parte di noi socialisti»86. Altrettanto distanti sono i giudizi di poco successivi sulle tesi congressuali del Pci, che Libertini giudica molto positivamente, mentre Giuseppe Tamburrano ne stigmatizza tutte le ambiguità e le incongruenze.

p. 304, i finanziamenti del Pcus destinati ai socialisti «ostili a Nenni» furono fra il 1957 e il 1963 di circa 1.400.000 dollari. Fino al 1956 dei finanziamenti aveva beneficiato il Psi nel suo complesso. Nel 1959 buona parte dei 65.000 dollari arrivati sono probabilmente destinati a «Mondo Nuovo». 85   La crisi continua, in «Mondo Nuovo», 1° novembre 1959. 86   Sul Congresso della Dc, in «Mondo Operaio», 10 ottobre 1959.

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Anche sulla politica estera emergono i contrasti: quando, il 1° maggio 1960, l’abbattimento dell’aereo spia americano U2 sugli Urali fornisce a Chruščëv l’occasione per far saltare il vertice di Parigi delle quattro potenze, dal comunicato della Direzione del Psi, che addossa anche all’Urss le responsabilità del fallimento, si dissociano ben 59 parlamentari socialisti (non tutti e non solo della sinistra, per la verità) e Vecchietti denuncia l’inaccettabile atteggiamento che consiste nel dare «un colpo alla botte sovietica e un colpo al cerchio americano»87. La situazione si è fatta già tesa dopo i Comitati centrali dell’autunno 1959, in cui Nenni ha mostrato di voler andare oltre i deliberati di Napoli, accelerando le tappe per arrivare a un’alleanza di governo con la Dc88. Ciò induce Basso e la sua corrente, fermissimi nel giudicare la Dc il perno di ogni equilibrio conservatore, a un definitivo ralliement con la corrente di Vecchietti89. Durante la lunga crisi ministeriale della primavera-estate del 1960, che culmina nelle manifestazioni di piazza represse sanguinosamente dal governo Tambroni, le due componenti del Psi manifestano punti di vista molto diversi. Nenni si convince definitivamente che bisogna andare rapidamente all’accordo Dc-Psi, che è diventato «l’unica stampella di una democrazia claudicante»90. Per Vecchietti, invece, «la difesa della libertà, della democrazia e dell’antifascismo, ancora una volta e in misura e intensità senza precedenti, ha avuto per attore principale [...] il movimento operaio, mentre al di sopra della barricata, o addirittura al di là della barricata, assieme ai protagonisti del complotto c’erano [...] i più accaniti avversari dei ‘totalitarismi’ di sinistra»91. Anche dopo la formazione del governo Fanfani, che si regge sull’astensione dei socialisti da un lato e dei monarchici dall’altro (le famose «convergenze parallele» teorizzate da Aldo Moro), la   Così in «Mondo Nuovo», 29 maggio 1960.   Cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del Psi cit., p. 262. 89   Il riavvicinamento è però accompagnato da tacite reciproche riserve: occorrerà attendere il 30 settembre 1962 per poter leggere per la prima volta su «Mondo Nuovo» un editoriale di Lelio Basso, I socialisti e il rovesciamento delle alleanze. 90   Cfr. G. Tamburrano, Pietro Nenni, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 297. 91   T. Vecchietti, Non c’è tregua senza una nuova politica, in «Mondo Nuovo», 24 luglio 1960. 87 88

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sinistra considera Fanfani «prigioniero di un governo nettamente conservatore e intimamente antisocialista e anticomunista», e individua «la sostanza del fascismo nel nostro Paese non [...] nel Msi o nei ricordi mussoliniani», ma «all’interno del partito di maggioranza, [...] nella politica del padronato nelle fabbriche, nello Stato, nelle sue strutture, nei suoi organi»92. Sono posizioni più intransigenti di quelle dei comunisti, che alla fine votano contro la fiducia a Fanfani, ma nella loro Direzione esprimono posizioni abbastanza differenziate. Si avvicina nel frattempo la scadenza del XXXIV Congresso del partito (Milano, 15-20 marzo 1961), in cui le tendenze presenti nel Psi si confrontano in modo più aperto che in precedenza. La corrente autonomista dichiara necessario garantire il sostegno a governi impegnati sulla via delle riforme, precisando le misure da adottare per una crescita economica equilibrata (espansione della spesa pubblica, investimenti programmati, politica salariale agganciata all’andamento della domanda e della produzione); le sinistre affidano allo sviluppo incessante delle lotte sociali l’imposizione di scelte economiche alternative, denunciano la priorità che il modello di sviluppo in atto accorda ai consumi non necessari e puntano su un suo rovesciamento che ponga al centro «istruzione, sicurezza sociale, abitazione, vestiario, alimenti, strumenti collettivi». Il congresso si conclude con una vittoria di misura della corrente autonomista, e questa volta la sinistra (che ottiene il 43% dei voti) entra a far parte della Direzione, anche se nessuno dei suoi esponenti ha incarichi organizzativi. Nenni procede ormai con maggiore sicurezza sulla sua strada: all’inizio del 1961 si formano giunte di centro-sinistra in una trentina di località importanti, fra cui Milano, Genova e Firenze, una scelta che «Mondo Nuovo» giudica non, come ha sostenuto Nenni, «una breccia nel muro della conservazione», ma in quello del movimento operaio93. Al tempo stesso la maggioranza autonomista intensifica le sue pressioni sulla Dc per indurla a una scelta netta. Nonostante tutto, il ritorno in Direzione della corrente di sinistra ormai unificata alleggerisce per qualche mese le tensioni interne.

  Altro che tregua!, ivi, 31 luglio 1960.   La breccia di Milano, non firmato, ivi, 29 gennaio 1961.

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La sinistra guarda con attenzione alle posizioni di Riccardo Lombardi, sia per il suo orientamento in politica estera, molto freddo verso il filo-atlantismo di Nenni, sia soprattutto per il suo programma di politica economica, considerato «una vera e propria alternativa alla politica della Dc e dei monopoli, una alternativa anticapitalistica»94. Ma nel gennaio del 1962, al suo congresso di Napoli, la Dc approva finalmente la svolta a sinistra95 e il 2 marzo Fanfani presenta alle Camere il programma di un governo DcPsdi-Pri che tiene ampiamente conto del programma economico socialista. Il giorno dopo il Comitato centrale del Psi decide, all’unanimità, di astenersi sulla fiducia al nuovo governo: la sinistra motiva la sua scelta con l’obiettivo di «sviluppare le contraddizioni della Dc, e creare condizioni più favorevoli per mettere il partito in grado di affrontare le lotte impegnative e risolutive che l’attendono»96. La decisione della minoranza socialista riflette, in parte, una reale apertura di credito: Valori invita a «vedere le carte» del nuovo governo Fanfani e a giudicarlo «sul contenuto della svolta non sulla formula»97. È, in fondo, lo stesso atteggiamento assunto dal Pci: Togliatti, che propone al suo partito un’«opposizione particolare», non preconcetta, al centro-sinistra, sulla base del fatto che esso comunque «costituisce un terreno di lotta nuovo e più avanzato per le forze del socialismo»98, riferisce alla Direzione del Pci di un incontro «con i compagni della sinistra socialista», da cui è emerso che «la migliore soluzione sarebbe l’astensione socialista e il nostro voto contrario». E Alicata è anche più esplicito: «Continuare a lavorare verso la sinistra socialista perché il Psi si astenga»99. È un orientamento in linea con l’atteggiamento che il Pci ha assunto nei confronti della sinistra del Psi dopo che questa si è costituita in corrente, nel quadro di rapporti improntati a sostanziale   La scelta del Psi, non firmato, ivi, 14 gennaio 1962.   A testimoniare l’entusiasmo in proposito della sinistra socialista, basta citare l’eloquente titolo di «Mondo Nuovo» dell’11 febbraio 1962: Sì alla svolta a sinistra, tre volte no al centro-sinistra. 96   Il Psi si asterrà, in «Avanti!», 4 marzo 1962. 97   ACS, CN, Serie Partito, busta 94, fasc. 2239, Direzione del 2 febbraio 1962. 98   In proposito v. A. Agosti, Palmiro Togliatti, Utet, Torino 1996, p. 527. 99   FIG, APC, Direzione del 22 febbraio 1962. 94 95

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unità di intenti, ma anche a qualche incomprensione. Rimane viva nel Pci una certa diffidenza verso una componente politica che si richiama anche a tradizioni di pensiero che il Pci ha rinunciato a bollare esplicitamente come eretiche, ma considera estranee e sospette; e alla diffidenza si somma una notevole supponenza nei confronti di una forza che non mostra di avere sempre la duttilità tattica necessaria, di cui i comunisti si ritengono maestri. Basta passare in rassegna i verbali delle Direzioni del Pci per averne conferma: all’indomani del congresso di Napoli, Pajetta parla di «posizioni della sinistra socialista non sempre opportune ed efficaci» e Alicata, più seccamente, di «posizioni settarie»100. Dell’estate caldissima del ’60 si è già detto: pochi mesi dopo, nel febbraio 1961, la Direzione del Pci dedica un’intera seduta ai «rapporti col Psi». Si cominciano a conoscere i risultati delle assemblee precongressuali, che vedono crescere la sinistra, e nel Pci la preoccupazione sembra quasi prevalere sulla soddisfazione. Per Bufalini una scissione del Psi sarebbe «una perdita per il movimento operaio e democratico» e «i compagni della sinistra socialista devono essere da noi persuasi a non scoraggiarsi e a lottare per l’unità del loro partito». Per Alicata la minoranza socialista va appoggiata, ma senza «escludere la polemica»: la sinistra «può andare avanti se si presenta con una sua linea e non come la 5a colonna del Pci». Il più disponibile – e realistico – sembra Macaluso, per il quale la sinistra del Psi è «l’unica corrente politica che ammette la politica di unità e di collaborazione con noi». Le sue parole sembrano trovare eco anche in Togliatti: «Bisogna avere un legame con la sinistra socialista, se ha dei difetti si deve aiutarla»101. Lo stesso Togliatti però, pochi giorni dopo la fine del congresso socialista di Milano, ammonisce: «L’autonomismo è qualcosa di reale. Combattere nel nostro partito la posizione che nel Psi non vi è niente da fare»102. Avendo fatto del rapporto unitario con i comunisti la bussola delle proprie scelte, la sinistra del Psi non può ignorare le posizioni e i desiderata del Pci. Certo, può anche cercare di autoconvincersi che la scelta dell’astensione sulla fiducia a Fanfani è una   Ivi, Direzione del 1° aprile 1959.   Ivi, Direzione del 1° febbraio 1961. 102   Ivi, Direzione del 7 aprile 1961. 100 101

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sua vittoria su Nenni, il quale in effetti avrebbe preferito un voto di fiducia, ma è poi ben lieto del risultato raggiunto103. Resta però una scelta compiuta obtorto collo e nulla può testimoniarlo meglio del lunghissimo titolo, di stile quasi cominformista, con cui il 25 febbraio 1962 «Mondo Nuovo» dà l’annuncio della scelta compiuta: I socialisti accettano la sfida della Democrazia Cristiana e del neo-capitalismo: la lotta unitaria del movimento operaio e democratico farà saltare gli equivoci del centro-sinistra e aprirà la strada a una effettiva svolta a sinistra. Il governo Dc-Psdi-Pri, basato sull’«astensione contrattata» del Psi, realizza nel corso del 1962 importanti riforme, dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica alla riforma della scuola: come ha osservato Paul Ginsborg, «ottenne più risultati Fanfani nei dodici mesi in cui capeggiò il primo governo di centro-sinistra che non i tre governi di Aldo Moro nei cinque anni successivi»104. Registra però anche dei significativi insuccessi, come l’elezione al Quirinale di Antonio Segni, che è votato da una maggioranza di centro-destra e personalmente ostile alla formula del centrosinistra105; o la bocciatura da parte dell’ala dorotea della Dc, nei primi mesi del 1963, della riforma urbanistica promossa dal democristiano Sullo. L’insabbiamento progressivo della spinta riformatrice del governo offre alla sinistra socialista l’occasione per riprendere la polemica contro l’aspetto che giudica più pericoloso del centro-sinistra, e cioè l’integrazione del movimento operaio nel sistema capitalistico. La questione non è solo dottrinaria e investe una divaricazione di analisi maturata anche nella cultura comunista, che si manifesta nel convegno Tendenze del capitalismo italiano promosso dall’Istituto Gramsci nel marzo del 1962. In quell’occasione, alla prospettiva che trova la sua espressione più chiara nella relazione e nelle conclusioni di Giorgio Amendola, e che insiste sulla ri-

103   Nei suoi diari annota il 17 febbraio «Miracolo in via del Corso! Mi attendevo una cagnara del diavolo» (P. Nenni, Gli anni del centrosinistra. Diari 1957-1966, Sugarco, Milano 1982, p. 211). 104   P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 19431988, Einaudi, Torino 1989, p. 382. 105   L’elezione di Segni è subito giudicata da «Mondo Nuovo» «un fatto politico di estrema gravità» (7 maggio 1962).

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strettezza dei margini di manovra economici e politici delle classi dirigenti e sulla sostanziale arretratezza del capitalismo italiano106, se ne contrappone una diversa, presente anche all’interno del Pci (come emerge per esempio dall’intervento di Lucio Magri) e fatta propria con vigore dagli esponenti della sinistra socialista che prendono la parola, Vittorio Foa e Lucio Libertini. Pensiamo che la lotta decisiva sia quella ai livelli relativamente più arretrati, – si chiede quest’ultimo – o crediamo invece che se puntiamo sulle contraddizioni più avanzate contribuiamo ad imprimere a tutto il sistema una dinamica accelerata che faciliterà la liquidazione delle contraddizioni più arretrate? Pensiamo che la nostra lotta debba essere divisa in due fasi cronologicamente distinte, nella prima delle quali si porti a soluzione il contrasto tra democrazia borghese e contenuto di classe della società, e che solo in un secondo momento vengano in primo piano gli obiettivi di lotta aperti verso il socialismo?107

Si tratta di interrogativi evidentemente retorici, le risposte ai quali sembrano alla sinistra socialista ricevere conferma dalle prime avvisaglie di ripresa di combattività operaia. Nel duro intervento repressivo delle forze dell’ordine in occasione degli scontri di piazza Statuto a Torino108, originati dalla protesta per l’accordo separato sottoscritto dalla Uil e dal sindacato filo-aziendale Sida, è di nuovo Foa che coglie un segnale preciso: dopo aver ricordato che «la Fiat è notoriamente ‘antifascista’ e favorevole al centro-sinistra», egli rileva polemicamente che quest’ultimo «può sopportare l’esproprio dei baroni elettrici e importanti redistribuzioni del reddito nazionale, ma non sembra tollerare un nuovo sciopero generale dei metallurgici che investa anche il cuore e il simbolo del capitale monopolistico»109. Tra la fine del 1962 e la prima metà del 1963 le tensioni interne al Psi riprendono a crescere, per raggiungere ben presto il livello di guardia: tanto che anche agli occhi degli osservatori più distaccati 106   Gli atti del convegno sono in Tendenze del capitalismo italiano, 2 voll., Editori Riuniti, Roma 1963. 107   Ivi, vol. I, pp. 354-355. 108   Per una valutazione di sintesi equilibrata, cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003, pp. 42-44. 109   V. Foa, La FIAT e il centro-sinistra, in «Mondo Nuovo», 22 luglio 1962.

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quello dei socialisti italiani è ormai diventato «a case study of factional conflict»110. Una spia eloquente del livello sempre più alto della tensione nel partito si ha scorrendo la documentazione delle federazioni e le lettere dei militanti. Già nel gennaio 1962, mentre si profila l’«astensione contrattata» verso il governo Fanfani, un giovane operaio, membro della segreteria provinciale della Fiom e del direttivo della federazione di Asti (che definiva «un grande ricovero per vecchi, però disabitato per liti di famiglia»), scrive: Dimenticata o meglio abbandonata la svolta a sinistra, si gira quasi a senso unico a destra! La neutralità tra i due blocchi diventa equidistanza; lo spostamento dell’asse politico nazionale un profondo baciamano con genuflessione penitenziale allo scudo Dc per essere stati marxisti, classisti, internazionalisti. [...] È così che si stancano i compagni, che alla fine si perdono: non è di oggi la sempre crescente difficoltà di tesseramento anche tra la sinistra. Penso che a questo punto il Psi abbia perso il suo mordente, snaturando la sua natura di partito classista, marxista, internazionalista. [...] Ecco quindi a chiedermi: cosa facciamo ancora nel Psi?111

Le elezioni del 28 aprile 1963 non premiano il centro-sinistra: la Dc registra un calo netto, con una perdita di voti a destra; il Psi si mantiene più o meno stabile, con una leggera flessione nel voto della Camera, un esito comunque inferiore alle aspettative. Il risultato di maggior rilievo è il successo imprevisto del Pci, che guadagna oltre un milione di voti. In pratica, «l’area del centrosinistra si era ristretta piuttosto che allargarsi»112. La sinistra del Psi ne approfitta subito per attaccare duramente la maggioranza autonomista: per Vecchietti «il centro-sinistra per quello che è e 110   R. Zariski, The Italian Socialist Party. A Case in Factional Conflict, in «American Political Science Review», 1962, n. 382, pp. 372-390. 111   FIG, APSIUP, 1962, busta 3918, Regioni, Piemonte. Con l’avvicinarsi delle elezioni politiche generali del 28 aprile 1963, primo banco di prova del consenso popolare del centro-sinistra, lettere di questo genere si fanno sempre più frequenti: per esempio Giulio Donzelli, di Certaldo, non nasconde la preoccupazione, il 5 maggio 1963, che «avanti di questo passo si va a finire nel porcile di Saragat» (ivi, busta 3924, Corrispondenza singoli). 112   N. Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, in Storia dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1995, vol. 2°, tomo II, p. 62.

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per quello che ha fatto è stato condannato», mentre Foa chiede che sia seppellito «tre metri sotto terra»113. Alle elezioni di aprile seguono le dimissioni di Fanfani e l’incarico a Moro, che conduce defatiganti trattative con Nenni per l’ingresso dei socialisti nel governo. Alla fine, dopo che il segretario del Psi ha messo molta acqua nel vino del proprio programma riformatore, l’accordo è raggiunto, ma viene clamorosamente sconfessato al Comitato centrale del 16-17 giugno (la famosa «notte di San Gregorio») dal gruppo di Riccardo Lombardi, che ritiene gli accordi Moro-Nenni troppo fragili e compromissori114. Così Moro rinuncia all’incarico e si forma un monocolore Dc di transizione guidato da Leone. I socialisti, compresa la sinistra, si astengono: sarà il congresso di ottobre a ridiscutere le condizioni del loro ingresso al governo. In teoria Nenni, come era stato a Venezia sette anni prima, ma in un tornante ora ben più delicato, si trova di nuovo in minoranza. Tuttavia fra i suoi oppositori non c’è accordo. La sinistra socialista ha dichiarato subito, con Valori, di non voler «cavare le castagne dal fuoco per conto della maggioranza»115, e di fatto ha rinunciato a sfruttare a suo vantaggio la divisione fra gli autonomisti. A posteriori Vittorio Foa lo giudicherà un grave errore116: ma la sinistra non poteva accettare alcun compromesso che non rimuovesse la clausola della delimitazione della maggioranza ai danni dei comunisti. Nenni e Lombardi, invece, pur mantenendo le loro divergenze, su questo si trovano d’accordo: la partecipazione socialista a un governo con la Dc ha dunque via libera, sulla base di un accordo programmatico i cui contenuti restano peraltro vaghi117. Così la sinistra si ritrova isolata, avviata ormai alla sconfitta congressuale e, in prospettiva, alla scissione.

  ACS, CN, Serie Partito, busta 95, fasc. 2245, Direzione dell’8-9 maggio 1963.   Solo molti anni dopo Giolitti dirà che la pregiudiziale di delimitare la maggioranza escludendone i comunisti «pesò decisamente, anche se mai citata, nelle valutazioni dei lombardiani»: citato in C. Pinto, Il riformismo impossibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze, realtà (1945-1964), Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 182. 115   ACS, CN, Serie Partito, busta 95, fasc. 2245, Direzione del 26 giugno 1963. 116   V. la testimonianza di Foa a M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 106. 117   G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Rizzoli, Milano 1990, pp. 248-250. 113

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5. Il XXXV Congresso socialista e la scissione Al XXXV Congresso, che si svolge a Roma, all’Eur, dal 25 al 29 ottobre 1963118, si confrontano ormai due posizioni molto lontane, né la mozione di Pertini – un ennesimo, accorato appello all’unità del partito, non privo di spunti polemici sulla collaborazione con la Dc e sul pericolo di «imborghesimento» del Partito socialista – ha alcuna chance reale di riavvicinarle. Per Nenni, «quello che il partito non può accettare» è che una politica giudicata necessaria, e in mancanza della quale si intravvede il ritorno offensivo della destra, non si faccia solo «perché il partito comunista non vi partecipa o non può parteciparvi»119. Lombardi, forse cercando ancora un dialogo con la sinistra, rifiuta ogni compromesso che porti il Psi a «cessare di essere socialista» e motiva il suo favore all’ingresso del Psi nel governo adducendo non i timori agitati da Nenni di un incombente pericolo reazionario, bensì la necessità di contrastare efficacemente lo spettro tanto spesso evocato dalla sinistra: «il neocapitalismo trionfante e senza contestatori validi in tempo utile»120. Vecchietti imposta il suo discorso non sul rifiuto a priori dell’ingresso del Psi nel governo, ma sulle conseguenze che esso avrebbe per la politica delle alleanze: una «contrapposizione del Psi al Pci in ogni campo», compresi il terreno sindacale e quello delle amministrazioni locali, che snaturerebbe il Psi come «partito di classe»121. Per tornare a dialogare con la maggioranza, il leader della sinistra pone «tre condizioni minime» al futuro governo di centro-sinistra: l’opposizione alla forza atomica multilaterale proposta dagli Usa e al riarmo atomico della Germania; il no a politiche deflattive che penalizzino i lavoratori; il rifiuto della «delimitazione della maggioranza»122. È quest’ultimo il vero nodo

118   Psi, 35° Congresso Nazionale, Roma, 25-29 ottobre 1963. Resoconto integrale, Edizioni Avanti!, Milano 1964. Sul congresso cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del Psi cit., pp. 319-322, e per un’analisi molto articolata delle diverse posizioni V. Evangelisti, S. Sechi, L’autonomia socialista cit., pp. 82-110. 119   Psi, 35° Congresso Nazionale cit., p. 64. 120   Ivi, pp. 270-294. 121   Ivi, p. 99. 122   Queste tre condizioni furono ribadite nella mozione congressuale di minoranza presentata dalla sinistra: ivi, pp. 592-596. Cfr. anche V. Foa, Tre condizioni per una politica, in «Mondo Nuovo», 10 novembre 1963.

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da sciogliere, e la componente autonomista non potrebbe farlo senza far saltare l’accordo con la Dc. La sinistra socialista ne è consapevole e la conclusione di Vecchietti fa capire che i margini di mediazione sono ormai praticamente esauriti («Se per sciagura la maggioranza respingesse queste condizioni [...] nessuno si illuda che piegheremmo la testa a quella che sarebbe una palese ed inequivocabile capitolazione senza ritorno»123). La replica finale di Basso, che cita addirittura Martin Lutero («noi non possiamo altrimenti»124), non fa che confermarlo: posta la questione sul terreno delle scelte di coscienza, è evidentemente difficile tornare indietro. Il congresso di Roma sancisce la vittoria della maggioranza autonomista, che supera il 57% dei voti, mente la sinistra si attesta un po’ al di sotto del 40%125. Il 5 dicembre 1963, dopo quasi un mese di trattative fra i quattro partiti destinati a comporre la maggioranza (Dc, Psi, Pri, Psdi), nasce il primo governo di «centro-sinistra organico», guidato da Moro, con Nenni vicepresidente del Consiglio e al suo fianco cinque altri ministri socialisti, fra i quali, in una posizione chiave, il lombardiano Giolitti al Bilancio. Il giorno dopo l’«Avanti!» esce con un titolo a nove colonne destinato a divenire celebre: Da oggi ognuno è più libero. Per «Mondo Nuovo» invece non c’è nulla da festeggiare: il centro-sinistra organico è un «regime»126 da combattere, e una iattura per i socialisti. La minoranza comincia a prepararsi all’eventualità di uscire dal partito. Già il 13 dicembre Vecchietti invia una circolare urgente «ai compagni della sinistra»127 sollecitandoli a «muovere» le federazioni (sia quelle in cui sono in maggioranza sia quelle in cui sono in minoranza) e a promuovere ordini del giorno contro la «capitolazione» del partito. In buona misura, questa iniziativa ca  Psi, 35° Congresso Nazionale cit., p. 137.   Ivi, p. 568. 125   Ivi, p. 584. Per i voti nelle singole federazioni, dato utile per verificare i punti di forza locali delle varie mozioni, cfr. pp. 736-741. 126   D. Valori, Il centrosinistra come regime, in «Mondo Nuovo», 1° dicembre 1963. 127   Questa circolare di Vecchietti si trova all’interno di un gruppo di documenti dell’Archivio Basso: cfr. FB, AB, Titolo XV, Attività politica, busta 56, Circolare di Vecchietti ai compagni della sinistra, 13 novembre 1963. 123 124

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valca umori diffusi alla base della sinistra socialista: basti leggere questo telegramma dalla provincia di Messina, assai indicativo per lo stile di un certo humus della base meridionale della corrente: Consiglio direttivo della Sezione di Capo d’Orlando [...] deplora crisi in cui viene buttato partito seconda volta in un quarantennio per caparbietà dei vertici tradendo aspettative base. Auspica superamento ogni divisione et convocazione congresso onde pigliare norma tattica Partito evitando scadente pronubo cedimento voleri neocapitalismo, continuando invece lotta tradizionale riscatto lavoratori nell’alveo dell’imbattibile socialismo128.

Ma una scelta definitiva non è stata ancora compiuta, e tra gli stessi militanti serpeggia l’incertezza, come bene emerge da una lettera di un compagno toscano a Lelio Basso: Io che sono un compagno autonomista vedo questo esperimento di governo come un salto nel buio. Però stiamo uniti maggioranza e minoranza, se entro il tempo regolare di un altro nostro congresso non avremo il resultato [sic] sperato di questo esperimento, voi di minoranza passerete maggioranza e tutto è fatto con serenità socialista129.

Anche a livelli diversi vi sono ancora esitazioni. Pare che il 19 novembre «i dirigenti delle organizzazioni di massa» socialisti cerchino di frenare quelli del partito nella corsa verso la scissione130. E anche questi ultimi sono consapevoli della gravità del passo. Lelio Basso, decisissimo (forse più di Vecchietti stesso) a negare la fiducia al governo Moro, non è altrettanto convinto della conseguenza ultima di questa scelta – l’uscita dal partito –, tanto che il 22 novembre scrive a Nenni una lettera evidentemente sofferta: sono nella situazione più angosciata che si possa immaginare con la sensazione che sta per spezzarsi tutto quello che ha costituito il senso della mia vita. Se non avessi un temperamento che mi porta facilmen128   FIG, APSIUP, 1963, busta 3924, Corrispondenza singoli, telegramma della sezione di Capo d’Orlando. 129   FB, AB, XXV, busta 19, fasc. 12/703. 130   FIG, APC, Direzione del 21 novembre 1963, intervento di Emilio Sereni.

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te alla lotta vorrei soltanto sparire. E penso anche a te, al peso che ti prendi sulle spalle, con trepida affettuosa amicizia131.

Lo stesso Vecchietti condivide probabilmente certi dubbi e certe angosce se, a stare agli appunti presi da Nenni nell’ultima riunione della direzione Psi prima della scissione, quella del 4 dicembre, alla conferma del voto contrario all’ingresso nel governo Moro fa seguire le parole «Che Dio ce la mandi buona»132. Alla definitiva scelta della scissione si arriva fra la fine di dicembre del 1963 e l’inizio di gennaio del 1964, attraverso una convulsa fase in cui si succedono assemblee, dibattiti parlamentari, appelli all’unità e alla disciplina da una parte, e alla coerenza dall’altra133. Dopo aver giocato ancora la carta della richiesta di un congresso straordinario del Psi134 – ovviamente respinta dagli autonomisti, che si fanno forti dell’esito di quello appena concluso – la sinistra socialista convoca il 15 dicembre 1963 un’assemblea al teatro Brancaccio, a Roma, in cui davanti a circa 4000 militanti dichiara pubblicamente che non voterà la fiducia al governo di centro-sinistra. Il giorno dopo, il neosegretario del Psi De Martino, subentrato a Nenni dopo il suo ingresso nel governo, dirama un appello «a tutti i compagni deputati» chiedendo la disciplina in sede di voto parlamentare e ammonendo che «eventuali trasgressioni di tali obblighi, comunque attuate, non potrebbero non ricadere sotto le previste sanzioni prescritte a tutela dell’unità e della compattezza del Partito»135.

  L. Basso, P. Nenni, Carteggio cit., p. 290.   ACS, CN, Serie Partito, busta 95, fasc. 2245, Direzione del 4 dicembre 1963. 133   Significativa una lettera del 28 dicembre 1963 di Alcide Malagugini a Tullio Vecchietti, che esprime molti sofferti dubbi: «Nessuno degli oratori ha parlato di scissione al Brancaccio, se non per dichiarare che noi non la vogliamo [...] La nostra base poi – persuaditene, persuadetevene – la nostra base, con la quale avete forse il torto di aver tenuto scarsi contatti, in notevole maggioranza è ostile a una rottura del partito; e non solo per motivi sentimentali, ma perché, ora almeno, non la capisce e non la spiega» (FIG, APSIUP, 1963, busta 3924, Corrispondenza). Malagugini però aderirà al Psiup. 134   La richiesta è avanzata nelle mozioni delle 32 federazioni controllate dalla sinistra (ibid.). 135   L’appello di De Martino è in FB, AB, XV, busta 56, Appello di De Martino a tutti i compagni deputati, 16 dicembre 1963. 131

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Il 17 dicembre, giorno del dibattito alla Camera sul nuovo governo, Lelio Basso pronuncia un discorso di notevole respiro, nel quale, a nome dei 25 deputati dissenzienti appartenenti alla sinistra Psi136, nega la fiducia al governo, anche se annuncia l’uscita dall’aula al momento dello scrutinio per evitare di votargli contro. Non si tratta, tiene a precisare, della «risposta massimalistica della rivoluzione che divampa improvvisa dall’animo delle masse eccitate ed inappagate, o quella d’una opposizione protestataria, negativa e inconcludente»: con la Dc è anche possibile realizzare «compromessi particolari» quando questi aiutino a «conquistare riforme necessarie senza farci pagare un prezzo esorbitante». Ma non si può «sacrificare l’autonomia del movimento operaio, [...] subordinarne le scelte politiche al disegno organico della classe dominante»: e questo è precisamente il significato del governo Moro137. Il 21 dicembre al Senato Fernando Schiavetti fa un’analoga dichiarazione a nome dei 13 senatori della sinistra socialista138, che escono anch’essi dall’aula al momento del voto. Nel frattempo, però, la parola sui casi di «indisciplina parlamentare» è già passata al collegio dei probiviri del Psi, al quale la sinistra rifiuta di presentarsi, sostenendo che la questione è politica e non disciplinare. La conseguente sospensione dei 25 deputati da ogni attività di partito per un anno è la conferma che la maggioranza autonomista non intende far nulla per evitare la scissione, e fornisce alla minoranza l’ultimo pretesto per compiere il passo definitivo.

136   Oltre a Lelio Basso, gli altri 24 erano: Maria Alessi, Walter Alini, Paolo Angelino, Giuseppe Avolio, Francesco Cacciatore, Domenico Ceravolo, Ivano Curti, Vittorio Foa, Pasquale Franco, Vincenzo Gatto, Guglielmo Ghislandi, Francesco Lami, Lucio Luzzatto, Alcide Malagugini, Alessandro Menchinelli, Rocco Minasi, Vittorio Naldini, Luigi Passoni, Ugo Perinelli, Renzo Pigni, Vito Raia, Carlo Sanna, Dario Valori e Tullio Vecchietti. Tutti e 25 si ritroveranno fra i membri fondatori del nuovo Psiup. 137   L. Basso, Discorsi parlamentari, a cura di S. Benvenuto e V. Strinati, Senato della Repubblica, Roma 1988, pp. 620-627. 138   I 13 senatori dissenzienti sono: Fernando Schiavetti, Adelio Albarello, Giuseppe Di Prisco, Emilio Lussu, Vincenzo Milillo, Pier Luigi Passoni, Giuseppe Roda, Angelo Tomassini, Sandro Bermani, Giovanni Bernardi, Giacomo Picchiotti, Aristide Sellitti, Ettore Tibaldi. Di questi, solo i primi 8 saranno membri fondatori del Psiup; Picchiotti e Tibaldi aderiranno al nuovo partito nel corso del 1964; gli altri tre resteranno nel Psi.

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D’altra parte, come si è visto, la decisione è ormai scontata, come conferma anche la testimonianza di un protagonista: L’assemblea del 15 dicembre al Brancaccio aveva di fatto aperto la campagna di reclutamento al nuovo partito. In ogni realtà la sinistra era in grande fermento: si compilavano gli elenchi di chi aderiva, si cercava di convincere i recalcitranti, si facevano sparire le attrezzature, le serrature delle sedi venivano cambiate e, là dove si era in minoranza, si preparavano occupazioni delle sedi o si studiavano cavilli legali per non venire estromessi da esse139.

Gli ultimi tentativi di scongiurare la rottura, all’interno e all’esterno del Psi, sono destinati a fallire. È vano – e probabilmente nemmeno troppo convinto – quello compiuto il 2 gennaio da otto dirigenti della sinistra (Basso, Foa, Gatto, Lami, Luzzatto, Valori, Vecchietti e Balzamo), che in una lettera a De Martino chiedono che siano revocati i provvedimenti disciplinari a carico dei parlamentari e invitano la maggioranza a convocare un congresso straordinario per «farne il congresso dell’unità del partito, ricercando una piattaforma che, senza rinnegare i noti obiettivi di fondo, garantisca un minimo di condizioni che salvaguardino dallo snaturamento il Partito e consentano la convivenza in esso di tutti i compagni»140. Altrettanto vano è il lavorìo del Pci, che la scissione non la vorrebbe e quasi fino all’ultimo non la giudica inevitabile141. Ancora tre settimane dopo il XXXV Congresso socialista Longo, che vi ha rappresentato il Pci, sembra convinto che Lombardi sia diventato «l’arbitro della situazione» e che la sinistra abbia «aumentato il suo prestigio e le sue possibilità di azione unitaria». Nella stessa occasione si ribadisce che occorre «fare ogni sforzo per impedire la scissione» (Amendola), che «uscendo dal Psi la sinistra di fatto rinuncerebbe alla battaglia» (Longo), addirittura che «la scissione significherebbe una rapida scomparsa della sinistra» (Sereni)142.

  S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 27.   FIG, APSIUP, 1963, busta 3924. 141   Cfr. G. Scroccu, Il partito al bivio. Il Psi dall’opposizione al governo (19531963), Carocci, Roma 2011, pp. 348-350. 142   FIG, APC, Direzione del 21 novembre 1963. 139 140

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Solo un mese dopo, quando i giochi sono quasi fatti, la posizione comunista diventa meno ostile alla scissione, ormai reputata inevitabile. La segreteria comunista del 23 dicembre incarica Berlinguer e Alicata di preparare un «documento interno», che sarà pronto il 27 dicembre con il titolo Sulla crisi del Partito socialista italiano. La responsabilità politica della scissione viene fatta ricadere «sulla corrente autonomista del Psi e soprattutto sulla sua corrente più oltranzista», e viene denunciata «la gravità del pesante provvedimento disciplinare che ha pregiudicato ulteriormente le residue possibilità di un componimento della lacerazione sul terreno politico»; tuttavia si sottolinea anche che «l’oltranzismo del gruppo nenniano e le incertezze del gruppo moderato sono stati favoriti dal fatto che la sinistra [...] ha finito per considerare che non fosse più evitabile la scissione e per muoversi con questa prospettiva». Il documento si conclude con l’enunciazione di tre obiettivi per il Pci, che – come avvertono i suoi stessi estensori – «inizialmente possono apparire contraddittori»: garantire nel movimento operaio italiano uno spazio «alle forze che hanno finora costituito la sinistra socialista»; favorire all’interno del Psi la formazione di una nuova sinistra «in funzione di ostacolare la fusione tra il Psi e Saragat»; impedire che la scissione «scavi un fossato polemico» fra Pci e Psi, e in particolare che possa compromettere l’unità «nei sindacati, nelle altre organizzazione di massa, nelle amministrazioni locali»143. Emergono comunque fino all’ultimo significative differenziazioni nel gruppo dirigente: da un lato c’è chi, come Amendola, giudica la scissione «un grosso guadagno della Dc e una grossa perdita nostra», invitando a restare «neutrali» nei confronti del nuovo partito, o, come Alicata, evoca a più riprese lo spettro del Psu francese, con il suo radicalismo intellettualistico; dall’altro chi, come Longo, ritiene che il Pci abbia «tutto da guadagnare se accanto a noi vi è nel movimento operaio un’altra forza di sinistra», o addirittura, nelle parole di Ingrao, «una sinistra il più forte possibile, altrimenti la destra non avrà più freni»144. Una settimana dopo Togliatti, pur facendo ancora trasparire le sue perplessità, sembra invitare a voltare pagina:

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  FIG, APC, Segreteria del 23 dicembre 1963.   FIG, APC, Direzione del 20 dicembre 1963.

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I compagni della sinistra non sono dei comunisti e non sono convinti che la scissione è una jattura. Noi eravamo di un’altra opinione ma quando la scissione è un fatto compiuto bisogna muoversi secondo le nuove condizioni145.

Ma ancora il 3 gennaio è lui in persona a tentare di scongiurare in extremis la frattura: in casa di Luciano Barca si svolge per sua iniziativa una riunione a cui partecipano per la sinistra del Psi Lussu, Vecchietti, Valori, Menchinelli e Libertini, per il Pci Togliatti, Longo, Amendola, Pajetta, Berlinguer, Alicata e Macaluso. La composizione della delegazione comunista tradisce l’importanza che il Pci attribuisce all’incontro: ogni tentativo di convincere gli interlocutori è però inutile146. Il lungo, contrastato e non necessariamente irreversibile processo che ha preso avvio nel 1959, se non addirittura prima, precipita così verso la sua conclusione.

145   FIG, APC, Direzione del 27 dicembre 1963. Nella stessa riunione è approvata la risoluzione Sulla crisi del partito socialista come «direttiva riservata». 146   L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci, 3 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, vol. I, pp. 327-329.

Capitolo secondo

Il difficile consolidamento del Psiup

1. Radiografia del nuovo partito Accolta con un certo scetticismo, la scissione del Psiup si rivela un fenomeno più consistente di quel che molti si aspettino. Il neo­ nato partito può contare, secondo «Mondo Nuovo», su 117.895 iscritti nel febbraio 19641, destinati a divenire 131.106 nel mese successivo2. Considerato che al momento del XXXV Congresso il Psi registrava, secondo i dati ufficiali, 484.813 iscritti, nel giro di un anno la scissione avrebbe portato via al vecchio partito una quota dei suoi effettivi compresa fra il 25 e il 30%3: dunque un risultato piuttosto consistente. Rispetto alla scissione che aveva spezzato in due il Psi nel 1947, l’emorragia di iscritti che questo subisce nel 1964 è all’incirca la stessa in termini percentuali, ma incide più della precedente tra i quadri intermedi piuttosto che sul vertice e, soprattutto, fa perdere al partito una parte molto più cospicua della sua base militante attiva, certo superiore in percentuale alla quota di iscritti che lo abbandona. Appare significativa l’impressione a caldo di Elio Giovannini, un dirigente sindacale vicino a Lelio Basso:

  «Mondo Nuovo», 16 febbraio 1964.   Ivi, 22 marzo 1964. 3   Si può ipotizzare che le cifre fornite dal Psiup siano almeno in parte gonfiate, ma è probabile che lo siano anche, sia pure in misura minore, quelle riguardanti il Psi all’epoca del XXXV Congresso. 1 2

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Il Psiup, malgrado i difetti di direzione noti, è cosa viva e vitale, assai al di là delle mie previsioni. Certo l’appoggio comunista aiuta molto, ma c’è l’effettivo spiegamento di nuove energie (giovani, operai, compagni che si erano allontanati) che fa camminare le cose4.

A fine gennaio, hanno aderito al nuovo partito, oltre ai 25 deputati e 8 senatori già ricordati, 34 ex membri del Comitato centrale del Psi, 73 sindaci, 11 eletti nelle cinque regioni a statuto speciale, oltre 2500 consiglieri comunali o provinciali, 32 ex segretari di federazione del Psi e 1118 membri dei direttivi provinciali del Partito socialista; inoltre, più di 700 sindacalisti, e tra questi un segretario generale della Cgil (Foa), un vicesegretario (Gino Guerra), 60 segretari di Camere del Lavoro provinciali e 12 segretari nazionali di categoria (circa un terzo del totale)5 e la maggioranza della Federazione giovanile6. Queste cifre sono solo parzialmente ridimensionate dalle risposte dei prefetti a un questionario del ministero dell’Interno, che peraltro fa riferimento a dati incompleti, riferiti a 51 città capoluogo di provincia7. Più interessanti, perché non citano solo numeri ma esprimono anche valutazioni, sono le impressioni riportate dai segretari regionali comunisti8. Il passaggio di una forte maggioranza dei quadri

4   FB, AB, XXV, busta 20, fasc. 2/93, Lettera di Elio Giovannini a Lelio Basso, 3 febbraio 1964. 5   Il Psiup è già una forte realtà in tutto il Paese, in «Mondo Nuovo», 26 gennaio 1964. Un documento interno della Cgil, riservato, attribuiva al Psiup circa metà dei vertici locali che prima appartenevano al Psi: si sottolinea anche l’assenza del Psi – dopo la scissione – dalla segreteria di ben 49 Camere del Lavoro: cit. in C. Pinto, Il riformismo possibile cit., p. 188. 6   «Mondo Nuovo», 16 febbraio 1964. La Fgs delibera a maggioranza (26 membri su 51 del Comitato centrale) l’uscita dal Psi e l’adesione al Psiup. Aderiscono al Psiup anche 57 federazioni provinciali su 93: FIG, APSIUP, 1964, busta 3944. In termini di iscritti, non è dato di riscontrare negli archivi dati precisi. Ricostituitasi alla fine del 1961, la Fgs dichiarava circa 42.000 iscritti. Non sembrano reperibili dati certi sul numero degli effettivi che aderiscono al Psiup: comunque pochi mesi dopo la scissione dal gruppo dirigente, ora capeggiato da Giuseppe Pupillo, viene indicato l’obiettivo di 30.000 iscritti, per cui si può supporre che la divisione avesse spaccato la Federazione giovanile in due metà quasi uguali. 7   La stima totale degli iscritti che viene fatta è di 120.000: ACS, Ministero degli Interni, Affari generali, Varie, 176/P/93. 8   Si tratta di un’informazione dei segretari regionali comunisti datata 25 gennaio 1964, FIG, APC, Direzione, Sezione partiti politici, MF 519, pp. 1107-

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sindacali dal Psi al Psiup viene registrato in buona parte delle regioni del paese, tra cui Piemonte, Lombardia, Marche, Lazio9. Più contraddittori i dati relativi agli eletti negli enti locali, mentre assai modesta è l’adesione al Psiup dei quadri delle cooperative. Nell’insieme comunque, come afferma il segretario dell’Emilia Cavina, «il Psiup si costituisce su basi di massa, con una adesione autentica, reale, non è un partito fittizio, è espressione reale di una volontà politica della base»10. È indubbio, d’altra parte, che non tutta la sinistra socialista trasmigra nel Psiup. Al congresso di Roma dell’ottobre 1963 i voti della corrente rappresentavano 190.492 iscritti e una percentuale del 39,29%11, una quota dunque in ogni caso nettamente superiore a quella degli aderenti al neonato Psiup nei primi mesi del 1964. Questo significa che la base della sinistra socialista resta divisa e incerta di fronte alla prospettiva di aderire al nuovo partito e che, come spesso accade nelle scissioni, una parte di essa si ritrae semplicemente dalla militanza politica. Peraltro, stando alle cifre sul tesseramento del 1964 fornite dalla Sezione organizzazione, il 13,4% degli iscritti al Psiup non proviene dal Psi: segnale possibile di una certa forza di attrazione esercitata dal nuovo soggetto politico su ambienti di recente politicizzazione oppure delusi dal Pci. A poche settimane dalla scissione Vecchietti parla comunque di «grande consenso» che il Psiup sta riscuotendo «sia fra i compagni già iscritti al Psi, che fra i lavoratori che non hanno la tessera di alcun partito»12. Notevole, nell’adesione al Psiup, è la compattezza della leadership della corrente, sia pure con alcune eccezioni. Tra queste la più inattesa è probabilmente la mancata adesione di Vincenzo Balza-

1127, Informazione dei segretari regionali Pci sulle ripercussioni della fondazione del Psiup. 9   Il documento del ministero dell’Interno stima che il rapporto di forza tra le varie correnti in seno alla Cgil fosse di 60% per il Pci, 25% per il Psi e 15% per il Psiup. Sono molte però le Camere del Lavoro (tra cui sono citate con certezza Bologna, Cagliari, Lecce e Torino) in cui la maggioranza dei dirigenti socialisti alla Cgil ha aderito al Psiup. 10   FIG, APC, Direzione, Sezione partiti politici, MF 519 cit. 11   Psi, 35° Congresso Nazionale cit., p. 584. 12   FIG, APSIUP, 1964, busta 3927, Circolare della segreteria a tutte le federazioni.

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mo, segretario della Federazione giovanile, che è stato sin dall’inizio un esponente di punta della sinistra e ancora il 2 gennaio ha firmato la già citata lettera dei suoi dirigenti a De Martino. La scelta di Balzamo rispecchia quella di un numero limitato ma non insignificante di quadri della sinistra che costituiscono una corrente interna al Psi, poi confluita nel gruppo di Lombardi quando questi nel 1965 passerà all’opposizione13. Non rappresenta invece una sorpresa, anche se si tratta di «un’assenza scontata ma pesante»14, la mancata adesione di una delle personalità più forti della sinistra socialista, Raniero Panzieri. Questi in realtà, uscito dal partito già nel 1961, ha mostrato di considerare una scissione del Psi «un’operazione organizzativo-burocratica»15 di scarso respiro, tanto più che non ha molta stima della sinistra, che giudica subalterna ai comunisti. Quando però la scissione effettivamente ha luogo, Panzieri la ritiene un’occasione che merita un «intervento positivo, che tenda – contro le forme mistificate in cui il gruppo dirigente interpreta le spinte di base – a enucleare un contenuto politico serio»16. Personalmente non sembra che prenda mai in considerazione la possibilità di aderire al nuovo partito17, ma molti militanti dei «Quaderni Rossi» e molti quadri affascinati dalla sua lezione lo fanno e vi restano per anni, anche in ruoli importanti: tra questi Renato Lattes, Pino Ferraris e Franco Ramella in Piemonte, Luciano Della Mea a Pisa, Gastone Sclavi a Milano. La nascita del Psiup è, in conclusione, «un processo nel quale si saldarono l’iniziativa decisa di un gruppo di quadri e un elemento di massa, originariamente meno visibile ma ben presente soprattutto in alcune zone del paese»18: la scissione si presenta

  Cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del Psi cit., pp. 332-333.   Cfr. S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 31. 15   Panzieri a Rita Di Leo (23 settembre 1961), in R. Panzieri, Lettere cit., p. 327. 16   Panzieri a Paolo Padovani (15 gennaio 1964), ivi, pp. 392-393. 17   Nella sua prefazione alle Lettere di Panzieri, Stefano Merli riporta una testimonianza di Libertini, secondo la quale «pochi giorni prima di morire», nell’ottobre del 1964, Panzieri «si pose il problema di una sua adesione al Psiup». Questa ipotesi è però smentita, tra gli altri, da Giuseppina Saija, vedova del fondatore dei «Quaderni Rossi», e da Pino Ferraris, in una dettagliata testimonianza scritta a M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 68. 18   Ivi, p. 41. 13 14

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infatti «a macchia di leopardo», con incidenza ben diversa nelle zone in cui la sinistra socialista è minoritaria e in quelle dove invece è forza di maggioranza (all’epoca del XXXV Congresso, su 102 federazioni del Psi 38 erano sotto il suo controllo) e lo sviluppo organizzativo del nuovo partito risentirà per tutta la durata della sua vita di questa condizione di partenza. Secondo un bilancio apparso all’inizio del 1965 (dunque a un anno dalla scissione) le adesioni totali al partito hanno ormai raggiunto la quota di 152.609: 51.465 iscritti (pari al 33,7%) si registrano al Nord, 40.395 (il 26,4%) al Centro, 60.749 (il 39,8%) fra Sud e isole19: dunque il Mezzogiorno fa registrare una prevalenza che non ha riscontro nel Pci e nemmeno nel Psi, dove pure la tendenza alla meridionalizzazione del partito è in atto da anni20. Grosse difficoltà, almeno iniziali, registra lo sviluppo del Psiup nelle grandi città: il punto più dolente è rappresentato da Genova (con soli 335 iscritti), ma anche Milano e Bologna al Nord e Bari e Palermo al Sud non brillano. Perfino a Torino, dove la sinistra controlla da anni la Federazione e ha ottenuto al XXXV Congresso un successo schiacciante (con 3500 voti, pari al 66,4%)21, gli iscritti alla fine del 1964 restano pochi, superando a stento i 1200. Migliore, ma non di molto (in rapporto ovviamente alla rispettiva popolazione della provincia), è la situazione a Venezia, Firenze e Napoli. Più vivace e articolata appare la presenza del Psiup nelle realtà provinciali. Qui ci sono alcune federazioni del Nord notevolmente consistenti, come quelle di Alessandria (che con i suoi 1199 iscritti eguaglia quella di Torino) o di Brescia (che con i suoi 3626 supera largamente quella di Milano); ma anche nel Veneto «bianco» federazioni come quelle di Padova, di Verona e di Treviso denunciano più di 1000 iscritti, e nell’Emilia Romagna, dove la presenza comunista già dagli anni ’50 ha largamente soppiantato   «Mondo Nuovo», 10 gennaio 1965.   Nel 1963 il Pci conta nel Sud e nelle isole solo il 20,8% dei suoi iscritti (53,6% al Nord, 25% al Centro; cfr. Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione 1921-1979, Feltrinelli, Milano 1982, p. 488), mentre il Psi ne conta il 35,7% (42,1% al Nord, 20,8% al Centro): cfr. F. Cazzola, Il partito come organizzazione. Studio di un caso, Edizioni del Tritone, Roma 1970, p. 29. 21   FIG, APSIUP, 1963, busta 3921, Materiale precongressuale, Voti della corrente di sinistra. 19 20

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quella socialista, vi sono federazioni come quelle di Ravenna, di Modena e di Reggio che superano largamente i 2000 aderenti. Nell’Italia centrale, in Toscana la federazione di Massa e Carrara ha più iscritti (ben 2070) di quelle di Firenze e Pisa messe insieme, nelle Marche Ascoli e Pesaro superano ciascuna i 1700 iscritti, battendo nettamente Ancona, mentre in Umbria Perugia da sola ne conta quasi 2700. Nel Sud Salerno con i suoi 2500 iscritti si avvicina molto alla federazione di Napoli e nelle isole Messina e Catania contano insieme quattro volte più iscritti di Palermo. Ma il primato in fatto di tessere, alla fine del 1964, spetta in modo abbastanza imprevedibile a Cagliari, che denuncia ben 4300 iscritti22. Proprio quest’ultimo caso è la spia di come la forza del Psiup nelle realtà locali sia legata spesso al prestigio e alla popolarità di singole personalità (nel caso specifico Lussu, come pure Cacciatore a Salerno, ma anche Valori a Perugia). Ma sarebbe sbagliato stabilire un’equazione fra il numero dei tesserati e la reale vitalità del partito: federazioni che avranno un peso notevole nella sua breve storia, come quelle di Torino, di Biella o di Pisa, evidentemente non si curano troppo degli obiettivi del tesseramento, e forse anche sono più oneste nelle stime reali. Ovviamente, questa variegata presenza del Psiup sul territorio si riflette nella composizione della base sociale del partito, che è la seguente23: Operai Contadini Braccianti Casalinghe Pensionati

35,1% 18,3% 16% 7,1% 5,7%

Artigiani Impiegati Studenti Professionisti Altre categorie

5,1% 2,8% 2,6% 1,7% 5%

Sono dati che legittimano la definizione che il Psiup dà di sé stesso come «partito operaio» (anche se una discreta percentuale di coloro che figurano nelle statistiche come «operai» è in realtà   FIG, APSIUP, 1964, busta 3927, Tesseramento per Regione e federazione.   «Mondo Nuovo», 10 gennaio 1965.

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costituita da funzionari sindacali). Contrariamente a un’immagine che è abbastanza penetrata nel senso comune, il Psiup non può dirsi invece un «partito di intellettuali»: una definizione che vale al massimo per il gruppo dirigente, non per il corpo del partito. Ad essere sottorappresentata è proprio la componente del ceto medio urbano, della borghesia impiegatizia e delle libere professioni (mentre è abbastanza consistente la presenza di artigiani), e ciò è da collegarsi con le difficoltà nello sviluppo del Psiup nelle grandi città. Molto forte, al punto da eguagliare praticamente quella operaia, è la componente contadina e bracciantile che, seppure in leggero declino, si manterrà sempre centrale nel partito, a dispetto del calo dell’importanza dell’agricoltura in Italia a partire dagli anni ’60. Decisamente limitata, invece, la presenza femminile, soprattutto nei quadri dirigenti di tutti i livelli, dai direttivi di sezione fino al Comitato centrale. Se si esaminano i dati disponibili per i direttivi delle federazioni, i cui membri variano da 25 a 51, si constata che le donne sono al massimo tre nei direttivi più ampi (come, per esempio, a Torino, Bologna, Pisa), raggiungendo la punta massima a Milano (6 su 51). Numerose sono le federazioni nei cui direttivi non c’è nemmeno una presenza femminile (Ascoli Piceno, Orvieto, Brindisi, Taranto, Agrigento, ma anche Trento)24. Per tutta la durata dell’esistenza del Psiup, l’unica donna presente negli organismi di vertice (ma solo nel Comitato centrale e non in Direzione) sarà Marisa Passigli, membro della Presidenza nazionale dell’Udi. In generale, le donne del Psiup rivestiranno al massimo cariche importanti a livello sindacale (come Carla Calcatelli, segretaria della Federazione dei tessili della Cgil in Piemonte) o nei cosiddetti «organismi unitari di massa». La composizione sociale influisce indubbiamente sulla cultura politica del Psiup: c’è in tutta la storia del socialismo italiano (specie nel Meridione) un evidente legame fra determinati strati sociali «plebei» (braccianti, ma in parte anche artigiani) e una visione «massimalista» della realtà sociale, fondata sulla percezione di un irriducibile contrasto fra le classi e sulla sfiducia nella riformabilità del sistema, unita a una speranza quasi millenaristica di riscatto. Ma la situazione è molto diversa da caso a caso, e non

  FIG, APSIUP, 1965, busta 3948, Regioni.

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necessariamente riflette la fisionomia sociale del territorio. Nel Direttivo della federazione di Pisa eletto il 12 dicembre 1965 (51 membri) sono presenti ben 20 operai e 6 studenti, oltre a 4 insegnanti, di cui uno universitario; in quello di Siena eletto alla stessa data (27 membri) vi sono ben 8 impiegati e un geometra, e per trovare un operaio chimico bisogna arrivare ai membri candidati: sorprendentemente, non c’è nessuna figura che sia espressione del mondo contadino o mezzadrile. A Foggia invece su 30 membri 5 sono braccianti agricoli; a Cagliari ci sono ben 9 insegnanti e 4 studenti universitari. Una costante è la presenza abbastanza numerosa di funzionari del partito, del sindacato, degli organismi di massa e in minor misura di amministratori comunali25. Sono pressoché inesistenti dati analitici che riguardino le classi d’età degli iscritti: in una sezione della federazione di Alessandria, i cui 124 iscritti sono quasi tutti censiti per sesso, età e professione (gli uomini sono 94 e le donne 30), circa la metà di coloro di cui è fornita la data di nascita hanno già compiuto i 50 anni, e ben 21 sono nati nell’Ottocento, mentre solo 14 hanno meno di 30 anni26: del resto anche la statistica nazionale dà mediamente una percentuale di giovani (cioè con meno di 25 anni) del 12,9% sul totale degli iscritti. Anche senza voler esagerare l’importanza di dati molto settoriali, non si ha l’impressione che almeno alla nascita il Psiup sia un partito «giovane», anzi. La prima verifica reale della propria influenza il Psiup l’affronta nelle elezioni amministrative del 22 novembre 196427: si vota infatti in circa il 70% del territorio nazionale e in tutte le principali città (escluse Roma e Genova). Il partito si presenta in 1325 comuni superiori ai 5000 abitanti (in 1140 con liste di partito e in 185 con propri candidati in liste unitarie di sinistra). In generale, si può dire che il profilo che sceglie di presentare agli elettori è quello della «fedeltà al socialismo»28. I risultati sono   Ibid.   FIG, APSIUP, 1964, busta 3931, Regioni. 27   In realtà ci sono state prima, il 10 maggio, le elezioni regionali del Friuli, in cui il Psiup ha conquistato un seggio con 19.886 voti, pari al 2,6%. Non si tratta di un risultato entusiasmante, anche perché non compensa interamente la perdita subita dal Psi (–2,9%). 28   Si veda, per esempio, questo singolare manifestino elettorale della federazione di Reggio Calabria, consistente in una poesia su Pietro Nenni: «Quanta 25 26

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abbastanza confortanti: 737.079 voti, pari a una percentuale del 2,9%, che rappresenta all’incirca un quarto dei voti ottenuti dal Psi, riflettendo fedelmente le cifre della scissione. Punte significative sono toccate nelle provinciali (tra il 4 e il 5% dei voti, in un paio di casi oltre il 6%29), mentre nelle comunali supera di rado la soglia del 2%30. Il partito cerca di valorizzare molto questa sua prima prova elettorale: il responsabile dell’organizzazione, Menchinelli, esalta l’azione dei militanti che «nonostante difficoltà d’ogni genere [...], senza mezzi, circondati spesso dalla congiura del silenzio, hanno duramente lavorato per dare al Partito un volto nazionale, una presenza il più possibile estesa, una forza che già oggi corrisponde al milione di voti»31. È in effetti la cifra che si ottiene proiettando il dato delle amministrative su tutto il territorio nazionale, e che mostra come il Psiup sia una forza politica piccola ma non insignificante, capace comunque di esercitare una forza di attrazione non trascurabile sull’elettorato socialista. 2. La struttura, l’organizzazione, i finanziamenti Come è strutturata questa forza? La piramide organizzativa del neonato Psiup vede al vertice il segretario Tullio Vecchietti e un ristretto Ufficio di segreteria di tre persone (lo stesso Vecchietti, Dario Valori e Vincenzo Gatto), affiancati da una Direzione provvisoria di 19 membri e da un Consiglio nazionale che ha il compito tristezza se si volge indietro: / dopo che tanto urlò con i tiranni, / contro i borghesi: giunto ai settant’anni, / non ce l’ha fatta più, povero Pietro. / Con i Taviani, coi Saragat ed i Moro / eccellenza anche lui, povero Nenni, / lui che rappresentò per due ventenni / l’Italia della pace e del lavoro. / Ma non s’affligga nella sua vecchiaia, / sappia che il socialismo non è morto, / che agli antichi ideali oggi è risorto / per un’Italia laica ed operaia [...]» (FIG, APSIUP, 1964, busta 3942, Regioni). 29   Questi i dati migliori del Psiup nelle provinciali: Reggio Calabria 6,7%, Teramo 6,1%, Avellino 5,3%, Cagliari 5,1%, Nuoro 4,9%, Ravenna 4,5%, Brescia 4,4%, Terni 4,3%, Alessandria 4,1%: cfr. «Mondo Nuovo», 29 novembre 1964. 30   Alle elezioni comunali, nelle città più importanti, il Psiup ottiene i seguenti risultati: Venezia 3,6%, Palermo 2,3%, Milano 2,1%, Torino 2%, Bologna 1,9%, Firenze 1,8%, Napoli 1,6% (ibid.). 31   FIG, APSIUP, 1964, busta 3927, Circolari degli organismi di direzione, Lettera di Menchinelli alle federazioni, 16 dicembre 1964.

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di elaborare e attuare la politica del partito fino al I Congresso, previsto per la fine del 1965. Per capire la distribuzione del potere nel Partito socialista italiano di unità proletaria può essere utile il concetto di «coalizione dominante»32, termine che, in sintesi, indica la sommatoria delle élites dirigenti (interne ed esterne, nazionali e locali) di una forza politica. Nel caso del Psiup essa s’identifica chiaramente con il gruppo dirigente «storico» della corrente della sinistra (Vecchietti, Valori, Gatto, Francesco Lami nel ruolo molto importante di tesoriere del partito), a cui si affianca una serie di dirigenti locali (spesso, ma non sempre, segretari di federazione), come Adamo Vecchi a Bologna, Roberto Maffioletti a Roma, Domenico Ceravolo in Veneto, Lino Motta in Sicilia, nonché, in una posizione più defilata, un gruppo importante di sindacalisti, che costituiscono non meno dei funzionari di partito l’ossatura dell’organizzazione locale. Si tratta di un amalgama non particolarmente coeso, ma resistente ad ogni tentativo di penetrarlo e influenzarlo dall’esterno. La vecchia corrente bassiana ne è ben consapevole: lo è soprattutto Basso, che ha addotto ragioni di salute, certamente fondate, per tenersi in disparte dopo l’Eur, ma che ancora alla vigilia del I Congresso, nell’autunno del 1965, scriverà «ai compagni della Direzione del Psiup» spiegando perché ha ritenuto fino a quel momento «scarsamente produttivo un mio maggiore impegno»: Ho avuto da tempo l’impressione che si sia creata in una parte del partito – in modo particolare nel gruppo dirigente – l’idea di una continuità rigorosa fra il vecchio gruppo cosiddetto morandiano, la sinistra socialista e il Psiup, fenomeno facile a spiegarsi e direi addirittura naturale, ma difficile da accettare da chi non appartiene a questa linea [...] il risultato [è] che i vecchi quadri della sinistra si considerano come i depositari del partito, mentre gli elementi di altre provenienze si sentono spesso degli ospiti che possono partecipare a riunioni di organi collegiali, ma difficilmente partecipare all’esercizio del potere reale33.

32   Il concetto, opportunamente ripreso e utilizzato da M. Condò, Per una storia del Psiup cit., pp. 193-195, è illustrato da A. Panebianco, Modelli di partito. Organizzazione e potere nei partiti politici, il Mulino, Bologna 1982, pp. 85-89. 33   FB, AB, XV, busta 14, fasc. 68, Lettera non datata.

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In mancanza di correnti o fazioni organizzate (almeno fino al 1971), le dialettiche interne al Psiup assumeranno così spesso la forma di contrasti fra «vertice» e «base» o fra «vecchi» e «giovani», contribuendo a una sorta di circolo vizioso in cui il ricambio nella coalizione dominante resta difficile e al tempo stesso la sua solidità strutturale non si cementa mai fino in fondo. La riunione della Direzione del 23-24 gennaio assegna i primi incarichi di lavoro suddividendo in varie sezioni l’organo direttivo (secondo il classico modello socialista e comunista): Alessandro Menchinelli diventa responsabile della Sezione organizzazione, Lucio Libertini della Sezione economica, Francesco Lami della Sezione amministrazione e Pasquale Franco della Sezione scuola34. Più tardi si definiscono altre responsabilità, come quelle di Pino Tagliazucchi all’Ufficio relazioni internazionali, di Lucio Luzzatto alla Sezione enti locali, di Giulio Scarrone alla Sezione stampa e propaganda e di Vincenzo Ansanelli alla Sezione lavoro di massa. Quest’ultima, in particolare, ha un ruolo di decisiva importanza: tradizionalmente, nei partiti operai italiani, è l’organismo che sovraintende ai rapporti con le organizzazioni sindacali e «dà la linea» alle loro correnti organizzate nella Cgil35. Già nei primi mesi di vita del partito si è costituita una federazione del Psiup più o meno in tutte le province italiane (e comunque sempre laddove ne esisteva una del Psi), per un totale di 101 sedi, comprese due federazioni estere che organizzano gli emigrati italiani, l’una in Francia e l’altra in Belgio. Le sezioni e i nuclei (territoriali o aziendali) sono più di 3000, i funzionari a 34   «Mondo Nuovo», 2 febbraio 1964. Pasquale Franco riceve un «incarico di lavoro» pur non facendo parte della Direzione. 35   Al convegno dell’Eur Luigi Nicosia e Vittorio Foa hanno insistito sulla necessità di non estendere meccanicamente la scissione alla corrente sindacale socialista, tentando invece di mantenerla unita «fintantoché non si pretenda di modificare la linea di autonomia della Cgil e di subordinare la Cgil alla politica dei governi». In particolare, Foa ha sostenuto che il Psiup non dovrebbe avere una sezione che controlli in qualche modo l’attività del sindacato perché questa deve essere totalmente libera e autonoma. Ma già alla fine di gennaio i dieci membri psiuppini del Comitato esecutivo della Cgil annunciano la formazione della corrente «Autonomia ed unità sindacale», sottolineando peraltro «la nostra volontà di non far coincidere la corrente con l’appartenenza al Psiup e di continuare ad adoperarci per il superamento delle correnti» (FIG, APSIUP, 1964, busta 3927, Organizzazione).

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tempo pieno del partito circa 500: si tratta dunque di un’organizzazione «pesante» e costosa. La sede nazionale del partito è nel pieno centro di Roma, in via della Vite: vi lavorano circa 30 funzionari permanenti. Nella sua seconda riunione (27-28 aprile) il Consiglio nazionale approva un Regolamento organizzativo del Partito, una sorta di statuto provvisorio da considerarsi valido fino al I Congresso36. Il testo, diviso in 19 articoli, rispecchia il modello dello statuto del Psi più che quello del Pci. L’organizzazione del Psiup sul luogo di lavoro mantiene la denominazione di Nucleo aziendale, come nel Psi, e costituisce (insieme al Nucleo territoriale) un’articolazione dell’istanza di base, la Sezione (la quale nei fatti, salvi rari casi, finisce per svuotare di compiti e di significato i Nuclei, soprattutto territoriali); ai livelli via via superiori si trovano il comitato comunale, la federazione a livello provinciale, il comitato regionale, il consiglio nazionale, la Direzione e la segreteria ristretta con a capo il segretario del partito, indicato come colui che «rappresenta politicamente e legalmente il Partito». Come spesso accade negli statuti dei partiti animati dalla volontà di garantire agli iscritti la massima partecipazione37, molte norme saranno applicate in maniera piuttosto elastica, o del tutto disattese: ad esempio il Consiglio nazionale, la cui convocazione è prevista ogni due mesi, si riunirà con frequenza molto minore, anche quando si trasformerà in Comitato centrale. Tuttavia la definizione del rapporto fra i singoli iscritti e il partito in generale è improntata a una concezione della democrazia interna non solo rituale:

36   Il testo di questo Regolamento, da cui sono tratte le citazioni, è pubblicato in «Rassegna socialista», 10 maggio 1964. 37   Il tema viene ripreso più volte dalla stampa di partito: «Deve essere innanzitutto compresa nella consapevolezza di ogni gruppo dirigente l’importanza della continua e paziente ricerca di tutte quelle forme che esaltano il dibattito, la funzione democratica delle istituzioni interne, per investire sempre la base di responsabilità diretta, tanto nel momento delle elaborazioni e delle scelte politiche, quanto nell’esame dei risultati che quelle scelte hanno portato. [...] Dobbiamo considerare che lo stimolo della vita democratica del partito, inteso come partecipazione dei militanti, diventa un elemento decisivo ed una condizione per andare avanti» (Avviamo un discorso sulla democrazia di Partito, in «Rassegna socialista», 20 dicembre 1964).

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Nel Psiup la partecipazione degli iscritti alla elaborazione e alla attuazione della linea politica, al rafforzamento e alla estensione della organizzazione in tutte le località e i luoghi di lavoro, alla elezione degli organi dirigenti e al controllo democratico del loro operato, a tutte le manifestazioni della vita del Partito, sono i presupposti che regolano i rapporti dei singoli col Partito.

Per quanto riguarda le sanzioni disciplinari, ne è sì previsto un minuzioso elenco a seconda della gravità (deplorazione, rimozione da ogni incarico, sospensione da uno a sei mesi, espulsione), ma si aggiunge che «l’espulsione è provvedimento al quale si fa ricorso in casi eccezionali» e che comunque «la difesa dell’unità del partito, con l’esclusione di qualsiasi attività frazionistica, più che alle norme disciplinari, è affidata al consapevole pieno esercizio dei diritti di partecipazione dei singoli iscritti a tutte le attività di partito», dunque a una sorta di autodisciplina. Si tratta nel complesso di uno statuto abbastanza garantista; e a dire il vero nei primi anni di vita del Psiup praticamente non ci sono casi eclatanti di misure disciplinari contro singoli iscritti o gruppi di militanti. Il Psiup si dota di un articolato apparato di stampa e propaganda (a cui sovraintende una sezione di lavoro). Dopo la scissione, «Mondo Nuovo» assume la denominazione di «Settimanale del Partito socialista italiano di unità proletaria», e a dirigerlo al posto di Libertini (impegnato negli organi dirigenti centrali del partito) è chiamato dapprima Franco Galasso, del quale però, per le ragioni che presto vedremo, già nel numero del 31 maggio 1964 è annunciata la sostituzione, «decisa dalla direzione del partito», con Piero Ardenti. Pochi mesi dopo la scissione inizia le pubblicazioni un secondo periodico nazionale del Psiup, «Rassegna socialista», diretto da Giulio Scarrone e pubblicato con periodicità irregolare, che si presenta come «bollettino dei dirigenti degli attivisti e degli iscritti del Psiup», con il compito di «rendere partecipi i compagni delle motivazioni che hanno reso necessari gli atti della Direzione»38. Fa parte della stampa del partito a livello nazionale anche un foglio quotidiano, «L’Agenzia socialista»: definito «agenzia quotidiana di informazioni politiche-parlamentari-sindacali del Psiup», riporta le principali iniziative prese dal partito   Perché Rassegna socialista, ivi, 10 marzo 1964.

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a livello nazionale. Agli organi di stampa nazionali si aggiunge poi una miriade di fogli locali, curati dalle federazioni provinciali o da singoli gruppi di attivisti: «diffusi con tiratura e periodicità irregolare (spesso non andavano oltre il ‘numero zero’), gravati da cronica mancanza di fondi, erano a metà fra il giornale e il volantino ciclostilato; tuttavia, erano presenti in tutta Italia (con prevalenza nel Nord) e rappresentavano il principale elemento nel legame del Psiup col territorio»39. Di questi alcuni costituiscono una palestra di giornalismo politico per militanti operai. Con lo sviluppo dei movimenti, negli anni a cavallo del 1968, il numero delle testate locali del partito (o a esso vicine) aumenterà notevolmente, e molte avranno il carattere di veri e propri «fogli di lotta» legati a specifiche realtà studentesche oppure operaie e sindacali. Un’organizzazione così articolata richiede evidentemente finanziamenti adeguati. Una parte non insignificante di questi è certo assicurata dal tesseramento e dalle periodiche sottoscrizioni dei militanti. Il costo della tessera oscilla per il 1964 fra le 1000 e le 1500 lire, suddivisibili in bollini da 100 o 200 lire40. Ogni anno si sviluppa un’intensa campagna di sottoscrizione per la stampa, con cartelle di sottoscrizione che variano fra le 200 e le 1500 lire41. Tuttavia questo pur generoso sforzo non è certo sufficiente. L’inchiesta citata del ministero degli Interni e i rapporti dei prefetti fanno riferimento sporadicamente a un aiuto finanziario del Pci, che peraltro sembra risolversi il più delle volte nell’agevolazione dell’uso di sedi. Ma la nascita del Psiup è fin dall’inizio accompagnata da voci di finanziamenti occulti di origine «borghese», provenienti in particolare da grossi gruppi economici, come l’Eni, o da privati ostili al centro-sinistra, come la Edison, che mirano a indebolire il Psi alla vigilia del suo ingresso al governo. Anche uno studioso serio come Giorgio Galli, quasi vent’anni dopo, darà credito a questa ipotesi: È importante rilevare – scrive nel 1983 – che vi fu pieno accordo tra i capi della Dc, quelli dei servizi segreti e alcuni rappresentanti della

  Così M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 145.   FIG, APSIUP, 1964, busta 3928, Tesseramento. 41   A titolo di esempio, nel 1967 la campagna di sottoscrizione per la stampa frutta quasi 36 milioni di lire: FIG, APSIUP, 1966, busta 3968, Propaganda. 39 40

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borghesia di Stato, come Cefis, nel contribuire alla spaccatura del Psi come parte integrante del consolidamento dell’egemonia democristiana nel centro-sinistra. L’accettazione di un concorso dell’Urss, che non poteva essere ignorato, alle spese; e quindi l’offrire a Mosca col Psiup un punto di riferimento nella penisola più condizionato del Pci, è semmai un’ulteriore prova di come la storia dell’Italia sotterranea sia fatta anche di convergenze che vanno al di là degli schieramenti politici ufficiali42.

Galli non cita però alcuna documentazione che suffraghi questa ipotesi43. Indubbiamente, negli anni precedenti la scissione, Enrico Mattei ha intrattenuto rapporti anche con la sinistra del Psi, come con le più diverse forze dello schieramento politico italiano, ma Mattei è morto da più di un anno e anche se il suo successore, Cefis, non ha cessato la pratica dei finanziamenti a pioggia, essi non sembrano beneficiare il Psiup. Quello che conta però è che in tutte le scelte che il Psiup fa sul terreno della politica economica, o sul terreno dei conflitti sindacali, non si può intravvedere il benché minimo condizionamento esercitato dagli interessi di «poteri forti», siano essi pubblici o privati. Risulta invece ben documentato dagli archivi di Mosca che fin dal 1957 la corrente di sinistra del Psi riceve soldi dall’Urss, la quale cerca di ostacolare la svolta autonomista attuata da Nenni dopo il 195644. I finanziamenti sono stornati da un particolare «Fondo sindacale internazionale di assistenza alle organizzazioni operaie di sinistra» istituito presso la Sezione esteri del Pcus (anche se la sua sede formale è il più «neutro» Consiglio dei sindacati della

42   G. Galli, L’Italia sotterranea. Storia, politica e scandali, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 93. 43   È significativo che i rapporti dei prefetti dalle province non menzionino mai assolutamente per gli anni 1964-67 finanziamenti di questa natura: ACS, Ministero degli Interni, Gabinetto, fondo 175/P, buste 14 e 15: esiste qualche riferimento ad aiuti materiali del Pci in singole realtà locali, e si riportano occasionalmente voci di finanziamenti dall’estero, in particolare dalla Cina e dalla Romania. 44   Per il solo 1957 sono documentati almeno otto incontri fra Vecchietti e l’ambasciatore sovietico a Roma (V. Riva, Oro da Mosca cit., p. 297, e in generale pp. 669-682). Dal ben documentato articolo di C. Martinetti, basato anch’esso sulla consultazione degli archivi del Pcus, Psiup alla corte di Mosca, in «La Stampa», 3 febbraio 1994, risultano un incontro di Vecchietti e Lizzadri con Suslov e Ponomarëv nel maggio 1959 a Mosca, e uno di Basso con Suslov in Crimea nel luglio del 1961.

