Il dibattito sull’unità dello Stato dal Risorgimento alla Costituzione repubblicana. 88-89579-05-6

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Il dibattito sull’unità dello Stato dal Risorgimento alla Costituzione repubblicana.
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Società di studi politici

U

QUADERNI

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Il bene dello Stato è la sola causa di questa produzione. GAETANO FILANGIERI

al Gruppo di Studi «Antonio Gramsci», che negli anni del dopoguerra educò allo studio della politica e della storia una generazione di giovani

Nicola Capone

Il dibattito sull’unità dello Stato dal Risorgimento alla Costituzione repubblicana Parte prima

La scuola di Pitagora editrice NAPOLI MMV

In collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

Quaderno a cura di Luigi Bergantino Milena Cuccurullo Marianna Garofalo Si ringrazia per la preziosa collaborazione Carmen Gallo

© 2005 Società di studi politici

Progetto grafico e impaginazione Teresa Ricciardiello

La scuola di Pitagora editrice piazza Santa Maria degli Angeli, 1 80132 Napoli ISBN 88-89579-05-6

Saggi

Indice

Nicola Capone 9 Il Risorgimento nella critica di Gaetano Salvemini

Antologia Benedetto Croce 45 Storia del Regno di Napoli 59 65 68 74

Gaetano Salvemini Il Risorgimento italiano La rivoluzione del ricco La questione meridionale La questione meridionale e il federalismo

Piero Gobetti 82 Manifesto della «Rivoluzione Liberale» 87 Risorgimento senza eroi Nello Rosselli 91 Saggi sul Risorgimento Luigi Salvatorelli 97 Pensiero e azione del Risorgimento

Il Risorgimento nella critica di Gaetano Salvemini Il Risorgimento italiano fu opera rivoluzionaria e di presa di coscienza storica e la costruzione dello Stato unitario fu, come la definí efficacemente lo storico Golo Mann, un colpo fatale vibrato contro le sopravvivenze feudali nell’ordinamento europeo. Diverse e a volte contrapposte visioni del moto rivoluzionario agirono sulla formazione della coscienza storica e politica nazionale sin dall’origine, da quando, cioè, piú gruppi politici operarono, mossi da ideali politici diversi, per la conquista della libertà. Ma fu solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento che da quell’immenso pa-

Nicola Capone

Saggi

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La teoria dello Stato nella tradizione socialista

trimonio culturale e politico maturarono due antitetiche visioni del moto risorgimentale: la prima recepí il Risorgimento come una rivoluzione e la costruzione dello Stato unitario come compito rivoluzionario; la seconda, all’opposto, intese il Risorgimento come conquista regia e mancata rivoluzione di popolo. Quest’ultima finí per avere maggiore influenza sulla coscienza politica del nostro Paese. Il principale sostenitore di tale interpretazione fu Gaetano Salvemini al cospetto del quale, direttamente o indirettamente, si sono formati numerosi storici e uomini politici. L’interpretazione salveminiana del Risorgimento imperversò con spirito virulento durante tutto il periodo giolittiano e dopo le due guerre mondiali alimentando le ideologie dei partiti di massa di matrice democratica e socialista e ciò anche perché mancava alla tradizione socialista una vera e propria concezione dello Stato che permettesse d’intendere la costruzione dello Stato unitario compiuta dal Risorgimento come conquista rivoluzionaria. A tal proposito, prima di entrare nello specifico dell’interpretazione salveminiana del Risorgimento, vale la pena di fare alcune brevi considerazioni e ricordare due articoli che Norberto Bobbio scrisse nel 1975 su «Mondo Operaio» intorno al concetto di Stato nella tradizione socialista. Il filosofo torinese spiegava che non esisteva nella cultura socialista una vera e propria teoria dello Stato, e ciò per due motivi: «il prevalente, se non esclusivo, interesse dei teorici del socialismo per il problema della conquista del potere, onde il rilievo dato al partito piuttosto che a quello dello Stato, e la persistente convinzione che,

Saggi 11 una volta conquistato il potere, lo Stato fosse un fenomeno di “transizione”, cioè fosse destinato presto o tardi a scomparire, e quindi gli fosse particolarmente adatta quella forma di governo, per sua natura transitoria, che è la dittatura (nel senso originario di governo straordinario per tempi ed eventi straordinari)»1. È bene qui aver presente, preliminarmente, che la concezione negativa dello Stato è una concezione antitetica a quella che guidò la costruzione dello Stato unitario, che ebbe il suo fondamento nel grande sforzo filosofico degli hegeliani di Napoli e in particolare nel pensiero filosofico e politico di Silvio e Bertrando Spaventa. Essi s’ispirarono alla concezione hegeliana dello Stato e a quella tradizione pitagorico-platonica che fu vivissima in tutta la tradizione del pensiero meridionale e che culminò nel Settecento nella concezione dello Stato di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano. Non è possibile in questo scritto passare in rassegna la ricca messe di teorie sullo Stato che ebbero campo nell’età del Risorgimento, da Cavour a Gioberti, da Mazzini a Pisacane, da Cattaneo a Ferrari a Romagnosi; ci basti a questo punto tracciare un discrimine tra le teorie che s’ispiravano alle dottrine classiche dello Stato, ed in particolare alla filosofia dello Hegel e della filosofia classica tedesca e quelle che si richiamavano ad una tradizione che faceva capo agli illuminati, alle teorie cattoliche di provenienza gesuitica nonché alle teorie del socialismo anarchico. 1 NORBERTO BOBBIO, Esiste una dottrina marxista dello Stato?, «Mondo Operaio», fasc. 8-9, agosto-settembre 1975, pp. 24-31:24.

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L’antirisorgimento

Lo «Stato accentratore» origine di ogni male

Da tali considerazioni, appare evidente la contraddizione in cui si trovò gran parte della generazione attiva intellettualmente e politicamente nel periodo della resistenza al Fascismo e che ha avuto le sue conseguenze fino ai nostri giorni: voler ricostruire, a costo spesso della vita, un Paese devastato dalla dittatura fascista, senza una visione unitaria del Risorgimento e priva per giunta di una moderna teoria dello Stato. La concezione teorica dell’antirisorgimento, seppur presente fin dall’origine della rivoluzione risorgimentale, maturò e prese forma compiuta in pieno clima positivista, nella generazione postrisorgimentale, ed ebbe il suo piú grande interprete, sostenitore e divulgatore in Gaetano Salvemini. Salvemini, fin dai primi scritti risalenti al 1899, s’interessò del problema del processo dell’unità italiana, convinto che lo «Stato accentratore» fosse all’origine d’ogni male e che in particolar modo rappresentasse il male supremo per il Mezzogiorno. Scrisse molto, Salvemini, e sbaglia chi crede che la critica alla formazione storica dello Stato italiano sia stata mossa come appendice alla questione meridionale. Quest’ultima è invece inscindibilmente legata alla critica che egli mosse allo Stato unitario. Nei suoi numerosi scritti, Salvemini si occupò della formazione dello Stato unitario imponendosi in breve tempo come il maggior polemista nella storiografia risorgimentale. Le sue opere storiografiche hanno avuto vita lunga, anzi, lunghissima e hanno influenzato i migliori ingegni italiani, uomini tra i piú coraggiosi come Piero Gobetti, Carlo e Nello Rosselli, Eugenio Colorni, Zanotti Bianco, Guido

Saggi 13 Dorso e molti altri appartenenti alla generazione piú giovane come Franco Venturi e Luigi Salvatorelli2 e la maggior parte dei periodici di cultura generale e di politica. Per entrare nel merito dell’argomentazione, cominciamo col dire che per Salvemini nella formazione dello Stato unitario a prevalere furono le forze conservatrici che ebbero soprattutto la responsabilità di assicurare la sopravvivenza delle contraddizioni feudali nel Mezzogiorno d’Italia. Da questo punto di vista egli lesse e interpretò il Risorgimento sostenendo che se pure in Italia «l’unità e l’indipendenza furono la risultante di due forze diverse: la forza conservatrice-monarchica e la forza democratica-repubblicana»3, a prevalere furono di fatto le forze conservatrici. “Reazione” e “rivoluzione”, secondo questa prospettiva storiografica, si trovarono faccia a faccia, l’uno pronto a sopprimere e a subordinare l’altro, ma mentre il lavoro della reazione, continua Salvemini, fu «metodico, regolare, sempre coerente in sé stesso, il lavoro della rivoluzione è stato sempre incoerente, senza metodo, variabile e ingenuo»4. La reazione in Italia, dunque, secondo Salvemini, non è un fenomeno provvisorio, ma è causa immanente nell’organizzazione politica italiana ed ha incominciato ad agire fin dal primo istante, «in cui nel momento dell’indipendenza e dell’unità italiana intervenne accanto al partito repubblicano il partito monarchico»5. 2

Per uno studio approfondito sull’opera storiografica di questi autori cfr. WALTER MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, prefazione di Ernesto Sestan, Einaudi, Torino 1962. 3 GAETANO SALVEMINI, Le origini della reazione (prima edizione 1899), in Scritti sul Risorgimento, a cura di P. Pieri, C. Pischedda, Feltrinelli, Milano 1961, p. 14. 4 Ibidem, p. 15. 5 Ibidem, p. 13.

La formazione dello Stato unitario tra reazione e rivoluzione

Antologia p. 66 «Il Risorgimento italiano non fu affatto una rivoluzione»

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La condanna del programma unitario

Lo Stato italiano, pertanto, porta con sé il marchio indelebile della reazione, e la parte rivoluzionaria dinanzi ad un’Italia non redenta, né trasformata, ma conquistata dal Piemonte «chiuse gli occhi, non volle vederla, si lusingò di poter lentamente modificare l’andamento delle cose […]. Parole, parole, parole, alle quali d’altra parte s’è risposto sempre con fatti, fatti, fatti»6. Da quanto detto fino ad ora si potrebbe essere portati a credere che Salvemini non era contro lo Stato unitario, ma osteggiava solo la soluzione monarchica come risultato, appunto, delle resistenze conservatrici e che egli in definitiva non rifiutava la sostanza del Risorgimento – la realizzazione, cioè, dell’indipendenza e dell’unità mediante la costruzione di un moderno Stato unitario – ma solo la sua forma. Ebbene, a smentire questa prima impressione è il giudizio che egli dà del partito democratico e repubblicano: egli non contesta solo il loro metodo di lotta, la loro condotta politica, ma condanna senza possibilità d’appello il loro programma politico che manteneva all’ordine del giorno, seppure in modo ambiguo e confusionario, l’unità e l’indipendenza italiana, sia che si trattasse dell’unità repubblicana di Mazzini, sia che si trattasse della proposta federalista di Cattaneo. A tal proposito, il giudizio che egli formula sui due eventi piú importanti del Risorgimento per la propaganda democratico-repubblicana, la presa di Roma e la spedizione dei Mille, è spietato. Della presa di Roma egli dice che anche se fu una vittoria democratica «fu una vittoria equivo6

Ibidem, p. 23.

Saggi 15 ca, perché la sostanza dell’atto era democratica, mentre la forma era monarchica, e in politica la forma è tutto»7, e ancora piú netto fu il suo giudizio sulla spedizione dei Mille a proposito della quale scrive: «se si vuole, anzi soprattutto se si vuole considerare la spedizione dei Mille una rivoluzione, bisogna riconoscere che quella rivoluzione fu niente altro che un cambiamento di dinastia, prodotto da un urto estraneo su un edificio inetto a stare in piedi»8. Un giudizio, in definitiva, che non lascia scampo e che Salvemini confermerà nel tempo, infatti, ancora nel 1952 scrive: «Quel trapasso dai regimi dispotici e clericali della vecchia Italia “in sette divisa da sette confini” al regime unitario, secolarizzato e rappresentativo fu certo preparato e favorito da fermenti rivoluzionari, che, se avessero potuto, avrebbero rovesciato tutte le monarchie senza eccezione […]. Negare ai repubblicani siffatta funzione stimolatrice sarebbe falsificare la storia del Risorgimento italiano. Ma resta sempre il fatto che i repubblicani non riuscirono mai a fare una rivoluzione vittoriosa. I gruppi monarchici non furono mai sopraffatti»9. Su queste basi Salvemini arriva a formulare un giudizio lapidario sulla parte rivoluzionaria condannando nettamente tutto il movimento risorgimentale: «Reazione e rivoluzione, – dice – incontratesi nel lavoro dell’unità, si son trovate legate alla stessa catena, e lottano da cinquant’anni per assicurarsi il dominio dello Stato»10. 7

Ibidem, p. 25. GAETANO SALVEMINI, La rivoluzione del ricco (prima edizione 1952), in Scritti sul Risorgimento, cit., p. 458. 9 Ibidem, p. 459. 10 GAETANO SALVEMINI, Le origini della reazione, cit., p. 14. 8

Il Risorgimento come conquista regia

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Antologia pag. 67 «un’incursione armata non è una rivoluzione»

La rivoluzione tradita

Non è quindi semplicemente una questione di forma, come lo stesso Salvemini sembra far credere: egli ritiene che i democratici messisi sul piano dell’unità, istupiditi dall’«idiota unitarismo mazziniano»11 tradirono la rivoluzione. Salvemini, dunque, non ha mai voluto ammettere che la costruzione dello Stato unitario e l’indipendenza fossero il vero obiettivo rivoluzionario. Egli, come del resto tutta la storiografia da lui ispirata, cercò di dare un dover essere “democratico” come contenuto del Risorgimento al posto del fine unitario, sostenendo il fallimento della rivoluzione risorgimentale per la mancata partecipazione del popolo. Salvemini sembra non tenere in alcun conto né l’assenza in Italia di masse politicamente organizzate e con una solida coscienza politica – le sole che possono dare un contenuto fattivo alle rivoluzioni – né che la contraddizione prevalente in quel momento nel nostro Paese era la mancanza dell’unità politica del popolo italiano. Egli, nonostante tutto ciò, continuò a parlare di tradimento della rivoluzione e fece appello, nella sua ostinata resistenza ai risultati del Risorgimento, alle sollevazioni e alle rivolte rurali, e al risentimento dei ceti medi del Sud contro il Nord. Ciò emerge quando parla delle rivolte rurali che precedettero la spedizione dei Mille: «Queste rivolte rurali – scrive – si possono definire “rivoluzionarie”, anzi si potrebbero definire un tentativo di rivoluzione sociale, e si potrebbe anche dire che prima i Mille e poi l’intervento sabaudo “tra11 L’espressione è riportata in La questione di Napoli, «Critica sociale», 1 e 16 dicembre 1900, p. 116, ora in Scritti sulla Questione meridionale, Einaudi, Torino 1955, p. 123.

Saggi 17 dirono” quel tentativo di rivoluzione sociale. Ma sta il fatto che né Garibaldi né i suoi pensarono mai di promuovere e promettere una rivoluzione sociale […]. E nessuno pensò mai che quelle rivolte rurali senza idee fossero state una “rivoluzione” o un tentativo di rivoluzione. E quando la burocrazia militare e civile del “sopraggiunto re” mise la briglia alle moltitudini rurali, nessuno pensò che una rivoluzione fosse stata “tradita”»12. Vale la pena, a questo punto, segnalare quanto distante sia questa posizione dal pensiero di Bertrando Spaventa che, negli anni del suo esilio a Torino, a proposito della rivoluzione, scrive: «Senza i filosofi la rivoluzione sarebbe cieca, indeterminata, priva di scopo; sarebbe la furia dell’istinto in luogo della potenza infinita della ragione; la forza violenta delle moltitudini in luogo del diritto assoluto dell’umanità». Se il Risorgimento fu rivoluzione, secondo il filosofo napoletano, lo fu soltanto perché aveva come suo fondamento la filosofia. «Perché i filosofi – continua Spaventa – trasformano l’idea che nei popoli è sentimento vago, oscuro indeterminato, […] in un pensiero determinato; questo pensiero è come uno specchio nel quale il popolo riconosce sé medesimo, i suoi istinti nuovi, i suoi novelli bisogni, nel quale egli trova risoluta la contraddizione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere»13. Dunque, da una parte un’idea della rivoluzione fondata esclusivamente sulla spontaneità delle masse e sul loro 12

GAETANO SALVEMINI, La rivoluzione del ricco, cit., p. 458. BERTRANDO SPAVENTA, La rivoluzione e l’Italia, «Progresso», num. 130, 3 giugno 1851; lo scritto è ristampato, accompagnato da un prezioso scritto introduttivo di Italo Cebeddu in Bertrando Spaventa pubblicista (giugno-dicembre 1851), «Giornale critico della filosofia italiana», XLII, 1963, pp. 67-75:69. 13

Rivolte e rivoluzioni

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I protagonisti “sconfitti” del Risorgimento: Mazzini e Cattaneo

Antologia pag. 81 «l’idea federalista bisogna che diventi programma politico dei partiti democratici»

malcontento, dall’altra una concezione che vede la rivoluzione e il progresso civile come frutto di una lunga e faticosa preparazione filosofica e politica. Salvemini, in definitiva, non fa distinzione tra sollevazioni spontanee, rivolte e la rivoluzione. E da questo punto di vista il Risorgimento non solo è conquista regia, ma, data la partecipazione dei democratici, è anche una rivoluzione tradita, una mancata rivoluzione democratica. Non è un caso, allora, che egli vide come grandi protagonisti “sconfitti” del Risorgimento Mazzini e Cattaneo e non comprese, come invece poi affermò Benedetto Croce, che la Destra storica fu il vero partito rivoluzionario del Risorgimento. Non seppe neppure valutare l’immenso apporto filosofico e dottrinario di Bertrando e Silvio Spaventa e degli hegeliani di Napoli, né valutò adeguatamente l’immensa opera di statista di Silvio Spaventa sia nel periodo in cui egli diresse il dicastero degli interni a Napoli e si oppose alla proposta mazziniana di costituire una Repubblica napoletana, sia in tutto il periodo in cui, come sottosegretario agli Interni del giovane Stato unitario, sconfisse la pericolosa sedizione filoborbonica. Cosí facendo egli devia, distorce qualsiasi interpretazione del Risorgimento, perché né in Mazzini né in Cattaneo c’è una concezione solida e coerente dello Stato ma piuttosto in loro si ritrova un filo di pensiero di chiara matrice salveminiana e proudhoniana. Nel mettere in evidenza i punti deboli del loro pensiero e delle loro strategie politiche – dirà, ad esempio, che il mazzinianesimo fu una copertura a sinistra del Risorgimento – egli si pone come l’erede dei due padri sconfitti e indica la via della rivincita ai partiti del postrisorgimento: com-

Saggi 19 battere lo Stato unitario e accentratore e portare a termine la rivoluzione mancata attraverso la costruzione di una nuova unità nazionale fondata sulle autonomie locali. Si sbarazza cosí dell’idea di unità sia nella forma astratta della Repubblica unitaria di Mazzini, sia della forma limitatamente federalista di Cattaneo. Proprio nella sua analisi dell’opera di quest’ultimo, Salvemini fa delle osservazioni che chiariscono meglio quale sia stata per lui la genesi dello Stato unitario. A proposito della sconfitta politica della proposta federalista avanzata da Cattaneo, egli sostiene che fu possibile perché mancò nel Mezzogiorno una numerosa e florida borghesia manifatturiera, commerciale, agraria, intellettuale pronta a governarsi da sé negli enti locali. «Nel Mezzogiorno gli esigui nuclei borghesi e piccolo borghesi, prevalentemente intellettuali […] – scrive – si sentivano impotenti a tenere il Paese colle loro forze contro la rivolta dei contadini»; per loro, insiste Salvemini, l’accentramento amministrativo era la sola forma sotto cui essi potessero concepire l’unità nazionale, «e la teoria hegeliana dello Stato, professata da alcuni fra i piú autorevoli patrioti meridionali, si prestava ottimamente a idealizzare come necessità immanente la necessità contingente»14. Quest’analisi storica della genesi del sistema accentratore, che appare un po’ troppo semplicistica, rivela in realtà un duplice difetto dell’impostazione storiografica salveminiana. In primo luogo, egli resta in una posizione estrinseca rispetto all’accadimento storico, negando al Risorgimento l’elemento nazionale, popolare, spirituale. 14

GAETANO SALVEMINI, Carlo Cattaneo, in Scritti sul Risorgimento, cit., p. 389.

Cattaneo: le ragioni di una sconfitta

Antologia pag. 61 «Il federalismo soddisfa pienamente il bisogno della solidarietà nazionale»

Una storiografia senza filosofia

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Antologia pag. 98 «V’è una rappresentazione ingenua del Risorgimento»

L’unità nazionale gli appare qualcosa di accidentale, frutto della volontà espansionistica del Piemonte e dell’immaturità del Mezzogiorno a governarsi da sé, ma in questo caso, come scriverà piú tardi Luigi Salvatorelli, «nessuna vera differenza esiste piú tra la formazione dell’unità italiana e qualsiasi conquista straniera»15. In secondo luogo, mostra di non avere chiaro il concetto dello Stato di matrice hegeliana, professato da «alcuni fra i piú autorevoli patrioti meridionali», che a suo parere serviva, opportunisticamente, a giustificare la realtà contingente. Egli sembra non comprendere che l’unità legislativa, amministrativa e giudiziaria era la condizione indispensabile per realizzare la libertà e l’indipendenza politica e morale degli italiani, e che la legge, il diritto e l’autorità sono funzioni essenziali di un’organizzazione politica, e nella concezione della Destra storica e dei suoi filosofi lo Stato moderno non si restringe ad esse, perché esso è qualcosa di piú vero ed essenziale, è la coscienza direttiva di un popolo, è il nostro stesso volere che si organizza fuori di noi e ci sforza al bene comune. Sfugge, dunque, a Salvemini che la costruzione di uno Stato moderno in Italia non era qualcosa di casuale e accidentale, o effetto di cause di forza maggiore, ma rispondeva ad un’esigenza intima, intrinseca allo spirito del tempo: la volontà umana desiderava realizzare la libertà non piú come qualcosa di astratto, vivo solo nella sua coscienza, ma come realtà viva e operante in uno Stato. Cosí lo Stato unitario si presentava come l’unica forza reale e razionale che potesse riunire nel concerto delle na15 LUIGI SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1963, p. 15.

