Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età 9788858655306

Quali sono i testi e gli scrittori su cui la civiltà occidentale ha edificato la sua letteratura? Come conciliare il gus

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Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età
 9788858655306

Table of contents :
Indice......Page 488
Frontespizio......Page 6
Il Libro......Page 3
L'autore......Page 4
Insegnare la solitudine di Andrea Cortellessa......Page 8
Nota bibliografica......Page 29
Prefazione e preludio......Page 34
Parte prima - Sul canone......Page 44
1. Un’elegia per il canone......Page 45
Parte seconda - L’età aristocratica......Page 70
2. Shakespeare, il centro del canone......Page 71
3. La singolarità di Dante: Beatrice e Ulisse......Page 100
4. La comare di Bath, l’indulgenziere e il personaggio shakespeariano......Page 127
5. Cervantes: Il dramma del mondo......Page 146
6. Montaigne e Molière: L’elusività canonica della verità......Page 162
7. Shakespeare e il satana di Milton......Page 181
8. Il dottor Samuel Johnson, il critico canonico......Page 194
9. Il Faust, parte seconda di Goethe: Il poema controcanonico......Page 210
Parte terza - L’età democratica......Page 240
10. La memoria canonica nel giovane Wordsworth e in persuasione di Jane Austen......Page 241
11. Walt Whitman come centro del canone americano......Page 263
12. Emily Dickinson: I vuoti, i trasporti, il buio......Page 286
13. Il romanzo canonico: Casa desolata di Dickens, Middlemarch di George Eliot......Page 302
14. Tolstoj e l’eroismo......Page 321
15. Ibsen: I troll e il Peer Gynt......Page 336
Parte quarta - L’età caotica......Page 353
16. Freud: Una lettura shakespeariana......Page 354
17. Proust: Il vero credo della gelosia sessuale......Page 373
18. L’agone di Joyce con Shakespeare......Page 386
19. L’orlando di Virginia Woolf: Il femminismo come amore della lettura......Page 403
20. Kafka: La pazienza canonica e l’«indistruttibilità»......Page 415
21. Borges, Neruda e Pessoa: Il Whitman ispanico-portoghese......Page 428
22. Beckett… Joyce… Proust… Shakespeare......Page 453
Parte quinta - Catalogare il canone......Page 472
23. Conclusione elegiaca......Page 473
Ringraziamenti......Page 484
Bibliografia......Page 485

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Leggere bene è uno dei grandi piaceri che la solitudine può concederci. — Harold Bloom Quali sono i testi e gli scrittori su cui la civiltà occidentale ha edificato la sua letteratura? Come conciliare il gusto personale con il bisogno di condividere un patrimonio comune? Da Dante a Shakespeare, da Molière a Goethe, da Cervantes a Tolstoj, Harold Bloom ha individuato ventisei autori, prosatori e drammaturghi che non si può non conoscere e dedica loro pagine di studio diventate un patrimonio straordinario. Opera profondamente personale, controversa, discussa, letta in tutto il mondo, Il Canone occidentale è un saggio sui classici diventato, a sua volta, un classico degli studi letterari.

Harold Bloom (New York, 1930), da cinquantacinque anni docente a Yale, è uno dei maggiori critici letterari viventi. Autore di una quarantina di opere tradotte in tutto il mondo, è noto soprattutto per L’angoscia dell’influenza (1973), Agon (1982) e Il canone occidentale (1994).

Harold Bloom

IL CANONE OCCIDENTALE I libri e le scuole dell’età introduzione di Andrea Cortellessa

Proprietà letteraria riservata © 1994 by Harold Bloom Published in arrangement with Harcourt Brace & Co. © 1996 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. © 2008 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-65530-6 Titolo originale dell’opera: The Western Canon The Books of the Ages Traduzione di Francesco Saba Sardi Revisione di Roberta Zuppet Prima edizione digitale 2013 da edizione BUR Alta Fedeltà ottobre 2008 In copertina: frammento di statua colossale di Costantino, Roma, Musei Capitolini © 1990. Foto Scala, Firenze Progetto grafico di Mucca Design Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

INSEGNARE LA SOLITUDINE La teoria della poesia è la teoria della vita. WALLACE STEVENS Aroldo l’Agonista I suoi problemi con Delphine Roux erano iniziati durante il primo semestre dell’anno in cui Coleman aveva ripreso a insegnare, quando una delle sue studentesse che per caso era anche una delle allieve predilette della professoressa Roux era andata da lei, nella sua veste di capo dipartimento, a lagnarsi delle opere di Euripide nel corso di Coleman sulla tragedia greca. Una di queste opere era Ippolito, l’altra Alcesti; la studentessa, Elena Mittrick, le trovava «degradanti per le donne».

Lo scontro con la giovane Delfina Ribelle dell’anziano e prestigioso professore di Lettere classiche che cinque anni prima l’ha assunta al college di Athena, fresca della graduate school di Yale, destando le perplessità dei colleghi (gli stessi che di lì a poco, proprio al fine di contestare la sua idiosincratica autocrazia, la faranno capo del dipartimento di Humanities), rappresenta l’inizio della fine per Coleman Silk, il protagonista della Macchia umana di Philip Roth. Dopo una serie di altre vicissitudini il Principe degli Umanisti verrà clamorosamente estromesso dall’Università che per decenni s’era identificata con la sua persona, e imboccherà la china dell’emarginazione: affrontando uno spossessamento e un’ascesi che ne metteranno in discussione la stessa identità (quella cui si riferisce il segreto che si porta dietro da una vita). Non so se il personaggio di Coleman Silk sia stato modellato da Roth, almeno in parte, sulle fattezze del Grande Umanista di Yale da lui ben conosciuto – se sia insomma anche una controfigura di Harold Bloom (che di Silk è all’incirca coetaneo e sfoggia un carisma paragonabile al suo). Quel che conta è che l’inizio dell’Agone, nel college di Athena, riguardi precisamente la questione alla quale Bloom, negli anni in cui Roth scrive (il romanzo esce nel 2000 ma è ambientato nel ’98, all’ombra dello scandalo Lewinsky), ha pubblicamente legato il suo nome: mettendo in gioco a viso aperto, con l’aggressività e il coraggio che sempre lo hanno contraddistinto, proprio quello status e quel prestigio. Il Canone, certo. Se il profilo di Silk non può coincidere del tutto con quello di Bloom, la figura di Delphine Roux incarna invece a meraviglia, infatti, i connotati intellettuali (e temperamentali) di quella contro la quale Bloom s’è scagliato con incoercibile veemenza – nel Canone occidentale e nei libri seguenti – definendola Scuola del risentimento. Imbevuti di cultura europea (o, come preferisce dire Bloom sprezzante, «gallica»: lacanizzante derridizzante e soprattutto foucaultizzante) a partire dagli anni Ottanta i Giovani Turchi

Multiculturalisti hanno conquistato l’egemonia nei campus più prestigiosi dell’Ivy League, o almeno hanno preso a contenderla a quelli come Silk (o come Bloom): ai Grandi Umanisti, ai Titani della Vecchia Scuola. E lo hanno fatto contestando il nucleo stesso del loro potere intellettuale e culturale, il suo centro sacro e (in precedenza) inconcusso: appunto il Canone. Rivendicando, contro la preminenza in esso dei «Maschi Europei Bianchi Defunti», un’adeguata rappresentazione di tutte le possibili minoranze: etniche, religiose e, ovviamente, di genere. All’inizio della Conclusione elegiaca del Canone occidentale Bloom si guarda alle spalle, misurando la distanza che separa i suoi inizi dall’oggi (da ora in avanti le citazioni dall’opera saranno date, qui, direttamente con la sigla C seguita dal numero di pagina della presente edizione: C 555): Dopo una vita trascorsa a insegnare Letteratura in una delle maggiori università americane, ho poca fiducia nella possibilità che l’istruzione letteraria sopravviva al suo attuale malessere. Iniziai la mia carriera didattica oltre cinquant’anni fa in un contesto accademico in cui predominavano le idee di T.S. Eliot, idee che mi mandavano su tutte le furie e contro le quali ho lottato con tutte le mie forze. Oggi mi ritrovo circondato da professori di hip-hop, da cloni della teoria gallicogermanica, dagli ideologi del genere e di vari credi sessuali, da innumerevoli multiculturalisti, e mi rendo conto che la balcanizzazione degli studi letterari è irreversibile.

Passare dall’aristocrazia di Eliot e seguaci al multiculturalismo hip-hop significa per un uomo della generazione di Bloom, nato nel 1930, quasi venire deportati su un altro pianeta. Un passaggio non certo indolore: parlare di balcanizzazione nel ’94, infatti, allude evidentemente a uno stato di guerra. Guerre culturali, beninteso: di quelle in cui Bloom l’Agonista dà il meglio di sé. Per capire le sfuriate polemiche che costituiscono la cornice (e il dichiarato movente) di questo libro occorre in ogni caso cercare di ricostruire un contesto – quello della politica accademica americana – che dal nostro punto d’osservazione, altrimenti, rischia di risultare incomprensible. La voga dei Cultural Studies (icasticamente ipostatizzati nei professori di hip-hop), nelle Università degli Stati Uniti al suo culmine nei primi anni Novanta (e che oggi appare in declino, o quanto meno in stato di approfondito ripensamento disciplinare), in effetti da noi non è mai davvero arrivata. Viene anzi da pensare che, di fronte al conservatorismo esasperato che tuttora domina gran parte dei nostri programmi universitari, ai nostri Atenei forse qualche Delphine Roux non farebbe poi così male. In un suo vivacissimo resoconto delle Guerre Culturali d’Oltreoceano, ha raccontato Remo Ceserani come a cavallo della pubblicazione del Canone occidentale (che negli Stati Uniti esce nel ’94), in due dei più prestigiosi atenei d’America, l’Agone del Canone avesse consumato i suoi ludi più fieri.

In California, nell’87, una manifestazione studentesca guidata dal reverendo Jesse Jackson aveva occupato i viali fioriti del campus di Stanford al grido di «Hey hey, ho ho, Western culture’s got to go». Coi loro slogan e volantinaggi gli studenti chiedevano appunto di rivedere la lista degli autori obbligatori nei corsi di Letteratura: per infine ottenere la sostituzione di quell’unica lista con otto canoni alternativi fra i quali fosse possibile scegliere. Dall’altra parte della nazione, nel ’95, proprio a Yale, aristocratica cittadella di Harold Bloom, s’era consumato uno scandalo non meno imbarazzante quando un ex allievo miliardario (si immagina esaltato dalla lettura del libro del Professore) aveva condizionato un proprio enorme lascito, all’Ateneo, alla creazione di un corso di Western Civilization. I docenti si erano divisi per ricompattarsi, però, quando il provocatorio magnate aveva chiesto di intervenire anche sulla scelta dei corsi, e addirittura degli insegnanti: rifiutando una montagna di dollari in nome di valori, come la Libertà e l’Indipendenza del Sapere, dei quali proprio Bloom non aveva mai mancato di farsi portabandiera. Appena due esempi: che mostrano chiaramente, però, come la questione del Canone, nelle Università d’oltre oceano, sia stata negli ultimi vent’anni un tema centrale. Se non proprio la questione politica in gioco. La Delphine Roux di Roth si è laureata a Parigi, all’École Normale Supérieure, con una tesi dal soggetto che pare fatto apposta per mettere in imbarazzo un Coleman Silk alle prese con problemi dei quali nulla lei può sapere: Georges Bataille e la negazione di sé. Quando la giovane francesista si presenta al colloquio ad Athena, Coleman distrattamente la ascolta parlare di strutture narrative e temporalità, narratologia e diegesi. Non si fa impressionare: «sa, nell’originario senso greco, cosa significano tutte le parole di Yale e cosa significano tutte le parole dell’École Normale Supérieure»; sa pure che «Delphine rappresentava proprio quel genere di prestigiosa trombonaggine accademica di cui gli studenti di Athena avevano bisogno come di un buco in testa». Eppure decide di assumerla. Forse perché così «avrebbe mostrato la propria larghezza di vedute». O forse perché «era così seducente». Fatto sta che, cinque anni dopo, è proprio sul casus belli dell’Euripide sessista che Delphine comincia a far leva, col preciso progetto di demolire Coleman: il quale è infatti emblema di tutto quanto lei ha sempre desiderato invano di essere. Lui all’inizio sottovaluta l’insidia (e lo fa con terminologia squisitamente bloomiana, mio il corsivo…): «Il fraintendimento di queste due tragedie da parte della signorina Mitnick […] si basa su preoccupazioni

ideologiche così anguste e limitate che non si presta ad alcuna correzione». Al che Delphine ribatte, con acida ironia: «Coleman Silk, unico sul pianeta, non ha altra prospettiva che la prospettiva letteraria totalmente disinteressata». Qui non ci si può sbagliare: la contorta psicologia di Silk adombra la figura, diversamente ma non meno sfaccettata della sua, proprio di Harold Bloom. La sua polemica contro la Scuola del risentimento, negli anni del Canone occidentale, è stata condotta proprio in nome di una prospettiva letteraria totalmente disinteressata, ossia contro tutti quegli “interessi” identitari – non solo ideologici e sessuali – che, dal punto di vista dei Risentiti antagonisti, possono e devono far agio sui valori squisitamente estetici dei testi letterari. Nella Prefazione e preludio del Canone occidentale, infatti, ecco Bloom dichiarare con elegiaca quanto stoica fierezza: «Oggi credo di essere l’unico a difendere l’autonomia dell’estetico». Per aggiungere, col solito aristocratico sprezzo: «Il fatto di essere considerati eccentrici perché si sostiene che il letterario non dipende dal filosofico e che l’estetico non è riducibile all’ideologia o alla metafisica indica quanto siano degenerati gli studi letterari» (C 17). Tutto ciò ricordato, si faccia attenzione a non commettere l’errore di classificare il senz’altro conservatore Bloom tra i neo-cons: i reazionari che dopo le perturbazioni degli anni-Clinton (e Lewinsky), e dopo l’uscita del Canone occidentale, inopinatamente si sono ripresi il potere non solo e non tanto nelle Università quanto, più in generale, negli Stati Uniti (anche se non va sottovalutato il fatto che proprio da certe roccaforti accademiche sia partita l’onda lunga della reazione: Condoleeza Rice, per esempio, è un prodotto di cui oggi va significativamente fiera quella stessa Stanford che negli anni Ottanta, s’è visto, era stata invece all’avanguardia della neo-contestazione). Altrove Bloom ha definito il clima degli anni Novanta come improntato a un «contropuritanesimo». È lo spettro della «correttezza politica» che lo soffocava, in quegli anni, come un leone in gabbia; lo stesso che finirà per mettere fuori gioco il Coleman Silk di Roth (accusato di razzismo, come si ricorderà, per aver definito due suoi studenti di colore spooks – “spettri” appunto – ma con un termine usato anche, spregiativamente, nel senso di “negracci”). Ma non si trascuri il timore, espresso sempre all’abbrivo vichiano del Canone (C 7) e che oggi ci appare non meno che profetico, di un ritorno dell’«Età teocratica» dopo quella del Caos corrispondente alla deregulation valoriale da Bloom così aspramente combattuta. Gli eccessi di «apertura»

antagonisticamente multiculturale del Canone hanno infatti avuto come esito politico, non solo negli Stati Uniti, l’esatto contrario di quanto auspicato dagli apostoli del Risentimento. Il clima culturale di inizio millennio è all’insegna del Clash of Civilizations; e il Presidente succeduto allo scollacciato e carnevalesco Clinton, il New Born Christian George W. Bush, è per l’appunto un «Teocratico» della più bell’acqua, esponente di una Monocultura WASP tutt’altro che tollerante e politicamente corretta (oltre che, va sans dire, armata fino ai denti). In un’opera recente di Bloom, La saggezza dei libri (che rappresenta spesso una vera e propria palinodia di tesi professate in precedenza), è sintomatico come la figura di Ralph Waldo Emerson, come vedremo per lui decisiva, venga caratterizzata con inquietanti – e per Bloom decisamente inediti – chiaroscuri: Nato il 26 agosto del 1803, Emerson è oggi più vicino a noi di quanto sia mai stato. Negli Stati Uniti, continuiamo ad avere emersoniani di sinistra (il post-pragmatista Richard Rorty) [è il caso di ricordare che proprio a Rorty, quasi coetaneo di Bloom – nato nel 1931, il filosofo è scomparso l’anno scorso –, è dedicato La saggezza dei libri] e di destra (frotte di libertari repubblicani, che esaltano il presidente Bush Jr.). La concezione emersoniana della «Fiducia in se stessi» ha ispirato sia il filosofo umanitario John Dewey sia il primo Henry Ford (che diffuse i Protocolli dei Saggi di Sion). Emerson rimane la figura centrale nella cultura americana, e la sua influenza pervade tanto la nostra politica quanto la religione che di fatto seguiamo in America.

Dice oggi Bloom: «“Tutte le forme di potere sono di un unico tipo, una partecipazione alla natura del mondo”: è un’altra delle massime di Emerson, soggetta a cupe interpretazioni negli Stati Uniti di oggi (determinati a metter le mani sulla natura di tutto il mondo)». E, per essere ancora più espliciti, aggiunge che l’atteggiamento prepotentemente egolatrico e spregiudicatamente utilitaristico di Emerson lo si può ritrovare «in chiunque oggi (scrivo questa frase il 24 febbraio del 2003), a Washington, faccia pressioni per la questione del potere nel Golfo Persico. […] Trovo molto più piacevole pensare all’influenza di Emerson su Whitman e Frost, Wallace Stevens e Hart Crane, che non a quella sulla geopolitica americana; ma temo che, in ultima analisi, i due ambiti siano difficili da separare». Ammissione, quest’ultima, che chi conosce Bloom – sferzantemente polemico, in passato, contro ogni pretesa di condizionamento della sfera estetica da qualsivoglia contesto storico e sociale – può trovare persino sconcertante (meno lo apparirà a chi, a differenza di lui, da sempre ritiene che ogni pretesa di autonomia della sfera estetica, nella storia, ha regolarmente preteso consistenti contropartite in termini di assai extraestetiche conseguenze: a ben vedere lo stesso Coleman Silk di Philip Roth aveva tratto, dalla propria esperienza, un insegnamento non troppo diverso). Ma che denota, in lui, una

sensibilità politica genericamente liberal, ancorché perfettamente alternativa rispetto ai radicalismi europeizzanti, ben radicata in certa sfera intellettuale americana (una sensibilità che col tempo, per esempio, in un suo amico come Gore Vidal s’è sempre più radicalizzata). Davvero una strana tempra di conservatore (e sessista), quella di questo ebreo che – per dirne una – nel ’91 scrive Il libro di J per dimostrare che gran parte dell’Antico Testamento è stato scritto da una donna vissuta sotto il regno di Davide, di Salomone e di Roboamo (nel Canone giungerà a definirla «il più blasfemo di tutti gli autori mai vissuti»: C 11). In un’importante intervista dell’87 (l’anno è quello di Rovinare le sacre verità, che fra i diversi motivi di scandalo comincia ad analizzare i testi biblici alla ricerca di «J») Bloom discute con la consueta franchezza le accuse, mossegli dal più intelligente dei Risentiti, Edward Said, di essere «alla destra della destra». La sua visione critica, si difende, non ha niente a che vedere con il fascismo […] sarebbe come ritenere Nietzsche un antesignano di Hitler. Nietzsche non era un antisemita, non era un totalitario. Era un individualista, cercava di insegnare l’individualismo. Ma sapeva cos’era l’elitarismo, che non ha niente a che vedere con il protofascismo. L’elitarismo è la condizione dello spirito, così come della letteratura.

Anche Nietzsche, come vedremo, è tra i capisaldi dell’edificio concettuale di Bloom; e alla sua difesa d’ufficio non obietterò chiedendogli ragione di come mai proprio il lascito del Filosofo col Martello abbia attratto mis-readings catastrofici come quello nazista (se non altro perché la medesima obiezione è stata posta da quello divenuto col tempo uno degli idoli polemici di Bloom, Jacques Derrida). In questa intervista nega quanto finirà per ammettere, Bloom, quasi vent’anni dopo nella Saggezza dei libri: che dall’individualismo assoluto dell’altro suo mentore Emerson, cioè, discendano le inquietanti disinvolture dello spauracchio d’allora, Ronald Reagan. Ma nel ’92 con La religione americana si scaglierà lancia in resta contro la destra repubblicana e il suo fondamentalismo religioso. A più riprese, del resto, proprio al fondamentalismo cristiano della Yale dov’è cresciuto negli anni Cinquanta fa riferimento, Bloom, per spiegare le origini del proprio atteggiamento culturale (e dunque, aggiungiamo a suo contraggenio, politico). Sono gli anni in cui spopola Northrop Frye, maestro al quale Bloom deve moltissimo (fra l’altro proprio l’accezione di Canone: prima dell’Anatomia della critica infatti, ha fatto notare Robert Scholes, in inglese il termine designa per lo più il «corpo di testi correttamente attribuibili a questo o a quell’autore» – il Canone shakespeariano, ecc. – mentre a partire dagli anni Sessanta indica per lo più «una lista di testi che

costituiscono la nostra eredità culturale e, come tali, sono il patrimonio da cui devono trarre i loro testi i curricula accademici per lo studio letterario»: che è appunto il senso in cui lo intende Bloom) ma la cui ortodossia religiosa (Frye era sacerdote della United Church of Canada) non poteva bastargli. Non è un caso che molte delle scelte a venire di Bloom (dall’interpretazione “eretica” di William Blake, oggetto di alcune delle sue prime pubblicazioni, sino come vedremo alla stessa teoria dell’Agone) si lascino leggere come non sempre esplicito contraddittorio col decisivo precedente di Frye. Ma come s’è già accennato soffriva soprattutto, Bloom negli anni della sua formazione, una cappa ben più pervasiva e incombente: quella del «neocristianesimo dogmatico» (C 165), appunto, di Thomas S. Eliot. Lo stima, Bloom, il poeta Eliot – ancorché con palpabile freddezza. Ma è sul piano teorico che scende in Agone con lui. È anzi un meta-Agone, questo, perché in palio c’è proprio la questione dell’Influenza di un poeta sull’altro, dunque appunto dell’Agone. Cioè il nucleo stesso della riflessione alla base del Canone occidentale.

Ribellarsi è giusto La formulazione più esplicitamente “politica” (in senso molto lato) della propria teoria dell’Influenza Bloom la espone, con paradosso tipicamente suo, in uno dei suoi libri più densi e criptici, I vasi infranti dell’82: la lettura, se attiva e interessante, non è meno aggressiva del desiderio sessuale o dell’ambizione sociale o professionale. […] Quando si legge, si affronta se stessi e altri e in ciascun confronto si va in cerca di potere. […] Potentia, il pathos di una vita più intensa, o per esprimersi in modo riduttivo, il linguaggio del possesso.

A leggere queste righe, si potrebbe persino pensare a un Bloom non così distante dall’odiato Foucault. Ma è solo un effetto ottico: alle spalle di entrambi i contendenti, infatti, c’è il medesimo Nietzsche (naturalmente, qui, quello ominoso della Volontà di potenza). Il vero antagonista, però, appare in scena qualche pagina dopo: quando Bloom si scaglia – con violenza insolita persino per lui – contro «la perniciosa influenza di T.S. Eliot che tuttora permane in gran parte delle versioni contemporanee della tradizione letteraria». Il punto è il saggio più celebre, e appunto più influente, tra quelli raccolti da Eliot nel 1920 nel Bosco sacro: Tradizione e talento individuale. Che mostra effettivamente molte affinità con la teoria esposta da Bloom, nel ’73, nel suo libro decisivo L’angoscia dell’influenza; specie quando in Eliot si legge: Nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà di lui, è il giudizio di lui in rapporto ai poeti e agli artisti del passato. Non è possibile valutarlo da solo; bisogna collocarlo, per procedere a confronti e contrapposizioni, tra i poeti del passato. […] L’ordine esistente è in sé concluso prima che arrivi l’opera nuova; ma dopo che l’opera nuova è comparsa, se l’ordine deve continuare a sussistere, deve tutto essere modificato, magari di pochissimo; contemporaneamente tutti i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte trovano un nuovo equilibrio; e questa è la coerenza tra l’antico e il nuovo. Chiunque approvi questa idea di un ordine, di una forma che è propria della letteratura europea, della letteratura inglese, non troverà assurda l’idea che il passato sia modificato dal presente, come non lo è che il presente trovi la propria guida nel passato.

Ecco invece la prima pagina dell’Introduzione di Bloom a L’angoscia dell’influenza: «la storia della poesia […] dev’essere considerata indistinguibile dall’influenza poetica, poiché i poeti forti costruiscono tale storia travisandosi l’un l’altro, in modo da liberare un nuovo spazio alla propria immaginazione». In entrambe le formulazioni, il passaggio chiave è quello che ribalta il vettore tradizionale della storiografia (letteraria e non): non tanto e non più il presente guidato dal passato ma, attraverso il travisamento, il passato modificato dal presente. Per Bloom questo punto resterà saldo sino al Canone occidentale. In un libro del ’75, Una mappa della dislettura, su questa base troviamo già

nitidamente prefigurato il traliccio teorico che innerverà, quasi vent’anni dopo, il Canone: La formazione di canoni non è un processo arbitrario e non è, per più di una o due generazioni, socialmente o politicamente determinata, neanche dalla più intensa delle politiche letterarie. I poeti sopravvivono a causa della forza loro inerente; questa forza si manifesta attraverso la loro influenza su altri poeti forti e un’influenza che attraversi più di due generazioni di poeti forti tende a divenire parte della tradizione, a divenire persino la tradizione stessa.

Quando nella Prefazione e preludio al libro del ’94 si legge che «la tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione; è anche un conflitto tra il genio passato e l’aspirazione presente, un conflitto il cui premio è la sopravvivenza letteraria o l’inclusione nel Canone» (C 15), non è difficile a questo punto notare tanto gli echi che la distanza da Eliot, il cui nome però viene nell’occasione taciuto. Non lo è, invece, nei Vasi infranti: qui la polemica, al contrario assai esposta, è con l’Eliot «ufficiale» di Tradizione e talento individuale, reo di aver sì individuato il problema cruciale della trasmissione ma di averlo anestetizzato in un processo di benevola trasmissione. Non è un caso che nel saggio di Eliot la parola-chiave sempre ricorrente sia ordine (coi correlati equilibrio e coerenza tra l’antico e il nuovo). Ma sempre nei Vasi infranti Bloom – facendosi per l’occasione anche filologo e detective – scopre anche un Eliot “ufficioso” e segreto, molto più in sintonia con la propria visione. Nello stesso 1919 esce infatti un altro suo saggio, da lui mai più ripubblicato, che s’intitola Reflections on Contemporary Poetry. Qui il conflitto non si presenta affatto anestetizzato; l’Agone si presenta in tutta la sua virulenza emotiva, in tutta la sua evidenza plastica e drammatica, di corpo a corpo violento e senza esclusione di colpi: «la consapevolezza del nostro debito ci conduce naturalmente a odiare l’oggetto imitato». Altro che riduzione di sé! Altro che pacato commisurare il talento individuale alla durata lunga e solenne della tradizione (così nel saggio “ufficiale”: «il poeta procede a una continua rinuncia al proprio essere presente, in cambio di qualcosa di più prezioso. La carriera di un artista è un continuo autosacrificio, una continua estinzione della personalità»). Qui si scopre, invece, un Eliot persino capace di metafore sessuali, addirittura in sospetto di perversione necrofila. Un Eliot agonista, insomma: il fatto che si possieda questa conoscenza segreta, questa intimità con il morto […] è motivo di sviluppo. Come i rapporti intimi della vita, essa può scomparire e probabilmente finirà per farlo, ma sarà incancellabile. […] Non imitiamo, siamo mutati; e la nostra opera è quella di un uomo mutato; non abbiamo preso a prestito, siamo stati destati e diventiamo latori di una tradizione.

Commenta Bloom: «Questo linguaggio di metamorfosi e risveglio è quello del romanzo familiare e non di un ordine simultaneo che sfida la

temporalità». Non ordine ma lotta senza quartiere: Agone, appunto. Come viene detto in quello che – nel percorso fra il palinsesto teorico dell’Angoscia dell’influenza e il grande affresco performativo del Canone occidentale – va indicato come libro-chiave di Bloom, Poesia e rimozione: «Un “testo” poetico, come lo interpreto io, non è una raccolta di segni sulla pagina, ma un campo di battaglia psichico, su cui combattono autentiche forze per l’unica vittoria degna di vittoria, il divinante trionfo sull’oblio». Libro-chiave, Poesia e rimozione, perché rispetto alla fantasmagoria di immagini dell’Angoscia dell’influenza (dal punto di vista della scrittura senz’altro il capolavoro del suo autore, nonché in assoluto uno dei libri di critica più belli che sia dato leggere) Bloom vi fa i conti coi propri predecessori: a partire da quel Vico che poi innerverà lo schema tripartito del Canone occidentale (Età Aristocratica, da Dante a Goethe con Shakespeare totalitario archimandrita; Età Democratica, da Wordsworth a Ibsen; Età Caotica, da Freud a Beckett) per poi concentrarsi sulla partita decisiva, sulla quale dovrò ovviamente tornare: quella con Freud. Soprattutto vi chiarisce come l’armamentario erudito religioso e misteriosofico sciorinato nell’Angoscia dell’influenza, facente capo alla gnosi ebraica codificata nel Cinquecento da Isaac Luria (e ampiamente commentata nel successivo La Kabbalà e la tradizione critica), abbia una valenza in primo luogo metaforica. Gli gnostici di Bloom sono fondamentalmente Ribelli: «la loro ribellione contro la tradizione religiosa […] divenne la profezia di tutti i successivi dissidi con la tradizione poetica» (infatti «i massimi scrittori dell’Occidente sovvertono tutti i valori, i nostri e i loro»: C 36). L’angoscia dell’influenza avanza a un certo punto un parallelo tra l’Influenza Poetica, «parte del più vasto fenomeno del revisionismo intellettuale», e l’Eresia. Ma è in Poesia e rimozione che si legge come la ricerca spasmodica di libertà, da parte degli gnostici, non fosse tanto nei confronti di istituzioni secolari o dottrine ricevute ma, più alla radice, nei confronti di loro stessi: «il loro dissidio con le parole, che li divideva dalla propria Parola, era essenzialmente il dissidio di ogni creatore tardivo con il precursore». Una Ribellione solo individuale: dunque antipolitica. Se ogni vero Poeta è uno gnostico è perché non può che trovarsi in perenne dissidio con la tradizione. E dunque anche con se stesso: per essere più precisi, con la parte di sé ereditata dalla tradizione. Quello in cui è impegnato il Poeta, dall’inizio alla fine, è un Agone col proprio stesso linguaggio: in gioco – come nel Coleman Silk di Roth – è la sua stessa identità.

Non stupisce che il grande lettore di Milton usi spesso la metafora demonica. Nell’Angoscia dell’influenza una delle sei tipologie di rapporto tra poeti (la altre sono Clinamen o fraintendimento; Tessera o compimento; Kenosis o ripetizione differente; Askesis o purgazione e solipsismo; Apophrades o il ritorno dei morti) è intitolata alla Demonizzazione. Sono forse le pagine più tese e visionarie che Bloom abbia mai scritto. La demonizzazione è l’atto di svalutazione aggressiva del predecessore, da parte del poeta successivo (quello che Bloom chiama «efèbo»); ed è anche il momento in cui il poeta stesso si trasforma a sua volta in Demone. Ma ricorda Bloom come l’etimo di Demone (da daeomai) rinvii all’atto della divisione: «I demoni operano rompendo, […] comunque tutto ciò che hanno sono le loro voci, e questo è anche tutto ciò che hanno i poeti». Ciò che fa di un uomo un poeta è la Divisione che lo attraversa («nessun poeta moderno è unitario. […] I poeti moderni sono necessariamente miseri dualisti)». La lotta del Demone – l’Io Diviso – con l’Angelo dell’Ordine e della Tradizione è il mito fondativo, il mito d’origine di Bloom. Nel suo repertorio poetico d’elezione la fonte dichiarata è Blake: il quale nel breve poema epico Milton presenta l’Influenza dell’autore del Paradiso perduto, appunto, come «Cherubino Protettore» che si rivela, però, splendore paralizzante, «agente ostruttore» e «demone della continuità» che «imprigiona il presente nel passato e riduce il mondo delle differenze al grigiore dell’uniformità». Ma nell’intervista dell’87, che abbiamo già incontrato, Bloom racconta come questa immagine – nucleo generatore dell’Angoscia dell’influenza e, dunque, di tutto il resto – avesse per lui una valenza ben più urgente e personale. L’11 luglio del 1967 aveva avuto un incubo: «avevo la sensazione di essere soffocato da una grande creatura alata che mi era addosso. Mi svegliai il giorno dopo e iniziai a scrivere un lungo ditirambo intitolato The Covering Cherub, or Poetic Influence» (the Covering Cherub è appunto la definizione che Blake dava della Milton’s Shadow). Un’immagine-sigla, quella della Lotta con l’Angelo, che lo stesso Bloom ricorda connotare il Frye tardo del Grande codice; ma che a noi lettori italiani fa venire in mente piuttosto un’immagine splendida – ancorché decisamente meno cupa di quella bloomiana – di un altro grande lettore ebreo, Giacomo Debenedetti: io credo che il lavoro del critico somigli, in piccolo e in maniera tutta laica e profana, alla lotta notturna di Giacobbe. Per tutto il durare delle tenebre, Giacobbe combatte con un avversario, che crede un uomo e che gli impone gli stenti, le contrizioni, i pericoli di un corpo a corpo con un proprio simile. Ma, al tornare della luce, Giacobbe si accorge che l’altro era un Angelo. Nel nostro caso il critico

scorge, riconosce, intero integro, e ancora più splendente il poeta. Quella poesia che egli aveva ferita con i suoi colpi, straziata con le proprie analisi, si ricompone nella sua più vera ed efficace figura. E come l’Angelo di Giacobbe, il poeta in quel momento tramuta le angosce della notte in benedizione, benedizione per tutti, della quale il critico nella sua qualsiasi misura, diventa un poco il tramite, l’amministratore.

Ad accomunare le due forme di Agone – come fece anche un lettore d’eccezione dell’Angoscia dell’influenza, Paul de Man – è la consapevolezza dell’attraversamento del negativo, necessario tanto da parte dello scrittore (in lotta coi propri predecessori) che del lettore (in lotta con l’opera), perché alfine si realizzi la promesse de bonheur dell’arte. Un negativo che, persino per Bloom, può coincidere con le circostanze storiche (C 34): Ecco un concetto della critica marxista che mi sembra utile: nella scrittura solida vi è sempre un conflitto, un’ambivalenza, una contraddizione tra soggetto e struttura. Il punto su cui dissento dai marxisti sono le origini del conflitto. Da Pindaro ai giorni nostri, lo scrittore che lotta per la canonicità può lottare per una classe sociale, come fece Pindaro per gli aristocratici, ma soprattutto ogni scrittore ambizioso scende in campo solo per se stesso e non di rado tradirà o trascurerà la sua classe per promuovere i propri interessi, che si incentrano interamente sulla sua individuazione.

L’uso di quest’ultimo tecnicismo psicoanalitico (junghiano, per una volta) ribadisce infatti che per Bloom l’essenza dell’Agone è tutta interna al soggetto, al suo «campo di battaglia psichico». Uno degli assunti più saldi del suo pensiero, a più riprese ripetuto e variato, è che «il valore estetico scaturisce dalla memoria, e dunque (come osserva Nietzsche) dal dolore, il dolore di rinunciare a piaceri più facili per altri molto più ardui» (C 46), dal momento che «il significato autentico – la comprensione autentica della realtà – è doloroso, e che il dolore stesso è il significato» (sintesi, questa, di passi della Genealogia della morale – senza dubbio l’opera nietzscheana da Bloom più citata – commentati nella Saggezza dei libri). L’Agone che porta all’individuazione del soggetto è e non può non essere, dunque, un conflitto doloroso, crudele: un confronto che ferisce e strazia. Solo dopo l’angoscia della notte può risplendere la luce dell’arte. Date queste premesse non può stupire che, malgrado la descritta vicinanza in termini concettuali, Bloom temperalmente scelga di costruire la propria identità di critico in opposizione a Eliot. Se in Eliot (e in Frye, come viene detto sempre in Poesia e rimozione) le «relazioni […] fra tradizione e talento individuale» sono «mutuamente benigne», è perché esse sono fatte oggetto di «idealizzazioni». La pagina inaugurale, e anzi il primissimo attacco dell’Angoscia dell’influenza, pur non nominando gli avversari, suona a questo punto come una vera e propria dichiarazione di guerra (il corsivo è mio): «Questo libro intende proporre una teoria della poesia attraverso la descrizione del modo in cui opera l’influenza poetica: […] essa vuole

deidealizzare le spiegazioni correnti su come un poeta contribuisce a formarne un altro». Alla Genealogia della morale Bloom fa insomma seguire una Genealogia della letteratura. Al classicismo eliotiano contrappone un’idea anticlassicista di tradizione: fondata sullo sregolamento anziché sull’ordine, sulla discontinuità anziché sulla continuità (nell’Angoscia dell’influenza si legge: «I critici, nel segreto dei loro cuori, amano le continuità, ma colui che vive di sola continuità non potrà mai essere un poeta. […] La maggior parte di ciò che chiamiamo poesia – perlomeno dall’Illuminismo in poi – è questa ricerca del fuoco, cioè della discontinuità. […] La discontinuità è libertà»). Sulla contaminazione anziché sulla purezza («la contaminazione è il banco di prova pragmatico per la formazione del Canone»: C 561). Non è affatto un caso che il canone di Bloom sia «aperto», se non nel senso auspicato dalla Scuola del risentimento, certo nell’ammettervi autori strettamente contemporanei, e tutt’altro che unanimemente accettati, quali John Ashbery e Thomas Pynchon. (Scelte che, per quel che può valere, condivido in pieno.) Da tutto ciò consegue, ha sottolineato Giulio Ferroni, che il canone secondo Bloom non ha nulla di educativo e di moraleggiante, non proietta modelli di comportamento sociale, come è accaduto per tutte le forme storiche e «canoniche» di classicismo: esso è invece qualcosa di immanente al farsi stesso della letteratura, il principio dinamico di una storia letteraria che si sviluppa nel tempo con la vita delle grandi opere, che sempre si modifica, si aggiusta, si ridefinisce, si dilata e si restringe.

Se col Canone occidentale Bloom arriva a proporre in qualche modo una sua Storia, insomma, essa non potrà che presentarsi come antistoricista. Che è poi, forse, il solo modo di fare storia oggi.

L’invenzione della tradizione L’autore dell’Angoscia dell’influenza non poteva evitare di affrontare i propri Demoni e Angeli. Le proprie Angosce, insomma. Come ha scritto Giovanna Franci, Bloom «diventa lui stesso, nella consapevolezza della propria tardività, un esempio vivente del paradigma dell’angoscia dell’influenza». Di Eliot s’è detto. Alla Scienza nuova Bloom non deve solo il disegno tripartito del Canone occidentale; più in profondità agisce nel suo pensiero (come si vede dalle prime pagine di Poesia e rimozione) il tempo ciclico di Vico: che ovviamente s’incontra con l’Eterno Ritorno di Nietzsche. Più sottile il rapporto di revisione che lega Bloom a Borges. Inserire quest’ultimo – quasi mai citato nei libri precedenti – nel Canone occidentale significa per Bloom assolvere a un debito importante. È proprio lui infatti, insieme a Eliot (non a caso citato da Borges), il maggior precursore della teoria agonistica e revisionistica esposta nell’Angoscia dell’influenza: nelle brevi e lampeggianti pagine di Altre inquisizioni su Kafka e i suoi precursori, in cui si trova un «capovolgimento delle precedenti descrizioni dell’influenza» (C 504), di uno scrittore sull’altro, appunto molto simile a quello che ritroviamo in Bloom. Borges passa in rassegna pagine “kafkiane” – dai classici della filosofia orientale e occidentale a Kierkegaard, da Browning a Bloy – che hanno in comune praticamente solo una cosa: l’essere state scritte prima di Kafka. E commenta: Se non erro, gli eterogenei testi che ho enumerato somigliano a Kafka; se non erro, non tutti si somigliano tra loro. Quest’ultimo fatto è il più significativo. In ciascuno di quei testi è la idiosincrasia di Kafka, in grado maggiore o minore, ma se Kafka non avesse scritto, non la avvertiremmo; vale a dire, essa non esisterebbe. […] Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro.

Borges è l’emblema di una condizione tardiva per Bloom connaturata alla letteratura in quanto tale; ma anche di una pronunciata consapevolezza, di tale tardività, e di un suo uso scientemente letterario (unico possibile termine di paragone è una rara, brevissima pagina di Tommaso Landolfi precedente a quella di Borges su Kafka, la «moralità» del ’41 intitolata Dell’immagine letteraria: «La storia letteraria […] ha questo almeno di buono: che tutti i rapporti contenutivi si possono immaginare (e sono) perfettamente reversibili»: per cui da Pasternak a ben vedere discende Blok, da questi viene Dostoevskij e poi, passando per Gogol’ e Pusˇkin, si arriva al «Canto della schiera di Igor, l’espressione […] più autentica e compiuta della letteratura contemporanea»; Bloom non può conoscere questa chicca, ma è sintomatico il penchant per la tardività di Landolfi, denotato dalla breve lettura della

Moglie di Gogol’ in Come si legge un libro e perché). Proprio come Kafka ha messo per sempre il marchio di fabbrica sul “suo” mondo, Borges ha messo il proprio sulla creazione dei precursori: «se leggete Borges con frequenza e attenzione, divenite in un certo senso borgesiani, perché leggerlo significa alimentare una consapevolezza della letteratura in cui questo autore si è spinto più lontano di qualsiasi altro» (C 506). Già solo per questo – e prescindendo dalla quantità di riferimenti alle credenze gnostiche contenuta nella sua opera – lo si potrebbe considerare, Borges, autore bloomiano per eccellenza. C’è invece un aspetto della sua personalità che decisamente respinge Bloom: un paradossale «idealismo nichilistico» (C 504) – condannato, si noti, con la medesima formula usata contro Eliot: «idealizzazione dei rapporti di influenza» – in virtù del quale i grandi “anonimi”, Omero e Shakespeare, realizzano quella che per Borges è la condizione ideale dell’autore, quella cioè di fondersi in un «unico labirinto vivente di letteratura»: «tutti gli scrittori sono uguali, […] cosicché la personalità è un mito superato» (C 507; sempre in Kafka e i suoi precursori si legge, infatti, che «la parola precursore è indispensabile, ma bisognerebbe purificarla da ogni significato di polemica o di rivalità»). Nulla quanto la messa in discussione del soggetto-autore (tratto comune, infatti, alle odiate mitologie «galliche» di Foucault, Lacan e Derrida) mette in crisi il modello di Bloom. Significativo che, nel suo Agone con Freud, le pagine più violente le dedichi a mettere in ridicolo la credenza, da parte del fondatore della psicoanalisi, che «a scrivere i drammi e le poesie erroneamente attribuite a Shakespeare era stato il conte di Oxford», Edward de Vere, seguendo una tesi allora accreditata di J. Thomas Looney: «come si spiega che Freud, forse la mente più acuta del nostro secolo, sia caduto in un errore così grossolano?» (C 401). La risposta che si dà Bloom risponde infallibilmente al suo paradigma: il «desiderio […] che Shakespeare non fosse Shakespeare», e più in generale il «terribile bisogno di tenere alla larga l’ignorante attore di Stratford» (C 416), si devono all’angoscia dell’influenza di Freud nei suoi confronti: dal momento che tutti i suoi principali concetti si ritroverebbero già nei drammi shakespeariani (in particolare il complesso di Edipo sarebbe stato più giusto, secondo Bloom, intitolarlo ad Amleto: «Amleto non soffriva del complesso di Edipo, ma Freud soffriva senza dubbio del complesso di Amleto, e forse la psicoanalisi è un complesso di Shakespeare»: C 404): «l’ansia dell’influenza non ha vittima più illustre del

padre della psicoanalisi, che scopriva di continuo che Shakespeare l’aveva preceduto, e troppo spesso non riusciva a sopportare quell’umiliante verità» (C 418). In effetti l’autorialità del corpus ascritto a Shakesperare è ancor oggi tutt’altro che pacifica, e l’importanza dell’esempio di Amleto tutt’altro che sottaciuta da Freud. Ma l’aggressività di Bloom, qui, serve a sintomaticamente coprire la più cruciale angoscia dell’influenza propria: appunto quella nei confronti di Freud. Perché con tutta evidenza il modello revisionistico, se come si è visto ha i suoi antecedenti letterari in Eliot e in Borges, dal punto di vista psichico è una filiazione proprio dell’Edipo freudiano. Ha scritto infatti, ottimamente, Aldo Tagliaferri: «La tradizione, che Bloom qualifica come aggressione del precursore, […] in termini psicanalitici, rientra in quel complesso di ammirazione e di avversione, di emulazione e di desiderio di diversificazione, di eternamento e di uccisione, che va sotto il nome di complesso edipico». Un’angoscia dell’influenza nei confronti di Freud è stata peraltro a più riprese ammessa da Bloom. Già dal titolo un libro come Poesia e rimozione si pone tutto all’insegna del modello freudiano; e le sue pagine più tese sono dedicate al concetto di negazione elaborato da Freud nel ’25 (ma valorizzato in misura decisiva, negli anni Cinquanta, da Lacan). È la Verneinung (termine che nell’edizione italiana di Poesia e rimozione viene invece reso con «diniego», mentre questa è semmai traduzione invalsa per Verleugnung): in cui «l’io esprime un pensiero o desiderio rimosso, ma continua la difesa da rimozione rinnegando il pensiero o desiderio proprio mentre questo è reso esplicito» (a questo palinsesto va allora attribuita anche una delle pagine più brillanti dell’Angoscia dell’influenza, quella che cita – anziché Freud – Lichtenberg: «Fare il contrario è anch’esso una forma di imitazione»). Dopo aver impiegato questo concetto – senza esplicitarlo – nell’interpretazione del «sublime gnostico di Yeats», Bloom ammette: «sembra che la mia rimozione del Diniego freudiano sia trasalita in un diniego mio». Nei Vasi infranti con compiacimento blasfemo definirà la propria, addirittura, imitatio Freudi: perché la critica è freudiana «che lo voglia o no. Essa si fonda su modelli freudiani anche quando finge di essere asservita a Platone, Aristotele, Coleridge o Hegel». Più di recente, nella Saggezza dei libri dirà che «siamo tutti freudiani, che lo vogliamo o no»; e del resto l’Edipo nei suoi confronti è giustificato dal fatto che «Freud è diventato per la cultura occidentale una generica figura paterna». Dunque va interpretata

come formazione difensiva, da parte di Bloom, la sin troppo ribadita insistenza (sulla scorta di una famigerata intemperanza di Wittgenstein, il cui rapporto con la psicoanalisi era però tutt’altro che lineare) a leggere in Freud solo il grande scrittore, il «poderoso mitologista, il grande creatore di miti dei nostri tempi, degno rivale di Proust, Joyce e Kafka come centro canonico della letteratura moderna» (C 412). Bloom, che pure come s’è visto s’ispira a lui, non è Borges: del quale invece davvero si può dire che «essendo uno scettico che nutriva maggiore interesse per la letteratura di fantasia che per la filosofia o la religione, ci ha insegnato il modo di leggere tali speculazioni soprattutto per il loro valore estetico» (C 499). Né la filosofia né la religione, per Bloom, sono semplici favole belle: tanto meno la psicoanalisi. Di Freud la definizione più equa e sincera si legge nella Saggezza dei libri: «egli è al contempo il principale scrittore e il principale pensatore del nostro secolo». Di sicuro è quello al quale deve di più.

L’invenzione della solitudine La messa a punto della sua lunga fedeltà a Shakespeare, seguita quattro anni dopo il Canone occidentale, Bloom ha voluto intitolarla L’invenzione dell’uomo. Più precisamente, quello che Bloom ritiene abbia inventato Shakespeare è il dialogo dell’uomo con se stesso: i suoi personaggi «si origliano mentre parlano da soli o con altri. Questo modo di autoascoltarsi è la via principale all’individualizzazione». Shakespeare del Canone occidentale è il «centro», oltre che il vertice, proprio perché «supera tutti gli altri nel mettere in risalto una psicologia della mutevolezza» attraverso, appunto, «la capacità di origliare se stessi». Lezione che serve anzitutto alla nostra vita (a dispetto del nichilismo morale spesso sbandierato da Bloom sulla scorta di Wilde): «Shakespeare aggiunge alla funzione della scrittura immaginativa, cioè insegnarci a parlare con gli altri, la lezione – ormai dominante anche se più malinconica – della poesia: insegnarci a parlare con noi stessi» (C 55). Ascoltare noi stessi serve a mutare noi stessi, cioè a scrivere noi stessi: così come fanno Amleto e altri personaggi di Shakespeare. «Origliando i propri discorsi e riflettendo su quelle espressioni, mutano e passano a contemplare un’alterità nell’io, o la possibilità di tale alterità» (C 79). La divisione “demonica” dell’interiorità in un’alterità (o in una «spaccatura tra essere e coscienza», come Bloom la definisce a proposito di Kafka, C 398; si ricordi l’etimo di demone discusso nell’Angoscia dell’influenza) è la linea più trasversale, ma anche la più profondamente innervante, fra le molte che percorrono l’intreccio del Canone occidentale. Tanto che la figura che si deve davvero rimarcare mancante, fra quelle ipercanonizzate da Bloom, è senz’altro Petrarca (basti pensare al Secretum, più ancora che al Canzoniere): del quale si dice infatti, a un certo punto, che ha preceduto Shakespeare nell’invenzione del «solipsismo moderno» (C 148). A parte questa lacuna (alla quale si dovranno aggiungere almeno quelle di Rousseau, Stendhal e del Je est un autre di Rimbaud: ma in generale la letteratura «gallica» appare piuttosto bistrattata), Bloom non manca di visitare i capitoli fondanti di questa storia, segreta quanto affascinante. È la chiave del bellissimo capitolo dedicato a Montaigne e, soprattutto, del più bello in assoluto: quello su Walt Whitman e sulla «cartografia psichica» che tripartisce l’io nel Canto di me stesso delle Foglie d’erba (C 295). Qui la consueta spregiudicatezza di Bloom gli ispira fra l’altro uno «scandaloso» excursus sulla «musa della masturbazione»: tutt’altro che gratuito, però, dal

momento che è la lettura dei testi a dimostrare che «il permanente scandalo di Whitman ha una vitale componente autoerotica» (C 301; ancora più trasgressiva, ma anche più sottilmente acuta, è in tal senso la lettura del Faust di Goethe: cfr. C 244 sgg.). Questo nucleo egologico, diciamo, è senz’altro legato alla sempre maggiore esemplarità che col tempo, nel percorso di Bloom, ha acquistato la figura di Ralph W. Emerson. In un sorprendente excursus autobiografico dei Vasi infranti, dice Bloom che «Emerson […] ha cambiato il mio modo di pensare su quasi ogni cosa quando ero a metà del mio viaggio, intorno al 1965» (dove la data serve a collocare il limen all’altezza topicamente dantesca dei trentacinque anni d’età, ma anche a collocare la svolta in coincidenza dell’insorgenza anti-autoritaria dei campus americani). Pastore unitariano (come sarà Frye nel secolo successivo…), a un certo punto abbandonò il sacerdozio – si legge nella Saggezza dei libri – «perché riconosceva soltanto il Dio interiore, quel Dio che definiva come la migliore e la più antica parte del suo io». Bloom definisce la sua scrittura, dichiaratamente ispirata a quella di Montaigne, «oratoria interiore» piuttosto che saggistica: e il suo autore «più un drammaturgo dell’io che non un mistico». Di Emerson al discepolo piace citare l’aforisma (in Agone definito degno di un «Vico americano») secondo il quale «gli originari non erano affatto originali»; ma in effetti il suo influsso sulla cultura americana va in direzione diametralmente opposta. Come si legge in Una mappa della dislettura, «la guerra dei poeti americani contro l’influenza è parte della nostra eredità emersoniana»: l’individualismo assoluto enunciato in un saggio celebre come Fiducia in se stessi (sin dall’esergo, tratto dalla prima satira di Persio, «Ne te quaesiveris extra»: “non cercarti fuori di te”) è quello che porterà Bloom all’affermazione idiosincratica, più volte ripetuta, per cui «l’unico metodo è l’io» (C 202); ma è anche quello che proclama: «Insisti su te stesso; non star mai ad imitare. In ogni momento potrete presentare il vostro proprio dono con la forza accumulata della dedizione di tutta una vita; mentre, invece, del talento che hai preso a prestito da un altro hai solo un’estemporanea e dimezzata padronanza»; e: «tu non scorgerai le impronte di nessun altro; non vedrai faccia d’uomo; non udrai il nome di nessuno: il modo, il pensiero, il bene, tutto sarà completamente inconsueto e nuovo; escluderà esempi ed esperienze». Al Canone occidentale Emerson consegna un criterio-guida che in parte

si combina e in parte entra in contraddizione con l’Agone e il revisionismo: quello della rappresentatività. È dal suo saggio Uomini rappresentativi appunto, ultimo anello di una catena iniziata con le Vite parallele di Plutarco e proseguita con Gli eroi di Carlyle, che deriva l’isolamento cronologico (posto com’è in testa alla serie) nonché ontologico, la vera e propria divinizzazione di Shakespeare («Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla, […] Shakespeare è unico»: C 48). Ma in tutto il libro assistiamo poi, ha scritto gustosamente Guido Guglielmi, a «una specie di gigantomachia» in cui «figure prime si richiamano e rispondono attraverso i secoli». È così. Ma sino al Canone questi Giganti vengono rappresentati, appunto, in lotta fra loro: s’è visto a quanti livelli diversi e con quale grado di sottigliezza l’impianto del libro sottenda, infatti, il modello teorico dell’Agone. Otto anni dopo, in quella teratologica gigantografia che è Il genio, veniamo invece introdotti a una rosa mistica di cento Titani perfettamente immobili, raggelati nelle loro pose trionfali. Se nel Canone Emerson è presente con discrezione, principalmente quale spirito-guida di Emily Dickinson e Walt Whitman, nel Genio s’installa proditoriamente al centro del proscenio: qualificato come «genio dell’America», divenuto il cantore del «sublime americano» che «gettò le basi della nostra vera religione». Le conseguenze sono non meno che disastrose. Nulla più di questa parata di monadi sublimi e irrelate (se non nell’artificiosa architettura cabalistica che al Genio fa da cornice) contraddice il principio relazionale e dialettico che nell’Angoscia dell’influenza veniva espresso con assoluta e condivisibile chiarezza: Tutti i tipi di critica che si autodefiniscono primari oscillano tra la tautologia – per cui la poesia è e significa soltanto se stessa – e la riduzione – in cui la poesia significa qualcosa che non è esso stesso una poesia. Una critica antitetica deve per prima cosa negare sia la tautologia sia la riduzione, una negazione meglio espressa dall’affermazione che il significato di una poesia può essere costituito solo da una poesia, ma da un’altra poesia – non dalla medesima poesia.

E poi: Si potrebbe obiettare a una tale teoria che non leggiamo mai un poeta quale è in sé, ma leggiamo soltanto un poeta in un altro poeta, o addirittura trasformiamo quel poeta in un poeta diverso. La mia risposta può essere molteplice: io nego che ci sia, ci sia stato o magari che ci possa essere un poeta quale è in sé, per il lettore.

Ancora nel Canone occidentale viene ribadito che «i libri parlano necessariamente di altri libri e possono rappresentare l’esperienza soltanto trattandola dapprima come l’ennesimo libro» (C 473), e che «la grande scrittura è sempre una riscrittura o un revisionismo» (C 17). Anzi, la polemica contro i Critici Risentiti ne fustiga in primo luogo la pretesa di

«affermare la propria libertà dall’angoscia della contaminazione», presentando ciascun autore come un «Adamo allo spuntare del giorno», «autocreato, autogenerato, dotato di una forza propria» (C 14). L’angoscia dell’influenza si spingeva oltre l’ominosa sentenza di Nietzsche, «i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni»: proclamando che «non ci sono interpretazioni ma solo mis-interpretazioni». In conseguenza di ciò «poesia è angoscia dell’angoscia, è fraintendimento, è perversità disciplina. Poesia è malinteso, mis-interpretazione, mésalliance». Nulla di tutto questo, evidentemente, nella parata d’inconcusse superstar del Genio: tutti Adami allo spuntare del giorno, ciascuno emersonianamente oltremodo fiducioso in se stesso e, tutti insieme, robustamente inquadrati in compatta falange. C’è da chiedersi cosa sia successo al nostro critico antitetico, agonistico e angosciato (nonché, certe volte, un po’ angosciante). Ho paura che – come capita a chi intenda autodivulgarsi a tutti i costi – abbia finito per credere nella letteralità delle proprie metafore di un tempo. Quando proprio lui, invece, ci aveva insegnato che nell’Agone le metafore, i tropi, sono essenziali armi di difesa: laddove, come si legge in una pagina folgorante di Poesia e rimozione, «la morte è il più proprio o letterale dei significati e il significato letterale partecipa della morte». Ma non importa. Aroldo l’Agonista ci lascia, col Canone occidentale e coi bellissimi libri che l’hanno preceduto e preparato – L’angoscia dell’influenza in testa, opera geniale se ce n’è una nella critica letteraria degli ultimi decenni –, un patrimonio straordinario. Che sta a noi, da ora in poi, mis-interpretare: superandone l’angoscia. Fra i suoi tanti insegnamenti, infatti, c’è quello per cui la cosa più importante è «a cosa sia destinato un poema», «quale sia l’uso della poesia o della critica» (Agone). La domanda che risuona a un certo punto del Canone (C 557), «Come si fa a insegnare la solitudine?», credo sia solo in apparenza elegiaca. È agonistica, invece (come la «purgazione mediante solitudine» di Wallace Stevens, di cui si legge nell’Angoscia dell’influenza). «Sbagliare nella vita è necessario alla vita», infatti, come «sbagliare in poesia è necessario alla poesia». L’Agone è appena cominciato. ANDREA CORTELLESSA, settembre 2008

NOTA BIBLIOGRAFICA AROLDO L’AGONISTA

La macchia umana (The Human Stain) di Philip Roth è del 2000; la traduzione di Vincenzo Mantovani, pubblicata da Einaudi, è dell’anno seguente (le citazioni sono dalle pp. 199, 203, 205-7). L’articolo di Remo Ceserani sulle guerre culturali per il Canone negli Stati Uniti s’intitola Cannonate (riprendendo il calembour Canonade di Jerome Mc Gann, in «New Literary History», 25, estate 1994, pp. 487-504) ed è uscito sul numero di «Inchiesta letteratura» dedicato ai Classici nella cultura e nell’editoria italiana contemporanea (XXV, 110, ottobre-dicembre 1995, pp. 67-74). La definizione di «Contropuritanesimo» per la political correctness imperante negli Stati Uniti Bloom la impiega in Come si legge un libro e perché (How to read and why, 2000; traduzione di Roberta Zuppet, BUR, Milano 2001), p. 22. Il nuovo giudizio in chiaroscuro, circa l’influenza di Emerson sulla cultura americana contemporanea, è contenuto nella Saggezza dei libri (Where Shall Wisdom Be Found?, 2004; traduzione di Daniele Didero, BUR, Milano 2007), pp. 198 sgg. Il libro di J (The Book of J, 1991) è uscito, nella traduzione di Francesco Saba Sardi, da Leonardo nel 1992; Rovinare le sacre verità (Ruin the Sacred Truths. Poetry and Belief from the Bible to the Present, 1987), in quella di Claude Béguin, da Garzanti nel 1992. Il discorso di Derrida sui rapporti fra i nazisti e Nietzsche è nel suo Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio (1984; traduzione di Riccardo Panattoni, premessa di Maurizio Ferraris, il Poligrafo, Padova 1993), pp. 78 sgg. La religione americana. L’avvento della nazione postcristiana (The American Religion, 1992; traduzione di Serena Luzi) è uscito da Garzanti nel 1994. L’intervista (anche) “politica” è di Imre Salusinszky ed è contenuta nel volume a sua cura Criticism in Society (Methuen, London 1987): i passi che cito sono riportati da Gino Scatasta nell’assai interessante Postfazione a Harold Bloom, I vasi infranti (The Breaking of the Vessels, 1982), a cura di Giovanna Franci e Vita Fortunati, Mucchi, Modena 1992, pp. 131-48: 140-1. La precisazione riguardo al termine canone prima e dopo Frye (l’Anatomia della critica, del ’57, esce in Italia, nella traduzione di Paola Rosa-Clot e Sandro Stratta, da Einaudi nel ’69) è di Robert Scholes, Canonicity and Textuality, in Introduction to Scholarship in Modern Languages and Literatures, a cura di Joseph Gibaldi, MLA, New York 1981 (cit. in Remo Ceserani, Cannonate, cit., p. 69). RIBELLARSI È GIUSTO

Le citazioni dai Vasi infranti sono dalle pp. 35 e 40-3. Eliot pubblica Tradizione e talento individuale nel 1919, e l’anno dopo lo raccoglie nel Bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica (io cito dalla traduzione di Vittorio Di Giuro e Alfredo Obertello, pubblicata da Bompiani nel ’67, pp. 69-70 e 73); l’altro saggio di Eliot è Reflections on Contemporary Poetry ed esce sul numero di luglio del ’19 di «The Egoist» (le citazioni sono tratte dalle pp. 41-2 di Vasi infranti). L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia (The Anxiety of Influence, 1973) esce da Feltrinelli, nella traduzione di Mario Diacono, nel 1983 (le citazioni alle pp. 13, 36, 103, 42-3, 46, 82-3 e 47); Una mappa della dislettura (A Map of Misreading, 1975; il libro è dedicato a Paul de Man) da Spirali nella traduzione di Alessandro Atti e Filippo Rosati, nel 1988 (la citazione è a p. 204); Poesia e rimozione. Il revisionismo da Blake a Stevens (Poetry and Repression, 1976) da Spirali nella traduzione di Alessandro Atti e altri, nel 1996 (le citazioni alle pp. 12, 22 e 112); La Kabbalà e la tradizione critica (Kabbalah and Criticism, 1975) da Feltrinelli nella traduzione di Mario Diacono, nel 1981. L’intervista è quella citata di Imre Salusinszky, pp. 50-1 (cit. da Gino Catasta, Postfazione, cit., p. 135). Il grande codice. La Bibbia e la letteratura di Frye (The Great Code, 1982) è uscito da noi, nella traduzione di Giovanni Rizzoni, da Einaudi nel 1986. Di Giacomo Debenedetti è citata la conferenza del ’63 A proposito di «Intermezzo» (in «L’Approdo letterario», XIII, 39, 1967, pp. 5-18; poi in Id., Saggi. 1922-1966, a cura di Franco Contorbia, Mondadori, Milano 1982, pp. 50-63): pagina assai ben valorizzata da Angela Borghesi che ne ha tratto il titolo della sua monografia La lotta con l’angelo. Giacomo Debenedetti critico letterario, Marsilio, Venezia 1989 (l’immagine di Genesi 32:25-31 Debenedetti l’aveva usata almeno un’altra volta, alla fine della recensione ai Contemporanei di Giuseppe Ravegnani, compresa nella Verticale del ’37 dei Saggi critici. Nuova serie: cfr. Id., Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di Alfonso Berardinelli, Mondadori, Milano 1999, pp. 475-9: 479). La recensione di Paul de Man all’Angoscia dell’influenza apparve in «Comparative Literature», XXVI, 3, Summer 1974. I passi della Genealogia della morale di Nietzsche sulla memoria e il dolore, sull’ascesi e la volontà d’illusione nell’arte (1887; traduzione di Ferruccio Masini, nota introduttiva di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1984, pp. 48-9, 114-5, 148 e 156-7) sono commentati da Bloom nella Saggezza dei libri, pp. 218-23 (la citazione a p. 218). Di Giulio Ferroni è citato Harold Bloom in Id., I confini della critica, Guida, Napoli 2005, pp. 129-33: 130.

L’INVENZIONE DELLA TRADIZIONE

Di Giovanna Franci è citata l’Introduzione all’edizione italiana cit. dei Vasi infranti, pp. 7-24: 18. Kafka e i suoi precursori di Jorge Luís Borges è citato dalla versione di Francesco Tentori Montalto contenuta nel primo volume di Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, Milano 1984, pp. 1007-9 (la citazione è a p. 1009; il testo, del ’51, viene raccolto nel ’60 in Altre inquisizioni; la traduzione italiana esce nel ’63 da Feltrinelli). Landolfi pubblica il frammento Dell’immagine letteraria in un gruppo di testi brevi scritti nel ’37 e designati Varietà non letterarie su «Letteratura», lugliosettembre 1941 (pp. 48-56; mai più ripubblicato dall’autore, si legge ora in «Quel libro senza uguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, a cura di Novella Bellucci e Andrea Cortellessa, Bulzoni, Roma 2000, pp. 420-1); Borges parla di lui (citando Borges!) in Come si legge un libro e perché, pp. 69-71. Di Aldo Tagliaferri è citato Tra innovazione e tradizione: Harold Bloom [1982], in Id., L’invenzione della tradizione. Saggi sulla letteratura e sul mito, Spirali, Milano 1985, pp. 137-45: 139. Il saggio di Freud La negazione, del 1925, è compreso (nella traduzione di Elvio Fachinelli pubblicata una prima volta nel ’65) nel X volume dell’edizione delle Opere diretta da Cesare L. Musatti (Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti 1924-1929, Boringhieri, Torino 1978, pp. 197-201); il discorso di Bloom, al riguardo, si legge in Poesia e rimozione, pp. 262-3 (cfr. anche I vasi infranti, p. 33); la citazione da Lichtenberg nell’Angoscia dell’influenza, è a p. 39. Di imitatio Freudi si parla nei Vasi infranti, pp. 63-4 (le citazioni seguenti dalla Saggezza dei libri, pp. 229-30). L’INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

Shakespeare. L’invenzione dell’uomo (Shakespeare. The Invention of the Human, 1998) è stato tradotto da Roberta Zuppet, per Rizzoli, nel 2001 (la citazione è da p. 15). A proposito di Emerson le citazioni sono tratte dai Vasi infranti, p. 48; dalla Saggezza dei libri, pp. 200-1; da Agone, p. 31; da Una mappa della dislettura, p. 165. Di Emerson Fiducia in se stessi (originariamente pubblicato in Essays. First series, 1841) è citato dall’edizione a cura di Tommaso Pisanti di Natura e altri saggi, BUR, Milano 1990, pp. 91-126 (le citazioni a p. 121 e a p. 111; Uomini rappresentativi, 1850, è stato tradotto varie volte: l’ultima edizione disponibile è quella a cura di Angiolo Biancotti, Utet, Torino 1971; da segnalare la recente proposta dei saggi specificamente letterari di Emerson, Essere poeta, a cura di Beniamino Soressi, Moretti & Vitali, Bergamo 2007). Di Guido Guglielmi è citato Letteratura, storia, canoni, in «Allegoria», X,

29-30, maggio-dicembre 1998, pp. 83-90: 90 (dove è interessante l’intera sezione Sul canone, dichiaratamente occasionata dalla traduzione italiana del Canone occidentale di Bloom e comprensiva, oltre a quello di Guglielmi, di interventi di Romano Luperini, Christian Rivoletti, Hans-Robert Jauss, Andrea Battistini, Remo Ceserani, Giulio Ferroni, Niccolò Pasero e Cesare Segre). Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni (Genius. A Mosaic of One Hundred Exemplary Creative Minds, 2002) è stato tradotto da Daniele Didero, Roberta Zuppet e altri, per Rizzoli, nel 2002 (le citazioni sono dal paragrafo su Ralph Waldo Emerson, pp. 396406). Le citazioni dall’Angoscia dell’influenza sono dalle pp. 75 e 98-9. Lo slogan arcinoto di Nietzsche è nei Frammenti postumi 1885-1887, traduzione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1975, p. 299. La citazione da Poesia e rimozione è a p. 21, quella da Agone a p. 50, le ultime dall’Angoscia dell’influenza alle pp. 140 e 124. A.C.

Per Anne Freedgood

PREFAZIONE E PRELUDIO Il presente libro prende in considerazione ventisei scrittori, inevitabilmente con un certo rimpianto, poiché cercherò di identificare le caratteristiche che hanno reso tali autori canonici, vale a dire autorevoli nella nostra cultura. Il «valore estetico» è a volte considerato una creazione di Immanuel Kant anziché una realtà, ma non è stata questa la mia esperienza nel corso di una vita di letture. Le cose tuttavia si sono disgregate, il centro non ha tenuto e la mera anarchia sta per scatenarsi su quello che si usava definire «il mondo erudito». Le finte guerre culturali non mi interessano granché; quanto ho da dire a proposito delle nostre attuali abiezioni è contenuto nel primo e nell’ultimo capitolo. Qui desidero descrivere la struttura del presente libro e spiegare perché ho scelto proprio questi ventisei scrittori tra le molte centinaia che un tempo erano considerate parte del Canone occidentale. Nei Principi della scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, Giambattista Vico postula un ciclo di tre fasi – teocratica (età degli dei), aristocratica (età degli eroi), democratica (età degli uomini) – seguito da un caos dal quale, alla fine, emergerà una nuova Età teocratica. Joyce fa uno splendido uso seriocomico di questa idea nell’organizzazione della Veglia di Finnegan e io mi sono collocato nella scia della Veglia, salvo omettere la letteratura dell’Età teocratica. La mia sequenza storica comincia con Dante e si conclude con Samuel Beckett, benché io non abbia sempre rispettato un ordine strettamente cronologico. Così, per esempio, ho iniziato l’Età aristocratica con Shakespeare, perché quest’ultimo è la figura primaria del Canone occidentale, e poi l’ho messo in relazione con quasi tutti gli altri (da Chaucer a Montaigne) che lo influenzarono, con i molti che ne furono influenzati (Milton, il dottor Johnson, Goethe, Ibsen, Joyce e Beckett per citarne solo alcuni) e con coloro che tentarono di rifiutarlo: Tolstoj in particolare, insieme a Freud, che si appropriò di Shakespeare pur sostenendo che era stato il conte di Oxford a redigere gli scritti per «l’uomo di Stratford». La scelta degli autori in questo volume non è arbitraria come può sembrare. Sono stati selezionati sia per la loro sublimità sia per il loro carattere rappresentativo: se è possibile un libro su ventisei scrittori, non lo è un libro su quattrocento. Certo, qui sono presenti i maggiori scrittori occidentali da Dante in poi: Chaucer, Cervantes, Montaigne, Shakespeare, Goethe, Wordsworth, Dickens, Tolstoj, Joyce e Proust. Ma dove sono Petrarca, Rabelais, Ariosto, Spenser, Ben Jonson, Racine, Swift, Rousseau,

Blake, Pusˇkin, Melville, Giacomo Leopardi, Henry James, Dostoevskij, Hugo, Balzac, Nietzsche, Flaubert, Baudelaire, Browning, Čechov, Yeats, D.H. Lawrence e tanti altri? Ho tentato di rappresentare i canoni nazionali mediante i loro protagonisti: Chaucer, Shakespeare, Milton, Wordsworth e Dickens per l’Inghilterra; Montaigne e Molière per la Francia; Dante per l’Italia; Cervantes per la Spagna; Tolstoj per la Russia; Goethe per la Germania; Borges e Neruda per l’America Latina; Whitman e Dickinson per gli Stati Uniti. Qui sono presenti i principali drammaturghi (Shakespeare, Molière, Ibsen e Beckett) e i romanzieri più importanti (Austen, Dickens, George Eliot, Tolstoj, Proust, Joyce e Woolf). Il dottor Johnson compare come massimo critico letterario dell’Occidente, cui sarebbe difficile trovare un rivale. Vico non postula un’Età caotica prima del ricorso o del ritorno di una seconda Età teocratica; ma il XIX secolo, pur fingendo di proseguire l’Età democratica, non può essere definito altro che caotico. I suoi scrittori chiave sono Freud, Proust, Joyce e Kafka, che incarnano lo spirito letterario dell’epoca. Freud si autodefiniva uno scienziato, ma sopravviverà come grande saggista della portata di Montaigne o Emerson, non come il fondatore di una terapia già screditata (o elevata) a uno dei tanti episodi nella lunga storia dello sciamanesimo. Vorrei che qui ci fosse spazio per poeti più moderni di Neruda e Pessoa, ma nessun poeta del nostro secolo ha raggiunto i livelli di Alla ricerca del tempo perduto, di Ulisse o della Veglia di Finnegan, dei saggi di Freud o delle parabole e dei racconti di Kafka. In quasi tutti e ventisei i casi, ho tentato di circoscrivere direttamente la grandezza, chiedendomi che cosa rendesse canonici l’autore e le sue opere. La risposta è stata per lo più la singolarità, un tipo di originalità che non può essere assimilata o che ci assimila al punto da indurci a non considerarla più singolare. Walter Pater definisce il Romanticismo come la capacità di aggiungere la bizzarria alla bellezza, ma a mio giudizio questa definizione non comprende solo i romantici, bensì tutta la scrittura canonica, il ciclo di produzione che va dalla Divina Commedia a Finale di partita, di singolarità in singolarità. Chi legge per la prima volta un’opera canonica si imbatte in un estraneo, in una misteriosa sorpresa anziché nella realizzazione di un’aspettativa. Per chi li affronta per la prima volta, la Divina Commedia, il Paradiso perduto, il Faust – Parte seconda, Chadzˇi-Murat, Peer Gynt, Ulisse e il Canto general sono accomunati solo dalla misteriosità, dalla capacità di far sentire il lettore un estraneo a casa sua.

Shakespeare, il massimo scrittore che mai conosceremo, dà spesso l’impressione opposta: quella di farci sentire a casa quando siamo lontani, all’estero, in un luogo sconosciuto. Le sue capacità di assimilazione e contaminazione sono uniche e rappresentano una continua sfida per la produzione e la critica universale. Trovo assurdo e deplorevole che gli attuali esercizi critici su Shakespeare – «materialista culturale» (neomarxisti), «neostoricista» (Foucault), «femminista» – abbiano abbandonato la ricerca per affrontare quella sfida. La critica shakespeariana si stacca dalle opere e dalla supremazia estetica del drammaturgo, tentando di ridurlo alle «energie sociali» del Rinascimento inglese, come se non vi fosse alcuna vera differenza tra i meriti estetici del creatore di Lear, Amleto, Iago e Falstaff e quelli di discepoli come John Webster e Thomas Middleton. Nel suo Forme d’attenzione (1985), Frank Kermode, il miglior critico inglese vivente, esprime il più chiaro monito a me noto sul destino del Canone, cioè, in primo luogo, sul destino di Shakespeare: Anche i canoni, che negano ogni distinzione fra conoscenza e opinione, e che sono strumenti di sopravvivenza contro gli assalti del tempo, non contro quelli della ragione, possono essere sottoposti a operazioni decostruzioniste; basta pensare che cose del genere non dovrebbero esistere, e si farà presto a trovare i mezzi per demolirli. La loro difesa non può essere affidata a forti istituzioni centrali; essi non possono più essere obbligatori, anche se è difficile capire come la normale attività delle istituzioni culturali, ivi compreso il reclutamento di nuove forze, possa farne a meno.

Come afferma Kermode, i mezzi per distruggere i canoni sono a portata di mano e il processo è ormai ben avviato. Come ripeto più volte nel presente libro, non sono interessato all’attuale dibattito tra i difensori di destra del Canone, che mirano a preservarlo per i suoi presunti (e inesistenti) valori morali, e la rete accademico-giornalistica che ho denominato Scuola del risentimento, ansiosa di sovvertire il Canone per promuovere i suoi presunti (e inesistenti) programmi di cambiamento sociale. Spero che questo libro non si riveli essere un’elegia del Canone occidentale e che forse, a un certo punto, si verifichi un’inversione e il gruppo di coloro che sono inclini al suicidio di massa smetta di scagliarsi giù dalla rupe. Nel catalogo alla fine del volume ho azzardato una modesta profezia riguardo alle possibilità di sopravvivenza degli autori canonici, soprattutto quelli del nostro secolo. Un’originalità capace di assicurare lo status canonico a un’opera letteraria è una singolarità che non viene mai assimilata del tutto o che diviene un dato di fatto così abituale da impedirci di vederne le peculiarità. Dante è il massimo esempio della prima possibilità e Shakespeare l’esempio insuperabile della seconda. Walt Whitman, sempre contraddittorio, presenta entrambi i lati del paradosso. Dopo Shakespeare, il maggiore rappresentante

dei dati di fatto è il primo autore della Bibbia ebraica, il personaggio chiamato Jahvista o J dagli studiosi ottocenteschi della Bibbia (la «J» viene dalla pronuncia tedesca dell’ebraico Yahweh, o Jehovah in inglese, il risultato di un antico errore di ortografia). A quanto pare, J (come Omero, una o più persone smarrite nei bui recessi del tempo) visse a o vicino Gerusalemme circa tremila anni fa, molto prima che Omero nascesse o venisse inventato. Probabilmente non sapremo mai chi sia stato il J primario. Basandomi su considerazioni letterarie di carattere puramente interno e soggettivo, penso che J possa tranquillamente essere stato una donna alla corte di re Salomone, un luogo di alta cultura, di notevole scetticismo religioso e di grande raffinatezza psicologica. Un avveduto recensore del mio Libro di j mi ha rimproverato per non aver avuto l’audacia di spingermi sino in fondo, identificando J con Betsabea, la regina madre, l’ittita che re Davide prese in moglie dopo aver fatto in modo che Uria, suo marito, cadesse opportunamente in battaglia. Sono ben lieto di seguire il suggerimento, anche se in ritardo: Betsabea, madre di Salomone, è una candidata papabile. La sua pessima opinione di Roboamo, il tremendo figlio e successore di Salomone, sottintesa in tutto il testo jahvistico, risulta allora perfettamente spiegabile; lo stesso vale per la sua ironica descrizione dei patriarchi ebrei e per il suo affetto verso alcune delle loro mogli e verso escluse come Agar e Tamar. Inoltre, è una magnifica ironia jahvistica il fatto che il primo autore della successiva Torah non sia un israelita, bensì una donna ittita. Da qui in avanti mi riferirò allo Jahvista ora come J, ora come Betsabea. J fu l’autore originale di quelli che oggi chiamiamo Genesi, Esodo e Numeri, ma ciò che scrisse fu censurato, modificato e spesso cancellato o travisato da una serie di revisori nel corso di cinque secoli, culminanti in Esdra o in uno dei suoi seguaci all’epoca del ritorno dall’esilio babilonese. I revisionisti in questione erano sacerdoti e scribi del culto e, a quanto sembra, si scandalizzarono per l’ironica libertà con cui Betsabea aveva ritratto Jahveh. Il Jahveh di J è umano, fin troppo umano: mangia e beve, spesso perde la pazienza, gongola al pensiero delle proprie malefatte, è geloso e vendicativo, si definisce imparziale pur continuando a fare favoritismi e fornisce un esempio lampante di ansia nevrotica quando osa trasferire la propria benedizione da un’élite all’intera moltitudine israelita. Quando guida quella folla impazzita e sofferente attraverso il deserto del Sinai, è ormai così folle e pericoloso per se stesso e per gli altri che J merita di essere definito il più

blasfemo di tutti gli autori mai vissuti. A quanto ne sappiamo, la saga di J si conclude quando Jahveh seppellisce con le sue mani il profeta Mosè in una tomba anonima dopo aver concesso al longanime capo degli israeliti non più di un’occhiata alla Terra Promessa. Il capolavoro di Betsabea è la storia dei rapporti tra Jahveh e Mosè, una narrazione al di là dell’ironia o della tragedia che si snodano dalla sorprendente scelta del profeta riluttante da parte di Jahveh al suo immotivato tentativo di uccidere Mosè e alle successive vessazioni che affliggono sia Dio sia il suo strumento. L’ambivalenza tra il divino e l’umano è una delle grandi invenzioni di J, un altro esempio di originalità così duratura che la riconosciamo a fatica, perché le storie narrate da Betsabea ci hanno assorbiti totalmente. Il profondo turbamento implicito in questa originalità creatrice di canoni si manifesta quando ci rendiamo conto che l’adorazione occidentale di Dio – da parte di ebrei, cristiani e musulmani – è l’adorazione di un personaggio letterario, del Jahveh di J, seppur adulterato da pii revisionisti. Gli unici traumi paragonabili a me noti si manifestano quando ci rendiamo conto che il Gesù amato dai cristiani è un personaggio letterario in gran parte inventato dall’autore del Vangelo di Marco e quando leggiamo il Corano e udiamo un’unica voce, la voce di Allah, registrata con precisione e per esteso dall’audacia del profeta Maometto. Un giorno, nel XXI secolo, quando il mormonismo sarà diventato la religione dominante almeno nell’Occidente americano, coloro che verranno dopo di noi subiranno forse un quarto turbamento analogo incontrando la temerarietà di Joseph Smith, l’autentico profeta americano, nelle sue visioni definitive, The Pearl of Great Price e Doctrines and Covenants. La singolarità canonica può esistere senza il turbamento di una simile sfrontatezza, ma il tocco dell’originalità deve sempre aleggiare nella versione iniziale di qualunque opera vinca incontestabilmente la sfida con la tradizione ed entri a far parte del Canone. Oggi le istituzioni scolastiche sono zeppe di idealisti risentiti che denunciano la rivalità sia nella letteratura sia nella vita, ma secondo gli antichi greci – e secondo Burckhardt e Nietzsche, che recuperarono questa verità – l’estetico e l’agonistico sono una cosa sola. Omero insegna una poetica di conflitti, una lezione imparata innanzi tutto dal suo rivale Esiodo. Come osserva il critico Longino, Platone è tutto contenuto nel suo incessante conflitto con Omero, che viene esiliato invano dalla Repubblica; infatti, fu Omero, e non Platone, a diventare il punto di

riferimento dei greci. Secondo Stefan George, la Divina Commedia di Dante fu «il libro e la scuola di tutte le ere», sebbene questo giudizio sia più valido per i poeti che per chiunque altro e venga giustamente applicato ai drammi di Shakespeare, come dimostrerà il presente libro. Agli scrittori contemporanei non piace sentirsi dire che devono competere con Shakespeare e con Dante, eppure, per Joyce, quella battaglia fu uno stimolo per raggiungere la grandezza, per raggiungere un’eminenza condivisa, tra gli autori occidentali moderni, solo da Beckett, Proust e Kafka. L’archetipo fondamentale della compiutezza letteraria sarà sempre Pindaro, che celebra le vittorie quasi divine dei suoi atleti aristocratici comunicando al tempo stesso la sensazione implicita che le sue odi alle vittorie siano esse stesse vittorie su ogni possibile concorrente; Dante, Milton e Wordsworth riprendono la sua metafora chiave della gara per la conquista della palma, che rappresenta un’immortalità secolare stranamente in antitesi con ogni pio idealismo. L’«idealismo», un argomento su cui ci si sforza di non essere ironici, è ora in gran voga nelle nostre scuole e nei nostri college, dove tutti i criteri estetici e gran parte di quelli intellettuali vengono abbandonati in nome dell’armonia sociale e della riparazione delle ingiustizie storiche. Sul piano pragmatico, l’«espansione del Canone» è coincisa con la distruzione del Canone, poiché gli insegnamenti proposti non comprendono affatto gli scrittori più bravi – che, guarda caso, sono donne, africani, ispanici o asiatici – bensì gli autori che hanno ben poco da offrire oltre al risentimento sviluppato come parte del loro senso di identità. In quel risentimento non vi sono né singolarità né originalità, e anche se ve ne fossero, non basterebbero a creare eredi dello Jahvista e di Omero, di Dante e Shakespeare, di Cervantes e Joyce. Essendo l’ideatore di un concetto critico che a suo tempo ho definito «ansia da influenza», ho apprezzato l’affermazione ripetuta più volte dalla Scuola del risentimento, secondo cui un’etichetta di questo genere è applicabile solo ai maschi europei bianchi defunti, e non alle donne o a coloro cui abbiamo attribuito la bizzarra denominazione di «multiculturalisti». Le femministe più entusiastiche asseriscono così che le scrittrici collaborano amorevolmente tra loro come confezionatrici di trapunte, mentre gli attivisti letterari ispanici e afroamericani si spingono ancora più in là, affermando la propria libertà dall’angoscia della contaminazione: ciascuno di loro è Adamo allo spuntare del giorno. Non conoscono un periodo in cui non fossero come sono ora: autocreati,

autogenerati, dotati di una forza propria. Come asserzioni pronunciate da poeti, drammaturghi e scrittori di narrativa, queste tesi sono salutari e comprensibili, anche se illusorie. Come dichiarazioni di presunti critici letterari, queste affermazioni ottimistiche non sono tuttavia né vere né interessanti e sono contrarie sia alla natura umana sia a quella della letteratura di fantasia. Senza influenza letteraria, un processo fastidioso da subire e difficile da comprendere, non può esistere una scrittura solida e canonica. Non sono mai riuscito a riconoscere la mia teoria dell’influenza quando qualcuno l’ha attaccata, perché ciò che viene attaccato non è mai neppure una parodia accettabile delle mie idee. Come dimostra il capitolo su Freud contenuto nel presente volume, sono favorevole a una lettura shakespeariana di Freud, e non a una lettura freudiana di Shakespeare o di qualsiasi altro scrittore. L’ansia da influenza non è un’ansia riguardante il padre, reale o letterario, bensì un’ansia raggiunta dal e nel romanzo, dramma o componimento poetico. Ogni opera letteraria solida fraintende il testo o i testi precursori in maniera creativa, e dunque li interpreta erroneamente. Un autentico scrittore canonico può oppure no interiorizzare l’ansia della sua opera, ma ciò non ha molta importanza: l’opera solida e compiuta è l’ansia. Nel suo libro Towards Historical Rhetorics, Peter de Bolla esprime con chiarezza questo concetto: Il romanzo familiare freudiano come descrizione dell’influenza è una lettura estremamente debole. Per Bloom, «influenza» è insieme una categoria tropologica, una figura retorica che determina la tradizione poetica e un complesso di rapporti psichici, storici e imagistici […] l’influenza descrive le relazioni fra i testi ed è un fenomeno intertestuale […] la difesa psichica interiore – l’esperienza di ansia del poeta – e i rapporti storici esterni fra i testi sono il risultato del fraintendimento o dell’omissione poetica, non la loro causa.

