Il mito in Grecia [4. edizione]
 9788842052210

Citation preview

��a\���

Fritz Graf Il mito in Grecia

Economica

Che cosa è stato il mito greco e quali sono i motivi della sua inesauribile vitalità? Graf risponde alla domanda ripercorrendo i vari momenti storici della presenza del mito nella culrura

����������� �

greca: ne1 poem1 ep1cJ come nelle raffigurazioni. cosmologiche, nella storiografìa come nella tragedia, presso gli allegoristi come presso i filosofi. Una introduzione chiara

�����������

e puntuale al mito greco, che ne rintraccia la presenza in molti aspetti della vita sociale e della civiltà di ieri e di oggi.

Fri tz Graf ha condotto studi di filologia classica e archeologia

a Zurigo e Oxford ed è stato membro dell'Istituto svizzero di Roma. Ha insegnato alle università di Basilea e di Princeton e attualmente è professore di greco e latino alla Ohio State University. Si interessa di letteratura, religioni e mitologie dell'antichità classica e di epigrafia antica. Tra le sue opere tradotte in italiano, per i nostri tipi

La magia nel monÌo antico. In copertina: Medusa. Mosaico. Atene, Museo Archeologico azionale.

g a: UJ

� ISBN

978-88-420-5221-0

l 1111 l

9 788842 05221 o € 9,00 (i.i.)

o r

� a:

o

Fritz Graf

ll mito in Grecia Traduzione di Cinzia Romani

8 Editori LAterza

Titolo dell'edizione originale

Griechische Mythologie © 1985, Artemis Verlag, Miinchen-Ziirich Nella «Economica laterza� Prima edizione Quarta edizione

1997 2011

Edizioni precedenti: «Universale laterza�

1987, 19882 www.laterza.ie

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio SEDIT - Bari (lcaly) per conco della Gius. laterza & Figli Spa ISBN

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche

ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni

lecita solo per

fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmeccere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

978-88-420-5221-0

2011

PREMESSA ALL'EDIZIONE ITALIANA

La pubblicazione di questa traduzione mi ha dato l'occasione non solo di correggere qualche errore della prima edizione tede­ sca, ma anche di arricchire il testo di un piccolo apparato di note . Così, dando l'informazione minima necessaria per chi vuole far uso scientifico di questo volumetto, spero d'averlo reso un po' più utile agli studenti e ai docenti, senza per questo allontanarlo da quel generai reader a cui era originariamente destinato. Rin­ grazio l'editore d'avermi permesso questo accrescimento di dimen­ sione e utilità. F.G.

Zurigo, maggio 1987

I L MITO IN GRECIA

Introduzione TENTATIVO DI DEFINIZIONE

Si crede di sapere che cos'è un mito, di poterlo riconoscere fa­ cilmente. Ci sono storie come quelle di Orfeo, Edipo o dell!l bella Elena, che appartengono al patrimonio culturale europeo, ma che possono anche avere i loro corrispettivi presso gli egizi e i germani, gli indiani e i boscimani. Si sa anche che l'espressione deriva dal greco: ben più raramente, invece, si sa che il mito greco ha definito che cosa si debba intendere per mito. Eppure, già molto tempo prima che nascesse l'etnologia, ci furono studiosi dell'antichità, grecisti, i quali si occuparono ampiamente del mito in modo scientifico. Tuttavia trovare una definizione soddisfacente del mito non è facile, nonostante l'intenso lavoro scientifico di due secoli e mezzo abbondanti: troppe definizioni sono state proposte e poi ritirate. Forse, come punto di partenza si può assumere il più banale, il più incontrastato: i miti sono racconti tradizionali, traditional ta/es 1 • Che il mito sia una narrazione, lo spiega da sé l'etimolo­ gia stessa della parola: per gli antichi greci fLii9oç era semplice­ mente «la parola», «la storia», sinonimo di Myoç o t7toç; un fLu9oMyoç è un narratore di storie. Solo la diffidenza nei confron­ ti delle storie tradizionali limitò il significato: Erodoto, contem­ poraneo dell'illuminismo sofistico, usa la parola per la prima volta soltanto per indicare storie inattendibili; e Tucidide separa la sua storia, narrata con nuove pretese di verità, dalla semplice narra­ zione, 'tÒ fLU9w8eç; solo la nuova arte della dialettica platonica si distingue per più acuta concettualità, contrapponendo ai fLii9oL, che spesso sono bugie, i MroL, affermazioni dialetticamente dimo­ strabili 2 . Da qui deriva quel significato.del mito come idea alla quale si crede ostinatamente ma in fondo inesatta («il mito della virilità»), che la parola ha anche in tedesco.

Però, il mito è una particolare forma di storia. Non coincide con un testo preciso e nemmeno con un preciso genere letterario: come Clitemnestra uccise il grande re Agamennone, suo marito, e come poi suo figlio Oreste si vendicò di sua madre, lo narrano tutt'e tre i grandi generi della letteratura greca, l'epos (prevalen­ temente all'inizio dell'Odisseo), la lirica corale (ad esempio Stesi­ coro nell'Orestea), e tutt'e tre i tragici. Il mito non è il testo poetico attuale, ma lo trascende: è il soggetto, una trama fissata a grandi linee, con personaggi abbastanza fissi, che il singolo poeta può variare solo entro certi limiti. La singola variazione, la singola ope­ ra poetica hanno un autore, il mito no: esso viene rimbalzato di generazione in generazione, senza che si sappia di un creatore di miti - già questo vuoi dire 'tradizionale'. Naturalmente, ciò, va­ le già per la poesia orale, preletteraria: anche qui la singola varia­ zione ha un suo autore preciso, e certi cantori sono migliori, più popolari di altri - manca solo la registrazione di questa variazio­ ne, che così ogni volta scompare con l'unica esecuzione. Anch'essa è poetica: la lingua della poesia orale non è meno lingua d'arte di quanto non lo sia quella della letteratura greca. Gli imitatori letterari dei miti erano pienamente consapevoli di questa tradizio­ nalità: la storia di Atlantide, invenzione personale di Platone, la sentì raccontare, secondo quel che dice egli stesso, suo zio Crizia dal nonno, che a sua volta l'aveva sentita dal proprio p"adre: il quale, a sua volta, l'aveva appresa da Solone, e Solone l'aveva portata con sé dall'Egitto, come materia per una poesia: la storia si perde lontana nel tempo e nello spazio3 • Una conseguenza naturale di questa definizione è che il mito può essere tradotto, senza alcuna perdita, da una lingua all'altra (il che, per Lévi-Strauss, era indizio del fatto che ciò che conta è solo la struttura): ogni riassunto è traducibile, contrariamente alla singola opera poetica, che non si può mai tradurre senza qual­ che perdita. Anche quelli che nella nostra letteratura occidentale vengono raccontati come miti dei popoli privi di scrittura, non sono altro che riassunti di questo genere. Solo in tempi più recen­ ti si è cominciato a registrare direttamente racconti mitologici at­ tuali dell'Africa nera e si è notato che, come genere d'opera d'arte totale - musicale, drammatica e narrativa - non li si poteva as­ solutamente trascrivere senza perdite, né tantomeno tradurre in una lingua occidentale. 2

Il motivo della continua riformulazione , il motore , per così dire , della tradizione è la pretesa del mito alla cogenza: il mito vuole esprimere qualcosa di valido sulla nascita del mondo, della società e delle sue istituzioni, sugli dèi e il loro rapporto con gli uomini, in breve su tutto ciò che determina l'esistenza umana. Se cambiano le circostanze , cambia anche il mito: proprio in questo continuo adattamento alle esigenze che di volta in volta si eviden­ ziano, si rivela la sua carica vitale; adattamenti del genere sono ampiamente documentati nelle culture prive di scrittura, nella poe­ sia orale\ ma si trovano anche nella Grecia antica. La crisi del mito presso i greci arrivò proprio nel momento in cui la cogenza della sua narrazione venne revocata in dubbio dalla nuova razio­ nalità critica, e contemporaneamente nel momento in cui suben­ trò la versione poetica, formulata una volta per tutte, al posto della tradizione corrente , narrata sempre in modo nuovo. Però la pre­ tesa di verità continuò a sopravvivere anche successivamente; an­ cora la scuola retorica definiva il mito come «una narrazione fuorviante che rappresenta la veritb5 ; e fino alla fine dell'anti­ chità (e anche oltre) interpreti allegorizzanti cercarono di trovare verità filosofiche e fisiche sotto la superficie delle narrazioni tra­ mandate, salvaguardando così la cogenza del mito. Lo stesso Pla­ tone , che risolutamente lo esclude dalla sfera della verità, dal mito si aspetta perlomeno enunciati nel campo in cui l'argomentazio­ ne dialettica non basta 6 • Certo, la cogenza del mito è diversa da quella dell'enunciato filosofico : la seconda vale per colui che , ritenendola razionale, può confermarla per sé - e questo ne limita la validità al filosofare , dilatandola però contemporaneamente in spazio e tempo: in ogni momento e ovunque un singolo può esperire , per sé, la cogen�a di un'affermazione filosofica. Il mito, invece , vale solo per una comunità fortemente delimitata nello spazio e nel tempo, nella cui tradizione si sia formato. A questo si connette il luogo sociale della narrazione mitica. Platone distingue tra miti «maggiori» e «mi­ nori»: i minori vengono raccontati da madri, nonne , balie; i mag­ giori dai poeti (Repubblica, 377 c). La distinzione è legata soprattutto alle occasioni: balie e nonne raccontano storie quan­ do ce n'è motivo; la narrazione dei miti poetici dei greci fino a Euripide è pubblica e legata ad occasioni precise , rituali. Le tra­ gedie si rappresentano solo alle Dionisiache , le feste cittadine di 3

Dioniso; i canti corali sono legati a feste per divinità o a celebra­ zioni per le vittorie, che a loro volta non sono festeggiamenti privati, ma di Geno, File o Polis; del pari, la recitazione dell'epos ha luogo, perlomeno in periodo postomerico, soprattutto in cir­ costanze precise: Omero viene recitato ad Atene nelle Panatenee, Esiodo si declama alle esequie di un nobile eu beo; perfino la liri­ ca monodica è vincolata allo stesso modo; Archiloco e Alceo si declamano soprattutto durante il simposio, che ha carattere di rap­ presentazione rituale; Saffo ai riti del suo tiaso femminile 7 • C'è di più: abbastanza spesso la recita ha per sfondo una competizio­ ne sportiva, come la rappresentazione di tragedie o l'agone rap­ sodico: una determinata variazione poetica del mito tradizionale viene assoggettata alla censura della collettività; è il giudizio del gruppo, che limita la flessibilità della materia mitica. Euripide, quello che più si è allontanato dalla tradizione, ha anche vinto più raramente. Il cambiamento storicizzante nella narrazione dei miti, che razionalizzando annulla ogni inverosimiglianza, ha ini­ zio col libro di prosa che scrive Ecateo di Mileto e che viene sot­ tratto alla censura diretta della polis o del gruppo; parimenti si emancipano da questo controllo i filosofi e i poeti postclassici . A scanso di equivoci: non vogliamo qui riesumare la vecchia tesi, sostenuta anche in questo secolo, secondo cui il mito sareb­ be poesia, «una creazione estetica della fantasia umana» 8 • Di cer­ to però, presso i greci e dopo di loro, le rappresentazioni linguistiche della materia mitica sono creazioni estetiche di que­ sto tipo, con forma e linguaggio volutamente stilizzati, almeno in quanto hanno pretesa di validità generale: peraltro, sull'origi­ ne dei miti (al contrario della narrazione dei miti) non abbiamo ancora detto nulla. Né si esclude la narrazione prosastico­ quotidiana, priva di legami con istituzioni fisse: sarebbero appunto le balie e le nonne di Platone, che però non hanno assolutamente pretesa di cogenza, raccontando invece le loro storie per divertire ed, eventualmente, educare. Di certo riusciamo a malapena a im­ maginare in che forma quella narrazione dei miti - ampiamente orale - abbia traversato i secoli arcaici, forma che non si è mani­ festata nei testi conservati. Tuttavia un'indicazione può sempre fornirla una notizia dall'Arcadia, la provincia greca più arcaica: Polibio riferisce (4, 20, 8) che ancora ai suoi tempi i bambini ar­ cadici erano abituati fin da piccoli a cantare gli inni e i peana con 4

i quali celebravano gli eroi e gli dèi locali, secondo i costumi pa­ terni; qui il veicolo della tradizione è proprio la riformulazione poetica della materia mitica, trasmessa di generazione in genera­ zione: non solo i ragazzi imparano gli inni, ma li cantano anche nel quadro dei festeggiamenti generali di dèi ed eroi. Spesso la ricerca ha avuto difficoltà a distinguere il mito da altre fonti tradizionali - saghe, leggende, favole, fiabe. Non in tutti i casi è necessaria o possibile una distinzione. La lingua tede­ sca usa il concetto di saga come sinonimo, in qualche modo, di mito: la raccolta di miti greci più nota è Die schOnsten Sagen des klassischen A ltertums [Le più belle saghe dell'antichità classica] di Gustav Schwab, mentre la trattazione di saghe germaniche che ha esercitato più suggestioni è la Mitologia germanica di Jakob Grimm. Grimm usa i due termini, talvolta equiparandoli, anche se sembra voler circoscrivere il Mythos (come lui scrive) all'anti­ chità. Se si operano distinzioni, è solo per appartenenza cultura­ le: i racconti locali sono saghe («saghe vallesi», «saghe tirolesh>), quelli stranieri miti. Lo stesso vale per leggende: in senso lato, l'e­ spressione è sinonimica di mito; in senso stretto, le leggende sono racconti dei santi cristiani: di nuovo il locale, il cristiano, si con­ trappone all'estraneo, al pagano. Una distinzione dalla favola invece è possibile. Peraltro le ca­ tegorie appaiono permeabili: la maggior parte dei volumi di Fia­ be della letteratura mondiale contengono storie altrove indicate come miti, e miti antichi possono riemergere in favole post-antiche, visto che si possono raccontare anche come fiabe - un po' come la storia del «piede gonfio», vagabondo e senza patria (Oidi-pus, nome tipico di tali racconti), che libera un regno da una calamità, la Sfinge, ottenendo così il trono e la regina: il che collima perfet­ tamente con lo schema strutturale sviluppato da V. Propp per le favole russe 9 • Quando i ricercatori moderni parlano, qui, di motivi fantasti­ ci nel mito, vanno semplicemente fuori strada rispetto al proble­ ma della definizione. La differenza consiste nella cogenza: la favola non ha una pretesa del genere e perciò è collocata fuori da luoghi e tempi precisi. «C'era una volta la figlia del re, che andò nel bo­ sco», inizia la raccolta di Grimm. Invece il mito parla di un luogo preciso (Tebe nel caso di Edipo) e, perlomeno presso i greci, an­ che di un tempo preciso (due generazioni prima della guerra di