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Romania) e, per quanto riguarda l’Italia, sono consegnati tramite il Pci. Le sovvenzioni alla sinistra socialista negli anni 1957-63 ammontano a oltre un milione di dollari, più di 700 milioni di lire al cambio dell’epoca45. Per la verità agli inizi il Partito comunista sovietico è, al pari di quello italiano, decisamente contrario alla scissione dell’ala sinistra del Psi46. Ancora l’8 gennaio 1964 (pochissimi giorni prima dell’assemblea dell’Eur) Suslov esorta Lucio Luzzatto a «cercare di non far cadere qualsiasi possibilità, anche la più remota, per mantenere l’unità del partito», in quanto «la scissione del Psi recherà un grave danno al movimento operaio italiano»47: una forte opposizione interna nel Psi è ritenuta preferibile a un partito di sinistra indipendente, inevitabilmente più piccolo. E tuttavia anche i sovietici, come il Pci, non appena si rendono conto che è escluso un passo indietro della sinistra socialista, scelgono di appoggiarla: il giorno dopo l’invito di Suslov a Luzzatto si decide di stanziare 240mila dollari per il Psiup dal bilancio del citato Fondo sindacale internazionale e di «assegnare al Kgb il compito di consegnare la somma attraverso il Pci»48. I documenti reperiti negli archivi sovietici da Valerio Riva (mancano tra l’altro dati precisi sugli anni 1964, 1967 e 1968) parlano di complessivi 4.320.000 dollari (pari a circa 2 miliardi e mezzo di lire dell’epoca) erogati al Psiup nell’arco degli otto anni della sua esistenza49: l’ultimo finanziamento, di 900mila dollari, si riferisce alla campagna elettorale del 197250. Secondo i calcoli di Silvano Miniati, il Pcus fa arrivare a via della Vite nel solo 1964 (anno di fondazione

  Si veda la tabella-consuntivo in V. Riva, Oro da Mosca cit., p. 304.   Cfr. U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centrosinistra, il Mulino, Bologna 1998, p. 239, che cita il documento inviato il 16 dicembre 1963 dall’ambasciata Usa a Roma al Dipartimento di Stato, in cui si dice chiaramente: «Anche il Pci e addirittura il Pcus sembrano essere contrari alla scissione (ciò è emerso da un incontro tenuto a Mosca la settimana scorsa)». 47   C. Martinetti, Psiup alla corte di Mosca cit. Piena conferma nello stesso senso viene dagli appunti manoscritti che Longo allega al suo schema di rapporto alla Direzione dopo il suo viaggio a Mosca (FIG, APC, Direzione del 26 febbraio 1964): a Luzzatto Suslov avrebbe detto «Decidete voi. Voi conoscete la situazione voi siete responsabili», aggiungendo poi, a beneficio di Longo: «Pensiamo che non avevano [sic] preso posizioni avventuriste». 48   C. Martinetti, Psiup alla corte di Mosca cit. 49   V. Riva, Oro da Mosca cit., p. 304. 50   Ivi, p. 722. 45 46

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del partito) quasi 2 miliardi di lire, cifra enormemente superiore ai 150 milioni circa che il partito ha ricavato dall’autofinanziamento51. Commenta lo stesso Miniati: «Il Psiup nacque come scelta autonoma della sinistra socialista. Solo che il nuovo partito aveva un tale bisogno di aiuti finanziari da buttarsi quasi automaticamente fra le braccia di chi questi aiuti forniva: l’Urss e i paesi satelliti»52. Ovviamente, questa cronica mancanza di fondi è resa più acuta dalla scelta di costituire un partito in tutto e per tutto simile ai modelli del Psi e del Pci, quindi con sezioni, nuclei e federazioni anche dove la sua forza è scarsa, e con una presenza abnorme di funzionari retribuiti, anche se con stipendi bassissimi e irregolari e spesso senza contributi assistenziali e previdenziali: ciò da un lato produce «un raro esempio di gigantismo organizzativo» e dall’altro porta a «un partito fondato sui debiti»53. Per i comunisti sovietici aiutare finanziariamente il Psiup è una scelta che ha forse anche lo scopo di esercitare una certa pressione sullo stesso Pci, il quale proprio in quegli anni accenna a muoversi secondo direttrici più autonome da Mosca. Bisogna però, al tempo stesso, evitare di indebolire seriamente il Pci (il che sarebbe controproducente) lasciando troppo spazio a un partito in cui convivono anime molto diverse e irrequiete. Così i finanziamenti sovietici permettono al Psiup di sopravvivere, ma non lo libereranno mai da uno stato di affannosa precarietà economica. Sono un rubinetto che funziona a intermittenza e può chiudersi in qualsiasi momento, se la politica del partito diventasse scomoda. È difficile non convenire con Miniati quando afferma: «Fatta salva la buona fede credo che chi decise di costruire un partito la cui vita era assicurata dal contributo del Pcus abbia sottovalutato la particolarità della situazione»54. E d’altra parte, secondo lo stesso Miniati, negli organi dirigenti del Psiup non si discute mai di questioni finanziarie55, che sono delegate sempre al segretario

  Cfr. S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., pp. 55-68.   “Mosca ci mandò i rubli. E noi...”. Miniati parla del Psiup, in «Panorama», 1° febbraio 1982. 53   V. Riva, Oro da Mosca cit., pp. 301-302. 54   S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 56. 55   Ivi, pp. 59-61. Miniati però non appartenne alla prima Direzione del partito, e nemmeno a quella eletta dal I Congresso nel 1965. 51 52

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Vecchietti o al tesoriere Lami, uomini giudicati degni di assoluta fiducia da parte di Mosca. 3. La collocazione internazionale Stando così le cose, è perfino sorprendente il tipo di rapporti internazionali che il Psiup comincia a tessere appena dopo la sua fondazione, e anche la natura, se non delle sue prese di posizione ufficiali, dell’analisi della situazione mondiale che filtra dalla sua stampa e dai suoi dibattiti. Se se ne tiene conto, appare fuorviante definire il Psiup come «partito sovietico in Italia» o addirittura come il «partito del Kgb»56. Sarà solo dopo l’invasione militare della Cecoslovacchia, nell’estate del 1968, che il Pcus, per così dire, «chiederà il conto» alla dirigenza Vecchietti per i cospicui finanziamenti ricevuti, e sfrutterà l’ambigua posizione del Psiup per premere sul Pci, che ha condannato ben più nettamente l’intervento sovietico. Negli anni precedenti la realtà sembra molto più complessa. Certo, le visite di delegazioni psiuppine in Urss e nei paesi dell’Est continuano pressoché ininterrottamente per tutti gli anni della vita del partito, e i «partiti comunisti fratelli» al potere nell’Europa orientale hanno sempre un posto d’onore fra gli ospiti dei congressi del Psiup. Ma nella percezione del militante medio del partito contano altrettanto, e qualche volta di più, sentimenti diversi. La responsabilità dell’Ufficio relazioni internazionali viene affidata a Pino Tagliazucchi, una singolare figura di intellettuale e sindacalista, membro dell’Ufficio internazionale della Cgil, che da una giovanile milizia anarchica è passato attraverso il laboratorio intellettuale dell’Olivetti degli anni ’50, per imporsi poi come una delle intelligenze più lucide della corrente bassiana57. Appena costituito il Psiup, Tagliazucchi si preoccupa di redigere, ad uso dei partiti del «movimento operaio internazionale», un memoriale che ripercorre le vicende che hanno portato alla scissione e illustra il programma del partito. In un promemoria per la segreteria del settembre 1964 sottolinea poi la necessità

  V. Riva, Oro da Mosca cit., p. 298.   Su Tagliazucchi si veda il ricordo di P. Ferraris in «Le Monde Diplomatique», edizione italiana, ottobre 2005. 56 57

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di «un giro di ricognizioni e di contatti internazionali che permetta di accertare la consistenza e le intenzioni di alcuni gruppi della sinistra socialista». Si tratta di «accertare quali iniziative politiche sia possibile prendere in comune», allo scopo di «battersi contro la linea politica generale delle Direzioni socialdemocratiche, e [...] perciò sollecitare tutte le espressioni politiche che si oppongono a questa linea», senza però «rompere con le masse socialdemocratiche, né proporre la formazione di partiti socialisti di sinistra». Quanto ai movimenti di liberazione del «mondo sottosviluppato», Tagliazucchi avverte che si può esserne considerati interlocutori validi soltanto se si evita di apparirne, in Europa, gli «altoparlanti», e si riesce invece a fare un «discorso europeo avanzato e rivoluzionario». E nei confronti dei paesi socialisti non si può «riprendere un atteggiamento fideistico, proprio di altri tempi e di altre condizioni storiche e politiche»: bisogna sforzarsi «di individuare e definire una nostra funzione autonoma, come contributo a una strategia che conosce sempre meno situazioni monolitiche di blocco»58. All’interno di questo orientamento generale, i rapporti con il Psu francese sono probabilmente i più fitti59, ma non mancano scambi di informazioni regolari con la sinistra laburista inglese, con il Movimento de Açção Revolucionária in Portogallo e, in Germania, con la Sds60. I nomi dei corrispondenti di Tagliazucchi nell’Europa occidentale sono molto significativi (da Pierre Naville a Perry Anderson, da Göran Therborn a Wolfganf Abendroth a Ernest Mandel) e sono quanto di più lontano si possa immaginare da una grigia ortodossia filo-sovietica, spaziando dalla sinistra   FIG, APSIUP, 1964, busta 3928. L’anno dopo, a conclusione del viaggio a Londra e Parigi, il responsabile dell’Ufficio internazionale del Psiup ribadirà la duplice necessità di contatti con «una sinistra ufficiale, tradizionale», di cui bisognava aver presenti i limiti «senza sperare di poterli superare», e con «una sinistra potenziale, che si sta formando lentamente e faticosamente e che punta al rinnovamento delle forze socialiste» (ivi, busta 3956, Rapporto sulla visita a Londra e a Parigi, 3-19 maggio 1965). 59   Cfr. D.A. Gordon, ‘A Mediterranean New Left’? Comparing and Contrasting the French Psu and the Italian Psiup, in «Contemporary European History», 2010, n. 19, pp. 309-330. 60   Si veda per esempio la relazione di Giorgio Migliardi Sul Congresso del Sds e del Sozialistischen Bund (ottobre-novembre-1965), in FIG, APSIUP, 1965, busta 3959. 58

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cattolica a correnti apertamente trotskiste. In concreto questa rete non produce molto di più di un fitto scambio di corrispondenza e qualche partecipazione a convegni o congressi, ma se ne ha una ricaduta importante su «Mondo Nuovo», che fin dal 1964 pubblica con regolarità corrispondenze dalla Francia di Jean Vincent, dall’Inghilterra di Tom Nairn e dalla Germania di Heinz Abosch61. Un altro sintomo di un atteggiamento non piattamente filosovietico del nuovo partito si manifesta a poche settimane dalla sua nascita. Il 19 aprile 1964 il settimanale del Psiup pubblica una singolare Lettera aperta ai compagni cinesi firmata collettivamente «Mondo Nuovo», il che lascia pensare che si tratti di un’iniziativa della redazione, e del direttore Franco Galasso in particolare: tuttavia è strano che essa passi senza l’avallo dei vertici. Occorre ricordare che si è in quel periodo in una fase molto delicata del contrasto fra Mosca e Pechino. Contrasto in cui si è inserito il Pci, che non ha nascosto la sua opposizione alla convocazione di una conferenza internazionale dei partiti comunisti dalla quale esca una condanna senza appello del Pcc non meno che del «revisionismo jugoslavo»62. Si direbbe quasi che, intervenendo nella discussione, il Psiup tenga a sottolineare il suo ruolo di forza politica autonoma della sinistra «non riformista», legittimata a trattare i temi del movimento operaio internazionale come membro a pieno titolo della sua comunità. E lo fa con qualche sfumatura di differenza rispetto al Pci: la più significativa sta nella presa di distanza, pur nella ribadita adesione al principio della coesistenza pacifica, da «un generico pacifismo» e nel rifiuto «di considerare la coesistenza un accordo mondiale per lo status quo, realizzato da alcune superpotenze sulla testa dei popoli»63. Certo, la lettera esprime anche diverse critiche al Pcc: in particolare, di fronte alla rivalutazione di Stalin, esalta il socialismo come «piena espansione della democrazia», respingendo «centralizzazione del potere e abusi polizieschi» e condannando ogni «elogio del dogmatismo»; e si sorprende all’idea che i cinesi esaminino «con tranquillità» le prospettive dell’umanità dopo una guerra nucleare. Non risulta   FIG, APSIUP, 1965, busta 3964, Corrispondenza.   V. in particolare M. Galeazzi, Togliatti e Tito. Tra identità nazionale e internazionalismo, Carocci, Roma 2005, p. 239. 63   Lettera aperta ai compagni cinesi, in «Mondo Nuovo» cit. 61 62

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che da Pechino vi sia alcuna risposta ufficiale. Ma l’iniziativa presa da «Mondo Nuovo» resta significativa, e rispecchia sentimenti piuttosto diffusi alla base, dove le simpatie filo-cinesi non sono rare64. Basti citare l’ordine del giorno della «sezione Nuova Internazionale del Psiup, riunita in assemblea a Parigi il 1° luglio 1964», che, «osservando che l’obiettivo reale dell’imperialismo americano è quello di colpire il Vietnam del Nord e la Cina comunista», si pronuncia «per la difesa incondizionata delle conquiste rivoluzionarie di questi due paesi», e stigmatizza le dichiarazioni del viceministro degli esteri Zorin, il quale ha dissociato la responsabilità dell’Urss da quella della Cina. «Non è la prima volta – dichiara il documento – che il governo sovietico si fa complice della repressione dei movimenti rivoluzionari, prendendo come pretesto al tempo di Stalin di volta in volta l’unità antifascista o la difesa dell’ortodossia, oggi la coesistenza pacifica con l’imperialismo americano». Posizioni simili destano la preoccupazione dei vertici del partito: Alessandro Menchinelli, responsabile dell’organizzazione, scrive subito a Lelio Basso, invitandolo a un «contatto con quei compagni, che possa un poco calmarli almeno per quanto riguarda la forma opportuna per far conoscere il proprio pensiero»65. Nell’insieme, però, all’atto della sua nascita il Psiup non giustifica affatto l’etichetta di partito filo-cinese che, soprattutto in seguito, gli è affibbiata66. La definizione è fuorviante per quanto riguarda i vertici. La dirigenza del Psiup è certo più filo-sovietica che filocinese, e anche l’originale operaismo di Foa e il marxismo critico di Basso sono lontanissimi dal maoismo. Quanto a Libertini, è

64   V. per esempio le lettere di Menotti Mortara da Imperia e Paolo Golias da Milano a «Mondo Nuovo», 3 maggio 1964. Emergono però anche posizioni più problematiche: considerando la questione delle «vie al socialismo», Carlo Pisacane di Roma afferma: «la via europea è quella legale, la via dei popoli sottosviluppati è – purtroppo – quella rivoluzionaria. Certo, meglio vivere servi che morire liberi: ma è sicuro che non si possa vivere liberi? [...] Le rivoluzioni non si esportano» (ivi, 10 maggio 1964). 65   FB, AB, XXV, busta 20, fasc. 7/278, Lettera di Alessandro Menchinelli a Lelio Basso, 10 luglio 1964. La mozione della sezione parigina è allegata alla lettera. 66   Per esempio da Enzo Forcella, I cinesi di Via della Vite, in «L’Espresso», 2 gennaio 1966.

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stato proprio lui a rifiutare con più energia l’etichetta al convegno di fondazione del partito all’Eur: Nasce forse il partito cinese in Italia? La Rivoluzione socialista cinese è uno dei più grandi avvenimenti della storia moderna; il partito comunista cinese è certamente una cosa seria, molto più seria di Nenni e di Saragat sommati tre volte. [...] Essere cinesi in Cina è una cosa molto seria; essere cinesi in Italia è una cosa poco seria che lasciamo alle persone poco serie67.

Le simpatie filo-cinesi di una parte della base continueranno però a creare qualche problema interno, tra l’altro per la dipendenza finanziaria dall’Urss. Il direttore di «Mondo Nuovo» Franco Galasso, distintosi per le sue simpatie se non filo-cinesi almeno terzomondiste, è sostituito appena tre mesi dopo la sua nomina da Piero Ardenti, uomo della corrente bassiana meno esposto in quella direzione: se non è il primo segno della «normalizzazione burocratica»68 all’interno del Psiup, è l’indicazione chiara che le pulsioni più radicali che vengono dalla base devono essere tenute sotto controllo69. D’altra parte, l’atteggiamento del Psiup nei confronti dell’Urss e dei suoi paesi satelliti resta circondato da ampi margini di ambiguità: lo si vede bene, in ottobre, in occasione dell’improvvisa destituzione di Chruščëv e della sua sostituzione con il duo Brežnev-Kosygin. Certo, «Mondo Nuovo» giudica «sorprendente e preoccupante» la liquidazione dell’autore del rapporto segreto, a cui riconosce il merito di avere «legato per sempre il suo nome a una vigorosa spallata contro il muro del dogmatismo staliniano», e lamenta che sia avvenuta senza «nessun dibattito politico preventivo, nessuna chiara contrapposizione di tesi»70.

  «Mondo Nuovo», 19 gennaio 1964.   Vedi S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., pp. 39-40; ma anche F. Livorsi, Tra carrismo e contestazione. Per una storia del Psiup, in «Il Ponte», novembredicembre 1989, pp. 207-208. 69   «Mondo Nuovo» continua però per tutto l’anno a pubblicare una gran numero di articoli, in particolare sull’America Latina, che guardano alla linea della lotta armata almeno con altrettanta simpatia che a quella «frontista» incoraggiata dall’Urss. 70   Krusciov se ne va – i problemi restano, in «Mondo Nuovo», 25 ottobre 67 68

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Ma la maggiore preoccupazione rimane quella di rintuzzare i peana alla democrazia elevati nell’occasione dalla «stampa borghese» e di ricordare che «la vera scelta non è tra gli aspetti peggiori del dogmatismo staliniano e la democrazia borghese, ma tra il capitalismo e la democrazia socialista»71. Che questa faccia difetto nell’Unione Sovietica, resta una verità non detta. La questione della collocazione internazionale rimane per il Psiup un nodo delicato, il cui mancato scioglimento sarà tra le cause decisive del suo finale tracollo. All’inizio, per varie ragioni, il problema non emerge in primo piano. Non bisogna dimenticare che quasi l’intero arco dell’esistenza del Psiup è segnato da una vicenda che lascia sulle relazioni internazionali un segno profondo e ne condiziona per circa un decennio l’intero andamento: la guerra del Vietnam. Il conflitto nella penisola indocinese, scandito dalle fasi di escalation e poi di disimpegno degli americani, ha un impatto enorme su tutta la sinistra europea. Per un partito come il Psiup, che nella ricerca di un proprio spazio politico tenta spesso di intercettare e cavalcare i movimenti della protesta giovanile, il conflitto indocinese agisce come catalizzatore di impulsi diversi: alimenta la sua strenua opposizione alla politica estera filo-americana dell’Italia, a cui il Psi è accusato di essersi accodato, e costituisce così un possente fattore di protesta e di mobilitazione contro le scelte internazionali dei governi di centro-sinistra; lo costringe a interrogarsi sul significato e sui limiti della «coesistenza pacifica», in particolare di fronte ai sommovimenti che scuotono il Terzo Mondo; offre un terreno di confronto e di azione comune da un lato con il Pci, dall’altro con il multiforme tessuto delle sinistre socialiste europee, ai margini o fuori dalle socialdemocrazie, che per il Psiup costituiscono interlocutori importanti. Dunque «il Vietnam» ha un grosso peso nell’orizzonte internazionale del partito e nella formazione della sua identità e della sua cultura politica: il Psiup sarà in primissima fila nella solidarietà ai combattenti vietcong, e impegnato in una mobilitazione permanente a livello nazionale e locale72. Questo 1964. Di tenore analogo era stata la posizione del Pci: cfr. A. Höbel, Il Pci di Longo 1964-1969, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2010, pp. 71-78. 71   Lenin, Stalin, Krusciov – I socialisti unitari e la democrazia socialista, in «Rassegna socialista», 10 novembre 1964. 72   Un ruolo molto importante è svolto da Lelio Basso, che entra a far parte

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impegno suscita qualche preoccupazione nei comunisti italiani, che temono, da una parte, la perdita della loro storica egemonia sui movimenti antimperialisti italiani e, dall’altra, un’eccessiva radicalizzazione della campagna pro-vietnamita, che rischia di rendere difficile la ricerca di ampie alleanze nella «lotta per la pace»73. A quanto pare, affiorano a livello locale tensioni abbastanza serie74. Per la verità, le preoccupazioni dei dirigenti comunisti sono rivolte più all’effervescenza della base militante psiuppina che all’indirizzo politico della Direzione, che nella campagna sul Vietnam non si smarca mai da quella comunista. Non solo: dopo la tentazione di assumere nel contrasto fra Urss e Cina una posizione quasi di equidistanza, giudica presto gli attacchi cinesi alla politica sovietica inaccettabili perché minacciano l’unità del fronte di lotta contro l’imperialismo americano. In un certo senso, le virulente critiche cinesi contro i presunti «cedimenti» dell’Urss in Estremo Oriente forniscono al gruppo dirigente del Psiup un buon pretesto per rientrare nei ranghi di una maggiore ortodossia filo-sovietica. Nel 1966, poi, quando l’esplosione della Rivoluzione culturale in Cina dà notevole impulso alle tendenze maoiste in molte frange della sinistra europea, il Psiup deve fare i conti con le simpatie filo-cinesi presenti nei suoi ranghi, che preoccupano anche il Pci75. L’11 settembre il direttore di «Mondo della giuria del cosiddetto Tribunale Russell sui crimini americani nel Sud-Est asiatico, promosso dal filosofo pacifista britannico. I lavori del tribunale, avviati nell’estate del 1966, si concludono alla fine del 1967 con una sentenza simbolica di colpevolezza degli Usa per «genocidio». 73   Nella riunione di Direzione del 21 luglio 1966 lo stesso segretario del Pci Longo, nel ribadire la «solidarietà piena con Hanoi», aggiunge significativamente: «anche per non dare al Psiup la possibilità di una posizione più avanzata della nostra» (FIG, APC, Direzione del 21 luglio 1966). E circa un anno dopo sarà Occhetto ad affermare «la necessità di una lotta senza quartiere contro tutte le posizioni (Psiup compreso) che tendono a restringere lo schieramento, perché si tratta di pugnalate alla lotta per la pace» (ivi, Direzione del 29 maggio 1967). 74   A Torino, per esempio, l’esecutivo della federazione del Psiup indirizza il 23 maggio 1967 alla segreteria del Pci una lettera in cui lamenta «interventi violenti» di alcuni compagni evidentemente del servizio d’ordine del Pci durante una manifestazione per il Vietnam, ed esprime «gravi preoccupazioni [...] circa le sorti di un unitario ed efficace sviluppo del movimento contro l’imperialismo» (FIG, APSIUP, 1966, busta 3982, Regioni). 75   Ingrao, per esempio, nota che «la tendenza all’acutizzazione dei contrasti sta accentuandosi in questo partito. [...] Il Psiup rischia di andare a una crisi

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Nuovo», che è ora Avolio, ribadisce il dissenso «con gli aspetti più sconcertanti dell’attuale politica del partito comunista cinese, che accusa l’Urss addirittura di connivenza con l’imperialismo statunitense», ed esprime «sgomento» per il dogmatismo che si manifesta con la Rivoluzione culturale in Cina, la quale – dice – «ci riporta indietro ad esperienze dolorose e condannate del movimento operaio»76. È un nervo scoperto per il Psiup, e gli effetti si sentono anche all’interno di molte federazioni: a Milano, per esempio, il Comitato esecutivo dichiara incompatibili con l’appartenenza al partito le posizioni del Centro antimperialista milanese, un’organizzazione militante che respinge il concetto stesso di «coesistenza pacifica» e rifiuta di «accodarsi alla campagna diffamatoria contro la Repubblica Popolare Cinese»: di conseguenza il presidente del Centro, Giuliano Spazzali, restituisce la tessera, con una lunga e accorata lettera d’accusa contro la politica interna e internazionale del partito77. La questione diventa tanto importante da essere ampiamente dibattuta nel Comitato centrale del 5-7 ottobre78, in cui Vecchietti, mentre denuncia da parte della stampa occidentale «una forsennata speculazione anticinese che ha assunto addirittura una sfumatura razzista e fascista», esprime preoccupazione sia per la violenza dell’attacco contro l’Unione Sovietica, sia per la tendenza della Rivoluzione culturale «ad alimentare il mito della persona di Mao Tse Tung». Ma, soprattutto, dichiara che bisogna evitare che il dissenso cino-sovietico sia «strumentalmente impiegato ai fini della politica interna italiana», alimentando «tendenze estremistiche che [...] cercano nella Cina un pretesto per darsi un qualche credito politico che altrimenti non troverebbero». Così formulata, però, la presa di distanza dal «filo-cinesismo» che circola nel partito non è giudicata sufficiente da altri compagni. In particolare, un dirigente autorevole come Vincenzo Gatto ritiene necessario fugare «i dubbi che hanno potuto ingenerare campagne interessate all’esterno del

seria, divenendo sempre più un gruppo di pressione da sinistra di tipo cinesizzante»: FIG, APC, Direzione del 13 maggio 1966. 76   G. Avolio, Unità antimperialista, in «Mondo Nuovo», 11 settembre 1966. 77   FIG, APSIUP, 1966, busta 3978, Corrispondenza. 78   Il resoconto e gli interventi da cui provengono le citazioni in «Mondo Nuovo», 16 ottobre 1966.

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partito e manovre sleali all’interno di esso». L’attacco si fa diretto e pesante contro «Mondo Nuovo»79, che dovrebbe essere «interprete fedele della politica del partito e non strumento aperto alle improvvise irruzioni di agitatori verbosi e irresponsabili, come di tanto in tanto accade per ben individuate e mai rimosse responsabilità». Nel dibattito non mancano voci critiche contro queste esasperazioni: Antonio Lettieri critica «un anticinesismo di comodo che può servire a mascherare una politica di compromesso con le forze della socialdemocrazia», e il calabrese Mario Brunetti lamenta le «pesanti pressioni esterne» (leggasi sovietiche) sotto le quali il partito è costretto a sciogliere il nodo della sua collocazione. Ma – a riprova di un clima molto teso – nella discussione sul tema non intervengono né il direttore di «Mondo Nuovo», Avolio, né colui contro il quale sono rivolti gli strali dei compagni più filo-sovietici, cioè Lucio Libertini. Nulla vi è in realtà nelle posizioni di quest’ultimo che giustifichi l’accusa di essere filo-cinese: la sua concezione del partito e della lotta di classe è molto lontana da quella del maoismo, né, a differenza di quello che accadrà ad alcuni esponenti della sinistra comunista, egli subisce mai la fascinazione della Rivoluzione culturale. L’attacco di Gatto è evidentemente motivato da altre ragioni, che lo stesso Libertini mostra di capire bene nell’accorata lettera che scrive pochi giorni dopo a Vecchietti, Valori e Basso: Voi che mi conoscete bene sapete che non ho nulla in comune con le cosiddette posizioni filo-cinesi, e che non posso accettare questa etichetta; né posso però, per scollarmela di dosso, accettare passivamente la spinta che da alcuni compagni viene verso uno snaturamento della posizione del Partito nel senso di una pratica accettazione della concezione dello Stato-guida [l’Urss]80. 79   Peraltro il settimanale del partito continua ad essere aperto ad una notevole dialettica di posizioni: se ne ha una riprova nel marzo 1967, con una polemica fra Luciano Della Mea e Dario Valori. L’esponente del Psiup pisano ha recensito molto positivamente il Libretto rosso di Mao, parlando tra l’altro di «valore universale del maoismo»; e Valori gli risponde con una lettera aperta: «si può educare seriamente al marxismo una generazione con il breviario di Mao? E può un intellettuale impegnato accettare un simile comportamento? [...]. Non ti sembra, caro Della Mea, che il peggiore servizio per dimostrare la validità delle tesi cinesi sia quello di esaltare il libretto di Mao?» (ivi, 12 e 19 marzo 1967). 80   FB, AB, XXV, busta 22, fasc. 10/620, Lettera di Lucio Libertini a Tullio Vecchietti, Dario Valori e Lelio Basso, 11 ottobre 1966.

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Libertini giunge ad adombrare le proprie dimissioni dalla Direzione ma, su insistenza di Basso, non dà seguito al proposito, pur non rinunciando a spiegare al presidente del partito le ragioni del suo disagio: io, caro Lelio, per nessuna ragione al mondo mi lascerò trascinare in una crociata anticinese; non l’ho fatto – non l’abbiamo fatto – nel caso della Jugoslavia, tanto meno è possibile farlo ora. [...] è necessario mantenere aperto il dibattito e far sentire altre voci oltre quelle che si sono sentite all’interno del CC [...] la lotta di correnti sarebbe la fine del partito, e una fine ridicola. Ma vi sono compagni, e in particolare tu e Foa siete tra questi, che hanno prestigio per collegare il partito a forze nuove e vive; e questo deve essere fatto pena l’inutilità del nostro lavoro81.

La torsione strumentale che la polemica anticinese assume all’interno del partito non giova alla definizione della sua identità politica. Così, se la destituzione di Chruščëv (che peraltro è stata salutata con favore dalla sinistra estrema del partito82) ha fornito – come abbiamo visto – qualche spunto per interrogarsi sui contenuti della «democrazia socialista» in Urss, nel breve volgere di pochi mesi la leadership del Psiup torna ad allinearsi alla nuova dirigenza sovietica. La scelta accomuna tutti i massimi dirigenti del partito, compresi uomini come Basso, Foa e lo stesso Libertini, che pure hanno fatto della battaglia contro lo stalinismo un tratto saliente della loro identità politica, ma che apparentemente, non meno di Vecchietti e di Valori, sono convinti che il modello economico e sociale sovietico, pur con le sue visibili storture, una volta riformato affermerà la sua intrinseca superiorità su quello della democrazia liberale di stampo occidentale83. Gioca, certo, la consapevolezza dei

  Ivi, 10/653, Lettera di Lucio Libertini a Lelio Basso, 20 ottobre 1966.   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., cita ad esempio (p. 270) una lettera di Luciano Della Mea ad Antonio Costa dell’ottobre 1964, in cui si parla di «liquidazione di Krusciov quanto mai opportuna», destinata però ad avere due possibili opposti effetti, l’uno giudicato negativo («democraticismo e riformismo»), l’altro positivo («vero socialismo»). 83   È quello che ricorda Libertini, in una nota che forse vuole essere anche una punzecchiatura contro il Pci: «la democrazia socialista è un concetto senza confini, una realtà generale, e non si può presentare un Paese come un modello e poi strizzare l’occhio per far intendere ai più vicini che noi italiani siamo civili 81 82

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vincoli derivanti dai finanziamenti che il partito riceve da Mosca. Ma gioca pure, e forse di più, un argomento che induce anche i più scettici a considerare la scelta di campo pro-sovietica qualcosa di simile a un male necessario: la convinzione che l’Unione Sovietica svolga comunque un ruolo decisivo nel confronto mondiale contro l’imperialismo americano, il quale non perde l’occasione di schierarsi a fianco dei regimi più reazionari e di ostacolare le lotte di liberazione dei paesi del Terzo Mondo. In ogni caso il Psiup ha con i partiti comunisti dell’Est europeo rapporti in genere piuttosto superficiali ma buoni, scanditi da visite ufficiali o «vacanze-studio» di esponenti e quadri di partito. Ai paesi socialisti la stampa di partito dedica periodici reportage, e ne sottolinea i progressi economici (peraltro in quegli anni innegabili) e la sostanziale equità sociale84. Al pari di altri partiti comunisti e socialisti europei (e del resto anche di autorevoli statisti), il Psiup non sfugge al «fascino discreto» della Romania di Ceauşescu, caratterizzata in questo periodo dalle prime spregiudicate aperture in politica estera: un giornalista esperto e intellettualmente aperto come Piero Ardenti, per esempio, vi dedica diverse corrispondenze85. Ma merita di essere ricordato il reportage in ben quattro puntate di Mario Giovana dalla Cecoslovacchia che, mentre analizza in modo impietoso i guasti causati dal modello economico sovietico («un generoso motore socialista che ha peccato per eccesso, uno sforzo estremo verso la sola industria pesante, troppa scarsa attenzione all’incremento dei consumi, eccesso di centralizzazione, previsioni irreali»), coglie con grande attenzione e trasparente simpatia i primi segnali delle riforme che si concreteranno nella primavera di Praga86. Quasi sempre si sorvola sul problema delle libertà politi-

e quelli sono barbari» (L. Libertini, La nuova frontiera della sinistra italiana, in «Mondo Nuovo», 3 luglio 1966). 84   Peraltro, un termometro assai significativo del notevole disincanto della base del partito al riguardo è dato dalle richieste di comizi e conferenze rivolte dalle federazioni locali alla Sezione esteri: l’argomento più richiesto è la Cina, subito dopo viene la sinistra operaia dell’Europa occidentale e solo molto raramente, per non dire mai, arrivano sollecitazioni a parlare dei paesi socialisti europei. L’oratore di gran lunga più richiesto è Lelio Basso (FIG, APSIUP, 1967, busta 3984, Sezione internazionale). 85   «Mondo Nuovo», 22 agosto 1965 e 5 settembre 1965. 86   Ivi, 18 e 25 luglio, 8 e 22 agosto 1965. Da notare peraltro che Giovana, con

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che e civili87: solo in occasione del processo contro gli scrittori Daniel’ e Sinjavskij, nel febbraio del 1966, «Mondo Nuovo» denuncia «pregiudizievoli ritardi nello sviluppo della democrazia socialista sia nell’Unione Sovietica che negli altri paesi dove il movimento operaio è al potere»88. L’interpretazione dell’internazionalismo come inevitabile ma netta «scelta di campo» ha il suo corrispettivo in una irriducibile avversione alla permanenza dell’Italia nel Patto Atlantico, contro il quale le campagne del Psiup sono spesso più dure e «gridate» di quelle del Pci89. Tale avversione sarà ovviamente rinfocolata dal golpe dei colonnelli in Grecia (21 aprile 1967), che farà seriamente temere alle sinistre la possibilità di un’ingerenza della Nato anche nella politica interna italiana90. Ma ben prima di allora comune a tutti i militanti del partito, di base e di vertice, è una lettura dell’antimperialismo come feroce antiamericanismo, che implica un totale rifiuto culturale dell’american way of life, ma che per contro si rovescia in un forte interesse per «l’altra America», quella dei giovani pacifisti bianchi che bruciano le cartoline precetto per il Vietnam91 e, soprattutto, quella dei neri in lotta per i loro diritti. Su questo tema il Psiup, anche in confronto ai

la consueta vena sarcastica, scriveva a Tagliazucchi l’8 luglio: «Mi sai dire come si fa a scrivere tre articoli sulla Cecoslovacchia dopo la realtà che ho osservato?» (FIG, APSIUP, 1965, busta 3956, Sezione internazionale). 87   Si veda per esempio Il Psiup e i paesi socialisti. Intervista con Tullio Vecchietti, in «Mondo Nuovo», 9 maggio 1965. 88   Democrazia e socialismo, ivi, 20 febbraio 1966. 89   Particolarmente significativa quella aperta da un comizio di Vecchietti a Milano il 24 aprile 1966: v. Esca l’Italia dall’alleanza atlantica, in «Mondo Nuovo», 24 aprile 1966. Vi fu anche il tentativo di promuovere un’iniziativa internazionale delle sinistre socialiste, con una riunione preparatoria che si tenne a Bruxelles il 9 aprile 1967 e che vide la partecipazione, insieme a Pino Tagliazucchi, di Ernest Mandel, Ian Mikardo della sinistra laburista, Pierre Naville e Claude Bourdet del Psu. Non sembra che l’iniziativa sia andata in porto (FIG, APSIUP, 1966, busta 3969, Sezione internazionale). 90   Vedi per esempio l’interpellanza parlamentare di Francesco Lami, che chiede una risposta al governo italiano sui misteriosi «Piani Prometeo» della Nato, miranti, sotto la copertura dell’atlantismo, a «stroncare eventuali movimenti sovversivi all’interno di ogni singolo Paese aderente»: «L’Agenzia socialista», 9 settembre 1967. 91   Si veda in particolare la relazione di Vecchietti al Comitato centrale del Psiup dell’1-2 febbraio 1967, in «Mondo Nuovo», 12 febbraio 1967.

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comunisti italiani, mostra un’attenzione precoce, con un’evidente preferenza per il radicalismo estremista di Malcolm X prima e delle Pantere Nere poi rispetto al pacifismo di Martin Luther King. Le rivolte nei ghetti neri di molte città americane troveranno «Mondo Nuovo» sempre pronto a un’analisi che non mancherà di spunti originali92. Il forte antiamericanismo non porta mai il Psiup ad attenuare la sua ostilità per qualsiasi forma di europeismo. Di fronte all’evoluzione del Pci, che da tempo a questo sta guardando con minori pregiudizi che in passato, il gruppo dirigente socialproletario ha un atteggiamento freddo. Se De Gaulle viene soprattutto giudicato per la sua politica interna antisindacale e socialmente conservatrice e dunque, con il metro corrente nella sinistra italiana di allora, come pericoloso battistrada di qualche forma autoritaria o addirittura fascista, il Psiup non è del tutto immune dalla seduzione esercitata dalle sue velleità anti-Nato e dalla contraddizione che il concetto di «Europa delle patrie» introduce nello schieramento atlantico93. Non lo scuotono invece più di tanto le caute aperture in politica estera del governo tedesco della Grosse Koalition: anche in questo caso, della Germania Federale si guarda solo il volto rigidamente anticomunista in politica interna e si stigmatizza la reticenza a fare i conti con il passato del Terzo Reich, mentre viene segnalato con allarme ogni rigurgito neonazista. In generale, sulle tematiche europee la posizione del Psiup si ispira a coordinate abbastanza precise, che non mutano lungo l’arco della sua esistenza: una durissima condanna delle dittature iberiche, e poi anche di quella greca, con un occhio di riguardo rivolto alle opposizioni ispirate ad un’ottica di classe, ivi comprese quelle che non escludono la lotta armata; una visione fortemente e pregiudizialmente critica delle politiche dei governi democratici dell’Occidente, ivi inclusi quelli laburisti e socialdemocratici, considerati docili strumenti di un disegno neocapitalistico di integrazione subalterna della classe operaia. Sull’uno e sull’altro fronte, si direbbe, il Psiup è condizionato dai legami che ha allac92   F. Valobra, L’insurrezione negra di Los Angeles. La lotta di classe in casa di Johnson, in «Mondo Nuovo», 22 agosto 1965; L. Pellisari, Rivolta di classe. Il benessere bianco pagato dai negri, ivi, 29 agosto 1965. 93   Cfr. Il Psiup e i paesi socialisti. Intervista con Tullio Vecchietti cit.

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ciato fin dalla sua nascita con i gruppi di sinistra socialista, molto spesso filo-trotskisti94. In realtà però la base militante del partito, assai più che dalle brillanti elaborazioni teoriche di un Ernest Mandel o di un André Gorz, è affascinata, come accadde a tanta parte della sinistra europea, da un acceso terzomondismo. È questo, assai più del maoismo, a contagiare anche dirigenti importanti: ma converrà parlarne meglio più avanti. 4. Il nemico è il centro-sinistra Al suo apparire sulla scena politica, il Psiup è accolto dagli altri attori e dagli osservatori con pesante scetticismo. Il Psi reagisce duramente da subito, com’è ovvio, a una scissione che lo priva di una buona fetta di quadri e di militanti, proprio nel momento in cui avvia la sua difficile esperienza governativa. Per Nenni si tratta «di [...] un gesto di disperazione più che di coraggio [...] una secessione che è di quadri e non ha nessuna possibilità di diventare di base e di massa»95. Ma anche Lombardi, a un mese di distanza dall’assemblea dell’Eur, ha per il Psiup parole durissime: nella storia pur movimentata delle scissioni socialiste, è difficile trovarne una altrettanto povera di motivazione ideologica [...] per il nuovo partito non esiste uno spazio vuoto da occupare nello schieramento politico: giacché lo spazio che corrisponde alla sua impostazione politica è già occupato dal Psi e, per altro verso, dal Pci96.

Il Pci, come si è visto, cerca a lungo di impedire la scissione e certo non la favorisce, sia per non essere «scavalcato a 94   Una lucida analisi di questa galassia di formazioni di «nuova sinistra» è tracciato da G.R. Horn, The Spirit of ’68. Rebellion in Western Union and North America, 1956-1976, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 152-163. 95   P. Nenni, E ora chi è d’accordo con noi venga con noi, in «Avanti!», 14 gennaio 1964. In realtà, sono in molti a ritenere che Nenni non abbia fatto niente per evitare la scissione, e anzi l’abbia ad un certo punto incoraggiata per liberarsi dal condizionamento di una sinistra troppo forte, che ne limitava la libertà di manovra. Con qualche sfumatura di differenza concordano in questo senso le testimonianze di Vittorio Foa e di Gaetano Arfè a M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 132. 96   R. Lombardi, Lo spazio dei partiti, in «Avanti!», 9 febbraio 1964.

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sinistra»97, sia soprattutto perché ritiene che una forte corrente politica come la sinistra socialista sia più utile e influente dentro il Psi che fuori. Dopo l’assemblea dell’Eur, però, fa – se così si può dire – buon viso a cattivo gioco. Persino un dirigente che non ha mai nutrito simpatia per la sinistra socialista, come Mario Alicata, sottolinea che sono stati respinti «il piano e l’obiettivo della borghesia, che erano di piegare tutto il Psi per asservirlo» e invita a tenere nei confronti del Psiup un «atteggiamento non [...] soltanto di solidarietà sentimentale, ma di appoggio concreto»98. La grande stampa d’opinione, quella che fino a poco tempo prima anche i socialisti, oltre naturalmente ai comunisti, definivano «borghese», reagisce alla scissione in modo differenziato. Il «Corriere della Sera» giudica l’evento un fatto salutare, che consente al Psi di liberarsi «dai sedimenti massimalisti e anarchici»99: un commento che riflette certo la soddisfazione del maggiore quotidiano italiano, ostile al centro-sinistra, per l’indebolimento del Psi e quindi per la diminuzione del suo peso nel governo. Di segno specularmente opposto è il giudizio dell’«Espresso» diretto da Eugenio Scalfari che, mentre liquida il Psiup con la definizione di «partito sandwich tra Nenni e Togliatti», ipotizza che la scissione obblighi il Psi, «proprio per contendere alla sua ala dissidente spazio politico e possibilità di crescita», a spostarsi semmai verso sinistra, «sottolineando le proprie differenze con la socialdemocrazia»100. «La Stampa» s’interroga soprattutto sul possibile spazio politico del nuovo partito, giudicato molto limi97   Nenni annota nel suo diario, a proposito dei comunisti italiani: «Non so in che misura abbiano determinato o influenzato la secessione della sinistra. Forse ha ragione De Martino il quale crede che non l’abbiano desiderata. Non amano infatti gli aggiramenti a sinistra e Lelio Basso cerca spazio alla sinistra di Togliatti»: P. Nenni, Gli anni del centrosinistra cit., p. 305. 98   FIG, APC, Direzione del 17 gennaio 1964. Questo mutamento di tono si riflette anche nelle prese di posizione pubbliche: cfr. L. Pavolini, La scissione e l’unità, in «Rinascita», 18 gennaio 1964. Il commento più favorevole alla nascita del nuovo partito è quello di Luigi Pintor, che la ritiene non «una fuga all’indietro» bensì «una prima risposta non di retroguardia ma autonoma e positiva [...] non un arroccamento protestatario ma una scelta costruttiva, un atto politico»: L. Pintor, Mutata col Psiup la scena politica, in «Rinascita», 25 gennaio 1964. 99   Il momento della verità, in «Corriere della Sera», 12 gennaio 1964. 100   I socialisti dopo la scissione, in «L’Espresso», 19 gennaio 1964.

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tato: per Vittorio Gorresio il Psiup nasce già «vecchio», dato che definisce i lavoratori «col termine antiquato di proletari», e non ha un gran futuro: i promotori della scissione sono rappresentati, «più che ribelli pronti alla rivincita, come dei vinti condannati a pagare la sconfitta»101. Il primo anno di vita del Psiup è dominato, oltre che dal faticoso sforzo di darsi una struttura organizzativa solida, dall’esigenza di trovare questo «spazio politico», da più parti ritenuto inesistente o comunque strettissimo. Il primo terreno su cui il nuovo partito sceglie consapevolmente di misurarsi è quello di una durissima critica del centro-sinistra, che resta il Leitmotiv della sua linea politica per almeno due anni. Se la sinistra socialista, ancora al XXXV Congresso del Psi, aveva criticato la nuova formula di governo per i suoi contenuti e per la clausola della delimitazione della maggioranza in senso anticomunista, il soggetto politico che ne raccoglie l’eredità assume un atteggiamento di chiusura assoluta, sorretto da motivazioni ideologiche che vengono sviluppate con sempre maggiore convinzione. In tutte le sue successive versioni il centro-sinistra è considerato dal Psiup la versione italiana del progetto che ispira il «neocapitalismo» senza distinzioni e senza frontiere, e che mira all’integrazione della classe operaia nella logica del sistema che la sfrutta. Su questo punto non esistono differenze sostanziali fra le diverse anime del partito: Il centrosinistra non è la politica della riforma democratica – scrive per esempio Libertini nel gennaio del 1965 –, è invece la politica della borghesia monopolistica più avanzata che, avvolta sin che può nel riformismo borghese, realizza una vasta operazione di divisione ma soprattutto di ingabbiamento del movimento operaio nel sistema capitalistico. Nella misura in cui questa operazione ha successo e si spezza o si svuota la forza antagonistica del movimento operaio, si brucia l’involucro democratico e riformista del centrosinistra e viene in primo piano la sua natura autoritaria, gollista, corrispondente alla fase della concentrazione monopolistica102.

  V. Gorresio, Un nuovo partito molto vecchio, in «La Stampa», 12 gennaio

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1964.

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  L. Libertini, Due strategie, in «Mondo Nuovo», 10 gennaio 1965.

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La posta in gioco è dunque altissima: se il centro-sinistra dovesse durare, sarebbe fatalmente «il ponte verso soluzioni autoritarie di destra che vengono preparate oggi nell’economia e si realizzeranno domani nella politica. Non si tratta di un governo ma di un regime, di una prospettiva di molti anni»103. Tra le «soluzioni autoritarie» pensate per l’economia, il bersaglio del Psiup è soprattutto l’esecrata «politica dei redditi», che viene sempre concepita come una manovra di imbrigliamento del sindacato e delle lotte del movimento operaio, senza nessuna contropartita sul piano della redistribuzione della ricchezza. A questa politica fornisce un’inaccettabile copertura ideologica l’idea che quel tipo di equilibrio sia accettabile se sorretto dalla partecipazione delle istituzioni del movimento operaio: la concezione della «programmazione democratica» sarà costantemente al centro, tra il 1964 e il 1967, di una non troppo sotterranea polemica con il Pci: La sola programmazione democratica è una programmazione anticapitalistica, che incide sul meccanismo di accumulazione e muta le strutture del sistema. La piena attuazione di questa programmazione esige la sconfitta e il rovesciamento dello Stato capitalistico e la conquista del potere da parte dei lavoratori; ma la lotta per una programmazione anticapitalistica comincia subito, con una azione che, svolgendosi all’interno degli ordinamenti capitalistici, è indirizzata nel senso di dislocare incessantemente l’equilibrio del sistema, sino al completo rovesciamento dei rapporti di classe104.

Date queste premesse, la posizione del Psiup nei confronti dei governi di centro-sinistra che si succedono al timone del paese è pregiudizialmente negativa, rifiutandosi di distinguere fra «centrosinistra sporco e centrosinistra pulito»105. La stessa dibattuta questione del «fallimento» di quella formula diventa abbastanza oziosa. Per il Psiup il centro-sinistra ha fallito nei suoi propositi rinnovatori perché non poteva non fallire, cioè perché era intrinsecamente sbagliata la sua «filosofia»: bisognava «demolire con la necessaria brutalità il mito di una programmazione interclassista

  L. Libertini, Possiamo e dobbiamo batterli, ivi, 7 marzo 1965.   Ibid. 105   D. Valori, Disarcionati dalla tigre, ivi, 5 luglio 1964. 103 104

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nella quale gli interessi dei lavoratori devono trovare soddisfazione nel quadro di un inesistente ‘interesse generale’: la programmazione o la fanno i lavoratori o la fanno i capitalisti e una via di mezzo non c’è»106. La crisi del centro-sinistra, che il Psiup considera non a torto già in atto, arriva anche formalmente il 26 giugno 1964 con le dimissioni del primo governo Moro, determinate dalla bocciatura di un progetto di modesto finanziamento della scuola privata. In realtà la vera causa della crisi sta nello scontro ormai aperto fra la linea personificata dal governatore della Banca d’Italia Carli e dal ministro del Tesoro Colombo, che è appoggiata dalla Dc e sostiene la priorità delle misure restrittive e deflazionistiche anticrisi rispetto ad ogni riforma, e la linea Giolitti-Lombardi sostenuta dal Psi, che chiede la contestualità fra provvedimenti anticongiunturali e avvio delle riforme strutturali107. Il Psiup non considera la questione veramente rilevante, o meglio la dà per già risolta in partenza: il «disegno del padronato», al quale il Psi non ha la forza di opporsi, è «far fare la deflazione alla sinistra e raccogliere a destra l’opposizione e il malcontento che quella politica susciterà»108. Per batterlo è vano pensare di riequilibrare le forze nella coalizione di governo (e anzi Giolitti è definito sprezzantemente «un ministro di Sua Maestà il capitale»109); occorre invece «una politica nuova con forze nuove», fatta dal movimento operaio «nella sua unità articolata» in modo tale da spezzare «il vincolo immobilistico dell’interclassismo cattolico»110. La crisi dell’estate 1964 si risolve il 22 luglio con la formazione del secondo governo Moro: il Psi cede (non senza l’opposizione di Giolitti, che esce dal governo, e di Lombardi, che si dimette da direttore dell’«Avanti!») e in pratica, come è stato scritto, «sacrificò la riforma per salvare la formula»111 del centro-sinistra, a prescindere dai contenuti. Il Psiup assiste agli eventi con atteggia-

  L. Libertini, Siamo al dunque, ivi, 21 giugno 1964.   Cfr. G. Tamburrano, Storia e cronaca cit., pp. 292-301, e Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra. 1960-1968, Carocci, Roma 1998, pp. 140-144. 108   L. Libertini, editoriale, in «Mondo Nuovo», 11 marzo 1964. 109   Ivi, 5 aprile 1964. 110   L. Libertini, editoriale, ivi, 11 marzo 1964. 111   G. Tamburrano, Storia e cronaca cit., p. 340. 106 107

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mento distaccato, tanto che vi è nel Pci chi registra, senza mezzi termini, la sua «assenza»112. Nella relazione al Consiglio nazionale del 16-17 luglio Vecchietti parla di «involuzione a destra» della Dc e del Psi e Libertini rincara la dose precisando che «è finito ciò che non è mai esistito: il centro-sinistra che ci avevano dipinto e magnificato Lombardi e La Malfa», cioè «un ipotetico centrosinistra riformatore»113. È noto che la scelta di Nenni è dettata, come lui stesso fa capire a crisi ormai conclusa114, anche dalla paura per le voci di golpe che si succedono nel paese e che, come dimostreranno le indagini successive, non erano affatto infondate115, anche per l’ambiguità del comportamento dello stesso presidente della Repubblica Segni. Se il Psiup ha coscienza di questo quadro, non mostra di esserne molto impressionato. Già a fine marzo un importante dirigente, Giuseppe Avolio, ha avanzato una previsione molto lucida: la presenza del governo di centrosinistra, con la sua politica e le sue stesse interne contraddizioni, rappresenta di fatto un pericolo e una minaccia grave per l’avvenire stesso della democrazia repubblicana. Le condizioni per un’aperta involuzione autoritaria nascono proprio dalle posizioni di acquiescenza di questo governo di fronte alle pressioni e – ben possiamo dirlo – ai ricatti dei gruppi di potere che operano oggi per ributtare indietro i lavoratori in una posizione di subordinazione116.

  FIG, APC, Direzione del 2 luglio 1964, intervento di Giorgio Amendola.   «Rassegna socialista», 30 luglio 1964. 114   «La sola alternativa che s’è delineata nei confronti del vuoto di potere conseguente ad una rinuncia del centro-sinistra è stata quella di un governo d’emergenza, affidato a personalità cosiddette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato, che nella realtà del Paese quale è, sarebbe stato il governo delle destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale, nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito»: P. Nenni, Uno spazio politico da difendere, in «Avanti!», 26 luglio 1964. 115   Sul caso Sifar, sul Piano Solo, e sull’influenza delle trame golpiste sulla crisi dell’estate 1964, cfr. G. Tamburrano, Storia e cronaca cit., pp. 326-338; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Utet, Torino 1996, pp. 172-181; e di recente E. Cavalieri, I piani di liquidazione del centro sinistra nel 1964, in «Passato e Presente», 2010, n. 79, pp. 59-82. 116   G. Avolio, editoriale, in «Mondo Nuovo», 29 marzo 1964. Anche a distanza di anni, dopo che nel maggio 1967 la campagna di stampa di Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi sull’«Espresso» fa scoppiare il caso Sifar in tutta la sua gravità, il Psiup mostra (almeno all’inizio) di condizionare ancora il suo giudizio 112 113

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Sta di fatto che «il centro-sinistra come progetto riformatore non sopravvisse al luglio del 1964 [...], o meglio sopravvisse solo come formula di governo, come modalità di esercizio del potere che contraddiceva il progetto originario, e quindi contribuiva a scolorirlo in modo irrimediabile»117. Questi sviluppi sembrano convalidare la scelta della scissione compiuta dal Psiup e soprattutto aprirgli nuove opportunità. Dopo aver espresso uno scontato no al secondo governo Moro, il partito apre una dura campagna contro i «cedimenti di Nenni e del Psi»118. Tra giugno e luglio un consistente gruppo di militanti di vecchia data e molto rispettati (tra i quali Oreste Lizzadri, Carmine Mancinelli, Tito Oro Nobili e i senatori Giacomo Picchiotti ed Ettore Tibaldi) lascia il Psi per aderire al Psiup: il loro appello Ricostituire con il Psiup l’opposizione socialista119 ha una certa risonanza e fa da leva per ulteriori adesioni al partito. La «campagna di reclutamento» del Psiup suscita nel Pci reazioni contrastanti, ma certo non entusiastiche. Nella Direzione del 21 luglio un dirigente autorevole come Novella manifesta apertamente le sue perplessità: «I compagni del Psiup respingono una programmazione che ammetta il profitto e si precludono un incontro con Lombardi. [...] È utile l’azione del Psiup che fa uscire dal Psi uomini come Lizzadri, Tibaldi, ecc.? Non lo credo e il nostro partito non dovrebbe approvarlo»120. In effetti i rapporti fra Psiup e Pci, pur nel quadro di un’alleanza indiscussa, non sono idilliaci, specie a partire dalla seconda metà del 1964. Per Vecchietti e compagni, stretti tra la scelta di alla polemica contro Nenni: «Un colpo di Stato non può mai essere immaginato, o tramato, a freddo da un piccolo gruppo di generali: siamo nel secolo XX, in Europa occidentale. [...] È piuttosto da osservare che la tesi del colpo di Stato, politicamente, rappresenta ancora oggi, a posteriori, un alibi per i cedimenti fatti, a suo tempo, dal Psi sul programma ministeriale» (F. Lami, De Lorenzo“Espresso”: poche le novità, in «Mondo Nuovo», 10 dicembre 1967). 117   G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 1996, pp. 228-229. 118   D. Valori, Disarcionati dalla tigre cit. e anche P. Ardenti, Nenni sventola bandiera bianca, in «Mondo Nuovo», 19 luglio 1964. 119   Ivi, 26 luglio 1964. 120   Queste perplessità appaiono condivise da Alicata e dallo stesso Togliatti, che esclude che si vada «verso una rapida disgregazione del Psi». Più aperti apparivano invece Berlinguer e Terracini: FIG, APC, Direzione del 21 luglio 1964.

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campo che è stata all’origine della scissione e la necessità della differenziazione dal «fratello maggiore», non è facile muoversi senza scontentare né il Pci né la base del Psiup stesso, sempre gelosa della propria autonomia. Nelle lettere indirizzate a Basso tra il 1964 e il 1965 si trovano spesso accuse alla dirigenza di via della Vite di essere «succubi del Pci». Così per esempio Adolfo Bianchi, pretore a Montevarchi e iscritto alla locale sezione «Carlo Marx» del Psiup, lamenta la scarsa attenzione di «Mondo Nuovo» per le iniziative della base che rischiano di turbare l’alleanza col Pci, non esitando ad affermare: «ci condannano come filo-cinesi, frazionisti, in omaggio a... mamma Botteghe Oscure!»121. L’ondata di emozione suscitata dalla morte a Yalta di Palmiro Togliatti, il 21 agosto 1964, naturalmente non lascia immune neanche il Psiup. «Mondo Nuovo» dedica alla sua figura quasi un intero numero122, e Vecchietti ha l’onore di essere tra gli oratori che parlano davanti all’immensa folla raccoltasi per i funerali del leader comunista. Ma nella fase nuova che si apre nella vita interna del Pci si schiudono al Psiup nuove opportunità123. Una prima occasione si presenta all’indomani delle elezioni amministrative del 22 novembre 1964, che come abbiamo visto rappresentano per il Psiup un discreto successo. Lo stesso segretario del Psi De Martino, commentandone i risultati sull’«Avanti!», ammette che l’affermazione del nuovo partito è «notevole in rapporto alla percentuale

121   FB, AB, XXV, busta 21, fasc. 3/12, Lettera di Adolfo Bianchi a Lelio Basso, 23 marzo 1965. 122   Nel manifesto commemorativo della Direzione Psiup Togliatti è associato a Gramsci e Morandi come «artefice del rinnovamento dell’azione socialista in Italia». Notevole l’omaggio di Lelio Basso, che certo non era un togliattiano e che di solito era parco di elogi: «Di tutti i capi dei grandi partiti operai, socialisti o comunisti, dell’Europa Occidentale, Palmiro Togliatti è di gran lunga quello che ho sentito più vicino. [...] non posso che confermarmi nell’idea che Togliatti sia stato con ogni probabilità il miglior capo politico che il movimento operaio occidentale abbia avuto in questo dopoguerra» (Sintesi di esperienza e di dottrina, in «Mondo Nuovo», 30 agosto 1964). 123   Lo percepisce chiaramente Elio Giovannini, che sollecita Lelio Basso scrivendogli il 5 settembre: «Credo che questo sia il momento di un tuo grosso intervento politico. Il ‘memoriale Togliatti’ mi pare che apra una nuova fase di lotta per l’autonomia del mov.[imento] op.[eraio] occidentale. [...] C’è da rendere esplicito, aperto, quello che in Togliatti è ancora implicito, accennato» (FB, AB, XXV, busta 20, fasc. 9/330).

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dei voti socialisti» e si sofferma sul «grande problema, che ancora una volta e in forma più accentuata sollevano le elezioni del novembre [...] quello della unificazione del movimento operaio a cominciare da quello socialista». La sua proposta di «unire i socialisti delle varie tendenze, dal Psdi al Psiup a noi»124, che pure significa una parziale andata a Canossa nei confronti dei tanto vituperati «scissionisti», è seccamente respinta come «pura propaganda» da Valori125; ma nel frattempo altre «ipotesi di riunificazione» sono arrivate ad animare il dibattito nella sinistra italiana, e a queste il Psiup non può rispondere altrettanto sbrigativamente. A fine novembre Giorgio Amendola pubblica su «Rinascita» un articolo che fa molto discutere. Partendo dai risultati delle elezioni amministrative, che hanno visto le forze della sinistra raggiungere (tutte insieme ma divise) il 48% dei voti, a fronte del 37% della Dc, il dirigente napoletano rilancia «il discorso sulla necessità e possibilità della formazione di un partito unico della classe operaia» che deve essere, a suo giudizio, «necessariamente un partito nuovo»126. Poiché, a suo avviso, nell’Europa occidentale né la soluzione socialdemocratica né quella comunista si sono rivelate valide per «realizzare una trasformazione socialista della società», questo nuovo partito deve basarsi solo su discriminanti programmatiche, non su «preclusioni ideologiche», e accanto al marxismo classico altre visioni teorico-politiche possono avervi piena cittadinanza. Amendola viene criticato per quest’articolo anche dall’interno del suo partito127, ma è dal Psiup che arrivano le più forti riserve. Dario Valori definisce «sconcertante» la proposta128. Al Consiglio nazionale del partito del 3-4 dicembre, Vecchietti afferma nella sua

  Riprendere l’iniziativa, in «Avanti!», 29 novembre 1964.   D. Valori, Unità socialista SÌ socialdemocratica NO, in «Mondo Nuovo», 6 dicembre 1964. 126   Ipotesi sulla riunificazione, in «Rinascita», 28 novembre 1964. Lo scritto di Amendola è originato da un dibattito fra lui stesso e Norberto Bobbio, svoltosi qualche settimana prima sempre su «Rinascita», sulla questione delle vie al socialismo e degli strumenti per arrivarvi, in Italia e negli altri paesi capitalistici avanzati. Cfr. Il socialismo in Occidente, in «Rinascita», 7 novembre 1964. 127   Cfr. A. Höbel, Il Pci di Longo cit., pp. 82-89, e anche G. Cerchia, Giorgio Amendola. Gli anni della Repubblica (1945-1980), Cerabona, Torino 2009, pp. 310-318. 128   D. Valori, Unità socialista SÌ socialdemocratica NO cit. 124

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relazione che «la socialdemocrazia non si è mai posta obiettivi socialisti: non si può, quindi, imputarle d’aver fallito là dove mai aveva deciso d’arrivare», per cui è sbagliato mettere sullo stesso piano gli errori dei comunisti e quelli dei socialdemocratici129. Molti altri dirigenti anche non di primissimo piano sparano durante quella riunione bordate contro la proposta di Amendola: ma il più duro di tutti è Lucio Libertini, che non esita a parlare di «revisionismo» per indicare non solo il dirigente comunista napoletano, ma tutto un «orientamento che da tempo si manifesta nel Pci»130. La polemica con Amendola serve al Psiup a riprendere (anche a prezzo di qualche disinvolta forzatura storica) le sue tradizionali tesi antisocialdemocratiche, e al tempo stesso consente di punzecchiare pure il Pci. Tra l’altro, nello stesso Consiglio nazionale in cui si è sviluppato il dibattito sull’ipotesi del partito unico, Vecchietti ha parlato, in una prospettiva dissonante da quella di Amendola e semmai più vicina a quella di Ingrao, della necessità di non «contrapporre fronte laico a fronte cattolico»131. In realtà, già da qualche mese si è verificata la confluenza nel Psiup del piccolo Partito nazionale cristiano-sociale, forza minoritaria della sinistra cattolica che affonda le sue radici nella Resistenza132: un segnale, al di là del peso minimo dei confluiti, dell’interesse del Psiup per le sinistre cattoliche. Questa «strategia dell’attenzione» viene messa alla prova in quello stesso mese di dicembre nelle elezioni per il Quirinale, creando nuovi motivi di tensione con il Pci. La lunga e contrastata gara per la presidenza della Repubblica si apre a metà dicembre, in seguito alle dimissioni di Segni colpito 129   La relazione di Tullio Vecchietti, in «Mondo Nuovo», 13 dicembre 1964 cit. Anche Lelio Basso (che sta ritornando a tutti gli effetti attivo nel partito) scrive che l’errore di Amendola è «quello di considerare la socialdemocrazia come una delle possibili varianti del socialismo, anziché, quale è nei fatti, la sua negazione»: L. Basso, Coscienza di classe. Risposta ad Amendola, in «Mondo Nuovo», 13 dicembre 1964. 130   Ibid. 131   Ibid. 132   Sul Partito cristiano sociale e sulla figura di Gerardo Bruni, unico eletto nelle sue file alla Costituente nel 1946, si veda C.F. Casula, Cattolici-comunisti e sinistra cristiana 1938-1945, il Mulino, Bologna 1976, pp. 169 sgg.; A. Parisella, I programmi dei cristiano-sociali dal regime fascista alla Repubblica, in I programmi politici dei movimenti cattolico-democratici, a cura di B. Gariglio, Franco Angeli, Milano 1987.

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in estate da un ictus, e si chiude il 28 dello stesso mese con l’elezione di Giuseppe Saragat, leader del Psdi, votato da un «centrosinistra allargato ai comunisti», ma non dal Psiup: per eleggere il presidente «ci vollero ventuno votazioni, nel corso delle quali si esaurirono tutte le combinazioni di partiti e di correnti possibili e immaginabili»133. Il Psiup, dopo aver votato all’inizio un candidato di bandiera (il decano del partito Alcide Malagugini), punta sulla candidatura di Fanfani, che «poteva spaccare in due la Dc»134 (il candidato democristiano ufficiale era Leone), e si rifugia alla fine nella scheda bianca, mentre il Pci, pur con il dissenso iniziale degli ingraiani, che non vedono male la candidatura di Fanfani, dapprima mira a far eleggere Nenni135, e all’ultimo scrutinio sostiene Saragat. La scelta di votare Fanfani vede il gruppo dirigente unito, da Vecchietti a Foa a Libertini, e se produce qualche polemica alla base del partito136, rende più difficili i rapporti tra Psiup e Pci. Dal primo, Saragat è visto come il fumo negli occhi, e la conversione dei voti del Pci sul suo nome evoca in forma aggiornata lo spettro di Pralognan. Sembra vi siano pubbliche dimostrazioni di dissenso dalla scelta comunista in varie sedi locali, in particolare a Macerata, Forlì, Biella (qui, viene riferito da un documento del Pci, «il Psiup ha affisso un manifesto in cui ci accusano di ‘allineamento con i dorotei’»137). D’altra parte nella riunione di Direzione del Pci dell’11 gennaio 1965 si manifestano sentimenti di   Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra cit., p. 203.   S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 41. 135   Anche il Psiup vota un paio di volte per Nenni, ma lo fa solo quando la candidatura del leader del Psi sta già tramontando, sostituita da quella di Saragat. 136   Contrariamente a quanto afferma l’editoriale di Ardenti su «Mondo Nuovo» del 27 dicembre 1964 («militanti, elettori e simpatizzanti hanno perfettamente compreso»), il Psiup ha qualche problema nel far accettare alla sua base il voto per Fanfani e il rifiuto di sostenere Nenni. Un militante romano invia in quei giorni a Basso il seguente telegramma: «Certo interpretare reazione numerosi compagni base e spirito tuoi iscritti Alternativa Socialista pregoti infrangere disciplina voto assurda operazione milazziana imposta da direzione morandiani consistente portare voti cattolico integrista ex fascista Fanfani indegno presiedere repubblica nata Resistenza e negarli ripetutamente meschine incomprensibili ragioni personali a compagno Nenni combattente guerra Spagna e sicuro antifascista» (cfr. FB, AB, XXV, busta 20, fasc. 12/614, Telegramma di Giovanni Rufo Venturi a Lelio Basso, 26 dicembre 1964). 137   FIG, APC, Verbali direzione, Informazione dalle federazioni a proposito dell’elezione presidenziale, 12 gennaio 1965. 133 134

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aperta insofferenza verso il Psiup, anche se c’è un certo sforzo di minimizzare l’accaduto. Longo giudica «deboli e imbarazzati» gli argomenti addotti dal partito di via della Vite a sostegno della sua scelta, e perfino Ingrao, che all’inizio è stato favorevole a Fanfani, bolla come strumentale «la risposta al Psiup – che ora mitizza la sinistra Dc dopo averla negata sino a poco tempo fa». Soltanto Giancarlo Pajetta usa toni più concilianti: Circa il Psiup, sono d’accordo che occorre una certa polemica. Ma non dimentichiamo che è una forza politica e che – se dobbiamo discutere e sopportare le fesserie dei socialisti – non possiamo rivoltarci inviperiti contro ogni affermazione del Psiup. Quando non riusciamo a convincere i compagni del Psiup, vuol dire che ci sono alcune centinaia di migliaia di compagni nostri che non sono convinti. Bisogna respingere l’insofferenza nei confronti del Psiup. La politica unitaria nei loro confronti è indispensabile138.

Resta il fatto che la posizione del Psiup, «per la prima volta pubblicamente»139, si differenzia nettamente da quella del Pci. E poco dopo, sempre nel quadro della «strategia dell’attenzione» verso i cattolici di sinistra può essere collocata un’altra iniziativa del partito: la mozione per la revisione dei Patti lateranensi, presentata dal Psiup alla Camera il 17 marzo 1965140, sulla quale si impegna in particolare Lelio Basso. Essa invita il governo a prendere l’iniziativa presso il Vaticano per una revisione consensuale del Concordato «nello spirito dei tempi attuali, che tenga conto sia del contenuto della Costituzione repubblicana che dello spirito e delle decisioni del Concilio Vaticano II»141. Ci si propone dunque la revisione e non l’abolizione del Concordato, e tuttavia   FIG, APC, Direzione dell’11 gennaio 1965.   S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 41. 140   All’origine del passo del Psiup è la vicenda della mancata rappresentazione a Roma del dramma dello scrittore tedesco Rolf Hochhuth Il Vicario, in cui si denunciano le responsabilità di omissione di Pio XII di fronte alla persecuzione degli ebrei. Il 15 febbraio il prefetto di Roma, raccogliendo evidentemente le proteste del Vaticano, vieta la rappresentazione richiamandosi al Concordato e al «carattere sacro della città di Roma». 141   La mozione del Psiup verrà discussa solo due anni e mezzo dopo la presentazione, nelle sedute della Camera del 4 e 5 ottobre 1967: non aveva la minima speranza di essere approvata nel quadro politico del centro-sinistra (e 138 139

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il Psiup incontra una certa freddezza da parte del Pci, per il quale la questione non è certo in quel momento prioritaria142. 5. «Nella fabbrica avviene lo scontro decisivo» Il 1965 per il Psiup è un anno di chiaroscuri. Dal punto di vista organizzativo lo sviluppo è modesto: rispetto ai 152.609 iscritti denunciati all’inizio dell’anno, undici mesi dopo si sono raggiunti i 164.451 dichiarati da Vecchietti in apertura del I Congresso143, con un incremento di poco più del 7%. Il traguardo dei 200.000 iscritti, sul raggiungimento del quale nel gennaio 1965 si è ostentata grande fiducia, resta lontano. La distribuzione territoriale degli iscritti ha subito pochi mutamenti: stabile resta la preponderanza delle regioni meridionali e delle isole (39,34%), mentre il Nord (37,33%) è progredito rispetto al Centro (23,31%), con un aumento omogeneo in tutte le regioni144. Non vi sono stati praticamente appuntamenti elettorali importanti, ma all’unico che si è presentato, le elezioni regionali in Sardegna in giugno, il partito ha registrato un risultato non certo incoraggiante: una perdita secca dell’1% dei voti. Al Consiglio nazionale del partito, in aprile, Lucio Libertini riassume bene la situazione che caratterizzerà l’intero anno: «C’è una contraddizione tra la verifica continua delle nostre analisi che la realtà ci offre e l’efficacia della nostra azione politica. Il nostro partito si espande continuamente, ma è ben lungi dall’occupare tutto il vasto spazio politico che le condizioni oggettive gli offrono»145. Il percorso resta in effetti stretto e in salita. La forza di attrazione nei confronti della base socialista non sembra consolidarsi: lettere di militanti del Psi non cessano di esprimere il loro sdegno per la scissione, in base a motivazioni ora emotive, ora più politiche146, e può essere solo parzialmente di consolazione la mani-

infatti, delle altre forze politiche solo il Pci l’appoggiò). Cfr. L. Basso, Discorsi parlamentari cit., pp. 706-762. 142   Cfr. M. Alicata, Concordato: rivederlo o attuarlo?, in «Rinascita», 27 marzo 1965. 143   Psiup, 1° Congresso Nazionale, Edizioni del Gallo, Milano 1966, p. 17. 144   FIG, APSIUP, 1965, busta 3948, Situazione tesseramento 1964-1965. 145   Ivi, busta 3950, Consiglio nazionale dell’8-10 aprile 1965. 146   Si veda per esempio la lettera del 27 maggio di Rocco Caliandro, di Villa

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festazione di stima di qualche militante del Pci, come quella di Vincenzo Varé, di Milano, che scrive a Vecchietti: Termino ora di ascoltare a «Tribuna politica» il compagno Libertini e per spontaneo moto dell’animo ti invio queste due righe per esprimerti tutta la mia commozione per il modo come egli, e l’altra volta Luzzatto, e te e tanti compagni del nuovo partito socialista, tengono alti gli ideali, e, quello che più conta, sanno parlare, forse unici fra i partiti di sinistra, al cuore e al cervello dei lavoratori147.

Anzi, proprio questo tipo di sentimenti nella base comunista può costituire un problema, suscitando la diffidenza del Pci, anche perché almeno alcuni esponenti del Psiup si mostrano non insensibili alla possibilità di fare da sponda al malcontento serpeggiante qua e là nel partito maggiore. All’inizio dell’anno Libertini esce allo scoperto enunciando in modo chiaro due possibili linee strategiche per il movimento operaio italiano nella fase in corso: da una parte quella del condizionamento del centro-sinistra, del «blocco laico» mirante a raggiungere il 48-51% e a «raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia» in un quadro di capitalismo arretrato, linea a cui è funzionale il «partito unico socialdemocratizzato»; dall’altra, quella della rottura del centro-sinistra, dell’«alternativa socialista» e dell’incontro con le masse cattoliche e con la sinistra Dc per «una politica di classe» capace di contrapporsi efficacemente al neocapitalismo. Anche se non lo dice esplicitamente, Libertini fa capire di temere che la prima sia la strategia del Pci, ed esorta decisamente il Psiup a scegliere la seconda148. Il gruppo dirigente psiuppino, comunque, non intende certo lasciare che i rapporti con il Pci si deteriorino seriamente. La rela-

Castelli (Brindisi), «iscritto al Psi da oltre 50 anni»: «Cercate di riparare il male fatto e [se] veramente, come dichiarate, volete aiutare la classe operaia, uniamo tutte le forze sinceramente socialiste e formiamo il grande partito dei lavoratori»; mentre Lorenzo Mascioli, di Moncalieri (Torino), scrive il 31 dicembre 1965: «La Dc può essere condizionata solo dall’esterno, e lo può essere solo da altra forza. Se questa forza è troppo debole, perché corrosa da continue scissioni, è logico attendersi il perdurare della politica conservatrice, contraria agli interessi dei lavoratori» (FIG, APSIUP, 1965, busta 3964, Corrispondenza singoli). 147   Ibid. (la lettera è del 21 novembre 1965). 148   L. Libertini, Due strategie, in «Mondo Nuovo», 10 gennaio 1965.

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zione di Vecchietti al Consiglio nazionale (21-22 gennaio), infatti, definisce «affrettata conclusione» quella che parla di «due strategie diverse o addirittura opposte nel movimento di classe»149, con ciò smentendo seccamente l’analisi di Libertini. E questi, pur senza ritrattare la propria posizione, chiarisce che «le divergenze strategiche vanno verificate e una nuova unità va ricercata non rimestando il passato bensì sui grandi problemi che ci stanno davanti»150, primo fra tutti quello che anche il segretario ha additato come prioritario: la crisi economica e sociale che ha colpito il paese, offrendo al capitalismo italiano l’occasione per una profonda riorganizzazione della produzione e del lavoro. Le misure deflattive adottate dai primi due governi Moro provocano infatti una caduta della produzione industriale e degli investimenti destinata a riflettersi immediatamente sui livelli dell’occupazione e dei consumi. Al calo della produttività, che comporta una riduzione dei margini dei loro profitti, le imprese reagiscono cercando di contenere drasticamente l’aumento dei salari151. L’analisi del Psiup in proposito è univoca: si tratta, come denuncia Vittorio Foa al VI Congresso della Cgil, «[di] un processo unitario, variamente differenziato, con mille e mille situazioni particolari, ma che si riconduce a un’unica matrice, l’intensificazione dello sfruttamento, l’aumento del profitto e il tentativo non solo di guadagnare di più oggi nei confronti dei lavoratori, ma di creare un nuovo rapporto di forze, una più docile disponibilità della forza lavoro per le misure da prendersi nel futuro». Foa ritiene tuttavia che dopo un iniziale disorientamento vengano da parte della classe operaia segnali nuovi di «grande combattività»152: e la centralità delle lotte del lavoro diventa il filo rosso della politica del Psiup nei mesi a seguire. La presentazione del Piano Pieraccini è per il partito una nuova conferma della vocazione moderata del centrosinistra: «non modifica e anzi difende il meccanismo capitalistico

  Ivi, 31 gennaio 1965.   Ibid. 151   L’economia italiana: 1945-1970, a cura di A. Graziani, il Mulino, Bologna 1975, pp. 72-74. 152   L’intervento vale a Foa la qualifica di «uomo più a sinistra d’Italia»: E. Forcella, In attesa della seconda ondata. Foa, l’uomo più a sinistra d’Italia, in «L’Espresso», 18 aprile 1965. 149 150

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di accumulazione; codifica il controllo degli investimenti da parte dei grandi gruppi finanziari [...] chiede ai lavoratori di accettare, con la politica dei redditi, le briglie e il morso dei padroni»153. È una posizione nettamente più dura di quella del Pci, che non può non ripercuotersi anche in altre direzioni. Quando, dopo una lunga gestazione, la Direzione comunista di aprile mette a punto una nuova proposta di unità delle sinistre che supera quella di Amendola, mirando soprattutto a coinvolgere la sinistra lombardiana del Psi154, il Psiup, pur non respingendola, le riserva un’accoglienza tiepida155. «Un dibattito che s’intensificasse ai vertici senza la partecipazione attiva della classe operaia e in una situazione di immobilismo e di rallentamento delle lotte di massa minaccerebbe di esaurirsi rapidamente o di trasformarsi in quella fuga in avanti che nessuno oggi vuole»156. E alcuni dirigenti locali sono anche più espliciti: per Pino Ferraris, segretario della federazione di Biella, una «nuova e autentica unità» con i comunisti deve costruirsi nelle lotte, ponendo «la fabbrica neocapitalistica al centro della ricerca teorica e della lotta pratica del movimento operaio»157. Su questo terreno, la stessa «esplosione del dibattito» all’interno del Pci158 offre notevoli spazi da sfruttare, anche se mette il Psiup in una posizione non facile. Elio Giovannini, uno dei dirigenti sindacali più importanti del partito, invita a prendere atto «senza falsi pudori» che «il problema del partito unico [...] è uno dei termini attraverso i quali si svolge una battaglia all’interno del Pci alla quale siamo profondamente interessati»159. Quella battaglia ha trovato un significativo momento di confronto nella confe  «Mondo Nuovo», 7 marzo 1965.   A. Höbel, Il Pci di Longo cit., pp. 129-132. 155   Gli sviluppi più significativi su questo terreno si hanno a livello delle tre federazioni giovanili, che tengono un convegno al Teatro Eliseo di Roma nel giugno 1965 (nel corso del quale emergono peraltro divisioni non secondarie) e poi continueranno per diversi mesi a livello locale a confrontarsi sul tema del partito unico del movimento operaio. Cfr. gli atti del convegno in «La città futura», quaderno I, supplemento al n. 14 del 15 ottobre 1965. 156   Le condizioni dell’unità, editoriale non firmato, in «Mondo Nuovo», 13 giugno 1965. 157   Atti del Consiglio nazionale dell’8-10 aprile, in «Mondo Nuovo», 18 aprile 1965. Un resoconto più completo è in FIG, APSIUP, 1965, busta 3951. 158   A. Höbel, Il Pci di Longo cit., pp. 138-158. 159   «Mondo Nuovo», 25 luglio 1967. 153 154

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renza operaia di Genova del maggio 1965. Le questioni che stanno provocando all’interno del gruppo dirigente del partito maggiore un dibattito vivace, ma attutito nelle sue ricadute pubbliche da molte cautele, sono aggredite nel Psiup in modo più diretto. Libertini, per esempio, pone sul tappeto un questione spinosa: quella del collegamento fra l’azione rivendicativa e l’azione politica. Non vi sono, secondo lui, nella fase cruciale di scontro sociale in atto, questioni sindacali che non siano «immediatamente questioni politiche», che non pongano subito «la questione del controllo del processo produttivo, delle scelte d’investimento, delle gerarchie dei consumi»: insomma «la questione del potere nella società e nella fabbrica, cuore della società». Non si tratta «di sostituire i sindacati ai partiti, né di far guidare i sindacati dai partiti». Ma la forza dei partiti, anche all’esterno delle fabbriche, deve essere concentrata a sostegno delle battaglie operaie: «Nella fabbrica avviene lo scontro decisivo. Non dimentichiamolo mai»160. Posizioni di questo tipo hanno già allora un retroterra consolidato in alcune federazioni del partito, che hanno tentato – in qualche caso riuscendovi – di assumere un ruolo di guida nelle lotte operaie. Il caso più emblematico è forse quello di Biella, dove all’inizio degli anni ’60, già all’interno della sinistra socialista, ha svolto un’intensa attività il gruppo guidato da Pino Ferraris, Franco Ramella (entrambi collaboratori dei «Quaderni Rossi») e Clemente Ciocchetti, che animano un «lavoro operaio» basato sull’inchiesta e sui giornali di fabbrica, scritti e redatti dai lavoratori del settore tessile161. La posizione dei biellesi trovava una certa eco nell’area piemontese, sia a Torino – dove però è temperata, nel partito e nella Cgil, dal pragmatismo meno ideologico di quadri come Andrea Dosio, Andrea Filippa e Gianni Alasia – sia nelle federazioni di Alessandria e di Ivrea. La prima in particolare è forse quella più vicina ai biellesi, e come loro esprime forti dubbi sulla linea e

  L. Libertini, Il partito e la fabbrica, in «Mondo Nuovo», 18 luglio 1965.   Sulla vicenda della sinistra socialista biellese si sofferma M. Condò, Per una storia del Psiup cit., pp. 291-297. V. anche Rapporto del compagno Pino Ferraris: tre anni di lavoro politico nelle fabbriche del biellese, in Potere Operaio 1962-1966. Un’esperienza di giornale di fabbrica nel Biellese, a cura di F. Ramella, P. Ferraris e C. Ciocchetti, Edizioni del Gallo, Milano 1968. 160 161

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sulle prospettive del partito a livello nazionale. Una risoluzione del Psiup alessandrino del 1965, «a destinazione interna e non pubblica», esorta a far uscire il partito, al centro e alla periferia, dall’attuale stato di provvisorietà. [...] Il Psiup non è un partito che possa vivere in una zona grigia della sinistra, tra velleità rinnovatrici e ambiguità in senso frontista, obiettivamente liquidatorie. [...] Non può venir meno ai suoi compiti, pena la sparizione162.

