Contributi alla fenomenologia del godimento estetico
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Contributi alla fenomenologia del godimento estetico

Moritz Geiger (1880-1937), allievo di Lipps e di Husserl, è insieme a Roman Ingarden il più significativo rappresentante dell’estetica di indirizzo fenomenologico, che nei suoi lavori si sviluppa soprattutto come descrizione della fruizione dei valori estetici e artistici. A tale tema sono appunto dedicati i Contributi alla fenomenologia del godimento estetico, usciti nel 1913 e qui presentati. A essi seguiranno alcuni importanti saggi raccolti nel 1928 in Vie all’estetica (già apparso per i tipi della Clueb in questa stessa collana nel 2005). Ordinario di Filosofia dal 1923 all’Università di Gottinga, nel 1933 Geiger è costretto a emigrare negli Stati Uniti. Qui insegna al Vassar College fino alla morte, che lo coglie prematuramente all’età di cinquantasette anni, interrompendo la stesura di un volume dedicato al significato dell’arte e l’elaborazione di ricerche che avevano ormai preso la direzione della filosofia esistenziale e della riflessione metafisica.

In copertina: Marcel Duchamp, Chocolate Grinder no. 2 / Broyeuse de chocolat no. 2, 1914 (Philadelphia, The Philadelphia Museum of Art)

€ 15,00

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Moritz Geiger

Viviamo in un tempo in cui, complici Facebook e le forme di comunicazione dei social network, il giudizio relativo alle nostre esperienze estetiche sembra doversi ridurre alla secca e povera alternativa “mi piace / non mi piace”. Che si tratti di persone o cose, di eventi o idee, di prodotti enogastronomici o cosiddette opere d’arte alta o pop che sia, ci troviamo stretti in quello scomodo aut aut in bianco e nero. A distanza di quasi cent’anni dalla loro pubblicazione, I contributi alla fenomenologia del godimento estetico di Moritz Geiger ci offrono un attualissimo contrappunto a quel binomio manicheo, preferendo alla sua povertà tutta la ricchezza di sfumature del piacere estetico. Convinto che vedere le differenze sia la passione della fenomenologia, Geiger insegue con sofisticata sottigliezza le più minute articolazioni di senso del godimento (in generale e in particolare estetico), chiarendo per contrasto la natura di altri vissuti – la gioia, il gradimento, la valutazione, l’interesse, il piacere dei sensi – abitualmente confusi con il godimento, ma in realtà profondamente diversi da esso.

Contributi alla fenomenologia del godimento estetico a cura di

Andrea Pinotti

ISBN 978-88-491-3630-2

CB 5091

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Relazioni e Significati Collana fondata da Lino Rossi Diretta da Giovanni Matteucci

Testi

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MORITZ GEIGER

CONTRIBUTI ALLA FENOMENOLOGIA DEL GODIMENTO ESTETICO

a cura di

Andrea Pinotti

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Proprietà letteraria riservata © 2012 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna Titolo originale dell’opera: Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», 1, 1913, pp. 567-684

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Traduzione italiana di Pietro Conte

Geiger, Moritz Contributi alla fenomenologia del godimento estetico / Moritz Geiger ; a cura di Andrea Pinotti. – Bologna : CLUEB, 2012 163 p. ; 22 cm. (Relazioni e significati : collana di Testi e Studi fondata da Lino Rossi e diretta da Giovanni Matteucci ; Testi, 10) ISBN 978-88-491-3630-2

Progetto grafico di copertina: Oriano Sportelli (www.studionegativo.com)

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758

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INDICE

7 Prefazione, di Andrea Pinotti 34 Nota bibliografica CONTRIBUTI ALLA FENOMENOLOGIA DEL GODIMENTO ESTETICO

43 Introduzione 61 Il godimento 105 Il godimento estetico 149 Le sensazioni corporee 161 Indice dei nomi

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Prefazione di Andrea Pinotti

1. Mi piace, non mi piace «Le nostre bacheche Facebook si riempiono di messaggi del genere: “A XY piacciono le melanzane alla parmigiana e Rainer Maria Rilke”».1 Così constatava Stefano Bartezzaghi, in un articolo pubblicato su «La Repubblica», analizzando con acume l’estetica del «mi piace» predicata dal pulsante del social network. «Di’ che ti piace»: mi invita (mi ingiunge?) la funzione onnipresente se solo la freccia del mouse sfiora la manina col pollice recto. E con notevole efficacia, se si considera l’effetto virale che essa produce: «A Lory, Paolo, Claudio, Liviana, Linda… a 89.488 persone piace questo elemento». Naturalmente la rete ha già immaginato un «meta-mi piace»: alla pagina Guinness record for the number of «like it» on this page siete entusiasticamente incoraggiati a «Click “I like it” and Let’s beat the Guinness Record!». Sottrarsi si può? Sì, ripensandoci con un ulteriore clic sullo stesso pulsante: «Non mi piace più». Pollice verso. All’immediatezza dell’espressione del nostro gusto privato, alla rapidità della sua pubblicizzazione planetaria sulla vetrina globale della rete, fa da contraltare un secco aut aut, che omogeneizza le mille sfumature cromatiche del nostro piacere in una rigida alternativa in bianco e nero. Possiamo davvero definire «estetica» questa alternativa del «mi piace/non mi piace»? Sì, se in un senso molto generale (ma anche generico) consideriamo il fatto che l’esperienza estetica, in quanto esperienza sensibile (insieme di sensi e sentimenti), si dispone su una scala di valori qualitativi e di intensità che vanno dal massimamente piacevole al massimamente spiacevole; no, se si tiene in conto il fatto che sotto l’ombrello della nozione usata e abusata di «piacere» (e del suo contrario) si raccoglie in realtà una costellazione di concetti riferiti ad altrettanti at1 S. Bartezzaghi, L’estetica del «mi piace» che domina nella rete, «La Repubblica», 20 agosto 2011.

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teggiamenti ed esperienze – approvazione, valutazione, gioia, godimento, gradimento, interesse, compiacimento, diletto… – che l’estetica come disciplina filosofica nel corso della sua storia secolare (che data ben prima del suo battesimo ufficiale settecentesco, affondando le sue radici nella riflessione degli antichi greci: il piacere, come l’essere, si dice in molti modi) si è impegnata a sviscerare, esaminandone con acribia le più minute differenze e sfumature di senso. Di questa storia il testo che qui presentiamo, I contributi alla fenomenologia del godimento estetico di Moritz Geiger, rappresenta il vertice, a tutt’oggi insuperato per capacità di cogliere le più sottili nuances dell’esperienza del godimento in generale e di quella estetica in particolare. Se volessimo per un momento indulgere a un anacronismo – il saggio è del 1913 –, potremmo dire che esso ci offre l’ideale contrappunto al modello duale di Facebook: alla povertà in bianco e nero del «mi piace/non mi piace» si contrappone la ricchezza di un’analisi indefessa e appassionata delle molteplici articolazioni di senso nelle quali si presenta l’esperienza fruitiva, insieme con l’esame approfondito delle espressioni linguistiche (fin dentro l’impiego delle preposizioni: croce e delizia per il traduttore) con le quali nominiamo e comunichiamo quell’esperienza così variamente articolata. Un esame che si lascia guidare dal linguaggio ordinario nella misura in cui vi si depositano fondamentali distinzioni esperienziali, ma che non esita a emendare quello stesso linguaggio laddove l’uso comune incoraggia una confusione di piani e di sensi. Concentrato a illuminare in particolare il significato e le implicazioni del godimento (tout court e in particolare estetico), il lavoro di Geiger riesce a chiarificare per contrasto anche altre modalità del vissuto – come la gioia, il gradimento, la valutazione, l’interesse, il piacere dei sensi – abitualmente confuse con il godimento e in realtà profondamente diverse da esso. Se «vedere le differenze è la passione della fenomenologia»2 – come Geiger stesso ebbe a dire a proposito di Alexander Pfänder in un saggio che era al contempo una presentazione del proprio modo di filosofare fenomenologicamente –, quello che qui trova il lettore è un esercizio esemplare di tale passione differenziale.

2

M. Geiger, La posizione metodica di Alexander Pfänder (1933), trad. it. di P. Galimberti, in Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e Gottinga, a cura di S. Besoli e L. Guidetti, Quaderni di «Discipline filosofiche», Quodlibet, Macerata 2000, pp. 219-233, qui p. 222.

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Cruciale è l’anno in cui il saggio venne pubblicato, e la sede: nel 1913, sul primo volume dello «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», organo del movimento fenomenologico, diretto da Husserl con la collaborazione di Alexander Pfänder, Adolf Reinach, Max Scheler e dello stesso Geiger. Proprio in quello stesso numero inaugurale Husserl pubblicava il primo volume di Idee,3 opera che venne percepita negativamente dai suoi primi allievi come responsabile di un cambiamento di direzione nelle ricerche del maestro dall’approccio realistico e oggettivistico paradigmaticamente delineato nelle Ricerche logiche4 a un orientamento egologico-trascendentale. L’annuario, che secondo le migliori intenzioni della redazione avrebbe dovuto fondare la casa comune del lavoro fenomenologico collettivo, diventava così alla sua prima uscita il luogo in cui consumava una frattura che non si sarebbe più ricomposta.5 Ma un ulteriore paradosso va rilevato in particolare a proposito di Geiger. Egli rimase sempre aderente all’originaria impostazione realistico-oggettiva ed eidetico-descrittiva della prima fenomenologia dei circoli di Monaco e Gottinga, formatasi all’insegna del celebre motto «Alle cose stesse» che campeggiava nell’introduzione al secondo volume delle Ricerche logiche: un’impostazione che lo stesso Geiger si impegnò a precisare coniando la formula di Gegenstandsphänomenologie, fenomenologia degli oggetti in quanto distinta dalla Aktphänomenologie, la fenomenologia degli atti soggettivi.6 Tuttavia, e proprio per quanto riguarda l’estetica – ambito al quale Geiger, insieme con Roman Ingarden, contribuì più di ogni altro allievo di Husserl, e che comunque non esauriva affatto i suoi molteplici interessi, che spaziavano dalla psicologia sperimentale all’assiomatica della geometria euclidea, passando per la teoria 3

E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura (1913), a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002. 4 E. Husserl, Ricerche logiche (1900-01), 2 voll., a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968; poi Net, Milano 2005. 5 Sull’annuario cfr. K. Schuhmann, Husserl’s Yearbook, in «Philosophy and Phenomenological Research», 50, Supplement, 1990, pp. 1-25. Sulle vicende del primo movimento fenomenologico cfr. A. Pinotti, I centri fenomenologici: Monaco, Gottinga e Friburgo in Brisgovia, in Storia della fenomenologia, a cura di A. Cimino e V. Costa, Carocci, Roma 2012, pp. 113-128. 6 M. Geiger, Methodologische und experimentelle Beiträge zur Quantitätslehre, in «Psychologische Untersuchungen», 1, 1907, pp. 325-522, qui p. 355, nota 1.

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della relatività e la filosofia dell’esistenza – quel che di lui ci resta non sono tanto indagini sulla struttura fenomenologica dell’oggetto estetico (come quelle precocemente tentate da Conrad),7 quanto piuttosto analisi descrittive dei vissuti dell’esperienza estetica, del suo lato dunque soggettivo: del godimento estetico, come nei Contributi che qui presentiamo; o dell’atteggiamento dello spettatore dilettante; o della differenza fra l’effetto superficiale e l’effetto profondo esercitati sull’essere umano dall’arte; o infine del complessivo significato psichico dell’esperienza artistica.8 Lo stesso Geiger sembra aver avuto consapevolezza delle problematiche implicazioni di questo suo modo di procedere, e così si difende dall’accusa di contraddizione nella Premessa alla sua raccolta di saggi estetici uscita nel 1928, negando che il metodo psicologico si ponga in contrasto con un’estetica orientata all’oggetto: «Là dove vengono discusse questioni relative all’esperienza entrano in gioco problemi psichici, che devono esser trattati con mezzi pure psicologici. Se l’estetica è una scienza orientata verso l’oggetto, la via d’accesso all’estetica passa attraverso la psicologia».9 Ma anche nell’Introduzione ai Contributi qui presentati il problema era già stato affrontato, per essere così risolto: è evidente che un conto è godere esteticamente di un dipinto di von Marées e un conto godere di un paesaggio romantico; altro è il godimento ricavato dalla lettura di un Lied di Eichendorff o da una poesia di George. La minuziosa analisi del godimento estetico dovrebbe pertanto essere preceduta da un esame del lato oggettuale: a seconda del modo di darsi dell’oggetto estetico corrisponderà uno specifico modo del godimento estetico. Si può tuttavia sperare di ottenere risultati significativi anche imboccando il cammino inverso: occorre domandarsi se, fatta salva la differenza irriducibile fra gli oggetti estetici, non si possano reperire tratti costanti, elementi comuni tra il godimento estetico di un paesaggio e quello di una statua, che ci consentano appunto di parlare, per tutti quei casi, di «godimento estetico». 7

W. Conrad, L’oggetto estetico: uno studio fenomenologico (1908-1909), a cura di M. Gardini, Clueb, Bologna 2007. 8 Si tratta di temi affrontati da Geiger nei seguenti scritti: Del dilettantismo nell’esperienza artistica (1928); Effetto superficiale ed effetto profondo dell’arte (1927); Il significato psichico dell’arte (1928), raccolti in M. Geiger, Vie all’estetica. Studi fenomenologici, a cura di A. Pinotti, Clueb, Bologna 2005, rispettivamente alle pp. 4979; 81-97; 99-144. 9 M. Geiger, Premessa (1927), ivi, p. 48.

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È qui evidentemente in gioco un momento decisivo della scommessa fenomenologica: quello che consiste nel superare e al contempo inverare l’empirismo, ammettendo la possibilità di accedere intuitivamente non solo agli oggetti sensibili dati nella loro singolarità, bensì – e altrettanto a pieno titolo – alle essenze (in questo caso all’essenza del godimento estetico, ai suoi fattori strutturali, ai suoi tratti tipici, che si manifestano nella molteplicità variazionale del godimento estetico di questo o quell’oggetto). Chi respinge l’intuizione eidetica sulla base di un malinteso empirismo, si condanna a quella «cecità per le essenze» stigmatizzata da Husserl nel paragrafo 22 di Ideen I e in più di un’occasione richiamata dallo stesso Geiger.10 Introducendo questi stessi Contributi, egli precisa che quella cecità non si può curare né con una terapia deduttiva (procedendo da assunti teorici aprioristicamente stabiliti, come vorrebbe l’estetica «dall’alto»), né con una terapia induttiva (per via di accumulazione di singoli casi empirici, come vorrebbe l’«estetica dal basso»).11 Un solo sguardo alla scala cromatica mi persuade che l’arancione sta tra il rosso e il giallo, e che sempre e in ogni caso sarà così; un solo sguardo a due rette che si incontrano in un punto mi convince che due rette qualsiasi si possono incontrare solo in un punto: una persuasione, un convincimento, che scaturiscono non induttivamente né deduttivamente, quanto piuttosto intuitivamente, dall’afferramento intuitivo di proprietà essenziali pertinenti a quegli oggetti e ai loro rapporti. La capacità di vedere le differenze, caratteristica dell’approccio fenomenologico, non va dunque equivocamente scambiata per il mero riconoscimento tributato a questo o a quell’oggetto nel suo particolare darsi empirico; è, piuttosto, il risultato di una formazione dello sguardo che si esercita a cogliere le proprietà strutturali che fanno di un oggetto un certo tipo di oggetto, di un atteggiamento un certo tipo di atteggiamento, di un vissuto un certo tipo di vissuto. Allo stesso modo Geiger intende procedere con il godimento estetico, ricercandone le «componenti essenziali». 10

E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., p. 49: «La cecità rispetto alle idee è una sorta di cecità dell’anima». Sulla questione Geiger è intervenuto in Estetica fenomenologica (1925), in Vie all’estetica, cit., pp. 145-159, in part. 151-155; Il significato psichico dell’arte, cit., p. 120. 11 La distinzione tra un’estetica dall’alto (von oben) e un’estetica dal basso (von unten) era stata avanzata da G.Th. Fechner nel primo capitolo della sua Vorschule der Aesthetik, Breitkopf & Härtel, Leipzig 1876; II ed. 1897-1898; rist. anast. della III ed. 1925, Georg Olms, Hildesheim-New York 1978, pp. 1-7.

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2. L’essenza del godimento La nozione di godimento (Genuss) aveva fatto il suo nobile ingresso ufficiale fra i titoli della letteratura artistica una sessantina d’anni prima, quando Jacob Burckhardt le aveva concesso di campeggiare nel sottotitolo del suo Cicerone: Guida al godimento delle opere d’arte in Italia. Quel che si presentava in questo testo destinato a divenire tanto celebre erano osservazioni sulle opere d’arte in grado di interessare un «occhio capace di godimento» (genußfähig).12 Ma in che cosa propriamente consistesse il godimento stesso, era lasciato inindagato. Il lavoro di Geiger sembra idealmente rispondere a distanza al richiamo di Burckhardt. Vediamo dunque più da vicino il suo modo di procedere. Un rapido sguardo alla struttura del saggio sembrerebbe suggerirci un’ordinata articolazione che all’«Introduzione» relativa ai problemi in oggetto e al metodo impiegato nella ricerca fa seguire un primo capitolo, «Il godimento», dedicato alla struttura caratteristica di quel tipo di vissuto che può essere designato come godimento in generale, un secondo capitolo, focalizzato sulla specie particolare del «Godimento estetico», e un terzo capitolo finale, quasi a mo’ di appendice, rivolto alle «Sensazioni del corpo». Addentrandosi nel testo, il lettore si accorgerà facilmente che in realtà questa suddivisione apparentemente sistematica è ripetutamente aggirata da Geiger: osservazioni decisive sul godimento specificamente estetico (proprio perché esso gli risulta incarnare par excellence tratti costitutivi del godimento in generale) sono ampiamente anticipate nel primo capitolo, e rilievi riguardanti la componente sensoriale sono diffusi in tutto il testo. Perciò, invece che seguire l’ordine dei capitoli, abbiamo preferito tentare qui una mappa categoriale che raccoglie i principali problemi messi sul tappeto da Geiger (sui quali egli torna in diversi luoghi del testo, per illuminarli di volta in volta da diverse prospettive), al fine di offrire delle linee-guida alla comprensione del saggio.

12

J. Burckhardt, Il Cicerone: guida al godimento delle opere d’arte in Italia (1855), trad. it. di P. Mingazzini e F. Pfister, 2 voll., Rizzoli, Milano 1994, vol. 1, Prefazione, p. 5.

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2.1. Descrizione, spiegazione, valutazione Innanzitutto, qualche parola sul metodo adottato da Geiger. In linea con la prospettiva della fenomenologia e in particolare della psicologia fenomenologica, i Contributi respingono un approccio causalistico-esplicativo, informandosi piuttosto a un metodo rigorosamente descrittivo delle esperienze vissute del godimento e del godimento estetico. Ciò non significa evidentemente che la ricerca intorno al godimento sia esaurita dalla sua descrizione fenomenologica. Anzi, a partire dai risultati da essa ottenuti, volti a chiarificare in che cosa specificamente consista quell’esperienza vissuta che chiamiamo godimento, si potrà ben procedere in ulteriori direzioni, volte alla spiegazione causalistica del godimento stesso, ivi comprese la psicologia causale e la biologia del godimento. All’esclusione della spiegazione causale si affianca, altrettanto rigoroso, il rigetto della valutazione del godimento: non si tratta di discriminare godimenti più o meno legittimi, e di stabilirne una gerarchia assiologica, quanto piuttosto di descrivere in che cosa consiste lo specifico del godimento rispetto ad altri vissuti, e lo specifico del godimento estetico rispetto ad altri tipi di godimento. Sotto questo rispetto, la posizione geigeriana è lontanissima da una concezione elitaria e aristocratica del godimento estetico, rivelandosi anzi (soprattutto per i suoi tempi) notevolmente e generosamente «democratica» tanto nei confronti del rapporto fra godimento extra-estetico e godimento estetico quanto, nel peculiare ambito di quest’ultimo, nei confronti dell’arte alta e dell’arte bassa. E questo per un motivo squisitamente fenomenologico: che si tratti del godimento di una primitiva sensazione di gusto o di una complessa sinfonia, di un’oleografia dozzinale o di raffinata arte giapponese, se in tutti questi casi si può parlare di godimento, ciò significa che vi sono tratti strutturali comuni e condivisi nell’esperienza vissuta corrispondente. Ciò non toglie che si possa poi procedere a esaminare ciò che distingue il godimento sessuale da quello di una sinfonia (godimento extra-estetico vs godimento estetico), e ciò che caratterizza il godimento di una sinfonia rispetto al godimento di una canzonetta (godimento estetico profondo vs godimento estetico superficiale). Resta tuttavia che distinguere il buon gusto dal cattivo gusto, il godimento legittimo da quello illegittimo, è affare della valutazione, non della descrizione fenomenologica.

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2.2. Il godimento nel contesto dei modi del piacere Spesso si è tentato di ridurre il godimento (Genuss) a un sentimento o vissuto di piacere (Lust). Ciò tuttavia non è sufficiente, se non altro perché non ogni vissuto di piacere è eo ipso un godimento. Se improvvisamente vengo dispensato da un incarico che mi opprimeva, provo un vissuto di piacere per questo alleggerimento inaspettato, ma non necessariamente godimento. Quando realizzo lo scopo di un mio volere, ad esempio raggiungo una locanda alla fine di una lunga passeggiata, la soddisfazione che provo è piacere, ma non godimento. Occorre quindi esaminare, nel macrocontesto dei vissuti di piacere (Lustgefühle), alcune classi specifiche che si affiancano al godimento, distinguendosi tuttavia da esso per alcuni momenti essenziali. 2.2.1. Il godimento e la gioia Provare gioia (Freude) è diverso dal provare godimento. Gioisco di qualcosa, per esempio dell’arrivo di un amico o della realizzazione di un progetto, non ne godo. Il linguaggio ordinario a buon diritto distingue godimento della vita e gioia di vivere: posso gioire della vendetta ai danni di un nemico, posso anche goderne, ma il vissuto è differente innanzitutto poiché il lato oggettuale si presenta diversamente nei due vissuti. Entrambi comportano una relazione a un oggetto. Ma il baricentro è diversamente collocato: nella gioia sta dalla parte dell’oggetto, nel godimento dalla parte dell’io, che è un io impressionato, eccitato, affetto dall’oggetto che penetra in lui procurandogli godimento. Inoltre, il vissuto del gioire ammette la domanda «Perché?». Se gioisco dell’arrivo di un amico, mi si può chiedere: perché gioisci di questo arrivo? E potrei rispondere: perché gli voglio bene, o perché mi sostituirà al lavoro, consentendomi di intraprendere un viaggio che avevo da tempo agognato. Queste risposte riguardano non tanto l’oggetto del sentimento di gioia, quanto il suo motivo. La gioia è motivata: gioisco dell’elezione del signor X, e il motivo di questo mio gioire consiste nel fatto che il signor X appartiene al partito Y, col quale ideologicamente simpatizzo. Gioisco quando sento le campane suonare mezzogiorno, e il motivo di questo mio gioire consiste nel fatto che quel suono è il segnale della pausa lavorativa. È come se, gioiendo motivatamente, guardassimo attraverso l’oggetto per coglierne come in filigrana il motivo che vi sta dietro, e che fonda la nostra gioia. La domanda intorno al motivo del godimento è, per contro, insensata. Non ci si domanda il motivo per cui un buon bicchiere di vino, un

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gioco che ci appassiona, il sesso ci procurano godimento: il godimento non rimanda al di là del proprio oggetto, attraverso di esso, a un’ulteriore istanza che lo motivi. Per tale carattere immotivato, il godimento rapisce il soggetto che gode in uno stato di isolamento e di insularità che recide le connessioni con la vita reale. Altro conto è domandarsi i motivi per cui aspiriamo a godere e ricerchiamo il godimento stesso: per dimenticare, per sviluppare un lato del proprio essere, ecc. Ma si tratta qui di motivi dell’aspirazione al godimento, non del godimento. Tuttavia, proprio come nel caso del gioco la risposta alla domanda «Perché l’uomo gioca?» non ci insegna nulla sull’essenza del gioco, così anche per il godimento sapere per quali motivi lo ricerchiamo non ci spiega quali siano le sue proprietà strutturali. Se molti vanno a teatro per distrarsi, non per questo è lecito dedurne che l’essenza del godimento estetico sia la distrazione. Allo stesso modo si cadrebbe in errore se, come non pochi fanno, si volesse identificare il godimento estetico con uno degli effetti che esso provoca, e che possono venir ricercati in quanto tali come scopi: la tanto celebre quanto controversa catarsi aristotelica, ad esempio, è un classico caso di questo tipo. Non è esaminando la purificazione dalle passioni che può scaturire come effetto del godimento estetico, che si comprende l’essenza di quest’ultimo: esso è infatti godimento dell’opera, non godimento di quella purificazione. Chi a teatro gode del sentirsi liberato (dalle passioni, dalle incombenze lavorative, dalle preoccupazioni quotidiane), gode sì, ma non gode esteticamente. Excursus: motivo, fondazione, causa, fonte La caratterizzazione del godimento in generale come immotivato offre a Geiger il destro per operare un excursus sul concetto di motivo, che deve essere distinto da altri concetti con cui invece molto spesso viene confuso: fondazione, causa e fonte. Si tratta di quattro modi diversi di rispondere alla domanda «perché?», che implicano conseguenze differenti per l’esperienza dell’io e illuminano aspetti diversi del suo rapporto con un suo vissuto o uno stato di cose. Il motivo (Motiv), come si è visto, riguarda una circostanza che colgo attraverso l’oggetto (tramite un guardare come in trasparenza, un Hindurchsehen) e che si riverbera sul mio vissuto o sentimento immediato: il signor X viene eletto, e questo è un fatto; ma dietro a questo fatto sta il fatto che il signor X appartiene al partito Y (che è anche il partito per il quale io stesso simpatizzo) a riflettersi sulla sua elezione, ed è questo il motivo che mi induce a gioire della sua elezione.

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La fondazione (Begründung) per contro non necessariamente è consapevole e immediatamente vissuta, cionondimeno costituisce il fondamento e la ragione del mio sentimento. Nel caso dell’elezione del signor X, motivo e fondazione coincidono: è la sua appartenenza al partito Y a motivare e al contempo a fondare la mia gioia per la sua elezione. Ma in altri casi tale coincidenza viene meno: se godo di un vino o di un quadro o di una melodia, il mio godere è immotivato, ma non infondato. La fondazione del mio godere consiste nell’asprezza o nella dolcezza del vino, in una certa disposizione delle linee e dei colori, in una certa vivacità della sequenza delle note, anche se posso non esserne affatto consapevole nel momento in cui ne godo. A differenza del motivo, che si trova fuori o dietro l’oggetto cui mi relaziono (l’appartenenza del signor X al partito Y sta «dietro» la sua elezione; la fine della lezione sta «dietro» il suono della campanella), la fondazione vi sta dentro, vi pertiene come una sua proprietà: è l’asprezza del vino, l’armonia della composizione, la vivacità della melodia. Abbiamo poi la causa (Ursache): da buon fenomenologo, Geiger distingue una causa fenomenica (phänomenale Ursache) da una causa reale (reale Ursache). Quest’ultima non riguarda in nessun modo l’ambito fenomenologico dei vissuti, quanto piuttosto le connessioni fisico-naturali: nel caso del godimento di un quadro, sua causa reale sarebbe la presenza di un certo colore reale nello spazio, con le relative vibrazioni della luce misurabili e quantificabili sperimentalmente, di un certo numero di linee, consistenti di un determinato materiale analizzabile in senso chimico-fisico ecc., di cui nulla tuttavia sappiamo a livello di vissuto dell’io. Nel momento in cui vengono percepiti dall’apparato sensoriale del soggetto, questi stessi elementi divengono causa fenomenica. Rispetto a essi va ulteriormente circoscritta quella che nel vissuto stesso viene colta come causa psicologico-reale (realpsychologisch); essa si distingue dal motivo e dalla fondazione come «fattore ultimo» del mio vissuto: ad esempio, godo di quest’opera perché sono suggestionato dal fatto che essa abbia suscitato il plauso della comunità degli specialisti o dei critici. In tal caso il mio godimento è immotivato (come lo è ogni godimento), infondato (perché non è determinato da componenti o proprietà appartenenti all’opera in quanto tale), ma psicologicamente causato dal condizionamento esercitato su di me dall’opinione di una élite. Infine, la fonte (Quelle) soggettiva. Se mi sto godendo le ferie perché negli ultimi tempi ho lavorato molto, oppure un bicchiere d’acqua fresca perché la camminata mi ha messo molta sete, nella mia esperienza vissuta reperisco una connessione diretta tra i due momenti qui correlati, in questo senso: non è che il godimento in sé scaturisca dallo stress lavora-

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tivo o dalla sete; piuttosto è intensificato da essi. Stress e sete cioè comportano un’intensificazione della mia capacità di godere le ferie o l’acqua. 2.2.2. Godimento e gradimento Godimento e gradimento (Gefallen) sono stati spesso confusi e identificati, ciò che ha provocato all’estetica una serie di equivoci. Eppure a ben vedere anche gli usi del linguaggio comune sono a tal riguardo illuminanti: posso chiederti se ti è piaciuto il mio amico, ma se ti domando se te lo sei goduto intendo qualcosa di profondamente diverso. Sul piano teologico si ammette che Dio possa provare gradimento per l’opera dell’uomo, ma non che ne possa godere. Per converso, si può dire che ci si gode il vino, ma non che il vino ci faccia piacere. In ambito estetico si dovrà analogamente distinguere nei due casi: gradire un quadro è un tipo di vissuto diverso dal godere di un quadro. Se esprimo il mio gradimento dicendo che un vino mi piace o un quadro mi piace, prendo una posizione (Stellung) positiva nei confronti dell’oggetto; negativa se affermo che non mi piace. Dico nell’un caso «sì» all’oggetto, nell’altro «no». Non così nel godimento, che non implica in quanto tale alcuna presa di posizione; essa può precedere il momento del godimento, o affiancarsi a esso: posso prender posizione a favore del gioco e desiderarlo; posso altresì desiderare di prolungare il mio giocare mentre gioco; ma nella misura in cui godo del mio giocare, sono concentrato nel gioco, e non prendo posizione sul gioco stesso. Analogamente nella sfera dell’esperienza estetica può ben capitare che io goda di un’opera, senza riflettere se mi sia piaciuta o meno: se me lo si chiede (all’uscita da teatro, o dalla sala da concerto), devo cambiare atteggiamento, quel che prima (godendo) avevo semplicemente vissuto, ora deve diventare oggetto di una decisione consapevole e ponderata, e intellettualmente impegnata. È questo uno dei motivi principali per i quali soggetti inclini al godimento di solito non sono critici raffinati, e viceversa nature dal senso critico molto sviluppato, che volentieri prendono posizione nei confronti di questo o quell’oggetto, difficilmente si lasciano andare al godimento immediato, a quel che Geiger designa come «il più puro sentire», «soltanto» sentire. Tutto ciò implica una conseguenza decisiva per l’estetica, che tuttavia Geiger tocca solo e intenzionalmente en passant: e cioè il fatto che essa, dal momento che si basa su una presa di posizione nei confronti dell’oggetto del piacere estetico, non può venire integralmente fondata sul vissuto del godimento estetico.

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2.2.3. Godimento e piacere sensibile Fra i molti equivoci provocati dall’inflazione della nozione di piacere si annovera anche quello in virtù del quale si scambia qualsivoglia piacere sensibile (sinnliche Lust) per godimento: tuttavia non ogni piacere sensibile – ad esempio nel muovere un braccio intorpidito – è già di per sé godimento, poiché non comporta una partecipazione dell’io. Suoniamo una nota al piano: a seconda dell’atteggiamento che adottiamo, possiamo provare godimento o piacere sensibile; nel primo caso saremo orientati all’oggetto, nel secondo al piacere stesso che diventa per noi oggetto. 2.2.4. Godimento e interesse Come è noto, nel secondo paragrafo della Critica del giudizio Kant aveva posto il disinteresse (Interesselosigkeit) come condizione del giudizio di gusto relativo al piacere estetico, che prescinde da considerazioni relative all’esistenza dell’oggetto. Ma, dal momento che l’argomentazione kantiana non distingue tra piacere e godimento, e oscilla (come anche alcuni suoi interpreti) fra diverse accezioni della nozione di interesse, Geiger si ripropone di procedere «senza riguardo per Kant», disponendosi a indagare in che cosa consista il rapporto fra godimento e interesse (Interesse). L’interesse non ha nulla a che fare col piacere (posso seguire con interesse le vicende di una guerra senza trarne piacere), né con l’esistenza (posso interessarmi alle mie fantasie più irreali); esso consiste in una presa di posizione dell’io nei confronti degli oggetti e delle situazioni. Una presa di posizione che mi fa apparire oggetti e situazioni sotto una luce nuova. Ma anche in questo caso occorre prestare attenzione a sottili distinzioni: posso provare interesse per le corse dei cavalli, ma non a che questo particolare cavallo vinca (perché magari ci ho scommesso sopra). «Essere interessati» alla corsa per la scommessa giocata, e «avere interesse» per la corsa come manifestazione sportiva sono due esperienze vissute assai differenti: nel primo caso si è di fronte a un interesse interessato, nel secondo a un interesse non interessato. Come stanno le cose in relazione al godimento? Nel godere abbiamo senz’altro interesse all’oggetto del nostro godimento, e più esso è capace di destare il nostro interesse, più ne godiamo. Ma godendo siamo anche interessati (nel senso in cui lo è chi scommette su un cavallo)? Lo siamo nei confronti di noi stessi, poiché ogni godimento è godimento del sé. Ma, se nel caso del godimento erotico che provo alla visione di un bel corpo io posso essere interessato al piacere corporeo che ne potrei trarre (il che mi induce a scivolare verso il desiderio sessuale, e

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quindi verso un modo volitivo di per sé estraneo al godimento), nel caso del godimento estetico deve essere escluso ogni interessamento nei confronti dell’oggetto di cui si gode (in termini di utile o di vantaggi che ne potrei trarre): all’oggetto di cui godo esteticamente devo interessarmi solo per se stesso, senza secondi fini. Devo cioè contemplarlo in modo disinteressato, godendone con interesse. 2.2.5. Godimento e valutazione Abbiamo già visto che Geiger rigetta dall’ambito del proprio lavoro la prospettiva assiologica riferita alle diverse forme di godimento, cioè la valutazione di godimenti legittimi e illegittimi, alti e bassi, ammissibili e non. C’è tuttavia un altro senso in cui il valutare (Werten) viene chiamato in causa: non cioè come valutazione di questo o quel godimento, quanto piuttosto come valutazione dell’oggetto del godimento, dell’oggetto che mi procura godimento. Anche se si affermasse che si attribuisce valore a un oggetto solo nella misura in cui se ne gode, valore e godimento devono essere tenuti distinti: il primo è vissuto come una proprietà reperibile nell’oggetto (ad esempio nel diamante), mentre il secondo è un vissuto del soggetto. Esistono poi dei casi, sia in ambito estetico sia in ambito extra-estetico, in cui i due momenti si presentano disgiunti: si possono paragonare due monete quanto al loro valore senza che si debba provare un qualche tipo di godimento; per contro, posso godermi un bicchiere di vino senza necessariamente esprimere una valutazione. 2.3. Intensità, estensione e profondità del godimento L’intensità (Intensität) del godimento dipende dal grado di partecipazione interiore dell’io al godimento stesso, dal suo venire più o meno assorbito dal godimento. Alcune persone lo sono maggiormente per la musica, altre per la pittura. La sua estensione (Ausgebreitetheit) dipende dalla sua capacità di mettere in moto altri stati soggettivi oltre a se stesso (ad esempio la partecipazione compassionevole alle vicende dell’eroina), irradiandosi su di essi. La sua profondità (Tiefe) è più difficile da determinare, essendo in certa misura ogni godimento di per se stesso profondo, dal momento che è vicino all’io, affare dell’io, e non gli si impone dall’esterno. Ma l’io può comportarsi diversamente nei confronti del proprio godimento: darsi totalmente a esso, permettendogli così di penetrare nel profondo

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del suo più autentico io, oppure cercare di controllarlo mantenendolo a un livello più superficiale. A tal riguardo un esempio molto chiarificatore è dato dal godimento sessuale: vi sono soggetti (più frequentemente uomini che donne) che sostengono che i più turpi godimenti sessuali, che pur volentieri provano, non li toccano in profondità, non riguardano il nucleo più intimo e autentico del loro io. Profondità tuttavia è una nozione complessa per un ulteriore motivo: essa non designa solo per così dire il «fin dove» concesso alla penetrazione del godimento in questo o quel soggetto, in questa o quell’occasione. Essa può indicare altresì il «da dove» esso proviene. Vi sono vissuti radicati nel profondo e vissuti radicati in superficie: il desiderio di libertà può appartenere ai primi, il desiderio di venire lasciati in pace da uno scocciatore temporaneo non può che annoverarsi fra i secondi. Analogamente per quanto concerne il godimento, vi sono soggetti nei quali il godimento più profondamente radicato è quello per lo sport, o per il gioco, o per il sesso, o per l’arte. Ciò non toglie comunque che, a prescindere dal radicamento, quel soggetto goda nel proprio godere. 2.4. Il godimento nel suo rapporto all’oggetto e all’io Il vivere dell’io non prende la medesima posizione nei confronti di ogni sua esperienza vissuta: alcune di queste sono particolarmente lontane ed estranee all’io, altre per contro assai vicine; alcune sgorgano dalla profondità dell’io, altre dalla sua superficie esteriore; in determinate esperienze l’io risulta per così dire sempre costantemente coinvolto in prima persona, in altre – che pure lo riguardano da vicino (ad esempio nel desiderio o nell’ira che lo afferrano) – la sua costante partecipazione non è necessaria, anzi talora esse accadono contro la sua volontà. Quanto al godimento, esso è a tal riguardo sempre centrato nell’io (ichzentriert), mai a esso estraneo o contrapposto, anche se non necessariamente in esso radicato in profondità, potendosi presentare come godimento superficiale. A differenza della gioia o della tristezza o dell’ira, che possono assalirmi come da fuori e contro la mia volontà, il godimento è centrato nell’io, e presuppone la mia partecipazione. È un vivere dell’io, non semplicemente qualcosa che viene da lui vissuto: il godimento è sempre il mio godere, e non un godimento che colgo. È perciò che al godimento (sia esso ludico, sessuale o estetico, di oggetti o situazioni o stati d’animo) è sempre connessa una «intensificazione del sentimento vitale» (Steigerung des Lebensgefühl). Però posso ben prendere posizione (Stellung) nei confronti del mio godimento: abbandonarmi a

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esso, identificando il mio io più profondo e autentico con l’io che gode, o piuttosto prender le distanze dal mio godere, tenerlo alla superficie del mio io, impedirgli di penetrare in profondità. Quanto invece al rapporto all’oggetto, il lavoro di Geiger, lo abbiamo visto, non è programmaticamente focalizzato sulla descrizione fenomenologica del lato oggettuale; purtuttavia, posta l’inaggirabile correlazione fenomenologica fra il polo soggettivo e quello oggettivo, una qualche riflessione intorno alla componente oggettuale del godimento è imprescindibile. Non si dà infatti godimento senza oggetto del godimento: variando la generale formula fenomenologica dell’intenzionalità della coscienza (in virtù della quale la coscienza è sempre «coscienza-di»), si potrebbe appunto dire che il godimento è sempre «godimento-di». Molti oggetti – tanto fisici quanto psichici – possono essere oggetto del mio godimento, non tutti. Posso godere di un oggetto fisico come il vino, o di un oggetto psichico (di una mia gioia o di un mio dolore, o di un atto volontario, ad esempio nel caso di chi gode a dare ordini); non però di nozioni astratte quali l’umanità o il concetto di essere umano o un numero o una relazione: ad esempio non posso godere della similitudine. Quel che occorre a un oggetto perché possa divenire oggetto del godimento non è nemmeno, come si potrebbe di primo acchito pensare, il suo presentarsi in modo intuitivo-sensibile come qualcosa cioè che posso vedere, toccare, udire, gustare ecc.: senz’altro oggetti siffatti sono particolarmente adatti a venire fruiti nel godimento. Eppure posso altresì godere di una mia capacità (ad esempio quando procedo senza difficoltà in un calcolo matematico), o di una disgrazia capitata a un mio nemico. Non è neppure strettamente necessario che l’oggetto di cui godo sia effettivamente presente dinnanzi a me; posso anche godere di un oggetto nella fantasia, semplicemente immaginandomelo. Tale godimento solo fantasticato è tuttavia generalmente meno intenso di quello relativo all’oggetto effettivamente presente, in quanto sotto il profilo intuitivo la rappresentazione immaginativa è meno vivace, più debole, dell’apprensione percettiva. Generalmente, anche se non necessariamente: il caso di Beethoven sordo o di quei pittori la cui potente capacità immaginativa permette loro di godere i colori in fantasia come nella realtà sono lì a testimoniarlo. Essi sono in grado non semplicemente di pensare all’oggetto in questione (il suono o il colore) – ciò che non potrebbe dar luogo ad alcuna forma di godimento –, ma di presentificarselo nell’immaginazione in tutta la sua «pienezza» (Fülle). Non vengono qui poste delimitazioni di principio all’ambito dell’oggetto del godimento, e non solo perché Geiger intenzionalmente non si concentra sul lato oggettuale. È lo stesso atteggiamento delle nature o-

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rientate al godimento a sconsigliarlo: l’esperienza ci insegna che esse, più che mirare all’intensificazione quantitativa del godere (come sarebbe il caso del ghiottone), aspirano a un raffinamento della loro capacità di godere, e a coinvolgere nel godimento il maggior numero di oggetti possibile. Soprattutto si insiste sul ruolo fondamentale giocato dal modo di darsi, ruolo che alla fin fine determina se un certo oggetto sia adatto a essere oggetto del godimento. E soprattutto a venire distinto e sottolineato è l’accento principale che cade su questo o su quel lato o aspetto dell’esperienza vissuta del godimento: poniamo che sono con i miei amici. Posso godere del fatto che sono con loro, o piuttosto dell’essere insieme a loro. Se nel «godimento-di» si relazionano il soggetto che gode e l’oggetto del godimento, Geiger muove a una considerazione delle modalità specifiche in cui il lato soggettivo del godimento si rapporta al lato oggettuale. Innanzitutto occorre chiedersi se, nell’ambito della correlazione soggetto-oggetto, nell’esperienza del godimento si verifichi un movimento dal primo al secondo o piuttosto viceversa. Anche sotto questo rispetto il confronto con la gioia è illuminante: nel gioire per l’arrivo di un amico io irradio verso questo arrivo la mia gioia, lo investo con essa, e il movimento che qui si compie è senza dubbio dall’io verso l’oggetto della mia gioia. Al contrario, nel godimento io debbo piuttosto aprirmi a quello che mi proviene dall’oggetto, accogliendolo, ascoltandolo, lasciandomi irradiare nell’intimo. Geiger non contesta che nell’esperienza del godimento vi siano elementi di attività e di movimento in direzione dell’oggetto (esemplare è a tal riguardo il caso dello sport o del gioco, in cui vi sono decisive e non trascurabili componenti volitive attive). Eppure il vero e proprio momento del godere resta di per sé sostanzialmente accoglienza, ricezione (Aufnahme), e non ha nulla a che fare con quell’irradiazione (Ausstrahlung) propria di vissuti come il tendere o la gioia. In quanto soggetti accoglienti e ricettivi, noi variamo sensibilmente a seconda delle circostanze e delle nostre condizioni. Interessante, e degna di ulteriori approfondimenti, appare a Geiger a tal riguardo la condizione psico-fisica della stanchezza: se da un lato essa mi può intorpidire, impedendomi di mantenermi aperto verso ciò che l’oggetto ha da offrirmi, specie se di natura stratificata (un’opera d’arte complessa), dall’altro può arrivare a intensificare la ricezione di certi oggetti (una melodia sentimentale) o stati d’animo (di cui posso godere sentimentalmente). Da questa accoglienza Geiger distingue l’abbandono (Hingabe): esso non riguarda tanto la posizione dell’io nel movimento psichico che si verifica tra soggetto e oggetto (determinata nel caso del godimento appunto dall’accoglienza in quanto ricezione di un movimento che proce-

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de dall’oggetto all’io), quanto piuttosto la posizione dell’io nei confronti dell’oggetto stesso: l’io rinuncia a sé a favore dell’oggetto, si mostra passivo e arrendevole («molle» per i critici del godimento) nei suoi confronti. 2.5. Il godimento nei suoi rapporti con la sfera etica Proprio i momenti dell’accoglienza e dell’abbandono ci consentono di chiamare in causa le implicazioni etiche dell’esperienza vissuta di godimento. Pur avendo di mira soprattutto le connotazioni estetiche del godimento, nel corso della trattazione Geiger non si lascia sfuggire l’occasione di sfiorare a più riprese i suoi risvolti etici, peraltro utili a chiarificare alcuni momenti costitutivi del godimento in generale. In particolare è il confronto con la gioia a essere qui particolarmente pregnante. Gioia e godimento, come si è detto, si differenziano tra l’altro anche per la differente collocazione del loro baricentro: spostato verso l’oggetto nel caso della gioia, che attivamente si volge verso l’oggetto e lo irradia di piacere; sbilanciato verso il soggetto nel caso del godimento. È proprio questo irraggiamento di piacere in direzione dell’io che viene respinto da ogni etica rigoristicamente improntata: essa può ammettere la gioia in quanto rivolta agli oggetti, ma non dovrà che rigettare il godimento in quanto esso è sempre, in fin dei conti, riflessivo, «godimento di sé» (Selbstgenuss), laddove sarebbe insensato parlare di gioia di sé (Selbstfreude). Il rigorismo etico ritiene che il godimento sia da respingere allo stesso tempo per un difetto e un eccesso dell’io: un difetto, in quanto l’io non prende posizione (lo abbiamo visto nel confronto fra godimento e gradimento); un eccesso, in quanto l’io, accogliendo l’oggetto e abbandonandosi a esso, si mostra passivo nei suoi confronti, ed è appunto quella «mollezza» che ripugna tanto ai rigoristi quanto ai temperamenti che molto tengono all’integrità del proprio io, all’autocontrollo e all’autoaffermazione. Ma il controllo di sé nel godimento è un compito non facile, che già l’etica antica aveva esplorato nella sua difficoltà: come diceva Aristippo, è più facile rinunciare a ogni godimento che restare padroni di se stessi nel godimento e del godimento. Anche senza dover necessariamente abbracciare un’opzione etica rigorista, può ben accadere che si goda «con la coscienza sporca»: sapendo che è illegittimo, o che si sta trascurando un dovere. Questi pensieri volti alla riprovazione del godere in atto perturbano il godimento e gli impediscono di impadronirsi dell’io nella sua totalità: questo allora si scinde in due io parziali, l’uno che gode, e l’altro che rimprovera. Solo

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chi riesce a far tacere questo secondo io, dandosi in toto al godimento, può pervenire all’oblio e a una vera e propria anestesia nei confronti del mondo, stante quell’isolamento che abbiamo visto essere costitutivamente implicato nell’esperienza del godimento. Per contro, fin dall’antichità si è avvertita, anche se oscuramente ed equivocamente, una connessione profonda fra il godimento di valori estetici profondi e la sfera etica: così si è cercato un valore etico nel godimento di valori estetici in virtù degli effetti morali che esso suscita (catarsi, nobilitazione dell’animo). Ma il godimento estetico non può essere moralmente approvato o condannato sulla base del suo essere un godimento di valori, poiché non vi è nulla di morale nel godere di valori estetici. 3. Il godimento estetico Il godimento estetico è un caso particolare del godimento, troppo spesso unilateralmente accentuato dalle ricerche psicologiche, che hanno finito per circoscrivere quali proprietà del godimento estetico in particolare tratti che in realtà appartengono al godimento estetico tout court. Se si possono individuare caratteristiche strutturali del godimento in generale, esse saranno dunque reperibili in tutto e per tutto anche nel godimento estetico, così come si ritroveranno in altre forme di godimento (nel gioco, nel riposo, nella sensualità). Ma che cosa distingue in particolare il godimento estetico da altre forme di godimento? Dipende esso dall’oggetto o dal vissuto del soggetto? Prendiamo il lettore di un testo religioso quale un salmo: si tratta di un oggetto religioso, che purtuttavia si presta anche a un godimento non religioso (non rivolto cioè ai contenuti religiosi del testo), bensì estetico (rivolto agli aspetti formali ed espressivi del linguaggio). Il godimento vissuto sarebbe in tal caso dello stesso tipo, solo cambiando la sua relazione all’oggetto o meglio a certuni piuttosto che ad altri lati dell’oggetto stesso? Certo è che il mio godimento estetico non dipende dal fatto di relazionarsi a un oggetto estetico, a quella classe di oggetti che l’estetica tradizionalmente designa quali oggetti «belli», cioè «esteticamente validi». Posso godere esteticamente anche di un oggetto non bello, ma anche di una situazione o di uno stato d’animo. Ciò che conferma l’impossibilità di fondare l’estetica sul godimento estetico, a partire dal quale non si riesce a circoscrivere l’oggetto esteticamente valido in quanto tale (Geiger – detto per inciso – sembra qui adottare un’accezione nor-

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mativa e valutativa dell’estetica come disciplina che stabilisce lo statuto e le proprietà di oggetti estetici in quanto esteticamente validi, cioè belli). Il che comporterà poi una necessaria distinzione fra godimenti estetici di oggetti esteticamente validi e di valori estetici, e godimenti estetici di oggetti o situazioni esteticamente non valide o indifferenti. Viceversa, posso provare un godimento non estetico di fronte a un oggetto esteticamente valido: chi si serve di un nudo dipinto o scolpito per eccitarsi sessualmente, prova un godimento extra-estetico; chi, in una mostra di quadri di paesaggio, gode del fatto che fra i tanti brani di natura rappresentati, e sconosciuti, uno gli si fa incontro come familiare e riconoscibile, non prova un godimento specificamente estetico. Se allora non è l’oggetto a determinare l’esteticità della mia fruizione, essa andrà necessariamente ricercata in un particolare atteggiamento assunto dal soggetto. 3.1. Godimento e contemplazione Esaminando l’ambito dell’atteggiamento, molti autori caratterizzano il godimento estetico nei termini di «contemplazione» (Kontemplation, Betrachtung): si tratta di un modo di atteggiarsi nei confronti dell’oggetto che è non attivo (come lo sarebbe il prestar attenzione), e che si pone a distanza rispetto all’oggetto contemplato – sia esso un dipinto, un paesaggio, un corpo umano, una poesia, una sinfonia, uno stato d’animo –, senza pretendere di analizzarlo. Il contemplare non prende inoltre posizione. Tutti tratti, questi, che lo avvicinano effettivamente al godimento. Tuttavia, se tutti i godimenti estetici sono godimenti di contemplazione, non tutti i godimenti di contemplazione sono necessariamente estetici. Se godo nel contemplare un militare perché è un militare (e non perché è un bell’uomo nella sua divisa); se godo di un versetto religioso perché è religioso (magari un pessimo versetto sotto il profilo poetico, e tuttavia religioso); se godo in un’opera d’arte delle sue componenti ideologiche, didattiche, morali, politiche, allora il fuoco della mia contemplazione si sposta dall’oggetto nella sua pienezza intuitiva a un suo qualche aspetto extra-estetico, e di conseguenza la mia contemplazione sarà non estetica. Né ovviamente ogni godimento è contemplativo: se ad esempio, godo di una mia attività sportiva, o nello stiracchiarmi dopo un periodo di immobilità, non tengo a distanza il mio proprio fare e agire.