Questa sintesi accurata sembrerà senza dubbio complessa a chi non conosce i miei tentativi di riflessione sul problema dell’influenza letteraria, ma de Bolla mi fornisce un buon punto di partenza all’inizio di questa discussione sull’ormai minacciato Canone occidentale. Occorre portare il fardello dell’influenza se si vuole conquistare e riconquistare un’originalità significativa nell’ambito della ricca tradizione letteraria occidentale. La tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione; è anche un conflitto tra il genio passato e l’aspirazione presente, un conflitto il cui premio è la sopravvivenza letteraria o l’inclusione nel Canone. Quel conflitto non può essere risolto dalle problematiche sociali, dal giudizio di una particolare generazione di idealisti impazienti, dai marxisti impegnati a urlare: «Lasciate che i morti seppelliscano i morti» o da sofisti che cercano di

sostituire il Canone con la biblioteca e lo spirito sagace con l’archivio. Le poesie, i racconti, i romanzi e le opere teatrali nascono in risposta a poesie, racconti, romanzi e opere teatrali precedenti, e quella risposta dipende da atti di lettura e interpretazione compiuti dagli scrittori successivi, atti che sono identici alle nuove opere. Queste letture degli scritti precedenti hanno necessariamente un carattere in parte difensivo; se fossero soltanto piene di gratitudine, la nuova creazione verrebbe soffocata, e non solo per ragioni psicologiche. Il problema non è la rivalità edipica, bensì la natura delle fantasie letterarie solide e originali: il linguaggio figurativo e le sue vicissitudini. L’invenzione di nuove metafore o di tropi fantasiosi comporta sempre un distacco dalle metafore precedenti e quel distacco dipende dall’allontanamento o dal rifiuto almeno parziale di una figurazione anteriore. Shakespeare prende Marlowe come punto di partenza e i primi antieroi shakespeariani, per esempio Riccardo III e Aronne il Moro in Tito Andronico, sono un po’ troppo simili a Barabba, l’ebreo di Malta ideato da Marlowe. Quando Shakespeare crea Shylock, il suo ebreo di Venezia, il fondamento metaforico dei discorsi di questo antieroe farsesco viene radicalmente mutato e Shylock è un solido travisamento o un’interpretazione scorretta e creativa di Barabba, mentre Aronne il Moro è un po’ più simile a una riproduzione di Barabba, soprattutto sul piano del linguaggio figurativo. Quando Shakespeare scrive Otello, ogni traccia di Marlowe è ormai scomparsa: la perfidia autocompiaciuta di Iago è, a livello cognitivo, assai più sottile e, in termini di imagismo, assai più raffinata degli eccessi autocelebrativi dell’esuberante Barabba. Il travisamento creativo di Marlowe da parte di Shakespeare ottiene un pieno trionfo nel confronto tra Iago e Barabba. Shakespeare è un caso unico di invariabile mortificazione del predecessore. Il Riccardo III rivela un’ansia da influenza nei confronti dell’Ebreo di Malta e di Tamerlano il Grande, ma all’epoca il drammaturgo stava ancora cercando la sua strada. Con l’avvento di Falstaff nell’Enrico IV – Parte prima, la trovò una volta per tutte e Marlowe divenne soltanto la strada da non percorrere, tanto sul palcoscenico quanto nella vita. Dopo Shakespeare vi sono solo pochi autori che combattono mostrando una relativa libertà dall’ansia: Milton, Molière, Goethe, Tolstoj, Ibsen, Freud, Joyce; e per tutti loro, ad eccezione di Molière, Shakespeare rimane l’unico problema, come cerca di dimostrare questo libro. La grandezza riconosce la grandezza e ne viene ottenebrata. Venire dopo Shakespeare, che scrisse sia la miglior prosa sia la miglior poesia della tradizione occidentale, è un destino

difficile, perché l’originalità diviene particolarmente ardua in tutto ciò che conta di più: la rappresentazione degli esseri umani, il ruolo della memoria nella conoscenza, la capacità della metafora di indicare nuove possibilità linguistiche. Queste sono le maggiori doti di Shakespeare e nessuno l’ha uguagliato come psicologo, pensatore o retore. Wittgenstein, che disapprovava Freud, ce lo ricorda nella sua reazione sospettosa e difensiva verso Shakespeare, che costituisce un affronto tanto il filosofo quanto per lo psicoanalista. Nell’intera storia della filosofia non esiste un’originalità cognitiva paragonabile a quella di Shakespeare ed è insieme ironico e affascinante ascoltare Wittgenstein che si domanda se vi sia davvero una differenza tra la rappresentazione shakespeariana del pensiero e il pensiero stesso. Come osserva il poeta e critico australiano Kevin Hart, è vero che «la cultura occidentale ricava il proprio lessico di intelligibilità dalla filosofia greca e tutti i nostri discorsi sulla vita e sulla morte, sulla forma e sullo scopo, sono segnati dai rapporti con quella tradizione». Tuttavia, sul piano pragmatico, l’intelligibilità trascende il proprio lessico e non dobbiamo dimenticare che Shakespeare, poco abituato a fare affidamento sulla filosofia, è più importante per la cultura occidentale di quanto lo siano Platone e Aristotele, Kant e Hegel, Heidegger e Wittgenstein. Oggi credo di essere l’unico a difendere l’autonomia dell’estetico, ma la sua miglior difesa è l’esperienza di leggere il Re Lear e poi vederne una valida rappresentazione teatrale. Il Re Lear non deriva da una crisi della filosofia e la sua forza non può essere giustificata accennando a una mistificazione promossa in qualche modo dalle istituzioni borghesi. Il fatto di essere considerati eccentrici perché si sostiene che il letterario non dipende dal filosofico e che l’estetico non è riducibile all’ideologia o alla metafisica indica quanto siano degenerati gli studi letterari. La critica estetica ci riporta all’indipendenza della letteratura di fantasia e alla sovranità dell’anima solitaria, al lettore inteso non come individuo nella società, bensì come io profondo, come nostra suprema interiorità. In uno scrittore poderoso, la profondità dell’interiorità è la forza che tiene lontano il massiccio peso delle conquiste passate per paura che l’originalità venga schiacciata prima di manifestarsi. La grande scrittura è sempre una riscrittura o un revisionismo e si fonda su una lettura che lascia spazio all’io o che agisce in modo da riaprire le vecchie opere alle nostre nuove sofferenze. Gli originali non sono originali, ma questa ironia emersoniana cede il posto al pragmatismo emersoniano, che l’inventore sa come prendere in prestito.

L’ansia da influenza paralizza i talenti più deboli ma stimola il genio canonico. A collegare intimamente i tre più vitali romanzieri americani dell’Età caotica (Hemingway, Fitzgerald e Faulkner) è il fatto che nascono tutti dall’influenza di Joseph Conrad, ma la attenuano con astuzia mescolando Conrad con un precursore americano: Mark Twain per Hemingway, Henry James per Fitzgerald, Herman Melville per Faulkner. La stessa astuzia traspare nella fusione di Whitman e Tennyson operata da T.S. Eliot e nella sovrapposizione di Whitman e Browning compiuta da Ezra Pound, come pure nella deviazione da Eliot effettuata da Hart Crane con un’altra svolta verso Whitman. Gli scrittori più abili non scelgono i loro precursori principali; ne vengono scelti, ma possiedono l’intelligenza necessaria per trasformare i predecessori in esseri compositi e dunque parzialmente immaginari. Nel presente libro non mi occupo direttamente dei rapporti intertestuali tra i ventisei autori presi in esame; il mio proposito è di considerarli come rappresentanti dell’intero Canone occidentale, ma senza dubbio il mio interesse per i problemi legati all’influenza emerge quasi ovunque, talvolta forse senza che me ne renda conto. La letteratura solida, agonistica che lo si voglia oppure no, non può essere separata dalle sue ansie riguardo alle opere dotate di priorità e autorità nei suoi confronti. Sebbene gran parte dei critici si rifiuti di comprendere i processi dell’influenza letteraria o tenti di idealizzarli definendoli totalmente generosi e benevoli, le oscure verità della rivalità e della contaminazione continuano a rafforzarsi man mano che la storia canonica si prolunga nel tempo. Per quanto ansiosi di affrontare direttamente le problematiche sociali, una poesia, un dramma o un romanzo nascono necessariamente da opere anteriori. La contingenza governa la letteratura come ogni altra impresa cognitiva e la contingenza costituita dal Canone letterario occidentale si manifesta soprattutto come ansia da influenza che forma e deforma qualunque nuova scrittura aspiri all’eternità. La letteratura non è solo linguaggio: è anche volontà di rappresentazione, lo stimolo alla metafora che, una volta, Nietzsche definì come il desiderio di essere diverso, il desiderio di essere altrove. Ciò significa in parte essere diversi da se stessi, ma, credo, essere diversi soprattutto dalle metafore e dalle immagini delle opere contingenti che costituiscono il proprio retaggio: il desiderio di scrivere bene è il desiderio di essere altrove, in un tempo e in un luogo propri, in un’originalità che deve combinarsi con il retaggio e l’ansia da influenza.

PARTE PRIMA SUL CANONE

1. UN’ELEGIA PER IL CANONE In origine, il termine «Canone» designava i libri usati nelle nostre istituzioni scolastiche e, nonostante la recente politica del multiculturalismo, resta la vera domanda del Canone: in un momento storico così tardo, che cosa deve provare a leggere l’individuo che ha ancora voglia di leggere? I settant’anni biblici bastano appena per leggere una selezione dei grandi scrittori appartenenti alla cosiddetta tradizione occidentale, per non parlare poi di quelli appartenenti a tutte le tradizioni mondiali. Chi legge deve fare una scelta, poiché non vi è il tempo materiale di leggere tutto, nemmeno se non si fa altro che leggere. Lo splendido verso di Mallarmé («La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri») è divenuto un’iperbole. La sovrappopolazione e la replezione malthusiana sono il vero contesto delle angosce canoniche. Di questi tempi non passa istante senza che nuove schiere di esponenti accademici inclini al suicidio di massa si buttino giù dalla rupe in cui intravedono le responsabilità politiche del critico, ma alla fine tutto questo moraleggiare si placherà. Ogni istituzione scolastica avrà la propria facoltà di studi culturali, un bue da non macellare, e fiorirà un substrato estetico capace di ripristinare in parte il fascino della lettura. Recensire libri scadenti, osservò una volta W.H. Auden, è nocivo per il carattere. Come tutti i bravi moralisti, Auden idealizzava suo malgrado e sarebbe dovuto sopravvivere fino all’epoca odierna, in cui i nuovi commissari del popolo ci dicono che leggere bei libri è nocivo per il carattere, cosa che, a mio avviso, è probabilmente vera. Leggere gli scrittori più bravi (per esempio, Omero, Dante, Shakespeare e Tolstoj) non farà di noi cittadini migliori. Secondo il sublime Oscar Wilde, che aveva ragione su tutto, l’arte è perfettamente inutile; questo scrittore ci dice anche che tutta la poesia mediocre è sincera. Se ne avessi il potere, ordinerei di incidere queste parole sopra l’ingresso di ogni università, affinché ciascuno studente possa riflettere sulla profondità di quell’intuizione. La poesia di Maya Angelou, scritta per la cerimonia di insediamento del presidente Clinton, è stata lodata in un editoriale del «New York Times» come opera di grandezza whitmaniana e la sua sincerità è davvero travolgente; il testo si unisce a tutte le altre opere che inondano le nostre accademie diventando subito canoniche. La triste verità è che non riusciamo a trattenerci; possiamo resistere fino a un certo punto, ma oltre quel punto persino le nostre università si sentirebbero costrette ad accusarci di razzismo

e sessismo. Ricordo che uno di noi, senza dubbio in tono ironico, disse a un intervistatore del «New York Times»: «Siamo tutti critici femministi». Questa è la retorica adatta a un Paese occupato, un Paese che non si aspetta la liberazione dalla liberazione. Le istituzioni possono sperare di seguire il consiglio che il principe dà ai suoi pari nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: «Cambiare tutto per non cambiare nulla». Purtroppo, è impossibile che le cose non cambino, poiché l’arte e la passione di leggere bene e in profondità, i due elementi alla base della nostra impresa, dipendevano da individui che erano lettori entusiastici fin da bambini. Oggi, persino i lettori devoti e solitari sono necessariamente in difficoltà, perché non possono avere la certezza che le nuove generazioni preferiranno Shakespeare e Dante a tutti gli altri scrittori. Le ombre si allungano nella nostra terra della sera e siamo entrati nel secondo millennio aspettandoci altre tenebre. Non deploro queste situazioni; a mio giudizio, l’estetica è un problema individuale anziché sociale. In ogni caso, non ci sono colpevoli, anche se alcuni di noi preferirebbero non sentirsi dire che non abbiamo la visione sociale aperta, libera e generosa dei nostri successori. La critica letteraria è un’arte antica; secondo Bruno Snell, il suo inventore fu Aristofane e io tendo a concordare con Heinrich Heine quando afferma che «c’è un dio, e il suo nome è Aristofane». La critica culturale è l’ennesima deprimente scienza sociale, ma la critica letteraria, essendo un’arte, è sempre stata e sempre sarà un fenomeno elitario. Fu un errore credere che la critica letteraria potesse diventare la base dell’istruzione democratica o del miglioramento sociale. Quando le nostre facoltà di letteratura inglese o di altre lingue rimpiccioliranno fino ad avere le dimensioni delle nostre attuali facoltà di studi classici, cedendo le loro funzioni più grossolane alle legioni degli studi culturali, forse saremo in grado di tornare allo studio dell’inevitabile, a Shakespeare e ai suoi pochi pari, che, in fin dei conti, hanno inventato tutti noi. Il Canone – se lo consideriamo come il rapporto di un singolo lettore e scrittore con ciò che si è conservato di quanto è stato scritto, e se dimentichiamo il Canone come elenco di libri per le materie obbligatorie – andrà a coincidere con l’Arte letteraria della memoria, e non con l’accezione religiosa del termine. La memoria è sempre un’arte, anche quando opera involontariamente. Emerson contrapponeva il partito della Memoria al partito della Speranza, ma ciò accadde in un’America molto diversa. Oggi il partito

della Memoria è il partito della Speranza, benché la speranza si sia affievolita. Tuttavia, è stato sempre pericoloso istituzionalizzare la speranza e non viviamo più in una società in cui sarà lecito istituzionalizzare la memoria. Dobbiamo insegnare in maniera più selettiva, cercando i pochi che possiedono la capacità di diventare lettori e scrittori molto peculiari. Gli altri, assoggettabili a un programma di studi politicizzato, possono essere abbandonati a quest’ultimo. Dal punto di vista pragmatico, il valore estetico può essere riconosciuto o vissuto, ma non può essere veicolato a chi è incapace di coglierne le sensazioni e le percezioni. Litigare a causa sua è sempre un errore. Ciò che più mi interessa è la fuga dall’estetico diffusa fra tanti esponenti della mia professione, alcuni dei quali avevano almeno esordito con la capacità di vivere il valore estetico. In Freud, la fuga è la metafora della rimozione, dell’oblio inconscio ma intenzionale. Nella fuga che caratterizza la mia professione, l’intenzione è abbastanza evidente: attenuare una colpa rimossa. In un contesto estetico, dimenticare è dannoso, perché, nella critica, la conoscenza si basa sempre sulla memoria. Longino avrebbe detto che il piacere è ciò che i rancorosi hanno dimenticato e Nietzsche l’avrebbe definito dolore, ma avrebbero pensato entrambi alla stessa esperienza insuperabile. Coloro che la vivono con un’inclinazione al suicidio di massa intonano la litania secondo cui la letteratura si spiega meglio come mistificazione promossa dalle istituzioni borghesi. Ciò riduce l’estetica all’ideologia o tutt’al più alla metafisica. Una poesia non può essere letta come poesia, perché è soprattutto un documento sociale o, eventualità rara ma possibile, un tentativo di superare la filosofia. Contro questo approccio vi esorto a una resistenza ostinata il cui unico scopo è preservare la poesia nella sua massima pienezza e purezza. Le nostre legioni disertrici rappresentano una corrente che, all’interno delle nostre tradizioni, è sempre stata in fuga dall’estetico: il moralismo platonico e la scienza sociale aristotelica. Gli attacchi esiliano la poesia etichettandola come distruttiva del benessere sociale oppure la tollerano purché assuma la funzione di catarsi sociale sotto i vessilli del nuovo multiculturalismo. Sotto la superficie del marxismo, del femminismo e del neostoricismo accademici continuano a scorrere l’antica polemica del platonismo e l’altrettanto arcaica medicina sociale aristotelica. Suppongo che il conflitto tra queste tendenze e i sostenitori dell’estetico – questi ultimi sempre in difficoltà – non finirà mai. Oggi stiamo perdendo e senza dubbio continueremo a perdere; è una

situazione spiacevole, perché molti dei nostri migliori studenti ci abbandoneranno per altre discipline e altre professioni, un abbandono già molto marcato. Sono giustificati perché non siamo stati in grado di proteggerli dalla perdita, così accentuata nella nostra professione, dei criteri intellettuali ed estetici di talento e valore. Ora possiamo solo mantenere una certa continuità con l’estetico ed evitare di cedere alla menzogna secondo cui siamo contrari all’avventura e alle nuove interpretazioni. È risaputo che Freud definì l’ansia come Angst vor etwas o come aspettative ansiose. Vi è sempre qualcosa che attendiamo con ansia, fossero anche solo le aspettative che saremo chiamati a soddisfare. L’Eros, probabilmente la più piacevole delle aspettative, riversa le sue ansie sulla consapevolezza riflessiva, l’argomento di Freud. Anche un’opera letteraria suscita alcune aspettative e deve soddisfarle se non vuole correre il rischio di non essere più letta. Le angosce più profonde della letteratura sono letterarie; anzi, a mio avviso, definiscono il letterario e giungono quasi a coincidere con esso. Una poesia, un romanzo o un dramma contraggono tutte le malattie dell’umanità, compresa la paura della morte, che, nell’arte della letteratura, si tramuta in ricerca della canonicità, con la speranza di entrare nella memoria comune o sociale. Nei suoi sonetti migliori, persino Shakespeare si accosta a questa pulsione o desiderio ossessivo. La retorica dell’immortalità è anche una cosmologia e una psicologia della sopravvivenza. Da dove scaturì l’idea di concepire un’opera letteraria che il mondo non lasciasse morire volutamente? Non fu certo inserita nelle Scritture dagli ebrei, secondo cui i testi canonici erano quelli capaci di contaminare le mani che li toccavano, probabilmente perché le mani mortali non erano adatte a stringere i testi sacri. Gesù sostituì la Torah per i cristiani e, in Lui, ciò che contava era la Resurrezione. In quale momento nella storia della scrittura secolare gli uomini cominciarono a definire immortali le poesie e i racconti? Questa idea ingegnosa compare in Petrarca, viene meravigliosamente sviluppata da Shakespeare nei sonetti ed è già latente nella lode dantesca della Divina Commedia. Non possiamo affermare che Dante abbia secolarizzato questo concetto, perché il poeta racchiudeva ogni cosa e pertanto, in un certo senso, non secolarizzò nulla. Per lui, il suo poema era una profezia, proprio come lo era il testo di Isaia, sicché possiamo forse dire che Dante inventò la moderna concezione del canonico. L’eminente medievalista Ernst Robert Curtius sottolinea che Dante considerava autentici solo due viaggi nell’aldilà intrapresi prima del suo: quello di Enea nel libro sesto del poema di Virgilio e

quello di san Paolo narrato in 2 Corinti 12, 2. Da Enea discese Roma e da Paolo il cristianesimo dei gentili; da Dante sarebbe venuta, se il poeta fosse vissuto fino all’età di ottantun anni, l’attuazione della profezia esoterica celata nella Commedia, ma Dante morì a cinquantasei anni. Curtius, sempre attento alle sorti delle metafore canoniche, fa una divagazione sulla Poesia come perpetuazione, facendo risalire l’origine dell’eternità della fama poetica all’Iliade (6.359) e, più in là, alle Odi di Orazio (4.8,28), dove leggiamo che sono l’eloquenza e l’affetto della Musa a permettere all’eroe di non morire mai. Jakob Burckhardt, in un capitolo sulla fama letteraria citato da Curtius, nota che Dante, il poeta-filologo del Rinascimento italiano, aveva «la profonda consapevolezza di essere un elargitore di fama, anzi di immortalità», consapevolezza che Curtius individua tra i poeti romanzi della Francia già nel 1100. A un certo punto, tuttavia, questa consapevolezza si allacciò all’idea di una canonicità secolare, cosicché non fu più l’eroe celebrato ma la celebrazione stessa a essere salutata come immortale. Il Canone secolare, termine con cui si designa un repertorio di autori approvati, non comincia davvero fino alla metà del XVIII secolo, durante il periodo letterario della Sensibilità, del Sentimentalismo e del Sublime. Le Odi di William Collins ricollegano il Canone del Sublime ai precursori eroici della Sensibilità, dagli antichi greci a Milton, e sono tra le prime poesie in lingua inglese composte per proporre una tradizione secolare di canonicità. Il Canone, parola di origini religiose, è divenuto una scelta fra testi in lotta per la sopravvivenza, a prescindere dal fatto che la scelta venga attribuita a gruppi sociali dominanti, a istituzioni scolastiche, a tradizioni critiche o, come faccio io, ad autori ritardatari che si sentono eletti da particolari figure ancestrali. Alcuni moderni paladini del cosiddetto radicalismo accademico arrivano a ipotizzare che le opere entrino nel Canone grazie a efficaci campagne pubblicitarie e propagandistiche. Talvolta i compagni di questi scettici si spingono ancora più in là e mettono in discussione persino Shakespeare, la cui preminenza sembra loro una sorta di imposizione. Chi adora il dio composito del processo storico è destinato a negare la palpabile supremazia estetica di Shakespeare, l’originalità davvero scandalosa dei suoi drammi. L’originalità diviene l’equivalente letterario di termini come competizione, iniziativa personale e fiducia in se stessi, termini che non rallegrano i cuori delle femministe, degli afrocentristi, dei marxisti, dei decostruttivisti e dei neostoricisti di ispirazione foucaultiana, di tutti

coloro, insomma, che ho indicato come membri della Scuola del risentimento. Un’illuminante teoria sulla formazione del Canone viene presentata da Alastair Fowler nel suo Kinds of Literature (1982). Nel capitolo «Hierarchies of Genres and Canons of Literature», Fowler osserva che «i cambiamenti del gusto letterario possono spesso essere riferiti alla rivalutazione dei generi rappresentati dalle opere canoniche». In ogni epoca, alcuni generi vengono considerati più canonici di altri. Nei primi decenni della nostra era, il romance americano in prosa venne esaltato come genere, il che contribuì a fare di Faulkner, Hemingway e Fitzgerald i principali scrittori di narrativa in prosa del XX secolo, degni successori di Hawthorne, Melville, Mark Twain e dell’aspetto di Henry James che trionfa nella Coppa d’oro e nelle Ali della colomba. L’effetto di questa esaltazione del romance rispetto romanzo «realistico» fu che narrazioni visionarie come Mentre morivo di Faulkner, Signorina Cuorinfranti di Nathanael West e L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon godettero di maggiori consensi critici rispetto a Nostra sorella Carrie e a Una tragedia americana di Theodore Dreiser. Ora è cominciata un’ulteriore revisione dei generi con l’affermazione del romanzo giornalistico, per esempio A sangue freddo di Truman Capote, Il canto del boia di Norman Mailer e Il falò delle vanità di Thomas Wolfe. Una tragedia americana ha ritrovato gran parte del suo lustro nell’atmosfera di queste opere. Il romanzo storico sembra essere stato definitivamente svalutato. Una volta, Gore Vidal mi disse con amara eloquenza che la sua esplicita insistenza sulla sfera sessuale gli aveva negato lo status canonico. Sembra più probabile che le migliori opere narrative di Vidal (ad eccezione del sublime e irriverente Myra Breckenridge) siano ottimi romanzi storici – Lincoln, Burr e molti altri – e che questo sottogenere non sia più suscettibile di canonizzazione, il che aiuta a spiegare il triste destino dell’esuberante e fantasioso Antiche sere di Norman Mailer, una meravigliosa anatomia della buggeratura e dell’inganno che non è riuscita a sopravvivere alla sua ambientazione nell’antico Egitto del Libro dei morti. La scrittura storica e la finzione narrativa si sono scisse e la nostra sensibilità non sembra più capace di conciliarle. Fowler spiega con chiarezza perché non tutti i generi siano disponibili in ogni epoca: Dobbiamo accettare il fatto che la gamma completa dei generi non sia mai disponibile in maniera uniforme, né tanto meno piena, in ogni periodo. Ciascuna epoca ha un repertorio relativamente limitato

di generi cui i suoi lettori e i suoi critici possono reagire con entusiasmo, e ancora più limitato è il repertorio facilmente accessibile ai suoi scrittori: il Canone temporaneo viene fissato per tutti tranne che per gli scrittori più grandi, più vigorosi o più arcani. Ogni epoca procede a cancellare nuovi nomi dal repertorio. In un certo senso, tutti i generi esistono forse in tutte le epoche, misteriosamente incarnati in eccezioni bizzarre e capricciose. […] Ma il repertorio dei generi attivi è sempre stato modesto e soggetto a cancellature e aggiunte adeguatamente significative […] alcuni critici hanno avuto la tentazione di concepire il sistema dei generi quasi come un modello idrostatico, come se la sua sostanza totale restasse costante ma fosse soggetta a una serie di ridistribuzioni. Queste speculazioni che non hanno tuttavia una base solida. Faremmo meglio a trattare i movimenti dei generi semplicemente in termini di scelta estetica.

Seguendo in parte Fowler, vorrei aggiungere che la scelta estetica ha sempre guidato ogni aspetto secolare della formazione del Canone, ma che questa è una tesi difficile da sostenere in un’epoca in cui la difesa del Canone letterario, proprio come l’attacco nei suoi confronti, ha subito una politicizzazione così marcata. Le difese ideologiche del Canone occidentale sono perniciose per i valori estetici quanto gli assalti degli aggressori che cercano di distruggere il Canone o, come affermano, di «aprirlo». Nulla è indispensabile per il Canone occidentale quanto i principi di selettività, che sono elitari solo nella misura in cui si fondano su criteri rigorosamente artistici. I detrattori del Canone sostengono che la formazione di canoni implica sempre un’ideologia; anzi, si spingono oltre e parlano dell’ideologia della formazione dei canoni, suggerendo che creare un Canone (o perpetuarne uno) è un atto ideologico in sé e per sé. L’eroe di questi anticanonizzatori è Antonio Gramsci; nei suoi Quaderni del carcere, nega che l’intellettuale possa affrancarsi dal gruppo sociale dominante affidandosi solo alla «qualifica» condivisa con la categoria dei suoi colleghi (per esempio, gli altri critici letterari): siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali, prosegue Gramsci, sentono con «spirito di corpo» la loro ininterrotta continuità storica e la loro qualifica, così essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante. Essendo un critico letterario in quella che ormai considero la peggiore di tutte le epoche per la critica letteraria, non trovo pertinente la limitazione di Gramsci. Lo spirito di corpo della professionalità, stranamente così caro a tanti sommi sacerdoti degli anticanonizzatori, non mi interessa per nulla e sono incline a ripudiare qualsiasi «ininterrotta continuità storica» con l’accademia occidentale. Desidero e affermo una continuità con un gruppetto di critici prima del XX secolo e con un altro gruppetto durante le ultime tre generazioni. Quanto alla «particolare qualifica», la mia, a differenza di quella di Gramsci, è puramente personale. Anche se «il gruppo sociale dominante»

dovesse essere identificato con la Yale Corporation oppure con il consiglio d’amministrazione della New York University o delle università statunitensi in generale, non riesco a individuare nessuna connessione interna tra un qualsiasi gruppo sociale e i precisi modi in cui ho trascorso la vita a leggere, ricordare, giudicare e interpretare quella che un tempo chiamavamo «letteratura di fantasia». Per scoprire i critici al servizio di un’ideologia sociale, basta volgere lo sguardo verso coloro che desiderano demistificare o aprire il Canone oppure ai loro avversari, caduti in una trappola capace di trasformarli in ciò che hanno osservato. Nessuno di questi gruppi, tuttavia, è davvero letterario. La fuga dall’estetico o la sua rimozione sono endemiche nelle istituzioni di quella che si spaccia ancora per istruzione superiore. Shakespeare, la cui supremazia estetica è stata confermata dal giudizio unanime di quattro secoli, viene ora «storicizzato» in una riduzione pragmatica, proprio perché la sua arcana forza estetica è uno scandalo per qualsiasi ideologo. Il principio cardine dell’attuale Scuola del risentimento si può affermare con sorprendente schiettezza: il cosiddetto valore estetico emana dalla lotta di classe. Questo principio è così generico da non poter essere totalmente confutato. Ribadisco che il singolo io è l’unico metodo e l’unico criterio per cogliere il valore estetico. Tuttavia, lo ammetto mio malgrado, il «singolo io» si definisce solo rispetto alla società e una parte della sua lotta con l’aspetto comunitario rientra inevitabilmente nel conflitto tra le classi sociali ed economiche. Figlio di un operaio tessile, ho avuto tantissimo tempo per leggere e meditare sulle mie letture. L’istituzione che mi ha sostenuto, la Yale University, fa inevitabilmente parte di un establishment americano e la mia lunga meditazione sulla letteratura è pertanto vulnerabile di fronte alle più tradizionali analisi marxiste dell’interesse di classe. Tutte le mie appassionate affermazioni sul valore estetico dell’io isolato vanno necessariamente interpretate ricordando che occorre comprare il lusso della meditazione dalla comunità. Nessun critico, neppure il sottoscritto, è un Prospero ermetico che opera la magia bianca su un’isola incantata. La critica, come la poesia, è (in senso ermetico) una sorta di furto dal patrimonio comune e se, quando ero giovane, la classe al comando ti autorizzava a essere un sacerdote dell’estetico, aveva senza dubbio un interesse in quel sacerdozio. Si tratta tuttavia di una ben misera concessione. La libertà di comprendere il valore estetico può derivare dal conflitto di classe, ma il valore non coincide con la libertà, anche se

quest’ultima non può essere raggiunta senza quella comprensione. Il valore estetico scaturisce, per definizione, da un’interazione fra artisti, da un’influenza che è sempre un’interpretazione. La libertà di essere artisti o critici nasce necessariamente dal conflitto sociale, ma la fonte o l’origine della libertà di percepire, seppur indispensabile per il valore estetico, non coincide con quest’ultimo. Vi è sempre una colpa nel raggiungimento dell’individualità: è una variante della colpa di essere sopravvissuti e non produce alcun valore estetico. Senza una risposta alla triplice domanda dell’agone (più di, meno di, uguale a?) non può esservi alcun valore estetico. Il quesito si inserisce nel linguaggio figurativo dell’Economico, ma la risposta si affrancherà dal principio economico di Freud. Non può esservi una poesia in sé e per sé, ma nell’estetico permane qualcosa di irriducibile. Il valore che non può essere ridotto del tutto si costituisce tramite il processo dell’influenza interartistica, un’influenza che contiene componenti sociali, spirituali e psicologiche, ma il cui elemento principale è estetico. Uno storicista marxista o di ispirazione foucaultiana può ripetere all’infinito che la produzione dell’estetico è una questione di forze storiche, ma qui il problema non è la produzione in sé e per sé. Sono lieto di concordare con il motto del dottor Johnson («Nessuno che non sia stupido ha mai scritto un rigo se non per denaro»), ma l’innegabile economia della letteratura, da Pindaro ai giorni nostri, non pone problemi di supremazia estetica. I tradizionalisti e i fautori dell’apertura del Canone sono abbastanza d’accordo sull’autore in cui cercare la supremazia: Shakespeare. Shakespeare è il Canone secolare, se non addirittura la scrittura secolare; ai fini canonici, i predecessori e gli eredi vengono definiti solo rispetto al drammaturgo. Questo è il dilemma che devono affrontare i paladini del risentimento: devono negare l’incomparabile preminenza di Shakespeare (scelta dolorosa e difficile) oppure spiegare come e perché la storia e la lotta di classe abbiano prodotto proprio gli aspetti dei suoi drammi che hanno determinato la centralità di questo autore nel Canone occidentale. Qui incappano nell’insuperabile difficoltà della più stravagante particolarità shakespeariana: chiunque siate e ovunque vi troviate, Shakespeare è sempre più avanti, sul piano tanto concettuale quanto immaginario. Vi rende anacronistici perché vi contiene; contenerlo è impossibile. Non si può illuminarlo con una nuova dottrina, sia essa il marxismo o il freudismo o lo scetticismo linguistico demaniano. Al contrario, sarà Shakespeare a illuminare la dottrina, non mediante una prefigurazione

ma, per così dire, mediante una postfigurazione: tutti gli aspetti essenziali di Freud sono già presenti in Shakespeare, accompagnati da una persuasiva critica dello stesso Freud. La mappa freudiana della mente è di Shakespeare; pare che Freud l’abbia solo messa in prosa. In altre parole, una lettura shakespeariana di Freud illumina e trascende il testo di Freud; una lettura freudiana di Shakespeare riduce Shakespeare, o meglio lo ridurrebbe se riuscissimo a sopportare una riduzione che superasse il confine dell’assurdo. Il Coriolano è una lettura del 18 brumaio di Luigi Napoleone di Marx assai più convincente di quanto potrebbe sperare di esserlo una lettura marxista del Coriolano. La preminenza di Shakespeare è, ne sono certo, lo scoglio su cui, alla fine, si arenerà la Scuola del risentimento. Come possono i suoi membri salvare capra e cavoli? Se è arbitrario affermare che Shakespeare è al centro del Canone, devono spiegare perché la classe sociale dominante abbia scelto il drammaturgo anziché, per esempio, Ben Jonson per svolgere quel ruolo arbitrario. O, se a esaltare Shakespeare è stata la storia e non i gruppi al comando, che cos’aveva Shakespeare per affascinare e cattivare a tal punto il potente Demiurgo, ossia la storia economica e sociale? Chiaramente, questo tipo di indagine comincia a sconfinare nel fantastico: sarebbe assai più semplice ammettere che esiste una differenza qualitativa, una differenza di natura, tra Shakespeare e ogni altro scrittore, persino Chaucer, persino Tolstoj o chiunque altro. L’originalità è il grande scandalo che il risentimento non è in grado di accettare e Shakespeare rimane lo scrittore più originale che mai conosceremo. L’originalità artistica incontestabile diviene sempre canonica. Qualche anno fa, durante una burrascosa notte a New Haven, mi sono accinto a leggere per l’ennesima volta il Paradiso perduto di John Milton. Dovevo preparare un intervento su quell’autore per una serie di conferenze che avrei tenuto a Harvard, ma sentivo il bisogno di un nuovo approccio al poema: il bisogno di leggerlo come se non l’avessi mai letto prima, anzi come se nessuno l’avesse mai letto prima di me. Farlo significava dimenticare un’intera biblioteca di critica miltoniana, un’impresa quasi impossibile. Tuttavia, ho tentato perché volevo vivere l’esperienza di leggere il Paradiso perduto come l’avevo letto per la prima volta una quarantina di anni addietro. Mentre leggevo, finché non mi sono addormentato nel cuore della notte, la familiarità iniziale del poema ha cominciato a dissolversi. Ha continuato a dissolversi anche nei giorni successivi, man mano che mi avvicinavo alla

fine, e sono rimasto stranamente sbalordito, un po’ alienato, ma anche così coinvolto da avvertire una punta di paura. Che cosa stavo leggendo? Sebbene quest’opera sia un poema epico biblico in forma classica, mi ha comunicato la curiosa impressione che di solito attribuisco al fantasy letterario e alla fantascienza, non al poema epico eroico. L’effetto travolgente è stato quello della bizzarria. Mi sono sentito pervadere da due sensazioni collegate ma diverse: la forza competitiva e trionfante dell’autore, meravigliosamente esibito in una lotta sia implicita sia esplicita contro ogni altro autore e ogni altro testo (Bibbia compresa) e anche la stranezza, a volte spaventosa, di ciò che veniva presentato. Solo dopo essere giunto alla fine, mi sono ricordato (almeno a livello conscio) del vigoroso libro di William Empson, Milton’s God, con la sua cruciale osservazione secondo cui il Paradiso perduto sembra dotato di un barbaro splendore simile a quello di certe sculture primitive africane. Empson imputa la barbarie di Milton al cristianesimo, una dottrina che giudica ripugnante. Sebbene, dal punto di vista politico, Empson sia marxista e mostri una grande solidarietà verso i comunisti cinesi, non è affatto un precursore della Scuola del risentimento. Storicizza la libertà stilistica con singolare abilità e, pur essendo sempre consapevole del conflitto tra classi sociali, non ha la tentazione di ridurre il Paradiso perduto a un’interazione di forze economiche. Come dovrebbe accadere per ogni critico letterario, il suo principale interesse rimane estetico e Empson si sente libero di spostare il proprio disgusto morale verso il cristianesimo (e verso il Dio di Milton) in un giudizio estetico contro il poema. L’elemento barbaro mi ha colpito come aveva colpito Empson; mi interessava di più il trionfalismo agonistico. Vi sono, suppongo, solo alcune opere che sembrano ancora più essenziali del Paradiso perduto per il Canone occidentale: le maggiori tragedie di Shakespeare, I racconti di Canterbury di Chaucer, la Divina Commedia di Dante, la Torah, i Vangeli, il Don Chisciotte di Cervantes e i poemi epici di Omero. Ad eccezione forse del poema di Dante, nessuna di esse è fortificata quanto l’oscura opera di Milton. Shakespeare ricevette senza dubbio alcuni stimoli da drammaturghi rivali, mentre Chaucer fu così astuto da citare autorità fittizie e nascondere i suoi veri debiti verso Dante e Boccaccio. La Bibbia ebraica e il Nuovo Testamento greco, entrambi rivisti e corretti, assunsero la loro forma attuale grazie a revisori che forse avevano pochissimo in comune con gli autori originali. Cervantes parodiò i suoi predecessori cavallereschi con ironia ineguagliabile, mentre non abbiamo i

testi dei precursori di Omero. Milton e Dante sono i più pugnaci tra i massimi scrittori occidentali. Gli studiosi riescono in qualche modo a evitare l’implacabilità dei due poeti e li definiscono addirittura pii. Così, C.S. Lewis scoprì il suo «semplice cristianesimo» nel Paradiso perduto e John Freccero ritiene che Dante sia un agostiniano fedele, contento di emulare le Confessioni nel suo «romanzo dell’io». Come inizio appena a capire, Dante corresse creativamente Virgilio (oltre a molti altri) con la stessa profondità con cui Milton corresse tutti i suoi predecessori (Dante incluso) mediante la sua creazione. A prescindere dal fatto che, durante la lotta, lo scrittore assuma un atteggiamento giocoso come quello di Chaucer, Cervantes e Shakespeare o aggressivo come quello di Dante e Milton, la gara è tuttavia sempre presente. Ecco un concetto della critica marxista che mi sembra utile: nella scrittura solida vi è sempre un conflitto, un’ambivalenza, una contraddizione tra soggetto e struttura. Il punto su cui dissento dai marxisti sono le origini del conflitto. Da Pindaro ai giorni nostri, lo scrittore che lotta per la canonicità può lottare per una classe sociale, come fece Pindaro per gli aristocratici, ma soprattutto ogni scrittore ambizioso scende in campo solo per se stesso e non di rado tradirà o trascurerà la sua classe per promuovere i propri interessi, che si incentrano interamente sulla sua individuazione. Dante e Milton sacrificarono entrambi molto per quello che consideravano un orientamento politico spiritualmente esuberante e giustificato, ma nessuno dei due sarebbe stato disposto a sacrificare il suo grande poema per una causa. La loro soluzione fu identificare la causa con il poema anziché il poema con la causa. Così facendo, crearono un precedente che oggi non è molto seguito dalla marmaglia accademica impaziente di legare lo studio della letteratura alla ricerca del cambiamento sociale. Troviamo i moderni seguaci statunitensi di questo aspetto di Dante e Milton dove ci aspetteremmo di trovarli, nei nostri poeti più poderosi dopo Whitman e Dickinson: i reazionari sociali Wallace Stevens e Robert Frost. Coloro che producono un’opera canonica vedono invariabilmente nei loro scritti una forma più grande di qualsiasi programma sociale, per quanto esemplare. Il problema è il contenimento e la grande letteratura insisterà sulla sua indipendenza anche dalle cause più importanti: il femminismo, il culturalismo afroamericano e tutte le altre iniziative politicamente corrette della nostra epoca. La cosa contenuta varia; il poema solido si rifiuta, per definizione, di essere contenuto, anche dal Dio di Dante o di Milton. Il dottor

Samuel Johnson, il più accorto di tutti i critici letterari, conclude giustamente che la poesia devozionale è impossibile rispetto alla devozione poetica: «Il bene e il male dell’eternità sono troppo grevi per le ali dell’arguzia». «Grevi» è una metafora di «incontenibili», che è una metafora a sua volta. I nostri contemporanei favorevoli all’apertura del Canone condannano la religione esplicita, ma chiedono versi devozionali (e una critica devozionale!) anche se l’oggetto della devozione si è trasformato nel progresso delle donne, dei neri o del più ignoto fra tutti gli dei ignoti, la lotta di classe negli Stati Uniti. Dipende tutto dai valori di ciascuno, ma io non smetterò mai di trovare strano che i marxisti riescano a individuare la rivalità in ogni altro luogo e non capiscano che è intrinseca nelle arti superiori. Si ha qui un curioso misto di sovraidealizzazione e sottovalutazione della letteratura di fantasia, che ha sempre perseguito i suoi obiettivi egoistici. Il Paradiso perduto divenne canonico prima che fosse istituito il Canone secolare, nel secolo successivo a quello di Milton. La risposta alla domanda: «Chi ha canonizzato Milton?» è, in primo luogo, Milton stesso, ma quasi a pari merito vi sono anche altri bravi poeti, dal suo amico Andrew Marvell a John Dryden, via via fino a quasi tutti i poeti cruciali del XVIII secolo e del periodo romantico: Pope, Thomson, Cowper, Collins, Blake, Wordsworth, Coleridge, Byron, Shelley e Keats. I critici, il dottor Johnson e Hazlitt contribuirono senza dubbio alla canonizzazione; ma Milton, come Chaucer, Spenser e Shakespeare prima di lui, e come Wordsworth dopo di lui, travolsero semplicemente la tradizione e la racchiudono. Questo il banco di prova più affidabile della canonicità. Solo pochissimi riuscirono a travolgere e a racchiudere la tradizione, e oggi forse nessuno ne è più in grado. L’interrogativo odierno è dunque il seguente: potete costringere la tradizione a farvi spazio spingendola, per così dire, dall’interno anziché dall’esterno, come vorrebbero fare i multiculturalisti? Il movimento all’interno della tradizione non può essere ideologico né mettersi al servizio di un obiettivo sociale, per quanto moralmente ammirevole. Si irrompe nel Canone solo mediante la forza estetica, che si compone innanzi tutto di un amalgama: originalità, conoscenza, capacità cognitiva, esuberanza espressiva e padronanza del linguaggio figurativo. La suprema ingiustizia dell’ingiustizia storica è la tendenza a dotare le vittime solo di un senso di vittimizzazione. Qualunque cosa sia il Canone occidentale, non è un programma di redenzione sociale. Il modo più sciocco per difendere il Canone occidentale è riconoscervi

l’incarnazione di tutte e sette le insopportabili virtù morali che compongono la nostra presunta gamma di valori normativi e principi democratici. Questa idea è palesemente sbagliata. L’Iliade insegna la gloria ineguagliabile della vittoria armata, mentre Dante gioisce degli eterni tormenti che infligge ai suoi nemici personali. La particolare versione del cristianesimo di Tolstoj accantona quasi tutto ciò che ciascuno di noi conserva e Dostoevskij predica l’antisemitismo, l’oscurantismo e la necessità della schiavitù umana. La politica di Shakespeare, per quanto riusciamo a circoscriverla, non sembra molto diversa da quella del suo Coriolano e la concezione miltoniana della libertà di parola e della libertà di stampa non preclude l’imposizione di limitazioni sociali di ogni genere. Spenser si rallegra del massacro dei ribelli irlandesi, mentre l’egocentrismo di Wordsworth esalta la sua mente poetica al di sopra di ogni altra fonte di splendore. I massimi scrittori dell’Occidente sovvertono tutti i valori, i nostri e i loro. Gli studiosi che ci invitano a individuare la fonte della nostra moralità e della nostra politica in Platone o in Isaia non sono in contatto con la realtà sociale in cui viviamo. Se leggiamo il Canone occidentale per plasmare i nostri valori morali, sociali o politici, sono fermamente convinto che diverremo mostri di egoismo e sfruttamento. Leggere al servizio di un’ideologia significa, a mio parere, non leggere affatto. La percezione della forza estetica ci insegna a parlare con noi stessi e a sopportare noi stessi. La vera utilità di Shakespeare e Cervantes, di Omero e Dante, di Chaucer e Rabelais, è ampliare il nostro crescente io interiore. Leggere in profondità nell’ambito del Canone non farà di nessuno una persona migliore o peggiore, un cittadino più utile o più dannoso. Il dialogo della mente con se stessa non è innanzi tutto una realtà sociale. L’unica cosa che il Canone occidentale può donarci è l’uso adeguato della nostra solitudine, della solitudine la cui forma definitiva è il confronto con la mortalità. Possediamo il Canone perché siamo mortali e anche piuttosto in ritardo. Il tempo a nostra disposizione è limitato e deve subire una battuta d’arresto, mentre c’è più da leggere di quanto ce ne sia mai stato prima. Partendo dallo Jahvista e da Omero per arrivare a Freud, Kafka e Beckett, il viaggio dura quasi tre millenni. Poiché quel viaggio supera porti infiniti come Dante, Chaucer, Montaigne, Shakespeare e Tolstoj – ciascuno dei quali compensa ampiamente una vita di riletture – ci troviamo di fronte al dilemma pragmatico di escludere qualcos’altro ogni volta che leggiamo o rileggiamo con attenzione. Per il canonico, rimane inesorabilmente valido un antico

banco di prova: l’opera non è canonica a meno che non richieda una rilettura. L’analogia inevitabile è quella erotica. Se siete Don Giovanni, e a tenere l’elenco è Leporello, un breve incontro sarà sufficiente. A differenza di quanto sostengono certi parigini, il testo esiste per dare non piacere, bensì l’elevato dispiacere o il piacere più difficile che un testo minore non fornirà. Non sono disposto a contraddire gli ammiratori di Meridian, un romanzo di Alice Walker che mi sono costretto a leggere due volte, ma la seconda lettura è stata una delle mie esperienze letterarie più interessanti. Ha prodotto un’epifania in cui ho scorto chiaramente il nuovo principio implicito negli slogan di coloro che desiderano l’apertura del Canone. Il giusto banco di prova della nuova canonicità è semplice, chiaro e capace di generare magnifici cambiamenti sociali: l’opera non deve e non può essere riletta, perché il suo contributo al progresso sociale è la disponibilità a offrirsi per un rapido consumo e un’eliminazione altrettanto rapida. Da Pindaro a Yeats e Hölderlin, la grande ode autocanonizzatrice ha proclamato la sua immortalità agonistica. L’ode socialmente accettabile del futuro ci risparmierà senza dubbio le pretese di questo genere, concentrandosi invece sull’adeguata umiltà della sorellanza, la nuova sublimità del confezionamento di trapunte che oggi è il tropo preferito della critica femminista. Tuttavia, dobbiamo scegliere: poiché non abbiamo molto tempo, rileggiamo Elizabeth Bishop o Adrienne Rich? Mi rimetto in cerca del tempo perduto con Marcel Proust, oppure tento un’altra rilettura della commovente denuncia di tutti i maschi, bianchi e neri, proposta da Alice Walker? I miei ex studenti, molti dei quali sono ora illustri membri della Scuola del risentimento, affermano di insegnare l’altruismo sociale, che comincia imparando a leggere in modo altruistico. L’autore non ha un io, il personaggio letterario non ha un io e il lettore non ha un io. Dobbiamo forse riunirci sulla riva del fiume con questi generosi fantasmi, liberi dalla colpa delle autoaffermazioni passate, e farci battezzare nelle acque del Lete? Che cosa dobbiamo fare per essere salvati? Lo studio della letteratura, comunque venga effettuato, non salverà gli individui più di quanto migliorerà la società. Shakespeare non ci renderà migliori e non ci renderà peggiori, ma forse ci insegnerà a origliarci quando parliamo con noi stessi. In seguito, potrebbe insegnarci ad accettare il cambiamento, in noi stessi e negli altri, e forse persino la forma suprema del cambiamento. Per noi, Amleto è l’ambasciatore della morte, forse uno dei

pochi ambasciatori mai mandati dalla morte che non mente sul nostro inevitabile rapporto con quel mondo inesplorato. Questo rapporto è del tutto solitario, nonostante gli osceni tentativi compiuti dalla tradizione per conferirgli una dimensione sociale. Il mio compianto amico Paul de Man amava l’analogia tra la solitudine di ciascun testo letterario e di ciascuna morte umana, un’analogia che un giorno ho contestato. Gli avevo suggerito che un tropo più ironico sarebbe stata l’analogia tra ciascuna nascita umana e la creazione di una poesia, un’analogia che avrebbe connesso i testi come sono connessi i neonati, un mutismo legato a voci passate, un’incapacità di parlare legata a quanto era stato detto dai morti, che avevano parlato a tutti noi. Non ho vinto quella discussione critica perché non sono riuscito a convincerlo del più grande analogo umano; Paul de Man preferiva l’autorità dialettica dell’ironia di natura più heideggeriana. L’unica cosa che un testo, per esempio la tragedia dell’Amleto, condivide con la morte è la solitudine. Ma quando la condivide con noi, parla con l’autorità della morte? Qualunque sia la risposta, vorrei sottolineare che l’autorità della morte, sia essa letteraria o esistenziale, non è in primo luogo un’autorità sociale. Il Canone, ben lungi dall’essere il lacchè della classe sociale dominante, è il ministro della morte. Per aprirlo, occorre persuadere il lettore che si è liberato un nuovo spazio all’interno di uno spazio più ampio, affollato di morti. Che i poeti defunti acconsentano a farsi da parte per noi, esclamava Artaud; ma è proprio ciò che non accetteranno di fare. Se fossimo letteralmente immortali, o se la durata della nostra vita venisse raddoppiata a centoquarant’anni, potremmo rinunciare a qualsiasi discussione sui canoni. Tuttavia, abbiamo a disposizione solo un intervallo, poi il nostro luogo non ci riconoscerà più, e colmare quell’intervallo con una scrittura scadente in nome di una qualsiasi giustizia sociale non mi sembra il compito del critico letterario. Il professor Frank Lentricchia, apostolo del cambiamento sociale tramite l’ideologia accademica, è riuscito a leggere l’Aneddoto della giara di Wallace Stevens come poesia politica che dà voce al programma della classe sociale dominante. L’arte di disporre una giara è, secondo Stevens, affine all’arte delle composizioni floreali, e non vedo perché Lentricchia non dovrebbe pubblicare un modesto volume sulla politica delle composizioni floreali, intitolato Ariel and the Flowers of Our Climate. Ricordo ancora il mio sconcerto, quando, circa trentacinque anni fa, qualcuno mi ha portato per la prima volta a una partita di calcio. Ero a Gerusalemme,

dove gli spettatori sefarditi facevano il tifo per la squadra ospite di Haifa, appartenente alla destra politica, mentre la squadra di casa era legata al partito laborista. Perché smettere di politicizzare lo studio della letteratura? Sostituiamo i giornalisti sportivi con i sapientoni politici come primo passo verso la riorganizzazione del baseball, con la Squadra repubblicana che incontra la Squadra democratica nell’ambito nella World Series. Avremmo così una variante del baseball in cui non potremmo rifugiarci, come facciamo adesso, per trovare un po’ di sollievo bucolico. Le responsabilità politiche del giocatore di baseball sarebbero idonee, né più né meno delle responsabilità politiche del critico letterario, oggi tanto strombazzate. Il ritardo culturale, oggi una condizione pressoché universale, si manifesta con particolare intensità negli Stati Uniti d’America. Siamo gli ultimi eredi della tradizione occidentale. Un’istruzione fondata sull’Iliade, sulla Bibbia, su Platone e su Shakespeare continua a essere, in forma distorta, il nostro ideale, sebbene l’influenza di questi monumenti culturali sulla vita nei nostri quartieri più degradati sia inevitabilmente piuttosto scarsa. Coloro che sono ostili a tutti i canoni soffrono di un rimorso elitario fondato sulla constatazione, abbastanza corretta, secondo cui i canoni servono sempre gli interessi e gli obiettivi sociali, politici e persino spirituali delle classi benestanti di ciascuna generazione della società occidentale. Sembra evidente che il capitale è necessario per coltivare i valori estetici. Pindaro, l’ultimo superbo maestro della lirica arcaica, investì la sua arte nella composizione di odi in cambio di somme consistenti, un esercizio celebrativo con cui lodava i ricchi per il loro generoso sostegno alla sua generosa esaltazione del loro lignaggio divino. Questa alleanza tra la sublimità da una parte e il potere finanziario e politico dall’altra non ha mai smesso di esistere e probabilmente non lo farà o non potrà mai farlo. Naturalmente, vi sono profeti – da Amos a Blake e, più in là, Whitman – che si ribellano a questa alleanza e, senza dubbio, prima o poi comparirà un altro grande personaggio del livello di Blake; ma chi continua a essere la norma canonica è Pindaro, non Blake. Persino profeti come Dante e Milton si compromisero come Blake non poteva o non voleva fare, nella misura in cui si può affermare che le aspirazioni culturali pragmatiche tentarono i poeti della Divina Commedia e del Paradiso perduto. Mi è occorsa un’intera vita di immersione nello studio della poesia prima di capire perché Blake e Whitman fossero stati costretti a diventare i poeti ermetici, anzi esoterici, che erano stati. Se si rompe l’alleanza tra ricchezza e cultura – una rottura che

segna la differenza tra Milton e Blake, tra Dante e Whitman – si paga l’alto prezzo ironico di coloro che tentano di distruggere le continuità canoniche. Si diventa gnostici ritardatari che ingaggiano una guerra contro Omero, Platone e la Bibbia mitologizzando il proprio travisamento della tradizione. Una simile guerra può offrire vittorie limitate; Quattro Zoas o Canto di me stesso sono trionfi che definisco limitati perché spingono i loro eredi a distorsioni disperate del desiderio creativo. I poeti che percorrono con maggior successo la strada aperta di Whitman sono quelli che gli assomigliano in profondità ma non in superficie, poeti rigidamente formali come Wallace Stevens, T.S. Eliot e Hart Orane. Coloro che cercano di emulare le sue forme apparentemente aperte muoiono tutti nel deserto, rapsodi principianti e impostori accademici che arrancano nella scia di un padre dalla delicata ermeticità. Non si fa nulla per nulla e Whitman non farà il lavoro al vostro posto. Un blakeano minore o un whitmaniano dilettante è sempre un falso profeta che non spiana la strada a nessuno. Non sono affatto felice di queste verità sulla dipendenza della poesia dal potere terreno; seguo semplicemente William Hazlitt, il vero critico di sinistra fra tutti i grandi esponenti della sua professione. La sua splendida trattazione di Coriolano in Characters of Shakespeare’s Plays inizia con una triste ammissione: «In effetti, la causa del popolo viene tenuta in scarsa considerazione come argomento della poesia: si presta alla retorica, che si addentra in argomentazioni e spiegazioni, ma non fornisce alla mente immagini immediate o distinte». Tali immagini, sostiene Hazlitt, sono presenti ovunque accanto ai tiranni e ai loro strumenti. Questa chiara concezione della turbolenta interazione tra il potere della retorica e la retorica del potere ha una possibile valenza illuminante nel buio che oggi va tanto di moda. La politica di Shakespeare può oppure no essere quella di Coriolano, proprio come le ansie di Shakespeare possono essere oppure no quelle di Amleto o di Lear. Shakespeare non è nemmeno il tragico Christopher Marlowe, la cui vita e la cui produzione sembrano avergli indicato la strada da non imboccare. Shakespeare conosce implicitamente ciò che Hazlitt rende esplicito con ironia: la Musa, sia essa tragica o comica, si schiera con l’élite. Per ogni Shelley o Brecht vi sono decine di poeti ancora più poderosi che gravitano naturalmente verso le classi dominanti della società. L’immaginazione letteraria è contaminata dallo zelo e dagli eccessi della competizione sociale, perché, in tutta la storia occidentale,

l’immaginazione creativa ha concepito se stessa come lo strumento più competitivo, simile al corridore solitario che gareggia per la propria gloria. Saffo e Emily Dickinson, le donne più energiche tra i grandi poeti, sono agoniste ancora più determinate degli uomini. La signorina Dickinson di Amherst non aiuta Elizabeth Barrett Browning a confezionare una trapunta. Invece, le fa mangiare la polvere, anche se il trionfo è più impalpabile della vittoria di Whitman su Tennyson in Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa, dove una chiara eco dell’Ode in morte del duca di Wellington costringe il lettore attento a riconoscere la superiorità dell’elegia per Lincoln rispetto alla lamentazione per il Duca di ferro. Non so se la critica femminista riuscirà nel suo tentativo di cambiare la natura umana, ma dubito che un idealismo, per quanto tardivo, possa mutare l’intero fondamento della psicologia occidentale della creatività, sia essa maschile o femminile, dalla gara di Esiodo contro Omero all’agone tra Dickinson e Elizabeth Bishop. Mentre scrivo queste righe, lancio un’occhiata al giornale e noto un articolo sul dilemma delle femministe costrette a scegliere tra Elizabeth Holtzman e Geraldine Ferraro per una candidatura al Senato, una decisione di natura non diversa da quella di un critico che ha la necessità pragmatica di scegliere tra la compianta May Swenson, una poetessa abbastanza brava, e la veemente Adrienne Rich. Una presunta poesia può presentare le idee più incontestabili o la politica più infervorata, e può anche non essere granché come poesia. Un critico può avere responsabilità politiche, ma il suo primo obbligo è riproporre il triplice interrogativo – antico e assai sgradevole – dell’agonista: più di, meno di, uguale a? In nome della giustizia sociale, stiamo distruggendo tutti i criteri intellettuali ed estetici delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. Le nostre istituzioni dimostrano così di essere in cattiva fede: ai matematici e ai neurochirurghi non si impone alcun quorum. A essere stato svalutato è l’apprendimento come tale, come se l’erudizione fosse irrilevante nella dimensione del giudizio esatto o errato. Il Canone occidentale, nonostante lo sconfinato idealismo di chi vorrebbe aprirlo, esiste proprio per imporre dei limiti, per stabilire un criterio che sia tutto fuorché politico o morale. So che ora vi è una sorta di alleanza segreta tra la cultura popolare e la cosiddetta «critica culturale», e so che, in nome di questa alleanza, la conoscenza stessa può senza dubbio acquisire lo stigma dell’erroneo. La conoscenza non può esistere senza la memoria e il Canone è la vera arte della memoria, l’autentico fondamento del pensiero culturale.

Detto con la massima semplicità, il Canone è Platone e Shakespeare, è l’immagine del pensiero individuale: Socrate che medita sulla sua morte o Amleto che contempla quella regione inesplorata. La mortalità si unisce alla memoria nella consapevolezza della verifica che il Canone induce a eseguire sulla realtà. Per sua stessa natura, il Canone occidentale non si chiuderà mai, ma non può essere aperto a forza dai nostri attuali sostenitori entusiastici. Soltanto il vigore riuscirà ad aprirlo, il vigore di un Freud o di un Kafka, tenaci nelle loro negazioni cognitive. Il sostegno entusiastico è la forza del pensiero positivo trasposto nell’ambito accademico. Uno studioso serio del Canone occidentale rispetta l’energia delle negazioni implicite nella conoscenza, si abbandona ai difficili piaceri della comprensione estetica e impara le strade nascoste che l’erudizione ci insegna a percorrere anche mentre rifiutiamo piaceri più facili, tra cui gli incessanti richiami di chi afferma una virtù politica che trascenderebbe tutti i nostri ricordi dell’esperienza estetica individuale. Ora siamo ossessionati dalle immortalità facili perché il principale nutrimento della nostra cultura popolare non è più il concerto rock, che è stato sostituito dal video rock, la cui essenza è un’immortalità istantanea, o meglio la sua possibilità. Il rapporto tra la concezione religiosa e letteraria dell’immortalità è sempre stato osteggiato, persino tra gli antichi greci e romani, dove l’eternità poetica e l’eternità olimpica si mescolavano in modo piuttosto promiscuo. Questa ostilità era tollerabile, se non addirittura vantaggiosa, nella letteratura classica, ma divenne più infausta nell’Europa cristiana. Le distinzioni cattoliche tra immortalità divina e fama umana, saldamente ancorate a una teologia dogmatica, rimasero abbastanza precise fino all’avvento di Dante, che si considerava un profeta e pertanto conferì implicitamente alla Divina Commedia lo status di nuova Scrittura. Dante svuotò pragmaticamente la distinzione tra formazione del Canone secolare e formazione del Canone sacro, distinzione che non è mai ricomparsa del tutto, il che è un’altra causa del nostro osteggiato senso del potere e dell’autorità. I termini «potere» e «autorità» hanno significati pragmaticamente opposti nella sfera della politica e in quella che dovremmo ancora chiamare «letteratura di fantasia». Se ci riesce difficile scorgere il contrasto, forse la colpa è della dimensione intermedia che si autodefinisce «spirituale». È risaputo che il potere spirituale e l’autorità spirituale allungano la loro ombra sulla politica e sulla poesia. Dobbiamo pertanto distinguere il potere e l’autorità estetici del Canone occidentale da qualunque conseguenza

spirituale, politica o persino morale possa esserne scaturita. Sebbene leggere, scrivere e insegnare siano necessariamente atti sociali, persino l’insegnamento ha una componente solitaria, una solitudine che, per usare le parole di Wallace Stevens, solo due possono condividere. Gertrude Stein afferma che scriviamo per noi stessi e per gli sconosciuti, una superba intuizione che vorrei ampliare in un apoftegma parallelo: leggiamo per noi stessi e per gli sconosciuti. Il Canone occidentale non esiste per rafforzare le élite preesistenti sociali. Esiste per essere letto da voi e da altri, cosicché voi e coloro che non conoscerete mai possiate imbattervi nell’autentico potere estetico e nell’autorità di quella che Baudelaire (e Erich Auerbach dopo di lui) definì «dignità estetica». Uno dei marchi ineluttabili della canonicità è la dignità estetica, che non può essere presa a noleggio. L’autorità estetica, come il potere estetico, è il tropo o la figurazione di energie sostanzialmente più solitarie che sociali. Molto tempo fa, Hayden White osservò che il grande difetto di Foucault era una cecità verso le proprie metafore, una debolezza ironica per un individuo dichiarava di essere un discepolo di Nietzsche. Foucault sostituì i suoi tropi a quelli della storia delle idee di Lovejoy e non sempre ricordò che i suoi «archivi» erano ironie, volontarie o involontarie. Lo stesso vale per le «energie sociali» del neostoricista, perennemente incline a dimenticare che l’«energia sociale» non è più quantificabile di quanto lo sia la libido freudiana. Anche l’autorità estetica e il potere creativo sono tropi, ma ciò che sostituiscono (chiamiamolo «il canonico») ha un aspetto più o meno quantificabile; in altre parole, William Shakespeare scrisse trentotto drammi, ventiquattro dei quali sono autentici capolavori, mentre l’energia sociale non ha mai scritto nemmeno una scena. La morte dell’autore è un tropo, e per giunta piuttosto pernicioso; la vita dell’autore è un’entità quantificabile. Tutti i canoni, compresi i controcanoni in voga oggi, sono elitari, e poiché nessun Canone secolare si chiude mai, quella che ora viene acclamata come l’apertura del Canone è, a rigor di termini, un’operazione ridondante. Sebbene i canoni, come tutti gli elenchi e i cataloghi, abbiano la tendenza a essere inclusivi anziché esclusivi, ormai siamo arrivati al punto in cui nemmeno una vita di letture e riletture permette di esaurire il Canone occidentale. Oggi, infatti, è quasi impossibile padroneggiare il Canone occidentale. Ciò significherebbe non solo leggere più di tremila libri – molti dei quali, se non quasi tutti, caratterizzati da autentiche difficoltà cognitive e immaginative – ma anche ricordare che i rapporti tra questi libri vengono

sempre più osteggiati man mano che le nostre prospettive si allungano. Vi sono inoltre le enormi complessità e contraddizioni che costituiscono l’essenza del Canone occidentale, che è tutto fuorché un’unità o una struttura stabile. Nessuno ha l’autorità di dirci che cosa sia il Canone occidentale, certamente non dal 1800 circa fino ai giorni nostri. Esso non è, non può essere, esattamente l’elenco che vi possiamo fornire io o chiunque altro. Se così fosse, quella lista sarebbe un semplice feticcio, una merce fra tante. Non sono tuttavia disposto ad affermare con i marxisti che il Canone occidentale è un altro esempio del cosiddetto «capitale culturale». Non vedo come una nazione contraddittoria come gli Stati Uniti d’America possa essere il contesto di un «capitale culturale», eccezion fatta per quei frammenti di alta cultura che contribuiscono alla cultura di massa. In questo Paese, non abbiamo un’alta cultura ufficiale dal 1800 circa, una generazione dopo la Rivoluzione americana. L’unità culturale è un fenomeno francese e, in certa misura, una questione tedesca, ma non una realtà americana nel XIX o nel XX secolo. Nel nostro contesto e dalla nostra prospettiva, il Canone occidentale è una sorta di elenco dei superstiti. Secondo il poeta Charles Olson, l’elemento centrale dell’America è lo spazio, ma Olson scrisse quella frase come incipit di un libro su Melville, e quindi sul XIX secolo. All’inizio del XXI, il nostro elemento centrale è il tempo, perché la terra della sera si trova ora nel tempo occidentale della sera. Qualcuno sarebbe disposto a definire feticcio l’elenco dei superstiti di una guerra cosmologica che dura da tremila anni? Il problema è la mortalità o l’immortalità delle opere letterarie. Là dove sono diventate canoniche, sono sopravvissute a un’accanita lotta nell’ambito dei rapporti sociali, ma quei rapporti hanno pochissimo a che vedere con la lotta di classe. Il valore estetico emana dalla lotta fra testi: nel lettore, nel linguaggio, nell’aula scolastica, nelle discussioni all’interno di una società. I lettori della classe operaia che determinano la sopravvivenza dei testi sono pochissimi e i critici di sinistra non possono leggere al posto della classe operaia. Il valore estetico scaturisce dalla memoria, e dunque (come osserva Nietzsche) dal dolore, il dolore di rinunciare a piaceri più facili per altri molto più ardui. Gli operai hanno già abbastanza preoccupazioni e cercano sollievo nella religione. La convinzione che, per loro, l’estetica sia solo una preoccupazione in più ci insegna che le opere letterarie efficaci sono angosce compiute, non liberazioni dalle ansie. Anche i canoni sono ansie compiute, non arredi scenici unificati della moralità, sia essa occidentale o orientale. Se

fosse possibile immaginare un Canone universale, multiculturale e polivalente, il suo unico libro essenziale non sarebbe una scrittura – sia essa la Bibbia, il Corano o un testo orientale – bensì Shakespeare, che viene letto e rappresentato ovunque, in ogni lingua e in ogni circostanza. Qualunque siano le convinzioni dei nostri attuali neostoricisti, secondo cui Shakespeare è solo un significante delle energie sociali del Rinascimento inglese, per centinaia di milioni di individui che non sono europei bianchi il drammaturgo è un significante del loro pathos, del loro senso di identificazione con i personaggi cui Shakespeare diede vita tramite il linguaggio. Per loro, la sua universalità non è storica ma fondamentale; Shakespeare mette in scena la loro vita. Nei suoi personaggi, quegli individui osservano e affrontano le loro angosce e le loro fantasie, non le palesi energie sociali dall’antica Londra mercantile. L’arte della memoria, con i suoi antecedenti retorici e le sue magiche fioriture, è in gran parte una questione di luoghi immaginari o di luoghi reali tramutati in immagini visive. Sin da quando ero piccolo, possiedo un’ottima memoria per la letteratura, ma è una memoria puramente verbale, priva di qualsiasi componente visiva. Solo di recente, in età avanzata, ho capito che la mia memoria letteraria si basava sul Canone come sistema mnemonico. Se sono un caso particolare, è solo perché la mia esperienza è una versione più estrema di quella che, a mio avviso, è la principale funzione pragmatica del Canone: il ricordo e l’organizzazione delle letture di una vita. I massimi autori assumono il ruolo di «luoghi» nel teatro mnemonico del Canone e i loro capolavori occupano il posto riempito dalle «immagini» nell’arte della memoria. Shakespeare e l’Amleto, un autore centrale e un dramma universale, ci costringono a ricordare non solo ciò che accade nell’Amleto, ma anche e soprattutto ciò che accade nella letteratura e la rende indimenticabile, prolungando così la vita dell’autore. La morte dell’autore, annunciata da Foucault, Barthes e da molti cloni dopo di loro, è un altro mito anticanonico, simile al grido di battaglia del risentimento che vorrebbe eliminare «tutti i maschi europei bianchi morti», cioè, per citarne solo tredici, Omero, Virgilio, Dante, Chaucer, Shakespeare, Cervantes, Montaigne, Milton, Goethe, Tolstoj, Ibsen, Kafka e Proust. Più vitali di voi, chiunque voi siate, questi autori erano indubbiamente maschi e, suppongo, «bianchi». In confronto a qualsiasi autore vivente, non sono tuttavia morti. Ora, tra noi, vi sono García Marquez, Pynchon, Ashbery e altri che probabilmente diverranno canonici quanto Borges e Beckett tra quelli scomparsi negli ultimi tempi, ma Cervantes e Shakespeare appartengono a un

altro ordine di vitalità. Il Canone è infatti uno strumento di valutazione della vitalità, una misura che cerca di mappare l’incommensurabile. Qui è pertinente l’antica metafora dell’immortalità dello scrittore, che rinnova per noi la forza del Canone. Curtius fa una divagazione sulla «poesia come perpetuazione» in cui cita la fantasticheria di Burckhardt sulla «fama nella letteratura» come equivalenza tra fama e immortalità. Burckhardt e Curtius, tuttavia, vissero e morirono prima dell’era di Warhol, in cui così tante persone sono famose per un quarto d’ora ciascuno. Oggi il quarto d’ora di immortalità viene concesso spontaneamente e può essere considerato come una delle conseguenze più divertenti dell’«apertura del Canone». La difesa del Canone occidentale non è affatto una difesa dell’Occidente o di un’impresa nazionalistica. Se per multiculturalismo intendessimo Cervantes, chi potrebbe dissentire? I maggiori nemici dei criteri estetici e cognitivi sono sedicenti difensori che cianciano dei valori morali e politici della letteratura. Non viviamo secondo l’etica dell’Iliade né secondo la politica di Platone. Coloro che insegnano interpretazione hanno più cose in comune con i sofisti che con Socrate. Che cosa possiamo aspettarci che faccia Shakespeare per la nostra società quasi distrutta, se la funzione del teatro shakespeariano ha così poco a che fare con la virtù civica o la giustizia sociale? Gli attuali neostoricisti, con il loro curioso miscuglio di Marx e Foucault, sono solo un episodio secondario nella storia infinita del platonismo. Platone sperava che, decretando il bando al poeta, avrebbe bandito anche il tiranno. Bandire Shakespeare, o meglio ridurlo ai suoi contesti, non ci libererà dai tiranni. In ogni caso, non possiamo liberarci di Shakespeare o del Canone di cui il drammaturgo costituisce il centro. Anche se preferiamo dimenticarlo, Shakespeare ci ha in gran parte inventati; se aggiungete il resto del Canone, allora Shakespeare e il Canone ci hanno completamente inventati. Emerson, in Uomini rappresentativi, esprime questo concetto con precisione: Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla. È inconcepibilmente saggio, gli altri lo sono concepibilmente. Un buon lettore può, fino a un certo punto, rannicchiarsi nel cervello di Platone e pensare da lì, ma non in quello di Shakespeare. Siamo ancora fuori. In termini di facoltà esecutiva, di creazione, Shakespeare è unico.

Nulla di quanto potremmo dire ora su Shakespeare può anche solo sperare di essere importante quanto l’intuizione di Emerson. Senza Shakespeare, niente Canone, perché, senza Shakespeare, niente io riconoscibile in noi stessi, chiunque siamo. A Shakespeare non dobbiamo solo la nostra rappresentazione della conoscenza, ma anche gran parte della nostra capacità

di conoscenza. La differenza tra Shakespeare e i suoi rivali più vicini è sia di natura sia di grado e questa duplice differenza definisce la realtà e la necessità del Canone. Senza il Canone, smettiamo di pensare. Si può speculare all’infinito sulla possibilità di sostituire i criteri estetici con considerazioni etnocentriche e di genere, e i vostri obiettivi sociali possono essere davvero ammirevoli, ma, come dimostrò sempre Nietzsche, solo il vigore può unirsi al vigore.

PARTE SECONDA L’ETÀ ARISTOCRATICA

2. SHAKESPEARE, IL CENTRO DEL CANONE Nell’Inghilterra elisabettiana, gli autori erano, per legge, simili a mendicanti e ad altri reietti, il che addolorava senza dubbio Shakespeare, che lavorò sodo per tornare a Stratford come gentiluomo. Ad eccezione di questo desiderio, non sappiamo quasi nulla delle concezioni sociali di Shakespeare, a parte ciò che possiamo dedurre dai drammi, dove tutte le informazioni sono ambigue. Essendo un attore e un drammaturgo, Shakespeare dipendeva necessariamente dal mecenatismo e dalla protezione degli aristocratici e la sua politica – se mai ne aveva una sul piano pragmatico – era adeguata al culmine della lunga Età aristocratica (in senso vichiano), che, come ho precisato, va da Dante fino al Rinascimento e all’Illuminismo, concludendosi con Goethe. La politica del giovane Wordsworth e di William Blake è quella della Rivoluzione francese e preannuncia l’età successiva, quella democratica, che raggiunge l’apoteosi in Whitman e nel Canone americano e acquista la sua espressione definitiva con Tolstoj e Ibsen. Alle origini dell’arte di Shakespeare troviamo, come postulato fondamentale, un senso aristocratico della cultura, benché il drammaturgo trascenda quel senso, come trascende ogni altra cosa. Shakespeare e Dante sono il centro del Canone perché superano tutti gli altri scrittori occidentali in termini di acume cognitivo, energia linguistica e capacità inventiva. Forse queste tre doti si fondono in una passione ontologica che coincide con la capacità di gioire o con quello cui Blake accennava nel suo Proverbio dell’inferno: «Esuberanza è bellezza». Le energie sociali esistono in ogni epoca, ma non sono in grado di comporre drammi, poesie e opere narrative. La capacità di creare è un dono individuale, presente in tutte le ere, ma senza dubbio largamente incoraggiato da particolari contesti, slanci nazionali che continuiamo a studiare solo a segmenti, poiché, in genere, l’unità di una grande era è un’illusione. Shakespeare fu un caso fortuito? L’immaginazione letteraria e i metodi per incarnarla sono solo entità capricciose come la produzione di un Mozart? Shakespeare non è uno di quei poeti che non hanno bisogno di subire uno sviluppo, che sembrano pienamente formati fin dall’inizio. Non fa parte, dunque, della ristretta cerchia che comprende Marlowe, Blake, Rimbaud e Crane. Sembra che questi scrittori non si evolvano nemmeno: Tamerlano il Grande – Parte prima, Schizzi poetici, le Illuminazioni e White Buildings sono già insuperabili. Ma lo Shakespeare dei primi drammi storici, delle

commedie farsesche e del Tito Andronico è solo una remota prefigurazione dell’autore di Amleto, Otello, Re Lear e Macbeth. Talvolta, leggendo insieme Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra, non riesco quasi a convincermi che il drammaturgo lirico del primo abbia creato le glorie cosmologiche del secondo. Quando Shakespeare diviene per la prima volta Shakespeare? Quali dei suoi drammi sono canonici fin dall’inizio? Nel 1592, a ventott’anni, il drammaturgo aveva già scritto le tre parti dell’Enrico VI e il loro seguito nel Riccardo III nonché La commedia degli equivoci. Tito Andronico, La bisbetica domata e I due gentiluomini di Verona vengono non più di un anno dopo. Il suo primo successo assoluto è lo stupefacente Pene d’amor perdute, forse scritto nel 1594. Marlowe, che aveva sei mesi più di Shakespeare, venne assassinato in una taverna il 30 maggio 1593, all’età di ventinove anni. Se Shakespeare fosse morto allora, avrebbe sfigurato accanto a Marlowe. L’ebreo di Malta, le due parti del Tamerlano, l’Edoardo II e persino il frammentario La tragica storia del dottor Faust si collocano su un piano di gran lunga superiore a quello raggiunto da Shakespeare prima di Pene d’amor perdute. Cinque anni dopo la morte di Marlowe, Shakespeare aveva superato il suo precursore e rivale con una magnifica serie di opere: Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia e le due parti dell’Enrico IV. Bottom, Shylock e Falstaff aggiungono al Faulconbridge di Re Giovanni e al Mercuzio di Romeo e Giulietta un nuovo tipo di personaggio teatrale, lontano anni luce dalle capacità e dagli interessi di Marlowe. Questi cinque personaggi, nonostante la disapprovazione dei formalisti, escono dai loro drammi per entrare nello spazio di quella che A.D. Nuttall definisce giustamente «una nuova mimesi». Nei tredici o quattordici anni dopo la creazione di Falstaff, assistiamo alla nascita dei suoi degni successori: Rosalinda, Amleto, Otello, Iago, Lear, Edmund, Macbeth, Cleopatra, Antonio, Coriolano, Timone, Imogene, Prospero, Calibano e tanti altri. Nel 1598, Shakespeare viene confermato e Falstaff è l’angelo di quella confermazione. Nessun altro scrittore ha mai posseduto nulla di simile alle risorse linguistiche di Shakespeare; queste ultime, in Pene d’amor perdute, sono così rigogliose da comunicarci l’impressione che, una volta per tutte, siano stati raggiunti molti dei limiti del linguaggio. La massima originalità di Shakespeare risiede tuttavia nella rappresentazione di personaggi: Bottom è un trionfo malinconico; Shylock, un’inquietudine perennemente equivoca per ciascuno di noi; ma Sir John

Falstaff è così originale e travolgente che, per suo tramite, Shakespeare dà un nuovo significato all’idea di creare un uomo con le parole. Falstaff contrae, per Shakespeare, un unico vero debito letterario e non lo fa certo con Marlowe, con il Vizio delle morality plays medievali né con il soldato sbruffone della commedia antica, bensì con il più vero, perché più intimo, precursore di Shakespeare: il Chaucer dei Racconti di Canterbury. Vi è un legame tenue ma vibrante tra Falstaff e l’altrettanto irriverente madonna Alice, la Comare di Bath, assai più degna di saltare la cavallina con Sir John che con Doll Tearsheet o la signora Quickly. La Comare di Bath ha spossato cinque mariti, ma chi potrebbe spossare Falstaff? Gli studiosi hanno notato le curiose mezze allusioni a Chaucer esemplificate da Falstaff: anche Sir John, all’inizio, viene avvistato sulla strada per Canterbury e sia lui sia Alice giocano ironicamente con il versetto della Prima lettera ai Corinzi, in cui san Paolo esorta i seguaci di Cristo ad aggrapparsi alla loro vocazione. La Comare di Bath proclama la sua vocazione al matrimonio: «Nello stato che Dio ci ha assegnato, io voglio perseverare, ché non son puntigliosa». Falstaff la imita nella difesa della sua condizione di bandito: «Ebbene, Hal, è la mia vocazione: e davvero non è peccato, Hal, per un uomo, lavorare secondo la propria vocazione». Questi due magnifici ironisti e vitalisti predicano un’immanenza travolgente, una giustificazione della vita con la vita, qui e ora. Individualisti ed edonisti agguerriti, negano entrambi la morale comune e anticipano il grande Proverbio dell’inferno di Blake: «Una medesima legge per il leone e per il bue è una oppressione». Leoni della passione, e senza dubbio dell’intensità solipsistica, offendono soltanto i virtuosi, come dice Falstaff riferendosi ai ribelli che insorgono contro Enrico IV. Quella che Sir John e Alice ci impartiscono è la lezione dell’intelligenza feroce mitigata dall’arguzia sfrenata. Falstaff, «non sono soltanto arguto per me stesso, ma sono anche la cusa dell’arguzia che si trova negli altri uomini», viene eguagliato dalla Comare, la cui sovversione dell’autorità maschile ha luogo a livello sia verbale sia sessuale. Talbot Donaldson, in The Swan at the Well: Shakespeare Reading Chaucer, coglie il parallelo più sorprendente tra questi soliloquisti e monologhisti inesauribili, una qualità che li accomuna a Don Chisciotte, cioè un’immersione infantile nella dimensione del gioco: «La Comare ci dice che il suo unico intento è giocare, il che, il più delle volte, vale forse anche per Falstaff. Ma, come nel caso della Comare, spesso non sappiamo con esattezza dove inizi o finisca il gioco di Falstaff».