Altre federazioni, fuori dal Piemonte, condividono queste preoccupazioni: per esempio quelle di Piacenza (dove la tendenza operaista rappresentata da Nuccio Tirelli e Stefano Merli è maggioritaria), di Firenze o di Pisa (dove agiscono Guido Biondi, Silvano Miniati e Luciano Della Mea), del Veneto, in particolare a Venezia e Vicenza; ma anche particolari sezioni di Roma, (Portuense e Garbatella) o di Milano (dove il segretario Antonio Costa, personalmente sensibile alle istanze operaiste, cerca con fatica di mediare con altre anime del partito). C’è insomma tutta una rete di contatti fra militanti di varia provenienza che fin dall’inizio concepiscono il Psiup come «partito provvisorio» e che, ai primi segnali di ripresa delle lotte operaie, scalpitano per renderlo protagonista di una stagione di mobilitazione collettiva. Il convegno di fine ottobre 1965 sull’«azione di massa», introdotto da una relazione di Vincenzo Ansanelli163, teorizza che gli obiettivi rivendicativi – organici, salario, orario, classificazione delle mansioni – introducono elementi di «aperta rottura nell’organizzazione capitalistica dell’azienda, e quindi di tutto il processo di trasformazione capitalistica dell’economia»: i sindacalisti appaiono allineati a questo orientamento non meno dei «politici». Appare chiaro che il Psiup ambisce a ritagliarsi un ruolo di avanguardia nelle lotte che stanno riprendendo: e a farlo, come si vede dall’in-

162   FIG, APSIUP, 1965, busta 3957, Risoluzione interna della federazione provinciale di Alessandria del Psiup. 163   Ansanelli è un quadro di formazione morandiana, vicino a Vecchietti e Valori, e la sua «esposizione» al convegno dell’ottobre 1965 è di per sé una spia degli umori del partito in quella fase. Per la sua relazione e gli interventi che la seguono si veda «Mondo Nuovo», 7 novembre 1965.

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tervento del solito Libertini, in nome di una «scelta politica» che non solo rivendica l’attualità «del passaggio al socialismo nelle società capitalistiche avanzate»164, ma attacca alla radice la strategia del movimento operaio italiano fino ad allora seguita: quella che, muovendo «dalle tesi di Gramsci e Salvemini sul fallimento della rivoluzione borghese in Italia», da queste traeva la conclusione che il movimento operaio dovesse insinuarsi «nella contraddizione tra la borghesia e la sua rivoluzione incompiuta per portare avanti quest’ultima». A questa linea, che dà senza mezzi termini per «sconfitta», Libertini addebita di «aver confinato l’azione del partito nella sovrastruttura», causando «la pratica estromissione dei partiti di classe dalle grandi fabbriche». Certamente questa non è la posizione di tutto il partito, e dirigenti come Vecchietti, Valori e Gatto, con il loro pragmatico frontismo, la subiscono assai più di quanto la condividano. Ma il fatto stesso che trovi tanto rilievo sulla stampa del Psiup e che, sia pure in forme attenuate, ritorni nelle tesi elaborate dal partito per il suo primo congresso, in agenda a fine anno, è sufficiente a rendere i rapporti con il Pci piuttosto tesi. La reazione comunista, espressa dalla voce di autorevoli esponenti della corrente amendoliana, è secca e irritata, particolarmente nel contestare il termine di «sconfitta»: Il fatto che il movimento operaio, oltre a realizzare le conquiste storiche della Repubblica e della Costituzione, sia riuscito, in questi anni, a respingere tutti gli attacchi più pesanti alla democrazia, e sia riuscito soprattutto a mantenere vivo e grande un articolato movimento di massa, sindacale e politico – ribatte a Libertini Gerardo Chiaromonte – rende oggi il nostro paese diverso da altri paesi

164   La parola d’ordine dell’«attualità del socialismo» non è certo estranea al lessico del Pci di quegli anni, ma non è frequente trovare nel discorso pubblico comunista un rifiuto della razionalità economica del meccanismo di sviluppo capitalistico tanto esplicito quanto quello enunciato da Libertini. «È falso – dichiara quest’ultimo – che il modo nel quale si sviluppa l’economia italiana sotto la guida del profitto corrisponda a una razionalità oggettiva dalla quale non si può prescindere. C’è un’altra possibilità di sviluppo, senza disoccupazione, con una diversa distribuzione del reddito, con altre scelte di produzione e di consumo. Quando noi parliamo dell’attualità del socialismo, non facciamo un’enunciazione libresca, ma ci riferiamo proprio a questa realtà» (Le lotte operaie e la programmazione, in «Mondo Nuovo», 14 novembre 1965).

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dell’Europa occidentale e mantiene del tutto aperte le vie dello sviluppo democratico e socialista165.

Le riunioni della Direzione comunista svoltesi in novembre e dicembre, quando sono ormai note le tesi congressuali, mostrano chiaramente l’inquietudine del gruppo dirigente del Pci, denotando, tra l’altro, una notevole consapevolezza delle differenziazioni interne al Psiup, che pure non si sono manifestate ancora alla luce del sole. Il Consiglio nazionale del partito di via della Vite (15-16 luglio) ha infatti sì deciso di basare il dibattito congressuale su tesi e non su un documento unico, da accettare o respingere in blocco166: ma le tesi vengono elaborate dalla Direzione e su di esse si svolge, al successivo Consiglio nazionale del 21-22 ottobre167, un solo dibattito, dal quale non trapelano contrasti evidenti. Eppure il Pci sa evidentemente di più. Non solo Macaluso bolla la «debolezza politica impressionante» delle tesi, e Alicata attribuisce a Libertini e Ansanelli addirittura «posizioni provocatorie»168: emerge anche chiaramente la tendenza a distinguere, all’interno del Psiup, fra «buoni» e «cattivi». Longo prevede che Vecchietti, Gatto e Valori si batteranno «contro i gruppi estremisti che hanno nel partito per liberarsi dai limiti che oggi incontrano», e sempre Macaluso dichiara che essi avvertono «un problema di esistenza e presenza politica, e che l’attacco di sinistra di Libertini e altri comincia a incidere sulla loro piattaforma politica con il rischio di ridurli a un gruppo di pressione sul Pci. [...] Dicono, Vecchietti, Valori e Gatto, che hanno bisogno, nel momento in cui aprono la lotta contro la sinistra, di avere rapporti migliori con noi»169.

  G. Chiaromonte, Quale sconfitta?, in «Rinascita», 27 novembre 1965.   Il metodo aveva suscitato le riserve di Lelio Basso, che scrivendo a Valori esprimeva la sua delusione per una «elaborazione di vertice che rischia di passare sulla testa del partito»; secondo lui quasi nessuno avrebbe discusso le tesi, «forse lo farà qualche compagno, ma la maggioranza le accetterà a scatola chiusa e naturalmente non ne assimilerà nulla»: cfr. FB, AB, XV, busta 14, fasc. 68, Lettera di Lelio Basso a Dario Valori, 25 ottobre 1965. 167   FIG, APSIUP, 1965, busta 3953, con ampio riassunto in «Mondo Nuovo», 31 ottobre 1965. 168   FIG, APC, Direzione del 9 novembre 1965. 169   Ivi, Direzione del 3 dicembre 1965. 165 166

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In ogni caso, l’andamento del congresso del Psiup qualche fondamento alle preoccupazioni di via Botteghe Oscure lo fornisce. La triade su cui i comunisti fanno maggiore affidamento riprende, sia pure con minore enfasi, molte delle tesi che hanno caratterizzato la posizione del partito negli ultimi mesi. Solo Dario Valori mostra, in sintonia con l’impostazione del Pci, di guardare con un po’ di attenzione a ciò che si muove nel cielo della politica quotidiana, segnalando il «distacco» dal centrosinistra di «strati che in esso avevano creduto»170. La relazione di Tullio Vecchietti definisce politica dei redditi e programmazione «il momento di congiungimento fra il capitalismo e lo Stato», e ritiene sempre più necessario «che la lotta rivendicativa trovi il suo sbocco nella lotta per la contestazione del sistema al livello politico»171. Sebbene concluda il suo discorso con un esplicito rifiuto delle «tentazioni dell’estremismo», non rinuncia a mettere in discussione anche lui il totem comunista della «via italiana al socialismo», al quale riconosce soltanto il merito «di rifiutare modelli importati ed esperienze esterne maturate in condizioni storiche diverse da quelle italiane», ma di cui segnala l’inadeguatezza «nell’era dell’internazionalizzazione del capitalismo»172. Perfino il solitamente pragmatico Vincenzo Gatto proclama la necessità che l’azione del Psiup sia «già fin da ora inserita nella logica del socialismo», rifiutando ogni pretesa di condizionamento del sistema, e perseguendo invece una politica che incida «sui centri delle scelte del potere capitalista [e] gradualmente superi il sistema e lo rovesci»173. Se questo è il tono degli interventi dei dirigenti che il Pci considera più vicini, dall’insieme dei lavori congressuali viene una ventata di radicalismo. Libertini ripete tutte le sue critiche a una linea strategica complessiva del movimento operaio, che ritiene ormai «scavalcata» dallo sviluppo capitalistico174. Vittorio Foa chiude il suo discorso con un’esaltazione dell’«autonomia operaia» e della «fiducia profonda e ragionata nel fatto che si possa e si debba   Psiup, 1° Congresso Nazionale cit., p. 345.   Ivi, p. 35. 172   Ivi, pp. 62-63. 173   Ivi, p. 538. 174   Ivi, pp. 230-232. 170 171

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creare il socialismo in un Paese industrialmente avanzato»175 quale è ormai l’Italia. Lelio Basso, che a un anno dal passo indietro fatto subito dopo l’assemblea dell’Eur riprende un ruolo attivo nel partito e ne viene nominato presidente, teorizza la superiorità del socialismo sul capitalismo in ogni campo (morale, umano, sociale, ma anche tecnico-economico) e si richiama anche lui all’esigenza di «saper essere rivoluzionari nei paesi capitalistici avanzati, di colpire qui al cuore l’imperialismo ed il capitalismo avanzato». Anzi, non esita ad evocare «un’ultima soglia che bisognerà un certo giorno varcare, [...] pacificamente o violentemente»176. Ma forse i due interventi dai quali affiora più chiaramente il clima che si respira al congresso sono quelli di due quadri locali ma conosciuti a livello nazionale: Andrea Margheri, della federazione di Firenze, e Franco Boiardi, di quella di Reggio Emilia. Con accenti che anticipano il Sessantotto, ma ancora inconsueti per quegli anni, Margheri parla di «creare l’anti-Stato, il contropotere al sistema coordinato dal capitalismo, fondandoci sulle grandi masse, sulle forze produttive, sui nuovi ceti»: «[Vogliamo] cominciare a sognare ed illuderci che queste forze sociali sono già in movimento, cominciare a sognare e credere che tutto sia affidato alla spontaneità della protesta che nella società italiana matura»177. Boiardi, nel discorso «nel complesso più lontano, anche culturalmente, dalla concezione ‘storica’ della sinistra italiana»178, critica il concetto di riforme di struttura, «termine ambiguo» al quale si deve sostituire quello, più congruo, di «dualismo di potere»179, e addirittura sferra un attacco da sinistra (insolito anche nel Psiup) alla Costituzione italiana, che «ha rivelato col tempo di non sapere garantire se non libertà formali di derivazione ottocentesca [e] un tipo di democrazia meramente rappresentativa»180. La risoluzione finale del congresso (approvata con soli due voti contrari) rilancia il Psiup come «autonoma forza socialista»181. I   Ivi, p. 190.   Ivi, pp. 373-375, 385. 177   Ivi, p. 328. 178   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 248. 179   Psiup, 1° Congresso Nazionale cit., pp. 70-74. 180   Ivi, pp. 76-78. 181   La risoluzione finale del congresso è ivi, pp. 568-571, insieme con l’elenco dei componenti del Comitato centrale e della nuova Direzione. 175 176

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nuovi organismi dirigenti sono un Comitato centrale relativamente snello, di 81 componenti, e una Direzione di 21 membri182. Vecchietti è confermato segretario, Valori è nominato vicesegretario e Basso presidente del Comitato centrale; Giuseppe Avolio diventa direttore di «Mondo Nuovo» in luogo di Piero Ardenti. I commenti del mondo politico italiano al I Congresso del Psiup sono in un certo senso prevedibili: scontati quelli della Dc e della stampa «borghese»; il Pci glissa sugli elementi di dissenso messi in evidenza dai ruvidi commenti della Direzione, e ne sottolinea con soddisfazione lo spirito «unitario»183; il Psi, ormai avviato sulla strada dell’unificazione con il Psdi, affida al direttore dell’«Avanti!», Franco Gerardi, un commento che sembra la fotocopia di quelli di due anni prima alla scissione dell’Eur, definendo il Psiup «inutile», «scissionista», «chimerico», animato da «forte disoccupazione politica», in pratica un partito privo di spazio nella sinistra italiana184. Più aperto il giudizio dell’«Astrolabio», il settimanale di Ferruccio Parri, che riflette in buona parte anche l’orientamento della sinistra lombardiana: esso vede affiorare dal congresso «un’incertezza di fondo [...] tra un’azione riformatrice di trasformazione graduale della società e la strategia neoleninista di strumentalizzazione delle riforme in funzione eversiva dell’equilibrio di potere»185. Sono effettivamente le due anime che coesistono nel Psiup e che si apprestano a darsi battaglia.

182   Rispetto alla Direzione provvisoria che aveva guidato il partito nei primi due anni di vita le novità sono poche: se si considera che Basso e Lizzadri sono già stati cooptati in essa nell’aprile 1965, i nomi nuovi sono Ansanelli e Pupillo (in rappresentanza della Fgs del Psiup). Escono dalla Direzione il «decano» Alcide Malagugini e il sindacalista Luigi Nicosia. Non mancano polemiche: in particolare le vivaci lamentele di Schiavetti e Roda per la sottorappresentazione dei senatori nella Direzione, e una misurata lettera di dissenso di Luigi Nicosia del 3 gennaio (FIG, APSIUP, 1966, busta 3968). 183   Cfr. il commento, piuttosto anodino, di R. Lapiccirella, Il Congresso del Psiup, in «Rinascita», 25 dicembre 1965. Invece E. Macaluso, Il Psiup e la sinistra italiana, in «l’Unità», 23 dicembre 1965, pur riconoscendo l’importanza di «un’autonoma forza socialista», non rinuncia a rimproverarle la mancanza di un’elaborazione sugli «obiettivi intermedi». 184   F. Gerardi, Il congresso degli errori, in «Avanti!», 22 dicembre 1965. 185   Psiup. Come in uno specchio, in «L’Astrolabio», 26 dicembre 1965.

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Capitolo terzo

Un partito vitale ma diviso e le sue coordinate culturali

1. «Così si forgiano i militanti...» L’unanimità che pare caratterizzare le conclusioni del I Congresso del Psiup cela in realtà tensioni non sopite, che esplodono meno di un mese dopo, anche se nulla trapela all’esterno. È significativo che lo scontro coinvolga proprio il trio di dirigenti sul quale il Pci fa maggiore affidamento e riveli dissensi fra loro. L’11 gennaio Valori, da poco eletto vicesegretario, presenta a Vecchietti le sue dimissioni dalla carica, adducendo come motivo le «forti critiche» di cui è stato oggetto in Direzione l’operato della segreteria, «sia sul piano politico – questione dell’incontro con il Pci – sia sul piano della risoluzione dei problemi relativi agli incarichi di lavoro». Si può supporre che la parte più filo-comunista della Direzione gli abbia rimproverato un ruolo di «conciliatore» tra le tendenze diverse del partito, e forse qualche concessione eccessiva alla sinistra nella distribuzione delle responsabilità di lavoro1. Ciò sembra confermato dal fatto che, rientrate il 12 gennaio le dimissioni del vicesegretario, seguono immediatamente quelle di Vincenzo Gatto dalla Direzione. Questi formalmente contesta a Vecchietti e Valori di avere abbandonato nei fatti la concezione del partito che è stata alla base della fondazione del Psiup, il quale – dice – «ha 1   FIG, APSIUP, 1966, busta 3966, Lettera di Dario Valori a Vecchietti, 11 gennaio 1966.

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ragione di vita, funzione e ruolo soltanto se si colloca come componente socialista unitaria del movimento operaio italiano, forza unificatrice del movimento e non inerte e velleitario strumento di agitazione e di disgregazione»2. Il bersaglio di questa polemica pare soprattutto Lucio Libertini, il quale ha posto in Direzione tre questioni («collocazione nel movimento operaio internazionale, rapporti col partito comunista e rapporti col mondo cattolico») a cui Gatto ritiene che Vecchietti e Valori non abbiano risposto con sufficiente chiarezza. Ma probabilmente quello che gli brucia è di non essere stato confermato nella carica di vicesegretario, che dalla costituzione del Psiup ha ricoperto insieme a Valori. Anche le dimissioni di Gatto vengono respinte3, ma il gruppo dirigente del partito resta percorso da forti tensioni, che in autunno riemergeranno su più fronti. Date queste premesse, non c’è troppo da stupirsi se il Psiup vive i primi dieci mesi del 1966 ancora all’insegna della precarietà, navigando tra l’altro fra gli scogli di un difficile consolidamento organizzativo messo costantemente in forse da difficoltà finanziarie4. Il senso di orgoglio e di euforia che ha accompagnato il congresso di dicembre svanisce abbastanza presto, lasciando il posto alla frustrazione di un lavoro di Sisifo poco ricompensato dai risultati. Anche i dirigenti del Pci lo percepiscono: già nel marzo 1965 Longo aveva notato che «nei compagni del Psiup c’è un po’ uno stato di disperazione circa gli sviluppi del partito e la sua stessa funzione»5 e avrebbe aggiunto, qualche mese dopo: «sentono che i piccoli successi ottenuti non li fanno diventare una vera forza politica»6. La corrispondenza delle federazioni psiuppine riflette bene questo stato d’animo: basti citare la lettera di Sergio Clerico, segretario della federazione di Torino, a Sandro Menchinelli, responsabi  Ivi, Lettera di Vincenzo Gatto a Vecchietti, 11 gennaio 1966.   Vecchietti gli manda il 14 gennaio una secca lettera, in cui ricorda che «non è accettabile trasformare in una questione di indirizzo politico generale e di presunti capovolgimenti della linea congressuale una questione organizzativa interna relativa alle cariche di lavoro» (FIG, APSIUP, 1966, busta 3966, Segreteria). 4   Se ne trova ampia traccia nelle relazioni dei prefetti: si veda ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, 175/P/1, buste 14-16. 5   FIG, APC, Direzione del 30 marzo 1965. 6   FIG, APC, Direzione del 3 dicembre 1965. 2 3

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le nazionale dell’organizzazione. Clerico descrive il lavoro intensissimo svolto dalla sezione Morandi (che con meno di 100 iscritti copre un’area cittadina di 300.000 abitanti), e commenta sconsolato: Ebbene questo lavoro, che dura da sei mesi ininterrottamente, anzi, in crescendo, ha prodotto 9, dico nove, nuovi iscritti. Dei quali quattro studenti universitari! È veramente una cosa folle quanto ti costa di lavoro un misero risultato come questo. Tu dirai che così si forgiano i militanti... Al diavolo anche questo risultato!7

Da Biella un altro segretario, Franco Ramella, tocca invece il tasto dolente della precarietà finanziaria, non lesinando toni molto polemici nei confronti della dirigenza: Evidentemente la Direzione del Partito non si accontenta di veder morire i compagni di federazione di fatica, li vuole morti anche di fame. Se la nostra Federazione va avanti e si sviluppa, se il partito cresce politicamente e si espande in una situazione di questo genere, non più o non a lungo sopportabile, ciò è dovuto soltanto alla tensione politica straordinaria e sempre sorprendente dei militanti8.

È il riflesso di una situazione più generale di malcontento per il funzionamento della democrazia nel partito, che l’adozione di un nuovo statuto, nel giugno 1966, non sembra affatto aver risolto: tanto che Lucio Libertini, nel Comitato centrale del mese successivo, si dice preoccupato «della riproduzione di vecchie cose stantie, di una pericolosa tendenza a dissociare i principi dalla pratica secondo un falso concretismo», e dichiara: «non possiamo neppure affrontare sul piano teorico i problemi della democrazia del partito, se poi lasciamo che tra noi passi[no], a tratti, burocratismo, routine, deleghe permanenti non revocabili, meccanismi di selezione alla rovescia, se ci rassegniamo pigramente a strumenti logori e inadeguati»9.

  FIG, APSIUP, 1966, busta 3979, Regioni, Lettera del 25 maggio 1966.   Ivi, Lettera di Ramella a Franco Boiardi del 17 febbraio 1966. 9   FIG, APSIUP, busta 3966; nello stesso senso l’intervento di Pino Ferraris, ibid. 7 8

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Sul piano politico, la situazione sembra bloccata. La lunga crisi originata dalle dimissioni del secondo governo Moro, giunte a fine gennaio 1966, è risolta nel segno della continuità, rinnovando l’incarico allo statista pugliese, ma con una sostanziale differenza: la presenza, nella compagine ministeriale, di tutte le correnti della Dc, compresa quella più di destra diretta da Scelba10. Anche in occasione di questa crisi il Psiup non si fa notare per una particolare capacità d’iniziativa politica, limitandosi a uno scontato voto di opposizione nel dibattito alla Camera, motivato da un duro discorso di Lelio Basso11. Semmai, il partito si segnala per un maggiore attivismo su fronti diversi da quello parlamentare. Al di là dello sforzo costante di svolgere un ruolo attivo nelle lotte operaie, qualche interessante iniziativa viene assunta anche in altri campi. Nel maggio del 1966, per esempio, il partito tiene a Genova un convegno sull’industria a partecipazione statale12, e merita di essere segnalato anche il forte impegno nella scuola: il Psiup è il primo partito della sinistra a battersi – nell’ambito del Sindacato nazionale scuola media e della «Mozione 4» che ne rappresenta la tendenza di sinistra – per la formazione di un sindacato unitario della scuola aderente alla Cgil13. Sono iniziative che denotano un’indubbia vitalità e, nel secondo caso, anche capacità di guardare avanti, con esiti che si riveleranno significativi un paio d’anni dopo ma che, nell’immediato, non ampliano davvero l’area di consenso del partito. Dopo il già ricordato insuccesso delle elezioni regionali in Sarde-

10   Cfr. G. Tamburrano, Storia e cronaca cit., pp. 344-346, e Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra cit., pp. 209-210. Secondo Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi cit., p. 378, la «principale caratteristica» del terzo governo Moro fu «l’immobilismo». 11   L. Basso, Discorsi parlamentari cit., pp. 689-705. 12   FIG, APSIUP, 1966, busta 3967. La relazione principale, ricca di spunti interessanti, è di Libertini, il quale è già intervenuto sul tema in febbraio con un documento a nome della Sezione economica sull’ipotesi di fusione EdisonMontecatini e sulla proposta di nazionalizzazione avanzata dal Pci, individuando nel settore pubblico «un terreno nuovo di lotta, un luogo di contraddizioni profonde con il capitalismo privato, un punto importante sul quale far leva per sviluppare le contraddizioni e per promuovere un nuovo e diverso tipo di sviluppo» (FIG, APSIUP, 1966, busta 3966). 13   FIG, APSIUP, 1966, buste 3966, Circolari delle sezioni di lavoro, e 3968, Sezione scuola, documento di Giorgio Canestri, non datato.

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gna, non è certo stato incoraggiante l’esito delle amministrative parziali del 12 giugno 1966: con 5 milioni di italiani alle urne, il Psiup raccoglie solo 76.743 voti, pari a un modesto 2,4%14. Nelle due maggiori città in cui si è votato si è presentato in alleanza con i radicali15, ma a Roma ottiene solo il 2,1% e a Genova, dove si trascina una crisi cronica della federazione, va anche peggio, con l’1,8%. In pratica, il partito rischia di vedere esaurito quel tanto di slancio che ha accompagnato e seguito la scissione. In queste condizioni, la riunificazione tra Psi e Psdi, portata a termine nell’ottobre del 1966 dopo essere stata avviata un anno prima dal XXXVI Congresso socialista, rappresenta per il Psiup quasi una ciambella di salvataggio, o comunque una chance di ripresa. La «riunificazione socialdemocratica» – come i dirigenti psiuppini sempre la definiranno – non fa che confermare l’analisi sulla totale irrecuperabilità del Psi a una prospettiva socialista. Come scrive Basso, il nuovo partito nasce «sotto il segno della più screditata prassi trasformistica, quella del divorzio fra le parole e gli atti», e sancisce «la definitiva vittoria del Psdi sul Psi»16. Negli stessi giorni la relazione di Vecchietti al Comitato centrale coglie con lucidità la particolare natura del Psu: Si manifesta la tendenza a dar vita a un partito socialdemocratico che, ideologicamente e propagandisticamente, si rifà, sì, ai modelli socialdemocratici europei, ma che, diversamente da essi, invece di avere la propria forza nella classe operaia inserita in un sistema capitalistico avanzato, riscuote fiducia fra forze clientelari, nel sottoproletariato, fra alcuni ceti medi laici alla ricerca di un riequilibrio politico all’interno del sistema. [...] Sarebbe dannoso confondere la socialdemocrazia italiana con le socialdemocrazie europee17.

  «Mondo Nuovo», 19 giugno 1966.   La scelta non ha mancato di suscitare qualche polemica: si veda per esempio la lettera del 24 agosto 1966 da Firenze di Ferruccio Bentivegna a Pino Tagliazucchi, in cui si chiedono chiarimenti sul rapporto del partito con i radicali, e in particolare con Pannella: «È mai possibile che il nostro partito abbia avuto rapporti con una delle più ambigue, storte, pretine figure che io conosca?» (FIG, APSIUP, 1966, busta 3969). 16   L. Basso, Il socialismo in soffitta, in «Mondo Nuovo», 17 luglio 1966. 17   Ivi, 24 luglio 1966. 14 15

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In settembre la Direzione Psiup lancia alla minoranza di sinistra del Psi un appello a non entrare nel nuovo partito18, ma i suoi sforzi non hanno successo: la maggioranza della corrente di Lombardi, pur fortemente contraria, non si risolve alla scissione e solo una componente numericamente esigua, guidata da Luigi Anderlini, Tullia Carettoni e Simone Gatto, costituisce il Movimento socialisti autonomi (Mas). Nei confronti di questa formazione, l’atteggiamento del Psiup è quello di «aiutarne e incoraggiarne la costituzione [come] un fatto di opportunità contingente», senza però escludere un’azione «di attrazione e di reclutamento laddove queste forze sono mature»19. In realtà il Mas respinge la sirena del Psiup, e guarda semmai con più attenzione alla sponda del Pci20. Quest’ultimo, del resto, anche se valuta con molta preoccupazione l’unificazione tra Psi e Psdi, non condivide il giudizio del Psiup sulla «irrecuperabilità» del Psi, e cerca di uscire dal proprio isolamento inserendosi nelle contraddizioni mostrate dal Psu. Nella riunione di Direzione del 10 novembre 1966 Longo è molto esplicito: Circa il Psiup, il quale pensa che non c’è niente da fare con l’insieme del nuovo partito e i suoi stessi gruppi di sinistra, dobbiamo precisare la nostra posizione, che è diversa. L’azione verso il nuovo partito deve rivolgersi non ai residui della sinistra, ma alla base operaia socialista. Dobbiamo anche vedere che cosa fare nei confronti del Psiup, il quale conduce un’azione che ci crea difficoltà [...] il Psiup punta su una differenziazione da noi su una linea estremistica21.

Ma il partito di via della Vite è deciso a sfruttare fino in fondo, anche in vista delle prossime scadenze elettorali, il «profondo senso di delusione e di incertezza, che spesso si traduce in disimpegno»22, da cui sono investiti molti militanti socialisti di

  Ivi, 18 settembre 1966.   FIG, APSIUP, 1966, busta 3966, Circolare di Menchinelli del 31 ottobre 1966. 20   Il solo gruppo consistente di ex componenti del Movimento socialisti autonomi che deciderà (peraltro solo all’inizio del 1968) di entrare nel Psiup è quello formato da una trentina di sindacalisti di diverse province del Nord guidati da Fausto Bertinotti. Cfr. in proposito «Mondo Nuovo», 21 gennaio 1968. 21   FIG, APC, Direzione del 10 novembre 1966. 22   FIG, APSIUP, 1966, busta 3966, Circolare di Menchinelli cit. 18 19

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base e uomini della sinistra laica e socialista che hanno sperato di creare un forte contrappeso all’egemonia della Dc nella coalizione di governo. Accantonata presto la speranza di assorbire il Mas, viene dunque avviata, con un discreto successo, una campagna di reclutamento in questa direzione. A Roma, l’11 dicembre 1966, decine di migliaia di persone sfilano in corteo in una manifestazione nazionale di «orgoglio di partito». Pochi giorni dopo, in una lettera ai segretari delle federazioni, Vecchietti ne riferisce con entusiasmo: Siamo divenuti un punto di riferimento per gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra e i giovani, e per quelle forze che dentro e fuori agli altri partiti subiscono un profondo travaglio di ripensamento critico per fini costruttivi e aspirano a un rilancio delle sinistre, comprese quelle cattoliche23.

Il vento è cambiato; a partire dalla fine del 1966 il Psiup registra un aumento di consenso che si riflette in una serie di successi elettorali: sia alle amministrative parziali del 27 novembre 1966, sia alle elezioni regionali siciliane dell’11 giugno 1967 (dove si presenta da solo) supera il 4%, con punte di molto superiori al 5%. Gli stessi comunisti prendono atto di questa inversione di rotta, e in Direzione qualcuno, come Nilde Iotti, vede lucidamente che «l’avanzata del Psiup non deve essere considerata solo sotto l’angolo visuale dei voti che vengono dal campo socialista. C’è anche un notevole concorso di forze giovani attirate dal rigore ideologico e dal sinistrismo del Psiup»24. Con questa inversione di rotta, il Psiup mostra in molti campi uno slancio e una combattività rinnovati. In una «Nota di orientamento e di lavoro» del 13 marzo 1967, annunciando entro breve una conferenza d’organizzazione25, Menchinelli richiama la necessità di «una coraggiosa proiezione esterna del partito a tutti i livelli, con iniziative grandi e piccole, ma in ogni caso aderenti alla

  Ivi, Lettera di Vecchietti alle federazioni, 13 dicembre 1966.   FIG, APC, Direzione del 30 novembre 1966. 25   In realtà la conferenza d’organizzazione, sulla quale «Mondo Nuovo» continua per tutto l’anno a ospitare interventi di dirigenti delle organizzazioni periferiche, si svolgerà solo nel gennaio del 1968. 23 24

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realtà sociale, ai bisogni che sorgono, alle necessità che categorie diverse esprimono in forme e con criteri del tutto estranei al nostro modo di concepire la lotta politica»26. Si comincia con una battaglia non facile, quella che la corrente sindacale del Psiup conduce per marcare la propria differenza dall’atteggiamento possibilista della Cgil (e indirettamente del Pci) di fronte al Piano Pieraccini27. Quando si arriva al voto alla Camera, i deputati del Psiup membri della direzione della Cgil, anziché astenersi come quelli del Pci e del Psi, votano contro. Nella dichiarazione di voto Foa sottolinea che è inaccettabile che il salario «possa abdicare alla sua storica funzione di stimolo al progresso tecnico ed economico e registrare in modo subalterno, sulla sua dimensione, le scelte già fatte», e denuncia il rischio della «perdita di ogni autonomia del sindacato»28, fattosi minaccioso dopo che la riunificazione PsiPsdi ha riavviato la discussione su un «sindacato socialista». La battaglia dei sindacalisti del Psiup intercetta così anche il disagio di frange diverse del mondo sindacale, specialmente nella FimCisl, e dà un significato particolare al discorso sull’incompatibilità fra cariche politiche e sindacali che comincia a farsi strada nelle confederazioni. In ogni caso, la scelta compiuta dal partito di fronte al Piano Pieraccini non è solo una riaffermazione di principio del rifiuto della «razionalità capitalistica»: essa vuole affermare «una nuova scala di priorità e in definitiva un nuovo meccanismo di accumulazione», rispetto alla quale ogni singola battaglia locale e parziale «sulle infrastrutture, sulla riforma agraria, sui trasporti e così via» non è in sé decisiva, ma sommata alle altre diventa capace «di incidere sul sistema»29. È un’interpretazione delle «riforme di struttura» aggiornata a una fase di conflittualità sociale di cui si scorgono i primi segni, e che si traduce in un intenso sforzo del partito in ogni campo. A marzo la federazione milanese diffonde e si impegna a far discutere 26   FIG, APSIUP, 1967, busta 3981, Sezione organizzazione, Nota di orientamento e di lavoro, 13 marzo 1967. 27   Ivi, Sezione massa, Informazione firmata Ansanelli sulla situazione della Cgil e la discussione del piano. 28   Ivi, Dichiarazione di voto del compagno Foa contro il Piano Pieraccini, 17 marzo 1967. 29   FIG, APSIUP, 1967, busta 3979, Documento della commissione economica del 2 febbraio 1967.

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nelle fabbriche una «carta rivendicativa programmatica» in nove punti che contiene, fra l’altro, richieste estremamente concrete: riduzione dell’orario di lavoro a 6 ore al giorno o 35 alla settimana; riforma del sistema scolastico che garantisca il diritto allo studio a tutti i cittadini attraverso una scuola democratica, gratuita e a tempo pieno; richiesta di «una casa civile per tutti i lavoratori», con un livello degli affitti che non superi una quota minima di salario; assistenza farmaceutica e ospedaliera gratuita per tutti; riforma generale delle pensioni agganciandole all’ultimo salario percepito e abbassando i limiti di età. Sono rivendicazioni concepite in un’ottica di alternativa ideologica «al sistema», che intendono uscire dall’«ambiguità paralizzante per cui una rivendicazione in quanto tale è materia sindacale che non compete al partito»30: in realtà non è difficile scorgervi un’anticipazione dei temi sui quali crescerà e dilagherà l’onda della mobilitazione collettiva del 1969-70. È solo una delle molteplici iniziative che il partito, pervaso da un attivismo febbrile, lancia nel corso dell’anno: lasciando da parte l’impegno sulle questioni internazionali, di cui si è detto, un convegno a Reggio Emilia sulla cooperazione, e nella stessa città un incontro su Socialisti e cattolici contro il rinnovo del Patto atlantico e per una politica di coesistenza di pace, un altro a Messina sull’assistenza e la sicurezza sociale, una conferenza economica sull’Italia del Nord, vari convegni sulla scuola in varie città31. Più intenso si fa il dibattito con alcuni settori della sinistra cattolica, a cui «Mondo Nuovo» dedica molta attenzione, ed emerge una particolare sensibilità per i fermenti di inquietudine che percorrono categorie e gruppi associativi tradizionalmente distanti dalla sinistra: mentre arriva in porto la costituzione della Cgil scuola, a cui le componenti psiuppine hanno dato un forte contributo, si guarda con interesse alle spinte di democratizzazione che interessano l’associazionismo di avvocati e magistrati32. In questa prospettiva, non stupisce che fin dall’inizio il Psiup mostri di avere antenne particolarmente sensibili nei confronti del movimento studentesco che agita le università, con le occupazioni   L. Della Mea, Per far saltare l’anello, in «Mondo Nuovo», 12 marzo 1967.   FIG, APSIUP, 1967, busta 3979. 32   FIG, APSIUP, 1967, busta 3981, Circolari firmate rispettivamente da Ansanelli e Sanna e da Ansanelli, non datate. 30 31

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di atenei che si succedono tra l’autunno del 1966 e la primavera del 1967 (Trento, Milano, Torino, Pisa ecc.) e l’ondata di protesta seguita alla morte dello studente Paolo Rossi alla Sapienza di Roma33. Ci si rende conto che le organizzazioni rappresentative tradizionali stentano a dar voce a quel fermento, ed esplicitamente si teorizza che le lotte studentesche, essendo la scuola diventata «un momento essenziale dell’organizzazione del consenso della forza lavoro in formazione alle strutture capitalistiche della società», debbano assumere «la dimensione dello scontro di classe». Angela Trivulzio e Giuseppe Trulli, la prima responsabile della Commissione scuola, il secondo membro del direttivo della Federazione giovanile, constatando con soddisfazione e non senza fondamento che «i compagni universitari del Psiup si sono sempre trovati alla testa delle lotte, e nella grande maggioranza dei casi ne sono stati gli animatori e i coordinatori», individuano il senso della lotta universitaria per la riforma innanzitutto «[nell’]aprire sul fronte della scuola una battaglia realmente contestatrice del sistema, che ne rifiuti le strutture autoritarie, i metodi di insegnamento, le finalità culturali e politiche»34. E Piero Ardenti chiede di prestare a quelle agitazioni «estrema attenzione», non per miticamente o acriticamente sopravvalutarle, o per scoprire chissà quale ‘formula’ nuova buona per tutti o quasi, ma soprattutto per cogliere in essi quanto di più interessante, quanto di più stimolante vi sia per la sinistra italiana, per un insieme cioè di partiti e di gruppi impegnati, storicamente, nel processo di trasformazione della nostra società35.

È nel contesto di questa attenzione, stimolata dalle agitazioni studentesche – ma non solo –, che si sviluppa nel corso del 1967 sulle colonne di «Mondo Nuovo» un dibattito molto vivace sul ruolo dei gruppi minoritari36. Lo spunto viene in realtà fornito all’inizio 33   Si veda in generale G. Crainz, Il paese mancato cit., pp. 217-233, e per una cronologia accurata www.fondazionecipriani.it, Cronologia, anni 1966 e 1967, alla voce Movimenti contestativi. 34   Dalla riforma alla lotta antimperialista. L’impegno dei giovani nelle Università, in «Mondo Nuovo», 14 maggio 1967. In FIG, APSIUP, 1967, busta 3982, è contenuta un’ingente documentazione sulle lotte degli studenti universitari. 35   Qualcosa di nuovo, in «Mondo Nuovo», 7 maggio 1967. 36   Un panorama esauriente dei gruppi di estrema sinistra è in A. Ventrone,

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di febbraio da una vicenda interna alla federazione di Bologna, che suona come un segnale dell’influsso che i gruppi estremisti nati a sinistra dei partiti «storici» del movimento operaio hanno sulla base giovanile del Psiup: tre iscritti sono espulsi per «attività frazionistica» (hanno diffuso volantini ciclostilati del gruppo «Classe Operaia» in cui si attaccano il Pci e lo stesso Psiup)37. A termini di statuto, le motivazioni del provvedimento sono difficilmente contestabili, tuttavia l’inconsueta sollecitudine delle misure disciplinari, adottate senza dibattito preliminare in un partito fino a quel momento tollerante verso i dissensi, crea molte polemiche interne38. Comunque, l’episodio dimostra che la linea di confine fra partito e gruppi, fra partito e movimento, si sta facendo sottile, suscitando nel partito stesso reazioni contrastanti. La direzione di «Mondo Nuovo» apre le colonne del giornale a una discussione che si protrae per alcuni mesi, e che tocca nervi scoperti anche nel gruppo dirigente. Valori, per esempio, in una lettera del 14 luglio ad Avolio, non nasconde di ritenere «profondamente sbagliata l’iniziativa in se stessa, per l’ampiezza e la durata che le è stata conferita»39: ma evidentemente lo stesso Vecchietti ha giudicato opportuno non impedirla. Nel dibattito intervengono diversi militanti psiuppini e dei gruppi, ma, almeno nella prima fase, anche giovani della Fgci: tra questi il futuro assessore alla Cultura a Roma, Renato Nicolini (allora studente di architettura), che lascia ben trasparire la diffidenza dei comunisti italiani verso i gruppi:

“Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione. 19601968, Laterza, Roma-Bari 2012, che però curiosamente ignora il dibattito su «Mondo Nuovo». 37   Ne dà notizia «Mondo Nuovo», 26 febbraio 1967. Sull’episodio v. anche S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., pp. 89-91. 38   Se ne hanno molte tracce nell’archivio di Lelio Basso, a cui alcuni militanti bolognesi chiedono di consentire al partito, in qualità di presidente, il «diritto al dissenso» di chi sostiene «posizioni politiche che, se anche divergenti con la linea ufficiale del Partito, non sono però estranee alla problematica più generale del movimento di classe» (FB, AB, XXV, busta 23, fasc. 2/174, Lettera di Albertazzi, Andalò, Coniglio e altri a Basso, 24 febbraio 1967). Basso risponde con freddezza, giustificando il provvedimento disciplinare, ma in una lettera a Vecchietti del 1° marzo (ivi, fasc. 3/197) esprime «riserve sul metodo, in quanto è chiaro dalle vaste reazioni che il gruppo dirigente della federazione di Bologna non ha sufficientemente preparato la soluzione a cui ha voluto pervenire». 39   FIG, APSIUP, 1967, busta 3980, Lettere del 14 maggio e del 18 luglio 1967.

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Non mi sembra giusto assumere un atteggiamento astrattamente ‘conciliatore’ verso quei gruppi che, resisi conto dei limiti ‘intellettuali’ della propria esperienza, sentono oggi l’esigenza di un collegamento pratico – non solo teorico – con la classe, attraverso gli strumenti della lotta politica, in primo luogo il partito [...] se ritorno al partito significa rientro nei partiti esistenti questa scelta va giustificata con maggiore chiarezza e – soprattutto – coerenza40.

I militanti del Psiup mostrano in generale un atteggiamento più aperto e problematico. In particolare, Piero Ardenti invita a tenere presente che esiste, specie tra le nuove generazioni, un impegno politico che travalica spesso i partiti, ma anche i gruppi in quanto tali, ed esprime «nuove forme di partecipazione politica che interessano tutta la sinistra italiana ma di cui nessuna è rappresentante in particolare»41. Tirando poi le fila della discussione, Giuseppe Avolio respinge le critiche di chi ha voluto vedere nel dialogo del Psiup con i gruppi «una rozza manovra per coprire in malo modo un attacco di forze esterne o di ‘provocatori’ contro il movimento di classe in generale e in particolare, per dire le cose con chiarezza, il Partito comunista», e ribadisce che «l’esigenza della discussione, dello scontro e dell’incontro con tutte le posizioni è indispensabile»42. Dal canto loro gli esponenti dei gruppi minoritari intervenuti nel dibattito mostrano una notevole varietà di posizioni, che vanno dalle persistenti dure critiche del gruppo di «Nuovo Impegno» di Pisa43 ai riconoscimenti di Alberto Asor Rosa, già leader di «Classe Operaia», che si sta ormai avvicinando al Psiup dichiarando di vedervi «un’avanguardia, ma capace di portarsi dietro il grosso del movimento»44.

  «Mondo Nuovo», 23 aprile 1967 (corsivo nell’originale).   Ivi, 18 giugno 1967. 42   Il senso del dibattito, ivi, 30 luglio 1967. 43   Il rapporto con «Nuovo Impegno» è il più spinoso, perché in quel gruppo rivestono un ruolo di primo piano militanti iscritti anche al Psiup, a cominciare da Luciano Della Mea. Avolio stesso, nel citato intervento conclusivo, e più volte Valori, in stizzite lettere allo stesso Avolio, denunciano l’incoerenza di questo comportamento. 44   Il Partito come strumento, in «Mondo Nuovo», 25 giugno 1967. Asor Rosa entrerà nel Psiup all’inizio del 1968, mentre lanciava una nuova rivista, «Contropiano». 40 41

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2. Un partito vitale ma diviso Il Psiup è così la prima forza politica italiana a chiedersi cosa accade, per così dire, a sinistra della sinistra ufficiale, mentre è a sua volta riconosciuto, almeno dalla prima generazione dei gruppi minoritari45, come un interlocutore decisamente più disponibile del Pci: e di questo riconoscimento senza dubbio beneficia, almeno sul piano della vivacità e dell’apertura culturali. La ricaduta in termini di iscritti sembra invece abbastanza modesta. A fine ottobre 1967 Menchinelli, responsabile dell’organizzazione, segnala – a chiusura della campagna di tesseramento – un «leggero aumento» rispetto al 1966, commentandolo come un fatto positivo ma non tale da modificare «un giudizio che investe complessivamente tutta la nostra organizzazione, e cioè che il partito riesce con molte difficoltà a superare le dimensioni numeriche conseguite all’indomani della sua costituzione»46. In effetti, l’aumento di iscritti si deve soprattutto alla Sicilia (dove la campagna elettorale per le regionali ha incentivato il reclutamento), e ancor più all’adesione dell’ex federazione del Psi del Belgio, che da sola conta oltre 2000 iscritti. Queste difficoltà di sviluppo sono anche il riflesso di un partito vitale, certo, ma diviso al suo interno fra anime e tendenze diverse. I contrasti, sempre presenti sotto traccia, si sono già manifestati nel 1966, cristallizzandosi, come si è visto, soprattutto intorno alle questioni internazionali, le quali però appaiono spesso un pretesto per rese di conti diverse. Nel corso dei mesi successivi le divergenze e le polemiche in buona parte artificiose sulla collocazione internazionale del partito si stemperano, ma le tensioni interne non 45   Lo testimonia anche un commento particolarmente significativo – quello, apparso nel novembre 1965, dei «Quaderni Rossi» – alle tesi per il I Congresso del partito. Vittorio Rieser, estensore del lungo opuscolo, pur giudicandole in alcune parti «più avanzate di qualsiasi altro documento ufficiale del movimento operaio», vedeva in esse, come in generale nella politica del Psiup dalla sua fondazione, «il rifiuto di trarre [da posizioni teoriche assai avanzate] alcune conseguenze pratiche e di unire alla differenziazione ideologica dal Pci una conseguente critica radicale della sua attuale linea politica» (Il Psiup nell’attuale situazione della lotta di classe, in «Lettera dei Quaderni Rossi», n. 11, novembre 1965, pp. 20 e 14). 46   FIG, APSIUP, 1967, busta 3979, Relazione di Vincenzo Ansanelli alla Conferenza Problemi e prospettive della condizione operaia, 20-22 ottobre 1967.

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sono affatto sopite, e tornano a manifestarsi con maggiore evidenza verso la fine dell’anno, con l’intensificarsi della discussione sulla conferenza di organizzazione. Ad aprire il fuoco è questa volta Lucio Libertini, il quale l’8 settembre fa pervenire ai membri del Comitato centrale un corposo promemoria, che dichiara «redatto con spirito unitario e a fini unitari»: per sua stessa ammissione esso utilizza «in alcune questioni» le Tesi sul partito di classe redatte insieme a Panzieri nel 1958, oltre che contributi di discussione apparsi su «Problemi del socialismo» e il materiale prodotto negli ultimi anni dalla Commissione economica da lui diretta. Si tratta di un documento molto ambizioso, quasi metà del quale ripercorre criticamente le esperienze organizzative del movimento operaio nel passato: non risparmia la concezione morandiana del partito e rimprovera a quella comunista di matrice gramsciana-togliattiana di essere incapace di misurarsi con i punti alti dello sviluppo capitalistico. Due sono i punti su cui Libertini maggiormente insiste: «la decisiva importanza della presenza organizzata del partito nelle strutture produttive», per assicurare «il collegamento tra l’azione rivendicativa e la battaglia per il controllo operaio e l’esproprio dei mezzi di produzione», e la democrazia interna di partito. Su questo tema Libertini dichiara senza mezzi termini: Dopo tanti anni di monolitismo, abbiamo bisogno di una tempesta di libertà, di aprire porte e finestre [perché] la sostanza della vita democratica è la libera circolazione delle idee nel partito [...] Formulazioni come quelle che nel passato hanno creduto di opporre «un partito di combattenti» a un «partito di discussori» sono l’ipocrita espressione della disciplina burocratica [...] l’estremismo a volte affiorante, e verso il quale non è consentita alcuna paternalistica indulgenza, nasce sempre dal burocratismo47.

È trasparente la polemica con la gestione del gruppo dirigente in carica, e infatti il documento suscita l’irritata reazione di Dario Valori, che scrive a Vecchietti contestandolo nel metodo («se ognuno di noi seguisse il metodo di Libertini il Partito diverrebbe un caos e ogni convegno nazionale una caotica assemblea») e nel 47   Ivi, Promemoria per la conferenza d’organizzazione, a firma Lucio Libertini, pp. 63-64.

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merito (soprattutto per le critiche a Morandi). A riprova di quanto il clima nella Direzione del partito sia stato negli ultimi mesi tutt’altro che idilliaco, il vicesegretario dichiara di aver fatto «il possibile e l’immaginabile per utilizzare tutte le energie del Partito, ivi compresa la persona di Libertini»; ma – conclude – «evidentemente lo spirito unitario viene interpretato come uno spirito di rassegnazione e di rinuncia» a cui si dice «non disposto a sottostare»48. Il contrasto viene faticosamente ricomposto nelle successive riunioni della Commissione organizzazione e della Direzione, e non traspare all’esterno. Ma quasi subito si riaccende, in seguito ad una «lettera aperta» che Libertini indirizza ad Ingrao, pubblicandola su «Mondo Nuovo», in cui si affrontano i temi dell’incompatibilità fra cariche politiche e cariche sindacali e i rischi di «istituzionalizzazione» che il responsabile della Commissione economica del Psiup vede incombere sul sindacato49. Il dialogo prosegue, su «Rinascita» e ancora su «Mondo Nuovo»50, lasciando l’impressione di un’ampia convergenza di vedute fra Libertini e Ingrao, tra l’altro con positivi apprezzamenti di quest’ultimo sul Psiup e la sua corrente sindacale: ma ancora una volta Valori attacca «il metodo singolare in base al quale trovo il giornale di partito, e quindi in pratica il partito, già impegnato in un dibattito [...] senza che l’opportunità e i modi di porre una questione di questo genere siano stati discussi né con la segreteria né con il compagno responsabile del lavoro di massa»51. Libertini risponde per le rime («così non può andare avanti»), ma presto il contrasto tra le anime del partito riemerge su una questione ben più scottante. La proposta di un accordo elettorale esclusivamente per il Senato (dove la procedura di redistribuzione dei seggi su base regionale sfavorisce le piccole forze) viene, a quanto pare, avanzata dal Psiup: le trattative sono condotte nei mesi di ottobre e novembre da Valori per il Psiup e da Napolitano per il Pci, e sfociano alla fine di dicem-

48   FIG, APSIUP, 1967, busta 3980, Lettera di Valori a Vecchietti, 11 settembre 1967. 49   Sindacato, Stato, partiti, in «Mondo Nuovo», 17 settembre 1967. 50   P. Ingrao, Risposta a Mondo Nuovo, in «Rinascita», 22 settembre 1967; L. Libertini, Il problema essenziale, in «Mondo Nuovo», 8 ottobre 1967. 51   FIG, APSIUP, 1967, busta 3980, Lettera di Valori a Libertini, 14 settembre 1967, e la risposta del secondo, 15 settembre 1967.

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bre in un accordo basato su un documento comune. La direzione del Pci si riunisce una prima volta per affrontare la questione il 6 ottobre, e mostra ancora incertezza sulla forma da dare all’accordo: mentre il Psiup chiede che esso coinvolga solo le regioni in cui il quorum del partito è a rischio, i comunisti preferiscono un’intesa generale, valida per tutta l’Italia. Solo Ingrao mostra su questo delle riserve: «Non sono convinto che si debba dire: in tutte le regioni, o niente. Sarebbero già importanti alcune grandi regioni». Ma la vera sostanza della questione politica è toccata in modo diretto da Berlinguer: «Ci interessa esercitare un certo condizionamento politico sull’impostazione del Psiup». E Napolitano, concludendo, rincara la dose in termini anche più crudi: La realtà del Psiup nel suo complesso in molte regioni è molto diversa dalla posizione del gruppo dirigente più responsabile. C’è in atto anche una certa attività di provocazione contro il nostro Partito. [...] Un accordo deve servire a far maturare un processo nel Psiup, che serva a una battaglia contro l’estremismo anticomunista di Libertini52.

Le trattative per l’intesa proseguono per tutto ottobre e per buona parte di novembre. Qualcuno, nella Direzione del Pci del 16 novembre, esprime la preoccupazione che si stia tirando troppo la corda, imponendo al Psiup un documento politico che snaturerebbe troppo la sua linea: Che cosa vogliamo per le prossime elezioni? – si chiede Giancarlo Pajetta – Non possiamo andarvi con il fastidio di avere per la prima volta qualcuno alla nostra sinistra. [...] Se il Psiup finisce alla nostra sinistra a denunciarci, non per questo troviamo a destra altri alleati.

E un uomo della vecchia guardia come Colombi è anche più esplicito: Il Psiup è fatto dei compagni che si sono opposti al rovesciamento delle alleanze, per cui certe insofferenze nostre sono incomprensibili. Certo nei sindacati il Psiup rompe le scatole, ma non le rompe meno il Psu.   FIG, APC, Direzione del 6 ottobre 1967.

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Tuttavia prevale una linea «dura», e a sostenerla sono anche alcuni esponenti della sinistra, come Reichlin: Il testo proposto è sostanzialmente contraddittorio con la politica del Psiup, è buono e ci è utile. [...] Il punto più importante è però un altro. Nella vita del Psiup si è giunti a un momento decisivo, con due linee che si affrontano: una che vede in prospettiva una certa confluenza con noi, e una che tende alla lotta contro di noi e alla scissione53.

Il Comitato centrale del Psiup del 22 e 23 novembre è chiamato a discutere una proposta di accordo elettorale per il Senato valido per tutta l’Italia, mentre del documento che l’accompagna vengono rese note solo le linee generali. Il Comitato centrale, a maggioranza, è favorevole in linea di massima ad appoggiare l’intesa col Pci, ma all’unanimità decide di sentire prima il parere delle federazioni locali. In una lettera inviata a tutti i direttivi, Vecchietti anticipa sommariamente i contenuti del preambolo politico che dovrà accompagnare l’intesa, e che saranno poi ripresi nel documento finale sottoscritto dai due partiti. Enuncia le ragioni a favore dell’accordo (che dovrebbe far guadagnare alle sinistre dagli 8 ai 15 senatori in più) e quelle contro di esso, che riassume con apprezzabile equilibrio: l’accordo rischia di limitare la penetrazione elettorale nell’area socialista e tra i giovani, «proprio nel momento in cui si affaccia la prospettiva che i nodi della politica unitaria vengano al pettine», e rende più difficile la funzione del Psiup «di punto di riferimento nella politica unitaria rispetto al moto di rinnovamento nel movimento operaio e nel mondo cattolico». Dice di condividere il giudizio che «i voti raccolti dal Psiup hanno un valore politico generale, più importante del numero degli eletti», ma lascia intendere quale sia il suo personale orientamento dichiarando prioritaria «l’esigenza di impedire [...] il deterioramento dei rapporti fra il nostro partito e quello comunista, [e] che in ambedue i partiti si rafforzino tendenze obiettivamente antiunitarie»54.   FIG, APC, Direzione del 16 novembre 1967.   FIG, APSIUP, 1967, busta 3980, Lettera del segretario del Partito ai comitati direttivi delle federazioni, 24 novembre 1967. 53 54

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Senza dubbio la consultazione delle federazioni è una procedura insolita, e all’apparenza decisamente democratica, anche se la linea politica è tracciata ed è chiaro che l’esito della consultazione difficilmente la cambierà. I direttivi di federazione si riuniscono fra l’inizio di novembre e la metà di dicembre, e registrano una discussione vivace e approfondita, con una partecipazione numerosa55. Dalla consultazione emerge una maggioranza di favorevoli all’accordo, ma fra le federazioni contrarie (concentrate soprattutto nel Nord) ce ne sono molte importanti, fra cui quelle di Torino e di Milano: in alcuni casi, come a Torino, a Novara, a Biella, l’intesa con i comunisti è bocciata addirittura all’unanimità56; in altri, come a Venezia, è respinta l’idea di un documento politico comune con il Pci. Dunque il dissenso è qualitativamente e quantitativamente molto significativo, come significative sono le sue motivazioni: Andrea Filippa, per esempio, scrivendo da Torino alla segreteria il 5 novembre, comunica che i segretari di federazione piemontesi si sono unanimemente espressi contro l’accordo indicando quattro ragioni: «stato di difficoltà nei rapporti con il Pci; divergenze importanti su problemi internazionali e interni; necessità assoluta per il partito di realizzare anche elettoralmente il suo discorso quale elemento di rinnovamento della linea di classe nel nostro paese; regalo alla socialdemocrazia, verso la quale si apre una nuova possibilità di erosione organizzativa ed elettorale»57. Molte lettere di protesta arrivano al presidente del partito Lelio Basso, che si è dichiarato contrario a un’intesa globale col Pci e favorevole solo ad accordi limitati58. 55   FIG, APSIUP, 1967, busta 3981, Direzione, Raccolta dei pareri espressi dalle organizzazioni di base del Psiup sull’accordo realizzato dalla Direzione per candidature comuni con il Pci nelle elezioni per il Senato. 56   FIG, APSIUP, 1967, buste 3982-3993, Regioni. 57   FIG, APSIUP, 1967, busta 3982, Regioni (Piemonte), Lettera di Filippa alla segreteria del Partito, 5 novembre 1967. 58   In un appunto dattiloscritto senza data, Basso scrive che è necessario evitare che le liste unificate al Senato «appaiano come una scelta generale di sapore frontista e un’attenuazione dell’autonomia e della responsabilità propria che il Psiup ha di fronte all’elettorato», ma conclude: «Sul metro dell’unità del partito vanno misurate le scelte politiche e ‘tecniche’ che dobbiamo assumere. Una scelta astrattamente giusta può diventare profondamente sbagliata se essa crea traumi e divisioni nel partito» (FB, AB, XV, busta 14, fasc. 68). Fra le tante lettere a lui indirizzate, si veda quella dell’8 dicembre 1967 di Mario Ferrantelli

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Un nuovo Comitato centrale del Psiup viene convocato il 1314 dicembre per ratificare l’accordo elettorale, che nel frattempo è stato perfezionato sulla base di un documento unitario. Si tratta di un testo abbastanza anodino, in cui si avverte solo una pallida eco dell’elaborazione per molti versi originale che il Psiup ha portato avanti nell’ultimo anno. Non si può certo considerare una concessione alle sue posizioni il bilancio duramente negativo del centro-sinistra, che è ormai accettato anche dal Pci nel suo insieme; né il richiamo alla «realizzazione di sostanziali riforme di struttura della società e dello Stato» contiene alcun riferimento al controllo operaio e alla costruzione di un’alternativa socialista a partire dai luoghi di produzione. Non è una novità in cui sia riconoscibile l’autonomo apporto del Psiup nemmeno la richiesta dell’uscita dell’Italia dalla Nato. Forse il punto su cui Vecchietti e compagni vedono maggiormente riconosciute le proprie posizioni è quello di un giudizio molto duro contro i dirigenti di destra dell’ex Psi, accusati di «abbandono di ogni impegno di rinnovamento politico e sociale» e di «subordinazione alle scelte conservatrici della Dc»59. Un po’ poco, nell’insieme, per venire incontro all’ansia di rinnovamento che ha mobilitato il partito negli ultimi mesi: tanto che nella relazione introduttiva al Comitato centrale Vecchietti, pur denunciando un anticomunismo «allarmante» presente in alcune frange del suo partito, sembra quasi volersi giustificare, parlando di un «accordo soltanto per il Senato [che] non riguarda il programma elettorale né questioni ideologiche di fondo»60. Fra gli altri dirigenti favorevoli, Valori e Menchinelli sottolineano il potenziale di «mobilitazione» presente nell’alleanza elettorale, Ceravolo e Marisa Passigli negano «complessi di inferiorità» verso il Pci, e Luzzatto pragmaticamente conclude: «si sono sempre fatti accordi elettorali ove il sistema elettorale li

di Roma, che così motiva le ragioni del suo no all’accordo: «Esiste una fascia di elettorato che si colloca fra il Psi e il Pci ed esiste un largo settore di estrema sinistra i cui voti possono essere raccolti dal Psiup come alternativa al Pci», parti che sarebbero state ambedue scontente del prospettato accordo elettorale (FB, AB, XXV, busta 23, fasc. 12/1012). 59   Il documento unitario Pci-Psiup è in «Mondo Nuovo», 24 dicembre 1967. 60   Ibid. Vecchietti difende l’accordo in un editoriale sul medesimo numero di «Mondo Nuovo» intitolato significativamente Una scelta di classe.

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richiedesse»61. Per la minoranza contraria all’intesa col Pci, il calabrese Brunetti parla di «linea politica giusta» ma di «strumenti sbagliati» e Libertini, dopo aver messo in luce che il no all’accordo è di una portata senza precedenti, dato che comprende «circa metà del partito»62, depreca che la maggioranza non abbia «afferrato i termini storici del grande processo di riorganizzazione della sinistra e del travaglio comunista», né capito che «l’unità non è una nostalgia del frontismo, ma si identifica con il rinnovamento rivoluzionario del movimento di classe». Sulla stessa linea Pupillo nota che l’accordo presenta «preoccupazioni troppo difensive», proprio mentre vi sono «segni di movimento e di rinnovamento in un vasto arco di forze sociali e politiche, nel campo cattolico come in quello socialista»; e Dosio, segretario regionale ligure, sostiene che il Psiup rischia di essere privato della sua funzione di «punto di riferimento per molte forze politiche in crisi e forza di attrazione soprattutto per le nuove generazioni». Significativo è infine l’intervento di Gastone Sclavi, giovane dirigente della Cgil molto vicino a Vittorio Foa63, il quale rimprovera al documento unitario d’interpretare l’unità sindacale come «somma meccanica delle diverse linee e delle diverse organizzazioni esistenti» non passata attraverso il vaglio di una «profonda verifica democratica con i lavoratori»64. Alla fine l’intesa è approvata con 50 voti favorevoli (fra questi, oltre ovviamente a quelli di Vecchietti, Valori e Gatto, ci sono quelli di Ansanelli, Ceravolo, Lami, Lizzadri, Luzzatto, Menchinelli, Scarrone), 23 contrari (fra i quali quelli di Libertini e Foa, e ancora Ardenti, Biondi, Brunetti, Costa, Dosio, Ferraris, Lettieri, Margheri, Pupillo e Tagliazucchi65) e 2 astensioni, quelle di Avo-

61   Il resoconto del Comitato centrale, da cui si traggono gli interventi citati, è in «Mondo Nuovo», 24 dicembre 1967. 62   Ibid. 63   Per quanto è dato di desumere dal resoconto di «Mondo Nuovo», Foa interviene solo nella parte procedurale della discussione. 64   Ibid. 65   Contro l’accordo si esprime anche Emilio Lussu, che precisa a «Mondo Nuovo» il 31 dicembre 1967: «Non faccio parte [per ragioni di salute] del Comitato centrale. Se ne avessi fatto parte, avrei votato contro questo accordo, così come è stato concepito, considerandolo il più grave errore commesso dal partito dalla sua costituzione fino ad oggi».

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lio e Basso: quest’ultimo, pur dichiaratamente contrario, alla fine si astiene per rispettare il suo ruolo di presidente del Comitato centrale. Si ha dunque per la prima volta una chiara divisione nel voto dell’organismo dirigente del Psiup. In una lettera al partito Vecchietti cerca di minimizzarla, ma non nasconde la sua preoccupazione per le «tendenze estremiste» affiorate nel partito, che «negano addirittura al Pci la legittimità di rappresentare anch’esso la classe operaia, per la sua politica ‘socialdemocratica’»: «queste polemiche mirano a trasformare la natura del nostro partito, il cui contributo è valido se dato con volontà e fini unitari. La critica, invece, diventa soltanto negativa nei risultati se è diretta a colpire il Pci per disgregarlo»66. Ma i toni concilianti con cui molti esponenti della minoranza hanno concluso il loro intervento («Possiamo tranquillamente votare in modo diverso sull’accordo e poi ritrovarci uniti sulla politica da seguire», afferma Libertini67) sono il segnale che alla fine prevarranno le ragioni dell’unità. Del resto, in favore dell’accordo elettorale pesano fattori tanto concreti da rendere difficile che siano sacrificati in nome di ragioni, pur serie, di principio: molti dei dirigenti, benché contrari all’accordo – ad esempio Dosio e Filippa –, nel loro navigato pragmatismo di quadri della sinistra socialista, ne sono ben consapevoli. Anche l’adesione alla lista unica di altre forze «indipendenti di sinistra»68 rende difficile la posizione dei più renitenti. Questi si limitano così a porre alcune condizioni a proposito delle candidature in Senato («1) un radicale rinnovamento del gruppo dei senatori; 2) una scelta che non appaia minimamente legata alla divisione intervenuta sul merito dell’accordo»)69 e, quando ritengono che siano sostanzialmente

66   FIG, APSIUP, 1967, busta 3980, Circolare a tutti i segretari di sezione e di federazione, 18 dicembre 1967. 67   «Mondo Nuovo», 24 dicembre 1967. 68   Tra queste, le più importanti sono il Mas e il gruppo di Ferruccio Parri; quest’ultimo promuove, il 16 dicembre, un «appello per l’unità delle sinistre» in appoggio all’intesa Pci-Psiup, firmato da esponenti del Mas come Luigi Anderlini, Tullia Carettoni e Simone Gatto e da intellettuali come Giulio Carlo Argan e Tullio Gregory. Cfr. ora G. Scirè, Gli indipendenti di sinistra. Una storia italiana dal Sessantotto a Tangentopoli, Ediesse, Roma 2012, pp. 15-32. 69   FB, AB, XXV, busta 24, fasc. 1/43, Lettera di Lucio Libertini a Lelio Basso, 15 gennaio 1968.

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rispettate, il partito si avvia alla campagna elettorale del 1968 avendo più o meno ricucito le sue ferite. 3. «Un marxismo rigoroso e creativo»: la cultura del Psiup Qual è l’universo culturale di riferimento di questo partito in formazione? Quale la sua percezione dei cambiamenti profondi che proprio a cavallo della prima metà degli anni ’60 interessano l’Italia con un’intensità e una rapidità senza precedenti? In che modo essa si modifica in seguito alla profonda scossa impressa alla cultura e alla società italiane nel biennio 1968-69? La risposta a questi interrogativi, per essere esauriente, dovrebbe fondarsi su un’indagine accurata estesa al maggior numero possibile di federazioni, perché è indubbio che il Psiup era un organismo più vitale alla periferia che nella sua struttura centrale. Ma la documentazione disponibile è in proposito estremamente eterogenea e frammentaria: dunque un modo approssimativo ma comunque efficace di tracciare le coordinate in cui s’inscrivono la cultura non solo politica del partito e la sua percezione della società è quello di confrontarsi con il settimanale «Mondo Nuovo», che rappresenta per gli iscritti la voce del partito e in qualche modo ne traccia la «linea». «Mondo Nuovo» ha una diffusione considerevole, con un numero di lettori che oltrepassa sicuramente di molto quello degli abbonati70; e intrattiene un rapporto stretto con il suo pubblico, attraverso una rubrica di lettere che praticamente non si è interrotta mai, e che costituisce un termometro significativo degli umori dei militanti. Complessivamente, il giornale non vuole limitarsi alla funzione di bollettino di partito (anche se le notizie sulla vita interna di 70   Nell’archivio del Psiup i dati su «Mondo Nuovo» sono dispersi e spesso contraddittori. Risulta (busta 3957) che nel 1964 ne siano state stampate 1.373.275 copie, con 19 milioni di ricavo vendite e 5 milioni di ricavo abbonamenti; il costo del giornale è stato di 60 milioni complessivi, con un incasso di 2 milioni per pubblicità. Per quanto riguarda le vendite, un riepilogo delle Messaggerie italiane per i numeri 43-47 del 1966 parla di 38.970 copie fornite e 19.181 vendute, con un reso del 50,5% (FIG, APSIUP, 1966, busta 3968, Sezione stampa e propaganda). Al principio del 1967, che è probabilmente il momento in cui il giornale raggiunge la massima diffusione, i nuovi abbonamenti sono stati 1947 e i rinnovi 1888, per un totale di 3835. Molti abbonamenti sono sottoscritti a beneficio di sezioni, il che allarga evidentemente il raggio dei lettori.

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questo occupano sempre uno spazio considerevole)71, ma ambisce a spaziare in orizzonti più ampi. Negli anni non sono infrequenti i cambiamenti di formato e impaginazione72, ma la struttura rimane abbastanza inalterata: insieme a un editoriale, dedicato alla politica interna o a quella estera, è presente quasi sempre una nota del direttore specificamente dedicata alla settimana politica italiana e compaiono agili rubriche come «interni», «economia», «sindacale», «esteri», «il partito». Almeno fino al 1969, due o tre pagine sono stabilmente dedicate ai temi culturali: cinema, teatro, libri e riviste, televisione, più raramente arti figurative e musica. Di tanto in tanto vengono trattati anche temi di sport (soprattutto di calcio) e di costume. Non infrequente è il ricorso al dibattito su temi specifici, aperto a lettori e collaboratori, che a volte si prolunga per diverse settimane73. Nell’insieme «Mondo Nuovo» è un giornale abbastanza vivace e leggibile. Con il cambiamento di formato e di impaginazione del 1966, alcuni lettori arrivano a lamentarsi che sia diventato addirittura troppo «leggero», e la direzione risponde che «è un modo di essere legati alla base il seguirne il più fedelmente possibile gli indirizzi e le richieste»74, aggiungendo che per il «dialogo ideologico» il partito può contare su «Problemi del socialismo»75. Con-

71   «Mondo Nuovo» pubblica resoconti dettagliati di praticamente tutti i comitati centrali e di non poche conferenze organizzative o tematiche. 72   Da notare che il passaggio al formato tabloid, alla fine del 1966, è preceduto da un’inchiesta tra i lettori, attraverso un questionario che viene pubblicato per diversi numeri, allo scopo di conoscere i loro orientamenti e le loro preferenze. 73   A parte quello sui gruppi minoritari, già ricordato, è da segnalare, in ambito più propriamente culturale, Letteratura e vita nazionale, sul tema dell’impegno e del disimpegno dell’intellettuale, che occupa le colonne del giornale dall’11 settembre al 27 novembre 1966. 74   Angelo Borin, da Padova, lamenta che il giornale assomigli «più a un quotidiano di sinistra condensato in sette giorni che non a uno strumento di dibattito aperto e spregiudicato» (lettera del 12 marzo 1967). Non mancano però, nella corrispondenza di Basso, giudizi di segno opposto, che ritengono il giornale «un mattone». 75   La nuova serie della rivista, che comincia ad uscire nel 1965, è caratterizzata da un rapporto organico con il Psiup, che vi contribuisce anche finanziariamente. Vi scrivono con regolarità molti dirigenti del partito, soprattutto Foa e Libertini, ma occasionalmente anche Vecchietti e Valori, e l’attenzione per l’attualità politica e sindacale italiana è costante. Dalla metà del 1967 in poi

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siderate nel loro insieme, le annate del settimanale, fino a quando non comincia nel 1970 l’irreversibile declino del partito, si presentano abbastanza omogenee: in questo senso il Sessantotto non rappresenta, salvo che sugli specifici temi del movimento studentesco e delle lotte operaie, una cesura veramente netta, anzi si può dire che le sue tematiche trovino nelle colonne del settimanale del Psiup un terreno di incubazione e a volte di anticipazione. Le coordinate della cultura politica e filosofica del Psiup sono e restano saldamente ancorate al marxismo. Un marxismo nel quale permangono tracce di quello in cui si è formata la sinistra socialista, con la sua sincera ma faticosa fuoriuscita dallo stalinismo, in cui è sempre presente la preoccupazione di lasciare il fianco scoperto al revisionismo «di destra»; ma anche un marxismo che si apre a influenze sempre più diversificate, europee, terzomondiste e persino americane76. Recensendo con entusiasmo il libro del critico cinematografico Guido Aristarco Il dissolvimento della ragione, il suo collega Adelio Ferrero, uno dei collaboratori più originali e acuti di «Mondo Nuovo», vi vede presente «un marxismo rigoroso e creativo, attento [...] a una duplice attualissima operazione, la quale consiste nel rivendicare contro le incrostazioni dogmatiche e gli eclettismi approssimativi, il senso e la portata autentica di un metodo»77. È un principio a cui non si può dire che le pagine culturali di «Mondo Nuovo» si ispirino sempre, ma nei loro momenti più felici non ne sono lontane. In questo quadro, trova spazio la riscoperta di marxisti «eterodossi» quali Trotskij e soprattutto Rosa Luxemburg. Nei confronti del primo c’è una sensibile ripresa di interesse grazie a una serie di articoli o di recensioni di Attilio Chitarin, che peraltro, commentando il pamphlet I crimini di Stalin, quasi sotto traccia chiarisce le ragioni per le quali il pensiero del «profeta disarmato» può essere considerato un’eredità valida: «Questa grande e sembra però rarefarsi, fino a cessare, la collaborazione degli esponenti della maggioranza del partito, e prevale l’attenzione per i temi internazionali e generali, salvo che per la dimensione sindacale, costantemente presente negli scritti di Giovannini, Lettieri e Sclavi. 76   Tra l’11 dicembre 1966 e il 29 gennaio 1967 il settimanale ospita un ampio dibattito sul libro di Hal Draper, La rivolta di Berkeley, che si conclude con un intervento del curatore italiano, Roberto Giammanco. 77   Il dissolvimento della ragione, in «Mondo Nuovo», 6 febbraio 1966.

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profetica requisitoria non offre nessun appiglio strumentale antimarxista e antisovietico»78. Anche a Rosa Luxemburg è dedicata particolare attenzione, in coincidenza con la pubblicazione dei suoi Scritti politici, curati da Lelio Basso, e – cosa inconsueta – questo viene fatto anche in polemica con il Pci: Piero Ardenti reagisce con durezza a un articolo di Michelangelo Notarianni su «Vie Nuove», che ha provocatoriamente rimproverato ai «nostalgici della purezza del marxismo» di «acquietare il dramma della loro incompiutezza intellettuale nella rilettura degli scritti pubblicisticamente brillanti, spesso filosoficamente sottili, mai politicamente attuali, della grande rivoluzionaria tedesca»79. Con molta freddezza è invece accolta la scoperta da parte della nuova sinistra di Herbert Marcuse, che pure finirà per essere identificato come il teorico della contestazione. «Mondo Nuovo» gli dedica nel luglio del 1968 un ampio inserto, nel quale Franco Zannino interroga sei prestigiosi intellettuali di sinistra. Di questi solo Roberto Giammanco concede a Marcuse qualche credito, mentre il giudizio più severo è quello di Vittorio Foa: «L’ipotesi di una rottura rivoluzionaria senza classe operaia deriva dal pregiudizio che essa sia solo una prova di forza»80. Dentro a questo marxismo che ambisce ad essere critico e rinnovato trova posto con una certa fatica Gramsci: in occasione del convegno di Cagliari nel trentesimo della sua morte «Mondo Nuovo» annunciava che avrebbe dedicato «quanto prima [...] una serie di articoli alla vita e al pensiero del grande rivoluzionario», ma poi non vi sarà nulla o quasi81. E l’intervento di Libertini qualche mese dopo, più che mirare a valorizzarne l’originalità, suona soprattutto come una presa di distanza dalla tendenza a «presentare Gramsci come il capofila ideale di una tendenza che edulcora

  Una requisitoria implacabile, ivi, 8 ottobre 1966.   L’avvocato d’ufficio di Stalin, ivi, 21 maggio 1967. 80   Ivi, 7 luglio 1968. Risposero alle domande anche Cesare Cases, Lucio Colletti, Paolo Santi, Mario Spinella e Giuseppe Vacca. Su Marcuse cfr. anche gli interventi di Vittorio Boarini e Camillo Daneo su «Problemi del socialismo», n. 19-20, giugno-luglio 1967, pp. 719-742. 81   Nemmeno «Problemi del socialismo» dedica alcun articolo a Gramsci nel trentesimo della sua morte, mentre l’annata 1967 della rivista ospita diversi contributi (tra cui quello di Libertini) sul tema Attualità di Lenin. Stato e rivoluzione cinquant’anni dopo. 78 79

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il marxismo con un democraticismo generico e annega la lotta rivoluzionaria della classe operaia in un fronte antifascista ispirato a un ben determinato modello di politica delle alleanze»82. Come viene usato e quanto è adeguato questo armamentario teorico marxista per capire e spiegare la società italiana, e per analizzare quell’«imponente processo di disgregazione e di ricomposizione intorno a valori ed equilibri nuovi»83 che impronta la sua evoluzione? È opportuno articolare la risposta su due piani diversi. Per quanto riguarda la dimensione della cultura, l’impressione a volte quasi straniante che si ricava dalla lettura di «Mondo Nuovo» è di uno stretto impasto di vecchio e nuovo. Basterebbe citare il numero del 3 settembre 1967, in cui nella pagina successiva alla dotta recensione di due libri del regista teatrale di avanguardia Peter Weiss compare la notizia che al Festival di Mondo Nuovo di Vigevano «è stata eletta anche una miss, la signorina Doretta Gnolo», di cui viene pubblicata pure una castissima fototessera84. Esistono e si fanno sentire sensibilità diverse, che attraversano ambienti sociali e generazioni: l’8 gennaio 1967 un lettore, il professor Balducci di Avezzano, riferendosi alla copertina dell’11 dicembre precedente, firmata da Ennio Calabria, chiede a «Mondo Nuovo» «il favore di spiegarmi il disegno della prima pagina del nostro giornale [...] perché alcuni compagni – compreso io – non sappiamo cosa vogliano dire quelle maschere rosse che sovrastano sei negri africani dei quali tre sono armati di bastone. Che anche il compagno pittore Calabria sia un allievo, come l’Attardi, dell’incomprensibile Picasso?». Risponde la critica di arti figurative Annangela Maroder, ricordando in tono un po’ professorale che è alla scuola cubista e a quella futurista che si deve «la capacità di poter registrare i mutamenti storici senza per questo cadere nelle narrazioni passive del naturalismo»85. In generale, comunque,   Antonio Gramsci, un comunista, in «Mondo Nuovo», 27 agosto 1967.   E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in L’Italia contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Einaudi, Torino 1976, p. 423. 84   Le feste di «Mondo Nuovo», ricalcate su quelle dell’«Avanti!» e dell’«Unità», sono diffuse abbastanza omogeneamente sul territorio nazionale: nel luglio 1966, per esempio, se ne svolgono 50 (FIG, APSIUP, 1966, busta 3968). 85   L’artista come traduttore e interprete del nuovo, in «Mondo Nuovo», 8 gennaio 1967. 82 83

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sono preferite le correnti pittoriche più vicine al sociale, come l’espressionismo tedesco86, o artisti come Guttuso e Vespignani87; mentre non piacciono espressioni artistiche più sofferte e introspettive, quale ad esempio l’opera di Francis Bacon, «più confessione che protesta», a cui «molti giovani tendono ad attribuire un valore rivoluzionario che di fatto non ha»88. Un cambiamento di registro netto si avrà solo in pieno Sessantotto, e anche in questo caso meno legato a un’effettiva revisione dei parametri di giudizio estetico che al valore dirompente di qualche episodio: di Emilio Vedova, più che il linguaggio pittorico innovativo, viene apprezzato soprattutto il gesto provocatorio quando, in occasione della dura contestazione della Biennale di Venezia inscenata da studenti e operai, «barbuto e seminudo marcia sui giardini alla testa di cinquemila guastatori reclutati tra i petrolchimici di Porto Marghera e ha turbato i sonni di collezionisti insigni»89. All’interno di coordinate culturali in cui dominano le scienze umane (eccezion fatta per l’astronautica, si contano sulle dita di una mano gli articoli o i commenti dedicati alle scienze «esatte»), acquista un peso particolare la critica cinematografica e teatrale, a cui il settimanale dedica uno spazio anche più ampio di quello riservato ai libri sia di narrativa sia di saggistica. Il cinema, specialmente, resta per «Mondo Nuovo» un osservatorio privilegiato per interrogarsi sulla realtà e sulla società contemporanea, italiana ma non solo. Le recensioni dei film sono affidate soprattutto ad Adelio Ferrero, il quale ha sensibilità da vendere e scrive benissimo, con giudizi impeccabili sul piano formale ma spesso sferzanti nella sostanza. Cercare di trarne il succo aiuta in parte a capire, in anni in cui il cinema era un formidabile strumento di socializzazione, la mentalità e la cultura dei militanti «colti» del Psiup, che erano abbastanza numerosi. Per prima cosa, nettamente privilegiato è il cinema d’autore. Senza scampo è il giudizio sui generi più in voga e di maggior

86   Per un servizio sull’espressionismo, e in particolare su Otto Dix, si veda «Mondo Nuovo», 5 aprile 1964. 87   Quattro domande a Renzo Vespignani, ivi, 13 novembre 1966, e Quattro domande a Gastone Novelli. Guttuso come Rauschenberg, ivi, 4 dicembre 1966. 88   E. Mercuri, Una mostra di Bacon, ivi, 7 novembre 1965. 89   P. Penzo, Vade retro, ivi, 30 giugno 1968.