5

Troia). Di conseguenza, il racconto delle favole non è legato a una collettività, è informale; si possono chiamare favole i «miti mi­ nori>> di Platone, se si vuole; ma poiché nessun testo di favole del genere si è conservato dall'antichità, non lo si può dimostrare. L'u­ nica favola antica tramandata letterariamente, quella di Amore e Psiche, anche se appartiene al tipo fisso di fiaba del «fidanzato animale» in ogni caso è vistosamente diversa: dietro Amore e Psi­ che, personificazioni di amore e anima, e dietro la figlia di Psiche Voluptas, «piacere», ci sono rappresentazioni platonizzanti della filosofia ellenistica; d'altra parte la storia ha un apparato divino, come fosse un buon mito 10 • Forse è meglio non utilizzare affat­ to la categoria favola per l'antichità, come per le culture extraeu­ ropee, e vedere nella favola, nella sua forma particolare e nella sua funzione sociale, un prodotto della storia spirituale e sociale europea e post-antica. Una trattazione a parte merita la favola con animali. Per essa i greci avevano un'espressione particolare, ottvo�; già Aristotele parla degli Alaw1tou !J.ii9oL, i miti di Esopo; in seguito si discusse se la favola esopica, nel suo semplice messaggio morale, non fosse, in assoluto, il miglior esempio di mito. Se la favola non è semplice e moraleggiante, si distingue difficilmente dal mito. Ibico e Sofo­ cle narrano come una volta Zeus desse a un asino il compito di portare agli uomini la pianta dell'eterna giovinezza, come ricom­ pensa per il loro aiuto nella lotta contro Prometeo; lur.�o il cam­ mino l'asino ebbe sete e volle abbeverarsi a una fonte. II serpente che ne era a guardia chiese in cambio il carico portato dall'asino, appunto la pianta: per questo gli uomini invecchiano e i serpenti no 11• Asino e serpente come personaggi principali, almeno a con­ siderare le favole con animali; eppure la storia non ha una mora­ le semplice, si tratta della spiegazione di un fondamentale atteggiamento umano. Nessuna meraviglia, quindi, se il motivo si trova già nell'epos di Gilgamesh: tra molte peripezie, Gilgamesh ha trovato l'erba dell'immortalità, ma durante il suo ritorno la dà al serpente 12• La differenza non sta nell'uso degli animali: sta piuttosto nel fatto che nella favola di solito la storia raccontata è orientata direttamente verso una morale; di conseguenza, come ha dimostrato Lessing, è molto più facile imbattersi in favole. Inol­ tre, manca alla favola quell'esecuzione formale che contraddistin­ gue il racconto di miti, né esiste un agone della rappresentazione 6

favolistica - è significativo che l'inclusione delle favole tra i miti si ha solo a partire dal momento in cui il vecchio mito ha adem­ piuto alla sua funzione sociale e viene inteso dalla maggior parte degli antichi interpreti come storia morale.

Capitolo primo LA NASCITA DELLA SCIENZA DEL MITO

L 'attuale concetto di mito, e con esso le basi della ri�er�a

nH­

tologica, risalgono, non solo per la Germania, a cHRISTIA:-. t;oTn oH HEYNE ( 1 729- 1 8 1 2), fondatore di una scienza dell'antichità globale 1 • Collega di Winckelmann in gioventù presso la biblio­ teca del conte Heinrich von Bruehl a Dresda e quindi in dimesti­ chezza col nuovo entusiasmo di Winckelmann per il mondo antico, nel 1 763 fu chiamato alla cattedra di greco a Gottinga: da qui pla­ smò, con grande efficacia, quell'immagine dell'antichità che per quasi mezzo secolo ebbe la Germania colta, in un'epoca in cui il mondo greco informava di sé la vita spirituale della Germania con un' intensità fino ad allora sconosciuta. Per tutta la vita il mito fu al centro degli interessi di Heyne: il suo primo discorso davan­ ti all'accademia di Gottinga presenta programmaticamente i suoi punti di vista; una delle sue ultime trattazioni riassume, in forma quasi manualistica, i principi della sua ermeneutica 2• Heyne arrivò al mito, così come arrivò alla geografia, all'a­ stronomia, alla storia dell'antichità, cioè come esegeta di testi an­ tichi: i testi antichi sono pieni di allusioni ai miti, o spesso hanno direttamente i miti per contenuto: è quindi necessario compren­ dere il mito. Questo fa sì che il mito venga preso fondamental­ mente sul serio; proprio per questo Heyne conia il termine mythus, per prendere le distanze dalle fabulae, fables dei suoi contempo­ ranei e predecessori, dove a una storia inventata e assurda si me­ scolava sempre anche una punta di rifiuto. Capire significava comprendere da dove venisse il mito. Se­ condo Heyne esso va collocato nell'età arcaica, nella fanciullezza dell'umanità: ma i selvaggi dei giorni nostri possono darci un'i­ dea di questa fanciullezza (per cui Heyne dedica loro, nel 1779, 8

una propria trattazione etnologica) 3• Certo il mito non è un'in­ venzione bizzarra di questi primi uomini, ma è nato secondo na­ tura e dietro necessità, appena quegli uomini, còlti da meraviglia o da angoscia di fronte alla natura, cercarono spiegazioni, o non appena vollero descrivere e lodare, con gratitudine, le grandi im­ prese di uomini eccezionali. Dunque il mito ha per soggetto la spie­ gazione della natura o il ricordo storico (nella pratica, la spiegazione della natura per Heyne è ben più importante): e poi­ ché la natura di questi uomini era emozionale e irriflessa, il loro ambiente selvaggio e, soprattutto, il loro linguaggio rudimentale e goffo, capace di esprimersi solo in modo concreto-sensoriale, nacque naturalmente la forma del mito immaginosa, concreta ed evidente. Più tardi, la poesia riprenderà consapevolmente questa forma, e col contenuto mitico plasmerà una lingua da essa rica­ vata, a partire dalla poesia greca arcaica fino a Pindaro ed Eschilo. A dire il vero, Heyne non riduce affatto il mito ad un partico­ lare modo di esprimersi, al suo coté epistemologico: esso è diret­ tamente legato allo sviluppo religioso dell'uomo. Senza che, per questo, il mito coincida con la religione: Heyne li mantiene sepa­ rati l'uno dall'altra. Certo, la reazione degli uomini al loro am­ biente naturale, che provoca il mito, ebbe per conseguenza il culto di pietre, di alberi e di altri oggetti inanimati (Heyne, a seguito della pubblicazione, nel l 760, dello studio Le eu/te des dieuxféti­ ches del Président de Brosses a Ginevra, lo chiama feticismo), e dunque anche degli astri; così pure la reazione alle imprese dei grandi uomini ebbe per conseguenza il culto di eroi e dèi: perciò il mito accompagna il rituale come espressione parallela; entram­ bi hanno un punto di partenza comune solo nel concetto di divi­ no, 9t6ç, e Heyne indica espressamente il rituale, e non il mito, come essenziale per la religione: la spiegazione mitica dei riti, l'e­ ziologia, sarebbe nata solo in seguito. Se l'ambiente naturale si riflette nel mito, giacché è questo mon­ do inospitale a plasmare lo spirito creatore di miti, allora i miti devono diversificarsi rispetto al loro ambiente naturale: Heyne met­ te l'accento sulla peculiarità nazionale dei singoli gruppi mitolo­ gici; parimenti le esperienze storiche, ogni volta diverse, si riflettono in modo diverso nelle mitologie dei singoli popoli. Inoltre la mi­ tologia greca non ci è pervenuta nella sua forma primitiva, ma come un complesso conglomerato storico di antico, di riscoper9

to, di importato, che per di più è cambiato di continuo nel corso di secoli di cultura greca: a questo cambiamento hanno contri­ buito soprattutto i poeti tragici. L'interprete del mito, che deriva la sua spiegazione dalla forma più antica del mito, deve districar­ si a fatica, col solo aiuto della critica storico-filologica, attraver­ so travisamenti e sovrapposizioni. Heyne condivide l'idea di connessioni nazionali e locali del mito COn JOHANNGOITFRIED HERDER ( 1 744- 1 803) 4 , al quale era legato da uno stretto rapporto spirituale e d'amicizia: non è sempre facile stabilire se una certa idea l'abbia espressa per primo Heyne o il ben più asistematico Herder - ad ogni modo, nel 1 763 la conce­ zione dei miti di Heyne era già definita nelle sue linee fondamen­ tali, prima dunque che Herder cominciasse a pubblicare. Che i miti siano connessi a precisi popoli era, tuttavia, un'idea predi­ letta di Herder, che nel suo diario (pubblicato solo postumo) di un viaggio nell'anno 1769 5 giunge al punto di affermare che in­ vece l'Odisseo di Omero si può capire pienamente solo a bordo d i una nave; qui egli accosta anche ai selvaggi contemporanei i «primitivi» indigeni - nel suo caso la rozza gente di mare, in­ contaminata da ogni civilizzazione - come illustrazione per ana­ logia dello spirito creatore di miti d eli' età arcaica. Dal filologo Heyne lo separa l'ermeneutica, per così dire, simpatetica, che trova espressione nel passo sull'Odisseo. Lo separa anche la visione del rapporto tra mito e poesia: se per Heyne la poesia nasce solo do­ po il mito, e precisamente, dalle forme linguistiche specifiche e con i contenuti specifici del mito, Herder fa invece convergere in un tutto unico mito, lingua, poesia e religione: appena comincia a parlare l'uomo primitivo dà espressione al suo sentimento reli­ gioso, e questo parlare ha la forma della poesia, il contenuto del mito. Il mito, dunque, non è un tentativo di spiegare un'ambien­ te che suscita meraviglia o angoscia, bensì una reazione dell'inge­ gno umano, stimolata dall'ambiente, che obbedisce a leggi proprie: il mito non è allegoria, ma simbolo. Per molte cose Herder - co­ me Heyne - da una parte è debitore al teologo inglese Robert Lowth, che nelle sue lezioni oxoniensi, uscite per le stampe nel 1753 a Gottinga, aveva analizzato l'Antico Testamento come opera poetica, con gli stessi criteri storico-letterari usati per qualsiasi al­ tra antica opera poetica pagana 6; diversamente dal filologo Hey­ ne, però, il teologo Herder, riporta l'Antico Testamento diret10

tamente ai primordi dell'umanità e non lo vede come uno svilup­ po da miti antichi. D'altra parte Herder, come molti suoi con­ temporanei, era profondamente impressionato dalla scoperta dell'Edda nordica ( 1 753) e deli'Ossian scozzese ( 1 760- 1763): qui miti possenti e primordiali apparivano presentati in forma già poe­ tica, miti per di più del tutto indipendenti dall'antico ambiente mediterraneo: ciò era una convincente «pezza d'appoggio» tanto per l'unità originaria di mito e poesia, quanto per il carattere local­ nazionale del mito. Herder e Heyne, tuttavia, non si collocano proprio all'inizio della riflessione sul mito nell'Europa moderna. Fino alla fine del XVII secolo aveva dominato la spiegazione allegorica dei miti: die­ tro i miti si vedeva nascosto dell'altro, verità morali o fisiche. Ad ogni modo, già i primi esploratori avevano trovato presso i sel­ vaggi d'America e d'Africa usanze e racconti che sembravano si­ mili a quelli dell'antica tradizione, e i cronisti di viaggi e i missionari del XVI e XVII secolo usavano illustrare al loro colto pubblico europeo le singolarità scoperte da poco attraverso il confronto con l'antichità: era solo una questione di tempo, finché non si ridestò il senso della funzione euristica del rovesciamento di questo con­ fronto, cioè finché non si spiegò l'antico col primitivo. Un gior­ no, la famosa Querelle des Anciens et Modernes fece scattare il meccanismo: per i Modernes tornò assai utile il ridimensionamento dell'antichità, che risultava dal suo confronto con i selvaggi. Inol­ tre, il clima spirituale dell'illuminismo era sfavorevole sia ad ogni elemento allegorico, sia all'allegoresi dei miti. E finalmente piac­ que ai razionalisti il ridimensionamento proprio del mito greco, spiegato come una bizzarra storia inventata; in esso appariva par­ ticolarmente percepibile l 'aspetto assurdo della religione; un uo­ mo come PIERRE BAYLE si è divertito, anche nel suo Dictionnaire Historique et Critique del 1 697, a rappresentare i miti come assurdità 7 • Questi princìpi divennero costruttivi e fecondi in un trattato che, senza esagerazione, può dirsi la pietra miliare della mitolo­ gia moderna: De /'origine des fab/es di BERNARD DE FONTENELLE ( 1 657-1757), nipote di Corneille, pubblicato nel 1 724, ma presu­ mibilmente scritto già nel 16908• A dare avvio alle sue riflessioni fu il carattere visibilmente assurdo dei miti greci o come li chiama lui, delle 'fables' , parola che corrisponde all'uso greco originario Il

di (.Li:i9oç, e a quello latino di fabula: essi «non sono altro che una raccolta di chimere, sogni e assurdità». Diversamente però dai con­ temporanei come Pierre Bayle, che a causa di quest'assurdità ri­ fiutarono il mito, e diversamente dai filosofi antichi, che con l'aiuto dell'allegoresi eliminarono la scandalosità di fondo (cfr. capitolo VIII), Fontenelle cerca una spiegazione storica: si deve capire il mito a partire dalla sua origine, esso è un prodotto dei primi esse­ ri umani, dei quali restituisce la particolare condizione intellettuale e spirituale. La stessa risposta daranno, due secoli dopo, Andrew Lang e Lucien Lévy-Bruh! 9 • E come loro, Fontenelle ricostruisce la mentalité primitive, con l'aiuto dei selvaggi moderni: incredi­ bilmente «ignorante e primitivo», come «i cafri, i !apponi e gli irochesi», l'uomo primitivo stava di fronte a una natura scono­ sciuta, cercando di spiegarsela con i mezzi che prendeva dal suo ambiente; e poiché questo era limitato alle sue esperienze, fin trop­ po immediate, anche la spiegazione si fa limitata: alla sorgente del fiume si immagina qualcuno che crea l'acqua, solo che lo fa continuamente e in quantità sovrumane - ecco inventato il dio del fiume. Un'innata gioia del raccontare e la tendenza all'esage­ razione (entrambe presenti anche presso i selvaggi) concorrono al­ l'elaborazione fantastica. Con ciò Fontenelle ha delineato un concetto euristico, che esi­ ste fino ad oggi: il mito va compreso dalle sue origini, dall'uma­ nità primordiale. C-erto, Fontenelle è sorprendentemente raffinato nella sua ricostruzione della psiche dell'umanità primitiva, ben più raffinato di alcuni dei suoi successori: i selvaggi contemporanei non danno un quadro preciso dei primi uomini, perché hanno sto­ ria anch'essi - il primo uomo fu assai più primitivo. Ma la sua mentalità, fondamentalmente, non è diversa dalla nostra, non c'è una spiritualità qualitativamente diversa: come noi, l' uomo pri­ mitivo si spiega il mondo sulla base delle sue esperienze, solo che noi possiamo ricavare i nostri analogismi da un'arsenale conside­ revolmente più grande, quanto a esperienze. Se anche il selvaggio avesse avuto questo vantaggio, l'avrebbe utilizzato in pari misura. Nello stesso 1724, quando Fontenelle aveva finalmente pub­ blicato il suo trattato, apparve un'altra opera, che divenne im­ portante per la storia della mitologia: il libro di un gesuita missionario tra gJi indiani, FRANçOIS JOSEPH LAFITAU (1670-1740), dall'eloquente titolo Les mceurs des sauvages Ameriquains com12

parées aux mceurs des premiers temps. Come quadro dei «primi tempi» gli furono utili soprattutto gli irochesi del Canada, tra i quali svolgeva la sua opera missionaria. L'erudito padre compa­ rava le loro istituzioni e i loro miti con una quantità, per allora straordinaria, di istituzioni, usi e miti dell'antico mondo mediter­ raneo, riportando le similitudini alla comune discendenza di in­ diani ed europei dai figli di Noè. Né questa conclusione, né il metodo comparativo erano nuovi. La discendenza dai figli di Noè era infatti richiamata correntemente da quando i paralleli tra Vec­ chio e Nuovo Mondo esigevano una spiegazione. Molto più im­ portante il libro di Lafitau fu per la quantità dei dati elaborati, grazie ai quali divenne ciò che Il ramo d'oro di Frazer è stato per il nostro secolo: per il profano, una rappresentazione comprensi­ bile e spettacolare di un metodo per lui nuovo e dei suoi risultati; per gli specialisti, una straordinaria fonte d'informazione detta­ gliata. Né Lafitau, né Fontenelle si occuparono esplicitamente della spiegazione di singoli miti, dominio di un grande numero di ri­ cercatori, uniti solo dal fatto che il mito andava ridotto a qualco­ sa che gli fosse esterno. L'allegoresi andò presto fuori moda, l'evemerismo divenne sempre più popolare: si riconducevano i miti ad avvenimenti storici. Già Evemero di Messene, all'inizio del pe­ riodo ellenistico, aveva rappresentato gli dèi greci come prìncipi ' 1 storici 0• Solo pochi mitologi se ne discostarono, aprendo il cammino al suo superamento. I più importanti furono Hume in Inghilter­ ra, Fréret in Francia, Vico in Italia. L'importanza di NICOLAS FRÉ­ RET ( 1 688- 1 749) non si valuta facilmente; dal 1 7 1 4 membro dell'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, e suo segretario permanente a partire dal 1 742, Fréret fondava il suo prestigio su conferenze accademiche e contatti personali: così, il suo influsso potrebbe essere più grande di quanto si possa dimostrare diretta­ mente. Anche Fréret sta sulle spalle di Fontenelle, ma si dedica soprattutto all'interpretazione individuale. Solo una ristretta parte dei miti si può ridurre ad eventi storici; la parte più importante - «assemblage confus de merveilles et d'absurdités» - consiste in interpretazioni etiche e fisiche del mondo, e in prodotti di pura fantasia: la forma bizzarra è un prodotto del «génie national des Grecs>> (l'espressione ricorda Herder, che nel1769, dopo la mor-