Saggi 21 zioni europee in un’unità politica e morale i dispersi popoli italiani, uniti solo da secoli di dominio e di discordie, e da un immenso patrimonio culturale che da Machiavelli in poi era costantemente teso alla realizzazione dell’unità politica; era il fondamento sul quale gli italiani potevano sconfiggere le sopravvivenze feudali operanti sul territorio nazionale e costruire la loro storia nel consesso dei liberi popoli europei. Dunque, nell’interpretazione salveminiana il Risorgimento appare opera delle forze conservatrici d’ispirazione monarchica, risultato dell’espansionismo del Piemonte, conseguenza della mancanza nel Mezzogiorno di una borghesia capace di governarsi da sé negli enti locali. Per comprendere concretamente quale fosse per Salvemini l’alternativa all’unità politico-amministrativa posta dalla rivoluzione risorgimentale bisogna leggere gli scritti sulla questione meridionale che sono, dal punto di vista cronologico, contemporanei ai suoi studi sul Risorgimento e che rappresentano, dal punto di vista contenutistico, una chiarificazione della sua idea di Stato, una conseguenza della sua interpretazione negativa del Risorgimento. Nel parlare dei mali del Mezzogiorno, Salvemini sostiene che la prima malattia – comune del resto a tutta l’Italia – «è la malattia dello Stato accentratore, divoratore, distruttore»16, malattia che unita alle altre due – l’oppressione economica esercitata dall’Italia settentrionale e la struttura sociale semifeudale – rappresenta la rete entro la quale la trama dell’eterno malessere del Mezzogiorno si svolge quo16 GAETANO SALVEMINI, La Questione Meridionale, «Educazione politica», 25 dicembre 1898, ora in Scritti sulla Questione meridionale, cit., p. 32.

La «questione meridionale»

Antologia pag. 69 «La prima malattia del Meridione è la malattia dello Stato accentratore»

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La proposta federalista

Antologia pag. 78 «Nessuna illusione è piú fallace e pericolosa di questa: che un Governo unitario, purché democratico, possa risolvere la questione meridionale»

tidianamente, e senza la cui eliminazione non è possibile nessun progresso. «Nessuna illusione – scrive Salvemini – è piú fallace e pericolosa di questa, che un governo unitario, purché democratico possa risolvere la questione meridionale», cosí com’è fatica sprecata dare consigli allo Stato perché questo non può ascoltarli. «Ciò posto è evidente che la questione non istà nel decidere se le riforme le farà lo Stato presente, oppure se le farà un altro Stato sostituitosi al presente dopo un moto rivoluzionario piú o meno violento»17, il punto d’appoggio va cercato altrove. Questo suo punto di vista si radicalizza nella sua polemica contro Francesco Saverio Nitti che egli definisce un «unitario fanatico»18 che non sa concepire l’Italia se non con un unico Parlamento, un unico potere centrale: «Un’Italia che abbia, accanto al Parlamento e al potere centrale, dei parlamenti e delle autorità regionali incaricati di amministrare gli affari regionali e del tutto autonomi in queste funzioni, e dei Consigli e autorità comunali del tutto autonomi per l’amministrazione comunale; un’Italia, in altre parole, federale, il Nitti non sa neanche lontanamente concepirla»19. Non è, dunque, argomenta Salvemini, questione di decidere quale Stato o quale forma di governo questo debba avere: data l’unità amministrativa e burocratica si ha come conseguenza necessaria la corruzione amministrativa e l’emigrazione di ricchezze dal Sud al Nord in eterno. E, cosa 17

Ibidem, p. 37. L’espressione è riportata in La questione meridionale e il federalismo, «Critica Sociale», 16 luglio 1900, ora in Scritti sulla Questione meridionale, cit., p. 79. 19 Ibidem. 18

Saggi 23 ancor piú grave, sottolinea Salvemini, l’unità ha messo a servizio della nobiltà feudale meridionale la gran macchina militare e amministrativa italiana. Per Salvemini l’unico rimedio è, dunque, il seguente: «Larghissimo e radicale decentramento amministrativo, che tolga dalle mani del governo centrale l’istruzione, l’amministrazione finanziaria, la polizia, l’esercito, e affidi tutte queste attribuzioni alle regioni e ai comuni. […] Abolizione dell’attuale ordinamento dell’esercito, istituendo il reclutamento territoriale […]»20. Ma la sua proposta è ancora piú chiara in un altro scritto, in parte raccolto da Rosario Villari nel suo significativo libro Il Sud nella storia d’Italia21, in cui Salvemini dichiara: «Lasciate ai Comuni e alle federazioni regionali di Comuni la cura della viabilità, delle acque, della giustizia, dell’istruzione, dell’ordine pubblico, delle finanze […]; lasciate alle regioni e ai Comuni tutti i loro denari, all’infuori di quelli che sono necessari al governo centrale per compiere le sue funzioni d’interesse nazionale; e allora, solo allora le spese si ripartiranno egualmente, perché allora non si ripartiranno piú, ma ognuno si terrà i suoi quattrini e li spenderà sul luogo come meglio crederà […]; in un Paese non unitario le masse sono spinte dai loro stessi interessi giornalieri a prendere il loro vero posto di combattimento: nel regionalismo la sovranità popolare può funzionare bene anche con un limitato capitale originario di educazione politica, e l’eser20 G AETANO S ALVEMINI , Risposta ad un’inchiesta, «Il pensiero contemporaneo», 15 maggio 1899, ora in Scritti sulla Questione meridionale, cit., pp. 60-63. 21 ROSARIO VILLARI, Il Sud nella Storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 1984.

Larghissimo e radicale decentramento amministrativo

Antologia pag. 75 «Lasciate ai Comuni la cura della viabilità, delle acque, della giustizia, dell’istruzione, dell’ordine pubblico, delle finanze»

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La questione di Napoli secondo Salvemini

cizio quasi giornaliero della sovranità permette una piú intensiva educazione delle masse»22. Siamo di fronte ad un arretramento rispetto alla stessa idea, maturata in età moderna, di politica intesa come cura dell’interesse generale. Qui, al contrario, la politica è esercizio ostinato e ottuso del proprio particolare, una nuova società feudale – come scrive Giustino Fortunato – «in cui la sovranità dello Stato è spezzettata in tanti gruppi, ciascuno obbediente al proprio sindacato e volto al particolare suo utile; il Parlamento non altro se non una Camera di registrazione, e a capo d’ogni ramo della pubblica attività un Consiglio di soli tecnici, nominati da’ soli interessati. Una società che ritorna al particolarismo e all’egoismo di classe, e retrocede alle forme medievali di ordinamenti politici»23. Prima di concludere vale la pena di considerare ancora un po’ piú da vicino l’idea federalista di Salvemini per capire quanto sia forte e radicato in lui l’ideale dell’antistato e dell’antirisorgimento. Nello scritto La questione di Napoli del 1900, egli ipotizza una Napoli amministrata federativamente: in questo caso non ci sarebbe piú un unico Comune ma venti, trenta comuni secondo le condizioni topografiche della città e la configurazione degli interessi locali. Al di sopra di questi, ci sarebbe il Consiglio Comunale che si occupa degli affari generalissimi: nella sostanza distribuisce fondi per ognuno di essi. Ovviamente non ci sarebbe né piú il sindaco né piú gli assessori – per Salvemini 22 GAETANO SALVEMINI, La questione meridionale e il federalismo, «Critica Sociale», 16 luglio 1900, in Scritti sulla Questione meridionale, cit., pp. 89-104. 23 GIUSTINO FORTUNATO, Carteggio 1912-1922, lettera a A. Cefaly, Napoli 16 settembre 1917, a cura di E. Gentile, Laterza, Bari 1979, p. 362.

Saggi 25 ogni forma verticistica e centralistica genera necessariamente la corruzione – ma il Consiglio nomina delle commissioni, ognuna delle quali si prende un campo dell’amministrazione. Ogni Comune rionale sarebbe sovrano nella propria giurisdizione: imporrebbe e riscuoterebbe le tasse dirette, avrebbe sul provento del “dazio consumo generale” diritto ad una quota in proporzione alla propria popolazione. È chiaro ora il programma anarchico e antiunitario di Salvemini: «rompere l’unità amministrativa dello Stato e creare un’Italia federale nella quale il mezzodí diventi padrone di tutte le sue risorse; togliere al governo centrale ogni influenza sugli organi della vita locale e lasciare i cittadini completamente padroni di sé stessi»24. È da sottolineare che Salvemini scrisse ciò nello stesso anno in cui venne redatta l’Inchiesta Saredo, nella quale veniva denunziata l’enorme corruzione del Comune di Napoli per la presenza e l’attività della camorra che coinvolgeva gli strati piú bassi della popolazione, e dell’«alta camorra» formata «dai piú scaltri e audaci borghesi». Questa situazione, è scritto nell’Inchiesta Saredo, «è da considerare il fenomeno piú pericoloso perché ha ristabilito il peggiore dei dispotismi, elevando a regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà, annullando l’individualità e la libertà frodando le leggi e la pubblica fede». Tale fenomeno si concretizzava in tutta la sua potenza disgregatrice nella richiesta rivolta all’Amministrazione di 24 GAETANO SALVEMINI, La questione di Napoli, «Critica sociale», 1 e 16 dicembre 1900, riprodotto in opuscolo nella «Biblioteca della Critica Sociale» col sottotitolo Come sgominare la camorra, in Scritti sulla Questione meridionale, cit., p. 116.

La questione di Napoli nell’Inchiesta Saredo

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L’azione antifeudale dello Stato unitario

concedere anticipazioni per lavori appaltati e non ancora eseguiti, anticipazioni che violavano palesemente le leggi di contabilità dello Stato e quelle di contabilità delle amministrazioni comunali e provinciali. Cosí s’ingenerava la corruzione e si scardinavano quelle virtú civili che sole consentono alle società di non ripiombare in un primitivo stato di natura, in un regime neofeudale. Tutto ciò Salvemini intende risolverlo, con l’amministrazione diretta delle cose da parte di masse «con un limitato capitale originario di educazione politica», con un esercito reclutato territorialmente, con casse pubbliche locali, con l’ausilio della «sorda ostilità contro le istituzioni» dei piccoli proprietari terrieri: «bisogna approfittare – scrive – dell’ostilità che i meridionali di tutti i partiti sentono acuto verso i settentrionali, bisogna far leva sugli interessi regionali, trasformando la lotta fra democrazia e reazione in lotta fra Nord e Sud»25. Nella concezione salveminiana manca assolutamente la consapevolezza che il Risorgimento è stato il piú grande colpo inflitto al mondo feudale in Italia, e che il cómpito dello Stato unitario, una volta conquistata l’indipendenza e realizzato un governo centrale, fosse quello di liquidare le forze feudali e semifeudali che ancora opprimevano il Paese attraverso i latifondi e attraverso le società concessionarie dei grandi lavori pubblici. Tutte queste cose denunciava Silvio Spaventa, Ministro dei lavori pubblici, impegnato in una decisiva lotta politica contro le ostilità delle forze neofeudali per la gigantesca costruzione della rete ferroviaria nazionale. 25

GAETANO SALVEMINI, La questione meridionale e il federalismo, cit., p. 70.

Saggi 27 Una politica, quella di Silvio Spaventa, che fu sconfitta nel 1876 dall’infame alleanza tra la sinistra di Giovanni Nicotera e Agostino Depretis e le società concessionarie dei lavori ferroviari capitanate dal banchiere Rothschield, che mal sopportava il rigoroso controllo ministeriale di Silvio Spaventa. Salvemini, dunque, ignora la vera contraddizione che portò nel 1876 alla sconfitta del partito della Destra storica e del suo piú grande rappresentante Silvio Spaventa, che ricopriva in quel periodo l’incarico di Ministro dei lavori pubblici e che combatteva la sopraffazione dei concessionari della costruzione della rete ferroviaria. La continua opera della violenza privata e delle forze semifeudali per l’esproprio di grandi risorse pubbliche e per il saccheggio dell’erario dello Stato continuò ininterrottamente fino alla legge fascista sulle concessioni dei lavori pubblici del 1929; e ancora proseguí nella serie di leggi di deroga alla contabilità dello Stato dagli anni Settanta fino alla legge 219 del 1981 sulla ricostruzione delle zone terremotate, che tuttora rappresenta il vero colpo mortale, come diceva Adolfo Omodeo, la vera insidia e la vera spina nel cuore dello Stato e della società civile italiana. La conseguenza piú grave dell’insegnamento salveminiano è stata l’aver impedito la formazione di generazioni armate di una moderna cultura dello Stato con la quale poter continuare l’azione antifeudale avviata dallo Stato del Risorgimento. Segno evidente sono le recenti modifiche del Titolo V della Costituzione, che di fatto aprono le porte al separatismo e l’occultamento dalla memoria collettiva dell’opera e dell’azione di quegli uomini che del Risorgi-

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Il magistero di Benedetto Croce

Antologia pag. 57 «Come la storia, dunque, è azione spirituale cosí ogni problema pratico e politico è problema spirituale e morale»

Le basi filosofiche, etiche e politiche del Risorgimento

mento fecero «l’eco piú possente che la grande Rivoluzione avesse mai avuto». A nulla valse l’insegnamento di Croce, che fin dal 1898 si era schierato contro questa concezione negativa del Risorgimento, prima pubblicando le lettere di Silvio e Bertrando Spaventa dal ’48 al ’61, poi recuperando nel 1899, per il suo centenario, la memoria etica e politica della Repubblica del 1799, e infine divulgando nel 1910 i discorsi politici di Silvio Spaventa26. Egli indicò alle nuove generazioni il Risorgimento come il risultato di un lungo e travagliato processo spirituale e vide nella realizzazione dello Stato unitario uno dei momenti piú alti dello svolgimento di quel processo. Nella Storia del Regno di Napoli egli indica nella sconfitta delle forze feudali e parassitarie, che rappresentavano e rappresentano nel Mezzogiorno d’Italia la drammatica contraddizione che blocca l’intero Paese, il compito dello Stato moderno. Croce individuava le basi filosofiche, etiche e politiche del Risorgimento italiano nel Settecento, ma non come fecero in molti nella tradizione politica settecentesca piemontese e lombarda. Egli vedeva il nostro Risorgimento impiantato sulle robuste radici dell’Umanesimo e della tradizione filosofica e giuridica meridionali da Bruno a Campanella, da Doria a Giannone, da Vico a Genovesi, fino agli esponenti piú maturi del pensiero politico europeo del secolo dei Lumi: Gaetano Filangieri e Mario Pagano. Croce vedeva dunque nell’esperienza rivoluzionaria della Repubblica na26 BENEDETTO CROCE, Silvio Spaventa. Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti, Laterza, Bari 19232; BENEDETTO CROCE, Silvio Spaventa. La politica della Destra, Laterza, Bari 1910.

Saggi 29 poletana i germi della futura unità italiana. Le basi del Risorgimento non erano, dunque, nelle autonomie comunali, ma nel tentativo, stroncato nel sangue dalla reazione, di creare uno Stato fondato sulla filosofia, uno Stato in cui la classe dirigente non fosse mai disgiunta dalla vera cultura. La Scienza della legislazione, i Saggi politici e la Costituzione della Repubblica napoletana sono per Croce i cardini su cui debba poggiare uno Stato retto secondo ragione, che eserciti la direzione al fine di condurre la società ai fini piú alti dell’umanità. Croce polemizzò a lungo con quegli storici che, invece di narrare ciò che di positivo l’umanità va preparando, si arrestano dinanzi al negativo, chiedendo per giunta agli uomini e ai fatti che studiano e giudicano la risoluzione di problemi che al loro tempo non erano ancora maturati. «Lo storico – scriverà – al pari dell’uomo morale, sente e nota dove, nelle varie situazioni storiche, batte l’accento della libertà, e non si lascia né ingannare dalle apparenze né confondere dai modi strani o rudi coi quali essa si presenta, né dalle parvenze di libertà né da quelle d’illibertà»27. «Se un’età – continua Croce – non offrisse niente di positivo e di costruttivo, tanto varrebbe non scriverne la storia, uniformandosi alla vecchia massima che, dove non c’è niente, il re perde i suoi diritti»28. Per queste ragioni egli mise piú volte in guardia le nuove generazioni «a non prestar facile fede (come talora usano) 27 BENEDETTO CROCE, La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgimento, «La Critica», fasc. VI, anno XXXVII, 20 novembre 1939, p. 406. 28 Ibidem, p. 408.

La polemica col Salvemini storico

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Il ruolo delle minoranze

Antologia pag. 48 «il Risorgimento d’Italia fu opera della prepotenza eroica di una minoranza»

alle asserzioni e alle deduzioni del prof. Salvemini»29, il quale educò i giovani storici, come abbiamo visto, a una concezione negativa della storia. Questo modo di procedere è per Croce il pericolo piú grave e nel combatterlo egli non si risparmia. A proposito di Salvemini scriverà: «Quel modo di giudicare, arrogante nel tono, è insulso nella sostanza; perché si riduce, in ultima analisi, a concepire la storia tutta come una sequela di “fallimenti” e di “defraudamenti”, e a chiamare compromessi deplorevoli o “diplomatizzamenti”, l’effettivo e concreto moto storico, il quale, di volta in volta, ora vince e travolge gli ostacoli, ora li gira cauto, e cosí facendo va innanzi e crea nuova vita, e prepara le condizioni di sempre nuova vita»30. Ma è nella Storia del Regno di Napoli che egli non solo chiarisce questi concetti, ma dà preziose indicazioni a proposito del processo risorgimentale: «Lo storico – ribadisce – non deve dare il primato, nella sua considerazione, all’elemento negativo, alla massa inerte e pesante e riluttante, ma all’elemento attivo, a quella classe intellettuale, che rappresenta la nazione in formazione o in germe, e che sol essa era veramente la nazione. [...] Quella minoranza fece sentire sempre l’azione sua, non si disperse, non si smarrí, non si chiuse nella sua prima ideologia, ma continuò ad apprendere e a educarsi, e si dimostrò salda e flessibile, e ottenne alfine vittoria. Era assorta in un ideale, e di contro le stava la realtà; – ma quell’ideale, poiché possedeva forza 29 BENEDETTO CROCE, Sulla capacità di giudizio politico e morale del prof. Salvemini, in «Risorgimento liberale» del 31 luglio e nel «Giornale» del 4 agosto 1945, in Pensiero politico e politica attuale, Laterza, Bari 1946, pp. 167-169. 30 BENEDETTO CROCE, Commento a una sentenza del Salvemini, in «La Critica», Quaderno 2, 1945, p. 112.

Saggi 31 etica, aveva vera realtà, e quella realtà era invece realtà bruta, incapace di mai dominare e governare. Furono pochi o piccoli drappelli in mezzo a turbe inconsapevoli, che minacciavano di soverchiarli, e talora parve quasi che vi riuscissero, e li trassero a morte, al carcere e all’esilio, e inflissero loro infiniti strazi: – ragion di piú per amarli e venerarli, e ragione fors’anche per non troppo vituperare la terra che essi ebbero cara e per la quale stimarono che mettesse conto di sostenere quelle prove»31. E, contro chi minacciava la «purezza di questa nostra tradizione», spiega che la grande nobiltà del nostro Risorgimento «gli viene dall’essere sorto non come effetto d’impetuosi interessi economici o di fanatica religione ed orgoglio di stirpe, ma mosso e animato da dignità morale, rischiarato da luce intellettuale, non angusto nella sua rivendicazione della Patria, benevolo e fraterno verso gli altri popoli, amici e nemici, e solo desideroso che gli italiani riprendessero tra essi e con essi il loro posto nell’opera comune della civiltà moderna»32. Si è voluto riportare questa pagina di Croce per sottolineare quanto sia distante la sua interpretazione del Risorgimento da quella di Salvemini e quanto sia forte il suo richiamo a non perdere questo grande momento dello spirito come punto di rannodamento per la formazione di una piú salda coscienza collettiva. La sua lotta fu costante e senza tregua ed egli vide come conseguenza nefasta della mancata comprensione del moto 31 BENEDETTO CROCE, Storia del Regno di Napoli, Adelphi, Milano 1992, pp. 280-281. 32 Ibidem, p. 342.

Antologia pag. 49 «L’origine dalla cultura e dalla letteratura conferisce una speciale impronta al Risorgimento italiano»

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La lotta contro il regionalismo

La scuola di Salvemini

risorgimentale le spinte autonomiste, regionaliste e federaliste che dagli anni Novanta dell’Ottocento si propagavano in Italia. E, a proposito di tali tendenze, non possiamo non ricordare il severo giudizio che Croce già nel 1908 esprimeva nei confronti di una tale concezione della politica che, egli diceva, cosí intesa rappresenta «nel mondo pratico una delle tante forme in cui si manifesta l’egoismo, la meschinità morale; nel mondo teoretico è una delle tante forme in cui si manifesta, l’angustia, la piccineria, la meschinità intellettuale»33. Questo giudizio faceva eco ad un commento non meno duro pronunciato da Giustino Fortunato nel 1896 alla Camera dei deputati, nel quale egli sosteneva che se per decentramento amministrativo s’intendeva l’attribuire ai corpi locali vere e proprie funzioni di Stato egli non avrebbe esitato un solo istante a respingere da lui un cosiffatto dono, perché una tale legge renderebbe i poteri pubblici in mezza Italia sempre piú «una vasta, poderosa, odiosa clientela delle classi dominanti, e l’Italia stessa un oggetto di lusso, fatta per chi possiede e chi comanda, i signori, i ricchi, i pubblici funzionari e gli uomini politici!»34. Tuttavia, in contraddizione con il magistero etico e storico di Croce, si formava una schiera di giovani storici che, pur ammirando il filosofo napoletano per le sue teorie sulla filosofia dell’arte e per la sua lezione morale, non accol33 BENEDETTO CROCE, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, a cura di M. A. Frangipani, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 137-138. 34 GIUSTINO FORTUNATO, Le Regioni, in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, seduta 3 Luglio 1896.