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successo di quegli anni: «Un cinema come quello che si fa attualmente in Italia, povero di tensione ideale, sordo a sollecitazioni di tendenza opposte in un fecondo contrasto, dimissionario di fronte alle ragioni del tempo, chiuso a ogni discorso problematico e intenzione provocatrice, offre largo spazio e apre anzi una vasta breccia a tutte le mistificazioni del cinema mercantile»90, scrive Ferrero nel 1966. E ciò vale sia per il prodotto che fornisce l’occasione per questo giudizio generale, il western all’italiana («un accorto contemperamento di avventura e strafottenza, straordinaria meccanicità di sviluppo e ricerca artificiale di sviluppi particolari, clamorosa violenza mutuata dal sadismo a buon mercato dei fumetti per adulti e patetici risvolti da feuilleton che vedono immancabilmente il trionfo dei buoni sentimenti dietro l’ostentazione delle più truculente brutalità»91), sia per la commedia di costume che furoreggia in quegli anni92. In questo panorama desolante è salutato come «un’operazione liberatrice» I pugni in tasca di Bellocchio, su cui «Mondo Nuovo» apre un dibattito: «Qui – scrive Ferrero – l’autobiografismo non si piange addosso, come in tanto cinema neocrepuscolare dei nostri giorni, e non si mistifica, fellinianamente, come spettacolo. Si rifiuta come consolazione e si propone come oggetto di conoscenza». Ancora più entusiasta un altro critico militante, Pio Baldelli: «Posizioni come quella di Bellocchio e di altri giovani confermano che non esiste la via per un profondo progresso della cultura se la cultura non si inserisce, senza deleghe, nella battaglia politica per una nuova strategia del movimento operaio»93. 90   A. Ferrero, Il vecchio West ha messo pancia, ivi, 20 febbraio 1966. Un giudizio ugualmente critico sul cinema italiano in generale ritorna anche tre anni dopo: Leggerezza o malafede? (a proposito di Summit di Giorgio Bontempi), ivi, 10 novembre 1968. 91   A. Ferrero, Il vecchio West ha messo pancia cit. 92   Si veda per esempio la stroncatura di Signore e signori di Germi («Ancora una volta la satira resta una misura lontana e inespressa e lo scadente surrogato che ne viene offerto è un altro dei tanti inganni all’italiana del cinema di questi anni»: Inganno all’italiana, in «Mondo Nuovo», 27 febbraio 1966) o quella di Una questione d’onore di Luigi Zampa («un vischioso impasto di complicità e compatimento che sconfina spesso in una disposizione razzistica nei confronti della materia»: Interrogativi su “Una questione d’onore”, ivi, 17 aprile 1966). 93   Un’operazione liberatrice è il titolo dell’intera pagina e dell’articolo di Ferrero, Il linguaggio della contestazione quello dell’articolo di Baldelli, ivi, 3

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Non si deve scambiare questo metro di giudizio con una contrapposizione aprioristica tra film politico e film disimpegnato. È vero che, in contrasto con l’accoglienza men che tiepida riservata alle pellicole della nouvelle vague francese94, La guerra è finita di Resnais strappa al critico cinematografico di «Mondo Nuovo» un giudizio quasi entusiastico («un singolare esempio di film politico a più dimensioni, costruito con un taglio problematico emozionante [...] Un film che ci ricorda, e scusate se è poco, che esiste ancora un cinema il quale può stare al passo con le lacerazioni e i conflitti dell’epoca»95). Ma lo stesso Ferrero così risponde alla lettera di un lettore che, criticando la sua valutazione sostanzialmente positiva di Blow up di Antonioni, ha definito il film un esempio di «una cinematografia pregevolmente cromatica ed aristocraticamente fruibile», incapace di esercitare «l’incidenza fattiva sulla realtà» che invece riconosce a Visconti, Rosi e Pontecorvo: «Personalmente non credo che la ripresa di un discorso di contestazione effettiva passi attraverso Rosi e Pontecorvo: a un cinema ‘politico’ così inerte e mistificatorio continuo senz’altro a preferire il fotografo in crisi di Antonioni o l’asino giansenista di Bresson»96. Oppure, si può aggiungere, il cinema di Buñuel, per cui il critico nutre un’autentica passione e la cui «fedeltà al surrealismo» egli legge, a fine 1968, «come arricchimento della aprile 1966. Il 17 aprile intervengono Tommaso Chiaretti e Mino Argentieri. Ma il giudizio di Ferrero sul film successivo di Bellocchio sarà molto più critico: La Cina è vicina «si colloca in gran parte sotto il segno della delusione e delle occasioni mancate»: Dall’irrisione di Bellocchio all’ossessione di Pasolini, ivi, 10 settembre 1967. 94   A. Ferrero (Evasione dal presente, ivi, 13 febbraio 1967) loda dal punto di vista formale Muriel, il tempo del ritorno di Alain Resnais, che però «dietro la modernità dell’assunto linguistico, perseguito con raffinato talento ritmico-figurativo, [...] non riesce a nascondere l’esiguità del discorso, la sua povertà di dilatazione». Il discorso vale anche per Fuoco fatuo di Malle e Jules e Jim di Truffaut. 95   Un film politico a più dimensioni, ivi, 23 aprile 1967. 96   La vera alternativa, ivi, 1° ottobre 1967. Il riferimento è al film di Robert Bresson, Au hazard, Balthazar, presentato a Venezia e recensito da Ferrero su «Mondo Nuovo» del 10 settembre. Spietatamente, il critico rincara la dose due anni dopo, stroncando Z. L’orgia del potere di Costa-Gavras: «Come ‘Le quattro giornate di Napoli’ e ‘La grande guerra’, ‘Le mani sulla città’ e ‘La battaglia di Algeri’, film mediocri di registi mediocri che non hanno dato il minimo contributo conoscitivo e problematico alle battaglie che pretendevano di riproporre o di aprire» (ivi, 6 luglio 1969).

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carica eversiva e antiborghese»97. Perplessità e insofferenza suscita invece La caduta degli dei di Visconti, che «Mondo Nuovo» commenta con un titolo particolarmente caustico: Sesso malato, capitale intatto98. Chi non è mai amato dal Psiup, né come scrittore né come regista, è Pier Paolo Pasolini. Già agli albori del centro-sinistra, nel 1962, il giornale dell’allora sinistra Psi lo aveva bollato con la definizione di «scrittore d’ingegno ma decadente che sostituisce il populismo al marxismo, il sottoproletariato alla classe operaia»99. E particolarmente duro era stato l’attacco, due anni dopo, a Il Vangelo secondo Matteo, un condensato di «vecchi e logori luoghi comuni su Cristo ‘primo socialista’, sulla funzione ancora oggi rivoluzionaria dei Vangeli»100. Ma gli attacchi all’estetica e alla «filosofia» pasoliniana continuano anche dopo: Adelio Ferrero riserva un’accoglienza molto fredda a Uccellacci e uccellini (la misura del quale era «quella dell’idillio commemorativo, di specie funerea se non elegiaca») e vede in Edipo re «una nuova conferma della contrazione e chiusura della poetica pasoliniana» 101. Una conferma che il critico trovava, in pieno Sessantotto, anche in Teorema, definito «una metafora autobiografica». Più che il contenuto della recensione, critico ma espresso con la consueta finezza, colpiscono qui i titoletti, probabilmente redazionali: «Pretestuosità degli alibi ideologici», «La matrice privata dell’irrazionalismo», «Una materia torbida e arrischiata»102. Insomma, il violento attacco che il Psiup rivolge nel 1968 alla famosa poesia di Pasolini che contrappone i poliziotti «proletari» agli studenti «piccolo borghesi» affonda   Una spietata allegoria, a proposito di L’Angelo sterminatore, ivi, 24 novembre 1968. 98   Ivi, 16 novembre 1968: sul film intervengono, con accenti ugualmente negativi, Giuseppe Ferrara, Adelio Ferrero e Franco Zannino. 99   L’uscita di sicurezza di Pasolini, ivi, 14 gennaio 1962. 100   Vangelo rosso, ivi, 4 ottobre 1964. L’articolo, non firmato, è di Franco Valobra. Pasolini risponde con molta misura nella sua rubrica su «Vie Nuove», 22 ottobre 1964: e in generale non mostra alcuna acredine verso «Mondo Nuovo», nel quale riconosce anzi «un giornale che sento molto vicino alla mia attuale posizione politica». 101   Film sulla crisi o film della crisi?, in «Mondo Nuovo», 10 luglio 1966, e – per Edipo re – Dall’irrisione di Bellocchio all’ossessione di Pasolini cit. 102   A. Ferrero, Una metafora autobiografica, ivi, 6 ottobre 1968. 97

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le radici in una diffusa e radicata diffidenza nei confronti dell’intellettuale friulano. Un trattamento ancora più duro, in un altro ambito, è riservato a Ignazio Silone. Achille Mango, che quasi in ogni numero scrive di teatro, stronca con veemenza, sul piano politico non meno che su quello artistico, Ed egli si nascose, la riduzione teatrale di L’avventura di un povero cristiano: «una serie impressionante di luoghi comuni contro il comunismo [...], una narrazione dai toni mistico-lirici abbastanza irritanti e di dubbio gusto, in ultima analisi verbosa, senza spunti che provochino un’emozione, con personaggi dalle dimensioni ed atteggiamenti di manichini, vuoti di sentimenti, involucri senza contenuto, marionette non uomini»103. Nemmeno Mango è tenero nei confronti dei gusti correnti e degli spettacoli di successo: «Fra il divertimento fine a sé stesso, la riesumazione archeologica, il disimpegno come regola, ci si allontana sempre più dai valori poetici e di spettacolo per sollecitare interessi e tendenze propri di una ristretta parte del pubblico che frequenta le sale»104. E più di quella cinematografica, la critica teatrale di «Mondo Nuovo» (che non parla solo degli spettacoli, ma affronta pure, in frequenti interventi molto critici, la funzione e l’organizzazione dei teatri stabili) guarda con favore agli spettacoli di rottura: loda il Living Theatre newyorchese già alcuni anni prima del suo successo in Europa105, e addirittura esalta un’opera «scomoda e d’avanguardia» come il Marat-Sade di Peter Weiss nella rappresentazione datane nel dicembre 1967 dalla compagnia di Strehler al Piccolo di Milano106; ma elogia anche le prime esperienze di satira di Dario Fo107. Di Fo piace anche lo spettacolo a cavallo fra teatro e musica Ci ragiono e canto, una sorta di lancio in grande stile del folk italiano

  Dietro la facciata il vuoto, ivi, 13 febbraio 1967.   A. Mango, Teatro in minore, ivi, 10 novembre 1968. Lo stesso critico teatrale commentava la settimana dopo lo spettacolo dei Gufi, di scena a Roma (Non spingete, scappiamo anche noi), con un implacabile Divertire sproblematizzando. 105   A. Mango, La galera dei marines, ivi, 11 aprile 1965. 106   Ivi, 10 dicembre 1967. Di Weiss era stata recensita molto positivamente anche L’istruttoria. 107   Ha colpito ancora nel segno. Dario Fo, impegnato da anni sulla difficile strada della satira, ivi, 27 settembre 1964. 103 104

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tra canto popolare e canzoni di protesta, rappresentato in prima nell’aprile del 1966 al Carignano di Torino: una collocazione «anche troppo ufficiale» che fa un po’ storcere il naso al settimanale psiuppino, il quale dubita del «suo grado di fruibilità al livello della classe». Però si ammette che «proprio giocando sull’equivoco dell’ufficialità» lo spettacolo potrà costituire un momento di stimolo per «una cultura di sinistra italiana paralizzata dalla sterile contrapposizione attuale [...] tra i depositari, ‘santificati’, di tutti gli equivoci del cosiddetto realismo socialista e l’eclettismo fumoso di avanguardie ingaggiate in servizio permanente effettivo di provocazione della stessa cultura borghese»108. In campo musicale, l’interesse del Psiup si concentra dapprima sul jazz e solo dopo qualche tempo si apre al pop e al rock, con particolare attenzione ai Beatles. Vista all’inizio negativamente come una sorta di «narcosi di massa» e di «oppio per giovani»109, la beatlemania è poi rivalutata per il suo carattere trasgressivo; e così, la celebre frase di John Lennon «Siamo più popolari di Gesù Cristo» viene esaltata come «sana e sacrosanta provocazione nei confronti della morale borghese»: «La Rivoluzione si fa anche così: spernacchiando. Perciò bravo, John Lennon!»110. Le espressioni più popolari della musica leggera – che hanno un ruolo tanto importante nella formazione di una cultura giovanile – sono comunque lette e interpretate esclusivamente in una chiave politica: il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo, nel 1967, è giudicato dal giornale del Psiup «assurdo», il cantante genovese è etichettato come «più che un ribelle, [...] un disadattato, uno sradicato», e la sua morte tragica interpretata come una risposta disperata che contiene «un’accusa spietata contro la cosiddetta società del benessere»111. A Sanremo, del resto, non verrà risparmiata un’altra dura stroncatura due anni dopo, nel pieno della contestazione112.

  M. Ligini, Dario Fo narra dell’uomo concreto, ivi, 24 aprile 1966.   I Beatles in paradiso, ivi, 27 settembre 1964. 110   Elogio della provocazione, ivi, 14 agosto 1966. 111   Sanremo, un colpo di pistola, ivi, 5 febbraio 1967. 112   L’altra Sanremo, ivi, 9 febbraio 1969: nell’occasione un volantino della federazione di Imperia denuncia «il carattere speculativo e il sottofondo mondano» del festival. 108 109

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4. Le contraddizioni e i ritardi dello sviluppo Sul piano dell’analisi della società italiana, attraversata da processi profondi di trasformazione, il Psiup fa registrare schematismi e ritardi di comprensione, ma anche lucide intuizioni. Uno strumento di cui «Mondo Nuovo» non rinuncia mai ad avvalersi è quello dell’inchiesta. Fin da quando è la voce della sinistra socialista, il settimanale si è distinto in questo campo, con reportage che si inseriscono nella migliore tradizione giornalistica degli anni ’60, un po’ del genere di quelli che compaiono sul «Giorno» o sull’«Espresso»: seri, approfonditi, fondati su fatti e statistiche, ricchi di testimonianze dirette. Quelli di «Mondo Nuovo» sono certo pervasi da una più forte carica ideologica, più «a tesi», se così si può dire, ma mostrano antenne abbastanza vigili nei confronti della realtà italiana. A partire dal 1965, vengono sempre più privilegiate le inchieste sul mondo del lavoro, soprattutto operaio, di cui con grande impegno si cerca di cogliere le trasformazioni, anche se in un’ottica che resta improntata a un profondo pessimismo113 e che implicitamente rimanda la possibilità di migliorare effettivamente la condizione del lavoro al superamento del capitalismo. Così, per esempio, un reportage dall’Italsider di Taranto ne denuncia le «condizioni coloniali»: Un inferno fatto di bassi salari, di ritmi di lavoro impossibili, di condizioni addirittura primitive e coloniali. Nella più moderna fabbrica siderurgica d’Europa, nella cosiddetta ‘Rolls Royce’ delle acciaierie moderne, non si dispone di acqua per fare la doccia se non quella salata, non si dispone di acqua da bere, di una mensa che offra all’operaio, se non una minestra calda, come sarebbe elementare, almeno un tavolo sul quale consumare il pasto portato da casa114.

Ma anche dei punti alti dello sviluppo industriale, a cominciare dalla Fiat115, si traccia un quadro fortemente negativo: nel 113   Che è del resto dominante nella cultura italiana del tempo: si veda A. Di Michele, Storia dell’Italia repubblicana (1948-2008), Garzanti, Milano 2008, pp. 133-136. 114   Z. Jafrate, Condizioni coloniali all’Italsider di Taranto, in «Mondo Nuovo», 23 gennaio 1966. 115   Vedi soprattutto, sempre di M. Giovana, Avanti! Con la Fiat, ivi, 27

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gennaio-febbraio 1966 la lunga inchiesta di Mario Giovana sulle fabbriche metalmeccaniche alla vigilia del rinnovo del contratto collettivo denuncia ritmi di lavoro insostenibili, elevati livelli di nocività e persistenti forme di discriminazione antisindacale. La congiuntura economica negativa che ha dominato la scena italiana nei primi mesi di vita del partito induce il Psiup, anche quando il ciclo si inverte e la crescita riprende, seppur meno impetuosa, a ridimensionare nettamente la portata del «miracolo economico» che tanto radicalmente ha trasformato la struttura del paese. Dello sviluppo italiano, innegabile e in effetti non negato, le pagine di «Mondo Nuovo» denunciano soprattutto gli squilibri e le distorsioni, le «contraddizioni» (quasi una parola magica, questa) che esso non cessa di alimentare, le sacche di arretratezza e di diseguaglianza che lascia intatte alle sue spalle o che genera. Così l’impetuoso sviluppo della motorizzazione, «simbolo della ‘civiltà del benessere’» – termine sempre rigorosamente messo tra virgolette – è letto in una chiave quasi apocalittica, come un’inarrestabile deriva «verso il caos»116. Le condizioni di arretratezza e di miseria che non cessano di caratterizzare ampie zone del Sud continuano ad essere oggetto di una denuncia durissima. A distanza di pochi mesi due inchieste tracciano un quadro drammatico della Sicilia. Titoli e sommari rendono bene la sostanza delle conclusioni: «Palma di Montechiaro – 8 miliardi per rimanere in miseria – Nessuno, nella capitale della miseria siciliana, ha ancora visto i soldi stanziati dalla regione per la rinascita della zona», sintetizza il 4 settembre 1966 Bruno Crimi. E Giancarlo Lannutti gli fa eco il 28 maggio 1967: «I fabbricanti di miseria. Viaggio nella ‘Sicilia disperata’. L’asse AgrigentoEnna-Caltanissetta non è colpito da una biblica maledizione: le forze impersonate da oltre 20 anni dalla Dc, puntellata ieri dai baroni e oggi dal centro-sinistra, sono direttamente responsabili dell’attuale stato di cose», poi rincarando la dose il 4 giugno: «Una colonia per i monopoli. Non una lira del profitto conseguito con novembre 1966, che in polemica con il quotidiano socialista demolisce il mito di una condizione operaia privilegiata per i servizi e l’assistenza. 116   A. Ferretti, Verso il caos. La politica dell’automobile – simbolo della ‘civiltà del benessere’ – ha messo in crisi i trasporti pubblici nelle grandi città italiane, che tra immensi sprechi si avviano alla paralisi, ivi, 1° gennaio 1967.

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lo sfruttamento delle risorse naturali viene reinvestita sul posto. La classe politica locale è completamente subordinata ai grandi gruppi capitalistici del Nord e ai loro interessi politici». Insomma, come scrive Giuseppe Avolio, «il Mezzogiorno va indietro», perché «il divario fra Nord e Sud è [...] connaturale all’attuale sistema economico italiano» e «la politica meridionalista del centro-sinistra, concentrata massimamente sui ‘poli di sviluppo’, non poteva dare [...] che questi risultati, da alcuni economisti definiti, con ardito eufemismo, di ‘deceleramento’»117. Questo, però, non porta a rilanciare la politica meridionalista tradizionale, fondata sui Piani di rinascita degli anni ’50: una poderosa inchiesta in sei puntate di Idomeneo Barbadoro, una delle menti più lucide dell’Ufficio studi della Cgil, mette in luce i cambiamenti profondi che l’intervento pubblico nel Mezzogiorno ha determinato, e fornisce per così dire le munizioni teoriche a un intervento di rottura come quello di Mario Brunetti, segretario regionale della Calabria: L’unificazione capitalistica del Paese ha creato nuovi e più profondi squilibri non solo tra il Nord e il Sud, ma all’interno del Mezzogiorno e delle regioni meridionali. In questa situazione l’errore del movimento operaio è stato (ed è in parte) quello di andare avanti sulla vecchia strada, lanciando parole d’ordine che non rappresentano più un obiettivo e non riescono a mobilitare nessuno. [...] I mali della Calabria non consistono nella trascuratezza, nel ritardo storico, ma nel processo capitalistico di accumulazione. Se ciò è vero cambiano profondamente i termini della nostra tematica e l’obiettivo di fondo diventa colpire al cuore il meccanismo capitalistico118.

Naturalmente, ragioni per un’analisi così pessimistica del «miracolo italiano» e delle sue conseguenze ce ne sono a iosa. I guasti causati dallo sviluppo non governato e assoggettato essenzialmente alle leggi del profitto sono sotto gli occhi di tutti. I drammi del Vajont e poi dell’annus horribilis 1966, con la frana di Agrigento in luglio e l’alluvione a Venezia e soprattutto a Firenze in novembre

  Il Mezzogiorno va indietro, ivi, 1° ottobre 1967.   M. Brunetti, Calabria: condizioni e necessità di una ripresa, ivi, 1° maggio

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(quest’ultima definita incisivamente dal settimanale psiuppino «il secondo otto settembre dello Stato italiano»), mostrano quanto profondi siano i danni prodotti dal dissesto idrogeologico dovuto alla cementificazione incontrollata e all’incuria dello Stato, combinata alla sua complicità con i voraci interessi dei monopoli. Ma che le tumultuose trasformazioni dei primi anni ’60 abbiano generato anche effetti benefici, incidendo non solo negativamente su stili e costumi di vita119, forme di aggregazione sociale, mentalità diffuse, il Psiup, non diversamente dal Pci, lo percepisce in modo diseguale e con ritardo. Quanto alla televisione, per esempio, il più straordinario agente di modernizzazione culturale di quegli anni, che «muta in profondità le pratiche di vita sociale degli italiani»120, il Psiup ammette che la cultura della sinistra italiana ha accusato a lungo «un grave ritardo nell’afferrare le enormi possibilità del mezzo, nello stabilire con esso un rapporto che non fosse meramente [...] di critica passività»121, ma insiste soprattutto nel considerarlo un mezzo di indottrinamento o di aggregazione di un consenso passivo e, ancor più, un formidabile strumento di sottogoverno: Su fratelli, su nipoti, alla TV in fitta schiera è l’azzeccato titolo di un articolo di Spartaco Chiari che denuncia «il nepotismo alla radiotelevisione» e l’irruzione della «valanga dei raccomandati Dc-Psu»122. Che l’enorme capacità di penetrazione della TV nell’opinione pubblica sia non solo un modo di plasmarne i gusti e i comportamenti ma anche un fattore complessivo di crescita culturale resta un’intuizione isolata di qualche commentatore: di regola sono stroncati come operazioni di modesto livello gli sceneggiati di maggiore successo o i telefilm123, mentre è additato ad esempio del modo in cui la televisione può «fare storia» un prodotto di cultura «alta» come La presa del potere di Luigi XIV di Rossellini124.

119   Vedi per esempio M. Giovana, Le ferie degli italiani, ivi, 25 agosto 1968, dove prevale soprattutto la denuncia delle diseguaglianze di classe nella fruizione del tempo libero. 120   G. Gozzini, La mutazione individualista. Gli italiani e la televisione 19542011, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 15. 121   Intellettuali e televisione, in «Mondo Nuovo», 20 febbraio 1966. 122   Ivi, 5 marzo 1967. 123   «Telefilm caserecci [...] pervasi da uno spirito che non va mai al di là del moralismo di maniera» (G. Pintore, Telefilm all’italiana, ivi, 17 maggio 1970). 124   L. Meneghelli, La Storia e la televisione, ivi, 7 maggio 1967.

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L’irrompere della società dei consumi è visto in modo fondamentalmente ostile e negativo, come omologazione e appiattimento di comportamenti, introiezione di valori individualistici e capitalistici, fattore di integrazione e di impoverimento ideale, o, al massimo, come invenzione mistificatoria. Se la condizione del colono in una delle più fertili regioni agricole, la Puglia, è quella descritta in un altro reportage di Zenone Jafrate («Un vestito deve durare dieci anni, e di carne se ne compra mezzo chilo l’anno»), questi non potrà non essere, per la velleitaria ‘società dei consumi’ [...] un cattivo cliente. Infatti, finché perdurerà questo stato di cose, non avrà posto in casa per il televisore, per l’elettrodomestico, per il motoscooter. Il capitalismo italiano, tutto teso alla conquista dei mercati esteri, non si preoccupa del mercato potenziale esistente in Italia, nel Mezzogiorno, tra milioni di famiglie di lavoratori125.

Quasi ossessiva è dunque un’insistenza sui «ritardi» che non si concilia troppo con l’analisi che vuole il capitalismo italiano ormai «avanzato». Se qualcosa cambia in meglio, è – per così dire – scontato, e comunque non sufficiente. Per esempio, su un episodio che fa molto scalpore nell’Italia del 1966 – il rifiuto da parte di una ragazza di Alcamo, Franca Viola, del matrimonio riparatore con l’uomo che le ha usato violenza – Maria Rosa Calderoni si associa quasi con riluttanza al coro dei commenti che parlano di un «inizio di speranza»: «ci sembra atroce essere ancora a questo. Sentiamo di avere il diritto di pensare che tutto ciò doveva già essere finito, distrutto, dimenticato; [...] che una nuova morale doveva già aver vivificato il liso corpo del nostro tessuto sociale»126. Quello della condizione femminile è un tema che il settimanale del Psiup affronta già prima del 1968 con accenti di originalità. All’interno di una cultura fondamentalmente «emancipazionista», che era quella storica dei partiti di sinistra e che vede la liberazione della donna essenzialmente legata al suo inserimento nel mondo del lavoro e all’estensione dei suoi diritti sociali, cominciano ad emergere altri elementi. Con piglio per l’epoca piuttosto audace, «Mondo Nuovo» affronta in un’inchiesta lunga e approfondita   Z. Jafrate, 46.360 lire al mese per la famiglia di un colono, ivi, 1° maggio 1966.   È un primo passo ma non basta, ivi, 27 febbraio 1966 (corsivi nell’originale).

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di Gabriella Lapasini i temi dell’aborto e della contraccezione. Nella puntata conclusiva, dietro il titolo molto ideologico Non fa comodo al capitalismo il controllo delle nascite, l’autrice introduce in realtà considerazioni più propriamente femministe: Che senso avrebbe la difesa che le leggi conservatrici fanno del nucleo familiare nella sua tradizionale accezione, se il nucleo stesso non fosse a sua volta una fabbrica di mentalità autoritarie e di strutture conservatrici? [...] Rafforzare il tabù sessuale è uno dei modi per rafforzare l’artificiale e precaria coesione del nucleo familiare stesso127.

Pochi mesi dopo il settimanale del Psiup ritorna sul tema con un ancor più significativo articolo di Celestino Spada che denuncia «la morale corrente [...] che fa dell’uomo il dirigente e della donna la comparsa, il gregario», e si chiede: «dove, se non nella famiglia, viene avviato quel processo di repressione che tanto in profondità inciderà e caratterizzerà la psiche dei cittadini-lavoratori?». Dunque, occorre «condurre una battaglia conseguente [...] per una nuova moralità, basata sul diritto di ciascuno ad una libera esistenza, biologica e sociale»128. Il Psiup intuisce altresì che è in atto un drastico cambiamento nel rapporto tra le generazioni, e su questo ha una sensibilità forse più viva di qualsiasi altro partito, anche se per molte ragioni finisce per non capitalizzarla. Nel maggio del 1967 «Mondo Nuovo» dedica un lungo articolo al tema dell’inquietudine del mondo giovanile, in cui risuonano interrogativi inconsueti per i partiti della sinistra: I giovani avvertono, e pongono con forza, con legittima insofferenza, l’esigenza di forme, rapporti, idee nuove per una lotta nuova e radicale, alimentata da una tensione giovane e violenta verso una ribellione libera da astuzie, miti, compromessi, luoghi comuni, retorica. I partiti e le organizzazioni della classe hanno obbiettive, logiche ma non sempre giustificabili difficoltà ad accogliere questa tensione e farsene condizionare, trasformare129.

  Ivi, 13 febbraio 1966.   Sfruttamento ed emancipazione, ivi, 17 aprile 1966. 129   L. Meneghelli, I ribelli e noi, ivi, 30 aprile 1967. 127 128

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Insomma, il più giovane dei partiti italiani è sì consapevole dei mutamenti strutturali in atto nella società e coglie anche quel «qualcosa nell’aria» che annuncia l’avvicinarsi di un tornante decisivo, culturale e sociale; ma ha difficoltà nel realizzare che i precedenti modelli della politica, con il ruolo centrale che vi occupano le ideologie, stanno entrando in crisi. Un’eccezione piuttosto rara può essere considerata l’inchiesta condotta da «Mondo Nuovo» sulle strutture associative nelle grandi città: Piero Ardenti, che firma quella su Milano, denuncia senza mezzi termini la crisi profonda dei partiti di sinistra, ancorati con crescente fatica alle loro roccaforti territoriali, con le vecchie sezioni «brutalmente escluse dal vivere collettivo»130. La scossa del 1968 si fa sentire in modo abbastanza netto anche nell’impostazione del settimanale del partito. Complessivamente, lo sforzo di capire una realtà italiana che sta cambiando in modo sempre più accelerato si fa più costante. Il binomio stesso «cultura e società» è declinato in modo diverso: l’omonimo inserto quindicinale che «Mondo Nuovo» comincia a pubblicare dal luglio 1968 si apre sempre di più ai temi sociali e politico-ideologici131, mentre le rubriche più classiche da terza pagina (le recensioni di libri, di film e di spettacolo) non vengono meno ma, soprattutto nel 1969, si diradano. Non muta di molto l’impostazione della cronaca politica italiana e (prescindendo dai contenuti, di cui parleremo) di quella delle questioni internazionali. Rispetto alla prima, cresce di molto l’attenzione per i fermenti critici che agitano il mondo cattolico132. Si

  Milano: divorzio definitivo?, ivi, 3 dicembre 1967.   Fra gli esempi più interessanti l’inserto del 29 giugno 1969, di ben 8 pagine, intitolato Una linea di massa per la psichiatria, e quello del 3 agosto 1969 dedicato al carcere, “Patrie galere” e giustizia di classe. 132   Cfr. per esempio F. Boiardi, Un nuovo capitolo per la sinistra, in «Mondo Nuovo», 3 marzo 1968, e Cattolici e nuova sinistra – tre intere pagine con interventi di Wladimiro Dorigo, Corrado Corghi, Antonio Zavoli e il documento approvato a Bologna –, ivi, 12 maggio 1968. Il 26 gennaio 1969 l’intero inserto «Cultura e società» è dedicato alla Comunità dell’Isolotto di don Enzo Mazzi, con il resoconto del serrato confronto fra i suoi membri e l’arcivescovo di Firenze Florit. Lo sforzo, anche teorico, più ambizioso di ripensare «il posto di un cristiano nella lotta di classe» è compiuto da un giovane studente cattolico allora militante nel Psiup, Pietro Ichino, in Il ‘popolo di Dio’ e la lotta politica, ivi, 16 febbraio 1969. Il settimanale lo presenta come l’inizio di un dibattito che in realtà non prosegue, salvo che in alcune lettere dei lettori. 130 131

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fanno più graffianti133 o semplicemente più faziosi134 i titoli (che costituiscono sempre un marchio abbastanza originale del giornale). Ma soprattutto – come vedremo nel prossimo capitolo – dilaga l’attenzione per ogni episodio di conflitto sociale, si tratti delle fabbriche o delle periferie urbane, delle università o delle campagne.

133   Vedi per esempio il folgorante Fascismo da vagone-letto (in «Mondo Nuovo», 8 dicembre 1968) che intitola la puntata di un’inchiesta di Mario Giovana sulla stampa italiana dedicata al quotidiano romano «Il Tempo». 134   Tra i tanti, Il Quarto Reich, titolo di un reportage di Pietro Eleuteri sulla Germania federale del 1968.

Capitolo quarto

Il movimento studentesco e la gelata di Praga

1. Gli studenti nel 1967-68: un movimento di classe? Poco prima dell’inizio della campagna elettorale, dal 12 al 14 gennaio 1968, il Psiup tiene la già prevista (e più volte rimandata) Conferenza nazionale d’organizzazione1. Anche se il periodo più difficile può dirsi superato, il problema resta quello di un partito «strutturalmente di massa ma con un numero di iscritti relativamente modesto»: ed è un problema che ha la sua radice anche in una questione generazionale, di cui le anime diverse del partito sono ugualmente consapevoli. Valori, per esempio, segnala preoccupato «una differenziazione profonda [tra] vecchie e nuove generazioni, vecchi e nuovi militanti del movimento operaio», che il partito ha il problema di «raccogliere e amalgamare». E la stessa esigenza è sottolineata anche da Pino Ferraris, il quale però ne trae spunto per una dura critica del gruppo dirigente, chiuso in una concezione del partito «di tipo vecchio e superato», ed esorta a «recepire dall’esterno il nuovo, lasciarlo entrare in noi, disciplinarlo, organizzarlo, non mortificarlo», facendo diventare «coscienza, organizzazione, forza, quello che è impulso, a volte impaziente, a volte anarchico». 1   Il resoconto stenografico degli interventi è in FIG, APSIUP, 1968, busta 4001, da cui sono tratte le citazioni che seguono. Un ampio riassunto è in «Mondo Nuovo», 21 gennaio 1968.

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Anche Giuseppe Pupillo, segretario della Fgs ormai prossima a sciogliersi, sente le nuove generazioni «sempre più critiche, sempre più insoddisfatte, sempre più irrequiete» e sostiene che il partito commetterebbe «un errore imperdonabile» se le emarginasse, e se preferisse «i metodi burocratici ai metodi della apertura problematica». Più in generale, Lelio Basso parla della crisi nel rapporto partito-società come di un «fenomeno generalizzato a tutti i partiti ma [...] più grave quando colpisce partiti operai, partiti cioè che vorrebbero imprimere mutamenti alla società». Andrea Margheri, segretario regionale della Lombardia, è anche più esplicito: chi crede di risolvere il problema «delle critiche e delle intemperanze» che investono i partiti di sinistra nel chiuso delle loro direzioni si illude, non si accorge che è come voler tener tranquilla una secchia d’acqua in un lago in tempesta, perché quello che si manifesta qui è la conseguenza di cose che sono fuori di noi, che sono nella società, che sono tanto grosse che nessuno potrà pensare di non farci i conti.

È trasparente un po’ in tutti gli interventi il riferimento allo scenario che sta dominando il passaggio dal 1967 al 1968: non soltanto la conflittualità operaia continua ad essere intensa, ma le occupazioni delle università dilagano in tutta Italia, con una forza dirompente senza precedenti. Nell’anno accademico 1967-68 si hanno in totale 102 occupazioni di sedi o facoltà universitarie, e dei 33 atenei italiani ben 31 sono totalmente o parzialmente occupati almeno una volta2. Il pretesto immediato dell’azione degli studenti è stata la riforma tentata dall’allora ministro Gui, giudicata selettiva e classista, ma in realtà ad influenzare la rivolta sono le riflessioni svolte da tempo a proposito del ruolo dello studente e dell’intellettuale nella società3, oltre a un generale rifiuto dell’autoritarismo4 e ad eventi

2   Cfr. D. Giachetti, M. Scavino, Liberarsi dall’evento, in Per il Sessantotto. Studi e ricerche, a cura di D. Giachetti, Centro di Documentazione, Pistoia 1988, pp. 7-23. 3   Cfr. P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 90. 4   Cfr. C. Donolo, La politica ridefinita, in Il ’68 senza Lenin, ovvero: la politica ridefinita, edizioni e/o, Roma 1998, pp. 161-183.

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internazionali come la guerra nel Vietnam, che spesso agisce da catalizzatore della protesta. Il Psiup, lo abbiamo visto, è stato molto sensibile a questi fenomeni. Nella seconda metà degli anni ’60, è stato scritto giustamente, «non fallirono solo le riforme: sembrò fallire – o almeno perse fascino e capacità egemonica – il riformismo come modello»5, e nel contempo riprese credito almeno in alcuni ambienti l’ipotesi rivoluzionaria. Non sorprende dunque che un partito come il Psiup, nato proprio in opposizione al centro-sinistra e all’«integrazione riformista» del movimento operaio nel sistema capitalistico, finisca per essere, di tutti i partiti politici italiani, quello «maggiormente in sintonia con i fermenti sociali del periodo»6. Le inquietudini del mondo giovanile sono state colte con una certa lucidità dalla Fgs già a partire dal 1966, dopo una fase di crisi e di stagnazione dell’organizzazione che ha indotto a ripensare la sua funzione e la sua stessa ragion d’essere. Già il 1° maggio di quell’anno «Mondo Nuovo» pubblica una Lettera aperta della Fgs ai compagni del CC del partito7 in cui si constata lo scarso interesse delle giovani generazioni per i tradizionali temi politici e istituzionali cari alle sinistre (l’eredità della Resistenza, l’applicazione della Costituzione) e si ammette autocriticamente che non si è riusciti a compiere «la generalizzazione della coscienza antagonista propria dei gruppi giovanili più avanzati e combattivi». Nei mesi seguenti, come abbiamo visto, l’attenzione del partito di via della Vite per i temi del «ribellismo» delle nuove generazioni si mantiene ben viva, e anche l’interesse per il movimento studentesco è meno episodico di quello dimostrato dal Pci8: già all’inizio del 1967, il Comitato centrale del Psiup ha approvato un ordine del giorno9 di solidarietà con le prime occupazioni a Trento e a Pisa; e in luglio, in un convegno del partito sulla riforma della scuola che per molti aspetti ricalca i clichés più classici in materia, il segretario della Fgs Pupillo fa un intervento che non ha nulla

  G. Crainz, Storia del miracolo italiano cit., p. 203.   P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi cit., p. 441. 7   «Mondo Nuovo», 1° maggio 1966. 8   Per la posizione comunista di fronte alle lotte universitarie si veda la puntuale ricostruzione di A. Höbel, Il Pci di Longo cit., pp. 443 sg. 9   «Mondo Nuovo», 12 febbraio 1967. 5 6

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di rituale10. Rilevando l’assenza dal convegno di «quella parte del movimento studentesco che è stata protagonista delle lotte», la addebita a rapporti «sempre più complicati» con i partiti, i quali non hanno capito che «il movimento studentesco ha saputo sviluppare in questi anni un’analisi propria dello sviluppo capitalistico, del rapporto tra scuola e produzione, un’analisi che riguarda la propria figura sociale, e [...] si sente protagonista del conflitto sociale». La stessa Fgci è accusata di attardarsi in una concezione superata di rapporti di vertice tra partiti (ivi compreso il Psu) e di non confrontarsi con le forze che rappresentano «la parte viva, la parte di idee, la parte di riflessione critica», insomma «il futuro stesso del movimento studentesco». In effetti, nelle occupazioni susseguitesi fin dal 1966 gli studenti del Psiup hanno avuto un ruolo importante tra i dirigenti e gli ispiratori del movimento, mentre la presenza dei giovani comunisti è stata assai meno frequente e più timida11. Al congresso in cui la Fgs decide il suo scioglimento e la trasformazione in «settore di lavoro» del partito, che si svolge dal 19 al 21 gennaio del 1968 a San Vincenzo (Livorno)12, è eletto un Comitato di coordinamento nazionale per il lavoro dei giovani all’interno del Psiup nel quale figurano (come responsabili, abbastanza curiosamente, del «lavoro fabbriche») due dei dirigenti più attivi delle occupazioni rispettivamente di Palazzo Campana a Torino e di Sociologia a Trento, Luigi Bobbio e Mauro Rostagno: ed è significativo che quest’ultimo sottoponga a Lelio Basso, presidente del Comitato centrale del Psiup, una bozza di un suo documento destinato poi ad avere larga risonanza, Note sulle lotte studentesche, in cui teorizza che la soluzione del problema della scuola non sta «nelle riforme tecnocratiche né in compromessi politici, ma nello sviluppo della lotta, nel suo allargamento e nella sua radicalizzazione. La lotta contro la scuola è già lotta contro tutto il sistema»13.   FIG, APSIUP, 1967, busta 3982.   M. Battini, Note storiche sugli studenti estremisti e sulle agitazioni dell’Università pisana (1966-1975), in La cultura e i luoghi del ’68, a cura di A. Agosti, L. Passerini e N. Tranfaglia, Franco Angeli, Milano 1991, pp. 278-279; D. Buzzetti, Le lotte universitarie a Bologna, Clueb, Bologna 1969. 12   Per un resoconto del congresso della Fgs cfr. «Mondo Nuovo», 28 gennaio 1968. 13   FB, AB, XV, busta 5, fasc. 26, Bozza di Mauro Rostagno sulle lotte studente10 11

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Le appartenenze di giovani come Bobbio e Rostagno al partito sono ormai soprattutto formali, e le loro elaborazioni sui temi dell’università molto autonome da quelle del Psiup14. Ma proprio il congresso di San Vincenzo ha lanciato al partito un invito a non tagliare i ponti: Se il Partito non sente l’esigenza di darsi strumenti nuovi, in cui sia recuperata l’unità fra azione e teoria, tra lotte di classe e progetto rivoluzionario, allora vi è il duplice rischio o di perdere i giovani che sono entrati con fiducia e entusiasmo nelle sue fila, o di marginalizzarli in un massimalismo verbale e impotente15.

L’appello non cade nel vuoto: su «Mondo Nuovo» gli articoli, i servizi e le interviste sul movimento studentesco si susseguono a ritmo sempre più intenso16. Nessun partito politico italiano si spinge tanto avanti nel riconoscere la novità rappresentata dal movimento studentesco come specifico soggetto politico e sociale. Un documento interno della federazione torinese ne parla come di un «movimento ad orientamento anticapitalistico e rivoluzionario, e tendenzialmente socialista», che pone «un problema senza precedenti ad un Partito operaio»: Si tratta infatti di un movimento ‘destinato’ a muoversi nell’ambito dello schieramento di classe, senza però coincidere con nessuna delle attuali componenti ma senza neanche pretendere di sostituirsi globalmente a nessuna di esse (partiti, sindacati). [...] La nascita del M.S. [movimento studentesco] allarga – sia pure contraddittoriamente e confusamente – lo schieramento di classe in Italia introducendovi una forza sociale (quella degli studenti) che in precedenza vi era presente sotto forma fondamentalmente individuale o comunque elitaria. Il sche (1968) (i corsivi sono nel testo originale). Basso mostra particolare interesse per il movimento studentesco, e «Problemi del socialismo» gli dedica il fascicolo di febbraio. 14   Nota giustamente Alberto Asor Rosa che i dirigenti del movimento studentesco iscritti ai partiti operai «nonostante o indipendentemente dall’atto dell’appartenenza [...] in realtà agiscono come leaders di una massa studentesca più che come interpreti di un’ipotetica linea di partito nelle questioni universitarie» (Lotta politica e lotta universitaria, «Mondo Nuovo», 11 febbraio 1968). 15   Ivi, 28 gennaio 1968. 16   Potere studentesco (intervista a Luigi Bobbio, ivi, 11 febbraio 1968).

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compito di direzione politica del Partito viene da questa presenza non impoverito ma spostato più avanti, diventa più impegnativo e meno automatico ma si arricchisce di possibilità17.

La discussione su questo tema continua ad animare il Psiup per tutto il 1968, anche quando l’onda più forte del movimento studentesco comincia a ritirarsi e a rifluire in un tentativo di «fare politica» intervenendo in primo luogo sul fronte delle lotte operaie. Probabilmente il partito non è, nella propria valutazione del movimento studentesco, così unanime come può apparire dai documenti dei suoi organi dirigenti e soprattutto di alcune federazioni più di sinistra. Se ne ha la riprova quando sul primo numero di «Mondo Nuovo» del 1969 è pubblicata una lettera di Guido Bonelli, un professore di liceo di Perugia, al quale, si deve riconoscere, non manca certo il coraggio di andare controcorrente. Trincerandosi dietro alcune rigidità classiste, Bonelli non esita però a dissacrare molti tabù: fin dall’inizio «la rivolta degli studenti contro la scuola gli sembrava che stesse alla lotta di classe come la farsa sta alla tragedia»; per il suo carattere «necessariamente settoriale» la protesta studentesca può essere assorbita dal sistema con una semplice manovra socialdemocratica; l’azione degli studenti non ha nulla di rivoluzionario e non distrugge «nulla di quello che merita di essere distrutto», mentre forse demolisce anche qualcosa che merita di essere conservato, cioè la cultura della scuola classica, in cui la tolleranza è «con buona pace di Marcuse [...] uno strumento fondamentale per la formazione dell’intellettuale». Bonelli chiude la lettera addirittura esprimendo il suo «profondo disgusto per le ‘occupazioni’, che provocano ‘controccupazioni’ più o meno fasciste». Il direttore di «Mondo Nuovo», Ardenti, pubblica la lettera per intero e con un certo rilievo, annunciando che su di essa si aprirà una discussione. Si scatena un putiferio: Vittorio Foa replica già la settimana dopo, prendendosela non tanto con Bonelli quanto con il giornale di partito, che accusa di «assumere una posizione apertamente reazionaria come base per una discussio­ne

17   Centro Studi Piero Gobetti (CSPG), Fondo Marcello Vitale, subfondo Piraccini, fasc. 12, senza data [ma marzo 1968].

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nel partito» e di «lasciar gettare fango, senza rispondere subito, sul movimento studentesco». Angela Trivulzio e Adriana Buffardi, della Commissione scuola, stigmatizzano «l’affermazione dell’autonomia della scuola e della sua sostanziale estraneità, come specifico terreno di lotta politica, alla lotta di classe», invitando ironicamente Bonelli a «spogliarsi del suo prestigio di intellettuale illuminato e maturare finalmente quella scelta tra liberalismo e marxismo che lo travaglia»; e dei numerosi lettori intervenuti uno solo, pur polemizzando duramente con il professore perugino, ammette la fondatezza della critica «a una certa faciloneria dei giovani [...] o di una certa mentalità dilagante per cui si è portati a credere che si possa conquistare il paradiso senza sottoporsi a maceranti sforzi di ricerca e di approfondimento». Ardenti chiude la discussione un mese dopo, ribadendo le tesi ufficiali del partito sul ruolo della scuola come stabilizzatore «dello sfruttamento e dell’autoritarismo nei termini in cui si manifestano nella società attuale»18. Bonelli non ha o non si prende il diritto di replica: ma il fatto stesso che il settimanale ospiti quel dibattito è la riprova che le certezze sul carattere di classe del movimento studentesco sono meno granitiche di quanto possano apparire, e che una parte del partito non è poi così lontana dalle posizioni di Amendola19, dal quale pure gli stessi dirigenti del Psiup, come Valori, prendono le distanze. D’altra parte, anche nell’ala più radicale del partito il giudizio sulla natura del movimento studentesco è stato inizialmente non univoco. Gli spunti di riflessione più impegnativi sul tema sono venuti da Alberto Asor Rosa, che si è iscritto al partito all’inizio del 1968 e fa sentire ripetutamente la sua voce su «Mondo Nuovo». In un intervento apparso in febbraio, egli dichiara senza mezzi termini – in singolare sintonia con le tesi di Bonelli vituperate dal partito solo un anno dopo – che non esiste «lotta più

18   Il dibattito sull’articolo di Bonelli, pubblicato il 5 gennaio 1969, prosegue nella rubrica delle lettere fino alla conclusione di Ardenti del 2 febbraio. Molte lettere, per mancanza di spazio, non sono pubblicate. 19   G. Amendola, Necessità della lotta sui due fronti, in «Rinascita», 7 giugno 1968, aveva attaccato con molta durezza il movimento studentesco come «rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie posizioni anarchiche»: v. infra, pp. 161-162 e soprattutto A. Höbel, Il Pci di Longo cit., pp. 455-466.

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classicamente riformista di quella che può svolgersi sul terreno universitario», e che non si riesce a trovare «nei documenti studenteschi di questi ultimi anni, mesi o giorni, un solo obiettivo che un sistema capitalistico sufficientemente elastico non sia in grado di accogliere»: «tutti i tentativi compiuti non sono arrivati a dimostrare che l’Università è una fabbrica e gli studenti sono degli equivalenti oggettivi degli operai»20. L’opinione del giovane docente romano, che non manca di colpire per la sua preveggenza, è che il movimento studentesco potrà fungere da apripista e da detonatore a qualcosa di molto più importante: egli ritiene che per la prima volta dal dopoguerra si stia «formando nel paese un vasto schieramento articolato di forze sociali – in primo luogo operaie, ma non soltanto operaie – disposte a muoversi sulla base di parole d’ordine direttamente anticapitalistiche» e prevede che la «ripresa delle grandi vertenze sindacali del ’69-’70 riproporrà su scala enormemente allargata» tutti i problemi che la nascita del movimento studentesco ha già rimesso in discussione: «il rapporto tra direzione politica e movimento di massa, l’assorbimento positivo delle singole istanze di lotta in un quadro strategico generale, la necessità non solo di prevedere e poi di recepire, ma anche e soprattutto di anticipare e organizzare le tensioni sociali più significative». Certo, «il ’69-’70 non vedrà lo scoppio della rivoluzione in Italia», ma potrà costituirne «un passaggio essenziale» se, in una fase come quella che si sta vivendo, «ancora di transizione e di preparazione», il Psiup troverà «la sua funzione naturale – la più corrispondente del resto alle sue caratteristiche e alle sue tradizioni – nel costituirsi come avanguardia e punto di riferimento di quel vasto arco di forze sociali e politiche, che la realtà italiana vede oggi in movimento»21. Tuttavia, almeno in quella fase, il movimento studentesco non si riconosce nel ruolo che gli assegna il Psiup e, con qualche differenza, anche la sinistra del Pci: non lo fa né nella sua ala più intransigentemente marxista e rivoluzionaria, più forte a Pisa, a Milano, a Venezia, né in quella «antiautoritaria», ben rappresen-

  Lotta politica e lotta universitaria, in «Mondo Nuovo», 11 febbraio 1968.   A. Asor Rosa, Da qui agli anni ’70. Un impegno di lavoro politico per le masse giovanili, in «Mondo Nuovo», 28 aprile 1968 (corsivi nell’originale). 20 21

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tata a Trento, a Torino e alla Cattolica22. Il divario si approfondisce, come appare chiaro per esempio da un incontro a Torino fra gli occupanti di Palazzo Campana e una delegazione nazionale del Psiup: mentre quest’ultima sollecita una più precisa attenzione agli aspetti anticapitalistici della lotta e alla sua collocazione in un contesto internazionale «antimperialistico», gli studenti respingono questa «presunta politicizzazione» con la motivazione che si tratta «di una dimensione non propria dell’agitazione, che non avrebbe avuto nessuna funzione mobilitante, né poteva porre alcun obiettivo di lotta concreto»23. Un documento inviato dagli studenti torinesi all’assemblea di Milano dei delegati dei comitati universitari di lotta accomuna i partiti di sinistra in un giudizio ugualmente critico24, affermando che «le proposte di lavoro politico ed organizzativo del movimento non possono venir raccolte né a livello di partito né tanto meno a livello parlamentare»: il che viene interpretato come una minaccia di astensione o di scheda bianca nelle ormai imminenti elezioni. È vero che in un’intervista a «Mondo Nuovo» del 24 marzo gli stessi Guido Viale e Luigi Bobbio giudicano quell’ipotesi «dopo un’attenta riconsiderazione, affrettata»; ma Viale torna a contestare i «vecchi metodi», consistenti nell’imporre dall’esterno al movimento degli studenti «certe concezioni astratte o impostazioni ideologiche che non hanno riferimento diretto alla situazione concreta»; e Bobbio ammette sì «la possibilità di una stretta intesa con le componenti locali di federazione del Psiup», ma solo quando queste siano veramente «in grado di rompere col meccanismo parlamentaristico e coi metodi tradizionali dei partiti»25. Alla fine si rivela fondata la   A. Mangano, La geografia del movimento del ’68 in Italia, in Il Sessantotto. L’evento e la storia, «Annali della Fondazione Luigi Micheletti», 4, 1988-89, pp. 238-240. 23   M. Revelli, Il ’68 a Torino. Gli esordi: la comunità studentesca di Palazzo Campana, in La cultura e i luoghi del ’68 cit., pp. 223-224. 24   Del Psiup si dice che «seppure sul piano nazionale non ha cercato di porre un freno al movimento e ha lasciato liberi i suoi iscritti di assumere in esso qualunque posizione, non ha però voluto recepire e accogliere le istanze positive scaturite dalle lotte»: CSPG, Fondo Vitale, subfondo Piraccini, fasc. 4, Lettera degli studenti torinesi al Convegno nazionale del movimento studentesco a Milano, 11-12 marzo 1968. 25   Intervista a Luigi Bobbio, in «Mondo Nuovo», 24 marzo 1968. Bobbio e Viale erano stati nel frattempo colpiti da mandato di cattura. 22

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previsione di Asor Rosa: «è probabile che i giovani voteranno in grandissima maggioranza, salvo qualche isola settaria, ma in grandissima maggioranza voteranno convinti di compiere una scelta che può effettivamente qualificarsi solo sul terreno dello scontro sociale»26. Così in effetti avviene, e almeno nell’immediato il Psiup ne beneficia in consistente misura. Nel corso della campagna elettorale il partito ha insistito soprattutto su due temi. Da un lato, ha enfatizzato il proprio ruolo preminente nell’opposizione al centro-sinistra, cercando di capitalizzare sul piano del consenso le mancate riforme della maggioranza di governo. L’obiettivo resta quello di creare «le condizioni di uno schieramento alternativo [attraverso] l’unità delle forze socialiste e progressiste e di quei credenti di sinistra che, sempre più numerosi, rifiutano l’obbedienza politica al clero e il ricatto della Dc». Il «compito specifico» del Psiup è di «sconfiggere la socialdemocrazia in Italia e di contestarne la funzione a livello europeo come forza di mediazione fra la classe operaia e quella capitalistica, a sostegno del cosiddetto modello democratico, nel quale convergono tutti i regimi, compresi quelli fascisti, che esercitano – sia pure con mezzi diversi – una funzione di sostegno attivo alla società capitalistica». A questo modello, evocando esplicitamente le ombre che lo oscurano («repressione e discriminazione in fabbrica, violenta repressione poliziesca, attività del Sifar»), si contrappone l’obiettivo di una «nuova democrazia», dando per scontato che non può esservi «uno Stato democratico nella società capitalistica, dominata dalla tendenza autoritaria del capitale monopolistico»27. È un programma dunque esplicitamente «massimalista», nettamente più radicale nella formulazione di quello del Pci28, anche se contiene obiettivi abbastanza articolati di riforme migliorative29.   A. Asor Rosa, Da qui agli anni ’70 cit.   FIG, APSIUP, 1968, busta 4003, Programma elettorale del Psiup (le citazioni sono dalle pp. 1 e 34). 28   Cfr. l’appello Elettrici, elettori pubblicato dall’«Unità» il 7 aprile 1968. 29   Quello sulla scuola e sull’università, per esempio, è un discorso molto concreto, con proposte pratiche di riforma degli ordinamenti, anche se poi si ammette che la crisi dell’università, per il «significato politico» che ha raggiunto, non può essere risolta soltanto da misure legislative, o dall’introduzione di «nuovi esperimenti didattici». 26 27

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I risultati delle elezioni del 19 maggio sono probabilmente superiori alle aspettative dello stesso gruppo dirigente. Al Senato l’alleanza Pci-Psiup supera gli 8 milioni di voti, raggiungendo il 30%, per un totale di 101 seggi: di questi, 13 vanno a esponenti del Psiup, uno in più dei senatori che hanno seguito il partito dopo la scissione del 1964, e in linea con l’esito che ci si poteva aspettare dall’accordo di dicembre fra i due partiti. Ma è alla Camera – dove il Psiup si è presentato da solo – che il successo ha contorni più netti: il partito raccoglie infatti quasi un milione e mezzo di voti, pari al 4,5% dei voti espressi, e ottiene 23 seggi. Si tratta di un risultato significativo, perché si inserisce nel contesto di un’ulteriore avanzata del Partito comunista, e di una clamorosa sconfessione dell’unificazione Psi-Psdi da parte dell’elettorato. I due partiti socialisti fusi nel Psu hanno solo il 14,5% (poco più di quanto ha ottenuto nelle precedenti legislature il solo Psi). Sono dati che sembrano confermare la validità della linea perseguita dal Psiup negli ultimi anni: «Abbiamo avuto la prova che la componente socialista viene esaltata e non mortificata dalla politica unitaria», afferma Valori nella riunione del Comitato centrale dell’11-12 giugno30. Che questo significhi un netto spostamento moderato all’interno della maggioranza di centro-sinistra, con una Dc che dall’alto del suo 39% di voti domina il Psu e i partiti laici minori, non è evidentemente cosa che preoccupi il Psiup, ben fermo nella sua convinzione che il centro-sinistra sia un esperimento politico per sua natura moderato, in cui la componente socialista è a priori relegata in un ruolo ininfluente e subalterno31. Un’analisi dettagliata del voto psiuppino alla Camera rivela che alcuni dei più gravi squilibri che avevano ostacolato il radicamento e lo sviluppo del partito sono (o almeno appaiono) in via di superamento, anche se a punte di consenso particolarmente elevate in alcune province (Massa-Carrara: 8,6%; Enna: 8,3%; Brescia: 6,9%) fanno riscontro risultati ancora deludenti in altre (Bolzano: 1,8%; Frosinone: 2,3%). Si è inoltre molto ridimensionata la debolezza elettorale del partito nelle grandi città: i risultati   «Mondo Nuovo», 16 giugno 1968.   Di notevole interesse, in questa prospettiva, i tre contributi pubblicati da Pino Ferraris, Andrea Margheri e Roberto Scalabrin, Il voto al Psiup in alcune regioni del Nord, in «Problemi del socialismo», n. 31, giugno 1968, pp. 619-640. 30 31

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sono nell’ordine del 3-4% (Roma: 3,1%; Milano: 4,3%; Napoli: 3,5%; Genova e Firenze: 3,9%; Bologna: 4,2%), con punte che sfiorano il 5 o il 6% (Torino: 4,9%; Venezia: 6,1%). Non meno significativi sono gli aumenti in cifre assolute: si passa da 13.000 a 33.000 voti a Torino, da 10.000 a 21.000 a Genova, da 22.000 a 45.000 a Milano, da 20.000 a 49.000 a Roma, da 9000 a 19.000 a Napoli. La regione che fa registrare il risultato migliore è l’Umbria, con il 5,5%, seguita dal Veneto, dalla Sardegna, dalla Sicilia e dalla Lombardia con punte superiori al 5%: una percentuale sfiorata anche da Piemonte, Emilia e Toscana. Le aree di maggiore debolezza, con percentuali inferiori al 3%, sono la Puglia, la Basilicata e il Trentino. In ogni caso, in quasi tutte le regioni, salvo che in Basilicata e in Abruzzo-Molise, si è verificato un incremento di voti rispetto al 1964: il maggiore, che equivale quasi a un raddoppio di voti, si registra, significativamente, nelle tre regioni del triangolo industriale: del 2,6% in Lombardia, del 2,5 in Liguria, del 2,4 in Piemonte. Nell’insieme, rispetto alle amministrative del 1964, il peso del voto al Nord è aumentato del 10%, tanto quanto è diminuito quello del voto al Sud, mentre al Centro la situazione è sostanzialmente invariata. Chi sono gli eletti del Psiup? Rispetto alla composizione dei gruppi parlamentari del partito nel 1964, i volti nuovi non sono pochi: 6 dei 13 senatori e 10 dei 23 deputati non hanno mai seduto in Parlamento, ma il tipo di personale politico è assai simile al precedente, trattandosi nella grande maggioranza dei casi di quadri politici o di amministratori cresciuti nelle file del Psi prima della scissione. I riflessi della stagione di fermenti sociali e di lotte che ha preceduto le elezioni si stentano a cogliere, le sole presenze significative da questo punto di vista essendo quelle del torinese Fausto Amodei, architetto e componente del gruppo musicale dei Cantacronache, e dell’alessandrino Giorgio Canestri, insegnante di liceo impegnato in prima fila nella battaglia per il rinnovamento della scuola: entrambi hanno trentaquattro anni, un età molto inferiore alla media degli eletti psiuppini. Il dato che più viene sottolineato nelle analisi interne di partito è che, particolarmente nelle regioni del Nord, la forte affermazione del Psiup si accompagna «all’arretramento del Psu, con uno spostamento dell’elettorato socialista verso di noi e in parte verso ­­­­­159

il Pci»32. In realtà l’emorragia dei voti socialisti ha beneficiato almeno altrettanto il Pci che il Psiup: nella città di Genova, per fare un solo esempio, il Psu ha perso il 10% dei voti ottenuti insieme da Psi e Psdi nel 1963, ma il Psiup è progredito solo del 2,4% rispetto alle amministrative del 1964. Si preferisce sostenere che i due partiti della sinistra d’opposizione non si sono sottratti voti a vicenda e che nell’insieme la loro forza è nettamente cresciuta, il che viene letto in due modi: la politica di stretta unità con il Pci paga, e la funzione di pungolo e di critica cui non si è rinunciato nei suoi confronti si è rivelata positiva. Nel breve lasso di tempo in cui il Psiup spende i suoi ultimi sforzi nella campagna elettorale, celebra il successo raggiunto e ne analizza le prospettive, l’intensa vicenda del maggio francese sembra offrire nuove conferme alla prospettiva di radicale critica al capitalismo in cui il partito si è mosso fin dalla nascita e insieme interrogare l’intera sinistra di classe sui limiti e i possibili nuovi sviluppi della propria strategia. La grande mobilitazione degli studenti alla Sorbona e a Nanterre, che culmina nella settimana tra il 5 e il 12 maggio nelle barricate del Quartiere Latino, è seguita con attenzione e partecipazione dal Psiup33, ma è la discesa in campo degli operai a dare al partito la sensazione di trovarsi di fronte a una svolta34. Anche alla base l’emozione suscitata dagli avvenimenti francesi è forte: un volantino diffuso a metà maggio a Torino dopo l’occupazione della Renault, firmato «gli operai Fiat del Psiup», esprime la tentazione della fuga in avanti che serpeggia nelle federazioni più radicali: I padroni di tutta l’Europa, i loro governi e i loro poliziotti, tremano di fronte alla rivolta della classe operaia che esplode in questi giorni in Francia e cova come il carbone sotto la cenere in tutti gli altri paesi. [...] Questo è il momento per tornare a colpire la Fiat e per riprendere la nostra azione. Perché oggi non siamo più soli, ma abbiamo con noi la forza unita di tutta la classe operaia d’Europa! [...] il potere deve 32   Si veda la nota definita «a carattere interno» 19 maggio, in FIG, APSIUP, 1968, busta 4003, Direzione; un’analisi del voto è anche in «Mondo Nuovo», 2 giugno 1968. 33   Tutta la Francia in sciopero ha solidarizzato con gli studenti, in «Mondo Nuovo», 19 maggio 1968. 34   B. Crimi, La Francia esplode, ivi, 26 maggio 1968.

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essere il nostro unico obiettivo. Organizziamoci dentro la fabbrica, squadra per squadra, per cominciare a cambiare il sistema di lavoro della Fiat e per piegarlo ai nostri bisogni35.

Poche settimane dopo, molte illusioni si sono dissolte, tanto più ai vertici del partito, che non aveva sposato completamente gli entusiasmi della base. Al Comitato centrale dell’11-12 giugno, in una relazione importante anche per altri aspetti – su cui torneremo –, Vecchietti commenta la situazione francese notando: c’è un’insufficiente elaborazione nella strategia per l’accesso pacifico al potere da parte del movimento operaio, che ha avuto in questi giorni nella Francia l’esempio più evidente. [...] Il Partito comunista francese, insieme ad altre forze, si è trovato impreparato, sorpreso dagli sviluppi di una situazione nuova, maturata al di fuori della strategia pacifica che esso si è dato36.

Quando poi le elezioni di fine giugno mostrano il consenso di cui ancora gode De Gaulle e segnano la bruciante sconfitta della sinistra, le critiche a quest’ultima (e al Pcf in particolare) si fanno più forti: Bisogna ricercare nella sinistra stessa i motivi della sua sconfitta – scrive Piero Ardenti – bisogna ricercarli nel mancato collegamento tra la sinistra e l’impetuoso movimento di massa del maggio scorso. [...] Non c’è stata traduzione politica del movimento stesso. La sinistra francese, in realtà, è stata colta di sorpresa dagli avvenimenti di maggio, ed è stata incastrata dalle sue contraddizioni non marginali ma di fondo37.

Il Psiup vuole evitare a tutti i costi che qualcosa di simile accada in Italia. È una fase in cui le lotte studentesche fanno registrare

35   Istituto Gramsci piemontese (IGP), Fondo Mario Giovana, Carte della federazione piemontese del Psiup, Operai della FIAT! (volantino del Psiup, maggio 1968). 36   «Mondo Nuovo», 16 giugno 1968. 37   P. Ardenti, I motivi di una sconfitta, ivi, 7 luglio 1968 (corsivi nell’originale). Il titolo di copertina di questo numero era un esplicito La vittoria del generale.

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una pausa, mentre dilagano e si intensificano le agitazioni operaie. Le ore di sciopero nell’industria passeranno dai 28 milioni del 1967 ai 50 milioni del 1968. La ripresa delle lotte coincide con un momento travagliato del rapporto tra lavoratori e sindacati: lo sciopero generale sulle pensioni, indetto dalla sola Cgil il 7 marzo, è in realtà il risultato di una fortissima pressione della base, dopo che la segreteria della Confederazione ha già accettato, insieme a Cisl e Uil, le proposte del governo. In molte fabbriche si sviluppano forme nuove e incisive di lotta, con scioperi articolati, non di rado spontanei, ed improvvise esplosioni di rabbia operaia. Della stessa Fiat si comincia a vedere un volto «oscuro e ignoto all’esterno, delle officine e dei reparti trasformati nel teatro di una guerriglia spicciola, ove si rinnovava ogni giorno una protesta sorda, ancora costretta a rimanere latente»38. Nell’estate le lotte si estendono ad altre grandi concentrazioni operaie, come Porto Marghera e la Pirelli. Il Psiup, forte del successo elettorale e di un attivismo che sul terreno delle lotte operaie è stato negli ultimi mesi costante, cerca di assumere un ruolo di avanguardia e qualche volta, nella magmatica situazione creatasi – di crisi della direzione sindacale, latenza del Pci e interventismo dei gruppi minoritari e delle schegge del movimento studentesco votatesi al «lavoro di fabbrica», – vi riesce. Anche il rapporto con il Pci, pur uscito rafforzato dall’indubbio successo della lista unica al Senato, risente di questa ambizione, che è alimentata dalle differenze di linea presenti nel partito maggiore: quando Giorgio Amendola, con una terminologia ripresa in pieno dall’ortodossia terzinternazionalista, teorizza su «Rinascita» la «necessità della lotta sui due fronti», condannando in egual misura l’«opportunismo socialdemocratico» e l’«estremismo settario» degli studenti39, nelle polemiche che suscita all’interno del suo partito si inserisce con insolita decisione anche il Psiup, per bocca di un suo esponente che pure è fra i più sensibili al legame unitario: In realtà – scrive Dario Valori – Amendola non chiama a una lotta su due fronti: suona la tromba per una lotta contro un fronte. Non 38   G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT (1919-1979), il Mulino, Bologna 1998, pp. 149-150. 39   Cfr. supra, nota 19.

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si può mettere la socialdemocrazia sullo stesso piano del movimento studentesco, sia pure nelle posizioni più estreme40.

La tentazione di riguadagnare uno spazio politico a sinistra del Pci torna così a farsi sentire abbastanza forte. La interpreta anche il rapporto del solitamente prudente Vecchietti al Comitato centrale dell’11-12 giugno, che contiene forse il massimo di concessioni alle logiche «movimentiste» concepibili per un dirigente con la sua formazione e la sua storia: in questo senso non è sbagliato definirla «in pieno, e non solo formalmente, sessantottina»41, anche se è evidente la preoccupazione di ricondurre un fenomeno nuovo come quello della contestazione entro schemi di analisi marxisti. È un discorso appassionato ma contraddittorio, che tradisce da un lato l’aspettativa di un’accelerazione dei processi rivoluzionari, dall’altro il timore per la direzione che essi potrebbero prendere se incontrollati. Vecchietti riconosce la pluralità di movimenti sociali articolati e autonomi come «un’esigenza reale della lotta di classe nella società capitalistica moderna», ma mette ben in chiaro che «la pluralità delle organizzazioni non esclude o elide la funzione di partito», a cui spetta il compito di tracciare «l’indirizzo strategico rivoluzionario attorno al quale si articolano questi movimenti». Vecchietti, pur prendendone le distanze, vede nella «controviolenza alla violenza istituzionalizzata» esercitata dal movimento studentesco una reazione comprensibile alla spinta autoritaria di uno Stato capitalistico che si evolve «verso forme di repressione multiple» e tende a sommare «all’uso della corruzione e alla politica dell’integrazione [...] anche l’azione violenta». Ma soprattutto, con evidente preoccupazione, vede il rischio che si apra a breve termine «un problema delle giovani generazioni operaie dalle dimensioni ben più vaste, ben più impegnative e, se non se ne raccolgono tempestivamente le esigenze ben più negative, del movimento studentesco in se stesso»42.

  D.V. [Dario Valori], Caro Amendola, non siamo d’accordo, in «Mondo Nuovo», 16 giugno 1968 (corsivi nell’originale). 41   Così M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 374. 42   Il testo integrale della relazione di Vecchietti al Comitato centrale del Psiup dell’11-12 giugno è in «Mondo Nuovo», 23 giugno 1968. 40

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Nonostante la sua intima contraddittorietà, o forse proprio in ragione di essa, la relazione del segretario pare ampiamente condivisa anche dagli esponenti della minoranza: Foa l’approva calorosamente e Pupillo vi vede «il segno di una positiva volontà rinnovatrice». Ma certo persiste una notevole distanza fra chi, come Valori, continua a mettere l’accento sulla «lotta contro la socialdemocrazia», fondando un po’ vagamente l’azione del partito «sui problemi e le tensioni reali, per contribuire a decantare la situazione», e chi, come Pino Ferraris, pensa che la lezione francese abbia decretato il fallimento di «una vecchia strategia difensiva di condizionamento e di pressione sul potere, che pretende di contenere l’azione di classe all’interno del sindacato e dell’iniziativa parlamentare», e dunque ritiene che la questione vada posta «nei termini dello scontro sociale diretto, di azione di massa organizzata, di movimento politico»43. La radicalizzazione della linea politica del Psiup sancita dal Comitato centrale di giugno si rispecchia anche sul piano organizzativo con una serie di nuove nomine, fra cui spicca quella del sindacalista toscano Guido Biondi, vicino alle posizioni di Libertini e Ferraris44, a responsabile della Sezione lotte di massa della direzione. Sul modo di gestire questa linea più radicale, le differenze non si sono certo cancellate, e già riaffiorarono nel Comitato centrale del 3-4 luglio, ma possono apparire per una volta secondarie in un contesto in cui il Psiup si sente, per così dire, «sulla cresta dell’onda»45: Il lavoro che è davanti a noi nei prossimi mesi appare enorme e esaltante – afferma in quell’occasione Elio Giovannini –: costruire la saldatura fra un forte movimento di lotta dei lavoratori nelle fabbriche [...] e una piattaforma politica della sinistra capace di offrire al movimento operaio e al movimento studentesco sbocchi anche parziali nell’ipotesi di movimenti di rottura dell’equilibrio economico del sistema46. 43   Per l’intervento di Ferraris, e per gli altri interventi nel dibattito al Comitato centrale, cfr. ivi, 30 giugno 1968. 44   Quest’ultimo è diventato, già a partire dal maggio del 1967, segretario della federazione torinese. 45   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 376. 46   «Mondo Nuovo», 14 luglio 1968.

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Tutto, insomma, sembra possibile. La crisi del centro-sinistra si trascina stancamente con la nascita dell’ennesimo «governo balneare», un monocolore Dc guidato da Leone contro il quale il Psiup esprime uno scontato voto negativo, né la decisione del Psu, sotto choc per la batosta elettorale, di non entrare a farne parte rende più malleabili le posizioni psiuppine nei suoi confronti. Ad essere preda della crisi pare solo il campo avversario. Ma l’invasione sovietica della Cecoslovacchia sta per mettere in piena luce quanto gravi siano le oscillazioni di linea politica e quanto consistenti i dissensi interni: cosicché il «fatale 1968» sarà ricordato per il Psiup «insieme come l’anno di maggior successo ma anche quello di inizio della crisi»47. 2. La gelata di Praga La ventata antiautoritaria e libertaria che investe almeno in parte gli orientamenti del Psiup nella politica italiana a partire dal 1967 sembra accompagnata da una radicalizzazione delle posizioni anche nella politica internazionale. Certo, il nodo del giudizio sui paesi socialisti rimane irrisolto, almeno a livello delle prese di posizione ufficiali del gruppo dirigente. Quanto alla base del partito, una parte cospicua dei vecchi militanti resta fedele all’ortodossia filo-sovietica, ma tra le leve più giovani il mito dell’Urss è ormai logoro e, ridimensionatesi anche per l’intervento dei vertici le simpatie filo-cinesi, quello che soffia con più forza è il vento del terzomondismo. Lo stesso Libertini se ne fa contagiare: in una situazione mondiale caratterizzata dalla rivolta di due continenti, l’Asia e l’America Latina, «l’Europa diventa una retrovia [...] e la questione che si pone al movimento operaio europeo è proprio questa: non possiamo concedere all’imperialismo una retrovia tranquilla»48.   S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 93.   L. Libertini, Vietnam, Cuba, Italia, in «Mondo Nuovo», 23 aprile 1967. Questo approccio, a cui fa qualche concessione anche Tullio Vecchietti, non è certo condiviso dall’intero gruppo dirigente del Psiup: è lecito pensare che lasci freddo Lelio Basso, come dimostrano le lettere indirizzategli da un’amica di vecchia data, Laura Conti, ex partigiana e autorevole esponente del Pci milanese: «Carissimo Lelio – gli scriveva a pochi giorni dall’inizio della guerra dei sei 47 48

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Lo scoppio della guerra dei sei giorni fra Israele e i paesi arabi, nel giugno del 1967, proietta però la minaccia di un confronto fra le due superpotenze della guerra fredda in un’area molto vicina all’Italia. La presa di posizione del Psiup è netta: sono immediatamente sottolineate le responsabilità nello scatenamento del conflitto dello Stato israeliano, che viene definito «avamposto americano» e «testa di ponte dell’imperialismo contro il mondo arabo»49; si ribadisce il diritto di Israele a vedere garantita la propria esistenza sovrana, ma anche che la condanna della sua politica non può essere confusa con l’antisemitismo; si afferma la necessità di una soluzione del conflitto che crei «le condizioni di un avvicinamento e di una collaborazione fra le forze progressiste e socialiste israeliane e arabe»50. Su questo terreno, il Psiup abbandona abbastanza presto l’atteggiamento che aveva contraddistinto la sua posizione iniziale, di identificazione dei regimi arabi sconfitti come campioni della lotta antimperialista. Nella sua relazione introduttiva al Comitato centrale del 4-5 luglio 1967 Vecchietti ne sottolinea «equivoci e contraddizioni» e «la frattura fra popolo, masse contadine e classe dirigente», ma non depone le sue speranze in un «panarabismo progressivo»51, imperniato su un’alleanza fra Egitto, Siria e Algeria: in luglio una delegazione guidata da Luzzatto si reca in Siria per prendere contatti con il partito Baath52. In generale, comunque, è forte nel Psiup l’allarme per «una fase nuova» della politica americana, caratterizzata da «dinamismo» e «spirito di offensiva» su tutti i fronti: Vecchietti ne vede un riflesso nel colpo di Stato dei colonnelli in Grecia53, e Libertini parla di «fallimento della coesistenza pacifica del periodo krugiorni – sono molto impressionata, siamo montati in groppa a un cavallo imbizzarrito. Abbiamo accettato la leadership del sottoproletariato, del panarabismo, dei contadini poveri, e ci siamo imbarcati nella contesa in nome di nazionalismi, irredentismi e altre idiozie del genere. Il movimento operaio si è lasciato egemonizzare dal Terzo Mondo invece di egemonizzarlo» (FB, AB, XXV, busta 23, fasc. 6/504, Lettera di Laura Conti a Lelio Basso, 12 giugno 1967). 49   G. Avolio, Psiup e Medio Oriente, in «Mondo Nuovo», 4 giugno 1967. 50   FIG, APSIUP, 1967, Direzione, busta 3980, Circolari di Pino Tagliazucchi del 6 e dell’8 giugno. 51   Relazione di Vecchietti al Comitato centrale del 4 luglio 1967, in «Mondo Nuovo», 16 luglio 1967. 52   Ivi, 6 agosto 1967. 53   Relazione di Vecchietti al Comitato centrale del 4 luglio 1967 cit.