Già, non lo sappiamo, ma Alice e Sir John lo sanno. Falstaff potrebbe dire, con la Comare, «d’aver goduto del mondo al tempo mio», ma Sir John è così completo (persino più completo di Alice) che Shakespeare ha potuto risparmiarsi quella che sarebbe stata una ridondanza. Il crescente segreto chauceriano della rappresentazione, che fa della Comare di Bath la precorritrice di Falstaff, e dell’Indulgenziere un fondamentale precursore di Iago e Edmund, mette in relazione la dimensione del gioco sia con il personaggio sia con il linguaggio. Alice e l’Indulgenziere ci vengono mostrati mentre origliano se stessi e mentre, grazie a questo gesto, cominciano a uscire rispettivamente dalla dimensione del gioco e dell’inganno. Shakespeare fu così perspicace da capire l’antifona e, da Falstaff in avanti, estese in larga misura l’effetto di questo origliare se stessi ai suoi maggiori personaggi, e soprattutto alla loro capacità di cambiare. Individuerei qui la chiave della centralità di Shakespeare nel Canone. Proprio come Dante supera tutti gli altri scrittori, precedenti o successivi, nel sottolineare una suprema immutabilità in ciascuno di noi, una posizione fissa che dobbiamo occupare in eterno, Shakespeare supera tutti gli altri nel mettere in risalto una psicologia della mutevolezza. Questa è solo una parte dello splendore shakespeariano; il drammaturgo non solo surclassa tutti i rivali, ma inaugura anche la rappresentazione dell’autocambiamento tramite la capacità di origliare se stessi, attingendo solo allo spunto chauceriano per creare la più straordinaria di tutte le innovazioni letterarie. Si può ipotizzare che Shakespeare, evidentemente un profondo conoscitore di Chaucer, ricordò la Comare di Bath quando arrivò l’eccezionale momento dell’invenzione di Sir John. Amleto, il più grande origliatore di se stesso di tutta la letteratura, non dialoga con se stesso molto più di quanto faccia Falstaff. Ora tutti noi ce ne andiamo in giro parlando incessantemente con noi stessi, origliando ciò che diciamo, per poi riflettere e agire in base a quanto abbiamo imparato. Questo non è tanto il dialogo della mente con se stessa, o il riflesso di una guerra civile nella psiche, quanto la reazione della vita a ciò in cui la letteratura si è necessariamente trasformata. Da Falstaff in avanti, Shakespeare aggiunge alla funzione della scrittura immaginativa, cioè insegnarci a parlare con gli altri, la lezione – ormai dominante anche se più malinconica – della poesia: insegnarci a parlare con noi stessi. Nel meraviglioso corso delle sue vicissitudini teatrali, Falstaff ha suscitato un coro moraleggiante. Alcuni dei critici e dei pensatori più validi sono stati particolarmente maligni; tra i loro epiteti si annoverano «parassita»,

«vigliacco», «spaccone», «corruttore», «seduttore» e i più obiettivi «ingordo», «ubriacone» e «puttaniere». Il giudizio che preferisco è quello di George Bernard Shaw («un vecchio miserabile sbronzo e disgustoso»), una reazione che attribuisco in gran parte alla consapevolezza segreta di Shaw: non potendo uguagliare Falstaff in arguzia, lo scrittore non poteva preferire la propria mente a quella di Shakespeare con la tranquillità e la sicurezza di cui si vantava così spesso. Come tutti noi, Shaw non poteva affrontare Shakespeare senza una consapevolezza antitetica a se stessa, senza il riconoscimento simultaneo dell’estraneità e della familiarità. Accostandomi a Shakespeare dopo aver scritto dei poeti romantici e moderni e dopo aver meditato sulle questioni dell’influenza e dell’originalità, ho vissuto il turbamento della differenza, la differenza di natura e grado, che è unicamente di Shakespeare. Questa differenza ha poco a che vedere con il teatro in quanto tale. Una rappresentazione mediocre di Shakespeare, affidata a un regista incompetente e recitata da attori incapaci di declamare i versi, si distingue per natura e per grado anche dalle rappresentazioni buone o cattive di Ibsen e Molière. Vi è il turbamento di un’arte verbale più grande e più definitiva di qualsiasi altra, così persuasiva da non sembrare affatto arte, bensì qualcosa che è sempre esistito. È senza dubbio una forma di scrittura: Shakespeare è il Canone. Shakespeare fissa il criterio e i limiti della letteratura. Ma dove sono i suoi limiti? Riusciamo a individuare in lui una cecità, una rimozione, un venir meno dell’immaginazione o del pensiero? In Dante, probabilmente il suo rivale più immediato, non riusciamo a individuare alcun limite poetico, ma possiamo scoprire senza dubbio alcune delimitazioni umane. Altri poeti, precedenti e contemporanei, non inducono il poeta Dante ad accessi di generosità. I poeti affollano la Divina Commedia e ciascuno viene messo al suo posto, proprio dove Dante vuole che sia. Strana è l’assenza di Guido Cavalcanti, il miglior amico di Dante in gioventù, ma bandito da Firenze dallo stesso Alighieri in un ironico preludio al suo esilio. Il padre e il suocero di Cavalcanti, il formidabile Farinata degli Uberti, compaiono con vividezza nell’Inferno, dove il padre esprime il proprio rammarico all’idea che sia Dante, e non suo figlio Guido, ad avere l’onore di essere il Pellegrino dell’eternità. Nell’undicesimo canto del Purgatorio, Dante allude al fatto di aver assunto il posto di Guido come «gloria de la lingua». Il Guido Cavalcanti di Shakespeare ricorda una fusione tra Christopher Marlowe e Ben Jonson. Nella sua commedia terrena, il drammaturgo non poteva ritrarli

direttamente, ma, non essendo uno studioso di Shakespeare, non esito a ipotizzare che il Malvolio della Dodicesima notte sia una satira di alcune posizioni morali jonsoniane e che l’Edmund del Re Lear sia una visione nichilistica fondata su aspetti, non solo degli eroi marlowiani, ma anche dello stesso Marlowe. Nessuna delle due figure è priva di fascino. Nella Dodicesima notte, Malvolio è una vittima comica, ma abbiamo la sensazione che sia finito nel dramma sbagliato. Altrove, potrebbe prosperare e conservare la dignità e l’autostima. Edmund è al posto giusto, surclassando Iago nell’abisso del cosmo fatiscente di Lear. Per amarlo, bisogna essere Goneril o Regan, ma ciascuno di noi può trovarlo pericolosamente affascinante, libero dall’ipocrisia e intento ad affermare la propria e la nostra responsabilità per qualunque cosa diventeremo. Edmund possiede grinta, una grande arguzia, un’intelligenza superiore e una gioia gelida, che sposta il suo entusiasmo tra le file della morte. Non prova inoltre alcun affetto caloroso e forse è il primo personaggio letterario a incarnare le qualità di nichilisti dostoevskiani come lo Svidrigailov di Delitto e castigo e lo Stavrogin dei Demoni. Rappresentando un enorme progresso rispetto al Barabba dell’Ebreo di Malta, Edmund porta il Machiavel marlowiano a nuova sublimità ed è al tempo stesso un ironico tributo al grande Marlowe e un suo trionfale superamento. Come Malvolio, Edmund è un tributo ambiguo, ma, in fondo, anche una testimonianza – per quanto ironica – della generosità shakespeariana. Non sappiamo quasi nulla di concreto sulla vita interiore di Shakespeare, ma se dedicate molti anni alla sua lettura incessante, comincerete a capire ciò che non è. Calderón de la Barca è un drammaturgo religioso e George Herbert, un poeta devozionale; Shakespeare non è né l’uno né l’altro. Marlowe il nichilista manifesta un’antitetica sensibilità religiosa e La tragica storia del dottor Faust può essere letta in contrapposizione a se stessa. Le più cupe tragedie di Shakespeare, Re Lear e Macbeth, non cedono alla cristianizzazione, così come i grandi drammi equivoci, Amleto e Misura per misura. Secondo Northrop Frye, Il mercante di Venezia va interpretato come un’esemplificazione seria della seguente tesi cristiana: la misericordia del Nuovo Testamento contro la presunta insistenza del Vecchio Testamento sulla necessità di avere un vincolo e una vendetta. Shylock, l’ebreo del Mercante di Venezia, viene concepito come un antieroe comico, perché evidentemente Shakespeare condivideva l’antisemitismo dell’epoca; in quel dramma non trovo tuttavia traccia dell’allegoria teologica di Frye. È Antonio,

la cui vera natura cristiana si palesa attraverso gli sputi e le imprecazioni contro Shylock, a proporre che la sopravvivenza dell’ebreo dipenda dalla sua immediata conversione al cristianesimo, una conversione obbligata cui, per quanto possa sembrare inverosimile, Shylock acconsente. La proposta di Antonio è un’invenzione di Shakespeare e non rientra nella tradizione della «libbra di carne». Comunque si interpreti questo episodio, io stesso esito a definirlo una tesi cristiana. Anche nei suoi momenti di moralità più dubbia, Shakespeare smentisce subito la nostra aspettativa e tuttavia non rinuncia alla sua universalità, che evidentemente ha i suoi risvolti pericolosi. Un’amica che è nata in Bulgaria e insegna all’Università ebraica di Gerusalemme mi ha raccontato di una rappresentazione della Tempesta nella versione bulgara di Petrov, cui aveva assistito di recente a Sofia. Era stata recitata come una farsa – una scelta efficace, a suo giudizio – ma aveva lasciato il pubblico insoddisfatto, perché, ha detto, i bulgari identificano Shakespeare con il classico o il canonico. Amici e studenti mi hanno descritto Shakespeare come lo avevano visto in russo, italiano, spagnolo, giapponese e indonesiano e, a detta di quasi tutti, gli spettatori erano stati unanimi nel ritenere che Shakespeare rappresentasse loro sul palcoscenico. Dante è stato il poeta dei poeti, come Shakespeare è stato il poeta della gente; ciascuno dei due è universale, anche se Dante non è per gli individui incolti. Non conosco alcuna critica culturale e alcuna dialettica materialistica capace di spiegare l’universalismo senza classi di Shakespeare e quello elitario di Dante. Nessuno dei due è esattamente una casualità o il prodotto di un eurocentrismo sovradeterminato. Evidentemente esiste davvero il fenomeno di una superba eccellenza letteraria, di una capacità di metafora, pensiero e caratterizzazione così grande da sopravvivere trionfalmente a traduzioni e trasposizioni e da catturare l’attenzione in quasi tutte le culture. Dante era un poeta autocosciente quanto Milton; ciascuno dei due cercò di gettarsi alle spalle una struttura profetica che il futuro non sarebbe stato disposto a lasciar morire. Shakespeare ci sconcerta con la sua apparente indifferenza al destino postumo del Re Lear; disponiamo di due versioni molto differenti del dramma e infilarle insieme nell’amalgama che generalmente leggiamo e vediamo in teatro non è molto soddisfacente. Le uniche opere di cui Shakespeare abbia mai corretto le bozze e che abbia seguito da vicino furono Venere e Adone e Il ratto di Lucrezia, nessuna delle quali è degna del poeta dei Sonetti, per non parlare poi di Re Lear, Amleto, Otello e Macbeth. Come può essere esistito uno scrittore per cui la forma

definitiva del Re Lear era una faccenda da trattare con noncuranza o disinteresse? Shakespeare è simile all’arabo nella stanza di Wallace Stevens, che «sparge stelle in terra», sebbene la profusione dei suoi talenti fosse così ricca da permettergli di essere noncurante. L’esuberanza o la verve shakespeariana rientra in ciò che abbatte le barriere linguistiche e culturali. Non si può relegare Shakespeare al Rinascimento inglese più di quanto si possa tenere Falstaff entro i limiti dell’Enrico IV o il principe di Danimarca nell’azione del suo dramma. Shakespeare è, per la letteratura mondiale, ciò che Amleto è per la sfera immaginaria del personaggio letterario: uno spirito che si insinua ovunque, che è impossibile da imprigionare. La libertà dalla dottrina e dalla moralità semplicistica è senza dubbio uno degli elementi che caratterizzano la facilità di spostamento di quello spirito, sebbene quella libertà innervosisse il dottor Johnson e indignasse Tolstoj. Shakespeare possiede la vastità della natura stessa e grazie a quella vastità avverte l’indifferenza della natura. In quella vastità, nulla di fondamentale è legato alla cultura o limitato al genere. Se leggete e rileggete Shakespeare senza posa, forse non arriverete a conoscerne il carattere o la personalità, ma imparerete senza dubbio a riconoscerne il temperamento, la sensibilità e la conoscenza. La Scuola del risentimento è costretta dai propri dogmi a considerare la supremazia estetica, soprattutto nel caso di Shakespeare, come una prolungata cospirazione culturale volta a proteggere gli interessi politici ed economici della Gran Bretagna mercantile dal XVIII secolo ai giorni nostri. Nell’America contemporanea, la polemica si sposta su uno Shakespeare utilizzato come centro di potere eurocentrico per contrastare le legittime aspirazioni culturali di varie minoranze, tra cui le femministe accademiche, che ormai sono tutt’altro che una minoranza. Si capisce perché Foucault goda di tanto favore tra gli apostoli del Risentimento: sostituisce il Canone con la metafora della biblioteca, che cancella le gerarchie. Ma se non esiste alcun Canone, John Webster, che scrisse sempre all’ombra di Shakespeare, potrebbe tranquillamente essere letto al posto di Shakespeare, sostituzione che avrebbe sbalordito lo stesso Webster. Non esiste sostituto di Shakespeare, neppure nel gruppetto di drammaturghi, antichi o moderni, che possono essere letti e recitati con lui o contro di lui. Che cosa uguaglia le quattro grandi tragedie shakespeariane? Nemmeno Dante, come confessato da James Joyce, ha la ricchezza di Shakespeare, il che significa che la lettura del personaggio risulta infinita in

Shakespeare, ma indica anche che i trentotto drammi e i Sonetti formano una Terrena commedia discontinua assai più completa di quella di Dante e piacevolmente libera dall’allegoria dantesca dei teologi. La molteplicità di Shakespeare supera di gran lunga quella di Dante e Chaucer. Il creatore di Amleto e Falstaff, di Rosalinda e Cleopatra, di Iago e Lear, si distingue per grado e natura. Se riusciremo a definire questa differenza, saremo più vicini a capire perché Shakespeare abbia costituito necessariamente il nuovo centro del Canone occidentale e perché continuerà a costituirlo nonostante i peggioramenti dovuti alle considerazioni politiche. Il primo componimento pubblicato da Milton, scritto quando il poeta aveva poco più di vent’anni, venne stampato anonimo come uno dei tributi introduttivi al secondo in-folio di Shakespeare (1632). Il drammaturgo era morto da sedici anni, e pur non essendo assolutamente caduto nell’oblio, non aveva ancora subito il processo di canonizzazione che sarebbe continuato per tutto il XVIII secolo, da Dryden a Pope e al dottor Johnson, giù giù fino alle fasi iniziali del Romanticismo, un movimento che deificò Shakespeare. Il giovane Milton parla del suo predecessore con una certa possessività, chiamandolo «il mio Shakespeare», identificandolo con una Musa maschile («caro figlio di Memoria») e insinua con delicatezza che Shakespeare, «grande erede della fama», sarà, in un certo senso, parte della sua eredità. Milton sarà tra coloro che diranno: Hath from the heavens of thy unvalued book, These Delphic lines with deep impression took, Then thou our fancy of itself bereaving, Dost make us marble with too much conceiving. [Del tuo libro preziosissimo dal cielo, Questi delfici versi son pregnanti, Colpendoci sì da star senza inventiva, Fatti marmo dal tuo troppo immaginare.]

Nel 1632, «unvalued book» significava «invaluable book» (libro inestimabile), ma ciò non basta a eliminare l’ambiguità o l’ambivalenza di questi versi. Milton e gli altri sagaci lettori sono divenuti un monumento a Shakespeare. Trasformati in marmo e privati della fantasia, avevano ceduto alla forza del «conceiving» (concepire, immaginare) shakespeariano. Ma, con astuzia miltoniana, Shakespeare ha fatto la stessa cosa. Milton anticipa Borges presentandoci uno Shakespeare che, divenendo tutti, non è più nessuno, anonimo come la natura. Se i tuoi lettori e il tuo pubblico, e i tuoi personaggi e i tuoi attori, diventano la tua opera, il tuo libro, vivi soltanto in essi. Artista della natura, Shakespeare diviene un lascito anonimo concesso a

Milton, una risorsa così sua da rendere ridondante la citazione. Shakespeare è il vigore di Milton, che, a sua volta, quest’ultimo lascia generosamente in eredità a Shakespeare, suo predecessore ma, in qualche modo, anche suo successore. Qui, nel suo esordio pubblico, Milton annuncia già il suo destino canonico come l’ennesimo monumento senza tomba, destinato a vivere nei suoi lettori. Shakespeare, tuttavia, aveva avuto un vastissimo pubblico, idoneo e inidoneo, mentre Milton afferma con ansia che il suo pubblico, almeno al confronto, sarà idoneo ma modesto. Intercanonica, la poesia dedicata a Shakespeare è, sul piano pragmatico, anche autocanonizzante. Il «canonico» è sempre anche «intercanonico», poiché il Canone non deriva solo da una competizione, ma è anche una competizione in corso. L’energia letteraria scaturisce dalle vittorie parziali all’interno di quella competizione e anche nel caso di un poeta poderoso come Milton è evidente che il vigore è agonistico e pertanto non può essere interamente suo. A mio giudizio, i casi limite di quella che sembra un’autonomia più piena sono Dante e, ancora di più, Shakespeare. Dante è, in un certo senso, un Milton più forte e il suo superamento di tutti i rivali, antichi e contemporanei, è ancora più convincente del trionfo di Milton, non fosse altro perché Shakespeare continua a indugiare in Milton. Dante determina il modo con cui leggiamo Virgilio e Shakespeare può modificare profondamente il nostro approccio a Milton. Virgilio, tuttavia, ha scarsa influenza sulla nostra comprensione di Dante, perché l’effettivo Virgilio epicureo è stato abrogato da Dante. Milton non può aiutarci con l’analisi di Shakespeare, perché la sua riduzione del drammaturgo all’anonimato non fa che riprodurre e distorcere la tattica shakespeariana della perdita dell’io nell’opera. Questa procedura shakespeariana, più efficace di ogni esplicita autocanonizzazione precedente o successiva, ci riporta alla neutralità di Shakespeare come centro canonico. Esiste una solida tradizione biografica secondo cui l’uomo William Shakespeare non era affatto eccentrico, a differenza di personalità formidabili come Dante, Milton e Tolstoj. I suoi amici e conoscenti lasciarono testimonianze di una persona amabile, apparentemente abbastanza comune: aperta, socievole, spiritosa, gentile, spontanea, insomma qualcuno con cui bere tranquillamente un drink. Tutti concordano nell’affermare che era bonario e per nulla presuntuoso, anche se un po’ brusco negli affari. In vero stile borgesiano, è come se il creatore di decine di splendidi personaggi e centinaia di vivide figure minori non abbia investito alcuna energia immaginativa nell’inventare un personaggio per se

stesso. Al centro del Canone vi è il meno autocosciente e il meno aggressivo fra tutti i grandi scrittori che abbiamo conosciuto. Esiste un rapporto inversamente proporzionale, un po’ al di là delle nostre capacità analitiche, tra la natura quasi incolore di Shakespeare e le sue soprannaturali doti teatrali. All’epoca, i suoi due quasi rivali erano uomini di acume straordinario: il violento e atticciato Ben Jonson e Christopher Marlowe, doppiogiochista e superatore di limiti faustiano. Erano entrambi grandi poeti e oggi sono quasi famosi tanto per la loro vita quanto per le loro opere. Shakespeare ha affinità personali con il sottomesso Cervantes, che tuttavia condusse involontariamente un’esistenza di comportamenti bizzarri e sventure catastrofiche. Vi sono poi alcuni tratti caratteriali che accomunano Shakespeare a Montaigne, ma la vita di isolamento creativo abbracciata dall’autore francese fu segnata dall’alta politica e dalla guerra civile. Molière è forse il sosia di Shakespeare per temperamento e genio comico, ma, sul piano professionale, il secondo era un attore mediocre mentre il primo era un grande attore e, nonostante il Don Giovanni, Molière evitò la tragedia proprio come Racine rifuggì dalla commedia. Nonostante la sua innegabile socievolezza, Shakespeare soffre dunque di una peculiare solitudine tra i massimi scrittori. Percepiva più di chiunque altro, pensava in maniera più profonda e originale di chiunque altro e aveva una padronanza quasi naturale del linguaggio, un ambito in cui superava tutti, persino Dante. Una parte del segreto della centralità canonica di Shakespeare è il suo disinteresse; nonostante tutte le sferzate dei neostoricisti e di altri fautori del risentimento, il drammaturgo è libero dalle ideologie quasi quanto i suoi eroici e arguti personaggi: Amleto, Rosalinda, Falstaff. Non ha alcuna teologia, alcuna metafisica, alcuna etica e molta meno teoria politica di quanta gliene attribuiscano i critici attuali. I Sonetti dimostrano che, a differenza di Falstaff, non era per nulla privo di super-io; che, a differenza dell’Amleto delle ultime scene, non era per nulla trascendente; e che, a differenza di Rosalinda, non era per nulla in grado di controllare sempre ogni aspetto della sua vita. Ma, poiché inventò tutti questi personaggi, possiamo concludere che si sia rifiutato di spingersi al di là dei suoi limiti. Per fortuna, non è Nietzsche o Re Lear e si rifiutò di impazzire sebbene avesse l’immaginazione della follia, come di qualsiasi altra cosa. La sua saggezza si trasferisce senza sosta in tutti i nostri saggi, da Goethe a Freud, anche se Shakespeare si rifiutò di presentarsi come saggio. Secondo una frase memorabile di Nietzsche, troviamo le parole solo per

ciò che è già morto nei nostri cuori, cosicché vi è sempre una sorta di disprezzo nell’atto del parlare. Quell’aforista antitetico deve essersi reso conto di aver parafrasato sia Amleto sia il re attore, proprio come Emerson doveva sapere di aver imitato Lear quando aveva formulato la legge della compensazione, secondo cui «niente si ottiene per niente». Anche Kierkegaard scoprì che era impossibile non essere postshakespeariani, ossessionato com’era dal suo inimitabile precursore nei panni del malinconico danese il cui rapporto con Ofelia presagiva il suo con Regina. «Fa scempio delle nostre originalità» fu il commento di Emerson su Platone, ma lo stesso Emerson avrebbe ammesso che Shakespeare gli aveva insegnato per primo a gridare allo scempio quando si trattava di originalità. Il più illustre detrattore di Shakespeare fu il conte Lev Nikolaeviˇc Tolstoj, uno degli antenati non riconosciuti della Scuola del risentimento. Eccolo in Shakespeare e il dramma (1906), caustico postludio al famigerato Che cos’è l’arte? (1898): Il soggetto delle opere teatrali di Shakespeare, quale risulta dalle affermazioni dei suoi massimi ammiratori, è un’infima, volgarissima concezione dell’esistenza che considera la grandezza esteriore dei signori del mondo un genuino merito, che disprezza le folle, vale a dire la classe lavoratrice, che ripudia non soltanto ogni religione, ma anche ogni sforzo umanitario volto al miglioramento dell’ordine esistente. La fondamentale causa interna della fama di Shakespeare era ed è che i suoi drammi […] corrispondevano al modo di pensare irreligioso e immorale delle classi superiori della sua epoca e della nostra. […] Quando si saranno liberati da questo stato di ipnosi, gli uomini capiranno che le opere triviali e immorali di Shakespeare e dei suoi imitatori, volte meramente alla ricreazione e al divertimento degli spettatori, non possono certo rappresentare l’insegnamento della vita e che, siccome in esse non c’è vero dramma religioso, l’insegnamento della vita andrebbe attinto da altre fonti.

Il saggio di Tolstoj è volto in gran parte a ridicolizzare il Re Lear, il che è una triste ironia, poiché Tolstoj, giunto all’ultima stazione della sua via crucis, si era trasformato senza volerlo in Re Lear. Un rappresentante raffinato della Scuola del risentimento non proporrebbe Bertolt Brecht come vero teatro marxista né Paul Claudel come vero teatro cristiano con l’intenzione di preferirli a Shakespeare. La protesta di Tolstoj ha tuttavia la causticità della sua sincera indignazione morale e tutta l’autorità del suo splendore estetico. È chiaro che il saggio di Tolstoj (come il suo Che cosa è l’arte?) è un vero disastro, e ci spinge a chiederci seriamente come uno scrittore così grande abbia potuto commettere un simile errore. Tra gli adoratori di Shakespeare, Tolstoj indica in tono di disapprovazione un eminente gruppo che comprende Goethe, Shelley, Victor Hugo e Turgenev. Avrebbe potuto

aggiungere Hegel, Stendhal, Pusˇkin, Manzoni, Heine e decine di altri autori, anzi quasi tutti i principali autori capaci di leggere, con qualche spiacevole eccezione come Voltaire. L’aspetto meno interessante della ribellione di Tolstoj all’estetico è l’invidia creativa. Si avverte un particolare accanimento quando lo scrittore russo si rifiuta di mettere Shakespeare sullo stesso piano di Omero, paragone che riservò al suo Guerra e pace. Assai più interessante è la repulsione spirituale di Tolstoj per il Re Lear, una tragedia immorale e irreligiosa. Preferisco questa repulsione a qualsiasi tentativo di cristianizzare il teatro volutamente precristiano di Shakespeare e Tolstoj ha perfettamente ragione quando osserva che Shakespeare non è, come drammaturgo, né cristiano né moralista. Rammento di essermi trovato davanti al dipinto di Tiziano raffigurante lo scorticamento di Marsia da parte di Apollo quando è stato esposto a Washington. Inorridito e turbato, sono riuscito solo ad assentire in segno di approvazione davanti al commento del mio accompagnatore, il pittore americano Larry Day, secondo cui il quadro aveva qualcosa della forza e dell’effetto dell’ultimo atto di Re Lear. L’opera di Tiziano era conservata a San Pietroburgo, dove Tolstoj aveva avuto modo di vederla; non mi sovviene alcun suo commento specifico, ma probabilmente avrà concepito anch’egli l’immagine tizianesca di quell’orrore, la fine annunciata. Che cosa è l’arte? rifiuta non solo Shakespeare, ma anche Dante, Beethoven e Raffaello. Se si è Tolstoj, forse si può fare a meno di Shakespeare, ma siamo in debito con lo scrittore russo, che ha il merito di aver individuato le vere fondamenta della forza e dell’irriverenza di Shakespeare: la libertà dalle sovradeterminazioni morali e religiose. Evidentemente Tolstoj non intendeva tutto ciò in senso banale, poiché neanche la tragedia greca, Milton e Bach avevano superato la prova tolstojana della semplicità popolare, superata invece da alcune opere di Victor Hugo e Dickens, da Harriet Beecher Stowe e da alcuni testi minori di Dostoevskij nonché da Adam Bede di George Eliot. Quelli erano esempi di arte cristiana e morale, sebbene anche la «buona arte universale» fosse accettabile in un curioso raggruppamento secondario che comprendeva Cervantes e Molière. Tolstoj pretende «la verità» e, dalla sua prospettiva, il problema di Shakespeare era la mancanza di interesse per la verità. Queste osservazioni sollevano senza dubbio un’altra questione: fino a che punto è pertinente la critica di Tolstoj? Il centro del Canone occidentale è forse una pragmatica esaltazione della menzogna? George Bernard Shaw era grande ammiratore di Che cosa è l’arte? e probabilmente preferiva Il viaggio

del pellegrino di Bunyan a Shakespeare, più o meno come Tolstoj collocava La capanna dello zio Tom al di sopra del Re Lear. Questo tipo di pensiero, tuttavia, ci è oggi tristemente familiare; una delle mie colleghe più giovani mi ha rivelato di preferire Meridian di Alice Walker all’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, perché quest’ultimo mentiva mentre Walker incarnava la verità. Con la correttezza politica che sostituisce la rettitudine religiosa, torniamo alla polemica di Tolstoj contro l’arte difficile. Tuttavia, anche se Tolstoj si rifiutava di capirlo, Shakespeare è quasi unico nella capacità di dare vita a un’arte insieme difficile e popolare. A mio avviso, era quello l’elemento che racchiudeva la vera irriverenza di Shakespeare e la massima spiegazione del perché e del come Shakespeare sia al centro del Canone. Ancora oggi, Shakespeare è così multiculturale da attirare quasi ogni genere di pubblico, a prescindere dal ceto sociale. Ad aprirgli la strada verso il centro canonico fu una modalità di rappresentazione che, direi, era universalmente disponibile, eccezion fatta per alcuni detrattori francesi. Quel modo di rappresentare gli uomini e le donne era o è vero? La capanna dello zio Tom è più sincera della Divina Commedia, qualunque cosa significhi questa affermazione? Forse Meridian di Alice Walker è più sincero dell’Arcobaleno della gravità. Il Tolstoj maturo è senza dubbio più sincero di Shakespeare o di chiunque altro. La sincerità non ha una strada privilegiata verso la verità e la letteratura di fantasia si colloca da qualche parte tra la verità e il significato, un luogo che una volta ho paragonato al kenóma degli antichi gnostici, il vuoto cosmologico in cui, per usare le parole di William Blake, vaghiamo e piangiamo. Shakespeare fornisce una rappresentazione del kenóma più persuasiva di quella fornita da chiunque altro, in particolare quando narra l’antefatto di Re Lear e di Macbeth. Là, ancora una volta, il drammaturgo si pone al centro del Canone, perché dobbiamo sforzarci molto per individuare una rappresentazione che non sia più convincente in Shakespeare che in qualsiasi altro autore, sia egli Omero, Dante o Tolstoj. Sul piano retorico, Shakespeare non ha eguali; non esiste una gamma di metafore più stupefacente. Se cercate una verità che sfidi la retorica, forse dovreste studiare l’economia politica o l’analisi dei sistemi e lasciare Shakespeare agli esteti e agli incolti, che furono i primi a unirsi per esaltarlo. Continuo a tornare al mistero del genio di Shakespeare, consapevole che l’espressione «il genio di Shakespeare» induce la Scuola del risentimento a pensare che mi sbagli. Il problema della morte dell’autore proposta da

Foucault è tuttavia il fatto di alterare i termini retorici senza creare un nuovo metodo. Se furono le «energie sociali» a scrivere il Re Lear e l’Amleto, perché le energie sociali furono più produttive nel figlio dell’artigiano di Stratford che nell’atticciato muratore Ben Jonson? Il critico neostoricista o femminista esasperato ha una curiosa affinità con le esasperazioni che continuano a trovare nuovi consensi a favore dell’idea secondo cui il vero autore del Re Lear fu Sir Francis Bacon o il conte di Oxford. Sigmund Freud, il maestro di tutti coloro che sanno, ribadì fino alla morte che Mosè era egiziano e che era stato Oxford a scrivere Shakespeare. Looney, il fondatore degli oxfordiani – il cui nome, che ricorda l’inglese loony («matto») non potrebbe essere più azzeccato – trovò un discepolo nell’autore dell’Interpretazione dei sogni e dei Tre saggi sulla teoria sessuale. Non potremmo essere più amareggiati se Freud fosse entrato a far parte della Flat Earth Society, sebbene vi siano abissi sotto gli abissi, e se non altro possiamo dirci grati che Freud abbia scritto solo qualche frase sull’ipotesi di Looney. In qualche modo, per Freud fu di grande conforto credere che il suo precursore Shakespeare non fosse una comune personalità di Stratford, bensì un aristocratico enigmatico e potente. In gioco vi era qualcosa in più del semplice snobismo. Per Freud, come per Goethe, le opere di Shakespeare erano il centro secolare della cultura, la speranza di una gloria razionale nell’umanità ancora a venire. Per Freud, vi era addirittura di più. A un certo livello, sapeva che Shakespeare aveva inventato la psicoanalisi inventando la psiche, nella misura in cui Freud era in grado di riconoscerla e descriverla. Non può essere stata una constatazione piacevole, poiché sovvertì la sua dichiarazione: «Ho inventato la psicoanalisi perché non aveva alcuna letteratura». La vendetta arrivò con la presunta dimostrazione secondo cui Shakespeare era un impostore, dimostrazione che soddisfece il risentimento freudiano anche se, sotto il profilo razionale, non bastò a sminuire i drammi shakespeariani. Il drammaturgo aveva fatto scempio delle originalità dì Freud; ora Shakespeare era stato smascherato e si era coperto di vergogna. Possiamo essere grati del fatto di non avere Oxford e lo shakespearianesimo di Freud da mettere nelle nostre librerie accanto all’Uomo Mosè e la religione monoteistica e ai vari classici dello Shakespeare neostoricista, marxista e femminista. Il Freud francese era abbastanza sciocco; e ora abbiamo il Joyce francese, il che è difficile da accettare. Non vi è tuttavia un ossimoro più contraddittorio dello Shakespeare francese, come dovrebbe essere chiamato il neostoricismo.

Il vero stratfordiano scrisse trentotto drammi in ventiquattro anni, quindi tornò a casa a morire. All’età di quarantanove anni compose il suo ultimo dramma, Due nobili congiunti, dividendo il lavoro con John Fletcher. Morì tre anni dopo, poco prima del suo cinquantaduesimo compleanno. Dopo una vita monotona, il creatore di Lear e di Amleto non morì di una morte molto avventurosa. Non esistono grandi biografie di Shakespeare, non perché non sappiamo abbastanza, ma perché non c’è abbastanza da sapere. Nella nostra epoca, tra gli scrittori di prim’ordine, solo la vita di Wallace Stevens sembra sbiadita quanto quella di Shakespeare in termini di eventi o emozioni esteriori. Sappiamo che Stevens odiava l’imposta progressiva sul reddito e che Shakespeare non ci pensava due volte prima di intentare cause presso la corte di giustizia per proteggere i suoi investimenti immobiliari. Sappiamo, più o meno, che, una volta superata la fase iniziale, nessuno dei loro due matrimoni fu particolarmente appassionato. Dopo di che, cerchiamo di conoscere i drammi, o di conoscere le elaborate variazioni di Stevens sulle estasi meditative della comprensione. Per l’immaginazione, è molto appagante essere costretta a rifarsi alla produzione quando sembra non esserci alcun turbine autoriale. Nel caso di Christopher Marlowe, rifletto sull’uomo, che, a differenza dei suoi drammi, può essere oggetto di infinite meditazioni; nel caso di Rimbaud, medito sull’uomo e sulle sue opere, sebbene il poeta sia ancora più enigmatico della sua poesia. L’uomo Stevens evitò se stesso con tanta accuratezza che non avvertiamo quasi l’esigenza di cercarlo; l’uomo Shakespeare non può essere definito evasivo o qualsiasi altra cosa. Nei drammi non ha alcun portavoce incontestabile: non Amleto, non Prospero, certamente non il fantasma del padre di Amleto, di cui pare abbia recitato la parte. Neppure i suoi studiosi più attenti tracciano con sicurezza i confini tra il convenzionale e il personale nei sonetti. Cercando di comprendere l’uomo o la produzione, torniamo sempre all’indiscutibile preminenza centrale dei drammi maggiori, quasi dall’epoca in cui vennero messi in scena per la prima volta. Un modo per affrontare la preminenza della superiorità di Shakespeare è negarla. Da Dryden a oggi, è singolare che siano in pochi ad aver imboccato questa strada. La novità o lo scandalo voluto del neostoricismo attuale afferma di risiedere altrove, ma, in realtà, dimora in questa negazione, generalmente implicita ma a volte esplicita. Se le energie sociali (supponendo che queste ultime siano più di una metafora storicizzante, cosa di cui dubito) del Rinascimento inglese scrissero in qualche modo il Re Lear, si può mettere

in discussione la singolarità di Shakespeare. Forse, tra una generazione o giù di lì, l’«energia sociale» come autrice del Re Lear sembrerà illuminante quasi quanto l’ipotesi che a scrivere la tragedia siano stati il conte di Oxford o Sir Francis Bacon. L’impulso soggiacente è più o meno lo stesso. Ridurre Shakespeare al suo contesto, qualunque esso sia, è semplice quanto ridurre Dante alla Firenze e all’Italia dei suoi giorni. Nessuno, qui o in Italia, si alzerà per dichiarare che Cavalcanti era il corrispondente estetico di Dante, e sarebbe altrettanto vano proporre persino Ben Jonson o Christopher Marlowe come autentici rivali di Shakespeare. Jonson e Marlowe, in modi assai diversi, furono grandi poeti e talvolta drammaturghi straordinari, ma il lettore o l’attore entra in un’altra dimensione artistica quando incontra il Re Lear. Qual è la differenza shakespeariana che impone, come compagni estetici, solo Dante, Cervantes, Tolstoj e pochi altri? Formulare questa domanda significa intraprendere la ricerca che costituisce lo scopo ultimo dello studio letterario, la ricerca di un valore che trascenda i pregiudizi e le esigenze particolari delle società in precisi momenti temporali. Secondo tutte le ideologie attuali, una simile ricerca è illusoria; ma lo scopo di questo libro è, in parte, combattere contro le politiche culturali, siano esse di destra o di sinistra, che distruggono la critica e che, di conseguenza, potrebbero distruggere la letteratura. Nella produzione di Shakespeare vi è una sostanza che prevale e che si è rivelata multiculturale, compresa in tutte le lingue in maniera così universale da istituire un multiculturalismo pragmatico in tutto il mondo, un multiculturalismo che supera già di gran lunga i nostri maldestri tentativi politicizzati di raggiungere un simile ideale. Shakespeare è il centro dell’embrione di un Canone mondiale, non occidentale né orientale e sempre meno eurocentrico; torno così, ancora una volta, al grande interrogativo: qual è la singolare eccellenza di Shakespeare, la differenza di natura e grado che lo distingue da tutti gli altri scrittori? La padronanza linguistica di Shakespeare, per quanto travolgente, non è unica ed è suscettibile di imitazione. La poesia scritta in inglese diviene shakespeariana abbastanza spesso da testimoniare la capacità di contaminazione dell’alta retorica di Shakespeare. La peculiare magnificenza del drammaturgo consiste nella sua capacità di rappresentare la personalità e il carattere umani e le loro mutevolezze. L’elogio canonico di quella magnificenza venne inaugurato dalla Prefazione a Shakespeare scritta da Samuel Johnson nel 1765 ed è insieme rivelatrice e fuorviante: «Shakespeare è – sopra tutti gli scrittori, o almeno sopra tutti gli scrittori moderni – il poeta

della natura, il poeta che mostra ai suoi lettori un fedele specchio degli atteggiamenti e della vita». Johnson, in un tributo a Shakespeare, riprende l’elogio agli attori fatto da Amleto. Alle sue parole possiamo contrapporre Oscar Wilde: «Il deprecabile aforisma dell’Arte che regge lo specchio alla Natura è intenzionalmente pronunciato da Amleto per convincere gli spettatori della propria assoluta follia in tutte le questioni artistiche». In realtà, Amleto sosteneva che gli attori reggevano uno specchio alla Natura, ma Johnson e Wilde assimilavano gli attori al poeta-drammaturgo. La «natura» di Wilde era un elemento di disturbo che tentava invano di sovvertire l’arte, mentre Johnson considerava la «natura» un principio di realtà capace di annegare il particolare nel generale, nella «progenie della comune umanità». Shakespeare, più saggio di entrambi questi critici saggi, vedeva la «natura» da prospettive contrastanti, quelle di Lear e Edmund nella più sublime delle tragedie, quelle di Amleto e Claudio in un’altra tragedia, quelle di Otello e Iago in un’altra ancora. Non si può reggere uno specchio a nessuna di queste nature né convincersi che la propria concezione della realtà sia più completa di quella della tragedia shakespeariana. Non esistono opere letterarie capaci di superare quelle di Shakespeare nel rammentarci che nulla può essere come un dramma se non un altro dramma, sottolineando al tempo stesso che un’idea tragica non è simile solo a un’altra idea tragica (benché possa esserlo), ma anche a una persona, o al cambiamento di una persona, o alla forma definitiva del cambiamento personale, cioè la morte. Il significato di una parola è sempre un’altra parola, poiché le parole sono simili alle altre parole più di quanto possano essere simili alle cose o alle persone, ma Shakespeare suggerisce spesso che le parole sono più simili alle persone di quanto lo siano alle cose. La rappresentazione shakespeariana del personaggio ha una ricchezza soprannaturale perché nessun altro scrittore precedente o successivo ci illude maggiormente che ciascun personaggio parli con una voce diversa da quella degli altri. Johnson, rilevando questa caratteristica, la attribuì all’accurato ritratto shakespeariano della natura generale, ma forse Shakespeare avrebbe messo in discussione la realtà di una simile natura. La sua misteriosa capacità di presentare le voci coerenti, diverse e apparentemente autentiche di esseri immaginari deriva in parte dal più fecondo senso della realtà che abbia mai invaso la letteratura. Quando tentiamo di isolare la coscienza shakespeariana della realtà (o, se preferite, la versione della realtà proposta dai drammi), probabilmente

restiamo sconcertati. Quando si prendono le distanze dalla Divina Commedia, la stranezza del poema è sconvolgente, ma il teatro shakespeariano sembra insieme del tutto familiare e troppo ricco per essere assorbito tutto e subito. Dante interpreta i suoi personaggi per voi; se non riuscite ad accettare i suoi giudizi, il poema vi abbandona. Shakespeare apre i suoi personaggi a prospettive così molteplici da trasformarli in strumenti analitici atti a giudicarvi. Se siete moralisti, Falstaff vi riempie di indignazione; se siete rancorosi, Rosalinda vi smaschera; se siete dogmatici, Amleto vi sfugge per sempre. E se siete in cerca di spiegazioni, i grandi antieroi shakespeariani vi porteranno alla disperazione. Iago, Edmund e Macbeth non sono privi di moventi; anzi, traboccano di moventi, immaginandoli o inventandoli quasi tutti. Come i grandi personaggi arguti (Falstaff, Rosalinda, Amleto), questi mostruosi prevaricatori sono artisti dell’io o, come affermava Hegel, liberi artefici di se stessi. Amleto, il più fecondo tra loro, riceve da Shakespeare qualcosa di molto simile alla coscienza autoriale, una coscienza che non è quella di Shakespeare. Interpretare Amleto diventa difficile quanto interpretare aforisti come Emerson, Nietzsche e Kierkegaard. «Hanno vissuto e hanno scritto», vorrebbe protestare qualcosa dentro di noi, ma Shakespeare ha trovato il modo di darci Amleto, autore delle aggiunte che hanno tramutato L’assassinio di Gonzago in La trappola per topi. La più sconcertante conquista di Shakespeare è aver indicato più contesti per spiegarci di quanti noi siamo in grado di proporne per spiegare i suoi personaggi. Per molti lettori, i limiti dell’arte umana vengono raggiunti nel Re Lear, che, con Amleto, sembra essere il culmine del Canone shakespeariano. La mia preferenza va al Macbeth, in cui non supero mai il mio stupore per la spietata economia del dramma, per il suo modo di rendere importante ogni discorso, ogni frase. Tuttavia, il Macbeth ha solo un personaggio imponente e persino l’Amleto è così dominato dal suo eroe che tutte le altre figure minori sono accecate (come lo siamo noi) dal suo splendore trascendente. La capacità shakespeariana di individualizzazione tocca i suoi vertici nel Re Lear e, per quanto possa sembrare curioso, in Misura per misura, due drammi in cui non vi sono personaggi minori. Con il Re Lear, siamo al centro dei centri di eccellenza canonica, proprio come in alcuni canti dell’Inferno o del Purgatorio o in un romanzo tolstojano come Chadzˇi-Murat. qui, semmai, le fiamme dell’invenzione bruciano qualsiasi contesto e ci offrono la possibilità di quello che potrebbe essere definito valore estetico originario, libero dalla storia e dall’ideologia e disponibile per chiunque possa essere istruito a

leggerlo e a contemplarlo. I fautori del Risentimento potrebbero ribattere che soltanto un’élite può ricevere una simile istruzione. Come ci dimostrano i nostri momenti di maggiore sincerità, con il passare del tempo diventa sempre più difficile leggere in maniera approfondita. Che la causa siano i media o altre distrazioni dell’Età caotica, persino l’élite tende a deconcentrarsi mentre legge. Forse la lettura attenta non è finita con la mia generazione, ma è stata senza dubbio eclissata nelle generazioni successive. Il fatto che io abbia comprato il mio primo televisore quando avevo quasi quarant’anni non conta forse nulla? Non posso esserne certo, ma a volte mi chiedo se una preferenza critica per il contesto rispetto al testo non sia il riflesso di una generazione esasperata dalla lettura approfondita. La tragedia di Lear e Cordelia può essere spiegata persino a spettatori o lettori superficiali, perché la stranezza di Shakespeare consiste nella capacità di distrarre l’attenzione a quasi tutti i livelli. Ma, recitata come si deve e letta come si deve, chiederà più di quanto un’unica coscienza sia in grado di dare. Il dottor Johnson è famoso per la sua intolleranza verso la morte di Cordelia: «Molti anni fa rimasi così sconvolto dalla morte di Cordelia che non so se sia mai riuscito a rileggere le ultime scene del dramma fintantoché non ne intrapresi la revisione come curatore». Come osserva Johnson, vi è una terribile desolazione nell’ultima scena della Tragedia di Re Lear, un effetto che supera qualunque altra cosa nel suo genere, in Shakespeare e in ogni altro scrittore. Forse Johnson considerava la morte di Cordelia come una sineddoche di quella desolazione, della visione del vecchio re che, spinto ancora verso la follia dal dolore, entra in scena con Cordelia morta tra le braccia. Questa scena ha la forza di un’immagine che capovolge tutte le aspettative naturali ed è oggetto di un famoso travisamento da parte di Sigmund Freud nel suo Motivo della scelta degli scrigni (1913): La scena di Lear che porta sul palcoscenico il corpo esanime di Cordelia. Cordelia è la Morte. Se si capovolge la situazione, la cosa ci appare comprensibile e familiare. È la Dea della Morte la quale porta via dal campo di battaglia l’eroe caduto, come la Valchiria nella mitologia germanica. La saggezza eterna, rivestita dei panni di un mito antichissimo, consiglia al vecchio di dire no all’amore, di scegliere la morte, di familiarizzarsi con la necessità del morire.

A cinquantasette anni, Freud ne aveva ancora ventisei da vivere, ma non riusciva a parlare dell’«eroe» senza calarsi in quel ruolo. Dire no all’amore, scegliere la morte e familiarizzarsi con la necessità del morire è nello stile del principe Amleto, ma non fa per Re Lear. I re sono duri a morire, in Shakespeare come nella vita, e Lear è la più grande di tutte le

rappresentazioni dei re. Il suo precursore non è un monarca letterario, bensì il modello di tutti i sovrani: Yahweh, il Signore in persona, a meno che non scegliate di considerare Yahweh come un personaggio letterario, incontrato da Shakespeare nella Bibbia di Ginevra. Lo Yahweh dello scrittore J, che domina il filone originario della Genesi, dell’Esodo e dei Numeri, è irascibile e, a tratti, folle quanto Lear. Quest’ultimo, immagine dell’autorità paterna, non è tra i personaggi preferiti dei critici femministi, che lo definiscono senza esitazione l’archetipo della coercizione patriarcale. Il suo potere, persino nella rovina, sembra essere ciò che quei critici non riescono a perdonare, poiché lo interpretano come l’unione di dio, re e padre in un unico temperamento spazientito. Quel che trascurano è il dato di fatto del dramma: Lear non viene solo temuto e venerato da chiunque, nel dramma, stia dalla parte del bene, ma viene amato veramente dal buffone e da Cordelia, Gloucester, Edgard, Kent, Albany e, evidentemente, dal suo popolo in generale. In termini di personalità, deve molto a Yahweh, ma è assai più benevolo. Il suo principale errore nei confronti di Cordelia è un amore eccessivo che, in cambio, esige un eccesso. Di tutta la vasta schiera dei personaggi shakespeariani, Lear è di gran lunga il più appassionato, una caratteristica che forse è attraente in sé e per sé ma che non si adatta alla sua età né alla sua posizione. Anche le più rancorose interpretazioni di Lear, che demistificano la sua presunta capacità di compassione sociale, lasciano intatta la sua intensità appassionata, una qualità condivisa dalle sue figlie, Goneril e Regan, che non possiedono però la sua pulsione confusa verso l’amore. Sono ciò che sarebbe stato il loro padre se non avesse posseduto anche le caratteristiche di sua figlia Cordelia. Shakespeare non compie nessun tentativo esplicito di spiegare la differenza tra Cordelia e le sue sorelle o il contrasto, altrettanto sorprendente, tra Edgard e Edmund. È tuttavia così magistrale da conferire a Cordelia e Edgard una titubanza assai maggiore della loro renitenza comune. In questi due personaggi caratterizzati da un amore sincero, vi è qualcosa che va contro la loro natura, qualcosa di ostinato, una forza la cui musica di sottofondo è la cocciutaggine. Cordelia, che conosce bene sia suo padre sia le sue sorelle, potrebbe impedire la tragedia con un pizzico di diplomazia iniziale, ma non lo fa. Edgard sceglie un travestimento autopunitivo assai più umile e modesto di quanto sia strettamente indispensabile e mantiene tutti i suoi camuffamenti anche quando potrebbe sbarazzarsene. Il suo rifiuto di rivelarsi a Gloucester fino a poco prima di uccidere anonimamente Edmund è

curioso quanto rifiuto di Shakespeare di rappresentare la scena della rivelazione e della riconciliazione tra padre e figlio. Udiamo il racconto di Edgard, ma non vediamo la scena. A mio parere, avvertiamo che Edgard può essere il rappresentante personale di Shakespeare nel dramma, a differenza del marlowiano Edmund. Quest’ultimo è un genio, sagace come Iago ma più freddo, la figura più fredda in tutta la produzione shakespeariana. È nelle antitesi tra Edmund e Lear che individuerei una delle fonti dell’insuperabile vigore estetico del dramma. In questa antitesi vi è qualcosa dell’anima di Shakespeare, qualcosa che il cuore dello spettatore o del lettore non coglie nel dramma, qualcosa che rende l’opera incapace di consacrare noi o se stessa. Al centro della più poderosa opera letteraria in cui mi sia mai imbattuto, vi è una lacuna terribile e deliberata, un vuoto cosmologico in cui veniamo scaraventati. Una comprensione sensibile della Tragedia di Re Lear ci regala la sensazione di essere stati scagliati verso l’esterno e verso il basso, fino ad arrivare al di là di qualsiasi valore, del tutto smarriti. A differenza di quanto accade quando muore Amleto, alla fine del Re Lear non vi è alcuna trascendenza. La morte di Lear è una liberazione per il re, ma non per i superstiti: Edgard, Albany e Kent. E non è una liberazione neppure per noi. Lear incarna troppi elementi perché la sua morte possa essere accettabile per i suoi sudditi e il nostro investimento nelle sofferenze del re è divenuto troppo grande perché sia possibile un freudiano «familiarizzarsi con la necessità del morire». Forse Shakespeare tenne la morte di Gloucester dietro le quinte cosicché il contrasto tra il Lear moribondo e l’Edmund moribondo conservasse tutta la sua intensità. Edmund compie uno sforzo strenuo per evitare una morte insignificante tentando di revocare l’ordine di uccidere Cordelia e Lear. Arriva troppo tardi e né noi né Edmund sappiamo come interpretare la sua morte fuori scena. La grandezza del dramma è strettamente legata alla grandezza patriarcale di Lear, un aspetto dell’uomo che ora viene nettamente svalutato in un’età critica di femminismo, di marxismo letterario e delle diverse varianti di crociata antiborghese che abbiamo importato da Parigi. Shakespeare è tuttavia troppo astuto per dedicare la sua arte a una politica patriarcale, al cristianesimo o persino all’assolutismo monarchico del suo mecenate, re Giacomo I, e ora il risentimento nei confronti di Lear è per lo più infondato. Il vecchio re stordito prende posizione a favore della natura, una natura del tutto diversa da quella invocata come dea dal nichilistico Edmund. In questo vasto dramma, Lear e Edmund non si rivolgono mai la parola, sebbene

dividano il palco per due scene fondamentali. Che cosa potrebbero dirsi, quale dialogo è possibile tra il personaggio più appassionato di Shakespeare e quello più freddo, tra un individuo che dà troppa importanza alle cose e uno che non gliene dà alcuna? Nella concezione della natura proposta da Lear, Goneril e Regan sono streghe contro natura, mostri degli abissi, ed è davvero così. Nella concezione della natura sostenuta da Edmund, le sue due amanti demoniache sono perfettamente naturali. Il teatro di Shakespeare non ci offre una posizione intermedia. Rifiutare Lear non è un’opzione estetica, per quanto ci si sappia difendere dai suoi eccessi e dal suo misterioso potere. Qui Shakespeare si ricongiunge allo scrittore J, il cui Yahweh fin troppo umano è insieme incommensurabile e impossibile da evitare. Se vogliamo una natura umana che non logori se stessa, ci rivolgiamo all’autorità di Lear, per quanto difettosa, per quanto compromessa nel suo potere nocivo. Lear non può guarire noi o se stesso e non può sopravvivere a Cordelia. Nel dramma, tuttavia, pochissimi sopravvivono al re: Kent, che desidera solo congiungersi al suo signore nella morte; Albany, che emula Lear abdicando; Edgard, superstite apocalittico, che evidentemente parla sia per Shakespeare sia per il pubblico alla fine della tragedia: «Dobbiamo rassegnarci al peso grave di questi tristi tempi, e dir quello che in noi sentiamo, non quello che dovremmo. Il più vecchio è colui che ha sopportato più cose: ma noi che siam giovani non ne vedremo altrettante, né vivremo tanto a lungo». La natura e lo Stato sono quasi feriti a morte e i tre personaggi sopravvissuti escono di scena con una marcia funebre. A contare sono soprattutto la mutilazione della natura e la nostra idea di ciò che è o non è naturale nella nostra vita. L’effetto alla fine del dramma è così travolgente che ogni cosa sembra contraddire se stessa. Perché veniamo colpiti insieme con tanta forza e con tanta ambivalenza dalla morte di Lear? Nel 1815, all’età di sessantasei anni, Goethe scrisse un saggio su Shakespeare che tentava di riconciliare i suoi atteggiamenti antitetici verso il massimo poeta occidentale. Aveva cominciato come idolatra di Shakespeare, aveva sviluppato un presunto «classicismo» che non trovava Shakespeare del tutto adeguato e aveva «corretto» Shakespeare con una versione alquanto severa di Romeo e Giulietta. Sebbene il suo giudizio finale sia stato a favore di Shakespeare, il saggio continua a essere una fuga e una fonte di confusione. Contribuì a rafforzare la fama di Shakespeare in Germania, ma l’ambivalenza verso un genio poetico e drammatico superiore al suo impedì a

Goethe di approdare a una definizione chiara dell’unico e costante interesse di Shakespeare. Fu Hegel, nelle conferenze pubblicate postume con il titolo Estetica, ad acquisire una profonda comprensione della rappresentazione shakespeariana del personaggio, comprensione che dobbiamo continuare a elaborare se vogliamo produrre una critica degna di lui. Hegel tenta essenzialmente di distinguere la natura dei personaggi di Shakespeare da quella dei personaggi di Sofocle e Racine, di Lope de Vega e Calderón de la Barca. L’eroe tragico greco deve opporsi a un Potere etico superiore con un’individualità, un pathos etico, che si fonde con ciò che gli sta di fronte, perché fa già parte di quel pathos superiore. In Racine, Hegel individua uno stile astratto di caratterizzazione dei personaggi, uno stile in cui le passioni specifiche vengono rappresentate come pura personificazione, cosicché il contrasto tra il Potere superiore e quello individuale tende all’astrazione. Lope de Vega e Calderón de la Barca godono di una maggiore approvazione da parte di Hegel, che vede anche in loro uno stile astratto di caratterizzazione del personaggio, ma scorge anche una certa solidità e un certo senso della personalità, per quanto inflessibile. Nemmeno le tragedie tedesche ottengono un giudizio così positivo: Goethe, nonostante lo shakespearianismo iniziale, si allontana dalla caratterizzazione per passare a un’esaltazione delle passioni, mentre Schiller viene rifiutato perché ha sostituito la violenza alla realtà. In contrasto a tutti questi scrittori, a un’altezza salutare, Hegel colloca Shakespeare, nel miglior brano critico sulla rappresentazione shakespeariana che sia mai stato scritto: Quanto più Shakespeare, nell’infinito abbraccio del suo palcoscenico mondiale, procede a sviluppare i limiti estremi del male e della follia, tanto più […] egli concentra questi personaggi nelle loro limitazioni. Tuttavia, così facendo, conferisce loro intelligenza e immaginazione; e per mezzo dell’immagine nella quale essi, in virtù di quell’intelligenza, contemplano se stessi obiettivamente, come un’opera d’arte, ne fa liberi artefici di se stessi, ed è pienamente capace, tramite l’assoluta virilità e verità della sua caratterizzazione, di risvegliare il nostro interesse per i criminali, non meno che per gli zoticoni e gli stupidi più volgari e ottusi. [Il corsivo è mio.]

Iago, Edmund e Amleto contemplano se stessi obiettivamente in immagini forgiate dalla loro intelligenza e sono così in grado di vedersi come personaggi teatrali, come artifici estetici. Divengono così liberi artefici di se stessi, dunque sono liberi di scrivere se stessi e di produrre cambiamenti nel loro io. Origliando i propri discorsi e riflettendo su quelle espressioni, mutano e passano a contemplare un’alterità nell’io, o la possibilità di tale alterità. Hegel ha visto ciò che occorre vedere in e su Shakespeare, ma lo stile gnomico delle sue conferenze richiede qualche spiegazione. Come

esemplificazione hegeliana prendiamo Edmund, il figlio illegittimo, il Machiavel marlowiano della tragedia di Lear. Edmund è il limite estremo del male, la prima, ma anche la massima, raffigurazione assoluta di un nichilista che la letteratura occidentale si conceda. Da Edmund, ancora più che da Iago, trarranno origine i nichilisti di Melville e Dostoevskij. Come dice Hegel, Edmund eccelle sia per immaginazione sia per intelligenza; assai più di Iago, potrebbe quasi uguagliare Amleto, il maggiore tra gli anti-Machiavelli. In virtù della sua straordinaria intelligenza (sempre fertile, rapida, fredda e precisa), Edmund proietta un’immagine di se stesso come un seguace bastardo della dea Natura, e per mezzo di quell’immagine contempla obiettivamente se stesso come un’opera d’arte. Lo fa anche Iago prima di lui, ma Iago immagina emozioni negative e poi prova, se non addirittura subisce, quelle emozioni. Edmund è un artefice più libero di se stesso: non prova nulla. Ho già osservato che Lear, l’eroe tragico, e Edmund, il principale antieroe, non si rivolgono mai la parola. Dividono il palco in due scene cruciali, all’inizio e verso la fine, ma non hanno niente da dirsi. In realtà, non possono parlarsi perché l’uno non riuscirebbe a destare l’interesse dell’altro neppure per un istante. Lear è tutto sentimento, Edmund è assenza di sentimenti. Quando Lear si infuria con le sue figlie «contro natura», Edmund, nonostante tutta la sua intelligenza, non riesce a capire, perché giudica «naturale» il proprio comportamento nei confronti di Gloucester e quello di Goneril e Regan nei confronti di Lear. Edmund, il più naturale di tutti i figli illegittimi, diviene inevitabilmente l’oggetto delle rapaci passioni omicide di Goneril e Regan, entrambe gratificate da lui ed entrambe incapaci di commuoverlo finché non ne vede portare in scena i cadaveri mentre si spegne pian piano per la ferita mortale infertagli dal fratello Edgard. Contemplando i mostri morti degli abissi, Edmund affronta la vera immagine di se stesso e se ne libera diventando l’artefice assoluto dell’io: «Ero promesso ad entrambe. Tra un istante ci sposiamo tutti e tre». Il tono è sorprendentemente distaccato, l’ironia quasi senza eguali, sebbene Webster e altri scrittori vissuti durante il regno di Giacomo I abbiano tentato di imitarla. La contemplazione di Edmund passa dall’ironia a un tono che riesco a percepire ma non a classificare: «Eppure Edmund è stato amato. Una ha avvelenato l’altra per amor mio e poi si è uccisa». Edmund non si rivolge tanto a Albany o a Edgardo quanto a se stesso, parlando a voce alta per riuscire a origliarsi. Il linguaggio di Shakespeare trasmette la dolorosa

condizione di questo insuperabile antieroe, che descrive a se stesso il suo stato d’animo, affinando la propria immagine per ampliare la sua libertà di essere artefice di se stesso. Non udiamo orgoglio né meraviglia, tuttavia emerge un senso di confusione di fronte all’idea del legame, anche se solo con le due terribili sorelle. Hazlitt, con cui condivido il mio affetto stupito per Edmund, sottolinea la gradevole mancanza di ipocrisia in questo personaggio. Anche qui non vi sono né falsità né affettazione da parte di Edmund. Quest’ultimo origlia se stesso e la sua reazione è la volontà di cambiare, una reazione che, se ne rende conto, sarà una trasformazione morale positiva anche se la sua natura non muterà: «Mi manca il fiato; ma del bene voglio farlo malgrado la mia natura». L’ironia tragica di Shakespeare richiede che questo capovolgimento avvenga troppo tardi per salvare Cordelia. Così non ci resta che chiederci: perché, allora, Shakespeare rappresenta questa straordinaria metamorfosi di Edmund? A prescindere dal fatto che esista oppure no una risposta a questo interrogativo, consideriamo il cambiamento in sé e per sé, sebbene Edmund abbandoni il palcoscenico con la convinzione che la Natura sia la sua dea. Che cosa significa, che cosa può significare l’affermazione secondo cui un personaggio fittizio è «un libero artefice di se stesso»? Non riscontro questo fenomeno nella letteratura occidentale prima di Shakespeare. Achille, Enea, Dante il pellegrino e Don Chisciotte non mutano origliando le proprie parole e, su quella base, grazie alla loro intelligenza e alla loro immaginazione, fanno un’inversione di marcia. La nostra convinzione, ingenua ma cruciale sul piano estetico, che Edmund, Amleto, Falstaff e decine di altri personaggi possano, per così dire, alzarsi e uscire dai loro drammi, magari persino contro la volontà di Shakespeare, è legata alla loro natura di liberi artefici di stessi. Come illusione teatrale e letteraria, come effetto del linguaggio figurativo, questo vigore shakespeariano resta senza eguali, sebbene venga imitato in tutto il mondo ormai da quattro secoli. Quel vigore non sarebbe possibile ad eccezione del soliloquio shakespeariano, proibito a Racine dalla dottrina critica francese, che non poteva permettere all’attore tragico di rivolgersi direttamente a se stesso o al pubblico. I drammaturghi spagnoli dell’età dell’oro, in particolare Lope de Vega, modellano il soliloquio come sonetto, in una sorta di trionfo barocco che opera contro l’interiorità. Non si può tuttavia trasformare un personaggio in un libero artefice di se stesso negando la sua interiorità. Shakespeare non è possibile in modalità barocca, ma la libertà tragica è più un ossimoro

shakespeariano che una condizione in Lope de Vega, Racine o Goethe. Capiamo perché Cervantes abbia fallito come drammaturgo e abbia trionfato come autore del Don Chisciotte. Esiste un’affinità ermetica tra Cervantes e Shakespeare: Don Chisciotte e Sancio non sono liberi artefici di se stessi; si collocano totalmente nella dimensione del gioco. È nella singolare forza di Shakespeare che i suoi protagonisti tragici, siano essi eroi o antieroi, cancellano i confini tra la dimensione della natura e quella del gioco. La peculiare autorità di Amleto, la sua ostentazione persuasiva di una coscienza autoriale, va ben al di là della trasformazione dell’Assassinio di Gonzago nella Trappola per topi. La mente di Amleto è, in ogni istante, un dramma nel dramma, perché Amleto, più di ogni altro personaggio shakespeariano, è il libero artefice di se stesso. La sua euforia e la sua angoscia scaturiscono dalla continua meditazione sulla sua immagine. Shakespeare è, almeno in parte, al centro del Canone perché lo è anche Amleto. La coscienza introspettiva, libera di contemplare se stessa, rimane la più elitaria di tutte le immagini occidentali, ma senza di essa il Canone non è possibile e, per dire le cose come stanno, non lo siamo neppure noi. Molière, nato solo sei anni dopo la morte di Shakespeare, scrisse e recitò in una Francia che non era ancora esposta all’influenza shakespeariana. Le alterne fortune di Shakespeare in Francia cominciano a imporre uno schema verso la metà del XVIII secolo, quasi tre generazioni dopo la morte di Molière. Shakespeare e Molière hanno tuttavia una vera affinità, per quanto sia improbabile che il secondo avesse sentito parlare del primo. Sono simili per temperamento e per la libertà dall’ideologia, sebbene si siano rifatti a tradizioni formali della commedia un po’ discordanti. Voltaire inaugura la tradizione francese della resistenza a Shakespeare in nome del neoclassicismo e delle tragedie di Racine. L’avvento tardivo del Romanticismo francese causò una forte influenza shakespeariana sulla letteratura francese, influenza riconoscibile soprattutto in Stendhal e Victor Hugo; ma nell’ultimo terzo dell’Ottocento, la moda di Shakespeare si era ormai in gran parte esaurita. Benché oggi venga rappresentato in Francia non meno di Molière e Racine, si è sostanzialmente riaffermata la tradizione cartesiana e la Francia conserva una cultura letteraria relativamente a-shakespeariana. È difficile sopravvalutare il continuo influsso di Shakespeare sui tedeschi, e persino su Goethe, che stava così attento a non lasciarsi influenzare. Manzoni, il principale romanziere dell’Italia ottocentesca, è in larga misura uno scrittore shakespeariano, come, del resto, Leopardi. Nonostante la furiosa

polemica di Tolstoj contro Shakespeare, l’arte dello scrittore russo dipende dalla concezione shakespeariana del personaggio, sia nei suoi due grandi romanzi sia nel capolavoro maturo, il romanzo breve Chadzˇi-Murat. Dostoevskij deve i suoi magnifici nichilisti ai loro precursori shakespeariani, Iago e Edmund, mentre Pusˇkin e Turgenev figurano tra i fondamentali critici shakespeariani del XIX secolo. Ibsen compì enormi sforzi per sottrarsi all’influenza di Shakespeare, ma per sua fortuna non ci riuscì. Forse l’unica cosa che accomuna Peer Gynt e Hedda Gabler è l’intensità shakespeariana, la capacità ispirata di cambiare origliando se stessi. Fino all’era moderna, la Spagna non ha avuto molto bisogno di Shakespeare. Le maggiori figure dell’età dell’oro spagnola (Cervantes, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Tirso de Molina, Rojas, Góngora) conferirono alla letteratura nazionale un’esuberanza barocca che era già in qualche modo shakespeariana e romantica. Il celebre saggio di Ortega y Gasset su Shylock e il libro di Madariaga sull’Amleto sono i testi iniziali decisivi: giungono entrambi alla conclusione che l’era di Shakespeare è anche l’era della Spagna. Purtroppo abbiamo perduto il Cardenio, un dramma cui Shakespeare e Fletcher lavorarono insieme per tradurre in inglese una storia di Cervantes; molti critici hanno tuttavia avvertito le affinità tra Cervantes e Shakespeare e io desidero da sempre che un nuovo drammaturgo geniale riunisca Don Chisciotte, Sancio e Falstaff sullo stesso palcoscenico. L’influenza di Shakespeare sulla nostra Età caotica continua a essere convincente, soprattutto per quanto riguarda Joyce e Beckett. Sia l’Ulisse sia Finale di partita sono essenzialmente rappresentazioni shakespeariane, ciascuna delle quali evoca, seppur in modo diverso, l’Amleto. Nel Rinascimento americano, Shakespeare emerse con chiarezza in Moby Dick e negli Uomini rappresentativi di Emerson, ma esercitò un influsso più impercettibile su Hawthorne. È impossibile tracciare i confini dell’influenza di Shakespeare, ma non è l’influenza a far sì che il Canone occidentale orbiti intorno al drammaturgo. Se si può affermare che Cervantes ha inventato l’ironia letteraria dell’ambiguità, poi destinata a trionfare ancora in Kafka, si può anche affermare che Shakespeare ha inventato l’ironia emotiva e cognitiva dell’ambivalenza, poi dominante in Freud. Mi sconvolge sempre di più osservare le originalità di Freud che svaniscono in presenza di Shakespeare, ma ciò non avrebbe sconvolto Shakespeare, consapevole che la letteratura e il plagio erano difficilmente distinguibili. Il plagio è una distinzione legale, non letteraria, proprio come il sacro e il profano sono una

distinzione politica e religiosa, e non due categorie letterarie. L’universalità è la vera caratteristica di un modesto gruppo di scrittori occidentali: Shakespeare, Dante, Cervantes e forse Tolstoj. Goethe e Milton sono stati oscurati dal cambiamento culturale; Whitman, così popolare in superficie, è sostanzialmente ermetico; Molière e Ibsen si dividono ancora il palcoscenico, ma sempre dopo Shakespeare. Dickinson è di una sorprendente difficoltà a causa della sua originalità cognitiva e Neruda è forse un populista brechtiano e shakespeariano meno di quanto desiderasse. L’universalismo aristocratico di Dante inaugurò l’era dei massimi scrittori occidentali, da Petrarca a Hölderlin; ma solo Cervantes e Shakespeare, autori populisti nella più grande tra le ere aristocratiche, raggiunsero un’universalità totale. Nell’Età democratica, il miglior tentativo di avvicinarsi all’universalità è il miracolo imperfetto di Tolstoj, insieme aristocratico e populista. Nella nostra epoca caotica, Joyce e Beckett vi arrivano vicinissimi, ma le elaborazioni barocche del primo e i disfacimenti barocchi del secondo sono entrambi ostacoli l’universalità. Nella loro sensibilità, Proust e Kafka hanno la stranezza di Dante. Sono d’accordo con Antonio García-Berrio nell’affermare che l’universalità è la caratteristica fondamentale del valore poetico. Essere il centro del Canone per altri poeti fu il ruolo unico di Dante. Shakespeare, con il Don Chisciotte, continua a essere il centro del Canone per i semplici lettori. Forse possiamo spingerci oltre; per Shakespeare, ci occorre un termine più borgesiano di «universalità». Insieme tutti e nessuno, tutto e niente, Shakespeare è il Canone occidentale.

3. LA SINGOLARITÀ DI DANTE: BEATRICE E ULISSE I neostoricisti e gli altri rappresentanti della Scuola del risentimento hanno tentato di ridurre e disperdere Shakespeare, con l’intenzione di distruggere il Canone dissolvendone il centro. Per quanto possa sembrare strano, Dante – che, per così dire, è il secondo centro del Canone – non è sottoposto ad attacchi analoghi, né in America né in Italia. L’assalto arriverà sicuramente, poiché i vari multiculturalisti avrebbero difficoltà a trovare un grande poeta più contestabile di Dante, il cui spirito indomito ed energico tocca i vertici della scorrettezza politica. Dante è il più aggressivo e polemico tra i massimi scrittori occidentali, capace, da questo punto di vista, di eclissare persino Milton. Come quest’ultimo, era un partito politico e una setta formata da un solo uomo. La sua intensità eretica è stata oscurata dai commenti degli eruditi, che, anche nei loro momenti migliori, lo trattano spesso come se la Divina Commedia fosse sostanzialmente una riduzione in versi di Sant’Agostino. È tuttavia meglio cominciare sottolineando la straordinaria audacia di Dante, che non ha eguali nell’intera tradizione della presunta letteratura cristiana, Milton compreso. Nel lungo periodo che va dallo Jahwista e da Omero fino a Joyce e Beckett, la letteratura occidentale non presenta nulla di sublime e irriverente quanto l’esaltazione di Beatrice da parte di Dante, elevata da simbolo del desiderio a status angelico, ruolo in cui diviene un elemento di importanza cruciale nella gerarchia ecclesiastica della salvezza. Poiché, all’inizio, Beatrice è solo uno strumento della volontà di Dante, la sua apoteosi implica necessariamente anche l’elezione di Dante. Il suo poema è una profezia e assume la funzione di un terzo Testamento, per nulla subordinato al Vecchio e al Nuovo. Dante non vuole riconoscere che la Commedia è un frutto della fantasia, della sua insuperabile fantasia. Il poema, invece, è la verità, universale e non temporale. Ciò che il pellegrino Dante vede e dice nel racconto del poeta Dante mira a persuaderci di continuo dell’inevitabilità poetica e religiosa di Alighieri. Gli atti di umiltà del poema, da parte del pellegrino o del poeta, stupiscono gli studiosi, ma sono assai meno persuasivi del sovvertimento di tutti gli altri poeti compiuto dalla Divina Commedia e della sua tenacia nel dare risalto al potenziale apocalittico di Dante. Queste osservazioni, mi affretto a precisarlo, si rivolgono contro gran parte degli studiosi di Dante e non contro quest’ultimo. Non vedo come potremmo sganciare la travolgente forza poetica di Dante dalle sue ambizioni

spirituali, che sono inevitabilmente stravaganti e non appaiono blasfeme solo perché il poeta vinse la sua scommessa con il futuro nel giro di una generazione dopo la sua morte. Se la Commedia non fosse l’unico vero rivale poetico di Shakespeare, Beatrice sarebbe un insulto per la Chiesa e persino per i cattolici letterari. Il poema è troppo vigoroso per poterlo rinnegare; per un poeta neocristiano come T.S. Eliot, la Commedia diviene un’altra Scrittura, un altro Nuovo Testamento che integra la Bibbia cristiana canonica. Charles Williams – un guru per neocristiani come Eliot, C.S. Lewis, W.H. Auden, Dorothy L. Sayers, J.R.R. Tolkien e altri – arriva ad affermare che il credo di Attanasio («l’assunzione dell’umanità in Dio») non trovò piena espressione fino a Dante. La Chiesa dovette attendere Dante e la figura di Beatrice. Ciò che Williams sottolinea nell’intenso studio The Figure of Beatrice (1943) è il grande scandalo dell’impresa di Dante: l’invenzione più spettacolare del poeta è Beatrice. Nessun personaggio di Shakespeare, neppure il carismatico Amleto o il divino Lear, è un’invenzione audace ed esuberante quanto Beatrice. Soltanto lo Yahweh dello scrittore J e il Gesù del Vangelo di Marco sono rappresentazioni più sorprendenti o affascinanti. Beatrice costituisce il fulcro dell’originalità di Dante e la sua trionfante collocazione nel meccanismo cristiano della salvezza è l’atto più audace che il poeta potesse compiere per trasformare la fede ereditata in qualcosa di molto più personale. Gli studiosi di Dante respingono immancabilmente queste mie asserzioni, ma vivono così tanto all’ombra del loro soggetto da perdere spesso la piena consapevolezza della singolarità della Divina Commedia. Quest’ultima continua a essere la più misteriosa di tutte le opere letterarie che il lettore ambizioso possa incontrare, e sopravvive sia alla traduzione sia allo studio approfondito. Tutto ciò che permette al lettore comune di leggere la Commedia deriva da caratteristiche spirituali di Dante che sono tutto fuorché pie nel senso più tradizionale del termine. In fondo, Dante non ha nulla di davvero positivo da dire sui suoi precursori o contemporanei poetici e fa un uso davvero poco pragmatico della Bibbia, ad eccezione dei Salmi. È come se pensasse che re Davide, antenato di Cristo, fosse l’unico predecessore alla sua altezza, l’unico altro poeta davvero capace di esprimere la verità con coerenza. Come scoprirà ben presto il lettore che si accosta a Dante per la prima volta, nessun altro autore secolare nutre la convinzione così ferma che la sua

opera sia la verità, la verità più importante. Milton, e forse il Tolstoj maturo, ci ricordano l’incrollabile sicurezza di Dante, ma entrambi riflettono realtà contrastanti e sembrano più inclini alla visione isolata. Dante è così poderoso – sul piano retorico, psicologico e spirituale – da minare la loro fiducia in se stessi. La teologia non è la sua sovrana ma la sua risorsa, una delle tante. Nessuno può negare che Dante creda nel soprannaturale e sia un cristiano e un teologo, o almeno un allegorista teologico. Tutte le concezioni e le immagini ricevute subiscono tuttavia straordinarie trasformazioni in Dante, l’unico poeta la cui originalità, inventiva e straordinaria fecondità facciano davvero concorrenza a quelle di Shakespeare. Un lettore non italiano che affronta Dante per la prima volta, leggendo una traduzione in terza rima come quella di Lawrence Binyon o la lucida versione in prosa di John Sinclair, subisce una perdita immensa perché non ha modo di studiare l’originale, ma può esplorare ugualmente il cosmo creato dal poema. L’essenziale sono tuttavia la singolarità e la sublimità di ciò che resta, l’assoluta unicità delle capacità di Dante, con l’unica eccezione di Shakespeare. Come nel drammaturgo inglese, in Dante troviamo un’enorme forza cognitiva unita a una creatività che non ha limiti puramente pragmatici. Quando leggete Dante o Shakespeare, vi scontrate con i limiti dell’arte, per poi scoprire che quei limiti sono stati allargati o violati. Dante rompe tutti gli schemi in maniera molto più personale ed esplicita di Shakespeare e, se crede nell’esistenza del soprannaturale più di quanto faccia il drammaturgo, la sua capacità di trascendere la natura è una caratteristica inconfondibile quanto il naturalismo unico e stravagante di Shakespeare. I due poeti si sfidano a vicenda soprattutto nelle rappresentazioni dell’amore, il che ci riconduce là dove l’amore inizia e finisce in Dante, ossia alla figura di Beatrice. La Beatrice della Commedia occupa, nella gerarchia celeste, una posizione difficile da decifrare. Non abbiamo indizi che ci aiutino a comprenderla e nella dottrina non vi è nulla che giustifichi la celebrazione di questa particolare donna fiorentina, di cui Dante fu eternamente innamorato. Il commento più ironico su questa situazione è contenuto nell’Incontro in un sogno (Altre inquisizioni,1937-1952) di Jorge Luis Borges: Innamorarsi significa creare una religione che ha un dio fallibile. Che Dante professi un’ammirazione idolatrica per Beatrice è una verità che non ammette contraddizioni; che in un’occasione Beatrice si sia fatta beffe di lui, e che in un’altra lo abbia respinto, sono fatti esposti nella Vita Nuova. Secondo alcuni, si tratta di fatti che ne simboleggiano altri. Se ciò fosse vero, rafforzerebbe ancora di più la nostra certezza di un amore infelice e superstizioso.

Borges, se non altro, riporta Beatrice alla sua origine di «incontro illusorio» e alla sua enigmatica alterità per tutti i lettori di Dante: «Beatrice esistette infinitamente per Dante; Dante esistette pochissimo, e forse non esistette affatto, per Beatrice. La nostra devozione, la nostra venerazione, ci inducono a dimenticare quella penosa disarmonia, che fu indimenticabile per Dante». Poco importa che Borges proietti la propria passione assurda e ironica per Beatrice Viterbo (si veda il suo racconto cabalistico, L’Aleph). Ciò che lo scrittore sottolinea astutamente è la scandalosa sproporzione tra qualunque cosa Dante e Beatrice abbiano vissuto insieme (quasi nulla) e la visione dantesca della loro reciproca apoteosi nel Paradiso. La sproporzione è la strada privilegiata di Dante verso il sublime. Come Shakespeare, Alighieri riesce sempre a farla franca, perché entrambi trascendono i limiti di altri poeti. L’ironia (o allegoria) dilagante dell’opera dantesca è racchiusa nel fatto che l’autore dichiara di accettare i limiti proprio mentre li viola. Tutto ciò che, in Dante, è vitale e originale è anche arbitrario e personale, ma viene presentato come la verità, conforme alla fede, alla tradizione e alla razionalità. Viene quasi sempre frainteso finché si fonde con il normativo, e alla fine ci troviamo di fronte a un successo che Dante non poteva vedere di buon occhio. Il Dante teologico dei moderni studiosi americani è una fusione di Agostino, Tommaso d’Aquino e i loro compagni. È un Dante dottrinale, così pio ed erudito da poter essere compreso appieno solo dai suoi professori americani. Tra gli scrittori, gli eredi di Dante sono i suoi veri canonizzatori, e non sempre si tratta di individui espressamente devoti: Petrarca, Boccaccio, Chaucer, Shelley, Rossetti, Yeats, Joyce, Pound, Eliot, Borges, Stevens, Beckett. Dante è quasi l’unico elemento che accomuna questi dodici autori, sebbene nel suo oltretomba poetico divenga dodici Dante diversi, il che è del tutto comprensibile per uno scrittore della sua forza; esistono tanti Dante quasi quanto esistono tanti Shakespeare. Il mio Dante si allontana sempre più da quello che è divenuto il Dante squisitamente ortodosso della moderna dottrina e critica americana, rappresentate da T.S. Eliot, Francis Fergusson, Erich Auerbach, Charles Singleton e John Freccero. Una tradizione alternativa è rappresentata dal filone italiano che iniziò con lo speculatore napoletano Vico e continuò con il poeta romantico Foscolo e con il critico romantico Francesco De Sanctis, per culminare, all’inizio del XX secolo, nello studioso di estetica Benedetto Croce. Se si combina questa tradizione

italiana con alcune osservazioni del tedesco Ernst Robert Curtius, un illustre storico letterario moderno, emerge un’alternativa al Dante di Eliot, Singleton e Freccero: un poeta profetico anziché un allegorista teologico. Vico esagerò magnificamente la sua tesi quando affermò che, se Dante «non avesse saputo affatto né della scolastica né di latino, sarebbe riuscito più gran poeta; e forse la toscana favella arebbe avuto da contrapporlo ad Omero». Nonostante ciò, il giudizio di Vico è rassicurante quando ci si aggira nella selva oscura degli allegoristi teologici, dove la caratteristica saliente della Commedia diviene la presunta conversione agostiniana di Dante dalla poesia alla fede, una fede che comprende e subordina l’immaginazione. Né Agostino né Tommaso d’Aquino consideravano la poesia più di un gioco infantile, da accantonare con gli altri balocchi. Come avrebbero interpretato la Beatrice della Commedia? Curtius nota con acume che Dante la presenta non solo come uno strumento di salvezza, ma anche come un mediatrice universale disponibile per chiunque sia d’animo gentile. Dante si converte a Beatrice, non ad Agostino, e Beatrice manda Virgilio, non Agostino, a fargli da guida. È innegabile che Dante preferisce Beatrice, o la sua creazione, all’allegoria di altri teologi, ed è altrettanto chiaro che il poeta non desidera trascendere la propria poesia. Agostino e Tommaso d’Aquino hanno lo stesso rapporto con la teologia di Dante che Virgilio e Cavalcanti hanno con la poesia di Dante: tutti i predecessori vengono eclissati dal poeta-teologo, dal profeta Dante, che è l’autore del testamento definitivo, la Commedia. Se volete leggerla come un’allegoria dei teologi, cominciate dall’unico teologo cui Dante tenesse davvero: lo stesso Dante. Come tutte le massime opere canoniche, la Commedia demolisce la distinzione tra scrittura sacra e scrittura secolare. Ora, per noi, Beatrice è inoltre l’allegoria della fusione di sacro e secolare, l’unione di profezia e poema. Le straordinarie caratteristiche di Dante come poeta e come persona sono l’alterigia anziché l’umiltà, l’originalità anziché il tradizionalismo, l’esuberanza o l’entusiasmo anziché il riserbo. Il suo atteggiamento profetico è un atteggiamento di iniziazione anziché di conversione, per usare le parole di Paolo Valesio che pone l’accento sugli aspetti ermetici o esoterici della Commedia. Non si viene convertiti da Beatrice e non ci si converte a Beatrice; il viaggio verso di lei è un’iniziazione perché Beatrice, come disse per primo Curtius, è il centro di una gnosi personale, e non dell’universale ecclesiastico. Dopo tutto, chi manda Beatrice da Dante è Lucia, una santa

siciliana piuttosto oscura, così oscura che gli studiosi di Dante non sanno spiegare perché quest’ultimo l’abbia scelta. John Freccero, il miglior critico americano vivente di Dante, ci informa che «in un certo senso, lo scopo dell’intero viaggio è scrivere il poema, raggiungere la condizione di Lucia e di tutti i beati». Già, ma perché Lucia? La risposta a questa domanda non può certo essere: perché no? Lucia di Siracusa visse e fu martirizzata mille anni prima di Dante e oggi sarebbe caduta nell’oblio se non avesse avuto un’importanza esoterica per il poeta e per il suo poema. Non sappiamo tuttavia nulla riguardo a quell’importanza; ignoriamo persino chi sia l’anima femminile superiore che mandò Lucia da Beatrice. Questa «donna nel ciel» viene solitamente identificata con la Vergine Maria, ma Dante non ne cita il nome. Lucia viene definita «nimica di ciascun crudele», probabilmente un attributo condiviso da tutte le donne nel ciel. «Grazia illuminante» è, in genere, l’astrazione applicata alla Lucia di Dante dai commentatori; ma nemmeno questa sembra essere una qualità esclusiva di una particolare martire siciliana il cui nome significa «luce». Mi dilungo su questo aspetto per sottolineare come Dante si ostini a essere arbitrario. Nella Commedia vi è del materiale nascosto; il poema ha senza dubbio alcuni aspetti ermetici che non possono essere ritenuti di secondaria importanza, poiché sono tutti incentrati su Beatrice. Leggendo la Commedia, torniamo sempre alla figura di Beatrice, non tanto perché quest’ultima sia una sorta di Cristo quanto perché è l’oggetto ideale del desiderio sublimato di Dante. Non sappiamo neppure se la Beatrice di Dante abbia avuto un’esistenza storica. L’eventualità che l’abbia avuta e che la si possa identificare con la figlia di un banchiere fiorentino, ha poca importanza nel poema. La Beatrice della Commedia è importante non perché sia una prefigurazione di Cristo, ma perché è la proiezione idealizzata che Dante propone della propria singolarità, il punto di vista sulla sua opera come autore. Permettetemi di essere così blasfemo da mescolare Cervantes e Dante per confrontare i loro due protagonisti eroici: Don Chisciotte e Dante il pellegrino. La Beatrice di Don Chisciotte è l’ammaliante Dulcinea del Toboso, la visionaria trasfigurazione di Aldonza Lorenzo, una ragazza di campagna. Beatrice Portinari, la figlia del banchiere, ha, con la Beatrice di Dante, lo stesso rapporto che Aldonza ha con Dulcinea; è vero, la gerarchia di Don Chisciotte è secolare: Dulcinea si colloca nel cosmo di Amadigi di Gaula, Palmerino d’Inghilterra, del Cavaliere del sole e altre celebrità della

cavalleria mitologica, mentre Beatrice accede alla dimensione di san Bernardo, san Francesco e san Domenico. Se si predilige la poesia alla dottrina, non è detto che questa sia una differenza. Come i santi, i cavalieri erranti sono metafore per e in un poema, e la Beatrice celeste, in termini di cattolicesimo istituzionale e storico, non ha un maggiore o minore status di realtà rispetto all’irresistibile Dulcinea. Il trionfo di Dante consiste tuttavia nel far sembrare abbastanza blasfemo il mio paragone. Forse è vero che Dante era insieme pio e ortodosso, ma Beatrice è una figura sua e non della Chiesa; fa parte di una gnosi privata, di un’alterazione operata da un poeta nello schema della salvezza. Una «conversione» a Beatrice può essere abbastanza agostiniana, ma non è una conversione a Sant’Agostino più di quanto la devozione a Dulcinea del Toboso sia un atto di adorazione diretto a Isolda dalle Bianche Mani. Dante fu sfacciato, aggressivo, altero e audace più di tutti i poeti precedenti o successivi. Impose la sua visione dell’eternità e ha pochissimo in comune con il gregge dei suoi esegeti pii e eruditi. Se tutto è in Agostino o in Tommaso d’Aquino, allora leggiamo Agostino o Tommaso d’Aquino. Dante voleva tuttavia che leggessimo Dante. Non compose il suo poema per illuminare le verità ereditate. La Commedia sostiene di essere la verità e credo che deteologizzare Dante sarebbe inutile quanto teologizzarlo. Quando Don Chisciotte, in punto di morte, si pente della propria pazzia eroica, torna alla sua identità originale di Alonso Quijano il Buono e ringrazia la misericordia divina per quella conversione a una pia salute mentale. Ogni lettore si unisce a Sancio Panza nella protesta: «Ah! Non se ne muoia vossignoria, padron mio, ma dia retta a me: viva ancora a lungo. […] Chissà che al di là di qualche siepe non troveremo la signora donna Dulcinea disincantata, tanto bella che non ci sia da andare più in là». Alla fine del poema di Dante, non vi è alcun Sancio a sperare, con il lettore, che la forza del poeta non tradisca la nobile fantasia del cielo cristiano. Suppongo vi siano lettori che si accostano alla Divina Commedia come via verso l’amore divino che muove il sole e le altre stelle, ma la maggior parte di noi vi si accosta per Dante, per una personalità poetica e un personaggio drammatico che neppure John Milton riesce a eguagliare del tutto. Nessuno vuole trasformare la Commedia in Don Chisciotte, ma un pizzico di Sancio avrebbe potuto ammorbidire persino il pellegrino dell’eternità, rammentando forse ai suoi studiosi che un’invenzione è un’invenzione, anche se è la prima a non considerarsi tale.

Ma che genere di invenzione è Beatrice? Se, come insiste Curtius, è un’emanazione di Dio, Dante creò qualcosa che non siamo in grado di decifrare pur avvertendone la presenza. La rivelazione di Dante non può essere definita personale, come quella di William Blake, ma non perché sia meno originale di quella del poeta inglese. È più originale ed è pubblica perché è così efficace; ad eccezione di Shakespeare nei suoi momenti di massimo splendore, nella letteratura occidentale non vi è nulla di altrettanto articolato. Dante, il più singolare e indomabile di tutti i temperamenti raffinati, si rese universale non perché aveva assorbito la tradizione, ma perché l’aveva piegata fino ad adeguarla alla propria natura. Con un’ironia che trascende qualsiasi cosa analoga di mia conoscenza, la forza usurpatrice di Dante è sfociata in letture leggermente travisate nell’uno o nell’altro senso. Se la Commedia è una profezia veritiera, i suoi studiosi sono tentati di leggerla alla luce della tradizione agostiniana. In quale altro luogo è possibile trovare la giusta interpretazione della rivelazione cristiana? Talvolta, persino un interprete sottile come John Freccero cade nella conversione della poetica, come se solo Agostino potesse offrire un paradigma di autocontrollo. Un «romanzo dell’io» come la Commedia deve dunque trarre origine dalle Confessioni di Agostino. Con molta più energia dei romantici che lo adoravano e imitavano, Dante inventa la sua origine e domina il suo io con Beatrice, la figura della sua conversione, che non mi sembra un personaggio molto agostiniano. Beatrice potrebbe essere l’oggetto di un desiderio, per quanto sublimato, in un racconto agostiniano della conversione? Freccero afferma con eloquenza che, per Agostino, la storia è il poema di Dio. La storia di Beatrice è forse un componimento lirico di Dio? Poiché anch’io, a seconda delle mie esigenze, sono propenso a trovare la voce di Dio in Shakespeare, Emerson o Freud, non ho difficoltà a giudicare divina la Commedia di Dante. Non parlerei tuttavia delle Confessioni divine e non sento la voce di Dio in Agostino, né sono convinto che Dante abbia udito Dio in una voce che non fosse la sua. Per definizione, si può dire che un poema incline a preferire se stesso alla Bibbia preferisce se stesso anche ad Agostino. Secondo Charles Williams, che non nutriva grande simpatia per lo gnosticismo, Beatrice è la conoscenza di Dante. Per conoscenza, Williams intende la strada da Dante il conoscitore a Dio il conosciuto. Il poeta non voleva tuttavia che Beatrice fosse solo la sua conoscenza. Il poema non sostiene che ciascuno di noi deve trovare una conoscenza solitaria, bensì che

Beatrice deve svolgere un ruolo universale per tutti coloro che riescono a trovarla, poiché, presumibilmente, il suo intervento a favore di Dante tramite Virgilio sarà unico. Pur essendo l’invenzione centrale di Dante, il mito di Beatrice esiste solo dentro la sua poesia. La sua singolarità non può essere colta davvero, perché non conosciamo alcuna figura paragonabile a Beatrice. L’Urania di Milton, la musa celeste del Paradiso perduto, non è una persona e l’autore ci tiene a precisare di averne invocato il significato, non il nome. Shelley, imitando Dante, celebrò Emilia Viviani nel suo Epipsychidion, ma la passione tardoromantica non prevalse e alla fine, per il suo ammiratore deluso, la signora Viviani divenne un «piccolo demone bruno». Per cogliere qualcosa della singolarità di Dante, dobbiamo esaminare il trattamento che il poeta riserva a una figura universale. Nessun personaggio letterario occidentale è eterno quanto Odisseo, l’eroe omerico meglio conosciuto con il nome latino di Ulisse. Da Omero a Nikos Kazantzakis, la figura di Odisseo/Ulisse subisce straordinarie trasformazioni in Pindaro, Sofocle, Euripide, Orazio, Virgilio, Ovidio, Seneca, Dante, Chapman, Calderón de la Barca, Shakespeare, Goethe, Tennyson, Joyce, Pound e Wallace Stevens, per citarne solo alcuni. Nel suo raffinato saggio The Ulysses Theme (1963), W.B. Stanford contrappone il trattamento debole ma negativo di Virgilio all’identificazione positiva di Ovidio con Ulisse, un contrasto da cui scaturiscono due delle principali concezioni che probabilmente si contenderanno in eterno le metamorfosi di questo eroe o antieroe. L’Ulisse di Virgilio diverrà quello di Dante, ma così trasformato che il ritratto virgiliano, piuttosto evasivo, tenderà a sbiadire. Poco propenso a condannare direttamente Ulisse, Virgilio lascia quel compito ai suoi personaggi, che identificano l’eroe dell’Odissea con l’astuzia e l’inganno. Ovidio, esule e autore di testi d’amore, si fonde con Ulisse in un’identità composita, lasciandoci così in eredità l’idea ormai indelebile di Ulisse come il primo dei grandi donnaioli vagabondi. Nel XXVI canto dell’Inferno, Dante creò la più originale versione di Ulisse che ci sia mai pervenuta, un Ulisse che non cerca una casa e una moglie a Itaca, ma si congeda da Circe per violare tutti i limiti e avventurarsi nell’ignoto. La terra inesplorata di Amleto, dai cui confini nessun viaggiatore mai ritorna, diviene la meta pragmatica di questo eroe, il più sorprendente di tutti i personaggio pronti a sfidare la sorte. Il XXVI canto dell’Inferno contiene un passo straordinario ma di difficile comprensione. Ulisse e Dante sono in rapporto dialettico perché il secondo teme la profonda identità tra se

stesso come poeta (non come pellegrino) e Ulisse come viaggiatore trasgressivo. Forse questa paura non è del tutto conscia, ma, a un certo livello, Dante deve averla avvertita, perché ritrae Ulisse come un individuo mosso dall’alterigia, e mai è esistito poeta più altero di Dante, neppure Pindaro, Milton, Victor Hugo, Stephan George o Yeats. Gli studiosi vogliono udire Beatrice o i santi parlare per Dante, ma né l’una né gli altri si fanno suoi portavoce. La voce di Ulisse e quella di Dante mostrano una pericolosa somiglianza e forse questo è il motivo per cui Virgilio fornisce una spiegazione insufficiente quando afferma che forse il greco disprezzerà la voce del poeta italiano. Né Dante si concede una reazione al magnifico discorso che scrive per Ulisse, descritto come una voce che parla dalla fiamma. […] Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enea la nomasse, né dolcezza di figlio, né la pièta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer poter dentro da me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore; ma misi me per l’alto mare aperto, sol con un legno e con quella compagna picciola dalla qual non fui diserto. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò ché l’uom più oltre non si metta; dalla man destra mi lasciai Sibilia, dall’altra già m’avea lasciata Setta. «O frati», dissi, «che per cento milia perigli siete giunti all’occidente, a questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.» Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino, dei remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso che non surgea fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto dalla luna, poi che ’ntrati eravam nell’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché della nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque; alla quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.

