Il contrasto alla criminalità organizzata. Contributi di studio 9788892106963

Il volume “Il contrasto alla criminalità organizzata. Contributi di studio” costituisce una raccolta di scritti nati da

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Il contrasto alla criminalità organizzata. Contributi di studio
 9788892106963

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sestino
PRESENTAZIONE
ELENCO AUTORI
I
LE MISURE DI PREVENZIONE PATRIMONIALI
TRA “DIRITTO VIVENTE”, INNOVAZIONI
GIURISPRUDENZIALI E PROSPETTIVE DI RIFORMA
di Antonio Balsamo e Caterina Brignone
II
L’ASSET RECOVERY DEI PROVENTI
DEL REATO NEL REGNO UNITO
di Vittorio Fanchiotti
III
IL DELITTO DI SCAMBIO ELETTORALE POLITICO
MAFIOSO TRA INTERVENTI NORMATIVI E
INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI
di Annamaria Peccioli
IV
DELITTI DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DI
STAMPO MAFIOSO E CUSTODIA CAUTELARE
“QUASI OBBLIGATORIA”: UN PERCORSO
CONCLUSO?
di Michela Miraglia
V
LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DEGLI ENTI
TERRITORIALI NEI PROCESSI PER ASSOCIAZIONE
PER DELINQUERE DI STAMPO MAFIOSO *
di Alessandro Torri
VI
LA PARTECIPAZIONE A DISTANZA
AL DIBATTIMENTO:
CRONACA DELL’ESPANSIONE APPLICATIVA
DI UN ISTITUTO DALLA DUBBIA TENUTA
COSTITUZIONALE
di Luca Barontini
VII
L’ATTIVITÀ ANTIFRODE ALL’INTERNO
DELLE COMPAGNIE DI ASSICURAZIONE
di Lionello Bottari
VIII
FICTIONAL CRIMES: IL CASO DELLE STASH HOUSES
di Vittorio Fanchiotti
IX
IL QUADRO NORMATIVO
PER IL CONTRASTO ALLA PIRATERIA
di Jean Paul Pierini
X
ESISTONO DAVVERO DIRITTI INVIOLABILI?
di Renzo Orlandi
INDICE

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Il contrasto alla criminalità organizzata Contributi di studio

A. Balsamo - L. Barontini - L. Bottari - C. Brignone - V. Fanchiotti M. Miraglia - R. Orlandi - A. Peccioli - J.P. Pierini - A. Torri

Il contrasto alla criminalità organizzata Contributi di studio a cura di

Vittorio Fanchiotti e Michela Miraglia

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0696-3

Finanziamento MIUR: – Progetti transfrontalieri – obiettivo 3: Corso di formazione professionale “Criminalità organizzata: tra teoria e prassi”.

Stampa: LegoDigit s.r.l. - Lavis (TN)

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, email [email protected] e sito web www.clearedi.org.

PRESENTAZIONE

Il volume nasce da una serie di seminari tenutisi presso il Polo Universitario imperiese dell’Università di Genova, nell’ambito di un progetto di ricerca sul tema della criminalità organizzata, un fenomeno, emerso nella sua amplissima estensione nel ponente ligure solo negli ultimi anni, di cui costituiscono il riflesso più evidente alcuni processi conclusisi recentemente. Partendo dall’analisi della realtà locale, è apparso opportuno avviare una riflessione su alcuni dei profili più salienti degli strumenti normativi di contrasto al fenomeno, allargando il campo d’indagine ad una dimensione comprensiva anche di settori spesso trascurati, del diritto comparato e di quello internazionale, inserendo tra i contributi una riflessione più generale, consapevoli dell’esigenza di approfondire gli aspetti più strettamente tecnico-normativi senza perdere di vista quelli più teorici. In quest’ottica si è dato spazio alla tematica delle frodi assicurative, a particolari strumenti utilizzati nell’ordinamento statunitense, al contrasto alla pirateria e alla problematica dell’inviolabilità dei diritti, settore particolarmente delicato nella sua applicazione alle forme di criminalità più insidiose per la collettività. Imperia, novembre 2016 I curatori

VIII

Contributi per lo studio della criminalità organizzata

ELENCO AUTORI

ANTONIO BALSAMO, sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione. LUCA BARONTINI, dottorando di ricerca – Università degli Studi di Genova. LIONELLO BOTTARI, business development consultant. CATERINA BRIGNONE, giudice – Tribunale di Trapani. VITTORIO FANCHIOTTI, professore ordinario di diritto processuale penale – Università degli Studi di Genova. MICHELA MIRAGLIA, ricercatore di diritto processuale penale – Università degli Studi di Genova. RENZO ORLANDI, professore ordinario di diritto processuale penale – Università degli Studi di Bologna. ANNAMARIA PECCIOLI, professore associato di diritto penale – Università degli Studi di Genova. JEAN PAUL PIERINI, già docente di Diritto processuale penale comparato e internazionale presso l’Università degli Studi di Genova. ALESSANDRO TORRI, dottore di ricerca – Università degli Studi di Genova.

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Contributi per lo studio della criminalità organizzata

I

LE MISURE DI PREVENZIONE PATRIMONIALI TRA “DIRITTO VIVENTE”, INNOVAZIONI GIURISPRUDENZIALI E PROSPETTIVE DI RIFORMA di Antonio Balsamo e Caterina Brignone * SOMMARIO: 1. L’evoluzione della confisca. – 2. La natura giuridica della confisca di prevenzione nel “diritto vivente”. – 3. La correlazione temporale tra accumulazione patrimoniale e pericolosità soggettiva. – 4. Il rapporto tra beni e attività illecite: la confisca delle imprese mafiose. – 5. Verso un “doppio binario” delle misure patrimoniali tra criminalità organizzata e white collar crime? – 6. Le riforme necessarie: misure di prevenzione anticorruzione e antiterrorismo.

1. L’evoluzione della confisca. Nell’ambito di un trend evolutivo che ha mostrato di puntare sempre di più sull’efficacia degli strumenti patrimoniali per il contrasto alle più pericolose ed aggressive forme di criminalità, specie organizzata, il sistema delle misure di prevenzione viene oggi a configurare un «“processo al patrimonio”, parallelo e complementare al processo penale» 1; beninteso, l’espressione “processo al patrimonio” non allude alla possibilità di prescindere dalla pericolosità del soggetto, bensì al fatto che il relativo accertamento può essere meramente incidentale e non costituire il fulcro del procedimento, ma mero presupposto. Per comprendere il ruolo assunto dalle misure di prevenzione patrimoniali nel quadro degli strumenti di reazione alla criminalità, occorre preli* Anche se il contributo è frutto del lavoro collettivo dei due autori, Caterina Brignone ha redatto i primi quattro paragrafi, mentre Antonio Balsamo ha redatto gli ultimi due. 1 A. BALSAMO, voce Codice antimafia, in Dig. disc. pen., Aggiornamento, VIII, Utet, Torino, 2014, p. 41.

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Antonio Balsamo e Caterina Brignone

minarmente esaminare il rapporto tra questo speciale “sottosistema” e l’istituto della confisca, nella sua complessa evoluzione che ha contrassegnato il periodo più recente. Ragionando sulla confisca 2, emerge il suo carattere di istituto «camaleontico», per l’indubbia capacità «di adattarsi all’ambiente normativo di riferimento e di recepire le peculiari finalità, che, per suo tramite, il legislatore intenda, di volta in volta, perseguire» 3. La confisca può, dunque, assumere diversa natura giuridica, atteso che «il suo contenuto consiste sempre nella privazione di beni economici, ma può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, sì da assumere, di volta in volta, natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero di misura giuridica civile o amministrativa. Ciò che spetta di considerare non è un’astratta e generica figura di confisca, ma in concreto la confisca così come risulta da una determinata legge» 4. Il «naturale polimorfismo dell’istituto» 5 e l’attenta considerazione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale più recente inducono a pensare che, allo stato attuale, i tradizionali steccati tra le diverse tipologie di confisca siano sempre meno definiti, che le distinzioni siano tendenziali piuttosto che assolute e che, sotto il profilo funzionale, dato il processo di ibrida2 Per la dottrina recente sul tema della confisca in generale, si rinvia a: A. CAIRO, Confisca – Misure di prevenzione, Titolo XIX Mafia, in R. TARTAGLIA (a cura di), Codice delle confische e dei sequestri. Illeciti penali e amministrativi, Nel diritto, Roma, 2012, p. 1088 ss.; D. FONDAROLI, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale: ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bononia University Press, Bologna, 2007; E. NICOSIA, La confisca, le confische: funzioni politico-criminali, natura giuridica e problemi ricostruttivo-applicativi, Giappichelli, Torino, 2012; G. PIGNATONE, Il modello italiano di contrasto ai patrimoni illeciti: strumenti penali, strumenti di prevenzione, problematiche processuali. La recente riforma delle misure di prevenzione: criticità e prospettive di applicazione, in Atti del CSM, Incontro di studio, Roma 27-29 gennaio 2010. 3

Così testualmente Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, n. 4880, in Guida dir., 2015, f. 18, p. 76 ss., con nota di A. CISTERNA, La confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione continua a essere assimilata alle misure di sicurezza; in Riv. it. dir. pen., 2015, p. 922 ss., con nota di A.M. MAUGERI, Una parola definitiva sulla natura della confisca di prevenzione? Dalle Sezioni Unite Spinelli alla sentenza Gogitidze della Corte EDU sul civil forfeiture; in Dir. pen. proc., 2015, p. 707 ss., con nota di V. MAIELLO, La confisca di prevenzione dinanzi alle Sezioni Unite: natura e garanzie; in Giur. it., 2015, p. 971 ss., con nota di R. BARTOLI, La confisca di prevenzione è una sanzione preventiva, applicabile retroattivamente. 4 5

102.

Corte cost., sentenza 25 maggio 1961, n. 29. Così testualmente Cass., Sez. II, 7 maggio 2008, n. 22903, in Guida dir., 2008, f. 31, p.

Le misure di prevenzione patrimoniali

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zione in corso, sia preferibile – se non addirittura necessario – andare alla ricerca del carattere prevalente piuttosto che esclusivo, da cui far dipendere il giudizio sulla natura giuridica e, conseguentemente, il regime di disciplina di ciascuna forma di confisca di volta in volta presa in considerazione. Ed invero, nel ribadire che la confisca di prevenzione va distinta dalle varie ipotesi di “confisca penale” – accomunate dalla previa commissione di un reato e, salvi casi eccezionali, anche dalla condanna del destinatario della misura patrimoniale – non si può trascurare l’innegabile evoluzione, dagli anni ’70 del secolo scorso in poi, verso l’introduzione di «forme “moderne” di confisca, caratterizzate dall’espansione dell’oggetto dei provvedimenti, dalla sintomaticità dei presupposti, dalla semplificazione dell’onere probatorio gravante sull’accusa, sulla base della realistica considerazione che i fenomeni di riciclaggio e di reinvestimento del denaro sporco rendono estremamente difficile il puntuale abbinamento tra il provento ed il singolo reato, che condiziona il ricorso alla confisca “classica”» 6. Si è realizzato un allontanamento graduale, ma inesorabile, rispetto all’archetipo della misura di sicurezza patrimoniale prevista dall’art. 240 c.p., misura di sicurezza che presuppone l’avvenuta commissione di un reato, e volta a prevenire la perpetrazione di ulteriori illeciti penali tramite la sottrazione al reo delle res servite o destinate alla commissione del reato o che di questo rappresentino il prodotto, il profitto, il prezzo o l’oggetto e che ha alla base «o un’oggettiva pericolosità del bene (il cui possesso sia vietato) o un’imprescindibile nesso strumentale col reato commesso» 7. Dell’evidente scostamento dal modello codicistico si prende atto nel riconoscere carattere sanzionatorio alla confisca c.d. “allargata” di cui all’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992, conv. dalla l. n. 356/1992 8, che si differenza da quella ex art. 240 c.p., perché – nei casi di condanna o applicazione concordata della pena per taluno dei delitti specificamente contemplati nel ci6

A. BALSAMO, voce Codice antimafia, cit., p. 41. Sul tema, cfr. anche: A. BALSAMO-G. DE AMICIS, L’art. 12-quinquies della l. n. 356/1992 e la tutela del sistema economico contro le nuove strategie delle organizzazioni criminali: repressione penale “anticipata” e prospettive di collaborazione internazionale, in Cass. pen., 2005, p. 2076 ss.; A. BALSAMO-S. RECCHIONE, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416-bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in www.penalecontemporaneo.it, 18 ottobre 2013. 7 F. MENDITTO, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, Giuffrè, Milano, 2012, p. 283. 8

Si veda Cass., Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 33451, in Dir. e pratica trib., 2014, p. 1139 ss., con nota di G. IANNACCONE, La confisca preventiva e la rilevanza dei proventi dell’evasione fiscale.

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Antonio Balsamo e Caterina Brignone

tato art. 12-sexies – prescinde dal collegamento diretto col reato commesso e si estende al denaro, ai beni ed alle altre utilità di cui il destinatario «non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica». È, così, prevista una «presunzione di origine illecita» riferita all’intero patrimonio del condannato, ma «subordinata all’adempimento di un onere probatorio – sia pure ridotto – in capo all’accusa, che deve dimostrare la sproporzione tra l’accumulazione patrimoniale del soggetto e il suo reddito dichiarato ai fini tributari o la sua attività economica legale» 9. Sebbene non presupponga un nesso di derivazione diretta dell’oggetto del provvedimento ablativo dal reato accertato, tale forma di confisca obbligatoria – che non si estende ai beni frutto o reimpiego dell’attività illecita 10 – richiede pur sempre la previa condanna od applicazione concordata della pena per uno dei reati tassativamente indicati nel testo dell’art. 12-sexies e connessi, sulla base di consolidate massime di esperienza, ad indebiti arricchimenti. Carattere parimenti sanzionatorio è riconosciuto alle varie ipotesi di confisca per equivalente 11, laddove, dovendosi rinunciare all’apprensione dell’effettivo profitto del reato, si fa prevalere l’esigenza punitiva – e, per alcuni, anche compensativa 12 – di sottrarre al condannato beni di valore equivalente a quel profitto, tenendosi comunque fermo l’ancoraggio ad una sentenza di condanna o di applicazione concordata della pena in re-

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A. BALSAMO, voce Codice antimafia, cit., p. 41. Così Cass., Sez. Un., 29 maggio 2014, cit.

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11 Cfr. artt. 322 ter e 640 quater c.p., art. 12-sexies, comma 2-ter, d.l. n. 306/1992, conv. dalla l. n. 356/1992, art. 1, comma 143, l. n. 244/2007. Esplicita, con riferimento ai reati tributari, Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2013, n. 18374, in Dir. pen. proc., 2013, p. 793 ss., con nota di F. FASANI, Rapporti fra reato associativo e aggravante della transnazionalità, per la quale «la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall’art. 1, comma 143, l. n. 244/2007 ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall’art. 200 c.p., non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge citata». Da ultimo, Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617, in C.e.d. 264437, per la quale «il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto». 12

F. MAZZACUVA, Le Sezioni Unite sulla natura della confisca di prevenzione: un’altra occasione persa per un chiarimento sulle reali finalità della misura, in www.penalecontempora neo.it, 15 giugno 2015, p. 11 ss.

Le misure di prevenzione patrimoniali

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lazione a specifiche fattispecie di reato. Carattere sanzionatorio ai sensi dell’art. 7 CEDU è riconosciuto pure alla c.d. “confisca urbanistica”, prevista in materia di lottizzazione abusiva dall’art. 44, comma 2, d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 e qualificata dalla giurisprudenza di legittimità sanzione amministrativa piuttosto che misura di sicurezza di natura patrimoniale 13. Ancora, valorizzando la finalità punitiva, è attribuita natura di sanzione penale accessoria e non di misura di sicurezza patrimoniale alla “confisca stradale” – ossia alla confisca del veicolo coinvolto nel sinistro, nelle ipotesi normativamente previste –, nonostante il nuovo art. 224-ter C.d.S., introdotto dall’art. 44 della l. n. 120/2010, l’abbia espressamente qualificata «sanzione amministrativa accessoria» 14. A ben guardare, nelle ipotesi fin qui considerate, non è possibile dire che ciascuna forma di confisca risponda ad una finalità unica – potendo coesistere funzioni preventive, repressive e, talora, anche compensative –, ma è, comunque, possibile individuare un connotato di scopo prevalente, che assurge a cifra caratteristica dello strumento, condizionandone la disciplina.

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Non è questa la sede per soffermarsi sul travagliato istituto della “confisca urbanistica”, che è tuttora al centro di un articolato dibattito dottrinale e giurisprudenziale, nell’ambito del quale sono state chiamate ad intervenire, oltre alla Corte di Cassazione, anche la Corte costituzionale e la Corte EDU. Per una disamina dei nodi problematici e delle soluzioni sul tappeto, si rinvia a: M. BIGNAMI, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, CEDU e diritto vivente, in www.penalecontemporaneo.it, 30 marzo 2015; A. DELLO RUSSO, Prescrizione e confisca. La Corte costituzionale stacca un nuovo biglietto per Strasburgo, nota a Corte cost., sentenza 1 aprile 2015, n. 49, in Arch. pen., 2015, p. 1 ss.; A. LARONGA, La confisca urbanistica in assenza di condanna, dopo C. Cost. 49/15, in Questione Giustizia, 4 giugno 2015; V. MANES, La “confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della presunzione di innocenza, in www.penalecontemporaneo.it, 13 aprile 2015. Per la giurisprudenza sul tema della “confisca senza condanna”, da ultimo, Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617, cit. 14

Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 23428, in Guida dir., 2010, f. 38, p. 68 ss., con nota di G. AMATO, È una misura accessoria la confisca del veicolo dopo il rifiuto di sottoporsi al test alcolimetrico; in Foro it., 2010, II, c. 499 ss., con nota di E. TURCO, La confisca del veicolo ex art. 186, settimo comma, cod. strada: sanzione penale accessoria?, ove si segnala che «la confisca del veicolo prevista in caso di condanna per la contravvenzione di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici, così come per quella di guida in stato di ebbrezza, non è una misura di sicurezza patrimoniale, bensì una sanzione penale accessoria», con la conseguenza che non può essere disposta in relazione agli illeciti commessi prima della sua introduzione.

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Antonio Balsamo e Caterina Brignone

2. La natura giuridica della confisca di prevenzione nel “diritto vivente”. Deve addivenirsi a conclusioni non dissimili anche con riferimento alla confisca di prevenzione, sebbene possa apparire paradossale interrogarsi sulla natura preventiva o sanzionatoria, a fronte di un nomen iuris fin troppo eloquente sul piano semantico; tuttavia, la peculiarità dello strumento rispetto agli altri del sistema prevenzionistico – quali le misure personali, la cauzione ed il sequestro cautelare – si coglie «in ragione della sua connaturata vocazione alla definitività, nel senso dell’irreversibile mutamento del regime giuridico della cosa per effetto della sua forzata acquisizione al patrimonio dello Stato, con correlata spoliazione del soggetto inciso (…), al fine precipuo di rimuovere beni di illecita provenienza dal circuito dell’economia legale» 15. Chiaramente, la soluzione al quesito sulla natura giuridica della confisca di prevenzione, ben lungi dal rispondere ad esigenze dogmatiche di mera classificazione nominalistica, è densa di implicazioni sul versante della disciplina applicabile. Ed infatti, il riconoscimento della connotazione preventiva giustifica l’assimilazione della confisca di prevenzione alle misure di sicurezza, con conseguente operatività della disposizione dell’art. 200 c.p. – attuativa, nella presente materia, del principio tempus regit actum –, mentre l’attribuzione della natura sanzionatoria comporta l’applicazione del principio di irretroattività di cui all’art. 11 delle preleggi, sancito, per la materia penale, dall’art. 2 c.p. e consacrato dall’art. 25 Cost. Invero, dottrina e giurisprudenza avevano tradizionalmente riconosciuto alla confisca di prevenzione natura preventiva e non sanzionatoria, valorizzando la finalità volta a neutralizzare la pericolosità derivante dal permanere della ricchezza illecitamente acquisita nella disponibilità di chi avrebbe potuto accrescerla con la perpetrazione di ulteriori attività criminali. Si sono, però, affermate nel tempo opinioni di segno contrario, tese a riconoscere alla confisca di prevenzione funzione sanzionatoria, in considerazione della particolare afflittività dei suoi effetti. A fronte dei diversi orientamenti, le Sezioni Unite, nel 1996, sono intervenute a collocare la confisca di prevenzione in un tertium genus rispetto alla sanzione penale ed alla misura di prevenzione, equiparandola ad una sanzione amministrativa produttiva degli effetti della misura di sicurezza di cui all’art. 240, comma 2, c.p., onde consentire l’ablazione definitiva dei beni di soggetto indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa e pro15

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit.

Le misure di prevenzione patrimoniali

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posto per l’applicazione di una misura di prevenzione personale, deceduto prima della definitività del provvedimento di prevenzione personale o che non sia più da considerare pericoloso a seguito dell’ammissione al programma dei collaboratori di giustizia o per altra causa 16. 16

Con riferimento al caso di morte del proposto, cfr.: Cass. Sez. Un., 3 luglio 1996, n. 18, in Cass. pen., 1996, p. 3609 ss., con nota di P.V. MOLINARI, Ancora sulla confisca antimafia: un caso di giustizia sostanziale contra legem, per la quale «la confisca prevista nell’ambito del procedimento di prevenzione nei confronti di persona indiziata di appartenere ad associazione di tipo mafioso non ha né il carattere sanzionatorio di natura penale, né quello di un provvedimento di prevenzione, ma va ricondotta nell’ambito di quel tertium genus costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza prescritta dall’art. 240, comma 2, c.p. Ne consegue che la confisca dei beni rientranti nella disponibilità di soggetto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione personale – una volta che siano rimasti accertati i presupposti di pericolosità qualificata del soggetto stesso, nel senso della sua appartenenza a un’associazione di tipo mafioso, e di indimostrata legittima provenienza dei beni confiscati – non viene meno a seguito della morte del proposto, intervenuta prima della definitività del provvedimento di prevenzione»; Cass., Sez. I, 13 novembre 1997, n. 6379, in C.e.d. 209556, a mente della quale «il decesso della persona sottoposta a misura di prevenzione personale – una volta che siano rimasti accertati ai fini specifici della speciale legislazione in materia i presupposti di pericolosità qualificata, (per tale intendendosi l’appartenenza ad associazione per delinquere di tipo mafioso), e di indimostrata legittima provenienza dei beni oggetto di confisca – non fa venire meno quest’ultima misura (…). Infatti il fine perseguito a mezzo della normativa antimafia in tema di misure di prevenzioni patrimoniali è quello di eliminare dal circuito economico beni in disponibilità di soggetto collegato con organizzazione criminale di stampo mafioso di presunta illecita acquisizione, in modo tale da impedire la riproducibilità, mediante uso diretto ovvero reinvestimento dei medesimi, di ricchezza inquinata all’origine, di guisa che i beni assoggettati a confisca finiscono con l’essere oggettivamente pericolosi di per sé, a prescindere dall’eventuale decesso del soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale, in quanto strumento di sviluppo dell’organizzazione mafiosa e dei suoi membri»; Cass., Sez. I, 24 novembre 1998, n. 5830, in C.e.d. 212668; Cass., Sez. II, 14 aprile 1999, n. 1790, in Cass. pen., 2000, p. 1411, con nota di P.V. MOLINARI, Confisca antimafia: si estende il dialogo col morto; Cass., Sez. I, 22 settembre 1999, n. 5092, in Cass. pen., 2000, p. 1410 ss.; Cass., Sez. II, 16 gennaio 2002, n. 20323, in C.e.d. 221556; Cass., Sez. V, 14 gennaio 2005, n. 6160, in Giust. pen., 2006, c. 353 ss.; Cass., Sez. II, 31 gennaio 2005, n. 19914, in Guida dir., 2005, f. 25, p. 59 ss., con nota di P. GIORDANO, La Corte rafforza l’orientamento fondato sull’illiceità della ricchezza; Cass., Sez. I, 27 gennaio 2009, n. 8466, in C.e.d. 243308; Cass., Sez. V, 20 gennaio 2010, n. 16580, in C.e.d. 246863. Con riferimento alla cessata pericolosità, cfr. Cass., Sez. II, 14 febbraio 1997, n. 12541, in Cass. pen., 1997, p. 3170 ss., con nota di P.V. MOLINARI, Si estende l’applicazione contra legem della confisca antimafia, ove si ribadisce che, «in tema di misure di prevenzione, il venir meno, per eventi successivi, dell’accertata pericolosità sociale del prevenuto, non può avere influenza alcuna in ordine alla confisca del patrimonio a lui riconducibile e ritenuto il frutto o il reimpiego delle sue attività illecite; la misura

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Antonio Balsamo e Caterina Brignone

La ragione del ricorso al tertium genus è, però, venuta meno con la riforma del 2008 17, che ha superato il principio di accessorietà della misura patrimoniale rispetto a quella personale, rendendo possibile l’applicazione disgiunta della prima dalla seconda e consentendo, così, di adottare la confisca anche quando – in presenza di persona che sia stata pericolosa, ma non lo sia allo stato attuale – non sia più applicabile la misura personale 18. A loro volta, la riforma del 2008 ed il successivo intervento legislativo del 2009 19, facendo venir meno il requisito dell’attualità della pericolosità sociale quale presupposto di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali 20, hanno comportato il delinearsi, in giurisprudenza, di un ulteriore contrasto interpretativo sulla natura della confisca di prevenzione. predetta, infatti, pur essendo applicata, per scelta del legislatore, nel procedimento di prevenzione, non ha natura di provvedimento di “prevenzione”, ma costituisce una sanzione amministrativa diretta a sottrarre in via definitiva i beni di provenienza illecita alla disponibilità dell’indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso ed equiparabile, quanto al contenuto ed agli effetti, alla misura di sicurezza prevista dall’art. 240 cpv. c.p.; la ratio della confisca, invero, comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione in senso proprio, mirando a sottrarre definitivamente i beni di provenienza illecita al circuito economico di origine per inserirli in altro esente da condizionamenti criminali, e dunque si proietta al di là dell’esigenza di prevenzione nei confronti di determinate persone pericolose per sorreggere la misura stessa oltre il perdurare della pericolosità del soggetto al cui patrimonio è applicata. Ne consegue che, una volta accertati i presupposti di pericolosità qualificata del soggetto e di indimostrata legittima provenienza dei beni a lui riconducibili, l’applicazione della confisca diviene comunque obbligatoria, ancorché tale risultato sia conseguibile solo all’esito definitivo della prevista procedura, senza che alcun effetto risolutivo possa ricollegarsi al venir meno del prevenuto ovvero della sua pericolosità». In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto la legittimità della confisca dei beni disposta nei confronti di un soggetto cui era stata revocata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale per esserne cessata la pericolosità a seguito dell’ammissione al programma di protezione dei collaboratori di giustizia; Cass., Sez. II, 14 marzo 2012, n. 21894, in C.e.d. 252829. 17

Il riferimento è al d.l. n. 92/2008, conv. dalla l. n. 125/2008, c.d. pacchetto sicurezza

2008. 18 Si faccia il caso del soggetto deceduto o sottoposto a misura di sicurezza incompatibile con la misura di prevenzione personale o che abbia già espiato quest’ultima, della persona non più attualmente pericolosa o della persona residente o domiciliata all’estero. 19

Si allude alla l. n. 94/2009, recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, c.d. pacchetto sicurezza 2009. 20

In argomento, A. MANGIONE, La confisca di prevenzione dopo i “due” pacchetti sicurezza, in S. MAZZARESE-A. AIELLO (a cura di), Le misure di patrimoniali antimafia–Interdisciplinarietà e questioni di diritto penale, civile e amministrativo, Giuffrè, Milano, 2010, p. 61 ss.

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Più specificamente, all’indirizzo per il quale, sulla scia dell’interpretazione tradizionale, restava ferma la natura non sanzionatoria della confisca di prevenzione 21, se ne è contrapposto un altro – espresso dalla sentenza Occhipinti – che ravvisava una sorta di “mutazione genetica” della confisca di prevenzione in misura a carattere oggettivamente sanzionatorio, con conseguente applicabilità del principio di irretroattività della legge penale 22. 21

Cfr. Cass., Sez. V, 28 marzo 2002, n. 23041, in Cass. pen., 2003, p. 605 ss., per la quale «l’affrancamento dall’attualità della pericolosità del proposto non ha comportato alcun riassestamento teleologico dell’istituto, quanto, se mai, un rafforzamento dell’efficacia rispetto all’originario fine. (…) È appena il caso di osservare che, se nell’originario sistema di prevenzione patrimoniale lo stato di pericolosità sociale del proposto avesse avuto un ruolo preponderante, tale che ora il ridimensionamento dovrebbe comportare un ripensamento complessivo di sistemazione dommatica e di definizione della disciplina, la confisca non avrebbe potuto strutturarsi con i caratteri dell’intervento ablatorio ordinariamente irreversibile – che ne hanno determinato l’inquadramento in un’autonoma categoria – ma avrebbe dovuto seguire, con il necessario connotato della provvisorietà, le evoluzioni del giudizio sulla posizione personale del proposto, venendo meno con la cessazione della di lui pericolosità sociale. Già questa osservazione elementare può essere sufficiente ad affermare che le novelle normative del 2008 e del 2009 non hanno determinato una radicale inversione di rotta nel disegno legislativo, ma hanno approfondito una tendenza che percorreva da tempo la materia, senza quindi comportare alcuna frattura col precedente sistema». Inoltre, «l’interesse pubblico all’eliminazione dal circuito economico di beni di sospetta illegittima provenienza, per l’appartenenza del titolare ad associazioni di tipo mafioso, sussiste per il solo fatto che quei beni siano andati ad incrementare il patrimonio del soggetto e prescinde dal fatto che perduri in capo a quest’ultimo lo stato di pericolosità, perché la finalità preventiva che si intende perseguire con la confisca risiede proprio nell’impedire che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza, quale che sia la condizione del soggetto che poi si trovi a farne in qualsiasi modo uso». 22

Cfr. Cass., Sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, in Dir. pen. proc., 2013, p. 37 ss., con nota di M.F. CORTESI, La Cassazione riconosce alle misure di prevenzione patrimoniali una natura «oggettivamente sanzionatoria»; in www.penalecontemporaneo.it, 26 luglio 2013, con nota di A.M. MAUGERI, La confisca di prevenzione ha natura «oggettivamente sanzionatoria» e si applica il principio di irretroattività: una sentenza “storica”?, per la quale «la previsione contenuta nella l. 15 luglio 2009 n. 94, che modificando l’art. 2-bis della l. 31 maggio 1965 n. 575, consente al giudice di applicare le misure di prevenzione patrimoniali anche prescindendo dalla verifica della pericolosità del proposto, si applica solo alle fattispecie realizzatesi dopo l’entrata in vigore della legge citata, dovendosi escludere che possa trovare applicazione l’art. 200 c.p. che, per le misure di sicurezza e per quelle di prevenzione personali subordinate all’accertamento della pericolosità, pone una deroga all’effetto retroattivo della legge». Nell’affermare il principio di diritto, la Corte ha, inoltre, precisato che il venir meno del presupposto della pericolosità sociale attribuisce natura oggettivamente sanzionatoria alla misura di prevenzione patrimoniale, con la conseguenza che ad essa è applicabile il regime di irretroattività previsto dall’art. 11 delle preleggi.

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È facile comprendere che il prevalere di quest’ultimo orientamento avrebbe comportato «l’impossibilità di colpire proprio quelle fasce di economia criminale consolidata, risalenti nel tempo, che rappresentano l’obiettivo delle recenti riforme» 23. Il nodo interpretativo è stato sciolto dalle Sezioni Unite 24, intervenute, nel 2014, a definire un vero e proprio «statuto» della confisca di prevenzione 25, che ha messo fuori gioco il percorso argomentativo proposto dalla sentenza Occhipinti 26. La sentenza Spinelli delle Sezioni Unite – senza rinnegare ed anzi riconoscendo l’esigenza di eliminare dal circuito economico-legale beni ed altre attività illecitamente acquisiti 27 – ha sottolineato come la pericolosità del soggetto inciso sia, anche nel nuovo assetto normativo, immancabile presupposto di applicabilità della misura reale, relativamente alla quale è dato ora prescindere solo dalla verifica di attuale permanenza di quella stessa condizione. Infatti, se rispetto alla misura di prevenzione personale non può prescindersi dall’attualità della pericolosità, per l’evidente inutilità del ricorso a tale strumento nei confronti di soggetto non più socialmen23

A. BALSAMO, voce Codice antimafia, cit., p. 41. Più diffusamente, ID., Diritto dell’UE e della CEDU e confisca di prevenzione, in AA.VV., Libro dell’anno del Diritto, 2014, Treccani, Roma, 2014. 24

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit. Voluta la testuale citazione di F. MENDITTO, Le Sezioni Unite verso lo “statuto” della confisca di prevenzione: la natura giuridica, la retroattività e la correlazione temporale, in www.penalecontemporaneo.it, 26 maggio 2014. 26 Tra le voci critiche rispetto alla posizione soluzione adottata dalle Sezioni Unite, cfr. F. MAZZACUVA, Le sezioni unite, cit., p. 7, a parere del quale l’argomentare seguito «non riesce veramente a superare tutte le perplessità che sono emerse nel tempo nei confronti della qualificazione della confisca in parola come preventiva e che trovano origine, per l’appunto, nel progressivo arretramento della pericolosità dalla scena dei presupposti applicativi della misura»; per di più, secondo l’A. citato le logiche preventive – tendenti a degenerare, anche nel settore delle misure personali, verso schemi di «pericolosità presunta» – sono ancor più rarefatte con riferimento alle misure patrimoniali, «atteso che i presupposti applicativi del sequestro e della confisca non attengono alla destinazione dei beni – come avviene, semmai, nella disciplina dell’amministrazione giudiziaria –, bensì alla loro provenienza» e mostrano, quindi, di essere incentrati su una logica «sostanzialmente restrospettiva invece che prognostica». 27 In motivazione, Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit., spiega che la finalità sopra indicata «si giustifica non solo per ragioni etiche, ma anche per motivazioni d’ordine economico in quanto l’accumulo di ricchezza, frutto di attività delittuosa, è fenomeno tale da inquinare le ordinarie dinamiche concorrenziali del libero mercato, creando anomale posizioni di dominio e di potentato economico, in pregiudizio delle attività lecite». 25

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te pericoloso, «invece, quanto alla misura patrimoniale, la connotazione di pericolosità è immanente alla res, per via della sua illegittima acquisizione, e ad essa inerisce “geneticamente”, in via permanente e, tendenzialmente, indissolubile. Ciò significa che presupposto ineludibile di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale continua ad essere la pericolosità del soggetto inciso, ossia la sua riconducibilità ad una delle categorie soggettive previste dalla normativa di settore ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione» 28. Ne consegue che, anche nei casi di applicazione disgiunta, il giudice della prevenzione è chiamato a valutare, sia pure incidenter tantum, la pericolosità del soggetto nei cui confronti sia richiesta la misura patrimoniale 29. In questo quadro, quindi, la confisca di prevenzione, sia pure «disgiunta», resta assimilabile alle ordinarie misure di sicurezza, sì da consentire l’applicabilità ad essa dell’art. 200 c.p. Tale impostazione è vieppiù rafforzata dalla precisazione – operata sempre dalle Sezioni Unite nel 2014 – che, ai fini dell’applicazione della misura patrimoniale, assume rilievo la pericolosità sociale del titolare al momento dell’acquisto del bene, ciò che appunto esalta la finalità della confisca di prevenire, attraverso la definitiva ablazione dei beni illecitamente conseguiti, la realizzazione di ulteriori condotte costituenti reato, «sull’assioma dell’oggettiva pericolosità del mantenimento di cose, illecitamente acquistate, in mani di chi sia ritenuto appartenere – o sia appartenuto – ad una delle categorie soggettive previste dal legislatore» 30. In sostanza, la pericolosità del soggetto al momento dell’acquisizione finisce col tradursi in qualità peculiare del bene, consentendone – nei casi di morte del titolare, formale trasferimento o fittizia intestazione – l’aggredibilità anche in capo all’avente causa a titolo universale o particolare. Ed invero, la confiscabilità in danno di eredi od apparenti proprietari non trova giustificazione nel rapporto pertinenziale res-soggetto proposto, bensì «in ragione della “qualità” oggettiva dello stesso bene, siccome, a suo tempo, acquistato da per28

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit.

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In questo senso era già chiaramente orientata la dottrina. Tra gli altri, si veda: A. MANGIONE, Il volto attuale della confisca di prevenzione: riflessioni a margine dei “pacchetti – sicurezza”, in G. FIANDACA-C. VISCONTI, Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Giappichelli, Torino, 2010, p. 265 ss., a parere del quale, «se il residuo “barlume” di pericolosità sociale non fosse più richiesto quale presupposto della confisca di prevenzione, questa perderebbe la propria legittimazione costituzionale»; le «perplessità sono destinate a deflagrare nell’incostituzionalità ove si pretenda di disconoscere in radice il rapporto tra confisca di prevenzione e pericolosità sociale». 30

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit.

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sona socialmente pericolosa e, come tale, presumibile frutto di metodo di acquisizione illecita» 31. In questo quadro, «potrà parlarsi di “effetti sanzionatori” della misura di prevenzione patrimoniale solo in senso del tutto atecnico, giacché il nucleo del provvedimento patrimoniale non risiede nel delitto o nel relativo provento, né in finalità tipicamente repressive (…), ma nelle qualità del soggetto – ritenuto “pericoloso” sulla base di oggettivi elementi sintomatici – e nelle modalità di acquisizione del bene, anch’esse “pericolose” perché “plausibilmente” avulse da un contesto di liceità» 32. Di conseguenza – in dichiarata armonia col diritto dell’UE 33 e con la 31 Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit., che prosegue segnalando che la «connotazione di pericolosità resta impressa alla res, indipendentemente da qualsiasi vicenda giuridica della sua titolarità (successione universale o particolare), sino alla perenzione della stessa cosa oppure all’opponibilità giuridica del suo trasferimento (in caso di acquisto in buona fede – rilevante, di per sé, ove rigorosamente provata in sede di prevenzione – nell’ipotesi di beni mobili, secondo il principio “possesso vale titolo”, ai sensi dell’art. 1153 c.c., ovvero, in caso di immobili o mobili registrati, in combinazione con le ordinarie regole civilistiche che risolvono i conflitti tra più potenziali acquirenti, secondo il regime della trascrizione e, dunque, dell’anteriorità del relativo acquisto) ovvero alla sua definitiva acquisizione al patrimonio dello Stato per effetto di confisca, questa sì capace di stravolgerne, definitivamente, la natura ed il regime giuridico, equiparando la res ai beni demaniali. Regole queste notoriamente ispirate al principio della certezza e stabilità dei rapporti giuridici, rispetto alle quali si pone in sintonia la prescrizione della confiscabilità del bene, appartenuto a soggetto pericoloso, in capo agli eredi soltanto nel termine di anni cinque dalla morte del de cuius (art. 2-ter legge n. 575 del 1965, ritenuto costituzionalmente legittimo dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 21 del 2012)». 32 Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit. 33 Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit., richiama espressamente la decisione-quadro UE, GAI n. 212 del 2005, adottata nell’ambito del Titolo VI del Trattato sull’Unione Europea, e la Direttiva 2014/42/UE, approvata dal Parlamento europeo il 25 febbraio 2014, che, nel considerando 21, stabilisce che «la confisca estesa dovrebbe essere possibile quando un’autorità giudiziaria è convinta che i beni in questione derivino da condotte criminose. Ciò non significa che debba essere accertato che i beni in questione derivino da condotte criminose. Gli Stati membri possono disporre, ad esempio, che sia sufficiente che l’autorità giudiziaria ritenga, in base ad una ponderazione delle probabilità, o possa ragionevolmente presumere che sia molto più probabile che i beni in questione siano il frutto di condotte criminose piuttosto che di altre attività. In tale contesto, l’autorità giudiziaria deve considerare le circostanze specifiche del caso, compresi i fatti e gli elementi di prova disponibili in base ai quali può essere adottata una decisione di confisca estesa. Una sproporzione tra il bene dell’interessato ed il suo reddito legittimo può rientrare tra i fatti idonei ad indurre l’autorità giudiziaria a concludere che i beni derivano da condotte criminose. Gli Stati membri possono inoltre fissare un periodo di tempo entro il quale si può ritenere che i beni siano derivati da condotte criminose».

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giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che non riconduce la confisca di prevenzione italiana alla categoria delle sanzioni penali, ma a quella delle forme di regolamentazione dell’uso dei beni in conformità all’interesse collettivo di impedire un uso socialmente pericoloso di res di non dimostrata lecita provenienza 34 –, le Sezioni Unite hanno continuato a riconoscere alla confisca di prevenzione «finalità prettamente preventiva al di là di ogni possibile riflesso “parasanzionatorio”, tale da non offuscarne l’essenza precipua» di «strumento inteso, eminentemente, a dissuadere il soggetto inciso dalla commissione di ulteriori reati e da stili di vita contrastanti con le regole del consorzio civile» 35. In definitiva, alla critica, non nuova, di chi ravvisava e ravvisa nella pericolosità «derivata» un «artificio retorico» 36 è stata data risposta puntando sulla dimensione teleologica della confisca di prevenzione, come concepita dal legislatore, che mira a «sottrarre i patrimoni illecitamente accumulati alla disponibilità di determinati soggetti, che non possano dimostrarne la legittima provenienza» 37, con ciò realizzando obiettivi di prevenzione generale, tutela del mercato e della concorrenza. 34

Sul tema, Corte EDU, 4 settembre 2001, Riela ed altri c. Italia, secondo cui le misure di prevenzione «non implicano un giudizio di colpevolezza, ma tendono ad impedire la commissione di atti criminali, non potendo quindi essere comparate a una pena». Conf.: Corte EDU, 17 giugno 2014, Cacucci e Sabatelli c. Italia; Corte EDU, 17 giugno 2011, Capitani e Campanella c. Italia; Corte EDU, Leone c. Italia, 2 febbraio 2010; Corte EDU, 5 gennaio 2010, Bongiorno ed altri c. Italia; Corte EDU, 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia; Corte EDU, 27 maggio 1991, Ciancimino c. Italia; Corte EDU, 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia. Per la dottrina, cfr. F. MAZZACUVA, La materia penale e il “doppio binario” della Corte Europea: le garanzie al di là delle apparenze, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 1908 ss., in cui, tra l’altro, si osserva che la dicotomia tra i diversi significati del concetto di prevenzione emergenti nella giurisprudenza di Strasburgo può essere descritta distinguendo quelli accomunati dalla logica della pena come sofferenza voluta o necessaria – per i quali si impone l’operatività delle garanzie collegate al principio di colpevolezza – da quelli in cui tale aspetto è secondario, profilandosi l’eventuale sofferenza prodotta come effetto indiretto di una strategia di profilassi della pericolosità. 35

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit.

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Così F. MAZZACUVA, Le Sezioni Unite, cit., p. 7 per il quale «l’idea di una pericolosità della res “derivata” da quella del proposto al momento dell’acquisizione illecita e che vi rimane “impressa” in maniera definitiva si rivela nient’altro che un artificio retorico privo di qualsiasi riscontro fattuale: salve le rare ipotesi di pericolosità oggettiva previste nell’ordinamento, infatti, il riconoscimento di tale caratteristica rispetto ai patrimoni non può prescindere da un accertamento dell’inclinazione a delinquere della persona che ne ha la disponibilità oltre che (…) dall’idoneità degli stessi ad essere reinvestiti nelle attività illecite». 37

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit.

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Sullo sfondo, riecheggia la tesi – risalente, autorevolmente supportata e mai abbandonata – dell’esigenza di contrastare la spinta al reato esercitata dai proventi illeciti lasciati nella perdurante disponibilità di chi li ha conseguiti o degli eredi 38 e si ammettono gli (innegabili) effetti «parasanzionatori» della confisca in esame, ma la polifunzionalità dell’istituto – comprensiva, per alcuni, anche di una funzione compensativa 39 – non impedisce di dare prevalenza al fine di prevenzione. Sebbene si tratti di una finalità preventiva non sussumibile nel classico modello delle misure ante delictum, ma da ricondurre ad esigenze di prevenzione dell’infiltrazione criminale nell’economia e ad esigenze di incapacitazione economica della criminalità 40, ne deriva, in punto di disciplina applicabile, l’esclusione del principio di irretroattività, valevole per le sanzioni penali, e ne derivano altresì inevitabili ripercussioni in punto di prova della sproporzione e sulla questione della correlazione temporale tra arricchimento indebito ed epoca di manifestazione della pericolosità sociale.

38

In questo senso già i Lavori preparatori del codice penale, V, 1, Roma, 1929, p. 245. In dottrina, cfr. M. MASSA, voce Confisca (dir. e proc. pen.), in Enc. dir., vol. VIII, Giuffrè, Milano, 1961, p. 982 ss. Contra: A. ALESSANDRI, voce Confisca nel diritto penale, in Dig. disc. pen., vol. III, Utet, Torino, 1989, p. 46; G. GRASSO, Sub art. 240, in M. ROMANO-G. GRASSO-T. PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, Giuffrè, Milano, 2011, p. 606 ss. 39 A. BALSAMO, Codice antimafia, cit., p. 41 per il quale la natura compensativa della confisca di prevenzione dipende dal suo oggetto, costituito da beni di accertata derivazione illecita ed è confermata dalla destinazione finale dei beni che ne formano oggetto, «per i quali viene programmata dalla legge una restituzione agli enti esponenziali delle realtà territoriali dove si sono maggiormente riversati gli effetti dannosi dell’attività delittuosa su cui si impernia la fattispecie di pericolosità». 40

Su tale peculiare atteggiarsi della finalità di prevenzione, A.M. MAUGERI, Un’interpretazione restrittiva delle intestazioni fittizie ai fini della confisca misura di prevenzione tra questioni ancora irrisolte (natura della confisca e correlazione temporale), in Cass. pen., 2014, p. 255 ss., p. 273, la quale – pur mostrandosi critica rispetto a diversi profili di disciplina della prevenzione patrimoniale – soggiunge che, «in questa prospettiva si giustifica il sistema preventivo patrimoniale quale strumento di lotta contro l’infiltrazione criminale nell’economia; e soprattutto si giustifica un sistema di misure sganciate da presupposti di carattere soggettivo, essendo in gioco la realizzazione dei valori che caratterizzano il modello stesso di sistema economico tracciato dalla Costituzione».

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3. La correlazione temporale tra accumulazione patrimoniale e pericolosità soggettiva. Ai fini della confisca di prevenzione, non è necessaria l’individuazione di un nesso di derivazione causale dell’illecito profitto o reimpiego dalla condotta illecita che qualifica la pericolosità del proposto, essendo sufficiente la dimostrazione dell’illecita provenienza dei beni, di qualunque natura essa sia 41. Occorre, però, chiarire se debba esserci quantomeno correlazione temporale tra arricchimento e manifestazione della pericolosità sociale, ovvero se gli incrementi di ricchezza debbano risalire – per essere aggredibili – ad epoca coeva o successiva rispetto alla manifestazione di pericolosità. Sul punto, nel corso del tempo si sono delineati, in giurisprudenza, orientamenti opposti: l’uno – più risalente – subordinava la misura patrimoniale al previo positivo accertamento della compatibilità temporale tra gli incrementi economici e/o patrimoniali e l’epoca di manifestazione della pericolosità 42; l’altro – affermatosi più di recente, anche alla luce degli in41

Ex plurimis, cfr. Cass., Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 33451, cit., ove si sottolinea che le disposizioni sulla confisca di prevenzione di cui all’art. 2-ter l. 31 maggio 1965, n. 575 (attualmente art. 24 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159) «mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso»; Cass., Sez. I, 17 maggio 2013, n. 39204, in C.e.d. 256140, cit.; Cass., Sez. II, 27 giugno 2013, n. 43145, in C.e.d. 257609; Cass., Sez. VI, 25 gennaio 2012, n. 6570, in C.e.d. 252039, per la quale, «in tema di misure di prevenzione patrimoniali, è irrilevante l’assenza di motivazione del provvedimento ablativo in ordine al nesso causale fra la presunta condotta mafiosa e la formazione dell’illecito profitto, dovendosi ritenere sufficiente al riguardo la dimostrazione della illecita provenienza dei beni sottoposti a confisca». 42 Cfr. Cass., Sez. I, 11 dicembre 2012, n. 2634, in C.e.d. 254250; Cass., Sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 10153, cit.; Cass., Sez. V, 23 marzo 2007, n. 18822, in C.e.d. 236920, che ha giudicato «illegittimo il provvedimento con cui il giudice dispone la confisca sui beni del proposto senza verificare se essi siano entrati nella sua disponibilità successivamente o almeno contestualmente al suo inserimento nel sodalizio criminoso, considerato che, a tali fini, non è sufficiente la sussistenza di indizi di carattere personale sull’appartenenza del soggetto ad una associazione di tipo mafioso, implicante una latente e permanente pericolosità sociale, ma occorre che vi sia correlazione temporale tra tale pericolosità e l’acquisto di detti beni»; Cass., Sez. V, 13 giugno 2006, n. 24778, in C.e.d. 234733, per la quale «è illegittima la confisca disposta su beni acquisiti in epoca non riconducibile a quella dell’accertata pericolosità, considerato che detta misura patrimoniale è applicabile qualora abbia per oggetto beni che risultino acquisiti dal proposto o dal terzo a questi legato nel periodo al quale la accertata pericolosità del soggetto è riferita»; Cass., Sez. V, 25 novembre 1997, n. 5365, in C.e.d. 210230, per la quale, «per poter disporre la confisca in un pro-

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terventi legislativi in materia – prescindeva da tale accertamento, puntando sull’assimilazione della confisca di prevenzione alla confisca penale ex art. 12 sexies d.l. n. 306/1992, conv. dalla l. n. 356/1992, sul dato testuale delle norme in tema di sequestro e confisca, sulla mancanza di termine per l’espletamento delle indagini patrimoniali, sull’impossibilità di cristallizzare l’accertamento della pericolosità ad una data determinata e, soprattutto, sulle finalità politico-criminali perseguite dal sistema della prevenzione patrimoniale 43. cedimento di prevenzione, non è sufficiente la sussistenza di indizi di carattere personale sull’appartenenza del soggetto ad una associazione di tipo mafioso, implicante una latente e permanente pericolosità sociale, ma occorre che vi sia correlazione temporale fra tale pericolosità e l’acquisto dei beni e cioè occorre verificare se i beni da confiscare siano entrati nella disponibilità del proposto, non già anteriormente, ma successivamente o almeno contestualmente al suo inserimento nel sodalizio criminoso». In questo senso, in dottrina, A. GIALANELLA, La Corte di Cassazione e l’Incompiuta della prevenzione patrimoniale antimafia, tra razionalità garantista e relativismi funzionalistici, in Atti dell’incontro di studio organizzato dal C.S.M. in Roma, 24-26 settembre 2008, sul tema Dalla tutela del patrimonio alla tutela dai patrimoni illeciti; A.M. MAUGERI, Un’interpretazione restrittiva delle intestazioni fittizie ai fini della confisca misura di prevenzione tra questioni ancora irrisolte (natura della confisca e correlazione temporale), cit., p. 277, per la quale «richiedere una correlazione temporale tra epoca di manifestazione della pericolosità ed epoca di acquisizione dei beni rende la confisca di prevenzione maggiormente conforme ai principi di proporzione e presunzione d’innocenza, in quando il suo accertamento rende meno onerosa per il proprietario la contro-prova dell’origine illecita dei suoi beni, circoscrivendo gli effetti della conseguente confisca, e, in conformità alla presunzione d’innocenza come regola dell’esclusività dell’accertamento sulla colpevolezza in sede processuale, rischio intrinsecamente connesso al mero carattere indiziario dello stesso accertamento di pericolosità e, quindi, della partecipazione ad organizzazione od attività criminali»; ID., Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Giuffrè, Milano, 2001, p. 625 ss. 43

Cfr. Cass., Sez. V, 22 marzo 2013, n. 3538, in C.e.d. 258656; Cass., Sez. I, 4 giugno 2009, n. 35175, in C.e.d. 24536; Cass., Sez. I, 29 maggio 2009, n. 35466, in C.e.d. 244827; Cass., Sez. II, 16 aprile 2009, n. 25558, in C.e.d. 244150, per la quale «è legittima la confisca, disposta ai sensi dell’art. 2-ter della l. 31 maggio 1965 n. 575 (disposizioni contro la mafia), di beni acquistati dal sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S. anche in epoca anteriore o successiva alla situazione di accertata pericolosità soggettiva, trattandosi di misura di sicurezza atipica, con la preminente funzione di togliere dalla circolazione quei beni che, al di là del dato temporale, sono stati acquisiti al patrimonio del prevenuto in modo illecito»; Cass., Sez. II, 8 aprile 2008, n. 21717, in C.e.d. 240501, per la quale «sono sequestrabili e confiscabili anche i beni acquisiti dal proposto, direttamente o indirettamente, in epoca antecedente a quella a cui si riferisce l’accertamento della pericolosità, perché l’unico presupposto di legge per l’adozione dei provvedimenti di sequestro e confisca è l’inizio di un procedimento d’applicazione di misura di prevenzione personale nei confronti di persona pericolosa che disponga di beni in misura sproporzionata rispetto al reddito, e di cui non sia provata la legittima provenienza».

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Tuttavia, con riferimento a quest’ultimo indirizzo – sorretto, non a caso, anche con argomenti relativi alla confisca-sanzione di cui al citato art. 12sexies 44 –, non sfugge il tendenziale sbilanciamento verso una prospettiva sanzionatoria, che non è propria delle misure di prevenzione ed entra in attrito con le norme costituzionali e della Convenzione EDU, operando «un sacrificio dei diritti riconosciuti dagli artt. 41 e 42 della Costituzione sulla base di un mero dato di per sé indiziario, costituito dalla sproporzione tra valore dei beni e redditi o attività economica, in presenza, non di una condanna, ma di una mera pericolosità tratta da indizi o da giudizi probabilistici che minano la garanzia giurisdizionale effettiva richiesta dalla Corte Europea» 45. A dirimere il contrasto di giurisprudenza, sono intervenute, nel 2014, le Sezioni Unite, avallando l’orientamento più risalente, nel cui ambito – come è dato di desumere dalla lettura delle diverse sentenze – l’accertamento della correlazione temporale tra acquisiti da sottoporre ad ablazione ed epoca di manifestazione della pericolosità era richiesto, in modo rigoroso, nei casi di pericolosità generica 46, mentre, con riferimento alla figura dell’indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa, si riteneva sufficiente accertare che i beni da sequestrare o confiscare fossero entrati nella disponibilità del proposto successivamente od almeno contestualmente al suo inserimento nel sodalizio 47. Le Sezioni Unite hanno così chiarito che «la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo»; di conseguenza, con riferimento alla cosiddetta pericolosità generica, «sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato» 48. 44

Si veda Cass., Sez. II, 8 aprile 2008, n. 21717, cit. F. MENDITTO, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, cit., p. 344. 46 Cfr., ad esempio: Cass., Sez. I, 11 dicembre 2012, n. 2634, cit.; Cass., Sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 10153, cit. 45

47

Così: Cass., Sez. V, 23 marzo 2007, n. 18822, cit.; Cass., Sez. V, 13 giugno 2006, n. 24778, cit.; Cass., Sez. V, 25 novembre 1997, n. 5365, cit. 48

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit.

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Il ragionamento è condivisibilmente incentrato sul fatto che, nei casi di pericolosità generica, «ove fosse possibile aggredire, indiscriminatamente, i beni del proposto, indipendentemente da ogni relazione “pertinenziale” e temporale con la pericolosità, lo strumento ablatorio finirebbe, inevitabilmente, con l’assumere connotati di vera e propria sanzione» e la misura diverrebbe «difficilmente compatibile con i parametri costituzionali in tema di tutela dell’iniziativa economica e della proprietà privata, di cui agli artt. 41 e 42 Cost., oltreché con i principi convenzionali (segnatamente, con il dettato dell’art. 1, Prot. 1, CEDU)» 49. Non v’è, invece, iniziativa economica né proprietà privata da tutelare nei casi di acquisto contra legem e, d’altra parte, l’individuazione di un preciso contesto cronologico, entro il quale può essere esercitato il potere di ablazione, oltre ad assolvere ad ineludibili esigenze di garanzia generica, facilita l’esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto inciso, che è ammesso a provare la legittimità dell’acquisto in contestazione. La correlazione temporale tra la pericolosità sociale – «intesa ormai come sussistenza di elementi indiziari di svolgimento presente o passato di attività criminale» – e l’acquisto dei beni serve quindi a supportare la “pericolosità reale” quale presupposto della confisca di beni che sono pericolosi per la loro origine illecita e la capacità, in quanto tali, di inquinare il mercato e l’economia lecita 50. Sul versante della pericolosità qualificata, le Sezioni Unite definiscono un «falso problema» 51 il contrasto tra l’indirizzo che richiedeva la necessaria correlazione tra epoca dell’acquisto ed epoca di manifestazione della pericolosità sociale 52 e quello per il quale l’ablazione poteva riguardare anche beni acquistati prima dell’emergere della pericolosità, purché ricorressero le condizioni della sproporzione rispetto alla capacità reddituale e, quindi, della presumibile provenienza illecita dei beni interessati 53. 49 50 51

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit. A.M. MAUGERI, Un’interpretazione restrittiva, cit., p. 25.

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit. Cfr. Cass., Sez, V, 23 marzo 2007, n. 18822, cit.; Cass., Sez. V, 13 giugno 2006, n. 24778, in C.e.d. 234733; Cass., Sez. I, 2 maggio 1995, n. 2654, in C.e.d. 202142; Cass., Sez. I, 18 maggio 1992, n. 2186, in C.e.d. 191582. 53 Cfr. Cass., Sez. V, 23 gennaio 2014, n. 16311, in C.e.d. 259872, per la quale, «in tema di misure di prevenzione antimafia, sono soggetti a confisca anche i beni acquisiti dal proposto, direttamente od indirettamente, in epoca antecedente a quella cui si riferisce l’accertamento della pericolosità, purché ne risulti la sproporzione rispetto al reddito ovvero la prova della loro illecita provenienza da qualsivoglia tipologia di reato». Conf., tra le 52

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Con occhio attento alla realtà dei fenomeni, viene, infatti, rilevato che la perimetrazione cronologica della pericolosità – tutto sommato agevole per quella “generica” – risulta, invece, oltremodo complessa e problematica per quella “qualificata”, che, non di rado, investe «l’intero percorso esistenziale del proposto» 54. In tal caso, allora, si deve ritenere consentita «l’apprensione di tutte le componenti patrimoniali ed utilità, di presumibile illecita provenienza, delle quali non risulti, in alcun modo, giustificato il legittimo possesso», fatta salva, ovviamente, la facoltà dell’interessato di fornire prova contraria e liberatoria anche attraverso mere allegazioni che rendano ragionevolmente ipotizzabile la legittima provenienza dei beni in contestazione 55. Laddove, invece, la fattispecie concreta consenta al giudice della prevenzione di determinare il momento iniziale e quello finale dell’accertata pericolosità sociale, devono giudicarsi suscettibili di apprensione coattiva solo gli acquisti ricadenti in tale arco temporale 56.

4. Il rapporto tra beni e attività illecite: la confisca delle imprese mafiose. Le disposizioni contenute negli artt. 20 e 24 del codice antimafia includono tra i beni che possono formare oggetto di sequestro e confisca quelli costituenti «frutto» o «reimpiego» di attività illecite 57. tante: Cass., Sez. V, 22 marzo 2013, n. 3538, cit.; Cass., Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 35240, in C.e.d. 256266; Cass., Sez. V, 21 aprile 2011, n. 27228, in C.e.d. 250917; Cass., Sez. I, 20 ottobre 2010, n. 39798, in C.e.d. 249012; Cass., Sez. VI, 15 gennaio 2010, n. 4702, in C.e.d. 246084; Cass., Sez. I, 4 giugno 2009, n. 35175, cit.; Cass., Sez. II, 16 aprile 2009, n. 25558, cit.; Cass., Sez. I, 29 maggio 2009, n. 35466, cit.; Cass., Sez. II, 8 aprile 2008, n. 21717, cit. 54

Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit. Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit. 56 Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014, cit. 55

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In dottrina, è stato osservato che «la sproporzione si configura come fattispecie semplice e tendenzialmente circoscritta sul piano temporale, nel senso che deve concretizzarsi nel raffronto tra due soli elementi (il valore del bene, da un lato, il reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o l’attività economica, dall’altro), da compararsi in relazione ad un preciso periodo (l’epoca della acquisizione del bene). Invece, attraverso il riferimento alle nozioni di “frutto” e di “reimpiego”, il legislatore ha inteso ricomprendere nell’ambito di operatività della misura di prevenzione patrimoniale tutti i beni collegati ad un reato da un rapporto di derivazione diretta ovvero indiretta, tenendo conto anche della dinamica evolutiva delle attività economiche nel corso del tempo» (A. BALSAMO, voce Codice anti-

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Stante la ratio di sottrarre al soggetto pericoloso ogni utilità derivante, direttamente od indirettamente, dal crimine, possono essere appresi sia i beni acquistati col profitto o provento degli illeciti perpetrati sia, a loro volta, le utilità dei predetti beni 58, mentre non possono formare oggetto di provvedimento ablativo i beni di lecita provenienza. Il distinguo – limpido sotto il profilo teorico – può non esserlo altrettanto in pratica, in quanto si assiste spesso alla commistione, nello stesso bene, di capitali leciti ed illeciti. Può accadere, ad esempio, che il cespite sia stato acquistato con capitali di provenienza, in parte, lecita e, in parte, illecita oppure che redditi leciti siano stati impiegati per incrementare il valore di un bene frutto o reimpiego di attività illecita oppure ancora che capitali illeciti siano stati investiti a beneficio di beni di lecita provenienza. In proposito, la giurisprudenza ha operato una serie di chiarimenti, che impongono al giudice di merito incaricato di decidere sulla confisca un’attenta disamina dei profili fattuali e delle allegazioni difensive, onde consentire – ove possibile – lo scorporo delle “immissioni” di illecita provenienza da quanto risulti legittimamente acquisito. Ed invero, «il sequestro e la successiva confisca non possono indiscriminatamente colpire tutti i beni di coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione personali, bensì solo quelli che si ha motivo di ritenere frutto mafia, cit., p. 41). Nello stesso senso, cfr. A. BALSAMO-C. MALTESE, Il codice antimafia, Giuffrè, Milano, 2011; G. NICASTRO, La confisca nella legislazione patrimoniale antimafia, in A.M. MAUGERI (a cura di), Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, Giuffrè, Milano, 2008, p. 309. 58 Sul tema, si veda, Cass., Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 35240, cit., che afferma la legittimità della «confisca di beni acquistati con il ricavato dalla dismissione di altri beni, la cui acquisizione non trova conforto in una proporzionata disponibilità finanziaria, reddituale o comunque lecita, nel periodo di riferimento», pronuncia resa in fattispecie relativa alla confisca di beni costituenti il reimpiego del prezzo ottenuto dalla vendita di un immobile acquisito con fondi la cui provenienza non risultava comprovata la liceità. D’interesse anche Cass., Sez. VI, 22 gennaio 2009, n. 17229, in Guida dir., 2009, f. 21, p. 80 ss., con nota di A. CISTERNA, Se l’impresa è inserita nel circuito mafioso la confisca scatta su tutti i proventi. L’applicazione di misure al concorrente esterno richiede puntuali valutazioni sulla pericolosità, per la quale è legittima la confisca «dei dividendi e del ricavato della vendita di quote azionarie di una società, appartenenti ad un indiziato mafioso, quando l’intera azienda sia stata utilizzata come strumento funzionale a procacciarsi variamente il favore dello schieramento mafioso e per finanziarne le attività, così da attuare una attività imprenditoriale prevalentemente illecita». Nella fattispecie, la Corte ha, quindi, ritenuto legittima la confisca di tutti i dividenti che il proposto aveva percepito, quale azionista di un istituto di credito, e l’intero prezzo di vendita del suo pacchetto azionario, in quanto frutto di attività illecita posta in essere attraverso l’esercizio dell’attività bancaria.

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di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego. Ne consegue che nelle ipotesi in cui il reimpiego del denaro, proveniente da fonte sospetta di illiceità penale, avvenga mediante addizioni, accrescimenti, trasformazioni o miglioramenti di beni già nella disponibilità del soggetto medesimo, in virtù di pregresso acquisto del tutto giustificato da dimostrato titolo lecito, il provvedimento ablativo deve essere rispettoso del generale principio di equità e, per non contrastare il principio costituzionale di cui all’art. 42 Cost., non può coinvolgere il bene nel suo complesso, ma, nell’indispensabile contemperamento delle generali esigenze di prevenzione e difesa sociale con quelle private della garanzia della proprietà tutelabile, deve essere limitato soltanto al valore del bene medesimo, proporzionato all’incremento patrimoniale per il reimpiego in esso effettuato di profitti illeciti. Il che si realizza mediante la confisca della quota ideale del bene, rapportata al maggior valore assunto per effetto del reimpiego e valutata al momento della confisca medesima» 59. Tuttavia, «quando risulti che un immobile lecitamente acquisito sia stato ampliato o migliorato con l’impiego di disponibilità economiche prive di giustificazione, la confisca può investire il bene nella sua interezza (…) nel caso in cui le trasformazioni e le addizioni abbiano natura e valore preminente, tale da non consentire una effettiva separazione di distinti valori pro quota» 60. E così, è da ritenere «legittima la confisca di un edificio realizzato con fondi di provenienza illecita su un suolo di provenienza lecita, se il primo abbia un valore preponderante rispetto al secondo, poiché, quando un bene si compone di più unità, il regime penalistico cui assoggettare il cespite nella sua interezza è quello proprio della parte di valore economico e di utilizzabilità nettamente prevalenti, diventando irrilevante il principio civilistico dell’accessione» 61. 59 Cass., Sez. I, 4 luglio 2007, n. 33479, in C.e.d. 237448. Conf.: Cass., Sez. I, 13 maggio 2010, n. 21079, in C.e.d. 247579; Cass., Sez. VI, 28 marzo 2007, n. 30131, in C.e.d. 237327; Cass., Sez. VI, 2 marzo 1999, n. 803, in C.e.d. 214781. 60 61

Cass., Sez. I, 22 aprile 2013, n. 29186, in C.e.d. 256788.

Cass., Sez. VI, 30 ottobre 2012, n. 18807, in C.e.d. 255091. Conf.: Cass., Sez. V, 21 novembre 2012, n. 9366, in C.e.d. 255208; Cass., Sez. V, 5 ottobre 2010, n. 39228, in C.e.d. 248889, per la quale «in tema di misure di prevenzione, è legittima la confisca di un terreno su cui sia costruita una villa abusiva poiché, in tal caso, la confisca dell’edificio si estende non solo alle pertinenze ma anche al suolo sul quale esso sia realizzato, ancorché la provenienza di quest’ultimo sia legittima, in armonia con gli scopi del legislatore preordinati ad evitare che gli autori di gravi reati possano giovarsi di investimenti illeciti»; Cass., Sez. V, 25 settembre 2009, n. 49479, in C.e.d. 245834, secondo cui «è legittima la confisca di un fabbricato realizzato con denaro di provenienza illecita su terreno di provenienza lecita, in

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Per converso, il predetto principio civilistico viene valorizzato per affermare la legittimità della confisca di fabbricati costruiti su terreni sottoposti a sequestro e poi a confisca, ancorché non menzionati nei provvedimenti ablativi, «in quanto, in virtù del principio di accessione, i beni costruiti sul fondo appartengono al relativo proprietario, con la conseguenza che l’edificazione di un nuovo fabbricato resta automaticamente esposta alla misura patrimoniale che colpisce il bene principale, senza che ciò comporti alcun peggioramento della misura in atto» 62. Il tema del discrimen tra apporti leciti ed illeciti va impostato in modo peculiare con riferimento alle attività economiche, nell’ambito delle quali apporti – in termini di interessi, soci e capitali – di provenienza lecita ed illecita finiscono per fondersi in un tutto inscindibile. Tale considerazione – ancorata ai dati fenomenici – giustifica il principio per il quale «la confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta solo con riferimento alla quota ideale riconducibile all’utilizzo di risorse illecite, non potendosi distinguere, in ragione del carattere unitario del bene, l’apporto di componenti lecite riferibili alla capacità e alla iniziativa imprenditoriale da quello imputabile ai mezzi illeciti, specie quando il consolidamento e l’espansione dell’attività economica siano stati sin dall’inizio agevolati dall’organizzazione criminale» 63. quanto i due beni, sul piano economico e funzionale, devono essere valutati unitariamente e non sono suscettibili di una valutazione separata in conformità agli scopi della disciplina di prevenzione preordinata a colpire investimenti, anche se leciti, di risorse finanziarie prodotte da attività illecite». 62 Cass., Sez. V, 27 ottobre 2011, n. 44994, in C.e.d. 251442. 63 Cass., Sez. V, 23 gennaio 2014, n. 16311, cit., che, nella fattispecie concreta, ha affermato l’applicabilità della confisca alle società, appartenenti al gruppo imprenditoriale del proposto, ma «diverse dalle consociate direttamente operanti nel settore degli appalti delle grandi opere pubbliche, nel quale più direttamente si sarebbe dispiegato il condizionamento mafioso e si sarebbero realizzati i benefici scaturenti dalla ritenuta contiguità con la criminalità organizzata, sia nella fase dell’aggiudicazione delle gare che in quella dell’esecuzione dei lavori appaltati», sulla base dell’assunto per cui «anche strutture societarie diverse da quelle direttamente operanti nel settore dei pubblici appalti avevano tratto beneficio dalla ritenuta contiguità». Conf.: Cass., Sez. V, 30 gennaio 2009, n. 17988, in C.e.d. 244802. Sulla qualifica in termini di «impresa mafiosa» per le imprese che abbiano cointeressenze con l’associazione mafiosa, si veda già Cass., Sez. II, 8 febbraio 2007, n. 5640, ove si evidenza che l’impresa mafiosa «ricava un profitto illecito derivante dall’essere entrata la società in un sistema “anormale” di esercizio della propria attività, contraddistinto dall’inserimento nell’illecito sistema di spartizione degli appalti pubblici grazie all’intermediazione mafiosa. Il rapporto di cointeressenza fra l’impresa e la cosca attribuisce chiaramente alla prima la connotazione di impresa mafiosa, stante la condivisione dei progetti e delle

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Peraltro, nel caso di impresa costituita in forma societaria – della quale sia stato accertato il carattere mafioso per il fatto di avere stabilmente operato avvalendosi della forza di intimidazione di un’associazione mafiosa e in cointeressenza con essa – lo stesso ragionamento suesposto impone di estendere il sequestro e la confisca a tutto il patrimonio aziendale ed a tutto il capitale sociale, ivi comprese le quote sociali di terzi, nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote, laddove sia accertata la disponibilità sostanziale dell’impresa da parte del proposto e laddove l’attività economica posta in essere risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti 64. dinamiche operative che determina una obiettiva commistione di interessi fra attività di impresa ed attività mafiosa»; di conseguenza, «poiché l’impresa è un’entità da intendere in modo unitario (...), una volta accertata, anche soltanto in via indiziaria, la natura illecitomafiosa dell’attività imprenditoriale, in quanto utilizzata per la consumazione di condotte delittuose (...), va necessariamente sottoposto a confisca tutto il complesso delle quote sociali e dei beni aziendali, senza distinzione tra capitale originariamente lecito e capitale di provenienza illecita immesso successivamente (...), posto che l’impresa ha avuto la possibilità di espandersi e di produrre reddito proprio grazie all’uso distorto (in quanto squisitamente “mafioso”), che è stato fatto dei suddetti beni (anche se originariamente acquisiti in modo lecito) e con l’ulteriore conseguenza che, anche le entrate progressivamente reimpiegate per l’ulteriore sviluppo aziendale devono ritenersi connotate da quella illiceità, che la l. n. 575/1965, art. 2-ter intende colpire attraverso la confisca dei beni di provenienza illecita». La predetta sentenza del 2007 ha, quindi, chiarito che «la giurisprudenza formatasi in materia in tema di differenziazione, in sede di sequestro e confisca, dei beni di provenienza lecita rispetto a quelli di provenienza illecita, riguarda l’ipotesi di beni considerati nella loro individualità, e non certamente l’ipotesi di beni confluiti in una attività economica organizzata, i quali invece costituiscono nel loro insieme una nuova realtà economico sociale in quanto unitariamente destinati e finalizzati all’esercizio dell’impresa. Ed essendo “l’impresa” l’oggetto della confisca, in quanto caratterizzata da determinate connotazioni previste dalla legge, non è possibile scorporare, in una visione atomistica che non coincide con le previsioni civilistiche in tema di impresa, le varie componenti in cui essa si sostanzia». Sul tema dell’impresa mafiosa, in dottrina, si rinvia a: A. BALSAMO-G. DE AMICIS, op. cit., p. 2075 ss., i quali, tra l’altro, operano un distinguo tra impresa mafiosa originaria, impresa di proprietà del mafioso ed impresa a partecipazione mafiosa; A. BALSAMO-V. CONTRAFATTO-G. NICASTRO, Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, Giuffrè, Milano, 2010; A. DI AMATO, L’impresa illecita, in I principi generali, in Trattato di diritto penale dell’impresa, diretto da A. DI AMATO, Cedam, Padova, I, 1990, p. 179 ss.; ID., Diritto penale dell’impresa, Giuffrè, Milano, 2011; N. DALLA CHIESA, L’impresa mafiosa, Cavallotti University Press, Milano, 2012; E. FANTÒ, L’impresa a partecipazione mafiosa. Economia legale ed economia criminale, Dedalo, Bari, 1999; G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, Milano, 2008; E. VENAFRO, L’impresa del crimine: il crimine nell’impresa, Giappichelli, Torino, 2012. 64

Sul punto, cfr. Cass., Sez. II, 11 febbraio 2015, n. 9774, in C.e.d. 262622.

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In quest’ottica, la giurisprudenza di merito non incentra l’indagine finalizzata alla confisca alla ricerca del reimpiego di proventi non giustificati od affatto estranei all’attività economica del proposto, ma tende a verificare se l’iniziativa economica si sia espansa ed abbia prodotto redditi beneficiando della “sinergia” del suo titolare con la consorteria mafiosa, notoriamente volta al condizionamento delle attività d’impresa, specie in taluni settori, quale quello dell’edilizia 65. A ritenere diversamente, «si renderebbe del tutto inefficace il sistema delle misure di prevenzione patrimoniali, congegnato e potenziato dal legislatore proprio nella consapevolezza che è nel settore dell’attività produttiva che oggi si manifesta la maggiore pericolosità dell’indiziato mafioso, il quale sempre più di frequente trova rispondente alle sue finalità illecite non tanto acquistare singoli beni improduttivi o comunque non strumentali all’attività imprenditoriale (si pensi all’ormai superata figura del mafioso di provincia che acquista uno spezzone di fondo rustico), quanto divenire egli stesso imprenditore, anche se per interposta persona, acquisendo aziende già costituite, costituendone di nuove, e comunque condizionando l’operare e lo sviluppo delle iniziative produttive, non solo per investire e far fruttare una ricchezza ab origine inquinata, ma anche allo scopo di accrescere le possibilità di infiltrazioni mafiose nel tessuto economico e sociale. È chiaro che, dinanzi ad un fenomeno di commistione fra attività imprenditoriale e appartenenza all’associazione mafiosa, sarebbe riduttivo e fuorviante limitarsi a verificare se ogni operazione sia immediatamente caratterizzata da evidenti requisiti di illiceità, costituendo – ad esempio – il risultato di una determinata estorsione o essendo stata resa possibile solamente in virtù dell’attivazione di un determinato canale di riciclaggio. Tutte le operazioni attuate per il tramite di un’impresa costituita o sviluppatasi grazie all’estrinsecarsi dell’attività mafiosa sul versante economico rimangono geneticamente collegate – più o meno direttamente – ad una situazione antigiuridica e finiscono per contribuire alla creazione di quella ricchezza inquinata che il sistema delle misure di prevenzione patrimoniali vuole colpire con la confisca dei beni che rappresentano il frutto di condotte illecite o ne costituiscono il reimpiego. Affermare questi principi non significa affatto disconoscere l’orientamento secondo cui la confisca non può aggredire indiscriminatamente tutto il patrimonio del proposto, bensì deve riguardare sempre singoli beni rispetto ai quali siano individuabili le ragioni della illegittima provenienza; ma vuol dire solamente prendere atto che tale impostazione, quando si è di fronte ad una realtà produttiva nel 65

Cfr. Trib. Palermo, 15 maggio 2002, in Foro it., 2003, II, 208, con nota di C. RUSSO.

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suo complesso e dinamico operare, non può che riferirsi all’intera azienda» 66. Da quanto detto non discende, ovviamente, che i due elementi giustapposti dell’appartenenza del soggetto all’associazione mafiosa e dell’esercizio di attività di impresa siano di per sé sufficienti a giustificare sequestro e confisca, dovendo essere accertato – con riferimento al caso in esame e sulla scorta di elementi specifici e concreti – che l’attività imprenditoriale non sarebbe sorta o non avrebbe avuto successo, se non fosse stata determinata od agevolata dall’intervento del potere mafioso 67.

5. Verso un “doppio binario” delle misure patrimoniali tra criminalità organizzata e white collar crime? L’ampliamento delle categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione patrimoniali e l’estensione di tali misure oltre i confini tradizionali della criminalità organizzata di stampo mafioso costituiscono le principali innovazioni introdotte dal processo di riforma avviato con la normativa degli anni 2008 e 2009 e completato con il codice antimafia, le cui previsioni normative – in particolare, quelle contenute nell’art. 1 comma 1 lett. a) e b), richiamate dai successivi artt. 4 e 16 – confermano esplicitamente quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui le misure di prevenzione patrimoniali sono adesso applicabili a tutti i soggetti che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, a prescindere dalla tipologia dei delitti cui si fa riferimento. Con riguardo a queste due categorie di destinatari, che rappresentano le più rilevanti fattispecie di “pericolosità generica”, occorre in primo luogo chiarire che esse si fondano su due parametri, previsti in via alternativa: il primo, su cui si basa la fattispecie della lett. a), è dato dalla reiterazione sistematica di condotte delittuose economicamente rilevanti, con una conseguente circolazione di persone, beni o altre utilità; il secondo, al quale si riferisce la fattispecie della lett. b), è costituito dalla derivazione di almeno una parte dei mezzi di vita del soggetto da attività delittuose 68. 66

A. BALSAMO, voce Codice antimafia, cit., p. 41. Così, tra l’altro, Trib. Palermo, 25 maggio 2002, cit. 68 A. BALSAMO, voce Codice antimafia, cit., p. 65. 67

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In ordine alla dedizione abituale a “traffici delittuosi”, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che essa, lungi dall’essere limitata ai soggetti indiziati di reati a struttura negoziale–contrattuale (si pensi ai reati di truffa), va riconosciuta a qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti. Tale nozione, dunque, non va interpretata in senso “affaristico” e “mercantile”, poiché designa, coerentemente alla finalità di prevenzione perseguita, qualsiasi attività delittuosa da cui siano derivati illeciti accumuli di ricchezza, anche senza il ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti 69. Come è stato evidenziato 70, il concetto di “traffico” implica una circolazione di persone, di beni o di altre utilità, con una centralità dell’aspetto economico e della dimensione patrimoniale dei comportamenti illeciti da cui originano ricchezze “inquinate”, in conformità alla finalità preventiva perseguita, che è quella di impedire che il sistema economico legale sia alterato dalla immissione di beni di provenienza illecita. Per quanto attiene alla nozione di “provento”, la giurisprudenza di legittimità ha accolto una ampia interpretazione, stabilendo che esso va inteso quale sostanziale vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato 71. Mancando ogni delimitazione a specifiche tipologie di reato, il provento può derivare da qualsiasi attività illecita: delitti contro il patrimonio, condotte elusive degli obblighi tributari o contributivi 72, delitti contro la pubblica amministrazione. Le misure di prevenzione patrimoniali sono state così convertite in uno strumento di contrasto della dimensione economica della criminalità dei colletti bianchi, che secondo la definizione di SUTHERLAND si caratterizza per l’organizzazione, per il movente di profitto, per l’abitualità 69 70

Cass., Sez. I, 30 gennaio 2013, n. 19995, in C.e.d. 256160.

A. BALSAMO, voce Codice antimafia, cit., p. 65. Cass., Sez. Un., 3 luglio 1996, n. 9149, in C.e.d. 205707. 72 La giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che il soggetto dedito, in modo massiccio e continuativo, a condotte elusive degli obblighi contributivi realizza illecitamente una provvista finanziaria che è indubbiamente da considerarsi quale “provento” di delitto. Quando la quota indebitamente trattenuta viene successivamente reinvestita in attività di tipo commerciale, è evidente che i profitti di tale attività “risultano inquinati dalla metodologia di reinvestimento della frazione imputabile alle pregresse attività elusive”. Di conseguenza, se il soggetto proposto trae mezzi di sostentamento, anche in via di fatto, da tali attività, può senza dubbio affermarsi che costui “viva abitualmente, anche in parte” con i proventi di attività delittuose, in ciò risultando integrato il presupposto richiesto dalla legge per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale (Cass., Sez. I, 10 giugno 2013, n. 32032, in C.e.d. 256450). 71

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delle pratiche e tecniche illegali utilizzate 73. Mediante lo strumento prevenzionistico è possibile aggredire i patrimoni formatisi grazie a condotte integrative dei reati di corruzione, di concussione, e di svariate altre figure criminose, purché ripetute nel tempo o comunque produttive di effetti economici tali da incidere sensibilmente sul tenore di vita del reo ovvero di altri soggetti, anche se cadute in prescrizione, e persino nell’ipotesi di morte del reo (si pensi, ad esempio, al caso della “tangente” pagata ad un soggetto successivamente deceduto, e quindi entrata nella disponibilità degli eredi). Si tratta di un’evoluzione coerente con le linee di politica criminale recepite dalla risoluzione sulla criminalità organizzata nell’Unione europea, adottata dal Parlamento europeo il 25 novembre 2011, che accoglie una impostazione di fondo imperniata sulla esplicita consapevolezza «dell’intrinseco legame tra criminalità organizzata e corruzione» (punto 33), prefigurando così una circolazione, da un settore all’altro, degli strumenti di contrasto, e specialmente di quelli che si collocano oltre i confini del modello sanzionatorio “classico” incentrato sulla pena detentiva. Ciò vale particolarmente per le misure patrimoniali che costituiscono espressione di una evoluzione verso un diritto penale di stampo postmoderno, capace di superare il vecchio modello “individualistico” fondato su un orizzonte statocentrico e sul primato della pena detentiva, per indirizzarsi decisamente verso la percezione della natura collettiva e della dimensione economica dei più gravi fenomeni criminali, la progressiva diversificazione dei modelli sanzionatori, l’inserimento nella costruzione del diritto comune europeo e nel più ampio scenario delle molteplici forme di controllo e di reazione proprie del sistema socio-istituzionale. Nella più recente giurisprudenza è, però, percepibile la tendenza a stabilire una netta differenziazione, fino a prefigurare un “doppio binario” probatorio, tra le misure personali “antimafia” e quelle applicate nei casi di pericolosità generica, con particolare riferimento alla criminalità amministrativa. Oltre alle già menzionate problematiche connesse alla correlazione temporale tra accumulazione patrimoniale e manifestazione della pericolosità, vengono in rilievo, a questo proposito, una serie di ulteriori indicazioni espresse da una parte della giurisprudenza di legittimità in relazione alla delimitazione dell’oggetto della confisca. Di particolare rilievo sono i principi affermati da una recente pronuncia della I Sezione della Corte di Cassazione 74 secondo cui in sede di verifica 73

D. SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi, Giuffrè, Milano, 1987.

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Cass., Sez. I, 24 marzo 2015, n. 31209, in C.e.d. 264321.

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della pericolosità di soggetto proposto per l’applicazione di misura ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b) del codice antimafia (cioè del soggetto che debba ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose), il giudice della prevenzione, ove il reato oggetto di previa cognizione in sede penale sia rappresentato dal delitto di corruzione, non può prescindere dalla verifica, a carico del corruttore, della effettiva derivazione di profitti illeciti dal reato commesso, in ragione della testuale formulazione dell’art. 1, che richiede la constatazione di ricorrenti attività delittuose produttive di reddito. Tale pronuncia si ricollega all’orientamento già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in presenza di un contratto di appalto ottenuto con la corruzione di pubblici funzionari, la nozione di profitto confiscabile al corruttore non va identificata con l’intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la pubblica amministrazione, dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall’illecito penale dal corrispettivo eseguito per l’effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione della illiceità della causa remota 75. Da ciò si trae l’ulteriore precisazione che, se è vero che la commissione di più fatti di corruzione – in un non trascurabile arco temporale – è di per sé fattore che orienta verso una pericolosità sociale, in caso di erogazione di prestazioni contrattuali non può sostenersi – senza una verifica della produzione e della entità del profitto derivante dal reato – che ciò sia di per sé sufficiente a ritenere il soggetto iscrivibile nella previsione di legge di cui all’art. 1, comma 1, lett. b) del codice antimafia. Il ragionamento così sviluppato porta ad escludere che possa ritenersi “illecita” l’intera attività imprenditoriale nel cui ambito si sia fatto ricorso alla agevolazione corruttiva, a differenza di quanto stabilito per l’impresa mafiosa: «nel caso della impresa mafiosa, infatti, vi è tendenza al reimpiego nella attività aziendale di capitali provenienti da esponenti della consorteria (e pertanto derivanti da pregressa attività illecita) o vi è espressione del potere di intimidazione della consorteria tale da condizionare ed alterare in modo stabile l’ordine economico, il che giustifica la qualificazione di piena illiceità degli interi profitti conseguiti, senza distinzione tra componente lecita e componente illecita dell’attività aziendale. Nel caso di ottenimento di appalto tramite attività corruttiva vi è di certo alterazione delle regole in punto di concorrenza e buon andamento della pubblica amministrazione ma, per quanto detto sopra, va operata una verifica in concreto della entità 75

Cass., Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 17897, in C.e.d. 243319.

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del profitto conseguito e della sua incidenza nell’ambito della prosecuzione della attività aziendale, non essendo applicabile la presunzione generalizzante di illiceità della intera attività svolta».

6. Le riforme necessarie: misure di prevenzione anticorruzione e antiterrorismo. Le indicazioni fornite dalla recente giurisprudenza vanno tenute in attenta considerazione al fine di valutare il prevedibile impatto dei progetti di legge attualmente in discussione e gli ulteriori interventi di riforma necessari. Al riguardo, il testo unificato di riforma del codice antimafia, approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati in data 11 novembre 2015 ed oggi in discussione presso la Commissione Giustizia del Senato, contiene una innovazione di indubbia rilevanza, consistente nella scelta di ampliare l’elenco dei destinatari delle misure di prevenzione includendovi gli indiziati di una serie di delitti contro la pubblica amministrazione: quelli previsti dagli artt. 314 (peculato), 316 (peculato mediante profitto dell’errore altrui), 316-bis (malversazione a danno dello Stato), 316-ter (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), 317 (concussione), 318 (corruzione per l’esercizio della funzione), 319 (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio), 319-ter (corruzione in atti giudiziari), 319-quater (induzione indebita a dare o promettere utilità), 320 (corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio), 321 (pene per il corruttore), 322 (istigazione alla corruzione), e 322-bis (peculato, concussione, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri) del codice penale. Le misure di prevenzione patrimoniali potrebbero quindi applicarsi agli indiziati dei predetti reati anche quando non siano riconducibili alle fattispecie di pericolosità “generica” previste dal precedente art. 1 (le quali si riferiscono ai soggetti che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi, o che vivano, anche in parte, con i proventi di attività delittuose). Per questa via, la commissione di reati contro la pubblica amministrazione tipicamente produttivi di profitti verrebbe pienamente equiparata, sotto il profilo della operatività delle misure, alle ipotesi di “pericolosità qualificata”, che già adesso non richiedono, quale presupposto, la dimostrazione dell’abituale coinvolgimento del soggetto nelle attività delittuose

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o nel godimento dei loro proventi. Si tratta di una innovazione coerente con quella diffusa sensibilità sociale che ha trovato un’espressione particolarmente significativa nel discorso di insediamento pronunciato il 3 febbraio 2015 dal Presidente della Repubblica, che ha affermato con forza: «La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute». Tale estensione dell’ambito applicativo delle misure patrimoniali consente di porre rimedio ad uno dei più rilevanti aspetti critici del sistema italiano di lotta alla corruzione, rappresentato dalla insufficienza del sistema di confisca dei proventi di questo fenomeno criminale: al riguardo, il rapporto di valutazione elaborato dal GRECO (“Gruppo di Stati contro la corruzione”, operante nell’ambito del Consiglio d’Europa) nel luglio 2009 raccomandava di prendere in considerazione l’introduzione di forme di confisca in rem, sganciate dal presupposto di una sentenza di condanna, destinato frequentemente a mancare per effetto del meccanismo della prescrizione del reato. Un’analoga linea di tendenza è riscontrabile anche nell’ordinamento britannico, dove la condanna per un reato previsto dalla normativa anticorruzione contenuta nel Bribery Act 2010 implica la soggezione anche alle misure patrimoniali disciplinate dal Proceeds of Crime Act 2002. Quest’ultimo atto legislativo (POCA) ha introdotto accanto al confiscation alcuni meccanismi di sottrazione dei profitti illeciti di carattere civile (“civil recovery” e “cash forfeiture”), analoghi alle misure di prevenzione patrimoniali conosciute dall’ordinamento italiano. Si tratta, oltretutto, di una innovazione conforme alle indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nella sentenza del 12 maggio 2015, nel caso Gogitidze e altri contro Georgia, ha espresso un giudizio positivo proprio su una fattispecie di confisca civile in rem, avente funzione preventiva e compensatoria, finalizzata all’ablazione della ricchezza accumulata in modo illecito e ingiustificato da persone accusate di gravi forme di criminalità amministrativa, nel quadro di un più ampio disegno di intensificazione della lotta alla corruzione nel settore pubblico 76. 76

Per converso, vanno sottolineati i problemi di compatibilità con la CEDU che deriverebbero dall’applicazione della confisca penale (anche “estesa”) nel caso di estinzione del reato. Infatti la sentenza emessa il 29 ottobre 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Varvara contro Italia ha ravvisato una violazione del principio di legalità previsto dall’art. 7 della Convenzione laddove la sanzione della confisca sia stata inflitta all’imputato «quando il reato era estinto e la sua responsabilità non era stata accertata con una sentenza di condanna». Sulla questione dovrà prossimamente pronunciarsi la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo.

