Penso di essere un verbo : ulteriori contributi alla dottrina dei segni [1 ed.]

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Penso di essere un verbo : ulteriori contributi alla dottrina dei segni [1 ed.]

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Thomas A. Sebeok

Penso di essere un verbo Ulteriori contributi alla dottrina dei segni

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Thomas A. Sebeok

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Penso di essere un verbo Ulteriori contributi alla dottrina dei segni

A cura di Susan Petrilli

Con una intervista inedita all’autore

Sellerio editore



\Mr OO-l.y SE £■ 1986 © Plenum Publishing Corporation, New York 1990 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo

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Penso di essere un verbo: ulteriori contributi alla dottrina dei segni / Tho­ mas A. Sebeok ; a cura di Susan Petrilli ; con una intervista inedita al­ l’autore. - Palermo : Sellerio, 1990 348 p. ; [6] c. di tav. : ili. : 21 cm. - (Prisma ; 130) Segue: Appendice - Contiene bibliogr. I. Petrilli, Susan II. Sebeok, Thomas A. 1. Semiotica cdd 149.94 (a cura di S. & T. - Torino)

Titolo originale: I Think I Am a Verb. More Contributions to thè Doctrine of Signs Traduzione dall’inglese di Susan Petrilli

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Indice

Introduzione di Susan Petrilli

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Penso di essere un verbo Prefazione

23

Capitolo primo Penso di essere un verbo

33

Capitolo secondo Comunicazione, linguaggio e parlare. Considerazioni sull’evoluzione

44

Capitolo terzo Una prospettiva semiotica per le scienze. Verso un nuovo pa­ radigma

52

Capitolo quarto Sintomo

86

Capitolo quinto Segni vitali Appendice

102 126

Capitolo sesto Segni della vita

127

Capitolo settimo La nominazione negli animali con riferimento al gioco. Un’ipotesi

129

Capitolo ottavo Dialogo intorno ai segni con un Premio Nobel Appendice

147 166 7

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Capitolo nono Esibizioni di scimmie giapponesi

170

Capitolo decimo Sanno mentire gli animali?

179

Capitolo undicesimo Favole vere di animali

185

Capitolo dodicesimo Versi avversi

199

Capitolo tredicesimo Il seguito del vaso di Pandora

203

Capitolo quattordicesimo One, two, three: ubertà

230

Capitolo quindicesimo Entro-testualità. Echi dell’extraterrestre

241

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Appendici A. Nudi fatti e dati fuorviami

251

B. Risposta ai Rumbaugh

257

C. Replica alla professoressa Gopnik

265

D. Una volta innamorato di Amy

270

É. L’éducation sentimentale

274

F. La mente di una grande scimmia

279 282

G. Una recensione all’« Ethology » di Hinde

Scritti aggiunti nella presente edizione Semiosi e semiotica: quale futuro?

289

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Segni di un percorso: da Peirce (via Morris e Jakobson) a Sebeok. Intervista a Thomas A. Sebeok di Susan Petrilli

292

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Riferimenti bibliografici

303

Elenco delle tavole

347

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Introduzione di Susan Petrilli

Il libro che qui si presenta in traduzione italiana era presentato dallo stesso Sebeok nell*edizione inglese originale come il quarto di una tetralogia. Gli altri tre sono già apparsi in italiano e sono: Con­ tributi alla dottrina dei segni (1976), Feltrinelli, Milano, 1979; Il gio­ co del fantasticare (1981), Spirali, Milano, 1984; Il segno e i suoi maestri (1976), Adriatica, Bari, 1985. In seguito Sebeok ha aggiunto alla tetralogia altri due volumi non ancora pubblicati e che sono A Sign Is Just A Sign e American Signatures. In lingua italiana sono ap­ parsi anche un altro libro di Sebeok: Zoosemiotica: Studi sulla comu­ nicazione animale (1968), Bompiani, Milano, 1973, e un libro da lui curato insieme a Umberto Eco: Il segno dei tre: Holmes, Dupin, Peirce (1983), Bompiani, Milano, 1983. Con questa pubblicazione, dun­ que, si porta a termine la diffusione in Italia di una parte consistente della vasta produzione attuale di Thomas A. Sebeok, e specificamente quella in cui in maniera più diretta e completa si esprime la sua ricerca e la sua metodologia nelVambito della semiotica. Forse dei quattro volumi questo è il più sfaccettato e il più spinto nell esplorazione dei confini di questa scienza, o come Sebeok pre­ ferisce dire, « dottrina » dei segni, al tempo stesso giovane, per ciò che concerne la determinazione del suo statuto e la consapevolezza delle sue possibilità di estensione, ma antica se andiamo a rintracciarne le radici, come appunto egli fa, fin nella teoria e nella pratica della medicina di Ippocrate e Galeno. La varietà e ampiezza di interessi che caratterizzano questo volume rispetto agli altri, dipende dal fatto che esso è il prosieguo, Vapprofondimento e Varricchimento, perlome­ no con ulteriori informazioni e documentazioni, delle ricerche con­ dotte in tutti gli altri tre. Da questo punto di vista, più che come una quarta strada da percorrere in aggiunta alle tre precedentemente im­ boccate dalla ricerca di Sebeok, in modo da completare con essa la conoscenza della sua tetralogia, questo volume si presenta al lettore come centro di un trivio da dove si può guardare per avere Videa di 11

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tutte le possibilità di percorso di quella vastissima regione che è la semiotica. Questo suo essere punto di confluenza e al tempo stesso di avvio risulta non solo dall*indice degli argomenti in esso contenuti, ma anche dai continui rinvìi, presenti in questo libro, agli altri tre che cronologicamente lo hanno preceduto. Ciò conferisce a questo libro una doppia possibilità di uso: per chi già ne conosce Vautore e la sua precedente produzione esso è un importante momento di riconsiderazione, sintesi e messa a punto delle riflessioni svolte in precedenza; invece, chi si accosta per la prima vol­ ta all'opera di Sebeok, può trovare proprio qui il punto giusto dal quale incamminarsi per gli affascinanti, anche se non sempre facili percorsi della ricerca di questo intraprendente e instancabile semioticista. Il titolo del libro, Penso di essere un verbo, è costruito ripren­ dendo una frase di Ulysses S. Grant, diciottesimo presidente degli Stati Uniti, scritta negli ultimi giorni della sua vita, e facendola risuo­ nare nel senso del semioticista Charles Sanders Peirce (al quale so­ prattutto si ispira Sebeok, anche per la sua diretta derivazione da Charles Morris oltre che da Roman Jakobson), secondo il quale cia­ scun uomo può dire dì sé «io sono un segno». Nella scelta della categoria grammaticale del verbo, piuttosto che del nome, per carat­ terizzare il segno che, secondo Sebeok, non solo è ciascuno di noi, ma anche tutto ciò che è vita nel nostro mondo, si sottolinea l'aspetto di processo, la dinamicità della semiosi. Si potrebbe dire che il vivere è un segno e che perciò - è questo uno dei punti di forza della dottrina dei segni di Sebeok - sia il mantenimento e la riproduzione della vita sia la sua interpretazione al livello scientifico hanno necessariamente a che fare con l'impiego dei segni. Si può intravedere già da qui la connessione strettissima, su cui Sebeok insiste particolarmente, fra biologico e semiosico e dunque fra biologia e semiotica. Ma « penso di essere un verbo » può anche essere assunta come la dichiarazione più appropriata che caratterizza lo stesso Sebeok nel suo infaticabile lavoro di interpretazione. Questa curvatura biografica non è del tutto estranea al libro, dati i continui riferimenti, fin dalle prime righe del primo capitolo, da parte dell'autore, alla propria vita: si comincia con un ricordo del padre, e qua e là innumerevoli sono le menzioni d'incontri, esperienze, aneddoti che si riferiscono alla cerchia dei propri familiari e a quella dei propri colleghi ed amici. Sembra che tutta la ricerca di Sebeok porti alle sue conseguenze, col titolo programmatico « Penso di essere un verbo », l'assunto di Peirce che l'uomo è un segno:1 questo segno, sembra dire Sebeok è un 1 Cfr. Charles Sanders Peirce, Semiotica, testi scelti e introdotti da Massimo 12

verbo: interpretare; ed è fatto coincidere, come abbiamo detto, nel­ la sua concezione della realtà, con il vivere, e, nella sua concezione del proprio lavoro, con la propria vita. Se io sono un segno, ci di­ ce Sebeok con tutta la sua vita di ricercatore, niente di ciò che è segno mi può essere estraneo - nihil signi mihi alienum puto; e se il segno, situato com’è nella interminabile catena degli altri segni, non può esimersi di essere interpretante, allora interpretare è il verbo che meglio può farmi conoscere chi sono. Ormai lontanissimo dall’angusto spazio in cui Saussure voleva rin­ chiudere la scienza dei segni, limitandola ai segni della cultura umana e per giunta a quelli intenzionalmente prodotti per comunicare, Se­ beok non vuol trascurare nessun aspetto della vita dei segni. E sem­ bra che egli non si accontenti mai di nessun limite imposto, o per mo­ tivi contingenti, o per convinzioni epistemologiche, alla semiotica. Ma tutto ciò è fatto con un atteggiamento che, contrariamente a quan­ to a prima vista si potrebbe credere, scoraggia ogni pretesa di questa disciplina — non per niente indicata appunto come « dottrina », piutto­ sto che esaltata come campo scientifico o filosofico onnicomprensivo a erigersi a sapere esaustivo e solutore di tutti i problemi. Infatti pro­ prio la consapevolezza della vastità dei territori da esplorare e della varietà e complessità delle questioni da affrontare conferisce un sen­ so di prudenza, di estrema problematicità ed anche di umiltà ad ogni interpretazione arrischiata, non solo nel territorio infido dei segni, ma soprattutto in quello, ancora più ingannevole, dei segni di segni, con cui il lavoro semiotico ha a che fare. Questa capacità che i segni hanno d'inganno, di sviamento, di mascheramento, di finzione e di messa in scena costituisce uno dei temi ma anche uno dei fili conduttori di questo libro. Prima ancora di Umberto Eco che ha definito la semiotica come la disciplina che stu­ dia tutto ciò che può essere usato per mentire, già Giovanni Vailati aveva compreso, come conseguenza del carattere non isomorfico dei segni rispetto alla realtà, il fatto che essi possono essere usati per A. Bonfantini, Letizia Grassi, Roberto Grazia, Einaudi, Torino, 1980. A proposito dell’identificazione uomo-segno, si veda, in particolare la sezione « Pensiero-segno-uo­ mo », la traduzione italiana del saggio di Peirce, « Some Consequences of Four Incapacities », ora in Collected Papers, The Belknap Press of Harvard University, Cambridge Mass.; 1931-1958, § 5, 264-317. Un contributo del tutto originale agli studi sulla teoria e sulla pratica del segno di impostazione peirceana ci perviene dal­ l’ultimo libro di Gerard Deledalle apparso originariamente in francese col titolo Charles S. Peirce, phénoménologue et sémioticien, nella collana Fondations of Semiotics, voi. 14, John Benjamins, Amsterdam-Philadelphia, 1987, e ora in traduzione inglese, presso la stessa casa editrice, effettuata da me, insieme ad una introduzione scritta appositamente per questa nuova edizione.

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sviare e per ingannare, tanto che, nel 1907, intitolava la sua recen­ sione a L’arte di persuadere, di Prezzolini, Un manuale per i bugiardi.2 Uimbroglio e la menzogna sono comportamenti a cui un semioticista come Sebeok, interessato ai segni ovunque essi appaiono, deve essere particolarmente, ma direi anche ossessivamente, attento. Una « osses­ sione » di Sebeok sono comportamenti e situazioni appartenenti allo stesso tipo del caso Bravo Hans, cioè, del cavallo da circo che sem­ brava, per effetto di un auto-inganno del suo domatore che gli man­ dava inavvertitamente dei segnali, essere in grado di contare e leg­ gere. A questo caso, direttamente esaminato in un capitolo di II segno e i suoi maestri, si accenna molto spesso in questo libro; come pure si esaminano casi analoghi di animali ammaestrati in cui però spesso Vinganno da parte di chi manipola è consapevole: tutta la sezione intitolata «Dialogo intorno ai segni con un Premio Nobel» discute effetti segnici, in cui sono coinvolti uomini e animali, che sono riu­ sciti a trarre in inganno anche i più eminenti studiosi. Ci sono due motivi per i quali Sebeok si accanisce a considerare le possibilità di menzogna concernenti il mondo animale. Il primo riguarda il suo intento di smascherare delle messe in scena, in certi casi, o di far crollare le illusioni, in certi altri, relativamente alla pos­ sibilità di « far parlare » gli animali, proprio nel senso letterario delVespressione, vale a dire, di estendere ad essi una caratteristica spe­ cie-specifica delVuomo che è il linguaggio verbale. Sebeok è spesso intervenuto a dimostrare, con ampie discussioni e prove, l’impossibilità di omologare il linguaggio verbale umano e i linguaggi animali. In questo libro ricorre anche allo strumento della presa in giro e della parodia, come si può vedere nella parte intitolata « Versi avversi ». Il secondo motivo nasce dal fatto che, se i segni non sono solo pro­ pri delVuomo, ma, come la zoosemiotica ha evidenziato, appartengono anche agli animali non umani, allora dato che usare segni significa anche poter mentire, bisogna affrontare Vinteressante problema se an­ che gli animali mentono. Vi è un capitolo di questo libro (capitolo decimo) espressamente dedicato a tale problema. Ma anche in altri es­ so ritorna, particolarmente in quello intitolato « Favole vere di anima­ li ». Qui, oltre al più noto caso concernente il mondo degli uccelli, in

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2 Questo aspetto degli studi di Vadati viene rilevato da Augusto Ponzio, in un paragrafo intitolato appunto « Plurivocità, omologia, menzogna », di un capitolo incentrato sul rapporto fra il pensiero di Giovanni Vailati e Ferruccio Rossi-Landi, incluso nel suo ultimo libro, Rossi-Landi e la filosofia del linguaggio, Adriatica, Bari, 1988, pp. 195-197. Rimando, inoltre al volume degli scritti di Vailati, apparso di recente, a cura di Mario Quaranta, Scritti, Forni, Bologna, 1987. A Giovanni Vailati in rapporto a Peirce fa diretto riferimento lo stesso Sebeok in Peirce in Italia, in «Alfabeta», 35, 28 aprile 1982.

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cui la madre simula di avere un’ala ferita per attirare su di sé un anima­ le predatore e allontanarlo dai suoi piccoli, Sebeok ne espone molti al­ tri mostrando la sua profonda conoscenza del comportamento segnico degli animali, fra cui quello inverso al precedente dove la volpe madre lancia un grido di finto allarme per far fuggire dal cibo i suoi cuccioli e appropriarsene lei. Però il mondo dei segni non è soltanto quello dell’inganno, ma an­ che quello di pratiche, ad esso tuttavia collegate in qualche modo, come il gioco, l’uso di simboli, il dono, ecc. L’impiego di segni da parte degli animali, oltre che da parte dell’uomo, comporta che tutte queste pra­ tiche spesso considerate prerogative della « cultura » siano invece ri­ scontrabili anche nel mondo della natura animale. Sebeok, infatti, di­ mostra la presenza in esso del gioco e, in stretta dipendenza da que­ st’ultimo, addirittura l’uso di nomi propri e individuali fra gli animali (v. capitolo settimo). Sul simbolismo nel mondo animale gli studi eto­ logici hanno già particolarmente insistito. Sebeok li riprende e li svi­ luppa semioticamente, affrontando anche da un punto di vista almeno metodologico, se non epistemologico, il problema dei confini fra etolo­ gia e semiotica. Sulla pratica del dono è particolarmente interessante, nel capitolo intitolato «Favole vere di animali», l’illustrazione del com­ portamento del maschio della famiglia delle « mosche danzatrici » che porta in regalo alla femmina, con cui si accoppia, un insetto catturato. Questo dono, come nel caso dell’ortotomo o «mosca-pallone» (di cui si parla anche in II segno e i suoi maestri), ha la funzione di di­ strarre su un’altra preda la compagna durante l’amplesso per evitare che essa, come sarebbe capace di fare, divori il suo partner. Ma, il dono, come nel caso del « pallone » dell’ortotomo, ha anche la fun zione di simbolo che stimola l’accoppiamento, di simbolo rituale; Sebeok fa notare come esiste tutta una gamma di forme di dono di corteggiamento fra gli insetti di questo tipo, che va dall’offerta della preda senza involucro, all’offerta della preda dentro al « pallone », all’offerta di un involucro contenente frammenti della preda che però non sono commestibili e, infine, un « pallone » privo di preda, un imballaggio senza contenuto, ovvero, un significante vuoto. Molto spesso nel considerare il meccanismo dei segni si insiste troppo nella ricerca (e nella imposizione) di una loro funzione. Al con­ trario Sebeok insiste sull’importanza di un funzionamento fine a se stes­ so dei sistemi segnici, di una sorta di girare a vuoto dei meccanismi se­ miotici. E ciò non soltanto per i segni nei comportamenti rituali che, negli uomini e negli animali, spesso eccedono rispetto alla loro pos­ sibile funzione e al loro, presunto, scopo. Anche il linguaggio ver­ bale, molto spesso interpretato in base alla sua funzione comuni­ cativa, è in effetti meglio compreso se visto come una specie di gioco 15

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che permette all'uomo di compiere operazioni come l'immaginare e il fantasticare, già considerate da Morris in « Il misticismo e il suo lin­ guaggio »,3 e quindi di spingersi avanti nel futuro, di portarsi indietro nel tempo passato nello smontare e nel rimontare la realtà inven­ tando mondi utopici o modelli interpretativi. Non si dimentichi che uno dei libri della tetralogia semiotica di Sebeok s'intitola signi­ ficativamente Il gioco del fantasticare. Del resto il centro del mec­ canismo inferenziale che permette lo sviluppo qualitativo della co­ noscenza, costituito da ciò che Peirce individuava con il termine abduzione, non è estraneo a processi di ordine ludico-immaginativo, a pratiche di simulazione. Sebeok fa anche riferimento al sogno, a ciò che Freud chiamava lavoro onirico per sottolineare come la parte più bassa, fondamentale, inconscia del comportamento segnico fuoriesca dall'ordinamento simbolico intenzionale e orientato ad una funzione precisa. Questo aspetto di in funzionalità, questo girare a vuoto, queste forme di consumo improduttivo, di dissipazione vengono ritrovate, da Sebeok, come necessario momento di entropia nel processo di svilup­ po della vita sulla terra: è come se la vita avesse continuamente bi­ sogno di — o fosse fondata su - morte, per riprodursi e mantenersi. Molte sono evidentemente le implicazioni di questa constatazione nel­ le filosofie della storia. Per quanto concerne la teoria dei segni la con­ seguenza è che la catena semiotica, anziché un processo di continua crescita nel passaggio dal segno all'interpretante, si presenta come sog­ getto a perdite, a vuoti, ad azzeramenti del senso, al punto che, anche per la materia segnica, si deve postulare la co-presenza necessaria di una sorta di antimateria.4 Questo libro, così come viene presentato in questa edizione, oltre alle appendici della edizione originale, contiene due scritti aggiunti, anche col consenso dello stesso autore. Il pròno è un sintetico incisivo articolo di Sebeok, intitolato « Semiosi e semiotica: quale futuro? »,

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3 Questo saggio di Morris, del 1957, piuttosto insolito per chi, come comune­ mente si fa, tende a identificare quest’autore con i suoi due libri più conosciuti (•Lineamenti di una teoria dei segni [1938], introduzione, traduzione e commento di P. Rossi-Landi, Paravia, Torino, 1954; e Segni, linguaggio e comportamento [1946], traduzione di S. Ceccato, Longanesi, Milano, 1949), è stato incluso in una raccolta •di scritti di Morris, scelti e tradotti da me medesima, intitolata Segni e valori. Scritti di semiotica, etica ed estetica, Adriatica, Bari, 1988. 4 L’ipotesi della infunzionalità della significazione è ampiamente elaborata da Augusto Ponzio in una prospettiva semiotico-filosofica ed anche letteraria, nei suoi numerosi scritti, fra cui, Interpretazione e scrittura: scienza dei segni ed eccedenza letteraria, Bertani, Verona, 1986, e Man as a Sign: Studies in thè Philosophy of Language (introd., trad. in inglese e cura di S. Petrilli), Mouton De Gruyter, BerlinNew York, 1990.