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sceviano» e della necessità di una «risposta strategica adeguata alla nuova strategia dell’imperialismo», che non può stare «nella delega all’Urss», ma esige «la rinascita del protagonista europeo, oggi assente»54, in funzione di un forte sostegno alle lotte antimperialiste del Terzo Mondo. La simpatia anche ideologica verso quest’ultimo continua a trovare una forte eco nel partito, né, contrariamente alle tendenze «filo-cinesi», viene mai repressa dai vertici: essa non preoccupa troppo l’Urss e gli alleati del suo campo, ed è perfino possibile che i sovietici usino il Psiup come «valvola di sfogo» di un terzomondismo che il Pci sposa con molto minore entusiasmo55. Lo si vede abbastanza chiaramente rispetto alla rivoluzione cubana. In tutta la sinistra italiana, e in quella socialista in particolare, questa ha suscitato fin dall’inizio un grande interesse; quando però, dalla metà degli anni ’60, si avventura nel tentativo di estendere la rivoluzione e la guerriglia armata in tutta l’America Latina, il Pci ne prende le distanze56. Il Psiup lo fa meno, o non lo fa affatto: «Mondo Nuovo» esalta spesso le posizioni dei comunisti cubani e, ad esempio, copre con lunghi servizi la Conferenza tricontinentale dell’Avana del gennaio 196657, approvando la scelta di «esportare la rivoluzione» in America Latina e altrove: Non mi pare dubbio che Cuba abbia ragione – scrive Libertini – e quella parte dei partiti comunisti sudamericani che contrastano Castro [abbiano] torto. [...] I cubani non pretendono di generalizzare dogma-

54   Intervento al Comitato centrale del 4 luglio 1967, in «Mondo Nuovo», 16 luglio 1967. 55   Cfr. l’ampio studio di M. Galeazzi, Il Pci e il movimento dei paesi non allineati 1955-1974, Franco Angeli, Milano 2011, in particolare pp. 117-186. 56   Cfr. O. Pappagallo, Il Pci e la rivoluzione cubana. La “via latino-americana al socialismo” tra Mosca e Pechino (1959-1965), Carocci, Roma 2009, pp. 219239; A. Santoni, Il Pci e i giorni del Cile. Alle origini di un mito politico, Carocci, Roma 2008, pp. 13-25. 57   Cfr. ad esempio i numeri di «Mondo Nuovo» del 2 e del 30 gennaio 1966. In quest’ultimo caso il giornale del Psiup pubblica la risoluzione dell’Avana sulla coesistenza pacifica, precisando, con evidente condivisione, che «essa si riferisce esclusivamente alle relazioni fra Stati a differenti regimi sociali e politici. Non può significare coesistenza tra le classi sfruttate e i loro sfruttatori all’interno di un Paese né rinuncia alla lotta dei popoli oppressi dall’imperialismo contro i loro oppressori».

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ticamente nel mondo le loro esperienze. Essi offrono cioè un esempio insieme di coraggio rivoluzionario e di realismo politico. Per questi motivi seguiamo con fraterna solidarietà e appassionato interesse l’elaborazione e la lotta eroica dei compagni cubani, di Castro e Che Guevara58.

Pochi giorni dopo l’uscita di questo articolo, la tragica morte del Che in Bolivia spegne molte illusioni su una facile riuscita della prospettiva guerrigliera anche nei paesi più disperati del Terzo Mondo. Non appena la notizia della sua morte è confermata, il Psiup celebra il «grande rivoluzionario» con una serie di manifestazioni in suo ricordo, anche a livello locale. «Mondo Nuovo» gli dedica poi il suo numero del 22 ottobre, con una copertinaomaggio e una sintesi del suo pensiero59. Con la morte del Che entra in realtà in crisi tutta una strategia della rivoluzione mondiale basata sul foco guerrigliero, anche se i movimenti del Sessantotto faranno di lui un simbolo dalla forza prorompente60. Al suo mito e alla sua carica libertaria il Psiup continua a tributare tutto il proprio rispetto, quasi a voler trovare nell’uno e nell’altra una compensazione per la poco entusiasmante realtà dell’Urss e dei paesi socialisti europei. Pare a tratti, è vero, che sulle distorsioni di quelle società emergano giudizi più coraggiosi. Così all’inizio del 1968 Franco Zannino coglie nella condanna degli intellettuali sovietici Galanskov e Ginzburg «il sintomo di un profondo disagio che avvelena l’atmosfera sovietica» e invoca «lo smantellamento totale delle strutture burocratico-poliziesche che hanno soffocato e distorto (e continuano a soffocare e distorcere) l’enorme potenziale di liberazione contenuto nelle strutture economico-sociali sorte dalla Rivoluzione d’ottobre»61; e due settimane dopo, a proposito della condanna inflitta ad Anibal Escalante proprio a Cuba, compare sul settimanale del partito un duro giudizio su «un procedimento che intende estraniare dal corpo vivo della società socialista, dalle sue

58   L. Libertini, Le ragioni di Fidel Castro, in «Mondo Nuovo», 1° ottobre 1967. 59   Coerenza rivoluzionaria, in «Mondo Nuovo», 22 ottobre 1967. 60   G. Santomassimo, Che Guevara, il mito da un secolo all’altro, in «Passato e Presente», 2008, n. 74, pp. 5-14. 61   «Mondo Nuovo», 28 gennaio 1968.

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molteplici espressioni di dissenso come di consenso, tutti coloro che non condividono la linea ‘ufficiale’ e maggioritaria»: «Lo stalinismo – aggiunge l’anonimo estensore del commento – non è solo Stalin, non è un episodio circoscritto ad una determinata epoca, ad un determinato stadio di sviluppo della società sovietica. È la compressione della democrazia socialista alle oligarchie di potere, e rinasce ovunque il metodo dell’intolleranza prenda corpo e si traduca in atti amministrativi»62. Ma questi segnali rimangono abbastanza isolati, e comunque si interrompono dopo la repressione della «primavera di Praga» nell’agosto 1968, che mette il Psiup in grave imbarazzo e determina un punto di non ritorno non solo nella sua politica internazionale, ma nella sua storia tout court. Fin dall’inizio il partito ha guardato alle scelte compiute dal Partito comunista cecoslovacco con una cautela in contrasto con il ben più convinto appoggio al tentativo riformatore di Dubček espresso dal Pci63. Libertini ha giudicato le riforme introdotte nel sistema economico già nel gennaio 1967 «utili» a due condizioni: che siano considerate «non già un processo lineare nella costruzione del socialismo, ma un ripiegamento necessario per riprendere il cammino»; e che comportino una «partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione effettiva delle aziende, [...] ciò che implica libertà di dissenso e consapevolezza preventiva delle scelte»64. Anche in seguito, nella primavera del 1968, quando un gruppo di intellettuali pubblica a Praga il «manifesto delle 2000 parole», che reclama l’effettivo ritorno a una discussione libera non solo nel partito ma nella società intera, e mentre appare sempre più manifesta la forte diffidenza dell’Urss per l’iniziativa di Dubček, il Psiup mantiene un atteggiamento di reticente equidistanza. «Mondo Nuovo» ironizza sulle voci di golpe o di invasione sovietica che cominciano a

62   La condanna di Escalante, ivi, 11 febbraio 1968. Non è improbabile che sia da ricondurre a questo giudizio così severo il netto peggioramento dei rapporti del Psiup con Cuba: al congresso di Napoli del dicembre 1968 la delegazione cubana, benché invitata, non partecipa. 63   Cfr. A. Höbel, Il Pci di Longo cit., pp. 527-532; F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Carocci, Roma 2006, pp. 93-104. 64   L. Libertini, Il nuovo corso dell’economia cecoslovacca, in «Mondo Nuovo», 12 marzo 1967.

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diffondersi65, riferisce senza alcun commento delle «perplessità e preoccupazioni» sovietiche circa «la capacità del Pc ceco di resistere alle pressioni e agli attacchi di destra, antisocialisti»66, e osserva che «è troppo facile rispondere schierandosi nettamente e acriticamente, dall’una parte o dall’altra, gli uni scegliendo una non meglio definita ‘libertà’, gli altri un’altrettanto non meglio definita ‘unità’»67. Tra la fine di luglio e i primi di agosto, quando sembra che si sia raggiunto un faticoso compromesso fra Mosca e Praga, il settimanale del Psiup inneggia subito alla «nuova unità» fra i paesi socialisti, e fa del sarcasmo su «tutti gli ‘inviati speciali’ della grande stampa indipendente italiana [che] non hanno neppure mascherato la loro delusione per la mancata ‘invasione’ del Paese»68. Non è quindi un fulmine a ciel sereno per nessuno il comunicato contorto ed ambiguo con cui la Direzione del partito commenta il 22 agosto l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. L’intervento vi viene definito «un fatto drammatico che ha origini remote e complesse nel ritardo e nelle contraddizioni con i quali sono stati e sono affrontati i problemi della democrazia socialista, dello sviluppo economico e dell’internazionalismo proletario». Nel «nuovo corso» che ha cercato di affrontarli hanno operato – si dice – «oltre a forze genuinamente socialiste, anche altre non interessate allo sviluppo autonomo e democratico del socialismo cecoslovacco e che miravano, al contrario, a dargli uno sbocco tecnocratico e nazionalista». Un po’ pilatescamente il comunicato afferma: La Direzione del Psiup non conosce le cause che hanno fatto precipitare la situazione fino all’intervento odierno dopo i recenti incontri di Cerna e Bratislava, che sembrava avessero segnato una svolta positiva [...] Tuttavia essa ritiene che allo stato attuale delle cose l’intervento militare in Cecoslovacchia non risolva ma renda più difficile la soluzio  P. Ardenti, Praga. Una invasione mancata, ivi, 19 maggio 1968.   Dopo il vertice di Varsavia, ivi, 21 luglio 1968. 67   Il ruolo della classe, ivi, 28 luglio 1968. 68   P. Ardenti, Una nuova unità, ivi, 11 agosto 1968 (corsivi nell’originale). Tuttavia lo stesso articolo aggiunge che «il mese trascorso ha stretto attorno al partito, in Cecoslovacchia, la stragrande maggioranza della pubblica opinione», riconoscendo così il grande consenso di cui gode nel paese l’esperimento di Dubček. 65

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ne positiva dei problemi di fondo che sono all’origine dell’attuale crisi interna cecoslovacca e nei rapporti tra i paesi socialisti69.

Si mette poi l’accento sul fatto che «chi è responsabile dell’intervento diretto o indiretto nel Terzo Mondo, del tentativo di genocidio nel Vietnam, chi solidarizza con l’imperialismo americano non può far propri i principi di democrazia e di diritto internazionale per solidarizzare oggi con il governo cecoslovacco»70. L’unico giudizio cautamente critico del testo («non risolve ma rende più difficile») è così avvolto in una spessa cortina di riserve: non c’è una riga che esprima chiara condanna dell’invasione e solidarietà a Dubček e al gruppo dirigente del Pcc, come invece ha fatto il Pci71. Nei giorni seguenti il tiro viene leggermente corretto, ma sempre senza condannare l’Urss: la Direzione si pronuncia il 28 agosto per il ritiro delle truppe del Patto di Varsavia da Praga72, ma il numero di «Mondo Nuovo» pubblicato in quegli stessi giorni dà grande risalto all’«accordo» firmato a Mosca il 26 agosto73. Solo una testimonianza di Pino Tagliazucchi, che si trova in vacanza in Cecoslovacchia nei giorni dell’invasione, rompe questa cortina di ambiguità e parla almeno delle esperienze consiliari a Praga, delle «milizie operaie» e del «congresso clandestino» del Pc cecoslovacco, che il 22 agosto ha riaffermato la fiducia in Dubček e Svoboda74. Non si dissipa dunque l’impressione di estrema incertezza (maldestramente mascherata con la spiegazione che non si vo-

69   Comunicato della Direzione Psiup sui fatti di Cecoslovacchia, in «L’Agenzia socialista», 22 agosto 1968. 70   Ibid. Il titolo del primo numero di «Mondo Nuovo» successivo all’invasione, quello del 25 agosto, è a dir poco eufemistico: Un momento difficile. 71   Cfr. A. Höbel, Il contrasto tra Pci e Pcus sull’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Nuove acquisizioni, in «Studi storici», 2007, n. 2. 72   Comunicato Direzione Psiup del 28 agosto, in «L’Agenzia socialista», 29 agosto 1968. Significativamente, questo secondo comunicato non viene pubblicato su «Mondo Nuovo». 73   Accordo a Mosca, in «Mondo Nuovo», 1° settembre 1968. L’editoriale, firmato da Vecchietti, elogia «il senso di responsabilità di tutte le parti», passando sotto silenzio il fatto che Dubček e Svoboda sono chiaramente sotto ricatto e in condizione di inferiorità. 74   P. Tagliazucchi, A Praga, il 21 e il 22 agosto, in «Mondo Nuovo», 1° settembre 1968.

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gliono comminare «né scomuniche né condanne») che il Psiup ha dato in tutta la vicenda. Sarebbe limitativo spiegare questo atteggiamento solo con il comprovato condizionamento esercitato dal finanziamento di Mosca al partito. Certo, esso è importante, e tanto più lo è perché è possibile che venga fatta balenare al gruppo dirigente psiuppino la possibilità non solo che i cordoni della borsa sovietica si allentino di parecchio, ma che lo stesso ruolo del partito acquisti un peso ben maggiore, interno ed internazionale: preoccupati come sono della posizione critica del Pci, i dirigenti del Pcus fanno capire che possono ripartire i loro finanziamenti in proporzioni diverse dal passato. Silvano Miniati ha anche ricordato che «per alcune settimane si parlò sommessamente ma con insistenza della possibilità che un gruppo consistente di quadri del Pci che non condividevano le posizioni del partito sulla Cecoslovacchia aderisse al Psiup»75: e che siano voci non del tutto infondate lo dimostra l’intervento di Armando Cossutta alla Direzione comunista svoltasi a fine ottobre del ’68: Sono stato a Mosca [...] ho avuto la conferma che c’è un giudizio molto critico verso il nostro partito; c’è una convinzione, non so quanto diffusa, che il Pci abbia grosse difficoltà alla base; c’è una valutazione abbastanza interessata su ciò che fa il Psiup76.

Potrebbe dunque esserci stata la tentazione di qualche dirigente di via della Vite di approfittare della situazione. Ma in realtà la «primavera di Praga» è guardata con sospetto per un pregiudizio politico di fondo dal quale non è immune nessuna componente del partito. Franco Livorsi, allora dirigente della federazione di Alessandria, che è nettamente connotata «a sinistra», ricorderà molti anni dopo che «il fatto che Dubček non fosse un rivoluzionario neo-bolscevico in lotta contro i buro75   S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 63. Queste notizie sono confermate da una lettera che lo stesso Miniati – lasciando però trasparire allora interesse e apprezzamento – scrive a Vecchietti subito dopo l’invasione: «il tono molto responsabile delle nostre dichiarazioni ha incontrato notevoli favori. Il partito [in Toscana] è pressoché unanime nel riconoscersi negli atti della Direzione. Molti comunisti, fra cui intere sezioni di partito, sono concordi nel dirsi più vicini a noi che al loro partito» (FIG, APSIUP, 1968, busta 4003, Direzione). 76   FIG, APC, Direzione del 31 ottobre 1968.

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crati, ma un riformista, ci rendeva abbastanza freddi nei suoi confronti»77. E Lucio Libertini, che di filo-sovietismo non è certo sospettabile, mette il dito nella piaga quando all’inizio di agosto parla del «duplice sentimento» che il nuovo corso cecoslovacco suscita «in ogni militante socialista»: certo, esso era parte di «un vasto e tormentato processo» che, cominciato nel 1956, portava i paesi socialisti «fuori dell’era staliniana»; ma correva il rischio di contrapporre come alternativa «a una pianificazione autoritaria e burocratica [...] un ritorno all’economia di mercato, al profitto aziendale (magari ribattezzato ‘socialista’), alle crescenti differenziazioni salariali»78. I «rubli di Brežnev»79, dunque, vanno a fecondare un terreno già fertile. Vi è nel partito un filo-sovietismo profondamente radicato. Significativa è in questo senso la posizione di Emilio Lussu, secondo il quale Dubček (che pure egli considera «lealmente fedele al socialismo») ha sottovalutato la «posizione strategica» della Cecoslovacchia per l’Urss, e il manifesto degli intellettuali praghesi consta di «2000 parole, in cui duecento circa sono una chiarissima manifestazione reazionaria»80. Anche un altro vecchio massimalista «storico» come Oreste Lizzadri si dice convinto che «dato l’effettivo pericolo esterno e interno l’Urss non poteva agire in modo diverso»81. Questi sentimenti sono ben presenti e tutt’altro che isolati anche alla base: una lettera non firmata di un militante alla Direzione parla di un intervento «provvido ma forse tardivo», e un compagno di Avellino scrive ad Ansanelli addirittura criticando il comunicato della Direzione perché non esprime «chiarezza e ferma condanna della canea urlante avversaria contro i paesi socialisti dell’Est»82. Si fa fortemente sentire, come riflesso di un massimalismo congenito che già è stato all’origine della posizione   F. Livorsi, Tra carrismo e contestazione cit., p. 208.   L. Libertini, Il nuovo corso in Cecoslovacchia, in «Mondo Nuovo», 4 agosto 1968. 79   F. Livorsi, Tra carrismo e contestazione cit., p. 207. 80   Lettera di Emilio Lussu, in «Mondo Nuovo», 8 settembre 1968. 81   Lettera del 26 agosto, in FIG, APSIUP 1968, busta 4003, Direzione. Significativamente Lizzadri teneva a comunicare questa sua valutazione direttamente all’ambasciatore dell’Urss. 82   FIG, APSIUP, 1968, busta 4003, Direzione. 77

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di buona parte della sinistra socialista nel 1956, anche una totale idiosincrasia a trovarsi dalla stessa parte della «borghesia», e soprattutto della «socialdemocrazia». Così un militante romano che ricorda di aver «maturato la sua fede politica nelle viscere della terra e non dietro un tavolino» manda una lettera fortemente polemica a Lelio Basso, facendo notare che nelle manifestazioni di Praga «nessun raggruppamento operaio è sceso in piazza, bensì si è visto [sic] studenti, i figli di ex padroni e di tutti coloro che avevano ancora i conti da fare con la Dittatura del Proletariato»83: e una mozione della sezione di Grugliasco (Torino) critica sì l’intervento perché dettato dalla sola «ragion di stato sovietica» ma, mentre ribadisce «la ferma condanna della degenerazione socialdemocratica del gruppo di Dubček», addita «al disprezzo della classe operaia italiana la nuova prostituzione politica delle varie cricche socialdemocratiche italiane»84. A diversi livelli poi, dagli esecutivi di federazione fino ai militanti di base, è riscontrabile un atteggiamento che depreca l’intervento militare in quanto «contrario ai principi socialisti ed internazionalisti», ma ribadisce profonda diffidenza verso ogni misura correttiva che introduca nel sistema socialista elementi di mercato. Emblematica in questo senso è la posizione della federazione torinese del Psiup, guidata da Pino Ferraris: il quale, pur chiedendo già il 21 agosto che il partito condanni esplicitamente l’invasione sovietica, così conclude una «lettera interna ai compagni»: Il Partito, nella sua condanna dell’intervento sovietico, deve differenziare la sua posizione da quella dei compagni comunisti e naturalmente da quella dei socialdemocratici e delle forze di destra. Per questo motivo riteniamo che il partito debba evitare di firmare e appoggiare generici documenti ‘unitari’ contro l’intervento in Cecoslovacchia, mentre deve partecipare ed esprimere autonomamente in dibattiti e riunioni la sua posizione che disapprova l’azione militare ma non per questo solidarizza con la politica dei dirigenti cecoslovacchi85.

  FB, AB, XXV, busta 24, fasc. 9/720, Lettera di Nicola Antonini a Lelio Basso, 12 settembre 1968. 84   FIG, APSIUP, 1968, busta 4003, Direzione. 85   CSPG, Fondo Marcello Vitale, subfondo Falco, scatola U1, cartella 4, federazione Psiup di Torino, Lettera interna ai compagni, 21 agosto 1968. 83

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In altri casi, una posizione analoga tende più esplicitamente a colorarsi di simpatie filo-cinesi, mettendo sullo stesso piano i «due revisionismi» sovietico e cecoslovacco: così vari gruppi di studenti serali e di universitari iscritti al Psiup, riuniti il 14 settembre a Firenze, inviano a Basso un telegramma in cui proclamano lapidariamente «No al revisionismo sovietico, no al revisionismo cecoslovacco, no alla via italiana al socialismo, viva rivoluzione proletaria»86; e la già citata mozione della sezione di Grugliasco invoca «l’esempio della rivoluzione culturale cinese» come prova che «il pericolo d’involuzioni socialdemocratico-borghesi di una società socialista può essere stroncato con una mobilitazione politica ed ideologica della classe operaia e contadina»87. Delle posizioni espresse dagli organismi dirigenti locali, non poche riprendono la formula del comunicato della Direzione, ma introducono cauti elementi di differenziazione. Così un documento della federazione milanese, dopo aver affermato che i «problemi preesistevano all’intervento armato in Cecoslovacchia, che però ne ha accentuato la gravità»88, prosege con una precisazione significativa: il nuovo corso politico reinseriva fra i protagonisti la classe operaia. [...] Con essa nella falsa alternativa fra concezione autoritaria e revisionismo politico oltre che economico, si inseriva la soluzione possibile di una partecipazione di massa in funzione di controllo del nuovo corso e di garante contro ogni distorsione delle conquiste socialiste89.

Comunque diffuso in tutte le posizioni non incondizionatamente carriste è un esplicito imbarazzo per la posizione reticente del partito, che tradisce anche un disagio preesistente. Un gruppo di militanti livornesi scrive a Basso:

86   FB, AB, XXV, busta 24, fasc. 9/724, Telex di studenti medi serali e universitari del Psiup a Lelio Basso, 14 settembre 1968. 87   FIG, APSIUP, 1968, busta 4003, Direzione. 88   Ibid. 89   Il Psiup per una nuova politica internazionalista e per il rafforzamento dell’unità di classe, in «Quaderni della Federazione milanese del Psiup», n. 2, settembre 1968.

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In effetti, si parte dalla Cecoslovacchia, ma è implicito che si parla sempre di NOI, della gestione in atto del Socialismo nel Partito, del modo di formare e informare i compagni. La ‘contrarietà’ alla operazione militaresca, che pure c’è, è talmente incapsulata in contesti problematici e prolissi sicché talvolta e a taluni, anche dei nostri, o sfugge o, peggio, viene interpretata come espediente tattico (il che certo non può e non deve essere)90.

Anche la federazione di Caserta giudica «del tutto insufficiente il comunicato della Direzione, nel quale ad una frettolosa ricerca di cause remote degli attuali avvenimenti non sembra corrispondere alcuna aperta condanna dell’aggressione sovietica, operata in spregio ai principi dell’internazionalismo proletario»91. Ma il dissenso esplicito e senza riserve, più spesso che nelle risoluzioni degli organi direttivi a tutti i livelli, che evidentemente devono tener conto delle sensibilità diverse, si esprime nelle lettere dei militanti: così Roberto Seraglini, di Pisa, sostiene in una lettera a «Mondo Nuovo» che «l’organizzazione statale sovietica è sostanzialmente antidemocratica» e che essa e i paesi dell’Est in pratica «usurpano il titolo di paesi socialisti», concludendo: se dire queste cose equivale ad essere scomunicati o ad essere definiti dei ‘controrivoluzionari’, ebbene io sono un controrivoluzionario92.

E Raffaele Chiarelli, un militante romano che è appena tornato dalla Cecoslovacchia, riferendosi alla formula delle «forze tecnocratiche» che avrebbero minacciato il socialismo, chiede in modo evidentemente retorico: 90   FB, AB, XXV, Carteggio, busta 24, fasc. 9/612, Lettera di Arrigo Colombini, Bruneo Mangoni, Vincenzo Restivo di Livorno a Lelio Basso, 2 settembre 1968. 91   FIG, APSIUP 1968, busta 4003, Direzione. Sempre da Caserta un militante, Mario Buonajuto, così manifesta il suo disagio: «un regime socialista dovrebbe, questo ci pare l’abc, dare sostanza concreta alle libertà formali, non certo sopprimerle [...] altrettanta delusione ha suscitato in noi la prima dichiarazione della Direzione del Partito, il nostro dissenso dai compagni sovietici avrebbe dovuto essere espresso in maniera chiara e senza mezzi termini [...] a quel che ci risulta, siamo stati l’unico partito operaio del mondo che sia riuscito a non prendere posizione né prima né dopo» («Mondo Nuovo», 15 settembre 1968). 92   Ibid.

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Quali sono queste forze? Sono i quadri di un partito comunista intento a darsi un’organizzazione più democratica, o gli intellettuali che difendono la libertà di manifestazione del pensiero? [...] Sono forse gli operai che nelle piazze apertamente rivendicano un sempre maggior potere nella fabbrica? In un momento in cui il Pci sembra assumere un atteggiamento di consapevole difesa dell’autonomia dei partiti comunisti e degli Stati socialisti, è stato forse affidato al nostro partito il ruolo di difensore d’ufficio, sia pure pudico, della causa persa dello stalinismo?93

Il dissenso in molti casi è silenzioso e si accompagna a un altrettanto silenzioso allontanamento dal partito. Probabilmente però il sentimento più diffuso è di disorientamento, come quello espresso dalla sezione di Milazzo, accompagnato dall’amara notazione «la nostra base ha capito più immediatamente la posizione del Pci». E il disorientamento ha certo radice anche nel fatto che quasi subito affiorano le divisioni al vertice del partito. A quanto sembra la Direzione ha approvato il comunicato del 21 agosto all’unanimità94, ma tra i suoi membri si annoverava tutta una serie di compagni che di lì a poco ne prenderanno le distanze in modo anche marcato: è possibile che alcuni di loro siano assenti da Roma, mentre in altri prevale la preoccupazione di non far emergere la frattura nel partito. Ma già nelle settimane successive i contrasti appaiono più nettamente. Al Comitato centrale di settembre vengono fuori posizioni molto diverse e spesso chiaramente inconciliabili. La relazione di Vecchietti è particolarmente astratta e contorta. Nell’insieme cerca di far passare l’idea che il Partito ha «dissentito» dall’intervento sovietico, ma continua a denunciare nel nuovo corso «accanto a indirizzi e propositi genuinamente socialisti, [...] tendenze errate». E anche ora, non si tratta di «tornare indietro», ma di cercare uno sviluppo della democrazia socialista che non sta «nel ripristino delle forme della libertà e della democrazia della società borghese, neppure nel pluripartitismo», bensì «nell’accre  Ibid.   Lo dirà Valori al Comitato centrale di settembre, e Libertini confermerà di essere stato presente e di aver votato a favore. Da notare però che Luciano Lama, nella riunione della Direzione del Pci del 23 agosto, afferma che «alla Direzione del Psiup c’è stata una minoranza che ha votato contro». Tra i membri della Direzione che poi criticano duramente il comunicato vi sono almeno Avolio, Basso, Foa, Giovannini, Libertini e Pupillo, e in modo meno netto anche Filippa. 93 94

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sciuto potere operaio, [...] e in scelte economiche che non favoriscano tendenze a una civiltà consumista in contraddizione con l’etica socialista»95. La giustezza della linea adottata il 21 agosto viene rivendicata senza esitazione, e l’accusa di reticenza sdegnosamente respinta. È evidente la volontà di chiudere al più presto la parentesi e di rilanciare l’iniziativa di un partito saldamente unito nello scenario di tensioni e lotte sociali che è di fronte al paese. Nel dibattito si esprimono tutte le anime del partito. Uno dei primi interventi è quello di Cacciatore, un esponente autorevole della corrente massimalista «storica», per il quale le posizioni del Pci sono ispirate «da preoccupazioni strumentali e tattiche di politica interna». Cacciatore quasi con orgoglio dichiara: Ci siamo improvvisamente ritrovati, volendo usare un’espressione tanto cara ai nostri fogliacci borghesi, a rivestire di nuovo la nostra divisa di carristi [...] L’Urss, nella situazione obiettiva di degenerazione del socialismo in Cecoslovacchia, aveva il dovere di intervenire proprio per evitare che quel nuovo corso [...] diventasse la valvola di sfogo di ogni tendenza antisocialista96.

Un altro discorso di stampo decisamente «carrista» – e decisamente critico della posizione del Pci, che rafforzerebbe «una certa politica [...] estremamente dannosa e molto lontana dalla nostra», anche se presentato nelle forme di un’apparentemente rigorosa analisi marxista, è quello di Lucio Luzzatto: Il nuovo corso, per quanto riguarda le strutture, era negativo, andava verso il capitalismo; per quanto riguarda le sovrastrutture, le libertà, era positivo. Ma io ho sempre sentito dire da marxista che le sovrastrutture dipendono da strutture e ne discendono, e se un nuovo corso nelle strutture tende in una direzione non socialista [...], non so come poi si possa dar credito a quelle tendenze sovrastrutturali, positive in astratto, ma che vanno qualificate per quello che sono in concreto97.

95   «Mondo Nuovo», 22 settembre 1968. Nelle pagine che seguono citiamo gli interventi quali furono pubblicati dal settimanale del partito, e solo nel caso di differenze o aggiunte significative ci riferiamo al resoconto sbobinato, in FIG, APSIUP, 1968, busta 4003 (d’ora in poi Resoconto). 96   Resoconto, pp. 3-4, 6, 9. 97   Ivi, pp. 50-51.

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Ruvido nel tono e nei contenuti è l’intervento di Vincenzo Gatto, che si dice stupito del ripensamento di molti compagni della Direzione che hanno approvato la risoluzione del 22 agosto. Caustico in particolare egli si mostra nei confronti di chi (il riferimento esplicito è a Foa e Giovannini) voleva rappresentare «una Europa da idillio internazionale, e un nuovo corso cecoslovacco in cui tutto si svolgeva per il meglio, fino a sostenere [...] che in ogni caso anche l’adozione di misure capitaliste nell’economia avrebbe avuto effetto positivo di reagente rivoluzionario per la classe operaia». Dario Valori è uno degli ultimi a prendere la parola, mostrandosi impaziente di archiviare la pratica cecoslovacca (su cui la linea del partito è stata ineccepibile, godendo a suo avviso dell’appoggio del «90% almeno alla base») per concentrarsi su almeno tre obiettivi importanti: la lotta contro «ogni iniziativa aggressiva dell’imperialismo», un «rilancio internazionalista che ricrei la situazione di forza del ‘socialismo sistema mondiale’», e un «migliore contatto con la spinta delle masse», accompagnato da un rilancio del discorso unitario con il Pci. Ma vi è una parte consistente del partito che si mostra in netto disaccordo con l’autoassoluzione che il gruppo dirigente cerca di far passare, anche se poi le sue posizioni sono abbastanza differenziate. La manifestazione forse più esplicita di dissenso è quella di Luigi Nicosia, che giudica le posizioni della Direzione e dei gruppi parlamentari incerte e contraddittorie: La riprovazione [si noti che egli è l’unico a usare questo termine, n.d.a.] dell’intervento sovietico e la valorizzazione del nuovo corso cecoslovacco vanno quindi esplicitati come indicazioni emblematiche di ciò che noi vogliamo che cambi nell’internazionalismo proletario, nei rapporti con le masse all’interno della società socialista, nei rapporti interni al movimento operaio internazionale98.

Libertini, che pure, come abbiamo visto, è stato assai critico nei confronti del nuovo corso, ammette ora che con esso si erano determinatati «in modo confuso, contraddittorio, una spinta alla partecipazione politica, uno scontro politico, che è l’elemento

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vitale per ogni politica di sinistra, attraverso il quale può avanzare una politica rivoluzionaria che non avanza mai nei silenzi e nell’unanimità». Il suo lunghissimo intervento si conclude con un monito solenne e accorato, che si sarebbe rivelato profetico: Il velo del silenzio e del non dire che cala sul partito toglie a ciascuno di noi l’autorità di parlare e di muoversi come militante del movimento operaio nel futuro. Stiamo attenti compagni, non siamo al di là di una parentesi, non è un episodio, siamo all’inizio di un vasto processo, o sappiamo tenere la barra del timone tutti assieme o la barca va a picco, questa è la verità99.

Lelio Basso, il quale nel frattempo ha scritto un lucidissimo articolo che appare in quegli stessi giorni su «Problemi del socialismo»100, critica il comunicato del 22 agosto per aver dato «un’impressione anche peggiore di quella dell’ambiguità, quella della reticenza». Pur ammettendo che nel nuovo corso «erano presenti in larghissima misura motivi socialdemocratici, motivi antisocialisti», lo difende per essere stato «un tentativo di rinnovamento che non era stato promosso dall’alto, ma [...] dal di fuori, dal basso, e che il partito dopo una lunga battaglia, una notevole resistenza, aveva finito con l’accettare». Il risultato era stato che «per la prima volta dopo Lenin si era verificato che in un partito comunista al governo si discutesse liberamente». Basso prevede che il soffocamento di ogni discussione aprirà crisi altrettanto se non più gravi anche negli altri paesi socialisti101. Molto critici nei confronti del comunicato della Direzione sono anche due dirigenti più o meno vicini a Basso, come Antonio Lettieri102 e Giuseppe Avolio; ma implica conseguenze dirompen-

  Resoconto, pp. 11-39.   Lelio Basso, Cecoslovacchia: Una sconfitta del movimento operaio, in «Problemi del socialismo», n. 32-33, luglio-agosto 1968, pp. 763-774. Basso non parla esplicitamente in questo articolo della posizione del Psiup, ma esalta come «fatto importante» la «clamorosa e coraggiosa prova d’indipendenza di giudizio» del Pci. 101   Resoconto, pp. 38-64. 102   Antonio Lettieri ha scritto insieme a un altro sindacalista, Gastone Sclavi, una lettera molto critica al settimanale del partito: «Mondo Nuovo», 8 settembre 1968. 99

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ti (che non sfuggono a Gatto) l’intervento di un altro sindacalista, Elio Giovannini, il quale non si sofferma tanto sull’invasione a Praga, quanto sulle prospettive future dei paesi dell’Est: Il ‘più socialismo’ che auspichiamo come sbocco delle crisi interne del campo socialista non può venire soltanto da una delega ai gruppi dirigenti perché si autoriformino, ma da una ripresa reale dell’iniziativa politica delle classi operaie, [e questa] non può essere configurata come un processo lineare e tranquillo, ma passa necessariamente per la rottura degli attuali equilibri.

Giovannini saluta anche come un «fatto di enorme importanza» «la rottura del cordone ombelicale con l’Urss dei comunisti italiani [...] che può segnare la fine della fase clericale del socialismo italiano»103. Vittorio Foa, che la mattina stessa del 21 agosto ha sottoscritto la dura condanna dell’invasione pronunciata dalla Direzione della Cgil, in sede di partito motiva la sua posizione con un discorso molto ampio. Chiarisce che l’amicizia verso l’Urss «non si misura con l’obbedienza servile, ma con l’aperta e fraterna critica positiva»: in questo senso il contrasto sull’intervento militare è «parte di una strategia positiva di costruzione del socialismo con la coscienza popolare e non con le armi corazzate». Ma particolarmente interessante è un’altra tematica che introduce: Nel 1968 l’Europa è stata sconvolta da movimenti che hanno esaltato il momento dell’autogestione delle lotte, non solo nel senso dell’autonomia dallo Stato, dai padroni e dalle varie mediazioni burocratiche, ma anche nel senso di unità teorico-pratica di costruzione diretta di un potere da parte delle masse. Questa linea è l’opposto dell’intervento armato104.

  Ivi, 22 settembre 1968.   Resoconto, p. 61. In un articolo per un foglio della federazione torinese, Foa esprimerà in dicembre un chiaro no «alla scomunica che, indipendentemente dal fatto che diventi oppure no formale, è nell’aria da parte sovietica contro quelli che non approvano l’intervento militare e particolarmente contro il partito comunista italiano. Ogni forma di condanna o di scomunica appare perfettamente coerente con la politica di coesistenza pacifica fra Urss e Usa, cioè con il consolidamento della politica dei blocchi, che comporta la disciplina all’interno di ogni 103 104

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Su una lunghezza d’onda simile si muovono le argomentazioni di Pino Ferraris, per il quale il Psiup, se non vuole essere «una variante della crisi del comunismo internazionale», deve raccogliere l’eredità del «socialismo libertario» teorizzato da Morandi negli anni ’30, perché proprio quello è l’elemento nuovo della lotta di classe quale si esprime in Europa in quella fase: Oggi come oggi la potenzialità della lotta di classe trova una sua estrinsecazione nella forma libertaria, nella forma antiburocratica e antiautoritaria. [...] Oggi quindi non c’è alternativa fra socialismo e libertà, ma c’è veramente la compenetrazione più profonda, più congeniale, più intima fra questi termini105.

Alla fine della discussione, viene presentata una lunga risoluzione che è un capolavoro di ambiguità. Un’esplicita condanna dell’intervento militare non figura in nessuno dei suoi dieci punti: il massimo che si concede, nel giudizio retrospettivo, è che «spettava al Partito cecoslovacco difendere il socialismo in Cecoslovacchia con un giusto processo di democratizzazione [...] facendo leva anzitutto e in modo preminente sulla classe operaia», mentre per il presente si considera «il ritiro delle truppe un necessario contributo alla ripresa socialista nel Paese e allo sviluppo dei rapporti nel movimento operaio internazionale»106. La risoluzione viene approvata, ancora una volta, all’unanimità: ma è accompagnata da un impressionante numero di dichiarazioni di voto che di fatto ne prendono le distanze, ritenendo «non chiaro il rapporto fra il giudizio negativo sull’intervento militare in Cecoslovacchia e la persistente struttura burocratica nella gestione del socialismo»107. In realtà anche la minoranza del partito è divisa. Da una parte si assiste al paradosso per cui, di fronte alla «riprovazione» espressa dal Pci, molti dei frontisti ad oltranza storcono singolo blocco. [...] La rottura del legame di fedeltà con il partito sovietico apre nel partito comunista [italiano] delle nuove possibilità»: V. Foa, La democrazia del socialismo, in «Vita Proletaria», dicembre 1968. 105   Resoconto, pp. 189-190. 106   «Mondo Nuovo», 22 settembre 1968, p. 20. 107   Dichiarazione di voto di Ferraris e Trulli, alla quale si associano fra gli altri Sclavi, Giovannini, Andriani, Castoldi, Filippa, Alasia, Pupillo e Lettieri e, con qualche distinguo, gli stessi Foa, Libertini, Avolio e Biondi: ibid.

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parecchio il naso, mentre i dirigenti ritenuti più lontani da Botteghe Oscure riconoscono la novità e l’importanza della posizione di Longo e compagni. Dall’altra, si intravvedono già sotto traccia, nella sinistra del partito, posizioni diverse. Nel suo intervento in Comitato centrale, Foa prende le distanze dalle posizioni pessimistiche con cui Libertini ha concluso il suo discorso: «Non mettiamoci a biascicare delle preghiere rituali. Abbiamo il coraggio anche di affrontare posizioni diverse senza pensare che questo significhi il dramma, la liquidazione, la morte»108. A sua volta Libertini, pur avendo dichiarato di considerare il documento votato al Comitato centrale un «punto di partenza», scrive poche settimane dopo una lettera privata a Longo che val la pena di riportare: Caro Longo, tu sai che sino ad oggi mi sono trovato sovente in dissenso con te e con il tuo partito, e ciò accadrà (non me lo auguro, è una previsione) anche nel futuro. Non vi possono perciò essere equivoci sulla solidarietà morale e politica che – in via qui strettamente personale – ti debbo manifestare nella complessa situazione internazionale nella quale il tuo partito si trova. La tua fermezza nel difendere alcuni principi, senza i quali non è possibile costruire un autentico internazionalismo, è per me motivo di profondo rispetto109.

Molta acqua deve ancora passare sotto i ponti, ma è un fatto che poco più di tre anni dopo, quando precipita la crisi del Psiup, Foa decide di continuare la battaglia in un nuovo soggetto politico, mentre Libertini approva la confluenza nel Pci. Per il momento, i dissensi all’interno della sinistra psiuppina restano sullo sfondo, messi in ombra anche da un più serio e comune contrasto con la maggioranza che dominerà il II Congresso del partito, convocato per la fine dell’anno. Ma, in generale, i mesi di agosto-settembre 1968 rappresentano uno spartiacque nelle posizioni del Psiup sulla politica internazionale. Non viene più nominato un responsabile della Sezione esteri, il che significherà concentrare la gestione dei rapporti con gli altri partiti e movimenti direttamente nelle mani della Dire  Resoconto, p. 68.   FIG, APC, Direzione, Sezione partiti politici, MF.551, Lettera manoscritta di Lucio Libertini a Luigi Longo, 17 ottobre 1968, p. 2132. 108 109

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zione. Le tracce di originalità che si sono manifestate negli anni precedenti impallidiscono fin quasi a scomparire: con l’emarginazione di Pino Tagliazucchi diminuiscono di peso i rapporti con le diverse anime della «nuova sinistra» europea e nordamericana, e si fa in generale più dura e indiscriminata la posizione contro la socialdemocrazia110. La decisione di inviare un rappresentante all’assemblea europea è circondata da molte riserve e non muta la linea del partito nei confronti delle istituzioni comunitarie, giudicate una longa manus dei grandi monopoli111. Nei confronti dei paesi socialisti dell’Est europeo, l’atteggiamento diventa ancora più acritico e reticente112. Significativo è il modo totalmente opaco in cui «Mondo Nuovo» segue l’evoluzione della situazione cecoslovacca: il suicidio di Jan Palach nel gennaio del 1969 è commentato con palese imbarazzo e qualche cedimento alle sirene della «disinformazione» sovietica113. In generale viene accredita la tesi di un Partito comunista saldamente in controllo della situazione, che conserva quanto di buono le riforme del gennaio 1968 hanno prodotto ma reagisce doverosamente contro le provocazioni antisovietiche. Vecchietti su questo si espone in prima persona:

  Cfr., a puro titolo di esempio, M. Giovana, I laburisti contro i sindacati, in «Mondo Nuovo», 16 febbraio 1969: «Il governo Wilson ha definitivamente gettato la maschera: è la socialdemocrazia che percorre sino in fondo la sua strada, decadendo alla funzione di gendarme della dittatura capitalista»; o la lettura in chiave totalmente negativa del successo elettorale della Spd, interpretato come vittoria della tecnocrazia, di P. Ardenti, Gli ‘euro-americani’ di Willy Brandt, ivi, 16 novembre 1969. 111   La decisione provoca comunque una dura lettera del Nucleo universitario di Trieste a «Mondo Nuovo», 23 febbraio 1969, in cui si definisce l’Europa unita «una panzana cara ai liberali». 112   Nella seconda metà del 1969 «Mondo Nuovo» dedica quattro inserti, ciascuno di otto pagine, al venticinquesimo e al ventesimo anniversario della fondazione delle repubbliche socialiste in Polonia, Romania, Bulgaria e Ddr. 113   Praga. Drammatica situazione, in «Mondo Nuovo», 26 gennaio 1969. Il 2 febbraio un trafiletto del redattore capo Giancarlo Lannutti riferisce, senza prenderne le distanze, fantasiose ricostruzioni che riconducono il suicidio di piazza San Venceslao e altri a oscure e imprecisate manovre dei servizi segreti occidentali, mentre sul numero del 16 febbraio compaiono due lettere di lettori contro la «grancassa reazionaria» che il suicidio ha scatenato e la necessità di reagirvi, affiancate da una di Pino Tagliazucchi che giudica invece quello di Palach un atto di significato politico. 110

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Ritengo che il rinnovamento aperto dal gennaio non possa comunque ricalcare i modelli della democrazia parlamentare, che oltretutto è in crisi ovunque, e rifarsi al nazionalismo e alle misure ‘liberalizzatrici’ in economia. Sarebbe una risposta sbagliata ai gravi errori ideologici, politici ed economici del lungo periodo cecoslovacco. Non era un indirizzo giusto nella primavera del ’68, come i fatti hanno confermato, e tanto meno può esserlo oggi114.

Si ridimensiona di molto l’ambizione di svolgere un ruolo nel lacerante contrasto fra Partito comunista sovietico e Partito comunista cinese, e i rapporti con il secondo praticamente si interrompono. Mentre sembra diminuire l’attenzione per i fermenti critici e le inquietudini insurrezioniste della sinistra latino-americana, e si congelano le relazioni con il Partito comunista cubano, come suggestioni «terzomondiste» si fanno sentire di più, a partire dal 1969, quelle dei movimenti di liberazione africani e dei regimi del Medio Oriente che si definiscono socialisti. Grande rilievo hanno sulle pagine di «Mondo Nuovo» la lotta del popolo palestinese e i programmi di Al Fatah, mentre si fa sempre più aspra la polemica contro Israele, totalmente identificata con il «sionismo»: il che è anche, sebbene non solo, il riflesso di una perdurante posizione di inflessibile ostilità nei confronti degli Stati Uniti e del loro ruolo nel mondo. Come già in passato, anche se in modo più accentuato, questa ostilità non si manifesta solo in una campagna durissima, e riaffermata in ogni occasione, contro la Nato o nell’incondizionato sostegno alla lotta di liberazione del popolo vietnamita, ma si tinge sovente dei colori di un forte antiamericanismo. E questo è un sentimento ancora più diffuso alla base che al vertice del partito: «Mondo Nuovo» dedica un commento abbastanza equilibrato di Giancarlo Lannutti alla conquista della luna115, ma il 10 agosto pubblica, senza commento, una lettera dei

114   «Mondo Nuovo», 27 aprile 1969. Lo stesso numero commenta con piena fiducia l’elezione di Husák a segretario del partito al posto di Dubček. Il 31 agosto un trafiletto non firmato, Praga un anno dopo, ribadisce: «non è pensabile che si possa tornare indietro, nella storia e nell’esperienza del movimento operaio cèco, anche se è necessario oggi limitare e colpire le attività di quei gruppi che sotto le insegne del ‘nuovo corso’ contrabbandano una totale opposizione al sistema socialista». 115   «Mondo Nuovo», 27 luglio 1969.

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«giovani del Psiup» di Carpi che riproduce un loro manifesto e che merita di essere citata: cosa nasconde l’altra faccia della luna. Gli americani sono scesi sulla luna: un viaggio di 16000 miliardi di lire. Un viaggio preparato da anni che ha coperto le tappe più criminose della storia moderna: lo sfruttamento dei popoli latino-americani, il massacro materiale e morale dei negri relegati nei ghetti, l’alleanza con il capitale europeo più avanzato che ci uccide nelle fabbriche, le guerre in Medio oriente e nel Vietnam. Compiacersi di queste imprese significa essere complici dei padroni [...] basta con le mistificazioni idiote! viva la lotta di classe!116

All’interno del partito, la questione della «democrazia socialista» cessa di essere un motivo veramente qualificante del dissenso. Non scompaiono certo, nelle posizioni della sinistra, i riferimenti critici alle «contraddizioni» di quello che qualche anno dopo sarà battezzato come «il socialismo reale»: sono quasi un Leitmotiv in ogni discorso in Comitato centrale di Lucio Libertini e di Vittorio Foa, e spesso sono autenticamente sentiti anche dalla base militante: «non si può essere per i consigli operai in Italia e non esserlo a Praga e nei paesi socialisti»117, afferma un militante psiuppino della Fiat. Ma le priorità, da allora in poi, diventano e restano inequivocabilmente altre: prima, in una breve stagione di grandi speranze, il ruolo del partito in una situazione italiana che da molti dei suoi militanti è giudicata prerivoluzionaria; poi, dopo la cocente disillusione che subentra, la ricerca e la difesa di uno spazio politico che si va restringendo. 116   Curiosamente nello stesso numero del settimanale si inaugura una serie di articoli, dal titolo Uomini e posizioni della nuova sinistra americana, con un’ampia intervista a Mark Rudd, segretario della Sds (Students for a Democratic Society), seguita nelle settimane successive dalle interviste ad altri dirigenti, tra cui Bobby Seale delle Black Panthers. 117   Intervento di Pietro Alioto alla conferenza interregionale di Bologna, FIG, APSIUP, 1970, busta 4032.

Capitolo quinto

«La storia ha la febbre»

1. «Burocrati» e «capelloni»: il II Congresso del partito In un clima politico ancora teso per le divisioni interne sulla vicenda cecoslovacca, dal 18 al 21 dicembre si svolge a Napoli il II Congresso nazionale del Psiup1. Pochi giorni prima, con un’ennesima riedizione del «centro-sinistra organico», è nato il primo di tre governi guidati da Mariano Rumor, con la partecipazione del Psu che – dopo un caotico congresso a ottobre – è rientrato nell’esecutivo insieme al Pri, sempre però in posizione subalterna alla Dc. Ovviamente il Psiup, come il Pci, gli ha votato contro. Nei tre anni esatti che sono trascorsi dal I Congresso, il Psiup si è innegabilmente rafforzato. Gli iscritti conclamati sono passati dai 164.451 della fine del 1965 ai 181.753 della fine del 19682: il partito tocca così quello che sarà il suo massimo storico. Tuttavia, l’obiettivo fatidico delle 200.000 tessere non è stato raggiunto. La cosa si spiega con l’accentuato turnover di militanti: il Psiup è diventato anche più che all’inizio «un partito nel quale si al-

1   Per gli atti congressuali vedi Psiup, 2° Congresso Nazionale (Napoli, 18-21 dicembre 1968), Edizioni del Gallo, Roma 1969. 2   Così emerge dalla relazione della Commissione verifica poteri, ivi, p. 527. Come si vedrà (cfr. infra, p. 221, nota 106), questi dati sono molto sovradimensionati rispetto a quelli che la Sezione organizzazione avrebbe indicato in un documento interno della fine del 1969.

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ternavano caoticamente nuovi afflussi e repentine dimissioni»3: spesso le nuove leve, specialmente studentesche, vi rimangono pochi mesi, mentre qualche frangia della vecchia base storica si allontana, disorientata dal «movimentismo» che detta legge in alcune situazioni locali. Così negli stampi del disciplinato partito morandiano si riversa un magma incandescente. Con questo tipo di base si trova a fare i conti una dirigenza del partito piuttosto burocratizzata, con molti quadri provenienti dal sindacato (e perciò più abituati alla mediazione politica) o comunque forgiati dalle lotte degli «anni duri» contro la repressione e la discriminazione politica e aziendale. Cambiamenti abbastanza significativi si sono verificati nella composizione sociale degli iscritti. A un forte incremento della componente operaia (dal 35,1 al 42,2%) si accompagna un calo di quella contadino-bracciantile (dal 34,3 al 29,3%); cresce un po’ (dal 4,5 al 6,8%) la quota degli appartenenti al ceto medio (impiegati, professionisti) e più marcatamente (dal 2,6 al 4,2%) quella degli studenti: effetto evidente dei movimenti del 1967-68. Nell’insieme, comunque, operai e contadini rappresentano pur sempre più del 70% degli iscritti4. Non sembrano esistere dati complessivi sulla distribuzione degli iscritti per età: da quanto emerge però dai dati di un buon numero di federazioni, si è registrato un aumento della componente giovanile in generale, non solo di quella studentesca, perché degli operai entrati in quegli anni nel partito la grande maggioranza è giovane. Senza dubbio la minoranza di sinistra cerca di sfruttare anche la leva generazionale per modificare gli equilibri del gruppo dirigente, e dunque la linea politica del partito: ma il congresso di Napoli confermerà quanto il tentativo sia difficile. Le quindici tesi presentate al congresso, che sono state discusse e approvate al Comitato centrale in ottobre, presentano poche novità nell’analisi della situazione internazionale. Dei paesi socia-

  M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 404.   È un aspetto colto dal commento di J. Nobécourt, Italie. Le parti d’extrême gauche Psiup n’a encore vraiment défini ni sa place ni sa doctrine, in «Le Monde», 25 dicembre 1968: vi si parla di «folclore contestatario» e «tentazione di fuga in avanti», però si puntualizza che il Psiup non è affatto un «partito di intellettuali» ma semmai di «operai e contadini». 3 4

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listi europei e dei loro problemi si parla pochissimo, e solo poche righe sono dedicate agli «avvenimenti gravi di Cecoslovacchia»; al contrario, molto rilievo è dato alle lotte dei lavoratori e degli studenti in Europa e negli Stati Uniti, e in particolare al Maggio francese, il quale ha mostrato l’insufficienza sia di una prospettiva tutta «legalitaria» come quella attribuita al Pcf, sia di quella «insurrezionale» perseguita dai gruppi di estrema sinistra e dal movimento studentesco: la pressione esterna e contestativa di minoranze agguerrite è stata in grado di esercitare solo la funzione di detonatore, ma non di far scoppiare l’insurrezione: questa è possibile, con prospettive di successo, soltanto quando una minoranza rivoluzionaria esprime la condizione oggettiva da cui può scaturire la lotta violenta della maggioranza degli sfruttati5.

La parte delle tesi dedicata alla situazione italiana denuncia «l’aggravarsi continuo della condizione operaia, dentro e fuori la fabbrica», insiste sul fallimento del centro-sinistra e si pronuncia per una «alternativa di sinistra» in cui si esprima «tutto il potenziale di lotta delle masse, sviluppando nuove forme di autogestione delle lotte sociali e nuovi centri di potere democratico contrapposti allo Stato capitalistico»6. All’interno di questo orizzonte piuttosto astratto, l’«obiettivo fondamentale» del Psiup deve essere quello di «rafforzare il contributo socialista alla costruzione del partito nuovo della classe»: una formulazione nella quale è implicita una valutazione dell’inadeguatezza del Pci ad assolvere da solo ai compiti richiesti dalla situazione. Nessuno meglio di Lelio Basso, ormai autorelegatosi in un ruolo di quasi distaccato osservatore esterno, sembra cogliere i limiti di ambiguità di un documento «che potrebbe essere approvato da tutti per quello che dice [...], ma respinto da tutti per i problemi che non affronta e per i silenzi su temi che non possono essere rimandati». Basso lamenta in particolare due «occasioni perdute»: la conferenza d’organizzazione, «dove non ho sentito una parola nuova sui compiti e sulle strutture di un partito socialista che   Ivi, p. 23.   Ivi, pp. 21-22.

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voglia operare in senso rivoluzionario in una società capitalistica avanzata», e la crisi cecoslovacca, «dove un partito come il nostro avrebbe potuto e dovuto trovare l’occasione per affrontare sul serio i temi del ritardo delle società socialiste»7. La relazione di Vecchietti certamente non risponde a questi interrogativi più di quanto facciano le tesi, di cui si limita in gran parte a sintetizzare alcuni aspetti. Gli «sbocchi contraddittori e gravi» delle vicende cecoslovacche non smentiscono l’avanzata complessiva del socialismo, il quale anzi «non può più essere cancellato dalla terra se non per opera dei suoi stessi artefici», afferma Vecchietti, non potendo ovviamente sapere che solo vent’anni dopo quell’ipotesi definita «assurda» in buona parte si realizzerà. Maggiore preveggenza e originalità caratterizzano la sua analisi dei paesi capitalistici avanzati, nei quali, egli sostiene, «la libertà diviene sempre più il diritto di scegliere solo quello che offre il potere invisibile [del mercato] e la democrazia solo il diritto di contare per uno il giorno delle elezioni»8. Quanto alla situazione italiana, ribadita la tesi che il centro-sinistra è congenitamente incapace di condizionare i meccanismi dello sviluppo capitalistico, il discorso di Vecchietti non manca di notazioni acute, come quando tocca il tema di grandi complessi industriali con esigenze «sempre più lontane dalle attività industriali pure e semplici», di «un padrone che non è più soltanto in fabbrica, ma interviene in tutti i rapporti sociali, dallo sport alla cultura, e finanzia indifferentemente una squadra di calcio e un premio letterario», ma certo pecca di scarso realismo nel ritenere «tutte le mediazioni condotte al livello politico e sindacale [...] fallite o morte sul nascere, perché travolte o superate dal movimento delle masse»9. Nell’ultima parte della relazione, dedicata al Psiup, il segretario si dice favorevole al «ricambio del gruppo dirigente», ma non «a freddo [...] con la ricerca in astratto di gruppi dirigenti nuovi, o peggio ancora, abbandonandosi ad una logica di promozione di tali gruppi, fondata sulla spontaneità e l’improvvisazione»; e conclude con un attacco nemmeno troppo implicito ai «sessan7   FB, AB, XV, busta 60, Lettera del 13 ottobre 1968 a Tullio Vecchietti da Salsomaggiore Terme. 8   Psiup, 2° Congresso Nazionale cit., pp. 63, 53, 59, 61. 9   Ivi, pp. 78, 80.

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tottini» del Psiup: «Né strateghi da caffè o da salotto, né praticoni che fanno del demagogico operaismo, ma militanti della classe operaia, di tutta la classe, dobbiamo essere»10. Il dibattito si svolge in un’atmosfera tesa e caotica, accompagnato da veri e propri scontri fra il servizio d’ordine del partito e gruppi di giovani militanti contestatori (fenomeno che la stampa «indipendente» banalizza nella contrapposizione fra «burocrati» e «capelloni»). L’episodio più clamoroso si verifica l’ultimo giorno: durante l’intervento di Lelio Basso un giornalista della Rai-Tv è raggiunto in pieno viso da una torta di panna. La presidenza condanna ovviamente l’accaduto, e Basso riprende e conclude il suo intervento, ma dopo di lui due esponenti dell’ala movimentista del partito (Daniele Protti e Vincenzo Cardamone) si rifiutano di parlare dalla tribuna del congresso in segno di protesta contro «lo spirito inquisitorio e poliziesco» imposto da una presidenza «che solidarizza non con una tipica manifestazione di contestazione, ma con uno strumento dei padroni, la Tv»11. Già nelle giornate precedenti, la discussione congressuale ha messo crudamente in luce le divisioni del partito, che non sono riassumibili in una semplice contrapposizione fra «destra» e «sinistra». La differenziazione delle posizioni si vede chiaramente sul tema del «nuovo internazionalismo», la foglia di fico con cui le tesi e la relazione del segretario hanno pudicamente coperto le ambiguità sulla Cecoslovacchia. Si manifesta ancora, in forme colorite e isolate sì ma non troppo, la vecchia anima «carrista»: per esempio nell’intervento dell’avellinese Camillo Marino, che a proposito della crisi cecoslovacca afferma perentorio: «stiamo con l’Urss, baluardo del socialismo»12. In maniera più indiretta, Salvatore Corallo, membro della Direzione uscente, denuncia «spinte nazionalistiche» nel mondo socialista, dietro le quali vede «la tendenza a scaricare sull’Unione Sovietica, con la scusa che è il più forte dei paesi socialisti, tutti gli obblighi, tutti i doveri, tutte le spese»13. All’estremo opposto, vi sono interventi che mettono esplicitamente in discussione l’idea stessa di «campo socialista»:   Ivi, pp. 88, 91, 94.   «Mondo Nuovo», 29 dicembre 1968. 12   Psiup, 2° Congresso Nazionale cit., p. 502. 13   Ivi, p. 263. 10 11

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Roberto Speciale della federazione di Genova ne parla come di un «concetto inutilizzabile»14 e Franco Lusciano di Caserta si spinge ad imputare all’Urss «la revisione di molti principi fondamentali del marxismo-leninismo»15. Sui temi internazionali il discorso di maggior respiro è comunque quello di Libertini, il quale mette in discussione una concezione «statica» della coesistenza pacifica, tutta imperniata sul rapporto tra le grandi potenze, e si chiede se l’unità internazionale del movimento operaio, piuttosto che basata su «un meccanismo di deleghe permanente e non revocabili», non debba avere la capacità «di prefigurare una comunità socialista egualitaria». Il dirigente siciliano affronta anche di petto la questione della democrazia socialista nei paesi dell’Est: essa è difficilmente conciliabile «con la presenza di una vasta burocrazia, di un esercito stanziale forte e gerarchizzato, di una polizia numerosa [...] in una parola con lo Stato e ancor più con uno Stato che cresca e si rafforzi anziché estinguersi»16; ed è del tutto incompatibile «con una verità che scende sempre dall’alto, con l’assenza o la carenza di un dibattito critico, senza gabbie precostituite, che investa ogni arco di scelte e di autorità». Da questo punto di vista – e l’affermazione all’epoca non è certo consueta – anche il tema delle «libertà borghesi» va ripensato: il movimento socialista deve ereditarle dal suo [della borghesia] patrimonio ideale e non già cancellarle, ma liberarle dalle strettoie nelle quali le confina la società capitalistica [...] ben altro è la democrazia per noi, ma senza queste garanzie la partecipazione e il controllo dal basso tendono a diventare etichette, facciate, dietro alle quali alle volte si scopre perfino una restrizione del potere reale dei lavoratori17.

Diviso sulle questioni internazionali, il Psiup dimostra di non essere unito nemmeno sulle prospettive della situazione italiana. L’apparente sintonia in proposito che ha caratterizzato gli ultimi mesi, trovando espressione nelle tesi, si è già incrinata, come

  Ivi, p. 285.   Ivi, pp. 482-483. 16   Ivi, p. 176. 17   Ivi, p. 177. 14 15

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appare dallo scontro che contrappone la leadership «storica» del partito e la sinistra operaista e movimentista: all’interno di ciascuna emergono peraltro significative differenziazioni. Certo, la constatazione che si è in presenza di un’ondata di lotte che investe i punti nodali dell’assetto della società, e in cui è impossibile separare i contenuti sindacali da quelli politici, è condivisa anche dalla maggioranza: una parte della quale, per bocca per esempio di Vincenzo Ansanelli, sollecita un «ampio collegamento con il movimento reale, [...] che realizzi estese esperienze nella direzione della conquista del potere dal basso»18. Tuttavia il gruppo dirigente sembra restare ancorato a una sorta di «strategia di logoramento» del centro-sinistra, imperniata sì sulla forza d’urto del conflitto sociale, ma anche più su quella che Asor Rosa criticamente definisce «la prospettiva storica nella quale hanno la prevalenza i rapporti tra i partiti, che spesso tendono [...] a diventare rapporti tra i vertici dei partiti»19. Così Valori, pur scartando, perché «completamente al di fuori dalla realtà», ogni ipotesi di costituire nuove maggioranze, invita a non dimenticare che l’«alternativa» su cui punta il Psiup «richiederà anni e anni di duro lavoro, che parte dal basso ma passa anche attraverso un discorso rivolto alle forze politiche»20. L’approccio più tradizionale, in questo senso, è quello di Vincenzo Gatto, che esorta a non «consegnare al disegno dell’avversario di classe» i socialisti che si battono su «posizioni avanzate» e i cattolici, non solo del dissenso, che si trovano «sul campo della lotta», ma soprattutto ribadisce che il rapporto unitario con il Pci resta l’alfa e l’omega della prospettiva del partito21. Un altro esponente della vecchia guardia, Francesco Lami, invita a «non perdere tempo nel discutere le cose che ci uniscono e ci dividono dal partito comunista, soprattutto [...] quando viviamo in un momento in cui gli sbocchi autoritari non sono nella fantasia di nessuno ma nella realtà delle cose»22. La preoccupazione per possibili ritorni reazionari, che risuona in più di un intervento della maggioranza, risulta invece quasi del   Ivi, p. 158.   Ivi, p. 108. 20   Ivi, pp. 295, 298. 21   Ivi, p. 507. 22   Ivi, pp. 409-410. 18 19

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tutto assente dagli interventi della sinistra. Per Vittorio Foa è da respingere la «paura del fascismo come pretesto per star fermi»23, e in generale il grande nemico resta il riformismo e il pericolo, al massimo, quello di «un intreccio di risposte riformistiche e autoritarie»24. In qualche intervento, ad esempio in quello di Andrea Margheri, segretario regionale lombardo, questo pericolo prende le sembianze di «una specie di centro-sinistra sociale», in cui i sindacati diventano il punto di riferimento degli «avversari di classe più moderni ed abili»25: un po’ troppo anche per Vittorio Foa, per il quale il sindacato è sì, nel suo insieme e senza più discriminanti di corrente, «un terreno di lotta fra posizioni avanzate e posizioni arretrate», ma non può «essere considerato come il guardiano del capitalismo per tenere fermi gli operai»26. È questo (forse nel rispetto del suo ruolo di segretario confederale) il punto più «moderato» del discorso del leader della Cgil, che per il resto risulta tra i più audaci nel tracciare la prospettiva che si ha di fronte: quella di «un processo rivoluzionario, che può avere alti e bassi, può essere breve o lungo, ma indubbiamente è un tipico processo rivoluzionario»27. Per lui, la novità delle lotte operaie e studentesche sta nel rifiuto del principio stesso della delega: guai quindi se il partito cedesse alla tentazione di «manipolare» il movimento per i suoi scopi politici («lottate e poi noi faremo quello che vorremo in Parlamento»)28. Se persino un dirigente navigato come lui si spinge tanto avanti nel raccogliere lo «spirito del ’68», molti altri delegati al congresso se ne lasciano trascinare. «Se dovessimo veramente accettare ancora di cavalcare la tigre del movimento – afferma Francesco Indovina, della federazione di Milano – molti di noi, probabilmente, preferiranno non essere a cavallo della tigre, ma essere essi stessi tigre»29; e Mario Brunetti, in un discorso come sempre acuto sui ritardi della sinistra nel Sud del paese, non teme poi

  Ivi, p. 270.   Intervento di Andrea Dosio, ivi, p. 327. 25   Ivi, p. 198. 26   Ivi, p. 267. 27   Ivi, p. 265. 28   Ivi, p. 272. 29   Ivi, p. 231. 23 24

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di esclamare: «il Mezzogiorno è il nostro Vietnam!»30. Un altro delegato, il padovano Luigi Ficarra, non ha paura di evocare precedenti impegnativi: Dobbiamo puntare alla rottura dello Stato [...], attraverso la socializzazione e l’affermazione del potere, della dittatura proletaria in zone della società, cioè la via dell’affermazione dei soviet, la via che ci è stata indicata da tutte le rivoluzioni31.

Sono posizioni che, in forma magari meno enfatica, hanno conquistato settori importanti del partito. Il segretario della federazione fiorentina, Miniati, dichiara che, se si accetta il presupposto che la via parlamentare non offre «alcuna possibilità di sbocco positivo alle lotte, [bisogna] essere conseguenti e puntare tutto il nostro lavoro sullo scontro a livello sociale [...] sulle lotte e sul movimento, nella fabbrica, nella scuola, nei campi, e utilizzare il Parlamento, gli enti locali, gli altri strumenti in funzione di essi»32. Nessun discorso congressuale esprime in forma tanto conseguente queste posizioni quanto quello del segretario della federazione torinese, Pino Ferraris. Il quadro generale che egli traccia della situazione resta, a distanza di tanti anni, una sintesi efficace di quel particolare momento storico: Sono le forze della mediazione interclassista, la socialdemocrazia, la democrazia cristiana che sino ad ora hanno organizzato il consenso al sistema, che sono minate nella loro autorità, nelle loro strutture, nella loro capacità di aggregazione e di controllo sociale, nella loro influenza disciplinatrice sui sindacati, sulle associazioni, sull’opinione, sugli strati e sui settori della società. Sono le strutture di questo Stato borghese che di fronte allo sviluppo delle forze produttive ce la fanno sempre meno ad esercitare un’efficace amministrazione degli uomini nella società e delle cose nell’economia. Sono le vecchie colonne della società, i focolari dell’ordine e del consenso, la scuola, la famiglia e la Chiesa che sono scossi da acute contraddizioni.

  Ivi, p. 167.   Ivi, p. 464. 32   Ivi, p. 249. 30 31

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Le lotte in corso, sia per «il loro carattere di autogestione e di democrazia diretta», sia per la loro essenza «offensiva e antiistituzionale», segnano una «fase nuova», di «apertura in concreto di un processo rivoluzionario». E ciò pone al partito un’alternativa secca: O si rallenta e disciplina il movimento per moderarlo ed impedire che si sviluppi e si realizzi una crisi di regime; oppure entro al movimento, dirigendo politicamente le lotte, si costruisce un nuovo sistema di potere politico di classe che nelle fabbriche, nelle scuole, nelle campagne costituisca un supporto solido, organizzato, permanente al mutamento dei rapporti di forza tra le classi. [...] Il partito non può più a lungo oscillare tra l’enunciazione di una strategia di potere e l’adeguarsi a una prassi di riforme33.

Con tutto il rigore intellettuale della sua analisi, Ferraris non sembra porsi il problema se il Psiup sia davvero, per peso politico e organizzativo, in grado di svolgere questi compiti. Il dubbio però non è assente in molti quadri e militanti, anche della sinistra. Lo lascia affiorare Trulli, responsabile della commissione giovanile: «proprio nel momento in cui questo discorso [l’autogestione delle lotte e la radicalizzazione dei loro obiettivi] è andato avanti, non più nel chiuso di alcune stanze, in cui è diventato realtà operante tra le masse [...], il partito non ha avuto il balzo avanti corrispondente»34. E Lami, uno dei dirigenti più autorevoli della maggioranza, ne trae lo spunto per un duro attacco – forse il più duro ed esplicito del congresso – contro la sinistra: Vi è ancora una profonda frattura fra ciò che diciamo di voler essere e ciò che realmente siamo. [...] In questa frattura passano inevitabilmente le posizioni socialdemocratiche, non solo, ma passa anche, compagni, quella sorta di avventurismo parolaio [...] che sul piano dei principi nulla concede, anzi sembra muoversi su una linea di coerenza cristallina, ma che concretamente si agita nel vuoto, parla nel nome della classe operaia ma senza la classe, nel nome degli operai ma senza gli operai, che è sì contro la delega e per la gestione autonoma delle

  Ivi, pp. 366, 369.   Ivi, p. 394.

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lotte, ma che di fatto è una delega, è una concezione paternalistica della lotta35.

In effetti, di fronte a una contrapposizione così netta di linee, non può non porsi il problema del gruppo dirigente. Si è visto come Vecchietti, nella sua relazione, lo abbia sì toccato, ma quasi dichiarato non ricevibile. Molti però lo riprendono, e più di altri, in modo esplicito, Miniati e lo stesso Ferraris, che chiede la rotazione delle cariche e la revocabilità dei dirigenti del partito, la collegialità delle decisioni e un «mutamento del clima interno» al Psiup. Il suo ammonimento finale è quasi profetico: Guai a noi, compagni, se una forza nata per cambiare la faccia del mondo diventa statica e conservatrice proprio quando la realtà è sovversiva, quando la storia è tumultuosamente innovatrice. [...] Mai come oggi, compagni, per cambiare il mondo, dobbiamo cambiare dal profondo noi stessi36.

In realtà, come vedremo tra poco, il rinnovamento sarà molto limitato e il suo aspetto più visibile è una grossa perdita per il partito. Intervenendo l’ultimo giorno del congresso, Lelio Basso annuncia le proprie dimissioni dalla presidenza del Comitato centrale. Tra le consuete, abbondanti citazioni di Marx e le analisi del neocapitalismo e dell’intreccio Stato-capitale, Basso inserisce una constatazione bruciante: nell’anno in cui «la storia ha la febbre», il 1968, il Psiup è stato superato dagli avvenimenti: «La storia ha camminato più rapidamente di noi. Oggi credo che sarebbe presunzione affermare che siamo ancora all’avanguardia di queste lotte, e questo è, a mio modo di vedere, il nostro insuccesso». Questo insuccesso il dirigente milanese lo addebita sia alla maggioranza (che «si è chiusa in sé e ha posto l’accento piuttosto che sulla rottura e sul rinnovamento, sulla continuità con il vecchio Psi»), sia alla minoranza, che «non ha offerto [...] una nuova prospettiva e tanto meno una nuova strategia, ma quasi sempre soltanto delle posizioni negative»37. Da queste premesse non possono essere tratte altre conseguenze che   Ivi, p. 409.   Ivi, p. 372. 37   Ivi, pp. 438, 455. 35 36

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quelle delle dimissioni, che Basso dà anche dalla Direzione: è il segnale di un progressivo e già da tempo iniziato disimpegno nei confronti del Psiup38, dal quale uscirà nel gennaio del 1971. Per intanto il congresso, soprattutto dopo i concitati episodi dell’ultimo giorno, rischia di chiudersi nella confusione più totale. Viene salvato, sembra, solo da una sorta di accordo in extremis tra Foa e Vecchietti39 che sbarra la strada al tentativo di sfiduciare il segretario e il gruppo dirigente del partito. La replica finale di Vecchietti sconta evidentemente il prezzo di questo compromesso, facendo ampie concessioni agli oppositori («il dissenso è creativo»40), e appellandosi al loro «senso di responsabilità». Nondimeno il congresso di Napoli non si conclude con un documento unitario ma con una «deliberazione di maggioranza» che approva le tesi e la relazione del segretario41: su questa si registrano le riserve e i dissensi, tra gli altri, di Foa, Libertini, Basso, Avolio, Margheri, Trulli e Ferraris, i quali però neanche in questo caso presentano un documento alternativo. In particolare Vittorio Foa, parlando «a titolo strettamente personale» ma sostenendo di esprimere esigenze «comuni ad altri compagni»42, dichiara il suo dissenso politico sulla relazione Vecchietti, ma aggiunge: Io sono profondamente persuaso che il partito ha in Vecchietti il dirigente più valido e intelligente che si possa avere, per il tempo che si può prevedere per la vita politica43.

Il risultato finale è dunque ambiguo e interlocutorio, come vedrà bene anni dopo uno dei protagonisti, Pino Ferraris: «Al congresso di Napoli la maggioranza fu sconfitta e la minoranza 38   Le dimissioni erano già state presentate alla vigilia delle elezioni del 1968, il 18 maggio, motivate da ragioni di salute, e nuovamente annunciate in settembre, sempre senza alludere a dissensi politici: in una lettera al «Corriere della Sera» si precisava che non avevano «nulla a che fare con gli avvenimenti cecoslovacchi (FB, AB, XV, busta 18, fasc. 81). L’intervento al congresso di Napoli non lascia dubbi sul fatto che alle ragioni di salute si affianchino quelle politiche. 39   Cfr. F. Livorsi, Tra carrismo e contestazione cit., p. 211. 40   Psiup, 2° Congresso Nazionale cit., p. 521. 41   Vedi le conclusioni di Valori a nome della Commissione per la risoluzione politica, ivi, pp. 530-533. 42   Ivi, pp. 533-536. 43   Ivi, p. 534.

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non seppe vincere. Il risultato fu un compromesso»44. Non, peraltro, un compromesso avanzato, ma una mediazione di basso profilo che non affronta i nodi venuti al pettine ma semplicemente ne rinvia lo scioglimento. Nell’immediato, si arriva alla rielezione di Vecchietti a segretario del Psiup, con Valori ancora vicesegretario; Ardenti è confermato direttore di «Mondo Nuovo». Gli organismi dirigenti sono sensibilmente rinnovati e allargati: il Comitato centrale si compone ora di 101 membri (20 più del precedente45) e la Direzione ne ha 25, quattro in più che nel 1965 (da segnalare, oltre all’uscita volontaria di Basso, i nuovi ingressi di Ferraris, Biondi, Costa, Andriani e Ardenti). Vi entrano le varie componenti della sinistra, ma è un organismo eterogeneo e pletorico che in sostanza funziona poco: già alla prima riunione del nuovo Comitato centrale (9-10 gennaio 1969) le è affiancato (anzi sovrapposto) un Ufficio politico composto da Vecchietti, Valori, Gatto, Ceravolo e Foa46. Di fatto il Psiup resta saldamente in mano al vecchio gruppo dirigente e, con Basso ormai fuori gioco e Libertini escluso dalla cerchia più ristretta del potere interno, rimane solo Vittorio Foa «in un difficile ruolo di ‘guastatore’»47. Viene approvato anche il nuovo statuto del partito, che è in verità molto simile al precedente48. La novità più significativa è forse il riconoscimento, per i futuri congressi, di una rappresentanza per le componenti minoritarie e dissenzienti del partito che raggiungano almeno il 15% dei voti nelle federazioni. Nell’insieme, il congresso di Napoli lascia un’impressione piuttosto negativa sugli osservatori. Scontati, si può dire, i commenti della stampa «indipendente», o – come il Psiup preferisce dire – «borghese», resi anche più taglienti dal tumultuoso svolgimento dell’assise49. Ma colpisce il giudizio, diverso eppure per 44   P. Ferraris, relazione introduttiva al convegno Guido Biondi. Un uomo, un’idea (Firenze, Auditorium della Regione Toscana, 25 maggio 2000). 45   L’elenco dei 101 membri del nuovo Comitato centrale è in Psiup, 2° Congresso Nazionale cit., pp. 529-530. 46   «Mondo Nuovo», 19 gennaio 1969. 47   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 421. 48   Statuto Psiup 1968, in «Rassegna socialista», 7 febbraio 1969. 49   Cfr., per esempio, Il Psiup cerca con fatica una sua fisionomia politica, in «La Stampa», 18 dicembre 1968.

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alcuni aspetti abbastanza simile, dei due partiti di sinistra. «È stata una delle cose più brutte del Psiup», riferisce senza mezzi termini Giancarlo Pajetta alla Direzione del Pci: Un basso livello culturale, carenza di una direzione che affrontasse politicamente i problemi che confusamente emergevano. Si è avuta l’impressione di un gruppo dirigente debole che non sa cosa fare, che resiste su posizioni unitarie ma è incerto e burocratico, [che] cerca nell’intrigo la soluzione che non si riesce a dare sul piano politico [...]. Cresce una sorta d’insofferenza contro i sindacati e il Parlamento. Non è solo questione di condurre su questo terreno una polemica ideologica difensiva, ma di operare per riassorbire nella lotta queste tendenze50.