Saggi 33 se il suo insegnamento storico e cosí prevalse in loro l’insegnamento di Salvemini, il quale con la sua prepotente personalità esercitò un vivo influsso sugli uomini del suo tempo e la sua opera di storico fece scuola fra gli studiosi del Risorgimento. Attraverso di lui si formarono, infatti, diverse generazioni d’intellettuali che hanno a loro volta contribuito con la loro influenza a tessere la trama della coscienza politica nazionale. Ragion per cui, la rappresentazione che viene fuori del Risorgimento, dai numerosi saggi storici, risente fatalmente dell’impostazione salveminiana: il Risorgimento inteso come mancata rivoluzione di popolo e conquista regia. Chi ha ereditato in modo totale l’insegnamento di Salvemini, sia nel campo storiografico, sia nel campo politico militante, è stato Nello Rosselli. Il tema del suo primo libro, Mazzini e Bakunin, gli venne suggerito dal maestro e non a caso al centro della sua riflessione vi è la questione sociale nel Risorgimento. Cosí, anche quando piú tardi egli riconoscerà l’importanza della costruzione dello Stato unitario, lo farà sempre nella prospettiva di dare un contenuto sociale al moto del Risorgimento. A tal proposito, egli scrive che l’avvenuta unificazione è un presupposto necessario al problema sociale solo perché «la delusione successiva al conseguimento dell’unità politica costituí, per gli operai, la base necessaria al primo formarsi di un vago sentimento di classe»35. Va detto però, come osserva Omodeo, che a Rosselli da un lato «gli pare che il problema delle moltitudini, 35

NELLO ROSSELLI, Saggi sul Risorgimento, Einaudi, Torino 1946, p. 242.

Nello Rosselli e il ruolo delle moltitudini

Antologia pag. 91 «L’avvenuta unificazione dimostra chiaramente che la rivoluzione politica non ha mutato né s’è preoccupata di mutare le loro condizioni economiche»

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L’idea di libertà e la realtà politica italiana

del contenuto sociale da dare al moto italiano, rappresenti un incremento sia sulla genericità dell’ideale democratico mazziniano, sia sul liberalismo del Cavour. Ma, poi, deve ammettere e riconoscere che il socialismo del Pisacane avrebbe scorato i ceti che sentivano il problema della nazionalità, e non avrebbe scosso le moltitudini, pel cui risveglio non erano state poste le premesse»36. Sulla base di queste premesse, egli si trovò improvvisamente distante dagli insegnamenti del maestro e fu talmente convincente la sua presa di coscienza storica che anche Salvemini dovette ammettere nella Prefazione al volume dei Saggi sul Risorgimento di Nello Rosselli che l’opera politica della Destra storica fu un’opera ciclopica. Nonostante questi sforzi, però, Rosselli non comprese che il vero obiettivo della Rivoluzione risorgimentale era l’unità, che la contraddizione prevalente era tra l’idea di libertà che da tre secoli informava di sé le coscienze individuali e la realtà politica dei sette divisi Stati preunitari. L’idea della libertà, una volta che s’è fatta concetto e consapevolezza, necessita di un immediato sensibile a cui applicarsi per ottenere la sua concretezza, per queste ragioni bisognava che si concretizzasse innanzitutto in vita civile, in nuove e piú mature leggi e ordinamenti. «Finché questo immediato non esiste – scrive Silvio Spaventa già nel 1848 –, la libertà è solo un pensiero, che si risolve in atti generosi e nobili sí, ma parziali, che è cagione di patimenti, di sacrifizi e di martirii, ma senza frutto visibile e duraturo»37. 36

ADOLFO OMODEO, Difesa del Risorgimento, Einaudi, Torino 1951, p. 491.

Saggi 35 Aver posto, dunque, al centro dei suoi studi sul Risorgimento Mazzini, Pisacane e Bakunin ha impedito a Rosselli, nonostante la sua tempra intellettuale, di comprendere appieno il moto risorgimentale perché la sua interpretazione è stata inficiata da categorie politiche costruite sul retaggio culturale del socialismo francese di marca sansimoniana e proudhoniana, correnti politiche queste foriere di gravi incomprensioni e prive di una moderna e adeguata teoria dello Stato. Non diversa è la posizione di Piero Gobetti, altro seguace di Salvemini, anch’egli autonomista e antiunitario. Gobetti, a parere dei suoi critici e dei suoi interpreti, non fu uno storico: la storia fu per lui piuttosto un pretesto per aggredire la realtà politica di cui era attivamente partecipe. Cosí, anche «la delineazione storica del Risorgimento – come scrive Nino Valeri, valente storico che fu anche amico personale del Gobetti – non era propriamente una storia ma una forma di polemica per meglio chiarire le ragioni del suo atteggiamento politico attuale»38. Ciò detto, non si può eludere il fatto che Gobetti fu ispiratore di studi storici, e ciò non solo lo conferma lo storico inglese Denis Mack Smith nella sua Storia d’Italia dal 1861 al 1958, ma lo attesta la numerosa schiera di storici che a lui direttamente guardano: da Luigi Salvatorelli a Franco Venturi, da Giorgio Spini a Nino Valeri. Cosí, considerando 37

SILVIO SPAVENTA, Il fine ultimo delle rivoluzioni e il fine primario della rivoluzione italiana, «Il Nazionale», giornale quotidiano politico-letterario, ristampa anastatica a cura di Cesare Scarano, presentazione di Eugenio Garin, num. 41, 22 aprile, anno I, 1848, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1992. 38 NINO VALERI, Da Giolitti a Mussolini, Parenti, Firenze 1956, p. 213.

Piero Gobetti

L’insegnamento storico Antologia pag. 87 «Il Risorgimento italiano nasce dal tormento teorico del Settecento»

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Salvatorelli e la riscoperta del Settecento

l’interesse per il Settecento di Salvatorelli e Venturi, si può affermare che esso scaturisce, come osserva Walter Maturi39, dall’enorme influenza dei saggi di Gobetti e in particolar modo del suo Risorgimento senza eroi40. In relazione a quanto asserito, dovendo in questo studio delineare le diverse e contrapposte interpretazioni del Risorgimento, va segnalata l’opera di Salvatorelli, il quale riscopre il Settecento in un prezioso volume dal titolo Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870. La sua attenzione all’età dei Lumi ricorda per assonanza Benedetto Croce, ma in realtà l’Illuminismo di Salvatorelli è ben diverso dalla visione crociana. Egli, infatti, ricostruisce magistralmente i motivi illuministici che erano confluiti nel liberalismo democratico, ma non tiene in nessun conto la tradizione politica e giuridica meridionale. Allo stesso modo, quando afferma che la «novità» del Settecento fu sostenere che «lo Stato non può essere concepito al di fuori di ogni rapporto col suo contenuto, cioè con la società civile, e che lo Stato è un mezzo per la felicità del genere umano non un idolo nel quale ci si debba misticamente annientare»41, egli non fa alcuna menzione della robusta concezione dello Stato di cui si nutrivano Filangieri, Pagano, Bertrando e Silvio Spaventa. E tale mancanza non è di poco conto visto che questi ultimi sono gli unici ad elaborare una moderna teoria dello Stato, distante sia dalle teorie liberali dello Stato minimo sia da quelle di matrice democratica che vedevano lo Stato come un male neces39

WALTER MATURI, op. cit., p. 554. PIERO GOBETTI, Risorgimento senza eroi, Edizioni del Baretti, Torino 1926. 41 WALTER MATURI, op. cit., ibidem. 40

Saggi 37 sario da mitigare e rimpicciolire o come uno strumento di potere transitorio destinato ad estinguersi. Gli Spaventa furono gli unici a concepire lo Stato non come «qualcosa di esterno a noi, di divino o fatale, di casuale o di convenzionale, ma intrinseco a noi come il nostro naturale organismo, perché la legge, il diritto, l’autorità, che ne sono le funzioni essenziali, sono pure volere umano»42. «Onde, se per avventura esso entra in opposizione colla società, non può perdurare a lungo in questa opposizione, e gli è forza riconciliarsi con quella, onde non mettersi in contradizione (sic!) col proprio concetto»43. In mancanza di questi riferimenti nell’opera di Salvatorelli, il movimento risorgimentale non può che essere rappresentato dalla contraddizione tra Mazzini e Cavour, l’uno esponente dell’iniziativa rivoluzionaria democratica dal basso, l’altra di quella liberale monarchica dall’alto. Assunto tale punto di vista, egli finisce per considerare vera rivoluzione solo il Quarantotto e ritiene l’unità nient’altro che un compromesso. A tal proposito scrive: «È verissima la diversità fra il primo periodo di attuazione del Risorgimento, terminato nelle catastrofi del ’49, e il secondo, quello della realizzazione unitaria […]. Ma dei due periodi il piú veramente rivoluzionario fu il primo, mentre il secondo portò a evoluzione e compromesso […]». E piú oltre aggiunge: «non tornò piú un momento come quello del Quarantotto, di sforzo solidale dei popoli per la liberazio42 SILVIO SPAVENTA, Il potere temporale e l’Italia nuova, Bergamo 1886, in Silvio Spaventa, La politica della Destra. Scritti e discorsi raccolti da B. Croce, Laterza, Bari 1910, pp. 198-199. 43 SILVIO SPAVENTA, Idea del movimento italiano, «Il Nazionale», num. 2, 5 marzo, anno I, 1848, cit.

Il Quarantotto Antologia pag. 100 «Rivoluzione fu dunque veramente il Quarantotto»

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Il Risorgimento come opera spirituale

Antologia pag. 99 «Si nega nel Risorgimento l’elemento nazionale, popolare, spirituale»

Gobetti e la rivoluzione fallita: a) mancata rivoluzione di popolo

ne e la federazione. L’ideale di Mazzini e Cattaneo rimase inattuato»44. Uno dei grandi meriti di Salvatorelli resta, comunque, quello di aver chiarito, con un volume vivacemente polemico, intitolato Casa Savoia nella storia d’Italia45, che la storia del Risorgimento italiano non può essere ridotta alla storia della sua formazione statal-territoriale. Se cosí fosse, scrive in Pensiero e azione del Risorgimento, «si nega nel Risorgimento l’elemento nazionale, popolare, spirituale: e nessuna vera differenza esiste piú tra la formazione dell’unità nazionale e una conquista straniera»46. Tornando alla nostra riflessione su Gobetti riteniamo, alla luce di quanto discusso, che la sua impostazione storica e l’interpretazione che egli dà del Risorgimento sia importante perché determina l’indirizzo di buona parte degli studi storici e politici sull’età del Risorgimento. Fin dai suoi primi scritti, egli fu ispirato dal pensiero politico di Gaetano Salvemini, e da questo ereditò la concezione negativa del Risorgimento considerato una Rivoluzione fallita perché era stata opera di minoranze e perché non aveva compiuto una riforma religiosa. A queste due accuse rispose Adolfo Omodeo, che nel suo libro Difesa del Risorgimento, ribatteva alla prima accusa dicendo: «Sí, ma [quelle minoranze] operarono essi pel popolo. Si adattarono ad essere loro la nazione […] e qui il loro grande merito, credettero nel popolo e nella nazione […] dell’edificazione 44 LUIGI SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1963, pp. 134,138. 45 LUIGI SALVATORELLI, Casa Savoia nella storia d’Italia, «La cosmopolita», Roma 1945. 46 LUIGI SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimento, cit., p. 15.

Saggi 39 del popolo ebbero l’ossessione e il peso di responsabilità. Se l’opera non riuscí completa, si fu perché un popolo non s’improvvisa in cinquant’anni»47. Alla seconda accusa replicava: «ma il Gobetti avrebbe dovuto notare come il Risorgimento abbia una vita sua interna, tale da ridurre e respingere in ristretti limiti le esigenze del cattolicesimo gesuitico. Anche senza tentare un’organizzazione religiosa in senso stretto, quegli uomini vivevano una fede nuova, anche quelli che si credevano ancora cattolici. […] Una nuova fede attiva apparentemente politica fu affiancata alla vecchia fede fossile e si andò dilatando. Per essa, per le idee liberali, fermenti purificati di protestantesimo calarono a disintossicare l’Italia dal virus gesuitico»48. Come appare chiaro fu un’intera generazione che nella tragedia del Fascismo maturò quella concezione negativa del Risorgimento che tutt’ora, come una coltre spessa, c’impedisce di comprendere la forza etica politica e ideale del nostro Risorgimento. Possiamo fare nostre, allora, le parole che lo storico Anzilotti scrisse nel 1913 a Benedetto Croce pensando alla sua generazione e al loro oscillare fra le due grandi correnti di studi sul Risorgimento facenti capo a Salvemini e a Croce: è mancato a quella generazione di storici «soprattutto il fondamento saldo e sicuro di un pensiero filosofico acquistato con le proprie fatiche, coi propri sforzi. Di qui incoerenze, digressioni, perditempo, incertezze»49. 47

ADOLFO OMODEO, Difesa del Risorgimento, Einaudi, Torino 1951, p. 444. Ibidem, pp. 445-46. 49 ANTONIO ANZILOTTI, Movimenti e contrasti per l’unità d’Italia, Laterza, Bari 1930, pp. IX-X. 48

b) mancata Riforma religiosa

40 È bene, quando si cerca di dare risposte a temi cosí decisivi per la vita di una comunità politica, risalire alla radice del problema, nella consapevolezza che «il progresso civile è frutto di una lunga e faticosa preparazione intellettuale e morale, e di salda fede – nata, come la pistis parmenidea, da profondo convincimento, non da ignara accettazione – in ideali radicati in antiche tradizioni di cultura»50. * * * Prima di concludere, un’ultima osservazione va fatta per chiarire il quadro entro cui si sviluppò la posizione di Salvemini. Su un’opposta concezione dello Stato e su una contrapposta interpretazione del Risorgimento si aprí nell’immediato dopoguerra all’interno del partito comunista una frattura destinata a determinare tutta la successiva storia del partito e che vide scontrarsi due opposte idee della politica. La lotta fu fra due correnti interne al partito: da una parte c’era il “Gruppo Gramsci”, i cui esponenti s’ispiravano al pensiero di Hegel e all’opera degli hegeliani di Napoli, dall’altra coloro che facevano capo al gruppo amendoliano della «Rinascita del Mezzogiorno» e alla rivista «La voce del Mezzogiorno». Napoli fu il cuore della battaglia. Se si tenta di fare un quadro della memoria storica che si andò formando a Napoli negli anni del secondo dopoguerra, si ritroveranno due fili ben precisi. Il primo filo si formò in50 GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI, La Repubblica Napoletana del 1799. Discorso tenuto nel Forte di Sant’Elmo il 21 gennaio 1999 in apertura del Convegno per il bicentenario della Rivoluzione napoletana del 1799, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2002, p. 9.

Saggi 41 terno alla lezione che Benedetto Croce aveva consegnato a libri come la Storia del Regno di Napoli, La storia d’Europa nel secolo decimonono, Una famiglia di patrioti e all’importante saggio su La cultura letteraria a Napoli dal 1860 al 1900. Filo che fu robustamente tessuto con la pubblicazione di preziosi carteggi fra Silvio e Bertrando Spaventa, il primo dagli ergastoli borbonici e il secondo dall’esilio torinese. Ricordiamo che nella prefazione alla prima edizione del volume Dal 1848 al 1861, Benedetto Croce raccomandava ai filosofi di studiare la filosofia di Bertrando Spaventa e di pubblicarne gli inediti. Inoltre, Croce esplicitamente, dalle pagine della rivista «La critica», raccomandò ai giovani comunisti napoletani di «levare gli occhi alle statue che sono in Napoli di Tommaso d’Aquino, di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella, di Giambattista Vico e degli altri nostri grandi pensatori e adoprarsi a portare, se potevano, la dottrina comunista a quell’altezza e congiungerla a quella tradizione»51. L’altro filo era quello del Partito d’Azione e dei partiti della sinistra profondamente influenzati dalla lezione di Gaetano Salvemini e dei grandi martiri dell’antifascismo, nelle cui opere è facile ravvisare i fili della cultura marxista, di un mazzinianesimo quasi sempre presente e di un radicalismo d’ispirazione vagamente anarchica. Il primo filo, come piú volte affermato, ravvisava nella conquista dell’indipendenza italiana e nella costruzione dello Stato unitario il vero obiettivo della rivoluzione risorgimentale. Su queste posizioni era schierata quella parte del51

BENEDETTO CROCE, Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi 1947, «La critica», Quaderni, 7-9, 1947, pp. 86-88:88.

42 la gioventú universitaria – raccolta intorno alle attività culturali del “Gruppo Gramsci” e dell’associazione “Cultura Nuova” – che aveva ritrovato negli scritti degli hegeliani di Napoli il fondamento teorico dello Stato unitario. Sul filo salveminiano erano allineati quasi tutto il partito d’azione, il partito repubblicano, il partito socialista, il gruppo comunista, che faceva capo a «Rinascita del Mezzogiorno» e a «La voce del Mezzogiorno», e gran parte dei liberali e delle riviste culturali. «Per queste ragioni – ricorda Gerardo Marotta, uno dei protagonisti di quella grande stagione politica – la battaglia di quel gruppo giovanile, che operò a Napoli negli anni tra il 1947 e il 1954, da una parte, era diretta contro le teorie anarchiche antistataliste da Proudhon alla teoria marxista dell’estinzione dello Stato, dall’altra, si concentrò sulla difesa del Risorgimento come grande rivoluzione italiana che aveva dato vita allo Stato unitario»52. Per quei giovani proprio lo Stato unitario era stato il grandioso risultato della rivoluzione risorgimentale, un concetto che aveva ben compreso Golo Mann quando scrisse che la rivoluzione risorgimentale in Italia fu «come l’eco piú possente che la Grande Rivoluzione avesse mai avuto, qualche cosa di piú decisivo e di piú fortunato di quella rivoluzione stessa, perché l’Italia era un concetto del tutto nuovo, mentre la Francia era già esistita da lungo tempo»53. 52

GERARDO MAROTTA, Gli hegeliani di Napoli nel Risorgimento e dopo la seconda guerra mondiale, in Der Gedanke. Sieben Studien zu den deutschitalienischen Beziehungen in Philosophie und Kunst, a cura di W. Kaltenbacher, Verlag Königshausen & Neumann GmbH, Würzburg 2004, p. XV. 53 GOLO MANN, Lo sviluppo politico dell’Europa e dell’America fra il 1815 e il 1871, 1966.

Saggi 43 In questo clima culturale, Palmiro Togliatti, memore dei seminari sulla Grande Enciclopedia di Hegel organizzati nel periodo torinese con Gramsci, Terracini e altri dirigenti socialisti, si schierò subito dalla parte della gioventú universitaria che seguiva il filo della tradizione che va da Spaventa a Labriola, promuovendo su riviste quali «Società», «Rinascita», «Mondo operaio», «Stato operaio» studi sugli hegeliani di Napoli e su Bertrando Spaventa e su Antonio Labriola. In questi stessi anni, fu resa nota la lettera a Engels di Antonio Labriola in cui l’allievo di Bertrando Spaventa dichiarava la matrice hegeliana delle sue idee marxiste54. Antonio Labriola, infatti, mai dimenticò la lezione ricevuta alla scuola degli hegeliani di Napoli, e sempre vide in quegli uomini la vera classe dirigente. Insieme a loro combatté il positivismo e le tendenze antirisorgimentali da esso derivanti. Tutto ciò contribuí a dare un duro colpo alle posizioni economiciste del marxismo e spinse le nuove generazioni a 54 «[Bertrando] Spaventa (ottimo fra tutti, e taccio gli altri) scrisse di dialettica in modo squisito, scoprí di nuovo Bruno e Campanella, delineò la parte utile ed utilizzabile di Vico, e trovò da sé (nel 1864!) la connessione fra Hegel e Darwin. Sono nato in tale ambiente. A 19 anni scrissi una invettiva contro Zeller per il ritorno a Kant (prolusione di Heidelberg). Tutta la letteratura hegeliana e posthegeliana ci era familiare.[…] Studiai Feuerbach nel 1866-69, e poi la scuola di Tubinga: ich habe, leider, auch Teologie studiert. Tutto ciò è finito perché questo nostro paese è come un pozzo della storia. Ora domina il demimonde positivistico. Forse – anzi senza forse – io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo aver passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Völkerpsychologie di Steinthal ed altro», vedi Antonio Labriola a Friedrich Engels, 14 marzo 1894, in Antonio Labriola, Carteggio 1890-1895, III, a cura di Stefano Miccolis, Bibliopolis, Napoli 2003, pp. 377-378:378.

44 riprendere la lezione della filosofia classica tedesca e la concezione filosofica degli hegeliani di Napoli. D’altra parte, la ripresa del pensiero di Bertrando Spaventa e di Antonio Labriola, di cui l’editore Laterza proprio in quegli anni (1947, 1953) ripubblicava il saggio su Socrate, riapriva all’umanesimo meridionale di Bruno e Campanella e chiariva in modo perentorio la giustezza della posizione di Benedetto Croce, il quale aveva sí visto in Giuseppe Mazzini il grande apostolo del Risorgimento ma certamente non il filosofo e il teorico dello Stato, funzione questa che era stata esercitata e adempiuta dagli hegeliani di Napoli. In conclusione, dalla sconfitta della Destra Storica, il partito della “rivoluzione unitaria”, come lo definí lo stesso Croce, l’Italia s’è dibattuta tra crisi sempre risorgenti che resero impossibile la formazione di classi dirigenti che potessero eguagliare il vigore del partito del Conte di Cavour e di Silvio Spaventa. La comprensione di queste vicende aiuterebbe a fare un po’ di luce sulle ragioni che oggi rendono gran parte della cultura italiana disorientata dinanzi alle forze retrive del Paese e spesso complice del lucido piano di “estinzione” dello Stato a cui stiamo da tempo assistendo. Ciò, come s’è tentato di dimostrare in questo breve scritto, è l’inesorabile conseguenza del fatto che, dopo il Risorgimento, in Italia è mancata quasi del tutto un’autentica cultura dello Stato. Ma tutto ciò sarà oggetto di un prossimo volume.

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Benedetto Croce Storia del Regno di Napoli* CONSIDERAZIONI FINALI

I. È stato detto talvolta, che «l’Italia finisce al Garigliano»1, e di questo avviso par che siano i viaggiatori o turisti che, giungendo a Napoli dopo

aver percorso l’Italia alta e media, sanno di dovervi ammirare magnificenze della natura e ruderi dell’antichità greca e romana, ma non piú gloriosi monumenti di storia italiana né ope-

*BENEDETTO CROCE, Storia del Regno di Napoli, Adelphi, Milano 1992, pp. 335-360. 1 Diceva cosí, tra gli altri, Francesco Forti, come ricorda il Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Le Monnier, Firenze 1851, vol. I, parte seconda, p. 155.