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che può essere considerato come la conclusione di questo libro.5 E ciò non soltanto nel senso che, in qualche modo, sembra fare il punto e trarre le conseguenze dei molteplici discorsi che si diramano nelle direzioni indicate dai titoli dei capitoli di questo libro. Ma anche per­ ché esso guarda alle possibili conclusioni che possono avere questo nostro universo, quel fenomeno che per ora sembra essere, nel suo ambito, eccezionale, cioè la vita, e infine il processo della semiosi, con cui fondamentalmente coincide la vita, e di cui fa parte — dai livelli più bassi della conoscenza ai livelli più alti della disciplina che così si de­ nomina - la semiotica. Il secondo scritto è un'intervista a Sebeok, da me condotta du­ rante un suo soggiorno a Urbino in occasione dei seminari estivi pro­ mossi dal Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica. Questa in­ tervista è stata da me organizzata e articolata alla luce di questo libro allora ancora in corso di traduzione, e perciò di esso riprende alcuni problemi e sottolinea alcuni aspetti. Di questi aspetti, in primo luogo, accentua quello biografico già presente in tutto questo volume e par­ ticolarmente, come lo stesso Sebeok tiene a dichiarare nell'intervista, nel capitolo quinto. Inoltre, dei problemi discussi, assume rilievo quel­ lo del rapporto tra la semiotica di Sebeok e la semiotica di Peirce attraverso questioni, chiarimenti e precisazioni soprattutto incentrati sul ruolo dell'icona all'interno della semiosi e dei processi abduttivi e sui problemi della specificazione e della differenza del significare sim­ bolico dell'uomo nel linguaggio verbale, rispetto ad altri sistemi di significazione sia artificiali (ad esempio, i linguaggi connessi con lo svi­ luppo della informatica), sia naturali non-umanif* Il « gioco del fantasticare », che costituisce il motore della ricerca semiotica di Sebeok, è talmente libero, spregiudicato e pronto a ri­ mettere in discussione ogni assunto, che, nello scritto aggiunto, «Se­ miosi e semiotica », Sebeok riapre la questione se la semiosi e la vita debbano essere fatte coincidere; e arrischia, per la prima volta, l'ipo­ tesi che la fine della vita non significherà necessariamente la fine della 5 Questo articolo, data la sua tematica, può anche essere letto in collegamento al volume a cura di Gianfranco Marrone che raccoglie interviste a diversi autori sul tema Dove va la semiotica?, in « Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano », n. 24, 1986, e che contiene anche un’intervista allo stesso Sebeok (pp. 149-151). 6 Oggi c’è un rinnovato interesse, specialmente negli Stati Uniti, per gli studi sul linguaggio umano, verbale e non-verbale, condotti da Giorgio Fano che, fra le altre cose, rileva l’importanza, e in questo egli assume una posizione molto simile a quelle di Peirce, del fattore iconico nella comunicazione. Per questi aspetti ed altri ancora degli studi di Fano sul linguaggio, rimando al suo libro Origini e natura del linguaggio, Einaudi, Torino 1963 e alla mia stessa introduzione scritta appositamente per la edizione inglese di questo volume da me tradotto, di prossima pubblicazione presso la Indiana University Press.

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semiosi: è probabile che i processi segnici che fabbricano interpre­ tanti illimitati continuino, indipendentemente da noi, nelle macchine. Questa conclusione orwelliana secondo cui la macchina diventerà Vuni­ co luogo della « vita dei segni », comunque si voglia giocare con la parola « vita » e con la parola « segni », è certamente una sorta di utopia negativa che da un punto di vista, per quanto si voglia parziale e limitato come quello umano, è sicuramente una forma di non vita e di assenza di segni. Ma forse anche questa nota finale in Sebeok è autobiografica ed è Vespressione dei desideri « professionali » del semioticista rispetto a quelli dell'uomo, al punto da sperare che la semiotica possa perdurare dopo Sebeok — dopo di lui, ma anche dopo la fine della vita in generale.

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SUSAN PETRILLI

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Ringrazio il professor Augusto Ponzio che mi ha seguito nel lavoro di traduzione. Per alcune questioni di resa terminologica mi sono rivolta allo stesso autore del libro sciogliendo con lui dubbi e chiedendo suggerimenti e perciò desidero ringraziarlo. Un ringraziamento va anche al professor Angelo Tursi e alla dottoressa Dina Bruno dalle cui competenze di ordine biologico ed ecologico questo lavoro ha certa­ mente tratto giovamento. Dedico questo lavoro di traduzione a mio padre. . i

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Penso di essere un verbo Ulteriori contributi alla dottrina dei segni



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Ai miei interpretanti immediati ed emozionati. Jessica Anne e Erica Lynn

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Prefazione

La mia carriera di autore di testi scritti è stata eccentrica almeno da un punto di vista: essa ha dovuto delineare e tracciare, passo a passo, il suo singolare progetto. I miei primi scritti, a partire dal 1942, erano articoli tecnici concernenti vari campi della linguistica uralica, dell’etnografia e del folklore, insieme a qualche contributo qua e là alla linguistica nordamericana e sudamericana. Nel 1954 il mio nome venne associato, con una certa superficialità, alla psicolin­ guistica, mentre successivamente a ricerche di mitologia, studi sulla religione e su problemi stilistici. Ora dovrei fare uno sforzo partico­ lare per ricordare anche le stesse circostanze che mi indussero a pub­ blicare, nel 1955, un grosso volume sul soprannaturale, un altro, nel 1958, sui giochi e ancora un altro, nel 1961, in cui venne utilizzato il computer per un’ampia selezione di informazioni specializzate. Intorno al 1962 cominciai ad interessarmi di studi sulla comuni­ cazione animale. Due anni dopo, per la prima volta, vagavo in quella che Gavin Ewart chiamò suggestivamente « la misteriosa foresta della semiotica ». Nel 1966 pubblicai tre libri, i quali indussero, tempora­ neamente, alcuni dei miei amici a pensare che stavo per trasformar­ mi in uno studioso di storiografia linguistica. Il momento più impor­ tante nella mia formazione di studioso risale al 1976 quando inco­ minciai a scrivere quella che, in seguito, diventò la mia « tetralogia semiotica » di cui questo volume, probabilmente, sarà Pultimo. Nel linguaggio « Jabberwocky » la parola « tulgey » connota va­ riabilità ed evasività. Tuttavia alludervi mi sembra appropriato. L’a­ stronomo Arthur Stanley Eddington, in The Nature of thè Physical World, mostrò l’affinità fra « Jabberwocky » e la visione quantistica dell’universo dove i termini sono applicati a « qualche cosa di sco­ nosciuto », vale a dire, « compiono qualcosa a noi sconosciuta ». Non è male utilizzare tutto questo per ricordare lo stato della semiotica e la sua nascente associazione con un certo tipo di fisica. Tutto ciò ha creato un certo senso di confusione. Continuo a rice­ vere da luoghi periferici inviti a tenere conferenze su argomenti or23

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mai sepolti sotto le più recenti macerie. Proprio pochi mesi fa, ho ricevuto una lettera da una collega di un’altra nazione che mi chiedeva precisamente in che modo fossi collegato al Sebeok che aveva pubbli­ cato un libro di psicolinguistica trentanni fa; appunto in tale oc­ casione risposi che avevamo in comune le stesse origini. Sembrano esserci due tipi contrapposti di studiosi. Vi sono quelli che ricavano infinito diletto dal loro studio solitario, che essi condu­ cono comportandosi come topi di laboratorio, autostimolandosi con elettrodi impiantati nel loro ipotalamo anteriore e preferendo ad ogni altra attività « premere la leva ». Ci sono poi quelli di noi la cui abi­ tudine di « premere la leva » è ripagata unicamente da un cambiamento di livello di illuminazione, in una sola parola, dalla novità. Nonostante le sue vetuste origini, la semiotica, come è praticata oggi, continua a stupire. Dietro ogni sua rivelazione si nasconde una infinita illusione; ma dietro ogni miraggio si trova latente la scon­ certante realtà. La dinamica della semiotica è di immensa portata e sembra abbracciare ogni cosa; ma è così solo perché l’essenza di ogni avvenimento può essere sezionata, astratta e finalmente risolta in un ulteriore esempio di una semplice azione triadica dei segni, in una pa­ rola, della semiosi. All’inizio degli anni Sessanta intrapresi un ambizioso progetto editoriale di vasta portata, Current Trends in Linguistics, il cui primo volume apparve nel 1963, e il quattordicesimo, contenente un com­ plesso di indici, uscì nel 1976. Tra i due ci sono ancora altri dician­ nove tomi (in tutto quattordici volumi in ventuno tomi) compren­ denti qualcosa come 17.000 pagine di grande formato. La semiotica vera e propria ne occupa soltanto 415 ovvero meno del 3 %. Il mio capitolo (Sebeok 1974^:12/211-264), «Semiotica: A Survey of thè State of thè Art », che scrissi fra il 1969 e il 1971 e che doveva es­ sere una presentazione complessiva dello stato della « disciplina », occupò 53 pagine ovvero poco più dell’ottava parte del relativo vo­ lume. Con Current Trends alle mie spalle e due raccolte di miei scritti scelti, una sulla comunicazione animale (Sebeok 1972), l’altra sul­ l’attività verbale (Sebeok 1974^), anch’esse pubblicate, cominciai alla metà degli anni Settanta a pensare seriamente alla preparazione di una serie di saggi su vari argomenti di semiotica, alcuni di ordine teorico, altri di semiotica applicata, alcuni a carattere generalmente storico, altri incentrati sulla valutazione di personaggi del passato e di alcuni contemporanei, molti dei quali avevo pregiudizialmente eti­ chettato come « trascurati » (etichetta che, alla fine, venne da allora applicata in maniera scriteriata). Ho concepito questi scritti come par­ ti integrate di una trilogia complessiva, progetto che, valutato in rap24 i

porto al modo in cui è stato accolto (cfr. Adams 1983; Baer 1981; Bouissac 1979; Buczynska-Garewicz 1981; Deely 1978#; Howard Gardner 1982; Golopen^ia-Eretescu 1977; Lindemann 1980; Thérien 1982 e numerosi altri), è stato in effetti ben realizzato: il primo vo­ lume fu Contributions to thè Doctrine of Signs (1976) [tr. it. Con­ tributi alla dottrina dei segni, 1979], il secondo fu The Sign & Its Masters (1979) [tr. it. Il segno e i suoi maestri, 1985], il terzo The Play of Musement (1981) [tr. it. Il gioco del fantasticare, 1984]. Questo libro, quello che il lettore sta sfogliando in questo momento, è un quarto prodotto, non programmato, cosicché se fossi costretto a mantenere l’idea della trilogia, farei retrocedere (cosa che alcuni po­ trebbero considerare giustificata) il libro Contributions a volume zero. Aggiungerei che sono ben a conoscenza dell’eccentrico detto di Gore Vidal (1976:363) « ...nutro un profondo sospetto per gli autori che producono trilogie (le tetralogie sono ben al di là di ogni limite) ... »: Vidal mi offre proprio lui un buon precedente, cioè la sua stessa serie tripartita di romanzi, cioè Burry 1876 e Washington D. C. Nessun lettore dovrebbe stupirsi - leggendo un libro il cui autore cita sin dalla prima frase suo padre — che vi ricorrano numerosi temi già esaminati nei suoi scritti precedenti, sia pure con variazioni, spesso rielaborati e qualche volta magicamente trasformati. Dramatis personae familiari entreranno dallo sfondo, prenderanno la parola sole per dissolversi subito dopo. Come il famoso fantasma che visitav il castello reale di Elsinore, fantasmi di precedenti re, gli spiri dei miei antenati appaiono e riappaiono esigendo non di essere ven dicati, ma di essere ricordati ed ascoltati: « Dove vuoi dunque con­ durmi? [...] Parla. È mio obbligo ascoltarti: [...] e il tuo co­ mando solo vivrà nel libro del mio cervello [...]». L’asse prin­ cipale del mio lavoro si è spostato nel tempo, ma non così radi­ calmente da far nascere il dubbio circa la continuità dell’intero pro­ getto. In questa introduzione, per esempio, ho cercato di sviluppare The Semiotic Self (Sebeok 1979, Appendix 1) [tr. it. L’io semiotico m Sebeok 1985] dove proponevo di distinguere tra due concezioni del­ l’io, (a) l’io immunologico o biochimico, e tuttavia con sfumature semiotiche, e (b) l’io semiotico o sociale, e tuttavia con ancoraggi bio­ logici. In poche parole, mi interessava dimostrare che 1 io è un pro­ dotto combinato di processi sia naturali che culturali, e di que genere di interazioni complementari che si svolgono in un ticolare. Come fu in seguito sostenuto dall’oncologo Prodi (19«D, u riconoscimento del non-io da parte del sistema immuno ogic° e, effetti, un modo di leggere la realtà secondo il cratico di riferimento. « Leggere » si riferisce, qui, a 25

un unico complesso fra il lettore, o soggetto, e ciò che è letto, o oggetto. Questo metodo, in principio, non è diverso dalla nostra percezione e interpretazione delle frasi parlate o scritte, o di qual­ siasi altra catena di segni non-verbali. Per ragioni di chiarezza, ha scelto di analizzare un breve testo concreto, in un modo piuttosto simi­ le a come scomposi un frammento dalle Storie di Erodoto, nel 1979, (capitolo ottavo), o a come esaminai, più tardi, alcune caratteristiche strutturali di una certa epopea di Steven Spielberg (1981 b\ 7-11) (sol­ tanto che io volevo che quest’ultimo esercizio fosse una parodia, men­ tre fu un vero fallimento perché non pochi dei miei lettori scambiarono la burla per la verità). Tuttavia, altre dimensioni della confusa nozione di intertestualità sono prospettate in questo libro (capitolo quindicesi­ mo), con riferimento ad un altro film di Spielberg, a proposito del quale mi piacerebbe ripetere qui la mia risposta ad una domanda che mi fu posta durante una conferenza dopo che presentai questo materiale. Uno studente dell’Università di Francoforte voleva sapere perché i miei contributi alla semiotica del cinema riguardavano strettamente film « per i giovani ». Confessai che, normalmente, vedevo film sol­ tanto a due condizioni: o quando accompagnavo i miei bambini, o ’urante voli oltre oceano, ma questi ultimi sono troppo soporiferi per ar luogo a qualcosa di più di assonnate fantasticherie. In questo libro sono profondamente interessato sia al passato re­ moto che al lontano futuro. Nel capitolo secondo ho ripreso il vecchio enigma (non più censurato, sembra, da capricciosi tabù accademici) riguardante l’origine del linguaggio, alla luce di alcune nuove pro­ spettive della scienza della vita, che vanno aprendosi. Per esempio, gli importanti scritti di Dean Falk sul progresso degli ominidi confer­ mano ora che « uno dei motori primari dell’evoluzione del cervello umano » sembra essere l’area di Broca, nell’emisfero sinistro dell’e­ semplare Homo habilis (ER 1470) che si trova nel museo nazionale del Kenia, e precisamente « ciò che desumiamo confrontando il com­ portamento delle scimmie e quello dell’uomo: il linguaggio », ovvero, detto diversamente, « i nostri primi antenati, fino al momento del­ l’acquisizione del linguaggio, forse non erano veramente umani » (Falk 1984:39). Oltre che su nuove prove, i miei argomenti sono incentrati sulla rigida separazione concettuale, come pure cronologica, fra que­ sti tre termini comunemente, ma dilettantisticamente, confusi: co­ municazione, linguaggio e parlare. I fondamenti biologici di questi argomenti sono individuati nel capitolo terzo, ma certamente molte altre cose sono tirate in ballo in questo ambizioso - e preparato in collaborazione - manifesto o di­ chiarazione di una presa di posizione, oppure, come preferisco conce­ pirlo, pallone-sonda. Considero questo capitolo, da una parte, come la 26

rappresentazione di un’inattesa, eppure piacevole, confluenza di nu­ merosi percorsi del mio lavoro precedente, emersi in superficie spora­ dicamente, e dall’altra come una provocazione ai colleghi semioticisti impegnati in « commentari riguardanti il sapere tradizionale » (Gardin-Bouissac-Foote, 1984: 1), le cui reazioni, tuttavia, siamo pron­ ti ad incoraggiare e ad accogliere. Chiaramente, una ricerca inter­ nazionale e multidisciplinare sulla stato della Terra (Waldrop 1984: 33-35), in una prospettiva distica, reclama la partecipazione di semioticisti solerti e preparati; la tecnologia per questo studio, in termini di un sistema integrato, è già pronta e i fattori di consolida­ mento sono i messaggi che uniscono i sottogruppi in un singolo ag­ gregato. Se il progetto che riporto nel capitolo tredicesimo è un esercizio di futurologia, largamente pubblicizzato e discusso attraverso la stampa, la radio, la televisione in tutta la nazione e all’estero, tuttavia sono co­ stretto, mio malgrado, a considerarlo anche come un esercizio su cose futili. Per esempio, fra i diciannove consigli dellTnternational Council of Scientific Unions (Comitato Internazionale delle Unioni Scientifi­ che) (Harrison 1984), nemmeno uno si rivolge a fattori umani (cioè semiotici) che invece sono quelli che devono determinare se sia pos­ sibile o meno attivare, svolgere e, infine, rendere efficace qualsiasi sfor zo proposto. Orwell, in 1984, espresse con snervante precisione 1 mia attuale opinione circa l’impresa a cui avevo partecipato di buoi, grado: « Per la prima volta, l’importanza di ciò che [Winston Smith] era sul punto d’iniziare gli si fece manifesta. Come avrebbe potuto comunicare con i posteri? Era ragionevolmente impossibile. O il fu­ turo sarebbe stato in tutto simile al presente, nel qual caso nessuno l’avrebbe ascoltato, ovvero sarebbe stato differente, e in questo caso il suo messaggio sarebbe stato privo di significato» (Orwell 1961: 149). Sia detto per inciso, la « Zeitschrift fiir Semiotik », stimolata dal­ la mia relazione aprì un’inchiesta (Posner 1984) sulle possibilità di co­ municazione in un periodo di 10.000 anni; fummo in undici a par­ tecipare, incluso Stanislaw Lem, a questa inchiesta particolarmente provocatoria. Nel 1976 pubblicai un saggio sulla «Iconicità» (Sebeok 1979, capitolo sesto), che nelle mie intenzioni doveva essere seguito al più presto da altri due scritti complementari, uno sulla « Indicalità », l’al­ tro, invece, avrebbe dovuto essere uno studio dettagliato sul « Sim­ bolo ». Sopravvenne altro lavoro, ma questa pausa mi diede la pos­ sibilità di riconsiderare l’indicalità da angolazioni impreviste. Ho sem­ pre avuto uno spiccato interesse per la semiotica medica, un campo dove, dall’epoca classica, il concetto chiave è stato quello di diagnosi. Ciò mi condusse direttamente a rivedere i due tipi di indizi, o Segni 27