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3.2. Godimento e sfera sensoriale Il linguaggio ordinario preferisce usare il termine «contemplazione» per il coglimento di oggetti visibili, ma si dovrebbe poter dire lo stesso anche per l’ascolto di una melodia, per lo sfioramento tattile di un materiale, per l’assaggio di un vino (non certo se lo tracanno avidamente); è pur vero che sono soprattutto gli oggetti visibili a suggerire di adottare nei loro confronti l’atteggiamento contemplativo. Alla questione della presa di distanza rispetto agli oggetti è dunque strettamente connessa la peculiarità con cui ogni canale sensoriale mi fa accedere all’oggetto che percepisco, e ciò comporta differenze specifiche da descrivere fenomenologicamente. Alla vista del blu, all’ascolto di una nota, lo statuto oggettivo del colore e del suono in quanto altri da me e presenti là fuori nel mondo è salvaguardato. Diversamente stanno le cose col tatto, col gusto, con l’odorato: qui il godimento di una qualità tattile (morbidezza, levigatezza), di un sapore o di un profumo può diventare, se ne accentuo il lato soggettivo, una mia propria sensazione corporea, una parte di me, qualcosa che viene quindi a fondersi col mio stato soggettivo. In questi ultimi casi posso ben provare un godimento propriamente estetico (ad esempio rispetto a un bicchiere di vino) se mi concentro sul lato oggettivo-sensibile e non su quello soggettivo-sensoriale dell’esperienza. Quel che è certo è che la prospettiva fenomenologica respinge come inaccettabile la dissoluzione dell’esperienza fenomenica negli atomi delle sensazioni soggettive: il godimento di un colore, di una statua è godimento del colore, della statua, cioè di oggetti, non di sensazioni corporee soggettive. È nell’ultimo capitolo dei Contributi che Geiger più si diffonde sulla questione, allineandosi alla posizione del suo maestro Lipps: la funzione del godimento non contiene in sé alcuna sensazione corporea del soggetto che gode, che al massimo può presentarsi insieme al godimento come un fenomeno concomitante. 3.3. Godimento e concentrazione Si è detto che il godimento in quanto tale è sempre centrato nell’io, egocentrato (ichzentriert) nella misura in cui riguarda l’io da vicino. Ciò tuttavia non comporta necessariamente che l’io, nel godimento, sia concentrato su se stesso. Nella concentrazione esterna (Außenkonzentration) sono rivolto all’oggetto, in quella interna (Innenkonzentration) sono piuttosto rivolto agli effetti che l’oggetto provoca in me, agli stati

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d’animo che esso mi suscita: proverò evidentemente un godimento contemplativo estetico dell’oggetto quando sarò esternamente concentrato su di esso e non sui miei stati d’animo: se mi concentro su di essi (e non sulla musica o sul paesaggio che me li hanno indotti), il mio godimento sarà godimento dei miei stati d’animo, e non godimento contemplativo dell’oggetto. È comunque vero, ammette Geiger, che i casi puri sono rari, e che quel che per lo più si verifica nelle situazioni concrete è una condizione mista, in cui prende il sopravvento ora la concentrazione interna, ora quella esterna. La prima non potrà tuttavia mai dar luogo a un godimento artistico, che in quanto tale deve essere rivolto alle proprietà oggettive dell’opera d’arte, e non agli stati soggettivi da essa provocati.13 Ciò non toglie che essa possa costituire una forma di godimento estetico: non dell’opera, appunto, ma proprio dello stato d’animo. Geiger si spinge oltre, fino a considerare due possibilità all’interno della stessa concentrazione interiore: nell’un caso mi concentro interiormente sul mio stato d’animo (guardo il cielo stellato e mi concentro sullo stato d’animo che esso provoca in me); nell’altro mi concentro in esso (sono totalmente assorbito nel mio stato d’animo, godo in esso). Solo nel primo caso posso godere contemplativamente, ed eventualmente in modo estetico-contemplativo, del mio stato d’animo, poiché solo allora prendo nei confronti del mio stato d’animo la distanza necessaria alla contemplazione. In tal caso godo esteticamente di un mio stato d’animo che non è necessario sia a sua volta estetico, cioè correlato a un oggetto estetico. Posso infine, nel godere di un mio stato d’animo, accentuare il fatto che si tratti proprio di un mio stato d’animo, che sia io a essere capace di provarlo, che sia proprio io a farne esperienza. Si tratta qui di un «godimento di sé» (nel senso del genitivo oggettivo: Selbstgenuss) che ovviamente non può aver nulla a che fare con il godimento estetico dello stato d’animo, in quanto l’oggetto scompare a tutto vantaggio del soggetto, che si fa oggetto a se stesso, fino al caso estremo del vanitoso. È piuttosto l’oblio di sé a caratterizzare il godimento estetico, nella misura in cui la concentrazione è rivolta all’oggetto e il sé non compare come oggetto del godimento stesso, ma solo come soggetto che gode. Il go-

13 Sui due tipi di concentrazione Geiger sarebbe più diffusamente tornato nel saggio Del dilettantismo nell’esperienza artistica, cit.

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dimento infatti è sempre, in fin dei conti, riflessivo, «godimento del sé» (nel senso del genitivo soggettivo: «Selbst»-Genuss).14 3.4. Godimento estetico ed esperienza estetica Il godimento estetico è uno dei vissuti che vanno a costituire l’esperienza estetica nel suo complesso, ma in nessun modo esso la esaurisce. Se godo esteticamente di un dramma teatrale, posso provare un sentimento di partecipazione (Teilnahmegefühl) compassionevole nei confronti dell’eroina sfortunata, gioire con lei se finalmente i suoi piani tanto ostacolati hanno successo, provare repulsione per i carnefici che la tormentano. Ma questo non riguarda il godimento in se stesso. Come non lo riguarda la commozione (Rührung) che l’opera ci procura o l’essere avvinti (Gepacktsein) dalla stessa. Sono stati dell’io che di per sé non mostrano una direzione verso l’oggetto: questa scena mi avvince, sono commosso da questa scena, mentre mi godo la scena. Al limite, posso anche godermi la mia commozione o il mio essere avvinto. 4. Problemi aperti Se dovessimo raccogliere in una sintesi le caratteristiche essenziali che fanno di un’esperienza vissuta un godimento dovremmo dire: il godimento è immotivato ed egocentrato; esso implica la partecipazione del14 Su questo punto è utile richiamare l’apertura di un articolo del maestro di Geiger, Lipps, appunto dedicato alla questione del godimento estetico nel suo rapporto con il soggetto del godere: «Vi sono tre specie, o meglio, tre direzioni del godimento. Provo godimento, in primo luogo, per un oggetto concreto o sensibile diverso da me: per esempio, per il sapore di un frutto. Come seconda possibilità, provo godimento per me stesso: per esempio, per la mia forza o per la mia abilità. Mi sento per esempio orgoglioso in riferimento a un’azione in cui ho dimostrato tale forza o abilità. Tra queste due possibilità se ne trova una terza, che le collega in modo peculiare: provo godimento per me stesso in un oggetto sensibile diverso da me. Di questa specie è il godimento estetico. È godimento di sé oggettivato» (Empatia e godimento estetico (1906), trad. it. di A. Pinotti in «Discipline Filosofiche» 12/2 (2002), pp. 31-45, qui p. 31). Considerato dal punto di vista di Geiger, il terzo momento lippsiano mescolerebbe indebitamente il genitivo soggettivo e quello oggettivo, a tutto detrimento dei diritti dell’oggetto.

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l’io, ma non una sua presa di posizione; l’io accoglie l’oggetto (che deve mostrare una propria «pienezza» intuitiva) e si abbandona al godimento stesso; il godimento riempie l’io, lo riguarda da vicino come una sua affezione; il godimento può darsi in una serie di sfumature e qualità diverse (come serio, leggero, profondo). Quanto al godimento estetico in particolare, il «minimo indispensabile» che lo stesso Geiger esige è che esso sia quel tipo di godimento che contempla la pienezza dell’oggetto in modo non interessato. Con ciò Geiger non pretende di essere riuscito a mostrare descrittivamente che cosa in ultima analisi sia il godimento e che cosa significhi provarlo: l’analisi fenomenologica non può sperare di poter esibire che cosa differenzi in ultima istanza un vissuto da un altro: occorre vivere in prima persona che cosa significa gioire e che cosa godere, proprio come occorre percepire in prima persona il blu nella sua differenza rispetto al giallo. Tuttavia, fatta salva questa premessa, la descrizione può utilmente ed efficacemente illuminare le proprietà del blu in quanto colore, il suo ruolo nella scala cromatica rispetto agli altri colori, gli effetti che produce in chi lo percepisce; allo stesso modo una descrizione fenomenologica del godimento potrà metterne in luce le caratteristiche strutturali, quel che lo accomuna o lo distingue rispetto ad altri vissuti, gli effetti che esso provoca nel soggetto che lo prova. Questo può sperare di fare l’analisi fenomenologica: e Geiger ha buon diritto di sperarlo, considerando i risultati del suo lavoro. Risultati che hanno indotto un filosofo che di ricezione se ne intende, come Hans Robert Jauss, ad affermare che su questo tema «Geiger scrisse, dal punto di vista della fenomenologia, le parole definitivamente chiarificatrici».15 Ciononostante, alcuni problemi rimangono aperti. In parte sono segnalati dallo stesso Geiger, là dove ammette apertamente che la sua ricerca è «solo un inizio, non una conclusione»: Contributi, appunto. Quel che intenzionalmente non è stato indagato nel corso del lavoro sono, come già si è accennato, le cause psicologiche del godimento (questione che, appunto in quanto causalistica, si colloca al di fuori dell’ambito descrittivo proprio della fenomenologia), ma anche aspetti che di per sé rientrerebbero in una considerazione fenomenologica: il lato oggettuale del godimento, cioè le caratteristiche strutturali che fanno di un 15 H.R. Jauss, Breve apologia dell’esperienza estetica (1972), a cura di M.G. Brega, Mimesis, Milano 2011, p. 39.

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oggetto un oggetto atto a essere goduto (lato, come si è visto, solo cursoriamente sfiorato), e la questione dei vissuti che, pur non essendo essi stessi ancora godimento, si pongono alla base del godimento, come sostegni sui quali il godimento poggia per potersi manifestare (per certuni si tratterebbe di processi di imitazione interiore, per altri di vissuti empatici, ecc.). E solo negativamente, cioè escludendoli per via di discriminazione, si sono trattati quei sentimenti che si accompagnano al godimento, senza tuttavia poter essere confusi con esso: la compassione che provo per l’eroina mentre mi godo il dramma; lo sforzo tensivo che provo mentre godo di una colonna, ecc. Un mondo di sentimenti concomitanti che, pur non essendo di per sé costitutivo dell’essenza del godimento, necessiterebbe di un’adeguata analisi fenomenologica e di per sé e per il fatto di presentarsi appunto in modo caratteristico insieme al godimento stesso. Un ulteriore approfondimento, come lo stesso Geiger segnala, andrebbe compiuto, nell’ambito dei vissuti di gioia, riguardo alle due differenti sfumature della gioia provata per qualcosa (Freude über) e della gioia provata in qualcosa (Freude an): se la prima è chiaramente distinta dal godimento in virtù del suo movimento irradiante dal soggetto in direzione dell’oggetto (gioire per l’arrivo di un amico, gioire della realizzazione di un progetto), la seconda, più statica (gioire nel fruire un’opera d’arte, una pièce teatrale) sembra mostrare momenti prossimi al godimento. Ma appunto Geiger non ci lascia che questo accenno. Abbastanza, tuttavia, per darci lo spunto per riflettere su un tratto tipico del suo modo di procedere, caratterizzato – come il lettore in più di un’occasione avrà modo di verificare – da una sensibilità acutissima, financo esasperata in certi casi, per quella che potremmo chiamare una topica psicodinamica, una considerazione precisissima dei moti a luogo e da luogo e degli stati in luogo esperiti dal soggetto nella sua relazione all’oggetto e a se stesso e ai propri vissuti. L’estrema difficoltà di rendere nella traduzione certune sfumature di senso, suggerite dallo specifico potere espressivo della lingua tedesca attraverso la modulazione dei prefissi verbali e delle preposizioni nel loro rapporto con i corrispondenti verbi reggenti, solleva la questione, che qui possiamo solo menzionare, di una psicolinguistica fenomenologica e dei condizionamenti esercitati da un determinato mondo linguistico sulla descrizione in generale. Volendo continuare con i desiderata, si avverte il bisogno di una più adeguata fondazione della nozione di «pienezza» (Fülle) o «pienezza intuitiva», che Geiger esige per l’oggetto del godimento in quanto oggetto pieno di momenti «afferrabili»; sappiamo che un oggetto di puro pensiero, una nozione astratta, non posseggono pienezza; ma questa rimane

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tuttavia sostanzialmente inindagata, se si esclude la sua caratterizzazione per via negativa (non occorre che l’intuizione sia quella della percezione sensibile di un oggetto datomi in presenza: infatti posso godere anche della pienezza intuitiva di un oggetto che mi rappresento nell’immaginazione, o di uno stato d’animo). Inoltre, alla pienezza sembra venire strutturalmente connesso da Geiger il momento del riconoscimento, nell’afferramento intuitivo, del referente oggettuale che fa, ad esempio, di queste linee e colori le linee e i colori di un corpo umano: «Per il godimento estetico non è affatto indifferente che i colori e le forme vengano appresi come colori e forme di un uomo. Chi non conosce questo significato, chi non riesce a “dar forma umana” ai colori e alle forme, potrà godere un dipinto solo come ammasso di colori, o una poesia solo come incomprensibile insieme di parole straniere».16 Come valutare questo passo se lo si colloca nel contesto della complessiva temperie culturale che, negli anni in cui Geiger scriveva queste pagine, vedeva la nascita della pittura cosiddetta astratta o meglio gegenstandslos, priva di oggetto nel senso del referente, del sujet iconografico? Proprio a Monaco di Baviera, dove Geiger si formava sotto la guida di Lipps, nasceva il movimento del Cavaliere Azzurro (il primo acquarello astratto di Kandinskij è del 1910, questi Contributi geigeriani del 1913).17 Un’analoga esigenza di ulteriori indagini si presenta a proposito della nozione di «profondità» (Tiefe), che gli proveniva dalle analisi del suo maestro Lipps.18 A differenza tuttavia dell’estetica lippsiana, che riconosceva ogni godimento estetico in quanto profondo, Geiger distingue fra godimento estetico superficiale e profondo di un oggetto estetico, e godimento di valori estetici superficiali e profondi, con questa connessione fra le due situazioni: il godimento di valori estetici profondi risulta in linea di massima più profondo del godimento di valori estetici superficiali: il godimento di un’opera di Beethoven sarà più profondo del go-

16

Qui, p. 120. Cfr. su questo tema i lavori di H.R. Sepp: Riduzione fenomenologica e arte concreta, trad. it. di K. Mueller in La fenomenologia e le arti, a cura di G. Scaramuzza, Cuem, Milano 1991, pp. 113-135; Annäherungen an die Wirklichkeit. Phänomenologie und Malerei nach 1900, in Edmund Husserl und die phänomenologische Bewegung. Zeugnisse in Text und Bild, hrsg. von H.R. Sepp, K. Alber, Freiburg-München 1988, pp. 77-93. 18 Cfr. ad es. Th. Lipps, Ästhetik, 2 voll., Voss, Hamburg-Leipzig 1903-1906, vol. 1, pp. 523 e sgg. 17

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dimento di una canzonetta.19 Ma che cosa renda più profondo («importante», «significativo», «serio», sono i termini parenti evocati da Geiger) Beethoven di una canzonetta – sempre per la mancanza di un’analisi del lato oggettuale dell’esperienza estetica – resta qui più dato per scontato che non descrittivamente esibito, come sarebbe stato invece auspicabile in relazione tanto al fenomeno del kitsch20 quanto a quello del consumo di massa dell’arte che di lì a vent’anni Walter Benjamin (che nel 1915 era stato allievo proprio di Geiger a Monaco) avrebbe posto in testa all’agenda estetologica.21 In un esame così accurato fin dentro le minime sfumature di senso del godimento, che parte dal presupposto per cui i veri problemi cominciano solo dopo che si è affermato che il godimento sarebbe piacere, è per certi versi paradossale che ci si trovi a dover segnalare una lacuna proprio a tal riguardo: a rimanere bisognoso di ulteriori chiarificazioni in quanto altamente problematico finisce per risultare proprio il rapporto fra il godimento e quel piacere (Lust) – termine assai complesso nella lingua tedesca, la cui area semantica abbraccia anche i nostri concetti di «voglia», «desiderio», «passione», «brama», e che nel linguaggio comune è usato come sinonimo tanto di gioia quanto di godimento –, la cui inflazionata confusione di piani e sensi era appunto uno degli obiettivi primari dell’intento chiarificatore e analitico-descrittivo di Geiger. Da un lato il piacere come Lust è posto come equivalente al godimento, come suo sinonimo. Esaminando la relazione fra valutazione e godimento, avevamo sentito Geiger contestare la posizione di coloro che pensano che «il valore di un oggetto sia semplicemente un nome diverso per il godimento, per il piacere che l’oggetto mi arreca». Al contrario, ed 19 Nel saggio che Geiger dedicherà espressamente a Effetto superficiale ed effetto profondo dell’arte la questione è giocata nei termini di una più o meno profonda commozione, in grado di destare in noi un senso di felicità (Glück), di felicitarci (in Vie all’estetica, cit., pp. 84-87). Ma anche in questo studio la differenza fra un motivo da cabaret e un Lied di Schubert è data per ovvia e non ulteriormente indagata (ivi, p. 91). 20 Si vedano le osservazioni di L. Giesz, Phänomenologie des Kitsches. Ein Beitrag zur anthropologischen Ästhetik (1960, 19712), Fischer, Frankfurt a.M. 1994, che tiene presenti le ricerche di Geiger. 21 Sui rapporti di Benjamin con la fenomenologia del circolo di Monaco cfr. G. Scaramuzza, Walter Benjamin: incontro con la fenomenologia, in Estetica monacense. Un percorso fenomenologico, a cura di G. Scaramuzza, Cuem, Milano 1996, pp. 161190.

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è il punto di Geiger, posso cogliere il valore di un oggetto senza provare affatto piacere: «Posso stabilire e confrontare il valore di due monete senza trarne alcun sentimento di piacere. E viceversa: capita abbastanza spesso che il godimento sia vissuto in mancanza di un qualsivoglia coglimento di valore – godersi un vino non significa necessariamente valutarlo».22 In questo contento Lust e Genuss sembrano posti sullo stesso lato, come sostanzialmente sinonimi, per venire contrapposti alla valutazione. Similmente Geiger parla più avanti del «piacevole [lustvoll] abbandono all’oggetto» richiesto dal godimento.23 Per contro, in un successivo confronto fra gioia e godimento, che vengono distinti discriminando la differente posizione del piacere nei due vissuti, così leggiamo: «Piacere e godimento sono talmente poco la stessa cosa che il vero e proprio nucleo del godimento non reca in sé la minima traccia di piacere, ma è soltanto colorato di piacere. Il piacere, di solito, si deposita sui vissuti o li pervade, più o meno come il colore ricopre gli oggetti. Ma non si identifica con essi».24 Questa coloritura di piacere sarebbe orientata all’oggetto nel caso della gioia, al soggetto nel caso del godimento. Siamo qui evidentemente di fronte a una tensione che sconfina nella contraddizione. Per concludere, una questione particolarmente delicata – che emerge in tutta la sua urgenza, e anche in tutti i suoi risvolti ontologici, nell’ultimo capitolo del saggio – è quella dei rapporti fra il godimento come vissuto psichico e le sensazioni corporee. Il lettore di oggi, che ha davanti agli occhi il complessivo sviluppo novecentesco della fenomenologia come movimento e metodo che si è intensamente impegnato nel compito di restituire dignità filosofica alla corporeità e di mettere in discussione il tradizionale dualismo di fisico e spirituale (si pensi soprattutto a quella linea che dallo Husserl di Ideen II e della Krisis passa per Merleau-Ponty e arriva a Dufrenne e Maldiney, ma anche all’estesiologia sviluppata nel contesto della psichiatria fenomenologica di Minkowski, Binswanger, Straus), verosimilmente si meraviglierà nel sentire Geiger escludere la partecipazione costitutiva di sensazioni corporee nel vissuto del godimento, nel trovarlo allineato al suo maestro Lipps, che di contro a posizioni più schiettamente corporeistiche aveva abbracciato una prospettiva nettamente spiritualistica tanto nella sua psicologia 22

Qui, p. 50. Qui, p. 102. 24 Qui, p. 90. 23

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quanto nella sua estetica psicologica. Con Lipps, lo si è visto, Geiger concorda nel confinare le sensazioni corporee a fenomeni meramente concomitanti, in nessun modo costitutivi, del godimento, che resta un vissuto «puramente spirituale». È evidente che, preoccupato di non ridurre in modo sensistico il godimento – che è costitutivamente ed essenzialmente godimento di un oggetto – a un fascio di atomi sensoriali soggettivi, Geiger preme il pedale in direzione opposta, rischiando di trasformare l’esperienza vissuta del godimento in un fruire disincarnato e incorporeo, che difficilmente può conciliarsi con quel tratto del godimento consistente nel suo essere sempre e costitutivamente «affezione dell’io» (Ichaffiziertheit).25 Apertura verso orizzonti problematici a tutt’oggi da approfondire, dunque, più che non «parole definitivamente chiarificatrici», come voleva Jauss. Resta che questi Contributi ci offrono la base di partenza più raffinata e articolata che si possa desiderare per accostarci alla comprensione del godimento e del godimento estetico. * Nota bio-bibliografica Moritz Geiger nasce il 26 giugno 1880 a Francoforte da una famiglia ebrea. Dal 1899, sotto la guida di Theodor Lipps, segue corsi di filosofia all’Università di Monaco, ai quali affianca corsi di psicologia, diritto, storia della letteratura. Nel 1901-1902 è a Lipsia, a seguire le lezioni di Wilhelm Wundt, con il quale pubblica nel 1902 il lavoro Neue Complications-versuche (in «Philosophische Studien», 18, 1902, pp. 347-436). Nel 1904 discute sotto la direzione di Lipps una tesi sulla psicologia dei sentimenti (Bemerkungen zur Psychologie der Gefühlselemente und Gefühlsverbindungen, pubblicata in «Archiv für die gesamte Psychologie», 25 Su questo punto si vedano, nell’edizione francese dei Contributi geigeriani, le osservazioni di M. Richir, che interpreta il godimento come «una sorta di appercezione trascendentale immediata (del sé) puramente sensibile» (Préface. Pour une architectonique phénoménologique de l’affectivité, in M. Geiger, Sur la phénoménologie de la jouissance esthétique, trad. franc. di J.-F. Pestureau, Association pour la Promotion de la Phénoménologie, Paris 2002, pp. 7-26, qui p. 11).

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4, 1904, pp. 233-288). Nel medesimo anno incontra Edmund Husserl, ma sarà solo due anni dopo che ne seguirà per un semestre le lezioni all’Università di Gottinga. I suoi interessi universitari si allargano alla biologia e alla psichiatria. Nel 1907 si abilita, sempre a Monaco, con una tesi sulla dottrina delle quantità (Methodologische und experimentelle Beiträge zur Quantitäts-lehre, in «Psychologische Untersuchungen», hrsg. von Th. Lipps, I, 1907, pp. 325-522), che gli apre la libera docenza in psicologia e filosofia. Intraprende a cavallo del 1907-1908 il primo viaggio di studio negli Stati Uniti, dove si tratterrà per un anno, soprattutto a Harvard, incontrando tra gli altri William James, Santayana, Münsterberg e Josiah Royce. Rientrato in Germania, insegna il suo primo corso di introduzione all’estetica (a Monaco, nel semestre invernale 1909) e si dedica a una serie di importanti lavori psicologici, i cui risultati vedranno la luce nel 1911. Si tratta, oltre che di uno studio sulla coscienza dei sentimenti (Das Bewusstsein von Gefühlen, in Münchener Philosophische Abhandlungen. Theodor Lipps zu seinem 60. Geburtstag gewidmet, Barth, Leipzig 1911, pp. 125-162), in particolare di due lavori dedicati al concetto di empatia: la relazione Über das Wesen und die Bedeutung der Einfühlung, presentata al IV Congresso di psicologia sperimentale tenutosi a Innsbruck dal 19 al 22 Aprile 1910 (e pubblicata in Bericht über den IV. Kongress für experimentelle Psychologie, hrsg. von F. Schuhmann, Barth, Leipzig 1911, pp. 1-45; trad. it. di F. Marelli, Sull’essenza e il significato dell’empatia, in Estetica ed empatia, a cura di A. Pinotti, Guerini, Milano 1997, pp. 61-94); il denso studio sull’empatia di stati d’animo (Zum Problem der Stimmungseinfühlung, pubblicato sulla rivista di Max Dessoir «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 6, 1911, pp. 1-42; trad. it. di P. Galimberti, Sul problema dell’empatia di stati d’animo, in Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e Gottinga, a cura di S. Besoli e L. Guidetti, Quaderni di “Discipline filosofiche”, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 153-188). Nel 1913 appare nel primo numero dello «Jahrbuch» husserliano (di cui, insieme con Husserl, Pfänder, Reinach e Scheler, Geiger sarà redattore fino al 1930), l’importante studio fenomenologico sul godimento estetico che qui presentiamo: i Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», 1, 1913, pp. 567-684 (II ed. invariata 1922; ried. Niemeyer, Tübingen 1974). Ricordiamo la prima ed. it. del saggio, uscita a cura di G. Scaramuzza con il titolo La fruizione estetica, Liviana, Padova 1973, e l’ed. franc., Sur la phénoménologie de la jouissance esthétique, trad. franc.

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di J.-F. Pestureau, prefazione di M. Richir, Association pour la Promotion de la Phénoménologie, Paris 2002. Lo stesso anno, al Congresso berlinese di estetica e scienza generale dell’arte, tiene una relazione sui sentimenti estetici apparenti (Das Problem der ästhetischen Scheingefühle, in Bericht des Kongresses für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Berlin 7-9 Oktober 1913, Enke, Stuttgart 1914, pp. 191-194; poi raccolto in Die Bedeutung der Kunst. Zugänge zu einer materialen Wertästhetik, hrsg. von K. Berger und W. Henckmann, Fink, München, 1976, pp. 68-72). Nel 1915 ricorda il maestro Lipps, appena scomparso nell’ottobre dell’anno precedente, nel necrologio Zur Erinnerung an Th. Lipps (in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 10, 1915, pp. 68-73, poi raccolto in Die Bedeutung der Kunst, cit., pp. 73-78). Dal 1915 al 1918 presta servizio militare. Nel 1916 insegna corsi di psicologia criminologica per la polizia. Nel 1918 si sposa con Elisabeth Muhl, che lavora alla Graphische Sammlung di Monaco. Gli anni Venti lo vedono ugualmente impegnato in ricerche psicologiche, estetologiche ed epistemologiche. A questo decennio risalgono: l’importante contributo all’elucidazione del concetto di inconscio (fino ad allora piuttosto trascurato nella letteratura fenomenologica), che viene pubblicato da Geiger sullo «Jahrbuch» (Fragment über den Begriff des Unbewussten und die psychische Realität, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», 4, 1921, pp. 1-137; trad. it. parziale di L. Feroldi, Frammento sul concetto psichico di inconscio e sulla realtà psichica, in La persona: apparenza e realtà. Testi fenomenologici (1911-1933), a cura di R. De Monticelli, Cortina ed., Milano 2000, pp. 99-153); i saggi estetici Vom Dilettantismus im künstlerischen Erleben, Oberflächen- und Tiefenwirkung der Kunst (uscito in una prima stesura nei Proceedings of the 6th International Congress of Philosophy, Harvard, 13-17 September 1926, ed. by E. Sheffield Brightman, Longmans, Green and Co., New York-London 1927, pp. 462-468), Die psychische Bedeutung der Kunst; Phänomenologische Ästhetik (uscito in una prima stesura sulla «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 19, 1925, pp. 29-42) raccolti dallo stesso Geiger in Zugänge zur Ästhetik, Der Neue Geist, Leipzig 1928, e successivamente confluiti nel volume Die Bedeutung der Kunst, cit. Se ne veda la trad. it.: Del dilettantismo nell’esperienza artistica; Effetto superficiale ed effetto profondo dell’arte; Il significato psichico dell’arte; Estetica fenomenologica, in Vie all’estetica. Studi fenomenologici, a cura di A. Pinotti, Clueb, Bologna 2005, rispettivamente alle pp. 49-79; 81-97; 99-144; 145-159. In appendice al volume, alle pp. 163-223, è tradotto altresì il saggio Estetica, originariamente apparso con il titolo Ästhetik, in Die Kultur der Gegenwart, hrsg. von P.

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Hinneberg, I, 6: Systematische Philosophie (II: Die einzelnen Teilgebiete), III ed. riveduta, Teubner, Leipzig-Berlin 1921, pp. 311-351; poi raccolto in Die Bedeutung der Kunst, cit., pp. 84-124. Sempre degli anni Venti sono da menzionare la conferenza sulla teoria della relatività (Die philosophische Bedeutung der Relativitätstheorie, Niemeyer, Halle 1921) e lo studio sull’assiomatica euclidea (Systematische Axiomatik der Euklidischen Geometrie, Filser, Augsburg 1924). A questo orizzonte epistemologico appartiene infine il più ampio lavoro sul rapporto fra scienze e metafisica: Die Wirklichkeit der Wissenschaften und die Metaphysik, F. Cohen, Bonn 1930 (rist. Olms, Hildesheim 1966). Nel 1923 è chiamato come professore ordinario a Gottinga, dove è collega tra gli altri di Georg Misch e di Hermann Nohl. Sempre negli anni Venti si intensificano i suoi rapporti con la cultura statunitense: nel 1926 è “guest professor” a Stanford (e lo sarebbe stato nuovamente nel 1935), e partecipa al Sesto Congresso Internazionale di Filosofia con una relazione dal titolo: The Philosophical Attitudes and the Problem of Subsistence and Essence (in Proceedings of the 6th International Congress of Philosophy, Harvard, 13-17 September 1926, ed. by E. Sheffield Brightman, Longmans, Green and Co., New York-London 1927, pp. 272-278). È all’anno 1933 che risale la sua ultima pubblicazione licenziata in vita: il saggio dedicato al metodo del fenomenologo Alexander Pfänder, che può essere considerato al contempo un’autopresentazione e una sintesi delle posizioni fondamentali condivise dai membri del circolo fenomenologico di Monaco, e peculiari anche rispetto alle prospettive che andava assumendo la fenomenologia husserliana: Alexander Pfänders methodische Stellung, in Neue Münchener Abhandlungen, Barth, Leipzig 1933, pp. 1-16; trad. it. di P. Galimberti, Il metodo di Alexander Pfänder, in Estetica monacense. Un percorso fenomenologico, a cura di G. Scaramuzza, Cuem, Milano 1996, pp. 93-107, poi rivista e pubblicata con il titolo La posizione metodica di Alexander Pfänder, in Il realismo fenomenologico, cit., pp. 219-233). Nello stesso anno Geiger è costretto dalle leggi razziali naziste al pensionamento coatto, e quindi a emigrare definitivamente negli Stati Uniti, dove riceve nel novembre un’offerta per una cattedra di filosofia dal Vassar College (a Poughkeepsie, nello stato di New York). La morte lo coglie prematuramente, all’età di 57 anni, per attacco cardiaco, il 9 settembre 1937, a Seal Harbour, nel Maine. Fondamentale pubblicazione postuma per l’estetica è quella curata dal suo allievo Klaus Berger e da Wolfhart Henckmann, dal momento che a fianco di scritti già editi mette a disposizione importanti materiali stesi da Geiger in vista della pubblicazione di un libro dedicato al signi-

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ficato dell’arte, che tuttavia non poté mai portare a compimento: Die Bedeutung der Kunst, Unveröffentlichte Texte aus dem Nachlass (in Die Bedeutung der Kunst. Zugänge zu einer materialen Wertästhetik, Fink, München 1976, pp. 301-547). Fra le pubblicazioni degli inediti ricordiamo anche lo scritto An Introduction to Existential Philosophy, ed. by H. Spiegelberg, in «Philosophy and Phenomenological Research», 3, 1942-1943, pp. 255-278. Le carte inedite e i manoscritti di Geiger sono conservati alla Staatsbibliothek di Monaco di Baviera (se ne veda il prospetto in E. AvéLallemant, Die Nachlässe der Münchener Phänomenologen, Otto Harrassowitz, Wiesbaden 1975, pp. 139-157). Letteratura critica Sulla storia del concetto di godimento si veda: G. Biller, R. Meyer, ad vocem «Genuß», in Historisches Wörterbuch der Philosophie, hrsg. von J. Ritter, K. Grunder und G. Gabriel, 13 voll., Schwabe, Basel-Stuttgart 1971-, vol. 3, pp. 316-322; in particolare per il godimento estetico: C. Hufnagel, ad vocem «Genuß/Vergnügen», in Ästhetische Grundbegriffe: historisches Wörterbuch in sieben Bänden, hrsg. von K. Barck et al., Metzler, Stuttgart-Weimar 2000-, vol. 2, pp. 709-730. Come presentazioni complessive dell’estetica geigeriana valgano innanzitutto le introduzioni di G. Scaramuzza in M. Geiger, La fruizione estetica, cit., pp. VII-CXXXIII, e di W. Henckmann, Moritz Geigers Konzeption einer phänomenologischen Ästhetik, in M. Geiger, Die Bedeutung der Kunst, cit., pp. 549-590. Si ricordano qui inoltre, in ordine cronologico, alcuni significativi titoli della letteratura critica su Geiger, rimandando alla ricca bibliografia fornita da G. Scaramuzza nell’edizione da lui curata di M. Geiger, Lo spettatore dilettante (Aesthetica Preprint, Palermo 1988, pp. 68-72), che tiene conto anche delle pagine dedicate a Geiger nelle più importanti storie dell’estetica: W. Ziegenfuß, Die phänomenologische Ästhetik nach Grundsätzen und bisherigen Ergebnissen kritisch dargestellt, R. Noske, Leipzig 1927; M. Beck, Die neue Problemlage der Ästhetik, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 23, 1929, pp. 305-325 (su Geiger alle pp. 307 e sgg.); H. Spiegelberg, Editor’s Preface, in «Philosophy and Phenomenological Research», 3, 1942-1943, pp. 276-278 (prefazione al saggio di Geiger, An Introduction to Existential Philosophy); K. Berger, Introduzione (1944) a M. Geiger, The Significance of Art. A Phenomenological Approach to Aesthetics, University Press of America, Washing-

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ton D.C. 1986, pp. IX-XX; L. Giesz, Phänomenologie des Kitsches. Ein Beitrag zur anthropologischen Ästhetik (1960, 19712), Fischer, Frankfurt a.M. 1994; H. Zeltner, Moritz Geiger zum Gedächtnis, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 14, 1960, pp. 452-466; M.C. Beardsley, Experience and Value in Moritz Geiger’s Aesthetics (1968), in «Journal of the British Society for Phenomenology», 16, 1, 1985, pp. 6-19; A. Métraux, Zur phänomenologischen Ästhetik Moritz Geigers, in «Studia Philosophica», 28, 1968, pp. 68-92; N.R. Orringer, El goce estético en Ortega y Gasset y en Geiger, in «Revista de Occidente», novembre 1974, pp. 236261; A. Métraux, Edmund Husserl und Moritz Geiger, in Die Münchener Phänomenologie, hrsg. von H. Kuhn, E. Avé-Lallemant, R. Gladiator, M. Nijhoff, Den Haag 1975, pp. 139-157; N. Krenzlin, Das Werk “rein für sich”: Zur Geschichte der Verhältnisse von Phänomenologie, Ästhetik und Literaturwissenschaft, Akademie-Verlag, Berlin 1979, pp. 29-57; A. Mickunas, Moritz Geiger and Aesthetics, in American Psychology. Origins and Developments, ed. by E.F. Kaelin and C.O. Schrag, Kluwer, Dordrecht-Boston-London, 1989, pp. 43-57; A. Pinotti, Moritz Geiger fra analogia e differenza. Note sul metodo di un “fenomenologo solo per un quarto”, in Il realismo fenomenologico, cit., pp. 445-466; G. Scaramuzza, Moritz Geiger e l’estetica musicale, ivi, pp. 467-479; L. Feroldi, La realtà psichica e l’inconscio in Moritz Geiger, ivi, pp. 481-499; M. Richir, Pour une architectonique phénoménologique de l’affectivité, prefazione a M. Geiger, Sur la phénoménologie de la jouissance esthétique, cit., pp. 7-26.

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Contributi alla fenomenologia del godimento estetico

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Introduzione

Chi è abituato a prendere in esame i fatti estetici a partire dalle ampie prospettive delle teorie filosofiche, chi dalle considerazioni estetiche si attende un avanzamento culturale o nuovi chiarimenti che gli consentano di scorgere sotto nuova luce i propri vissuti estetici, e anche chi semplicemente esige spiegazioni che gli rendano comprensibili le meraviglie del godimento estetico a partire da riflessioni psicologiche generali – costui resterà certamente deluso dall’analisi fenomenologica. I suoi risultati gli sembreranno spesso ovvietà, appena più istruttivi della constatazione che la neve è bianca e il sangue rosso. E anche nel caso in cui l’analisi fenomenologica sappia spingersi oltre le ovvietà, pare comunque perdersi in cavilli insignificanti, incomparabili con le finezze di una qualunque estetica filosofica. Per parte nostra non ci impegneremo a controbattere né l’accusa di ovvietà né quella di cavillosità. Ci limitiamo a far notare che tutte queste ambiziose concezioni di natura filosofica o psicologica hanno sovente dimenticato proprio le ovvietà, tralasciando asserzioni apparentemente troppo banali; e che troppo spesso ingegnose e attraenti teorie crollano come castelli di carta se vi si applicano le cavillose distinzioni dell’analisi fenomenologica. Il presente lavoro, dedicato al godimento estetico, rinuncia dunque volentieri all’eccitazione che accompagna le concezioni generali degli estetologi (in passato filosofi, e in tempi più recenti psicologi), accontentandosi di stabilire un paio di verità di tipo fenomenologico – ovvietà e cavilli per i detrattori – con fermezza tale che non sia più possibile metterle in dubbio. Anche nella cornice di un tale modesto compito fenomenologico dobbiamo però fissare qualche paletto. Un’indagine fenomenologica del godimento estetico che voglia render giustizia a tutti i vari aspetti della questione dovrebbe infatti prender le mosse da un’analisi approfondita dell’oggetto estetico: i vissuti sentimentali, cioè i vissuti soggettivi che costituiscono – per fare un esempio – il godimento di una poesia lirica, questo complesso di stati d’animo, emozioni e vissuti empatici, risulta comprensibile solo sulla base dei fondamenti oggettivi riscontrabili nella poesia lirica stessa, nel suo svolgimento, nelle sue qualità oggettuali e

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nei suoi valori. Il godimento che deriva dall’osservazione delle composizioni spaziali di von Marées è totalmente diverso da quello che deriva dalla contemplazione di un paesaggio romantico, e il godimento che si trae dalla lettura di un Lied di Eichendorff totalmente diverso da quello che scaturisce dalla lettura dei versi di George: questa diversità può essere compresa solo a partire dal contrasto tra gli oggetti estetici in gioco. La minuziosa dissezione del godimento estetico dovrebbe dunque essere preceduta da una compiuta estetica dell’oggetto; considerando le cose dal punto di vista dell’oggetto estetico, non avrebbe alcun senso volersi occupare di una fenomenologia del godimento estetico prima della fenomenologia dell’oggetto estetico stesso. Anche il cammino inverso, tuttavia, non è senza speranza: dal flusso dei mutevoli sentimenti che accompagnano l’esperienza vissuta di un’opera d’arte emergono vissuti di tipo più costante. Se nell’esperienza estetica vissuta della poesia goethiana Su tutte le vette1 entrano in gioco tanto sentimenti di intima tensione e liberazione, stati d’animo di quiete, elevazione e libertà interiore, quanto vissuti di gradimento, commozione, distensione ecc., allora possiamo definire il godimento estetico in senso lato come un miscuglio di tutti i sentimenti possibili. Ma il vero e proprio godere non è che una componente di tutto il complesso sentimentale: l’intimo trascinamento verso l’alto che si esperisce all’interno di un duomo gotico non può essere designato come l’autentico godimento; il godimento può forse poggiare sul trascinamento, ma il trascinamento non è il godimento. Lo stato d’animo malinconico di fronte a un paesaggio non è il godimento del paesaggio; la compassione per l’eroe che soccombe, l’ansia per l’esito finale, l’intimo sentimento di liberazione dalle fatiche e dagli affanni del mondo – il sentirsi sollevati, come dice Volkelt – sono tutti sentimenti che hanno a che vedere, in misura maggiore o minore, con il godimento estetico in senso stretto, ma che non sono il godimento stesso. Lasciamo perdere, quindi, la fenomenologia del godimento estetico in senso lato, che abbraccia l’intero decorso sentimentale dell’esperienza vissuta estetica, e preoccupiamoci invece di sezionare il godimento estetico in senso stretto, vale a dire il godere, a prescindere da tutto quel complesso di vissuti. Così facendo potremo chiederci se il godimento estetico, che si diversifica nei particolari a seconda dei vari ogget1

[J.W. Goethe, Su tutte le vette (1780), trad. it. di M.T. Giannelli, in Id., Tutte le poesie, ed. diretta da R. Fertonani con la collaborazione di E. Ganni, pref. di R. Fertonani, 3 voll., Mondadori, Milano 1989, vol. 1, tomo 1, pp. 118-119.]

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ti estetici, non risulti tuttavia caratterizzato da certi tratti costanti – se cioè non ci sia un elemento comune tra il godimento estetico di un paesaggio serale e quello di una statua. Se una simile unità del godimento estetico in senso stretto esiste, allora dovremo incontrarla in tutti i casi in cui si genera il fenomeno del godimento estetico. Non potrà mancare né quando seguiamo gli intricati ragionamenti del Faust, né quando osserviamo un singolo colore – la dovremo ritrovare tanto nelle entusiasmanti beatitudini del godimento musicale quanto nella pacata contemplazione di semplici ornamenti. E dato che questo momento di godimento sempre ricorrente non dipende dalla specificità dei singoli oggetti, allora lo si potrà analizzare senza dover prendere in considerazione le differenze tra i singoli oggetti del godimento. Decidere a priori se ci siano tratti comuni a ogni godimento estetico è certamente impossibile. Che la coscienza popolare tenda a individuare nel godere estetico un unico e specifico vissuto potrebbe non esser altro che un pregiudizio, riconducibile alla comune denominazione di «estetico» che conferiamo ai diversi casi di godimento, senza che ciò implichi necessariamente una comunanza di esperienze vissute. Potrebbe darsi benissimo che a occasionare la coordinazione dei sentimenti «estetici» sotto un unico concetto siano punti di vista del tutto estranei all’esperienza vissuta stessa. Così, per esempio, non è affatto possibile fornire un tratto comune dell’esperienza vissuta che contraddistingua certi sentimenti come «utili», ed è invece il diverso significato dei sentimenti nel contesto biologico a separare i sentimenti utili da quelli inutili. Forse anche nel nostro caso – nessuna considerazione aprioristica può venirci in aiuto – è una qualche valutazione estranea all’esperienza vissuta a tenere insieme i godimenti estetici e a separarli da quelli extra-estetici. A una prima occhiata superficiale la conclusione sembra essere che di tratti comuni non ce ne sono: dove dovremmo trovare un momento vissuto che accomuni l’ingenua gioia dell’uomo allo stato di natura al raffinato gusto del conoscitore? Dove sta la pietra angolare del sentimento, se godiamo esteticamente tanto di un vaso cinese quanto di una scultura di Donatello, tanto di una cantata di Bach quanto di un tramonto in riva al mare? Più di uno studioso ha quindi negato che si possa parlare di un’unità vissuta del godere estetico. Volkelt, per esempio, ha rimarcato

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che la multiformità del piacere estetico non consentirebbe di distinguerlo da altre tipologie di piacere sulla base della vita sentimentale.2 Come possiamo decidere se esistono tratti unitari che distinguono il godere estetico da ogni altro godere? La prima cosa che viene in mente è procedere induttivamente: la via maestra non dovrebbe forse essere quella che esamina nel giusto ordine tutte le tipologie del godere estetico, considera attentamente tutte le possibilità, analizza tutti i sentimenti estetici per giungere solo alla fine, tramite il vaglio dei risultati, a una conclusione positiva o negativa? È così che si procede per determinare i tratti comuni a un genere animale: si comincia col prendere in esame le singole specie che vi rientrano, non col ricercare i tratti comuni. Se in questa sede giudichiamo inadeguato e rifiutiamo il metodo «induttivo» della raccolta di casi singoli, ecco subito la concezione estetica dominante rispondere che, se non si vuol procedere induttivamente, allora bisogna certo procedere «deduttivamente», reintroducendo quel metodo della deduzione da premesse maggiori già confutato dalla storia della psicologia. Se non si propone un’estetica «dal basso», allora se ne propone una «dall’alto». Ma è qui che casca l’asino: si dovrebbero interrogare i fatti, non le teorie. Questa argomentazione mette insieme cose assolutamente incongruenti. Sorvola sul fatto che «dal basso» e «dall’alto», induttivo e deduttivo non sono affatto opposti inconciliabili, e non presta attenzione al fatto che pervenire «induttivamente» a determinati risultati e giungere a certe conclusioni tramite l’interrogazione dei fatti non sono in alcun modo semplici espressioni diverse per parlare di uno stesso procedimento. Quello di induzione è in realtà un concetto più ristretto: l’induzione è soltanto un metodo per giungere a conoscenze sulla base dei fatti – la possibilità di un suo impiego è vincolata a ben precisi presupposti. L’induzione (e con essa l’esperimento induttivo, che cerca di ottenere il risultato tramite l’accumulazione dei casi singoli) è al suo posto soltanto laddove si pervenga a conoscenze generali procedendo per via di generalizzazione a partire dalla conoscenza del caso singolo, come accade negli esperimenti di fisica, chimica e biologia. Nessuno scandaglierà le leggi del decorso mnestico se non facendo ricorso a esperimenti induttivi, e nessuno vorrà trarre conclusioni sulla frequenza con cui emergono determinati tipi di rappresentazione se non così. In casi simili quella «dal basso» è la via della ricerca. 2 J. Volkelt, System der Aesthetik, 3 voll., Beck, München 1905-1914, vol. 1 (1905), pp. 340 sgg.