13

te di Fréret, si trovava a Parigi) e rende impossibile, in molti casi, una analisi più sicura e particolareggiata. Per Fréret, quindi, la fantasia è una delle fonti dei miti: i posteri la trasformeranno in un principio formativo. Fréret separa dall'evemerismo corrente anche i miti nati dalla storia: essi non riflettono avvenimenti indi­ viduali, bensì processi storico-culturali e storico-religiosi. Le tre generazioni divine di Esiodo - la prima sotto Urano e Gaiu., la seconda sotto Crono e Rea, la terza sotto Zeus - riflettono la successione dei tre sistemi teologici degli antichi greci, e già la saga omerica, nel narrare come il re tracio Licurgo perseguiti il giovane Dioniso e le sue Menadi, dipinge la resistenza degli abi­ tanti della Grecia settentrionale all'introduzione del culto di Dio­ niso. Quanto fosse moderno e ignorato Fréret, nulla lo dimostra meglio del fatto che quest'interpretazione, dopo oltre un secolo, sia stata ripresa da Erwin Rohde, e che continui a sopravvivere nei manuali moderni sotto il nome di Rohde, non sotto quello di Fréret 11• Più chiara è l'incidenza di Hume e Vico. Nel l 725 il napoleta­ no GIAM BATTISTA VICO ( 1 668- 1 744) pubbliCÒ la prima edizione dei Princìpi di una scienza nuova; nel 1730 e nel 1 744 seguirono due ulteriori edizioni rielaborate 12• Per Vico il mito è la prima espres­ sione dell'uomo che si è distaccato dalla religione rivelata, ed es­ so non è nato per spiegare la natura, ma dal risveglio dell'uomo in ansia davanti al divino. In ciò l'uomo proietta le proprie vio­ lente passioni originarie sui corpi reali, che lo circondano: quindi il mito è nato >; i miti eziologici non spiegano solo i culti, ma si prestano a spiegare qualsiasi cosa: il mito per cui il dio Apollo una volta in­ seguiva la bella ninfa Dafne, ma essa, in pericolo, si trasformò in alloro, non spiega soltanto come nacque l'alloro (in greco: M'P"TJ) , ma anche perché questa pianta è sacra ad Apollo. I miti, e su questo torneremo spesso, spiegano anche il presente dell'uo­ mo con il loro racconto del passato. Quando poi l'interprete mo­ derno deriva un mito da un'istituzione sociale, ricavando per 31

per esempio il mito di Edipo dalla regalità sacrale 7, compie un decisivo passo in avanti: non viene più spiegata la funzione del mito, bensì la sua nascita, e questo per di più da un'istituzione che non esisteva (l'interprete dice: non esisteva più) nell'antica so­ cietà greca. Lo sviluppo della teoria - nella sua forma più rigorosa, se­ condo cui i miti nacquero per spiegare riti religiosi incompresi si rifà al circolo di Cambridge raccolto intorno a Sir James Fra­ zer. Ii SUO amico e ispiratore WILLIAM ROBERTSON SMITH (1 846- 1 894), teologo scozzese e arabista a Cambridge, nelle sue fondamentali Lectures on the Religion oj the Semites (1 889) non solo aveva sot­ tolineato l'importanza del rituale per la religione (questo l'aveva già fatto Heyne), ma aveva anche messo l'accento sulla sua prio­ rità, almeno in parte genetica, rispetto ai miti. Per Frazer diven­ ne cosi ovvio comparare fra loro miti e riti, prendendo in molti casi la prassi rituale come punto di partenza di un mito: il diffuso mito del «dio morente>>, per esempio, riflette il rituale della rega­ lità sacra (dietro il quale c'è certamente, come ultimo punto di riferimento, il ciclo della vegetazione). Tuttavia solo JANE ELLEN HARRISON ( 1 850-1928), senz'altro l' ingegno più brillante nel circolo di Cambridge, elaborò queste idee fino in fondo 8 • Per lei il mito nasceva, in ogni caso, dal rituale; in una prima versione della teoria c'era stato, in effetti, un fraintendimento a proposito dei riti: i riti venivano da Frazer identificati, in gran parte, con i riti magici della fertilità (Prolegomena to the Study ojGreek Religion, 1903). Eppure il pensiero tipico dell'epoca, che il mito si fondasse semplicemente su un equivoco (sullo sfondo si sente il mitologo di Oxford Max Miiller), alla lunga non poteva· risultare soddisfacente: Jane Harrison cambiò la sua teoria, do­ po aver familiarizzato con l'opera di ÉMILE DURKHEIM ( 1 858- 1 91 7), padre della sociologia francese 9 • Questi aveva direttamente ten­ tato, per la prima volta in una lezione alla Sorbona del 1907, poi più diffusamente in Les jormes élémentaires de la vie religieuse ( 1 9 1 2) un'interpretazione socio1ogica della religione in generale; e il mito è parte della religione. Nella convivenza collettiva e nella cooperazione cioè - l'idea base è questa - il singolo esperisce la forza della collettività, che lo supera, e che egli cerca di rappre­ sentarsi come figur� religiose oggettivate: così i fatti sociali e le istituzioni vengono drammatizzati sotto forma di riti, dipinti e nar32

rati sotto forma di miti; viceversa, il racconto del mito e l'esecu­ zione del rituale rafforzano a loro volta nel singolo la fede nelle divinità, legandolo contemporaneamente in maniera più salda al suo gruppo. A questa impostazione si riallaccia Jane Harrison, spiegando il mito come rappresentazione di un rituale collettivo. Per prima essa vede l'importanza dei rituali di iniziazione per la mitologia e la religione dei greci, come illustra nel suo libro The­ mis del 1912, dall'indicativo sottotitolo A Study in the Social Ori­ gins of Greek Religion. La violenta rottura con il passato, che la prima guerra mon­ diale rappresentò per la vita spirituale europea (e che Jane Harri­ son sentì personalmente in modo molto profondo), per molto tempo impedì a questa concezione di farsi valere all'interno della scienza dell'antichità (salvo poche eccezioni): solo i nostri anni Ses­ santa, col loro rinnovato interesse per i fenomeni pubblici e so­ ciali, crearono nuove condizioni. Per il Vicino Oriente, e poi anche per le culture etnologiche, la ricerca britannica aveva ripreso que­ sta teoria (per la verità, già prima degli anni Sessanta), e anche in questo caso furono colti prima di tutto i suoi aspetti proble­ matici. A rigore, secondo la teoria, ogni mito dev'essere nato da un rituale. Non era difficile trovare miti senza riti e riti senza miti: entrambi sembrano potere esistere abbastanza indipendentemen­ te l'uno dall'altro, come dimostrano i grandi miti greci; il mito di Edipo nella sua interezza non si può ridurre semplicemente a un rituale. Inoltre, si trovano proprio presso i greci parecchi casi in cui un mito è stato collegato a un rituale sicuramente solo più tardi; anzi, accade che più miti accompagnino addirittura lo stesso rituale. Corrispondentemente, i miti mancanti non si possono ricostrui­ re da riti o riti sconosciuti da miti: la teoria non ha mai potuto concepire così strettamente il rapporto tra essi, in modo tale che diventassero possibili deduzioni simili, con pretese quasi matema­ tiche. Piuttosto essi camminano l'uno accanto all'altro separata­ mente; l' aition riprende un unico punto, ma sembra svilupparsi secondo proprie regole narrative (cfr. capitolo V). Così si arrivò a rinunciare non solo alla forma estrema della teoria, secondo cui ogni mito sarebbe nato da un rituale, ma dato che una simile rinuncia rende la teoria nel suo insieme intel·

33

lettualmente insoddisfacente - a rinunciare addirittura a porsi la questione stessa dell'origine, e ad occuparsi solamente del rap­ porto fra mito e rito nel tempo storico, nonché a interrogarsi even­ tualmente sulle leggi della narrazione mitica, come pure su quelle dello svolgimento dei riti. Con ciò la formulazione della doman­ da si trasforma, da storico-genetica, in funzionalistica o struttu­ ralistica. Nell'etnologia, più precisamente nella social anthropology an­ glosassone, questa trasformazione è collegata al nome di BRONI­ SLAW MALINOWSKI (1 884- 1 942), il più prestigiOSO degli etnologi allievi di Frazer. Reagendo al pensiero evoluzionistico di Frazer da una parte e dall'altra alla sua ((armchair anthropology>> tec­ rizzata nel chiuso del suo studio di Cambridge senza un contatto diretto con le culture etnologiche, Malinowski nella sua ricerca diretta si occupò della cultura etnologica, e si concentrò sulla que­ stione di che cosa la singola istituzione significhi per la società. I due presupposti si condizionano a vicenda. Egli intese i miti co­ me fondazioni vincolanti (charter myths) di realtà sociali impor­ tanti: essi stabilivano l'appartenenza al gruppo, tanto quanto le, regole del matrimonio, la spartizione delle terre e il compimento dei rituali 10• La teoria prescinde da qualsiasi tentativo di spiegare la forma propria del racconto mitico, essa intende il mito piuttosto come unidimensionale e razionale (cosa che si può capire come reazio­ ne a Frazer), e quindi molto difficilmente si può applicare alla Gre­ cia, in modo così monolitico: certo, molti miti hanno una funzione-charter chiaramente definita, e però proprio per i gran­ di e significativi miti greci non si può fare nessuna eziologia uni­ voca con questo significato ristretto, socialmente vincolato. GEORGES DUMÉZIL (1 898-1 986), il fondatore della (). Un motivo secondario vede l'indebolimento di Tifone tramite i « frutti della breve vitalità» : in una versione Illuyankas viene fiaccato con un pasto sproposi­ tato; la disfatta di Zeus si compie sul monte Casio, che in ugariti­ co si chiama Sapon: da Sapon si è fatto derivare il nome di Tifone. Comunque la lotta nella Siria settentrionale, patria di Tifone già in Eschilo e in Pindaro, rimanda chiaramente al Vicino Oriente. Ancora una volta, nessun racconto greco nella sua interezza può essere fatto derivare così, semplicemente, dall'Oriente; s' impone anzi il sospetto che il racconto greco più tardi abbia potuto nu­ trirsi di recenti informazioni dall'Asia Anteriore. In effetti pro­ prio i miti orientali di successione sono attestati ancora per lungo tempo: lo storico Filone di Biblo, nel primo periodo imperiale, 69

conosce un mito, che palesemente ricorda il canto ittita «della re­ galità in cielo»; il neoplatonico Damascio racconta, secondo l'al­ lievo di Aristotele Eudemo, una cosmogonia che corrisponde all'Enuma Elish: qui Tiamat si chiama Tauthe, Apsu Apason, Mar­ duk è diventato Belos, il Ba'al Fenicio 16• Ora, questo solleva finalmente la questione di quando, dove e come i greci vennero a conoscenza di quei racconti del Vicino Oriente, di cui si vedono chiaramente le tracce in Esiodo e, di quan­ do in quando, già in Omero, e che d'ora in poi apparterranno al patrimonio della mitologia greca 17 • Rispondere alla domanda sul come è più facile. Le molte dif­ ferenze di dettaglio rimandano al fatto che i greci immisero nella loro tradizione orale ciò che era stato rappresentato oralmente. II che vuoi dire che i testi dell'Asia Anteriore devono essere cri­ stallizzazioni letterarie di un patrimonio narrativo tramandato so­ prattutto oralmente. Per l'ittita mancano dati; per la Mesopotamia, sappiamo qualcosa di più. Da una parte si possono accertare ben più solidamente che presso i greci - tradizioni scritte: i rac­ conti accadici sono chiaramente traduzioni di testi sumerici, tra­ mandati successivamente da scrittore a scrittore, manifestano tracce di erudizione sacerdotale come vediamo nella lista dei cinquanta nomi di Marduk alla fine deii'Enuma Elish. D'altra parte, il can­ tore nella società accadica è una figura importante; abbiamo ad­ dirittura a disposizione un dialogo fittizio tra cantore e pubblico all'inizio di una narrazione di miti, con cui il narratore vuole av­ vincere il suo pubblico 18 ; anche le numerose varianti di miti no­ ti, tipo quella della creazione dell'uomo in particolare, rimandano in direzione d'una tradizione orale vivente, come mostrano in Da­ mascio i nomi degli dèi palesemente modernizzati rispetto aii'E­ numa Elish. Una cultura come quella degli accadi o degli assiri, in cui Io scrittore, per via del sistema di scrittura, poco manegge­ vole, giocava un ruolo centrale in quanto portatore di un sapere altamente specializzato, era solo parzialmente scritta, e lasciava grande spazio alla tradizione orale del patrimonio narrativo ere­ ditato. Se la trasmissione avviene oralmente, i greci devono essere stati in Oriente - e non possiamo pensare, al riguardo, che alla Siria settentrionale e alla Cilicia, con le loro città dove, sia nel periodo miceneo sia in quello arcaico, i greci esercitarono il commercio