Questo straordinario discorso provoca forse nel lettore comune qualcosa di simile alla seguente riflessione, scritta dal più illustre critico di Dante? «Ciò che distingue l’annegamento definitivo di Ulisse dal battesimo di Dante verso la morte e la successiva risurrezione è l’evento di Cristo nella storia, ovvero la grazia, l’evento di Cristo nella singola anima.» Un passo molto meno vigoroso potrebbe sicuramente suscitare la stessa riflessione con altrettanta giustizia. Vi è una sproporzione tra una dottrina o una devozione che cancellano ogni differenza ad eccezione dell’assenso e un testo poetico quasi senza rivali. Evidentemente c’è qualcosa che non va in una lettura di Dante che cede tutta l’autorità alla dottrina cristiana, sebbene il poeta sia in parte responsabile di questa riduzione. Nell’architettura dantesca dell’inferno, ci troviamo nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, non troppo lontano da Satana. Ulisse è un consigliere fraudolento, innanzi tutto per via dell’inganno e dell’astuzia con cui ha proceduto alla conquista di Troia, antenata di Roma e dunque dell’Italia, come asseriva in particolare Virgilio. Dante non parla con Ulisse perché, in un certo senso, è Ulisse; per scrivere la Commedia, occorre fare vela verso un mare inesplorato. Dante ci dice inoltre con grande chiarezza ciò che non vuole far raccontare a Ulisse: la morte di Achille, il cavallo di Troia, il furto del Palladio, tutti eventi che giustificano la dannazione del viaggiatore. A prescindere dal suo esito, l’ultimo viaggio non rientra in quella categoria. Infiammato a sua volta, Dante si china verso la fiamma di Ulisse con desiderio, con sete di conoscenza. La conoscenza che riceve è quella

della pura ricerca, compiuta a spese di un figlio, di una moglie e di un padre. La ricerca è, tra l’altro, una metafora dell’alterigia e della caparbietà dimostrate da Dante quando quest’ultimo prolungò l’esilio da Firenze rifiutando le condizioni che lo avrebbero riportato in seno alla sua famiglia. Provare come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale, è il prezzo da pagare per la ricerca. Ulisse è disposto a pagarne uno ancora più alto. Quale esperienza è davvero più simile a quella di Dante, la trionfante conversione di Agostino o l’ultimo viaggio di Ulisse? Secondo la leggenda, Dante veniva additato per la strada come l’uomo che, in qualche modo, era tornato da un viaggio all’inferno, come se fosse una sorta di sciamano. È lecito supporre che credesse alla realtà delle sue visioni; un poeta della sua forza, che si riteneva un vero profeta, non avrebbe considerato la discesa all’inferno come una semplice metafora. Il suo Ulisse parla con assoluta dignità e terribile causticità, comunicandoci non il pathos della dannazione, bensì l’alterigia consapevole che l’alterigia e il coraggio non bastano. L’Enea di Virgilio è un po’ un saccente ed è ciò in cui molti suoi studiosi trasformano o vorrebbero trasformare Dante. Ma Dante non è Enea; Dante è indomito, egocentrico e impaziente quanto il suo Ulisse e, come Ulisse, arde del desiderio di essere altrove, di essere diverso. Probabilmente la distanza che lo separa dal suo doppio raggiunge il massimo livello quando il poeta fa parlare Ulisse in maniera così toccante di «questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente». Anche qui dobbiamo ricordare che Dante, morto a cinquantasei anni, avrebbe voluto vivere un altro quarto di secolo, perché, nel Convivio, aveva fissato la durata ideale della vita a ottantun anni. Solo allora sarebbe stato completo e forse la sua profezia si sarebbe avverata. Fermo restando che Ulisse fa vela per il «mondo sanza gente» mentre i viaggi cosmici di Dante conducono il poeta in luoghi pieni di morti, c’è una differenza tra i due cercatori, e Ulisse è senza dubbio il più estremo. Il cercatore di Dante è come minimo un antieroe, simile all’Achab di Melville, un altro uomo insieme empio e simile a un dio. Un eroe gnostico o neoplatonico è assai diverso da un eroe cristiano, ma l’immaginazione di Dante non si ispira sempre agli eroismi cristiani, a meno che non celebri il suo avo crociato, Cacciaguida, che lo contraccambia con generosità profondendosi in elogi sul coraggio e sull’audacia del suo discendente. È questo il significato recondito della visione dantesca di Ulisse: ammirazione, compartecipazione, orgoglio famigliare. Si rende onore a uno spirito affine,

benché quest’ultimo risieda nell’ottavo cerchio dell’inferno. È Ulisse ad affermare che il suo viaggio finale è stato un «folle volo», probabilmente in contrasto con il volo di Dante sotto la guida di Virgilio. Considerato rigorosamente come un poema, nessun volo potrebbe essere più folle di quello della Commedia, che Dante non vuole tuttavia considerare solo un poema. Quello è il privilegio di Dante, ma non il privilegio dei suoi studiosi, né dovrebbe essere il punto di vista dei suoi lettori. Se vogliamo individuare ciò che rende canonico Dante, il vero centro del Canone dopo Shakespeare, dobbiamo recuperare la sua singolarità compiuta, la sua perpetua originalità. Quella caratteristica ha ben poco a che fare con la descrizione agostiniana di come il vecchio io muore e di come nasce quello nuovo. Ulisse sarà anche il vecchio io e Beatrice sarà il nuovo, ma l’Ulisse di Dante è solo di Dante e lo stesso vale per Beatrice. Non potendo migliorare ciò che aveva fatto Agostino, Dante fece in modo che la Commedia non divenisse più agostiniana di quanto fosse virgiliana. Il poema è ciò che il suo autore voleva che fosse: esclusivamente dantesco. Jesus ben Sira, autore dello splendido Ecclesiastico, un testo relegato per sempre tra gli apocrifi non canonici,1 afferma di venire come uno spigolatore sulla scia di uomini famosi, i padri che ci hanno generato. Forse è questo il motivo per cui è il primo scrittore ebraico a insistere sulla propria identità di autore del libro. Non ripeteremo mai troppo spesso che Dante non venne come uno spigolatore per lodare gli uomini famosi che l’avevano preceduto: li distribuisce, secondo il suo giudizio, nel limbo, nell’inferno, nel purgatorio e nel paradiso, perché è il vero profeta e pretende di essere riconosciuto come tale nella sua epoca. I suoi giudizi sono assoluti, spietati e talvolta inaccettabili sul piano morale, almeno per molti di noi. Dante ha deciso di avere l’ultima parola, e mentre lo leggete, non avete certo voglia di contraddirlo, soprattutto perché volete ascoltare e visualizzare ciò che ha visto per voi. In vita, non deve essere stato una persona facile con cui litigare e si è sempre dimostrato agguerrito. Pur essendo morto, bianco, maschio ed europeo, Dante è la più vitale di tutte le personalità letterarie e, da questo punto di vista, compete con l’unico scrittore che riesca a superarlo, Shakespeare, la cui personalità ci sfugge sempre, persino nei sonetti. Shakespeare è tutti e nessuno; Dante è Dante. Checché ne dicano tutti i dogmi parigini, la presenza nel linguaggio non è un’illusione. Dante ha impresso se stesso in ogni verso della Commedia. II suo personaggio principale è Dante il pellegrino e, in seconda battuta,

Beatrice, non più la fanciulla della Vita Nuova, ma una figura centrale della gerarchia celeste. Ciò che manca in Dante è l’ascesa di Beatrice; ci si può chiedere perché, nella sua audacia, il poeta non abbia rivelato anche il mistero della sua elezione. Forse dipende dal fatto che tutti i modelli a sua disposizione non erano stati solo eretici, ma avevano addirittura aderito all’eresia delle eresie, lo gnosticismo. Da Simon Mago in avanti, gli eresiarchi avevano elevato le loro seguaci più fedeli alle gerarchie celesti, mentre l’irriverente Simon Mago, il primo Faust, aveva preso Elena, una puttana di Tiro, e aveva dichiarato che, in una delle sue precedenti incarnazioni, era stata Elena di Troia. Dante, il cui eros era stato sublimato pur restando permanente, non rischiò alcun confronto. Tuttavia, in senso più poetico che teologico, il mito dantesco di Beatrice è più vicino allo gnosticismo che all’ortodossia cristiana. Tutte le prove a favore di quella che potremmo definire l’apoteosi di Beatrice non sono semplicemente personali (come è necessario che sia), ma derivano da un mondo visionario simile allo gnosticismo del II secolo. Beatrice dev’essere una scintilla non creata del divino e un’emanazione della divinità, oltre che una fanciulla fiorentina morta all’età di venticinque anni. Non è soggetta alle categorie religiose del giudizio che conducono alla beatitudine e alla santità, ma sembra passare direttamente dalla morte alla gerarchia della salvezza. Nella Vita Nuova e nella Commedia, nulla fa pensare che Beatrice fosse soggetta al peccato o anche solo all’errore. Invece fu, fin dall’inizio, ciò che dice il suo nome: «Colei che rende beati». Dante dice che, a nove anni, era «uno de li bellissimi angeli del cielo», una figlia di Dio, e dopo la sua morte il poeta parla di «quella benedetta Beatrice, la quale gioiosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus». Non possiamo concludere che Dante si abbandona a un’iperbole erotica; la Commedia è inconcepibile senza Beatrice, la cui gioiosa ammissione nelle regioni superne era garantita da sempre. Petrarca, nel tentativo di prendere le distanze dal poeta più formidabile della generazione di suo padre, inventò (o almeno così credeva) un’idolatria poetica verso la sua amata Laura, ma, al di là della scandalosa autorità di Dante, che cosa ci impedisce di vedere, nell’adorazione di Beatrice, l’idolatria più poetica di tutte? Esercitando la sua autorità, Dante integra Beatrice nella tipologia cristiana, o forse sarebbe più esatto dire che integra la tipologia cristiana nella sua visione di Beatrice. Quest’ultima, e non Cristo, è il poema; Dante, non Agostino, ne è l’artefice. Con questo non voglio negare la spiritualità di Dante, ma semplicemente

sottolineare che l’originalità non è, di per sé, una virtù cristiana e che Dante conta a causa della sua originalità. Come ogni altro poeta, ad eccezione di Shakespeare, Dante non ha alcun padre poetico, sebbene affermi che Virgilio svolge questo ruolo. Virgilio, tuttavia, viene convocato da Beatrice e scompare dal poema quando la donna fa il suo ritorno trionfale, nei canti conclusivi del Purgatorio. Quel ritorno, di per sé straordinario, è preceduto da un’altra delle grandiose invenzioni di Dante, Matelda, descritta mentre raccoglie fiori in un nuovo paradiso terrestre. La visione di Matelda fu cruciale nella poesia di Shelley e non è un caso che quel passo di Dante sia stato tradotto da Shelley in quella che forse è la migliore versione inglese di un brano della Commedia. Ecco qui il punto culminante dello stralcio reso da Shelley, che poi passò a comporre una diabolica parodia di quella visione nel Trionfo della vita, la sua dantesca poesia sulla morte: I moved not with my feet, but mid the glooms Pierced with my charmèd eye, contemplating The mighty multitude of fresh May blossoms Which starred that night, when, even as a thing That suddenly, for blank astonishment, Charms every sense, and makes all thought take wing, — A solitary woman! and she went Singing and gathering flower after flower, With which her way was painted and besprent. «Bright lady, who, if looks had ever power To bear true witness of the heart within, Dost bask under the beams of love, come lower Towards this bank. I prithee let me win This much of thee, to come, that I may hear Thy song: like Proserpine, in Enna’s glen, Thou seemest to my fancy, singing here And gathering flowers, as that fair maiden when, She lost the Spring, and Ceres her, more dear.

Ecco il testo di Dante, contenuto nel XXVIII canto del Purgatorio: Coi piè ristetti e con li occhi passai di là dal fiumicello, per mirare la gran variazion di freschi mai; e là m’apparve, sì com’elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gìa cantando e scegliendo fior da fiore ond’era pinta tutta la sua via. «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti che soglion esser testimon del core,

vegnati in voglia di trarreti avanti», diss’io a lei, «verso questa rivera, tanto ch’io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera.»

Nel canto precedente, Dante aveva scritto: «Giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando», ma la sconosciuta si era identificata come Lia, la prima moglie del Giacobbe biblico, e si era contrapposta alla sorella minore, Rachele, divenuta la seconda moglie del patriarca di Israele. Lia prefigura Matelda, mentre Rachele anticipa Beatrice, ma è un po’ difficile leggerle come un contrasto tra vita attiva e vita contemplativa. «Sappia qualunque il mio nome dimanda ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda. Per piacermi allo specchio qui m’addorno; ma mia suora Rachel mai non si smaga dal suo miraglio, e siede tutto giorno. Ell’è de’ suoi belli occhi veder vaga com’io dell’addornarmi con le mani; lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».

Queste metafore sono forse state distrutte dal tempo? Hanno forse ceduto alla critica del femminismo? O accade forse che, in un’era postfreudiana, rifuggiamo dall’esaltazione del narcisismo? Nella nostra epoca, il commento di Charles Williams, di solito molto acuto, sembra senza dubbio un po’ imbarazzante: Dante sogna per l’ultima volta: sogna Lia intenta a raccogliere fiori – quale altra azione viene descritta? – e Rachele impegnata a guardarsi allo specchio – quale altra contemplazione viene descritta? – giacché ormai l’anima può gioire di se stessa, dell’amore e della bellezza.

La visione di Lia o di Matelda intenta a cogliere fiori come simbolo dell’azione o della vita attiva mi ricorda purtroppo una vignetta di James Thurber in cui due donne ne osservano una terza intenta a raccogliere fiori, e una dice all’altra: «Ha il vero spirito di Emily Dickinson, solo che talvolta si stufa». L’immagine di Rachele o Beatrice impegnata a contemplarsi nello specchio richiama l’infelice momento in cui Freud paragona il narcisismo delle donne a quello dei gatti. Le mie associazioni sono senza dubbio arbitrarie, ma la tipologia, con qualunque spiegazione erudita, non rende sempre un buon servizio a Dante. Dubito molto che volesse trasformare la Commedia in un poema «circa» la sua conversione, «circa» il suo diventare cristiano. Se fosse così, potrebbe accadere solo nel significato obsoleto della parola «circa», ossia «intorno a, alla periferia di». Al suo interno, la

Commedia parla della chiamata di Dante al ruolo di profeta. Si può diventare cristiani senza accettare il mantello di Elia, ma non se si è Dante. La visione di Matelda, che sostituisce Proserpina in un nuovo paradiso terrestre non appare al cristiano appena convertito, bensì al poetaprofeta la cui vocazione è stata confermata. Shelley, che non era un profetapoeta cristiano bensì lucreziano, subì una metamorfosi a causa del passo su Matelda perché, per lui, quei versi illuminarono la passione della vocazione poetica, il ripristino della natura paradisiaca che aveva abbandonato Wordsworth, il suo grande precursore. Matelda è la prefigurazione di Beatrice perché la Proserpina resuscitata rende possibile il ritorno della Musa. Beatrice non è un’imitazione di Cristo, bensì la creatività di Dante che anela a identificarsi con un vecchio amore, sia esso reale o in gran parte immaginario. L’idealizzazione dell’amore perduto è un’abitudine umana quasi universale; ciò che si ricorda nel corso degli anni è una possibilità perduta per l’io, anziché per l’altro. L’associazione di Rachele e Beatrice è così efficace non perché ciascuna delle due rappresenta un tipo di vita contemplativa, ma perché ciascuna è un’immagine appassionata dell’amore perduto. Rachele è importante per la Chiesa perché quest’ultima la interpreta come un simbolo contemplativo, ma è importante per i poeti e i loro lettori perché un abile narratore, lo Jahwista o scrittore J, tramutò la sua prematura morte di parto nel grande dolore della vita di Giacobbe. Nella tipologia poetica, Rachele precede Beatrice come immagine della morte prematura della donna amata, mentre Lia è collegata a Matelda come visione del compimento rimandato. Giacobbe servì Labano per conquistare Rachele e invece ricevette prima Lia. Dante spera nel ritorno di Beatrice, ma il viaggio nel purgatorio lo conduce prima da Matelda. Sebbene sia l’ora della stella mattutina, del pianeta Venere, a comparirgli è Matelda, non Beatrice. Matelda canta come una donna innamorata e Dante cammina con lei, ma si tratta solo di una preparazione, proprio come Lia era stata una preparazione a Rachele. Ciò che si rivela improvvisamente al poeta è una processione trionfale, incentrata, per quanto possa sembrare sorprendente, sulla visione del cocchio divino e della figura seduta su un trono, visione descritta dal profeta Ezechiele. Dante evita il turbamento invitando i lettori a consultare il testo biblico per i particolari più inverosimili, anche se segue l’Apocalisse di Giovanni nell’interpretare l’Uomo di Ezechiele come Cristo. Per Dante, il cocchio è il trionfo della Chiesa, non com’era, ma come avrebbe dovuto

essere; il poeta circonda questa militanza idealizzata con i libri dei due Testamenti, ancora una volta non per basarsi su questi ultimi, ma toglierseli di mezzo. Tutto questo, persino il grifone simboleggiante il Cristo, ha importanza solo a causa della bellezza che preannuncia, il ritorno di un antico amore, non più perduto irrimediabilmente. L’arrivo concreto di Beatrice nel XX canto del Purgatorio comporta la scomparsa definitiva di Virgilio. Beatrice rende superfluo Virgilio, non perché la teologia sostituisca la poesia, ma perché ora la Commedia di Dante sostituisce totalmente l’Eneide. Pur dicendo espressamente il contrario, Dante (ora nominato, dalla stessa Beatrice, per la prima e unica volta nel poema) celebra le sue capacità di poeta intronizzando Beatrice. Che cos’altro potrebbe fare sul piano pragmatico? Persino Charles Singleton, il più teologico tra i maggiori esegeti di Dante, sottolinea che la bellezza di Beatrice «viene definita superiore a qualsiasi bellezza creata dalla natura o dall’arte». Se volete assimilare Dante all’allegoria dei teologi (come cercò invariabilmente di fare Singleton), solo Dio potrebbe, attraverso la Chiesa, creare e conservare uno splendore al di là della natura e dell’arte. Come dobbiamo ricordare di continuo a noi stessi, Beatrice è tuttavia una creazione esclusiva di Dante, proprio nel senso in cui Dulcinea lo è di Don Chisciotte. Se Beatrice è più bella di ogni altra donna nella letteratura o nella storia, Dante celebra la propria capacità di rappresentazione. Nelle palesi intenzioni di Dante, il Purgatorio esplora la tesi cattolica secondo cui il desiderio di Dio, essendo stato deviato verso canali sbagliati, va ripristinato mediante l’espiazione. In tutta la sua produzione, Dante tocca il suo momento di massima audacia quando indica che il suo desiderio di Beatrice non fu mai deviato, bensì lo condusse sempre a una visione di Dio. La Commedia è un trionfo, e dunque è probabilmente il massimo esempio occidentale di poesia religiosa. È senza dubbio il massimo esempio di poema totalmente personale che induce molti lettori a credere di aver trovato la verità suprema. Persino Teodolinda Barolini, in un libro scritto espressamente per deteologizzare Dante, afferma così che «la Commedia, forse più di ogni altro testo mai scritto, cerca consapevolmente di imitare la vita, le condizioni dell’esistenza umana». Giudizio sconcertante. L’Inferno e il Purgatorio, per non parlare poi del Paradiso, cercano forse di «imitare la vita» più consapevolmente del Re Lear o addirittura dei Racconti di Canterbury, che subirono l’influenza di Dante? Qualunque sia il realismo di Dante, esso non ci dà ciò che ci offrono Chaucer

e Shakespeare: personaggi che cambiano proprio come cambiano gli esseri umani nella realtà. Nella Commedia, Dante è l’unico a cambiare e a maturare; tutti gli altri personaggi sono fissi e immutabili, e devono esserlo, poiché sono già stati sottoposti al giudizio definitivo. Quanto a Beatrice – intesa come personaggio in un poema, l’unico ruolo che può interpretare – è, per forza di cose, ancora più lontana dall’imitazione della vita. Che cos’ha a che fare, infatti, con le condizioni dell’esistenza umana? Nonostante i suoi atteggiamenti da guru, Charles Williams è, su questo punto, più sincero di quanto lo siano gli studiosi di Dante, quando parla della Commedia osservando: «Persino quel poema era necessariamente limitato. Non cerca infatti di affrontare il problema della salvezza di Beatrice e la funzione che Dante svolge al suo interno». Trovo questa affermazione un po’ assurda, ma un’assurdità di questo genere è sempre meglio del tentativo di soffocare Dante con la dottrina o scambiare il suo poema per un’imitazione della vita. Per quanto riguarda Dante come poeta, la salvezza di Beatrice non rappresentava assolutamente un problema. Beatrice salvò Dante fornendogli la sua massima immagine poetica e Dante salvò Beatrice dall’oblio, sebbene, forse, la donna non desiderasse quel tipo di salvezza. Williams si abbandona a riflessioni mistiche sul «matrimonio» tra Beatrice e Dante, ma quello è Williams e non Dante. Quando Beatrice entra nel Purgatorio, non si rivolge al poeta come un’innamorata o una madre, bensì come una divinità che parla a un mortale, seppur un mortale con cui ha un rapporto molto particolare. La sua severità nei confronti di Dante è un’altra autocelebrazione capovolta da parte del poeta, poiché Beatrice è il superbo segno della sua originalità, la messaggera della sua profezia. In realtà, a rimproverarlo è il suo genio, perché quale altro rimprovero potrebbe mai accettare il più fiero di tutti poeti? Suppongo che non sarebbe stato contrario alla discesa diretta di Cristo, ma neppure Dante avrebbe rischiato una simile rappresentazione. La musa interviene, ma il poeta la chiama «beatitudine» e le attribuisce un ruolo che potrebbe recare vantaggio a chiunque altro. Beatrice non scenderà per e verso altri, ma solo per la poesia di Dante; quest’ultimo è dunque il suo profeta, una funzione che si era preparato fin dalla Vita Nuova. Nonostante i suoi complessi rapporti con molte tradizioni – poetica, filosofica, teologica, politica – Dante non deve Beatrice a nessuna di esse. La donna si può distinguere da Cristo ma non dalla Commedia, perché è il poema di Dante, l’unica immagine tra le immagini che non raffigura Dio,

bensì il risultato ottenuto da Dante. Mi sto abituando a sentirmi dire dagli studiosi che Dante era interessato al risultato come strada verso Dio e mi rifiuto di crederci. Esiliato dalla sua città, testimone del fallimento dell’imperatore in cui aveva riposto le sue più fervide speranze, alla fine aveva solo il suo poema da opporre alla rovina cui sembrava destinato. Il filosofo George Santayana, nel suo Three Philosophical Poets (1910), fa una distinzione tra Lucrezio, Dante e Goethe, rispettivamente sulla base del naturalismo epicureo, del soprannaturalismo platonico e dell’idealismo romantico o kantiano. A proposito di Dante, Santayana afferma che «divenne per il platonismo e il cristianesimo ciò che Omero era stato per il paganesimo», aggiungendo tuttavia che l’amore, come Dante «lo sente e lo esprime, non è un amore normale o sano». Sembra sacrilego giudicare anormale o malsana la passione di Dante per Beatrice solo perché oppone così poca resistenza a una trasformazione mistica dell’amata in una parte dell’apparato divino della redenzione. Tuttavia, Santayana si dimostra acuto e innovativo quando fa questo commento, e anche quando elogia ironicamente Dante per aver precorso i tempi con il suo tenace egocentrismo. Quando Santayana osserva che Dante era un platonico diverso da tutti gli altri, avrebbe dovuto azzardare una formulazione più audace: Dante era anche un cristiano diverso da tutti gli altri e Beatrice è il segno di quella differenza, il segno di ciò che il poeta aggiunse alla fede della Chiesa. Sul piano pragmatico, almeno per i poeti e i critici, la Commedia divenne il terzo Testamento profetizzato da Gioachino da Fiore. La resistenza più indefinibile al criterio pragmatico non è quella opposta dalla scuola di Auerbach, Singleton e Freccero, bensì quella opposta da A.C. Charity nel suo studio della tipologia cristiana, Events and Their Afterlife (1966), e da Leo Spitzer, in cui Charity scorgeva un predecessore. Charity sostiene che Beatrice è un’immagine di Cristo, ma non è Cristo né la Chiesa, e ricorda che, secondo Kenelm Foster, «non sostituisce Cristo, bensì lo riflette e lo trasmette». Questa sarà anche devozione, ma non è la Commedia, in cui, quando Dante guarda Beatrice, vede Beatrice e non Cristo. L’amata non è uno specchio bensì una persona, e nemmeno Leo Spitzer, nei suoi Representative Essays del 1988, supera del tutto la difficoltà di questo status individualistico, anzi di questa unicità: Il fatto che Beatrice sia l’allegoria, non solo della rivelazione, ma anche della rivelazione personale, è dimostrato sia dall’origine autobiografica di questa figura sia dal suo status nell’aldilà: non è un angelo, bensì l’anima beata di un essere umano che, proprio come influenzò la vita di Dante sulla terra, è chiamata a rendere al poeta, nel corso del suo pellegrinaggio, servigi di cui solo lei è capace;

non è una santa, bensì una Beatrice, non una martire, bensì una donna morta in giovane età e rimasta sulla terra solo per mostrare a Dante la possibilità dei miracoli. La licenza dogmatica che Dante si concede qui appare meno audace se consideriamo il fatto che la rivelazione può presentarsi al cristiano in forma individuale, personalizzata […] Beatrice è […] la controparte degli […] individui storici che, nati prima del Redentore, lo prefigurano.

Per quanto Spitzer fosse ingegnoso, la sua tesi non regge e non diminuisce per nulla l’«audacia» di Dante. Secondo il poeta, Beatrice è molto più di una semplice rivelazione personale o individuale. All’inizio si accosta a Dante, il suo poeta, ma attraverso di lui si accosta ai lettori. Nell’Inferno, Virgilio le dice: O donna di virtù, sola per cui l’umana spezie eccede ogni contento di quel ciel c’ha minor li cerchi sui, tanto m’aggrada il tuo comandamento che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi.

Versi che Curtius spiega come segue: «Solo tramite Beatrice, l’umanità supera tutto ciò che è terreno, qualunque sia il significato di questo termine: Beatrice, e solo Beatrice, possiede una dignità metafisica per tutti gli uomini». Spitzer è inoltre troppo frettoloso nel liquidare la differenza tra essere una prefigurazione di Cristo ed essere un’imitazione di Cristo. Se Beatrice fosse venuta prima di Cristo, la si potrebbe definire come uno dei suoi tanti predecessori, ma, naturalmente, viene dopo, e ciò di cui Dante si innamorò non fu l’imitazione di Cristo. Come osserva Santayana, Beatrice è come minimo una platonizzazione del cristianesimo, che non ha mai smesso di essere platonizzato prima e dopo Dante. Al massimo, Beatrice è ciò che sosteneva Curtius: il centro di una gnosi poetica, della visione di Dante. Ciò ci riporta a Beatrice come segno dell’originalità di Dante, come cuore della sua forza e della sua singolarità. L’alterigia non è una virtù cristiana, ma è sempre stata una virtù fondamentale per i massimi poeti. Shakespeare è forse la grandiosa eccezione a questa regola, come a molte altre. Non sapremo mai quale fosse la sua posizione verso il fatto di aver scritto Amleto, Re Lear o Antonio e Cleopatra. Forse non aveva bisogno di alcuna posizione, perché il riconoscimento e il successo commerciale non gli mancarono mai. Doveva essere del tutto consapevole di quanto fosse originale ed enorme il risultato che aveva ottenuto, ma la ricerca di autocelebrazioni nei drammi è un’impresa vana, e i sonetti, che pur ne contengono alcune, esprimono anche una notevole modestia. Shakespeare avrebbe forse potuto parlare senza ironia del talento o della portata di un poeta rivale, oppure credere nella «vela

altera» del «gran verso» di George Chapman? Dante salpa con alterigia verso il paradiso e celebra se stesso per aver celebrato Beatrice. Nel Paradiso perduto, l’alterigia di Satana, seppur legata a quello di Milton, trascina il demonio verso il basso. Nella Commedia, l’alterigia di Dante porta il poeta in alto, verso Beatrice e oltre. Beatrice emana dall’alterigia del poeta ma anche da una sua esigenza. Gli studiosi interpretano ciò che la donna simboleggia o rappresenta; io propongo di cominciare a considerare che cosa Beatrice abbia permesso a Dante di escludere dal poema. Vico deplorò con garbo la vasta conoscenza teologica di Dante. Il problema non è tuttavia l’erudizione spirituale del poeta, bensì quella dei suoi esegeti. Togliete Beatrice dalla Commedia, e Virgilio sarebbe costretto a farsi sostituire dall’uno o dall’altro santo come guida di Dante dal paradiso terrestre alla Rosa dei beati. La resistenza religiosa del lettore, che forse è già più tenace di quanto gli studiosi angloamericani di Dante siano disposti ad ammettere, si acuirebbe senza dubbio se Sant’Agostino prendesse il posto di Beatrice. Particolare ancora più importante, si acuirebbe anche la resistenza del poeta alla dottrina ricevuta. Tra la visione di Dante e la fede cattolica esiste una sovrapposizione più apparente che reale, ma Dante si concentra su Beatrice anche per evitare di investire energie creative in una sterile controversia con l’ortodossia. Sono la presenza e la funzione di Beatrice a trasformare Agostino e Tommaso d’Aquino in qualcosa di molto più ricco sul piano figurativo, aggiungendo la singolarità alla verità (se credete che sia la verità) o all’invenzione (se la considerate tale). Personalmente, essendo uno studioso della gnosi poetica e religiosa, ritengo che il poema non sia la verità né un’invenzione, bensì la conoscenza di Dante, che quest’ultimo scelse di chiamare Beatrice. Conoscere con la massima intensità non significa necessariamente decidere se qualcosa sia verità o invenzione; si sa innanzi tutto di possedere davvero quella conoscenza. Talvolta chiamiamo quella conoscenza «amore», quasi sempre nella convinzione che l’esperienza sia permanente. Molto spesso ci abbandona e ci lascia nello sconcerto, ma noi non siamo Dante e non possiamo scrivere la Commedia; dunque, alla fine, l’unica cosa che conosciamo è la perdita. Beatrice è la differenza tra l’immortalità canonica e la perdita, perché, senza di lei, oggi Dante sarebbe l’ennesimo scrittore italiano prepetrarchesco morto in esilio, vittima del proprio zelo e della propria alterigia. Provo un profondo disgusto per Charles Williams, a prescindere dal fatto

che scriva fantasy cristiano, poesia grottesca o una sfacciata apologetica cristiana come in He Came Down from Heaven e The Descent of the Dove. Williams non è nemmeno quello che considero un critico letterario disinteressato. A modo suo, è un ideologo quanto i neofemministi, gli pseudo-marxisti e i riduzionisti francofili che compongono l’attuale Scuola del risentimento. Si distingue tuttavia perché è quasi l’unico a leggere Dante soprattutto come creatore della figura di Beatrice: L’immagine di Beatrice esisteva nel suo pensiero; rimase là e venne volutamente rinnovata. Questa parola, immagine, è utile per due motivi. Primo, il ricordo soggettivo dentro Dante riguardava qualcosa che era oggettivamente fuori di lui, era l’immagine di un fatto esteriore e non di un desiderio interiore. Era vista e non invenzione. L’asserzione di Dante era che non avrebbe potuto inventare Beatrice.

L’asserzione di un poeta è un poema e Dante non è né il primo né l’ultimo grande poeta ad affermare che la sua invenzione è stata uno schiarimento visivo. Forse Shakespeare avrebbe potuto dire lo stesso di Imogene nel Cymbeline. Williams paragona Beatrice a Imogene, ma Beatrice – a differenza di Dante il pellegrino e di Virgilio la guida, a differenza dell’Ulisse dell’Inferno – non è un personaggio letterario. È dotata di qualità drammatiche, compresi alcuni lampi di evidente disprezzo; ma, essendo più l’intero poema che un personaggio al suo interno, può essere compresa solo quando il lettore ha letto e assorbito l’intera Commedia, il che spiega forse la curiosa opacità (non intesa assolutamente come difetto estetico) della figura di Beatrice. Il suo atteggiamento altero, persino nei confronti del suo poetainnamorato, è assai maggiore di quanto creda Williams ed è attentamente orchestrato da Dante; esso culmina nell’intenso passo del Paradiso in cui il poeta la vede da lontano: Sanza risponder, li occhi sù levai, e vidi lei che si facea corona reflettendo da sé li etterni rai. Da quella regïon che più su tona occhio mortale alcun tanto non dista, qualunque in mare più giù s’abbandona, quanto lì da Beatrice la mia vista; ma nulla mi facea, ché sua effige non discendea a me per mezzo mista. «O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quant’ i’ ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute. Tu m’hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt’ i modi

che di ciò fare avei la potestate. La tua magnificenza in me custodi, sì che l’anima mia, che fatt’hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi.» Così orai; e quella, sì lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò all’etterna fontana.

Commentando questo sorprendente passo in un altro libro, ho osservato che Dante si rifiutò di accettare la cura dalla mano di qualsiasi uomo, per quanto santo, ma la accettò solo dalla mano di Beatrice, la sua creazione. Un critico letterario cattolico mi ha accusato di non aver compreso la fede e almeno uno studioso di Dante ha dichiarato che la mia affermazione era romantico-satanica (qualunque cosa questa espressione significhi nella nostra epoca). Chiaramente, mi riferivo alla lamentosa ed eloquente sintesi freudiana Analisi terminabile e interminabile, in cui il fondatore della psicoanalisi si lagna dicendo che i suoi pazienti non accettano la cura dalle sue mani. Dante, più altero di tutti noi, era disposto ad accettare la cura solo da Beatrice ed è a lei che rivolge la sua preghiera. La sua audacia profetica non è agostiniana, proprio come la sua politica imperiale ripudia la convinzione agostiniana che la Chiesa abbia sostituito l’impero romano. La Commedia è un poema apocalittico e Beatrice è un’invenzione possibile solo per un poeta che pretendeva di veder realizzata la sua profezia prima di morire. Che cosa avrebbe pensato Agostino del poema di Dante? Immagino che la sua principale obiezione sarebbe stata a Beatrice, un mito privato che fa passare il cielo in secondo piano, proprio come Dante distoglie l’attenzione dal Regno di Dio. Quali furono gli eventuali modelli per la creazione di Beatrice? Quest’ultima è una musa cristiana che entra nell’azione del poema e dunque si fonde con il poema al punto da impedirci di concepirlo senza di lei. Il precursore designato di Dante era Virgilio, e se nell’Eneide esiste un parallelo a Beatrice, quel parallelo non può che essere Venere. La Venere di Virgilio, come sottolinea Curtius, è una figura molto più simile ad Artemide o a Diana che ad Afrodite. È severa e controllata, stranamente sibillina, e non sembra affatto la madre di Eros rispetto al semidio Enea. A sua volta stoico ed epicureo, il vero Virgilio (rispetto al palese travisamento di Dante) non aspira alla grazia e alla redenzione, se non come tregua dalla visione senza fine della sofferenza e della sua insensatezza. Se Dante fosse stato più preciso, Virgilio si sarebbe ritrovato con il superbo Farinata nel sesto cerchio dell’Inferno, riservato agli epicurei e agli altri eretici.

Il precursore di Virgilio era Lucrezio, il più vigoroso tra tutti i poeti materialisti e naturalisti, e più epicureo di Epicuro. Dante non aveva mai letto Lucrezio, che tornò in auge solo negli ultimi decenni del XV secolo. Mi rincresce molto, perché Dante avrebbe trovato un degno rivale della sua forza. Non possiamo sapere se Lucrezio avrebbe fatto inorridire il poeta, ma quest’ultimo si sarebbe indignato se avesse scoperto che, per spirito se non per sensibilità, Virgilio era molto più vicino a Lucrezio che a lui. Senza dubbio la Venere di Virgilio si allontana volutamente dalla Venere di Lucrezio, così – se la mia ipotesi secondo cui la Venere virgiliana è la diretta antenata di Beatrice è corretta – si crea la situazione ironica in cui Lucrezio è, per così dire, il nonno malvagio di Dante. George Santayana considera correttamente la Venere del De rerum natura come un amore empedocleo che esiste nella tensione dialettica con Marte: Il Marte e la Venere di Lucrezio non sono forze morali, incompatibili con il meccanismo degli atomi; sono quel meccanismo, nella misura in cui esso ora produce e ora distrugge la vita o ogni impresa importante, come quella compiuta da Lucrezio quando compose il poema della sua redenzione. Marte e Venere, abbracciati l’uno all’altra, governano insieme l’universo; nulla nasce se non dalla morte di qualcos’altro.

La formula empedocleo-lucreziana «morire l’uno la vita dell’altro, vivere l’uno la morte dell’altro» affascinava quel mistagogo pagano di W.B. Yeats, ma sarebbe stata rifiutata con disprezzo da Dante. L’indubbia reazione di Virgilio, sulla base della sua Venere, fu ambivalente. Virgilio riprese da Lucrezio, di cui evidentemente aveva studiato il poema con attenzione, l’idea secondo cui il più autentico atto vivificante compiuto da Venere si era rivolto ai romani, tramite suo figlio Enea, loro antenato e fondatore. La sua Venere non è tuttavia stretta in un eterno abbraccio con Marte. Curioso, perché, dopo tutto, è la dea dell’amore, mentre la Venere di Virgilio è casta quanto Beatrice. A differenza di Dante, Virgilio non nutrì una profonda passione per alcuna donna e probabilmente (nelle intenzioni di Dante) meritava di comparire non solo nel X canto dell’Inferno con l’epicureo Farinata, ma anche nel XV con il sodomita Brunetto Latini, l’onorato maestro del poeta fiorentino. Notiamo un’ironia squisita nel fatto che Beatrice, la suprema musa cristiana, possa trovare la sua probabile origine nella figura di una Venere simile a Diana, in parte come reazione-formazione alla lussuriosa Venere epicurea, in parte perché il predecessore di Dante non provava desiderio verso le donne. La principale figura femminile dell’epopea virgiliana è la spaventosa Giunone, dea terribile e contrappeso alla Venere di Virgilio, anzi

contromusa di Venere. Dante ha una contromusa? Freccero la individua nella Medusa del IX canto dell’Inferno, riallacciando questa figura alla Madonna Petra delle Rime petrose dantesche, compresa la splendida sestina che esordisce con: «Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra». Freccero contrappone Dante a Petrarca, il suo successore dissenziente, la cui Laura è, in realtà, insieme una musa e una contromusa, Beatrice e Medusa, Venere e Giunone. Secondo Freccero, il paragone ha un esito favorevole per Dante, poiché Beatrice rimanda al di là di se stessa, probabilmente a Cristo e a Dio, mentre Laura resta rigorosamente all’interno del poema. A mio parere, sul piano pragmatico, questa è una differenza che non fa differenza, nonostante le rigidità agostiniane di Freccero: Come Pigmalione, Petrarca si innamora della sua creazione e ne viene creato a sua volta: il gioco di parole lauro/Laura allude al processo autonomo che costituisce l’essenza della creazione. Con la sua poesia, Petrarca crea Laura, che a sua volta crea la reputazione di Petrarca come poeta laureato. La donna non è dunque una mediatrice che rimanda al di là di se stessa, bensì è chiusa entro i confini dell’esistenza di Petrarca come poeta, cioè entro i confini del poema. È proprio ciò che Petrarca ammette quando, nella preghiera conclusiva, confessa il peccato di idolatria, l’adorazione verso l’opera delle sue mani.

Se non siamo persuasi da Dante sul piano teologico – e ormai quasi nessuno di noi lo è – che cosa alimenta la convinzione di Freccero secondo cui il poeta è, in qualche modo, libero dagli inevitabili dilemmi estetici di Petrarca? Essendo l’antenato della poesia sia rinascimentale sia romantica, e dunque anche della poesia moderna, Petrarca deve forse condividere i presunti peccati di coloro che arrivano dopo la dissoluzione della sintesi medievale? Dante, come Petrarca, si innamora della sua creazione. Che cos’altro può essere Beatrice? Poiché quest’ultima è la massima originalità della Commedia, non si può forse dire che, a sua volta, crea Dante? Dante è l’unico a farci credere che Beatrice rimandi al di là di se stessa, e la donna è senza dubbio confinata all’interno della Commedia, a meno che non riteniate che la gnosi personale di Dante sia vera non solo per lui, ma anche per chiunque altro. Ad eccezione di Dante, il pellegrino dell’eternità, esiste qualcuno che rivolga le sue preghiere a Beatrice? Petrarca era lieto di confessare la propria idolatria perché, come ha dimostrato Freccero con estrema chiarezza, la confessione lo aiutò a prendere le distanze dal suo schiacciante precursore. Ma Dante non adora forse la Commedia finita, la stupefacente opera delle sue mani? L’idolatria è una categoria teologica e una metafora poetica; Dante, come Petrarca, è un poeta, non un teologo. Petrarca riconobbe senza dubbio che Dante era un poeta superiore alla vittima di Laura; ma tra i due è stato il

Petrarca a esercitare una maggiore influenza sui poeti successivi. Dante scomparve fino al XIX secolo, dopo aver goduto di scarsa stima durante il Rinascimento e l’Illuminismo. Petrarca aveva preso il suo posto, realizzando così il suo astuto programma di conversione all’idolatria poetica o di invenzione della poesia lirica. Dante era morto nel 1321, quando Petrarca aveva diciassette anni. Allorché, intorno al 1349, Petrarca aveva steso la prima versione dei sonetti, sembrava sapere di aver inaugurato una scrittura che trascendeva la forma del sonetto, e che non accenna a scomparire nemmeno sei secoli e mezzo dopo. Una seconda Commedia non è stata possibile più di quanto lo sia stata la tragedia dopo che Shakespeare smise di scriverla. Per l’ultima volta, la grandezza canonica di Dante non ha nulla a che vedere con sant’Agostino o con le verità – sempre ammesso che siano verità – della religione cristiana. Nel triste momento attuale abbiamo bisogno soprattutto di recuperare il nostro senso di individualità letteraria e autonomia poetica. Come Shakespeare, Dante è una risorsa fondamentale per quel recupero, purché riusciamo a ignorare le sirene che ci cantano l’allegoria dei teologi. 1 Libro deuterocanonico accolto dalla Chiesa cattolica, mentre la Bibbia luterana lo considera non canonico [n.d.c.].

4. LA COMARE DI BATH, L’INDULGENZIERE E IL PERSONAGGIO SHAKESPEARIANO Escluso Shakespeare, Chaucer è il più grande tra gli scrittori di lingua inglese. Questa affermazione, che si limita a ripetere il giudizio tradizionale, acquista un valore ancora più grande all’inizio del nostro secolo. La lettura di Chaucer o dei suoi pochi rivali letterari dopo gli antichi – Dante, Cervantes, Shakespeare – può avere il felice esito di ripristinare prospettive che forse tutti noi siamo tentati di abbandonare. Siamo infatti minacciati dall’assalto di capolavori istantanei in un momento in cui Chaucer incarna la giustizia culturale, imponendo l’eliminazione delle considerazioni estetiche. Quando si passa da ciò che viene sopravvalutato a ciò che non può essere sopravvalutato, i Racconti di Canterbury sono un tonico infallibile. Si passa da nomi scritti su una pagina a quella che sono costretto a definire la realtà virtuale dei personaggi letterari, uomini e donne convincenti e persuasivi. Che cosa diede a Chaucer la capacità di rappresentare i suoi personaggi in quel modo e di renderli permanenti? In una magnifica biografia pubblicata nel 1987, il compianto Donald R. Howard tenta di rispondere a questa domanda pressoché impossibile. L’autore ammette che non abbiamo una conoscenza approfondita di Chaucer al di là delle sue opere, ma poi ci ricorda il contesto umano del poeta: Nel tardo Medioevo, la proprietà e l’eredità erano preoccupazioni costanti – anzi, autentiche ossessioni –, soprattutto tra la classe mercantile cui appartenevano i Chaucer, e il sequestro, la rapina a mano armata e le false cause legali erano strumenti tutt’altro che insoliti per venirne in possesso. Gli inglesi dell’epoca di Chaucer non assomigliavano agli introversi inglesi stereotipici dei tempi moderni, figli dell’Illuminismo e dell’Impero; assomigliavano di più ai loro antenati normanni, irascibili e dediti agli eccessi quando erano tra pari (erano invece riservati dinanzi a individui inferiori o superiori). Piangevano senza vergogna in pubblico, si abbandonavano all’ira, usavano sfilze di imprecazioni fantasiose e si dedicavano a interminabili battaglie legali e a sanguinose faide dal sapore quasi melodrammatico. In epoca medievale, il tasso di mortalità era elevato, e la vita più precaria; troviamo più spietatezza e terrore, più rassegnazione e disperazione, e una maggiore tendenza a sfidare la sorte. Troviamo anche più violenza, o meglio una violenza più vendicativa, più appariscente: teste decapitate esibite su pali o corpi appesi alle forche erano nello stile di quegli uomini, mentre le foto segnaletiche negli uffici postali sono nel nostro.

Il nostro stile, ahimè, cambia rapidamente, con i pacchi bomba che esplodono nelle università, il terrorismo musulmano fondamentalista che scoppia a New York e le sparatorie che riecheggiano a New Haven anche mentre siedo qui a scrivere. Howard afferma che Chaucer visse tra guerre, pestilenze e ribellioni, e nessuno di quegli eventi sembra troppo improbabile nell’America contemporanea, dove persino Howard è caduto vittima

dell’attuale versione della peste poco prima che il suo libro venisse pubblicato. Il suo messaggio generale resta valido: i tempi di Chaucer non erano sereni, i suoi connazionali non erano pacifici e i suoi pellegrini di Canterbury avevano molto per cui pregare una volta raggiunto il santuario di san Thomas Becket. La personalità dell’uomo Chaucer, non solo quella del pellegrino Chaucer descritto con ironia, risalta con grandissima forza in tutta la sua produzione poetica. Come nel caso dei suoi diretti precursori, Dante e Boccaccio, la grande originalità di Chaucer emerge con massima chiarezza sia nei suoi personaggi sia nella sua voce, nella sua maestria di tono e figurazione. Come Dante, Chaucer inventò nuovi modi di rappresentazione dell’io e ha, con Shakespeare, più o meno lo stesso rapporto che Dante aveva con Petrarca; la differenza è l’incredibile fecondità di Shakespeare, capace di trascendere persino ciò che John Dryden disse dei Racconti di Canterbury: «Qui c’è l’abbondanza di Dio». Nessuno scrittore, né Ovidio né l’«Ovidio inglese» (Christopher Marlowe), esercitò su Shakespeare un’influenza determinante come quella di Chaucer. I motivi chauceriani, sviluppati solo in parte da Chaucer, sono il punto di partenza per la più grande originalità di Shakespeare, il suo modo di rappresentare la personalità umana. Prima di delineare l’eredità che Chaucer lasciò al drammaturgo, occorre tuttavia descrivere e spiegare la grandezza di questo poeta. Il mio critico prediletto di Chaucer rimane G.K. Chesterton, che osserva: «A volte l’ironia chauceriana è così grande da essere troppo grande per essere vista» e riassume come segue gli elementi centrali di quell’ironia: In essa vi sono alcune tracce delle idee enormi e profondissime legate alla natura stessa della creazione e della realtà. In essa vi è qualcosa della filosofia di un mondo fenomenico, ed è a questo che alludevano i saggi, per nulla pessimisti, secondo cui viviamo in un mondo delle ombre di Chaucer, e secondo cui, quando quest’ultimo si colloca su un certo piano, si scopre altrettanto nebuloso. In essa vi è tutto il mistero del rapporto tra il creatore e le cose create.

Chesterton, con il suo caratteristico senso del paradosso, riallaccia lo straordinario realismo di Chaucer, la sua profondità psicologica, a un’ironica consapevolezza del tempo perduto, di una realtà superiore, che è fuggita abbandonando i suoi resti ai rimpianti e alla nostalgia. La buona volontà esiste, ma in Chaucer è sempre compromessa, e l’allontanamento dalla generosità cavalleresca è ravvisabile ovunque. L’interesse di Chesterton per un mondo romantico ormai scomparso, interesse ereditato da Chaucer, viene confermato da Donald Howard come «idea» che informa i Racconti di Canterbury. Questi ultimi ci forniscono «il quadro di una società cristiana disordinata in uno stato di obsolescenza, declino e incertezza; non sappiamo

in quale direzione si muova». Solo un ironista sarebbe stato in grado di presentare un quadro del genere. Nella sua biografia, Howard individua la causa dell’alienazione o dell’ambivalenza di Chaucer nella tensione tra l’appartenenza al ceto mercantile e l’educazione aristocratica poi impartita al giovane poetacortigiano. Nonostante il suo continuo attaccamento all’allegoria dell’Età teologica, Dante inaugurò l’Età aristocratica della letteratura, ma Chaucer, a differenza di Dante, non apparteneva neppure alla piccola nobiltà. Diffido sempre delle spiegazioni sociali proposte per l’atteggiamento ironico di un grande poeta in cui il temperamento e lo sfarzo resistono a qualsiasi sovradeterminazione. La coscienza di Chaucer è così grande, la sua ironia è così dilagante e personale, che la tesi secondo cui sono un semplice prodotto delle circostanze sembra inverosimile. Il precursore inglese di Chaucer fu l’amico John Gower, un poeta più vecchio di una decina d’anni e, al confronto, senza dubbio secondario. L’inglese è la lingua che Chaucer parlava da bambino, ma il poeta parlava anche l’anglofrancese (l’antico normanno) e, durante i suoi studi da cortigiano, aveva imparato a parlare, leggere e scrivere l’italiano e il francese di Parigi. Accorgendosi ben presto di non avere precursori inglesi abbastanza validi, si rivolse prima a Guillaume Machaut, il maggior poeta (e compositore) francese vivente. Dopo che quella prima fase era culminata nella straordinaria elegia Il libro della duchessa, si recò tuttavia in Italia per ordine del sovrano, e nel febbraio del 1373 era ormai nella Firenze prerinascimentale, nel momento in cui la grande epoca letteraria della città si avviava verso il declino. Dante era morto in esilio da oltre mezzo secolo e i suoi successori della generazione seguente, Petrarca e Boccaccio, erano già anziani; morirono entrambi nei due anni successivi. Per un poeta della forza e della portata di Chaucer, quegli scrittori – o, per essere più precisi, Dante e Boccaccio – erano inevitabili fonti di ispirazione e, dunque, causa di molte preoccupazioni. Per lui, Petrarca significava qualcosa come figura rappresentativa, ma non come vero scrittore. A trent’anni, Chaucer il poeta sapeva ciò che voleva, ma non lo trovò in Petrarca e lo riscontrò solo marginalmente in Dante. Boccaccio, il cui nome non viene menzionato nella produzione chauceriana, divenne l’origine di cui il poeta aveva bisogno. Dante, la cui altezzosità spirituale era travolgente, aveva composto un terzo Testamento, una visione della verità, del tutto inadatta al temperamento ironico di Chaucer. Le differenze tra Dante il pellegrino dell’eternità e

Chaucer il pellegrino di Canterbury sono sbalorditive, e chiaramente volute da parte del secondo. La casa della fama si ispira alla Divina Commedia, ma se ne fa amabilmente beffe, e I racconti di Canterbury costituiscono, a un livello, una scettica critica di Dante, e in particolare del rapporto tra quest’ultimo e la sua visione. Era il temperamento a differenziare Chaucer e Dante, due personalità poetiche incompatibili. Boccaccio, grande ammiratore ed esegeta di Dante, era un altro paio di maniche; lassù, nel paradiso dei poeti, non sarebbe stato molto felice di essere definito «il Chaucer italiano», proprio come Chaucer, che evitava persino di menzionare il nome Boccaccio, avrebbe detestato sentirsi chiamare «il Boccaccio inglese». A parte le appropriazioni meravigliose ed enormi di Chaucer, le affinità erano tuttavia autentiche, quasi inevitabili. Qui l’opera cruciale è il Decamerone, che Chaucer non cita mai e che forse non lesse mai per intero, ma che è il modello più probabile dei Racconti di Canterbury. La narrazione ironica il cui argomento è la narrazione è in gran parte un’invenzione di Boccaccio e lo scopo di questa innovazione era liberare i racconti dal didatticismo e dal moralismo, cosicché fosse l’ascoltatore o il lettore, e non il narratore, a divenire responsabile del loro uso, nel bene o nel male. Chaucer riprese da Boccaccio l’idea secondo cui le storie non devono necessariamente essere vere o illustrare la verità; invece, le storie sono «cose nuove» o, per così dire, novità. Poiché Chaucer era un ironista più abile e uno scrittore ancora più vigoroso di Boccaccio, la trasformazione del Decamerone nei Racconti di Canterbury fu un processo radicale, una revisione totale del progetto boccaccesco. Lette insieme, le due opere presentano un numero relativamente modesto di somiglianze, ma lo stile maturo di Chaucer non avrebbe visto la luce senza la mediazione inconfessata di Boccaccio. Secondo Chaucer, il suo capolavoro era Troilo e Criseide, uno dei pochi grandi poemi lunghi in lingua inglese, che però oggi viene letto di rado in confronto ai Racconti di Canterbury, senza dubbio la sua opera più originale e canonica. Forse il poeta sottovalutò la sua creazione più sorprendente proprio per via della sua originalità, anche se dentro di me qualcosa si oppone con forza a questa ipotesi. L’opera è incompiuta e, tecnicamente, si compone di giganteschi frammenti; ma il lettore non ha quasi l’impressione di trovarsi davanti a qualcosa di incompiuto. Anzi, potrebbe essere uno di quei libri che l’autore non si aspetta mai di finire, perché è divenuto tutt’uno con la sua vita. L’immagine dell’esistenza come pellegrinaggio, non tanto verso Gerusalemme quanto verso il discernimento, si fonde con il principio

organizzativo chauceriano del pellegrinaggio verso Canterbury, con trenta pellegrini che raccontano storie lungo il cammino. Il poema è tuttavia decisamente secolare e intriso di un’ironia pressoché inesauribile. Il narratore è Chaucer, ridotto a una totale semplicità: dotato di brio e di infinita bonarietà, crede a tutto ciò che sente e ha la straordinaria capacità di ammirare anche le caratteristiche più riprovevoli di alcuni dei suoi ventinove compagni. E. Talbot Donaldson, il più saggio e umano dei critici chauceriani, sottolinea che Chaucer il pellegrino tende a essere «assolutamente inconsapevole del significato di ciò che vede, a prescindere dalla nitidezza con cui lo vede», benché, al tempo stesso, esprima una costante e «sincera ammirazione per la furfanteria». Forse Chaucer il pellegrino non è tanto un Lemuel Gulliver, come suggerisce Donaldson, quanto una parodia più maligna di Dante il pellegrino, accanito, implacabile, spesso consumato dall’odio e, in realtà, una sorta di moralista apocalittico incline a essere fin troppo consapevole del significato di ciò che vede con una nitidezza così terribile. Sarebbe un’ironia tipicamente chauceriana sottoporre a una beffa così geniale il poeta la cui fantasiosa arroganza riempiva senza dubbio di raccapriccio l’autore della Casa della fama. Il vero Chaucer, l’ironista comico che manipola il pellegrino apparentemente innocuo, manifesta un distacco, un disinteresse rassegnato che è già shakespeariano, nella misura in cui riusciamo a isolare uno degli atteggiamenti di Shakespeare. In entrambi i poeti, il distacco contribuisce a creare un’arte dell’esclusione: spesso è difficile spiegare perché, nella descrizione di ciascun individuo, Chaucer il pellegrino ricordi determinati particolari, ma ne dimentichi o ne ometta altri. Nelle due figure più interessanti, la Comare di Bath e l’Indulgenziere, quest’arte della memoria selettiva aiuta a produrre alcune eco shakespeariane. Come osserva Howard con sagacia, Chaucer rivede Boccaccio accorgendosi «che il racconto narrato da ciascuno potrebbe raccontare una storia sul suo narratore»; è inoltre lecito supporre che quest’ultimo racconto potrebbe colmare parte delle lacune lasciate da Chaucer il pellegrino. Almeno in alcuni casi, dobbiamo credere al racconto e non al narratore, soprattutto quando il narratore è formidabile come la Comare di Bath o l’Indulgenziere. Ma, naturalmente, Chaucer il pellegrino è ancora più formidabile, perché non possiamo mai avere la certezza che sia ingenuo come vuole apparire. Secondo alcuni critici, il narratore è terribilmente raffinato e, in realtà, è Chaucer il poeta, intento a mascherarsi dietro una banalità così astuta da essere pericolosa, una banalità

cui non nulla sfugge. Credo che, per leggere un ironista completo e affascinante come Chaucer, occorra tornare indietro fino allo Jahwista oppure correre avanti fino a Jonathan Swift. Uno dei miei attacchi preferiti rivolti al Libro di J è venuto da uno studioso della Bibbia che si è domandato: «Che cosa induce il professor Bloom a pensare che l’ironia esistesse già tremila anni orsono?». Poiché Chaucer non è un testo sacro, vi sono minori resistenze ad accettare la difficile verità che un narratore universale come l’autore dei racconti dei pellegrini di Canterbury scriva di rado un passo non ironico. Può darsi che il vero genitore letterario di Chaucer fosse lo Jahwista e che la sua vera figlia fosse Jane Austen. Tutti e tre gli scrittori fanno dell’ironia il loro principale strumento di scoperta o invenzione, costringendo i lettori a scoprire da soli ciò che hanno inventato. A differenza della ferocia dell’ironia swiftiana, che è un corrosivo universale, l’ironia di Chaucer è di rado inumana, anche se non possiamo avere certezze sulla depravazione dell’Indulgenziere e anche se quasi tutti i presunti pellegrini si rivelano non essere affatto tali. Come doveva sapere anche Shakespeare, «onesto Iago», la terribile formula che ritorna in tutto l’Otello, è un’ironia chauceriana. Il diretto antenato dell’«onesto Iago» è il «mite Indulgenziere». Jill Mann, nella migliore analisi dell’ironia chauceriana in cui mi sia mai imbattuto, afferma che le ambiguità di quella caratteristica sono incentrate sulla sua mobilità: essa spicca incessanti salti comici verso un’altra visione delle cose, negandoci così in continuazione la possibilità del giudizio morale, poiché l’illusione si nasconde nell’illusione. Ciò mi riporta alla mia ipotesi, secondo cui l’ironia chauceriana è una reazione all’arroganza dell’atteggiamento profetico di Dante. Di fronte alla Comare di Bath, all’Indulgenziere e ad altri pellegrini di Canterbury, Dante (se ne avesse voglia) non esiterebbe a collocarli nei cerchi più adatti dell’Inferno. Il loro interesse riguarderebbe semmai il dove e il perché dimorino nell’eternità, poiché Dante si concentra solo sulle realtà ultime. Per Chaucer, la finzione letteraria non è un mezzo per rappresentare o esprimere una verità suprema, bensì è perfetta per descrivere l’affetto e qualunque altro elemento sia legato alle illusioni. Forse Chaucer resterebbe sorpreso se sapesse che lo consideriamo in primo luogo un ironista; a differenza di Dante, che amava solo la sua creazione (Beatrice), Chaucer sembra aver nutrito un amore cauto per l’intera commedia della creazione. Alla fine, non dobbiamo dividere Chaucer l’uomo, Chaucer il poeta e

Chaucer il pellegrino: si fondono tutti e tre in un amorevole ironista la cui maggiore eredità è una schiera di personaggi letterari che, nella lingua inglese, sono secondi solo a quelli di Shakespeare. In loro vediamo sbocciare quella che sarà la principale capacità immaginativa di Shakespeare: la rappresentazione del cambiamento all’interno di particolari personalità drammatiche. Chaucer anticipa di secoli l’interiorità che associamo al Rinascimento e alla Riforma: i suoi uomini e le sue donne cominciano a sviluppare un’autocoscienza che solo Shakespeare seppe trasformare in capacità di origliarsi, stupirsi e desiderare il cambiamento. Accennata qua e là nei Racconti di Canterbury, l’anticipazione di quella che, dopo Freud e in contrapposizione alla psicologia morale, chiamiamo psicologia del profondo raggiunse, in Shakespeare, una pienezza che Freud, come ho già notato, poté solo codificare e mettere in prosa. Torniamo così alla domanda di Howard, sebbene il suo interesse si concentrasse sulla storia e il mio sul personaggio: che cosa diede a Chaucer la capacità di trascendere le sue ironie e dunque di rendere i suoi personaggi con una vitalità superata solo da Shakespeare, e per giunta con l’aiuto di Chaucer? Per quanto il quesito sia arduo e speculativo, proverò a tratteggiare una risposta. Seppur in modo molto diverso, i due personaggi chauceriani più profondi e individuali sono la Comare di Bath e l’Indulgenziere, rispettivamente una grande vitalista e qualcosa di molto simile a un autentico nichilista. I critici moraleggianti non amano la Comare di Bath più di quanto amino il suo unico figlio, Sir John Falstaff; l’Indulgenziere – come Iago e Edmund, i suoi discendenti un po’ più remoti – è invece al di là di qualsiasi tentativo moraleggiante, ancora una volta come i suoi discendenti supremi, Svidrigailov e Stravrogin – i due nichilisti piuttosto shakespeariani di Dostoevskij –, i cui attributi devono qualcosa soprattutto allo Iago di Shakespeare. Senza dubbio la Comare di Bath e l’Indulgenziere sono molto più comprensibili e gradevoli se li paragoniamo a Falstaff e Iago, anziché confrontarli con le loro possibili fonti nel Roman de la Rose, il principale poema medievale prima di quello chauceriano. Gli studiosi derivano il personaggio della Comare di Bath dalla Vecchia, l’anziana tenutaria di un bordello all’interno dell’opera francese, mentre riallacciano l’Indulgenziere a Falso Sembiante, un ipocrita che vivacizza il Roman. A differenza della Comare di Bath e di Falstaff, la Vecchia è tuttavia più acrimoniosa che vitalistica, e Falso Sembiante non ha nulla della pericolosa intelligenza che

contraddistingue sia il mite Indulgenziere sia l’onesto Iago. È difficile comprendere perché molti illustri critici di Chaucer e Shakespeare mostrino un moralismo più disperato di quello dei loro poeti, e sospetto che questo fenomeno sia legato all’attuale malattia del compiacimento morale, che distrugge lo studio letterario in nome della giustizia socioeconomica. Eredi del platonismo anche quando non conoscono Platone, gli studiosi tradizionali e i rappresentanti del risentimento tentano di separare il poetico dalla poesia. Le massime creazioni di Chaucer sono la Comare di Bath e l’Indulgenziere, cosa di cui evidentemente Shakespeare si accorse e da cui trasse vantaggio, molto più di quanto abbia tratto vantaggio da qualsiasi altro stimolo letterario. Capire che cosa abbia commosso Shakespeare significa tornare sul vero sentiero della canonizzazione, lungo il quale i maggiori scrittori eleggono i loro inevitabili precursori. Fu Edmund Spenser a definire Chaucer la «pura sorgente dell’inglese incontaminato», ma fu Shakespeare a diventare, come osserva con eleganza Talbot Donaldson, «il cigno della sorgente», intento a bere ciò che era tipico di Chaucer, un nuovo tipo di personaggio letterario, o forse un nuovo modo di descrivere un vecchio tipo, sia nell’ambiguità morale della voglia di vivere mostrata dalla Comare di Bath sia nell’ambivalenza immorale della voglia di ingannare e di essere smascherato mostrata dall’Indulgenziere. Apprendiamo che Chaucer era orgoglioso di aver creato la Comare di Bath da una breve poesia matura dedicata all’amico Bukton, un testo che parla delle «cure di chi è sposato» e cita questo personaggio come un’autorità: La Comare di Bath, vi prego, parliamo di questa materia che abbiamo tra le mani. Dio vi conceda di condurre liberamente una vita in libertà, ché assai duro è essere legati.

Quando incontriamo per la prima volta la «brava Comare», nel Prologo generale dei Racconti di Canterbury, restiamo senz’altro colpiti, ma non siamo affatto preparati ai fuochi d’artificio che troveremo nel prologo del suo racconto, nonostante gli accenni iniziali del narratore alla sua esuberante sessualità. È un po’ sorda, per motivi che scopriremo più avanti; ha le calze scarlatte e ha un volto bello, impertinente e di colorito acceso, come le calze. Ha i denti radi – un probabile segno di lussuria –, è sopravvissuta a cinque mariti, senza contare altre amicizie di gioventù, ed è una pellegrina famigerata a livello nazionale e internazionale, perché i pellegrinaggi erano l’equivalente delle «crociere dell’amore» tipiche della nostra epoca corrotta.

Tuttavia, ciò indica solo che aveva «parecchia pratica di viaggi» e che era esperta nell’«antica danza» dell’amore. La sua arguzia falstaffiana, il suo femminismo (come potremmo chiamarlo oggi), e soprattutto la sua incredibile voglia di vivere, non sono ancora emersi con chiarezza. Howard ci ricorda che quando Chaucer inventò la Comare di Bath, era vedovo, e aggiunge con sagacia che, dopo gli antichi, nessuno scrittore dimostrò una conoscenza così profonda della psicologia femminile e riuscì a descrivere le donne con tanta solidarietà. Sono d’accordo con Howard quando quest’ultimo afferma che, qualunque rimprovero le rivolgano i moralisti, la Comare è un’assoluta delizia, anche se sono ossessionato dal suo avversario più formidabile, William Blake, che trovò in lei l’incarnazione della Volontà femminile (per usare le sue parole). Il commento di Blake alla sua illustrazione dei pellegrini di Canterbury è piuttosto duro nei confronti della Comare, ma evidentemente quest’ultima lo spaventava: «È anche un flagello e una calamità. Non dirò altro di lei, né rivelerò ciò che Chaucer ha lasciato nascosto; che il giovane lettore studi quanto il poeta disse di lei: è utile quanto uno spaventapasseri. Di personaggi del genere ne nascono troppi per la pace del mondo». Tuttavia, senza personaggi del genere, vi sarebbero meno vita nella letteratura e meno letteratura nella vita. Il prologo della Comare di Bath è una sorta di confessione, ma ancor più una trionfante difesa o apologia. Inoltre, a differenza del prologo dell’Indulgenziere, la sua fantasticheria simile a un monologo interiore non ci dice sul suo conto più di quanto sappia lei stessa. Nella prima frase del prologo la Comare cita l’«esperienza» come sua autorità. Restare vedova per cinque volte, seicento anni fa o oggi, conferisce una certa aura a una donna e la Comare ne è consapevole; ma dichiara allegramente di volere un sesto marito, invidiando al tempo stesso il saggio re Salomone per le sue mille compagne di letto (settecento mogli, trecento concubine). A incutere soggezione nei confronti della Comare sono la sua inesauribile vitalità e il suo entusiasmo: sessuale, verbale, polemico. La sua esuberanza non ha precedenti letterari e fu uguagliata finché Shakespeare creò Falstaff. Immaginare un incontro tra la Comare e il grasso cavaliere è una fantasia letteraria legittima. Falstaff è più intelligente e più arguto della Comare, ma nemmeno lui, con tutto il suo brio, sarebbe riuscito a zittirla. Particolare affascinante, in Chaucer è lo spaventoso Indulgenziere a interromperla, ma soprattutto per incoraggiarla a continuare, e lei continua. Nell’Enrico V, Shakespeare scrisse una presunta (non effettiva) scena di

morte per Falstaff; neppure Chaucer avrebbe saputo immaginare una scena analoga per la Comare, e questo è il massimo tributo che possiamo renderle, dimenticando il coro degli studiosi moraleggianti: la Comare ha in sé solo la vita, la perpetua benedizione di altra vita. Come dice il Frate, quello della Comare è un lungo preambolo per un racconto: prosegue per oltre ottocento versi, mentre il racconto vero e proprio ne contiene solo quattrocento e, ahimè, ci dà una piccola delusione estetica dopo la rivelazione di un io tanto irresistibile. Il lettore, a meno che non sia incline a moraleggiare, vorrebbe tuttavia che il prologo fosse ancora più lungo e il racconto ancora più breve. Chaucer è chiaramente affascinato dalla Comare, come, su un altro piano, è ammaliato dall’Indulgenziere; sa che questi due personaggi si sono liberati e proseguono misteriosamente da soli, miracoli di un’arte capace di rappresentare gli aspetti grotteschi della natura. Nella letteratura occidentale, non conosco un personaggio femminile più incontestabile della Comare quando deplora le conseguenze del fatto che siano stati gli uomini a scrivere quasi tutti i libri: Perdio, se le femmine avessero scritte le storie, come han fatto i chierici nei loro oratori, avrebbero narrate maggiori malvagità di uomini, che tutta la generazione non possa ristorare.

È stata la sua efficace miscela di sincerità confessionale e sessualità incontenibile a spaventare molti degli studiosi uomini che l’hanno diffamata. La sua critica, implicita e puramente pragmatica, della scala morale usata dalla Chiesa per misurare la perfezione è tanto sottile quanto comica e anticipa gran parte dei dissidi che dividono la Chiesa e le femministe cattoliche mentre scrivo queste righe. In parte, la Comare ha offeso i moralisti semplicemente perché ha una personalità energica, e Chaucer, come tutti i grandi poeti, credeva nella personalità. Poiché la Comare è anche una sovvertitrice di armonie prestabilite, molti la relegano nella categoria del grottesco, dove risiede legittimamente l’Indulgenziere. Sebbene la Comare accetti la struttura della concezione ecclesiastica della moralità, conserva un profondo impulso a dissentire dall’attaccamento alla Chiesa. Giudica assurda una scala della perfezione che colloca la vedovanza al di sopra del matrimonio, come aveva fatto san Gerolamo, e non condivide neppure la dottrina secondo cui i rapporti sessuali tra coniugi sono sanciti solo per la procreazione. Nonostante i suoi cinque mariti defunti, la Comare sembra essere senza figli e non dice nulla in proposito. L’argomento su cui si scontra con

l’ideologia della Chiesa medievale è il predominio all’interno del matrimonio. La sua fede incrollabile nella sovranità femminile è il centro della sua ribellione, e non sono d’accordo con Howard quando afferma che il racconto della Comare «mina le sue concezioni femministe, rivelando qualcosa che avremmo solo potuto intuire, qualcosa che nemmeno lei sa». Secondo questa logica, la Comare desidera solo una sottomissione esteriore o verbale da parte del marito, ma ciò equivale a sottovalutare la dose di ironia chauceriana che la caratterizza. Due versi non costituiscono un racconto e non distruggono ottocento versi di prologo appassionato: «E lei gli obbedì in ogni cosa che potesse dargli piacere o godimento». A mio parere, la Comare intende l’espressione «in ogni cosa» in senso esclusivamente sessuale. Questi versi vengono subito dopo il passo in cui il marito bacia la moglie mille volte di seguito, e l’idea di ciò che, secondo la Comare di Bath, potrebbe dare piacere a un uomo è piuttosto monolitica. Questa donna vuole la sovranità, d’accordo, ovunque tranne che a letto, come dovrà imparare il suo inevitabile sesto marito. Come ci spiega, i suoi primi tre mariti erano buoni, ricchi e vecchi, mentre il quarto e il quinto erano giovani e turbolenti. Il quarto, che aveva osato frequentare un’amante, ha subito la giusta punizione di venire tormentato fino alla morte da sua moglie; e il quinto, che aveva la metà dei suoi anni, l’ha resa sorda a forza di ceffoni quando gli ha strappato alcune pagine dal libro antifemminista che si ostinava a leggerle. Quando finalmente l’uomo si è arreso, bruciando il libro e cedendole la sovranità, hanno vissuto felici e contenti, ma non per sempre. L’implicazione ironica di Chaucer è che la Comare ha sfiancato l’amato quinto marito con la sua lussuria furibonda, proprio come aveva stremato i primi quattro. Gli altri pellegrini comprendono con chiarezza ciò che dice la Comare. Che il lettore sia un uomo o una donna, solo la sordità o l’avversione per la vita potrebbero resistere ai più sublimi momenti di desiderio e autocelebrazione della Comare. Nel bel mezzo del racconto riguardante il quarto marito, la donna riflette sul suo amore per il vino e sullo stretto rapporto che esso ha con il suo amore per l’amore. Poi, all’improvviso, esclama: Ma, Cristo Signore, quando mi sovviene il ricordo della mia gioventù e della mia gaiezza, mi trema il cuore alla radice! Ancora oggi mi giova al cuore d’aver goduto del mondo al tempo mio. Ma la vecchiezza che tutto avvelena

mi ha diserta di beltà e di succo. E lasciamola andare, buon viaggio e che il diavolo la segua. La farina se n’è ita, con ciò è detto tutto: non mi resta che vender la crusca quanto meglio possa. Nondimeno intendo procurare di starmene in piena letizia.

Qui non ci sono nuove rivelazioni, nulla che contribuisca a completare la portata e la struttura dei Racconti di Canterbury. Questi undici versi mescolano la memoria e il desiderio della Comare, riconoscendo simultaneamente che il tempo l’ha trasfigurata. Se, in Chaucer, vi è un passo che si apre un varco tra le sue ironie, quel passo è questo, in cui l’ironia appartiene tutta al tempo, invincibile avversario di tutti i vitalisti eroici. A quella ironia, la Comare di Bath, che è ancora eroica, contrappone il più grandioso di tutti i suoi versi: «D’aver goduto del mondo al tempo mio». Il suo trionfo è l’espressione «al tempo mio»; per quanto la sua vitalità possa essere ridotta a un mucchio di scarti, la vera essenza della Comare risiede nella sua allegria falstaffiana. Il rimpianto abbonda e conferma un realistico senso della perdita: forse l’asprezza di una lussuria invecchiata non è lontana, ma la Comare sa che ormai le si addice solo una deliberata giocosità, e questa consapevolezza rappresenta la saggezza secolare o empirica capace di completare la sua critica degli ideali ecclesiastici che potrebbero condannarla. Chaucer, che, vicino alla sessantina, si sentiva davvero vecchio, le ha conferito un’eloquenza degna sia del personaggio sia del suo creatore. La Comare di Bath subisce forse un cambiamento durante la lunga confessione che costituisce il suo prologo? L’ironia chauceriana non è un modo per rappresentare il mutamento. Noi ascoltiamo il monologo della Comare di Bath, e i pellegrini fanno lo stesso, ma questa donna origlia se stessa? Restiamo molto colpiti quando scopriamo che ai suoi tempi se l’è goduta. Non resta colpita anche lei? Questo personaggio non possiede l’autoconsapevolezza colta e brillante dell’Indulgenziere, che, in genere, è cieco solo all’effetto che ha su se stesso. L’affinità più profonda tra la Comare e Falstaff risiede nella capacità di cogliere il proprio apprezzamento di sé. Poiché non desidera cambiare, manifesta in tutto il prologo una grintosa resistenza alla vecchiaia e dunque alla morte, la forma definitiva del cambiamento. Ciò che muta in lei è la qualità della sua allegria, che si trasforma da esuberanza spontanea in vitalismo del tutto autocosciente. Quel cambiamento, mi sembra, non viene trattato ironicamente da Chaucer, forse perché, a differenza di molti dei suoi studiosi, il poeta nutre un affetto troppo profondo per la sua straordinaria creazione e le permette di

rivolgersi direttamente al lettore. La sua deliberata giocosità è diversa da una giovialità forzata; il suo parallelo più vicino è il brio di Sir John Falstaff, ancora più bistrattato da parte dei critici eruditi. L’arguzia di Falstaff non diminuisce nell’Enrico IV, Parte seconda, ma abbiamo la sensazione che il personaggio vada incupendosi man mano che si avvicina il rifiuto da parte di Hal. L’entusiasmo falstaffiano continua a esistere, ma la gaiezza comincia a indurirsi, come se la voglia di vivere acquisisse una punta di ideologia vitalistica. La Comare di Bath e Falstaff divengono entrambi meno simili al Panurge di Rabelais. Sono ancora portatori della benedizione e chiedono entrambi altra vita, ma hanno imparato che il tempo non è infinito e accettano il loro nuovo ruolo di agonisti che lottano per una fetta sempre più piccola di benedizione. Sebbene la Comare abbia un’incredibile padronanza della retorica e un’arguzia pericolosa, in questo campo non può competere con Falstaff. La sua amara consapevolezza di vitalità sempre più scarsa e la sua ferma decisione a conservare la propria allegria sono i paralleli più vicini al più grande personaggio comico di Shakespeare. La Comare e Falstaff sono ironisti, prima e dopo, e, come osserva Donaldson, riescono a dominare la loro sicurezza di sé. Con Don Chisciotte, Sancio Panza e Panurge, formano una comitiva o una famiglia devota alla dimensione del gioco, in contrapposizione alla dimensione della società o dello spirito organizzato. Entro i suoi rigidi limiti, la dimensione del gioco conferisce libertà, la libertà interiore di non essere più assillati dal proprio super-io. Suppongo sia questo il motivo per cui leggiamo Chaucer e Rabelais, Shakespeare e Cervantes. Per qualche tempo, il super-io smette di tormentarci per la nostra presunta aggressività. L’impulso retorico della Comare e di Falstaff non è altro che aggressivo, ma lo scopo pragmatico è la libertà: dal mondo, dal tempo, dalle moralità dello Stato e della Chiesa, da qualunque cosa, nell’io, ostacoli i trionfi dell’autoespressione. Persino alcuni ammiratori della Comare di Bath e di Falstaff insistono nel considerarli solipsisti, ma l’egocentrismo non coincide con il solipsismo. La Comare e Falstaff sono consapevoli della presenza del prossimo e del sole, ma, in confronto a questi due affascinanti vitalisti, pochissimi degli individui che li avvicinano suscitano il nostro interesse. Molti studiosi hanno evidenziato il rapporto equivoco che la Comare e Falstaff hanno con il testo della Prima lettera ai Corinzi, in cui Paolo esorta i cristiani a persistere nella loro vocazione. La versione della Comare è: «Nello stato che Dio ci ha assegnato, io voglio perseverare, ché non son

puntigliosa», e Falstaff le fa eco e la supera: «Ebbene, Hal, è la mia vocazione, Hal: e davvero non è peccato, per un uomo, lavorare secondo la propria vocazione». Schernendo Paolo, la Comare e Falstaff non sono in primo luogo irriverenti. Essendo individui arguti, sono entrambi capaci di disilluderci, ma restano credenti. La Comare rammenta con astuzia ai religiosi che non deve necessariamente essere perfetta, mentre Falstaff è ossessionato dal destino del ricco epulone. Falstaff è più ansioso della Comare, ma quest’ultima non ha avuto la sventura di considerare il futuro Enrico V come una sorta di figlio adottivo. Appartenendo più a Shakespeare che a Chaucer, Falstaff subisce, mediante l’interiorizzazione, più cambiamenti di quanti possa subirne la Comare. Entrambi i personaggi ascoltano se stessi, ma solo Falstaff origlia davvero se stesso. Ho il sospetto che, per Shakespeare, il principale personaggio chauceriano non fosse la Comare di Bath, bensì l’Indulgenziere, l’antenato di tutti i personaggi letterari occidentali condannati al nichilismo. Mi separo con riluttanza dalla Comare di Bath e da Falstaff, ma passare da questi ultimi all’Indulgenziere e alla sua progenie shakespeariana equivale solo ad abbandonare il vitalismo positivo per quello negativo. Nessuno potrebbe amare l’Indulgenziere o Iago, ma nessuno resiste alla loro esuberanza negativa. È un luogo comune critico stabilire un legame tra la Comare di Bath e Falstaff, ma non ho visto alcuna speculazione sulla plausibile discendenza dei grandi antieroi shakespeariani (Iago nell’Otello e Edmund nel Re Lear) dall’Indulgenziere. Gli antieroi di Marlowe (Tamerlano il Grande e, ancora di più, Barabba, lo scaltro ebreo di Malta) esercitarono senza dubbio una profonda influenza sulla descrizione di Aronne il Moro nella prima tragedia di Shakespeare (quel carnaio del Tito Andronico) e su quella di Riccardo III. Tra Aronne e Riccardo da un lato e Iago e Edmund dall’altro, si insinua un’ombra che sembra appartenere all’Indulgenziere antitetico, il reietto dei Racconti di Canterbury. Persino il suo prologo e il suo racconto si collocano fuori dall’evidente struttura del grande poema incompiuto di Chaucer. Essendo una sorta di galleggiante, il racconto dell’Indulgenziere è il mondo di questo personaggio; non assomiglia a nient’altro nella produzione di Chaucer, ma mi sembra che sia il suo culmine poetico e che, per certi versi, sia insuperabile e si collochi ai limiti dell’arte. Donald Howard, meditando sulla differenza tra l’Indulgenziere e la sua storia da una parte e il resto dei Racconti di Canterbury dall’altra, paragona l’intrusione di questo personaggio al «mondo marginale dell’estetica medievale, ai disegni lascivi o

banali nei margini dei manoscritti seri», tutti precursori di Hieronymus Bosch. La presenza dell’Indulgenziere e il suo racconto sono così pungenti che, in Chaucer, il marginale diviene centrale, inaugurando quello che Nietzsche avrebbe definito «l’ospite più inusitato», la rappresentazione del nichilismo europeo. Il legame tra l’Indulgenziere e le grandi negazioni shakespeariane, Iago e Edmund, mi sembra profondo quanto la propensione di Dostoevskij a ispirarsi agli antieroi intellettuali di Shakespeare come modelli per Svidrigailov e Stavrogin. L’Indulgenziere compare per la prima volta con il suo orribile compagno, il grottesco Cursore, verso la fine del Prologo generale. Il Cursore è l’equivalente della polizia del pensiero che oggi affligge l’Iran, un laico che trascina i presunti trasgressori spirituali dinanzi a un tribunale religioso. Impicciandosi delle relazioni sessuali altrui, intasca una percentuale dei guadagni di tutte le prostitute che lavorano nella sua diocesi e ricatta i loro clienti. Essendo il narratore del Prologo generale, Chaucer il pellegrino apprezza la bonarietà dei suoi ricatti: per un quarto di buon vino rosso permette a un amico di tenersi una concubina per un anno. Per una volta, l’ironia sembra essere sopraffatta dalla riluttanza di Chaucer a reagire di fronte allo squallore morale del Cursore, il che contribuisce solo a creare il contesto per l’Indulgenziere, un personaggio molto più spettacolare. Il Cursore è solo un amabile bruto, un degno compagno dell’Indulgenziere, capace di sprofondarci in un inferno della coscienza più shakespeariano che dantesco, perché mutevole al massimo grado. Chaucer eredita l’identità degli indulgenzieri e dei ciarlatani dalla letteratura e dalla realtà dei suoi tempi, ma l’incredibile personalità dell’Indulgenziere mi sembra la sua invenzione più straordinaria. Gli indulgenzieri andavano in giro vendendo indulgenze per i peccati in violazione del diritto canonico ma, naturalmente, con la connivenza della Chiesa. Essendo laici, non avrebbero dovuto predicare, ma lo facevano, e l’Indulgenziere di Chaucer è un predicatore magnifico, capace di eclissare qualsiasi predicatore televisivo presente oggi in America. I critici non sono concordi sulla natura sessuale dell’Indulgenziere: è un eunuco, un omosessuale, un ermafrodita? Nulla di tutto ciò, oserei dire; e in ogni caso, Chaucer ha fatto in modo di non fornirci la risposta a questa domanda. Forse l’Indulgenziere la conosce, ma non abbiamo neppure questa sicurezza. Dei ventinove pellegrini, è senza dubbio il più discutibile, ma senza dubbio anche il più intelligente, capace, da questo punto di vista, di tenere quasi testa a

Chaucer, il trentesimo pellegrino. Le doti dell’Indulgenziere sono infatti così formidabili che non possiamo fare a meno di meravigliarci del suo lungo passato, di cui non ci rivela nulla. Sagace ipocrita religioso, che vende finte reliquie e osa commerciare la redenzione tramite Gesù, è tuttavia un’autentica coscienza spirituale con una vivace immaginazione religiosa. Il cuore di tenebra, che, in Joseph Conrad, è una metafora oscurantista, è una figura retorica fin troppo adatta al demoniaco Indulgenziere, che contende ai suoi discendenti fittizi il ruolo di abisso problematico, depravato e tuttavia fantasioso al massimo grado. A proposito di questo personaggio, R.A. Shoaf, un critico di Chaucer, osserva con acume: «Vende se stesso, il suo atto, in ogni giorno di lavoro; ma, a giudicare dallo schema della sua ossessione, ne è consapevole, perché rimpiange di non potersi ricomprare». Ciò di cui è consapevole è che le sue imprese, per quanto stupefacenti, non potranno redimerlo e, riflettendo sulla sua tirata e sulla sua storia, cominciamo a sospettare che a spingerlo verso la carriera di imbroglione professionista sia stato qualcosa che va al di là dell’avidità e dell’orgoglio di saper predicare con efficacia. Non sapremo mai che cosa, in Chaucer, abbia creato questo primo nichilista, almeno nella letteratura, ma trovo suggestivo un caratteristico paradosso di G.K. Chesterton: Geoffrey Chaucer era proprio ciò che il «mite Indulgenziere» non era: un mite Indulgenziere. Ma fraintenderemo tutti gli uomini di quella società curiosa e piuttosto complessa se non capiremo che, in un certo senso, le loro eccentricità erano legate allo stesso centro. La venalità ufficiale dell’Indulgenziere cattivo e l’amabilità assai ufficiosa dell’Indulgenziere buono derivavano entrambe dalle peculiari tentazioni e dalle difficili diplomazie del medesimo sistema religioso. Presero forma perché, in senso puritano, non si trattava di un sistema semplice. Esso era abituato, anche in menti assai più serie di quella chauceriana, a scorgere (per così dire) le due facce di un peccato: ora come peccato veniale completamente e indicibilmente diverso, nella sua direzione ultima, da un peccato mortale. Fu dall’abuso di distinzioni di quel genere che nacquero le distorsioni e le corruzioni, rese vivide nell’inequivocabile figura dell’Indulgenziere: la pratica delle indulgenze che era una degenerazione della teoria delle indulgenze. Ma era stato dall’uso di distinzioni di quel genere che, in origine, un uomo come Chaucer aveva raggiunto un atteggiamento mentale equilibrato e delicato, l’atteggiamento mentale che lo spingeva a guardare tutti i lati della stessa cosa; la capacità di comprendere che persino un male ha diritto di avere il suo posto nella gerarchia dei mali e, di comprendere, se non altro, che nelle abissali relatività dell’inferno e del purgatorio vi sono cose persino più imperdonabili dell’Indulgenziere.