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Ma i principi che affermano che «due linee rette si intersecano in un unico punto» e che «nella scala cromatica l’arancione sta tra il rosso e il giallo» non sono ottenuti per induzione e generalizzazione, benché non vi si sia giunti per via speculativa, bensì tramite l’accertamento del dato. Le cose stanno piuttosto così: una sola occhiata alla scala cromatica mi convince che questo rapporto tra arancione, rosso e giallo è valido una volta per tutte, e che qui si tratta di legalità essenziali, di rapporti essenziali che non possono essere diversi. L’esame di un nuovo caso non può consolidare la mia conoscenza più di quanto non abbia già fatto l’esame del primo caso – non può aggiungere né togliere nulla a questo coglimento intuitivo. Qui non c’è posto per l’induzione. Qui la conoscenza è possibile non tramite un procedimento di generalizzazione a partire dal caso singolo, bensì tramite il coglimento intuitivo dell’essenza generale di tali rapporti sulla scorta del caso singolo. Benché non ci sia qui alcun posto per l’induzione, il principio secondo cui l’arancione sta tra il rosso e il giallo è ricavato da dati singoli, e non è ottenuto per via speculativa. Tramite «intuizione», però, non tramite «induzione»: la legalità ci è posta innanzi agli occhi in tutta la sua evidenza sulla scorta del caso singolo, e noi non dobbiamo ottenerla generalizzando casi singoli. Anche qui, nell’ambito della conoscenza intuitiva, l’esperimento può venirci in aiuto, ma non l’esperimento induttivo, in cui il risultato deriva dalle affermazioni dei soggetti sperimentali e ogni nuova affermazione contribuisce a rafforzare la probabilità del principio scoperto, bensì l’esperimento intuitivo, che non si pone altro scopo – similmente al disegno in matematica – che di produrre le circostanze in cui la legalità generale possa risultare evidente. Chi conosce la letteratura fenomenologica e quella relativa alla teoria oggettuale degli ultimi anni non ha bisogno di ulteriori parole: gli sarà subito chiaro che questo fenomenologico «rendere evidente» si differenzia tanto dall’induzione quanto dalla deduzione. Rifiutarsi di determinare l’essenza del godimento estetico per via induttiva non significa affatto parteggiare per una qualche estetica «deduttiva» o «speculativa»; significa invece rendersi conto che né un’estetica «dall’alto» né un’estetica «dal basso» possono condurre alla meta agognata. La via induttiva sarebbe l’unica praticabile solo nel caso in cui volessimo sapere quali vissuti singoli contingenti, quali momenti sentimentali e rappresentazionali, quali pensieri e ricordi si celano nel vissuto globale del godimento estetico, e come essi si congiungano nella coscienza di un singolo. Stando all’impostazione che abbiamo dato al problema, però, a noi non deve interessare la folla di vissuti individuali contingenti che emergono alla rinfusa in occasione del godimento estetico. Noi desideriamo sapere se esiste una specifica

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componente del vissuto – o magari diverse specifiche componenti – che possa dirsi caratteristica del godimento estetico. Siamo alla ricerca di componenti essenziali del godimento estetico, vogliamo farci paladini di una fenomenologia del godimento estetico, non di una psicologia induttiva – ed è per questo che una estetica «dal basso» non può esserci di alcuna utilità. Dal caos dei vari vissuti sentimentali coinvolti nell’esperienza vissuta globale del godimento estetico desideriamo far emergere soltanto determinati vissuti; vogliamo chiederci soltanto in che cosa consista l’essenza del godimento estetico, ma a ben guardare anche questa domanda travalica i confini della nostra indagine. Innanzitutto siamo interessati esclusivamente alla questione descrittiva dell’essenza del godimento, non alla questione estetico-valutativa. Ciò significa che qualunque valutazione del godimento come legittimo o meno non ci interessa – su questa distinzione avremo occasionalmente modo di tornare. In secondo luogo, nel contesto del problema psicologico stesso, ci limitiamo a una sola domanda: sul versante del vissuto coscienziale si trovano tratti caratteristici per il godimento estetico? Se l’essenza del godimento estetico fosse caratterizzata, in tutto e per tutto o solo in parte, dalla specificità degli oggetti goduti, e se per esempio il godimento estetico non fosse altro che godimento di determinati valori e non si distinguesse in nulla da altri godimenti sul versante del vissuto, allora l’analisi, limitatamente ai nostri interessi, darebbe esito negativo,3 poiché non potrebbe scoprire alcun momento caratteristico del godimento estetico sul versante del vissuto. Visto e considerato l’intersecarsi dei problemi, va da sé che non potremo sempre tener fede a questa delimitazione: anche se non ci occuperemo delle qualità degli oggetti goduti esteticamente, dovremo comunque parlare, in diverse occasioni, del loro modo di darsi. 1. Già per il fatto di non aver distinto il godimento estetico dai vari sentimenti che, intrecciandosi con esso, costituiscono l’esperienza vissuta estetica, buona parte della ricerca estetica si è preclusa la strada che conduce alla conoscenza del godimento estetico. C’è però un altro passo 3 Si veda in proposito il saggio di Max Dessoir Objektivismus in der Ästhetik, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 5, 1910, pp. 1-15 [trad. it. di P. Conte, L’oggettivismo in estetica, in M. Dessoir, E. Utitz, E. Wind, E. Panofsky, Estetica e scienza generale dell'arte. I “concetti fondamentali”, a cura di A. Pinotti, Clueb, Bologna 2007, pp. 45-57].

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che ha finito per rivelarsi ancor più pernicioso: quasi tutti hanno identificato gradimento estetico e godimento estetico, o meglio non si sono accorti della differenza tra le due situazioni. Nella descrizione dell’esperienza vissuta estetica sono state introdotte indiscriminatamente le proprietà dell’uno e dell’altro vissuto, e più di una soluzione escogitata nell’ambito dell’estetica è debitrice di questa confusione. Chiunque voglia procedere senza pregiudizi e attenendosi ai fatti, non noterà alcuna identità tra gradimento e godimento. Con le affermazioni «questo quadro mi piace» e «questo quadro mi provoca godimento» s’intendono due vissuti intimamente diversi, anche se in qualche modo connessi. La differenza tra gradire e godere si esprime con chiarezza ancora maggiore in ambiti diversi da quello estetico: non si tratta soltanto di una convenzione linguistica se si può ben chiedere «ti è piaciuto il mio amico?», mentre la domanda «ti sei goduto il mio amico?» suona invece piuttosto pretenziosa. Riteniamo compatibile con la dignità di Dio il fatto che si compiaccia delle opere di un uomo, ma che un Dio goda è concetto estraneo all’elevatezza della concezione divina monoteistica. Ci sono anche esempi del caso opposto, in cui è lecito parlare di «godimento» ma non di «gradimento»: si può dire che ci si gode il vino, ma non che il vino ci faccia piacere. Solo nel caso del godimento estetico in senso stretto il collegamento tra le due forme di esperienza vissuta è così stretto – relativamente parlando – che un occhio inesperto può non cogliere la differenza. Su che cosa poggi l’intima relazione tra i due vissuti in ambito estetico è problema che, in questa sede, non può occuparci oltre; basti sottolineare energicamente che abbiamo deciso di occuparci del godimento estetico, non del gradimento estetico. Non altrettanto frequente, ma comunque assai diffusa, è la confusione tra valutazione estetica e godimento estetico – e a ben guardare nemmeno quella tra valore e godimento è stata ancora completamente superata. Stando ad alcune concezioni ben radicate, potremmo attribuire valore estetico a un oggetto solamente se ne traiamo godimento. Se vuole essere coerente, chi sostiene questo punto di vista – giusto o sbagliato che sia – non potrà in alcun caso sostenere l’identità di valore e godimento: anche ammettendo che attribuiamo valore all’oggetto solo sulla base del godimento estetico, resta il fatto che valore e godimento sono fenomeni diversi, dei quali uno soltanto pertiene all’oggetto sulla base dell’altro. Altri si spingono ancora oltre, arrivando a sostenere non solo che attribuiamo valore all’oggetto solo sulla base del godimento, ma addirittura che il valore di un oggetto sia semplicemente un nome diverso per il godimento, per il piacere che l’oggetto mi arreca, di modo che valore e godimento sarebbero in realtà un unico vissuto. Qualunque

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paragone tra i due fatti può però persuadere del contrario: io esperisco il valore di un diamante come una preesistente proprietà dell’oggetto – il godimento, invece, è un vissuto dell’io; io, in quanto soggetto del vissuto, traggo godimento, ma il valore pertiene al diamante, è una sua proprietà. Il legame tra valore e piacere non è neppure così stretto da far sì che le due cose debbano andare sempre a braccetto. Posso cogliere il valore di un oggetto in maniera perfettamente adeguata, senza avere il benché minimo vissuto di piacere. Posso stabilire e confrontare il valore di due monete senza trarne alcun sentimento di piacere. E viceversa: capita abbastanza spesso che il godimento sia vissuto in mancanza di un qualsivoglia coglimento di valore – godersi un vino non significa necessariamente valutarlo. Dobbiamo quindi prendere in esame il caso particolare del godimento estetico, distinto da ogni gradimento e valutazione. 2. Dobbiamo aggiungere un’altra, essenziale annotazione metodologica: il godimento estetico dev’essere distinto da altri generi di godimento. Su quali fatti basarsi? Nel materiale da considerare dobbiamo includere qualunque cosa cui la coscienza popolare attribuisce il nome di «godimento estetico», come ad esempio le sensazioni erotiche di certi bibliofili, l’eccitante romanticismo di un racconto dell’orrore e i godimenti sentimentali di uno spettacolo strappalacrime? Procedendo in questo modo sommario non sarà possibile evitare il pericolo di accogliere quanto di più eterogeneo ed estraneo al godimento estetico solo perché la gente suol dargli il nome di godimento estetico. La maggior parte di quel che si chiama godimento estetico non ha forse il minimo diritto a quel nome. Vantandosi della sua mancanza di pregiudizi, l’estetica psicologica fa oggetto d’analisi ogni esperienza vissuta che l’opinione popolare designa come «estetica»; ma questo non significa altro che sopravvalutare la capacità di auto-osservazione della maggior parte delle persone. Da questo punto di vista, l’assenza di metodo con cui Fechner in particolare, in quasi tutti i capitoli della sua Vorschule der Ästhetik,4 fonda legalità estetiche su fatti extra-estetici col pretesto che talora essi accompagnano l’esperienza vissuta estetica, ha causato parecchi danni. È però chiaro e lampante quanto poco si possa fare affidamento, in questo caso, sugli usi linguistici popolari, che designano indiscriminatamente 4 [G.Th. Fechner, Vorschule der Ästhetik, 2 voll., Breitkopf & Härtel, Leipzig 1876.]

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come estetico qualunque godimento che scaturisce dall’opera d’arte, quale ne sia la conformazione. La scienza deve declinare l’invito, ignorare gli usi linguistici popolari e operare distinzioni laddove si diano, nella conformazione del suo oggetto, tratti distintivi essenziali: la zoologia tira dritto con le sue classificazioni, infischiandosene del fatto che il linguaggio popolare designa come «mosca» qualunque cosa ronzi per l’aria. Certo, nelle delimitazioni fenomenologiche e, quindi, concettuali, si celano difficoltà particolari che le delimitazioni operate dalle scienze naturali non conoscono; ma queste difficoltà non si possono aggirare affidandosi ciecamente agli usi linguistici popolari. Che la parola «amore», per esempio, venga impiegata per indicare tutta una serie di cose che non hanno la benché minima somiglianza con l’amore, non autorizza a voler sondare fenomenologicamente il fenomeno dell’amore in modo tale da farvi rientrare tutti i presunti fenomeni di questo genere. Si prenderanno invece le mosse da casi limpidi e sicuri e su tale base si chiarirà il fenomeno dell’amore e si procederà a stabilire la delimitazione – mentre al contrario non si raggiungerà il proprio obiettivo ricorrendo a un falso procedimento induttivo, che per amore degli usi linguistici accolga sotto la voce «amore» fenomeni di vanità e gelosia. Sono i casi di godimento estetico indubbi e incontestabili a dover offrire il punto d’appoggio da cui muovere per scandagliare l’intero fenomeno. È chiaro il motivo per cui in queste indagini, di solito, si tende a tracciare i confini di ciò che si vuole includere nell’indagine del godimento estetico nella maniera più ampia possibile – è perché si preferisce includere una quantità di godimenti che l’opinione popolare qualifica come estetici piuttosto che distinguere in modo troppo rigoroso i godimenti estetici da quelli non estetici. Si vorrebbe evitare il rischio di prendere le mosse da una teoria estetica: chi distingue tra godimenti estetici e non estetici corre il rischio di farlo sulla base dei principi di una qualche teoria estetica preconfezionata, introducendo già nella delimitazione dei fatti il risultato cui si perverrà alla fine. Si pensa, per esempio, che colui che individua la peculiare essenza di un’opera d’arte nella perfezione raffigurativa vorrà escludere dalla sua indagine, in quanto extraestetico, ogni godimento connesso al contenuto dell’opera d’arte, mentre colui che vede il valore dell’opera d’arte nella pienezza del contenuto raffigurato vorrà qualificare come extra-estetico qualunque godimento connesso al momento formale. Si crede di poter evitare questa dipendenza da una teoria preconfezionata accogliendo nell’indagine tutto ciò che il fruitore considera godimento estetico. Paventando i pericoli della teorizzazione estetica, si preferisce allora l’asistematicità. Ma non si corre né l’uno né l’altro rischio se non si me-

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scolano, all’interno dell’indagine sul godimento estetico, due problemi che sono invero del tutto indipendenti l’uno dall’altro, ma che l’estetica tende invece a non disgiungere. Spesso si confonde il problema esteticovalutativo della distinzione tra godimento legittimo e godimento illegittimo con il problema descrittivo della distinzione tra godimento estetico e godimento extra-estetico. Se un godimento sia esteticamente legittimo o meno è una questione valutativa. Non è affatto detto che i godimenti estetici legittimi debbano essere in qualche modo distinti fenomenologicamente da quelli illegittimi. Il godimento di chi si appassiona per l’oleografia può essere altrettanto puro e profondo del godimento di chi è in grado di apprezzare l’arte giapponese. Prima dell’indagine non si può dire che una mancanza di educazione del gusto sia accompagnata da vissuti diversi da quelli che accompagnano un compiuto affinamento del gusto. La signora cui piacciono toilette prive di gusto prova esattamente lo stesso, puro godimento di quella che si affida a un gusto raffinato; dal punto di vista fenomenologico, chi non avverte la trivialità espressiva e la rozzezza delle motivazioni di un dramma alla moda potrà benissimo provare un reale godimento estetico – solo che dal punto di vista della valutazione questo godimento sarà illegittimo. Se la distinzione tra godimento estetico legittimo e illegittimo è estetica, quella tra godimento estetico ed extra-estetico è fenomenologica. Chi si serve di uno studio di nudo per eccitarsi sessualmente prova un godimento extra-estetico e quindi, naturalmente, anche esteticamente illegittimo. In termini generali: se un godimento non è estetico, allora certo non sarà nemmeno un godimento estetico legittimo. Da questo principio l’estetica può derivare tutta una serie di ovvie conseguenze. In questa sede, però, è l’interesse fenomenologico a essere in primo piano, e va quindi particolarmente sottolineato che la distinzione tra godimento estetico ed extra-estetico, in quanto questione puramente fenomenologica, non presuppone alcuna teoria estetica della valutazione, così come non la presuppone alcun tipo di distinzione fenomenologica (ad esempio quella tra ciò che è amore e ciò che non lo è) – e che di conseguenza il godimento connesso all’elemento formale vale come estetico tanto quanto quello connesso all’elemento contenutistico. È soltanto con la distinzione tra legittimo e illegittimo che entrano in gioco considerazioni di ordine teorico-valutativo; è soltanto con essa che si distinguono il gusto e la mancanza di gusto. 3. Nella letteratura critica contemporanea la questione concernente la delimitazione del godimento estetico rispetto ad altri godimenti trova

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risposte che riflettono la mancanza di unità che percorre l’attuale pensiero psicologico e filosofico nel suo complesso. Ovunque l’unità psicologica del godimento estetico può esser cercata, là l’indagine estetica ha creduto di trovarla. A noi interessano soprattutto le concezioni che cercano la soluzione dell’enigma in ciò che è immediatamente dato alla coscienza, e non in momenti esplicativi qualunque. Nella vita della coscienza ci sono tre diversi luoghi che possono esser qui chiamati in causa: l’esperienza vissuta in sé nella sua soggettività, gli oggetti che in tale esperienza vissuta si danno e, infine, la modalità con cui l’io si relaziona agli oggetti. La prima strada (cercare nel vissuto in sé l’essenza del godimento) è quella intrapresa più raramente. Consisterebbe pressappoco nel mostrare un determinato sentimento che sia caratteristico dell’esperienza vissuta estetica: si potrebbe pensare, ad esempio, che a tutti i godimenti estetici – e soltanto a essi – pertenga un certo momento qualitativo. Tenendo presente che l’estetica psicologica ama vedere nel godimento estetico il vissuto originario da cui dovrebbe muovere ogni estetica, e che correnti assai diffuse ritengono che la bellezza di un oggetto non consista che nella sua capacità di suscitare piacere estetico, il fatto che questa strada che conduce alla delimitazione del godimento estetico sia stata battuta così di rado dà da pensare. Si potrebbe credere che per una simile concezione sia naturale considerare anche questo piacere estetico, su cui dovrebbe appunto poggiare l’essenza della bellezza, come qualcosa di assolutamente particolare, come un vissuto peculiare e incomparabile con tutti gli altri – un vissuto dalla cui dissezione far partire l’estetica. Questa tendenza dell’estetica psicologica a trasporre ciò che è esteticamente significativo dal piano dell’oggetto a quello del sentimento va però a incrociarne (almeno in buona parte della suddetta estetica) un’altra, che la rende inefficace. Questa seconda tendenza deriva dalla convinzione che, per quanto diversi appaiano esteriormente, tutti i sentimenti – diletto, gioia, irritazione, disperazione, godimento estetico e riprovazione etica, la collera dell’iracondo e la serenità di chi è felice – non si differenzino in nulla se non nel fatto di essere piacevoli o spiacevoli, più intensi o meno intensi. Ogni ulteriore differenza che l’osservazione inesperta crede di ravvisare si dissolverà, davanti allo sguardo esperto dello psicologo, nelle diverse rappresentazioni cui tali sentimenti si riferiscono, nelle diverse modalità di decorso dei sentimenti, nel mescolarsi di momenti volitivi ecc. Se le cose stanno così – e io stesso sono assai lontano da questa concezione – allora è abbastanza vano prendere le mosse dall’esame del godimento estetico per comprendere l’ambito di ciò che è estetico. Questa concezione accentuerà certo il fatto che il go-

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dimento estetico rientra tra i sentimenti di piacere. Ma come può un sentimento di piacere, a partire da se stesso, venir caratterizzato ulteriormente come «estetico», se tutto quel che di essenziale si può asserire sul sentimento in sé si esaurisce nell’indicazione del suo carattere piacevole? Innanzitutto ci si dovrà dunque rivolgere nuovamente all’oggetto, in modo da scoprire in determinate proprietà dell’oggetto che suscita piacere, o in sensazioni concomitanti, ciò che differenzia il godimento estetico da ogni altro genere di sentimenti, dal diletto e dalla gioia. Fechner, per esempio, ha inizialmente definito il bello tramite la sua capacità di suscitare piacere; per lui, tuttavia, sono le differenze nelle cause di questo piacere a distinguere il piacere estetico da altri generi di piacere. Più in generale, per Fechner è bello tutto ciò «che ha la proprietà di suscitare gradimento immediatamente, e non mediante una riflessione o in considerazione delle sue conseguenze».5 Fechner si richiama dunque a determinate proprietà delle cause del sentimento, non a proprietà del sentimento in sé. Altri sostenitori di questo punto di vista attribuiscono invece un particolare valore, oltre che agli oggetti che suscitano piacere, alle concomitanti sensazioni corporee. È davvero raro, quindi, trovare qualcuno che individui il tratto specifico del godimento estetico in una particolarità del vissuto sentimentale in sé; sotto certi aspetti Lipps6 fa parte di questa cerchia ristretta, perché considera il momento della profondità come essenziale per il sentimento estetico e soprattutto perché riconosce qualità del sentimento specificamente estetiche. Ben più spesso ci imbattiamo in concezioni che rintracciano l’essenza del godimento estetico in un certo modo di porsi del soggetto in relazione agli oggetti. Tra queste si annovera ad esempio il kantiano «piacere disinteressato». Il disinteresse di cui parla Kant non è certo un sentimento di disinteresse – è piuttosto un determinato comportamento interiore, un determinato atteggiamento in rapporto alle cose, una relazione del soggetto con i suoi oggetti – anche se Kant non si esprime proprio in questi termini. Qui trova spazio anche il concetto di «contemplazione» elaborato da Külpe, nella misura in cui è definito come 5

Ivi, vol. 1, p. 15. Th. Lipps, Ästhetik, 2 voll., Voss, Hamburg-Leipzig 1903-1906, vol. 1, p. 527. Non riesco bene a capire come mai E. Meumann (Einführung in die Ästhetik der Gegenwart, 1908, Quelle & Meyer, Leipzig 19122, p. 50) annoveri Fechner tra i sostenitori dell’esistenza di un peculiare sentimento estetico. 6

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uno stato «in cui ci si trova quando si lascia agire sull’animo una rappresentazione tramite il suo mero contenuto».7 Ma soprattutto vanno qui ricordate le varie teorie che individuano l’essenza del comportamento estetico in un certo genere di «intuizione» (Siebeck, il «comportamento sentimentale» di Laurila ecc.). Il «disinteresse» di Kant e la «contemplazione» di Külpe rientrano tra quelle relazioni dell’io con gli oggetti che conviene distinguere, in quanto «atteggiamenti», da un altro genere di relazione, quello delle «funzioni». Porsi vicini o lontani rispetto alle cose, disporsi nei loro confronti amichevolmente od ostilmente – questi sono «atteggiamenti». L’apprendere, il riflettere, il meditare, il tendere intenzionale verso una cosa sono invece «funzioni», che vanno certo di pari passo con un atteggiamento corrispondente. È importante non confondere queste funzioni vissute con le funzioni psicologico-causali di tutt’altro genere: il riflettere è una modalità di attività vissuta dell’io. Quando invece Lipps, per fare un esempio, sostiene che io colga per «empatia» l’espressione di bontà su un viso, non dice nulla in relazione alla funzione vissuta; in casi simili nella nostra coscienza non c’è traccia di «empatia». Proprio il fenomeno dell’empatia chiarisce la differenza tra funzione vissuta e funzione causale. Esiste tanto una funzione vissuta quanto una funzione causale dell’empatia: il rivivere un’esperienza vissuta altrui in forma artistica (per esempio la disperazione di Gretchen o lo struggimento di Tristano), l’intimo simpatizzare con uno dei due lottatori, ponendosi interiormente al suo fianco, il consapevole immedesimarsi in un’altra personalità – sono tutti esempi della funzione vissuta dell’empatia. L’autentica teoria estetica dell’empatia fa però uso, nelle sue spiegazioni, di entrambi i generi di funzione, estendendo il suo principio esplicativo a casi in cui non emerge alcuna esperienza vissuta empatica – come quando spiega la bellezza di un paesaggio sereno facendo ricorso all’empatia. È per questo che non possiamo annoverare le teorie dell’empatia tra quelle che cercano l’essenza del godimento estetico in una funzione vissuta. La teoria dell’imitazione interiore proposta da Groos fonda invece il godimento estetico su una funzione vissuta. A suo dire il godimento consiste nel fatto che noi imitiamo interiormente le configurazioni e le 7 O. Külpe, Über den assoziativen Faktor des aesthetischen Eindruckes, in «Vierteljahrschrift für wissenschaftliche Philosophie», 23, 1889, pp. 145-183, qui p. 157.

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forme degli oggetti, il ritmo delle melodie; e con quest’intima imitazione si intende una relazione funzionale vissuta dell’io in rapporto agli oggetti percepiti. Certo, atteggiamento e funzione cercano l’essenza dell’esperienza vissuta estetica non nel vissuto del godere in sé, bensì nella relazione dell’io con gli oggetti; ma sempre sul versante soggettivo. C’è però la possibilità di trovare l’essenza del godimento estetico non innanzitutto nei vissuti, bensì nella peculiarità degli oggetti colti. Per una tale concezione il godimento estetico sarebbe godimento di un certo genere di oggetti, vale a dire degli oggetti estetici. Come esempio delle numerose teorie di questo tipo valgano le concezioni di Witasek, secondo cui i vissuti del godimento e del gradimento estetici sono «sentimenti di piacere […], come presupposto psichico dei quali fungono rappresentazioni intuitive il cui contenuto, in particolare, stimola il sentimento e lo determina».8 In questo contesto si inquadrano anche concezioni quali la visione parziale di Volkelt, secondo cui per il godimento estetico sarebbe importante il godimento di significativi valori umani, di un significativo contenuto umano. Sempre tra le teorie che cercano l’elemento caratteristico dell’estetico sul versante dell’oggetto ce ne sono alcune che pongono l’accento, più che sul contenuto e sul tipo di oggetti, sul loro modo di esser dati. Gli oggetti estetici devono in qualche modo essere dati «intuitivamente» (come nel passo di Witasek già citato), oppure sono sottratti alla connessione teleologica propria della realtà e hanno una propria «realtà estetica» (Lipps), oppure ancora, come nelle teorie dell’illusione, per esser goduti esteticamente devono palesare un carattere di parvenza. In questa sede si dovrebbero innanzitutto mostrare i punti di vista a partire dai quali si cercano di solito, nell’ambito dell’esperienza vissuta, le peculiari caratteristiche del godimento estetico. In realtà è difficile che una teoria si attenga a uno solo di questi punti di vista – anche le teorie che abbiamo portato ad esempio si rifanno di norma a diversi momenti per delimitare il godimento estetico. Nelle pagine seguenti dovremo ulteriormente differenziare questi momenti; per ora ne elenchiamo cinque, in cui potremmo cercare l’essenza del godimento estetico: 8

S. Witasek, Grundzüge der allgemeinen Ästhetik, Barth, Leipzig 1904, p. 195 [trad. it. di M. Graziussi, Principi di estetica generale, Sandron, Milano-Napoli-Palermo 1912, p. 152].

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1. nel sentimento (profondità, per esempio); 2. nell’atteggiamento (contemplazione); 3. nella funzione vissuta (imitazione interiore); 4. nel modo di darsi degli oggetti (carattere di parvenza); 5. nella natura degli oggetti (contenuto umano significativo). Queste delimitazioni puramente fenomenologiche non esauriscono affatto lo spettro delle concezioni dell’essenza del godimento estetico. Ci eravamo limitati a parlare dei vissuti, escludendo consapevolmente qualunque momento esplicativo, psicologico-causale. Il compito principale dell’attuale ricerca psicologica consiste certo nel distinguere nettamente questi due gruppi di problemi, quelli analitico-descrittivi e quelli causali, evitando di introdurre nel vissuto momenti esplicativi e basando la spiegazione su principi suoi propri.9 Se non si chiarisce dove finisce la descrizione e comincia la spiegazione non possiamo attenderci alcun progresso nelle concezioni psicologiche fondamentali. Proprio questa distinzione viene però trascurata dalla maggior parte delle teorie che affrontano il problema di cui ci stiamo occupando – e non solo da esse: gli esperimenti più ambiziosi non hanno alcun valore se al soggetto sperimentale sfuggono asserzioni derivanti dalla sua conoscenza di spiegazioni causali. Sotto il profilo psicologico-causale il godimento estetico è stato ricondotto ai momenti più diversi. Si può ad esempio cercare il minimo comun denominatore del godimento estetico in un certo tipo di determinazione causale del sentimento. È quel che accade nella teoria dell’empatia, secondo cui ogni piacere estetico poggia su una determinata forma di empatia, intesa come momento causale. Oppure si tira in ballo il significato peculiare delle rappresentazioni che provocano godimento per caratterizzare l’accadere complessivo tipico dell’esperienza vissuta estetica. È il caso ad esempio di Edith Kalischer quando dichiara che «nella contemplazione estetica l’attenzione si concentra su impressioni sensibili, contenuti parziali di rappresentazioni assai complesse che celano una forza riproduttiva tanto grande da liberare, sulla scorta di un minimo di dati sensibili, un massimo di processi

9

Cfr. ad esempio K. Jaspers, Die phänomenologische Forschungsrichtung in der Psychopathologie, in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», 9, 3, 1912, pp. 391-408.

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spirituali».10 La potenza e il tipo della forza riproduttiva cui si fa qui ricorso sono momenti del meccanismo causale. Bastino questi due accenni a concezioni esplicative del godimento estetico; in questa sede ci occupiamo esclusivamente dell’indagine fenomenologica pura del dato. Per quanto diverse nei particolari, le concezioni discusse finora hanno un punto di vista in comune: in un modo o nell’altro cercano tutte l’elemento unitario del godere estetico in questo godere stesso, o nell’esperienza vissuta o nei momenti che causano questa esperienza vissuta. In misura maggiore o minore sono tutte d’accordo nel sostenere che una delimitazione del godimento estetico sia possibile prendendo le mosse, se non dal solo sentimento, dalla realtà complessiva dell’esperienza vissuta estetica. Per quanto concerne il primo dei nostri problemi, queste concezioni vedono dunque nell’esperienza vissuta estetica un’unità psicologica, o per lo meno oggettualmente determinata. All’inizio, però, abbiamo fatto notare che sarebbe possibile pensare che siano significati o valutazioni dei vissuti che si trovano al di fuori dell’esperienza vissuta stessa a conferire al sentimento la qualifica di «estetico». Questa è ad esempio la concezione di Volkelt (cui abbiamo già parzialmente accennato). Per Volkelt il godimento estetico si fonda su tipi di piacere del tutto diversi, che non hanno nulla in comune l’uno con l’altro. Il piacere per qualcosa di umanamente significativo, il piacere dell’empatia e il piacere per la vivacità dei sentimenti (che rientrano tutti, a detta di Volkelt, nel piacere estetico) non hanno in comune nulla più di quanto abbiano in comune il piacere extra-estetico dell’elevazione religiosa e il vissuto dell’elevazione estetica. Ciò che tiene insieme le diverse tipologie di piacere estetico è il fatto che esse, secondo Volkelt, sono tipologie di piacere universalmente valide, scaturenti da bisogni estetici universalmente validi. La validità universale, però, non è un tratto costitutivo dell’esperienza vissuta psichica, e nemmeno dell’accadere psicologico-causale – è piuttosto una valutazione delle tipologie di piacere. La concezione di Cohn va nella stessa identica direzione: «La psicologia, esattamente come la scienza dei corpi, non conosce distinzioni di valore; in sé e per sé, dunque, non ha alcun interesse a delimitare, nella sua specificità, l’ambito estetico, distinguendolo ad esempio da quello del piacevole. Il decorso sentimentale è simile nei due casi, e i rapporti 10 E. Kalischer, Analyse der ästhetischen Kontemplation, in «Zeitschrift für Psychologie und Physiologie der Sinnesorgane», 28, 1901, pp. 199-252.

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di associazione, l’effetto di assuefazione e il significato dell’attenzione presentano aspetti affini. E di fatto la psicologia non prevederebbe né un ambito estetico né un ambito etico, se non prendesse in prestito queste distinzioni da qualche altra parte».11 Compito della nostra ricerca è verificare, sulla base dei fatti, fino a che punto le suddette concezioni colgano nel segno. Non si tratta di giungere a risultati il più possibile nuovi – sarebbe infatti immediatamente sospetto se pervenissimo a risultati che cercano l’essenziale in direzioni assolutamente nuove. Sarebbe però altrettanto strano se la chiara e precisa interrogazione dei fatti non potesse in qualche maniera portare alla luce quel che finora è stato visto in modo vago e impreciso o mescolato a pregiudizi teoretici, e che assume importanza soltanto se svincolato da questi ultimi. Dicendo che dovremo rinunciare ai pregiudizi teoretici non alludo soltanto a quei concetti delle teorie estetiche che non risultano verificabili sul piano dell’esperienza vissuta, ma anche alla dissoluzione dei complessi dati coscienziali in pochi elementi considerati fissi dalla psicologia, come rappresentazioni e sentimenti. Chi dissolve un immediato vissuto coscienziale, come l’io, in una serie di sensazioni, si allontana dall’ambito del puro accertamento dei fatti ed entra in quello della teoria, esattamente come chi spiega tutto a partire dal gioco delle associazioni. Nelle pagine seguenti ci proponiamo di rinunciare tanto a questa dissolutrice analisi teoretica quanto alla spiegazione causale.

11

J. Cohn, Allgemeine Ästhetik, Engelmann, Leipzig 1901, p. 9.

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Il godimento

1. Il godimento estetico è soltanto un caso particolare del fenomeno generale del godimento. Tutti i momenti che entrano in gioco per costituire l’essenza del godimento devono ritrovarsi anche nel godimento estetico. Punto di partenza obbligato per ogni indagine sul godimento estetico sarà dunque la disamina del fenomeno del godimento, la questione relativa a ciò che hanno in comune tutti i godimenti – a prescindere che si tratti di godimento del gioco o di godimento dei sensi, di godimento del riposo o di godimento estetico. Sul fatto che ogni godimento rientri tra i vissuti di piacere possiamo essere d’accordo con le concezioni psicologiche dominanti, purché il termine «piacere» venga assunto in un’accezione sufficientemente ampia. L’accordo con queste concezioni viene però nuovamente e immediatamente a mancare qualora esse ritengano di poter esaurire l’analisi del godimento affermando che «il godimento è un vissuto di piacere», cioè che l’unica caratteristica del godimento consista nel suo essere un sentimento di piacere. Può darsi che tutti i godimenti rientrino tra i vissuti di piacere, ma non tutti i piaceri hanno carattere di godimento. Se tutto d’un tratto si viene sollevati da un incarico opprimente, il sentimento di alleggerimento è un vissuto di piacere, ma non necessariamente godimento. Quando riesco a realizzare lo scopo di un qualche volere, quando alla fine di una lunga passeggiata intravedo il tetto della locanda, meta del mio cammino, la soddisfazione è piacere, ma non godimento. Se guardiamo alla storia dell’etica, tuttavia, notiamo che infinite volte godimento e piacere sono stati equiparati. Facendo leva sui fondamenti della sua etica, Aristippo arrivò a dedurre il principio secondo cui il sommo bene sarebbe il piacere. Senza rendersene conto, però, sostituì al piacere il godimento: non cercò il piacere che deriva dal conseguimento di grandi obiettivi o quello che scaturisce da una considerazione del mondo distaccata dalle cose materiali, bensì il godimento. Per Aristippo godimento e piacere confluirono in un unico concetto, e lo stesso accadde al suo rivale Antistene, che avrebbe preferito impazzire piuttosto che provare piacere, godere. Altrettanto pronti a confondere i concetti, i moderni sostenitori dell’etica del godimento hanno confuso il principio secondo cui ogni aspirazione sarebbe aspirazione al godimento con l’al-

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tro – contestabile, ma che a loro parve ovvio – secondo cui ogni aspirazione sarebbe aspirazione al piacere. Gli avversari dell’eudemonismo, dal canto loro, hanno fatto volentieri ricorso a questa equiparazione per rimproverare all’etica della felicità di avere per ovvia conseguenza l’esaltazione del godimento. Tra i tanti vissuti che sono vissuti di piacere senza essere godimento vogliamo evidenziare la gioia, allo scopo di porre in luce, per contrasto, alcuni tratti caratteristici del godimento. È evidente che soltanto la gioia per qualcosa, per esempio per l’arrivo di un amico o per la realizzazione di un progetto, deve venir contrapposta al godimento; la gioia in qualcosa, in un’opera d’arte (in una rappresentazione teatrale, ad esempio), racchiude già una serie di momenti affini al godimento. Non c’è dubbio: nel godimento e nella gioia per qualcosa entrano in gioco vissuti differenti. Di fronte a situazioni simili sono possibili entrambe le modalità di vissuto, gioia e godimento: gioire per l’arrivo di un amico non significa godere di questo arrivo. La sensibilità della lingua tiene giustamente ben distinti godimento della vita e gioia di vivere: si può gioire per la vendetta consumata ai danni di un nemico, ma si può anche godere di questa vendetta. L’Inno alla gioia di Schiller non vuole esaltare il godimento. Propriamente parlando non si dà alcun godimento, bensì gioia per il comportamento per bene di un uomo. Come potremmo mai comprendere queste distinzioni, se davvero godimento e gioia non fossero che due nomi per un’unica e medesima cosa? Una differenza essenziale tra godimento e gioia risiede già nel fatto che il lato oggettuale gioca un ruolo diverso nei due vissuti. È chiaro che entrambi prevedono una relazione a un oggetto: hanno un oggetto verso cui si dirigono, su cui si appuntano. Godo di una melodia, gioisco per l’arrivo di un amico. Un oggetto del sentimento1 è quindi presente in entrambi i casi. Molto spesso, però, questo oggetto del sentimento non è l’unico oggetto coinvolto nell’esperienza vissuta sentimentale. Quando gioisco per l’arrivo di un conoscente, quando cioè l’oggetto del sentimento con1 Se qui si parla del godimento come di un sentimento, lo si fa con piena consapevolezza di tutte le critiche che si possono muovere, a buon diritto, a una tale subordinazione del godimento ai sentimenti – critiche cui le analisi seguenti possono fornire abbondante materiale. Qui si tratta semplicemente di trovare un’espressione corrente che racchiuda in sé tutti i tipi di vissuti di piacere.

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siste nell’arrivo dell’amico, possiamo porre un’altra domanda: perché gioisci per questo arrivo? La risposta potrebbe suonare così: perché gli voglio bene, o perché questo mio conoscente mi sostituirà al lavoro, permettendomi di intraprendere il viaggio progettato – ecco perché gioisco. Oppure gioisco per il comportamento di un uomo, per il fatto che ha aiutato qualcuno in difficoltà, perché mi dimostra che ho a che fare con un uomo per bene. In casi simili non domandiamo quale sia l’oggetto del sentimento, bensì quale sia il motivo del sentimento. Il problema diventa sapere che cosa mai sia immediatamente presente alla coscienza quando qualcosa, come accade negli esempi citati, ci appare come motivo del sentimento – di che natura sia la relazione vissuta di sentimento e motivo, che ci fa esperire il motivo appunto come motivo del sentimento. Nella vita di tutti i giorni sono innumerevoli i casi di gioia motivata: gioiamo per l’elezione del signor X, rappresentante del nostro partito; gioiamo quando rintocca mezzogiorno e possiamo staccare da un lavoro noioso, benché necessario; gioiamo quando gira il vento, promessa di bel tempo. Casi simili ci tornano utili solo nella misura in cui la motivazione agisca davvero come pienamente vissuta. Quando le motivazioni si ripetono spesso, infatti, il vero e proprio vissuto della motivazione va perduto. La catena di motivazioni può volatilizzarsi in un carattere sentimentale riferito all’oggetto, che rimpiazza la motivazione. Quando gioisco per l’elezione di qualcuno che fa parte del mio stesso partito si può parlare di autentica motivazione, intesa come esperienza vissuta a sé stante, solo se si tratta di persone dal nome poco noto, della cui appartenenza partitica sono espressamente consapevole. Non sarà invece in virtù della loro appartenenza partitica che si presenteranno alla mia coscienza persone dal nome celebre come Heydebrand o Bebel, Bassermann o Naumann:2 la coscienza della loro appartenenza partitica si condensa in un carattere sentimentale che mi colpisce immediatamente, in modo amichevole oppure ostile, non appena odo il nome in questione. In questa sede, invece, ci interessano soltanto i casi di motivazione in senso proprio, nei quali il flusso di coscienza scorre dall’afferramento dell’elezione del signor X, di cui ad esempio leggo sul giornale, fino alla 2

[Probabile riferimento a Heinrich Bernhard Adolf Thassilo von Heydebrand und der Lasa (1861-1924), August Bebel (1840-1913), Ernst Bassermann (1854-1917) (1860-1940) e Friedrich Naumann (1860-1919).]

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sua appartenenza partitica, per poi percorrere il cammino inverso e tornare all’io e al gioioso afferramento dell’elezione del signor X. Se però non prendiamo in considerazione la modalità del decorso di questo processo della motivazione, ma ci interroghiamo sui momenti parziali che costituiscono l’essere motivato, allora ne risulta la seguente articolazione: 1. il vissuto della gioia, che non dev’essere ulteriormente analizzato; 2. il dirigersi della gioia verso un oggetto (come ad esempio l’elezione); di questo rapporto, di questo dirigersi del sentimento verso il suo oggetto, ho già parlato in altra sede,3 e mi limito quindi a constatarlo; 3. un afferramento della circostanza motivante nella sua relazione con l’oggetto del sentimento (appartenenza partitica del signor X, rintoccare delle campane che segnala la fine del lavoro). Questa relazione viene afferrata in un «vedere attraverso» l’oggetto del sentimento il motivo del sentimento, di modo che il motivo appare per così dire dietro l’oggetto del sentimento; 4. in seguito io esperisco come a partire dall’oggetto «posteriore» del mio apprendere, cioè dal motivo, si proietti in direzione dell’io un’onda di vissuto di un determinato genere; 5. infine l’esser messo in movimento dell’io, l’essere incitati a gioire dal complesso unitario di oggetto del sentimento e motivo del sentimento (dall’elezione del signor X e dalla sua appartenenza partitica): il vissuto che costituisce la motivazione vera e propria. Dimostreremo subito che, per il problema che ci interessa, un’analisi approfondita di questo vissuto motivazionale non è importante.4 Se infatti nel caso della gioia, dell’irritazione o dell’ira ha senso interrogarsi sui motivi e chiedersi perché io gioisca, mi irriti o mi adiri, nel caso del godimento è invece ingiustificato andare in cerca di motivi. Non ci si può domandare il motivo per cui un buon bicchiere di vino procura godimento, esattamente come non ha alcun senso voler ricercare i «mo-

3 M. Geiger, Das Bewusstsein von Gefühlen, in «Münchener philosophische Abhandlungen. Theodor Lipps zu seinem 60. Geburtstag gewidmet», 1911, pp. 125-162. 4 Alexander Pfänder ha sviluppato un’esauriente indagine sul motivo della volontà nel suo Motive und Motivation, apparso nel 1911 sulle già citate «Münchener philosophische Abhandlungen» (trad. it. di F. De Vecchi, Motivi e motivazione, in La persona: apparenza e realtà. Testi fenomenologici 1911-1933, a cura di R. De Monticelli, Cortina, Milano 2000, pp. 3-40). In questa sede le sue acquisizioni possono tornare utili solamente in parte, poiché noi ci occupiamo dei motivi del sentimento, non di quelli della volontà.