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Alla suddetta estensione dell’ambito soggettivo dei destinatari delle misure patrimoniali dovrebbe, però, accompagnarsi un ulteriore intervento riformatore volto ad incidere sui profili oggettivi della confisca, stabilendo espressamente l’applicazione dei consolidati principi in tema di impresa mafiosa alle attività economiche che abbiamo potuto svilupparsi grazie al ricorso alla corruzione. Tale innovazione è resa necessaria, sul piano teleologico, dalla presenza di una medesima ratio di tutela della concorrenza e delle regole dell’economia di mercato, sulle quali il fenomeno mafioso e quello corruttivo incidono negativamente in modo sostanzialmente identico; e, sul piano probatorio, dalla impossibilità di distinguere le componenti lecite e quelle illecite nell’ambito di una attività economica unitaria, la cui espansione sia stata agevolata in modo determinante da una sistematica azione corruttiva. Al rafforzamento delle misure di prevenzione nel contrasto della corruzione potrebbe, poi, accompagnarsi una valorizzazione dello stesso strumento anche nella lotta al terrorismo internazionale. Al riguardo, occorre premettere che, mentre nel campo della criminalità organizzata le misure di prevenzione, personali e patrimoniali, hanno conosciuto un notevole sviluppo negli ultimi anni, sia nei territori di tradizionale insediamento delle mafie sia nelle regioni dell’Italia settentrionale, lo stesso non è avvenuto nel settore del terrorismo, neppure dopo l’intervento normativo (d.l. 18 febbraio 2015 n. 7, c.d. “decreto antiterrorismo”, convertito con modifiche dalla l. 17 aprile 2015, n. 43) finalizzato a contrastare il fenomeno dei foreign fighters. Eppure, l’esame del fenomeno e lo studio delle soluzioni accolte in altri ordinamenti rende evidente che la lotta al terrorismo non può essere combattuta soltanto con gli strumenti “classici” del diritto penale, ma richiede anche l’uso del sistema prevenzionistico. Lo sviluppo di un “doppio binario” di misure preventive e sanzionatorie nei confronti del terrorismo, in conformità al modello già sperimentato per la lotta alla mafia, trova un solido fondamento nella rilevazione di una serie di aspetti significativi che, nel presente momento storico, sembrano accomunare i due fenomeni criminali, entrambi caratterizzati da una ibrida polivalenza (con la conseguente necessità di una pluralità di chiavi di lettura, che spaziano dalla sociologia e dall’antropologia culturale all’economia ed alla scienza politica), da connotati che superano la dimensione delittuosa e svelano la radicata persistenza di modelli culturali di comportamento, dalla compresenza di elementi di innovazione ed elementi di continuità (sicché alla dimensione transnazionale si accompagna il radicamento nei tradizionali contesti di appartenenza), dalla combinazione di attività eco-

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nomiche legali e illegali, dalla intensa potenzialità di destabilizzazione del sistema democratico. A questi profili che investono la fisionomia sostanziale e l’analisi criminologica, si aggiunge, poi, una esigenza di fondo che investe la tematica dell’accertamento processuale di entrambi i fenomeni criminali: si tratta, precisamente, della possibilità di acquisire, grazie alla particolare conformazione del procedimento di prevenzione nel “diritto vivente”, la disponibilità di un materiale probatorio più ampio di quello tipico del dibattimento penale, in modo da consentire al giudice di formarsi una visione complessiva, “panoramica” e “diacronica” dei fenomeni criminali, ed un approfondito approccio con il contesto culturale nel quale si collocano i soggetti a vario titolo coinvolti . Non è un caso, del resto, che proprio nella materia della lotta al terrorismo si registri l’adozione, in ordinamenti giuridici tra loro assai diversi, di tipologie analoghe di misure preventive personali. Sul punto, va segnalata la più recente tendenza dell’ordinamento inglese, dove la predisposizione di nuovi strumenti di contrasto del terrorismo si è tradotta nell’introduzione delle Terrorism Prevention and Investigation Measures, prevista dal Terrorism Prevention and Investigation Measures Act (TPIMA) del 2011. Tali misure sono finalizzate essenzialmente a proteggere la collettività contro i rischi determinati dai soggetti che sono ritenuti, sulla base di un ragionevole convincimento, coinvolti in attività connesse al terrorismo, ma che non possono essere perseguiti penalmente né espulsi dal territorio nazionale. Esse sono applicate dal Secretary of State, previa autorizzazione di una High Court, per il periodo massimo di due anni, e possono comprendere molteplici restrizioni di diritti (obbligo di risiedere in un certo luogo, obbligo di rimanere presso la propria abitazione in certe ore della giornata, limiti alle libertà di circolazione, di comunicazione, di associazione, di disposizione patrimoniale, ai diritti al lavoro ed allo studio, alla possibilità di accedere a servizi finanziari e di disporre dei beni patrimoniali, ecc.). L’ingiustificata inosservanza delle prescrizioni imposte costituisce un reato punibile con la reclusione fino a cinque anni. È appena il caso di sottolineare l’analogia tra le Terrorism Prevention and Investigation Measures e le misure di prevenzione personali previste dal “Codice antimafia”, le quali si contraddistinguono per la minore afflittività delle prescrizioni imposte e per la maggiore incisività del controllo giurisdizionale. L’estensione di una parte dello strumentario delle indagini antimafia alla lotta contro il terrorismo è espressamente prevista dalla proposta di Di-

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rettiva europea che forma attualmente oggetto del “trilogo” e risponde alla consapevolezza che la valorizzazione della dimensione giudiziaria nel controllo e nel contrasto delle più gravi forme di criminalità rappresenta una insostituibile opportunità per coniugare la tutela delle garanzie individuali con l’effettività della reazione dello Stato. In quest’ambito, appare particolarmente importante l’apporto delle indagini finalizzate alle misure di prevenzione, le quali, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità 77, non sono soggette a limiti temporali né a formalità e possono concretarsi anche nell’assunzione di prove dichiarative. Per rendere possibile una efficace applicazione delle misure di prevenzione antiterrorismo, occorre però ridefinire la relativa fattispecie di pericolosità in un duplice senso: a) da un lato, rendendola applicabile anche ai fatti penalmente rilevanti; b) dall’altro lato, includendovi anche i soggetti che si limitino a dichiarare pubblicamente, ad esempio su internet, la loro adesione ai proclami fondamentalisti 78. Sotto il primo profilo, vanno presi in esame i possibili interventi correttivi necessari per rendere effettiva l’estensione dello strumento prevenzionistico al fenomeno del terrorismo internazionale. Anche la nuova ipotesi riferibile ai foreign fighters è stata, infatti, inserita all’interno della fattispecie di pericolosità prevista dall’art. 4, comma 1, lett. d) del Codice antimafia, la quale, com’è noto, è rimasta finora priva di un significativo riscontro applicativo, per ragioni dovute alla sua imperfetta formulazione, che riproduce il contenuto della normativa previgente (a partire dall’art. 18 della l. n. 152/1975) e presenta uno spazio di incidenza assai diverso rispetto alla fattispecie delineata dalla lett. a) relativamente al settore della criminalità organizzata. Quest’ultima norma, che sottopone al controllo preventivo gli «indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416 bis c.p.», richiama esplicitamente la definizione legislativa contenuta nella suddetta norma incriminatrice, facendola assurgere a presupposto sia del processo penale, sia del procedimento di prevenzione. Pertanto, nell’ambito della criminalità mafiosa, il procedimento di pre-

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Cass., Sez. I, 11 marzo 2016, n. 27147, in C.e.d. 267058. Sul tema, v. F. ROBERTI, Terrorismo internazionale. Contrasto giudiziario e prassi operative, in Gli Speciali di Questione Giustizia, Terrorismo internazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali, 2016, p. 55 ss. 78

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venzione non è rimasto affatto circoscritto ad uno spazio “residuale” rispetto al processo penale. Il controllo preventivo ha, invece, svolto essenzialmente una funzione complementare ed integrativa rispetto alla repressione penale. Le stesse situazioni concrete – riconducibili alle varie forme di inserimento organico o di concorso esterno o di attiva collaborazione con associazioni di tipo mafioso – hanno formato oggetto di un duplice intervento giurisdizionale, focalizzato rispettivamente sulla responsabilità personale e sugli aspetti economico-patrimoniali, nonché sugli ulteriori fattori di pericolosità sociale, connessi ad una realtà criminale complessa, nella quale gli aspetti individuali e quelli collettivi si intrecciano in modo spesso inestricabile. Il processo penale e il procedimento di prevenzione sono così divenuti le due componenti di un sistema integrato di contrasto delle nuove forme di manifestazione del fenomeno mafioso. Al contrario, l’art. 4, comma 1, lett. d) del Codice antimafia è rimasto circoscritto all’ipotesi degli «atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti» alla commissione fatti penalmente illeciti contrassegnati da finalità di terrorismo anche internazionale. Al riguardo, in dottrina è stato autorevolmente precisato che gli atti in questione devono avere una sufficiente riconoscibilità esterna, ma non devono ancora raggiungere la soglia della fase esecutiva in senso penalistico 79. Tale interpretazione trova riscontro nell’indirizzo seguito dalla giurisprudenza di legittimità 80, la quale ha chiarito che «deve trattarsi di un’attività, che, pur essendo obiettivamente apprezzabile per la sua rilevanza esterna e soprattutto per il suo significato rispetto al fine di sovvertimento nel quale si sostanzia l’ipotesi di pericolosità formulata dalla norma, resti tuttavia nell’ambito della mera preparazione di uno o più dei delitti indicati, senza integrare né la fattispecie del tentativo punibile, né tanto meno quella del reato continuato». Nello stesso senso si è orientata la giurisprudenza costituzionale 81, la quale ha riconosciuto che «gli atti preparatori di cui all’art. 18, n. 1, della l. n. 152/1975 in tanto possono venire in considerazione per l’applicazione di misure di prevenzione in quanto non costituiscano figure autonome di reato (ci si riferisce, in particolare, ai reati associativi)», sulla base del duplice 79 G. FIANDACA, voce Misure di prevenzione (profili sostanziali), in Dig. disc. pen., Utet, Torino, 1994, p. 121. 80 Cass., Sez. I, 27 marzo 1984, n. 731. 81 Corte cost., sentenza 22 dicembre 1980, n. 177.

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assunto «che la distinzione tra tentativo punibile ed atto preparatorio è certamente percepibile e che l’atto preparatorio consiste in una manifestazione esterna del proposito delittuoso che abbia un carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura di reato». Conseguentemente, essendo rimasta immutata la formulazione della fattispecie-base, anche dopo l’entrata in vigore del “Codice antimafia” e dopo il decreto-legge del 2015, la sfera di operatività delle misure di prevenzione personali e patrimoniali viene a configurarsi in termini residuali – invece che concorrenti – rispetto all’area di rilevanza penale delle condotte motivate da finalità di terrorismo internazionale. La irragionevolezza di un simile assetto normativo è del tutto evidente: sembra che il legislatore, pur avendo compreso le potenzialità positive – sul piano della modernità, dell’efficacia e delle garanzie sostanziali – insite nel sistema prevenzionistico anche sul terreno della lotta al terrorismo, non abbia portato questa intuizione alle sue logiche conseguenze, attribuendo alle misure di prevenzione un ruolo corrispondente a quello sperimentato, con importanti risultati, sul piano del contrasto della criminalità organizzata. L’effetto, dopo il “decreto antiterrorismo”, potrebbe essere paradossale: le misure di prevenzione, e il connesso divieto di espatrio, potrebbero infatti applicarsi a chi si limita ai primi preparativi per prendere parte ad un conflitto in territorio estero, ma non anche al soggetto che inizia ad attuare l’intento programmato, ed appare ormai in procinto di lasciare il territorio nazionale. A ciò si aggiungono le notevoli difficoltà inevitabilmente connesse alla distinzione – notoriamente quanto mai incerta – tra atti preparatori e atti esecutivi. Allo scopo di eliminare le anomalie di tipizzazione che investono la fattispecie di pericolosità in esame e ne riducono inevitabilmente le potenzialità applicative, appare quindi necessario riformulare l’art. 4, comma 1, lett. d), in modo da ricomprendere anche gli autori di atti esecutivi (e non solo preparatori) nell’ambito dei potenziali destinatari delle misure di prevenzione, le quali potrebbero così essere “rivitalizzate” nel settore del terrorismo. In buona sostanza, l’art. 4, comma 1, lett. d), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, potrebbe essere sostituito dal seguente: «a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti esecutivi, ovvero atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439,

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605 e 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270-sexies del codice penale». Come evidenziato nella relazione della Commissione Fiandaca 82, l’estensione della portata applicativa della fattispecie di pericolosità in esame mira ad implementare anche nel campo del terrorismo un intervento prevenzionistico parallelo all’intervento penale, analogamente a quanto avviene nell’ambito della “pericolosità generica” e della “pericolosità qualificata”, dove, non a caso, si è in presenza di una vasta ed efficace operatività delle misure personali e patrimoniali. A questo primo intervento di riforma se ne potrebbe accompagnare un altro, seguendo l’ordine di idee sviluppato in una significativa riflessione del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo 83, che ha sottolineato l’opportunità di valutare, in un’ottica di progressivo adeguamento normativo alle esigenze di una efficace prevenzione, la disposizione di cui all’art. 4, comma 1, lett. d) del Codice antimafia, la quale potrebbe risultare eccessivamente restrittiva rispetto ai soggetti che, pur non ponendo (ancora) in essere atti preparatori obiettivamente rilevanti e diretti alla commissione di atti di terrorismo, si presentino tuttavia già pericolosi, come nel caso di coloro che dichiarano pubblicamente, su internet, la loro adesione ai proclami fondamentalisti, di apologia del Califfato e incitamento all’esecuzione di atti di terrorismo, lanciati via web da altri soggetti. Una ulteriore innovazione di notevole rilievo consisterebbe nella modernizzazione delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale in modo da apprestare una reazione mirata agli specifici aspetti di pericolosità insiti nell’attuale fenomeno terroristico: se il luogo di manifestazione di pericolosità è il web, occorre inibirne l’accesso al potenziale terrorista sorvegliato speciale. Inoltre, come ha segnalato il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, potrebbero essere immaginate delle nuove modalità attuative della sorveglianza speciale con l’utilizzo di tecnologia innovativa con strumenti elettronici di controllo; tale tecnologia potrebbe consentire di contenere la pericolosità dei soggetti sottoposti alla sorveglianza speciale e ottimizzare l’utilizzo delle risorse per il loro controllo, anche prevedendo misure restrittive per il mancato rispetto delle prescrizioni imposte 84. An-

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In www.penalecontemporaneo.it, 12 febbraio 2014. F. ROBERTI, Terrorismo internazionale, cit., p. 56. 84 F. ROBERTI, Terrorismo internazionale, cit., p. 57. 83

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che sotto questo profilo, appare molto significativa l’esperienza delle Terrorism Prevention and Investigation Measures, che comprendono il monitoraggio su movimenti, comunicazioni e altre attività del soggetto, con mezzi elettronici o di altro genere (Monitoring measures). Con alcune modifiche normative, dunque, si aprirebbe la possibilità di attribuire alle misure di prevenzione un ruolo significativo nel contrasto sia delle basi economiche del terrorismo internazionale, sia della pericolosità soggettiva degli ambienti e delle persone a rischio di radicalizzazione. Ne uscirebbe ulteriormente valorizzata una delle migliori caratteristiche dell’ordinamento italiano: la sua capacità di combattere i più gravi fenomeni criminali con le armi dello Stato di diritto e con le regole del “giusto processo”, evitando ogni miope deriva verso la “degiurisdizionalizzazione” e il “diritto penale del nemico”. Anche nel campo dell’antiterrorismo, resta sempre attuale la lezione di Giovanni Falcone sull’importanza del «forte richiamo allo Stato di diritto ed al rispetto della legalità, proprio nel momento in cui l’accresciuta virulenza del crimine organizzato suscita suggestioni crescenti di interventi autoritari e di leggi eccezionali» 85.

85 G. FALCONE, La lotta alla mafia – perché si vince coi giudici, in La Stampa, 6 novembre 1991.

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Antonio Balsamo e Caterina Brignone

II

L’ASSET RECOVERY DEI PROVENTI DEL REATO NEL REGNO UNITO di Vittorio Fanchiotti

SOMMARIO: 1. Le origini dell’istituto. – 2. Il revival della confisca nella seconda metà del ventesimo secolo. – 3. La riforma del 2002. Il Proceeds of Crime Act (POCA) e l’istituzione dell’Asset Recovery Agency (ARA). – 4. Segue: a) il confiscation order. – 5. Segue: b) il forfeiture order. – 6. Segue: c) la civil recovery. – 7. Segue: d) cash forfeiture proceedings. – 8. Il declino dell’ARA. – 9. Il Serious Crime Act 2015. – 10. I limiti della riforma del 2015. – 11. La prospettiva europea.

1. Le origini dell’istituto. Nel Regno Unito la materia delle “confische” è spesso inquadrata, anche a livello ufficiale, sotto l’etichetta di “asset recovery”, cioè di “recupero” dei proventi del reato da parte dello Stato. La legislazione attuale in materia è molto più recente di quella statunitense: è stata introdotta a livello generalizzato nel 2002, mentre in precedenza erano previste solo norme specifiche riguardanti singoli settori di attività illecite ricollegabili alla criminalità organizzata. Tuttavia le origini storiche della confiscation affondano nel common law classico ove tradizionalmente, fino all’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, essa conseguiva automaticamente ad ogni condanna per felony, cioè per quella che allora rappresentava la categoria più grave di reati 1: anzi, secondo l’autorevole 1

Attualmente nel Regno Unito i reati sono suddivisi in tre categorie, a seconda della gravità della pena, e attribuiti a diversi organi giurisdizionali: indictable offenses, di competenza delle crown courts, presso i quali siede la giuria popolare, summary offences, di competenza dei justices of the peace (denominati stipendiary magistrates a Londra) e le triable either way offences, giudicabili, a seconda dei casi, dalla crown court o dal justice of the peace.

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ricostruzione storica di Blackstone, il reato di felony, stricto sensu, era originariamente quello per cui era prevista la sanzione della confisca delle terre e dei beni immobili del vassallo e successivamente, con una “small deflection from the original sense” della confiscation 2, anche di quelli mobili di qualsiasi imputato. Blackstone infatti definisce felony: «the offence which occasions a total forfeiture of either lands, or good, or both, at the common law; and to which capital or other punishment may be superadded, according to the degree of guilt» 3. La stessa etimologia del termine ha dato luogo a dispute nei secoli scorsi tra i lessicologi giuridici: la soluzione più accreditata sembra essere quella di origine germanica, che individua in felon la coesistenza di due termini “nordici”: fee, traducibile 4 “feudo” e lon, in “prezzo” o “valore” (più recentemente: pagamento). Conseguentemente felony altro non significherebbe se non “pretium feudi”, la causa per la quale una persona rinuncia al proprio feudo. Blackstone termina la sua disamina sottolineando che “come si suol dire nel linguaggio comune, tale rinuncia equivale a quella alla propria vita o alla propria proprietà terriera. In questo senso ‘felony’ significa indubbiamente una confisca feudale o un atto di confisca della proprietà terriera: un atto col quale la terra è confiscata o è devoluta to the lord” 5. È interessante notare come Blackstone insista a lungo sul concetto di felony come “sinonimous term” rispetto all’atto di confisca a favore del Lord per spiegare come, una volta introdotta la normativa feudale in Inghilterra, i reati ad esso riconducibili erano quelli cui conseguiva la confisca: solo successivamente il termine felony iniziò ad essere utilizzato per designare uno specifico delitto e non la sua specifica sanzione: “Hence it follows, that capital punishment does by no means enter the true idea and definition of felony” 6. L’insistenza di Blackstone, che chiarisce come non tutti felonies all’epoca in cui scrive – la seconda metà del diciottesimo secolo – ma anche in precedenza, fossero puniti con la pena capitale, ma appunto solo con la confisca 7, è in buona misura, a nostro avviso, volta ad 2

Così osserva W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England, vol. IV, 17651769, p. 97. 3

W. BLACKSTONE, Commentaries, cit., vol. IV, p. 95. Ora il significato corrente è “fata” ... . 5 W. BLACKSTONE, Commentaries, cit., vol. IV, p. 96. A sua volta se il “Lord” commetteva un felony nei confronti del suo “vassallo” (per esempio, “beating the servant of his vasal, so that he loses his service”) le sue terre venivano confiscate a favore di quest’ultimo. 6 W. BLACKSTONE, Commentaries, cit., vol. IV, p. 97. 7 W. BLACKSTONE, Commentaries, cit., vol. IV, p. 98. 4

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accreditare la “superiorità” e la tenderness, la “mitezza” del diritto inglese rispetto alla “ferocia” di quello inquisitorio europeo-continentale 8. A riprova che non tutti i felonies implichino la pena capitale, Blackstone cita la penance, una sanzione che deriva dal reato, “more atrocious and penal than the rest”, di lesioni volontarie nei confronti di un membro del clero, considerato un “ambasciatore di pace” per il rispetto e la reverenza dovuta al suo ruolo: tale reato viene disciplinato in un’apposita legge, denominata articuli cleri 9 in base alla quale l’imputato può essere portato a processo davanti alle corti “laiche”, rinviandolo a giudizio per battery (lesione) ma anche davanti a quelle ecclesiastiche, in particolare a quella vescovile che può imporgli la sanzione della scomunica o della pena corporale. Quest’ultima però può essere sostituita dalla dazione di una somma di denaro al vescovo ed alla vittima (la quale può anche proporre un’ulteriore causa civile per danni) 10. Nella prassi, osserva Blackstone, il “brutale” aggressore potrebbe andare incontro a tre procedimenti per lo stesso fatto: quello penale “laico” il reato di felony, quello civile per danni promosso dalla vittima e quello davanti alla corte ecclesiastica. Normalmente però tutto si risolve col pagamento della penance, «probabilmente perché – osserva Blackstone – la povertà è generalmente considerata dai moralisti come la migliore medicina pro salute animae» 11. È importante ricordare come nel tredicesimo secolo l’imputato, dopo l’introduzione in Inghilterra del jury trial, inizialmente instaurabile solo per sua scelta e a seguito di una sua dichiarazione relativa alla propria innocenza o colpevolezza 12, poteva rifiutare di rendere qualsiasi dichiarazione “standing mute”, evitando in tal modo la celebrazione del jury trial e la confiscation dei propri beni, conseguente solo alla condanna, scongiurando 8

Contra: L. RADZINOWICZ, A History of English Law and its Administration since 1750, vol. I, London, 1948, p. 8 ss., sostiene che la pena capitale fosse la sanzione generalizzata anche per reati di lieve entità. In effetti la posizione di Blackstone trova fondamento nel fatto che nel singolo caso la pena capitale potesse essere evitata per i reati per i quali era previsto il benefit of clergy. Inizialmente il benefit era riservato ai membri del clero, poi venne esteso a chi sapese leggere la Bibbia ed, infine, a chi fosse in grado di recitarne un qualsiasi versetto a memoria. Il benefit è riapparso, mutatis mutandis, in tempi recentissimi: la conoscenza del Corano ha salvato la vita ad alcuni prigionieri da parte di un gruppo di fondamentalisti islamici. Non a caso Blackstone (Commentaries, cit., vol. IV, p. 329) parla del benefit of clergy in termini di “tenderness to the life of prisoner”. 9

Edw. II c. 3. W. BLACKSTONE, Commentaries, cit., vol. IV, p. 217. 11 W. BLACKSTONE, Commentaries, cit., vol. IV, p. 218. 12 J. LANGBEIN, Torture and the Law of Proof, Chicago, 1976, p. 70. 10

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così la “rovina” economica del proprio nucleo famigliare. In realtà l’imputato standing mute se riusciva a salvare, evitando il dibattimento, il proprio patrimonio famigliare lasciandolo nella disponibilità dei suoi eredi, assai difficilmente salvava la sua vita, venendo sottoposto ad una feroce misura di coercizione fisica: la prison (più tardi: peine) fort et dure 13. Si trattava di una vera e propria tortura per “convincere” l’imputato a rendere la dichiarazione di non colpevolezza o anche di colpevolezza (ma questa, anche “saltando” il jury trial, avrebbe comunque comportato la irrogazione della pena capitale, prevista all’epoca per tutti i felonies) 14. In particolare la prison fort et dure consisteva nel far stendere il soggetto sul pavimento di una cella, ricoprirlo di “tant de fer et poid cum il poit porter et pluis” e nutrirlo un giorno con solo pane e il seguente con sola acqua, per indurlo ad effettuare la dichiarazione richiestagli relativa alla propria responsabilità. L’affermarsi del carattere obbligatorio del jury trial fa venir meno il ricorso alla peine forte et dure 15. Inoltre col passar dei secoli per gran parte dei felonies fu abolita la pena capitale e nel 1870 il Forfeiture Act abolì anche la confisca obbligatoria “automatica” in caso di condanna per ogni tipo di felony.

2. Il revival della confisca nella seconda metà del ventesimo secolo. La confisca che continuò ad essere applicata in materia tributaria (con particolare riferimento al contrabbando) ed alla pirateria, particolarmente diffusa nel nuovo continente, tornò alla ribalta verso gli anni Cinquanta del secolo scorso con specifico riferimento a determinati reati in tema, tra l’altro, di pornografia, stupefacenti ed evasioni fiscali. Inoltre in base alla sect. 42 del Drug Trafficking Act del 1994 fu consentito il sequestro alla

13 Statute of Westminster, (3 Edw I, c. 12) 1275, relativo a “Notorious felons, openly of ill fame”. 14

J.B. THAYER, A Preliminary Treatise of Evidence at the Common Law, Boston, 1898, p. 74 ss. 15 In realtà essa continuerà ad essere prevista on the books fino al 1772, anno della sua abrogazione con lo Statute 12 Geo. III, c. 12, s. 1. In America la peine fort et dure risulta essere stata utilizzata solo una volta, in un processo per stregoneria celebrato a Salem: cfr. K. HALL, The Magic Mirror: Law in American History, Oxford, 2009. La vicenda è riportata in un dramma di Arthur Miller del 1953, The Crucible.

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frontiera di somme di denaro ritenute costituire provento del traffico di stupefacenti o destinate a tale scopo, indipendentemente dal fatto che fosse intervenuta una condanna. Oltre al citato Drug trafficking Act, applicabile solo ai sequestri di stupefacente alla frontiera, l’altra legge sugli stupefacenti, datata 1971, il Misuse of Drugs Act, limitava il potere di confisca agli strumenti materiali utilizzati per commettere il reato e precludeva quella dei profitti derivanti dal reato stesso: in un caso del 1980 i giudici “restituirono” a due soggetti condannati per produzione e spaccio di stupefacenti oltre 750.000 sterline, sequestrate “indebitamente”, in quanto “puro e semplice” provento del reato. L’indignazione suscitata da tale pur autorevole decisione della House of Lords 16 e la consapevolezza che ogni pena detentiva, per quanto severa, difficilmente avrebbe potuto controbilanciare come deterrente l’entità dei profitti conseguiti, diede l’avvio ad una riforma della materia, affidata allo studio di una Commissione ad hoc. Ne scaturì, nel 1986, il Drug Trafficking Offence Act (c.d. DTOA 1986), sottoposto poi ad alcune modifiche nel 1994 dal Drug Trafficking Act (c.d. DTA 1994), in forza del quale il giudice è tenuto a disporre obbligatoriamente la confisca dei proventi derivanti dal traffico di stupefacenti. In realtà un certo ambito di discrezionalità residuava comunque in capo al giudice dibattimentale, la Crown Court, la quale poteva presumere che tutti i beni acquisiti e tutti i trasferimenti di denaro e le spese effettuati dal condannato nei sei anni precedenti all’inizio del procedimento a suo carico costituissero proventi del reato. L’onere di provare che i beni erano stati acquisiti lecitamente gravava sul condannato sulla base dello standard probatorio proprio del processo civile, quello cioè della preponderance of evidence, in base al quale doveva risultare, per superare l’ostacolo della presunzione iuris tantum, che fosse “più probabile che no” la liceità della fonte dei beni stessi. Se il condannato non riusciva a provare l’“innocenza” dei suoi beni, il giudice calcolava l’ammontare totale di quelli requisibili e la quota di essi disponibile per adempiere all’ordine di confisca. Se il condannato riusciva a provare che l’ammontare dei proventi del reato era inferiore ai beni posseduti, il giudice doveva ricalcolare l’ammontare della confisca. Oggetto della confisca poteva essere qualsiasi “realisable property” posseduta dal 16

R. v. Cuthbertson, [1980] 2 All ER 401 (HL), che in realtà condannava gli imputati per il reato di conspiracy ai sensi, quindi, di una legge diversa dal Drug Misuse Act, il Criminal Law Act del 1977, che non prevedeva la confisca, abolita, salvo eccezioni, come si è detto nel 1870.

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condannato (cioè ogni proprietà che il condannato deteneva o che aveva ceduto a terzi, salvo quella già soggetta a confisca o sequestro ai sensi di altre norme di legge), indipendentemente dal fatto che l’avesse ottenuta legalmente o no. Il provvedimento di confisca era considerato un ordine in personam: lo Stato normalmente non acquisiva automaticamente il possesso dei beni, ma solo in quanto appartenenti all’imputato. Successivamente il Criminal Justice Act (CJA) del 1988 estese la normativa sulla confisca dai reati di droga a qualsiasi altro tipo di illecito penale rientrante nella categoria delle indictable offences, cioè di quelle di competenza delle Crown Courts (punibili con più di sei mesi di reclusione), nonché delle summary offences, di competenza delle magistrates courts (punibili tradizionalmente con pena detentiva non superiore, salvo eccezioni, a sei mesi, aumentata fino ad un anno dalla sect. 154 del Criminal Justice Act del 2003) da cui fossero stati tratti proventi particolarmente cospicui. L’ampliamento dello spettro dei reati cui la confisca è applicabile comporta però che essa non operi più “automaticamente”, ma debba esserne presa in considerazione la irrogazione caso per caso. Inoltre la limitazione della confisca ai proventi dei soli reati per cui l’imputato è attualmente effettivamente condannato (non operando più, cioè, la presunzione relativa ai proventi degli ultimi sei anni di “attività” previsto dal DTOA 1986, di cui sopra si è detto), prevede una significativa attenuazione dell’ambito di applicabilità dell’istituto. Infatti, la confisca, nel caso di procedimento per un’indictable offence, cioè, come si è detto, di un illecito di competenza di una Crown Court, può estendersi anche ai reati c.d. “taken in consideration” (T.I.C.). Si tratta di quei reati per i quali l’imputato non è stato processato, ma dei quali ha ammesso la commissione in fase di sentencing – cioè di determinazione della pena per il reato per il quale si è proceduto e per il quale si è avuta la condanna 17 – affinché il giudice ne tenga conto nell’applicare la pena per il reato per cui si è proceduto 18. La valutazione unitaria quoad poenam comprensiva dei T.I.C. è ovviamente volta ad ottenere un risultato sanzionatorio più favorevole all’imputato di quello ottenibile attraverso procedimenti

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Il sentencing o determinazione della pena è una fase del procedimento che segue quella dibattimentale conclusasi con la condanna (conviction) dell’imputato o con una sua dichiarazione di colpevolezza (che sostituisce l’accertamento dibattimentale). Il processo inglese, come quello degli Stati Uniti d’America e degli altri ordinamenti di common law è quindi, sotto questo profilo, “bifasico”. 18 Sul tema: V. FANCHIOTTI, voce Processo penale nei paesi di Common law, in Dig. disc. pen., vol. X, 1995, p. 179.

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separati (basandosi sulla previsione che, ovviamente, anche per i reati taken in considerations si potrebbe addivenire ad un processo ed ad una condanna): il “prezzo” da pagare da parte dell’imputato è però quello in termini di applicazione della confisca. Strumentale all’applicazione della confisca nei confronti del condannato era il restraining order, emesso dal giudice di un’High Court 19 e indirizzato a “congelare” i beni dell’imputato, disciplinato come un procedimento di natura civilistica. Esso consentiva il divieto, rivolto ad una o più persone, di “movimentare” ogni bene in suo possesso, salvo in ipotesi specificamente previste nell’order. I beni oggetto dell’order potevano trovarsi anche all’estero ed in tal caso il giudice poteva disporne il “rientro”. Il restraining order, introdotto dal CJA 1988 e dal DTA 1994, inizialmente non poneva in nessun caso al prosecutor l’onere di provare il “rischio di dissipazione dei beni” come presupposto per l’emissione dell’order stesso, poi introdotto dalla giurisprudenza 20. In alternativa all’order di cui si è appena detto, ne era previsto un altro, il charging order, anch’esso sottoposto alla disciplina processualcivilistica e di competenza di un’High Court che attribuiva al prosecutor un “interesse” sul bene (che doveva trovarsi normalmente sul territorio del Regno Unito) nei cui confronti era emesso: non ne vietava l’alienazione a terzi, ma la subordinava al “Crown’s interest”, cioè ne rendeva invalida l’alienazione in caso di confisca. Il sistema fin qui descritto in realtà si rivelò del tutto inadeguato al perseguimento dei fini cui era indirizzato, dando luogo ad un numero molto modesto di confische, al punto di essere oggetto di pesanti critiche anche da parte del Governo che ne propugnò la riforma 21. Infatti, in materia di proventi del traffico di droga venivano attribuiti al giudice ampi poteri circa la determinazione dell’effettiva ampiezza dei beni confiscabili, ma questi dovevano comunque essere direttamente ricollegabili al reato in questione e la confisca stessa doveva seguire alla condanna. È da notare che per quanto concerne la confisca “generale” (cioè non limitata alle condanne per stupefacenti) di cui al CJA 1988, nella pratica piuttosto raramente avveniva che i greylords che traevano le fila del crimine organizzato venissero condannati per reati specifici, che comunque costituivano solo semplici tasselli della loro complessiva attività criminale: non 19

Sull’organizzazione giudiziaria inglese: V. FANCHIOTTI, voce Processo penale nei paesi di Common law, in Dig. disc. pen., cit., p. 170. 20

Per il CJA 1988: Re AJ & DJ, 9 December 1992, Court of Appeal. Cabinet Office, Recovering the Proceeds of Crime, London, June 2000; Cabinet Office, Report, Performance and Innovation Unit (c.d. PIU Report), 2000, § 1.15. 21

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a caso in sede governativa si suggerì di introdurre nel Regno Unito una normativa analoga al R.I.C.O. Act varato negli Stati Uniti nel 1970, che consentiva anche la confisca, sia in sede civile sia strettamente penale, di denaro, frutto di attività illecite, reinvestito anche in attività lecite 22. Come si è accennato, risultò che tra il 1994 e il 1998 solo nel 20% dei condanne relative a stupefacenti si arrivò alla confisca e addirittura solo nello 0,3% degli altri casi. Non meno deludenti i dati relativi alla materiale acquisizione da parte dello Stato dei beni confiscati, riguardanti solo il 40% per i reati di droga e il 30% per gli altri 23. Un ulteriore difetto della normativa vigente era la difficoltà tecnica di utilizzare i beni confiscati per rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata, non essendo – salvo quelli collegati ai reati di droga – esplicitamente e ufficialmente destinati a tale scopo. Un ulteriore problema era costituito dalla mancata disponibilità da parte degli organismi di polizia “generici” (eccezion fatta per quelli con finalità d’istituto in materia propriamente doganale, fiscale ed economica, come l’Her Majesty’s Customs and Excise and Serious Fraud Office) di personale investigativo specializzato in indagini specificamente finanziarie, le quali comportavano – a giudizio delle Commisioni di studio per la riforma della materia – che le indagini finanziarie fossero “underused, underevalued and underscored” 24. Infine la possibilità di affidarsi in sede dibattimentale all’assunzione di prove testimoniali si presenta(va) piuttosto problematico e di scarsa realizzabilità, data la capacità della criminalità organizzata di intimidire i potenziali testimoni e i giurati, la cui protezione sarebbe stata messa a punto solo tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale 25: ne conseguiva che l’hardcore delle prove d’accusa era frutto soprattutto di attività di informatori, agenti sotto copertura o di intercettazioni e sorveglianza elettronica, non “spendibili” direttamente in giudizio. Una critica di diverso segno proviene invece dal Crown Prosecution Service 26 che nel meccanismo di attuazione della confisca intravede lo spettro 22

Sulla Racketeer Influenced and Corrupt Organization (R.I.C.O.) offense prevista in U.S.A. nel 18 U.S.C: §§ 1961-1968, cfr. V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Giappichelli, Torino, 1987, p. 22. 23

Cabinet Office, Report, Performance and Innovation Unit, cit., pp. 29-31. Così sempre Cabinet Office, Report, Performance and Innovation Unit, cit., p. 51. 25 Cfr., Criminal Justice and Public Order Act 1994, sect. 51 e Criminal Justice and Police Act 2001, sects. 39-41. 26 Il Crown Prosecution Service (CPS), istituito dal Prosecution of Offences Act del 1985 ed operativo dal 1987, è responsabile della gestione di tutti i processi penali, la cui compe24

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di un conflitto d’interesse: il rischio che le forze di polizia (che dal Service sono gerarchicamente e funzionalmente indipendenti) eccedano nel loro zelo focalizzando le proprie attività investigative su quei reati dai quali sperano di “recuperare” somme ingenti di denaro, destinato, come si è detto (perlomeno nelle intenzioni del legislatore, pur non facilmente realizzabili nella pratica), a finanziare proprio la polizia nella sua attività di contrasto alla criminalità organizzata 27.

3. La riforma del 2002. Il Proceeds of Crime Act (POCA) e l’istituzione dell’Asset Recovery Agency (ARA). L’analisi critica sviluppatasi sulla disciplina vigente negli ultimi decenni del secolo scorso ha dato luogo al varo di una nuova normativa, espressione di una politica basata sull’assunto che se effettivamente il crimine organizzato fosse spogliato dei proventi delle sue attività illecite e privato dei mezzi per espanderle, si potrebbe credibilmente diffondere il messaggio deterrente che “il crimine non paga”, tenendo anche conto che stime ufficiali suggeriscono come il 70% del totale dei reati commessi hanno finalità “acquisitive” o “predatorie”, cioè sono commessi “for profit” 28. La nuova legge, il Proceeds of Crime Act (POCA), emanata il 24 luglio 2002, in sintesi crea un nuovo organismo deputato al “recupero dei beni da confiscare” (Asset Recovery Agency, c.d. ARA), armonizza e unifica tutta la legislazione precedente in materia di confisca e riciclaggio del denaro, introduce un nuovo procedimento di natura civile per operare confische indipendentemente da una previa condanna penale e crea una rete tra le varie agenzie coinvolte nelle operazioni di confisca, curando la formazione di personale specializzato in materia. All’atto di emanazione del POCA era da pochi anni – più precisamente dal 1988 – già in vigore lo Human Right tenza è stata trasferita dalla stessa legge dalla polizia, cui spetta ormai solo la conduzione della fase delle indagini (e non più la decisione sul rinvio a giudizio), al Director of Public Prosecution, in nome e sotto la sovraintendenza del quale, ma come organo gerarchicamente e funzionalmente indipendente da quest’ultimo, agisce il CPS. Nella fase dibattimentale la funzione d’accusa è svolta da un barrister, un avvocato libero professionista, officiato case by case. In proposito: V. FANCHIOTTI, voce Processo penale nei paesi di Common law, cit., pp. 170-171. 27

Crown Prosecution Service, Home Affairs Committee, Third Report on Organized Crime, 1995, p. 252. 28

Cfr. Cabinet Office, Report, Performance and Innovation Unit, cit., p. 6.

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Act (HRA 1998) che attribuiva il riconoscimento ufficiale a livello interno della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché della relativa giurisprudenza e, quindi, imponeva un bilanciamento tra il diritto dell’individuo a godere dei beni di sua proprietà e quello della società ad esigere la “restituzione” dei proventi dei reati. Tale bilanciamento venne però inglobato direttamente nel testo della legge, anziché affidarlo alle decisioni dei casi specifici affidati alla giurisprudenza: si decise di fissare la soglia mininma – 10.000 sterline – delle somme confiscabili, mentre l’onere probatorio fu posto in capo al prosecutor, senza dar alcun peso alle presunzioni relative prima esistenti; l’interessato fu ammesso, ricorrendone i presupposti, al legal aid, cioè al “gratuito patrocinio” se indigente; fu prevista la possibilità di accordi sull’ammontare della confisca e si dedicò particolare attenzione ad evitare che la confisca civile non si risolvesse in una “soft option” che aggirasse e rendesse vano il ricorso ad interventi a livello di veri e propri processi penali 29. In quest’ottica effettivamente la legge sembrava proporre la confisca come “primo intervento”, lasciando lo strumento fiscale come “extrema ratio”, anche se l’urgenza di tale priorità fu smentita a livello ufficiale già nel 2005 30. Per quanto concerne l’Asset Recovery Agency (ARA) ad essa era affidato il raggiungimento degli obbiettivi “strategici”, connessi alla più generale Asset Recovery Strategy messa a fuoco dal Governo: disgregare le imprese criminali recuperandone i beni sottratti alla comunità, alleviando così gli effetti negativi prodotti dalla criminalità e promuovere il ricorso ad indagini fiscali, anche a livello internazionale, come parte integrante di quelle penali 31, avvalendosi, appunto, dell’apporto della stessa ARA, i cui compiti riguardano essenzialmente il campo delle confiscations penali, quello del “recupero” in sede civile e direttamente quello della tassazione. In questi due ultimi settori, il civile e il fiscale, ARA avrebbe dovuto costituire il referente ed il consulente tecnico dei vari organismi di polizia, per consentire loro l’adozione degli idonei provvedimenti in materia.

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Il pericolo in questione era già stato segnalato dal più volte citato Report del Cabinet Office, Performance and Innovation Unit, cit., p. 40. 30

Home Office, Proceeds of Crime Act 2002, sect. 2, Revised Guidance by the Secretary of State to the Director of ARA, 7 February 2005. 31

ARA, Annual Report 2003/2004 and Business Plan 2004/2005, London, 2004, p. 5.

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4. Segue: a) il confiscation order. I presupposti dell’emanazione di un confiscation order implicano innanzitutto la determinazione da parte della Corte che il condannato abbia un “criminal lifestyle” ai sensi della sect. 75 e del POCA: la norma in questione attribuisce un criminal lifestyle a chi commette un reato in materia di stupefacenti, riciclaggio o un reato indivuato dal Secretary of State relativo al traffico di esseri umani, alla contraffazione, alla proprietà intellettuale, allo sfruttamento della prostituzione, alla gestione di bordelli, al ricatto, anche a livello di conspiracy (cioè di accordo senza “passaggio all’azione”), tentativo, agevolazione o organizzazione; oppure a chi commette un reato a distanza di sei mesi da un altro, traendone un profitto complessivo di non meno di 5.000 sterline; oppure ancora se la condotta costituisce parte di una attività criminale continuativa. Quest’ultima ipotesi si concretizza quando l’imputato è stato condannato per tre o più reati nella stessa “occasione” oppure ha subìto due precedenti condanne in occasioni separate nei sei anni precedenti al fatto per cui si procede e il provento totale degli illeciti supera le 5.000 sterline. Se mancano i presupposti per integrare un criminal lifestyle la Corte deve verificare se abbia tratto beneficio dalla sua “particular criminal conduct”, cioè dal reato per cui l’imputato è condannato o che è stato taken in consideration (sect. 76(3).). In assenza di accertamento di un “criminal lifestyle”, la Corte ha l’obbligo di fare “certain assumptions” per determinare se il condannato ha tratto beneficio dalla sua “general criminal conduct” e in che misura l’abbia fatto. L’organo dell’accusa deve presentare una richiesta espressa e motivata alla Corte per l’emissione del confiscation order: la Corte quindi chiede al condannato di dichiarare se ed in quale misura riconosca la fondatezza delle ragioni dell’accusa. Se il condannato si rifiuta di prendere posizione al riguardo, senza addurre alcuna scusa ragionevole, la Corte può trarne le inferenze del caso. Qualora la Corte decida che il condannato abbia tratto effettivamente beneficio dalla sua condotta criminale, deve stabilire quale sia la somma da “recuperare” (recoverable amount) ed emettere il confiscation order, ingiungendo al condannato il versamento della somma stessa. Nell’individuare il recoverable amount, la Corte, “se ritiene che sia just” (sects. 7 e 9), può anche quantificarlo ad un livello notevolmente inferiore, sul presupposto che tale sia l’available amount, cioè la somma di cui il condannato effettivamente disponga. Il provvedimento di confiscation è, di regola, emanato prima della fase

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conclusiva del sentencing (cioè, come si è detto, prima della determinazione in concreto della pena che, nel processo bifasico di common law, segue la condanna dibattimentale o la dichiarazione di colpevolezza), mentre il relativo pagamento può essere posticipato di due anni, su decisione della Corte. In forza del Powers of Criminal Courts (sentencing) Act (PCC(S)A) del 2000 solo una Crown Court può emettere un confiscation order anche in caso di committal for sentence da parte di una Magistrates’ Court, cioè nell’ipotesi in cui quest’ultima rinvii il caso per la determinazione della pena al giudice”superiore”, cioè la Crown Court (in quanto il limite di pena irrogabile supera quello della corte “inferiore”): in tal caso, il giudice della Crown Court decide senza giuria, ma è affiancato da due magistrates. Se il condannato è latitante la Court può comunque procedere alla confisca, come pure nell’ipotesi in cui non sia intervenuta alcuna decisione sulla responsabilità dell’imputato latitante, pur non essendo consentito in Inghilterra il trial in absentia, cioè il processo in contumacia 32.

5. Segue: b) il forfeiture order. Un altro strumento a disposizione sia delle Crown Courts sia delle Magistrates’ Courts è costituito dal forfeiture order il quale può riguardare il sequestro di qualsiasi bene in possesso dell’imputato per qualsiasi tipo di reato 33, all’atto dell’arresto dell’imputato stesso (o in suo possesso o sotto il suo controllo in caso si proceda con un summons, provvedimento equivalente grosso modo ad un atto di citazione, alternativo all’arresto), se il giudice procedente ritiene che tale bene sia stato utilizzato per commettere o “facilitare” la commissione di un reato o che l’imputato intendesse avvalersene a tal fine 34. L’order in questione ha normalmente una funzione “ancillare” rispetto alla pena principale (contemporaneamente alla quale viene emanato, a differenza, come si è detto del confiscation order che segue alla condanna ma precede la determinazione della pena principale, irrogata al termine del sentencing). La giurisprudenza tradizionalmente tendeva ad attribuirgli un connotato e una finalità punitivi e non “compensatori”. In questa prospettiva una risalente sentenza ha stabilito l’erroneità dell’emis-

32 33 34

POCA 2002, sect. 28. Una normativa specifica riguarda la forfeiture di armi (Prevention of Crime Act 1953).

PCC(S)A 2000, sect. 143.

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sione di un forfeiture order in un caso nel quale la successiva condanna (cui è venuto ad affiancarsi l’order) sia consistita in un “conditional discharge”, una sorta di sospensione condizionale della pena: quest’ultimo presuppone che nel caso specifico la Corte ritenga inopportuno infliggere una pena e che quindi risulti incompatibile la simultanea irrogazione di una pena “accessoria”, cioè del forfeiture order 35. Successivamente una riforma legislativa ha rinnegato l’atteggiamento giurisprudenziale, che, comunque, continua in parte ad esercitare un certo influsso sull’ambito discrezionale delle decisioni in materia. Quanto all’ipotesi in cui l’imputato “intendesse” utilizzare i beni in questione per commettere o facilitare la commissione di un reato, il forfeiture order può esssere emesso anche se né l’imputato né un terzo abbiano effettivamente utilizzato a tale scopo i beni soggetti a forfeiture, tenendo conto del fatto che “facilitare” la commissione del reato significa anche compiere attività successive alla sua commissione, allo scopo di evitare l’arresto, la condanna o di occultare i beni oggetto della refurtiva o comunque costituenti provento del reato 36. Anche se, come si è detto, la forfeiture non rappresenta più, on the books, una sanzione vera e propria, nonostante ciò la giurisprudenza continua a considerarla come facente parte della pena nella sua globalità e, sulla scorta della sect. 143.5 del PCC(S)A 37, può, di conseguenza, ridurne l’ammontare ove la consideri sproporzionata rispetto alla gravità del fatto commesso 38. Il forfeiture order determina il passaggio della proprietà del bene alla polizia: ogni terzo controinteressato può ricorrere entro sei mesi per tornarne in possesso se dimostra di esserne proprietario e di non essere stato a conoscenza dello scopo illecito per cui il bene in questione era stato utilizzato.

35

Court of Appeal, Lidster [1976], in Criminal Law Review, 1976, p. 80.

36

PCC(S)A, sect. 143.8.

37

«In considering whether to make an order ... in respect of any proprierty, a court shall have regard a) to the value if the proprierty b) to the likely financial and other effects on the offender of the making of the order (taken together with any other order that the court contemplates making)»: il riferimento è alla pena pecuniaria ed al compensative order disposto a favore della vittima sempre dal PCC(S)A 2000, sect. 130. 38

Scully (1985), 7 Cr App R (S) 119.

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6. Segue: c) la civil recovery. Un ulteriore strumento creato dal POCA 2002 è costituito dalla procedura di civil recovery, modellata secondo lo schema del Racketeer Influenced and Corrupt Organization Act statunitense, la cui introduzione, come si è accennato, era stata considerata una “soluzione” particolarmente efficace per il contrasto alla criminalità organizzata, in particolare ai suoi bosses, difficili da cogliere “con le mani nel sacco”, anche se le proposte ufficiali suggerivano di utilizzare lo strumento in questione “with appropriate safeguards” (l’allusione è ai timori per il diffondersi della “disinvoltura” in materia mostrata dai “cugini” d’oltreoceano). Il procedimento consente ad ARA, l’Agenzia, di cui sopra si è detto, creata ad hoc, il recupero di beni frutto di attività illecite svolte nel Regno Unito: tali beni non possono però consistere unicamente in somme di denaro “cash”, essendo in tal caso necessario ricorrere ad un meccanismo specifico (POCA 2002, sect. 282 (2). ARA riceve i casi che le vengono denunziati dai vari organi di polizia ogni qualvolta sono state condotte indagini penali ma non sono state raccolte prove sufficienti per un rinvio a giudizio, oppure quando è stato deciso di non procedere a giudizio “per ragioni di interesse pubblico” 39, oppure ancora quando le procedure di confisca non sono andate a buon fine a causa di errori di procedura, infine quando l’imputato è fuori dal “raggio di azione” del procedimento penale, perché deceduto, trasferitosi all’estero senza ragionevoli prospettive di essere estradato o, ancora, condannato all’estero, ma in possesso di beni in madrepatria. Non si presentano problemi procedurali nei confronti del latitante, purché risulti a conoscenza del procedimento nei suoi confronti, il cui svolgimento e la cui decisione può avvenire in sua assenza (trattandosi di un procedimento civile). I presupposti per l’attivazione di ARA sono previsti rigidamente: i beni da recuperare debbono avere un valore non inferiore alle 10.000 sterline, devono essere stati acquisiti negli ultimi dodici anni, dev’esserci un “significativo” impatto sulla comunità locale, devono esserci prove dell’attività illecite dimostrabili in base allo standard probatorio, proprio del processo civile, della “balance of probabilities”, cioè della preponderance of evidence. L’onere della prova è posto a carico di ARA, la quale deve dimostrare che tutte le condotte addebitate all’interessato si sono verificate e che tutti 39

Si ricordi che in Inghilterra l’“azione penale” è discrezionale.

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i beni interessati al procedimento di civil recovery sono stati ottenuti attraverso tali condotte illecite 40. Nello stabilire se un bene è frutto di un’attività illecita è del tutto irrilevante che denaro, beni o servizi siano stati approntati per porre la persona interessata in grado di commettere l’illecito e non è neppure necessario dimostrare che la condotta rientri in una particolare tipologia se risulta che la proprietà è stata ottenuta attraverso uno specifico schema di condotta che rientra in una serie di casi considerati espressione tipica di condotta illecita 41: ne consegue che un bene è confiscabile anche se non è possibile provarne la provenienza da un particolare tipo di reato 42. Inoltre se l’interessato tenta di “mescolare” i proventi illeciti con altri beni legittimamente acquisiti, la quota attribuita ai primi resta assoggettabile alla confisca 43. Di più: se l’interessato aggiunge beni “puliti” (purché acquisiti da meno di dodici anni prima dell’inizio del procedimento di civil recovery) a quelli illecitamente ottenuti per far aumentare il valore dei primi, anche tale aumento è confiscabile 44. Conclusosi positivamente il civil recovery proceedings i beni “recuperati” – salvo siano frutto di un furto la cui vittima può dimostrare di aver subìto 45 – sono venduti in ossequio ad un ordine della corte che nomina a tal fine un trustee.

7. Segue: d) cash forfeiture proceedings. Si tratta del potere di procedere a perquisizioni, sequestri e confische di denaro corrente (cash) che il POCA 2002 estende, sotto l’egida del DTA 1994: non si riferisce solo ad ogni tipo di somma di denaro di provenienza illecita, ma consente anche di confiscare quello di origine lecita ogniqualvolta il giudice ritenga che sia destinato al compimento di attività illecite. In proposito la giurisprudenza ha chiarito come tale procedimento possa essere utilizzato in caso di “smurfing”, cioè di frammentazione di una gros-

40

POCA 2002, sect. 241 (1). POCA 2002, sect. 242 (2). 42 A. LEONG, Assets recovery under the Proceeds of Crime Act: the U.K. Experience, in S. YOUNG (ed.), Civil Forfeiture of Criminal Property, Cheltenham, UK, 2009, p. 210. 43 POCA 2002, sect. 306. 44 POCA 2002, sect. 307. 45 POCA 2002, sect. 288(1). 41

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sa transazione di denaro in una molteplicità di transazioni di entità molto più modesta, per scendere al di sotto della soglia minima che possa giustificare un intervento “produttivo” dell’autorità 46. Il denaro sequestrabile può trovarsi ovunque all’interno del territorio del Regno Unito e non (più) solo alla frontiera: in presenza di “reasonable ground to suspect” si possono perquisire cassette di sicurezza, persone sospettate di portare con sé denaro confiscabile o ritenuto come destinato alla commissione di illeciti (purché si tratti di somme di una certa consistenza). Il sospettato può anche essere sottoposto a detenzione per il tempo necessario alla perquisizione: quest’ultima può estendersi al luogo in cui si trova l’imputato, purché gli ufficiali procedenti vi si trovino legalmente 47, ma non è previsto alcun speciale potere di ingresso in un’abitazione privata, sottoposto ai limiti previsti dalle norme procedurali generali, che impongono una previa autorizzazione da parte di un justice of the peace (o, in caso di urgenza, di un senior officier di polizia) 48. Il denaro sequestrato può essere trattenuto dalla polizia per quarant’otto ore (estendibili fino a tre mesi e, successivamente, fino a due anni): il Commissioner of Custom and Excise ne deve richiedere al giudice la confisca, mentre ogni controinteressato può chiederne la restituzione, se di sua proprietà. Una volta emesso, il forfeiture order è suscettibile di appello davanti alla Crown Court 49.

8. Il declino dell’ARA. Come si è detto, il POCA 2002, rifacendosi esplicitamente al “modello” made in USA consistente nel condannare i personaggi di spicco 50 della malavita per evasione fiscale, più facile da provare rispetto alla moltitudine di reati in cui – normalmente per interposta persona – si svolge la loro attività di racketeering, attribuisce all’Assets Recovery Agency anche poteri in tema 46

Cfr. Commissioners of Customs and Excises v. Duffy [2002] EWHC 425. POCA 2002, sect. 289 (1). 48 POCA 2002, sect. 290. 49 POCA 2002, sects. 295-299. 50 L’esempio paradigmatico in proposito è quello di Al Capone, condannato nel 1931 a undici anni di reclusione per evasione fiscale: in realtà ne scontò solo sette, al termine dei quali fu rilasciato per seri problemi di salute, aggravatisi durante la detenzione, che non gli consentirono più di ritornare alle sue attività illecite nel suo “feudo” di Chicago. 47

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di tassazione di redditi, capital gains, profitti derivanti o incrementati come risultato di attività criminali (ma anche di lasciti ereditari) da intendersi come «condotta che integra un reato su ogni parte del territorio del Regno Unito o che costituirebbe un reato se ivi commessa» 51 prescindendo dalla relativa condanna. Nell’intervenire in materia fiscale l’ARA ha poteri più ampi di quelli dell’Inland Revenue, l’agenzia statale deputata, fino al 2006, della riscossione delle imposte: a differenza di quest’ultima, infatti, non è tenuta a specificare la fonte del reddito da sottoporre a tassazione. In pratica però affidare all’ARA il recupero delle imposte inevase riconducibili ad attività illecite presenta una serie di difficoltà ed ostacoli, pur non essendo priva di vantaggi, non ultimi quelli di riferirsi al reddito piuttosto che alla proprietà, rendendo così assoggettabile alla tassazione anche quest’ultimo, pur acquisito prima o dopo l’attività criminale, senza il limite di dover provare la sua derivazione da un’attività illecita, né la sua acquisizione negli ultimi dodici anni (come nel caso della civil recovery), ma riguardando gli ultimi vent’anni. Inoltre durante le indagini non sono necessari sequestri né nomine di custodi. Gli svantaggi, che segneranno la chiusura dell’Agenzia, sono riconducibili al fatto che le indagini per avere un esito “fruttuoso” implicano nella prassi da uno a quasi due anni di lavoro, durante i quali non è neppure possibile ottenere il “congelamento” dei beni in questione. Inoltre la normale complessità dei casi in materia ne rende molto meno prevedibile l’esito rispetto ai casi di confiscation e civil recovery mentre il “rendimento” è sicuramente inferiore. In ogni caso si è calcolato che non si riesce a recuperare, a causa di costi e “agevolazioni”, più dell’80% della tassa dovuta. In tal modo, in qualche misura, chi commette reati continua a trarne un qualche beneficio: d’altro canto il valore deterrente dello strumento fiscale è molto limitato dalla circostanza che la pubblicità dei tax cases è ridotta da regole di confidenzialità proprie della materia fiscale 52. Altri problemi affliggono la possibilità di intervenire con lo strumento fiscale ai sensi del POCA: non ultimi quelli dell’applicabilità degli artt. 6 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che potrebbero trovare applicazione in riferimento agli strumenti sopra descritti ove questi integrassero un addebito di natura “penale” 53. Alle critiche interne se ne aggiunsero altre, formulate sotto l’egida del51

POCA 2002, sect. 236. Civil Recovery and Taxation Regime, cit., p. 367. 53 Geourgiu v. UK, 16 maggio 2000. 52

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l’International Monetary Fund, sulla cui rivista ufficiale apparve un articolo nel quale si sottolineava come la disgregazione (disruption) di un sodalizio criminale non andava confusa con la sua “delocalizzazione” in aree geopolitiche dove una regulation meno rigida della materia ne avrebbe consentito la “ricrescita”. «Money laundering – si concludeva – is intrinsecally global» 54. A “risolvere” drasticamente i problemi della deludente performance dell’ARA provvede nel 2008 la sua fusione con un nuovo organismo, creato due anni prima, dal Serious Organised Crime and Police Act 2005 (SOCPA 2005). Si tratta della Serious Organised Crime agency (c.d. SOCA) il cui compito consiste nel condurre la lotta al crimine organizzato e di ridurne i danni nel Regno Unito a tutti i livelli. Il nuovo ente non dipende da uno specifico Department, ma risponde direttamente all’Home Office ed incorpora la National Investigative Squad, il National Investigative Intelligence Service, le attività investigative e di intelligence dell’Her Majesty Revenue and Customs in tema di traffico di droga, nonché dell’Immigration Service per la criminalità organizzata nel settore dell’immigrazione. Il processo di unificazione on the books di tanti organismi investigativi, cui da ultimo si è aggiunta l’ex ARA, ha indubbiamente creato una serie di problemi di adattamento alla “ristrutturazione” dei vari uffici, ognuno dei quali caratterizzato da procedure e modelli organizzativi interni assai diversificati, nonché da “gelosie” istituzionali per la propria identità e indipendenza in parte inevitabilmente “perduta” dalla fusione. A questi si sono aggiunti problemi più strettamente “giuridici”: in particolare solo ARA conserva poteri nel settore dei procedimenti di “recupero fiscale” fino ad ora considerati di natura civile ex lege 55, che dovranno in futuro essere estesi agli altri membri della joint venture per renderne più efficace l’operato. Senza dubbio la “caduta” di ARA sembra riconducibile alla sua scarsa “produttività”, particolarmente enfatizzata dal significato anche simbolico attribuitole nella campagna per la “distruzione” della criminalità organizzata da attuarsi attraverso il “taglio” netto delle risorse economiche a disposizione di quest’ultima: fallito temporanemente l’ambizioso progetto, anche ARA non può che condividerne le sfortune. In questo senso parlano chiaro le dichiarazioni espresse nella House of Commons nel 2006: «what we have is an Asset Recovery Agency announced with a fanfare of publicity by the Prime Minister, yet the reality is that it’s costing us near £ 20 m. 54

E. ANINAT, D. HARDY & B. JOHNSTON, Combating Money Laundering and the Financing of Terrorism, in Finance and Development, vol. 39, 2002, p. 44. 55

Cfr. POCA 2002, Part V.

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to run. Whilst it’s only recovering little over £ 4 m. each year» 56. In realtà, al di là dei dati relativi alla “produttività”, occorre tener conto della carenza oggettiva dei mezzi e dei fondi forniti ad ARA rispetto ai suoi scopi istituzionali ed al bilancio di troppo breve termine cui la sua attività è stata sottoposta 57.

9. Il Serious Crime Act 2015. Negli anni successivi alla chiusura di ARA la strategia di depauperamento o “prosciugamento delle risorse” delle organizzazioni criminali non sembra segnare apprezzabili risultati positivi: all’inizio del 2015 il Director General della National Crime Agency riferisce all’Home Affairs Committee dell’House of Commons che il valore dei crediti derivanti dai confiscation orders ammonta a quasi un miliardo e mezzo di sterline e che negli anni tra il 2010 e il 2013 l’ammontare complessivo del valore degli orders era di circa un miliardo, del quale è stato possibile recuperare solo il 50%, mentre tra il 2012 e il 2013 erano state recuperate solo 26 pence ogni 100 sterline provenienti da attività illecite 58. Per reagire a questa situazione nel 2015 viene varato un ulteriore provvedimento legislativo, il Seriuos Crime Act (c.d. SCA 2015), il quale, tra l’altro, riformula moltissime diposizioni del POCA 2002 nell’intento di aumentare sensibilmente il recupero dei beni provento della criminalità e rendere finalmente efficiente e cost-effective l’operatività del regime di confisca. Nel perseguimento del suo scopo il legislatore – consapevole anche della necessità di predisporre forme rapide e “precoci” di congelamento dei beni “sospetti” 59 – parte dalla considerazione che le modalità attraverso cui le organizzazioni criminali sfuggono alla morsa fiscale si basano sul fatto che i loro affiliati non assistono alle udienze di confisca, celebrate dopo la condanna, rendendone così nulle le decisioni. Spesso inoltre ricorsi da 56 G. SHAPPS MP, Report to the Underperformance of the Asset Recovery Agency, House of Commons, London, UK, 12 June 2006. 57

Cfr. House of Commons Committee of Public Accounts, Asset Recovery Agency: Fiftieth Report of Session, London, UK, 2006/2007. 58

I dati riportati sono riferiti da J. FISHER, Part 1 of the Seriuos Crime Act 2015: Strengthening the Restraint and Confiscation Regime, in The Criminal Law Rev., 2015, p. 754. 59

Serious and Organised Crime Strategy, 2013, para 4.49.

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parte di terzi erodono la somma di denaro confiscabile. Infine i condannati preferiscono sottostare ad una pena detentiva in sostituzione dell’esborso fiscale, che comunque, non effettuano neppure in seguito, consapevoli che in materia l’opzione detentiva può essere utilizzata dal giudice una volta sola 60. Quanto alle “interferenze” da parte di terzi che in mala fede si prestino ad “occultare” patrimoni e beni che altrimenti rientrerebbero tra quelli confiscabili, la nuova legge e la giurisprudenza riesce ad avere la meglio su quelli detenuti dal coniuge o da una limited company, quando è chiaro che quest’ultima è stata utilizzata come stratagemma, come alter ego, per occultare il vero proprietario dei relativi beni 61, ma resta come ostacolo insormontabile alla confiscabilità l’esistenza di un “genuine and bona fide trust”, non essendo sempre facile dimostrare l’assenza del carattere genuine e della bona fide dell’istituto in questione 62. L’unica soluzione escogitata dallo SCA 2015 per interporsi agli interessi dei terzi, persone fisiche, companies o trusts che siano, consiste sostanzialmente nel consentire al giudice, «if it thinks it appropriate to do so» di decidere sull’esistenza di tali interessi prima dell’emissione di un confiscation order 63. A tutela degli interessi dei terzi si prevede che il prosecutor, all’inizio del confiscation proceeding, porti a conoscenza del giudice ogni informazione rilevante per la decisione circa la misura dell’interesse dell’imputato sulla proprietà confiscabile. In proposito il giudice può ordinare al terzo titolare di un interesse sulle proprietà dell’imputato di renderlo edotto al riguardo, al fine di poter trarre dall’eventuale silenzio del terzo l’inferenza che ritiene più appropriata 64. Il potere dalla Crown Court di emanare una dichiarazione vincolante su quali siano gli interessi dei terzi prima di emettere un confiscation order avrebbe dovuto rappresentare il primo fiore all’occhiello della nuova riforma, anche se i toni delle explanatory notes che accompagnano la nuova legge sono piuttosto cauti, prevedendo che i giudici useranno i loro nuovi poteri «only in those cases where their experience (including in respect of matters as regards property law), the nature of the property, and the likely number and/or complexity of any third party interests allows them to do 60

Serious and Organised Crime Strategy, cit., para 4.44. Dimsey [2000] 2 All E.R. 142. 62 Vickers [2010], EWCA Crim. 3246. 63 SCA 2015, sect. 10 A (in modifica della precedente POCA s. 10 A). 64 Cfr. SCA 2015, sect. 2, che riprende una modifica in precedenza apportata al POCA sect. 18 A. 61

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so» 65. Nella prassi giurisprudenziale precedente alla riforma del 2015 era già molto diffusa la ritrosia dei giudici sul punto: soprattutto le giurisdizioni superiori ritenevano che in molti casi complessi le Crown Courts non sarebbero state in grado tecnicamente di giungere a soluzioni adeguate 66. Sotto il profilo del suo funzionamento pratico, invece, la riforma del 2015 ha introdotto importanti innovazioni acceleratorie della procedura di confisca: l’intera somma di denaro oggetto del confiscation order deve ora essere di regola pagata lo stesso giorno dell’emissione dell’order, procrastinabile fino ad un massimo di sei mesi (in precedenza POCA ne consentiva fino a dodici) se l’imputato, nonostante abbia fatto “all reasonable efforts”, non sia stato in grado di provvedere tempestivamente 67. Nella pratica però la drastica riduzione del termine può comportare problemi complessi i quali, anziché facilitare la “riscossione”, finiscono per ostacolarla 68, al di fuori del settore delle confische di denaro depositato in conti correnti bancari. Il fenomeno si verifica nel campo della proprietà immobiliare, specie se risultano esserci beni di appartenenza di limited companies o di trusts, dove i tempi di “realizzo”, in condizioni recessive del mercato, possono richiedere ben più di sei mesi. A parte i costi strettamente amministrativi, è stato osservato come esista poi il rischio di un incremento della popolazione carceraria addebitabile al fatto che chi è condannato ad una pena relativamente breve sia anche considerato “inadempiente” rispetto al provvedimento di confisca in tempi altrettanto brevi e per questo condannato ad un’ulteriore pena detentiva come confiscation defaulter. In tal caso più è lunga la pena detentiva per il reato cui accede il confiscation order, meno preoccupato sarà il condannato per i tempi brevi dell’order 69: in questo senso la nuova legge rischierà di non avere alcun impatto sull’accelerazione del tempo necessario al “recu65

Explanatory Notes on the Serious Crime Bill as brought from the House of Lord on November 6, 2014 (Bill 116), para.14. J. FISHER, Part 1 of the Serious Crime Act 2015, cit., p. 756, sottolinea la discrepanza tra l’entusiasmo espresso in sede di introduzione della riforma dall’Under Secretary of State for the Home Department e le Explanatory notes. 66

Re Stanford International Bank Ltd [2010]EWCA Civ. 137. Cfr. SCA 2015 sect. 5 che ha sostituito con una nuova section 11, la “vecchia” sect. 11 del POCA. 67

68

Come osserva J. FISHER, Part 1 Of the Serious Crime Act, cit., p. 758, il problema era già stato segnalato nel 2013 dal rapporto Serious and Organised Crime Strategy, cit., para 4.49. 69

In proposito ancora J. FISHER, Part 1 Of the Serious Crime Act, cit., p. 758-759, il quale si chiede se l’Home Office prima di proporre al Parlamento la riforma del 2015 abbia tenuto conto di tali conseguenze.

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pero crediti” che il legislatore si ripromette con lo SCA 2015. La legge del 2015, allo scopo di rendere effettiva l’attuazione dell’ordine di confisca ha attributo alla Crown court la facoltà di stabilire delle condizioni «che ritenga appropriate ad assicurare l’effettività del confiscation order» attraverso un c.d. compliance order da emettersi contemporanemante a quello di confiscation, consistente, per esempio, nell’obbligo di non lasciare il territorio del Regno Unito o a “far ritornare” in madrepatria il contenuto di conti correnti aperti presso banche offshore. Il compliance order è però caratterizzato da un limite, tutt’altro che secondario, che finisce col renderlo in parte un’arma spuntata: il mancato rispetto dell’order in questione non comporta alcuna sanzione 70, anche se durante i lavori preparatori il Parlamentary Under-Secretary ha affermato che la sua violazione integrerebbe il reato di contempt of court 71. Un’ulteriore novità nella “strategia” dello SCA 2015 riguarda l’imputato che si renda latitante prima dell’emissione del confiscation order nei suoi confronti. Mentre già in prossimità della riforma, nel 2014 una sentenza della Court of Appeal aveva chiarito che può essere emesso un confiscation order nei confronti di un soggetto che venga condannato successivamente 72, rimaneva il dubbio se, in base alla disciplina legislativa vigente, occorresse aspettare due anni dalla “scomparsa” prima di emettere l’ordine: lo SCA 2015 ha ridotto a tre mesi il periodo di attesa prima di emettere l’order nei confronti dell’absconding defendant 73. Il secondo fiore all’occhiello della riforma del 2015 è costituito dall’aumento delle sentenze di condanna a pena detentiva nei confronti di coloro che non adempiano al confiscation order emesso nei loro confronti, le c.d. default sentences. La pena detentiva è stata aumentata fino a quattordici anni (prima il massimo era di cinque anni) quando il valore del confiscation order supera un milione di sterline, sette anni se si situa tra le 500.000 e un milione, cinque anni tra le diecimila e le cinqucentomila sterline, sei mesi per somme di denaro al di sotto delle diecimila sterline 74. I vantaggi della modifica legislativa sono stati pronosticati dal governo riportando il dato secondo cui il 90% dei confiscation orders aventi ad og-

70

J. FISHER, Part 1 Of the Seriuous Crime Act, cit., p. 759. BRADLEY, House of Commons Public Bill Committee, January 13, 2015, 14. 72 Okedare [2014], EWCA Crim. 1173. 73 Così lo SCA 2015 s. 9 ha modificato il POCA 2002, ss. 27 e 28. 74 Le modifiche sono state introdotte dalla sect. 9 dello SCA 1015 rispetto alle precedenti sects. 27 e 28 del POCA. 71

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getto somme di denaro inferiori alle mille sterline sono stati ottemperati, dimostrando l’efficacia deterrente delle default sentences relative alle sanzioni più lievi.

10. I limiti della riforma del 2015. Il problema dell’efficacia delle misure in questione riaffiora però con l’aumentare della somma dovuta, che tende a produrre un sensibile calo nell’ottemperanza all’order: secondo dati ufficiali risulta che solo un order su cinque superiore ad un milione di sterline venga rispettato 75. È ancora presto per un esame documentato sui risultati della riforma del 2015: ne è riprova il fatto che lo stesso Governo, nel presentarla al Parlamento non ha taciuto sul fatto che «dobbiamo essere consapevoli del rischio di cadere in una trappola in cui non solo lo Stato non riesca a applicare una proporzione più alta di confiscation orders, ma debba anche farsi carico dei costi del mantenimento di detenuti i cui soggiorni in carcere si allunghino» 76. Si è stimato che l’impatto delle riforme sulla popolazione detenuta comporti la creazione di 60 posti-letto entro il 2033, con un costo di 1,78 milioni di sterline all’anno 77. Fino all’entrata in vigore dello SCA 2015, le autorità investigative inglesi si erano dimostrate piuttosto riluttanti a ricorrere ad un restraint order ex POCA ss. 40 e 41 per inibire ad un imputato l’uso di beni la cui provenienza era ritenuta provento di attività criminosa. Ciò in conseguenza di una sentenza del 2011, nella quale era stato annullato un restraint order perché i sospetti a carico dell’imputato erano stati desunti dagli investigatori in maniera del tutto superficiale, basata “per relationem” su indagini svolte da autorità straniere i cui risultati non erano stati verificati. La sentenza in questione critica severamente la polizia inglese per non aver fornito ai giudici, competenti ai fini dell’emissione dell’order, materiale sufficiente per verificare l’esistenza di una «reasonable cause to believe» che l’imputato avesse beneficiato dei proventi della sua condotta delittuosa. In proposito si afferma che non può essere affatto sufficiente la semplice affermazione apodittica “che un’indagine ha confermato i sospetti delle autorità del Belgio” (quelle che avevano svolto le indagini) per poter emette75

H. BRADLEY, House of Commons Public Bill Committee, January 13, 2015, p. 25. H. BRADLEY, House of Commons Public Bill Committee, loc. et op. ult. cit. 77 H. BRADLEY, House of Commons Public Bill Committee, January 13, 2015, p. 26. 76

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re un order, cioè un provvedimento dalle caretteristiche così drastiche, quali il congelamento dei beni, sia pur provvisorio 78. La legge del 2015 attenua i requisiti cui devono attenersi gli investigatori, richiedendo loro di fornire semplicemente dei «reasonable grounds to suspect». Per la dottrina la modifica non sembra destinata a produrre risultati particolarmente significativi poiché la differenza tra belief e suspect, è stata messa a fuoco da una trentina d’anni dalla giurisprudenza 79, secondo un “test” che difficilmente potrà costituire una guida affidabile nel risolvere i casi pratici, ove le situazioni si presentano spesso oggettivamente confuse 80 e difficilmente instradabili su binari alternativi. A parte il problema interpretativo ora segnalato, lo SCA 2015 omette di affrontare un tema che già in passato aveva influito negativamente sul funzionamento degli orders, scoraggiandone un adeguato utilizzo. Si tratta dei costi legali molto elevati a carico dell’autorità procedente nell’ipotesi in cui l’order emesso venga successivamente revocato: il relativo contenzioso, che tra l’altro sottrae energie e risorse al settore delle indagini penali vere e proprie, rischia di generare costi “proibitivi” 81. Vi sono però alcune modifiche che possono indubbiamente essere considerate un progresso registrato dalla riforma del 2015, come la possibilità di ricorrere a perquisizioni e sequestri nel valutare i «reasonable grounds to suspect» necessari a motivare l’emissione dell’order di cui sopra si è detto, nonché il divieto per l’imputato di recarsi all’estero, analogamente a quanto ora disposto quando viene emesso un confiscation order 82. Infine i poteri di indagine previsti per giungere al provvedimento di confisca potranno essere esercitati anche dopo l’emissione del confiscation order; mentre in precedenza si dubitava che il POCA consentisse di ottenere, anche coercitivamente, informazioni relative ad una confisca, ad un risarcimento in sede civile o ad un’indagine in tema di riciclaggio di denaro che potesse contribuire a stabilire l’esistenza e la localizzazione dei beni che avrebbero dovuto essere presi in considerazione nei procedimenti successivi. Lo SCA alla sect. 38 modifica il POCA chiarendo, sull’onda della 78

Windsor [2011] EWCA Crim. [2011]. Hall [1985] 81 Cr. App. R. 260. 80 In proposito J. FISHER, Part 1 Of the Seriuous Crime Act, cit., p. 762, secondo cui anche in base al nuovo criterio il caso Windsor, di cui alla nota 78, sarebbe stato risolto nella stessa “vecchia” maniera. 79

81

Così ancora J. FISHER, Part 1 Of the Seriuous Crime Act, loc. ult. cit. SCA 2015 s. 13 (che riprende, aggiornandole, disposizioni del POCA e del Police and Crime Act 2009). In proposito J. FISHER, Part 1 Of the Seriuous Crime Act, cit., p. 763. 82

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giurisprudenza formatasi nel frattempo, che nella definizione di «confiscation investigation» è inclusa ogni indagine relativa non solo alla localizzazione dei benefici percepiti da una persona prima della emissione dell’order 83, ma anche all’ammontare ed alla localizzazione della proprietà confiscabile per dare attuazione ad un confiscation order già emesso nei confronti della persona in questione 84. A conclusione del quadro normativo delineato dallo SCA del 2015 va osservato come esso si è adeguato ad una decisione della Supreme Court la quale ha deciso che, sebbene il POCA abbia rimosso ogni potere discrezionale in capo alla Crown Court circa l’entità della somma oggetto del confiscation order 85, l’art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede che la privazione della proprietà intesa come una pena debba essere proporzionata allo scopo di “separare” i criminali dai proventi dei loro illeciti. In questa prospettiva, una volta che un imputato abbia “pagato” i proventi derivanti del reato, sarebbe “sproporzionato” emettere nei suoi confronti un confiscation order, dal momento che lo scopo della legge avrebbe già trovato piena soddisfazione 86. Un’ultima osservazione merita una norma che esenta dalla responsabilità civile in caso di disclosure (cioè, nel caso specifico, di comunicazione all’autorità procedente di informazioni relative ai beni confiscabili) la persona che renda nota, attraverso la comunicazione in questione, l’esistenza di denaro di origine sospetta, in quanto frutto di riciclaggio, alla National Crime Agency affinché quest’ultima effettui le indagini di sua competenza. Bisogna in proposito tenere in considerazione che la responsabilità civile potrebbe anche derivare dall’assenza di una ragione appropriata per effettuare la disclosure stessa. Teoricamente la «breach of confidence» conseguente alla discovery potrebbe consentire al soggetto che si ritiene sospettato e indagato senza fondamento per riciclaggio o diffidato dal compiere una transazione finanziaria di intentare causa nei confronti dell’autore della disclosure stessa. I giudici normalmente si sono sempre mostrati restii ad accogliere simili pretese risarcitorie: ultimamente una disposizione dello SCA del 2015 ha espressamente stabilito che «una disclosure autorizzata non può essere considerata come contraria ad ogni restrizione relativa alla 83

In questo senso R. (on the application of Horne) v. Central Criminal Court [2012] EWHC 1350. 84

SCA 2015 s. 38, che modifica il POCA s. 341 (1). Waya [20112] UKSC 51. 86 La disciplina è riflessa nello SCA 2015 sect. 85 e para 19 dello Scheme 4 (a loro volta riprese, con modifiche, da POCA s. 6 (5). 85

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disclosure di informazioni (comunque imposta)» 87. In sostanza ogni disclosure fatta in buona fede non può mai dare luogo a responsabilità civile per le conseguenze che possono scaturirne: la nuova normativa costituisce l’attuazione della Direttiva 91/308/CEE del Consiglio d’Europa del 10 giugno 1991, «relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite», il cui art. 9 recita: «La comunicazione [disclosure] in buona fede alle autorità responsabili per la lotta contro il riciclaggio da parte di dipendenti o amministratori di un ente creditizio o finanziario delle informazioni di cui agli articoli 6 e 7 non costituisce violazione di eventuali restrizioni alla comunicazione di informazioni imposte in sede contrattuale o in forma di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, ed essa non comporta, per l’ente creditizio, l’ente finanziario, i loro amministratori e dipendenti, responsabilità di alcun tipo» 88.

11. La prospettiva europea. La disciplina inglese in materia di confisca appare nel suo complesso fino ad oggi – salvo una augurabile, ma non certo scontata, accelerazione dell’“ultima ora” grazie alla riforme dello SCA 2015 – piuttosto cauta, incerta e “frenata” dalla giurisprudenza e, più recentemente, anche da quella europea, o meglio dalle temute possibili reazioni future di entrambe. Tuttavia non si può dimenticare, come è stato recentemente osservato, che, anche a livello europeo, le iniziative volte a realizzare un’organica opera di ravvicinamento delle politiche domestiche in tema di confisca, attraverso l’identificazione di standard comuni ed il miglioramento delle regole della cooperazione giudiziaria per l’esecuzione all’estero dei provvedimenti di confisca non abbiano prodotto finora risultati sufficientemente soddisfacenti 89. Questi ultimi dovrebbero iniziare a manifestarsi a partire dal 4 ottobre 2015, data entro la quale gli «Stati membri avrebbero dovuto recepire la 87

SCA 2015 s. 37 che modifica il POCA s. 338 (4A).

88

G.U.C.E., 28 giugno 1991, n. 166, p. 77 ss. Ovviamente le tutele sopra esposte non giovano nell’ipotesi in cui la disclosure sia stata fatta dolosamente o per altri fini diversi da quelli della corretta ed efficiente applicazione della normativa in tema di confisca. 89 E. CALVANESE, L’esecuzione delle decisioni di confisca, in R. KOSTORIS (a cura di), Manuale di procedura penale europea, II ed., Giuffrè, Milano, 2015, p. 456.

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Direttiva 2014/42/UE del Parlamento e del Consiglio europeo adottata il 3 aprile 2014», relativa al «congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea» 90, con la quale finalmente gli impegni presi in precedenza dagli Stati membri avrebbero dovuto trovare una più puntuale e stringente applicazione. Peraltro expressis verbis il considerando n. 43 della Direttiva in questione afferma che «il Regno Unito non partecipa all’adozione della presente direttiva, non è da essa vincolato, né è soggetto alla sua applicazione». Questo non esclude che qualche suggerimento possa comunque pervenire dal Continente, oppure che si addivenga ad un trattato in materia tra l’Unione europea e il Regno Unito, da quando quest’ultimo ha mollato gli ormeggi dalla prima. In proposito non mancano precedenti, come, ad esempio, è avvenuto con l’accordo siglato tra l’Unione europea da una parte e l’Islanda e la Norvegia dall’altra, relativo al recepimento della decisione 2006/697/CE, che all’art. 2 precisa come il suo oggetto riguardi «i mandati di arresto», definiti come «una decisione giudiziaria emessa da uno Stato in vista dell’arresto e della consegna da parte di un altro Stato di una persona ricercata, ai fini dell’esercizio di un’azione penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà». In ogni caso la Direttiva del 2014 si riferisce ad un novero più ristretto di reati rispetto a quelli previsti in precedenza nella normativa in tema di confisca, limitandosi a disciplinarla per quelli di terrorismo, tratta di esseri umani, sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico di stupefacenti, di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata, rimandando per gli altri reati, già previsti nella Decisione quadro del 2005/212 GAI, approvata peraltro anche dal Regno Unito, relativa anch’essa alla confisca di beni strumenti e proventi dei reato, a quest’ultima. La Direttiva impone agli Stati membri l’adozione delle «misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia» (art. 4). Essa stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di adottare «le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, dei beni che appartengono a una persona condannata per un reato suscettibile di produr90 G.U.U.E, 29 aprile 2014, L27/239. In Italia la Direttiva ha avuto attuazione con d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202, entrato in vigore il 24 novembre 2016.

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re, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico, laddove l’autorità giudiziaria, in base alle circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili, come il fatto che il valore dei beni è sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata, sia convinta che i beni in questione derivino da condotte criminose» (art. 5). Da ultimo, è prevista la facoltà di procedere alla confisca anche nei confronti di terzi, fatti salvi ovviamente i diritti di quelli in buona fede (art. 6). La Direttiva contiene poi regole dirette a rinforzare l’efficacia dei provvedimenti ablativi, obbligando gli Stati a introdurre strumenti idonei ad individuare, rintracciare (art. 9) e gestire (art. 10) i beni confiscabili e, soprattutto, attraverso l’obbligo di predisporre misure di “congelamento” dei beni nella prospettiva di una futura, eventuale, confisca (art. 7). A tutela del soggetto sottoposto alla procedura di confisca lo strumento dell’Unione europea non trascura di imporre agli Stati l’obbligo di adottare misure volte a garantire i soggetti i cui beni vengano attinti dalla confisca (art. 8). Esistono ancora, come è stato correttamente osservato, molte questioni controverse che si frappongono in ogni fase dell’attuazione delle sanzioni e delle misure volte a contrastare le forme “moderne” di confisca a livello europeo, tanto da far apparire improbabile il rispetto dei tempi proposti dalla Direttiva 2014/42/UE del 3 aprile 2014. È proprio per far fronte alla mutevolezza, col passar del tempo, delle caratteristiche della materia che consentono di definire con precisione la coincidenza tra i proventi del reato ed il reato stesso, che sono state proposte soluzioni dirette a rimodellare l’oggetto della confisca stessa, estendendone i limiti a quella «per equivalente» ed a semplificare anche l’onere della prova. Lo stesso scopo dei provvedimenti ha nel tempo mutato natura, passando dalla categoria della pura e semplice prevenzione a quella della pena vera e propria. Si deve aggiungere altresì la inevitabile (ed immutabile?) differenziazione e complessità della normativa degli Stati membri, dovuta alla diversità dei parametri domestici in materia costituzionale, sostanziale e processuale: il tutto compresso nella sfera dei parametri sovranazionali 91. Ne consegue che venire a capo di situazioni nazionali così diversificate per conciliare efficienza e protezione dei diritti individuali appare una sfida la cui vittoria si profila molto incerta e difficile, non certo agevolata dalla c.d. Brexit sancita dal referendum del 23 giugno 2016: sembra allora del tutto condivisibile affermare, allo stato dell’arte, che i miglioramenti percepibili nella messa a pun91

N. SELVAGGI, On Instruments adopted in the Area of Freezing and Confiscation, A critical view of the current EU legal framework, in www.penalecontemporaneo.it, 31 aprile 2015, p. 1.

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to della materia sono affiancati da ambiguità e incompletezze 92 che rischiano di rinviare sine die, se non di affossare l’effettiva entrata in vigore della Direttiva in esame.

92 Così ancora N. SELVAGGI, On Instruments adopted in the Area of freezing and Confiscation, cit., p. 12

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III

IL DELITTO DI SCAMBIO ELETTORALE POLITICO MAFIOSO TRA INTERVENTI NORMATIVI E INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI di Annamaria Peccioli

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I limiti della formulazione previgente dell’art. 416-ter c.p. e l’interpretazione ortopedica della giurisprudenza. – 3. L’ampliamento del catalogo dei soggetti attivi e dell’oggetto della prestazione. – 4. Il ruolo dell’impiego del metodo mafioso nell’economia del delitto di scambio elettorale politico-mafioso. – 5. Il momento consumativo: reato di pericolo o reato a duplice schema? – 6. Profili di diritto intertemporale. – 7. Cenni ai rapporti tra il delitto di scambio elettorale politico-mafioso e il concorso esterno.

