Il deserto della verità. Una posizione lacaniana 9788822907264, 9788822912732

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Il deserto della verità. Una posizione lacaniana
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Campi della psiche. Lacaniana

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Lacaniana

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a cura di Antonio Di Ciaccia

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Maurizio Mazzotti Il deserto della verità

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Una posizione lacaniana

Quodlibet

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Prima edizione: ottobre 2021 © 2021 Quodlibet srl Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0726-4 | e-ISBN 978-88-229-1273-2

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Indice

7 Presentazione di Paola Francesconi Documento acquistato da () il 2023/04/23.

13 Preliminare



1. Sapere e verità. Una dialettica in tre tempi

17 1.1. Il sapere bavaglio della verità 21 1.2. Il non sapere all’inizio ma non alla fine 25 1.3. La verità sola e mendace



2. Il margine del soggetto. Di una causa che non è a sua volta causata

29 34 36 40 46

2.1. La causa originale di Heidegger e quella anticoncettuale di Lacan 2.2. Un meno di enfasi sulla libertà 2.3. L’identificazione tra verità ed essere 2.4. La posizione di Freud 2.5. La reinvenzione del traumatismo





3. La verità giunta al suo colmo

49 56 59 61 68 69

3.1. L’appello alla verità 3.2. Il potere della verità 3.3. L’amore per la verità? 3.4. La verità come causa 3.5. L’impotenza della verità 3.6. La verità nell’exsistenza del sinthomo

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Premessa, promessa di un viaggio

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di Paola Francesconi

Abbandonate ogni speranza voi che entrate, se vi aspettate di trovare in questo libro la constatazione disarmata della psicoanalisi di fronte alla perdita di ogni riferimento alla verità, tipica del contemporaneo. Ovvero la sostituzione all’antico metaforico «non c’è più religione», dell’attuale «non c’è più traccia della verità». Le fake news, nuovi tiranni della conoscenza ed azzeratrici del diritto alla verità. Non è in questo senso che va inteso il deserto della verità, come desertificazione di ogni bussola del vero, come passivizzazione rassegnata a fronte della impossibilità di una misura dell’autentico. Giorgio Agamben sfiora tale vissuto di colta amarezza, quando dice che «l’umanità sta entrando in una fase della sua storia in cui la verità viene ridotta ad un movimento del falso. Vero è quel discorso falso che deve essere tenuto per vero anche quando la sua non verità viene dimostrata. Ma in questo modo è il linguaggio stesso come luogo della manifestazione della verità che viene confiscato dagli esseri umani»1. Ed auspica l’avvento di una parola vera, attraverso il coraggio del soggetto di resistere alle menzogne propinate senza alcuna, dice, dimostrazione scientifica. Il problema non è il ripristino, sempre di stampo conservatore, della parola vera, tanto più se la verità coincide con la “vera” scienza, lasciando integro purtroppo il presupposto che la verità sia un rapporto di adeguamento con la realtà. Preferiamo la gaia scienza, noi psicoanalisti, ed il gaio sapere, che non c’entra con la realtà, come dopo dirò. 1 Giorgio Agamben, Sul vero e sul falso, nel sito web di Quodlibet, rubrica di G. Agamben, 28.4.2020.

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8

premessa promessa di un viaggio

Partiamo, se vogliamo rifarci ad una dotta citazione, dal paradosso di Epimenide il Cretese, paradosso del mentitore, rispetto a cui le fake news non sanno fare di meglio che sciogliersi come neve al sole: io, come tutti i cretesi, mento. Così dicendo, si include come mentitore tra i cretesi, ma in questo dice la verità, pur mentendo come i suoi compatrioti. È un onesto, paradossale, bugiardo. L’intreccio tra verità e menzogna appartiene alle origini della psicoanalisi, nel sintomo rimosso è celata, sotto mentite spoglie, una verità che chiama nell’analista il suo interpretante, il suo Champollion. Il deserto qui si fa intendere allora nel senso che, finché Champollion non sente il suo sommesso richiamo, essa grida nel deserto della rimozione. Ma, come si vedrà affrontando questo vero e proprio viaggio affidandosi alla guida dell’Autore, non c’è solo questo deserto che, poi, si popola di un Altro tanto invocato. C’è anche il deserto spopolato, che non ha più bisogno di guida o interpretante del sentiero che si scava il desiderio del soggetto verso una destinazione liberatoria. C’è il deserto di una dimensione soggettiva nuova, su cui nessuna decifrazione può fare più presa, di una dimensione di solitudine con, non senza, qualcosa che non è più del registro dell’Altro, ma di un nuovo modo di essere. Martin Heidegger ha martellato insistentemente contro il registro della verità come adaequatio rei et intellectus. Nel suo testo su L’essenza della verità2 dice che la verità consiste nel lasciar essere l’ente così com’è, nella libertà, desertificata da pregiudizi, rimozioni, resistenze, difese, di aprirsi alla dimensione del lasciar essere l’ente, quel qualcosa, diremmo noi, che si fa luce nella penombra del dire, penombra che la luce accecante del deserto non può annullare. È un lasciar essere, dice Heidegger, che non ha nulla a che vedere con la noncuranza, la trascuratezza, il menefreghismo imperante nella soggettività della nostra epoca, verso ciò che si manifesta un po’, è un attivo lasciar essere la verità semipiena, semiluminosa, che affiora nei buchi, nei varchi dell’articolazione significante. Si consente, così, di lasciar essere anche una nuova soddisfazione, meno incivile di quella occultata nel sintomo selvatico, che gridi o meno. È un lasciar essere ciò che si è, che si era da sempre senza sa2  Martin Heidegger, Dell’essenza della verità, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 143-147.

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premessa, promessa di un viaggio

9

perlo. Questo tipo di vero non ha più niente a che fare con la realtà, è radicale disadaequatio rei et intellectus. La disgiunzione tra vero e reale nel senso della realtà è un elemento forte, portante, dell’insegnamento di Lacan, di cui egli si servì per articolare la sua fine critica a Freud. Freud, è vero che teneva tanto alla saldatura tra reale e verità, ma è un elemento da non dare così per scontato, anche se il linguaggio di Freud, sciupato dal positivismo, ce ne può dare la prova. C’è un esempio molto preciso che qui evocherò, quello della perdita di memoria sull’Acropoli3. Freud da tanto tempo desiderava andare ad Atene, ne aveva sentito parlare a scuola e stentava a credere che una tale meraviglia fosse davvero situata in un posto del mondo. Alla fine ci va, e, quando ci arriva, ha un momento di vacillazione, e si chiede se quello che percepisce lì è veramente adeguato, se si tratta proprio di quello che aveva da sempre desiderato, il reale del suo desiderio, articolato nel suo inconscio, se corrisponda proprio a ciò che vede lì. «Ma sono proprio di fronte all’Acropoli?». Gli sembra inverosimile: del resto, anche nel dire comune, quando si è di fronte ad una sorpresa, soprattutto nel bene, ma anche nel male, ci vien da dire «no, non è vero!, non ci credo!…», ad indicare qualcosa di sorprendente, investito di libido. Quindi già nei sentieri, nei modi del dire, questa dicotomia è presente, questa frontiera tra reale e verità già si disegna nella struttura dell’essere parlante. Il reale, come tutti sappiamo è qualcosa che sfugge, non è così acciuffabile coi lacci della realtà. È, come dice Jacques-Alain Miller, una sfida del «vero a dispetto dei fatti»4, si impone come più vero dell’apparente verosimiglianza dei fatti. Freud fa ricorso ai miti, è generoso sui miti: Mosè, Totem e tabù, Edipo, usa lo strumento mito per acciuffare il reale che scappa, su questi miti Freud non sta tanto a discutere se sono veri o se sono falsi, se corrispondono o meno a verità storica, ma li autentifica, accredita in qualche modo la saldatura tra reale e verosimile, è come se ci dicesse di fare finta che il mito di Edipo sia vero, che sia esistito veramente il padre dell’orda di Totem e tabù, far finta che l’uomo Mosè 3  S. Freud, Un disturbo di memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland, in Opere, XI, Boringhieri, Torino 1979. 4  Jacques-Alain Miller, Una lettura del Seminario Da un Altro all’altro, “La Psicoanalisi”, 67, Astrolabio, Roma 2020, p. 92.

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10

premessa, promessa di un viaggio

sia esistito davvero. Questo è ancora più evidente, lì Freud è esplicito su Mosè, lo dice: è esistito, non è esistito, ma forse sì, però ci lascia in sospeso e ci invita a passare oltre, a servircene, facendo come se ci fosse davvero stato questo Mosè. Invece Lacan procede diversamente, potremmo dire che parte in quarta a smantellare il mito di Edipo, stiamo parlando del primo Lacan, non dell’ultimo. Lacan parte in quarta a smantellare il mito di Edipo e lo traduce in formula, lo traduce in metafora paterna5, spazza via l’immaginario del mito, rifiuta di servirsi dell’immaginario, ma comincia a servirsi della formalizzazione a cui attingerà a piene mani nell’ultimo insegnamento. Dalla formula della metafora paterna, si passerà all’ampio uso della logica, dove, nella logica, il vero e il falso, verità e reale sono puri valori logici, extra verosimiglianza. La formalizzazione non si può dire né che sia vera, né che sia falsa. È formalizzazione e basta. La figura paterna, vera, falsa, no, si dà così. Pensate anche alla disgiunzione vero e reale che investe la clinica, la logica la oltrepassa, è extra verosimile, la logica è funzionante ma fa a meno della verosimiglianza. Si veda il caso dell’uomo delle cervella fresche6 che si lamenta dal suo analista di essere un plagiario che copia le idee degli altri, lamenta di non riuscire a mettere un suo contributo. Allora Ernst Kris gli chiede di portargli i suoi scritti, li legge e gli dice che non sono affatto plagiati. Gli dice, a mo’ di interpretazione, che il suo desiderio è quello di sopravvalutare e valorizzare le idee degli altri come migliori delle sue, che però, quando si tratta di scrivere, lui non copia affatto. Dopo che Kris gli ha detto questa cosa, il paziente esce dalla seduta e va in un ristorante a mangiare il suo piatto preferito, che sono, appunto, le cervella fresche. Quindi Kris dice al paziente che è vero che lui desidera mangiare le idee degli altri, che ritiene migliori delle sue. È vero, ma non tocca il reale della cosa. Kris, dicendogli questo, cioè dicendogli ciò che è verosimile, manca completamente il reale della pulsione orale in questo soggetto, gli sfugge il reale della pulsione orale, gli sfugge cosa vuol dire nel paziente il vero reale della sua pulsione. Si tratta qui di un acting out della disgiunzione tra reale e vero. 5  Jacques Lacan, Una questione preliminare ad ogni trattamento possibile della psicosi, in Scritti, II, Einaudi, Torino 1974, p. 553. 6  Ernst Kris, Psicologia dell’io e interpretazione nella terapia psicoanalitica, in Gli scritti di psicoanalisi, Boringhieri, Torino 1977, p. 200.

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premessa, promessa di un viaggio

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Prima di consegnarvi all’avventura della traversata che questo breviario dell’attraversamento del concetto di verità in Lacan comporta, vorrei riportare qui un parallelismo molto prezioso che stabilisce il poeta, che sempre la sa lunga, secondo Lacan, Wystan Hugh Auden nel suo libro Gl’irati flutti, in particolare nel capitolo dedicato al mare e il deserto7. Si tratta di un attraversamento per mare o per terra desertica, in questo viaggio del soggetto verso la propria verità singolare e mai tutta nel dire, bensì nel dire a metà? Auden descrive il viaggio per mare, a dispetto del romanticismo che ne fa una traversata ricca di promesse e potenzialità, come una sorta di hybris soggettiva. «Il mare – dice – è in effetti quel barbarico stato di indistinzione e disordine da cui è emersa la civiltà e nel quale è sempre possibile che essa ricada»8. La nave come metafora dello stato o della società, aggiunge Auden, viene usata solo quando la società è in pericolo. Sta bene nel porto, non dovrebbe trovarsene fuori. Quando la società è in uno stato di normalità l’immagine appropriata è la città o il giardino. Il viaggio per mare, dice ancora, è un male necessario, l’attraversamento di ciò che separa ed estrania. Cercare di attraversarlo tradisce una temerarietà che rasenta la hybris, la tracotanza oltraggiosa verso gli dei. E, come se non bastasse, dice che nell’Apocalisse la nuova visione del cielo e della terra alla fine de tempi è che «non vi è più alcun mare»9. I grandi viaggiatori come Ulisse sono infilati da Dante nei gironi dell’Inferno: Ulisse come cattivo consigliere. Il deserto è il luogo dove nessuno, cito, desidera trovarsi. O uno è costretto ad andarvi perché è un criminale fuorilegge o un capro espiatorio o sceglie di ritirarvisi per stare da solo. È un luogo di punizione per i rifiutati dalla comunità umana o luogo di “purgazione”, è insomma un luogo fuori dalla legge. O è, ancora, un luogo di castità ed umiltà, dove non ci sono le più sottili tentazioni dell’orgoglio, corpi belli o letti confortevoli, dove il diavolo compare con la sua propria forma. Ecco, siamo in quest’ultimo registro, di un demoniaco, per così dire, di un godimento che ci tenta, ci agita, ci manovra, finché non lo lasciamo essere, sappiamo stare di fronte alla sua 7 

Wystan Hugh Auden, Gl’irati flutti, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 27-60 Ivi, p. 33. 9  Ibidem. 8 

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premessa, promessa di un viaggio

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apertura, come dice Heidegger, affinché esso sia ciò che è. Ben altro dalla tautologia di un viaggio che, se appartenesse ad un esercizio tautologico, renderebbe inutile ogni partenza e derisorio un attraversamento. Al contrario, il punto di arrivo di questo deserto è una dimensione che, più che una meta, mette in evidenza una metà della verità, incorporata nel nuovo essere riassunto da Lacan nel concetto di sinthomo10, modo di essere ciò che si è. Il mare renderebbe la traversata, invece, impropria ad un lasciarsi essere, poiché, come dice Auden citando a sua volta Marianne Moore: «È della natura umana stare al centro di una cosa; ma del mare non si può stare al centro»11. Pena l’esserne giustamente travolto, capitano pietoso che ha voluto non ciò che desidera, anzi che ha tradito ciò che desidera.

10  Jacques Lacan, Il Seminario libro XXIII, Il Sinthomo (1975-1976), ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 2006. 11  Auden, Gl’irati flutti cit., p. 33.

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Preliminare

«È questo termine di deserto al quale Lacan resterà fedele ogni volta che dovrà parlare della verità nei suoi rapporti con il sintomo»1

Il deserto della verità è un titolo che indica una posizione della psicoanalisi che Lacan ha isolato per la prima volta. Al di là di Freud che amava la verità, psicoanalitica beninteso. Freud ha dato un taglio netto distinguendo tra ciò che è una verità psicoanalitica e altre verità, in primis, come ha ricordato JacquesAlain Miller, la verità terapeutica2. Per Freud la verità psicoanalitica è la verità del desiderio, inconscio, che l’esperienza di una psicoanalisi può giungere a elucidare, a far sì che il soggetto che vi si implica ne venga a sapere. Freud questa verità la vede imprigionata nei sintomi, mascherata nel fantasma, rivelata in un éclair dalle formazioni dell’inconscio (sogno, lapsus, atto mancato, dimenticanze, Witz). Non è mai una verità dei fatti, né una verità celestiale, né quella sostenuta “con le migliori intenzioni”, come annunciava il titolo di un notevole film di Bille August. Lacan inizialmente ha non solo fatto propria la posizione freudiana sulla verità ma l’ha amplificata. In una conferenza che annunciava il tema della cosa freudiana3 è giunto a dire, in una Vienna tanto sbalordita quanto era stata distratta, che la verità nella psicoanalisi 1 

Jacques-Alain Miller, La natura dei sembianti, “La Psicoanalisi”, 16, 1994, p. 184. Jacques-Alain Miller, Cose di finezza in psicoanalisi, “La Psicoanalisi”, 58, 2008-09, p. 132. 3  Jacques Lacan, La cosa freudiana, in Id., Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. I. 2 

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preliminare

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si annuncia con «Io, la verità, parlo», cioè che è lei che parla, in prima persona, nessuno se ne può fare il rappresentante vuoi come padrone vuoi come sapere che sa. Era la radicalizzazione dell’intrinseco legame tra la verità e la parola, che poggia entrambi i piedi nel campo dell’Altro, dunque che dice all’insaputa del soggetto, quindi che sorprende ed in tal modo ha degli effetti. Ma è anche la verità che incide nella formazione del sintomo quando essa è oggetto di una rimozione. E lì attende, come fosse nel deserto, di venir riconosciuta dal buon intenditore psicoanalista, ed è questo che fece dire a Lacan che la pratica della psicoanalisi era un «metodo di verità»4. Poi Lacan è passato a mettere in campo un logicismo, che richiede lo scritto, in particolare l’uso della lettera, e ha prodotto i quattro discorsi per separare il discorso psicoanalitico dall’universale del “per tutti”, diventato in politica un “tutti uguali”, e promuovere per la psicoanalisi il singolare del “non tutto”, che emana dalla propria pratica, dove c’è l’uno per uno non dell’uguale ma dell’incomparabile. E qui si è avviata man mano una deflazione libidica della parola di verità, compiutasi poi nel “non tutta” di un impossibile a dirla se non a metà. A questo punto non è più una verità che si dà nella parola piena del senso, come agli inizi, non è una verità che si dà tutta nella luce, ma è piuttosto una verità, come Diana, che preferisce il sottrarvisi in un a-parte. È una verità che entra, ancora, in un suo deserto, ma, a differenza di prima, un deserto in cui resiste a farsi recuperare tutta dal senso. Questo deserto della verità è quindi qualcosa che mostra una “sorellanza”5 con il godimento, con ciò che del godimento resta a sua volta oscuro. Tutto ciò non significa affatto che nell’esperienza analitica la verità smetta di avere un peso, non sarebbe più una psicoanalisi se fosse così, ma vuol dire che quel che verrà a dirsi saranno piuttosto variabili verità attorno a ciò che non cambia, che Lacan ha chiamato sinthomo, il sintomo sottratto radicalmente all’Aufhebung del simbolico. Significa che quelle variabili verità saranno loro a dire rispet4  Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Id., Scritti cit., p. 234. 5  Cfr. Jacques Lacan, Il Seminario libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2001, cap. IV.