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tivi» del godimento ludico o di quello sessuale: il godimento non rinvia al di là del proprio oggetto, a qualcos’altro che lo motivi. Nonostante ciò, chiedersi «perché» godiamo un’opera d’arte è domanda sensata, qualora però non verta sul motivo del godimento, bensì sulla fondazione del godimento da un lato e sulla causa del godimento dall’altro. Fondazione del godimento e causa del godimento devono essere tenute ben distinte dal motivo del godimento. Limitiamoci a un paio di differenze, senza entrare nei dettagli dell’analisi fenomenologica. Il motivo del sentimento è un vissuto immediato: dall’appartenenza partitica del signor X la catena di vissuti investe l’io, lo mette in moto, e l’io sprigiona gioia. Se manca questa stimolazione dell’io, se il sentimento scaturisce direttamente dall’oggetto del sentimento e dalle sue caratteristiche (come quando vedo il nome di un noto leader di partito nella lista degli eletti e gioisco, senza che la sua appartenenza partitica mi sia prima giunta esplicitamente alla coscienza), allora di un motivo inteso come vissuto non c’è traccia. La fondazione della mia gioia, invece, risiede sempre nell’appartenenza partitica del signor X. La fondazione non è semplicemente una connessione vissuta di dipendenza fenomenologica come la motivazione, ma indica piuttosto il fatto su cui poggia per me la giustificazione dell’esperienza vissuta, dell’intima presa di posizione, che mi offre il fondamento per gioire. La fondazione non indica ciò che induce l’io a gioire. Essa può sfuggire alla coscienza, ma rimane ciononostante fondazione del mio sentimento. La fondazione è una connessione funzionale tra vissuti, e non è affatto necessario che sia sempre conscia. Può capitare di dover faticare assai per scoprire, tramite esperimenti mentali, in che cosa consista la fondazione del mio vissuto. Mi dico ad esempio: se il signor X non appartenesse al mio partito verrebbe meno qualunque fondamento per gioire; l’appartenenza partitica del signor X, quindi, è anche il fondamento della mia attuale gioia. Può forse capitare che la realtà anticipi l’esperimento mentale: magari non sapevo a quale partito appartenesse il signor X quando ho appreso della sua elezione, e non ho provato alcuna gioia. Ma qui è evidente che i vissuti sono soltanto degli aiuti per stabilire l’effettiva relazione di fondazione fenomenica, mentre la motivazione può essere afferrata soltanto mediante l’esperienza vissuta. Un motivo – nel senso in cui lo intendiamo qui – che io non esperisca come istigazione del mio sentimento, non era propriamente un motivo. Nel nostro caso dell’elezione del signor X il motivo del sentimento appare parimenti come l’oggetto che fornisce la fondazione del sentimento – l’appartenenza partitica sta anche a fondamento della mia gioia nell’elezione. Se ogni motivo del sentimento sia fondazione del senti-

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mento, vale a dire se sia inerente all’essenza del motivo del sentimento di dover essere contemporaneamente fondazione del sentimento, è questione che ci porterebbe troppo lontano, visto che in questa sede ci interessano soltanto i godimenti, cioè vissuti sentimentali «immotivati». Sarebbe comunque sicuramente falso il contrario: non è necessario che ogni fondazione del sentimento poggi su motivi del sentimento. Proprio quello del godimento è un esempio lampante: pur essendo immotivato, non manca certo di fondazione. Domandarsi perché qualcosa mi procura godimento non ha alcun senso se ci si riferisce al motivo, ma è del tutto legittimo se ci si riferisce alla fondazione: il godimento che mi dà un determinato tipo di vino si fonda sulla sua asprezza o sulla sua dolcezza. Il godimento esperito davanti a un quadro si fonda forse sulla sua composizione, sulla stesura dei colori, sul contenuto o sul modo in cui sono tracciate le linee. Il godimento immotivato, quindi, non difetta affatto di fondazione. Anche in questo caso l’indicazione del momento fondativo è ottenuta da dati fenomenologici. Anche in questo caso, però, essa non si esaurisce in tali dati: può darsi che io esperisca il godimento di un’opera d’arte come un tutto, senza che mi sia dato, con ciò, di essere cosciente di ciò su cui si fonda propriamente il godimento. La maggior parte degli uomini, del resto, non si preoccupa affatto della fondazione del godimento. Ma non importa che nel vissuto io lo sappia o meno: il godimento connesso a un’opera d’arte è sempre fondato – fondato in determinati aspetti dell’opera d’arte. Certo questa fondazione, così come quella della gioia, esige una propria verificabilità a partire da dati fenomenologici. Chi vuole scandagliare per bene la fondazione del godimento deve ad esempio porsi in atteggiamento appercettivo ed estrapolare dall’opera d’arte nel suo insieme un aspetto dopo l’altro, per poi esaminare quali siano, tra questi aspetti, quelli più affini al godimento, e quali siano i momenti da cui risulta il godimento che esperisco. Ma ottenere tale fondazione del godimento a partire dai vissuti è compito che non coincide semplicemente con la descrizione dei vissuti. Nel caso del godimento il momento fondativo è dunque un aspetto dello stesso oggetto del sentimento: l’asprezza del vino, la vivacità di una melodia, la finezza delle membra di un uomo – sta all’interno dell’oggetto del sentimento, mentre nel caso dei vissuti motivati sta all’esterno. Non era un aspetto dell’arrivo del mio amico a motivare la mia gioia, bensì qualcosa che con questo arrivo era in qualche modo connesso. Non dobbiamo confondere la fondazione del sentimento né con la causa reale del sentimento, né con quella fenomenica. La causa fenomenica di un’esperienza vissuta è quella che viene afferrata come causa

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nell’esperienza vissuta; se l’appartenenza partitica del signor X è anche la fondazione della mia gioia, non è però, per la mia coscienza, il fattore ultimo della mia gioia, allo stesso modo per cui in tutti gli atti di volontà l’io è la causa vissuta di ogni volere5 – ma nemmeno l’io può esser visto come la causa vissuta del godere. Ancor meno possiamo equiparare la cagione reale del godimento con la fondazione o la motivazione. Il godimento potrà anche essere immotivato, ma come qualunque altra cosa al mondo non potrà essere incausato. Questa cagione reale, però, non ha nulla a che fare con le circostanze fenomenologiche della motivazione o della fondazione. Quando diciamo che il godimento è cagionato da un colore, da quel colore reale là fuori nello spazio, dalle vibrazioni del medium della luce, non stiamo parlando di relazioni tra vissuti. Ma anche quando non risaliamo fino alle cause fisiche, e parliamo di cause psicologico-reali, la differenza tra causa fenomenica, fondazione e motivo è evidente. Sono in molti a godere di un’opera perché hanno sentito dire che è piaciuta a un esperto – la suggestione esercitata dall’esperto è la causa psicologico-reale del godimento. Dovremo certo ammettere che tutti, almeno una volta, siamo stati vittime di questa suggestione – ma per la maggior parte delle persone essa costituisce la regola: si accostano a opere classiche come la Madonna Sistina o la Nona sinfonia con un atteggiamento suggerito che consente di godere l’opera senza tanti problemi – e non importa ciò che essa ha loro da dire. È sicuramente un problema sapere fino a che punto queste persone godano davvero e fino a che punto, invece, non facciano altro che immaginare di godere; dubito però che tale suggestione possa essere abbastanza forte da «suscitare» un reale godimento. Immotivato come ogni altro godimento, a questo manca anche la fondazione nell’oggetto. In casi simili accade abbastanza spesso che colui che prova godimento si metta a cercare fondazioni laddove non ce ne sono affatto – e le trova. E la suggestione, che era stata abbastanza forte da generare il godimento, è certamente abbastanza forte da far trovare fondazioni laddove, ad esempio, una teoria alla moda lo richieda. Di fatto questo godimento è però tanto infondato quanto immotivato. La causa, invece, non manca nemmeno qui – risiede nella suggestione.

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Il primo ad aver evidenziato con forza – in relazione alla volontà – la distinzione tra la causa fenomenica e la causa reale, e tra entrambe e il motivo, è stato A. Pfänder (op. cit., pp. 9-11).

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Riassumendo: possiamo benissimo parlare tanto di oggetto quanto di fondazione del godimento, ma non di motivo del godimento. Bisogna tenere assolutamente distinti la fondazione del godimento, che interessa l’estetica, tanto dalla causa fenomenica del sentimento (di cui in questa sede non parleremo più) quanto da quella reale. Fondazione del sentimento e causa del sentimento non sono gli unici momenti che rischiano di venir confusi con il motivo del sentimento. Spessissimo, ad esempio, si scambia il motivo del sentimento con il motivo dell’aspirazione. Per quanto concerne il nostro problema: il godimento in quanto vissuto è in sé immotivato, e si può quindi aspirare al godimento per tutti i motivi possibili. Si aspira al godimento per dimenticare, oppure si aspira al godimento estetico non di per sé, ma perché si ritiene che si debba sviluppare anche questo lato dell’esistenza umana. Questo voler dimenticare se stessi nel godimento non è un motivo del godimento, bensì un motivo dell’aspirazione al godimento. A questa confusione se ne aggiunge poi un’altra: si crede che il motivo dell’aspirazione al godimento possa anche far luce sull’essenza del godimento stesso. Ma si può aspirare a ogni sorta di cose per amore dei loro effetti, che possono anche essere connessi necessariamente (e spesso lo sono invece soltanto casualmente) con quelle cose, ma che non hanno nulla a che fare con la loro essenza. Non si può desumere l’essenza della socievolezza dal fatto che molte persone la ricercano per intrecciare rapporti sociali. Non si può individuare l’essenza dello studio nel fatto che molti vi si dedicano per passare gli esami. Allo stesso modo, la domanda posta di frequente in merito al godimento del gioco: «Perché giochiamo?», ci insegna sì qualcosa sulle connessioni psicologiche tra gioco e godimento del gioco, ma ben poco sull’essenza del gioco e del godimento del gioco. Dovremmo prima sapere, infatti, se per caso non aspiriamo al gioco in ragione di un suo effetto secondario. Dal fatto che molti vanno a teatro per rilassarsi e divertirsi non dovremmo certo dedurre che l’essenza del godimento estetico consista nel rilassamento e nel divertimento – e ancor meno, ovviamente, possiamo concordare con quei molti quando concludono che è legittima soltanto l’opera d’arte che procura rilassamento e divertimento. Per dare un fondamento alla loro opinione, numerose concezioni non prendono la via indiretta che passa per l’aspirazione al godimento (e che ragiona così: dato che si aspira al godimento sempre e comunque per amore di un determinato effetto, questo effetto dev’essere l’elemento essenziale del godimento), ma ripongono l’essenza del godimento direttamente in un qualche suo effetto.

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Se l’interpretazione fornita da Zeller6 a proposito del famoso passo della Poetica in cui Aristotele parla di godimento è corretta (cosa che qui non desideriamo verificare), allora anche Aristotele rientra nel novero di questi ricercatori. Secondo Zeller la catarsi consiste «nella liberazione dell’animo da un’eccitazione patemica che lo domina o da una pressione che lo schiaccia; di conseguenza, non dovremmo concepirla […] come una depurazione di passioni permanenti dell’animo, bensì come una rimozione di emozioni malsane». Benché sia oltremodo problematica, cito questa interpretazione del passo aristotelico perché sul suo schema si basa tutta una serie di teorie estetiche. La purificazione non è il godimento estetico, e non può quindi nemmeno costituirne l’essenza. La catarsi è un effetto dell’esperienza vissuta estetica – un fenomeno collaterale forse – e può quindi diventare scopo dell’aspirazione. La sua analisi, però, non può offrire alcun contributo alla conoscenza dell’essenza fenomenologica del godimento estetico; sotto il profilo fenomenologico il godimento estetico è godimento dell’opera d’arte, non della liberazione dalle passioni. Nell’ambito dell’estetica contemporanea c’è una forte tendenza a scorgere almeno una parte del godimento estetico proprio nella liberazione da stati che precedono l’esperienza vissuta estetica (anche se non proprio nella liberazione da passioni). La maggior parte degli estetologi individua un momento essenziale del godimento «nella liberazione dalle preoccupazioni, dalle fatiche e dalle sofferenze della vita quotidiana tramite l’accesso al modo dell’arte» (Groos). È certamente plausibile che io, sedendo a teatro, goda nel potermi sbarazzare del mondo quotidiano e delle sue preoccupazioni e nel rifugiarmi in un mondo diverso. Si tratta però di un godimento non troppo frequente nella fruizione di uno spettacolo, un godimento che può talvolta rientrare nel godimento complessivo, ma che in ogni caso non è un godimento estetico. È godimento di un oggetto che certo non ha in sé più nulla di estetico; godimento dell’esser liberati, non dell’opera d’arte. Questi estetologi non vogliono certo indicare il pensiero consapevole dell’essere interiormente liberati come un oggetto del godimento. Se si interpretano le loro intenzioni, emerge che il significato che questo esser liberati riveste per l’estetica è concepito in altro modo: l’effettivo es6

Nel suo Die Funktionsfreuden im ästhetischen Verhalten (Niemeyer, Halle 1911), E. Utitz ha esaminato le diverse interpretazioni del passo di Aristotele in relazione al suo significato estetico.

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ser liberati e sollevati viene visto come causa reale di piacere, non come oggetto consapevole del sentimento. L’intimo allontanamento dalle preoccupazioni di tutti i giorni è per loro una reale condizione del piacere – e questo, dal punto di vista psicologico-causale, non può essere contestato. Ma tale condizione del piacere non va inclusa tra le circostanze fenomenologiche del godimento estetico, e non può nemmeno esser posta sullo stesso piano del godimento della bella forma, del tragico e così via. In questa concezione, tuttavia, entra anche in gioco un momento fenomenologico che finora non avevamo incontrato: il momento della fonte soggettiva del godimento, che a sua volta dev’essere distinta dal motivo e dalla fondazione.7 Quando dico che mi sto godendo tanto la quiete delle ferie perché negli ultimi tempi ho lavorato molto, oppure che mi sto godendo tanto un sorso d’acqua fresca perché sono reduce da una lunga camminata, questo «perché» può voler certamente indicare anche la causa reale del mio godimento. Al tempo stesso, però, con quell’espressione si rinvia a una connessione reperibile nell’esperienza vissuta. Anche dal punto di vista fenomenico c’è una connessione tra l’esperienza vissuta dell’esser stremati e il godimento di una bevuta, tra la stanchezza e il godimento della quiete. E invero io non esperisco tanto lo scaturire del godimento in sé dallo stress lavorativo, quanto piuttosto lo scaturire da quest’ultimo di un’intensificazione della mia capacità di godere. Il godimento non è fenomenicamente cagionato o fondato o motivato dalla stanchezza; le due cose stanno piuttosto nella connessione vissuta per cui la fonte della capacità interiore di esperire il godimento è la stanchezza, e il godimento si sviluppa proprio a partire dal contrasto tra la quiete e il lavoro precedente. E viceversa: esperiamo il fatto che la capacità di godere può affievolirsi con l’intorpidimento, sorta di fonte dell’incapacità di godere. Ma naturalmente la stanchezza non è qui in nessun modo oggetto di godimento in senso negativo. Il godimento può dunque scaturire anche dalla liberazione dalle preoccupazioni quotidiane e dal contrasto con esse nel passaggio alla libertà del mondo estetico. Questa liberazione non è l’oggetto, bensì la fonte del godimento. Se il contrasto tra lo stato estetico e quello precedente diventa esso stesso oggetto, il senso estetico di questo contrasto va perduto. Il godimento che scaturisce dal contrasto con la quotidianità non ha 7 Impiego il concetto di «fonte soggettiva» in un senso piuttosto diverso da quello in cui Pfänder (op. cit.) parla delle fonti oggettive dell’aspirazione.

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in sé nulla di specificamente estetico – lo può dare anche l’occupazione scientifica, e talora lo può dare persino anche la conversazione più futile su cose di nessuna importanza, così come la più raffinata socievolezza; se l’arte offra un godimento maggiore o minore rispetto a queste altre attività, può essere solo una questione di grado. Quello che si palesa come liberazione dagli affanni quotidiani è un fenomeno collaterale del godimento estetico, ma certo non appartiene alla sua essenza. Una cosa è certa: di qualunque genere esso sia, il godimento è sempre immotivato. Quanto sia necessario distinguere la mancanza di motivi del godimento in sé dalla mancanza di motivi dell’aspirazione al godimento e dalla mancanza di fondazione e di causa del godimento, diventa chiaro se si considera l’interpretazione tradizionale della relazione tra godimento del gioco e godimento dell’arte: di solito si dice che gioco e arte sarebbero entrambi fini a se stessi, mentre il lavoro sarebbe un mezzo per raggiungere uno scopo.8 Ma sarà vero? Non posso forse rifugiarmi nel godimento del gioco per dimenticare un dolore familiare? Non posso forse ricercare il godimento dell’arte per raggiungere una migliore istruzione? Groos stesso lo dice: «Si può certamente leggere un dramma per istruirsi, o visitare una mostra per poterne parlare, così come esistono giochi “educativi” e così come si può giocare diligentemente a birilli perché il medico l’ha raccomandato». A questo punto ci si aspetterebbe che Groos riconosca che la sua precedente affermazione, secondo cui gioco e arte non devono esser sempre fini a se stessi, è falsa. E invece no. Preferisce ricorrere a una scappatoia e dire che il godimento estetico più alto e puro si avrebbe «quando, nella gioia in ciò che ci è dato in sé, dimentichiamo ogni fine estrinseco». Ma il fatto che il godimento sia alto e puro non tocca la questione della sua essenza – e dunque anche secondo Groos ci sono sicuramente godimenti estetici e godimenti ludici in cui arte e gioco non sono fini a se stessi. In realtà Groos, come i tanti che concordano con il suo punto di vista, confonde motivo del godimento e motivo dell’aspirazione al godimento, e crede che siccome il godimento è immotivato neppure l’aspirazione al godimento debba avere un motivo. Ma non è corretto soste8

Si vedano ad esempio K. Groos, Der ästhetische Genuss, Ricker, Giessen 1902, p. 14, e R. Müller-Freienfels, Psychologie der Kunst. Darstellung der Grundzüge, 2 voll., Teubner, Leipzig 1912, vol. 1, p. 13: «La somiglianza tra gioco e arte consiste soprattutto nel fatto che in entrambi i casi i vissuti vengono ricercati per loro stessi».

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nere che gioco e arte siano sempre fini a se stessi, o che arte e gioco cessino di essere se stessi nel momento in cui vi si aspiri per altri fini; il godimento del gioco e dell’arte sono invece entrambi, per dir così, «motivi a se stessi» (non fini a se stessi), poiché il loro godimento non è ulteriormente motivato. E ciò non vale esclusivamente quando il godimento è alto e puro, bensì in tutti i casi – perché appartiene all’essenza del godimento. Da quanto detto emerge infine che questa mancanza di motivi tipica del godimento è qualcosa che non spetta soltanto al godimento del gioco e a quello dell’arte, ma anche al godimento dell’amore e a quello della quiete, al godimento dello sport e a quello della vendetta, in breve a ogni sorta di godimento. Ne consegue che non abbiamo alcun diritto di dedurre dalla somiglianza tra gioco e arte una derivazione storica o reale dell’arte dal gioco, come fanno alcuni. Nella mancanza di motivi si esprime piuttosto quel che hanno in comune godimento artistico e godimento ludico, cioè il fatto che entrambi sono godimenti; in nessun modo se ne può però concludere che sotto il profilo psicologico uno preceda l’altro. Il fatto che il godimento sia immotivato ha in primo luogo un significato soltanto negativo – indica un contrasto con vissuti diversi, che hanno motivi; ma dal punto di vista fenomenologico, ovviamente, la mancanza di motivi non può essere indicata come un vissuto specifico. La mancanza di motivi ha però certamente determinate conseguenze psicologiche, che contraddistinguono il godimento da altri vissuti: l’autarchia dell’esperienza vissuta del godimento dipende da questo. Fin quando dura, il godimento basta a se stesso. Non c’è alcun ponte con il resto della vita. Ogni godimento – il profondo godimento estetico come l’eccitante godimento ludico – non dipendono dal mondo che normalmente ci tiene occupati. Il mondo non può intromettersi nel godimento sotto forma di motivo. Psicologicamente parlando, ciò significa che il godimento può essere distrutto e interrotto solamente dall’esterno. Possono venir cambiate condizioni del godimento, quelle esterne (l’oggetto diventa un altro) o anche quelle interne (sopraggiunge l’intorpidimento). Oppure possono farsi largo nella coscienza vissuti estranei che non permettono che si generi godimento. Non potrò godermi tanto il mio vino se mi viene in mente di aver dimenticato di sbrigare una faccenda importante. Alcuni racconti giocano con il motivo della capacità del godimento amoroso di prevalere sulla morte ormai prossima. Questa distruzione derivante dall’esterno, tuttavia, è qualcosa di diverso dalla soppressione di vissuti motivati. I vissuti motivati sono sempre connessi con ogni altro accadi-

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mento. Possono venir rafforzati da nuovi motivi o distrutti dall’interno dal sopraggiungere di motivi diversi. Così si può gioire per un avvenimento per innumerevoli motivi – posso gioire per l’avvicinarsi dell’estate perché mi permetterà di andare in montagna, perché mi consentirà di rivedere cari amici, ma basta che mi venga in mente una sola contrarietà (per esempio che in estate dovrò sostenere un esame) ed ecco svanire la gioia, non dall’esterno ma dall’interno, a causa del fatto che i motivi positivi vengono sopraffatti da motivi che si collegano all’oggetto del sentimento e procedono in direzione opposta. Un fluttuare qua e là dei motivi può quindi accrescere oppure ostacolare i vissuti motivati, ma il godimento lo avvertiamo come qualcosa di isolato, di indipendente dai pensieri che sopravvengono, nella misura in cui questi non gli sottraggono forza psichica. Il godimento va e viene con l’oggetto del godimento, e in questo senso il godimento estetico più profondo è qualcosa che esula dal resto della vita. Se la gioia può ricevere nuovi impulsi e nuove motivazioni da ogni dove, il godimento assapora invece i suoi oggetti in splendido isolamento. 2. Abbiamo visto che il godimento, di solito, è godimento di un determinato oggetto, l’oggetto del godimento. Non ci siamo ancora occupati di che genere sia questo oggetto del godimento, e non ci siamo chiesti se qualunque oggetto della mia coscienza possa essere oggetto di godimento. Una semplicissima riflessione ci insegna che non è così. Non posso avere alcun godimento né del genere né del concetto «uomo», così come non posso godere dei numeri né di relazioni quali l’uguaglianza o la somiglianza. Non vogliamo tentare di individuare con precisione quel che si richiede perché un oggetto possa diventare oggetto di godimento. Ci accontentiamo invece, in prima battuta, di un’enumerazione, rimarcando che molti oggetti psichici hanno la capacità di diventare oggetti di godimento: possiamo godere dei nostri vissuti (per esempio gioie e dolori) e del nostro volere (come quando qualcuno gode nell’impartire ordini o nell’eseguire azioni); c’è un godimento connesso a stati d’animo, un godimento della sentimentalità e un godimento relativo ad azioni (il gioco), ed è persino possibile un godimento della mera esperienza vissuta. Tra gli oggetti della mia coscienza posso godere innanzitutto di quelli sensibili-intuitivi (case e uomini, monti e paesaggi, suoni e sequenze di suoni, parole e poesie, datità tattili quali il duro e il molle, odori e sapori ecc.). Ma ci sono anche oggetti di godimento che non rientrano nel novero di questi gruppi di oggetti psichici o sensibiliintuitivi: posso provare godimento in relazione alle mie capacità (la mia

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destrezza), alla matematica (un calcolo eseguito senza difficoltà), alla disgrazia di un uomo (la gioia per il male è per lo più godimento per il male altrui). In questa sede non è necessario fornire una delimitazione di principio degli oggetti di godimento, anche perché per farlo dovremmo penetrare nei problemi oggettuali più a fondo di quanto ci occorra per raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissi. Dobbiamo però prendere in esame almeno un altro punto, cioè la questione se si possa godere di stati di cose. Gli esempi di godimento più ovvi non sono certo gli stati di cose, bensì i singoli oggetti concreti: melodie, quadri, propri vissuti ecc. Il vissuto della gioia per qualcosa è invece sempre gioia del sussistere di uno stato di cose. Gioisco per il fatto che arriva il mio amico, che c’è bel tempo, che un calcolo mi riesce così facile. Per singoli oggetti, al contrario, non posso gioire: posso gioire non per il mio stato d’animo, ma solo per il fatto che mi trovo in questo stato d’animo; non per il quadro, ma solo per il fatto che sia dipinto con tanta maestria. Della gioia in qualcosa abbiamo invece già detto, e l’abbiamo esclusa dalle nostre considerazioni. Si potrebbe credere, allora, che qui stia emergendo un ulteriore contrasto tra la gioia per qualcosa e il godimento: l’oggetto della gioia per qualcosa sarebbe il sussistere di uno stato di cose, mentre l’oggetto del godimento sarebbe invece il singolo oggetto. La prima parte di questa affermazione è sicuramente corretta, ma la seconda? È davvero impossibile godere di stati di cose? Si tratta di una domanda che in forma diversa è stata oggetto di una discussione tra Meinong9 e Witasek.10 Il problema è questo: i sentimenti estetici possono avere come oggetto degli stati di cose (vale a dire, secondo la terminologia di Meinong, degli «obiettivi»)? Tale questione è da un lato più ampia della nostra (perché i due studiosi includono tra i sentimenti estetici tanto il gradimento quanto il godimento), dall’altro più circoscritta (perché a noi non interessa esclusivamente il godimento estetico, bensì il godimento in generale). Per quanto riguarda il godimento in generale, mi pare che il punto decisivo per dirimere la questione sia che un godimento di stati di cose è senz’altro possibile. Molti vissuti di gioia possono trasformarsi in godimento: posso gioire perché sono in compagnia dei miei amici, ma pos9

A. Meinong, Über Annahmen, Leipzig 1902, p. 192 (poi Barth, Leipzig 1910, pp. 316 sgg.). 10 S. Witasek, Grundzüge der allgemeinen Ästhetik, cit., pp. 167 sgg. [trad. it. cit., pp. 129 sgg.].

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so anche godere di questo fatto; posso godere per il fatto che sta arrivando l’estate, oppure per il fatto che una persona che mi ha recato disturbo mi lascia finalmente in pace. In casi simili non mi godo semplicemente la quiete o l’essere in compagnia: mi godo il fatto che sono in compagnia dei miei amici o che trovo pace. Oltre a ciò, ovviamente, può anche darsi un godimento dello stato di cose in sé, per esempio dell’essere in compagnia di amici, e non soltanto del fatto che sono in loro compagnia. È chiaro che c’è una bella differenza, a livello di esperienza vissuta, tra il gioire per il sussistere di uno stato di cose e il godere tale sussistere. Se gioisco per il fatto di ritrovarmi di nuovo in compagnia dei miei amici, allora provo realmente gioia per il sussistere dello stato di cose. Se invece godo il fatto di ritrovarmi di nuovo in compagnia dei miei amici, allora a voler essere precisi dovrei dire: provo godimento al pensiero di essere di nuovo in compagnia dei miei amici. Non basta il semplice esserci per me, mi devo in qualche modo presentificare la circostanza. Nella gioia per il sussistere di uno stato di cose, invece, questa presentificazione non è affatto necessaria: mi limito a riferirmi intenzionalmente allo stato di cose. Questa situazione indica che è soprattutto il modo di darsi degli oggetti a determinare quali oggetti possono essere oggetti di godimento. Ancor più chiaramente che nei vissuti presenti, è nei vissuti di fantasia che balza in primo piano il fatto che nel caso della gioia si tratta sempre e comunque del mero sussistere di uno stato di cose, mentre nel caso del godimento si tratta innanzitutto di singoli oggetti; è nei vissuti di fantasia, inoltre, che emerge con maggior evidenza il fatto che anche laddove ci sia godimento per stati di cose, il modo in cui questi stati di cose vengono presentificati è estremamente importante. Nei vissuti di fantasia, infatti, i vissuti diretti al sussistere di uno stato di cose si contrappongono chiaramente a quelli connessi al puro esserci. Nel primo caso la fantasia presuppone che io ponga come sussistente, almeno in via ipotetica, lo stato di cose per cui gioisco, lo stato di cose che godo – presuppone che io fantastichi il suo «sussistere». Torniamo al nostro vecchio esempio: quando fantastico che alle elezioni vinca il mio partito, quando mi immagino l’arrivo del mio amico, quando provo «gioia in anticipo», devo assumere il sussistere dello stato di cose corrispondente – devo immaginarmi che l’amico stia davvero arrivando e che il mio partito abbia vinto davvero. Quanto più sono in grado di prefigurare lo stato di cose, quanto più riesco a prescindere dalla sua insussistenza, tanto più la gioia crescerà; e lo stesso vale per il godimento, nella misura in cui si ricolleghi al sussistere di stati di cose.

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Il genere più frequente di godimento di fantasia, tuttavia, non dipende dal sussistere di uno stato di cose, e non ha quindi nulla a che vedere con la prefigurazione o l’assunzione di esistenza di un oggetto. Quando godo di un’opera d’arte in fantasia, o quando un paesaggio torna a entusiasmarmi nel ricordo, o ancora quando mi prefiguro lo stare in compagnia di amici, è del tutto indifferente che io mi immagini che il paesaggio o l’opera d’arte esistano, oppure che io sia realmente in compagnia degli amici. Il godimento dipende solo dalla vivacità delle rappresentazioni sensibili e dalla vividezza con cui mi dipingo la situazione. E che di norma, a parità di condizioni, il godimento di fantasia sia più debole del godimento di ciò che è presente, è dovuto solo al fatto che il modo di darsi dell’oggetto alla fantasia è meno intuitivo, e che la rappresentazione di un uomo è meno sensibilmente vivace, meno tangibile della sua presenza. Ma fin tanto che nella fantasia non subentra questo illanguidimento, è possibile godere di oggetti anche nella fantasia e nella rappresentazione: la vivace forza rappresentativa di certi pittori permette loro di godersi i colori tanto nella fantasia quanto nella realtà (e su questo punto si è spesso richiamata l’attenzione); l’esempio di Beethoven sordo è citato abbastanza frequentemente a riprova della possibilità di un godimento interiore della musica. Dovranno quindi essere tipi di uomini del tutto diversi quelli che possono gioire nella fantasia e quelli che nella fantasia possono godere, benché sia abbastanza verosimile che le due capacità vadano più spesso a braccetto. Chi è capace di provare nella fantasia gioie piuttosto forti in relazione a eventi irreali, non avrà un senso della realtà delle cose granché sviluppato. Persone inclini a ponderare con freddezza ogni cosa, spiriti scientifici abituati a render conto scrupolosamente della realtà delle loro rappresentazioni, difficilmente saranno capaci di quelle gioie. Lo saranno eccome, invece, uomini impazienti e pieni di aspettative, per i quali anche nella vita quotidiana è il desiderio il padre del pensiero. Coloro che godono in fantasia appartengono a una classe umana del tutto diversa: possono essere persone della più fredda ponderazione, che raramente mescolano al riconoscimento del reale il benché minimo grano della loro soggettività; alcuni grandi artisti, del resto, sapevano fare i conti assai bene con le cose reali. La vivacità del rappresentare e la capacità di raffigurarsi le impressioni nei minimi dettagli consente loro di godere in fantasia – e con grande vivacità – vissuti e oggetti. È naturale che uomini dotati di forte capacità di rappresentazione sensibile tendano a trascurare la coscienza dell’irrealtà delle proprie rappresentazioni; capita così che i due tipi, in teoria separati, si uniscano nel singolo uomo. Ciononostante, tuttavia, la distinzione tra i due tipi

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emerge abbastanza spesso nella realtà. Varrebbe certamente la pena di sottoporre questi contrasti del sentimento fantastico, che a noi interessano più che altro come risultati secondari, a un’analisi approfondita; agli psicopatologi avrebbe sicuramente qualcosa da offrire. 3. Finora ci siamo chiesti soltanto di che genere sia l’oggetto del godimento, rimarcando che è possibile godere sia di oggetti singoli sia di stati di cose. Implicitamente, però, abbiamo anche accennato al modo di darsi dell’oggetto del godimento: abbiamo presupposto come ovvio che il godimento della rappresentazione sia tanto maggiore quanto più «intuitiva» e sensibilmente viva è la rappresentazione stessa, e abbiamo dovuto rilevare come anche il godimento connesso al sussistere di stati di cose esiga che ci si «presentifichi» gli stati di cose stessi. Si è sempre preteso che gli oggetti del godimento estetico avessero evidenza intuitiva, e nell’ultimo decennio, in particolare, si è accesa una violenta disputa volta a chiarire se e in che senso una tale pretesa possa esser fatta valere anche per la poesia. Prendere posizione su questo tema ci porterebbe ad affrontare questioni oggettuali assai distanti da ciò di cui ci stiamo occupando; possiamo però esaminare il problema del modo di darsi dell’oggetto del godimento da un punto di vista ben più ampio, astenendoci dal chiamare in causa queste teorie contrastanti. Quel che si suol definire, nel campo dell’estetica, «evidenza intuitiva» dell’oggetto, non si riferisce a una qualche origine dai sensi e nemmeno alla questione del riempimento intenzionale, ma riguarda invece il genere del modo di darsi degli oggetti. Oggetti intuitivamente dati recano in sé una certa pienezza, un esser pieni di momenti «afferrabili». È per questo che l’esser dato nel modo della rappresentazione e l’esser dato nel modo della percezione stanno l’uno accanto all’altro con pari diritto: come abbiamo già visto, il colore rappresentato intuitivamente o la melodia rappresentata intuitivamente possono venir goduti esattamente come il colore visto realmente o la melodia ascoltata realmente. Di ciò che è puramente inteso o pensato, invece, non si dà alcun godimento. Posso pensare alla statua più bella o alla più bella sinfonia – ma di un godimento reale, in me, non c’è la benché minima traccia; al massimo si può parlare del ricordo del godimento provato un tempo. A meno che non mi riesca di trasformare il mero pensiero in un rappresentare intuitivo, conferendo all’oggetto intenzionato la «pienezza» che il godimento esige dal proprio oggetto. Potremo quindi sempre aspettarci che oggetti che mostrano, nel loro esser dati, una certa pienezza, possono essere goduti anche nel caso in

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cui non si possa parlare di una vera e propria intuizione sensibile. È possibile quindi godere della maggior parte dei vissuti psichici mentre vengono vissuti: i miei stati d’animo, i miei atti di volontà, il mio odio come il mio amore – tutti evidenziano quella pienezza che manca invece al vissuto del percepire in quanto tale, che come atto puro non può nemmeno diventare oggetto di godimento (e lo stesso vale per il concetto di «uomo» o per il numero tre). Appurando che gli oggetti del godimento devono sempre essere oggetti cui spetta una certa pienezza, abbiamo soltanto accennato al problema dell’oggetto del godimento, ma non lo abbiamo affatto risolto. Come si presenta questa pienezza dell’oggetto? È sufficiente che l’oggetto mostri questa pienezza soltanto in parte, restando parzialmente «non riempito», oppure deve mostrarla con tutto se stesso? Domande complesse che per la teoria dell’oggetto del godimento, e in particolare per l’estetica, rivestono particolare interesse. Qui, dove sta in primo piano il lato del vissuto del godimento, basti accennare al fatto che a dover mostrare questa pienezza è l’oggetto del godimento in generale, e non soltanto l’oggetto del godimento estetico. Stesso discorso, ovviamente, per il godimento connesso al sussistere di stati di cose: già sappiamo che in questo caso, a differenza di quanto accade nella gioia, il semplice intendere lo stato di cose non è sufficiente. Il godimento della vincita del primo premio esige che questo stato di cose ottenga per me una certa vivacità, che mi si presenti con una certa pienezza, che però non ha nulla a cha fare con l’intuizione sensibile. Per l’estetica è questione oltremodo importante sapere come siano possibili, nell’ambito degli stati di cose, questi diversi generi dell’esistenza (con o senza pienezza) e in che cosa consistano. In questa sede, però, non dobbiamo occuparci di questo problema, né dobbiamo chiederci se oltre a questo genere di esistenza l’oggetto, per poter essere oggetto di godimento, debba soddisfare altre condizioni. A noi non interessa il lato dell’oggetto ma quello del vissuto del godimento, cui ora ci rivolgeremo. 4. L’analisi fenomenologica, ovviamente, non riuscirà mai a porre in luce ciò che distingue in ultima istanza un vissuto da un altro, un oggetto da un altro: quel che separa il blu dal giallo o la gioia dal godimento è una differenza ultima che non può essere descritta, bensì soltanto vissuta. Impone all’analisi un compito impossibile chi da essa si aspetta un’indicazione per sapere che cosa sia propriamente il godere, nel senso dell’ultima differenza specifica. Ma come per l’analisi del blu non è affatto scientificamente indifferente l’indicazione delle sue proprietà rile-

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vabili – ad esempio che il blu ha carattere cromatico (cioè che il blu è un colore) e che fa un effetto di calma e freddezza – o l’indicazione relativa ai suoi rapporti con gli altri colori – ad esempio che il blu occupa una certa posizione sulla scala cromatica, e che tale posizione gli conferisce il significato di punto cruciale –, allo stesso modo per noi sono di estremo interesse le proprietà del godere e le sue relazioni con altri vissuti, anche se la vera e propria essenza del godimento non può mai venir mostrata. Nel dato di fatto complessivo del godere dobbiamo innanzitutto occuparci di come l’io che esperisce si rapporti, nella sua esperienza vissuta, all’esperienza vissuta del godimento. Per prima cosa dobbiamo distinguere rigorosamente tra l’atto del godere in sé e l’atto in cui si costituisce per me l’oggetto del godimento. Perché io possa godere un oggetto deve naturalmente esistere per me l’oggetto che godo. In questa sede, però, non ci interessa l’afferramento dell’oggetto, ma soltanto il vissuto del godimento. Dobbiamo domandarci in primo luogo se nel vissuto complessivo, per sua natura, sia implicato un movimento psichico dall’io all’oggetto o dall’oggetto all’io. Nella natura del tendere verso qualcosa – ad esempio verso l’apprensione del movimento di un uomo – è insito un movimento psichico verso l’oggetto del tendere, a prescindere dal fatto che io mi sia rivolto primariamente all’oggetto oppure che sia stato un movimento dell’uomo a stimolare il mio tendere. Anche nella gioia per l’arrivo di un amico indirizziamo all’oggetto un’onda psichica di gioia: quando apprendo dell’arrivo dell’amico, il mio gioire si volge all’oggetto. Come stanno le cose col godere? Il movimento psichico procede dall’io all’oggetto o dall’oggetto all’io? Per non confondere questa domanda con altre simili dobbiamo prima prendere in esame il godimento sotto un altro aspetto: come già detto, il godimento fa parte di quei vissuti in cui un io si dirige verso un oggetto (come nel tendere, nel gioire per qualcosa o nell’arrabbiarsi per qualcosa). In questo esser diretti verso un oggetto è già implicito un movimento verso l’oggetto, che spetta a tutte queste funzioni in virtù della loro direzione oggettuale. Ma tutte queste funzioni, oltre a ciò, hanno anche un contenuto, un quid che rende appunto gioia la gioia, godimento il godimento, rabbia la rabbia. Quando mi rappresento la gioia, per esempio, non immagino affatto un atto del gioire diretto a un oggetto, ma proprio la gioia. Quando faccio affermazioni sul godimento non intendo affatto parlare degli atti del godere; questi ultimi, piuttosto, diventano atti del godere solo in virtù del fatto che entra in essi il momento del godimento.

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Quando affermo, per esempio, che il godimento del Fidelio è più profondo di quello di un’operetta, non voglio dire che ci sono atti del godere più profondi, bensì che il godimento che si cela in questi atti è più profondo. O viceversa: quando si dice che «godere rende volgari» non si intende toccare il momento del godimento, che entra anche nella rappresentazione del godimento, bensì l’effetto dell’attività del godere. Possiamo dunque domandarci se nel godimento ci sia – per la natura stessa del godimento in quanto godimento, qualora sia godimento pienamente vissuto – un movimento psichico verso l’oggetto, a prescindere dal fatto che il godere in quanto funzione contenga un simile movimento verso l’oggetto. Così per esempio il tendere si irradia dall’io all’oggetto in base al suo contenuto, e non soltanto come funzione. Per il godimento vale esattamente il contrario. Per il suo stesso carattere, ogni godere esige un aprirsi a ciò che proviene dall’oggetto, un prestare ascolto a quel che mi offre, un lasciarsi irradiare nell’intimo da ciò che scaturisce dall’oggetto. Non si tratta di un prestare ascolto a richieste dell’oggetto, come avviene nel caso del volere, bensì di un prestare ascolto a quel che dall’oggetto si irradia in me. Ogni godimento è accoglienza di quanto proviene dall’oggetto, e ciò significa che nell’esperienza vissuta complessiva del godimento si cela un movimento di quanto proviene dall’oggetto in direzione dell’io. Da questo punto di vista il godere è lontanissimo da qualsivoglia volere e da qualsivoglia tendere, e massimamente lontano da qualsivoglia sentire. Anche in godimenti quali quelli del gioco (in particolare del gioco d’azzardo) e dello sport, che contengono nel loro quadro complessivo spiccati elementi volitivi, il godere in sé non presenta traccia di volontà. I momenti volitivi risiedono nell’oggetto del godere, in quel che io godo, nei presupposti, non nel godere in sé. Certo sembrano esserci importanti riserve contro questa concezione del godere. Come se essa fosse valida soltanto per una contemplazione dell’oggetto quieta e pacata, in cui noi attendiamo tranquilli ciò che l’oggetto ha da dirci. Ma non si danno anche forme del godere completamente diverse? Non c’è anche quel godere impetuoso e sfrenato in cui chi gode tracanna con bramosia e irruenza, impadronendosi intimamente dell’oggetto del godimento come a volerlo tirar dentro l’io, di prepotenza? Queste esperienze, naturalmente, non vanno trascurate, ma non riguardano il problema di cui ci stiamo occupando. Anche a prescindere dalla constatazione che «attività» e «movimento psichico dall’io all’oggetto» non sono assolutamente la stessa cosa, resta il fatto che anche nel godere più attivo il vero e proprio momento del

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godimento in sé rimane accoglienza di ciò che proviene dall’oggetto. Il carattere attivo dell’esperienza vissuta complessiva poggia invece, di solito, su diversi altri momenti della coscienza. In primo luogo sull’afferramento dell’oggetto del godimento, che ammette vari gradi: dall’opporsi con ripugnanza al quieto e rilassato contemplare, fino al bramoso appropriarsi dell’oggetto e all’intimo penetrare nell’oggetto. Questo appropriarsi dell’oggetto, però, è una forma dell’afferramento dell’oggetto, non del suo godimento. L’oggetto dev’essere bevuto, risucchiato; qui non si tratta affatto del godimento inteso come attività. In secondo luogo, tuttavia, il carattere di funzione del godimento può essere più o meno accentuato: nell’atto del godere in sé posso essere più o meno diretto all’oggetto, e qui entra in gioco, per esempio, l’opposizione tra concentrazione interna e concentrazione esterna.11 Anche questo, però, non riguarda il carattere del godimento in sé, bensì soltanto il momento della funzione. A toccare il godimento in sé può essere infine la tendenza centrifuga: posso gettarmi nel godimento, far precipitare il mio io nel godimento o attirare il godimento nel mio io, concentrando tutta l’attività dell’io non solo per ghermire l’oggetto, ma anche per ghermire il godimento. E proprio in questo caso, in cui c’è il massimo di attività possibile nell’esperienza vissuta del godimento, il godimento in sé resta chiaramente un prestare ascolto all’oggetto, un accogliere – l’attività concerne la posizione dell’io rispetto al godimento, non la posizione dell’io nel godimento. Il fatto che il movimento interiore sia al tempo stesso doppio rappresenta un momento peculiare nel godere impetuoso cui si accennava prima. Accanto al poderosissimo moto diretto all’oggetto, accanto al gettarsi dell’io nel godimento, il godere in sé cela un’accoglienza assoluta dell’oggetto – una passività dell’accoglienza nell’attività complessiva della coscienza. Dobbiamo quindi annoverare il godimento tra i puri vissuti di accoglienza, in contrasto con i vissuti di irradiazione come il tendere e la gioia. È per questo che quando ci sentiamo stanchi diciamo di non essere più «capaci di accogliere» il godimento. Certo, in molti casi ciò significa che non siamo più in grado di apprendere l’oggetto. Può anche voler dire, però, che siamo sì in grado di apprendere l’oggetto (che difficoltà dovrebbe esserci, in fondo, nel cogliere interiormente un semplice colo11

Per questo aspetto rinvio al mio Das Bewusstsein von Gefühlen, cit., p. 152.