1. Premessa. Oggetto del presente lavoro sarà l’analisi delle modifiche introdotte nel 2014 al delitto di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter c.p.), volte a superare i limiti strutturali, e delle prime, e talvolta contrastanti, pronunce giurisprudenziali. L’art. 416-ter c.p., introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 11-ter del d.l. 8 giugno 1992, conv. nella l. 7 agosto 1992, n. 356 1 e recentemente mo1

Per un’analisi delle problematiche connesse al testo previgente dell’art. 416-ter c.p. si veda, ex plurimis, G.A. DE FRANCESCO, Commento all’art. 11-ter d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Legisl. pen., 1993, p. 122 ss.; C. VISCONTI, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Ind. pen., 1993, p. 273; G. FIANDACA, Accordo elettorale politico-mafioso e concorso in associazione mafiosa. Una espansione incontrollata del concorso criminoso, in Foro it., 1996,V, c. 127 ss.; M.T. COLLICA, Scambio elettorale politico mafioso: deficit di coraggio o questione irrisolvibile, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 739 ss.; A. CAVALIERE, Lo scambio elettorale politico mafioso, in S. MOCCIA (a cura di), Trattato di diritto penale. Delitti contro l’ordine pubblico, vol. V, Jovene editore, Napoli, 2007, p. 639 ss.; M. PELISSERO, Associazione di

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dificato dall’art. 1, comma 1 della l. 17 aprile 2014, n. 62, punisce con la pena della reclusione da quattro a dieci anni colui che accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al comma 3 dell’art. 416-bis c.p. in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità 2. La norma in commento rappresenta uno degli esempi in cui emerge con maggiore evidenzia l’intreccio 3 tra le modifiche normative e il ruolo del c.d. diritto vivente: la giurisprudenza, prima della modifica del 2014, era intervenuta per sopperire ad alcuni deficit di tassatività della fattispecie, spingendosi, talvolta, ad interpretazioni estensive della fattispecie con possibili rischi di conflitti con il principio di stretta legalità (ubi lex voluit dixit, ubi lex noluit tacuit). La dottrina 4 dell’epoca aveva auspicato un intervento da parte del legislatore volto a riformulare il dettato normativo così da risolvere i dubbi interpretativi e conseguentemente i problemi sorti in sede applicativa.

2. I limiti della formulazione previgente dell’art. 416-ter c.p. e l’interpretazione ortopedica della giurisprudenza. Nella sua formulazione previgente la norma in commento si limitava a tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 324 ss. 2 Per un commento alla riforma del 2014 si veda, ex plurimis G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso. Una più chiara graduazione del disvalore delle condotte di contiguità mafiosa?, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 9 ss.; F. CONSULICH, I delitti contro l’ordine pubblico, in F. ANTOLISEI, Manuale di Diritto penale, Parte speciale, vol. II, Giuffrè, Milano, XVI ed., 2016, p.135 ss.; E. COTTU, La nuova fisionomia dello scambio elettorale politico-mafioso, tra istanze repressive ed equilibrio sistematico, in Dir. pen. proc., 2014, p. 789 ss.; M. LOMBARDO, Lo scambio elettorale politico-mafioso, in B. ROMANO (a cura di), Le associazioni di tipo mafioso, Utet, Torino, 2015, p. 255 ss.; V. MAIELLO, La nuova formulazione dello scambio elettorale politico mafioso, in Studium iuris, 2015, p. 6 ss.; A. BARAZZETTA, Sub art. 416-ter c.p., in E. DOLCINI -G.L. GATTA (a cura di), Codice penale commentato, III ed., vol. II, Ipsoa, Milano, 2015, p. 1754 ss. 3

G. FIANDACA, Scambio elettorale politico-mafioso: un reato dal destino legislativo e giurisprudenziale avverso? in Foro it. 2015, II, c. 522 ss.; M. GAMBARDELLA, Diritto giurisprudenziale e mutamento legislativo. Il caso del delitto di scambio elettorale politico mafioso, in Cass. pen., 2014, p. 3680 ss. 4

G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, Vol. I, ult. ed., Zanichelli, Bologna, 2015, p. 486; P. MOROSINI, Riflessi penali e processuali del patto di scambio politico mafioso, in Foro it., 2001, II, c. 80 ss.

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prevedere la punibilità della condotta di colui che otteneva la promessa di voti prevista dal comma 3 dell’art. 416-bis c.p. in cambio dell’erogazione di denaro. Il richiamo alla fattispecie associativa non era limitato all’elemento oggettivo ma si estendeva anche al trattamento sanzionatorio, individuato attraverso un richiamo quoad poenam all’ipotesi della partecipazione. Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso, introdotto al fine di implementare il catalogo delle norme incriminatrici delle sempre più variegate forme di manifestazione delle condotte di contiguità tra mafia e politica, era ed è posto in via diretta, come si evince dalla collocazione nell’ambito del sistema dei reati associativi, a tutela del c.d. ordine pubblico (per scongiurare qualsiasi infiltrazione mafiosa nel sistema democratico) e solo in via mediata della libertà, costituzionalmente riconosciuta, dell’esercizio del diritto di voto 5. Come sottolineato da autorevole dottrina 6 la norma presentava una formulazione ristretta dal momento che limitava la punibilità dello scambio fondato alla sola erogazione del denaro da parte del politico. Una tale previsione escludeva dall’area del penalmente rilevante le ipotesi di più frequente verificazione in sede pratica rappresentate dai casi, ad esempio, in cui il politico si impegnava a concedere, successivamente alla sua elezione, favori politici e vantaggi, anche diversi dal denaro, a sostegno dell’associazione. L’elemento di maggiore problematicità della previgente formulazione del delitto di scambio elettorale politico mafioso era rappresentato dal fatto che la promessa di voti dovesse essere quella prevista dal comma 3 dell’art. 416-bis c.p. Disposizione che non prevedeva un espresso richiamo alla promessa di voti ma solo un riferimento alle finalità dell’associazione rappresentate dall’impedimento o dall’ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o dal procurare per sé o per altri voti. Il rinvio al comma 3 dell’art. 416-bis c.p. che comportava la necessità che oggetto dell’accordo sinallagmatico fosse l’acquisizione dei voti con il c.d. metodo mafioso 7, non introduceva alcun elemento significativo per l’individuazione della na5

Cass., Sez. II, 5 giugno 2012, n. 23186, in Cass. pen., 2013, p. 1927 ss.; Cass., Sez. VI, 19 febbraio 2004, n. 10785, in Cass. pen., 2005, p. 1905 ss., con nota di I. FONZO-F. PULEIO, Lo scambio elettorale politico mafioso. Un delitto fantasma? 6 M. PELISSERO, Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 328. 7 Le componenti del c.d. metodo mafioso sono la forza di intimidazione, la condizione di assoggettamento e l’omertà. Per una completa ricostruzione degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in merito si veda M. PELISSERO, Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 280 ss.

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tura giuridica di tale elemento nell’economia della fattispecie. Nel silenzio del legislatore in giurisprudenza e in dottrina si erano affacciati due diverse interpretazioni. Un primo orientamento richiedeva il necessario accertamento che colui che avesse promesso il proprio appoggio al candidato avesse fatto in concreto ricorso al c.d. metodo mafioso 8. Secondo un diverso orientamento 9, che ricostruiva il delitto di scambio elettorale politico mafioso quale reato di pericolo astratto, la punibilità avrebbe dovuto incentrarsi sull’accordo delle parti, caratterizzato dal versamento del denaro a fronte della mera promessa di voti da acquisire con le modalità del metodo mafioso. Non sarebbero, pertanto, rientrati nell’alveo della tipicità oggettiva della fattispecie in esame né il condizionamento reale dell’esercizio del diritto di voto né l’ottenimento del voto.

3. L’ampliamento del catalogo dei soggetti attivi e dell’oggetto della prestazione. Un primo elemento di novità introdotto dalla riforma del 2014 è sicuramente rappresentato dall’ampliamento del novero dei soggetti attivi del reato in esame. Attraverso l’equiparazione del trattamento sanzionatorio della condotta di chi promette di procurare voti con le modalità di cui al comma 3 dell’art. 416-bis c.p. a quella di colui che accetti una simile promessa, viene eliminata l’anomalia – introdotta dalla previgente formulazione dell’art. 416-ter c.p. – di un reato contratto destinato a punire solo uno dei protagonisti del sinallagma criminale, ovvero il politico che avesse ricevuto la promessa di un sostegno elettorale illecito 10. Pur configurandosi come un reato contratto, nonostante la conseguente sinallagmaticità delle prestazioni corrispettive pattuite, veniva ab origine punita solamente una delle componenti dell’accordo, con una conseguente riconducibilità della fattispecie alla categoria dei reati necessariamente plurisoggettivi impropri. La scelta del legislatore del 1992 era stata giustificata 8

Cass., Sez. I, 25 marzo 2003, n. 5191, in Foro it., 2004, II, c. 508 ss.; Cass., Sez. III, 23 settembre 2005, in Giur. it., 2006, c. 1025 ss., con nota di S. Mantovani. 9

Cass., Sez. V, 13 novembre 2002, in Cass. pen., 2004, p. 1991; Cass., Sez. V, 16 marzo 2000, in Cass. pen., 2001, p. 1194; Trib. Palermo, 27 aprile 2004, in Giur. merito, 2004, II, p. 2274. 10 E. SQUILLACI, Punti fermi e aspetti problematici nella riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Arch. pen., 2013, p. 963 ss.

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dal fatto che in astratto si potesse recuperare la punibilità del sodale con l’applicazione del comma 3 dell’art. 416-bis c.p. in cui veniva prevista la finalità di impedire o di ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o altri in occasione di consultazioni elettorali. A fronte delle difficoltà incontrate dalla giurisprudenza in merito alla dimostrazione dell’inserimento del soggetto nella compagine associativa, la punibilità del promittente poteva essere recuperata o attraverso il concorso esterno nel reato associativo o applicando i principi del concorso di persone nel reato di scambio politico elettorale mafioso 11. Un secondo elemento di modifica introdotta dalla legge del 2014 è rappresentato dall’inserimento, nel comma 1 del riferimento all’altra utilità nell’oggetto della prestazione del politico. Tale modifica è indicativa della voluntas legis di ampliare l’area di rilevanza penale a ogni più moderna forma di contiguità tra mafia e politica. La norma, pertanto, potrà trovare applicazione nel caso di promessa o di erogazione di bene o prestazione che possa rappresentare un vantaggio per il promittente, analogamente a quanto già si verifica nell’ambito dei delitti di concussione e di corruzione (artt. 317 e 318 c.p.), ove la nozione ha assunto, nel corso del tempo un’accezione dilatata 12. Per scongiurare una sistematica estensione della portata applicativa della norma tale da paralizzare l’attività politica, una parte della dottrina 13, nelle more dell’iter di approvazione della legge di riforma del 2014, proponeva di inserire accanto al denaro non il generico riferimento all’utilità ma l’esplicitazione delle più comuni forme di contiguità (quali ingerenza in procedure di appalto, di autorizzazioni, di concessioni, di finanziamenti pubblici o privati).

4. Il ruolo dell’impiego del metodo mafioso nell’economia del delitto di scambio elettorale politico-mafioso. Un passaggio importante della riforma attuata dalla legge del 2014 è 11

Cass., Sez. V, 28 maggio 2013, n. 23005, in C.e.d. 255502. G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 17 ss.; M. LOMBARDO, Lo scambio elettorale politico-mafioso, in B. ROMANO (a cura di), Le associazioni di tipo mafioso, Utet, Torino, 2015, p. 256 ss.; A. BARAZZETTA, Sub art. 416-ter c.p., in E. DOLCINI-G.L. GATTA (a cura di), Codice penale commentato, III ed., vol. II, Ipsoa, Milano, 2015, p. 1754 ss. 13 C. VISCONTI, Verso la riforma del reato di scambio elettorale politico mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 10 ss. 12

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rappresentato dall’ancoraggio della punibilità al requisito che la condotta di accettazione debba riguardare espressamente la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui il comma 3 dell’art. 416-bis c.p. Come già evidenziato nei paragrafi precedenti la mancata previsione espressa di tale requisito nella versione normativa previgente aveva dato vita a una molteplicità di indirizzi interpretativi, stante la diversa identificazione del ruolo del c.d. metodo mafioso nell’economia applicativa della fattispecie. La nuova formulazione non ha contribuito, però a comporre in via definito il contrasto interpretativo come ben dimostrato dalla attuale compresenza di due divergenti ricostruzioni, sia in sede dottrinale sia in sede giurisprudenziale. Un primo orientamento 14 ha ritenuto che, con la locuzione mediante le modalità di cui al comma 3 dell’art. 416-ter c.p., il legislatore abbia inteso escludere la punibilità per il mero accordo politico-mafioso tra il candidato (o colui che agisce in suo favore) ed il privato, che agisca o meno in nome o per conto di un sodalizio mafioso. Assumerebbe rilevanza penale il patto che avesse espressamente ad oggetto l’impegno dell’organizzazione criminale ad attivarsi nell’attività di procacciamento dei voti da realizzarsi con le modalità intimidatorie proprie dell’azione mafiosa 15. A sostegno di tale ricostruzione interpretativa si sottolinea come l’intervento di riforma non abbia fatto altro che positivizzare quell’interpretazione sviluppatasi sotto la vigenza della previgente normativa secondo la quale la promessa avrebbe dovuto avere ad oggetto il procacciamento di voti mediante il metodo mafioso, in ragione del fatto che a condotta dell’art. 416-ter c.p. lede in primis l’ordine pubblico e solo in via mediata e strumentale l’interesse elettorale. Nella prima pronuncia 16 in cui la Suprema Corte fa applicazione dell’art. 416-ter c.p. si afferma che nella nuova versione riguardava un’ipotesi di collusione politico mafiosa, realizzata sotto la vigenza della disposizione originaria, caratterizzata dal pagamento di una somma di denaro da parte di un candidato (nel caso di specie all’Assemblea Regionale siciliana e al

14 G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 15 ss.; si veda, altresì, Relazione del Massimario della Corte di Cassazione sulla l. 17 aprile 2014, n. 62, in www.cortedicassazione.it . 15

L. DELLA RAGIONE, Il nuovo art. 416-ter c.p. nelle prime due pronunce della Suprema Corte, in Dir. pen. proc., 2015, p. 309 ss. 16

Cass., Sez.VI, 28 agosto 2014, n. 36382, Antinoro, in Dir. pen. proc., 2015, p. 309 ss. Per un commento si veda G. AMARELLI, Il metodo mafioso nel nuovo reato di scambio elettorale: elemento necessario o superfluo per la sua configurazione?, in www.penalecontempo raneo.it, 14 settembre 2014.

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Senato della Repubblica) a favore di alcuni esponenti di una cosca mafiosa in cambio della promessa di procacciamento di voti. Ai sensi del nuovo art. 416-ter c.p. le modalità di procacciamento di voti debbono costituire oggetto del patto di scambio politico – mafioso funzionale all’esigenza che il candidato possa fare affidamento sul concreto “dispiegamento del potere di intermediazione tipico del sodalizio mafioso e che quest’ultimo si impegni ad utilizzarlo, ove se ne ravvisi la necessità”. A sostegno di tale interpretazione la Suprema Corte attribuisce valore primario ai lavori preparatori della legge di riforma del 2014, sottolineando che una delle diverse proposte di legge (C 204) escludeva in via espressa la rilevanza del metodo mafioso per sottolineare la completa estraneità alla struttura della fattispecie. La mancata approvazione di tale testo e il conseguente inserimento nella norma del riferimento alle modalità di cui al comma 3 dell’art. 416-bis c.p. testimoniano la precisa ed inequivoca volontà legislativa di attribuire rilevanza costitutiva al metodo mafioso 17. Tale condivisibile ricostruzione interpretativa consente di affermare che l’inserimento di tale requisito non si pone in netta discontinuità con la versione previgente e, sotto il profilo della successione leggi penali nel tempo come si analizzerà nei paragrafi successivi del presente lavoro) l’inserimento del nuovo elemento costitutivo consentirà di rendere penalmente irrilevanti le condotte pregresse consistenti in pattuizione politiche mafiose che non abbiano espressamente contemplato tali modalità di ottenimento dei voti. A pochi giorni di distanza la Suprema Corte in un procedimento di natura cautelare adotta una soluzione diametralmente opposta 18 rispetto alla sopra citata pronuncia. Viene accolto il ricorso proposto dal P.M. contro l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame ha annullato il provvedimento di applicazione della custodia cautelare ad un soggetto imputato per il reato di cui all’art. 416-ter c.p., che correttamente I giudici di legittimità qualificano il delitto di scambio elettorale politico-mafioso quale reato di pericolo il cui momento consumativo precede l’effettiva acquisizione dei voti, essendo incentrata sulla mera conclusione dell’accordo relativo allo scambio tra voto e denaro. L’esercizio in concreto del metodo mafioso, cioè il compimento dei singoli atti di intimidazione e di sopraffazione in danno degli elettori, potrebbe costituire l’oggetto di un’intenzione del promittente o del patto eventualmente concluso circa le modalità esecutive dell’accordo e non, invece, una componente della con17

L. DELLA RAGIONE, Il nuovo art. 416-ter c.p. nelle prime due pronunce della Suprema Corte, in Dir. pen. proc., 2015, p. 310 ss. 18

Cass., Sez. VI, 9 settembre 2014, n. 37374, Polizzi, in Dir. pen. proc., 2015, p. 309 ss.

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dotta tipica. Sarebbe, pertanto, un post factum non punibile come scambio elettorale politico-mafioso al più riconducibile alla portata applicativa di diverse ed ulteriori fattispecie incriminatrici. La ricostruzione in termini di delitto di pericolo e la conseguente anticipazione della soglia di punibilità si giustificherebbe con la forza di intimidazione insita nel controllo del territorio, all’esistenza del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che la connota, senza richiedere l’estrinsecazione della forza per ogni azione che si intenda realizzare a tale fine, ove risulti nota la correlazione dell’agente con l’illecita compagine”. Una simile disarmonica ricostruzione ermeneutica della portata della riforma si riscontra anche nelle posizioni della dottrina. A chi 19 ritiene che l’interpretazione della pronuncia Antinoro, frutto di un compromesso (compartecipazione bilanciata) tra il ruolo del legislatore e del giudice (da un lato un legislatore attento non solo ad un sviluppo più affinato dello strumento punitivo ma anche del rispetto dei diritti e delle garanzie individuali e dall’altro il giudice rispettoso della sua funzione nomofilattica 20) si contrappone chi 21 ricostruisce in termini diversi il ruolo del metodo mafioso nell’economia del reato. Il metodo mafioso sarebbe un requisito modale dell’accordo la cui sussistenza va dimostrato in concreto che il politico accetti la promossa; in tal modo il protagonista qualificante dell’accordo diventerà l’organizzazione mafiosa. La giurisprudenza più recente 22, seguendo la linea interpretativa della sentenza Polizzi, ha affermato che i fini della configurabilità del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, come previsto dall’art. 416-ter c.p. nel testo vigente dopo le modifiche introdotte dalla l. n. 62/2014, non è neces19 G. AMARELLI, Il metodo mafioso nel nuovo reato di scambio elettorale: elemento necessario o superfluo per la sua configurazione, in www.penalecontemporaneo.it, settembre 2014. 20

L. DELLA RAGIONE, Il nuovo art. 416-ter c.p. nelle prime due pronunce della Suprema Corte, in Dir. pen. proc., 2015, p. 310 ss. 21 C.G. PACI, La tormentata vita del voto di scambio politico-mafioso, in www.questione giustizia.it, settembre 2014. 22 Cass., Sez. VI, 19 maggio 2015, n. 25302, in Cass. pen., 2016, p. 514 ss., con commento di I. MERENDA, La rilevanza del metodo mafioso nel nuovo art. 416-ter c.p.: la Cassazione alla ricerca del compromesso” interpretativo. Per ulteriori commenti si veda G. FIANDACA, Scambio elettorale politico-mafioso: un reato dal destino legislativo e giurisprudenziale avverso?, in Foro it., 2015, II, c. 522 ss.; F. RIPPA, La Cassazione scopre il volto del nuovo scambio elettorale politico-mafioso, in Cass. pen., 2016, p. 1612 ss.

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sario che l’accordo concernente lo scambio tra voto e denaro o altra utilità contempli l’attuazione, o l’esplicita programmazione, di una campagna attuata mediante intimidazioni solo quando il soggetto che si impegna a reclutare i suffragi è persona intranea ad una consorteria di tipo mafioso ed agisce per conto e nell’interesse di quest’ultima, poiché esclusivamente in tal caso il ricorso alle modalità di acquisizione del consenso tramite la modalità di cui all’art. 416-bis, comma 3, c.p. può dirsi immanente all’illecita pattuizione.

5. Il momento consumativo: reato di pericolo o reato a duplice schema? Con la riforma del 2014 il legislatore ha confermato di voler individuare il disvalore dl fatto nel mero accordo, attraverso un’anticipazione della soglia di punibilità ad un momento prodromico e lontano nel tempo rispetto alla concreta lesione del bene giuridico tutelato 23. L’aver ancorato il disvalore del fatto allo scambio dei consensi legato al mercinomio dei voti 24, mediante l’effettiva stipula di un accordo, sembra ricondurre la fattispecie in esame nell’alveo del principio di offensività e rappresenta una deroga rispetto alla regola generale dell’irrilevanza dell’accordo non seguito dalla commissione di un delitti ex art. 115 c.p. La qualificazione della fattispecie quale delitto di pericolo, incentrato sull’anticipazione della soglia di punibilità di un fatto cronologicamente antecedente al procacciamento effettivo dei voti, contribuisce a negare la configurabilità del tentativo 25. Autorevole dottrina 26 ha evidenziato che potrebbe sussistere un residuo spazio di eventuale configurabilità del tentativo in alcune situazioni limite costituite da accordi non conclusi per il

23

G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 15 ss.; Cass., Sez. VI, 10 giugno 2015, n. 31348, in Cass. pen., 2016, p. 1613 ss. 24 V. MAIELLO, La nuova formulazione dello scambio elettorale politico mafioso, in Studium Juris, 2015, p. 6 ss. 25

Nella vigenza della previgente formulazione si era affermato l’astratta configurabilità dell’art. 416-ter c.p. nella forma tentata nel caso di trattative finalizzate all’ottenimento della promessa non sfociate nel raggiungimento di un accordo. Si veda A. LAUDATI, Una sentenza troppo “buonista”, in Diritto e giustizia, n. 31, 13 settembre 2003, p. 37 ss. 26 V. MAIELLO, La nuova formulazione dello scambio elettorale politico mafioso, in Studium Juris, 2015, p. 7.

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sopraggiungere di eventi particolari (quali, a titolo esemplificativo, l’intervento delle forze dell’ordine nel luogo della stipula del patto): ipotesi che implicano la frazionabilità dell’iter dell’accordo criminoso. Già sotto la vigenza della precedente formulazione, la giurisprudenza non aveva ritenuto integrato il reato (ovvero la accettazione della promessa) da qualsiasi tipo di accordo intervenuto tra il politico e il mafioso. Alla luce dell’art. 49, comma 2 c.p. non si era ritenuto sufficiente ad integrare il reato la mera accettazione di una generica promessa di aiuto durante la campagna elettorale, ricavata da provvisorie e mere convergenze di opinioni tra le due parte, non confluite in una stabile predisposizione di iniziative finalizzate al procacciamento di voti con modalità mafiose, non essendo rinvenuto un preciso e serio impegno tra i due contraenti 27. Secondo la dottrina maggioritaria 28 e la giurisprudenza 29 la previsione esplicita nell’art. 416-ter c.p. della promessa di erogazione di denaro o di latra utilità anticiperebbe il momento consumativo al mero scambio di promesse, ritenendo un post factum non punibile le vicende successive al patto ed al suo esatto adempimento. Non può però non evidenziarsi come, nonostante la norma sembra qualificarsi come delitto istantaneo che degrada le condotte successive al rango di post facta non punibili, la previsione, nella seconda parte del testo, come controprestazione alternativa del politico, dell’erogazione di denaro o di altra utilità della semplice promessa di erogazione di denaro o di altra utilità, suggerisce una diversa ricostruzione della struttura della fattispecie in grado di posticipare il momento consumativo. Il delitto di scambio elettorale politico mafioso rientrerebbe, pertanto, nell’ambito della categoria dei reati a duplice schema 30, sulla falsariga di quanto già accade in relazione ai delitti di corruzione e di usura. Reati caratterizzati da una forma «ordinaria» (accordo seguito da ricevimento del denaro o dell’utilità) in cui la dazione segna il momento consumativo, ed

27

Ex plurimis Cass., Sez. I, 25 marzo 2003, in Foro it., 2004, II, c. 508 ss.

28

V. MAIELLO, La nuova formulazione dello scambio elettorale politico mafioso, in Studium Juris, 2015, p. 6 ss.; L. DELLA RAGIONE, Il nuovo art. 416-ter c.p. nelle prime due pronunce della Suprema Corte, in Dir. pen. proc., 2015, p. 312 ss. 29

Cass., Sez. VI, 3 marzo 2016, n. 16397, in C.e.d. 266738; Cass., Sez. VI, 19 maggio 2015, n. 25302, in Cass. pen., 2016, p. 514 ss.; Cass., Sez. VI, 9 settembre 2014, n. 37374, Polizzi, in Dir. pen. proc., 2015, p. 309 ss.; Cass., Sez. VI, 28 agosto 2014, n. 36382, Antinoro, in Dir. pen. proc., 2015, p. 310 ss. 30 G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 15 ss.

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una forma «contratta», caratterizzata dalla sola promessa non seguita dalla ricezione del denaro o dell’utilità, in cui ovviamente la consumazione coincide con la promessa (in questo caso, realizzazione e consumazione vengono a coincidere). Al di là delle preferenze terminologiche, ciò che importa ribadire è che la ricezione/dazione non è un post factum non punibile ma fa parte a pieno titolo della struttura della fattispecie criminosa. Chiarito ciò, è consequenziale ritenere che in caso di rateizzazione il momento consumativo (in senso proprio) verrà a coincidere con la corresponsione dell’ultima rata. Il momento consumativo sarebbe, pertanto, individuato, indifferentemente 31, o nell’erogazione di denaro o di altra utilità o nella stipula del contratto. Tale ricostruzione consentirebbe di non ritenere penalmente irrilevanti le successive, rispetto alla stipula del patto, dazioni materiali del quantum debeatur da parte del politico. In caso di dazioni frazionate nel tempo, il reato si considererà perfezionato con la prima e consumato con l’ultima dazione o erogazione di denaro o di altra utilità. Tale ricostruzione della struttura dell’art. 416-ter c.p. consentirebbe non solo un decorso più lungo della prescrizione del patto criminoso tra politico e mafioso ma anche un’agevolazione di ordine probatorio. Laddove si acquisiscano le prove sia della stipula del patto si a dell’effettiva esecuzione differita nel tempo delle prestazioni oggetto dello stesso, il momento consumativo sarebbe fissato al pagamento dell’ultima rata da parte del politico; laddove, invece, di rinvenissero le prove della sola accettazione della promessa, il delitto in esame Tale impostazione è stata, però, sottoposta a vaglio critico da parte di chi 32 ha evidenziato che ai fini dell’integrazione del tipo di illecito non assume rilevanza il compimento in concreto di quanto pattuito dalla parti che non rappresenterebbe un approfondimento dell’offesa tipica.

6. Profili di diritto intertemporale. Come ogni qualvolta si procede ad una riformulazione normativa di una fattispecie incriminatrice, anche in relazione alla novella che ha ridisegnato 31

Si veda anche F. CONSULICH, I delitti contro l’ordine pubblico, in F. ANTOLISEI, Manuale di Diritto penale, Parte speciale, vol. II, Giuffrè, Milano, XVI ed., 2016, p. 138. 32 V. MAIELLO, La nuova formulazione dello scambio elettorale politico mafioso, in Studium Juris, 2015, p. 6 ss.

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il volto del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, si pongono questioni di diritto intertemporale 33: anche in relazione alla novella che ha ridisegnato il volto del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, si deve stabilire se i fatti realizzati sotto la vigenza della disciplina previgente possono, ad oggi, rientrare nella portata applicativa del nuovo art. 416-ter c.p. I profili di maggiore problematicità riguarderanno non tanto le ipotesi di patti elettorali politico mafiosi aventi ad oggetto lo scambio di voti vs denaro quanto quei patti aventi ad oggetto la promessa di altra utilità non previsti precedentemente non previsti dalla norma e nel caso di fatti aventi sì le nuove caratteristiche del novellato art. 416-ter c.p. ma qualificati in procedimenti penali ancora in itinere come concorso esterno. Anticipando i primi arresti giurisprudenziali si era evidenziato 34 che si sarebbe dovuta ravvisare una parziale continuità normativa tra il nuovo ed il vecchio testo con riferimento ai patti elettorali politico mafiosi aventi ad oggetto lo scambio di voti vs. denaro, con conseguente applicazione, ex art. 2, comma 4 c.p., della nuova disposizione caratterizzata da una più ridotta cornice edittale. Nelle altre problematiche ipotesi si affermava 35 che, in linea teorica, l’introduzione di nuovi elementi costitutivi sarebbe stata indicativa di una nuova incriminazione, dal momento che venivano incriminati fatti esclusi dall’area della punibilità secondo la disciplina vigente all’epoca della loro commissione, pena la violazione del principio di irretroattività della legge penale. Tuttavia, si riconosceva che, anche alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza, per scongiurare la non punibilità delle condotte di scambio si sarebbe potuto ritenere sussistente anche in questi casi un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, con la conseguente dell’applicabilità delle nuova disciplina caratterizzata da una sanzione più favorevole. La giurisprudenza 36 ha affermato che è stato introdotto un nuovo ele-

33

Hanno evidenziato tale problematicità prima dell’intervento della giurisprudenza M. GAMBARDELLA, Diritto giurisprudenziale e mutamento legislativo. Il caso del delitto di scambio elettorale politico mafioso, in Cass. pen., 2014, p. 3680 ss.; G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 21 ss. 34

G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 22. 35 G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Dir. pen. cont., n. 2, 2014, p. 22. 36

Cass., Sez. VI, 28 agosto 2014, n. 36382, in Dir. pen. proc., 2015, p. 320 ss., con commento di L. DELLA RAGIONE, Il nuovo art. 416-ter c.p. nelle prime due pronunce della Suprema Corte.

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mento costitutivo nella fattispecie incriminatrice, tale da rendere, per confronto con la previgente versione, penalmente irrilevanti condotte pregresse consistenti in pattuizioni politico – mafiose che non abbiano espressamente contemplato tali concrete modalità di procacciamento dei voti. Per ritenere sussistente la continuità normativa dovrà quale logica conseguenza, esservi stata, ai fini della punibilità, piena rappresentazione e volizione da parte dell’imputato di aver concluso uno scambio politico– elettorale implicante l’impiego da parte del sodalizio mafioso della sua forza di intimidazione e costrizione della volontà degli elettori. In caso di esito positivo dell’accertamento potrà trovare applicazione, ex art. 2, comma 4 c.p., la nuova disposizione caratterizzata da una più ridotta cornice edittale Autorevole dottrina 37 ha correttamente evidenziato che la soluzione indicata dalla giurisprudenza per risolvere i profili di diritto intertemporale sollevati dalla novella del 2014 sembra essere ispirata ad una logica di “razionalità di scopo orientata alle conseguenze” e non tanto fondato sul corretto impiego dei criteri (si pensi a quello di natura strutturale che si fonda sulla valutazione della relazione tra le struttura della previgente e dell’attuale formulazione della norma incrimininatrice) generalmente utilizzati per identificare un fenomeno di continuità temporale. Infatti alla luce della valutazione comparativa della struttura dell’art. 416-ter c.p. nelle due varianti nel momento in cui la Suprema Corte riconosce espressamente che, con la novella del 2014, sarebbe stato introdotto un nuovo elemento costitutivo nella fattispecie di reato (il c.d. utilizzo del metodo mafioso) avrebbe dovuto dichiarare la sussistenza di una “discontinuità del tipo di illecito”, con la conseguenza di prosciogliere l’imputato m senza alcuna possibilità di annullare con rinvio la sentenza impugnata 38. Contra una diversa corrente interpretativa ritiene, che con la novella del 2014 non si sarebbe verificata alcuna parziale abolitio criminis, in quanto l’introduzione del riferimento alle modalità di cui al comma 3 dell’art. 416-ter c.p. non avrebbe limitato l’area della punibilità, attraverso l’inserimento di un nuovo elemento costitutivo, ma avrebbe specificato un aspetto già implicito nella più ampia formulazione preesistente e già oggetto di accertamento processuale secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale. 37 V. MAIELLO, Il nuovo articolo 416-ter approda in Cassazione, in Giur. it., 2014, III, c. 2840 ss. 38

L. DELLA RAGIONE, Il nuovo art. 416-ter c.p. nelle prime due pronunce della Suprema Corte, in Dir. pen. proc., 2015, p. 320 ss.; V. MAIELLO, Il nuovo articolo 416-ter approda in Cassazione, in Giur. it., 2014, III, c. 2840 ss.

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7. Cenni ai rapporti tra il delitto di scambio elettorale politico-mafioso e il concorso esterno. In conclusione alcuni brevi accenni ai problematici rapporti tra il delitto di scambio elettorale politico-mafioso e il c.d. concorso esterno nei reati associativi 39. Con la riforma del 2014 si deve escludere che possa configurarsi un concorso formale tra le due figure criminose, come nel caso del politico che, oltre ad accordarsi con un mafioso, promettendogli denaro o altra utilità, si mettesse altresì a disposizione della compagine associativa per rafforzarla ed agevolarla nel raggiungimento del suo programma criminoso. Va esclusa tale possibilità in quanto essendo la fattispecie di patto elettorale politico-mafioso in rapporto un rapporto di sussidiarietà con il concorso esterno. L’elemento di distinzione dal occorrente esterno è rappresentata dal fatto che il delitto in esame punisce la sola condotta precedente la stipulazione del patto a prescindere dalla verifica in concreto della c.d. Efficacia eziologica del contributo. Come già sostenuto dalle Sezioni unite 40 nella nota pronuncia Mannino il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell’ipotesi del “patto di scambio politico-mafioso”, in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale (dunque non inserito stabilmente nel relativo tessuto organizzativo e privo dell’affectio societatis) si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo. Per la integrazione del reato è necessario che gli impegni assunti dal politico a favore dell’associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti. Inoltre all’esito della verifica probatoria “ex post” della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescin39

Per una ricostruzione dell’istituto si vedano, ex plurimis V. MAIELLO, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, Giappichelli, Torino, 2014; M. PELISSERO, Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 299 ss.; C. VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Giappichelli, Torino, 2003, passim. 40

Cass., Sez. Un., 17 luglio 2005, n. 3378, in Cass. pen., 2005, p. 3732.

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dere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali. Con la riforma del 2014 la distinzione tra concorso esterno e il delitto di scambio elettorale politico-mafioso è stato reso ancora più evidente dalla modifica della dosimetria sanzionatoria. L’art. 416-ter c.p. presenta, infatti, una cornice edittale autonoma significantemente più mite (reclusione da quattro a dieci anni41) rispetto a quella dell’art. 416-bis (reclusione da sette a dodici anni), indicativa del diverso livello di gravità delle condotte.

41

È attualmente in corso di esame in Parlamento un disegno di legge (S2067) volto ad introdurre un aumento di pena per il delitto in analisi (la pena originaria della reclusione da quattro a sei anni passerebbe a quella della reclusione da sei a dodici anni). Modifica, preordinata a dilatare i termini di prescrizione, che renderebbe meno netta la distinzione rispetto al concorso esterno.

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DELITTI DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DI STAMPO MAFIOSO E CUSTODIA CAUTELARE “QUASI OBBLIGATORIA”: UN PERCORSO CONCLUSO? di Michela Miraglia

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Dalla discrezionalità del giudice alla custodia cautelare “quasi obbligatoria”. – 3. Il “regime speciale”: la sostanza. – 4. La presunzione assoluta di adeguatezza e i delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso: ragionevolezza costituzionale. – 5. La “nuova era” della giurisprudenza costituzionale in materia di presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. – 6. L’incostituzionalità della custodia cautelare “quasi obbligatoria” per i reati di “ambientazione mafiosa” e per l’ipotesi del concorso esterno. – 7. Il trittico dei regimi dopo l’entrata in vigore della l. n. 47/2015.

1. Premessa. Per quanto attiene ai criteri di scelta delle misure cautelari personali i primi tre commi dell’art. 275 c.p.p., nella sua versione originale, prevedevano 1: 1. Nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. 2. Ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata. 3. La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre mi-

1

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che i criteri indicati nell’art. 275 c.p.p. siano riferibili anche alle misure cautelari reali. Cfr., ex plurimis, Cass., Sez. V, 16 gennaio 2013, n. 8382, in C.e.d. 254712.

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sure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate 2.

Tali disposizioni tratteggiavano, quindi, un unico regime da applicarsi a tutte le fattispecie criminose, di qualunque gravità, fondato sui principi della proporzionalità 3, dell’adeguatezza e della custodia cautelare come extrema ratio 4, resa «direttiva esplicita» 5, che lasciava al giudice competente la discrezionalità di scegliere la misura da applicarsi, nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 280 e 287 c.p.p. e della richiesta del pubblico ministero, limite massimo all’afflittività della misura individuata 6, «secondo il modello della “pluralità graduata”» 7. In base alla citata versione originaria del comma 3 dell’art. 275 c.p.p., da coordinarsi con le disposizioni in materia di motivazione dell’ordinanza cautelare contenute nell’art. 292 c.p.p., il giudice competente era tenuto a motivare in modo pregnante nel caso di applicazione della misura custodiale, mentre non doveva offrire una motivazione specifica qualora decidesse di non applicare alcuna misura o nel caso scegliesse, per procedimenti aventi ad oggetto «fattispecie criminose di accentuata gravità» 8, di applicare una misura diversa da quella carceraria. 2 Per una trattazione generale sulle misure cautelari si veda P. CORSO, Le misure cautelari, in AA.VV., Procedura penale, V ed., Giappichelli, Torino, 2015, p. 365 ss. 3 Sul principio di proporzionalità nel processo penale e, più specificamente, sullo stesso nel testo dell’art. 275 c.p.p. e in rapporto alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere si veda M. CAIANIELLO, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in Dir. pen. cont., 2014, p. 143 ss. 4 Sui principi di adeguatezza e di proporzionalità si veda, per tutti, V. GREVI, Misure cautelari, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, 2a ed., Cedam, Padova, 1991, p. 221 ss.; più recentemente ID., Misure cautelari, in G. CONSO-V. GREVI -M. BARGIS (a cura di), Compendio di procedura penale, 8a ed., Cedam, Padova, 2016. 5 F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Giuffrè, Milano, 2012, p. 483. 6 Sulla procedura di applicazione delle misure cautelari si veda P. CORSO, Le misure cautelari, in AA.VV., Procedura penale, IV ed., cit., p. 376 ss.; sul rapporto fra richiesta del pubblico ministero e discrezionalità del giudice competente cfr. C. CARINI, in G. SPANGHER-C. SANTORIELLO (a cura di), Le misure cautelari personali, vol. I, Giappichelli, Torino, 2009, p. 142 ss. 7 G. GIOSTRA, Carcere cautelare “obbligatorio”: la campana della Corte costituzionale, le “stecche” della Cassazione, la sordità del legislatore, in Giur. cost., 2012, p. 4898. 8 Cfr. D. SCHELLINO, Sub art. 275 c.p.p., in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, I agg., Utet, Torino, 1993, p. 115. Per una critica a tale scelta operata dal legislatore delegato si veda M. CHIAVARIO, Sub art. 275, in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. III, Utet, Torino, 1990, pp. 67-68.

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Il comma 3 della norma in esame è stato oggetto, ben presto dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, di numerose modifiche, introdotte per mezzo del contestato strumento della decretazione d’urgenza, che hanno coniato, con un ambito di operatività variabile, un secondo regime, “speciale”, definito di custodia cautelare “quasi obbligatoria” 9, predisposto anche con l’intento di voler colmare, se pur in modo anomalo, la summenzionata lacuna in ambito motivazionale 10. Il presente contributo si propone di svolgere una disamina delle problematiche inerenti alla custodia cautelare “quasi obbligatoria”, specificamente in materia di reati associativi di stampo mafioso e di “reati di contesto mafioso”. Il regime speciale verrà analizzato, in primis, cercando di ricostruire le tappe fondamentali dell’intervento del legislatore, per individuarne i contenuti e l’ambito di operatività, come già ricordato, variabile a seconda del dettato delle diverse novelle. Esso sarà, inoltre, esaminato attraverso le pronunce della Corte costituzionale che hanno contribuito a definirne ed interpretarne i contorni. Proprio con riferimento a questi ultimi aspetti, l’esame dell’argomento, pur avendo origine dalle fattispecie criminose sopra menzionate, non può tralasciare quelle via via ricomprese nel suo ambito di operatività che hanno dato origine ad uno “sciame” 11 di sentenze della Consulta, all’interno delle quali si sono cristallizzati i canoni interpretativi del giudice delle leggi che hanno poi condotto il legislatore a modificare nuovamente l’art. 275, comma 3 c.p.p. attraverso la l. 7 aprile 2015 n. 47 9 Parla di «quasi-obbligatorietà della custodia cautelare» E. FASSONE, Garanzia e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in Quest. giust., 1991, p. 120 nt. 9 e di «carcere cautelare obbligatorio» G. GIOSTRA, Carcere cautelare “obbligatorio”, cit., p. 4897. 10 Fa riferimento ad un intervento per «colmare il vuoto lasciato nel sistema dal pur doveroso […] ripudio degli automatismi che connotavano il tradizionale istituto della “cattura obbligatoria» D. SCHELLINO, Sub art. 275 c.p.p., cit., p. 120. Ricorda come il “regime speciale” sia stato introdotto a seguito di «episodi nei quali l’ampio potere discrezionale affidato al giudice in materia di scelta delle misure cautelari non risulta sia stato esercitato con il rigore richiesto dalla peculiarità di certe vicende processuali e dalla personalità di certi imputati accusati di gravissimi delitti di criminalità organizzata» e come tale riduzione del potere discrezionale del giudice fosse stata valutata positivamente dagli ambienti giudiziari al fine di predisporre, a favore dei magistrati, «una sorta di “scudo normativo” che li ponesse al riparo dal pericolo di pressioni ed intimidazioni, soprattutto nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata» V. GREVI, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata: un primo bilancio, in V. GREVI (a cura di), Processo penale e criminalità organizzata, Laterza, Bari, 1993, pp. 10-11. 11 Per l’espressione cfr. V. MANES, Lo “sciame di precedenti” della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in Dir. pen. proc., 2014, p. 457 ss.

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con lo scopo di ricondurre le sue previsioni ad una disciplina costituzionalmente accettabile 12. Fine ultimo del presente contributo è poi quello di verificare se il testo in vigore dell’art. 275, comma 3 c.p.p. sia, effettivamente, la risposta al «suono della campana» 13 rappresentato dalle sentenze della Corte costituzionale e se presenti, ancora, aspetti critici nel rapporto con i principi costituzionali applicabili in materia cautelare.

2. Dalla discrezionalità del giudice alla custodia cautelare “quasi obbligatoria”. Come detto, la scelta del legislatore del 1988, a fronte di un acceso dibattito 14, fu quella di discostarsi radicalmente dal passato e, in particolare, dal regime speciale del “mandato di cattura obbligatorio” previsto per alcune fattispecie criminose dall’art. 253 del c.p.p. abr. 15, prevedendo, per quanto attiene alla scelta delle misure cautelari, un regime unitario per tutti i reati indipendentemente dalla loro gravità 16. La prima modifica della disposizione in questione fu operata dal d.l. 13 novembre 1990, n. 324, non convertito. Il regime speciale a cui abbiamo fatto riferimento fu, quindi, stabilmente introdotto dall’art. 5, comma 1, del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con l. 12 luglio 1991, n. 203. Le modifiche operate avevano delineato la custodia cautelare “quasi obbligatoria” nei seguenti termini: a fronte di una necessaria ed imprescindibile verifica in concreto della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, il legislatore sottraeva, in modo non radicale, al giudice l’ordinaria discrezionali12

Per le critiche riguardo all’esito dell’operazione legislativa si veda infra, § 7. L’espressione è di G. GIOSTRA, Carcere cautelare “obbligatorio”, cit., p. 4903. 14 Vedi D. SCHELLINO, Sub art. 275 c.p.p., cit., p. 114 ss. 13

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Sulla “cattura obbligatoria” si veda, per tutti, V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Giuffrè, Milano, 1976, p. 131 ss. Secondo autorevole dottrina con gli interventi legislativi di modifica del comma 3 dell’art. 275 sono stati «manipolati» tutti i criteri di scelta delle misure cautelari, ovvero quelli di gradualità, adeguatezza e proporzionalità, ed in particolare quello di adeguatezza, determinando non una vera e propria reintroduzione della “cattura obbligatoria”, ma «qualcosa di molto simile». Cfr. A. NAPPI, Il regime delle misure cautelari personali a vent’anni dal codice di procedure penale, in Cass. pen., 2009, pp. 4098-4099. 16

Cfr. supra, § 1.

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tà nella scelta della misura cautelare per alcune fattispecie criminose, introducendo due diverse presunzioni relative, la prima inerente alla sussistenza delle esigenze cautelari e la seconda avente ad oggetto l’adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, entrambe superabili con idonea motivazione. Il testo della norma in esame, per la parte che interessa alla nostra trattazione, risultante dalle interpolazioni legislative indicate, era il seguente: «Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 285, 286, 416-bis e 422 del codice penale, a quelli, consumati o tentati, di cui agli articoli 575, 628, comma 3, 629, comma 2, e 630 dello stesso codice, ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni ovvero ai delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo di guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’articolo 2, comma 3, della l. 18 aprile 1975, n. 110, ovvero ai delitti di cui all’art. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, comma 2, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che le stesse possano essere soddisfatte con altre misure».

L’ampio numero di fattispecie criminose ricomprese nell’ambito di operatività del nuovo regime e la loro eterogeneità era “compensata”, nell’ottica della tenuta costituzionale della norma, dalla natura “relativa” non solo della presunzione riferita alla sussistenza delle esigenze cautelari, ma anche di quella inerente all’adeguatezza della custodia cautelare in carcere che consentiva al giudice di superarla, applicando una misura meno gravosa per la libertà personale del suo destinatario, recuperando la sua discrezionalità, se pur a fronte di un’inversione dell’onere probatorio. Tale assetto ebbe, però, vita brevissima e l’art. 1 comma 1 del d.l. 9 settembre 1991, n. 292, convertito con l. 8 novembre 1991, n. 356, non mutando il novero dei reati sottoposti al regime speciale, abrogò l’ultima parte del comma dell’art. 275 c.p.p. laddove prevedeva che la presunzione iuris tantum relativa alla adeguatezza della custodia cautelare in carcere potesse

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essere superata e, quindi, scelta una misura meno afflittiva. La presunzione relativa si trasformava, così, in assoluta, non più iuris tantum, ma iure et de iure. Qualora il giudice, «posto di fronte ad un’alternativa dai contorni assai netti» 17, per i reati inclusi nell’elenco tassativo, ritenesse sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e non ritenesse, invece, superata la presunzione relativa in merito alla esistenza delle esigenze cautelari 18, non poteva far altro che applicare la misura della custodia cautelare in carcere. L’ambito di operatività del nuovo regime, che rappresentava, per alcune voci, una netta «involuzione, sul piano della salvaguardia dei diritti dell’indiziato» 19, era quello definito dall’elenco tassativo contenuto nell’art. 275, comma 3 c.p.p. 20. All’indomani della trasformazione descritta parte della dottrina aveva auspicato che il regime speciale, così congeniato, venisse presto archiviato, senza, tuttavia, dover tornare necessariamente alla versione originaria dell’art. 275, comma 3 e, quindi, alla disciplina unitaria 21. Tali “speranze” sono state disattese ed esso ha strenuamente resistito fino ai giorni nostri, senza mancare, però, di essere, ancora, oggetto di interventi legislativi, pronunce costituzionali e moniti dei commentatori. Gli interventi legislativi, la cui ricostruzione qui ci occupa, sono stati ondivaghi. Di fronte ad una custodia cautelare quasi obbligatoria applicabile nei procedimenti in cui venivano contestati numerosi delitti, alcuni anche tentati, decisamente eterogenei fra loro, l’art. 5, comma 1 della l. 8 agosto 1995, n. 332 ha operato una drastica riduzione. Nel tentativo di porre rimedio all’involuzione in materia di diritti dell’indagato, la novella in questione, invece di ridisegnare il regime speciale, riportando la presunzione in materia di adeguatezza della custodia cautelare in carcere alla sua originaria natura relativa, ha semplicemente ridotto, con scelta «compromissoria» 22, l’ambito di operatività dell’istituto, limitandone l’applicazione al 17

D. SCHELLINO, Sub art. 275 c.p.p., cit., p. 125. Per l’analisi della giurisprudenza in merito al superamento della presunzione in questione ed all’onere valutativo e motivazionale del giudice, cfr. infra, § 3. 19 D. SCHELLINO, Sub art. 275 c.p.p., cit., p. 126. 20 Per la genesi, stratificata, dell’elenco riportato si veda D. SCHELLINO, Sub art. 275 c.p.p., cit., pp. 117-118. 21 D. SCHELLINO, Sub art. 275 c.p.p., cit., p. 130. 22 E. MARZADURI, Sub art. 275 c.p.p., in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, III agg., Utet, Torino, 1997, p. 185. Per una ricostruzione del dibattito e delle vicende parlamentari che hanno preceduto la redazione del testo definitivamente approvato della l. n. 332/1995 cfr. E. MARZADURI, ivi, p. 181 ss. Secondo l’A. il 18

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caso in cui sussistessero «gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 416-bis del codice penale o ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». L’ambito di operatività del regime in esame, così come ridimensionato dalla l. n. 332/1995, è rimasto invariato per circa quindici anni, fino a quando, per mano, ancora una volta, della decretazione d’urgenza, l’elenco dei delitti a cui applicarlo è stato riespanso dall’art. 2 del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 («Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori»), convertito, con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009, n. 38, espressione di quella legislazione che alcuni autori hanno definito non tanto emergenziale, quanto «emozionale» 23: si trattava, infatti, della risposta legislativa all’allarme sociale «per la crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale […] presente, e tuttavia fortemente condizionato dalla percezione mediatica di tali vicende» 24. Alla luce della summenzionata novella il regime in questione, immutato nella sostanza, veniva reso applicabile ad un catalogo di numerosi reati, quasi identico a quello redatto dalla legislazione d’urgenza degli anni Novanta del secolo scorso, composto da ipotesi delittuose disomogenee 25. Il testo del comma 3, risultante dalle modifiche a cui ci si riferisce, era il seguente: regime viene ridefinito non solo dalla rielencazione delle fattispecie criminose, ma, indirettamente, anche dalla modifica dell’art. 291 c.p.p. che, nella versione in vigore dopo le modifiche introdotte dall’art. 8 della l. n. 332/1995, prevede che il pubblico ministero, nel richiedere la misura cautelare, trasmetta al giudice competente oltre che gli elementi su cui essa si fonda, anche tutti gli elementi a favore dell’imputato, che possono ricomprendere quelli su cui si basa la valutazione di insussistenza delle esigenze cautelari, pur ritenuti insufficienti dal PM per superare la presunzione relativa, ma rivalutabili, in tal senso, dal giudice. 23 Per l’espressione si veda G. BARROCU, La presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere: evoluzione normativa e giurisprudenziale, in Dir. pen. proc., 2012, p. 226. 24 E. MARZADURI, Sub art. 275 c.p.p., cit., p. 500. 25 Cfr. F. ZACCHÉ, Vecchi automatismi cautelari e nuove esigenze di difesa sociale, in O. MAZZA-F. VIGANÒ (a cura di), Il “Pacchetto Sicurezza” 2009 (Commento al d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 conv. in legge 23 aprile 2009, n. 38 e alla legge 15 luglio 2009, n. 94), Giappichelli, Torino, 2009, p. 290.

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«La custodia cautelare in carcere può essere disposta solo quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, comma 1, 600-ter, escluso il comma 4, e 600-quinquies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate».

La riforma operata dal legislatore del 2009 rappresentava, quindi, un «ritorno al passato» e consacrava definitivamente l’idea secondo la quale, in base alle disposizioni in commento, la misura cautelare, per le fattispecie incluse nell’elenco tassativo, si fosse trasformata in una sorta di «sanzione atipica» 26. Se il regime speciale, fondato sulla presunzione assoluta ed insuperabile di adeguatezza della misura custodiale, poteva far sorgere dubbi di costituzionalità, pur sopiti, non senza qualche «affanno argomentativo» 27, in maniera più o meno definitiva 28 dai ragionamenti della Corte costituzionale con riferimento ai reati di associazione di stampo mafioso ed a quelli di contesto mafioso, elaborati nell’ordinanza del 24 ottobre 1995, n. 450, a maggior ragione tali dubbi venivano riaccesi dall’applicazione della presunzione menzionata a reati eterogenei, dei quali solo alcuni a carattere associativo, e dalla commissione diversificata a seconda del caso concreto. Alcuni commentatori avevano sottolineato, da un lato, come non si comprendesse la ragione per cui il legislatore del 2009 non avesse inserito nell’elenco dei reati sottoposti al regime speciale ipotesi delittuose sicuramente gravi, quali, ad esempio, la rapina aggravata (art. 628, comma 3 c.p.) 26 F. ZACCHÉ, Vecchi automatismi, cit., p. 287. Come ben esplicitato dalla dottrina la custodia cautelare, quale anticipazione e sostituzione della pena, non è solo frutto della percezione del «sentire comune», indotta da «prassi devianti», ma è rafforzata da interventi legislativi che, attraverso «l’introduzione di presunzioni di pericolosità e automatismi applicativi», aggirano i principi del divieto di anticipazione della pena e della custodia cautelare come extrema ratio, pur a fronte della proclamazione della loro formale intangibilità: G. ILLUMINATI, Verso il ripristino della cultura delle garanzie in tema di libertà personale dell’imputato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1138. 27 G. GIOSTRA, Carcere cautelare “obbligatorio”, cit., p. 4898. 28 In proposito si vedano le successive sentenze della Corte costituzionale in merito alla costituzionalità del regime previsto dall’art. 275, comma 3 c.p.p. con riferimento ai “reati di contesto mafioso” ed al concorso esterno in associazione di stampo mafioso, rispettivamente, sentenza 29 marzo 2013, n. 57 e sentenza 25 febbraio 2015, n. 48. Cfr. infra, § 6.

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o l’estorsione aggravata (art. 629, comma 2 c.p.) al fianco delle ipotesi di cui all’art. 600-ter c.p.p.; dall’altro, come le tipologie di reato di cui all’art. 51, comma 3-bis e comma 3-ter c.p.p., alla luce dell’ordinanza n. 495/1995 della Corte costituzionale, che, pur riferendosi ai soli reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, aveva ritenuto ragionevole il regime speciale ed infondata la questione di costituzionalità sollevata 29, parevano adattarsi all’«approccio ermeneutico» seguito dalla Consulta che, invece, non sembrava giustificare in termini di compatibilità costituzionale, il “doppio binario” per altre fattispecie criminose, quali l’omicidio ed i reati sessuali 30. Altri autori, sempre con riferimento all’analisi della disposizione novellata, alla luce dei dicta dell’ordinanza sopraccitata dei giudici delle leggi, avevano valutato come improbabile una futura declaratoria di incostituzionalità con riferimento alle “nuove” fattispecie incluse nell’ambito di operatività del regime speciale, almeno per quanto atteneva alla presunzione iuris tantum, ed auspicabile, realisticamente, quale alternativa, la possibilità di rimettere in discussione il catalogo dei reati, ridimensionandolo 31. Tale analisi sembra aver colto, almeno in parte, nel segno, preannunciando le vicende giurisprudenziali e legislative che, dalla riforma del 2009, hanno condotto ai giorni nostri il testo del comma 3, secondo periodo, dell’art. 275 c.p.p. Per completare l’analisi sistematica di tali riforme è opportuno rammentare, fin d’ora 32, come la l. 16 aprile 2015, n. 47, operando un generale «restyling per le misure cautelari» 33, abbia riformato anche la disposizione che ci occupa e come abbia articolato il regime speciale in due diverse ipotesi, a seconda delle fattispecie criminose contemplate. Il testo oggi in vigore del comma 3 dell’art. 275 c.p.p. è di seguito riportato: 29

Per un’analisi più approfondita della pronuncia si veda, infra, § 4. Cfr. A. MARANDOLA, I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezzapubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. proc., 2009, p. 951. Per una precisa analisi delle ipotesi di reato incluse nel regime speciale dalla legislazione del 2009 si veda, da ultimo, S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza: eccessi e incongruenze del doppio binario cautelare, in L. GIULIANI (a cura di), La riforma delle misure cautelari personali, Giappichelli, Torino, 2015, p. 109 ss. 30

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F. ZACCHÉ, Vecchi automatismi cautelari, cit., p. 290. Per un’analisi più approfondita della riforma si veda infra, § 7. 33 L’espressione è di G. SPANGHER, Un restyling per le misure cautelari, in Dir. pen. proc., 2015, p. 529 ss. che rileva come la «riscrittura» dell’art. 275, comma 3 c.p.p., ricopra un ruolo centrale nell’ambito della riforma e della sottesa «strategia legislativa» volta a raggiungere l’obiettivo della decarcerizzazione (ID., ivi, p. 530). 32

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«La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate 34. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, comma 1, 600-ter, escluso il quarto comma, 600-quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».

Il legislatore ha differenziato i regimi speciali: il primo, applicabile solo ad ipotesi associative, continua a prevedere, come in passato, una presunzione relativa inerente alla sussistenza delle esigenze cautelari ed una assoluta, riferibile all’adeguatezza della custodia cautelare, imponendo al giudice la ben nota “scelta vincolata”. Nel secondo catalogo rientrano, invece, tutte le fattispecie criminose, diverse da quelle menzionate, che erano state ricondotte all’ambito di applicabilità del regime speciale, allora unitario, dal legislatore del 2009, sottoposte ad un trattamento “più blando”, secondo la via indicata dalla Consulta, fondato sulla trasformazione della presunzione assoluta di adeguatezza in presunzione relativa, che consente di applicare una misura diversa da quella carceraria, qualora, in riferimento al caso concreto, siano stati acquisiti elementi dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte da una misura meno afflittiva 35.

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La riforma della prima parte del terzo comma dell’art. 275 c.p.p. è volta a rafforzare il principio di adeguatezza e quello della custodia cautelare quale extrema ratio. Alcuni commentatori hanno, però, ritenuto tale riscrittura quale scelta «del tutto superflua» dal punto di vista pratico: cfr. A. MARANDOLA, I nuovi criteri di scelta della misura, in G.M. BACCARI-K. LA REGINA-E.M. MANCUSO (a cura di), Il nuovo volto della giustizia penale, Cedam, Padova, 2015, p. 409. 35 Parla di «tre differenti modelli di carcerazione cautelare», P. TONINI, La carcerazione cautelare per gravi delitti: dalle logiche dell’allarme sociale alla gestione in chiave probatoria, in Dir. pen. proc., 2014, p. 261. Per un’analoga indicazione, all’esito della riforma legislativa del 2015, si veda A. MARANDOLA, I nuovi criteri di scelta, cit., p. 412. Per l’analisi delle caratteristiche che contraddistinguono i due “modelli speciali”, sia prima che dopo la riforma introdotta dalla l. n. 47/2015, si veda infra, § 7.

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3. Il “regime speciale”: la sostanza. Delineate le vicende legislative che hanno inciso sul testo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p. è opportuno, ora, analizzare la “sostanza” del regime speciale. Come già accennato, inizialmente, secondo il dettato dell’art. 5, comma 1 del d.l. 13 maggio 1991, il legislatore aveva introdotto una doppia presunzione relativa, iuris tantum, quella inerente alla sussistenza delle esigenze cautelari e quella riguardante l’adeguatezza della custodia cautelare, entrambe superabili, qualora venissero presentati idonei elementi per dimostrare che, rispettivamente, non sussistevano, nel caso di specie, esigenze cautelari o che altra misura, meno gravosa, diversa da quella carceraria, potesse essere comunque adeguata a far fronte alle esigenze cautelari valutate “in concreto”. Tale assetto ebbe, però, breve vigenza, atteso che l’art. 1, comma 1 del d.l. 9 settembre 1991, n. 292, convertito con l. 8 novembre 1991 n. 356, soppresse dal testo del comma in esame le parole «o che le stesse possono essere soddisfatte con altre misure», trasformando la seconda presunzione, da iuris tantum in iuris et de iure e introducendo nel nostro ordinamento una custodia cautelare “quasi obbligatoria” 36. A prescindere dal fatto che, a parere di chi scrive, la modifica summenzionata e l’assetto descritto che ha resistito immutato, se non per la variazione del catalogo di reati rientranti nel suo ambito di operatività, fino al 2015 37, possano far ritenere la custodia cautelare in presenza delle fattispecie criminose di volta in volta coperte dal regime speciale come “pienamente obbligatoria” e non solo “quasi obbligatoria”, perché non applicabile solo nel caso in cui venga meno uno dei presupposti costituzionalmente imprescindibili, senza margine di discussione, per la restrizione della libertà personale attraverso una qualsiasi misura cautelare personale, ovvero la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o di almeno una delle esigenze cautelari previste dal codice di rito, è utile chiarire, in modo critico, l’affermazione appena riportata. Infatti è palese che l’adeguatezza della custodia cautelare in presenza di uno dei reati rientranti nell’elenco a cui fa riferimento l’art. 275, comma 3 c.p.p. sia “assolutamente presunta”; non altrettanto pacifico il fatto che il regime speciale si fondi anche sull’altra presunzione, quella inerente alla sussistenza delle esigenze cautelari, se pur tratteggiata in modo relativo. Le voci prevalenti in dottrina, infatti, riten36 37

Cfr. supra, § 1, nt. 9. Cfr. supra, § 1.

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gono indiscutibile l’individuazione del primo tassello del doppio binario nella presunzione relativa in questione, parlando talvolta anche di presunzione di pericolosità 38. Tale interpretazione del testo normativo, anche se prevalente, non è condivisa unanimemente dalla dottrina. Non vi è chi non abbia letto nel testo della norma indicazioni differenti da quelle appena analizzate. Secondo tali voci, per quanto attiene alle esigenze cautelari, l’unica presunzione rinvenibile è quella inerente alla gravità delle esigenze stesse che andrebbero, però, «esplicitamente individuate» 39. Sulla questione anche gli approdi prevalenti della giurisprudenza di legittimità sono, invece, pacifici. La sussistenza della presunzione in esame non rende necessario accertare le esigenze cautelari previste dalla legge, con un’importante ripercussione sull’obbligo motivazionale, in deroga allo schema ordinario: sul giudice di merito incombe solo l’onere di dare conto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere la presunzione in questione, avendo, invece, un onere più pregnante nel caso in cui il destinatario della misura o il suo difensore abbiano prodotto o segnalato elementi idonei a dimostrare l’insussistenza delle esigenze cautelari 40, sia che la valutazione conduca al superamento della presunzione sia che si concluda con esito negativo. In questo senso la giurisprudenza di legittimità, come sottolineato criticamente dalla dottrina, non solo ha ritenuto, logicamente, che la presunzione relativa incida sull’obbligo motivazionale, ma ha concluso in merito all’esistenza di un vero e proprio onere probatorio a carico del destinatario della misura (o della sua difesa), tenuto ad «allegare gli elementi che dimostrino l’insussistenza delle esigenze cautelari» 41. Al destinatario 38

Si veda, per tutti, E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali (Principi generali e disciplina), in Dig. disc. pen., vol. VII, 1994, p. 73; ID., Disciplina delle misure cautelari, cit., p. 507. Fa riferimento alla “presunzione di pericolosità” anche la giurisprudenza di legittimità. In merito all’uso delle locuzione si veda, ex multis, Cass., Sez. V, 16 gennaio 2007, n. 9211, in Guida dir., 2007, f. 16, p. 99. 39 S. FÙRFARO, Le limitazioni alla libertà personale consentite, in G. SPANGHER-C. SANTORIELLO (a cura di), Le misure cautelari personali, vol. I, Giappichelli, Torino, 2009, p. 78. 40 Cass., Sez. Un., 5 ottobre 1994, n. 16, in Cass. pen., 1995, p. 842, con nota di F.M. IACOVIELLO, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere. Per una panoramica della giurisprudenza di legittimità sul punto si veda P. SPAGNOLO, Sub Art. 275, in G. LATTANZI-E. LUPO (a cura di), Codice di procedura penale, vol. IV, Giuffrè, Milano, 2013, p. 368 ss. 41

G. ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari, in V. GREVI (a cura di), Misure cautelari e diritto di difesa, Giuffrè, Milano, 1996, p. 93. L’A. ritiene tale conclusione «senza alcun fondamento normativo».

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della misura spetterebbe, quindi, la deduzione di elementi specifici 42 senza che il giudice debba far altro se non presumere, appunto, la sussistenza delle esigenze cautelari 43. Il regime speciale, già evidentemente derogatorio rispetto ai principi generali che improntano la scelta della misura cautelare nel caso concreto, è da considerarsi, in quest’ottica ancor più gravoso, atteso che il superamento della presunzione può avvenire in «modi così … improbabili», tanto da trasformare la misura cautelare «in una sostanziale anticipazione del trattamento sanzionatorio, in quanto l’unico substrato “in positivo” del provvedimento cautelare è dato dall’accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza» 44. Si tratta, di fatto, di una «probatio diabolica, soprattutto perché nelle primissime fasi delle indagini, è […] quasi impossibile apportare elementi decisivi nel senso della mancanza assoluta di esigenze cautelari» 45. È il raggiungimento di tale prova, quella della mancanza assoluta di tutte le esigenze cautelari, l’unico modo per superare la presunzione e, quindi, per non applicare alcuna misura. Tale superamento può avvenire solo in «presenza di specifiche singole contestazioni che devono essere offerte dalla difesa» 46. Solo «elementi concreti e specifici» faranno sorgere l’obbligo motivazionale più pregnante sopra descritto non attivato, invece da elementi generici, quali, ad esempio, il periodo di carcerazione già sofferto, l’incensuratezza, l’assenza di carichi pendenti e il non essersi dati alla latitanza 47 che, in via ordinaria, quando non operi il regime speciale, vengono valutati dal giudice competente per scegliere la misura da applicare, in virtù dei principi di proporzionalità ed adeguatezza 48. In positivo, con specifico riferimento ai delitti di criminalità 42

Cass., Sez. III, 8 giugno 2010, n. 25633, in Cass. pen., 2012, p. 2208. Sul punto parte della dottrina offre un’interpretazione parzialmente divergente: non si verserebbe in «un’ipotesi di presunzione iuris tantum o di inversione dell’onere della prova», ma si tratterebbe solo di «una semplificazione dell’onere motivazionale del giudice in punto di applicazione di misure cautelari». Così T.E. EPIDENDIO, Presunzioni e misure cautelari personali, in S. CORBETTA-A. DELLA BELLA-G.L. GATTA, Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Ipsoa, Milano, 2009, p. 409. 43

Per un’analisi più approfondita della giurisprudenza in merito all’onere motivazionale del giudice ed allo standard probatorio necessario per far scattare un onere motivazionale più pregnante e per il superamento della presunzione si veda infra, in questo stesso paragrafo. 44 M. CHIAVARIO, Diritto processuale penale, VI ed., Utet, Torino, 2015, p. 776. 45 M. CHIAVARIO, Diritto processuale penale, cit., p. 776. 46 Cass., Sez. VI, 22 gennaio 2008, n. 10318, in Cass. pen., 2009, p. 268. 47 Cass., Sez. II, 13 marzo 2008, n. 16615, in Cass. pen., 2009, p. 3012. 48 In altre occasioni, oltre all’incensuratezza dell’imputato, non è stato considerato suf-

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organizzata di stampo mafioso, la prova richiesta per il superamento della presunzione è stata individuata nella dimostrazione della rescissione del vincolo con l’organizzazione, «definitivamente e irreversibilmente […], non essendo a tal fine sufficiente la mera assenza di elementi che inducano a ritenere la persistenza del vincolo» stesso 49. La giurisprudenza di legittimità, pur affermando ripetutamente che l’onere probatorio per il superamento della presunzione grava sul destinatario della misura, come accennato, tanto da far concludere che il regime speciale, per quanto attiene alla presunzione relativa, sia da analizzare esclusivamente dal punto di vista probatorio, in alcune occasioni ha ammesso che l’obbligo motivazionale più pregnante sopra descritto venga generato anche dall’emergere degli elementi idonei al superamento della presunzione nel corso dell’istruttoria dibattimentale 50. Sempre con riguardo al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. i giudici di legittimità hanno riflettuto su alcuni specifici elementi idonei o meno al superamento della presunzione iuris tantum. In relazione, ad esempio, alla collaborazione, da un lato hanno concluso che la mancata cooperazione dell’indagato, nel fornire agli inquirenti tutti gli elementi in suo possesso circa la struttura e l’organizzazione di un organismo di natura criminale, non sia da considerare di per sé elemento determinante per escludere il superamento della presunzione relativa e, nello specifico, per escludere la dissociazione del destinatario della misura dall’organismo stesso 51; dall’altro, pur non ipotizzando l’automaticità fra la collaborazione e il superamento della presunzione e, quindi, la libertà dell’indagato, tale collaboraficiente per il superamento della presunzione il fatto che l’imputato non si fosse dato alla fuga: Cass., Sez. III, 8 giugno 2010, cit. 49 Cass., Sez. II, 7 marzo 1997, n. 1788, in Giust. pen., 1998, III, 430. In senso analogo, con riferimento al persistere della presunzione di pericolosità, qualora non si dimostri l’impossibilità per l’indagato di continuare a fornire il suo contributo all’organizzazione: Cass., Sez. VI, 14 novembre 2008, n. 46060, in C.e.d. 242041; più recentemente, ex multis, Cass., Sez. V, 22 luglio 2015, n. 38119, in C.e.d. 264727 in cui si ribadisce che sul giudice di merito incombe l’esclusivo onere di dar conto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere la presunzione iuris tantum; contra, in modo minoritario, nel senso di ritenere superata la presunzione anche nel caso in cui si valutino specifici elementi che facciano ragionevolmente escludere la pericolosità dell’indagato, senza che sia necessario provare, in positivo, la rescissione del vincolo associativo: Cass., Sez. I, 16 dicembre 2003, n. 1848, in Cass. pen., 2004, p. 4146. 50

Cass., Sez. VI, 4 luglio 2000, n. 3092, in Giur. it., 2001, p. 1005. Sul punto, per pronunce analoghe successive all’entrata in vigore della l. n. 47/2015 si veda infra, § 7. 51

Cass., Sez. I, 19 novembre 2004, n. 45379, in Arch. nuova proc. pen., 2005, p. 189.

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zione viene considerata uno degli elementi idonei per affermare l’assenza di esigenze cautelari in relazione ai delitti di criminalità di stampo mafioso 52. Analogo ragionamento, con identiche conclusioni, è stato elaborato per quanto riguarda il decorso del tempo dalla commissione del reato 53 . A completamento di questa breve disamina, si deve rammentare, inoltre, come il regime speciale, secondo le linee interpretative della giurisprudenza di legittimità, trovi applicazione per tutta la durata del procedimento e come esso operi non solo nel momento genetico della vicenda cautelare, ma dispieghi i suoi effetti anche nel prosieguo della stessa 54. Pertanto, una volta applicata la custodia cautelare in carcere, nei casi previsti dall’art. 275, comma 3 c.p.p., in presenza di una presunzione assoluta di adeguatezza, essa non potrà essere sostituita con una misura meno gravosa, ma solo revocata, qualora venga sufficientemente provato il superamento della presunzione iuris tantum attinente alla sussistenza delle esigenze cautelari, secondo gli orientamenti tratteggiati, non rilevando, invece, l’attenuazione delle stesse per le ragioni sovraesposte. A tale conclusione, già prospettata dall’orientamento prevalente 55, sono giunte le Sezioni Unite che hanno af52

Cass., Sez. V, 10 gennaio 2000, n. 91, in C.e.d. 215677. Cass., Sez. V, 16 gennaio 2007, n. 9211, in Guida dir., 2007, f. 16, p. 99. Nella decisione citata si è affermato che il decorso del tempo assume rilievo solo quando emerga con certezza che la persona sottoposta alle indagini ha reciso irreversibilmente i legami con l’organizzazione criminosa di appartenenza. Recentemente, per quanto attiene ai reati di cui agli artt. 416, 600-bis comma 1, 609-bis e 609-quater c.p., si veda Cass., Sez. III, 15 luglio 2015, n. 33037, in C.e.d. 264190. Nella decisione i giudici, pur affermando come, qualora sia stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere per i reati contemplati all’art. 275, comma 3 c.p.p., non sia necessario che il giudice nell’ordinanza che dispone la misura cautelare motivi anche in ordine al tempo trascorso dalla commissione del fatto, ritengono però necessario che il giudice stesso valuti se la presunzione «non possa essere vinta proprio dal distacco temporale intervenuto, laddove lo stesso, per la sua significativa durata e per la combinazione con altri fattori, soggettivi o oggettivi, possa dare dimostrazione della insussistenza delle esigenze cautelari». 54 Deve essere qui richiamato il testo dell’art. 299, comma 2 c.p.p. che recita: «Salvo quanto previsto dall’art. 275, comma 3, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con un’altra meno grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità meno gravose». 53

55 Cass., Sez. Un., 19 luglio 2012, n. 34473, in Cass. pen., 2013, p. 31 con nota di M.E. GAMBERINI, Le Sezioni Unite sull’operatività della presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere nelle fasi successive a quella genetica: l’art. 275, comma 3, c.p.p. ancora alla Corte costituzionale. Tale interpretazione potrebbe, però, essere ritenuta in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo secondo l’interpretazione della Corte EDU. I Giudici di Strasburgo hanno, infatti, chiarito, con riferimento alla criminalità or-

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frontato la questione per dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto sul punto 56. Secondo l’opposto approdo, sconfessato, la presunzione assoluta di adeguatezza avrebbe regolato solo il momento iniziale della misura; con riguardo alle vicende successive alla sua adozione si sarebbe dovuto «valutare il decorso del tempo e la concreta sussistenza della pericolosità sociale, con la conseguenza della verifica circa la possibilità di sostituzione della misura originaria con altra meno afflittiva». Le Sezioni Unite giungono all’interpretazione menzionata ricostruendo la ratio dell’art. 275, comma 3 c.p.p., derogatorio rispetto alla regola generale contenuta nel comma 1 della stessa norma. Detto ciò si ritiene, quale conseguenza, che la «presunzione debba operare non solo nel momento genetico della misura, ma per tutte le vicende successive, in presenza di esigenze cautelari». La conclusione, secondo i giudici di legittimità, è rafforzata da ragioni logiche e sistematiche. In primis non avrebbe senso, per delitti valutati a priori dal legislatore come fattispecie criminose di rilevante gravità, imporre l’adozione della misura carceraria per consentire, nel prosieguo della vicenda cautelare, la sua sostituzione con misura meno gravosa. Dal secondo punto di vista la conclusione prospettata sembra avvalorata, secondo le Sezioni Unite, dal testo delle disposizioni che vengono in rilievo per la questione in analisi: l’art. 275, comma 3 c.p.p. e l’art. 299, comma 2 c.p.p. che richiama la presunzione di cui all’art. 275, comma 2 c.p.p., quale eccezione alle regole contenute nella stessa disposizione per la sostituzione della misura nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari o qualora le misure disposte non ganizzata, come la presunzione della sussistenza delle esigenze cautelari possa giustificare l’applicazione della misura nel momento genetico della stessa, ma non il suo mantenimento. Cfr. Corte EDU, Hilgartner c. Polonia, 3 giugno 2009. Sull’argomento si veda S. RUGGERI, Personal Liberty in Europe. A comparative analysis of pre-trial precautionary measures in criminal proceedings, in S. RUGGERI (ed.), Liberty and Security in Europe, V&R Unipress, Gottingen, 2012, p. 217 dove l’A. specifica che la decisione richiamata non pregiudica la precedente giurisprudenza della Corte in materia di presunzioni e misure cautelari. Dello stesso A., sulla medesima questione, si veda anche Tutela cautelare e salvaguardia dei diritti delle persone. Profili comparatistici e garanzie sovranazionali in Europa, in A. GABOARDI-A. GARGANI-G. MORGANTE-A. PRESOTTO-M. SERRAINO, Libertà dal carcere. Libertà nel carcere, Giappichelli, Torino, 2013, p. 189. Da ultimo, sulla problematica della ragionevolezza del mantenimento della custodia cautelare in carcere nelle decisioni della Corte di Strasburgo, si veda E. MARZADURI, Law in the books e law in action: la libertà personale tra rispetto della presunzione di non colpevolezza ed anticipata esecuzione delle sanzioni detentive, in Leg. pen., 2016, pp. 6-7. 56

Cass., Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 25167, in C.e.d. 247595. Contra, ex plurimis, Cass., Sez. VI, 9 luglio 2010, n. 32222, in C.e.d. 247596; conf. Cass., Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24924, in C.e.d. 229877.

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appaiano più, a differenza di quanto valutato dal giudice nel momento genetico, proporzionate all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata 57.

4. La presunzione assoluta di adeguatezza e i delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso: ragionevolezza costituzionale. Per trattare la problematiche inerenti al regime speciale, con riguardo ai delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso 58, si deve rammentare come la l. n. 332/1995 avesse limitato l’ambito di operatività del meccanismo eccezionale di scelta della misura cautelare, basato sulla presunzione iuris tantum e su quella iuris et de iure, ai soli delitti previsti dall’art. 416 bis c.p. ed ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni contemplate dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle medesime associazioni, definiti di “contesto mafioso” 59, ridimensionandolo, nell’ottica del ripristino delle ordinarie garanzie 60, almeno per quanto riguarda l’esclusione di altre fattispecie criminose alle quali tale regime era stato applicato a partire dal 1991. Inoltre, per completezza e per comprendere meglio le successive vicende interpretative, è necessario ricordare come la giurisprudenza di legittimità avesse pacificamente ritenuto operativa la custodia cautelare “quasi obbligatoria” non solo nel caso di partecipazione al sodalizio criminoso, ma anche nell’ipotesi del cosiddetto “concorso esterno” 61. In tempi recenti, prima che la disciplina in analisi venisse riformata 57

Cass., Sez. Un., 19 luglio 2012, cit. Cfr. supra, in questo stesso paragrafo, nt. 55. Sullo specifico argomento si vedano G. BORRELLI, Processo penale e criminalità organizzata, in G. GARUTI (a cura di), Modelli differenziati di accertamento, Tomo I, p. 305 ss. C. FIORIO, Custodia cautelare e presunzione di adeguatezza, in B. ROMANO (a cura di), Le associazioni di tipo mafioso, Utet, Torino, 2015, p. 355 ss. L’analisi viene condotta con riguardo alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore della l. n. 47/2015 alle cui modifiche apportate all’art. 275 sarà dedicata un’autonoma trattazione. Cfr. infra, § 7. 59 Sui “reati di contesto mafioso” si veda infra, § 6. 60 E. ZAPPALÀ, Commento agli artt. 4 e 5 l. 332 del 1995, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Cedam, Padova, 1995, p. 88. Una valutazione negativa sulla riforma in merito alle modifiche apportate dal regime speciale viene espressa da V. GREVI, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995, n. 332, in V. GREVI (a cura di), Misure cautelari e diritto di difesa, cit., p. 9. 61 Per quanto riguarda le problematiche relative al “concorso esterno” e la casistica più rilevante si vedano, per tutti V. MAIELLO, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa 58

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dalla l. n. 47/2015, la l. 23 febbraio 2015, n. 19 aveva esteso il “doppio binario” al reato di “scambio elettorale”, previsto e disciplinato dall’art. 416ter c.p., inserendo lo stesso nel catalogo di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. 62 Nel caso di “concorso esterno”, proprio accogliendo la definizione elaborata dalla giurisprudenza, che ha dato adito ad aspri dibattiti in dottrina 63, secondo la quale l’extraneus è un soggetto che non fa parte del sodalizio, ovviamente i giudici di legittimità avevano anche individuato una diversa prova necessaria per il superamento della presunzione relativa in merito alla sussistenza delle esigenze cautelari, rispetto a quella generalmente richiesta per il partecipe: se in questo ultimo caso per non applicare alcuna misura si doveva provare la rescissione del vincolo 64, in presenza di un concorrente esterno la presunzione relativa poteva essere «superata valutando in via prognostica la ripetibilità della situazione che ha dato luogo al contributo dell’“extraneus” alla vita della consorteria e, in questa prospettiva, tenendo conto dell’attuale condotta di vita e della persistenza o meno di interessi comuni con il sodalizio mafioso senza necessità di provare la rescissione del vincolo, peraltro in tesi già insussistente» 65. e tipizzazione giurisprudenziale, Giappichelli, Torino, 2014, passim; M. PELISSERO, Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in M. PELISSERO (a cura di), Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 300 ss.; G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, Milano, 2015, p. 428 ss.; C. VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Giappichelli, Torino, 2003, passim. Sul concorso esterno, recentemente, per quanto attiene alla giurisprudenza sovranazionale, si veda Corte EDU, Contrada c. Italia, 14 aprile 2015. Per la giurisprudenza richiamata in merito all’operatività della presunzione di pericolosità e di adeguatezza della misura custodiale nel caso di concorso esterno si vedano, ex multis, Cass., Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 42922, in C.e.d. 248801. 62 Per il reato di “scambio elettorale” si veda in questo volume, A. PECCIOLI, Il delitto di scambio elettorale politico mafioso tra interventi normativi e interpretazioni giurisprudenziali, p. 69 ss. 63 Per una ricostruzione critica in materia di concorso esterno si veda G. FIANDACA, La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, in LP, 2003, p. 691 ss. 64

Per la giurisprudenza minoritaria cfr. supra, § 3. Così, recentemente, Cass., Sez. VI, 8 luglio 2011, n. 27685, in Cass. pen., 2012, p. 1826 e, in senso conforme, dopo la sentenza della Corte Cost. n. 57/2013 (cfr. infra, in questo stesso paragrafo) Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2014, n. 9748, in Guida dir., 2015, f. 17, p. 81 secondo cui «La presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari opera anche nel caso in cui è contestata la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ma è superata se risulta esclusa, secondo una valutazione prognostica, la possibilità del ripetersi della situazione che ha dato luogo al contributo dell’extraneus alla vita della consorteria, a differenza di quanto rileva con riferimento alla partecipazione all’associazione ma65

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È con riguardo ad una vicenda inerente ai delitti di associazione di stampo mafioso e, in modo specifico, ad una vicenda che traeva origine dalla contestazione di delitti aggravati dalla finalità di agevolazione delle medesime associazioni 66, che venne sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 13 e 27 della Costituzione, decisa, peraltro, dopo la modifica apportata dalla l. n. 332/1995 67. Ed è proprio sulla base della “mafiosità” 68 che la Consulta ha elaborato il proprio ragionamento e, in conclusione, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione, “salvando” il doppio binario. La previsione assoluta di adeguatezza della misura cautelare custodiale per gli specifici reati di «spiccata gravità» non fu considerata in contrasto con gli articoli 3 e 13 della Costituzione, ritenendo che, a fronte di un imprescindibile necessità di accertamento delle esigenze cautelari «di volta in volta», l’an della cautela, non sia necessario attribuire al giudice sempre e comunque il potere di individuare ed applicare la misura più adeguata, scelta, attinente al quomodo della cautela, che può essere compiuta, a priori, dal legislatore, «nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti». È appunto al legislatore che, secondo la Corte, spetta individuare «il punto di equilibrio tra le diverse esigenze, della minore restrizione possibile della libertà personale e dell’effettiva garanzia delle esigenze cautelari». La ragionevolezza, o meglio la non-irragionevolezza, dell’esercizio della discrezionalità del legislatore, viene considerata manifesta attesa la pericolosità che contraddistingue i delitti in questione «per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettifiosa, giacché in tal caso, atteso l’evidenziarsi di una situazione di affectio societatis, la presunzione è vinta solo se siano acquisiti elementi tali da dimostrare in concreto un inconsistente allontanamento del soggetto rispetto all’associazione». In senso conforme, dopo la sentenza della Corte Cost. n. 48/2015 si veda Cass., Sez. II, 17 giugno 2015, n. 32004, in C.e.d. 264209. 66 La precisazione è utile per comprendere gli ulteriori passi “evolutivi” della giurisprudenza costituzionale per quanto attiene alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. 67 Corte Cost., ordinanza 24 ottobre 1995, n. 450. In merito alle precedenti pronunce della Consulta che, prima della decisione in esame, avevano fatto salve le ipotesi di “cattura obbligatoria” si vedano: Corte Cost., sentenza 4 maggio 1970, n. 64; Corte Cost., sentenza 23 gennaio 1980, n. 1; Corte Cost., sentenza 14 gennaio 1982, n. 15; Corte Cost., sentenza 14 dicembre 1983, n. 342; Corte Cost., ordinanza 20 luglio 1995, n. 339. Per un’analisi delle decisioni menzionate cfr. P. MOSCARINI, L’ampliamento del regime speciale della custodia cautelare in carcere per gravità del reato, in Dir. pen. proc., 2010, p. 231. 68

A. MARANDOLA, I profili processuali, cit., p. 951.

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va» e che fa, quindi, escludere il contrasto con l’art. 3 della Costituzione 69. Non trovò accoglimento neppure la censura di disparità di trattamento per un identico trattamento cautelare nel caso di delitti differenti, poiché, secondo il Giudice delle leggi, il regime speciale era delimitato all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, uniti da un minimo comune denominatore, ragione posta alla base della scelta del legislatore 70. La Corte costituzionale, in conclusione della decisione esaminata aggiunse, in modo «sorprendente» 71, che, una volta assodato il rispetto della riserva di legge ex art. 13 Cost., il richiamo operato dall’ordinanza di rimessione alla presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 della stessa Carta costituzionale dovesse essere considerato «manifestamente non conferente, data l’estraneità di quest’ultimo parametro all’assetto e alla conformazione delle misure restrittive della libertà personale che operano sul piano cautelare, che è piano del tutto distinto da quello concernente la condanna e la pena» 72, negando la condivisibile linea interpretativa di chi aveva affermato come l’automatismo cautelare in questione si fondasse sulla presunzione della pericolosità sociale dell’imputato, più che sulla presunzione dell’esistenza delle esigenze cautelari, conseguente alla fattispecie criminosa contestata e come esso fosse in «aperto contrasto con quanto stabilito dall’art. 27, comma 2 Cost.» 73. La custodia cautelare obbligatoria era stata fatta salva, quindi, dalla Corte costituzionale sulla base del minimo comune deno-

69

Sul ragionamento della Corte costituzionale si vedano le osservazioni critiche di D. NEGRI, Sulla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere nell’art. 275 comma 3 c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 2840. 70

Per un’analisi dell’atteggiamento “accondiscendente” della Consulta in merito alle ipotesi di “cattura obbligatoria” prima del 2010 si veda P. MOSCARINI, L’ampliamento del regime speciale, cit., p. 231 dove l’A. dubita, presagendo le linee interpretative future della Corte costituzionale, che, con le modifiche apportate all’art. 275, comma 3 c.p.p. dal d.l. n. 11/2009, il legislatore «si sia davvero mantenuto entro i limiti della ragionevolezza che la Corte costituzionale, sin dalla sentenza n. 64 del 1970, ha ritenuto “non sindacabili”». 71

O. MAZZA, Le persone pericolose (in difesa della presunzione di innocenza), in www.pe nalecontemporaneo.it, 20 aprile 2012, p. 10. L’A. chiarisce come la decisione non brilli «per chiarezza argomentativa». 72

Per un parziale revirement sul punto specifico si vedano le decisioni costituzionali a partire dalla sentenza della Corte Cost., 21 luglio 2010, n. 265. Cfr. infra, §§ 5 e 6. Sottolinea, da ultimo, questa meritoria “evoluzione” nella giurisprudenza della Consulta E. MARZADURI, Law in the books e law in action, cit., pp. 4-5. 73 Così O. MAZZA, Le persone pericolose, cit., p. 9. L’A. ritiene che l’uso della custodia cautelare come strumento di difesa sociale, sia, di per sé, a prescindere da qualsiasi automatismo, in palese contrasto con il principio della presunzione di non colpevolezza.

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minatore che unisce i delitti ai quali, grazie alla riforma della l. n. 332/ 1995, poteva essere applicata e del concetto di adeguatezza che, a parere della Consulta, poteva essere scisso dalla valutazione in concreto operata dal giudice, valutazione affidata al legislatore e compiuta dallo stesso a priori, sulla base della gravità e delle caratteristiche “ontologiche” delle fattispecie criminose contestate. Per dovere di completezza è, inoltre, utile richiamare la decisione Pantano c. Italia 74 in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riflettuto, anch’essa, riferendosi ovviamente al dato convenzionale, sulla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere applicata ai delitti di criminalità di stampo mafioso. La Corte di Strasburgo, pur ritenendo che la presunzione prevista dall’art. 275, comma 3 c.p.p., potrebbe «impedire al giudice di adattare la misura cautelare alle esigenze di ogni caso di specie e potrebbe quindi apparire eccessivamente rigida», conclude per la sua compatibilità con l’art. 5 della CEDU se riferita al delitto di cui all’art. 416-bis c.p., perché, in tal caso, la custodia cautelare in carcere può essere considerata lo strumento migliore per interrompere il legame fra «le persone interessate ed il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti simili» 75.