Anche più duri, ovviamente, i commenti dei socialisti: Gaetano Arfè – che conia in quell’occasione il termine di «partito provvisorio» – parla di «una penosa manifestazione di impotenza e di superfluità», «di un partito che non è riuscito a darsi una funzione, neanche di stimolo, nella tormentata vicenda del socialismo italiano» e che, addirittura, non è un partito all’avanguardia bensì «alla coda dello schieramento di sinistra»51. Sono giudizi presbiti, nel senso che circa un anno e mezzo dopo si rivelano non infondati. Arfè non sbagliava diagnosticando la «superfluità» del Psiup, che si sarebbe alla fine manifestata dopo la crisi dell’unificazione socialdemocratica; e l’obiettivo indicato da Pajetta di «riassorbire nella lotta» le tendenze estremiste dei fratelli minori socialproletari è stato di fatto realizzato, anche se soprattutto grazie alla forza e all’elasticità del sindacato. Eppure, a dispetto delle sue divisioni e delle sue incertezze strategiche, il ruolo del Psiup nell’imponente movimento di massa che scuote dalle fondamenta il tessuto delle relazioni industriali, fino a culminare nell’autunno caldo del 1969, non può certamente definirsi «di coda».

  FIG, APC, Direzione del 28 dicembre 1968.   G. Arfè, Psiup: un partito provvisorio, in «Mondo Operaio», n. 12, dicembre 1968. 50 51

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2. «Prima l’azione, la coscienza dopo» Il ciclo di lotte operaie che è cominciato nel 1962, e che toccherà il culmine in quell’«imponente redde rationem del sistema industriale maturo con i suoi produttori»52 noto come «l’autunno caldo» del 1969, ha conosciuto già nel 1968 una forte impennata: se le ore di sciopero non hanno superato ancora quelle degli anni dei rinnovi contrattuali, il 1962 appunto e il 1966, i contenuti rivendicativi, le forme di lotta, gli stessi protagonisti del conflitto annunciano una svolta profonda53. Vi è, anzitutto, una forte componente di spontaneità, che coglie in contropiede le organizzazioni sindacali, spesso ancorate a piattaforme negoziali «moderate». Da una parte, le rivendicazioni che emergono non riguardano più soltanto i livelli salariali e le questioni normative, ma contestano direttamente l’organizzazione del lavoro in fabbrica (ritmi di lavoro, nocività dell’ambiente), ponendo embrionalmente una questione di potere. Dall’altra, con il passare dei mesi, queste rivendicazioni si allargano dalla fabbrica a temi sociali più generali (le pensioni, la casa, i trasporti) che coinvolgono la vita quotidiana dei lavoratori. Nell’insieme, gli scioperi del 1968 servono «a costruire una nuova identità collettiva, a partire dal riconoscimento dei diritti e dall’appropriazione di spazi condivisi, ma negati»54: e in questo hanno anche un ruolo prima l’eco del movimento studentesco, poi l’incontro diretto con le sue avanguardie. Il dato generazionale e il fatto di agire in sistemi diversi ma segnati dalla stessa impostazione gerarchica e autoritaria accomunano studenti e operai: «L’antiautoritarismo e l’anticapitalismo furono i canali attraverso i quali i giovani proletari ‘in tuta blu’ e i giovani proletari ‘in colletto bianco’ si ritrovarono in un unico grande movimento antisistema»55. I sindacati confederali e la stessa Cgil stentano per mesi ad adeguarsi a questo tumultuoso processo e ad incanalarlo, e si trovano 52   G.C. Marino, Biografia del ’68. Utopie, conquiste, sbandamenti, Bompiani, Milano 2004, pp. 356-357. 53   Restano insostituibili le ricerche coordinate da A. Pizzorno, Lotte operaie e sindacato in Italia (1968-1972), 6 voll., il Mulino, Bologna 1974. 54   A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma 2006, pp. 125-126. 55   F. Loreto, L’unità sindacale (1968-1972). Culture organizzative e rivendicative a confronto, Ediesse, Roma 2009, p. 65.

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a rincorrere l’attivismo di un pulviscolo di organizzazioni di base. Solo nell’autunno del 1968 i sindacati riprendono almeno in parte l’iniziativa e cominciano a trasformarsi da «oggetto» in «soggetto» di contestazione56, come si vede con la vertenza nazionale per l’eliminazione delle «gabbie salariali» che il 14 novembre porta per la prima volta dopo vent’anni a uno sciopero generale unitario e pone fine alle discriminazioni da provincia a provincia nelle paghe operaie, particolarmente pesanti nel Mezzogiorno. La conflittualità, che si è manifestata nelle forme più acute in fabbriche di non grandi dimensioni (Marzotto, Saint-Gobain, Ignis), specie quelle in cui una lunga tradizione di paternalismo ha soffocato l’insubordinazione operaia, si è intanto sempre più estesa ad altre grandi concentrazioni del proletariato industriale «classico» (Fiat, Pirelli, Porto Marghera), con una «inedita radicalità delle forme di lotta»57. Non è facile misurare il peso che le organizzazioni locali del Psiup hanno nelle diverse fasi di questo processo, che si prolunga almeno per tutto il 1969. La stampa del partito e la documentazione conservata nel suo archivio mostrano un numero impressionante di volantini stampati e diffusi dalle federazioni durante le fasi più acute delle lotte, a volte firmati congiuntamente con il Pci, altre volte da sole58. Chi scorra le pagine di «Mondo Nuovo», particolarmente dopo la seconda metà del 1968, ha l’impressione di trovarsi di fronte a un bollettino in permanente aggiornamento della conflittualità operaia. Alla Fiat Mirafiori le lotte sono cominciate già nel marzo del 1968, e nel 1969 si riaccendono in primavera per svilupparsi lungo tutta l’estate, inizialmente in forme spontanee e con caratteri di

  Ivi, p. 60.   M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppi e squilibri, tomo II, Istituzioni, movimenti, culture, Einaudi, Torino 1995, p. 445; v. anche P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi cit., p. 421. 58   Vedi per esempio Valdagno. Storia di una lotta, numero speciale di «Rassegna socialista», 15 giugno 1969; o, tra i tanti fogli locali, Lotta senza tregua, in «Il Socialista Varesino», dicembre 1968, numero interamente dedicato alle lotte alla Ignis. La sola federazione di Pisa diffonde, fra il 24 giugno e il 1° settembre 1969, 19 volantini dedicati alle lotte di fabbrica nella provincia (FIG, APSIUP, 1969, busta 4025, Pisa). Sul caso di Pisa è di notevole interesse L. Della Mea, Una vita schedata, Jaca Book, Milano 1996. 56 57

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particolare asprezza: protagonisti assoluti ne sono i lavoratori comuni, i cosiddetti «operai-massa», dequalificati e spesso emigrati dal Meridione a Torino. Il protagonismo di questi nuovi soggetti si associa a forme particolarmente innovative delle lotte: Interruzioni improvvise del lavoro, prolungamento di scioperi interni proclamati dal sindacato, assemblee d’officina e di reparto, organizzazione di cortei interni che percorrevano la fabbrica trascinando nello sciopero gli indecisi e i contrari rappresentarono le nuove forme di lotta operaia che emersero in quei mesi affiancandosi a quelle tradizionali, lo sciopero esterno, i picchetti davanti ai cancelli, la manifestazione cittadina59.

Episodi di lotta si hanno nel maggio 1969 alle Officine Ausiliarie di Mirafiori (dove c’è una forte presenza di militanti del Psiup fra gli operai) e di qui si propagano alle Presse, alle Carrozzerie e alle Meccaniche. Nasce così «un’avanguardia di massa fluida, non formalizzata»60: fino all’estate del 1969 l’egemonia al suo interno l’hanno i gruppi estremisti (specie Lotta Continua, che si sviluppa come organizzazione proprio in quei mesi); a partire dall’autunno, invece, essa passa decisamente ai sindacati. Per alcuni aspetti il Psiup, soprattutto alla Fiat Mirafiori di Torino e alla Pirelli di Milano61, è, nella concezione e nella pratica del suo impegno dentro la fabbrica, aperto alle tematiche dei primi (anche se nella fase finale della vertenza contrattuale ne prenderà le distanze), ma altrettanto determinato nell’evitare ogni rottura con i secondi. D’altra parte, nella tumultuosa atmosfera di quei mesi, i confini dell’appartenenza politica sono spesso labili e comunque non troppo importanti: in molte sezioni o reparti della grande fabbrica automobilistica la presenza di militanti comunisti attivi nel sindacato non è meno decisiva di quella dei gruppi, e gli attivisti psiuppini si trovano talvolta a fungere da cerniera tra 59   D. Giachetti, M. Scavino, La Fiat in mano agli operai. L’autunno caldo del 1969, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1999, pp. 148, 90-91. 60   Ivi, p. 161. 61   Già il 7 settembre 1969 «Mondo Nuovo» titola Pirelli, dodicimila in lotta – Fiat, sciopero unitario contro il ricatto, mettendo così insieme i due simboli del conflitto operaio dell’autunno caldo, che sono anche i maggiori punti di forza dell’organizzazione del partito in fabbrica.

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gli uni e gli altri. Il resoconto che Pietro Alioto, un delegato di Mirafiori iscritto al partito, farà un anno dopo l’inizio delle lotte alla conferenza interregionale del Psiup di Bologna lascia intravvedere chiaramente questa situazione magmatica: Compagni, all’inizio del 1969 alla Fiat Mirafiori non si contava sulla presenza di un gruppo organizzato dello Psiup. Oggi tutto questo è cambiato, in quanto esiste un centro di coordinamento operaio, che è venuto fuori non per lo sbandieramento di vecchie tradizioni e di bei discorsi, ma perché noi abbiamo fatto non parole ma dei fatti, indicando una strategia di contropotere costruita alla base. Uno dei risultati visibili sono i 100 e più nuovi iscritti alla sezione Mirafiori quest’anno, 100 nuovi iscritti che non sono simpatizzanti ma attivisti e militanti che ogni giorno combattono la nostra battaglia e che sono a loro volta un punto di riferimento per gli operai nelle varie officine. [...] Il risultato organizzativo ci conferma che la nostra linea politica è quella giusta, [...] è passata nel movimento, cioè gli obiettivi che noi abbiamo portato avanti non sono rimasti parole, ma sono diventati una realtà (i delegati, il consiglio dei delegati, i comitati di officina)62.

Delle lotte alla Fiat, gli attivisti del Psiup sono senza dubbio una componente significativa: le modalità e i nuovi strumenti di lotta dei lavoratori ben si accordano con l’impostazione che al lavoro di fabbrica aveva dato da tempo la federazione torinese63. Un documento del Psiup torinese, che all’inizio dell’autunno 1969 fa un bilancio delle lotte dei mesi precedenti, mostra bene quali siano le linee d’azione del partito nella più grande fabbrica italiana. Il Psiup non è più quel «partito di visionari» e di utopisti che ad alcuni era apparso quando aveva cominciato il suo lavoro di avvicinamento degli operai alle porte della fabbrica nella lotta contrattuale del 1966: con le nuove lotte in Fiat «tutta una linea 62   FIG, APSIUP, 1970, busta 4032, Intervento di Pietro Alioto alla conferenza interregionale di Bologna, febbraio 1970. 63   Si veda Per un movimento politico di massa. Raccolta di documenti della lotta di classe e del lavoro politico alla Fiat, a cura dei gruppi di lavoro del Psiup torinese, Musolini, Torino 1969. Illuminanti per chiarire la posizione del partito, sia rispetto a quella del Pci (molto criticata) sia rispetto a quella dei gruppi, sono gli Appunti del compagno Pino Ferraris sulle lotte alla Fiat (settembre 1969), in IGP, Carte Giovana, busta 10, fasc. 10E: da notare che il dattiloscritto è postillato con caustici commenti critici da Giovana stesso, segretario regionale del partito.

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politica diventava credibile a livello di massa perché avrebbe potuto finalmente collegarsi ad un minimo di esperienza vissuta degli operai». Al centro di questa esperienza vi è la figura chiave del delegato, che «nasce come portavoce della squadra o del gruppo, ad esempio nelle assemblee che si fanno fuori dei cancelli», come «conquista di fatto prima che come diritto», di modo che alla fine «sono i rappresentanti dei padroni che devono venire a discutere con gli operai e non viceversa». Il Psiup torinese esplicita inoltre la sua linea politico-sindacale (che avrebbe mantenuto per tutto l’autunno), prendendo le distanze dal «salarialismo» estremo di gruppi quali Lotta Continua o Potere Operaio64. L’azione del Psiup torinese alla Fiat proseguirà ben oltre la fine dell’autunno caldo, producendo un’impressionante mole di materiale di propaganda e di documenti di analisi e riflessione65. Il caso della Pirelli presenta analogie ma anche significative differenze rispetto a quello della Fiat. Anche qui il movimento inizia già nel 1968: la sua caratteristica è la formazione precoce di strutture di lotta alternative, i Comitati unitari di base (Cub), in cui sono presenti operai iscritti e non iscritti ai sindacati e in cui prevale all’inizio l’influenza dei gruppi66; tuttavia anche in questo caso nell’autunno 1969 il sindacalismo «ufficiale» finisce per riprendere l’egemonia. Quanto alle modalità di lotta, se «la grande 64   «La prospettiva puramente salarialista oscura profondamente il significato della lotta alla Fiat come lotta di potere [...] dietro questa impostazione c’è una concezione meccanica della lotta di classe: la rivoluzione come effetto della rivendicazione salariale squilibrante, la rivoluzione come processo di cose e non di uomini» (CSPG, Fondo Marcello Vitale, subfondo 12, UA 5, sottofasc. 2, Appunti per una cronaca delle lotte alla Fiat nella primavera e nell’estate del 1969). 65   Tra questi si segnalano in grande numero i «giornali di lotta», fogli o bollettini ciclostilati redatti dai gruppi di fabbrica del Psiup nelle varie sezioni della Fiat, i cui primi esemplari risalgono al 1966, che denotano una perfetta conoscenza dei meccanismi del processo produttivo e mirano a diffonderla tra i lavoratori per rendere più efficace la loro azione conflittuale: in qualche caso si tratta di fogli addirittura di officina, come quello della 41 di Mirafiori. Un’ampia raccolta si trova in IGP, Carte Giovana, buste 9 e 10, e Carte Giachino, busta 5, fasc. 8. 66   Sulle lotte alla Pirelli cfr. R. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi italiana, Giunti, Firenze 1998, che le definisce «un caso di conflittualità permanente» (p. 175); M. Sclavi, Lotte di classe e organizzazione operaia: Pirelli Bicocca Milano (’68-’69), Om Brescia (’54-’72), Mazzotta, Milano 1974; E. Montali, 1968: l’autunno caldo della Pirelli. Il ruolo del sindacato nelle lotte operaie alla Bicocca, Ediesse, Roma 2009.

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invenzione di Mirafiori è il corteo interno»67, gli operai della Pirelli «inventano» invece l’autoriduzione dei tempi e dei ritmi di lavoro. Per il Psiup, che a Milano ha uno dei suoi punti forza nel grande stabilimento della Bicocca, si tratta di una forma di lotta del tutto corrispondente all’impostazione più volte affermata tra il 1968 e il 1969, in quanto «prefigurava il controllo operaio della produzione in una società socialista e dimostrava che gli stessi operai potevano occupare il posto di comando»68. La presenza del partito in fabbrica viene costruita pazientemente: un gruppo di compagni militanti nella Cgil ha cominciato a fare un lavoro capillare per far nascere la lotta, che rispecchiava alcune indicazioni della Carta rivendicativa del Psiup, in un periodo nel quale non vi era alcuna agitazione. Passando attraverso l’individuazione dei problemi reali di fabbrica, partendo proprio di lì, dalle condizioni reali del posto di lavoro, si è arrivati ad una crescita delle rivendicazioni e a un susseguirsi di lotte sempre più dure69.

Anche alla Pirelli gli attivisti del partito, oltre a un gran numero di volantini, stampano un giornale di fabbrica, «Lotta di Classe», che nell’autunno del 1969 pubblica una piattaforma rivendicativa articolata in dodici punti: si va dalla riduzione dell’orario di lavoro a sei ore giornaliere a parità di salario al rifiuto degli straordinari; dal controllo dei lavoratori sul collocamento e sui licenziamenti alla possibilità di permessi e distacchi per attività sindacale; dalla «gestione operaia» dei centri sportivi e culturali aziendali alla piena libertà di opinione e di stampa in fabbrica; dalla richiesta della scuola a tempo pieno per i lavoratori-studenti (secondo la formula «4 ore di studio + 4 ore di lavoro») alla parità assoluta nelle retribuzioni fra uomo e donna e all’eliminazione delle sperequazioni fra operai, impiegati e tecnici; dalla sicurezza del sistema pensionistico alla richiesta di una politica della casa da parte dell’azienda per i suoi dipen-

  S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Marsilio, Venezia 1992, p. 355. 68   R. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo cit., p. 175. 69   FIG, APSIUP, 1970, busta 4032, Intervento del delegato Ronca alla conferenza interregionale di Bologna. 67

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denti, fino alla rivendicazione che tutte le compendia: «il potere operaio in fabbrica»70. Al di là della sua presenza in due luoghi simbolo della conflittualità operaia, per circa un anno, dalla tarda estate del 1968 all’autunno del 1969, il Psiup pare in grado – o tale comunque si sente – di cavalcare la cresta dell’onda delle lotte. Nel febbraio del 1970, quando in realtà quel momento magico si è già concluso, il partito tiene tre contemporanee conferenze interregionali, a cui partecipano «oltre duemila segretari di sezione e di nucleo, membri di commissione interna, dirigenti e attivisti sindacali e politici di fabbrica e di aziende agricole»71. I materiali raccolti in quell’occasione, con i brevi interventi spesso redatti a mano da centinaia di quadri e militanti, raccontano con la vivacità di una cronaca quasi in diretta come il corpo del partito percepisce la sua trasformazione nel corso delle lotte, quali difficoltà incontra nel definire i ruoli dei nuovi organismi da esse scaturiti rispetto a quelli tradizionali della sezione territoriale, quali profonde diversità, ma anche quali punti di contatto, esistano tra le situazioni locali. Alcune delle storie raccontate sono storie di insperati successi, come quelle già citate della Mirafiori e della Pirelli. Ma anche lontano dalla grande città e dalla grande fabbrica si sono vissute esperienze simili. Nuccio Tirelli, segretario della federazione di Piacenza, uno dei più conseguenti interpreti della linea operaista, rivendica orgogliosamente il ruolo del partito nelle lotte operaie della sua provincia: il Psiup è l’unico partito (e questo lo diciamo anche nei confronti dei vari gruppetti) che ha saputo teorizzare in modo corretto e nuovo un rapporto tra partito e classe, in cui il partito non è più l’avanguardia cosciente che trascina su alcune parole d’ordine parziali una massa ribelle che in larga parte non conosce il disegno globale dell’avanguardia, ma un partito che [...] assolve alla sua funzione dirigente [...] in una situazione nuova, nella quale gli operai non sono più chiusi in un 70   Programma politico rivendicativo di fabbrica proposto dal Psiup ai lavoratori della Pirelli, in «Rassegna socialista», ottobre-novembre 1969, che riproduce le pagine di «Lotta di classe». 71   FIG, APSIUP, 1970, busta 4032: le conferenze si tengono a Bologna per il Nord, a Firenze per il Centro, a Salerno per il Sud e la Sicilia. Una quarta specifica per la Sardegna ha luogo a Cagliari.

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ghetto politico, ma verso di loro e verso le loro organizzazioni viene esercitata continuamente una pressione e una spinta integratrice72.

Questa impostazione piuttosto ideologica si arricchisce di tinte molto più vivaci e, se si vuole, più «vere», nel racconto di un compagno di Arzignano, in provincia di Vicenza: la resistenza padronale contro le richieste dei lavoratori è stata quanto mai accanita, e ciò ha portato gli operai, i giovani operai, a una lotta lunga e dura, fino all’occupazione di municipi, a un picchettaggio duro, a molte manifestazioni di combattività [...] Allora come sezione [una sezione che era soprattutto di vecchi iscritti al Psi] ci siamo posti il problema di organizzare nel partito quei giovani combattivi [...] Il compagno Che Guevara ha detto, «prima l’azione, la coscienza dopo». Per noi si è trattato di applicare questo principio. Per noi era necessario dimostrare ai giovani che non bisogna avere paura del potere costituito, dei ricatti delle forze dominanti. [...]. Da noi questo problema è molto importante perché le classi dominanti esercitano un controllo capillare sulla vita dei lavoratori e questo ruolo viene assunto in particolare dai preti [...] Nelle nostre prime azioni abbiamo un po’ preso a prestito alcuni modi di agire del movimento studentesco [...] Abbiamo violato le regole perbeniste che i padroni hanno imposto agli operai73.

Sul fronte dei conflitti di fabbrica, le storie che vengono raccontate presentano spesso affinità notevoli in contesti assai diversi. Nelle parole di Umberto Tatò, di Potenza, Il partito è stato presente nelle lotte, le ha ispirate, le ha dirette, nelle lotte si è rinnovato. All’inizio delle lotte contrattuali un gruppo di giovani del partito cominciò il lavoro di appoggio al sindacato all’esterno delle fabbriche e dei cantieri, volantinaggio, discussioni, presa di contatti. Però per noi questa azione era integrativa di ciò che all’interno delle fabbriche facevano i nostri compagni operai, non molto numerosi per la verità.

72   FIG, APSIUP, 1969, busta 4024, Note sul lavoro di fabbrica, ciclostilato della federazione di Piacenza, 25 agosto 1969. 73   FIG, APSIUP, 1970, busta 4032. Le testimonianze che seguono sono tratte da questa fonte.

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Non molto dissimile è il racconto di Letizia Gelli, della commissione interna della Lebole di Arezzo: L’entrata del partito in fabbrica comincia nel momento in cui si stava dando inizio alla grande lotta del ’68. Durante questa lotta è stato possibile verificare una grande capacità combattiva delle operaie che hanno saputo individuare ed imporre alcuni obiettivi politici come: sostanziali aumenti salariali; riduzione orari di lavoro; diritto di tenere assemblee nell’interno della fabbrica. Grazie a questa lotta la presenza del partito alla Lebole è diventata un fatto reale e concreto.

Ma le modalità di avvicinamento ai lavoratori possono anche essere altre, come spiega Alberto Ghiglieno, della sezione Aquila centro: Nella nostra zona, la mancanza di una classe operaia politicizzata, pienamente cosciente, ostacola in misura non indifferente la creazione del partito in fabbrica ove il collocamento clientelare, quindi di fedele osservanza Dc, e le poche esperienze di lotta di una massa di lavoratori ancora molto giovani, moltiplica le già obiettive difficoltà riscontrabili a livello nazionale per imporre una nostra presenza politica nel posto di lavoro. L’operaio della Siet-Siemens dell’Aquila, comunque, potevamo forse ritrovarlo più disponibile nel suo luogo di origine, nel suo paese di montagna, ove più drammatica gli sarebbe apparsa la contraddizione tra l’efficientismo e la modernità del complesso industriale e l’incivile condizione di vita della sua condizione di provenienza.

La rivendicazione di «uno sviluppo economico e civile profondamente diverso dall’attuale» è la molla che ha permesso di organizzare movimenti di lotta significativi anche a Palermo, come testimonia un compagno della sezione cittadina: I problemi dell’occupazione, della casa, dell’assistenza, dell’acqua, rappresentano gli obiettivi fondamentali del movimento sui quali è possibile unire lavoratori occupati e disoccupati, operai e braccianti, studenti, tecnici, artigiani, ecc.

E una realtà ugualmente lontana da quella delle grandi fabbriche del Nord evoca Carmine Ucciero, della sezione di Villa Literno (Caserta): ­­­­­209

È stato nella sezione e colla sezione che si è verificato l’atteso processo unitario fra tutte le forze interessate al progresso civile, economico e sociale dell’agricoltura; e ciò sia col dialogo diretto attraverso i dibattiti e gli incontri che si sono succeduti a ritmo sempre più frequente, sia attraverso una laboriosa opera di ausilio e sostegno a favore dei contadini e braccianti colpiti dall’alluvione del dicembre 1968.

Molte di queste testimonianze, specialmente se provenienti dalle aree del paese a minore densità industriale, dimostrano come l’azione del Psiup – per necessità più ancora che per scelta – tenda ad allargare lo scontro sociale al di fuori delle fabbriche. Gli scioperi generali per le riforme che i sindacati proclamano nell’estateautunno del 1969 sono anche il risultato di una pressione dal basso in cui ha certamente una parte l’impegno quotidiano dei militanti psiuppini, che per molti mesi sfida la concorrenza dei gruppi spontanei, e si dimostra più «militante» e meno incline a lasciarsi riassorbire nell’azione dei sindacati di quello del Pci. In particolare lo sciopero generale unitario per la casa, indetto dai sindacati il 3 luglio, rappresenta un salto di qualità nelle lotte anche fuori dalla fabbrica, vedendo la nascita di nuovi movimenti di inquilini che praticano l’autoriduzione dei fitti e soprattutto una vasta campagna di occupazione di case sfitte nei grandi centri urbani (Roma e Milano specialmente)74. A queste battaglie il Psiup dà un contributo notevole: nel novembre del 1969 «Rassegna socialista», il bollettino dell’Ufficio stampa del partito, che è diventato mensile ed esce in veste grafica rinnovata, dedica un intero fascicolo alle lotte per la casa, pubblicando un’ampia rassegna di volantini. Tra i tanti firmati dal Psiup come partito si segnala quello della federazione di Milano, che lancia la parola d’ordine «una casa civile ad un affitto equo» e invita gli inquilini delle case popolari a «sospendere il pagamento dell’affitto», indicando anche concrete misure di resistenza: Quando a non pagare l’affitto sono più famiglie, non è possibile sfrattare nessuno. E comunque la solidarietà di classe deve essere vi-

74   «A Milano, tra il 1968 e il 1970, circa il 40 per cento delle centomila famiglie che vivono nelle case popolari si rifiutò per protesta di pagare il canone d’affitto, o lo pagò solo parzialmente» (P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi cit., p. 438).

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gile: di fronte alla provocazione di sfratto di un inquilino, si telefoni, si avverta, e i cittadini del quartiere, insieme alle organizzazioni dei lavoratori, impediranno che la provocazione venga svolta75.

In molte altre grandi città, in particolare a Torino, a Firenze, a Roma, la presenza di attivisti del Psiup è di stimolo alla crescita dei primi comitati di quartiere, i quali, organizzatisi per fronteggiare l’emergenza della casa, allargano le loro rivendicazioni al sistema dei trasporti pubblici e delle loro tariffe, alla scuola, all’assistenza sanitaria76. Sembra dunque che l’ondata di lotte del biennio 1968-69 suoni per il Psiup come una conferma della validità degli sforzi costanti in cui si è impegnato da almeno due anni per proiettare all’esterno l’immagine di un partito vivo, che trova il proprio tanto discusso «spazio politico» nel pieno ricupero della sua originaria «ragione sociale», la lotta contro l’integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico. Per tutta la durata di quello che è stato definito il «secondo biennio rosso» della storia italiana77 si moltiplicano a livello centrale e locale i convegni, le conferenze di lavoro, i seminari del partito dedicati alla nuova esplosione di conflittualità sociale e in particolare alle rivendicazioni del proletariato industriale. Nel novembre del 1968, a Torino, un’assemblea dei quadri operai del partito torna ad affrontare «la questione fondamentale» del 75   Sospendere il pagamento dell’affitto IACP (volantino Psiup Milano), in «Rassegna socialista», ottobre-novembre 1969. Lo stesso fascicolo del periodico ospita un duro attacco di Libertini alla proprietà fondiaria, «intoccabile sancta sanctorum del capitale», che va espropriata «anche rimuovendo i limiti costituzionali, per giungere alla proprietà pubblica del suolo»; ma chiede anche misure di più immediata attuabilità, quali il blocco prolungato di tutti i contratti, la riduzione del costo degli affitti e l’unificazione degli istituti per la casa: La battaglia per la casa e per una città nuova, ibid. 76   Cfr. in generale A. Daolio, Le lotte per la casa in Italia, Feltrinelli, Milano 1974; A. Tozzetti, La casa e non solo. Lotte popolari a Roma e in Italia dal dopoguerra ad oggi, Editori Riuniti, Roma 1989, e per il caso torinese F. Amodei, Esperienze e indicazioni dei gruppi di lavoro di quartiere. La classe operaia fuori dalla fabbrica, in «Mondo Nuovo», 9 febbraio 1969; G. Piraccini, E. Musso, R. Roscelli, Cronache delle lotte per la casa nei quartieri di Torino, in «Classe», 1970, n. 3, pp. 121-135. 77   Cfr. B. Trentin, G. Liguori, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 19681969, Editori Riuniti, Roma 1999.

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rapporto tra sindacati e partiti operai e di «un movimento che rimette tutto in discussione, dai contenuti alle forme di lotta, dalle strutture organizzative ai metodi di direzione e ai gruppi dirigenti»: la pur «necessaria pattuizione sindacale» è accettabile solo a condizione che prepari «i termini della lotta futura da riprendere [...] magari il giorno successivo all’accordo»78. Resta irrisolto però, per un partito che non intenda sciogliersi tutto nel movimento, il nodo che Domenico Ceravolo mette bene in luce proprio alla vigilia del II Congresso: a una grave e profonda crisi della linea strategica dell’avversario, e al relativo sgretolamento delle sue alleanze, non corrisponde una maturazione compiuta della linea e dello schieramento di alternativa. [...] È in gioco lo sbocco politico delle lotte. Bisogna essere consapevoli che influiranno momenti soggettivi di grande volontà e impeto rivoluzionario e momenti oggettivi che segneranno la presenza della realtà testarda con la quale bisogna fare i conti79.

Lo «sbocco politico delle lotte» è in realtà il tema al centro del confronto fra maggioranza e minoranza della Direzione del partito, ma la conclusione confusa e compromissoria del congresso di Napoli ha finito per eluderlo e, di fatto, per rinviare il problema. Né il Psiup pare particolarmente soddisfatto del modo in cui la questione viene affrontata dal XII Congresso comunista: anzi, Valori giudica che, rispetto al rapporto di Longo, nelle conclusioni di Berlinguer sia «andata un po’ perduta [...] la linea volta a non accettare gli attuali schieramenti politici come permanenti»80. Al Comitato centrale del partito del 6-8 marzo 1969 la relazione introduttiva di Vecchietti suona molto prudente nella valutazione dei conflitti che scuotono il paese, rilevando come il «rovescio della medaglia della radicalizzazione delle lotte» stia in fenomeni di «assenteismo, di spoliticizzazione di larghi settori popolari»: e finisce per centrare gran parte della sua analisi sulla crisi degli

  Così il commento a caldo sul convegno Prime valutazioni e indicazioni, in «Mondo Nuovo», 1° dicembre 1968, con ogni probabilità redatto dal segretario della federazione che lo aveva ospitato, cioè Pino Ferraris. 79   D. Ceravolo, Nel vivo delle lotte, in «Mondo Nuovo», 15 dicembre 1968. 80   Ivi, 23 febbraio 1969. 78

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equilibri interni alla maggioranza di governo81. Ma la sinistra del partito continua a suonare un’altra musica: Ferraris sottolinea che la caratteristica delle lotte in corso è quella «del loro manifestarsi al di fuori e contro gli istituti rappresentativi», e che «ci si trova non davanti alla crisi di una formula di governo ma davanti ad una crisi di regime». E Pupillo, segretario della federazione di Vicenza, coglie un altro tratto decisivo dello scontro in atto nella «illegalità di massa come risposta alle continue violenze ‘legali’ esercitate dal padronato e dal potere borghese»82. Insomma, il partito resta diviso e quasi parla due linguaggi diversi. In un clima di crescente tensione sociale, reso più pesante anche dal ricorso a forme di repressione molto dura da parte delle forze dell’ordine, la maggioranza avverte probabilmente il rischio che non poche federazioni sfuggano al controllo della Direzione, e tenta di ricuperare spazio assorbendo molte tematiche che hanno caratterizzato l’iniziativa della sinistra83. L’artefice primo di questa operazione è il vicesegretario Dario Valori: è lui a tenere la relazione al Convegno nazionale del Psiup sulle lotte di massa che si apre a Roma il 27 maggio 196984 e che rappresenta il punto più alto della parabola «movimentista» del partito, oltre che il momento forse più libero e aperto di discussione della sua intera storia. Delle agitazioni che dal 1968 scuotono il tessuto produttivo del paese Valori sottolinea come elemento positivo la volontà dei lavoratori di autogestirne la piattaforma e la conduzione, e apprezza gli «strumenti nuovi» che esse si sono sapute dare (comitati di base, delegati di squadra e di reparto), che bisogna cercare di rendere permanenti. Accetta le tesi del congresso della Cgil sull’autonomia fra sindacato e partiti, ma rivendica «un uguale rapporto dialettico con i movimenti e le organizzazioni di massa». Non sfugge naturalmente a Valori che il nodo resta quello dello «sbocco politico» delle lotte, e in questo egli continua a considerare il ruolo del partito fondamentale: ma, in sintonia con il clima del momento, esclude che quello sbocco   Ivi, 23 marzo 1969.   Ibid. 83   F. Livorsi, Tra carrismo e contestazione cit., p. 209. 84   Se ne vedano gli atti in Il Psiup per lo sviluppo, l’unificazione e lo sbocco delle lotte di massa, in «Rassegna socialista», 15 luglio 1969. 81 82

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possa consistere in «questa o quella formula di governo», e ne dà un’interpretazione che si avvicina molto a quella sostenuta dalla sinistra del partito: Credo che in questo momento noi dobbiamo intendere per sbocco politico garantire alle lotte la loro continuità [...] renderle permanenti, assicurarne la crescita, accettare la pluralità dei movimenti che le conducono, sottolineare gli elementi nuovi e qualificanti delle più avanzate di esse, in uno sforzo di generalizzazione che ne superi i limiti [...] perché siano investiti i punti nodali del meccanismo capitalistico sul quale si basa la società italiana85.

Il dibattito sulla relazione del vicesegretario fa registrare un consenso molto ampio86, anche perché, in un clima complessivamente di fiducia ed entusiasmo, prendono la parola soprattutto esponenti della minoranza di sinistra. In generale la divisione del partito che è emersa al congresso cinque mesi prima sembra abbastanza ricomposta, tanto che il problema del ricambio del gruppo dirigente non è quasi più sollevato87. Alcuni, come Pupillo, cercano di premere l’acceleratore sulla linea indicata da Valori, arrivando a parlare di «caratterizzazione eversiva delle lotte» e di «salto rivoluzionario». Pino Ferraris solleva il problema di «un uso anche politico e non solo sindacale delle nuove forme di organizzazione sociale [...] al fine di costituire un movimento politico di massa radicato nelle fabbriche e staccato dalle istituzioni»88. Appare chiaro però che i caratteri e gli obiettivi concreti delle lotte sono ancora ben diversi da Nord a Sud. Giannattasio, segretario della federazione di Salerno, che pure parla di «una situazione   Ivi, p. 10.   Solo Mario Pesce, dirigente sindacale dei ferrovieri, ammonisce che abbandonare «la vecchia concezione degli obiettivi intermedi (intesi come riforme di struttura)» comporta «un salto assai pericoloso», e che è sbagliato generalizzare il discorso sulle strutture di contropotere senza che ve ne siano ancora «le condizioni oggettive» (Il Psiup per lo sviluppo cit., p. 55). 87   L’unica voce fuori dal coro in questo senso è quella di Andrea Margheri, il quale si chiede: «al movimento che esplode, agli operai e agli studenti in lotta che partito presentiamo? [...] Presentiamo un partito che mentre propone loro l’autogestione della lotta, la creazione di strumenti nuovi di democrazia, lo stesso discorso non lo fa al suo interno, rinnovandosi?» (ivi, p. 36). 88   Ivi, p. 31. 85 86

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esplosiva», in polemica non troppo implicita con Ferraris segnala il rischio «che l’avanguardia operaia del Nord se ne vada avanti per conto suo mentre le grandi masse popolari del Mezzogiorno d’Italia, proprio perché costrette a vivere nelle condizioni in cui vivono, rimangono indietro»89. È un rischio che avverte anche Vittorio Foa, il quale lancia un grido d’allarme molto chiaro: Se non assumiamo i dati dell’Italia povera e disgregata (non è una distinzione di classe, ma territoriale, settoriale, all’interno dei settori, e perfino nei sobborghi delle grandi città industriali del Nord), se non identifichiamo l’Italia povera e disgregata come un elemento decisivo del nostro processo di unificazione [...] noi condanniamo al corporativismo, al sezionalismo le lotte avanzate90.

Su questo, evidentemente, non può che entrare in gioco il ruolo di direzione politica che spetta al partito: ed è questo il tema al centro delle «osservazioni conclusive» di Vecchietti. Il segretario resta in sintonia con il clima generale del convegno e parla di un partito «immerso nel movimento», rivendicando il suo legame «con gli strumenti di autogoverno e di contropotere» che questo si deve dare; ma, quasi a compensare l’eccessivo sbilanciamento a sinistra di Valori, invita anche a «superare la sottovalutazione del partito nelle lotte, che ci ha chiuso nel movimento senza collegare le lotte stesse con obiettivi politici e di schieramento»91. Sotto il peso di questo dilemma obiettivamente difficile, dal quale finirà per essere schiacciato, il Psiup si avvia ad affrontare la stagione dei rinnovi contrattuali. 3. Il «secondo razzo» Non sarà qui necessario ritornare diffusamente sulla dinamica degli avvenimenti dell’autunno caldo. Basti ricordare, con lo storico inglese Robert Lumley, che le sue dimensioni «ne fanno il terzo movimento della storia quanto a numero di ore di lavoro perdute

  Ivi, p. 39.   Ivi, p. 40. 91   Ivi, pp. 59, 60. 89 90

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(dopo lo sciopero generale del maggio ’68 in Francia e quello generale del 1926 in Gran Bretagna). Gli operai italiani non si limitarono a scioperare in massa, ma sfidarono l’organizzazione del lavoro e il sistema dell’autorità all’interno della fabbrica, e in qualche caso si ribellarono al sistema stesso della fabbrica e alla sua influenza sulla loro vita»92. Già in estate i sindacati metalmeccanici hanno lanciato una «consultazione di massa» fra gli operai, a seguito della quale viene stesa la piattaforma rivendicativa: essa prevede in sintesi maggiore eguaglianza salariale, un’ampia riduzione dell’orario di lavoro e più diritti per i lavoratori in fabbrica. L’11 settembre si ha il primo sciopero dei metalmeccanici in tutta Italia. Nei giorni successivi si aprono le vertenze di altre categorie (chimici, edili, cementieri) e a fine mese entra in lotta anche il settore della gomma, la Pirelli in particolare. Il 25 settembre si riunisce la Commissione centrale del lavoro di massa del Psiup. Alla discussione, introdotta da una relazione di Biondi, intervengono soprattutto i rappresentanti della sinistra: tra gli altri Foa, Militello, Ferraris, Tirelli, Pupillo e Speciale. Nel documento preparatorio si sottolinea «il carattere eccezionale che il partito non può non conferire al proprio intervento [...] per utilizzare appieno tutte le possibilità offerte dall’estesa e concomitante mobilitazione dei lavoratori». Il giudizio sulla piattaforma rivendicativa dei sindacati è decisamente positivo. Il partito non deve però limitarsi al semplice sostegno delle lotte sindacali, ma «essere presente nello scontro con le proprie caratteristiche», per stimolare «la crescita politica e antagonistica dell’azione operaia» e favorire «la costruzione di strumenti di contropotere operaio e non solo di potere sindacale» a tutti i livelli della società. Ciò è tanto più importante in quanto è in atto «un tentativo della classe al potere», rivolto «contemporaneamente all’istituzionalizzazione del sindacato e alla ricerca di nuovi rapporti con l’opposizione comunista». «Estremamente pericolosa» è giudicata in questo quadro la posizione di Giorgio Amendola, che ha aperto alla possibilità dell’ingresso dei comunisti al governo93: e non «per l’attualità   R. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo cit., p. 157.   G. Amendola, Partito di governo, in «l’Unità», 21 agosto 1969. Il dirigente comunista ha affermato tra l’altro: «non soltanto non è possibile governare l’Italia contro i comunisti, ma non è possibile nemmeno governarla senza i co92 93

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scarsamente credibile» della soluzione che propone alla crisi del centro-sinistra, quanto «per l’indicazione precisa della direzione di marcia lungo la quale speditamente il Pci è invitato a muoversi incanalando in tal senso tutta l’azione della classe». «Mai prima di ora – commenta quasi indignato il documento – gli equivoci presenti nella ‘strategia delle riforme’ erano stati risolti con tanta spregiudicatezza»94. E mai, si può aggiungere, un documento sia pure interno di partito è arrivato a prendere tanto nettamente le distanze dal Pci, o quanto meno ad esprimere un giudizio così netto sulle posizioni che si confrontano al suo interno. Al Comitato centrale che si svolge dal 1° al 3 ottobre si manifesta però una certa marcia indietro di una leadership politica che, dopo il picco di movimentismo toccato con il convegno sulle lotte di massa, finisce, nel suo gruppo dirigente «storico», quasi per ritrarsi spaventata. Nella relazione introduttiva Vecchietti sottolinea che lo sbocco delle lotte non è né «automatico» né «a senso unico», e che gli esiti saranno positivi solo se la classe operaia saprà «controllare vittoriosamente le manovre politiche, e non soltanto economiche, che si preparano fin da ora per riassorbire e annullare le sue conquiste». Le forme nuove di lotta «non sono di per sé un toccasana, né immuni dal rischio del riassorbimento solo perché si danno obiettivi più avanzati»: dobbiamo opporci alle tendenze ad esaltare e promuovere l’autogestione delle lotte come forma spontanea, in opposizione al sindacato e al Partito. [Al contrario] è al sindacato e al Partito che spetta il compito di unificare queste lotte, al fine di una strategia di contestazione dello sviluppo capitalistico. [...] Se è vero che il Partito non può sequestrare la strategia della classe, è altrettanto vero che esso non può rinunciare alla funzione di egemonia politica che deve esercitare promuovendo il confronto all’interno del movimento. In altri termini, dobbiamo essere attenti ai risultati negativi che ha la ricorrente aggressione contro il Partito95.

munisti», aggiungendo che «il tempo a disposizione si riduce sempre di più». All’articolo replica subito un trafiletto di Piero Ardenti: A fare che?, in «Mondo Nuovo», 31 agosto 1969. 94   FIG, APSIUP, 1969, busta 4018, Documento di preparazione della Commissione centrale di massa, 25 settembre 1969. 95   Il Psiup sulle lotte, in «Rassegna socialista», ottobre-novembre 1969.

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Qui il bersaglio della polemica del segretario non è solo la sinistra extraparlamentare, ma pare includere anche gli elementi più radicali e «movimentisti» del suo stesso partito: e questa impostazione è ripresa non solo da Gatto, che ironizza sul «modo ‘nevrastenico’ di considerare le lotte, ad ogni stagione, la vigilia della rivoluzione, l’anno zero del movimento operaio, o l’occasione in cui si consumeranno tutti i tradimenti, quelli degli altri, s’intende»; ma anche da Menchinelli, da Ceravolo e da Ansanelli, il quale mette in guardia contro le «tentazioni integraliste che attribuiscono al partito non una funzione di rinnovamento unitario, ma di alternativa all’interno del movimento di classe». Ansanelli segnala pure «elementi di preoccupazione» («si aggrava drammaticamente la condizione civile e il processo inflazionistico avanza falcidiando il salario») che appaiono condivisi dalla maggior parte dei sindacalisti. Andriani invita a non nascondersi che «la possente spinta unitaria per il rinnovo dei contratti non ha ancora saldato il fronte degli occupati e dei disoccupati, non ha recuperato il movimento studentesco, mentre le lotte contadine assumono spesso carattere di rivolta episodica». E Vittorio Foa si chiede per quanto tempo il sindacato, «al massimo della sua forza e del suo prestigio politico», potrà farsi carico di «sempre più estese iniziative politiche, oggi per la casa, le tasse, l’assistenza malattia, e domani forse contro l’aumento dei prezzi, la fuga dei capitali e per una rigida salvaguardia degli investimenti e dell’occupazione»: «Una lotta politica è più che mai urgente. Con difficoltà, il sindacato cerca di farla: bisogna capire che non basta». Altre voci della sinistra declinano questa preoccupazione in modo anche più esplicito: così Indovina teme che se il sindacato assume «su di sé tutti gli elementi dello scontro» ci sarà il rischio «di soluzioni riformistiche e di integrazione» che segneranno un arretramento rispetto al livello delle lotte, e Miniati considera «non scongiurato il pericolo di una trattativa globale che riporti il discorso sulle compatibilità del sistema». In un intervento singolarmente difensivo, che apprezza la relazione di Vecchietti, Libertini si domanda comunque perché esista «un senso di disagio all’interno del partito», e prende le distanze dalle posizioni più movimentiste: «Non possiamo isolarci in un limbo di purezza: occorre invece porre in concreto alle altre forze politiche – Pci, Psi, cattolici in dissenso con la Dc – i temi ­­­­­218

di un’alternativa politica che sia omogenea con il movimento sociale»96. Il documento finale del Comitato centrale – approvato all’unanimità e questa volta senza nessun distinguo – torna a sostenere che le lotte in corso non sono solo salariali, ma hanno come posta in palio «il controllo e il potere operaio»: vanno decisamente respinte sia l’ipotesi di una sinistra al governo in un ruolo «subalterno al capitale», sia le «pericolose fughe in avanti, massimalistiche e velleitarie» promosse dai gruppi estremisti. «Il problema – chiosa Piero Ardenti – è quello di costruire l’alternativa dal basso»97. Malgrado si avverta nella ripetizione di queste formule qualcosa di rituale, non si può negare che il Psiup si sia impegnato a fondo in questo sforzo, e che le stesse differenze al suo interno siano passate in questa fase in secondo piano. Vecchietti, che non è certo un oratore tribunizio, si mette in gioco personalmente, con frequenti comizi all’interno delle più importanti fabbriche italiane: il 9 ottobre ne tiene uno alla Pirelli Bicocca a Milano98 e il 28 ottobre è in mattinata all’Olivetti di Ivrea e nel pomeriggio a Torino, davanti ai cancelli della Fiat Mirafiori99. Quando, dopo lo sciopero generale per la casa e i servizi indetto dai sindacati confederali il 19 novembre, si arriva alla stretta finale dell’autunno caldo, e sono firmati gli accordi dei sindacati metalmeccanici prima con l’Intersind e poi con la Confindustria, il Psiup può legittimamente rivendicare di aver dato un notevole contributo ai grandi risultati delle lotte contrattuali: forti aumenti salariali uguali per tutti, riduzione dell’orario di lavoro, potere di contrattazione articolata in fabbrica, diritto all’assemblea e all’elezione di delegati sui luoghi di lavoro100. Da allora «nulla fu più come prima nei rapporti tra operai e gerarchie aziendali, tra operai e sindacati, ma anche tra operai e operai»101. 96   Il dibattito al Comitato centrale del Psiup dell’1-3 ottobre è in «Mondo Nuovo», 12 ottobre 1969. 97   Alternativa dal basso (non firmato, ma di Piero Ardenti), ivi, 5 ottobre 1969. 98   La lotta dei lavoratori è la lotta del partito, ivi, 19 ottobre 1969. 99   Ivi, 9 novembre 1969. 100   M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), in L. Bertucelli, A. Pepe, M.L. Righi, Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008, pp. 146-147. 101   D. Giachetti, M. Scavino, La Fiat in mano agli operai cit., p. 131.

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Su tutto il territorio nazionale, in quegli intensi mesi di lotte sociali, il partito si è mosso cercando di capitalizzare l’attivismo e la vera e propria abnegazione dei militanti per accrescere il proprio ruolo nella politica italiana. Eppure, già un anno prima della conclusione dell’autunno caldo, quando questo sforzo è ormai in atto da mesi, uno dei dirigenti sindacali più capaci e autorevoli del partito, Elio Giovannini, si è rivolto ai delegati del congresso di Napoli esprimendo una sensazione destinata a rivelarsi profetica: Compagni, io ho l’impressione che la discussione di questo nostro Congresso si svolga in una, almeno apparente, contraddizione. La contraddizione nasce dal fatto che il Psiup, a distanza di quattro anni, vince la sua scommessa storica del ’64, quella che ipotizzava, in un contesto politico estremamente deteriorato, che il quadro sociale del paese, il quadro del movimento fosse più avanti della sua rappresentanza politica e parlamentare. Nello stesso momento in cui il Psiup vince questa scommessa storica, mentre i fatti ci danno ragione, appare evidente una certa difficoltà del partito ad accendere il secondo razzo, ad affrontare in termini di egemonia politica reale il rapporto con l’insieme delle forze che sono andate crescendo e sviluppandosi in questi anni nel nostro paese [...] noi dobbiamo fare uno sforzo per uscire da questa contraddizione che potrebbe diventare pericolosa se rimanesse aperta a lungo nella vita del partito102.

Malgrado tutto, nell’autunno caldo del 1969 il «secondo razzo» non si accende. Ai primi di luglio, in una riunione della Direzione del Pci Pietro Ingrao osserva: «la situazione spinge ad accelerare i tempi [ma] bisogna riconoscere che il Psiup non sta sprigionando tutto ciò che potrebbe sprigionare»103. Il 12 novembre si riunisce in via della Vite la Commissione centrale di organizzazione, che ascolta una relazione di Vincenzo Ansanelli104. Ne esce un lungo documento che, pur manifestando grande apprezzamento per i risultati conseguiti con le lotte del 1968-69, quando passa ad esaminare «i problemi del partito» traccia un quadro non incoraggiante:   Psiup, 2° Congresso Nazionale cit., p. 417.   FIG, APC, Direzione del 7 luglio 1969. 104   Ruolo e problemi del partito nell’attuale fase di lotta, in «Rassegna socialista», dicembre 1969, pp. 7-18. 102 103

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Il partito soffre di un accentuato squilibrio fra il livello politico e il livello organizzativo [...], registra notevoli difficoltà ad espandersi nel tesseramento; non è adeguatamente presente con la sua organizzazione nelle fabbriche [...] Le organizzazioni di base esistenti del partito, cioè le sezioni e i nuclei territoriali e i nuclei di fabbrica non esprimono una sufficiente iniziativa politica, non hanno vita politica, e spesso anche organizzativa, autonoma. Vi è un forte scadimento dell’impegno di base e sovente le sezioni sono tagliate fuori dall’elaborazione e dall’iniziativa del partito105.

I dati sul tesseramento aggiornati all’autunno del 1969 confermano questo panorama molto grigio: rispetto al 1968, gli iscritti non sono aumentati, anzi, sembrano diminuiti di circa il 5%106. Fatto anche più significativo, le federazioni delle province di più intensa conflittualità sociale fanno registrare, con l’eccezione di Venezia e Pisa (rispettivamente 205 e 94 iscritti in più), incrementi modestissimi (13 iscritti in più a Torino, 88 a Milano) o addirittura netti cali (208 iscritti in meno a Brescia). In generale, sensibile è la caduta degli iscritti in tutta l’Italia centrale salvo che in Toscana, in tutto il Mezzogiorno e nelle isole: in queste aree evidentemente il reclutamento attuato nelle situazioni di lotta non basta assolutamente a compensare l’erosione della base «massimalista» storica (per ragioni anagrafiche, per lo spopolamento delle zone mezzadrili, ma anche, come vedremo, per l’implosione del Psu). È probabilmente per questa ragione che la citata relazione di Ansanelli liquida abbastanza sbrigativamente la centralità della fabbrica come perno dell’organizzazione del partito (su cui tanto si è scommesso a partire dal 1966), e propone il ritorno alle forme più tradizionali e collaudate: «Lo strumento portante di un nuovo   FIG, APSIUP, 1969, busta 4017, Sezione organizzazione.   Dalle carte conservate nell’Archivio del partito, Sezione organizzazione, emergono dati di non semplice interpretazione: un prospetto che reca il titolo Tesseramento 1969 – Dati definitivi (confronto con il 1968 e il 1964) riferisce numeri nettamente inferiori a quelli forniti rispettivamente al I e al II Congresso: gli iscritti nel 1969 sarebbero ammontati a 117.450, di contro ai 122.409 del 1968 e ai 126.576 del 1964 (busta 4017). È possibile che ci si riferisca alle tessere riconsegnate, che sono sempre in numero nettamente inferiore a quelle richieste dalle federazioni e ad esse distribuite. In ogni caso sembra che ci si trovi di fronte a una flessione non solo rispetto all’anno precedente, ma persino rispetto all’anno di fondazione del partito. 105 106

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rapporto democratico con la classe è la sezione, ed attorno ad essa dobbiamo operare lo sforzo maggiore per rendere operativo il collegamento di massa»107. Le ragioni di questo sostanziale e certamente imprevisto flop del tesseramento sono di ordine molto diverso, e devono essere esaminate singolarmente. Da una parte, la capacità dei sindacati di riprendere abbastanza rapidamente il controllo e la guida delle lotte per i contratti mette il Psiup in difficoltà, anche rispetto al Pci. Come è stato osservato, quest’ultimo ha compiuto, rispetto all’esplosione dei movimenti del 1968-69, un «temporaneo ma netto ‘passo indietro’ dal sociale» e, al contrario del sindacato, non ha privilegiato la «mobilitazione competitiva», ossia «la via della competizione diretta con le nuove identità politiche all’interno dei movimenti stessi, sul piano della capacità di estendere e di radicalizzare la protesta sociale»108. Il Psiup, invece, ha optato per la scelta opposta: ma non ha né la cultura politica adatta, né le risorse di militanza, per un certo periodo illimitate, dei gruppi di estrema sinistra. Il timore che il sindacato possa cedere alla tentazione di barattare i grossi successi che sembra in grado di ottenere sul piano economico e normativo con l’accettazione di una propria «istituzionalizzazione» subalterna è forte nel partito: la lettura che esso dà fin dall’inizio, a livello sia centrale sia periferico, dello Statuto dei diritti dei lavoratori che il governo aveva messo in cantiere, è e rimane dominata da una preoccupazione molto viva, come dimostra un durissimo trafiletto di «Mondo Nuovo» che così ne riassume gli intenti: Voi volete più libertà e più dignità in fabbrica? Bene, noi ve la concediamo (in parte); in cambio però voi acconsentite che il sindacato da organizzazione autonoma di classe dei lavoratori si trasformi in una istituzione ausiliaria del sistema109.

  FIG, APSIUP, 1969, busta 4017, Sezione organizzazione.   M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico cit., pp. 463-464. 109   A livello locale, cfr. il ciclostilato della federazione torinese Appunti per una discussione sullo statuto dei diritti dei lavoratori (marzo 1969): «è profondamente diseducativa per le masse una propaganda dei ‘progetti di legge della sinistra’ che possa far credere ai lavoratori che quello che non riescono a conquistarsi nella lotta in fabbrica può venire strappato con un’iniziativa del Parlamento» (IGP, Carte Giachino, busta 4, fasc. 6). 107 108

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Man mano che le lotte contrattuali si avvicinano alla conclusione, e con esiti nel complesso molto positivi, per il Psiup e per la sua stessa componente di sinistra gli scenari appaiono sempre più difficili da decifrare. Il problema del rapporto fra partito e sindacato, in una fase in cui il ruolo del primo sembra oscurato dal protagonismo del secondo, assilla il partito di via della Vite in modo sempre più pressante, come emerge bene da un lungo dibattito che «Mondo Nuovo» promuove fra la fine d’ottobre e la metà di novembre110, sottoponendo ad una serie di politici e sindacalisti tre domande di Alberto Asor Rosa. Il primo intervento ospitato dal settimanale è quello di Giorgio Amendola, che si muove in una prospettiva molto lontana da quella del Psiup: Un partito politico della classe operaia è necessariamente un ‘partito di governo’ [...] perché è la funzione propria del partito politico della classe operaia quella di promuovere ed organizzare la lotta delle classi lavoratrici per salire alla direzione dello Stato, ed aprire così la via ad un’avanzata democratica al socialismo;

il leader comunista aggiunge un concetto che per il Psiup di allora equivale a uno straccio rosso agitato di fronte a un toro: «Le lotte operaie in corso pongono problemi di carattere politico generale, in ultima analisi quella politica di programmazione democratica che corrisponde alle rivendicazioni del movimento operaio, e che esige, per una sua piena attuazione, una svolta politica generale». Ribatte Vittorio Foa: Non dobbiamo farci alcuna illusione. Una lotta politica condotta dal sindacato sull’onda di un grande movimento rivendicativo può anche assumere dimensioni importanti, ma è destinata a riassorbirsi, o almeno a ridimensionarsi, non appena finisca la lotta rivendicativa. [...] Il processo unitario del sindacato in lotta può avere un’influenza sul processo politico solo se [...] il sindacato diverrà sempre di più organizzazione attiva dell’autonomia operaia, cioè forza di sollecitazione e promozione di strumenti unitari della classe a tutti i livelli, a partire dalla base, dal luogo di produzione. 110   Partito e sindacato, in «Mondo Nuovo», 26 ottobre, 9 e 16 novembre 1969. Degli interventi citati, quelli di Amendola, Foa e Libertini sono del 26 ottobre, quello di Alasia del 9 novembre.

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Per Foa, e per quadri a lui molto vicini, quel tipo di trasformazione del sindacato non è scontato ma sembra possibile: «se si guarda al processo di unità che matura tra le masse operaie, si vedrà che è fortemente presente una motivazione politica dell’unità sindacale, dell’unità concepita e voluta come netta riaffermazione del ruolo classista del sindacato», sostiene Gianni Alasia, della segreteria della Camera del Lavoro di Torino. Libertini, invece, che nello stesso processo unitario ha sempre visto i rischi di un’integrazione del sindacato in chiave «apolitica» e «tradunionista», appare più scettico: Il momento della verità si avrà nella fase conclusiva delle lotte sindacali per i contratti e l’essenziale è rinchiuso in questa proposizione: il sindacato, se riesce ad avere un buon contratto, lo avrà in cambio di una riduzione delle forme di potere operaio in fabbrica, o lo avrà in collegamento con la crescita di esse? [...] Il nodo da sciogliere, per tutti i militanti sindacali e politici, riguarda il rapporto tra il movimento, i suoi contenuti, gli sbocchi politici: alternativa o ingresso nell’area governativa, azione miglioritaria [sic] nel quadro istituzionale del profitto o battaglia contro il profitto, strategia delle riforme o strategia dei contropoteri.

Da questo dilemma il Psiup finisce per essere paralizzato nella sua azione politica: una parte della sua base più attiva, invece di assorbire ed egemonizzare i quadri operai e studenteschi emersi dalle lotte, come si era proposta, è in realtà assorbita dal movimento stesso e si scioglie in pratica in esso. Non pochi dei militanti più giovani, di estrazione studentesca, aderiscono alle nuove organizzazioni estremiste e rivoluzionarie in quel momento in pieno sviluppo (soprattutto Lotta Continua e Avanguardia Operaia, ma anche il gruppo del Manifesto, che proprio nel novembre del 1969 viene radiato dal Pci e si costituirà in formazione politica autonoma111). Quelli che non percorrono questa strada, non si 111   Sulla vicenda cfr. A. Garzia, Da Natta a Natta. Storia del Manifesto e del Pdup, Dedalo, Bari 1985. Le posizioni del Psiup nei confronti di quello che viene definito «il gruppo Pintor-Natoli-Rossanda» sono estremamente prudenti. Il 29 giugno, quando esce il primo numero del «manifesto», il commento di «Mondo Nuovo» non è sfavorevole, cogliendo nelle sue tematiche «elementi di discussione interessanti e stimolanti»: giudizio sostanzialmente confermato in

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sentono e non possono mettersi in competizione con i sindacati – se non altro perché i militanti psiuppini più attivi nelle lotte sono in genere quadri sindacali, noti per la loro lealtà all’organizzazione: Bruno Trentin ha ricordato in proposito che essi «costituivano una delle anime più creative, ma anche più unitarie, del sindacalismo confederale e, in particolare, della Cgil»112. Così molti quadri operai, a partire dall’autunno caldo, si dedicano sempre più al sindacato e sempre meno al partito. In sintesi, il Psiup, «che ambiva a svolgere un ruolo di avanguardia nell’ambito della ‘sinistra storica’ italiana proprio sul tema dei rapporti col movimento, si ritrovò invece alla retroguardia del movimento stesso e con scarse possibilità di influenzarlo»113. E il gruppo dirigente «storico» del partito, che a costo di appropriarsi di tematiche e parole d’ordine della sinistra non ne aveva perso il controllo nemmeno nei mesi più caldi, non ha la capacità né probabilmente la voglia di invertire questo corso. A sua volta la minoranza non ha la forza, né forse la necessaria convinzione, per imporre nel 1968-69 un vero rinnovamento interno. «Da parte nostra – ricorderà Pino Ferraris molti anni dopo – si puntava a far evolvere gli equilibri del partito per vie interne mediante un nuovo rapporto tra periferia e centro, tra movimenti di lotta ed organizzazione del partito»114. L’idea è quella di rinnovare il Psiup immettendovi nuovi quadri provenienti dai movimenti e di far leva su questi per smuovere gli equilibri consolidati: ma il tentativo si scontra con la pesantezza di un apparato elefantiaco e con la paura del gruppo dirigente del Psiup di perdere il proprio potere interno. Forse la testimonianza di Ferraris esagera un po’ quando afferma che «paradossalmente più al partito si aprivano opportunità e più il gruppo di Vecchietti, Valori e Gatto era preso

un trafiletto del 3 agosto, Unità e dibattito. Ma nel numero del 2 novembre l’aria è cambiata: a riprova che nel partito esistono posizioni molto diverse, l’affermazione di un trafiletto redazionale («Noi abbiamo larghi motivi di dissenso con prese di posizione emerse nei primi numeri della rivista») provoca sul numero del 16 novembre una domanda polemica di Elio Giovannini: «Chi sono i noi del soggetto?». 112   B. Trentin, G. Liguori, Autunno caldo cit., p. 88. 113   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 468. 114   P. Ferraris, relazione introduttiva al convegno Guido Biondi. Un uomo, un’idea cit.

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dal panico»115, ma indubbiamente coglie un aspetto importante della realtà. Naturalmente, non si deve dimenticare che il clima generale è profondamente mutato con la strage di piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969. Non importa che il Psiup legga immediatamente quella tragedia come «criminale manovra contro il movimento operaio» e, fra i partiti storici della sinistra italiana, sia quello fin dall’inizio meno convinto della «pista anarchica»116: resta il fatto che quell’evento, unanimemente ritenuto periodizzante nella storia della Repubblica, e specificamente in quella dei movimenti collettivi di protesta117, incide in modo più sensibile su un soggetto «debole» come il Psiup, una parte importante del quale ha puntato tutto o quasi tutto su quella stagione, ed è riuscita per un certo periodo – i mesi centrali del 1969 – a orientare l’intero partito in direzione della strategia dei «contropoteri». Decretando di fatto la fine della fase più alta di quella stagione, piazza Fontana induce la maggioranza storica del Psiup a ricompattarsi su ipotesi più congeniali alla sua cultura politica, frontiste e difensive, e quindi a rinsaldare il legame con il Pci anche in nome della minaccia, che si avverte concreta, alle fondamenta alla democrazia repubblicana. Sul terreno più propriamente politico un altro avvenimento ha segnato quell’«area socialista»118 alla quale il Psiup nonostante tutto, e nelle sue componenti più diverse, ha continuato a rivendicare la propria appartenenza. Il 4 luglio un agitato Comitato centrale del Psu ha posto fine alla breve storia dell’«unificazione socialista». La nuova scissione riporta le due componenti del Psi   Ibid.   A. Nobile, Il no di Milano al ricatto della paura, in «Mondo Nuovo», 21 dicembre 1969. Nei mesi precedenti il settimanale del Psiup denuncia spesso il pericolo di trame destabilizzatrici della democrazia, additando nel colpo di Stato greco del 21 aprile 1967 un precedente a cui alcuni settori delle classi dirigenti guardano con interesse. 117   Cfr. la riflessione approfondita e partecipe di G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979, Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009. 118   Il termine «area socialista» viene reintrodotto nel dibattito interno al Psiup da Giulio Scarrone poco dopo le elezioni politiche del 1968: Il Paese al bivio, in «Mondo Nuovo», 9 giugno 1968, e La funzione unitaria dell’area socialista, ivi, 30 giugno 1968. 115 116

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e del Psdi alla condizione di due partiti divisi e abbastanza lontani politicamente. Il Psi, guidato da Francesco De Martino, guarda ora decisamente più a sinistra, nella prospettiva di «equilibri più avanzati», cioè di una formula di governo che faccia cadere la delimitazione della maggioranza ai danni del Pci119. Ma il partito di via della Vite reagisce alla nuova situazione quasi distrattamente e con sufficienza: non manca di rilevarlo Luigi Longo già nella primavera del 1969, quando le crescenti tensioni interne al Psu lasciano presagire la sua fine: «mentre c’è questa crisi del Psi, il Psiup, che avrebbe dovuto essere al centro, è quasi scomparso»120. E appena consumatasi la nuova scissione, la Direzione psiuppina si limita a un appello generico per «una nuova unità a sinistra»121, mentre la relazione di Vecchietti alla riunione del Comitato centrale del 16-17 luglio si mostra piuttosto scettica rispetto alla politica di De Martino, rimproverandogli di vedere il superamento del centrosinistra «come un’operazione più o meno indolore piuttosto che un’alternativa, un’operazione di riequilibrio al vertice invece di una nuova scelta politica su problemi qualificanti»122. Gli interventi nel dibattito per lo più si compiacciono della conferma che la scissione offre del «fallimento storico» del centro-sinistra o del riformismo tout court e solo quello di Maffioletti richiama il partito a «compiti nuovi di iniziativa politica, senza attese o rinvii alle scadenze di lotta dell’autunno», che non possono essere «né mitizzate, né viste al di fuori di una concreta prospettiva politi-

119   Sulle vicende della scissione del Psu del luglio 1969 cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del Psi cit., pp. 393-396, e F. De Martino, Un’epoca del socialismo, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 334-357. 120   FIG, APC, Direzione del 29 maggio 1969. Le critiche si fanno anche più nette nella Direzione del 7 luglio, quando a lamentare l’inerzia del Psiup sono sia Ingrao che Lama. 121   Alla scissione socialdemocratica opponiamo una nuova unità a sinistra (comunicato della direzione Psiup dell’8 luglio), in «Mondo Nuovo», 13 luglio 1969. In un editoriale pubblicato sullo stesso numero, Al di là della crisi, Vecchietti afferma che sono «ugualmente errati una aprioristica diffidenza, come un semplicistico abbraccio al Psi», ma si mostra molto più incline alla prima che al secondo. 122   La decisione del Psi di sostenere dall’esterno la nuova edizione del governo Rumor, formatosi in sostituzione del precedente dopo una crisi brevissima resa inevitabile dalla scissione, porta ovviamente acqua al mulino delle argomentazioni di Vecchietti.

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ca». Il documento approvato alla fine della riunione afferma che nel Psi «nulla sarebbe rimasto com’era prima», ma di nuovo non va oltre l’auspicio dell’«unità a sinistra quale sbocco politico del movimento dei lavoratori»123. È più che probabile che il nucleo più attivo del partito, quello che si sta spendendo senza risparmio nelle lotte in corso, sia abbastanza insensibile alla nuova dinamica politica, e che l’immobilismo del gruppo dirigente lo lasci indifferente: ma una parte non piccola della base «storica» della sinistra socialista, e ancora più di quei militanti che, delusi dall’unificazione e dai suoi effetti, si erano avvicinati al Psiup negli anni 1966-69, è sensibile al fascino del ritorno alla «vecchia casa»124. Accade così che proprio tra l’estate e l’autunno del 1969, in un momento in cui può sembrare che il Psiup tocchi l’apice delle sue fortune, nel singolare impasto di cui è fatta la sua fibra – un’anima «vetero-socialista» a suo modo profondamente radicata nel territorio, e una galassia instabile di intellettuali marxisti, studenti, giovani operai protagonisti delle lotte – si aprano le prime brecce. Si creano le premesse della crisi di un’idea di partito che, incubata già prima del 1964, ha ricevuto dal successo elettorale del 1968 una ventata di entusiasmo rigenerante ma effimero: «un partito radicale nella fraseologia, altamente ideologizzato, rivoluzionario alla base ma burocratico e mediatore (dunque sostanzialmente riformista) ai vertici, un partito – il Psiup – che si rivelerà negli anni 1970-72 essere in sostanza ‘né carne né pesce’»125.

123   La relazione del segretario, gli interventi nella discussione e il documento finale sono in «Mondo Nuovo», 27 luglio 1969. 124   «Mondo Nuovo» segue la crisi del Psu con articoli sempre molto duri, sprezzanti. Ma colpisce che le uscite dal partito che vengono frequentemente riportate non corrispondano più, salvo rarissimi casi, a ingressi nel Psiup. 125   M. Condò, Per una storia del Psiup cit., p. 473.

Capitolo sesto

Il declino, lo scioglimento, l’eredità

1. Segnali di crisi e battaglie di principio La stagione dei conflitti di lavoro non si esaurisce con la firma degli accordi siglati da Confindustria e Confagricoltura alla fine del 1969: restano aperte numerose vertenze contrattuali nel settore dei servizi, che comportano momenti di scontro anche duri. Ma lo slancio delle lotte, inevitabilmente, si va attenuando, e soprattutto sempre più incanalando in forme istituzionalizzate sotto la direzione dei sindacati1. La promulgazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, nel maggio del 1970, costituisce per molti aspetti il sigillo di chiusura della fase più acuta delle lotte; ed è un documento al quale, come si è visto, il Psiup guarda molto più con diffidenza che con soddisfazione2. Ripercorrendola a posteriori, si avverte nella vicenda del partito  qualcosa di simile al fenomeno di un motore che perde giri. Apparentemente, la stagione delle lotte ne ha confermato la vitalità e ha convalidato alcune delle sue ipotesi politiche: ma c’è qualcosa di inerziale nella continuazione della sua corsa. «Mondo Nuovo» per tutto il 1970 conserva in buona parte i suoi caratteri di tribuna   M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta cit., pp. 148 sgg.   Nel voto in Parlamento il Psiup si astiene, al pari del Pci, ma non è un mistero che molti sindacalisti del Psiup, a cominciare da Foa, fossero contrari. Illuminante è l’intervista di F. Bertinotti ad A. Ricciardi, Il socialismo italiano negli anni sessanta. Tra alternativa, riforme e governabilità, in «Il Ponte», aprile 2009. 1 2

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vivace, di osservatore attento della realtà internazionale e di impla­ cabile  fustigatore delle distorsioni dello sviluppo non governato della società italiana, oltre che di precoce interprete delle tendenze degenerative che settori dell’apparato dello Stato mostrano di fronte allo scossone impresso agli equilibri sociali dal «secondo biennio rosso». Ma, a guardare sotto la superficie, è come se la stagione migliore del giornale si sia congelata nella ripetizione di alcuni canoni prefissati. Nell’analisi della situazione internazionale continuano a predominare un combattivo antimperialismo e uno spiccato antiamericanismo, entrambi alimentati dagli sviluppi drammatici della crisi in Medio Oriente, nella quale il Psiup si schiera con decisione dalla parte palestinese, anche se giudica politicamente sterili e controproducenti le esplosioni di terrorismo. Con il passare dei mesi si fa più critico il giudizio sull’involuzione della situazione cecoslovacca (anche ai delegati del Psiup, al congresso del partito guidato da Husák, non viene concesso di leggere il proprio messaggio dalla tribuna), ma non se ne trae nessuna conseguenza per spingere più a fondo la critica al sistema del «socialismo realizzato» negli altri paesi, Urss compresa, e continuano a uscire reportage di viaggi improntati a una visione positiva del suo sviluppo, del quale pure non si negano «limiti e contraddizioni». Le cronache culturali del settimanale, gradualmente ridimensionate soprattutto dopo che esso cambia di nuovo formato nel marzo 1970, mantengono il loro aristocratico e tagliente sguardo del mondo, si tratti delle critiche cinematografiche, teatrali o televisive. Ma si avverte in generale una perdita di slancio: è lo specchio di un partito un po’ stanco dopo il grande sforzo di acquistare visibilità compiuto nel biennio precedente. Quando il Psiup riunisce il suo Comitato centrale per la prima volta dopo l’autunno caldo, il 10 gennaio 1970, il clima è già cambiato anche al suo interno. Certe punte estreme nella partecipazione alle lotte autunnali vengono criticate perfino in federazioni di sinistra come quella di Torino: il segretario regionale Giovana loda «lo sforzo di liquidare alcune inclinazioni [del partito] a rinchiudersi in sé stesso, a disperdersi in astratte elucubrazioni di taglio minoritario»3: è trasparente la critica della direzione di

3   M. Giovana, Piemonte: le lotte, il partito e le prospettive di classe, in «Mondo Nuovo», 25 gennaio 1970.

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Pino Ferraris. Si percepisce la sensazione che la grande spallata al sistema che ci si attendeva dalle lotte non abbia avuto l’effetto che si sperava. I risultati della stagione contrattuale che si sta concludendo, certo, sono valutati dalla relazione di Vecchietti in termini positivi, come «uno spostamento di rapporti di forze a favore delle classi lavoratrici»: e c’è un apprezzamento degli «strumenti unitari nuovi» e delle «forme di potere operaio» che si sono consolidati4. Ma, per il segretario, «l’iniziativa politica deve passare necessariamente ai partiti, perché sarebbe assurdo supporre che la nuova situazione possa essere affrontata ancora sotto il segno sindacale». Libertini, invece, lamenta che «la sinistra nel suo insieme» non abbia costruito «uno sbocco politico [...] delle lotte», e addebita questa mancanza alla «linea erronea» – attribuita evidentemente ai comunisti – «mirante all’incontro con la Dc», che il partito ha contrastato debolmente e in ritardo. Il «rilancio forte e di vasto respiro del movimento di controllo operaio e di autogestione della società» che pone al centro dell’iniziativa del partito resta però un obiettivo piuttosto astratto, di cui egli stesso pare poco convinto. In un quadro politico generale che appare incerto, il Psiup, messo di fronte ai risultati di una campagna di tesseramento non entusiasmante che ne conferma le difficoltà a fare un salto in avanti, esita a riaprire i contrasti al proprio interno e cerca di riguadagnare l’iniziativa politica su un altro terreno. Dopo il 12 dicembre, si è intensificata, con decine di fermi di polizia e centinaia di perquisizioni, un’azione repressiva contro le forze più attive dei movimenti che, indirizzata inizialmente verso i gruppi anarchici ed estremisti, si è estesa ai militanti, ai sindacalisti e ai lavoratori protagonisti delle lotte d’autunno, e il partito e i suoi quadri sono stati fra i primi a farne le spese5. La relazione di Vec4   La relazione di Vecchietti e gli interventi al Comitato centrale del 10 gennaio ivi, 18 gennaio 1970. 5   Nell’arco di pochi mesi si susseguono la condanna di Gianfranco Tolin, direttore di «Potere operaio», a 17 mesi di reclusione; la denuncia dell’intero direttivo genovese del partito marxista-leninista; la denuncia di Piergiorgio Bellocchio, direttore dei «Quaderni Piacentini» e di «Lotta continua»; la denuncia di Feltrinelli per istigazione a delinquere; la condanna in appello di Achille Occhetto a Firenze a un anno di reclusione per vilipendio delle forze armate. Per un quadro generale vedi 14.000 denunce. Chi, dove, quando, come, perché, ivi, 15 marzo 1970.

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chietti al Comitato centrale esprime tutta la preoccupazione del partito di fronte a «questa violenza formalmente legale ma anche illegale [...] esercitata per sollecitazione anche delle massime autorità dello Stato». Con un atto di sfida il Comitato centrale decide di autodenunciarsi pubblicamente e collettivamente in segno di «protesta contro la repressione»: «Se la lotta di classe e la propaganda e l’incitamento all’azione politica per il rovesciamento degli attuali rapporti di classe sono considerati reati – afferma la risoluzione del 10 gennaio – il Psiup ne è solidalmente corresponsabile; anzi ne è promotore». Si chiede di conseguenza di «procedere penalmente» anche contro tutti i membri del Comitato centrale che la sottoscrivono, aggiungendo che «quanti di essi appartengono al Parlamento, se incriminati, chiederanno l’autorizzazione a procedere, rinunciando all’immunità»6. È il sussulto d’orgoglio di un partito che si sente in difficoltà ma ancora ben vivo, e che nelle già richiamate conferenze interregionali di febbraio tiene a confermarsi protagonista di un movimento sociale non ancora esaurito. Ma c’è più di un segnale che il clima complessivo sta cambiando. Come è stato notato, tra il 1968 e il 1971 matura nel quadro politico italiano un cambiamento importante: «prendeva forma [...] un sistema di camere di compensazione in cui la conventio ad excludendum dei comunisti o non veniva esercitata affatto, come era il caso dell’ambito sindacale, o funzionava solo parzialmente, come avveniva negli enti locali e nel parlamento, rimanendo canone esclusivo soltanto riguardo all’accesso al governo nazionale»7. In questo processo, i primi mesi del 1970 sono particolarmente importanti: prima con la definitiva approvazione dello Statuto dei lavoratori, poi con le elezioni che coronano l’attuazione dell’ordinamento regionale e che permetteranno ai comunisti di formare giunte con il Psi in Emilia, in Toscana, nelle Marche e in Umbria8.

6   Siamo colpevoli del reato di lotta di classe, ivi, 18 gennaio 1970. Il gesto clamoroso dell’autodenuncia viene accompagnato da iniziative del Psiup sia al Senato sia alla Camera, miranti alla riforma del codice penale e all’abolizione di tutta una serie di articoli: vedi «Mondo Nuovo», 18 e 25 gennaio 1970. 7   P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., pp. 439-440. 8   F. De Martino, Un’epoca del socialismo cit., pp. 346-347. Il Psiup fa parte di queste giunte con propri assessori.