70

e abitarono 1 � . E qui si può pensare o ai secoli prima della fine della cultura micenea all'inizio del dodicesimo secolo, oppure al periodo dei rinnovati contatti con l'Oriente dopo i «secoli bui», a partire dal secolo nono inoltrato. C'è un argomento a favore di questa seconda epoca: nei racconti di Esiodo è sorprendente­ mente assente la mitologia nordsiriana-cananea, così come la co­ nosciamo attraverso i testi ugaritici (anche se i micenei sono mol­ to bene attestati a Ugarit): quei testi vennero registrati nel XIV secolo, Ugarit stessa rimase florida e potente fino all'invasione dei popoli del mare, che pose fine anche alla potenza micenea. Se i greci avessero ripreso a quel tempo la parte principale delle storie e dei motivi orientali, non troveremmo così in primo piano i miti ittiti e mesopotamici. Inoltre, nel nono e nell'ottavo secolo le città della Siria del Nord si trovavano sotto l'influenza dell' As­ siria; c'erano i cosiddetti regni tardo-ittiti ai confini tra la Tur­ chia e la Siria: i regni conservavano le tradizioni ittite, l'Assiria tramandava quelle accadico-mesopotamiche; è quasi emblemati­ co che una ciotola di bronzo tardo-ittita appartenga alle primissi­ me importazioni orientali nell'Atene del nono secolo 20 • Non si può escludere, comunque, che anche già in epoca micenea, arri­ vassero in Grecia storie orientali. Il racconto di Esiodo sulla nascita degli dèi e del mondo, com­ prensivo della sua interpretazione della condition humaine in que­ sto mondo non è mai stato canonico. Ciò che egli diceva sugli Olimpii, su Crono e Gaia, aveva un certo appoggio nel culto, nel­ l'epica e anche nei miti locali dei singoli centri di culto: in seguito ci si attenne in qualche modo a questo. Quel che non era così fis­ sato, era aperto a ulteriore speculazione, la quale nei periodi se­ guenti scorrerà su due binari separati: da una parte la poesia mitologica, dall'altra la riflessione filosofica, ossia, in poche pa­ role, la presocratica e l'orfismo. Al riguardo, basteranno pochi accenni. Nessuna delle poesie teogoniche post-esiodee è stata conser­ vata nella sua integrità; dalle allusioni possiamo capire quanto è andato perduto, e sappiamo anche quanto carica di riserve sia l'e­ tichetta «orficO>). Anche tra i frammenti del lirico corale Alcma­ ne (600 ca. a.C.) si trova un pezzo cosmogonico (jr. 5): la massima parte di queste poesie, tuttavia, ebbero per autori figure leggen­ darie o semileggendarie, soprattutto i due cantori Museo e Or71

feo 21 • Nel tardo secolo sesto troviamo riferimenti a poesie attri­ buite a loro; nel corso dei secoli seguenti, particolarmente Orfeo diventerà un'autorità in questioni del genere. A tutte queste poe­ sie di Orfeo è comune il fatto che allungano la successione da Ura­ no a Zeus da entrambe le parti: in avanti, vengono innestati altri due re di dèi, il «primogenito)) (Protogonos) Fane e la regina Nyx, mentre in coda viene aggiunta la sesta generazione sotto Dioniso, il figlio di Zeus. Il racconto sulla nascita degli uomini è collegato a Dioniso: istigati dalla gelosa Era, i Titani avrebbero ucciso, cu­ cinato, arrostito e smembrato il piccolo Dioniso, figlio di Zeus e Persefone, ma Zeus li avrebbe abbattuti col suo fulmine; dalla cenere dei Titani bruciati sarebbe nato l'uomo. Il mito, le cui pri­ me tracce si trovano in Pindaro (fr. 1 33), spiega la natura dell'uo­ mo: apparentata con i Titani ribelli e indocili, nasconde un momento della ribellione contro gli dèi. Il racconto dei miti, più fortemente che in Esiodo, è un veicolo del pensiero speculativo, che si esprime in forma tradizionale; una narrazione del genere ha un senso collettivo ormai solo per il circolo chiuso degli 'Opqaxo(, se mai ne sono esistiti. Dalla parte opposta sta la speculazione filosofica. Essa inizia con Talete di Mileto, che previde l'eclissi di sole dell'anno 585. Di lui è stato tramandato un solo concetto cosmologico, secondo cui la terra nuota sull'acqua (VS l l A 1 2) . Questa idea è stata ri­ collegata con quei miti orientali, in cui l'acqua primigenia è la pri­ ma potenza, e in cui qua e là si dice che la terra è costruita dal dio creatore come una zattera su quest'oceano primitivo: effetti­ vamente Talete, cittadino di una delle principali città commercia­ li dell'epoca, con molte relazioni con il Vicino Oriente, può aver preso dall'Oriente certi stimoli, così come derivò dalla Mesopo­ tamia i fondamenti per calcolare in anticipo l'eclissi di sole. Quel che è decisivo, naturalmente, è la sua rinuncia al modo di- espri­ mersi mitico: l'acqua non è una potenza primigenia divina, bensì elemento fisico e realtà cosmica; viene cosi abbozzato un model­ lo del mondo che Talete era certo in grado di giustificare con buoni argomenti 22 • Dalla spiegazione del mondo esiodea a quella presocratica si ha un cambiamento di paradigmi dalle enormi conseguenze. Cer­ to, come reazione al XIX secolo, che in Talete aveva voluto vede­ re il punto di svolta che fece balzare l'umanità dal grigiore del mito 72

alla chiarezza della logica, è stato messo più recentemente l'ac­ cento sugli aspetti irrazionali del pensiero presocratico, sulla vici­ nanza dei milesii coi miti del Vicino Oriente, sulla descrizione dei principi fisici in espressioni che si avvicinano abbastanza spesso al modo di parlare religioso (da Talete proviene pur sempre la frase, tuttavia non chiara nel suo significato , «Tutto è pieno di dei», VS 1 1 A 22), e sono state chiamate in causa le molte personifica­ zioni di potenze astratte che compaiono nella Teogonia 23 • E tut­ tavia, l'aver sostituito dèi pensati in forma umana o personifi­ cazioni, che però possono avere anche una loro vita religiosa, con elementi fisici o principi astratti, e l'esser passati dall'idea che l'e­ vento cosmico venga prodotto da un'azione degli dèi, simile a quel­ la umana, all'accettazione di processi puramente fisici, hanno due conseguenze che non possono essere sottovalutate. La scomparsa dei nomi divini scioglie i racconti sulla nascita del mondo e del cosmo da legami e associazioni alla religione cultuale, e con ciò dalle tradizioni della società greca: i poeti teogonici, invece, an­ che quando innovano, utilizzando nomi tradizionali e attribuen­ do le loro opere ad antichi grandi poeti, innestano le loro affermazioni in un tipo di narrativa tradizionale, sopraindividua­ le. Niente di tutto ciò nei milesii: l'uso di appellativi fa della loro lingua un modo di esprimersi proprio, individuale, sottolineato oltretutto dal passaggio dalla poesia alla prosa: le loro asserzioni si dispongono in procedimenti che rientrano nella sfera dell'espe­ rienza umana. Tutti segni, questi, di una evoluzione che nel corso di neanche un secolo portò a che il singolo cominciasse a mettere in questione la forza vincolante del mito, e a contare sulla pro­ pria razionalità (cfr. capitolo VIII). In fondo, questo sviluppo era cominciato molto tempo prima di Talete, con l'apertura del mondo greco all'interno e verso l'esterno nel corso dell'ottavo secolo; col­ l'avvento del commercio interno, dei viaggi in Oriente e delle im­ prese colonizzatrici; col sorgere della polis, alla cui formazione sempre più cittadini presero parte attiva, nonostante occasionali involuzioni, sperimentando così la forza dell'argomentazione ra­ zionale e del pensiero indipendente: non è casuale il fatto che, an­ cora nel periodo in cui era vivo Talete, un'iscrizione di Chio, la grande isola a nord-est di Mileto attesti, per la prima volta, la i3ouÀij, la democratica assemblea consiliare 24 • Ciò non viene contraddetto neppure da quei presocratici post-

73

milesii, che si servono di espressioni mitiche. Parmenide di Elea (prima del 520 - dopo il 450), nel suo componimento Sulla natura separa un quadro mitico da una esposizione di filosofia naturale: il quadro è quello che tratteggia la sua ascesa su cavalli divini al palazzo della dea Aletheia, Verità: un viaggio nell'aldilà, di cui sono stati messi in risalto i paralleli con i racconti sciamanici 25 • La poesia, quindi, si propone come rivelazione mitica, e mira co­ sì a dare una sanzione sopraindividuale del proprio insegnamen­ to, che perciò Parmenide riveste anche in forma epica: per lui la nuova antologia è così fondamentale (e divenne, infatti, una pie­ tra miliare della filosofia europea), da non poterla presentare co­ me sua opinione, puramente personale. Un po' diversamente stanno le cose con l'altro poema di filosofia naturale in esametri, quello di Empedocle di Akragas (Agrigento) (483-423 ca. a.C.). Presentata questa volta integralmente sotto forma di espressioni dell'io del poeta, questa dottrina oscilla tra fisica e racconto di miti: i quattro elementi, che sono il contributo permanente di Em­ pedocle alla storia della filosofia, possiamo chiamarli semplice­ mente «fuoco e acqua e terra e altezza infinita dell'aria)) (VS 3 1 8 1 7 , 1 8), ma vengono introdotti nella poesia dapprima col nome di dèi: «le quattro radici di ogni cosa ascolta prima di tutto: Io splendente Zeus, Era, Ade e Nestis, dispensatrici di vita, che con le loro lacrime fanno scorrere una mortale acqua di fonte)) (VS 3 1 8 6). Questo è un consapevole rivestimento delle concezioni fisiche, con l'intento di alludere alla distanza che separa i quattro elementi dalle materie percepibili coi sensi - fuoco, terra, aria, acqua -: l'«acqua mortale)) non si identifica con l'elemento ac­ qua. Empedocle è il primo a parlarne, e tutt'e quattro gli elemen­ ti sono indistruttibili ed eterni, qualità, che la tradizione religiosa ascrive agli dèi. Empedocle allegorizza consapevolmente. Così ben si inquadra il fatto che le due forze fondamentali, per cui azione nella mescolanza e separazione degli elementi, nasce e scompare il tutto, si chiamano Neikos, lite, e Philotes, amore: forze astrat­ te, che Empedocle rappresenta come divinità per Io stesso motivo per cui lo fa con gli elementi. Empedocle mostra come si possano continuare a usare le fi­ gure del mito, ormai solo come cifre per asserzioni di contenuto fisico. Egli fa poesia in un'epoca in cui la crisi del mito era già cominciata: la spiegazione allegorica dei miti che era stata inau74

gurata appena due generazioni prima di lui da Teagene di Reg­ gio, stava portando proprio a questo risultato, alla comprensione cioè dei racconti mitici tradizionali come fisica mascherata. Di que­ sto, però, parleremo più avanti (cfr. capitolo VIII).

Capitolo quinto MITO, SANTUARIO E FESTA

Esiodo ed Omero, afferma Erodoto in un passo molto citato, avrebbero «composto per i greci gli alberi genealogici degli dèi (llrorovl7]11), dato agli dèi i loro soprannomi, distribuito loro gli onori e le funzioni e reso chiara la loro figura» (2, 53): la rappresenta­ zione poetica dei miti forma e influenza l'immagine degli dèi ve­ nerati nel culto, e pertanto essa non può essere separata dalla religione. Per i greci, dèi ed eroi sono sempre anche potenze ope­ ranti, hanno templi ed altari, ricevono sacrifici, preghiere e of­ ferte votive. Ma quale sia il vero rapporto tra mito e religione greci non è di immediata comprensione ed ha costituito sempre mate­ ria di discussione. L'unica cosa certa è che il mito non è parola sacra immutabile, com'è ovvio per il cristiano; altrettanto certo è tuttavia anche che i miti greci non rappresentano, come pensa­ va per esempio Mircea Eliade, «il trionfo dell'opera d'arte lette­ raria sulla fede religiosa>> 1• Costruire una contrapposizione tra letteratura e fede non è appropriato per culture arcaiche, dal mo­ mento che il mito non si esprime se non nella lingua, e quindi è assoggettato inevitabilmente alle leggi della narrazione, è lettera­ tura; se non ci si limita ai pochi grandi soggetti che sono soprav­ vissuti come mito greco nella tradizione culturale post-antica, troviamo presso i greci anche miti che erano legati ai santuari, ai templi, alle immagini divine, ai rituali. Basta a dimostrarlo la gran­ de quantità dei miti intorno al santuario di Apollo �ulla piccola isola di Delo. Il mito centrale, quello della nascita di Apollo a Delo, è rac­ contato dettagliatamente nell' omerico Inno ad Apollo 2 • Il testo appartiene a una raccolta di inni in esametro, tramandata sotto il nome di Omero - l'attribuzione è fittizia, i testi sono di diver76

Fig. 3. Artemide, Apollo, Latona , Afrodite e un'altra dea (Delo?). Cra­ tere a campana attico, a figure rosse, del pittore Midia, 420 / 4 1 0 a .C.

sa qualità e provengono da epoche diverse, dal primo periodo ar­ caico fino alla tarda antichità. L'inno di Apollo è una costruzio­ ne complessa, costituita da due parti stilisticamente diverse unite insieme, che la ricerca data anche ad epoche diverse: la metà deli­ ca viene fatta risalire al settimo secolo; la seconda, delfica, a qual­ che tempo più tardi. Anche l'intera composizione venne datata a non dopo il tardo sesto secolo, per le feste a Delo, nelle quali il tiranno Policrate di Samo celebrò congiuntamente Delia e Pizia. L'inno comincia con l'ingresso di Apollo nell'Olimpo. Allorché appa­ re il giovane dio, l'arco in mano, gli dèi balzano in piedi dai loro seggi, spaventati; solo Latona, sua madre, rimane tranquilla accanto a Zeus, pren­ de dal figlio arco e faretra, li appende a un gancio d'oro, e lo porta a se­ dere al suo posto; Zeus, il padre, gli offre del nettare in una coppa d'oro, dimostrando davanti agli occhi di tutti la posizione di Apollo come figlio di Zeus. Un breve inno a Latona, che ha partorito Apollo e Artemi le conduce al mito della nascita. Latona, incinta, erra di luogo in luogo, , •l . poter partorire, ma nessuno vuole accoglierla: troppo grande è la paura del figlio ricalcitrante che lei porta in grembo. Alla fine riesce a ottenere la piccola isola rocciosa di Delo, con la promessa che il dio avrebbe fon­ dato qui il suo primo e più bel tempio. Ora, la dea giace nove giorni in lamenti presso l'lnopos, il fiume principale dell'isola, e le stanno accanto molte dee; infatti, Era ha gelosamente tenuto lontano la dea del parto Ili­ tia. Finalmente essa arriva, convinta da Iride, «Arcobaleno)), l'amba-

77

sciatrice degli dèi: «Latona mise le braccia intorno a una palma, piegò le ginocchia sul tenero prato, e la terra rise sotto di lei. Il bimbo balzò fuori alla luce e le dee gridarono tutte» (v. 1 1 7). Il neonato viene lavato, fasciato e legato, nutrito con nettare e ambrosia: ma il bambino strappa fasce e legacci e parla alle dee sbalordite: «Mi piace troppo la lira e il cur­ vo arco, e predirò agli uomini il volere infallibile di Zeus» (v. 1 3 1): musi­ ca, arco, oracolo, sono territorio di Apollo. A questo punto dovrebbe seguire il racconto della fondazione del tempio; e invece segue la descri­ zione della grande festa delica, dove tutti gli ioni si riuniscono e dove can­ tano le Deliadi, l'apollineo coro di fanciulle: la realtà variopinta della festa degli dèi mostra, meglio di un racconto di fondazione, come Latona man­ tenne la sua parola.