5. La “nuova era” della giurisprudenza costituzionale in materia di presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. Per quanto discutibile sotto diversi punti di vista, la motivazione della Corte costituzionale elaborata per “salvare” la presunzione assoluta di adeguatezza aveva una sua coerenza, legata, come detto, alla gravità delle

74

Corte EDU, Pantano c. Italia, 6 novembre 2003. Per un commento alla decisione si veda G. MANTOVANI, Dalla Corte europea una “legittimazione” alla presunzione relativa di pericolosità degli indiziati per mafia, in LP, 2004, p. 513 ss. 75 Secondo autorevoli voci in dottrina, nel raffronto fra la menzionata sentenza della Corte costituzionale e quella della Corte EDU, si evidenzia come la Corte di Strasburgo non cada «nella macroscopica contraddizione, riscontrabile, invece, nella giurisprudenza costituzionale, di giustificare una cautela di matrice specialpreventiva e di richiamare, al tempo stesso, la presunzione di innocenza quale criterio guida nell’applicazione delle misure cautelari». Cfr. O. MAZZA, Le persone pericolose, cit., p. 12.

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fattispecie criminose ricomprese nell’ambito di operatività del regime speciale ed alle caratteristiche ontologiche del reato di associazione di stampo mafioso 76. Il legislatore del 2009 sembra aver ignorato tale motivazione, “verso il basso”, dal punto di vista delle garanzie dell’indagato e della coerenza del sistema, per quanto relativa, con riguardo al rispetto dei principi costituzionali. Così come detto sopra, infatti, il d.l. n. 11/2009 ha ampliato il catalogo dei reati di cui all’art. 275, comma 3 c.p.p., introducendo nello stesso una serie ampia di fattispecie criminose, in parte indicate specificamente secondo il criterio qualitativo, in parte incluse attraverso il richiamo all’art. 51, comma 3-bis c.p.p. Una previsione già generalmente criticabile dal punto di vista costituzionale, definita da alcuni indifendibile 77, era stata nuovamente estesa a fattispecie non solo marcatamente eterogenee fra loro, ma caratterizzate da una pronunciata variabilità nella commissione del reato 78. La “presbiopia” del legislatore aveva ulteriormente “forzato il sistema” 79, generando anche, alla luce, del ragionamento elaborato dalla Corte costituzionale nella pronuncia del 1995, i presupposti per ulteriori dichiarazioni di incostituzionalità. Esse non si sono fatte attendere. Sono otto ed accomunate da una scelta di fondo: dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p. per le singole fattispecie criminose in relazione alle quali la questione era stata sollevata 80, nella parte in cui prevedeva la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere, trasformando la stessa in una presunzione relativa e, quindi, superabile. Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio le decisioni menzionate al cui testo si rimanda, ma è utile richiamare alcuni passaggi delle stesse, per ricostruire il ragionamento di fondo del giudice delle leggi, individuandone i punti di forza e di debolezza. A tal proposito è utile ripercorrere la motivazione della sentenza 21 lu76 In questo senso si doveva, forse, svolgere un discorso differenziato per i reati di contesto mafioso, dalla cui commissione aveva peraltro avuto origine la vicenda che aveva condotto a sollevare e decidere la questione di costituzionalità, e l’ipotesi di concorso esterno. 77 Per l’indifendibilità costituzionale del regime speciale si veda P.P. PAULESU, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Giappichelli, Torino, 2008, p. 141. Più recentemente si veda anche M. DANIELE, I vizi degli automatismi cautelari persistenti nell’art. 275, comma 3, c.p.p., in Dir. pen. proc., 2016, p. 114. 78

Sul punto cfr. infra, in questo stesso paragrafo. Cfr. S. QUATTROCOLO, Quando il legislatore ordinario forza i principi generali, il giudice forza i limiti della giurisdizione, in www.penalecontemporaneo.it, 17 febbraio 2012. 79

80

Sul punto cfr. infra, in questo stesso paragrafo, nt. 82.

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glio 2010, n. 265, leading case 81 della nuova fase di riflessione, seppur poco coraggiosa, sulla tenuta costituzionale delle presunzioni in materia cautelare. Nella decisione citata la Consulta ha affrontato la questione di incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p. in relazione ai reati previsti e puniti dagli artt. 609-bis, 609-quater e 600-bis, comma 1 c.p. 82. Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della controversa disposizione, fondamento del regime speciale, con riferimento agli artt. 3, 13 comma 1 e 27 comma 2 della Costituzione, la Corte ha innanzitutto ribadito come l’applicazione delle misure cautelari non possa «essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere – direttamente o indirettamente – a finalità proprie della sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo» 83. Il legislatore deve, quindi, tipizzare i casi ed i modi di restrizione della libertà personale, individuando «esigenze diverse da quelle dell’anticipazione della pena», 81 G. ILLUMINATI, Verso il ripristino, cit., p. 1142. La sentenza è definita «capofila» da A. MARANDOLA, Verso un nuovo statuto cautelare europeo?, in Giur cost., 2011, p. 2167. 82 Come si è detto sopra, la Corte costituzionale ha dichiarato, nelle diverse sentenze pronunciate, l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p. con riferimento alle singole e specifiche fattispecie criminose sottoposte al suo esame. Tale approccio non è stato ben compreso da parte dei giudici di legittimità che con la sentenza Cass., Sez. III, 3 febbraio 2012, n. 4377, in Cass. pen., 2012, p. 918, in merito al reato di cui all’’art. 609-octies c.p., definito giornalisticamente “stupro di gruppo”, ebbero a scrivere che i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 265/2010 si dovessero intendere come “applicabili” anche alla fattispecie oggetto del ricorso, in relazione alla quale il giudice competente per la materia cautelare avrebbe dovuto poter scegliere misure diverse da quella custodiale, secondo un’interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’art. 275, comma 3. Sulla sentenza in questione si veda, oltre il già menzionato commento di S. QUATTROCOLO, Quando il legislatore ordinario, cit., p. 1 ss., L. GIULIANI, Violenza sessuale di gruppo e discrezionalità del giudice de libertate: dalla Corte di cassazione una quinta declaratoria di incostituzionalità della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare, in Cass. pen., 2012, p. 921 ss. La Consulta, in una successiva pronuncia in cui ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p. con riguardo al delitto di associazione per delinquere finalizzato alla commissione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. (Corte Cost., sentenza 3 maggio 2012, n. 110), è intervenuta sul punto specifico chiarendo che «le parziali declaratorie di illegittimità costituzionale della norma impugnata, aventi per esclusivo riferimento i reati oggetto delle precedenti pronunce di questa Corte, non si possono estendere alle altre fattispecie ivi disciplinate» e ancora che «la lettera della norma impugnata, il cui significato non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme […], non consente in via interpretativa di conseguire l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre». 83 La Corte ribadisce concetti già espressi nella precedente giurisprudenza a partire dalla sentenza 4 maggio 1970, n. 64, cit., espressamente richiamata.

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alla quale la misura cautelare non deve e non può mai tendere. Alla luce dei principi costituzionali applicabili alla materia della libertà personale consegue, quale «corollario indefettibile», che la relativa disciplina delle eventuali limitazioni debba ispirarsi al principio del «minore sacrificio necessario», in base al quale la restrizione della libertà personale deve essere disposta entro i limiti minimi per far fronte alle esigenze cautelari individuate concretamente. In questo contesto la restrizione custodiale deve essere consentita solo quando le esigenze summenzionate non possano essere soddisfatte da altre misure meno gravose. In tal senso si è espressa in precedenza non solo la stessa Corte costituzionale 84, ma anche la Corte di Strasburgo in riferimento alla previsione dell’art. 5, par. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo 85. Il ricorso alla custodia cautelare intesa come extrema ratio è riscontrato dalla previsione contenuta nell’art. 292, comma 2, lett. c) c.p.p. che prevede uno specifico obbligo di motivazione imposto a pena di nullità. Dopo aver ricostruito la disciplina codicistica ordinaria in merito all’applicazione delle misure cautelari e, più specificamente, ai criteri di scelta delle stesse, la Consulta descrive il meccanismo «derogatorio» che ha trovato spazio, successivamente all’entrata in vigore del testo originario del codice di procedura penale del 1988, nel comma 3 dell’art. 275 c.p.p., “ritoccato” in diverse riprese dal legislatore, fondato sulla doppia presunzione più volte descritta che determina una conseguente attenuazione dell’obbligo di motivazione operante in via ordinaria ai sensi dell’art. 292 c.p.p. Inoltre la Corte rammenta come tale “meccanismo speciale” sia stato fatto salvo dalla Consulta nella ben nota ordinanza n. 450/1995 che concluse per la sua ragionevolezza riferendosi, quasi esclusivamente, alla gravità ed uniformità delle fattispecie criminose alle quali il regime poteva essere applicato, via seguita anche dalla Corte di Strasburgo nella decisione Pantano c. Italia 86. Il “regime speciale”, però, è stato reso applicabile dalla “legislazione emergenziale” del 2009, dopo l’intervento garantista e ripristinatorio operato dalla l. n. 332/1995, «compiendo un “salto di qualità” a ritroso», oltre i confini dei reati di associazione di stampo mafioso e di contesto mafioso, a fattispecie criminose eterogenee. Muovendosi all’interno di questo “nuovo” assetto, la riflessione della Corte costituzionale prosegue utiliz84

Il richiamo è, quindi, alla sentenza Corte Cost., 22 luglio 2005, n. 299, per quanto attiene al principio “del minore sacrificio necessario”. 85

La Corte costituzionale richiama Corte EDU, 2 luglio 2009, Vafiadis c. Grecia e 8 novembre 2007, Lelièvre c. Belgio. 86

Cfr. supra per le differenze nel ragionamento elaborato dalle due Corti.

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zando una specifica chiave di lettura che si fonda sulle presunzioni assolute e sul loro difetto di ragionevolezza qualora, come già scritto nei precedenti della Consulta, esse «specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» 87. Per tali ragioni, nel caso sottoposto al suo esame, la Corte ritiene che la presunzione assoluta non sia ragionevole proprio sulla base dell’eterogeneità delle situazioni sottoposte, tutte e nello stesso modo, al regime speciale e altamente derogatorio rispetto a quello ordinario 88. Se con riferimento ai “reati mafiosi”, le comuni massime di esperienza possono far ritenere altamente probabile il mantenimento del vincolo nel caso di adozione di una misura diversa da quella custodiale, in presenza delle fattispecie criminose in relazione alle quali è stata sollevata la questione di costituzionalità, «non è consentito pervenire ad analoga conclusione», poiché i fatti che integrano i delitti in esame, per quanto «odiosi e riprovevoli […] ben possono essere e in effetti spesso sono meramente individuali, e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura». La ragionevolezza deve, quindi, essere ricercata nel rapporto fra la fattispecie criminosa, le esigenze cautelari e le conclusioni, come quella riportata, elaborate attraverso l’id quod prerumque accidit, e non può essere rinvenuta nella «gravità astratta del reato, considerata sia in rapporto alla misura della pena, sia dell’interesse tutelato». La presunzione assoluta, inoltre, nelle parole della Corte non può trovare la sua legittimazione «nell’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, determinata dall’asserita crescita numerica di taluni delitti». Infatti il compito descritto è una funzione tipica della pena e non della misura cautelare. Per tali ragioni i giudici delle leggi ritengono che la norma impugnata violi, se pur in parte, l’art. 3 della Costituzione «per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a 87

Così la Corte costituzionale cita la sua precedente sentenza Corte Cost., 16 aprile 2010, n. 139. 88

La deroga è così marcata da far affermare ad alcuni autori che la previsione delle presunzioni di pericolosità in esame consenta di aggirare, in concreto, il divieto di anticipazione della pena e, ancor più evidentemente, il principio della custodia cautelare in carcere come extrema ratio. In proposito si veda supra, § 4.

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quelli concernenti i delitti di mafia nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati»; inoltre essa viola l’art. 13, comma 1 della Costituzione, «quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale»; infine si riscontra la violazione dell’art. 27, comma 2 della Costituzione poiché l’art. 275, comma 3 c.p.p., con riferimento alle fattispecie criminose oggetto del vaglio, «attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena». La Corte, però, non fa cadere completamente la presunzione di adeguatezza, ma la “trasforma” in presunzione relativa, recuperando, a suo dire, la “ragionevolezza” necessaria per il suo mantenimento. I giudici della Consulta dichiarano, quindi, l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, c.p.p., «nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, comma 1, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Alla “sentenza pilota” sono seguite altre sette decisioni attraverso le quali la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p. in riferimento a diverse fattispecie criminose: la sentenza n. 164/2011 relativa al reato di omicidio volontario previsto dall’art. 575 c.p.; la sentenza n. 231/2011 riguardante l’associazione finalizzata al narcotraffico; la sentenza n. 110/2012 per quanto attiene all’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati in materia di contraffazione di marchi o altri segni distintivi e di importazione o di detenzione ai fini di commercio delle cose recanti segni contraffatti; la sentenza n. 57/2013 concernente i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal medesimo articolo; la sentenza n. 213/2013 riguardante il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione disciplinato dall’art. 630 c.p.; la sentenza n. 232/2013 concernente il delitto di violenza sessuale di gruppo previsto dall’art. 609octies c.p. ed, infine, la sentenza n. 48/2015 relativa all’ipotesi di cui all’art. 416-bis c.p. «sia pure nella sola declinazione del concorso esterno» 89. In tutti i provvedimenti menzionati la Corte costituzionale ha seguito il 89 G. LEO, Cade la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere anche per il concorso esterno nell’associazione mafiosa, in www.penalecontemporaneo.it, 30 marzo 2015.

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ragionamento elaborato nella sentenza n. 265/2010 – riflettendo, di volta in volta, sullo specifico reato in relazione al quale la questione di costituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p. era stata sollevata – basato sulla ragionevolezza/irragionevolezza della presunzione assoluta, sull’id quod plerumque accidit e sulla funzione della misura cautelare che non può e non deve essere coincidente con quella della pena. In tal senso può essere utile richiamare, anche se solo per cenni, le motivazioni delle due decisioni che, al di fuori della materia dei “reati mafiosi”, ai quali verrà dedicata un’autonoma trattazione, hanno dichiarato l’incostituzionalità della norma in esame con riferimento ad ipotesi associative. Nell’analizzare le modifiche introdotte dal legislatore del 2009, si è detto, infatti, che, anche alla luce dei dicta contenuti nell’ordinanza della Corte Cost. n. 450/1995, si è ritenuto particolarmente critico estendere il regime fortemente derogatorio ad ipotesi criminose non solo del tutto eterogenee, ma frequentemente a commissione individuale. È interessante, però, verificare come, sempre nel raffronto con le linee seguite nella menzionata ordinanza, la Consulta, in questa “seconda era”, abbia affermato l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p. anche quando si sia trovata ad analizzare la questione a fronte di ipotesi criminose a carattere associativo, diverse da quella prevista dall’art. 416-bis c.p. Nel primo caso, con la decisione n. 231/2011 90, la Corte ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p., con riguardo al delitto previsto dall’art. 74 del T.U. stupefacenti, ipotesi associativa, ma per la Consulta “a forma aperta”, forma che incide sull’organizzazione assolutamente variabile attraverso la quale può manifestarsi ed operare l’associazione in questione. Si spazia «dal grande sodalizio internazionale con struttura imprenditoriale, che controlla tanto la produzione che l’immissione sul mercato dello stupefacente, fino ad arrivare al gruppo attivo in ambito puramente locale e con organizzazione del tutto rudimentale […]», mancando, al contempo, quelle caratteristiche, come ad esempio, il necessario forte radicamento nel territorio dell’associazione, i fitti collegamenti personali e la particolare forza intimidatrice che avevano indotto la Consulta a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza con riguardo ai reati di mafia, difetto che, appunto, insieme a ad altri «elementi, anche sopravvenuti rispetto all’applicazione della misura», come l’indebolimento dei legami tra gli associati o il superamento della tossicodipendenza da par90

Sulla decisione in esame si veda L. SCOMPARIN, Censurati gli automatismi custodiali anche per le fattispecie associative in materia di narcotraffico: una tappa intermedia verso un riequilibrio costituzionale dei regimi presuntivi, in Giur. cost., 2011, p. 3730 ss.

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te dei singoli imputati, rende plausibile la possibilità di far fronte alle esigenze cautelari nei casi specifici attraverso misure diverse da quella custodiale. Lo stesso carattere “assolutamente associativo” del reato, non basterebbe, di per sé, secondo la Corte, a giustificare l’esistenza di una «regola generalizzata di esperienza» tale da rendere ragionevole la presunzione assoluta. Analoga linea interpretativa viene seguita nella sentenza n. 110/2012 che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 c.p.p., “trasformando” la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in presunzione relativa per il reato di cui all’art. 416 c.p. realizzato al fine di commettere le fattispecie criminose previste e disciplinate dagli artt. 473 e 474 c.p. Anche in riferimento all’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati in materia di contraffazione di marchi o altri segni distintivi e di importazione o di detenzione ai fini di commercio delle cose recanti segni contraffatti, la Consulta ha ritenuto pienamente applicabili le argomentazioni addotte nella sentenza precedente, poiché anche tale ipotesi criminosa può essere definita una «fattispecie “aperta” qualificata solo dalla tipologia dei reati fine […] e non già da specifiche connotazioni dell’associazione stessa, mancando, anche in tal caso, quelle connotazioni e quegli elementi qualificativi che connotano, invece, l’associazione a delinquere di stampo mafioso, tali da aver fatto sorgere comuni massime di esperienza sulla base delle quali poter affermare che la custodia cautelare in carcere è l’unica misura in grado di far fronte alle esigenze cautelari di volta in volta rinvenibili e, quindi, tali da giustificare sul piano costituzionale la presunzione assoluta». Le decisioni della Corte costituzionale in merito alle due specifiche ipotesi criminose hanno chiarito come non basti il carattere associativo per giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza, ma hanno anche specificato quale sia l’ulteriore “requisito” per considerare la presunzione ragionevole: le caratteristiche strutturali dell’associazione, le forme di manifestazione, il tipo di vincolo tra gli associati, tali da far concludere, su basi statistiche, che l’unica e sola misura cautelare idonea a far fronte alle esigenze cautelari ed, in particolare, ad interrompere il legame fra gli associati e l’associazione sia la custodia in carcere. Tale specificazione sembra rilevante per comprendere, poi, le ragioni per cui il legislatore del 2015, in modo più o meno condivisibile, abbia non solo mantenuto la presunzione assoluta di adeguatezza per quanto attiene all’associazione prevista dall’art. 416-bis c.p., ma l’abbia resa applicabile ad altre due ipotesi associative: l’associazione sovversiva (art. 270 c.p.) e l’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis c.p.) 91. 91

Sull’argomento si veda infra, § 7.

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6. L’incostituzionalità della custodia cautelare “quasi obbligatoria” per i reati di “ambientazione mafiosa” e per l’ipotesi del concorso esterno. Come già anticipato, la nuova linea interpretativa della Corte costituzionale in merito alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere ha condotto la Consulta ad abbassare la sua scure sulla custodia cautelare “obbligatoria” anche se applicata ai cosiddetti reati di contesto mafioso e al delitto previsto dall’art. 416-bis c.p., esclusivamente con riferimento all’ipotesi del “concorso esterno”, rispettivamente, con le sentenze del 29 marzo 2013 n. 57 e del 25 febbraio 2015 n. 48. L’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modifiche dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, prevede quale circostanza aggravante «l’aver commesso un delitto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo», ovvero nelle due articolazioni del “metodo mafioso” e “dell’agevolazione mafiosa” 92. Nel caso di contestazione dell’aggravante, in una delle suddette articolazioni, dall’origine dell’introduzione del regime speciale, per la previsione dell’art. 5 del d.l. n. 152/1992, si è potuta applicare, fino alla pronuncia della Corte costituzionale, la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. La riconducibilità delle ipotesi de quibus all’ambito di operatività della custodia cautelare obbligatoria e della doppia presunzione si poteva giustificare considerando la ratio della previsione legislativa che ha introdotto i “reati di contesto mafioso” 93 o di “ambientazione mafiosa”, ovvero «la finalità di reprimere il metodo delinquenziale mafioso che sia utilizzato (anche) dall’autore singolo sul presupposto della scontata esistenza, in un determinato ambito territoriale, di associazioni mafiose» 94. La sentenza n. 57/2013, «non imprevedibile ma niente affatto scontata» 95, fonda la propria conclusione, che consiste ancora una volta, come

92

Cfr. L. DELLA RAGIONE, L’aggravante della “ambientazione mafiosa” (art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152), in V. MAIELLO (a cura di), La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, Giappichelli, Torino, 2015, p. 71. 93

R. ADORNO, L’inarrestabile irragionevolezza del carcere cautelare “obbligatorio”: cade la presunzione assoluta per i reati di “contesto mafioso”, in Giur. cost., 2013, p. 2411. 94

L. DELLA RAGIONE, L’aggravante della “ambientazione mafiosa”, cit., p. 78. G. LEO, Illegittima la previsione della custodia “obbligatoria” in carcere per i reati di contesto mafioso (ma non per le condotte di partecipazione o concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso), in www.penalecontemporaneo.it, 7 aprile 2013. 95

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nei casi già analizzati, nella trasformazione della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in presunzione relativa nel caso di contestazione dell’aggravante di cui si tratta, su di un ragionamento costruito seguendo alcune tappe cruciali: il fatto che nella nuova stagione giurisprudenziale, avviata con la sentenza n. 265/2010, la ragionevolezza costituzionale della presunzione assoluta prevista dall’art. 275, comma 3 sia sempre stata valutata in confronto con i delitti di mafia in senso stretto, tenendo presente come la Corte costituzionale aveva giustificato tale presunzione per i medesimi nell’ordinanza n. 450/1995, servendosi di dati di esperienza generalizzati in base ai quali poter affermare che l’unica misura idonea a far fronte alle esigenze cautelari, relativamente presunte, è solo ed esclusivamente quella custodiale ed il fatto che tali dati di esperienza siano riferibili all’associazione di cui all’art. 416-bis c.p. e non a tutti i reati associativi (in alcune forme specifiche oggetto di pronunce della Corte costituzionale) 96. Inoltre la Consulta richiama due dicta giurisprudenziali rilevanti per affrontare la questione sottoposta al suo vaglio: quello secondo cui la ratio dell’introduzione dell’aggravante di cui all’art. 7 risiede nel tentativo legislativo di «colpire qualsiasi manifestazione di attività mafiosa, dalla partecipazione all’associazione, al favoreggiamento ed al semplice impiego di un metodo mafioso o di isolata e minima agevolazione» e quello in base al quale la circostanza aggravante di cui si tratta è applicabile, in base alla giurisprudenza consolidata, non solo agli autori delle condotte riconducibili all’art. 416-bis c.p., ma anche ai soggetti estranei al sodalizio criminoso 97, conclusione criticata da parte della dot96

Cfr. supra, § 6. Che la decisione non fosse scontata si deduce dal fatto che nell’ordinanza n. 450/1995 la Corte costituzionale giustificò la custodia cautelare “obbligatoria” partendo da un caso concreto in cui non era stato contestato il reato di cui all’art. 416-bis c.p., ma proprio l’aggravante di cui si tratta. La sua prevedibilità si fonda, invece, sulle linee di ragionamento adottate dalla Consulta in materia di presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere a partire dalla sentenza n. 265/2010 e soprattutto sul fatto che il “termine di paragone” adottato dal giudice delle leggi per valutare la ragionevolezza costituzionale di tale presunzione, con riferimento alle fattispecie criminose di volta in volta sottoposte al suo esame, sia stato quello del regime speciale applicato al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e non a tutti i reati di “contesto mafioso”. 97 La Corte costituzionale richiama Cass., Sez. I, 2 aprile 2012, n. 17532, in C.e.d. 252649. Per analogo orientamento si veda anche, in precedenza, Cass., Sez. Un., 28 marzo 2001, n. 10, in Cass. pen., 2011, p. 2662 con nota di S. ARDITA, Partecipazione all’associazione mafiosa e aggravante speciale dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991. Concorso di aggravanti di mafia nel delitto di estorsione. Problemi di compatibilità tecnico-giuridica e intenzione del legislatore.

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trina 98. Attese tali premesse, per l’aggravante di cui all’art. 7, si affronta una fattispecie che, per quanto «collocata in un contesto mafioso», non presuppone l’appartenenza all’associazione di stampo mafioso ed in relazione alla quale, quindi, manca «la congrua “base statistica”» per affermare «l’inidoneità del processo, e delle stesse misure cautelari, a recidere il vincolo associativo e a far venir meno la connessa attività collaborativa». A rafforzare tale difetto, conclude la Corte, contribuisce anche il fatto che l’applicazione dell’aggravante in esame sia possibile in presenza della commissione di «qualsiasi delitto, anche della più modesta entità», caratterizzato sì dal “metodo mafioso” o dal fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, ma ben lontano dalla partecipazione all’associazione e, quindi, dall’esigenza di recidere un vincolo specificamente caratterizzato, a fronte della quale, statisticamente, l’unica misura adeguata viene ritenuta quella della custodia cautelare in carcere 99. Attraverso il confronto fra la partecipazione all’associazione di cui all’art. 416-bis e la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152/1991 ed il richiamo ai dicta della giurisprudenza costituzionale oramai consolidata in materia di custodia cautelare obbligatoria, la Consulta dichiara l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 nella parte in cui prevede la presunzione assoluta di adeguatezza nel caso di contestazione dell’aggravante, per contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 27, comma 2 della Costituzione, trasformando la stessa, come anticipato e come già avvenuto per le precedenti fattispecie criminose, in presunzione relativa superabile attraverso un’idonea prova. Anche il caso dei reati di “contesto mafioso” viene ricondotto nella seconda ipotesi del regime speciale, caratterizzata dalla presunzione relativa di adeguatezza, che comporterebbe, come sottolineato da parte della dottrina, un’inversione dell’onere della prova rispetto a quello ordinario in materia cautelare 100, ma anche, rispetto al passato regime speciale “assoluto”, un recupero della discrezionalità del giudice, che è nuovamente in grado di applicare una misura meno afflittiva rispetto a

98 Per una panoramica sulle posizioni della dottrina rilevanti per la questione si veda L. DELLA RAGIONE, L’aggravante della “ambientazione mafiosa”, cit., p. 71 ss. 99 Con questa riflessione la Consulta sembra aver posto le basi per la dichiarazione di incostituzionalità con riferimento al “concorso esterno”. Cfr. infra, in questo stesso paragrafo. 100

P. TONINI, La carcerazione cautelare, cit., p. 266. Parla di «semplificazione dell’onere motivazionale» T.E. EPIDENDIO, Presunzioni e misure cautelari personali, in S. CORBETTA-A. DELLA BELLA-G.L. GATTA (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Cedam, Padova, 2009, p. 409. Per una diversa interpretazione si veda infra, § 7.

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quella richiesta dal pubblico ministero, una riespansione dell’onere motivazionale nel caso in cui la difesa alleghi o produca elementi idonei a provare il superamento della presunzione 101 e «l’allargamento del diritto di difesa» anche se nei limiti dell’inversione dell’onere della prova summenzionato 102. In conformità ai pronostici della dottrina, il ragionamento elaborato dalla Corte costituzionale e applicato ai reati di “contesto mafioso”, fondato sulla giustificazione costituzionale della custodia cautelare obbligatoria, considerata la sussistenza di una adeguata base statistica idonea ad affermare che la misura custodiale è l’unica adeguata solo nel caso di «vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio mafioso» 103, ha condotto la Consulta a trasformare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in presunzione relativa anche nel caso del “concorso esterno” 104 in associazione mafiosa atteso che il concorrente esterno, extraneus per definizione giurisprudenziale, non ha con l’associazione di cui all’art. 416 bis c.p. quel legame di appartenenza in virtù della cui rescissione il giudice delle leggi aveva ritenuto costituzionalmente giustificabile il regime speciale nella sua decisione del 1995 ribadita, mutatis mutandis, dalle pronunce giurisprudenziali più recenti 105. Si deve rammentare ancora una volta, però, come la sentenza della Corte Cost. n. 57/2013, nell’escludere la ragionevolezza della presunzione assoluta con riferimento ai reati di “contesto mafioso”, avesse confrontato,

101

Sulla questione dell’obbligo motivazionale si veda supra, § 3. Cfr. A. MARANDOLA, Sull’(in)adeguatezza della custodia inframuraria applicata ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero il punto di «non ritorno» degli automatismi in sede cautelare, in Giur. cost., 2013, p. 891. Per un’analisi delle diverse posizioni dottrinali in merito all’interpretazione del contenuto della seconda tipologia del regime speciale, sia a seguito delle dichiarazioni di incostituzionalità analizzate, sia, successivamente alle modifiche apportate dalla l. n. 47/2015, di veda infra, § 7. 103 R. ADORNO, L’inarrestabile irragionevolezza, cit., p. 2414. 104 Per la giurisprudenza che riteneva applicabile il regime speciale anche nel caso di “concorso esterno” si veda supra, § 4. Tale riconducibilità nell’ambito di operatività della custodia cautelare obbligatoria era stata ribadita dalla Corte di cassazione anche successivamente alla sentenza della Consulta n. 57/2013. In proposito si veda Cass., Sez. I, 17 ottobre 2013, n. 2946, in Cass. pen., 2015, p. 81 nella quale i giudici di legittimità avevano chiarito come la sentenza della Corte costituzionale n. 57/2013 non avesse alcuna ripercussione sulle ipotesi di concorso esterno. 102

105

Non è questa la sede per discutere delle problematiche relative al “concorso esterno” in associazione mafiosa. Per una trattazione delle problematiche cruciali sul tema si veda supra, § 4, nt. 59 e nt. 60.

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evidenziandone le differenze, la posizione dei soggetti estranei all’associazione ai quali veniva contestata l’aggravante di cui all’art. 7 con quella dell’«associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale la presunzione delineata dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. risponde, come si è detto, a dati di esperienza generalizzati», equiparando, invece, tali ultime ipotesi 106. Il rovesciamento dell’asserzione riportata costituisce la base di partenza per il ragionamento svolto dalla Corte costituzionale nella sentenza del 26 marzo 2015, n. 48, con la quale la Consulta ha dichiarato «costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 13, comma 1, e 27, comma 2, Cost., l’art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p. nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, «l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Nell’affermare che il concorso esterno si differenzia dalla partecipazione dell’associato, per poterne poi dedurre l’irragionevolezza della custodia cautelare obbligatoria applicata alla prima ipotesi, la Corte costituzionale, pur richiamando l’«ampissimo dibattito giurisprudenziale e dottrinale», ritiene «superati definitivamente gli originari dubbi circa l’astratta configurabilità del concorso eventuale di un extraneus, diverso dai concorrenti necessari, in una fattispecie necessariamente plurisoggettiva quale quella associativa» e, dando per assodata la definizione dell’extraneus elaborata dalla giurisprudenza di legittimità specificamente citata, individua la differenza tra il partecipante intraneus e il concorrente esterno: quest’ultimo, oggettivamente, non è parte della struttura criminale, «pur offrendo un apporto causalmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento»; soggettivamente, invece, non possiede l’affectio societatis che caratterizza l’intraneus. Il concorrente esterno non ha stabilito, quindi, quel «vincolo permanente» che, nelle parole del giudice delle leggi, giustifica il ricorso obbligato alla custodia cautelare in carcere perché solo questa misura è idonea a «recidere i rapporti dell’indiziato con l’ambiente delinquenziale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità». È vero che il concorrente esterno contribuisce, come 106

Sul punto la dottrina ha evidenziato come la conclusione riportata sia frutto di una distrazione o meglio di «una distratta e, forse, involontaria assimilazione di fenomeni eterogenei sul piano criminologico» (cfr. R. ADORNO, L’inarrestabile ragionevolezza, cit., p. 2414).

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il partecipe, al raggiungimento dei fini dell’associazione, ma tale riflessione riguarda la gravità del reato che, come più volte ribadito dalla Consulta, si riverbera sulla determinazione della pena. L’irragionevolezza della presunzione assoluta di adeguatezza deriva, nel ragionamento della Corte svolto seguendo le linee comuni di quelli elaborati nelle decisioni in materia dell’ultimo quinquennio, dalle «caratteristiche strutturali specifiche della fattispecie individuate dal diritto vivente» 107. Se da un lato, infatti, la decisione traccia definitivamente le differenze oggettive e soggettive fra la posizione del concorrente esterno e quella del partecipe all’associazione di cui all’art. 416-bis c.p., ponendo rimedio alla “svista” della sentenza n. 57/2013 108 e superando la giurisprudenza di legittimità che fino ad ora ne aveva proclamato «l’assimilazione completa» 109, dall’altro “costituzionalizza”, anche se indirettamente, il concorso esterno 110, ponendo un punto fermo nel dibattito sulla questione.

7. Il trittico dei regimi dopo l’entrata in vigore della l. n. 47/2015. Come accennato la l. n. 47/2015 ha riscritto il secondo periodo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p. e soppresso il terzo, formalizzando, a livello legislativo, il trittico dei regimi applicabili in materia di scelta delle misure cautelari personali. Il primo, quello ordinario ed originario, in vigore per la generalità delle fattispecie criminose, basato sui principi di proporzionalità ed adeguatezza nella loro reale e sostanziale applicazione, che vede la custodia cautelare in carcere, extrema ratio, quale misura oggetto di scelta esclusivamente quando nessuna delle altre misure personali, sola o cumulata 111, possa far fronte alle esigenze cautelari concretamente individuate e che si accompagna a 107

L. CALÒ, Repetita iuvant: il carcere cautelare obbligatorio per legge, tra Corte costituzionale e legislatore, in Giur. cost., 2015, p. 984. 108 Cfr. supra, in questo stesso paragrafo. 109 P. GIORDANO, Privilegiato il modello di custodia a «pluralità graduata», in Guida dir., 2015, f. 17, p. 80. 110 E. APRILE, La presunzione assoluta di pericolosità non opera neppure per l’indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, in Cass. pen., 2015, p. 2243. 111

Sulla possibilità di cumulo delle misure cautelari personali al di là di ipotesi “patologiche” introdotta dalla l. n. 47/2015 si veda P. SPAGNOLO, Principio di adeguatezza e residualità della custodia cautelare, in L. GIULIANI, La riforma, cit., p. 86 ss.

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conseguenti oneri probatori del pubblico ministero all’atto della richiesta e motivazionali del giudice al momento dell’emissione dell’ordinanza applicativa 112. Il secondo, prima tipologia di regime speciale, quello più lontano dal modello ordinario, basato su di una presunzione iuris tantum ed una assoluta di adeguatezza della custodia cautelare. Esso è reso operativo dalla novella solo per tre fattispecie associative previste dagli articoli 416-bis, 270 e 270-bis c.p., ovvero, rispettivamente, associazione di stampo mafioso, tradizionalmente legata alla custodia cautelare quasi obbligatoria 113, associazione di stampo sovversivo, mai ricompresa nell’ambito del regime speciale, e associazione terroristica anche di stampo internazionale, facente parte del regime speciale unico allora vigente a partire dalla legislazione emergenziale del 2009 114. Il terzo, seconda forma del regime speciale, applicabile all’insieme eterogeneo di reati individuati attraverso il richiamo all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. 115, oltre che alle specifiche fattispecie criminose elencate e previste dagli artt. 576, 600-bis, 609-quater e 609-octies c.p., basato sulla presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, sicuramente prodotto della giurisprudenza costituzionale analizzata. Con riferimento al primo regime, per quanto riguarda l’associazione di stampo mafioso, la compatibilità costituzionale sembra “certificata” dall’ordinanza n. 450/1995 e, indirettamente, dalle successive pronunce costituzionali in materia, se pur tutte basate sullo «scivoloso concetto dell’id quod plerumque accidit» 116 – criticato brillantemente dalla dottrina, anche sostenendo che le considerazioni di ordine statistico apparirebbero generiche nel raffronto con il principio della presunzione di innocenza 117 – e sul

112

Cfr. supra, § 3. Cfr. supra, § 4. 114 Cfr. supra, § 3. 115 Il richiamo all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater c.p.p. consente di riprodurre con riguardo alla situazione normativa vigente, se pur meno grave data la relatività della presunzione, le osservazioni formulate prima dell’entrata in vigore della novella circa la dilatabilità “aspecifica” del regime speciale nel caso di ampliamento dell’elenco dei reati ricompresi nel dettato delle disposizioni richiamate. Per un esempio si veda l’ipotesi relativa al reato di “scambio elettorale”. Cfr. supra, § 4. Sulla questione si veda S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni, cit., p. 127. 113

116

S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza, cit., p. 125. M. GIALUZ, Gli automatismi cautelari tra legalità costituzionale e garanzie convenzionali, in Processo penale e giustizia, 2013, p. 115. 117

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canone della ragionevolezza. Non appare probabile, al momento, un ulteriore ripensamento della Consulta che prenda le mosse da un nuovo ragionamento elaborato allontanandosi dal concetto e dal canone sopra menzionati 118. In relazione alle altre due forme associative è necessario formulare alcune riflessioni specifiche. Con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 270 c.p., in primis, i commentatori hanno sottolineato come, secondo i parametri dettati dall’art. 280 c.p.p., non tutte le ipotesi contemplate dalla norma consentirebbero il ricorso alla custodia cautelare in carcere. In merito sono state prospettate due soluzioni: la prima che porta a considerare l’art. 275 c.p.p. novellato quale norma speciale tale da consentire di derogare al dettato dell’art. 280 c.p.p. e, quindi, di applicare sempre la custodia cautelare in carcere nella sua forma obbligatoria quando la qualificazione giuridica sia riconducibile all’art. 270 c.p., qualsiasi ipotesi venga contestata; la seconda, preferibile nell’ottica generale del testo legislativo del 2015 volta a “ridimensionare” la custodia cautelare e la sua utilizzabilità riconducendola in massima misura al “minor sacrifico possibile”, che consentirebbe di ritenere operativo il regime speciale in riferimento alle sole ipotesi contemplate dall’art. 270 a cui sia originariamente applicabile la custodia cautelare 119 in carcere secondo il disposto dell’art. 280 c.p.p. 120. La previsione della custodia cautelare “quasi obbligatoria” applicabile alle ipotesi previste dall’art. 270-bis c.p. rimane al di sotto di una diversa soluzione prospettata dalla dottrina. Questa ipotizzava l’estensione della presunzione assoluta di adeguatezza a tutti i reati in ambito terroristico anche al di fuori della forma associativa ed era ritenuta compatibile con il dettato costituzionale 121. La diversa scelta operata dal legislatore, in confronto con tale proposta, sembra rispondere sia all’intento legislativo di cui sopra, sia al ragionamento della Corte costituzionale che non ha ritenuto la sola gravità dei reati quale elemento giustificativo della ragionevolezza della presunzione assoluta, così come la sola natura associativa sopra ricordata. Certo, le due associazioni di cui all’art. 270 e 270-bis c.p. non hanno ca118 Per una riflessione sul punto si veda ancora M. GIALUZ, Gli automatismi cautelari, cit., p. 118. 119

È stato osservato come la Corte costituzionale nelle sentenze citate abbia elaborato e utilizzato una propria definizione dell’associazione di stampo mafioso più ristretta di quella di cui all’art. 416-bis c.p. Sul punto di veda S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza, cit., p. 119. 120 S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza, cit., p. 125. 121 V. MANES, Lo “sciame di precedenti”, cit., p. 466.

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ratteristiche identiche a quelle che connotano l’associazione di stampo mafioso ma, soprattutto con riferimento a quelle disciplinate dall’art. 270-bis c.p., si può sottolineare come, se pur contingentemente, esse siano caratterizzate da strutture tali da ritenere, ragionevolmente e secondo quel criticato parametro dell’id plerumque accidit, che l’unica misura idonea a far fronte ad esigenze sia pur presunte e ad interrompere «adesioni interiori e legami fra affiliati ben più forti di quelli mafiosi» 122 sia la custodia cautelare in carcere 123. Di fronte ad una certa omogeneità delle forme associative menzionate, fondata sulla non estemporaneità delle stesse e sul loro porsi come alternative all’ordine statale o come apertamente antagoniste al medesimo, si deve, di contro, comunque rilevare la loro eterogeneità, così da poter considerare altrettanto sostenibile la posizione di chi ritiene che «l’equiparazione della associazione sovversiva e della associazione terroristica, anche internazionale, alla associazione di stampo mafioso suscita […] gravi dubbi di legittimità costituzionale: le stesse infatti non implicano necessariamente la ricorrenza di quei tratti empirici e sociologici che caratterizzano la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. che si fonda su un legame associativo connotato da specifiche caratteristiche quali la forza intimidatrice che promana dal medesimo vincolo e dalle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano» 124. Al di là delle doverose premesse ed osservazioni generali sul primo tipo di regime speciale applicato alle fattispecie previste dal novellato comma 3 dell’art. 275 c.p.p., è necessario proseguire la riflessione sulla riforma affermando che la novella del 2015 ha sicuramente posto fine al «colpevole silenzio» 125 del legislatore, ma è anche doveroso interrogarsi sul modo in cui tale silenzio è stato rotto. Il legislatore ha evitato le scelte coraggiose invocate ed auspicate da molti 126 che, nel pieno rispetto dei principi costituzionali rilevanti, quali 122

Ancora, S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza, cit., p. 125. Parla di «fattispecie per cui è possibile mutuare le considerazioni della Corte» P. BORELLI, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in www.penalecontemporaneo.it, 26 marzo 2015. 123

124

F. D’ARCANGELO, Le misure cautelari personali (l. 16 aprile 2015, n. 47), Giuffrè, Milano, 2015, p. 37. 125 E. TURCO, La riforma delle misure cautelari, in Processo penale e giustizia, 2015, p. 112. 126

Si veda, per tutti, G. ILLUMINATI, Esigenze cautelari, proporzionalità, adeguatezza: quali traguardi?, in AA.VV., Le fragili garanzie della libertà personale. Per una effettiva tutela dei principi costituzionali, Atti del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del pro-

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l’inviolabilità della libertà personale, l’obbligo di motivazione e la presunzione di non colpevolezza, avrebbero potuto, anzi dovuto, condurre all’abrogazione dei regimi speciali, recuperando la positiva coerenza della originaria disciplina codicistica 127 e restituendo al giudice la piena autonomia nella valutazione discrezionale 128. La disposizione introdotta in epoca emergenziale al fine di proteggere i giudici 129 sembra, quindi, sia stata mantenuta per un fine completamente diverso e divergente, ovvero per arginare – se non per impedire quasi completamente – la discrezionalità dei giudici, per sfiducia nei loro confronti 130 e per timore che essa potesse condurli troppo spesso a non applicare la misura custodiale. Una sorta di meccanismo tranquillizzante a fronte dell’allarme sociale in relazione al quale si dubita non solo per quanto riguarda il pieno riconoscimento formale dei principi costituzionali menzionati, ma anche circa la sua effettiva necessità 131. A tal proposito è utile richiamare quanto accennato in merito alle ipotesi associative che obbligano il giudice ad applicare la custodia cautelare in carcere in mancanza di elementi idonei – secondo gli orientamenti giurisprudenziali – a superare la presunzione di pericolosità, per ricordare chi acutamente ha scritto che al di fuori delle situazioni patologiche la previsione sia da considerarsi non solo dannosa, ma anche inutile perché «a fronte di gravi indizi di un vincolo associativo totalizzante e indissolubile cesso penale, Trento, 11-13 ottobre 2013, Giuffrè, Milano, 2014, p. 336, dove l’A. prospetta la possibilità di “invertire” la presunzione. 127

Cfr. G. ILLUMINATI, Verso il ripristino, cit., p. 1137. Definisce la versione originaria dell’art. 275, comma 3 c.p.p. «un momento fondamentale della nuova impostazione legislativa in tema di risposte a problemi connessi al difficile equilibrio tra le esigenze di protezione del diritto alla libertà personale e le esigenze cautelari definite dall’art. 274 c.p.p.» E. ZAPPALÀ, Commento agli artt. 4 e 5, cit., p. 82. Per un positivo giudizio sul Libro IV del Codice di procedura penale in vigore cfr. E. AMODIO, Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in Cass. pen., 2014, p. 20, dove l’A. scrive: «Non c’è dubbio infatti che la normativa contenuta nel libro IV del codice costituisca un modello sul piano dell’elaborazione legislativa sia per la sua ammirevole architettura, sia per lo spessore concettuale dei principi recepiti». 128

Per una ricostruzione dettagliata dell’iter legislativo a partire dalla p.d.l. n. 631 si veda E. MARZADURI, L’applicazione della custodia in carcere alla luce della nuova disciplina delle presunzioni in materia cautelare, in Leg. pen., 2015, p. 3 ss. 129

Cfr. supra, § 1. Cfr. G. LEO, Gli statuti differenziali per il delinquente pericoloso: un quadro della giurisprudenza, in www.penalecontemporaneo.it, 15 settembre 2011. 130

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Condivide la manovra perché rappresenta «il punto di equilibrio accettabile tra difesa sociale e libertà individuale» A. MARANDOLA, I nuovi criteri di scelta, cit., p. 417, pur considerandola «razionale e sistematicamente confacente».

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quale quello mafioso, il ricorso alla carcerazione sarebbe tendenzialmente obbligato anche in mancanza della presunzione assoluta ex art. 275, comma 3, c.p.p.: la privazione della libertà, in tali ipotesi, sarebbe imposta dalla logica stessa dell’accertamento» 132. In tale contesto debbono essere considerati ancora validi gli approdi giurisprudenziali relativi al concorso esterno 133 ed all’operatività della presunzione assoluta di adeguatezza non solo nel momento genetico della vicenda cautelare, ma per tutta la durata della stessa 134. Il superamento della presunzione relativa di pericolosità rimane, quindi, in questo ambito, l’unica via percorribile per non applicare la custodia cautelare in carcere (e nessun’altra misura), una via impervia da percorrere fruttuosamente se ci si rifà alla giurisprudenza antecedente sul punto, di cui alcune voci in dottrina auspicano un allentamento. Basti ricordare che, con riferimento all’art. 416-bis c.p., i dicta dei giudici di legittimità richiedono non solo che gli elementi utili a tale superamento provengano esclusivamente dall’interessato, senza lasciare alcuno spazio di accertamento al giudice, ma anche che siano in grado di provare la rescissione del vincolo associativo 135. Nel caso in cui tale ripensamento giurisprudenziale non dovesse consolidarsi, l’unico modo per non applicare la misura custodiale in via originaria o per chiederne la revoca in corso di esecuzione, rimane, ça va sans dire, contestare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza 136 oppure, come scritto dalla dottrina, la corretta qualificazione giuridica del fatto 137, operazione che nella fase delle indagini, non sembra poter condurre spesso ad esiti fruttuosi. Proprio con riguardo a tale riflessione giurisprudenziale sul superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari merita di essere segnalata una recente decisione in cui, dopo la riforma – e questo sembra essere il dato rilevante 138 – la sezione VI della Corte di Cassazio132 133 134

M. DANIELE, I vizi degli automatismi cautelari, cit., p. 118. Cfr. supra, § 6.

Cass., Sez. Un., 19 luglio 2012, n. 34473, cit. Cfr. supra, nt. 55. Cfr. supra, § 3. 136 Nell’ottica del superamento della presunzione nel momento realmente genetico della vicenda cautelare alcuni autori propongono una riflessione ulteriore sull’introduzione del contraddittorio anticipato e non posticipato nella fase di adozione della misura. In tal senso si veda S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza, cit., p. 128. 137 S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza, cit., p. 131. 138 Per posizioni simili espresse da giudici di legittimità in modo minoritario antecedentemente alla riforma si veda supra, § 3. 135

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ne 139 ha pronunciato una decisione così massimata: «In tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto di associazione di tipo mafioso, l’art. 275, comma 3, c.p.p. pone una duplice presunzione, di pericolosità sociale, di carattere relativo, e di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, di carattere assoluto; la presunzione di pericolosità sociale può essere superata non solo qualora sia dimostrato che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, ma anche quando dagli elementi a disposizione del giudice, prodotti o evidenziati dalla parte o direttamente evincibili dagli atti, emerga una situazione che dimostri in modo obiettivo e concreto, comprovata da circostanze di elevato spessore, l’effettivo allontanamento dell’indagato/imputato dal gruppo criminale, così che, pur in mancanza di una rescissione – formale o per facta concludentia – del vincolo associativo, si possa affermare che – come previsto dalla stessa disposizione – “non sussistono esigenze cautelari”». L’orientamento in esame, di cui si auspica un consolidamento se non, addirittura, un’evoluzione in chiave garantista, ritiene, quindi, di allontanarsi dalla posizione giurisprudenziale consolidata e prevalente, propendendo un’interpretazione dello standard probatorio necessario per superare la presunzione un po’ meno rigida che, invocando la natura eccezionale della norma ed il dato testuale, conduca a ritenere vinta la presunzione «nell’ipotesi in cui coesistano specifici elementi che facciano ragionevolmente escludere la pericolosità dell’indagato, come del resto induce a ritenere l’uso da parte del legislatore dell’espressione “salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”» 140 e, concretamente, nel caso di cui all’art. 416-bis c.p., quando «siano acquisiti elementi tali da dimostrare in concreto un consistente ed effettivo allontanamento del soggetto rispetto all’associazione» 141. La scelta esegetica, apprezzabile nell’ottica sovraesposta – il tentativo di alleggerire un onere probatorio non solo invertito rispetto al regime ordinario, ma eccessivamente gravoso – viene compiuta, se pur nell’ambito di un regime speciale “difettoso”, per promuovere una maggiore, anche se incompleta, armonia con il dettato costituzionale e con le indicazioni della 139

Cass., Sez. VI, 20 aprile 2016, n. 23012, in Dir. giust., 1 giugno 2016 con nota di P. GRILLO, La presunzione di adeguatezza del carcere è sempre più in crisi. 140

Per un precedente in tal senso si veda Cass., Sez. I, 6 novembre 2002, n. 43572, in Cass. pen., 2003, p. 3494 ss. con nota di M. Vessichelli. 141 La sentenza in esame richiama precedenti recenti Cass., Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 32412, in C.e.d. 255751; Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2014, n. 9748, in C.e.d. 258809.

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Consulta di cui sopra oltre che con «le chiare indicazioni delineate nel recente intervento riformatore». La decisione in esame chiarisce, inoltre, come la locuzione «che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari» contenuta nell’art. 275, comma 3 c.p.p. non richiede «la prova positiva dell’avvenuta definitiva rescissione del vincolo associativo». Tale espressione deve essere riempita di contenuti dal giudice che, secondo il suo «prudente apprezzamento», è tenuto a valutare i dati sintomatici per comprendere se sia avvenuto, almeno, «un serio, oggettivo ed irreversibile distacco dal gruppo di appartenenza». A fronte delle osservazioni dei giudici, per quanto degne di nota, non si nega una certa difficoltà ad individuare, nella prassi e con la mente rivolta all’art. 416-bis c.p., situazioni che integrino un allontanamento consistente ed effettivo dall’associazione oltre che oggettivo ed irreversibile non rientrante nella rescissione del vincolo. Si potrebbe ipotizzare, a solo titolo esemplificativo, un cambiamento esistenziale nella vita dell’associato – un matrimonio, la nascita di un figlio – che lo induca ad allontanarsi dall’associazione, senza rescindere il vincolo, magari per timore di possibili ritorsioni nei suoi confronti o di quelli dei famigliari. A ben vedere la parte motiva della decisione più rilevante nell’ottica del “ridimensionamento” della presunzione relativa di cui si tratta è quella in cui si afferma che i dati sui quali deve vertere la valutazione del giudice sono a sua disposizione non solo perché prodotti dalla parte interessata o evidenziati dalla stessa, ma anche perché «direttamente evincibili dagli atti». Tale asserzione rende, sempre dal punto di vista pratico, operativa la possibilità di superare la presunzione anche nel momento realmente genetico della misura, poiché il giudice potrebbe evincere il superamento dagli atti trasmessi a sostegno della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (immaginiamo il contenuto di intercettazioni telefoniche) e soprattutto perché non carica esclusivamente sull’interessato il gravoso onere probatorio. In realtà, a parere di chi scrive la locuzione «che siano acquisiti elementi», attraverso l’uso del passivo, dell’impersonale e, soprattutto la scelta del verbo, consentirebbe di interpretare la disposizione per concedere al giudice non solo di valutare elementi già agli atti, ma anche di disporre d’ufficio l’acquisizione, appunto, di elementi non presenti nel fascicolo ed il loro ingresso nello stesso. Il potere di integrazione d’ufficio del giudice sarebbe utilizzato solo per superare la presunzione e, quindi, a favore dell’indagato, in un certo senso pro libertate 142, riequilibrando un sistema di 142

Si rammenti che nell’ambito cautelare, se pur in contesto differente, l’art. 299, com-

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garanzie reso difettoso dall’introduzione dei regimi speciali e delle presunzioni in materia cautelare. Infine, per quanto attiene alla seconda tipologia di regime speciale, ci troviamo di fronte, apparentemente e “semplicemente”, a due presunzioni relative e, anche in questo caso, per entrambe, ad un’inversione dell’onere della prova e ad una semplificazione dell’obbligo motivazionale. Come già detto, se così fosse, il giudice in merito alle esigenze cautelari sarebbe obbligato a motivare solo circa l’assenza di elementi idonei a superare le presunzioni e l’interessato dovrebbe, invece, fornire gli stessi. In quest’ottica la dottrina aveva sottolineato come la prova richiesta e gravante sull’istante potesse essere «in concreto troppo pesante», rischiando di «vanificare la ripristinata natura relativa della presunzione» 143. Sul punto, però, già successivamente alle pronunce della Corte costituzionale, allora con riferimento alle sole fattispecie criminose toccate dalle decisioni della Consulta ed in relazione alle quali la presunzione assoluta di adeguatezza era stata trasformata in presunzione relativa, voci più che autorevoli in dottrina avevano proposto una diversa interpretazione 144, ripresa oggi dopo la novella, secondo la quale il giudice sarebbe tenuto necessariamente ad individuare le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p., perché solo in tal modo può condurre «una verifica, quale che essa sia sull’adeguatezza delle soluzioni adottabili de libertate» e, quindi, in sostanza, ci troveremmo di fronte non ad un’inversione dell’onere della prova, ma ad «un’inversioma 4-ter attribuisce al giudice poteri di “integrazione probatoria” nella materia de libertate consentendogli, ai fini della revoca o sostituzione delle misure, quando non possa decidere allo stato degli atti, di disporre «anche d’ufficio […] accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell’imputato». Per un’opinione contraria in dottrina si veda P.P. PAULESU, La presunzione, cit., p. 143. Per una riflessione sui poteri d’ufficio del giudice in materia cautelare si veda L. CARACENI, Poteri d’ufficio in materia probatoria e imparzialità del giudice penale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 239 ss. Per quanto riguarda, invece, l’introduzione del contraddittorio anticipato si veda supra, in questo stesso paragrafo, nt. 136. 143 In tal senso si veda M. GIALUZ, Gli automatismi cautelari, cit., p. 119; P. TONINI, La carcerazione cautelare, cit., p. 265; F. ZACCHÉ, Le cautele fra prerogative, cit., p. 662. 144 E. MARZADURI, Disciplina delle misure cautelari personali e presunzioni di pericolosità: un passo avanti nella direzione di una soluzione costituzionalmente accettabile?, in Giur. cost., 2010, pp. 506-507. Aveva sottolineato, dopo le pronunce della Corte costituzionale, come il superamento della presunzione di adeguatezza avesse uno spazio limitato in un contesto dove non si accoglie il contraddittorio anticipato in materia cautelare S. QUATTROCOLO, Aporie e presunzioni nei criteri selettivi della tutela cautelare personale. Verso il crepuscolo del giudizio di proporzionalità e di adeguatezza?, in A. GABOARDI-A. GARGANI-G. MORGANTE-A. PRESOTTO-M. SERRAINO, Libertà dal carcere, cit., p. 225.

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ne del metodo da seguire per l’individuazione del tipo di misura cautelare da adottare» e, se pur in presenza di una deroga importante rispetto al regime ordinario, «il peso che viene a gravare sulla difesa risult[erebbe] accettabile» 145. Tale interpretazione, a parere di chi scrive, appare l’unica proponibile alla luce, se pur indiretta, del contenuto di una recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione 146. Per comprendere tale affermazione è necessario premettere un’osservazione. La riforma per rafforzare il principio del “minor sacrifico possibile” introduce all’art. 275 c.p.p. il comma 3-bis che recita: «Nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275-bis, comma 1». Non è questa la sede per riflettere sull’istituto degli “arresti domiciliari controllati” 147, ma, sicuramente, l’obbligo motivazionale di cui alla disposizione riportata tende allo scopo sopra indicato e perseguito, se pur in modo imperfetto qualora si pensi alla mancata abrogazione dei regimi speciali. Le Sezioni Unite, interrogate su una diversa questione principale 148, hanno statuito che il giudice «ove non sia al cospetto di una delle ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza […] deve sempre motivare sulla inidoneità della misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico» 149. Il

145

E. MARZADURI, L’applicazione della custodia in carcere, cit., pp. 13-14. Non si tratterebbe, quindi, di una “prova diabolica” che aveva indotto gli autori inclini al primo tipo di interpretazione a prospettare l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della cauzione. In proposito si veda, ancora, P. TONINI, La carcerazione cautelare, cit., pp. 266-267. Sull’istituto della cauzione, recentemente, si veda C. FANUELE, La libertà su cauzione: un’alternativa alla custodia carceraria, Cedam, Padova, 2016. 146 Cass., Sez. Un., 28 aprile 2016, n. 20769, in Guida dir., 2016, f. 29, p. 54, con nota di A. CISTERNA, Se il braccialetto elettronico è indisponibile il giudice nel sostituire la misura deve valutare tutte le opzioni. 147

Sul punto si veda F. CERQUA, La tipologia delle misure cautelari personali, in G. SPANGHER-C. SANTORIELLO (a cura di), Le misure cautelari personali, cit., p. 384 ss. Per un’analisi dell’art. 275, comma 3-bis c.p.p. cfr. P. SPAGNOLO, Principio di adeguatezza e residualità della custodia cautelare, in L. GIULIANI (a cura di), La riforma, cit., p. 96 ss. 148

Per un commento alla decisione con riguardo alla questione principale si veda J. DELLA TORRE, Per la suprema Corte l’indisponibilità del “braccialetto elettronico” comporta l’applicazione degli arresti domiciliari “semplici”: una discutibile lettura dell’art. 275-bis c.p.p., in Processo penale e giustizia, 2016, p. 80 ss. 149 Contra, Cass., Sez. II, 20 gennaio 2016, n. 3899, in C.e.d. 265598. Nello stesso senso, in dottrina, si veda G. SPANGHER, Un restyling, cit., p. 531.

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«rafforzato onere motivazionale» è volto a restituire «centralità alla motivazione del giudice, affinché consideri tutte le alternative possibili per escludere il ricorso alla custodia carceraria». Tale statuizione sembra porsi in linea con quanto detto sopra circa la necessità, nell’ambito della seconda tipologia del regime speciale, di individuare le specifiche esigenze cautelari e sembra imporre, anche se indirettamente, tale individuazione, non potendosi immaginare la redazione della motivazione richiesta dall’art. 275, comma 3-bis c.p.p. che prescinda dalla stessa. Al contempo sembra avvalorare la teoria circa l’inversione del metodo da adottare per l’individuazione della misura da applicarsi in concreto. Anche questo è un passo verso il perseguimento del “minor sacrifico possibile” se pur nell’ambito di un sistema “imperfetto” in cui sono inclusi regimi speciali che potevano essere abrogati dal legislatore che non si fosse “adagiato” sulle posizioni della Corte costituzionale. In questo senso la l. n. 47/2015 rappresenta sicuramente un’occasione mancata rispetto al recupero di una piena «ortodossia costituzionale» 150. L’abrogazione dei regimi speciali avrebbe contribuito a restituire alle misure cautelari la loro piena funzione processuale, liberandole dall’imbarazzante commistione con le funzioni della pena e con l’asservimento ad esigenze di «tranquillità sociale di facile strumentalizzazione politica» 151, concordando con chi sottolinea l’impossibilità del raggiungimento dello scopo “derogatorio” attraverso un’interpretazione costituzionalmente conforme, che vada al di là degli spunti sopra descritti ed attendendo un intervento legislativo più “coraggioso”, sperando che il silenzio venga presto rotto da un nuovo e più forte “suono della campana”. Nell’attesa si può concludere ancora con una riflessione sulla seconda tipologia di regime speciale. La locuzione «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti […] che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure» si arricchisce di nuovi contenuti grazie alle novità della l. n. 47/2015. La decisione del giudice di non applicare la misura custodiale, adottata dopo aver valutato elementi agli atti o prodotti dall’interessato, appare possibile in un numero

150

M. DANIELE, I vizi degli automatismi, cit., p. 119. Secondo G. ILLUMINATI, Verso il ripristino, cit., p. 1143 «la soluzione più corretta […] sarebbe perciò stata la semplice abrogazione di tutta la seconda parte del comma 3, o quanto meno la sua riduzione alla sola fattispecie di associazione di tipo mafioso» e la scelta operata dal legislatore è dovuta a «ragioni di opportunità politica». 151 Parla di «ossessione securitaria» A. PRESUTTI, Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in AA.VV., Le fragili garanzie, cit., p. 46.

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più elevato di casi rispetto a quanto poteva accadere in seguito alle decisioni della Corte costituzionale grazie alla previsione, introdotta appunto dalla l. n. 47/2015 e contenuta nel comma 1 dell’art. 275 c.p.p., secondo la quale è consentita l’applicazione cumulativa delle misure cautelari personali, al di là delle ipotesi “patologiche” che si verificano nei casi di cui agli artt. 276, comma 1, e 307, comma 1-bis c.p.p. 152. Potendo cumulare più misure cautelari vi sarà, quindi, più spazio, almeno teorico, per dimostrare che nel caso concreto, analizzando le specifiche esigenze individuate dal giudice, la custodia cautelare non è l’unica limitazione della libertà personale adeguata alla tutela delle stesse.

152

Come è noto l’orientamento dominante della giurisprudenza di legittimità riteneva che l’applicazione cumulativa delle misure cautelari personali potesse avvenire solo nei casi previsti dalle norme citate. In tal senso cfr. Cass., Sez. Un., 30 maggio 2006, n. 29907, in C.e.d. 234138.

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V

LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DEGLI ENTI TERRITORIALI NEI PROCESSI PER ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE DI STAMPO MAFIOSO * di Alessandro Torri

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La legittimazione. – 2.1. Il bene giuridico tutelato dall’art. 416-bis c.p. – 2.2. La natura dell’intervento dell’ente territoriale … – 2.3. … quando il Comune non agisce iure proprio. – 2.4. … e l’azione a tutela di beni collettivi. – 2.5. Conclusioni sulla legittimazione. – 3. Il danno subito. – 3.1. La latitudine del danno risarcibile: limitazione alla componente diretta e immediata. – 3.2. L’esclusione del danno in re ipsa. – 3.3. La prova del danno e la sua quantificazione. – 3.4. L’utilizzo di formule motivazionali volte a eludere il problema della dimostrazione del danno. – 3.5. Alternative all’azione per risarcimento del danno non patrimoniale. – 4. Conclusioni. – 4.1. Il rischio dell’inefficienza della costituzione di parte civile. – 4.2. L’opportunità di avvalersi di istituti ripristinatori o indennitari ad hoc diversi dalla costituzione di parte civile.

1. Premessa. I principali tribunali del nord Italia sono stati teatro, nell’ultimo lustro, di numerosi processi aventi ad oggetto il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa (rectius ‘ndranghetista) in regioni del Paese non “autoctone”. Pur nelle differenze che, naturalmente, hanno contraddistinto le diverse vicende processuali, un tratto comune è stato l’intervento di enti pubblici territoriali e non (da un lato Comuni, Province, Regioni e, dall’altro, Ministero dell’Interno, di Giustizia, Presidenza del Consiglio, Commissario speciale anti-racket) che hanno partecipato ai processi costituendosi parte civile al fine di ottenere un ristoro in conseguenza del danno subito a causa dell’esercizio dell’attività criminosa. * Il presente contributo costituisce aggiornamento e completamento del lavoro avente identico titolo, pubblicato su Diritto Penale Contemporaneo il 5 luglio 2012.

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Alessandro Torri

Il proposito del seguente lavoro è esaminare, con particolare riferimento a tre sentenze del capoluogo lombardo 1, la legittimazione all’azione civile da parte degli enti pubblici, territoriali e non; la natura e l’esistenza del danno da questi subito; valutare se i criteri applicati nelle sentenze in esame siano conformi alla più recente giurisprudenza di legittimità sviluppatasi in materia di danno morale e, infine, considerare se la costituzione di parte civile ex art. 74 ss. c.p.p. possa considerarsi, in questi casi, uno strumento efficace per gli enti territoriali.

2. La legittimazione. Valutazione preliminare rispetto a quella del danno subito inerisce la legittimazione dell’ente a chiederne il ristoro. Volendo, in questa sede, prescindere dalla questione relativa alla possibilità delle persone giuridiche di costituirsi lamentando anche danni non patrimoniali, ormai risolta positivamente in maniera pressoché pacifica 2, si osserva che il primo problema rilevante consiste nel valutare se l’ente – e in particolare il comune, figura che ricorre in giurisprudenza con maggiore frequenza – abbia titolo per costituirsi, cioè se sia persona offesa o parte danneggiata dal reato associativo, ovvero dai reati fine commessi nell’esecuzione del primo. La conseguenza di questa qualificazione – ovviamente – non involgerà la legittimazione a chiedere il risarcimento del danno, che spetta anche al danneggiato 3, quanto in primis, l’onere probatorio in capo all’ente costitui1 In particolare: Trib. Milano, Ufficio GIP, 20 giugno 2011, GUP Castelli, relativa alla posizione di un collaboratore di giustizia, definita con il giudizio abbreviato; Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011, GUP Arnaldi, relativa a oltre cento imputati, definita con giudizio abbreviato e Trib. Milano, Sez. VIII penale, 6 dicembre 2012 (dep. 3 giugno 2013), Pres. Balzarotti, relativa ai rimanenti imputati, definita con giudizio dibattimentale. 2

A. PENNISI, voce Parte Civile, in Enc. Dir., vol. XXXI, Giuffrè, Milano, 1981, p. 986 ss.; G. ICHINO, La parte civile nel processo penale. La legittimazione, Cedam, Padova, 1989, p. 81 ss.; E. STRINA-S. BERNASCONI, La persona offesa, parte civile, Giuffrè, Milano, 2001, p. 8; G. ICHINO, Sub art. 74 c.p.p. Legittimazione all’azione civile, in E. AMODIO-O. DOMINIONI (a cura di), Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. I, Giuffrè, Milano, 1989, pp. 439-440; E.M. MANCUSO, La parte civile, il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, in G. SPANGHER (a cura di), Trattato di Procedura penale, vol. II, Utet, Milano, 2009, pp. 536-537. 3

Considerazione ormai pacifica, per tutti: G. DI CHIARA, voce Parte civile, in Dig. disc.

La costituzione di parte civile degli enti territoriali nei processi

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to e, poi, l’onere di motivazione in capo al giudice che decida di accogliere le istanze della parte civile. Nella prima ipotesi, cioè, se l’ente territoriale potrà definirsi persona offesa dal reato, il danno deriverà da tale status; nel secondo caso, invece, sarà onere dell’ente costituito dimostrare la causa petendi della propria azione, provando che il reato abbia determinato un danno risarcibile per l’ente. Per converso spetterà poi al giudice, nella motivazione della sentenza, dare conto della connessione fra reato e danno subito.

2.1. Il bene giuridico tutelato dall’art. 416-bis c.p. Il problema dell’individuazione del bene giuridico tutelato attraversa quasi tutte le sentenze pronunciate, sebbene, non sempre in maniera analitica. Una delle decisioni in esame 4, per esempio, si limita a un’elencazione piuttosto generica dei soggetti passivi del reato nella lunga epigrafe della decisione, la quale, però, non si esprime puntualmente sul punto, indicando solamente le persone fisiche coinvolte nel reato come “soggetti lesi” e i due Comuni come “parti civili”, qualificazione processuale che – come si è già ricordato – può attribuirsi sia alla persona offesa che al danneggiato. Tuttavia, nella stessa sentenza, un indiretto segnale sulla qualificazione processuale degli enti costituitisi parti civili può desumersi da un passaggio della motivazione, la quale fonda il danno non patrimoniale subito dai Comuni nello: «eclatante danno di immagine arrecato dalla stessa operatività dell’associazione criminosa nel proprio ambito territoriale, nonché dall’inevitabile clamore mediatico che tale presenza ha inevitabilmente suscitato». Altra decisione, sempre del Tribunale di Milano, tenta – invece – un approccio definitorio, affermando che: «l’articolo 416-bis c.p. [sic] è reato plurioffensivo volto in via principale alla tutela dell’ordine pubblico, inteso come libertà e tranquillità della cittadinanza, nonché in via secondaria alla tutela della libertà di concorrenza. dell’integrità del mercato e dell’economia, del buon andamento della pubblica amministrazione, della legalità e trasparenza dell’agire dei pubblici uffici e dell’ordine democratico» 5. pen., vol. IX, Utet, Torino, 1995, p. 238. Quanto alla tesi opposta, ormai superata, v.: A. PENNISI, voce Parte civile, cit., p. 989; G. ICHINO, La parte civile, cit., p. 111. Quanto alla giurisprudenza, per tutte valga: Cass., Sez. Un., 21 aprile 1979, n. 5519, in Foro. it., 1979, II, c. 56. 4 Si veda Trib. Milano, Ufficio GIP, 20 giugno 2011, cit. 5 Si veda Trib. Milano, Sez. VIII penale, cit., p. 1235.

134

Alessandro Torri

Pertanto, preliminarmente, dovrà verificarsi quale sia il bene giuridico tutelato dal delitto di cui all’art. 416-bis c.p. La dottrina prevalente ritiene questo consista nella tutela dell’ordine pubblico 6, il quale andrà inteso come ordine pubblico materiale 7, cioè il «buon assetto e regolare andamento della vita sociale nello Stato» 8 e in senso conforme si esprime anche la prevalente giurisprudenza di legittimità 9. Sotto tale aspetto potrà ritenersi il bene giuridico leso anche a prescindere dalla commissione di reati fine, ma per la semplice sussistenza e operatività dell’associazione per delinquere nel territorio comunale. In ordine alla violazione dell’ordine pubblico il Comune potrà ritenersi persona offesa nella sua qualità di ente territoriale preposto, inter alia, alla rappresentanza dei suoi cittadini; ciò perché la nozione anzidetta di ordine pubblico implica, necessariamente, un turbamento dello stato di pace sociale della collettività: «l’opinione e il senso della tranquillità e della sicurezza» 10 percepito nel territorio in cui è stanziata 11. Altrettanto la commissione del delitto in parola può anche ledere, secondariamente, beni giuridici diversi e ancillari rispetto a quello sopra esaminato, in particolare l’ordine pubblico economico 12 e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Quanto al primo profilo si ritiene che difficilmente l’ente pubblico territoriale possa essere considerato legittimato all’azione, che – piuttosto – 6

M. PELISSERO, Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in F.C. PAPALIERO (diretto da), Trattato teorico pratico di diritto penale, Giappichelli, Torino, 2010, p. 280; T. PADOVANI, Codice Penale, Sub art. 416-bis, Tomo II, Giuffrè, Milano, 2011, p. 3096; G. BORRELLI, Sub art. 416 bis c.p., in G. LATTANZI-E. LUPO (a cura di), Codice Penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Giuffrè, Milano, 2010, vol. IX, libro II, p. 147 ss.

LAZZO-C.E.

7

G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, Milano, 2015, p. 355 ss.; G. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Cedam, Padova, 1993, p. 103 ss. 8 V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Utet, Torino, 1983, vol. IV, p. 193. 9 Cass., Sez. I, 26 marzo 2007, n. 34198, in Guida dir., f. 43, 2007, p. 83; Cass., Sez. VI, 14 marzo 1997, n. 4294, in Cass. pen., 1998, p. 2344; Cass., Sez. I, 28 marzo 1996, n. 4714, in Cass. pen., 1997, p. 595; Cass., Sez. I, 30 settembre 1991, n. 3472, in C.e.d. 188461; Cass., Sez. I, 16 ottobre 1990, n. 16464, in C.e.d. 125119. 10

Relazione ministeriale, Progetto definitivo di Codice penale. Lavori preparatori, vol. V, parte II, p. 203. 11

Conforme in dottrina: G. DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Giuffrè, Milano, 1988, p. 290 ss. il quale fa però riferimento alla tranquillità di un numero indeterminato di persone. 12

Cass., Sez. I, 30 settembre 1991, cit.; Cass., Sez. I, 16 ottobre 1990, cit.

La costituzione di parte civile degli enti territoriali nei processi

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potrebbe spettare ad associazioni preposte alla gestione del mercato, sia in senso stretto (in tal senso si ricordano, mutatis mutandis, i poteri di costituzione civile della CONSOB per i reati del Testo unico della Finanza 13) che in senso lato, quali ad esempio le Camere di Commercio e le sedi locali di Confcommercio e Confindustria. E, infatti, nelle altre due sentenze in esame 14 si è assistito alla costituzione di parte civile da parte di enti pubblici non territoriali, e in particolare al Commissario straordinario per le iniziative anti-racket. Quanto al secondo profilo, invece, appare certamente legittimato l’ente pubblico, sia territoriale che non, tutte le volte in cui l’agire dell’organizzazione criminosa abbia influito sul buon andamento della pubblica amministrazione tutelato ex artt. 97 e 98 Cost. Tali attività ben potranno determinare un danno non patrimoniale, ma anche uno patrimoniale, nel caso in cui – ad esempio – l’ente sia posto nella necessità di svolgere alcune attività amministrative per rimediare al danno commesso dalla consorteria criminale. Sotto questo secondo profilo paiono essersi pronunciate due sentenze di legittimità piuttosto risalenti ed entrambi aventi per oggetto le infiltrazioni mafiose nell’aggiudicazione della gestione del Casinò di Sanremo 15. In entrambi i casi – in base a quanto emerge dalla motivazione in punto costituzione di parte civile – il Comune è stato dichiarato legittimato e indennizzato, anche con la previsione di rilevanti somme concesse a titolo di provvisionale, motivate essenzialmente dai rilevanti danni patrimoniali subiti dal Comune ligure, derivanti (fra l’altro) dai maggiori costi gestionali della casa da giuoco e dalla necessità di reiterare attività amministrative, quali la gara per la gestione della stessa. Altra autorevole dottrina ha affermato che si tratti di un reato plurioffensivo, capace di ledere tanto la libertà di iniziativa economica quanto la 13

Si veda, attualmente, art. 187-undecies co. 2 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 c.d. TUF, introdotto dalla l. 18 aprile 2005, n. 62; si ricorda che in precedenza poteri analoghi erano conferiti dalla l. 17 maggio 1991, n. 157. In dottrina: A. NISCO, Persona giuridica “vittima” di reato interpretazione conforme al diritto comunitario, in Cass. pen., 2008, p. 795; G. LUNGHINI, L’aggiotaggio (uso e consumo) e il ruolo della Consob, in Riv. soc., 2007, p. 483 ss.; E. STRINA-S. BERNASCONI, La persona offesa, cit., p. 8; G. VIOTTI, Il «danno all’integrità del mercato», in Dir. comm. internaz., 2010, p. 891 ss. In giurisprudenza: Trib. Milano, Ufficio GIP, 26 febbraio 2007, in Foro ambrosiano, 2007, f. 1, p. 41; Trib. Milano, Sez. III penale, 6 dicembre 2005. 14 Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011, cit. e Trib. Milano, Sez. VIII penale, 6 dicembre 2012, cit. 15 Cass., Sez. V, 19 dicembre 1997, in C.e.d. 211071; Cass., Sez. I, 8 luglio 1995, n. 10371, in C.e.d. 202736.

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libertà morale e i diritti di cittadinanza 16. Si ritiene corretto affermare che proprio la peculiarità della fattispecie in esame, la quale prevede al comma 3 un variegato “oggetto sociale” dell’associazione, giustifichi la descrizione di questo reato come eventualmente plurioffensivo, prevedendo come bene giuridico tutelato in via principale l’ordine pubblico, inteso come libertà e tranquillità della cittadinanza, necessariamente compresse dall’estrinsecazione del metodo mafioso, e come beni giuridici tutelati in via secondaria, poiché lesi soltanto con certe – eventuali – modalità esecutive dell’organizzazione criminosa, anche la libertà di concorrenza, l’integrità del mercato e dell’economia; ovvero il buon andamento della pubblica amministrazione e la legalità e trasparenza dell’agire dei pubblici uffici, nonché l’ordine democratico. L’esame delle diverse posizioni sopra succintamente esposte permette di giungere ad affermare che anche l’ente territoriale ben possa definirsi persona offesa dal reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Tuttavia appare peculiare notare che, nel caso concreto, l’unico danno individuato e risarcito dal giudice afferisca il c.d. “danno d’immagine”, relativo – quindi – all’onore, un bene giuridico che, pur volendo accedere alle teorie più ampie in tema di interessi protetti dall’art. 416-bis c.p., non rientra fra quelli tutelati da tale fattispecie. Ciò nonostante la prova del nesso di causalità fra il reato e il danno è stata ritenuta accertata, sostanzialmente in forza di una massima di esperienza, per cui ricorre sempre danno di immagine alla comunità nel cui ambito territoriale si sia svolta una rilevante attività mafiosa. D’altra parte deve riconoscersi che la scelta di legittimare l’ente territoriale alla costituzione di parte civile per la lesione dell’immagine della città a seguito dell’attività mafiosa intrattenuta dall’associazione criminale è già stata percorsa dalla giurisprudenza – anche di legittimità – nel corso degli anni ’90 17.

16

G. FIANDACA, Commento all’art. 1 l. 13 settembre 1982, n. 646, in Legisl. pen., 1983, p. 256 ss. Contra, in giurisprudenza, Trib. Milano, Ufficio GIP, 13 novembre 2000, in Foro ambrosiano, 2001, p. 16. 17

In dottrina: C. QUAGLIERINI, La legittimazione del Comune a costituirsi parte civile, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1003. In giurisprudenza: Cass., Sez. I, 24 giugno 1992, n. 8381, in C.e.d. 191448; Cass., Sez. I, 8 luglio 1995, cit.

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2.2. La natura dell’intervento dell’ente territoriale … Elemento comune alle tre sentenze in commento è che non appare chiaro se i Comuni abbiano agito in rivalsa di un danno proprio, ovvero quali enti rappresentativi della collettività di individui residente nei Comuni stessi. Può riconoscersi, infatti, come anche il Comune possa essere un soggetto direttamente danneggiato da un reato. Ciò appare lampante quando si tratti di un danno patrimoniale: se, ad esempio, un vandalo imbratta o danneggia un edificio di proprietà del Comune, questo certamente subisce un danno patrimoniale diretto e immediato ex delicto. Nel caso in esame, invece, sembra di comprendere che i Comuni costituiti non abbiano agito per tutelare l’amministrazione, bensì le comunità di cittadini da questi rappresentati; ciò si desume da un altro passaggio della motivazione, secondo la quale «il fatto stesso che comunità locali operose e fattive, e quindi la loro rappresentanza istituzionale, possano essere associate alla presenza di organizzazioni criminali e al pericolo derivante dai reati da loro commessi e potenziali, costituisce un danno rilevantissimo suscettibile di risarcimento» 18. Pare dunque che i Comuni di Giussano e Seregno abbiano agito per la difesa di interessi superindividuali 19 propri delle loro comunità, anziché a tutela di un danno subito dall’amministrazione stessa. La distinzione fra azione a tutela di interessi superindividuali e iure proprio è stata essenzialmente tratta dal diritto amministrativo 20, tuttavia si ritiene che anche in sede penale possano essere traslati alcuni degli approdi ai quali è giunta la dottrina e la giurisprudenza amministrativa, le quali distinguono all’interno della predetta categoria due diversi interessi: quelli collettivi e quelli diffusi. È opportuno anticipare che il confine fra i due concetti enunciati non è attualmente univoco, tuttavia – sul versante penalistico – proprio in tema di individuazione della persona offesa, alcuni Autori hanno qualificato gli interessi diffusi come caratterizzati dalla contitolarità da parte di una pluralità di soggetti non identificabili, e insuscettibili di fruizione o appropria-

18

Cfr. p. 38 Trib. Milano, Ufficio GIP, 20 giugno 2011, cit., corsivi aggiunti. Per un approfondimento del tema: C. FORMENTI, Legittimazione processuale degli enti territoriali: il «tragitto concettuale» del Consiglio di Stato. Il caso delle tariffe autostradali, in Foro Amm. CdS, 2011, p. 1192 ss. 19

20

G. DI CHIARA, voce Parte civile, cit., pp. 235-236.

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zione individuale 21 e gli interessi collettivi come imputabili a un insieme di soggetti organizzati 22.

2.3. ... quando il Comune non agisce iure proprio. Sorge allora, in primis, il problema di valutare se il Comune sia legittimato a costituirsi parte civile anche quando, anziché agire iure proprio, intenda farlo in rappresentanza dei cittadini del proprio ambito territoriale. In tal senso un Autore, seppur in commento di una decisione del Consiglio di Stato, ha sottolineato che il comune manca di un qualsiasi potere equivalente a un mandato civile 23. Traslando tale considerazione in sede penale, deve concludersi che l’ente territoriale non agisce quale procuratore ad acta dei suoi cittadini; ciò nonostante non si determina una carenza di legittimazione. Questo perché la peculiarità degli enti territoriali (comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato stesso) risiede nel fatto che il territorio consente di individuare sia gli enti stessi, sia le persone che vi risiedono, così determinando questo collegamento con il territorio 24. La loro legittimazione quali rappresentanti delle comunità del loro territorio è quindi di natura pubblicistica, derivante dalla rappresentatività ed esponenzialità 25 ed è attualmente ammessa dalla più recente giurisprudenza di legittimità amministrativa 26.

21

Cass. Civ., Sez. Un., 8 maggio 1978, n. 2207, in Foro it., I, c. 167. M. PINELLI, Enti esponenziali e parte civile: la cassazione apre alla legittimazione dei sindacati nel caso di omicidio colposo correlato all’inosservanza della normativa antinfortunistica, in Cass. pen., 2011, p. 1135; E. STRINA-S. BERNASCONI, La persona offesa, cit., in Arch. rev. proc. pen., 2010, p. 7. In giurisprudenza: cfr. ex plurimis Cass., Sez. IV, 18 gennaio 2010, n. 22558, in Arch. riv. proc. pen., 2010, p. 562; Cass., Sez. III, 7 febbraio 2008, n. 12738, in C.e.d., 239409; Cass., Sez. III, 3 dicembre 2007, n. 11983; Cass., Sez. III, 10 marzo 1993, n. 5230, in Cass. pen., 1994, p. 984; Cass., Sez. III, 15 giugno 1993, n. 9727, ivi, 1995, p. 1936; con riferimento alla distinzione tra interessi diffusi e interessi collettivi: cfr. Cass., Sez. III, 7 aprile 2006, n. 33887, in C.e.d. 233887. 23 C. FORMENTI, Legittimazione processuale degli enti territoriali, cit., p. 1195. 24 E. CASETTA, Compendio di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2016, p. 49. 25 C. FORMENTI, Legittimazione processuale degli enti territoriali, cit., p. 1218. 26 Cons. St., Sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3988, in Dejure, Cons. St., Sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8686, in Foro Amm. CdS., 2010, p. 1184. 22

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2.4. … e l’azione a tutela di beni collettivi. Nulla quaestio quando l’ente territoriale si costituisca parte civile per ottenere il risarcimento di un danno subito dall’ente inteso come istituzione: questo si costituirà parte civile ai sensi del combinato disposto degli artt. 74 e 78 c.p.p., al pari di ogni altra persona giuridica. Viceversa può porsi il quesito circa la natura della costituzione quando l’ente in questione agisca in rappresentanza dei suoi cittadini. In altre parole ci si chiede se il Comune abbia agito effettivamente ai sensi dell’art. 74 c.p.p., ovvero quale ente collettivo, ex art. 91 c.p.p. ovvero se ancora si tratti di un tertium genus di azione, sostanzialmente non codificata. Preliminarmente si ricorda che fra gli scopi che gli estensori del Codice di Procedura penale vigente si erano preposti rientrava quello di meglio disciplinare, e limitare 27, l’intervento di enti esponenziali nel processo penale, che – invece – negli anni ’70 erano stati attivi nei più variegati ambiti del diritto penale. Deve riconoscersi che, nonostante continuino a sussistere ipotesi di costituzione di parte civile ex lege di natura peculiare nella legislazione speciale, successiva all’introduzione del codice 28, l’obiettivo di disciplinare con maggior rigore queste ipotesi sembra essere stato raggiunto 29. Ciò premesso, si deve ritenere che l’ente territoriale in questa circostanza agisca quale parte civile ordinaria, ovvero ai sensi dell’art. 74 c.p.p., non potendosi considerare quale associazione ad hoc di cui all’art. 91 c.p.p. La giurisprudenza, seppur sviluppatasi originariamente in un diverso contesto, segnatamente quello dei reati edilizi, ha precisato che il Comune, anche quando agisca in tutela di diritti diffusi, sia comunque soggetto titolato ad agire per richiedere il risarcimento in prima persona, ancorché in rappresentanza della sua comunità, così liberandolo dalle formalità impo27 G. ICHINO, La parte civile, cit., p. 137; ID., Sub art. 74, cit., p. 446. L’art. 6 del progetto preliminare delle disposizioni di coordinamento del Codice Vassalli prevedeva che: «le disposizioni di leggi o decreti che consentono la costituzione di parte civile in assenza delle condizioni o con modalità diverse da quelle stabilite dal codice di procedura penale per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale»; e anche l’attuale art. 212 disp. att. c.p.p. prescrive che le costituzioni di parte civile diverse da quelle di cui all’art. 74 c.p.p. debbano avvenire nel rispetto degli artt. 91-94 c.p.p. 28

Si ricordano inter alia l’art. 11 co. 5, l. 9 luglio 1990, n. 188, in materia di tutela della ceramica artistica e tradizionale, oggi abrogata; l’art. 36 della l. 5 febbraio 1992, n. 104, in tema di tutela dei portatori di handicap; art. 187-undecies, comma 2, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, in materia di tutela del mercato mobiliare; l’art. 300 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 in materia di tutela dell’ambiente. 29

Di diverso avviso: G. DI CHIARA, voce Parte civile, cit., pp. 237-238.

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ste alle associazione ai sensi dell’art. 91 ss. c.p.p., in particolare permettendogli di agire senza il previo consenso della persona offesa 30.