46 re di una nuova e particolare scuola d’arte da porre a paro con quelle che ammirarono altrove. Insieme con opere di artisti toscani, lombardi e veneti, qui lavorate o portatevi dalla fortuna, essi potranno vedervi quasi solamente prodotti di arte secondaria e spesso piú vistosa che solida. Anche gli storici della classica letteratura italiana sono in grado di assolvere la parte piú alta del loro compito senza quasi toccare l’Italia meridionale, alla quale non appartengono i maggiori di quei poeti e scrittori: né Dante, né Machiavelli, né Ariosto. Alla seconda civiltà, che dalla penisola italiana illuminò il mondo (la prima fu quella di Roma), alla civiltà che dal sorgere dei Comuni va fino al pieno Rinascimento, l’Italia meridionale rimane pressoché estranea. Quando il processo di quella civiltà si faceva piú intenso, si disfaceva la civiltà bizantinonormanno-sveva, alla quale essa aveva partecipato, e sorgeva il regno di Napoli, nel modo che s’è descritto, senza un proprio principio di vita e senza che riuscisse mai ad acquistarlo. Onde

la storia di esso non sostiene, e anzi non consente, il paragone con quelle di Venezia, di Firenze, di Genova, dei Comuni e delle Signorie lombarde; e se un sentimento ha suscitato in coloro che hanno preso a narrarla, è stato in alcuni di commiserazione per le sciagure che vi si susseguirono senza tregua, e in altri di severo biasimo, quando non addirittura di grave disistima, per le sue popolazioni. E questo di una storia che non è storia, di un processo che non è processo perché a ogni passo interrotto e sconvolto, è il carattere che le è stato riconosciuto; laddove alle storie delle altre parti d’Italia il carattere è dato dall’energia delle formazioni politiche, dalle lotte per la libertà e pel dominio, dalle mercature, dagli opifici, dalle navigazioni, dalle colonie, dalle arti, dalla poesia. [...] Ma, col costituirsi o crescere in potenza dei grandi stati in Europa, col chiudersi del miglior periodo del Rinascimento e l’aprirsi delle lotte religiose, la storia della seconda Italia giunse al suo declino; e l’alacre vita delle sue varie formazioni

statali si venne anch’essa abbassando, e tutte, a un dipresso, si adeguarono alla condizione del Regno di Napoli, alcune passando al pari di questo sotto la diretta signoria, altre sotto l’egemonia spagnuola, altre ancora perdendo via via mercati e colonie, e invecchiando nei loro ordini interni. E tutte, poiché prive di animo e quasi di anima, senza piú ideali attivi, con solo superbe memorie e inani vanti, succeduti in esse all’affetto per la cosa pubblica gli affetti privati, erano destinate a perire; tutte, anche quella che durò piú a lungo, la Serenissima. [...] Tutte dunque, salvo la piú recente di quelle formazioni statali, la monarchia dei Savoia, restaurata o piuttosto rifatta di pianta da Emmanuele Filiberto, che aveva nel suo principe il centro di riferenza e di convergenza delle forze dei popoli, e un’aristocrazia guerriera e fedele sempre pronta a spargere il sangue per colui che fu già il suo signore feudale ed era diventato ora il suo sovrano, e un popolo devoto e disciplinato, il quale si raccoglieva intor-

no al re e ai nobili e forniva i soldati per gli eserciti, validi a resistere agli stranieri, a sostenerne gli assedi, ad affrontarli in aperta campagna, a risorgere dalle sconfitte alla riscossa e a ricacciarli dal suolo patrio. Un tempo, cosí erano state, a lor modo e nelle loro forme di repubbliche democratiche o aristocratiche, Milano e Venezia e Pisa e Genova e Firenze; ed ora in Italia non era cosí se non la monarchia dei Savoia, che abbiamo già visto con quale occhio fosse guardata nel secolo decimottavo e come nascesse spontaneo il paragone di essa, per i suoi spiriti e per le sue tendenze, con la Prussia del gran Federico [...]. II. Pure, quanta e quale fu veramente questa decadenza italiana? Quanto durò, e fu mai totale e completa? Non è mirabile la prova d’incoercibile vitalità che offre l’Italia, non solo nel medioevo, nell’età delle invasioni barbariche, ma anche in quella diversa sorta di barbarie, che seguí per lei alla civiltà dei Comuni e del Rinascimento, quando, di tra il vecchio che muore, già si vede germinare il

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48 nuovo, e il passato dar la mano all’avvenire? Cosí, mentre gli stati della vecchia Italia s’irrigidivano o si dissolvevano, e al confine si formava con la monarchia dei Savoia la cellula del nuovo stato unitario, dappertutto in Italia si schiudevano nuovi pensieri e nuovi propositi, si rifaceva su nuovi principii 1a cultura, si ripigliava con nuovi ideali la politica; e si preparava la terza Italia, quella terza Italia ché non c’è bisogno, coi sognatori di grandezze a vuoto, coi retori e con gl’impazienti, di voler eguale alle due prime (come se fosse possibile comandare allo spirito che soffia ubi vult, e alla divina provvidenza), non c’è bisogno di possederla in questa forma sfolgorante per tenerla reale e per amarla e servirla. E nella vita ormai bisecolare della terza Italia, Napoli non solo entrò anch’essa, e non ultima né tarda, ma precedette sovente le altre parti d’Italia, cosí all’inizio dell’età del Saggi pag. 30 razionalismo e delle riforme come in quella delle rivoluzioni, coi suoi cartesiani e illuministi, coi suoi giacobini e patrioti. Anzi, si può dire che precorresse

in generale l’età nuova coi suoi grandi ed entusiastici filosofi, coi Bruno e coi Campanella, e con l’immenso Vico, nei quali tutti balenò un pensiero non piú scolastico né semplicemente platonico o platonizzante, ma concreto, immanente e dialettico. Né l’origine e l’andamento che ebbe questo processo di rigenerazione mentale, sociale e politica, e che fu d’individui o minoranze, mal seguite e sovente contrastate e piú di sovente tirate in giú dalle moltitudini col loro peso, è poi particolare dell’Italia meridionale; e talvolta, mentre io affondavo senza pietà il mio coltello anatomico negli avvenimenti della sua storia e nelle condizioni del suo popolo e delle sue classi sociali, mi tornavano alla mente i simili fatti e le simili condizioni di quasi intera l’Italia, e dicevo, non certo con sentimento di consolazione: De te fabula narratur, e ricordavo che non per l’Italia meridionale solamente era stato coniato il motto, che il Risorgimento d’Italia fu opera della «prepotenza eroica di una minoranza», o 1’altro che, «fatta l’Italia, bisognava fare gli

italiani». In alcune parti d’Italia, le cose procedettero alquanto meglio, favorite dalla posizione geografica e dalle condizioni economiche, e anche dai frutti di piú lunga civiltà e da non del tutto perdute attitudini politiche: ma in altre, anche peggio: su di che non sarebbe gradevole indugiare, perché non è gradevole stare a fare i conti delle infermità e delle colpe da imputare a ciascuno, quando quel che importa è di essersene liberati, o di doversene liberare, tutti, in concordia di sforzi. L’origine dalla cultura e dalla letteratura, e la parte preponderante che vi esercitarono gl’individui rispetto alle moltitudini e alle classi sociali, conferiscono una speciale impronta al Risorgimento italiano e ne determinano debolezze e forze, e per parlare di queste ultime, la grande nobiltà che gli viene dall’essere sorto non come effetto d’impetuosi interessi economici o di fanatica religione ed orgoglio di stirpe, ma mosso e animato da dignità morale, rischiarato da luce intellettuale, non angusto nella sua rivendicazione della patria, benevolo e fraterno ver-

so gli altri popoli, amici e nemici, e solo desideroso che gl’italiani riprendessero tra essi e con essi il loro posto nell’opera comune della civiltà moderna. Di questa nobiltà di nascita della nuova Italia abbiamo risentito piú volte la generosa efficacia; e converrebbe ben conoscere e avere familiari le fisionomie morali di quegli individui, di quegli italiani, che furono bensí minoranza, ma pur furono tanti e tanti: conoscerle e considerarle nella loro schiettezza e verità, Saggi pag. 31 sgombre degli sciocchi abbellimenti e dei volgari ornamenti dei panegiristi, che sovente le hanno sfigurate, e hanno tolto o impedito la forza di esortazione e di persuasione che da esse s’irraggia. Cosa piú particolarmente giovevole ora che la purezza di questa nostra tradizione è come minacciata, e si cerca d’introdurre nel nostro sentire un torbido e cupo e sensuale nazionalismo di straniera provenienza: in fondo, una cattiva letteratura, la quale, non perché sia letteratura, non è perniciosa. III. Con la fine del Regno di Napoli, con l’annessione del-

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50 l’Italia meridionale al resto d’Italia, ha termine la sua storia, intesa, come si deve, in quanto storia di una formazione politica; e coloro che si fanno a proseguirla passano di necessità a trattare della nuova Italia, del nuovo stato unitario. Piú volte si sono udite querele e accuse contro il Mezzogiorno: che senz’esso l’Italia sarebbe stata piú omogenea nella ricchezza e nel grado di civiltà; che avrebbe segnato una media piú bassa nelle statistiche dell’analfabetismo; che i suoi governi non avrebbero potuto disporre di voti guadagnati con facile corruttela; che la monarchia vi avrebbe ceduto il luogo alla repubblica, o che si sarebbe potuto evitare l’eccessivo accentramento e serbare o introdurre una sorta di autonomia regionale; che la politica italiana sarebbe stata piú liberale o piú democratica, e perfino non avrebbe avuto impedimenti di grave mora a svolgersi verso forme sociali ultrademocratiche e comunistiche; e simili. Ai quali detti sono state opposte le difese e le controffese: che, senza l’Italia meridionale, quella del

settentrione e media si sarebbe ristretta a una vita angusta e piccina; che nel Mezzogiorno l’industria del settentrione ha trovato il suo mercato, mentre esso, con l’unità, ha visto sparire quanto possedeva d’industrie locali; che l’efficacia del robusto pensiero meridionale ha assai innalzato la scienza e gli studi italiani; che è stata fortuna che l’Italia possedesse nel Mezzogiorno un contrappeso o una zavorra da ritenerla in certe follie, e che quella zavorra non era tutta gravità materiale, ma anche freno di buon senso, e l’ideale dello stato forte e della monarchia non rispondeva semplicemente a tradizionale disposizione verso il governo dall’alto, ma anche, come si vede nei maggiori uomini di questa terra, a percezione realistica e a seria meditazione politica e storica; e via di seguito. Accuse e difese che, in quanto tali, si dimostrano inconcludenti, perché è chiaro che in un’unione si hanno sempre vantaggi e perdite reciproche, e che nondimeno il guadagno totale (e non s’intende solo di quello economico nel senso empirico e quantitativo,

ma anche di guadagno spirituale e qualitativo) dev’essere assai superiore alle perdite particolari, se l’unione s’è formata e se, invece di dissolversi o di allentarsi, dura e si rinsalda. Considerate invece come osservazioni di alcuni aspetti delle cose, e come tali non prive di verità, esse si riferiscono a parti o momenti, in azione e reazione, di quella che è stata ed è la vita della nuova Italia; ma perciò appunto non sono comprensibili e giudicabili se non nel processo storico di questa, e non piú in funzione della storia dell’Italia meridionale, che, come dicevamo, s’è chiusa definitivamente nel 1860. Alla storia e alla politica della nuova Italia appartiene anche (come si desume dal nome stesso) quella che si suol chiamare la «questione meridionale», e che, sotto questa formola generale, designa un ondeggiante gruppo di problemi attinenti piú da vicino alle condizioni proprie dell’Italia meridionale.

Si può dire che la realtà di questi problemi balzasse subito in luce nei primi giorni dell’unità, quando, scacciati i Borboni e introdotta la costituzione liberale, il governo della nuova Italia, invece di assistere al miracolo del bel paese redento, rasserenato e luminoso, si trovò di fronte il brigantaggio nelle provincie, la delinquenza della plebe nell’antica capitale, la generale indisciplina e confusione e abbiettezza. Gli stessi esuli, che tornavano, rimasero come sbalorditi, quasi loro cadesse un velo dagli occhi. «Il lezzo e il fracidume che è qui (scrisse lo Spaventa in una lettera di quei giorni) ammorba i sensi. Non si vede né modo né verso come questo Paese possa rientrare in un assetto ragionevole; pare come se i cardini dell’ordine morale siano stati sconficcati»2. E proprio allo Spaventa, allora consigliere di luogotenenza, toccò di dovere esplorare a fondo, e prendere a combattere per primo, il malanno della «camor-

2 SILVIO SPAVENTA, Dal 1848 al 1861, lettera da Napoli del 28 ottobre 1860, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 19232, p. 354.

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52 ra», della quale fino a quei giorni era ignoto ai pubblicisti quasi lo stesso nome; e altri, ufficiali piemontesi e lombardi, funzionari, uomini politici, studiarono sotto i suoi molteplici aspetti il rinfocolato e atrocissimo brigantaggio. «Qui (scrisse uno di codesti italiani, che erano penetrati nelle provincie meridionali e vi avevano osservato con meraviglia il costume delle popolazioni, i sistemi di agricoltura, il nomadismo dei pastori e dei contadini, le prepotenze dei possidenti, la miseria e l’odio delle plebi), qui siamo fra una popolazione che, sebbene in Italia e nata italiana, sembra appartenere alle tribú primitive dell’Africa»; «il brigantaggio è per ogni dove in queste provincie, in tutti gli ambienti e in tutti i gradini della società, nella natura e negl’istinti di questi popoli»3. Un altro, ed era uno scrittore svizzero al quale il governo italiano forniva notizie e

documenti, notava con meraviglia che a Napoli non c’erano se non due sole classi, les lettres et le peuple; e che la borghesia, cioè quella non lettrée, industriale e commerciale, semplicemente non esisteva4. E non è a dire che la nuova Italia non compiesse allora qualcosa di assai benefico in queste sue provincie, perché in quegli anni fu, con lunga e sanguinosa guerriglia e con provvedimenti straordinari, distrutto il brigantaggio, distrutto anche piú radicalmente che non facesse il marchese del Carpio alla fine del Seicento o il generale Manhès ai principii dell’Ottocento, distrutto per sempre e toltegli le condizioni di esistenza mercé le ferrovie e le altre strade, conforme al detto di uno scozzese, che già molti anni innanzi aveva consigliato di mandare nell’Italia meridionale, piuttosto che generali, o insieme coi generali, dei MacAdam, dei

3 A. BIANCO DI ST. JORIOZ, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Daelli, Milano 1864, pp. 13, 17; e si veda anche la relazione del 1863 del Govone (in U. GOVONE, Il generale Giuseppe Govone, Casanovo, Torino 1902, pp. 393-408). 4 M. MONNIER, op. cit., p. 5.

Antologia 53 costruttori di strade 5 . Ma il problema del Mezzogiorno era assai piú complesso e arduo; e invano il Cavour, nelle sue ore estreme, nel sublime suo delirio di morente, vi ricorreva con l’insistente pensiero, e parlava dei «nostri poveri napoletani, cosí intelligenti», ma cosí corrotti da lungo mal governo, che bisognava far lavorare, reggere con leggi inflessibili e governare con la libertà6. Dei ministri che seguirono, il solo Peruzzi ebbe il concetto che convenisse affrontarlo in pieno; ma poi prevalse la piú comoda pratica di un’astratta uniformità legislativa e di un effettivo abbandono di queste provincie al corso delle cose, contentando i loro rappresentanti alla spicciolata o nei loro piccoli traffici elettorali. Gli antichi esuli, che fecero parte di quei primi gabinetti, e

in genere gli uomini di destra o “consorti” meridionali, riportarono allora la taccia di essersi disinteressati del Mezzogiorno, e anzi di aver dato verso di esso non dubbi segni di noncuranza e di sprezzo7. E nondimeno quegli uomini meritavano qualche scusa, perché, assorti dapprima negli studi e poi gettati negli ergastoli o cacciati in esilio, poco conoscevano delle condizioni effettive di questo Paese, e anche perché (sia lecito dir cosa forse aspra, ma vera), troppo vi avevano sofferto, troppe delusioni, troppa incomprensione, troppi abbandoni; e, ora che l’avevano legato all’Italia, godevano nel respirare in piú largo aere e ripugnavano a ricacciarsi nella sua molta volgarità e nelle sue travagliose miserie. Quanta amarezza dovessero aver accumulata nei loro petti gli uomini

«A MacAdam in Calabria would do more in suppressing banditti, than twenty sanguinary governors, such as the French General Manhès [...] Wherever good communications have been opened, the brigands have gradually withdrawn» (C. MACFARLANE, The lives and exploits of banditti and robbers, Tegg, London 1837, p. 25). 6 Si veda il racconto della malattia e morte del Cavour, scritto dalla nipote, in W. DE LA RIVE, Il conte di Cavour, Bocca, Torino 1911, pp. 339-40. 7 Si veda questa taccia, tra gli altri, presso il Marselli, Gl’italiani del Mezzogiorno, Sommaruga, Roma 1884, p. 138; cfr. A. SALANDRA, La politica nazionale e il partito liberale, Treves, Milano 1912, pp. 77-79.

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54 che in uno o altro modo avevano qui esercitato vita pubblica, si sente in certe parole che in qualche momento ne proruppero, come quelle del generale Filangieri, figlio dell’autore della Scienza della legislazione, che lasciò scritto a suo figlio: «Credimi: per chiunque ha un po’ d’onore e un po’ di sangue nelle vene, è una gran calamità nascere napoletano»8. A volte, nei giudizi che si coglievano sulle labbra dei moderati napoletani, diventati italiani, pareva di riudire (perché gli estremi si toccano) i motti attribuiti a re Ferdinando II, il quale, secondo la leggenda, a un ambasciatore straniero, che gli moveva rimostranze su certi procedimenti della sua polizia, definendoli «africani», avrebbe risposto: che «l’Africa comincia di qui». Simili motti ricordo di avere udito dallo Spaventa, che pur aveva operato e cospirato nel 1848, e si era lasciato condannare a morte ed era restato dieci anni in ergastolo, per il bene di questa Italia meridio8 9

nale, dalla quale ora, come se avesse pagato tutto il suo debito verso di lei, si discostava, tra inorridito e nauseato, a segno di preferir di rappresentare alla Camera un Collegio dell’alta Italia, e a Napoli tornava malvolentieri, e parlava con fastidio di «quel paesaccio», e irrideva i disegnatori di repubbliche e federazioni, perché (mi diceva), in questo caso, «voi napoletani avreste per presidente il duca di San Donato»9. Esagerazioni e ingiustizie senza dubbio, mosse da malumore e che a troppe cose non avevano riguardo, ma che giova riferire affinché valgano (o forse è vana la speranza?) di remora ai buoni miei concittadini a non rendere troppo travagliata e penosa, coi loro dissidi e litigi, col loro molto dire e poco fare, con le loro accensioni di fantasia, e sopra-tutto col terribile loro chiacchierare e oratorizzare, la vita di coloro che prendono cura delle loro pubbliche faccende. Conosco qualche degna persona, già amministratore del comune, che ha

R. DE CESARE, La fine di un regno, cit., vol. II, p. 282. Un bonario e assai popolare uomo politico napoletano di quarant’anni fa.

per istituto di non passar mai piú dinanzi alla porta di palazzo San Giacomo, la cui sola vista le dà un tremito nervoso; e conosco qualche altro che, saggiata la baraonda, se n’è ritirato in gran fretta, sentendo impari a resistervi, non tanto le sue forze spirituali, quanto addirittura quelle fisiche. Sono cose a cui essi, i napoletani, si lasciano andare leggermente, allegramente, senza troppo pensarvi, e che considerano bazzecole; ma che poi (come si suol dire e si vede dai giudizi riferiti piú sopra) “passano alla storia”, e in guisa tale da non accrescere reputazione e prestigio al loro paese. IV. […] Ma se le contradizioni logiche e i contrasti con la realtà dei fatti forniscono indizi dell’errore che s’è commesso nella teoria, questo errore bisogna poi confutare in sé stesso, nella sua scaturigine; ed esso propriamente consiste, come s’è detto, nell’avere sostituito alla storia degli uomini la storia della natura, e anzi alla storia sempre in moto la costanza o immobilità della natura, quale viene concepita negli schemi dei

naturalisti. La storia (per adottare l’incondito gergo dei positivisti e sociologi, al quale, per un momento solo, discendo) non è già un “fenomeno naturale”, ma un “fenomeno morale”, e non si spiega mercé una causa unica, quale che questa sia, e neppure mercé una molteplicità di cause, ma solo con ragioni interne, come sforzo spirituale: sforzo che urta in ostacoli e li supera e se ne fa sgabello, e ne è talora come sopraffatto e si risolleva per superarli daccapo. Clima, ubertosità o avarizia di terreno, salubrità o insalubrità, posizione geografica, disposizioni etniche, strade e mancanza di strade, spostamenti di linee commerciali, e simili, sono tutte cose importanti, se considerate come condizioni o materia o strumenti tra cui e su cui e con cui si travaglia lo sforzo spirituale, che deve formare sempre il punto centrale della considerazione; ma tutte prive d’importanza prese per sé, fuori del centro, inerti e incapaci di condurre ad alcuna conclusione. Ciascuna di esse, infatti, può (e questa è cosa nota) diventare,