Il mito fonda il culto del dio sulla piccola, brulla isola roccio­ sa: essa sola fu vicina a Latona al momento della nascita di Apol­ lo, ed è per questo che si trova qui il suo tempio, la cui più antica e poco appariscente costruzione in pietra risale al periodo geome­ trico. Anche Latona, la madre, ha qui il suo temenos, con un tem­ pio del sesto secolo (alla sua importanza nel culto deve la dea il fatto che nella scena introduttiva dell'inno, troneggia nell'Olim­ po accanto a Zeus, al posto di Era). Ugualmente venerata è Arte­ mide, la sorella, il cui tempio risale al periodo a cavallo tra l'ottavo e il settimo secolo. Naturalmente anche la levatrice Ilitia ha qui temenos e festa, e vediamo che già Odisseo considerava la palma, cui si era aggrappata la partoriente, emblema del santuario di Delo (Odisseo 6, 1 62). Testi posteriori variano il racconto, che non è canonico, no­ nostante lo stretto vincolo con un centro di culto. Soltanto un nu­ cleo rimane fisso, quello che si riferisce alle realtà del culto, la nascita di Apollo all'Inopos sotto la palma. Quando più tardi com­ pare ancora un ulivo, ciò va ascritto all'influenza di Atene, che volle inserire nel mito anche il suo albero sacro : dalla metà del sesto secolo, Delo fu più volte sotto il dominio ateniese. Varianti post-classiche corrispondono invece piuttosto a intenti poetici. Nel­ l'inno omerico Latona era circondata da dee, un entourage come si conviene a un personaggio del suo rango. In tempi successivi si lavora sull'elemento patetico e compassionevole: nell'Inno a De/o di Callimaco, Latona viene perseguitata senza pietà dagli agenti di Era, Ares e Iride, e partorisce da sola sulla piccola isola; nelle Metamorfosi di Ovidio (6, 337 sgg.) essa deve addirittura scappa78

re immediatamente dopo il parto, con i neonati fra le braccia (Ovi­ dio fa nascere a Delo anche Artemide). E anche così la nascita non è senza prodigi: in Callimaco gli animali sacri di Apollo, i cigni, girano sette volte intorno all'isola (sette è il numero sacro di Apollo, il suo compleanno ricorre al sette del mese, come la maggior parte delle sue feste); solo dopo questi sette giri dei cigni viene partorito il dio, e per celebrare la nascita l'intera isola ri­ splende d'oro puro: un'esagerazione barocca del prato dell' anti­ co inno 3 • Il mito dunque è connesso al luogo di culto più intimamente che non se fosse destinato a dare una motivazione puramente ester­ na per la sacralità del luogo. Al paradosso della nascita di un dio così potente sulla minuscola isola, su cui i poeti successivi con tanta facilità avrebbero giocato i toni patetici, corrisponde il parados­ so del culto, il fatto che la piccola isola fosse diventata il luogo di un santuario così importante, dove gli ioni insulari, lontani dalle loro città, celebrano la loro festa comune. Questo paradosso vie­ ne ancor più fortemente sottolineato dal racconto secondo cui Delo una volta era un'isola galleggiante (così, prima di tutti, Callima­ co) 4 : un'isola del genere non è né terra, né mare. Proprio su que­ sto anche Ovidio fonda la scelta del luogo: Era aveva interdetto a Latona ogni terra, sicché non restava che Delo. Naturalmente, in un luogo così al di fuori di ogni categoria, è possibile celebra­ re, nella maniera meno problematica possibile, una festa che uni­ sce varie città; proprio qui infatti vengono disinnescate tutte le possibili rivendicazioni e rivalità locali. Anche il Panionion, il cen­ tro politico-religioso delle dodici città ioniche sulla costa occiden­ tale dell'Asia Minore, si trovava lontano, sulle pendici del monte Micale. Intorno a questo mito principale, che fonda la sacralità dell'i­ sola, gravitano miti minori, collegati con singoli dettagli della fe­ sta, con altri santuari dell' isola. La principale attrazione era l' «altare con le corna)), tutto rivestito con le corna delle capre sa­ crificate: nominato già nell'Odisseo insieme con la palma, più tardi venne a volte annoverato tra le sette meraviglie del mondo 5 • De­ porre nel santuario teschi e corna di animali sacrificati, è un'u­ sanza spesso attestata, che riporta a un costume venatorio: nel mito è riecheggiato là dove si dice che Apollo, a soli quattro giorni d'e­ tà, aveva personalmente decorato l'altare con le corna di capre 79

selvatiche, cacciate dalla sorella Artemide (Callimaco, Inni, 2, 60 sgg.). Intorno a questo altare danzavano giovani uomini e don­ ne, xoupot e 7tcxp9!vot, nella «danza delle gru», -y!pcxvoç: l'avrebbe introdotta Teseo, al suo ritorno ad Atene con i fanciulli e le fan­ ciulle ateniesi , che egli aveva salvato dal labirinto, e la danza rap­ presenta le tortuosità del labirinto. Contemporaneamente aveva installato una statua )ignea di Afrodite, intagliata da Dedalo, il costruttore del labirinto, e che Arianna avrebbe regalato a Teseo; sarebbe stato ancora Teseo, altresì, a istituire i giochi di Delo, sta­ bilendo come premio un ramo della palma sacra, e per primo si sarebbe tagliato qui i capelli, che poi offrì ad Apollo. Un'anti­ chissima statua di legno di Afrodite era conservata nell'area di Apollo, dono di Teseo, e già l'inno omerico descrive le gare: pu­ gilato, canto e ballo devono essere le discipline, caratteristiche di una festa per ragazzi e ragazze in crescita; molto spesso sentiamo di sacrifici di capelli, nel culto di Apollo. Non bisogna cercare di coordinare queste storie con altri miti: non deve preoccupare, co­ me potesse apparire, la festa delica prima della fondazione di Te­ seo, dal momento che Latona l'aveva già promessa nell'inno. Ma si può facilmente ricondurre la molteplicità delle istituzioni di Teseo a un orizzonte rituale, anche se esse sono state raccontate solo dopo che il controllo su Delo passò ad Atene. Per molto tempo il viag­ gio di Teseo a Creta fu collegato, come abbiamo visto (capitolo l l);al mondo immaginativo dei riti di iniziazione; Creta è trasfor­ mazione di quel luogo lontano esterno dove i giovani venivano riplasmati e resi adulti; il ritorno e l'introduzione nel mondo de­ gli adulti corrisponde poi al ritorno da Creta: danza, agonismo, ripresa di normali rapporti erotici, caratterizzano nelle società et­ nologiche questa introduzione. E al medesimo contesto appartie­ ne anche il sacrificio dei capelli 6 • Tra i monumenti cultuali nell'ambito del santuario di Apollo c'erano inoltre due tombe micenee, oggetto di culto in tempo sto­ rico, il ai'j!J.cx, «monumento funebre» , nell'area di Artemide, e la fMx'l], «sepolcro», ad est dell'area di Apollo 7• Le designazioni gre­ che risalgono a Erodoto (4,33-35): il sema sarebbe la tomba di due fanciulle iperboree, Laodice e lperoche, le quali avrebbero portato a Delo, per prime, un dono votivo per facilitare il parto, accompagnate da cinque giovani uomini, e sarebbero morte nel santuario; da allora i ragazzi e le ragazze di Delo sacrificarono 80

loro, sulla tomba, prima delle nozze, una ciocca di capelli. Anche la teca sarebbe una tomba di due iperboree: queste sarebbero ar­ rivate ancor prima, «insieme alle divinità», e per onorarie le don­ ne di Delo mettono in scena un «corteo di postulanti» e cantano un inno di Oleno, il licio che avrebbe raccolto tutti gli inni cultua­ li dei delii: in un inno del genere, Oleno fa venire Ilitia dagli iper­ borei e anche Latona incinta sarebbe venuta di là. Insieme con queste divinità arrivarono evidentemente le prime iperboree. Fin qui, tutto è chiaro: il sacrificio prenuziale dei capelli al monumento di culto all' Artemisio si connette ai riti prenuziali di altri luoghi, che sono collegati con Artemide o Apollo; l'offerta votiva delle iperboree offre lo spunto mitico per un sacrificio del primogenito che effettivamente veniva portato a Delo, anche se tale sacrificio non proveniva dagli iperborei, ). Dio­ niso aveva dato loro il dono di creare, dalla terra o dal nulla, grano, vino e olio (alquanto unilateralmente, esse vengono chiamate an­ che «trasformatrici di vino», O!vo,;p67tm): esse sono protettrici di quelle forze che producono i fondamentali mezzi di sostentamen­ to dei greci. Il loro mito fu ripreso nell'epica troiana: nel viaggio da Aulide a Troia, si dice nei Canti Ciprii, l'esercito di Agamen­ none fece sosta a Delo, e fu nutrito dalle figlie di Anios. Rivendi­ cazioni romane trasformarono, molto più tardi, il mito: adesso Anios ospita gli avi dei Romani, Enea di Troia, e diventa lui stes­ so nemico dei greci: Agamennone avrebbe voluto portar via sua figlia a Troia, ma Dioniso la salva, trasformandola in colomba 12 • Questa saga di trasformazione sicuramente non aveva supporto cultuale. La funzione dei miti è, in tutti i casi, la stessa: essi danno il motivo per cui un certo rituale fu introdotto, perché fu onorato un tempio o una certa immagine cultuale, e lo fanno per lo più, raccontando la storia della sua istituzione: Latona promise il tem­ pio, Apollo costruì l'altare di corna, Teseo istituì l'agone, l'im­ magine e la danza delle gru. In altri casi il nesso è più lento: poiché le iperboree vengono sepolte nel sema, esse ricevono un'offerta di capelli - sicché il racconto non dice se non che il sacrificio dei capelli è esattamente quello presso la tomba che era familiare a ogni greco -; e poiché un cane sbranò il giovane Thasos, i cani - come già detto - sono banditi a Delo. Si prende di mira la causalità, mentre non viene indicato alcun punto cronologico del­ l'istituzione. Tuttavia, è necessario che diamo un'occhiata più approfondi­ ta. Gli aitia non spiegano né ogni immagine di culto né ogni ri­ tuale, e non hanno riferimento specifico ad ogni tempio. Essi sono 82

collegati a templi e immagini di culto particolarmente importanti e venerandi, e ad atti rituali particolarmente basilari o insoliti: al­ la antichissima immagine di Afrodite, all'antico tempio di Apol­ lo, alla strana offerta dei capelli o al fondamentale sacrificio animale che spiega il mito di Prometeo (cfr. capitolo IV). Se scom­ pare la particolarità, scompare il mito: l'arcaico inno di Apollo attribuisce a Latona la fondazione del tempio di Apollo, mentre più tardi non sappiamo più nulla al riguardo; dopo il 540 a.C. circa il tempio di Apollo venne ricostruito. Oppure, il mito cam­ bia, come a Delfi 1 3 • Nell'inno di Apollo viene narrato come sia il dio stesso a porre la prima pietra del tempio delfico (v. 294 sgg.): è un vecchio tempio, già noto ad Omero (Iliade 9,404 sgg.). Nel­ l'anno 54817, secondo la parte delfica dell'inno, prese fuoco. Ora il mito diventa una storia di fondazione, che compare per la pri­ ma volta solo in Pindaro, due generazioni dopo l'incendio (Pea­ na 8). Prima del tempio andato a fuoco, ne sarebbe esistito uno in bronzo, opera del divino fabbro Efesto; ancor prima ce n'era un altro di piume e cera d'api, il «tempio di piume)), vaòç 7t'tÉpLvoç; prec(òdentemente a questo, si dice dopo (nel testo del peana di Pin­ daro qui c'è una lacuna), c'era una capanna di rami di alloro, la pianta sacra ad Apollo. Si capisce come sia nato il nuovo mito: il tempio incendiatosi non può essere quello costruito dal dio (al­ trimenti, come avrebbe potuto !asciarlo bruciare?); esso diventa così costruzione di un passato storico, che precede un periodo ben più antico, «mitico)), II tempio di bronzo risale all'epoca degli eroi epici, che in Omero conoscono solo il bronzo. Prima di questo c'è la costruzione abbastanza inverosimile di piume e cera: si adatta a un'età d'oro, in cui non erano necessarie case stabili, e in cui il miele, un altro prodotto delle api, scorreva a fiumi; uccelli e api, peraltro, sono animali profetici. La capanna di frasche, infi­ ne, ricorda l'elemento rituale e contemporaneamente fa traspari­ re spezzoni di storia della cultura di natura mitica. Le capanne di frasche fanno parte dei riti con cui gli uomini rappresentano (v. 1 69). I più antichi canti cultuali delici, però, si facevano risalire a Oleno, come riferisce Erodoto. Eppure, an­ cora in periodo ellenistico, le iscrizioni deliche onorano poeti a noi non altrimenti noti per la loro rappresentazione dei «miti in­ digeni)). Il racconto dei miti ha quindi un posto fisso nella forma tradizionale dell'inno greco, fa parte della sua sezione >. Ancor più ingenua è un'altra razionalizzazione: di Danao, il mi­ tico fondatore di Argo, si diceva che avesse avuto 50 figlie. Ciò eccede i valori conosciuti di fertilità umana: «credo a malapena venti» (F 1 9). Il mito segue chiaramente il desiderio umano del­ l'esagerazione fabulatoria: «si esagerano, a partire dalla natura, cose meravigliose», teorizzava ancora Fontenelle. Questo è il cre­ do metodologico di tutti quelli che vogliono desumere la storia dal mito: «vogliamo depurare con la nostra ragione ciò che viene narrato così semplicemente, il mitico, in modo che assuma aspet­ to di storia», Plutarco abbozza questo metodo alla fine del primo secolo d.C.; «rivelazione dell'elemento storico», chiama nel l983 questo procedimento uno stimato storico dell'antichità 4 • Nel suo capitolo iniziale, Erodoto non procede in modo diverso: non un enorme tafano inviato da Era (questa era la versione corrente) ha spinto Io in Egitto, non uno Zeus trasformato in toro ha rapito Europa: sono stati mercanti o pirati (che Erodoto si distanzi an­ che facendo raccontare queste storie da persiani o fenici, depone a favore del suo senso storico). Il titolo Genealogie rimanda al fatto che Ecateo con l'aiuto di connessioni genealogiche, aveva cercato di stabilire un ordine 94