2.5. Conclusioni sulla legittimazione. Alla luce di quanto considerato si osserva che, nel caso concreto, i Comuni di Giussano e Seregno si sono costituiti parti civili ai sensi degli artt. 74 e 78 c.p.p.: tuttavia questi sarebbero stati anche legittimati all’intervento ex art. 91 c.p.p., a prescindere dal rilascio di un’autorizzazione ad hoc da parte di alcuno. Accettando le dette premesse, si ritiene, pertanto, corretto l’intervento dell’ente territoriale anche in assenza delle autorizzazioni ad hoc da parte delle ben individuate persone offese, dovendosi ritenere che questa non sia necessaria nell’azione ex art. 74 c.p.p. Ciò che desta maggiori perplessità è invece la scelta di ammettere la costituzione di parte civile – di fatto – in riferimento al diritto d’immagine dei Comuni ricordati, così come degli altri enti territoriali. Sebbene si riconosca che la precedente giurisprudenza, anche di legittimità, abbia ammesso l’azione civile degli enti nei processi di mafia anche per danni al turismo, precisando che questi avrebbero natura sia patrimoniale che non patrimoniale 31, non si condivide tale interpretazione poiché individua danni non patrimoniali in interessi ben lontani da quelli protetti dal delitto commesso. Considerato il bene giuridico (o i beni giuridici) tutelati dalla norma sull’associazione per delinquere di stampo mafioso, sarebbe stato più opportuno riconoscere tali enti territoriali lesi sotto il profilo dell’ordine pubblico, piuttosto che nel danno di immagine. Infatti, le altre due sentenze in esame sottolineano – con riferimento alla posizione degli enti territoriali – la compromissione di valori diversi da quello dell’immagine come causa di giustificazione della costituzione di parte civile e della liquidazione del danno 32. 30 Sulla superfluità del consenso di cui all’art. 91 c.p.p. nel caso di reati c.d. “vaghi” o “vaganti”: A. DE VITA, La tutela degli interessi diffusi nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 855. 31 Cass., Sez. I, 24 giugno 1992, cit.; Cass., Sez. I, 8 luglio 1995, cit. 32 In Trib. Milano, Ufficio GUP, 19 novembre 2011, cit., p. 819, si legge: «la gravità delle condotte criminose accertate e la pluralità dei soggetti coinvolti che hanno destato un gravissimo allarme sociale e l’infiltrazione all’interno del tessuto sociale ed economico di una associazione per delinquere di tale portata ha comportato inevitabilmente una grave

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Ciò non per tuziorismo processuale ma perché, se non si individua correttamente il bene giuridico che giustifica la costituzione dell’ente territoriale, si rischia di giungere alla conclusione per cui pressoché ogni reato ha capacità offensiva nei confronti dell’ente e – conseguentemente – ne legittima astrattamente la costituzione di parte civile nel processo 33. Conseguenza non soltanto ben lontana dalla volontà del Codice Vassalli, ma anche latrice di inutili lungaggini e costi processuali. Analogo discorso può essere fatto valere, mutatis mutandis, per gli altri enti territoriali costituitisi parti civili e quasi sempre ammessi 34, per i quali compromissione degli equilibri che governano la comunità. La commissione dei reati ha, dunque, indiscutibilmente danneggiato la Presidenza del Consiglio dei Ministri quale ente esponenziale della comunità statale, il Ministero dell’Interno quale ente che assolve istituzionalmente alle attività d’indagine e repressione della criminalità e il Ministero della Difesa preposto alla tutela dell’ordine pubblico; inoltre il Ministero della Difesa ha patito un rilevante danno all’immagine per la condotta criminosa di concorso esterno all’associazione mafiosa dell’imputato Berlingieri, appartenente all’Arma dei Carabinieri». In Trib. Milano, Sez. VIII penale, 6 dicembre 2012, cit., p. 1238 si legge: «la gravità delle condotte criminose accertate e la pluralità dei soggetti coinvolti che hanno destato un gravissimo allarme sociale e l’infiltrazione all’interno del tessuto sociale ed economico di una associazione per delinquere di tale portata ha comportato inevitabilmente una grave compromissione degli equilibri che governano la comunità». 33 In tal senso: D. GROSSO, Enti esponenziali ed esercizio dell’azione civile nel processo penale, in Giust. pen., 1987, III, c. 6; F. TRIPODI, L’ente pubblico locale parte civile “allargata”: è tempo di ripensamenti?, in Cass. pen., 2010, p. 1546. 34 È stata esclusa la sola costituzione della Regione Calabria, che aveva richiesto di costituirsi parte civile in uno dei due procedimenti, quello definitosi con il giudizio abbreviato. In Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011, cit., p. 820, infatti si legge che l’esclusione è avvenuta per l’assenza: «dell’immediato legame tra le azioni delittuose e l’ambito territoriale in cui si assume essere state commesse, riguardando infatti solamente, e parzialmente, il suolo lombardo». La Regione Lombardia, invece, è stata ammessa con motivazioni pressoché identiche; in Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011, cit., p. 819, si legge: «deve rilevarsi come la ammissibilità della stessa discenda da un vulnus che l’ipotizzata associazione criminale ha recato a quei diritti scaturenti dalle specifiche competenze istituzionali e finalità di indirizzo come cristallizzate in seno all’art. 117 Cost. e riportate nella legge regionale n. 9 del 3 maggio 2011: nella completa ed esaustiva domanda stilata dalla difesa dell’ente – qui da intendersi integralmente richiamata poiché già depositata nel fascicolo – si opera un opportuno e condivisibile riferimento al cospicuo filone giurisprudenziale che [...] avallava la decisione del giudice di primo grado che, ammettendo la costituzione di parte civile dell’ente locale, sottolineava come il reato di cui all’art. 416-bis c.p. potesse ledere l’immagine dell’ente territoriale nel cui ambito il delitto era stato commesso»; mentre in Trib. Milano, Sez. VIII penale, 6 dicembre 2012, cit., p. 1238, si legge: «La presenza sul territorio lombardo di un’organizzazione criminale quale quella costituita dagli imputati ha determinato lesioni di interessi propri dell’ente in relazione allo sviluppo ed alla regolare realizzazione dei fini perseguiti dalla Regione nell’ambito delle

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non sempre emerge con chiarezza il profilo di danno determinante per la legittimazione e, altrettanto, talvolta paiono labili i confini fra gli elementi legittimanti i diversi livelli territoriali degli enti rappresentativi, questione di non poco momento poiché funzionale ad evitare la duplicazione di profili di danno. In particolare, per quanto riguarda le regioni, appaiono rilevanti le rispettive norme statutarie e la previsione di leggi regionali che attribuiscano espressamente alla regione specifici oneri di prevenzione o contrasto alla criminalità, come effettivamente avviene per la Regione Lombardia 35.

3. Il danno subito. Conclusa la trattazione della legittimazione dell’ente, si pone il problema di verificare quali voci di danno gli possano essere risarcite e quale onere probatorio incomba su questa peculiare parte civile. Ultimo, poi, ma solo sotto il profilo logico argomentativo, rimane il problema della quantificazione, considerato peraltro che – nel caso di specie – si tratta di danni non patrimoniali, la cui determinazione è in re ipsa più aleatoria di quella dei danni patrimoniali, dovendo essere necessariamente equitativa. L’aleatorietà della quantificazione dei danni morali è confermata dal raffronto fra le vicende processuali in commento, infatti, il primo GUP, nel procedimento relativo al collaboratore di giustizia, pur ammettendo la costituzione di parte civile, ha liquidato – a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva – soltanto un decimo delle pretese dei due Comuni, sebcompetenze assegnate dall’articolo 117 della Costituzione e delle altre leggi statali. L’attività del sodalizio influisce sulla ordinata e civile convivenza della comunità regionale e sullo sviluppo economico della stessa interferendo nel processo economico e più in generale minando l’effettività del diritto alla sicurezza dei cittadini che lo statuto regionale indica tra gli elementi qualificativi della Regione. Detta azione è foriera di negative ripercussioni sull’immagine dell’Ente anche a seguito del clamore mediatico provocato dall’accertato radicamento del fenomeno mafioso sul territorio e della denominazione stessa attribuita al sodalizio dagli stessi affiliati». 35 La Legge Regionale (lombarda) 3 maggio 2011, n. 9, infatti prevede che la Regione Lombardia intervenga, sia per prevenire l’attività criminosa, che per arginarne gli effetti in ambito amministrativo e offrire supporto alle vittime, in particolare di reati associativi e, in particolare, per quanto qui rileva, l’art. 8 L.R. cit. statuisce che: «La Regione può costituirsi parte civile nei processi contro la criminalità organizzata per fatti di particolare rilevanza e allarme sociale verificatisi nel proprio territorio».

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bene questa non fosse ictu oculi sproporzionata, limitandosi così a liquidare Euro 10.000 per ogni parte civile. Il secondo GUP, invece, ha ritenuto di non liquidare alcun danno in forma specifica, limitandosi alla condanna generica 36. Il Tribunale collegiale, infine, pur valutando le medesime poste, ha liquidato danni nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro 37. Tale circostanza è sicuramente significativa per considerare più dettagliatamente quali siano i limiti del danno risarcibile in questa sede.

3.1. La latitudine del danno risarcibile: limitazione alla componente diretta e immediata. La dottrina 38 e la giurisprudenza 39 prevalente ritengono oggi che il danno risarcibile sia, anche quando si agisce ex art. 185 c.p., soltanto quello diretto e immediato. In vero in passato vi erano state posizioni contrapposte, e volte a garantire l’espansione alla risarcibilità di danni anche indiretti, seppur eziologicamente riconducibili al reato. I sostenitori di questa teoria ritengono, essenzialmente, che l’art. 185 c.p. riguardi un danno diverso rispetto a quello “da responsabilità civile” di cui all’art. 2043 c.c.; di talché la norma in esame costituirebbe un’azione risarcitoria diversa e separata rispetto a quella generale di cui alla citata disposizione del Codice Civile. Conseguenza di

36 In Trib. Milano, Ufficio GIP, 11 novembre 2011, p. 821, si legge: «Orbene, all’esito della discussione orale giova rilevare come, al di là della fondatezza dell’an, con riferimento al quantum nessun elemento è stato portato dalle costituite parti civili per sostanziare precisamente il danno subito. Ne consegue l’impossibilità sia di liquidare il danno in questa sede sia di assegnare una provvisionale immediatamente esecutiva, in assenza di fattori che ne consentano di tracciarne gli immediati contorni. La condanna, dunque, deve essere generica, con rimessione delle parti avanti al competente giudice civile per la liquidazione del danno». 37

In Trib. Milano, Sez. VIII penale, 6 dicembre 2012, cit., pp. 1237-1240 possono leggersi le singole voci di danno liquidate, ancorché – ad avviso dello scrivente – non supportate da adeguata motivazione sul quantum del risarcimento. 38

T. PELLEGRINI, Danno conseguenza e danno non patrimoniale. spunti di ricostruzione sistematica, in Europa e Diritto Privato, 2016, pp. 469-470; A. IULIANI, La fisionomia del danno e l’ampiezza del risarcimento nelle due specie di responsabilità, ivi, p. 196; N. FURINE. SBABO, L’intervento delle associazioni ambientaliste nel processo penale: persone offese e non parti civili, in Cass. pen., 2012, p. 2737 ss. 39 Cass., Sez. IV, 27 maggio 2014, n. 24619, in C.e.d. 259153; Cass., Sez. III, 17 gennaio 2012, n. 19439, in Guida dir., 2012, n. 37, p. 80.

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questa impostazione è l’inapplicabilità al danno da reato del combinato disposto degli artt. 2056 e 1223 c.c., che nei casi di responsabilità civile, invece, limita il danno risarcibile alle conseguenze dirette e immediate del fatto illecito 40. Tale impostazione, liberando dalla prova della circostanza che il danno lamentato sia conseguenza immediata e diretta dell’azione od omissione costituente reato, è certamente molto favorevole alla costituzione di parte civile degli enti, poiché permette di superare il problema di riconoscere come diretto un danno che in realtà non viene lamentato da chi lo ha subito, bensì da un ente preposto – o asseritamente preposto – alla tutela del singolo. D’altra parte deve riconoscersi che la dicotomia fra danno diretto e indiretto 41 è di ben difficile applicazione quando si tratti di danni non patrimoniali, e l’applicazione di tale istituto diviene ancor più incerta quando la parte lesa che agisce è un ente anziché una persona fisica 42, mentre questa concezione ha il pregio di superare queste incertezze. La teoria opposta, invece, afferma che l’art. 185 c.p. costituisce un’ipotesi particolare di responsabilità civile 43 e che, quindi, questa debba rispettare i dettami e i limiti di cui al ricordato combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 c.c. La peculiarità dell’azione di danno ex art. 185 c.p. consisterebbe nella legittimazione ex lege alla richiesta del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dal reato, scaturente dal comma 2 della disposizione citata. Pur riconoscendo che tale logica risulta più complessa nella sua applicazione quotidiana, poiché impone all’interprete (e quindi al giudice), il compito di selezionare fra le diverse richieste della parte civile soltanto 40

In tal senso: F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2006, VIII ed., pp. 263264; F. DASSANO, Il danno da reato, profili sostanziali e processuali, Giappichelli, Torino, 1998, p. 315; D. GROSSO, Enti esponenziali, cit., pp. 5-6; G. ICHINO, La parte civile nel processo penale, cit. In giurisprudenza: Cass. Civ., Sez. III, 20 ottobre 1962, n. 3061, in C.e.d. 254512. 41

Nonché fra immediato e mediato. D. GROSSO, Enti esponenziali, cit., p. 6. 43 In dottrina: P.L. BORELLO, Legittimazione del privato a costituirsi parte civile nel procedimento per interesse privato in atti di ufficio, in Riv. it. dir proc. pen., 1978, p. 1449; R. CANTONE, Sub art. 74 in G. LATTANTI-E. LUPO (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Giappichelli, Torino, 2008, p. 636; D. FONDAROLI, Illecito penale e riparazione del danno, Giuffrè, Milano, 1999, p. 223. In giurisprudenza: Cass., Sez. Un., 21 maggio 1988, n. 6168, in Cass. pen. 1989, p. 1406; Cass., Sez. IV, 23 maggio 1990, n. 16823, in C.e.d., 186068; Cass., Sez. VI, 12 dicembre 1995, n. 4803, ivi, 204140. 42

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quelle che siano immediate e dirette conseguenze del reato; deve ritenersi la più corretta, poiché – agendo diversamente – si rischierebbe di introdurre un’immotivata sperequazione fra chi agisca nella sede civile propria e chi, invece, introduca le proprie pretese risarcitorie nel processo penale 44.

3.2. L’esclusione del danno in re ipsa. La giurisprudenza civile in tema di prova del danno non patrimoniale, dopo aver dato spazio all’identificazione delle più svariate tipologie di danno (danno morale; danno biologico; danno esistenziale, declinato anche nelle sottospecie del danno d’immagine, estetico, da perdita di chances, da vacanza rovinata ecc., è tornata, con diverse decisioni conformi delle Sezioni Unite 45, a interpretare in maniera più letterale le disposizioni civili che regolano il danno non patrimoniale, in primis l’art. 2059 c.c., negando – quantomeno ai fini della quantificazione del risarcimento – l’esistenza di una pluralità di danni non patrimoniali e imponendo una reductio ad unum delle voci risarcitorie sopra indicate. Scopo di questa corrente giurisprudenziale era evitare la proliferazione di poste risarcitorie differenti, che rischiavano di snaturare la ratio legis dell’art. 2059 c.c. consentendo liquidazioni di risarcimenti superiori rispetto ai danni subiti, così – implicitamente – introducendo nel nostro sistema giuridico, l’istituto dei punitive damages per genesi giurisprudenziale. Corollario di questa impostazione di pensiero è negare il riconoscimento e la liquidazione di danni in re ipsa, poiché questi non corrispondono al principio ripristinatorio che permea il nostro sistema giuridico 46. Così, una volta ricondotto il danno morale 47 nella più ampia categoria 44 A. PENNISI, voce Parte civile, cit., pp. 993-994; M. PINELLI, Enti esponenziali e parte civile, cit., pp. 1139-1141. 45

Si ricordano le c.d. sentenze gemelle del 2008, ovvero le nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008. 46 C.M. BIANCA, Diritto civile, vol. V, La responsabilità, Giuffrè, Milano, 1994, p. 532; A. DE CUPIS, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, II, Giuffrè, Milano, 1979, p. 16; G. VIOTTI, Il «danno all’integrità del mercato» cit.; G. VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Cedam, Padova, 2005, III ed., p. 631 ss. 47

Questo sempre da intendersi quale turbamento psicologico della persona offesa in conseguenza del reato subito, nella citata sentenza n. 26972 si legge che «il danno morale descrive un tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata da reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai

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del danno non patrimoniale, deve riconoscersi che anche questo necessiti di essere adeguatamente provato nel corso del processo 48. La Suprema Corte utilizza il concetto di “danno-conseguenza”, in contrapposizione di quello di “danno-evento” per rimarcare il concetto che, sebbene il danno morale costituisca la sofferenza derivante dalla commissione del reato, non è sufficiente dimostrare che il reato sia stato commesso per avere anche la prova del danno non patrimoniale asseritamente cagionato 49. Più recentemente, e in contesto differente rispetto ai reati associativi di stampo mafioso, anche le sezioni penali della Suprema Corte si sono allineate alla giurisprudenza civile sopra esposta, concludendo che neppure la condanna generica al risarcimento del danno è ammissibile per il solo fatto che il reato sia stato commesso in danno di una persona offesa 50. fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento». In dottrina: P. CENDON-R. ROSSI, Danno esistenziale e danno morale: a ciascuno la sua parte, in Resp. civ. e prev., 2009, p. 1375 ss.; P. ZIVIZ, L’eco delle sezioni unite risuona alla corte costituzionale, in Resp. civ. e prev., 2011, p. 290 ss. 48

In precedenza si era già espressa in tal senso Cass. Civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Giust. civ., 2002, p. 1937: «il danno non patrimoniale, anche quando sia determinata dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituisce danno conseguenza che deve essere allegato e provato va disattesa infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe “in re ipsa”, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo». 49

D. DE STROBEL, Rassegna di giurisprudenza sul danno non patrimoniale dopo le sentenze delle sezioni unite. prime decisioni dopo il riordino del danno non patrimoniale operato dalle Sezioni unite, in Dir. economia assicuraz., 2009, p. 619 ss.; V. PAPAGNI, La risarcibilità in re ipsa del danno non patrimoniale derivante dalla lesione della reputazione, in Giur. merito, 2009, p. 2137 ss.; G. VIOTTI, Il «danno all’integrità del mercato», in Dir. comm. internaz., 2010, p. 891 ss. 50 In tal senso Cass., Sez. III, 27 marzo 2015, n. 33001, in C.e.d. 264260, per cui: «Il danno da reato, patrimoniale e non patrimoniale, risarcibile ex art. 185 cod. pen. non può essere identificato nel mero fatto nell’avvenuta integrazione dell’illecito previsto dalla fattispecie incriminatrice, con la conseguenza che il giudice penale, quando afferma la effettiva sussistenza del danno, non può motivare la condanna, anche generica, al risarcimento con affermazioni da cui è desumibile che il pregiudizio è ravvisato “in re ipsa”». La decisione, pronunciata in materia di reati sessuali, fa espresso riferimento agli approdi della Cassazione civile in tema di prova del danno, precisando che: «Da tempo, ormai, le sezioni civili di questa Suprema Corte hanno autorevolmente affermato il principio secondo il quale il “danno – conseguenza” risarcibile (da non confondere con il “danno-evento”) non può mai essere ritenuto “in re ipsa”, ma deve essere oggetto di prova, anche mediante il ricorso, se necessario, alle presunzioni (cfr., sul punto, Cass. Civ., Sez. Un., n. 26972 dell’11 novembre 2008,

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3.3. La prova del danno e la sua quantificazione. Sotto tale profilo si sottolinea come le c.d. “sentenze di S. Martino” (Cass. Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972-26973-26974-26975) non possano ritenersi esaustive in questo contesto. In tali decisioni, una volta distinto fra il concetto di danno evento e danno conseguenza, si è riconosciuto che il danno non patrimoniale (ivi compresa la sottocategoria del danno morale) poteva comunque essere provato per presunzioni, essenzialmente imponendo un mero onere di allegazione anziché di prova 51. Tale considerazione non può essere traslata nel caso di specie poiché, quando l’azione civile viene esercitata nel processo penale anch’essa non può avvalersi delle eventuali presunzioni e inversioni probatorie di cui potrebbe beneficiare nel processo civile, dovendo invece sottostare al regime probatorio del superamento del ragionevole dubbio proprio del processo penale 52. La parte civile, allora, si trova obbligata a dimostrare in concreto quale sofferenza soggettiva abbia cagionato il reato. secondo le quali “il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass., n. 8827 e n. 8828/ 2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”). A tale principio non si sottrae il danno non patrimoniale derivante da reato (Cass. Civ., Sez. 3, n. 8421 del 12 aprile 2011, Rv. 617669). Il danno, patrimoniale e non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 185 c.p., comma 2, infatti, costituisce conseguenza del reato e non si identifica con esso; il chiaro tenore letterale della norma non consente dubbi di sorta. Ne consegue che il giudice penale, quando affermi la effettiva sussistenza del danno risarcibile da reato (c.d. “danno – conseguenza”), non può limitarsi, anche se ai soli fini della condanna generica, ad identificare il danno risarcibile con il reato stesso (c.d. “danno-evento”), né, conseguentemente, può motivare le ragioni della condanna al risarcimento con affermazioni sostanzialmente apodittiche, se non proprio tautologiche, che di fatto depongono per la sussistenza “in re ipsa” del danno-conseguenza». 51 R. GIORDANO, Questioni processuali relative alla nuova categoria del danno non patrimoniale, in Giust. civ., 2011, p. 39 ss. 52 R. BLAIOTTA, Causalità e colpa: diritto civile e diritto penale si confrontano, in Cass. pen., 2009, p. 78; P.F. POLI, Due recenti pronunce della Cassazione in tema di responsabilità penale da omessa diagnosi di malattie oncologiche, in www.penalecontemporaneo.it, 12 dicembre 2011. In giurisprudenza: Cass. Civ., Sez. Un., 18 novembre 2008, n. 27337, in C.e.d. 60537; Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, nn. 576 e 582 in C.e.d. 600879 e 500916.

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Quanto agli interessi la cui lesione diviene rilevante per concedere e determinare il risarcimento, si ritiene che questi debbano corrispondere con i beni giuridici tutelati dalla fattispecie penale. Questa pare essere la conclusione alla quale giungono le Sezioni Unite, le quali sostengono che proprio questo raffronto permette di integrare la tipicità richiesta dall’art. 2059 c.c. per riconoscere il danno non patrimoniale, assumendo che: «[…] la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale» 53. Così pare che le ricordate sentenze gemelle del 2008 concordino con la dottrina la quale scindeva fra risarcimenti accordabili al danneggiato dal reato e quelli spettanti alla persona offesa, assumendo che al primo spetti il solo danno patrimoniale, mentre solo il secondo possa accedere alla liquidazione di quello anche non patrimoniale, in forza del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 2059 c.c. Ciò perché soltanto il danno morale costituirebbe vero e proprio danno “da reato”, mentre gli altri sarebbero danni subiti “in occasione del reato” 54. Tale dictum non è privo di conseguenze nel caso in esame, poiché – come si è detto anche nel paragrafo precedente – la circostanza che siano accordati risarcimenti differenti alla persona offesa e al danneggiato rende estremamente rilevante la sussunzione della parte civile costituita all’interno di una di queste due categorie.

3.4. L’utilizzo di formule motivazionali volte a eludere il problema della dimostrazione del danno. La prima sentenza in esame, come si è detto in premessa 55, dedica uno spazio piuttosto ridotto della propria motivazione all’accoglimento (parziale) delle istanze delle due parti civili, e altrettanto l’estensore è succinto nella descrizione del nesso di causalità e nelle conseguenze del danno riconosciuto, limitandosi ad affermare che: «il fatto stesso che comunità locali 53

Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Resp. civ. prov., 2009, p. 38, con particolare riferimento al § 2.10. 54

E. SQUARCIA, L’azione di danno nel processo penale, Cedam, Padova, 2002, pp. 157-

158. 55

Trib. Milano, Ufficio GIP, 20 giugno 2011.

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operose fattive, e quindi la loro rappresentanza istituzionale, possano essere associate alla presenza di organizzazioni criminali e al pericolo derivante dai reati da loro commessi e potenziali, costituisce un danno rilevantissimo suscettibile di risarcimento. Va però osservato che al di là di tale indubbia sussistenza nessun elemento ulteriore è stato portato dalla costituita parte civile per sostanziare più precisamente il danno subito» 56. Alla luce di tali passaggi motivazionali pare che sia stata sposata la teoria del danno-evento ormai superata dalle più volte ricordate Sezioni Unite del 2008, sostanzialmente affermando che, considerata la gravità dei fatti di causa, il danno debba considerarsi in re ipsa sofferto dalle parti civili. Tale assunto, però, non appare del tutto convincente perché la previsione di danni presunti in forza della gravità del fatto ben poco si discosta dalla teoria del “danno-evento”, e anzi potrebbe anche argomentarsi che se il comportamento dannoso è stato così macroscopico, allora la dimostrazione delle sue conseguenze dovrebbe essere ancora più facile per la parte civile. Le peculiarità del caso di specie, però, sconsigliano di arroccarsi su posizioni assolute, rendendo – invece – opportune considerazioni diverse. In primo luogo deve riconoscersi che, seppur in ambiti del tutto diversi da quello qui trattato, anche giurisprudenza successiva al 2008 è tornata ad avvalersi di presunzioni tali da tornare, di fatto, alla teoria del “dannoevento” 57. In secondo luogo deve riconoscersi che la duplice peculiarità, sia del danno lamentato, derivante da un reato di pericolo; che della parte civile agente, un ente territoriale, rendono certamente meno agevole la prova del danno rispetto a quanto possa avvenire in ipotesi più comuni. Ciò nonostante si ritiene che la decisione in commento non risponda integralmente ai principi e agli oneri motivazionali accolti dalla più volte ricordata giurisprudenza di legittimità. La circostanza stessa che la somma concessa a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva si discosti in maniera così rilevante dalle conclusioni del patrono di parte civile induce a ritenere che anche l’estensore della motivazione dubitasse della natura del danno, così come meramente allegato dall’attore che, verosimilmente, non aveva nemmeno offerto nella costituzione e nelle conclusioni ulteriori elementi utili per una diversa decisione. Si deve osservare che, se la giurisprudenza di merito si avvalesse usual56

Ibidem, pp. 37 e 38, corsivi aggiunti. Trib. Venezia, Sez. III penale, 13 gennaio 2009, con nota di V. PAPAGNI, La risarcibilità in re ipsa, cit., pp. 2142-2144. Deve però precisarsi che il caso trattato dal Tribunale di Venezia riguardava un’azione civile volta al risarcimento di una diffamazione a mezzo stampa. 57

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mente di formule motive consimili a quella qui esaminata, il dictum delle Sezioni Unite rischierebbe di rimanere assolutamente inattuato.

3.5. Alternative all’azione per risarcimento del danno non patrimoniale. Si è già osservato nei paragrafi precedenti che la costituzione di parte civile per danni non patrimoniali comporta diverse criticità, relative sia alla legittimazione che alla prova del danno sia nell’an che nel quantum; d’altronde si sottolinea che i precedenti giurisprudenziali in materia motivavano in maniera più cauta, sostanzialmente riconoscendo non solo un danno non patrimoniale ma anche uno patrimoniale, in particolare per le conseguenze dannose sul turismo. L’utilizzo del danno patrimoniale, in particolare, permette di eliminare ogni dubbio sulla legittimazione del civilmente danneggiato e tuttavia non impedisce di ricorrere al giudizio di equità, come previsto – seppur in via residuale – dall’art. 1226 c.c., certamente utilizzabile in questa sede. In buona sostanza l’ente locale potrà sostenere di aver subito un danno al turismo, come ha già riconosciuto la giurisprudenza di legittimità in casi in cui il territorio danneggiato abbia una certa vocazione in tal senso; oppure lamentare una fuga o mancata crescita delle attività produttive, qualora la sua economia sia più industriale che turistica. Il danno consisterebbe in primis nel lucro cessante consistente nelle minori entrate nelle casse comunali 58 e la prova potrebbe essere fornita per via induttiva producendo i dati offerti dagli uffici statistici o di economato usualmente presenti anche nelle più ridotte articolazioni territoriali dello Stato. Procedere concedendo sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale, come sembrano aver fatto le ricordate decisioni degli anni 1992 e 1995, invece, farebbe sorgere un diverso problema, cioè il rischio di giungere a duplicazioni delle poste di danno (conteggiate sia come patrimoniali che non patrimoniali) che la giurisprudenza più recente cerca scrupolosamente di evitare.

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Si sottolinea che, seppur in contesto diverso (legato ai reati contro la pubblica amministrazione) è stato osservato che il danno patrimoniale potrebbe integrare anche il danno emergente consistito nelle «spese necessarie per il ripristino dell’immagine dell’ente pubblico», così: P. ZIVIZ, L’eco delle sezioni unite risuona alla corte costituzionale, cit., p. 298.

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4. Conclusioni. Alla luce di quanto esposto emerge che la sentenza qui in esame mostra, limitatamente alle questioni civili, alcuni profili problematici, o quantomeno di non immediata soluzione. Ammesso il Comune come soggetto legittimato ex art. 74 c.p.p., se questo agisce per il ristoro del danno morale (rectius danno non patrimoniale conseguente da reato), tale pretesa dovrà intendersi ammissibile solo se lo si consideri persona offesa e non danneggiato, qualificandosi il danno lamentato come monetizzazione – in via equitativa – del pretium doloris conseguente alla violazione o compressione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie penale. Nel caso in cui l’ente pubblico agisca per ottenere il risarcimento di un danno non patrimoniale diverso da quello di cui all’art. 185 c.p., allora dovrà provare: (i) l’esistenza della conseguenza dannosa; (ii) il nesso di causalità, fra detta conseguenza e la condotta costituente reato e (iii) la rilevanza del proprio interesse, riconducendolo a un diritto che goda di tutela costituzionale. Alcuni dei ricordati problemi, come si è detto, potrebbero essere risolti dalla richiesta di risarcimento del danno patrimoniale, seppur in forma equitativa. In ogni caso, però, residuerebbe il limite afferente la latitudine dei danni rilevanti, per cui soltanto le conseguenze dirette e immediate del fatto reato potranno essere risarcite; dovendosi quindi escludere quelle indirette; distinzione che – come si è detto – appare piuttosto complessa e di difficile applicazione nel caso di una costituzione di parte civile peculiare come quella esaminata.

4.1. Il rischio dell’inefficienza della costituzione di parte civile. Quindi, nel caso in cui anche la giurisprudenza penale sposasse senza modifiche o correttivi i principi esposti dalle Sezioni Unite civili sia in tema di danno che di onere probatorio, l’utilizzo dell’azione offerta dall’art. 74 c.p.p. rischierebbe di risultare ben poco gratificante per gli enti territoriali poiché, da un lato imporrebbe alla parte civile l’onere probatorio delle conseguenze dannose del reato; dall’altro lato, tale obbligo risulterebbe più gravoso e privo dei correttivi utilizzabili nel processo civile. In particolare poiché, considerato che la prova nel processo penale non può fermarsi al limite del “più probabile che non” ma impone invece di superare il ragionevole dubbio, la parte civile sarà chiamata a uno sforzo ben più gravo-

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so di chi richieda il risarcimento nella sede propria. D’altra parte un fenomeno simile non è nuovo e anzi si è già verificato in altre ipotesi di risarcimento, in primis nei casi di colpa medica che, dopo essere state per anni trattate in via preferenziale nella sede penale, sono più recentemente migrate verso il giudizio civile 59. In definitiva, in alcune ipotesi, la scelta della costituzione di parte civile in sede penale sembra piuttosto una decisione simbolica, volta più a manifestare la propria esecrazione rispetto ad alcuni eventi o fenomeni criminosi, piuttosto che a ottenere il ristoro del danno lamentato. Tuttavia non sembra qui presente il fenomeno dell’attivismo degli enti 60 che aveva spinto il Legislatore a disciplinare in maniera più precisa la partecipazione di questi al processo penale. Ciò sia per la natura prettamente pubblica della parte civile che per il tipo di reato oggetto del procedimento che per la sua gravità e l’allarme sociale che determina, la quale non necessità certamente di una spinta delle parti eventuali del processo per essere trattata con solerzia dal pubblico ministero. Come è stato osservato proprio in ordine alla costituzione dei comuni per reati associativi di stampo mafioso 61, la partecipazione al processo penale ha infatti un valore (in un certo senso morale) che non è certo raggiungibile dall’azione civile pura; nonostante, per certi aspetti, quest’ultima offra opportunità di successo maggiori per l’attore. In altre parole, in alcuni casi, l’azione ex art. 74 c.p.p. sembra spinta da uno spirito alla De Coubertin, per cui l’importante è partecipare (al processo penale), piuttosto che ottenere un risultato processuale economicamente satisfattivo (magari nel processo civile).

4.2. L’opportunità di avvalersi di istituti ripristinatori o indennitari ad hoc diversi dalla costituzione di parte civile. Sia concesso premettere che la lotta alle organizzazioni mafiose è combattuta essenzialmente su due fronti e con due strumenti: da un lato la privazione o limitazione della libertà individuale, e dall’altro lato, provvedi59

D’altra parte questo fenomeno è legato, in tale ambito, al riconoscimento della c.d. responsabilità da contatto, che permette di avvalersi in sede civile dell’inversione dell’onere della prova certamente impraticabile nel processo penale. 60

A. DE VITA, La tutela degli interessi diffusi, cit., pp. 842-843. C. QUAGLIERINI, La legittimazione del Comune, cit., p. 1004; F. TRIPODI, L’ente pubblico locale parte civile “allargata”, cit., p. 1547. 61

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menti ablativi di risorse economiche. Questo secondo fronte non è meno rilevante del primo, sia perché è comprensibile che le organizzazioni private delle proprie risorse economiche perdono molta della loro capacità offensiva e conseguentemente forza intimidatoria; e perché i provvedimenti patrimoniali possono anche essere assunti prima della condanna penale e talvolta anche a prescindere da questa, ad esempio nelle forme della misura di prevenzione. L’ordinamento italiano, ma più recentemente anche quelli internazionali e dell’Unione europea, si sono muniti di numerosi strumenti giuridici volti a combattere le organizzazioni criminose sotto il profilo patrimoniale e in subiecta materia il rinvio più immediato va al recente d.lgs. del 6 settembre 2011, n. 159, c.d. “codice antimafia” il quale riunisce organicamente numerose fonti legislative preesistenti in questo ambito, completandole e parzialmente modificandole; in particolare incorporando le leggi 27 dicembre 1956, n. 1423 e 31 maggio 1965, n. 575 in tema di misure di prevenzione. Il Codice antimafia regolamenta anche la gestione dei beni sequestrati e confiscati, prevedendo da una parte che i beni confiscati in via definitiva siano acquisiti al patrimonio dello Stato (art. 45) il quale li amministri per il tramite di un’Agenzia ad hoc che conferirà la liquidità al Fondo unico giustizia; dall’altra che i beni immobili possano essere «trasferiti per finalità istituzionali o sociali, in via prioritaria, al patrimonio del comune ove l’immobile è sito, ovvero al patrimonio della provincia o della regione [...]» (art. 48 co. 3, lett. c). Infatti dall’esame dei dati pubblicati dal Ministero di Giustizia riguardo alla destinazione dei beni sequestrati emerge che i comuni ne sono i primi enti assegnatari, tanto che nel corso del 2009 quasi il 90% degli asset confiscati è stato affidato a questi enti locali, sebbene tale proporzione sia diminuita in maniera rilevante nei due anni successivi 62. Emerge così che già le fonti normative vigenti permettono, quanto meno in astratto, una partecipazione fattiva degli enti locali nell’utilizzo dei proventi delle organizzazioni mafiose. D’altronde si osserva che anche il “codice antimafia” offre spazi di miglioramento, ad esempio, prevedendo una prelazione dell’assegnazione degli immobili ai Comuni nel cui ambito territoriale abbia svolto la sua attività criminosa l’associazione per delinquere di stampo mafioso. Infatti, sebbene possa ritenersi verosimile che questo statisticamente corrisponda con lo stesso territorio leso dall’attività 62 Si rinvia per tale aspetto alla Relazione al Parlamento ex l. 7 marzo 1996, n. 109 (settembre 2011), pubblicata sul sito del Ministero di Giustizia, in www.giustizia.it.

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mafiosa, inserire una simile postilla permetterebbe all’istituto in parola di svolgere anche una funzione ripristinatoria idonea a sostituire la costituzione di parte civile. Inoltre la clausola di cui all’art. 46 co. 3, lett. b), in forza della quale, nel caso in cui il bene debba essere restituito, pone in capo all’ente assegnatario l’onere di rifondere la somma equivalente al valore del bene, rivalutata in base all’inflazione ai sensi del comma 1 della disposizione citata, appare potenzialmente molto pericolosa per le finanze dell’ente locale 63. Questa linea del legislatore nazionale pare essere conforme e anzi condivisa dall’Unione europea, la quale sembra preferire forme di tutela degli enti locali – e più genericamente delle vittime – diverse dalla partecipazione attiva al procedimento penale e, invece, volte al loro coinvolgimento alla gestione dei beni confiscati, come ribadito anche in una recente risoluzione del parlamento europeo 64. Deve sottolinearsi, infatti, come taluni enti fra quelli citati, e in particolare Regione Lombardia, prevedano – a fianco della facoltà di costituzione di parte civile – anche l’attività dell’ente finalizzata ad ottenere o facilitare l’assegnazione, per ragioni di interesse sociale, dei beni sequestrati e confiscati 65. Infine può concludersi che, sebbene gli istituti giuridici attualmente in vigore siano certamente perfettibili, e forse siano utilizzati al di sotto delle loro reali potenzialità, possano già oggi trovarsi soluzioni potenzialmente idonee a evitare la costituzione di parte civile per quegli enti locali lesi dall’attività delittuosa svolta nei loro territori dalle organizzazioni di cui all’art. 416-bis c.p.

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Tale norma non ha colto l’attenzione dei primi commentatori del codice antimafia, suscitandone le perplessità, in particolare: F. FIORENTIN, Codice antimafia. Con la confisca definitiva beni liberi da pesi e oneri, in Guida dir., 2011, f. 42, p. 38 e C. MALTESE, Il Codice antimafia, in Il penalista, Giuffrè, Milano, 2011, p. 64. 64

Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2011 sulla criminalità organizzata nell’Unione europea [2010/2309(INI)], il cui punto 9 «invita la commissione a sostenere e far propria l’improcrastinabilità di una legislazione europea sul riutilizzo dei proventi di reato a scopi sociali»; pubblicata in www.penalecontemporaneo.it, 26 gennaio 2012; per un commento al contenuto del predetto documento si rinvia a A. BALSAMO-C. LUCCHINI, La risoluzione del 25 ottobre 2011 del Parlamento europeo: un nuovo approccio al fenomeno della criminalità organizzata, ibidem. 65 L’art. 5 L.R. Lombardia 3 maggio 2011, n. 9 prevede che tale ente intervenga al fine di facilitare l’assegnazione dei beni sequestrati e confiscati a comuni e province, sia tramite la stipulazione di convenzioni con Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che tramite l’erogazione di fondi funzionali all’approvazione dei progetti di utilizzo dei beni predetti.

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Soltanto l’effettiva emanazione delle fonti secondarie previste dal citato codice antimafia – e la loro concreta applicazione quotidiana – però, potranno permettere di valutare se effettivamente possa essere garantita anche per via amministrativa, senza il ricorso alla costituzione nel processo penale o all’instaurazione di dispendiosi procedimenti civili.

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LA PARTECIPAZIONE A DISTANZA AL DIBATTIMENTO: CRONACA DELL’ESPANSIONE APPLICATIVA DI UN ISTITUTO DALLA DUBBIA TENUTA COSTITUZIONALE di Luca Barontini

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La disciplina vigente. – 3. Un’inopportuna estensione dell’ambito applicativo della partecipazione a distanza, anche al di fuori delle logiche del doppio binario. – 4. La compressione del diritto di difesa della disciplina attuale ed il suo “annientamento” nel disegno di legge 2798. – 5. Conclusioni.

1. Premessa. Il 23 settembre 2015 la Camera dei Deputati ha trasmesso al Senato della Repubblica il disegno di legge 2798, iniziativa legislativa che, fra le numerosissime modifiche al codice di procedura penale, amplia la portata applicativa della partecipazione al processo a distanza. Tale modifica è diventata terreno di forti contrapposizioni in occasione del processo pendente davanti alla decima sezione del Tribunale ordinario di Roma, derivante dall’indagine denominata “Mafia Capitale”, il quale, oltre ad aver messo in luce eclatanti scandali corruttivi, ha aperto, o, se si vuole, esacerbato uno scontro fra l’avvocatura e la magistratura italiana (coinvolgendo indirettamente anche il legislatore). In tal senso, l’Unione delle Camere Penali, seguita – sia in segno di solidarietà che di condivisione della protesta inizialmente portata avanti dalla Camera Penale di Roma – da quasi tutte le altre Camere Penali delle maggiori città italiane, ha indetto una settimana di astensione dalle aule giudi-

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ziarie, scagliandosi, fra le altre cose, contro due fenomeni che, forse per la prima volta in ragione dell’impatto mediatico della vicenda, si sono accavallati nel processo “Mafia Capitale”. Ci si riferisce alla «“rappresentazione” del processo che anticipa il processo stesso» 1 intesa come eccessiva diffusione mediatica degli atti di indagine ed alla “smaterializzazione” del processo penale con un’applicazione indiscriminata (e nel caso di specie distorta) dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. 2, il quale, come noto, stabilisce che la partecipazione dell’imputato alla fase dibattimentale possa avvenire con il sistema della videoconferenza. In questa sede si vogliono evidenziare le criticità di questa modalità di partecipazione al giudizio, valutando la compatibilità con i principi costituzionali del giusto processo tanto della disciplina vigente quanto del disegno di legge attualmente in discussione in Parlamento 3 e già approvato dalla Camera dei Deputati. Prima di entrare nel merito del discorso si ritiene opportuno domandarsi fino a che punto le esigenze repressive, sia pure in presenza di reati particolarmente gravi, possano comprimere quelle garanzie difensive proprie del processo accusatorio che, quantomeno in linea di principio, dovrebbero essere caratteristiche imprescindibili di tale modello. Infatti, sfogliando le prime pagine di qualsiasi manuale di procedura penale 4, si possono facilmente individuare, quali corollari del modello accusatorio, vari principi fra cui quello di oralità, del contraddittorio (che vede la sua massima espressione nella cross examination) e dell’immediatezza, che appaiono in forte antitesi con una dimensione solo virtuale dell’elemento spaziale del processo penale. Un’indiscriminata smaterializzazione del processo penale rischia di trasformare l’imputato da parte a “spettatore” (peraltro a distanza) con la poco consolante prospettiva di leggere i “copioni” della rappresentazione che lo ha visto (silente) protagonista. In tal modo, l’evolversi di un siffatto pro1 Cfr. Delibera del 3 novembre 2015 della Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane. 2 Così la Delibera della Giunta dell’Unione delle Camere Penali italiane: «Piuttosto che la smaterializzazione dei fascicoli processuali, utile ad una rapida ed economica fruizione della conoscenza processuale (fondamento ineludibile del contraddittorio), si pratica, con un uso indiscriminato del “processo a distanza” (come da ultimo nel processo cd “Mafia Capitale”), la smaterializzazione dell’imputato, con ciò che significa in termini di disumanizzazione del processo e di compressione dei principi dell’immediatezza e del contraddittorio». 3 Disegno di legge A.C. n. 2798, approvato dalla Camera dei Deputati il 23 settembre 2015 e trasmesso in data 24 settembre 2015 per il relativo esame al Senato della Repubblica. 4

V., per tutti, M. CHIAVARIO, Diritto processuale penale, Utet, Milano, 2015, p. 17.

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cesso si avvicina più ai canoni del modello inquisitorio (con un’oralità solo potenziale che non si risolve in altro se non in un processo, per l’imputato spettatore, di fatto cartolare) che ad uno propriamente accusatorio 5. In altri termini, tale ultimo modello, per rispettare i menzionati principi, dovrebbe consentire, salvo casi eccezionali, la contemporanea presenza di tutti i protagonisti favorendo quanto più possibile l’interazione fra gli stessi. Come noto, il legislatore del 1998 6 ha introdotto la possibilità, e in taluni casi l’obbligo, di disporre la partecipazione a distanza al dibattimento per gli imputati di reati di particolare allarme sociale, distruggendo il dogma dell’unità spaziale del processo ed aprendo un ulteriore terreno di scontro, peraltro mai sopito, con l’avvocatura, che ha avuto il suo apice con l’emissione dell’ordinanza del 28 settembre 2015 del presidente della decima sezione penale del Tribunale di Roma con cui veniva disposta la partecipazione a distanza di tutti gli imputati detenuti del processo “Mafia Capitale”. A seguito di una forte mobilitazione (ammesso e non concesso che tale espressione sia accostabile all’agitazione di un ordine professionale), in primis, della Camera Penale di Roma, lo stesso presidente decideva di fare un passo indietro, disponendo, con ordinanza del 26 ottobre 2015, che la partecipazione a distanza avvenisse, per tutta la durata del processo, solamente per tre imputati (di cui uno solo detenuto in regime di art. 41-bis ord. penit.) e, per tutti gli altri imputati detenuti, solamente per la prima udienza del 5 novembre 2015. Il principale punto di scontro fra il Tribunale capitolino e l’avvocatura non si limitava al “diritto vivente” ma coinvolgeva, più o meno indirettamente, anche il legislatore, atteso che la Camera Penale di Roma considerava il provvedimento del 28 settembre 2015 «un’anticipazione per via “giudiziaria” di un assetto normativo che permett[e] l’espropriazione del sacrosanto diritto dell’imputato detenuto a partecipare alle udienze del proprio processo» 7, annunciando forti prese di posizione per contrastare il disegno di legge in discussione in Parlamento che, di fatto, trasforma, per i reati distrettuali, l’istituto della partecipazione a distanza da eccezione a regola. 5 O. MAZZA, Le persone pericolose (in difesa della presunzione di innocenza), reperibile in www.penalecontemporaneo.it, 20 aprile 2012, evidenzia talune storture connesse alla legislazione del «doppio binario», in particolare «le più recenti linee evolutive della politica legislativa in tema di sicurezza ci mostrano il prepotente riemergere di un inquietante fenomeno che affonda le sue radici nella più scadente tradizione inquisitoria e che vede il processo piegarsi a strumento di difesa sociale». 6 Cfr. l. 7 gennaio 1998, n. 11. 7 Cfr. Delibera del 29 ottobre 2015 della Camera Penale di Roma.

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2. La disciplina vigente. Come anticipato, il primo intervento normativo che ha previsto la possibilità di collocare l’imputato in un luogo diverso dall’aula di udienza veniva introdotto con la l. 7 gennaio 1998, n. 11. Tuttavia, il primo “attentato” al dogma della unità spaziale del dibattimento avveniva circa sei anni prima, quando il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni in l. 7 agosto 1992, n. 356, disponeva, nell’ottica della legislazione emergenziale dell’epoca, che i collaboratori di giustizia venissero escussi con il sistema della videoconferenza 8. È appena il caso di osservare che la ratio di tale normativa mirava a tutelare l’incolumità del dichiarante, nonché ad evitare che la genuinità della deposizione fosse inficiata da un incontro de visu con gli imputati di reati di criminalità di stampo mafioso, con evidenti rischi di intimidazione. Per converso le finalità del legislatore del 1998 erano di segno opposto: veniva superato l’intento di «tutelare più in generale la sicurezza di fonti probatorie particolarmente esposte» 9 nel senso di una protezione offerta al singolo dichiarante, ma, sempre nell’ottica della (perpetua) legislazione emergenziale 10, si voleva offrire protezione alla generalità dei consociati evi8

Rispetto all’intervento normativo del 1992 «il novum è rappresentato dalla forma di esplicazione del diritto fondamentale dell’imputato di partecipare al dibattimento e di esercizio della garanzia costituzionale del diritto di difesa», L. KALB, La partecipazione a distanza al dibattimento, in AA.VV., Nuove strategie processuali per imputati pericolosi e imputati collaboranti, Giuffrè, Milano, 1998, p. 19. 9 P. BRONZO, Partecipazione al dibattimento ed esame a distanza: la verifica giurisdizionale sui presupposti per il ricorso ai collegamenti audiovisivi e le esigenze della difesa, in M. MONTAGNA (coord. da), La giustizia penale differenziata, vol. III, Gli accertamenti complementari, Giappichelli, Torino, 2011, p. 984. 10

La natura di normativa emergenziale viene evidenziata da due fattori che riguardano l’atipicità della stabilizzazione della norma nel codice di rito e la qualità stessa del disposto normativo. Quanto al primo aspetto si deve evidenziare che, nonostante la collocazione sistematica dell’art. 146-bis nelle norme di attuazione, coordinamento e transitorie (che a rigor di logica dovrebbero ospitare disposizioni anche a carattere temporaneo ma in un’ottica di transazione dalla disciplina precedente a quella successiva e, dunque, non di carattere meramente temporaneo nella vigenza della nuova disciplina), l’art. 6 della l. n. 11/1998 stabiliva che «il termine di efficacia delle disposizioni della presente legge è posto alla data del 31 dicembre 2000». Successivamente, allo spirare di detto termine, il d.l. n. 341/2000, convertito in l. n. 4/2001, spostava il termine di efficacia al 31 dicembre 2002. Infine, con l’art. 3 della l. 5 ottobre 2001, n. 367, che ha abrogato l’art. 6 della l. n. 11/1998, l’art. 146-bis disp. att. c.p.p. è entrato in pianta stabile nel codice di rito. Tale indecisione e cautela del

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tando di mettere a repentaglio valori di portata più generale 11. Ed invero, le ragioni che hanno indotto il legislatore a introdurre la norma in esame possono ricondursi a quattro ordini di finalità. Innanzitutto, contrastare la «tendenza alla dilatazione dei tempi di definizione della fase dibattimentale, specie per processi relativi a delitti di criminalità organizzata» 12. Tale fenomeno era (e di fatto è) dovuto a due principali motivi: al cosiddetto gigantismo processuale 13, inteso come una copiosa serie di processi con un elevato numero di imputati ed un altrettanto elevato numero di imputazioni (con una conseguente attività di istruttoria dibattimentale di dimensioni esorbitanti) ed al fatto che molti imputati fossero coinvolti in diversi processi contemporaneamente e pendenti in diverse sedi, con la prevedibile (e peraltro legittima) conseguenza che gli stessi imputati non rinunciassero a presenziare ad ogni processo. In secondo luogo, si vogliono garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, messi in pericolo dalle continue traduzioni di imputati per gravi delitti di stampo mafioso 14. In terzo luogo, si intende cercare di conferire «effettività al regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario» 15, atteso che, se il contenuto primario di legislatore, che ben avrebbe potuto introdurre la norma direttamente a carattere perpetuo, è forse espressione della sua consapevolezza di introdurre un istituto processuale che incide in termini rilevanti sulle garanzie della difesa. Per quanto concerne il secondo aspetto, sempre relativo al carattere di normativa emergenziale, si osserva che «la legge n. 11/98 eredita anche tutti i difetti che comunemente connotano questo tipo di tecnica legislativa: approssimazione, caoticità, rigorismo repressivo, simbolicità, caduta in termini di garanzie», così D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2006, p. 10. 11 L’istituto «trova il suo fondamento nella realizzazione di esigenze di sicurezza pubblica», G. BORRELLI, Processo penale e criminalità organizzata, in G. GARUTI (a cura di), Modelli differenziati di accertamento, Tomo I, Utet, Torino, 2011, p. 334. 12

Corte Cost., sentenza, 22 luglio 1999, n. 342. Per una precisa disamina della natura del cosiddetto “maxiprocesso” cfr. L. MARAFIOTI-G. FIORELLI-M. PITTIRUTI, Maxiprocesso e processo “giusto”, in A. BARGI (a cura di), Il «doppio» binario nell’accertamento dei fatti di mafia, Giappichelli, Torino, 2013, p. 653 ss. 13

14

G. FIDELBO, Commento alla disciplina della partecipazione a distanza e dell’esame dei collaboratori di giustizia, in Gazzetta Giuridica Giuffrè, n. 10/1998, p. 2, per cui «le traduzioni di imputati per gravi delitti di stampo mafioso comportano anche inconvenienti connessi agli inevitabili pericoli per la sicurezza e l’ordine pubblico». D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 130, osserva «l’ipotesi in questione va collegata alla proliferazione delle traduzioni dei detenuti per reati di criminalità organizzata e ai conseguenti rischi coinvolgenti la società comune e i diretti protagonisti del processo». 15

L. KALB, La partecipazione a distanza, cit., p. 22, per cui «si constatava, in primo luo-

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detto regime si risolve nella sospensione dell’applicazione delle regole dell’ordinamento penitenziario, tendendo ad evitare che il destinatario del provvedimento continui a esercitare il ruolo precedentemente rivestito in seno all’organizzazione nonostante la restrizione della libertà personale, diventa giocoforza necessario predisporre accorgimenti ulteriori al fine di non vanificare la portata dell’art. 41-bis ord. penit. ogniqualvolta il soggetto si allontani dal carcere per partecipare ad un processo 16. Infine, si vogliono contenere i costi connessi alle traduzioni dei detenuti imputati di determinati reati che comportavano «l’impiego di consistenti nuclei di agenti addetti alla sorveglianza e [creavano] difficoltà di carattere ricettivo nei luoghi dove si [svolgevano] i processi» 17. Tutto ciò premesso, la partecipazione a distanza consiste «nell’attivazione di un collegamento sia audio che video, tra l’aula in cui siede l’autorità giudiziaria, che rimane il luogo fisico dell’udienza, e un luogo, remoto, in cui si trova l’imputato» 18. L’art. 146-bis disp. att. c.p.p. prevede, quali presupposti soggettivi 19 per l’applicazione della norma, la circoscrizione della res iudicanda a determinate ipotesi delittuose (art. 51, comma 3-bis c.p.p. e art. 407, comma 2 lett. a) n. 4 c.p.p.) e lo stato detentivo 20. Occorre, poi, quale presupposto oggettivo, che sussistano «gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico» ovvero che «il dibattimento sia di partigo, che, pur se sottoposti a un regime carcerario particolarmente rigoroso, i detenuti, esercitando il loro diritto di partecipare a tutti i procedimenti nei quali erano, a diverso titolo, coinvolti, finivano per sottrarsi alle limitazioni imposte per ridurre i «contatti» con l’esterno e continuavano a «dialogare» con «emissari» della organizzazione criminale, dalla quale, mediante la restrizione della libertà, avrebbero dovuto essere sradicati». R.N. RUGGIERO, La sentenza sulla videoconferenza tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di «durata ragionevole» del processo penale, in Cass. pen., 2000, p. 830. 16

Occorre tuttavia precisare che un’analoga modalità di partecipazione all’udienza era già prevista nel senso che «una delle limitazioni cui gli imputati pericolosi, i cosiddetti 41bis, sono sottoposti, consiste nella loro partecipazione alle udienze all’interno di gabbie di protezione», R.N. RUGGIERO, La sentenza sulla videoconferenza, cit., p. 833. 17

L. KALB, La partecipazione a distanza, cit., p. 23. G. PIZIALI, Il dibattimento nelle norme di attuazione del c.p.p., in G. SPANGHER (diretto da), Trattato di procedura penale, vol. IV, ID., (a cura di), Giudizio. Procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica, Utet, Torino, 2009, p. 89. 19 Parla, ad esempio, di presupposto soggettivo D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 107, dove viene individuato anche un presupposto oggettivo: «presenza di gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, ovvero il dibattimento sia di particolare complessità e il collegamento risulti necessario ad evitare ritardi nel suo svolgimento». 18

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P. BRONZO, Partecipazione al dibattimento, cit., p. 987.

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colare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento». Atteso che appare difficile immaginare un dibattimento dai caratteri semplici e lineari 21 e che la semplice contestazione di un reato quale il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. lascia legittimamente presupporre la sussistenza di gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico connesse alla traduzione dei detenuti, detti presupposti oggettivi finiscono per trasformarsi in elementi ontologici di ogni processo caratterizzato da questo tipo di imputazioni. Il rischio conseguente è quello di offrire al giudice un potere che solo apparentemente è connotato da un certo grado di discrezionalità, potendo egli limitarsi a prendere atto del contenuto della contestazione 22; sfugge, infatti, come possa essere valutata la sussistenza dei presupposti di cui alla lett. a), ad esempio nella fase predibattimentale, quando il contenuto del fascicolo del dibattimento è (ancora) assai scarno. Quanto alla precisa delimitazione del concetto delle «gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico» non può che rilevarsi l’indeterminatezza 23 di 21

Anche in ragione del fatto che il secondo periodo della lett. b) della norma in esame precisa che «l’esigenza di evitare ritardi nello svolgimento del dibattimento è valutata anche in relazione al fatto che nei confronti dello stesso imputato siano contemporaneamente in corso distinti processi presso diverse sedi giudiziarie» che si configura come circostanza assolutamente non eccezionale in processi di criminalità organizzata. 22 Illuminante, in tal senso, l’intervento dell’On. Carrara del 24 luglio 1997: «sfido chiunque ad interpretare, se non in termini pleonastici e declamatori, quell’inciso che lascia al giudice la possibilità o la discrezionalità o, se volete, l’arbitrio di operare in questa materia qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza o ordine pubblico: chiaramente è una connotazione che ricorre ogni qual volta si celebra un processo per reati di criminalità organizzata». 23

Numerose sono state le critiche alla carenza di determinatezza della norma in esame. In particolare, L. KALB, La partecipazione a distanza, cit., p. 44, osserva «da più parti sono state ritenute insufficienti le argomentazioni addotte in sede di presentazione del disegno di legge, in quanto i criteri individuati peccavano di obiettività e di certezza, e comunque non erano sufficientemente determinati, offrendo così il fianco alle conseguenti censure di incostituzionalità». Deve tuttavia osservarsi che in Commissione Giustizia del Senato della Repubblica un emendamento del Senatore Cirami tentò di aggiungere, quale carattere delle gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, la specificazione “accertate”. D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 391: «Il Sen. Cirami illustra gli emendamenti [omissis] rilevando in particolare come l’emendamento 2.15, inserendo alla lettera a) del comma 1 dell’art. 146-bis, come introdotto dall’art. 2 del testo in discussione, la specificazione che le gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico devono essere accertate, mira ad assicurare in sede applicativa un più puntuale riscontro dei presupposti che consentono il ricorso al meccanismo della partecipazione a distanza». Tale emendamento, tuttavia, non fu mai approvato.

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tale locuzione atteso che «l’espressione può dirsi comprensiva di ogni ipotesi di pericolo all’incolumità collettiva e individuale, cioè di ogni fatto umano e naturale capace di mettere seriamente a repentaglio la sicurezza pubblica (della comunità generalmente intesa) e la sicurezza dei singoli protagonisti della vicenda processuale, tra i quali non può essere annoverato l’imputato» 24. Altrettanto imprecisa ed indeterminata appare la formulazione di cui alla lett. b) dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., nonostante la specificazione di cui al secondo periodo della norma in oggetto. Ed invero, come già osservato, la complessità del dibattimento si appalesa quale elemento ontologico del reato, atteso che «tutte le volte in cui occorre accertare un delitto di criminalità organizzata, la trattazione e la decisione si presentano complesse e farraginose» 25. Di talché è compito dell’interprete provare a circoscrivere la nozione di “complessità”, cercando conforto in un’analoga nozione contenuta in un’altra norma processuale. Il riferimento è all’art. 304, comma 2, c.p.p. in tema di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare. Come noto, detta norma permette appunto la sospensione dei termini di cui all’art. 303 c.p.p. quando si procede per uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p., nel caso di dibattimenti o giudizi abbreviati particolarmente complessi. Il confronto con una disposizione in tema di misure cautelari può ritenersi appropriato in ragione del fatto che l’introduzione dell’istituto della partecipazione a distanza trovava fondamento anche nell’esigenza di evitare che dibattimenti eccessivamente prolungati dessero luogo a scarcerazioni di soggetti ritenuti pericolosi per superamento dei termini massimi di cui all’art. 303 c.p.p. La Corte di Cassazione ha più volte precisato che la valutazione del giudice che dispone la sospensione dei termini di durata della custodia cautelare non può essere unicamente desunta dalla gravità e dalla natura dei reati, già insite in tali fatti 26, ma deve avere riguardo a «tutte le concorrenti e24

D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 127. D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 137. 26 Cfr. Cass., Sez. I, 18 dicembre 2009, n. 628, in Cass. pen., 2011, p. 2686, per cui «ai fini della sospensione del termine di durata massima della custodia cautelare relativamente ai procedimenti per fatti di criminalità organizzata di cui all’art. 304, comma 2, c.p.p., il requisito della particolare complessità del dibattimento non può risolversi unicamente nella natura e gravità dei reati, già insite in tali fatti, ma richiede, specie ove il giudizio versi in fase d’appello, e sia dunque già delineato l’ambito entro il quale deve muoversi il sindacato del giudice del gravame, degli elementi di carattere ulteriore, dati, ad esempio, dalla parti25

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sigenze processuali, nonché ai carichi di lavoro e ai tempi occorrenti per l’approfondimento della posizione di ciascun imputato, per l’esame dei testi, per l’espletamento di particolari mezzi istruttori, in modo da accertare se nel caso di specie ricorra una situazione oggettiva tale da impedire la sollecita definizione del giudizio» 27. Originariamente l’art. 146-bis disp. att. c.p.p. prevedeva, alla lett. c) del comma 1, un terzo presupposto oggettivo, alternativo agli altri due precedenti, inerente lo status di detenuto sottoposto al regime rigoroso di cui all’art. 41-bis ord. penit. Con il d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in l. 19 gennaio 2001, n. 4, il legislatore eliminava detta terza ipotesi traslandola in un nuovo comma 1-bis, perseguendo l’evidente finalità di sganciare l’applicabilità della partecipazione a distanza dall’accertamento di un reato distrettuale, sicché «la partecipazione audiovisiva dell’imputato ristretto secondo le regole penitenziarie di cui all’art. 41-bis ord. penit. può, attualmente, essere disposta anche nel corso di procedimenti diversi da quelli di criminalità organizzata» 28. Caratteristica principale di questa seconda ipotesi di “processo virtuale” è il superamento di ogni margine di discrezionalità del giudice in ordine al provvedimento che dispone la partecipazione a distanza: in presenza di detenuti sottoposti al cosiddetto “carcere duro”, la partecipazione a distanza è obbligatoria 29. Recentemente, con d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, convertito in l. 7 febbraio 2012, n. 9, l’ambito applicativo è stato ulteriormente allargato, disponendo che la partecipazione a distanza possa avvenire anche quando «si deve udire, in qualità di testimone, persona a qualunque titolo in stato di detenzione presso un istituto penitenziario, salvo, in quest’ultimo caso, diversa motivata disposizione del giudice». Il comma 2 della norma in esame prevede che la partecipazione a distanza sia «disposta, anche d’ufficio, dal presidente del tribunale o della corte di assise con decreto motivato emesso nella fase degli atti preliminari, ovvero dal giudice con ordinanza nel corso del dibattimento». Le statuicolare quantità o complessità delle imputazioni; né è sufficiente, in ragione della natura del giudizio d’appello, l’affermata necessità dello studio, che non sia collegato alla fase della discussione, di cospicuo materiale probatorio o di articolate deduzioni delle parti, la cui valutazione, lungi dal riguardare la celebrazione del dibattimento, non può che precederla». 27

Cass., Sez. I, 14 gennaio 2009, n. 3423, in Cass. pen., 2010, p. 706. D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 150. 29 G. PIZIALI, Il dibattimento nelle norme di attuazione, cit., p. 88. 28

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zioni in tal senso devono essere comunicate alle parti ed ai difensori almeno dieci giorni prima dell’udienza. Emerge immediatamente che sulla decisione di procedere con il sistema della videoconferenza non è prevista nessuna forma di contraddittorio 30, né alcuna possibilità di immediata impugnabilità, di talché, considerato il fatto che ben difficilmente sarà l’imputato a chiedere la partecipazione a distanza, la decisione sarà assunta dal giudice con una sensibile compressione del principio della parità dei poteri fra difesa e accusa, a tutto vantaggio di quest’ultima. Non può, del resto, tacersi il fatto che il giudice deciderà, nella stragrande maggioranza dei casi, sulla base della sola contestazione che, ça va sans dire, è prerogativa del pubblico ministero, il quale, mosso dalla volontà di giungere ad una decisione in tempi “ragionevoli”, potrebbe anche formulare istanza ai fini dell’applicazione dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. La norma precisa anche le modalità tecniche con le quali deve essere attivato il sistema di videoconferenza: deve predisporsi «un collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e il luogo della custodia, con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto», specificando che se vi sono più imputati detenuti in luoghi diversi ciascuno deve essere in grado di vedere ed udire gli altri. È appena il caso di osservare che i tre criteri indicati dalla norma (contestualità, effettività e visibilità) saranno tanto più garantiti quanto più evoluti saranno i mezzi tecnologici disponibili 31. 30

Invero, in sede di approvazione parlamentare fu proposto un emendamento, mai approvato, che mirava ad abolire la decisione di ufficio, inserendo, prima dell’adozione della decisione, l’obbligo di sentire le parti. In tal senso, serie perplessità sono state palesate dell’On. Tarditi nella seduta del 24 luglio 1997, il quale «afferma di essere preoccupato del potere di imperio che viene attribuito al magistrato nei confronti della parte in relazione alla decisione di disporre la partecipazione al dibattimento a distanza. Osserva che le parti non hanno alcuna possibilità di partecipare a tale decisione. A costoro non è consentito neanche di impugnare l’ordinanza o il decreto del magistrato. Ritiene che tutto ciò determini una palese violazione del diritto di difesa», A.A. DALIA, Sintesi dei lavori parlamentari, in AA.VV., Nuove strategie processuali per imputati pericolosi e imputati collaboranti, Giuffrè, Milano, 1998, p. 303. 31 D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 33. Lo stesso autore aiuta a definire i tre criteri (p. 173): «La “contestualità” esclude ogni sorta di differimento temporale nel collegamento … [omissis] … La reciprocità richiede il coinvolgimento di tutte le persone presenti nei diversi luoghi … [omissis] … L’effettività attiene alla concretezza del risultato, mira ad escludere qualsiasi incertezza o difficoltà che possa incidere sulla capacità di percezione visiva e sonora da parte di ciascun fruitore del collegamento».

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Finalità (forse illusoria) del legislatore è quella di «consentire all’imputato una completa interazione sullo svolgimento dell’udienza, non diversa da quella che gli sarebbe consentita se fosse fisicamente in udienza» 32. Il comma quarto prevede una forma anomala di sostituzione processuale, stabilendo la possibilità per il difensore o un suo sostituto di essere presenti nel luogo ove è detenuto l’imputato, precisando che difensore, sostituto ed imputato possono consultarsi riservatamente attraverso mezzi tecnologici. In buona sostanza, il difensore di un “imputato collegato” può optare fra tre scelte: presenziare all’udienza davanti al collegio o alla corte giudicante, accontentandosi di una consultazione telefonica con il proprio cliente non affiancato da nessuno; presenziare all’udienza davanti al giudicante avvalendosi di un sostituto processuale da “collocare” a fianco dell’imputato; partecipare, di fatto, anch’egli al processo a distanza, rinunciando alla presenza fisica in udienza e affiancando l’imputato nel luogo di detenzione. Appare di tutta evidenza che l’ultima delle opzioni contemplate è quella che maggiormente incide sull’effettività del diritto di difesa inteso nella sua accezione tecnica (posto che la cosiddetta “autodifesa” in caso di applicazione dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. appare ontologicamente compressa). Gli esempi possono essere i più vari: si pensi ad una discussione dibattimentale che sacrifichi il contatto de visu fra giudice e difensore con la conseguenza di minare lo scopo di persuasione perseguito dal secondo; o, ancora, alla necessità per il difensore, al fine di sollevare un’eccezione (poniamo l’opposizione ad una domanda suggestiva), di chiedere all’ausiliario del giudice di interrompere colui il quale sta parlando, attendere che gli sia data parola, e solo allora, rappresentare le proprie ragioni con conseguente minor incisività dell’eccezione a causa del suo differimento. Per quanto concerne la seconda delle opzioni di cui sopra, si è già precisato che si tratta di una forma anomala 33 di sostituzione, in quanto non ricompresa fra le ipotesi di cui all’art. 102 c.p.p., giacché la sostituzione ordinaria presuppone l’assenza del difensore mentre l’ipotesi in parola ne presuppone la presenza, seppur in un luogo diverso. Fino all’emanazione della l. n. 134/2000 34, vi era un’ulteriore compres32

G. FIDELBO, Commento alla disciplina, cit., p. 4. D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 182. 34 La modifica veniva poi ripresa dell’art. 100 del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, a norma del quale «nei casi in cui trovano applicazione le norme della l. 7 gennaio 1998, n. 11, l’indagato, l’imputato o il condannato può nominare un secondo difensore per la partecipazione a distanza al processo penale, limitatamente agli atti che si compiono a distanza». 33

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sione del diritto di difesa per coloro i quali avevano diritto al patrocinio a spese dello Stato che, evidentemente, non potevano permettersi una difesa che si esplicasse in due luoghi contemporaneamente, con la logica conseguenza che costoro non potevano avvalersi della presenza di un sostituto nell’aula “remota”. L’attuale disciplina prevede quindi la possibilità di nominare un secondo difensore nei casi in cui ci siano degli atti da compiere a distanza. Non può però negarsi l’evidenza di un difetto di coerenza fra la posizione dell’imputato ammesso al gratuito patrocinio, il quale ha diritto – eccezionalmente – a due difensori ma – apparentemente – non a sostituti processuali, e quello non ammesso che, invece, segue la disciplina ordinaria. Sarebbe stato di certo più coerente conferire al difensore dell’imputato ammesso al patrocinio per i non abbienti la facoltà di nominare un sostituto processuale con conseguente onere retributivo a carico dello Stato. Per una tutela, almeno parziale, dei diritti dell’imputato, la norma stabilisce che nella sede distaccata dove si trova il detenuto debba essere presente un ausiliario del giudice che «ne attesti l’identità dando atto che non [siano] posti impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti o delle facoltà a lui spettanti». In alternativa, il sesto comma dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. dispone che, al posto dell’ausiliario del giudice, possa assolvere le stesse funzioni «un ufficiale di polizia giudiziaria scelto tra coloro che non svolgono, né hanno svolto, attività di investigazione o di protezione con riferimento all’imputato o ai fatti a lui riferiti». Compito imprescindibile dell’ausiliario del giudice consiste anche nel «verificare che siano rispettati gli standard di efficienza fissati dal comma 3 e riferiti alle modalità del collegamento audiovisivo (contestuale, effettiva e caratterizzata da reciproca visibilità …), nonché di accertare l’osservanza delle disposizioni che consentono al difensore e all’imputato di consultarsi riservatamente» 35. A tale riguardo non possono non palesarsi talune perplessità circa l’effettività di tale riservatezza: da una parte, vi è il concreto rischio di intercettazioni, che, al netto della loro pacifica inutilizzabilità, palesano – comunque – il rischio di inficiare una linea difensiva giocata sull’elemento sorpresa; dall’altra, la stessa presenza dell’ausiliario potrebbe attentare alla segretezza delle comunicazioni telefoniche fra il difensore e l’imputato 36. 35

G. FIDELBO, Commento alla disciplina, cit., p. 985. P. BRONZO, Partecipazione al dibattimento, cit., p. 986. D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 366, assume che la problematica sarebbe ormai stata superata con l’istallazione di cabine telefoniche fonoassorbenti. «Il problema della violazione della riservatezza delle consultazioni difensive si è posto dopo un increscioso episodio di intercet36

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3. Un’inopportuna estensione dell’ambito applicativo della partecipazione a distanza, anche al di fuori delle logiche del doppio binario. Si è già osservato come la tematica in discussione appaia connotata da fortissima attualità in quanto la modalità di partecipazione virtuale al dibattimento, la cui disciplina vigente ha sempre posto rilevanti dubbi di compatibilità con la Carta costituzionale, rischia di essere allargata a tutti gli imputati detenuti, qualsiasi sia il titolo di reato per cui si procede ed indipendentemente dal titolo di reato per il quale è stata disposta la restrizione della libertà personale. Se per un certo periodo la modifica dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. ad opera del disegno di legge A.C. 2798 non è stata affiancata dall’approfondimento che certamente avrebbe meritato, passando sotto un singolare silenzio, l’ordinanza presidenziale della decima sezione penale del Tribunale di Roma nel processo “Mafia Capitale” ha acceso la luce su una modifica normativa di portata storica. La presa di posizione dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha evidenziato preoccupanti analogie fra il provvedimento del tribunale capitolino 37 e il contenuto di un disegno di legge approvato, per ora, da un solo ramo del Parlamento. Il disegno di legge 38 veniva presentato alla Camera il 23 dicembre 2014 dal Ministro della Giustizia e conteneva tutta una serie di modifiche volte ad introdurre nuove norme nell’ottica, per quel che rileva in questa sede, del rispetto del principio della durata ragionevole del processo. La relazione illustrativa non dimenticava nessuna delle ridondanti formule di stile che solitamente accompagnano detti interventi normativi. In tazione, scoperto durante un processo in videoconferenza in corso avanti alla seconda sezione della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere. L’intercettazione è stata addebitata ad una guardia carceraria, addetta ad un Gruppo operativo mobile, presente presso la postazione remota del carcere di Ascoli Piceno che, dopo aver ascoltato le dichiarazioni del detenuto, al telefono con il suo avvocato, ha fatto una relazione di servizio, inserita poi in un registro di atti riservati. Precisiamo che, al momento, non erano ancora state istallate nelle salette penitenziarie le cabine telefoniche fonoassorbenti e gli imputati collegati si avvalevano, per dialogare con i difensori, di semplici apparecchi telefonici». 37

Ordinanza predibattimentale emessa in data 28 settembre 2015 dal Presidente della decime sezione del Tribunale Collegiale di Roma nell’ambito del procedimento penale n. 22818/15/21 R.G.N.R. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. 38

Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena.

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particolare veniva garantito che «l’idea posta a fondamento dell’intero progetto di riforma è che il recupero di tempi ragionevoli per il processo penale non possa fare a meno di una forte attenzione al tema della tutela dei diritti coinvolti dall’accertamento penale, non fosse altro perché la durata ragionevole, per dettato costituzionale, connota non già il processo, quale che sia la sua struttura, ma il giusto processo» 39. Lo schema iniziale del disegno di legge A.C. n. 2798 era composto da un articolato di 30 norme senza alcun cenno ad una modifica del regime previsto dall’art. 146-bis disp. att. c.p.p. Tuttavia nelle more dell’approvazione vi è stato un abbinamento del disegno di legge A.C. n. 2798 con altre varie proposte di legge 40, fra cui in particolare l’A.C. n. 370. Quest’ultima, collocabile nell’ambito della legislazione cosiddetta post Torreggiani, ambiva ad inserire alcune modifiche in tema di ordinamento penitenziario e a modificare l’art. 146-bis disp. att. 41, limitandosi però a mettere mano al solo primo comma aggiungendo un terzo presupposto oggettivo (lett. c) inerente a ragioni di sicurezza, anche connesse alla traduzione del detenuto dall’istituto penitenziario, segnalate dall’amministrazione penitenziaria. La norma, sebbene suscettibile di sollevare alcune perplessità 42, si muo39

Cfr. Relazione illustrativa del Ministro della Giustizia del 23 dicembre 2014. Il disegno di legge A.C. 2798 veniva abbinato con le seguenti proposte di legge: C. 370, C. 373, C. 408, C. 1285, C. 1604, C. 1957, C. 1966, C. 1967, C. 3091. 40

41

Qui di seguito il testo dell’art. 3 della proposta di legge C. 370: (Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271). «1. Alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 146-bis, il comma 1 è sostituito con il seguente: «1. Quando si procede, anche per fatti diversi, nei confronti di persona che si trova in stato di detenzione per taluno dei delitti indicati nell’articolo 51, comma 3 bis, o nell’articolo 407, comma 2, lettera a), numero 4), del codice, la partecipazione al dibattimento avviene a distanza nei seguenti casi: a) quando sussistano gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico; b) qualora il dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento. L’esigenza di evitare ritardi nello svolgimento del dibattimento è valutata anche in relazione al fatto che nei confronti dello stesso imputato siano contemporaneamente in corso distinti processi presso diverse sedi giudiziarie; c) quando sussistano ragioni di sicurezza, anche connesse alla traduzione dall’istituto penitenziario, segnalate dall’amministrazione penitenziaria»; b) l’articolo 240 è abrogato». 42

L’indeterminatezza della norma avrebbe comportato il rischio di consentire a provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria di influire sul processo, atteso che le ragioni di sicurezza si sarebbero potute tradurre anche in semplici violazioni disciplinari all’ordinamento penitenziario.

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veva nell’ottica di un’estensione applicativa della partecipazione a distanza, mantenendo – comunque – il carattere di eccezionalità della smaterializzazione del processo. Di segno diametralmente opposto è, invece, la modifica, così come approvata dalla Camera il 23 settembre 2015, e trasmessa il giorno successivo al Senato della Repubblica, che faceva la sua comparsa in un emendamento governativo (23.0100) proposto in Commissione Giustizia nella seduta dell’8 luglio 2015, inizialmente inserito come art. 23-bis del disegno di legge, poi traslato all’art. 27 ed infine all’art. 28 43 (il disegno di legge, giunto 43

«Art. 28 del disegno di legge A.C. 2798, (Modifiche alla disciplina della partecipazione al dibattimento a distanza). All’articolo 146-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, sono apportate le seguenti modificazioni: a) il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. La persona che si trova in stato di detenzione per taluno dei delitti indicati nell’art. 51, comma 3-bis, nonché nell’art. 407, comma 2, lettera a), numero 4), del codice, partecipa a distanza alle udienze dibattimentali dei processi nei quali è imputata, anche relativi a reati per i quali sia in libertà. Allo stesso modo partecipa alle udienze penali e alle udienze civili nelle quali deve essere esaminata quale testimone»; b) il comma 1-bis è sostituito dal seguente: «1-bis. La persona ammessa a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio, partecipa a distanza alle udienze dibattimentali dei processi nei quali è imputata»; c) dopo il comma 1-bis sono inseriti i seguenti: «1-ter. Ad esclusione del caso in cui sono state applicate le misure di cui all’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, il giudice può disporre con decreto motivato, anche su istanza di parte, la presenza alle udienze delle persone indicate nei commi 1 e 1-bis del presente articolo qualora lo ritenga necessario. 1-quater. Fuori dei casi previsti dai commi 1 e 1-bis, la partecipazione alle udienze può avvenire a distanza anche quando sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero quando si deve assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in stato di detenzione presso un istituto penitenziario»; d) il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. Il presidente del tribunale o della corte di assise nella fase degli atti preliminari, oppure il giudice nel corso del dibattimento, dà comunicazione alle autorità competenti nonché alle parti e ai difensori della partecipazione al dibattimento a distanza»; e) dopo il comma 4 è inserito il seguente: «4-bis. In tutti i processi nei quali si procede con il collegamento audiovisivo ai sensi dei commi che precedono, il giudice, su istanza, può consentire alle altre parti e ai loro difensori di intervenire a distanza assumendosi l’onere dei costi del collegamento». 2. All’articolo 45-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1, le parole: «Nei casi previsti dall’articolo 146-bis, commi 1 e 1-bis,» sono soppresse e dopo le parole: «avviene a distanza» sono inserite le seguenti: «nei casi e se-

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alla seconda Camera, veniva accorpato con altre proposte fra le quali la più rilevante la riforma della prescrizione; la modifica della partecipazione a distanza è disciplinata dall’art. 34). Come anticipato, il disegno di legge trasforma l’istituto della partecipazione a distanza tramite videoconferenza da eccezione a regola. In particolare, si propone una modifica del primo comma dell’art. 146bis disp. att. c.p.p.: scompaiono i precedenti presupposti oggettivi (gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico e particolare complessità del dibattimento) e vengono mantenuti quelli soggettivi (relativi al titolo di reato per cui si procede). La nuova disposizione, pertanto, stabilisce che il detenuto per i delitti di cui agli artt. 51, comma 3-bis e 407, comma 2, lett. a), n. 4 c.p.p., partecipi in ogni caso al dibattimento a distanza, sia nei procedimenti per cui è detenuto, sia in quelli per i quali è in stato di libertà, nonché ai procedimenti, sia civili che penali, nei quali debba essere esaminato in qualità di testimone. Viene, poi, previsto che il soggetto detenuto partecipi a distanza nei processi nei quali è imputata la persona ammessa a programmi o misure di protezione. Il nuovo comma 1-ter, fatta salva l’ipotesi in cui l’imputato sia sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit., per il quale la partecipazione a distanza è in ogni caso obbligatoria ed inderogabile 44, prevede la possibicondo quanto previsto dall’articolo 146-bis, commi 1, 1-bis, 1-ter e 1-quater»; b) al comma 2, le parole: «disposta dal giudice con ordinanza o dal presidente del collegio con decreto motivato, che sono comunicati o notificati» sono sostituite dalle seguenti: «comunicata o notificata dal giudice o dal presidente del collegio»; c) al comma 3, dopo le parole: «3, 4» è inserita la seguente: «4-bis». 3. All’art. 134-bis, comma 1, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, le parole: «e 1-bis» sono sostituite dalle seguenti: «, 1 bis e 1 quater». 4. All’articolo 7 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, il comma 8 è sostituito dal seguente: «8. Per l’esame dei testimoni si applicano le disposizioni degli articoli 146-bis e 147-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale». 5. Le disposizioni di cui al presente articolo entrano in vigore decorso un anno dalla pubblicazione della presente legge nella Gazzetta Ufficiale, fatta eccezione per le disposizioni di cui al comma 1, relativamente alle persone che si trovano in stato di detenzione per i delitti di cui agli articoli 270-bis, comma 1, e 416-bis, comma 2, del codice penale, nonché di cui all’articolo 74, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni». 44

Salvo per quanto riguarda i casi di cui al comma 7 della norma vigente non oggetto di novella parlamentare, a norma del quale si deroga alla partecipazione a distanza nei casi in cui si debba procedere a confronto o ricognizione dell’imputato o ad altro atto che implica l’osservazione della sua persona.

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lità per il giudice di disporre con decreto motivato la presenza fisica dell’imputato qualora la ritenga necessaria. È appena il caso di osservare che la portata della novità è enorme: da un sistema che prevedeva che il giudice dovesse motivare il provvedimento che disponeva la partecipazione a distanza si cerca di addivenire ad un sistema che impone la virtualizzazione del processo penale quale regola, nel senso che, in presenza di determinati reati, il giudice dovrà motivare solamente qualora ritenga necessaria la presenza dell’imputato in udienza. La principale novità della norma in discussione in Parlamento è però prevista dal nuovo comma 1-quater, il quale introduce, per la prima volta, la partecipazione a distanza al dibattimento al di fuori dalle logiche del doppio binario, in un’apparente quanto impropria ed inutile (se non in un’ottica di risparmio dei costi) criminalizzazione dello status detentionis. A tale proposito, non si possono che palesare forti perplessità in merito alla tenuta costituzionale della disciplina in via di approvazione. Si osserva, infatti, che se la normativa vigente in tema di smaterializzazione del processo penale tollera una compressione del diritto di difesa solo in virtù dell’inquadramento di tale compressione nel sistema del doppio binario, inteso come assetto normativo avente «il proposito di dotare il processo penale di un sistema repressivo parallelo, alternativo e differenziato, capace di fronteggiare i delitti di criminalità organizzata» 45, estendere tale forma di partecipazione ad ogni imputato detenuto implica un sensibile deterioramento delle garanzie difensive non giustificato da finalità repressive (o di efficienza processuale). La disposizione in esame prevede la possibilità, indipendentemente dal titolo di reato per il quale si procede ed indipendentemente dal reato per il quale è stata disposta la detenzione, che il giudice disponga la partecipazione in videoconferenza quando «sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero quando si deve assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in stato di detenzione presso un istituto penitenziario». La nuova norma recupera (e trasforma) i presupposti oggettivi di applicazione della disciplina vigente (per i soli reati distrettuali e quelli di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), n. 4, c.p.p.) traslandoli nella disciplina che, in futuro, potrà diventare ordinaria. Deve rilevarsi, poi, che la normativa in via di approvazione, oltre ad allargare la portata applicativa della partecipazione a distanza “tradizionale”, os45

D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 59.

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sia quella circoscritta ai reati di particolare allarme sociale, introduce nella disciplina della partecipazione a distanza per i reati ordinari (intesi, cioè, quelli non ricompresi nella legislazione del doppio binario) requisiti meno rigorosi affinché sia predisposta la videoconferenza. Viene, infatti, ampliato il presupposto di cui alla lett. a) della disciplina vigente nel senso che le ragioni di “sicurezza” o “ordine pubblico” non richiedono più la specificazione “gravi” e gli stessi concetti di “sicurezza” o “ordine pubblico” si restringono in quello più semplice ed indeterminato di “sicurezza”. Ma non basta: la compressione dei diritti difensivi non si limita a quelli dell’imputato, ma una lesione del diritto al contraddittorio (in particolare nelle forme della cross examination) si estende indiscriminatamente ad ogni parte processuale, atteso che la norma prevede la partecipazione a distanza per l’imputato che debba essere sentito in qualità di testimone. L’assetto normativo in via di approvazione capovolgerebbe in maniera radicale le logiche della disciplina: da un sistema che prevede un’ipotesi di partecipazione a distanza obbligatoria (art. 41-bis ord. penit.) e un’ipotesi di partecipazione a distanza quale eccezione alla presenza fisica per i soli imputati di determinati reati, si cerca di giungere ad un sistema che, per detti reati, predisponga la partecipazione a distanza quale regola e per tutte le altre ipotesi criminose in cui vi sia un imputato detenuto la introduca quale eccezione e con presupposti, peraltro, meno stringenti e, a ben vedere, dai contenuti al limite del tautologico (atteso che, infatti, lo status detentivo implica necessariamente rischi per la sicurezza). Inspiegabile è, poi, la modifica del comma 2 della norma in esame che elimina il termine dei dieci giorni di cui al secondo periodo della disposizione vigente, limitandosi a prevedere che il presidente del tribunale o della corte di assise o il giudice del dibattimento dia comunicazione alle autorità competenti, alle parti e ai difensori, della partecipazione a distanza. Sfugge, infatti, come possano dirsi garantiti i diritti difensivi nel caso in cui la comunicazione intervenga a ridosso dell’udienza, quando è lecito presumere che imputato e difensore contassero sulla presenza fisica del primo per conferire tra loro in quella sede. Facile anche ipotizzare la ratio che ha ispirato l’eliminazione del termine di dieci giorni: evitare che i difetti di comunicazione fra gli uffici giudiziari e gli istituti penitenziari comportino ripetuti rinvii ogniqualvolta il detenuto che non abbia rinunciato a presenziare all’udienza non venga tradotto in aula. Infine, l’art. 28 del disegno di legge A.C. 2798 propone di inserire anche un comma 4-bis all’art. 146-bis disp. att. c.p.p. che prevede che il giudice, su istanza di parte, in tutti i processi in cui sia disposta la partecipa-

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zione a distanza, possa consentire alle altre parti ed ai loro difensori di intervenire nel processo a distanza, assumendosi l’onere dei costi per il collegamento. Anche in questo caso appare imprescindibile non sottovalutare la portata della novità in quanto le implicazioni di tale novella potrebbero prefigurare una forma di processo del tutto nuova. Per comprenderne l’entità può essere utile ipotizzare un caso di studio e provare ad immaginare un processo nel quale la partecipazione a distanza sia obbligatoria in ragione del titolo di reato contestato (associazione di stampo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p.) e dello stato detentivo dei relativi imputati. Ipotizziamo, poi, che detto processo (immaginario) sia attribuito alla competenza del tribunale collegiale di una sede che non corrisponde al luogo ove ha sede la corte di appello (ad esempio in primo grado sarà competente il tribunale collegiale di La Spezia e in secondo grado la corte di appello di Genova). Decide di costituirsi parte civile la Regione (seguendo l’esempio, la Liguria) che assume di essere stata danneggiata per le condotte protratte dall’organizzazione criminale nel proprio territorio, nominando patrono della parte civile un avvocato che ha studio nel capoluogo di Regione (Genova). La competenza del pubblico ministero, chiaramente, trattandosi di reato distrettuale, appartiene alla direzione distrettuale antimafia (che ha sede nel capoluogo di Regione). Gli imputati detenuti affidano la loro difesa ad avvocati di una città distante centinaia di chilometri. Ebbene, nel primo grado di un siffatto processo vi è il concreto rischio che nell’aula di udienza vi sia il solo collegio, l’ausiliario del giudice, i tecnici del tribunale che curano i collegamenti audiovisivi e i testimoni (ammesso e non concesso che quest’ultimi non siano detenuti per altra causa). Tutte le altre parti, avendo studio o sede in un’altra città rispetto al luogo dell’udienza, ben potrebbero partecipare al processo a distanza: gli imputati, come impone la legge, dal luogo di detenzione; il pubblico ministero dal proprio ufficio della direzione distrettuale antimafia; e i difensori della parte civile e degli imputati dal proprio studio legale. Tralasciando le difficoltà di carattere logistico nella gestione dell’udienza (rischiando di imporre al presidente del collegio di dotarsi di capacità di conduttore di talk show), si ritiene che un processo come sopra descritto non possa in alcun modo rispettare uno standard minimo di garanzie difensive, anche in ragione del fatto che un dibattimento del genere potrebbe, secondo il dettato normativo, svilupparsi per accertare responsabilità penali in assenza di contestazione per reati distrettuali, posto che il nuovo comma 4-bis fa un generico riferimento “ai commi che precedono” e non ai commi 1 ed 1-bis.

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4. La compressione del diritto di difesa della disciplina attuale ed il suo “annientamento” nel disegno di legge 2798. Così descritta la disciplina normativa vigente e fatti brevi cenni sul disegno di legge in attesa di passare al vaglio del Senato della Repubblica, si cercherà ora di valutare la tenuta costituzionale di entrambi gli assetti normativi e, in particolare, se il grado di compressione delle garanzie difensive sia suscettibile di ulteriore abbassamento, oltre a quanto già affievolito nel momento in cui il legislatore del 1998 decise di “smontare” il dogma dell’unità spaziale del processo penale. Prima di tutto, però, è d’obbligo constatare la direzione intrapresa dal legislatore nell’ultimo ventennio. Come in precedenza osservato, la l. 7 gennaio 1998, n. 11 doveva avere carattere temporaneo e si inseriva nella cosiddetta legislazione emergenziale. L’introduzione della disciplina con un un dies ad quem evidenzia il fatto che lo stesso legislatore dell’epoca, in qualche modo, riconoscesse come la smaterializzazione del processo costituisse una compressione dei diritti difensivi, ma – comunque – giustificata dalle contingenze del periodo storico 46. Pochi anni dopo, riconoscendo, evidentemente, la permanenza della natura sempiterna dell’emergenza, introduceva la norma a regime e, come si è già accennato, il disegno di legge in discussione in Parlamento compie un altro passo nel senso di un ulteriore ed estremo allargamento della portata applicativa dell’istituto. Si può ragionevolmente ritenere che il legislatore, nel progressivo ampliamento applicativo dell’istituto in esame, si sia sentito legittimato dall’intervento della Corte Costituzionale che, dopo appena un anno e mezzo di vigenza della legge 7 gennaio 1998, n. 11, ha sostanzialmente salvato la disciplina della partecipazione a distanza. In particolare, il giudice delle 46 G. FIDELBO, Commento alla disciplina, cit., p. 8, precisa come «nel disegno di legge presentato dal Governo non figurasse alcuna norma a tempo: l’istituto della partecipazione a distanza era introdotto a regime», ma il carattere temporaneo delle disciplina ha trovato giustificazione in «forti contrasti insorti nel corso della discussione parlamentare e che hanno riguardato soprattutto l’incidenza del nuovo istituto sui diritti difensivi». Altra autrice, Corte Cost., 22 luglio 1999 (14 luglio 1999), n. 342 – Pres. Granata, Red. Vassalli, con nota di C. CONTI, Partecipazione e presenza dell’imputato nel processo penale: questione terminologica o interessi contrapposti da bilanciare?, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 84, precisa che «Occorre peraltro ricordare come la disciplina della partecipazione a distanza sia una norma temporanea, destinata a rimanere in vigore fino al 31 dicembre 2000. Tale temporaneità conferisce a detta disciplina un carattere eccezionale e contingente, che attenua, anche se non risolve, le problematiche che vi sono connesse».