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56 secondo i casi, forza o debolezza; la povertà ingenerare vigore e ardimento o per contrario sfiducia e abbattimento, la ricchezza corruttela o migliore sanità; il medesimo clima (come diceva Hegel) accogliere indifferente le opere degli elleni e l’ozio dei turchi. E, come sforzo spirituale, sia pure modesto, sia pure sovente fallito, io ho procurato di svolgere nelle pagine precedenti la storia dell’Italia meridionale, poco contento di certa maniera che ora si va facendo usuale nel raccontarla, per cui si dipinge ogni cosa con un solo e poco storico colore, s’infilzano aneddoti di sciagure e di orrori, e si ripete, con rintocco di lugubre campana, che causa di tutto fu la povertà del paese. E sebbene il racconto che io mi son provato a darne non s’intessa d’imprese grandiose e di gloriose conquiste, esso è certamente assai meno monotono, assai piú ricco e vario che non quelli che ora hanno corso, e, sopratutto, per quel che mi vuol sembrare, è riuscito alquanto piú umano. V. La storia, condotta secondo quel preconcetto natura-

listico, non solo si dimostra nel fatto assai vacua, ma porta logicamente al piú completo e quietistico pessimismo pratico; perché che cosa farci, se il clima è quello, la terra è quella, la razza è quella? Vero è che a tale conseguenza si guardano a tutto potere dal giungere i suoi italiani scrittori, quantunque vi giungesse, e l’oltrepassasse, un loro scolaro tedesco, il quale, nell’occasione del terremoto di Messina e Reggio, fondandosi sulle loro teorie, manifestò l’avviso (in un articolo, se ben ricordo, della «Frankfurter Zeitung»), che sarebbe grande fortuna per l’Italia se tutta quella parte di essa che va da Roma in giú, discendesse, una volta per sempre, nell’abisso del mare. I pubblicisti italiani, con contradizione che se fa torto alla loro coerenza critica non fa torto al loro animo, studiano invece i mezzi di mutare e correggere ciò che avevano dichiarato naturale e immutabile, e propongono a tal uopo svariati rimedi, riforme tributarie che alleggeriscano i pesi sotto i quali l’agricoltura meridionale piega oppressa, rimboschimenti, ac-

quedotti e altri lavori pubblici, ritocchi di tariffe commerciali, decentramenti amministrativi, modificazioni alla legge comunale e provinciale; o assegnano all’Italia meridionale un ufficio da esercitare nel Mediterraneo, che rinnovi quello che essa tenne nei tempi normanno-svevi e, rimettendola in attivo scambio con l’Oriente, le dia o ridia ricchezza e prosperità. Tutte cose che saranno, e anzi sono certamente, buone, e che giova volere e attuare, quelle che dipendono dalla nostra volontà, e desiderare e sperare, quelle che dipendono dagli Dei. Ma neppure con tale felice colpa di contradizione si raddrizza veramente il problema pratico, malamente rovesciato; perché tutte quelle belle cose si potranno ottenere, e la storia tornare o continuare miserabile; perché si può essere ricchi naturalmente e poveri spiritualmente; perché, in breve, che cosa mai vale possedere a proprio uso tutti i beni del mondo, si anima vero nostra detrimentum sui faciat? Come la storia, dunque, è azione spirituale cosí ogni problema pratico e politico è pro-

blema spirituale e morale; e in questo campo va posto e trattato, e via via, nel modo che si può, risoluto; e qui non hanno luogo specifici di veruna sorta. Qui l’opera è degli educatori, sotto il quale nome non bisogna pensare ai maestri di scuola e agli altri pedagoghi, o non a essi soli, ma a tutti, in quanto tutti siamo e dobbiamo e possiamo essere effettivi educatori, ciascuno nella propria cerchia e ciascuno in prima verso sé stesso. Opera collettiva, di fronte alla quale il singolo sente i suoi limiti e la sua umiltà, sente la necessità di sostegno e soccorso, e – come dire? – l’anima gli si dispone spontaneamente alla preghiera: a quella preghiera che è atto di amore e di dolore, di speranza e di attesa, non particolare di alcuna religione, intrinseco all’universale religiosità umana. Ma, insieme col limite, il singolo avverte anche la propria potenza e la propria responsabilità, e il dovere di far sempre, di fare senza indugio quel che gli spetta fare, farlo con molti o con pochi compa- Saggi pag. 28 gni o affatto solo, farlo pel presente o farlo per l’avvenire. Che

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58 cosa importa che gli altri non seguano o non seguano subito; che cosa importa che gli altri sragionino o folleggino, e, concependo bassamente la vita, in simil modo la vivano? Teniamo a mente la sarcastica risposta di re Carlo d’Angiò a quei «buoni uomini di Napoli», che gli vennero incontro a implorare misericordia per la rivolta della città, dicendo che era stata opera dei folli. «E che cosa facevano i savi?» interrogò quel severo sovrano10. Ai savi, e piú particolarmente a coloro che attendono all’opera degli studi, ad essi solamente ardisco di parlare, perché la mia «pratica» (come diceva il

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Vico) si aggira non altrove che «dentro le accademie», nei circoli della scienza, della critica e della cultura. Ricercando la tradizione politica nell’Italia meridionale, ho trovato che la sola di cui essa possa trarre intero vanto è appunto quella che mette capo agli uomini di dottrina e di pensiero, i quali compierono quanto di bene si fece in questo Paese, all’anima di questo Paese, quanto gli conferí decoro e nobiltà, quanto gli preparò e gli schiuse un migliore avvenire, e l’uní all’Italia. Benedetta sia sempre la loro memoria e si rinnovi perpetua in noi l’efficacia del loro esempio!

G. VILLANI, Cronaca, libro VII, p. 94.

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La storia del Risorgimento italiano è la storia delle esperienze, attraverso cui le classi dirigenti italiane nel secolo XIX giunsero ad organizzare il regime unitario, monarchico e costituzionale. X. IL PROBLEMA AMMINISTRATIVO

Il problema piú vitale da risolvere, fra il 1860 e il 1870 in aggiunta a quello dell’unificazione nazionale, era quello dell’ordinamento amministrativo, di cui l’Italia unificata doveva essere provvista. Fra il 1849 e il 1860, i gruppi nazionali italiani si dividevano, su questo terreno, in tre scuole fondamentali: moderati federalisti, democratici centralisti e democratici federalisti.

I moderati federalisti volevano che i vecchi governi regionali si confederassero per la comune difesa contro ogni minaccia straniera, ma conservassero le loro dinastie, le loro capitali, i loro ordinamenti locali. Inoltre, gli ordinamenti amministrativi interni dei singoli governi regionali dovevano trasformarsi, con l’introduzione del regime rappresentativo, non solo nei governi regionali ma anche nelle amministrazioni comunali. Cioè queste dovevano godere di una larga autonomia dalle burocrazie governative regionali, che dovevano trattare solamente gli affari d’interesse regionale. I governi delle amministrazioni, tanto locali, quanto regionali, e il governo federale, dovevano essere eletti e manovrati

* GAETANO SALVEMINI, Il Risorgimento italiano, in Scritti sul Risorgimento, a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 393-439. Pubblicato per la prima volta con il titolo L’Italia politica nel secolo XIX nella collezione L’Europa nel secolo XIX dell’Istituto superiore di perfezionamento per gli studi politico-sociali e commerciali in Brescia (A. MILANI, Padova 1925, pp. 323-401).

G. Salvemini

Gaetano Salvemini Il Risorgimento italiano*

60 dalle classi proprietarie: i moderati non ammettevano il suffragio universale. Insomma i moderati erano censitari nel problema elettorale; monarchici e costituzionali nel problema istituzionale; autonomisti per le amministrazioni comunali e regionali; federalisti nel problema nazionale. I democratici centralisti, educati dall’insegnamento di Mazzini, volevano, in opposizione ai moderati, non solamente l’unità politica nel problema nazionale, non solo la repubblica nel problema istituzionale, ma anche l’accentramento nel problema amministrativo, e il suffragio universale nel problema elettorale. Il nuovo ordinamento amministrativo dell’Italia, Mazzini se lo immaginava creato da una Costituente centrale rivoluzionaria: cioè il “popolo” creata la repubblica, avrebbe eletto a suffragio universale una Costituente, che si sarebbe riunita a Roma; e la Costituente avrebbe organizzato ex novo l’ordinamento amministrativo nazionale, come aveva fatto la Costituente francese nel 1789. Mazzini voleva, è

vero, che la Costituente lasciasse una larga autonomia ai comuni; arrivò anche ad ammettere, dopo il 1860, che la Costituente organizzasse, fra i comuni e il governo nazionale, un sistema di amministrazioni regionali; ma tanto le amministrazioni comunali, quanto le amministrazioni regionali le pensava sempre create da un atto di volontà del governo centrale e dovevano essere organi locali del governo centrale. Mazzini voleva, per esempio, che nessun comune avesse una popolazione inferiore ai 10. 000 abitanti: cioè il governo centrale doveva costringere i comuni minori a raggrupparsi in circoscrizioni piú larghe: sistema che specialmente nelle zone rurali e montuose, avrebbe fatto sparire migliaia di piccoli comuni. I democratici federalisti, seguaci di Carlo Cattaneo, accettavano la repubblica e il suffragio universale; ma rifiutavano l’accentramento amministrativo e rivendicavano le autonomie regionali e comunali. Cattaneo non riusciva a concepire una costituente mazziniana, che facesse tabula rasa di

tutto il passato e si mettesse a costruire, per mezzo di nuove leggi, un nuovo mondo. Le istituzioni – pensava Cattaneo, e in questo era d’accordo coi moderati – sono state create, nei secoli, dall’esperienza delle popolazioni, a cui debbono servire; e sono continuamente trasformate via via che mutano i bisogni e la volontà degli interessati. I governi locali italiani erano il prodotto di una lunga evoluzione storica. Non erano stati creati a priori da nessuna costituente; non potevano essere cancellati a priori da nessuna costituente. Oggi – diceva Cattaneo prima del 1860 – i cittadini delle diverse sezioni, in cui è divisa politicamente la penisola, sentono la necessità di riforme amministrative di tipo rappresentativo ed autonomista, e sentono la necessità di una permanente e sicura coesione nazionale. Cerchiamo di soddisfare queste aspirazioni. Ma fra queste aspirazioni non c’è quella di distruggere tutti i vecchi governi locali, per creare un unico governo centrale. Il federalismo soddisfa pienamente il bisogno della solidarietà nazio-

nale. Federalismo viene da foedus, trattato d’unione. Patto federale non è volontà d’isolamento e di separazione, è promessa di solidarietà. La Svizzera e gli Stati Uniti sono paesi ad amministrazione federale con coscienza nazionale unitaria. Per soddisfare in Italia il bisogno di una piú salda coesione nazionale, non è necessario porre tutta la nazione sotto la sovranità di un governo centrale, il quale pensi per tutti, faccia la legge per tutti, sostituisca la propria coscienza ed onnipotenza alla volontà e all’esperienza di tutti. Cattaneo negava che un parlamento unico potesse trovare il tempo per discutere tutta la catasta degli affari, che l’accentramento legislativo avrebbe sottratto ai consigli locali, per incanalarla verso la capitale, sede unica dell’autorità. In questa difesa delle autonomie locali Cattaneo, contrapponendosi diametralmente a Mazzini, sembrava avvicinarsi ai moderati federalisti. Ma le autonomie locali dei moderati avevano per base il siste- Saggi pag. 19 ma elettorale censitario, e sarebbero state dominate dalle

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62 classi proprietarie. Invece le autonomie locali di Cattaneo avrebbero dovuto essere amministrate da tutte le classi sociali, partecipi al governo con diritti uguali, mediante il suffragio universale. Insomma i democratici-autonomisti, seguaci di Cattaneo, prima del ’60 si accordavano coi mazziniani sul problema istituzionale e sul problema elettorale; ma si accordavano coi moderati sul problema amministrativo. Fra il federalismo censitario dei moderati, il centralismo democratico di Mazzini, e il federalismo democratico di Cattaneo, il federalismo censitario dei moderati sembrava nel 1859 destinato a trionfare. Il programma cavouriano nel 1859 era quello di una federazione di monarchie costituzionali, nelle quali i singoli governi regionali dovevano essere controllati dalle classi proprietarie, attraverso leggi elettorali, analoghe alla legge piemontese del 1848, la quale dava il diritto di voto a quei soli cittadini che pagassero non meno di 40 lire d’imposte dirette.

Ad un tratto, nel 1859 e 1860, si ebbe la fuga del granduca dalla Toscana e la fuga dei duchi da Parma e da Modena, la rivoluzione antipontificia delle Romagne, la spedizione di Garibaldi nel Napoletano e l’occupazione delle Marche e dell’Umbria per opera delle truppe sabaude. L’unità politica apparve allora una necessità. Vennero meno le vecchie discussioni fra federalisti e unitari: i moderati diventarono anch’essi unitari. Ma le discussioni fra accentratori e autonomisti nelle amministrazioni locali, che erano rimaste accantonate finché l’unità politica era stata la fede dei soli mazziniani, passarono subito in prima linea col trionfo delle idee unitarie. Problema immediato e vitale della politica interna diventò quello dell’ordinamento amministrativo da dare all’Italia politicamente unificata. Nel risolvere questo problema, i gruppi nazionali dovevano tener conto non solamente delle loro preferenze teoriche, ma anche delle condizioni pratiche in cui dovevano operare.

La fondamentale di queste era che i gruppi nazionali, scacciate tutte le vecchie dinastie, meno la sabauda, sfasciate tutte le vecchie burocrazie regionali, meno la piemontese, sentivano di essere, nel Paese e specialmente nell’Italia meridionale, una minoranza. Questo fatto urta con la figurazione tradizionale, che noi ci facciamo del Risorgimento, quando leggiamo che «il popolo italiano» ardeva di amor patrio, che «tutta l’Italia [...] sorse in piedi» e cosí di seguito. La realtà fu ben diversa. E se non ci rendiamo conto esatto di quella realtà, non riusciremo mai a comprendere la storia italiana della seconda metà del secolo XIX. La realtà era che la grande maggioranza della popolazione italiana – cioè i contadini – era assente dalla vita pubblica; e se avesse dovuto manifestare un’opinione, questa opinione sarebbe stata favorevole agli antichi regimi; e nel Mezzogiorno, fra il 1860 e il 1870, questa ostilità assumeva la forma attiva del brigantaggio. Quanto alle popolazioni cittadine, che partecipavano alla vita pubbli-

ca, ma che formavano la minoranza della nazione esse si dividevano in tre gruppi fondamentali: 1) i legittimisti, che rimpiangevano gli antichi regimi; 2) i gruppi nazionali moderati monarchici; 3) i gruppi nazionali democratici ad accentuazioni piú o meno repubblicane. Ciò posto, un’amministrazione a base di autonomie locali e di suffragio universale, come l’avrebbero voluta gli autonomisti democratici alla Cattaneo, avrebbe prodotto lo sfacelo, a breve scadenza, del regime nazionale. La grande maggioranza dei contadini, abbandonata a sé nelle amministrazioni locali autonome, a base di suffragio universale, avrebbe data, in poco tempo, la prevalenza alle forze legittimiste. Perciò i moderati rigettavano la teoria autonomista e democratica di Cattaneo. Questi rimase quasi del tutto isolato; individualità forte e fulgida, ma circondata dal deserto. Neanche la soluzione mazziniana del centralismo democratico poteva avere fortuna.

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64 Gli elementi essenziali di essa erano l’unico parlamento centrale e le elezioni a suffragio universale. Queste avrebbero fatto eleggere il parlamento centrale dai contadini. I contadini, per la stessa grande maggioranza dei democratici, erano un pericolo. Perciò i democratici ripetevano nei loro programmi la formula del suffragio universale, ma non mettevano nessuna passione per ottenere che questa formula fosse attuata. La ripetevano per tradizione; ma senza convinzione e senza slancio. XI. L’ACCENTRAMENTO Eliminato dalle soluzioni accettabili tanto il federalismo democratico di Cattaneo, quanto il centralismo democratico di Mazzini, rimaneva il federalismo censitario della scuola moderata. Invece, dopo la spedizione di Garibaldi nel Napoletano, i moderati abbandonano rapidamente le idee federaliste e adottano le idee centraliste. Come si spiega questo fatto? Si spiega, quando si consideri che nell’Italia settentrionale e centrale esisteva una relati-

vamente florida borghesia manifatturiera, commerciale, agraria, intellettuale, e formava il grosso del partito moderato, ed era perfettamente capace di governare da sé gli enti locali, in quel sistema di autonomie censitarie, che era l’ideale del partito moderato. Invece nell’Italia meridionale i nuclei di borghesia fondiaria e di piccola borghesia, prevalentemente intellettuale, che formavano il grosso del partito nazionale, si sentivano impotenti a tenere il Paese con le loro sole forze, anche in un regime censitario. Quei nuclei, si dividevano in moderati e democratici, e i moderati dovevano mantenersi al potere contro i gruppi borbonici, ai quali aderivano larghe zone della proprietà fondiaria, e contro i gruppi democratici, ai quali aderiva buona parte della borghesia intellettuale, mentre il clero rimaneva quasi tutto fedele al partito borbonico, e mentre i contadini sfuggivano alla leva e si davano al brigantaggio. Gli antichi funzionari dovevano essere sostituiti con elementi nuovi, oppure essere assorbiti in una nuova gerarchia ammini-

Antologia 65 zione accentrata era, dunque, una necessità assoluta, se non si voleva mandare in isfacelo l’unità nazionale d’Italia, attraverso l’anarchia amministrativa dell’Italia meridionale. Cosí si spiega come le idee centraliste si siano diffuse nel partito moderato immediatamente dopo la spedizione di Garibaldi, cioè dopo l’unione politica del Mezzogiorno al Nord e al Centro d’Italia. L’unità nazionale portò come conseguenza l’accentramento amministrativo. I piú tenaci centralisti furono sempre in Italia i liberali meridionali. Essi non riuscivano a concepire sotto altra forma l’unità nazionale.

Gaetano Salvemini La rivoluzione del ricco* I. IL RISORGIMENTO

ITA-

LIANO FU UNA RIVOLUZIONE?

Il linguaggio storico e politico, attraversando tempi ed

ambienti culturali diversi, s’è caricato con termini plurivalenti, i quali debbono essere definiti, se non si vuol perdere

* GAETANO SALVEMINI, La rivoluzione del ricco, in Scritti sul Risorgimento, cit., pp. 457-471. Pubblicato per la prima volta in «Il Ponte» nel gennaio del 1952 col titolo Fu l’Italia prefascista una democrazia?

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strativa. Ma per nessuna di queste due soluzioni i gruppi moderati del Mezzogiorno potevano offrire un personale sufficiente, né per numero né per capacità. In queste condizioni, la minoranza nazionale nel Mezzogiorno poteva mantenersi al potere solamente se un aiuto esterno fosse intervenuto a rafforzarla. Questo aiuto poteva venire soltanto da una gerarchia di funzionari, indipendenti dalle popolazioni locali, mandati dal Nord ad inquadrare, disciplinare, dominare quelle popolazioni, e assicurare su di esse il governo della minoranza nazionale moderata. Un’amministra-

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tempo discutendo su equivoci. E ci s’intriga in equivoci, quando si afferma che il Risorgimento italiano fu una rivoluzione, anzi una rivoluzione tradita. La parola “rivoluzione” può essere usata a designare: a) un movimento illegale, violento e rapido, che distrugge un regime sociale e politico: esempi, la Rivoluzione francese del 1789-1792, le rivoluzioni (su scala assai ridotta) di Parigi del 1830 e 1848, la Rivoluzione russa del 1917; b) il rinnovamento profondo di una situazione tradizionale, il quale può avvenire anche senza rapidi movimenti illegali e per evoluzione graduale; come quando diciamo che Nicolò da Cusa produsse una rivoluzione nelle dottrine astronomiche dell’antichità classica e del medioevo, e Colombo nelle dottrine geografiche, e Galileo nel metodo della ricerca scientifica; oppure che ci fu una rivoluzione industriale in Inghilterra nel secolo XVIII. Fissati quei due significati del termine, è chiaro che se lo adoperiamo nel significato a)

il Risorgimento italiano non fu affatto una rivoluzione. [...] Nel 1859, in Lombardia non vi fu rivoluzione; vi fu un dilatarsi dell’amministrazione piemontese in seguito a una vittoria militare riportata in guerra regolare. In quell’anno per i ducati di Parma e di Modena, per le legazioni, e per il granducato di Toscana, si parla di rivoluzioni. Il fatto è che i vecchi sovrani se la svignarono, non appena perdettero la protezione delle forze militari austriache; gruppi di “notabili” occuparono il vuoto lasciato dai fuggiaschi, e trasmisero i poteri ad un altro sovrano. Nulla vieta di dare ad avvenimenti di questo genere il nome di rivoluzioni. Basta intendersi che non si tratta di fatti analoghi né alle Cinque Giornate di Milano, né alle rivoluzioni di Parigi del 1830 o del 1848, e meno che mai alla rivoluzione francese del 1789-1792 o alla rivoluzione russa del 1917. È assai discutibile se la spedizione dei Mille sia stata una rivoluzione. La partenza dei Mille da Quarto avvenne, in larga misura, colla connivenza del-

le superiori autorità; e questo non è il caso delle rivoluzioni autentiche. Comunque un’incursione armata non è rivoluzione. È vero che nelle intenzioni di Mazzini e di parecchi fra i consiglieri e seguaci di Garibaldi, la spedizione, pur non essendo rivoluzionaria in partenza, era destinata a diventare tale in arrivo con un assalto su Roma. Inoltre la spedizione di Garibaldi fu preceduta e accompagnata in Sicilia e nel Napoletano da rivolte rurali, che sfasciarono la macchina civile e militare borbonica, e facilitarono l’impresa garibaldina. Queste rivolte rurali si possono definire “rivoluzionarie”, anzi si potrebbero definire un tentativo di rivoluzione sociale, e si potrebbe anche dire che prima i Mille e poi l’intervento sabaudo “tradirono” quel tentativo di rivoluzione sociale. Ma sta il fatto che né Garibaldi né i suoi pensarono mai di promuovere e promettere una rivoluzione sociale. Essi videro in quelle jacqueries niente altro che deplorevoli tentativi di disordine, da essere soppressi. E Bixio nel sopprimerli non scherzò. E nes-

suno pensò mai che quelle rivolte rurali senza idee fossero state una “rivoluzione” o un ten- Saggi pag. 16 tativo di rivoluzione. E quando la burocrazia militare e civile del “sopraggiunto re” mise la briglia alle moltitudini rurali, nessuno pensò che una rivoluzione fosse stata “tradita”. La rivoluzione, di cui si disse che era stata tradita dalla “conquista regia”, era quella spedizione su Roma, che Mazzini desiderava e a cui Garibaldi rinunziò. Anche se si vuole, anzi soprattutto se si vuole considerare la spedizione dei Mille come una rivoluzione, bisogna riconoscere che quella rivoluzione fu niente altro che un cambiamento di dinastia, prodotto da un urto estraneo su un edificio inetto a stare in piedi. Sempre nel 1860, nelle Marche e nell’Umbria, e poi nel 1866 nel Veneto, e, poi nel 1870 nel Lazio e in Roma, vi fu un dilatarsi dell’amministrazione sabauda in seguito ad operazioni militari dell’esercito regio: nessuna rivoluzione. Nel 1866, uno dei maggiori storici italiani di allora, Pasquale Villari, scrisse: «Se noi

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68 avessimo fatto una vera e propria rivoluzione colle forze del paese, in mezzo ad una lotta lunga e sanguinosa, sarebbe scomparsa una generazione e ne sarebbe nata un’altra, giovane, nuova, agguerrita, capace di governare il nuovo paese. Ma i governi passati crollarono quasi senza essere toccati, e la lotta contro l’Austria fu

vinta con l’aiuto della Francia. Un bel giorno noi eravamo liberi e uniti, dopo lotte che, in proporzione del grande risultato, si potevano dire di puro ornamento. E l’Italia nuova si trovò formata dagli elementi stessi, di cui era composta l’Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversi» 1.