cronologico nella poderosa tradizione mitologica greca; egli con­ divide con altri storici greci arcaici titolo e intento. L'impresa è significativa: qui i miti non sono raffigurazioni tra loro tempo­ Talmente indipendenti e fluttuanti, bensì si situano l'uno rispetto all'altro in una connessione accertabile, e non si comportano di­ versamente da documenti storici. Nel corso dell'evoluzione si pos­ sono evidenziare due tendenze: da una parte gli alberi genealogici vengono sincronizzati sempre più rigidamente e precisamente, sic­ ché la sequela di generazioni passa trasversalmente attaverso di­ versi miti; dall'altra si tenta di colmare la grande lacuna tra la fine del periodo per noi mitico, la generazione dei figli dei combatten­ ti di Troia, e l'inizio di un ricordo e di una documentazione real­ mente storici . Già al tempo di Ecateo il principio della connessione genealo­ gica dei miti non era più nuovo. Già l'epopea omerica conosce gli alberi genealogici . Nella forma più rudimentale si estendono per tre generazioni. Ogni eroe omerico ha un padre; qualche vol­ ta Omero menziona anche un figlio; così abbiamo: Neleo-Nestore­ Antiloco, Laerte-Odisseo-Telemaco. Genealogie più lunghe sono riservate a situazioni particolari: la più completa è quella di Enea, che la recita ad Achille prima del loro duello, «affinché tu cono­ sca la nostra origine» (lliade XX 2 1 5 sgg.). Egli fa risalire a Zeus la famiglia regnante di Troia, cui egli appartiene in linea parallela come consanguineo di Priamo ed Ettore attraverso sei avi. Ven­ gono così dettagliatamente rievocati miti che si riallacciano a sin­ goli avi come Ganimede, e per accenni viene data anche una storia della città di Troia: Ilio al margine della pianura dello Scaman­ dro, fondazione del padre di Priamo Ilo, che sarebbe stata prece­ duta da una città in alto sui monti, Dardania, fondata dal figlio di Zeus Dardano. È chiaro come in una genealogia del genere fossero rielabora­ ti diversi miti, in ultima analisi autonomi (il mito del bel Ganime­ de, fu raccontato per tutta l' antichità anche a sé stante) e come, d'altra parte, diversi elementi - soprattutto prestanomi, eponi­ mi (Ilo, fondatore di Ilio, Tros, signore dei Troiani) - forse sia­ no stati inventati solo per questo. Ma è decisivo il fatto che attraverso il collegamento venga creata una seguenza cronologica all'interno dell'epoca mitica, da Zeus fino ad Enea ed Ettore. Qui non concepiamo il cantore epico solo come narratore, ma anche 95

come raccoglitore e sistematizzatore di miti, un'attività per lo più sottovalutata e che pure, proprio attraverso la classificazione quasi storica, contribuisce alla razionalità della narrazione epica dei miti. Molto più chiaramente ancora, quest'attività degli aedi si co­ glie in una poesia in esametri attribuita a Esiodo e conservata so­ lo in stato molto frammentario, il Catalogo delle donne 5 • Nella Teogonia Esiodo aveva scelto l 'ordinamento genealogico a fon­ damento della sua visione del mondo degli dèi, e quindi del co­ smo da essi rappresentata, e la Teogonia tramandataci finisce con una lista dei matrimoni di Zeus e degli altri dèi (886-1022). Qui si allaccia il Catalogo delle donne, che parte dal congiungimento di un dio con una donna mortale, e segue poi la genealogia attra­ verso il periodo mitico fino alla generazione dei combattenti di Troia e, occasionalmente, dei loro figli; viene catalogato con l'at­ tacco fisso «O come questa . . », Tj ol'11: da cui il titolo alternativo di Eoie. Le singole genealogie vengono compilate facendo deri­ vare gli eroi e le eroine dalla coppia primigenia Pirra e Deucalio­ ne, figli di Epimeteo e Prometeo, sopravvissuti al diluvio universale, e attraverso il loro figlio Elleno, eponimo degli Elleni. Anche gli alberi genealogici che si diramano nella successiva generazione co­ minciano con eponimi : con la sorella di Elleno, Zeus genera Ma­ cedone e Magnete, che dettero i loro nomi ai macedoni e ai magneti tassalici; con Pandora, una delle altre sorelle di Elleno, genera Gre­ co, eponimo dei greci nordoccidentali , dai quali i romani presero il loro Graeci; i figli di Elleno sono Eolo, Doro e Xuto, avi dei tre gruppi dialettali ed etnici greci più importanti, gli eoli, i dori e gli ioni. Questo è più che un semplice gioco. Si categorizza e si ordina la molteplicità dei gruppi linguisticamente e culturalmente imparentati della patria greca in epoca arcaica, si sanziona la de­ limitazione collocando nel periodo immediatamente dopo il dilu­ vio universale l'inizio dell'epoca attuale e si contribuisce all'orientamento nel mondo dei raggruppamenti etnico-politici, esattamente come la Teogonia non riordina solo gli dèi del culto, ma il cosmo in generale, rendendolo comprensibile. Naturalmente, ora si potrà obiettare che la genealogia non è narrazione di miti, ma semplice ordinamento di nomi. Solo che quasi ogni nome si porta dietro un mito. Così la mitologia può essere desunta sulla base di una genealogia, come le Eoie, come abbiamo visto a proposito dell'albero genealogico di Enea. E an.

96

cor più strettamente connessi sono genealogia e racconto mitico in quelle storie che troviamo a partire dall'epica tardo-arcaica, in cui una famiglia nobile viene perseguitata da una maledizione, di generazione in generazione, come i Tantalidi, re di Micene e Ar­ go. Nell'Iliade (Il 1 0 1 sgg.) un fatto analogo compariva ancora candidamente, là dove è descritto il passaggio dello scettro che sarà di Agamennone da Ermes a Pelope, e quindi a suo figlio Atreo; a questi subentra il fratello Tieste, che infine dà Io scettro al figlio di Atreo, Agamennone. Più tardi, ad esempio presso i tragici attici, Atreo e Tieste sono nemici: Nel gregge di Atreo era apparso un agnello col vello d'oro. I nvece di sacrificarlo ad Artemide, Atreo lo mantiene come garante del suo domi­ nio, però Tieste lo ruba con l'aiuto della moglie di Atreo, da lui sedotta. Atreo uccide l'adultera, caccia il fratello, che però istiga un nipote a ucci­ dere il padre; invece di questi Atreo uccide, senza saperlo, il figlio. Per vendicarsi, durante un giorno di espiazione, egli serve a tavola a Tieste i figli di lui uccisi; alla fine Egisto, figlio di Tieste, ammazza suo zio. Pe­ lope aveva pronunciato la maledizione, che così atrocemente ricade sui suoi figli, perché essi avevano ucciso il loro fratellastro, figlio anche lui di Pelope. Ma infine la maledizione agisce sulla famiglia attraverso Mirti­ lo, l'auriga, che aveva aiutato Pelope a prendere il potere, ma che costui poi aveva ucciso. La maledizione continua nella generazione seguente: Egi­ sto seduce Clitennestra, moglie di Agamennone, e questa ammazza suo marito; suo figlio Oreste vendica col matricidio la morte di Agamennone, cadendo così in conflitti apparentemente irrisolvibili (cfr. capitolo VII).

Nonostante tutto lo sforzo di sistematizzazione, però, il Cata­ logo delle donne non è affatto sincronizzato al suo interno; solo storici più tardi vorranno essere più precisi; inoltre esso si inter­ rompe con la generazione dei figli dei guerrieri di Troia; solo in epoca successiva si provvederà a riempire le lacune. Spinte ad ope­ rare in questo senso venivano anche da singole famiglie nobili, come da stati interi e dalla loro necessità di storia. Ora, nobili greci legavano le loro famiglie alle genealogie degli eroi epici, quindi ai loro avi divini: ciò esprime l'esigenza di assicurarsi uno status politico. Così sappiamo degli Eneidi nella Troade, che si diceva­ no discendenti di Enea (a causa loro, pensa qualche ricercatore, l'eroe sarebbe stato enfatizzato così nell' /liade) 6 • Tuttavia que­ sto costume di ricercare legami nel passato non è limitato alle fa97

miglie nobili, anche Ecateo deve aver affermato il legame con un dio nella sedicesima generazione. Veniamo a conoscenza dei gra­ di intermedi, che qui mancano, nella genealogia di Milziade, nonno dell'omonimo vincitore di Maratona (490 a.C.), che si ricollega­ va a Fileo, eponimo della nobile famiglia dei Fileidi e figlio del­ l'omerico Aiace, figlio di Telamone. I dodici membri intermedi, che ci sono stati tramandati, per noi sono puri nomi, eppure da qualche parte dev'esserci un ricordo storico. La genealogia di un chiota su un'iscrizione del tardo quinto secolo mostra quanto ta­ le ricordo potesse risalire indietro nel tempo: esso abbraccia 14 generazioni, oltre 400 anni, e nessuno dei nomi si può associare a miti noti. Forse il ricordo delle famiglie risale effettivamente fi­ no all'epoca dell'immigrazione sull'isola 7 • Questo intreccio fra genealogie epico-eroiche e genealogie sto­ riche passa pressoché inosservato, eppure è estremamente impor­ tante dal punto di vista concettuale: con ciò il mito cessa, in modo definitivo e dimostrabile, di essere una questione da in ilio tem­ pore (M. Eliade), di perduto in un periodo cronologicamente non afferrabile con esattezza, tempo di «semidei», -i!!LLOtol (Iliade XII 23), degli eroi di Esiodo, la cui epoca è radicalmente separata dalla nostra (Le opere e i giorni, 156 sgg.), ma le cui tombe e ossa, tro­ vate già dall'ottavo secolo, vengono indicate per nome ed onora­ te. Ora il tempo epico degli eroi si inoltra in un rapporto databile con il tempo attuale; Aiace può essere collocato dodici generazio­ ni prima di Milziade il Vecchio, e quindi (calcolando tre genera­ zioni per secolo) a metà del decimo secolo. Proprio questo collegamento degli eroi mitici con le ossa e le tombe è stato il pri­ mo passo verso una visione del mito come storia (capitolo III), col che gli eroi diventano uomini della preistoria. Con una crono­ logia rielaborata, quindi, l'epoca degli eroi viene inserita, in mo­ do completamente razionale, in un passato misurabile e pensato come continuum . A dire il vero, la serie genealogica più antica è tanto storia di Stato, quanto espressione di privato orgoglio nobiliare. È il caso della serie dei re spartani 8 • Quando menziona i re spartani come condottieri dei greci nella guerra persiana, Erodoto cita due volte le loro impressionanti genealogie, quella di Leonida (7, 204) e quel­ la di Leotichida (8, 1 3 1). Le genealogie private di entrambi i re coincidono ampiamente con la lista dei re del doppio regno spar98

tano, Leonida risalendo ad Agide, avo della dinastia degli Agidi, e Leotichida ad Eurifonte, avo della dinastia degli Europontidi; entrambi, infine, vengono fatti risalire ad Ercole, figlio di Zeus. Di nuovo periodo mitico e storico sono tranquillamente congiun­ ti. L'età di queste genealogie è incerta: comunque, già il poeta spar­ tano Tirteo conosce all' inizio del settimo secolo, la discendenza da Ercole. È difficile pensare che già alla sua epoca non fosse sta­ ta tracciata la discendenza; l'intera successione, quindi viene ri­ portata fin nell'ottavo secolo. Per gli Spartani, la genealogia rimase il centro della loro storia nazionale - il sofista lppia di Elide in Platone si vanta di aver avuto un successo tutto particolare a Spar­ ta, raccontando di antichità e genealogie (Hippias maior 285 D). Sparta, amante dell'antico e conservatrice, custodisce ciò che al­ tri Stati greci avevano parimenti apprezzato nel periodo arcaico. Il tentativo più completo di colmare con racconti mitici la la­ cuna tra la fine del tempo epico e l'inizio del ricordo storico, e quindi anche di chiarire le differenze etnico-politiche sorte tra la Grecia dell'epopea e quella dei secoli storici, è rappresentato dai racconti del ritorno degli Eraclidi e della emigrazione degli ioni. Per l'Iliade e l'Odisseo il Peloponneso era suddiviso in una serie di principati locali - quello di Agamennone a Micene, di Mene­ lao a Sparta, di Nestore a P ilo - mentre le coste dell'Asia Mino­ re occidentale non erano greche, i suoi abitanti essendo carii, lelegi e altri popoli barbari (Iliade X 428 sgg.). All'inizio del primo mil­ lennio emigrarono dal sud al nord dori, ioni ed eoli, che avevano tutti parenti nella madre patria dirimpetto; anch'essa fu divisa in diversi gruppi tribali e città-Stato. Antichi e moderni concordano nel trattare queste trasforma­ zioni come prodotti di migrazioni etniche: i dori, dimoranti du­ rante l'età del Bronzo nella Grecia nord-occidentale, conquistarono il Peloponneso, ad eccezione della montuosa Arcadia, quindi con­ tinuarono a peregrinare oltre Creta verso Rodi, Cos e la costa del­ l' Asia Minore; gli eoli attraversarono l'Egeo del nord, stabilendosi a Lesbo e nel suo hinterland asiatico; gli ioni occuparono il terri­ torio in mezzo. L'archeologia moderna indica che singole città io­ niche dell'Asia Minore, già nell'età del Bronzo erano colonizzate dai greci, le quali però allorché crollò il mondo miceneo vennero distrutte anch'esse, e il rinsediamento cominciò solo dopo un in­ tervallo temporaneo di almeno un secolo. La singolarità dei ri99

trovamenti ceramici collega i nuovi coloni ad Atene 9 • L'emigra­ zione dorica è più problematica. L'idea corrente fa penetrare i dori in un vuoto, creato intorno al 1 200, dalla dilagante ondata di in­ vasione dei cosiddetti popoli del mare, che costrinse i popoli peri­ ferici della Grecia nord-occidentale a spingersi verso sud. Ma poiché i dori non lasciarono dietro di sé nessuna traccia archeolo­ gica loro tipica, e poiché già nella lingua delle tavolette micenee in lineare B si sono trovate tracce di dialetto dorico, di recente ricercatori anglosassoni hanno messo in discussione addirittura la migrazione, vedendo i dori come l 'antica popolazione sottomes­ sa dai signori di Micene. Questo forse è eccessivo; le tracce dialet­ tali doriche non sono molto evidenti, e l'archeologia mostra, in ogni modo, una percepibile frattura nello stile ceramico e tracce d'insediamento, perlomeno a Sparta. Si deve pensare piuttosto ad una immigrazione di nuovi elementi etnici, magari non proprio nella forma di una migrazione di popoli, quanto piuttosto come infiltrazione di piccoli gruppi, che si assimilarono agli abitanti già esistenti 10 • Del tutto diverso l'antico resoconto del popolamento post­ miceneo del Peloponneso, che si conserva in due compilazioni tar­ de, abbastanza concordanti, la storia universale di Diodoro di Si­ cilia e la Biblioteca di Apollodoro, che però nei suoi tratti principali risale a prima del quinto secolo: è il racconto del ritorno degli Era­ elidi, la discendenza di Eracle 1 1 • Di fronte al nemico giurato di loro padre, il re Euristeo di Micene, gli Eraclidi erano fuggiti per vie traverse ad Atene, dominata allora da Teseo. Il re attico li protesse dalle truppe di Euristeo, che il figlio di Era· cle, Ilio, uccise poi in duello. Un ritorno di Ilio nel Peloponneso, la terra d'origine di suo padre, non riuscì - sia perché un oracolo, stante la sicci­ tà, pretese che il ritorno avvenisse solo «dopo tre raccolti»; sia perché Il­ lo nel duello con un peloponnesiaco fu vinto, e gli Eraclidi dovettero im­ pegnarsi a non tornare più indietro prima che fossero passati cento (o cin­ quanta) anni -; essi trascorsero il periodo d'attesa presso il re Egimio, figlio di Doro e amico di Eracle. Un altro ritorno, dopo tre anni, naufra­ ga di nuovo; Apollo aveva inteso tre generazioni, non anni. Dopo questo periodo, gli Eraclidi m igrarono sotto la direzione di Temenos, Cresfonte e Aristodemo e insieme ai dori di Egimio; tuttavia, devono aspettare an­ cora una volta, poiché gli Eraclidi uccidono un profeta sacro ad Apollo e Apollo dà loro un altro oracolo enigmatico. Essi lo risolvono, finalmente