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Indicali, che tutti i medici impiegano normalmente nella pratica cli­ nica, il sintomo soggettivo (capitolo quarto) e il segno oggettivo (capi­ tolo quinto). Quest’ultimo scritto, sui « Vital Signs » è qui elaborato con strati sovrapposti di metafore e con allusioni autobiografiche ri­ chieste dalla speciale occasione in cui fu presentato per la prima volta. Un tipo abbastanza diverso di segno indicale, il nome (cfr. Sebeok 1976:138-140), è trattato ex novo nel capitolo settimo, anche questo in un contesto piuttosto particolare, in contrapposizione al molto di­ scusso, ma tutt’ora nebuloso, concetto di « gioco ». Non mi faccio illusioni circa l’immensa complessità della categoria di « indice » specialmente rispetto alle sue applicazioni tecniche nella linguistica, e sono profondamente consapevole del fatto che i saggi appena menzionati trattano soltanto alcuni aspetti di ciò che si po­ trebbe ritenere essere la più allettante e originale classe peirceana di segni. Infatti, « è proprio con la sua nozione di indice che Peirce è, al tempo stesso, originale e ricco di nuovi spunti» (Wells 1967: 104). Tuttavia la mia curiosità raggiunse un livello tale che mi sentii pronto ad inserire un seminario intensivo sulla « Indicaiità » nel cur­ riculum dell’ISISSS ’85 con la speranza che ciò avrebbe, poi, indotto lteriori studi in questo campo della semiotica, evidentemente ine:uribile. Vorrei approfittare di questa occasione per esprimere pubblicaente la mia costante gratitudine verso Paul Bouissac, Michael Herzteld, Roland Posner e ad altri venti, circa, collaboratori che hanno sottratto tempo ai loro impegni per contribuire allo sviluppo, ovvero per condurre una critica, del mio lavoro sulla « Iconicità », appena menzionato. Il loro affascinante libro (Bouissac et alti 1985) sarà per me fonte di ispirazione, mentre continuerò a riflettere sulla « Indicalità » e su questioni connesse, nei mesi e negli anni a venire. Tempo fa, il mio costante interesse per le molteplici problema­ tiche della comunicazione animale incominciò a spostarsi dagli aspetti intraspecifici a quelli interspecifici, uno spostamento che, a sua volta. risvegliò il mio interesse per particolarissimi interattivi, con tutte le fantastiche diversità, fra l’uomo e gli altri animali. I risultati delle ricerche in queste aree confinanti non sono affatto prevedibili e ri­ sultano avere ramificazioni di enorme importanza per la soprawiven. za dell’intera biosfera, inclusi, naturalmente, noi stessi. Nel capitole nono sarà rapidamente presentato un esempio particolare di interazione uomo-scimmia nel contesto di un rituale giapponese; questo scritto sbasa su un materiale raccolto nel corso di una breve ricerca sul campo* in compagnia della mia ex-allieva Emiko Ohnuki-Tierney, essa stessa ora, un’eminente antropoioga impegnata in un esame più ampio (1983 della esibizione nel suo contesto culturale. 28

Un caso speciale di interazione uomo-animale fece sorgere un cu­ rioso miraggio: la popolare immagine dell’animale parlante. Finché non incominciai ad esaminare seriamente questa fantasmagoria, per esempio, nel 1976 (capitolo quinto), e nel 1981 (capitolo settimo, ot­ tavo: Appendice B), e in un’ampia rassegna di letteratura critica al ri­ guardo, intrapresa in collaborazione con Jean Umiker-Sebeok (1980), non immaginavo fino a che punto alcuni scienziati ingannavano se stes­ si, né mi rendevo conto della complicità dei mass media nel creare e nel perpetuare la disinformazione pubblica riguardo a come stavano vera­ mente le cose per questo mito. Inizialmente noi - mia moglie ed io tentammo di porre rimedio con il sobrio ragionamento, confrontando ogni argomento con il suo contrario, attentamente costruito e adegua­ tamente documentato, e coinvolgendo, dove fosse necessario, appro­ priati principi scientifici come quello dell’effetto « Bravo Hans » (in­ somma una ricerca di esempi negativi). Alla fine ci venne in mente che le regole della logica mitopoietica che governano sia questa sfera, come pure le aree di « ricerca » in parapsicologia e pseudo-scienze affini, non potevano essere soddisfatte dalle regole della logica come esse vengono applicate nel normale discorso scientifico, dove l’obiettivo è, oppure d< vrebbe essere, per dirla semplicemente, di progredire mediante il a terio di falsificabilità di Popper. Tale stato di cose mi costrinse diversificare la scelta dei mezzi retorici, come sarà evidenziato < quanto segue: 1. Le Appendici B e C sono formulate come repliche. 2. Le Appendici A, D, E e F sono presentate come rassegne di altri libri, più o meno sciocchi — alcuni di invenzione, altri presu­ mibilmente basati su dati concreti - incentrati sull’insulsa questione se gli scimpanzé e i gorilla siano dotati o meno di linguaggio. 3. Il capitolo ottavo è strutturato sul genere del dialogo platonico circa i cavalli di Elberfeld, o animali parlanti in genere, e fa dialoga­ re un Premio Nobel e un prestigiatore professionista, un’invenzione costruita facendo riferimento a numerosi personaggi reali, deceduti o in vita. Il primo era una delle figure più bizzarre che abbiano mai vinto un premio letterario, una scelta, come dice Steiner (1984), « che offende l’intelligenza critica », e che, fra le altre che egli nomina, « è sufficiente a mettere in dubbio tutta l’istituzione ». 4. Saremmo felici di attribuirci il merito di aver fatto sì che le fonti federali di finanziamento abbiano cessato gli scandalosi progetti miranti ad insegnare il linguaggio ad uno sfortunato assortimento di grandi scimmie, se non fosse per ciò che ne è conseguito come vergognosa alternativa: cioè che il precedente ingiustificato aggra­ vio fiscale sui contribuenti degli U.S.A. è stato ora spostato su quella fascia innocente di pubblico che sostiene quegli stessi me29

dia, colpevoli di diffondere false impressioni che vengono quindi assorbite, inevitabilmente, nel suo folklore. Particolarmente colpe­ voli sono alcuni elementi dell’industria cinematografica (cfr. Appen­ dici D e F), e il documentario PBS del programma scientifico NO­ VA, una volta abbastanza rispettabile, oltre, naturalmente, ad al­ cuni « giornali » che si trovano al banco-cassa di alcuni negozi di genere alimentare. 5. Forse perché alcuni primati loquaci hanno fatto il loro tempo, l’attenzione dei media è ritornata su creature visibilmente eccentriche e chiacchierone, come elefanti e foche, casi rispetto ai quali sono tor­ mentato da innumerevoli interurbane in cui mi si chiede, non tanto la mia opinione, quanto una mia pubblica adesione. Poiché la prosa mi venne meno, dissi le mie impressioni scettiche in forma burlesca, come sono riprodotte nel capitolo dodicesimo, intitolato « Versi av­ versi ».

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Il precedente segretario della Smithsonian Institution, S. Dillon ipley, al quale devo molto per il Regents Fellowship di cui ho usu.ruito nell’anno 1983-84, mi ha onorato ancora, poco prima del suo :ongedo, della carica di ricercatore associato, la prima assegnata dal segretariato di questa istituzione, con il ruolo aggiunto di consulente speciale di Wilton S. Dillon, direttore dell’ufficio dei simposi e seminari smithsoniani. Questa istituzione sta progettando di tenere du­ rante la primavera del 1986, un convegno ironicamente intitolato « Figlio o figlia di un uomo e di una bestia » (cfr. Eisenberg e Dillon 1971). Questo convegno intende occuparsi dell’intera gamma delle re­ lazioni comunicative fra l’uomo e le creature prive di linguaggio, in tutta la loro apparentemente infinita diversità. È mia personale spe­ ranza che molte problematiche scientifiche ancora in sospeso saranno chiarite e ridefinite durante quella conferenza, a beneficio sia della vita umana che di quella animale, che altro non sono che due facce di una stessa medaglia di inestimabile valore per questo piccolo pianeta visto come un tutto integrato. I capitoli decimo e undicesimo, quest’ultimo diviso in sei parti, fu­ rono preparati su invito di Susan Burns, l’attenta e simpatica editrice di « Animals », una bella rivista pubblicata dalla società per la difesa degli animali, nel Massachussetts, insieme ad un consorzio di associa­ zioni affini. Questi sette brevi scritti sul comportamento animale sono qui riprodotti come li avevo scritti originariamente, piuttosto che come erano stati rimodellati per soddisfare le norme grafiche della rivista.

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Infine, il capitolo quattordicesimo va letto come un jeu d.3esprit y che spero faccia un po’ di luce su questioni concernenti le semiotica, specialmente quelle che hanno a che fare con l’abduzione, con i segni indicali, con la triadomania proposta da Peirce e con l’eterna investi­ gazione sugli indizi e quindi sui conseguenti risultati.

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Questo libro è stato completato pochi mesi dopo il termine (lo scorso giugno' del mio incarico come Regents Fellow della Smithsonian Institution per Tanno 1983-84 La mia riconoscenza verso questo incomparabile complesso di istituti di ricerca, chi offre impareggiabili risorse per lo sviluppo intellettuale, è infinita. Desidero ringra­ ziare gli stessi membri del consiglio di amministrazione naturalmente ma, in particolar modo, Tultimo segretario, S. Dillon Ripley, egli stesso famoso ornitologo; e il dott. Richard Fiske, un distinto vulcanologo e direttore del Museo di Storia Naturale, nel quale mi era stato concesso Fuso di uno studio, bello e confortevole, in compagnia di paleobotanici ed altri scienziati, occupati nello studio di aracnidi, echinodermi ed organismi marini. Il mio ufficio vantava una stupenda veduta sul corso fino al castello con, a ovest, vista del monumento a Washington e, a est, del Capitol. A Gretchen Ellsworth, ex-direttore dell’ufficio dei Fellowships e dei sussidi finan­ ziari, ed ai suoi solerti colleghi, esprimo la mia gratitudine per la loro cordiale as­ sistenza, che superava ogni dovere. Mentre ero a Washington avevo anche dei saltuari rapporti col Parco Zoologico Nazionale dove, in un periodo di confusione e di transizione amministrativa, mi fu offerto, cortesemente, ogni aiuto. Inoltre mi era stato affidato l’incarico di membro aggiunto del Woodrow Wilson International Center for Scholars; ciò era dovuto alla straordinaria gentilezza del suo direttore, James H. Billington, un eminente storico e conoscitore della Russia, sensibile alle correnti contemporanee intemazionali. So che l’idea di invitare me in questo creativo ambiente partì soprattutto dalla mente generosa del mio amico Charles Blitzer, ex-segretario assistente per la storia e per l’arte allo Smithsonian. Con mio grande dispiacere, poco prima che io mi in­ sediassi, egli partì per il North Carolina dove, con mia grande soddisfazione, diventòdirettore del National Humanities Center. Ero stato lì due anni prima, e fu proprio lì infatti, che questo libro (e particolarmente il capitolo tredicesimo) incominciò a pren­ dere forma. Il programma RSL (Research Leave Supplements) dell’Università di Indiana mi fornì una gradita assistenza per facilitare i miei successivi spostamenti. Per il loro tempestivo aiuto esprimo la mia profonda riconoscenza al vice presidente Kenneth R. R. Gros Louis, a Dean Morton Lowengrub e a Dean Ward B. Shaap.

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Capitolo primo

Penso di essere un verbo

Ho sentito, forse da mio padre che amava divertirmi con aned­ doti storici, specialmente con racconti dei boschi viennesi, che quan­ do l’astuto manovratore austriaco della Santa Alleanza, il principe Mettermeli, morì nel 1859, i diplomatici di ogni paese continuavano a chiedersi: « che cosa avrà voluto dire con ciò? ». Questo è il genere di domanda che la gente tende a porre circa alcune delle « ultime parole famose » ovvero le frasi dette da uomini celebri sul letto di morte che sono state annotate o comunque riferite. « Quoque tu, Brute? » di Giulio Cesare non sembra richiedere una interpretazione esegetica, e neppure l’ingiunzione testamentaria del re Carlo II al fratello Giacomo, « non permettere che la povera Nellie [Gwyn] patisca la fame! », lascia molto spazio all’ambiguità. Ma a chi si riferiva Hegel quando concluse con, « soltanto un uomo mi ha capito, e non mi capì »? Perfino l’apparentemente semplice richiesta di Goethe « Mehr Licht! » è stata interpretata in vario modo dal senso letterale a quello ironico e fin anche in senso oracolare. Sembra che Ulysses S. Grant (1822-1885), diciottesimo presidente degli Stati Uniti, in fin di vita, abbia sussurrato, abbastanza plausibil­ mente, « acqua! », vanificando così gli sforzi e le aspettative del reve­ rendo John P. Newman, il pastore metodista che secondo l’uso assi­ stette Grant, di ottenere da Grant per i posteri « qualche detto immor­ tale circa i suoi rapporti con Cristo ». Un giorno all’inizio dell’estate 1884, Grant a tavola cominciò ad accusare un acuto dolore alla gola. In ottobre gli era difficile ingoiare e il dottor John H. Douglas, emi­ nente specialista della laringe di quel tempo, nella città di New York, diagnosticò che Grant aveva un cancro, come di fatto era; ma per quanto questa sinistra parola non fu mai pronunciata, Grant disse ad un suo amico che il medico « gli aveva detto che la sua gola era affetta da un disturbo a tendenza cancerogena ». Da allora in poi Grant continuò a scrivere le sue memorie, in una disperata gara di velocità col suo male incurabile. Questa storia commovente è narrata 33

nei dettagli nell’eccellente libro di Thomas M. Pitkin, The Captaiti Departs: Ulysses S. Grant1s Last Campaign (1973), che è stato la fonte principale delle informazioni biografiche riferite in questo pa­ ragrafo e in quelli che seguono. L’estate successiva, la voce di Grant venne praticamente meno. In­ fatti egli cessò di dettare e ritornò a scrivere. Inizialmente il dottor Douglas trattò il suo paziente con una soluzione a base di cocaina, poi sempre più con iniezioni di morfina, e gli consigliò di lasciare la città per Mount McGregor. Grant sarebbe morto lì il 23 luglio, pre­ cisamente alle otto di mattina. Pochi giorni prima della fine, Grant, indebolitosi sempre di più, venutagli quasi completamente meno la voce, per cui comunicava abi­ tualmente con messaggi scritti, annotò le seguenti considerazioni:

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Non dormo, sebbene qualche volta mi assopisca un poco. Se sono in piedi e mi si parla, nello sforzo di rispondere provo dolore. Il fatto è che io penso di essere un verbo e non un pronome personale. Un verbo è qualsiasi cosa che significhi essere, fare o soffrire. Io significo tutti e tre.