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re?), ma che non ci sentiamo più seriamente in grado di mantenerci aperti a ciò che proviene dall’oggetto. In via del tutto generale i momenti che esigono molto dalla nostra capacità di apprensione sono diversi da quelli che ostacolano l’accoglienza. Temi musicali complessi sono difficili da apprendere, esattamente come lo sono poesie dalla struttura contorta e insolite forme artistiche che l’inesperto fatica a cogliere immediatamente nella loro unitarietà. Ma noi distinguiamo le melodie che, quanto alla forma, risultano facili da apprendere, da quelle «orecchiabili»: il contrasto tra forme complicate e forme semplici non ha nulla a che vedere con quello tra forme austere e forme gradevoli, che vengono accolte facilmente ed entrano subito in testa. Spesso però il motivo di una più agevole accoglienza sta soprattutto nel soggetto, non nell’oggetto. Di fronte allo stesso oggetto siamo talvolta più capaci di accoglienza, talaltra meno, e ciò non significa altro che predisporci all’ascolto e lasciare irradiare l’oggetto in noi stessi ci riesce talvolta più semplice, talaltra meno. Lo stesso rosso acceso può suscitare ora il godimento più intenso ora quello più lieve, perché la capacità di accogliere nel godimento non è sempre uguale. Ci sono persone che quando sono stanche perdono la capacità di apprensione, non riescono più a concentrarsi bene e vedono affievolirsi il godimento, mentre la capacità di apprensione diminuisce quasi impercettibilmente, o addirittura aumenta: il motivo è che non sanno più porsi in atteggiamento di godimento. Mi sono spesso osservato in stato di stanchezza, e ho scoperto che di tanto in tanto cadevo vittima di stati di stanchezza tali da non essere più capace di concentrarmi su opere d’arte, e da non poterne perciò trarre alcun godimento. Ero però assolutamente in grado di assaporare godimenti «che mi si offrivano», come ad esempio il godimento sentimentale dei miei stati d’animo o quello di melodie leggere, un po’ sentimentali. Questo godimento era anzi persino accresciuto. In uno stato di stanchezza di tutt’altra natura, invece, sperimentavo stati di affaticamento – soprattutto di spossamento – caratterizzabili come intorpidimento: apprendere non mi riusciva difficile, ma non ero più molto in grado di abbandonarmi interiormente all’oggetto, in modo che potesse irradiarmi. Anche questo problema del rapporto tra capacità di apprensione e capacità di accoglienza meriterebbe certo un’indagine più approfondita. 5. Che ogni godimento sia accoglienza è un fatto che riguarda unicamente la posizione dell’io in rapporto al movimento interno tra l’oggetto e l’io. Con ciò non si è ancora detto nulla sulla questione di

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come si configuri, nel godere, la posizione dell’io rispetto all’oggetto stesso. Per chiarire di che genere possa essere questa posizione facciamo qualche esempio di vissuti diversi. Quando dico che «questo quadro è di mio gradimento» o che «questo vino è di mio gusto», nel «gradire» e nel «gustare» è implicita una presa di posizione dell’io nei confronti dell’oggetto (in questo caso una presa di posizione affermativa). Allo stesso modo, quando è in gioco un valutare (e non soltanto un mero sentire i valori) si prende sempre interiormente posizione (positiva o negativa) nei confronti dell’oggetto. Si può estendere il concetto di presa di posizione interiore fino al punto da includervi ogni interiore, sentimentale (non puramente appercettivo) volgersi dell’io all’oggetto: in questo caso ogni volere, ogni bramare, ogni desiderare celerà in sé una presa di posizione. Nel bramare qualcosa mi volgo interiormente all’oggetto e gli dico «sì»; nel non volere o nel detestare, invece, me ne distolgo. Altri vissuti ancora possono talvolta includere una presa di posizione e talaltra no. Nel gioire per l’arrivo del mio amico non è necessario che vi sia qualcosa che significhi una presa di posizione. Quando do espressione al fatto che «sono gioiosamente eccitato» di questo arrivo, lo stato della gioia viene solitamente inteso come puro stato del vissuto. C’è per contro un gioire per l’arrivo che non si presenta semplicemente come uno stato gioioso, ma che implica, nell’intuire l’avvenimento, un benevolo volgersi dell’io a questo arrivo. In tal caso potremo parlare di una presa di posizione, nel senso più ampio del termine. Allo stesso modo, anche l’irritarsi per un’omissione e cose simili implica per lo più una presa di posizione ostile nei confronti dell’oggetto, senza che il caso debba necessariamente verificarsi. Il fatto che tale concetto di «presa di posizione» assuma di caso in caso un significato leggermente diverso non deve far dimenticare l’elemento comune a tutte le prese di posizione. Ma anche qualora se ne estenda il concetto come abbiamo appena fatto, nel godere non si troverà alcuna traccia di questa presa di posizione. Non è necessario che io mi disponga benevolmente od ostilmente nei confronti dell’oggetto del godimento; non è necessario che io gli dica «sì» oppure «no». Può darsi che prima si desideri l’oggetto del godimento e poi, nel godimento, segua il desiderio di trattenere l’oggetto – ma il godimento in sé è esente da questa presa di posizione. Può darsi che il giocatore sia ben disposto nei confronti del gioco, lo brami e cerchi di ottenerlo con ogni mezzo – ma non appena gioca, vive nel gioco, se lo gode e vi si dedica totalmente, senza prendere più alcuna posizione nei suoi confronti. Anche da questo punto di vista, dunque, il godere non ha alcuna affinità con qualsivoglia momento volontaristico. A tal proposito, per

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convincerci della differenza tra gradimento e godimento (nel gradimento, come già detto, si cela un’evidente presa di posizione) è sufficiente un’osservazione: abbiamo ascoltato un brano musicale con intensa partecipazione, ma in atteggiamento di puro godimento; ci viene chiesto se la composizione è stata di nostro gradimento, ma in molti casi non siamo in grado di rispondere – abbiamo goduto, ma non abbiamo preso posizione. Quando ci viene posta la domanda esperiamo un netto cambiamento di atteggiamento. Inizialmente avevamo semplicemente vissuto, ma ora ci viene chiesta una decisione importante, e per questa il semplice godere non basta. Il godere, di per sé, non implica alcuna decisione. Questo fatto non va inteso nel senso che il gradimento non sarebbe nient’altro che una riflessione sul godimento; il giudizio «il quadro è di mio gradimento» non è soltanto un altro modo per esprimere la constatazione che esso mi ha procurato godimento. L’auto-osservazione dimostra che si tratta di due vissuti diversi, e allo stesso risultato perveniamo grazie a una prova indiretta: se le cose stessero altrimenti, infatti, dovremmo poter esprimere ogni vissuto di godimento in termini di vissuto di gradimento, ma questo accade soltanto nel caso del godimento estetico. Dire che ho gradito un sorso d’acqua perché ne ho tratto godimento è altrettanto poco sensato che parlare di un gradimento sessuale. La mancanza di presa di posizione nel godimento è innanzitutto un momento negativo (e un momento, sia detto per inciso, assai essenziale, dato che rende impossibile fondare l’estetica, che per la propria fondazione esige una presa di posizione nei confronti dell’oggetto, sul puro e semplice vissuto del godimento). Ora dobbiamo anche chiederci, in senso positivo, quale di fatto sia, nel godere, la posizione dell’io rispetto all’oggetto. Possiamo designarla come «abbandono all’oggetto», che ovviamente non coincide con l’accoglienza di cui si parlava in precedenza. L’«accoglienza» fa riferimento al fatto che nel godimento non ci irradiamo in direzione dell’oggetto, ma lo stiamo ad ascoltare; l’abbandono, invece, implica che nel godimento non prendiamo posizione nei confronti dell’oggetto, ma ci affidiamo a esso. L’«abbandono» non si riferisce alla posizione dell’io nel movimento psichico, bensì alla posizione dell’io rispetto all’oggetto. Ciò non significa, tuttavia, che tra i due momenti non sussista una certa intima affinità. Nel godimento – in ogni godimento – c’è un abbandono dell’io all’oggetto. Si tratta di un abbandono all’oggetto nel godimento, e non necessariamente di un abbandono al godimento. Per quanto io mi ponga interiormente al di sopra del godimento – e torneremo su questa possibilità –, nel godimento in sé è implicita una rinuncia da parte dell’io a

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favore dell’oggetto. È questo che rende il godimento tanto inviso alle persone dal temperamento rigido e severo, il fatto che in ogni godere l’io rinuncia a sé in favore dell’oggetto, senza più prendere posizione e affidandosi a qualcosa di estraneo, all’oggetto. Qui emerge qualcosa che si trova anche, molto più scoperto, nella suggestione e nell’ipnosi: si affida la propria volontà alla discrezione di una volontà estranea. Se questa situazione tiene lontane dall’ipnosi molte persone, la forma più sublimata di autorinuncia rintracciabile nel godimento verrà avvertita come in tutto e per tutto simile, e quindi rifiutata, da caratteri molto legati al proprio io. Almeno un lato della mollezza che si rimprovera a ogni esperienza vissuta di godimento è dato dalla mancanza di un qualunque momento che implichi una presa di posizione. Entrambi i momenti – quello per cui il godimento è accoglienza e quello per cui è abbandono – imprimono a ogni godere, e quindi anche agli uomini particolarmente inclini a godere, quella caratteristica impronta solitamente indicata come «passività». Fanno eccezione, ovviamente, tipi attivi come gli sportivi o i giocatori, che ricercano precisamente il godimento connesso all’attività, all’essere attivi, all’eccitazione – godimento ricercato esclusivamente da tipi attivi. Ciò non significa che il godimento smetta di essere passivo, ma solo che gli uomini stessi sono attivi. Certo, nel caso in cui sport e gioco non servano come semplici svaghi, la passività si rivelerà in un’altra direzione: di solito, infatti, uomini di questo genere non sanno liberarsi interiormente dall’oggetto del loro godimento – sono passivi nei confronti delle loro stesse inclinazioni. Come altri non sanno liberarsi dal vino o dalla musica, così questi si dedicano abbastanza spesso alle loro imprese (alla lotta, allo sport, all’avventura) «senza volontà»: non riescono a dirigere altrove la loro volontà – solo che l’oggetto del loro godimento è precisamente l’attività stessa. Di solito, quindi, anche in questi casi è il momento dell’abbandono all’oggetto del godimento, la mancanza di un’autonoma presa di posizione, a formare la passività. Se invece con «attività» non si intende semplicemente l’essere attivi fisicamente o mentalmente, bensì l’intimo e autonomo prender posizione (intellettuale o puramente volontaristico) nei confronti delle cose, allora bisognerà dire che gli uomini attivi sono raramente grandi goditori. Laddove però un temperamento energico spinga tanto a godere quanto a prendere posizione, le due cose possono andare a braccetto. Colui che gode cerca e vuole l’abbandono, non la presa di posizione, ed è per questo che di norma chi gode in modo molto vivace non è eccessivamente critico, mentre chi ha un fine e forte senso critico non prova quasi mai un godimento immediato. Come minimo i due doni non sono necessariamente connessi: per il ve-

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ro goditore la critica o l’incitamento a prendere posizione sono qualcosa di ingiustificato, che lo distoglie dall’atteggiamento che gli è congeniale – e anche nel caso in cui eserciti una critica, questa non riguarderà tanto le cose quanto, ancora una volta, il loro godimento. Per questa mancanza di presa di posizione e di attività, il godimento si rivela quindi il più puro sentire – quello che più di ogni altro è «soltanto» sentire. 6. Le analisi intraprese sin qui miravano unicamente a definire la posizione dell’io in relazione al godere; ora dobbiamo chiederci invece se l’io, come vissuto nel godere, presenti esso stesso particolari segni distintivi in rapporto agli altri vissuti. A essere in gioco, qui, non è l’io fenomenico, per cui i miei contenuti di coscienza vengono contrassegnati come «miei», e tutto ciò che io esperisco – compreso l’io che esperisce – è appunto il «mio» io, appartiene alla mia coscienza individuale e mai a quella di un altro. In questo senso, tutto o appartiene all’io, oppure non gli appartiene; non ci possono essere ulteriori distinzioni. Noi ci occupiamo invece dell’«esperire dell’io», che non assume la stessa posizione di fronte a ogni cosa. Ci sono vissuti particolarmente estranei all’io e vissuti particolarmente vicini all’io, vissuti che scaturiscono più dalle profondità dell’io e vissuti che gli sono più esteriori, e così via. Ci sono anche vissuti alla cui essenza non appartiene affatto la costante partecipazione dell’io. Per esempio: quando l’ira cresce dentro di me, quando un desiderio sorge in me irresistibile, quando in me «si» genera una tensione verso una certa meta, l’esperire dell’io non prende parte a quest’ira, a questo desiderio o a questa tensione – per quanto l’ira e il desiderio, ovviamente, appartengano al mio io, cioè alla mia coscienza. In questi casi l’io non è colui che esperisce, non è attivo nel suo esperire: nella coscienza, semplicemente, accade qualcosa – senza, o meglio contro la partecipazione dell’io. Posso essere assalito dall’impulso di portar via un po’ del denaro che ho davanti e posso assecondare questo impulso, senza che l’io vi prenda in qualche modo parte; forse mi oppongo persino a questo impulso. Ma posso però anche far mio questo tendere, renderlo una cosa dell’io – posso anche parteggiare per questo tendere, e solo allora diventa un mio tendere. Anche il desiderio che sorge in me è estraneo all’io – nell’esperienza vissuta non c’è il suo derivare dall’io. Il vissuto risiede in qualche manie-

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ra e da qualche parte nella mia coscienza, ma manca l’intimo collegamento con l’esperire dell’io. Nulla di simile nel caso del godimento: un godimento non sorge in me, non è mai estraneo all’io. Il godimento è sempre egocentrato, parte sempre dall’io. Ciò non significa che il godimento debba partire sempre dal più intimo nucleo dell’io, da cui sempre parte invece il volere, se è volere puro; nient’affatto. Il mio godimento può essere completamente estraneo al mio autentico io, può essere superficiale (ne riparleremo più avanti), ma non si riduce mai a un semplice essere o accadere in me, perché è sempre legato a doppio filo al mio io. Non posso oppormi al godimento come ci si oppone a un desiderio o a una tendenza. Posso esperirlo come qualcosa di esteriore, ma non come qualcosa che si contrappone all’io. Il godimento non si impossessa di me col passare del tempo – io vi sono coinvolto fin dall’inizio. Certo, si può distogliere l’attenzione dalle sue condizioni, lo si può accettare con calma oppure gettarvisi a capofitto e sprofondarvi, o ancora fare i superiori nei suoi confronti – ma il godimento non può mai essere davvero respinto. Come già detto, infatti, il godimento è sempre affare dell’io, e mai un mero accadere nella coscienza. Similmente, anche il volere in senso stretto è egocentrato come il godimento. Alla maggior parte degli altri vissuti, invece, l’egocentricità non appartiene affatto: può sembrare che una gioia sfrenata giunga a me dall’esterno, può capitare di avere l’impressione che la tristezza o l’amore s’impossessino lentamente di me, ma il godimento non viene a me – sono io che vado a lui. Il godimento è egocentrato, è un vissuto di accoglienza ed è un vissuto di abbandono. Per poter essere riconosciute come peculiari del godimento, queste tre determinazioni presuppongono tutte una proprietà caratteristica del godimento – presuppongono cioè che il godimento sia un vissuto in cui l’io è partecipe. Con tale «partecipazione dell’io» si dice qualcosa di ben più generale rispetto all’egocentricità, cioè che il godimento è un vissuto che non si limita, semplicemente, a esserci, ma viene invece appreso come un esperire dell’io, e non soltanto come un che di esperito dall’io. Abbiamo visto in precedenza che esistono desideri che sorgono in me e che sembrano arrivarmi dall’esterno, come qualcosa di estraneo. Anche questi desideri, tuttavia, non vengono esperiti semplicemente come qualcosa che non appartiene all’io, come i colori che vedo; sono comunque sempre miei desideri, mentre i colori non sono i miei colori, bensì i colori visti e colti da me. Il godimento, allo stesso modo, è sempre mio godimento, e non semplicemente un godimento da me colto. Per sua stessa essenza, l’io è partecipe di ogni godimento.

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Nel godimento accogliamo certo quanto proviene dall’oggetto, e tuttavia siamo noi che godiamo. Perché dunque nel godimento siano possibili l’abbandono, l’accoglienza e l’egocentricità, il godere in generale dev’essere un vissuto caratterizzato da una partecipazione dell’io, un vissuto in cui l’io in qualche modo rientra. Rispetto alla partecipazione dell’io, quindi, l’egocentricità rappresenta il concetto più ristretto. Non dobbiamo credere che questa partecipazione dell’io pertenga al godimento perché pertiene a ciò che si è soliti chiamare «sentimento». L’ipotesi secondo cui tutto ciò che chiamiamo «sentimento» debba anche rivelare una partecipazione dell’io è falsa. Quel che distingue il godimento dal puro sentimento sensibile è proprio il fatto che ogni godimento è mio godimento, nel senso peculiare che prevede una partecipazione dell’io. Sarebbe un errore credere che ogni piacere sensibile sia già godimento. Un leggero senso di prurito, i leggeri sentimenti di piacere che si provano muovendo un braccio, il multiforme piacere che accompagna le sensazioni corporee, sono tutti, in prima istanza, piaceri puramente sensibili, che non recano in sé alcuna partecipazione dell’io. «Ho» questo piacere così come «ho» sensazioni: il piacere è provare un sentimento, nel senso di Stumpf – qualcosa, cioè, in cui l’io non è partecipe, qualcosa che va e viene nella mia coscienza come le sensazioni, i colori e i suoni. Qui non c’è traccia di accoglienza e abbandono: nel piacere sensibile non mi abbandono all’oggetto come invece faccio nel godimento. Basta suonare una nota al pianoforte per provare godimento o piacere sensibile: dipende dall’atteggiamento interiore in relazione al suono, dal fatto, cioè, che si accolga il piacere in quanto puro oggetto oppure che ci si disponga al piacere in atteggiamento di godimento. Soltanto la relazione dell’io con l’oggetto genera il godimento. A differenza di quanto accade nel piacere sensibile, dunque, nel godimento c’è partecipazione dell’io e abbandono; a ciò si deve il fatto che il linguaggio parla di piacere e dispiacere sensibili, mentre un corrispettivo spiacevole del godere non lo conosce. Un tale corrispettivo in senso pieno – vale a dire nel senso in cui «sgradire» è il contrario di «gradire» – non può affatto darsi: dovrebbe essere un vissuto che racchiude tutti i momenti del godere, ma a cui si associa, per sua stessa essenza, un dispiacere, e non un piacere. Ma un abbandonarsi all’oggetto con assoluto dispiacere, un puro ed egocentrato accogliere con dispiacere mi pare impossibile. Entrerebbe subito in gioco un’intima resistenza al momento del dispiacere, e l’abbandono risulterebbe quindi impossibile. Si faccia la prova con un sapore disgustoso e si cerchino di realizzare le condizioni negative del godimento: il puro abbandono verrà meno. Immedia-

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tamente subentra un intimo distogliersi dal sapore, che complica il sentimento e fa emergere – in contrasto con quel che accade nel godimento – un sentimento spiccatamente volontario. Al contrario, piacere e dispiacere sensibili, che non racchiudono in sé alcuna partecipazione dell’io e, soprattutto, alcun abbandono, sono opposti perfetti sotto tutti i punti di vista. La partecipazione dell’io e soprattutto l’egocentricità di ogni godimento non devono essere intesi come se il godimento dovesse estendersi sempre fino agli strati più profondi dell’io. Può capitare che l’io sia completamente assorbito nel godere e si identifichi in toto col godere. In tal caso l’io ultimo, quello che prende posizione, lo strato più profondo dell’io, rinuncia a se stesso in favore dell’io che gode, identificandosi con esso e in esso dissolvendosi. Questo essere assorbito nel godimento, però, non è affatto necessario: quello del godere è in primo luogo un singolo atto dell’io, rispetto al quale l’io che prende posizione può disporsi in modi diversi. Il ben noto detto di Aristippo «!"# $%& !"$µ'(»12 chiarisce quanto stiamo dicendo. Aristippo vuol mantenere una distanza interiore dal proprio godimento, permettendogli di giungere soltanto alla periferia di sé e restandone padrone. A differenza di quanto accade nel puro venir assorbiti nel godimento, in questo caso il godimento è relativamente spersonalizzato e sospinto in superficie. È sempre egocentrato, è sempre mio godimento, ma non ha raggiunto il mio nucleo più intimo. Nonostante ciò il godimento, proprio in virtù della sua egocentricità, tende sempre a procedere dalla periferia al centro dell’io, introducendovisi con forza. Non permettere al godimento di diventar padrone di sé è un atteggiamento artificioso; se ne era accorto lo stesso Aristippo, quando aveva rimarcato come fosse più facile rinunciare a ogni godimento, come facevano i Cinici, piuttosto che restar padroni, nel godimento, del godimento stesso. Nella concezione etica di Aristippo si nota lo sforzo di non rinunciare al godimento, rendendo però giustizia agli argomenti morali che hanno condotto altri al rifiuto del godimento. L’abbandono all’oggetto e la rinuncia dell’io erano ciò che faceva inorridire i rigoristi. Aristippo cerca di tener fermo il godimento e al contempo di salvaguardare una propria capacità di presa di posizione, spostandola in altro luogo: nella posizione nei confronti del godimento. L’essere padroni di sé non deve scomparire, ma deve invece restare unito a tutti i vantaggi offerti dal godimento. 12

[«Posseggo, ma non sono posseduto»; Diogene Laerzio, II, 75.]

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7. Un’altra questione relativa al rapporto tra io e godimento non concerne tanto come l’io esperisca il godimento e si rapporti all’oggetto, quanto piuttosto se e come, nel godere, venga vissuto l’io. Il percorso dell’analisi del godimento ha lasciato aperto un punto essenziale. Finora abbiamo appurato che l’io, nell’atto del godere, si dirige verso l’oggetto, accoglie nel vero e proprio contenuto del godimento ciò che proviene dall’oggetto, abbandonandosi all’oggetto e lasciandosi irradiare da esso; detto questo, però, non siamo ancora giunti al nucleo del godimento. Accoglienza, abbandono, egocentricità non sono ancora il godimento in sé, che è invece ciò che accompagna tutti questi momenti – un determinato modo dell’affezione, dell’eccitazione dell’io, un modo in cui l’io reagisce a ciò che si irradia in esso. È questo il punto essenziale: che ogni godere comprende una tale affezione dell’io. Lo si vede particolarmente bene se si mette a confronto un vissuto di gioia con un vissuto di godimento che si riferisca allo stesso stato di cose. Ci si presentifichi la gioia che si prova quando si può finalmente intraprendere un viaggio progettato da tempo, perché sono venuti meno tutti gli ostacoli che fino a quel momento l’avevano impedito. Si confronti ora questa gioia con il godimento dello stesso fatto. Oppure si metta a confronto la gioia per un amico che mi viene annunciato con il godimento di un quadro, e si vedrà chiaramente la differenza. La gioia vive tutta nell’oggetto, il baricentro del suo essere sta dalla parte dell’oggetto. Alla gioia è certamente connesso anche uno stato dell’io, ma si tratta soprattutto di un atteggiamento gioioso verso l’oggetto. Nel godimento, invece, il movimento proviene dall’oggetto, e l’io è partecipe non in virtù di un atteggiamento goditivo, bensì in quanto è affetto dall’oggetto. Anche se nel godere ci si volge ancora molto all’oggetto, il baricentro è comunque nello stato dell’io. Mentre dunque la gioia è puro atto (come possono esserlo l’amore, l’odio, il dubbio), il godimento non si riduce mai a un atto rivolto all’oggetto, ma è sempre al contempo un’affezione dell’io – e nell’esperienza vissuta del godimento ciò rappresenta un momento essenziale. Il contrasto diviene ancor più evidente confrontando la posizione del piacere nel vissuto della gioia alla posizione del piacere nel vissuto del godimento. Piacere e godimento sono talmente poco la stessa cosa che il vero e proprio nucleo del godimento non reca in sé la minima traccia di piacere, ma è soltanto colorato di piacere. Il piacere, di solito, si deposita sui vissuti o li pervade, più o meno come il colore ricopre gli oggetti. Ma non si identifica con essi. Ha dunque senso chiedersi quale sia la posizione del piacere nei vissuti, perché il piacere è qualcosa di diverso dai vissuti. Se quello che intercorre tra piacere e godimento fosse un

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rapporto di genere e specie come quello che intercorre tra il colore e il rosso, allora il godimento sarebbe una semplice differenziazione del piacere, e la questione della posizione del piacere nel godimento non avrebbe alcun senso. Ora, nella gioia il piacere si diffonde in direzione dell’oggetto: il gioire è colorato di piacere, e ciò significa che all’oggetto aderisce un accentuato carattere sentimentale, che pone chiaramente in risalto gli oggetti dei quali gioisco rispetto a quelli che non mi procurano alcuna gioia – o se si preferisce gli oggetti che sono di mio gradimento rispetto a quelli che non lo sono. Col godimento è tutto diverso. Il piacere non aderisce alla direzione verso l’oggetto; l’afferramento dell’oggetto, così come l’accoglienza di ciò che dall’oggetto proviene, è per sua natura del tutto privo di piacere; a essere colorata di piacere è soltanto l’eccitazione dell’io. Nel godimento di un quadro, ad esempio, si noterà chiaramente che a essere impregnata di piacere è l’affezione dell’io, la sua eccitazione. I momenti che provengono dall’oggetto accarezzano, per così dire, l’io, si insinuano al suo interno e in questo modo suscitano l’affezione dell’io colorata di piacere. Da qui soltanto irradia il piacere, diffondendosi sull’intera esperienza vissuta del godimento. Nel godimento c’è una piacevole affezione dell’io, ed è questo ad assegnare al godimento il suo posto all’interno delle teorie etiche: neppure la più rigida teoria etica rifiuterà sempre e comunque la gioia, ma dovrà ammettere, per esempio, la gioia per la vittoria del bene, la gioia eticamente orientata. Rifiutare il godimento, invece, è uno dei principi cardine di ogni rigorismo. La gioia come puro atto può venir giustificata dall’oggetto cui è diretta. Il piacere che vi è racchiuso non è uno stato dell’io, bensì un piacevole afferramento appunto dell’esistenza di un fatto. In questo senso lo si può quasi accostare all’appercezione sensibile, che viene anch’essa valutata, secondo alcune concezioni, a partire dall’oggetto afferrato: «Una cosa simile però non la si vede – una cosa simile però non la si sente». Anche il godimento, ovviamente, può differenziarsi in base agli oggetti goduti, ma tutti i godimenti hanno in comune il fatto che il piacere pertiene all’affezione dell’io, che ogni godimento è propriamente godimento «di sé» (ove questo «sé» non deve essere inteso come oggetto); parlare di una «gioia di sé» non ha invece alcun senso. Può anche esserci una gioia «disinteressata», cioè una gioia il cui significato consista esclusivamente nell’afferrare l’oggetto, ma il godimento è sempre, in questo senso, «interessato»: in ogni godimento si esperisce una piacevole affezione dell’io. È per questo che elevate forme di religione possono ascri-

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vere a Dio atti rivolti all’oggetto come la gioia, l’amore, il gradire le cose del mondo. Anche nelle sue forme più alte, cioè quelle estetiche, il godimento trova sempre il proprio baricentro nell’agio che procura all’io, e far rientrare vissuti simili nel novero dei sentimenti accessibili a Dio sembra incompatibile con la dignità di Dio stesso. Accanto alla passività del godere, questa piacevole affezione dell’io tipica di ogni godimento rappresenta il momento che spinge molti a considerare il godimento alla stregua di un rammollimento. A differenza della gioia, l’intimo scopo del godimento consiste nel far bene all’io. Concezioni rigide ritengono che nel godimento ci sia al contempo un difetto e un eccesso dell’io: un difetto per quanto concerne l’io che prende posizione, un eccesso per quanto riguarda l’io che accoglie. D’altro canto, però, i sostenitori dell’etica del godimento cercano la loro ultima giustificazione morale proprio nel momento dell’eccitazione dell’io, nel fatto che l’io, nella sua esperienza vissuta, risponda agli stimoli provenienti dall’oggetto. La giustificazione menzionata in precedenza, basata sull’equiparazione di piacere e godimento, concerne soltanto la veste logica esteriore, non i valori che si celano nel godimento. Questi valori consistono nel fatto che un’alta capacità di godimento implica una grande ampiezza dell’io, un’alta capacità di risposta. Nella multiformità e nella finezza del loro godere, i fautori dell’etica del godimento esperiscono la realizzazione di possibilità dell’io, la sua ricchezza. È raro che i paladini del godimento esaltino il godimento puramente quantitativo, il cui ideale sarebbe l’ingordo, che per non assuefarsi ha appunto bisogno di una certa variazione. I sostenitori dell’etica del godimento predicano invece un affinamento della capacità di godere: in linea di massima non pretendono che il godimento sia il più possibile intenso, ma vogliono invece godere tutto. Il godimento deve avere accesso a qualunque genere di oggetti, e se gli avversari dell’etica del godimento deprecano la mancanza di attività nel godimento, i suoi difensori esaltano invece, come controvalore, l’intima ricchezza dell’io che accoglie. L’essenza dell’affezione dell’io emerge ancor più chiaramente se passiamo dal tipo più semplice del godere a forme più complicate: accanto al puro godere un colore o un sapore, nel godimento estetico – ma non soltanto in esso – si trovano ad esempio le forme che vengono designate come un interiore essere avvinti, toccati, edificati e trascinati. Nel godere e mediante il godere si finisce in uno stato ben distante da quella semplicissima forma di godimento ravvisabile nel semplice contemplare gli oggetti con godimento. La diversità di vissuti diventa chiara quando una scena drammatica mi avvince o quando assaporo del vino.

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Se designiamo questi sentimenti come «sentimenti di stato», non dobbiamo far rientrare in quest’espressione tutto quello che la letteratura critica normalmente vi include. Dobbiamo innanzitutto escludere i sentimenti di partecipazione nel senso in cui li intende Volkelt: la compassione che proviamo per Agnese Bernauer,13 il timore per la sorte dell’eroe di un dramma, la gioia che condividiamo con lui per la riuscita dei suoi piani – tutti questi sono sentimenti che scaturiscono dal vivere con la vita rappresentata. La commozione, al contrario, è un sentimento che non implica un esser commossi con i personaggi dell’opera d’arte, bensì un esser commossi dall’evento messo in scena. In relazione ai sentimenti di stato di cui stiamo parlando non ha nemmeno senso chiedersi se si tratti di «sentimenti illusori» o meno. È certamente giustificato domandarsi se l’angoscia che provo per Maria Stuarda14 sia esattamente la stessa angoscia che provo nella vita reale; l’essere avvinti dalla bellezza di un quadro, invece, è indubbiamente un essere avvinti reale, per quanto possa essere qualitativamente diverso dall’essere avvinti da un evento reale. I puri sentimenti di stato che emergono nel godere non devono essere considerati come semplici modi dell’affezione dell’io, e quindi come modi del godere in senso stretto. L’affezione dell’io presente in ogni godimento deriva dall’accoglienza dell’oggetto nell’atto del godere; rientra nel godere l’oggetto, ne è parte essenziale. Un’unità abbraccia l’intero atto del godere, e il suo nucleo è appunto l’affezione dell’io. La commozione, così come l’essere avvinti, si situa invece al di fuori dell’atto di godimento vero e proprio. La commozione è uno stato dell’io, in cui non è insito assolutamente nulla di diretto all’oggetto. Mentre l’affezione dell’io è stimolata dall’oggetto nell’accoglienza, si esperisce fenomenicamente che la commozione e l’essere avvinti sono causati dall’oggetto. Sono commosso da questa scena, da quel personaggio del dramma, mentre mi godo la scena. Ma il godimento non consiste in tali sentimenti di stato, come si evince 13

[Il riferimento è alla tragica storia d’amore tra Agnese Bernauer, donna di umili origini, e Alberto III, figlio del duca Ernesto di Baviera-Münster. Contrario alle nozze, Ernesto accuserà Agnese di stregoneria, e in un momento di assenza di Alberto la farà annegare nel Danubio. La vicenda ispirò numerose poesie, romanzi popolari e tragedie, tra cui le più note sono quelle redatte da Friedrich Hebbel e da Martin Greif.] 14 [Il riferimento è alla protagonista del dramma di Friedrich Schiller che ispirerà, come noto, l’omonima opera lirica di Gaetano Donizetti.]

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chiaramente già dal fatto che questa commozione può a sua volta essere goduta. Questo godimento dei propri sentimenti non deve certo essere considerato come il tipico godere in cui sono presenti sentimenti di stato. Il godimento della commozione non è il godimento estetico consueto – si tratta di un godimento dei propri vissuti che sfiora già il sentimentale, come vedremo più avanti. L’ingenuo uomo del popolo che si commuove alla scena in cui la madre ritrova la figlia che credeva morta e scopre che è diventata principessa, non godrà della sua commozione, bensì della scena: nel godimento verrà commosso dalla scena. I sentimenti di stato, quindi, non sono certo componenti del godere, ma sono comunque parti dell’intera esperienza vissuta di godimento – e ciò significa che sono in qualche modo collegati al vero e proprio godere. Giacché non tutti i sentimenti presenti nella coscienza durante il godimento possono essere considerati parti dell’esperienza vissuta del godimento in senso lato. In effetti i sentimenti di stato sono strettamente connessi con l’affezione dell’io. Dall’affezione dell’io, che rimane inclusa nel godimento vero e proprio, essi si espandono all’intera esperienza vissuta dell’io, ne accrescono il volume, avvolgono l’io in una nube di vissuti di stato, rinforzando ulteriormente il baricentro dalla parte dell’io che esperisce quel godimento. Al tempo stesso, questi sentimenti di stato sono anche e innanzitutto vissuti intrisi di piacere, in cui il piacere spicca sul vero e proprio atto del godere in modo ancor più evidente che nel godere puro e semplice. Coloro che rifiutano l’affezione dell’io e la passività del godimento, dunque, dovranno in primo luogo rifiutare questa crescita dell’eccitazione dell’io, che si verifica nei godimenti pervasi da sentimenti di stato – e ciò tanto più, quanto più cresce in esse l’elemento del piacere. Se i sentimenti di stato si elevano dal mero essere avvinti o commossi all’essere inebriati e alla beatitudine dell’ebbrezza interiore che scuote tutte le parti dell’io, allora il baricentro è tutto spostato sul versante dell’eccitazione dell’io, benché tale ebbrezza possa andar congiunta a un’intuizione del mondo oggettuale dimentica di sé, a un totale rivolgersi al mondo oggettuale. Ora, è qui che si cela quella differenza tra godimento apollineo e godimento dionisiaco che Nietzsche aveva applicato esclusivamente alla

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creazione artistica e che Spitzer,15 giustamente, ha trasferito al godimento artistico, e che è certamente valido anche per alcuni godimenti extraestetici. Di godimento apollineo in senso proprio, però, si potrà parlare solo laddove ci si ponga di fronte all’oggetto del godimento contemplandolo in pura intuizione. La presenza o la mancanza di spiccati sentimenti di stato è essenziale per l’opposizione di godimento apollineo e dionisiaco. Chi si abbandona totalmente, in modo puramente contemplativo, al coglimento delle forme e dei valori del movimento di una sinfonia, gode apollineamente; il dionisiaco, invece, è caratterizzato da qualcosa di più dell’intervento di potenti sentimenti di stato. La commozione che accompagna un godimento non lo rende necessariamente dionisiaco. Il tipico godimento dionisiaco è piuttosto il godimento nell’ebbrezza, contraddistinto dal fatto che i sentimenti di stato non sono soltanto stati dell’io, ma coinvolgono in sé l’io, lo trascinano con sé – non sono insomma soltanto forme dell’eccitazione, ma anche forme del coinvolgimento. L’io non viene semplicemente portato a un certo stato, ma viene anche avvinto. 8. A questo problema dell’essere inclusi dei sentimenti di stato nel godimento si ricollega immediatamente – almeno in parte – la questione relativa all’intensità del godimento. C’è un senso per cui, di solito, i godimenti accompagnati da sentimenti di stato vengono considerati più intensi rispetto a quelli che ne sono privi, e l’intimo essere avvinti viene visto come un godimento più intenso della tranquilla contemplazione delle cose. Ma il concetto di intensità del godimento ha vari significati, e quello appena citato è soltanto uno di essi. Negli ultimi tempi si è molto discusso del problema dell’intensità psichica, emerso in primo piano in seguito all’affermazione fatta da Bergson nel primo capitolo de I dati immediati della coscienza,16 secondo cui in ambito psichico non si potrebbe affatto parlare di intensità in senso proprio. Per Bergson «intensità» significa sempre «quantità», e poiché non si può dire che un godimento più debole sia incluso in un godimento più forte, dal momento che il godimento più forte non consta di tanti 15 Hugo Spitzer ha esaminato esaustivamente questo contrasto nel suo Apollinische und dionysische Kunst, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 1, 1906, pp. 70-87, 216-248, 411-434 e 542-598. 16 [H. Bergson, I dati immediati della coscienza (1889), trad. it. di F. Sossi, Cortina, Milano 2002.]

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godimenti più deboli nel senso in cui il segmento più lungo consta di tanti segmenti più corti, ecco che Bergson si rifiuta di parlare di una forza del godimento immediatamente vissuta. Secondo lui, il fatto che si possa comunque parlare di un godimento più o meno forte deve poggiare su una trasposizione: un vissuto viene detto più forte o più debole a seconda del maggior o minor numero degli altri elementi che si trovano nella coscienza e vengono specificamente colorati dal godimento, a seconda dell’estensione che il vissuto acquista, tramite il godimento, sull’ambito complessivo della coscienza. In questa sede non possiamo discutere la tesi di Bergson in ogni suo aspetto; ci limitiamo all’analisi del caso del godimento. A Bergson si deve certo concedere che con l’espressione «intensità del godimento» si riassumono cose che nulla hanno a che fare con l’intensità nel preciso senso che conosciamo nell’ambito della fisica. In primo luogo, con intensità del godimento si intende il grado di partecipazione interiore. Una più forte partecipazione interiore al godimento è un più forte essere assorbito nel godimento, un più forte esperire il godimento. Ci sono persone che godono la musica in modo più intenso della pittura, e ciò vale anche nel caso in cui il godimento musicale non sia significativo, mentre il godimento della pittura sia invece molto elevato. Qui non si intende dunque la reale intensità del godimento nel caso concreto, bensì semplicemente l’interiore essere sollecitati dalla musica e dalla pittura. Da questo interiore essere sollecitati bisogna distinguere la vera e propria intensità, quella che io credo si possa rintracciare – malgrado le obiezioni di Bergson – nel godimento. Essa non coincide con la presenza di sentimenti di stato, benché l’intensità del godimento, in linea generale, cresca di pari passo alla quantità dei suddetti stati. Ma quando metto a confronto un nero intenso o un blu luminoso con un bianco relativamente indifferente, ecco che per me il godimento connesso ai primi due colori è più intenso, nonostante in questo godimento vi sia poco o nulla da scoprire quanto a sentimenti dello stato soggettivo. Al contrario, quell’intensità del godimento definibile, in base al suo carattere, come «dispiegamento», dipende in parte, solitamente, dai sentimenti di stato. Come già detto, il godimento di una scena commovente è in un certo senso più intenso del godimento della combinazione cromatica più godibile. Qui la concezione bergsoniana è del tutto adeguata. Nel primo caso i sentimenti di stato si espandono sulla mia coscienza in ogni direzione e scrosciano in un’ampia corrente, mentre nella combinazione cromatica il godimento mette in moto solo pochi elementi.

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Con «intensità del godimento», infine, si è soliti indicare tipologie di vissuti che andrebbero invece definite «profondità del godimento». Il concetto di «profondità del godimento» non è certo meno equivoco di quello di «intensità del godimento»; le considerazioni sin qui svolte sulle proprietà del godimento ci consentono di esplicitare i diversi fatti che vengono riassunti sotto il concetto di «profondità del godimento».17 In primo luogo, dal punto di vista dell’egocentricità dovremo riconoscere a ogni godimento – anche al più superficiale – una certa profondità se lo confrontiamo, per esempio, con un desiderio che mi si impone dall’esterno. Profondità ha qui lo stesso significato di vicinanza all’io, e poiché ogni godimento offre una tale vicinanza all’io, allora ogni godimento è in questo senso profondo. Abbiamo già visto, però, che all’interno di questa generale vicinanza all’io propria di ogni godimento si dà un’ulteriore differenza tra vicinanza all’io e lontananza dall’io, e che quindi in questo senso il godimento può essere ora più ora meno profondo, penetrando nell’io più o meno profondamente. Nella sua massima Aristippo assegna al godimento una posizione superficiale; per chi si dà tutto al godimento, invece, il godimento stesso toccherà uno strato più profondo dell’io, e non sarà soltanto qualcosa di appiccicato in superficie. Il fatto che il godimento vada o meno in profondità non è connesso, però, soltanto con l’«esser sopra» e l’«esser dentro» della presa di posizione dell’io, ma dipende anche da quanto si permetta al godimento di avvicinarsi all’io, da quanto in profondità lo si lasci pescare. Il godimento sessuale, in particolare, mostra innumerevoli gradazioni nella lontananza dall’io. Saltano sempre fuori persone che sostengono che i più turpi godimenti sessuali cui si abbandonano non li riguardano interiormente, non li toccano. E in effetti l’esperienza insegna che talvolta su alcuni di questi individui l’eccesso di godimento non ha alcuna presa interiore, e che essi, malgrado tutto, hanno conservato una purezza del sentire (anche del sentire sessuale) che non sarebbe possibile senza tenere il godimento lontano dall’io. In generale, d’altro canto, pare che alle donne questo tener interiormente lontano il piacere dal nucleo dell’io riesca molto più difficile.

17

E. Meumann afferma – in opposizione a Lipps – che «con profondità di un sentimento non possiamo intendere che la sua intensità» (Einführung in die Ästhetik der Gegenwart, cit., p. 51). Spero che le mie osservazioni dimostreranno invece che si può intendere anche qualcos’altro.

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Nell’esempio proposto entra certamente in gioco un ulteriore momento che non riguarda la profondità del godimento in sé, bensì l’effetto del godere: tenendo lontano il godimento dal vero, intimo io, è anche possibile arginarne gli effetti. Un godimento può ben essere molto intenso e avvincermi temporaneamente fino all’estremo limite – ma il suo influsso successivo può risultare, ciononostante, assolutamente nullo. Abbiamo infatti già visto che in virtù della mancanza di motivi l’esperienza vissuta del godimento è qualcosa di isolato rispetto al resto della vita: qualunque sia la sua intensità, dunque, il godimento può rimanere un singolo vissuto privo di effetti, e ciò accade ben più frequentemente che nel caso dell’amore o dell’odio. L’effetto principale non è dovuto, quindi, all’intrecciarsi dell’oggetto del godimento con altri vissuti, bensì alla via che conduce alle profondità dell’io, che il godimento mette in moto; se il godimento non ha accesso a queste profondità, allora non può nemmeno avere effetto. Fin qui abbiamo appurato che ogni godimento è profondo nella misura in cui è egocentrato – può essere più profondo o più superficiale, a seconda che io lo tenga interiormente lontano oppure gli consenta di toccare la profondità del mio io. Non dobbiamo confondere questo senso della profondità del godimento con un altro. Quella che abbiamo appena affrontato è la questione che interroga quanto il godimento si approssimi all’io, cioè quanto io consenta al godimento di penetrare in me. Chiedersi da quale profondità dell’io il godimento derivi è invece tutt’altro problema. Ci sono vissuti che scaturiscono dalle fondamenta ultime del mio essere, dal nucleo più intimo di ciò che mi riguarda, o che sembrano derivare dallo strato più intimo del mio io. Un desiderio che in questo senso è profondo – il desiderio della libertà per alcuni, dell’amore per altri – non solo riempie completamente l’uomo (anzi, forse lì per lì non lo riempie nemmeno), ma è anche qualcosa di ultimo e ineliminabile, derivante dall’interiorità più profonda. Il desiderio di esser lasciato finalmente in pace da una certa persona mi riempie invece di continuo, per giorni interi, ma non va a fondo, non proviene dal profondo. Se quella certa persona parte per un viaggio, ecco che ben presto è tutto dimenticato. Al contrario, il desiderio dell’ambizioso e di chi si strugge per qualcosa scende in profondità, anche se può passare temporaneamente in secondo piano, rispetto ad altro, nel riempimento della coscienza. In questo senso anche il godimento può essere ora profondo, ora superficiale. Idealmente il godimento estetico dovrebbe certo afferrare nel profondo, ma l’esperienza insegna che per moltissime persone il godimento estetico non va tanto in profondità, mentre il godimento del

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gioco o dello sport raggiunge sfere ben più profonde – anche se forse non toccherà mai la profondità che raggiunge un godimento esteticamente profondo in chi vi è sensibile. Chi da giovane è stato avvinto dalle tragedie classiche al punto che per giorni interi il mondo gli è parso avere un aspetto diverso, non potrà certo mai trovare questo godimento all’infuori dell’ambito estetico, per esempio nello sport o nel bere e mangiare. Ciò non significa, però, che colui per il quale il godimento non erompe da simile profondità non provi alcun godimento estetico. Il fatto che il godimento rimanga in superficie o sgorghi dal profondo non cambia il carattere del relativo godimento, in quanto godimento estetico. Della «profondità dei vissuti» parliamo anche in un altro senso. Per esempio diciamo profonda una passione che pervade completamente l’uomo, si estende a tutto il suo io e non lascia spazio a nient’altro. Né il desiderare né il volere sono per loro natura profondi in questo senso: quando voglio muovere il braccio può esserci molto altro nella mia coscienza – pensieri che nulla hanno a che fare con questo movimento, o anche tendenze contrarie, voleri contrari che mi impediscono di muovere il braccio. Certo, può anche accadere che un singolo desiderio o una singola volontà occupino completamente, per un momento o anche per un certo tempo, la mia coscienza (per chi è troppo stressato il bisogno di quiete può rimuovere ogni altro vissuto); riempire totalmente l’io, però, non appartiene all’essenza del volere. Non si può comunque in alcun modo affermare che il godimento sia sempre in questo senso profondo. Capita abbastanza spesso che le persone godano «con la coscienza sporca», e che nel loro godere si intrufoli il pensiero dell’illiceità del godere o di un dovere trascurato a causa del godimento. Quando Faust nel godimento si strugge di bramosia, la sua coscienza non è certo interamente riempita dal godimento. Eppure c’è comunque una netta differenza tra i casi in cui accanto al volere subentrano tendenze opposte e i casi di godimento con la coscienza sporca. In quest’ultimo caso ha luogo una sorta di scissione dell’io in un io che gode e un io che riflette e ha la coscienza sporca. Dei due io, il primo è completamente riempito dal godimento, il secondo invece disprezza il godimento. Così si spiega l’estrema tensione, il tormento di questi vissuti. Al contrario, ovunque si presentino vissuti estranei al fruire senza che si giunga a una divisione dell’io, questi vissuti non stanno semplicemente accanto al godere, ma piuttosto si fondono con esso, colorando i vissuti del godimento. Se intervengono momenti di dispiacere, il godimento ottiene un carattere diverso: si fa forse più aspro, più dissonante e disomogeneo, ma il dispiacere non si situa accanto al godimento. In un dolore e in una pena che procurano godimento, i sentimenti del do-

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lore e della pena si fondono con il godimento stesso. Il terrore voluttuoso, che già rasenta il patologico, può essere godimento del terrore o terrore nel godimento, ma non è mai la semplice somma di godimento e terrore. Da questo punto di vista, quindi, il godere si differenzia nettamente dal volere. Il volere lascia spazio, nell’io, a ogni altra possibilità, ed è solo quando raggiunge una particolare forza che pretende di colmare interamente l’io. Per sua natura, invece, il godimento riempie completamente l’io, lo esige tutto per sé – anche se abbastanza spesso deve ovviamente accontentarsi di un io parziale, che si scinde dall’io unitario complessivo. Ma quest’io parziale è dominato dal godimento – ferme restando, come già detto, le possibilità che l’io assuma poi tutte le posizioni possibili in rapporto al godimento: favorevoli od ostili, accondiscendenti o scostanti. Da questo momento, come da altri menzionati in precedenza, si capisce anche come mai capita che nel godimento possiamo cercare l’oblio. Innanzitutto l’assenza di motivi separa il godimento dal resto della vita, facendo risaltare il godimento stesso e il suo oggetto rispetto alla vita quotidiana. Ma se il godimento in sé non avesse la tendenza a riempire completamente l’io, se accanto a esso potesse introdursi ogni possibile pensiero e vissuto, allora la sua capacità di procurare oblio risulterebbe compromessa. Se però si riesce a dedicarsi interiormente al godimento in tutto e per tutto e a evitare la divisione dell’io, allora il godere non lascia spazio a nient’altro – si raggiunge lo stordimento –, e qui ogni genere di godimento può servire come mezzo. Tra chi cerca l’oblio nel vino e chi vuol trovare sollievo da fatiche e pene quotidiane nel godimento estetico, non c’è (come abbiamo già visto) una differenza di principio, ma soltanto di grado (e certamente a favore del vino). Condannare l’uno e apprezzare l’altro, come fanno i nostri estetologimoralisti, significa disconoscere questo fatto. Possono aver ragione quando pongono il godimento estetico al di sopra del godimento del vino. Ma quando si cerca la liberazione dalla vita quotidiana, né il godimento estetico né il godimento del vino vengono ricercati per le loro qualità intrinseche, bensì per il loro effetto. E qui bisogna dirlo a chiare lettere: quanto poco il fine giustifica i mezzi, tanto poco i mezzi giustificano il fine. Se nella ricerca del godimento l’oblio e la ricreazione sono qualcosa di esteticamente ed eticamente indifferente, non diventano esteticamente degni perché si utilizza, per raggiungerli, il godimento estetico, esattamente come non diventano eticamente riprovevoli perché si utilizza, per raggiungerli, il godimento del vino. Si può anzi sostenere che bisogna servirsi, come mezzo, più di ciò che è ignobile che di ciò

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che è nobile, poiché ciò che è nobile è fatto soltanto per esser fine a se stesso. Abbiamo discusso di una serie di significati della profondità riguardanti la relazione tra io e godimento. Ne resta ancora una, l’unica che concerne il godimento in sé e non la sua relazione con l’io o col contesto della vita. Anche il godimento in sé viene talora vissuto con la cifra caratteristica del «profondo». Quest’ultimo termine si può qui intendere come affine a «importante», «significativo», «serio», in contrasto con vissuti leggeri, privi di significato. In questo senso, il godimento di una sinfonia di Beethoven o di un’opera classica di poesia o pittura è sempre e comunque «profondo», se confrontato col godimento di cibo e bevande o con quello del gioco. Qui è la qualità del godimento in sé a venir indicata come leggera e superficiale oppure seria e profonda; ciò che qui diciamo «profondo», «serio» o «superficiale» è il volume del godimento, la sua struttura, una colorazione che lo pervade. In questo contesto ci limitiamo ad accennare a queste qualità del godimento, poiché ne parleremo meglio in seguito, ed esse ci appariranno sotto nuova luce. In base al loro significato, dunque, cinque diversi momenti (che nello schema complessivo risultano ordinati in maniera diversa rispetto alle precedenti considerazioni) costituiscono la «profondità del godimento»: 1. Profondi sono i vissuti ancorati all’io – ogni godimento è profondo in ragione della sua egocentricità. 2. Profondi sono i vissuti che provengono dagli strati più profondi dell’io (i godimenti sono profondi o superficiali a seconda della posizione di chi gode rispetto a essi). 3. Profondi sono i vissuti quando scuotono l’io profondo, quando toccano le profondità dell’io (ci sono godimenti profondi e godimenti superficiali). 4. Profondi sono i vissuti che riempiono l’io, espandendosi a tutta la coscienza (ogni godimento è profondo, ma in diversa misura – scissione dell’io). 5. Profondi sono i vissuti che hanno un certo peso, che mostrano la qualità della profondità – ci sono godimenti profondi e godimenti superficiali. 9. È dunque emerso che ci sono alcune proprietà caratteristiche dell’essenza del fenomeno del godimento: 1. Il godimento è immotivato. 2. L’oggetto del godimento ha «pienezza». 3. Ogni godimento implica «partecipazione dell’io».

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4. Il godimento è un vissuto di accoglienza. 5. Il godimento non implica una presa di posizione nei confronti dell’oggetto ma, piuttosto, un abbandono all’oggetto. 6. Il godimento è egocentrato. 7. Il godimento (in linea di massima) riempie l’io. 8. Il godimento è un’affezione dell’io. 9. Il godimento mostra determinate colorazioni e qualità (come serio, leggero, profondo) che lo caratterizzano più da vicino. Non so dire se questi nove momenti (più avanti dovremo fare delle integrazioni) esauriscano le proprietà generali ed essenziali del godimento, ma quel che è certo è che una teoria del godimento non può prescindere da essi, e qualsiasi spiegazione causale o biologica del godimento deve renderne conto. Così, per esempio, l’egocentricità del godimento va spiegata anche biologicamente, ponendo la seguente domanda: «A quali condizioni causali un vissuto è solitamente egocentrato, e quale fatto biologico si rivela nell’egocentricità?». Bisognerebbe indagare il momento dell’accoglienza sotto il profilo biologico, e bisognerebbe anche chiedersi come si realizzino, nel godimento, le condizioni generali del piacere. L’analisi fenomenologica deve quindi fornire il fondamento per la psicologia causale e la biologia del godimento – presumere, in modo semplicistico e superficiale, che tutti sappiano che cosa sia il godimento, e che si dovrebbe quindi iniziare con la spiegazione causale, non può generare che errori. I momenti che siamo riusciti a mettere in rilievo nel godimento permettono di comprendere la sua particolare posizione all’interno della vista psichica. Per certi aspetti le proprietà del godimento sono più semplici di quelle degli altri vissuti di piacere. Non si tratta necessariamente di un sentimento di stati di cose come la gioia, perché qui come fondamento basta il proprio semplice vissuto. Nel godimento non c’è alcuna presa di posizione nei confronti dell’oggetto – è sufficiente il semplice abbandonarsi all’oggetto, e ciò significa che il godimento è un sentimento per nulla intellettuale. L’unica cosa che conferisce al godimento una certa complessità è il momento della partecipazione dell’io. Ai gradi più bassi dello sviluppo psichico, che conoscono soltanto piacere e dispiacere sensibili, non si potrà certo parlare di godimento. Ma non appena emerge un’esperienza vissuta dell’io (e sono convinto che ciò accada relativamente presto nello sviluppo), può darsi anche godimento, poiché non si richiede altro che un piacevole abbandono all’oggetto, senza prese di posizione, senza motivi. Il godimento appartiene dunque a stadi di sviluppo precedenti rispetto ai vissuti di presa di posizione come il volere (da non confondere con l’impulso o la tendenza) o

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il gradire, oppure anche rispetto ai sentimenti di stati di cose come la gioia per qualche cosa. Se dobbiamo certamente ammettere che l’uomo può godere non appena ha coscienza, e che il godimento rappresenta dunque un’esperienza vissuta relativamente primitiva, dobbiamo d’altro canto riconoscere che il godimento reca in sé momenti che gli consentono di svilupparsi in direzione dei vissuti più complessi e differenziati – come accade nel godimento estetico. Il suo essere ancorato all’io gli permette di penetrare profondità dell’io precluse a tanti altri vissuti; l’affezione dell’io fa sì che il godimento possa variare e approfondirsi in ogni direzione; la mancanza di forme determinate e prescritte, come ad esempio quelle del «sì» e del «no» nella presa di posizione, rende possibile un’interna multiformità, che eleva il godimento al di sopra dei vissuti di presa di posizione, sempre vincolati al contrasto tra positivo e negativo. E proprio quell’esser tagliati fuori dalla vita reale pone l’accento non sulla complessità dei motivi dell’esperienza vissuta del godimento, bensì sul genere di accoglienza vissuta, sul genere di eccitazione dell’io. Tutto ciò costituisce il fondamento a partire dal quale l’unità del godimento si estende all’intero ambito della vita psichica, dalla primitiva accoglienza goditiva di sensazioni di gusto fino alle più complesse finezze del godimento estetico.