Chesterton attribuisce a Chaucer un prospettivismo reso possibile solo dalla travolgente realtà della fede cattolica medievale. Qualunque sia la sua radice, il prospettivismo conta, sul piano poetico, più della fede. L’ambivalenza del prospettivismo libera l’Indulgenziere, una figura che segna il limite dell’ironia chauceriana. In generale, Chaucer è un vero comico, nel nostro senso (quello shakespeariano) di comicità. Il prologo e il

racconto dell’Indulgenziere non sono comici, bensì letali. Questo personaggio è, come egli stesso dice, «un uomo pieno di vizi», ma è anche un genio; un termine più moderato non sarebbe adatto né a lui né a Iago dopo di lui. Come Iago, l’Indulgenziere unisce in sé le doti del drammaturgo o narratore, dell’attore e del regista; e, ancora una volta come Iago, è insieme un eccellente psicologo morale e uno dei primi psicologi del profondo. L’Indulgenziere, Iago e Edmund gettano un incantesimo sulle loro vittime, noi compresi. Tutti e tre confessano apertamente la loro falsità, ma solo a noi o, nel caso dell’Indulgenziere, ai pellegrini di Canterbury come nostri sostituti. Il loro compiacimento per la malvagità e le capacità intellettuali che li caratterizzano ci affascina, come sempre accade con la sublime irriverenza letteraria. L’esuberanza negativa dell’Indulgenziere, di Iago e di Edmund è irresistibile quanto l’esuberanza positiva della Comare di Bath, di Panurge e di Falstaff. Noi reagiamo all’energia, come sottolinea William Hazlitt nel suo saggio On Poetry in General: Vediamo la cosa e la mostriamo agli altri come pensiamo che esista e come, nostro malgrado, siamo costretti a pensarla. L’immaginazione, incarnandoli e trasformandoli in forma, conferisce un palese rilievo ai desideri indistinti e importuni della volontà. Non desideriamo che la cosa sia così, ma desideriamo che appaia com’è. La conoscenza è infatti potere consapevole, e la mente non è più, in questo caso, lo zimbello, sebbene possa essere vittima del vizio o della follia.

A proposito di Iago, Hazlitt scrive: «È del tutto o quasi indifferente al proprio destino quanto lo è a quello degli altri; corre rischi di ogni genere per un vantaggio dubbio e insignificante; ed è lo zimbello e la vittima della sua passione dominante». Tutte considerazioni valide anche nel caso dell’Indulgenziere. Come avevano previsto Shakespeare e Chaucer, Iago e l’Indulgenziere ci contaminano. Ci divertiamo di fronte alle invenzioni dell’Indulgenziere, alle sue «reliquie» (guanti magici e bottiglioni di vetro pieni di stracci e ossi), e condividiamo l’entusiasmo con cui rinnega qualsiasi conseguenza morale della sua predicazione: Le mie mani e la lingua vanno allegramente così, che è una gioia il vedere le mie attività. La mia predica non tratta che dell’avarizia e di simili malvagità, per indurre i fedeli ad essere liberali de’ lor propri soldi e appunto verso di me. Poiché il mio scopo non è che far quattrini, e non di correggere peccati, anche se le loro anime vadano ramighe in malora.

Per noi è una gioia udire queste parole e vederle attraverso l’udito, ed è una gioia ancora più profonda leggere il magnifico racconto

dell’Indulgenziere, in cui tre giovinastri che bazzicano sempre per taverne – ragazzi chiassosi che oggi potrebbero essere motociclisti dell’Hells Angels – si ripromettono di uccidere Morte, molto attivo in quel periodo di pestilenza. Si imbattono in un uomo povero e vecchissimo che cerca solo di tornare da sua madre, la terra: Me ne vo girando pel mondo e mattino e sera batto col mio bastone la terra […] e dico: «Madre mia, aprimi».

Minacciato dagli scapestrati, il misterioso vecchio li indirizza verso il luogo in cui troveranno Morte, sotto forma di un mucchio di monete d’oro ai piedi di una quercia. Due dei tre gozzovigliatori decidono di pugnalare il più giovane, ma non prima che quest’ultimo sia stato così prudente da avvelenare loro il vino. La profezia del vecchio si compie, ma noi continuiamo a domandarci chi sia quell’uomo. Evidentemente fu un’invenzione di Chaucer, il che significa che, all’interno dei Racconti di Canterbury, è il prodotto del genio dell’Indulgenziere. Un vecchio vagabondo, apparentemente in combutta con la morte benché, pur desiderandolo, non possa morire, pronto a indirizzare gli altri verso la ricchezza che disdegna o che ha abbandonato: gli studiosi identificano giustamente questa figura con la leggenda dell’Ebreo errante. L’Indulgenziere, che è consapevole di andare incontro alla dannazione, teme forse di diventare un vagabondo di quel tipo? Essendo la proiezione dell’Indulgenziere, l’enigmatico vecchio mette a nudo la vacuità delle sue millanterie, secondo cui l’avidità è l’unico movente della sua carriera di impostore. Il suo impulso autentico è quello dell’autosmascheramento, dell’autodistruzione, dell’autocondanna. L’Indulgenziere aspetta con impazienza la propria condanna, oppure avverte l’esigenza di rimandare la disperazione e l’autoimmolazione sopportando la piccola morte dell’umiliazione inflittagli dal burbero Oste davanti agli altri pellegrini. Nell’Indulgenziere si verifica il passaggio dall’attesa impaziente della condanna, vista come condizione, all’autodistruzione vista come atto, perché questo personaggio origlia se stesso mentre parla e, su quella base, esprime una volontà negativa. Trovo questo momento molto emozionante, perché credo che, per Shakespeare, abbia segnato una fondamentale fase di revisionismo poetico, da cui sgorgarono molti elementi originali della rappresentazione del carattere, della conoscenza e della personalità umani. Pandaro, l’astuto intermediario del Troilo e Criseide di Chaucer, non era un predecessore degno di Iago e Edmund; pur essendo scaltro, è infatti troppo

bonario e più che benevolo nelle sue intenzioni. Ma ecco l’Indulgenziere che reagisce alla propria eloquenza concludendo il suo solenne racconto e offrendo i suoi servigi professionali agli altri pellegrini: Uno o due di voi per esempio, potrebbe cascare da cavallo e rompersi il collo. Vedete dunque che guarentigia è per voi che io sia capitato qui con voi in brigata, giacché tutti, grandi e piccini, io vi posso assolvere, nel momento in cui l’anima vostra volerà via dal corpo. Io consiglio il nostro oste ad esser lui il primo, come quegli che ha sulla coscienza più peccati di tutti gli altri. Qua, dunque, ser oste, tu sarai il primo ad offrire qualche cosa, ed io, sì per soli quattro soldi ti farò baciare tutte le mie reliquie. Coraggio, slaccia la borsa.

L’inequivocabile irriverenza di questo discorso invita a una reazione violenta e addirittura la esige quando l’esortazione si rivolge l’Oste, che, fra tutti i pellegrini, è il più incline ad annientare l’Indulgenziere ossessionato. In questo momento, quest’ultimo è in preda a una vertigine disperata e ha perduto il controllo, trascinato dalla sua capacità evocativa verso un’irrefrenabile esigenza di punizione. Quando l’Oste si offre brutalmente di tagliare e trasportare i testicoli dell’Indulgenziere, il volubile predicatore laico viene ridotto al silenzio: «Rimase così colpito che non volle più parlare». Non riesco a scindere queste parole dal voto finale di silenzio pronunciato da Iago: «Da questo momento non mi caverete più una sola parola di bocca». Queste due grandiose negazioni condividono una concezione di paura con cui ci contaminano pur non conoscendo personalmente la paura a livello conscio. Il genio di Iago è stranamente fuori luogo in uno spirito che conosce solo la guerra, proprio come l’Indulgenziere è uno spirito fuori posto, intento a crogiolarsi nell’inganno mentre trascura il proprio genio per evocare i terrori dell’eternità. Come le straordinarie capacità cognitive di Edmund o dello Svidrigailov di Dostoevskij, l’elemento malevolo dell’Indulgenziere e di Iago è un’intelligenza soprannaturale tesa solo a tradire la fiducia altrui. Alla fine, la grandezza canonica di Chaucer, l’unico che abbia avuto la forza di insegnare a Shakespeare i segreti della rappresentazione, si ferma nella sinistra e profetica descrizione dell’Indulgenziere, la cui progenie è ancora tra noi, nella vita come nella letteratura.

5. CERVANTES: IL DRAMMA DEL MONDO Sappiamo più sull’uomo Cervantes di quanto sappiamo su Shakespeare, e senza dubbio c’è ancora molto da scoprire, perché la sua vita fu ardua, eroica e movimentata. Shakespeare ebbe un enorme successo finanziario come drammaturgo e morì ricco, dopo aver realizzato le sue ambizioni sociali (qualunque esse fossero). Nonostante la popolarità del Don Chisciotte, Cervantes non incassò alcun diritto d’autore ed ebbe scarsa fortuna con i mecenati. Oltre a mantenere se stesso e la sua famiglia, aveva poche ambizioni realistiche e fu un drammaturgo fallito. La poesia non era la sua dote, il Don Chisciotte sì. Contemporaneo di Shakespeare (si pensa siano morti nello stesso giorno), Cervantes ha in comune con quest’ultimo l’universalità del suo genio ed è l’unico possibile concorrente di Dante e Shakespeare nel Canone occidentale. Lo associamo a Shakespeare e Montaigne perché tutti e tre sono scrittori di saggezza; non ne esiste un quarto altrettanto equilibrato, misurato e benevolo ad eccezione di Molière, e, in un certo senso, quest’ultimo era un Montaigne rinato, anche se in un altro genere. Per un verso, solo Cervantes e Shakespeare occupano la posizione di massimo prestigio; è impossibile precederli, perché arrivano sempre per primi. Di fronte al vigore del Don Chisciotte, il lettore non viene mai sminuito, ma solo valorizzato. Ciò non avviene molto spesso quando si leggono Dante, Milton o Jonathan Swift, la cui Favola della botte mi pare sempre la miglior prosa in lingua inglese dopo quella di Shakespeare, ma mi rimprovera senza sosta. E non avviene neppure quando si legge Kafka, lo scrittore centrale del nostro caos. Shakespeare è, ancora una volta, l’autore più vicino a Cervantes, e veniamo sostenuti dalla sua spassionatezza pressoché infinita. Sebbene Cervantes sia sempre attento a essere un vero cattolico, non leggiamo il Don Chisciotte come opera religiosa. Probabilmente Cervantes era un vecchio cristiano, non un discendente dei conversos ebrei o nuovi cristiani, ma non possiamo essere sicuri delle sue origini, come non possiamo sperare di comprenderne con esattezza gli atteggiamenti. Caratterizzare le sue ironie è un’impresa impossibile; non coglierle è altrettanto impossibile. Nonostante il suo eroico servizio di leva (perse definitivamente l’uso della mano sinistra durante la grande battaglia navale di Lepanto contro i turchi), Cervantes doveva essere molto diffidente nei confronti della Controriforma e dell’Inquisizione. La follia di Don Chisciotte concede a

quest’ultimo, e al suo creatore, una licenza simile a quella del Matto nel Re Lear, un’opera messa in scena contemporaneamente alla pubblicazione della parte prima del Don Chisciotte. Cervantes era quasi certamente un seguace di Erasmo da Rotterdam, l’umanista olandese i cui scritti sull’interiorità cristiana esercitavano una grande attrazione sui conversos, intrappolati tra un giudaismo che erano stati costretti ad abbandonare e un sistema cristiano che li trasformava in cittadini di seconda categoria. L’antichissima famiglia di Cervantes era zeppa di medici, una professione diffusa tra gli ebrei spagnoli prima dell’espulsione e delle conversioni coatte del 1492. Un secolo dopo, lo scrittore sembra impercettibilmente ossessionato da quel terribile anno, che aveva recato molti danni agli ebrei e ai mori nonché al benessere economico e sociale della Spagna. Sembra non vi siano mai due lettori che leggono lo stesso Don Chisciotte, e i critici più illustri dissentono su quasi tutti gli aspetti fondamentali del libro. Erich Auerbach riteneva che quest’ultimo non avesse rivali nella rappresentazione della realtà quotidiana come gaiezza incessante. Avendo appena finito di rileggere il Don Chisciotte, sono sorpreso dalla mia incapacità di scoprirvi ciò che Auerbach chiama «una gaiezza così universale e stratificata, così poco critica e aproblematica». Per il critico, i «termini simbolici e tragici» sono falsi anche quando vengono usati per categorizzare la follia del protagonista. Smentisco questa affermazione ricorrendo al più intenso e donchisciottesco di tutti gli agonisti critici, Miguel de Unamuno, un uomo di lettere basco il cui «tragico senso della vita» si fondava sul suo intimo rapporto con il capolavoro di Cervantes, che, a suo parere, sostituiva la Bibbia come autentica Scrittura spagnola. «Nostro Signore Don Chisciotte», lo chiamava Unamuno, un kafkiano prima di Kafka, perché la sua follia deriva da una fede in quella che Kafka avrebbe denominato «indistruttibilità». Il Cavaliere dalla triste figura di Unamuno è un cercatore di sopravvivenza, la cui unica follia è una crociata contro la morte: «Grande era la follia di Don Chisciotte, ed era grande perché la radice da cui cresceva era grande: l’inestinguibile desiderio di sopravvivenza, fonte delle più stravaganti follie e degli atti più eroici». In questa concezione, la follia di Don Chisciotte è un rifiuto di accettare quello che Freud chiamava «esame di realtà», ossia il principio di realtà. Quando Don Chisciotte familiarizza con la necessità del morire, muore poco dopo, tornando così a un cristianesimo concepito come culto della morte, e non solo da Unamuno tra i visionari spagnoli. Per Unamuno, la gaiezza del

libro appartiene unicamente a Sancio Panza, che purifica il suo daimon, Don Chisciotte, e così segue allegramente il triste cavaliere in ognuna delle sue irriverenti avventure. Questa lettura è, ancora una volta, assai vicina alla straordinaria parabola di Kafka La verità su Sancio Panza, nella quale è Sancio a divorare tutti i romanzi cavallereschi finché il suo demone immaginario, personificato come Don Chisciotte, parte per le sue avventure con Sancio al seguito. Forse Kafka intendeva trasformare il Don Chisciotte in una barzelletta ebraica lunga e piuttosto amara, ma può darsi che questa interpretazione sia più fedele al libro rispetto alla decisione di leggerlo, con Auerbach, come pura gaiezza. Probabilmente solo Amleto genera interpretazioni variegate quanto quelle del Don Chisciotte. Nessuno di noi può purificare Amleto dai suoi interpreti romantici, e Don Chisciotte ha ispirato una scuola di critica romantica altrettanto nutrita e tenace, nonché libri e saggi che si oppongono a questa presunta idealizzazione del protagonista di Cervantes. I romantici (me compreso) vedono Don Chisciotte come eroe, non come pazzo; si rifiutano di leggere il libro soprattutto come satira e riscontrano nell’opera un atteggiamento metafisico o visionario per quanto riguarda la ricerca condotta dal protagonista, che fa sembrare del tutto naturale l’influenza di Cervantes su Moby Dick. Dal filosofo e critico tedesco Schelling nel 1802 al musical di Broadway intitolato Man of La Mancha del 1966, vi è stata una continua esaltazione del presunto sogno-ricerca impossibile. I romanzieri sono stati i principali sostenitori di questa apoteosi di Don Chisciotte: tra gli ammiratori più entusiastici figurano Fielding, Smollett e Sterne in Inghilterra; Goethe e Thomas Mann in Germania; Stendhal e Flaubert in Francia; Melville e Mark Twain negli Stati Uniti; e quasi tutti i moderni autori ispanici. Dostoevskij, che potrebbe sembrare il meno cervantino degli scrittori, sosteneva che il principe Mysˇkin dell’Idiota era modellato su Don Chisciotte. Poiché molti attribuiscono al grande esperimento di Cervantes il merito di aver inventato il romanzo in contrapposizione al racconto picaresco, la devozione di tanti romanzieri successivi è abbastanza comprensibile; ma le enormi passioni suscitate dal libro, soprattutto in Stendhal e Flaubert, sono straordinari tributi alla sua grandezza. Naturalmente, quando leggo il Don Chisciotte, tendo a concordare con Unamuno, poiché per me il cuore del libro sono la rivelazione e la celebrazione dell’individualità eroica, sia in Don Chisciotte sia in Sancio. Per qualche strano motivo, Unamuno preferiva Don Chisciotte a Cervantes, ma io

mi rifiuto di seguirlo, perché nessuno scrittore ha instaurato un rapporto più intimo con il suo protagonista. Vorremmo sapere che cosa pensasse Shakespeare di Amleto; sappiamo quasi fin troppo bene come Don Chisciotte ha influito su Cervantes, anche se spesso le nostre conoscenze sono indirette. Cervantes inventò infiniti modi per interrompere la narrazione e costringere il lettore a raccontare la vicenda al posto dell’autore diffidente. Anche i presunti incantatori astuti e perfidi che operano senza posa per frustrare il magnifico e indomabile Don Chisciotte servono a trasformarci in lettori insolitamente attivi. Il protagonista crede che gli stregoni esistano, e Cervantes li dipinge pragmaticamente come componenti cruciali del suo linguaggio. Ogni cosa si tramuta mediante l’incantesimo, dice la lamentela donchisciottesca, e il perfido stregone è lo stesso Cervantes. I suoi personaggi hanno letto tutte le rispettive storie, e la parte seconda del romanzo riguarda soprattutto le loro reazioni alla lettura della prima. Il lettore viene educato a una reazione assai più raffinata anche quando Don Chisciotte si rifiuta ostinatamente di imparare, sebbene quel rifiuto abbia a che fare più con la sua «follia» che con lo status fittizio dei romanzi cavallereschi che l’hanno condotto alla pazzia. Don Chisciotte e Cervantes si evolvono insieme verso un nuovo tipo di dialettica letteraria, una dialettica letteraria che proclama alternatamente il vigore e la vanità della narrazione rispetto agli eventi reali. Quando, nella prima parte, il protagonista arriva a comprendere le limitazioni della finzione, Cervantes sente aumentare l’orgoglio della paternità letteraria e soprattutto la gioia di aver inventato Don Chisciotte e Sancio. Il rapporto affettuoso e spesso ostile tra questi due personaggi costituisce la grandezza del libro, ancora più del brio con cui vengono rappresentate le realtà naturali e sociali. A unire Don Chisciotte e il suo scudiero sono sia la partecipazione a quella che abbiamo chiamato «dimensione del gioco» sia l’affetto reciproco, anche se burbero. Non mi viene in mente un’amicizia analoga in tutta la letteratura occidentale, e certamente nessuna che si fondi in modo così squisito sulla conversazione spassosa. Angus Fletcher, nel suo Colors of the Mind, ne coglie molto bene l’atmosfera: Don Chisciotte e Sancio si incontrano in un tipo ben preciso di brio, nella vivacità delle loro conversazioni. Parlando, e spesso discutendo con calore, allargano il campo dei reciproci pensieri. Nessun pensiero dell’uno o dell’altro è esente da controlli o critiche. Con un disaccordo per lo più cortese – più cortese quando il conflitto è più aspro –, creano pian piano una zona di gioco libero, dove i pensieri vengono liberati affinché noi lettori vi riflettiamo sopra.

Tra le molte decine di battibecchi che vedono protagonisti Don Chisciotte e Sancio, il mio preferito si svolge nella parte seconda, capitolo 28, dopo che

il cavaliere ha emulato Sir John Falstaff nella saggezza della discrezione come principale componente del valore. Purtroppo la sua decisione l’ha indotto ad abbandonare un Sancio sbalordito alle ire di un villaggio. Dopo quell’episodio, il povero Sancio si lamenta di essere tutto dolorante e riceve dal cavaliere un conforto piuttosto pedantesco: «La causa di cotesto dolore dev’essere, senza dubbio» disse Don Chisciotte «che, siccome il bastone con cui ti han picchiato era lungo e largo, t’ha arrivato tutte le spalle, lo spazio, vale a dire, che comprende tutte coteste parti che ti dolgono; e se più ti arrivava più ti dorrebbe.» «Perdio» disse Sancio «il gran dubbio che mi ha levato vossignoria e come bene me lo ha chiarito! La causa dunque del dolore che sento era così riposta da esserci stato bisogno di dirmi che mi duole proprio tutto quello che fu arrivato dal bastone!»

In questo scambio di battute si nasconde il legame tra i due, che, sotto la superficie, apprezzano l’intimità dell’uguaglianza. Possiamo aspettare a domandarci quale sia la figura più originale, notando tuttavia che la figura congiunta cui danno vita insieme è più originale di ciascuna delle due presa singolarmente. Sancio e Don Chisciotte, un duo affiatato ma litigioso, non sono uniti solo dall’affetto reciproco e da un rispetto sincero. Nei momenti migliori, sono compagni nella dimensione del gioco, una sfera con le sue regole e la sua visione della realtà: qui il critico cervantino più prezioso è ancora una volta Unamuno, ma il teorico è Johan Huizinga nel suo acuto libro Homo Ludens (1944), che cita Cervantes solo di sfuggita. Huizinga esordisce asserendo che il suo argomento, il gioco, va distinto sia dalla commedia sia dalla follia: «La categoria del comico è legata alla follia nell’accezione più alta e più bassa di quel termine. Il gioco, tuttavia, non è folle, perché si colloca al di fuori dell’antitesi tra saggezza e follia». Don Chisciotte non è un pazzo né un folle, bensì un uomo che gioca a fare il cavaliere errante. A differenza della pazzia e della follia, il gioco è un’attività volontaria e, secondo Huizinga, ha quattro caratteristiche principali: libertà, spassionatezza, esclusione (o limitatezza) e ordine. Si possono riscontrare tutte nei vagabondaggi di Don Chisciotte, ma non sempre nel fedele servizio di Sancio come scudiero, perché questo personaggio è più lento ad abbandonarsi al gioco. Don Chisciotte si eleva in un luogo e in un tempo ideali ed è fedele alla propria libertà, alla sua spassionatezza, al suo isolamento e ai suoi limiti, finché, sconfitto, abbandona il gioco, torna alla «ragione» cristiana e muore. Unamuno dice che Don Chisciotte partì alla ricerca della sua vera patria e la trovò nell’esilio. Come sempre, il critico comprende ciò che vi è di più intimo in questo grande libro. Come gli ebrei e i mori, il protagonista è un esule, ma nello stile dei conversos e dei moriscos, ossia un esule interno. Don Chisciotte lascia il suo villaggio per cercare la

patria del suo spirito nell’esilio, perché può essere libero solo come esule. Cervantes non ci spiega mai esplicitamente perché, all’inizio, Alonso Quijano (il libro contiene diverse varianti ortografiche del nome) sia impazzito a forza di leggere romanzi cavallereschi, per poi vagare per le strade e diventare Don Chisciotte. Alonso, un povero gentiluomo della Mancia, ha un unico vizio: è un lettore ossessivo della letteratura popolare dei suoi tempi, che allontana la realtà dalla sua mente. Cervantes lo descrive come un puro caso di vita non vissuta. È scapolo, vicino ai cinquanta, probabilmente privo di esperienze sessuali, con la sola compagnia di una governante sulla quarantina, di una nipote diciannovenne, di un bracciante e dei suoi due amici: il curato del villaggio e Nicola il barbiere. Poco lontano abita una giovane contadina, la florida Aldonza Lorenzo, che, senza saperlo, è diventata l’oggetto ideale delle sue fantasie ed è stata ribattezzata con il solenne nome di Dulcinea del Toboso. Non sappiamo se questa donna sia davvero l’oggetto della ricerca intrapresa dal brav’uomo. Un critico è arrivato a ipotizzare che Quijano sia costretto a diventare Don Chisciotte a causa della cupidigia mal repressa per la nipote, idea di cui non vi è traccia nel testo di Cervantes, ma che indica la disperazione in cui l’autore getta i suoi studiosi. Cervantes ci dice solo che il suo eroe è impazzito, senza fornirci dettagli clinici di alcun genere. La reazione di Unamuno alla perdita della ragione da parte di Don Chisciotte mi sembra la migliore possibile: «L’ha perduta per amor nostro, per il nostro bene, nel tentativo di lasciarci un eterno esempio di generosità spirituale». In altre parole, l’eroe impazzisce per espiare la nostra banalità, la nostra ingenerosa mancanza di immaginazione. Sancio, un povero contadino, accetta di fare da scudiero a Don Chisciotte durante la sua seconda sortita – che si risolve nello splendido episodio dei mulini a vento –, perché, buono ed evidentemente duro di comprendonio, si convince che il cavaliere gli conquisterà un’isola e gliela farà governare. Cervantes è inevitabilmente ironico quando ci presenta per la prima volta Sancio, la cui arguzia è straordinaria e il cui vero desiderio è ottenere la fama, anziché la ricchezza, nel ruolo di governatore. Particolare ancora più importante, una parte di Sancio desidera la dimensione del gioco sebbene il resto di lui si senta a disagio con alcune delle conseguenze del gioco donchisciottesco. Come il cavaliere, Sancio cerca un nuovo ego, un’idea di cui il romanziere cubano Alejo Carpentier attribuisce la paternità a Cervantes. Io direi che Shakespeare e Cervantes vi arrivarono simultaneamente, con una

differenza nelle modalità di trasformazione dei loro personaggi principali. Don Chisciotte e Sancio Panza sono l’uno il conversatore ideale dell’altro e cambiano ascoltandosi a vicenda. In Shakespeare, il cambiamento deriva dalla capacità di origliare se stessi e dalla riflessione sulle implicazioni di ciò che si ascolta. Don Chisciotte e Sancio non sono capaci di origliare se stessi; l’ideale donchisciottesco e la realtà panzesca sono troppo solidi perché i loro sostenitori ne dubitino, dunque i due personaggi non riescono ad accettare di allontanarsi dai propri criteri. Pronunciano una serie di empietà, ma non le riconoscono. La grandezza tragica dei protagonisti shakespeariani si allarga alla commedia, alla storia e al romanzo cavalleresco, e i sopravvissuti ascoltano davvero le parole altrui solo nelle scene culminanti della rivelazione. L’influenza di Shakespeare ha superato quella di Cervantes, e non solo nei Paesi di lingua inglese. Il solipsismo moderno scaturisce da Shakespeare (e da Petrarca prima di lui). Dante, Cervantes e Molière, che dipendono dalle interazioni tra i personaggi, appaiono meno naturali del magnifico solipsismo shakespeariano, e forse lo sono davvero. Shakespeare non ci offre nulla di analogo agli scambi di battute tra Don Chisciotte e Sancio, perché i suoi amici e amanti non si ascoltano mai. Pensate alla scena della morte di Antonio, in cui Cleopatra sente e origlia soprattutto se stessa, oppure ai tentativi di gioco tra Falstaff e Hal, in cui il primo è costretto a mettersi sulla difensiva perché il secondo lo attacca senza sosta. Esistono eccezioni più sfumate, come Rosalinda e Celia in Come vi piace, ma non sono la norma. L’individualità shakespeariana è inimitabile, ma esige costi enormi. L’egoismo cervantino, esaltato da Unamuno, è sempre definito dal libero rapporto tra Sancio e Don Chisciotte, che si concedono a vicenda lo spazio per giocare. Cervantes e Shakespeare sono entrambi impareggiabili nella creazione della personalità, ma, alla fine, le maggiori personalità shakespeariane (Amleto, Lear, Iago, Shylock, Falstaff, Cleopatra, Prospero) avvizziscono gloriosamente all’aria di una solitudine interiore. Don Chisciotte viene salvato da Sancio, e Sancio viene salvato da Don Chisciotte. La loro amicizia è canonica e, in parte, modifica la successiva natura del Canone. Che cosa significa follia se chi ne soffre non può essere ingannato da altri uomini o donne? Nessuno sfrutta Don Chisciotte, neppure lo stesso Don Chisciotte. Quest’ultimo scambia i mulini a vento per giganti e gli spettacoli di burattini per situazioni reali, ma è impossibile prenderlo in giro, perché supera chiunque in arguzia. La sua è una follia letteraria e può essere

utilmente paragonata a quella, solo in parte letteraria, della voce narrante del grande poema cavalleresco di Robert Browning, Childe Roland alla torre nera giunse. Don Chisciotte è pazzo perché il suo grande prototipo, l’Orlando (Roland) di Ariosto, era caduto preda di una follia erotica. Come Don Chisciotte rammenta a Sancio, accadde la stessa cosa ad Amadigi di Gaula, un altro eroico precursore. Il Childe Roland di Browning vuole solo essere «destinato a fallire», come, prima di lui, fallirono tutti i poeti-cavalieri davanti alla Torre oscura. Don Chisciotte è molto più sano di mente; vuole vincere nonostante tutte le sue dolorose sconfitte. La sua follia, sottolinea, è una strategia poetica elaborata da altri prima di lui, ed egli non è altro che un tradizionalista. Cervantes era diffidente nei confronti di un precursore spagnolo troppo vicino; le sue affinità più profonde erano con il converso Fernando de Rojas, autore del grande dramma narrativo Celestina, un’opera non molto cattolica per via del suo feroce amoralismo e della sua mancanza di ipotesi teologiche. Cervantes osservò che «sarebbe un libro divino, a mio giudizio, se nascondesse meglio l’uomo», alludendo con chiarezza al rifiuto della sessualità umana di accettare costrizioni morali. Don Chisciotte, naturalmente, impone molte costrizioni morali ai suoi desideri sessuali, al punto che potrebbe benissimo essere un prete. E secondo Unamuno, lo era davvero: un prete della vera Chiesa spagnola, quella donchisciottesca. La sua perpetua sete di battaglie in condizioni di inferiorità quasi costante è una chiara sublimazione della pulsione sessuale. L’oscuro oggetto del suo desiderio, l’incantevole Dulcinea, è l’emblema della gloria da raggiungere nella violenza e tramite la violenza, sempre descritta da Cervantes come un’assurdità. Lo scrittore – sopravvissuto a Lepanto e ad altre battaglie nonché a lunghi anni di prigionia prima tra i mori e poi nelle carceri spagnole (dove forse aveva iniziato il Don Chisciotte) – aveva una conoscenza diretta dei combattimenti e della schiavitù. Dobbiamo guardare lo sconcertante eroismo di Don Chisciotte con un misto di grande rispetto e considerevole ironia, un atteggiamento cervantino non troppo facile da analizzare. Per quanto siano irriverenti le sue manifestazioni, il coraggio del protagonista è così convincente da superare quello di ogni altro eroe della letteratura occidentale. Il confronto diretto con la grandezza del Don Chisciotte non può spingersi molto lontano senza il coraggio del critico. Cervantes, con tutte le sue ironie, è innamorato di Don Chisciotte e di Sancio Panza, e lo stesso vale per

qualunque lettore ami la lettura. Spiegare l’amore è un esercizio vano nella vita, in cui la parola «amore» significa tutto e niente, ma dovrebbe essere una possibilità razionale nell’alta letteratura. Qui, forse, Cervantes toccò l’universale con ancora più sicurezza di Shakespeare, poiché mi sconcerta che il mio profondo amore per Sir John Falstaff, l’unico rivale di Don Chisciotte tra i cavalieri erranti, non sia sempre condiviso dai miei studenti, per non parlare poi di gran parte dei miei colleghi insegnanti. Nessuno se ne va in giro definendo Don Chisciotte «un vecchio miserabile sbronzo e disgustoso», come G.B. Shaw etichettò Falstaff, ma vi sono sempre critici cervantini che insistono nel giudicarlo uno stolto e un folle, e secondo i quali Cervantes satireggia l’«egocentrismo indisciplinato» del suo eroe. Se fosse vero, non esisterebbe alcun libro, perché chi vuole leggere di Alonso Quijano il Buono? Alla fine, disincantato, il protagonista muore religiosamente dopo aver ritrovato la ragione, ricordandomi sempre gli amici di gioventù che si sono sottoposti a interminabili decenni di psicoanalisi, per finire avvizziti e prosciugati, ogni passione spenta, pronti a morire analiticamente dopo aver ritrovato la ragione. Persino la parte prima del grande libro è tutto fuorché una satira dell’eroe, e la parte seconda, come si osserva in genere, è concepita in modo da indurre il lettore a un’identificazione ancora più decisa con Don Chisciotte e Sancio. Herman Melville, con autentico entusiasmo americano, definì Don Chisciotte «il più saggio dei saggi che siano mai vissuti», ignorando felicemente il carattere fittizio dell’eroe. Secondo Melville, vi erano tre originali assoluti tra i personaggi letterari: Amleto, Don Chisciotte e il Satana del Paradiso perduto. Achab, ahimè, non era il quarto della serie – forse perché li racchiudeva tutti e tre –, ma il suo equipaggio si ammantava di un’atmosfera cervantina, invocata esplicitamente da Melville in una magnifica perorazione che colloca Cervantes, memorabilmente e follemente, a metà strada tra il visionario del Viaggio del pellegrino e il presidente Andrew Jackson, eroe di tutti i democratici americani: Sostienimi tu, grande Dio democratico, che non hai rifiutato la perla pallida della poesia a Bunyan annerito dal carcere, tu che hai vestito di lamine martellate due volte di oro finissimo il braccio monco e indigente del vecchio Cervantes, tu che hai raccattato tra i sassi Andrew Jackson e lo hai scagliato su un cavallo di guerra e saettato più in alto di un trono! Tu che in ogni tua potente marcia sulla terra scegli sempre i tuoi campioni più eletti tra il popolo regale, sostienimi tu Signore.

Questa è un’estasi della religione americana, che ha poco in comune con il cauto cattolicesimo di Cervantes, ma che ha molte analogie con la religione spagnola del donchisciottismo descritta da Unamuno. Il senso tragico della

vita, scoperto da Unamuno nel Don Chisciotte, è anche la fede di Moby Dick. Achab è monomaniaco; lo è anche il più bonario Don Chisciotte, ma entrambi sono idealisti tormentati che cercano la giustizia in termini umani, non come uomini teocentrici ma come uomini empi e simili a dei. Achab mira solo alla distruzione di Moby Dick; per il capitano quacchero, la fama non è nulla e la vendetta è tutto. Nessuno, ad eccezione di una panoplia di incantatori mitici, ha danneggiato Don Chisciotte, che sopporta le avversità con infinito stoicismo. Il movente dell’eroe, secondo Unamuno, è la fama eterna, intesa come «un’espansione della personalità nello spazio e nel tempo». Io lo leggo come l’equivalente secolare della Benedizione dello Jahwista: più vita in un tempo senza confini. Generosità e semplice bontà sono le virtù di Don Chisciotte. Il suo vizio, se mai ne ha uno, è la convinzione, tipica dell’età dell’oro spagnola, secondo cui la vittoria ottenuta mediante le armi è tutto; ma poiché questo personaggio viene sconfitto così spesso, questo fallimento è, nella peggiore delle ipotesi, transitorio. Unamuno – e io con lui – ha considerato con estrema serietà il desiderio sublimato di Don Chisciotte per Aldonza Lorenzo e la sua successiva esaltazione della donna nei panni dell’angelica ma ingenua Dulcinea (un’esaltazione simile a quella operata da Dante nei confronti di Beatrice), il che ci dà modo di osservare il cavaliere quasi nella sua piena complessità. Don Chisciotte vive per fede pur sapendo, come mostrano i suoi momenti di lucidità, di credere in una finzione, e pur sapendo – almeno a sprazzi – che si tratta solo di una finzione. Dulcinea è una finzione suprema, e Don Chisciotte, un lettore ossessionato, è un poeta di azione che ha creato un mito grandioso. Il Don Chisciotte di Unamuno è un agonista paradossale, l’antenato dei ricercatori umiliati che vagano tra il nostro caos in Kafka e Beckett. Forse Cervantes non intendeva creare l’eroe di un’«indistruttibilità» secolare, ma questo personaggio raggiunge l’apoteosi nell’appassionato commento di Unamuno. Questo Don Chisciotte è un attore metafisico, disposto a rischiare lo scherno pur di tenere in vita l’idealismo. In contrapposizione al cavaliere idealistico di una fede essenzialmente erotica, Cervantes crea la figura dell’imbroglione, uno straordinario personaggio shakespeariano: Ginesio de Passamonte. Quest’ultimo compare per la prima volta nella parte prima, capitolo 22, come uno dei prigionieri destinati alle galere, e torna nella parte seconda, capitoli 25-27, come l’illusionista mastro Pietro, che predice il futuro tramite una scimmia

chiaroveggente e poi inscena uno spettacolo di burattini così realistico che Don Chisciotte, credendolo vero, si scaglia contro i fantocci e li fa a pezzi. Con Ginesio, Cervantes ci descrive una figura immaginaria che sarebbe a suo agio tanto fra la malavita elisabettiana quanto negli abissi più profondi dell’età dell’oro spagnola. Quando Don Chisciotte e Sancio lo incontrano per la prima volta, Ginesio è costretto a marciare lungo una strada con una dozzina di altri prigionieri, tutti condannati dal re a lavorare come rematori sulle galere. Gli altri criminali sono ammanettati, e sono tutti infilati per il collo in una catena di ferro. Ginesio, il più formidabile, è incatenato in maniera più singolare: Dopo tutti costoro veniva un tale di molto bell’aspetto, sull’età di trent’anni, senonché nel guardare, l’uno occhio si volgeva un po’ verso l’altro. Era legato diversamente dagli altri, poiché portava al piede una catena così lunga che gli rigirava tutta la persona, e al collo due collari di ferro, l’uno ribadito alla catena, l’altro era di quei forchetti che chiamano «reggiamico» o «piè d’amico»; dalla quale catena pendevano due ferri che arrivavano alla cintola e in cui erano saldate due manette che gli stringevano i polsi, chiuse con un grosso lucchetto, per modo che né con le mani poteva arrivare alla bocca, né poteva abbassare la testa per arrivare alle mani.

Come spiegano le guardie, Ginesio è pericolosissimo, così audace e astuto che temano possa fuggire nonostante le catene. È stato condannato a dieci anni sulle galere, l’equivalente di una morte civile. La crudele impossibilità di Ginesio di avvicinare la testa alle mani è, come nota Roberto Gonzalez Echevarría, un’ironia rivolta agli autori di romanzi picareschi, perché il furfante è intento a comporre la sua storia. Ascoltiamolo mentre se ne vanta: «Se vuol sapere la mia [vita], sappia che sono Ginesio di Passamonte, la vita del quale l’hanno scritta queste dita.» «È vero» disse il commissario; «lui stesso ha scritto la sua storia che meglio non si potrebbe, e ha lasciato il libro in carcere, in pegno di duegento reali.» «E penso di spegnarlo» disse Ginesio «anche se vi fosse rimasto per duegento ducati.» «Tanto è pregevole?» disse don Chisciotte. «È di tanto pregevole» rispose Ginesio «che al diavolo e Lazarillo de Tormes e quanti se n’è scritti di quel genere e se ne scriveranno. Quello che posso dire a vossia è che tratta di cose vere, e che sono verità così belle e piacevoli che non ci possono essere cose inventate da stargli alla pari.» «E come s’intitola il libro?» domandò don Chisciotte. «La vita di Ginesio di Passamonte» rispose il medesimo. «Ed è finito?» domandò don Chisciotte. «Come può esser finito» rispose egli, «se ancora non è finita la mia vita?»

L’irriverente Ginesio ha formulato un grandioso principio del picaresco, un principio che non è applicabile al Don Chisciotte, sebbene anche quest’opera termini con la morte dell’eroe. Tuttavia, Don Chisciotte muore in senso metaforico prima che Alonso Quijano il Buono muoia in senso letterale. Lazzarillo da Tormes, l’archetipo anonimo del picaresco spagnolo,

pubblicato per la prima volta nel 1553, è ancor oggi una splendida lettura. Se la storia del borioso Ginesio fosse stata migliore, sarebbe stata davvero splendida; ma naturalmente lo è, perché fa parte del Don Chisciotte. Ginesio ha già scontato quattro anni sulle galere, ma viene salvato dall’ulteriore condanna grazie all’intervento del folle e sublime Don Chisciotte. Passamonte e gli altri prigionieri fuggono sebbene Sancio, disperato, avverta il suo padrone che quell’iniziativa è un affronto diretto al re. Nel discorso in cui Don Chisciotte pronuncia la lamentosa frase: «Altri non ne mancheranno i quali in occasioni migliori rendano servigio al Re, ché mi pare una crudeltà fare schiavi quelli che Dio e la natura crearono liberi», Cervantes, che era stato prigioniero dei mori per cinque anni ed era stato arrestato di nuovo in Spagna per presunte negligenze nel ruolo di esattore delle tasse, esprime con chiarezza una passione personale che va al di là dell’ironia. Dopo una mischia generale, le guardie fuggono e il cavaliere ordina ai prigionieri liberati di presentarsi dinanzi a Dulcinea per descriverle l’episodio. Ginesio, dopo aver tentato invano di riportare alla ragione il furibondo Don Chisciotte, esorta i compagni a lapidare e spogliare lui e Sancio prima di scappare, finché: Rimasero loro soli: l’asino e Ronzinante, Sancio e don Chisciotte. L’asino, a testa bassa e pensieroso, scuotendo di quando in quando le orecchie, con l’idea che non fosse ancora smessa la tempesta delle pietre di cui gli pareva sentire ancor il frullo; Ronzinante, steso accanto al padrone, poiché cadde a terra anche lui per una nuova pietrata; Sancio, in farsetto e impaurito della Santa Confraternita; don Chisciotte, tutto mogio per vedersi così malmenato da quelli stessi a cui aveva fatto tanto bene.

Il pathos di questo passo mi sembra eccellente; è uno di quegli effetti cervantini che non si dimenticano mai. Unamuno, folle e sublime quanto il suo signore, Don Chisciotte, fa un commento azzeccato: «Tutto ciò dovrebbe insegnarci a liberare gli schiavi delle galere proprio perché non ce ne saranno grati». Don Chisciotte, afflitto, dissente dal suo esegeta basco e assicura a Sancio di aver imparato la lezione, al che il saggio scudiero replica: «Così imparerà vossignoria […] com’è vero che io son turco». Fu Cervantes a imparare, a causa dell’affetto che nutriva per una sua creazione secondaria ma meravigliosa, Ginesio da Passamonte, un «signor ladro matricolato». Ginesio, truffatore e folletto sciamanistico del perverso, è ciò che potremmo definire uno dei personaggi criminali canonici della letteratura, come il Bernardino di Shakespeare in Misura per misura o il superbo Vautrin di Balzac. Se quest’ultimo è in grado di ricomparire nei panni dell’abate Carlos Herrera, Ginesio sa travestirsi da mastro Pietro, il burattinaio. Un’altra domanda importante da porsi è che cosa, oltre all’orgoglio autoriale, abbia

spinto Cervantes a riportare in scena Ginesio da Passamonte nella parte seconda del Don Chisciotte. In generale, i critici sono concordi nell’affermare che il contrasto tra Ginesio e Don Chisciotte, il furfante imbroglione e il visionario cavalleresco, è in parte una contrapposizione tra due generi letterari, il picaresco e il romanzo, che fu essenzialmente inventato da Cervantes come la tragedia moderna e anche la tragicommedia moderna furono inventate da Shakespeare (che non conosceva la tragedia greca, bensì solo i suoi resti mutilati nel romano Seneca). Come nei protagonisti shakespeariani, l’interiorità autentica si incarna in Don Chisciotte, mentre il briccone Passamonte è tutto esteriorità nonostante la sua grande abilità in fatto di doppiezza. Ginesio è capace di cambiare forma e non può mutare se non nell’aspetto esteriore. Don Chisciotte, come i grandi personaggi shakespeariani, non può smettere di cambiare: è questo lo scopo delle sue conversazioni, spesso accese ma alla fine sempre affettuose, con il fedele Sancio. Legate dalla dimensione del gioco, queste due figure sono unite anche dall’infinita umanizzazione che causano l’una nell’altra. Le loro crisi sono innumerevoli; come potrebbero non esserlo nella sfera del donchisciottesco? A volte Sancio sembra sul punto di porre fine alla relazione, ma non ci riesce; in parte è affascinato, ma alla fin fine viene trattenuto dall’amore, come accade anche al suo padrone. Forse l’amore è indistinguibile dalla dimensione del gioco, ma è così che deve essere. Uno dei motivi del ritorno di Ginesio nella parte seconda è senza dubbio il fatto che Passamonte non partecipa mai al gioco, neppure come burattinaio. Come può intuire ogni lettore, la differenza tra le due parti del Don Chisciotte consiste nel fatto che tutte le principali figure della seconda hanno il merito esplicito di aver letto la prima o sanno di essere stati personaggi al suo interno. Ciò fornisce una prospettiva diversa sulla ricomparsa del briccone Ginesio quando raggiungiamo il punto in cui – nella parte seconda, capitolo 25 – ci imbattiamo in un uomo vestito di pelle di camoscio, calze, calzoni e giacca, con una benda di taffettà verde sull’occhio sinistro e su quasi tutta la guancia sottostante. Costui è mastro Pietro, che afferma di essere accompagnato da una scimmia veggente e di voler mettere in scena la liberazione di Melisendra per opera di Don Gaiferos, il famoso cavaliere errante. Melisendra, la figlia di Carlo Magno, è infatti prigioniera dei mori, e Don Gaiferos è il principale vassallo del re. Il padrone della locanda in cui mastro Pietro incontra Don Chisciotte e

Sancio Panza dice che il burattinaio «ha una parlantina per più di sei e beve per più di dodici, tutto a spese della sua lingua, della sua scimmia e del suo quadro scenico». Dopo aver riconosciuto Don Chisciotte e Sancio, su consiglio della scimmia (le cui doti profetiche funzionano solo all’indietro, dal presente al passato), Ginesio-Pietro mette in scena il suo spettacolo, senza dubbio uno degli splendori metaforici del capolavoro di Cervantes. Qui l’esegesi classica è quella di Ortega y Gasset nelle Meditazioni del Chisciotte; il critico paragona il teatrino di mastro Pietro alle Damigelle d’onore di Velàzquez, dove l’artista, ritraendo il re e la regina, colloca contemporaneamente nel quadro il suo atelier. È lecito supporre che Don Chisciotte non avrebbe posato lo sguardo su quel dipinto, e il cavaliere è sicuramente il peggior spettatore possibile per lo spettacolo di burattini: Al vedere pertanto don Chisciotte sì gran numero di mori e al sentire così alto strepito, gli parve conveniente venire in aiuto dei due che fuggivano. Levandosi quindi in piedi, gridò forte: «Non permetterò io mai che, mentre io viva e alla mia presenza si usi una sopercheria a un così famoso cavaliere e così ardimentoso amante come don Gaifero! Fermatevi, malnata canaglia; non lo seguite, non lo inseguite; se no, fate conto d’esser con me in battaglia!». E detto fatto, sguainò la spada, d’un salto si piantò presso al quadro scenico e con incredibile rapidità, furente, cominciò a tempestare di colpi quella burattineria moresca, rovesciando gli uni, scapezzando altri, stroppiando questo, riducendo in pezzi quello e tirò, fra altri molti, un tal fendente che se Mastro Pietro non si abbassa, non si raggomitola e accoccola, gli avrebbe portato via di netto la testa con più facilità che se fosse stata di marzapane.

Quel terribile fendente, tutt’altro che involontario, potrebbe essere il cuore di questo incantevole intervento. Mastro Pietro si è intrufolato nella dimensione del gioco, in cui non ha alcuno spazio, e quella dimensione si appresta a vendicarsi. Poco prima, Don Chisciotte aveva detto a Sancio che il burattinaio doveva aver fatto un patto con il diavolo, perché la scimmia «risponde solamente alle cose passate o presenti: infatti la scienza del diavolo non va al di là». I sospetti del cavaliere nei confronti dell’imbroglione continuano quando Don Chisciotte critica l’errore che mastro Pietro commette associando le campane delle chiese alla moschee moresche. La risposta difensiva di Ginesio-Pietro ci prepara ulteriormente alla furia di Don Chisciotte. Non badi vossignoria a piccolezze, signor Don Chisciotte, né voglia pretendere le cose tanto perfette da essere impossibile arrivarci. Non si rappresentano quasi comunemente, dappertutto, un’infinità di commedie piene zeppe di tante e tante inesattezze e spropositi? Ciò nondimeno, proseguono col più gran successo la loro carriera e sono ascoltate, non solo con plauso, ma ben con ammirazione e tutto. Continua, ragazzo, e lascia dire; purché io riempia la mia borsa, non importa se rappresento più inesattezze che non abbia atomi il sole.

La replica di Don Chisciotte è insieme cupa e laconica: «È proprio vero». Qui mastro Pietro è divenuto il grande rivale letterario di Cervantes, il

prolifico e famoso poeta-drammaturgo Lope de Vega, i cui trionfi finanziari accentuarono il senso di fallimento commerciale provato dal nostro autore. Il successivo assalto del cavaliere alle illusioni di cartapesta è insieme una critica al gusto pubblico e una manifestazione metafisica della volontà visionaria o donchisciottesca, capace di rendere più spettrali le demarcazioni tra arte e natura. L’umorismo della disgiunzione viene insaporito dalla satira letteraria, appena mitigata dagli eventi successivi, quando Don Chisciotte risarcisce i danni causati dal suo madornale errore e accusa i soliti perfidi incantatori di averlo ingannato. Poi Ginesio da Passamonte scompare dalla storia, perché ha esaurito la sua funzione di antitesi furfantesca del cavaliere visionario. Non ci resta solo il piacere, ma anche una favola estetica che continua a riecheggiare come epitome dell’impresa donchisciottesca, rivelandone insieme i limiti e la tenacia eroica nello spingersi oltre i confini normativi della rappresentazione letteraria. Ginesio, archetipo del picaresco, non può competere con Don Chisciotte, predecessore del trionfo del romanzo. I lettori sono discordi nel preferire la parte prima o la parte seconda del Don Chisciotte, forse perché le due sezioni non sono solo opere molto diverse, ma anche stranamente separate l’una dall’altra, non tanto nel tono e nell’atteggiamento quanto nel rapporto di Don Chisciotte e Sancio con il loro mondo. Nella parte seconda (la mia preferita), non sento alcuna stanchezza da parte di Cervantes, ma il cavaliere e lo scudiero devono sostenere una nuova autocoscienza, e talvolta sembrano considerarla come un fardello implicito. Sapere di essere il personaggio di un libro in via di creazione non è sempre d’aiuto alle tue avventure. Seppur circondati dai lettori delle loro precedenti sconfitte, Don Chisciotte e Sancio continuano a non avere alcuna inibizione. Anzi, Sancio guadagna in entusiasmo, e il legame di amicizia tra i due personaggi diventa persino più saldo. E soprattutto, vi è Sancio da solo, nei dieci giorni in cui diviene un governatore saggio e affaccendato, finché è così intelligente da dimettersi e tornare da Don Chisciotte e da se stesso. A commuovermi particolarmente in questa parte è quanto accade a Cervantes, perché noto un cambiamento nel suo rapporto con la scrittura. L’autore è vicino alla morte e sa che una parte di lui morirà con Don Chisciotte, mentre qualcos’altro, forse qualcosa di più profondo, continuerà a vivere in Sancio Panza. Il rapporto di Cervantes con il suo enorme libro non è sempre facile da categorizzare. Secondo Leo Spitzer, esso conferisce all’artista letterario

un’autorità nuova anche se limitata con accuratezza: Sopra il vasto cosmo della sua creazione […] è intronizzato l’io artistico di Cervantes, un io creativo e onnicomprensivo, simile alla Natura, simile a Dio, onnipotente, onnisciente, di infinita bontà e benevolenza […] questo artista è simile a Dio ma non deificato […] Cervantes si inchina sempre davanti alla superna saggezza di Dio, incarnata negli insegnamenti della Chiesa cattolica e nell’ordine costituito dello Stato e della società.

Come senza dubbio sapeva Spitzer, a prescindere dal fatto che Cervantes discendesse oppure no da ebrei costretti a convertirsi, avrebbe avuto tendenze suicide se non si fosse inchinato in quel modo. Qualunque cosa il Don Chisciotte sia o non sia, non è un romanzo devozionale cattolico o una celebrazione della «ragione sovrana», come osserva anche Spitzer. La risata incessante del libro è spesso melanconica, se non addirittura dolorosa, e Don Chisciotte è insieme un bastione di affetto umano e un uomo di dolore. Si riuscirà mai a definire il «peculiarmente cervantino»? Erich Auerbach afferma che «non lo si può descrivere a parole», ma ha avuto il coraggio di provarci ugualmente: Non è una filosofia; non è uno scopo didattico; non è neppure la tendenza a farsi smuovere dall’incertezza dell’esistenza umana o dalla forza del destino, come nel caso di Montaigne e di Shakespeare. È un atteggiamento – un atteggiamento verso il mondo, e dunque anche verso l’argomento della sua arte – in cui audacia e equanimità svolgono un ruolo di primo piano. Oltre al piacere che deriva dalla molteplicità del suo dramma sensoriale, in Cervantes vi sono orgoglio e una certa reticenza meridionale. Ciò gli impedisce di prendere seriamente il dramma.

Queste frasi eloquenti, lo confesso, non descrivono il Don Chisciotte che continuo a rileggere, non fosse altro perché Cervantes sembra prendere molto seriamente, e anche molto ironicamente, il dramma del mondo e il controdramma di Don Chisciotte e Sancio Panza. Il cervantino è polivalente quanto lo shakespeariano: ci contiene tutti, con le nostre profonde differenze l’uno dall’altro. La saggezza è un attributo di Don Chisciotte e Sancio, soprattutto quando vengono considerati insieme, quanto l’intelligenza e la padronanza linguistica sono qualità di Sir John Falstaff, Amleto e Rosalinda. I due eroi di Cervantes sono semplicemente i maggiori personaggi letterari dell’intero Canone occidentale, ad eccezione (tutt’al più) del trio dei loro omologhi shakespeariani. La loro fusione di follia e saggezza e la loro spassionatezza vengono uguagliate solo dagli uomini e dalle donne più memorabili di Shakespeare. Cervantes ci ha naturalizzati quanto Shakespeare: non riusciamo più a vedere che cosa trasformi il Don Chisciotte in un’opera così rigorosamente singolare e caratterizzata da un’inesauribile originalità. Se è ancora possibile individuare il dramma del mondo nella massima letteratura, allora dev’essere qui.

6. MONTAIGNE E MOLIÈRE: L’ELUSIVITÀ CANONICA DELLA VERITÀ A quanto pare, nella letteratura francese non vi è nemmeno uno scrittore che si collochi al centro del Canone nazionale: niente Shakespeare e niente Dante, Goethe, Cervantes, Pusˇkin o Whitman. Vi è invece una serie di titani, tutti ottimi candidati per quella posizione: Rabelais, Montaigne, Molière, Racine, Rousseau, Hugo, Baudelaire, Flaubert, Proust. Forse si potrebbe designare un autore composito, Montaigne-Molière, poiché il più grande tra i saggisti fu il padre spirituale dell’unico commediografo rivale di Shakespeare. Molière considerava il suo compito, divertire la gente rispettabile, come un’impresa bizzarra, idea che Shakespeare, la più completa delle coscienze, probabilmente non condivideva. Il suo pubblico applaudiva a tutte le sue oscenità. La regina Elisabetta non era certo Luigi XIV, e nemmeno Giacomo I, il più intellettuale tra i monarchi britannici, divenne mai il più assiduo spettatore di Shakespeare, come invece il Re Sole lo sarebbe stato per Molière. Forse quella considerazione vincolò Molière, anche se non molto, perché lo scrittore francese è un drammaturgo universale quasi quanto Shakespeare. Con quest’ultimo, Molière mostra una sorprendente affinità, in cui può aver svolto un ruolo importante il comune rapporto con Montaigne. L’Amleto di Molière è Alceste, il protagonista del Misantropo. Entrambi i personaggi derivano da aspetti di Montaigne, ed entrambi giustificano l’apoftegma di Nietzsche, feroce e sempre provocatorio: «Troviamo parole solo per ciò che è già morto nei nostri cuori; c’è sempre una sorta di disprezzo nell’atto di parola». Se Amleto supera questo disprezzo solo nell’atto V, Alceste non ci riesce mai. La veemente intuizione di Nietzsche riguarda la parola, non la scrittura, ed è dunque antitetica all’arte di Montaigne il saggista. Emerson, che, come Nietzsche, era un discepolo dichiarato di Montaigne, scrisse una famosa frase riguardo ai Saggi: «Tagliate quelle parole e sanguineranno; sono vive e vascolari». Il trionfo di Montaigne consistette nel fondere se stesso e il suo libro in un atto esplicito che si può chiamare solo originalità, una parola più positiva in inglese che in francese, dove essere originali significa essere strambi. L’aspetto meno francese di Montaigne è forse la singolarità della sua radicale originalità, ma fu proprio quella singolarità a renderlo canonico, non solo per la Francia ma per tutto

l’Occidente. Torno sempre con rinnovata meraviglia a questa verità incompresa sul Canone occidentale: quest’ultimo si appropria delle opere per la loro singolarità, non perché si integrino senza difficoltà in un ordine esistente. Come ogni grande autore canonico, Montaigne stupisce il lettore comune a ogni nuovo incontro, non fosse altro perché smentisce tutti i nostri preconcetti sul suo conto. Possiamo classificarlo come scettico, umanista, cattolico, stoico e persino epicureo, inserendolo in quasi tutte le categorie possibili e immaginabili. In termini di portata e vastità, talvolta sfiora le dimensioni shakespeariane, e un modo per interpretarlo – sebbene non sapesse nulla di Shakespeare, mentre Shakespeare sapeva qualcosa di lui – è considerarlo il più grande di tutti i personaggi shakespeariani, ancora più imponente di Amleto come io impegnato in una ricerca. Montaigne cambia mentre rilegge e revisiona il suo libro; forse più che in qualsiasi altro caso, il libro è l’uomo e l’uomo è il libro. Nessun altro scrittore origlia se stesso con maggiore attenzione di quanto faccia sempre Montaigne; nessun altro libro è un processo in fieri quanto lo è il suo. Pur rileggendolo di continuo, non riesco a prendere familiarità con il testo, perché quest’ultimo è un miracolo di mutevolezza. L’unica esperienza analoga che conosca è l’incessante rilettura dei diari e dei taccuini di Ralph Waldo Emerson, la versione americana di Montaigne. Tuttavia, i diari di Emerson sono solo un’accozzaglia disordinata, non un libro, mentre i saggi di Montaigne sono un libro. Per un critico letterario elegiaco come me, i Saggi di Montaigne godono di uno status scritturale, facendo concorrenza alla Bibbia, al Corano, a Dante e a Shakespeare. Fra tutti gli autori francesi, inclusi Rabelais e Molière, Montaigne sembra il meno vincolato da una cultura nazionale, anche se, paradossalmente, svolse un ruolo fondamentale nella formazione della mente della Francia. La madre di Montaigne, che l’autore cita a malapena, veniva da una famiglia di conversos, ebrei spagnoli che si erano convertiti ma avevano abbandonato la loro condizione di cittadini di seconda categoria in Spagna e si erano stabiliti a Bordeaux. Sebbene Montaigne fosse rimasto cattolico, alcuni dei suoi fratelli divennero calvinisti e, qualunque sia il tipo di scrittore in cui si trasformò Montaigne, sarebbe grottesco definirlo un autore religioso. Nelle pagine del suo libro vi è una dozzina di citazioni e accenni a Socrate per ogni comparsa di Cristo. Persino M.A. Screech, l’unico studioso che insiste nel vedere Montaigne come uno scrittore cattolico liberale, conclude

sottolineando che, per lui, «il divino non sfiora mai la vita umana senza sconvolgere quell’ordine naturale in cui l’uomo si sente maggiormente a suo agio». Essendo un uomo pubblico (in gran parte suo malgrado), Montaigne si rifiutò di schierarsi nelle guerre civili religiose che infuriarono in Francia per gran parte della sua vita adulta. La sua devozione personale andava a Enrico di Navarra, guascone come lui, il paladino protestante che, con il nome di Enrico IV, si convertì al cattolicesimo per assicurarsi Parigi e il regno. Se Montaigne fosse stato in migliori condizioni di salute, probabilmente avrebbe accettato l’invito di Enrico IV a divenire uno dei suoi consiglieri; ma il destino voleva altrimenti, e l’autore dei Saggi morì da privato cittadino all’età di cinquantanove anni. Il suo libro era già famoso in tutta Europa e non ha mai perso popolarità né influenza. Se la riluttante profezia che sto per azzardare è corretta, e manca solo un decennio o meno all’alba di una nuova Età teocratica, Montaigne svanirà, almeno per qualche tempo. Il suo vigore dipende unicamente dall’incapacità del lettore di sesso maschile di identificarsi con l’autore. Con molta probabilità le femministe non perdoneranno mai Montaigne, che supera di gran lunga Freud in fatto di sciovinismo; Freud affermò che le donne erano un mistero insolubile, ma per Montaigne non vi era alcun mistero. Le donne non avevano le caratteristiche umane che lo scrittore apprezzava di più; ecco perché le identificava totalmente con la natura. Tuttavia, era troppo saggio, anche ai suoi tempi, per non sapere di chi fosse la colpa. È questa la conclusione implicita di Su alcuni versi di Virgilio, un saggio maturo e chiaramente sessuale: Dico che maschi e femmine sono modellati nello stesso stampo; a parte l’educazione e il costume, la differenza non è grande. Platone invita indifferentemente gli uni e le altre alla comunanza di ogni studio, esercizio, incarico, occupazione guerriera e pacifica nella sua repubblica, e il filosofo Antistene sopprimeva ogni distinzione fra la loro virtù e la nostra. È molto più facile accusare un sesso che scusare l’altro. Come si dice: la padella dice nero al paiolo.

Il compianto Donald M. Frame, eloquente traduttore inglese nonché ineccepibile interprete di Montaigne, individua il mutevole centro di questo scrittore nella graduale consapevolezza che tutti noi, compresi gli umanisti di sesso maschile, apparteniamo al volgo, una scoperta per nulla sensazionale mentre arranchiamo verso la conclusione dell’Età democratica. «Ma era qualcosa di molto radicale e poco umanistico per un colto scrittore del 1590» aggiunge Frame. Per recuperare tutti gli altri aspetti radicali del Montaigne di quell’anno,

propongo di confrontarlo con Blaise Pascal, lo scienziato e scrittore religioso francese nato trentatré anni dopo, nel 1623. Pascal parlava raramente di Montaigne senza ansia e risentimento, rifiutandosi di capire che, in realtà, il cattolicesimo di Montaigne si fondava su un marcato scetticismo. Poiché Montaigne incontra solo mutevolezza in un mondo di apparenze platoniche, non ha difficoltà a sposare la convinzione secondo cui il Dio cattolico è immutabile e inconoscibile. Il suo Dio non è nascosto, ma è comunque irraggiungibile, cosicché siamo costretti ad armarci di pazienza, aspettando che Dio si doni a noi. Nel frattempo viviamo come uomini allo stato di natura, felicemente scettici nei confronti del mondo che popoliamo. Il Dio di Pascal, invece, è insieme nascosto e raggiungibile, un paradosso che crea il contesto adatto alla tragedia, come in Racine, ma non è idoneo all’ambito della commedia, come in Molière. Sicuramente Pascal fu per Racine ciò che forse Montaigne fu per Molière: lo stimolo a una visione drammatica. Lo scetticismo di Montaigne può aver contribuito a introdurre la tragicommedia in Amleto, ma avrebbe contribuito più facilmente a ispirare una comicità ironica nel Misantropo. La visione tragica francese, esemplificata da Pascal e Racine, non si è dimostrata esportabile quanto la visione comica francese di Montaigne e Molière. Il neocristianesimo dogmatico di T.S. Eliot spinse quest’ultimo a preferire Pascal a Montaigne, una scelta spirituale possibile ma un giudizio letterario insopportabile. Eliot si trovò nell’imbarazzante situazione di scrivere l’introduzione ai Frammenti di Pascal, che sono un grave caso di indigestione nei confronti di Montaigne, così grave da rasentare ciò che molti condannerebbero come un plagio innegabile. Pascal, hanno ipotizzato alcuni, scrisse i Frammenti con una copia dei Saggi di Montaigne aperta davanti a sé. Che ciò sia vero oppure no sul piano letterale, era una metafora calzante della cannibalizzazione rancorosa e dispeptica della produzione di Montaigne da parte di Pascal. Siamo quasi nella situazione del racconto giovanile di Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, con Pascal nel ruolo di Menard e Montaigne in quello di Cervantes. Ecco una delle mie giustapposizioni preferite, il Frammento 358 di Pascal, seguito da un grande momento del saggio culminante di Montaigne, Dell’esperienza: L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol far l’angelo fa la bestia. Essi vogliono mettersi fuori di se stessi e sfuggire all’uomo. È follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece d’innalzarsi, si abbassano.

Montaigne ha le sue fonti, che rivede e trascende mediante il suo io poderoso. Pascal ha solo Montaigne, da cui è, suo malgrado, ossessionato. Il

risultato è doppiamente infelice: Pascal si limita a rimproverarci tutti; Montaigne accusa alcuni di noi di follia idealizzante. Pascal ci riduce alle nostre azioni; Montaigne è interessato alla nostra essenza. Perché Pascal era così assillato da Montaigne? Secondo Eliot, lo studiò per demolirlo, ma non vi riuscì, perché era come lanciare bombe a mano verso un banco di nebbia. Montaigne, ci assicura Eliot, era «una nebbia, un gas, un liquido, elemento insidioso», e questa è senz’altro la descrizione più curiosa che qualcuno abbia mai fornito di Montaigne. L’intento di questa ingiuriosa metafora emerge quando l’autore dell’Assassinio nella cattedrale afferma che Montaigne «riuscì a dare espressione allo scetticismo di ogni essere umano», compresi senza dubbio Pascal e Eliot. A mio parere, questo giudizio è errato e sottovaluta Montaigne, la cui originalità e il cui vigore non emanano da uno scetticismo limitato, che, dopo tutto, si sforza di restare uno scetticismo cattolico. Nonostante tutta la sua modestia ironica, Montaigne scrive come una figura carismatica simile ad Amleto. A contaminarci non è il suo scetticismo copiato, bensì la sua originalissima personalità, la prima personalità mai presentata da uno scrittore come soggetto della sua opera. Walt Whitman e Norman Mailer sono discendenti indiretti di Montaigne, mentre Emerson e Nietzsche sono la sua progenie diretta. Pascal, il suo aspirante distruttore, è una delle vittime involontarie di Montaigne. Lungi dall’essere una nebbia, un gas o un liquido, questo autore è un uomo completo, allo stato di natura, e, come tale, un affronto per cercatori disperati di grazia come Pascal e T.S. Eliot, nessuno dei due uno scrittore comico, sebbene siano entrambi ottimi ironisti. Lo studio di Frame su Montaigne è opportunamente intitolato Montaigne’s Discovery of Man, e sebbene il tardo XVI secolo possa sembrare un momento tardo per una simile scoperta, è più difficile indicare un vero precursore per Montaigne che per Freud. Il primo attribuiva allegramente ogni cosa a Seneca e a Plutarco e li saccheggiava, ma solo per cercare materiale. Montaigne è senza dubbio uno scrittore originale; l’autoconsapevolezza (self-consciousness) non era mai stata espressa, infatti, con tanta pienezza e maestria. Il miracolo di Montaigne è la capacità di non essere quasi mai self-conscious nell’attuale accezione negativa di questa parola, ossia «imbarazzato» o «impacciato». Non facciamo certo un complimento a qualcuno attribuendogli questo aggettivo. Montaigne parla di se stesso per quasi millecinquecento pagine, e vorremmo saperne ancora di più, perché egli rappresenta – non ogni uomo, e certamente nessuna donna –,

ma quasi qualunque uomo abbia il desiderio, la capacità e l’opportunità di pensare e leggere. Questo era il suo dono o carisma, ed è difficilissimo da spiegare. Emerson, che l’aveva notato con chiarezza, non è stato in grado di descriverlo, e non ci riescono nemmeno gli studiosi di Montaigne. La miglior chiave d’interpretazione che io conosca è il Socrate di Platone, che ossessionava l’autore francese. Lo storico svizzero Herbert Lüthy riteneva che tutto Montaigne fosse contenuto in una delle sue frasi più informali: «Quando gioco col mio gatto, chissà se sono io che mi sto divertendo con lui, o lui con me». Questo interrogativo è un passo oltre il prospettivismo e, meglio ancora, un passo giocoso e socratico. Il Socrate di Platone è tuttavia un dualista che esalta l’anima rispetto al corpo, e Montaigne è un monista, che si rifiuta di maltrattare il corpo per compiacere l’anima. Neppure Socrate è un indizio sufficiente; che cosa diede a Montaigne la lucidità necessaria per vedere e scrivere la verità su se stesso? Quasi tutti i lettori sono concordi nell’affermare che il suo saggio migliore è quello intitolato Dell’esperienza, accuratamente posto a conclusione del libro. Vi ritorno per cercare il segreto di Montaigne, sempre ammesso che riesca a scoprirlo. Naturalmente, il miglior saggio di Emerson è intitolato Esperienza e contiene un momento particolare, il mio preferito, che dimostra con eloquenza ciò che il filosofo aveva appreso dal suo maestro, Montaigne: «E non potremo mai dire abbastanza della nostra costituzionale necessità di vedere le cose da punti di vista personali, o saturi dei nostri umori. Tuttavia, è il Dio a essere indigeno di queste brulle rocce. Quel bisogno genera, nella morale, la virtù capitale della fiducia in se stessi. Dobbiamo tenerci forte a questa povertà, per quanto scandalosa, e mediante autoguarigioni più vigorose, dopo le sortite dell’azione, aggrapparci più saldamente al nostro asse». Qui «povertà» indica una carenza immaginativa, come farà anche nella poesia di Wallace Stevens. Qual era la «povertà» di Montaigne, la sua carenza immaginativa per i lettori dei Saggi? La carenza e il carisma erano un tutt’uno e spiegano i suoi propositi nei nostri confronti. Montaigne teme la sua malinconia e la nostra, e offre la sua saggezza come antidoto a entrambe. La sua malinconia è di per sé canonica, e lo stesso vale per la sua saggezza. A proposito di malinconia canonica, mi piace soprattutto la sintesi che ne fa Maggie Kilgour nel suo studio From Communion to Cannibalism: Associata alle teorie dell’influenza stellare, della penetrazione di poteri esterni nel corpo, la malinconia genera teorie di influenza poetica e venne identificata fin dall’inizio con la personalità

artistica, vista, in sostanza, come ambivalente. La malinconia veniva considerata insieme come un umore e una malattia e, attraverso la fusione delle teorie originariamente contrapposte di Galeno e Aristotele, insieme come una maledizione e una benedizione. Era segno della presenza di un genius o di un daemon maligno, sia nell’antica accezione di spiriti buoni e cattivi sia, in seguito, nella moderna accezione di qualità innate.

La malinconia o ambivalenza artistica è strettamente legata all’angoscia estetica derivante dal fatto di non essere autogenerati, come nel caso di un grande poeta e angelo rovinato, il Satana di Milton, che fu Lucifero fino alla sua caduta. In Montaigne, la malinconia riveste un ruolo centrale fin dall’inizio, nel libro primo, saggi 2 e 3 – Della tristezza e I nostri sentimenti vanno oltre noi stessi –, ma questi tentativi non ci dicono granché. In Montaigne, la malinconia autentica o matura trascende le ambivalenze dell’autorialità e si incentra sulle grandi ombre del dolore e della morte. La principale, e forse l’unica amicizia nella vita di Montaigne, fu quella con Étienne de La Boétie, di due anni più grande. Dopo sei anni di solido rapporto, La Boétie morì all’improvviso all’età di trentadue anni. Forse per evitare di subire altre perdite simili, Montaigne non strinse più alcuna vera amicizia. La concezione cristiana o paolina della morte, che considera quest’ultima come un’anomalia causata dal peccato originale, non è propria di Montaigne. Come osserva Hugo Friedrich, lo scrittore non si prende il disturbo di polemizzare contro la visione cristiana, bensì si limita a ignorarla giudicandola irrilevante. Nonostante la sua devozione a Socrate, Montaigne non condivide l’idea socratica dell’immortalità dell’anima, né tanto meno la dottrina cristiana della sopravvivenza dopo la morte. Nulla potrebbe essere meno cristiano (o più divertente) del suo consiglio sulle preparazioni alla morte, contenuto nello scritto Della fisionomia, libro terzo, saggio 12: Se non sapete morire, non preoccupatevene; la natura vi istruirà sul momento, in modo completo e sufficiente; essa compirà a punti questa operazione per voi; non datevene voi la briga. Non turbiamo la vita con la preoccupazione della morte, e la morte con la preoccupazione della vita. L’una ci affligge, l’altra ci spaventa. Non è contro la morte che ci prepariamo; è cosa troppo momentanea. Un quarto d’ora di sofferenza senza conseguenza, senza danno, non merita precetti particolari. A dire il vero ci prepariamo contro le preparazioni alla morte.

Per Montaigne, dire il vero è, in sostanza, l’insegnamento ricavabile dal saggio Dell’esperienza, lo scritto successivo a questo rifiuto della morte cristiana. Lo scetticismo naturale cede il passo alla conoscenza naturale, solo per tornare ai limiti del conoscibile e a Socrate: «È per mia esperienza che accuso l’ignoranza umana, che è, secondo me, il partito più sicuro della scuola del mondo. Quelli che non vogliono argomentarla in se stessi da un esempio tanto vano come il mio o il loro, la riconoscano attraverso Socrate, il

maestro dei maestri». Ad andare oltre l’ignoranza è quella che Freud avrebbe chiamato la consapevolezza che l’ego è sempre un ego corporeo, una verità espressa con maggiore eloquenza da Montaigne: Insomma, tutto questo cibreo che vado scarabocchiando qui non è che un registro delle esperienze della mia vita che è, per la salute interiore, abbastanza esemplare, a prenderne l’insegnamento alla rovescia. Quanto alla salute del corpo, invece, nessuno può fornire esperienza più utile di me, che la presento pura, niente affatto corrotta e alterata dall’arte o dall’opinione. L’esperienza è proprio a casa sua nell’argomento della medicina, in cui la ragione le cede senz’altro il posto.

Con ogni probabilità la ragione riguarda l’«essere» e, come sottolinea lo stesso scrittore, Montaigne non descrive l’essere; descrive il passaggio, e la salute del nostro corpo è solo la storia di un passaggio. L’esperienza è passaggio; questa sarà la filosofia di tutta la letteratura dopo Montaigne, da Shakespeare e Molière fino a Proust e Beckett. Montaigne si accinse a rappresentare il proprio essere, solo per scoprire la verità secondo cui l’io è passaggio o transizione, un attraversamento. Se l’io è movimento, non sempre il cronista dell’io può ricordare ciò che «aveva voluto dire». La saggezza non è conoscenza, perché la conoscenza, di per sé illusoria, rientra nell’«aver voluto dire». Essere saggi significa esprimere il passaggio, e sebbene Montaigne sia sempre in possesso di un io, l’io scivola sempre in un altro io, come un tono cede il passo a un altro tono: Bisogna imparare a sopportare quello che non si può evitare. La nostra vita è composta, come l’armonia del mondo, di cose contrarie, e anche di toni diversi, dolci e aspri, acuti e bassi, molli e gravi. Il musicista che amasse solo i primi, che cosa vorrebbe dire? Bisogna che sappia servirsene nel complesso e mescolarli. E così noi, i beni e i mali, che sono consustanziali alla nostra vita. Il nostro essere non può sussistere senza questa mescolanza, e una parte non vi è meno necessaria dell’altra. Tentar di opporsi alla necessità naturale è ripetere la follia di Ctesifonte, che si metteva a lottare a calci con la sua mula.

Non posso dire di accettare facilmente questo consiglio, pur sapendo quanto è saggio. Tuttavia, poiché sono incline a sferrare calci alla necessità naturale, non mi ferisce l’idea di essere impegnato in una gara con una mula e di essere destinato a perdere. In Montaigne, questo è il preludio a una discussione sincera sulle eterne sofferenze causategli dai calcoli renali e sull’ironico sollievo offertogli dalla sua mente: «Ma non muori perché sei malato; muori perché sei vivo. La morte ti uccide pure senza l’aiuto della malattia. E ad alcuni le malattie hanno allontanato la morte, ed essi hanno vissuto di più poiché sembrava loro di star per morire». Qui non sappiamo fino a che punto arrivi l’ironia, ma man mano che ci avviciniamo alle ultime pagine del saggio, l’esperienza dell’ironia aumenta: Io che mi vanto di abbracciare con tanto trasporto le comodità della vita, e in modo così particolare, non vi trovo, quando vi guardo attentamente, quasi altro che vento. E del resto, noi siamo

dappertutto vento. E per di più il vento, più saggiamente di noi, si compiace di mormorare, di agitarsi, e si contenta delle funzioni sue proprie, senza desiderare la stabilità, la solidità, qualità non sue.

Qui Montaigne difende insieme la limitazione e la libertà: per i piaceri della vita, per l’io, per i suoi Saggi. Possiamo essere saggi come il vento evitando di insistere su qualità che non possediamo. Per quanto ironico, questo testo rimane una difesa dell’io, dei piaceri naturali e della scrittura di Montaigne, anche se riconosce che sono tutti fenomeni passeggeri. Tuttavia, come spiega lo scrittore più avanti, è sufficiente vivere come si deve durante il passaggio: Noi siamo dei gran pazzi. «Ha passato la vita nell’ozio» diciamo. «Non ho fatto niente oggi.» «Come? non avete vissuto? È non solo la vostra preoccupazione fondamentale, ma la più insigne.» […] Comporre i nostri costumi è il nostro compito, non comporre dei libri, e conquistare non battaglie e province, ma l’ordine e la tranquillità alla nostra vita. Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve.

Queste parole ebbero un’incisività particolare per Montaigne e per i suoi primi lettori, perché il loro contesto immediato era una brutale guerra civile tra la Lega cattolica guidata dal duca di Guisa, i protestanti guidati da Enrico di Navarra e i realisti guidati da Enrico III, ultimo re Valois. Nonostante ciò, l’ordine e la tranquillità sono sempre difficili da conquistare, e questo passo conserva la sua causticità. Man mano che Dell’esperienza si avvicina al suo culmine, la saggezza compete con l’ironia per il predominio retorico. Socrate viene invocato ancora per un vero e proprio tributo, introdotto da un’affascinante osservazione: «Né in Socrate c’è cosa più notevole del fatto che, già vecchio, trovi il tempo di farsi insegnare a ballare e a suonare, e lo consideri bene speso». Giunto al termine della sua esistenza, Montaigne emula Socrate con il motto: «Quanto più breve è il possesso della vita, tanto più profondo e più pieno devo renderlo». Siamo così arrivati all’esaltazione della vita comune che offendeva Pascal, inducendolo a una revisione fatta di piccoli furti, ma, in un contesto così ricco, ne veniamo sopraffatti e dimentichiamo Pascal: Essi vogliono mettersi fuori di se stessi e sfuggire all’uomo. È follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece d’innalzarsi, si abbassano. Questi umori trascendenti mi spaventano, come i luoghi elevati e inaccessibili; e nulla mi è così difficile a digerire nella vita di Socrate come le sue estasi e le sue demonerie, nulla di così umano in Platone come quello per cui si dice che lo chiamano divino. E fra le nostre scienze, mi sembrano più terrestri e basse quelle che sono poste più in alto. E non trovo nulla di così meschino e di così mortale nella vita di Alessandro come le sue fantasie sulla propria immortalizzazione. Filota lo punzecchiò argutamente con la sua risposta; in una lettera si rallegrava con lui per l’oracolo di Giove Ammonio che l’aveva collocato fra gli dèi: «Per te ne son ben lieto, ma c’è di che compiangere gli uomini che dovranno vivere con un uomo e obbedirgli, mentre egli supera la misura di un uomo e non se ne accontenta».

Questo passo mi sembra sfiorare i limiti dell’arte del saggista; la sua forza è sublime nel rifiuto dei migliori – Socrate e Alessandro – nei loro momenti

peggiori. Siamo al di là della malinconia e dell’ambivalenza dello scrittore, e non abbiamo la sensazione che Montaigne arrivi in ritardo quando affronta gli antichi, che onora ma giudica secondo il criterio umano della saggezza. Come sostiene Frame, Montaigne ha umanizzato il suo umanesimo, e la saggezza dipende dall’unica conoscenza che siamo certi di poter raggiungere: come vivere. Tuttavia, esprimere il concetto in questi termini significa perdere Montaigne, e dobbiamo tornare di continuo ai suoi scritti per recuperare una saggezza canonica che non è disponibile da nessun’altra parte. Per quanto sia saggio, Dell’esperienza è importante soprattutto perché le sue affermazioni si fondano su una musica cognitiva che non è udibile altrove: È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l’uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c’è dentro. Così, abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo.

Pascal deve aver provato una notevole sofferenza di fronte a questa visione comica, che non lascia spazio ad aneliti trascendentali, a scommesse di fede e alla tragedia di un Dio incline a nascondersi. Mentre precipitiamo verso una nuova Era teocratica, queste quattro frasi di Montaigne dovrebbero fungere da talismano apotropaico, uno strumento per tenere alla larga i mercanti di apocalissi. Montaigne ci aiuta a trovare il centro del Canone occidentale, perché il singolo lettore può individuare l’io, per quanto sgualcito, servendosi di Montaigne come di una guida turistica. Fino all’avvento di Freud, nessun altro moralista secolare ci aveva dato così tanto, e ora mi sembra che il giusto tributo da rendere a Freud sia vederlo come il Montaigne della nostra Era caotica. Il poeta e romanziere vittoriano George Meredith – che, con il suo miglior romanzo, L’egoista, scrisse una sublime commedia alla Molière – compose anche un Saggio sulla commedia che ci descrive un Molière in precario equilibrio tra gli elementi borghesi e aristocratici del suo pubblico, impegnato a recitare sia per la corte sia per la città, ma con il cuore segretamente legato a quest’ultima. Probabilmente si tratta di un’idealizzazione, poiché Molière, figlio di un tappezziere, sembra – ancora più di Shakespeare, figlio di un guantaio – il drammaturgo comico dell’Era aristocratica. Il Montaigne maturo associò la sua posizione nei confronti della vita a quella della gente comune; ma Molière, come Shakespeare, ci offre di rado uno scorcio delle sue simpatie più profonde. Come Montaigne, è un naturalista e forse persino uno scettico, ed è senza dubbio secolare quanto Shakespeare.

L’atteggiamento pragmatico di Aristofane è condiviso dall’assennato Molière, che per il resto reprime lo spirito aristofanico, per nulla adatto alla corte di Luigi XIV. Dio, per Molière, era pragmaticamente il suo monarca benevolo e glorioso, senza la cui approvazione e il cui frequente sostegno non sarebbe potuto sopravvivere ai suoi nemici, gli intolleranti di Parigi. Il Re Sole è il primo pilastro della carriera matura di Molière; il secondo è una devozione religiosa al teatro, dove il lavoro di attore, commediografo e capo di una compagnia di repertorio finì per logorargli l’esistenza. Molière morì di una morte leggendaria dopo la quarta replica del Malato immaginario (1673), una farsa che aveva scritto e messo in scena, e in cui aveva recitato la parte del protagonista, pur essendo gravemente malato. Aveva cinquant’anni e ne aveva dedicati trenta al teatro. La dislocazione canonica è un’operazione abbastanza semplice nel nostro morente mondo accademico, ma è più difficile da compiere nella pragmatica sfera del palcoscenico, dove Molière non è più minacciato di Shakespeare, perché il pubblico teatrale, a differenza di quello accademico, può sempre boicottare gli spettacoli. Molière ha dunque più probabilità di sopravvivere in America di quante ne abbia Montaigne, benché il primo calchi le orme del secondo nel dimostrare l’elusività della verità, una dimostrazione non certo gradita dagli idealisti e dagli ideologi che si sono impadroniti dell’accademia in nome della giustizia sociale. I nuovi puritani, come quelli vecchi, non intendono accettare Montaigne o Molière; ma, nel caso di quest’ultimo, poco importa. Forse il drammaturgo terrà in vita lo spirito dello scetticismo di Montaigne durante la nostra deriva verso un’altra Era teocratica, dove è probabile che pochi giudichino la verità elusiva, e dove è probabile che Montaigne svanisca con Freud. Nelle commedie di Molière, come nei saggi di Montaigne, la verità è sempre elusiva, sempre relativa, sempre contesa da scuole, individui o schieramenti contrapposti. Nella misura in cui riusciamo a raggiungere la coscienza di Molière, accantonando la sua evidente infelicità domestica, può darsi che una salda fede nel teatro gli abbia dato un certo distacco o una certa serenità, caratteristiche che amiamo attribuire anche a Shakespeare. Con questi due supremi drammaturghi, è impossibile saperlo con certezza, e forse è giusto che sia così. L’alta visione comica, quando non le manca nulla (come nel caso di Molière), è senza dubbio sconvolgente e, a lungo andare, persino scioccante. Non posso leggere Molière o assistere a una rappresentazione del Tartuffo o del Misantropo senza riflettere sulle mie peggiori qualità e su

quelle, spaventose, dei miei nemici. In Molière, mi trovo di fronte a personaggi ossessivi; ma, a differenza delle vigorose figure grottesche di Ben Jonson, i fanatici di Molière non vengono presentati come caricature. È tipico del genio quasi unico di Molière scrivere quelle che io chiamo «farse normative», definizione che è quasi un ossimoro ma che può risultare persuasiva. Secondo una memorabile osservazione di Jacques Guicharnaud, i drammi di Molière «dimostrano che la vita di ognuno è un romanzo avventuroso, una farsa, un disonore», cosicché lo spettatore «scivoli in uno stato di malafede per non dubitare di se stesso». Guicharnaud continua con il giusto entusiasmo, attribuendo ai migliori drammi di Molière la capacità di provare che l’anima «è essenzialmente vizio, accompagnato da un’illusione di libertà». Forse è un giudizio un po’ severo, perché Montaigne sopravvive in Molière quanto basta per darci la sensazione che nell’anima vi sia qualcosa d’altro, diverso sia dal vizio sia da una libertà illusoria. Qualunque sia questa qualità più amabile, la principale differenza rispetto a Montaigne è che il senso del «passaggio», così predominante nei Saggi, viene sostituito dalla forza della ripetizione. Montaigne cambia, ma i personaggi di Molière non possono cambiare: devono continuare a essere ciò che erano prima. Montaigne origlia se stesso, come fanno Amleto e Iago; proprio ciò che non faranno i protagonisti di Molière. Per unanime consenso, i capolavori di Molière sono Il misantropo, Il Tartuffo e l’ambivalente Don Giovanni, un dramma in prosa anziché in versi, e non facile da interpretare come commedia, almeno oggi. Ho visto recitare il Don Giovanni come se Molière ammirasse totalmente il suo protagonista, interpretazione che non funzionava, o come se lo condannasse totalmente, altra interpretazione che non funzionava. Il misantropo e Il Tartuffo sono meno problematici anche se abbastanza complessi. Non sapremo mai se, fra tutti i suoi drammi, Shakespeare avesse un rapporto particolarmente intimo con l’Amleto, sebbene i critici lo ipotizzino da secoli. Esiste un legame tra Alceste il misantropo e Molière, che, oltre a creare e a dirigere il dramma, recitò il ruolo del più interessante fra tutti i suoi personaggi; ma quel legame, qualunque cosa sia, non è un’identità. Dov’è la verità nel Misantropo, e cosa dobbiamo pensare e sentire riguardo ad Alceste? In Molière, l’elusività della verità è in parte l’effetto spirituale di Montaigne sul drammaturgo, ma è ancor più il prodotto dell’originalissimo temperamento di Molière. Il misantropo è soprattutto un dramma di sconcertante vitalità; quando lo

scrisse, Molière dev’essere stato posseduto da una forza demoniaca. Ogni volta che lo vedo o lo rileggo, resto sbalordito dalla sua rapidità ed energia; è una sorta di violento scherzo musicale dall’inizio alla fine: FILINTE Ma insomma, che c’è? Che cosa avete? ALCESTE Vi prego, lasciatemi. FILINTE Ma almeno ditemi per quale capriccio… ALCESTE Vi ho detto di lasciarmi, e di togliervi dai piedi. FILINTE Ma si ha almeno la compiacenza di ascoltare la gente. ALCESTE Io questa compiacenza non ce l’ho, e non ascolto nessuno.