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Conservato tra le carte di Grant alla Library of Congress l’ap­ punto non è datato, ma si è accertato che è uno degli ultimi. Il iestinatario era il dottor Douglas. McFeely (1981:316), il maggiore biografo del nostro forse più enigmatico presidente, commentò il suo itile con notevole acutezza: « La consapevolezza di Grant della morte imminente era di una sublimità senza precedenti nella sua vita. Con­ trassegnate da forte intensità, le note destinate al suo medico rive­ lano sprazzi di intelligenza che vanno ben al di là della capacità espres­ siva della miglior prosa dei Memoirs ». Le parole di Grant, natural­ mente, sono commoventi, hanno una loro intrinseca liricità e sono particolarmente eloquenti. Ma ciò che, come una calamita, mi attirò verso questa particolare catena di cinque frasi, costituenti nel loro in­ sieme un’unica enunciazione, era la loro affascinante intuizione semio­ tica espressa con una chiarezza e sicurezza sbalorditive. Che cosa in­ tendeva Grant con questo appunto? « È difficile per l’uomo capire », come ben sapeva Peirce (1984: 241) l’identificazione tra uomo e segno, uomo e parola, uomo e una parte del discorso; « è sufficiente dire », riteneva Peirce, « che non esiste nessun elemento nella coscienza dell’uomo che non trovi qualche corrispondenza nella parola, e la ragione è ovvia: è che la parola o il sevno che l’uomo adopera è l’uomo stesso. Perche, come il fatto che 6. v nn ceeno considerando la vita come una sequenza di

•or"; r So t m segno, cori il Imo che ogni pensieco pensieri, prova sia un segno esterno pi

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che l’uomo è un segno esterno. Cioè l’uo-

mo e i segni esterni sono identici, nello stesso senso in cui le parole homo e uomo sono identiche. Quindi il mio linguaggio è la somma totale di me stesso, poiché l’uomo è il pensiero ». (Le implicazioni di questo brano e di altri connessi per una teoria della cultura, della società, della natura umana, della personalità e dell’io sono esaminate nell’ultimo importante libro di Singer [1984]; non è necessario che esse siano sviluppate qui). È veramente sorprendente che queste due grandi figure america­ ne, quasi contemporanee, il politico-soldato e lo scienziato-filosofo, en­ trambe, alla fine, coscienti vittime del loro incurabile carcinoma (ri­ guardo all’assunzione di cocaina e di morfina da parte di Peirce e riguardo al suo cancro alla vescica e al retto, v. Will 1979), giunsero ad una comprensione, consona se non proprio eguale, della natura della realtà e della realtà della mente. L’asserzione di Peirce è stata variamente discussa, e in modo più specifico da Fairbanks (1976; cfr. Sebeok 1979:62). Nessuno, tuttavia, si è mai soffermato a lungo sull’apparentemente criptica annotazione autobiografica di Grant. Ten­ terò di affrontare questo enigma, se è di questo che si tratta, con i modesti mezzi di cui un semioticista dispone. L’organismo è solo uno strumento del pensiero, insisteva Peirce (ibidem), oppure, seguendo il controverso tropo di Dawkins (1982: 263), Lorganismo è una manifestazione fenotipica di molecole repli catrici. Esse, comunemente chiamate geni, funzionano come veri propri luoghi in cui è tutelata la sopravvivenza e la riproduzione d replicatori. Resta poco per concludere che tutte le macchine per 1 sopravvivenza sono soltanto un mezzo col quale un segno produc un altro segno (Sebeok 1979:xiii). Ogni macchina per la sopravvi­ venza funziona, per così dire, come un duplice agente che trasforma, in primo luogo, in segno, qualsiasi « oggetto » (più precisamente: il logos eracliteo ovvero la struttura formale che impartisce a qualsiasi « oggetto » la sua unità e la sua stabilità) mediante un processo di «selezione percettiva di caratteristiche avvertite» (Gregory 1981: 402), secondo criteri dei quali dobbiamo ammettere che sappiamo ben poco. Quali sono gli obiettivi teleonomici di queste trasformazioni? In altre parole, qual è la funzione, la capacità, della semiosi, una ca­ ratteristica specifica della vita in generale? Ritengo che la risposta a queste domande vada formulata in termini di sopravvivenza. Il pro­ cesso segno-azione, a breve termine, garantisce al soggetto una specie di solidarietà coesiva per tutta la vita. Il soggetto conserva li entlt* del suo io semiotico mediante un’incessante ristrutturazione e e su ego-qualità («Ich-ton» di Jakob von Uexkull, 1940 [19 ]• " base a quella specie di dialogo continuo, così distintameli e sciuto da Peirce (6.338). A lungo termine, la semiosi, crean 35

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pretanti illimitati, permea (« cosparge ») l’universo di somiglianze (cioè di icone). La posizione qui delineata rappresenta un compromesso fra ciò che Savan (1983) chiamò una posizione di realismo estremo, che né a lui né a me interessa affatto, ed un idealismo estremo che egli si sforza di confutare. L’idealismo semiotico, secondo Savan, è di due gusti, l’uno leggero, l’altro forte, ma egli non trova piacevole nessuno dei due. Egli tende, come me, verso una via di mezzo, secondo quanto lo stesso Peirce disse intorno al 1903: « Ogni segno sta per un oggetto indipendente da esso; ma può essere un segno di quel l’oggetto sol­ tanto nella misura in cui quell’oggetto è esso stesso della natura di un segno...» (1.338). Ho fatto riferimento a questo «ogget­ to» in quanto logos (Sebeok 1979:34), dopo Thom (1975*: 329» n. 5), seguendo Eraclito, nel senso di un intermediario formale: « Richtig sagt Heraklit... ein Mittler ist der Logos, der beiden gemeinsam ist » (Kelber 1958:223). Logos è stato anche caratterizzato come il modo in cui tutte le leggi di sviluppo ineriscono alla « essenza pri­ maria » o Grundwesen (Heinze 1872:55; cfr. Kerferd 1967, che di­ mostrava come « la dottrina del logos » di Eraclito riunisce almeno tre idee in una sola, cioè la nostra concezione dell’universo, la conse­ guente struttura razionale e la sua fonte). Quindi la caratteristica del rogos è la continuità della forma, la persistenza del modello strutdurato. E infine si dovrebbe anche sottolineare che, nel 1906, Peirce fHardwick 1977:196) scrisse un affascinante testo a Lady Welby concernente il segno come forma e specificò che « la Forma è l’Og­ getto del Segno ». La semiosi, ovvero ogni esperienza sensoria, causata dal flusso di raggi danzanti di fotoni e di molecole con una certa forma che urtano i neuroni, traspira unicamente entro i confini di entità viventi; ma gli organismi attribuiscono le proprietà esperite ad « oggetti », anche se col passar del tempo, l’opinione va mutando su ciò che debba essere considerato « oggetto ». Come osserva Gregory (ibidem), « la maggior parte degli oggetti hanno una forma chiusa e le loro parti si muovono ìnsieme. Le caratteristiche comuni degli oggetti divengono princìpi di identificazione, ma possono strutturare modelli casuali creando forme Oggettuali ». Veniamo a trovarci così completamente nella Umiveltforschung, dato che nel programma di Jakob von Uexkùll (1982:85), ogni oggetto appartiene a qualche soggetto o organismo, Umwelt, e cambia di conseguenza il suo significato a seconda di come sia percenit-n ron le conseguenti modificazioni nella totalità delle sue pro• ' m che fa qua­ lificare questo autore in modo irrefutabile come tutt’altro che « atten­ to» e «accurato». Gopnik, purtroppo, in nessun luogo allude alle numerose convincenti critiche di Terrace, le quali, per quanto ne sap­ piamo, non sono mai state respinte. La posizione di Patterson è un’altra faccenda. Qualche critica pre­ liminare delle sue bizzarre asserzioni è apparsa sulla « New York Review of Books», 4 dicembre 1980; queste critiche furono inte­ gralmente ripubblicate da Martin Gardner (1981: capitolo 38), con l’aggiunta di una appendice (cfr. la esaustiva recensione-articolo di Gardner, How Well Can Animals Converse? [1982#], come anche Once in Love With Amy di Sebeok [Appendice D, in questo libro]). Oltre alle due lacune individuate da Gopnik, abbiamo omesso an­ che ogni discussione circa le indagini, con obiettivi paralleli, focaliz­ zate sulle scimmie del genere Pongo che iniziarono — e fallirono mi­ seramente — all’inizio del secolo; come lamentò Furness (1916:290) nella sua lezione tenuta alla American Philosophical Society, « mi dispiace di essere costretto ad ammettere, dopo diversi anni di os­ servazione di grandi scimmie antropoidi, di non poter produrre » nem­ meno i più piccoli degli sperati risultati linguistici circa questi ani­ mali. Esistono ancora, infatti, diversi progetti modesti riguardanti gli orangutan. Uno di essi è compreso nell’eccentrico libro di Keith Laidler, con la sua affermazione centrale che « le realizzazioni linguisti­ che vocali dello scimpanzé divengono insignificanti di fronte al ‘ lin­ guaggio ’ del suo [orangutan] Cody » (1980:178). Altri due ten­ tativi, ora maturi per essere sottoposti al giudizio del pubblico, riguar­ dano due giovani orangutan maschi, uno in California (Brian), l’altro nel Tennessee (Chantek), sottoposti ad addestramento per ca­ pire e produrre ciò che ingenuamente viene chiamato « linguaggio dei segni» (cfr. Maple 1980:210-212). Ve ne sono ancora altri, per esempio un esperimento ispirato a Premack di Gary Shapiro, a pro­ posito del quale pochissime informazioni — ci si potrebbe chiedere perché - sono state rese pubbliche (Sebeok 1981&:169, 300). Poiché tutti i tentativi fatti finora per immettere in qualsiasi 266

scimmia la più piccola traccia di elementi linguistici sono generalmen­ te falliti, potrebbe valer la pena di ricordare, giacché ci siamo, che i ricercatori creduloni tornano — o più esattamente tornano di nuovo — sempre più ad altri modelli meno costosi, come le tartarughe dell’Afri­ ca orientale, i picchi francesi ed un pappagallo grigio africano (Sebeok 19816: 170-171; Pape 1982), oltre che a tentare di risuscitare un gruppetto di intelligenti cetacei. Il continuo verificarsi di tali delu­ sioni potrà presumibilmente produrre almeno utili insegnamenti circa le aspirazioni e ingenuità umane, stimolerà indubbiamente l’interesse febbrile dei media, ma non ha nessun interesse scientifico. Ma torniamo alle nostre scimmie. Confessiamo di essere rimasti sconcertati dall’epiteto di Gopnik il quale ci presenta come «evan­ gelisti»; il che può significare soltanto che «ci appelliamo all’autorità specialmente di tipo religioso. Gopnik fece subito consultare il nostro testo per controllare se fossimo davvero colpevoli d’aver commesso la fallacia òeWargumentum ad verecundiam, al fine di ottenere con­ sensi alle nostre conclusioni, ma fummo subito rassicurati che tale im­ magine non è affatto comprovata; al contrario, avevamo dedicato una sezione a parte (pp. 29-36) agli abusi del ricorso all’autorità in que­ sto contesto (un tema che allo stesso modo ricorre enfaticamente ir Sebeok 19816: capitolo 7). Gopnik è consapevole della sua responsabilità nel « tentare di scegliere spassionatamente l’evidenza e gli argomenti di entrambe le parti», che coincide perfettamente col nostro stesso intento e la no­ stra procedura (p. 274). Inoltre, Gopnik chiede: «Che cos’è in gio­ co? ». La falsa pista che Gopnik chiama umana « pretesa di unicità », certamente non è tale; uno di noi due, per esempio, ha dedicato un lungo studio alla dimostrazione che — contrariamente alle opinioni rice­ vute — le arti non-verbali dell’uomo, i suoi impulsi estetici, sono ra­ dicati nella sua discendenza animale (ibid. : capitolo 9). Nel saggio recensito abbiamo cercato di svelare i vergognosi endemici metodi spe­ rimentali in questo campo di ricerca, che sembra essere stimolato da una tendenza diffusa per l’auto-inganno, e, in casi marginali, per cose peggiori. Abbiamo scoperto numerosi errori metodologici — la fal­ lacia del Bravo Hans (Sebeok 1979: capitolo 5; Umiker-Sebeok e Sebeok 1981) indicata da Gopnik, non ne è che uno - ed interpre­ tazioni grossolane riferite ai dati riportati. Quante volte bisogna che ci venga ricordata la assai bella espressione, di Isaac Newton (nel li­ bro III dei Principia): «Perché la natura si accontenta di semplicità e non fa leva sullo sforzo delle cause superflue? ». In altre parole, perché immettere il linguaggio, come un deus ex machina, per così dire, in situazioni che possono essere spiegate adeguatamente in ter­ mini di vecchie operazioni, ben comprese e spesso collaudate? 267

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« Che cos’è in gioco? » è certamente una domanda legittima, ma ce ne sono altre ugualmente impellenti. Dopo circa un decennio e mezzo di esami accurati per trovare anche la più evanescente traccia di comportamento linguistico nel mondo delle grandi scimmie, è ir­ ragionevole chiedere se siano stati scoperti nuovi principi teoretici? Se sia stata ottenuta qualche nuova esperienza per illuminare l’origine e l’evoluzione dell’uomo? Se sia stata offerta qualche applicazione pra­ tica in cambio delle grosse somme elargite per queste ricerche dalle agenzie prontamente munifiche del nostro paese? Le risposte sono: no, no, no. Forse quello che è in gioco è semplice vanagloria ed una fame avidamente insaziabile di ottenere l’interesse dei media. La professoressa Gopnik, residente in Canada, potrebbe contem­ plare queste interrogazioni con una indifferente tranquillità, ma sia­ mo noi che dobbiamo pagare i conti. È affascinante rendersi conto del fatto che praticamente in nessun altro paese le ricerche del tipo in questione sono state pubblicamente - ma nemmeno privatamente - finanziate. In Giappone, è vero, (Kawai 1978-1979:548), era sta­ to avviato uno studio sotto la direzione di Kiyoko Murofushi, nel set­ tore Inuyama dell’Università di Kyoto, « sulla acquisizione del lin­ guaggio negli scimpanzé», utilizzando (approssimativamente) il pa­ radigma di Rumbaugh; ma, entro l’aprile del 1980, quando uno di noi rivisitò questo servizio, il progetto era già in corso di smantella­ mento perché era stato riconosciuto per quello che era: un costoso fiasco. A noi dispiace che la professoressa Gopnik — essa stessa una brava linguista - abbia scelto di non chiederci il motivo per aver trascurato nel nostro saggio la domanda centrale e piena di conse­ guenze: che cos’è il linguaggio? La motivazione da noi dichiarata era che l’aveva già fatto Chomsky nel suo sagace capitolo « Human Language and Other Semiotic Systems» (1980:429-440). Tuttavia, da quando è apparso il nostro libro, ci siamo sempre più resi conto di quanta confusione esista fra i « ponghisti » - non meno che fra la gen­ te comune - circa la natura del linguaggio. Per esempio, c’è molta confusione tra le nozioni di « comunicazione » e « linguaggio ». Seb­ bene molti esseri umani - ma niente affatto tutti — possano comu­ nicare con mezzi verbali e abitualmente lo facciano, il linguaggio cer­ tamente non si è sviluppato come strumento comunicativo; esso eb­ be origine come congegno di modellamento di un tipo molto specia­ le, nel senso previsto da Jakob von Uexkùll nella sua Umweltlehre als Theorie der Zeichenprozesse (Sebeok 1979: capitolo 10; cfr. Chomsky 1980:229-230). Una seconda confusione noiosa è quella fra « linguaggio » e le varie espressioni derivatene, come « linguag­ gio parlato» o «fare segni» (nel caso dei sordi). Dovrebbe essere 268

ovvio agli scienziati che la comparsa del linguaggio nelYHomo sa­ piens, non più di 300.000 anni fa, deve aver preceduto di gran lun­ ga i suoi usi sociali (cioè, comunicativi), i quali, inevitabilmente com­ portano la presenza contemporanea di una capacità produttiva (coditic-azione) e di una capacità interpretativa (decodificazione), dato che " ‘ “1 una senza l’altra. (Queste entrambe le capacità sarebbero inefficaci brevi osservazioni sono state sviluppate ed ora costituiscono il capi­ tolo secondo di questo libro). Infine, desideriamo esprimere un commento sulla dichiarazione ^iur v.n\. nvi -« uw abbiamo dimostrato che... della piuiwauitdaa professoressa uu Gopnik che noi « non le imbeccate, di fatto, ebbero luogo» (p. 279). Non abbiamo mai avanzato una pretesa talmente stravagante, in nessun momento, in nessuna della nostra mezza dozzina di affermazioni su questo argo­ mento. Gli obiettivi del nostro lavoro — chiaramente ed energicamen­ te dichiarati, fra gli altri passi, nella pagina 55 del nostro libro — era­ no quelli di sollecitare « straordinaria cautela ed attenzione per evi­ tare le possibili trappole metodologiche », e di sollecitare da una par­ te « la creazione di blind tests, sempre più attentamente controllati e, dall’altra l’osservazione e la manipolazione sperimentale, in modo completo, di comportamenti semiosici». Lo scopo del nostro libro era precisamente quello di fornire una buona ragione e un incoraggiamen­ to per la continuazione delle indagini empiriche sull’effettivo progres­ so nell’ambito delle interazioni fra l’uomo e le grandi scimmie duran­ te l’addestramento e le sessioni di test. Siamo altrettanto consape­ voli, quanto deve esserlo la professoressa Gopnik della fallacia del1 argumentum ex silentio nella logica del discorso scientifico.

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Appendice D

Una volta innamorato di Amy *

Rielaborate Le miniere di Re Salomone, il famoso « racconto fede­ le, ma senza pretese, di una sorprendente avventura » dedicato « a tutti i ragazzi grandi e piccoli che lo leggano », metteteci dentro qualche in­ grediente moderno — congegni computerizzati per trucchi; Amy, una falsa gorilla, che abitualmente usa il linguaggio dei segni, eppure « comprende gran parte del linguaggio parlato umano » e « sa quando si mente e non le piace »; e una specie di gorilla mutante, tanto letale quanto biologicamente improbabile, un gruppo di « animali di attacco, addestrati all’astuzia e alla ferocia » — e si ottiene una sceneggiatura commercialmente possibile (i diritti cinematografici furono venduti in­ fatti prima ancora che Michael Crichton avesse scritto la prima parola di Congo), anche se si tratta di poco più di un romanzo per passare il tempo. In breve, Congo è una storia d’avventura costruita tecno­ logicamente e modellata secondo lo stile di H. Rider Haggard. I personaggi principali sono un trio stereotipato di protagonisti umani, contrapposti alla banda assassina dei gorilla; e la chimerica « bilingue » Amy, che fa da mediatrice. Queste figure sono program­ mate per spingere avanti l’intreccio a ritmo veloce in conflitto con numerosi ostacoli umani, animali e di altro genere; ma la storia, ahimè, ha la deprimente caratteristica stravaganza, tipica deila fan­ tascienza incentrata su problemi semiotici. In gioco, non c’è niente di più significativo, in questa opera fan­ tascientifica, che la dottrina della verosimiglianza: il concetto aristo­ telico di to eikos e la nozione strettamente collegata di imitazione della natura. Seguendo il capitolo 9 della Poetica, è preoccupazione di Crichton non «dire ciò che è accaduto ma ciò che potrebbe ac­ cadere». È consentito l’impossibile, purché sia convincente; ed è permesso l’implausibile, giacché (come dice Aristotele nel capitolo 25) * Questa recensione, ora nella forma del manoscritto originale, apparve, con il titolo Amy and thè Apes, sul «Times Literary Supplement », Il 17 luglio 1981.