Gaetano Salvemini La questione meridionale* I. LE TRE MALATTIE Chi si occupa delle tristi condizioni economiche, morali, intellettuali dell’Italia meridionale e del modo di migliorarle, è portato facilmente a commettere gravi errori, se non tiene sempre davanti a sé l’idea che il problema meridio-

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nale è triplice. L’Italia meridionale soffre di tre malattie, le quali, pur intrecciandosi e inacerbendosi reciprocamente, hanno origini e caratteri nettamente distinti, e vanno quindi accuratamente separate tanto nella diagnosi quanto nella prognosi.

Saggi di storia, critica e politica, Firenze 1868, p. 385. * GAETANO SALVEMINI, La questione meridionale, in Movimento socialista e questione meridionale, a cura di Gaetano Arfé, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 7179. Pubblicato per la prima volta in «Educazione Politica», in cinque puntate, 25 dicembre 1898, 10 e 28 gennaio, 26 febbraio, 14 marzo 1899.

La prima malattia non è un privilegio del solo Meridione, ma è comune a tutta l’Italia; in questo, almeno in questo, tutti gl’italiani sono davvero fratelli. È la malattia dello Stato accentratore, divoratore, distruttore; dello Stato che spende i nove decimi delle sue entrate per pagare gl’interessi dei suoi debiti e mantenere gl’impegni derivanti da una politica estera dissennata; dello Stato in cui il potere esecutivo, per avere le mani libere nel dirigere la politica estera e la politica militare senza il controllo incomodo del potere legislativo, è obbligato ad appoggiarsi su maggioranze parlamentari corrotte e fittizie, rappresentanti solo una parte minima della popolazione, le quali mercanteggiano di giorno in giorno la loro adesione alla politica antistatutaria, e ottengono in cambio i dazi sul grano, le tariffe protettrici, i premi alla marina mercantile, l’immunità per i delitti bancari, ecc.; è la malattia dello Stato, il quale, divenuto mancipio di un pugno di affaristi e di parassiti, deve opprimere con un sistema tributario selvaggio tutte quelle

classi, che non prendon parte al mercimonio fra potere esecutivo e maggioranze parlamentari; ed è quindi obbligato a ricorrere ogni giorno alle repressioni sanguinose per difendersi Saggi pag. 21 dal malcontento, che lo investe da ogni parte; e cerca nelle conquiste coloniali una diversione alle difficoltà interne e un espediente per rifarsi di fronte ai sudditi per mezzo di vittorie, che... si lasciano desiderare, quel prestigio, che va fatalmente logorandosi nelle repressioni. Quale sia la causa di questa malattia, ahimè, non si può dire; è una causa “occulta”. I giornali repubblicani pretendono di conoscerla, ma sono malintenzionati e hanno torto; tant’è vero, che quando ne parlano, vengono immancabilmente sequestrati. La seconda malattia è l’oppressione economica, in cui l’Italia meridionale è tenuta dall’Italia settentrionale. La spedizione garibaldina fu per la maggioranza dei benpensanti settentrionali un atto di conquista vera e propria. Il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entrarono a far

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70 parte dell’Italia una; e l’unità del bilancio nazionale ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gl’interessi dei debiti fatti dai settentrionali prima dell’unità e fatti quasi tutti per iscopi che coll’unità nulla avevano da fare [...]. Le due malattie, finora da noi fuggevolmente descritte, sono di origine recente; cominciano appena nel ’60. La terza invece è antichissima ed è tutta speciale del Mezzogiorno. È la struttura sociale semifeudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un anacronismo; che mantiene il latifondo con tutte le sue disastrose conseguenze economiche, morali, politiche; che impedisce la formazione di una borghesia con idee e intendimenti moderni; che permette solo l’esistenza di una nobiltà fondiaria ingorda, violenta, prepotente, absenteista; di una piccola borghesia affamata, desiderosa d’imitare le classi superiori, assillata dai nuovi bisogni sviluppantisi col progredire della civiltà, spinta al mal fare dalla necessità di guadagnarsi il pane in un paese dove la ricchezza

confluisce nelle mani di pochi; e finalmente di un enorme proletariato, oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza se non nella forma [...]. II. SI PUÒ RIMEDIARE? Alle tre malattie, che abbiamo fuggevolmente descritto, ossia la malattia dello Stato accentratore, l’oppressione economica in cui l’Italia meridionale è tenuta dall’Italia settentrionale, e infine la struttura sociale semifeudale, è possibile recare un rimedio? [...] In generale gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la metton mai o rispondono subito con una parola bisillaba: lo Stato! Quando han cosí risposto, credono di aver accomodato tutto; e buttan fuori delle eloquenti concioni sul dovere, che ha lo Stato di rendere finalmente giustizia a quelle popolazioni nobili, patriottiche, ecc. E lo Stato fa il sordo. E gli studiosi continuano nelle loro concioni eloquentissime. Lo Stato italiano attuale non farà mai nulla, come non

ha fatto finora mai nulla. Continuare a dare dei consigli allo Stato è fatica sprecata, perché lo Stato non può ascoltarli. Questa affermazione non può essere da noi dimostrata, perché la dimostrazione ci procurerebbe un sequestro; ma è inutile darla: o i lettori sanno quel che vorremmo dire, e allora è inutile dirlo; o i lettori, dopo l’esperienza del passato, credono ancora possibile che lo Stato faccia qualcosa, e in questo caso noi non abbiamo tanta presunzione da sperare che le nostre parole possano avere piú forza di quarant’anni di storia per convincerli che hanno torto a sperare; quand’anche altri quarant’anni passassero simili a quelli che sono già entrati nel dominio della storia, è certo che questa buona gente continuerà sempre a sperare e parlare di Stato etico, di doveri dello Stato, di democrazia e di altre simili cose allegre; lasciamola sperare e... parlare. Eliminata la possibilità che lo Stato, com’è oggi costituito, si occupi del problema meridionale con l’intenzione di risolverlo, non resta che o dichiarare

insolubile il problema, oppure invocare la formazione di uno Stato nuovo, che faccia quello che l’attuale non può fare. O riforme o rivoluzione, ha detto il manifesto del gruppo parlamentare repubblicano. Bene! Ma la rivoluzione chi la farà? L’antitesi, di cui tanto si dilettano i piú dei repubblicani, fra riforme e rivoluzione non ha senso comune. È come l’antitesi, di cui si dilettano molti socialisti, fra evoluzione e rivoluzione. La rivoluzione non è che uno dei casi dell’evoluzione, e non sa quel che si dice chi si dichiara evoluzionista rinunziando all’ipotesi di far uso di mezzi rivoluzionari. Allo stesso modo la rivoluzione sta nelle riforme come la specie sta al genere; essa non è che una riforma accompagnata per necessità di cose dalla violenza, che distrugge uno Stato incapace a dar le riforme necessarie e ne crea un altro incaricato appunto di questa missione. Ciò posto, è evidente che la questione non istà nel decidere se le riforme le farà lo Stato presente, oppure se le farà un altro Stato sostituitosi al presente dopo un

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72 moto rivoluzionario piú o meno violento. Sta piuttosto nel sapere se esista nell’Italia meridionale una forza capace di attuare – con o senza violenza, poco importa – le riforme da tutti ritenute necessarie. Datemi un punto d’appoggio, diceva Archimede, e vi solleverò il mondo; ma il punto d’appoggio non lo trovò mai e il mondo se ne rimase tranquillo al suo posto. C’è nell’Italia meridionale un punto d’appoggio, su cui si possa far leva per sollevare il mondo sociale? O, in altre parole, c’è nell’Italia meridionale un partito riformista? e se non c’è, è possibile che sorga? e quali sono le persone che lo comporranno? Ecco il problema che a noi sembra fondamentale per l’avvenire del Mezzogiorno d’Italia; tutte le altre questioni sono, di fronte a questa, secondarie [...]. V. IL PROLETARIATO Non saranno dunque né i latifondisti né i piccoli borghesi quelli da cui partirà il movimento di riforma. Il punto d’appoggio bisogna cercarlo altrove. E quest’altrove sta nel proletariato rurale.

Che questa sia la classe, la quale piú di tutte ha bisogno delle riforme, e da esse, quando fossero fatte, ricaverebbe maggiori e piú immediati vantaggi, è verità da tutti accettata. Il latifondismo ha in essa le sue vittime. La massima parte delle tasse comunali, su cui tanti piccoli borghesi vivono parassitariamente, è pagata da essa. Su di essa per ripercussione cadono tutte le conseguenze delle ladrerie politiche e amministrative, il cui tessuto costituisce la storia della terza Italia. Numericamente questa classe è, nell’Italia meridionale, enorme maggioranza. Vivendo poi raccolta e pigiata in grosse borgate e città, è facilmente organizzabile e potrebbe senza fatica riuscire a rendersi conto della propria forza e dei propri diritti. Sventuratamente i contadini meridionali, abbandonati a sé stessi, non possono far nulla. Ad essi manca la cultura necessaria per costituire un partito indipendente; manca specialmente l’esempio del proletariato industriale, che nel

Settentrione è cosí suggestivo per le plebi delle campagne. I contadini meridionali hanno bisogno di essere illuminati e guidati. Ma non hanno intorno a sé chi possa illuminarli e guidarli [...]. Dunque, i contadini meridionali la guida e la luce non possono trovarla nel loro paese. Ad essi bisogna che ci pensino, e che ci pensino seriamente, i riformisti settentrionali [...]. I socialisti settentrionali dovrebbero considerare i contadini meridionali come fratelli minori bisognosi di tutte le loro cure. E questo non per ragioni sentimentali, ma perché è nel loro interesse. Finché nell’Italia meridionale la legalità sarà nelle mani dei latifondisti e della piccola borghesia, qualunque riforma sarà impossibile in tutta Italia; solo la forza dei contadini potrà rompere la forza degli altri; ma finché i contadini saranno dai settentrionali disprezzati e abbandonati a sé

stessi, non potranno mai far nulla, oppure si lasceranno sfruttare politicamente dagl’imbroglioni, mentre sono sfruttati economicamente dai padroni. Negli altri paesi il proletariato industriale ha capito che non può far nulla senza l’aiuto del proletariato rurale; e il partito socialista lavora ovunque per conquistarlo. In Italia la differenza fra proletariato rurale è anche, sotto parecchi riguardi, differenza fra proletariato settentrionale e meridionale. Bisogna che il primo si ricordi che non potrà far mai nulla senza dell’altro. In che modo il partito socialista settentrionale potrebbe e dovrebbe aiutare e sostenere i contadini meridionali, non si può dire in breve; né questo è il luogo, né siamo in tempi in cui sarebbe permesso parlare liberamente di siffatto argomento. Sarà forse per un’altra volta.

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Gaetano Salvemini La questione meridionale e il federalismo* III. Quali conseguenze pratiche ricava il Nitti dal suo studio [intitolato Nord e Sud, Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato in Italia, Torino 1900 (n.d.c.)]? Quali rimedi propone per questo stato di cose assolutamente intollerabile? Il Nitti è un unitario fanatico. «Tutti i progressi», egli dice (p. 5), «che si sono compiuti non sono che l’effetto dell’unità; l’unità politica ci ha dato tutte le cose migliori che noi abbiamo; la supremazia del potere civile, il risveglio della coscienza individuale [?], il desiderio di espansione che ora comincia a essere in tutta la nazione e che sarà la nostra fortuna. L’Italia, se qualche cosa dev’essere nel mondo, non può

essere che unitaria». E badate che il Nitti per “unità” intende non solo l’unità politica nazionale, senza la quale è in realtà inconcepibile la nostra esistenza, ma anche l’unità amministrativa burocratica. Il Nitti non sa concepire l’Italia se non con un unico Parlamento, un unico potere centrale, un’unica amministrazione interna; un’ Italia, la quale abbia un Parlamento e un potere centrali, incaricati di trattare solo degli affari generalissimi e di rappresentare di fronte agli stati l’unità nazionale, e, accanto al Parlamento e al potere centrale, abbia dei parlamenti e delle autorità regionali incaricati di amministrare gli affari regionali e del tutto autonomi in queste funzioni, e dei Consigli e autorità comunali del tutto autono-

* GAETANO SALVEMINI, La questione meridionale e il federalismo, in Movimento socialista e questione meridionale, cit., pp. 157-191. Pubblicato per la prima volta in «Critica Sociale», in cinque puntate, 16 luglio, 1 e 16 agosto, 1 e 16 settembre 1900.

mi per l’amministrazione comunale; un’Italia, in altre parole, federale, il Nitti non sa neanche lontanamente concepirla. È bensí vero che, in un punto del suo libro (p. 23), egli ammette che «nei paesi federali, come la Svizzera e la Germania, le spese si ripartiscono largamente»; e quest’affermazione in un libro il quale tratta appunto dell’ineguale e ingiusta ripartizione delle spese pubbliche tra le regioni italiane è per il lettore spregiudicato molto suggestiva. Ma il Nitti si guarda bene dallo sviluppare quest’idea: è una verità che gli è sfuggita dalla penna e alla quale egli non intende dare nessunissima importanza. L’Italia soprattutto dev’essere unitaria, non solo di unità politica, ma anche di unità amministrativa e burocratica; io «non voglio dire con ciò», egli ammette, «che la nostra desolante uniformità amministrativa sia sempre un bene; né voglio dire che la pesantezza del nostro meccanismo politico non possa essere eliminata» (p. 5). Ma anche questa è un’affermazione buttata lí per caso: appartiene al solito bagaglio di recri-

minazioni, che tutti gli scrittori e gli uomini politici unitari non mancano di lasciar cadere di tanto in tanto nei loro discorsi, guardandosi però bene dall’osservare e dal far osservare che unità amministrativa e burocratica vuol dire necessariamente desolante uniformità e pesantezza, e che è assurdo, puerile e in alcuni ciarlatanesco dichiararsi seguaci fanatici del principio e rifiutare le conseguenze [...]. Un’idea sulla quale il Nitti continuamente e giustamente insiste quasi in ogni pagina del lavoro è che le sperequazioni dannose al Sud sono solo in minima parte dovute all’opera volontaria degli uomini politici; esse sono una conseguenza necessaria e ineluttabile dell’unità – intesa sempre nel senso non solo politico (sulla quale non c’è discussione possibile) ma anche nel senso amministrativo e burocratico […]. In generale, per tutte le spese dello Stato, unica via a impedire gli spostamenti artificiali di ricchezza è che lo Stato faccia il minor numero di spese possibile. Lasciate ai Co- Saggi pag. 23

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76 muni e alle federazioni regionali di Comuni la cura della viabilità, delle acque, della giustizia, dell’istruzione, dell’ordine pubblico, delle finanze, di tutto ciò che non è politica estera, politica doganale, politica monetaria, di tutti gli affari insomma che non sono d’interesse davvero generale; lasciate alle regioni e ai Comuni tutti i loro denari; all’infuori di quelli che sono necessari al Governo centrale per compiere le sue funzioni d’interesse nazionale; e allora, solo allora le spese si ripartiranno egualmente, perché allora non si ripartiranno piú, ma ognuno si terrà i suoi quattrini e li spenderà sul luogo come meglio crederà. Finché vi sarà un potere centrale incaricato di distribuire strade, ponti, acquedotti, istituti d’istruzione, tribunali, reggimenti, ecc. – sia lo stato monarchico o repubblicano, sia la monarchia assoluta o rappresentativa, prevalgano i partiti reazionari o democratici – vi saranno sempre sperequazioni artificiali e ingiuste fra le parti dello Stato. Saranno sempre i paesi piú potenti che assorbiranno la ricchezza a loro van-

taggio e a danno dei piú deboli: nelle monarchie assolute saranno i paesi e le regioni, che saranno rappresentate a Corte da qualche duca o ministro o mantenuta, addentro nelle grazie del re; nelle monarchie rappresentative e nelle repubbliche unitarie saranno i paesi che eleggeranno i deputati piú influenti, piú intriganti, piú maneggioni. In ogni caso le regioni piú ricche e piú istruite si faranno valere piú delle regioni piú povere; nella stessa regione le grandi città tireranno a sé tutti i favori e resteranno dimenticate le oscure borgate rurali. Sarà sempre la guerra di tutti contro tutti per la conquista del bilancio nazionale; guerra, nella quale l’unità morale della nazione, la vera unità degna di essere difesa e curata e gelosamente custodita, sarà una pura menzogna e sarà sempre malsicura la stessa unità materiale. Sul tronco dell’unità amministrativa non può non nascere il regionalismo, non possono cioè mancare le contese grette e pettegole fra le regioni della stessa patria a base di dare e avere, di stradicciuole concesse, di preture negate, d’imposte

ineguali, di spese mal distribuite. Volete uccidere il regionalismo? uccidete il tronco, su cui il parassita vive, uccidete l’unità amministrativa. Il federalismo è l’unico antidoto del regionalismo. IV. Il federalismo è non solamente l’unico sistema amministrativo, che possa eliminare ogni artificiale squilibrio finanziario ed economico fra le singole regioni italiane, ma è anche l’unico mezzo adatto a fiaccare la reazione, alla quale l’Italia meridionale offre oggi la piú solida base [...]. Supponete ora che nell’Italia meridionale vi sia il suffragio universale; supponete che l’esercito, incaricato di difendere l’ordine pubblico nel Sud sia formato di contadini meridionali, anzi, che ogni contadino debba difendere l’ordine nello stesso paese in cui è elettore; supponete che gli interessi locali vengano discussi non a Roma in uffici che nessuno conosce, con criteri di cui nessuno sa nulla, ma vengano trattati nel Comune e nella regione interessata, e suscitino l’attenzione di tutti, e tutti sieno in-

vitati ad occuparsene per via del referendum; date insomma all’Italia meridionale una costituzione federale. E poi sappiatemi dire a che si ridurrà dopo qualche anno il potere politico dei latifondisti. Pochi di numero, ignoranti e disadatti a qualunque serio lavoro, absenteisti e sconosciuti da tutti i loro sottoposti, privi della stessa forza materiale – ultima difesa delle classi conservatrici – dovrebbero presto o trasformarsi o perire. Il proletariato si educherebbe ben presto all’amministrazione locale, spintovi dal suo interesse immediato; la piccola borghesia specialmente professionista, che oggi gravita intorno alla classe latifondista dispensatrice dei favori dell’onnipotente Governo centrale, assumerebbe immediatamente un atteggiamento autonomo; la ricchezza del Paese, non piú emigrante al Nord in forza dell’accentramento amministrativo, rimarrebbe nel Paese, vi provocherebbe le necessarie trasformazioni agricole e industriali; l’aumento generale del benessere renderebbe piú sana la vita politica, meno aspra e feroce la

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78 lotta per l’esistenza; in pochi anni il Mezzogiorno diventerebbe nella vita italiana un magnifico elemento di progresso […]. VI. Ma – sento dirmi dal mio amico diffidente delle autonomie locali – in questi quarant’anni il Governo è stato conservatore; con un Governo democratico le cose andrebbero altrimenti, perché i democratici non potrebbero non cambiar totalmente la politica interna italiana. Anche Filippo Turati è di questa opinione: «Il Settentrione, – egli ha detto – piú ricco e piú civile, ha verso il Mezzodí grandi doveri, che finora si guardò bene di assolvere, sebbene l’assolverli sarebbe anche nel proprio beninteso interesse. Quindi: egemonia temporanea della parte piú avanzata del Paese sulla piú arretrata, non per opprimerla, anzi per sollevarla e per emanciparla. Ossia, Governo democratico». Saggi pag. 22 Nessuna illusione è piú fallace e pericolosa di questa, che un Governo unitario, purché democratico, possa risolvere la questione meridionale. In un Parlamento unitario, la parte “piú arretrata” si tro-

verà sempre accanto alla, “piú avanzata” con gli stessi diritti, e i voti dei camorristi meridionali si sommeranno sempre coi voti dei moderati settentrionali. Il ministro dell’Interno, sia anche Filippo Turati, dovrà sempre fare i suoi conti con quella gente per farsi una maggioranza parlamentare; e o vorrà combatterla, e sarà abbattuto; o vorrà vivere in buona pace coi meridionali – i quali non domanderanno del resto di meglio – e allora addio democrazia! Succederà alla democrazia quel che è successo prima alla Destra, e poi alla Sinistra: fuori una faccia liberale, e dentro la verminaia delle camorre del Nord e del Sud. Col suffragio universale – si può opporre – le cose cambierebbero; le masse meridionali non manderebbero piú una maggioranza reazionaria. Non bisogna farsi troppe illusioni! Le masse settentrionali hanno avuto bisogno di vent’anni di vita politica per cominciare a imparare ad adoperare il voto, e l’educazione è ben lungi dall’essere compiuta. Nel Mezzogiorno le masse non potranno da un

momento all’altro passare dall’inazione politica alla politica democratica; e il tempo, necessario alla formazione dell’educazione politica del Mezzogiorno, sarebbe messo a profitto dai reazionari per contrastare in tutti i modi l’educazione stessa. In un paese federale, nel quale cioè tutti gli interessi comuni sieno amministrati dalle masse, e non da impiegati onnipotenti, viventi in una capitale lontana, nella quale bisogna avere un rappresentante possibilmente autorevole e ricco, in un paese non unitario le masse sono spinte dai loro stessi interessi giornalieri a prendere il loro vero posto di combattimento: nel federalismo la sovranità popolare può funzionare bene anche con un limitato capitale originario di educazione politica, e l’esercizio quasi giornaliero della sovranità permette una piú intensiva educazione delle masse. Nel sistema unitario invece le masse non fanno che votare al massimo ogni anno la fiducia a un certo numero di persone, che appena conoscono, e queste persone fanno tutto, dispongo-

no di tutto, senza controllo, come tanti padreterni onnipotenti; è necessaria quindi agli elettori, per ben votare, una larga e squisita educazione, che ben pochi hanno; né il sistema facilita la formazione di siffatta educazione. Il federalismo decentrerebbe ad un tratto la reazione, mettendola in minoranza nel Nord, lasciandola debole nel Sud, rompendo a ogni modo il suo nodo vitale che è a Roma; assicurerebbe fin da principio la prevalenza nella politica generale della nazione alle correnti democratiche; e intanto faciliterebbe straordinariamente l’educazione politica delle masse meridionali. Solo in questo modo la parte piú avanzata del Paese potrebbe esercitare beneficamente un’egemonia temporanea sulla parte piú arretrata. Anche in un regime federale il Sud avrebbe bisogno per i primi tempi dell’aiuto del Nord, perché in parecchi luoghi l’inevitabile trasformazione sociale avverrebbe certo attraverso a lotte asprissime e anche violente. Oggi l’intervento del Governo centrale è