Alceste, che rifiuta con decisione l’amico perché quest’ultimo ha salutato con cordialità un conoscente, introduce subito l’eccesso comico che lo contraddistingue dal principio alla fine. Il vigore delle sue repliche in ogni punto del dramma potrebbe essere definito «eroico» o «folle», poiché è entrambe le cose; ma chiamarlo «donchisciottesco» non ci aiuta. Come Tartuffo e Don Giovanni, Alceste è troppo forte per il suo contesto, che è solo un salotto. Tartuffo è un sublime ipocrita religioso, come l’Indulgenziere di Chaucer, ma il suo brio è così irriverente che alcuni critici l’hanno paragonato alla Comare di Bath e a Falstaff, due vitalisti insieme eroici e sconvenienti. L’energia di Don Giovanni ha una strana somiglianza con quella di Iago ed è un’altra profezia del moderno nichilismo. In Molière vi è una curiosa dialettica che ricorda la tendenza di Shakespeare ad arricchire le personalità alienandole dalla comunione con altri. Alceste, Tartuffo e Don Giovanni assomigliano ad Amleto, Iago e Edmund nel senso che il prezzo dell’ambivalenza energica è una separazione da tutti gli altri. Filinte è l’Orazio di Alceste, mentre Tartuffo e Iago hanno solo le loro vittime. Don Giovanni ha Sganarello, il suo servo longanime, mentre Edmund ha solo il suo doppio appuntamento «nei ranghi della morte» con Goneril e Regan. Trovo un po’ strano che, secondo i due maggiori drammaturghi dopo gli ateniesi, diventiamo più esuberanti, anche se in senso negativo, nella separazione dagli altri anziché nella condivisione del nostro essere; non credo tuttavia che questa somiglianza tra Shakespeare e Molière sia casuale. Qual è la verità su Alceste? Oppure l’elusività ci costringe ad avere per sempre una visione ambigua di questo personaggio? Richard Wilbur, che ha compiuto il miracolo di far parlare Alceste in versi americani, esprime un giudizio ingegnoso ed equilibrato che, tuttavia, mi sembra un po’ troppo severo: Se Alceste ha una passione per l’autentico, e ce l’ha davvero, purtroppo essa viene compromessa e sfruttata dal suo vasto egotismo inconscio. […] Come molte persone indignate e prive di umorismo, è

duro con tutti tranne che con se stesso, e non se ne accorge quando tradisce il suo ideale. […] Vittima, come tutti coloro che lo circondando, della mollezza morale dell’epoca, non riesce a essere con coerenza un uomo d’onore: semplice, magnanimo, appassionato, determinato, sincero. Si distingue perché è consapevole di quell’ideale e, a intermittenza, è in grado di incarnarlo; il suo difetto comico è una confusione donchisciottesca tra se stesso e l’ideale, un’inclinazione a distorcere il mondo per i suoi scopi ingannevoli e istrionici. Paradossalmente, dunque, il paladino dei veri sentimenti e dei rapporti sinceri è il personaggio più artificioso, più irraggiungibile e più esposto al pericolo dell’inesistenza e della solitudine da cui, nel mondo ciarliero e superficiale di questo dramma, tutti rifuggono. Alceste deve fingere di continuo per credere alla propria esistenza.

Un giudizio insieme brillante e puntuale, che, se non concede granché ad Alceste, non può essere tutta la verità, perché il pubblico e i lettori di Molière/Wilbur continueranno a preferire l’Alceste perennemente offeso a ogni altro personaggio del dramma. Provate a sostituire «Amleto» ad «Alceste» nella prima frase di Wilbur e leggete l’intero passo come se fosse un commento su Amleto. Alcuni punti non funzioneranno: Amleto è spiritoso, spaventosamente duro con se stesso e, in gran parte, privo di aspetti donchisciotteschi. Tuttavia, nel prosieguo, Wilbur che parla di Alceste potrebbe benissimo essere Wilbur che parla di Amleto. Non sappiamo se Molière volesse che Alceste fosse un critico dello stesso Molière, proprio come non possiamo sapere se Shakespeare abbia rappresentato qualcuna delle sue qualità in Amleto. Tuttavia, Alceste mi sembra l’unico personaggio di Molière dotato dell’intelligenza morale (anche se non dell’umorismo) che gli consentirebbe di scrivere un dramma di Molière, e non sono il primo a osservare che probabilmente Amleto, autore di gran parte del dramma nel dramma, avrebbe potuto scrivere l’Amleto. John Hollander sottolinea la peculiarità di ciò che accade quando un dramma ha per protagonista un creatore di satire. Persino Tartuffo l’ipocrita e Don Giovanni il libertino sono, in un certo senso, creatori di satire, e Alceste è uno dei più feroci. Molière ha la straordinaria capacità di rendere la sua commedia molto più vasta della sua satira, così Alceste diviene necessariamente un critico della società, che a sua volta viene criticato nel Misantropo. Secondo Hollander, il dramma deve difendersi dal suo protagonista satirico, come Shakespeare, per far sì che Romeo e Giulietta resti una tragedia, deve eliminare Mercuzio prima che quest’ultimo attiri troppo la nostra attenzione. Contraddicendo Wilbur, che è il miglior rappresentante della tradizione critica su Alceste, suggerirei di considerare in parte Il misantropo come una difesa da Alceste, proprio come il dramma Amleto è, in parte, una difesa dal feroce intelletto di Amleto. Alceste ha tutti i difetti comici segnalati da Wilbur e molti altri, ma ha anche la dignità estetica

di un autentico creatore di satire sociali e di uno psicologo morale di alto livello. Nonostante le sue carenze comiche, Alceste conquista la nostra simpatia e persino la nostra ammirazione perché Molière, come Shakespeare, aveva compreso quella che io chiamo capacità estetica di rappresentare qualcuno nella condizione di essere indignato, spinto alla collera da provocazioni intollerabili. Lo spettatore e il lettore non possono fare a meno di identificarsi con una simile rappresentazione, forse perché, in fin dei conti, siamo indignati per l’inevitabilità della morte. Alceste è irriverente quanto è indignato, ed è un trionfo comico. Tuttavia, contrariamente a quanto sostiene Wilbur, la sua continua finzione è, come quella di Amleto, qualcosa più di un tentativo disperato di «credere alla propria esistenza». L’intensità istrionica di Alceste è una satira indignata sull’esistenza umana compromessa e, ancora una volta come Amleto, Alceste ha una mente che, invece essere irrequieta, è incapace di riposare. Entrambi i personaggi non ragionano troppo, ma troppo bene, e nessuno dei due riesce a sopravvivere nel contesto cui è condannato. Amleto cerca passivamente la morte; Alceste si rifugia in una solitudine assoluta. Scorgiamo un’altra affinità nel loro rifiuto verso le donne di cui sono innamorati. La civettuola Celimene non è la dolce Ofelia, ma entrambe vengono respinte perché Alceste e Amleto, i creatori di satire indignati, fissano canoni impossibili per l’amata e per il mondo, stabilendo così criteri che nemmeno loro saprebbero rispecchiare. Questo è un elemento cruciale nella commedia di Molière e nella tragedia di Shakespeare, che convergono nel presentare il creatore di satire come un eroe. W.G. Moore, che, con Jacques Guicharnaud, mi sembra il miglior critico di Molière, ci scoraggia dal concentrarci su un’analisi di Alceste anziché della struttura del dramma, il che equivale, ancora una volta, ad affermare che la commedia include il creatore di satire: A essere qui illuminato è molto più del personaggio di Alceste; è una questione, la questione di come se la cavino i principi in un mondo duro. Fare di questa grande commedia uno studio del personaggio significa limitare la portata della sua drammaticità. L’intero problema della natura della sincerità, che comprende moda, vanità, disprezzo, convenzione: è questo il complesso di interrogativi che condiziona l’ordine e la struttura del dramma.

Tuttavia, Moore vede anche quanto sia complesso il personaggio di Alceste, il giullare del dramma ma anche il suo Amleto, una figura che non comprenderemo mai del tutto: Alceste è ridicolo, in un’accezione raffinata del termine, non perché accusi di insincerità la società del suo tempo. È antisociale perché raccomanda, per questione di principio, condotte che gli garantiscono una posizione di vantaggio. […] Alceste è il simbolo di qualcosa di assai più interessante

e complicato. Per mettere in evidenza la vastità e la profondità della caratterizzazione di Molière, vale la pena provare a capire che cosa sia questa qualità elusiva. Si potrebbe definirla la confusione del generale e del personale. Nascondere e difendere le proprie azioni facendo appello a criteri esterni a sé stessi è una tendenza umana naturale. Al contrario, spesso non ci rendiamo conto che l’obbedienza a un simile criterio generale è frutto dell’egoismo e della vanità. […] E ciò che Alceste voleva, a propria insaputa, erano il riconoscimento, la preferenza, la distinzione. […] Durante la drammatizzazione del tema dell’amante misantropo, l’intensità della capacità creativa di Molière condusse quest’ultimo a tratteggiare una figura ben al di là delle sue intenzioni e paragonabile ad Amleto in termini di profonda suggestione, etica, sociale, politica, personale e persino teologica.

Ma tutti noi non confondiamo forse il generale con il personale? Molière, l’attore-drammaturgo, non desiderava forse il riconoscimento, la preferenza e la distinzione? Persino Moore cade nell’errore di moraleggiare contro Alceste. Dal canto suo, Molière non cade. Secondo Ramon Fernandez: «Alceste è un Molière che ha perduto la consapevolezza del comico». Come afferma questo critico, Alceste è vittima dell’eccesso: è troppo virtuoso, troppo ragionevole, troppo forte, troppo aggressivo in nome della verità, persino troppo arguto perché qualcuno possa essere alla sua altezza. Alceste è antitetico al suo poeta: essendo un uomo di teatro, Molière non godeva di uno status speciale e non aveva nemmeno diritto a un funerale decoroso. Essendo il cortigiano di Luigi XIV, suo protettore e mecenate, dovette inoltre dissimulare, nascondere le sue vere opinioni e sforzarsi sempre di alludere anziché di parlare apertamente. Mentre recitava il ruolo di Alceste, Molière, il direttore professionista di una compagnia di repertorio, deve aver notato quanto fosse bizzarro che le tre parti femminili del dramma venissero interpretate dalla sua moglie disamorata, dalla sua amante e dall’attrice che continuava a rifiutarlo. Il rapporto tra Alceste e Molière è sconcertante e dovrebbe renderci diffidenti nei confronti di tutti i critici moraleggianti. Mi sorprende che, al contrario di me, i critici letterari non amino Alceste, perché questo personaggio parla con tanta intensità a nome di tutti i critici investiti ogni giorno da fiumi di versi scadenti: Signore, è una questione sempre molto delicata, perché quando si tratta delle doti d’ingegno, a tutti fa piacere sentirsi lodare. Una volta, a una persona di cui tacerò il nome, dicevo appunto, dopo aver visto alcuni versi che egli aveva scritto, che bisognerebbe sempre essere abbastanza giudiziosi da controllare con rigore il nostro capriccio di scrivere; e che se ci coglie la smania di far del chiasso su questi passatempi, bisognerebbe saperle mettere la briglia; e che a volte, per l’ambizione di esibire le nostre opere, si corre il rischio di fare una pessima figura.

L’unica accusa che si può muovere ad Alceste è, a mio giudizio, il fallimento del suo amore per l’affascinante ed enigmatica Celimene; i creatori di satire, tuttavia, evitano il matrimonio per tradizione. Anche in questo caso

sono propenso a difendere Alceste dai critici moraleggianti, che lo associano a Don Giovanni perché entrambi si nominano giudici assoluti in tutte le sfere, compresa quella erotica. A volte sospetto che i moderni critici di Molière mettano quest’ultimo sullo stesso piano di Racine, scelta stravagante quanto lo sarebbe quella di fondere Montaigne con Pascal. In The Classical Moment, Martin Turnell assimila così Molière alla sua epoca, che diviene l’epoca di Racine, ed ecco che Il misantropo diventa ben presto un dramma il cui protagonista è in uno stato di perenne isteria. Il supremo riduzionismo della critica moraleggiante si raggiunge quando Turnell afferma: «È vano pretendere che l’ordine venga ristabilito e che un buffone castigato venga ricondotto alla norma dell’equilibrio mentale». «Quale norma?» tuonerebbe Alceste, e lo spettatore o il lettore sano di mente dovrebbero essere d’accordo con lui. La grandezza del Misantropo svanirebbe del tutto se la società fosse sana di mente e Alceste fosse l’unico pazzo. Se dobbiamo salvare Alceste dai critici, io mi schiero con Montaigne contro di loro. In alcuni aspetti di Amleto siamo abituati a vedere uno scettico alla Montaigne, ma i nostri critici non ci presentano un Amleto che sia un buffone. Vedere Amleto impersonato da un attore che non può (e non deve) sfiorare il sublime è un’esperienza terribile, ma, in genere, ci aspettiamo che sia un attore vigoroso e completo a interpretare quel ruolo. Vedere un attore incompetente che recita la parte di Alceste come giullare illuso è un’esperienza teatrale così spiacevole da essere inquietante. Almeno nei Paesi anglofoni, gli accessi morali dei critici hanno procurato molti danni a questo dramma. Alceste richiede un grande attore, come evidentemente lo fu Molière quando trionfò per la prima volta in quel ruolo. La tradizione vuole che, diretto e interpretato da Molière, Alceste sia stato presentato come molto più di un buffone autodistruttivo. L’opera richiede un regista e un attore capaci di concepire un creatore di satire morali che conservi forza e dignità ma che cada anche vittima, non di una società vendicativa, bensì dello spirito della commedia. Nel suo Molière’s Theatrical Bounty, che non manca di sensibilità in molti altri punti, Albert Bermel, pronuncia un verdetto duro su Alceste, non per i soliti motivi moralistici, bensì perché il protagonista è un tipo solitario, non un giacobino o un riformatore, e perché non ha il coraggio di accettare Celimene quando finalmente quest’ultima si offre di diventare sua moglie. Amleto meriterebbe di essere rifiutato per le stesse ragioni. Alceste non è intelligente come Amleto, ma non lo è nessun altro personaggio letterario, e

Alceste, come concede Bermel, «è dotato di una formidabile prodezza morale e intellettuale», anche se non di una personalità molto ammirevole. Nessuno si è mai innamorato di Alceste ad eccezione di Jean-Jacques Rousseau, che scoprì nel fidanzato di Celimene un personaggio virtuoso quanto se stesso. A quanto pare, Celimene e Alceste non sono innamorati l’una dell’altro, elemento che si inserisce nello spirito comico del dramma. Come Rousseau, Alceste ama solo se stesso, il che aumentò senza dubbio il suo fascino agli occhi del filosofo. Molière, tanto tortuoso quanto profondo, non voleva esaltare la sua antitesi in Alceste, ma sospetto che sarebbe stato divertito dalla disapprovazione morale che il suo misantropo aristocratico ha suscitato nel nostro secolo caotico. Montaigne gli aveva insegnato l’elusività pragmatica della verità, una superba lezione per un attore, e una lezione che sarebbe stata vantaggiosa per Alceste, se quest’ultimo fosse stato in grado di sopportarla, ma non lo era. Diciamo che l’inclinazione di Molière era per la commedia, non per la tragedia, ma riconosciamo che le sue commedie più belle sono molto nere, anche se non diventano mai tragicommedie; queste ultime non sono infatti un genere francese. Montaigne e Molière evitano la visione tragica che Lucien Goldmann attribuisce a Pascal e Racine nel Dio nascosto. Una sensibilità religiosa è assai diversa da una fede religiosa, soprattutto in un’era in cui la fede viene ancora imposta e la mancanza di sensibilità religiosa può essere il legame cruciale tra il saggista che scrisse Dell’esperienza e il commediografo del Misantropo, del Tartuffo e di Don Giovanni. Quel legame doveva rimanere nascosto per motivi di sicurezza, ma dal punto di vista metaforico il suo posto è stato occupato dal comune disprezzo dei due scrittori per la professione medica. Le satire di Molière sui medici insinuano astute analogie tra medicina e teologia, un’insinuazione blanda e implicita in Montaigne. Il movimento dall’umanesimo alla celebrazione della vita comune, che Frame individua in Montaigne, venne totalmente assorbito da Molière, il cui pubblico ideale sarebbero stati gli uomini onesti con cui Montaigne aveva sostituito l’ideale umanistico. L’originalità di Montaigne era stata l’autoritratto, che di rado è il materiale con cui un commediografo plasmerebbe la sua opera. L’originalità di Molière fu il progresso dalla farsa a una sorta di commedia critica, e per compiere quel progresso era necessario un catalizzatore non teatrale. Suppongo che Molière abbia colto il suggerimento di Montaigne, ma abbia invertito l’autoritratto o l’abbia

rovesciato. Alceste è la più grande di quelle inversioni antitetiche, ma ve ne sono altre, ed esse seguono la descrizione dell’uomo completo fornita da Montaigne, rappresentando volutamente grandi figure troncate. Montaigne insegna ad assecondare la volontà per giungere al dominio di sé; Molière mostra la commedia nera dell’abbandono alla volontà, che conduce all’autoabdicazione e alla passione distruttiva. Alceste, per quanto io lo trovi vigoroso e ammirevole, è la diretta conseguenza della scelta di non agire secondo l’esortazione con cui Montaigne conclude Dell’esperienza. Se vuoi metterti fuori di te stesso e sfuggire all’uomo, cadi nella follia. Non ti innalzi ad angelo, ma ti abbassi a bruto. Alla fine, ansioso di rifugiarsi in una solitudine deserta (per quanto metaforica), Alceste cerca tutto ciò di cui Montaigne aveva più paura.

7. SHAKESPEARE E IL SATANA DI MILTON Milton ha un posto permanente nel Canone, sebbene oggi il grande poeta sembri essere vittima del più profondo risentimento da parte della critica letteraria femminista. Un giorno, durante una conversazione con John Dryden, confessò, forse con eccessiva schiettezza, che Spenser era il suo «grande originale», un’affermazione che sono giunto a interpretare come una difesa da Shakespeare. Quest’ultimo fu insieme la fonte dell’ansia poetica di Milton, autentica seppur nascosta, e, paradossalmente, il generatore della sua canonicità. Fra tutti gli scrittori postshakespeariani, è Milton, più di Goethe, Tolstoj o Ibsen, ad aver saputo sfruttare al meglio la rappresentazione shakespeariana del personaggio e dei suoi mutamenti, benché abbia lavorato con foga per allontanare l’ombra di Shakespeare. Il più shakespeariano di tutti i personaggi letterari dopo le creazioni dello stesso Shakespeare è il Satana di Milton, che è l’erede sia dei grandi antieroi – Iago, Edmund, Macbeth – sia dell’aspetto più oscuro di Amleto l’anti-Machiavelli. Milton e Freud (che nutriva grande stima per il poeta) hanno in comune un debito reciproco nei confronti di Shakespeare e un rifiuto altrettanto reciproco di quel debito. Tuttavia, la capacità di sostenere la forza di Shakespeare e piegarla ai propri scopi può essere l’alleanza più autentica tra l’ambivalenza miltoniana e quella freudiana, tra la ribellione di Satana a Dio e la guerra civile nell’ambito della psiche. L’antieroe fu inventato in larga misura da Christopher Marlowe con Tamerlano, un pastore scita divenuto conquistatore del mondo, e più ancora con Barabba, l’autocompiaciuto ebreo di Malta, un umorista del male. Diretta è la strada dai grandi nichilisti di Marlowe ai primi mostri shakespeariani, il gobbo Riccardo III e Aronne il Moro nel tragico mattatoio del Tito Andronico. Tutte queste figure sono troppo poco raffinate per aver influito sulla sensibilità di John Milton. Il nichilismo intellettuale del Satana di Paradiso perduto inizia davvero con l’abisso dentro la vasta coscienza di Amleto; ma gli accenti nichilisti dell’angelo caduto di Milton si sentono per la prima volta in Iago, la vittima originale della sensazione di un merito disconosciuto, della sensazione di essere stato scavalcato dal suo generale simile a un dio. Secondo il mito esplicito di Milton, Shakespeare rappresentava la «natura», ossia una sfrenatezza totale o una libertà naturale, mentre, Milton, rappresentava un modo più puro e migliore di trascendere la natura per

raggiungere il cielo, o almeno la rappresentazione del cielo. Nessuno riesce tuttavia a sopportare il cielo di Milton per un lungo periodo; lo stesso poeta, partito o setta di un solo uomo, non sarebbe riuscito a sopportarlo per un attimo. Il Paradiso perduto è magnifico perché è così tragico ed epico da essere convincente; è la tragedia della caduta di Lucifero in Satana, sebbene declini per rivelarci Lucifero, portatore di luce e figlio del mattino, capo delle stelle destinate a precipitare. Noi vediamo solo il Satana caduto, anche se prima contempliamo Adamo ed Eva, nel preciso istante del peccato originale e in seguito. In un’altra accezione del «tragico», il Paradiso perduto è la tragedia di Adamo ed Eva, che, come Satana, possiedono qualità inevitabilmente shakespeariane e tuttavia sembrano raffigurazioni un po’ meno persuasive di Satana, cui viene concesso un maggior grado di crescente io interiore shakespeariano. Questo potrebbe essere un indizio sul turbolento rapporto di Milton con il drammaturgo di Otello e Macbeth, i drammi che paiono aver contaminato più intensamente il Paradiso perduto. Rifiutando la completezza shakespeariana, Milton fu in grado di appropriarsene per il suo antieroe più che per il suo eroe e la sua eroina, seppur evitandola fatalmente nei suoi ritratti di Dio e di Cristo, che non devono nulla a Shakespeare e forse proprio per questo sono personaggi drammatici impoveriti. Riguardo al Dio di Milton si può affermare con certezza solo che è pomposo, arrogante e sempre sulla difensiva, mentre Cristo, come già ho sottolineato una volta, si riduce al comandante di un attacco corazzato, una sorta di Rommel o di Patton celeste. Shakespeare morì quando Milton era un bambino di sette anni. Nel 1632, quando Milton pubblicò la poesia Su Shakespeare, il drammaturgo era scomparso da sedici anni. Dobbiamo sempre tenere presente questa cronologia quando riflettiamo sull’ansioso rapporto di Milton con il massimo poeta della lingua inglese, e forse di qualsiasi altra lingua. Sono trascorsi più di cinquant’anni dalla morte di Wallace Stevens, avvenuta nel 1955, ma la sua presenza continua a ossessionare la poesia americana contemporanea. Sul piano temporale, Shakespeare fu pericolosamente vicino a Milton, il cui omaggio poetico è, in realtà, un gesto di rifiuto, soprattutto in questo punto: Caro figlio della memoria, grande erede della fama, Perché hai bisogno di un così debole testimone del tuo nome? Tu nella nostra meraviglia e nel nostro stupore hai eretto un perenne monumento a te stesso.

Shakespeare, figlio della memoria madre delle muse, è a sua volta una musa maschile che ispira Milton, ma non una visione trascendentale. Le

parole «nella nostra meraviglia e nel nostro stupore» sono corrette dal punto di vista empirico, allora come oggi, a causa dell’influenza di Shakespeare su qualsiasi altro poeta, ma quelle qualità erano secondarie nelle aspirazioni di Milton. Come Dante, Milton voleva scrivere il poema divino o, in termini pragmatici, un terzo Testamento. La meraviglia e lo stupore sono assai diversi dalla verità e dalla reverenza, mentre la «natura» shakespeariana è lontanissima dalla «rivelazione» scritturale o miltoniana. Macbeth e Satana sono entrambi vittime della loro immaginazione; il primo potrebbe rappresentare un’ansia latente in Shakespeare, che forse lo usò per castigare la forza della sua immaginazione, ma il secondo riflette con chiarezza la diffidenza di Milton verso la fantasia e le relative delusioni. Essendo un profeta protestante, anzi il poeta protestante, Milton non sarebbe per nulla contento di sapere che ora il Paradiso perduto viene considerato come una vigorosissima opera di fantascienza. Rileggo il poema di continuo e mi sento pervadere soprattutto dalla meraviglia e dallo stupore, dalla singolarità dell’impresa miltoniana. A rendere unico il Paradiso perduto è il suo stupefacente miscuglio di tragedia shakespeariana, epopea virgiliana e profezia biblica. Il terribile pathos del Macbeth si unisce all’atmosfera da incubo dell’Eneide e all’affermazione di autorità della Bibbia ebraica. Quella combinazione avrebbe dovuto far affondare qualsiasi opera letteraria a una profondità di nove braccia, ma John Milton, cieco e abbattuto dalla sconfitta politica, era inaffondabile. Nella letteratura occidentale non può esservi un trionfo più grande della volontà visionaria. Nel Sansone agonista e nel Paradiso riconquistato, sentiamo che Milton risente molto delle sue perdite, ma nel Paradiso perduto sbaraglia tutti gli avversari ad eccezione di Shakespeare, l’agonista nascosto. Nel Paradiso perduto, il punto focale del lettore dev’essere Satana, il capro espiatorio di quasi tutti gli esegeti eruditi, ma anche, senza dubbio, la maggior gloria del poema, bilanciata solo in parte dalla straordinaria espansione miltoniana dei resoconti ebraici della Creazione nel libro settimo. Naturalmente, Satana viene sconfitto, ma, alla fine, anche Iago e Macbeth vengono sconfitti una volta portata a termine l’opera dell’antieroe, e Mefistofele viene sconfitto dopo l’ascesa di Faust nel poema di Goethe. Simili sconfitte sono dialettiche e dipendono da chi assume il controllo della prospettiva del lettore. Iago, sconcertato dal fatto che Emilia avrebbe dovuto sacrificare la propria vita per salvare la reputazione di Desdemona, preferirebbe morire sotto tortura piuttosto che rivelare i suoi moventi, persino

a se stesso: «Da questo momento non mi caverete più una sola parola di bocca». Satana, quando lo vediamo per l’ultima volta, è un serpente sibilante in fondo all’inferno. Non prestiamo totalmente fede a questa prospettiva, che è il commento più spietato e autolesionistico fatto da Milton. Lo mette in cattiva luce, perché sembra essere la sua vendetta contro Satana, che ha usurpato troppo l’energia e la forza di desiderio del poeta. Shakespeare non si vendica su Iago o Macbeth, né su nessun altro nei suoi trentotto drammi. Qui non è solo il genere drammatico a determinare la differenza shakespeariana. Shakespeare, un miracolo di indifferenza, non crede né si rifiuta di credere, non moraleggia né avalla il nichilismo. Gioiamo di Iago benché ci faccia rabbrividire. Milton trasforma il piacere che ricaviamo da Satana in un’emozione colpevole, insistendo apparentemente sulla fede e su una moralità manifesta. Sono incline a dubitare che il Milton maturo del Sansone agonista credesse in qualcosa; in ogni caso, non riesco a inquadrare bene la figura di Cristo nella poesia di Milton. Come il Gesù dei bigotti americani, il suo Cristo è appena stato crocifisso e scende dalla croce con straordinaria rapidità. Il Gesù americano, risorto sulla terra per un periodo assai più lungo di quaranta giorni e mai crocifisso o asceso, sarebbe piaciuto a Milton come il Gesù europeo mai avrebbe potuto fare. Magnifico e miltoniano, Satana è a suo agio nel Paradiso perduto, sicuro del proprio ruolo e della propria identità quanto Iago, il maestro della manipolazione, lo è nell’Otello, finché ciascuno dei due subisce il crollo finale. Rammentiamo il progredire di Iago da un livello all’altro di controllo su tutti i personaggi, finché può esultare della rovina di Otello come sua creazione negativa, proprio come rammentiamo Satana nella grandiosità della sua sfida e nell’astuzia con cui mette in scena il nostro peccato originale. Il loro orgoglio reciproco, un perfezionamento shakespeariano di Marlowe, trova la sua migliore espressione nel Diavolo bianco di John Webster, un discepolo di Shakespeare, quando uno degli antieroi, anch’egli moribondo in un’ultima scena costellata di cadaveri, grida esultante: «Ho miniato questo notturno, ed è il migliore che abbia prodotto!». Come miniatore di notturni, Satana deve tutto a Iago e Macbeth, ad Amleto e Edmund. Per quanto possa sembrare sconcertante, dobbiamo supporre che Milton non avesse riconosciuto consapevolmente il debito. La rappresentazione miltoniana dell’ambivalenza di Satana verso Dio, come il resoconto freudiano dell’ambivalenza originaria, è totalmente shakespeariana, basata

sull’ambivalenza di Iago verso Otello, su quella di Macbeth verso la propria ambizione edipica e su quella di Amleto verso tutto e tutti, in particolare verso stesso. L’ambivalenza, nella definizione freudiana, è l’essenza di ogni rapporto tra il super-io, ciò che si trova sopra l’«io», e l’id o «es», ciò che si trova sotto l’«io». Sentimenti mescolati e uguali di affetto e odio vanno contemporaneamente avanti e indietro tra queste istanze o finzioni psichiche, e il flusso e riflusso inaridisce e annega alternatamente l’«io», l’ego infelice. Iago, Macbeth e Satana sono così dominati da questa ambivalenza che è difficile distinguerli da essa. Non riconoscendo alcuna differenza tra battaglia e vita civile, nel lungo e misterioso antecedente dell’Otello Iago si è identificato con il suo generale, il dio della guerra Otello, proprio come Lucifero si è identificato con il Dio di Milton. Satana soffre di ciò che definisce «un senso di merito disconosciuto» quando viene scavalcato a favore di Cristo, proprio come Iago soffre quando viene scavalcato a favore di Cassio, un estraneo scelto da Otello come luogotenente al posto di Iago, l’esperto alfiere che ha ricevuto i colori di Otello, e dunque l’onore del suo capitano. Probabilmente, il navigato Otello, la cui grandezza consiste nel conoscere i confini tra guerra e pace, si rende conto di non poter confidare nel fatto che il suo devoto alfiere o portabandiera non superi mai quei confini. Essendo sovradeterminato sul piano teologico, il caso di Satana è più problematico di quello di Iago. Perché il Dio di Milton proclama Cristo come suo figlio anziché Lucifero, il capo degli angeli? E come accade esattamente che Lucifero cominci a trasformarsi in Satana? Se Lucifero è stato scavalcato sin dall’inizio, perché non ne sa nulla fino al decreto con cui Dio annuncia la condizione superiore di Cristo? Non si può certo dire che il Dio di Milton ci illumini in merito: Angeli, figli della luce, Troni, Virtù, Posse, Dominj, udite il mio Non mutabil decreto. In questo giorno Generato ho colui che per mio figlio Unigenito acclamo. Alla mia destra Consacrato da me su questo monte Tutti or voi lo mirate. A duce vostro, Spirti eterei, l’ho scelto, ed a me stesso Giurai che umilïarsi a lui dovranno Quanti il cielo ha ginocchi, e quante ha lingue Salutarlo signore. Or voi, guidati Dal mio Figlio e mia vece, in pieno accordo, Come vi governasse un’alma sola, Siate lieti e felici, se l’eterna Vera letizia di fruir vi giova.

Chi lui non obbedisce, a me ricusa L’obbedïenza, e frange il sacro nodo. Dalla mia diva visïon reietto Verrà tosto l’audace, e nell’abisso Delle tènebre immerso, ove per sempre, Senza speme di scampo e di perdono, Starà.

Questa è senza dubbio la dottrina cristiana tradizionale, ma è accettabile sul piano poetico? Non riesco a leggere questa dichiarazione dura e arbitraria senza ricordare l’acuta osservazione del compianto Sir William Empson, secondo cui Dio causa così tutti i guai, proprio come fa nel Libro di Giobbe, quando si vanta con Satana dell’obbedienza e della rettitudine del suo servo Giobbe. Qui la lacuna immaginativa è racchiusa nel fatto che solo il potere minaccioso di Dio ci impedisce di avvertire le sue minacce come una serie di parole spavalde e aggressive. Molto prima che qualcuno abbia disobbedito, la disobbedienza sembra essere stata un’ossessione del Dio ebraico. La prima storia di Yahweh, non del tutto recuperabile, indica che l’ansia per la potenziale disobbedienza è strettamente legata alla storia segreta di come un solitario dio guerriero – a quanto pare una tra numerose divinità minori – si sia imposto come figura suprema. Per il poeta Milton, tuttavia, non esiste una prima storia di questo tipo, che sarebbe simile ai racconti romantici di un io più giovane cui Otello, il dio della guerra, strappò la sua sposa, Desdemona. Probabilmente il repubblicano Milton ci avrebbe smentiti se avesse saputo che quando parla il suo Dio, abbiamo l’impressione di udire la retorica della tirannia, poiché, per il poeta del Paradiso perduto, il Dio protestante era l’unico monarca legittimo. Tuttavia, Milton ha reso Dio più simile a Giacomo I o a Carlo I che a Davide e Salomone, per non parlare poi dello Yahweh dello scrittore J. Nel Dio di Milton vi è qualcosa di profondamente sbagliato, come nel suo bellicoso Messia che guida la carica celeste sul cocchio della Divinità paterna. La retorica dell’autorità di Otello è più persuasiva di quella del Dio di Milton: «Riponete nel fodero le vostre lucide spade, ché altrimenti la guazza vorrà arrugginirle». Questo è ciò cui si oppone Iago e ciò che rende il suo trionfo molto più grandioso e rovinoso rispetto a quello, assai più equivoco, di Satana. Non sto dicendo che il tragico Satana sia un «piccolo Iago», più simile, diciamo, allo Iachimo del Cymberline che a Iago o a Macbeth. Ciò che è poeticamente difettoso in Satana (ed è cosa di minore importanza, rispetto alla sua eminenza estetica) deriva, per quanto possa sembrare sorprendente, dal rifiuto o dall’incapacità miltoniana di drammatizzare in modo adeguato

l’argomento cristiano del poema. Come accadde ai non cristiani Goethe e Shelley, forse Milton avrebbe tratto beneficio dallo studio del teatro spagnolo dell’età dell’oro e in particolare di Calderón de la Barca, anche se a impedirglielo fu senza dubbio il cattolicesimo lì implicito. È difficile non supporre che Dio e Cristo, almeno nel Paradiso perduto, abbiano inibito il genio di Milton, un’ipotesi in cui sono stato preceduto da William Blake nel Matrimonio del cielo e dell’inferno. Il grande poema di Milton evidenzia che il suo autore rimase shakespeariano suo malgrado. Il suo Satana unisce il nichilismo ontologico di Iago alle fantasie anticipatrici di Macbeth, insaporendo il miscuglio con il disprezzo di Amleto per l’atto del parlare. Tutto ciò per cui Satana trova le parole è già morto nel suo cuore, proprio come in quello di Amleto. Satana è spinto a ordire una tragedia da una versione dell’orgoglio estetico di Iago e da qualcosa di simile alla crescente indignazione provata da Macbeth quando conclude che ogni usurpazione dovrebbe sfociare solo nell’ennesima battuta persa da parte di un attore mediocre. I superbi elementi drammatici della situazione di Satana sono tutte invenzioni shakespeariane, come lo è la tendenza di Satana a subire cambiamenti solo dopo aver prima origliato se stesso e poi meditato sul proprio linguaggio. Tuttavia, Milton evita di rappresentare il mutamento cruciale mediante il quale Satana deriva da Lucifero. Se esaminiamo il testo, quel cruciale momento metamorfico non esiste. Ricaviamo solo un moraleggiare curioso ed ellittico da parte di Raffaele, l’arcangelo non molto affabile: Ma Sàtan vigilava (è tale il nome Di che noi l’appelliam, poiché l’antico Sul labbro de’ celesti or più non suona); Oh ben altra vigilia era la sua! Spirto de’ più sublimi e forse il primo Per virtù, per favor, per eminenza Di serafici raggi. Ora costui Volse un invido sguardo al Figlio eterno, Onorato in quel giorno e consacrato Re Messia dal Signore; e, mal potendo Tollerarne l’aspetto, il cor superbo Offuscata pensò la gloria sua.

Questa è un’evasione assai poco shakespeariana; vorremmo vederla drammatizzata, proprio come vorremmo vedere Lucifero prima che rimpicciolisca per sempre. In fuga da Shakespeare, Milton reprime il momento drammatico della trasformazione del suo antieroe. Dopo tutto, Raffaele si sbaglia; è Lucifero a credersi privato di valore, e siamo infastiditi

dall’interpretazione secondo cui ora Lucifero è una non-persona di nome Satana. Shakespeare dispiega Iago e Macbeth davanti a noi, mentre Milton parte dal semplice presupposto che il lettore, essendo cristiano, accetterà la storia raccontata per intero dalla prospettiva del vincitore. Molti passi di questo genere affonderebbero persino il Paradiso perduto, che tuttavia si riprende ben presto con il ritorno del Satana shakespeariano, cui viene offerta l’opportunità di rivelare la sua prospettiva: Create cose Per te dunque noi siamo? Opre traslate Dal Padre al Figlio? Oh novo e strano avviso! Ben ne giova saper da cui ti venne Così rara dottrina, e chi presente Fosse ai nostri natali. Il loco e il tempo Vivi hai tu nella mente allor che Dio T’infuse il soffio animator? Ricordo D’una età non abbiamo in cui diversi Fossimo noi, né conosciam qual vita Precedesse la nostra. In noi concetti, Creati in noi per sola intima forza, Quando un corso di fati ebbe descritta La piena orbita sua, quando matura Del gran parto fu l’ora, eterni figli Del ciel nascemmo. Or quanto abbiam di possa Sol da noi ci discende.

È una prospettiva capace di insinuare realtà pragmatiche, poetiche e umane, che le presunte verità del cristianesimo non sono in grado di soffocare con tanta facilità. Anche ammettendo che Satana si abbandoni a un’ironia teatrale, in quelle domande retoriche non vi è solo ironia. Esse adottano il modello dei feroci interrogativi di Iago e trasformando il lettore del Paradiso perduto in un Otello momentaneo, travolto da un’eloquenza espressiva la cui tendenziosità, per quanto manifesta, è irresistibile. Ciò che Satana ha imparato da Iago e Macbeth e, in maniera più impercettibile, da Amleto, è un’energia negativa che è convincente perché trascende la semplice persistenza e annuncia una pulsione permanente oltre il principio del piacere. Shakespeare, che forse non ha creato tutto ma che sicuramente ha inventato noi (così come siamo), ha creato il nichilismo occidentale nella transizione da Amleto a Macbeth passando per Iago e Edmund. Satana, per quanto sia magnifica la sua eloquenza, è tuttavia una ripetizione della scoperta shakespeariana del nulla al nostro centro. Amleto ci dice di essere insieme tutto e niente, mentre Iago scende di più nell’abisso: «Io non son per nulla quel che sono», parole che capovolgono volutamente il «per la grazia di Dio sono ciò che sono» di san Paolo. «Non conosciamo

alcun tempo in cui non fossimo uguali a come siamo», ma ora non siamo nulla. Dal punto di vista ontologico, Iago sa di essere un uomo vuoto perché l’unico erogatore dell’essere, il dio della guerra Otello, lo ha scavalcato. Satana, scavalcato a sua volta, si proclama autocreato e si accinge a disfare la creazione intesa a sostituirlo. Iago, assai più potente, disfa il suo dio, riducendo a caos l’unica realtà e valore che riconosca. Il povero Satana, invece, può solo cercare di irritare Dio, non di distruggerlo. Il fatto che Iago eclissi Satana in fatto di prodezza satanica è innegabile e forse avrebbe gettato Milton nella disperazione se quest’ultimo avesse dato a se stesso l’opportunità di affrontare direttamente la contaminazione shakespeariana. Molto prima di concepire il Paradiso perduto, Milton aveva preso in considerazione l’idea di scrivere non un poema epico, bensì una tragedia, incerto se intitolarla Paradise Lost o Adam unparadised. Ad aprire la tragedia sarebbero stati quelli che oggi sono i versi 43-57 del libro quarto. Satana, sulla cima del monte Nifate, alle sorgenti del Tigri, contempla il Giardino dell’Eden e si rivolge direttamente al sole infuocato, con gli accenti di un antieroe giacobino che ricorda il pathos degli ambiziosi personaggi marlowiani: O Sol, che cinto Sei d’una gloria ch’ogni gloria oscura, Tu che guardi quaggiù dal tuo sublime Solingo trono, come fossi il dio Di quest’orbe novello, e gli astri tutti Si coprono d’un velo al tuo passaggio; O Sole, a te mi volgo. Amica voce La mia voce non è. Da queste labbra Non mando il nome tuo che per gridarti Quanto in odio mi sei. Tu mi rammenti Da qual loco io discesi, e come un giorno Di te più luminoso io risplendea. Ma la superbia m’atterrò: nel cielo Fei guerra al re del cielo, a quel possente Che non ha paragon.

Nelle bozze a noi pervenute di Adam unparadised, non vi è alcun personaggio di nome Satana; vi è solo Lucifero. Questo passo è il nostro unico indizio sul personaggio da cui Satana si è allontanato. A giudicare da questi versi, Lucifero era marlowiano quanto Satana divenne shakespeariano; qui potremmo benissimo ascoltare Tamerlano, ma non Iago o Macbeth. Come quella di Tamerlano, la retorica di Lucifero è iperbolica; il sublime è il criterio di misura, e tutto viene giudicato in base all’esagerazione o allo svilimento. Il sole ha sostituito la stella del mattino, e all’inizio Lucifero

disdegna di pronunciare il nome del suo usurpatore. Quando lo pronuncia, lo fa con odio esplicito verso ciò che suscita il tormento della nostalgia. Torniamo così al grande cambiamento che Milton si rifiutò di rappresentare: quando, e come, con esattezza Lucifero è divenuto Satana? Circa quarantacinque versi più sotto, forse aggiunta al discorso originario, troviamo quella che sembra la risposta più probabile: Non v’ha calle per me che non conduca Giù nell’inferno!… Io son, son io l’inferno! Nel bàratro profondo un più profondo Dentro a me se ne schiude, e d’ingojarmi Senza posa minaccia, al cui paraggio L’inferno, ov’io tormento, un ciel mi pare.

Il primo verso ricorda da vicino il Mefistofele di Marlowe: «Ma qui è inferno, non ne sono fuori», ma gli altri quattro versi si spingono oltre. Senza i tormenti di Otello provocati da Iago, senza il viaggio negativo di Macbeth all’interno delle sue fantasie, Milton non avrebbe avuto a disposizione la grande immagine di un’autentica bocca dell’inferno. Se Adam unparadised fosse stato composto, quello di Lucifero sarebbe stato un ruolo derivato da Marlowe; Satana nacque dal trionfo di Shakespeare dentro lo spirito di Milton. Marlowe era un caricaturista, e Lucifero, come Tamerlano e Barabba, sarebbe stato una vignetta grandiosa. Shakespeare inventò l’io interiore in perpetuo cambiamento e in crescita incessanti, l’io più profondo, capace di divorare tutto, l’io che raggiunge per la prima volta la perfezione in Amleto e continua a infuriare in Satana. In The Changing Nature of Man, lo psichiatra olandese J.H. Van den Berg attribuisce a Martin Lutero la scoperta del crescente io interiore. In Lutero vi è senza dubbio una nuova interiorità, ma quest’ultima differisce solo per intensità, e non per natura, dalla profezia di Geremia secondo cui, da quel momento in poi, Dio avrebbe scritto la Legge sulle nostre parti interne. Non mi azzarderei a definire la sensibilità di Shakespeare protestante o cattolica dissenziente. Come accade sempre con Shakespeare, è entrambe le cose e nessuna delle due, e pertanto l’interiorità luterana esercitò forse un profondo influsso sulla concezione shakespeariana della coscienza umana. Gli io interiori shakespeariani mi sembrano tuttavia diversi da quelli di Lutero non solo per intensità ma anche per natura, e diversi per natura dall’intera storia della coscienza occidentale fino a Lutero. La totale fiducia in se stesso di Amleto trascende i secoli e si unisce a quella di Nietzsche e di Emerson, per poi spingersi al di là dei loro limiti estremi, e continuare ad andare oltre i nostri. Resta vera l’osservazione di Emerson su Shakespeare: «La sua mente è

l’orizzonte oltre il quale, al momento, non vediamo». I riduzionisti ansiosi di ricordarci che Shakespeare era innanzi tutto un drammaturgo professionista ricevono un’ottima ironia emersoniana: «Questi suoi trucchi magici ci rovinano le illusioni del teatro». Posso solo immaginare ciò che Emerson avrebbe detto agli attuali materialisti culturali e neostoricisti, ma il giusto rimprovero è già presente in Shakespeare, o il poeta, contenuto in Uomini rappresentativi (1850): «Shakespeare è l’unico biografo di Shakespeare; e neppure lui può dire nulla, se non allo Shakespeare che è in noi». Lo Shakespeare in Milton era l’abisso più profondo di Satana, l’angoscia derivata dall’idea di essere divorato da qualcosa nel proprio io. Da dove trasse Milton questa visione del divoratore? La complessità della derivazione consiste nel fatto che Satana è insieme Iago e l’Otello rovinato, insieme Edmund e il Lear impazzito, insieme l’Amleto esaltato e l’Amleto umiliato, insieme Macbeth sull’orlo del regicidio e Macbeth smarrito nella successiva ragnatela dell’assassinio. Eliminando Lucifero e dandoci solo Satana, il Milton maturo decise, forse senza rendersene conto, di essere più shakespeariano di quanto avrebbe voluto. Lucifero, qualunque fossero le sue frustrazioni, non avrebbe sofferto di angosce temporali e di gelosia sessuale, le intensità negative al centro di Satana. L’ossessione di Satana per il tempo deriva da quella di Macbeth; dopo Shakespeare, nessuna grande vittima dell’invidia sessuale – in Milton, Hawthorne o Proust – può essere del tutto ashakespeariana. La rappresentazione dell’energia negativa non esiste prima di Shakespeare. Dopo di lui, palpita nei nichilisti di Dostoevskij con la stessa vitalità riscontrabile nel Satana del Paradiso perduto, ma mai più a un livello così sublime da essere paragonabile a quello miltoniano. Confrontate due momenti in cui Iago e Satana meditano sulla nostalgia, due momenti che costituiscono impercettibili variazioni del principio «ho miniato questo notturno, ed è il migliore che abbia prodotto». Nel primo, Iago (atto terzo, scena terza, versi 321-333) si abbandona a una magnifica fantasticheria che inizia con l’uscita di Emilia, mandata a prendere il fazzoletto di Desdemona, e che viene interrotta dalla sublime entrata in scena di Otello, già rovinato: Lascerò che questa pezzuola venga smarrita nell’alloggio di Cassio, e farò in modo che sia lui a ritrovarla. Pur delle inezie leggere quanto l’aria, per le persone gelose, valgono quanto le più forti conferme, quanto le prove fornite dai libri sacri. Questo potrebbe servire a qualche cosa. Il Moro già cambia colore a causa del mio veleno, e i pensieri funesti son veleni per la loro stessa natura, e se dapprima sembra quasi che non sappiano eccitare neppure il disgusto, per poco che abbian fatto presa sul sangue, bruciano come miniere di zolfo. L’avevo pur detto. Eccolo che viene verso di me.

(Entra OTELLO) Né il papavero né la mandragora, né tutti gli sciroppi per dormire che vi sono al mondo serviranno mai a ridarti quel dolce sonno che appena ieri era ancor tuo.

Confrontate questi versi con il momento parallelo in cui Satana, discepolo di Iago, spia come un guardone gli ignari Adamo e Eva (libro quarto, versi 503-531): Tu non presenti, O bellissima coppia, il non lontano Tuo mutamento! In breve ogni tuo riso Volgerassi in dolore, e più crudele Quel dolor ti parrà, quanto più grande Fu la tua gioia… Avventurosi, e solo Troppo mal custoditi, a ciò vi fosse Durevole il diletto! Il vostro asilo, Questo suol che vi accoglie, è mal guardato, Né difender vi può contro un nemico Che fra voi già si trova… Eppur no ’l sono Vostro nemico, e la pietà potria Favellarmi per voi, per voi deserti, Abbandonati; la pietà che voce Mai per me non mandò. D’un patto io cerco Con voi legarmi, d’una mutua, salda, Strettissima amistà, tal che per sempre Vostra sia la mia stanza e mia la vostra. Forse quella dimora a voi gradita, Come quest’Eden, non sarà; ma pure Non la sdegnate, ché fattura anch’essa È di colui che vi formò. Cortese Vi do quanto ei mi diede. A voi l’inferno Lieto spalancherà le porte sue, E verranno esultanti ad incontrarvi Tutti i suoi re. Capace ampio soggiorno, Più del povero cerchio che v’accoglie, Troverete laggiù per la futura Vostra progenie.

A prescindere dal fatto che «l’uomo interiore» sia nato nel 1520 dalla concezione della «libertà cristiana» abbracciata da Lutero, il trionfo di Iago consiste nel crollo dell’uomo interiore di Otello prima del punto centrale del dramma, mentre Satana assapora il suo trionfo imminente crogiolandosi negli ultimi momenti della libertà interiore di Adamo e Eva. Senza lo splendore interiore ed esteriore delle loro vittime, Iago e Satana non potrebbero esultare in maniera così grandiosa e terrificante. Entrambi i passi illustrano il sublime del potere nichilistico, unendo l’orgoglio estetico del notturno miniato con una nostalgia sadomasochista verso la grandezza integrale che si è rovinata o si sta per rovinare. Iago, il precursore di Satana, trae dalla sua impresa una

gioia pura, mentre Satana si sofferma solo su rimpianti ipocriti. Il vantaggio è inevitabilmente di Iago, perché la sua opera è più vicina a quella del puro esteta. Nel borbottio di Iago potete udire John Keats e Walter Pater: «Né il papavero né la mandragora, né tutti gli sciroppi per dormire che vi sono al mondo serviranno mai a ridarti quel dolce sonno che appena ieri era ancor tuo». In Satana, invece, udite una parodia di tutti i matrimoni forzati dell’abilità politica: «un accordo, un’amicizia reciproca sicura e così salda». La transizione da critico drammatico a politico ci rattrista e ci spinge a renderci conto che vorremmo vedere Satana condividere ancora di più il genio e il nichilismo di Iago. Ma che cosa poteva fare Milton? Nell’Indulgenziere di Chaucer vi è un autentico nichilismo spirituale, ma questo tratto non si sviluppò appieno finché Shakespeare fu così astuto da scoprire come sbaragliare gli antieroi di Marlowe con una modalità più interiore di feroce amoralismo. Le energie sociali e storiche erano a disposizione dei contemporanei di Shakespeare come erano a disposizione del drammaturgo di Otello, Re Lear e Macbeth, ma è palese che Shakespeare disponeva anche di maggiori energie interiori. Sapeva esattamente come usare e trasformare Chaucer e Marlowe, ma nessuno, neppure Milton o Freud, ha saputo esattamente come usare Shakespeare anziché essere usato da lui, o come trasformare qualcosa di così vasto e universale in qualcosa di proprio.

8. IL DOTTOR SAMUEL JOHNSON, IL CRITICO CANONICO Si può far risalire la critica letteraria occidentale a un certo numero di fonti, tra cui la Poetica di Aristotele e l’attacco mosso da Platone a Omero nella Repubblica. Personalmente tendo a seguire Growth of the Mind di Bruno Snell, che attribuisce questo merito al feroce assalto sferrato da Aristofane a Euripide. Sembra insieme triste e appropriato che un’attività intellettuale sia emersa dalla farsa deliberata e che ora stia morendo, trasformandosi nella farsa involontaria messa in scena dalla schiera dei critici «politici» e «culturali» contemporanei che stanno affondando le nostre istituzioni didattiche. Nessuna elegia del Canone occidentale potrebbe essere completa senza una valutazione del vero critico canonico, il dottor Samuel Johnson, che non è stato uguagliato da nessun critico in nessuna nazione prima o dopo di lui. Johnson ha meno in comune con Montaigne e Freud, gli altri due saggisti esaminati in questo libro, di quanto essi abbiano in comune tra loro. L’ira johnsoniana scaturì da un temperamento scettico o epicureo; Johnson era un autentico realista, cristiano e classicista, a differenza di T.S. Eliot, che aspirava a quella triplice identità con notevole malafede. Non c’è malafede nel o sul dottor Johnson, che era tanto buono quanto grande, ma anche dotato di una singolarità vivificante e sfrenata. Mi riferisco a qualcosa di più della sua bizzarra o insolita (seppur magnifica) personalità, rivelataci da quella che è ancora la migliore di tutte le biografie letterarie, Vita di Samuel Johnson di Boswell. Johnson era un poeta vigoroso che scrisse Rasselas, un superbo racconto filosofico in prosa, ma tutta la sua produzione – e in particolare la critica letteraria – è essenzialmente letteratura di saggezza. Come il suo vero precursore, chiunque sia l’autore dell’Ecclesiaste nella Bibbia ebraica, Johnson è fastidioso e anticonformista, un moralista del tutto singolare. Johnson è per l’Inghilterra ciò che Emerson è per l’America, ciò che Goethe è per la Germania e ciò che Montaigne è per la Francia: il saggio nazionale. Tuttavia, Johnson è un originale scrittore di sapienza quanto Emerson, benché affermi che la sua moralità segue ideologie cristiane, classiche e conservatrici. Ancora una volta come Emerson, Nietzsche o la tradizione dei moralisti francesi, Johnson è un grande aforista, capace di fondere, come osserva M.J.C. Hodgart, l’etico e il prudenziale. Forse il termine preciso per definirlo è «critico sperimentale», sia della letteratura sia della vita. Più di qualsiasi altro critico, Johnson dimostra che l’unico metodo

è l’io, e dunque che la critica è una branca della letteratura di saggezza. Non è una scienza politica o sociale né il culto di un genere o un plauso razziale, destino cui è andata incontro nelle moderne università occidentali. A volte tutti i critici, grandi e piccoli, sbagliano, e neppure il dottor Johnson era infallibile. «Tristram Shandy non è durato» è la più infelice di tutte le frasi johnsoniane, ma ve ne sono altre, come l’elogio di un passo poetico della Mourning Bride di Congreve, dichiarato superiore a qualsiasi scritto di Shakespeare. Johnson, più di Coleridge o di Hazlitt, più di A.C. Bradley o di Harold Goddard, mi sembra il miglior interprete di Shakespeare nella lingua inglese, ragione per cui questa particolare gaffe è molto strana. È mitigato dalla semplice mediocrità della poesia di Congreve, che non ha nulla in comune con le sue grandi commedie in prosa. Congreve descrive un tempio che è una tomba e pare aver provocato una parte della soggezione di Johnson nei confronti della morte, sentimento di poco inferiore alla sua soggezione nei confronti di Dio. Nella Vita di Boswell vi è un celebre passo indispensabile per comprendere Johnson: I suoi pensieri a proposito di quel terribile mutamento erano, in generale, pieni di fosche inquietudini. La sua mente assomigliava a quel vasto anfiteatro, il Colosseo di Roma. Al centro si trovava il suo giudizio, che, simile a un poderoso gladiatore, combatteva le inquietudini che, come le fiere selvatiche dell’arena, erano in gabbie tutt’intorno, pronte a scatenarglisi contro. Dopo un combattimento, le ricacciava nelle loro tane ma, poiché non le uccideva, eccole che tornavano ad aggredirlo. Quando gli domandai se non potessimo rafforzare la mente in vista dell’approssimarsi della morte, rispose con fervore: «No, signore, lasciamo perdere. Non importa come muore un uomo, bensì come vive. L’atto del morire non ha importanza, giacché dura così poco». E aggiunse con aria grave: «Un uomo sa che così dev’essere, e si rassegna. A nulla gli servirebbe piagnucolare».

Sul piano pragmatico, l’atteggiamento di Johnson ricorda quello di Montaigne, ma lo stato d’animo è del tutto diverso: in Montaigne non vi è nulla di simile all’ansiosa passionalità o alla terribile serietà di Johnson. Quest’ultimo, un pensatore autonomo (parte della lode che tributò a Milton), evitò la speculazione teologica ma non le ansie per le limitazioni che tormentano l’uomo quando comprende le cose ultime. «Speranza e paura» è un frequente binomio johnsoniano; pochi scrittori sono stati così sensibili ai fini di ogni genere: di imprese, opere letterarie, vite umane. Vi è un rapporto complesso tra le supreme angosce di Johnson e la sua visione critica della letteratura. A differenza di T.S. Eliot, egli non pronuncia giudizi estetici su basi religiose. Nutriva una profonda disapprovazione sia per la politica sia per la spiritualità di Milton, tuttavia la forza e l’originalità del Paradiso perduto lo persuasero nonostante le differenze ideologiche. Quando si esprime su Milton, Shakespeare e Pope, Johnson è tutto ciò

che un critico saggio dovrebbe essere: affronta direttamente la grandezza con una risposta totale, in cui investe tutto il suo essere. Non mi viene in mente un altro grande critico allo stesso modo consapevole di ciò che Johnson definiva «la perfidia del cuore umano», soprattutto il cuore del critico. La frase che ho citato è tratta da The Rambler 93, dove Johnson osserva per la prima volta con una certa tetraggine che «dobbiamo senz’altro una certa tenerezza agli scrittori viventi», ma poi avverte che quella tenerezza non è «universalmente necessaria, giacché colui che scrive può essere considerato una sorta di avversario generico, che ciascuno ha il diritto di attaccare». Questa concezione canonica della letteratura come agone è, come Johnson ben sapeva, del tutto classica, e ispira una magnifica affermazione che costituisce il credo di Johnson come critico: Ma qualunque cosa si decida nei riguardi dei contemporanei, colui che conosce la perfidia del cuore umano e considera la frequenza con cui gratifichiamo il nostro orgoglio o la nostra invidia fingendo di gareggiare per l’eleganza e il decoro si scoprirà non molto incline a provocare uno scompiglio; non vi possono certo essere dispense da invocare per proteggere dalla critica coloro che non sono più in grado di subire rimproveri e di cui ormai non rimane nulla se non i loro scritti e i loro nomi. Nei confronti di questi autori, il critico ha senza dubbio la piena libertà di esercitare la severità più rigida, poiché mette a repentaglio solo la sua fama e, come Enea quando sguainò la spada nelle regioni infernali, si imbatte in fantasmi che non possono essere feriti. Può certamente rendere omaggio alle reputazioni affermate; ma con quella dimostrazione di reverenza può solo interrogare la propria sicurezza, perché tutti gli altri moventi sono ormai esauriti.

L’agone viene qui riportato alle sue origini, e una brillante ironia ricorda al critico che egli sguaina la spada contro i fantasmi dell’Ade, autori che non possono essere feriti. Ma che cosa dire dei fantasmi più grandi: Shakespeare, Milton e Pope? «Vi è sempre un appello aperto dalla critica alla natura»; Johnson intendeva Shakespeare come la «natura» di quella frase, e Walter Jackson Bate considera la natura il motto o il punto di partenza per tutti gli scritti critici di Johnson, sottolineando così che quest’ultimo è un critico empirico. La saggezza, e non la forma, è il supremo criterio di misura per giudicare la letteratura di fantasia, e Shakespeare fornisce a Johnson il massimo banco di prova della critica: come può la reazione del singolo essere adeguata allo scrittore centrale del Canone occidentale? Si può dire che le considerazioni di Johnson su Shakespeare cominciano con una celebre frase all’inizio della Prefazione (1765): «Nulla può soddisfare molti, e soddisfarli a lungo, se non le rappresentazioni di natura generale». La ricerca di Johnson consiste nello stabilire l’esatta portata dell’imitazione shakespeariana della natura, e nessuno l’ha superato in quest’impresa: «Negli scritti di altri poeti un personaggio è troppo spesso un individuo; in quelli di Shakespeare è solitamente una specie». Chiaramente

Johnson non intende che Amleto e Iago non sono rappresentazioni individuali. Piuttosto, la loro individualità viene confermata e rafforzata perché sono il perno di un sistema di vita, l’estensione di un progetto, cosicché non riusciamo a concepire un intellettuale carismatico, nella vita o nella letteratura, che non abbia un tocco di Amleto; né un genio del male, un esteta che gioisca nel comporre con le persone anziché con le parole, e che non voglia essere giudicato rispetto alla perfida eminenza di Iago. Evidentemente Molière non sapeva nulla di Shakespeare, ma l’Alceste del Misantropo evoca Amleto. Ibsen conosceva sicuramente Shakespeare, e Hedda Gabler è una degna discendente di Iago. La presa di Shakespeare sulla natura umana è così sicura che tutti i personaggi postshakespeariani sono, in certa misura, shakespeariani. Johnson nota con acume che qualsiasi altro drammaturgo tende a fare dell’amore un agente universale, ma non Shakespeare: L’amore, tuttavia, è solo una delle tante passioni, e giacché non ha grande influenza sulla globalità della vita, ha scarsa incidenza nei drammi di un poeta, che ha tratto le sue idee dal mondo vivente e ha mostrato solo quanto ha visto dinanzi a sé. Egli sapeva che ogni altra passione, fosse essa normale o esagerata, era causa di felicità o catastrofe.

Chi è più preciso riguardo alla sede della pulsione in Shakespeare: Johnson o Freud? I commenti di quest’ultimo su Amleto, Re Lear e Macbeth attribuiscono alla lotta per l’appagamento sessuale, per quanto represso, almeno una posizione uguale a quella della lotta per il potere. Johnson e Shakespeare non sarebbero d’accordo con Freud, e in Shakespeare la pulsione o passione è assai più completa – un amalgama di molte passioni intensissime – di quanto volesse ammettere Freud, soprattutto nelle tre principali tragedie. Potremmo osservare che la passione di Johnson, sebbene unita a una sessualità repressa con ferocia, era del tutto shakespeariana, informata dalla volontà poetica dell’immortalità, memorabilmente, negativamente e ironicamente sottovalutata da Johnson in una lettera a Boswell (8 dicembre 1763): In ogni cuore noto si cela forse un desiderio di distinzione che induce ogni uomo prima alla speranza, e poi a credere che Natura gli abbia dato qualcosa di peculiare. Questa vanità porta una mente ad accarezzare le avversioni e un’altra a mettere in moto i desideri, finché questi ultimi si sollevano, mediante l’arte, al di sopra del loro originario stato di potere, e poiché l’affettazione, col tempo, si tramuta in abitudine, alla fine tiranneggiano colui che all’inizio li ha incoraggiati a mostrarsi.

Queste parole erano intese senza dubbio come un’autocritica; ma non sono forse anche una fedele descrizione del personaggio shakespeariano, per esempio di Macbeth? Il desiderio di distinzione è senz’altro il movente della metafora, la pulsione che rende poeti. Esso non anima forse anche gli eroi e le

eroine, i cattivi e gli antieroi di Shakespeare? Nella sua prefazione a Shakespeare, Johnson dice: «Personaggi così vasti e generali non furono discriminati e preservati con facilità, tuttavia nessun poeta ha forse mai tenuto i suoi personaggi più distinti l’uno dall’altro» (il corsivo è mio). L’individuazione del discorso, la corrispondenza del discorso al personaggio, è uno dei miracoli shakespeariani, di cui Johnson, nel suo desiderio di distinzione, si impadronì con abilità per l’autoanalisi. Mi sembra curiosa l’opinione di Johnson secondo cui Shakespeare era essenzialmente uno scrittore comico che si era autoimposto la tragedia, forse in cerca di una distinzione ancora maggiore: Nella tragedia egli è sempre in cerca di qualche occasione per essere comico, ma nella commedia sembra riposarsi, o crogiolarsi, quasi in una modalità di pensiero congeniale alla sua natura. Nelle sue scene tragiche manca sempre qualcosa, ma la sua commedia supera spesso l’aspettativa o il desiderio. La sua commedia piace per le idee e il linguaggio, e la sua tragedia soprattutto per l’azione e gli eventi. La sua tragedia sembra essere abilità, la sua commedia sembra essere istinto.

Lo sviluppo di Shakespeare, essenzialmente dalla commedia e dalla storia al romance e alla tragedia (per usare la nostra terminologia), confuta e insieme conferma l’opinione di Johnson. Il Re Lear è abilità e Come vi pare è istinto? In parte, qui Johnson ci dice di Johnson quanto ci dice di Shakespeare, ma poiché Johnson affermava che Shakespeare era «lo specchio della natura», ciò non è sbagliato. È più interessante che Johnson mostri un’evidente predilezione per Falstaff rispetto a Lear, il che si riallaccia alla sua ansia secondo cui Shakespeare «pare scrivere senza alcuno scopo morale», angoscia che ora non condividiamo. Tuttavia, come rileva Bate, le angosce di Johnson hanno un effettivo valore critico. Il fatto che Shakespeare non si abbandonasse alla «giustizia poetica» è un dispiacere johnsoniano, perché Johnson è profondamente benevolo e nutre una sincera paura verso la tragedia e la follia. Shakespeare, come Jonathan Swift, dava sui nervi a Johnson, che può benissimo aver letto la follia di Re Lear come una profezia di quella che sarebbe potuta diventare la sua pazzia. Johnson, che aveva una naturale propensione alla satira, evitò in larga misura di scrivere satire, cosa che avrebbe potuto menomarlo come poeta, un campo in cui ci ha lasciato troppo poco. La furia di Lear affascinava Johnson suo malgrado, e la sua visione generale della tragedia è così intensa da essere inquietante: La tragedia di Lear viene meritatamente celebrata tra i drammi di Shakespeare. Forse non vi è dramma che attiri l’attenzione in pari misura, il che agita così tanto le nostre passioni e solletica la nostra curiosità. Le abili involuzioni di interessi distinti, la sorprendente opposizione di personaggi contrastanti, i cambiamenti repentini della fortuna e la rapida successione degli eventi colmano la mente di un perpetuo tumulto di pietà, speranza e indignazione. Non c’è scena che non contribuisca ad aggravare l’angoscia o il modo di condurre l’azione, e quasi nessun verso che non conduca al progresso

della scena. La corrente dell’immaginazione del poeta è così forte che la mente, una volta avventuratasi al suo interno, ne viene irresistibilmente trascinata.

Udiamo una mente vigorosa che resiste alla più vigorosa delle menti, ma invano, poiché Johnson viene trascinato dalla corrente dell’immaginazione di Shakespeare. Non è mai un critico così forte e autentico come quando è in lotta con se stesso, e ancora una volta troviamo la turbolenta metafora del «distinto» nelle «abili involuzioni di interessi distinti». Essere distinto è, per Johnson, insieme conquista e vanità; nel cosmo drammatico di Shakespeare, è solo conquista, al di là della giustizia poetica, al di là del bene e del male, al di là della follia e della vanità. In precedenza, nessuno aveva dato espressione alla straordinaria e travolgente forza di rappresentazione shakespeariana come riuscì a fare Johnson che, con la sua meravigliosa eloquenza, individuò l’essenza di Shakespeare nell’arte della divisione, di distinguere, di creare differenze. Come Johnson certamente sapeva, la tragedia non è aliena da quell’arte. La più vasta delle anime, quella di Shakespeare, trovò nell’anima di Johnson il più vasto degli specchi critici, uno specchio dotato di voce. Individuerei la concentrazione di Johnson su Shakespeare, il critico canonico che interpreta il poeta canonico, in un particolare, breve passo della Prefazione in cui le «distinzioni» ripetono un’altra forma della cruciale metafora che lega il critico al suo poeta: Sebbene avesse tante difficoltà da affrontare, e così poco aiuto nel superarle, è riuscito a procurarsi un’esatta conoscenza di molti modi di vita e di molte forme di disposizioni innate; a variarli con grande molteplicità; a contrassegnarli con eleganti distinzioni; e a metterli in bella mostra con idonee combinazioni. In questa parte del suo lavoro non aveva nessuno da imitare, ma è stato imitato da tutti gli scrittori successivi; e si può dubitare che da tutti i suoi successori si possano racimolare più massime di conoscenza teorica o più regole di prudenza pratica di quante egli solo ne abbia date al suo Paese.

Qui sono riuniti tanti elementi che dobbiamo prendere le distanze per vedere ciò che Johnson ha visto e per udire gli echi della sua lode a Shakespeare. La «conoscenza teorica» è quella che potremmo denominare «consapevolezza cognitiva»; la «prudenza pratica» è la saggezza. Se Shakespeare si procurò un’«esatta conoscenza» e la mise in bella mostra, va oltre ciò che riuscirono a ottenere i filosofi. Senza contingenze ereditarie, Shakespeare come iniziatore istituisce una contingenza da cui tutti gli scrittori successivi devono attingere. Johnson capisce, e ci dice, che Shakespeare ha fissato il criterio di misura definitivo della rappresentazione. Conoscere molti modi di vita e molte forme di disposizioni innate non significa conoscere a prescindere dalla rappresentazione. Shakespeare varia con grande molteplicità, contrassegna con eleganti distinzioni e mostra in piena prospettiva. Variare, contrassegnare e mostrare significa conoscere, e ciò che

è conosciuto è ciò che abbiamo imparato a chiamare psicologia, di cui Shakespeare, come afferma Johnson, è l’inventore. Se il drammaturgo solleva uno specchio davanti alla natura, si tratta di uno specchio davvero molto attivo. Uno dei piccoli capolavori di Johnson è On the Death of a Friend, un testo pubblicato in «The Idler» n. 41. Lo scritto è datato 27 gennaio 1759, solo qualche giorno dopo la morte di sua madre. Johnson, un cristiano, accenna alla speranza del ricongiungimento, ma il tono e il pathos cupo dello scritto rivelano un’accettazione del principio della realtà, dell’obbligo di familiarizzare con la necessità del morire, elemento che ci aspettiamo di trovare più facilmente nello scettico Montaigne e in Freud, per i quali la religione era un’illusione. È quasi impossibile superare Johnson sulla psicologia del superstite: Sono queste le calamità mediante le quali la Provvidenza ci allontana pian piano dall’amore per la vita. La fermezza può respingere altri mali, o la speranza può mitigarli, ma la privazione irreparabile non lascia nulla per esercitare la risolutezza o lusingare l’aspettativa. I defunti non possono tornare, e qui non ci viene lasciato nulla se non dolore e struggimento.

In confronto a questa prosa straordinaria, le professioni di fede di Johnson non sembrano tanto deboli quanto contraddittorie, se non addirittura forzate. Empirista e naturalista, irremovibile nel suo buon senso, Johnson non si accostò mai con facilità alla fede. In lui vi è una passione per la coscienza che nulla riuscì ad attenuare; Johnson volle più vita, sino alla fine. Anche se Boswell non avesse mai scritto la Vita, ricorderemmo la personalità di Johnson, che è la musica di sottofondo di tutto ciò che quest’ultimo scrisse e disse. Nella nostra epoca la personalità del critico viene spesso deprecata da vari formalismi o degli attuali materialisti culturali. Tuttavia, quando penso ai critici moderni che ammiro di più – Wilson Knight, Empson, Northrop Frye, Kenneth Burke – la prima cosa che ricordo non sono le teorie o i metodi, né tanto meno le letture. La prima cosa che mi torna in mente sono le espressioni di personalità veementi e variopinte: Wilson Knight che cita direttamente la sedute spiritiche; Empson che proclama la nobile barbarie del Paradiso perduto, dal sapore quasi azteco o legato al Benin; Frye che definisce allegramente la descrizione neocristiana della civiltà proposta da T.S. Eliot come il mito della Great Western Butterslide; Burke che riassume «I, aye, and eye» (io, ahimè e occhio) nella visione emersoniana del globo oculare trasparente. Il dottor Johnson è più forte di tutti gli altri critici, non solo per capacità cognitiva, cultura e saggezza, ma anche per lo splendore della sua personalità letteraria.

A fare da contrappeso al cupo contemplatore della morte è Johnson l’umorista critico, che insegna al critico a non essere solenne, compiaciuto o altezzoso. In Vite dei poeti, la sua maggiore opera critica, Johnson si ritrovò a presentare cinquanta poeti, scelti per lo più dagli editori, tra cui personaggi non canonici come Pomfret, Sprat, Yalden, Dorset, Roscommon, Stepney e Felton, degni precursori di molti dei nostri poetastri e rapsodi rudimentali canonizzati prematuramente. Forse Yalden li rappresenta tutti quanti, ieri come oggi. Johnson osserva che Yalden si cimentò in odi pindariche nello stile di Abraham Cowley (anch’egli ormai dimenticato, tranne che dagli specialisti): «Avendo fissato l’attenzione su Cowley come modello, ha tentato in qualche modo di rivaleggiare con lui, e ha scritto un Hymn to Darkness, evidentemente come controparte dell’Hymn to Light di Cowley». Il povero Yalden non verrebbe ricordato neppure per questo, se la Vita di Yalden non si concludesse con una superba frase johnsoniana: «Dei suoi altri poemi basterà dire che meritano un’attenta lettura, benché non sempre siano esattamente levigati, benché le rime siano talvolta poco azzeccate, e benché i suoi difetti sembrino più le omissioni della pigrizia che la negligenza dell’entusiasmo». Sarebbe lecito dedurre che non è rimasto molto dello sfortunato Yalden, tuttavia questa non è l’osservazione più raffinata che il piccolo bardo abbia suscitato da parte del grande critico. Yalden tentò anche un Hymn to Life, in cui, in reazione all’improvviso avvento della Luce appena creata, descrive Dio in preda all’incertezza: «Mentre l’Onnipotente s’interrogava». Il commento di Johnson a questo verso è il seguente: «Avrebbe dovuto ricordare che la conoscenza infinita non può mai interrogarsi. Ogni interrogativo è l’effetto della novità sull’ignoranza». Le grandi Vite dei poeti raggiungono il massimo vigore con Alexander Pope, precursore di Johnson; con Richard Savage, un poeta mediocre ma un grande oratore, con cui Johnson aveva condiviso i suoi primi anni londinesi come bohémien in Grub Street; con Milton, per cui Johnson provava un misto di antipatia ed enorme ammirazione; e con Dryden, per certi versi il suo predecessore critico. Vi sono tuttavia passi celebri e importanti anche nei saggi dedicati a Cowley, Waller, Addison, Prior, Swift, Young, Gray e persino nelle poche pagine riservate al suo amico, il poeta pazzo William Collins. Come corpus di critica poetica e biografia letteraria, quest’opera non ha rivali nella lingua inglese. Come nella restante critica di Johnson – gran parte dei saggi periodici apparsi in The Rambler e The Idler, alcuni aspetti di

Rasselas, la prefazione e le note a Shakespeare, e molto di ciò che viene citato nella Vita di Boswell – la distinzione tra interpretazione e biografia è raramente possibile. Forse Johnson non credeva (come me) con Emerson che «a rigor di termini non esiste alcuna storia; solo biografia», ma sul piano pragmatico scrisse critica biografica. Quando non era disponibile quasi nessuna biografia, come nel caso di Shakespeare, Johnson dimostra quanto possa essere ineffabile lo stile della storia essenzialmente biografica. Per Johnson, il principale accento biografico cade sempre sull’individualità, cosicché, per lui, le problematiche cruciali sono l’originalità, l’inventiva e l’imitazione, sia della natura sia di altri poeti. I critici come me, il cui interesse si concentra sull’influenza, imparano necessariamente da Johnson, che sapeva implicitamente perché aveva limitato le sue poesie importanti a London e La vanità dei desideri umani, entrambe opere magnifiche, ma non all’altezza del suo potenziale. La consapevolezza della perfezione di Pope gli impedì ulteriori conquiste; Johnson celebra Pope ma evita una lettura creativa e scorretta di questo elegante padre poetico, il cui temperamento non era johnsoniano. T.S. Eliot, un critico minore in confronto a Johnson, divenne un poeta vigoroso rivedendo Tennyson e Whitman nella Terra desolata. Johnson si astenne volutamente dal dare alla tradizione neoclassica di Ben Jonson, Dryden e Pope continuatori più poderosi di Oliver Goldsmith e George Crabbe, che godevano entrambi della sua approvazione. Per me resta un mistero perché il pugnace Johnson si sia rifiutato di gareggiare con Pope, un confronto per cui era assolutamente adatto. Il suo rapporto con Pope è più simile a quello di Anthony Burgess con Joyce che a quello di Beckett con il suo vecchio maestro. Adoro Nothing Like the Sun di Burgess, ma quel testo ripete con affetto l’Ulisse senza sottoporlo ad alcuna revisione. Persino il giovane Beckett, nel suo spiritoso romanzo Murphy, fornisce una lettura scorretta ma molto creativa dell’Ulisse, allontanandosene per seguire i propri scopi e iniziare la lunga evoluzione che l’avrebbe portato, attraverso Watt e la grande trilogia (Molloy, Malone muore, L’innominabile), fino al trionfo per nulla joyciano di Com’è e ai suoi tre drammi principali. Come poeta, Johnson rifiutò la grandezza, anche se la sfiorò senza dubbio nella Vanità dei desideri umani. Come critico era più disinibito, e superò chiunque l’avesse preceduto. Boswell non ci spiega questo enigma. Il problema non è la forza della Vanità bensì la sua singolarità; Johnson sapeva quanto fosse valida. Perché non la

usò come punto di partenza? Non mi viene in mente nessun altro poeta inglese che possedesse le capacità di Johnson e che si sia rifiutato con tanta fermezza di essere un grande poeta. Emerson aveva con la poesia di Wordsworth lo stesso rapporto che Johnson aveva con quella di Pope e, come Johnson, Emerson scelse l’altra armonia, quella della prosa. Tuttavia, nemmeno le migliori poesie di Emerson – Bacchus, Days, l’ode Channing e qualche altra come Uriel – hanno il peso e lo splendore della Vanità dei desideri umani. Dopo la Vanità, il genio di Johnson si dedicò alla critica e alla conversazione, ma non alla poesia. Shakespeare era il poeta che Johnson amava suo malgrado, e in parziale contraddizione con il suo profondo desiderio di «giustizia poetica» e di miglioramento morale dell’umanità. Johnson, tuttavia, amava Pope – ancora più di Dryden – in maniera assoluta; gli aveva dato il suo cuore, affermando addirittura che la sua traduzione dell’Iliade era «un’opera che nessuna età o nazione può sperare di eguagliare», un’opera che «si può dire abbia accordato la lingua inglese», compresa quella di Johnson. A questo scandaloso elogio di una versione ormai morta per quasi tutti noi bisogna contrapporre la lampante preferenza di Johnson per la Dunciad, uno dei massimi vertici di Pope, rispetto all’ampiamente sopravvalutato Saggio sull’uomo, che Johnson demolisce: «Mai penuria di conoscenza e volgarità di sentimenti furono mascherate così felicemente. Il lettore sente di avere la mente piena anche se non impara nulla; e, quando la incontra nella sua nuova veste, non conosce più la lingua di sua madre e della sua nutrice». Johnson aveva pochi dubbi sulla superiorità della propria saggezza, istruzione e intelligenza rispetto a quelle di Pope. Che cosa fu dunque a metterlo in ombra, al punto da indurlo a non investire le massime energie più vitali in una lunga carriera da poeta? La risposta va cercata, almeno in parte, nella sua descrizione della forza poetica di Pope: Pope possedeva, in proporzioni assai armoniche tra loro, tutte le qualità che costituiscono il genio. Aveva inventiva, grazie alla quale si formano nuove sequenze di eventi e si mostrano nuovi scenari di immagini, come avviene nel Ricciolo rapito; e grazie alla quale nuovi abbellimenti e illustrazioni estrinseci e avventizi sono legati a un argomento noto, come avviene nel Saggio sulla critica. Aveva immaginazione, che lascia un segno marcato sulla mente dello scrittore e consente di trasmettere al lettore le varie forme della natura, i casi della vita e le energie della passione, come avviene in Eloisa, nella Foresta di Windsor e nelle Epistole etiche. Aveva assennatezza, che sceglie dalla vita o dalla natura ciò che è necessario per lo scopo del momento e, separando l’essenza delle cose dai fatti concomitanti, rende spesso la rappresentazione più vigorosa della realtà; e aveva sempre presenti i colori della lingua, pronto a decorare la sua materia con tutte le grazie dell’espressione elegante, come quando adatta la sua eloquenza alla meravigliosa molteplicità dei sentimenti e delle descrizioni di

Omero.

Metto in discussione solo l’ultima virtù, l’assennatezza, e le sue manifestazioni nell’Iliade di Pope, ma concordo senza alcun dubbio con l’elogio all’Invenzione nel Ricciolo rapito e con quello all’Immaginazione nelle Epistole. La sede in cui Johnson, nella sua passione per Pope, rischia l’iperbole è la sintesi delle sue argomentazioni a favore del poeta: Nuovi sentimenti e nuove immagini altri possono produrre; ma tentare un ulteriore miglioramento della versificazione sarà rischioso. Arte e diligenza hanno ormai fatto del loro meglio, e quanto verrà aggiunto sarà lo sforzo di un lavoro tedioso e di una curiosità inutile. Dopo tutto ciò, è certamente superfluo rispondere alla domanda che venne posta un tempo – Pope era un poeta? – se non chiedendo di rimando: se Pope non era un poeta, dove si trova la poesia? Circoscrivere la poesia mediante una definizione servirà solo a rivelare la grettezza di chi definisce, anche se non è facile formulare una definizione che escluda Pope. Guardiamoci intorno nell’epoca presente, e volgiamo gli occhi al passato; scopriamo a chi la voce dell’umanità abbia conferito la corona della poesia; che le loro produzioni vengano prese in esame, e le loro rivendicazioni affermate, e le pretese di Pope non saranno più oggetto di contestazioni. Se avesse dato al mondo solo la sua versione, avremmo dovuto concedergli il titolo di poeta: se lo scrittore dell’Iliade dovesse classificare i suoi successori, assegnerebbe un posto altissimo al suo traduttore, senza esigere altre dimostrazioni di genio.

Non si può non provare una certa perplessità. Una parte di Johnson fa sua l’opinione dogmatica secondo cui il distico neoclassico è la perfezione definitiva e normativa della forma poetica. Non posso sperare di comprendere perché un critico sperimentale così scettico, uno studioso così dotto, abbia dovuto trasformare l’innegabile perfezione tecnica di Pope in un simile feticcio. Johnson conosceva letteralmente a memoria migliaia di versi di Pope e Dryden, e relativamente pochi di Milton, ma sapeva (come loro) che quei due poeti non potevano vantare la grandezza di Milton, né tanto meno di Shakespeare. Johnson elevò il merito di Milton a una grandezza piuttosto mediocre, ma un’ambivalenza analoga non permeò la sua visione di Shakespeare. Certo, Johnson non si identificò mai con l’Achille di OmeroPope, come invece si identificò benissimo con Sir John Falstaff. Non è neppure chiaro che La vanità dei desideri umani non è un progresso tecnico rispetto a Pope. Dal punto di vista empatico, Johnson era ciò che elogiava in Milton, un pensatore autonomo, e il prestigio di Pope non ha quasi alcun peso nella sua generosa lode. Pope è un grande poeta, ma non si può dire, come invece si può affermare di Shakespeare e di Dante, che la sua sia vera poesia; ed è bizzarro asserire che Omero avrebbe approvato l’Iliade di Pope. Ciò suscita quasi la furibonda replica di William Blake, che attaccò insieme Pope e il suo mecenate popeiano, lo scadente poeta William Hayley: Così Hayley sulla sua toeletta vedendo il sapone

grida che Omero è assai migliorato da Pope.

Ad affascinare Johnson era soprattutto l’abilità di Pope, o quella che Johnson chiamò stranamente prudenza poetica di Pope, definita da Robert Griffin come «la peculiare combinazione di facoltà naturali con una propensione alla fatica». Uno dei miti di Johnson su se stesso era la convinzione di essere indolente, in contrasto alla diligenza di Pope; ma ciò cui si riferiva era la differenza tra l’irrequietezza e l’impazienza della sua mente e la determinazione di Pope. Come è risaputo, Johnson aveva paura della sua mente, quasi come se potesse essere vittimizzato dalla propria immaginazione, come lo era stato Macbeth nella più straordinaria visione shakespeariana della pericolosa prevalenza dell’immaginazione. Johnson era un figlio troppo buono del suo padre poetico, Pope, e la Musa esige ambivalenza nel romanzo familiare dei poeti. Il dolore soggiacente, sempre sottinteso ma espresso di rado, delle Vite dei poeti è quella che Laura Quinney definisce una ricerca dell’«edipalizzazione dello spazio letterario». Di fronte ad Alexander Pope come suo Laio, Johnson evitò gli incroci piuttosto che rischiare l’irriverenza. Forse era un uomo troppo buono per diventare un grande poeta, ma non dobbiamo rimpiangere i suoi scrupoli, perché ora lo conosciamo sia come grand’uomo sia come il più grande dei critici letterari. La critica canonica, ciò che Johnson scrive consciamente, ha, in lui, le sue motivazioni religioso-politiche e socio-economiche, ma mi affascina vedere il critico mettere da parte le sue ideologie nella Vita di Milton. Gli attuali apostoli della «critica e del cambiamento sociale» dovrebbero provare a leggere, in sequenza, Johnson e Hazlitt a proposito di Milton. In tutte le questioni di carattere religioso, politico, sociale ed economico, il tory Johnson e il dissenziente radicale Hazlitt sono diametralmente opposti, ma lodano Milton per le stesse qualità, Hazlitt in modo memorabile quanto Johnson, soprattutto in questo passo: Milton ha preso più prestiti di ogni altro scrittore, e ha prosciugato ogni fonte d’imitazione, sacra o profana; tuttavia, è perfettamente distinto da ogni altro scrittore. È uno scrittore di canti, eppure non è inferiore a Omero in termini di originalità. Il vigore della sua mente è impresso in ogni verso. […] Leggendo le sue opere, ci sentiamo sotto l’influenza di un poderoso intelletto, che, più si avvicina agli altri, e più si distingue da essi. […] Lo studio di Milton ha l’effetto dell’intuizione.

Shakespeare è l’unica eccezione alla verità di queste frasi, come ho tentato di dimostrare definendo l’influenza shakespeariana che persiste nel Satana di Milton. Hazlitt, a mio parere secondo solo a Johnson tra i critici inglesi, nutriva un’antipatia nei confronti di Johnson, che tuttavia, parlando di Milton, anticipa Hazlitt:

La più alta lode del genio è l’invenzione originale. […] Tra tutti coloro che hanno preso prestiti da Omero, Milton è forse il meno indebitato. Naturalmente, era un pensatore autonomo, sicuro delle sue capacità e sprezzante nel confronto degli aiuti o degli intralci: non disdegnava l’accesso al pensiero o alle immagini dei suoi predecessori, ma non ne andava in cerca.