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preliminare

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to a ciò che del godimento exsiste nel reale, fuori senso. E questo è ciò che ha portato Lacan, in fine, a siglare il loro destino di “verità mendace”6. I capitoli di questa triade che segue cercano di suggerire una lettura di alcuni passaggi, parziali indubbiamente, che, a mio parere, hanno contribuito a isolare questa posizione della verità nella psicoanalisi lacaniana.

6  Jacques Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI, in Id., Altri scritti, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 563.

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1. Sapere e verità. Una dialettica in tre tempi

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1.1. Il sapere bavaglio della verità1 Nel Seminario I alla fine, negli ultimi due capitoli – il XXI (La verità sorge dal fraintendimento e il XXII (Il concetto di analisi) – Lacan parla del diedro a sei facce2, dove si delineano i legami tra simbolico, reale e immaginario. Lacan parla dell’odio e dell’amore come passioni dell’essere, a cui aggiunge l’ignoranza, che egli situa tra simbolico e reale. In questo momento per Lacan il reale è al di qua del simbolico, di cui ci si serve per simbolizzarlo, significantizzarlo. Poiché il simbolico non può darci in anticipo una presa sul reale, in analisi occorre tempo per procedere in tal senso. Un’esperienza analitica implica esattamente che ci sia una simbolizzazione del reale passo dopo passo, nel tempo. L’ignoranza si colloca in primis in questo sfasamento temporale. All’inizio dell’esperienza analitica c’è ignoranza perché ci si trova in anticipo sulla simbolizzazione soggettiva, che dovrà avvenire. L’ignoranza qui è di colui che ignora necessariamente ciò che sarà della realizzazione significante del suo essere. Nel suo primo insegnamento per Lacan fuori dall’analisi l’essere del soggetto non ha alcuna presenza se non virtuale. Lacan dirà precisamente che questo essere del soggetto è “da realizzare”, nell’accezione precisa che vi dà, cioè che è il simbolico che realizza l’essere del soggetto. Non si può quindi entrare in analisi se non ignorando de facto ciò che avverrà solo progressivamente per il tramite di quella simbolizzazione che il soggetto arriverà a dire. 1  Jacques-Alain Miller, Le paradoxe d’un savoir sur la vérité, “La Cause freudienne”, 76, 2010, pp. 122-123. 2  Jacques Lacan, Il Seminario, Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1978, p. 334.

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18

il deserto della verità

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Quando il soggetto giunge in analisi è dunque nell’ignoranza, è a livello del «non so». In analisi all’inizio occorre quindi far posto «a ciò che non si sa» che è già l’evocazione dell’inconscio. Il soggetto non può dire “io so” e al contempo situarsi nell’inconscio. Solo situandosi progressivamente nell’enunciazione di questa ignoranza il soggetto potrà ingaggiarsi, dice Lacan, nella «ricerca della verità». Se all’inizio dell’esperienza analitica troviamo qualcuno a cui è preclusa questa ignoranza, questa dimensione del «non so», se troviamo qualcuno che non è diviso tra ciò che sa e ciò che non sa, sarà molto complicato avviarlo verso l’esperienza dell’inconscio, del dire che chiama l’interpretazione analitica della verità. «All’inizio dell’analisi, come all’inizio di ogni dialettica, questo essere, se esiste implicitamente, in modo virtuale, non è realizzato»3. Questa frase mette ben in risalto come, all’epoca cui facciamo riferimento, per Lacan l’essere se “esiste implicitamente” è quel che resta in attesa di realizzarsi in quanto verità. Così l’analisi è ciò che si offre, attraverso il dire, di avviare il soggetto alla realizzazione del suo essere come verità, ma, a tal fine, occorre che il soggetto analizzante assuma la passione dell’ignoranza, ‘patisca’ quale condizione per, progressivamente, voler sapere del proprio inconscio. La posizione necessariamente iniziale della passione dell’ignoranza al livello dell’esperienza analitica non vuol dire che tale passione sia una passione per il non sapere ma al contrario è la condizione del procedere del lavoro analizzante verso la messa in forma significante di una verità dell’essere. E questo vale per collocare l’ignoranza, insieme all’amore e all’odio, nella serie delle passioni dell’essere. Nell’analisi ci si attende che l’analista si faccia interlocutore di questa passione dell’ignoranza che implica il soggetto analizzante, come condizione affinché la sua parola si compia come realizzazione dell’essere in quanto verità. Ma affinché lo psicoanalista se ne faccia l’interlocutore egli, dice Lacan, deve prendere posizione in una docta ignorantia4, secondo l’espressione di Nicola Cusano5, dunque ignorare ciò che sa, e accettare questo concetto di una finzione però operativa. 3 

Ivi, p. 335. Ivi, p. 343. 5  Nicola Cusano, La Dotta ignoranza. Le Congetture, Rusconi, Milano 1988. 4 

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1. sapere e verità. dialettica in tre tempi

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È la condizione già auspicata da Freud, che l’analista si ponga di fronte ad ogni nuovo caso come se non avesse esperienza di altri casi, come se non avesse estratto alcun sapere da altri casi, dal momento che il sapere dell’uno non lo potrà guidare nell’analisi dell’altro, di fronte alla ricerca della verità dell’uno non ci si può servire dell’esperienza di sapere data dall’analisi dell’altro. Che l’analista quindi di fronte ad ogni caso debba sapere ignorare ciò che sa mette ben in luce come il sapere già dato non può che fare da ostacolo alla ricerca della verità di ciascuno, sapere e verità qui non vanno a braccetto, occorre, fin dove è possibile, lasciar fuori il sapere saputo per far posto alla passione dell’ignoranza come condizione stessa della ricerca della verità. L’ignoranza quindi, lungi dall’essere qui un ostacolo per la verità ne è la sua maggiore alleata. C’è dunque un’ignoranza necessaria anche dalla parte dell’analista, affinché egli possa sostenere il lavoro analizzante. C’è passione dell’ignoranza dal lato dell’analizzante, però l’ignoranza è necessaria anche dal lato dell’analista, nella forma della “dotta ignoranza”, che Lacan definisce altresì, rispetto al sapere «la sua forma più elaborata»6. E aggiunge che la passione dell’ignoranza dal lato dell’analista è una passione formante, sia perché egli ne deve essere formato sia anche perché essa dà forma all’esperienza stessa dell’analisi come ricerca della verità. L’analista cioè è lui per primo che ha fatto esperienza di come il sapere saputo è da ostacolo alla ricerca della verità analitica, e dunque è lui per primo che, dice Lacan, «non deve misconoscere quello che chiamerei il potere d’accesso all’essere della dimensione dell’ignoranza»7. Poiché l’ignoranza ha il ‘potere’ di fare accedere alla verità, apre la strada alla verità, l’analista è implicato a mantenere la propria posizione in una disgiunzione radicale tra sapere e verità. Se l’ignoranza è la via d’accesso alla verità ne consegue così che il sapere, al contrario, come dicevamo, possa farvi da ostacolo. Jacques-Alain Miller ha messo ben in luce come per Lacan, all’inizio del suo insegnamento, la passione dell’ignoranza dal lato dell’analista si leghi strettamente all’ignorare ciò che sa per lasciar posto al disvelarsi della verità dell’inconscio8. E questo presuppone che all’e6 

Jacques Lacan, Varianti della cura tipo, in Id., Scritti, vol. I cit., p. 353. Lacan, Il Seminario, Libro I cit., p. 343. 8  Rinvio qui all’elaborazione fondamentale di Miller in Le paradoxe d’un savoir sur la vérité cit., p. 122 e a seguire in tutto l’articolo. 7 

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il deserto della verità

poca Lacan facesse propria la tesi che il sapere fa da ostacolo alla verità, che tra sapere e verità occorre mantenere una separazione. In tal senso che il sapere costituisca un ostacolo all’accedere alla verità è la tesi centrale attorno a cui si colloca non solo la passione dell’ignoranza, ma lo sviluppo stesso della cura analitica nella misura in cui il suo orizzonte è quello della realizzazione dell’essere del soggetto in quanto verità. È, all’epoca, a questo a cui punta l’esperienza dell’analisi in cui la realizzazione dell’essere e la sua verità coincidono. Quindi se dal lato dell’analizzante c’è l’ignoranza necessaria, dal lato dell’analista c’è un “so di non sapere” che è un’ignoranza formale. Non si tratta dell’enunciazione della virtù del non c’è niente da sapere perché basta avere un po’ di pratica. «Qui infatti l’ignoranza non va intesa come assenza di sapere, ma al pari dell’amore e dell’odio, come passione dell’essere; perché può essere, come quelli, una via in cui l’essere si forma. Ecco la passione che deve dare il suo senso a tutta la formazione analitica, come è evidente se solo ci si apre al fatto che essa ne struttura la situazione»9. Senza questa ignoranza come passione formante, dice Lacan, non ci sarà mai altro che «un robot di analista»10. Come ha precisato Miller11, Lacan in Varianti della cura-tipo arriva a darci quello che si può considerare lo schema della passione dell’ignoranza, che presuppone che il sapere ostacola la verità. Lacan dice: «l’analista può entrare solo riconoscendo nel proprio sapere il sintomo della propria ignoranza, nel senso propriamente analitico per cui il sintomo è il ritorno del rimosso nel compromesso, e per cui qui come altrove nella rimozione è censura della verità»12. Qui è molto chiaro come per Lacan il sapere partecipa de facto come rimozione, e lascia il soggetto nell’ignoranza quanto alla verità. Non c’è formula che possa sintetizzare al meglio quanto sapere e verità sono divise. L’analista, colui che ha attraversato la propria esperienza analitica, sa che il sapere è stato il sintomo della propria ignoranza, è stato per lui, da analizzante, una leva di rimozione della verità. E in questo momento per Lacan l’analisi deve condurre ad 9 

Lacan, Varianti della cura-tipo cit., p. 352. Ivi, p. 353. 11  Jacques-Alain Miller, Logique du non savoir en psychanalyse, «La Cause freudienne», 76, 2010, p. 183. 12  Lacan, Varianti della cura-tipo cit., p. 352. 10 

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una parola che sia identica al suo essere. L’essere realizzato è l’essere come verità non è l’essere di sapere. Una parola che ingaggia l’analista come analista non è più una parola in cui il sapere faccia da ostacolo all’essere di verità. È una parola in cui sia ridotta al minimo la funzione rimozione del sapere in relazione alla verità.

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1.2. Il non sapere all’inizio ma non alla fine Quattordici anni dopo, con la Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola13, Lacan apre ad una prima fondamentale disarticolazione della tesi del sapere come bavaglio contro la verità. Il termine dell’analisi non è più un essere separato dal sapere, al contrario il sapere vi è implicato e l’essere di fine analisi è l’essere che sa la causa del suo desiderio. L’essere di sapere è l’essere che sa la causa del suo desiderio, «poiché ha rigettato l’essere che non sapeva […] venuto all’essere del sapere […] Così l’essere del sapere si ricongiunge con l’essere del desiderio per rinascere»14. Qui, è esplicito Lacan, l’essere del sapere si ricongiunge con l’essere del desiderio, cosa che prima non era affatto così in quanto l’essere del desiderio, alias la verità, si disgiungeva dall’essere del sapere. L’essere del sapere che si ricongiunge con l’essere del desiderio, dice Lacan, si ricongiunge “per rinascere”, rinascere come? Qui alla fine dell’analisi l’essere del sapere ricongiungendosi all’essere del desiderio rinasce ben diverso da prima, quando il sapere era ostacolo alla verità. Prima era il sapere che dava forza alla rimozione della verità, era il sapere come sintomo della propria ignoranza circa la verità inconscia dell’essere. Ora invece, alla fine dell’esperienza analitica, questo sapere rinasce come il sapere che ‘sa’ la causa del suo desiderio, è diventato il sapere che non partecipa più della rimozione circa la verità del desiderio. È in tal senso l’essere che “ha rigettato” l’essere che non sapeva, nel senso della rimozione, cioè l’essere che non ne voleva sapere della verità. Questo “rigetto” dell’essere che non voleva sapere della verità è quindi il frutto della trasformazione del sapere che, nel 1967, Lacan mette al centro del percorso analitico portato alla sua fine, laddove l’essere del sapere ‘rina13  Jacques Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola, in Id., Altri Scritti cit., pp. 241-256. 14  Ivi, p. 252.

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sce’ effettivamente come desiderio dell’analista15, il desiderio che opera per decostruire il non voler sapere della rimozione, che sintomatizza per l’analizzante il suo rapporto con la verità, che decostruisce così l’identificazione al padrone nella sua posizione di ignoranza e orrore di sapere. Qui non abbiamo più la verità da una parte e il sapere che gli lavora contro. Il sapere non è più una rimozione della verità. Al termine dell’analisi non troviamo più un essere che non sa, bensì un essere che ha rigettato la propria ignoranza perché è venuto a capo dell’orrore di sapere, del “non ne voglio sapere” che diventa il colmo della passione dell’ignoranza. Alla fine dell’analisi, nella Proposta del ’67, il sapere smette di essere un “bavaglio della verità” per diventare la condizione stessa della verità. Il che verrà formalizzato da Lacan alcuni anni dopo con l’elaborazione del discorso analitico in cui il sapere occupa il posto della verità. Quando il sapere è al posto della verità, come nel discorso analitico, siamo al di là del contrasto tra sapere e verità. Nella dottrina della passe del ’67 il soggetto alla fine dell’analisi cessa di ignorare e diventa colui che sa la causa del suo desiderio. Alla fine dell’analisi colui che è stato analizzante diventa il “sapiente” del proprio desiderio. L’esperienza della passe è in tal senso la testimonianza culmine del soggetto circa la trasformazione che la sua analisi ha prodotto del rapporto tra sapere e verità, come condizione dell’effettualità del desiderio dell’analista, in cui l’essere del sapere “rinasce” ad un desiderio inedito, che solo una psicoanalisi può produrre. Nella Proposta del 1967 Lacan, dopo aver dato la definizione del transfert come sapere supposto, dice: Sottolineiamo questo dato per ricondurvi la strana insistenza con cui Freud ci raccomanda di accostarci a ogni caso nuovo come se non avessimo acquisito niente dalle sue prime decifrazioni. Il che non autorizza affatto lo psicoanalista ad accontentarsi di sapere che non sa nulla, perché quello che importa è ciò che egli è tenuto a sapere. Ciò che egli è tenuto a sapere può essere tracciato procedendo dallo stesso rapporto «di riserva» secondo cui opera ogni logica degna di questo nome. Questo non vuol dir niente di «particolare», ma si articola in una catena di lettere così rigorose che, a condizione di non mancarne neppure una, il non-saputo si ordina come il quadro di sapere16.

15  Maurizio Mazzotti, A proposito di una contro esperienza, «Appunti», numero straordinario, settembre 2017, p. 31. (www.slp-cf.it/appunti-straordinario-settembre-2017/). 16  Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola cit., p. 247.

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Qui troviamo un accento su ciò che l’analista “è tenuto a sapere” non esattamente nei termini posti in Varianti della cura tipo, cioè di un “saper ignorare ciò che sa”. Questo “rapporto in riserva con il sapere” è ancora allora la passione dell’ignoranza? Sembrano affini ma qui Lacan passa ad un piano logico, ne fa esplicito riferimento il rapporto «in riserva» con il sapere secondo il modo in cui «opera ogni logica degna di questo nome», è un vuoto logico, un insieme vuoto. Il rapporto in riserva con il sapere è qui, come ha precisato Miller, il perimetro17 del ‘quadro’ del sapere, il perimetro di un posto vuoto che la struttura stessa del significante inscrive e di cui il logico si serve. È questo che traduce logicamente quel che prima era nominato come passione dell’ignoranza. Così Lacan potrà dire che il rapporto in riserva con il sapere, come in ogni logica degna di questo nome, consente lo sviluppo di una «catena di lettere», «rigorosa», a condizione di non «mancarne una», nella quale c’è la possibilità che il «non saputo si ordina come il quadro di sapere». Quello di Lacan qui è uno scatto decisamente logico rispetto a quando questo rapporto in riserva con il sapere era semplicemente enunciato attraverso la dotta ignoranza. Il riferimento alla ‘catena di lettere’ esprime una condizione assai stringente dal punto di vista logico. Infatti si tratta della lettera ancor più che del significante, e con la lettera siamo ad un registro più rigoroso, se si vuole che il ‘non saputo’ sbocchi su un sapere. La condizione letterale qui porta il rapporto con il sapere al livello in cui è la lettera stessa che si situa nel fornirci l’articolazione del sapere inconscio, un sapere alla lettera. Un anno dopo, nel seminario del 1968 Da un Altro all’altro18 Lacan svolge un’elaborazione logica di ciò che conosciamo come oggetto piccolo a. In seno alla prospettiva in cui Lacan «si applica alla dimostrazione dell’inconsistenza dell’Altro»19, appunto l’Altro che non può più garantire la consistenza della verità20. Qui non è 17  Jacques-Alain Miller, Ce qui fait insigne, corso del 1986-87, lezione del 4 marzo 1987, inedito. 18  Jacques Lacan, Il Seminario, libro XVI. Da un Altro all’altro, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2019. 19  Jacques-Alain Miller, Una lettura del Seminario Da un Altro all’altro, “La psicoanalisi”, 65, 2019, p. 24. 20  Ivi, p. 26.