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: probabile che abbia luogo qualche azione improbabile. Crichton è lutorizzato a non rispettare ciò che comunemente si sa, se, e so tanto c’è una ragione artistica di primaria importanza per tarlo. Ursula fC Le Guin stabilì un principio di fantascienza pertinente nel delibe­ rare che lo scrittore « non deve dileggiare l’evidenza scientifica ». n dame sfere, ciò viene chiamato il trucco del « traduttore automati :o » : se si deve comunicare in fretta con stranieri — o animali —, usate tl Traduttore Universale, una magica macchina di codificazione ad-hoc. Amy è l’incarnazione di una variante di questo progetto sm troppo­ usato. Crichton ha ovviamente fatto un po’ di ricerca sulla comunicazio­ ne, sia animale, sia elettronica. Egli aggiunge quattro pagine di rife­ rimenti autentici su questi argomenti, come anche su aspetti dell etno­ logia dell’Africa Occidentale, per non parlare di faccende arcane co­ me quelle concernenti un particolare tipo di radar. Ma non è chiaro se egli sia in grado di valutare oggettivamente ciò che dichiara di aver letto, e che non ha letto abbastanza. È vero che The Naturai^ History of thè Gorilla di A. F. Dixon apparve troppo tardi perché Crichton potesse prenderlo in considerazione, ma o equivocò o pre­ ferì sopprimere le conclusioni delle opere di Herbert S. Terrace, al­ cune delle quali da lui stesso citate, ed ignorò completamente la letteratura critica ormai voluminosa e distruttiva che dimostra come il parlare in modo incauto intorno al linguaggio delle scimmie si fon­ di, al tempo stesso, sia su ingenui pregiudizi teorici, che su procedure sperimentali pateticamente scarse, i cui risultati sono stati diffusi so­ prattutto in maniera distorta e fatti giungere in questa forma nella coscienza popolare a forza di media. Non accade spesso che un giallo come questo venga recensito sulle pagine austere del « Wall Street Journal », ma Raymond Sokolov si è preso questo fastidio nel numero del 14 gennaio di quest’anno, sotto il titolo Separating Fact from Fiction. Sokolov era indignato perché Crichton « aveva apertamente falsificato un fat­ to basilare, sapendo bene di farlo », e con ciò « rivela il suo disprezzoper il pubblico e per il suo stesso lavoro. Egli imbroglia con il suo stesso gioco ». Come Sokolov anch’io rimasi male nello scoprire che Crichton fosse o un ricercatore sciatto oppure un prevaricatore per­ verso: una volta che ci delude rispetto ad una figura così cruciale come quella di Amy, sulla cui competenza linguistica s’impernia l’in­ treccio di base, come è possibile fidarsi della sua veracità riguardo al resto delle minuzie scientifiche e tecnologiche ammucchiate l’una sul­ l’altra, pagina dopo pagina? Questi dettagli, nel loro insieme, do­ vrebbero ammontare ad una visione convincente e comprensiva del suo mondo immaginario, ma, per quanto mi riguarda, la magia fu 271

■dissipata dall’inizio con Tapparne di Amy: non perché sia impossibile — benché essa lo sia certamente — ma perché è così ovvio che si tratta •di un’impostura. Quali sono, allora, le funzioni di Amy in questo libro? Riaccom­ pagna una spedizione americana in Africa — dove è nata, sebbene fos­ se stata addestrata dal punto di vista linguistico nella Bay Area della •California (dove altro?) — alla ricerca di una miniera di diamanti (il MacGuffin) nella città perduta di Zinj (che i fan di Haggard pronta­ mente riconosceranno come il Luogo della Morte). Il controllo della miniera cambierà il futuro della guerra. Bisognerà mettersi in contat­ to con le scimmie assassine che sorvegliano i diamanti di Zinj. Amy serve da comoda intermediaria. È anche una delle due eroine del li­ bro. L’altra, la dottoressa Karen Ross, è un « genuino prodigio della matematica », « fin troppo logica », giovane e attraente, ma glaciale e spietata. Appena conosce Karen, Amy indica che « non piace donna, non piace Amy, non piace, andare via ». Amy ha « diversi tratti di­ stintamente ‘ femminili ’ » - è timida, risponde ai complimenti, si preoccupa del suo aspetto, adora il trucco, ed è pignola circa il •colore dei maglioni che indossa d’inverno; soprattutto, preferisce gli uomini alle donne. La relazione fra le due femmine continua ad es­ sere tesa, ma l’antagonismo muta stranamente a mano a mano che il viaggio procede. Nel finale di Congo, Karen si unisce all’U.S. Geological Survey, Amy si unisce ad un gruppo di gorilla dello Zai­ re (regolamentari, non fuorilegge), e la storia finisce con quest ultima •che dà alla luce un figlio a cui si impegna di insegnare nella giungla il linguaggio dei segni. Un narratore può, come disse Aristotele, partire dalla rappre­ sentazione della realtà, se (fra le altre considerazioni) egli segue T« opinione comune ». Nella nostra società, l’opinione tende ad essere mo­ dellata dai media, con cui Crichton è strettamente sintonizzato. Se­ condo i media, alcune grandi scimmie - come anche cani, delfini, forse persino cavalli - possono essere trasformati, dai metalli più vili di cui si pensa siano fatte le creature senza parola, in una creatura dotata della virtù dorata che, come diffusamente si crede, soltanto la capa­ cità del linguaggio può consentire. Nell’autentico mondo della scien­ za, in contrasto a quello dell’alchimia, non è mai avvenuta ima tra­ sformazione del genere, contrariamente a ciò che uno s’immagina di .aver appreso dai film sofisticati trasmessi alla televisione o che ha letto nelle riviste come « Penthouse » (v. l’edizione di novembre 1980, che mostra Koko nuda), o ha sentito indirettamente da un vicino cre­ dulone. Di conseguenza, è emersa una forma letteraria, nata da una tra­ dizione antica, che si serve di animali parlanti come sostegno per 212

attuare Tintelito narrativo dell’autore; Harvey il coniglio a to sei P di Mary Coyle Chase interagiva verbalmente soltanto con un p sonaggio nella omonima commedia (1944), e quindi contri u linearne il carattere, ma rimase impercettibile al resto e c , naturalmente al pubblico divertito. Il genere a cui mi r erisco e una svolta decisiva verso la fantascienza, partendo forse da stein di Mary Shelley il cui accattivante mostro riscoprì le delizie infinite della semiotica: « Scoprii che queste persone Lne a capa del pastore] possedevano un metodo per comunicarsi reciprocamente le loro esperienze e sentimenti attraverso suoni artico ati. ercep che le parole che pronunciavano a volte producevano piacere o ° sorrisi o tristezza, nella mente e nei volti degli ascoltatori, io era vero una scienza divina e io desideravo ardentemente conoscer a ». Il possesso di questa scienza divina è tipicamente attri ulto a qu siasi tipo di animale che sia normalmente al centro e attenzio pubblica. Quindi, durante gli anni Sessanta, i delfini fur°n° c^n > del palcoscenico come nell’astutamente organizzato T e ay oj Dolphin di Robert Merle (1967; successivamente Hollywood trasrormò il delfino in cane). Negli anni Sessanta fino al presente decennio e chi sa se fino al resto del secolo, le specie scelte sono ven a grandi scimmie africane. L’elegante giallo di Peter Die son> . Poison Oracle, apparso in 1974, stabilì una pietra miliare nello svilup­ po di scimpanzé loquaci, come fece, con tutt altro mo o e SP > il racconto di T. Goraghessan, Descent of Man, insieme npug tC ^l^primo importante gorilla è stato un maschio nato in Uganda, escogitato da John Goulet, per il suo roman à c/^/, meravig iosa te immaginato e brillantemente eseguito, Oh's Profit (197 > re^ lato The Human Ape per i tascabili). L’intreccio di Goulet: e lomeno divertente, quanto quello di Crichton, ma ci sono anc e questioni di grande importanza in gioco, fra cui quella e a na u umana e della natura del linguaggio. La storia di Oh e profondamente commovente: avvince mentre istruisce. Laddove Amy S1 e a e, .. tenticità, Oh è fedele all’essenzialità dell’uomo. È un peccato che fi gorilla di Crichton sia destinato a prevalere su quello 0 e che la maggior parte delle persone continuerà a dare ere to ^ zdone piuttosto che alla realtà. Come decide Oh verso a mea e sottovalutato romanzo di Goulet, « da ora in poi, non avre e piu volontariamente abusato del linguaggio, per paura che esso a usasse di lui».

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Appendice E

L’éducation sentimentale *

The Education of Koko appartiene ad un genere letterario tuttora in voga, dedicato alle scimmie « dotate di linguaggio ». Ce ne sono tre tipi dominanti, per quanto sovrapposti (esclusi libri scritti per bam­ bini, come l’insigne serie di Bettyann Kevles): dichiarate opere d’im­ maginazione, che, nel loro sforzo verso il realismo, intrecciano con maggiore o minore astuzia ricercatezza e artificio; opere a carattere descrittivo reclamizzate come documenti, ma che sono più spesso nient’altro che un soupgon di dati ora inventati ora mescolati con scarse informazioni e abbellite con illustrazioni piacevoli e rese in­ fine accattivanti da interpretazioni esagerate; e poi c’è la terza cate­ goria interessante, ma piuttosto insolita, delle confessioni. Conside­ rato come narrativa, il libro di Patterson-Linden non è all’altezza di nessuno dei due romanzi recenti sui gorilla che usano segni: il brillan­ te e poetico rornati à clef, The Human Ape (titolo originale: Oh’s Profit) o il film giallo tratto da un testo d’avventura pseudorealistico di Michael Crichton, Congo, l’eroina antropoide vagamente modellato su Koko (TLS, 17 luglio, 1981). Proposte come la trascrizione della realtà, le memorie di Koko risultano, per valore, molto al di sotto del trio dei classici messi in circolazione prima del 1950 da Nadie Ladygina Kohts (Infant Ape and Human Child), N. Winthrop, e Louise A. Kellogg (The Ape and thè Child), e Catherine H. Hayes (The Ape in Our House). Questo racconto dettagliato completa un nuovo trio di saghe sulle grandi scim­ mie in cattività, discutibilmente realizzando per Gorilla ciò che Maurice K. Temerlin ottenne, nel 1975, per Pan (in Lucy, il nome di uno scimpanzé ora in libertà provvisoria in Gambia), e Keith Laidler, nel 1980, per Pongo (in The Talking Ape). Un tratto saliente condiviso * Recensione di The Education of Koko (1982) di Francine Patterson e Eugene Linden. Questa recensione, basata nella sua presente forma sul manoscritto ori­ ginale, è apparsa col titolo The Not So Sedulous Ape, sul « Times Literary Supplement», il 10 settembre 1982.

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da questi tre libri recenti è il carattere crudamente antropopatico dei loro rispettivi protagonisti. Tutte e sei le cronache summenzionate e approssimativamente pa­ ragonabili, come già Why Chimps Can Read di Ann J. Premack, dif­ feriscono dal terzo tipo del genere, fino ad ora esemplificato unica­ mente dal Nim di Herbert S. Terrace (il nome di un altro scimpanzé, recentemente degradato al livello di soggetto da laboratorio per gli esperimenti per un nuovo vaccino per l’epatite), con la sua conclu­ sione volte-face che non esiste nessuna prova che le scimmie sappiano sia produrre, sia interpretare proposizioni. Questa risoluzione di Ter­ race affatto sorprendente gli guadagnò epiteti come « pasticcione » fPatterson), « apostata» (Linden) e altri peggiori. Tuttavia, i risultati di Terrace sono in perfetta conformità con il giudizio sostenuto da lungo tempo da linguisti informati, da Max Miiller (1889) a Noam Chomsky. Si accordano altrettanto bene con il punto di vista di eto­ logi responsabili, come Konrad Lorenz, che aveva dichiarato, nel 1978, «che il linguaggio sintattico è fondato su un programma filogenetico sviluppato esclusivamente dagli esseri umani », e che « le grandi scimmie antropoidi... non danno alcun segno di possedere lin­ guaggio sintattico». Così anche, l’eminente neuropsicologo, Richard Gregory, concluse nel 1981 che le grandi scimmie non esibiscono né « linguaggio umano, né capacità intellettuale », e saggiamente aggiun­ se: « Ci sono così tante difficoltà sperimentali e possibilità che gli ani­ mali possano percepire suggerimenti dagli sperimentatori, dati inintenzionalmente, che un’estrema cautela è essenziale ». Gregory na­ turalmente si riferisce qui al fenomeno « Bravo Hans ». una fallacia alla luce della quale l’intero curriculum decennale di Koko è stato cont*nuamente criticato. Scrivendo specificamente di Koko, Heine Hediger, lo studioso del comportamento animale più acuto dei nostri tem­ pi, osservò, nel suo libro più recente, « Es ist.. meine t)berzeugung, daB in diesen Experimenten der Kluge-Hans-Fehler nach 75 Jahren emeut Triumphe feiert». Maple e Hoff, nel loro testo basilare, Goriiìn Behavior (1982:220), giustamente intravedono che «il pregiu­ dizio dell’osservatore sembra essere inerente agli studi sul linguaggio dei segni » e aggiungono che « certamente lo studio di Patterson sui go­ rilla può essere criticato nello stesso senso». I lettori che hanno familiarità con The Education of Henry Adarns, potrebbero essere tentati di concludere che il libro in questione è un’autobiografia di un gorilla misteriosamente dotato, ma l’abilità di ^oko di esprimere il linguaggio in forma scritta non è ancora inclusa fra le altre numerose bizzarre affermazioni fatte sul suo conto. Ma vi prego di non scherzare: nel 1968, una delle figlie di Thomas Mann, Elizabeth Borgese, fece, in tutta serietà, la dichiarazione ancora più 275

strana che il suo cane, Arli, aveva imparato a comporre poesie su una macchina da scrivere Olivetti; del lavoro di questo setter inglese, un rinomato critico di poesia moderna aveva scritto a quanto si sa: « le poesie sono deliziose, credo che esso abbia una precisa affinità con i gruppi ‘ concretisti’ in Brasile, Scozia e Germania. È stato in con­ tatto con essi? ». (Un esemplare di quest’ultimo gruppo, « d do vvar », è stato interpretato come poesia contro la guerra!). Poiché siamo continuamente informati della predilezione di Koko per il verseg­ giare, è forse irragionevole aspettarsi che essa trasformi il suo pre­ sunto talento per la rima (dell’ordine «You lip sip» e « Bread red head») in qualcosa di parallelo, e non solo, in gesti evanescenti (va­ le a dire, Ameslan), ma in un modo visivo, più duraturo, cioè la scrittura? A parte il dichiarato talento poetico di Koko, si fa un gran chias­ so intorno alla sua attitudine alla menzogna che, secondo gli autori, « naturalmente, è uno di quei comportamenti che mostra il potere del linguaggio» (p. 18). Qui, tuttavia, si nasconde una confusione ter­ minologica, che, inoltre, si dà per scontata. Molti tipi di animali - il caso più sorprendente mai registrato è quello della volpe artica, Alopex lagopus - danno, o emettono, messaggi ingannevoli, in una pa­ rola, essi mentono. Ma una menzogna, per definizione dev’essere « asserita », cosa che Koko semplicemente non può fare. Giacché, come ha sostenuto validamente Philip Lieberman (Lieberman 1975), i primati non umani «non potrebbero produrre lin­ guaggio parlato umano anche se avessero i mezzi neurali », in che sen­ so, precisamente, si può dire di Koko che parla? Bene, si dichiara che essa sia « abile nello scrivere a macchina » su un assemblaggio tastieracomputer collegato ad un sintetizzatore vocale, premendo dei bottoni su una robusta consolle. È con genuino disappunto, tuttavia, che si vie­ ne a sapere che poiché il « sintetizzatore ha spesso funzionato male e sebbene abbiamo raccolto un’enorme quantità di dati, non abbiamo avuto tempo di studiare accuratamente il linguaggio ‘ parlato ’ di Koko» (p. 110). (Per dirla chiaramente, questa citazione significa che, poiché il collegamento della Signorina Patterson con la Stanford University è stato interrotto unilateralmente, ella non gode più del libero accesso ai suoi computer). Il narratore alla prima persona singolare di questo libro rappre­ senta la fusione di due esseri umani in una sola persona: Francine Patterson, una psicoioga impacciata, madre surrogata e pedagoga; di Koko, la cui voce - in considerazione della sua stessa confessione che il suo tempo « sarebbe stato molto meglio impegnato conversan­ do con i gorilla » - è articolata ventriloquiamente da Eugene Linden, un lottatore diventato giornalista, forse meglio noto al pubblico per il 276

suo Apes, Men, & Language (1974, 1981), indubbiamente la più in­ genua descrizione popolare, oltre che difensivamente carica di tenta­ tivi di comunicazione linguistica con qualsiasi delle nostre specie an­ cestrali collaterali, finora pubblicata (specialmente quando è messa a confronto con la descrizione molto più sofisticata ed equilibrata di Adrian Desmond, The Ape's Reflexion [1979], e persino a confron­ to con Apetalk & Whalespeak [1981], di Ted Crail, che assume un tono evasivo nel tentativo di non offendere nessuno). Una citazione attribuita a Koko fa da epigrafe all’inizio del li­ bro e allo stesso tempo simboleggia la sua ostinata stravaganza: « Bel­ lo animale gorilla » — che è la sua risposta alla domanda: « Sei un animale o una persona? ». Questo scambio di battute implica che Koko abbia riscoperto il sistema di classificazione e di nomenclatura di Linneo. Al contrario, come ha spiegato pazientemente Hediger, la stringa citata è un prodotto puramente umano che dopo esser stato dato al gorilla veniva rigurgitato da esso e quindi reinterpretato come una nuova proposizione che sembrava avere origine nella sua testa. Si tratta di un tipico esempio di ciò che accade quando la fallacia pa­ tetica e la fallacia del « Bravo Hans » si fertilizzano reciprocamente, e il risultante ibrido è ulteriormente contaminato da ciò che lo psicologc Paul E. Mehl, nel 1956, e molti altri, da allora in avanti, hanno chia mato la fallacia Barnum — una frase che richiama ai circhi di P. T. li cui popolarità era dovuta al fatto che essi offrivano « a tutti qual­ cosa ». L’effetto Barnum è uno strumento indispensabile impiegato da una ampia varietà di sensitivi e prestigiatori affini, uomini e donne, nelle cosiddette fredde (o dinamiche) letture (tanto proficuamente studiate da Ray Hyman); la fallacia comporta, nel caso in questione, che si tratti il gorilla come una fonte intenzionale del messaggio piut­ tosto che come un mero canale attraverso il quale i messaggi, che hanno origine con Patterson o i suoi soci, vengono specularmente riflessi e rimandati all’interrogatore. Di solito l’operatore ascrive all’animale la comprensione di « un numero di princìpi che sono il fondamento di ciò che noi chiamiamo pensiero astratto» (p. 129). Non è sfuggito all’attenzione di diversi recensori che Patterson e Linden sono dediti all’uso di tattiche ben note nella parapsicologia, co­ me, per esempio, tenersi lontani dagli scettici, perché la presenza di uno scettico tende a rovinare i risultati sperimentali. Confrontate ciò con la convinzione dell’autore « che in realtà non è possibile capire il funzionamento mentale di altri animali o portarli al limite delle loro capacità, se prima non si giunge ad avere con essi un vero rapporto » (p. 211). Il contrario di questa affermazione è che la intimità fra Pat­ terson e la sua amata Koko ha offuscato disperatamente la sua og­ gettività e il suo giudizio scientifico (l’interesse del suo co-autore in 277

questa impresa — come anche, naturalmente, il suo legame personale con il gorilla - è chiaramente di tipo diverso). Potrebbe essere istrut­ tivo qui ricordare uno dei più famosi assiomi di Freud: « Il medico dovrebbe essere impenetrabile per i suoi pazienti e, come uno spec­ chio, mostrare loro soltanto ciò che a lui viene mostrato ». Il progetto di Patterson si differenzia per un certo aspetto, in maniera piuttosto spiccata da tutte le altre ricerche con obiettivi si­ mili sulla propensione verso il linguaggio delle scimmie negli Stati Uniti (Punico progetto di una certa importanza all’estero, sull’acqui­ sizione del linguaggio negli scimpanzé lanciato dal Primate Research Institute of Kyoto University, fallì in modo inglorioso quando la man­ canza di risultati divenne ovvia). Mentre venivano sperperati milioni di dollari dai fondi federali sulla futile ricerca sul linguaggio negli scimpanzé e negli orangutan, Patterson continuava il suo lavoro sen­ za un’appropriata base istituzionale, con il sostegno di fondi privati, inclusa una grossa impresa cosiddetta commerciale « senza profitto », che integravano il suo reddito con sussidi minori provenienti da pic­ cole fondazioni. Questa mancanza di soccorso pubblico è costata cara, dando luogo anche a una prospettiva distorta, una mancanza di ri­ cettività nei confronti della critica ben intenzionata ed una disperata ricerca per un riconoscimento da parte dei media (di ciò questo for­ tunato libro rappresenta solo un esempio). La necessità di diffondere il suo prodotto attraverso riviste (« National Geographic », « Venthouse ») e grotteschi spettacoli televisivi è una tragedia per una prometten­ te giovane scienziata con aspirazioni alla santità; è stato riferito che la Patterson avrebbe dichiarato che il suo patrono è San Francesco che parlava con gli animali, e che da bambina pensava: Oh che bello po­ ter fare ciò. Se fossi una santa, sarebbe quella la capacità che mi pia­ cerebbe avere. Nel periodo in cui Oskar Pfungst stava cercando a Berlino di ri­ trovare il buon senso nella faccenda del Bravo Hans - che nel 1911 James R. Angeli caratterizzò come una « sorprendente storia di in­ genuità fondata sull’inganno inconsapevole » - un medico, William H. Furness III, si accingeva, a Philadelphia, ad insegnare a un oran­ gutan a parlare. I suoi sforzi prodigiosi, estesi più tardi agli scimpanzé, erano stimolati dalla sua convinzione che le grandi scimmie antropoidi « erano capaci di sviluppo fino ad un grado umano di comprensione forse soltanto un passo al di sotto del livello del più primitivo tipo di essere umano». Entro il 1916, era costretto ad ammettere pubbli­ camente che poteva produrre « scarne prove » di una capacità lingui­ stica nelle scimmie. Purtroppo, nulla è cambiato nei 65 anni intercorsi per trasformare i barlumi che Furness aveva immaginato di scorgere in un bagliore accecante. 278