Entrambi i critici individuano giustamente in Milton una capacità che trasforma lo studio in intuizione: la capacità dell’inventiva, che Johnson considerava l’essenza della poesia. La malinconia di Johnson, che gli alienò Hazlitt, gli insegnò ad attribuire ancora più importanza all’inventiva, perché la cura della malinconia implica una continua scoperta e riscoperta delle possibilità di vita. Più di qualunque altro autore mi sia capitato di leggere, Johnson comprese che non siamo disposti a sopportare un’anticipazione della morte, soprattutto della nostra. Non è eccessivo affermare che la sua critica si fonda su questa comprensione. Per Johnson, la legge fondamentale dell’esistenza umana non può variare: la natura umana si rifiuta di affrontare direttamente la morte. Quando Johnson loda Shakespeare osservando che i suoi personaggi agiscono e parlano sotto l’influenza delle passioni generali che agitano tutta l’umanità, il critico pensa in primo luogo al desiderio di sottrarsi alla consapevolezza della morte. Vi è una conversazione insieme lugubre e splendida riferita da Boswell e avvenuta il 15 aprile 1778, quando Johnson aveva sessantanove anni: BOSWELL «Allora, signore, dobbiamo accontentarci di riconoscere che la morte è una cosa terribile.» JOHNSON «Sì, signore. Non mi sono avvicinato a una condizione che possa considerarla meno di terribile.» SIGNORA KNOWLES (che sembra godere di una piacevole serenità nella convinzione di una benevola luce divina) «Non dice forse san Paolo, “ho combattuto la buona battaglia della fede, ho concluso il mio cammino; d’ora in poi mi si prepara una corona di vita!”?» JOHNSON «Sì, signora; ma quello era un uomo ispirato, un uomo che era stato convertito da un intervento soprannaturale.» BOSWELL «In prospettiva, la morte è spaventosa; ma, in realtà, constatiamo che le persone muoiono facilmente. Pochi credono di dover morire per certo; e coloro che lo credono si apprestano a comportarsi con risolutezza, come fa un uomo che debba essere impiccato. Non per questo è meno restio a farsi impiccare.» SIGNORINA SEWARD «Esiste una varietà di paura della morte che è senza dubbio assurda; ed è il terrore dell’annichilimento, che è solo un piacevole sonno senza sogni.» JOHNSON «Non è piacevole né è un sonno; non è nulla. Ebbene, la mera esistenza è meglio del nulla, al punto che si preferirebbe esistere nel dolore che non esistere affatto.»

Johnson conclude la conversazione osservando che «la signora confonde l’annichilimento, che non è nulla, con la sua comprensione, che è spaventosa. L’orrore dell’annichilimento consiste nella sua comprensione». Il realismo del critico associa quell’orrore sia con la paura della follia sia con la speranza della salvezza, ma l’orrore trascende sia la paura sia la speranza. Per continuare a vivere, indietreggiamo dalla consapevolezza che induce l’orrore.

Riguardo a Shakespeare, Johnson non è mai più acuto di quando commenta il sorprendente discorso del Duca (introdotto dalle parole «Rassegnatevi alla morte») nell’atto terzo, scena prima di Misura per misura: «Non hai né giovinezza né vecchiaia ma soltanto una specie di sonno pomeridiano nel quale tu sogni d’entrambe»: È un’immagine squisita. Quando siamo giovani, ci affanniamo a elaborare piani per il futuro e ci lasciamo sfuggire le gratificazioni che ci stanno dinanzi; quando siamo anziani, allietiamo il languore della vecchiaia con il ricordo di piaceri o successi giovanili; cosicché la nostra vita, di cui nessuna parte viene colmata dall’attività del momento presente, assomiglia ai sogni che facciamo dopo pranzo, quando gli eventi del mattino si mescolano con i progetti della sera.

Johnson intuisce che la squisita immagine di Shakespeare rivela la nostra totale incapacità di vivere nel presente; o ci proiettiamo nel futuro o ricordiamo. Anche se lo sottintende, Johnson si rifiuta di dire che rinunciamo al presente perché dobbiamo morire nel presente. L’orrore dell’annichilimento è il movente della metafora; quello che Nietzsche definiva «il desiderio di essere diversi, il desiderio di essere altrove» viene acceso dal rifiuto di accettare la morte. E, secondo Johnson, il desiderio di ottenere la distinzione, compresa la distinzione letteraria, scaturisce dal medesimo impulso: sfuggire alla coscienza che si riduce a vertigine al pensiero di cessare di esistere. Bate, nella più sottile interpretazione di Johnson a me nota, sottolinea che nessun altro scrittore è così ossessionato dalla consapevolezza che la mente è un’attività, un’attività destinata a tramutarsi in distruttività per se stessi o per gli altri a meno che non si dedichi al lavoro. Il desiderio di sopravvivenza del cuore umano, dissolta in un arcobaleno di forme, viene smascherato da Johnson come impulso deidealizzato alla canonizzazione letteraria. La cupezza di Johnson, che a Hazlitt sembrava offensiva perché innaturale, si può definire come un empirismo negativo contrapposto al naturalismo positivo di Hazlitt. Entrambi i critici esaltavano Falstaff come la più bella rappresentazione dello spirito comico di Shakespeare, ma Johnson aveva più bisogno del sollievo garantito dall’umorismo, e ciò lo condusse a una sorprendente identificazione con Falstaff, del tutto contro la sua volontà morale. Hazlitt è assolutamente incantato da Falstaff, come dovremmo esserlo tutti noi; Johnson, come i moralisti minori fino a oggi, disapprova Falstaff ma non riesce a tenergli testa. Nonostante le sue inibizioni morali, Johnson è così colpito da Falstaff da diventare delirante finché non riesce a controllarsi: Ma Falstaff inimitato, inimitabile Falstaff, come potrò descriverti? Tu, miscuglio di assennatezza e vizio; di assennatezza che può essere ammirata ma non stimata, di vizio che può essere disprezzato ma

non detestato. Falstaff è un personaggio pieno di difetti, e di quei difetti che generano naturalmente il disprezzo. È un ladro e un ingordo, un codardo e un millantatore, sempre pronto a ingannare i deboli e ad approfittare dei poveri; a terrorizzare i timorosi e a insultare gli indifesi. Insieme ossequioso e malevolo, satireggia in loro assenza coloro presso i quali si guadagna da vivere lusingandoli. È amico del principe solo come agente del vizio, ma è così fiero di quell’amicizia da non essere solo altezzoso e arrogante con gli uomini comuni, ma anche da ritenere che il duca di Lancaster abbia a cuore il suo interesse. Tuttavia, un uomo così corrotto, così spregevole, si rende necessario al principe che lo disprezza grazie alla più piacevole di tutte le qualità, una perpetua gaiezza, grazie a un’infallibile capacità di provocare il riso, cui si abbandona ancora più liberamente, giacché la sua arguzia non è del tipo splendido o ambizioso, bensì consiste di facili evasioni e frivole sortite, che sono fonte di trastullo ma non suscitano invidia. Occorre osservare che egli non si macchia di crimini gravi o cruenti, sicché la sua licenziosità non è così offensiva da non poter essere sopportata grazie alla sua allegria. La morale che si può trarre da questa rappresentazione è che nessun uomo è più pericoloso di colui che, alla volontà di corrompere, unisce la capacità di piacere; e che né arguzia né onestà possono ritenersi al sicuro con un simile compagno quando vedano Enrico sedotto da Falstaff.

Essendo un falstaffiano convinto, dissento da molte di queste affermazioni e preferisco il contemporaneo di Johnson, Maurice Morgann che, in An Essay on the Dramatic Character of Sir John Falstaff (1777), riscatta il più bel personaggio comico di tutta la letteratura. Secondo Boswell, Johnson reagì ai commenti di Morgann borbottando che in seguito quest’ultimo avrebbe dimostrato la virtù morale di Iago. Johnson merita tuttavia il nostro perdono per la sua toccante osservazione secondo cui Falstaff manifesta «la più piacevole di tutte le qualità, una perpetua gaiezza». Johnson aveva un costante bisogno di quella qualità, e i suoi riferimenti a Falstaff, nelle conversazioni e negli scritti, sono innumerevoli. Gli piaceva descriversi come Falstaff, vecchio ma spensierato, con una vitalità indomita anche se pian piano oscurata dalla perdita imminente. La vitalità dimora nella scrittura di Johnson, proprio come nella figura di Johnson, in e senza Boswell. Non so dire se quella forza dell’essere continuerà a ossessionarci. Se i valori canonici verranno totalmente esiliati dallo studio della letteratura, Johnson avrà ancora un pubblico? Se non ci saranno altre generazioni di lettori comuni, privi di inclinazioni ideologiche, Johnson scomparirà, insieme con molti altri elementi canonici. La saggezza, tuttavia, non muore così facilmente. Se la critica svanisce dalle università e dai college, risiederà in altri luoghi, poiché è la versione moderna della letteratura di saggezza. Non sopporto di essere elegiaco riguardo al dottor Johnson, il mio eroe fin dall’infanzia, così concludo questo capitolo lasciandogli l’ultima parola, tratta dalla Prefazione a Shakespeare. In questo modo abbiamo un’altra opportunità di ascoltare il critico più grande che si esprime sul poeta più poderoso: «Le combinazioni insolite di inventiva fantasiosa possono divertire per un po’, grazie alla novità di cui la comune

sazietà della vita ci manda tutti in cerca; ma i piaceri dello stupore improvviso si esauriscono ben presto, e la mente può solo poggiare sulla saldezza della verità».

9. IL FAUST, PARTE SECONDA DI GOETHE: IL POEMA CONTROCANONICO Tra tutti i più poderosi scrittori occidentali, oggi Goethe sembra il meno accessibile alla nostra sensibilità. Sospetto che questa distanza abbia poco a che fare con la pessima maniera con cui la sua poesia viene tradotta in inglese. Anche Hölderlin viene tradotto male, ma il fascino che esercita su gran parte di noi offusca quello di Goethe. Un poeta e uno scrittore di saggezza che nel suo ambito linguistico è l’equivalente di Dante può superare traduzioni inadeguate ma non mutamenti di vita e letteratura così radicali da rendere i suoi principali atteggiamenti tanto remoti da sembrare arcaici. Goethe non è più il nostro antenato, come lo è stato di Emerson e di Carlyle. La sua saggezza resiste, ma sembra provenire da un sistema solare diverso dal nostro. Goethe non aveva precursori poetici tedeschi di vigore anche lontanamente paragonabile al suo. Hölderlin venne dopo, e da allora Goethe non ha più avuto rivali, neppure in Heine, Mörike, Stefan George, Rilke, Hofmannsthal o negli stupefacenti Trakl e Celan. Tuttavia, pur collocandosi all’inizio della letteratura di fantasia tedesca, Goethe è, da un punto di vista occidentale, una fine più che un principio. Ernst Robert Curtius, a mio giudizio il più eminente tra i moderni critici letterari tedeschi, osserva che la letteratura europea ha creato una tradizione continua da Omero a Goethe. Il passo successivo venne compiuto da Wordsworth, l’inauguratore della poesia moderna nonché di quella corrente d’introspezione che va da Ruskin a Proust per poi arrivare a Beckett, fino a poco tempo fa il maggior scrittore vivente. Goethe, nato nel 1749, morì nel 1832, mentre Wordsworth, nato nel 1770, morì nel 1850, il che fa del romantico inglese un contemporaneo più giovane del saggio tedesco. Tuttavia, i poeti britannici e americani continuano a riscrivere Wordsworth senza volerlo, mentre non si può dire che oggi Goethe eserciti un’influenza vitale sulla poesia tedesca. Nonostante ciò, occorre rilevare che la lontananza di Goethe è parte integrante del suo enorme valore per noi, soprattutto in un’epoca in cui gli speculatori francesi hanno proclamato la morte dell’autore e l’egemonia dei testi. Ciascun testo di Goethe, per quanto divergente dagli altri, reca l’impronta della sua personalità unica e travolgente, che non può essere evitata né decostruita. Leggere Goethe significa rendersi nuovamente conto che la morte dell’autore è solo un tardivo tropo gallico. Il demone o i demoni

di Goethe – pare che ne avesse al suo servizio quanti ne voleva – sono sempre presenti nella sua opera, contribuendo al perenne paradosso secondo cui la poesia e la prosa sono al tempo stesso modelli di un ethos classico, quasi universale, e di un pathos romantico, intensamente personale. Il logos o, in termini aristotelici, la dianoia (il contenuto del pensiero), dell’opera di Goethe è l’unico aspetto vulnerabile, poiché l’eccentrica scienza della natura abbracciata da Goethe sembra oggi una concettualizzazione inadeguata della sua formidabile e demonica concezione della realtà. Ciò ha tuttavia poca importanza, perché il vigore letterario e la saggezza di Goethe sopravvivono all’evaporazione delle sue razionalizzazioni. Curtius osserva con acume che «il predominio della luce sulla tenebra è la condizione più adatta a Goethe» e ci ricorda che la parola usata da Goethe per definire tale condizione è heiter, non tanto nel senso di «gioioso» quanto come equivalente del latino serenus, un cielo senza nuvole, sia di giorno sia di notte. Come Shelley dopo di lui, Goethe individuò nella stella del mattino il suo emblema personale, anche se non nel momento della sua squisita scomparsa nell’alba, come invece avrebbe fatto il poeta inglese. Ora, per noi, il sereno Goethe è un fardello capriccioso; né noi né i nostri scrittori siamo tranquilli. Il Faust di Goethe vive fino ai cent’anni, e Goethe desiderava ardentemente la stessa sorte per sé. Nietzsche ci ha insegnato una poetica del dolore; solo il doloroso, insisteva con perspicacia, può essere davvero memorabile. Curtius attribuisce a Goethe una poetica del piacere in un’antica tradizione, ma una poetica della serenità e di cieli limpidi è ancora più vicina alla visione goethiana. «L’errore circa la vita è necessario alla vita», una cruciale intuizione nietzschiana, è parte integrante del grande (e riconosciuto) debito del filosofo nei confronti di Goethe, la cui idea di poesia si incentrava sulla complessa consapevolezza secondo cui la poesia era essenzialmente tropo, e che il tropo era una sorta di errore creativo. Nel suo capolavoro, European Literature and the Latin Middle Ages (1948), Curtius accosta due splendide affermazioni di Goethe sul tropo. Nelle Note e dissertazioni allegate al Divano occidentale orientale, Goethe commenta la metafora nella poesia araba: L’orientale scopre in tutto occasione di ricordarsi di tutto, così che, abituato a connettere e a incrociare le cose più lontane, non si fa alcun scrupolo di dedurre, con minime inflessioni di lettere e di sillabe, l’una dall’altra, le cose più contraddittorie. Qui si vede che la lingua è già di per sé produttiva: retoricamente, in quanto soccorre il pensiero, poeticamente, in quanto parla all’immaginazione. Quindi colui che, muovendo dai primi necessari tropi originari, ne individuasse di più liberi e audaci, fino a giungere ai più arrischiati, arbitrari, anzi addirittura goffi, convenzionali e di cattivo gusto, si sarebbe procurato un vasto panorama della poesia orientale nei suoi momenti principali.

Questa sarebbe una chiara metafora generale della poesia, dove «si scopre in tutto occasione di ricordarsi di tutto». Nelle sue Massime e riflessioni, Goethe dice, a proposito del suo vero precursore (l’unico che potesse accettare, perché scriveva in una diversa lingua moderna): «Shakespeare è ricco di tropi memorabili che scaturiscono da concetti personificati e che a noi non andrebbero affatto bene, ma che in lui sono perfettamente al loro posto, perché ai suoi tempi ogni arte era dominata dall’allegoria». Ciò riflette l’infelice distinzione goethiana tra «allegoria, in cui il particolare vale solo come esempio dell’universale», e «simbolo», in cui «si svela la natura della poesia: si esprime il caso particolare senza pensare, o alludere, all’universale». Tuttavia, Goethe prosegue osservando che Shakespeare «trova anche similitudini là dove noi non le prenderemmo, per esempio nel libro [che] appariva ancora come qualcosa di sacro». Definire un libro come qualcosa di sacro non è un’allegoria nell’accezione piuttosto scialba di Goethe, ma è un’allegoria come autentica modalità simbolica in cui tutte le cose suggeriscono ancora una volta tutte le cose. Tale metafora del libro schiude a Goethe le sue massime ambizioni poetiche: incarnare e dilatare la tradizione europea della letteratura senza essere sopraffatto dalle sue contingenze, e dunque senza perdere l’immagine di se stesso. Questo aspetto di Goethe è stato chiarito al meglio dal suo principale erede novecentesco, Thomas Mann. Con amabile ironia (o forse con amore ironico), Mann compose una serie di straordinari ritratti di Goethe, dal saggio Goethe e Tolstoj (1922), passando per un trio di saggi degli anni Trenta (sull’uomo di lettere, sull’«esponente dell’età borghese» e sul Faust), fino al romanzo Lotte a Weimar (1939), per concludere con la Fantasia su Goethe degli anni Cinquanta. A parte Lotte a Weimar, la più notevole di queste interpretazioni goethiane è il discorso pronunciato per il centenario della morte del poeta: Goethe esponente dell’età borghese. Per Mann, Goethe è «questo grand’uomo in forma di poeta», il profeta della cultura e dell’individualismo idealistico tedeschi, ma soprattutto «questo miracolo di personalità» e «l’uomo simile a Dio» cui accenna Carlyle. Come esponente dell’età borghese, Goethe parla di un «libero commercio di concetti e sentimenti», che Mann interpreta come «una tipica trasposizione di principi economici liberali nella vita intellettuale». Mann sottolinea che la serenità di Goethe fu più una conquista estetica che una dote naturale. Nella matura Fantasia su Goethe, loda lo scrittore tedesco per il suo «splendido narcisismo, un autocompiacimento troppo serio

e, fino alla fine, troppo interessato all’autoperfezione, all’illuminazione e alla distillazione della dote naturale perché sia opportuna una parola meschina come “vanità”». Il fascino di questa caratterizzazione consiste nel fatto che Mann si colloca sullo stesso piano di Goethe sia qui sia nello splendido saggio del 1936 su Freud e il futuro: L’imitatio di Goethe può ancora oggi, con il ricordo dei vari stadi della sua arte, del Werther, del Meister, fino al tardo Faust e al Divan, guidare e determinare, a partire dall’inconscio, miticamente, la vita di uno scrittore. Ho detto dall’inconscio, sebbene nell’artista in ogni momento l’inconscio si converta sorridendo nel conscio, in un’attenzione infantile e profonda.

L’imitatio Goethe di Mann ci offre Tonio Kröger come Werther, Hans Castorp come Wilhelm Meister, il Dottor Faustus invece di Faust e Felix Krull invece del Divano. Nelle osservazioni di Mann vi sono eco deliberate dei «modelli perfetti» di Goethe, che «hanno un effetto perturbante in quanto ci portano a saltare indispensabili fasi della nostra Bildung, con il risultato, il più sovente, che siamo portati ben lontani dalla meta, a un illimitato errore». In vari punti, Mann cita la domanda crudele e centrale che Goethe formulò in età avanzata: «Un uomo vive quando ne vivono anche altri?». Impliciti nella domanda sono due splendidi aforismi goethiani che, insieme, istituiscono una dialettica della creazione tardiva: «Solo facendo nostre le ricchezze altrui diamo vita a qualcosa di grande» e «Che cosa possiamo in realtà definire nostro se non l’energia, la forza, la volontà?». Il Goethe di E.R. Curtius è il perfezionatore e ultimo rappresentante della cultura letteraria che va da Omero a Dante passando per Virgilio e che in seguito raggiunse il culmine del sublime in Shakespeare, Cervantes, Milton e Racine. Solo uno scrittore dotato della forza demonica di Goethe avrebbe potuto riassumere tante cose senza cadere nella perfezione della morte. Ora la nostra perplessità deriva dal fatto che, nonostante la sua vitalità e saggezza, Goethe ci metta di fronte, nella sua più vigorosa produzione lirica, a una coscienza troppo indivisa perché possiamo credere di essere trovati da quella poesia, senza dubbio poderosa quanto quella di Wordsworth, ma assai meno toccante. Nonostante la loro straordinaria intensità retorica, la Trilogie der Leideschaft o Trilogia della passione non comprende poesie capaci di collocarsi al centro del nostro essere come Tintern Abbey e l’ode Intimations. Il Preludio non può essere considerato come una poesia di qualità superiore al Faust, tuttavia sembra di gran lunga l’opera più normativa. Il grande enigma estetico di Goethe non è costituito dalle sue produzioni liriche e narrative, entrambe incontestabili, bensì dal Faust, il più grottesco e

ineguagliabile dei grandi poemi occidentali in forma drammatica. Erich Heller scrive con acume: «Qual è il peccato di Faust? L’irrequietezza dello spirito. Qual è la salvezza di Faust? L’irrequietezza dello spirito». Si tratta di una confusione goethiana oppure della personale versione goethiana dell’idea gnostica di salvezza attraverso il peccato? Sembra giusto definirla una confusione. Heller la interpreta più come una sorta di illecita ambiguità: «Ciò che Goethe non riuscì a scrivere fu la tragedia dello spirito umano. È qui che la tragedia di Faust fallisce e diviene illegittimamente ambigua, poiché per Goethe non esiste, in ultima analisi, uno spirito specificamente umano. Esso è, in sostanza, tutt’uno con lo spirito della natura». Hermann Weigand, pur ammettendo che «la salvezza di Faust è un evento quanto mai eterodosso», attribuisce la redenzione eretica all’«incessante sforzo» compiuto dall’eroe per «dilatare la propria personalità», cosa che rappresentava senza dubbio la ricerca dello stesso Goethe. Temo tuttavia che Heller abbia ragione e che Faust non abbia personalità né spirito specificamente umano, il che costituisce una delle nostre difficoltà nei confronti del poema. In Goethe, nulla è più omerico (o più una grottesca parodia di Omero) dell’assenza di qualsiasi nozione di uno spirito umano distaccato dalle forze e dalle pulsioni della Natura. Faust, come gli eroi omerici, è un terreno di battaglia sul quale si scontrano forze contrastanti. È questa la sua principale differenza rispetto a Amleto, che si colloca nella tradizione biblica dello spirito umano. Faust non potrebbe mai dire, con Amleto, che nel suo cuore vi è una sorta di lotta. Al contrario, il suo cuore, la sua mente e le sue concezioni sono rigidamente divisi l’uno dall’altro, ed egli è il luogo più o meno arbitrario in cui essi si scontrano. Tuttavia, Goethe non scrive un poema epico omerico, bensì la tragedia tedesca, sebbene «tragedia» abbia un significato peculiare in relazione al Faust. Heller dice che la tragedia di Faust consiste nell’incapacità tragica del protagonista. L’Achille di Omero è forse un eroe tragico? Bruno Snell, E.R. Dodds e Hans Fraenkel ci dimostrano che persino Achille, il migliore degli achei, è essenzialmente infantile, poiché non vi è integrazione tra il suo intelletto, le sue emozioni e le sue impressioni sensoriali. In Goethe vi è una qualità decisamente omerica, ma Faust sembra omerico solo nel suo essere infantile. Edipo e Amleto maturano nelle loro tragedie; Faust, in confronto, è un bambino. Questa caratteristica non è un difetto estetico, bensì arricchisce la

straordinaria singolarità che fa del Faust il capolavoro più grottesco della poesia occidentale, la fine della tradizione classica in quello che potrebbe essere definito un vasto dramma satirico cosmologico. La Parte prima è abbastanza folle, ma la Parte seconda fa sembrare Browning e Yeats mansueti, e Joyce rettilineo. Per Goethe fu una fortuna che Shakespeare fosse inglese, perché la distanza linguistica gli permise di assorbire e imitare Shakespeare senza angosce paralizzanti. Faust non può essere definito davvero shakespeariano, ma parodia Shakespeare quasi senza sosta. Secondo Benjamin Bennett, lo scopo del poema è niente meno che «la rigenerazione del linguaggio», affermazione che potrei ridurre a «un tentativo di rigenerare il tedesco come Shakespeare rigenerò l’inglese». Bennett considera la mancata appartenenza del Faust a un genere ben preciso – un fenomeno assai bizzarro – come un atto «antipoetico» che mira a eliminare l’ironia dal linguaggio poetico e a ripristinare una sorta di pathos visionario. Con una grandiosa (e voluta) mancanza di realismo critico, Bennett afferma che la dimensione del Faust è «infinita nel senso che è grande quanto si vuole». A volte, leggendo il Faust, vorrei che io e il poema seguissimo entrambi una dieta rigida, ma il carattere evocativo dell’osservazione di Bennett resta intatto. L’impossibile domanda critica è: si può definire la conquista estetica – la sua estensione e le sue limitazioni – del Faust di Goethe? Bennett ha forse escluso la questione dell’estensione, ma quella delle limitazioni non si può evitare, soprattutto in un’epoca e in un Paese in cui il Faust sembra essere un’arcana ridondanza, un elefante bianco come la neve nella tradizione poetica centrale. Come ho già detto, leggiamo il Preludio di Wordsworth e persino le epiche di Blake più facilmente di quanto impariamo a leggere il Faust. Siamo forse sconcertati dall’apparente serenità della personalità poetica di Goethe e dalle squallide intensità del Faust? Oppure non riusciamo a orizzontarci nel teatro goethiano del mondo, così ci chiediamo che cosa stia accadendo e perché dovremmo lasciarci coinvolgere? Confermare la grandezza del Faust sulla scia della sua varietà lirica e della sua forza retorica, o persino della sua inventiva mitologica, non sembra più sufficiente. Tendiamo a preferirgli le Elegie romane (Römische Elegien, 1789), il Divano occidentale orientale, e a volte persino gli Epigrammi veneziani. Ho udito l’affermazione assai crudele secondo cui Faust è per Goethe ciò che Così parlò Zarathustra è per Nietzsche (e per tutti i nietzschiani), cioè un magnifico disastro. È vero è che un riassunto del Faust

è difficile da digerire più o meno quanto un riassunto di Così parlò Zarathustra, ma leggere il Faust con attenzione è tutt’altra faccenda. Questa esperienza diviene un banchetto dei sensi, anche se senz’altro troppo piena di vivande non molto salutari. Come incubo sessuale o fantasia erotica, non ha rivali, e si comprende allora perché lo scioccato Coleridge si sia rifiutato di tradurre il poema. È senza dubbio un’opera su ciò che, semmai, sarà sufficiente, e Goethe trova infiniti modi per dimostrarci che la sessualità, da sola, non lo sarà. In modo ancora più ossessivo, il Faust ci insegna che, senza una sessualità attiva, nulla sarà sufficiente. In un prezioso intervento, Bennett ci ricorda che l’arte peculiare del Faust consiste nel fatto che il poema elimina sistematicamente tutte le prospettive da cui potremmo desiderare di contemplarlo. Si può escludere il prospettivismo solo con un’ambiguità voluta, di cui Goethe sembra aver inventato più o meno settantasette tipologie. Il Goethe di Nietzsche incarna più Dioniso che Apollo, così come il Goethe di Freud incarna Eros, non Thanatos. L’unico dio o piccola divinità del Faust mi sembra essere lo stesso Goethe, perché questo straordinario poeta non era né cristiano né epicureo, né platonico né empirista. Forse, a parlare per bocca di Goethe, non è Mefistofele bensì lo spirito della Natura, ma ormai siamo annoiati o irritati dagli spiriti di Goethe, cosicché la figura persuasiva del Faust può essere solo Mefistofele, giustamente salutato da Erich Heller come legittimo precursore della visione nietzschiana del vuoto nichilistico. Heller ritiene che, dopo tutto, Nietzsche fosse un faustiano, ma ciò equivale a ignorare le ironie di Nietzsche. Non conosco poesia più sorprendente delle affermazioni conclusive, insieme grottesche e così sublimi da essere assurde, pronunciate da Mefistofele, un personaggio dall’eroismo ridicolo, mentre combatte una solitaria battaglia di retroguardia contro l’inondazione celeste di rose fluttuanti e natiche angeliche che gli impediscono di portare via l’anima consegnatagli da Faust. Che cosa dobbiamo fare di questa scena offensiva e stupefacente? Appena Faust grida: «Io godo adesso l’attimo supremo», eccolo cadere riverso e svanire, e ciò che segue è insieme al di là e al di sotto della critica letteraria. Una farsa di basso livello che rischia un bathos spaventoso ci sopraffà quando Mefistofele guida le sue vili legioni di diavoli grassi con il corno corto e diritto e diavoli secchi con il corno lungo e ricurvo, solo per vederli fuggire tutti quando fa la sua comparsa il delizioso stormo di angeli. Sopraffatto dall’intensa cupidigia per quelle incantevoli creature,

Mefistofele continua a battersi con coraggio, poi si paragona allegramente a Giobbe e infine ammette la propria sconfitta, accattivandosi il nostro affetto mesto e definitivo quando confessa una brama fin troppo umana. «Povero vecchio diavolo» pensiamo, ma anche «vecchio diavolo coriaceo», che accusa giustamente se stesso. Questo è un momento cruciale dell’opera sempre sorprendente di Goethe: Faust non ha uno spirito o una personalità umana, ma Mefistofele sì. Quando scrisse di Mefistofele, Goethe era un vero poeta, e scrisse del diavolo con cognizione di causa, perché pare che conoscesse ogni cosa. Sebbene il Faust sia più un’opera lirica che un dramma teatrale, in Germania viene rappresentata tuttora. Non ho mai assistito a una rappresentazione e preferirei non farlo, a meno che un regista di talento non vi convogli tutte le risorse del cinema. Il Faust, Parte seconda è già un incubo cinematografico che un regista dirige nella propria testa pur lottando con la bizzarria del testo. La Parte prima è senza dubbio curiosa, ma è la Parte seconda a costituire l’opera più peculiare, seppur canonica, della letteratura occidentale. Goethe iniziò a comporre quello che sarebbe divenuto il Faust nel 1772, quando aveva circa ventitré anni, e terminò sessant’anni dopo, subito prima di morire nel 1832. Un dramma poetico la cui composizione dura sei decenni è destinato a essere un mostro, e Goethe si sforzò di rendere la Parte seconda il più mostruosa possibile. I suoi critici hanno avanzato incessanti argomentazioni a favore della presunta «unità» dell’opera e tendono a considerare la Parte seconda come implicita nella prima. A parte alcuni legami meccanici, gli unici elementi che i due Faust hanno in comune sono Faust e Mefistofele, il diavolo comico, che non è una figura molto satanica, perché non ci rammenta il Satana della tradizione popolare né l’antieroe del Paradiso perduto di Milton. Poiché Faust è privo di personalità, e poiché Mefistofele non possiede una personalità individuale, la continuità che questi due personaggi assicurano tra le due parti del dramma è molto debole. Ciò non ha tuttavia importanza, perché il poeta della Parte seconda era ben lieto di essere il più enigmatico possibile. Acclamato come messia letterario fin dall’inizio della sua carriera o quasi, Goethe evitò sapientemente di cadere nel ridicolo diventando uno sperimentatore inarrestabile, e il Faust, Parte seconda può benissimo essere più un esperimento che un poema. Le edizioni del Faust contengono spesso una tabella analitica delle date di composizione e delle forme di versificazione, tabella che mi ricorda le mappe

dedicate al Pentateuco nelle opere degli studiosi biblici, ad eccezione del fatto che Goethe è insieme Yahwista, Elohista, Deuteronomista, Scrittore sacerdotale e grandioso Redattore. Come i drammi di Shakespeare, la Divina Commedia di Dante e il Don Chisciotte di Cervantes, il Faust è un’altra scrittura secolare, un vasto libro di ambizione assoluta. A differenza di Shakespeare e di Cervantes – i cui interessi non erano cosmologici – ma parodisticamente come Dante e Milton, Goethe aspira a una visione totale. Trattandosi di Goethe, bisognerebbe parlare al plurale: visioni. Nella Parte seconda, il miscuglio di storie, mitologie, speculazioni e immagini derivate da poeti precedenti non può neppure essere definita «eclettica». Qualunque cosa sia, Goethe la userà, perché ogni cosa può essere ripiegata in «frammenti di una grande confessione», le opere letterarie di Goethe e il Faust in particolare. Shakespeare, che Goethe collocava con genialità (e realismo) sopra se stesso, non è un’influenza dominante sulla Parte seconda quanto lo è sulla Parte prima, il che contribuisce senza dubbio a spiegare la fiumana di storie, forme e personaggi classici che si gonfia nella Parte seconda. Il fatto che Goethe attinga all’antichità classica è anche un’azione difensiva nei confronti di Shakespeare, sebbene non sia efficace come fuga da quest’ultimo. E come potrebbe esserlo? L’affermazione fondamentale di Goethe su Shakespeare è contenuta nel saggio Schäkespear und kein Ende! del 1815. Nonostante la sua continua ambivalenza riguardo al massimo degli scrittori, la sensibilità estetica di Goethe ebbe la meglio sulla sua vulnerabilità: Forse nessuno ha mostrato meglio di lui il legame tra necessità e volontà nel singolo personaggio. La persona, considerata come personaggio, si trova in una certa necessità; è vincolata, destinata a una particolare linea di condotta; ma, essendo un essere umano, ha una volontà, che è sconfinata e universale nelle sue esigenze. Nasce così un conflitto interiore, e Shakespeare è superiore a tutti gli altri scrittori nell’importanza che gli conferisce. Ora può tuttavia nascere un conflitto esteriore, e a causa sua l’individuo può essere così stimolato che una volontà insufficiente viene innalzata dalle circostanze al livello di un’inderogabile necessità. Ho già accennato a questi moventi nel caso di Amleto.

L’interpretazione di Amleto formulata da Goethe è contenuta nella Vocazione teatrale di Wilhelm Meister (1796), dove Wilhelm ci offre la sua famosa ma assurda e scorretta idealizzazione del più completo personaggio shakespeariano. Riusciamo a riconoscere Amleto nelle sue parole? Un essere bello, puro, nobile, altamente morale, senza la virile forza naturale che fa l’eroe, soccombe sotto un peso che non può né portare né respingere. Ogni dovere gli è sacro; ma questo gli è troppo gravoso. Si esige da lui l’impossibile, non l’umanamente impossibile, ma ciò che è impossibile a lui, Amleto. Ed egli si dibatte, si tortura, si angustia, fa un passo avanti e uno indietro; tutto gli ricorda il suo dovere ed egli sempre se lo ricorda; finché da ultimo perde quasi di vista il vero scopo, senza tuttavia poter mai ritrovare la propria serenità.

È difficile capire quale il dramma stia leggendo Goethe/ Wilhelm Meister; certamente non la tragedia di Shakespeare in cui Amleto uccide Polonio con disinvoltura, manda allegramente Rosencrantz e Guildenstern incontro alla morte e si comporta, nei confronti di Ofelia, con una brutalità così oscena da essere assolutamente imperdonabile. In questo caso, tuttavia, nulla potrebbe essere meno gentile verso il Faust di Goethe – che si tratti della Parte prima o della Parte seconda – che paragonare il dramma all’Amleto o a qualsiasi importante tragedia shakespeariana. Il principe di Danimarca è un personaggio drammatico la cui personalità è dotata di una misteriosa vastità e di una persuasività universale. Quella di Amleto è l’unica consapevolezza autoriale fra tutti i personaggi fittizi, il che non significa che il principe sia l’autorappresentazione di Shakespeare. Piuttosto, Amleto è un miracolo di interiorità; il drammaturgo trovò il modo di suggerire una ricchezza psicologica che ci sbalordisce, instillandoci il desiderio di udire Amleto che parla di tutti gli aspetti arcani del cosmo. Benché il dramma sia lungo, il lettore affascinato (ancor più dello spettatore) lo vorrebbe ancora più lungo; desideriamo sentire da Amleto tutte le osservazioni che possiamo augurarci di ascoltare. In base a questo impossibile criterio di misura, il Faust di Goethe, e persino il suo Mefistofele, non sembrano quasi personaggi. Goethe, non osando sfidare Shakespeare, si rivolse al dramma barocco dell’età dell’oro spagnola, in particolare a Calderón de la Barca, in cerca di un modello rivale. Nei più grandi drammi di Calderón, come nel Faust, i protagonisti si muovono e trovano il loro essere nell’indeterminata zona tra personaggio e idea; sono metafore amplificate di un complesso di interessi tematici. Ciò funziona magnificamente per Calderón e per Lope de Vega, ma Goethe voleva avere un’opposizione tra personalità e metafore tematiche in entrambe le direzioni e si sentì libero di abbandonare il mondo di Calderón e di rientrare nel cosmo shakespeariano quasi a piacimento. Maestro del capriccio, spesso Goethe la passa liscia, ma non sempre; e il suo dramma cosmologico soffre ogni volta che viene evocato Shakespeare. Il lettore coglie la stranezza in virtù della quale questo vasto dramma, e in particolare la stravagante Parte seconda, è davvero «saturo di vita», come disse il vecchio Gide, tranne per quanto concerne il presunto eroe tragico. Ci sciamano accanto folli mitologie e gli infiniti complotti di Mefistofele, sempre vivaci, ma Faust sa essere passivo, incolore, prolisso o semplicemente addormentato. Il problema non è l’eccessiva presenza del Goethe sfaccettato

nel ricercatore rinascimentale trasformato in tedesco, bensì la presenza troppo scarsa del messia nella sua figura principale. L’esuberanza di Goethe viene elargita nei meravigliosi mostri della Parte seconda, ma non nel povero Faust. Ciò non può essere accidentale, ma resta pur sempre una disgrazia estetica. Evidentemente Goethe era così risoluto e deciso a non permettere che qualcuno lo scambiasse per Faust da dimenticare la sua enorme forza soprannaturale, che costituiva l’incommensurabile natura della sua personalità. Esiste un problema analogo nella Vocazione teatrale di Wilhelm Meister, dove resto affascinato quasi da ogni personaggio, tranne che dal legnoso Wilhelm Meister. Goethe incantava così tanto se stesso e chiunque lo circondasse che nessuno dei personaggi da lui creati reggeva il confronto con il suo creatore. Shakespeare nutriva scarso interesse per se stesso ed era chiaramente incolore rispetto a Christopher Marlowe e Ben Jonson, e persino verso figure minori come George Chapman o John Marston. L’enigmaticità e la gloria delle opere di Goethe, e in particolare del Faust, Parte seconda, sono racchiuse nel modo in cui la scrittura si intride così tanto della seducente personalità del poeta da spingere ad apprezzare soprattutto il poeta, e non le sue rappresentazioni. Ciò che accade in Byron accade su scala maggiore anche in Goethe, come certamente capì il sagace autore del Faust. Gli individui carismatici che diventano grandi scrittori non sono numerosi; Goethe ne è il maggiore esempio in tutta la letteratura occidentale. Il suo elemento più importante era la sua personalità; Goethe è per gli autori ciò che Amleto è per i personaggi letterari. Il suo maggiore biografo, Nicholas Boyle, inizia il primo volume di Goethe: der Dichter in seiner Zeit (1991) con un’affermazione incontrovertibile: «Occorre conoscere di più, o comunque dev’esserci di più da conoscere, riguardo a Goethe che riguardo a quasi ogni altro essere umano». Nemmeno Napoleone, contemporaneo di Goethe, può smentire quel giudizio, né possono farlo Byron, Oscar Wilde o ogni altro luminare estetico. Riguardo a Shakespeare non sappiamo quasi nulla di importante, e impariamo a essere scettici nei confronti di quanto resta da conoscere, più sull’uomo che sui drammi. Di Goethe, Boyle sembra conoscere ogni cosa, e ogni sua informazione sembra importante. Come notano sia Nietzsche sia Curtius, anche se in modi molto diversi, Goethe rappresenta un’intera cultura, la cultura di un umanesimo letterario nella lunga tradizione che va da Dante al Faust, Parte seconda, il culmine canonico dell’Età aristocratica di Vico. Nella memoria di Goethe, i classici

dell’Età teologica – Omero, le tragedie ateniesi, la Bibbia – si incrociano con Dante, Shakespeare, Calderón e Milton, e da questo incrocio deriva una cultura che, nell’epoca e nella nazione di Goethe, apparteneva solo a Goethe. Da allora quell’amalgama non è nemmeno fiorito in nessun grande poeta. Come forse sapeva egli stesso, Goethe rappresenta una fine e non un nuovo inizio. I saggi sarebbero emersi nella sua scia per quasi un secolo dopo la sua morte, ma Goethe è morto con loro, e oggi continua a vivere non in un poeta presente tra noi, bensì solo nei morti e negli studiosi che si cibano dei morti. L’enigma di Goethe risiede nel mistero della sua personalità, la cui aura sopravvisse all’Età democratica, solo per scomparire definitivamente nel nostro caos comune. Thomas Mann è l’ultimo grande scrittore emerso da Goethe, e oggi è tristemente oscurato, proprio come Goethe, il suo maestro, si è offuscato, anche se non per sempre. L’ironia umanistica non è un atteggiamento che vada di moda negli anni Novanta e non prenderà piede in quelli che saranno i presentimenti apocalittici della seconda metà del decennio. Goethe, mai cristiano, si ritrovò a essere acclamato come un messia quando era ancora giovane, e si difese dalla deificazione con formidabile ironia. L’unico teista del Faust, Parte seconda è Mefistofele; Faust, invece, prefigura Nietzsche spronandoci a pensare alla dimensione terrena anziché a un’autorità trascendente. Shakespeare divenne un dio mortale per Victor Hugo e per molti dopo di lui (me compreso), e Goethe ebbe la dubbia soddisfazione di approdare allo status di essere divino nella sua generazione di esteti tedeschi. Tuttavia, l’immenso contrasto tra Shakespeare e Goethe rimane quello che potrebbe essere definito il carisma della parola e dello scrittore. Quasi tutti i contemporanei (l’unica eccezione che ricordi è l’aforista Lichtenberg) vedevano in Goethe un prodigio della natura e una luce capace di superare la semplice natura. Nondimeno, Goethe non voleva essere un profeta, né tanto meno un dio, e amava definirsi un Weltmensch, un figlio di questo mondo. Iconoclasta assoluto, Goethe eredita quanto vi è di più sfrenato e stravagante nella cultura estetica occidentale, anche se oggi sembriamo non rendercene conto. Il suo superbo egocentrismo è il modello di ciò che Emerson avrebbe trasformato nella religione americana della fiducia in se stessi, e in un certo senso complesso ma molto concreto, gli Stati Uniti di oggi sono (senza saperlo) più goethiani di quanto possa esserlo la Germania moderna. Al centro della carismatica intensità spirituale di Goethe vi è un inquieto rispetto di sé, e il Faust è un poema religioso solo nella misura in cui è il dramma

epico dell’io che non conosce limiti. La religione dell’io non ha monumento più sublime del Faust, Parte seconda. La Parte prima è un poema straordinario, ma è solo una nebulosa anticipazione di ciò che ci piomba addosso nella Parte seconda. La figura di Faust risale alle origini manifeste dell’eresia cristiana, a quello che si pensa sia stato il primo gnostico, Simon Mago di Samaria, che andò a Roma e assunse il nome di Fausto, «il favorito». All’inizio della sua carriera piuttosto equivoca, Simon Mago aveva scoperto Elena, una prostituta di Tiro, e l’aveva definita il pensiero caduto di Dio, Elena di Troia in una delle sue precedenti incarnazioni. Quell’eresia scandalosa è la remota fonte della leggenda di Faust, che restò appiccicata a un vero Georg o Johann Faust, un astrologo e truffatore vagabondo dell’inizio del XVI secolo, morto verso il 1540. La prima stesura di Faust (1587) contiene gli eventi fondamentali sfruttati prima da Christopher Marlowe nel Dottor Faustus (1593) e poi da Goethe, oltre che da molti altri. Le versioni popolari e poetiche della storia di Faust tesero sin dall’inizio ad assimilare Faust al libertino Don Giovanni. Le due leggende mostrano chiare affinità: entrambi gli antieroi sono alla ricerca di conoscenze segrete, siano essere occulte o sessuali; entrambi passano da una delusione erotica all’altra; entrambi approdano alla dannazione attraverso il desiderio e l’eccesso. Byron, come poeta e celebrità carismatica, fa culminare entrambe le leggende in se stesso, come Goethe comprese con acume. Il tramonto delle relative leggende, Faust e Don Giovanni, si compie nel Faust, Parte seconda, quando Euforione (Byron), il figlio di Faust e Elena, va incontro al destino di Icaro. La Parte prima ci presenta, nel suo protagonista, un Don Giovanni tristemente inadeguato, la cui sfortunata relazione con l’innocente Margherita conduce senz’altro alla distruzione terrena e a una poco convincente salvezza celeste della donna. A Goethe interessava tuttavia offrirci il più adeguato tra tutti i Faust possibili, sebbene nel personaggio goethiano il successo lirico superi di gran lunga l’esito drammatico. Non ricordiamo questo splendido Faust come rappresentazione di una persona potenziale, bensì come storia di una coscienza sostanzialmente distaccata sia dall’azione sia dalla passione, sebbene aspiri a entrambe. La mente di Goethe non riposava mai; la mente del suo Faust è semplicemente in preda a una perenne irrequietudine. Evidentemente Goethe era consapevole della differenza e corse con leggerezza il rischio estetico in essa implicito. Nessuno rilegge il Faust – in entrambe le sue parti – perché resti affascinato dal protagonista, mentre molti

di noi sono ossessionati da Amleto. Ho riletto il Faust per vedere che cosa riesca a fare Goethe con un protagonista per nulla goethiano. Quando rileggo Amleto, si tratta molto di più di capire che cosa Amleto possa fare di Amleto. Torniamo così alle affermazioni di Erich Heller: Goethe evita la tragedia mentre Shakespeare si impadronisce per sempre di quel genere o, come riassume il critico in toni foschi: «Se si può affermare che le limitazioni di Goethe hanno origine nella vastità apparentemente illimitata del suo genio, allora ci si riferisce al suo genio, non ai suoi talenti; al contrario, Goethe usò sempre i suoi talenti per difendersi dal suo genio». Modificherei questo giudizio osservando che solo la Parte prima è la difesa di Goethe dal suo genio, mentre la Parte seconda, assai più poderosa, è la più interessante difesa di Goethe dal genio altrui: le tragedie greche, Omero, Dante, Calderón, Shakespeare e Milton. La Parte seconda non affronta la realtà del male più di quanto faccia la Parte prima, ma il lettore desideroso di tragedia smette di farci caso e, in realtà, non può farvi caso, perché le onde di marea della creazione goethiana di miti che si abbattono su di noi richiedono un’energia di reazione soprannaturale. La lirica è intraducibile, ma i film di mostri no, e il Faust, parte seconda è il più grandioso film di mostri che mai sia stato proiettato. La stessa inclinazione che mi induce a vedere ogni nuovo Dracula mi riporta sempre alla Parte seconda, dove Mefistofele diviene il più fantasioso di tutti i vampiri. Goethe, rinunciando apparentemente al desiderio, permette tuttavia a Mefistofele di scrivere quasi tutta la Parte seconda, con magnifici risultati poetici. La Parte prima finisce con un perfetto calderone di peccato, errore e rimorso, adatto solo perché Faust vi anneghi; ma la prima scena della Parte seconda spazza via tutto quanto. Il maggior debito di Goethe verso Shakespeare fu la consapevolezza pragmatica che l’apoteosi può essere drammaticamente persuasiva. L’Amleto dell’atto quinto ha trasceso tutto ciò che ha provocato nei primi quattro atti e, a partire dalla seconda scena della Parte seconda, Faust si è completamente liberato della tragedia di Margherita. Amleto può proclamare l’intensità del suo antico amore per la compianta Ofelia, ma giustamente non gli crediamo, e Faust non si disturba nemmeno a fingere di provare nostalgia per la sua versione di Ofelia. Evidentemente Goethe non era incline al rimorso, soprattutto in materia erotica. Una donna perduta era un poema compiuto, e ora Margherita era la Parte prima, proprio come Elena sarebbe stata la Parte seconda. Le letture femministe di Goethe, Dante o Yeats mi fanno rabbrividire perché, ancora

più di Milton, questi poeti idealizzarono, e dunque demonizzarono, le donne. Quando il Chorus mysticus conclude la Parte seconda intonando: «L’Eterno Femminile / ci fa salire», è probabile che una donna di oggi si chieda: «Verso cosa?». Goethe seguì Dante, ma ora questa non può essere considerata una giustificazione. A prescindere dal fatto che il presunto oggetto fosse Margherita o Elena, Faust restò il soggetto e, in fin dei conti, il vero oggetto della sua ricerca, perché è risaputo che Goethe andava in cerca solo di se stesso. Come Berowne in Pene d’amor perdute, Goethe cercava negli occhi delle donne il vero fuoco prometeico come riflesso della sua fiamma creativa. Su quest’argomento, Shakespeare fa dell’umorismo sfrenato e voluto, ma Goethe è narcisistico quanto Berowne. È facile capire perché la critica femminista se la cavi meglio con Shakespeare; il suo atteggiamento riguarda tutti i sessi e nessun sesso. Goethe è così esposto alla critica femminista che i risultati potrebbero essere di scarso interesse, a meno che la critica non abbia come obiettivo la femminizzazione del grottesco nella mostruosa mitologia davanti ai nostri occhi. L’unico rivale contemporaneo di Goethe come creatore poetico di miti era William Blake, che non aveva un pubblico e i cui «brevi poemi epici» incisi (una definizione miltoniana) restano ancora accessibili solo a un esiguo gruppo di lettori colti e quasi ossessivi. Poiché leggo i poemi esoterici di Blake sin da quando ero ragazzo e ho pubblicato lunghi commenti in proposito quando ero ancora giovane, mi viene naturale pensare al contrasto con Blake mentre leggo il Faust, Parte seconda. Le creazioni mitopoietiche di Blake sono sistematiche e in grande misura al servizio della sua disputa apocalittica con la tradizione canonica. Le invenzioni di Goethe sono spontanee, profondamente giocose, e mirano a comprendere la tradizione. Sono io il primo a essere sorpreso dalla mia preferenza per il Faust, Parte seconda rispetto ai Quattro Zoas, Milton e Gerusalemme. Lo stesso giudizio va formulato quando si accostano Shelley, Keats e Byron alla Parte seconda, e Shelley e Byron, entrambi ammiratori di Goethe, non avrebbero nemmeno contestato questo verdetto se fossero vissuti abbastanza da leggere il suo maggiore poema. La traduzione di alcuni passi della Parte prima eseguita da Shelley è ancora la migliore disponibile in inglese, mentre il rapporto tra Byron e Goethe è uno dei perni fondamentali, e nascosti solo parzialmente, della Parte seconda. Lo spirito di Byron appare nei panni dell’Auriga adolescente e dello sfortunato Euforione, frutto

dell’unione di Faust e Elena. Elemento ancora più bizzarro, il byroniano, che per Goethe coincide con il demonico, si fa strada nella figura di Homunculus, un essere assai più vivace dell’Auriga adolescente e di Euforione. Goethe e Byron non si conobbero mai ed ebbero solo un breve scambio di complimenti epistolari prima che Byron si spegnesse in Grecia, ma non è certo esagerato affermare che Goethe nutriva una sorta di infatuazione per Byron, un poeta che, a suo parere, si collocava stranamente al di sopra di Milton e appena al di sotto di Shakespeare. L’inglese di Goethe, tutt’altro che perfetto, influì senza dubbio su questi giudizi, che in ogni caso non erano per nulla insoliti in Europa durante il periodo romantico. Nonostante tutti gli aneliti classici di Goethe, il Faust, Parte seconda è l’opera centrale del romanticismo europeo, e il byronismo dovette inevitabilmente farsi da parte in questa tragedia tedesca che non è una tragedia. In e con la loro produzione, Shakespeare e Dante, Goethe, Cervantes e Tolstoj distruggono tutte le distinzioni di genere. Goethe si arrischia a farsi esplicitamente beffe del genere, in modi non molto diversi dalle ironie di Amleto. Non saprei indicare un’altra opera eminente quanto il Faust che rifiuti con altrettanta aggressività ai suoi lettori qualsiasi prospettiva chiara. Forse è per questo che Goethe esercitava un fascino così immenso sul relativistico Nietzsche, ma qualsiasi lettore (io compreso) si trova a disagio di fronte a un poema che non si lascia prendere in maniera del tutto seria né del tutto ironica. Vi è una certa mancanza di buona fede autoriale da parte di Goethe, sebbene, da un altro punto di vista, questa mancanza possieda un fascino enorme (e deliberato). Una volta che abbiamo imparato a leggerla, la Veglia di Finnegan, un elefante bianco letterario grande quanto il Faust, è un libro pieno di umorismo, ma trabocca anche di buona fede joyciana. Dedicate una parte cospicua della vostra vita alla Veglia di Finnegan, e i vostri sforzi verranno premiati; è questo, infatti, lo scopo dell’opera. Il Faust, Parte seconda assicura un piacere scandaloso al lettore esuberante, ma è anche una trappola, un abisso mefistofelico di cui il lettore non toccherà mai il fondo. Joyce prende la Veglia di Finnegan con serietà sincera se non addirittura amabile; il lettore non va schernito né sfruttato. Con altrettanta ambizione, Goethe mira a una letteratura mondiale e un rifacimento del linguaggio, ma, almeno in parte, a spese del lettore. Pur essendo un eroico bardo viconiano dell’Età caotica, Joyce è democratico nel suo elitarismo letterario, come lo era Blake prima di lui. Affrontate gli ostacoli posti sulla vostra strada, e riceverete la giusta ricompensa. Goethe, che, come è risaputo, è l’ultimo

bardo dell’Età aristocratica, sì diletta ad abbandonarci in una contraddizione e confusione estreme. Ciò non diminuisce lo splendore estetico della Parte seconda, ma ci lascia un po’ esasperati, soprattutto nel momento attuale. Forse ciò significa solo che, alla fine, l’epoca dell’uomo faustiano ha ceduto il passo all’era del femminismo e delle relative ideologie; ma può anche significare che Goethe ci rimprovera perché abbiamo cercato nelle poesie ciò che queste ultime non hanno il dovere di darci. Resta tuttavia una domanda: che cosa possiede la Parte seconda, oltre l’appariscenza autoriale e l’infinita esuberanza del linguaggio? La magnificenza lirica e l’inventiva mitopoietica sono sufficienti a sostenere una stravaganza così bizzarra e barocca, lunga due volte il Faust, Parte prima? Siamo davvero degli illusi se pretendiamo di più da colui che è stato di gran lunga il più vigoroso scrittore della lingua tedesca? Vi è una straordinaria audacia nel tentativo goethiano di esaltare insieme il desiderio e la rinuncia in un unico dramma poetico, sebbene quest’ultimo sia lungo 12.111 versi e abbia richiesto sessant’anni di lavoro. Pur essendo divenuto un saggio nazionale, Goethe era serenamente privo sia di religione normativa sia di morale borghese, né si lasciava intimidire dalle considerazioni sociali sul buon gusto. Nel Faust si riversano elementi di ogni genere, soprattutto nella Parte seconda. Quasi tutti i lettori istruiti hanno letto la Parte prima; in questa sede la commenterò dunque solo nella misura in cui si può affermare che costituisce l’antecedente della Parte seconda. Come ho detto prima, le due parti sono così diverse da costituire davvero due poemi separati, ma poiché Goethe non era di questo parere, devono prevalere le sue intenzioni autoriali. Probabilmente una rappresentazione completa delle due parti del Faust richiederebbe ventuno o ventidue ore, prendendo a modello un Amleto senza tagli e moltiplicandolo per circa quattro volte. Una prospettiva che mi indurrebbe a esclamare, come Lorca intento a deplorare la morte del torero: «Non voglio vederlo!». Goethe aveva la strana convinzione che Shakespeare non avesse scritto per il palcoscenico, e la migliore esecuzione del Faust completo è riservata all’aldilà (sebbene in Germania sia stata messa in scena). Nato dallo Sturm und Drang, cioè dalla versione tedesca dell’Età della sensibilità inglese, Goethe associava in maniera automatica un autentico dramma sublime con il teatro della mente, il che non equivale affatto ad asserire che Faust è un dramma filosofico. Invece, questo poema drammatico ossessionato dal desiderio sessuale ha pochissimo a che vedere con una

rappresentazione realistica dell’amore in qualsiasi contesto sociale, nonostante il tentativo marxista compiuto dall’illustre Georg Lukacs per analizzare il rapporto amoroso tra Faust e Margherita. Essendo un gigantesco fantasy, il Faust dimora nella sfera delle pulsioni freudiane, Eros e Thanatos, con Faust come Eros inquieto e Mefistofele come Thanatos tutt’altro che a suo agio. Entriamo nel Faust, Parte prima, durante la Notte di Valpurga risparmiandoci le fasi iniziali, insieme affascinanti e dolorose, della catastrofica seduzione della povera Margherita da parte di Faust. Come qualsiasi lettore intuisce ben presto, la Notte goethiana di Valpurga non va interpretata come una perfida orgia organizzata per celebrare un sabba di streghe sul Brocken, tra i monti della Selva Ercinia. Dopo tutto, questo non è esattamente un poema cristiano, e l’anima di Goethe preferisce il Brocken a una cattedrale. Lo stesso vale per noi, quando contrapponiamo la Notte di Valpurga alla scena precedente, in cui Margherita (chiamiamola Greta, come comincia a fare Goethe in questo punto) incontra lo Spirito Maligno nella cattedrale e sviene per la persecuzione inflittale da quel vapore gassoso altamente cristiano, che non ha nulla in comune con il vivace Mefistofele. Un contrasto ancora più cruciale esiste tra la Notte di Valpurga e la scena precedente, Bosco e grotta, che interrompe il corteggiamento di Greta da parte di Faust. Goethe e Walt Whitman (un duo improbabile) condividono la particolarità di essere gli unici due grandi poeti a parlare apertamente di masturbazione prima del XX secolo; Whitman la celebra, Goethe la tratta con ironia. In Bosco e grotta, Mefistofele si avvicina a Faust interrompendo una fantasticheria solitaria in cui il protagonista trova una felicità «che mi avvicina sempre più agli dei» e accusa ingiustamente Mefistofele della cupidigia che ora lo studioso prova per Greta. La risposta del diavolo lo zittisce: Davvero: gioia sovrumana! Dormire la notte tra i monti alla guazza, abbracciare voluttuosamente e terra e cielo, gonfiarsi fino alla divinità, frugare con frenesia di presagio il midollo della terra, sentire nel proprio petto il creato intero dei sei giorni, godere in orgogliosa conquista non so che cosa, effondersi prima del Tutto, libero di ogni spoglia terrestre, in estasi d’amore, e poi chiudere l’alta visione… non m’è permesso dir come!

Il fatto che Faust non abbia potuto perdersi nella masturbazione è fuor di dubbio. I riferimenti all’autogratificazione sono reperibili altrove nella Parte prima e in tutta la Parte seconda. La Notte di Valpurga – che viene dopo questo rifiuto della sublimazione e la successiva seduzione di Margherita,

seguita dal suo autotormento cristiano – ci riempie di sollievo. Faust prova un esuberante sentimento di liberazione quando si abbandona a un gioco chiassoso, a un’incursione nella dimensione onirica, erotica e liberatrice, mescolandosi con innumerevoli giovani streghe nude, tra cui la splendida Lilith, la prima moglie di Adamo. Il culmine della successiva danza orgiastica si raggiunge nelle contraddittorie visioni di Faust e Mefistofele, che vedono la stessa figura, interpretata dal diavolo come Medusa e da Faust come una Greta vittimizzata. Il pathos della sorte di Greta costituirà il centro del resto del Faust, Parte prima, interamente dominato dal sabba delle streghe e dalla sua pragmatica esaltazione dell’appetito erotico. Greta può essere salvata per quanto riguarda il cielo, ma il lettore rifugge dalla scena della sua agonia con Faust e Mefistofele, fin troppo lieto di abbandonare quelle sofferenze alla Ofelia per il mondo visionario della Parte seconda. Poiché il presente libro si occupa dell’interrogativo canonico, qui il mio interesse per il Faust, Parte seconda si limita proprio a questo: che cosa rende perenne e universale un poema così strano? Non ho lo spazio né la conoscenza specialistica per commentare l’intera opera. La scommessa di Faust con Mefistofele è un nodo tradizionale per i critici di entrambe le parti del dramma, ma a me sembra una questione secondaria. La mancanza di personalità del protagonista mi rende indifferente al fatto che quest’ultimo viva o meno un momento di bellezza, e dunque implora che quel momento indugi per un po’. Anche il tema del perenne anelito faustiano mi sembra di poco peso, sia come stimolo per un patto con il diavolo sia come presunta salvezza da un simile patto. La forza dell’opera di Goethe non va ricercata in queste banalità ormai scontate, che, se avessero l’importanza loro attribuita, avrebbero affondato il Faust già da tempo. Il vigore mitopoietico della Parte seconda si incentra su invenzioni assai diverse: la discesa di Faust verso le Madri e la successiva visione di Elena; la genesi e la sorte di Homunculus; la classica Notte di Valpurga; l’idillio di Faust, Elena e Euforione; e infine, la lotta per l’anima del Faust defunto e la descrizione piuttosto equivoca del cielo alla fine del poema. Partendo da queste immagini curiose, Goethe plasma un mito composito, che è l’elemento di vero interesse per qualunque lettore voglia, e possa, affrontare una poesia tanto difficile quanto rapsodica. Il sublime cattivo gusto di Goethe ricompare nel memorabile episodio delle Madri, dove la «chiave» data a Faust da Mefistofele ha una valenza fallica fin troppo evidente: MEFISTOFELE Ed io, prima ancora che tu mi lasci, altamente te ne lodo. Vedo bene il diavolo lo conosci. A te! Prendi questa chiave.

FAUST Codesta cosettina? MEFISTOFELE Prendila prima, e non la disprezzare! FAUST Mi cresce in mano, riluce, lampeggia! MEFISTOFELE Ti accorgerai tra poco cosa vuol dire possederla! La chiave riconoscerà al fiuto il giusto luogo. Seguila nella discesa: ti condurrà alle Madri.

Evidentemente questa discesa implica un incontro quasi incestuoso, nebuloso, molteplice con le proprie antenate. Quando Mefistofele dice a Faust che laggiù sarà circondato da strane forme, lo studioso impegnato nella ricerca viene esortato come segue: «Brandisci la chiave e tienli da te lontani!». Faust replica con entusiasmo: «Nell’impugnarla saldo, sento già nuova forza!». La «grande impresa» della discesa mitica è chiaramente una masturbazione, eroica nella sua durata e altamente poetica in termini di risultati, la visione dello stupro iniziale di Elena da parte di Paride. Il geloso Faust, a sua volta pazzo di desiderio per l’incantatrice classica, grida che la sua mano stringe ancora la chiave, punta quest’ultima verso Paride fino a toccare l’apparizione e si impadronisce di Elena. Ha luogo un’esplosione orgasmica, Faust sviene e i fantasmi si dissolvono come vampiri. Si chiude così l’atto primo; Benjamin Bennett dimostra che i quattro atti rimanenti della Parte seconda si concludono tutti con allusioni via via più sottili a culmini masturbatori. Alla fine dell’atto secondo, Homunculus compie un suicidio onanistico ai piedi di Galatea. Euforione termine l’atto terzo lanciandosi in aria con energica intensità erotica mentre rifiuta un conforto femminile. La satira goethiana del cristianesimo interviene nelle conclusioni degli atti quarto e quinto, con chiare allusioni al fatto che il contesto della masturbazione è ancora pertinente. Nel quarto, un trionfante arcivescovo propone all’imperatore di erigere una cattedrale che si elevi nel «luogo profanato dai peccati commessi», e l’intero poema si conclude con un’epifania pseudodantesca in cui Greta diviene Beatrice e Faust fa suo il ruolo di Dante. Tuttavia, nel bel mezzo di questa fantasmagoria di giubilo protocattolico, Goethe continua a essere silenzioso e irriverente. La scena finale trabocca di «divine ondate di estasi», con un Pater trapassato dalle frecce e un altro intento a contemplare Amore onnipotente nel movimento di un albero che si drizza verso il cielo. Nel bel mezzo di questa estasi celestiale, gli «angeli più perfetti» dichiarano con una certa malignità che devono «portar di terra un resto, / ah quanto accora! / E s’anche fosse asbesto / impuro è ancora!», e insistono sulla separazione tra corpo e spirito. Come ci ricorda Bennett, la meditazione spirituale rimane erotica da un capo all’altro del poema, ma limita la propria carica sessuale alla sfera dell’autoeccitazione

e dall’autogratificazione. La discesa verso le Madri, che sarebbe impossibile per lo sgomento Faust senza la chiave fallica, è, in realtà, l’invocazione delle muse della mitologia per la Parte seconda. Mefistofele ha strappato Faust dall’autogratificazione con la Greta vittimizzata; è un progresso puramente ironico e una sconfitta umana il fatto che, in tutta la Parte seconda, Faust venga restituito all’autoerotismo mediante la sua unione con un’Elena ectoplasmica. Il dilemma del prospettivismo ci viene riproposto da Goethe, e non viene mai risolto nella Parte seconda. Un sabba delle streghe, questa volta più classico che germanico, ci offre ancora immagini di Eros più esuberanti di quanto facciano i solitari aneliti romantici o le collettive richieste cristiane. Goethe aggiunge un’ulteriore ironia: Mefistofele, un diavolo cristiano, è spesso a disagio quando è alle prese con il realismo della classica Notte di Valpurga. «Quasi tutti nudi», borbotta alla vista delle «impudiche Sfingi», degli «svergognati Grifoni» e «quanto mai altro, alato o ricciutello, per davanti o per di dietro si riflette nei miei occhi». È abbastanza divertente il fatto che il diavolo desideri una o due foglie di fico secondo «gusti più moderni». Faust, che brama la sua Elena classica, si sente più a suo agio tra i mostri antichi, mentre Homunculus è il più avventuroso del trio. Questo essere peculiare, una delle più splendide invenzioni della Parte seconda, è stato creato da Wagner l’alchimista, un tempo il fedele assistente di Faust. Un omino affascinante, o un adulto in miniatura, costretto a vivere nella fiala di vetro in cui è stato creato, Homunculus non somiglia affatto a Mefistofele, la cui presenza nel laboratorio di Wagner ha fornito l’energia infernale che ha trasformato la fiamma in qualcosa capace di andare al di là della mente umana. Homunculus non è sardonico né nichilista, e non è neppure una sorta di Faust in scala ridotta, come hanno suggerito alcuni critici. Troppo amabile per essere una satira goethiana, l’ermetico Homunculus ci supera tutti in conoscenza e comprensione. Una fiamma di coscienza non incarnata ma manifestatasi come mente, Homunculus sembra godere dell’affetto di Goethe più di quasi chiunque altro nel poema. Sempre umoristico e spiritoso, ha il tragico difetto di desiderare l’amore, il che provocherà la sua disperata autodistruzione quando incontrerà Galatea. Pur essendo confinato all’atto secondo, Homunculus è una personalità che produce un’impressione così forte perché, purtroppo, il Faust della Parte seconda è al di là dell’individualità, almeno per quanto attiene a Goethe. Il

Faust della Parte prima era un Amleto in versione pauperistica, ma aveva forti emozioni, una ferocia stravagante e la capacità di essere decisamente negativo. Nella Parte seconda è tedioso, solenne, astratto, incapace persino delle reazioni più elementari. Goethe idealizzò consapevolmente questo Faust successivo trasformandolo in un’allegoria del temperamento poetico classico, cosicché persino la sua passione per Elena diviene una versione della passione che Goethe nutriva per la poesia e la scultura greche. Inevitabilmente, questa elevazione piuttosto fredda di Faust comporta un mutamento parallelo in Mefistofele, che cessa quasi di essere il diavolo perché è obbligato a divenire una sorta di cristiano tardoromantico, che rimpiange invano lo splendore della classicità o almeno cerca in qualche modo di riconciliare la Grecia e la Germania. Povero Mefistofele! Diviene un ragionatore e un comparatore, persino uno storicista, anziché un tessitore di trame che tenta di riportarci alle negazioni dell’abisso originario. Dev’essere questa la ragione per cui l’idea di far volare Faust alla classica Notte di Valpurga viene a Homunculus, e non al diavolo. L’omino specifica che, per Faust, lo scopo della spedizione è terapeutico, nel senso che lo porterà più vicino a Elena, mentre il suo movente personale è la pulsione che culminerà ai piedi di Galatea. Tutti questi particolari sono corollari al proposito di Goethe, quello di mettere in scena il grande pezzo forte della sua carriera poetica, i millecinquecento versi di un sabba dell’antica Grecia che non ebbe mai luogo, né in mare né sulla terraferma, ma che ora ha luogo perché lo desidera Goethe. Se l’essenza della poesia è inventiva, come giustamente sosteneva il dottor Johnson, la classica Notte di Valpurga ci rivela ciò che è essenzialmente la poesia: una sfrenatezza controllata, una radicale originalità che comprende forze precedenti e, soprattutto, la creazione di nuovi miti. Goethe conferma il suo posto nel Canone letterario aggiungendo altra stravaganza alla bellezza (la formula di Pater per i romantici) di quanto abbia fatto in precedenza qualsiasi altro poeta occidentale. Il sublime di Goethe spinge il grottesco al di là di quanto avrei ritenuto possibile: un’impresa di dimensioni così scandalose che la critica, soprattutto quella tedesca, non è stata in grado di accettarla, poiché il culto di Goethe è una religione secolare così solenne. Goethe esclude quasi tutto ciò che ci aspetteremmo di trovare nel normale classicismo: gli dei olimpici, i guerrieri omerici, gli eroici uccisori di mostri. Gli dei goethiani sono mostri: le Forciadi informi, che sono in agguato nella

notte primordiale. Metamorfiche e feconde, ci ispirano un’inquietudine che è di importanza cruciale per lo scopo che Goethe si prefigge in quella sede. Strano a dirsi, l’unico equivalente contemporaneo cui io riesca a pensare è il lungo incubo che inaugura Antiche sere di Norman Mailer, dove siamo riportati al mondo del Libro dei morti egizio. Mailer è al suo meglio in quelle pagine cupe e riesce a trasmettere in maniera suggestiva l’alterità delle sue antiche sere. In un secondo momento, questo romanzo egizio non è privo di difetti, ma la morte, come la sodomia, non manca mai di stimolare l’immaginazione di Mailer. La vita nella morte è più una specialità di Goethe, e il suo viaggio nel lato oscuro supera con facilità quello di Mailer. Si parte da Farsalo, in Tessaglia, dove Cesare sconfisse Pompeo. Goethe trasforma la strega Erittone, una creazione del poeta Lucano, da profanatrice di cadaveri in cronista di vane battaglie. Pur di non trovarsi faccia a faccia con il trio di Homunculus, Faust e Mefistofele, «si allontana», lasciandoli liberi di esplorare i mille fuochi da campo, attorno ai quali si raccolgono dei e mostri primordiali, risorti per quell’unica notte dell’anno. Nel suo contrappunto mitopoietico, Goethe manipola tanti modelli classici che sceglierne uno come genio guida è inevitabilmente ingannevole, ma Le rane di Aristofane sembrano il precursore più vicino. Aristofane era un parodista crudele, soprattutto di Euripide, ma nessun parodista nella storia della letteratura è esaustivo come il Goethe del Faust, Parte seconda. La peculiare gamma delle tonalità comincia a costituirsi quando Mefistofele si imbatte nei Grifoni, che preferirebbe senz’altro non incontrare. Queste «bestie» orripilanti, che avevano il compito di custodire i tesori, hanno teste e ali d’aquila e corpi e zampe da leone. Multicolori, dalla vista acuta e dalla rapidità spaventosa, sono i supremi animali da guardia, di indole feroce. In Goethe, tuttavia, sono solo vecchi avari stantii che, quando Mefistofele li saluta «E anche a voi, miei savi grigioni!», replicano come tediosi curatori di dizionari, arrotando le loro «r» gutturali: «Ma che grigioni! Grifoni!… Nessuno sente con piacere d’esser chiamato vecchio! Il suono d’ogni parola tradisce sempre l’origine da cui essa deriva. Grigio, gramo, grugno, grinta, sgretolio, grinzoso, mentre suonano per via etimologica sullo stesso tono, per noi son stonature». Nessun lettore si lascerà terrorizzare da una bestia araldica che pronuncia un verso come questo: «Grau, grämlich, griesgram, greulich, Gräber, grimmig». Appena i mostri di Goethe cominciano a parlare, nemmeno il loro

caratteraccio è più spaventoso delle brutte maniere verbali mostrate dalle presenze fantastiche di Attraverso lo specchio. La classica Notte di Valpurga è così infantile da trasformare ogni essere demonico in un essere grottesco. Così, per esempio, le Sfingi non sono granitiche eminenze con faccia umana e corpo leonino, ma si presentano come vecchie narratrici ciarliere, impiccione superstiziose che continuano a proporre enigmi. Le favolose Sirene non ingannano nessuno e non sanno cantare molto bene, mentre le Lamie, che dovrebbero essere voraci vampiri, sono solo puttane provinciali troppo truccate e ornate di trine che, quando vengono abbracciate, conservano la capacità di trasformarsi in entità assai sgradevoli. Goethe non sminuisce nessuno dei suoi mostri; il loro carattere grottesco conserva splendore e intensità, ma noi, dopo tutto, siamo presenti solo nei panni di Faust, ossessionato dall’assenza di Elena, o dell’incorporeo Mefistofele, più stantio di tutto ciò in cui si imbatte. Vediamo con gli occhi di Mefistofele perché è l’unico dei tre a essere in cerca non di realizzazione, ma semplicemente di qualunque sensazione possa procurarsi. Naturalmente, non si procura un bel nulla, e continua a peregrinare smarrendosi finché si imbatte in Homunculus, che lo porta ad assistere a un dibattito tra i filosofi presocratici Talete e Anassagora. Talete, sereno e palesemente saggio, sostiene che l’acqua è il primo principio e resta cieco alle catastrofi della Notte di Valpurga. Anassagora, sostenitore del fuoco come primo principio, è un rivoluzionario apocalittico come l’Orco di Blake o i veri visionari che avevano contribuito a scatenare la Rivoluzione francese. Anassagora «si getta faccia a terra» per adorare Ecate, rimproverando se stesso per i disastri che ha causato evocando la dea, e la vittoria spetta chiaramente a Talete, di carattere mite anche se un po’ troppo panglossiano. Quando la classica Notte di Valpurga giunge alla sua conclusione tra molte altre complessità, i nostri tre aeronauti sono ormai andati incontro a destini diversi. Mefistofele, il più stizzoso dei turisti tedeschi, ha partecipato a una terribile gozzoviglia durante il sabba delle streghe greche. Il povero diavolo, che le infide Lamie hanno fatto smarrire tra le rupi, si imbatte nelle orrende Forciadi, tre megere con un unico occhio e un unico dente. Sono così ripugnanti che Mefistofele non ne sopporta la vista, finché si rende conto che sono sue sorelle, figlie, come lui, della Notte e del Caos. Riconoscendole, si confonde con una di loro, ne assume l’aspetto ed è nella forma informe di una dea greca dell’abisso che parte da Farsalo, recandosi a Sparta per attendere il

ritorno di Elena. Nel frattempo, Faust si è imbattuto in Chirone il centauro, un benevolo scettico che tenta di curarlo dalla sua ossessione per Elena portandolo da Manto, figlia del medico archetipico Esculapio. Manto è tuttavia una romantica orfica, non una riduzionista razionale e, riconosciuto in Faust un altro Orfeo, lo conduce, proprio come un tempo fece con Orfeo, sotto terra da Persefone, questa volta perché egli porti via Elena anziché Euridice. Con straordinario acume, Goethe decide di non descrivere l’incontro tra Faust e Persefone, lasciandolo alla nostra immaginazione. Goethe investì invece le sue energie creative nella vicenda di Homunculus, cui il destino non permetterà di sopravvivere alla classica Notte di Valpurga. Nel tentativo di uscire dalla fiala per diventare una creatura umana compiuta, il piccolo essere sopporta il dibattito tra Talete e Anassagora, ma non ne ricava nessun consiglio utile. Invece, va con il benevolo Talete ad assistere alla più bella invenzione di Goethe, una sorta di barocco carnevale acquatico in cui compaiono Sirene (ora un po’ redente), Nereidi e Tritoni. Ci siamo lasciati alle spalle Farsalo con i suoi mostri, ed eccoci ora nel mondo degli isolotti egei illuminati dalla luna. A Samotracia siamo nel regno dei Cabiri, piccoli dei curiosi: «sempre riproducono se stessi / e non sanno mai che cosa sono». Goethe non chiarisce se questi nani ignoranti siano solo vasi di terracotta, esaltati da studiosi ignoranti, o potenti divinità capaci di salvare i naufraghi. Tuttavia, qualunque cosa siano, il sontuoso corteo delle creature marine sfila in loro onore, e ciò che conta davvero è lo spettacolo estetico. La sua gloria suprema è la grazia oceanica, Galatea, che i delfini trasportano dalla sua casa di Pafo, sacra a Afrodite. Galatea, insieme causa dell’autotrascendenza e dell’autodistruzione di Homunculus, è, per Goethe, una figura assolutamente positiva. Più ambiguo è Proteo, maestro di inganni ed evasioni, ma anche vero chiaroveggente dotato di una perfetta conoscenza del tempo e dei suoi segreti. Questo vecchio uomo del mare, che si fa beffe di tutte le aspirazioni umane, è infantile e allegro e, grazie a una delle più belle ironie goethiane, è insieme il filosofo migliore e più pericoloso nell’arte di consigliare a Homunculus come vivere e che cosa fare. Tuffati nel mare, è il suggerimento di Proteo, per partecipare a un’infinita metamorfosi, ma non con l’intenzione di ascendere a uno status umano. I migliori tra gli uomini, Achille e Ettore, finiscono per scendere nell’Ade. Meglio vorticare come vortica il mare, accettando la vita senza la morte individuale che affligge l’uomo.

In Proteo udiamo forse un aspetto del vecchio Goethe, poiché il poeta fu per tutta la vita un mutatore di forme psichico? Oppure Goethe si proietta nel successivo profeta-filosofo, Nereo, che predica la rinuncia ma utilizza comunque gli accenti di Eros? Quando le sue figlie, le Doridi capeggiate da Galatea, lo esortano a concedere l’immortalità ai giovani marinai che hanno salvato e amato, Nereo rifiuta, esprimendo quella che sembra senza dubbio la matura saggezza erotica goethiana: «Quando il capriccio avrà consumato i giochi, deponeteli dolcemente alla riva». La rinuncia viene celebrata ancora una volta quando Nereo e Galatea, come Lear e Cordelia, legati da un travolgente amore tra padre e figlia, si scambiano solo un’occhiata e un grido di gioia e riconoscimento prima che i delfini portino via Galatea per un altro anno di assenza. Questa esaltazione della rinuncia, così importante per il vecchio Goethe, è l’equivoco sfondo della passione di Homunculus. Stanco della sua esistenza confinata, il demone alchemico decide di dover scegliere tra il fuoco, il suo elemento natio, e l’alterità dell’acqua. Nereo si rifiuta di fornirgli un parere definitivo, e Homunculus si rivolge a Proteo per potersi unire alla processione di Galatea. L’ironia goethiana compenetra il culmine masturbatorio della ricerca erotica, quando Homunculus salta su per spirare ai piedi di Galatea: «La sua vampa ora vibra potente, graziosa, ora dolce, come pulsando al ritmo dell’amore». L’oggetto è Galatea, ma, tra i due, il povero Homunculus è l’unico amante, finché la fiala si infrange finalmente contro il trono della donna. La fiamma che costituisce la sua vita si frange tra le onde, trasfigurandole per un istante. Le Sirene guidano gli esseri marini in un inno di trionfo, proclamando la vittoria di Eros. Goethe è senz’altro d’accordo, ma la classica Notte di Valpurga si conclude con un atto che va ben al di là della rinuncia. La rappresentazione occulta del distaccato intelletto umano distrugge la mente in un ulteriore tributo a Eros. La tipica ambivalenza goethiana ci nega una prospettiva assoluta su questa perdita, e il resto del Faust, Parte seconda rafforzerà solo l’atteggiamento ambiguo dell’anziano poeta verso la sua dottrina della rinuncia. Ora vorrei saltare tremila versi, per lo più magnifici, della Parte seconda per concentrarmi sulla scena della morte di Faust e della successiva lotta seriocomica ingaggiata da Mefistofele e dagli angeli per il possesso della sua anima. La maggiore omissione derivante da questo mio salto goffo ma disperato è la straordinaria fantasticheria goethiana su Elena, una trasposizione insieme meravigliosa e irriverente della Germania in Grecia.

Con la solita audacia, Goethe parodia Omero e le tragedie ateniesi per offrirci uno dei più singolari poemi mai scritti: la resurrezione di Elena di Troia, la sua unione con Faust, la nascita e la morte del loro figlio Euforione e il ritorno di Elena tra le ombre. Come la classica Notte di Valpurga, e come i cori celesti che concludono la Parte seconda, la Elena offertaci da Goethe è un poema controcanonico, un’impensabile revisione di Omero, Eschilo e Euripide, come se la classica Notte di Valpurga capovolgesse le origini della mitologia greca, e i cori finali parodiano il Paradiso di Dante con un brio sottile e crudele. Nulla di tutto ciò era totalmente nuovo per Goethe; il Faust, Parte prima è una continua parodia di Shakespeare, con tocchi di Calderón e di Milton. Non mi viene in mente nessun altro poeta che abbia ereditato tanti elementi del Canone occidentale quanti ne ha ereditati Goethe. Da Omero a Byron, l’intera processione è contenuta nel Faust, svuotata per essere riempita di nuovo, ma con la grande differenza necessariamente introdotta dalla parodia, per quanto nobilitata. In tutto il presente libro sostengo che ogni nuova opera, per diventare canonica, deve avere in sé l’anticanonico, ma non nel senso estremo di Goethe. Ibsen riprende in parte il suo atteggiamento, e il Peer Gynt parodia sia il Faust sia Shakespeare. Gli altri grandi scrittori dell’Età democratica – per esempio, Whitman, Dickinson e Tolstoj – non cercano di riassumere la tradizione occidentale come fa Ibsen, anche se con una certa crudeltà. Nella nostra era di Caos vi sono versioni di Ibsen – tra le quali spicca soprattutto Joyce –, ma le ultime tracce della pietà di Goethe verso l’oggetto della parodia non sono riscontrabili in figure di pari vigore. Il rapporto di Beckett con Shakespeare è simile a quello di Joyce e in parte a quello di Ibsen, ma non è affatto goethiano. Curtius, nei suoi Studi di letteratura europea (1973), cita una lettera scritta da Goethe nel 1817: «Noi poeti epigoni dobbiamo riverire l’eredità dei nostri antenati – Omero, Esiodo e altri – come autentici libri canonici; ci inchiniamo dinanzi a quegli uomini che furono ispirati dallo Spirito Santo, e non osiamo chiedere quando o dove». Questo non è l’accento di Ibsen o di Joyce. Curtius aveva ragione: Goethe mise fine a un aspetto della tradizione. Forse qui la mia appropriazione di Vico è un ostacolo, ma se per «aristocratico» si intende un elitarismo dello spirito, fino al senso di una gnosi, Goethe è davvero l’ultimo grande scrittore dell’età inaugurata da Dante. Per scrivere un poema epico controcanonico o un dramma cosmologico come Faust, Parte seconda, occorre infatti un

intimo rapporto con il Canone, un rapporto che, dopo Goethe, nessun altro ha subito o di cui nessun altro ha goduto. Ciò conferisce particolare intensità alla morte di Faust, perché a morire non è solo il personaggio di Faust. Come sarebbe morto Peer Gynt se Ibsen fosse stato disposto ad abbandonarlo al fabbricante di bottoni? Riusciamo forse a immaginare la morte di Poldy Bloom? L’uomo faustiano muore di una morte classica, come vedremo, perché la continuità con la tradizione, per quanto parodistica o ironica, resta intatta. Dopo Goethe, è stato infranto tutto ciò che poteva essere infranto. Emerson, Carlyle e Nietzsche riverivano Goethe, e tutti si rendevano conto che quest’ultimo era stato in larga misura un finale, di cui la morte di Faust è la prova generale. Freud, alla ricerca di un’immagine per la sua terapia, ideò la formula: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io». L’ambizione è l’ultimo progetto di Faust, il risanamento della riva, la creazione di nuovi Paesi Bassi. Un ironista goethiano nonostante il suo scientismo goethiano, Freud sapeva ciò che Faust sta ancora imparando alla fine, ossia la mentalità del capovolgimento: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io». Nel capovolgimento, Mefistofele e i suoi scagnozzi commettono un assassinio nel nome ecologico di Faust, e Faust sopporta errori edipici nel rimorso, anche se combatte contro Angoscia. Sbarazzandosi della magia, decidendo di opporsi a quest’ultima, decidendo di lottare da solo contro la natura, rifiutando ogni possibilità di trascendenza, il Faust moribondo (benché ignori di essere in punto di morte) inizia a divenire un uomo freudiano, abbracciando il principio della realtà. Con quell’abbraccio arriva l’ultima illusione idealistica, il prosciugamento dell’ultima palude, cosicché dove era l’Es, deve subentrare Faust. Mefistofele interviene con il suo insulto finale: i Lemuri spettrali sostituiscono gli operai, e il Faust cieco, udendo il rumore delle vanghe, non si rende conto che stanno scavando la sua fossa e non il suo miglioramento finale della natura. Spiriti virgiliani della notte e dei morti, i Lemuri sono semplici scheletri, se non addirittura mummie, e copiano la canzone del becchino dell’Amleto quando scava la tomba di Ofelia. Di fronte a quella musica sinistra, il rumore delle vanghe, e a quella malinconia amletica, Faust dà voce alla sua ultima, assurda illusione: «Ecco ch’io godo l’attimo supremo». Così dicendo, cade all’indietro fra le braccia dei Lemuri, che lo depongono a terra e lo seppelliscono. A giudicare dal linguaggio di Faust, la sua anima dovrebbe essere perduta, come pure la sua scommessa e quella di Dio.