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leggi, chiamato nell’estate del 1999 a vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., ha dichiarato infondata la questione 47, con una pronuncia i cui passaggi sono certamente suggestivi ma non convincenti 48. Ed invero, la Consulta è giunta alla declaratoria di infondatezza «facendo leva soprattutto sul rilievo che la disciplina sottoposta al suo vaglio non reca vulnus al diritto di difesa dell’imputato» 49, affermando che ciò che è imprescindibile non è la presenza fisica, ma «l’effettiva partecipazione personale e consapevole» e che, quindi, la partecipazione a distanza è solo una modalità di partecipazione al processo. La tenuta costituzionale della norma sarebbe, di fatto, assicurata dalla qualità con cui la norma stessa è stata pensata, avendo predisposto un sistema di «risultati» che assicura uno standard minimo di garanzie 50. In buona sostanza, la premessa da cui par47

Corte Cost., sentenza 22 luglio 1999, n. 342: «È infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 s. della l. 7 gennaio 1998, n. 11 (Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonché modifica della competenza sui reclami in tema di art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 24, 27 Cost., nella parte in cui prevedono la partecipazione a distanza degli imputati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario (la Corte ha ritenuto che nessuno effetto distorsivo può ritenersi riconducibile alle disposizioni impugnate, in quanto la normativa censurata, lungi dal limitarsi a delineare i mezzi processuali o tecnici attraverso i quali realizzare gli obiettivi perseguiti, ha tracciato un esauriente sistema di «risultati» che si presenta in linea con il livello minimo di garanzie che devono cautelare il diritto dell’imputato di «partecipare», e quindi difendersi, per tutto l’arco del dibattimento)». 48 Vi sono, tuttavia, alcuni autori che hanno apprezzato il «limpido acume dialettico» e il «robusto istinto pratico di Giuliano Vassalli, estensore di quella pronuncia», G. DI CHIARA, Il canto delle sirene. Processo penale e modernità scientifico – tecnologica: prova dichiarativa e diagnostica della verità, in Criminalia, 2007, p. 21. M. CASSANO, Problemi e prospettive della nuova disciplina sull’assunzione di prove a distanza, in A. GIARDA-G. SPANGHER-P. TONINI (a cura di), Cedam, Padova, 1998, p. 378, anticipando la conclusione della Consulta, assume che non vi sia alcuna lesione del diritto di difesa atteso che sarebbe una normativa che garantirebbe «la sostanziale presenza fisica dell’imputato all’udienza». 49 C. CONTI, Partecipazione e presenza, cit., p. 79. 50 In altre parole, la Corte costituzionale affermava che la norma garantirebbe l’effettività della partecipazione in ragione dei criteri che deve avere la videoconferenza (art. 146-bis, comma 3, disp. att. c.p.p.) e del progresso tecnologico («per di più nella specie dovuto alle innovazioni introdotte dalla evoluzione tecnologica»). Con riferimento a tale ultimo aspetto, il commentatore del 2016 rischia di sorridere, atteso che, se ci si permette di palesare perplessità sull’adeguatezza degli attuali mezzi tecnologici [anche alla luce del fatto che, ad esempio, nell’ultimo processo in cui è stata utilizzata la videoconferenza nel

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tivano le ordinanze di remissione, «secondo cui solo la presenza fisica nel luogo del processo potrebbe assicurare l’effettività del diritto di difesa, non è [però] fondata». Ciò che non ha trovato il favore dei commentatori non è stata tanto la conclusione a cui è pervenuta la Corte, ma, piuttosto, il percorso argomentativo intrapreso che, inaspettatamente 51, anziché giocare sul piano del bilanciamento degli interessi contrapposti, ha scelto la più agevole strada di “smontare” quella premessa che trovava l’accordo pressoché unanime della dottrina, ossia quella inerente l’asserito vulnus al diritto di difesa. Si ritiene, tuttavia, che la premessa de qua fosse fondata e ragionevole. Infatti, un dibattimento senza imputato, o meglio, senza la possibilità di un confronto immediato fra difensore e imputato (a volte anche mediante un bisbiglio nell’orecchio) e, soprattutto, fra giudice e imputato, non equivale ad un dibattimento in cui i vari protagonisti possano interagire senza limiti di sorta 52. La mera partecipazione, per quanto effettiva, non equivale a presenza, situazione in cui difensore e imputato possono agevolmente ed immediaTribunale di Genova (processo denominato “La Svolta” avente ad oggetto l’accertamento della presenza dell’ndrangheta nel Ponente Ligure pendente davanti la Corte di Appello di Genova) il collegamento dall’aula di udienza era assicurato non con moderni monitor con elevata qualità dell’immagine, ma con dei vetusti tubi catodici], ancor più dubbi sorgono sull’adeguatezza dei mezzi di diciotto anni fa. 51 Prima dell’emissione della sentenza della Corte Costituzionale e dopo le ordinanze di remissione della Corte di Assise di Catania e della Corte di Assise di Napoli, M. BARGIS, La teleconferenza, in E. ZAPPALÀ (a cura di), L’esame e la partecipazione a distanza nei processi di criminalità organizzata, Giuffrè, Milano, 1999, p. 48, prendendo atto dell’improcrastinabilità dell’avvento della tecnologia, osservava: «I vari aspetti problematici poc’anzi enucleati dimostrano che la teleconferenza comporta un’attenuazione del diritto di difesa: ma, poiché non si può “rifiutare aprioristicamente l’applicazione dello sviluppo tecnologico all’esperienza giudiziaria”, la via da percorrere è quella di tracciare un quadro accettabile di bilanciamento degli interessi contrapposti. In quest’ottica, il diritto di difesa potrà subire le limitazioni derivanti dall’impiego della teleconferenza solo quando tale strumento si riveli indispensabile per tutelare esigenze ritenute prevalenti dal legislatore». Prima ancora delle ordinanze di remissione, M. CASSANO, Problemi e prospettive, cit., p. 378, assume che non vi sia alcuna lesione del diritto di difesa atteso che la normativa garantirebbe «la sostanziale presenza fisica dell’imputato all’udienza». 52 C. RUSSO, Videoconferenze, diritto di difesa, standards tecnici previsti dalla legge, in Cass. pen., 2009, p. 4768 per cui «la partecipazione dell’imputato da una postazione remota, essendo differente da quella fisica nell’aula di udienza, non consente la stessa piena conoscenza degli accadimenti che si verificano in dibattimento e la stessa percezione dei comportamenti dei protagonisti, entrambe funzionali alla piena comprensione della dinamica processuale e alla seguente predisposizione della più adeguata strategia difensiva».

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tamente valutare tutte quelle contingenze che devono essere affrontate in udienza: «valutazioni che le parti e soprattutto il giudice compiono anche giovandosi del contatto diretto che solo la presenza fisica all’udienza consente. Chi ha pratica di udienza non ha bisogno di tante dimostrazioni in proposito ed è straordinario che oggi si pretenda a cuor leggero di negare differenze tra le due situazioni» 53. Non si può del resto, nonostante l’era tecnologica, sconfessare la sacralità di uno spettacolo (il processo) «sulla cui scena è imposta la presenza di tres personae (giudice, pubblico ministero ed imputato)» e si deve quindi ammettere che «il collegamento audiovisivo produca comunque una compressione [se si vuole giustificata] delle garanzie difensive» 54. Queste ultime, infatti, possono dirsi garantite solamente quando i principi di oralità, di immediatezza e del contraddittorio 55 vengono attuati nella loro massima espansione, con una piena attuazione del giusto processo. In proposito si osserva che l’art. 111 Cost. è una norma (superiore) che impone che il processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, «davanti» a un giudice terzo ed imparziale; che la persona accusata abbia la facoltà di interrogare o di far interrogare il suo accusatore; e che le suddette regole possano essere derogate solo nel caso di consenso dell’imputato. L’avverbio «davanti» contenuto nella norma sul giusto processo non è suscettibile di molte interpretazioni. L’unico significato non capzioso che si riesce ad individuare è quello di posizione frontale. Il diritto di interrogare o far interrogare impone che l’accusato possa guardare negli occhi il 53 G. FRIGO, Videoconferenze giudiziarie: forti limiti all’oralità e al contraddittorio, in A.GIARDA-G. SPANGHER-P. TONINI (a cura di), Cedam, Padova, 1998, p. 387. 54 55

D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 301.

P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2014, p. 254, per cui la nozione del principio di oralità si comprende in antitesi al concetto di scrittura; il principio di immediatezza «è attuato quando vi è un rapporto di intermediazione fra l’assunzione della prova e la decisione»; il principio del contraddittorio «comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova». D. CHINNICI, L’immediatezza nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2005, p. 35, assume che immediatezza ed oralità assurgono ad endiadi di un solo principio posto che «anche il “non detto” che emerge dall’escussione delle fonti di prova orali – quali il contegno delle parti, le movenze, le pause, gli scatti, le incertezze nelle risposte – non può essere ignorato come se si trattasse di un elemento “neutro” rispetto a quanto riferito […] Il libero convincimento del giudice passa anche per il contegno assunto dalle parti e dai testimoni; se così non fosse, se cioè il giudice dovesse decidere solo in base alle notizie riferite o alle dichiarazioni espresse, fissate nel verbale d’udienza, basterebbe che il decidente portasse con sé atti formati aliunde o innanzi a giudici diversi da lui: la stessa sottoposizione all’esame dibattimentale finirebbe per essere ridotta a mero espediente scenico, come tale inutile e dispendioso».

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proprio accusatore. È difficile sostenere che dette condizioni possano dirsi totalmente soddisfatte con il sistema della videoconferenza. Invero, è fuor di dubbio che un istituto che non attua il principio di parità delle parti (poiché vi è la concreta possibilità che solo una di esse si trovi effettivamente davanti al giudice 56, la stessa parte che, con la contestazione, attiverà, di fatto, la videoconferenza), che prevede la possibilità che l’accusato non sia (fisicamente) portato di fronte al giudice e che non concede la possibilità all’incolpato di interrogare l’accusatore (direttamente o quantomeno di poter suggerire al difensore le domande da fare), presenti tutta una serie in incongruenze con l’art. 111 Cost., per di più in assenza di una norma la quale richieda il consenso dell’imputato per derogarvi. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha scelto, inaspettatamente, una strada diversa. Il suo percorso argomentativo, infatti, come sostenuto dalla dottrina maggioritaria 57, si sarebbe dovuto articolare sul bilanciamento di interessi, ossia, una volta riconosciuto che la partecipazione a distanza comporta una compressione del diritto di difesa, «occorre domandarci quali siano le ipotesi nelle quali è accettabile che essa sia disposta» 58. Il diritto di difesa può tollerare delle limitazioni solamente qualora contrapposto ad esigenze di sicurezza pubblica, ossia nei casi previsti dalla lett. a) del comma 1 dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., ma, in questo caso, la disciplina sconta i problemi di indeterminatezza del testo normativo in precedenza evidenziati. 56

D. NEGRI, L’imputato presente al processo, Torino, Giappichelli, 2012, p. 284, per cui «La dislocazione altrove di uno soltanto dei soggetti processuali e proprio del principale, essendo in gioco il suo destino, crea in ogni caso una vistosa asimmetria nel trattamento delle parti; anche ammesso che le modalità di proiezione dell’immagine in aule lo rendano esteriormente identificabile da tutti come persona decisa ad esserci, nel processo a suo carico, l’imputato vi appare difatti alla stregua di un individuo da tenere a debita distanza, prigioniero della fissità di un riquadro, impossibilitato a guardare direttamente negli occhi chi l’accusa e lo giudica: la sua, si riduce insomma a presenza umbratile». 57

P. BRONZO, Partecipazione al dibattimento, cit., p. 985; R.N. RUGGIERO, La sentenza sulla videoconferenza, cit., p. 829; C. CONTI, Partecipazione e presenza, cit., p. 79, che molto nitidamente afferma «A nostro avviso è possibile ritenere la legittimità della normativa in oggetto solo facendo appello alla dottrina del bilanciamento tra istanze costituzionalmente rilevanti. In altre parole, la sequenza logica avrebbe dovuto essere la seguente: la partecipazione a distanza non consente una piena esplicazione del diritto di difesa; tuttavia la sua finalità è quella di tutelare esigenze di rilevo costituzionale; ergo è accettabile la limitazione che il diritto di difesa subisce nel bilanciamento con tali istanze». 58

C. CONTI, Partecipazione e presenza, cit., p. 83.

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Per quanto concerne le ipotesi di partecipazione a distanza obbligatoria della disciplina vigente, ossia nei casi di imputati sottoposti al carcere duro di cui all’art. 41-bis ord. penit., si può osservare che se da una parte la contrapposizione di interessi fra il diritto di difesa e la pubblica sicurezza appare in re ipsa con una giustificata prevalenza del secondo sul primo, dall’altra non si possono che richiamare le criticità stesse sottese alla problematica della sospensione delle norme di ordinamento penitenziario 59, le quali, come noto, necessitano di un impulso extragiurisdizionale, offrendo, pertanto, ulteriormente il fianco a condivisibili critiche per la violazione del principio di presunzione di innocenza, nonché per una lacunosa applicazione del modello processuale accusatorio e del principio di legalità (in ragione delle “ingerenze” del potere esecutivo nell’attivazione del regime in oggetto). Per quanto concerne, poi, la terza ipotesi in cui può essere disposta la partecipazione a distanza, ossia quella in cui il dibattimento sia di particolare complessità e la smaterializzazione sia funzionale ad evitare ritardi nel suo svolgimento, in questo caso il bilanciamento vedrebbe contrapposti il diritto di difesa e l’interesse alla speditezza e all’economia processuale. Se la Corte costituzionale alla fine del secolo scorso avesse intrapreso la strada del bilanciamento di interessi, la conclusione, nella contrapposizione appena descritta, non avrebbe potuto che essere una: le esigenze di speditezza ed economia processuale non hanno la forza di comprimere il diritto di difesa. Se infatti assumiamo che il «bilanciamento di interessi può dirsi lecito in presenza di due presupposti indefettibili: il carattere costituzionalmente rilevante dell’interesse in vista del quale si dispone la compressione del bene inviolabile [e] il carattere strettamente necessario dell’intervento limitativo» 60, appare di tutta evidenza che la legittimità della compressione del diritto di difesa si appalesi solo nelle ipotesi in cui l’altro interesse in gioco sia in qualche modo riconducibile alla sicurezza pubblica, mentre è del tutto fuori luogo scaricare sull’imputato, innocente fino a condanna definitiva, il peso della complessità dell’accertamento e dell’esigenza di speditezza del procedimento penale. Si osserva come tale considerazione evidenzi il fatto che se la Corte, nella pronuncia citata, avesse intrapreso la strada del bilanciamento di interessi, si sarebbe esposta, qualora investita in un secondo momento della 59

S. ARDITA, Il nuovo regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in Cass. pen., 2003, p. 4. 60

D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi, cit., p. 377.

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questione di legittimità avente ad oggetto la lett. b) dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., ad una scontata sentenza di declaratoria di incostituzionalità, atteso che in altre occasioni, sebbene l’oggetto del contendere concernesse l’istituto della contumacia, ha affermato: «il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza delle garanzie» 61. Analogamente si esprime la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, «la quale ha enucleato gli scopi legittimamente perseguibili attraverso l’istituto della videoconferenza. Tali, in primo luogo, la tutela dell’ordine pubblico, la prevenzione del crimine, la protezione del diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza dei testimoni nonché delle vittime dei reati chiamate a deporre» 62. Occorre, in tal senso, ricordare che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quando è stata chiamata a vagliare la compatibilità della disciplina prevista dall’art. 146-bis disp. att. c.p.p. con l’art. 6 CEDU, ha, anch’essa, sostanzialmente salvato la normativa 63. In particolare, nel caso Viola c. Italia, la Corte EDU specifica che, nonostante l’art. 6 CEDU non contenga espressamente il diritto di partecipare personalmente al processo, detto principio si desume dal contenuto degli altri diritti ivi previsti 64. Subito dopo, però, viene evidenziata la peculiarità del caso in esame: il ricorrente lamentava la violazione dell’equo processo per essere stato privato della possibilità di presenziare alle udienze limitatamente al giudizio di appello. 61

Corte Cost., sentenza 4 dicembre 2009, n. 317, in Foro amm., 2011, p. 3843, con nota di M. BIGNAMI, Il tempo del procedimento ed il tempo del processo, secondo la prospettiva del diritto costituzionale. 62 D. NEGRI, L’imputato presente, cit., p. 287, per cui, inoltre, «La questione non può tuttavia esaurirsi nella semplice individuazione degli interessi rilevanti che, messi in pericolo, possono in astratto giustificare compressioni del diritto alla comparizione dell’accusato, diritto dotato di importanza capitale al fine di qualificare come equo e giusto il processo penale. Ogni limitazione di quella situazione giuridica fondamentale, in una società democratica, deve infatti risultare assolutamente necessaria». 63

Cfr. Corte EDU, Viola c. Italia, 5 ottobre 2006. Cfr. Corte EDU, Viola c. Italia, cit., par. 52, per cui «sebbene non menzionata con termini espliciti, la facoltà per l’“accusato” di prendere parte all’udienza deriva dall’oggetto e dallo scopo dell’articolo nel suo insieme. Dal resto, i commi c), d) e e) del paragrafo 3 riconoscono ad “ogni accusato” il diritto di “difendersi personalmente” e di “farsi assistere gratuitamente da un interprete, qualora non comprenda o non parli la lingua usata in udienza”, cosa che non si concepisce affatto senza la sua presenza». 64

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Di talché la Corte di Strasburgo distingue l’importanza della partecipazione personale dell’imputato fra il primo e il secondo grado, precisando che «le modalità di applicazione dell’articolo 6 della Convenzione in appello dipendono dalle particolarità del procedimento di cui si tratta; occorre tener conto dell’insieme del processo condotto nell’ordinamento giuridico interno e del ruolo che vi ha svolto la giurisdizione d’appello» (par. 54). La Corte EDU, anche se non in termini assoluti, in un’altra pronuncia ha anche affermato che l’accusato dovrebbe avere il diritto di presenziare fisicamente, quantomeno al giudizio di primo grado 65. In buona sostanza, la Corte europea salva la disciplina della partecipazione a distanza in ragione della differenziazione della giurisdizione di primo e di secondo grado e del fatto che i meccanismi previsti dalla legge italiana garantirebbero i diritti difensivi. Ad avviso di chi scrive, tuttavia, l’impressione è che il giudice sovranazionale abbia preferito sviare la questione piuttosto che affrontarla. Se, infatti, si può condividere l’assunto secondo il quale i principi del contraddittorio non trovano la loro massima espansione nel giudizio di secondo grado, che per la sua stessa configurazione, di fatto, si risolve in una procedura para-cartolare (ammesso e non concesso che non sia disposta una riapertura dell’istruttoria dibattimentale per riassumere una prova), poco convincenti appaiono i ripetuti paragoni con la videoconferenza quale mezzo di protezione di testimoni. In definitiva, considerato come appaia quantomeno illusorio non ammettere che la partecipazione a distanza comprima in ogni caso il diritto di difesa, ciascuna delle tre ipotesi di videoconferenza previste dall’art. 146-bis disp. att. c.p.p. genera perplessità, anche se ognuna di esse presenta gradi diversi di inadeguatezza: per quella prevista dalla lettera a) la compressione del diritto di difesa appare giustificata, posto che l’interesse contrapposto è costituito dalla sicurezza pubblica, ma il testo normativo sconta i problemi di indeterminatezza e di lacunosa applicazione del modello processuale accusatorio, poiché le gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico saranno valutate sulla contestazione la quale, come noto, è prerogativa del solo pubblico ministero; per quella prevista dalla lettera b) il bilanciamento non è certamente ammissibile; per l’ipotesi obbligatoria, sebbene il bilanciamento apparirebbe in astratto legittimo, permangono tutte le perplessità che hanno sempre affiancato la tematica dell’art. 41-bis ord. penit. 65

Corte EDU, Sakhnovskiy c. Russia, 2 novembre 2010, par. 96, per cui «A person charged with a criminal offence should, as a general principle based on the notion of a fair trial, be entitled to be present at the first-instance trial hearing».

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Con riferimento al disegno di legge A.C. 2798, deve osservarsi che così come si amplia la portata applicativa dell’istituto, analogamente si incrementano in misura esponenziale i problemi di tenuta costituzionale della disciplina della partecipazione a distanza. La legge in via di approvazione parlamentare, trasformando l’istituto in esame da eccezione a regola per quanto riguarda i delitti di stampo mafioso o di terrorismo, espropria il giudice di quella discrezionalità, che costituisce – forse – l’ultimo baluardo di garanzia per l’imputato di detti reati, togliendogli in tal modo la possibilità di effettuare lui stesso quel giudizio di bilanciamento in concreto che, in caso di approvazione del disegno di legge, diverrebbe una presunzione. A ben vedere, infatti, la disciplina attuale, connotata comunque dagli evidenziati seri dubbi in merito alla sua tenuta costituzionale, possiede almeno il pregio di lasciare al giudice, quantomeno per le ipotesi di cui al primo comma, la discrezionalità di vagliare la reale sussistenza dei presupposti oggettivi di applicazione, così salvaguardando, sebbene non in maniera assoluta 66, quei principi del modello accusatorio a cui dovrebbe ispirarsi il processo penale italiano. La nuova norma elimina tale ultimo baluardo di garanzia, sicché il solo fatto di essere accusato di un reato di stampo mafioso comporterà (in caso di approvazione) la retrocessione del diritto di difesa dei relativi imputati che vedranno detto diritto inevitabilmente compresso. Ancor più desolante appare il sacrificio del diritto di difesa qualora il disegno di legge dovesse addivenire ad un’approvazione anche per quanto riguarda il nuovo comma 1-quater, che, come già osservato, propone un allargamento applicativo della partecipazione a distanza anche al di fuori dei reati del cosiddetto doppio binario, prevedendo la possibilità per il giudice procedente di disporre la videoconferenza per qualsiasi processo caratterizzato dallo status detentivo dell’imputato ed ogniqualvolta vi siano 66 G. FRIGO, Videoconferenze giudiziarie, cit., p. 384, osserva che «tale contestualità e tale «compresenza» sono sempre stati elementi naturali ed essenziali del processo, per lo meno di quello accusatorio (che addirittura rifiuta la possibilità di svolgersi senza la presenza fisica dell’accusato, ciò che noi diremmo «giudizio in contumacia») ed in tale contesto si manifestano «naturalmente» oralità e contraddittorio. Al contrario, tutto ciò esula dalla logica e dai canoni del processo inquisitorio, propostosi come una sequenza di atti scritti (e alla fine addirittura identificato con il «fascicolo» di essi), risultato della stratificazione di ciò che documenta gesti solitari di un giudice-inquisitore, in relazione ai quali sfuma il rilievo del luogo del loro compimento e così pure del luogo dell’udienza, come quello in cui debbano convenire tutti i soggetti. Se il giudizio si forma sugli atti scritti, nulla o ben poco resta da «udire», tutto è solo da leggere e perde essenzialità la stessa presenza fisica delle parti».

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ragioni di sicurezza ovvero il dibattimento sia di particolare complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento. È appena il caso di osservare che le ragioni ispiratrici del legislatore che introdusse per la prima volta la partecipazione a distanza non possono certamente affiancarsi a quelle del legislatore odierno. Nel 1998, il contesto si identificava con ragioni di assoluta emergenza dovute alle contingenze dell’epoca stragista: pertanto, comprimere il diritto di difesa dei detenuti di reati di stampo mafioso poteva tollerarsi quale male minore. Le logiche del legislatore del 2016 sono, invece, di segno opposto; considerato, infatti, che si fatica a concepire una traduzione di detenuti senza un minimum di pericolo, almeno potenziale, per la sicurezza (si osservi che il relativo presupposto oggettivo delle ragioni di sicurezza o ordine pubblico è stato privato della specificazione “gravi”), appare di tutta evidenza che dette logiche siano prevalentemente ispirate a finalità di economia e speditezza del processo. L’eliminazione del requisito della gravità dalla ragioni di sicurezza (per i reati esclusi dal doppio binario), per di più, conferirebbe un’eccessiva discrezionalità al giudice nel disporre la partecipazione a distanza. Si osserva, infatti, che dette ragioni di sicurezza potrebbero, per assurdo, connettersi alle contingenze più varie quali, ad esempio, la mancanza di personale della polizia penitenziaria in grado di garantire traduzioni senza pericoli, un eccessivo numero di imputati detenuti che debbano essere tradotti nello stesso tribunale, precedenti penali del detenuto da tradurre o la sua condotta in istituto, etc. Si ritiene che il diritto di difesa possa essere soggetto a limitazioni unicamente qualora contrapposto a principi con valore costituzionale di rango superiore, non certamente in presenza di mere esigenze economiche o di celerità. Deve, però, rilevarsi come non vi sia mai stato quell’auspicabile overulling della sentenza 67 in cui la Corte Costituzionale affermò che la partecipazione a distanza non comporta alcuna compressione del diritto di difesa, con il concreto rischio, pertanto, che la disciplina in via di approvazione, anche per quanto concerne i reati esclusi dalla legislazione del doppio binario, trovi il conforto di uno stato dell’arte che, al momento, afferma che il processo in videoconferenza non presenta profili di incompatibilità con l’art. 24 Cost. Si osserva, peraltro, che una simile prospettiva era già stata paventata dalla dottrina all’indomani del sentenza del 22 luglio 1999, n. 342: «l’assunto in base al quale la partecipazione a distanza non contrasta con il diritto di difesa, 67

Corte Cost., sentenza 22 luglio 1999, n. 342.

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può risultare addirittura passibile di sortire effetti che vanno oltre l’intendimento della Corte. Infatti, esso potrebbe indurre a valutare con minor rigore i presupposti che ne legittimano l’impiego, portando, al limite, a ritenerlo sempre e comunque equipollente alla presenza in aula dell’imputato» 68. Se, per assurdo, la disciplina in via di approvazione “corre il rischio” di godere di una tenuta costituzionale, forti dubbi, tuttavia, si hanno in merito ad una sua compatibilità convenzionale. Infatti, nella precedente pronuncia sopra citata (Viola c. Italia) la Corte EDU ha salvato la normativa italiana giocando – quantomeno indirettamente – sul principio di bilanciamento di interessi 69 ed evidenziando, fra i numerosi aspetti, il fatto che la partecipazione a distanza avesse il lodevole fine di lotta alla mafia. In buona sostanza, il garantismo a misura variabile che la Corte di Strasburgo ha sempre palesato in tema di diritti degli accusati di reati di criminalità di stampo mafioso unito ad un principio generalmente affermato dalla giurisprudenza convenzionale, peraltro anche nel citato caso Viola (par. 62), ossia quello per cui in uno stato democratico «ogni misura che limiti i diritti di difesa deve essere assolutamente necessaria», inducono a ritenere che un’estensione ingiustificata della partecipazione a distanza verrebbe censurata dalla Corte EDU. Si osserva, infine, che il diritto di presenziare al proprio processo sta per trovare dignità anche nell’ambito della legislazione sovranazionale nella forma di una proposta di direttiva 70 europea avente ad oggetto la presunzione di innocenza e, per quel che rileva in questa sede, il diritto di essere presente al processo. Gli articoli 8 e 9 della proposta in esame impongono agli stati membri di garantire il diritto dell’imputato di essere presente al processo, prevedendo limitate eccezioni nei casi di reati minori e, comunque, previa comunicazione all’imputato e solamente qualora questi voglia, “esplicitamente o tacitamente ma in modo inequivocabile, rinunciarvi” (considerando 22).

68

C. CONTI, Partecipazione e presenza, cit., p. 84. Cfr. Corte EDU, cit., par. 72 «la Corte ritiene che la partecipazione a distanza del ricorrente alle udienza d’appello mediante videoconferenza perseguisse scopi legittimi rispetto alla Convenzione, ossia la difesa dell’ordine pubblico, la prevenzione del crimine, la tutela dei diritti alla vita, alla libertà ed alla sicurezza dei testimoni e delle vittime, nonché il rispetto dell’esigenza del “tempo ragionevole” di durata dei processi giudiziari». 69

70

Cfr. Proposta di Direttiva (COM (2013) 821/2 def.) Proposal for a directive on the strengthening of certain aspects of the presumption of innocence and of the right to be present at trial in criminal proceedings.

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Le incompatibilità fra la proposta sovranazionale e quella nazionale appaiono eclatanti.

5. Conclusioni. Con riferimento alla disciplina in via di approvazione all’esame del Senato della Repubblica, oltre alle già evidenziate perplessità in merito ad un precario se non inesistente equilibrio costituzionale della novella legislativa, devono essere evidenziate ulteriori criticità, riguardanti la modalità di inserimento dell’emendamento al disegno di legge che comporta l’ampliamento applicativo della partecipazione a distanza. Si osserva, infatti, che l’emendamento in questione veniva proposto in un momento in cui era già terminata la fase di consultazione della Commissione Giustizia, di talché nei vari resoconti stenografici delle numerose audizioni che hanno accompagnato il disegno di legge non vi è traccia di alcun riferimento alla partecipazione a distanza. Ma non basta; in tutti i lavori preparatori della Camera, di fatto, si parla della videoconferenza solo in sede di discussione finale 71. Deve evidenziarsi che dopo un iter di inaudita velocità nel primo ramo del Parlamento, il disegno di legge sembra aver perso quel carattere di priorità attribuitogli dal Governo, tanto che, allo stato attuale, il testo pende al Senato senza che sia stata calendarizzata una trattazione. In buona sostanza, una novità di portata storica quale quella in oggetto ha superato l’esame di un ramo del Parlamento nel silenzio più totale, senza dare la possibilità, né agli stessi Deputati, né ai vari rappresentanti degli ordini professionali e della magistratura, né agli esponenti della dottrina, di offrire il loro contributo. 71 Cfr. Resoconto Stenografico dell’Assemblea Seduta n. 469 di lunedì 26 luglio 2015, l’On.le Rocco Palese: «E veniamo al vero e proprio disastro del testo, ovvero le norme contenute all’interno dell’articolo 27, che riforma la disciplina della partecipazione al dibattimento a distanza. In particolare, il disegno di legge fa della partecipazione a distanza al procedimento la regola in diversi casi, prevedendo, tra l’altro, che la partecipazione a distanza può essere disposta dal giudice anche quando, fuori dalle ipotesi obbligatorie, ravvisi ragioni specifiche di sicurezza, ovvero quando il dibattimento sia particolarmente complesso, lasciando al giudice una ampissima e discrezionale valutazione in merito a cosa sia «di particolare complessità». In linea generale, ad ogni modo, ampliare la partecipazione a distanza a discapito della presenza fisica nel processo è un chiaro intervento che non va certamente nella direzione della tutela delle garanzie degli imputati».

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Si ritiene che siano assolutamente da condividere le perplessità palesate dall’Unione delle Camere Penali Italiane 72, che, oltre a denunciare un ingiustificato svilimento delle garanzie difensive, critica la stessa idea del legislatore di ragionare in termini di utilitarismo del processo penale, evidenziando la «mancanza di una effettiva economicità di una simile scelta». Appare infatti “tutto da dimostrare” che un’estensione dell’ambito applicativo del processo in videoconferenza comporti risparmi di costi e accorciamento dei tempi. Quanto al primo aspetto si osserva che attrezzare tutte le aule e tutte gli istituti penitenziari non può considerarsi un’operazione a costo zero. Quanto all’invocato accorciamento dei tempi, poi, solo la pratica applicativa potrà dare risposte in tal senso, ma ciò che appare fuori di dubbio è che prima di procedere verso una siffatta modifica sarà necessaria una attività di formazione per istruire tutta una serie di protagonisti (agenti di polizia giudiziaria e penitenziaria, ausiliari) che dovranno cimentarsi con strumenti tecnici ed informatici a loro sconosciuti. Si osserva, infine, che, ancora una volta, l’effetto della novella potrebbe andare oltre alle reali intenzioni del legislatore. Infatti, la previsione di cui al nuovo comma 4-bis, che permette al giudice di consentire, nei processi dove già si procede con la videoconferenza (per gli imputati detenuti), “alle altre parti” e, soprattutto, “ai loro difensori” di intervenire a distanza, potrebbe aprire le porte, tramite un nuovo intervento legislativo o, perché no, una pronuncia della Corte costituzionale (che già una volta ha equiparato la videoconferenza alla presenza fisica in aula), alla scissione tra partecipazione a distanza e presenza di imputati detenuti, trasformando, questa volta definitivamente, il processo penale accusatorio (per come, fino ad oggi, lo abbiamo conosciuto) in un processo – tout court – a distanza. Mala tempora currunt per i detenuti, sed peiora parantur per tutti gli altri imputati.

72 Cfr. Documento Proposte emendative del Governo all’art. 146-bis att. della Giunta del 20 luglio 2015.

VII

L’ATTIVITÀ ANTIFRODE ALL’INTERNO DELLE COMPAGNIE DI ASSICURAZIONE di Lionello Bottari

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il regime normativo previgente. – 3. L’intervento in materia da parte dell’ISVAP. – 4. Il quadro normativo attuale: il Regolamento 9 agosto 2012, n. 44. – 5. L’efficacia del Regolamento n. 44/2012. – 6. Dati statistici.

1. Premessa. Un’attività antifrode, che potremmo definire fisiologica, è sempre esistita all’interno delle Compagnie di Assicurazione sino dalla loro nascita nel Regno Unito alla fine del XVII secolo. Essa era essenzialmente volta a verificare la veridicità e la congruità di quanto accaduto in relazione ai rischi assicurati, in particolare nei rami Incendio e Trasporti Marittimi. Era, quindi, un’attività legata all’organizzazione delle singole Compagnie e basata sull’evolversi dei rami di assicurazione esistenti e delle cognizioni scientifiche del tempo. In Italia, un primo momento di significativo cambiamento fu rappresentato dall’entrata in vigore, nel 1971, della legge sull’Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile verso terzi derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti. Il numero delle polizze aumentò in maniera esponenziale nel giro di un anno e di conseguenza anche il numero dei sinistri. Una prima attività strutturata delle Imprese di Assicurazione contro le frodi a danno delle stesse e che senz’altro possiamo definire, almeno in Italia, pionieristica, cominciò a manifestarsi ma senza alcun collegamento organico reciproco.

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Quasi sempre tale attività era lasciata ad iniziative autonome degli uffici di liquidazione dei sinistri con procedure difformi e senza alcun trasferimento di informazioni.

2. Il regime normativo previgente. Nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore dell’Assicurazione obbligatoria autoveicoli e natanti e la fine degli anni ’90, anche in assenza di una normativa di riferimento e soprattutto di provvedimenti legislativi cogenti in materia, un’attività più strutturata per combattere le frodi assicurative cominciò a prendere campo a partire dalle Imprese più avvedute ed interessate a combattere tale fenomeno ormai in crescita costante. Il panorama delle frodi da prendere in esame era ormai estremamente ampio e diffuso: dai più comuni incidenti stradali si passa a furti ed incendi con caratteristiche anomale, a furti di auto di lusso, a pluralità abnormi ed ingiustificate di polizze infortuni per il medesimo assicurato, alla falsificazione di attestati e contrassegni di polizza come al furto delle stesse. Anche l’introduzione del CID (Convenzione Indennizzo Diretto) da parte dell’Associazione Nazionale delle Imprese di Assicurazione (ANIA), nata con l’intento di rendere possibile a determinate condizioni il risarcimento da parte dell’Impresa dell’assicurato semplificando le procedure e riducendo i costi e quindi le tariffe, rese possibile come effetto collaterale nuove e significative possibilità di truffe alle Assicurazioni. Questa fase fu fonte di contrasti tra gli Uffici Sinistri delle Imprese, convinti assertori della necessità di un’azione di contrasto alle truffe ormai sempre più numerose ed inoltre soggetti a minacce da parte della criminalità, organizzata e non, e quelle Imprese, meno sensibili e meno attente al fenomeno, che ritenevano tale attività in possibile contrasto con gli obiettivi di sviluppo commerciale. Va ricordato, a titolo di cronaca, come alcuni Ispettorati di liquidazione dovettero ricorrere a nomi di fantasia (es. “Dr. Speciale” etc. ...) per cercare di arginare le minacce e le intimidazioni ricevute dai componenti degli uffici.

3. L’intervento in materia da parte dell’ISVAP. Si dovette attendere sino all’anno 2003 affinché l’ISVAP, l’Istituto di

L’attività antifrode all’interno delle compagnie di assicurazione

191

Vigilanza sulle Assicurazioni Private, con la circolare n. 505/D del 23 maggio 2003 relativa al provvedimento n. 2179/2003 stabilisse che «(…) La prevenzione e il contrasto delle frodi assicurative costituiscono ora, con l’istituzione della banca dati sinistri e con l’introduzione nel codice penale, all’articolo 642 1, del reato di frode assicurativa, un obiettivo che le Imprese dovranno perseguire ed inserire nella politica aziendale (...) Le imprese dovranno non solo istituire specifiche unità operative dedicate a tale funzione ma anche valutare la necessità della proposizione di atti formali all’autorità giudiziaria in tutti quei casi in cui sarà riscontrata la rilevanza penale di fatti commessi ai danni dell’Impresa (…) in modo da contribuire con atti concreti al contrasto dei fenomeni fraudolenti nel settore» ponendo così in essere la prima normativa cogente in materia di attività volte a combattere ed a contrastare il fenomeno delle frodi assicurative. Le Imprese di Assicurazione iniziarono quindi a costituire delle Unità operative, generalmente definite Aree Speciali, con l’obiettivo di dar seguito a quanto stabilito dalla predetta Circolare dell’ISVAP. Il 70% circa del mercato affrontò le tre principali problematiche e cioè quelle di natura assuntiva del rischio, quelle legate alla liquidazione dei sinistri e quelle di natura preventiva svolte attraverso un maggiore controllo del portafoglio polizze in essere, mediante la costituzione di unità operative autonome aventi la facoltà di gestire separatamente quei sinistri con un elevato numero di indicatori di possibile frode. La restante percentuale del mercato preferì lasciare la gestione dei sinistri all’interno degli Uffici liquidazione sinistri esistenti supportandoli nella 1

Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona (1). Chiunque, al fine di conseguire per sé o per altri l’indennizzo di una assicurazione o comunque un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione, distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà, falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione è punito con la reclusione da uno a cinque anni (2). Alla stessa pena soggiace chi al fine predetto cagiona a se stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio o denuncia un sinistro non accaduto ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro. Se il colpevole consegue l’intento la pena è aumentata. Si procede a querela di parte. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche se il fatto è commesso all’estero, in danno di un assicuratore italiano, che eserciti la sua attività nel territorio dello Stato. Il delitto è punibile a querela della persona offesa. (1) Articolo sostituito dall’art. 24, l. 12 dicembre 2000, n. 273. (2) Comma modificato dall’art. 33, d.l. 24/1/2012, n. 1, convertito, con modificazioni, nella l. 24 marzo 2012, n. 27.

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Lionello Bottari

ricerca degli indicatori di possibile frode, gestendo i problemi derivanti dai rapporti con quegli intermediari ed Agenti di assicurazione aventi in portafoglio un numero superiore alla media di polizze colpite da sinistri con elevato numero di indicatori di possibile frode. In entrambe le fattispecie di intervento le Imprese provvedettero all’elaborazione di un tool informatico che, gestendo e classificando con un punteggio i singoli indicatori di frode (variabili in numero in base alla sofisticatezza ed alle capacità di analisi delle Imprese stesse), potesse arrivare alla formulazione di un punteggio finale che, se superiore ad una soglia predeterminata, fosse in grado di orientare al meglio le conseguenti attività antifrode. È importante sottolineare come le Imprese, avendo scelto liberamente gli indicatori di una possibile frode, tentata o già consumata, abbiano individuato un elevato numero di tali indicatori e che gli stessi possano ascriversi principalmente a tre gruppi. Il primo comprende la rilevazione di anomalie rispetto al normale svolgersi delle attività assicurative quali ad esempio: – assicurazione di un numero eccessivamente alto di veicoli da parte del medesimo contraente; – eccessiva frequenza di sostituzioni di veicoli sullo stesso contratto; – omessa denuncia del sinistro o eccessivo ritardo della stessa; – coinvolgimento di veicoli molto vecchi e con danni molto rilevanti; – dinamica del sinistro molto particolare o poco credibile; – sopravvenute richieste danni da parte di soggetti non segnalati inizialmente in denuncia. Il secondo relativo alla fase di ricezione della denuncia di sinistro come, ad esempio: – presentazione di documenti fiscali giustificativi dei danni subiti già utilizzati in altri sinistri e ripresentati con alterazione della data o di altri elementi fondamentali; – falsificazione di documentazione medica; – utilizzo di testimonianze sospette o dichiaratamente compiacenti; – evidente tentativo di aggravamento del danno subito; – inserimento nella richiesta di risarcimento di danni preesistenti o riconducibili all’anzianità dell’oggetto dell’assicurazione. Il terzo relativo alla fase di trattazione e liquidazione del sinistro come, ad esempio: – postdatazione o retrodatazione della data del sinistro rispetto a quella di efficacia del contratto;

L’attività antifrode all’interno delle compagnie di assicurazione

193

– alterazione dell’indicazione del numero di targa per evitare verifiche tramite il SSRC (Schedario Sinistri Responsabilità Civile); – utilizzo di targhe senza precedenti allo schedario Sinistri per veicoli già sinistrati; – denuncia di falsi sinistri all’insaputa di una o di entrambe le parti; – utilizzo della stessa documentazione fotografica per più sinistri denunciati a differenti Imprese; – utilizzo di preventivi emessi da Aziende inesistenti oppure da Aziende realmente operanti ma per lavori mai eseguiti o eseguiti solo in parte.

4. Il quadro normativo attuale: il Regolamento 9 agosto 2012, n. 44. Il passaggio ad un sistema obbligatorio per le Imprese ed organicamente strutturato avvenne solamente con il d.l. 21 gennaio 2012 n. 1, convertito con modificazioni in l. 24 marzo 2012 n. 27 e con l’adozione del relativo Regolamento di attuazione n. 44 del 9 agosto 2012. I punti essenziali del predetto Regolamento sono quelli relativi alla predisposizione da parte dell’ISVAP, entro tre mesi dalla data di conversione del decreto legge, di un modello di relazione, che ciascuna Impresa è tenuta a trasmettere con cadenza annuale in ordine alle attività poste in essere per contrastare le frodi nel settore assicurativo. Tale modello è composto da un documento di sintesi e da tre sezioni. Il documento di sintesi illustra la politica aziendale in materia, gli obiettivi e le strategie poste in essere in tema di prevenzione contro le frodi. Le tre sezioni contengono rispettivamente: 1) le informazioni relative al sistema organizzativo ed alle procedure informatiche adottate; 2) i dati numerici relativi ai sinistri denunciati, in rapporto alle unità di rischio, distinti per provincia e tipo di danno nonché all’indicazione separata di quelli esposti a rischio frode, di quelli oggetto di specifico approfondimento, di quelli posti senza seguito e di quelli per i quali sono state presentate denunce/querele; tutti i dati e le informazioni della sezione 2) vanno presentati distintamente per i sinistri gestiti con procedura CARD 2; 3) i dati di sintesi relativi alle denunce/querele aventi per oggetto i sini2

Convenzione tra Assicuratori per il Rischio Diretto in vigore dal 1 febbraio 2007.

194

Lionello Bottari

stri ed il relativo esito ed i medesimi dati riferiti ai contratti ed alla documentazione contrattuale. Il Decreto “sviluppo bis” del Dicembre 2012 ha fatto sì che l’IVASS 3 assumesse nuove funzioni, oltre a quelle competenze già previste in precedenza in tema di antifrode assicurativa, ponendole in capo ad un’unica unità organizzativa: la Divisione Banche dati ed Antifrode. Tali nuove funzioni sono principalmente: – attività di analisi, elaborazione e verifica delle informazioni ottenute tramite le procedure e gli strumenti operativi già esistenti (ad esempio la Banca Dati sinistri) procedendo al contempo a darne una veste organica e sistematica più efficiente; – azione di contrasto e prevenzione delle frodi attraverso l’approfondimento delle segnalazioni ricevute dalle Imprese; – gestione di segnalazioni ricevute su possibili frodi sia sollecitando indagini approfondite da parte delle Imprese sia, nei casi più documentati, avvisando direttamente la Procura della Repubblica competente; – attivazione di sistemi di allerta preventiva contro le frodi; – collaborazione con le forze di polizia e l’autorità giudiziaria favorendo l’utilizzo e l’integrazione della banca dati sinistri e altre banche dati di soggetti diversi. Seppur considerando in maniera assolutamente positiva tale azione, va sottolineato, come si vedrà meglio in seguito, che i numeri e le percentuali relative alle attività di cui sopra evidenziano, oltre a fisiologiche differenze nell’operato delle diverse Imprese, un’attività complessiva chiaramente insufficiente a contrastare efficacemente il fenomeno della frode assicurativa. Elemento essenziale della strategia adottata con il Regolamento n. 44/2012 è costituito dalla Banca dati sinistri, alimentata con i dati forniti dalle Imprese, entro una settimana dalla ricezione della denuncia del sinistro. La Banca dati sinistri contiene elementi identificativi del sinistro (luogo di accadimento, data e codice attribuito dall’Impresa), dei veicoli e dei soggetti interessati (contraenti, conducenti, proprietari, danneggiati, testimoni), dei professionisti e delle Società incaricati dai soggetti coinvolti (periti, medici, legali, autofficine e carrozzerie, società di informatica e recu-

3

Dal 1 gennaio 2013 l’ISVAP (Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni Private di interesse collettivo) è stato sostituito dall’IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, sotto il controllo della Banca d’Italia).

L’attività antifrode all’interno delle compagnie di assicurazione

195

pero danni) e degli altri soggetti intervenuti (Autorità, Ospedali, centri di Pronto Soccorso etc. ...) nonché le valutazioni iniziali dei danni a persone e a cose e le specifiche dei pagamenti effettuati. Tutte le informazioni fornite sono oggetto di attribuzione di parametri di significatività, definiti dall’IVASS, atti ad individuare quelle situazioni che, senza pretesa di certezze, indichino un certo grado di possibile frode. Gli indicatori in uso, che possono essere sottoposti a revisione sulla base delle esperienze maturate e delle proposte delle Imprese, sono complessivamente dodici: sei relativi alle persone fisiche e giuridiche identificate e sei relativi agli autoveicoli coinvolti nel sinistro. Le Imprese consultano la Banca dati per ogni sinistro in fase di trattazione, possono sospendere, per un massimo di 30 giorni, il risarcimento, in presenza di almeno 2 dei parametri/indicatori di cui sopra, per effettuare approfondimenti, ed in caso di pratiche fraudolente accertate, presentare denunce o querele. Anche se nei primi due anni di funzionamento si è osservato un significativo miglioramento nel comportamento delle Imprese, sia in relazione alla trasmissione dei dati sui sinistri sia in relazione all’attività di consultazione della Banca dati, si osservano ancora carenze e ritardi in particolar modo da parte delle Imprese di minori dimensioni. È parimenti evidente come l’ulteriore utilizzo ed affinamento delle risultanze della Banca dati sinistri sarà possibile solo attraverso la predisposizione di nuove classificazioni dei sinistri in base al livello di rischio frode evidenziato, al miglioramento dei sistemi informatici gestionali di tutte le parti coinvolte ed al costante monitoraggio delle iniziative di carattere penale assunte dalle Imprese.

5. L’efficacia del Regolamento n. 44/2012. Sulla base delle informazioni fornite da ciascuna Impresa, con la relazione annuale sopra descritta l’IVASS «esercita i poteri di vigilanza (…) al fine di assicurare l’adeguatezza delle organizzazioni aziendali e dei sistemi di liquidazione dei sinistri rispetto all’obiettivo di contrastare le frodi nel settore». Utilizzando i dati ricevuti con criteri di massima oggettività e con particolare attenzione alle norme di carattere organizzativo, al numero di sinistri oggetto di approfondimento, al numero di querele/denunce presentate ed all’esito dei conseguenti procedimenti penali, si è provveduto ad attri-

196

Lionello Bottari

buire ad ogni Impresa uno score rappresentativo della valutazione complessiva attribuita agli elementi suddetti. Gli elementi di valutazione, contenuti nelle relazioni delle Imprese, possono essere riassunti in due categorie: qualitativi e quantitativi. 1) Elementi qualitativi di valutazione: – come in precedenza accadeva, prima dell’adozione del Regolamento n. 44/2012, i modelli organizzativi riscontrati sono stati principalmente di due tipi: un’unica unità che sovraintenda tutte le fasi del ciclo assicurativo (tipico delle Imprese di minori dimensioni) oppure la costituzione di unità antifrode operanti all’interno delle aree di riferimento (molto frequente nelle Imprese di dimensioni medio/grandi). Appare evidente nel primo caso come la motivazione sia dettata da criteri di economicità e semplicità organizzativa anche se, come vedremo in seguito, i risultati migliori sono quelli ottenuti dalle Imprese medio/grandi. Risultano con molta chiarezza grandi margini di miglioramento ottenibili in particolare nelle prime linee di riporto che in molti casi non riescono a raggiungere le funzioni di top management. Parimenti non sembra sufficiente l’attività di formazione dei diversi soggetti coinvolti; – per quanto riguarda la fase assuntiva risultano pienamente operative le connessioni con le Banche dati ANIA mentre l’utilizzo di sistemi informatici connessi automaticamente copre i due terzi circa del mercato. Meno frequente appare l’utilizzo, in generale di prodotti contenenti clausole mirate ad azione preventiva antifrode, come, ad esempio, la presenza di dispositivi satellitari di controllo od il risarcimento in forma specifica, ma questo avviene in percentuale maggioritaria per le Imprese medio/grandi (quota di mercato oltre il 70%) per evidenti ragioni di economie di scala; – osservando lo svolgimento della fase liquidativa è fondamentale l’attività di consultazione automatica, operativa in tempi strettissimi, della Banca dati sinistri da parte delle Imprese (efficace nell’85,7% dei sinistri), mentre risulta decisamente meno performante l’interrogazione per singoli casi, in special modo se paragonata a sistemi applicativi che segnalino automaticamente, in sede di apertura del sinistro, la possibilità del rischio frode (operativa nel 76,3% dei sinistri). Ulteriore efficacia alle procedure liquidative viene fornita dall’attività di formazione e specializzazione degli attori coinvolti quali liquidatori, periti liquidatori, fiduciari e componenti le Direzioni sinistri. 2) Elementi quantitativi di valutazione: – va preliminarmente ricordato come i dati relativi ai sinistri, dedotti dai prospetti compilati dalle Imprese, si integrino con le segnalazioni dei li-

L’attività antifrode all’interno delle compagnie di assicurazione

197

quidatori, della Autorità di polizia e con gli altri elementi eventualmente risultanti e non codificati e come pertanto gli indicatori utilizzati dalle Imprese possano essere diversi e non coincidenti tra di loro e quindi debbano rappresentare solo un primo livello di attenzione e solo successivamente ad un più attento esame si possano evidenziare le fattispecie che saranno oggetto di indagini più approfondite. Per facilitare questa fondamentale attività sono stati individuati 5 indici atti a verificare l’andamento delle procedure e le proporzioni tra i numeri dei sinistri evidenziati inizialmente ed i numeri degli esiti finali delle attività portate a compimento dagli uffici Antifrode. I 5 indici individuati sono i seguenti: • rapporto tra il numero dei sinistri denunciati da ogni Impresa nell’anno di riferimento ed il numero totale delle unità di rischio assicurate nell’anno; • rapporto tra il numero dei sinistri denunciati e quelli con almeno un indicatore di rischio frode; • rapporto tra il numero dei sinistri denunciati e quelli oggetto di approfondimento; • rapporto tra il numero dei sinistri denunciati e quelli per i quali sono state presentate denunce/querele; • rapporto tra il numero dei sinistri denunciati e quelli posti senza seguito in conseguenza degli approfondimenti con esito positivo. Ognuno di questi indici (valori da 1 a 9 in relazione alle risultanze dei corrispondenti indici di mercato) ha portato all’assegnazione di un punteggio ad ogni Impresa. In caso di risultanze indicanti una totale assenza di attività è stato aggiunto un coefficiente negativo. Non sorprende, considerando quanto osservato in precedenza, che l’applicazione dei criteri di cui sopra abbia portato a risultati positivi solamente per 13 Imprese (quota di mercato 34,6%). – procedure CARD e CTT 4: le particolari norme liquidative relative alle due Convenzioni in oggetto rendono necessaria da parte delle imprese l’elaborazione di prospetti separati per i dati relativi ai sinistri. Infatti i sinistri CARD rappresentano il 74% del totale mentre i sinistri CTT solamente il 4% del totale 5 mentre per quanto riguarda l’esposizione

4

Convenzioni tra Imprese Assicuratrici, in vigore dal 1 febbraio 2007, rispettivamente per il sistema di Risarcimento Diretto e per la gestione dei danni subiti dai Terzi Trasportati. 5

Dati riferiti all’anno 2012.

198

Lionello Bottari

al rischio frode i sinistri CARD sono il 59% e quelli CTT l’8%. Essendo i sinistri CARD relativi, in prevalenza, a danni a cose e lesioni lievi è evidente la maggior esposizione al rischio frode dei sinistri gestiti in regime ordinario e di quelli relativi ai terzi trasportati in quanto di maggior valore economico; – denunce/querele: considerando gli ultimi dati disponibili (anno 2014) relativi al numero delle denunce/querele presentate dalle Imprese in rapporto ai sinistri si nota una forte flessione. Va premesso che i numeri da prendere in considerazione sono di due tipi in quanto è maggioritario il numero di denunce/querele riguardanti i sinistri, anche se relativi a più soggetti, rispetto al numero di denunce/querele riguardanti soggetti evidentemente interessati contemporaneamente a più sinistri. Tale rilevazione è un elemento fortemente indicativo della serialità dei fenomeni criminosi legati alle frodi assicurative. Analizzando quindi in dettaglio i numeri disponibili (ultimi 3 anni) relativi all’evoluzione delle denunce/querele presentate 2012

2013

2014

Numeri Assoluti Dei Sinistri Oggetto Di Denuncia/Querela

5263

6989

4670

Numeri Assoluti Delle Denunce/Querele Presentate

3290

4088

3407

Fonte: Elaborazione dati ex regolamento ISVAP 44/2012.

si possono fare numerose osservazioni che portano comunque ad un giudizio complessivamente negativo di tale attività: – il più importante elemento di raffronto è determinato dal rapporto tra denunce/querele presentate negli ultimi 3 anni osservati, poche migliaia di casi, ed il numero totale dei sinistri denunciati (2.683.728) e degli enti assicurati (40.572.428) nell’anno 2014. I numeri dei sinistri e degli enti assicurati sono in costante discesa da alcuni anni e nell’ultimo anno considerato (2014) hanno registrato una complessiva flessione rispettivamente del 7% circa e dello 0,4%. Appare evidente la sproporzione tra i numeri sopraelencati, in quanto il rapporto tra i sinistri oggetto di denunce/querele ed il totale dei sinistri denunciati è pari allo 0,00174% e, mentre nel primo anno di possibile confronto si era verificato un incremento del 30%, il dato dell’anno successivo evidenzia un decremento del 33%.

L’attività antifrode all’interno delle compagnie di assicurazione

199

– un’attività così modesta, e assolutamente poco significativa, denota un evidente disinteresse della maggioranza delle Imprese assicuratrici ed infatti nel primo anno di valutazione, ai fini del relativo score, solamente 15 Imprese, con una quota di mercato pari al 27,7%, ha ottenuto un valore positivo. – la modestia di tali risultati è solo in parte controbilanciata, seppure con valori assoluti non particolarmente rilevanti, dal numero dei sinistri oggetto di approfondimento per rischio frode (circa 265.000 pari ad un +5%) ed ai sinistri conseguentemente posti senza seguito (circa 38.000 pari al 26% dei sinistri oggetto di approfondimento per rischio frode) dato, quest’ultimo, che denota i buoni risultati dell’attività di deterrenza esercitata attraverso le attività antifrode volte al ritiro della denuncia di sinistro o del proseguimento di azioni risarcitorie già intraprese. Una considerazione finale sulla forte diminuzione di denunce/querele presentate nel 2014 può sicuramente essere fatta circa il rapporto con il cosiddetto “decreto depenalizzazione” 6, in quanto la previsione del “regime della tenuità del fatto”, ha sicuramente condizionato le decisioni delle Imprese circa l’opportunità di avviare azioni giudiziarie.

6. Dati statistici. L’IVASS ha proceduto quindi alla valutazione finale degli elementi previsti dal Regolamento n. 44/2012, raccolti mediante le relazioni annuali delle Imprese, ed all’attribuzione dei relativi score ed ha elaborato le seguenti due Tabelle (esercizio 2013) in cui le Imprese sono state suddivise in 5 fasce che illustrano i diversi livelli di efficienza raggiunti.

6 D.lgs. n. 28/2015 recante “Disposizioni in materia di non punibilità, per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m) della l. n. 67/2014”.

200

Lionello Bottari

Tabella 1: Fasce di valutazione per score finale es. 2013. Quota di Indice di % su totale mercato sinistrosità Sinistri de- sinistri deUdr per per fascia nunciati nunciati fascia di di valutaItalia valutazione zione

Fascia di valutazione

Numero imprese

Udr totali per fascia di valutazione

I

16

28.295.652

69,50%

1.885.299

65,2%

6,7%

II

11

4.504.660

11,10%

401.756

13,9%

8,9%

III

12

5.112.690

12,60%

335.950

11,60%

6,6%

IV

11

1.526.490

3,80%

125.719

4,4%

8,2%

V

12

1.290.079

3,20%

142.531

4,9%

11,1%

Fonte: Elaborazione dati ex Regolamento ISVAP n. 44/2012.

Il processo di valutazione fa emergere un innalzamento complessivo dei punteggi conseguiti, rispetto all’anno precedente, delle Imprese nel loro complesso come pure il fatto che le 16 Imprese della prima fascia gestiscano il 65,2% del totale dei sinistri denunciati ed abbiano una quota di mercato pari al 69,5%. Le Imprese delle tre fasce intermedie (II, III e IV) fanno parimenti registrare un miglioramento complessivo, pur non registrando valori particolarmente difformi. L’ultima fascia di Imprese, ancorché ridottasi di numero e con quota di mercato assolutamente minoritaria (3,2%), si basa su informazioni meno approfondite ed ha un indice di sinistrosità decisamente superiore: 11,1%. Nella seconda Tabella vengono analizzati l’indice di sinistrosità relativo alla fascia e le stime di risparmi ottenuti per gli oneri dei sinistri a confronto con la quota di mercato delle Imprese e con la percentuale di sinistrosità per fascia di valutazione.

L’attività antifrode all’interno delle compagnie di assicurazione

201

Tabella 2: Fasce di valutazione e stime riduzione oneri sinistri a seguito dell’attività antifrode. % su totale Indice di sinistri de- sinistrosità per fascia nunciati valutazione Italia

Importi stime

Quota mercato stime

6,7%

145.519.615

79,3%

13,9%

8,9%

19.791.094

10,8%

335.950

11,6%

6,6%

12.875.572

7,0%

11

125.719

4,4%

8,2%

3.861.016

2,1%

12

142.531

4,9%

11,1%

1.503.593

0,8%

Fascia di valutazione

Numero imprese

Sinistri denunciati

I

16

1.885.299

65,2%

II

11

401.756

III

12

IV V

Fonte: Elaborazione dati ex Regolamento ISVAP n. 44/2012.

È di palese evidenza come il 79,3% del risparmio stimato sia concentrato nelle 16 Imprese di I fascia e solamente per questa fascia tale percentuale sia superiore alla percentuale di sinistri denunciati. Indici questi di una migliore qualità, soprattutto in fase liquidativa, e di un uso più avanzato e più diffuso dei supporti tecnologici esistenti. L’indice di sinistrosità ne è ulteriore conferma e mette l’accento sull’arretratezza dei sistemi e sulla carenza di integrazione tra i vari sistemi gestionali all’interno del modello organizzativo delle Imprese. Da ultimo viene riportata la Tabella di fonte ISVAP che riporta i dati 2013 relativi all’attività antifrode suddivisi per Regioni e macrozone territoriali: Macrozone territoriali

Regioni

Unità di rischio 2013

Sinistri denunciati 2013

Sinistri esposti a rischio frode 2013

EmiliaRomagna

3.340.792

215.168

28.681

13.066

1.668

258

Friuli-Venezia Giulia

962.799

49.209

5.937

1.980

237

118

Sinistri Sinistri Sinistri approapprooggetto fonditi in fonditi in di Derelazione relazione nuna rischio al rischio cia/Quer frode frode ela 2013 2013 posti senza seguito 2013

Segue

202

Lionello Bottari

Nord

Liguria

1.179.769

99.755

13.124

6.202

701

94

Lombardia

6.959.017

512.745

57.660

23.406

3.382

515

Piemonte

3.312.427

227.746

27.746

12.463

1.623

385

Trentino-Alto Adige

848.169

51.633

6.731

1.685

168

22

Valle D’aosta

140.998

11.143

951

295

27

15

Veneto

3.705.802

204.526

20.044

7.650

1.014

207

20.449.773 1.371.925

160.675

66.747

8.820

1.614

Lazio

4.218.571

398.887

63.906

33.458

4.403

822

Marche

1.189.625

70.070

10.595

4.660

520

106

Toscana

2.863.640

210.310

27.690

13.413

1.455

404

Umbria

714.965

44.997

7.071

3.797

368

93

724.264

109.262

55.328

6.746

1.425

Nord Totale

Centro

Centro Totale 8.986.801

Sud

Isole

Abruzzo

933.008

59.054

10.261

4.811

545

143

Basilicata

374.067

19.445

4.303

2.403

251

59

Calabria

1.022.965

58.057

14.309

9.143

923

389

Campania

2.634.601

245.074

94.320

58.667

7.090.

2.429

Molise

236.049

13.681

2.936

1.632

225

74

Puglia

2.160.520

128.017

31.896

21.544

2.387

285

Sud totale

7.361.211

523.328

158.025

98.200

11.421

3.379

Sardegna

1.043.173

70.860

9.431

4.778

640

104

Sicilia

2.891.321

201.065

41.001

25.901

2.629

485

Isole totale

3.934.494

271.925

50.432

30.679

3.269

589

478.394

250.954

30.256

7.007

Totale nazio- 40.732.279 2.891.442 nale

Fonte: Elaborazione dati ex Regolamento ISVAP n. 44/2012.

Da tali dati, oltre a evincersi chiaramente come il rapporto tra i sinistri oggetto di denuncia/querela ed i sinistri esposti al rischio frode sia di entità decisamente modesta e pari all’1,46%, si osserva come tale rapporto sia più che doppio nel Sud Italia (2,1%) rispetto al Nord (1%) e come tutti i rapporti considerati (sinistri oggetto di approfondimento, sinistri senza seguito e sinistri oggetto di denuncia/querela rapportati ad i sinistri esposti a rischio frode) vadano ad aumentare procedendo da Nord a Sud (vedere Tabella successiva).

203

L’attività antifrode all’interno delle compagnie di assicurazione

Tabella 3: Percentuali in relazione ai sinistri denunciati. Zone territoriali

Sinistri oggetto di approfondimento

Sinistri posti senza seguito

Sinistri oggetto di denuncia/querela

Nord

41,54%

5,4%

1,0%

Centro

50,63%

6,17%

1,3%

Sud

62,14%

7,22%

2,1%

Isole

60,83%

6,48%

1,1%

Se poi si considera il rapporto dei sinistri esposti al rischio frode oggetto di approfondimento in relazione al numero totale degli autoveicoli assicurati, il confronto è ancora più evidente: Nord

0,33%

Centro

0,62%

Sud

1,33%

Isole

0,78%

ed in special modo per la regione Campania: 2,23%. I dati relativi alle macrozone territoriali evidenziano situazioni in buona parte già note ed oggetto di attività ed indagini singole ad opera delle Imprese, ma devono altresì essere fonte di riflessione sul lavoro di prevenzione e controllo che deve essere principalmente svolto dalle Imprese stesse nel prossimo futuro.

204

Lionello Bottari

VIII

FICTIONAL CRIMES: IL CASO DELLE STASH HOUSES di Vittorio Fanchiotti

SOMMARIO: 1. Le indagini sotto copertura negli Stati Uniti d’America: alle origini di una lunga tradizione. – 2. Il fenomeno della “federalizzazione” delle operazioni sotto copertura, riflesso della dimensione ultrastatale della criminalità organizzata. – 3. L’approccio “preventivo” degli anni Novanta del secolo XX. – 4. Un modello “creativo” di operazioni undercover: le fictional stash houses. – 5. La limitazione delle garanzie difensive dell’imputato conseguente alle eccessive potenzialità sanzionatorie del modello. – 6. L’affiorare del carattere discriminatorio delle operations sting nei confronti delle minoranze etniche: le reazioni dei giudici e del potere esecutivo. – 7. Le critiche in chiave di law and economics all’uso delle fictional stash houses. – 8. L’immaginazione poliziesca difende le sue “invenzioni”. – 9. Ulteriori iniziative dell’Esecutivo federale nei confronti delle “vittime” delle “trappole poliziesche”. – 10. Verso un ritorno al rehabilitative ideal? La politica della second chance.

1. Le indagini sotto copertura negli Stati Uniti d’America: alle origini di una lunga tradizione. Negli Stati Uniti il ricorso alle tecniche di indagine undercover (“sotto copertura”), utilizzate dagli organi di polizia prevalentemente federali nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, ormai da decenni ha conosciuto uno sviluppo particolarmente ampio, tanto da relegare in secondo piano l’uso di altre forme “intrusive” di mezzi di ricerca della prova. In primis risultano particolarmente ridimensionate le intercettazioni telefoniche “tradizionali” 1, anche sotto il profilo quantitativo della loro utilizzazione (fatte salve le ipotesi derivanti dalla legislazione “d’emergenza” in tema 1

Nel 2014 il totale delle intercettazioni ha registrato un calo del 13% rispetto a quelle dell’anno precedente nel sistema federale: cfr. Administrative Office of the U.S. Courts, Wiretap Report 2014, p. 1 ss.

206

Vittorio Fanchiotti

di antiterrorismo varata dopo l’11 settembre 2001) 2, mentre una nuova forma di operazione sotto copertura è venuta allo scoperto negli ultimi sei anni, dando luogo non solo a serrate critiche in ambito teorico-dottrinale ma soprattutto a drastiche prese di posizione in sede giurisprudenziale. Si tratta di uno strumento riconducibile alla più ampia categoria delle c.d. sting operations (“operazioni pungiglione”), consistenti nel “provocare” da parte della polizia la commissione di reati ad opera di soggetti ritenuti già “predisposti” a commetterli. In sintesi si tratta di “programmare”, anche sotto il profilo temporale e logistico, promuovendole, anticipandole e controllandole, il verificarsi di manifestazioni delinquenziali di particolare gravità, consentendo così alla polizia stessa di “razionalizzare” il proprio intervento, minimizzando così anche i “danni collaterali” che troppo frequentemente si accompagnano all’attività della criminalità organizzata, soprattutto sotto forma di coinvolgimento di “innocent bystanders”, cioè di persone del tutto casualmente vittime di reati di violenza cui si trovano loro malgrado ad assistere (si pensi ai clienti presenti in una banca durante una rapina). A questi vantaggi si aggiunge quello che rappresenta al tempo stesso lo scopo “storico” principale della sting operation: assicurare alla giustizia esponenti di spicco della criminalità organizzata, indebolendone la potenziale operatività, giovandosi anche della circostanza che la preparazione “pilotata” o “assistita” di un reato consente normalmente la precostituzione di un robusto quadro probatorio su cui l’accusa potrà addivenire con facilità ad un plea bargaining particolarmente vantaggioso o sostenere con buone prospettive di successo lo scontro dibattimentale. In generale va osservato come l’utilizzo di agenti “provocatori” o “sotto copertura” (per usare l’espressione più “neutra” che ormai da decenni li connota) caratterizza il funzionamento della giustizia penale degli Stati Uniti fin dalla loro nascita, con l’“importazione” del modello di conduzione delle indagini proprio del sistema settecentesco di policing inglese, fondato in larga misura su una rete di informatori e di “acciuffaladri”. Alla base della scelta sta l’idea che coinvolgere cittadini “onesti” e settori della malavita come collaboratori “esterni” in cambio della prospettiva di una ricompensa da parte della vittima in caso di recupero della refurtiva o dell’impunità per i reati commessi, potesse, se non evitare, comunque ritardare l’istituzione di un organo pubblico di polizia, stante anche la diffidenza verso gli analoghi corpi esistenti nell’Europa continentale, all’epoca ancora 2 In proposito, V. FANCHIOTTI, Il dopo 11 settembre e l’USA Patriot Act: lotta al terrorismo ed effetti collaterali, in Quest. giust., 2004, p. 284 ss.

Fictional crimes: il caso delle stash houses

207

strumento di governi dispotici” 3. Solo verso la metà del XIX secolo in U.S.A. vengono creati corpi di polizia a livello municipale sull’onda dello sviluppo dell’urbanizzazione, con funzioni essenzialmente di “mantenimento della pace pubblica”, mentre le attività tipiche d’indagine di polizia giudiziaria, si svilupparono più tardi. Nel frattempo le autorità continuano a far ampio affidamento, soprattutto nei casi relativi ai reati comuni più diffusi, in particolare quelli contro la proprietà, su un meccanismo, il c.d. “fee for service”, una sorta di accordo con i malfattori stessi, offrendo loro l’impunità in cambio della restituzione della refurtiva e del pagamento di una somma in favore della vittima. La prassi, pur non mancando di suscitare pesanti critiche e sospetti circa il possibile coinvolgimento della polizia stessa nel “business” di reati “su ordinazione”, si rivela comunque uno strumento indispensabile – una sorta di antitesi della “taglia” prevista per i delinquenti “wanted”– nelle zone di frontiera, dove la presenza della polizia è molto rarefatta, se non inesistente, a livello locale, ad eccezione del capoluogo della contea ove siede lo sheriff. In campo federale, inizialmente, a causa dell’esiguità della normativa penale, ogni attività d’indagine viene devoluta ad agenzie private, come la Pinkerton National Detective Agency, creata nel 1850 4. Solo alcune amministrazioni federali iniziano ad assoldare detectives per indagare sui pochi reati fino ad allora introdotti dal Congresso federale, in particolare l’U.S. Postal Service ingaggia degli inspectors per contrastare l’uso della posta per commettere reati, rientranti nel Mail Fraud Act del 1872, in tema di gioco d’azzardo clandestino e di pornografia. In conseguenza delle peculiarità di tali reati, l’efficacia del loro perseguimento assegna un ruolo fondamentale ai soggetti in questione, i quali, sotto le mentite spoglie di potenziali acquirenti, ordinano per posta materiale proibito allo scopo di individuarne i distributori. Nel 1895 la tecnica è considerata costituzionalmente legittima dalla Corte suprema federale nel caso Grimm v. U.S. 5, in cui, infatti, si persegue un soggetto già in precedenza dedito alla commissione di reati, di cui semplicemente si “provoca” un’ulteriore attività criminosa. Si tratterebbe quindi, di un’ipotesi punibile anche seguendo i canoni europeo-continentali: è però peculiare del sistema d’oltreoceano una certa “indifferenza” per il comportamento del provocatore, che costituirà, fino a tempi molto recenti, una costante dell’ordinamento statunitense. 3

Così si esprimeva nel 1798 un membro del Congress: cfr. J.R. LUNDY, Police Undercover Agents: New Threat to First Amendment Freedoms, in 37 G. Wash. L. R., 1969, p. 636. 4

J.S. DEMPSEY, Introduction to Private Security, Belmont, CA, 2008, p. 8. Grimm v. U.S., 156 U.S. 604 (1895). Più specificamente, il caso riguarda una norma introdotta, sempre in tema di mail fraud, con un Act del 1888 (25 Stat. 946). 5

208

Vittorio Fanchiotti

2. Il fenomeno della “federalizzazione” delle operazioni sotto copertura, riflesso della dimensione ultrastatale della criminalità organizzata. All’inizio del XX secolo si assiste all’espandersi dell’intervento normativo in campo penale a livello nazionale, attraverso la “federalizzazione” di reati di portata ultrastatale, relativamente ai quali le indagini sotto copertura si rivelano pressoché indispensabili per un’efficace attività di contrasto: si tratta in particolare del traffico di droga, vietato dall’Harrison Act nel 1914, e di alcool, bandito dalla normativa proibizionista, introdotta nel 1919 sulla scia del varo del XVIII Emendamento della Costituzione, parallelamente ai quali vengono istituiti organi di “polizia giudiziaria” afferenti all’U.S. Department of Treasury, destinati ad affiancare le polizie locali. L’ampliamento dell’intervento penale federale è accompagnato da un uso massiccio delle operazioni undercover che suscita molte critiche per la scarsa, se non inesistente, tutela dell’imputato “provocato”, vittima degli eccessi di zelo, delle scorrettezze e delle trappole ordite dalla polizia in cui rischia di trovarsi coinvolto anche il cittadino “onesto”, al punto da provocare nel 1932, con il caso U.S. v. Sorrells, un intervento della Corte suprema. Quest’ultima, da un lato, ritiene del tutto lecito il comportamento dell’agente di polizia o dell’impiegato pubblico che si limiti a predisporre un’occasione o a facilitare la commissione di un reato, anche ricorrendo a stratagemmi ed artifici per incriminare soggetti già dediti a “imprese criminali”: anzi, secondo la Corte, l’uso di tali metodi è spesso “essenziale” per l’applicazione della legge penale, purché indirizzato a rivelare l’esistenza di un disegno criminale, di un traffico illecito, di un’associazione a delinquere o di altri reati. Viceversa dev’essere considerato illecito nel caso in cui “il disegno criminoso tragga origine da pubblici ufficiali che instillino nella mente di una persona innocente la disposizione a commettere un reato e la inducano alla commissione dello stesso al solo scopo di procedere alla sua incriminazione” 6. In questa occasione, diversamente dal citato caso Grimm, la Corte definisce positivamente la c.d. entrapment defense, come «the conception and planning of an offense by an officer, and his procurement of its commission by one who would not have perpetuated it except for the trickery, persuasion, or fraud of the officer» cioè quale causa di giustificazione fondata sul fatto che l’imputato, solo perché “intrappolato” dalla polizia, abbia commesso un reato che altrimenti sua sponte non aveva intenzione di commettere, né avrebbe commesso. Tuttavia la tutela 6

Sorrells v. U.S., 287 U.S., 441-442.

Fictional crimes: il caso delle stash houses

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della vittima della provocazione, scaturita dalla precisazione della Corte risulterà alquanto limitata, al punto che, in seguito, sia la giurisprudenza federale sia quella di numerosi Stati faranno riferimento al c.d. “approccio soggettivo”. In particolare la defense verrà fondata su due precondizioni: la prima, positiva, considera che sia stato l’agente a indurre la vittima della provocazione a commettere il reato, mentre la seconda, negativa, si fonda sul fatto che comunque il soggetto si mostri predisposto (ready) a delinquere appena gli si offra l’occasione 7. Infine, per quanto concerne l’aspetto probatorio alla difesa incombe l’onere di provare l’induzione, mentre all’accusa è riservato il compito di dimostrare la predisposizione dell’imputato a commettere il reato per cui si procede. Alcuni ordinamenti statali, insieme al Model Penal Code (introdotto nel 1962), optano per un criterio “oggettivo” riconducibile alla puntuale verifica del contesto della commissione del reato: in particolare analizzando i possibili “metodi di persuasione o induzione tali da creare un rischio sostanziale che tale reato avrebbe potuto essere commesso da persone diverse da quelle già ‘ready’, (predisposte), a commetterlo” 8. Tuttavia l’ambito di applicazione della entrapment defense in base agli approcci citati, appare avere una portata minima 9, non rivestendo un significativo interesse per l’imputato neppure nella pratica. Consente infatti all’accusa di produrre prove sui precedenti “bad acts” dell’imputato, al fine di indebolirne l’immagine di presunta “onestà”, ma non consente allo stesso di negare la commissione del reato 10. Ultimo elemento da valutare è che sia il Model Penal Code sia alcune norme statali non autorizzano il ricorso alla defense nei casi di lesioni personali provocate a terzi innocenti 11.

7

È questa la definizione corrente, riportata da E.J. DEVITT & C. B. BLACKMAR, Federal jury Practice and Instructions, vol I, St. Paul, Minn., 3a ed., 1977, § 13.9. 8 AMERICAN LAW INSTITUTE, Model Penal Code, § 2.13. 9 Un autorevole esponenente della dottrina ridimensiona così la rilevanza pratica dell’entrapment: “Entrapment is typically raised and rejected as defense”: così G. FLETCHER, Rethinking Criminal Law, Oxford, 2000, p. 71. 10 In questo senso: W. R. LAFAVE & A. W. SCOTT, Criminal Law, West Pub. Co., St. Paul, Minn., 1995, § 5.2. 11 Model Penal Code, § 2.13.3.

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3. L’approccio “preventivo” degli anni Novanta del secolo XX. Col passare dei decenni l’ambito di utilizzazione dell’intervento delle operazioni undercover si allarga fino ad inglobare oltre ai reati “consensuali”, come la corruzione, anche altri che compromettono interessi privati, come gli street crimes e i white collars crimes. Le tecniche operative cambiano: non più affidate all’iniziativa di singoli investigatori, sono gestite da gruppi di lavoro ben strutturati e coordinati, forniti di adeguati mezzi tecnologici. Il mutamento non è esclusivamente logistico-quantitativo, ma rispecchia un nuovo modo di concepire l’attività di contrasto alla criminalità, centrata sulla intensificazione di interventi non solo repressivi, ma anche “preventivi”, condotti con l’uso di strumenti tecnici d’intelligence, d’indagine e di sorveglianza tanto intrusivi, quanto poco cristallini, comunque ufficialmente giustificati dall’esigenza di fronteggiare nuove forme di manifestazioni criminali altrimenti difficilmente accertabili ex post. Mentre l’attività undercover di intelligence e quella esclusivamente preventiva sono utilizzate per sventare il verificarsi di uno specifico reato (per es., un omicidio o un incendio doloso su commissione) la forma più diffusa e problematica sotto il profilo della tutela del soggetto “provocato”, ma al contempo la più remunerativa quanto a risultati, di attività undercover è sicuramente quella facilitative, cioè agevolatrice. Tale operazione è diretta ad incoraggiare la commissione di un reato ed a bloccare la condotta criminosa nel momento ritenuto più idoneo a consentire l’arresto e/o l’incriminazione del reo, a sequestrare materiale proibito, a recuperare refurtiva o a trasformare il reo stesso in informatore, tenendo conto del fatto che, come abbiamo già osservato, la prospettiva di evitare una condanna è piuttosto angusta, date le limitazioni giurisprudenziali dell’entrapment defense, rimasta sostanzialmente invariata dai tempi del caso Sorrells, successivamente al quale si registra solo un ulteriore intervento significativo da parte della Corte suprema federale con la sentenza Jacobson v. U.S. 12 del 1992. Si tratta di un caso in cui l’imputato, “tentato” per oltre due anni da vari agenti sotto copertura, che gli propongono l’acquisto di pubblicazioni illegali fittizie, acquista materiale pedopornografico proibito, eludendo i controlli del Postal Service: arrestato e rinviato a giudizio, viene condannato dalla giuria che nega la sussistenza dell’entrapment defense. La Corte ribadisce – basandosi sul caso Sorrells – la legittimità dell’attività di agenti e funzionari undercover limitata a fornire mere occa12

Jacobson v. U.S, 503 U.S. 540 (1992).

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sioni o mezzi per commettere reati. In particolare si riafferma che «artificies or stratagems may be employed to catch those engaged in criminal enterprises», ma, al contrario, si puntualizza che i funzionari pubblici non sono autorizzati a predisporre in pratica progetti criminosi e neppure a manipolare la mente di una persona “innocente” allo scopo di disporla a compiere un reato al solo fine di perseguirlo. Nell’ipotesi in cui l’accusa induca taluno a commettere un reato dovrà provare beyond any reasonable doubt che costui nel caso specifico era disponibile a compierlo ancor prima di essere stato contattato per la prima volta dalla polizia. A differenza del caso – il più diffuso nella prassi – dell’acquisto immediato di droga a seguito della semplice offerta della “merce”, in cui è palese la predisposizione dell’acquirente a realizzare il reato, la stessa conclusione non può essere dedotta in quello giunto dinanzi alla Corte suprema. Infatti, solo dopo quasi due anni e mezzo di corrispondenza epistolare diretta a sollecitare l’acquisto di pubblicazioni inesistenti e di insistenti proposte provenienti da diverse organizzazioni fittizie, l’imputato, privo di precedenti specifici in materia (tali non possono essere considerati – ha aggiunto la Corte – eventuali comportamenti leciti, non provocati dagli investigatori, trasformati solo successivamente in reati dal legislatore), ha “ceduto” alle pressioni dei “provocatori” commettendo il reato: in tale contesto non si può affermare che l’accusa sia in grado di provare la predisposizione a delinquere dell’imputato stesso. Inoltre l’attività dell’agente undercover non implica, sotto il profilo della liceità, la necessità di iniziarla sulla base di “ragionevoli sospetti”, mentre la sua conduzione, oltre che nella case law sopra riportata, si basa anche sulla legislazione federale. In particolare risulta significativa in proposito una norma del 1988 relativa al reato di moneylaundering (riciclaggio di denaro), che punisce “chiunque, con l’intento di condurre una specifica attività illecita, di nascondere o dissimulare la natura, la ubicazione o la fonte, la proprietà o il controllo di beni ritenuti provento di specifiche attività illecite [...] conduce o tenta di condurre una transazione finanziaria relativa ad un bene rappresentatogli (represented) come provento di una specifica attività illecita, o usato per intraprendere o agevolare specifiche attività illecite”. La legge in questione, utilizzando il termine “represented”, circa la legittimazione dell’attività undercover, fornisce la definizione ai fini della sua stessa applicazione: “qualsiasi rappresentazione fatta da un ufficiale di polizia o da un’altra persona che agisca sotto la direzione o l’approvazione di un funzionario federale autorizzato a investigare o a esercitare l’azione penale per i reati oggetto della legge in questione” 13. 13

18 U.S.C. § 1956 (a) (3). Identico significato va attribuito alla locuzione “represen-

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Vittorio Fanchiotti

4. Un modello “creativo” di operazioni undercover: le fictional stash houses. Il 2011 costituisce uno spartiacque nella recente storia delle tipologie di operazioni undercover: da quella data inizia a far ricorso su larga scala alle operazioni in questione, sia pur con modalità fino ad allora inedite e in qualche misura “eccentriche”, anche l’U.S. Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (A.T.F.), un corpo di polizia federale istituito nel 1972 all’interno del U.S. Department of Treasury e trasferito (con l’aggiunta “and Explosives” nella sua denominazione ufficiale) nel U.S. Department of Justice a seguito delle tragiche vicende del 2001, con lo scopo di combattere il contrabbando, ma soprattutto la proliferazione illegale di armi da fuoco e di esplosivi, fenomeno ormai cronicamente grave ed inquietante per la gestione dell’ordine pubblico negli U.S.A. L’A.T.F. ufficialmente dovrebbe dedicarsi alle “attività d’istituto” per cui è stata creata, cioè il contrasto alle violazioni in materia di armi e non di droga, la cui repressione rientra nelle attribuzioni di un altro organo di polizia federale, la Drug Enforcement Administration (D.E.A.), istituita nel 1973, anch’essa alle dipendenze dell’U.S. Department of Justice: una norma federale, varata nel 2002, attribuisce però non solo ai componenti dell’A.T.F., ma anche ad ogni altro agente appartenente ai vari organismi di polizia federale la facoltà di procedere ad arresti, perquisizioni e sequestri in relazione a “qualsiasi reato previsto dalla legislazione federale che sia avvenuto in sua presenza” 14. Avvalendosi di tale competenza “indiretta”, pur utilizzata in una forma, a dir poco, disinvolta e strumentale, ma gravida di pesanti conseguenze a livello sanzionatorio, l’A.T.F. ha escogitato un fantasioso schema di operation sting 15, consistente nel servirsi di “finte case-deposito di droga”, denominate “fictional drug stash houses” per far credere a soggetti preventivamente individuati – sulla base di indicazioni provenienti da informatori – come trafficanti di droga, che in un determinato locale, la stash house appunto, si trovino immagazzinati quantitativi ingenti di sostanze stupefacenti, custodite da gangsters armati, destinate ad essere ted” contenuta anche in un altro reato, previsto nello stesso articolo 18 U.S.C. § 1956 (2). 14 18 U.S.C. § 3051. 15 “Operation sting”, letteralmente “operazione pungiglione”, è un’espressione di uso comune non solo nel gergo ma anche nel “linguaggio” ufficiale e nella manualistica della polizia statunitense per indicare l’attività di provocazione diretta nei confronti di un soggetto già orientato a commettere un reato, per “favorirne” il passaggio all’azione.

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smistate ai “grossisti” della zona. In realtà la notizia è falsa, ma viene fatta circolare negli ambienti degli spacciatori di stupefacenti in modo far venire allo scoperto i soggetti interessati al “business”: si tratta di un trabocchetto predisposto per incentivare l’organizzazione di delitti immaginari, ma che consente di arrestare, processare e far condannare spacciatori locali, nazionali o internazionali, a seconda della quantità e qualità della droga asseritamente immagazzinata nelle houses stesse. Per la verità, agli esordi della pratica le operazioni coinvolgevano stash houses “reali”, presidiate da gangsters in carne ed ossa, ove effettivamente era nascosta “vera” droga: col passar del tempo l’A.T.F. per evitare pericolosi “effetti collaterali” in termini di rischio per l’incolumità degli agenti coinvolti e per quello di ingenti furti di droga, ha preferito trasformare le operazioni stesse nell’attuale versione meramente “virtuale” in relazione allo scenario del crimine. Normalmente lo schema operativo degli agenti dell’A.T.F. è standardizzato e congegnato in modo da minimizzare i rischi e massimizzare i “profitti”: un undercover agent, di solito a seguito della “soffiata” di qualche informatore, si infiltra in una (presunta) gang di trafficanti e propone loro di andare a rapinare una stash house per impossessarsi della droga custodita all’interno di essa, “neutralizzandone” i guardiani con l’uso di armi da fuoco, sul presupposto, previsto nel “copione” elaborato dall’agente infiltrato, che siano armati anche questi ultimi. Se i soggetti “adescati” accettano di organizzare l’“affare”, programmano la relativa “operazione”, reclutando un team di complici, dotandosi delle armi da fuoco occorrenti (normalmente procurandone anche all’infiltrato che – sempre come da copione – afferma di esserne momentaneamente sprovvisto, ma di averne necessità per l’irruzione nella stash house) e dei paraphernalia normalmente utilizzati per commettere una rapina (copricapi del tipo “passamontagna”, guanti, ecc.). Nello “schema-tipo”, l’agente dell’A.T.F., una volta terminata nei minimi particolari la messa a punto del “piano d’attacco”, si riserva di convocare ad horas i potenziali rapinatori, per effettuare “il colpo” appena verrà a sapere che un nuovo consistente quantitativo di droga sarà depositato nella stash house. Quando scatta l’“ora X”, fissata ad libitum dall’undercover agent, tutti i concorrenti convergono nel luogo d’incontro prestabilito e ancor prima di salire a bordo delle autovetture destinate a condurli alla loro meta, vengono arrestati dai colleghi dell’agente undercover, appena questi si allontana dai “complici” con la scusa di una chiamata telefonica.