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Appendice F

La mente di una grande scimmia*

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L’ossessione antidiluviana dell’uomo nel ricercare bruti dotati di knguaggio - oppure, non riuscendo a trovarli in natura, innestando la capacità linguistica in questa o in quella sfortunata creatura senza parola tenuta in cattività — raggiunse un livello evidentemente mania­ cale negli anni Sessanta. Laddove precedentemente i soggetti scelti erano, nella maggior parte dei casi, uccelli domestici o mammiferi domestici (specialmente cani) o animali addomesticati (come cavalli o maiali), improvvisamente, subito dopo la seconda guerra mondiale, il bersaglio si spostò su esseri difficili da ottenere, esotici, e di conse­ guenza costosi. Il passaggio dal libro di John C. Lilly The Mind of thè Dolphin, una cumulativa creazione ricca d’immaginazione rela­ tiva ai cetacei che attirò molta attenzione da parte dei media nel 1967, al libro dei Premack il cui titolo fa da eco a quello precedente, The Mind of an Ape, è emblematico della deflezione della crescente attenzione popolare, durante gli anni Sessanta fino agli anni Ottanta, dall’ambito domestico all’immensità caliginosa degli oceani e delle fol­ te giungle. Naturalmente gli esemplari, come sempre strappati dal loro ambiente naturale, furono trasportati, per essere studiati, in ambienti fatti dall’uomo, che esponeva e predisponeva i loro os­ servatori ai trabocchetti che inevitabilmente confondono ogni tenta­ tivo di apprentissage, « non fosse altro perché », come affermò Hediger nel 1974, «ogni metodo sperimentale è necessariamente un metodo umano, e perciò deve costituire, per sé un’influenza umana sull’animale ». Per dirla in maniera succinta, mentre tutti gli animali sani sono capaci di comunicare attraverso una gamma notevolmente ampia e va* Recensione a The Mind of an Ape (1983) di David Premack e Ann James Premack. Questa recensione, basata nella sua forma attuale, sul manoscritto originale, è apparsa col titolo Chattering Chimps sul «Times Literary Supplement », il 29 giugno 1984.

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ria di mezzi non-verbali con i loro congeneri, e molti animali, ove ciò è necessario, comunicano con membri di altre specie ancora - inclu­ sa quella umana - che si trovano per caso a condividere la stessa nicchia ecologica, solo l’uomo può farlo attraverso mezzi verbali. I modesti movimenti motori, decantati come « linguaggio gestuale », che, si dice, un gruppo di grandi scimmie abbiano imparato a for­ za di anni di arduo addestramento, sono tutti stati impressi, mutatis mutandis, in colombi e picchi con corrispondente successo. Per esempio, dicono i Premack, « Sarah, altre grandi scimmie, inoltre co­ lombi e altri non primati sanno tutti esibirsi bene nel generalizzato testing abbinamento-sulla-base-di-un-campione » (p. 39); e ora noi sappiamo anche che alcuni dei problemi critici che Wolfgang Kohler, prima del 1925, aveva assegnato alle sue grandi scimmie perché li risolvessero, sono stati recentemente replicati da Robert Epstein nei colombi con la stessa apparente esibizione di « intuito ». Il vergogno­ so fallimento di un addestratore che ora si occupa del celebre diciot­ tenne Washoe e di quattro scimpanzé più giovani, nell’insegnare ai suoi pupilli qualcosa di somigliante al linguaggio ha avuto, in ogm modo, una svolta spettacolarmente ricompensativa: egli finalmente raggiunse il successo, ma per contra - ammaestrando acrobati, gin­ nasti e ballerini umani a recitare la parte di scimmie, vale a dire, a comunicare non-verbalmente stati di aggressione, sottomissione, cor­ teggiamento e maternità, paura e gioia e a esibire altre azioni e sen­ timenti ad essi richiesti da una coppia di mal impiegati scrittori del copione di quello che si potrebbe sostenere essere il film più sciocco dell’anno; Greistoke: La leggenda di Tarzan, Signore delle Scimmie. Come notò acutamente il sig. Binyon nell’edizione del 4 maggio del TLS: «Gli amici e i parenti di Tarzan... naturalmente non usano il linguaggio umano, ma fanno le boccacce, farfugliano, gridano e fri­ gnano realisticamente ». Così Prendick, il narratore in L'isola del Dottor Koreauì racconta di un uomo-scimmia che balbettava in con­ tinuazione a lui e alle «più miti Persone Bestie... vere e proprie assurdità » e che sembrava avere l’idea « che borbottare intorno a no­ mi che non significavano niente era l’uso appropriato del linguaggio parlato ». Dopo la morte di quel brillante fisiologo e vivisezionatore del caso degli orrori di Moreau, le ciarle di questa povera scimmia « aumentarono di volume, ma divennero sempre meno comprensibili e sempre più scimmiesche». Alla luce dei sostanziosi fallimenti del passato, siano essi nella realtà o nella immaginazione, non è affatto ragionevole chiedere: per­ ché alcuni psicologi di ruolo secondario - fortunatamente ora ridotti ad un mero pugno sparpagliato - persistono in una impresa così as­ surda, paragonabile diciamo, a quella di insegnare agli elefanti a levi280

tare? Nel 1979, David Premack confessò: «Già nel 1970, smisi dì concentrarmi essenzialmente sul tentativo di analizzare operativamen­ te alcuni aspetti del linguaggio umano, sviluppare per essi procedu­ re di addestramento ed instillarle nella scimmia, in quanto mi era. ormai chiaro che i risultati di cui la scimmia era capace, riguardo al l^guaggio di tipo umano, erano molto limitati». Inoltre, nel 1983,. egli ammette insieme a Ann James Premack: « Alcune delle nostre scimmie non hanno imparato nemmeno una sola parola» (p. 20).. L’unico enigma che perdura è perché mai i Premack, se avevano bru­ scamente afferrato la verità 14 anni prima, abbiano ugualmente pub­ blicato, rispettivamente, Why Chimps Con Read e Intelligence in Apeand Man (che trattò in gran parte dell’acume verbale), nel 1975 e 1976, e un’altra discussione su questioni relative al linguaggio nel 1983. La risposta dei Premack è la stessa di quella di Lilly nel lontano1967: «Ci interessava la mente umana» (p. 3). Per quanto «men­ te » resti un termine primitivo e non definito in entrambi i libri, la conclusione formulata dai Premack è che « ogni mente deve risolvere essenzialmente lo stesso problema generale; analizzando i mondi fisic e sociali e rappresentando entrambi i mondi mentalmente» (p. 151 Questa affermazione terribilmente banale è priva di un qualsiasi Vi lore comparativo in questo contesto, data la premessa che gli scim panzé, a differenza dagli uomini, mancano di qualsiasi capacità di lin­ guaggio; né è « il solo linguaggio che separa la mente umana da quella dello scimpanzé» (ibid.). È un peccato che questi co-autori, a quanto pare, non conoscano l’unico trattamento soddisfacente, dal punto di vista sia biologico sia semiotico, della mente come sistema di segni, o quel ricettore primario che Jakob von Uexkiill, scrivendoin tedesco sul Gemuta nel 1928, caratterizzò consequenzialmente come « l’unica parte della natura a noi nota direttamente ». È difficile indicare qualche novità in questo libro che, in realtà,, non è altro che una selezione di scritti, precedentemente pubblicati. Tende a ricorrere a perle aneddotiche come « Quasi tutti coloro che hanno lavorato da vicino con gli scimpanzé sono stati morsi» (p. 11) - un truismo spesso negato, che ha portato, per lo meno nel caso di Washoe, a serie ripercussioni; e il fatto che le scimmie possano « inten­ zionalmente » mentire - ed infatti ciò è vero, come di fatto possonomentire molti altri animali, compreso il caso ben documentato della volpe artica.

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Appendice G

Una recensione a!T« Ethology » di Hinde *

Ho sempre creduto che la serie Modern Masters di Frank Kermode fosse brillante come concezione, anche se ineguale nella sua realizzazione. Inoltre, uno scarso marketing rese quasi inaccessibile al pubblico degli Stati Uniti quanto di meglio c’è fra le biografie in­ tellettuali che sono quasi sempre una specie di letto di Procuste. Le « guide dei maestri » della serie tascabile di Fontana, inaugurata dal libro di Hinde e altri due, a me sembra un’idea egualmente buona; le scelte di autori attuali e previsti sono espressione della vasta cono­ scenza di Kermode, della sua ampiezza di vedute, e del suo gusto ec­ cellente. Sebbene siano disponibili altri compendi di etologia relati•amente recenti - lasciatemi enumerare soltanto alcuni dei libri più nportanti che non sono stati menzionati nella prefazione di Hinde, ome, per esempio, Modern Ethology (1981) di S. A. Barnett, Com­ parative Animai Behavior (1978) di D. A. Dewsbury, Neuroethology (1976, 1980) di J. P. Ewert, e The Foundations of Ethology (1978, 1981) di K. Z. Lorenz, e il lettore assiduo potrebbe anche desiderare disposizione VOxford Companion to Animai Behavior di tenere (1982) curato in modo encomiabile, come pure l’utile Ethological Dictionary (1977) trilingue di Armin Heyner - nessuno è così ma­ neggevole, interessante o di così alta qualità. I punti forti di Hinde, come risultano nelle sue opere in generale, e specialmente dopo il suo comprensivo anche se ora, per molti aspetti, antiquato Animai Behavior: A Synthesis of Ethology and Comparative Psychology (1966, 1970) sono sempre stati la sua apertura mentale, la sua lungimiranza come anche la capacità espressiva, la comprensione di questioni teoriche ancorate nelle ricerche empiriche, spesso condotte da lui stesso, ed una visione globale della biologia. Nel cuore di que* Recensione a Ethology: Its Nature and Relation with Other Sciences (1982) di Robert A. Hinde. Questa recensione è apparsa originariamente sul «Newsletter» del febbraio 1983, del Royal Anthropological Institute. 282

st’ultima c’è la semiosi, la caratteristica criteriale che segna i confini della vita rispetto alla matrice inerte in cui la nostra biosfera terrestre è incorporata. Hinde, naturalmente, non impiega una terminologia se­ miotica, gran parte della quale è estranea alla tradizione dell’etologia accademica, ma egli è altrettanto sensibile alla presa di posizione se­ miotica quanto lo erano generalmente i suoi maggiori predecessori in­ tellettuali specialmente Charles Darwin, nel suo classico testo, fe­ condo e impareggiabile, del 1872, e W. H. Thorpe. Sfortunatamente egli non parla di Jacob von Uexkull, il pioniere straordinariamente originale - di cui Lorenz ha osservato, nel 1958, che il suo program­ ma di ricerca era quasi identico a quello dell’etologia — che fu il primo ad articolare e a elaborare, con dovizia di dettagli, la nozione che ogni organismo ha una relazione di contrappunto con il proprio ambiente, oppure in altre parole, che l’argomento dell’etologia, come anche del­ la semiotica, consiste nella circolazione di messaggi. (Le traduzioni in inglese di tutte le opere di von Uexkull tranne una, furono effettuate da incompetenti rendendo perciò il suo pensiero impenetrabile ai le' tori anglofoni, ma ora a ciò si sta rimediando rapidamente: per esen pio, la versione inglese della sua straordinaria Bedeutungslebre, o si mantica animale (Jacob von Uexkull 1940 [1928]), apparirà, cor­ redata da un esteso commento, entro qualche settimana. La « ritualizzazione », discussa da Hinde alle pagine 126-127, fun­ ge da minore ma catturante illustrazione terminologica di ciò che io vado considerando come sostanziale sovrapposizione fra i due campi, che invece almeno superficialmente, appaiono davvero distanti. L’e­ spressione coniata nel 1914 da Julian Huxley, che ha acquisito nu­ merose connotazioni fuorvianti - specialmente per gli antropologi, co­ me sottolineò Leach, per dirne uno, nella sua relazione sull’argomen­ to del 1965, tenuta alla Royal Society - non significa niente di più che la nascita filogenetica dei segni e dei sistemi di segni da elementi (comportamenti, movimenti) che, in uno stadio precedente dell’evo­ luzione, non significavano nulla oppure significavano in una maniera che era meno cospicua o distintiva. (La questione se possa esistere un qualsiasi comportamento con significazione zero è discutibile, ma non possiamo affrontare l’argomento qui, oltre che con un secco: no). Hinde spiega come gli etologi determinano istanze di ritualizzazione con l’applicazione del metodo comparato, «fra una serie di specie», una procedura che si riduce ad una ricerca dei criteri delle omologie comportamentali. Questo stesso metodo, che deriva dall’anatomia com­ parata secondo l’impostazione di Cuvier, è stato impiegato con eguale successo in campi così diversi come l’antropologia culturale (il principio del tempo-spazio), il folclore (Die folkloristische Arbeitsmethode di Kaarle Krohn), e con un successo formidabile, la linguistica, almeno 283

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dopo Schlegel, che nel 1808 contrappose die vergleichende Grammatiky a die vergleichende Anatomie, e di cui sono documentati i contatti personali con Cuvier. Sia nel mondo animale sia in quello umano la ritualizzazione affronta un problema speciale della semiotica diacro­ nica, nel primo caso attraverso le specie, nel secondo, confrontando le categorie all’interno della stessa specie. Per illustrare come la reciproca fertilizzazione fra la scienza del comportamento animale e la scienza del comportamento segnico — due campi praticamente identici le cui rispettive discendenze e forme di linguaggio restano abbastanza diverse - potrebbe essere vantaggioso per entrambi, permettetemi di ricordare il caso smodatamente pub­ blicizzato della comunicazione fra i cercopitechi (per una descrizione tecnica di alto livello, v. Animai Behavior, voi. 28, pp. 1070-94, 1980). Gli osservatori delle vocalizzazioni di queste scimmie descris­ sero un trio (non esauriente) di segni codificati acusticamente che es­ se emettono in presenza di tre specie di predatori: serpenti, aquile e leopardi. Tuttavia, gli autori da una accurata presentazione dei fatti passano bruscamente alla implicita e grottesca interpretazione che i cercopitechi attribuiscano etichette distinte ai rettili, agli uccelli e ai mammiferi. Naturalmente una conclusione del genere implicherebbe che i cercopitechi abbiano anticipato correttamente la tassonomia di Linneo. In realtà, il sistema implica niente di più che una deissi spa­ ziale dinamica e bi-dimensionale che sarebbe normale aspettarsi nelle creature arboree. Per quanto i membri del genere Cercopithecus si muovano principalmente nella parte superiore della foresta, raramente scendendo al suolo, al C. aethiops (conosciuto comunemente come « scimmia della savana ») veniva assegnato, da C. J. Jolly, una « valu­ tazione di arborealità» intermedia; ciò significa che la verticalità in uno spazio canonico è assolutamente vitale per la sua sopravvivenza. In breve, i cercopitechi hanno soltanto una chiamata di allarme im­ perativa: può essere resa approssimativamente con «Muoversi», tra­ smesso in tre varietà contestuali: su («leopardo»), giù («aquila»), e nessuna delle due (cioè di lato, « serpente in arrivo »). Sarebbe mol­ to istruttivo confrontare il contenuto di informazione di questo +, —, e 0 del sottosistema cercopiteco con, poniamo, i calcoli di E. O. Wilson (1962) delle qualità di informazioni trasmesse nella danza delle api e con la traccia dell’odore lasciata dalla solenopsia. È mia convinzione che la quantità di bit trasmessi sarà all’incirca la stes­ sa — invero molto piccola — in entrambe le specie di insetti e nella scimmia. Il libro di Hinde è una meraviglia di organizzazione intelligente­ mente concisa. Un terzo del libro tratta di quella che egli chiama « eto­ logia nucleare », dedicata ai problemi di causa, sviluppo, funzione ed 284

evoluzione, usando precisamente lo studio della comunicazione ani male come campo di interazione fra tutti e quattro g 1 approcci, ro vo che le sue analisi siano perfettamente compatibili con le divisioni fondamentali della semiotica, di cui due sincroniche (struttura e e n zionale), due diacroniche (ontogenetica e filogenetica), e con V1 ° a sua convinzione che una « piena comprensione richiede la considera­ zione di tutte e quattro », mentre « le stesse questioni sono spesso interfertili» (p. 131). t A « L’altro terzo del libro è una cronaca fortemente personale delle relazioni talvolta burrascose fra l’ecologia comportamenta e, a so ciobiologia, varie branche della psicologia, la fisiologia, en ocrmo o già e l’etologia classica. «L’integrazione fra questi approcci e chiara­ mente essenziale» (p. 178), dice Hinde, e chi può negare suo spi rito ecumenico? , . T, c • i La sezione finale è intitolata «Ethology and thè Human Social Sciences » e abbraccia in modo particolare la psicologia socia e e e sviluppo, l’antropologia e la psichiatria. Il terreno comune a essi non è soltanto « poco esteso » (p. 269) ma è addirittura caotico, n u biamente l’etologia umana ha i suoi professionisti - esiste, per esempio un Max Planck Institute dedicato a faccende del genere in viera - ma il progresso è stato modesto, e un generale conso ì ame , per non parlare di una teoria unificante, non si vedono ancora a or zonte. Persino piccoli dettagli, come i modelli di comunicazione non verbale nell’uomo (pp. 212-20), sono lungi dall’essere stati tonnato zati nella metodologia; uno dei contribuenti principali in ques ar t Adam Kendon, ha persino osservato in una intervista pu ca a centemente che « non esiste nessun campo del genere » ina so al?.° .. studio dell’espressione e della rappresentazione, entrambe e ^8 assegna allo « studio dei segni ». I lettori del « Royal Anthropo ogica Institute Newsletter» (RAIN) troveranno, nel capitolo sull antropo­ logia (pp. 237-65) ben poco di nuovo o, ahimè, di certo.