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l’Atro ma è l’oggetto a che è definito da Lacan «il solo elemento consistente»21. In questo Seminario Lacan usa l’espressione «informa di» per qualificare l’oggetto a dicendo che questo “informa” «s’inscrive in una topologia nella quale si presenta a livello di quel campo come ciò che lo buca»22. Dunque non si riassorbe nel sapere al livello dell’Altro, resiste al sapere. Lacan parte dal dire che la struttura dell’Altro prevede questo informa e l’Altro stesso è costruito attorno ad esso. L’oggetto a è quindi ciò che buca l’Altro ed al contempo è ciò che informa l’Altro, lo mette in forma. Qui Lacan compie un’elaborazione logica e topologica di grande spessore23 che collega l’inconsistenza dell’Altro alla consistenza dell’oggetto a. Parte dallo statuto del significante che, dice, in nessun caso può considerarsi come ciò che designa se stesso.24 Il significante infatti è sempre altro da sé, la sua incidenza di significante introduce sempre, separata, un’alterità, al di là della sua inscrizione di significante. Se da un lato il significante s’inscrive, da un altro introduce separatamente un’alterità di vuoto. Anche nella sua più estrema semplificazione, vedi la tacca del cacciatore a cui Lacan faceva riferimento nel Seminario L’identificazione25, anche lì dove può sembrare che il solo tratto unario senza alcuna particolarità sia senza differenza, proprio lì invece esso presentifica la differenza assoluta. Lacan dirà, l’Altro resta Altro non può mai identificarsi con un uno, è il suo essere bucato che non lo può rendere né un uno né un tutto. Una delle tesi sostenute da Lacan in questa articolazione è che nell’“esteriorità”26 di vuoto intrinseca alla stessa inscrizione dell’Altro potranno prendere posto le incarnazioni dell’oggetto a. È una conseguenza primaria del buco al livello della catena significante il fatto che gli oggetti prendano posto in questa conseguenza, nel ‘vuoto logico’, nell’informa dell’Altro. 21 

Ibid. Jacques Lacan, Il Seminario, libro XVI, Da un Altro all’altro cit., p. 299. 23  Per una delucidazione ed un orientamento su questo sviluppo cruciale della dottrina lacaniana rinvio al commento magistrale già citato di Miller, Una lettura del Seminario Da un Altro all’altro, “La psicoanalisi”, 65-67 cit. 24  Lacan, Il Seminario, libro XVI, Da un Altro all’altro cit. p. 310. 25  Jacques Lacan, Le Séminaire livre IX. L’identification, lezione del 6 dicembre 1961, inedito. 26  Lacan, Il Seminario, libro XVI, Da un Altro all’altro cit., p. 310. 22 

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1. sapere e verità. dialettica in tre tempi

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È una versione diversamente articolata della sospensione logica del sapere, per intenderci non la sospensione della dotta ignoranza, ma quella modulata sull’informa dell’oggetto a. In questa logica di buco che è informa dell’Altro, il sapere quindi diventa a sua volta un sapere che porta in sé il tratto della struttura dell’Altro bucato. Dunque è esso stesso marcato dall’inconsistenza da cui è contrassegnato l’Altro. La sua portata in tal senso si relativizza, cede. Il sapere non è immune dall’inconsistenza di buco che informa l’Altro e attorno a cui il sapere stesso prende forma. Così un anno dopo la Proposta del ’67, il “quadro del sapere” a cui il rapporto in riserva con il sapere da parte dell’analista era giunto avendone consentito l’articolazione logica, una logica serrata dall’uno letterale, dalla catena di lettere di cui non se ne era mancata una, questo quadro, come risultante della giusta posizione dell’analista, non è qui, un anno dopo, un quadro che può fornirci un sapere consistente, perché è impossibile a causa della struttura dell’Altro bucato dal godimento che non si lascia simbolizzare. La logica della catena delle lettere si serra attorno alla consistenza dell’oggetto a, e di concerto attorno alla resistenza che questo vuoto pone al sapere. 1.3. La verità sola e mendace La verità, a cui all’inizio il sapere faceva da bavaglio, era il sintomo della sua ignoranza, nel senso della rimozione, e che in seguito diventa il luogo in cui il sapere prende posto, diventando un sapere di verità e non un sapere di rimozione, la verità alla fine resta sola, poiché il sapere non è più di consistenza, è esso stesso bucato dall’oggetto vuoto che è l’informa dell’Altro. La verità resta sola ad indicare quel che il sapere non può più assicurare: una presa esaustiva sul godimento. È il “destino” in cui è incorso il rapporto tra sapere e verità nell’ultima fase dell’insegnamento di Lacan, fase dominata dall’exsistenza del buco, che rende possibile il nodo borromeo. La verità che è sola è una verità che, appunto, non può che essere detta a metà, e in tal senso è verità «da cui ci si deve attendere solo

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la menzogna»27. Non è più la verità che dice «io la verità parlo»28, non può dire così, può solo dire variazioni su un godimento che non si modifica, che è sempre lo stesso, che resiste al sapere. Quella che parla ora è la verità varité29 come la definisce Miller, “varietà” del dirne diverse, plurali, cangianti in relazione a ciò che è reale. Alla fine abbiamo le varietà della verità di fronte ad un godimento che solo si reitera, Uno tutto solo30. È questo Uno senza Altro che destituisce il sapere da un compito di dimostrazione e consistenza divenuto impossibile, lasciando la verità sola, nelle sue varietà, ogni volta di finzione.

27 

Jacques Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI cit., pp. 564-565. Cfr. infra, La verità al suo colmo. 29  Jacques-Alain Miller, Tout le monde est fou, corso del 2007-08, lezione dell’11 giugno 2008, inedito 30  Jacques-Alain Miller, Antonio Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo, Astrolabio, Roma 2019. 28 

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2. Il margine del soggetto. Di una causa che non è a sua volta causata

Ne La Scienza e la verità1, testo con cui si concludono gli Scritti, Lacan tratta il tema della verità come causa in psicoanalisi. In questo testo2 vi sono due punti cruciali: il primo riguarda il fatto che il soggetto della psicoanalisi è lo stesso soggetto della scienza perché sia nella scienza che nella psicoanalisi il soggetto non è niente di soggettivo, non è un ente che è rappresentato da delle configurazioni immaginarie o dalle proprie rappresentazioni che afferiscono ai suoi saperi più o meno eruditi, il soggetto è un ente puntiforme che è nella articolazione di un sistema significante. Questo è il primo punto che avvicina il soggetto della psicoanalisi al soggetto della scienza, ma, e questo è il secondo punto, mentre la scienza esclude qualsiasi rapporto tra il soggetto e la verità, cioè non lo implica in nulla in quella che sarà l’articolazione significante a cui sola la scienza si interessa, nella psicoanalisi il soggetto è sempre implicato nel suo rapporto alla verità come causa isolabile e deve esserlo in quanto implicato nel processo causale che accompagna questa articolazione significante. Il processo causale per Lacan è, in psicoanalisi, contrassegnato da discontinuità, non può essere pensato senza che da qualche parte vi sia il margine del soggetto. Questa espressione la riprendo da Miller3 e nel testo di Lacan può essere riferibile già alla prima parte del suo insegnamento, in Funzione e campo, quando, a partire dall’uomo dei lupi4 riprende il modo in cui Freud ha avvicinato il caso con tutte

1 

Jacques Lacan, La scienza e la verità, in Id., Scritti, II cit. Cfr. infra, La verità al suo colmo. 3  Jacques-Alain Miller, Cause et consentement, corso del 1997-98, lezione del 25 ottobre 1987, inedito. 4  Cfr. infra, La verità al suo colmo. 2 

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le sue stratificazioni5. Man mano che procede nell’analisi di questo soggetto Freud retroattivamente dà un senso a tutto quello che antecede, dà un senso all’antecedente a partire dal susseguente. Qui Lacan parla del «poco di libertà» del soggetto, a partire da ciò che questo processo retroattivo, nel dare senso a ciò che lo precede, un senso che prima non aveva, delimita nel presente le necessità future del soggetto stesso. «Poco di libertà» del soggetto ma comunque un margine del soggetto nell’intervenire nella causalità che dando un senso altro all’antecedente stabilisce alcune condizioni a venire, secondo, potremmo dire, quel wo es war soll ich werden, che Freud eleva a principio della esperienza analitica Noi possiamo inizialmente collegare questo ‘margine del soggetto’ al Freud del carteggio con Fliess6 in cui si occupa della questione della causalità con la famosa eziopatogenesi delle psiconevrosi. Due sono i temi centrali nel carteggio di Freud con Fliess: uno è quello della eziopatogenesi delle psiconevrosi, il secondo tema è quello della autoanalisi. Noi ci occupiamo del primo tema, della eziopatogenesi. In una lettera a Fliess compare per la prima volta la questione della ‘scelta della nevrosi’7. Qui Freud introduce nella eziopatogenesi, nella causalità, un termine che fa immediatamente convenire il margine del soggetto cioè ‘la scelta’. Come vedremo poi, qui Freud è necessitato ad introdurre questa scelta su uno sfondo che non la prevedeva affatto, cioè l’ideale della scienza a cui Freud si è sempre riferito fin dall’inizio, fin da quando giovane medico lavorava all’Ospedale Generale di Vienna, che allora era il centro europeo di eccellenza della clinica medica. L’ideale della scienza per Freud è sempre stato quello della Naturwissenschaft, cioè della scienza della natura, cioè scienza fisica con il suo determinismo. Freud non ha ceduto un attimo nel dire che la psicoanalisi ha a che fare con la Naturwissenschaft, respingendo qualunque considerazione che avrebbe voluto includere la psicoanalisi nella Geisteswissenschaft, scienza dello spirito, secondo la definizione che allora era già in essere ad opera di Dilthey, che poi è 5  Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit., I, pp. 249, 257. 6  Sigmund Freud, Lettere a Wilhem Fliess. 1887-1904, edizione integrale a cura di J.M. Masson, Boringhieri, Torino 1986. 7  Ivi, p. 191.

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diventata la scienza umana. Per Freud le scienze umane erano scienze dell’interpretazione e la psicoanalisi dava un posto alla interpretazione, ma poi c’era la causalità, che per Freud era tutta un’altra cosa. La causa nelle Naturwissenschaften non prevede la scelta, è puro determinismo. Freud lo sa ma ciononostante introduce il concetto di scelta della nevrosi parlando della loro eziopatogenesi, dunque mantiene il margine del soggetto pur nel campo che invece potrebbe non prevederlo. Si è trattato del primo esplicito tentativo di stabilire un legame tra due cose, la scelta e la causa deterministica, che di base non sembrano essere compatibili. Ma Freud era già di fronte alla grande questione psicoanalitica, la questione di come da un lato la causa pone il problema della scienza e come il margine del soggetto, che pertiene specificamente alla psicoanalisi, introduce qualcosa di assolutamente nuovo. Questa questione è poi diventata ancor più cruciale con Lacan. 2.1. La causa originale di Heidegger e quella anticoncettuale di Lacan Il dibattito tra scienze della natura e scienze dello spirito è un dibattito che viene da lontano, per la precisione da Kant. Abbiamo un riferimento notevole di questo nel corso di Martin Heidegger, tenuto nel 19308, in cui egli si occupa del problema della causa. In questo corso Heidegger si interroga su quale sia la causalità nella scienza con riferimento al determinismo e come questa causalità nella scienza non implichi alcuna libertà, mentre a partire da Kant si può dire che per quella specie vivente per cui vale un imperativo etico, cioè la specie parlante, la causalità non funziona come nel determinismo della scienza della natura. Kant non fa riferimento al fatto che siamo esseri parlanti, come ora diciamo noi che ci riferiamo al corpo parlante, ma fa riferimento alla specie umana che è quella che è possibile si ponga un imperativo etico e questo per Kant implica la decisione e la scelta. Per Kant proprio in questo punto preciso della scelta etica non è possibile fare rientrare la libertà del soggetto nella causa determinista. Pertanto per Kant c’è un registro della natura umana che 8 

Martin Heidegger, De l’essence de la liberté humaine, Gallimard, Paris 1982.

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non funziona seguendo il determinismo che abolisce la scelta alias la libertà. Di fronte al ‘Soll Ich’ del dovere etico, dell’obbligazione che impegna il soggetto, lì cessa la causalità deterministica della fisica e prende posto una ‘libertà’ del soggetto, un ‘poco di liberta’, abbiamo detto con Lacan, ma sempre un margine del soggetto non integrabile nella causazione determistica. Heidegger interpretando Kant dice che questo aspetto ha introdotto una frattura interna a tutto il tema della causalità. Cosa ci dice Heidegger della libertà?9 Ci sono due modi di concepire la libertà, uno fa riferimento alla libertà negativa che, dice, “è chiaro cosa sia”, è una esperienza fondamentale dell’essere umano e il fatto che sia aggettivata al negativo non implica un giudizio negativo, si tratta della libertà percepita come indipendente da questo o da quello, la libertà da un vincolo, dalle catene, dalle potenze che ci minacciano… Poi c’è la libertà positiva che, a differenza della prima, appare più oscura e difficile da penetrare, è la libertà non ‘da’, ma ‘per’, ed è quella che dipende unicamente dal nostro agire. La libertà ‘per’ è agire partendo da ciò che stabilisce in noi e non nell’altro qualcosa che porta ad agire, che è in noi che si fa causa e questa Heidegger la chiama causalità indeterminata, è una causalità che introduce un’indeterminazione. Questa libertà non è una idea trascendentale, non è una necessità naturale, ma è implicata nel nucleo etico. È qui che per Heidegger libertà e causalità, nel soggetto umano e in nessun altro ente naturale, si congiungono. Se l’ente naturale ha la propria causalità nel determinismo fisicalista, il soggetto umano, capace di obbligazione etica, di scelta, ha la sua causalità nella libertà all’indirizzo del determinismo fisicalista. Questa per Heidegger è la posizione decisiva posta da Kant10. Che cosa è la causalità fisicalista? Occorre preliminarmente precisare che in essa la causa ha sempre delle conseguenze, la causa produce un effetto che le è successivo, non si è mai visto che l’effetto anteceda la causa, l’effetto è sempre a seguire, mentre la causalità antecede. Qui alla causalità fisicalista si lega la serie temporale dell’antecedente 9 

Ivi, p. 31. Ivi, pp. 37-38. Viene da chiedersi come sia successo che, oggi, abbiamo fatto un passo così forte verso l’avanzata all’indietro, al neofisicalismo naturalistico, quello, per intenderci, che identifica l’inconscio con il cervello, e come tutto ciò venga spacciato come progresso, mentre è il più grande oscurantismo. 10 

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2. il margine del soggetto. di una causa che non è a sua volta causata

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e del successivo, quindi vi è un principio temporale intrinseco a questa causalità, una freccia del tempo che indica la direzione, ciò che precede non può essere ciò che segue. In questo determinismo non c’è reversibilità ma unilateralità nella direzione, orientata nel tempo. La causa e l’effetto possono anche essere simultanei, c’è il lampo, il fulmine e poi gli effetti, nel momento in cui si vede il lampo gli effetti sono praticamente simultanei, ma il rogo che brucia, cioè le conseguenze del fulmine, sono sempre successive alla causa, quindi c’è simultaneità ma non reversibilità tra causa ed effetto. Poi va considerato anche un altro aspetto, fondamentale, che riguarda il fatto che la causa fisica è sempre un’effetto di un altra causa: il lampo che causa il fuoco è a sua volta un effetto di un’altra causa fisica. Per questa ragione Heidegger dice che nel determinismo fisicalista non c’è mai una «causa originale»11, c’è invece un continuum che va all’indietro all’infinito, non si sa da dove comincia. Dunque non c’è una ‘causa originale’ che si distacca dalla serie delle cause, non c’è una causa che a sua volta non dipende da una altra causa. Se l’agire della causa fisica, della materia non è mai un agire “originale”, l’agire etico della specie parlante lo è, ed in questo senso esso implica una libertà del soggetto dal determinismo assoluto che lo abolirebbe. Nella psicoanalisi noi abbiamo a che fare con una causa che non dipende da un’altra causa, che è quindi una “azione originaria”, detta con Heidegger, che dà inizio a una causa incondizionata, rispetto alla catena di altre cause. Questo è un punto essenziale, quello in cui la causa si fa discontinuità in quanto implica il soggetto. Per Heidegger, quando c’è l’imperativo etico vi è in gioco questa causa incondizionata, che non è determinata a sua volta da un’altra, che non è una causa sempre subalterna ad un’altra che l’antecede. La causa originaria del soggetto non ha un antecedente, non è nella serie, ma è discontinuità, avvio di qualcosa d’indeterminato, si decide lì, non ha una subalternità. Se nell’ esperienza analitica ci vuole tempo è anche perché per intravvedere la causa che non è a sua volta causata, e la cosa si decide quando qualcosa si fa causa originale, quando qualcosa non è più effettuato da qualcos’altro, per questo ci vuole tempo. La latenza della 11 

Ivi, p. 203.