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Il godimento estetico

Nella maggior parte dei casi, ed eccezion fatta per il godimento del gioco, l’indagine psicologica ha trascurato il fenomeno generale del godimento a tutto vantaggio del fenomeno particolare del godimento estetico. Capita quindi che momenti validi per ogni vissuto di godimento, come ad esempio la mancanza di motivi, vengano considerati essenziali per il godimento estetico. Mi è sembrato particolarmente importante evidenziare i caratteri generali di ogni godere, in modo da poter mostrare più chiaramente quali siano le proprietà specifiche del godimento estetico in rapporto agli altri godimenti. Fino ad oggi la ricerca non ha tratto alcun vantaggio dal fatto che l’atteggiamento valutativo di fronte al godimento, contrapponendo il godimento estetico agli altri godimenti come un che di nobile, abbia fatto dimenticare i tratti comuni a tutta la vita goditiva. Ma ci si dovrebbe pur chiedere dove stiano le differenze puramente psicologiche e dove i tratti comuni. Per esempio, è possibile motivare fenomenologicamente il fatto che con ogni mezzo si cerchi di risvegliare la capacità di godimento estetico del popolo e al contempo ci si lamenti della sua crescente smania di godimento? E il godimento estetico è davvero così psicologicamente indipendente da altri godimenti che si può accrescere la capacità di godere esteticamente senza incrementare la tendenza generale a godere? Ora che abbiamo avuto modo di individuare una serie di momenti generali del godimento, ci domandiamo: che cos’è che distingue il godimento estetico da altri generi di godimento? La differenza sta forse solo nell’oggetto? C’è una differenza di principio, a livello di vissuto, tra chi gode esteticamente un salmo e chi vi ricerca un godimento religioso? O non sarà forse che uno trova godimento nei momenti estetici, nella forma e nel linguaggio, nella potenza espressiva e nella pienezza dell’esperienza vissuta, mentre l’altro si limita a godere il contenuto religioso – di modo che il vero e proprio godere non presenta differenze a livello dell’esperienza vissuta in sé? 1. Come prima cosa bisogna verificare l’adeguatezza di un’espressione utilizzata dagli autori più diversi in relazione al godere estetico: si parla

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di contemplazione estetica (Kontemplation: Kant, Külpe, Edith Landmann; Betrachtung: Lipps). È vero che queste espressioni furono coniate per l’ambito del gradimento estetico e della valutazione estetica, più che per il godimento estetico, eppure capita abbastanza spesso che trovino applicazione anche in quest’ultimo contesto. Quando parlano di «contemplazione», i suddetti autori non intendono certo indicare, in prima battuta, un particolare momento descrittivo del comportamento estetico, bensì il comportamento estetico complessivo, tanto che Edith Landmann include nella contemplazione anche momenti psicologicocausali. Eppure non è un caso che molti studiosi abbiano scelto proprio il termine «contemplazione» per designare il fenomeno in questione. Noi prendiamo le mosse dal godimento estetico, non dall’oggetto estetico, e questo è un fatto assai significativo per la nostra ricerca. Ciò che s’intende di solito con «oggetto estetico», infatti, non esaurisce il ventaglio degli oggetti che possono venir goduti esteticamente. In estetica, nella maggior parte dei casi, l’oggetto estetico è l’oggetto bello, l’oggetto in cui si incarnano valori estetici. Ma la nostra indagine dimostrerà che esistono oggetti che possono venir goduti esteticamente, oggetti che, pur dando luogo a vissuti di godimento estetico, non possono essere definiti belli o anche semplicemente esteticamente validi. Sono in grado di godere esteticamente i miei stati d’animo, ad esempio la mia tristezza o la mia nostalgia; ma ciò significa forse che questi stati d’animo sono «belli» o esteticamente validi? Posso godere esteticamente situazioni, posso gustare – e quindi godere esteticamente – il sapore di un cibo, senza che queste situazioni o questi cibi debbano per forza incarnare valori estetici. Certo, il vissuto del godimento estetico è specificamente diverso a seconda che scaturisca da valori estetici o semplicemente da oggetti che possono anche venir goduti esteticamente; questa differenza, però, è interna alla sfera del godimento estetico stesso. Far valere come estetico solo quel godimento estetico che scaturisce dal bello e da valori estetici rappresenterebbe una restrizione dell’uso linguistico assolutamente ingiustificata, cui il fatto fenomenologico non offrirebbe alcun appiglio. Constatare che godimento estetico e godimento del bello non sono concetti identici significa comprendere, ancora una volta, quanto poco ammissibile sia voler fondare l’estetica sul godimento estetico. Se questo vissuto si verifica anche al cospetto di oggetti che non possono essere definiti «belli», non si capisce bene quali sarebbero i generi di godimento estetico che l’estetica dovrebbe prendere in considerazione per giungere, sulla base del godimento, all’«oggetto bello».

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In questa sede assumiamo il concetto di «godimento estetico» in senso più ampio, includendovi tutto ciò che viene goduto esteticamente, a prescindere dal fatto che si tratti di qualcosa di «bello» o meno, di qualcosa che incarni valori estetici o meno. Ora, a livello descrittivo la contemplazione comprende una serie di momenti significativi da diversi punti di vista. Per definire il concetto di «contemplazione» bisogna innanzitutto dire che esso indica un peculiare atteggiamento dell’io in rapporto agli oggetti. A differenza del prestare attenzione all’oggetto, esso non ha in sé nulla di attivo; nel contemplare non c’è traccia di attività – e questo è un punto essenziale. Ogni contemplare, inoltre, è un tenere a distanza da sé, dall’io: chi contempla un quadro o un uomo si pone loro di fronte, tenendoli lontani da sé, senza perdersi in essi e su di essi. Al tempo stesso, però, chi contempla non analizza né scompone. Con «contemplazioni» di qualcosa – relative alla vita, agli uomini, al destino – si intendono non a torto riflessioni che riguardano le cose da tutti i lati e registrano tutto quel che notano, senza però in alcun modo tentare di afferrare l’intima essenza di ciò che viene contemplato. Innalzando il contemplare a caratteristica del comportamento estetico, il linguaggio fa riferimento soprattutto all’ambito del visibile: non conosce il contemplare suoni. Contemplare un quadro si dice, contemplare una melodia no. In linea di principio, però, il fatto vissuto è lo stesso in entrambi i casi, e quindi dovremmo parlare di contemplazione estetica anche in rapporto a suoni. D’altro canto, però, l’uso linguistico ha una sua giustificazione; giacché, come vedremo, è soprattutto in relazione a cose visibili che la contemplazione è l’atteggiamento sollecitato dagli oggetti stessi. Il fatto che io e oggetto si tengano lontani l’uno dall’altro rappresenta quindi un primo momento essenziale della contemplazione. Senza questa distanza non si dà alcuna contemplazione. La si ritrova ad esempio quando si ascolta una melodia, quando si sfiora con le dita, leggermente, una superficie levigata, oppure quando si assaggia un vino pregiato; non, però, quando si tracanna assetati un bicchier d’acqua. La contemplazione esige che l’oggetto mi sia assolutamente contrapposto, che ci sia uno specifico atto del contrapporre – esige che l’oggetto non penetri in me. Il contemplare può dunque facilmente collegarsi al godere, perché godere e contemplare hanno qualcosa in comune: anche nella contemplazione c’è il momento dell’accoglienza, il tenersi aperti a quanto proviene dall’oggetto – per quanto il contemplare possa anche accompagnarsi alla più intensa e attiva attenzione rivolta all’oggetto. Ma nel con-

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templare in quanto tale non c’è traccia né di questa attività, né di un qualunque genere di presa di posizione. Quando contemplo l’oggetto, dunque, posso benissimo anche goderlo. Tutti i godimenti estetici sono godimenti di contemplazione. Quando godiamo esteticamente un dipinto, un paesaggio, le fattezze di un uomo, una poesia o una sinfonia, c’è sempre una presa di distanza dell’io rispetto all’oggetto. Non vale però il contrario: i godimenti di contemplazione non sono necessariamente estetici. Quando si parla di «intuitività dell’estetico» non ci si riferisce soltanto a un modo di essere dell’oggetto, cioè al fatto che esso è dato intuitivamente e ha pienezza, ma anche al fatto che io intuisco l’oggetto, lo contemplo, me lo tengo di fronte. Anche se il godimento estetico è godimento di contemplazione, non tutti i generi di godimento sono godimenti di contemplazione; e soprattutto non lo sono quelli che non sono godimenti di un oggetto, bensì di una propria attività. Il godimento connesso al movimento del corpo nella corsa, nel salto, nella lotta, nella ginnastica e in tutti gli sport è godimento della propria attività, ed esclude quindi il contemplare, l’intuire l’oggetto del godimento – cioè, in questo caso, la mia attività. Quando, dopo esser stati a lungo seduti, ci si stiracchia e ci si distende, si gode questo stiracchiarsi e distendersi: a procurare godimento sono determinate sensazioni fisiche, che però rientrano nel vissuto dell’attività in generale, e non vengono intuite e contemplate. Il rigoroso faccia a faccia di io e oggetto, presente nell’estetico, perde il suo senso. A voler essere precisi dovremmo dire che godiamo nella attività dello stiracchiarsi, e non che godiamo di quest’attività. È proprio in quel «di» che sta infatti il faccia a faccia tra io e oggetto; ma qui l’attività dell’io è avvolta di godimento – c’è un’unità di godimento e attività, di modo che il godimento è al tempo stesso godimento dell’attività e godimento nell’attività, e l’attività stessa è impregnata di godimento. Anche la maggior parte dei godimenti del gioco rientrano tra i godimenti di attività, e non tra i godimenti diretti a un oggetto. Almeno una parte del godimento provato dall’appassionato giocatore di carte o dal giocatore d’azzardo non è certo godimento dell’andamento del gioco, bensì godimento della propria appassionata eccitazione, nella propria appassionata eccitazione. In questo godimento nell’attività emerge un vissuto difficile da comprendere. L’oggetto del mio atteggiamento generale, cioè l’oggetto cui sono interiormente diretto, si separa dall’oggetto che godo. Sono diretto al movimento che voglio compiere, e godo il mio muovermi – sono

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diretto al gioco e godo il giocare. O meglio: godendo nel giocare, godo il gioco. Per usare i termini della nostra analisi generale del godimento: l’oggetto del godimento, cioè l’oggetto cui sono diretto, si differenzia dall’oggetto che stimola l’io, cioè dall’oggetto che provoca l’affezione dell’io. È la mia attività che penetra nell’io e lo stimola, non il gioco. È chiaro che tanto la questione relativa all’oggetto che stimola il godimento quanto quella relativa all’oggetto del godimento (se cioè oggetto del mio godimento è un oggetto o un’attività) non hanno nulla a che fare col problema che domanda su che cosa si fondi il godimento estetico. Alcune teorie sostengono che ogni godimento sia godimento della propria attività, della propria attività di apprensione (per fare un esempio, la vera causa del godimento di un ornamento elegante sarebbe l’attività appercettiva con cui apprendo l’ornamento). Giusto o sbagliato che sia, resta il fatto che la mia attività apprensionale non è né l’oggetto del godimento né l’oggetto che stimola il godimento: oggetto del mio godimento è piuttosto l’ornamento. Io godo l’ornamento, non la mia attività. Nei casi di prima, invece, io godo il mio stiracchiarmi e distendermi, il mio movimento, la mia eccitazione nervosa. Quando l’oggetto che stimola il godimento viene individuato nella mia attività, non si deve mai parlare di contemplazione, di lontananza e di godimento estetico, ed è assolutamente indifferente su che cosa poggi il piacere. I casi in cui si gode della propria attività non sono gli unici casi in cui il godimento risulta privo di contemplazione. L’assetato che butta giù un bicchier d’acqua non contempla il gusto dell’acqua nel senso in cui contempla il vino chi sorseggia il vino. L’assetato, piuttosto, tracanna il sapore, lo trascina dentro di sé. Se prima abbiamo detto che il godimento che trascina le cose dentro di sé è una forma di godimento del tutto legittima, ora, nel caso si tratti di «contemplazione», dobbiamo escluderlo. Questo trascinare dentro di sé annulla l’oggetto inteso come oggetto del tutto indipendente, rende il sapore sensazione corporea, e non più soltanto determinazione oggettuale di un oggetto. Nel «piacere disinteressato» kantiano c’è anche questo momento, il momento per cui il godimento estetico è contemplazione, e non interiore trascinare dentro di sé; e ciò è particolarmente evidente se si va a vedere l’interpretazione schopenhaueriana di questo concetto, inteso come intuizione esente da volontà, cioè come un’intuizione scevra da qualsivoglia desiderare e volere. L’esempio del sapore insegna che avere o meno un godimento estetico non dipende dall’oggetto ma dal tipo di posizione che si assume di fronte a esso: posso ora contemplare il vino, ora trascinarlo interior-

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mente a me. È quindi sbagliato chiedersi se è possibile godere esteticamente le sensazioni dei sensi più bassi, pretendendo come risposta un «sì» o un «no»; si deve prendere in esame anche l’interiore posizione nei confronti di queste sensazioni. In relazione alla duplice posizione qui in causa dobbiamo considerare innanzitutto le sensazioni in cui, nel momento dell’accogliere, l’oggetto della sensazione e il proprio corpo entrano in contatto. In tutte queste sensazioni posso esperire questo contatto o come afferramento di una proprietà dell’oggetto con cui entro in contatto in atteggiamento contemplativo, oppure come sensazione del mio proprio corpo. Abbiamo parlato del sapore, ma lo stesso vale per le impressioni tattili e olfattive. Possiamo godere al tatto la morbidezza di un tessuto o la levigatezza di una pietra; abbastanza spesso, però, le impressioni tattili vengono vissute anche come proprie sensazioni corporee, come ad esempio nel senso di solletico o nell’accarezzare. E in questo senso, come vedremo in seguito, le impressioni olfattive si situano già al limite della confluenza tra oggetto ed esperienza vissuta. Per quanto riguarda i sensi superiori, udito e vista, l’oggettività di ciò che viene appreso è sostanzialmente preservata. La nostra coscienza non sa nulla del fatto che il «blu» non viene semplicemente afferrato, e che anche qui c’è qualcosa come un contatto col corpo. Gli oggetti appaiono là fuori, nel mondo esterno, e noi li afferriamo, ma per far ciò non è necessario toccarli, come avviene invece nel caso del gusto o del tatto. Anche qui, ovviamente, ci sono gradi diversi. Si può staccare da un oggetto il suo colore, per così dire, e risucchiarlo, berselo. In generale, comunque, la vista sarà il senso in cui l’oggetto meno si presta a dissolversi nella corporeità del soggetto che lo apprende, e in cui quindi la «contemplazione» è fin dall’inizio l’atteggiamento più ovvio. I suoni stanno a metà strada tra le sensazioni di contatto e il senso della vista. Il suono è certamente qualcosa là fuori, in un certo posto; mentre però il colore, per quanto concerne la mia impressione, conserva questo posto, e io afferro questo posto fuori di me, e mentre il senso della vista, fenomenologicamente parlando, è un senso di distanza, i suoni, per quanto concerne la mia impressione, si spostano dal luogo in cui sorgono fino a me, riempiono il mio orecchio e vengono da me percepiti. L’apprensione dei suoni, dunque, implica un momento di contatto col corpo molto più forte, e la contemplazione non è così ovvia e scontata come nel caso dei colori. Dall’osservazione che i diversi sensi intrattengono rapporti diversi col nostro corpo proprio, Volkelt ne ha tratto conclusioni un po’ diverse dalle nostre in merito al godimento estetico: «Vista e udito si distin-

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guono da tutti gli altri sensi in virtù del fatto che in essi, in condizioni normali, non avvertiamo l’incontro tra i corrispondenti stimoli esterni e la nostra viva corporeità. Il mondo delle forme e dei colori sta davanti a noi come per incanto; la via che i raggi di luce percorrono attraverso l’occhio e il loro comparire sulla retina non sono palesati da alcuna sensazione corporea […]. È come dice Schiller: per l’occhio e per l’orecchio la materia che ci preme attorno fugge via dai sensi».1 Nel caso del tatto, del gusto, del senso della temperatura e dei sensi inferiori in generale, la sensazione di viva corporeità prevarrebbe a tal punto da non entrare in gioco nel godimento estetico. Come già detto, tutto ciò mi sembra verificarsi soltanto quando, in sensazioni simili, io non afferro le proprietà degli oggetti, bensì gli stati del mio corpo fisico. Se sono rivolto al sapore come qualità del vino non c’è alcuna ragione per negare al godimento la qualifica di «estetico» (per lo meno intendendo il termine nel suo senso più ampio e non limitando il godimento estetico a godimento di valori estetici). Riassumendo: le impressioni di tutti i sensi che provengono dall’esterno consentono la pura contemplazione, quando le impressioni sono considerate come qualcosa di extra-corporeo; ci sono però gradi diversi, a seconda della misura in cui il carattere delle impressioni si addice alla contemplazione richiesta dal godimento estetico. Sotto questo aspetto i sensi privilegiati sono la vista e l’udito. Non si può dire a priori, semplicemente, che le impressioni di determinati sensi non si addicono alla contemplazione estetica, come se il modo in cui vengono accolte dipendesse esclusivamente da loro; accanto alle impressioni e al loro carattere è fondamentale, infatti, il modo in cui ci si dispone interiormente nei loro confronti. 2. Il godimento delle mie proprie attività e il godimento che trascina l’oggetto nell’io non sono godimenti estetici. Abbiamo già accennato al contrasto tra concentrazione esterna e concentrazione interna nel godimento; ora ci chiediamo in che rapporto stia col contrasto tra contemplazione e non-contemplazione dell’oggetto del godimento. Se godo in concentrazione esterna, allora mi rivolgo interiormente all’oggetto del godimento (la melodia, la statua, il sapore del vino o la levigatezza del marmo). Vivo nel godimento e afferro l’oggetto. Nella concentrazione esterna mi volgo all’oggetto e lo guardo, lo ascolto, lo gusto: va da 1

J. Volkelt, System der Aesthetik, cit., vol. 1, p. 96.

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sé, quindi, che questo tipo di concentrazione rappresenta l’atteggiamento adatto per «contemplare» l’oggetto. A far problema è soltanto la concentrazione interna: se godo un brano di musica in concentrazione interna, il brano di musica in sé resta fuori dal mio atteggiamento. Non godo propriamente l’oggetto: la musica stimola in me uno stato d’animo, e io sono concentrato sul mio stato d’animo, non sull’oggetto. Chi gode sentimentalmente l’atmosfera di un paesaggio di sera2 non gode propriamente l’oggetto, bensì il proprio stato d’animo. In questo caso si può ancora parlare di contemplazione? Qui la difficoltà sta all’estremo opposto rispetto agli esempi precedenti. Il sorso d’acqua tracannato non è stato goduto contemplativamente, perché era troppo vicino all’io, perché l’oggetto sembrava spinto nell’io. Sorge qui la difficoltà opposta, per cui l’oggetto – la musica ad esempio – si trova al di fuori del mio atteggiamento goditivo, al di fuori dell’attuale ambito di concentrazione dell’io: è soltanto la fonte del godimento, e non il suo vero e proprio oggetto. Ciò che conta, in questo contesto, è che nel caso estremo della concentrazione interna l’oggetto del godimento non è la musica o il paesaggio serale, bensì lo stato d’animo. È vero, il godimento viene vissuto come proveniente dall’oggetto, dalla musica, ma non è affatto godimento dell’oggetto. In questo caso, dunque, non si potrà nemmeno parlare di contemplazione dell’oggetto. Certo, i casi di pura concentrazione interna sono relativamente pochi. Quando parliamo di «concentrazione interna», di solito si tratta di un misto di concentrazione interna e concentrazione esterna. Sotto il profilo psicologico il decorso prevede che si alternino periodi di concentrazione interna più forte a periodi di concentrazione interna più debole. Fino a quando mi trovo in uno stato di piena concentrazione interna, sono interiormente diviso nell’apprendere. Nell’apprensione principale la coscienza afferra lo stato d’animo; accanto ad essa, però, io afferro anche l’elemento oggettuale, ma solo a grandi linee, non come unità conchiusa e non nei particolari. Accanto al paesaggio afferrato come intero, afferro anche alcuni complessi di particolari: il modo in cui 2 Bisogna cercare di rivivere esattamente il caso di cui stiamo discutendo. Uno stato d’animo sentimentale serale può benissimo darsi anche in piena contemplazione esterna, come accade, per esempio, nella contemplazione empatica. Qui si tratta invece di un atteggiamento in cui non godo l’oggetto, bensì, per l’appunto, il mio stato d’animo.

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esso si spinge in profondità, singoli alberi. Ma non si può parlare di un’apprensione del particolare esatta, più che casuale. Ciononostante, io esperisco il modo in cui l’elemento oggettuale stimola lo stato d’animo, inducendovi l’io. Ma così facendo io sono interiormente presso il mio stato d’animo, non presso l’oggetto. Nel decorso successivo, però, intervengono momenti in cui le parole, i suoni, i dettagli del paesaggio balzano maggiormente in primo piano, e più questo accade, più il godimento diventa anche godimento del paesaggio. È come se la concentrazione ora penetrasse di più attraverso lo stato d’animo fino a giungere all’oggetto, ora invece si ritraesse di più sullo stato d’animo. Dato che nella piena concentrazione interna non c’è alcun godimento dell’oggetto, ma soltanto dello stato d’animo, la distinzione fenomenologica tra concentrazione interna e concentrazione esterna diventa importante per l’estetica dell’oggetto. La concentrazione interna non genera mai un godimento artistico genuino, cioè un godimento basato sulla proprietà specifiche dell’opera d’arte, ma si limita a utilizzare l’opera d’arte come stimolo per poter godere i propri stati d’animo.3 Non essendo questa la sede per trarre le dovute conclusioni per l’estetica, mi limito a sottolineare che gran parte del godimento artistico popolare non è affatto godimento delle opere d’arte, poiché deriva dalla disposizione a lasciarsi indurre agli stati d’animo che l’opera d’arte suscita a seconda della peculiare natura del fruitore. È soprattutto la musica a venir goduta in un simile atteggiamento, ma anche molte poesie liriche banali devono il loro successo esclusivamente all’atteggiamento del lettore, che li accoglie in concentrazione interiore e non gode i valori estetici, bensì lo stato d’animo stimolato dalla poesia. Già qualche anno fa Dessoir aveva richiamato l’attenzione su alcune differenze nel godere emerse dalle auto-osservazioni dei suoi allievi: «Da anni esorto chi segue le mie lezioni sull’estetica a riferire le loro esperienze, e col passare del tempo ho messo insieme parecchio materiale interessante. Ci sono due gruppi di persone: il primo riconosce, proprio come Nietzsche, che i propri sentimenti e pensieri non sono effettiva3 Colgo l’occasione per fare autocritica in merito a una tesi che avevo sostenuto in Das Bewusstsein von Gefühlen, cit., p. 160, secondo cui le opere di Debussy andrebbero godute in concentrazione interna. Un’analisi pià accurata dimostra che anch’esse, come tutte le opere d’arte, devono essere godute in concentrazione esterna, seppure in un genere di concentrazione esterna diversa da quella che spetta alle fughe di Bach.

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mente rivolti all’opera d’arte, ma vengono soltanto liberati dall’opera d’arte e si muovono poi verso altre direzioni. Il secondo, invece, si dice ammaliato dall’opera d’arte».4 Detto questo, non bisogna affatto pensare che ogni godimento in concentrazione interna sia extra-estetico. Non è godimento estetico dell’opera d’arte, ma non va assolutamente inserito nel novero di godimenti del tutto extra-estetici come il godimento sessuale o quello connesso alla voluttà della crudeltà. Per il momento, prima di esaminarlo ulteriormente, lo chiameremo quindi godimento «pseudo-estetico» (e non «extra-estetico») dell’opera d’arte, a sottolineare che può certamente trattarsi di un godimento estetico, ma solo indirettamente di un godimento estetico dell’opera d’arte. Ora, però, come si mettono le cose col godimento dello stato animo stimolato da un paesaggio serale o da un brano musicale? Se in esso non contempliamo l’oggetto, contempliamo almeno lo stato d’animo, di modo che una condizione preliminare del godimento estetico – del godimento estetico dello stato d’animo – sarebbe rispettata? Nell’ambito della concentrazione interna dobbiamo operare un’ulteriore distinzione,5 quella tra concentrazione interna su un sentimento e concentrazione interna in un sentimento. In quest’ultimo caso io sono focalizzato nel sentimento: lo stato d’animo che esperisco è parte di me, io mi immergo intimamente in esso ed esso si diffonde in me. Lo stato d’animo stimolato da un paesaggio serale può pervadermi interamente: mi ci immergo, e questo stesso immergermi è al contempo un godere. Si tratta di un godere nello stato d’animo – lo stato d’animo goditivo diventa uno stato di me stesso. Ma c’è anche un’esperienza vissuta di questo stato d’animo completamente diversa: il provare godimento di esso. Sono allora interiormente diretto su questo stato d’animo, ed esso viene da me vissuto. È un interiore esser focalizzato sullo stato d’animo, non nello stato d’animo. E ciò significa godere dello stato d’animo. Posso affacciarmi alla finestra, osservare il paesaggio serale e godere lo stato d’animo ch’esso stimola in me. Non mi immergo sentimentalmente nello stato d’animo, poiché c’è sempre un faccia a faccia tra me e il paesaggio; io sono invece concentrato sullo stato d’animo. 4

M. Dessoir, Beiträge zur Ästhetik III. Zum Zusammenhang zwischen Wissenschaft und Kunst, in «Archiv für systematische Philosophie», 5, 1899, pp. 69-89, qui p. 79. 5 Si veda a riguardo il mio Das Bewusstsein von Gefühlen, cit., p. 150.

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Che non si possano afferrare – e quindi godere – i propri vissuti mentre li si vive non costituisce obiezione contro questa interpretazione. Se li si volesse afferrare bisognerebbe renderli oggetti – sarebbe impossibile esperire pienamente un sentimento e al tempo stesso goderlo. Tale concezione della vita psichica è frutto di pregiudizi teorici, e chi si pone di fronte ai fatti senza partire prevenuto troverà tutti i possibili casi in cui i sentimenti vengono goduti mentre vengono vissuti. Facciamo un esempio. Assisto a una cerimonia edificante: posso semplicemente sentirmi elevato, ma posso anche godere questo essere elevato; posso prender parte a un’adunata con entusiasmo, ma posso anche godere questo entusiasmo. In questo godimento di uno stato psichico (uno stato d’animo ispirato da un’opera d’arte, il sentirsi elevati, oppure l’entusiasmo) c’è qualcosa della contemplazione, del tenersi a distanza? Indubbiamente soltanto nel godimento di uno stato d’animo, non nel godimento in uno stato d’animo. Quest’ultimo è ben lontano da qualsivoglia contemplazione, e quindi da qualsivoglia godimento estetico. Inebriarsi dei propri stati d’animo e immergervisi non ha più nulla a che vedere con l’estetico. Ciò non significa, ovviamente, rifiutare come extra-estetico qualunque stato di ebbrezza del godimento estetico e qualunque tratto dionisiaco, nel senso nietzschiano del termine; abbiamo anzi già visto che questo stato di ebbrezza può prodursi anche nel caso di perfetta concentrazione esterna, quando è dunque ben possibile un godimento estetico. Qui non stiamo parlando di un estetico inebriarsi per l’oggetto, ma soltanto di un inebriarsi per i propri stati d’animo, di un’ebbrezza sentimentale in concentrazione interna; stiamo parlando di quella tipologia di persone che si serve dell’oggetto come pretesto per inebriarsi, finendo per ritrovarsi in una situazione in cui per la coscienza, propriamente parlando, non esiste più alcun vero oggetto. Questi individui vedono nell’opera d’arte nient’altro che un mezzo per raggiungere l’ebbrezza; potrebbero usare anche hascisc, oppio o vino – mezzi che per procurarsi ebbrezza vanno altrettanto bene, anzi vanno meglio degli oggetti estetici. A essere utilizzata per questi scopi è stata impiegata soprattutto – e da tempo immemorabile – la musica, al punto che non c’è alcuna differenza sostanziale tra gli stati di eccitazione dei selvaggi che, grazie a danza e strepiti, cadono in una sorta di ipnosi, e quella specie di estasi in cui si perdono certi uomini servendosi della musica moderna. Finché fa riferimento a questo genere di musica, Hanslick ha ragione nel dire che «nelle orge di sentimenti si immergono per lo più gli ascoltatori che non sono abbastanza evoluti per la comprensione artistica del bello musicale. Il profano “sente” la musica al massi-

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mo, l’artista colto al minimo».6 Con queste parole, però, Hanslick non vuol certo rifiutare soltanto l’arte come strumento di inebriamento, ma molto di più; possiamo comunque condividerne la concezione fondamentale, senza giungere alle sue conseguenze. La concentrazione interna goditiva in stati d’animo non va quindi mai considerata godimento estetico. La concentrazione interna su stati d’animo, invece, non può venire esclusa dal godimento estetico in senso lato – solo che non si tratta mai del godimento estetico di un’opera d’arte, ma soltanto di stati d’animo. Godiamo – magari del tutto coscientemente – i placidi stati d’animo in cui ci sprofonda una quieta ora serale; godiamo l’oscillazione dei nostri sentimenti, e a essere in gioco è un godimento estetico dei nostri vissuti. Questo godimento di stati d’animo può essere definito, nel senso più ampio del termine, «contemplazione». In questo caso, mentre li godo, i sentimenti non sono certo oggettivati al punto da venir pienamente contemplati come un «oggetto», ma continuano a mantenere la loro vivacità sentimentale, pienamente vissuti come solo i sentimenti possono esserlo. Se dunque il «contemplare» in senso stretto, che ha luogo in presenza di oggetti del mondo esterno, presuppone che si abbia a che fare con qualcosa di oggettivato, qui dobbiamo invece abbandonare questa pretesa: nel caso dei sentimenti, tale «contemplazione» è possibile solo nella riflessione. Nel godimento di stati d’animo è invece assolutamente presente l’altro e più essenziale momento del contemplare, cioè l’interiore «tenere a distanza» l’oggetto contemplato dall’io che lo esperisce. Gli stati d’animo vengono pienamente vissuti, ma mentre ciò accade l’io non si immerge in essi, li tiene interiormente a distanza, ed è così che li gode. Credo quindi che si abbia tutto il diritto di parlare di godimento estetico dei propri stati d’animo. Non bisogna credere che questo genere di godimento estetico sia possibile solo se l’oggetto che suscita tali stati d’animo ha esso stesso natura estetica, e che dunque solo il bello artistico e il bello naturale suscitino stati d’animo passibili di godimento estetico: il godimento in questione, infatti, non è godimento di stati d’animo estetici, ma godimento estetico di stati d’animo – stati d’animo di qualunque sorta. Si può godere esteticamente la tristezza connessa alla morte di un uomo importante allo stesso modo della gioia per un tra6

E. Hanslick, Von Musikalischen-Schönen. Ein Beitrag zur Revision der Aesthetik der Tonkunst (1854), Barth, Leipzig 18918, p. 171 [trad. it. Il bello musicale, a cura di L. Di Staso, Aesthetica, Palermo 2001, p. 97].

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guardo raggiunto. Si può provare godimento estetico del sentimento della propria forza come di stati d’animo scaturiti dalla vista di uomini belli. È proprio tale atteggiamento estetico-contemplativo – in relazione a tutte le esperienze vissute, non soltanto ad alcune – a caratterizzare la tipologia di colui che gode esteticamente, e non, per esempio, dell’esteta. L’esteta vive in concentrazione esterna; afferra in una maniera particolare il mondo, non se stesso.7 Colui che gode esteticamente, invece, esperisce i suoi propri stati d’animo in contemplazione estetica. Anche in questo problema emerge la già discussa egocentricità di ogni godimento, in contrasto ad esempio con l’esperire stati d’animo, non necessariamente egocentrato. Se sono concentrato sullo stato d’animo, però, non sono contemporaneamente concentrato sul godimento dello stato d’animo serale, come se godimento e stato d’animo stessero entrambi di fronte all’io e costituissero l’oggetto della concentrazione; piuttosto il mio io, godendo, è concentrato sullo stato d’animo, e il godere è una colorazione della concentrazione, è egocentrato e non viene afferrato, bensì è partecipe dell’afferrare: a ragione diciamo che «godiamo lo stato d’animo». Ciò vale per la concentrazione interna sullo stato d’animo. Nel caso della concentrazione interna nello stato d’animo, invece, non soltanto il godimento, ma anche lo stato d’animo è egocentrato, e rispetto all’io si sposta nella stessa posizione del godimento. Ciononostante, il godere è più vicino all’io, costituisce pur sempre il vero e proprio nucleo dell’io: non devo dire che malinconicamente sono assorbito dal godere, ma che godendo sono assorbito da uno stato d’animo malinconico. Concludendo: l’ambito del godimento estetico si estende solo fin dove si ha contemplazione nel senso più lato, in cui c’è una certa distanza tra io e oggetto del godimento. Sia che a essere contemplati godendo siano oggetti, sia che siano propri vissuti, come stati d’animo e sentimenti. Se non c’è questa contemplazione non c’è nemmeno godimento estetico. Il godimento del gioco e il godimento dello sport, in quanto godimenti in proprie attività, non sono certo godimenti estetici, proprio perché – come il godimento di sensazioni fisiche e il godimento di essere assorbiti nei propri vissuti – non mostrano la suddetta distanza. 3. L’affermazione per cui ogni contemplazione è un tenere a distanza l’oggetto non può venir rovesciata: c’è un tenere a distanza che non ha 7

Su questo punto si veda il mio Das Bewusstsein von Gefühlen, cit., p. 157.

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in sé nulla di contemplativo. Se lascio scorrere i miei occhi sulla carta con fare indifferente non «contemplo» affatto la carta. La contemplazione implica qualcosa di più del mero tenersi a distanza dall’oggetto: nella distanza bisogna anche, in un modo o nell’altro, accogliere l’oggetto, afferrandolo intensamente nonostante la distanza. Finora la ricerca ha posto in rilievo, nel concetto di «contemplazione», soprattutto questo modo di afferrare l’oggettualità. È da questo punto di vista che Külpe ha analizzato il concetto di «contemplazione».8 Prescindendo dai momenti psicologico-causali chiamati in causa nelle sue teorie, per Külpe sono due i momenti essenziali nella contemplazione estetica. Primo: al contrario di quanto accade nel piacere puramente sensibile, di solito nel godimento estetico si afferra anche la fondazione del godimento. Guardar fisso un oggetto stanca, genera dispiacere sensibile, senza che alla nostra coscienza sia data una fondazione di questa stanchezza. «I sentimenti estetici, invece, dipendono in tutto e per tutto dalla natura dell’impressione, quale noi la notiamo e apprendiamo. Un canto stonato durante un concerto, delle scorrettezze in un dipinto o l’eccessivo pathos di una declamazione disturbano il godimento estetico solo nella misura in cui danno nell’occhio e vengono avvertiti».9 Per discutere questa teoria è necessario tener ben ferme le già menzionate differenze tra oggetto del sentimento e fondazione del sentimento. Cominciamo a esaminare l’affermazione di Külpe come se fosse riferita all’oggetto del godimento. La posizione del piacere e del dispiacere sensibili rispetto all’oggetto dev’essere fondamentalmente diversa da quella del godimento già per il fatto che il godimento – a differenza, appunto, di piacere e dispiacere sensibili – è un vissuto d’atto. Nella stanchezza non si afferra un oggetto; piuttosto, l’oggetto rende stanchi. Non c’è nulla di intenzionale nella stanchezza. In ogni atto intenzionale, al contrario, l’oggetto dell’atto dev’essere pienamente dato, e ciò vale non soltanto per il godere, ma per tutti i vissuti d’atto: posso rallegrarmi per un avvenimento solo se è dato alla mia coscienza; non posso amare nulla di un uomo che non sia presente alla mia coscienza. Questa caratteristica comune a tutti i vissuti d’atto non può quindi servire per la peculiare delimitazione del godimento estetico.

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O. Külpe, Über den assoziativen Faktor des ästhetischen Eindrucks, in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie», 23, 1899, pp. 145-183, qui pp. 155 sgg. 9 [Ivi, p. 155.]

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L’affermazione di Külpe, tuttavia, può essere interpretata anche diversamente. Si possono intendere il canto stonato, le scorrettezze eccetera non come oggetti di dispiacere ma come fondazione del dispiacere; si può pensare che il dispiacere per il canto stonato o il disegno scorretto subentri soltanto quando è data alla coscienza la fondazione di questo dispiacere. Quest’interpretazione non renderebbe giustizia ai fatti: nei casi citati da Külpe (scorrettezza, eccesso di pathos ecc.) la fondazione del dispiacere è certamente data alla coscienza, ma si tratta di esempi vistosi in cui singole componenti particolarmente spiacevoli spiccano per contrasto rispetto a un insieme altrimenti ricco di godimento, o quanto meno indifferente. Abbiamo già visto, però, che la fondazione del godimento non dev’essere sempre e necessariamente consapevole, e che talvolta uomini semplici non riescono affatto a indicare che cosa fondi, in un quadro, una poesia o una statua, il loro godimento. Molto più utile per la delimitazione del godimento estetico si rivela invece il secondo momento di cui parla Külpe nella sua analisi della contemplazione. Leggiamo: «L’effetto sentimentale derivante dalle impressioni estetiche deve avere anche qualcosa di specifico, e questo qualcosa consiste nella sua relazione rispetto a un contenuto rappresentativo considerato soltanto in base alla sua natura».10 È qui che si cela il momento generale dell’assenza di motivi tipica del godimento: non abbiamo bisogno di oltrepassare l’oggetto del godimento in direzione di qualcos’altro che lo motivi. Ciò può accadere anche nel caso della gioia, ma nell’affermazione di Külpe si cela anche un momento che pertiene esclusivamente al godimento estetico, e che dobbiamo analizzare meglio. In precedenza abbiamo visto che nell’atto del godere è contenuta una doppia direzione: da un lato siamo diretti all’oggetto che godiamo, dall’altro ci facciamo irradiare da quel che proviene dall’oggetto. L’oggetto, dunque, è tanto il momento finale, la meta del movimento dell’atto interiore, quanto il punto di partenza del movimento dell’accogliere goditivo. Ma i due movimenti non mirano allo stesso punto dell’oggetto. Quando ascoltiamo una melodia, contempliamo esteticamente un uomo, osserviamo un quadro o leggiamo una poesia, ciò da cui scaturisce l’accoglienza è quello che abbiamo definito la pienezza intuitiva dell’oggetto. Il suono della melodia, i colori e le forme del quadro, i suoni delle parole – questi sono i punti di partenza dell’accoglienza. Nel godere, però, questi suoni, colori e forme non entrano in gioco semplice10

[Ibidem.]

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mente in quanto suoni, colori e forme. Piuttosto, apprendiamo colori e forme come colori e forme di un uomo; per noi i suoni sono soltanto il corpo intuitivo dei significati delle parole, e anche in musica i suoni non entrano in gioco semplicemente come suoni, ma anche come toni che fanno parte di un tema. Per il godimento estetico non è affatto indifferente che i colori e le forme vengano appresi come colori e forme di un uomo. Chi non conosce questo significato, chi non riesce a «dar forma umana» ai colori e alle forme, potrà godere un dipinto solo come ammasso di colori, o una poesia solo come incomprensibile insieme di parole straniere. Nella maggior parte dei casi, dunque, l’atteggiamento estetico implica che noi, attraverso la pienezza, guardiamo all’oggetto che ci dà tale pienezza. La differenza rispetto all’atteggiamento quotidiano è evidente. Anche nella vita quotidiana siamo soliti guardare, attraverso i dati sensibili, a ciò che essi ci restituiscono. Giustamente diciamo che «vediamo un uomo», e non colori e forme di un uomo. Ma è proprio qui che emerge con chiarezza la differenza tra la contemplazione estetica e quella quotidiana. Se siamo in compagnia di qualcuno e all’improvviso ci domandiamo se l’aspetto dell’uomo con cui stiamo parlando ci procura godimento estetico (per lo più ci chiediamo se l’uomo è bello o brutto), notiamo un repentino cambiamento nell’atteggiamento, che cambia direzione. Mentre prima attraverso i dati intuitivi guardavamo direttamente all’oggetto, ora l’irradiamento della coscienza si ferma ai dati sensibili e si interessa della pienezza, non più di che cosa appaia in questa pienezza. Prima attraverso i colori e le forme vedevo l’uomo, ora vedo i colori e le forme, ma sempre come colori e forme di un uomo. L’essenza della contemplazione estetica sta sempre e comunque nel fatto che essa accoglie la pienezza dell’oggetto, e tuttavia l’oggetto del godimento non è la pienezza, bensì l’oggetto stesso. Certo, con il contrasto tra «pienezza» e «oggetto» indichiamo solo molto impropriamente ciò che conta davvero: quello che abbiamo definito «oggetto» può a sua volta avere pienezza o non averla. Quando vedo un albero, a starmi davanti nella sua pienezza, intuitivamente, è anche l’oggetto stesso, e non soltanto i momenti intutivo-sensibili dei colori e delle forme. Quando invece mi limito a pensare l’oggetto, esso non ha questa pienezza. Può essere corretto dire che la pienezza dell’oggetto è presente solo nel caso in cui la pienezza intuitivo-sensibile (nella rappresentazione o nella percezione) mi dia l’oggetto, ma ciò non cambia nulla in relazione alla differenza con la pienezza dell’oggetto «albero», che non è intuitivo-sensibile e che permane identica se vedo l’albero dal davanti, da

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dietro o da sopra, mentre colori e forme sono di volta in volta diversi, e con essi anche la pienezza di cui abbiamo parlato prima. Per indicare il contrasto che ci interessa voglio però continuare a servirmi delle espressioni «pienezza» e «oggetto». Abbastanza spesso il contrasto tra la pienezza dell’oggetto in quanto pienezza oggettuale da un lato, e l’oggetto dall’altro, è stato formulato così: l’estetico concerne l’apparire dell’oggetto come fenomeno, non l’oggetto stesso. Con questa formulazione, però, si corre il rischio – cui non è sfuggito nemmeno l’idealismo tedesco – di fraintendere il contrasto in senso gnoseologico: il contrasto tra il fenomeno suono e l’oggetto suono diventa allora il contrasto tra il suono fenomenico e il suono reale, fisico. Il contrasto di cui stiamo parlando resta invece all’interno della sfera fenomenica: per noi, qui, l’oggetto suono non è altro che l’oggetto dato e afferrato nel fenomeno. Il contrasto tra fenomeno e oggetto, del resto, non soddisfa nemmeno in alcuni casi in cui il godimento estetico è certamente presente: possiamo godere esteticamente i nostri stati d’animo di nostalgia, esaltazione, tristezza. Anche questi stati d’animo hanno pienezza, e questa pienezza viene accolta nella contemplazione: la nostra formulazione resta quindi valida anche in questi casi. Non si potrà invece parlare, nello stesso identico senso in cui se ne parla in relazione agli oggetti reali, di un fenomeno «nostalgia» in contrasto con l’oggetto «nostalgia». Per la contemplazione estetica è dunque essenziale che in essa si accolga la pienezza dell’oggetto. Questa affermazione va intesa nel senso puramente fenomenologico di un’analisi del fenomeno del godere, e non nel senso di una qualche teoria estetica: non dice necessariamente qualcosa sulla fondazione del godimento, e non implica che i valori estetici stiano in questa pienezza (ad esempio che il valore della poesia poggi sul suono o che il valore di un quadro risieda nei colori e nelle forme). Qui non è necessario sostenere alcun formalismo estetico. In questa sede non abbiamo a che fare con valori estetici, né ci interessa sapere dove essi si trovino. Sarebbe anche sbagliato, dunque, definire il godimento estetico come godimento della pienezza dell’oggetto. Ciò di cui ho godimento, l’oggetto del mio godimento, deve in qualche modo costituirsi nella pienezza (il senso di una poesia, per esempio, si costituisce nella pienezza dei suoni delle parole), ma questo non è ancora godimento della pienezza. Bisogna limitarsi a dire che afferriamo l’oggetto attraverso una qualche pienezza, dietro accoglienza della pienezza. Il godimento estetico è godimento nella contemplazione della pienezza, e non godimento della pienezza.

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Prendendo spunto da queste osservazioni possiamo dire che tutta una serie di casi di godimento si dimostra extra-estetica perché manca di contemplazione estetica. Anche nel caso in cui singoli oggetti siano dati nella loro pienezza e vengano contemplati godendo, capita che il godimento non sia godimento nella contemplazione della pienezza, bensì godimento di qualche proprietà dell’oggetto. Per chi ha cuore patriottico e gode alla vista di qualunque cosa militare in quanto militare, il fulcro della contemplazione si sposta dalla pienezza dell’oggetto all’oggetto stesso; chi è di spirito religioso e gode ogni versetto (anche il più brutto) dell’innario, gode l’oggetto dato, non la pienezza dell’oggetto in quanto pienezza dell’oggetto. Più avanti scopriremo un’altra ragione per cui non si possono chiamare estetici tali godimenti; quanto detto sin qui, in ogni caso, è già sufficiente per far piazza pulita di un’infinità di godimenti pseudo-estetici che la coscienza popolare tende a considerare estetici, anche e soprattutto perché si verificano nella contemplazione di opere d’arte. Tra di essi rientra il godimento dell’orientamento morale, politico e religioso di un’opera d’arte. All’epoca in cui sorse la letteratura moderna, la gioventù tedesca ha goduto soprattutto l’orientamento di Die Ehre e di Heimat di Sudermann, di Der Probekandidat di Dreyer11 e di alcuni lavori teatrali di Ibsen, sorvolando abbastanza spesso sulla loro discutibile forma. Altrettanto frequentemente sculture o poesie di contenuto sessuale vengono godute in atteggiamento volto puramente all’oggetto. Da questi esempi emerge chiaramente che quello tra pienezza e oggetto è un contrasto relativo: anche l’orientamento ha una sua pienezza, se è portato a intuizione nel dramma. Come orientamento puro è presente in modo diverso rispetto a quando lo uso come titolo di un editoriale: è più vivo, più pienamente presente – ma l’atteggiamento estetico non s’indirizza a questa pienezza, bensì alla pienezza che sta nelle parole, nell’apparenza delle persone, nell’azione; è soltanto attraverso questa pienezza che si afferra l’orientamento. Di conseguenza, tutti i godimenti connessi al sussistere di stati di cose sono anch’essi extra-estetici – non si tratta di godimenti nella contemplazione della pienezza ma di godimenti nella contemplazione del sussistere dello stato di cose.

11

[Hermann Sudermann (1857-1928) e Max Dreyer (1862-1946), famosi drammaturghi tedeschi, scrissero le tre opere citate nel corso dell’ultimo decennio dell’Ottocento.]