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Nel Psiup la consapevolezza di questo mutamento si fa strada abbastanza presto, e non tarda a rinfocolare le divisioni interne. Il gruppo dirigente torna a rilanciare, nella fase di interminabili trattative per la costituzione di un nuovo governo quadripartito che si apre dopo le dimissioni di Rumor il 7 febbraio, «la forza di un nuovo schieramento politico che nasce dall’unità del movimento operaio con le forze liberate dalla crisi dell’interclassismo cattolico e socialdemocratico»9, e per la prima volta assume nei confronti del Psi un atteggiamento più dialogante, premendo per un suo ritorno all’opposizione10. Ma alla sinistra del partito questo rientro nella routine del «fare politica» va stretto, e non lo nasconde. Paradossalmente, è proprio l’insofferenza per l’attivismo, sentito come concorrenziale, della pattuglia dei deputati del Manifesto – che in febbraio ha lanciato un appello alle sinistre di Pci e Psiup «per la formazione di una nuova sinistra rivoluzionaria»11 – che la induce a riprendere l’iniziativa. In marzo Libertini bolla come «oggi deleteria, controproducente, la tendenza al ‘terzo partito’», ma indica in modo netto le linee del «dibattito tra strategie diverse» che si è aperto «nell’arco complessivo del movimento operaio italiano»: da una parte «controllo operaio, contropoteri, strategia del potere, attualità del socialismo, alternativa alla Dc e al padronato, impegno per il rovesciamento dello Stato capitalistico»; dall’altra, «programmazione democratica, nuova maggioranza, incontro-scontro con la Dc, autolimitazione nel quadro costituzionale»12. La relazione di Vecchietti al Comitato centrale di aprile, quando la crisi di governo sembra risolta con la costituzione di un   «Mondo Nuovo», 12 aprile 1970.   D. Valori, La sinistra, il Psi e il governo, in «Mondo Nuovo», 25 gennaio 1970; ivi anche la lettera Il Psiup al Psi. 11   Un inizio ma subito, in «il manifesto», febbraio 1970, n. 2. 12   Sinistra, unità e alternativa, in «Mondo Nuovo», 22 marzo 1970. Ma anche nella sinistra del Psiup le posizioni si vanno differenziando e ne emergono alcune nettamente più radicali di quella di Libertini. In maggio, nel vivo di una nuova polemica seguita alla pubblicazione dell’articolo di Lucio Magri e Rossana Rossanda, Sacralità e crisi del Psiup («il manifesto», 1970, n. 5), Guido Biondi non esita ad affermare che «le lotte recenti hanno posto in luce prepotentemente la necessità del partito rivoluzionario della classe operaia e di un’estesa rete di poteri non sindacali ma direttamente politici» (Partito, sindacato e movimento, in «Mondo Nuovo», 13 maggio 1970). 9

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nuovo gabinetto Rumor e l’ingresso in esso del Psi, si muove in tutt’altra direzione, e soprattutto manifesta quasi un senso di rassegnata impotenza, rifugiandosi nelle formulazioni più generiche. Sui problemi internazionali, poi, esprime sulla Cecoslovacchia – dove la «normalizzazione» di Husák procede ormai senza alcuna remora – una posizione ambigua e compromissoria: «commetteremmo un errore di fondo se ci ergessimo a giudici esterni di un mondo del quale siamo partecipi e col quale dobbiamo essere complessivamente solidali»13. Apparentemente, è soprattutto su questo punto che si rompe la tregua interna degli ultimi mesi, con dure prese di posizione, tra le altre, di Giovana, Indovina, Ferraris e Libertini: ma gli attacchi della sinistra alla Direzione (dalla quale sono nel frattempo usciti Vittoria Foa e Gino Guerra, in osservanza delle norme sull’incompatibilità fra cariche politiche e cariche sindacali) investono in realtà tutta la linea politica del partito. Quello più diretto viene dal segretario della federazione torinese, Pino Ferraris: È amaro constatare che proprio quando la strategia dei contropoteri incomincia a vivere dentro esperienze [quali] i consigli dei delegati, i comitati di base nei quartieri e nelle scuole, ecc., e diventa terreno concreto di attività pratica e di precisa battaglia politica, il nostro impegno operativo politico e culturale su questi temi, che sono i nostri, viene invece a diminuire.

L’imminenza delle elezioni regionali induce comunque sia la maggioranza sia l’opposizione a non approfondire troppo lo scontro, e dal Comitato centrale escono indicazioni che cercano di tenere insieme «lo sviluppo del movimento di massa attraverso il consolidamento e l’estensione dei nuovi strumenti unitari e di base» e «la costruzione di uno schieramento unitario delle forze della sinistra socialista, comunista e cattolica»14. Ma la prova elettorale del 7 giugno 1970 ha per il partito un esito tanto più deludente quanto più inaspettato. Il Psiup ottiene il 3,2% (meno di un milione di voti) e in pratica perde un terzo dei suoi consensi 13   La relazione di Vecchietti e gli interventi del Comitato centrale del 3-4 aprile sono ivi, 12 aprile 1970. 14   Radicale e irriducibile opposizione al nuovo governo, ibid.

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rispetto alle politiche del 196815. La sconfitta è resa ancor più evidente dai risultati degli altri partiti: a una sostanziale tenuta di Dc e Pci (rispettivamente al 37,9% e al 27,9%) corrisponde un buon recupero del Psi (10,4%) e anche dell’ala socialdemocratica che, ancora denominata Psu, ottiene il 7% dei voti. È dunque chiaro che il Psiup paga la disaffezione nei suoi confronti dell’elettorato tradizionalmente socialista, senza guadagnare nulla a sinistra, né dal Pci né dai gruppi estremisti16. Il partito riconosce immediatamente la sconfitta (definendola «una battuta d’arresto»17), ma ciò non lo aiuta a evitare una lunga crisi, che sarà fatale alla sua stessa sopravvivenza. All’esito elettorale è dedicato un lunghissimo ed aspro dibattito al Comitato centrale del partito, che si protrae per oltre una settimana, dal 24 al 26 giugno prima, e dal 30 giugno al 2 luglio poi18. Nella sua relazione Vecchietti attribuisce la sconfitta ad una serie di fattori diversi: contraddicendo l’analisi fatta fino alla vigilia del voto, giudica che la campagna elettorale si sia svolta «sotto il segno del riflusso delle lotte», ormai non più «offensive ed unitarie, ma prevalentemente difensive e scoordinate fra loro, con punte corporative in qualche caso». Imputa l’insuccesso del partito alla rappresentazione datane dagli avversari e dalla stampa: «il partito dei no, i contestatori di sinistra degli stessi comunisti; i filo-cinesi 15   L’esito elettorale è più o meno omogeneo in tutt’Italia, a dimostrazione che la crisi del partito è un fenomeno diffuso ovunque: il risultato migliore è di nuovo quello dell’Umbria (4,6%) e il peggiore quello del Molise (2,3%), ma in genere ci si attesta sul dato nazionale. Va detto però che nelle elezioni provinciali che si tengono insieme alle regionali il Psiup ottiene il 3,5%, registrando pur sempre un incremento rispetto alle elezioni precedenti del 1964, in cui aveva conseguito il 3,1%: l’incremento si registra soprattutto al Nord, mentre è secca la flessione in tutta l’Italia meridionale salvo la Puglia (ivi, 28 giugno 1970). 16   Nella relazione alla Direzione poco dopo il voto Alessandro Natta indica come motivi dell’insuccesso del Psiup sia l’esaurimento della funzione a cui ha assolto di «surrogare il partito socialista» una volta che questo è tornato a contrapporsi alla socialdemocrazia, sia «il tentativo che vi è stato in tutti questi anni, abbastanza contraddittorio e anche confuso, di [...] assumere la funzione di polo di contestazione nei confronti della nostra politica» (FIG, APC, Direzione del 12 giugno 1970). 17   Così il comunicato della Direzione trasmesso l’11 giugno alle federazioni e ai comitati regionali, in FIG, APSIUP, 1970, busta 4031. 18   Per il lunghissimo dibattito al Comitato centrale si vedano i numeri di «Mondo Nuovo» del 5 e 12 luglio 1970.

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da una parte e i filo-sovietici dall’altra; coloro che civettano con gli estremisti senza neppure convincerli»; ma non nasconde «l’isolamento della nostra proposta di alternativa di sinistra»: una proposta in cui ha creduto poco o nulla il Pci, scommettendo invece sulla possibilità di condizionare il centro-sinistra dall’interno e dando copertura ai socialisti. Invita «ad un’autocritica a tutti i livelli»: tuttavia non va oltre la rituale constatazione che la linea era e resta giusta, e che ne va corretta «l’attuazione». Questa analisi soddisfa una parte del partito19, ma la minoranza la contesta in più punti. In alcuni interventi dei suoi esponenti affiora un certo scoramento: Miniati constata che «attorno a noi sta montando una grossa campagna di menzogne, di fraterni consigli, di pressioni: tutti ci vogliono vedere finire il più presto possibile»; e Asor Rosa parla di «senso diffuso di una perdita di funzione da parte del nostro partito»: «non abbiamo saputo svolgere un ruolo che ci fosse autonomo e specifico». Nella diagnosi delle cause dell’insuccesso emergono però differenziazioni non marginali anche nella sinistra. Indovina attribuisce la sconfitta alla scarsa convinzione con cui è stata portata avanti «la linea dei contropoteri, affidata alla sperimentazione di qualche federazione», ma mai discussa seriamente ogni volta che a livello periferico entrava in contrasto con le posizioni del Pci. Libertini impietosamente sottolinea che se la campagna contro il Psiup ha avuto successo «è perché noi abbiamo oscillato fra Brežnev e Bordiga [...] soffocando i grandi motivi ideali della nostra lotta e il buon lavoro fatto alla base nelle fabbriche sotto una grigia routine e incomprensibili silenzi», in particolare con «una collocazione internazionale ambigua e sospetta». E muove un duro attacco anche al sindacato, del quale, dopo l’autunno, sarebbero secondo lui emersi «tutti gli equivoci e tutti i limiti negativi [...], dal neutralismo politico all’incapacità di unificare le lotte, a un’inconsistente e contraddittoria politica delle riforme». Su questo la risposta di Foa, che cerca di ridimensionare la «disavventura elettorale» a un «episodio marginale», è molto secca:

  Fra gli interventi più significativi della maggioranza si veda quello di Ansanelli, che colpisce per il totale rovesciamento delle posizioni assunte nel convegno di fine 1965 sulle lotte di massa, insistendo sulla necessità di «riaffermare il ruolo del partito e combattere ogni forma di spontaneismo e di ‘movimentismo’» (ivi, 12 luglio 1970). 19

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In mancanza di una più avanzata proposta politica, il sindacato ha il dovere di non mandare la gente allo sbaraglio, di non fare massacrare le avanguardie, ha il dovere di tenere uniti i lavoratori per l’oggi e per il domani. E questo [...] non per disegni riformistici, ma perché nella politica italiana l’alternativa, la linea di sinistra è singolarmente debole e sfocata.

Un altro esponente della sinistra sindacale, Silvano Andriani, fornisce forse la spiegazione più convincente e approfondita della sconfitta: Il nostro partito si è inserito nello scontro d’autunno tentando, con parziale successo, di spostare l’accento delle lotte sulle questioni in fabbrica, ma poi è scomparso dalla scena nel passaggio alle lotte per le riforme. Ciò è avvenuto per la persistente tendenza che abbiamo a non vedere il rapporto tra la strategia di avanzata del potere in fabbrica e [...] una crescita dei poteri di controllo dei processi generali di trasformazione della società. Di qui la difficoltà nostra a stabilire un coerente collegamento fra la strategia di crescita dei contropoteri e l’iniziativa nelle istituzioni, senza essere ridotti a posizioni nulliste o subire in modo subalterno la tattica del Pci salvo poi a lamentarsene.

L’esito finale del lungo Comitato centrale è un generico documento sul «rilancio del partito» votato (come era frequente nel Psiup) all’unanimità, ma con tali e tanti distinguo (fra gli altri, quelli di Asor Rosa e Libertini) da non significare praticamente nulla. Il senso di forte disagio che si respira nel partito trova un’ulteriore conferma nelle affermazioni di Emilio Lussu: «Noi, i giovani li abbiamo perduti presso che tutti [...] mi attendevo una severa autocritica, il Partito è in crisi fin dal ’68, e in più parti anche prima. La perdita dei voti rivela questa crisi. Ed è crisi della strategia politica del Partito e della sua direzione»20. Così è in effetti. Le dimissioni del governo Rumor all’indomani della proclamazione dello sciopero generale da parte dei sindacati per il 7 luglio aprono una nuova crisi di fronte alla quale il Psiup cerca, ma invano, di assumere un ruolo più attivo del solito. Vecchietti, a nome della Direzione, indirizza ai partiti di sinistra e ai sindacati una lettera in cui si esprime viva preoccupazione per «il

  E. Lussu, Le conseguenze del 7 giugno, ibid.

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peso della divisione delle forze di sinistra, proprio mentre il fronte padronale e le forze politiche nelle quali esso si articola tendono a ritrovare una più larga unità»21. Le risposte di Barca per il Pci e di Signorile per il Psi fanno intravvedere molti punti d’accordo e una certa condiscendente considerazione per le posizioni espresse da un partito a cui il risultato elettorale e le divisioni interne hanno tagliato le unghie. Sfruttando il varco che sembra aprirsi, un editoriale di Ardenti su «Mondo Nuovo» richiama la «necessità di riconsiderare i termini attuali dello scontro politico con il metro della realtà odierna, di un metro cioè che tenga conto delle ‘novità’ e degli spostamenti intervenuti nell’arco politico a sinistra»22: è un’apertura di credito ai socialisti e al diverso atteggiamento che questi sembrano voler assumere sulla questione della delimitazione della maggioranza23. Ma il nuovo governo Colombo, in cui il Psi – nel timore che torni a tirare un’aria simile a quella del luglio 1964 – ancora una volta si risolve ad entrare, non pare disposto a fare concessioni. Appena insediato, annuncia un pacchetto di provvedimenti economici e finanziari mirante a risollevare con «misure urgenti» l’economia italiana, in sofferenza per il deficit eccessivo nel bilancio e sottoposta a una notevole spirale inflattiva. Il decreto del 27 agosto (che prevede tra l’altro un consistente aumento dei prezzi di alcuni beni non essenziali, prelievi fiscali aggiuntivi e una risistemazione di alcune gestioni mutualistiche) pesa teoricamente su tutti i ceti, ma attraverso l’aumento delle imposte indirette minaccia soprattutto di erodere le recenti conquiste salariali della classe operaia. Il Psiup annuncia immediatamente la propria dura opposizione, che è anche un modo di ricompattarsi all’interno24, rilancian-

21   Ivi, 9 agosto 1970. Ampi stralci della lettera erano già anticipati nel numero del 26 luglio. 22   Ivi, 2 agosto 1970. 23   È in questi mesi che si cristallizza nel Psiup, proprio intorno ad Ardenti, una corrente che fa della ricostituzione di un’«area socialista», su posizioni alternative al centro-sinistra, la premessa del rilancio di un discorso unitario per tutta la sinistra. Essa sarà duramente criticata al Comitato centrale di ottobre non solo dalla sinistra (per esempio da Miniati) ma anche da un altro esponente di provenienza bassiana, Giuseppe Avolio (ivi, 11 ottobre 1970). 24   Il Comitato centrale di ottobre rivela una volta di più un partito profondamente diviso, con un gruppo dirigente sotto accusa anche per una gestione ar-

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dosi come partito non disposto a sconti e mediazioni quando si tratta di difendere gli «interessi operai»: la riunione congiunta dei gruppi di Camera e Senato (10 settembre 1970) decide la «lotta a oltranza» contro quello che diverrà noto soprattutto come «decretone» – in pratica, l’ostruzionismo parlamentare25. La scelta, probabilmente, è il frutto di una decisione contrastata e sofferta. A sinistra, è condivisa solo dalla piccola pattuglia dei deputati del Manifesto, radiati l’anno prima dal Pci: compagni di viaggio non particolarmente graditi al Psiup, che negli ultimi tempi ne ha fatto bersaglio di polemiche piuttosto dure26. Da parte sua, il Pci ritiene l’ostruzionismo dannoso perché spinge il governo a porre la fiducia, facendo decadere anche gli emendamenti che si è dichiarato disposto ad accogliere, e rischia di rinviare il voto finale sul divorzio, arrivato in dirittura d’arrivo. Non stupisce quindi che né Vecchietti né Valori, sensibili come sono alle preoccupazioni dell’alleato maggiore, ne siano entusiasti27: evidentemente, però, temono una frattura interna irreversibile, e imboccano la strada della battaglia ostruzionistica. Quasi con una forma di scarico della responsabilità, la sua guida è delegata a Lucio Libertini, che come relatore di minoranza alla Camera riuscirà a parlare nella seduta del 19 ottobre per ben sei ore. Le sue argomentazioni, illustrate ripetutamente anche sulla stampa di partito, sono chiare e stringenti: gli stessi presupposti

roccata in sé stessa e resistente a qualsiasi prospettiva di rinnovamento interno. Viene però annunciata la convocazione, per l’inizio del 1971, del III Congresso nazionale del partito. 25   Si veda il comunicato della Direzione Un impegno di lotta contro il ‘decretissimo’, in «Mondo Nuovo», 13 settembre 1970. 26   Al Comitato centrale di ottobre Libertini, pur dichiarando di non vedere «nulla di diverso dalla ispirazione originaria del Psiup nelle giuste istanze all’origine del ‘Manifesto’», lo accusa di essere prigioniero «di una sorta di nazionalismo comunista», di aver imboccato «una strada pericolosa, concentrando l’attacco sui partiti operai, fornendo materiale appetitoso per la radio e per la stampa dell’avversario»; e addirittura, sul piano ideologico, di rischiare di approdare, «con un riferimento a una Cina immaginaria», a «una revisione cattolica del marxismo» (ivi, 11 ottobre 1970). 27   Ciò si evince chiaramente dai verbali della Direzione del Pci, che fanno capire che la posizione del Psiup non è unanime, e che molti al suo interno giudicano con scetticismo la tattica parlamentare adottata. V. anche L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci cit., vol. II, pp. 494-495.

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d’urgenza del «decretone» sono infondati («Non vi è [...] uno Stato che stia per andare in fallimento. Vi è un bilancio statale che presenta un deficit forse eccessivo, ma non spaventoso»), e le sue conseguenze peseranno unilateralmente sui lavoratori e sui ceti medi, senza toccare i più abbienti. Se l’economia italiana è a rischio d’inflazione – e Libertini non lo nega – ciò non deriva dall’aumento dei salari operai, cioè dagli esiti dell’autunno caldo, ma dal fatto che «l’inflazione è una barriera organica contro una redistribuzione del reddito a favore delle classi lavoratrici, così come la fuga dei capitali è una tendenza fisiologica dei capitalisti di fronte a un’erosione dei loro margini di profitto»28. Fa da sfondo alla battaglia parlamentare una situazione sociale molto tesa: da luglio Reggio Calabria è in rivolta, e lo scenario che si presenta è ben diverso da quello del «Vietnam del Mezzogiorno» che il segretario regionale psiuppino Mario Brunetti evocava appena due anni prima (cfr. supra, p. 167): ne coglie ora con lucidità alcuni aspetti la diagnosi di Pino Ferraris, che parla di un «disegno neogiolittiano di alleanza tra capitale avanzato e classe operaia settentrionale» fallito al Nord, ma sufficiente a «rompere gli equilibri della società meridionale, dove la rabbia dei disoccupati e dei sottoproletari rischia di saldarsi con la rivolta della parte più retriva e nostalgica del fronte proprietario, determinando interclassisti blocchi degli ‘esclusi’ apertamente eversivi»29. Probabilmente il Psiup ritiene che una lotta intransigente contro le misure sostanzialmente deflazionistiche del governo possa ricompattare il blocco sociale a cui attinge i suoi consensi; al contrario, il Pci, nelle parole di Luciano Barca, pensa che non si possa «limitarsi a cavalcare le spinta di sinistra», e che per allargare il fronte ed evitare pericolose rotture con i ceti medi si debbano «indicare delle precise mete andando oltre un elenco di no»30. In verità, la battaglia del Psiup contro il «decretone» non è puramente ostruzionistica, ma contiene una serie di proposte con-

28   L. Libertini, Che cos’è il decretissimo, perché è stato deciso, come lo si può battere, quale alternativa proponiamo, in «Rassegna socialista», luglio-settembre 1970. 29   Intervento al Comitato centrale del 2-3 ottobre 1970, in «Mondo Nuovo», 11 ottobre 1970. 30   L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci cit., vol. II, p. 495.

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crete (produzione pubblica di farmaci, intervento calmieratore dei Comuni sui prezzi dei prodotti alimentari, abbattimento delle spese inutili, selezione di priorità nella concessione di incentivi alle imprese, rilancio dell’edilizia pubblica). Ed è una battaglia che ha, almeno all’inizio, apparente successo: il provvedimento decade il 27 ottobre senza essere stato convertito in legge e il governo Colombo è costretto a ripresentarlo, con l’introduzione di qualche emendamento contrattato discretamente con il Pci, che pure voterà contro. Solo il 28 novembre successivo, due giorni prima che sia approvata anche la legge sul divorzio31, esso diviene legge dello Stato, con la conseguenza di dilazionare gli effetti dei provvedimenti previsti e in qualche misura di snaturarne il contenuto32. Il Psiup ha dunque ottenuto un certo successo propagandistico, con un ritorno di «visibilità» che però è solo di facciata: il governo Colombo, al contrario di quello che Libertini aveva previsto nel caso che il decreto fosse stato reiterato, non cade affatto, ma resterà in carica per tutto l’anno successivo, facendo passare anche delle leggi, come quella sulla casa e quella sui fondi rustici, che rispolverano (molto annacquati) alcuni obiettivi programmatici del primo centro-sinistra. Per contro, i rapporti con il Pci si sono guastati: Vecchietti, pur lamentando con una certa amarezza l’isolamento in cui il partito è stato lasciato, dedica più di metà della sua relazione al Comitato centrale di dicembre a minimizzare gli effetti della divisione che è emersa, ricordando che «l’unità non è pregiudicata dal dissenso, quando del dissenso non si fa un uso strumentale [...], non ci si invischia in assurdi propositi di [...] essere la coscienza critica, di occupare spazi lasciati liberi dal partito comunista, o addirittura di provocarne la crisi e la dissoluzione»33. Ma, come fa capire l’intervento di Libertini in quella stessa sede, anche la tregua interna che ha accompagnato la battaglia contro il decretone volge chiaramente al termine: «si

31   «Mondo Nuovo» saluta la legge come Un passo avanti (18 ottobre 1970) e ospita un’intervista di Valori che insiste sul «senso di responsabilità» che ha orientato l’atteggiamento prudente dei partiti di sinistra. 32   G. Mammarella, L’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 1993, p. 359; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., pp. 436-437. 33   «Mondo Nuovo», 27 dicembre 1970.

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sappia che è ormai prossimo il momento nel quale i fatti stessi obbligheranno tutti e ciascuno a una scelta»34. Non è buon viatico per il III Congresso, di cui pure tutti a parole auspicano un esito «unitario», senza contrapposizione fra tesi o fra correnti. 2. Il partito allo sbando Nelle intenzioni sia della maggioranza che della minoranza del partito, il III Congresso deve essere un momento di rilancio e di chiarificazione dopo la crisi seguita alla sconfitta elettorale delle regionali: un congresso aperto («Facciamo discutere i compagni senza preparare la pappa», dichiara Vittorio Foa al Comitato centrale di dicembre), che sottoponga ai delegati «un documento unitario dove siano portate in forma problematica le questioni sulle quali nel partito c’è divergenza di vedute»35. Sono propositi che tengono conto di una forte inquietudine della base, resa manifesta da molti documenti delle federazioni nella fase precongressuale. Da Salerno, per esempio, in un documento di analisi molto approfondita del progetto di tesi, si osserva: Si può dire che non ci sia stato compagno che non si sia impegnato in un esame critico e sulla linea strategica generale e sugli strumenti di gestione del Partito. Mentre però questo fatto provocava una salutare reazione a livello di base (nelle sezioni e in alcune Federazioni), a livello centrale (Direzione e Comitato centrale) non si è avuto un mutamento della direzione politica e organizzativa del Partito36.

Molte federazioni premono per rilanciare lo spirito originario che animava il Psiup nel 1964: Il Psiup nacque per l’esigenza del ‘partito nuovo’ [...] – afferma il 10 gennaio 1971 un ordine del giorno della federazione di Pistoia –, un partito fulcro di una nuova riaggregazione della classe, al di fuori del

  Ibid.   Relazione di Vecchietti al Comitato centrale, in «Mondo Nuovo», 27 dicembre 1970. 36   FIG, APSIUP, 1971, busta 4043, Documenti preparatori del dibattito precongressuale. 34 35

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concetto burocratico del ‘partito guida’, un animatore del nuovo rapporto partito-classe che sorgesse dalla realtà del movimento di classe e delle sue lotte. Purtroppo la linea strategica indicata nel 1° e nel 2° Congresso è stata disattesa dal gruppo dirigente che, con ambiguità, silenzi ed errate scelte, ha portato il Partito, di fronte al giudizio dei lavoratori, ad una brutta copia del partito neo-riformista di sinistra e alla subordinazione alle scelte strategiche e tattiche del Pci37.

Sono pulsioni che non animano solo le federazioni di sinistra, ma percorrono un po’ tutto il corpo del partito, il quale attraversa una crisi di identità assai forte. Un documento della fine del 1970, di cui non conosciamo l’estensore, analizza con grande acutezza e in un linguaggio insolitamente franco questa fase così difficile del partito: Il suo problema – quello dei suoi militanti, in primo luogo – è di sapere perché esso esista, quale funzione sia chiamato a svolgere nel quadro unitario della sinistra, se la sua presenza autonoma sia giustificata da un discorso strategico adeguato all’impegno, non irrilevante, d’essere partito; [...] apparendo ormai evidente a tutti che né una politica di semplice amministrazione della ristretta forza elettorale del partito né un immediato ‘scioglimento’ del partito tra le forze sociali in lotta può costituire una prospettiva capace di giustificarne e assicurarne (anche materialmente) la sopravvivenza38.

I segnali di scollamento che si avvertono alla base trovano i primi puntuali riscontri anche ai vertici: l’11 gennaio 1971 si dimette dal partito il deputato calabrese Rocco Minasi, dichiarandosi convinto che «il gruppo dirigente punta decisamente ad imboccare la strada che comporta l’automatica liquidazione del Psiup»39; il 15 dello stesso mese Lelio Basso, il cui distacco dal partito è di fatto già consumato da tempo, rende pubbliche, con una pacata lettera a Vecchietti, le motivazioni che da tempo lo hanno indotto a non rinnovare la tessera:   FIG, APSIUP, 1971, busta 4051, Regioni, O.d.g. approvato dall’attivo della federazione di Pistoia il 10 gennaio. 38   FIG, APSIUP, 1970, busta 4033, Documento incompleto allegato alla convocazione dei segretari a firma Ansanelli, 16 settembre 1970. 39   FIG, APSIUP, 1971, busta 4045, Direzione, Corrispondenza. 37

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In sostanza io credo che la rapida evoluzione sociale richieda anche ai partiti della classe operaia un profondo rinnovamento di dottrina e di strategia, di metodi e strumenti organizzativi, di lotta, in modo da rispondere ai problemi della società e soprattutto delle giovani generazioni, e avevo sperato che il Psiup, proprio perché partito giovane, potesse essere all’avanguardia di questo processo. Le cose sono andate, almeno a mio parere, in modo diverso, e ciò mi ha indotto a un progressivo ritiro dalla vita politica. [...] Ti confesso che speravo di vedere il partito reagire non all’insuccesso elettorale in se stesso, ma alla perdita di fiducia che era alla base dell’insuccesso, con una discussione approfondita e pubblica delle cause, e credo che sia un errore non averlo fatto40.

Alle tesi del III Congresso lavora una commissione politica in cui è rappresentata anche la minoranza41, ed esse sono approvate nel gennaio del 1971 dal Comitato centrale42: nelle settimane successive «Mondo Nuovo» ospita una tribuna congressuale un po’ stanca e rituale. Nella stesura finale le tesi si presentano come un documento scialbo, in cui la residua vivacità del dibattito interno al partito a livello locale si riflette solo pallidamente. Rispetto alle tesi del II Congresso, la tematica dei contropoteri è lasciata completamente cadere: la linea «alternativa» di cui il partito si proclama portatore si riduce all’obiettivo di «liberare il Paese da maggioranze governative condizionate dall’ipoteca conservatrice che l’unità della Dc comporta», attraverso «soluzioni nuove che abbiano nel movimento operaio, nelle forze politiche e sociali che ne fanno parte, il centro di propulsione e di direzione politica». Affiora una concezione meno negativa che in passato del concetto di riforme, ed è anzi giudicato positivamente il fatto che appunto sul terreno delle riforme «si sia raccolta concretamente la carica di lotta dei lavoratori contro gli aspetti più evidenti dell’irrazionalità dello sviluppo capitalistico, e che alcuni risultati siano stati conseguiti»: il fronte a cui il partito sembra ora rivolgere la maggiore attenzione, anche per la preoccupazione destata dalle rivolte di   Ivi, Lettera di Lelio Basso a Tullio Vecchietti, 15 gennaio 1971.   Ne fanno parte anche Foa, Libertini, Andriani e Ferraris. 42   Secondo la ricostruzione di Miniati (Psiup 1964-1972 cit., p. 110), votarono contro lui, Guido Biondi, Luciano Ceri e Dante Rossi, tutti esponenti toscani, e Francesco Indovina di Milano. 40 41

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Reggio Calabria e L’Aquila, è quello del Mezzogiorno, «ponendo al centro l’obiettivo dell’occupazione nelle regioni meridionali, contrastando i fenomeni di concentrazione produttiva e di congestione dei centri urbani del Nord e l’uso delle masse meridionali come mezzo per accentuare lo sfruttamento degli operai del Nord». Quanto alla «politica unitaria», le critiche al Pci sono meno ellittiche di altre volte, ma anche molto ridimensionate: all’alleato maggiore si rimprovera che, «nella giusta lotta per allontanare il pericolo autoritario» e nello sforzo «oggettivamente necessario [di] condizionare il blocco governativo», perda un po’ troppo di vista «le esigenze di una linea adeguata al livello delle lotte sociali». Anche nei confronti dei socialisti risuonano accenti meno aspri che nel passato, anzi «la ricerca dell’unità nelle lotte per le riforme con tutti i settori del Psi che si rendono disponibili» è indicata come «un compito permanente del Psiup». È invece contro l’«estremismo», e in particolare contro il Manifesto e i gruppi che «si contrappongono frontalmente alle organizzazioni storiche del movimento operaio, proponendo illusoriamente l’obiettivo della ricostruzione di una forza rivoluzionaria contro di esse», che si indirizzano gli strali più acuti della polemica delle tesi43. Il congresso, che si deve aprire a Bologna il 22 marzo, è preceduto da un intenso lavorìo di corridoio, che cerca di ricomporre l’unità almeno della sinistra, ripromettendosi di farne valere il ­peso in un documento finale unitario accettabile o di raccoglierla intorno a un documento alternativo. Ma le cose andranno diversamente. La lunga relazione presentata da Vecchietti44 ricalca ovviamente la linea delle tesi, distinguendosene semmai per un linguaggio più involuto. Come al solito, il segretario dedica amplissimo spazio ad analizzare il quadro internazionale, caratterizzato dalla «vietnamizzazione» del conflitto in Indocina e dal «fallimento del mercato unico capitalistico» proposto con il Kennedy Round, oltre che dalla cronica tensione in Medio Oriente; ma se le tesi ave  Il testo completo in «Mondo Nuovo», 4 aprile 1971.   La si veda in «Rassegna socialista», aprile 1971. Silvano Miniati, certamente un testimone non imparziale, la definisce crudamente «un condensato di banalità tale da frustrare ogni residua speranza di un rilancio del partito» (Psiup 1964-1972 cit., p. 110). 43 44

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vano introdotto alcuni elementi pur cauti di critica del socialismo reale, egli tende piuttosto ad attenuarli e a respingere «l’assurda posizione polemica che parte dal presupposto che il socialismo sia ancora da inventare [e nega] il valore irreversibile che ha avuto la rivoluzione d’ottobre in tutto il campo socialista». Il dibattito che segue alla relazione di Vecchietti è il termometro delle difficoltà che il partito attraversa45. Non ha torto Vincenzo Gatto quando osserva, in uno degli interventi finali, che «le pressioni dei nostri avversari – che ci dipingevano come un partito in via di dissoluzione – ci hanno costretti a fare un congressopasserella, per dimostrare pubblicamente la nostra unità, la nostra vitalità, la nostra forza»46. In effetti nella grande maggioranza degli interventi affiora uno spiccato orgoglio di partito: Si vorrebbe che noi tornassimo nel Psi, o ci riducessimo a un’appendice lievemente critica del Pci, o fuggissimo nel ghetto dei rivoluzionari intransigenti – dichiara polemicamente Libertini –. Insomma ci si vuole fuori dai piedi. E invece no, noi scegliamo di rimanere nel vivo del movimento unitario di classe per far avanzare una strategia alternativa di classe e gli ideali della democrazia proletaria47.

In realtà, però, dietro la facciata di un linguaggio che sembra comune, e che ripete come un mantra la formula del partito che si costruisce e si legittima nelle lotte di massa, le prospettive si 45   Colpisce il fatto che nella relazione introduttiva Vecchietti non menzioni dati quantitativi sul partito (come aveva fatto al II Congresso per sottolinearne l’espansione), ma si limiti ad affermare che dopo il deludente risultato elettorale del 7 giugno esso non abbia subito «alcuna flessione negli iscritti». Da un elenco del 1972, che riporta i voti ottenuti al IV Congresso del luglio di quell’anno e la loro suddivisione nelle tre mozioni concorrenti (FIG, APSIUP, 1972, busta 4057), risulta che gli iscritti a fine 1971 erano circa 108.000, ma all’epoca del III Congresso, in marzo, dovevano certamente essere più numerosi, considerato che da giugno in poi si ebbero continue defezioni. Appare però scarsamente verosimile il dato di 182.325 iscritti fornito dalla Commissione verifica poteri al congresso di Bologna (FIG, APSIUP, 1971, busta 4045). 46   Questo e gli interventi seguenti al congresso sono ampiamente riassunti in «Mondo Nuovo», 4 aprile 1971, da cui in alcuni casi li citiamo per la maggiore efficacia della sintesi. Il resoconto completo è in Partito socialista italiano di unità proletaria, 3° Congresso Nazionale (Bologna, 22-25 marzo 1971), Edizioni di Mondo Nuovo, Roma 1971 (la citazione dell’intervento di Gatto da p. 367). 47   «Mondo Nuovo», 4 aprile 1971.

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vanno divaricando e si delineano sempre più posizioni diverse. È ancora viva e presente in una minoranza del partito l’idea che sia impossibile «pervenire ad una trasformazione radicale della società puntando sulle istituzioni e sulla loro progressiva rivitalizzazione» (Miniati)48: ma l’alternativa strategica fondata sulla linea dei contropoteri ha perso molto smalto anche in chi ne è stato fautore convinto, da Pupillo a Indovina, da Margheri a Tirelli, agli stessi Foa e Libertini. A riproporla ancora con molta enfasi, oltre a Miniati, è quasi solo Fausto Bertinotti, mentre è di per sé significativo che al congresso non prenda la parola Pino Ferraris. Uno degli interventi più lucidi, quello del segretario regionale ligure Andrea Dosio, riconosce con molta franchezza: Noi non abbiamo saputo cogliere fino in fondo l’elemento nuovo e dinamico del movimento, il suo carattere di alternativa vera al riformismo; abbiamo registrato la più grossa sconfitta, dimostrandoci incapaci di fare nostra l’esperienza delle nuove strutture del movimento di classe. Il Partito è rimasto fermo: a una certa vivezza periferica ha corrisposto una direzione politica di vertice ambigua e senza mordente49.

Molti delegati però, senza attardarsi sulle occasioni perdute, auspicano soprattutto una presenza più attiva del partito nella battaglia politica e parlamentare. Nel gruppo dirigente raccolto fino a poco tempo prima intorno alla segreteria, una parte – maggioritaria – rilancia nelle forme più classiche la politica unitaria: «L’unità a sinistra è il solo modo per dare credibilità alla politica dell’alternativa e provocare la necessaria decantazione all’interno del centrosinistra, in modo particolare in campo cattolico»50, dichiara Valori, e sono posizioni che si ritrovano molto simili nei discorsi (per citare i più autorevoli) di Luzzatto, Ceravolo, Lami e Gatto. Un’altra parte, minoritaria ma molto presente nella discussione, guarda con crescente interesse al Psi. Nessuno pone il problema più chiaramente di Giulio Scarrone:

  Ibid.   Partito socialista italiano di unità proletaria, 3° Congresso Nazionale cit., p. 333. 50   Ivi, p. 260. 48 49

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Affondiamo le nostre radici in una delle tre componenti storiche del movimento operaio italiano, quella socialista [...] e da questo terreno dobbiamo saper trarre la linfa vitale per far crescere sempre più rigogliosa la pianta di un partito socialista quale lo vogliono i lavoratori italiani che si richiamano al socialismo51.

Anche Menchinelli dichiara che bisogna sciogliere «il nodo dell’ambivalenza» del Psi, e «far scoppiare le sue contraddizioni a un livello sempre più avanzato al fine di condurlo a una scelta», altrimenti l’alternativa sarà quella di «aspettare di raccogliere le poche briciole che ci lascerebbe dopo un suo ulteriore spostamento a destra»52. A parole il discorso dell’«area socialista» che De Martino aveva rilanciato nel quadro della sua proposta politica di «equilibri più avanzati» è respinto come una «fumisteria», ma in realtà trova nel Psiup interlocutori sensibili. In questo ventaglio di spinte ormai nettamente centrifughe, esistono ancora alcuni elementi comuni. Il tema del Mezzogiorno, che ha occupato un posto di rilievo nelle tesi, è al centro di molti interventi, sia della maggioranza che della minoranza: tra questi quello di Vittorio Foa, che segnala come il Sud stia diventando «un grande ghetto sociale e politico, dove il capitalismo rinchiude, insieme ad alcuni nuclei di classe operaia, le masse dei braccianti e una quantità crescente di forza lavoro intellettuale disoccupata», e come questa situazione alimenti «rivolte rabbiose» di cui devono essere capite le basi sociali, «al di là dell’aspetto fenomenico della camicia nera»53. E c’è anche un ricorrente discorso – che attraversa tutte le correnti – sulla necessità di rinnovare il funzionamento del partito, ma qui è evidente che entrano in rotta di collisione non solo sensibilità diverse, ma anche interessi consolidati, lealtà di apparato, comprensibili preoccupazioni per il futuro di ciascuno. Dopo la discussione e le conclusioni di Vecchietti, il congresso si chiude, come quello di Napoli, all’insegna della mancata   Ivi, p. 196.   «Mondo Nuovo», 4 aprile 1971. 53   Ibid. Da notare che all’Aquila, il 27 febbraio, la sede del Psiup viene presa d’assalto e gravemente danneggiata dai dimostranti. Un’analisi realistica delle condizioni del Mezzogiorno alla base delle rivolte nelle città meridionali è compiuta da L. Libertini, Qualche riflessione su L’Aquila e Reggio, in «Mondo Nuovo», 21 marzo 1971. 51 52

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chiarezza. Vengono votati due documenti, uno politico e l’altro organizzativo, entrambi approvati a larghissima maggioranza (il primo con 7 contrari e 46 astenuti su 403 votanti, il secondo con 10 astensioni54). Il documento politico si richiama alle tesi, con una precisazione, a proposito dei rapporti con il Pci, che suona come un ulteriore vincolo: «le divergenze tra i due partiti, indicati nelle tesi, non pregiudicano l’attuazione della politica unitaria, ma impegnano a un franco confronto sul terreno dell’azione per i concreti obiettivi di lotta». Il documento organizzativo impegna il Comitato centrale a convocare entro un anno una conferenza di organizzazione, e dichiara che «le esigenze di collegialità e di coordinamento politico nel lavoro della Direzione devono trovare espressione nel ruolo di un organismo ristretto che realizzi la sintesi unitaria dell’attività del Partito»: in pratica un ufficio politico, che la sinistra da tempo richiede. Dodici delegati (Libertini, Foa, Giovannini, Avolio, Dosio, Bertinotti, Guerra, Andriani, Filippa, Princigalli, Pupillo e Speciale) dichiarano di votare a favore dei documenti finali «nello spirito di un contributo impegnato e leale» al processo unitario che con il congresso segna, a loro dire, «un ulteriore passo avanti», ma precisano che su alcune questioni (i consigli operai e il loro rapporto con la lotte contro il sistema capitalistico, i contenuti della democrazia proletaria nei paesi socialisti) è necessario un chiarimento «da realizzarsi sul terreno della verifica dell’azione comune». Miniati invece presenta un documento ben più corposo (in realtà, a suo stesso dire, «un collage di pezzi approvati da varie federazioni»55), che raccoglie comunque 60 voti favorevoli dei delegati di sinistra, rimasti spiazzati dal riallineamento di Libertini, Foa e gli altri. La sinistra si è dunque divisa: benché l’elezione del Comitato centrale le assegni ancora oltre un terzo dei membri, 4/5 di questi hanno votato contro l’emendamento Miniati. Ma anche la maggioranza lascia intravvedere vistose crepe: già nel voto della Direzione Menchinelli, Scarrone, Egoli ed Erasmo Boiardi si astengono. Vecchietti comunque viene rieletto segretario con un solo voto contrario, quello del segretario regionale sardo Zucca. Ma a pochi giorni 54   Secondo Miniati i contrari sono, oltre a lui stesso, Biondi, Biancolini, Ferraris, Indovina, Maffei e Rossi. 55   S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 113.

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di distanza si vede che il compromesso non tiene. Il Comitato centrale del 14-15 aprile, chiamato a nominare l’ufficio politico, non trova l’accordo: Foa rifiuta di entrarvi adducendo motivi di salute, e la maggioranza non ritiene accettabili altre candidature, come quelle di Andriani o di Libertini. Alla fine la maggioranza fa passare la soluzione di un esecutivo «collegiale» composto dal segretario e dai responsabili delle sezioni di lavoro. Libertini, Foa e gli altri, a cui si unisce questa volta Miniati, sottoscrivono un documento in cui registrano «una resistenza a realizzare una nuova gestione collegiale e a superare i limiti più evidenti che la gestione del partito sinora ha avuto» e tornano a chiedere «un aperto confronto sulle divergenze strategiche che esistono»56. Invano: passa la linea della segreteria, e la direzione di «Mondo Nuovo», chiesta inutilmente da Libertini, è affidata ad Andrea Margheri. La divisioni interne si sono dunque riproposte più acute che mai, e appaiono di fatto insanabili. Se ne hanno effetti significativi anche nelle federazioni, per esempio a Torino, dove Pino Ferraris lascia la segreteria, sostituito da Lucio Libertini, e non accettando altri incarichi di partito si esilia all’Ufficio studi della Cgil a Roma57. Nel partito si apre un’emorragia, se non ancora di iscritti, almeno di quadri. In maggio si dimette e si iscrive al gruppo misto il senatore Costantino Preziosi; poco dopo è la volta di Piero Ardenti (che già nel dicembre 1970 ha lasciato la direzione di «Mondo Nuovo») e Oreste Lizzadri, i quali nel giro di poche settimane prima annunciano la fondazione di un «Centro Studi» autonomo dal Psiup e poi rendono pubblico il loro passaggio al Psi58. Nello stesso periodo, tuttavia, prende

  FIG, APSIUP, 1971, busta 4045.   Libertini è eletto all’unanimità segretario della federazione il 20 aprile 1971. Clemente Ciocchetti, responsabile del lavoro di fabbrica e alter ego di Ferraris fin da quando entrambi sono arrivati da Biella a Torino, vota anche lui a favore ma così motiva il suo dissenso politico: «Da un anno quasi la nostra Federazione è paralizzata da una discussione interna che ha messo da parte il problema del movimento. Anzi è stato negato valore al movimento in nome di un ripiegamento interno, come se la produzione del movimento non fosse una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per fare politica e direzione politica» (FIG, APSIUP, 1971, busta 4048, Regioni e province, Torino). 58   Si veda il trafiletto a loro dedicato da «Mondo Nuovo», 6 giugno 1971, dal sarcastico titolo Uno studio super-rapido. 56 57

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avvio anche una consistente diaspora a sinistra: il 25 maggio 1971 un documento di oltre 30 studenti torinesi iscritti al Psiup annuncia il loro abbandono di un partito giudicato «non più rivoluzionario» e «ormai irrecuperabile», «perennemente in bilico tra concezioni riformistiche e ‘sparate’ massimalistiche», e consegnato alla «gestione riformista e liquidatoria della segreteria nazionale», alla quale si imputa la tendenza a «una centralizzazione e un’efficienza tanto più assurde quanto più è inesistente il Partito stesso»59. La crisi del Psiup non può che aggravarsi in seguito all’esito delle elezioni amministrative del 13 giugno 1971, in cui si vota per le regionali siciliane e per le comunali a Roma, Genova e Bari. Il risultato è disastroso: in Sicilia il Psiup raccoglie il 2,4%, come a Bari, mentre a Roma e a Genova l’esito è rispettivamente dell’1,3% e dell’1,6%, con un dimezzamento dei voti delle politiche del 1968. Il partito è al suo minimo storico. Le ripercussioni al suo interno sono laceranti. Ne abbiamo un’eco precisa nelle notizie che Berlinguer riferisce alla Direzione del Pci il 18 giugno: Vecchietti è assai preoccupato da una serie di fughe rapide che possono portare il quadro nazionale del Psiup nel Psi. Ritiene che questo può essere evitato per un certo tempo con un dialogo da partito a partito col Psi sui problemi della sinistra. Vecchietti chiede una copertura nostra a questo dialogo. Ieri c’è stato uno scontro duro nella Direzione del Psiup, la sinistra si è schierata contro la Direzione chiedendo la discriminante anticomunista e non escludendo la confluenza nel Psi60.

Quest’ultima informazione sembra più uno spauracchio agitato da Vecchietti e Valori per assicurarsi il sostegno del Pci che un’ipotesi realistica. Ma significativo, e decisivo per comprendere gli sviluppi successivi, è quanto Berlinguer afferma nelle conclusioni: Psiup: [...]. La situazione è abbastanza drammatica. Le segnalazioni sono nel senso del rischio (da evitare) che si vada a una disgregazione

59   Documento di uscita dal Psiup dei compagni studenti della federazione torinese, 25 maggio 1971, CSPG, Fondo Marcello Vitale, subfondo 9, UA 12. 60   FIG, APC, Direzione del 18 giugno 1971.

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in diverse direzioni, prevalentemente verso il Psi, i gruppetti, mentre ci sarebbe una forte spinta del quadro medio più sano verso il Pci. Accanto a queste, c’è ancora una tendenza alla autoconservazione indefinita, come Covelli ha conservato il Pdium. Che linea avere? Dovremmo considerare più o meno acquisito il fatto che questo partito non ce la fa a reggere. Potrebbe farlo solo per un brusco spostamento a destra del Psi. Dobbiamo cercare di controllare il più possibile il processo.

L’analisi di Berlinguer trova un puntuale riscontro nello svolgimento del Comitato centrale del 30 giugno-2 luglio, a cui la direzione si presenta dimissionaria. La relazione di Vecchietti tenta in modo poco convincente di dimostrare che la nuova sconfitta elettorale non significa che la linea del partito non sia stata e non sia giusta. Il dibattito che segue fa emergere anche più nettamente che al congresso di Bologna tre posizioni diverse61. La minoranza del partito è molto severa: Perché siamo stati battuti così duramente? – si chiede Libertini – [...] Alle analisi noi non abbiamo mai fatto seguire una politica concreta. Ogni volta che ci siamo trovati di fronte a nodi cruciali ci siamo ritratti [...] Siamo stati astratti, o contraddittori, o esitanti, o in definitiva incomprensibili. [La nostra è stata] una politica di fatto codista e subalterna.

Non meno critico rispetto al passato è Miniati: Le grandi lotte del ’68-69 avevano posto con chiarezza il problema del potere. Si trattava di ricollegarsi alle premesse politiche implicite nella lotta sindacale per portare avanti il discorso dell’alternativa di potere, facendo degli organismi nuovi (delegati, comitati di base, comitati di quartiere) gli strumenti di una politica di ristrutturazione della sinistra anticapitalistica. Questa prospettiva non è andata avanti perché nel movimento operaio è prevalsa la strategia del condizionamento interno al governo (Psi e sinistra Dc) [...] Ci siamo limitati a tallonare in maniera grigia il Pci e il Psi ricorrendo ogni tanto a qualche impennata che stante la politica generale perseguita è potuta apparire più un ritorno a posizioni massimaliste che un tentativo di far avanzare una proposta politica diversa.

61   Il resoconto del dibattito al Comitato centrale è in «Mondo Nuovo», 11 luglio 1971.

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I due firmano, alla fine del Comitato centrale, un documento sottoscritto anche dagli altri esponenti della sinistra; ma affiorano già tra loro significative differenze, perché Libertini, «pur valutando le generose energie che vi sono nell’area minoritaria, anche se isolate e disperse troppo spesso in un nullismo estremistico», si dice convinto che «la partita si decide nel movimento operaio reale, in tutto il suo arco», il che lascia intendere una appunto «realistica» considerazione del peso del Pci, mentre per Miniati «il rilancio del Psiup può avvenire soltanto sulla base di una scelta che significhi rifiuto chiaro della politica del condizionamento». Emerge anche una combattiva corrente di «destra», che ha in Scarrone e Menchinelli i suoi portavoce più autorevoli: il Psiup – afferma il primo – deve «scrollarsi di dosso la caricatura di un partito che voglia ricominciare sempre e tutto da capo, rifondare la sinistra, catechizzare il Pci, irridere al Psi, essere il punto di riferimento di non si sa bene quali aggregazioni e quali forze»; mentre per il secondo – ancora più esplicito – deve «smettere di fare il mestiere di altri e fare il suo mestiere socialista». È trasparente l’inclinazione a dare credito al Psi come vero perno del rilancio di una politica di sinistra rinnovata e capace di sfidare la Dc. Tra queste due posizioni chiaramente contrapposte, la maggioranza «storica» del partito, con cui fanno ora quadrato dirigenti che ne erano stati assai critici (come, in Lombardia, Margheri e Costa), si muove senza fantasia e senza capacità di rinnovare il discorso politico, ripetendo stancamente la formula dell’«alternativa», «in un vasto e coerente disegno unitario, fuori da ogni tentazione estremista e velleitaria». La forza di questa corrente è ancora nettamente prevalente: il documento conclusivo presentato da Margheri ottiene 64 voti favorevoli (raccogliendo anche quelli della destra) e 29 contrari, della sinistra. Vecchietti e Valori sono riconfermati a larga maggioranza, ma, oltre che con i voti contrari della sinistra, con un notevole numero di astensioni. Ci può essere il rischio, ripercorrendo l’esperienza del Psiup negli ultimi due anni della sua vita, di schiacciarla troppo sul suo esito finale e di dare per scontato che a quell’esito non ci fossero alternative. È un rischio che lo storico deve per quanto possibile evitare, ma è difficile negare che già nella seconda metà del 1971 il partito di via della Vite dia l’impressione – del resto colta bene da Berlinguer – di un partito in via di dissolvimento nel quale in pra­­­­­253

tica, «anche se nessuno lo aveva ancora ufficialmente deciso»62, è già iniziato il processo che porterà alla confluenza nel Pci, al ritorno nel Psi o al tentativo di rilanciare, insieme ad alcune componenti extraparlamentari, un soggetto politico nuovo. Nel frattempo, si cerca però di salvare il salvabile, inevitabilmente anche per dare più peso politico alla rispettiva scelta e quindi per capitalizzarla in futuro. Trascorsa l’estate, nei giorni 21-22 settembre 1971 si svolge a Roma una riunione di tutti i segretari di federazione del Psiup. Il relatore è Valori, che fa un discorso di mera routine, suscitando la reazione sconcertata di almeno due dei presenti, il segretario regionale piemontese Gasperini e il segretario della federazione fiorentina Ceri, che denunciano di nuovo la situazione diffusa di crisi interna e chiedono esplicitamente una svolta63. Matura in questo contesto l’ultimo, effimero tentativo di rilancio del partito: al Comitato centrale del 19-21 ottobre Vecchietti si presenta nuovamente dimissionario, stavolta in via irrevocabile, e al suo posto è eletto segretario del partito Valori, con Gatto vicesegretario unico (per Vecchietti è invece ripristinata la carica «onorifica» di presidente del Comitato centrale, rimasta vacante dopo le dimissioni di Basso64). Il nuovo assetto del partito non è però votato all’unanimità: la sinistra interna stavolta si oppone (si contano 64 sì, 28 no e 5 astenuti65); d’altra parte è trasparente il tentativo di mantenere il Psiup saldamente in mano alla «trojka» Vecchietti-Valori-Gatto: la continuità prevale sul rinnovamento. Il tono stesso dell’intervento con cui Vecchietti rassegna le dimissioni fa pensare più a una manovra coordinata che a una sofferta decisione politica. La sua è di fatto un’investitura: Propongo che il Comitato centrale si pronunci nella riconferma di tutta la direzione [...], proceda alla nomina di un nuovo segretario nella persona del compagno Valori e di un vice-segretario nella persona del compagno Gatto. Per quel che mi riguarda, accetterò di essere chiamato alla vostra presidenza se lo riterrete opportuno66.

  Franco Livorsi, Tra carrismo e contestazione cit., p. 220.   Cfr. «Mondo Nuovo», 26 settembre 1971. 64   Ivi, 24 ottobre 1971. 65   Ivi, 31 ottobre 1971. 66   Ivi, 24 ottobre 1971. 62 63

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È possibile che la maggioranza veda nel nuovo segretario – che si è sempre distinto per le sue capacità di organizzatore – l’uomo adatto per ricucire un rapporto con una parte almeno della sinistra del partito: in fondo Valori, al convegno sulle lotte di massa del 1969, ha mostrato qualche apertura alla tematica dei contropoteri. Ma l’accoglienza che il neosegretario riceve è più che scettica a sinistra e fredda a destra: Libertini parla di «un gruppo dirigente che perpetua se stesso nell’immobilismo», mentre Miniati afferma anche più chiaramente: «Si cambia posto ai suonatori ma per suonare la stessa musica». Scarrone si limita a notare che «le soluzioni proposte per il rinnovo della segreteria» potranno essere «utili» nel quadro di una politica del Psiup che «esalti la sua natura socialista»67. Così il ruolo che in realtà Valori sembra consapevolmente svolgere è quello di «traghettatore» del Psiup (o meglio, della sua maggioranza) nel Pci: mettendo anche l’accento, sin dal suo discorso di accettazione della candidatura a segretario, sulla necessità della disciplina, e attaccando con durezza il frazionismo: «Compagni – sostiene – c’è la necessità di un minimo di ordine, non poliziesco, ma c’è, rendiamocene conto! [...] bisogna ristabilire un minimo di autorità del Partito, perché altrimenti non si va più avanti»68. In effetti, basta scorrere le carte dell’archivio del partito per rendersi conto che la situazione interna è, già dall’inizio del 1971, sempre più difficilmente governabile. La crisi riguarda soprattutto la sinistra, che del resto non è mai stata una corrente coesa e, mentre accentua le proprie distanze dalla segreteria, tende anche a frammentarsi sempre di più, perdendo letteralmente i pezzi. Ai primi di luglio quattordici iscritti, che hanno promosso il mensile «Lotta di classe e contropotere», sono sospesi dalla federazione di Milano69. Poche settimane dopo, il 19 settembre, 17 compagni 67   Il rinnovo delle cariche del partito passa alla fine con 64 voti a favore, 29 contrari e 5 astenuti. 68   Gli interventi di Libertini, Miniati e Scarrone e il discorso di Valori sono in «Mondo Nuovo», 31 ottobre 1971. 69   L’episodio ha forti ripercussioni anche a livello nazionale: la sezione dell’Isolotto di Firenze scrive una lettera molto dura a «Mondo Nuovo»: «Il dissenso esiste in tutto il corpo vivo del partito e va affrontato. Non affrontarlo significherebbe fare, ancora una volta, come gli struzzi. Ma di teste nella sabbia ne abbiamo già avute a sufficienza». Vecchietti replica il 29 agosto con una lettera

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della provincia di Bari decidono «di impegnarsi a lavorare apertamente per organizzare una raccolta di forze psiuppine con la prospettiva di una nuova aggregazione della sinistra rivoluzionaria»70. In ottobre, proprio nei giorni in cui Valori sostituisce Vecchietti alla segreteria, si registra l’uscita dal partito di ben 244 esponenti delle federazioni di Biella, Ivrea e Torino, a cui si aggiungono presto anche militanti di Cuneo e Aosta: restituiscono la tessera molti quadri operai e studenteschi che hanno costituito l’ossatura del Psiup piemontese, fra i quali l’ex segretario biellese Franco Ramella o, a Torino, il più stretto collaboratore di Ferraris, Clemente Ciocchetti, insieme ad altri sette membri del direttivo di federazione71. A Lucca è invece la maggioranza che si dichiara impotente a gestire la federazione, denunciando l’impossibilità di ogni collaborazione con il «gruppo frazionistico antiunitario e in modo particolare anarco-sindacalista che domina in provincia e continua a fare il bello e il cattivo tempo»72. La Direzione ha cercato di porre rimedio: nella riunione del 27 luglio ha suggerito «i criteri da seguire quando si manifestano dissensi nell’esecuzione delle decisioni democraticamente prese dal Partito o casi di indisciplina»73. Ma la situazione è ormai fuori controllo: in novembre è annunciata con grande rilievo la decisione di parte della sinistra interna di dar vita a un nuovo periodico, denominato in modo non troppo originale appunto «La Sinistra». Lucio Libertini è indicato nella testata quale direttore politico, mentre Daniele Protti figura come direttore responsabile. Ne usciranno un «numero zero», che porta la data del 28 novembre 1971, e sei numeri nel 1972, prima dello scioglimento finale del

all’esecutivo della federazione: «Ora la situazione è giunta al limite della tollerabilità. Le continue manovre tese a rinviare la soluzione dei problemi hanno precipitato la situazione. Rischiamo di perdere ogni residua credibilità» (FIG, APSIUP, busta 4051, Regioni e province, Firenze). 70   FIG, APSIUP, 1971, busta 4045. 71   FIG, APSIUP, 1971, busta 4048, Regioni e province, Piemonte. Sono segnalate 25 defezioni a Ivrea, 100 a Torino, 58 a Biella, 33 a Cuneo, 28 ad Aosta. La federazione di Torino scende nell’ottobre a 891 iscritti. 72   FIG, APSIUP, 1971, busta 4051, Regioni e province, Lucca, Lettera a Valori del segretario di federazione Palmerini. 73   Ivi, busta 4045, Circolare accompagnata da lettera di Valori ai segretari regionali e di federazione.

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Psiup. Il fascicolo del 1971 è forse il più interessante: vi compaiono un editoriale di Libertini, che si conclude con l’esortazione a ripartire, da sinistra, «da tutto quello che c’è, dai partiti, dai sindacati, dalle forze reali; e anche dai ‘gruppi’ per quel che di valido c’è nelle loro esperienze», e un lungo saggio di Fausto Bertinotti e Angelo Dina (La Fiat, una lotta e il suo futuro) in cui risuonano echi del Panzieri del controllo operaio e dell’uso socialista delle macchine. Il quindicinale è l’estremo tentativo della sinistra del Psiup di ritrovare un denominatore comune (vi collaboreranno infatti molti esponenti delle sue varie anime, da Asor Rosa a Foa, da Bertinotti a Trulli, da Biondi a Tagliazucchi) e di sfidare la segreteria Valori rilanciando le tematiche del biennio 1968-69. Ma il clima è profondamente cambiato, e la fine anticipata della legislatura, sopravvenuta all’inizio del 1972, renderà chiaro che indietro non si torna. Per intanto, l’iniziativa è causa di ulteriori fibrillazioni all’interno del partito: il nuovo segretario la attacca frontalmente come «tentativo frazionistico»74. Anche in ciò che resta della base del partito la reazione non è in genere favorevole, ma il «rilancio del partito» promosso da Valori, se è forse ancora in grado di suscitare sporadici sussulti di patriottismo di bandiera, non riesce a rilanciare un organismo ormai allo sbando. Si moltiplicano i segnali di insofferenza anche da parte della «destra»75. All’inizio del 1972, nell’imminenza delle elezioni politiche anticipate, si verifica una nuova ondata di dimissioni dal partito, da «destra» (Scarrone, Menchinelli ed Egoli annunciano il ritorno al Psi76) e «da sinistra» (Francesco Indovina, con altri esponenti della federazione milanese, passa al gruppo del Manifesto). L’appuntamento elettorale che attende il partito il 7 maggio non potrebbe presentarsi sotto auspici peggiori. 74   Ivi, Circolare del segretario del partito Dario Valori ai direttivi di federazione e ai segretari di sezione, 19 novembre 1971. 75   Una lettera di Scarrone a Valori l’11 dicembre lamenta la mancata pubblicazione di un articolo su «Mondo Nuovo»: FIG, APSIUP, 1971, busta 4045, Direzione, Corrispondenza varia. Nello stesso fascicolo si trova anche un documento di notevole interesse, non datato e firmato Boiardi, Egoli, Menchinelli e Scarrone, Una proposta politica di rilancio del Psiup per il rilancio dei socialisti a sinistra. 76   Si veda la dura reazione di «Mondo Nuovo», Solo diserzione, 12 marzo 1972.

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3. Eutanasia di un partito Lacerato dalle divisioni interne, il Psiup fa comunque ancora onorevolmente la sua parte sulla scena politica italiana, che è diventata sempre più instabile, percorsa da tensioni alla luce del sole, ma anche da sotterranee manovre eversive che lanciano il loro messaggio con ripetuti attentati dinamitardi, e da scoppi di violenza sempre più diffusa, scatenati soprattutto dalla destra neofascista. Il centro-sinistra arriva esausto alla scadenza delle elezioni presidenziali del dicembre 1971, profondamente diviso al suo interno sia sulle linee guida della politica economica, sia dalla decisione della Dc di impugnare l’arma referendaria contro la legge sul divorzio approvata un anno prima. Su questo tema il Psiup assume subito una posizione molto simile a quella del Pci: disponibilità a discutere modifiche alla legge che possano «migliorarla, rispondendo alle esigenze più serie degli ambienti cattolici democratici», purché questo non significhi uno snaturamento dei suoi contenuti77. È una posizione che qualche malumore alla base lo suscita: la federazione di Grosseto telegrafa il 22 novembre alla Direzione dichiarando «evidente necessità no Psiup ulteriori trattative sul divorzio». Ma il segretario del partito Valori la richiama subito all’ordine: «A nessuno può sfuggire che il referendum è uno strumento per cercare di spostare a destra l’asse politico italiano e per creare un’assurda divisione tra cattolici e laici, mentre invece tutte le nostre impostazioni di questi anni sono dirette ad unire i lavoratori cattolici e i lavoratori di ispirazione marxista su comuni posizioni di classe»78. L’atteggiamento della Direzione è comunque approvato all’unanimità dal Comitato centrale, così come unanime è la scelta di muoversi, durante le elezioni presidenziali, in pieno accordo con il Pci e con il Psi, per battere la candidatura di Fanfani e favorire 77   La posizione del Psiup: disponibilità alla trattativa, fermezza contro ogni ricatto, in «Rassegna socialista», 30 ottobre 1981. In una circolare ai segretari delle federazioni, Valori riferirà poi il 15 novembre 1971 della «impressione che esista un margine di possibilità per evitare il referendum, ma che esso sia molto esiguo, e che contro un accordo si muovano potenti forze, della destra clericale e dei settori di destra dei partiti laici che collaborano poi con la Dc al Governo» (FIG, APSIUP, 1971, busta 4045). 78   FIG, APSIUP, busta 4051, Regioni e province, Grosseto.

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quella di Moro. Il disegno fallirà e il Psiup si limiterà ad appoggiare disciplinatamente le candidature di bandiera, prima di De Martino79 e poi di Nenni. Se nel 1964 era stato sdegnoso e irritato spettatore dell’elezione di Saragat, questa volta può almeno compiacersi di non essere isolato, e di condividere con tutta la sinistra la sconfitta politica subita nel dicembre del 1971 con l’elezione di Leone: ma sempre di sconfitta si tratta. Di fatto, si tratta anche di una sorta di «rompete le righe»: l’uscita dei repubblicani dal governo il 15 gennaio 1972 prelude alla fine anticipata della legislatura, che in fondo non è sgradita né alla Dc né al Pci perché rinvia di almeno un anno la scadenza del referendum. Degli attori della scena politica italiana, il Psiup è probabilmente quello che ha meno da guadagnare da un voto anticipato in primavera, visto il trend delle ultime consultazioni elettorali, e visto anche che dovrà misurarsi con almeno tre liste concorrenti: il Manifesto, la lista di Servire il popolo dei filo-cinesi e il Movimento politico dei lavoratori di Livio Labor, espressione della sinistra sindacale cattolica. Scontata, a questo punto, è la decisione della lista unica al Senato con il Pci e gli indipendenti di sinistra, che passa stavolta senza incontrare opposizione. Ma la preoccupazione di un insuccesso è forte. In realtà l’esito del voto del 7 maggio 1972 è molto peggiore del previsto: mentre la Dc (38,8%) ricupera una buona parte dei voti persi a destra e il Psi raggiunge il suo minimo storico con il 9,6%, a sinistra si registra un lieve incremento del Pci (27,2%), che però non basta a compensare la débâcle delle liste minori: le quali raccolgono tutte insieme più di un milione di voti, ma non eleggono nemmeno un deputato. La sconfitta è particolarmente amara e bruciante per il Psiup, che alla Camera con 648.368 voti tocca la percentuale dell’1,9%. I risultati sono omogeneamente negativi in tutta Italia: in nessuna circoscrizione il partito raggiun-

79   Una lettera a De Martino non firmata, ma probabilmente dei gruppi parlamentari del Psiup, esprime in forma particolarmente calorosa il ringraziamento «per l’impegno, la dignità, il disinteresse con cui hai guidato, nell’elezione del presidente della repubblica, la battaglia dei Partiti e dei gruppi democratici e di ispirazione socialista che, nel pieno rispetto della reciproca autonomia, hanno realizzato sul tuo nome una significativa convergenza politica» (FIG, APSIUP, 1971, busta 4064, Corrispondenza singoli).

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ge il 3% (dove più ci si avvicina è in quelle di Parma, Modena, Piacenza e Reggio Emilia), mentre a Lecce, Brindisi e Taranto arriva a stento allo 0,7%. Rispetto all’esito del 1968, i voti sono nel migliore dei casi dimezzati (in Umbria, nelle Marche, in Veneto, in Sardegna), più spesso ridotti a un terzo: e questo avviene anche nelle zone in cui la presenza del partito è stata più viva e attiva, come in Piemonte, in Lombardia e in alcune circoscrizioni toscane. La batosta è particolarmente dura a Roma e a Genova80. Il dramma è che il Psiup non vede scattare il quorum necessario per accedere alla ripartizione dei resti: se la soglia, in almeno due casi sfiorata, fosse stata varcata, gli avrebbe consentito di avere una decina di seggi in tutta Italia. Comprensibili, allora, le polemiche acrimoniose contro i gruppi dell’estrema sinistra81, che con risultati ancora più esigui hanno bruciato la possibilità per il Psiup di una rappresentanza alla Camera82. Ma, in realtà, anche nell’ipotesi che il partito non fosse stato escluso da quel ramo del Parlamento, la sua sorte era con ogni probabilità segnata. Forse solo un’irrealistica combinazione di risultati elettorali che avesse visto arretrare il Pci e ancor più penalizzati i gruppi minoritari avrebbe potuto ritardare l’esito che già dalla primavera del 1971 era scritto: il dissolvimento del partito. Le tappe di questo processo sono anche più rapide di quello che si poteva immaginare. Il gruppo dirigente in carica ha già fatto la sua scelta, e ha fretta, come gli verrà rimproverato, di mettere il partito di fronte al fatto compiuto. L’esito del Comitato centrale che si svolge dal 23 al 24 maggio viene in realtà già predeterminato il 9 maggio, subito dopo il voto, dalla decisione presa a maggioranza in Direzione di convocare a breve termine

80   Un quadro dettagliato dei risultati elettorali del Psiup è in «Mondo Nuovo», 14 maggio 1972. 81   «A Milano-Pavia il nostro partito ha raccolto 51.249 voti, poco meno di 5000 al di sotto del quoziente richiesto. Ebbene, il Manifesto nella stessa circoscrizione ha raccolto, nonostante la cinica e tambureggiante strumentalizzazione della candidatura di Valpreda, 24.428 voti»; anche a Catania, dove il quoziente è stato mancato dal Psiup per meno di 2000 voti, gli 8289 voti andati al Manifesto «hanno assolto il loro compito di danneggiare la sinistra» («Mondo Nuovo», 14 maggio 1972). 82   Al Senato gli eletti psiuppini sono 11, ovvero 2 in meno che nel 1968.

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un congresso a cui sia sottoposta la proposta dello scioglimento del partito e della sua confluenza nel Pci83. La relazione introduttiva di Valori al Comitato centrale ne dà conferma, anche se, rispetto al piccolo cabotaggio delle schermaglie correntizie degli ultimi mesi, ha il timbro di una riflessione di maggior respiro. Il segretario cita i dati del voto soprattutto nelle grandi città, «che non possono non richiamare brutalmente al problema dell’effettiva incidenza del partito nel paese, fra i lavoratori e le masse». Rivendica al Psiup «la fierezza delle scelte fatte, l’orgoglio del ruolo tenuto, la consapevolezza della funzione svolta», ma non accetta di ridurre il partito «a ciò che non ha mai né pensato né voluto essere, [...] un sollecitatore, più o meno vivace, di limitate esperienze nei confronti di altre organizzazioni della classe». Nelle condizioni date, l’approdo della sinistra socialista non può dunque che essere «un partito capace di convogliare attorno al suo programma la grande maggioranza della classe operaia», e questo partito è il Pci. Poco contano le differenze «tattiche» che con esso vi sono state e vi sono84. Dalle linee della relazione di Valori non si discosta il documento presentato dalla maggioranza del partito, primo firmatario il siciliano Salvatore Corallo, che si pronuncia per la confluenza nel Pci85. Quanto agli altri due sbocchi che si delineano nel Comitato centrale per il futuro del Psiup, uno è ampiamente scritto negli ultimi mesi di vita del partito, ed è il ritorno alla «vecchia casa» socialista. La scelta è stata anticipata, come si è visto, prima da Ardenti e Lizzadri, poi da Menchinelli e Scarrone: resta a sostenerla, dopo lo scacco elettorale, una minoranza ancora abbastanza significativa. Nel documento che essa presenta al Comitato centrale di maggio si riafferma la validità della presenza della «forza di sinistra socialista come componente importante dell’articolazione della sinistra italiana, anche per riaprire la dialettica di classe

83   Il verbale della Direzione del Pci dell’11-12 maggio (FIG, APC) dimostra che i vertici comunisti hanno già perfettamente chiari gli schieramenti delineatisi nel Psiup, e sono messi in qualche modo di fronte a un fatto compiuto, venendosi a trovare nell’impossibilità di «pilotare» come avrebbero voluto il suo processo di dissoluzione. 84   «Mondo Nuovo», 28 maggio 1972. 85   «L’Agenzia socialista», 25 maggio 1972.

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all’interno della Dc», e si ritiene «più utile per il movimento operaio» che la sua lotta continui all’interno del Psi, che può offrire la possibilità di questo impegno86. L’elemento di sorpresa non sta qui tanto nelle argomentazioni con cui si motiva la scelta, quanto nei nomi di chi la sottoscrive: fra questi vi è Vincenzo Gatto, vicesegretario del partito, che per otto anni lo ha gestito in stretta collaborazione con Vecchietti e Valori, e il presentatore del documento è uno degli esponenti più qualificati della sinistra, Giuseppe Avolio. Ma è proprio la sinistra che dopo il 7 maggio si rompe definitivamente in almeno due tronconi. Uno presenta un documento per la continuazione del Psiup, il cui primo firmatario è Guido Biondi87; ma dei 29 membri del Comitato centrale che hanno sottoscritto, ancora alla fine di ottobre del 1971, la mozione unitaria della sinistra contro il nuovo assetto del partito, 17 decidono ora di schierarsi per la confluenza nel Pci: fra loro alcuni sindacalisti di prestigio, come Alasia, Guerra e Militello, e altri «storici» esponenti della minoranza, come Asor Rosa, Dosio, Pupillo, Princigalli, Tirelli e – questa la sorpresa maggiore – Lucio Libertini. Il dibattito che si apre sulla relazione di Valori del 23 maggio è di fatto tutt’uno con la discussione precongressuale che si svilupperà sulle colonne di «Mondo Nuovo», poi al Comitato centrale del 13-14 giugno88, e infine nel corso del quarto e ultimo congresso del partito, svoltosi all’Eur dal 13 al 16 luglio 1972. Ne ripercorreremo perciò le linee senza rispettare la successione temporale, perché di fatto le diverse posizioni cristallizzatesi alla   Ibid.   Ibid. Insieme a Biondi lo sottoscrivono dieci membri del Comitato centrale: oltre ai toscani (Biancolini, Maffei, Rossi e Miniati), un certo numero di sindacalisti (Ferraris, Giovannini, Lettieri, Sclavi, Tagliazucchi) e uno dei più prestigiosi dirigenti del partito, Vittorio Foa. 88   In questa occasione sono di nuovo presentati tre documenti, molto più lunghi e articolati di quelli del 23 maggio: quello della maggioranza, firmato da 71 membri, quello favorevole alla confluenza nel Psi, sottoscritto da altri 10, e quello «per la continuità e il rilancio del Psiup», firmato da 12 compagni: li si può vedere in «Mondo Nuovo», 28 maggio 1972. In forma più ampia essi sono sottoposti al congresso in luglio con i seguenti rispettivi titoli: Confluenza nel Pci per l’unità della classe nelle nuove condizioni della lotta politica; Il rilancio del Psiup per il rinnovamento e l’unità della sinistra; Per continuare nel Psi la milizia di classe, in «Mondo Nuovo», 18 giugno 1972. 86 87

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fine di maggio non si modificheranno, e ciò che interessa è fare emergere chiaramente il senso delle tre scelte che si confrontano e delle motivazioni che le sorreggono. Va detto, intanto, che gli esponenti delle due mozioni di minoranza sollevano preliminarmente, sia pure senza insistervi troppo, una questione di metodo, contestando alla maggioranza di aver messo il partito di fronte a un fatto compiuto, e di aver deciso fin dal 9 maggio lo scioglimento e la confluenza nel Pci. È un’obiezione sollevata da Vincenzo Gatto («Otto anni di esperienza sofferta, con le sue luci e le sue ombre, contrassegnati da successi e da sconfitte, e da una milizia di base di grande valore morale e politico, meritavano una fase di più serena e attenta riflessione»89) e ripresa da Biondi («il gruppo dirigente del partito non avrebbe dovuto mai dimenticarsi di agire su mandato di un congresso che non aveva adombrato alcuna ipotesi di scioglimento del partito»90), ma fatta propria anche da Libertini91. Vecchietti, nel suo intervento conclusivo al congresso di luglio, replicherà che «i tempi lunghi avrebbero aperto un processo difficilmente arrestabile di disgregazione e di dispersione del patrimonio politico e morale costituito dai militanti del Psiup, e la confluenza nel Pci non sarebbe stata un atto responsabile e coerente, [...] ma una sorta di salvataggio di quelle poche forze che avrebbero evitato il naufragio»92: un’argomentazione non priva di fondamento, che tuttavia non potrà dissipare le perplessità per la fretta con cui viene disposta la «messa in liquidazione» del Psiup. Anche per questa ragione, la partecipazione degli iscritti ai congressi di sezione risulta molto bassa, superando di poco il 32%93.

89   Si veda l’intervento di Gatto in Verso il congresso del Psiup. Le posizioni a confronto, in «Rinascita», 23 giugno 1972. 90   L’intervento di Biondi, al pari degli altri pronunciati nel Comitato centrale del 23-24 maggio, è in «Mondo Nuovo», 28 maggio 1972 (non pare esistere un resoconto più ampio nell’archivio del partito). 91   «Iniziative unilaterali ed intempestive da varie parti hanno pregiudicato la discussione del CC, cercando di porre i compagni di fronte a fatti compiuti» (ibid.). 92   Così Vecchietti nell’intervento su «Rinascita», 23 giugno 1972. 93   Relazione della Commissione verifica poteri, in IV Congresso del Psiup. La scelta del Psiup per l’unità di classe nelle nuove condizioni della lotta politica in Italia, Edizioni di Mondo Nuovo, Roma 1972, p. 276.

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Delle tre posizioni che si delineano, non è difficile immaginare che la più sofferta sia quella dei compagni che si riconoscono nel cosiddetto secondo documento di minoranza, e che propongono il ritorno nel Psi. Hanno un bel dire, gli esponenti di questa mozione, che la loro scelta non rinnega quella compiuta otto anni prima e che, come afferma Renzo Pigni, «noi non andiamo a Canossa, perché riteniamo di aver vinto alcuni appuntamenti: il fallimento dell’unificazione socialdemocratica, il fallimento del centro-sinistra»94: inevitabilmente, il ritorno al Psi suona come il riconoscimento di una sconfitta. Del resto il portavoce più autorevole della seconda mozione di minoranza, Vincenzo Gatto, fa un’analisi del fallimento del Psiup che appare particolarmente impietosa da parte di chi ne ha condiviso per anni la leadership: Il Psiup, protagonista delle lotte contro la socialdemocrazia, non ha saputo [...] cogliere il significato del fallimento della socialdemocrazia unificata, e chiudendosi in una visione sterile e settaria si è condannato alla sconfitta, stretto come si è ritrovato tra un Psi riemergente a un ruolo di classe e un Pci per nulla deciso ad allentare il suo rapporto molteplice e complesso con il Psi95.