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causa nell’esperienza analitica, la latenza dietro l’articolazione della supposizione di sapere, è dell’ordine di ciò che implica una traversata che prende tempo, e questa latenza cessa quando si decide la causa o giunge a decidersi, là dove si fa ‘originale’, e da lì cessa di sorreggere l’appello della decifrazione dell’inconscio. Cos’è la causa che ha una originalità per ciascuno? È la causa che non può essere deterministica, quindi non è subalterna ad un’altra causa, non appartiene ad una legge, quella fisica appartiene alla legge del divenire fisico, quindi è una causa obbligata dentro ad un divenire, mentre la causa originale non è obbligata ad un divenire, è piuttosto l’avvio di qualcosa che non è nella serie, è in rottura, in discontinuità, singolare. È ciò che si è deciso nel soggetto e a cui il soggetto ‘deve’ acconsentire, come ha precisamente rimarcato Miller12, e qui sta il ‘poco’ di libertà del soggetto, nel dovere del soll ich freudiano, di acconsentire alla sua causa. Per Heidegger il grande merito di Kant sta nell’aver introdotto la discontinuità del fatto etico, della azione etica, della scelta etica. Heidegger dice che la causa etica è quella che spezza il filo conduttore della regola della determinazione del divenire, che si libera dall’obbligo di prendere posto rispetto a ciò che la precede13. Si può dire che è lacaniano ciò che dice Heidegger nel 1930. La causa originale si stacca dal filo obbligante del divenire, quindi non è riassorbibile in questa legge. Se facciamo riferimento al Lacan del Seminario XI in cui inizia ad interrogare la causa dicendo che la causa non ha niente a che fare con la legge della concatenazione significante, è una causa che si assentifica da lì, che non c’è causa che di ciò che zoppica14, ritroviamo una concordanza non secondaria. Nel Seminario XI Lacan dice che la causa in psicoanalisi è una causa anticoncettuale15, una causa assente, tanto più essa è assente tanto più i fenomeni ‘ballano’. Infatti l’unico esempio che Lacan prende dalla fisica è quello delle maree, dove c’è una causa assente e cioè le fasi lunari e i loro effetti sulle maree. C’è la causa che non è lì, che fa apparire il vuoto, non c’è continuità con l’effetto. La causa originale è qui, è la causa come 12 

Miller, lezione del 6 gennaio 1988, cit. Heidegger, De l’essence de la liberté humaine cit., p. 210. 14  Jacques Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Il Seminario. Libro XI, ed. it. a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1979, p. 23. 15  Ibid. 13 

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2. il margine del soggetto. di una causa che non è a sua volta causata

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anello mancante di una concatenazione deterministica, è la parte irriducibile a questa determinazione. Heidegger definisce questa causa irriducibile «un oggetto vuoto»16, non percepibile come lo è un fenomeno, come fosse esso stesso un fenomeno. Questa causa, dice Heidegger, non si vede e non si sente ma si prova nell’effettualità, ha degli effetti. La si prova nel soll ich werden nell’effettualità di un’agire etico. Miller in un intervento che ha fatto alla sede della École de la Cause Freudienne, a Parigi, il primo che ha avviato la serie successiva di interventi sulla eresia e l’ortodossia, dice: «La fine dell’ analisi confluisce necessariamente con una messa in atto di ciò che è stato acquisito nella analisi»17. Anche qui è in una effettualità che il soggetto può assumere o meno la causa, acconsentendo a ciò che l’analisi stessa gli ha fatto acquisire. La fine della analisi converge necessariamente con una messa in atto di ciò che è stato acquisito dal soggetto nell’ esperienza stessa, egli può acconsentire oppure no a ciò che, per lui, fa di una causa una causa originale. È qui che c’è l’acconsentire, l’effettività, il momento su cui Lacan aveva speso la famosa formula che ha fatto scuola, che alla fine dell’ analisi il soggetto può essere portato al punto di «volere ciò che desidera». È una frase che sigla questo momento come una scelta etica, un ‘soll ich’, una decisione, un acconsentire all’effettualità di una causa, che non si vede né si sente ma si prova nella sua effettualità. Lacan, Miller lo ricorda, ha parlato dell’oggetto a come oggetto buco, che «ha la sostanza del buco»18, che buca l’Altro del significante, rendendolo inconsistente, mancante del significante che restituirebbe il continuum causale del ‘soggetto’, la sua ‘piena’ o consistente determinazione. Solo con l’Altro consistente invece avremmo una causa a cui ‘necessariamente’ non può implicarsi alcun assenso, alcun ‘volere’ ciò che si desidera. Al suo posto ci sarebbe la dimostrazione esaustivamente formalizzata del divenire di una causazione, avremmo il concetto della causa non la prova del suo assentirvi, né della sua assenza laddove i suoi effetti ballano in noi stessi. 16 

Heidegger, De l’essence de la liberté humaine cit., p. 234. Jacques-Alain Miller, Point de capiton, Seminario del 24 giugno 2017, “La Cause du Desir”, 97, 2017, p. 100. 18  Jacques-Alain Miller, Una lettura del Seminario Da un Altro all’altro, “La Psicoanalisi”, 65, 2019, p. 28. 17 

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2.2. Un meno di enfasi sulla libertà Occorre a questo punto fare un distinguo tra la posizione psicoanalitica e quella in cui si colloca la riflessione di Heidegger che, pur essendo in un solco di interrogazione che interseca il discorso analitico, se ne distacca attorno alla questione della libertà, che è per il filosofo un tema centrale. Il margine del soggetto nella causa per lui è la questione stessa della libertà umana. Noi non possiamo enfatizzare in egual modo il tema della libertà, noi abbiamo quella che Freud chiama scelta, il margine del soggetto di Lacan è il ‘poco di libertà’ di cui disponiamo, perché per il soggetto della psicoanalisi implicato dalla catena significante, di libertà ce ne è poca, però il suo margine è quello di acconsentire agli effetti che la catena significante in cui è preso ha posto in lui, acconsentire a ciò che lo causa, ma non è mai lui, il soggetto stesso, l’ente causante. Nella psicoanalisi il soggetto è causato non causante, in relazione alla causa è poco libero, la sua scelta, il suo margine di ‘libertà’ è assentire, dire si alla sua causa. Qui si colloca il soll Ich dell’etica della psicoanalisi, in questo margine di ‘poca’ libertà. Il soll Ich dell’etica della psicoanalisi è un margine di discontinuità, ed è lì che troviamo il soggetto in rapporto alla causa. Nella psicoanalisi il soggetto non può dire «sono causante, ho un margine di libertà», ma «sono causato, ne provo gli effetti, e dopo una loro traversata dovrò acconsentire a ciò che mi causa». D’altra parte questo soll Ich non lo si aspetta solo alla fine dell’analisi, nella sua effettualità più propria, ma lo si aspetta anche all’inizio dell’esperienza. Il soggetto fa appello all’analista per risolvere la sofferenza di cui patisce, ma l’analista si chiede: «Vorrà questo soggetto diventare anche analizzante?». È la questione su cui si deve situare l’analista ogni volta, porsi la questione se il paziente che soffre vorrà diventare analizzante. È decisivo ogni volta, perché non si deve escludere per nessuno, si deciderà, molti lo diventano, ma non tutti. Lacan in un primo tempo diceva che ci vuole un desiderio deciso per diventare analizzanti, ma che vuol dire? Arriva un soggetto che soffre del sintomo, non sa cosa desidera e cosa lo muove nel mondo, se c’è una cosa che non è decisa per lui è il suo desiderio, ma come gli si può porre già all’inizio la prova del desiderio deciso? È alla fine della analisi che può risultare un desiderio deciso perché ha trovato l’ap-

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2. il margine del soggetto. di una causa che non è a sua volta causata

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poggio nella sua causa. Che vuol dire dunque desiderio deciso all’inizio dell’analisi? Che il soggetto che diventa analizzante è il soggetto che nella sua parola non prende più la realtà come referente, bensì si orienta sul senso che queste parole ricevono quando parla all’analista. Il suo assenso si sposta, non lo dà più alla realtà di cui parla ma al senso che si produce in quel che dice19. Questa è la condizione affinché possa volerne sapere di quel che dice, delle conseguenze del suo dire. Al contrario di come il referente di realtà può costituire un saldo appoggio per non volerne sapere nel senso della rimozione20. All’inizio il soggetto dal desiderio deciso è il soggetto che desidera saperne di quel che dice e non dice, di quel che dice senza pensarci di dirlo. Questo soggetto è il paziente che può diventare analizzante, perché sceglie, acconsente al fatto che la sua parola non è in relazione alla realtà ma agli effetti di significato del significante che l’articola. Questo è un passaggio decisivo perché lì c’è qualche chance di mettere un po’ più tra parentesi il ‘non ne voglio sapere niente’, di chi si riferisce costantemente alla realtà, impedendosi di volerne sapere di ciò che determina il soggetto nell’inconscio. Sta all’analista decidere se e quando un paziente può diventare analizzante, cioè dare il suo assenso al margine del soggetto che si è aperto in una discontinuità che lo implica in rapporto all’inconscio. Come si pone la ‘scelta’ dal lato dell’analista? C’è tutta una vulgata per cui l’analista si attesta sulla prima indicazione di Freud21 dove compare la formula che ha fatto epoca, dell’ascolto fluttuante che implica che nell’ascolto della parola del paziente non ci debba essere alcuna scelta, l’analista deve essere piuttosto indifferente perché se scegliesse per questo o per quello potrebbe scegliere secondo quello che egli stesso già sa e quindi farsi suo malgrado strumento della rimozione del soggetto e precludersi così l’accesso all’inconscio. Questa posizione di ‘non scelta’ dell’analista, si è prolungata in attitudine della sua posizione nel campo sociale, verso cui l’analista deve essere indifferente. Miller precisava però che ‘ascolto fluttuante’ del dire dell’analizzante e indifferenza verso lo spazio sociale non sono affat-

19 

Miller, Cause et consentement cit., lezione del 25 novembre 1987. Cfr. infra, Sapere e verità. 21  Sigmund Freud, Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico (1912), in Id., Opere, vol. VI, Boringhieri, Torino 1974, p. 533. 20 

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to la stessa cosa22. La mobilitazione dell’École della Cause Freudienne all’epoca delle elezioni presidenziali in Francia che opponevano Macron e Marine Le Pen ha dimostrato che gli analisti non potevano restare indifferenti quando sulla scena politica era in gioco la democrazia e lo stato di diritto. Nella sua pratica dov’è quindi che l’analista sceglie? Non a livello dell’ascolto appunto ma al livello del desiderio dell’analista nella direzione della cura23. Lacan ha criticato Freud, in riferimento al mito in cui Atteone24 si accanisce a correre dietro a Diana per vederla e scoprirla tutta. L’Atteone che si spinge dietro a Diana fino ad incappare nei suoi stessi cani che Diana ha indirizzato verso di lui una volta che lo ha trasformato in cervo, è l’analista che ama la verità. Attraverso questo mito Lacan criticava l’analista mosso dall’amore per la verità, e Freud aveva questo amore per la verità, non era indifferente al fatto che si andasse a stanare la verità nell’inconscio nella direzione che lui imprimeva alle sue cure. Lacan ha posto la scelta dell’analista non nell’amore per la verità ma in quello che egli ha chiamato “desiderio dell’analista”, un desiderio che sceglie di mettere a maggior distanza possibile l’ideale dalla causa, senza andare ad imbrogliarsi troppo a senso unico con la verità. Il desiderio dell’analista è una scelta etica che fin dall’inizio si fa sentire quando si attende che il soggetto voglia diventare analizzante, la scelta è già lì, già lì l’analista non è indifferente, opta per il desiderio che non resta imbrigliato nel ‘non ne voglio sapere’. Se c’è una cosa su cui l’analista non deve mai acconsentire è sul ‘non ne voglio sapere’ e qui sta la scelta dell’analista che orienta la cura. Per cui con il desiderio dell’analista, l’analista cessa di essere ‘neutro’, questo è il soll ich dell’analista. 2.3. L’identificazione tra verità ed essere Il margine del soggetto e la causalità è il tema introdotto per la prima volta da Lacan nel Discorso sulla causalità psichica del

22 

Miller, Point de capiton cit., p. 93. Ivi, p. 94. 24  Cfr. infra, La verità giunta al suo colmo. 23 

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194625. Il Discorso sulla causalità psichica è quello in cui Lacan prese posizione andando contro la tesi di un suo caro amico, Henry Ey, con cui aveva condiviso parecchie esperienze nella clinica, e che allora aveva avanzato la sua teoria sull’organo-dinamismo, che Lacan riteneva organicistica e che rischiava di considerare il folle un soggetto deficitario. Qui Lacan entra a gamba tesa spiegando che il folle è un soggetto la cui causa va posizionata a partire dal fatto che egli parla, che egli dà senso a quel che dice e non in una dimensione organicistica. L’argomentazione di Lacan, conformemente alla sua posizione teorica in quel momento, mette al centro il tema dell’identificazione. Egli dice: «il rischio della follia si misura sull’attrazione delle identificazioni in cui l’uomo ad un tempo impegna la sua verità e il suo essere»26. Quello che va sottolineato qui è il rapporto tra la verità e l’essere. L’identificazione prende posto tra le due. Nel caso della follia vi prende posto ‘impegnandole ad un tempo’. Vediamo la distinzione che Lacan introduce con un riferimento a due personalità storicamente ben definite. Egli riprende la distinzione tra l’identificazione e il ruolo. Ad esempio l’identificazione con la posizione regale in cui si suppone che chi è in questa posizione giochi bene il suo ruolo e che quel che inquieta sempre è se la persona ci «creda davvero». «Napoleone, dice Lacan, non si credeva affatto Napoleone»27. Ludwig di Baviera invece si è creduto l’incarnazione di una funzione regale «che appare nell’ordine del mondo»28. Il folle dunque è colui che si crede davvero Napoleone, cioè colui per il quale l’identificazione è «senza mediazione»29, essa si esprime nel suo carattere di infatuazione, di ciò che impone la propria legge del cuore in ciò che gli appare il disordine del mondo, come Lacan dirà seguendo il principio hegheliano. Il tema che appare qui decisivo è quello dell’identificazione senza mediazione, l’identificazione della follia, in cui il soggetto assume l’identificazione come infatuazione e impegna il suo essere e la sua verità a un tempo senza alcuna differenza, impegna entrambe su questa identificazione, senza separarle. Quando la verità e l’essere si saldano 25 

Jacques Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Id., Scritti, vol. I cit. Ivi, p. 170. 27  Ivi, p. 165. 28  Ibid. 29  Ivi, p. 166. 26 

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insieme in un’identificazione, non c’è più mediazione possibile tra le due, l’identificazione non svolge più questa funzione, diventando pietrificazione, identificazione non dialettizzabile. Napoleone che si crede Napoleone è colui che non è in grado di separare la sua verità dal suo essere, crede al fatto di essere Napoleone, come Ludwig di Baviera credeva di partecipare a tutta un’epopea che Wagner aveva ben solleticato in lui, con l’Anello del Nibelungo, e la mitologia di Sigfrido. Dunque la follia è sedotta dall’identificazione fino al punto di perdere ogni funzione di mediazione e il soggetto vi impegna ad un tempo la verità e l’essere, senza mediazione alcuna. Lacan quindi giungerà a dire che il folle è il soggetto che ha “scelto” di impegnare l’essere e la verità ad un tempo sull’identificazione. Non si tratta della follia come deficit, idea ancora mantenuta dalla teoria di Ey, allora il più illuminato degli psichiatri, ma, dice Lacan, di una «insondabile decisione dell’essere»30. Insondabile scelta, ma scelta che implica il margine del soggetto, la sua implicazione nella causa che sarà la propria, non organicistica, la causa di un soggetto preso nel linguaggio e nella parola, dunque nel senso. Se qui la decisione dell’essere è insondabile è proprio perché non potrà mai essere riferita ad una concatenazione continua di cause ed effetti, al loro susseguirsi fino a produrre la follia. La decisione “insondabile” di Lacan è qui come la causa “originale” di Heidegger, cioè quella che si pone fuori dal continuum causale del determinismo di ereditarietà che dominava la clinica della follia dall’epoca in cui Freud dibatteva dell’eziologia delle psiconevrosi, come vedremo dopo. Occorre considerare, come ha precisato Miller, che nel testo sulla causalità psichica e anche in Funzione e campo per Lacan il senso è il margine di libertà del soggetto, il quale può dare ad un’identificazione un senso o un altro, ed anche rifiutare un’identificazione. Dunque è il senso come causa che implica il soggetto che può decidere31. Questa è la posizione causalista del primo Lacan, successivamente modificata quando per Lacan non è più il soggetto a “dare” un senso all’identificazione, bensì è il significante che dà senso, non il soggetto. Così non è più il soggetto che decide del senso ma il significante. Miller dice qui che mentre nel primo Lacan c’è la “decisione insondabile 30  31 

Ivi, p. 171. Miller, Cause et consentement cit., lezione del 2 dicembre 1987.