100

hanno successo e si spartiscono il Peloponneso tra loro: Temenos riceve l' Argolide; i figli di Aristodemo, colpito nel frattempo dal fulmine, rice­ vono Sparta; e Cresfonte, con un inganno, la ricca Messenia. Al massimo il quadro generale - e che cioè i dori storici, quindi argivi, spartani, messeni, non migrarono dalla Grecia centrale mol­ to prima dell'inizio dell'epoca storica - corrisponde alla migra­ zione dorica, ricostruita archeologicamente, e anch'esso vale anzi solo per i dori di Egimio, che nel racconto svolgono una parte se­ condaria •e che forse furono inseriti da un mito precedentemente autonomo (però la divisione fondamentale di tutti gli Stati dorici in tre file si considera derivata dai due figli di Egimio, Dimante e Panfilo, e dall'eraclide Ilio: i miti devono essere stati già combi­ nati precocemente). Ad ogni modo, gli Eraclidi ritornarono nella loro sede originaria, dalla quale una volta li aveva cacciati Euri­ steo. La colonizzazione storica diventa, nel mito, una lotta lunga e intricata per un diritto ereditario. Ciò non costituisce solo una narrazione emozionante; legittima piuttosto questa conquista, esat­ tamente come l'inganno di Cresfonte legittima e rende moralmente accettabile la successiva conquista della Messenia ad opera di Spar­ ta, la quale elimina la divisione primitiva; e come è per la fonda­ zione di Sparta ad opera dei due figli di Aristodemo, il quale per motivi eziologici, fu cancellato dalla storia con il lampo, il che spiega la doppia regalità spartana, le cui due case reali risalgono ai nipoti di Aristodemo, Egide ed Eurifonte. Quanto agli Eracli­ di, la comparsa di Teseo non spiega solo il culto di Eracle in Atti­ ca, ma spiega anche l'ambizione di Atene alla uguaglianza dei diritti, se non alla superiorità sui dori, cosa che porta dritto al cen­ tro delle contrapposizioni politiche del quinto e quarto secolo. Come forze formative del racconto, accanto all'eziologia poli­ tica compaiono preoccupazioni narrative e soprattutto preoccu­ pazioni di cronologia dei miti. Ilio fa parte della generazione dei guerrieri di Troia intorno ad Agamennone. La famiglia di Aga­ mennone, però, reggeva ancora Micene attraverso un nipote. So­ Io dopo si può conseguire la dissoluzione ad opera degli Eraclidi, tre generazioni o cinquanta-cento anni più tardi . Il necessario slit­ tamento cronologico viene effettuato con il primo oracolo enig­ matico, immediatamente frainteso, o con il duello dei comandanti, di buon stampo epico. Il secondo slittamento ripete l 'enigmatico

101

l'enigmatico oracolo (�;he però questa volta viene chiaramente spie­ gato dal primo momento); esso appare motivato da esigenze pu­ ramente narrative. Anche qui, dunque, il mito è spiegazione e legittimazione del presente, spiegazione delle situazioni dialettali ed etniche del Pe­ loponneso postbronzeo, legittimazione dei raggruppamenti poli­ tici ad esse connessi: proprio per questo esso viene preso come storia, come rappresentazione di una realtà passata, ma ancora attiva nelle sue conseguenze. C'è da aspettarsi che in questa man­ canza di un confine netto tra mito e storia si rispecchi anche al contrario l'avvenimento storico nelle forme narrative del raccon­ to dei miti. È istruttivo il racconto della fine del re !idio Creso 12• Creso aveva assalito i potenti persiani, confidando in un oracolo am­ biguo: l 'impari lotta finì con la conquista del suo regno da parte del re persiano Ciro e il suo imprigionamento nell'estate 547. Creso doveva es­ sere bruciato vivo. Quando sul rogo (così riporta Erodoto) egli gridò per tre volte «Solone !>>, Ciro volle sapere il perché di questo gran sospiro. So­ Ione, così narra il lidio dall'alto del rogo che brucia, aveva cercato di spie­ gargli a suo tempo, senza successo, come solo alla fine della vita si possa considerare qualcuno veramente felice. Ora conosceva la verità di quella lezione. Da parte sua, Ciro rientra in sé, fa spegnere il fuoco e nomina Creso suo consigliere.

Poco prima il lirico corale Bacchilide aveva rappresentato lo stesso avvenimento storico: però, nella sua versione, Creso chia­ ma in aiuto gli dèi. Zeus fa spegnere immediatamente il rogo da un rovescio di pioggia, Apollo sottrae il re e sua figlia agli iperbo­ rei: e così il racconto assume un aspetto mitico, mette in azione l'aiuto miracoloso degli dèi come ricompensa per la devozione umana (una volta Creso aveva inviato per Apollo ricchi doni a Delfi), e tuttavia non è meno verosimile del racconto di Erodoto . È cronologicamente impossibile che l'ateniese Solone abbia mai potuto incontrare il lidio Creso. Il racconto di Erodoto si presen­ ta semplicemente più razionale, ha un altro intento, quello cioè d'illustrare il messaggio di Erodoto, riguardo all'imprevedibile cambiamento delle cose umane. All'avvenimento storico dell'e­ state 547 si sono collegate due storie, e ci rimane impossibile co­ gliere i precisi dettagli storici. Le storie diventano tradizionali: la stessa versione di Bacchilide l'aveva già rappresentata prima un vasaio attico, alla pari di altri miti, su un 'anfora (fig. 4). 102 .

500

Fig. 4. Il re Creso sul rogo. Anfora attica, a figure rosse, di Miso, ca. a . C .

Così, manca un confine tra mito e storia; i l mito, finché vive realmente, resta aperto ai cambiamenti, al mutare delle condizio­ ni del presente. I miti delici su Teseo nascono come conseguenza di mire ateniesi sull' isola (capitolo V): proprio per i miti sull'eroe attico, siamo particolarmente ben documentati per poter inten­ dere tali cambiamenti n . Nel periodo arcaico Teseo è u n eroe tra g l i altri, d i cui molto spesso venivano raccontate alcune avventure. Nei poemi omerici Nestore racconta come Teseo lottasse insieme a Piritoo contro i Centauri (Iliade I 263 sgg . ) ; Odisseo racconta come egli vide nel­ l'aldilà Arianna, la figlia del re Minosse (Odisseo, I l , 3 2 1 ) : Teseo avrebbe voluto portarla ad Atene, e Artemide l' avrebbe uccisa nel­ l' isola di Dio su consiglio di Dioniso; il che presuppone l ' avven­ tura del Minotauro. Odisseo avrebbe potuto vedere anche Teseo e Piritoo, se fosse rimasto più a lungo nel mondo dei morti (Odis­

seo I l , 63 1 ) ; è presupposto il racconto d i come i due eroi avessero voluto rapire Persefone, regina degli inferi, e di come invece fos­ sero stati trattenuti negli inferi. Il tentativo di Teseo di rapire la 1 03

giovane Elena viene infine presupposto là dove la madre di Teseo Etra appare tra le ancelle di Elena (Iliade III 144); i fratelli di Ele­ na, i Dioscuri, non solo avevano riportato indietro la sorella, ma avevano anche preso con loro la madre di Teseo, nascosta presso Elena. Rapimento di donna e lotta contro il mostro: anche nella pri­ ma lirica e nell'arte arcaica queste imprese di Teseo vengono con­ tinuamente rappresentate; l' immagine più antica della lotta con il Minotauro giunta a noi è corinzia e proviene dal settimo seco­ lo. Qui Teseo non ha nessun tratto specificamente ateniese. Le cose cambiano radicalmente nell'ultimo quarto del sesto secolo: ora compaiono qua e là pitture vascolari attiche, rappre­ sentanti Teseo, e nel tesoro degli ateniesi a Delfi (circa 500 a.C.) le imprese di Teseo vengono contrapposte a quelle di Eracle. Non più scandalosi rapimenti di donne e fanciulle né solo lotte contro semibestie, ma soprattutto un'impresa civilizzatrice, l'eliminazione di tutti i possibili banditi dalla strada Trezene-Atene: Scirone, che

Fig. 5 a. Teseo compie le sue imprese con la protezione di Atena (a partire da Atena, in senso orario): uccisione di Sinide (ramo d'abete!); Scirone e Procuste; il Minotauro; doma del toro di Maratona. Coppa at­ tica, a figure rosse, del pittore Cleofrade, 500 / 480 ca. a.C.

104

Fig. 5 b. Teseo e il lottatore Cercione. Figura interna della stessa coppa.

buttava le sue vittime sugli scogli; Sinide, che spezzava i viandan­ ti con un abete giovane; Procuste, che li adattava al suo letto gi­ gantesco con degli stiramenti, che facevano regolarmente morire le vittime; Cercione, un potente lottatore, che schiacciava le sue vittime. Il contrasto con Eracle e le sue imprese, condotte contro bestie selvagge e mostri stranieri, appare intenzionale. Ma il pun­ to più alto dell'entusiasmo ateniese per Teseo fu la scoperta delle sue ossa sull'isola di Sciro e il loro rimpatrio ad opera di Cimone, figlio del vincitore di Maratona Milziade, nell'anno 476; si rac­ contava anche che Teseo stesso fosse intervenuto a Maratona, per aiutare 1 4 • Punto di partenza di tutta questa tradizione ateniese di Teseo dev'essere stato un poema epico, la Teseide, composto al più tar­ di nell'ultimo qua,rto del sesto secolo nell'intento di dare ad Ate­ ne un eroe nazionale. Teseo, le cui imprese erano ampiamente note dai tempi di Omero, si presentava comunque molto meglio del pallido rappresentante di Atene davanti a Troia, il re Menesteo (Iliade II 552). È controverso se il tiranno Pisistrato o invece il fondatore della democrazia ateniese Clistene abbia dato l'impulso decisivo. Ma 105

qui non è così importante. Decisivo è il fatto che i moventi politi­ ci portarono a raffigurare epicamente i miti di Teseo, come rap­ presentazione dell'autocomprensione ateniese. Ora Teseo non è semplicemente realizzatore di imprese gagliar­ de, come altri eroi. II periodo successivo, soprattutto la storia at­ tica locale del quarto secolo, mostra di sentirsi a disagio con le antiche storie avventurose, e razionalizza senza riguardo, per esem­ pio, la lotta con il Minotauro, così amata nel periodo arcaico: il mostro diventa Tauro, ufficiale di Minasse, che Teseo vince in una battaglia per mare (Demone, FGrHist 327 FS) o in duello (Fi­ locoro FGrHist 328 F17); l'avventura di Creta viene intesa diret­ tamente come invasione dei cretesi in esilio, per rovesciare, con l'aiuto di Atene, il tiranno Minasse (Ciidemo FGrHist 323 F17); il re storico-umano Teseo non può più intervenire contro il mostro. Dev'essere stata proprio la Teseide a dare la spinta iniziale a questa razionalizzazione, presentando Teseo come fondatore dello Stato ateniese, nel senso che egli riunì in un unico luogo, ad Ate­ ne, la popolazione sparsa nei villaggi dell'Attica. Questo sineci­ smo («insediamento concentrato») in tutta l'epoca seguente fu considerato l' impresa centrale di Teseo, che veniva celebrata an­ che nella festa della Sinecie, che Teseo stesso avrebbe istituita 1 5 • L a festa aveva luogo i l 1 6 Ecatombeone, immediatamente dopo la luna piena del primo mese ateniese, caratterizzato da diversi riti di fine e nuovo inizio, in quanto primo mese dell'anno. An­ che il singolare sacrificio delle sinecie, nel quale non si arrostiva in comune la carne, ma la si portava a casa cruda, rappresenta una simile dissoluzione dell'unità politica, alla quale segue un nuo­ vo inizio. II mito secondo cui gli ateniesi abitavano dapprima iso­ lati nei loro villaggi e poi furono riuniti da Teseo, ricalca esattamente questo decorso del rito, espresso nel codice dell'azio­ ne politica. Mito e rituale non sono intesi a conservare un sineci­ smo effettivamente protostorico: perfino chi sostiene che il mito sia «autentica saga, che poggia su un fondamento storico» 1 6, de­ ve ammettere che questo sinecismo storico seguì presumibilmente un cammino diverso, con un «lungo e graduale sviluppo». Del mi­ to, quindi, non resta più che l'idea di fondo, e cioè che una gran­ de città sia nata dalla riunificazione di più villaggi; che sia storico o meno, è comunque soddisfacente dal punto di vista logico. Più decisivo è il fatto che qui Teseo da eroe da fiaba sia diven106

tato un politico quasi storico, che opera da sovrano. Democratici radicali del quarto secolo (preceduti da Euripide) arrivarono a farlo dimettere da re e a renderlo responsabile dell'introduzione della democrazia; Teofrasto, discepolo di Aristotele, lo fa addirittura diventare scopritore dell'ostracismo, il giudizio espresso su cocci della democrazia di base: sicuramente in chiave polemica, antide­ mocratica, poiché lo presenta immediatamente come prima vitti­ ma della sua invenzione. Il suo maestro, più giustamente dal punto di vista storico, aveva ricondotto l'ostracismo a Clistene, mentre a Teseo aveva attribuito una costituzione «un po' distante dalla forma monarchica)) (Cost. Ath. 4 1 , 2). Al contrario, Tucidide lo rappresenta come un monarca assoluto, che possedeva abbastanza for­

za per spogliare, con violenza, i singoli villaggi della loro sovranità

per costituire il suo sinecismo ( 2 , 1 5 ) . Plutarco s' immaginò il mede­

simo procedimento, nel senso che Teseo andasse di paese in paese e

da

sede

patrizia

a

sede

patnz1a ,

diffondendo

la

ma­ ( Teseo 24, l sg.). Certo, non ognuno di questi dettagli rientra nel racconto tra­ dizionale; però il punto di partenza, l'immagine di Teseo come re attico, lo è sicuramente e le difficoltà si fanno discendere da lui. Il mito di Teseo, quindi, si presenta in una forma, che ogni greco poteva intendere come storia, e questo già nel tardo sesto secolo, a meno che l'eziologia della festa delle sinecie non condu­ ca ancora più indietro. Questo sguardo d'insieme dovrebbe aver mostrato che questa comprensione del mito come storia non è uno sviluppo più tardo, o addirittura uno svuotamento, come supponevano, fin troppo volentieri, gli evoluzionisti, imprigionati nello schema «dal mito al logos)). I miti, soprattutto i miti degli eroi, per l'intera antichi­ tà sono storia. Ed è possibile individuarne i motivi. Da una parte, il mito degli eroi, nel periodo arcaico, ha la forma fissa della poe­ sia epica, particolarmente dell'epopea omerica; già Omero strut­ tura il mondo dei miti secondo criteri cronologici o, per così dire, storici. Questo fa parte del realismo omerico, che si mantiene il più possibile lontano dal fantastico e dal favolistico (cfr. capitolo III). Lo stesso realismo, che ora è stato rimproverato di mancanza di fantasia, ora è stato lodato come riferimento caratteristico e sua idea: la gente semplice lo seguiva con entusiasmo, i nobili di lavoglia, per riguardo al potere della sua casata

107

radicamento nel mondo puramente umano (a ragione, e convin­ centemente), contraddistingue però la narrazione greca dei miti anche altrove 1 7• I mostri sono rari e sorprendentemente addome­ sticabili. Il più complicato è la chimera («davanti leone, dietro ser­ pente, al centro capra))), oppure Tifone di Esiodo, con le sue diverse teste di animale. Più frequenti sono gli animali del tipo di quelli che combatte Eracle: un leone, magari con una pelle ca­ pace di reggere alle armi di ferro, un toro e un cinghiale, sempli­ cemente più grandi e più selvaggi del normale; cavalli, che però mangiano gli uomini; una cerva con le corna dorate; Cerbero è più spettacolare con le sue tre teste, e l' Idra con i suoi molti colli di serpente. Tuttavia la maggior parte degli attori dei miti greci ha forma umana e le loro imprese sono abbastanza umane: mor­ te, violenza, cannibalismo, ma anche amore, amicizia, matrimo­ nio. Una campionatura di pitture vascolari attiche conferma questo carattere eminentemente antropomorfico: i mostri sono rari (del­ le imprese di Eracle la lotta col leone è quella più rappresentata, di Teseo quella col Minotauro, un mostro fantastico, non parti­ colarmente spettacolare); predominano scene tra uomini e non sem­ pre sappiamo, senza epigrafe, se si rappresenti un mito, una scena quotidiana. È sempre Ettore quel guerriero che prende commia­ to? È sempre Achille il morto per cui si combatte? C'è anche que­ sta aderenza umana, è l'umanità del racconto dei miti, che ha fatto tanto dell'epica quanto della tragedia momenti culminanti della letteratura non soltanto greca, e che ha reso così vivo e operante il mito fino al presente.