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Scritti aggiunti nella presente edizione

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Semiosi e semiotica: quale futuro? *

La distinzione fra « semiosi » e « semiotica » è presto detta. La semiotica è un tipo di indagine esclusivamente umana, che consiste nella riflessione — sia essa informale oppure condotta in modo for­ malizzato — sulla semiosi. Questa ricerca, possiamo predire con sicu­ rezza, continuerà almeno per tutta la durata della sopravvivenza del genere umano, così come esso è esistito, per circa tre milioni di anni nelle successive espressioni di homo, variamente etichettate — ìj considerazione, fra gli altri aspetti, della crescente capacità cerebra) e delle abilità cognitive concomitanti — habilis, erectus, sapiens, c Neanderthal e ora s. sapiens. In altre parole, la semiotica indica sem plicemente la tendenza universale della mente al fantasticare focalizzato specularmente verso l’interno sulla propria strategia cognitiva e sui propri comportamenti quotidiani. John Locke denominò tale indagine, ricerca rivolta alla « comprensione dell’umano », e Charles S. Peirce chiamò questa inclinazione «il gioco del fantasticare». Sia il passato sia il futuro della semiotica, venendo a coincidere con l’esistenza dell’umanità, sono quindi indissolubilmente collegati con il suo destino biologico. In questa prospettiva, le numerose mani­ festazioni culturali contemporanee della semiotica devono essere con­ siderate semplicemente come brevi capitoli evanescenti della sua storia. D’altra parte, il futuro della semiotica sollecita questioni di ordine più speculativo ma anche più affascinanti. Prima, tuttavia, uno sguardo al suo passato. Allo stesso modo in cui la semiotica è una attività — fortemente imbevuta di linguaggio verbale — che caratterizza tutta la vita umana normale, così anche la semiosi, l’incessante gioco di qualsiasi e di tutti i segni (di cui l’universo, come ci ha assicurato Peirce, è perfuso), * Questo scritto, commissionato da una rivista portoghese e non ancora pub­ blicato, fu scritto durante un volo da Madrid a New York, novembre 1987 [N.d.T.].

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fino ad ora definisce qualsiasi e tutta la vita (che coincide, per quan­ to ne sappiamo ancora, con la vita terrestre). La vita è emersa sulla terra più di quattro miliardi di anni fa. Gli inizi della semiosi possono essere rintracciati risalendo indietro alla comparsa della prima cellula, composta, come sembra essere sem­ pre stata, dai quattro o cinque pezzi di costruzione elementari della vita, i tratti distintivi che i chimici chiamano aminoacidi. Queste cel­ lule, le più piccole entità, avvolte da membrana, auto-riproducentisi, sono le arene minime per i segni in azione; esse elaborano degli in­ put, li interpretano, e poi li trasformano in appropriati output di stringhe nuove. Nelle sue forme superstiti primitive ma abbondanti, tutte le cel­ lule erano e sono procariotiche. La loro semiosi sbalordisce per la sua eleganza e complessità strutturale. Tali qualità aumentarono dram­ maticamente quando - diciamo, circa 800 milioni di anni fa - alcuni insiemi di procarioti, a forza di un processo che gli scienziati chia­ mano simbiosi (e che costituisce esso stesso una forma speciale di biosemiosi), divennero eucarioti. Infine, questi ultimi si divisero in quattro Super-regni, di cui tre multicellulari. Essi ora coesistono e interagiscono incessantemente con il microcosmo come pure fra di loro. Insieme costituiscono la biosfera, che, nel nostro gergo di parocchia, è la matrice che ingloba e sostiene tutto ciò che Jurij M. Lotman ha di recente proposto di chiamare « semiosfera ». I tre Super-regni cellulari sono, nel gergo comune, piante, ani­ mali e funghi. Le piante sono i produttori: organismi che estraggono informazioni dal nostro sole, convertendo, come è stato provvisoria­ mente delineato nel 1981 da Martin Krampen, segnali inorganici (fo­ toni) in processi fitosemiosici. Gli animali ingeriscono piante direttamente o indirettamente, tra­ sformando con ciò Tinformazione solare pre-processata dalla clorofilla in processi zoosemiotici molto più sottili e molto più sofisticati. Gli animali convertono segni-di-piante e in una vasta gamma di output non-verbali, che vengono studiati da etologi interessati ad alcuni aspet­ ti di tale comportamento interpretativo. I funghi poi dissolvono e assorbono i primi due mediante tecni­ che microsemiosiche e dissipano le risultanti stringhe in uno stato entropico temporaneo alla fine ricostituito in modo da alimentare an­ cora un altro ciclo. Le piante che miscelano (la), gli animali che magicamente trasfor­ mano (2a) e i funghi che decompongono (3a), sono omologhi alle tre categorie ampiamente postulate della semiotica occidentale: (lb) segni-oggetto, (2b) segni che si riferiscono regressivamente (renvoi, 290

lelPuso dì Roman Jakobson) a tali segni-oggetto, e (3b) segni-interpretanti, solitamente nuovi, ma a volte letali, che proliferano pro­ gressivamente. Generalmente, questo stato di cose (qui grossolanamente delinea­ to) che ha caratterizzato la semiosi terrestre dall’evoluzione della vita da una singola cellula alla sua attuale diversità multiforme contiene in sé i germi di ulteriori permutazioni già esperibili. Ai primordi la semiosi ebbe inizio con l’inizio della vita, ma sa­ rebbe errato ritenere che, dato che la vita, inclusa quella umana, cam­ bia nel futuro e finalmente termina, anche la semiosi si fermerà. È probabile che i processi segnici che fabbricano interpretanti illimitati continuino, indipendentemente da noi, nelle macchine. Il seguente ar­ gomento è confermato ed è anche fortemente rafforzato da un saggio del 1986 — scritto da Lynn Margulis e Dorian Sagan e intitolato Sfrange Fruii on thè Tree of Life — su come gli oggetti fatti dagli uomini possono a loro volta rifare l’uomo. Il loro scenario fa presumere che la vita e la non vita si mescole­ ranno e produrranno ibridi. La biotecnologia e la tecnologia computerologica già conferiscono all’umanità l’opportunità di rimodellarsi, ma il nuovo passo avrà luogo nel dominio della robotica. La cibersimbiosi, definita da Margulis e Sagan come « la comt nazione di parti umane e di parti artefatte in nuove forme di vita potrebbe anche essere chiamata cibersemiosi, per sottolineare lo scan bio di segni fra forme di vita come batteri per attivare ad esempio x biochip, basati non sul silicio bensì su molecole organiche complesse. Invero, questi autori presumono che Yhomo sapiens sapiens, « po­ trebbe sopravvivere soltanto come organo rudimentale, come si­ stema nervoso delicatamente sezionato attaccato a braccia di plastica azionate elettronicamente». I meccanismi di transfert segnico (per mezzo di ciò che viene chiamato « codice cerebrale », o l’insieme di re­ gole fondamentali concernenti il modo in cui i segni sono immagazzi­ nati e trasmessi da una posizione all’altra nel cervello — che è esso stesso un assemblaggio complesso di spirochete microscopiche inte­ ragenti — e che incrementano il funzionamento del « codice neuro­ naie », a noi più note), hanno implicazioni comportamentali che vanno ben al di là delPorganismo nella sua totalità, penetrando nel suo in­ volucro inorganico. Perciò le macchine non saranno soltanto agenti del cambiamento evolutivo - lo sono già diventate in qualche misura -, ma diventeran­ no anche i luoghi di ciò che Peirce ha chiamato « la natura essenziale e le varietà fondamentali della semiosi possibile », che, come egli aveva previsto, «non appartiene necessariamente ad un modo men­ tale di essere». 291

Segni di un percorso: da Peirce (via Morris e Jakobson) a Sebeok Intervista a Thomas A. Sebeok di Susan Petrilli *

Quali sono i fattori che hanno maggiormente contribuito alla sua formazione intellettuale? sebeok II mio scritto con un taglio più spiccatamente autobio­ grafico è quello intitolato Vital Signs [trad. it. nel presente volume, capitolo quinto], in cui si racconta per quali vie sono arrivato alla semiotica. Vale a dire, in un primo momento mediante il pensiero di Ogden e Richards, successivamente di Charles Morris, tuttavia Pinfluenza principale nella mia vita è stata naturalmente quella di Roman Jakobson. Fu, infatti, mediante Morris da una parte e Jakobson dal’altra che tornai a Peirce.

Quando avvenne rincontro con Jakobson? sebeok Ho incontrato Jakobson nell’agosto 1941, nella casa di Franz Boas in New Jersey e, naturalmente, fu amore a prima vista. Divenni il suo primo studente americano e scrissi essenzialmente sotto la sua influenza la mia dissertazione per il Ph. D. Restai sempre in contatto con lui e fummo amici fino al giorno della sua morte.

Come mai per tutta la sua carriera accademica è rimasto sempre alla Indiana University a Bloomington, diversamente dalla tendenza generale negli Stati Uniti di spostarsi da un’università all’altra? SEBEOK Sono una persona davvero eccezionale nell’Università dell’Indiana nel senso che la maggior parte degli americani si spo-

* L’intervista, in inglese, si è svolta ad Urbino il 21 luglio 1987 in occasione delle conferenze tenute da Thomas A. Sebeok dal 20 al 23 luglio per il Centro Inter­ nazionale di Semiotica e Linguistica. Apparirà in versione originale nel volume American Signatures: Semiotics in thè United States, University of Oklahoma Press, su richiesta di Iris Smith, curatrice del volume. 292

stano continuamente da un’università ad un’altra per tutta la vita, mentre io sono rimasto nella stessa università per 45 anni. Questo è un fatto molto eccezionale. L’Università dell’Indiana ha creato per me un centro [Research Center for Language and Semiotic Studies] di cui ho la presidenza dal 1956. È molto tempo, 31 anni, e in un certo senso l’Università dell’Indiana è la mia sede centrale.

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Negli Stati Uniti migrare da una università ad un’altra è una scelta? sebeok Le persone si spostano ma direi non del tutto per libera scelta. Il modo migliore per ottenere una promozione o un vantaggio finanziario è essere invitati da un’università mentre si sta insegnando in un’altra. Ma nel mio caso la mia università mi ha sempre trattato bene per cui non ho mai visto la necessità di andarmene. Sono sempre stato molto felice a Bloomington. Tutta la mia carriera d’insegnante l’ho svolta a Bloomington e allo stesso tempo ho insegnato m nume* rosi altri posti, ma la mia sede è essenzialmente Bloomington.

Quali sono stati i suoi rapporti con l’Italia? Come iniziarono i primi contatti? sebeok Feci il ginnasio in Ungheria, lì perlomeno dal quinto anno in avanti bisognava studiare una terza lingua straniera. Il latino e il tedesco erano obbligatori e come terza lingua scelsi l’italiano. An­ davo tanto bene nello studio di questa lingua che ricevetti in premio — questo lo dichiaro qui per la prima volta - una medaglia da Musso­ lini. Mi fu consegnata dall’ambasciatore italiano a Budapest che più tardi divenne professore qui in Italia. E quando molti armi dopo lo incontrai di nuovo, gli chiesi se si ricordava di avermi consegnato una medaglia da parte di Mussolini e lui subito fece un segno, quello di fare silenzio! Così i miei contatti con l’Italia iniziarono già in quel periodo. Ma anche prima di allora mio padre aveva una villa ad Abbazia che ora fa parte della Jugoslavia ma allora era in Italia. Così conosco l’area triestina molto bene. Ogni anno passavo l’estate ad Abbazia insieme a mio padre, mia madre, ecc. e così i miei legami con l’Italia sono molto antichi.

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E per quanto riguarda i contatti al livello intellettuale? sebeok I miei contatti intellettuali con l’Italia iniziarono per via della linguistica; sono un linguista per formazione e conosco ab-

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bastanza bene parecchi linguisti italiani. Sono amico di Umberto Eco da almeno 20 anni. Conobbi Rossi-Landi molto più tardi e diven­ tammo buoni amici. Conosco anche Segre da parecchio tempo e gli voglio molto bene, poi c’è Bettettini, ecc. A pensarci bene conosco moltissimi studiosi italiani e ho viaggiato dappertutto in Italia. È possibile riconciliare il behaviorismo di Morris e la sua scienza dei segni? Sappiamo oggi della crisi del comportamentismo (america­ no) soprattutto, per ciò che riguarda il linguaggio, per la critica che ne ha fatto Chomsky. E tuttavia la semiotica di Morris continua ad avere un importante ruolo epistemologico. Come si spiega la validità della semiotica morrisiana malgrado la sua connessione con il com­ portamentismo? sebeok Questa domanda mi interessa molto e propone una sto­ ria in realtà piuttosto lunga. Io conobbi Morris nel 1936 a Chicago. Era una persona estremamente piacevole, uno degli esseri umani più gentili che io abbia mai conosciuto. Era un buddista Zen, semplicemente un uomo di estrema gentilezza. Credo di essere forse uno dei suoi due o tre studenti ancora in vita.

E gli altri studenti rimasti chi sono? sebeok Per quanto ne sappia, sono rimasti soltanto Martin Gardner e Lenard Meyer. Il primo è un matematico che seguì il semi­ nario di Morris sulla semiotica l’anno prima di me. L’anno successivo 10 seguii io quel seminario e l’anno dopo ci fu Lenard Meyer, un gran­ de musicologo. Così credo che Martin, Lenard ed io siamo gli unici su­ perstiti fra gli studenti che hanno studiato con Morris a Chicago. Ve­ de, Morris era il primo in America e, per quanto ne sappia, in tutto 11 mondo, ad avere tenuto un corso proprio in semiotica. Il corso si chiamava Seminar e Morris lo ripetè due o tre volte. Egli lasciò Chicago per andare in Florida e non insegnò mai più semiotica. Ci sono altri suoi studenti ma non di semiotica. Ora, nel 1938 Morris scrisse la sua brillante monografia sulla semiotica che non aveva niente a che fare con la psicologia. Succes­ sivamente fra il 1938 e il 1946 egli scoprì la psicologia behaviorista; ed io ho sempre ritenuto che questo fosse un grande errore. Io credo che egli abbia commesso due errori: il primo fu quello di adattare la semiotica alla psicologia. Ritengo che ciò fosse irrilevante, che non avrebbe dovuto farlo; in secondo luogo egli fece l’errore di allinearsi con un tipo particolare di psicologia che all’epoca andava forte, la psi­ cologia behaviorista in particolare del tipo coltivato da gente come

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; ; Hull e Tolman. Inoltre divenne molto amico di Osgood, con cui an­ ch’io ho scritto un libro. Spesso dicevo a Morris: «Mi è piaciuto moltissimo il tuo libro del 1938 e credo sia stato di gran lunga più importante e di gran lunga migliore del tuo libro del 1946 », e lui con estrema simpatia diceva sempre: «Beh, tu hai certo diritto di avere la tua opinione. Ma non sono d’accordo con te, credo che il libro del 1946 sia molto importante proprio per il suo allineamento con la psicologia ». Ora, lei nella sua domanda asserisce che il beha­ viorismo è essenzialmente in declino, aggiungo che tale declino ha rovinato anche il libro in questione di Morris perché la psicologia behaviorista semplicemente non funziona, e così non funziona la se­ miotica di Morris di quel periodo. Ora, più tardi egli scrisse un altro libro ancora [Signification and Significance, 1964], tuttavia ritengo che il libro del 1946 è un fallimento. Voglio far notare un parallelo interessante in semiotica. C’è un uomo di nome Ray Birdwhistell che inventò una cosa che si chiama cinesica — una specie di metodo per analizzare i gesti non-verbali Penso sia interessante vedere come Birdwhistell abbia commesso un e: rore assolutamente parallelo. Egli disse che tutto il comportamene non-verbale è organizzato come il linguaggio [verbale] e che quindi il metodo di analisi dei gesti dev’essere basato sul lavoro linguistico. Ciò non solo è del tutto immotivato, ma non c’è nessun motivo per credere che il comportamento non-verbale sia organizzato come quello verbale. Tuttavia egli commise anche un secondo errore. Si al­ lineò con una linguistica piuttosto fuori moda. Una linguistica di ten­ denza fortemente behaviorista e che non funziona più. Si chiamava « modello Smith Trager », e nessuno ai nostri tempi ne ha più sentito parlare — il modello sintattico Smith Trager fu completamente rim­ piazzato da altri modelli moderni. Birdwhistell, in effetti, aveva mes­ so insieme una grande quantità di dati, fotografie, disegni, ecc. che non sono più utilizzabili perché il modello è morto. Vede, la stessa cosa è avvenuta nel caso di Morris. Egli descrisse la semiotica nei termini di un’impostazione behaviorista, e poiché tale impostazione è scomparsa, anche il libro di Morris è ormai superato. Secondo me quel libro non vale più molto. Però devo dire che non tutti sono d’ac­ cordo con me. Roland Posner, per esempio, ha un’alta opinione di quel libro, ma io credo che esso non sia più interessante. Inoltre, c’è da aggiungere che più scopriamo Peirce, e più Morris cade nell’oscu­ rità, ad eccezione del suo libro del 1938 che io ritengo ottimo.