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2. il margine del soggetto. di una causa che non è a sua volta causata

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dell’essere”, nel seguito, quando è il significante che dà il senso, c’è la “decisione insondabile dell’Altro”32, il senso è dell’Altro, tra S1 e S2, ed il soggetto lo riceve dall’Altro. Qui si modifica anche la causazione del soggetto, sviluppata magistralmente da Lacan in Posizione dell’inconscio33 attraverso il processo di alienazione in cui il soggetto per entrare nel campo dell’Altro deve cedere il proprio essere, per riceverne dall’Altro del senso e quindi della verità. In questa elaborazione non è più il soggetto a decidere, a scegliere il ‘destino’ del proprio senso, perché tutto ciò si decide nell’Altro. Il soggetto è qui posto di fronte o al consenso o al rifiuto dato al senso che gli giunge dall’Altro. Così il folle è il soggetto che si rifiuta al senso dell’Altro che implica il cedere l’essere a favore di questo senso. Il folle sceglie di non cedere l’essere per ricevere il senso dal significante dell’Altro, mentre il nevrotico dà il suo assenso al senso e alla verità dell’Altro, cedendo ad un tempo il suo essere a questo senso, scegliendo il senso e la verità dell’Altro e non il suo essere. Il primo non acconsente ad una perdita di essere, il secondo si, acconsente a vivere un meno di essere ed un senso ‘scornato’ di essere, quello inconscio, mentre il folle no. Con i termini che Lacan aveva introdotto nel Discorso sulla causalità psichica, possiamo dire che il soggetto folle pietrifica l’essere e la verità senza alcuna mediazione possibile con l’Altro, tiene impegnati verità ed essere sull’identificazione staccata da ogni mediazione possibile con l’Altro. In tal senso la follia è sedotta dall’identificazione al punto che perde ogni mediazione con l’identificazione stessa. Qui verità ed essere sono saldati insieme, mentre occorre cedere un po’ di essere per acquisire un po’ di verità il cui senso sarà il nostro rapporto con l’Altro a darcelo. Occorre che il soggetto possa distaccarsi da questa seduzione dell’identificazione, prendere un distacco in cui verità ed essere hanno un diverso destino. Riportato nello schema dell’alienazione e della separazione, nella rappresentazione dei due cerchi di Eulero che si intersecano34, da un lato c’è l’essere e dall’altro il senso che è dal lato dell’Altro, la questione dell’identificazione della follia è quella di un rigetto del significante del Padre che nell’Altro introduce la disgiunzione dell’essere e 32 

Ibid. Jacques Lacan, Posizione dell’inconscio, in Id., Scritti, II cit. 34  Lacan, I quattro concetti fondamentale della psicoanalisi cit., p. 215. 33 

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del senso, la perdita di qualcosa nell’uno per ritrovarsi nell’altro. È Il rigetto del significante che poi Lacan denominerà come preclusione, attorno a cui è costruita la causazione della psicosi ne la Questione preliminare35. La preclusione del significante del Padre ha come effetto l’identificazione che impegna senza mediazione l’essere e la verità ad un tempo, dunque è pietrificazione dell’essere non è mediazione con l’Altro, mentre l’identificazione con il Padre è per eccellenza l’identificazione che implica la mediazione simbolica, è il significante che sostiene l’articolazione tra S1 ed S2, la mediazione attraverso l’Altro tra essere, senso e verità. Come dicevo questa posizione clinica presuppone che la causazione non passi più dal senso dato dal soggetto ma dal significante dell’Altro. Qui la causa è al livello significante e il soggetto ne è a sua volta causato, è esso stesso effetto del significante, non è più il soggetto della parola, ma ciò non vuol dire che la causa rientri in un determinismo assoluto, bensì che il soggetto è preso in una causazione che non procede da se stesso, il soggetto non è causa sui, come pensava ancora Kant con il suo imperativo etico. Causa e margine di libertà del soggetto sono sempre nella discontinuità rispetto ad un determinismo assoluto, ma il margine del soggetto sta nell’assenso che può dare alla causa apportatagli dal significante. Pur essendo il soggetto un effetto del linguaggio, pur essendo preso in una legge del significante, tra metafora e metonimia, in cui il significante interviene nel significato, questa legge, a differenza della scienza, non preclude (verworfen) la causa dell’inconscio e le sue sorprese al di fuori della legge significante, come Lacan sottolineava parlando della svista del soggetto supposto sapere36. 2.4. La posizione di Freud Freud quando nel 189337 parla dell’ eziologia delle nevrosi e poi nel 1896 della “scelta della nevrosi” inserisce nel novero delle psiconevrosi isteria, ossessione e paranoia. Non bisogna pensare che 35  Jacques Lacan, Una questione preliminare ad ogni trattamento possibile della psicosi, in Id., Scritti, II, cit. 36  Jacques Lacan, La mispresa del soggetto supposto sapere, in Id., Altri scritti cit. 37  Freud, Lettere a Wilhem Fliess. 1887-1904 cit., p. 58.

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2. il margine del soggetto. di una causa che non è a sua volta causata

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Freud abbia in mente che la paranoia è una nevrosi, essa è inserita in questa serie perché è la serie in cui Freud fa intervenire una scelta del soggetto, volendo con ciò prendere le distanze dalla causazione per via di ereditarietà perché nel 1896 Freud, su questo punto, si confrontava epistemologicamente con il tema della ereditarietà nelle malattie mentali. Per Freud la causazione psichica è deterministica è, come dicevo, quella delle Scienze della natura ma ciò che per lui è in discussione è che questo determinismo sia organicista. È questo che lo spinge a prendere le distanze dalla eziologia per ereditarietà, e parlare di “scelta della nevrosi”, che potrebbe apparire un controsenso rispetto all’ideale deterministico. Solo così può includere anche la paranoia nella serie clinica in cui la causalità psichica sfugge all’organicismo da ereditarietà. Quando Lacan invece entra nella psicoanalisi, all’epoca della tesi sulla psicosi paranoica38, è un fautore delle Geisteswissenschaften, le scienze dello spirito, e non della scienza della natura. Ha aderito alla psichiatria a cui deve la sua formazione e soprattutto all’apporto jaspersiano alla psichiatria francese. Allora la fenomenologia psichiatrica in Francia aveva subito l’influenza di Jaspers, che era esattamente il riferimento dottrinale a partire da cui Lacan aveva indagato il caso di Aimée39, in cui la causa è già nel senso. La fenomenologia psichiatrica progressista, illuminata, a cui Lacan aderiva per evidenziare che il malato di mente non è un deficitario, aveva Jaspers come riferimento per tutto ciò che promanava dalle scienze dello spirito. Lacan è entrato nella psicoanalisi come un fautore delle scienze dello spirito, mentre Freud è entrato nella psicoanalisi con la scienza della natura. Lacan dunque è entrato direttamente dalla parte opposta a quella di Freud, salvo poi abbandonarla, successivamente ne L’istanza della lettera40 e in particolare nel Seminario su La lettera rubata41, nel quale vi è sviluppato un determinismo assoluto, in cui di margine di libertà del soggetto sembra non essercene neanche un filo. 38  Jacques Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980. 39  Maurizio Mazzotti, Lacan tra i suoi maestri in psichiatria, in Id., Prospettive di psicoanalisi lacaniana, Borla, Roma 2009. 40  Jacques Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud in Id., Scritti, II cit. 41  Jacques Lacan, Il Seminario su la Lettera rubata, in ivi, I cit.

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Freud fin dall’inizio era già lì a non cedere sul fatto che la causa fosse libidica, pulsionale e non di rappresentazione di parola, cioè di significante. Per Freud è chiaro dall’inizio alla fine che alla base della causazione psicoanalitica c’è il traumatismo sessuale che significa che il traumatismo è un fatto pulsionale, libidico. Freud era sul traumatismo sin dall’inizio. Nella lettera 98 del 1896 a Fliess Freud dice che c’è sempre nel traumatismo un «eccesso di sessualità»42. Questo può darci l’idea, retroattivamente, di come egli concepiva il godimento, come un eccesso. Ecco il traumatismo che non quadra con la legge del significante. Nella lettera a Fliess emerge che nel traumatismo, che l’Altro edipico introduce, si produce una disposizione nel soggetto ad ammalarsi successivamente. Quella che in seguito nel testo su Schreber e ancor più nelle Conferenze 22 e 23 sulla psicoanalisi43, Freud siglerà con il concetto di fixierung, fissazione, qui è solo una disposizione. Freud come definisce questa fissazione? È un nucleo di libido che viene staccato, isolato, reso immobile, inibito rispetto al suo divenire, cioè si stacca dal movimento pulsionale assieme alle rappresentazioni significanti, per rimanere isolato e fermo e da lì condiziona il procedere stesso del movimento libidico. Se consideriamo che per Freud la libido è, appunto, movimento, fluisce, è ciò che rende conto della ‘plasticità’ pulsionale, la nozione di fissazione ne risalta, in quanto è del tutto in contrasto con questo carattere fondamentale della libido e della pulsione. Così la fissazione di un nucleo di libido inerziale diviene la base causale di ciò che condurrà al sintomo, mentre la libido che vi sfugge può dar luogo ad una sublimazione. La fissazione isola il nucleo di libido, lo rende praticamente immobile, muto, inerte, inibito, impossibile da sublimare. Questa è la base causale della patologia successiva, però, come dirà egli stesso precisamente, la fissazione non è sufficiente per condurre alla nevrosi. Questa iniziale, legata al traumatismo originario, è una sorta di causa che Miller ha chiamato «insufficiente»44, nel senso freudiano che non ogni fissazione dà origine ad una psiconevrosi, ma non c’è psiconevrosi che non abbia una fissazione libidica alla base45. 42 

Freud, Lettere a Wilhem Fliess. 1887-1904 cit., p. 217. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Id., Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976, p. 496, 514. 44  Miller, Cause et consentement cit., lezione del 16 dicembre 1987. 45  Freud, Introduzione alla psicoanalisi cit., p. 438. 43 

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Nel 1896 per Freud al traumatismo il soggetto risponde con la difesa. È qui che si gioca la scelta, il margine del soggetto nel processo di causazione. Il soggetto attorno alla fissazione traumatica elabora una difesa, cioè scorpora tutte le rappresentazioni che gli afferiscono per metterle direttamente nell’inconscio. Occorre notare come Freud definisce nel 1896 la difesa : «L’avversione a dirigere l’energia psichica in modo da produrre dispiacere (Unlust)»46. Questa difesa per Freud non è una patologia, è un’avversione costitutiva dell’essere umano come tale verso ciò che di un godimento vada a provocare sofferenza. È una avversione costitutiva ineliminabile, che già mostra qui come i margini di libertà del soggetto diminuiscono non poco. Sulla base di questa difesa costitutiva si produce la rimozione che non opera sul nucleo libidico del traumatismo ma sul significante, sulle rappresentazioni verbali che gli afferiscono. Sono queste che la rimozione disloca nell’inconscio. A questo punto, il traumatismo originario non è più sotto gli occhi del soggetto non è più come succede quando si mette la mano sul fuoco e percepiamo subito il dolore, e il traumatismo è ben evidente. Con il traumatismo sessuale alla base delle psiconevrosi non è così, non c’è causazione diretta, cioè unlust e al contempo immediatezza della reperibilità del nucleo causale sviluppato dal trauma. È la rimozione che lo impedisce, è la rimozione che rende la causa una causa ‘assente’, come dirà Lacan, in quanto dislocata nell’inconscio. L’impatto della contingenza traumatica dell’eccesso libidico passa nell’inconscio e la causazione entra in uno stato di latenza. Come dicevo, Freud dirà che la scelta della nevrosi è a questo livello. A questo livello la scelta della nevrosi, la scelta che è il margine del soggetto nella causa, non è tra malattia e salute, ma solo sul tipo di difesa che svilupperà successivamente una patologia, di cui il soggetto sarà l’effetto. Non è la scelta di una libertà dalla malattia, è il poco di libertà con cui si sceglie la difesa, la rimozione che darà poi luogo ad un sintomo invece che ad un altro. Per Freud il margine del soggetto è lì nella rimozione, in quale difesa apprestare, in quale tipo di avversione mettere in atto contro la libido che crea dispiacere. Nell’eziologia delle psiconevrosi quindi per Freud non c’è legge di ereditarietà ma scelta di una difesa verso la libido traumatica che svi46 

Freud, Lettere a Wilhem Fliess cit., p. 191.

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lupperà poi un processo causale del sintomo attraverso l’inconscio. È quindi un processo di causazione in due tempi, cioè una causazione indiretta. C’è una prima causa, la disposizione indotta dal traumatismo, o la fissazione come la chiamerà più tardi, che è una causa inefficiente, basale, che non produce direttamente i suoi effetti. Poi c’è la causa introdotta dalla rimozione, dalla dislocazione inconscia della causa stessa, che è la seconda causa, quella “efficiente”47 perché è questa che produce il sintomo, la psiconevrosi. Due cause e un effetto, dunque tre tempi, il traumatismo, la rimozione, il ritorno del rimosso cioè il sintomo. I primi due tempi sono all’origine, il terzo è molto successivo. Per produrne l’effettualità occorre una contingenza, un punto di scatenamento, che riattivi gli elementi rimossi, che faccia risuonare qualcosa della causa inconscia, che la metta in fibrillazione. In altri termini che faccia fallire la rimozione, provocando un ritorno del rimosso nella forma del sintomo. Il sintomo è ciò in cui si palesa il traumatismo originario ma senza che si sappia quale, a causa dell’inconscio cioè del fatto che il sintomo si presenta come un geroglifico. La sua natura è di essere il segno di un traumatismo ma al contempo di essere una formazione significante da decifrare. Questo vuol dire traumatismo passato nell’inconscio ad opera della rimozione. Nel sintomo abbiamo l’effetto del fallimento della rimozione, dunque il dispiacere, la sofferenza, abbiamo la traccia del traumatismo ma esso ci nasconde ancora la causa. Per chiarire questo punto occorre considerare quella che Freud chiamerà “regressione”48 che si lega alla fissazione del nucleo traumatico, alla libido distaccata e immobile separata dalla corrente che è venuta avanti. La regressione è il movimento retrogrado in cui ciò che è avanzato nonostante il traumatismo compie per ritornare alla fissazione libidica iniziale, muta e inerte. Questa corrente retrograda mostra la capacità di attrazione49 che il nucleo di fissazione originario ha su quanto si è sviluppato poi, cioè il suo potere di condizionamento sull’articolazione della libido che si è sviluppata successivamente al traumatismo. In questo 47 

Miller, Cause et consentement cit., lezione del 16 dicembre 1987. Freud, Introduzione alla psicoanalisi cit., p. 496. 49  Ivi, p. 504. 48 

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2. il margine del soggetto. di una causa che non è a sua volta causata

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modo la regressione partecipa in modo essenziale alla formazione del sintomo, e ogni sintomo ha incluso in sé un ancoraggio al nucleo inerziale, residuale del traumatismo del godimento. Mentre la rimozione disloca la rappresentazione, la sequenza significante del traumatismo nell’inconscio, la regressione è l’effetto retrogrado con cui il sintomo resta ancorato alla fissazione originaria. Freud introduce il tema della regressione perché ha già tutta l’esperienza che ha tratto clinicamente dal caso dell’uomo dei lupi in cui il sintomo, il disturbo intestinale incoercibile, è stato riportato a più riprese, scandendo lo sviluppo dell’analisi di questo soggetto, ad un movimento retrogrado che dava un senso a ciò che non lo aveva mai avuto prima. Il movimento retrogrado s’inserisce tra la causa iniziale, il punto debole del traumatismo e la causa efficiente della rimozione e innesta la seconda sulla prima, cioè riporta l’effetto del sintomo sul nucleo inerziale, muto, originario. Lacan reinterpretando questa regressione con lo schema della retroazione traduceva questo movimento retrogrado come l’innesto di senso inconscio laddove prima non c’era affatto senso ma solo fissazione muta. Come nota Miller si è trattato di un’operazione con cui Lacan traduceva la fissazione freudiana in un congelamento di senso, come Lacan stesso dice nella frase di Funzione e campo50, che nel caso dell’Uomo dei lupi Freud riordina le contingenze passate dando senso alla necessità future. Lo scopo era di mettere del senso alla parte mancante, laddove la fissazione iniziale crea un nucleo di libido muto, inerziale, distaccato, così il processo analitico retroattivamente con le sue scansioni avrebbe prodotto il senso là dove prima non c’era. È così che Freud ha potuto stratificare il sintomo dell’uomo dei lupi, tra significato di castrazione e rigetto della stessa, tra mantenimento di una virilità narcisistica e identificazione alla madre. In altri termini inserendo senso attorno ad un nucleo che non lo prevede, che è poi il nucleo che ha determinato l’intrattabilità effettiva del sintomo stesso. Ma il soggetto ha comunque potuto conviverci senza particolari destabilizzazioni per circa vent’anni.

50 

Si veda infra, La verità giunta al suo colmo.

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il deserto della verità

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2.5. La reinvenzione del traumatismo Questa reinterpretazione della regressione freudiana ha fatto sì, come ci dice Miller51, che Lacan pensasse inizialmente che il traumatismo poteva venire simbolizzato completamente. Il processo analitico dava senso al nucleo insensato originario, quello della fissazione, e questo presuppone il pensiero che il traumatismo sia simbolizzabile. Occorrerà aspettare il Lacan successivo per dirci che non è così. Ma il vantaggio di Freud nel darci questo schema della regressione era di dire che il processo di retroazione era l’estrinsecazione dell’attrattiva che il nucleo inerziale esercitava su quel che veniva dopo e che il sintomo di conseguenza è un composto di un nucleo inerziale iniziale, alloggiato in una formazione che poteva anche essere di senso quindi funzionante a retroazione. Lacan è arrivato successivamente a dire che in definitiva non si procedeva solo a decifrare la verità che il sintomo gridava nel deserto52. Lacan ha così dovuto riorganizzarsi attorno al fatto che la regressione di Freud produceva una stratificazione del sintomo: senso da una parte, ma attrazione del nucleo di fissazione libidica originaria dall’altra. Questo è il tema che Lacan, più che sul sintomo ha inizialmente spostato sul fantasma, che include il legame tra due elementi eterogenei, l’oggetto a e la rappresentazione significante del soggetto. In ciò quello che occorre considerare, come fa osservare Miller53, è che il soggetto barrato di Lacan è ciò che non potrà mai essere significantizzato integralmente, è il soggetto in quanto barrato, in quanto non lo si potrà mai strappare alla sua divisione, alla barra in cui è collocato tra significante e significato. Si può dire allora che nel fantasma il soggetto barrato è l’elemento rappresentato ma non simbolizzato integralmente. Ed è per questo che Lacan nel fantasma potrà rendere omologhi i due termini soggetto barrato da una parte e l’oggetto a dall’altra e dire che qui l’essere del soggetto non sta nel significante che lo rappresenta ma nell’oggetto che ne inscrive la parte residuale, non significantizzabile dal simbolico. Così è attraverso il fantasma che per Lacan il nucleo inerziale di reale, originario, esercita il suo potere di attrazione, condizione per la formazione del sintomo. 51 

Miller, Cause et consentement cit., lezione del 16 dicembre 1987. Si veda infra, La verità giunta al suo colmo. 53  Miller, Cause et consentement cit., lezione del 16 dicembre 1987. 52 

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2. il margine del soggetto. di una causa che non è a sua volta causata

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Lacan ha recuperato il traumatismo nella parte finale del suo insegnamento ma non esattamente nel senso freudiano, che, come dicevamo, lo legava all’Altro edipico. Lacan ha recuperato il traumatismo ponendolo invece direttamente in rapporto con la lingua che percuote il corpo. È il significante che fa direttamente buco, crea il troumatismo, come egli dice54 costruendo un neologismo che contempla in sé il trauma e il buco del significante, per cui non è più la parte oggettuale, come nel fantasma, ma è il significante che diventa enigmatico in sé e che ‘troumatizza’. Questo non è più il significante che passa nel significato ma è il significante che non ha alcun significato, è il significante stesso che, per così dire, si distacca dalla sua stessa legge significante, perché nella legge il significante dà sempre o il significato cioè metafora o il poco di senso della metonimia. Staccato da lì, come è il significante del trouma, esso è fuori senso. Diventa quindi il significante che non fa senso ma percuote il corpo, crea un traumatismo del godimento. E qui c’è sempre la contingenza, nella quale, per un soggetto, un significante va a piazzarsi lì. Qui c’è il margine del soggetto, con la sua poca libertà. Più che l’insondabile decisione dell’essere del soggetto troviamo l’insondabile trauma del reale del godimento che ne affetta il corpo. Con il significante del traumatismo enigmatico ritroviamo la causa che si distacca dalla sua stessa legge. Il significante del traumatismo è il significante che si stacca dal funzionare semanticamente, dall’articolazione tra S1 e S2, e assume un’altra incidenza, potremmo dire, tra virgolette, è più reale e meno simbolico. È qui che con Lacan si rilegge il traumatismo. Il trouma è diventato un termine chiave, pertiene al significante con la sua percussione diretta nel corpo, senza mediazioni semantiche, e in questa incidenza causa originale del sinthomo.