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Vittorio Fanchiotti

5. La limitazione delle garanzie difensive dell’imputato conseguente alle eccessive potenzialità sanzionatorie del modello. La mancata rapina, in quanto tale, se non è in grado, di lasciare alcun segno nella cronaca nera dei media, produce al contrario una traccia assai profonda nelle vicende giudiziarie dei mancati rapinatori: costoro, infatti, possono essere incriminati e condannati per una serie consistente di reati federali. Questi innanzitutto comprendono tre ipotesi di conspiracy, cioè di accordo per commettere un reato, che nel sistema statunitense non richiede per la sua perseguibilità un “overt act” diretto a commettere il reato cui afferisce 16. Nel caso specifico i reati sono quelli di possesso di sostanze stupefacenti al fine di spaccio (21 U.S.C. § 841) e di intralcio o ostacolo al commercio interstatale mediante rapina (18 U.S.C. § 1951) e di uso di un’arma da fuoco durante una rapina (18 U.S.C. § 924 (c)(1)(A)): per i primi due la pena per la conspiracy coincide con quella per il reato consumato o tentato 17. Il primo comporta una “pena base” di vent’anni di carcere, che può essere aggravata in ragione della quantità e della qualità della sostanza stupefacente relativa al caso specifico, ma che non può mai scendere sotto di quella soglia, a prescindere dall’esistenza di circostanze attenuanti: si tratta di ipotesi di “mandatory minimum sentences”. Nei casi di sting operations di cui ci occupiamo, non esistendo nessuna droga “reale” su cui basare la commisurazione, quest’ultima coincide con quella “dichiarata” dall’agente undercover per convincere i potenziali rapinatori a partecipare al reato “virtuale”, cioè alla rapina della stash house inesistente, parto della sua fantasia: normalmente l’agente in questione fa riferimento a quantità di droghe “pesanti” eccedenti i venti chilogrammi, in modo da ottenere in sede di sentencing (determinazione della pena) una sanzione superiore ai vent’anni ed, in caso di plea bargaining dell’imputato, da condurre il negoziato sulla dichiarazione di colpevolezza da una posizione di particolare forza contrattuale. Con la detenzione fino a vent’anni è punita anche la conspiracy per commettere una rapina (18 U.S.C. § 1951), mentre quella per l’uso di un’arma da fuoco durante un traffico di droga (18 U.S.C. 924 (c) (1) (A)), è punibile da cinque a venticinque anni, a seconda del tipo di arma. Infine, se l’“adescato” ha subìto in precedenza una condanna per felony (reato punito con la detenzione superiore ad un anno), commette anche il reato 16 17

Cfr. M. PAPA, Conspiracy, in Dig. disc. pen., III, Utet, Torino, 1989, p. 94 ss. Cfr., rispettivamente, 21 U.S.C. 843 e 18 U.S.C. 1951 (a).

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di possesso di un’arma da fuoco da parte di un felon (18 U.S.C. § 922 (g) (1)), punibile con la detenzione fino a dieci anni. Ulteriori situazioni possono appesantire le pene previste per la conspiracy: ad esse, infatti, possono sommarsi quelle per il tentativo, relativamente ai reati per cui sussiste la conspiracy stessa (i c.d. target crimes), qualora i “rapinatori” siano arrestati non già prima di “partire” per la rapina immaginaria, come normalmente avviene, ma successivamente, mentre si stanno dirigendo verso la stash house. Appare chiaro come la polizia nel decidere il momento del suo intervento possa incidere in modo determinante sul futuro processuale dei “provocati” fino a peggiorarne la situazione detentiva in termini addirittura di decenni. Il modello operativo e sanzionatorio basato sull’“invenzione” delle stash houses è solitamente, come si è detto, ritenuto lecito e, comunque, tollerato dalla giurisprudenza unicamente quando è utilizzato nei confronti di soggetti con precedenti penali in materia di stupefacenti. Il punctum dolens delle operazioni in esame, analogamente a quelle relative alla pedopornografia e al money-laundering, attiene innanzitutto all’individuazione della soglia minima che l’imputato deve superare per rientrare nell’ambito della “causa di giustificazione” dell’entrapment. Nell’ultimo quinquennio è affiorato un altro difetto “sistemico” nell’uso delle sting operations relative alle stash houses “immaginarie”: alcune Courts of Appeals federali, dopo essersi dichiarate pienamente consapevoli dell’impossibilità di stabilire standards oggettivi al riguardo 18, hanno posto il problema della necessità di un controllo di legittimità delle operazioni in questione sotto il profilo del V Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, secondo cui «nessuno può essere privato della vita, della libertà e dei suoi beni senza due process of law». La due process clause vieta infatti alla pubblica accusa di strumentalizzare l’uso della giustizia al fine di ottenere una condanna mediante una condotta “outrageous”, da intendersi come immorale, scandalosa, scellerata o tale da suscitare indignazione, come aveva già affermato al Corte suprema negli anni Settanta del secolo scorso 19. L’intento non outrageous dell’operato dell’accusa può ricavarsi in base ad alcuni criteri, individuabili nella circostanza che l’imputato sia stato in precedenza coinvolto in una serie di reati simili o che l’organizzazione criminale fosse già “attiva” quando vi si inserisce l’undercover agent, la cui condotta non dev’essere comunque necessaria per permettere all’imputato 18

Recentemente in questo senso: U.S. v. Black, 733 F.3d 232 (9th Cir. 2013). 19 U.S. v. Russell, 411 U.S. 431-432 (1973).

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di portare a termine la sua attività illecita. In queste operazioni – secondo i dettami tradizionali della giurisprudenza sopra richiamata – l’agente può avvalersi di raggiri e stratagemmi per smascherare l’attività delinquenziale in itinere, inserendosi all’interno di un’organizzazione criminale preesistente: quest’ultima dev’essere quindi composta da soggetti che già stiano organizzando o conducendo attività penalmente illecite 20. In seguito la stessa giurisprudenza d’appello ha reso più flessibile la valutazione dei parametri prefissati, introducendone uno ulteriore, fondato sulla “totalità delle circostanze” del caso specifico alle quali dovrà far riferimento il giudice e non più necessariamente sulla compresenza di ciascuna di esse, individuabili in relazione alle caratteristiche dell’imputato, alla presenza di sospetti “individualizzati” nei suoi confronti, al tipo di incoraggiamento proveniente dalla polizia, alla natura della partecipazione di quest’ultima alla condotta illecita, al tipo del reato da perseguire e al carattere necessario delle operazioni svolte, in rapporto alla natura dell’organizzazione criminale in oggetto. L’onere stesso di provare che la condotta dell’undercover agent non abbia superato la soglia dell’entrapment defense grava ora sull’accusa 21. Il criterio della totalità delle circostanze si configura come un meccanismo che, amplificando molto i poteri di chi dovrà decidere sulla sua sussistenza, pone dei problemi soprattutto nell’ipotesi in cui si giunga alla fase dibattimentale ove il fact finder sarà costituito dalla giuria, la quale facilmente potrà essere influenzata dalla scarsa precisione del criterio stesso e quindi incontrare una particolare difficoltà nel giungere ad una decisione unanime in proposito, con la conseguenza di dar luogo ad un mistrial, con il rischio della celebrazione ex novo del dibattimento (anch’esso dagli esiti incerti) di fronte ad una diversa giuria, anche se in buona parte dei casi i castelli di carta costruiti dagli eccessi di zelo della polizia facilmente saranno destinati a crollare di fronte al buon senso dei giurati. Il problema dell’efficacia del criterio in questione va piuttosto rinvenuto nelle ipotesi in cui il procedimento penale si concluda con un plea bargaining – evenienza che riguarda circa il 97% 22 dei casi – che consente al 20

U.S. v. Bonanno, 852 F.2d 434 (9th Cir. 1988). U.S. v. Black, 733 F.3d 294 (9th Cir. 2013). 22 ADMINISTRATIVE OFFICE OF THE U.S. COURTS, Judicial Business of The United States Courts: 2010 Annual Report of the Director, p. 242-45 tav. D-4 (2010), secondo il quale degli 89,741 imputati che sono stati condannati e sottoposti a pena nella giurisdizione federale nel 2010, il 97.4% si sono dichiarati colpevoli, il 2.3% (2066) sono stati condannati a seguito di un jury trial e meno dello 0.3% (257) sono stati condannati a seguito di un bench trials. Nelle giurisdizioni statali la percentuale dei jury trials si aggira intorno al 95% dei casi. 21

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prosecutor di giocare a carte coperte, soprattutto nel sistema federale, “bluffando” 23 sulla consistenza degli elementi probatori raccolti a carico dell’imputato per “convincerlo” a dichiararsi colpevole in cambio di uno sconto di pena che nel caso delle sting operations basate sulle fictional stash houses può apparire formalmente molto appetibile, stante il livello elevatissimo delle sanzioni in astratto applicabili, come si è detto, in simili casi e del fatto che i reati di cui tratta prevedono un elevato mandatory minimum, cioè obbligatoriamente la comminazione di un periodo minimo di esecuzione della pena detentiva molto lungo. Più in generale il criterio della totalità delle circostanze nella storia della giurisprudenza statunitense è considerato un meccanismo utilizzato per diluire e sgretolare diritti e garanzie dell’imputato di recente introduzione: esempio eloquente è l’uso fattone dall’Omnibus Crime Control and Safe Street Act 24 nel 1968 per indebolire (se non “abrogare” come risulta dai lavori preparatori dell’Act) la portata della decisione Miranda v. Arizona emessa due anni prima dalla Corte suprema federale. A pochi mesi di distanza si è realizzata una nuova apertura per l’ingresso nella defense in questione: una U.S. Court of Appeals, infatti, verso la fine del 2014, ha annullato una condanna a ventisei anni di detenzione per una rapina commessa ai danni di una stash house (ovviamente “immaginaria”) a Chicago, perché durante il dibattimento il presiding judge non aveva permesso all’imputato di fornire alla giuria la prova di essere stato vittima di un entrapment 25 ordìto dalla polizia.

6. L’affiorare del carattere discriminatorio delle operations sting nei confronti delle minoranze etniche: le reazioni dei giudici e del potere esecutivo. Ancora a Chicago, nell’anno successivo, il 2015, è stata introdotta una nuova significativa limitazione all’uso delle operations sting da parte della 23

Già nel 1968 uno dei più autorevoli critici del fenomeno del plea bargaining denunciava la diffusione della pratica: A. ALSCHULER, The Prosecutor’s Role in Plea Bargaining, in 36 University of Chicago Law Review, 1968, p. 50. 24

18 U.S.C. § 3501. La situazione è rimasta pressoché immutata fino ai giorni nostri. In realtà la decisione si fonda sul leading case U.S. v. Kindle, deciso nel 2012 dalla stessa U.S. Court of Appeals for the 7th Circuit, con competenza territoriale su Chicago. 25

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polizia per i reati di droga. Nella vicenda in questione tuttavia il protagonista è addirittura un U.S. Attorney, cioè il “pubblico ministero” di Chicagoland, il quale ha ordinato il dismissal (cioè l’“archiviazione”) di ben ventisette dei trentatre casi di rapine ai danni di pretese stash houses pendenti nella fase delle “indagini preliminari”, motivando i provvedimenti adottati col carattere apertamente discriminatorio cui la polizia ha fatto ricorso nell’individuare i soggetti da “adescare”. I “prescelti” erano, infatti, per il 90% di origine afroamericana o latinoamericana, ossia provenivano da due comunità che, complessivamente, costituiscono solamente il 25 % dell’intera popolazione rientrante nella competenza dell’U.S. District Court presso cui opera l’U.S. Attorney stesso 26. La messa a fuoco degli aspetti discriminatori emersi nella conduzione delle operations sting rispecchia l’attuale presa di coscienza a livello ufficiale dell’annoso problema – riscontrabile non solo nell’operato delle forze di polizia, sia federali che statali e locali – dell’overcriminalisation delle minoranze etniche, riflesso nella circostanza della “sovrarappresentazione” di queste ultime nel novero degli arrestati, degli imputati e dei condannati rispetto alla loro reale consistenza numerica nell’ambito della popolazione complessiva 27. Tale tema è tragicamente venuto alla ribalta dopo l’uccisione ad opera della polizia nel Missouri, a New York e in California di tre afroamericani inermi, cui ha fatto seguito il proscioglimento degli imputati, tutti caucasians (cioè bianchi) da parte di grand juries, anch’esse prevalentemente composte da jurors bianchi 28. Purtroppo le indagini avviate dalle autorità federali, volte a chiarire eventuali profili discriminatori, se non apertamente razzisti negli “incidenti” sopra riportati, non sono state sufficienti a spezzare la catena degli omicidi da parte della polizia nei confronti di afroamericani inermi: è del pomeriggio del 7 aprile 2015 la notizia della contemporanea “messa in rete” di una videoregistrazione effettuata da un passante che mostra come l’uccisione di Walter Scott, un cinquantenne afroamericano, padre di due figli, avvenuta a New Charleston in South Carolina nella mattina di tre giorni prima di Sabato Santo, in occasione di un controllo stradale di routine al quale Scott aveva cercato di sottrarsi scappando e inizialmente attribuita, in maniera piuttosto confusa, dalle autorità 26

M. TARM, Federal Prosecutors drop dozen of Stash House Stings Charges, in Associated Press, Release, January 30, 2015. 27

Sul tema: M. ALEXANDER, The New Jim Crow, Mass Incarceration in the Age of Colorblindness, The New Press, New York (N.Y.), 2012. 28 Volendo: V. FANCHIOTTI, Il grand jury: un’arma a doppio taglio?, in Dir. pen. proc., 2015, p. 356 ss.

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locali di polizia all’uso improprio da parte di un poliziotto bianco di un taser (una “pistola elettrica”), sia in realtà stata la conseguenza di numerosi colpi di pistola sparati alla schiena della vittima, quando si trovava fuori della gittata del taser stesso. La palese dinamica dei fatti (dopo l’uccisione, tra l’altro, la vittima viene ammanettata e il suo corpo rimane a lungo sull’asfalto) ha portato il responsabile della polizia locale a riconoscere le responsabilità dello sparatore, destituito, arrestato e imputato per omicidio volontario (per cui rischia la pena capitale o l’ergastolo). Non a caso anche a New Charleston il 46% degli abitanti sono afroamericani e il 43% bianchi, pur essendo il South Carolina uno Stato in cui due terzi della popolazione è bianca 29. La Civil Rights Division dell’U.S. Departement of Justice e l’U.S. Attorney hanno aperto un’inchiesta sull’episodio 30, come già era avvenuto all’indomani dei fatti di Ferguson, Staten Island e della California. Va però osservato come nel caso di Ferguson l’autorità federale abbia terminato la propria indagine giungendo alla conclusione che, pur utilizzando la polizia locale standard di comportamento senza dubbio discriminatori nei confronti degli afroamerican, nel caso specifico l’agente responsabile della morte di Michael Brown a Ferguson in Missouri, non poteva essere perseguito a livello federale in quanto ai fini di un processo per violazione dei diritti civili della vittima mancava la prova dell’elemento soggettivo del dolo dell’agente stesso, non essendo punibile nell’ordinamento federale il reato di manslaughter, corrispondente grosso modo al nostro omicidio colposo. Lo stillicidio di morti di cittadini afroamericani – che nel 2015 ha rappresentato il 40% dei soggetti disarmati uccisi dalla polizia, pur rappresentando i primi solo il 6% della popolazione degli Stati Uniti 31 – è purtroppo tragicamente proseguito e non sembra destinato a cessare, come dimostrano i casi accaduti nei primi sei mesi del 2016. Neppure sembra che a tutt’oggi la possibilità di addivenire all’accertamento delle responsabilità nei casi di uccisioni da parte della polizia abbia fatto progressi significativi. Al contrario, in un caso analogo verificatosi nel Maryland a Baltimora nel 2015 che provocò la morte di Freddie Gray, cagionata dalle lesioni alla spina dorsale riportate mentre si trovava amma29

M. BERMAN-W. LOVERY-K. KINDY, South Carolina Police Officer charged with murder after shooting man during traffic stop, in The Washington Post, April 7, 2015. 30 Nel luglio 2016 un grand jury ha rinviato a giudizio l’agente di polizia indagato, ma il prosecutor ha annunciato l’archiviazione. 31

S. SOMASHEKHAR, A year after Michael Brown’s Fatal Shooting, Unarmed Black Men are Seven Times More than Whites to die by Police Gunfire, in The Washington Post, Aug. 8, 2015.

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nettato, e con i piedi incatenati ma non allacciato ad alcuna cintura di sicurezza, come richiesto dai regolamenti, sul pavimento di un furgone della polizia sottoposto a bruschi movimenti durante il tragitto verso la stazione di polizia, il prosecutor, un’afroamericana, annunciò subito la sua intenzione di perseguire i sei ufficiali di polizia responsabili del fatto, ma per uno degli imputati il jury trial non giunse ad una conclusione unanime sulla responsabilità, mentre uno degli altri, che chiese di essere giudicato con un bench trial, cioè da un giudice monocratico togato anziché da un giuria popolare, venne assolto 32. A questo punto il prosecutor decise di “archiviare” il procedimento nei confronti degli altri imputati, i quali però promossero un’azione civile davanti alla giurisdizione federale dei suoi confronti per “malicious prosecution”, cioè per aver esercitato l’azione penale non suffragata da sufficienti elementi probatori e motivata da intenti discriminatori 33. Se l’ipotesi di ritorsioni nei confronti dell’accusa che “si intromette” nelle pratiche usate dalla polizia è piuttosto infrequente, non va peraltro dimenticato come gli organismi di polizia usufruiscano, quando sono sottoposti ad un’indagine sulla propria attività, di un regime privilegiato rispetto a quello riservato all’imputato “comune”: infatti, essi sono tutelati nella maggioranza degli Stati, tra cui il Maryland (il primo Stato ad intervenire in proposito con una legge del 1972), da un vero e proprio “Law Enforcement Officers’Bill of Rights”, il quale prevede che l’ufficiale di polizia, qualora tenga un comportamento passibile di conseguenze disciplinari e penali, sia sottoposto, anche se si trova in stato di arresto, in prima battuta, e solo dopo il passaggio di un certo intervallo di tempo, che può durare fino a dieci giorni per consentirgli di “cooling off” (cioè di “calmarsi”: in realtà i critici insinuano che tale intervallo di tempo serva a “costruire” una versione dei fatti favorevole a sé 34), ad un interrogatorio che si dovrà svolgere ad un ora “ragionevole” da parte di un solo funzionario dell’amministrazione di appartenenza, per un periodo di tempo “ragionevole”, 32

La maggior parte degli Stati, tra cui il Maryland, consentono all’imputato di rinunciare al diritto al dibattimento davanti alla giuria: di tale rinuncia è fatto spesso un uso strumentale per sottrarsi all’organo giudiziario popolare che, in casi come il presente, può in parte essere composto dal gruppo etnico cui apparteneva la vittima. Alcuni ordinamenti consentono il bench trial solo previo consenso del prosecutor e con l’autorizzazione del giudice. Tra questi l’ordinamento federale: cfr. Fed. R. Crim. P. 23 (a). 33

D. DONOVAN, Baltimore Police Officers Cleared in Freddie Gray Case Return to Uncertain Future, in The Baltimore Sun, July 30, 2016. 34 W. OLSON, Police Misconduct and Law Enforcement Officers’ Bill of Rights’ Laws, in Cato at Liberty, April 24, 2015.

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adattandolo alle necessità personali e con le interruzioni “ragionevolmente” necessarie all’interessato e previa informazione degli addebiti a suo carico e con l’assicurazione che le dichiarazioni indizianti eventualmente rese non potranno essere utilizzate nei suoi confronti nell’eventuale successivo processo penale 35: un insieme di garanzie ben più ampie di quelle offerte all’imputato arrestato in sede di interrogatorio di polizia, che consente al funzionario di annullare la valenza di prova a suo carico delle dichiarazioni rese durante l’interrogatorio stesso 36. La presa in carico del problema razziale non è appannaggio della sola giurisprudenza federale e di qualche U.S. Attorney, espressione, sia pure indiretta, della politica criminale dell’Esecutivo. Infatti sull’argomento lo stesso Presidente degli Stati Uniti è intervenuto direttamente sul tema il 31 marzo 2015 con un provvedimento “personalizzato” di “clemenza”, o commutation of sentence (che prevede comunque una sorta di supervised release, cioè di libertà vigilata) nei confronti di ventidue detenuti in carceri federali in esecuzione di pene severissime (alcune al di sopra dei trent’anni, una di trentacinque, una all’ergastolo) per reati non violenti in materia di droga. In proposito va ricordato che nell’ordinamento federale circa il 50% dei detenuti sta scontando pene relative al traffico stupefacenti, mentre a livello statale solo il 15 % 37. Un analogo provvedimento è stato adottato nei confronti di altri quarantasei detenuti, il 13 luglio 2015. Si tratta sempre di casi di reati commessi senza il ricorso alla violenza, collegati al commercio di crack cocaine, sostanza stupefacente nel cui spaccio sono “tradizionalmente” coinvolti quasi esclusivamente appartenenti alla minoranza afroamericana e le cui pene sono elevatissime: il possesso ai fini di spaccio di “crack” è sanzionato con una pena notevolmente più severa rispetto a quella comminata per la “semplice cocaina”. Obbiettivo del Presidente, riflesso in una modifica

35

2010 MARYLAND CODE, Public Safety Title 3 – Law Enforcement, subt. 1, Law enforcement Officers’Bill of Rights, Sect. 3-104, Investigation of law enforcement officers. Il Maryland fu il primo stato ad approvare tale tipo di legislazione, dopo che alcuni anni prima, nel 1967 la Corte suprema nel caso Garritty v. New Jersey, aveva riconosciuto, in un processo riguardante falsi commessi nella contestazione di contravvenzioni stradali, anche agli agenti di polizia, il godimento delle garanzie previste un anno prima dal caso Miranda v. Arizona. 36

Per una panoramica dei “privilegi” che evitano agli apparenti alle forze di polizia di rispondere dei loro illeciti non solo in sede penale, ma anche disciplinare: BALKO, The police officers’bill of rights, in The Washington Post, April 24, 2016. 37

E.A. CARSON, Prisoners in 2014, U.S. Dept. of Justice, Washington D.C., 2015, t. 17.

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legislativa del 2010, il Fair Sentencing Act, non applicabile però retroattivamente, è stato quello, condiviso in parte a livello bipartisan, di abbassare il rapporto sanzionatorio tra i due tipi di sostanza stupefacente, portandolo da 100 a 1 a 18 a 1 e di scarcerare, ove possibile, le migliaia di detenuti che attualmente stanno scontando una pena stabilita secondo la ratio precedente, riducendo il gap che grava sul sistema giudiziario in danno delle minoranze etniche: si tratta di un primo passo molto rilevante nell’adeguamento della giustizia penale all’ideale della “nuova Selma” 38. Il provvedimento presidenziale è stato adottato anche sotto l’egida del Clemency Project, creato nel 2014, sponsorizzato da un’ampia gamma di enti nonprofit e di organizzazioni professionali forensi, tra cui figura, in primo piano, la prestigiosa American Bar Association, l’associazione privata di giuristi che vanta oltre un milione di aderenti tra avvocati, giudici e prosecutors, federali e statali: l’idea di partenza è che il sistema sanzionatorio eccessivamente severo anche in riferimento a reati i quali, pur gravi, non implicano violenza rappresenti uno spreco non solo di risorse umane – in primis quelle dei detenuti per reati non violenti – e di costi, anche materiali, per le loro famiglie e per la società, su cui incombe necessariamente l’onere di accollarsi il mantenimento per decenni dei detenuti stessi 39.

7. Le critiche in chiave di law and economics all’uso delle fictional stash houses. Contro l’uso delle “finte” stash houses hanno preso posizione anche autorevoli giuristi: tra questi si segnalano Richard Posner, al tempo stesso giudice di una U.S. Court of Appeals e docente universitario a part-time presso l’University of Chicago, di orientamento prevalentemente conservatore e cultore dell’approccio economico al diritto. È proprio da questo background culturale che una opinion del 2012 della U.S. Court of Appeals for the 7th Circuit (coincidente, grosso modo, con l’Illinois), redatta all’unanimità 40 da un collegio presieduto da un altro senior lecturer della stessa 38

THE WHITE HOUSE, OFFICE OF THE PRESS SECRETARY, Daily Press Briefing by the Press Secretary Josh Earnest, April 1, 2015. 39

L. LAIRD, President Obama commutes sentences of 22 drug offenders, in www. americanbar.org, April 3, 2015. 40 Eccezion fatta per una breve e informale dissenting opinion del terzo componente del collegio, estensore anche della majority opinion, relativa alla opportunità di effettuare un

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Università, Frank Easterbrook, anch’egli storico esponente dell’approccio alla giustizia in chiave di “law & economics”, pur nella variante facente capo alla “corrente” degli econometricians 41, muove due serrate critiche al fenomeno in esame. Nell’opinion della decisione in primo luogo viene formulata l’osservazione che, mentre nei casi di operazioni undercover in materia di terrorismo la polizia, in particolare l’F.B.I., utilizza degli indicatori (riportati e catalogati in appositi manuali) relativamente attendibili, idonei a stabilire “simpatie” di un soggetto per determinati gruppi terroristi, l’A.T.F., in materia di contrasto al traffico di stupefacenti non si preoccupa affatto di accertare né ciò che le persone “adescate” facciano prima del “colpo” loro prospettato o pensino di fare dopo. Si tratta spesso – come nel caso sub judice – di persone con una precedente occupazione onesta che, condannate a pene eccessive (nel caso concreto cinque anni sarebbero stati adeguati, anziché i venticinque effettivamente comminati), dovranno essere mantenute dai contribuenti per un quarto di secolo, senza alcuna ragione plausibile 42. Inoltre l’opinion evidenzia le storture prodotte dalle operations sting nella lotta al traffico di stupefacenti, osservando come in realtà esse non raggiungono affatto il risultato di ridurre lo spaccio e il consumo di droga. Le rapine alle stash houses, quando sono “pilotate” dalla polizia ma non sono fittizie, in realtà non sottraggono stupefacenti dal mercato, dal momento che la droga fatta trovare nel deposito per essere rapinata costituisce già oggetto di sequestro e, quindi non è frutto di nuova importazione o di “fresca” confezione. Anche quando le rapine sono del tutto fittizie, il risultato non cambia: l’operation sting ottiene solo il risultato di togliere dalla circolazione un potenziale rapinatore (ammesso che non si tratti di un soggetto sprovveduto, intrappolato dalla polizia in un business a lui estraneo, cui ha accettato di partecipare spinto unicamente dalla prospettiva di raggranellare un po’ di denaro “facile”) di stash houses, rendendo queste ultime più sicure, anche perché un “vero” rapinatore, avvertito della politica dell’A.T.F., diffiderà di ogni offerta di rapina ad una stash house, temendo di cadere in una trappola ordita ai suoi danni. La maggior sicurezza delle “vere” stash houses comporta anche un abbassamento dei costi e secondo giudizio nei confronti di uno dei coimputati, cui non era stata consentita in maniera soddisfacente la possibilità di far valere l’entrapment defense. 41

Per una critica della teoria econometrician di Easterbook sulla giustizia penale, Cfr. V. FANCHIOTTI, Spunti per un dibattito sul plea bargaining, in E. AMODIO-M.C. BASSIOUNI (a cura di), Il processo penale negli Stati Uniti d’America, Giuffrè, Milano, 1988, p. 292 ss. 42 U.S. v. Kindle, 698 F. 3d, 416 (2012).

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quindi dei prezzi della “merce”, ampliandone la domanda e aumentandone la vendita e il consumo. Ironicamente conclude l’opinion «The operators of stash houses would pay law enforcement [cioè la polizia] to sting potential stash house robbers» 43.

8. L’immaginazione poliziesca difende le sue “invenzioni”. Nonostante le prese di posizione sopra riportate, convergenti verso un drastico ridimensionamento se non un totale “trasloco” dalle stash houses verso tecniche di indagini undercover più affidabili e meno discriminatorie e dannose, è tutt’ora in corso un braccio di ferro tra A.T.F. (spalleggiata da alcuni prosecutors) e giudici, segno di come sia tutt’altro che facile rinunciare agli incentivi derivanti dal condurre iniziative investigative “a buon mercato”, prive di rischi reali e al tempo stesso altamente “remunerative” nella valutazione a livello statistico della “produttività” dell’ufficio, soprattutto in aree geografiche in cui il traffico di stupefacenti di buona qualità è particolarmente fiorente. È il caso della California, ove tra Los Angeles e Tijuana in Messico esiste una sorta di pipeline in cui “scorre” la cocaina più pura del centro-nord America. Ne è un esempio eloquente un processo federale in corso in California in cui il prosecutor ha recentemente richiesto alla Corte d’appello di revocare il provvedimento di dismissal (“archiviazione”, come si è detto sopra) nei confronti di quattro imputati, ritenuti dall’accusa pericolosi spacciatori: costoro si sono dichiarati colpevoli di fronte al giudice della U.S. District Court per reati più lievi di quelli oggetto dell’imputazione, nella speranza – secondo l’opinione dello stesso giudice – di evitare pene sproporzionate per reati “immaginari”. Conseguentemente, il medesimo giudice della Court ha quindi considerato non valida la dichiarazione di colpevolezza e “archiviato” sua sponte, cioè in assenza di una richiesta del prosecutor, il caso. L’organo dell’accusa ha risposto chiedendo di dare esecuzione specifica alla dichiarazione di colpevolezza e, quindi, di procedere alla determinazione della pena (sentencing), da effettuarsi da parte di un giudice diverso da quello della U.S. District Court che aveva disposto il dismissal. La richiesta è motivata dal fatto che, quest’ultimo, secondo il prosecutor, aveva in precedenza rigettato le dichiarazioni di colpevolezza e disposto “d’ufficio” il dismissal degli imputati, durante una serie di udienze nelle quali si 43

U.S. v. Kindle, cit.

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era registrata una contrapposizione tra le posizioni del giudice stesso e del prosecutor che avrebbe rivelato un’eccessiva animosità del giudice – ma sicuramente non eccedente i limiti della hot adversariness propria del processo statunitense (tanto più che nel caso in questione lo scontro è tra un giudice ed un prosecutor, trattandosi di una fase procedurale, quella del sentencing, ex parte, ove il giudice non riveste quel ruolo passivo di arbitro imparziale che ne caratterizza la condotta durante il dibattimento) – il quale aveva chiesto al secondo perché tra gli imputati non figurasse anche l’agente undercover che aveva ordito la trama virtuale della rapina alla stash house immaginaria, da considerarsi come integrante in pieno non solo un’ipotesi di entrapment, ma di vero e proprio concorso nella conspiracy relativa al reato 44. In realtà la pretesa animosità del giudice, se letta con la “freddezza” della decisione del 2012 della corte d’appello di Chicago, di cui sopra si è detto, altro non rivelerebbe che la semplice contrarietà a tecniche d’indagine “outrageous”, cui nella calura californiana il giudice di Los Angeles ha cercato di risolvere con un uso forse un poco disinvolto dei suoi poteri. La “soluzione” della controversia non sembra essere ancora vicina: la stagione delle stash houses continuerà ancora per un po’ ad alimentare i “sogni americani” di qualche piccolo delinquente.

9. Ulteriori iniziative dell’Esecutivo federale nei confronti delle “vittime” delle “trappole poliziesche”. Molto recentemente, più precisamente il 27 marzo 2016, a circa un anno dai precedenti provvedimenti di cui si è detto sopra, il Presidente Obama è intervenuto con un ulteriore provvedimento di “clemency” avente ad oggetto la commutation of sentence a favore di ben sessantuno detenuti federali, un terzo dei quali 45 era stato condannato alla pena dell’ergastolo, pur non avendo commesso un reato di violenza: la maggior parte dei beneficiari del provvedimento di “grazia collettiva”, sono “low-level drug offenders” [cioè piccoli spacciatori di droga], le cui condanne – secondo quanto ha affermato lo stesso Presidente degli Stati 44

U.S. v. Roberts, Flores, Garmon, Cortez, U.S. Court of Appeals for the Ninth Circuit, 14-50227, 14-50356. 45 Per l’esattezza ventuno: cfr. S. HORWITZ, President Obama Grants Early Release to 61 More Federal Drug Offenders, in The Washington Post, 30 May 2016 (online ed.).

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Uniti – avrebbero dovuto essere più brevi» 46. «In qualità di Presidente – ha affermato Obama – sto impegnandomi a realizzare un approccio più efficace al sistema della nostra giustizia penale, con particolare attenzione ai reati in materia di stupefacenti. Parte di questo sforzo consiste nel potenziare il nostro “commutations process” e di individuare le persone […] che stanno ottenendo risultati straordinari quando vengono offerte loro delle second chances 47, cioè una seconda possibilità di risocializzarsi, uscendo dall’ambiente delinquenziale grazie ai provvedimenti di “grazia”». Questi ultimi, emanati in diverse forme nell’arco dell’intera durata in carica del Presidente, hanno riguardato ben 306 sentenze di condanna. Nella stessa occasione il Presidente Obama ha assicurato che continuerà ad esaminare le domande di “clemency” pendenti, pur riconoscendo la competenza del Congresso ad intervenire in maniera sistematica per modificare definitivamente e stabilmente (e non case by case come solo può fare un provvedimento clemenziale di commutation da parte del Presidente degli Stati Uniti) il meccanismo sanzionatorio attuale, definito da Barack Obama “particularly overly harsh”, cioè di particolare eccessiva durezza, soprattutto nella previsione dei minimi edittali inderogabili, le c.d. mandatory minimum sentences, relativi alle pene per soggetti non violenti condannati per reati di droga. In questa prospettiva il Presidente auspica uno sforzo bipartisan dei membri del Congresso. Non ha senso – osserva il Presidente – prevedere che un soggetto non violento condannato per stupefacenti debba scontare vent’anni di carcere, o, in alcuni casi l’intera sua vita in prigione: una sanzione del genere non è adatta al delitto cui è applicata («An excessive punishment like that doesn’t fit the crime»): un simile comportamento da parte dello Stato non è utile («is not serving taxpayers») ai contribuenti né ci rende più sicuri. Conclude il Presidente «Come nazione, dobbiamo assicurarci che chi si assume la responsabilità dei suoi sbagli sia messo in grado di rientrare nella sua comunità. Questa è la cosa giusta da fare. Ed è anche la cosa più intel-

46

Il testo dell’annuncio del Presidente, apparso in un post su Facebook, è citato da M. NEIL, Obama more clemency petitions, cut prison sentences for 61 offenders, in www.Aba journal.com, March 30, 2016. 47

L’espressione “second chance” riferita ai detenuti per reati non violenti in materia di stupefacenti era già stata utilizzata un anno prima dal Presidente nella conferenza-stampa tenuta il 13 luglio 2015, “intitolata”: America is a Nation of Second Chances, reperibile sull’Home Blog della White House.

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ligente. Ed è qualcosa a cui continuerò a lavorare fino a quando resterò in carica» 48. È interessante notare come il Presidente risponda personalmente ad ogni detenuto cui concede il provvedimento di clemency e (pur essendo evidente che non si tratti di una lettera “personalizzata”), usi parole che trascendono il carattere “burocratico” della comunicazione ufficiale. Infatti, dopo aver premesso che il potere di concedere “pardon and clemency” (cioè la “grazia” o l’“indulto”) rappresenti uno dei poteri presidenziali più “profound”, che incorpora l’idea fondamentale della democrazia statunitense, secondo cui le persone meritano una second chance dopo aver commesso degli errori nella loro vita che li hanno portati a subire una condanna, la lettera del Presidente contiene espressioni di fiducia e di incoraggiamento nei confronti del liberando: «Ho deciso di accogliere la tua richiesta perché hai dimostrato di essere in grado potenzialmente di cambiare la tua vita. Ora tocca a te ottenere il massimo da questa opportunità che ti viene offerta. Non sarà facile, e ti dovrai scontrare con molti che dubitano che una persona con precedenti penali sia in grado di cambiare vita. Forse neppure tu sei sicuro di come ti adatterai alle tue nuove circostanze di vita. Ma ricordati che tu hai la capacità di fare buone scelte. Se lo farai, tu inciderai positivamente sulla tua vita, ma anche su quella di coloro che ti sono vicini. Tu potrai anche influenzare, attraverso il tuo esempio, la possibilità che anche altri nelle tue circostanze possano ottenere una seconda chance in futuro. Io credo nella tua capacità di dimostrare che i dubbiosi si sbagliano e di cambiare in meglio la tua vita. Buona fortuna e Godspeed (buon viaggio)!» 49. A proposito della lettera appena riportata, non bisogna pensare che essa costituisca un mero esercizio di vieta retorica e di incoraggiamento di maniera. Infatti, lo stesso Presidente ha rivelato pubblicamente, senza falsi pudori 50, che da giovane, aveva fatto uso di sostanze stupefacenti: «Look,

48

B. OBAMA, A Nation of Second Chanches, 5 May 2016, The White House. The President of the United States, The White House, Washington, July 10, 2015 (la lettera è riprodotta sul sito della Casa Bianca: omettiamo, per ovvie ragioni, generalità ed indirizzo del destinatario). 49

50

… a differenza del Presidente Clinton che dichiarò di aver avuto esperimentato l’uso di marijuana occasionalmente “ma senza respirarla”: cfr. M. ALEXANDER, The New Jim Crow, cit., p. 251.

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you know, when I was a kid, I inhaled. Frequently» 51. Un ulteriore intervento di commutations si è avuto nell’ottobre 2016 ed ha riguardato 102 condannati, quasi tutti per reati di droga: tra questi uno condannato all’ergastolo “secco” (cioè senza la possibilità di accedere, dopo un primo periodo di carcerazione, al parole, una sorta di liberazione condizionale), per reato tentato di produzione di anfetamine. Ulteriori provvedimenti di commutation si sono susseguiti nell’ottobre dello stesso anno, uno riguardante 98 detenuti, 42 dei quali condannati all’ergastolo 52 e l’ultimo all’inizio di novembre, riguardante altri 72 detenuti 53. Con l’ultima serie di sentence commutations, l’Amministrazione Obama durante l’intero suo corso ha applicato l’indulto ad un totale di ben 944 detenuti, 134 dei quali condannati all’ergastolo: il numero dei provvedimenti in questione supera il totale di quello raggiunto dalla somma degli analoghi provvedimenti emanati dai sei precedenti Presidenti degli Stati Uniti 54. Degli ultimi detenuti, la cui pena è stata oggetto di “commutation” da parte del Presidente Obama, 135 sono stati aiutati ad usufruire del provvedimento grazie all’operato del Clemency Project 2014, di cui sopra si è detto. Si è così rivelata vincente l’unità di intenti e lo spirito di collabora51 D. HARWELL, Obama Drug Use Debated, CBS News, UNWIRE.com, Feb. 12, 2008. Il fatto che il Presidente Obama non abbia intrapreso, dall’inizio del suo primo mandato, una lotta più decisa contro l’eccessiva severità delle pene in materia di droghe in parte dipende dall’atteggiamento ostile del Congresso sul punto e dal fatto che lo stesso Vice Presidente Biden era un accanito drug warrior, per nulla incline a sostenere politiche liberal in materia. Anche il capo dello staff della Casa Bianca, Emanuel, era decisamente favorevole all’espansione della lotta alla droga. Al Presidente, forse anche per ragioni di Realpolitik, non è rimasto che il ricorso case by case ai provvedimenti di clemency, anche se con provvedimenti adottati ogni volta nei confronti non di singoli ma di gruppi di decine di condannati: un numero comunque esiguo rispetto ai più di novemila condannati che hanno presentato istanza di commutation. 52 L. LAIRD, Obama Commutes 98 More Prisoners, 48 of Them Lifers, in The New Laird, Obama Commutes 98 More Prisoners, 48 of Them Lifers, in A.B.A. Journal, October 28, 2016. 53 D. CASSENS WEISS, Obama Commutes sentences of another 72 Federal Prisoners, in A.B.A. Jornal, November 4, 2016. 54 I dati sono riportati da un counsel della Casa Bianca, N. EGGLESTON, President Obama has now commuted sentences to 248 individuals, in www.Whitehouse.gov/blog all’inizio del marzo 2016 ed aggiornati dallo stesso in President Obama now commutes the sentences of more individuals in one year than in other single year in our nation’s history, in www. Whitehouse.gov/blog, October 6, 2016. In proposito cfr. anche D. CASSENS WEISS, Obama Commutes 102 Sentences, in A.B.A., October 2016.

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zione tra l’Amministrazione federale, i settori della categoria forense e, più in generale, degli operatori del diritto (come si è detto, anche giudici e prosecutors fanno parte dell’American Bar Association) più sensibili ai problemi dell’eccessiva lunghezza delle pene, della sproporzione di queste ultime rispetto alla gravità del reato commesso e del carattere discriminatorio ai danni delle minoranze etniche, riflesso nella loro “overcriminalization”, avvertibile non solo a livello di arresti e di sottoposizione a processi penali, ma soprattutto di condanne. Naturalmente i recenti provvedimenti di “clemenza” costituiscono solo un primo passo, anche se di importanza fondamentale, verso l’attuazione di un sistema di giustizia penale più rispettoso del principio di uguaglianza e, conseguentemente, di non discriminazione tra soggetti portatori di uguali diritti e garanzie. Non va però dimenticato come la lotta contro le ingiustizie “sistemiche” sia tutt’altro che vinta: di fronte alle poche centinaia di persone che hanno usufruito della clemency, ci sono tutt’ora pendenti più di novemila domande di condannati in situazioni analoghe 55.

10. Verso un ritorno al rehabilitative ideal? La politica della second chance. Il “ravvedimento operoso” sugli eccessi repressivi del sistema sanzionatorio, perlomeno in riferimento alla materia dei reati in tema di stupefacenti commessi senza il ricorso alla violenza, sembra quasi riaprire una prospettiva di politica criminale che, in auge fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, è stata poi abbandonata non solo dai settori più retrivi del Congresso e della cultura giuridica e dell’opinione pubblica, ma addirittura anche da quelli più progressisti. Si tratta della politica criminale fondata sul cosiddetto “rehabilitative ideal”, cioè sulla convinzione che l’esecuzione della pena debba servire al reinserimento e non all’esclusione sociale del condannato: tale convinzione trovava un solido aggancio, oltreché nella tradizione culturale penologica d’oltreoceano, come testimonia il suo perdurare fino alla svolta conservatrice degli anni Settanta del Novecento, nel sistema del sentencing in vigore fino alla fine del decennio in questione. Il meccanismo vigente in precedenza prevedeva, infatti, un modello di 55 La cifra è riportata da M. OSLER, President Obama Grant Early Release to 61 More Federal Drug Offender 2016/03/30, in www.washingtonpost.com/national/-security.

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comminazione della pena basato sul sistema della “pena indeterminata”, secondo diverse varianti, tipiche dei vari ordinamenti. La pena poteva essere totalmente indeterminata e, quindi, la sua commisurazione concreta affidata alla piena discrezionalità del sentencing judge, il quale aveva la facoltà di spaziare da una pena detentiva “classica”, quantificandola egli stesso (entro certi limiti edittali prefissati legislativamente, ma di ampiezza smisurata, quindi praticamente inoperanti) fino ad una misura alternativa alla detenzione, come il probation (una sorta di “affidamento in prova ai servizi sociali”). In altri ordinamenti, invece, la pena era prevista dal legislatore solo nel minimo edittale e il sentencing judge ne poteva determinare l’ammontare massimo; in altri ancora il giudice poteva muoversi nella sua determinazione della pena in concreto ma entro limiti massimi e minimi prefissati dal legislatore 56. La situazione legislativa mutò bruscamente alla metà degli anni Ottanta, sulla scia del varo del Sentencing Reform Act 1985, una riforma del sentencing federale (anche se non “contagiando” tutti gli ordinamenti statali) di segno nettamente conservatrice, la quale mascherava dietro il condivisibile intento di sottrarre ai sentencing judges l’eccessivo potere discrezionale di cui godevano in precedenza, la volontà di sostituire il “rehabilitative ideal” con la politica del “just desert”, cioè della finalità retributiva della pena. Nell’operare il cambiamento di prospettiva, tra l’altro, i poteri discrezionali nella fase del sentencing che prima erano concentrati sul ruolo del giudice, finirono col confluire pressoché interamente su quello del prosecutor che, già dominus della fase del plea bargaining, lo diventava anche di quella del sentencing, trasformandosi nel graylord dell’intero criminal justice system statunitense. L’introduzione del Sentencing Reform Act avviene, come è facile immaginare, basandosi sulla funzione incapacitative e retributiva della sanzione penale, all’insegna dell’inasprimento generalizzato delle pene. È interessante però notare come, al di là della scontata critica a quest’ultimo profilo repressivo, anche numerosi studiosi ed operatori pratici di matrice progressista erano contrari alla teoria ed alla prassi del “rehabilitative ideal” 57, in quanto, assertori della cosiddetta “hands-off doctrine” 58. 56

Per un quadro generale della galassia sanzionatoria dell’epoca, cfr. AMERICAN BAR ASSOCIATION, Standards for Criminal Justice, Sentencing, vol. III, Boston, 1980. 57 Su tale convergenza, M. SHERMAN, G. HAWKINS, Imprisonment in America. Choosing the Future, Chicago, 1981, p. 124. 58 L’analisi più approfondita e critica del rehabilitative model, dei suoi limiti e delle sue potenzialità è offerta da N. MORRIS, The future of Imprisonment, Chicago, 1974.

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In base all’assunto che, in sede di applicazione della pena, lo Stato doveva contenere l’esercizio del suo potere coercitivo limitando la libertà personale del condannato, ma senza pretendere di intromettersi nella motivazione che aveva spinto quest’ultimo a delinquere (da qui l’espressione sopra riportata “giù le mani” dal condannato, vero e proprio slogan dell’intellighentia liberal dei criminologi “non interventisti” sulle scelte di vita, anche “sbagliate” dei singoli), gli esponenti della dottrina progressista vedevano nel rehabilitative ideal un’ingerenza eccessiva, quasi di segno autoritario, dello Stato nella vita privata dei condannati attraverso interventi e terapie (pseudo)psicologiche “risocializzanti”, considerati indebitamente intrusivi della privacy, se non addirittura sfocianti in forme coattive di trattamento “medico” a fini “rieducativi”. Si ricorderà in proposito la feroce satira imperniata sul cosiddetto “trattamento Ludovico” nel film “l’Arancia meccanica”, che in qualche modo, anche se ovviamente privo di pretese scientifiche, diventerà l’emblema delle critiche al sistema “rieducativo” basato su tecniche medico-trattamentali. Non va però dimenticato come in pratica l’utilizzo di forme di “trattamento”, anche di quelle più “innocue” e soprattutto corrette sotto il profilo della tutela delle garanzie costituzionali del detenuto rimasero sulla carta a causa della mancanza di risorse umane e materiali per attuarle e sperimentarne l’efficacia 59, prima ancora che per le resistenze ideologiche della dottrina. È del tutto evidente che la nuova politica di clemency avviata negli anni scorsi dal Presidente Obama, dalle associazioni professionali forensi e da settori della società civile statunitense particolarmente sensibili alle discriminazioni attuate dal sistema della giustizia penale si muovono ovviamente su un piano del tutto diverso e scevro dagli eccessi nello “zelo” risocializzatore “ad ogni costo” degli anni Settanta del secolo scorso e prendono le mosse anche da ineludibili esigenze oggettive di “sfoltimento”, tenuto con-

59 De te fabula narratur: anche in Italia l’introduzione del trattamento penitenziario (ex art. 21 O.P.) sollevò inizialmente perplessità sui rischi di possibili “manipolazioni” psicologiche dei detenuti. Col passar del tempo ci si rese conto, nel bene e nel male (cioè anche nei confronti dei detenuti oggettivamente bisognevoli di un sostegno trattamentale e risocializzante), che la sola carenza cronica di personale specializzato all’interno degli istituti penitenziari (ed anche all’esterno, si pensi agli attuali U.E.P.E., oberati di lavoro ora non solo proveniente dalle richieste di relazioni da parte dei Tribunali di Sorveglianza, ma anche dalla magistratura giudicante in relazione all’istituto della messa alla prova, recentemente esteso agli ultradiciottenni) di per sé annullava ed annulla di fatto i rischi di un hands-on approach, ammesso che lo si ritenga tutt’ora utile, essendo le pratiche ad esso connesse considerate ufficialmente perlomeno demodé, sostituite ove possibile, da più proficue politiche di (re)inserimento nel mondo del lavoro.

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to delle gigantesche proporzioni che ha raggiunto la popolazione penitenziaria negli U.S.A., superando i due milioni e duecentomila detenuti 60, e contenendo al suo interno una percentuale sproporzionata per eccesso di minoranze etniche. Di fronte a cifre così elevate il numero dei soggetti che finora hanno ottenuto la “grazia collettiva” sono una minoranza certamente del tutto esigua (abbiamo visto trattarsi di 714 detenuti) e che spetterà al Congresso risolvere il problema della “carcerazione di massa” a livello nazionale: è tuttavia un segno importante che anche a singoli casi di sanzioni estremamente severe, generate da eccessi repressivi della polizia, dei prosecutors o dei giudici nei confronti di soggetti condannati per reati di droga commessi senza violenza, si alzi una voce autorevole per prospettare una second chance. In proposito nel Senato federale effettivamente nell’ottobre del 2015, in un’inedita convergenza bipartisan, è stato proposto un progetto di riforma, il Sentencing Reform and Correction Act 61. Il progetto parte dalla constatazione che «some of the harsh penalties adopted by lawmakers over many decades were overly broad and have resulted in disproportionate sentences, particularly for racial minorities, and have contributed to a system that has become too costly to sustain both in fiscal and human terms» e che dal 1980 al 1995 la popolazione detenuta nelle carceri federali è cresciuta dell’800%, che la spesa relativa è aumentata del 1.700% e che gli istituti funzionano al 131% della loro capienza, mentre circa la metà dei detenuti federali sta scontando condanne per delitti di droga commessi senza violenza, come risultato della proliferazione delle mandatory minimum sentences, che – come si è detto – fanno lievitare la durata delle pene. Le disposizioni-chiave della riforma dovrebbero restringere la durata delle mandatory minimun sentences e focalizzarsi sui più pericolosi delinquenti legati allo spaccio di stupefacenti ed a coloro che commettono crimini violenti, aumentando per gli altri la disponibilità delle varie “valvole di sicurezza” già presenti nel sistema sanzionatorio esistente che attribuisce ai giudici una più ampia discrezionalità nel determinare la pena per i “lower-level nonviolent offenders”. Inoltre la riforma dovrebbe consentire l’applicazione retroattiva del Fair Sentencing Act of 2010, che ha ridotto la disparità tra le pene per il possesso di crack rispetto a quelle per la polvere 60

Più precisamente alla fine del 2014 i detenuti erano 2.224.400: cfr. U.S. Department of Justice, Office of Justice Programs, Bureau of Justice Statistics, Bulletin on Correctional Population in the United States, 2014 (rev. January 21, 2016), p. 2. 61

Sentencing Reform and Correction Act 2015 (S. 2123).

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di cocaina 62. Ma l’idillio bipartisan ha avuto una breve durata e non ha sortito alcun effetto: nel 2016, in prossimità delle elezioni presidenziali, la campagna elettorale repubblicana, condotta all’insegna del “law and order”, agitando davanti all’opinione pubblica lo spauracchio dell’aumento della criminalità e dell’insicurezza, ha abbandonato la prospettiva della politica della “second chance” di cui il progetto di riforma era espressione, con il risultato di affossare ogni prospettiva di riforma, perlomeno fino all’esito delle elezioni presidenziali del novembre 2016 63.

62 Per una panoramica del progetto di riforma, cfr. R. J. MCMILLION, Bipartisan collaboration in the Senate increases chances for a major criminal justice reform act, in ABA Journal, Dec. 2015. 63 C. HULSE, Why the Senate Couldn’t Pass a Crime Bill Both Parties Backed, in The New York Times, Sept. 16, 2016.

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IL QUADRO NORMATIVO PER IL CONTRASTO ALLA PIRATERIA di Jean Paul Pierini

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il quadro normativo internazionale. – 3. Il quadro normativo nazionale: profili giurisdizionali e di diritto sostanziale. – 4. Segue: profili procedurali e trasferimento di sospetti pirati e predoni armati ad altro Stato. – 5. Conclusioni.

1. Premessa. Per quanto apparentemente “settoriale” e circoscritto, l’attuale quadro normativo per la repressione della pirateria presenta, sotto il profilo internazionale, plurimi aspetti di interesse che spaziano dal diritto internazionale marittimo al diritto internazionale penale, ai diritti dell’uomo (quanto al trattamento delle persone catturate ed eventualmente trasferite per il giudizio in altro Stato), alla cooperazione giudiziaria (esecutiva) e di polizia (trasferimento di dati ad INTERPOL), al diritto dell’Unione Europea (quanto alla competenza normativa ratione materiae). La pirateria somala appare ormai decisamente in declino, ma il fenomeno rischia di manifestarsi nuovamente in altri contesti geografici. Le esperienze derivate dal contrasto alla pirateria somala meritano, inoltre, di essere preservate, poiché le medesime problematiche affrontate rispetto alla pirateria, sono fatalmente destinate a riproporsi ogni qualvolta vi sia l’esigenza di contrastare con mezzi militari e lontano dalle corti di uno Stato un fenomeno criminale. Il quadro normativo “interno” appare già a prima vista “disomogeneo” e purtroppo sottratto, a causa della collocazione nella normativa sulle missioni militari fuori area, all’interesse della dottrina. Tale quadro è caratterizzato da vecchie norme tornate in auge, “segnali di attenzione” del legi-

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slatore, lacune di carattere procedurale ed espedienti sostanziali. Nel complesso la normativa per la repressione della pirateria internazionale solleva interessantissime questioni quanto alla corretta individuazione dei link giurisdizionali, all’antigiuridicità specifica con riferimento a contesto estero ed etero-integrazione delle norme incriminatrici, ai parametri di lesività erroneamente riferiti a reati di sospetto (sic!), nonché delicati ed irrisolti problemi circa la configurazione del quadro di garanzie per la consegna delle persone catturate ad altro Stato.

2. Il quadro normativo internazionale. È ormai una affermazione consunta quella che vuole la pirateria essere un “crimine di carattere internazionale” o crimen juris gentium ed i pirati hostis humani generis; la prima affermazione trascura la dimensione del diritto domestico nella repressione della pirateria e la seconda ha piuttosto il sapore dell’invettiva. Esiste una definizione internazionalmente accettata della pirateria, rinvenibile nella Convenzione di Montego Bay (UNCLOS) e riconducibile, attraverso la Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958, e con le opportune “modernizzazioni”, direttamente alla definizione elaborata in seno alla Società delle Nazioni da un Comitato di esperti 1. Tale definizione richiede tuttora tre requisiti (art. 101 UNCLOS) 2: a) che gli atti di depredazione o di violenza illegale siano praticati dall’equipaggio di una nave o aeromobile in danno di altra nave o aeromobile, dei suoi passeggeri o del suo carico (requisito individuato con una certa imprecisione come “delle due navi”), b) che la finalità dell’atto sia privata e c) che lo stesso si collochi in un contesto geografico posto al di fuori dalla giurisdizione di ogni altro Stato.

1

Il progetto è riportato in Rev. du dr. int. pr., 1926, p. 584. In particolare, si intende per pirateria (art. 101 UNCLOS): “ogni atto illegale di violenza o di sequestro o ogni atto di rapina commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati e rivolti: Nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni trasportati; Contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone o beni in un luogo che si trovi fuori dalla giurisdizione di qualunque Stato”. 2

Il quadro normativo per il contrasto alla pirateria

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Coeva alla definizione di pirateria è quella del potere di cattura che può essere esercitato dagli Stati esclusivamente tramite le navi da guerra, aeromobili militari e altre navi e aeromobili chiaramente identificabili come in servizio governativo ed autorizzati (in base alla propria legge di bandiera) ad effettuare la cattura (art. 107 UNCLOS). Tale definizione esclude chiaramente poteri di cattura dei Nuclei Militari di Protezione imbarcati su nave mercantile 3. Tali Nuclei non sono più previsti a far data dal 2015. La moderna pirateria somala ha fatto dubitare del primo requisito nella misura in cui si è revocato in dubbio che i “barchini” utilizzati dai pirati integrassero la definizione di “nave” e del carattere privato, nella misura in cui si è cercato da più parti e con differenti finalità di accostare alla pirateria finalità politiche o terroristiche 4, mentre la collocazione geografica (almeno inizialmente) era quella di uno Stato privo della possibilità di esercitare effettivamente i propri poteri (Failed State) con una rappresentanza formale ed il beneficio dell’obbligo da parte della Comunità internazionale di mantenere lo status quo della Somalia. È, inoltre, agevole constatare che il fine della depredazione è divenuto secondario. Quanto al contesto geografico, osserviamo che nel passaggio dalla Convenzione di Ginevra del 1958 all’UNCLOS, il riferimento, per altro immutato, ai “luoghi che si trovano fuori dalla giurisdizione di qualunque Stato” ha cambiato significato individuando non più le acque di una terra nullius, riferimento divenuto non plausibile dopo la Advisory Opinion della Corte Internazionale di giustizia nel caso del Western Sahara 5, ma piuttosto que3

Tale limitazione ovviamente sfuma rispetto alle imbarcazioni prive di bandiera ed in difetto di un locus standi dell’individuo catturato non rappresenta una limitazione dei poteri di arresto secondo la legge processuale nazionale, a maggior ragione, quando questi sono esercitati rispetto ad atti che la legge penale nazionale considera come commessi nel territorio assimilato dello Stato (combinato disposto degli artt. 4 e 6 c.p.). 4

Senza alcuna pretesa di risolvere nel senso dell’esistenza o meno di legami della pirateria somala con il terrorismo, osserviamo che l’esistenza di siffatti legami poteva indurre a includere la pirateria tra gli obiettivi della “crociata globale contro il terrorismo”, sollevando assicuratori stranieri dall’obbligo di assumersi il rischio derivante dalla pirateria. Il “fine privato” della pirateria lascia scoperto, oltre al profilo della “pirateria politica”, anche quello della pirateria come strumento o mezzo per la condotta delle ostilità. Si veda, sul punto, il Trattato concluso a Washington il 6 febbraio 1922, tra Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Italia. Per una prima analisi della “pirateria politica” e della pirateria nell’ambito della guerra marittima, v. M. PELLA, La répression de la piraterie, Cours de l’Académie de La Haye,, RCADI, Parigi, 1927, p. 213 ss. 5

International Court of Justice, Advisory Opinion of 16 October 1975 on Western Sahara.

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gli spazi marittimi, le zone economiche esclusive (ZEE), nelle quali allo Stato costiero è riconosciuta una giurisdizione “funzionale” e non “territoriale” 6. È tuttavia in quegli episodi in cui la pirateria somala manifesta un carattere non alturiero, quando le navi sono sequestrate nelle acque territoriali della Somalia e alla fonda nelle acque territoriali di altro Stato (il riferimento è all’episodio avvenuto nelle immediate prossimità di Salalah – Oman), che si colgono i limiti della definizione internazionale e “alturiera” della pirateria. A tale proposito è stato coniato il termine armed robbery, letteralmente “depredazione armata”, che ha luogo nell’ambito di spazi marittimi soggetti alla sovranità di uno Stato per distinguerla dalla pirateria. Anche la definizione di armed robbery richiama atti illegali di violenza e detenzione per fini privati 7. Sin dalla iniziale Risoluzione 1816 del 2008 del Consiglio di Sicurezza, numerose Risoluzioni hanno chiamato gli Stati a reprimere, con il consenso del Governo di transizione federale (TFG) somalo (ora sostituito dal Parlamento di transizione Federale o TFP), la pirateria nelle acque territoriali … come se gli atti di violenza fossero stati posti in essere in alto mare 8. L’estensione delle previsioni dell’UNCLOS alle acque territoriali somale per disposizione del Consiglio di Sicurezza che, come ripetutamente rimarcato nelle Risoluzioni, non intende dare luogo ad una evoluzione del diritto internazionale 9, opera sul piano (internazionale) dell’autorizzazione ad agire verso gli Stati di bandiera le cui navi sono dedite alla pirateria e 6 La recente vicenda della Enrica Lexie e dei “due Marò in India” mostra quanto le pretese di “territorializzare” la ZEE possano pesare sulla repressione della pirateria in generale. La “moderna” pirateria somala nasce in una dimensione costiera e si allarga – per una relativa sofisticazione dei mezzi (il ricorso a “navi madre”) e probabilmente anche quale conseguenza del cambio delle rotte e della iniziala presenza, relativamente massiccia, di forze navali – fino a lambire le coste dell’India. 7

Il riferimento alla armed robbery a fianco della pirateria compare nelle Risoluzioni 1816 e 1846 del 2008 del Consiglio di Sicurezza. Una differenziazione con la “pirateria” è operata nel IMO Code of Practice for Investigation of Crimes of Piracy and Armed Robbery against Ships, approvato con Risoluzione 1025(26). 8 UNSCR 1816, 1838, 1851, 1897, 1950 e 2020. 9 Si veda al riguardo la UNSCR 1816, § 9, nella quale si legge, in merito all’autorizzazione che il Consiglio di Sicurezza “... underscores in particular that it shall not be considered as establishing customary international law, and affirms further that this authorization has been provided only following receipt of the letter from the Permanent Representative of the Somalia Republic to the United Nations to the President of the Security Council”. Analogo avvertimento è espresso nella UNSCR 1838 (§ 8), 1851 (§ 10), 1897 (§ 10), 1950 (§ 8), 2020 (§ 10).

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verso lo stesso Stato territoriale, la Somalia, che ha consentito all’ingresso nelle proprie acque territoriali. Alla stessa non può, invece, riconoscersi l’effetto di estendere mutatis mutandis le disposizioni penali eventualmente in vigore negli Stati per la repressione della pirateria in conformità alla definizione internazionale e quindi limitata all’alto mare, oltre il contesto loro proprio ed oltre la lettera delle stesse. La mancanza di un effetto estensivo sul piano penale delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza coglie, tuttavia, solo una parte del problema dell’adattamento degli ordinamenti domestici alla repressione della pirateria internazionale che era, all’inizio dell’insorgere della pirateria al largo della Somalia, connotata dalla mancanza di norme specifiche per la repressione penale della pirateria, al di fuori delle ipotesi di condotte localizzate in alto mare. La mancanza di una legislazione idonea è risultata talvolta temperata dal ricorso a remote previsioni rinvenibili nella legislazione sulla giurisdizione dell’ammiragliato britannico, trasposta dapprima nelle colonie e quindi mantenuta in vita in epoca post-coloniale: è il caso dello Admiralty offenses (Colonial) Act 1849 10, recentemente richiamato per giudicare un gruppo di pirati da parte della Mumbai High Court (India) e quindi invocato da alcune delle parti private per affermare la giurisdizione nella vicenda della Enrica Lexie. Altre volte si è fatto ricorso alle disposizioni adottate per l’implementazione della Convenzione sulla repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione (Convenzione di Roma sul “terrorismo marittimo” o SUA Convention) 11, invocata a tale proposito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 12 e dall’IMO (International Maritime Organi-

10

Quella della ultravigenza delle normative britanniche in epoca post-coloniale è un fenomeno complesso che ha richiesto, oltre al rinvio recettizio nella normativa della ex Colonia, l’adozione di una normativa nel Regno Unito (cosiddetti “consequential acts”) che permettesse tale rinvio come se la normativa fosse in vigore fino ad abrogazione nella ex Colonia. In pratica, l’atto consequenziale intende anche evitare che il rinvio possa avere l’effetto di un rinvio mobile e separa il destino della normativa richiamata dal suo seguito nel Regno Unito. 11 Convenzione per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima, con protocollo per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza delle installazioni fisse sulla piattaforma continentale, firmata a Roma il 10 marzo 1988. Della Convenzione è stata autorizzata la ratifica e disposta l’esecuzione con l. 28 dicembre 1989, n. 422 che ha introdotto nell’ordinamento una serie di fattispecie di reato. 12

Si vedano sul punto le UNSCR 1851, 1897, 1950, 2020.

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zation) 13. Questa è stata adottata, come è noto, in seguito all’episodio del sequestro della nave da crociera Achille Lauro e impone la criminalizzazione di una serie di condotte che appaiono idonee a completare la repressione dei comportamenti che integrano la definizione di pirateria e quelle simmetriche (salvo il contesto geografico) della armed robbery (si veda, sul punto, l’art. 3 della SUA). Altra ragione per la quale è stata richiamata la SUA è quella dell’obbligo, ivi stabilito, per gli Stati costieri di ricevere dal comandante della nave le persone che abbiano posto in essere alcune delle condotte previste dall’art. 3 della Convenzione; obbligo espressamente richiamato dal Consiglio di Sicurezza a partire dalla Risoluzione 1851 14. La repressione della pirateria costituisce l’oggetto di uno specifico e chiaro obbligo degli Stati di cooperare (art. 100 UNCLOS), ma come le attività discendenti diventano specifiche, l’obbligatorietà sfuma: così nel caso della cattura della nave pirata che è espressa in termini di facoltà (art. 105 UNCLOS) come, del resto, la decisione sulle sanzioni da applicare alle persone arrestate e sulle misure da adottare rispetto alla nave catturata. La dimensione “facoltativa” della cattura e delle attività discendenti è all’origine della mancata implementazione in molti degli Stati parte dell’UNCLOS di una idonea legislazione per la punizione del reato di pirateria. La stessa è anche all’origine, come si vedrà nel successivo paragrafo, della erronea individuazione del link giurisdizionale per la repressione nello Stato della pirateria. Il carattere facoltativo della cattura e delle attività discendenti è, infine, uno degli ingredienti della curiosa ricetta giuridica prospettata nell’ambito della politica estera della sicurezza e della difesa (PESD) per scindere cattura e processo ed asserire, tuttavia, che un atto politico (la decisione Comune 2008/851/PESD), la definizione internazionale di pirateria (art. 101 13

Ex plurimis, MSC.1 Circ. 1339 Best Management pratices, del 14 settembre 2011. La previsione pone delicati problemi per quanto riguarda le eventuali conseguenze della consegna per la persona nello Stato ricevente e la responsabilità dello Stato di bandiera sotto la CEDU per eventuali violazioni dei diritti dell’uomo nel primo Stato. Quanto al contesto nazionale, la previsione relativa alla consegna, obliata all’atto della ratifica ed esecuzione, appare self-executing e suscettibile di conflitto con le disposizioni del codice di procedura penale in quelle situazioni in cui il comandante, pur in difetto di previsioni generali relative alla convalida dell’arresto con VTC, abbia proceduto comunque e l’arresto sia in corso di validità. Ulteriori profili problematici riguardano il diritto dell’estradizione allorché lo Stato di bandiera voglia in seguito richiedere l’estradizione della persona consegnata, posto che in parte degli ordinamenti ispirati alla common law, la persona richiesta, in quanto previamente consegnata, potrebbe non integrare la definizione di “fuggitiva”. 14

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UNCLOS) ed il verbo “può” contenuto nell’art. 105 dell’UNCLOS a significare che al giudizio può procedere anche uno Stato dell’area (Kenya, Seychelles, Mauritius, Tanzania), opportunamente “emulsionati”, costituirebbero una idonea base legale per la detenzione dei pirati catturati ai sensi dell’art. 5.1 della CEDU 15. In seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ma non vi è ragione di opinare diversamente per il quadro giuridico dell’Unione Europea prima del dicembre 2010, posto che nell’ambito della PESD non possono adottarsi atti normativi. Quanto agli accordi per il trasferimento dei pirati catturati, questi, attenendo alla materia della cooperazione giudiziaria in materia penale, interessano ambiti nei quali deve necessariamente applicarsi, dopo la “normalizzazione” dell’ex terzo pilastro che ha perso la sua connotazione “intergovernativa”, la procedura legislativa ordinaria ai sensi dell’art. 263 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) 16. È appena il caso di osservare che, nell’ambito degli accordi già conclusi ed in vigore, il Comando della missione Atalanta si trova ad esercitare poteri di trasferimento di persone catturate per il giudizio che non sono tuttora pensabili 15 Per una critica all’impostazione citata nel testo, volendo J.P. PIERINI, The Grass Always Greener On the Other Side? Apprehension, Arrest, Detention and Transfer of Suspected Pirates and Armed Robbers within the “ESDP” Legal Framework, in NATO Legal Gazette, n. 23, Nov. 2010. Lo scritto citato ha mosso i responsabili della parte legale delle PESD, Gert-Jan Van Hegelsom e Frederik Naert, ad una replica, Of Green Grass and Blue Waters: A Few Words on the Legal Instruments in the EU’s Counter-Piracy Operation Atalanta, in NATO Legal Gazette, n. 25, Maggio. 2011. L’Editore della Gazette ha, infine, pubblicato, previa comunicazione per osservazioni agli interessati, la contro-replica “The Necker Cube” and Human Rights: Again on Joint Actions as a(n) (in)sufficient stand-alone legal basis for the detention and transfer of individuals within the (Floating) territory of Member States, in NATO Legal Gazette, n. 25, settembre 2011. 16 Sul punto si veda la Causa C-658/11, per l’annullamento, sul ricorso del Parlamento Europeo della Decisione 2011/640/PESD del 12 luglio 2011 sulla firma e conclusione dell’Accordo tra l’Unione europea e la Repubblica di Mauritius sulle condizioni del trasferimento di sospetti pirati e proprietà sequestrate connesse dalla Forza Navale a guida dell’Unione europea alla Repubblica di Mauritius e le condizioni dei sospetti pirati dopo il trasferimento. Sul punto v., inoltre, la causa C-263/14, relativa al ricorso in annullamento della Decisione 2014/198/PESC del Consiglio con cui è stata data esecuzione all’Accordo tra l’Unione europea e la Repubblica unita della Tanzania sul Trasferimento delle persone sospettate di atti di pirateria e dei beni sequestrati da parte della forza navale diretta dall’Unione europea. In questa seconda causa, la Corte di è trovata a decidere se la procedura seguita risultava in violazione della preventiva autorizzazione del Parlamento europeo, come sarebbe stato il caso per un accordo in materia di cooperazione giudiziaria, ovvero se difettava solo l’informazione al Parlamento europeo. La Corte ha infine ritenuto che nel caso di specie il profilo di illegittimità era quest’ultimo.

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nell’ambito di EUROJUST. Altri profili di potenziale contenzioso tra ex pilastri riguardano la trasmissione, prevista con azione comune (joint action) di informazioni ed impronte dattiloscopiche da EUNAVFOR Atalanta all’INTERPOL (azione comune 2010/366/PESD), laddove tale attività non può trovare la base giuridica in atti adottati nell’ambito della PESD. Il quadro normativo complessivo della missione ATALANTA mostra chiaramente di essere il risultato di una presa d’atto delle problematiche che la detenzione ed il trasferimento delle persone catturate ad altro Stato per il giudizio comportano in punto di rispetto dei diritti dell’uomo e della volontà di fornire agli Stati partecipanti un “paravento” dalla responsabilità sotto la CEDU, costituito dall’imputazione dell’atto all’Unione Europea di cui è, comunque, prefigurata (ma sempre più improbabile) l’adesione alla CEDU 17; il tutto in difetto di un corrispondente “conferimento” di funzioni per la repressione della pirateria all’Unione Europea. Tale “schermo” è ovviamente fittizio in difetto di garanzie, all’interno dell’architettura della missione e preso atto della ridotta competenza della Corte Europea di Giustizia nella materia della PESD, almeno corrispondenti a quelle offerte dallo Stato membro della CEDU (come stabilito Corte europea dei diritti dell’uomo, nella decisione Bosphorus). È appena il caso di osservare che la stessa Grand Chamber della Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo l’affermazione della giurisdizione ratione personae nel caso Al-Saadoon and Mufdhi v. United Kingdom 18, con la decisione sui ricorsi di Al Jedda e Al Skeini 19 ha stabilito che nell’agire sotto l’autorizzazione di Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza si debba “presumere” che l’autorizzazione richiami ed imponga sempre e comunque il rispetto dei diritti dell’uomo di cui le Nazioni Unite si sono sempre fatte portatrici 20. 17

Si veda, al riguardo, Corte di Giustizia UE, Parere n. 2/13 in data 18 dicembre 2014, contenente “Parere emesso ai sensi dell’articolo 218, paragrafo 11, TFUE – Progetto di accordo internazionale – Adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – Compatibilità di detto progetto con i Trattati UE e FUE”. 18

Ricorso n. 61498/08, decisione del 2 marzo 2010. Ricorso n. 55721/07, decisione del 7 luglio 2011. 20 La dimensione dei diritti dell’uomo non è estranea all’autorizzazione all’uso della forza in base alle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, a partire dalle Risoluzioni 1816, 1838, 1851 e seguenti. Non può tuttavia non notarsi come la rinnovazione dell’invito all’adozione di soluzioni conformi ai diritti dell’uomo nella Risoluzione 1950 (§ 11) costituisce in un certo senso una presa d’atto dell’esistenza di un problema. L’invito sopra citato così recita: «[…] Calls on Member States to assist Somalia, at the request of the TFG and with notification to the Secretary-General, to strengthen capacity in Somalia, including regional 19

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La missione a guida NATO, non avendo l’Organizzazione nei propri atti costitutivi disposizioni sulla produzione di norme e sull’adozione di Convenzioni e trattati internazionali, pone il problema della validità per lo Stato membro degli eventuali accordi sul trasferimento delle persone catturate sulla base dei principi di diritto internazionale applicabili ai trattati tra una e più organizzazioni internazionali e uno o più Stati. La pirateria somala ha chiaramente mostrato quanto gravano sulla efficace repressione i limiti rappresentati dalla giurisdizione territoriale di altri Stati. Se le acque della Somalia sono attualmente considerate alla stregua dell’alto mare quanto all’attività repressiva prevista dall’UNCLOS, la repressione, nonostante l’acquiescenza di taluni Stati (per es. Gibuti), incontra chiaramente il limite delle acque territoriali di uno Stato che si oppone o pone condizioni all’accesso nelle stesse per fini di repressione. Si tratta del problema della reverse hot pursuit o inseguimento inverso, già affrontato nella proposta formulata nell’ambito della Società delle Nazioni da un Comitato di esperti, ma tuttora persistente 21. Non sarà, inoltre, sfuggito come anche in seguito alla “caduta delle frontiere” nell’ambito dell’Unione Europea, in tempi di “inseguimento transfrontaliero”, la dimensione delle acque territoriali costituisca ancora un tabù. Il Codice di Condotta di Gibuti 22, documento non vincolante adottato tra gli Stati interessati dalla pirateria e depredazione armata oltre alla Giordania ed alla Francia, contiene una serie di misure atte a facilitare la repressione della pirateria, tra le quali la conclusione di accordi per la repressione della pirateria nelle acque territoriali di altri Stati parte con riserva di giurisdizione di questi ultimi (art. 4, paragrafi 5 e 8) e l’imbarco di ship riders 23di altro Stato con funzioni di coordinamento ed esecutive. Figura, authorities, to bring to justice those who are using Somali territory to plan, facilitate, or undertake criminal acts of piracy and armed robbery at sea, and stresses that any measures undertaken pursuant to this paragraph shall be consistent with applicable international human rights law». 21 È interessante notare che l’art. 5 secondo periodo del suddetto progetto forniva già la soluzione al problema attualissimo del cosiddetto “inseguimento inverso” (dall’alto mare verso le acque territoriali) stabilendo che «A condition de confier le jugement de l’affaire aux autorités compétentes de l’Etat riverain, la pursuite, commencée en haute mer, pourra être continuée même dans les eaux territoriales du dit Etat, excepte quand celui-ci est en mesure de continuer lui même cette poursuite». 22

Code of conduct concerning the repression of Piracy and Armed Robbery against Ships in the western Indian Ocean and the Gulf of Aden, firmato il 29 gennaio 2009 a Gibuti. 23

Sono definiti ship riders gli ufficiali di uno Stato imbarcati su Navi di un altro Stato per la condotta di operazioni joint, ovvero con funzioni di collegamento, di autorizzazione di specifiche operazioni (es. ingresso nelle acque territoriali o l’abbordaggio di Navi che is-

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quest’ultima, richiamata anche dal Consiglio di Sicurezza 24. La riluttanza anche di quegli Stati che manifestano la volontà di partecipare alle operazioni internazionali contro la pirateria a farsi carico del processo e dell’esecuzione della pena nei confronti della pressoché illimitata manovalanza piratesca è – e rimane – un dato di fatto, nonostante l’episodico avvio di procedimenti negli Stati Uniti dopo gli eventi della Maersk Alabama ed un episodio di un (miope) attacco a una nave militare, in Francia per l’evento del Le Ponant, in Germania e anche in Italia dopo il sequestro della Andrea Bottiglieri. Di qui le pressioni politiche per l’affermazione della repressione della pirateria a “responsabilità regionale” e la conclusione dei già menzionati accordi per il trasferimento delle persone catturate, che, nella seconda generazione, già sono intesi a separare giudizio ed esecuzione mediante il successivo ri-trasferimento delle persone verso la Somalia con pseudo-garanzie modellate sulla ri-estradizione. Dopo la presentazione di uno spettro di proposte nel cosiddetto “Rapporto Lang”, rivisto dal Segretariato Generale delle Nazioni Unite, è apparentemente prevalsa la creazione nel medio periodo di apposite corti extraterritoriali somale 25. Il modello dell’istituzione di tali corti internazionali o miste costituisce una aspirazione ricorrente, allorché vi sia una generale riluttanza a investire i sistemi giudiziari degli Stati di specifiche questioni. L’ipotesi risulta, sano la bandiera dello Stato che ha inviato lo ship rider) ovvero per favorire azioni esecutive da parte dello Stato d’invio (lo ship rider materialmente compie attività di verifica, ispezione, arresto ecc.) con differente grado di coinvolgimento della Nave ospitante e del suo equipaggio (dall’uso della forza in auto-difesa all’assistenza in senso stretto). L’imbarco di ship rider può comportare questioni di shared liability sotto il profilo internazionale e del rispetto dei diritti dell’uomo. Sotto il profilo della legge della Nave ospitante, possono esservi questioni di status delle Forze, esercizio di atti sovrani in territorio assimilato dello Stato (cessione di sovranità) e problematiche di controllo e riesame della detenzione di persone. 24

La UNSCR 1851 al terzo paragrafo così recita «Invites all States and regional organizations fighting piracy off the coast of Somalia to conclude special agreements or arrangements with countries willing to take custody of pirates in order to embark law enforcement officials (“shipriders”) from the latter countries, in particular countries in the region, to facilitate the investigation and prosecution of persons detained as a result of operations conducted under this resolution for acts of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia». 25

Sul punto v. la UNSCR 1918, il cosiddetto Lang Report, S/2011/30 in data 25 gennaio 2011 ed il successivo Rapporto del Segretario Generale S/2011/350 in data 15 giugno 2011. L’istituzione di extraterritorial Somali specialized anti-piracy courts è stato in seguito considerato nella UNSCR 1976 (§ 26).

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infatti, riproposta riguardo al fenomeno del traffico di migranti e della tratta di esseri umani. La mancanza di opzioni giurisdizionali per i pirati ha indotto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a “stressare” la necessità di sequestrare e distruggere i mezzi e le armi a disposizione dei pirati in via subordinata alla impossibilità di utilizzare gli stessi come elementi di prova nei confronti dei pirati 26. La distruzione dei cosiddetti “parafernalia” pirateschi può porre delicate questioni quanto al rapporto tra l’attività militare di sequestro, supportata da idonee informazioni atte a far ritenere una destinazione criminale dei beni, ma pur sempre con carattere “preventivo”, e l’attività più prettamente repressiva. Sotto il profilo nazionale, il rapporto è tra attività “militare” autorizzata dalle regole d’ingaggio (ROE) e attività di polizia giudiziaria (sequestro e autorizzazione, dopo la convalida, alla distruzione), quando le stesse ROE non contengono un caveat atto ad imporre la convalida dell’autorità giudiziaria. Mentre la distruzione di beni in via militare, allo stato, non ha visto l’adozione di misure atte ad assicurare il risarcimento del danno in caso di distruzione erronea, si sono registrate proposte bizzarre per deprimere la capacità dei mezzi dei pirati, come la distruzione dei fuoribordo più potenti e la sostituzione degli stessi con fuoribordo di modesta potenza, a detrimento della navigabilità e sicurezza dei mezzi. La mancanza di una giurisdizione idonea ad esprimere una capacità produttiva sufficiente per venire a capo della pressoché sconfinata manovalanza piratesca è sicuramente un fattore dissuasivo per il mantenimento di un approccio “constabulary” alla repressione della pirateria. Deve infine osservarsi come, e lo si è visto in passato, una minaccia criminale che non è, sotto il profilo quantitativo, fronteggiabile con un apparato giudiziario, pur efficiente, e con le sue appendici di polizia (ancorché espresse nell’ambito di assetti militari), costituisce un incentivo a soluzioni prettamente militari ed è lecito attendersi una estensione della drone policy statunitense alla pirateria, ripescando nel caso specifico l’appellativo di hostes humani generis per i pirati 27. È, inoltre, agevole constatare che il fine della depredazione è divenuto secondario, almeno rispetto agli equipaggi che provenivano da quelli Stati 26 La distruzione dei mezzi dei pirati è prevista nelle Risoluzioni 1851 (§ 2), 1897 (§ 3), 1950 (§ 4), 1976 (8° considerando) e 2020 (§ 7). 27

Vedasi D. GUILFOYLE, The Law of War and the Fight against Somali Piracy: Combatants or Criminals, in 11 Melbourne Jr. of Int.l Law, 2010, p. 1 ff. Per altro, interventi a terra erano già stati prefigurati nella UNSCR 1851.

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per i quali il valore della vita umana eccede sempre e comunque quello della nave e del suo carico. Per gli altri equipaggi, quelli che con una infrazione ai canoni del politically correct possiamo definire di “serie B”, ossia non utilizzabili per ottenere riscatti significativi, il valore (eventualmente d’utilizzo come “Nave Madre”) del mezzo nautico e del suo carico rimangono il vero oggetto dell’atto della depredazione. Le due categorie di ostaggi, spiace ammetterlo, sono anche oggetto di differenti attenzioni nell’attività di liberazione o riconquista, laddove la spregiudicatezza di alcune manovre, che non si sarebbero osate nei confronti di ostaggi di “serie A”, si è dimostrata efficace. Concludiamo la sommaria esposizione del quadro normativo internazionale relativo alla pirateria ed alla depredazione armata, menzionando due questioni sovente sollevate a giustificazione della pirateria e infine menzionate nelle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e due aspetti che possono impattare negativamente sull’efficacia delle operazioni internazionali di contrasto della pirateria se dovessero diventare oggetto di azioni sistematiche da parte delle organizzazioni che apparentemente gestiscono la pirateria. Le questioni connesse riguardano la tutela delle risorse ittiche somale, posto che, in passato, leaders somali avevano addotto pseudo-spiegazioni circa la natura di azione pubblica dei gruppi di pirati asseritamente nati quale “guardia costiera somala”. Al riguardo il Consiglio di sicurezza ha esortato la Somalia a dichiarare formalmente la propria zona economica esclusiva (ZEE). Altro aspetto è quello dello smaltimento illecito di rifiuti nel territorio somalo e nelle acque del bacino somalo. Quanto al lawfare piratesco, possiamo citare l’apparente tendenza ad includere negli equipaggi di gruppi di pirati dei minorenni per creare difficoltà di ordine legale all’atto della cattura. Torneremo più avanti sui profili legali della consegna di minorenni ad altro Stato. Al momento possiamo solo osservare che gli accordi sul trasferimento di pirati e predoni armati sottoscritti dall’UE sono silenti quanto a richieste di specifiche garanzie per eventuali minori trasferiti e la questione è considerata come materia per possibili espressi caveat di quegli Stati membri. L’apparente sordità alla questione degli Stati che concorrono nella repressione della pirateria sembra aver ridotto la “minaccia legale” costituita dalla presenza di minori. Rimane, invece, latente la questione rappresentata da possibili richieste di asilo o protezione speciale di quanti temporaneamente condotti a bordo (o arrestati e quindi liberati) ritengono che la riconduzione degli stessi in Somalia comporterebbe un pregiudizio irreparabile. La recente giurispru-

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denza della Corte europea di diritti dell’uomo nel caso Hirsi contro l’Italia sembra escludere che in siffatti casi possa operarsi un sbarco o ritorno in Somalia senza un compiuto esame della richiesta. Considerata la riluttanza degli Stati della regione ad accettare cittadini Somali (e l’assenza di idonee garanzie per parte di tali Stati qualora dovessero invece essere disponibili) non è da escludersi in futuro il ricorso all’espediente per annichilire le capacità di alcuni assetti in area.

3. Il quadro normativo nazionale: profili giurisdizionali e di diritto sostanziale. La definizione internazionale di pirateria ha, invece, un proprio specifico rilievo per l’esercizio della giurisdizione e soprattutto per l’individuazione dei presupposti di fatto e geografici per “intervenire” (visita e cattura) che costituiscono esercizio di jurisdiction to enforce. Tale rilievo è connaturato con l’impostazione tradizionale che vuole radicalmente nullo l’atto comportante esercizio di poteri sovrani posto in essere in situazione di difetto assoluto di giurisdizione, così come l’atto compiuto in territorio estero (ivi comprese le acque territoriali) senza il consenso del sovrano territoriale o l’atto compiuto in alto mare a bordo di una nave straniera senza il consenso dello Stato di bandiera avente giurisdizione esclusiva (e ovviamente al di fuori delle eccezioni codificate nel diritto internazionale marittimo) 28. Deve, invece, osservarsi come la normativa speciale per la repressione della pirateria è figlia dell’equivoco circa l’individuazione del link giurisdizionale per la repressione nello Stato del reato di pirateria (jurisdiction to adjudicate) 29. Questo è previsto dal codice della navigazione (c.n.) all’art. 1135 e si applica al comandante o all’ufficiale di nave nazionale o straniera che commetta atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico, ovvero che a scopo di depredazione commetta violenza 28

Cass., Sez. I, n. 48, 14 gennaio 1982, II, c. 125 ss., in Foro it., 1983, fattispecie relativa all’esecuzione di atti d’istruzione all’estero. In dottrina, F. POCAR, L’esercizio non autorizzato del potere statale in territorio straniero, Cedam, Padova, 1985, p. 281 ss. 29

Art. 5 comma 6-bis del d.l. 30 dicembre 2008, n. 209, convertito con modificazioni in l. 24 febbraio 2009, n. 12, come modificato dal d.l. 15 giugno 2009, n. 61 (convertito in l. 22 luglio 2009, n. 100). La disposizione è stata in seguito sostituita dall’art. 19, comma 9 della l. 21 luglio 2016, n. 145.

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in danno di persona imbarcata su una nave nazionale o straniera, ed è punito con la reclusione da 10 a 20 anni. La pena è ridotta in misura non eccedente un terzo per gli altri componenti dell’equipaggio e della metà per gli “estranei” all’equipaggio, intendendosi per tali i passeggeri che concorrono agli atti di depredazione 30. L’art. 1136 del codice della navigazione, intitolato “Nave sospetta di pirateria” prevede, invece, la punizione con la reclusione da 5 a 10 anni del Comandante di nave nazionale o straniera, fornita “abusivamente” di armi, che navighi senza essere munita di carte di bordo. Tanto il reato di “pirateria” quanto il reato di “nave sospetta di pirateria” sono punibili senza limitazioni relative al luogo in cui le rispettive condotte sono poste in essere: mare territoriale nazionale, alto mare e mare territoriale straniero. Come si vedrà, il limite all’applicabilità dell’art. 1136 discende piuttosto dalla necessaria eterointegrazione della norma, posto che la fornitura “abusiva” d’armi presuppone la violazione della legge di bandiera e non è né logico né razionale ritenere ipso iure abusivamente fornite d’armi le navi che partono da un failed State laddove non vi sono autorità che possono autorizzare la dotazione d’armi. La norma che consente la punibilità incondizionata della pirateria costiera somala, malese o caraibica discende dall’art. 1080 del codice della navigazione che disciplina l’applicabilità delle disposizioni penali del rispettivo codice. L’art. 1080 del codice della navigazione ha carattere perentorio ed è richiamato dall’art. 7 n. 5 del codice penale. L’opzione per l’applicazione perentoria dell’art. 1135 del codice della navigazione in tutte quelle situazioni in cui il diritto internazionale consente di intervenire su una nave pirata connota come “obbligatorie” quelle attività (cattura e giudizio dei responsabili) che il diritto internazionale pre-

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Osservando la fattispecie del reato di pirateria balza immediatamente all’occhio il fatto che il legislatore aveva in mente una “Nave pirata” con una organizzazione strutturata e definita con un Comandante, degli ufficiali, un equipaggio e, eventualmente, dei passeggeri dall’animo criminale. Manca solo il quartiermastro e la descrizione cadrebbe a pennello per la nave di Long John Silver. Organizzazione certo non rinvenibile in uno skiff che tenta l’arrembaggio ad una nave nel Golfo di Aden. Ciò si traduce, nella pratica, nel tentativo d’individuare il soggetto al timone, il servente del RPG e l’unico alfabetizzato capace di effettuare una lettura del GPS, per attribuire agli stessi dei ruoli “funzionali” corrispondenti alle qualifiche previste dall’art. 1136 del Codice della Navigazione. Tale soluzione risulta adottata dalla III Corte di Assise di Roma, sentenza del 27 febbraio 2013, inedita. Soluzione alternativa è quella, probabilmente più corretta sotto il profilo del principio di legalità, di partire dalla pena ridotta per tutti, per costruirvi gli aumenti previsti per i differenti concorrenti nel reato (art. 112 c.p.).