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Dalla semiotica del sociale umano c'è stato uno sviluppo nella di­ rezione della zoosemiotica: che ruolo svolge la zoosemiotica oggi nel campo delle scienze umane? sebeok È chiaro che la semiotica ha due aspetti: lo studio del verbale (vale a dire la linguistica) e lo studio del non-verbale. Tut­ tavia, ciò che gran parte dei semioticisti non addestrati in biologia non capisce è che la semiotica del non-verbale è un campo enorme­ mente vasto che include non soltanto il comportamento umano non­ verbale - costitutivo circa del 99 % di ciò che gli esseri umani fan­ no — ma anche un intero vasto mondo di milioni di animali. Inoltre, include la semiosi delle piante e altri tipi di semiosi come quelle che avvengono all’interno del corpo, per esempio, il codice genetico, il codice immunologico, e altri tipi di meccanismi interni. Perciò, in termini di pura quantità, è la semiosi non-verbale che sommerge quel­ la verbale. Tuttavia, il verbale è naturalmente di grande importanza per questo angoletto del globo che gli esseri umani occupano e in cui operano. Così è in questo senso che, secondo me, un semioticista completo dovrebbe studiare sia la semiosi verbale sia la semiosi non­ verbale. Non è possibile semplicemente restringere i propri interessi semiotici agli esseri umani senza dover trascurare circa il 99 % del mondo. La natura, io credo, consiste circa nel 99 % di altre cose, oltre che in esseri umani.

Nel suo libro I Think I Am a Verb, come del resto nell'intera sua produzione scientifica, lei parla di continuità fra il mondo animale e il mondo umano... sebeok Certamente c’è continuità nel senso che c’è evoluzione. Gli esseri umani sono un prodotto dell’evoluzione e il genere homo ha inventato questo interessantissimo codice che è il verbale, ma quest’ultimo esiste soltanto nel genere homo e nelle poche specie in cui il genere homo consiste. È chiaro che c’è continuità, perché tutto il mondo è interconnesso.

Al livello della comunicazione interpersonale si direbbe che l'uso del verbale caratterizza gli Ominidi, laddove invece il non-verbale... sebeok Direi che il non-verbale è il criterio della vita. Tutta la vita funziona con segni non-verbali. La vita umana funziona con due tipi di segni - quelli non-verbali e quelli verbali.

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Oggi si potrebbe dire che c'è una ripresa della semiotica di Charles Sanders Peirce. Che rapporto possiamo stabilire tra la semiotica dì Peirce e la teoria delle catastrofi, di René Thom? sebeok È molto interessante scoprire, se si legge qualcosa di Thom, che sono ben poche le persone che egli cita. E, se ricordo be­ ne, oltre ai tecnici della matematica, egli in realtà cita solo tre per­ sone: Eraclito, Peirce e Jakob Uexkùll. Così Thom ha letto Peirce, 10 conosce bene e ha ri-analizzato alcuni concetti base peirceani incluso 11 cosiddetto rapporto icona-indice-simbolo nei termini della teoria del­ le catastrofi. Direi che questa teoria in un certo senso deriva dalla se­ miotica di Peirce, e ricordiamoci che Peirce era un grande matematico. Infatti egli si specializzò nello stesso tipo di matematica in cui si specializzò poi René Thom, vale a dire, in topologia. René Thom pubblicò un articolo su « Semiotica » che solitamente non viene inclusonelle raccolte dei suoi scritti: si tratta di un esteso commento a Peirce. René Thom è estremamente sofisticato e in qualche modo le sue teorie sono uno sviluppo ulteriore del pensiero di Peirce, come ho già detto nel mio libro del 1979 The Sign and Its Masters [trad. it. a c. di Susan Petrilli, Adriatica, Bari, 1985].

Credo si possa rilevare uno sviluppo della informatica sul piano tecnologico e invece un ristagno sul piano dell'intelligenza artificiale che riguarda il linguaggio (apprendimento e insegnamento linguistico? traduzione ecc.). Lei che ne pensa? sebeok È una questione di opinione? C’è un libro sull’argo­ mento di un certo Beninger che descrive ciò che egli chiama la « società di informazione». Vengono presi in considerazione Peirce e la sua semiotica fino ad arrivare alla informatica moderna, l’intelligenza artificiale, il computer e così via. Si tratta di un libro autorevole e assai interessante sull’argomento che senz’altro consiglio. Tuttavia, vorrei aggiungere qualcosa. Io credo che possiamo aspettarci nel fu­ turo un numero sempre più alto di conversioni fra esseri umani da una parte e macchine dall’altra. Esiste un intero nuovo campo che produce organismi denominati cyborg, vale a dire, animali completati da parti meccaniche. Per esempio, l’ingegneria genetica è in gran parte fondata sulla combinazione di congegni meccanici e esseri viventi. Io sono certo che possiamo anticipare una nuova forma eventuale di evoluzione che produrrà organismi per metà organici e per metà creati meccanicamente. Ciò sembra utopico, ma credo stia per rea­ lizzarsi. Basta considerare, per esempio, il cuore artificiale, gli arti artificiali, ecc., questo tipo di produzione continuerà e si svilupperà..

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•Così io credo esisteranno queste cose curiose per metà organiche, per .metà inorganiche. L’intelligenza umana in generale è già enormemente accresciuta dai computer. Voglio dire che con i computer possiamo fare ciò che prima era impossibile fare, se non dal punto di vista ■della qualità certamente per ciò che riguarda la velocità, anche se xitengo che pure la qualità sarà perfezionata. Mancano solo pochi anni perché i computer, i satelliti e altri robot, la robotica insomma, non siano più cose separate bensì parti integrali di processi organici. È questa, secondo me, la direzione in cui si svilupperà il futuro. Che cosa pensa dell1origine del linguaggio verbale spiegata presup­ ponendo un linguaggio gestuale? sebeok Proprio su questo argomento ho scritto un articolo in­ titolato The Origin of Language [trad. it. nel presente volume, capi­ tolo terzo]. Il nocciolo della questione, e credo che questo sia anche la spiegazione del perché la ricerca in questo campo si sia bloccata, sta nel fatto che bisogna fare una netta distinzione fra il linguaggio {language) da una parte e il parlare (speech) dall’altra. Fino a quando il linguaggio e il parlare verranno confusi non ci potrà essere pro­ gresso. Io sostengo che il linguaggio è apparso circa 2 milioni di anni a nella sequenza indicata dai paleontologi come: homo habilis, omo erectus, ecc. Si trattava di un adattamento evolutivo. Ma è jn errore fatale considerare il linguaggio come un congegno comuni­ cativo. Il linguaggio è un congegno di modellazione. Tutti gli animali hanno modelli mentali o rappresentazioni mentali del mondo. Anche il linguaggio è un congegno di modellazione, una rappresentazione men­ tale del mondo che, tuttavia, si differenzia da tutti i modelli animali nella misura in cui ha una caratteristica che questi non hanno e che i linguisti chiamano sintassi. Ora, con la sintassi gli esseri umani sono in grado di smantellare il modello come se fosse fatto di pezzi di co­ struzione e rimetterlo insieme in un numero infinito di modi. Con la sintassi si possono smontare le frasi e riagganciarle in modi diversi. Ti precisamente in virtù di questa capacità che gli esseri umani pos­ sono non soltanto produrre mondi alla stessa maniera degli animali ma possono anche produrre mondi possibili, come diceva Leibniz. Leibniz diceva che esiste un numero infinito di mondi possibili, e infatti con questo tipo di modello sintattico si possono produrre un numero infinito di parti: ogni storiografo costruisce un passato, •che è soltanto un modello; si può immaginare un futuro, come fa la fantascienza, e si possono immaginare tanti tipi di fantascienza; si possono costruire teorie scientifiche, creare poesie liriche, si può im­ maginare la morte, si può parlare di unicorni: cose che soltanto gli

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seri umani possono fare. Ora avendo sviluppato questo interessante eccanismo di modellazione, quando due milioni di anni più tardi ale a dire molto recentemente, circa 400.000 anni fa) appare Yho0 sapiens, intorno a quel periodo divenne possibile esternare il nguaggio ed organizzarlo nel modo lineare da noi chiamato parlare. 1 questo punto, e non si tratta di ad-attamento (adaptation) bensì i ex-attamento (exaptation), quando il linguaggio fu esternato in quan* parlarlo divenne anche un congegno per la comunicazione, e tale angegno accrebbe a sua volta le capacità non-verbali che gli esseri ■mani già possedevano. Siamo tutti in grado di esprimerci non-verbalmente mediante le spressioni del volto, degli occhi, con le mani, le posture del corpo ■* in molti altri modi. Siamo in grado di operare su due livelli: il •'erbale e il non-verbale. Ma ciò è stato possibile soltanto quando il inguaggio si trasformò in parlare e questo, io credo, è uno sviluppo issai recente di circa 500.000 anni fa. Questa è la tesi che io sostengo lei mio articolo cui prima ho accennato. Così, potremmo dire che il linguaggio è semmai la capacità po tenziale del parlare... sebeok Diciamo piuttosto che il parlare presuppone il linguag­ gio, ma il linguaggio non implica necessariamente il parlare. Esistono molte creature che pur avendo il linguaggio sono privi del parlare.

Nelle teorie dell1apprendimento linguistico spesso, credo, che si sia trascurato il ruolo delVicona. Quale importanza ha l'icona non sol­ tanto nelle teorie deWapprendimento linguistico ma anche nei modelli di automi e quindi nelle intelligenze artificiali che si vogliono costruire sulla base delle teorie dellapprendimento linguistico? Se si pensa a Chomsky, non c'è nessun riferimento nella sua teoria dell'apprendi­ mento linguistico al ruolo della similarità, dell'immagine, insomma dell'icona. sebeok Ciò non è del tutto vero. Si tenne una conferenza sui modelli all’Università di Stanford negli anni Sessanta. Chomsky era uno dei relatori principali. Tutto diventa chiaro quando si considera che cos’è un modello: un modello è una analogia. È, per così dire, una miniatura, una rappresentazione mentale di qualcosa. Un modello, qualunque esso sia, è presumibilmente collegato alla cosa che rap­ presenta mediante l’analogia, la similarità. Di conseguenza un modello può essere definito come un segno con un fortissimo valore iconico.

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Per poter funzionare, il modello deve avere una qualche rassomiglianza con l’oggetto che rappresenta. Quanto sia grande questa rassomiglianza è un’altra questione. È possibile anche un livello basso di similarità, per esempio, la formula matematica A + B = C è l’icona di un rappor­ to e A, B e C possono stare quasi per qualsiasi cosa. Non vi è necessa­ riamente la similarità, ma vi deve essere un’analogia fra la formula e ciò per cui la formula sta. Analogamente il linguaggio in qualche modo modella l’universo e deve avere quindi un rapporto iconico con l’universo. Ora, come scrisse Jakobson in un famoso articolo intitolato Quest for thè Essence of Language, apparso originariamente nella rivista « Diogenes » [trad. it. in I problemi attuali della linguistica, Bompiani, 1969] esistono casi in cui il linguaggio è altamente iconico. Per prendere l’esempio di Jakobson: Giulio Cesare disse « veni, vidi, vici»y Ja­ kobson chiede perché pronunciare « veni, vidi, vici » e non « vici, vidi, veni », e risponde che Cesare ovviamente pronunciò quelle pa­ role nell’ordine che conosciamo perché si trattava di una rappresen­ tazione iconica di ciò che egli realmente fece. Prima venne, poi vide ciò che doveva vedere e quindi conquistò, non poteva far ricorso al­ l’ordine opposto perché esso sarebbe stato senza senso. Perciò que­ sta frase è fortemente iconica. Per dare un altro esempio, se le chiedo come si arriva da Urbino a Bari, ovviamente mi dirà che si va qui, poi lì ecc., e se io faccio una mappa di ciò che lei descrive, essa sarà una rappresentazione iconica del rapporto fra Urbino e Bari. Sarebbe completamente assurdo se mi si descrivesse tutto alla rovescia: la de­ scrizione deve essere iconica, altrimenti creerebbe confusione, oppure si tratterà di uno scherzo. Quindi alcune situazioni linguistiche sono fortemente iconiche. Paolo Valesio ci offre degli esempi al livello del suono, cioè al livello fonologico [v. « Icone e schemi nella struttura della lingua », in A. Ponzio, La semiotica in Italia, Dedalo, Bari, 1976]. Altre rappresentazioni linguistiche sono iconiche ma non in maniera così ovvia. L’altro esempio di Jakobson si riferisce all’uso del comparativo, come nel caso di big, bigger, biggest. Jakobson sostiene che a mano a mano che si passa da big al comparativo bigger e al su­ perlativo biggest [e in italiano da grande a più grande e grandissimo], le parole diventano più lunghe o, perlomeno, non più corte. Così l’intensità del confronto è riflesso nel numero dei fonemi.

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Allora l’ultima domanda può essere questa. In Peirce c’è una 'istinzione tra i diversi generi di similarità: il grafo, la metafora, l’im­ magine. Non c’è, credo, una distinzione invece fra i diversi tipi di imilarità. Per esempio, Rossi-Landi ne distingue tre tipi: l’analogia, Esomorfismo e l’omologia i quali possono essere rappresentati indiferentemente tanto tramite immagini, quanto tramite metafore e grafi. Allora, una volta che diciamo che l’icona e dunque la similarità han10 un ruolo fondamentale nello sviluppo del linguaggio e anche nello ■ viluppo della conoscenza, c’è da chiedersi se non dobbiamo dire di tuale similarità si tratta. Perché, per esempio, per Rossi-Landi, la dmilarità come analogia o come isomorfismo non contribuisce allo sviluppo della conoscenza ma invece alla assimilazione e dunque alla perdita della diversità e dell’alterità fra gli oggetti comparati. È, in­ vece, semmai, la similarità come omologia, che non compara cose in­ dividuali ma modelli, astrazioni determinanti, che può avere un ruolo conoscitivo. sebeok Ovviamente lei ha ragione. Peirce diceva che esistono tre tipi di icone o ipoicone, come egli le chiamava: cioè le immagi visive — la maggior parte delle persone è giunta alla conclusione cl si tratta dell’unico tipo di icona, il che è naturalmente errato; i graj che svolgono un ruolo importante nel pensiero di Peirce e nella sua teoria dei « grafi esistenziali » — una teoria matematica elaborata da Peirce di fondamentale importanza e strumento potente in matema­ tica; le metafore, menzionate da Peirce, ma mai oggetto di studio approfondito. Ora, dopo Peirce si è scritto moltissimo sui differenti tipi di icone e sul significato di iconicità, ma senza mai giungere ad una descrizione conclusiva al riguardo. L’argomento è stato svilup­ pato in maniera molto interessante da René Thom. Naturalmente anch’io ho scritto sull’iconicità, come pure Eco. A me sembra che Rossi-Landi semplifichi un po’ le cose. Secondo me non ci sono sol­ tanto tre tipi di icone, bensì molti altri tipi. Per esempio, Eco ha scritto sullo specchio, suH’immagine speculare. Che tipo di icona, se di que­ sto si tratta, è l’immagine speculare? E ci sono altre nozioni, per esempio, non soltanto l’isomorfismo ma la gemellarità. Ancora, pren­ diamo il caso in cui si hanno un migliaio di Volkswagen nere, che rapporto c’è tra una di queste e tutte le altre? Guardando un insieme di Volkswagen, non si può dire quale sia l’icona dell’altra. Qual’è l’icona e qual è l’originale? Naturalmente si potrebbe dire, come fan­ no alcune persone, che l’originale è la cianografia o la formula mate­ matica che sta dentro la macchina che produce tutte le Volkswagen, e che tutte le Volkswagen sono icone della formula della fabbrica che produce tutte queste Volkswagen. Rossi-Landi aveva ragione nel sot-

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tolineare la complessità e il fatto che ci sono molti tipi diversi di icone che probabilmente influiscono sulla mente in maniera abbastan­ za diversa fra di loro, tuttavia io non credo che esistano soltanto tre tipi di icone, ve ne sono molti altri tipi. Chiaramente quella che sembra interessare la gente in maniera ossessiva è la metafora. Ogni giorno appare un libro nuovo sulla metafora, molto recentemente è uscito il libro dell’americano Lakoff, per non menzionare il libro eccellente di Ricoeur. Così la metafora, che è una sorta di supericona, sembra in­ teressare moltissimo. Ma essa è soltanto un tipo di icona.

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Riferimenti bibliografici

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Elenco delle tavole

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Tavola 1. Ulysses S. Grant sulla veranda del Drexel Cottage, Mount McGregor, 19 luglio 1885. Il cameriere personale del generale, Harrison Tyrrel, si intravede nell’oscurità deiringresso. Si ottennero i diritti d’au­ tore per questa sua ultima fotografia il giorno prima della sua morte (Library of Congressi. Tavola 2. Celebrazione del decimo anniversario della «Hirnrinde», in casa di Hugo e Agatha Liepmann, Berlino 1912. Tavola 3. Esibizione di uomo-scimmia, con la scimmia in posizione eretta. Si notino il bastone e il guinzaglio, sempre presenti. (Copyright del profes­ sor Emiko Ohnuki-Tiemey). Tavola 4. Esibizione di acrobazia a livello avanzato di addestramento in cui la scimmia riceve comandi verbali. Sono ancora usati bastone e guin­ zaglio. (Copyright del professor Emiko Ohnuki-Tiemey). Tavola 5. Un uomo si esibisce per una scimmia: capovolgimento ironico tratto da un album giapponese del periodo Edo, scuola Ukiyo-e, Katsushika Hokusai (1760-1849). (Freer Gallery of Art). Tavola 6. Gravidanza vocale (Rhinoderma darwini del Cile). (Photo Ro­ senberg) . Tavola 7. Una mosca danzatrice maschio insemina una femmina intenta a succhiare il suo « regalo di nozze », un « occhio dorato » (Chrysopa oculata). L’accoppiamento è qui al livello 2 di Kessel. (Grzimek’s Animai Life Ettcyclopedia} Van Nostrand Reinhold Company, New York). Tavola 8. Pallone al livello 5: si notino, in rapporto al contenitore, le dimensioni della preda, ancora commestibile per la femmina (Kessel 1955: 96). (Per gentile concessione della Society of Systematic Zoology). 347

Tavola 9. Maschio di una specie al livello 7 che trasporta un pallone (Kessel 1955:96). (Per gentile concessione della Society of Systematic Zoology). Tavola 10. L’uccello indicatore si nutre di cera ma, pur essendo l’unico vertebrato capace di nutrirsi per un mese esclusivamente di questo alimen­ to, non ne ha assolutamente bisogno per la sua sopravvivenza. (Per gentile concessione di Herbert Friedman, Hediger 1973: 27). Tavola 11. L’« uomo » che apre il vaso fatale. Incisione di Giulio Bonasone (1531-1574). Tavola 12. Il vaso di Pandora. Gouache di Max Bcckmann iniziata nel 1936 ma completamente ridipinta nel 1947.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 1990 presso la Società Grafica Artigiana snc di Palermo

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