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Come si differenzi l’essenza generale della contemplazione estetica, e quindi anche del godimento estetico, in relazione alla distinzione tra godimento dell’arte e godimento della natura e in rapporto all’oggetto e alla tecnica artistica, è questione che esula dall’ambito del presente lavoro. 4. Come abbiamo visto, il momento della contemplazione, essenziale per il godimento estetico, esclude una serie di godimenti dal novero dei godimenti estetici: i godimenti della propria attività, i godimenti che ghermiscono con violenza, il godimento di uno stato di cose o di un oggetto in quanto tale. Ora, la contemplazione è innanzitutto soltanto una posizione interiore rispetto all’oggetto – un modo dell’afferramento dell’oggetto, non del godimento. Sorge dunque una questione: fino a che punto la contemplazione estetica influisce sul godimento stesso? Fino a che punto ne condiziona determinate peculiarità, non presenti in altre forme di godimento? Paragoniamo ad esempio il godimento di un bicchiere di vino tracannato in preda alla sete col godimento che si prova assaporandolo in pura contemplazione. Nel primo caso il godimento può anche essere più intenso e appassionato, ma è più «inconsapevole», meno puntuale. In questo sorso assetato oggetto e godimento diventano quasi una cosa sola, e quindi il momento del godimento vero e proprio non è chiaramente disgiunto dall’esperienza vissuta complessiva. Nel godimento estetico, al contrario, è come se l’oggetto si contrapponesse all’afferramento come un muro ben fermo, come se il movimento dell’atto verso l’oggetto si infrangesse contro l’oggetto, rifluisse verso l’io e ottenesse così un’impronta più viva e più consapevole. Si confronti il più intenso e attivo godimento dello sport col godimento più appassionato delle emozioni di un dramma: il godimento dello sport implica un dissolversi nel godimento così completo che non si può più nemmeno parlare di una prontezza del godimento. Il godimento – proprio perché è godimento nell’attività – non ha di fronte il proprio oggetto: in quanto diretta all’esterno stringe per così dire a vuoto, e l’io in questo vuoto si smarrisce. Nel godimento estetico invece – e persino nell’ebbrezza estetica – il faccia a faccia di oggetto e godimento accresce il livello di coscienza del godimento. È forse a questa coscienza del godimento che si faceva riferimento quando si individuava nella «intensificazione del sentimento della vita» la caratteristica specifica del godimento estetico. Un’intensificazione del sentimento della vita è certamente presente nel godimento estetico, ma non soltanto in esso. Ogni godimento implica un’intensificazione del

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sentimento della vita, e ciò in una duplice direzione: da un lato ogni godimento cela in sé anche un incremento della tensione vitale, dell’energia con cui il flusso coscienziale progredisce; dall’altro, come abbiamo visto, in ogni godimento l’eccitazione dell’io rappresenta un momento essenziale – più o meno intenso, ma in ogni caso di pari intensità tanto nei godimenti extra-estetici quanto in quelli estetici. Ciò vale tanto per il godimento sessuale quanto per il godimento estetico, e l’agitazione connessa al godimento del gioco implica certo un incremento del sentimento della vita più forte rispetto al godimento estetico di un colore. Il tratto distintivo del godimento estetico non può dunque trovarsi in questo aumento del sentimento della vita. Anche il secondo momento della contemplazione estetica – per cui essa è contemplazione della pienezza – produce effetti sul carattere del godimento. Mentre la distanza tiene ben separati oggetto e godimento, dividendoli più di quanto accade in altri godimenti, la contemplazione della pienezza li riavvicina. L’atteggiamento volto alla pienezza implica che l’irradiarsi nell’io proviene dallo strato più avanzato del mondo oggettuale, che il godimento tocca immediatamente il suo oggetto. Se invece la contemplazione si dirige all’oggetto stesso, al contenuto religioso di una poesia, all’orientamento di un dramma, allora la contemplazione passa attraverso questa pienezza; ciò che dell’oggetto viene accolto è mediato da ciò che mi dà l’oggetto. 5. Abbiamo appurato che tutti i godimenti sono caratterizzati da una determinata posizione dell’io nell’esperienza vissuta. Abbiamo anche visto, tuttavia, che entro certi limiti questa posizione può cambiare, e che ad esempio ci si può situare al di sopra o all’interno del proprio godimento. Tale mutevole posizione dell’io è possibile anche nel godimento estetico? Come prima cosa bisogna sottolineare che nel godimento estetico l’io si identifica sempre con il suo godimento, e in questo senso si dissolve nel proprio godimento. Nel godimento estetico non può darsi alcuna presa di posizione nei confronti del proprio godimento. Il motto di Aristippo «!"# $%& !"$µ'(» non può valere per il godimento estetico. Chi prende interiormente posizione rispetto al proprio godimento non gode esteticamente. Si faccia la prova con una melodia, un’immagine o una poesia, e si vedrà che l’atteggiamento contemplativo volto alla pienezza dell’oggetto non può conciliarsi con quella presa di posizione nei confronti del godimento – nel godere – che Aristippo pretende. L’io che prende posizione deve invece farsi da parte e lasciar posto all’io che ac-

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coglie; l’interiore esser superiori viene meno, ed è anche per questo che nel godimento estetico osservarsi mentre si gode è praticamente impossibile. Ancor più essenziale, nella relazione tra io e oggetto nel godimento estetico, è un altro momento, che emerge chiaramente se si chiama in causa il godimento estetico dei propri vissuti. Anche quando, nel godimento di uno stato d’animo serale, sono interiormente diretto alla pienezza di tale vissuto, non è necessario che questo godimento sia un godimento estetico. C’è un godimento dei propri stati d’animo in cui non si gode semplicemente lo stato d’animo, ma si gode il fatto che si tratta del proprio stato d’animo, che si hanno questi stati d’animo, che si è capaci di tali stati d’animo. Non si gode il fatto che si hanno questi stati d’animo (si tratterebbe di un godimento al pensiero di questo stato di cose); è invece un immediato cogliere lo stato d’animo come mio. Nel godere, questo esser «mio» viene avvertito immediatamente. In ogni ambito dell’esperienza vissuta si trovano queste specifiche «accentuazioni del mio» e il relativo godimento, che desideriamo distinguere, in quanto vero e proprio autogodimento, dagli altri godimenti. Facciamo qualche esempio: uno non gode il fatto che la poesia che sta scrivendo viene bene, ma piuttosto che egli la scrive così bene; un altro gode di quanto egli è amabile; un terzo gode tutto ciò che dice, facendo mostra dell’arguzia con cui egli si esprime; un quarto, infine, gode in questo modo il proprio comportamento, la propria condotta. Questo godere di «sé», ovviamente, non lo si ritrova soltanto nei casi di godimento contemplativo, ma anche nel godimento del gioco, nel godimento di attività e in quelli già menzionati. Di questo «auto»godimento si danno tutti i possibili gradi: ci sono godimenti del tutto innocenti in cui l’«auto»accentuazione non è particolarmente marcata, altri in cui invece spicca chiaramente marcato quel che definiamo «autocompiacimento». I giochi di abilità sono un esempio del primo tipo: nei giochi in cui bisogna far entrare una palla in un buco non si gode il fatto che la palla cada nel buco (giacché per questo basterebbe inserirla nel buco), e non si gode nemmeno l’attività del tirare, nel senso in cui si gode lo stiracchiarsi e il distendersi (giacché l’attività è in linea di principio la stessa sia che il tiro vada vicino al buco, sia che riesca a centrarlo); ciò che più conta, in questi giochi, è il godimento dell’abilità. Ora, nella maggior parte dei casi questa abilità viene goduta oggettivamente, e può esserci godimento anche se l’abilità è di qualcun altro. Abbastanza spesso, però, si tratta del godimento della propria abilità. Nella misura in cui in questi giochi rientra o può rientrare l’ambizione, entra anche l’autogodimento, e già per questo il godimento estetico è escluso. Pur

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non richiedendo, in realtà, alcuna capacità personale, dal punto di vista psicologico i giochi d’azzardo non fanno eccezione. Capita abbastanza spesso, comunque, che il giocatore d’azzardo che vince consideri il «caso» come una sorta di potere personale, come una forza del destino che ha i suoi favoriti e lo ha preferito: ha vinto proprio perché è lui, non per ragioni estrinseche o perché gli è «capitato». C’è anche un altro modo in cui nel godimento del gioco può aversi – e in molti uomini si ha – autogodimento. In molti giochi ciascuno dei partecipanti assume un ruolo, rinuncia al suo essere abituale, rinuncia a essere uomo o donna, servo o padrone, e si sente investito di una parte. Questo giocare un ruolo può conferire all’io un’enfasi particolare. Soprattutto i bambini si sentono importanti quando giocano un ruolo; il fatto che siano proprio loro a giocare quel ruolo accresce la loro autocoscienza e viene goduto. Se il godimento stesse nella tensione del gioco, e non nel proprio giocare un ruolo, allora per godere il gioco dovrebbe essere sufficiente stare a guardare. Talvolta, in effetti, ci accontentiamo di stare a guardare, come quando osserviamo degli acrobati o dei giocatori di scacchi. In questi casi capita certo abbastanza spesso che, immedesimandoci empaticamente in uno dei partecipanti, ci si ripresenti il godimento del giocare un ruolo. Nei bambini, però, il godimento sta chiaramente nel far da sé e nell’avvertire la propria importanza: non vogliono stare a guardare, bensì partecipare. A procurare gioia non è il giocare a dadi in sé, ma il fatto di avere un ruolo in questo gioco. Da queste semplici forme di «auto»godimento si giunge ai godimenti – spesso ai limiti del patologico – dei vanitosi, che qualunque sia il vissuto godono sempre e soltanto se stessi. Nei casi citati entrano in causa due diverse forme di godimento di se stessi. Uno è il godimento riflessivo di sé, dove il sé sta nell’oggetto del godimento. Colui che gode facendo qualcosa è risospinto al proprio io, lo ammira e ne gode: «Che uomo che sono!». Nel secondo caso a venir goduta è la coloritura data dall’io all’esperienza vissuta. I bambini che si sentono investiti di un ruolo e lo considerano e lo godono come il proprio ruolo, godono la coloritura conferita dall’io al vissuto. L’isterica, di solito, esperisce tutto con quell’accentuazione dell’appartenenza all’io che non ha in sé nulla di riflessivo, e rivela invece un determinato modo di sentire se stessi. Nel primo caso ci troviamo quindi di fronte a un cogliere con godimento l’appartenenza di un oggetto al sé; nel secondo, invece, a un sentire se stessi. Entrambe queste forme di godimento dell’io non hanno però nulla a che spartire col godimento estetico. Ogni godimento estetico, infatti, è caratterizzato dall’esclusione del «sé», inteso come ciò che appartiene

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proprio a me. Certo, tutti i godimenti, compresi quelli estetici, implicano la partecipazione dell’io e hanno il proprio centro nell’io. L’io in questione, però, è semplicemente l’io che esperisce, e non ha niente che fare con quel lato dell’io che esperisce come «mio» tutto ciò che gli appartiene, con quello specifico io che si oppone, in quanto io che prende posizione, a tutti gli altri lati dell’io. Questo lato dell’io non viene goduto nel godimento estetico, ed è escluso in linea di principio dall’esperienza vissuta estetica. Anche quando godo esteticamente alcuni vissuti, come ad esempio uno stato d’animo, godo il contenuto dello stato d’animo della nostalgia o della tristezza, e non il fatto che sia io a essere nostalgico o triste. L’oblio di sé che ascriviamo (in contrasto con alcuni altri godimenti) al godimento estetico, e che non va confuso con l’oblio (presente in ogni godimento) di tutto il resto della vita, significa che il sé è escluso dal godimento estetico. Questo oblio di sé è un momento che si ritrova nell’«intuire libero da volontà» di Schopenhauer: ogni volere, infatti, trae origine proprio da quell’io possessivo e che prende posizione che manca in ogni godimento estetico. Anche l’oblio di sé rientra tra gli elementi costitutivi del «piacere disinteressato» kantiano, su cui torneremo più avanti. 6. Non abbiamo ancora esaurito i momenti che rendono extra-estetico un godimento anche quando si contempla la pienezza dell’oggetto. Facciamo un esempio: vado a una mostra e scopro, tra tanti quadri di paesaggi a me sconosciuti, la raffigurazione della Valle dell’Isar, vicino a Monaco. Oppure, tra quadri che non conosco, ne trovo uno che avevo già visto. Di solito, non appena compare il quadro conosciuto insorge un particolare godimento. Non si tratta di un godimento estetico, e tuttavia è godimento nella contemplazione della pienezza. Infatti è proprio la pienezza del quadro, la raffigurazione – e non il suo contenuto – a recare in sé la qualità della notorietà. Altro esempio: abbiamo già accennato al fatto che il godimento di soggetti erotici è abbastanza spesso puramente oggettuale, e che manca quindi l’atteggiamento rivolto alla pienezza – non è affatto necessario che sia così. Chi gode eroticamente le sensuali figure di pittori rococò come Boucher, contempla certo la pienezza dell’oggetto altrettanto bene di chi ne trae un godimento puramente estetico. Entrambi gli esempi rivelano che le analisi condotte fin qui non sono ancora sufficienti per definire il godimento in questione come extra-estetico. Quando si è irradiati da un quadro che già si conosceva, vien fatto di parlare di un godimento del «riconoscimento». Ma in realtà non si tratta

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di godimento del riconoscimento. Per provare questo godimento non c’è affatto bisogno di riconoscere il quadro, di identificarlo. L’essere irradiati precede il riconoscere e accade anche senza di esso. Non è corretto nemmeno parlare di un godimento della notorietà. A generare godimento non è il fatto che il paesaggio mi è noto: non si tratta di un godimento di stati di cose. Bisognerà dire, piuttosto, che il quadro noto mi penetra con un caldo raggio di familiarità che manca completamente all’immagine estranea, ed è proprio questo irradiare ciò che io godo. Esaminando la questione con cura, si troverà qualcosa di tipicamente diverso rispetto a quel che accade nel godimento estetico. Nell’apprensione l’oggetto familiare scivola dentro di me; l’oggetto si adegua all’accoglienza nell’apprensione dell’io. In ambito estetico godo propriamente l’oggetto, nelle sue proprietà e nei suoi caratteri sentimentali; qui, invece, godo l’essermi familiare dell’oggetto. E questo essermi familiare è una relazione con me, una relazione tra me e l’oggetto, non soltanto dal punto di vista oggettivo: anche fenomenologicamente l’io rientra nell’esperienza vissuta della familiarità. La familiarità, infatti, non è semplicemente un carattere dell’oggetto, come l’allegria di un colore o la solennità di una parola: è anche qualcos’altro, qualcosa di afferrato in relazione a me. Prima ancora che nel godimento, una relazione con l’io c’è già nell’afferramento: nell’afferrare c’è già un adattarsi all’io, un penetrare nell’io. La familiarità, ovviamente, implica una relazione con l’io ancor più evidente quando a essere in relazione con me è anche il contenuto di ciò che è familiare. È il caso, ad esempio, di chi gode nel vedere il proprio nome stampato, fosse anche nel contesto indifferente di una lista degli ospiti. In casi simili c’è sempre – non solo nel godimento, ma già nell’apprensione dell’oggetto stesso – un far presa sull’io che manca in ambito estetico. Il godimento estetico di un’immagine, per esempio, è rivolto alla cosa: l’apprensione e la stessa contemplazione non prevedono alcun momento che sia in relazione con l’io, nulla che non si trovi già in ciò che è appreso. Inizialmente l’oggetto viene accolto in un modo che è puramente rivolto a esso; è solo in un secondo tempo che i suoi momenti si irradiano nell’io, e dall’io vengono goduti. La differenza tra godimento della familiarità e godimento estetico sta dunque nel fatto che nel godimento estetico l’apprensione, di per sé, non prevede alcuna relazione con l’io. Sotto certi aspetti la situazione è simile a quella del godimento – sessualmente connotato – alla vista di un corpo. Sia chiaro: io non penso che nel valore estetico di un corpo umano il fattore erotico sia del tutto escluso; tuttavia, il godimento erotico in quanto tale è net-

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tamente separato dal godimento estetico. E anche in questo caso ciò che distingue, quanto all’atteggiamento, godimento erotico e godimento estetico, è la relazione con l’io tipica di ogni erotismo, la mancanza di oggettualità nella contemplazione. Certo non si definisce bene questa mancanza di oggettualità se si afferma che l’erotico implicherebbe sempre un desiderio, mentre l’estetico sarebbe invece caratterizzato da un’assenza di desiderio. Ciò può esser giusto nel caso di rozze forme di godimento sessuale alla vista di un bel corpo, ma non sono queste le forme difficili da analizzare. In esse l’estetico viene esibito, nella migliore delle ipotesi, come pretesto; chi le esperisce, però, non considererà questo godimento come estetico. Ma ci sono anche forme più oscillanti di questo godimento estetico-erotico: molti di quelli che si procurano riproduzioni artistiche della donna sdraiata di Boucher o della Venere di Tiziano o di Giorgione non «desiderano» le donne raffigurate: credono davvero di provare un godimento estetico, mentre non ne hanno che qualche rudimento. Qui non c’è un effettivo desiderio, ma solo il punto di partenza del desiderio: un interiore essere interessati all’oggetto, che rende impossibile una contemplazione puramente rivolta a esso e, quindi, estetica. Con ciò siamo giunti a un problema in cui ci siamo già imbattuti, giungendovi per altre vie, nel corso della nostra indagine, un problema che già prima di Kant, ma soprattutto a partire da Kant, ha dato assai da pensare: il problema della mancanza di interesse nel comportamento estetico. 7. L’affermazione kantiana per cui il piacere estetico sarebbe «privo di ogni interesse» non è affatto univoca. Nel secondo paragrafo della Critica del Giudizio si legge: «È detto interesse il piacere che congiungiamo con l’esistenza di un oggetto».12 Soffermiamoci, per il momento, su questa definizione, senza tener conto del fatto che questa peculiarità deve distinguere il piacere del bello dal piacere del piacevole e del buono. Per i nostri scopi, e senza far torto a Kant, possiamo quindi sostituire al piacere il godimento, visto che Kant non fa distinzione tra i due vissuti. La tesi iniziale, dunque, è che il godimento estetico non sia mai godimento della rappresentazione dell’esistenza di un oggetto, e che anzi l’esistenza dell’oggetto goduto sia del tutto indifferente per il godi12 I. Kant, Critica del Giudizio (1790), trad. it. di A. Gargiulo, introd. di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 72.

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mento. Su questa tesi possiamo essere perfettamente d’accordo: avevamo già visto che il godimento di fantasia può essere grande quanto il godimento di percezione, che il godimento di fantasia non presuppone affatto che gli oggetti fantasticati vengano assunti come esistenti, e che quindi la rappresentazione dell’esistenza dell’oggetto è del tutto indifferente per il piacere. E questo, come già detto, non vale solo per il godimento estetico, ma anche per tutti i generi di godimento, purché non siano godimenti di stati di cose. Kant, però, prosegue con un’annotazione che sposta il problema su un nuovo piano: «Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare, o in quanto movente di essa, o in quanto necessariamente connesso col movente stesso».13 Un nuovo momento si è introdotto nella discussione: la relazione tra godimento estetico e volontà. Solo questa connessione permette di capire (anche se non giustifica) il fatto che Kant parli in questo contesto di «interesse»: la sua definizione, infatti, è lontanissima dal comune uso linguistico, perché nessuno si sognerebbe di affermare che la gioia per l’arrivo del mio amico (un piacere connesso all’esistenza dell’oggetto) sia interessata, mentre il godimento di una situazione comica non lo sia. Riflettendo sul «piacere disinteressato», quindi, la letteratura postkantiana ha preso soprattutto in esame – sulla scia di Schopenhauer – la relazione tra godimento estetico e volontà.14 Per Kant la relazione tra rappresentazione dell’esistenza di un oggetto e volontà si pone in questi termini: se proviamo godimento o gioia in relazione alla rappresentazione di aver vinto realmente un primo premio, allora questa gioia diventa il movente del bramare la vincita, del desiderarla; il godimento estetico, invece, resta ferma al puro godimento del contenuto della rappresentazione, senza suscitare alcuna brama di esistenza. Per Kant questo distingue il godimento del bello dal godimento del piacevole: «È chiaro che il giudizio col quale io dichiaro piacevole un oggetto esprime un interesse nei suoi riguardi, perché il giudizio stesso, mediante la sensazione, suscita il desiderio di oggetti simili».15 Nella misura in cui parla di godimento estetico, possiamo concordare con Kant anche su questo punto, a patto di intendere la sua tesi nella 13

Ibidem. In questa sede non posso prendere in esame l’interpretazione del disinteresse sotto il profilo oggettuale, connesso ad esempio all’intensità del valore estetico (cfr. tra gli altri J. Cohn, Allgemeine Ästhetik, cit., p. 30). 15 I. Kant, Critica del Giudizio, cit., § 3, p. 79. 14

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maniera corretta. Kant non vuole certo negare che il godimento estetico, di fatto, possa risvegliare brame di ogni tipo. Il pittore che si immagina uno splendido dipinto, e nella sua immaginazione ne gode, desidererà naturalmente fissare sulla tela la propria fantasia; allo stesso modo, il godimento di chi vede il quadro finito potrà suscitare la brama del suo possesso. Queste connessioni, però, sussistono solo psicologicamente e indirettamente – riguardano esclusivamente l’effetto psicologico del godimento. Esiste invece una relazione interiore, e non soltanto fattuale, tra la gioia nella rappresentazione dell’esistenza di un oggetto e il desiderio di trasporre questa rappresentazione nella realtà. Dalla gioia nella rappresentazione, dal pensiero di come sarebbe bello possedere un certo quadro, sorge di conseguenza il desiderio – non solo a livello psicologico. E quest’interiore connessione di senso sussiste anche se di fatto ci si ferma alla rappresentazione dell’esistenza, senza giungere ad alcun desiderio, cioè anche se per ragioni psicologiche non si sviluppano quelle interne relazioni di senso. Non avremmo quindi nulla da obiettare contro la tesi kantiana se ci limitassimo al godimento estetico e non ci chiedessimo anche se la differenza tra il piacere connesso al bello e quello connesso al piacevole o al buono stia davvero in questi momenti, e se le definizioni indicate non si adattino anche ad altri godimenti, e non soltanto a quello estetico. Kant stesso, però, si è allontanato abbastanza spesso da queste sue definizioni. Più volte impiega il concetto di «interesse» in un senso diverso da quello della definizione, per esempio quando afferma che «ognuno deve riconoscere che il giudizio sulla bellezza in cui si mescola il minimo interesse è molto parziale e non è un puro giudizio di gusto».16 Talora, inoltre, concepisce la relazione tra volontà e godimento interessato in modo del tutto diverso da quello che gli consentirebbero le definizioni iniziali, come quando dice che «ogni interesse presuppone un bisogno»,17 oppure che «per quanto riguarda l’interesse dell’inclinazione nel piacevole, tutti sostengono che la fame è il migliore dei cuochi e che la gente di buon appetito gusta qualunque cosa, purché sia mangiabile»;18 in questi casi il godimento segue la volontà, e non ne è – come vorrebbe Kant – il movente. 16

Ivi, § 2, p. 75. Ivi, § 5, p. 85. 18 Ibidem. 17

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Ecco spiegato come mai, nella discussione sul piacere disinteressato kantiano, si siano tirate in ballo tutti i possibili significati di «interesse» (significati che nulla avevano a che fare con la definizione data da Kant) e si siano dibattute tutte le possibili relazioni tra volontà e godimento.19 Anche noi, quindi, prescinderemo completamente dalle definizioni kantiane, e ci occuperemo del rapporto tra godimento estetico, interesse e desiderio attenendoci alle questioni in gioco, senza riguardo per Kant. Dobbiamo disfarci completamente della singolare definizione kantiana di «interesse»: il fenomeno dell’interesse non può venir considerato come un genere particolare del piacere. Che io segua con «interesse» la guerra tra due Stati non significa che io la segua con piacere. L’interesse non sta nemmeno in una qualche relazione con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Posso provare interesse per i contenuti delle mie fantasie senza alcun riguardo alla rappresentazione della loro realtà, e l’interesse per la matematica non è interesse né per la rappresentazione dell’esistenza della matematica, né per l’esistenza della matematica stessa. Ovviamente posso anche provare interesse per l’esistenza di un oggetto – ad esempio per il fatto che i collegamenti ferroviari tra la mia patria e il mio luogo di residenza siano buoni ecc. L’interesse non ha dunque nulla a che fare né col piacere, né con l’esistenza, ed è invece, in primo luogo, una specifica forma di presa di posizione dell’io nei confronti degli oggetti. Posso contemplare un uomo «con interesse» e «senza interesse». Dal punto di vista contenutistico, in questo caso, nella mia contemplazione non si modifica nulla, eppure tutta la mia posizione interiore nei confronti dell’oggetto diventa un’altra. Vengo a sapere che il signore che vedo è uno scrittore famoso, ed ecco che subito lo guardo con «interesse» – lo guardo «con occhi diversi», e ciò significa che cambia il modo in cui l’oggetto mi si dà, la luce in cui mi appare, e anche la mia posizione interiore nei suoi confronti. Il contrario di questo concetto di «interesse» è il «disinteresse», l’indifferenza nei confronti delle cose, mentre il contrario di «piacere» non è «indifferenza», bensì «dispiacere». In un certo, amplissimo senso si può dire che ogni atteggiamento sentimentale sia già accompagnato da «interesse»: nel godere, nel rallegrarsi o nel rattristarsi per qualcosa, e anche nell’essere adirati, è implici19

Per un’ampia ricognizione delle diverse interpretazioni del «piacere disinteressato» kantiano si veda V. Basch, Essai critique de l’esthétique de Kant, Alcan, Paris 1896.

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to un certo interesse per l’oggetto. L’antitesi è allora semplicemente tra ciò che mi tocca e ciò che non mi tocca, che mi lascia freddo. Uno dice che un tale gli è simpatico o antipatico, lo fa arrabbiare o lo mette di buon umore, un altro invece che lo interessa troppo poco per poter assumere una posizione: ogni posizione interiore nei confronti di un uomo implica necessariamente un certo interesse nei suoi confronti. Di un vero e proprio interesse per qualcosa, però, parliamo solo quando questo coinvolgimento interiore supera una certa soglia minima, quando cioè il «provare interesse per» conferisce al vissuto una particolare coloritura di interesse.20 Diciamo che siamo interessati a un lavoro solo quando il coinvolgimento interiore emerge chiaramente come vissuto, mentre ogni intensa occupazione in qualcosa presuppone ovviamente un certo grado di interesse; anche se magari l’interesse per una determinata cosa è cagionato in primo luogo dall’interesse per qualcos’altro, come quando l’interesse per un’occupazione lavorativa è provocato dalla prospettiva di guadagnare un bel po’ di quattrini. La quantità di interesse generalmente disponibile varia di persona in persona. Ci sono uomini che fanno quasi tutto con interesse e che svolgono i compiti più insignificanti col massimo interesse; per altri, invece, sono pochissime le cose capaci di suscitare interesse. A seconda delle inclinazioni, dell’educazione ecc., varia anche ciò per cui si prova interesse. Noi, però, non analizzeremo ulteriormente il fenomeno generale dell’interesse, che cela in sé una serie di problemi. Da questo fenomeno generale dell’interesse se ne distinguono altri che vengono anch’essi designati con lo stesso termine. Abbiamo poc’anzi parlato dell’interesse come coinvolgimento interiore, dell’interesse per qualcosa, per l’arte o la politica, per le antichità o la collezione di farfalle. Ma si dice anche di essere interessati a qualcosa in un senso assolutamente speciale. Si può provare interesse per le corse dei cavalli senza avere interesse a che vinca un determinato cavallo (non ci si è scommesso sopra, per esempio). In quest’ultimo senso parleremo di «essere interessati» o di «mancanza di interesse», e non di «avere interesse» o di «di20 Un interesse in senso lato era ovviamente presente anche negli esperimenti condotti da Emma von Ritoók, in cui, malgrado l’assenza di interesse, l’oggetto estetico piaceva. A mancare era solo l’interesse in senso specifico. Cfr. E. von Ritoók, Zur Analyse der ästhetischen Wirkung auf Grund der Methode der Zeitvariation, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 5, 1910, pp. 356-407 e 512544, in part. p. 367).

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sinteresse». Spesso gli uomini disinteressati non sono affatto i meno «interessati». Subentra qui una nuova accentuazione nel momento dell’interesse. L’essere interessati non è più il semplice afferrare l’oggetto «con interesse», bensì l’afferrarlo in ragione di una sua qualche relazione particolare con me (per esempio in ragione dell’utilità che mi riprometto di trarne, di un vantaggio che ne ricavo). In questi casi l’interesse che presto all’oggetto non trae origine esclusivamente da esso, dal puro e semplice occuparmi interiormente di esso: non afferro semplicemente l’oggetto con interesse, ma piuttosto l’oggetto acquista interesse per una qualche relazione con me, per esempio per considerazioni relative allo scopo, ove lo scopo, di nuovo, è relativo a me stesso, e non puramente oggettivo. L’interesse per l’assistenza ai bisognosi è puramente oggettivo, non interessato; non così, invece, l’interesse per la propria fama. Giungiamo quindi a contrapporre un interesse interessato a un interesse non interessato. Nell’interesse non interessato è l’oggetto stesso, in virtù della sua natura, ad avvincermi; nell’interesse interessato, invece, l’oggetto acquista interesse o per la sua relazione col sé, oppure per la sua relazione con una qualunque altra cosa (per esempio con l’utilità), che però, a sua volta, interessa per il suo significato per l’io – per quell’io che abbiamo chiamato il «sé». Rieccoci quindi alla differenza che avevamo tracciato parlando del godimento dei propri stati d’animo: l’io che ha interesse per determinate cose è semplicemente l’io che esperisce, l’io che apprende. L’io che è interessato, invece, è l’io che desidera, l’io su cui poggia l’accentuazione del «mio», l’io di cui avverte l’importanza il vanitoso, il «sé» – ove questo interesse rivolto a se stessi non dev’essere necessariamente egoistico in senso stretto. Qual è il ruolo dei due tipi di interesse nel godimento estetico? È ovvio che ciò che godiamo esteticamente deve interessarci, e che il godimento cresce all’aumentare della partecipazione interiore, dell’interesse all’oggetto contemplato. Quanto più ci «interesseremo» al soggetto e alla sua trattazione, tanto più agevole ci risulterà goderne, e tanto più potenti saranno i momenti che fondano il godimento. Non è un caso che la poesia tratti il tema dell’amore in sempre nuove varianti, sfruttando l’interesse di molti uomini per questo soggetto; quando invece l’interesse manca, con l’interesse alle «noiose storie d’amore» viene meno anche il godimento estetico. Definiamo «interessante» un soggetto che è già di per sé adatto, in linea generale, a suscitare interesse, e non ha bisogno di fare affidamento sul fatto che il singolo, in virtù delle sue particolari inclinazioni d’interesse, rechi già in sé l’interesse. In generale,

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quindi, il contenuto delle opere di Nietzsche è in sé più interessante di quello di un libro di logica formale. La risposta alla precedente domanda, quindi, è che sotto questo profilo il godimento estetico (o meglio: la contemplazione estetica nel godimento) non è affatto «disinteressata»; le cose si complicano parecchio, però, se ci si chiede se il godimento estetico sia interessato o meno. Da un certo punto di vista ogni godimento è «interessato», mentre la gioia, come abbiamo già visto, non lo è. La gioia è disinteressata perché si dirige sull’oggetto, e in essa i momenti di piacere ineriscono all’afferramento dell’oggetto stesso. Ogni godimento è invece «interessato», è un’affezione dell’io, il piacere inerisce all’io, sta nell’io, e in questo senso ogni godimento è «auto»godimento. Dobbiamo dire, allora, che il godimento in quanto tale – e quindi anche il godimento estetico – è sempre e comunque «interessato». Qui si è parlato dell’interessamento del godimento in sé. Questione completamente diversa, invece, è chiedersi se vi sia un interessamento, una relazione con l’io, nel contemplare, nell’afferrare l’oggetto. In tal caso la risposta dev’essere questa: il godimento estetico esclude qualsivoglia essere interessati all’oggetto del godimento. Cominciamo a eliminare dal novero dei possibili godimenti (e quindi anche dei godimenti estetici) tutti i casi in cui un oggetto interessa per la sua utilità o per i vantaggi che se ne possono trarre, cioè per un qualunque motivo. Se un allevatore di bestiame è interessato all’aumento del prezzo della carne, può certo gioire quando il prezzo sale, perché si aspetta un guadagno considerevole. Può anche godere di questo aumento dei prezzi, ma il fatto che si aspetti un guadagno considerevole non motiva, di per sé, il godimento, ma ne è piuttosto la causa, magari anche la fonte. Questo godimento, allora, non è puro godimento dell’oggetto, non è godimento non interessato: l’oggetto interessa in quanto utile. Benché il godimento in sé, qui come in altri casi, non sia motivato, bensì immotivato, l’interesse per l’oggetto è tuttavia motivato dal guadagno che ci si attende dall’aumento del prezzo della carne. Il godimento estetico esige invece che anche l’interesse per l’oggetto contemplato non sia ulteriormente motivato, e che sia semplicemente interesse per questo oggetto. Nel godimento estetico l’interesse dev’essere del tutto «immotivato», e quindi, sotto il profilo dell’utilità, del tutto non interessato. Il primo significato dell’affermazione secondo cui la contemplazione estetica dovrebbe essere «non interessata» è che l’interesse per l’oggetto dev’essere immotivato.

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Anche se immotivato, però, l’interesse per l’oggetto del godimento può essere interessato; e interessato è sempre, quando nell’afferrare l’oggetto c’è già, in qualche modo, una relazione col sé. In tutti questi casi l’affezione dell’io sarà suscitata non dalla pura accoglienza dell’oggetto, bensì dalla relazione col sé. In maniera del tutto diversa, la relazione col sé può esserci già nell’afferramento dell’oggetto. L’oggetto del godimento in quanto tale può contenere una relazione con me. Possiamo godere quanto siamo abili, quanto siamo in gamba. Nel caso del godimento di vissuti, inoltre, abbiamo scoperto che già il vissuto può essere toccato dal sé, e che il godimento è godimento di un determinato modo di sentirsi (godimento di uno stato d’animo in quanto proprio). In entrambi i casi il sé era in qualche maniera partecipe della struttura dell’oggetto; altrove, invece, esso entra in gioco solo per il modo in cui l’oggetto si rapporta a me nell’apprensione. Il paesaggio che mi è familiare, in quanto paesaggio, non contiene nulla del sé. Nel contemplarlo, tuttavia, non siamo non interessati: qui il godimento interessato si fonda sul modo in cui il paesaggio si presenta come appartenente a me, e da me viene afferrato. Le cose stanno ancora diversamente con il piacevole e l’erotico. In questi casi dobbiamo operare una triplice distinzione: in primo luogo – per fare degli esempi – c’è il godimento di un cibo quando si è molto affamati. Il godimento si fonda solo in parte sul gusto del cibo in sé, perché per lo più si basa sulla capacità del cibo di placare la fame. C’è meno godimento del cibo che godimento nel placare la fame, e un tale godimento è massimamente interessato. Altrettanto interessato è il godimento connesso alla vista di un bel corpo che soddisfa un rozzo desiderio sensuale. Oltre a questo godimento nel placare la fame, però, il godimento di cibi permette altre due cose: assaporiamo il cibo, assaporiamo il vino – si tratta di un puro afferrare l’oggetto, non interessato come la vista di un quadro raffigurante un paesaggio. Ma possiamo anche gustare il cibo, degustare il vino, e nell’afferrarli abbandonarci ai piacevoli stimoli che ci offrono: in questo afferramento c’è già interessamento. Ci lasciamo coinvolgere dalla loro piacevolezza, esattamente come lasciamo che un bagno tiepido culli il nostro corpo. Qui non c’è più traccia dell’assaporare non interessato che possiamo far rientrare nel godimento estetico in senso lato – si tratta di un godimento puramente sensibile. E a questo genere di godimento dobbiamo ricondurre anche la visione eroticogoditiva di un bel corpo, in opposizione alla visione estetico-non inte-

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ressata, che afferra tutte le qualità del corpo, comprese quelle erotiche, in modo materiale e oggettuale. Questi esempi, tratti dalle considerazioni che abbiamo fatto in precedenza, possono illustrare che cosa intendiamo dire quando definiamo il godimento estetico come godimento nella contemplazione non interessata della pienezza dell’oggetto, e non – per esempio – come contemplazione disinteressata, visto che un elevato interesse è presupposto di un intenso godimento. L’espressione «non interessato», inoltre, non dev’essere riferito al godimento in sé: a dover essere non interessata è la contemplazione, non il godimento, poiché qualunque genere di godimento, in ragione dell’affezione dell’io, è sempre interessato. Ora queste riflessioni ci permettono anche di prendere posizione in merito alla questione, toccata da Kant, del rapporto tra godimento e volere. Proprio come Kant, anche noi non siamo interessati a tutto quel che di fatto può essere connesso, quanto a momenti di desiderio, con il godimento. Che il godimento estetico di un’opera d’arte possa invitare al suo possesso, o che il godimento estetico di un bel corpo possa diventar motivo di desiderio sessuale, lo si può tranquillamente concedere agli avversari di Kant (e lo farebbe lo stesso Kant). Ergendosi contro Kant e Schopenhauer, Nietzsche non va oltre questa relazione fattuale tra godimento e desiderio: «Anche ammesso che Schopenhauer avesse cento volte ragione in riferimento alla propria persona, che cosa si sarebbe fatto, con tutto ciò, per un approfondimento dell’essenza del bello? Schopenhauer ha descritto un unico effetto del bello, quello che quieta la volontà – ma è questo anche soltanto un effetto normale? Stendhal, natura non meno sensuale ma più felicemente riuscita di Schopenhauer, rileva un altro effetto del bello: “Il bello promette la felicità”; a lui proprio l’eccitazione della volontà (“dell’interesse”) prodotta dal bello sembra il dato di fatto».21 A noi, però, non interessa sapere in che rapporto stiano in questo o in quell’uomo, a livello psicologico, godimento e volontà, ma come si configuri nelle sue leggi essenziali il nesso tra godimento e desiderio – e soprattutto se nel godimento estetico in sé vi sia un desiderio. Anche qui possiamo rifarci a quanto già detto: ogni godimento è accoglienza, abbandono, passività, ed è proprio sotto questo aspetto che avevamo contrapposto godimento e volontà. Per sua stessa essenza, nel 21 F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico (1887), trad. it. di F. Masini, nota introduttiva di M. Montinari, Adelphi, Milano 2002, p. 98.

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godimento – e non soltanto nel godimento estetico – c’è un tacere di ogni attività, ivi compresa la volontà. Nel godimento estetico, però, i momenti volitivi mancano più che in ogni altro godimento. Nel godimento estetico non c’è alcun interiore impadronirsi dell’oggetto goduto, manca il prepotente desiderio tipico del godimento frenetico. Ma manca anche quel collegamento essenziale tra volere e oggetto del godimento che avevamo individuato nei godimenti della rappresentazione dell’esistenza di un oggetto (in cui il godimento che provo rappresentandomi l’arrivo del mio amico reca in sé il desiderio di tradurre la rappresentazione in realtà). Nel godimento estetico, quindi, l’attività manca sia come componente dell’afferramento dell’oggetto, sia come essenziale conseguenza del godimento. Allo stesso modo, però, manca quella relazione con l’attività senz’altro presente in tutta una serie di godimenti interessati. Quando il godimento è godimento nella soddisfazione di un impulso, di una volontà o di un desiderio, è ovvio che la soddisfazione sia sempre preceduta da un impulso, una volontà o un desiderio. Infine, nella contemplazione erotico-interessata di un bel corpo, e quindi anche nel godimento erotico-interessato, c’è la tendenza essenziale a scivolare nel desiderio sessuale. Nel godimento estetico, invece, non c’è traccia di momenti volitivi, di qualunque specie essi siano: né di quelli che si fondano sull’attività di altri godimenti, né di quelli che si fondano sul loro interessamento. Insieme al dissolversi dell’io che prende posizione nell’io che gode, la mancanza di interesse e l’assenza di volontà tipici del godimento estetico costituiscono la «dimenticanza di sé» del godimento estetico, che non va confusa con la «dimenticanza dell’io», con la mancanza della coscienza dell’io. Nella contemplazione pura il sé attivo, che vuole, è interessato e prende posizione, abdica in favore dell’oggetto, mentre un momento della coscienza dell’io (l’affezione dell’io cagionata dall’oggetto) continua a esser presente. Schopenhauer ha giustamente continuato a sottolineare quanto di rado si verifichi questo stato di spegnimento del sé – quanto raramente tacciano tutti i nostri interessi, e possa così aver luogo una visione priva di volontà. Schopenhauer certamente esagera quando afferma che la maggior parte degli uomini, i «prodotti in serie della natura», non sanno affatto godere esteticamente, poiché non sono in grado di mettere a tacere la loro volontà; di sicuro, però, sono molte le circostanze psicologiche che nell’uomo devono concorrere per far sì che di fronte a un’opera d’arte difficilmente accessibile si instauri una visione priva di volontà. E può anche essere che il numero di persone che non riescono quasi mai a liberarsi interiormente dai propri interessi e a mettere a tacere la propria volontà sia maggiore di quanto soli-

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tamente si pensi. Questi individui non pervengono mai allo stato che Schopenhauer ha descritto in termini entusiastici, «lo stato senza dolore che Epicuro stimava il bene supremo e la condizione degli dei: infatti, per quel momento saremo liberi dal giogo oltraggioso della volontà; schiavi suoi umilissimi, festeggeremo il “sabbath” dopo una settimana di lavori forzati, impostici dalla volontà, e la ruota d’Issione si fermerà».22 Solo in due momenti si potrebbe scorgere una lontana relazione tra godimento e volontà: in primo luogo nel fatto che in ogni godimento c’è una tendenza al mantenimento del godimento, così come in ogni vissuto di piacere c’è una tendenza a soffermarvisi, a continuare a esperirlo interiormente: «Giacché ogni piacere vuole eternità».23 Ma questa tendenza viene vissuta come operante solo nel momento della cessazione, e quindi «tendenza» non è ancora «aspirazione», e ancor meno «desiderio» o «volontà». Le cose non stanno poi molto diversamente per quanto riguarda il secondo momento, che consiste nell’interiore propensione, nell’interiore inclinazione che si può avvertire nei confronti dell’oggetto del godimento estetico, cioè nella posizione interiore del sentirsi attratti dal quadro che godiamo esteticamente. Anche questa «inclinazione», però, mostra soltanto alla lontana un’affinità con momenti talvolta reperibili anche nella volontà e nel desiderio, ed è ben lungi dall’essere in se stessa volontà o desiderio. 8. L’affermazione per cui il godimento estetico è un godimento nella contemplazione non interessata della pienezza dell’oggetto mi pare offrire il minimo indispensabile perché si possa dare godimento estetico. Con ciò non si esaurisce l’essenza del godimento estetico, che è esauribile tanto poco quanto l’essenza di qualunque altro dato fenomenologico ultimo. Certo, questo minimo vale soltanto per il godimento estetico in senso lato. Il godimento estetico di valori estetici implica anche qualcos’altro, qualcosa che non riusciremo a comprendere senza una precisa ricognizione dei valori estetici. Ma il godimento estetico del vino, dei 22 [A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), trad. it. di N. Palanga riveduta da A. Vigliani, intr. di G. Vattimo, Mondadori, Milano 1989, p. 289.] 23 [Il riferimento è a F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885), trad. it. di M. Montinari, nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 1993, p. 268.]