108

Capitolo settimo MITO, CANTO CORALE E TRAGEDIA

Accanto alla narrazione dei miti nell'epica dell'epoca arcaica, nel quinto secolo compare quella della tragedia attica; in entram­ be il mito offre il materiale alla poesia. Già autori antichi chia­ mavano Omero padre della tragedia, ed Eschilo avrebbe detto che lavorà:va con le briciole della tavola di Omero 1 • Il tragico si po­ ne consapevolmente nella tradizione epica della narrazione dei miti, le tragedie non mitiche rimangono non più che esperimenti: per le prime fasi della poesia tragica, sono attestate due tragedie di Frinico, contemporaneo più anziano di Eschilo,, sul tema della ca­ duta dei Persiani, e di Eschilo stesso sono arrivati fino a noi i Per­ siani del 472; per le fasi finali, è conservato un titolo di Agatone, giovane amico di Socrate, che rimanda forse a un contenuto non­ mitico 2 . Non deve meravigliare che la tragedia, che (per )imitarci sol­ tanto alle linee più generali) si occupa della situazione dell'uomo nel suo mondo, faccia questo sulla base di materiale mitologico. I miti trattano di dèi ed eroi. Che la situazione dell'uomo sia es­ senzialmente determinata dagli dèi e che non possa essere com­ presa senza di essi, è ritenuto ovvio anche nel quinto secolo. E gli eroi, intesi come grandi scomparsi di un passato in qualche mo­ do storico, hanno quella grandezza ben al di là delle nostre misu­ re, che li rende figure esemplari. Entrambi, però, eroi e dèi, sono anche figure del culto, dotate quindi di una forza vincolante che raramente hanno personaggi inventati o personaggi appartenenti al passato più recente. È sorprendente - e qui l'antichità condivide il nostro stupore - che la rappresentazione delle tragedie fosse una parte costitu­ tiva del culto di Dioniso; che le tragedie fosserQ rappresentate so109

lo nei tre giorni delle grandi feste dionisiache nel mese di Elafe­ bolio (marzo/aprile), e più tardi anche durante le Lenee nel mese di Garnelione (gennaio/febbraio); che il luogo fosse sempre il san­ tuario di Dioniso sul pendio meridionale dell'Acropoli; che alla trilogia delle tragedie si aggiungesse una satira, i cui eroi erano un coro di satiri, semibestiali adoratori di Dioniso; che gli anti­ chi, quindi, derivassero anche la tragedia da manifestazioni del culto di Dioniso; e che però, d'altra parte, le tragedie di contenu­ to dionisiaco attestate siano pochissime. Ad essere rappresentati sono argomenti del mito degli eroi in generale. Oltre un quarto dei titoli di tragedie giunti a noi rimandano a miti della guerra troiana, e un decimo ciascuno a quelli delle case reali argiva e te­ bana. Come mai questo paradosso? La risposta ha due aspetti. Prima di tutto Dioniso è un dio, che piomba dall'esterno e sospende il quotidiano; la sua festa crea uno spazio al di fuori della quotidianità della polis: gli attori per questo sono estraniati con maschere, coturni e costumi colorati alla maniera barbarica, e già l'ingresso al teatro di Dioniso, po­ sto sul colle tra la città e il monte degli dèi, allontana per tre gior­ ni dalla quotidianità ordinaria. Proprio questi periodi margina­ li, però, creano l'occasione per mettere in discussione e riflet­ tere su questa realtà finora scontata, la polis, gli uomini, gli dèi, e al tempo stesso creano un sentimento di comunità, in cui una tale messa in discussione è assimilabile; in questa prospettiva, la festa di Dioniso è particolarmente appropriata alla rappresenta­ zione delle tragedie 3 • L'altro aspetto della risposta porta nel labirinto della nascita della tragedia, uno dei più discussi problemi della storia della let­ teratura greca 4 • Già l'antichità dava principalmente due risposte: quella di Aristotele, che faceva derivare la tragedia dalla satira e dal canto cultuale dionisiaco del ditirambo, e una seconda, che usualmente viene indicata come postaristotelico-ellenistica ma che già nel quarto secolo veniva in parte discussa, secondo cui la tra­ gedia sarebbe originata da riti del culto attiéo di Dioniso. La grande quantità di ipotesi recenti si può dividere grosso modo in due fi­ loni: quelle ritualistiche da una parte, che fissano il punto di par­ tenza nel culto di Dioniso o degli eroi, e quelle storico-letterarie dall'altra, che partono dal ditirambo o da una sua variante che si potrebbe chiamare «satir-ditirambo».

I lO

In considerazione della stabile connessione della tragedia con il culto di Dioniso, bisogna sicuramente supporre una radice ri­ tuale. In particolare il coro presente nelle tragedie dovrebbe risa­ lire in ultima analisi a un gruppo mascherato di attori del culto, come del resto viene di solito rappresentato in concreto. La posi­ zione centrale di gruppi del genere nel culto di Dioniso si ricava dai satiri e dalle menadi, i mitici rappresentanti di associazioni cul­ tuali effettivamente esistenti. Questo però fa parte della pre- o pro­ tostoria della tragedia, e, se si tiene presente la forma reale dei canti corali tragici, è altrettanto sicura una connessione con la pras­ si della lirica corale dorica del Peloponneso e della Grecia conti­ nentale. Forse qui il ditirambo assume importanza nella forma che gli dette il poeta Arione a Corinto verso il 600 a.C. In ogni caso Erodoto riferisce che Arione fu «il primo uomo di cui noi sappia­ mo che a Corinto compose, denominò e rappresentò il ditiram­ bo» ( l , 23). Ma poiché già Archiloco di Paro parla di ditirambo mezzo secolo prima (cfr. 1 20 West) - in una forma strettamente legata al culto - ciò può riferirsi solo all'elaborazione poetica. Dicendo che Arione «diede nome» al ditirambo, Erodoto si rife­ risce al titolo che egli diede al componimento, e quindi anche ai contenuti, che devono essere mitici ed esterni alla rigida prassi del culto. Lo comprova uno sguardo all'ulteriore lirica corale antica, per la verità molto frammentaria. Di un ditirambo di Ibico (metà del sesto secolo) sappiamo che vi era raccontato l'incontro di Elena con Menelao dopo la conquista di Troia (fr. 296 PMG). Una ge­ nerazione dopo Arione, il ditirambo contiene quindi sicuramente una narrazione dei miti non dionisiaca, eroica, che negli anni Tren­ ta del secolo può essere servita in questa forma a Tespi, creatore tradizionale della tragedia. All'inizio del quinto secolo, dunque, la narrazione non dionisiaca dei miti è ovvia nei ditirambi di Pin­ daro e di Bacchilide. Anche gli altri generi della lirica corale raccontano miti, a par­ tire da Alcmane, primo poeta corale noto, nel 600 a.C. circa. Il peripatetico Eraclide del Ponto Io colloca agli inizi della poesia citaredica in generale (fr. 1 57), ma poi menziona anche Demodo­ co, che avrebbe cantato di Ares, di Afrodite e della sconfitta di Troia, e Femio, che avrebbe cantato il ritorno dei combattenti di Troia, figure di cantori tratti dall'Odisseo, non dalla protostoria

Ill

della poesia. Per quanto riguarda i contenuti raccontati, secondo questa teoria la lirica corale coincide con l'epica. Il più grande narratore di miti tra Omero e i tragici è poi Stesicoro di Imera, una generazione dopo Alcmane. La tradizio­ ne assegna alle sue poesie titoli come La Gerioneide, l'Orestea, La distruzione d'Ilio: esse avevano quindi un tema mitico com­ piuto. I frammenti della Gerioneide mostrano anche che il mito era narrato dettagliatamente, con antefatto, consiglio degli dèi e lunga scena principale, la lotta tra Eracle e il gigante a tre teste Gerione, che infine Eracle uccide. Similmente esaurienti e com­ prensivi devono essere state anche le altre poesie, che sono anda­ te praticamente del tutto perdute; l'Orestea doveva comprendere addirittura due libri 5• «Dopo Omero ed Esiodo i poeti successivi non concordano con nessun altro, quanto con Stesicoro>>, constatava un antico erudi­ to (fr. 2 1 7 PMG). Ciò vale particolarmente per i tragici. Famosa era la trattazione di Stesicoro del mito di Elena. Per Omero Ele­ na era naturalmente a Troia, e anche Stesicoro originariamente l'aveva rappresentata così; poi cambiò idea: «Non è vero quel di­ scorso . . . tu non venisti alla fortezza di Troia» (fr. 192 PMG); piut­ tosto, gli dèi avevano creato una illusione, che sviò Paride, mentre la vera Elena fu portata in Egitto, dove Menelao la trovò durante il suo viaggio di ritorno (così le grandi linee della nuova versione; la forma più precisa non è chiara, da quando un papiro parla di due palinodie del mito di Elena): sicché, l'intera guerra troiana ebbe luogo per un fantasma. Euripide ha ripreso più volte questo tema nella sua Elena. Sappiamo anche di altre riprese che riguar­ dano la saga di Oreste: Elettra riconosce suo fratello da un riccio­ lo che questi depone sulla tomba di Agamennone, elemento ripreso da tutt'e tre i tragici (solo l'Elettra di Euripide, quindi, mette in dubbio se sia così semplice). Secondo Stesicoro che Oreste si di­ fenda dagli spiriti di vendetta di sua madre con l'arco di Apollo, è in Euripide; tutt'e tre i tragici 6 riprendono l'innovazione cen­ trale, che Apollo abbia ordinato il matricidio. Tuttavia, non solo dal punto di vista del contenuto, ma anche dal punto di vista della forma, la lirica corale arcaica ha influen­ zato la tragedia. Superficialmente, ciò si evidenzia già nella me­ trica e nella doricizzazione artificiale dei canti della tragedia attica. Il dorico è il dialetto della lirica corale peloponnesiaca e greco1 12

continentale, e il dorico dei canti corali tragici contrasta con l'at­ tico delle parti parlate. Come la lirica corale, così anche i canti corali tragici all'occasione raccontano miti. Spesso riportano l'an­ tefatto del brano mitologico, rappresentato sulla scena; altri rac­ conti lirico-corali dei miti illuminano, per contrasto o per parallelo quel che accade sulla scena. Sofocle, che si mostra molto riserva­ to con racconti del genere, nel quarto stasimo dell 'Ant igone ac­ compagna il muramento dell'eroina con tre esempi mitici (Ant. 944-87): allo stesso modo venne rinchiusa Danae, innocente, solo per impedire che partorisse un figlio che sarebbe potuto diventa­ re pericoloso per il padre; e così lei stessa divenne sposa di Zeus, sopraggiunto sotto forma di pioggia d'oro. Il re tracio Licurgo fu rinchiuso, perché insidiava le menadi di Dioniso, e così fu ri­ condotto alla ragione. Dopo questi due esempi, dai quali traspa­ re ancora speranza, il terzo è tanto più triste: rinchiusa fu pure la figlia di Borea Cleopatra, semplicemente perché la sua matri­ gna la odiava: «anche su di essa le Moire, le longeve, avevano po­ tere» (986). E neli' Ifigenia in A ulide Euripide nel terzo stasimo contrappone alle presunte nozze, con cui Agamennone ha attira­ to sua figlia in Aulide per sacrificarla, le più famose di tutte le nozze mitiche, quelle di Peleo e Teti (vv. 1036-79): al suono del flauto e della cetra, le Muse cantano il canto nuziale, gli dèi bal­ lano, e Ganimede versa da una coppa d'oro - «ma a te i greci cingono la bella chioma inanellata, come fosse quella di un vitel­ lo pezzato . . . un animale sacrificate senza macchia)) ( 1 080) . Anche quest'uso del mito è presente nella lirica corale. Certo non in Stesicoro o lbico, per quanto possiamo vedere, né nei pea­ na e nei ditirambi di Pindaro e Bacchilide, in cui l'ode corale rac­ conta il mito per la gioia di raccontare , diventando il dono votivo nell'ambito della festa, non diversamente dalle immagini o dalle statue. Diversamente stanno le cose con il primo canto corale, in qualche modo comprensibile, il Partenio di Alcmane; diversamente con gli epinici di Pindaro e Bacchilide. Negli epinici declamati di volta in volta da un coro nell'ambi­ to dei festeggiamenti per una vittoria in competizione, il racconto dei miti è inserito in tutto il complesso del canto a lode del vinci­ tore. Ciò può avvenire attraverso un semplice confronto, come nel canto di Bacchilide per Gerone, il tiranno di Siracusa, vinci­ tore con la quadriga a Olimpia nell'anno 468 (epin. 3): qui la lode 1 13

del generoso signore Gerone, i cui tripodi d'oro stanno nel tem­ pio di Apollo a Delfi, attraverso la massima da esso ispirata «al dio, al dio solo bisogna donare con generosità, questa è la be­ nedizione più grande)) (v. 2 1 ) - arriva al mito di re Creso, alla sua infelicità e al suo miracoloso salvataggio (cfr. capitolo VI). E questo, fra l' altro, dimostra come anche la lirica corale, al pari della prima tragedia, riprendeva temi storici : già Ibico cita «Ci­ ro, il condottiero dei medi)) (fr. 320 PMG). I suoi ricchi doni ad Apollo salvarono Creso, e Gerone deve la sua vittoria sul carro ugualmente all'aiuto del dio, cui aveva fatto doni. Tuttavia il mito non viene riferito solo al presente attuale del­ la vittoria; viene analizzata altresì la sua validità più a vasto rag­ gio, per così dire, attraverso la figura del vincitore, la cui condizione diventa immagine, in generale, della situazione di noi