54  Jacques Lacan, Les non-dupes errent. Il Seminario. Libro XXI (1973-74), lezione del 12 febbraio 1974, inedito. Troumatisme, in francese, evoca trou, il buco.

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3. La verità giunta al suo colmo

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3.1. L’appello alla verità In Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi Lacan inizia subito a definire l’esercizio della psicoanalisi un «metodo di verità» ed una «demistificazione dei camuffamenti soggettivi»1. Avvicinandoli Lacan sembra implicitamente indicare che il metodo di verità si traduce come demistificazione dei camuffamenti soggettivi, che sono a carico delle identificazioni immaginarie, delle identificazioni dell’Io. Mentre il campo della verità per Lacan è quello in cui il soggetto, nell’ esperienza analitica, si costituisce a partire dalla parola. Mentre i camuffamenti sono delle identificazioni dell’Io, la ricerca della verità è il rapporto che il soggetto intrattiene con la sua parola. Il soggetto si costituisce nella ricerca della verità per il tramite della parola ed è per questo che è disposto ad accettare quello che ne conseguirà e cioè le necessarie demistificazioni dei camuffamenti di questa stessa verità ad opera dell’io. Il soggetto nel momento in cui si ingaggia in questa dimensione, cioè nella ricerca della sua verità, è disposto ad accettare la demistificazione di questi camuffamenti. Perciò per Lacan il soggetto entra in analisi facendo appello alla verità2 nella sua parola, nel suo dire, anche quando questo dire si presenterà nella cura come un dire vuoto. Il vuoto è qualcosa di inaggirabile all’interno dell’esperienza analitica ed è un’esperienza capitale del soggetto nel rapporto con la parola, anche se spesso è accompagnato da un lamento, il girare a vuoto. Lacan dice che l’appello alla verità risalta tanto più nel vuoto del dire del soggetto, da far 1  2 

Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit. p. 234. Ivi, p. 241.

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il deserto della verità

risaltare ancora di più l’appello alla verità come risposta. È qui che si posiziona lo psicoanalista come colui che è chiamato a prender la posizione del buon intenditore, di colui che può accogliere questo appello e prendervi il suo posto. È l’analista che, come vuole il principio psicoanalitico inderogabile che non si può esercitare la psicoanalisi senza prima averla attraversata come analizzante, si presuppone sia il buon intenditore della verità, proprio perché a sua volta ha attraversato l’esperienza della demistificazione dei camuffamenti della verità ad opera dell’io. È la condizione inderogabile per cogliere ciò che si situa altrove, cioè solo nella parola e bisogna che il luogo del buon intenditore sia sgombro dai camuffamenti dell’io per poter accogliere questo appello alla verità. Pertanto l’analista si posiziona in rapporto all’appello alla verità e niente affatto all’appello alla guarigione. In Lacan non c’è mai una parola in questo senso, anzi sono due cose che sono in contrasto, se la psicoanalisi è definita come il metodo della verità non lo è in un senso strumentale, la verità non è uno strumento per rispondere all’appello alla guarigione. Il metodo della verità è il metodo che presuppone il buon intenditore e pone il dire del soggetto come appello alla risposta data dalla verità e nella misura in cui questa esperienza procede il soggetto si costituisce in rapporto alla verità. Freud aveva un suo modo per indicare come la psicoanalisi fosse la demistificazione dei camuffamenti dell’io, quando per esempio isolava il principio del funzionamento psichico come il principio che obbedisce alla sostituzione del lust (piacere) al Warheit (verità)3. Per Freud il principio del funzionamento psichico risponde alla ricerca del soggetto di posizionarsi in rapporto al piacere piuttosto che alla verità, una sostituzione che equivale alla rimozione della verità. Mentre l’esperienza analitica, in quanto mezzo di verità, deve esattamente ribaltare questa sostituzione, deve mettere la verità là dove prima c’era il piacere e il soggetto deve passare alla scelta per la verità al posto di quella del principio del piacere. La psicoanalisi è l’ esperienza in cui laddove c’era il piacere è la verità che deve prendere posto, questa è una prima declinazione del wo es war soll ich werden, il principio con cui Freud ha indicato l’obbligazione psicoanalitica, là dove era l’Es lì l’inconscio deve avvenire. Freud 3 

Jacques-Alain Miller, Il vero, il falso e il resto, “La Psicoanalisi”, 49, 2011, p. 23.

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3. la verità giunta al suo colmo

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usa per l’appunto il termine soll cioè devo. L’esperienza psicoanalitica si può compiere a condizione che là dove era il piacere debba avvenire la verità. Questo significa che non va affatto da sé, c’è un obbligazione analitica dell’analizzante, che implica la sostituzione della verità al principio del piacere e questo è il nodo etico che contrassegna l’esperienza analitica. In questa sostituzione la verità è di per se stessa posta al di là del principio di piacere ed è questo un punto presente fin dall’inizio in Lacan per il quale la ricerca della verità, l’appello alla verità entra in contrasto con la ricerca e l’appello terapeutico, perché l’atto terapeutico implica sempre il noli me tangere, si definisce sempre nel principio di piacere, qualcosa che non va toccato. «La terapia consiste essenzialmente nell’insegnare […] dei trucchi per tenere a distanza la verità»4. Più si sta attenti allo spirito terapeutico e più si va al contrario del wo es war freudiano, al nodo etico dell’esperienza. L’atto terapeutico è sempre un rafforzamento delle difese del soggetto, implica che non ci si spinga troppo avanti nel senso della verità analitica. Questo è molto chiaro in Lacan fino dal 1953, la guarigione e i risultati terapeutici sono in sovrappiù. Là dove c’era il piacere deve avvenire la verità e questo tema fin dall’inizio è la presentazione dell’ obbligazione etica in cui si costituisce la psicoanalisi, prima ancora che terapeutica e anche in un certo senso clinica. Lacan è partito con il dare a questa obbligazione etica il nome della verità. Come notava Miller5, questa posizione evidenzia una antinomia tra verità e piacere, Lacan, all’inizio, faceva di verità e piacere una sorta di fratelli nemici, di Caino e Abele, mentre anni dopo, nel Seminario XVII6, Lacan dirà che tra godimento e verità c’è sorellanza, scompare l’inimicizia e il termine godimento riassume in sé il piacere. Ora il principio etico dell’appello alla verità che là dove è il piacere la verità deve avvenire ha anche un rapporto intrinseco col fatto che la verità non ha niente a che fare con la realtà, le è estranea. Quando in psicoanalisi parliamo di verità non si tratta di realtà, perché la verità è nella parola, Lacan lo dice nel 1953. Nella psicoanalisi 4  Jacques-Alain Miller, Cose di finezza in psicoanalisi, “La Psicoanalisi”, 58, 2015, p. 188. 5 

Miller, Il vero, il falso e il resto cit., p. 23. Jacques Lacan, Il rovescio della psicoanalisi. Il Seminario. Libro XVII, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2001. 6 

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il deserto della verità

non si va alla ricerca di qualche cosa che sia esterno alla parola. Dice Lacan: «Nella anamnesi psicoanalitica non si tratta di realtà, ma di verità»7, questo perché il principio di realtà per Freud non è che la continuazione del principio del piacere con altri mezzi, il principio di realtà non è opposto al principio di piacere. Tutti gli appelli al principio di realtà sono appelli alla costituzione del principio di piacere preso come realtà del funzionamento psichico. Psicoanaliticamente tutti gli appelli al principio di realtà dovrebbero farci pensare che c’è sempre in gioco una rimozione della verità, andare alla realtà vuol dire che c’è una rimozione della verità perché il principio di realtà mette il piacere a formare il quadro della realtà del soggetto a scapito della verità dell’inconscio, a scapito di ciò a cui il suo dire fa appello, anche quando cade nel vuoto. Spesso l’appello alla verità cade nel vuoto. L’esperienza analitica è quel margine di legame sociale, assolutamente minoritario, nel quale questo appello non è lasciato cadere nel vuoto. L’appello alla verità non fa riferimento al principio di realtà, perché a livello del principio di realtà non c’è mai un buon intenditore della verità, non ce n’è mai uno a farsene carico, proprio perché lo subordina al principio di realtà. Per cui nell’esperienza analitica il buon intenditore, cioè l’analista, è colui che non pone nessuna subordinazione della verità alla realtà, di nessun genere, anche di quelle più scabrose, perché egli pone la verità solo nel dire della parola. È una posizione radicale per la quale non c’è nessuna subordinazione della verità a qualsivoglia realtà esterna al dire del soggetto e l’analista non deve cedere su questo punto. Come dicevo, in questo periodo dell’insegnamento di Lacan la verità nella parola è un effetto di senso, è “un altro senso”8. Partiamo da questo, che il registro della verità in questo periodo è connotato da Lacan come altro senso, è un effetto di altro senso che è verità. Da Lacan viene definito molto bene in una frase un po’ lunga che è riferita all’intervento dell’analista: «L’effetto di una parola […] che riordina le contingenze passate dando loro il senso delle necessità future, quali le costituisce quel poco di libertà cui il soggetto le rende presenti»9. È una frase che concerne l’interpretazione di Freud nel caso dell’uomo dei lupi in cui Lacan vuole mettere in evidenza come l’interpretazione 7 

Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit., p. 249. Jacques-Alain Miller, La natura dei sembianti, “La Psicoanalisi”, 17, 1995, p. 134. 9  Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit., p. 249. 8 

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3. la verità giunta al suo colmo

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operi retroattivamente nel riordinare le contingenze passate, gli eventi di storia di questo soggetto, dando loro il senso delle necessità future. Nel caso dell’uomo dei lupi Freud ha mostrato dettagliatamente come è l’effetto di après coup che riordina il senso delle contingenze passate, che hanno fatto storia. È nell’esperienza analitica che i ricordi, gli eventi passati, assumono nella parola attuale del soggetto un altro senso da quello che si presupponeva potessero avere. È una scansione, un effetto retroattivo, che dando altro senso alle contingenze passate produce, tramite la parola, effetti di verità al presente. Questo riordinare retroattivo, dando un altro senso dal precedente, è, per il soggetto, una risoggettivazione degli eventi passati che, al presente, rimodula le necessità future. Nel momento in cui il soggetto analizzante risoggettiva le contingenze passate, rimodula al contempo le necessità future. Il soggetto passa dalla contingenza originaria alla necessità in cui lo impegnano i suoi sintomi, ma essi vengano rimodulati da questo effetto di verità che si rende presente retroattivamente10. Infatti è qui che il soggetto è portato a scegliere di sostituire la verità al piacere e qui si restringe un po’ l’ambito della sua libertà, che diventa più stringente nell’aver incontrato la verità dell’inconscio. Si viene meno al nodo etico dell’esperienza analitica se nell’incontrare la verità dell’inconscio la si smentisce subito dopo. La verità che si incontra va a riordinare le contingenze passate ma bisogna che il soggetto scelga per le verità che hanno ridato senso alle contingenze passate e non continui a rimuoverle. L’Aufhebung della verità implica che si scelga la verità, anche se, da questo punto di vista, le libertà del soggetto diventano minori di prima. Quindi l’appello alla verità in cui il soggetto entra nell’analisi, lasciando che sia solo il suo dire a orientarlo è ciò che fa sentire un soll, un dovere a favore della verità, del rimaneggiamento che la verità ha prodotto rispetto alle contingenze passate, ed è qui che incide il nodo etico dell’esperienza analitica. È qui che Lacan dirà una cosa fondamentale: «Questa verità non è tutta nella sua particina»11. Noi siamo sempre nel particolare ma non lo si può ricondurre ad una particina del soggetto. Perché l’ effetto di altro senso che si produce come effetto di verità nell’esperienza 10  11 

Cfr. infra, Il margine del soggetto. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit., p. 258.

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il deserto della verità

analitica si produce sempre nel momento in cui essa si connette con quello che Lacan allora chiamava il discorso dell’Altro. Qui Lacan fa esplicito riferimento all’interpretazione che Freud aveva dato all’uomo dei topi, che dà un altro senso nel momento in cui connette il soggetto al discorso dell’Altro. Questa interpretazione si evidenzia quando Freud dice all’uomo dei topi che nella scelta che aveva fatto tra la donna ricca e la donna amata, a favore della donna ricca, era il padre che era in questione, ma ciò era “inesatto” dal momento che chi aveva preso un posto decisivo in questa scelta era stata la madre che lo aveva caldamente consigliato di lasciare stare la ragazza amata ma povera che non gli avrebbe consentito di fare un matrimonio che lo avrebbe messo tranquillo economicamente per tutta la vita. Ma, dice Lacan, l’interpretazione di Freud che, pur inesatta, sostiene «l’azione castratrice del padre» e gli rivela l’identificazione al debito d’amore del padre di aver scelto appunto la donna ricca «scatena il decisivo sommovimento del soggetto dei simboli mortiferi che legano narcisisticamente il soggetto ad un tempo al padre morto e alla dama idealizzata»12. Per cui il soggetto di fronte alla scelta tra la donna ricca e la donna povera non faceva che diventare il testimone vivente, a completa sua insaputa, del discorso che lo lega al padre tramite una posizione mortifera del desiderio. Freud con questa interpretazione fa emergere la verità nel momento in cui la collega al discorso dell’Altro. In questo senso la verità non può essere la particina del soggetto, qualche cosa che promana da lui e si chiude in lui, perché lo implica invece fuori di lui, nel discorso dell’Altro. In questo senso il soggetto della verità è un soggetto transindividuale, non è mai un effetto chiuso su di sé. E di concerto la verità non è la particina di un individuo chiuso in sé stesso, è una verità nel suo rapporto con l’Altro, e da questo assume un senso particolare. Quindi la verità che rimaneggia il senso delle contingenze passate e rimodula le necessità future è un discorso transindividuale. La storia del soggetto per Lacan, a questo punto, è la successione degli effetti che hanno rimaneggiato il senso che fa verità, a condizione che questo sia ciò che si stabilisce nel rapporto al discorso dell’Altro. La condizione è quindi di situare il rapporto del soggetto alla sua verità al discorso dell’Altro, e Miller 12 

Ivi, p. 295.

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3. la verità giunta al suo colmo

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preciserà13 che è questa dimensione transindividuale che dà agli atti del soggetto la loro verità. È qui che si coglie l’ironia di Lacan nel dire che la verità non è una particina del soggetto, perché non ci può essere rimodulazione delle contingenze future se si riduce la verità ad una particina del soggetto chiuso in sé, individuo. Lacan dirà che lo psicoanalista deve essere all’altezza della dialettica della verità, che si colloca sempre tra il soggetto in quanto transindividuale e l’espressione massima di questa transindividualità che è quel che Lacan chiama “soggettività della sua epoca”14. Questa famosa espressione che Miller15 ha ripreso è la soggettività da cui non è possibile pensarsi fuori, è la soggettività che stabilisce l’orizzonte di un’epoca e che non può coincidere con la nostra particina. La frase «come potrebbe fare del suo essere l’asse di tante vite, chi nulla sapesse della dialettica che lo impegna insieme a queste vite in un movimento simbolico»16 situa esattamente l’al di là dell’individuale in rapporto a cui Lacan assegnava allo psicoanalista un posto in seno a quella dialettica della verità il cui orizzonte è delimitato dalla soggettività di un’epoca, che non è la particina di qualcuno, ma ciò che è “il negativo dell’individuo”17 con le sue particolarità. Lacan in questo periodo sta rimodulando il timing delle sedute, Funzione e campo della parola e del linguaggio è il testo in cui Lacan è intervenuto su questa rimodulazione non più considerata standard come voleva l’IPA18. Non c’è timing prefissato delle sedute perché se l’analista deve rispondere all’appello alla verità e alla dialettica in cui questa si costituisce, egli non è lì per sottolineare il tempo per comprendere ma piuttosto per scandire il momento di concludere. Lacan ha elevato l’ interruzione della seduta ad uno degli atti maggiori dell’analista, che scandendo il momento di concludere in seno alla dialettica della verità, lo ha sottratto a quella indifferenza che avrebbe lasciato il discorso del paziente in una ambiguità indefinita, disorientante. Facendone invece il momento di concludere in una dia13 

Miller, La natura dei sembianti cit., p. 137. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit., p. 315. 15  Miller, Point de capiton cit., p. 96. 16  Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit., p. 315. 17  Miller, Point de capiton cit., p. 97. 18  Acronimo dell’International Psychoanalytical Association, fondata da Sigmund Freud nel 1910. 14 