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80 sempre a vantaggio dei piú forti, cioè di quelli che dispongono di maggior numero di voti alla Camera, e in un regime unitario democratico il Governo centrale non potrebbe fare diversamente per non rimanere in minoranza nelle votazioni di fiducia. In un regime federale, invece, qualora le lotte fra i partiti di una regione degenerassero in modo da richiedere l’intervento delle altre regioni, tutti i partiti di queste regioni, di qualunque colore sieno, non avendo alcun interesse diretto nelle lotte altrui, ed essendo solo interessati a ristabilire solidamente l’ordine turbato, si regolerebbero secondo giustizia e darebbero a ciascuno il suo [...]. La coscienza che il federalismo è l’unica via per la soluzione della questione meridionale è molto piú diffusa di quanto non si saprebbe sperare. Nell’inchiesta sulla questione meridionale promossa recentemente da Antonio Renda, la grande maggioranza delle risposte è piú o meno esplicitamente avversa all’attuale unità amministrativa. Lino Ferriani deride la legislazione unica; il dottor

Faucello augura «contro lo statismo il decentramento», il Colajanni non ha bisogno neanche di dire che egli è da molti anni federalista; Mario Pilo non ha nessuna fiducia nello Stato e si aspetta tutto dai meridionali stessi; Francesco Montalto si dimostra federalista, quantunque il suo federalismo sia annebbiato da una nube filosofica discretamente densa; un anonimo domanda «larghissimo e radicale decentramento amministrativo, che tolga dalle mani del Governo centrale l’istruzione, le finanze, la polizia, l’esercito, e affidi tutte queste attribuzioni alle regioni e ai Comuni»; Alessandro Groppali dichiara che «presentemente il rimedio piú urgente ed efficace per salvare l’Italia dalla rovina inevitabile, tanto dal punto di vista morale quanto materiale, è il federalismo»; Scipio Sighele ritiene assurdo «il voler governare ed amministrare nello stesso modo Cuneo e Siracusa, Venezia e Napoli»; Ciccotti ricorda tutto il bene che ha fatto alla Svizzera l’ordinamento federale in confronto del male prodotto a noi dal nostro or-

dinamento unitario. Il solo De Marinis è amico dell’unità; egli continua ad aspettare un potere centrale illuminato (!) e darebbe il «voto ad un ministro che, per esempio, strappasse il Municipio di Napoli per alcuni anni dalle mani dei partiti locali». Può aspettare per un pezzo. Non basta che l’idea federalista venga affermata nelle pagine di un libro; bisogna che diventi programma politico dei partiti democratici. Il federalismo è utile economicamente alle masse del Sud, politicamente ai democratici del Nord, moralmente a tutta l’Italia. La propaganda federalista è la sola che possa isterilire nel Sud la propaganda regionalista, fatta in mala fede dai reazionari unitari. Bisogna che il partito socialista si affermi federalista nel campo politico, ricordando la frase di Proudhon, che «libertà è federalismo, federalismo è libertà»; bisogna che i repubblicani federalisti vengano una buona volta a spiegazioni chiare con i mazziniani e rompano esplicitamente ogni solidarietà coi seguaci di un unitarismo, che ha rovinato l’Italia; bisogna

specialmente che i democratici del Nord, nel loro interesse, se vogliono evitare una guerra orribile, dalla quale resterebbe fiaccato per cinquant’anni ogni movimento democratico, vadano nel Sud a fare la propaganda federalista, a contrastare il terreno ai regionalisti, a impedire che il grido legittimo degli Saggi pag. 18 interessi meridionali offesi venga monopolizzato dalla reazione. Mentre i regionalisti unitari gridano, per i loro fini occulti, che fra il Nord e il Sud vi è lotta d’interessi, i federalisti debbono gridare che non è vero: non vi è lotta fra Nord e Sud: vi è lotta fra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e come i reazionari del Nord e del Sud si uniscono insieme per opprimere le masse del Nord e del Sud, cosí le masse delle due sezioni nel nostro Paese debbono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione, sia essa delinquente con la camorra e con la mafia, sia ipocritamente onesta con Colombo e con Negri; viva essa sul lavoro non pagato dei cafoni

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82 pugliesi o su quello delle risaiole emiliane; prenda a suoi rappresentanti Crispi o Saracco; si af-

fermi sulle colonne del «Corriere della Sera» o nei libri semiscientifici del Nitti.

Piero Gobetti Manifesto della «Rivoluzione Liberale»* «La Rivoluzione Liberale» pone come base storica di giudizio una visione integrale e vigorosa del nostro Risorgimento; contro l’astrattismo dei demagoghi e dei falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana; e inverando le formule empirico-individualiste del liberismo classico all’inglese afferma una coscienza moderna dello Stato [...]. Desiderosi di aderire al processo di “spontaneità” della Storia, ci trovavamo dinanzi, insoluto, il problema centrale della nostra vita di popolo moderno: l’“unità”. Le incertezze degli sforzi di autonomia popolare di operai e contadini ci ricondus-

sero quindi a cercarne una ragione piú ampia e profonda in condizioni tragicamente costrittive di debolezza organica e d’immaturità storica. L’incapacità dell’Italia a costituirsi in organismo unitario è essenzialmente incapacità nei cittadini di formarsi una coscienza dello Stato e di recare alla realtà vivente dell’organizzazione sociale la loro pratica adesione. L’indagine storica che qui riassumeremo deve spiegare: 1) la mancanza di una classe dirigente come classe politica; 2) la mancanza di una vita economica moderna ossia di una classe tecnica progredita (lavoro qualificato, intraprenditori, risparmiatori);

* PIERO G OBETTI, Manifesto della «Rivoluzione Liberale», anno I, num. 1, 12 febbraio 1922.

3) la mancanza di una coscienza e di un diretto esercizio della libertà. Privi di libertà, fummo privi di una lotta politica aperta. Mancò il primo principio dell’educazione politica ossia della scelta delle classi dirigenti. Mentre la vitalità dello Stato, presupponendo l’adesione – in qualunque forma – dei cittadini, si fonda precisamente sulla capacità di ognuno di agire liberamente e di realizzare proprio per questa via la necessaria opera di partecipazione, controllo, opposizione. Dai nostri Comuni, attraverso una Rivoluzione piú formidabile della Francese, sono nati gli elementi della vita economica moderna. Ma la spontaneità elementare della loro azione doveva essere necessariamente intolleranza di ogni disciplina. Accanto all’autonomia è mancata la garanzia dell’autonomia. Lontani dall’instaurare l’armonia di Roma, i Comuni si oppongono sul terreno pratico alla Chiesa e partecipano di uno stesso peccato di esclusivismo. S’oppone all’idea di umanità l’individuo. Ma dall’attività

individuale non si risale al sistema: abbiamo l’esplodere delle passioni, non l’organizzarsi delle iniziative. Perciò dagli sforzi dei Comuni non è stata preparata una civiltà morale e nazionale come la Riforma, ma una civiltà di estetismo. Ossia ci s’è liberati dal dogmatismo cattolico solo precipitando in una disgregazione operosa e non s’è costruito nell’opposizione un organismo. La nostra Riforma fu Machiavelli, un isolato, un teorico della politica. I suoi concetti non seppero trovare un terreno sociale su cui fondarsi, né uomini che li vivessero. Machiavelli è uomo moderno perché fonda una concezione dello Stato, ribelle alla trascendenza e pensa un’“arte politica” come organizzazione della pratica e professa una religiosità della pratica come spontaneità d’iniziativa e di economia. Questi concetti sono fraintesi nell’immaturità della situazione secondo schemi empirici e grettezze particolaristiche. Due secoli dopo, la conclusione ideale di Machiavelli (Vico) non trova eco alcuna nel mondo pratico.

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84 Al popolo estraneo fu imposta la rivoluzione dall’esterno. Solo il Piemonte rudemente travagliato intorno a un’ esperienza disordinata di forze e di lavoro fu capace di realizzare la sua missione. Alla fine del Settecento complesse esigenze di modernità caratterizzavano la vita sociale in Piemonte piú chiaramente che altrove. Fuori di ogni tradizione rettorica (il Piemonte è stato estraneo alla letteratura) l’attenzione è tutta alla vita economica che si organizza secondo principii liberistici. Ferve la rivoluzione dei contadini che stanno realizzando la loro coscienza di “produttori”. La classe feudale s’è specializzata (per dir cosí) nell’adempiere la funzione militare e, avvertita in politica l’inadeguatezza dei vecchi metodi, favorisce francamente i programmi riformisti. S’inizia rumorosamente la critica della Chiesa cattolica (Radicati). In questo movimento regionale l’opera essenzialmente negativa di Vittorio Alfieri compie una funzione unitaria. La sua polemica antidommatica, il

suo pragmatismo pronto a consacrare la validità di ogni sforzo di autonomia, la sua negazione della Rivoluzione Francese (la quale – nonostante tutti gli entusiasmi dei nostri illuministi – diventava “tirannide” appena trasportata in Italia) l’elaborazione in parte cosciente, in parte indiretta dei concetti di popolo, di nazione, di libertà; superavano i limiti del movimento piemontese, lo ricollegavano a una tradizione, fissavano il nucleo sostanziale del mito rivoluzionario che governò il nostro Risorgimento. L’invasione francese turbando e interrompendo un processo appena iniziato impedí l’organizzazione di un’ aristocrazia la quale dal programma alfieriano (che qui non c’importa esaminare sino a qual punto fosse stato coscientemente espresso dall’Alfieri) riuscisse ad un’azione politica positiva. A questo punto l’incertezza della situazione genera la debolezza di due correnti imprecise di pensiero e di azione. Gli aderenti al movimento rivoluzionario cercano, sen-

za chiarezza, la loro consistenza ideale fuori del cattolicismo, e vengono agitando nel popolo il bisogno di libera cultura e di libero lavoro. I governi, fiduciosi nella reazione, fermi alla rivelazione di verità dell’assolutismo, vedono nei nuovi movimenti anarchia e disorganicità e vi contrappongono l’ordine del passato. I due movimenti insomma appaiono altro da quel che sono, non si riporta il dissidio alla sua logica ideale (Liberalismo contro Cattolicismo, Stato contro Chiesa; Modernità contro Medioevo): di qui confusioni teoriche e lotte insolubili ed equivoci irreali, e contrasti politici illusori [...]. Consci di questa degenerazione e di questa immaturità furono soltanto pochi teorici – piú di ogni altro Giovanni Maria Bertini – accanto a lui B. Spaventa con gli hegeliani di Napoli. Il Bertini dopo aver vissuto i motivi cristianeggianti della rivoluzione quarantottesca, dopo aver vigorosamente difese le piú solide tradizioni di pensiero italiano contro il sensismo e lo scetticismo d’ol-

tralpe riuscí attraverso una logica inesorabile a vedere la funzione del nuovo Stato contro ogni attività del Vaticano e della trascendenza religiosa. Ma non ebbe animo per creare un’organizzazione politica dei suoi concetti – né il momento, venuto dopo troppe transazioni, era propizio. Gli hegeliani, pochi e isolati, dimenticarono le formidabili lotte dello Spaventa contro i gesuiti e contro i liberali cavouriani e si confusero con i conservatori. Cosí si formò una Destra che aveva un pensiero teorico, e nessuna capacità per realizzarlo. Si dimentica in questi anni Gioberti che aveva intravveduto il processo teorizzato dal Bertini e dallo Spaventa. Mazzini, creatore dei primi impulsi all’autonoma liberazione, rimane solo e frainteso. Una coscienza pratica di questa immaturità si avverte nelle infinite polemiche che sorgono nel Risorgimento a proposito del problema scolastico (e non ne sono spente ancora l’eco e le conseguenze; ecco un problema attuale che noi illumineremo attraverso la visione dei necessari antecedenti storici).

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86 La pratica superava come valore di coscienza la limitatezza teoretica. L’educazione popolare sembrava la sola via per cui potesse nascere nel popolo una volontà. Il nuovo Stato doveva, adeguarsi alla sua funzione, ma prima di esercitare la funzione doveva creare gli elementi capaci di operare e di prendere significato di condizioni. Onde il dissidio implicito nel nostro liberalismo che non si può accontentare di esprimere il risultato della dialettica delle forze politiche, ma deve rinunciare all’immanenza per imporre un elemento del processo al di sopra degli altri. Il governo erede del cattolicismo ha conservato una funzione etica astratta di egualitarismo democratico: il Risorgimento dimentico delle leggi del liberalismo si faceva democratico: per continuare le tradizioni patriarcali della teocrazia. Nel mito democratico però trionfalmente penetrava l’elemento che lo doveva dissolvere perché rappresentava l’ ineluttabilità del progresso

moderno. I cattolici si dovettero chiamare liberali; il governo indulgeva al cattolicismo solo per indulgere al popolo. La legge Casati (nonostante tutti i suoi errori tecnici) imponendo allo Stato il cómpito di vincere l’analfabetismo costituiva una violenta sovrapposizione di un principio trascendente all’autonomia e all’iniziativa che sorge dal basso, ma poneva le premesse per far entrare nel mondo della coscienza moderna quel popolo che ne era rimasto fuori per un’intima malattia feudale. Ma ancora proprio all’inizio del processo sorge un’altra opposizione interna a negarlo. L’autonomia dell’azione svolgendosi entro i vecchi organi (Comune e Regione) condurrebbe a un superato federalismo. Si doma il federalismo soffocando le iniziative nel mito indeterminato dell’unità. Ecco le origini e le ragioni di un altro formidabile problema moderno: il decentramento. Ecco la via che noi seguiremo per studiarne l’essenza e le soluzioni.

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I. L’ERESIA

DEL

RISOR-

GIMENTO

II Risorgimento italiano è un frutto originale o segue 1’imitazione francese? Nasce dal tormento teorico del Settecento o è tutto nelle astuzie diplomatiche dell’Ottocento? Si può parlare di una filosofia, di una verità che costituisca l’essenza del Risorgimento? Una risposta a queste domande è data dalle ricerche che verremo qui esponendo. Il nostro Risorgimento ha chiesto una sanzione e un contenuto allo spirito di lotta e d’iniziativa del popolo. Solo questa partecipazione poteva garantire l’esistenza e la “circolazione” (nel noto senso paretiano) di classi dirigenti capaci di agire nello Stato moderno. Tutto il resto è utopia o letteratura. Nel Settecento la vecchia classe politica, aristocratica ed

ecclesiastica, pareva in Europa pressoché esaurita. In Francia e in Inghilterra il Terzo Stato era pronto alla successione. Invece in Italia l’economia arretrata non Saggi pag. 35 poteva ancora fondarsi sull’abbondanza e sulla rapidità di circolazione del capitale mobile, che sono necessarie per alimentare una borghesia. Deve essere l’iniziativa del Principe a opporre tra noi le classi popolari appena sorgenti e immature, alle classi dominanti privilegiate, il cui potere soverchio non garba al sovrano. Questa è la diagnosi piú definitiva del fenomeno centrale del Settecento: l’assolutismo illuminato. Ecco perché la lotta contro il feudalismo è condotta in nome delle prerogative regie e si risolve a favore dello Stato centralistico attraverso le riforme […]. Nel Settecento l’iniziativa è del principe; nell’Ottocento pas-

* PIERO G OBETTI, Risorgimento senza eroi, Edizioni del Baretti, Torino 1926, pp. 21-27.

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Piero Gobetti Risorgimento senza eroi*

88 sa a questa nuova classe politica [la borghesia]: e perciò solo nell’Ottocento si può parlare di Risorgimento e di uomini nuovi. Gioverebbe, un parallelo D’Ormea-Cavour. Cortigiano D’Ormea, con gli espedienti dell’intrigo e la maschera del negoziatore. Cavour temperamento europeo capace talvolta di fondare la diplomazia sulle risorse della sincerità: lo sguardo acuto rivolto ai fatti economici, capiti come preparazione subacquea del fenomeno politico. Tra D’Ormea e Cavour c’è stata la Rivoluzione francese, dalla quale il nostro Risorgimento non può e non deve prescindere anche se vi reagí persino col misogallismo. Alfieri fu il solo italiano che vedesse anche per noi in pieno Settecento la possibilità di una rivoluzione dal basso in senso unitario, condotta da aristocrazie repubblicane. Il suo pensiero è originale e anticipa la Rivoluzione francese. Egli è un riformatore: ma le sue profezie hanno un rigore logico implacabile, mentre i nostri patrioti furono trasformisti.

Ecco in schema una storia dell’Ottocento. Mentre le nazioni europee si sono liberate, con le guerre di religione, da tutte le ideologie dogmatiche, gli italiani non possono pensare ad una riforma religiosa, impegnati come sono dalle contingenze a distruggere il dominio territoriale dei pontefici; volendo essere laici sopratutto nella sostanza, essi si adattarono a professare un rispetto teorico alla Chiesa, e l’attaccarono con armi politiche invece che sul terreno dogmatico. Cosí il Risorgimento resta cattolico, complici gli stessi eretici. La preparazione ideale della lotta politica si esaurisce nel romanticismo, che oppone il cristianesimo spiritualistico al cattolicismo reazionario, della Santa Alleanza. Tuttavia questo opportunismo è machiavellico. La Chiesa ha fatto causa comune cogli assolutismi. Le monarchie, e specialmente la Sabauda, sorprese e compromesse dai primi movimenti del secolo, hanno ceduto il loro posto di avanguardia e seguo-

no l’equilibrio generale, retrive e non piú progressiste. Le plebi continuano a vivere intorno ai conventi e agli istituti di beneficenza, tutti cattolici; e restano cattoliche per istinto, per educazione e per interesse. L’iniziativa spetta alla nuova classe borghese che attua con Cavour la politica antifeudale del liberalismo economico, per potersi dedicare ai traffici, alle industrie e ai risparmi, e formare la prima ricchezza e il primo capitale circolante in Italia. Come potrebbe questa classe proclamare una politica anticlericale fuorché nella questione dello Stato pontificio? Essa si troverebbe assolutamente isolata mentre la sua vittoria è subordinata alla possibilità di trascinare con le astuzie diplomatiche le altre classi, volenti o no, sulla sua via. Tutte le idee prevalenti nella penisola son cattoliche o cristiane (Gioberti, Manzoni, Mazzini). Solo le minoranze politiche, sicure del loro compito storico, sentono piú forte di tutti il dovere della fedeltà allo Stato e credono alle nuove esigenze economiche.

Il neoguelfismo è lo stratagemma per cui le masse avverse al programma nazionale borghese sono indotte a seguire le minoranze. Il liberalismo laico e moderato per evitare l’isolamento e per non trovarsi nemiche nello stesso tempo le plebi e la reazione, mette avanti idee banali e programmi di compromesso. Cosí questa minoranza borghese riesce a conquistare la monarchia, sempre incerta, e a servirsi del suo prestigio. Vittorio Emanuele II crede di allargare i confini del Piemonte e serve al programma di Cavour che gli trasforma le basi dello Stato, facendo in un regno costituzionale un governo parlamentare. E gli storici si domandano ancora come Cavour potesse farsi aiutare dalla borghesia francese! È ovvio che questa classe politica non possa bandire troppo apertamente le idee di libertà e di democrazia odiate dalle stesse plebi borbonicamente retrive. Essa conserva il suffragio ristretto, addomestica garibaldini e borboni con gli impieghi di Stato, esercita una gene-

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90 rica propaganda patriottica, facendo giuocare l’equivoco del cattolicismo liberale. Mancavano forze e partiti ordinati: si supplí con volontari e avventurieri. Il nebuloso messianismo di Mazzini, l’entusiasmo di Garibaldi, l’enfasi dei tribuni furono le forze che favorirono un equilibrio provvisorio. Tutto questo è materia incomposta e vi affiorano i piú profondi vizi della razza: una direzione si deve a Cavour. Egli è lo spirito provvidenziale, l’originalità del Risorgimento. La Rivoluzione francese ha le proporzioni di un grande dramma ora nazionale, ora europeo. È la rivendicazione di masse popolari nuove, rivolta di popolo condotto da scelte gui-

de borghesi contro classi in decadenza. Il Risorgimento italiano invece è la lotta di un uomo e di pochi isolati contro la cattiva letteratura di un popolo dominato dalla miseria. La storia civile della penisola pare talvolta il soliloquio di Cavour, che da una materia ancora informe in dieci anni di diplomazia cerca di trarre gli elementi della vita economica moderna e i quadri dello Stato laico. In realtà, specialmente quando è solo, Cavour ubbidisce a una segreta voce della storia e ad un oscuro destino della razza, che sembra annunciarsi durante tutto il Settecento in misteriosi profeti disarmati, sorpresi dalle tenebre, appena indovinano la luce.

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I. L’ATTEGGIAMENTO DEI CLERICO-REAZIONARI** Un vero e proprio movimento di organizzazione operaia si determina in Italia soltanto dopo il 1860. La risoluzione del problema politico è un presupposto necessario all’impostazione del problema sociale. L’avvenuta unificazione dimostra chiaramente agli artigiani e agli operai, ossia alle piú intelligenti frazioni del proletariato, che la rivoluzione politica non ha mutato né s’è preoccupata di mutare le loro condizioni economiche; si dimostrano fallaci, quindi, le promesse degli agitatori politici. Col 1861, l’organizzazione operaia s’intensifica, le società di mutuo soccorso si moltiplicano e si diffondono; i tentativi di riunire i vari nuclei in uno

solo, diventano fatti di un’importanza non piú trascurabile. Questo fervore appare tanto piú notevole quanto piú si conoscono le tremende condizioni morali e materiali dei nostri operai di sessant’anni fa (analfabetismo a un livello altissimo; salari di fame, orari di lavoro Saggi pag. 33 prolungatissimi). Il numero degli scioperi aumenta, e, in alcuni gruppi piú progrediti (esempio, i tipografi) si fa strada l’idea delle casse di resistenza; qua e là si cominciano a imporre tariffe di lavoro. Gli elementi mazziniani cercano di prendere la direzione del nascente movimento operaio, dando una spinta vigorosa all’incerta tendenza organizzatrice, additando via via soluzioni pratiche ai molti problemi della vita operaia individuale e collettiva; ma

* NELLO ROSSELLI, Saggi sul Risorgimento, Einaudi, Torino 1980, pp. 241248. ** Pubblicato per la prima volta in «La Rivoluzione Liberale», III, 12, 18 marzo 1924 sotto il titolo: Origine del movimento operaio in Italia. L’atteggiamento dei clerico-reazionari.