Quanto alla scelta che si appresta a compiere, Gatto vede nel Psi «tensioni che riflettono la realtà esterna del movimento di classe e l’influenza di una tradizione non ancora liquidata che è radicata nella storia italiana»96. Dal canto suo, Avolio si dice persuaso che «aggiungere alla grande forza del Pci pochi altri effettivi» non cambierebbe la situazione politica, mentre, con la prospettiva di un’acutizzazione delle lotte di fronte alla controffensiva padronale, è più utile «per il movimento operaio» continuare nel Psi «la nostra battaglia di forza socialista di sinistra»97. Ha il sapore di una sfida anche più ardua la strada indicata dall’altra mozione di minoranza, che rifiuta lo scioglimento del Psiup. È Vittorio Foa ad assumere la parte di «padre nobile» di

  Ivi, p. 152.   V. Gatto, La scelta del Psi un impegno di unità e di rinnovamento, in «Mondo Nuovo», 25 giugno 1972. 96   Intervento di V. Gatto su «Rinascita», 23 giugno 1972. 97   «Mondo Nuovo», 28 maggio 1972. 94 95

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questo schieramento, il cui portavoce più battagliero appare Silvano Miniati. «Un partito [...] non si uccide perché ha subito una sconfitta elettorale, si uccide – o si lascia morire – quando ne è esaurita la ragione di vita», afferma Foa nel dibattito che si apre sulle colonne di «Rinascita» sul futuro del Psiup. E a teorizzare che la funzione del partito non è esaurita sono – insieme a lui – molti esponenti della sinistra. Tra loro Pino Ferraris, che rifiuta «frettolose confluenze» e rivendica la funzione che il Psiup si era assunto fin dalla fondazione di «forza interna al movimento operaio sollecitatrice di una dialettica di rinnovamento e di adeguamento strategico»98; e in termini ancor più decisi si esprime Elio Giovannini, della segreteria della Fiom: Solo un gruppo dirigente demoralizzato e stanco può scambiare il proprio insuccesso con una sconfitta politica del movimento, che per fortuna è ancora tutta da verificare. [...] Il tema sul quale fu costituito il Psiup – dare uno sbocco politico avanzato allo scontro sociale, concorrere a un rinnovamento della strategia complessiva delle sinistre – è tutt’altro che liquidato nel movimento, a meno di accettare le tesi disperate di chi ritenga conclusa con una sconfitta storica la grande offensiva operaia aperta nel 1968-6999.

Alla base della decisione di rilanciare il Psiup vi è dunque un’analisi della fase politica che rifiuta di dare per esaurite le ipotesi su cui la sinistra psiuppina aveva impostato la sua politica nel «secondo biennio rosso», e quindi ripropone immutato il modello di partito allora teorizzato: Un partito – così lo presenta Silvano Miniati nel suo intervento al IV Congresso – [...] prevalentemente immerso nella pratica sociale, che cresce e si sviluppa nel movimento, facendo dell’intervento e dell’iniziativa nelle lotte sociali il campo sul quale organizza il proprio contributo allo sviluppo di un movimento politico di massa [...]; un primo nucleo organizzativo, non sospeso nel vuoto e destinato a consumare al proprio interno le esperienze di cui è portatore, ma capace di ritessere, se pure in condizioni di enormi difficoltà mate-

  Lo spazio del Psiup, in «Mondo Nuovo», 9 luglio 1972.   Ricostruire il Psiup, ivi, 2 luglio 1972.

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riali e politiche, significativi e permanenti rapporti con la realtà del movimento100.

È viva in tutti gli interventi della minoranza «continuista» la preoccupazione di non presentarsi come una forza che vuole «sopravvivere in contrapposizione al Pci», e dunque di non confondersi con il minoritarismo dei gruppi di estrema sinistra: Dai gruppi e movimenti di estrema sinistra – afferma Foa nel suo intervento al Congresso – ci divide, in primo luogo, la volontà unitaria che crediamo pregiudizialmente necessaria anche se, da sola, non basta a caratterizzare la nostra critica. Ci divide anche e soprattutto l’analisi della realtà sociale e politica italiana; non crediamo nella contrapposizione fra le organizzazioni storiche della classe operaia, partiti e sindacati da un lato, e la classe operaia dall’altro come se quest’ultima fosse sempre lanciata all’attacco e le prime sempre impegnate a deviarla o a trattenerla101.

A sua volta Miniati respinge subito come «ridicola» l’accusa «di puntare a un fronte dei minoritari»: Quando parliamo di rilancio e di continuità del partito non pensiamo né ad un club di saggi ridotti a grilli parlanti del movimento operaio, né ad un cartello degli sconfitti che ci porterebbe non ad un partito ma ad una specie di arca di Noé della politica102.

La corrente che si presenta largamente maggioritaria e che si pronuncia per la confluenza nel Pci è unanime sia nel rifiutare ogni credibilità all’idea di agire all’interno del Psi per costruirvi una politica alternativa («non possiamo dimenticare – afferma Andrea Margheri – che le scelte di oggi del Psi non vengono inquadrate [...] in una strategia di trasformazione socialista della nostra società»103), sia nel considerare velleitaria l’ipotesi della continuità del partito. Ma mentre la cosiddetta «opzione socialista» è liquidata abbastanza sbrigativamente, l’impegno   IV Congresso cit., p. 255.   Ivi, p. 98. 102   «Mondo Nuovo», 28 maggio 1972. 103   IV Congresso cit., p. 234. 100 101

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della maggioranza per contestare la scelta della continuità del partito è molto più intenso, e batte insistentemente sugli stessi temi. «Un piccolo partito perde i collegamenti di massa con i lavoratori e rischia di entrare in una spirale gruppettistica pericolosa», afferma Ceravolo104; e Valori attribuisce ai compagni che sostengono la sopravvivenza del partito il proposito «non di tenere in vita il Psiup, il Psiup come storicamente si è costituito, ha vissuto, si è presentato in questi anni ai lavoratori italiani», ma di progettare una rifondazione, un «processo rigeneratore ed innovativo [...] in una posizione che diverrebbe una specie di posizione intermedia tra il Psiup di ieri ed il Manifesto»105 e che non avrebbe alcuno spazio politico. Non meno perentorio è Libertini: Alla durezza della realtà non si può opporre un discorso che alla fine risulta solo metodologico sulla necessaria articolazione della sinistra. L’articolazione si fa al livello delle forze reali. L’articolazione effettiva non risulta dalla moltiplicazione dei gruppi minori (la cui logica oggettiva è una logica di divisione e di dispersione), ma dai rapporti unitari che la forza decisiva dei comunisti riuscirà ad avere con la componente socialista e con la componente cattolica progressista106.

Praticamente è solo questo – la sterilità delle proposte avanzate dalle due mozioni di minoranza – il terreno sul quale una maggioranza che è per molti aspetti eterogenea e innaturale si ritrova unita: le motivazioni che sorreggono la sua scelta di confluire nel Pci sono invece visibilmente diverse. In tutti gli interventi di Vecchietti sembra quasi di avvertire sotto traccia un senso di rassegnazione e di resa: I nostri successi sono stati anche l’origine della nostra crisi – egli argomenta fin dal 21 maggio – [...] Se è vero che siamo stati attori e in un certo senso anche anticipatori della crisi del centrosinistra, è vero anche che siamo stati investiti dalle conseguenze negative del fatto che né le elezioni del 1968 né le lotte successive hanno portato a quel

  «Mondo Nuovo», 28 maggio 1972.   IV Congresso cit., p. 77. 106   Ivi, p. 135. 104 105

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rovesciamento della tendenza politica che noi avevamo individuato come obiettivo della strategia alternativa107.

La posizione di Valori è più articolata. Da un lato egli insiste soprattutto sulle mutate condizioni politiche: è in atto «un massiccio tentativo di spostamento a destra dell’equilibrio politico italiano» e «si va a una radicalizzazione dello scontro che esige anzitutto il massimo dell’unità a sinistra». Dall’altro non rinuncia a rivendicare il ruolo positivo che il Psiup ha assolto negli anni ’60 nel generalizzare «la tematica e la sperimentazione di nuovi strumenti di lotta e di nuovi metodi con i quali organizzare lo scontro di classe»: quello che all’epoca della sua fondazione era «il patrimonio di avanguardie» è oggi diventato «conquista di grandi masse», ma proprio per questo «solo una formazione che raggruppi la maggioranza della classe operaia può far fare un passo avanti al movimento»108. Con questo secondo argomento apre in effetti una prospettiva in cui possono ritrovarsi alcuni dei militanti più legati al sindacato109 o direttamente all’esperienza di fabbrica. In questo senso, è molto significativa la dichiarazione di un gruppo di militanti operai torinesi della Fiat, la larga maggioranza dell’avanguardia che si era distinta nelle lotte dal 1967 in avanti: Abbiamo creduto e crediamo tuttora nella attualità e nella validità della linea del controllo operaio che ha costituito la parte positiva del patrimonio politico e ideale del Psiup che noi intendiamo difendere fino in fondo. Ma allo stato dei fatti non giudichiamo che vi siano le condizioni perché questa politica possa essere realizzata da uno strumento quale è ora il Psiup. [...] Il Pci ha assunto queste questioni nella sua tematica, ha realizzato un rapporto di massa con il movimento dei consigli, è l’organizzazione politica di massa nella quale è aperto

107   Una scelta coerente per l’unità di classe, in «Mondo Nuovo», 21 maggio 1972. Vanno nella stessa direzione sia il suo intervento nel già citato dibattito aperto sulle colonne di «Rinascita», sia il suo discorso al IV Congresso. 108   Intervento su «Rinascita», 16 giugno 1972. 109   Gino Guerra, ad esempio – vicesegretario della Cgil e fino a poco prima molto vicino a Vittorio Foa –, dichiara già al Comitato centrale di maggio: «Perché io scelgo di confluire nel Pci? Per essere dentro al movimento, compagni, è molto semplice, per avere un rapporto corretto col movimento» («Mondo Nuovo», 28 maggio 1972).

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un dibattito nel quale siamo interessati ad intervenire sulla base delle nostre esperienze di lotta110.

È un terreno sul quale si trova evidentemente a suo agio anche Lucio Libertini, il quale del resto è diventato da oltre un anno segretario della federazione torinese. Per la verità, l’andamento del suo percorso verso il Pci non è del tutto rettilineo: nel Comitato centrale di maggio egli sostiene che il voto di due settimane prima ha messo in evidenza due tendenze, «il passaggio della società politica italiana a un sostanziale bipartitismo» e il «progetto neogollista che prende corpo all’interno della Democrazia cristiana», ed è sulla base di questa analisi che motiva la necessità della confluenza nel Pci, anche per impedire a quest’ultimo «un arroccamento del tipo di quello che si è avuto in Francia». Nella stessa occasione, rimarcando il proprio disaccordo esplicito con Valori, Libertini tiene a sottolineare che con il Pci «non esistono solo dissensi tattici», ma che «in questi anni il dibattito è stato di strategia». Avvicinandosi però ad un passo che per un uomo con la sua storia non è certo facile, e che come presto vedremo viene guardato con aperto sospetto anche dai comunisti, il segretario della federazione torinese ridimensiona la portata strategica dei dissensi con il Pci e preferisce mettere l’accento sui grandi temi che sono stati al centro della sua riflessione e della sua esperienza, quelli del controllo operaio e dei consigli, per sottolinearne, certamente con un eccesso di wishful thinking, l’avvenuta appropriazione da parte del Pci: Piaccia o non piaccia, la forza politica più legata nei fatti alla esperienza e al movimento dei consigli è, di gran lunga, il partito comunista. [...] È dunque nel partito comunista che va proseguito un impegno non letterario ma di lotta in una tale direzione; ed è questa una nuova responsabilità dei comunisti, un loro importante banco di prova111.

Nello stesso tempo, Libertini fa valere con forza l’altro tema che ha caratterizzato, già prima del 1968, la posizione della sinistra del Psiup e sua in particolare, cioè 110   Una scelta che scaturisce dalla realtà delle lotte, in «Mondo Nuovo», 2 luglio 1972. 111   Ivi, p. 139.

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l’importanza che per noi ha avuto e ha l’orientamento assunto dai comunisti italiani sui temi della democrazia socialista e dell’internazionalismo, dal memoriale di Yalta alle posizioni illustrate da Longo e Berlinguer prima, durante e dopo la conferenza internazionale dei partiti comunisti [...] Vi è un intreccio profondo tra il grande ruolo internazionale che il Pci va assumendo e il suo collegamento con i temi più acuti di prospettiva della lotta socialista in una società capitalistica avanzata112.

4. Benvenuti dalla porta di servizio Nell’insieme, il dibattito che accompagna l’approdo delle tre componenti del Psiup alle rispettive destinazioni è pacato, senza forzature e senza invettive reciproche. Non si è dissolto del tutto il senso di un’appartenenza che, pur in un crescendo di contrasti, ha segnato per otto anni (ma ben di più in realtà, tenendo conto dell’esperienza della sinistra socialista) la vita di migliaia di quadri e di militanti. E lo dimostrano bene le lettere che compagni di generazioni e sensibilità politiche molto diverse scrivono, sull’onda dell’emozione, alla Direzione del partito. L’insuccesso elettorale toccato al Partito mi ha tanto toccata che temetti per qualche giorno di non potermi riprendere – scrive, anche a nome di altre «anziane compagne», una militante milanese che si scusa per «la tremolante scrittura dovuta all’emozione» e dichiara di aver iniziato a far politica prima della prima guerra mondiale –. A questo piccolo partito ho riposto tante speranze e gli ho dato il poco che potevo con entusiasmo ed impegno, convinta del suo importante ruolo nello schieramento di classe. Ora che su di esso incombe, a quanto pare, il pericolo di scioglimento, vorrei che si facesse tutti gli sforzi possibili per evitarlo113.

Negli stessi giorni un operaio «simpatizzante veronese» scrive a Valori: Io sono molto giovine, ed posso dirti di avere sempre avuto simpatia del partito del quale tu fai parte, sin da quando è stato fondato

  Ivi, p. 140.   FIG, APSIUP, 1972, busta 4064, Corrispondenza singoli.

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[...]. Ho trovato in questo partito ciò che non trovo negli altri sebbene siano di sinistra, trovo in questo partito più unità [...]. Ed sebbene esso abbia un pò tradito le mie aspettative, voglio esprimerti il mio sostentamento morale nel non volere la sfusione di questo partito, unico ed vero rappresentante proletario. Si deve avere fiducia, dobbiamo mantenere in vita il partito, solo così coloro che ci anno abbandonato momentaneamente ritorneranno più sicuri ed certi di avere commesso un errore dando il voto ad altri partiti di sinistra. Se non trovando altra soluzione il comitato decidesse di disfare il partito, ti prego di volermi informare personalmente, se possibile, i motivi per i quali si è giunti ad simile soluzione114.

Altre lettere denotano un’acculturazione politica più raffinata, ma non smentiscono un sentimento comune generale, dal quale non sono immuni i militanti che fanno una scelta consapevole per l’uno o per l’altro partito della sinistra «storica»: L’orientamento di valutare il risultato delle elezioni del 7 maggio con la mentalità del ‘si salvi chi può, la barca affonda’ – scrive un militante da Roma – ha sconcertato e amareggiato quanti hanno creduto nel Psiup, nella sua proposta politica e nella sua funzione nel movimento di classe, forse più della stessa sconfitta elettorale. Non si può disperdere come nebbia un patrimonio politico ideale e morale in cui con impegno e passione tanti militanti e tanti lavoratori hanno creduto. [...] È proprio vero che non ci sono più margini per una serena riflessione sul valore e sul significato della nostra proposta politica e della nostra funzione e che l’unica scelta possibile sia quella della dissoluzione con la confluenza degli sconfitti nell’uno o nell’altro partito?115

Non sappiamo quale sia stata la scelta personale del compagno Giuseppe Musolino, che scrive queste righe. È significativo comunque il tono della sua lettera. Il congresso dell’Eur non ha i toni acrimoniosi e drammatici della scissione del 1964: lascia anzi persino spazio a un po’ di amara ironia, quando Berlinguer, che rappresenta il Pci, incorre durante il suo discorso in un curioso lapsus – che si affretta a correggere – parlando di «una confluenza   Ibid. Non sono stati corretti gli errori sintattici e di ortografia.   Ibid.

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che noi abbiamo voluto e voi avete accettato»116. La stessa decisione dei fautori della sopravvivenza del Psiup di non partecipare all’ultimo giorno del congresso, ma di riunirsi separatamente in un’altra sede, viene annunciata da Silvano Miniati in toni non roboanti, come l’inevitabile conseguenza finale di un distacco compiuto senza traumi. L’esito finale del congresso è scontato: la mozione di maggioranza, favorevole alla confluenza nel Pci, ottiene 71.903 voti, pari al 67,08%; quella per la confluenza nel Psi ne raccoglie 9068 (8,46%). La mozione per la continuità e il rinnovamento del partito si attesta al 23,39% (25.071 voti); 1147 iscritti (l’1,07%) si astengono117. Esaminati federazione per federazione, i risultati riflettono rapporti di forza interni al partito da tempo consolidati. Il revirement di una parte consistente della sinistra, unito ai fenomeni già in atto di fuga verso il Psi e all’uscita «a sinistra» di gruppi importanti di militanti, sposta però in modo notevole gli equilibri a favore della confluenza nel Pci. Le eccezioni alla tendenza generale sono poche: la più clamorosa è a Biella, dove i quadri dirigenti della sinistra se ne sono già andati, ma il congresso di federazione fa comunque registrare 317 voti per la continuità del partito, 118 astensioni e non un solo voto per la confluenza nel Pci o nel Psi. Anche ad Alessandria l’opzione della continuità si afferma con largo margine (60,6%), mentre le scelte di confluenza sono abbastanza equilibrate (il 19,1% per il Pci, il 15,4% per il Psi). In Lombardia solo la federazione di Mantova vota per la mozione Miniati, mentre a Milano i fautori della confluenza nel Pci sono tre volte più numerosi dei «continuisti». Le altre federazioni in cui questi ultimi prevalgono sono, oltre alle tre appena citate, al Nord quella di Reggio Emilia; al Centro quelle di Arezzo, Grosseto, Firenze, Lucca, Pistoia e Siena in Toscana, di Frosinone nel Lazio e di Chieti e Teramo in Abruzzo; nel Mezzogiorno quelle di Brindisi in Puglia e di Cosenza e Reg-

  S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 124. Nel resoconto ufficiale dell’intervento di Berlinguer la frase è così formulata: «l’operazione della confluenza è stata concepita e voluta da voi e intesa e accettata da noi sotto il segno e nella prospettiva unitaria» (IV Congresso cit., p. 189). 117   Relazione della Commissione verifica poteri, in IV Congresso cit., p. 276. 116

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gio in Calabria. La scelta della confluenza nel Psi è maggioritaria solo a Imperia, Napoli e Catania. La partita si gioca sul filo di pochi voti a favore della confluenza nel Pci a Savona, Ferrara, Viterbo e Bari118. Un certo interesse riveste la statistica precisa sulla confluenza nel Pci per quanto riguarda la geografia territoriale e la composizione anagrafica e sociale, dettagliatamente documentate da un censimento effettuato dalla Sezione organizzazione del Pci nell’agosto 1973, circa un anno dopo il congresso di scioglimento119. Risultano confluiti nel Pci 33.437 militanti del Psiup, di cui 26.752 già nel 1972 e 6685 a tutto il 20 agosto 1973120; 71 dei 94 membri del Comitato centrale121, 16 dei 21 membri della Direzione, 79 dei 101 segretari o responsabili del coordinamento delle federazioni, 13 dei 17 segretari regionali o responsabili del coordinamento, 40 dei 54 funzionari e tecnici dell’apparato della Direzione, 8 dei senatori eletti nelle liste unitarie Pci-Psiup, 22 dei 29 ex parlamentari non rieletti nelle elezioni politiche del 1972, 21 dei 26 consiglieri regionali, 338 dei 438 dirigenti provinciali del sindacato, 31 dei 48 dirigenti nazionali della Cgil e delle federazioni nazionali di categoria, 10 dei 13 dirigenti di organizzazioni nazionali di massa (Lega nazionale delle cooperative, Alleanza nazionale dei contadini, Unione donne italiane e Arci) e complessivamente (secondo le stime del Pci) non meno dell’80% dei compagni membri di presidenze e segreterie di «organismi di massa provinciali». Questa prevalenza abbastanza schiacciante di adesioni al Pci risulta un po’ ridimensionata al livello dei quadri intermedi: entrano nel 1972 nel Pci 1754 dei 2935 membri dei comitati direttivi delle federazioni, nonché 1854 dei 3132 segretari di sezione e di nucleo, e 38 dei 71 consiglieri provinciali ancora in carica.

  FIG, APSIUP, 1972, busta 4057, Verbali dei congressi di federazione.   Direzione del Pci, Sezione organizzazione, Documentazione dei risultati della confluenza dell’ex Psiup nel Pci (al 20 agosto 1973), in FIG, APSIUP, 1972, busta 4058, da cui sono tratti tutti i dati che seguono. 120   Anche considerando che i confluiti del 1973 sono sicuramente di più perché mancano i dati relativi a 40 federazioni, i militanti confluiti dal Psiup rappresentano poco più del 2% degli iscritti registrati dal Pci fino al 20 agosto 1973, che sono 1.613.525. 121   Quelli eletti al congresso di Bologna erano in realtà 101, ma 6 avevano già lasciato il partito e uno era deceduto. 118 119

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Dal punto di vista territoriale, solo in poche situazioni periferiche l’apporto degli psiuppini si rivela quantitativamente rilevante per la consistenza complessiva del Pci: i casi più significativi sono quelli di Enna (dove pesa per il 18,9%), Siracusa (10,7%), Pordenone (10,3%). Notevoli sono anche i dati che riguardano federazioni più importanti, come Salerno (7,9%), Brescia (5,8%) e la Sardegna nel suo complesso (6%): tutte zone dove l’insediamento della sinistra socialista era forte e radicato. Appare abbastanza evidente, invece, come le federazioni che hanno sviluppato una politica più radicale e «movimentista» nel 1968-70 diano al Pci un apporto quantitativamente modesto, sia nel caso che si pronuncino a larga maggioranza per la confluenza (come a Torino), sia che optino per la continuità del partito (come in generale in Toscana): nell’uno e nell’altro caso pesano negli effettivi del Pci per non più dello 0,8%122. In termini anagrafici, l’età media dei quadri del Psiup cooptati nei comitati federali del Pci è di 39 anni, dunque relativamente elevata: evidentemente i giovani reclutati nel biennio 1968-69 hanno abbandonato il Psiup già prima o, in misura minore, hanno optato per la scelta della continuità. Quanto alla composizione professionale, gli operai rappresentano circa il 24%, come gli impiegati e i tecnici; gli insegnanti sono il 16,6%, gli studenti il 12,5%, gli addetti all’agricoltura il 5,8%, i liberi professionisti il 10%, i lavoratori autonomi il 5,3%, i pensionati l’1,4%. Il ruolo che vengono a rivestire nel Pci questi quadri può dirsi in generale dignitoso, a volte anche importante, ma mai determinante123. Dei membri degli organismi dirigenti del Psiup, 16 sono cooptati nel Comitato centrale del Pci e 3 nella Direzione (Vecchietti, Valori e Ceravolo: i primi due anche nell’Ufficio politico), 3 nella Commissione centrale di controllo, 6 nel Comitato centrale della Fgci, 103 nei comitati regionali di cui 11 nelle segreterie regionali, 655 nei Comitati federali di cui 143 nei Direttivi (e di questi 37 nelle segreterie di federazione). Due diventano segretari di federazioni assolutamente periferiche (Sira  L’eccezione più significativa è rappresentata da Piacenza, vecchia roccaforte dell’operaismo, dove i militanti confluiti dal Psiup rappresentano il 6,2% della forza organizzata del Pci nel 1973, rispetto a una media regionale dell’1,5%. 123   Cfr. le puntuali osservazioni in proposito di F. Livorsi, Tra carrismo e contestazione cit., pp. 222-223. 122

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cusa e Campobasso). La situazione non cambierà molto, almeno per alcuni anni e soprattutto ai livelli più alti. Tullio Vecchietti avrà il ruolo di presidente della Commissione affari esteri della Direzione comunista e più tardi sarà nel comitato direttivo del Centro per la riforma dello Stato, Dario Valori dirigerà inizialmente la sezione Rai-Tv e problemi dell’informazione occupandosi poi, dal 1975 al 1979, della sezione per le attività ricreative e culturali di massa. Lucio Libertini verrà rieletto parlamentare nel 1976 e presiederà la Commissione trasporti della Camera. Tutti e tre saranno riconfermati per diversi mandati al Senato, ma nessuno avrà un peso effettivo negli organi dirigenti. Libertini sarà uno dei protagonisti della nascita di Rifondazione comunista dopo la fine del Pci124. Se il peso numerico dei militanti confluiti nel Psi è probabilmente maggiore in percentuale125, il loro peso politico è altrettanto poco rilevante. Gatto viene eletto nella Direzione, e più tardi sarà deputato europeo. Più significativa, nel complesso, la carriera di Avolio: eletto anche lui nella Direzione, dal 1973 assume l’incarico di responsabile nazionale della politica agraria e, a conclusione del processo costituente per l’unità nelle campagne, dal 1977 al 1992 avrà l’incarico di presidente della Confcoltivatori, frutto dell’unificazione di varie organizzazioni contadine della sinistra. I quadri intermedi provenienti dal Psiup non avranno nel Psi un ruolo più incisivo di quelli confluiti nel Pci: se l’accoglienza dei transfughi nella «vecchia casa» sarà in genere priva di accenni polemici, e più facile l’integrazione in una cultura politica che era quella d’origine, le leve di comando del Psi non finiranno mai neanche in minima parte nelle mani degli ex psiuppini. Quando il   Al di fuori di loro tre e di Lelio Basso, nessuno degli eletti nel Psiup alla Camera o al Senato sarà riconfermato nel 1976, né nelle liste socialiste né in quelle comuniste. Vittorio Foa verrà eletto nella lista di Democrazia proletaria a Torino e Napoli, ma rinuncerà in favore di altri candidati. 125   I calcoli sono difficili da fare, perché la relazione di Mancini al XXXIX Congresso del Psi (Genova, novembre 1972) non fa alcuna menzione del numero degli iscritti, che erano 465.000 prima dell’unificazione e si possono ritenere intorno ai 400.000 sei anni dopo. La cifra degli ex psiuppini è a sua volta incerta, e oscilla fra i 9000 riportati nelle stime del Pci in estate e i 17.000 di cui parla il Psi all’inizio del congresso (A. Giagni, La scelta socialista dei compagni del Psiup, in «Avanti!», 10 novembre 1972). Complessivamente il loro peso dovrebbe aggirarsi intorno al 3-4%, ed essere quindi un po’ maggiore rispetto al 2% di quelli confluiti nel Pci. 124

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Partito socialista conoscerà, alla fine degli anni ’70, l’inizio di una vera e propria mutazione genetica, a cavalcarla saranno semmai alcuni quadri lombardiani126. È più difficile ricostruire il percorso dei 25.000 militanti che si pronunciano per la continuità e il rinnovamento del partito. Il 16 luglio 1972, a congresso del Psiup ancora in corso, circa 2000 di loro si riuniscono al Supercinema di Roma e danno vita a un nuovo soggetto politico denominato «Nuovo Psiup». Come ammetterà lo stesso Miniati, l’ipotesi su cui si punta, malgrado le ripetute smentite fatte durante il dibattito precongressuale, è quella di «aprirsi ad un rapporto con la Nuova Sinistra o almeno con quelle parti di essa – Mpl e Manifesto – che apparivano più disponibili»127. Il progetto prenderà corpo qualche mese dopo: il nuovo Psiup (la cui forza numerica è stimabile secondo alcuni in 3-4000 militanti)128 si unifica con la sinistra del Mpl che rifiuta la scelta di Labor e Covatta di confluire nel Psi. Aderiscono militanti usciti da Lotta Continua e altre figure «storiche» della sinistra estrema, come Luciano Della Mea. Nel novembre del 1972 si riunisce a Livorno l’assemblea costituente di un nuovo partito, «Unità proletaria» (Pdup), che si riconosce in un documento sulla situazione economico-sociale elaborato da Vittorio Foa. Dopo un lungo e contrastato processo si arriva nel luglio 1974 alle assemblee quasi contemporanee di scioglimento sia del Pdup sia del gruppo del Manifesto. Ma queste due anime della sinistra, da tempo avvitate in un processo di reciproca attrazione-repulsione, non riusciranno mai a fondersi in una realtà omogenea e il successivo congresso di fondazione del Pdup per il comunismo (Bologna, gennaio 1976) «più che un congresso di fondazione sarà l’epilogo di un’unificazione mancata e, fra contrasti e puntigliosi dissensi, aprirà la liquidazione di un difficile tentativo di fusione»129. L’unificazione con Avanguardia Operaia (dopo la presentazione di una lista uni-

126   Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 18-27. 127   S. Miniati, Psiup 1964-1972 cit., p. 126. 128   F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni Ottanta, 3 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli 1993, vol. II, p. 574. 129   Ivi, p. 584. V. anche A. Garzia, Da Natta a Natta. Storia del Manifesto e del PDUP cit.

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taria alle elezioni del 1976) non andrà avanti e la contraddittoria esperienza del Pdup per il comunismo si concluderà nel febbraio del ’77 con la nascita di due distinte formazioni, Pdup-Manifesto e Democrazia proletaria. I destini individuali dei dirigenti che, provenendo dal Psiup, rimangono coinvolti in questo tormentato cammino non saranno molto diversi: rapido passaggio attraverso la galassia dell’estrema sinistra, poi (come Pino Ferraris e dopo il 1980 Vittorio Foa) ritorno all’impegno di ricerca e di studio, spesso nell’ambito dell’Ufficio studi della Cgil. Quasi nessuno di questi quadri diventerà comunista: solo Vittorio Foa mostrerà grande simpatia per l’evoluzione del Pci dopo il 1989. Un po’ a sorpresa, esaurita la fase di un intenso impegno politico nel Pdup, Miniati diventerà nel 1985 segretario della Uil pensionati. Il percorso dei molti quadri intermedi si disperde per itinerari diversi, e non di rado, a distanza di anni, finisce per riapprodare al Pci. Ma torniamo a quei due terzi abbondanti dei militanti del Psiup che scelgono di confluire nel Pci. Quale accoglienza ricevono? E prima ancora, come è giudicata a Botteghe Oscure la decisione della confluenza? Fin dalla riunione dell’11-12 maggio, di fronte all’ormai inarrestabile crisi del Psiup, emerge una notevole articolazione di posizioni nella Direzione comunista. Berlinguer, autore della relazione introduttiva, è preoccupato che «le cose possano restare così anche solo per un breve periodo»: «si avrebbe uno spappolamento in tutte le direzioni». La confluenza decisa dalla maggioranza dunque deve essere accettata, e in tempi brevi, ma mettendo bene in chiaro che «si tratta della confluenza in un partito che mantiene le sue regole di vita interna: il regime interno del Pci non si tocca, non è in discussione». Ma questa posizione, che alla fine s’imporrà, incontra non poche resistenze. Longo, ad esempio, teme la confluenza non solo per ragioni politiche («daremmo un colpo negativo che si riflette negativamente sulla nostra strategia»), ma soprattutto per altri motivi, espressi con brutale sincerità: «Attraverso questa porta spalancata non mancherebbe il rischio di far rientrare i provocatori». Amendola è perfino più pesante: «Evitare che spie patentate entrino nel nostro CC». Terracini pone la questione su un altro piano, ma non è molto più morbido: «I compagni del Psiup smettano la prosopopea con cui hanno sempre trattato verso di noi. Si sono sempre presentati come qualcosa di più di quanto non fossero [...] Bisogna partire ­­­­­277

da questo: veniamo per salvare ciò che c’è di salvabile, e quindi accedete a ciò che noi vi proporremo». Anche altri dirigenti mostrano un atteggiamento di estrema rigidezza. Così Adriana Seroni: «Ma poi chi sono? Sulle capacità di molti dirigenti del Psiup ho dei dubbi. Portano lo spirito del frazionismo nelle ossa». E Chiaromonte: «in molti di quelli che agitano la bandiera della confluenza c’è il marcio dell’anticomunismo». Con maggiore signorilità Napolitano chiede «rispetto per la dignità di questi compagni», ma si dichiara convinto che «c’è una parte del Psiup che ha il consapevole scopo di condizionare la nostra linea politica e di incrinare il nostro regime interno di partito». Altri dirigenti come Macaluso, Iotti e Cossutta, sono meno duri. Ingrao, in particolare, invita a vedere «la questione del Psiup» come sintomo di «un fatto sociale che tenderà a riprodursi»: «il problema è se siamo in grado di fare un’operazione politica, indicando uno sbocco non solo al Psiup ma a una fascia di sinistra». Natta sembra il più consapevole di questa sfida e detta l’indirizzo che poi prevarrà: Avere un’iniziativa, diventare un punto di orientamento, di guida. Credo che dobbiamo cercare di far venire nel Pci chi vuol essere comunista. I modi e le condizioni sono delle subordinate che poi studieremo, valuteremo. Capisco che possiamo correre dei guai. Ma siamo una forza che può macinare, digerire, espellere.

Da questo contesto di generale freddezza e a volte di aperta ostilità si dissociano solo due membri della Direzione: il primo è Giancarlo Pajetta, che rivendica di essere stato nel Pci «il più psiuppino» («gli ho mandato 10 mila lire di sottoscrizione», ricorda a Longo, forse punzecchiandolo per la sua proverbiale tirchieria), e invita i compagni ad «andare [verso la confluenza del Psiup] con lo spirito non di chi accetta la croce, ma dicendo: si fa più forte il Pci». Il secondo, a riprova che la differenza di posizioni non ricalca in questo caso una frattura generazionale, è un uomo della vecchia guardia come Arturo Colombi, che rende pienamente al Psiup l’onore delle armi: Sono una forza. Perché creare ostacoli? Hanno avuto una funzione positiva. Non era facile stare in mezzo a due grandi partiti operai. Il ­­­­­278

fatto che vogliano confluire nel Pci è una cosa naturale. È bene che sappiano che entrano in un partito come il nostro dove non vogliamo degli anticomunisti, né gruppettisti, né provocatori. Però fare uno sforzo per facilitare130.

Mentre in Direzione si svolge questo dibattito molto franco, la questione della confluenza cammina su due altri binari: da una parte attraverso le vere e proprie trattative che Cossutta e Galluzzi sono incaricati di avviare con Vecchietti e Valori, dall’altro attraverso il linguaggio più felpato della stampa di partito131. Ad intervenire per primo è Gerardo Chiaromonte, il quale ritiene «non corrispondenti alla realtà e politicamente pericolose» le tesi sull’affermarsi nella società politica italiana di un «sostanziale bipartitismo» (che erano state, come si è visto, di Libertini ma anche di Vecchietti); ma soprattutto dichiara che «essenziale è stabilire, durante il dibattito congressuale, fino a qual punto i dissensi [con il Pci] siano in via di superamento» e sottolinea, con non poco sussiego, «la necessità di non intaccare e anzi di accrescere il patrimonio prezioso di unità e di disciplina, di rigore culturale e morale, di coerenza, che siamo venuti costruendo in un lunghissimo e faticoso cammino»132. Una posizione tanto fredda da suscitare qualche sconcerto nella stessa base comunista133. Ma intanto viene sempre più alla luce una questione personale, quella di Lucio Libertini, che già nella Direzione dell’11-12 maggio era stato dichiarato da Berlinguer persona non grata. Poco dopo, in un incontro riservato con lo stesso Libertini, Cossutta e

130   Tutti gli interventi citati in FIG, APC, Verbali della Direzione dell’11-12 maggio 1972. 131   A. Coppola, Il Psiup discute sul proprio avvenire, in «Rinascita», 2 giugno 1972, fa un primo equilibrato resoconto delle posizioni emerse al Comitato centrale del 23 maggio. 132   G. Chiaromonte, Non un referendum ma un dibattito politico, «Rinascita», 9 giugno 1972. Molto minore è l’attenzione del Pci per l’ala del Psiup che opta per la continuità del partito. Una critica di essa molto misurata nei toni ma ferma nella sostanza è in A. Natta, La proposta di “rifondazione”, ivi, 7 luglio 1972. 133   Vedi per esempio la lettera di Osvaldo Perini a «Rinascita», 16 giugno 1972: «C’era proprio bisogno, dico io, di mettere in evidenza [...] le cose che bisogna chiarire per entrare nel Pci? Non diamo in questo modo l’impressione agli altri di aver paura che questi compagni del Psiup ci creino qualche preoccupazione nel momento in cui si fondono con noi?».

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Galluzzi gli ricordano, «con tono franco e fraterno», di essersi sempre caratterizzato per «posizioni di permanente contestazione della linea politica del Pci». La risposta di Libertini, che riferiscono fedelmente alla Direzione, è molto chiara: Ho fatto una scelta politica di fondo, quella di abbracciare la linea politica del Pci. Anche se non su tutto mi sono trovato d’accordo col Pci, le mie riserve non hanno mai intaccato la sostanza di questa mia scelta. Yalta, Praga e quando nel ’70 il Pci è riuscito a stabilire un rapporto reale tra partito e movimento: queste tre fasi hanno favorito il mio avvicinamento. Sono disponibile per qualunque conclusione: sia per entrare nel partito e svolgere un lavoro periferico (a Torino) o – se me lo chiedete – a non chiedere subito l’iscrizione. Ma [...] io sono un test, il mio non è un caso personale; godo di una certa notorietà e l’atteggiamento del Pci nei miei confronti avrebbe più larghe ripercussioni. Il problema è se il Pci vuole nelle sue file quelli che sono sempre stati comunisti, o anche chi ha avuto dissensi. Questo avrebbe ripercussioni sul congresso, e fuori del Psiup.

La questione personale di Libertini si intreccia con quella più generale della confluenza, che continua ad impegnare a lungo la Direzione del Pci. Il documento approvato a maggioranza dal Comitato centrale del Psiup il 14 giugno suscita reazioni contrastanti: Napolitano lo giudica «una chiarificazione formale e solo fittizia», e Amendola non recede di un passo dalla sua posizione: la confluenza non avviene attraverso il chiarimento richiesto, «il Psiup porta nel partito caratteristiche marcate di massimalismo, schematismo, settarismo, cose da cui non siamo del tutto esenti noi stessi». Macaluso invece dichiara di non trovare nel documento «elementi tali che non appartengano al dibattito nostro». In generale, rispetto alla riunione precedente, le posizioni sembrano ammorbidirsi: Terracini non ha dubbi che la confluenza sia «una cosa positiva», e considera importante che nel «lungo processo di crisi che si è sviluppato nel campo socialista [...] il Pci sia stato un elemento di riferimento e di sbocco». Anche il segretario regionale piemontese Minucci, pur non lesinando critiche a Libertini, riconosce il ruolo importante che ha avuto nel liquidare la segreteria «estremista» di Pino Ferraris, e mette in guardia dalle ripercussioni che avrebbe in Piemonte un ostracismo contro di lui («nelle fabbriche il Psiup ha più quadri del Psi»). ­­­­­280

Le conclusioni della Direzione del 14 giugno sono affidate a Cossutta, il quale precisa che sulla questione dei «modi della confluenza», che sembra preoccupare molti, «non ci sono impegni di sorta per gli organi dirigenti e l’apparato». Per il problema di Libertini ipotizza una soluzione: sulla stampa del Pci dovrebbe apparire una lettera in cui si chieda come mai Libertini, con i suoi precedenti politici, voglia confluire nel Pci, e la Direzione prenderà una decisione sulla base della sua risposta e della discussione che susciterà134. Alla fine sarà questa la strada adottata, non senza ulteriori discussioni e contrasti: la lettera, che Berlinguer stesso definisce «una cosa provocatoria per portare a un chiarimento», viene emendata in Direzione e attenuata nei suoi toni più polemici su suggerimento di Minucci, Barca e soprattutto Pajetta, e sarà firmata da Luciano Gruppi, membro del Comitato centrale e vice responsabile della sua Sezione culturale. Viene pubblicata quindici giorni dopo su «Rinascita» nella rubrica delle lettere ed è di inusitata durezza: ricorda a Libertini di essersi mosso «da molti anni a questa parte, secondo una linea politica e una concezione del marxismo che è di netta contrapposizione alla nostra»; gli rimprovera di non intendere «i dati fondamentali della nostra politica», dal momento che ritiene «che l’attuale sviluppo capitalistico si muova in contraddizione con la rendita ed abbia la capacità di superare gli elementi di arretratezza precapitalistici assorbendo in gran parte le rivendicazioni democratiche del movimento operaio»; mette sotto accusa la breve biografia di Togliatti che egli ha pubblicato l’anno prima135, «intesa a presentare il nostro compagno come un esecutore della politica staliniana»; e conclude seccamente: «Cosa si propone di fare Libertini allora, con quelle sue idee? Come e perché vuole entrare nel partito? Ciò pone interrogativi e problemi che non mi sembrano risolti»136. Libertini risponde con una lunghissima lettera, in cui prende atto della «brutale franchezza» del suo interlocutore. Facendo   Tutti gli interventi in FIG, APC, Direzione del 14 giugno 1972.   Si tratta di Togliatti, nella collana I protagonisti della storia d’Italia, Cei, Milano 1971. 136   Una lettera di Luciano Gruppi e la risposta di Lucio Libertini sulla iscrizione al Pci, in «Rinascita», 30 giugno 1972. 134 135

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sfoggio della sua consueta abilità dialettica rifiuta di umiliarsi, ma certo compie un’autocritica profonda. Ammette di aver commesso, nel periodo in cui si è trovato «in aspro dissenso con i comunisti», tra il 1946 e il 1955, «un gran numero di sbagli», facendo «prevalere il proprio ‘io’ sulle ragioni complessive della lotta dei lavoratori». Ridimensiona però i suoi contrasti con il Pci a legittime divergenze di linea politica, anche se non nega di avere compiuto talvolta «analisi unilaterali e proprie di un estremismo semplicistico». Rivendica «con profonda convinzione» le ragioni ideali della lotta della sinistra socialista, anche se ne ammette la sconfitta. Volendosi fare interprete evidentemente di posizioni non solo sue personali, critica pesantemente la posizione del gruppo dirigente del Psiup per «l’ambiguità e le contraddizioni» mostrate in occasione della crisi cecoslovacca e «l’assurdo immobilismo [...] al momento della scissione socialdemocratica». Dichiara di accettare il centralismo democratico, citando lungamente la definizione che Belinguer ne ha dato al XIII Congresso del Pci, e conclude con parole cariche di un autentico pathos: Ci si può chiedere l’unità, non l’identità, un processo reale, con tutte le sue contraddizioni, e non un processo fittizio. I cadaveri politici non servono a nessuno, mentre possono essere utili i militanti nei quali alla modestia si sommi la fierezza. Alla domanda di Gruppi – perché Libertini vuole entrare nel Pci – rispondo che vengo non da solo ma con tutti gli altri compagni del Psiup per partecipare a una lotta nella organizzazione politica di classe.

Evidentemente la lettera di Libertini, che in realtà non è un atto di capitolazione politica137, viene ritenuta sufficiente per ammetterlo nel partito, e del suo caso personale non si discute quasi più138. Più in generale, la diffidenza del Pci si attenua. All’ordine

137   Non la pensa così Piero Ardenti, che parla di «autocritica di stampo dogmatico o ecclesiale» (Il mea culpa di Libertini, in «Avanti!», 7 luglio 1972). Libertini risponde con una lettera molto polemica al direttore del quotidiano, Gaetano Arfè, guadagnandosi una risposta al vetriolo, sempre di Ardenti, che parla di «replica tortuosamente bizantina» (Partito di classe e democrazia interna. Una lettera di Libertini e la replica di Ardenti. Dibattito o autocritica?, in «Avanti!», 18 luglio 1972). 138   Resta però il veto al suo inserimento nel Comitato centrale, nel quale

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del giorno della Direzione successiva c’è ormai la preparazione di un Comitato centrale «sulla confluenza del Psiup». Ugo Pecchioli, che relaziona in proposito, dà un giudizio positivo del congresso dell’Eur: Non ci siamo trovati di fronte a un congresso di gente stanca in cerca di un posto sicuro. L’atteggiamento della maggioranza che confluisce è stato chiarito meglio. Sono stati eliminati equivoci, superati atteggiamenti sbagliati nei confronti del Psi. Anche certi accenni autocritici sul loro passato sono venuti fuori.

Quasi tutti coloro che intervengono nel dibattito hanno un atteggiamento più aperto di quello manifestato in precedenza. Longo, per esempio, auspica «una atmosfera da eguale a eguale, di cordialità e di collaborazione», ed è sua la proposta – simbolicamente importante – di riconoscere ai confluenti del Psiup la loro «anzianità» di tesseramento. Solo Giorgio Amendola continua a mostrarsi scettico e perplesso: È un mutamento qualitativo, in questo momento. Sono dei compagni socialisti che entrano nel nostro partito. [...] Ho ragione di dubitare di molte conversioni. Questi sono compagni che hanno avuto certe posizioni, e se non c’è una posizione nostra, una battaglia politica, c’è il pericolo della saldatura di queste posizioni con posizioni che nel partito ci sono139.

Si discute anche del numero e dei nomi dei dirigenti che debbono essere cooptati negli organi direttivi. Rispetto alle indicazioni iniziali di Pecchioli, le maglie si allargheranno un po’: gli psiuppini cooptati in Direzione non saranno due ma tre, e quelli nel Comitato centrale oltrepasseranno la soglia dei 12-15 previsti per arrivare a 16. Il dettaglio con cui si è ricostruita la discussione negli organi dirigenti del Pci può sembrare eccessivo: ma forse non lo è, e non tanto per la storia del «partito provvisorio» che nella maggioran-

sarà nominato solo nel 1975 (IGP, Fondo Giuseppe Garelli, Biografie, busta 1, fasc. 1/1-4). 139   Tutti gli interventi citati in FIG, APC, Direzione del 18-19 luglio 1972.

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za di un corpo di militanti ormai decimato dagli abbandoni più o meno silenziosi compie la scelta che compie, ma per la storia del maggiore partito della sinistra italiana. Tra il 1972 e il 1973 il Pci appare ormai poco assimilabile alla maggioranza dei «partiti fratelli»: è un grande partito di massa, che ha accentuato la sua autonomia dall’Unione Sovietica, e di pari passo anche la propria integrazione nel sistema politico italiano140. Sono tratti non di sola apparenza, ma di autentica diversità. Eppure, alla prova del confronto con una forza quasi esangue, ma comunque portatrice di una cultura politica altra, la sua tentazione di chiudersi a riccio è forte. Gli sporadici inviti che provengono dal suo interno a cogliere l’occasione della confluenza del Psiup per un dibattito politico a largo raggio sulle prospettive della sinistra restano sostanzialmente inascoltati. Di più: scatta in molti dirigenti, di diverse generazioni e di diversa estrazione, un riflesso di chiusura nella propria ortodossia «chiesastica». L’abito mentale del comunismo terzinternazionalista evidentemente non è facile da dismettere nemmeno per un partito il cui tasso di ideologizzazione è fortemente calato, capace tra l’altro (e proprio questa occasione lo dimostra) di un dibattito franco al suo interno. Ma il patrimonio ideale della sinistra socialista si presenta come un’eredità che al Pci risulta difficile accettare, sia pure con il beneficio dell’inventario. Viene guardato con condiscendente sufficienza nella sua versione massimalista, temuto e osteggiato in quella variamente «operaista» (che pure, nell’ala confluente, risulterà alquanto annacquata). Benvenuti sono dunque, ma tutto sommato solo dalla porta di servizio, unicamente i «frontisti» doc: che peraltro al Pci sono sempre stati più graditi fuori dal proprio partito e dentro a un altro, prima il Psi, poi, bon gré mal gré, il Psiup. Certo, questa analisi deve essere sfumata molto nelle particolari situazioni locali, dove nel giro di pochi anni i quadri provenienti dal Psiup saranno integrati nelle file comuniste senza alcuna difficoltà o discriminazione rispetto alla loro origine; e altrettanto si può dire del mondo intellettuale e delle professioni, in cui le risorse portate dalla confluenza dal Psiup saranno in genere apprezzate e utilizza-

140   Per un’analisi a più voci, diverse ma di eguale respiro, cfr. Il Pci nell’Italia repubblicana 1943-1991, a cura di R. Gualtieri, Carocci, Roma 2001.

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te. Nella quotidianità della battaglia politica e ideale, insomma, la crosta dura del Pci ideologico si incrina, il suo tessuto diventa più permeabile. Soprattutto dopo la grande svolta del 1974-75 (con le vittorie nel referendum sul divorzio e alle amministrative) anche gli ex psiuppini sono assorbiti nel corpo del partito, portando il contributo della loro esperienza a un partito diventato più libero, meno ingessato nelle sue gerarchie, ringiovanito dall’afflusso di nuove leve. L’eredità del «partito provvisorio» non va dunque del tutto dispersa. Ma quella che nelle ambizioni doveva essere un’impetuosa corrente, capace di portare acque nuove nel fiume che allora si chiamava «il movimento operaio» e di rimettere in discussione il rapporto di questo con il suo referente storico, «la classe operaia», si divide in tre rivoli dalla portata tutto sommato modesta. La fine del Psiup e la dispersione del suo lascito annunciano la fine del «lungo Sessantotto» italiano.

Indice dei nomi

Abendroth, Wolfgang, 73. Abosch, Heinz, 74. Agosti, Aldo, 13n, 41n, 151n. Alasia, Gianni, 34, 101, 182n, 223n, 224, 262. Albarello, Adelio, 51n. Albeltaro, Marco, viii. Albertazzi, Mario, 118n. Alessi, Maria, 51n. Alicata, Mario, 41, 42, 53, 54, 86, 91n, 97n, 104. Alini, Walter, 51n. Alioto, Pietro, 186n, 204 e n. Amato, Giuliano, vi. Amendola, Giorgio, 43, 52-54, 90n, 93 e n, 94 e n, 100, 154 e n, 162, 216 e n, 223 e n, 277, 280, 283. Amodei, Fausto, 159, 211n. Andalò, Learco, 118n. Anderlini, Luigi, 113, 128n. Anderson, Perry, 73. Andriani, Silvano, 33, 182n, 199, 218, 237, 244n, 249, 250. Angelino, Paolo, 51n. Ansanelli, Vincenzo, 33, 65, 102 e n, 104, 107n, 115n, 116n, 120n, 127, 173, 193, 218, 220, 221, 236n, 243n. Antonini, Nicola, 174n.

Antonioni, Michelangelo, 136. Ardenti, Piero, 33, 67, 76, 82, 91n, 95n, 107, 117, 119, 127, 132, 146, 153, 154 e n, 161 e n, 170n, 184n, 199, 217n, 219 e n, 238 e n, 250, 261, 282n. Arfè, Gaetano, vi, 38, 85n, 200 e n, 282n. Argan, Giulio Carlo, 128n. Argentieri, Mino, 136n. Aristarco, Guido, 131. Asor Rosa, Alberto, vi, 119 e n, 152n, 154, 155n, 157 e n, 193, 223, 236, 237, 257, 262. Attardi, Ugo, 133. Avolio, Giuseppe, 51n, 79 e n, 80, 90 e n, 107, 118, 119 e n, 127, 128, 142, 166n, 177n, 180, 182n, 198, 238n, 249, 262, 264, 275. Bacon, Francis, 134. Baldelli, Pio, 135 e n. Balducci, Luigi, 133. Balzamo, Vincenzo, 52, 57, 58. Barbadoro, Idomeneo, 142. Barbagallo, Francesco, 169n. Barca, Luciano, 54 e n, 238, 239n, 240 e n, 281. Basso, Lelio, 5 e n, 6, 9, 10, 14, 17 e

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n, 19 e n, 22, 23, 25n, 26-28, 31, 32 e n, 33 e n, 34, 39 e n, 48, 49, 50n, 51 e n, 52, 55, 56n, 64, 69n, 75 e n, 77n, 80 e n, 81 e n, 82n, 86n, 92 e n, 94n, 95n, 96, 97n, 104n, 106, 107 e n, 111 e n, 112 e n, 118n, 125 e n, 128 e n, 130n, 132, 149, 151, 152n, 165n, 166n, 174 e n, 175 e n, 176n, 177n, 180 e n, 189, 191, 197-199, 243, 244n, 254, 275n. Battini, Michele, 151n. Beatles (The), 139. Bellocchio, Piergiorgio, 135, 136n, 231n. Bentivegna, Ferruccio, 112n. Benvenuto, Silvio, 51n. Benzoni, Alberto, 14n, 16n, 20n, 23n. Berlinguer, Enrico, 53, 54, 91n, 123, 212, 251-253, 270, 271, 272n, 277, 279, 281, 282. Bermani, Sandro, 51n. Bernardi, Giovanni, 51n. Berta, Giuseppe, 162n. Bertinotti, Fausto, vi, 113n, 229n, 247, 249, 257. Bertucelli, Lorenzo, 219n. Bianchi, Adolfo, 92 e n. Biancolini, Aristeo, 249n, 262n. Biondi, Guido, 34, 102, 127, 164, 182n, 199, 216, 233n, 244n, 249n, 257, 262 e n, 263 e n. Boarini, Vittorio, 132n. Bobbio, Luigi, 151, 152 e n, 156 e n. Bobbio, Norberto, 93n. Bocca, Giorgio, 4. Boiardi, Erasmo, 249, 257n. Boiardi, Franco, 106, 110n, 146n. Bonelli, Guido, 153, 154 e n. Bontempi, Giorgio, 135n. Bordiga, Amadeo, 236. Borin, Angelo, 130n. Bosman, Giovanna, vii. Bourdet, Claude, 83n. Bravo, Gian Mario, 36n. Bresson, Robert, 136 e n.

Brežnev, Leonid, 76, 173, 236. Brunetti, Mario, 80, 127, 142 e n, 194, 240. Bruni, Gerardo, 94n. Bufalini, Paolo, 42. Buffardi, Adriana, 154. Buñuel, Luis, 136. Buonajuto, Mario, 176n. Buzzetti, Dino, 151n. Cacciatore, Francesco, 51n, 60, 178. Calabria, Ennio, 133. Calcatelli, Carla, 61. Calderoni, Maria Rosa, 144. Caliandro, Rocco, 97n. Canestri, Giorgio, 111n, 159. Cardamone, Vincenzo, 191. Carettoni, Tullia, 113, 128n. Carli, Guido, 89. Cases, Cesare, 132n. Castoldi, Giuseppe, 182n. Castro, Fidel, 167, 168. Castronovo, Valerio, 133n. Casula, Carlo Felice, 94n. Cavalieri, Elena, 90n. Cavina, Sergio, 57. Cazzola, Franco, 59n. Ceauşescu, Nicolaie, 82. Cefis, Eugenio, 69. Ceravolo, Domenico, 51n, 64, 126, 127, 199, 212 e n, 218, 247, 267, 274. Cerchia, Gianni, 93n. Ceri, Luciano, 244n, 254. Chiamparino, Sergio, vi. Chiarelli, Raffaele, 176. Chiaretti, Tommaso, 136n. Chiari, Spartaco, 143. Chiaromonte, Gerardo, 103, 104n, 278, 279 e n. Chitarin, Attilio, 131. Chruščëv, Nikita, 16, 39, 76, 81 e n. Ciocchetti, Clemente, 101 e n, 250n, 256. Clerico, Sergio, 109, 110. Colarizi, Simona, 276n. Colletti, Lucio, 132n.

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Colombi, Arturo, 123, 278. Colombini, Arrigo, 176n. Colombini, Chiara, 34n. Colombo, Emilio, 89, 238, 241. Colozza, Roberto, 14n, 31n. Condò, Mauro, viii, 19n, 20n, 35n, 37n, 46n, 58n, 64n, 68n, 81n, 85n, 101n, 106n, 163n, 164n, 188n, 199n, 225n, 228n. Coniglio, Carlo, 118n. Conti, Laura, 165n, 166n. Coppola, Aniello, 279n. Corallo, Salvatore, 191, 261. Corghi, Corrado, 146n. Corona, Achille, 9. Cossutta, Armando, 172, 278, 279, 281. Costa, Antonio, 34, 81n, 102, 127, 199, 253. Costa-Gavras (pseud. di Constantinos Gavras), 136n. Covatta, Luigi, 276. Covelli, Alfredo, 252. Crainz, Guido, 44n, 91n, 117n, 150n. Craveri, Piero, 90n, 232n, 241n. Crimi, Bruno, 141, 160n. Curti, Ivano, 51n. D’Ambrosio, Matteo, vii. Daneo, Camillo, 132n. Daniel’, Julij Markovič, 83. Daolio, Andreina, 211n. De Gasperi, Alcide, 11. De Gaulle, Charles, 84, 161. Degl’Innocenti, Maurizio, 11n, 12n, 23n, 25n, 39n, 47n, 58n, 227n. Della Mea, Luciano, 58, 80n, 81n, 102, 116n, 119n, 202n, 276. della Volpe, Galvano, 35. De Luna, Giovanni, 226n. De Martino, Francesco, 22, 50 e n, 52, 58, 86n, 92, 227 e n, 232n, 248, 259 e n. Di Leo, Rita, 58n. Di Loreto, Pietro, 20n. Di Michele, Andrea, 140n. Dina, Angelo, 34, 257.

Di Prisco, Giuseppe, 51n. Di Vittorio, Giuseppe, 34. Dix, Otto, 134n. Donolo, Carlo, 149n. Donzelli, Giulio, 45n. Dorigo, Wladimiro, 146n. Dosio, Andrea, 101, 127, 128, 194n, 247, 249, 262. Dotti, Lucia, 35n. Draper, Hal, 131n. Dubček, Aleksandr, 169, 170n, 171 e n, 172-174, 185n. Egoli, Emo, 249, 257 e n. Eleuteri, Pietro, 147n. Escalante, Anibal, 168. Evangelisti, Valerio, 23n, 37n, 47n. Fanfani, Amintore, 39-43, 45-46, 95 e n, 96, 258. Feltrinelli, Giangiacomo, 231n. Ferrantelli, Mario, 125n. Ferrara, Giuseppe, 137n. Ferraris, Pino, 24n, 58 e n, 72n, 100, 101 e n, 110n, 127, 148, 158n, 164 e n, 174, 182 e n, 195-198, 199 e n, 212n, 213-216, 225 e n, 231, 234, 240, 244n, 247, 249n, 250 e n, 256, 262n, 265, 277, 280. Ferrero, Adelio, 131, 134, 135 e n, 136 e n, 137 e n. Ferretti, Antonio, 141n. Ficarra, Luigi, 195. Filippa, Andrea, 101, 125 e n, 128, 177n, 182n, 249. Fiori, Giuseppe, 30n. Florit, Ermenegildo, 146n. Fo, Dario, 138. Foa, Vittorio, 15, 19, 21 e n, 22, 30n, 34 e n, 35, 44 e n, 46 e n, 47n, 51n, 52, 56, 65n, 75, 81, 85n, 95, 99 e n, 105, 115 e n, 127 e n, 130n, 132, 153, 164, 177n, 179, 181 e n, 182n, 183, 186, 194, 198, 199, 215, 216, 218, 223 e n, 224, 229n, 234, 236, 242, 244n, 247-250,

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257, 262n, 264-266, 268n, 275n, 276, 277. Forcella, Enzo, 75n, 99n. Franco, Pasquale, 51n, 65 e n. Galanskov, Jurij, 168. Galasso, Franco, 67, 74, 76. Galeazzi, Marco, viii, 74n, 167n. Galli, Giorgio, 24n, 68, 69 e n. Galli della Loggia, Ernesto, 133n. Galluzzi, Paolo, 279, 280. Gandolfo, Andrea, 30n. Gariglio, Bartolo, 94n. Garzia, Aldo, 224n, 276n. Gasperini, Giorgio, 254. Gatto, Simone, 113, 128n. Gatto, Vincenzo, 28, 51n, 52, 63, 64, 79, 80, 103-105, 108, 109 e n, 127, 179, 181, 193, 199, 218, 225, 246 e n, 247, 254, 262, 263 e n, 264 e n, 275. Gelli, Letizia, 209. Gentiloni Silveri, Umberto, 70n. Gerardi, Franco, 107 e n. Germi, Pietro, 135n. Gervasoni, Marco, 276n. Ghiglieno, Alberto, 209. Ghislandi, Guglielmo, 51n. Giachetti, Diego, 149n, 203n, 219n. Giagni, Antonio, 275n. Giammanco, Roberto, 131n, 132. Giannattasio, Nicola, 214. Ginsborg, Paul, 43 e n, 111n, 150n, 202n, 210n. Ginzburg, Alexander, 168. Gioberti, Vincenzo, 27. Giolitti, Antonio, 46n, 48, 89. Giovana, Mario, 82 e n, 140n, 141, 143n, 147n, 184n, 204n, 230 e n, 234. Giovannini, Elio, 22, 25n, 32n, 33, 55, 56n, 92n, 100, 131n, 164, 177n, 179, 181, 182n, 220, 225n, 249, 262n, 265. Gnolo, Doretta, 133. Golias, Paolo, 75n. Gordon, David A., 73n.

Gorresio, Vittorio, 87 e n. Gorz, André, 85. Gozzini, Giovanni, 143n. Gramsci, Antonio, 24, 92n, 103, 132 e n. Graziani, Augusto, 99n. Gregory, Tullio, 128n. Gruppi, Luciano, 281, 282. Gualtieri, Roberto, 284n. Guerra, Gino, 33, 56, 234, 249, 262, 268n. Guevara, Ernesto, detto Che, 168, 208. Gufi (I), 138n. Gui, Luigi, 149. Guiducci, Roberto, 24. Guttuso, Renato, 134. Höbel, Alexander, 77n, 93n, 100n, 150n, 154n, 169n, 171n. Hochuth, Rolf, 96n. Horn, Gerd-Rainer, 85n. Husák, Gustav, 185n, 230, 234. Ichino, Pietro, vi, 146n. Impastato, Peppino, vi. Indovina, Francesco, 194, 218, 234, 236, 244n, 247, 249n, 257. Ingrao, Pietro, 53, 78n, 94, 96, 122 e n, 123, 220, 227n, 278. Inverni, Carlo, v. Foa, Vittorio. Iotti, Nilde, 114, 278. Jacometti, Alberto, 10. Jafrate, Zenone, 140n, 144 e n. Jannuzzi, Lino, 90n. Kerenskij, Aleksandr Fëdorovič, 20. King, Martin Luther, 84. Kosygin, Aleksej Nikolaevič, 76. Labor, Livio, 259, 276. Lama, Luciano, 177n, 227n. La Malfa, Ugo, 90. Lami, Francesco, 51n, 52, 64, 65, 72, 83n, 91n, 127, 193, 196, 247. Lanaro, Silvio, 206n.

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Landolfi, Antonio, 10n. Lannutti, Giancarlo, 141, 184n, 185. Lanzardo, Dario, 35n. Lapasini, Gabriella, 145. Lapiccirella, Renzo, 107n. Lattes, Renato, 58. Lenin (pseud. di Vladimir Il’ič Ul’janov), 180. Lennon, John, 139. Leone, Giovanni, 46, 95, 165, 259. Lettieri, Antonio, 22, 33, 80, 127, 131n, 180 e n, 182n, 262n. Libertini, Lucio, 26, 35, 36 e n, 37 e n, 38, 44, 54, 58n, 65, 67, 75, 80 e n, 81 e n, 82n, 87 e n, 88n, 89n, 90, 94, 95, 97, 98 e n, 99, 101 e n, 103 e n, 104, 105, 109, 110, 111n, 121 e n, 122 e n, 123, 127, 128 e n, 130n, 132 e n, 164, 165 e n, 166, 167, 168n, 169 e n, 173 e n, 177n, 179, 182n, 183 e n, 186, 192, 198, 199, 211n, 218, 223n, 224, 231, 233 e n, 234, 236, 237, 239 e n, 240 e n, 241, 244n, 246, 247, 248n, 249, 250 e n, 252, 253, 255 e n, 256, 257, 262, 263, 267, 269, 275, 279-281, 282 e n. Ligini, Marco, 139n. Liguori, Guido, 211n, 225n. Livorsi, Franco, 76n, 172, 173n, 198n, 213n, 254n, 274n. Lizzadri, Oreste, 9, 11, 12n, 29 e n, 69n, 91, 107n, 127, 173 e n, 250, 261. Lombardi, Riccardo, 10, 15, 22, 41, 46, 47, 52, 58, 85 e n, 89-91, 113. Longo, Luigi, 52-54, 70n, 78n, 96, 104, 109, 113, 183 e n, 212, 227, 270, 277, 278, 283. Loreto, Fabrizio, 201n. Lumley, Robert, 205n, 206n, 215, 216n. Lusciano, Franco, 192. Lussu, Emilio, 29, 30, 51n, 54, 60, 127n, 173, 237 e n. Lutero, Martin, 48. Luxemburg, Rosa, 131, 132.

Luzzatto, Lucio, 28, 51n, 52, 65, 70 e n, 98, 126, 127, 166, 178, 247. Macaluso, Emanuele, 42, 54, 104, 107n, 278, 280. Maffei, dirigente Psiup toscano, 249n, 262n. Maffeo Zannino, Lucia, 33. Maffioletti, Roberto, 64, 227. Magnani, Valdo, 36 e n. Magri, Lucio, 44, 233n. Malagugini, Alcide, 29 e n, 50n, 51n, 95, 107n. Malcolm X, 84. Malle, Louis, 136n. Mammarella, Giuseppe, 241n. Mancinelli, Carmine, 9, 91. Mancini, Giacomo, 275n. Mandel, Ernest, 73, 83n, 85. Mangano, Attilio, 36n, 156n. Mango, Achille, 138 e n. Mangoni, Bruneo, 176n. Mao Tse Tung, 79, 80n. Marcuse, Herbert, 132 e n, 153. Margheri, Andrea, 106, 127, 149, 158n, 194, 198, 214n, 247, 250, 253, 266. Marino, Camillo, 191. Marino, Giuseppe Carlo, 201n. Maroder, Annangela, 133. Martinetti, Cesare, 69n, 70n. Marx, Karl, 197. Mascioli, Lorenzo, 98n. Mattei, Enrico, 69. Matteotti, Giacomo, 30. Mattera, Paolo, 12n, 15 e n, 16n, 21n. Mazzi, Enzo, 146n. Menchinelli, Alessandro, 51n, 54, 63 e n, 65, 75 e n, 109, 113n, 114, 120, 126, 127, 218, 248, 249, 253, 257 e n, 261. Meneghelli, Leopoldo, 143n, 145n. Mercuri, Elio, 134n. Merli, Stefano, 10n, 23 e n, 32n, 35n, 58n, 102. Migliardi, Giorgio, 73n. Mikardo, Ian, 83n.

­­­­­291

Milillo, Vincenzo, 51n. Militello, Giacinto, 216, 262. Minasi, Rocco, 51n, 243. Miniati, Silvano, 29 e n, 34 e n, 52n, 58n, 70, 71 e n, 76n, 95n, 96n, 102, 118n, 165n, 172 e n, 195, 197, 218, 236, 238n, 244n, 245n, 247, 249 e n, 250, 252, 253, 255 e n, 262n, 265, 266, 272 e n, 276 e n, 277. Minucci, Adalberto, 280, 281. Monina, Giancarlo, 9n, 31n. Montali, Edmondo, 205n. Montevecchi, Federica, 34n. Morandi, Rodolfo, 9, 11-14, 16, 27, 28, 35, 92n, 110, 122, 182. Moro, Aldo, 39, 43, 46, 48-51, 63n, 89, 99, 111, 259. Mortara, Menotti, 75n. Motta, Lino, 64. Musolino, Giuseppe, 271. Musso, Eugenio, 211n. Nagy, Imre, 20. Nairn, Tom, 74. Naldini, Vittorio, 51n. Napolitano, Giorgio, 122, 123, 280. Natta, Alessandro, 235n, 278, 279n. Naville, Pierre, 73, 83n. Nencioni, Tommaso, 17n. Nenni, Pietro, 8-10, 13, 15 e n, 16, 17 e n, 18 e n, 19 e n, 20 e n, 2124, 25 e n, 26, 27, 30, 32, 34, 38n, 39-41, 43 e n, 46-49, 50 e n, 62n, 63n, 69, 76, 85 e n, 86 e n, 90 e n, 91 e n, 95 e n, 259. Neri Serneri, Simone, 9n. Nicolini, Renato, 118. Nicosia, Luigi, 33, 65n, 107n, 179. Nobécourt, Jacques, 188n. Nobile, Aldo, 226n. Notarianni, Michelangelo, 132. Novella, Agostino, 91. Occhetto, Achille, 78n, 231n. Oro Nobili, Tito, 91. Ortoleva, Peppino, 149n.

Ottaviano, Franco, 276n. Pajetta, Giancarlo, 42, 54, 96, 123, 200, 278, 281. Palach, Jan, 184 e n. Palmerini, Marco, 256n. Panebianco, Angelo, 64n. Pannella, Giacinto, detto Marco, 112n. Panzieri, Raniero, 20, 23n, 24, 26, 35 e n, 36, 37 e n, 58 e n, 121, 257. Paolicchi, Luciano, 17n. Pappagallo, Onofrio, 167n. Parisella, Antonio, 94n. Parri, Ferruccio, 107, 128n. Pasolini, Pier Paolo, 137 e n. Passerini, Luisa, 151n. Passigli, Marisa, 61, 126. Passoni, Luigi, 51n. Passoni, Pier Luigi, 51n. Pavolini, Luca, 86n. Pecchioli, Ugo, 283. Pedone, Franco, 15n. Pellisari, Luigi, 84n. Penzo, Pier Renato, 134n. Pepe, Adolfo, 219n. Perinelli, Ugo, 51n. Perini, Osvaldo, 279n. Pertini, Sandro, 20, 29, 30 e n, 47. Pesce, Mario, 214n. Petronio, Giuseppe, 20. Picasso, Pablo, 133. Picchiotti, Giacomo, 51n, 91. Pigni, Renzo, 51n, 264. Pinto, Carmine, 46n, 56n. Pintor, Luigi, 86n, 224n. Pintore, Gianfranco, 143n. Pio XII (Eugenio Maria Pacelli), papa, 96n. Piraccini, Guido, 211n. Pisacane, Carlo, 75n. Pizzorno, Alessandro, 201n. Ponomarëv, Boris, 69n. Pontecorvo, Gillo, 136. Preziosi, Costantino, 250. Princigalli, Giacomo, 249, 262. Protti, Daniele, 191, 256.

­­­­­292

Pupillo, Giuseppe, 56n, 107n, 127, 149, 150, 164, 177n, 182n, 213, 214, 216, 247, 249, 262. Quirico, Monica, 36n. Rabaglino, Claudio, viii. Raia, Vito, 51n. Ramella, Franco, 58, 101 e n, 110 e n, 256. Rapone, Leonardo, 7 e n, 8. Reichlin, Alfredo, 124. Resnais, Alain, 136 e n. Restivo, Vincenzo, 176n. Revelli, Marco, 156n, 202n, 222n. Ricciardi, Andrea, 22n, 24n, 34n, 229n. Rieser, Vittorio, 120n. Righi, Maria Luisa, 219n, 229n. Riva, Valerio, 37n, 69n, 70 e n, 71n, 72n. Roda, Giuseppe, 51n, 107n. Rodari, Anna Maria, 4n. Romita, Giuseppe, 14. Ronca, delegato Psiup Pirelli, 206n. Roscelli, Riccardo, 211n. Rosi, Salvatore, 136. Rossanda, Rossana, 16n, 33n, 224n, 233n. Rossellini, Roberto, 143. Rossi, Dante, 244n, 249n, 262n. Rossi, Paolo, 117. Rostagno, Mauro, 151, 152. Rudd, Mark, 186n. Rufo Venturi, Giovanni, 95n. Ruini, Meuccio, 36. Rumor, Mariano, 187, 227n, 233, 234, 237. Saija, Giuseppina, 58n. Salvati, Mariuccia, 32n. Salvemini, Gaetano, 103. Sangiovanni, Andrea, 201n. Sanna, Carlo, 51n, 116n. Santarelli, Enzo, 36n. Santi, Fernando, 34. Santi, Paolo, 132n.

Santomassimo, Gianpasquale, 168n. Santoni, Alessandro, 167n. Saragat, Giuseppe, 14, 19, 27, 32, 36, 45n, 53, 63n, 76, 95 e n, 259. Scalabrin, Roberto, 158n. Scalfari, Eugenio, 86, 90n. Scarrone, Giulio, 65, 67, 127, 226n, 247, 249, 253, 255 e n, 257 e n, 261. Scavino, Marco, 149n, 203n, 219n. Scelba, Mario, 111. Schiavetti, Fernando, 29 e n, 51 e n, 107n. Scirè, Giambattista, 128n. Scirocco, Giovanni, 17n, 21n, 22n, 23n. Sclavi, Gastone, 34, 58, 127, 131n, 180n, 182n, 262n. Sclavi, Marianella, 205n. Scotti, Mariamargherita, 24n. Scroccu, Gianluca, 30n, 52n. Seale, Bobby, 186n. Sechi, Salvatore, 23n, 37n, 47n. Segni, Antonio, 43 e n, 90, 94. Sellitti, Aristide, 51n. Seraglini, Roberto, 176. Sereni, Emilio, 49n, 52. Seroni, Adriana, 278. Settembrini, Domenico, 6n. Signori, Elisa, 29n. Signorile, Claudio, 238. Silone, Ignazio, 138. Sinjavskij, Andrej Donatovič, 83. Sofri, Adriano, 3n. Spada, Celestino, 145. Spazzali, Giuliano, 79. Speciale, Roberto, 192, 216, 249. Spinella, Mario, 132n. Stalin (pseud. di Josif Vissarionovič Džugašvili), 74, 75, 169. Strehler, Giorgio, 138. Strinati, Valerio, 51n. Strippoli, Giulia, viii. Sullo, Fiorentino, 43. Suslov, Michail, 69n, 70 e n. Svoboda, Ludvik, 171 e n.

­­­­­293

Taddei, Francesca, 9n, 36n. Tagliazucchi, Pino, 33, 36n, 65, 72 e n, 73, 83n, 112n, 127, 166n, 171 e n, 184 e n, 257, 262n. Tambroni, Fernando, 39. Tamburrano, Giuseppe, 38, 39n, 46n, 89n, 90n, 111n. Targetti, Ferdinando, 20. Tatò, Umberto, 208. Taviani, Paolo Emilio, 63n. Tedesco, Viva, 14n, 16n, 20n, 23n. Tenco, Luigi, 139. Terracini, Umberto, 91n, 277, 280. Tesoro, Marina, 29n. Therborn, Göran, 73. Tibaldi, Ettore, 51n, 91. Tirelli, Nuccio, 102, 207, 216, 247, 262. Togliatti, Palmiro, 9, 13, 34, 41, 42, 53, 54, 86 e n, 91n, 92 e n, 281. Tolin, Gianfranco, 231n. Tolloy, Giusto, 25. Tomassini, Angelo, 51n. Tozzetti, Aldo, 211n. Tranfaglia, Nicola, 45n, 151n. Trentin, Bruno, 211n, 225 e n. Treves, Claudio, 8. Trivulzio, Angela, 117, 154. Trotskij, Lev Davidovič, 131. Truffaut, François, 136n. Trulli, Giuseppe, 117, 182n, 196, 198, 257. Turati, Filippo, 8, 30. Ucciero, Carmine, 209. Vacca, Giuseppe, 132n. Valobra, Franco, 84n, 137n. Valori, Dario, 5, 20, 21, 23n, 28 e n, 36, 41, 46, 48n, 51n, 52, 54, 60, 63, 64, 80 e n, 81, 88n, 91n, 93 e n, 102n, 103, 104 e n, 105, 107, 108 e n, 109, 118, 119n, 121, 122 e n, 126, 127, 130n, 148, 154, 158,

162, 163n, 164, 177n, 179, 193, 198n, 199, 212-215, 225, 233n, 239, 241n, 247, 251, 253, 254, 255 e n, 256 e n, 257 e n, 258 e n, 261, 262, 267-270, 274, 275, 279. Valpreda, Pietro, 260n. Varé, Vincenzo, 98. Vassalli, Giuliano, 9. Vecchi, Adamo, 64. Vecchietti, Tullio, 4, 5, 9, 17, 18, 19n, 21 e n, 25, 26, 27 e n, 28 e n, 30, 36, 37n, 39 e n, 45, 47, 48 e n, 49, 50 e n, 51n, 52, 54, 57, 63, 64, 69n, 72, 79, 80 e n, 81, 83n, 90-95, 97-99, 102n, 103-105, 107, 108 e n, 109 e n, 112, 114 e n, 118 e n, 121, 122n, 124, 126 e n, 127, 128, 130n, 161, 163 e n, 165n, 166 e n, 171n, 172n, 177, 184, 190 e n, 197-199, 212, 215, 217-219, 225, 227 e n, 231 e n, 232, 233, 234n, 235, 237, 239, 241, 242n, 243, 244n, 245, 246 e n, 248, 249, 251-254, 255n, 256, 262, 263 e n, 267, 274, 275, 279. Vedova, Emilio, 134. Ventrone, Angelo, 117n. Vernocchi, Olindo, 9. Vespignani, Renzo, 134. Viale, Guido, 156 e n. Vincent, Jean, 74. Viola, Franca, 144. Visconti, Luchino, 136, 137. Vittorelli, Paolo, 15. Voulgaris, Yannis, 89n, 95n, 111n. Weiss, Peter, 133, 138 e n. Wilson, Thomas Woodrow, 184n. Zampa, Luigi, 135n. Zannino, Franco, 33, 132, 137n, 168. Zariski, Robert, 45n. Zavoli, Antonio, 146n. Zorin, Valerian, 75. Zucca, Armando, 249.

Indice del volume



Premessa

v

Prologo

3

I. Due partiti in uno

7

1. La tradizione di sinistra e il partito morandiano, p. 7 - 2. La divisione in correnti, p. 16 - 3. Le sinistre socialiste, p. 26 - 4. Il piano inclinato della scissione, p. 37 - 5. Il XXXV Congresso socialista e la scissione, p. 47

II. Il difficile consolidamento del Psiup

55

1. Radiografia del nuovo partito, p. 55 - 2. La struttura, l’organizzazione, i finanziamenti, p. 63 - 3. La collocazione internazionale, p. 72 - 4. Il nemico è il centro-sinistra, p. 85 - 5. «Nella fabbrica avviene lo scontro decisivo», p. 97

III. Un partito vitale ma diviso e le sue coordinate culturali

108

1. «Così si forgiano i militanti...», p. 108 - 2. Un partito vitale ma diviso, p. 120 - 3. «Un marxismo rigoroso e crea­ tivo»: la cultura del Psiup, p. 129 - 4. Le contraddizioni e i ritardi dello sviluppo, p. 140

IV. Il movimento studentesco e la gelata di Praga 1. Gli studenti nel 1967-68: un movimento di classe?, p. 148 - 2. La gelata di Praga, p. 165

­­­­­295

148

V. «La storia ha la febbre»

187

1. «Burocrati» e «capelloni»: il II Congresso del partito, p. 187 - 2. «Prima l’azione, la coscienza dopo», p. 201 - 3. Il «secondo razzo», p. 215

VI. Il declino, lo scioglimento, l’eredità

229

1. Segnali di crisi e battaglie di principio, p. 229 - 2. Il partito allo sbando, p. 242 - 3. Eutanasia di un partito, p. 258 - 4. Benvenuti dalla porta di servizio, p. 270



Indice dei nomi

287