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il deserto della verità

lettica di discorso Lacan arriverà a dire, a proposito dell’analista, che qui, in questo atto, in questa scansione egli è «maître della verità»19. Non dobbiamo tradurre la parola francese maître con “padrone” della verità, qui è il maître nel senso che egli decide questa scansione, ne è responsabile. È quindi colui che favorisce l’attualizzazione della dialettica della verità. Si fa ‘maestro’ di questa dialettica. Da parte sua Lacan farà direttamente riferimento20 al maestro zen nel Seminario I, indicando come egli apporti la risposta ai suoi allievi solo nel momento in cui loro sono sul punto di trovarla. E qui Lacan parla della ricerca del senso, assai prossima alla ricerca della verità di cui ha detto in Funzione e campo. Marcel Detienne21 dice che nella Grecia antica il primo “maestro di verità” è il poeta, ma ci sono altre figure, per esempio colui che interpreta l’oracolo, che lo sono. Dunque credo che anche questa tradizione vada considerata per intendere il riferimento al “maestro di verità”. Niente a che fare con l’idea di essere un padrone in possesso della verità. 3.2. Il potere della verità La questione sarà chiarita ne La cosa freudiana, la conferenza tenuta a Vienna da Lacan due anni dopo, nel 1955. In questo testo il primo punto da sottolineare è che Lacan parla del «potere della verità»22. Quando Lacan parla del potere della verità abbiamo una contraddizione con quello che dirà, molto dopo, nel Seminario XVII, dove il potere della verità verrà poi rimodulato come impotenza della verità23. Quali sono i punti su cui Lacan nella conferenza di Vienna fissa questo potere della verità? Il primo è sensazionale per la sua attualità, anche considerando quello che egli dirà successivamente nel suo insegnamento, e riguarda il potere della verità di incidere «fin nel19 

Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi cit., p. 307. Jacques Lacan, Gli scritti tecnici di Freud. Il Seminario. Libro I, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1978, p. 3. 21  Marcel Detienne, I maestri di verità nella Grecia antica, Laterza, Bari 1977. 22  Jacques Lacan, La cosa freudiana, in Scritti, I cit., p. 395. 23  Lacan, Il rovescio della psicoanalisi. Il Seminario. Libro XVII cit., p. 205. 20 

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3. la verità giunta al suo colmo

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la nostra carne»24. Con questo Lacan inscrive l’effetto della verità all’interno del sintomo, essa prende posto lì, con il che diviene qualcosa che non è più un fatto contingente ma diventa ciò che insiste in una ripetizione. Il secondo potere che si lega con questo è il potere di pacificazione dato dalla soddisfazione del suo riconoscimento nel soggetto. Se c’è qualcosa che dà al soggetto una pacificazione di soddisfazione è il riconoscimento del suo appello alla verità, è il potere di pacificazione dato dalla soddisfazione del suo riconoscimento. Da un lato quindi abbiamo la verità che in un qualche modo incide fin nella nostra carne nella sofferenza del sintomo, dall’altro è anche quella che al contempo ci darà, se riconosciuta, la soddisfazione che ci pacifica. Da un lato la verità è ciò che incide nella nostra carne con il sintomo, e qui non è dell’ordine della pacificazione, dall’altro proprio dal riconoscimento della verità che è inclusa nel sintomo abbiamo la possibilità di una soddisfazione pacificante. Quindi questo è un soddisfacimento eminentemente simbolico. In un qualche modo è qualcosa che la verità condivide con il desiderio, visto che Lacan diceva che l’unica soddisfazione del desiderio non è nella effettualità attraverso un oggetto, ma nel suo riconoscimento. Quindi c’è un legame tra il potere della verità di incidere nel sintomo e il potere di pacificare con il suo riconoscimento ciò che non era pacificato quando essa incideva nella nostra carne. Ed è qui che fa capolino il tema del deserto. Nella conferenza tenuta da Lacan nel 1958 a Barcellona25 Lacan dice che nel sintomo «una verità continua a gridare nel deserto dell’ignoranza». Questa formula è una chiave di lettura principale del tema della verità in relazione al sintomo. Qui il sintomo, in cui incide il potere della verità nella nostra carne, in quanto si ripete e pulsa per il soggetto, è il luogo di un deserto della verità. Il sintomo è il deserto della verità nel momento in cui la verità grida lì senza che nessuno la riconosca e continua a gridare finché non incontra il buon intenditore dell’esperienza analitica. È la verità che grida nel deserto dell’ignoranza perché rimane inascoltata e quindi quella che si ripete ed insiste nel sintomo è la verità in quanto inascoltata e le tocca stare nel deserto, patisce di stare nel deserto. La ripetizione del sintomo è il luogo del deserto 24  25 

Lacan, La cosa freudiana cit. Jacques Lacan, La psicoanalisi vera e la falsa, in Id., Altri scritti cit., p. 170.

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della verità quando non può venire riconosciuta. Non c’è nessuno nel deserto ad accoglierla, d’altra parte Lacan aveva già detto che il sintomo è come un geroglifico messo nel deserto che, come la Stele di Rosetta, attende che arrivi Champollion per decifrarla, altrimenti resterà li muta. Nel sintomo abbiamo la verità senza l’Altro che la possa ascoltare, perciò l’ignoranza di cui si parla qui non è l’ignoranza in cui si trova lo psicoanalista, che è la dotta ignoranza, cioè il so di non sapere che fa posto a ciò che nel dire del soggetto si deve far ascoltare, ma l’ignoranza del deserto della verità è proprio l’ignoranza di chi non ne vuole sapere della verità, di chi non solo la ignora, ma vuole ignorarla. Quando c’è l’ignoranza del non voler sapere, la verità è sempre nel deserto. Questo è il primo momento in cui abbiamo il riferimento al deserto della verità. Quindi il ‘potere della verità’ qui non è nell’ordine dei poteri spirituali, che Lacan lasciava alla religione, e anche alla filosofia, ma è un potere di incidere fino al punto in cui la verità passa nel deserto di una rimozione che fa sintomo. Mentre invece la pacificazione avverrà dal riconoscerla, cioè dal toglierla dal suo deserto. Ed è questo a cui presiede la funzione dell’analista. Poi in questo testo Lacan prosegue con un altro punto che è molto noto e con cui egli ha fatto una specie di epica. È l’“Io la verità parlo”26. Qui si precisa cosa vuol dire per Lacan che la verità è nella parola, è nel dire. La verità non è nel: “Io dico la verità”, cioè nella parola di un Io. La verità è nella parola che parla da sé, di sé stessa e non in quella dell’Io del soggetto. È lei che parla. È: “Io la verità”, che parlo. D’altro canto l’appello alla verità implicito nel discorso analitico non è mai formulabile come il principio analitico fondamentale. Non è il: “Allora adesso mi dica la verità!”. Questo avviene in un altro luogo, dove il problema è un adeguamento della verità ai fatti, la giustizia persegue la verità dei fatti, non è così in analisi dove la verità è nella parola non nei fatti. E per questo non può essere nell’enunciato del soggetto al quale non si chiede di enunciare la sua verità, perché la verità parla da sé stessa e in prima persona. Se è: “Io la verità parlo”, non ci può essere una enunciazione che dice: “Adesso dico il vero sul vero” perché è il vero che parla da se stesso, non potrà mai essere un 26 

Lacan, La cosa freudiana cit., p. 399.

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enunciato che decompleta l’enunciazione della verità. La verità parla di sé, parla da sé e se non ci fosse colui che la intende, rimarrebbe muta nel deserto. Abbiamo dunque sottolineato seguendo Lacan, come egli ribadisca che la verità ha il suo luogo nella parola, ma in quanto estranea alla realtà, che non si colloca nella particina del soggetto, che non è padrona ma ha il potere di incidere e di pacificare. Ora si tratta di prendere in considerazione la parte in cui Lacan dice che è disumana.

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3.3. L’amore per la verità? E per questo egli si serve del mito di Diana e Atteone, il quale, dice Klossowski27, è quello di una umanità scomparsa, e quel che essa vide attraverso gli occhi di Atteone è «simile ad un barbaglio di costellazioni spente, da noi distanti in eterno»28. Questa umanità latina, in particolare nella versione di Ovidio, ci offre, con gli occhi di Atteone, una visione che resterà, in parte, a lungo indecifrabile. Per parlare della disumanità Klossowski evidenzia che Diana, e prima di lei Artemide nel Cratilo di Platone, è definita come: «Colei che odia l’inseminazione dell’uomo»29. A ciascuno dei vostri desideri corrisponde la freccia della sua faretra e qualunque sia il vostro destino gli strali di Diana centrano la preda, ma solo a costo delle vostre brame, come a dire che più vi avvicinate con un desiderio che la riguarda più verrete colpiti dalla sua freccia. Diana è la dea cacciatrice, disumana anche perché è sempre in mezzo agli animali ed è lì che la va a cercare Atteone. Il mito di Diana e Atteone è chiamato in causa da Lacan per una questione ben precisa. Lacan ha messo lo psicoanalista dal lato del buon intenditore dell’appello della verità, purché però non si prenda questa posizione dell’analista come quella di colui che è preso di passione per la verità. Bisogna fare attenzione, dice Lacan, ad andarle troppo vicino, a volerla rincorrere troppo velocemente. Dunque a fare la parte di At27 

Pierre Klossowski, Il bagno di Diana, SE, Milano 2003, p. 11. Ibid. 29  Ivi, p. 119. 28 

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teone che andava a cercare con i suoi cani la verità per cogliere Diana di sorpresa mentre fa il bagno. E il mito ci dice che sarà Diana che se da un lato si fa cogliere, dall’altro trasforma Atteone in cervo che verrà sbranato dai suoi stessi cani, che aveva mobilitato per andare a cercare la dea. C’è un affresco del Parmigianino in cui Atteone, trasformato in cervo da Diana, è preso al collo dai suoi stessi cani30. Klossowski dirà l’eccezionalità di questo mito riferendosi al fatto che mai una dea si era sottratta (questa è la parola chiave) agli umani sotto le lusinghiere sembianze di vergine fulgida e assassina31. Gli dei che si incarnano diventano demoni (daimon), una divinità intermedia tra dio e uomo, e Diana s’incarna, è daimon nel momento in cui si fa vedere da Atteone il quale non ha l’idea che quanto più lei è lì, incarnata e visibile, tanto più si sottrae e lui per poterla afferrare incontra la morte. Lacan dirà che l’analista Atteone è colpevole di andare troppo vicino alla verità, di appassionarsi troppo o troppo presto per la verità. Consiglia così allo psicoanalista di non affrettare il passo per raggiungere la verità, piuttosto attenda Diana dove si farà riconoscere. Come ci ha ricordato Miller32 il mito di Diana non è il mito che incatena il soggetto ma il mito in cui è la verità che scatena qualcosa nel soggetto, con il suo effetto sorpresa all’interno dell’esperienza analitica. Occorre anche sapere che ci sono i cani che si scatenano contro l’analista se è andato troppo presto alla verità preso dall’amore per lei. È quello che Freud chiamava il transfert negativo, non c’è una verità che quando si disvela troppo in chiaro non scateni dei cani che abbaiano perché non sono tanto soddisfatti e perciò occorre fare attenzione. Miller dice che Freud ha pagato un prezzo elevatissimo33 nel procedere troppo presto ad enunciare le verità che aveva in mano ed ha avuto una moltitudine di cani abbaianti contro di lui. Lacan quindi ci dice che se la funzione dell’analista è di porsi come buon intenditore della verità non per questo la deve rincorrere ad ogni costo, fin là dove nella verità stessa c’è qualcosa che non vuole disvelarsi. In questa dimensione si vede bene che il mito di Diana e Atteone è il mito della verità che si pone al di là del bene e del buono, che non 30  Questo affresco, Atteone divorato dai cani, si trova nella Rocca di Fontanellato (Parma). 31  Klossowski, Il bagno di Diana cit., p. 12. 32  Jacques-Alain Miller, La logique et l’oracle, “La Cause du desir”, 90, 2015, p. 135. 33  Ibid.

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3. la verità giunta al suo colmo

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ha alcun rispetto per queste due dimensioni, che è al di là del principio di realtà e quindi bisogna attenderla dove si disvelerà a suo modo, non andarla a stanare, volerla tirare fuori dall’antro umido in cui alloggia, in cui la luce entra e non entra. In questo senso Diana è più una dea della tenebra e tirarla fuori da lì perché splenda alla luce piena ha delle conseguenze né buone né belle. La verità qui non è concepita come nella religione dove, posta in Dio, splende luminosa sempre e costantemente, non è questa la verità che ci consegna l’umanità perduta da cui abbiamo ricevuto il mito. Apollodoro che si era posto l’obiettivo di raccogliere tutti i miti greci34, li aveva pubblicati nel periodo in cui Tertulliano aveva pubblicato a sua volta il primo testo sull’ apologia del cristianesimo e nel momento in cui Tertulliano fa l’apologia del cristianesimo Apollodoro vuole ricordarci che il politeismo antico aveva altre cose da dire, diverse, a proposito della verità. Già dunque nella conferenza di Vienna Lacan, tramite il mito di Diana e Atteone, inizia a suggerirci che non si può prendere la verità e lasciarla tutta nella luce perché deperisce, perché questo pieno disvelamento è contrario alla sua natura. Lacan qui anticipava il tema che riprenderà successivamente quando dirà che la verità la si può dire ma non tutta, la si può dire a metà, non la si può strappare del tutto fuori dal luogo in cui riposa, velata, nascosta. Così con il mito di Diana Lacan ha iniziato a porre l’allerta sull’amore per la verità per lo psicoanalista, incominciando a relativizzare una certa mitologia che si può costruire sulla verità, per poi approdare, nei suoi ultimi scritti, alla tesi della verità «da cui si deve attendere solo la menzogna»35. 3.4. La verità come causa Successivamente, nel testo che chiude gli Scritti, cioè La scienza e la verità36 del 1965, Lacan centrerà la questione della verità direttamente attorno alla causa. Per distinguerne la psicoanalisi dalla scien34  Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori editore, Milano 2008. 35  Jacques Lacan, Introduzione all’edizione inglese del Seminario XI, in Id., Altri scritti cit., p. 563. 36  Jacques Lacan, La scienza e la verità in Id., Scritti, II cit.

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za, dalla religione e dalla magia. La posta in gioco più importante è la distinzione con la scienza. Prima di tutto perché come lui stesso dice il soggetto della psicoanalisi è lo stesso di quello della scienza37. Il soggetto della scienza ha storicamente un’emergenza precisa con Cartesio e il famoso cogito. Questo soggetto è il soggetto che buca tutto quello che dell’ordine dei saperi lo precedeva e che erano i saperi dell’epoca della civiltà dell’umanesimo, quindi di tutti i saperi che nei secoli avevano costituito il bagaglio di quelle che si chiamavano le umanità. Il soggetto che con Cartesio buca i saperi che lo precedono ha lasciato vivere ancora per un po’ di tempo tutta l’erudizione umanistica che apparteneva alla soggettività che si formava a questi saperi che appunto l’avvento del soggetto della scienza ha dissolto oggi dal nostro orizzonte. Porto due esempi del soggetto dell’umanesimo della civiltà europea quale era all’epoca in cui Cartesio introdusse la sua epoché. Il primo è quello stesso di Cartesio, e ce lo illustra egregiamente uno dei maggiori eruditi del 1600, Adrien Baillet, che ha scritto un libro su Cartesio38, in cui ci informa su tutto ciò che Cartesio aveva studiato quando era entrato nel collegio di La Flèche nel 1612, quando aveva appena nove anni e ne era uscito a sedici: lingue antiche, logica, matematica, morale scolastica, fisica e metafisica, geometria analitica e algebra. Ebbene Cartesio per primo ha lasciato da parte tutto questo sapere della tradizione umanistica quando ha ‘pensato’ al soggetto puntiforme e vuoto con cui ha inaugurato una nuova epoca del mondo. L’altro personaggio di cui porto l’esempio è quello di Constantin Huyghens39 che nel 1626 a trentatré anni era il segretario di Federico II principe D’Orange, figlio di Guglielmo D’Orange, chiamato “il taciturno”, colui che ha avviato la famosa guerra degli Ottanta anni per espellere dai Paesi Bassi i cattolicissimi spagnoli, che si erano insediati nella parte sud del paese (Bruxelles, Lovanio), che è tuttora cattolica. Constantin Huyghens a sei anni era stato introdotto allo studio della grammatica latina e della musica, poi della logica e della retorica, verso i dieci anni studiava filosofia scolastica, matematica, 37 

Ivi, p. 863. Adrien Baillet, Vita di Monsieur Descartes, Adelphi, Milano 1996. 39  Le vicende di Costantin Huyghens sono descritte in Simon Schama, Gli occhi di Rembrandt, Mondadori, Milano 2017. 38 

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3. la verità giunta al suo colmo

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storia, legge, poi gli si chiese di conoscere le arti, fino ad essere un intenditore di buon gusto e nei fatti lo divenne perché arrivò giovanissimo nell’atelier di un ancor più giovane di lui Rembrandt e lì capì che vi era qualcosa di grande, comprò molti quadri, alcuni per lui e alcuni per il principe D’Orange. Ma oltre a tutta questa fine formazione alle ‘umanità’ Constantin Huyghens venne decorato perché aveva avuto un ruolo decisivo nella guerra contro gli spagnoli. Per due mesi non aveva dormito per poter decifrare i messaggi in codice che l’esercito spagnolo comunicava alle varie truppe. E quando il Principe d’Orange l’elogiò pubblicamente per il ruolo decisivo da lui avuto durante la guerra, Constantin gli disse che, il suo, era stato il frutto di un semplice lavoro da somaro. E sembra che nelle notti insonni, nei momenti in cui aveva un po’ di pausa, scrivesse dei versi in latino, in olandese, in francese e così via. Tutto questo ‘mondo’ non esiste più, è come l’umanità scomparsa di cui dicevo prima a proposito del mito romano di Diana e Atteone. Dopo Cartesio questa soggettività non ha più alcun posto, se non residuale, museale. È il soggetto vuoto della scienza quello che è venuto al suo posto, che ha bucato definitivamente questa rappresentazione soggettiva. Il soggetto che emerge con Cartesio infatti è il soggetto che non ha più niente di soggettivo. Heidegger, in una conferenza del 1938 a Friburgo sulla scienza moderna40, dice che il significato del soggetto che emerge con Cartesio non ha alcun riferimento all’uomo, né tanto meno ancora all’Io. È il soggetto vuoto di qualsiasi rappresentazione immaginaria che possa rappresentarlo e che non deve prendere nessun posto nell’articolazione che la scienza si prefigge di promuovere. Cioè l’articolazione della logica stretta e pura del significante, la macchina logica del significante. Perché questa articolazione possa dispiegarsi questo soggetto deve essere vuoto da qualsiasi rappresentazione che lo riguardi soggettivamente, emotivamente e immaginariamente. In tal senso il soggetto della scienza è il soggetto vuoto per definizione. È questo il soggetto a cui Lacan si riferisce quando dice che è lo stesso del soggetto della psicoanalisi. Per la psicoanalisi il soggetto dell’inconscio, il soggetto che noi cogliamo al di là di tutte 40  Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 86