N. Rosselli

Nello Rosselli Saggi sul Risorgimento*

92 essi credono fermamente che la risoluzione del problema operaio non potrà venire che da una grande rivoluzione morale, religiosa, istituzionale del paese tutto, dalla repubblica democratica che è il fine di questa rivoluzione. E quindi tentano di servirsi dei nuclei operai come di centri di propaganda delle loro dottrine politiche insurrezionali, abbinano insomma il problema politico col problema sociale; con questo, non dànno tutto il possibile incremento alle nuove iniziative sorte nel campo operaio (tali le cooperative di consumo e di produzione), suscitano urti e scismi. La maggior parte delle organizzazioni operaie li segue, nella fiducia, non ancora sufficientemente scossa dalla recente esperienza, che il miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice dipenda dal «completamento» della rivoluzione. La minoranza, che rifiuta il programma mazziniano ma che non è capace di far da sé, cade in braccio ai conservatori.

La delusione successiva al conseguimento dell’unità politica costituí, per gli operai, la base necessaria al primo formarsi di un vago sentimento di classe; la sensazione precisa che i decantati vantaggi di questa unità non riguardavano affatto le masse popolari, sibbene le classi borghesi e che, se mai, al popolo era riservato di sopportare il peso del nuovo ordine di cose, creò nel cuore degli umili il risentimento contro la borghesia, determinò o rafforzò la sensazione della società nettamente divisa in classi, antagonistiche fra loro. Questo sentimento di classe si evolve con molta lentezza, fra i nostri operai, dopo il 1860, e per i primi anni possiamo rintracciarlo solo negli operai della grande industria, la quale comincia a svilupparsi con un certo successo, nel Nord, verso il 1865. Molti elementi contribuirono al precisarsi, al consolidarsi, al diffondersi del sentimento di classe; io voglio qui fermarmi ad illustrarne uno, del quale credo non si sia te-

nuto sufficiente conto, sin qui: la propaganda clericoreazionaria che, allo scopo di creare imbarazzi al nuovo governo e determinare magari una crisi definitiva con conseguente ripristino dei vecchi regimi, si studia di aizzare l’astio e l’odio dei lavoratori contro le classi dominanti. La forma piú pericolosa, e piú nota, di questa propaganda è quella che i clericali, attraverso la loro formidabile organizzazione, compiono nelle campagne, tra i contadini ignoranti, sfruttandone e stimolandone il profondo malcontento, che le novità politiche hanno accentuato. Ne nasce il brigantaggio nelle province meridionali, e, piú tardi, nel 1869, la pericolosa rivolta contro la tassa sul macinato, alla quale, peraltro, contribuirono – oltre la propaganda clericale – molti altri elementi. Nelle città, i clerico-reazionari disponevano di un gran numero di giornali e pubblicazioni periodiche di ogni genere, assai diffusi, specie nel popolo. Furono questi un magnifico mezzo di reazione.

I clericali ebbero l’accortezza di misurare l’importanza via via crescente che l’elemento operaio andava assumendo nel paese; e compresero quale tremendo pericolo quell’elemento, debitamente aizzato, potesse costituire contro l’ordine sociale. In questo, si mostrarono molto piú intelligenti dei moderati e dei conservatori, i quali, si può dire, ignorarono in quegli anni il problema operaio, limitandosi a sabotare il programma sociale degli uomini di sinistra, a emettere, ogni tanto, e sempre per bocca d’isolati, timidi progetti di riforma o calorosi inviti alla rassegnazione e alla calma dedicati agli operai, salvo poi ad agitarsi smisuratamente, in presenza di qualche episodio piú appariscente del processo di organizzazione operaia o di qualche esplosione del malcontento popolare. In quei loro giornali, i clericali si rivolsero soprattutto ai poveri, agli sfruttati, ai disgraziati lavoratori, compiangendone la sorte. Bisogna confessare che, a quei tempi, regnava in Italia la piú sconfinata libertà di stampa e di parola; tale che a noi,

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94 che viviamo nel 1924, è ragione, almeno, di stupore. La base della speculazione clericale è ben nota: il nuovo regime, partorito dalla rivoluzione, è sorto sulle rovine della religione e, quanto meno, la sua esistenza riposa sulla negazione dei valori religiosi. Orbene, la religione costituisce l’unico conforto per i diseredati, i quali si contentano di patire in questo mondo, nella speranza e certezza di una migliore vita ultraterrena. Togliete la religione alle plebi, e queste cadranno in preda al piú gretto materialismo, si cureranno solo della vita presente, né piú tempereranno la visione delle ingiustizie terrene nel concetto di una giustizia superiore; reclameranno perciò la soddisfazione immediata dei loro diritti, si rivolteranno contro i potenti e daranno retta a chi nella violenza additerà loro l’unico scampo per risolvere la questione sociale […]. Dall’enunciazione di questi principi piú generali, si passa alla propaganda spicciola. Cito qui alcuni passi tolti dal giornale fiorentino «La

Vespa», avver tendo che in molti altri giornali e pubblicazioni reazionarie del tempo si trovano espressi i medesimi concetti e, inoltre, che gli articoli di «La Vespa» sono largamente e compiacentemente riportati da altre pubblicazioni, periodiche o no, redatte appunto da clerico-reazionari. Si attaccano le basi del nuovo regime. Ecco quel che della patria italiana scrive «La Vespa», il 4 novembre 1864: «Santa cosa è la patria, quando, madre amorosa, provvede egualmente benefica a tutti i suoi figli, e vuole in eguali proporzioni distribuiti i premi, i compensi, i sacrifizi. Dove però sotto il nome di patria si consumano i piú neri eccessi, dove la libertà si vende e si traffica [...], dove ogni giorno si assiste al miserando spettacolo di vedere “il galantuomo nudo e il farabutto in carrozza”, qual senso può avere mai questa parola sulle ingannate moltitudini?». Questo concetto della patria matrigna ai piú dei suoi figli, lo ritroveremo poi pari pari nel bagaglio di propaganda dei socialisti.

Si stuzzicano i poveri nel punto piú delicato: le tasse. L’avete voluto, il nuovo regime – dicono agli operai i clericali. E ora godetevene le inique tasse. Prima, sotto gli altri regimi, le tasse le pagavano solo gli abbienti. Ora s’è piantata la massima «che tutti i singoli cittadini, avessero o no ricchezze, dovessero essere tributari dello Stato, qualunque fossero i suoi bisogni, qualunque fossero i vantaggi che i cittadini potessero aspettarsi da questi sacrifizi» («Il Conservatore», luglio 1863). Ecco il destino del popolo credenzone e balordo, sotto i nuovi regimi. «Dopo aver fatto sgabello col suo corpo a chi agognava ricchezze e poteri, egli ha visto il miserabile sfuggito come un lebbroso, la povertà perseguitata e punita come un delitto» («La Vespa», 2 giugno 1864). Ci troviamo di fronte ad una vera e propria propaganda di odio. Il popolo è dipinto come «l’asino che s’abbevera d’acqua, mentre si tronca la schiena per portare agli altri i barili del vino» (ibidem, 17 giugno 1864).

Il nuovo regime vuole peggiorare sempre piú le condizioni del popolo, vuol vederlo soffrire. «Invece di stabilimenti di carità si sono dischiuse le carceri, invece delle scuole, i postriboli. Ma niuno ha steso la mano al proletariato, niuno s’è ricordato di lui, fuorché l’agente municipale per mandargli la cartella delle tasse, il precetto e il gravamento» (ibidem, 25 novembre 1864). L’hanno proclamato sovrano, il povero popolo; ma ora, che i maneggioni si sono messi a posto, «il popolo sovrano, dal gran trono dove telo avevano insediato, telo piantano a sedere a bischetto» (ibidem, 16 gennaio 1865). E i clericali dal cuore largo non possono trattenersi dal piangere sulla sorte della classe operaia «cosí mal conosciuta, cosí iniquamente spregiata, cosí barbaramente, nel tempo della “libertà” e della “filantropia”, tiranneggiata ed oppressa» (ibidem, 2 giugno 1864), e «sui malanni della povera gente sempre perseguitata». E concludono cristianamente: «Finché la dura!» (ibidem, 17 giugno 1864).

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96 […] Il momento della rivolta non può essere lontano. È logico che giunga e che giunga presto: la società, «infiammata dalle moderne dottrine, partorirà un’ira di comunismo che già, come cane alla catena voi sentite latrare» («La Giovane Italia», p. 81). E ben venga dunque. Ah, sospirano i clericali, se il popolo conoscesse la sua potenza e se ne sapesse servire! «Non sarebbe tanto spesso calpestato, deriso e ingannato» («La Vespa», 23 agosto 1864). Parole di questo genere venivano, non dirò a determinare, ma a rinforzare e a giustificare, nei nostri operai, il nascente sentimento d’odio contro gli abbienti, ad aumentare la loro diffidenza contro gli agitatori politici i quali pretendevano ancora il loro aiuto per disegni rivoluzionari di carattere politico, dando a sperare in conseguenti miglioramenti economici. Ciò non significa che i clericali tendessero, come ultimo fine, a scatenare la guerra di classe. Ché anzi, essi sognavano la restaurazione degli antichi

cristianissimi regimi nei quali di questione sociale non si ragionava neppure, o la si considerava tutt’al piú come un affare di beneficenza; infatti – si legge nel citato opuscolo L’Italia disfatta, ecc., p. 11 – «quando un popolo trova ne’ mercati come provvedere alla vita, né il prezzo di generi che abbisognano alla sua sussistenza è lasciato all’arbitrio di pochi monopolisti ed incettatori, questo popolo benedice sempre al principe che lo regge». Tuttavia, pur di creare seri imbarazzi al governo italiano, suscitando nel paese un minaccioso problema e ponendo il governo nella necessità di affrontarlo, i clericali seppero piegarsi a fare della vera e propria propaganda suscitatrice dell’odio di classe. La quale, unita a molti altri elementi, forní ai nostri operai la preparazione sufficiente a far loro comprendere, qualche anno piú tardi, il contenuto della propaganda socialista; e a far loro abbandonare, quasi in massa, le prime guide del loro risorgimento morale e materiale.

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I. IL

PROBLEMA DEL

RI-

SORGIMENTO

CONCEZIONE MATERIALE E CONCEZIONE SPIRITUALE.

Che cosa si debba intendere per Risorgimento italiano, e innanzitutto che cosa sia che “ri-sorga”; in quale relazione esso si trovi con la storia europea moderna, di cui rappresenta l’equivalente nella storia d’Italia; se e in quale misura esso sia di carattere politico o etico o culturale; se esso sia una formazione puramente indigena, o presenti apporti e influenze straniere, e di che natura e misura; quando abbia inizio e quando termini: sono tutte questioni, di cui talune sono state trattate con insistenza e risolte – specie in tempi recenti – con asseveranza dogmatica non rispondente sempre alla solidità della trattazione; ma non altrettanto esaminate nell’insieme, sistematicamente. In ciò è una

differenza col Rinascimento, tanto discusso negli ultimi decenni precisamente in quanto concetto d’insieme, e su un piano di storiografia europea; mentre il Risorgimento s’è seguitato prevalentemente a considerare come fatto d’interesse quasi puramente italiano. Checché si debba pensare, per ora, di quest’ultimo punto, certo è che il Risorgimento è per noi italiani parte capitale della nostra storia, storia d’ieri che proietta la sua ombra sull’oggi, librandosi tra; passato e avvenire. L’interesse del tema appare già nelle valutazioni contrastanti delle forze varie che operarono nel Risorgimento, dei procedimenti di esse, e fin dei risultati del Risorgimento medesimo. Negli apprezzamenti relativi si notano oscillazioni giungenti fino al capovolgimento, dovute non solo a contrasti di pensiero e alternanze d’indirizzo

* LUIGI SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1963, pp. 13-16, 134-138.

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Luigi Salvatorelli Pensiero e azione del Risorgimento*

98 storiografico-politico, ma a condizioni politiche contingenti e a calcoli pratici. Accenneremo a un punto solo: la prevalenza spiccata nel periodo 1870-1914 dell’ortodossia “ghibellina”, a cui successe nei vent’anni fra le due guerre (e in parte dura ancora) un’altrettanto spiccata tendenza guelfa, o addirittura di ancien régime. Saggi pag. 20 V’è una rappresentazione ingenua – largamente e inconsciamente diffusa – del Risorgimento per cui esso si ridurrebbe alla formazione del regno d’Italia, avvenuta fra il 1859 e il 1861, e completata nel 1866 e 1870. Per una tale rappresentazione non ha senso parlare del Risorgimento come di un problema. Non esiste nessuna problematica del Risorgimento: non c’è che da snocciolare la litania dei fatti per cui le diverse parti d’Italia furono aggregate al regno sabaudo di Vittorio Emanuele II. Si tratta di una serie di avvenimenti esteriori: battaglie, occupazioni militari, trattati, plebisciti, voti parlamentari, decreti reali. Se questa rappresentazione ingenua

si tenta, comunque, di ragionarla, essa si risolve in un’interpretazione del Risorgimento come un fatto puramente politico-territoriale-statale; e ne vien fuori qualcosa che in sede filosofica possiamo chiamare positivismo materialistico, in sede politica assolutismo monarchico. È stata infatti sostenuta, nel periodo fascista, la tesi che il processo del Risorgimento consista nell’assorbimento dei diversi stati italiani, o regioni della penisola, da parte del regno sabaudo di Sardegna, la formazione del quale costituirebbe il prologo – l’unico prologo – della nuova Italia. Una simile tesi, mentre per un verso è strettamente abbarbicata alla concezione che abbiamo detto ingenua, per un altro viene essa medesima a superarla e negarla, in quanto è pur costretta ad affermare un’idea centrale, un criterio direttivo, interpretativo, e cioè a porsi il Risorgimento non solo come fatto materiale da constatare e da accettare puramente e semplicemente, ma come una questione da discu-

tere, un processo da interpretare. Il criterio interpretativo sarebbe appunto quello dello Stato, come formazione e consistenza puramente autoritarie. Il tentativo, però, di elevare la concezione ingenua a riflessa, compiuto da quella che, per comodità di linguaggio, chiameremo scuola sabaudistica, fallisce già all’inizio, mostrandoci l’immediato ricadere della tesi riflessa sul piano dell’ingenua. Sono, infatti, d’importanza capitale la parte e il modo di partecipazione della monarchia sabauda nel Risorgimento; ma, se questo si riassume nell’ampliamento dello stato monarchico sabaudo a regno d’Italia, tanto vale dire che il Risorgimento si riduce all’aggregazione esteriore delle diverse regioni italiane al Piemonte, cioè al fatto materiale delle annessioni: le quali, allora, non concludono un processo storico, non rappresentano la manifestazione della volontà del paese, ma si riducono a un puro atto d’impero. Si nega nel Risorgimento l’elemento nazionale, popolare, spirituale: e nessu-

na vera differenza esiste piú tra la formazione dell’unità italiana e una qualsiasi conquista straniera. Possiamo dunque metter tranquillamente da parte quella concezione ingenua, che ci si rivela intrinsecamente nulla, e rifiutarne sin d’ora la forma riflessa, che tuttavia esamineremo man mano nei suoi diversi tratti; qui aggiungiamo solo, per meglio far risaltare l’inconsistenza della seconda forma, due considerazioni. La prima è che la concezione territoriale, o sabaudistica, è inetta a comprendere entro di sé tutta una serie di episodi indubbiamente “risorgimentali”. Se il Risorgimento si riduce, puramente e semplicemente, alla formazione territoriale del regno sabaudo d’Italia, che posto possono averci la rivoluzione napoletana del 1820 o quella dell’Italia centrale del 1831, le quali mirarono semplicemente a trasformare la costituzione interna di taluni stati italiani? Altrettanto si dica dei Saggi pag. 38 diversi moti di Romagna fra il 1840 e il 1846, o di quelli

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100 tra il 1821 e il 1848 nel regno di Napoli; mentre tutta l’azione mazziniana, unitaria bensí, ma repubblicana, rischierebbe addirittura di figurare come “Anti-risorgimento” (e tale figurazione era l’aspirazione ultima, piú recondita, dei sostenitori di quella teoria, uno dei quali ebbe a parlare di “lebbra repubblicana”). Che anzi, perfino una gran parte del 1848, con i moti riformistici immediatamente precedenti, rimarrebbe fuori della soglia del Risorgimento. L’altra considerazione è che da quando il termine “risorgimento” s’è cominciato ad usare per un dato periodo della Saggi pag. 37 storia d’Italia, e piú precisamente per indicare i nuovi destini del nostro paese, esso non è stato preso mai in senso puramente statale-territoriale. Da Bettinelli a Carducci, da Alfieri a Gioberti, dai patrioti giacobini a Santarosa, da Mazzini a Cavour, tutti – sia che usassero il termine specifico, sia che con altre parole esprimessero il concetto – hanno inteso per Risorgimento d’Italia un fatto, o meglio

un processo, di carattere spirituale, una trasformazione intima e completa della vita italiana, un’affermazione di autonomia nazionale e individuale. Se mai, il nome ha avuto prima un significato esclusivamente o prevalentemente letterario-culturale, per poi assumerne anche uno politicoterritoriale. Italia e Risorgimento italiano sono stati ambedue intesi innanzitutto come un fatto di coscienza, come atto spirituale. V. L A

RIVOLUZIONE NA -

ZIONALE

LA

MANCATA INTERNAZIO-

NALE DEI POPOLI.

Rivoluzione fu dunque veramente il Quarantotto; e anzi la piú vera rivoluzione nazionale del Risorgimento, l’unica che, almeno in uno dei suoi episodi, sia arrivata alla completa estrinsecazione, cioè alla piena autodeterminazione popolare. E questa rivoluzione non fu degenerazione, ma sviluppo logico il cui fallimento ebbe conseguenze durature, producendo nel processo del Risorgimento nazionale-popolare una frattura,

che ci si può domandare se sia mai stata interamente e definitivamente sanata. È verissima la diversità fra il primo periodo di attuazione del Risorgimento, terminato nelle catastrofi del ’49, e il secondo, quello della realizzazione unitaria; l’aver posto cosí nettamente la distinzione fra i due periodi è un merito capitale del Gioberti, tanto piú rilevante in quanto la storiografia successiva ha capito ben poco in proposito. Ma dei due periodi il piú veramente rivoluzionario fu il primo, mentre il secondo portò a evoluzione e compromesso; e ciò in connessione con gli sviluppi non solo italiani, ma europei. Poiché – punto capitale su cui torneremo – non fu solo la storia d’Italia a prendere altro avviamento dopo il 1848, ma quella di tutta l’Europa [...]. Il Quarantotto, com’è la vera rivoluzione nazionale italiana, cosí è la vera rivoluzione internazionale europea, poiché l’Ottantanove fu rivoluzione francese, con ripercussioni europee e occupazioni e dittature franco-rivoluzionarie in varie parti di Europa al

di fuori della Francia. Nel ’48, pur cominciando il moto dalla Francia, il sollevamento avvenne quasi contemporaneamente in gran parte d’Europa; e se la scintilla fu francese, la preparazione di lunga mano, ideale e pratica, ciascun paese l’aveva fatta per conto proprio e al tempo stesso in contatto con gli altri. È anche ragionevole pensare che, se la rivoluzione si fosse consolidata in Francia, Germania, Austria, Italia, gli effetti non sarebbero mancati nelle penisole iberica, balcanica, scandinava, mentre la Svizzera ebbe appunto nel ’48 la sua trasformazione da Staatenbund in Bundesstaat, per non parlare di altre ripercussioni minori in altri paesi. E tuttavia un moto cosí vasto e profondo fallí. Quale la ragione? I soliti discorsi d’immaturità, eccessi, ecc., non spiegano nulla; sono troppo generici, e denunziano fenomeni comuni alle rivoluzioni fallite come a quelle riuscite; non sono altro che piagnistei moralistici o paternali di moderatucoli. Occorre venire a spiegazioni piú concre-

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102 te. Le quali sembra possano ridursi a due: l’interferire di socialismo e liberalismo, e quello di democrazia e nazionalismo. Il primo ebbe importanza decisiva in Francia, il secondo nel resto d’Europa; ma anche il secondo ebbe influenza sul fallimento francese, come il primo sugli altri fallimenti europei. La bandiera rossa, levatasi nel Quarantotto a simbolo del proletariato, della repubblica sociale, fu lo spavento e il ribrezzo della borghesia, di quella liberale non meno che della conservatrice, e il “pericolo rosso” pose la borghesia contro il proletariato, dividendo nettamente in due la massa di manovra liberale-democratica, e spingendone la metà borghese indietro fino alla reazione e alla dittatura [...]. Piú decisivo, sul piano europeo, appare l’altro fattore del fallimento quarantottesco. Le diverse nazioni insorte non si accordarono fra loro secondo il fideistico presupposto mazziniano. Taluna (quella francese), sicura della propria antica esistenza, rimase in disparte a contemplare la lotta delle altre

piú giovani (interventi diplomatici e velleità d’interventi militari non cambiarono nulla a questo fatto, e per la loro inconcludenza e perché rimasero sul piano della vecchia politica); e non comprese che quella lotta non era indifferente per la propria libertà interna, per il proprio avvenire in Europa. Le nazionalità giovani non solo non si aiutarono reciprocamente, ma si contrastarono e combatterono [...]. Era mancata la coalizione dei popoli; aveva vinto quella dei governi. Non fu vittoria definitiva. Quella solidarietà dei governi fu sconvolta ben presto dalla politica di Napoleone III. Ma non tornò piú un momento come quello del Quarantotto, di sforzo solidale dei popoli per la liberazione e la federazione. L’ideale di Mazzini e Cattaneo rimase inattuato. E la profezia del Gioberti nel Rinnovamento – che il moto della democrazia europea avrebbe generato e incluso il “rinnovamento” italiano – non si avverò, almeno in quella forma diretta e integrale.

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