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propri stati d’animo ecc. non richiedono, come loro condizione necessaria, nient’altro che il tipo di atteggiamento descritto in precedenza. Sicuramente è abbastanza raro che il godimento estetico sia strutturato in modo così semplice da non contenere in sé, oltre a questo minimo, anche qualcos’altro, ma la nostra ricerca si è proposta fin dall’inizio di limitarsi al minimo richiesto per poter parlare di godimento estetico. Si potrebbe tuttavia dubitare del fatto che i tratti distintivi del godimento estetico di cui abbiamo parlato siano davvero sufficienti per render conto della considerazione completamente diversa in cui l’etica e l’opinione popolare tengono il godimento estetico in rapporto ad altri godimenti. Da tempo immemorabile il severo rigorismo ha messo sullo stesso piano godimento estetico e altri godimenti, senza fare alcuna differenza tra un godimento e l’altro. Ha proibito rigorosamente tanto il teatro e la musica quanto lo sport e il gioco, faticando persino ad ammettere il godimento estetico giustificato da un fine più alto: la musica poteva esser messa al servizio dei canti liturgici, ma come fine in sé non era permessa. La visione culturale odierna ha svincolato il godimento estetico da qualsivoglia commistione con altri godimenti, e oggi l’opinione pubblica tiene di solito in grande considerazione il godimento estetico, mentre scarta gli altri godimenti come qualcosa di indifferente o addirittura biasimevole, come forme di vissuto che non possono mai venir valutate positivamente dal punto di vista etico. Perché il godimento – ogni godimento – stia così in basso nell’opinione dei rigoristi lo abbiamo già detto: quel che detestano è la passività e l’affezione dell’io, e in effetti sotto questo profilo il godimento estetico non fa eccezione. Le ragioni alla base dell’alta considerazione vantata dal godimento estetico stanno altrove, e non si fondano sulle proprietà del godimento in sé, ma soprattutto sugli oggetti cui esso si indirizza. Diventa chiaro, allora, che in prima battuta è soltanto il godimento di valori estetici a godere di quell’alta considerazione. Dal punto di vista del valore tendiamo ad annoverare il godimento estetico che non si fonda su valori tra i godimenti sensibili, non tra quelli estetici. Di solito il godimento estetico del vino o il godimento di propri stati d’animo non godono della stessa stima di cui gode l’estetico. E in forme liminari si può chiaramente notare come la valutazione sentimentale del godimento cambi a seconda che in esse vi sia un sentire il valore oppure no. Oggi, per esempio, c’è la tendenza a includere nel novero di ciò che possiede valore estetico il gusto per le toilette femminili, trasferendolo dal piano del fascino puramente sensibile dell’abbigliamento a quello della configurazione di valo-

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ri estetici. In alcuni circoli artistici il godimento estetico di simili toilette ha immediatamente assunto una coloritura che lo rende partecipe dell’alta stima di cui può fregiarsi il godimento estetico. Il fatto che il godimento di valori estetici possa vantare quest’alta considerazione dipende da determinate conformità a leggi della teoria generale dei valori: l’interiore abbandonarsi a un valore che si ritrova nel godimento estetico costituisce esso stesso un valore, esattamente come l’interiore abbandonarsi a un disvalore costituisce esso stesso un disvalore. Queste conformità a leggi, che sono presenti in ogni ambito di valori e che in questa sede possiamo solo abbozzare, conferiscono in via di principio a ogni godimento estetico di valori un valore, un valore che non spetta a quei godimenti che non sono godimenti di valori. Così, anche il godimento estetico di cose dozzinali reca pur sempre in sé qualcosa del valore di questo godimento estetico di valori. Tale valore spetta dunque a ogni godimento estetico di valori, a prescindere dalla sua configurazione particolare. È senz’altro chiaro, però, che la grandezza di questo valore dipende dalla profondità dei valori su cui si fonda il godimento estetico. Il godimento di una melodia da operetta o il godimento di un facile gioco di parole sono godimenti estetici tanto quanto lo sono il godimento di una sinfonia di Bruckner o il godimento del Don Chisciotte di Cervantes, ma i valori in essi incarnati sono così diversi per profondità e tenore che non c’è quasi paragone. Tuttavia – ribadiamolo ancora una volta – il godimento di un’operetta o di un gioco di parole, nella misura in cui racchiudano in generale un valore estetico, è godimento di valori estetici, e condivide quindi pur sempre il valore del godimento di valori. In linea di massima, comunque, quando si parla del valore del godimento estetico e si dà per scontato che l’educazione al godimento estetico riguardi qualcosa di grande valore, si pensa al godimento di valori estetici profondi. Fin dai tempi antichi si è oscuramente avvertito che il godimento di valori estetici profondi rappresenti esso stesso un valore, ma questo fatto è stato interpretato, di solito, in modo scorretto, equiparando valore e valore morale e cercando qualcosa di «morale» in senso stretto da connettere al godimento estetico. Di per sé, naturalmente, nel godimento estetico di valori non c’è nulla di «morale». Allora si è spostato il valore del godimento estetico dal piano di un valore suo proprio a quello del suo effetto, come se il godimento acquistasse valore solo in virtù del suo effetto: o del suo effetto immediato nella vita goditiva stessa (eleva, libera, purifica nell’esperienza vissuta), o del suo effetto mediato (nobilita, rende gli uomini migliori, più ricchi, più profondi). Da Aristotele fino ai giorni nostri si è cercato il valore dell’estetico in quest’effetto

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immediato del godimento estetico, e da Platone fino a Schiller e Tolstoij si è pensato di dover dimostrare il valore del godimento estetico sulla base del suo effetto morale, o al contrario di doverlo contestare sulla base delle sue conseguenze immorali. È certamente corretto dire che nel godimento estetico ci sia un’elevazione interiore e una liberazione, un sentirsi innalzati al di sopra della quotidianità, ma questo è un valore completamente diverso da quello di cui stiamo parlando, un valore presente abbastanza spesso anche in altri casi: il sentirsi elevati nel corso di una solenne celebrazione, l’esser spiritualmente rapiti mentre ci si dedica a un lavoro scientifico, lo stato d’animo festoso al sorgere del sole stanno sullo stesso piano dell’esser rapiti nel godimento. Ribadiamo, inoltre, che il senso in cui si parla del valore di questi vissuti è del tutto diverso dal senso in cui si è soliti valutare l’autentico godimento estetico di valori in relazione a una sinfonia; ed è soltanto di quest’ultimo che stiamo parlando, di un godimento che non trae il proprio valore dagli atteggiamenti psichici cui dà luogo ma, piuttosto, reca questo valore in sé, come abbandono a valori estetici profondi. Ancor meno di una tale esperienza vissuta immediata si può rendere garante del valore del godimento estetico un suo vero e proprio effetto morale. Talora lo si è ricercato per via negativa, notando che nel godimento estetico i cattivi impulsi tacciono, e si è liberi da propensioni egoistiche. Con ciò si accenna certo a qualcosa su cui dovremo tornare, ma non si può voler fondare il valore morale del godimento estetico esclusivamente sulla mancanza di cattivi impulsi. Fondazioni di questo genere derivano da quell’etica – spesso ridicolizzata da Nietzsche – secondo cui l’esser buoni e il non far nulla di male sarebbero in fondo la stessa cosa; di per sé, però, da momenti negativi non sorge alcuna valutazione. Per questa ragione, quindi, di solito si preferisce parlare degli effetti morali positivi del godimento estetico, che dovrebbero fondarne il valore. In tal caso, però, è il desiderio il padre del pensiero. Fino a che punto il godimento estetico effettivamente nobiliti è una questione aperta, cui solo un’accurata analisi psicologica può dare risposta; di sicuro, però, non esiste alcuna connessione essenziale tra godimento estetico e nobilitazione. È vero anzi il contrario: determinati valori estetici possono forse venir colti soltanto da uomini molto nobili, e forse solo chi è nobile può attingere a certe profondità delle opere drammatiche di Goethe; in casi come questi, però, la nobilitazione è condizione, non conseguenza del godimento estetico. Si deve certo anche ammettere che il godimento estetico possa essere nobilitante, ma l’esperienza insegna che

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abbastanza spesso da un intenso immergersi in godimenti estetici – in particolare musicali – deriva un affievolirsi delle forze umane e morali. Anche qualora si verifichi un simile effetto, però, il godimento di una sinfonia di Beethoven manterrà in sé il proprio alto valore. Facendone dipendere il valore dai casuali effetti morali che genera non si eleva il godimento artistico, ma lo si degrada. Anche qui dobbiamo comunque guardarci dal credere che aspirare a qualcosa che veicola un valore abbia in linea di principio un particolare valore, nonché dall’attribuire all’aspirazione al godimento estetico un valore in linea di principio superiore rispetto all’aspirazione a godimenti diversi. Quel che preoccupa negli altri godimenti – la passività e il piacere nell’affezione dell’io – è presente anche nel godimento estetico, e magari sono proprio questi momenti, non l’esigenza di valori estetici profondi, a motivare il godimento estetico. Accanto al valore del godimento estetico in sé, in quanto abbandono ai valori estetici profondi, c’è il valore della personalità capace di esperire tale godimento. È lapalissiano che per poter sentire e godere i valori profondi ci vuole una personalità profonda. Per i valori estetici superficiali di una canzonetta non c’è bisogno di una personalità esteticamente raffinata, alla quale anzi, probabilmente, quei valori ripugnano. Il godimento sessuale o quello sportivo non richiedono molto di più di un normale funzionamento della vita psicofisica, mentre il godimento estetico profondo esige una personalità che sia abbastanza ricca e profonda per poter afferrare i valori implicati. Questo tipo di valutazione che si fonda sui valori, quindi, non riguarda solo il godimento come vissuto di una personalità, ma anche la stessa personalità che afferra i valori in causa. Nella valutazione della personalità che esperisce il godimento profondo risulta interessante anche un momento che il valore del godimento estetico in quanto tale non metteva in gioco. Ci siamo rifiutati di fondare il valore del godimento estetico sulla mancanza di impulsi egoistici. Ora, però, si tratta di valutare la personalità che gode, considerando il godimento non come singolo vissuto, bensì nel suo significato per la personalità: in questo caso anche la valutazione di momenti connotati negativamente ha un suo senso. Questa valutazione significa qui che nella contemplazione estetica si è soliti far piazza pulita di momenti che altrimenti dominano la nostra esistenza. Il godimento estetico era godimento nella contemplazione non interessata della pienezza dell’oggetto: tanto nella mancanza di interesse quanto nella contemplazione della pienezza c’è un momento positivo della personalità che gode. Non tutti sono in grado di rinunciare al proprio interessamento per lasciar spazio alla contemplazione pura. Cade a fagiolo l’esempio, spesso citato, del

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contadino che sa considerare i suoi campi e i suoi prati solo in relazione all’utilità che ne trae, e non dal punto di vista estetico; moltissime persone, del resto, non sono in grado di godere non interessatamente e non eroticamente un quadro raffigurante un nudo, o se si preferisce un corpo umano nudo. Tutti costoro non sono capaci di incorporare in sé il valore presente in tale oggettualità. Certo, questo «valore di oggettualità» della personalità trova posto nella concreta esperienza vissuta solo se l’oggetto non esige di venir contemplato in maniera interessata ed extraestetica. Prendiamo il caso di chi, di fronte a un incendio, invece di prestare aiuto preferisce restare a godere esteticamente l’incendio, oppure di chi studia, con atteggiamento estetico-contemplativo, i tratti di un moribondo: in una tale «contemplazione non interessata» dell’oggetto non scorgeremo alcun particolare valore. La valutazione concerne solo la capacità generale di assumere l’atteggiamento in questione, e non il fatto che nel caso concreto l’atteggiamento sia giustificato o meno. Abbiamo parlato del valore dell’estetico che trae origine immediatamente dai valori estetici degli oggetti, e in questo caso il godimento estetico non viene preso in considerazione per le sue proprietà caratteristiche, ma soltanto in quanto godimento di certe determinazioni oggettuali, dei valori estetici. Il godimento che scaturisce dall’afferramento di valori estetici profondi reca già in sé, per ciò stesso, un carattere di profondità, di serietà: è la «qualità della profondità» che abbiamo posto in rilievo parlando della profondità del godimento, e che trae origine dalla profondità del valore dell’oggetto estetico. Finora abbiamo preso in esame la valutazione del godimento estetico solo in relazione ai valori dell’oggetto del godimento, ma si può anche valutare il godimento estetico puramente per quel vissuto che è in sé, prescindendo da ciò che gli deriva dagli oggetti estetici. Di solito, anzi, i vissuti stessi vengono messi a confronto sulla base del loro valore: si discute del valore del pentimento, per esempio, puramente in quanto vissuto, a prescindere dal valore o dal disvalore dell’azione di cui ci si pente. Oppure si esalta la profondità o l’«intensità» della vita goditiva estetica contrapponendola alla superficialità, alla piattezza della vita quotidiana. Con «profondità del godimento estetico» si può forse in parte intendere anche quella profondità che deriva dall’afferramento di valori profondi, ma la questione può esser posta in relazione a qualunque godimento estetico, non soltanto al godimento estetico di valori, ed è quindi in linea di principio indipendente dalle proprietà del godimento connesse al valore dell’oggetto.

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Lipps ha indicato nella profondità una proprietà di qualsivoglia godimento estetico. Se questa affermazione riguardasse esclusivamente il godimento di valori e non volesse dire altro che già l’afferramento di valori conferisce al godimento una certa profondità, allora potremmo anche essere d’accordo. A noi, però, interessa un’ulteriore questione, vale a dire se la profondità pertenga a ogni godimento estetico, a prescindere dal godimento di valori. A questa domanda bisognerà dare risposta negativa (fermo restando che in un certo senso, in base alle nostre precedenti considerazioni, ogni godimento estetico può venir detto profondo): è possibile che il godimento estetico di colori e suoni sia straordinariamente profondo, ma non è necessario; c’è un godimento di poesie, sculture e brani di musica assai profondo, e ce n’è uno assai poco profondo. Ma se il godimento è profondo, in che senso solitamente lo è? In precedenza abbiamo distinto vari significati della profondità del godimento, e ora, in effetti, sono tutti questi significati a essere chiamati in causa. Il godimento può toccare la profondità dell’io, ed esser perciò profonda. In questo senso il godimento del Faust giunge in profondità, mentre quello dei Knittelversen di Hans Sachs no. Il godimento può provenire dalle profondità dell’io, e in certa misura, anzi, tutti i godimenti estetici provengono da lì, poiché ci identifichiamo con essi. Tale identificazione, ovviamente, ammette differenze di grado: talora ci assimiliamo a questo godimento in grado maggiore, talaltra in grado minore; talora ne siamo più assorbiti, talaltra meno. Infine si è soliti parlare di profondità del godimento anche nei diversi significati di intensità del godimento che abbiamo prima tenuti distinti. Da ultimo, però, il godimento estetico può anche essere profondo nel senso della qualità del godimento, che è ovviamente qualcosa di diverso rispetto alla qualità della profondità che deriva dal godimento di valori profondi. Anche il godimento estetico che non è godimento di valori, il godimento dei propri stati d’animo, palesa infatti questa profondità: il godimento di propri stati d’animo (come malinconia o tristezza) può essere seria, profonda e significativa. Certo, anche in questo senso il godimento di valori estetici profondi sarà generalmente più profondo del godimento di valori estetici superficiali: il godimento dell’Adelaide di Beethoven sarà più profondo del godimento di una canzonetta popolare. Ma anche nel caso di un pieno afferramento del valore non è detto che in questo senso dal valore più profondo derivi anche il godimento più profondo, perché questa profondità del godimento – ed è il punto fondamentale – dipende meno dall’oggetto che dall’atteggiamen-

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to dell’io che esperisce il godimento, e varia quindi in base alla personalità, alla disposizione d’animo del momento e via dicendo. Qui l’accento cade sull’io che nel godere afferra l’oggetto. Quando io afferro, godendo profondamente, l’atmosfera serale, e poi godo, svagandomi con leggerezza, un motto di spirito, la differenza sta principalmente in ciò: nel primo caso sono atteggiato in modo serio, importante e significativo, nel secondo, invece, in modo interiormente poco serio, forse frivolo. L’essenziale, qui, è l’atteggiamento dell’io, non come atteggiamento volto a determinati oggetti, bensì come modo di guardarsi intorno, che può essere ora severo e serio, ora spensierato e allegro, ora ampio e sicuro e ora, di nuovo, ristretto e modesto. Certo, è l’oggetto a esigere determinati atteggiamenti (il motto di spirito esige un atteggiamento diverso da quello della tragedia, la vivacità veneziana dei colori un atteggiamento diverso dalla calma di una statua antica), ma è pur sempre il mio modo di afferrare a colorare di sé ogni esperienza vissuta, conferendole il proprio carattere. Un momento essenziale di questa profondità del godimento, dunque, è dato anche dal fatto che il mio atteggiamento interiore complessivo è profondo, serio, elevato e commosso, e che un tale atteggiamento complessivo rende profondo e penetra di sé il momento del godimento, che sta nell’affezione dell’io. Questa profondità del godimento non implica mai soltanto una pura qualità del godere, ma anche, sempre, il momento dell’atteggiamento dell’io. Questa forma di profondità del godimento, però, non riguarda solo il godimento estetico, bensì tutti i godimenti possibili: la si ritrova tanto nel godimento profondo della felicità, nelle profonde ore festose, quanto nel godimento del tragico. Solo che nel caso degli altri godimenti l’oggetto esige dall’io un simile atteggiamento in misura nettamente inferiore. Nel godimento estetico anche la profondità del godimento dipende indirettamente dalla profondità del valore dell’oggetto: chi gode davvero la Nona sinfonia non potrà farlo che profondamente. Nel caso di godimenti extraestetici, invece, a conferire all’esperienza vissuta profondità o superficialità, leggerezza o gravità, è in misura molto maggiore il proprio spontaneo atteggiamento. L’improvviso cambiamento del tempo, il cambio di stagione, il lavoro e il riposo, il rapporto con se stessi e con gli altri: il modo in cui esperiamo tutte queste cose dipende dal nostro atteggiamento. Ma dal momento che l’oggetto non ci vincola a farlo, di solito non trasferiamo l’atteggiamento di profondità da noi alle cose. Solo in casi eccezionali la nostra vita quotidiana è sorretta dalla profondità che caratterizza molti godimenti estetici in virtù della loro stessa natura: l’oggetto estetico esige da noi un atteggiamento di pro-

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fondità cui altrimenti, magari, non saremmo mai pervenuti. La vita estetica ci strappa quindi dal nostro atteggiamento normale, riempiendo l’io con una profondità che può certo ritrovarsi anche in altri vissuti significativi, ma che molto raramente ci è dato incontrare nella vita. E questo è un ulteriore momento di quella «intensificazione del sentimento vitale» che si ascrive al godimento estetico e che rappresenta un momento essenziale del suo significato per la nostra vita. Ci sono quindi due tipi completamente diversi di valutazione, a partire da cui attribuiamo un valore al godimento estetico in quanto vissuto. In quanto godimento di valori, il godimento estetico ha il valore dell’abbandono a valori estetici, e questo valore è tanto più alto quanto più profondi sono i valori afferrati nella contemplazione dell’oggetto. E con la profondità dei valori estetici dell’oggetto cresce anche, nel godimento, la qualità della profondità. C’è però anche un altro significato di profondità, un significato che non poggia sui valori estetici, bensì sulla profondità dell’atteggiamento dell’io. A ciò si ricollega una valutazione diversa, del tutto specifica e interna al mondo della coscienza, resa evidente dal fatto che valutiamo più positivamente i vissuti profondi rispetto a quelli superficiali e senza troppe pretese. In base a quanto detto è ormai chiaro da dove tragga origine la particolare considerazione di cui può fregiarsi il godimento estetico: non lo si apprezza per le conseguenze – morali o di altro genere – che ci si attende da esso, bensì per i valori che reca in sé. Il godimento estetico di valori trae valore dall’abbandono all’alto valore del godimento estetico; il godimento estetico di qualunque genere dall’interessamento e dall’interesse rivolto a se stessi; il godimento estetico profondo proprio dal valore coscienziale di questa profondità. Se negli altri godimenti tendiamo a rimarcare il momento negativo, l’assenza di attività, nel godimento estetico preferiamo sottolineare ciò che lo rende unico e significativo. Quel che accomuna tutti i godimenti lascia posto a quel che vi è di essenziale e peculiare nel godimento estetico, a quel che appartiene soltanto a esso.

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Le sensazioni corporee

Nello studio del problema del godimento estetico la nostra indagine vuol essere solo un inizio, non una conclusione. Ci siamo infatti occupati di un problema molto specifico, quello di individuare i momenti che costituiscono, sul piano del vissuto, il godimento estetico. Era questo il compito che ci eravamo prefissi. Abbiamo tralasciato, per quanto possibile, non solo la considerazione di ogni problema oggettuale, non solo ogni trattazione di tipo psicologico-causale, non solo l’intero decorso fattuale del godimento estetico (nel senso in cui lo hanno preso in esame Dessoir1 o Emma von Ritoók2), ma anche certi problemi squisitamente fenomenologici: su quali momenti vissuti, su quali funzioni vissute poggia il godimento? Per fare un esempio: se Groos avesse ragione a sostenere che il godimento poggi sull’imitazione interiore, allora il processo di imitazione interiore, di per sé, non sarebbe una componente del godimento vero e proprio, poiché l’imitazione interiore non è ancora godimento, ma piuttosto un vissuto su cui poggia ogni godimento. Noi, invece, abbiamo soltanto stabilito il modo in cui l’oggetto del godimento dev’essere afferrato nel godimento, senza chiederci né come l’oggetto goduto si costituisca per noi nell’esperienza vissuta, né come il godimento dipenda da tali momenti costitutivi – se ciò accada per empatia, oppure per imitazione interiore (se ad esempio la vista di una linea si costituisca per noi tramite determinati movimenti degli occhi ecc.), e se il godimento dipenda in qualche modo dai momenti che costituiscono l’oggetto nell’esperienza vissuta. Non ci siamo occupati nemmeno di tutto il mondo di sentimenti che è connesso all’esperienza vissuta dell’oggettuale senza però essere, propriamente, una componente dell’esperienza vissuta goditiva in senso stretto: i sentimenti di partecipazione che proviamo nei confronti di oggetti e persone; i sentimenti di compassione, la gioia condivisa con i personaggi di un dramma, o l’ansia per 1

M. Dessoir, Beiträge zur Ästhetik III. Zum Zusammenhang zwischen Wissenschaft und Kunst, cit. 2 E. von Ritoók, art. cit.

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la loro sorte; il problema del «partecipare allo sforzo» della e nella colonna dorica. E tanto meno abbiamo preso in considerazione i vissuti contenutistici del godimento estetico: gli stati d’animo tragici, la tensione, la presa di posizione nel godimento (presente ad esempio nello humour) e via dicendo. Questa delimitazione era necessaria per far emergere chiaramente, una volta per tutte, il nucleo specifico del godimento, svincolandolo dal groviglio – pernicioso sia dal punto di vista oggettuale che da quello metodologico – in cui la ricerca lo ha finora irretito. Non ci resta che un ultimo problema: dobbiamo chiederci quale sia il ruolo svolto dalle sensazioni corporee nel godimento estetico. Per la maggior parte dei ricercatori, infatti, queste sensazioni non sono soltanto momenti su cui poggia il godimento estetico, ma componenti del godimento stesso: la maggioranza degli estetologi pensa che il fatto che mi si allarghi il petto, che senta correre un brivido lungo la schiena o che avverta determinate sensazioni negli organi interni, faccia parte del godimento estetico. Sul come ciò avvenga, ovviamente, le opinioni sono assai divergenti, e vengono ammesse tutte le sfumature: dagli estremisti sostenitori delle teorie di James e Lange, che pensano che tutti i sentimenti si risolvano in sensazioni organiche, fino a Lipps, che in queste sensazioni non vuol veder altro che fenomeni concomitanti del godimento, di cui però non sarebbero parte. Come al solito c’è poca chiarezza, in generale, su dove stiano realmente i problemi, e si confondono persino le domande fondamentali, se cioè il godimento estetico sia godimento di sensazioni corporee, oppure se esso in qualche modo consista in queste sensazioni, vale a dire se le sensazioni corporee penetrino nel godimento. Da quanto abbiamo detto finora possiamo escludere che il godimento sia godimento di sensazioni corporee: il godimento di un colore o di una statua è godimento del colore o della statua, non di sensazioni corporee.3 Se fossero coerenti, i seguaci delle teorie di James e Lange dovrebbero sottoscrivere quanto segue: se ogni godimento, così come ogni sentimento, consiste in sensazioni corporee, allora non ha alcun senso dire che è godimento di sensazioni corporee, perché ogni godi-

3

Lo ha ben mostrato Lipps, per esempio nel suo Dritter ästhetischer Literaturbericht, III, Sonderabdruck aus dem «Archiv für systematische Philosophie», 6, 3, 1900.

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mento finirebbe per essere un complesso di sensazioni corporee che fanno riferimento a sensazioni corporee. La seconda questione, invece, concerne la possibilità che il godimento poggi su sensazioni corporee, e che il godimento di una linea, per esempio, si basi sui movimenti dell’occhio che si fanno nel seguirla; questo problema, però, non rientrava nella nostra indagine. Non ci resta dunque che rispondere a una domanda: fino a che punto le sensazioni corporee prendono parte all’esperienza vissuta del godimento in sé? In relazione a questa partecipazione non si può certo chiamare in causa il vero e proprio atto del godere, che è del tutto privo di sentimenti di stato, essendo – come risulta dalle analisi precedenti – un’esperienza vissuta puramente «spirituale». La ragione per cui Lipps si rifiuta rigorosamente di considerare le sensazioni corporee come componenti del godimento sta nel fatto che la funzione del godere non contiene in sé alcuna traccia di sensazioni corporee: queste ultime non rientrano nella funzione del godere, in rapporto alla quale sono, al massimo, fenomeni concomitanti. La questione della partecipazione delle sensazioni corporee ha senso solo per l’esperienza vissuta del godimento in un senso più ampio, per cui esso include anche i sentimenti di stato. Certo, anche in questo caso il vero e proprio stato dell’io – quel che rende commozione la commozione, edificazione l’edificazione – sarà un puro stato dell’io, e non un complesso di sensazioni corporee. Tuttavia, nel caso dei sentimenti di stato – commozione, edificazione, turbamento – le sensazioni corporee sembrano in effetti una componente essenziale dell’esperienza vissuta: l’autentica commozione non è pensabile senza un nodo alla gola. Per dirla con Lotze, «il rimorso e l’afflizione per qualcosa di passato non sono solo un giudizio di condanna morale pronunciato dentro di sé e avvertito esclusivamente dall’anima; la prostrazione delle membra, la diminuzione dell’ampiezza del respiro, l’oppressione nel petto e magari, nel caso della collera, le spasmodiche contrazioni dei bronchi e la strozzatura dell’esofago che blocca il boccone in bocca, rivelano che anche l’organizzazione corporea tenta simbolicamente di espellere ciò che disprezza e che lo opprime, facendolo gemere».4 Queste indicazioni, però, non consentono ancora di decidere se le sensazioni in questione siano parti del vissuto di cui stiamo parlando, oppure se non siano altro che

4

[R.H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der Seele, cit., p. 438.]

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fenomeni concomitanti a esso intimamente connessi, che aiutano a costituire l’esperienza vissuta complessiva. Il problema suona innanzitutto così: com’è possibile, in generale, una stretta unità tra sentimenti e sensazioni? Stando all’uso comune del linguaggio psicologico, infatti, le sensazioni sarebbero ad esempio colori e suoni, vale a dire contenuti oggettuali, mentre i sentimenti sarebbero contenuti soggettivi della vita psichica quali tristezza, gioia, amore e odio. Com’è possibile che un vissuto consti di due tipi di vissuti, di oggettuale e soggettivo in intima unità? La difficoltà sta principalmente nel modo di affrontare la questione da parte della psicologia. Dal punto di vista fenomenologico non c’è alcuna ragione per attenervisi. Se con «sensazione» bisogna intendere qualcosa che, per la mia esperienza vissuta, contiene ancora in sé tracce della soggettività psichica, allora non si capisce perché mai i colori e i suoni vengano detti, in generale, «sensazioni»: sono oggetti per me, per la mia apprensione, esattamente come lo sono uomini e piante. Qualunque cosa possa insegnarci una considerazione causale in merito al loro sorgere, per la mia coscienza restano sempre oggetti, che vengono vissuti come indipendenti dalla mia apprensione. Nella «sensazione», invece, la soggettività è ancora, in un modo o nell’altro, inclusa. Se è quindi vero che si ha un certo diritto a designare l’accogliere colori e suoni come un «sentire», altrettanto vero è che il termine «sensazione» non si addice affatto a suoni e colori, che al massimo sono «oggetti del sentire». Di sensazioni di gusto e, in un senso leggermente diverso, di sensazioni di tatto, si può invece tranquillamente parlare. Torniamo qui al problema – già toccato in precedenza – della «corporeità vivente» delle impressioni veicolate da determinati sensi. Si era detto che in alcune di queste impressioni irrompe la coscienza del contatto tra corpo e oggetto; ciò accade con il tatto, il gusto e, in certo senso, anche con l’olfatto. Questo «contatto» ha quindi un duplice aspetto. Il primo consiste nel fatto che in un’impressione di gusto o di tatto afferro qualcosa di oggettuale, come per esempio la durezza dell’acciaio o la dolcezza dello zucchero, e questi momenti non sono sensazioni, bensì oggetti afferrati in modo tanto adeguato quanto il blu del cielo. Che io li afferri nelle mie sensazioni non ne fa delle sensazioni, esattamente come un colore o un uomo non diventano sensazioni perché li si «vede». Nel «contatto», però, non c’è solo l’afferramento di ciò con cui si entra in contatto. Quando percepisco la durezza dell’acciaio sento contemporaneamente qual-

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cosa sulla punta delle dita: la psicologia popolare dei cinque sensi lo definisce, di solito, «senso».5 Ed è questo senso la vera e propria sensazione, che rinvia al mio corpo, alla punta delle mie dita, e non all’oggetto. Le sensazioni in cui si afferra qualcosa di oggettuale sono casi rarissimi del sentire; per lo più, infatti, la sensazione non è altro che sensazione corporea. Nel prurito o nel formicolio alla punta delle dita non c’è traccia di un riferimento a un oggetto effettivo. Se nella sensazione afferro qualcosa di oggettuale, se essa «me lo dà», allora la sensazione stessa non è oggetto della mia coscienza, ma piuttosto svolge una funzione. In questa sede non approfondiremo le varie modalità del fungere di sensazioni. Nella coscienza del peso di un corpo, per esempio, svolgono una funzione le sensazioni alle articolazioni, che non sono oggettive ma non sono nemmeno atti, e nemmeno stati dell’io: hanno una loro specifica modalità di vissuto. Queste sensazioni che svolgono una funzione celano in sé complicati problemi fenomenologici, e qui devono essere impiegate solo per mostrare quanto diversa possa essere la posizione delle sensazioni all’interno della vita psichica: dalla pura posizione di oggetto (quando ad esempio mi concentro sulle mie sensazioni corporee) si può giungere a tutte le posizioni possibili rispetto all’io. L’elemento caratteristico di tutte le sensazioni funzionali sta nel fatto che in esse è dato qualcosa di oggettivo, di extracorporeo: nelle sensazioni di contatto la durezza, in quelle di pesantezza il peso, e via dicendo. In questa sede, però, non dobbiamo parlare delle sensazioni «funzionali», bensì delle sensazioni corporee, che non vogliono essere altro che sensazioni corporee: quando mi si gonfia il petto, quando l’ansia mi fa venire un nodo in gola, e così via. In che modo le sensazioni corporee entrano nei sentimenti? In primo luogo dobbiamo constatare che in questa esperienza vissuta non siamo diretti alle sensazioni del petto o della gola, che di solito non hanno l’oggettualità che invece possiedono quando mi concentro su di esse. Talvolta, però, esse si fanno tanto presenti che la vera e propria esperienza vissuta sentimentale va quasi perduta. Le ginocchia possono tremare dalla paura o i muscoli vibrare di gioiosa eccitazione al punto che il sentimento propriamente detto può passare in secondo piano a 5

[Come già lo Herder della quarta Selva critica, Geiger si inserisce qui in una lunga tradizione che oscilla tra due accezioni diverse di Gefühl, visto talora come «sentimento», talaltra invece come «senso interno», da intendere innanzitutto come un tattile sentire se stessi.]

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tutto vantaggio di queste sensazioni corporee, che possono certo essere non meno spiacevoli della stessa ansia. Di norma, però, la posizione delle sensazioni corporee all’interno dei sentimenti di stato non è affatto questa: i rapporti sono molto più stretti, e le sensazioni corporee non si presentano separate dai sentimenti di stato, ma assieme ad essi rientrano nell’esperienza vissuta complessiva del sentimento. Ciò è possibile per due ragioni: da un lato le sensazioni corporee hanno di per sé un rapporto relativamente stretto con l’io. In esse c’è una duplicità dell’esperienza vissuta che ha spesso attirato l’attenzione dei filosofi, e che è servita a Schopenhauer, per esempio, come punto di partenza per l’esposizione del suo sistema: quando nel mio corpo ho una sensazione, la apprendo come stato di una cosa oggettiva, di una cosa tra le altre cose del mondo esterno – come stato del mio corpo fisico, appunto. Da questo punto di vista non viene chiamato in causa il fatto che si tratta del mio corpo. D’altro canto, però, in queste sensazioni ho coscienza del mio corpo proprio, di qualcosa che appartiene a me e dipende da me. Le sensazioni corporee vengono immediatamente avvertite come stati del mio io – del mio «io corporeo», ovviamente. Ora non possiamo approfondire il difficile problema della connessione tra corpo, corpo proprio e io, ma le sensazioni corporee sono comunque, in certo senso, «riflessive»: in esse io sento, afferro qualcosa che mi appartiene – il mio stato, il mio corpo proprio. L’affinità tra sensazioni corporee e sentimenti sta nel fatto che in entrambi i casi io esperisco in qualche modo me stesso. Solo che nel caso dell’esperienza vissuta di sentimenti c’è, nello stesso accorgersene, l’io, mentre nel caso delle sensazioni corporee ciò che viene afferrato è vissuto come appartenente all’io: mi si gonfia il petto, mi prudono le braccia, e così via. La duplicità dell’esperire dell’io emerge chiaramente nelle due espressioni «sento fame» e «sono affamato». L’espressione «sento fame» prende la fame come un che di vissuto, di afferrato dall’io, come oggetto del mio esperire; l’espressione «sono affamato», invece, considera tale sensazione vissuta come qualcosa che, a sua volta, è uno stato del corpo proprio, e quindi, indirettamente, uno stato dell’io. Questo fa sì che le sensazioni corporee si connettano all’io più strettamente di quanto esigerebbe il loro contenuto, che di per sé ha natura oggettuale, come si evince, per esempio, dal caso della fame. Ne consegue, inoltre, che le sensazioni vengono apprese come tanto più vicine all’io quanto meno strette sono le relazioni col mondo oggettivo, quanto meno accentuato è il loro rapporto col corpo fisico e quanto più marcata la loro corporeità vivente, e quanto meno sono localizzate e qualitativamente determinate. Il sussulto leggero di un dito viene localizzato con precisione in un certo punto del dito, e qui

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è la relazione col corpo fisico a emergere in primo piano; il tremito resta quindi relativamente lontano dall’io. Certo è il mio dito quello in cui avverto il sussulto, ma è pur sempre il mio dito. La fame, al contrario, è molto meno rigorosamente localizzata nel corpo fisico, ed è dunque più soggettiva, anche se ha pur sempre un contenuto assolutamente determinato e chiaro: è fame, appunto. Le sensazioni del petto non hanno né una precisa localizzazione né un contenuto chiaramente definito: sono localizzate molto genericamente nel petto, e se non mi concentro su di esse giungono alla coscienza come pure sensazioni, per nulla definite dal punto di vista contenutistico. Da queste sensazioni, poi, si giunge pian piano a quelle sensazioni organiche, del tutto vaghe e localizzate in modo assolutamente impreciso, che nemmeno l’attenzione più assidua può pensare di districare. I due momenti dell’evidenza qualitativa e della localizzabilità delle sensazioni non sono gli unici a determinare la maggiore o minore soggettività delle sensazioni; ce ne sono altri, per esempio, nel carattere stesso delle sensazioni o nell’atteggiamento interiore nei loro confronti, ma quei due operano essenzialmente in questa direzione. La soggettività della sensazione corporea, la sua corporeità vivente, è il primo momento che le rende atte a entrare nei sentimenti di stato. Il secondo, invece, va cercato in un’altra direzione: prendiamo il vissuto della tensione dei muscoli di un braccio. Come Lipps ha giustamente sottolineato innumerevoli volte, tale vissuto non si esaurisce nelle sensazioni di tensione; queste ultime, piuttosto, devono il loro nome al fenomeno della tensione, che non può essere affatto ricondotto a sensazione, dal momento che è fondato nelle sensazioni di tensione, ma non coincide in alcun modo con esse. Il medesimo contenuto di tensione, che qui si presenta come parte costitutiva di uno stato oggettivo («il mio braccio è teso»), compare in altri casi come contenuto di un vissuto puramente soggettivo (sono teso aspettando l’esito di un processo). Anche quando mi si gonfia il petto i vissuti di tensione giocano la loro parte, e le sensazioni si perdono in essi; in questo caso, però, è molto più importante il fatto che le sensazioni fondano il fenomeno del «gonfiarsi», e innanzitutto solamente il fenomeno corporeo – al contempo del corpo fisico e del corpo proprio – del «gonfiarsi del petto». In questo vissuto del gonfiarsi del petto, in questo vissuto della corporeità vivente, le sensazioni, come contenuti a sé stanti, vanno in certa misura perdute; possono venir enucleate come contenuti fondanti tramite l’attenzione. Accanto a questo fenomeno, che pertiene al corpo proprio ed è quindi «semisoggettivo», c’è anche il vissuto completamente soggettivo dell’interiore gonfiarsi, l’interiore gonfiarsi che si verifica nel sentirsi elevati – un puro stato dell’io, quindi, un atteggiamento interio-

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re nei confronti delle cose intorno a me. È possibile che lo stato del corpo proprio provochi il gonfiarsi interiore, ma di sicuro i due vissuti non coincidono. Sono comunque strettamente connessi, innanzitutto per il comune contenuto fenomenologico del «gonfiarsi», e poi per il carattere di piacere che permea entrambi. Possiamo tranquillamente concedere che questo carattere di piacere del gonfiarsi del petto derivi dalla gradevolezza delle sensazioni corporee, se è vero che il puro contenuto fenomenico del gonfiarsi non ne contiene in sé ancora alcuna traccia. Spesso, al contrario, a essere piacevole è la ristrettezza: c’è una ristrettezza familiare che contrasta con una larghezza desolata e poco accogliente. Di solito, però, l’atteggiamento interiore della larghezza, il sentirsi allargare, reca sempre un accento di piacere. A influire sull’unione dei due vissuti è quindi una serie di momenti: in primo luogo il fatto che in entrambi c’è lo stesso contenuto fenomenico, la larghezza; poi che entrambi sono impregnati del carattere di piacere; infine che anche nei vissuti del corpo proprio si ritrova in certo senso la soggettività. Questo permette di comprendere che le sensazioni corporee rappresentano un elemento costitutivo essenziale dell’esperienza vissuta complessiva; sotto il profilo puramente contenutistico, ovviamente, non possono aggiunger nulla alla commozione, al raccoglimento o all’elevazione. Non fanno altro che accrescere il volume dell’esperienza vissuta, la sua pienezza e freschezza, e Lotze ha perfettamente ragione quando, in un passo molto citato della sua Medizinische Psychologie, attribuisce alle sensazioni corporee uno «specifico potere colorante».6 Le sensazioni, quindi, si dissolvono quasi interamente nei vissuti che su di esse si fondano, ma ciò non significa che smettano di venir vissute come stati del corpo fisico: nulla al mondo può trasformare le sensazioni nel petto in atteggiamenti dell’io, anch’esse costituiscono una parte di quel che chiamiamo il vissuto del sentirsi elevati. Questo dissolvimento non è l’unico modo in cui le sensazioni corporee vengono vissute nei sentimenti: accanto a tali sensazioni, che noi abbiamo esemplificato tramite il gonfiarsi del petto, ve ne sono altre che, al contrario, emergono chiaramente come fenomeni concomitanti dei sentimenti di stato. Possono essere connesse essenzialmente con i sentimenti di stato, o anche soltanto con i loro livelli più alti, ma resta6 [H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der Seele, Weidmann’sche Buchhandlung, Leipizig 1852, p. 438.]

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no comunque fenomeni concomitanti: in questa casistica rientrano ad esempio il tremare di gioia, il brivido di commozione lungo la schiena e via dicendo. Dobbiamo quindi distinguere tre cose: innanzitutto il vero e proprio sentimento psichico della commozione, dell’elevazione, che non contiene traccia di sensazioni corporee; in secondo luogo il vissuto complessivo della commozione, dell’elevazione, in cui entrano determinate sensazioni corporee. Queste generano la «freschezza sensibile» di cui parla Stumpf, e hanno anche un’altra funzione, quella di accentuare in modo particolare il carattere dei sentimenti di stato in quanto stato dell’io, rafforzando la coscienza dell’io per via indiretta, attraverso il corpo proprio. In terzo luogo, infine, ci sono le sensazioni corporee come puri fenomeni concomitanti di questi sentimenti di stato, e qui dobbiamo tener conto del fatto che abbastanza spesso riuscirà difficile stabilire se le sensazioni del corpo siano componenti dell’esperienza vissuta sentimentale oppure suoi fenomeni concomitanti. L’analisi dimostra quindi che le sensazioni corporee non rientrano nel fatto soggettivo del sentire in senso stretto, e tuttavia svolgono un ruolo significativo nel fatto complessivo dei sentimenti di stato. Quale sia questo ruolo, in dettaglio, lo può dire soltanto l’indagine empirica, esaminando caso per caso; noi dovevamo solo indicare i punti di vista decisivi. Per quanto accentuiamo la partecipazione delle sensazioni organiche, siamo ovviamente ben lontani dal voler dissolvere in esse i sentimenti di stato. Non possiamo che sottoscrivere in pieno il pungente giudizio di Lipps sulla «malattia di moda»,7 e siamo anche d’accordo con Volkelt quando afferma che «non avrebbe alcun senso attendersi una qualche delucidazione sui sentimenti estetici a partire dall’accertamento delle ultime risonanze del corpo proprio. Il più preciso sguardo rivolto alle sensazioni organiche che accompagnano impressioni graziose, sublimi, toccanti, comiche o tragiche – così come ai loro fondamenti fisiologici – non aiuta minimamente a comprendere la natura del grazioso, del sublime ecc. Alla base della credenza secondo cui i sentimenti estetici debbano venir studiati e chiariti a partire da processi vasomotori dev’esserci una visione rozza e grossolana come quella di Carl Lange».8

7 8

Th. Lipps, Dritter ästhetischer Literaturbericht, III, cit. J. Volkelt, System der Aesthetik, cit., vol. 1, p. 164.

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Come mai allora un gran numero di estetologi, pur senza condividere il punto di vista estremista di James e Lange, continua a pensare che le sensazioni corporee svolgano un ruolo così estremamente importante all’interno del godimento estetico? Come mai, per esempio, circa un terzo dell’opera di Groos incentrata su questo tema è dedicata a problemi connessi con le sensazioni corporee? Ciò è dovuto in parte al fatto che le sensazioni corporee entrano in gioco anche nella discussione di altri problemi, e in parte, però, al fatto che i problemi che noi abbiamo tenuto separati, e anche altri affini, non vengono distinti. Le sensazioni corporee, si dice, possono essere necessarie per costituire l’oggetto per la nostra coscienza: è quanto affermano le teorie che ritengono che la costituzione delle forme per la mia coscienza si fondi su movimenti degli occhi,9 o che il comportamento di corpo estranei debba venir compreso per imitazione interiore.10 In primo luogo, però, le attività e le sensazioni corporee non sono che un mezzo per la costituzione dell’oggetto estetico. Stando alla concezione suddetta, la vivacità dell’apprensione dell’oggetto dipende dalla vivacità dell’imitazione interiore e delle sensazioni corporee in essa coinvolte, ma queste sensazioni non entrano nel godimento in sé. Ciononostante, se tale concezione è corretta, il godimento dipende dalla loro attività costitutrice, ma solo in seconda battuta: il godimento è godimento dell’oggetto, muta con l’oggetto, e poiché la costituzione dell’oggetto dipenderebbe dalle sensazioni corporee, queste ultime sarebbero indirettamente responsabili anche del godimento. Ma in questa concezione se ne insinua continuamente un’altra che non viene tenuta sempre rigorosamente distinta dalla prima: il godimento poggerebbe direttamente sull’imitazione interiore, e il godimento estetico sarebbe godimento nell’imitazione interiore, nel movimento degli occhi. In terzo luogo, l’«effetto di piacere» connesso alle sensazioni corporee viene considerato responsabile del godimento estetico. «Nel caso in cui si venga afferrati con estrema intensità, perfino il sentimento di piacere contiene specifiche componenti riconducibili all’effetto sentimentale delle sensazioni organiche».11

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K. Groos, Der ästhetische Genuss, cit., p. 48. Ivi, pp. 50-51. 11 Ivi, p. 67. 10

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Infine però – ed era l’unico problema che ci interessava – le sensazioni organiche stesse possono entrare nei sentimenti di stato connessi al godimento, nella maniera che abbiamo descritto in precedenza, come fondamento di determinati fenomeni. La posizione privilegiata che si accorda alle sensazioni corporee nella trattazione del godimento non deve meravigliare: i sostenitori della teoria delle sensazioni organiche, infatti, non tengono chiaramente distinti tutti questi significati psicologici delle sensazioni corporee e parlano genericamente di «coinvolgimento delle sensazioni corporee nel godimento», riducendo gli autentici problemi fenomenologici descrittivi del godimento estetico all’affermazione per cui il godimento sarebbe piacere. Le nostre analisi, invece, intendevano dimostrare che i problemi autentici stanno nella descrizione del fenomeno del godimento dal versante puramente soggettivo. Volevano dimostrare, in altri termini, che in relazione al godimento estetico i problemi autentici iniziano soltanto dopo la primitiva asserzione secondo cui il godimento sarebbe piacere.

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Indice dei nomi

Alberto III di Baviera-Münster, 93 Antistene, 61 Aristippo, 23, 61, 89, 97, 124 Aristotele, 69, 141 Avé-Lallemant, E., 38-39 Bach, J.S., 45,113 Barck, K., 38 Bartezzaghi, S., 7 Basch, V., 132 Bassermann, E., 63 Beardsley, M.C., 39 Bebel, A., 63 Beck, M. 38 Beethoven, L., 21, 31-32, 76, 101, 143, 145 Benjamin, W., 32 Berger, K., 36-38 Bergson, H., 95-96 Bernauer, A., 93 Besoli, S., 8, 35 Biller, G., 38 Binswanger, L., 33 Boucher, F., 127, 129 Brega, M.G., 29 Bruckner, A., 141 Burckhardt, J., 12 Cervantes, M., 141 Cimino, A., 9 Cohn, J., 58-59, 130 Colli, G., 139

Conrad, W., 10 Conte, P., 48 Costa, V., 9 D’Angelo, P., 129 De Monticelli, R., 36, 64 De Vecchi, F., 64 Debussy, C., 113 Dessoir, M., 35, 48, 113-114, 149 Di Staso, L., 116 Diogene Laerzio, 89 Donatello, 45 Donizetti, G., 93 Dreyer, M., 122 Dufrenne, M., 33 Eichendorff, J., 10, 44 Epicuro, 139 Ernesto di Baviera-Münster, 93 Faust, 99 Fechner, G.Th., 11, 50, 54 Feroldi, L., 36, 39 Fertonani, R., 44 Gabriel, G., 38 Galimberti, P., 8, 35, 37 Ganni, E., 44 Gardini, M., 10 Gargiulo, A., 129 Geiger, M., 8-13, 15-19, 21-24, 2639, 64, 153 George, S., 10, 44 Giannelli, M.T., 44

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"#$! Giesz, L., 32, 39 Giorgione, 129 Gladiator, R., 39 Goethe, J.W., 44, 142 Graziussi, M., 56 Greif, M., 93 Gretchen, 55 Groos, K., 55, 69, 71, 149, 158 Grunder, K., 38 Guidetti, L., 8, 35 Hanslick, E., 115-116 Hebbel, Fr., 93 Henckmann, W., 36-38 Herder, J.G., 153 Heydebrand, H.B.A.T., 63 Hinneberg, P., 37 Hufnagel, C., 38 Husserl, E., 9, 11, 33, 35 Ibsen, H., 122 Ingarden, R., 9 Issione, 139 James, W., 35, 150, 158 Jaspers, K., 57 Jauss, H.R., 29, 34 Kaelin, E.F., 39 Kalischer, E., 57 Kandinskij, V., 31 Kant, I., 18, 54-55, 106, 129-132, 137 Krenzlin, N., 39 Kuhn, H., 39 Külpe, O., 54-55, 106, 118-119 Landmann, E., 106 Lange, C., 150, 157-158 Laurila, K.S., 55 Lipps, Th., 26, 28, 31, 33-36, 54-56, 97, 106, 145, 150-151, 155, 157

Lotze, R.H., 151, 156 Maldiney, H., 33 Marées, H., 10, 44 Marelli, F., 35 Maria Stuarda, 93 Masini, F., 137 Meinong, A., 74 Merleau-Ponty, M., 33 Métraux, A., 39 Meumann, E., 54, 97 Meyer, R., 38 Mickunas, A., 39 Mingazzini, P., 12 Minkowski, E., 33 Misch, G., 37 Montinari, M., 137, 139 Mueller, K., 31 Muhl, E., 36 Müller-Freienfels, R., 71 Münsterberg, H. von, 35 Naumann, Fr., 63 Nietzsche, Fr., 94, 113, 135, 137, 139, 142 Nohl, H., 37 Orringer, N.R., 39 Palanga, N., 139 Panofsky, E., 48 Pestureau, J.-F., 34, 36 Pfänder, A., 8-9, 35, 37, 64, 67, 70 Pfister, F., 12 Piana, G., 9 Pinotti, A., 9-10, 28, 35-36, 39, 48 Platone, 142 Reinach, A., 9, 35 Richir, M., 34, 36, 39 Rilke, R.M., 7 Ritoók, E., 133, 149

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Ritter, J., 38 Royce, J., 35 Sachs, H., 145 Santayana, G., 35 Scaramuzza, G., 31-32, 35, 37-39 Scheler, M., 9, 35 Schiller, Fr., 62, 93, 111, 142 Schopenhauer, A., 127, 130, 137139, 154 Schrag, C.O., 39 Schubert, F., 32 Schuhmann, K., 9, 35 Sepp, H.R., 31 Sheffield Brightman, E., 36-37 Siebeck, H., 55 Sossi, F., 95 Spiegelberg, H., 38 Spitzer, H., 95 Stendhal, 137

"#%! Straus, E., 33 Stumpf, C., 88,157 Sudermann, H., 122 Tiziano Vecelli, 129 Tolstoij, L.N., 142 Tristano, 55 Utitz, E., 48, 69 Vattimo, G., 139 Vigliani, A., 139 Volkelt, J., 44-46, 56, 58, 93, 110111, 157 Wind, E., 48 Witasek, S., 56, 74 Wundt, W., 34 Zeller, E., 69 Zeltner, H., 39 Ziegenfuß, W., 38

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Collana di Testi e Studi fondata da Lino Rossi TESTI. Volumi pubblicati: 1. L. Rossi, Luciano Anceschi Maestro. Una testimonianza epistolare, pp. 68. 2. L. Rossi, Occasioni. Saggi di varia filosofia, pp. 224. 3. E. Cassirer, Tre studi sulla “forma formans”. Tecnica - Spazio - Linguaggio, a cura di G. Matteucci, pp. 168. 4. M. Geiger, Vie all’estetica. Studi fenomenologici, a cura di A. Pinotti, pp. 231. 5. W. Conrad, L’oggetto estetico. Uno studio fenomenologico, a cura di M. Gardini, pp. 217. 6. H. Plessner, Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, a cura di A. Ruco, pp. 173. 7. M. Dessoir, E. Utitz, E. Wind, E. Panofsky, Estetica e scienza generale dell’arte. I “concetti fondamentali”, a cura di A. Pinotti, pp. 223. 8. T. Reid, Lezioni sulle belle arti, a cura di A. Gatti, pp. 121. 9. W. Conrad, Scena e dramma. Per una fenomenologia del teatro, a cura di C. Cappelletto, pp. 133.

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