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le mistificazioni che lo coprono, che sono quelle dell’Io è il soggetto la cui struttura è articolata come un linguaggio. E in tal senso il soggetto della psicoanalisi e della scienza è lo stesso. Ma solo in questo senso perché ciò che li distingue s’inscrive nettamente nel rapporto di questo soggetto con la verità come causa. È questo il terreno su cui Lacan approda nella sua elaborazione del tema della verità, dopo aver iniziato con la verità come altro senso e successivamente con la verità che incide nel sintomo. Rapportando la verità alla causa Lacan rimodula il rapporto della psicoanalisi con le pratiche che a differente titolo ne sono riguardate. La psicoanalisi essendo quella pratica in cui il soggetto si fa responsabile del suo rapporto alla verità come causa. Ritorniamo qui al nodo etico della psicoanalisi, che la differenzia primariamente dalla scienza. In quest’ultima il soggetto è completamente a lato rispetto a tutta la macchina significante che ne sviluppa l’incidenza effettuale oltre che teoretica. Nella scienza il soggetto non è per nulla responsabile degli effetti che la macchina significante produce. Nella scienza non c’è nessun soggetto che se ne fa causa e quindi, come sappiamo, gli effetti della scienza non hanno mai alcun responsabile che possa rispondervi. È l’esercizio della sola macchina significante, teoretico e pratico che produce degli effetti, dei risultati a cui non si può attribuire una responsabilità soggettiva. È il dilemma che sorge sempre, come rispondere all’effetto che è stato messo in atto attraverso la logica del significante della scienza, a cui non si può attribuire una responsabilità soggettiva, non c’è un soggetto che ne sia responsabile diretto. Lacan dice che se la psicoanalisi deve stare al livello del soggetto della scienza non per questo non deve aprire questo soggetto alla verità come causa, il che vuol dire farsene responsabile. E dunque ecco perché la psicoanalisi non può essere una scienza, perché nella scienza nessun soggetto può mai andare contro ciò che il significante, la sua articolazione pura, può liberare di per sé stesso, perché la scienza non è legata ad uno scienziato, se non c’è lui ci sono gli altri che vanno avanti al suo posto. Qualcuno, in certe circostanze può rifiutarsi di procedere o essere preso da scrupoli angosciati sugli effetti della scienza, come è accaduto a Robert Oppenheimer con la bomba atomica ed anche al nostro Ettore Majorana. Ma il processo dell’articolazione del sapere scientifico e dei suoi effetti non si ferma, come per la bomba atomica appunto.

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3. la verità giunta al suo colmo

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Lacan quindi non ha dubbi nel dire che il soggetto della scienza è abolito a favore della legge del significante, che nella scienza è in atto una vera e propria Verwerfung, una preclusione, una esclusione del rapporto del soggetto con la verità come causa41. Heidegger dice che la scienza si costituisce soltanto se la verità si è trasformata in certezza da rappresentare42, cioè se la verità si traduce tutta in un sapere consistente, dimostrabile. Ciò rappresenta l’idea che abbiamo del mondo, dà l’immagine del mondo come noi lo vediamo attraverso l’operatività della scienza. La verità nella scienza fissa un’immagine del mondo. Lo scopo di Lacan qui era di non situare la psicoanalisi fuori dall’orizzonte del soggetto della propria epoca, che era quello della scienza ma al contempo nemmeno espungere il soggetto fuori dal rapporto alla verità, come accade nella scienza. La psicoanalisi non espunge il soggetto da questa causa della verità, anzi lo spinge ad assumerla, a farsene responsabile, anche se questa causa è inconscia. Nella psicoanalisi ciascun soggetto assume la propria causalità, si fa il punto di discontinuità causale all’interno della catena significante. Il dovere etico, il soll ich della psicoanalisi lo ritroviamo qui, ciò che fa sì che la psicoanalisi non sia una scienza. Se tutto sarà nella biologia, non c’è più alcuna responsabilità, se tutto sarà nella causalità di una legge di natura nessuno è responsabile né di ciò che la catena significante produce e nemmeno del suo effetto di reale. Nella psicoanalisi invece il soggetto deve assumere questa verità, deve assumerne la causa, farsi responsabile dell’inconscio, quindi il nodo etico, il soll ich, è la risposta della psicoanalisi al soggetto della scienza. L’obbligazione etica della psicoanalisi è la risposta della psicoanalisi al cogito cartesiano43, il soggetto è lo stesso ma la risposta che dà la psicoanalisi è di ordine differente da quella della scienza, la psicoanalisi non avanza mascherata. Nel testo La scienza e la verità, la verità come causa è ripresa seguendo le declinazioni della causa enumerate dalla Fisica di Aristotele44: causa materiale, che è ad esempio il bronzo per la statua, causa 41 

Lacan, La scienza e la verità cit., p. 879. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo cit., p. 84. 43  Jean Luis Gault, La naissance de la science moderne. Une lecture de “La science et la vérité”, “La Cause du desir”, 84, p. 64. 44  Aristotele, Fisica, in Id., Opere, 3, Laterza, Bari 1973, pp. 33-47. 42 

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efficiente che è ciò che mette in moto il processo, nel caso della statua è lo scultore, causa formale, il modello o il concetto che si traduce in essere, è la forma che assume quell’ente ad esempio la forma della statua, causa finale, è lo scopo per cui si agisce, ad esempio si passeggia al fine di stare meglio nel corpo. Queste sono le quattro cause che Lacan riprende tali e quali da Aristotele. In rapporto alle quali specifica la magia, la religione, la scienza e la psicoanalisi. La magia e la religione sono sempre in conflitto di verità con la scienza e per la scienza la magia è un minus di scienza e la religione una falsa scienza, per la scienza entrambe sono ombre. La magia è una struttura che opera con il significante, lo sciamano introduce un significante e dalla mobilizzazione che il significante introduce in natura si aspetta la risposta, sempre in termini di significante. Si aspetta un ritorno ad esempio di pioggia, di meteore e quant’altro. L’aruspice latino significa etimologicamente “guardare gli uccelli”, “ave spicio”45. L’aruspice latino prendeva il suo bastone e segnava un rettangolo virtuale nello spazio che i latini chiamavano templum, come se disegnasse un libro in cui andare a leggere, solo che era virtuale ed era il libro in cui si era lanciato il significante e lo si andava a leggere dentro il templum. L’operazione dell’aruspice era la contemplatio, cioè la lettura di quel che avveniva lì, una specie di pagina che si andava a decifrare e a seconda di come le cose arrivavano, da un lato o dall’altro di questo templum si davano letture diverse e gli auspici erano diversi a seconda che venissero a destra o a sinistra. L’aruspice o lo sciamano hanno un peso essenziale in tutta la questione, ci mettono il corpo, cosa insensata nella scienza, per cui Lacan dirà che il sapere della magia è sempre dissimulato dall’ azione dello sciamano, è sempre “velato”46, non si sa, per cui c’è una rimozione del sapere, c’è una causa efficiente ma il sapere è rimosso. Mentre nella religione la causa è finale, il soggetto se ne deresponsabilizza perché pone la verità in Dio. Ciò che fa è per Dio al cui desiderio è sottomessa la domanda del soggetto47. Ma tutto ciò non è esente dall’ingenerare la colpa. Per quanto riguarda il sapere non è dal lato della rimozione, come nella magia, ma c’è comunque 45  Per questa indicazione e le successive mi riferisco a Pascal Quignard, L’enfant d’Ingolstadt, Grasset, Paris 2018, p. 16. 46  Lacan, La scienza e la verità cit., p. 876. 47  Ibid.

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3. la verità giunta al suo colmo

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diffidenza verso il sapere, come dimostra il caso Galileo o le diverse contrattazioni con il progresso del sapere logico matematico, come nel caso di Cantor all’epoca delle sue scoperte sull’infinito attuale48. Nella scienza la verità è la causa formale, la verità nella scienza è ridotta ad un sapere formalizzato, messo in logica, consistente, dimostrabile, verificabile. La verità, ridotta ad essere un sapere dimostrabile, ne viene de facto espunta. Lacan, come dicevo, parla qui di Verwerfung, di preclusione della verità come causa. Un sapere messo in logica, dimostrabile ed assiomatico, non ha niente a che fare con quel sapere che nel discorso analitico Lacan mette nel posto della verità. Qui non è una verità che diventa un sapere logico corroborato e formalizzato, è, al contrario, un sapere che prende posto di verità, ma per questo non deve essere corroborato, completamente dimostrabile, completamente consistente, in altri termini non deve espungere da sé la verità con cui il soggetto è in causa. Nel discorso analitico il sapere nel posto della verità è il sapere che prende aura di verità. Dunque che non si lascia integralmente dimostrare, non viene del tutto alla luce. Lacan dirà infatti che è un enigma49 che il soggetto continuamente interroga nel corso della sua analisi e che l’analista non deve obliterare. Lacan situa qui l’interpretazione analitica come quella che fa risaltare la verità, come enigma, è un enunciazione che non ha un enunciato, perché l’enunciato è l’analizzante che lo deve apportare con ciò che l’enunciazione ha prodotto. L’enigma è l’enunciazione e per l’enunciato, dirà Lacan, sbrigatevela voi50. Ecco perché l’interpretazione che è tutta compresa è difficile che possa produrre i suoi effetti, perché l’interpretazione è l’enunciazione che non è un sapere formalizzato, concluso e trasmesso in quanto tale, è nel posto della verità che ha, come Diana, sempre un piede dentro al suo antro e non si lascia mettere tutta nella luce, quindi è un enigma e sta all’analizzante apportare l’enunciato con cui continuare il suo lavoro analitico. La causa nella psicoanalisi invece è una causa materiale, è nella materialità del significante, alla lettera degli equivoci, delle omofonie, della metafora e della metonimia, nel gioco di sostituzione e spostamento che presiede alla articolazione dell’inconscio. Quando 48 

Natalie Charraud, Infini et inconscient. Essai sur Georg Cantor, Anthropos, Paris

1994. 49  50 

Jacques Lacan, Il rovescio della psicoanalisi. Il Seminario. Libro XVII cit., p. 36. Ivi, p. 37.

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Lacan arriva a dire che la causa materiale è nel significante, fin nella lettera, la situa come la base materiale della operatività psicoanalitica che agisce con l’inconscio. Qui si chiude un ciclo, iniziato in Funzione e campo, in cui la verità è causa al livello del senso, per poi ne La cosa freudiana diventare causa al livello del significante, e giungere infine qui alla causa materiale, qualcosa che vira alla lettera, nell’equivoco radicale che è sempre più stato messo in luce nell’ultima fase dell’insegnamento di Lacan. La causa materiale è anche il passaggio che aprirà subito la strada ad un rapporto più stretto tra verità, sapere e godimento, alla fratellanza tra sapere e godimento e alla sorellanza tra verità e godimento a cui Lacan fa esplicito riferimento nel Seminario XVII del 1970. 3.5. L’impotenza della verità In particolare il capitolo che Miller ha intitolato “Verità sorella del godimento”51 è agli antipodi dal punto da cui siamo partiti, dalla sostituzione della verità al principio di piacere, dalla sostituzione della verità analitica al principio di realtà che non è che la continuazione del principio del piacere con altri mezzi. Qui la verità è sorella del godimento, ci dice Miller52, nel senso del godimento perduto a partire dal simbolico, e qui c’è il rapporto intrinseco tra verità e castrazione, il godimento che Freud diceva essere la matrice di ogni ricerca successiva della ripetizione. Ma verità è sorella di godimento anche nel senso di quel godimento che da Lacan è indicato come più di godere, cioè un godimento che sfugge alla castrazione, che resiste al significante ed insiste in questo ‘più di’ a causare il desiderio nel fantasma. Dunque si può dire che la verità stia un po’ tra questi due, che sia sorella del godimento, sia in relazione alla perdita sia anche come più di godere. Miller ci ricorda che l’impotenza53 della verità viene dal lato in cui ha le sue fondamenta nella castrazione, e ogni volta che si fa l’elogio della verità c’è sempre dietro a questo elogio 51 

Ivi, p. 61. Miller, Il vero, il falso e il resto cit., p. 25. 53  Ibid. 52 

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un impotenza, perché non si tiene conto della verità della castrazione. Ma in quanto verità legata al più di godere si tratta di una verità che si smarca dalla castrazione. Dunque la verità qui è sorella di due versioni del godimento che, per esempio nel fantasma, si correlano insieme. Non a caso Lacan nel 196754 ha fatto della separazione di questi due versanti del godimento il cardine della fine dell’analisi. Essa non avrebbe potuto considerarsi psicoanaliticamente conclusa senza che il soggetto avesse simbolizzato l’effetto castrazione del godimento, come verità di un disessere, e al contempo non avesse delineato l’oggetto in cui si condensa il godimento in quanto residuale alla trama significante, facendosi causa e verità del desiderio. A questo punto possiamo riassumere, alcuni punti, dicendo che, della verità: parlarne come causa materiale fissa il punto di differenziazione decisivo della psicoanalisi non solo rispetto alla scienza ma anche alla religione e alle varie divinazioni, farne l’elogio la espone sempre alla sua impotenza che le viene dalla castrazione, fattore del tutto eluso da quel che ne dicono i fautori55 dei “diritti aletici della verità” e del suo potere; il sintomo invece la situa nell’efficacia della sua incidenza di sofferenza poiché è nel deserto e non incontra il buon intenditore, mentre nel fantasma essa stabilisce una sorellanza con il più di godere che sfugge alla presa del significante, come Diana quando si sottrae a Atteone. 3.6. La verità nell’exsistenza del sinthomo Ma non possiamo fermarci qui a proposito della sorellanza tra verità e godimento, occorre arrivare al sinthomo nell’ultimo insegnamento di Lacan. Cioè là dove la verità non grida più nel deserto dell’ignoranza, in cui insiste in attesa di venire riconosciuta e di pacificare il soggetto nella soddisfazione del riconoscimento. Il sinthomo è invece quello in cui la verità stessa resiste a tradursi 54  55 

Lacan, Proposta sullo psicoanalista della Scuola cit. Cfr. Franca D’Agostini, Maurizio Ferrera, La verità al potere, Einaudi, Torino 2019.

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il deserto della verità

come sapere ed anche come senso. È lei stessa qui che «si sforza di essere nel deserto»56. Se si può continuare a interpretare l’inconscio perché esso resta l’Altro, con il sinthomo ciò non è possibile, lì tocchiamo l’ininterpretabile, che è fuori senso. Ne constatiamo la “iterazione”, come l’ha definita Miller57, dello stesso che non cambia. Ed è su questo che l’esperienza ha la possibilità di concludersi, su ciò che è dell’ordine di una constatazione non più affiancata da passioni negative, da una volontà di rincorrere ancora e ancora una verità, scoprendola del tutto. Cosa impossibile come Lacan aveva già iniziato da tempo a ricordarci, che la verità era impossibile dirla tutta, la si poteva dire solo a metà58, come già il richiamo al mito di Diana anticipava. Qui nel sinthomo la verità è sorella della oscurità del godimento e qui è nel deserto di un godimento che resiste a qualsiasi decifrazione. Lacan lo aveva già anticipato nel 1967 dicendo «è dal godimento che la verità trova di che resistere al sapere»59. Anni dopo con il sinthomo il suo deserto diventa il colmo di se stessa, lì si rende “mendace”60, perché di questo reale non potrà che farsi sembiante, verità variabile61. Di finzione come il suo senso. L’esperienza analitica si chiude con il sinthomo, laddove qualcosa si itera, solo, e non c’è più alcun senso da dargli, non c’è più alcun sapere da aggiungere. Resta da testimoniarne e dirne in forme di verità mendaci, che però non si contraddicano l’una con l’altra. Il deserto, come diceva Roland Barthes62, è una figura dell’esistenza, come ha dimostrato radicalmente l’anacoretismo orientale. È il cristianesimo che ha introdotto una soluzione diversa, ha inventato il monaco cenobita. Infatti il monaco cenobita sta tutto il giorno nella sua cella, però in un qualche momento della giornata si trova insieme ai confratelli, è il deserto a cui si aggiunge il 56 

Jacques-Alain Miller, La natura dei sembianti, “La Psicoanalisi”, 16, p. 187. Miller, Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo cit., p. 143. 58  Jacques Lacan, Televisione, in Id., Altri Scritti cit., p. 505. 59  Lacan, Della psicoanalisi nei suoi rapporti con la realtà cit., p. 354. 60  Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI cit.,p. 563. 61  Cfr. infra, Sapere e verità. 62  Roland Barthes, Comment vivre ensemble. Cours au Collège de France (1976-77), Seuil Imec, Paris 2002, p. 99. 57 

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3. la verità giunta al suo colmo

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temporaneo rapporto con il gruppo. Barthes lo definisce un lusso del simbolico63. Lacan non parla di monaci ma, a proposito degli psicoanalisti, di santi sì, come scarti, presentificazioni di un exsistenza non significantizzabile, indigeribile, non certo come beatitudini del simbolico da cui cala la salvezza per gli altri, piuttosto santi per i quali vale il principio “in più santi si è più si ride”64. Dove il riso viene al posto del senso.

63  64 

Ivi, p. 131. Lacan, Televisione cit., p. 515.

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