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vede come “facoltative”. Non avendo l’art. 105 della Convenzione di Montego Bay la finalità di introdurre specifiche procedure o facoltà, ma semplicemente quella di stabilire in termini non troppo stringenti l’obbligo di repressione, riteniamo che con la ratifica della Convenzione e l’ordine di esecuzione della stessa si sia resa facoltativa e condizionata la repressione della pirateria nello Stato 31. Al riguardo, è agevole rilevare come la normativa speciale sia l’espressione dell’equivoco che vorrebbe la punizione per il reato previsto dall’art. 1135 c.n. non imposta, ma consentita dall’art. 105 della Convenzione di Montego Bay che, di conseguenza, non cadrebbe sotto l’art. 7 n. 5 del codice penale il quale, rispetto alle Convenzioni internazionali, richiede l’applicazione necessaria del diritto nazionale. L’intervento correttivo della carenza putativa di giurisdizione per il reato di pirateria appare maldestro in quanto, obliato l’art. 1080 del codice della navigazione, richiama direttamente l’art. 7 c.p. e dopo il “ripensamento” del 2009 (d.l. n. 61/2009 adottato per “consegnare” i pirati catturati da Nave Maestrale al Kenya) è sempre sulla suddetta norma che si opera una “riduzione” dei casi di giurisdizione incondizionata, camuffata da favor verso la cooperazione internazionale. Riducendo l’applicazione incondizionata degli artt. 1135 e 1136 c.n. alle ipotesi in cui le condotte siano poste in essere in danno dello Stato, di nave, cittadino e beni nazionali, il legislatore si è apparentemente scordato che quello di “nave sospetta di pirateria” è un reato di sospetto. La considerazione varrebbe a escludere ogni rilevanza residua all’art. 1136 c.n. se la previsione, per la sua necessità di eterointegrazione, non fosse risultata di per sé comunque “vuota” 32. La portata geografica della normativa speciale in materia di punibilità ed applicabilità della legge penale è circoscritta ai reati “accertati nelle aree in 31

Tale conclusione è per altro in linea con i principi espressi dalla sentenza n. 58/1997 della Corte costituzionale riguardo alla portata vincolante della condizione di reiezione della richiesta di estradizione secondo l’art. 705 c.p.p. a fronte della portata facoltativa dell’art. 8 della Convenzione europea di estradizione. Al riguardo, si rileva che nella suddetta pronuncia che costituisce un landmark case sui rapporti tra norma pattizia, ordine di esecuzione e ordinamento interno, non si rinvengono elementi atti ad opinare diversamente allorché la norma interna sia antecedente all’ordine di esecuzione. 32

L’art. 5, comma 4 del d.l. n. 209/2009 così recita: “I reati previsti dagli articoli 1135 e 1136 del codice della navigazione e quelli ad essi connessi ai sensi dell’articolo 12 del codice di procedura penale (se commessi a danno dello Stato o di cittadini o beni italiani, in alto mare o in acque territoriali altrui e accertati nelle aree in cui si svolge la missione di cui all’art. 3, comma 14) sono puniti ai sensi dell’articolo 7 del codice penale e la competenza è attribuita al tribunale di Roma”. La disposizione è stata sostituita dall’art. 19, comma 9, l. 21 luglio 2016, n. 145.

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cui si svolge la missione di cui all’articolo 3, comma 14”. Il rinvio è, in questo caso, non ad una normativa di carattere secondario ma agli OPLAN (Operation Plan) che individuano la zona d’operazione. Ad avviso dello scrivente, un siffatto riferimento non riscontra quei requisiti di certezza e conoscibilità che connotano il principio di legalità come definiti nella Costituzione e quei requisiti di “prevedibilità” teorizzati riguardo all’art. 7 della CEDU dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Analoga disposizione è oltretutto contenuta nell’art. 19, comma 9, della l. 21 luglio 2016, n. 145. In seguito alla “pasticciata” revisione dei criteri di giurisdizione, rimane oscuro se l’art. 1080 c.n. debba ritenersi derogato, limitatamente alle aree in cui svolgono le missioni anti-pirateria, dal generico rinvio all’art. 7 c.p. Certo, i links giurisdizionali costituiscono una materia nella quale sarebbe preferibile non operare modifiche per la contingenza delle missioni militari all’estero. Nondimeno, in tale prospettiva occorre precisare che nelle situazioni in cui la normativa speciale non prevede la punizione incondizionata, nel difetto della richiesta di procedimento del Ministro della giustizia quando questa può ancora sopravvenire, può procedersi ad arresto in flagranza (ma non a fermo) quando è data la condizione di procedibilità “oggettiva” (e non altrimenti surrogabile) della presenza della persona da arrestare nel territorio dello Stato (artt. 9 e 10 c.p.), ancorché “assimilato” (art. 4 c.p.), rappresentato dalla nave da guerra. Tale impostazione lascia formalmente “scoperta”, per la mancanza di una condizione di procedibilità “oggettiva”, la situazione in cui le persone si trovano ancora a bordo di una nave straniera fino al loro trasferimento sulla nave da guerra, dove è formalizzato l’arresto in flagranza. Tale vuoto (o distanza misurabile in qualche centinaio di metri) è stato in passato “coperto” con le “regole d’ingaggio”. Tale “surroga” comporta delicati problemi quanto alle funzioni di polizia giudiziaria che sono estranee alle autorizzazioni contenute nelle regole d’ingaggio. O meglio: le regole d’ingaggio e le sottostanti autorizzazioni ad agire non fanno parte dell’orizzonte delle opzioni nell’ambito del quale si muove il Comandante Ufficiale di polizia giudiziaria, ma attengono alla sfera prettamente militare. La circostanza si riverbera, per altro, anche sui rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, allorché il potere di direttiva del primo non si estende alle opzioni militari che si presentano al secondo sotto forma di regole d’ingaggio. La lacuna in termini di poteri di iniziativa sopra menzionata potrebbe rappresentare un momento di discrezionalità in un contesto nel quale l’arresto in flagranza richiede la convalida e questa prelude al successivo rila-

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scio in una farsa della giustizia che è messa in scena essenzialmente in ossequio al carattere doveroso dell’arresto e degli atti successivi, fino a raggiungere il livello della discrezionalità politica, in un dispendioso scarico di responsabilità che inficia le capacità operative del mezzo non meno di quanto nuoce alla credibilità della giustizia. La normativa speciale, come modificata in sede di conversione, risolve in senso negativo quella che era una questione dibattuta in diritto penale, ossia se l’alto mare riscontri la definizione di “estero” per gli effetti degli artt. 9 e 10 c.p. 33, prevedendo un espresso riferimento alle zone dell’alto mare nel quale si svolgono le missioni (art. 5 comma 2 d.l. n. 209/2008 come convertito dalla l. n. 12/2009 e ora art. 19, comma 5, l. 21 luglio 2016, n. 145). Come si è osservato, gli atti mediante i quali si consuma la “moderna pirateria Somala” si discostano in parte dai reati di pirateria – di qui il ricorso sul piano internazionale alla categoria degli atti di armed robbery – e possono essere inquadrati quali lesioni personali, omicidio, “sequestro di persona per fini di estorsione” (art. 630 c.p.). La condotta descritta nella Convenzione di Montego Bay, consistente nell’adibire una nave alla pirateria, quando non sussistono gli elementi costitutivi del reato di “Nave sospetta di pirateria” (art. 1136 c.n.), può risultare punibile, sussistendone i presupposti, quale associazione a delinquere finalizzata alla commissione del delitto di pirateria (art. 416 c.p.). Nel caso della cattura di nove sospetti pirati somali da parte di nave Maestrale, la prima qualificazione dei fatti da parte del pubblico ministero ai fini della richiesta di convalida dell’arresto in flagranza e dell’applicazione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere, riguardava i reati di pirateria aggravata dalla finalità di terrorismo (in relazione all’entità della minaccia alla sicurezza della navigazione nell’area ed ai riflessi intenzionali della stessa sui traffici marittimi) e dal tentato sequestro di persona per fini di terrorismo (art. 289-bis c.p.). Previsione quest’ultima, introdotta nel codice penale in seguito al sequestro dell’On. Aldo Moro da parte delle brigate rosse. La qualificazione è stata condivisa dal giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza del 25 maggio 2009 ed anche nella seconda convalida dell’arresto nei confronti di dieci pirati arrestati dalla Fregata Libeccio dopo aver sequestrato un peschereccio iraniano e poi liberati una volta resa pale33

La questione dell’applicabilità dell’art. 10 c.p. rispetto al concorrente nel reato rimasto a bordo dell’imbarcazione utilizzata per l’atto di pirateria è stata superata dalla Corte d’appello di Roma, Sez. Minori, nella decisione del 6 ottobre 2012, che ha ritenuto che le acque internazionali non siano “territorio estero” ed ha richiamato gli articoli 4 e 6 c.p.

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se la determinazione del Ministro della giustizia di non richiedere la punibilità ai sensi dell’art. 10 c.p. La connotazione “terroristica” degli atti di pirateria non è stata, invece, condivisa nel caso dei pirati catturati dalle forze speciali inglesi a bordo nella Andrea Bottiglieri. Questo ha rappresentato un caso di formalizzazione come arresto in flagranza di persone di fatto catturate in precedenza da soggetti privi di poteri di polizia (arresto da parte di militari stranieri) non identificati in atti. Analogamente, nel caso del Montecristo, è stato applicato l’art. 630 c.p. La connotazione “necessariamente terroristica” degli atti di pirateria ha consentito di evitare i provvedimenti di blocco dei beni previsti per i casi di sequestro di persona per fini estorsione 34 ed ha escluso la necessità di approfondire la questione dei contratti di assicurazione stipulati all’estero per l’evenienza del pagamento di riscatti 35. La stipula di simili contratti anche all’estero è tuttora formalmente punita con sanzioni penali dal d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni dalla l. 15 marzo 1991, n. 82. Il divieto è ad avviso dello scrivente destinato a soccombere di fronte alla libertà di prestazione di servizi nell’ambito dell’Unione Europea. Quanto alle condizioni degli ostaggi durante la prigionia, si deve registrare da parte del Consiglio di Sicurezza un crescente interessamento per le necessità di assistenza delle vittime dei pirati e dei predoni armati 36. L’attività legislativa intesa alla costruzione di un quadro normativo per la repressione della pirateria ha avuto luogo nella consapevolezza della insufficienza delle previsioni di cui agli artt. 1135 e 1136 c.n. ad assicurare la repressione delle concrete condotte dei moderni pirati, solo temperata dal riferimento ai “reati connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p.” (art. 5 comma 4, d.l. n. 209/2009). È stata, invece, obliata l’esistenza della l. n. 422/1989 che ha introdotto nell’ordinamento fattispecie di reati corrispondenti a quelle previste dal34

Per il blocco dei beni, v. art. 2 d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito in l. 15 marzo 1991, n. 82. Per l’autorizzazione al pagamento del riscatto nei casi di cui all’art. 630 c.p., v. art. 9, comma 6-bis l. 16 marzo 2006, n. 146, come inserito dall’art. 8 della l. 13 agosto 2010, n. 136. 35

Sul piano internazionale, il Consiglio di Sicurezza ha preso atto dell’importo viepiù crescente delle richieste di riscatto nelle Risoluzioni 1851 (§ 7), 1897 (§ 2), 1950 (§ 3) e 2020 (§ 6). 36

Riferimenti alla necessità di assicurare assistenza alle vittime sono contenuti nelle Risoluzioni 1816 (§ 11) e 1897 (§ 12). Nelle Risoluzioni 1950 e 2020 è menzionata l’adozione di linee guida dell’IMO per la cura e l’assistenza dei marittimi che sono rimasti vittima di atti di pirateria.

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l’art. 3 della SUA 37. Tali previsioni, se non prendono in considerazione la situazione strettamente riconducibile al sequestro di persona, sono comunque idonee a reprimere, con maggior aderenza alla realtà, le ipotesi di “presa del controllo” sulla nave allorché l’equipaggio si sia rifugiato nella cittadella e non si trovi sotto il controllo fisico dei pirati.

4. Segue: profili procedurali e trasferimento di sospetti pirati e predoni armati ad altro Stato. La normativa speciale apprestata per la pirateria si contraddistingue, quanto agli aspetti procedurali, con la “riesumazione” delle specifiche procedure per la convalida dell’arresto e del fermo e per l’effettuazione dell’interrogatorio di garanzia di cui all’art. 294 c.p.p. mediante collegamenti videotelematici o VTC, già prefigurati per la partecipazione nazionale all’operazione “Enduring Freedom” a sua volta modellato sull’art. 146-bis disp. att. c.p.p., cui attinge quanto alle modalità 38. Quest’ultima riguardava 37

L’art. 3 della l. n. 422/1989 così recita: «1. Chiunque, con violenza o minaccia, si impossessa di una nave o di una installazione fissa ovvero esercita il controllo su di essa è punito con la reclusione da otto a ventiquattro anni. 2. Alla stessa pena soggiace, se il fatto è tale da porre in pericolo la sicurezza della navigazione di una nave ovvero la sicurezza di una installazione fissa, chiunque: a) distrugge o danneggia la nave o il suo carico ovvero l’installazione; b) distrugge o danneggia gravemente attrezzature o servizi di navigazione marittima, o ne altera gravemente il funzionamento; c) comunica intenzionalmente false informazioni attinenti alla navigazione; d) commette atti di violenza contro una persona che si trovi a bordo della nave o della installazione. 3. Chiunque minaccia di commettere uno dei fatti previsti nelle lettere a), b) e d) del comma 2 è punito con la reclusione da uno a tre anni. 4. Chiunque, nel commettere uno dei fatti previsti dai commi 1 e 2, cagiona la morte di una persona è punito con l’ergastolo. 5. Chiunque, nel commettere uno dei fatti previsti dai commi 1 e 2, cagiona ad alcuno lesioni personali è punito ai sensi degli articoli 582 e 583 del codice penale ma le pene sono aumentate. 6. Quando per le modalità dell’azione e per la tenuità del danno o del pericolo il fatto è di lieve entità, le pene indicate nei commi 1 e 2 sono ridotte da un terzo a due terzi. 7. Le disposizioni del presente articolo non si applicano quando il fatto è previsto come più grave reato da altra disposizione di legge». 38 Il rinvio è, in questo caso, all’articolo 9, commi 3, 4, lettere a), b), c) e d), 5 e 6, del d.l. 1 dicembre 2001, n. 421, convertito, con modificazioni, dalla l. 31 gennaio 2002, n. 6.

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originalmente le persone soggette alla giurisdizione militare ed è stata ora estesa alla persone arrestate o fermate nell’ambito di operazioni di contrasto alla pirateria quando esigenze operative ne impediscono il trasferimento nel territorio dello Stato. L’attenzione prestata alla materia della convalida dell’arresto e del fermo e dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. è diretta conseguenza dell’impostazione constabulary della missione che è intesa a contrastare un fenomeno che, pur idoneo per dimensione e modalità di manifestazione a costituire una minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale (di qui l’interessamento del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite), è un fenomeno essenzialmente criminale. Tale impostazione ben si attagliava alle tradizionali funzioni di polizia giudiziaria che i Comandanti delle navi da guerra svolgono in alto mare (artt. 200 e 1235 n. 4 c.n.) quanto agli atti urgenti e quelli delegati dall’autorità giudiziaria. La peculiarità di tali funzioni è rappresentata dal fatto che il Comandante della nave è al contempo Ufficiale di polizia giudiziaria (e come tale soggetto alla direzione del pubblico ministero) e persona investita del Comando di un assetto (la nave da guerra) che per l’impiego di questo non risponde all’autorità giudiziaria, ma alla catena gerarchica. L’autorità giudiziaria dispone, in altri termini, dell’uomo sulla nave, ma non della nave medesima e dell’armamento, il cui impiego in supporto al compimento di attività di polizia giudiziaria, è materia di “concorso” delle forze armate. Né l’art. 15 del regio decreto 30 gennaio 1941 n. 12 sull’ordinamento giudiziario che attribuisce al pubblico ministero il potere di richiedere direttamente l’intervento “forza armata” gli attribuisce il comando delle “forze armate”. La predisposizione di una procedura di convalida a distanza e della trasmissione in formato elettronico, nel termine esteso a 48 ore, del verbale di arresto risponde alle esigenze di assicurare alle persone che si trovano in un contesto spaziale assimilato al territorio dello Stato (art. 4 c.p. e art. 4 c.n.) i diritti delineati dall’art. 13 Cost. L’estensione, della cui correttezza non vi è ragione di dubitare, è avvenuta sul presupposto della evidente applicazione extra territorium della Costituzione alla privazione delle libertà personale che ha luogo su una nave da guerra. Tale circostanza impone, purtroppo, di osservare come manchi tuttora una studio scientifico di quella che è la reale portata extraterritoriale della nostra Costituzione. La dottrina non ha evidentemente fatto tesoro del dibattito su “Guantanamo” per il quale si sono sprecate superficiali considerazioni anche da parte di Presidenti emeriti della Corte costituzionale, ma

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senza che se ne sia tratto spunto per un approfondimento scientifico che non è, invece, mancato in altri Stati europei. In questi ultimi sono recentemente stati pubblicati interessantissimi studi sul rapporto tra giurisdizione ratione personae sotto la CEDU e sotto le norme costituzionali interessate e anche sul rapporto tra i criteri per una “responsabilità condivisa” (shared liability) tra più Stati e/o organizzazioni internazionali e l’inquadramento costituzionale delle medesima problematica 39. La normativa sopra menzionata è per alcuni versi angusta e non ricomprende formalmente gli incidenti impugnatori della convalida e della custodia cautelare. Circostanza che non sarebbe di grande impatto, se la giurisprudenza non avesse costantemente mostrato un formalismo eccessivo proprio nella materia processuale. La normativa tace, inoltre, sui colloqui delle persone detenute con il difensore e sull’accesso a distanza del difensore al luogo di detenzione che devono essere assicurati alla luce di un’interpretazione estensiva delle disposizioni applicabili nel territorio dello Stato. Nel caso di specie il Comandante della nave è chiamato “di fatto” ad esercitare le funzioni che la legge riconosce al direttore di istituto di pena, posto che le norme del codice di procedura penale limitano la facoltà di ricevere istanze e ricorsi dell’ufficiale di polizia giudiziaria alle situazioni in cui queste sono presentate dalla persona arrestata. La “tenuta” del sistema non è stata sottoposta alla verifica delle impugnazioni in quanto in nessuno dei casi in cui le persone arrestate non sono state trasferite in Italia sono stati impugnati i provvedimenti di convalida ed i provvedimenti cautelari. Evidentemente l’avvocatura non ha ritenuto di cogliere l’occasione per radicare il procedimento presso la Corte di cassazione al fine di prevenire la consegna o il trasferimento che andava delineandosi. La possibilità della convalida “a distanza” ha comunque permesso di evitare quei ritardi nel condurre le persone private delle libertà personale davanti ad un giudice ai sensi dell’art. 5, paragrafo 3, della CEDU, che sono stigmatizzate recentemente in due decisioni della Corte EDU 40.

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Si veda sul punto, M.A. YOUSIF, Die extraterritoriale Geltung der Grundrechte bei der Ausübung deutscher Staatsgewalt im Ausland, Peter Laing, Colonia, 2007. 40 Il riferimento è ai casi Ali Samatar e altri c. Francia, ricorsi n. 17110/10 e 17301/10, decisione del 4 dicembre 2014, relativa alle persone arrestate per il sequestro del veliero Le Ponant, e Hassan e altri c. Francia, ricorsi n. 46695/10 e 54588/10, decisione del 2 dicembre 2014. Quest’ultimo caso riguarda le persone arrestate in seguito al dirottamento del veliero le Carré d’As.

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Le disposizioni sulla convalida dell’arresto e del fermo sono state in seguito estese mutatis mutandis agli atti posti in essere dai Nuclei Militari di Protezione (NMP), con l’estensione al Capo Nucleo della qualifica di Ufficiale di polizia giudiziaria riguardo ai reati di cui agli artt. 1135 e 1136 c.n. e reati connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. Come accennato, tali nuclei non sono attualmente più previsti. Si era già visto che il riferimento all’art. 1136 c.n. evoca una condotta che, per problematiche connesse con l’antigiuridicità specifica della condotta (“abusivamente fornita d’armi”), è destinata a rimanere vuota. Nel caso degli NMP la vacuità del riferimento è ulteriormente aggravata (se possibile) dal fatto che i NMP imbarcati su mercantili non svolgono funzioni di polizia dell’alto mare e non possono “fermare” e “visitare” navi. Più in generale, l’attribuzione della qualifica di Ufficiale di Polizia giudiziaria al Capo Nucleo è frutto di una impostazione culturale che vuole il militare subordinato comunque all’Ufficiale di polizia giudiziaria e, tenuto conto della qualifica del Comandante della Nave, nella reazione ad una minaccia che, per il potenziale offensivo e l’impiego di armi da guerra, ha una dimensione “militare”, si è ritenuto di “pareggiare” i conti attribuendo analoga qualifica al Comandante del NMP. E poiché anche in tale caso sarebbe residuato un margine di equivoco circa il concorso con la competenza del Comandante della nave si è attribuita la competenza esclusiva alla difesa militare della nave al Capo Nucleo NMP. La vicenda in piccolo replica le incertezze applicative che si riscontrano più in generale nel tracciare il confine tra le attività consistenti nel contrasto di una minaccia attuale e quelle repressive. L’aspetto della “consegna” delle persone catturate alle autorità di altro Stato costituisce l’aspetto probabilmente di maggior interesse della normativa speciale per la repressione della pirateria. Nel recente passato la consegna di persone catturate nell’ambito di operazioni militari era fenomeno che, per la qualificazione delle stesse missioni, sempre e comunque “di pace”, escludeva la presa di prigionieri di guerra e l’applicazione, nel trasferimento delle stesse, delle garanzie previste dalla III^ Convenzione di Ginevra. La consegna avveniva con il caveat del divieto rispetto alle autorità di uno Stato nel quale era in vigore la pena di morte, richiamando opportunamente la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 698 c.p.p. nella parte in cui, atteso il valore assoluto in gioco, consentiva nondimeno la consegna in presenza di “sufficienti garanzie” 41. 41

Corte Cost., sentenza 27 giugno 1996, n. 223.

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Il predetto caveat, “istintivo” ed “emozionale”, sopperisce in un certo senso alla mancanza di un approfondimento dottrinale circa il valore solo formale o anche sostanziale delle garanzie apprestate dalla Costituzione rispetto all’estradizione 42 e, in particolare, alla applicabilità di tali garanzie: a) ad ogni forma di consegna con la partecipazione di autorità dello Stato (inclusa la cessione del controllo sulla persona) di una persona ristretta nella propria libertà personale, b) alla consegna extra territorium, c) alla consegna che non importa allontanamento dal territorio nazionale (es. la consegna di militari stranieri di stanza nel territorio dello Stato alle rispettive autorità del sending State), d) a “causali” differenti dall’esecuzione di pena o dell’assoggettamento a processo (la prassi delle operazioni militari contempla i security detainees, ossia soggetti pericolosi per la missione, privati della libertà anche in via preventiva e latamente assimilabili ai civili internati sotto la IV Conv. di Ginevra, ed anche i soggetti detenuti nel proprio interesse al fine di sottrarre gli stessi ad atti di violenza di terze parti). Lungi dal voler rispondere ai predetti quesiti, ci limitiamo ad osservare che la consegna di militari stranieri di stanza nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. VII del NATO SOFA, non dà tuttora luogo ad una procedura giurisdizionale: sulle richieste di assistenza dispone il procuratore generale presso la corte d’appello che nei cinquanta anni dall’adozione della normativa ha perso ogni potere di incidere sulla libertà personale dell’imputato 43. La consegna ha luogo, in quest’ultimo caso, anche per reati che prevedono in astratto la pena di morte, in difetto di previsione bilaterale del fatto (difetto che costituisce d’altra parte, la ratio delle ipotesi di giurisdizione esclusiva del sending State) ed anche in difetto di un provvedimento restrittivo della libertà personale che risponda con caratteri di giurisdizionalità (basta il provvedimento di restraint del Commanding Officer). Purtroppo lo studio della materia dei SOFA è stato apparentemente condizionato da un “atteggiamento feticistico” rispetto alla giurisdizione penale nazionale che ha trascurato i profili degli obblighi di garanzia nei confronti dell’individuo che pure hanno dato luogo ad accesi dibattiti nei Paesi Bassi, nel Regno Unito e in Germania. Premesso quanto precede, il predetto caveat ovviamente non esaurisce 42

Sulle differenti ipotesi di consegna extraterritoriale e nel medesimo territorio, volendo, J.P. PIERINI, Beyond extradiction: Safeguards for “Extraterritorial” and “Same Territory” surrender of individuals, in Cahiers de defense sociale, 2006-2007, p. 103 ss. 43

Art. 8 d.p.r. 2 dicembre 1956, n. 1666.

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gli obblighi di protezione nei confronti della persona catturata che includono il divieto della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti ed anche le garanzie che devono pretendersi nel caso della consegna del minore alle autorità giudiziarie di altro Stato 44. Per altro queste ultime sono di carattere “strutturale” e riguardano l’apparato normativo e giudiziario e non si prestano ad essere surrogate da “assicurazioni” dello Stato ricevente. È appena il caso di osservare che gli accordi negoziati dall’Unione Europea non menzionano la questione delle garanzie dei minori 45 e che in alcuni degli Stati con il quale sono stati negoziati accordi vi è la presunzione di imputabilità dall’età di sette anni. La concreta attitudine nella verifica delle condizioni della consegna delle persone alle autorità di altro Stato è apparentemente quello di evitare un “coinvolgimento formale”, imputando la cattura direttamente alle autorità straniere 46. In questo momento l’attenzione di quanti seguono l’evolversi del quadro di garanzie della persona nell’ambito delle operazioni militari all’estero è puntata sulla propensione della Corte Suprema del Regno Unito ad esercitare la habeas jurisdiction in surroga delle autorità statunitensi per persone catturate da forze britanniche e quindi consegnate alle forze

44 Con la sentenza 8 aprile 1987, n. 128, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della l. 9 ottobre 1974, n. 632 nella parte in cui, ratificando il trattato in materia di estradizione fra l’Italia e gli U.S.A., firmato a Roma il 18 gennaio 1973, consente l’estradizione dell’imputato ultraquattordicenne ed infradiciottenne anche nei casi in cui l’ordinamento della Parte richiedente non lo considera minore in ragione della presunzione di imputabilità per il soggetto minore. Più recentemente, v. Cass., Sez. VI, 22 maggio 2008, n. 21005, in C.e.d. 240198, con la quale il giudice di legittimità ha escluso la consegna di un minore alla Romania per mancanza nell’ordinamento dello Stato richiedente, di un accertamento effettivo della imputabilità del minore. 45 La posizione dell’Unione Europea in materia è che eventuali riserve riguardo al trattamento dei minori in seguito ad una possibile consegna, devono essere rappresentate dallo Stato membro che gli ha in custodia, se vi è certezza sull’età della persona catturata. Il problema è, in altri termini, “nazionale” e il difetto di accertamento della qualità di minore gioca a sfavore della persona. 46

V. CAMPORINI, Lo Strano caso dei due marò italiani in India, http://www.affarinterna zionali.it/articolo.asp?ID=1994, oggetto di accesso in data 12 novembre 2012. Il passaggio menzionato nel testo è il seguente: “Il caso ha creato un precedente che ha informato tutti i comportamenti delle istituzioni italiane: in campo militare, ad esempio, i nostri contingenti impegnati nelle varie missioni internazionali, in paesi dove la pena di morte non è stata formalmente abolita, sono molto attenti nella gestione degli eventuali prigionieri catturati: a tal riguardo, le pattuglie sono rigorosamente miste e gli eventuali arresti sono effettuati non dal nostro personale, ma da personale locale, in modo che la consegna alle autorità giudiziarie avvenga senza che ci sia formalmente un coinvolgimento dei nostri soldati”.

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statunitensi e detenute a Bagram 47. Tale svolta giurisprudenziale è connessa alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi in precedenza citati, e sarebbe lecito attendersi ad una qualche forma di riflessione dottrinale, ma pare che non se ne sia accorto nessuno. L’insufficienza delle garanzie rispetto alla consegna di persone catturate e detenute all’estero ed in procinto di essere consegnate alle autorità di altro Stato è in un certo senso imputabile al grave equivoco ingenerato da una cultura processuale penale che confonde i rimedi apprestati rispetto alle misure cautelari con l’habeas corpus che è, nella sua essenza, un rimedio alla detenzione da parte di autorità amministrative, di natura “civile” e volto all’accertamento dell’esistenza di una base legale per la detenzione. In una prospettiva nella quale i rimedi de libertate hanno carattere necessariamente impugnatorio e presuppongono un provvedimento restrittivo piuttosto che uno status o una situazione, chiaramente la detenzione di persone all’estero si sottrae alle impugnazioni di cui agli artt. 309 ss. c.p.p. Se anche vi dovesse rientrare per un raptus di fantasia processuale, mancherebbe per lo più la possibilità di “accedere” al giudice, laddove l’habeas corpus riconosce la legittimazione del petitioner’s next friend. A titolo di raffronto si osservi che la massima apertura rinvenibile nel codice di procedura penale riguarda la nomina del difensore ad iniziativa del prossimo congiunto dell’arrestato in flagranza. Nel retroterra culturale che si è appena delineato, è stata adottata la normativa contenuta nel d.l. 15 giugno 2009, n. 61 che, per la consegna delle persone catturate nell’ambito delle operazioni di contrasto della pirateria internazionale, presenta tutte le caratteristiche per farne oggetto della teratologia, evocata da Franco Cordero a proposito di una passata stagione di riforme processuali. La normativa, come si vedrà, si connota per la mancanza di qualsiasi formale coinvolgimento dell’autorità giudiziaria nel procedimento di consegna 48. Tale circostanza non è casuale e nelle fasi della definizione del 47 48

United Kingdom Supreme Court, [2012] UKSC 48.

L’art. 5 comma 6-bis del 5 del d.l. n. 209/2008, come modificato dal d.l. n. 61/2009 in seguito convertito in l. n. 100/2009, così recita: «Fuori dei casi di cui al comma 4, per l’esercizio della giurisdizione si applicano le disposizioni contenute negli accordi internazionali. In attuazione dell’Azione comune 2008/851/PESC del Consiglio, del 10 novembre 2008, e della decisione 2009/293/PESC del Consiglio, del 26 febbraio 2009, sono autorizzate le misure previste dall’articolo 2, primo paragrafo, lettera e), della citata Azione comune e la detenzione a bordo del vettore militare delle persone che hanno commesso o che sono sospettate di aver commesso atti di pirateria, per il tempo strettamente necessario al trasferimento previsto dall’articolo 12 della medesima Azione comune. Le stesse misure, se

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provvedimento erano state, comunque, proposte soluzioni atte a qualificare correttamente come “restrizione della libertà” personale quelle limitazioni che la persona subisce in vista della consegna e la stessa decisione di consegna. Al tempo era stata anche considerata la possibilità di investire di entrambi gli aspetti direttamente la Corte di cassazione. A fronte dell’opposta istanza che voleva il decreto legge silente sul profilo della consegna per escludere possibili incidenti di costituzionalità, per limitare l’intervento sui titoli di giurisdizione, il compromesso fu raggiunto sulla menzione della consegna con rinvio all’azione comune 851/2008/PESD ed a quella che autorizzava lo scambio di lettere con il Kenya, ma tacendo sul procedimento. Tale soluzione si prestava, in ogni caso, ad una “interpretazione costituzionalmente correttiva”, al fine di “innestare” nel procedimento di consegna, se non altro, una convalida dell’arresto e, secondo il livello di attenzione del difensore, l’impugnazione della stessa. Quanto alla concreta disciplina della consegna, si rileva che il rinvio all’azione comune 2008/851/PESD con la quale è stata adottata la decisione circa la missione Atalanta e circa la connotazione della stessa è, invero, un atto “non normativo” ed essenzialmente politico. Il rinvio pone il problema della “normativizzazione” di un atto politico, privo di per sé di funzione normativa; la scelta non appare idonea alla creazione di una procedura per la consegna che risponda ai requisiti della riserva di legge in quanto non individua organi, responsabilità, rimedi giuridici e termini per la custodia e presuppone, in ogni caso, l’esistenza di un idoneo quadro normativo negli Stati membri 49. È inoltre il caso di osservare previste da accordi in materia di contrasto alla pirateria, e la detenzione a bordo del vettore militare possono essere altresì adottate se i predetti accordi sono stipulati da Organizzazioni internazionali di cui l’Italia è parte». L’attuale art. 19, comma 9, della l. 21 luglio 2016, n. 145, non contiene più i riferimenti all’azione comune. 49 L’art. 12 dell’azione comune 2008/851/PESD nel testo vigente al momento dell’adozione del d.l. n. 61/2009 così recitava: «Trasferimento delle persone arrestate e fermate in vista dell’esercizio delle competenze giurisdizionali. 1. Sulla base dell’accettazione da parte della Somalia dell’esercizio della giurisdizione ad opera degli Stati membri o degli Stati terzi, da un lato, e dell’articolo 105 della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, dall’altro, le persone che hanno commesso o sono sospettate di aver commesso atti di pirateria o rapine a mano armata arrestate e fermate al fine dell’esercizio di azioni giudiziarie nelle acque territoriali della Somalia o in alto mare, nonché i beni che sono serviti a compiere tali atti, sono trasferiti: – alle autorità competenti dello Stato membro o dello Stato terzo che ha partecipato all’operazione del quale la nave che ha effettuato la cattura batte bandiera, o – se tale Stato non può o non intende esercitare la propria giurisdizione, a uno Stato membro o a qualsiasi Stato terzo che desideri esercitarla nei confronti di tali persone e beni.

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che se il rinvio aveva carattere necessariamente recettizio e statico, l’azione comune è stata in seguito modificata, pur senza stravolgimenti, dalla successiva 2010/766/PESD. Differenti, ma non minori problemi pone il rinvio all’azione comune 2009/293/PESD con il quale il Consiglio UE ha deciso di procedere allo scambio di lettere con il Kenya per la consegna delle persone catturate nell’ambito dell’operazione Atalanta. L’accordo tra l’UE ed il Kenya, per l’incidenza su materia coperta da riserva di legge, avrebbe richiesto l’autorizzazione alla ratifica con legge ed è quantomeno dubbio che una “cripto-ratifica” possa essere inserita in un decreto legge. Infine l’ultimo periodo dell’art. 6-bis prevedeva implicitamente la detenzione e la consegna con modalità analoghe a quelle sopra illustrate, quando previste in accordi conclusi da Organizzazioni internazionali di cui l’Italia è parte. Il riferimento è, in questo caso, alla NATO che intendeva adottare accordi similari a quelli dell’UE, ma che non sono stati ancora adottati. Ad oggi in un solo caso si è proceduto alla consegna di persone catturate alle autorità del Kenya con “trattenimento” delle persone fino all’avvenuta consegna disposto direttamente nell’ordinanza di scarcerazione 50. A tale riguardo, non può non citarsi la decisione della Cassazione 51 che, incidentalmente, delinea la detenzione ai fini del trasferimento come misura di natura coercitiva, ma non integrante natura di attività di polizia giudiziaria, destinata a supportare una consegna “disposta direttamente dalla legge” e tale da sfuggire a ogni coinvolgimento dell’autorità giudiziaria in quanto “attività sui generis”. Mentre il riferimento alla natura sui generis di un istituto costituisce prima facie ragione di sospetto, la descrizione operata nella funzione di nomofilachia non potrebbe con maggiore puntualità elencare i profili di incostituzionalità di un meccanismo che sottrae al giudi2. Nessuna delle persone di cui al paragrafo 1 può essere trasferita in uno Stato terzo se le condizioni del trasferimento non sono state stabilite con tale Stato terzo in conformità del diritto internazionale applicabile, compreso il diritto internazionale dei diritti umani, al fine di garantire in particolare che nessuno sia sottoposto alla pena di morte, alla tortura o a qualsiasi altro trattamento crudele, inumano o degradante». 50 L’ordinanza di rimessione in libertà dei nove cittadini Somali detenuti a bordi di Nave Maestrale, adottata il 17 giugno 2009 dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Roma, contiene nella motivazione in riferimento al trattenimento in Stato di detenzione delle persone e, nella parte dispositiva, ordina il trasferimento delle stesse alle autorità del Kenya. La copertura giurisdizionale fornita alla perdurante detenzione ed alla consegna ben possono collocarsi nel segno di una interpretazione costituzionalmente correttiva della normativa speciale. 51

Cass., Sez. II, 4 febbraio 2013, n. 26825, in C.e.d. 256646.

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ce una misura privativa della libertà personale, salvo che la Cassazione pare non essersene avveduta. Per completezza, si rappresenta che anche a voler ipotizzare una impugnazione del “comportamento” dell’amministrazione davanti al giudice amministrativo, superate le difficoltà connesse con il mandato alle liti, la materia non risulta tra quelle attribuite in via esclusiva al giudice amministrativo. Le difficoltà pratiche ostano, d’altra parte, anche ad un ricorso al giudice ordinario sotto il profilo della lesione di diritti civili. È il caso di osservare che la prima consegna di pirati al Kenya da parte di una fregata tedesca è stata portata all’attenzione del giudice amministrativo 52 posto che nelle prime fasi dell’arresto le autorità giudiziarie tedesche coinvolte in apposito “comitato di crisi” avevano formalmente archiviato il procedimento penale ai sensi del § 153-c dell’ordinamento processuale penale (StPO) e la vicenda detentiva e della consegna era slittato in un ambito amministrativo-diplomatico. Il Verwaltungsgericht, e poi l’Oberverwaltungsgericht, chiamati a giudicare della legittimità del trasferimento delle persone catturate al Kenya, mentre hanno escluso una violazione degli obblighi di convalida della privazione delle liberta (art. 104 del Grundgesetz, approssimativamente corrispondente all’art. 13 Cost.) che, alla luce di un evidente favor per la cooperazione internazionale, risulterebbero trasferiti alle autorità Keniote e da questi esercitate, hanno, comunque, ritenuto che la consegna imponesse una previa verifica giurisdizionale delle condizioni alle quali la persona trasferita è esposta; verifica che, nel caso di specie è mancata. La ratio della decisione si presta ad alcune considerazioni comparatistiche. La simmetria esistente tra l’art. 104 GG e l’art. 13 Cost. non ci sembra possa giustificare l’outsourcing della convalida dell’arresto; probabilmente il requisito della giurisdizionalità della decisione sulla consegna (o costituente condizione della consegna) sussiste anche nell’ordinamento italiano. La differente connotazione del sistema della giustizia amministrativa in Germania non ci sembra giustifichi speculazioni circa una devoluzione agli organi nazionali della giustizia amministrativa del controllo di legittimità sulla consegna.

52 Verwaltungsgericht Köln, 25 K 4280/09, decisione dell’11 novembre 2011; Obererwaltungsgericht Nordrein Westfalen del 18 settembre 2014.

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5. Conclusioni. Il quadro normativo del contrasto alla pirateria costituisce un complesso contraddistinto, per la parte nazionale ma non solo, da numerose carenze e contraddizioni. Costituisce, d’altra parte anche un’occasione per una rimeditazione di profili costituzionali e anche per interventi di più ampio respiro. Il riferimento è all’adozione di una normativa sulle “garanzie a distanza” che superi le angustie dell’attuale normativa. Potrebbe anche rappresentare l’occasione per risolvere in via generale il problema della consegna delle persone all’estero dalle forze armate, eventualmente modellando la soluzione sulla procedura di espulsione.

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ESISTONO DAVVERO DIRITTI INVIOLABILI? di Renzo Orlandi

SOMMARIO: 1. Preambolo. – 2. Il punto di vista etico. – 3. Il punto di vista sociologico. – 4. Il punto di vista giuridico. – 5. Conclusioni.

1. Preambolo. L’affermazione di inviolabilità dei diritti caratterizza le costituzioni moderne, sorte sulle esperienze tragiche e traumatizzanti del totalitarismo novecentesco. Non fa eccezione la costituzione italiana del 1948 che, analogamente alla tedesca del 1949, alla portoghese del 1976 e alla spagnola del 1978, assegna alle classiche libertà (personale, domiciliare, di comunicazione e corrispondenza) il rango, per l’appunto, di diritti inviolabili. Unantastbar, inviolável, inviolable sono le qualifiche che i testi appena evocati in via esemplificativa associano alle accennate libertà. La circostanza poi che tali libertà siano “riconosciute” e non “concesse” dall’alto, sottrae i diritti in questione all’arbitrio legislativo. “Inviolabilità” non significa, peraltro, assoluto divieto per l’autorità statale di limitare i diritti individuali, quando ciò appaia giustificato da ragioni di pubblico interesse (in primis, quelle connesse con la repressione e prevenzione di reati) che di quei diritti legittimano la compressione. “Inviolabilità” significa, piuttosto, divieto (questo sì, assoluto) di scalfire o comprimere quel nucleo interno a ogni libertà dell’individuo che il moderno diritto costituzionale identifica nella dignità della persona 1. 1

L’esistenza di un nucleo incomprimibile, al centro di ciascun diritto fondamentale, trova riscontro testuale nell’art. 19, comma 2 della costituzione tedesca, dove si legge che “in nessun caso un diritto inviolabile può essere scalfito nel suo contenuto essenziale”. Ciò

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Nell’esperienza penalistica, l’inviolabilità dei diritti è soggetta a torsioni e compressioni di vario grado, in ragione della gravità, dell’insidiosità, della temibilità dei fenomeni da reprimere o prevenire. Ciò legittima, negli ordinamenti moderni, l’adozione di misure particolarmente severe nei confronti di soggetti sospettati 2, indiziati 3 o condannati 4 per reati di criminalità organizzata. Simili misure non sono di per sé censurabili dal punto di vista giuridico-costituzionale, purché adottate nel rispetto del principio di proporzionalità 5 ed eseguite senza scalfire la dignità della persona. Il problema sorge quando – col pretesto di affrontare o contrastare fenomeni di inedita gravità o brutalità – si pretende di comprimere quel nucleo essenziale dei diritti individuali che le costituzioni moderne si ostinano a considerare inviolabile. È quel che rischia di accadere o che già sta accadendo in tempi recenti, sul terreno del contrasto al terrorismo internazionale. Dall’11 settembre 2001 l’aria è decisamente cambiata e i tragici avvenimenti verificatisi a Madrid nel marzo 2004, a Londra nel luglio 2005, a Parigi nel gennaio e nel novembre 2015, a Bruxelles nel marzo 2016, a Nizza nel luglio 2016, a Berlino nel dicembre 2016 (tanto per stare nel nostro continente) hanno peggiorato il clima, inducendo i governi a mettere in campo strategie volte a prevenire con ogni mezzo stragi del tipo di quelle che hanno insanguinato ha propiziato il formarsi di un pensiero costituzionalistico incline a ravvisare nella dignità umana (Menschenwürde) il limite invalicabile e, al contempo, il criterio ispiratore di ogni manifestazione del potere pubblico che pretenda di esprimersi come forza coercitiva e limitativa di diritti individuali. Si vedano, al riguardo, le significative prese di posizione di W.E. BÖCKERNFÖRDE, Grundrechte als Grundsatznormen. Zur gegenwärtigen Lage der Grundrechtsdogmatik, in Wissenschaft, Politrik, Verfassungsgericht, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 2011, p. 189 ss. Benché la costituzione italiana non contenga una esplicita disposizione volta a salvaguardare in termini assoluti il “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali, è lecito e ragionevole supporre l’esistenza di un principio implicito dello stesso tenore di quello espresso nel citato art. 19, comma 2 del Grundgesetz, principio segnalato dal generico ma eloquente riferimento ai “diritti inviolabili dell’uomo” che compare nell’art. 2 della nostra carta fondamentale. 2 Si pensi alle misure di carattere preventivo che, a norma del d.lgs. n. 159/2011, possono essere adottate nei confronti di persone sospettate di appartenenza ad associazioni mafiose. 3 Si pensi alle speciali regole in tema di misure cautelari personali (art. 275 comma 3 c.p.p.) o in tema di intercettazioni di comunicazioni (art. 13 d.l. n. 152/1991) che possono essere disposte nei confronti di indiziati di delitti di criminalità organizzata. 4 Paradigmatiche, al riguardo, le severe regole penitenziarie imposte ai condannati per reati gravi e allarmanti dagli artt. 4-bis e 41-bis del nostro ordinamento penitenziario. 5 Per una succinta illustrazione di questo principio come criterio regolatore della compressione di diritti individuali motivata da esigenze preventive o repressive E. BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale, Giuffrè, Milano, 2005, 278 ss.

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le principali capitali europee. Basti ricordare, da ultimo, la reazione del presidente Hollande all’indomani dei tragici eventi del 2015, concretatasi nella proposta di una modifica costituzionale volta a prevedere lo stato d’emergenza, vale a dire l’attribuzione di poteri speciali all’esercito e alle forze di polizia per fronteggiare e possibilmente prevenire con maggior efficacia azioni terroristiche. L’amministrazione statunitense reagì in maniera anche più severa, nel settembre 2001, approntando leggi speciali (PATRIOT Act) e istituendo giudici straordinari (Military Commissions), con spiccate finalità di prevenzione antiterroristica. Da tempo, le iniziative dei governi in questo ambito di tutela della sicurezza hanno assunto caratteristiche che le rendono affini ad atti bellici, più che a iniziative giudiziarie. Ciò appare evidente già nel linguaggio normativo, dove fanno capolino termini come lotta, lutte, lucha, Bekämpfung, War e simili, del tutto inadatti a definire il contesto della controversia giudiziaria 6. Il modo di intendere la prevenzione e la repressione del crimine tende a incrudelirsi quando i pericoli o i danni che ci si immagina di dover fronteggiare assumono le dimensioni di un’ecatombe e quando, altresì, le persone che quel danno sono in grado di causare si presentano col volto minaccioso del nemico. È pertanto comprensibile il risveglio d’interesse che la letteratura del nostro tempo fa registrare su propensioni che, fino a qualche tempo fa, sembravano oggetto di universale ripudio (quanto meno in ambito occidentale), quali la giustificabilità della tortura e, più in generale, l’uso di mezzi o strumenti reputati idonei a prevenire gravi pericoli, anche a costo di annientare la dignità della persona. La discussione ha interessato, a vario titolo, filosofi della morale, sociologi e giuristi, con argomentazioni capaci di superare i tradizionali confini del sapere specialistico. Di qui l’opportunità di uno sguardo – pur veloce e rapsodico – ad alcune recenti trattazioni extra-giuridiche, che offrono tuttavia ricchi spunti di riflessione anche al giurista. Considerato che – con riguardo al quesito espresso nel titolo di questo saggio – i contributi di maggior interesse provengono dalla letteratura americana e tedesca, ci si limiterà qui di seguito alla presentazione critica di alcune posizioni-tipo sufficientemente rappresentative dello stato della discussione nell’attuale fran6

Sulle contaminazioni (concettuali e lessicali) fra guerra e diritto penale nell’evoluzione delle normative post-11 settembre è raccomandabile il saggio di C. PRITTWITZ, Krieg als Strafe – Strafrecht als Krieg. Wird nach dem “11 September” nichts mehr sein, wie es war?, in Festschrift K. Lüderssen, Nomos, Baden-Baden, 2002, p. 499 ss.

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gente storico. Non c’è, pertanto, pretesa di completezza nella registrazione delle voci che animano l’odierno dibattito sulla tutela dei diritti inviolabili nell’epoca del terrorismo internazionale. Si è preferito privilegiare una più limitata illustrazione di posizioni provenienti – come detto – da studiosi di diverse discipline, tutti ansiosi di affrontare interrogativi delicatissimi posti dalle ripetute imprese del terrorismo internazionale, pervenendo a conclusioni destinate a intrecciarsi e condizionarsi reciprocamente.

2. Il punto di vista etico. Se sia lecito – da un punto di vista morale prima ancora che giuridico – eliminare un essere umano (peraltro innocente) per salvarne altri è l’oggetto di un recente, intrigante saggio. Uccideresti l’uomo Grasso? È il provocatorio interrogativo scelto per titolo del volume pubblicato recentemente dal filosofo DAVID EDMONDS 7. L’Autore si esercita in una serie di esperimenti mentali che, pur con piccole variazioni, hanno in comune la scelta coartata del male minore: vi trovate su un ponte ferroviario a qualche metro di distanza da un uomo di grande mole; sui binari sono state legate cinque persone destinate ad essere investite e sicuramente uccise da un carrello che sta per sopraggiungere; azionando una leva, voi provochereste l’apertura di una botola e la caduta dell’uomo grasso, con la conseguenza di provocarne la morte e di fermare il carrello. Azionereste quella leva? Da un punto di vista giuridico, il problema sarebbe forse risolvibile riferendosi allo stato di necessità. Ma qui interessa il punto di vista etico, certo scindibile da quello strettamente giuridico, eppur rilevante non solo come principio-guida della condotta umana, ma altresì come criterio per orientare scelte legislative e persino giurisprudenziali (in casi dubbi). Chi muove da premesse utilitariste sarà incline a sacrificare l’uomo grasso (oltretutto, una sorta di reietto stando ai vigenti canoni estetici) per salvare gli altri cinque (che supponiamo invece magri e scattanti). Chi invece, muovesse da un’etica religiosa o anche laico-kantiana, fondata su imperativi categorici di per sé incondizionati, non azionerebbe mai quella leva e accetterebbe il sacrificio dei poveretti legati ai binari, come ineluttabile conseguenza della sua doverosa omissione. 7

Would You Kill the Fat Man? The Trolley Problem and Whats Your Answer Tells Us About Right and Wrong, Princeton University Press 2013 (trad. it. Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore, Raffaello Cortina ed., Milano, 2014).

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Nel suo saggio DAVID EDMONDS presenta – sempre in forma di esperimento mentale – un caso realmente accaduto, che ha propiziato una discussione e una serie di decisioni giudiziarie molto interessanti per il nostro tema. Il giovane figlio di un facoltoso banchiere tedesco, è stato rapito 8. Il sequestratore chiede e ottiene un lauto riscatto, col quale prenota costose vacanze in un paese esotico. La polizia riesce però ad identificarlo e ad arrestarlo nel parcheggio dell’aeroporto, poco prima che il suo volo decolli. Interrogato su dove abbia nascosto il ragazzo rapito, il sospetto sequestratore oppone un ostinato silenzio, fino a quando l’ufficiale di polizia che lo sta interrogando lo minaccia di torture e indicibili sofferenze. A quel punto, il sospettato rivela il luogo dove cercare il ragazzo rapito, che sarà infatti ben presto trovato morto, chiuso in un sacco, gettato in un laghetto. Il caso provoca subito un grosso dibattito nei media tedeschi: è lecita una tortura a fin di bene? Una tortura a fini di salvataggio (Rettungsfolter)? L’opinione pubblica si spacca. Una parte quantitativamente significativa si schiera dalla parte del poliziotto, il quale, codice alla mano, ha oltrepassato la soglia del lecito, ma lo ha fatto nella speranza di salvare il giovane sequestrato (della cui morte ancora non si sapeva). La maggior parte dei giuristi interviene invece per censurare il comportamento della polizia, invocando la Menschenwürde che in nessun caso può essere violata nel suo contenuto essenziale 9. Il caso ha avuto poi un suo epilogo giudiziario davanti ai giudici tedeschi e, per finire, davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. I primi hanno condannato a una pena pecuniaria l’ufficiale di polizia (Wolfgang Daschner) autore della minacciata tortura: una pena peraltro lieve subordinata a una sospensione condizionale (un anno) e mai eseguita. Il procedimento disciplinare nei suoi confronti è stato poi archiviato, sicché Daschner ha mantenuto la sua funzione nella polizia dell’Assia. Curiose e, direi, eloquenti queste decisioni, che, per un verso condannano la condotta di chi minaccia la tortura per vincere il silenzio dell’interrogato e, per altro verso, salvano l’autore della minacciata tortura. Si può cogliere in questa ambivalenza l’intreccio fra questione etica e questione giuridica: la prima preme per orientare la seconda. Di fronte a un’opinione pubblica 8 Si tratta del rapimento di Jakob von Metzlers, avvenuto nei pressi di Francoforte sul Meno il 27 settembre 2002. D. EDMONDS ne parla in Uccidereste l’uomo grasso?, cit., alle p. 45 ss. 9 Tale opinione è ben rappresentata da K. LÜDERSSEN, Die Folter bleibt Tabù – Kein Paradigmenwechsel ist geboten, in Festschrift Rudolphi, Luchterhand, Neuwied, 2004, p. 691 ss. L’opinione contraria (minoritaria in dottrina) è rappresentata da D. SPINELLIS, Darf Folter als Nothilfe in extremen Fällen angewandt werden?, in Festschrift Seebode, Berlin De Gruyter, 2008, p. 387 ss., per il quale, in casi estremi (come quello descritto nel testo), la tortura troverebbe la sua causa giustificativa nello stato d’emergenza (Nothilfe).

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prevalentemente favorevole alla condotta di Daschner, il giudice penale – pur dovendo constatare l’assenza di cause di giustificazione – ha trovato nella condanna a una pena priva di reali conseguenze sanzionatorie il punto di equilibrio capace di soddisfare le contrastanti esigenze in campo. La condanna ha affermato, almeno in linea teorica, il primato della Menschenwürde, ma non imponendo, in pratica, alcun reale trattamento sanzionatorio, ha appagato il sentimento della prevalente opinione pubblica che riteneva eticamente giusto il comportamento della polizia in quella tragica circostanza. Più decisa, in senso condannatorio, è apparsa la Corte di Strasburgo, la quale ha ritenuto lo Stato tedesco responsabile per il trattamento “inumano e degradante” inflitto al sequestratore 10. Ritroviamo, nei motivi di questa sentenza, l’affermazione decisa, eticamente fondata, del valore assoluto e incondizionato attribuito alla dignità umana, il cui rispetto accredita l’amministrazione della giustizia in uno Stato democratico 11. Più incerti sono stati i giudici di Strasburgo nell’affrontare il quesito, se le dichiarazioni estorte al sequestratore con la minacciata tortura integrino una trasgressione della fairness processuale, tale da configurare una violazione dell’art. 6 par. 1 e 3 CEDU. La maggioranza dei diciassette componenti la Grand Chambre ha ritenuto ammissibile la confessione liberamente resa dal sequestratore nel corso del dibattimento, benché quella confessione difficilmente si sarebbe data, se non fosse stata preceduta dall’episodio severamente censurato alla stregua dell’art. 3 CEDU. Questo perché la fairness processuale sarebbe priva di quel carattere di assolutezza che invece caratterizza la dignità umana protetta dall’art. 3 12. Quel che si ricava dal significativo esempio appena illustrato (ma altri analoghi se ne potrebbero trovare) è il ruolo importante che gioca il senso etico nella soluzione (anche) giuridica di situazioni estreme, dove l’inviolabilità dei diritti individuali può apparire come ostacolo da rimuovere (un male minore) per salvare vite umane o, comunque, interessi reputati 10 11

Cfr. sent. Grand Chambre 1° giugno 2010, Gäffgen v. Germany.

In the Court’s view, neither the protection of human life nor the securing of a criminal conviction may be obtained at the cost of compromising the protection of the absolute right not to be subjected to ill-treatment proscribed by Article 3, as this would sacrifice those values and discredit the administration of justice (Gäffgen v. Germany, § 178). 12 However, contrary to Article 3, Article 6 does not enshrine an absolute right (Gäffgen v. Germany, § 178). Contro questo assunto – sul presupposto di una più radicale tutela del diritto inviolabile dell’imputato a un fair trial – si sono espressi sei dei componenti la Grand Chambre nell’opinione parzialmente dissenziente riprodotta in calce a Gäffgen v. Germany.

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superiori ai diritti eccezionalmente violati. L’indice della segnalata ipoteca etica (sulla questione giuridica) è riscontrabile, a mio avviso, nella vaghezza e incertezza delle argomentazioni in iure che si registrano in sede sia giurisprudenziale sia dottrinale. Scorrendo la letteratura sull’argomento si ha infatti l’impressione che la conclusione – favorevole, parzialmente favorevole o incondizionatamente contraria – all’uso della tortura o di altri mezzi negatori della dignità umana dipenda dal postulato etico (utilitarista, kantiano, teologico) dal quale l’interprete muove 13. Per tornare (e chiudere) con DAVID EDMONDS, la risposta alla domanda che titola il suo libro è negativa. Lui non ucciderebbe l’uomo grasso. Non svela però il perché. Dopo aver passato in rassegna le opinioni di numerosi pensatori aperti all’opzione per il “male minore”, a partire dalla dottrina tomistica del “duplice effetto”, EDMONDS chiude il libro rivolgendo al lettore la stessa, inquietante domanda iniziale che compare nel titolo 14. Ognuno sceglierà la soluzione che meglio risponde al proprio senso etico, senza dover dire il perché. Questo non vale per il giurista (legislatore, giudice, autore di dottrina), sempre tenuto a motivare le ragioni delle proprie scelte anche quando – come accade nei casi cui si allude in questo saggio – si tratta di ragioni innegabilmente influenzabili da una visione etica.

3. Il punto di vista sociologico. In un saggio apparso all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ben prima che il terrorismo internazionale dimostrasse la tremenda capacità distruttiva dei nostri tempi, il sociologo NIKLAS LUHMANN lanciò una angosciante provocazione. Gibt es in unserer Gesellschaft noch unverzichtbare Normen? era la domanda che dava titolo a quel saggio 15 e che è stata presa

13 Istruttiva, al riguardo, la lettura di F.M. KAMM, Ethics for Enemies. Terror, Torture and War, Oxford University Press, Oxford, 2011. 14

“Per metà del secolo scorso, la carrelogia ha fornito uno strumento per mettere in discussione questioni fondamentali dell’etica, domande su come dovremmo trattare gli altri e vivere la nostra vita. … I filosofi non son ancora d’accordo. Ma qualunque sia la risposta, la strana situazione dell’uomo grasso sul cavalcavia deve essere la chiave. Io non ucciderei l’uomo grasso. Voi lo fareste?”, Uccideresti l’uomo grasso?, cit., p. 177. 15 Si tratta del testo della relazione svolta il 10 dicembre 1992 all’Università di Heidelberg, pubblicata nel 1993 da C.F. Müller Verlag, Heidelberg.

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a prestito per titolare il presente contributo: “esistono ancora nella nostra società norme irrinunciabili?”. Questo il quesito al quale dare risposta, in un contesto sociale dove le libertà possono essere usate anche dai nemici della democrazia, con finalità tragicamente devastatrici. LUHMANN esordisce, a sua volta, con un esperimento mentale ispirato al classico ticking time bomb scenario. Mettetevi – invita LUHMANN – nei panni del comandante una stazione di polizia che, in una situazione di perduranti attacchi terroristici, riesce a catturare il capo di una pericolosa organizzazione attiva pressoché quotidianamente. Torturandolo, avreste la possibilità di salvare molte vite umane. Che fareste? Usereste la tortura a tal fine? Il giurista (e LUHMANN pensa al tipo del giurista tedesco) avrebbe la risposta a portata di mano: l’art. 1 del Grundgesetz afferma il principio di dignità umana in maniera incondizionata, facendone un pilastro dell’edificio costituzionale. Ciò che il sociologo (come il profano di cose giuridiche) trova singolare in una simile, cieca fiducia nella Menschenwürde è la circostanza che una norma (come quella espressa nel citato art. 1 GG), appartenente al mondo del dover essere, sia espressa come fosse un fatto del quale accettare supinamente l’esistenza. Questo non è il punto di vista del sociologo, peraltro saldamente ancorato a una visione funzionalista (si può dire durkheimiana) del sistema giuridico. Compito supremo dello Stato e, segnatamente, dello Stato di diritto, è la stabilizzazione delle aspettative legittimamente coltivate dai propri cittadini e, in prospettiva più ampia, la conservazione delle istituzioni che la realizzazione di quelle aspettative debbono garantire. Di fronte a minacce che rischiano di destabilizzare l’intero assetto sociale, sarebbe politicamente miope orientare la condotta delle autorità pubbliche alla luce dell’alternativa lecito/illecito. Va, invece, affermata una strategia d’emergenza, che, all’occorrenza, deve potersi avvalere di mezzi o strumenti antigiuridici. L’ipotetico capo dei terroristi in grado di fornire informazioni utili a sventare un micidiale attentato non merita, pertanto, di essere rispettato nella sua dignità. La polizia dovrebbe agire non già in base all’alternativa lecito/illecito, bensì in base all’opzione offerta al terrorista, di far l’eroe (subendo stoicamente la tortura) o evitare i tormenti tradendo la propria causa. La tortura non andrebbe pertanto esclusa. Essa andrebbe semmai regolamentata e sorvegliata a distanza da giudici internazionali, in grado di controllare e tele-comandare l’operazione da una postazione sita in Ginevra o in Lussemburgo 16. La soluzione proposta potrà ap16 Ecco, testualmente, il cruciale passaggio nel quale Luhmann riassume la sua proposta favorevole alla tortura: «Zulassung von Folter durch international beaufsichtigte Gerichte,

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parir poco soddisfacente, ma anche la totale inazione e la passiva accettazione che la vita di molti innocenti sia esposta al pericolo di un imminente atto terroristico appare inaccettabile. In presenza di tragic choices non esistono soluzioni indolori, né lecite, perché anche il lasciar sterminare una massa di persone si collocherebbe nella sfera dell’illecito 17. Per questo – ad avviso di Luhmann – la scelta non può che essere orientata alla neutralizzazione del pericolo, per il mantenimento dell’ordine sociale minacciato. La descrizione e le conclusioni cui approda il sociologo tedesco, certo suggestive e dotate di inconfutabile realismo, si scontrano tuttavia con il rigido dogmatismo che ancora caratterizza l’approccio del giurista positivo, sensibile ai valori individualistici sui quali sono fondate le costituzioni del secondo dopoguerra, nate – è bene ribadirlo – dal ripudio di esperienze autoritarie che avevano largamente profittato di “stati d’emergenza” reputati fatali per la sopravvivenza dell’ordine sociale. LUHMANN coglie, argutamente, il lato paradossale di una costituzione come quella tedesca (ma il discorso potrebbe tranquillamente estendersi alla costituzione italiana, spagnola, portoghese, etc.) che pone a fondamento dello Stato (realtà collettiva) il valore irrinunciabile e per eccellenza individuale della dignità umana: di questo passo, la società sarebbe destinata a diventare una somma di monadi asociali, se non antisociali, protetti in misura eccessiva nei propri diritti personali 18. Vero. Ma non dobbiamo dimenticare che nell’affermazione incondizionata della dignità umana, quale limite invalicabile per il potere pubblico, risiede il nucleo prezioso di una garanzia capace di far da argine a derive autoritarie. L’ispirazione individualistica delle nostre moderne costituzioni e convenzioni internazionali non tanto realizzano un paradosso, quanto piuttosto pongono la fondamentale premessa per un equilibrio dialettico fra individuo e autorità, onde impedire che la forza della seconda non trovi ostacoli nello schiacciare il primo, pur col pretesto della ragion di Stato o delle situazioni d’emergenza.

Fernseheüberwachung der Szene in Genf oder Luxemburg, telekommunikative Fernsteurung, Verschiebung der Unterscheidung Recht/Unrecht» in die Option des Opfers, Held oder Verräter zu sein”, cit., p. 27. 17 “Unrecht auf jeden Fall”, Gibt es in unserer Gesellschaft, cit., p. 30. 18 Gibt es in unserere Gesellschaft, cit., p. 30 e 31.

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4. Il punto di vista giuridico. Da una posizione teoricamente affine a quella di LUHMANN muove il penalista tedesco GÜNTHER JAKOBS, il cui pensiero merita qui di essere brevemente riassunto per le strette connessioni con il problema, qui discusso, della inviolabilità dei diritti in situazioni di emergenza. Secondo questo autore, il diritto penale ha non tanto il compito di tutelare beni giuridici, bensì, più precisamente, quello di assicurare quell’aspettativa di sicurezza (Erwartenssicherung) che rende possibile un’ordinata vita sociale, garantendo al contempo le libertà individuali. JAKOBS interpreta a suo modo la preoccupazione di salvare i tradizionali principi del diritto penale liberale, sottoponendo a severa critica la tendenza espansiva del diritto penale, che trova principalmente espressione in disinvolte anticipazioni delle soglie di punibilità, nella proliferazione di fattispecie di pericolo astratto, secondo un programma incontrollato di tutela dei beni giuridici 19. Occorre – a suo avviso – porre un limite a questa crescita indiscriminata, impedendo di penalizzare semplici atteggiamenti interiori, pur animati da intenzioni criminali. Né è accettabile – dal punto di vista di un diritto penale liberale – che siano criminalizzate o contrastate condotte, semplicemente per la loro asserita idoneità a generare un “clima spirituale” favorevole alla devianza (Klimaschutzdelikte) 20. Tuttavia, in presenza di circostanze eccezionali capaci di turbare la stabilità sociale, si può giustificare l’introduzione (temporanea) di norme sostanziali o processuali volte a garantire le aspettative di sicurezza coltivate dai cittadini. Bisogna essere consapevoli del carattere emergenziale di questo diritto penale (in realtà, un diritto di polizia sotto le mentite spoglie di diritto penale), che va tenuto distinto dal diritto penale di marca liberale, per evitare inique contaminazioni. Sarebbe anzi opportuno relegare queste norme eccezionali in leggi speciali, lasciando che nei codici (penale e processuale) trovino spazio solo le norme elaborate dalla tradizione penale classica. Nasce così, da un istintivo impulso a proteggere le garanzie liberali, la distinzione fra diritto penale del cittadino (Bürgerstrafrecht) e diritto penale del nemico (Feindstrafrecht) 21. La distinzione sarà poi ripresa e approfondita, circa vent’anni 19

Kriminalisierung im Vorfeld einer Rechtsgutsverletzung, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1985, p. 751 ss. 20

Kriminalisierung im Vorfeld, p. 782. La prima formulazione di questa distinzione, divenuta celebre nelle controversie dottrinali post 11 settembre 2001, risale precisamente al saggio Kriminalisierung im Vorfeld, cit., p. 783. 21

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dopo, in un clima spirituale profondamente segnato dalle tragedie del terrorismo internazionale (New York 2001, Madrid 2004, Londra e Sharm el Sheik 2005). Nel 2005, JAKOBS pubblica un saggio nel quale pone la questione se il terrorista abbia diritto ad essere trattato come persona 22, dove il termine “persona” riassume in sé l’attitudine ad essere titolare dei diritti di libertà assicurati dallo Stato demo-costituzionale. Premesso che compito dello Stato è garantire la sicurezza e, con essa, le legittime aspettative dei cittadini nell’esercizio delle libertà individuali, bisogna ammettere che tale risultato non può essere assicurato dal tradizionale strumentario offerto dal diritto penale (sostanziale e processuale). Quest’ultimo è attrezzato per reprimere condotte offensive confinate nel passato, non per fronteggiare pericoli attuali che si proiettano nel futuro. Un sequestro di persona va considerato diversamente secondo che sia compiuto da una comune organizzazione criminale o da una banda terroristica. Diverso è il fine che ispira le relative condotte 23. Nel caso della banda terroristica, possiamo star sicuri che il delitto si inscrive in una strategia gravida di ulteriori comportamenti illeciti capaci di destabilizzare l’ordine sociale, creando insicurezza. La pena detentiva sarebbe di per sé insufficiente a neutralizzare quel tipo di pericolo. Lo Stato verrebbe meno a quel suo fondamentale compito, se non adottasse i mezzi adeguati a soddisfare le aspettative di sicurezza dei cittadini. Si tratterà di mezzi eccezionali, nel senso che sono destinati a durare il tempo giusto necessario per neutralizzare il pericolo. Ma sono eccezionali anche in altro senso, giacché il loro uso obbedisce alla sola regola (pragmatica) dell’efficacia neutralizzante, senza subire i vincoli derivante dal rispetto dei diritti inviolabili della persona. Prevale qui una logica preventiva (poliziesca) da diritto penale del nemico (Feindstrafrecht), estranea al diritto penale ordinario (Bürgerstrafrecht), che di quei diritti dev’essere e deve restare garante. Del resto, il terrorista si è collocato fuori del sistema con una scelta reversibile, che potrebbe fargli riacquistare il titolo di “persona” e, grazie ad esso, il pieno rispetto dei propri diritti individuali 24. Fintanto che la scelta criminale non sarà rinnegata, egli dovrà essere trattato come un pericolo costante per la società, con la conseguenza che potranno essere usati, nei suoi confronti, mezzi adeguati a rimuovere quel

22 Terroristen als Personen im Recht?, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 2005, p. 839 ss. 23 Terroristen als Personen, cit., p. 844. 24 Terroristen als Personen, cit., pp. 849-850.

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pericolo, non esclusa, in casi estremi, la tortura 25. JAKOBS ritiene di trovare conferma a queste sue posizioni nella legge sulla sicurezza dei voli (Luftsicherheitsgesetz), emanata proprio nel 2005 dal parlamento tedesco. Il § 14 di quel provvedimento normativo attribuiva all’esercito l’eccezionale potere di abbattere l’aereo sequestrato da terroristi, per scongiurare il pericolo di una strage del tipo di quella verificatasi a New York nel settembre 2001. Il giurista tedesco ravvisa in tale norma una forza “esplosiva” con rimarchevoli conseguenze sul piano sistematico. L’abbattimento dell’aereo poteva, infatti, comportare l’uccisione non solo dei terroristi, ma anche dei passeggeri e dell’equipaggio a bordo del velivolo sequestrato. Orbene – ragiona JAKOBS – se in ipotesi del genere, lo Stato arriva addirittura al punto di mettere in conto la vita di vittime innocenti, a maggior ragione l’interrogatorio di un terrorista potrà avvenire con modalità investigative anche brutali, che non tengano conto dei limiti normalmente imposti dal necessario rispetto della dignità umana 26. Quand’anche lo Stato non regolasse con legge le situazioni d’emergenza provocate dalle imprese terroristiche, si porrebbe comunque il problema di fronteggiare con mezzi eccezionali un pericolo esiziale per la società 27. Alla domanda iniziale (“meritano i terroristi di essere trattati come persone”?) viene pertanto data risposta negativa, per la buona ragione – già ricordata – che un fenomeno come il terrorismo non può essere fronteggiato con l’arsenale offerto dal diritto penale ordinario. In realtà, la “forza esplosiva” che avvalorerebbe l’esistenza di un “diritto penale del nemico” e sulla quale JAKOBS ha impostato i suoi ragionamenti è stata disinnescata dal Bundesverfassungsgericht tedesco con la sentenza del 15 febbraio 2006 28. Sentenza che ha dichiarato parzialmente illegittimo il citato § 14 del Luftsicherheitsgesetz. Dei principali (e convincenti) passaggi di tale decisione conviene qui dar brevemente conto, per la

25

Non sarà indispensabile arrivare a tanto, ma bisogna essere consapevoli che le situazioni d’emergenza esigono interventi drastici e che possono fornire pretesto a degli abusi: Terroristen als Personen, cit., p. 849. 26 Sarebbe pertanto possibile superare i limiti posti – per i casi ordinari – dal § 136a Strafprozessordnung (norma grosso modo corrispondente al nostro art. 65 c.p.p.). 27

Ad analoghe conclusioni, sostanzialmente muovendo dal postulato etico del “male minore” in un contesto di tragic choice, perviene A.M. Dershowitz, Why Terrorism Works?, Yale University Press, Yale, 2002, (trad. it. Terrorismo, Donzelli, Roma, 2003, p. 125 ss.). 28

Il testo della sentenza è accessibile (anche in lingua inglese) al seguente URL: http://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Entscheidungen/DE/2006/02/rs200 60215_1bvr035705.html

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parte che interessa il tema dei diritti inviolabili. I giudici costituzionali tedeschi esaminano separatamente due ipotesi: a) quella del velivolo sequestrato da terroristi con gli ostaggi (passeggeri, membri dell’equipaggio) ancora vivi a bordo e b) quella del velivolo con a bordo solo i terroristi senza passeggeri o con passeggeri tutti deceduti. Nel primo caso, la soluzione scelta dal legislatore (sacrificare l’esistenza di vittime innocenti per salvare altre possibili vittime) è in netto contrasto col divieto di usare strumentalmente la vita delle persone per evitare la possibile (ma non necessariamente sicura) morte di altre persone: divieto collegato al dovere dello Stato di preservare l’incolumità e, con essa, la Menschenwürde di chi, passivamente coinvolto nel sequestro dell’aereo, sarebbe trattato alla stregua di un oggetto, non come una persona 29. Né sarebbe lecito obiettare a una simile conclusione che lo Stato – non potendo percorrere la strada dell’abbattimento dell’aereo sequestrato – verrebbe meno al dovere di salvare le vite delle persone minacciate dalla caduta rovinosa del velivolo. Questo perché l’obbligo statuale (nei confronti dei passeggeri e dell’equipaggio sequestrati) di astenersi da misure lesive della dignità e dell’incolumità personale, prevale sull’obbligo, eventuale e indeterminato, di proteggere le altre persone minacciate dalla possibile caduta dell’aereo 30. Nel secondo caso (aereo con a bordo i soli terroristi, lanciato come una bomba contro cittadini inermi), l’abbattimento sarebbe invece legittimo, senza tuttavia configurarsi come lesivo della dignità umana, che va riconosciuta anche al terrorista. Quest’ultimo non sarebbe trattato, infatti, alla stregua di mero oggetto pericoloso da neutralizzare, ma come persona responsabile dell’aggressione posta in essere. Ma proprio perché va difesa – nei limiti del possibile – anche la vita e la dignità del terrorista, la decisione di abbattere l’ipotetico aereo-bomba va presa con grande cautela, nel rispetto del principio di proporzionalità, nella sua triplice componente di idoneità, indispensabilità e proporzione in senso stretto. 29 Bundesverfassungsgericht, sent. 15 febbraio 2006 (1 BvR 357/2005), punti 121-124 e 134 della motivazione. Nella sentenza si lascia intendere (punto 130) che l’eventuale abbattimento di un aereo sequestrato dai terroristi potrebbe – nel caso concreto – apparir giustificato sotto il profilo dello stato di necessità. Spetterà in quel caso alla giurisdizione ordinaria stabilire se davvero sussistevano gli estremi della scriminante. Diversamente, il giudice costituzionale deve stabilire se la norma impugnata sia legittima in quanto autorizzi, in linea generale ed astratta, l’abbattimento di un aereo sequestrato con passeggeri ed equipaggio a bordo: norma indiscutibilmente illegittima alla luce degli artt. 1 e 2 del Grundgesetz, che tutelano rispettivamente la dignità e la vita di quei soggetti. 30

Bundesverfassungsgericht, sent. 15 febbraio 2006, cit., punto 138.

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In particolare, la misura dell’abbattimento soddisfa il requisito di idoneità, in quanto misura che punta a salvare la vita di vittime innocenti, senza mettere a repentaglio la vita di altre vittime altrettanto estranee all’atto terroristico 31. Essa soddisfa altresì il criterio di indispensabilità, quando sia constatata la mancanza di altre misure meno gravi e costose (in termini di vite umane) adeguate a sventare il pericolo 32. Soddisfa, infine, la proporzione in senso stretto, perché la gravità della misura (abbattimento dell’aereo con soli terroristi a bordo) appare giustificata dal (e proporzionata al) bene che si vuol salvaguardare, una volta appurata la reale consistenza del pericolo in corso. In altre parole, all’abbattimento dell’aereo e all’eliminazione fisica dei terroristi si può giungere solo se v’è certezza circa l’intento stragistico che li anima; dal che si ricava che, proprio nel rispetto della vita e della dignità degli stessi sequestratori, ogni sforzo va fatto per evitare la drastica misura 33. Il giudice costituzionale tedesco si fa carico, infine, della possibile obiezione fondata su quell’articolo 19 del Grundgesetz che – come già osservato in precedenza – impedisce allo Stato di comprimere o ledere il contenuto essenziale dei diritti fondamentali, individuabile nella vita e nella dignità della persona. Come giustificare, stante questo limite costituzionale all’uso della forza, l’abbattimento dell’aereo con la conseguente, pressoché certa soppressione fisica dei terroristi? La risposta sta nella necessità, per lo Stato, di proteggere la vita dei terzi minacciati: uno dei due beni dev’essere inevitabilmente sacrificato. S’impone una scelta che ragionevolmente si orienta alla sopravvivenza dei cittadini innocenti 34. Solo entro questi limiti può quindi legittimamente sopravvivere la norma che autorizza l’abbattimento di un ipotetico aereo-bomba. Se proprio non se ne può fare a meno per salvare altre vite umane, il terrorista può essere eliminato fisicamente, ma questo – è bene ricordarlo ancora – non passa per una negazione della sua dignità come uomo. L’insegnamento che si trae da questa sentenza è di notevole importanza. Diversamente da quanto afferma JAKOBS, i terroristi, pur se irriducibili, so31

Bundesverfassungsgericht, sent. 15 febbraio 2006, cit., punti 145-146. Bundesverfassungsgericht, sent. 15 febbraio 2006, cit., punti 147-148. 33 Bundesverfassungsgericht, sent. 15 febbraio 2006, cit., punti 150-152. 34 Bundesverfassungsgericht, sent. 15 febbraio 2006, cit., punto 153, dove si torna a sottolineare il doveroso rispetto del principio di proporzionalità, quale condizione affinché la scelta di neutralizzare fisicamente il terrorista possa dirsi legittima in base ai parametri del Grundgesetz. 32

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no titolari di diritti al pari dei comuni cittadini; l’ordinamento deve proteggere anche la loro vita e la loro dignità, fin tanto che la minaccia da loro rappresentata non sia tale da mettere a repentaglio la vita di terzi. Basta questo per ricavarne l’illegittimità di qualsiasi pratica violenta o di tortura che – come detto – autori quali LUHMANN, JAKOBS, ma anche DERSHOWITZ sarebbero inclini a mettere in campo nello scenario di una ticking time bombe. La dignità umana resta un baluardo inviolabile.

5. Conclusioni. Recenti, devastanti atti terroristici stanno mettendo in discussione principi e affermazioni di diritti individuali che credevamo acquisite una volta per tutte ai nostri ordinamenti costituzionali. L’obbligo dello Stato di proteggere i diritti fondamentali dei cittadini, di tutti i cittadini, viene relativizzato, in situazioni d’emergenza, come dimostrano le reazioni del governo statunitense agli attacchi del settembre 2001 e del governo francese alla carneficina del 13 novembre 2015. Si dirà che si tratta di reazioni di marca politica, propiziate dall’emozione e dalla collera che quelle aggressioni hanno provocato nell’opinione pubblica. Ma la politica interviene su un terreno già dissodato e seminato dai teorici dell’emergenza. Le soluzioni giuridiche che la politica escogita (attribuzione di poteri speciali alla polizia anche nel campo delle indagini proattive; uso dell’esercito in funzione preventiva; istituzione di tribunali straordinari per giudicare i “nemicicombattenti”, etc.) hanno i loro convinti teorici. Di alcuni – scelti in via esemplificativa – s’è dato conto nei paragrafi precedenti. Gli argomenti da essi usati sono tutt’altro che risibili o infondati. Hanno anzi il pregio di affrontare un problema spinoso con la consapevolezza della complessità dei valori in gioco. La complessità dipende precisamente dalla circostanza che il giurista, da solo, possiede uno strumentario inadeguato ad affrontare la questione dei diritti inviolabili e delle possibili deroghe al rispetto degli stessi. Esprimere un’opinione favorevole o contraria all’uso di mezzi e misure che sacrificano la vita o la dignità della persona la cui pericolosità si vuol neutralizzare comporta una preventiva opzione di tipo essenzialmente morale. Di fronte a scelte tragiche, un bene va necessariamente sacrificato. Si tratta di stabilire sulla base di quali presupposti e con quali modalità la forza pubblica (polizia, esercito) sia legittimata a intervenire in situazioni d’emergenza. E si tratta altresì di accordarsi su quali siano, precisamente, gli

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scenari emergenziali che ammettono o addirittura impongono l’uso della forza, anche con conseguenze letali: il kamikaze intenzionato a cagionare il maggior numero possibile di vittime non è assimilabile al capo-terrorista caduto nella rete della polizia, secondo l’esempio proposto da LUHMANN. Sarebbe discutibile – in nome di un efficace contrasto al terrorismo – equiparare le due situazioni, al fine così di legittimare l’uso di qualsiasi mezzo anche per fiaccare la volontà del terrorista arrestato. La vera differenza – nel dibattito fra giuristi – sta nel valore che si intende assegnare alla dignità umana. Chi – con LUHMANN, JAKOBS e DERSHOWITZ – ritiene che questa non si configuri quale limite invalicabile per la forza pubblica, ogniqualvolta si prospetti un pericolo grave per la collettività, arriva facilmente alla conclusione che non solo l’aereo sequestrato possa essere abbattuto, ma altresì che il terrorista catturato possa essere maltrattato o torturato, per costringerlo a fornire informazioni utili a sventare possibili attentati. Per chi, invece, asseconda il pensiero espresso nella citata e condivisibile sentenza con la quale il Bundesverfassungsgericht ha dichiarato parzialmente illegittima la legge sulla sicurezza dei voli, la dignità umana va sempre rispettata, anche nei confronti del terrorista, col risultato che l’uso pur estremo della forza nei suoi confronti può essere legittimato in limitate situazioni di emergenza, solo per salvare da morte pressoché certa le vittime di un’aggressione. Mai potrebbe essere giustificato l’uso della tortura o di trattamenti degradanti nei confronti di un terrorista arrestato, al fine di prevenire ipotetici attentati. La preferenza per quest’ultima posizione assomiglia molto a un atto di fede o, se si preferisce, a una sorta di tabù che non conviene demolire. Indubbiamente, la dignità umana è principio fondante la convivenza sociale e ispiratore del dialettico, talvolta conflittuale rapporto fra individuo e autorità. Si tratta però di principio giuridico che racchiude un’opzione di etica civile, una scelta politico-culturale frutto – come già osservato in precedenza – della lezione tratta da esperienze autoritarie negatrici della Menschenwürde. In ciò sta la sua fragilità. È sufficiente un mutamento d’umore in un’opinione pubblica sconvolta da lutti e stragi per far dimenticare le ragioni – a loro volta gravi e luttuose – che indussero gli autori delle costituzioni italiana, tedesca, portoghese, spagnola a “riconoscere” i diritti inviolabili della persona. Conviene, in definitiva rispondere affermativamente alla domanda posta nel titolo di questo breve scritto: i diritti inviolabili esistono ancora ed è auspicabile che essi resistano agli attacchi di chi si batte per una società nella quale quei diritti possano essere violati al punto da annientare, pur

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eccezionalmente, la dignità umana. Può darsi che il rispettare la dignità umana dei terroristi offra a questi ultimi margini di manovra di cui non godrebbero, se la forza pubblica potesse intervenire con ogni mezzo a prevenire le loro gesta. È certo tuttavia che un cedimento su questo terreno – quand’anche confinato in un Feindstrafrecht destinato fatalmente a espandersi ad altre futuribili emergenze – metterebbe a repentaglio un fondamento essenziale della convivenza democratica e segnerebbe per ciò stesso un punto a favore dell’inciviltà e dell’aggressione terroristica.

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Presentazione

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Elenco Autori

IX

I LE MISURE DI PREVENZIONE PATRIMONIALI TRA “DIRITTO VIVENTE”, INNOVAZIONI GIURISPRUDENZIALI E PROSPETTIVE DI RIFORMA di Antonio Balsamo e Caterina Brignone 1. 2. 3. 4. 5. 6.

L’evoluzione della confisca La natura giuridica della confisca di prevenzione nel “diritto vivente” La correlazione temporale tra accumulazione patrimoniale e pericolosità soggettiva Il rapporto tra beni e attività illecite: la confisca delle imprese mafiose Verso un “doppio binario” delle misure patrimoniali tra criminalità organizzata e white collar crime? Le riforme necessarie: misure di prevenzione anticorruzione e antiterrorismo

1 6 15 19 25 29

II L’ASSET RECOVERY DEI PROVENTI DEL REATO NEL REGNO UNITO di Vittorio Fanchiotti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Le origini dell’istituto Il revival della confisca nella seconda metà del ventesimo secolo La riforma del 2002. Il Proceeds of Crime Act (POCA) e l’istituzione dell’Asset Recovery Agency (ARA) Segue: a) il confiscation order Segue: b) il forfeiture order Segue: c) la civil recovery Segue: d) cash forfeiture proceedings Il declino dell’ARA

39 42 47 49 50 52 53 54

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pag. 9. Il Serious Crime Act 2015 10. I limiti della riforma del 2015 11. La prospettiva europea

57 61 64

III IL DELITTO DI SCAMBIO ELETTORALE POLITICO MAFIOSO TRA INTERVENTI NORMATIVI E INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI di Annamaria Peccioli 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Premessa I limiti della formulazione previgente dell’art. 416-ter c.p. e l’interpretazione ortopedica della giurisprudenza L’ampliamento del catalogo dei soggetti attivi e dell’oggetto della prestazione Il ruolo dell’impiego del metodo mafioso nell’economia del delitto di scambio elettorale politico-mafioso Il momento consumativo: reato di pericolo o reato a duplice schema? Profili di diritto intertemporale Cenni ai rapporti tra il delitto di scambio elettorale politico-mafioso e il concorso esterno

69 70 72 73 77 79 82

IV DELITTI DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DI STAMPO MAFIOSO E CUSTODIA CAUTELARE “QUASI OBBLIGATORIA”: UN PERCORSO CONCLUSO? di Michela Miraglia 1. 2. 3. 4. 5.

Premessa Dalla discrezionalità del giudice alla custodia cautelare “quasi obbligatoria” Il “regime speciale”: la sostanza La presunzione assoluta di adeguatezza e i delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso: ragionevolezza costituzionale La “nuova era” della giurisprudenza costituzionale in materia di presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere

85 88 95 101 105

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287 pag.

6. 7.

L’incostituzionalità della custodia cautelare “quasi obbligatoria” per i reati di “ambientazione mafiosa” e per l’ipotesi del concorso esterno Il trittico dei regimi dopo l’entrata in vigore della l. n. 47/2015

113 118

V LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DEGLI ENTI TERRITORIALI NEI PROCESSI PER ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE DI STAMPO MAFIOSO di Alessandro Torri 1. 2.

3.

4.

Premessa La legittimazione 2.1. Il bene giuridico tutelato dall’art. 416-bis c.p. 2.2. La natura dell’intervento dell’ente territoriale … 2.3. … quando il Comune non agisce iure proprio 2.4. … e l’azione a tutela di beni collettivi 2.5. Conclusioni sulla legittimazione Il danno subito 3.1. La latitudine del danno risarcibile: limitazione alla componente diretta e immediata 3.2. L’esclusione del danno in re ipsa 3.3. La prova del danno e la sua quantificazione 3.4. L’utilizzo di formule motivazionali volte a eludere il problema della dimostrazione del danno 3.5. Alternative all’azione per risarcimento del danno non patrimoniale Conclusioni 4.1. Il rischio dell’inefficienza della costituzione di parte civile 4.2. L’opportunità di avvalersi di istituti ripristinatori o indennitari ad hoc diversi dalla costituzione di parte civile

131 132 133 137 138 139 140 142 143 145 147 148 150 151 151 152

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pag. VI LA PARTECIPAZIONE A DISTANZA AL DIBATTIMENTO: CRONACA DELL’ESPANSIONE APPLICATIVA DI UN ISTITUTO DALLA DUBBIA TENUTA COSTITUZIONALE di Luca Barontini 1. 2. 3. 4. 5.

Premessa La disciplina vigente Un’inopportuna estensione dell’ambito applicativo della partecipazione a distanza, anche al di fuori delle logiche del doppio binario La compressione del diritto di difesa della disciplina attuale ed il suo “annientamento” nel disegno di legge 2798 Conclusioni

157 160 169 176 187

VII L’ATTIVITÀ ANTIFRODE ALL’INTERNO DELLE COMPAGNIE DI ASSICURAZIONE di Lionello Bottari 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Premessa Il regime normativo previgente L’intervento in materia da parte dell’ISVAP Il quadro normativo attuale: il Regolamento 9 agosto 2012, n. 44 L’efficacia del Regolamento n. 44/2012 Dati statistici

189 190 190 193 195 199

VIII FICTIONAL CRIMES: IL CASO DELLE STASH HOUSES di Vittorio Fanchiotti 1. 2.

Le indagini sotto copertura negli Stati Uniti d’America: alle origini di una lunga tradizione Il fenomeno della “federalizzazione” delle operazioni sotto copertura, riflesso della dimensione ultrastatale della criminalità organizzata

205 208

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289 pag.

3. 4.

L’approccio “preventivo” degli anni Novanta del secolo XX Un modello “creativo” di operazioni undercover: le fictional stash houses 5. La limitazione delle garanzie difensive dell’imputato conseguente alle eccessive potenzialità sanzionatorie del modello 6. L’affiorare del carattere discriminatorio delle operations sting nei confronti delle minoranze etniche: le reazioni dei giudici e del potere esecutivo 7. Le critiche in chiave di law and economics all’uso delle fictional stash houses 8. L’immaginazione poliziesca difende le sue “invenzioni” 9. Ulteriori iniziative dell’Esecutivo federale nei confronti delle “vittime” delle “trappole poliziesche” 10. Verso un ritorno al rehabilitative ideal? La politica della second chance

210 212 214

217 222 224 225 229

IX IL QUADRO NORMATIVO PER IL CONTRASTO ALLA PIRATERIA di Jean Paul Pierini 1. 2. 3. 4. 5.

Premessa Il quadro normativo internazionale Il quadro normativo nazionale: profili giurisdizionali e di diritto sostanziale Segue: profili procedurali e trasferimento di sospetti pirati e predoni armati ad altro Stato Conclusioni

235 236 247 253 263

X ESISTONO DAVVERO DIRITTI INVIOLABILI? di Renzo Orlandi 1. 2. 3. 4. 5.

Preambolo Il punto di vista etico Il punto di vista sociologico Il punto di vista giuridico Conclusioni

265 268 271 274 279

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2016 nella LegoDigit s.r.l. – Via Galileo Galilei, 15/1 – 38015 Lavis (TN)

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