Quella che segue è una commedia celebre e spaventosa, insaporita dall’irriverente e deliberato cattivo gusto del Goethe anziano. Mentre un Mefistofele disperato e ansioso deplora il fatto che oggi i patti non abbiano più valore, il diavolo e i suoi vili demoni vengono bombardati da una tempesta di rose angeliche. Continuando la lotta da solo, abbandonato dai suoi demoni minori, il diavolo infelice perde l’autocontrollo e viene sopraffatto da una cupidigia divina per le natiche degli angioletti. L’anima di Faust, la sua «parte immortale», viene portata in cielo dagli affascinanti fanciulli, e Mefistofele protesta giustamente per essere stato defraudato. Si tratta di un divertimento ottimo e osceno, e forse Goethe avrebbe dovuto mettere qui la parola fine. Invece, saccheggia e parodia il Paradiso di Dante, presentando a tutti i lettori successivi un supremo problema di prospettivismo. Che cosa dobbiamo fare di questa conclusione apparentemente cattolica a un dramma poetico per nulla cristiano? I Fanciulli beati e vari gradi di Angeli sono un tipo di entità, ma come deve reagire il lettore alla batteria celeste del Doctor Marianus e delle Penitenti che assistettero Gesù? Faust prenderà davvero dimora nei cieli danteschi come amorevole maestro di una schiera di Fanciulli beati? Oscar Wilde sta forse scrivendo questa conclusione in anticipo, oppure tutto ciò è l’ultima empietà di Goethe, il suo massimo insulto alle sensibilità normative? Se leggiamo con attenzione, è improbabile che giudichiamo la visione finale di Goethe come stranamente cristiana. Piuttosto, è ermetica e personale, ed eterodossa al massimo grado; ma anche la visione di Dante era così, finché la Chiesa cedette alla sua eccellenza e la canonizzò. Con grandissima abilità, Goethe emula Dante e contemporaneamente lo scavalca intronando in cielo più di una Beatrice personale. Neppure il Doctor Marianus è del tutto ortodosso: saluta la Vergine chiamandola, «regina nostra eletta, dei divini pari al fiore». La povera Greta, che si era pentita sulla terra e continua a pentirsi in cielo, viene accettata solo dalla Mater Gloriosa, cosicché Faust possa trarne insegnamento quando seguirà la sua amata verso le sfere superne. Ma quando abbiamo sentito dire che Faust si è pentito? È vero, Faust è morto, ma poiché aveva cent’anni, era ora che morisse. Impenitente, mai perdonato, dopo un’intera vita passata in combutta con il diavolo, Faust ascende a una salvezza istantanea, come si addice a chi porta un nome che significa «il favorito». Ciò è ingiusto, sicuramente non cattolico e non cristiana in qualsiasi accezione ortodossa. Goethe ha riunito con

sfacciataggine la mitologia cattolica e le strutture dantesche nel suo sistema mitopoietico, personale quanto quello di Blake, ma capace di cercare, anzi di stimolare, le autocontraddizioni con allegria assai maggiore. Se Faust si trova nelle sfere superne, è perché la religione del goethismo esoterico si è protesa a redimerlo. Quando il Faust, Parte seconda si avvia verso la sua conclusione, Cristo e il cristianesimo sono solo uno dei tanti fili di un contrappunto mitopoietico. Le ultime parole esprimono un puro tardoromanticismo erotico goethiano: «Femmineo eterno / trae al supremo». Dove? A indicare la strada a Faust non è stata la Vergine, bensì Margherita e Elena. A indicare la strada a Goethe era stata la sua grande sequenza di Muse, immortalate nella sua poesia lirica. Le coloriture cattoliche alla fine della Parte seconda non sono né più né meno che l’ennesimo esempio di controcanonico nel lungo trionfo del linguaggio e della personalità di Goethe.

PARTE TERZA L’ETÀ DEMOCRATICA

10. LA MEMORIA CANONICA NEL GIOVANE WORDSWORTH E IN PERSUASIONE DI JANE AUSTEN Alcuni musicologi affermano che i tre grandi innovatori nella storia della musica occidentale furono Monteverdi, Bach e Stravinskij, anche se questa affermazione è opinabile. La poesia lirica canonica occidentale mi sembra avere solo due figure di questo genere: Petrarca, che inventò la poesia rinascimentale, e Wordsworth, che si può considerare come l’inventore della poesia moderna, un continuum ormai da due secoli. Per usare i termini di Vico, cui ho fatto ricorso per organizzare il presente volume, Petrarca creò la poesia lirica dell’Età aristocratica, culminata in Goethe, mentre Wordsworth inaugurò la benedizione/maledizione della poesia nell’Età democratica e caotica, il che significa che le poesie «riguardano» il nulla. Il loro soggetto è il soggetto del poeta o della poetessa, manifestato come presenza o come assenza. Petrarca inventò ciò che John Freccero definisce la poesia dell’idolatria; come osserva William Hazlitt, Wordsworth ricominciò da capo su una tabula rasa della poesia e riempì quella lavagna vuota con l’io, o più precisamente con il ricordo dell’io. Nella seconda Età teocratica – che, seguendo Vico con preoccupazione, prevedo essere imminente – suppongo che la poesia accantonerà l’idolatria aristocratica e la memoria democratica per tornare a una funzione più ristretta, devozionale, anche se mi chiedo se l’oggetto della devozione continuerà a chiamarsi Dio. In ogni caso, Wordsworth è un inizio, sebbene, come tutti i grandi scrittori, fosse ossessionato da precursori eroici, primi fra tutti Milton e Shakespeare. Jane Austen può sembrare un’autrice bizzarra da inserire nello stesso capitolo di Wordsworth, ma era una sua contemporanea più giovane, nata cinque anni dopo; e sebbene Wordsworth le sia sopravvissuto per un terzo di secolo, tutta la sua poesia più vitale era stata composta prima che Austen cominciasse a pubblicare. Il cosmo letterario di Austen si incentrava sia sui suoi predecessori nell’ambito del romanzo (Samuel Richardson e Henry Fielding) sia sul dottor Johnson. Non sappiamo con certezza se l’autrice abbia letto Wordsworth più di quanto sappiamo con certezza se Emily Dickinson abbia mai letto Walt Whitman; vi sono tuttavia temi che i romanzi maturi di Austen, e in particolare il postumo Persuasione (1818), condividono con Wordsworth, motivo per cui ho scelto di affiancare la Austen matura al Wordsworth giovane, concentrandomi soprattutto su tre

delle sue poesie: The Old Cumberland Beggar (1797), The Ruined Cottage (1798) e Michael (1800). Wordsworth scrisse poesia più influente e persino più sublime nel suo Preludio epico e nella triade formata dalle grandi liriche della crisi, l’ode Intimations of Immortality, Tintern Abbey e Resolution and Independence. Nelle tre poesie che ho scelto vi tuttavia è una sorprendente intensità che neppure Wordsworth raggiunge altrove; più invecchio, e più quelle composizioni mi commuovono più di quasi qualsiasi altra poesia con il loro pathos squisitamente controllato e la loro dignità estetica nella rappresentazione della sofferenza umana individuale. Hanno un’aura che il giovane Wordsworth condivide solo con il Tolstoj maturo e con certi momenti di Shakespeare, un dolore universale e comune presentato con cruda semplicità e senza alcuna traccia di ideologia. Dopo l’inizio del XIX secolo, Wordsworth divenne un poeta più miltoniano, ma verso i trent’anni era stato molto shakespeariano, riscrivendo l’Otello in The Borderers e rilevando nei pazzi, negli accattoni, negli ambulanti e nei bambini alcune delle caratteristiche giobbiane del Re Lear. Ecco qui lo straordinario esordio di The Old Cumberland Beggar: Sul mio cammino vidi un vecchio mendicante; Ed era seduto, sul lato della strada, Su una bassa struttura di rozzi mattoni Eretta ai piedi di un enorme colle, affinché Coloro che conducono i loro cavalli giù per la ripida strada [accidentata Possano da lì rimontare senza fatica. Il vecchio Aveva deposto il suo bastone sulla larga pietra levigata Che si sovrappone al mucchio; e, da un sacco Tutto bianco di farina, l’elemosina delle donne del villaggio, Estrasse avanzi e frammenti, a uno a uno; E li studiò con sguardo fisso e serio Di pigro calcolo. Sotto il sole, Sul secondo gradino di quel piccolo mucchio, Circondato da quelle selvagge colline spopolate, Sedeva, e mangiava il suo cibo in solitudine: E sempre, sparse dalla sua mano paralitica, Che, pur tentando di evitare lo spreco, Non vi riusciva, le briciole cadevano a terra in piccoli scrosci; e i piccoli uccelli montani, non osando ancora beccare il pasto loro destinato, Si accostavano a distanza di metà del suo bastone.

Ricordo di aver commentato questo passo in un libro pubblicato quarant’anni fa (The Visionary Company, 1961), dicendo che il vecchio mendicante del Cumberland si distingueva da altri indigenti solitari di

Wordsworth perché non era il veicolo di una rivelazione; non stupisce il poeta regalandogli un momento privilegiato di visione. Ora credo di essere stato troppo giovane per capire, sebbene fossi un po’ più grande di quanto lo fosse Wordsworth quando scrisse quei versi. L’intera poesia, lunga quasi duecento versi, è una rivelazione secolare, una scoperta delle cose ultime. Se può esistere l’ossimoro di una pietà rivelata e tuttavia naturale, dev’essere questo: il vecchio mendicante e i piccoli uccelli montani, il sole sulla pila di mattoni, lo scroscio di briciole sparse dalla mano tremante. Questa è un’epifania, perché presenta a Wordsworth, e a noi, di fronte a un valore supremo, la dignità dell’essere umano nella sua versione più riduttiva e irriverente, il mendicante vecchissimo quasi inconsapevole della sua condizione. A differenza di un ritornello di He travels on, a solitary Man, la poesia descrive il mendicante come così anziano e decrepito che «al suolo / I suoi occhi sono volti e, mentre avanza, / Essi avanzano sul suolo». Qui, e in seguito, Wordsworth conferisce un’enfasi quasi estatica all’impotenza e decadenza fisica del mendicante, per rendere ancora più incisiva la forte argomentazione della poesia contro l’idea di confinare il vecchio in una «CASA impropriamente detta di LAVORO», una protesta profetica dell’attacco sferrato da Dickens agli ospizi di mendicità. Il vecchio «striscia» di uscio in uscio e costituisce una «testimonianza che lega insieme / Atti passati e uffici di carità, / Altrimenti dimenticati». Wordsworth lascia la prospettiva alla nostra scelta: interpretiamo questa decisione come grottesca, come una delle opere dell’amore, o come entrambe le cose? È difficile condividere la prospettiva del poeta ed è impossibile non ammirarla (anche se con un certo brivido): E poi che passi, e che sia benedetto! E nella solitudine vasta nella quale La marea delle cose lo ha gettato, Sembra respiri e viva per sé solo, Non biasimato né ingiuriato, e porti Ovunque il bene onde il benigno Cielo L’ha circonfuso: e finché vita è in lui, Che induca gli ignoranti campagnoli A dolci atti e ad attenti pensieri. – E poi che passi, e che sia benedetto! E, fin che può vagare, che respiri Il fresco delle valli; e che il suo sangue Combatta gelide arie e fresche nevi; E il vento che furioso spazza il caldo Gli frusti di riccioli grigi il volto stanco.

Per quasi tutti noi ciò è accettabile solo se il vecchio viene ora

interpretato sia come processo sia come persona. Wordsworth non allenta la tensione, esultando nel paradosso secondo cui il vecchio dev’essere aperto alla natura, che lo comprenda oppure no: Che sia libero in solitudini montane; Ed abbia attorno a sé, udita o meno, La melodia degli uccelli del bosco. Ben pochi i suoi piaceri: gli occhi suoi Da tanto sono avvezzi a stare a terra Che solo con sforzo ormai posson vedere Il volto del sole basso all’orizzonte, Che s’alzi o scenda; e che la luce almeno Abbia libero accesso a stanchi globi, E che egli possa, quando e dove voglia, Sedersi sotto gli alberi o sull’erba Al margine della strada, e con gli uccelli Divida il pasto avuto per fortuna; E che alla fine, come nell’occhio di Natura visse, Nell’occhio di Natura che egli muoia!

Questo passo sublime e peculiare si sposta da «che sia libero» a «che egli muoia» e, sul piano pragmatico, la libertà non può essere più della libertà di soffrire e morire all’aperto. Se ci riflettiamo, l’impatto di questa conclusione è notevole, finché concediamo alla metafora dell’«occhio di Natura» tutta la sua forza e portata. Non può essere solo il sole e non può nemmeno essere percepita solo tramite i sensi, perché ormai il vecchio non ci sente più e vede solo il terreno sotto i suoi piedi. Esaltare la volontà del vecchio sembra assurdo, ma è proprio ciò che fa Wordsworth, sebbene l’esercizio della volontà si riduca al dove e al quando il mendicante si ferma per mangiare. Ciò è tuttavia assolutamente intenzionale nel giovane Wordsworth: la dignità umana è indistruttibile, la volontà resiste, l’occhio della Natura è su di te dalla vita alla morte. Evitando il rischio del sentimentalismo, la poesia rasenta la possibilità della brutalità nella sua ricerca di una pietà naturale che si collochi al limite del soprannaturale. Qui è difficile sopravvalutare l’originalità di Wordsworth; l’alterità della mente poetica è la figura più grande creata dalla poesia, ed è l’alterità che mi è rimasta impressa nella mente in questi quarant’anni ogni volta che ripenso a The Old Cumberland Beggar. Robert Frost e Wallace Stevens, nelle loro poesie assai più spettrali dedicate alla vecchiaia – come An Old Man’s Winter Night di Frost e Long and Slugghish Lines di Stevens – riprendono qualcosa dell’alterità di Wordsworth, ma non tutte le sue eco. Quasi tutti i lettori che conoscono The Ruined Cottage, la storia di Margaret raccontata da Wordsworth, l’hanno letto nella sua forma definitiva

e rivista come libro primo di The Excursion (1815), un lungo poema frigido ad eccezione della povera Margaret. Wordsworth lavorò a The Ruined Cottage dal 1797; la versione migliore è chiaramente quella nota agli studiosi come Manoscritto «D» (1798), oggi facilmente reperibile nelle antologie Oxford e Norton della letteratura inglese, e il testo che userò qui. Il più grande ammiratore del poema continua a essere il suo primo ammiratore, Samuel Taylor Coleridge, che voleva separarlo da The Excursion e restituirgli un’esistenza indipendente come una delle più belle composizioni in lingua inglese. A distanza di duecento anni, The Ruined Cottage rimane un poema di una bellezza superlativa e di un’intensità quasi intollerabile. Ora, nelle varietà materialistica e neostoricistica della critica angloamericana – due strani miscugli di Marx e di Foucault –, vi è la tendenza a condannare Wordsworth perché, dopo aver accantonato il suo appoggio giovanile alla Rivoluzione francese, il poeta non rimase abbastanza politico. Nel 1797 Wordsworth era ormai uscito da una lunga crisi politica e psichica, e i suoi versi smisero di chiedere soluzioni politiche all’indigenza sociale. The Old Cumberland Beggar, The Ruined Cottage, Michael e altre poesie di Wordsworth che descrivono le sofferenze delle classi povere inglesi sono capolavori di compassione e profonda sensibilità, e solo gli ideologi più superficiali potrebbero rifiutarle per motivi politici. La nostra nuova genia di moralisti accademici dovrebbe riflettere sull’accoglienza riservata alle composizioni di Wordsworth da Shelley, politicamente il Lev Trotskij del suo tempo, o da radicali come Hazlitt e Keats. Shelley, Hazlitt e Keats compresero perfettamente che Wordsworth possedeva la miracolosa capacità di insegnare a provare compassione per chi vivesse in miseria. Se i nostri commissari del popolo accademici sapessero leggere, Wordsworth potrebbe umanizzarli, cosa che rappresenta il grande obiettivo di poesie come The Ruined Cottage. La storia di Margaret viene narrata a Wordsworth da un vecchio venditore ambulante, un amico del poeta, nei pressi di una casupola fatiscente, «quattro mura nude / che si fissavano a vicenda», con «un fazzoletto / Di orto ora inselvatichito». Quella che un tempo era la casa di Margaret, di suo marito Robert e dei loro due bambini è ora una scena desolata. Il Wanderer (come viene chiamato in The Excursion, e come lo chiamerò qui) riconosce un dolore personale in quell’abbandono, perché lui e Margaret si erano amati come padre e figlia. Bevendo a quella che era stata la sorgente di Margaret, il Wanderer affronta direttamente la perdita: Quando sostai per bere, Penzolava una tela di ragno sulla fonte,

E sull’umida soglia scivolosa Stava il frammento di una lignea ciotola. Mi toccò fino al cuore.

Forte ma stoico nel suo dolore, questo passo conduce a un eloquente sfogo di cordoglio paterno, biblico per dignità e intensità, come si addice al Wanderer, una figura patriarcale (nelle nostre università, l’aura «patriarcale» è ora così negativa da costringermi a precisare che uso questo termine nel contesto di quelle che la tradizione ebraica chiamava «le virtù dei padri», e in particolare di Abramo e Giacobbe). Ciò che udiamo è insieme una celebrazione e un lamento funebre per Margaret: Giorno ci fu Che mai potei passar da queste parti Senza che lei che qui viveva, al vedermi Un saluto di figlia mi diceva, e la amavo Quale mia figlia appunto. Ohimè, signore, Muoiono prima i buoni, mentre invece Chi abbia il cuore come polvere d’estate Brucia fino al pedale. Molti che passavano L’han benedetta per i dolci modi Con cui porgeva loro la frescura Attinta a questa fonte ora obliata, E tutti quanti erano i benvenuti, E mai nessuno cui non desse a vedere Che lo amava. Ma è defunta, I vermi nella guancia, e la capanna Priva del vezzo di comuni fiori, Di domestiche rose ed eglanterie, Offre ora al vento le svestite mura Sulla cui cima crescono erbacce, Crescono agropiri. Lei è defunta, Ortiche imputridiscono, e la vipera Si scalda al sole, dove sedevamo Assieme, e lei nutriva il bimbo al seno. Il puledro non ferrato e la giovenca Raminga e l’asinello del vasaio, Hanno rifugio adesso nella cappa Dove la piastra del suo focolare La sera ardeva, spandendo sulla strada Per la finestra la sua allegra luce. Perdonate, signore, ma assai spesso Sopra questa casupola rifletto Come su un quadro, finché la mia mente Cede all’insensatezza del dolore.

Per quanto Wordsworth sia lamentoso e indagatore, pochi dei suoi passi poetici riecheggiano come Ohimè, signore, Muoiono prima i buoni, mentre invece

Chi abbia il cuore come polvere d’estate Brucia fino al pedale.

Questi versi si impressero nella memoria di Shelley e divennero l’epigrafe del suo lungo poema, Alastor, dove si rivoltano implicitamente contro Wordsworth, che fu il padre poetico di Shelley. In The Ruined Cottage fungono da epitaffio per Margaret, che muore precocemente a causa della sua bontà, della forza della sua speranza, che è la parte migliore di lei, e che viene alimentata dal ricordo della sua bontà, della sua vita con il marito e con i figli prima della tragedia. Raccolti mancati, un’economia di guerra, l’indigenza e la disperazione allontanano il marito di Margaret, e la perenne volontà di sperare nel suo ritorno diviene la passione distruttiva che annienta Margaret e la sua famiglia. In nessun’altra opera della letteratura occidentale riuscirei a trovare qualcosa di simile all’intuizione wordsworthiana secondo cui il potere apocalittico della speranza, che deriva la sua forza dal ricordo benevolo, diviene più pericoloso di quanto possa esserlo la disperazione. Forse Lear muore neutralizzato dalla folle speranza che Cordelia sia viva, più che dalla realistica disperazione dovuta alla sua morte; ma Shakespeare sembra accontentarsi di lasciare la questione nell’ambiguità. Il povero Malvolio della Dodicesima notte, vittimizzato da crudeli burloni, viene ridotto a una cruda farsa dalla forza delle sue assurde speranze erotiche e sociali. Questi sono paralleli imperfetti alla missione compiuta da Wordsworth in The Ruined Cottage e altrove. Wordsworth rese canonico il suo particolare mito della memoria mediante una spaventosa comprensione dei pericoli di una speranza capace di distruggere la natura che è in noi. La sua speranza è più grande di Margaret, e più grande della maggior parte di noi. Potreste obiettare che la speranza di Margaret è una secolarizzazione della speranza protestante, che era funzione della volontà protestante. Quella volontà si incentrava sull’autostima della singola anima e sul relativo diritto al giudizio personale in ambiti spirituali, compresa l’affermazione della luce interiore, mediante la quale ogni uomo e ogni donna leggevano e interpretavano la Bibbia da soli. Dubito che quella secolarizzazione abbia mai avuto luogo nell’alta letteratura. Definire religiosa o secolare un’opera di sufficiente livello letterario è una decisione politica, non estetica. Margaret è tragica perché viene distrutta da quanto di meglio vi è in lei: speranza, memoria, fede, amore. La sua indole protestante, come l’esercizio della volontà protestante nelle eroine di Jane Austen, si può definire religiosa o secolare, ma la definizione scelta descriverà più voi che The Ruined Cottage

o Persuasione. Ciò che conta di Margaret è simile al motivo per cui ci lasciamo commuovere così profondamente dall’atteggiamento di Wordsworth nei confronti del vecchio mendicante del Cumberland, oppure dalla maestosa e formale sofferenza dell’anziano pastore in Michael, la poesia che reca il suo nome. Nel suo dramma shakespeariano, The Borderers (1795-96), un successo tutt’al più opinabile, Wordsworth attribuisce stranamente a Oswald, un personaggio simile a Iago, alcuni versi straordinari che formano il credo di tutta la sua produzione poetica giovanile. Rivolgendosi all’eroe, un credulone simile a Otello, Oswald trascende la situazione, il dramma e la propria visione in uno sfogo giacobita di cui Shakespeare si sarebbe appropriato volentieri: Azione è transitoria – un passo, un colpo, Un muscolo contratto messo in moto, Dopo di che, nell’inerzia che segue, Siamo stupiti, quasi fossimo traditi: Sofferenza è perenne, oscura, buia, E ha dell’infinito la natura.

Forse Shakespeare avrebbe giudicato quei versi più adatti a Macbeth che a Iago, ma il nichilismo implicito si addice a entrambi gli antieroi, e anche a Edmund. Wordsworth avrebbe contestato la mia scelta di accostare questi versi alle sue descrizioni dell’innocenza sofferente, ma il vigore poetico della sua produzione giovanile ha poco a che fare con la consolazione o con l’interesse per l’importanza del dolore. The Ruined Cottage è straziante perché evita il conforto, come avviene qui, al culmine della storia di Margaret: Intanto la sua povera capanna Cadde in rovina, ché se n’era andato Colui che ai primi geli dell’ottobre Chiudeva ogni fessura e con la paglia Fresca riscrezïava il tetto vegetato. E lei così viveva il lungo inverno, Incauta e sola, finché la casa infranta Da gelo, da rugiada, dalla pioggia, Non fu prostrata; e quando lei dormiva L’umida notte le gelava il petto, E nei giorni in cui soffiava la tempesta Le sue lacere vesti il vento sbandierava Persino accanto al fuoco. Pure ancora Amava questo sito rovinato, e a nessun prezzo Se ne sarebbe dipartita; e ancora La lunga strada e questa dura panca Un’afflitta speranza pur nutriva,

Ben radicata lì, dentro il suo cuore. E qui, o mio amico, finì per ammalarsi, E qui morì, lei, ultimo inquilino Umano delle mura rovinate.

Come il vecchio mendicante del Cumberland, Margaret muore sotto l’occhio della Natura, con un vento impetuoso libero di investirla. La grandezza della poesia si riassume nella forte reazione di Wordsworth al racconto del Wanderer: Il vecchio tacque: commosso mi vedeva. Da quella panca, per istinto alzandomi, Mi allontanai, debole, senza forza Di ringraziarlo per il suo racconto. Stetti, e guardando l’orto oltre il cancello, Rievocai della donna i patimenti, Ed ebbi così facendo l’impressione Di confortarmi di fraterno amore, Col benedirla nel vano dolore.

Questa non è una benedizione biblica, perché quella implicava la promessa di altra vita, di infinite generazioni, e sarebbe difficile dire che tipo di benedizione possa dare «il vano dolore». Wordsworth è un poeta così originale da rischiare l’ossimoro di una benedizione impotente, sapendo che sembra una contraddizione. The Borderers è shakespeariano, proprio come il Preludio è miltoniano, ma prima di Wordsworth non vi sono poesie strane e spoglie come The Old Cumberland Beggar e The Ruined Cottage. La distruzione causata dalla speranza è l’insistente ansia wordsworthiana, ed esitiamo ancora quando dobbiamo interpretare una rovina così antitetica. Wordsworth inventò la poesia moderna o democratica proprio come Petrarca aveva inaugurato la poesia rinascimentale. C’è sempre qualche ombra, anche nei poeti più vigorosi e originali; Petrarca era ossessionato da Dante, proprio come Wordsworth, nella sua fase principale, non riuscì mai a dimenticare Milton. Qui la profezia di Vico è, ancora una volta, illuminante: l’Età teocratica esalta gli dei, l’Età aristocratica celebra gli eroi, l’Età democratica piange e apprezza gli esseri umani. Per Vico non vi era alcuna Età caotica, ma solo un Caos durante il quale sarebbe iniziato il ritorno a un’Età teocratica. A mio giudizio, il nostro secolo ha conservato il Caos come una reliquia nel tenace tentativo di posporre (speriamo a lungo) una nuova Età teocratica. Dopo dei, eroi ed esseri umani rimangono solo i cyborg, ed è con profonda preoccupazione che guardo muscolosi Terminator intenti a escludere l’umano. The Ruined Cottage è una poesia molto tetra, ma oggi sembra una felice consolazione, un grido umano contro il Caos e contro il

ritorno alle rigidità teocratiche. Che cosa avrà cercato di fare Wordsworth per se stesso, come poeta, scrivendo The Ruined Cottage? Riprendo questa domanda da Kenneth Burke, che ci ha insegnato a chiederci sempre: che cosa ha cercato di fare lo scrittore per se stesso, come persona, scrivendo questa poesia, questo dramma o questo racconto? Essendo un poeta, Wordsworth cercò di creare il gusto mediante il quale gli altri potessero apprezzarlo, perché nessuno scrittore centrale – neppure Dante – era così deciso a universalizzare il suo temperamento altamente individuale. Lo spirito di Wordsworth era aperto all’alterità sia umana sia naturale, come forse non si può dire di nessun altro poeta precedente e successivo. Hazlitt colse questa verità alla perfezione in un confronto del 1828 tra Wordsworth e Byron, quattro anni dopo la morte del secondo e molti anni dopo lo spaventoso indebolimento poetico di Wordsworth (che purtroppo continuò dal 1807 al 1850, la più lunga agonia di un grande genio poetico nella storia). Dopo aver formulato un interrogativo astuto e maligno sul Lord Byron maturo («Con il suo orgoglio per il lignaggio, non aveva la curiosità di esplorare l’araldica dell’intelletto?»), Hazlitt confronta Wordsworth e Byron, che non aveva mai smesso di preferire Pope a Wordsworth: «L’autore delle Ballate liriche descrive il lichene sulle rocce, la felce appassita, con un peculiare sentimento che prova nei loro confronti: l’autore del Pellegrinaggio del giovane Aroldo descrive il cipresso solenne o la colonna crollata con il sentimento che qualsiasi scolaretto prova nei loro confronti». All’origine di The Old Cumberland Beggar e di The Ruined Cottage vi sono alcuni sentimenti molto particolari, difficili da tradurre in termini normativi. L’unicità di Wordsworth è racchiusa nella capacità di trasformare quei curiosi sentimenti in una poesia universalmente disponibile, più o meno come desiderava il Tolstoj maturo. La scelta opportuna di lasciar morire un vecchio mendicante come ha vissuto, sotto l’occhio della Natura; il terribile pathos di Margaret, una contadina del tutto umana e amabile, distrutta dalla sua capacità di ricordo e speranza, questi sono temi accessibili a ogni coscienza umana e a ogni età, a prescindere dal sesso, dalla razza, dall’ideologia e dalla classe sociale. Condannare Wordsworth per non aver scritto versi di protesta politica e sociale, o per aver disertato la rivoluzione, equivale a superare l’ultimo spartiacque tra l’arroganza accademica e il compiacimento morale. Oltre quello spartiacque ci servono un nuovo Dickens che descriva l’ipocrisia e un nuovo Nietzsche che racconti l’uomo o

la donna del ressentiment, la cui «anima guarda con gli occhi socchiusi». Michael (1800) è la grande poesia pastorale di Wordsworth e l’archetipo delle composizioni più valide e caratteristiche che associamo con Robert Frost. Il poeta di The Death of the Hired Man possiede la capacità di rappresentare un pathos umano primordiale, ma non sulla scala wordsworthiana, che sfida persino la capacità del Jahwista di sfiorare i limiti dell’arte. Il Michael di Wordsworth, un patriarca biblico ancora ricco di forza e vigore nonostante i suoi ottant’anni, è un pastore che ha «imparato il significato d’ogni vento, / Di folate d’ogni tono». Le tempeste lo spingono tra i monti per salvare i greggi, e la solitudine lo esalta in maniera memorabile: «Era stato solo / Dentro il cuore di mille e mille nebbie, / Che a lui venivano e andavan sulle cime». Il suo unico figlio, Luke, nato quando Michael era già avanti negli anni e allevato come pastore, è il centro dell’esistenza di suo padre. La necessità economica lo costringe a mandare via il ragazzo per qualche tempo, perché si guadagni da vivere con un parente in città. Raccontare la trama della poesia in questi termini significa attirarsi la satira della mia opera cinematografica preferita, il demonico Fatal Glass of Beer di W.C. Fields, in cui il figlio di Fields, lo spaventoso Chester, va nella grande città e viene convinto da alcuni universitari a bere il fatale bicchiere di birra. Subito ubriaco, Chester fa a pezzi il tamburello di una ragazza dell’Esercito della salvezza, una sgambettante ballerina di fila convertita. Profondamente offesa, la giovane sfrutta la sua esperienza e stende Chester con una sola sgambata. L’episodio spinge inesorabilmente Chester verso una vita da criminale e verso l’uccisione finale per mano di Paw e Maw Snavely, cioè W.C. Fields e signora. Luke non è lontano da Chester, ma il sublime Michael, prima della partenza di Luke, esige che il ragazzo collochi un’unica pietra per iniziare a costruire un nuovo ovile, che il padre completerà in assenza del figlio, come patto tra i due. Dopo che il ragazzo è caduto dalla virtù ed è fuggito in un Paese lontano, ci viene offerta una memorabile visione di dolore e insieme di aspro rimprovero: Nella forza dell’amore vi è un conforto: Esso vuole una cosa duratura, ché altrimenti Turba la mente oppure spezza il cuore: Ho conversato con molti che assai bene Ricordano quel vecchio, e ciò che era Anni dopo che udì la triste nuova. Da gioventù a vecchiaia il suo gran corpo Era stato d’insolita possanza. Tra le rocce

Andava, alzando gli occhi a sole e nubi, Ed il vento ascoltava; e, come prima, Faceva ogni lavoro per le agnelle E per la terra, suo piccolo retaggio. E alla valletta spesso egli tornava, L’ovile a costruire per il gregge. Non ancora obliata è la pietà In quel tempo nutrita in ogni cuore Per l’attempato – e tutti sono certi Che molti e molti dì tornò alla valle Senza mai sollevare un solo sasso.

L’ultimo verso di questo passo è stato ammirato da Matthew Arnold ai wordsworthiani sopravvissuti all’attuale crollo delle accademie; ma, benché sia un verso straordinario, preferisco l’ultimo paragrafo della poesia, che sfida la nostra memoria come una quercia solitaria: Lì all’ovile a volte lo vedevi Seduto solo, col fedele cane Accanto, vecchio, disteso ai suoi piedi. Per sette lunghi anni, ad intervalli, L’ovile si è affannato a costruire, E lo lasciò incompleto alla sua morte. Tre anni, o poco più, a suo marito Sopravvisse Isabel: e alla sua morte È finito il podere in mani estranee. La casa detta STELLA DELLA SERA È scomparsa – l’aratro ha rovesciato La terra su cui stava; assai mutato È questo posto – ma la quercia resta, Cresciuta al loro uscio, e ancora vedi I resti dell’ovile mai finito Presso il ruscello di Ghyll Testaverde.

Quando ero più giovane, credevo che la memoria fosse equamente divisa tra piacere e dolore, e pensavo di ricordare alla lettera le poesie più inevitabili in termini di enunciazione e più gradevoli in termini di qualità ipnotiche. All’inizio della vecchiaia, mi ritrovo a convenire con Nietzsche, che tendeva a mettere il memorabile e il doloroso sullo stesso piano. Un piacere più difficile può essere doloroso, come ora sono convinto che Wordsworth avesse compreso con chiarezza. Vi è una strada che porta dalla volontà protestante all’immaginazione compassionevole di Wordsworth e che spiega alcune delle curiose affinità tra Wordsworth e Persuasione di Jane Austen commentate in questo capitolo. Il patto di Michael, rispettato verso la natura ma infranto da Luke, è un esercizio della volontà protestante, che cerca di imprimersi nella memoria. I suoi emblemi alla fine di Michael sono la quercia solitaria e le pietre grezze dell’ovile incompiuto.

A differenza di Austen (che simboleggiava un’epoca precedente), Wordsworth non gradiva i lieti fini, perché, nella sua produzione, la metafora del matrimonio non è legata tanto all’unione tra uomo e donna quanto al rapporto tra ciò che il poeta chiama «natura» e la sua «mente attenta». La natura, in Wordsworth, è il grande persuasore, e la persuasione comporta che la perdita empirica a favore del miglioramento immaginativo. In The Old Cumberland Beggar, il miglioramento è un’euforia difficile da accettare, ma anche difficile da dimenticare. The Ruined Cottage si conclude con una benedizione che è solo perdita, ma che resta spaventosamente memorabile, e anche Michael si chiude con una visione di perdita assoluta. L’unica cosa regalataci dalle tetre ma sublimi poesie pastorali di Wordsworth è la memoria canonica, «canonica» perché Wordsworth ha eseguito la selezione al nostro posto. Si propone a noi come un Ermes che ci dirà cosa e come ricordare, non per salvarci o per renderci più saggi e prudenti, ma perché solo il mito della memoria può riparare alle nostre perdite empiriche. La sua lezione, una volta imparata, fu canonica: sopravvisse in George Eliot, in Proust (tramite la figura mediatrice di Ruskin) e in Beckett, il cui Ultimo nastro di Krapp può essere considerato come l’ultima posizione di Wordsworth. E sopravvive ancora, persino in questo triste periodo in cui la memoria canonica è minacciata da aggressive moralizzazioni e da un’ignoranza erudita. «Persuasione» è una parola che deriva dal latino e vuol dire «convincere» o «esortare», raccomandare che è giusto compiere o non compiere una determinata azione. La radice del vocabolo significa «dolce» o «piacevole», e dunque la bontà dell’azione compiuta o non compiuta ha una componente di gusto anziché di giudizio morale. Jane Austen scelse questo termine come titolo dell’ultimo romanzo che portò a termine, un titolo che evoca più Ragione e sentimento o Orgoglio e pregiudizio che Emma o Mansfield Park. Non udiamo il nome di una persona, di una casa o di una proprietà, bensì quello di un’astrazione, in questo caso di una singola astrazione. Il titolo si riferisce innanzi tutto alla persuasione dell’eroina, la diciannovenne Anne Elliot, da parte della sua madrina, Lady Russell, a non sposare il capitano Frederick Wentworth, un giovane ufficiale della Marina. Questo è, come emerge in seguito, un pessimo consiglio, cui Anne e il capitano Wentworth pongono rimedio otto anni dopo. Come in tutte le commedie ironiche di Austen, la vicenda si conclude felicemente per la protagonista. Tuttavia, ogni volta che finisco di rileggere questo romanzo perfetto, mi sento pervadere

dalla tristezza. Questo non sembra essere un mio capriccio personale; quando chiedo ad amici e studenti quale impressione abbiano riportato dal libro, accennano spesso a una tristezza che associano anche loro più a Persuasione che a Mansfield Park. Anne Elliot, una creatura dall’eloquenza pacata, è un personaggio sicuro di sé, per nulla smarrito, e il suo senso dell’io non vacilla mai. Non è la sua tristezza quella che proviamo alla fine del libro: a lasciare il segno su di noi è la cupezza del romanzo. La tristezza alimenta quella che definirei la persuasività canonica dell’opera, il suo modo di rivelarci la sua straordinaria distinzione estetica. Persuasione è, tra i romanzi, ciò che Anne Elliot è tra i personaggi romanzeschi: una lacchè forte ma sottomesso. Il libro e il personaggio non sono coloriti né vivaci; la Elizabeth Bennet di Orgoglio e pregiudizio e la Emma Woodhouse di Emma possiedono un brio che all’inizio sembra mancare in Anne Elliot, e forse è questo che Austen intendeva definendo Anne «quasi troppo buona per me». In realtà, Anne è quasi troppo impalpabile per noi, ma non per Wentworth, che è sulla sua stessa misteriosa lunghezza d’onda. Juliet McMaster sottolinea: «il tipo di comunicazione indiretta che ha costantemente luogo tra Anne Elliot e il capitano Wentworth, una comunicazione in cui, sebbene si rivolgano la parola di rado, l’uno comprende sempre la piena portata del discorso dell’altro meglio di quanto facciano i loro interlocutori». In Persuasione, questo genere di comunicazione scaturisce da un profondo «affetto», una parola che Austen preferisce ad «amore». Nella sua produzione, l’«affetto» tra uomo e donna è l’emozione più profonda e duratura. A mio parere, non è esagerato affermare che Anne Elliot, per quanto sottomessa, è la creazione per cui Austen deve aver provato l’affetto più intenso, perché riversò su di lei le sue doti. Secondo Henry James, il romanziere dev’essere una sensibilità cui non sfugge assolutamente nulla; secondo questo criterio di valutazione (chiaramente limitato), solo Austen, George Eliot e James, tra tutti gli scrittori in lingua inglese, si unirebbero a Stendhal, Flaubert e Tolstoj in un pantheon piuttosto esiguo. Anne Elliot può benissimo essere l’unico personaggio di tutta la narrativa in prosa cui non sfugge nulla, anche se non corre il rischio di trasformarsi in romanziera. Il giudizio più accurato su Anne Elliot che mi sia capitato di leggere è quello di Stuart Tave: Nessuno sente Anne, nessuno la vede, ma è sempre lei a essere al centro. È attraverso i suoi occhi, la sua mente e le sue orecchie che ci interessiamo a quanto accade. Se nessuno è consapevole di lei,

Anne è consapevole di tutti gli altri e percepisce quanto succede mentre ignorano se stessi […] legge nella mente di Wentworth, con i guai futuri che quest’ultimo causerà a se stesso e agli altri, prima che le loro conseguenze gli aprano gli occhi.

I pericoli estetici impliciti in un simile modello sono evidenti: come fa un romanziere a rendere persuasivo un personaggio come questo? Nell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom è straordinariamente persuasivo perché è una persona completa, il principale obiettivo di Joyce. Lo stile ironico di Austen non impedisce la rappresentazione della completezza, anche se non accompagniamo i suoi personaggi in camera da letto, in cucina o al bagno. In Persuasione, Austen eleva ad apoteosi ciò che ha parodiato in Ragione e sentimento: la sublimità di una sensibilità particolare, isolata interiormente. Anne Elliot non è certo l’unica figura di Austen che possieda un cuore comprensivo. La sua particolarità è l’acutezza quasi soprannaturale della percezione degli altri e dell’io, senza dubbio la qualità che distingue Austen come romanziera. Anne Elliot è, per la produzione di Austen, ciò che la Rosalinda di Come vi pare è per quella di Shakespeare: il personaggio che raggiunge quasi la padronanza della prospettiva accessibile solo al romanziere o al drammaturgo, a meno che non si voglia che il romanzo o il dramma perdano tutta la qualità drammatica. C.L. Barber sottolinea questa limitazione in un commento memorabile: Il drammaturgo tende a mostrarci una cosa alla volta, e a capire appieno quell’unica cosa nel suo momento; i suoi personaggi, siano essi comici o seri, giungono ai limiti estremi; e nessun personaggio, neppure una Rosalinda, è in condizioni di vedere tutt’intorno al dramma, e dunque di essere in perfetto equilibrio, perché, se così fosse, il dramma cesserebbe di essere drammatico.

Vorrei capovolgere l’affermazione di Barber: persino più di Amleto e di Falstaff, o di Elizabeth Bennet, o della Fanny Price di Mansfield Park, Rosalinda e Anne Elliot sono in equilibrio quasi perfetto, quasi capaci di vedere tutt’intorno al dramma e al romanzo. Il loro equilibrio non può trascendere del tutto il prospettivismo, ma l’arguzia di Rosalinda e la sensibilità di Anne, entrambe equilibrate e libere da un’eccessiva aggressività o da un esagerato atteggiamento difensivo, permettono loro di condividere l’equilibrio dei loro creatori più di quanto riusciremo mai a fare noi. Austen non perde mai l’intensità drammatica; noi condividiamo infatti l’ansia di Anne circa le rinnovate intenzioni di Wentworth fino alla conclusione del romanzo. Tuttavia, facciamo affidamento su Anne come dovremmo fare affidamento su Rosalinda; se i critici riponessero maggiore fiducia nelle reazioni di Rosalinda a tutti gli altri personaggi e a se stessa, vedrebbero il carattere stantio di Touchstone con la stessa chiarezza con cui vedono la vanità di Jacques. Le reazioni di Anne Elliot hanno la stessa

affascinante autorità; dobbiamo sforzarci di dare alle sue parole il peso che non viene allargato dagli altri personaggi del romanzo, ad eccezione di Wentworth. La tesi di Stuart Tave è corretta quanto quella di Barber, anche quando la giriamo nell’altra direzione; l’ironia di Austen è molto shakespeariana. Persino il lettore deve cadere nell’errore iniziale di sottovalutare Anne Elliot. L’arguzia di Elizabeth Bennet o di Rosalinda è più facile da apprezzare di quanto non lo sia l’accurata sensibilità di Anne Elliot. Il segreto del suo personaggio unisce l’ironia austeniana e un senso wordsworthiano di speranza procrastinata. Austen possiede una buona dose dell’ineguagliabile capacità shakespeariana di presentarci personaggi, sia principali sia secondari, del tutto coerenti nel loro stile di discorso, eppure del tutto diversi l’uno dall’altro. Anne Elliot è l’ultima delle eroine di Austen a rappresentare quella che, secondo me, dovremmo chiamare volontà protestante, ma in lei la volontà viene modificata, o forse perfezionata, dalla sua discendente, la compassionevole immaginazione romantica, di cui Wordsworth, come abbiamo visto, fu il profeta. È forse questo che contribuisce a rendere Anne un personaggio così complesso e sensibile. Le precedenti eroine di Jane Austen, di cui Elizabeth Bennet costituisce l’esempio tipico, manifestavano la volontà protestante come dirette discendenti della Clarissa Harlowe di Samuel Richardson, con il dottor Samuel Johnson che aleggiava là intorno come autorità morale. La critica marxista considera inevitabilmente la volontà protestante, anche nelle sue manifestazioni letterarie, come una questione commerciale, e ora va di moda parlare delle realtà socioeconomiche che Jane Austen esclude, per esempio la schiavitù nelle Indie Occidentali, componente fondamentale della sicurezza economica di cui godono gran parte dei suoi personaggi. Ma tutte le opere letterarie compiute si fondano su esclusioni, e nessuno ha dimostrato che una maggiore coscienza del rapporto tra cultura e imperialismo aiuti anche solo in minima parte a leggere Mansfield Park. Persuasione termina con un tributo alla Marina britannica, in cui Wentworth occupa un posto onorevole. Senza dubbio il Wentworth che, in mare, ordina l’ultima serie di frustate disciplinari non è piacevole quanto il Wentworth che, sulla terraferma, apprezza con garbo le gioie dell’affetto con Anne Elliot. Ancora una volta, tuttavia, quella di Austen è una grande arte fondata su esclusioni, e le squallide realtà del potere marittimo britannico non influiscono su Persuasione più di quanto la schiavitù delle Indie Occidentali influisca su Mansfield Park. Austen era

tuttavia molto interessata alle conseguenze pragmatiche e secolari della volontà protestante, e queste ultime mi sembrano un elemento cruciale per giudicare le eroine dei suoi romanzi. L’interiorità shakespeariana di Austen, che culmina in Anne Elliot, rivede le intensità morali del martirio protestante secolarizzato di Clarissa Harlowe, la sua lenta agonia dopo essere stata violentata da Lovelace. A spegnere la voglia di vivere della protagonista è la voglia, ancora più forte, di conservare l’integrità del proprio essere. Se cedesse a un Lovelace pentito e lo sposasse, comprometterebbe l’essenza del suo essere, l’esaltazione della sua volontà violata. Austen trasforma in commedia ironica ciò che in Clarissa è tragedia, ma questa conversione non altera la pulsione della volontà a conservare se stessa. In Persuasione, l’accento cade su un voluto scambio di stima, in cui l’uomo e la donna giudicano elevato il valore dell’altro. Ovviamente, le considerazioni esteriori di ricchezza, decoro e posizione sociale sono qui elementi fondamentali, ma lo stesso vale per le considerazioni interiori di amabilità, cultura, arguzia, affetto e assennatezza. In un certo senso (e mi dispiace dirlo, perché sono un emersoniano convinto), Ralph Waldo Emerson anticipò l’attuale critica marxista di Austen quando definì la scrittrice una semplice conformista che non voleva permettere alle sue eroine di raggiungere la vera libertà dell’anima dalle convenzioni sociali. Ciò significa tuttavia fraintendere Jane Austen, che sapeva che la funzione della convenzione era liberare la volontà, anche se la tendenza della convenzione era soffocare l’individualità, senza la quale la volontà perde il suo valore. Le principali eroine di Austen – Elizabeth, Emma, Fanny e Anne – possiedono una tale libertà interiore che la loro individualità non può essere repressa. L’arte di Austen come romanziera non coincide con un’eccessiva preoccupazione per la genesi socioeconomica di questa libertà interiore, sebbene il livello di ansia cresca in Mansfield Park e in Persuasione. In Austen, l’ironia diviene lo strumento dell’inventiva, quella che il dottor Johnson definiva l’essenza della poesia. Una concezione della libertà interiore incentrata sul rifiuto di accettare la stima, se non da una persona cui si sia concessa la propria stima, si pone al massimo livello di ironia. La suprema scena comica in tutta la produzione austeniana è il rifiuto da parte di Elizabeth della prima proposta di matrimonio fattale da Darcy, dove le ironie della dialettica della volontà e della stima diventano quasi irriverenti. Questa commedia alta, che prosegue in Emma, viene in parte smorzata in Mansfield Park, per poi divenire qualcosa d’altro, qualcosa di inconfondibile ma di

indefinibile, in Persuasione, dove Austen è divenuta una maestra così cosciente da dare l’impressione di aver cambiato la natura della volontà, come se anche quest’ultima potesse essere persuasa a trasformarsi in un atto più raro, e più indifferente, dell’io. Nessuno ha avanzato l’ipotesi che, in Persuasione, Jane Austen diventi una scrittrice tardoromantica; il suo poeta continuò a essere William Cowper, non Wordsworth, e il suo scrittore di prosa preferito fu sempre il dottor Johnson. La sua profonda diffidenza verso l’immaginazione e l’«amore romantico», così predominante nei suoi primi romanzi, cessa tuttavia di essere un fattore cruciale in Persuasione. Anne e Wentworth mantengono l’affetto reciproco durante otto anni di disperata separazione, e ciascuno dei due ha la forza immaginativa necessaria per concepire una trionfale riconciliazione. Questo è materiale per una storia d’amore, non per un romanzo ironico. Le ironie di Persuasione sono spesso caustiche, ma non colpiscono quasi mai Anne Elliot e solo di rado il capitano Wentworth. Vi è un rapporto difficile tra la tendenza di Austen a reprimere la sua tipica ironia verso i suoi protagonisti e una certa nota lamentosa, prima inaudita ma ora ben presente in Persuasione. Pur essendo sicura di sé, Anne è molto vulnerabile all’ansia, sempre inespressa, riguardo a una vita non vissuta, in cui la potenziale perdita trascende ma include l’inappagamento sessuale. Ricordo un solo critico, l’australiana Anne Molan, che sottolinei quanto Austen sottintende con energia, cioè il fatto che «Anne […] è una donna appassionata. E contro la sua volontà, il suo cuore continua ad affermare un’esigenza di realizzazione». Avendo negato la sua stima a Wentworth otto anni prima, Anne sente la necessità di nascondere la sua volontà, e diviene così la prima eroina austeniana in cui volontà e immaginazione sono antitetiche. Sebbene l’evidente predilezione di Austen vada all’Età aristocratica, in Persuasione la sua autenticità di scrittrice le diede un’energica spinta verso la fiorente Età democratica, o Romanticismo, come eravamo abituati a chiamarlo. Non vi è nessuna guerra civile nella psiche di Anne Elliot o in Austen, ma vi è la tristezza emergente di uno scisma dell’io, con la memoria che si schiera dalla parte dell’immaginazione in un’alleanza contro la volontà. Gene Ruoff rileva il potere quasi wordsworthiano della memoria sia in Anne sia nel capitano Wentworth. Poiché Austen era tutto fuorché una romanziera per caso, possiamo chiederci perché abbia scelto di fondare Persuasione su una reciproca nostalgia. Dopo tutto, il Wentworth respinto è

ancora meno incline di Anne a desiderare un affetto rinnovato, tuttavia la fusione di memoria e immaginazione trionfa anche sulla sua volontà. Questo fu forse un rilassamento della volontà nella stessa Jane Austen? Poiché, in Sanditon – il suo romanzo incompiuto iniziato dopo il completamento di Persuasione – Austen torna al suo stile precedente, può darsi che la storia di Anne Elliot sia stata, per lei, una digressione o un atto di indulgenza. I paralleli tra Wordsworth e Persuasione sono limitati ma reali. In Inghilterra, i romanzi tardoromantici, sia quelli del filone byroniano come Jane Eyre o Cime tempestose sia quelli del filone wordsworthiano come Adam Bede, sono uno sviluppo decisamente successivo. L’ethos dell’eroina austeniana non cambia in Persuasione, ma Anne è senza dubbio un essere più problematico, con una vena di nuova tristezza riguardo ai limiti della vita. Può darsi che l’elegante pathos cui talvolta aspira Persuasione sia legato alle cattive condizioni di salute della scrittrice, cariche di presagi di una morte prematura. Confrontando Wordsworth e Austen, Stuart Tave nota con acume che erano entrambi «poeti del matrimonio» e che possedevano entrambi «un senso del dovere compreso e profondamente sentito da coloro che considerano la pace e l’integrità della loro esistenza come essenzialmente legate alla vita degli altri e vedono la vita di tutti in un ordine più che puramente sociale». Ampliando l’intuizione di Tave, Susan Morgan ha attirato l’attenzione sulla particolare affinità tra Emma di Austen e la grande Ode: Intimations of Immortality from Recollections of Earliest Childhood di Wordsworth. La crescita della coscienza individuale, che comporta sia un guadagno sia una perdita per Wordsworth, ma solo un guadagno per Austen, è un argomento comune a entrambi. La coscienza di Emma si sviluppa senza dubbio, e l’eroina subisce una trasformazione pressoché wordsworthiana, passando da piaceri quasi solipsistici ai piaceri più difficili della compassione verso gli altri. Anne Elliot, assai più matura fin dall’inizio, non ha bisogno di una crescita della coscienza. Il rifiuto di Wordsworth, una decisione rimpianta per lungo tempo, la isola dal carattere distruttivo della speranza, che, come abbiamo visto, è il principale accento del giovane Wordsworth, soprattutto nella storia della povera Margaret. Invece della speranza, vi è un complesso di emozioni, espresso da Austen con la sua consueta abilità: Come avrebbe saputo essere eloquente Anne Elliot! Quanto era eloquente, perlomeno, il desiderio di un affetto giovanile profondo, di una fiducia allegra nel futuro, contro la cautela troppo ansiosa che pareva un insulto all’attività e una sfiducia nella Provvidenza! Era stata costretta alla prudenza da giovane e perciò si era imbevuta di romanticismo con gli anni; il seguito naturale di un inizio

innaturale.

Qui imparare l’amore romantico è un gesto del tutto retrospettivo; Anne ritiene che non le sia più accessibile. In effetti, Wentworth torna, ancora pieno di risentimento dopo otto anni, e pensa che il potere di Anne su di lui sia svanito per sempre. Le qualità di sicurezza e determinazione che lo rendono un magnifico ufficiale della Marina sono proprio ciò di cui critica la mancanza in Anne. Con un’abilità quasi troppo meticolosa, Austen ripercorre il suo graduale allontanamento da questa posizione, man mano che il potere della memoria accresce la sua influenza su Wentworth e quest’ultimo comprende che la sua convinzione, secondo cui Anne sarebbe incapace di agire, è del tutto errata. Vedo una splendida ironia nel fatto che Wentworth debba sottoporsi a un processo di autopersuasione mentre Anne aspetta, senza neppure sapere di aspettare e senza rendersi conto dell’esistenza di qualcosa che potrebbe riaccendere le sue speranze. La comicità di questa situazione è insieme dolce e triste, perché anche il lettore aspetta, riflettendo su quanto peso abbia la contingenza nella questione. Se i presocratici e Freud concordano nel ritenere che non esistono eventi fortuiti, Austen la pensa in maniera diversa. Anche per lei il carattere è destino, ma il destino, una volta messo in moto, tende a eludere il carattere in un contesto sociale sovradeterminato come il mondo di Austen. Pur ricordando il lieto fine, quando rileggo Persuasione, provo ansia quando Wentworth e Anne si allontanano loro malgrado. Il lettore non è del tutto persuaso che possa esservi un dialogo soddisfacente finché Anne legge la straziante lettera di Wentworth: Non posso più ascoltare in silenzio. Debbo parlarvi con i mezzi che sono a mia disposizione. Mi straziate l’animo. Sono per metà in agonia e per metà pieno di speranza. Ditemi che non giungo troppo tardi, che sentimenti così preziosi non sono spariti per sempre. Mi offro di nuovo a voi con un cuore ancor più vostro di quando l’avete quasi spezzato, otto anni e mezzo fa. Non osate dire che un uomo dimentica più presto di una donna, che il suo amore ha una fine più prematura. Ho amato soltanto voi. Posso essere stato ingiusto; sono stato debole e risentito, mai incostante, però. Voi sola mi avete fatto venire a Bath. Per voi sola io penso e faccio progetti. Non l’avete notato questo? Possibile che non abbiate compreso i miei desideri? Non avrei atteso neppure questi dieci giorni se avessi potuto conoscere i vostri sentimenti, come penso che dobbiate aver compreso i miei. Non posso quasi scrivere. Ogni istante sento qualche cosa che mi sopraffà. Voi abbassate la voce, ma io so distinguere i toni della vostra voce quando ad altri sfuggirebbero. Creatura troppo buona, troppo eccellente! Voi ci fate giustizia davvero. Voi credete che vi sia vero affetto e costanza fra gli uomini. Vogliate credere che tali sentimenti sono ferventissimi e senza deviazioni in F.W. Debbo andare, incerto sul mio destino; ma ritornerò o mi unirò alla vostra compagnia appena possibile. Una parola, uno sguardo basteranno per decidere se questa sera entrerò nella casa di vostro padre, o mai.

Non riesco a immaginare una lettera simile in Orgoglio e pregiudizio, e

neppure in Emma o in Mansfield Park. Il lettore percettivo avrà avvertito, sin quasi dall’inizio del romanzo, quanto sia appassionata Anne, ma fino a questo momento nulla indicava altrettanta passione in Wentworth. La sua lettera, come si addice a un ufficiale della Marina, è scritta male e non proprio austeniana, ma proprio per questo è ancora più efficace. Capiamo di aver creduto in lui finora solo perché l’amore di Anne nei suoi confronti ha suscitato il nostro interesse. Austen è stata così saggia da non renderlo abbastanza interessante di per sé. Tuttavia, il libro è efficace anche perché persuade il lettore delle sue capacità di giudizio e autopersuasione. Anne Elliot è quasi troppo buona per il lettore, come lo è per Austen, ma il lettore attento acquisisce la sicurezza necessaria per percepire Anne come dev’essere percepita. L’elemento più ineffabile di questo ineffabile romanzo è l’appello rivolto alla memoria del lettore, affinché eguagli in tenacia e intensità il desiderio che Anne Elliot è troppo stoica per esprimere direttamente. Il desiderio aleggia in tutto il libro, colorando le percezioni di Anne e le nostre. Il nostro senso dell’esistenza di Anne si identifica con la nostra coscienza dell’amore perduto, per quanto possa essere fittizio o idealizzato. Il ripristino di una relazione distrutta otto anni prima contiene un’improbabilità che dovrebbe opporsi alla tessitura di questo romanzo, il più «realistico» della produzione austeniana, ma l’autrice sta molto attenta a impedirlo. Come la scrittrice, il lettore si persuade ad augurare a Anne ciò che quest’ultima desidera per se stessa. Anne Molan osserva con eleganza che Austen «è più soddisfatta di Anne quando Anne è più insoddisfatta di se stessa». Il lettore si lascia trasportare da Austen, e a poco a poco anche Anne si persuade e raggiunge il lettore, concedendo al desiderio un’espressione più piena. In «The Rambler» n. 29, il dottor Johnson, parlando della «stupidità di prevedere le sventure», mette in guardia dalle aspettative ansiose di ogni tipo, siano esse paurose o speranzose: Giacché gli oggetti della paura e della speranza sono ancora incerti, non dovremmo fidarci delle rappresentazioni dell’una più di quanto ci fidiamo di quelle dell’altra, poiché sono entrambe ugualmente fallaci; come la speranza amplifica la felicità, la paura aggrava la disgrazia. In generale, si ammette che nessuno ha mai trovato una felicità di possesso proporzionata all’aspettativa che aveva provocato il suo desiderio e infuso vigore alla sua ricerca; e, nella realtà, nessun uomo ha trovato i mali della vita così formidabili come gli erano stati descritti dalla sua immaginazione.

Questa è una delle numerose affermazioni di Johnson contro il pericoloso predominio dell’immaginazione, e Austen, una sua discepola, ne aveva senza dubbio lette alcune. Se seguite il consiglio del grande critico ed escludete quelle rappresentazioni, Wordsworth non avrebbe potuto scrivere nulla, e Austen non avrebbe creato Persuasione. Poiché la scrittrice è la maestra della

più fine arte dell’esclusione che conosciamo nel romanzo occidentale, è tuttavia molto strano che abbia scritto un libro come quello. Ogni romanzo di Jane Austen potrebbe essere definito un’ellisse riuscita, con l’omissione di tutto ciò che potrebbe ostacolare le sue ironiche ma felici conclusioni. Persuasione continua a essere il meno popolare dei suoi quattro romanzi canonici perché è il più singolare, ma tutta la sua produzione è sempre più singolare man mano che ci avviciniamo alla fine dell’Età democratica che Wordsworth, un suo contemporaneo, aveva fatto di tutto per inaugurare in ambito letterario. In equilibrio sul confine estremo dell’Età aristocratica, Austen condivide con Wordsworth un’arte fondata sulla spaccatura tra una volontà protestante sempre più blanda e un’immaginazione attiva e compassionevole, con la memoria incaricata di sanare la scissione. Se la tesi del mio libro ha qualche validità, Austen sopravviverà anche ai giorni bui che ci aspettano, perché la stranezza dell’originalità e di una visione individuale sono i nostri bisogni durevoli, quelli che solo la letteratura riesce gratificare nell’Età teocratica ormai imminente.

11. WALT WHITMAN COME CENTRO DEL CANONE AMERICANO Se si cerca di elencare le conquiste artistiche degli Stati Uniti sullo sfondo della tradizione occidentale, gli esiti americani in fatto di musica, pittura, scultura e architettura tendono a sfigurare. Non si tratta di usare Bach, Mozart e Beethoven come criterio di misura: Stravinskij, Schönberg e Bartók sono più che sufficienti per far impallidire i compositori statunitensi. Qualunque siano gli splendori della pittura e della scultura americane moderne, negli Stati Uniti non vi è stato alcun Matisse. L’eccezione si trova nella letteratura. Da centocinquant’anni a questa parte, nessun poeta occidentale – neppure Browning, Leopardi o Baudelaire – ha superato Walt Whitman o Emily Dickinson. I principali poeti americani di questo secolo – Frost, Stevens, Eliot, Hart Crane e Elizabeth Bishop, per citarne solo alcuni – fanno inoltre a gara con Neruda, Lorca, Valéry, Montale, Rilke e Yeats. Infine, anche i maggiori romanzieri statunitensi – Hawthorne, Melville, James, Faulkner – reggono il confronto con i loro omologhi occidentali. Forse solo James può stare accanto a Flaubert, Tolstoj, George Eliot, Proust e Joyce, ma abbiamo alcuni libri di validità mondiale: La lettera scarlatta, Moby Dick, Huckleberry Finn, Mentre morivo. Il libro che conta più di tutti è la prima edizione di Foglie d’erba risalente al 1855. Whitman è sicuramente più del poeta del 1855, con i suoi trionfi delle lunghe poesie allora prive di titolo che poi sarebbero state intitolate Canto di me stesso e The Sleepers. Nel 1856 la seconda edizione di Foglie d’erba introdusse il Sun-Down Poem che oggi conosciamo come Sul ferry di Brooklyn. La terza edizione del 1860 ci regalò As I Ebb’d with the Ocean of Life e Dalla culla che dondola incessante, mentre il 1865 aggiunse tragicamente l’elegia che regge il confronto con Lycidas e Adonais, la grande lamentazione per l’assassinio di Abraham Lincoln: Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa. Queste sei maggiori composizioni poetiche, Canto di me stesso e le cinque meditazioni minori ma pur sempre straordinarie, sono ciò che più conta di Whitman. Per trovare qualche equivalente estetico in Occidente, bisogna risalire a Goethe, Blake, Wordsworth, Hölderlin, Shelley e Keats. Nella seconda metà del XIX secolo, come nel XX, nulla uguaglia l’opera di Whitman in termini di sublimità e influenza diretta, ad eccezione, forse, di Emily Dickinson. Il fatto che non abbiamo mai compreso correttamente Whitman è un triste paradosso, perché si tratta di un poeta difficilissimo, di

immenso acume, che di solito opera per produrre l’esatto contrario di quanto dice di voler fare. Per molti lettori moderni, Whitman è l’appassionato populista, precursore di Allen Ginsberg e di altri ribelli professionisti. I suoi veri discendenti sono i vigorosi poeti americani che tentarono di sottrarsi alla sua influenza senza riuscirvi: T.S. Eliot e Wallace Stevens. Andrebbe aggiunto il magnifico Hart Crane, che scrisse nello stile retorico di Eliot e Stevens, ma con aspirazione e atteggiamento whitmaniani. Il poeta-profeta inglese D.H. Lawrence è il quarto poeta di lingua inglese davvero whitmaniano; Pound, William Carlos Williams e altre celebrità sono qualcos’altro, mentre John Ashbery mi sembra essere il quinto e il più whitmaniano tra coloro che ampliano davvero Canto di me stesso e ne traggono qualche insegnamento. Alcuni poeti sudamericani, primo fra tutti Neruda, portano l’influenza di Whitman in un’altra direzione, una direzione più legata a Walt Whitman come figura simbolica che all’effettivo testo della sua produzione poetica. L’originalità di Whitman ha a che fare meno con il presunto verso libero che con la sua inventiva mitologica e la sua padronanza del linguaggio figurativo. Le sue metafore e le sue tesi originali aprono una nuova strada ancor più delle sue innovazioni metriche. L’impatto della sua originalità si avverte persino in composizioni molto brevi e leggere: Questa è la tua ora, oh anima, il tuo volo libero in un mondo [senza parole, lontano dai libri, lontano dall’arte, il giorno cancellato, la lezione [finita. Da te elevarsi, silenziosamente, in ammirazione, riflettendo sui [temi che hai amato di più, notte, sonno, morte e le stelle.

Questa è Una mezzanotte limpida, una composizione molto matura, che ha continuato a ossessionare la coscienza di Wallace Stevens. «Le stelle» che concludono la lirica sostituiscono la madre oceanica assente o l’oceano materno, che sono sempre la quarta e la quinta presenza quando Whitman evoca «notte, sonno, morte». Stevens elogiò questa breve composizione per la forza con cui rivelava l’atteggiamento di Whitman nei confronti del suo oggetto, il suo limpido senso del mondo. La mezzanotte è, in Whitman, il momento dell’epifania, quando la rivelazione non è disturbata dalle distrazioni del giorno. La sua grande poesia dedicata a questo tema è The Sleepers, forse la più trascurata delle sue sei composizioni maggiori. Nel 1855 era priva di titolo, come il resto di Foglie d’erba; nel 1865 si chiamava Night Poem e nel 1860 Sleep Chasings. Come spesso accadeva, la prima

ispirazione di Whitman era stata la migliore; questo è davvero il suo Night Poem, la sua poesia notturna. Entrando nella notte, Whitman si incarna timidamente come il Gesù americano, un’audacia che riprende un momento cruciale, di morte e resurrezione in Canto di me stesso, ma è meglio iniziare da The Sleepers per poi affrontare gli aspetti di Canto di me stesso e procedere fino al Whitman esplicitamente elegiaco. Sappiamo che, come profeta religioso americano, Whitman rispondeva allo stimolo di Emerson e alle tradizioni rappresentate da quest’ultimo, filoni eretici orientali e occidentali. Nel 1854 il suo punto di partenza sembra essere stato il celebre saggio emersoniano Il poeta, in cui si afferma che i poeti sono «dei liberatori». I frammenti che costituiscono i primissimi abbozzi di Canto di me stesso rivelano un’identificazione con il Gesù americano ancora più marcata di quella che emerge dalla forma rivista e corretta del paragrafo 38 del poema completo: Invano chiodi mi furono conficcati nelle mani. Ricordo la mia crocifissione e incoronazione insanguinata Ricordo gli schernitori e le ingiurie atroci Il sepolcro e il sudario bianco mi hanno restituito Sono vivo a New York e San Francisco, Ancora percorro le strade dopo duemila anni. Non tutte le tradizioni possono infondere vitalità alle chiese Non sono vive, sono fredda malta e mattone, Posso costruire altrettanto bene, e anche tu: – I libri non sono uomini. –

Il Gesù della religione americana non è l’uomo crocifisso né il Dio dell’Ascensione, bensì l’uomo risorto che trascorre quaranta giorni con i suoi discepoli, quaranta giorni a proposito dei quali il Nuovo Testamento non ci dice quasi nulla. Il poeta degli ultimi quindici paragrafi di Canto di me stesso è la più grande rappresentazione letteraria americana dell’uomo risorto. The Sleepers è la preistoria di quella resurrezione e descrive la versione whitmaniana del mistero dell’Incarnazione, in cui si fondono l’uomo-dio e il personaggio poetico. Come gran parte del Whitman più poderoso, il poema tocca necessariamente molti altri temi, poiché l’evocazione dell’elezione messianica è incoerente; tuttavia, qui e altrove non è mai lontana da Whitman. Penso che, in genere, i critici non ne parlino perché si sentono in imbarazzo, proprio come avviene con lo schietto autoerotismo di Whitman. Esistono pochissime prove a dimostrazione del fatto che Whitman abbia mai avuto rapporti sessuali con qualcuno tranne se stesso e, in base a quanto conosco della sua vita e della sua poesia, sospetto che vi sia stato un unico

goffo tentativo di avere un rapporto, probabilmente omosessuale, nell’inverno del 1859-60. Forse Whitman scoprì di nuovo che toccare il corpo di qualcun altro con il suo era il massimo di quanto riuscisse a tollerare. Tuttavia, qualunque fossero le sue sofferenze psicosessuali quasi autistiche, ebbe il genio e l’eroismo di scrivere le sue sei poesie maggiori. The Sleepers calcola il costo della cresima ed è la più blakeana tra le composizioni di Whitman, sebbene quest’ultimo non avesse ancora letto Blake. Come Blake, Whitman adatta l’atteggiamento visionario di un profeta ebraico: Tutta la notte inseguo una mia visione errabonda, Con piede leggero, lesto e silenzioso avanzo e mi arresto, a occhi aperti mi chino sugli occhi serrati dei dormenti; Errabondo e confuso, perduto a me stesso, male assortito, [contraddittorio, mi fermo e osservo e mi chino e mi arresto.

Nonostante la sua condizione, affronta i dormenti, morti e non morti, placidi e sofferenti, e fa la differenza per gli afflitti: Con gli occhi semichiusi sto in piedi accanto ai sofferenti e agli [agitati, Passo e ripasso le mani lenitrici a qualche centimetro dai loro [corpi; Gli agitati ricadono sul letto, dormono fra i soprassalti.

Dopo una straordinaria serie di identificazioni, alcune delle quali lo minacciano implicitamente, l’io poetico comincia a subire una reintegrazione, che esito a interpretare in termini freudiani, e tanto meno junghiani. Forze estranee all’io profetico, che più avanti lo irrobustiranno, all’inizio minacciano di sommergerlo, cosicché Whitman teme la morte per annegamento che è toccata al suo sostituto nel paragrafo 3 della poesia, «un bello gigantesco nuotatore che nuotava nudo nei vortici del mare». Nella versione originale, questo titano o «gigante coraggioso» è accompagnato da due passi che poi il poeta cancellò: un episodio onirico in cui, nudo e pieno di vergogna, si affaccia al mondo, e una spaventosa identificazione con una figura simile a Lucifero, scena che culmina in un oscuro e curioso parallelo con il candido Leviatano di Melville: Ora la vasta scura mole che è la mole della balena, sembra la mia; Attento, pescatore! Sebbene io giaccia così assonnato, e pigro, il colpo delle mie pinne è morte.

Le fantasie sulla possibilità di diventare un reietto si alternano a negazioni diaboliche: uno schema di prove e tentazioni che accompagna l’elezione a liberatore. Il bel paragrafo conclusivo del poema notturno di Whitman inizia con quella che potrebbe fungere da descrizione di un dipinto di William

Blake: I dormenti sono belli quando giacciono nudi, Fluttuano mano in mano su tutta la terra da est a ovest quando giacciono nudi.

Durante la notte, la parola magica di Whitman è «passare», e per lui la salvezza può essere solo un passante. Tutti i dormenti angosciati si destano in una sorta di resurrezione: «Passano il rinvigorimento della notte e la chimica della notte, e si svegliano». Di fronte a quella visione, Whitman concede a se stesso e alla sua poesia una maestosa riconciliazione conclusiva: Anch’io passo dalla notte, Sto via per un poco, o notte, ma a te ritorno e ti amo, Perché dovrei temere di affidarmi a te? Non ho paura, sono stato portato bene avanti da te, Amo il ricco giorno scorrente, ma non abbandono colei in cui giaccio così a lungo, Non so come a te venni e non so dove vado con te, ma so che bene venni e bene andrò. Mi fermerò solo un poco con la notte, e mi leverò di buon’ora, Passerò come si conviene il giorno, o madre mia, e a te farò [ritorno.

A essere menzionate esplicitamente sono solo la madre e la notte, ma la morte è sempre implicita. In questo passo vi sono ancora paure e riserve, ma come potrebbe essere diversamente? Nel lessico degli antichi gnostici, cui Whitman si accosta qui in maniera così strana, l’abisso della notte è la prima madre, e la creazione scaturita da quell’abisso causò il peccato originale. A questo punto, professando molto meno di una piena conoscenza, Whitman corre il rischio consapevole della morte ciclica e della resurrezione ciclica. Secondo la sua gnosi, è arrivato bene, proseguirà bene e poi tornerà ad alzarsi. Il cupo contrasto con la fede vacillante di Whitman si trova nelle disperate affermazioni di Lear a Gloucester: «Devi portar pazienza. Siamo venuti a questo luogo piangendo. Tu lo sai bene: la prima volta che sentiamo l’odore dell’aria, subito mandiamo un vagito e cominciamo a piangere» e «Appena nati, subito ci mettiamo a piangere per esser venuti a questa grande scena di pazzi». Il pathos di Whitman consiste nel fatto che la sua gnosi ancora imperfetta non è poi così lontana dalle tragiche grida di Lear. A partire dal paragrafo 38, Canto di me stesso si sforza di offrire una conoscenza più accurata. Rasentando una superba empietà, il paragrafo 41 si incentra sulla precisa intuizione di Whitman secondo cui un tempo tutti gli dei, compreso Geova, erano uomini: Io vengo a ingrandire e applicare, Offrendo in partenza più dei vecchi guardinghi rigattieri, Prendendo io stesso le esatte misure di Geova, Litografando Cronos, suo figlio Zeus, suo nipote Ercole, Acquistando disegni di Osiride, Iside, Belo, Brahma, Buddha, Sistemando nella stessa cartella Allah su un foglio, Maniut slegato, il crocifisso impresso,

Con Odino e Mexitli dal volto spaventoso, e ogni idolo e [immagine, Prendendoli in blocco per quello che valgono, non un soldo di [più, Ammettendo che fuorono vivi ai loro tempi e fecero il loro [lavoro.

Whitman contrappone loro il lavoro dei suoi tempi: «Il soprannaturale di nessun conto, io stesso aspetto il tempo in cui sarò uno dei supremi». Nella paragrafo 43, l’accettazione di Gesù è collocata nel contesto dell’accettazione di una molteplicità di dei, e i paragrafi conclusivi della poesia cancellano tutte le ansie spirituali. I frammenti contenuti nei taccuini chiariscono meglio le ambizioni di Whitman: «Io stesso aspetto il tempo in cui sarò un Dio; / penso che farò altrettanto bene e sarò più puro e prodigioso che mai». È impossibile immaginare un’affermazione più estrema del progetto di Whitman di quella contenuta nell’abbozzo del paragrafo 49: «Soprattutto questo abbiamo di Dio; abbiamo l’uomo», e ancora: «Non riesco a immaginare essere più meraviglioso dell’uomo». Quella che Joseph Smith proclamava come dottrina mormonica dell’uomo perfezionatosi in Dio viene visualizzata autonomamente nell’ermetismo di Whitman. La versione whitmaniana della religione americana si fonda sull’aspetto più originale di Canto di me stesso, la sua cartografia psichica delle tre componenti riconoscibili in ciascuno di noi: l’anima, l’io e l’io reale o l’io me stesso. Qui utilizzo i termini di Whitman, che non si riducono ad alcuna categoria psicologica, né freudiana né di altro tipo. La distinzione iniziale di Whitman è tra anima e io, in cui l’anima, come il corpo, è parte integrante della natura, una natura piuttosto alienata. Per «anima» Whitman intende il carattere o ethos contrapposto all’io, che invece è la personalità o pathos. Il carattere agisce, ma la personalità soffre, anche se si tratta della piacevole sofferenza della passione, sia essa vile o nobile. Così, quando Whitman scrive «la mia anima», si riferisce al suo lato oscuro, alla componente estraniata o alienata della sua natura. Quando scrive «me stesso», come nel titolo, Canto di me stesso, intende colui che chiama Walt Whitman, un americano, un individuo grezzo, un uomo evidentemente aggressivo. L’«io» di Whitman, come quest’ultimo ammette con franchezza, è tuttavia diviso in due parti. Vi è anche un io sfumato, femminile, che il poeta chiama «io reale» o «io me stesso» e che identifica con il poderoso quartetto di notte, morte, madre e mare. L’anima di Whitman è una natura ignota, una sorta di vuoto, mentre l’io grezzo è una persona o una maschera, la serie infinitamente mutevole delle identificazioni. Tuttavia, l’io reale, l’io me

stesso, non è solo una dimensione nota, ma anche la facoltà di conoscere, qualcosa di simile alla capacità gnostica di conoscere così come si è conosciuti. La mitologia dell’anima e i due io di Whitman sono del tutto coerenti, anche se complessi. Il poeta avrebbe potuto intitolare la sua maggiore composizione Song of the Soul (Canto dell’anima), eppure mai ebbe la tentazione di farlo, proprio come non l’avrebbe mai intitolato Song of the Real Me (Canto dell’io reale). Vi sono grandi canti dell’io reale o dell’io me stesso in Whitman, per esempio The Sleepers e As I Ebb’ed with the Ocean of Life. Persino l’elegia dei Lillà è in larghissima misura il canto dell’io me stesso, sebbene tenda a quello che viene definito «l’unisono della mia anima», ossia la rivelazione della mia natura ignota. Nel Canto di me stesso, la sua poesia più ambiziosa, Whitman fornisce il suo resoconto più pieno, anche se incompleto, dei rapporti tra la sua anima e i suoi due io. «Canto me stesso,» esordisce, indicando così che il suo eroe è Walt Whitman o, come aveva intitolato la composizione nel 1856: Poem of Walt Whitman an American. Nel quarto verso, invita la sua anima, un invito ripreso nel paragrafo 6, ma solo dopo che l’«io me stesso», che non invita mai l’anima, ha ricevuto una splendida descrizione nel paragrafo 5. Spesso trovo che questi siano i migliori versi di Canto di me stesso, o almeno i più seducenti, perché preannunciano le persone poetiche di T.S. Eliot e John Ashbery. Qui, dice all’improvviso Whitman, c’è l’io reale, non il Walt grezzo: Separato da ciò che attira e trascina sta quello che io sono, Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, unitario, Guarda dall’alto, è eretto, o appoggia un braccio a un impalpabile sicuro sostegno, Con la testa piegata di lato, curioso di ciò che verrà dopo, Dentro e fuori del gioco, osservandolo e meravigliandosi.

L’io reale, che rifiuta sia la competizione sia un Eros troppo facile, sta in disparte ma non isolato, in un atteggiamento assai elegante, aperto all’immediatezza e tuttavia distaccato da quest’ultima, per così dire insieme un giocatore e un tifoso. L’intero passo è molto affascinante e memorabile. Una volta tanto, Whitman non tenta di sfuggirci, e cominciamo a capirlo un po’ meglio. Ma poi ecco che torna, con rapidità e vigore, a oscurare la nostra comprensione: «Io credo in te anima mia, e l’altro che io sono non deve umiliarsi / Davanti a te né tu davanti a lui». Qui siamo al centro del genio di Whitman, il genio che quest’ultimo

condivide con il suo mentore, Emerson. L’io grezzo, la persona Walt Whitman, è capace di rapporti liberi con l’anima o la natura ignota, ma l’altro «io sono», l’io reale o ermetico, tende a instaurare solo un rapporto padroneschiavo con l’anima. Il linguaggio di Whitman richiede qui una scrupolosa lettura: evidentemente la personalità del poeta ha una pulsione masochistica verso il suo insondabile carattere, e, a sua volta, il carattere potrebbe essere costretto a sottomettersi all’io autentico, distaccato, rivolto altrove, sebbene non ci venga detto quale sarebbe il tramite di quella compulsione. Nonostante tutte le sue dichiarazioni di libertà, ciò che in lui è insieme dentro e fuori del gioco si umilierebbe riducendosi a ciò che non può conoscere né essere conosciuto, e quella natura alienata potrebbe subire l’umiliazione opposta. Entrambi questi atteggiamenti dello spirito vengono rifiutati da Walt Whitman, poeta americano, ed entrambe queste umiliazioni vengono trattate altrove nella poesia, in due grandi passi di crisi acuta e parziale risoluzione. Al virtuale stupro dell’io me stesso da parte dell’anima nei paragrafi 28-30 segue l’umiliazione dell’anima verso l’alterità dentro l’io nel paragrafo 38. Entrambe le crisi si contrappongono alla semiunione metaforica dell’anima e dell’io grezzo estrinsecato nel paragrafo 5. Whitman illustra con umorismo un amplesso assurdo e impossibile, che non ha impedito a molti solenni esegeti di interpretare alla lettera la commedia del poeta. È insieme grottesco e meraviglioso visualizzare la propria anima che si aggrappa con una mano alla barba dell’io mentre protende l’altra verso i piedi dell’io. Whitman ci sconcerta mescolando il guazzabuglio letterale e figurativo soprattutto nelle sue evocazioni di autoerotismo. Ecco la sorprendente conclusione della curiosa poesia Spontaneous Me: Il salutare sollievo, riposo, appagamento, E questo grumo svelto a caso da me stesso, Ha assolto il suo compito – lo butto senza curarmi di dove vada a [cadere.

Ancor più sorprendente è la prima crisi di Canto di me stesso, dove l’immagine, e forse anche l’atto rappresentato, è una masturbazione riuscita seppur riluttante. Una delle molte ironie dell’accoglienza riservata a Whitman è il fatto che venga acclamato come poeta gay. La sua pulsione più profonda era senza dubbio omoerotica e i suoi poemi di passione eterosessuale non hanno convinto nessuno, nemmeno Whitman. Tuttavia, qualunque sia la ragione, il suo orientamento erotico nella poesia, e probabilmente anche nella vita, era onanistico. Un’immagine ricorrente nella sua produzione poetica è il gesto di versare il proprio seme sul terreno dopo l’autoeccitazione. Ancor più

del sadomasochismo, l’autoerotismo sembra essere l’ultimo tabù occidentale, almeno in termini di rappresentazione letteraria, ma Whitman lo celebra in alcune delle sue più importanti composizioni poetiche. Se nel 1855 qualcuno avesse annunciato che lo scrittore americano canonico aveva appena pubblicato un libro intitolato Foglie d’erba, stampato in maniera abbastanza goffa e senza alcun soggetto all’infuori del poeta, forse avremmo espresso un blando scetticismo. Il fatto che il poeta nazionale americano fosse un onanista egotistico, intento a proclamare la propria divinità in una serie di versi senza titolo, senza rima e apparentemente in prosa, forse avrebbe provocato tutt’al più un amabile compatimento. Dopo tutto, il giovane Henry James, forse la sensibilità critica più lucida mai prodotta dagli Stati Uniti, recensì Drum Taps a distanza di dieci anni, affermando con sicurezza che Whitman, una mente prosaica, era solo, per così dire, l’Arnold Schwarzenegger dei suoi tempi, incline a usare i muscoli per elevarsi nel vano tentativo di raggiungere il sublime. In seguito James se ne pentì; ma altri non avrebbero fatto meglio di lui, e anche loro se ne sarebbero pentiti. La grande eccezione è Ralph Waldo Emerson, che ricevette il libro per posta; lo lesse e scrisse a Whitman dicendogli che aveva prodotto il più grande esempio di arguzia e sapienza mai composto da un americano. Il giudizio del filosofo è tuttora valido. Emerson invecchiò prematuramente e aggiunse alcune severe precisazioni, ma il suo verdetto iniziale rimane il culmine della critica letteraria americana pragmatica. Emerson aveva fatto del suo meglio, e aveva ottenuto ottimi risultati, ma si rese subito conto che quello era il poeta delle sue profezie, il messia letterario per il quale aveva funto da Elia o da Giovanni Battista. Ecco che cosa osserva Emerson nella sua lettera a Whitman riguardo alle Foglie d’erba del 1855: «Sono molto felice di leggerlo, perché una grande forza ci rende felici». Cinque anni dopo, nella sua ultima grande opera, The Conduct of Life, il filosofo fornì la sua definizione di forza: Ogni forza è di un unico genere, una partecipazione alla natura del mondo. La mente che è parallela alle leggi della natura sarà nella corrente degli eventi, e forte della loro forza. Un uomo è fatto della stessa materia di cui sono fatti gli eventi; è solidale con il corso delle cose, è in grado di predirlo. Qualunque cosa accada, accade a lui per primo, sicché egli è tutt’uno con qualunque cosa capiti.

Ritengo che Emerson fosse nel giusto con la sua prima impressione di Whitman come sciamano americano. Lo sciamano è necessariamente schizofrenico, sessualmente ambiguo e difficilmente distinguibile dal divino. Essendo uno sciamano, Whitman è sempre metamorfico, capace di essere in vari luoghi nello stesso momento, ed esperto di cose che Walter Whitman

junior, il figlio del falegname, non poteva aver conosciuto. Cominciamo a leggere Whitman in maniera adeguata quando vediamo in lui un ritorno all’antica Scizia, a strani guaritori demonici che ritenevano di possedere o essere posseduti da un sé magico o occulto. È per questo che Whitman è ancora il poeta della religione americana. Quando leggo l’antico e quasi gnostico Vangelo di Tommaso, non posso a fare a meno di pensare a Whitman, e quando leggo gli inni battisti del Sud che esortano a camminare e a parlare con Gesù, ricordo ancora il quacchero dissidente Whitman. Come ha dimostrato Richard Poirier, è questo il Whitman di The Last Invocation, l’unica lirica americana degna di essere stata scritta da san Giovanni della Croce, l’ennesima lamentazione celebrativa dell’oscura notte dell’anima: Alla fine, teneramente, Dalle mura della possente casa fortificata, Dal fermaglio dei riccioli intrecciati, dalla custodia delle ben [serrate porte, Lasciami sprofondare. Lasciami scivolare via senza rumore; Con la chiave della morbidezza apri i chiavistelli – con un [sussurro, Spalanca le porte o anima. Teneramente – non essere impaziente, (Forte è la tua presa o carne mortale, Forte è la tua presa o amore.)

Questa è l’ultima invocazione, perché persino lo sciamano deve sapere che la forma finale del mutamento è morte. L’anima, ossia la propria ignota natura, apre le porte all’amplesso dell’io reale con la morte. Come nella buia notte di san Juan de la Cruz, il modello lirico è il Cantico dei Cantici di Salomone, precedentemente ripreso da Whitman nell’elegia dei Lillà, e soprattutto nel canto di morte del tordo eremita. Lì, tuttavia, la morte e la madre sono ancora un’identità; alla fine, nella visione whitmaniana, il destino erotico dell’io torna alla sua dimensione e alle sue avventure con l’anima. Ciò significa che l’estremo rapporto amoroso di Whitman è con Whitman, e torniamo così a ciò che sembra turbare alcuni di noi, l’eros dell’autoerotismo nel poeta nazionale americano. La musa della masturbazione non è tenuta in gran conto negli Stati Uniti e, a quanto ne so, neppure altrove, ma il permanente scandalo di Whitman ha una vitale componente autoerotica. Direi che l’universalità di Whitman, la sua immensa capacità di trascendere i confini linguistici, non viene intralciata dalla sua vasta sessualità, compresa questa componente. La poesia di Whitman si rifiuta di riconoscere qualsiasi demarcazione sessuale, proprio

come si rifiuta di accettare qualunque linea fortificata divida l’umano e il divino. Evidentemente Whitman, ai suoi tempi un democratico dello Stato di New York, è un partito permanente formato da un solo membro, così come John Milton è una setta formata da un solo individuo; ma, come Milton, Whitman conosceva il segreto per trasformare il proprio idioma solitario in una voce sempre pertinente. La canonicità di Whitman dipende dalla sua capacità di alterare per sempre quella che si potrebbe chiamare l’immagine americana della voce. Si sente l’immagine della voce di Whitman in Hemingway, probabilmente senza intenzione da parte di quest’ultimo, quasi con la stessa intensità con cui la si può cogliere in poeti che, per il resto, non hanno nulla in comune. Nell’odierna letteratura di fantasia, la voce, ferita o stoica, che si leva dalla solitudine tende a rivelare sottintesi whitmaniani. Stevens non desidera certo che la sua giovane cantante di Key West rievochi Whitman, ma la sua poesia termina così: Urgenza del poeta di ordinare le parole del mare, parole di portali fragranti, vagamente stellari, e di noi stessi e delle nostre origini, in suoni più sottili, demarcazioni più spettrali.

Le parole dei portali sono di Keats, ma le parole del mare, le parole di noi stessi, le parole della nostra origine sono di Whitman, la cui Dalla culla che dondola incessante era originariamente intitolata A Word out of the Sea, poiché la parola è morte, morte sacra e ragionevole. Non sono mai riuscito ad accettare del tutto il fatto che Wallace Stevens, che disprezzava la persona del Whitman vagabondo, del grezzo Walt americano, abbia scritto il più splendido tributo a Whitman di cui sia stata capace la letteratura americana: Laggiù nel Sud il sole d’autunno passa Come Walt Whitman che va lungo una rossa spiaggia. Canta e salmodia le cose che di lui son parte, I mondi che furono e saranno, morte e giorno. Nulla è finale, intona. Nessun uomo vedrà la fine. Di fiamma è la sua barba e il suo bastone una scattante fiamma.

Come sarebbe stato felice Whitman di questi versi, che sono un’adeguata evocazione della sua forza emersoniana. Qui Stevens raccoglie tutto: Whitman come sole leonino, autunnale ed elegiaco, un passante che rifiuta le finalità, che nega la fine promessa. Sempre al sole, all’alba e al tramonto, cantando e salmodiando l’io diviso e l’anima inconoscibile, il Whitman di Stevens non è una divinità, ma arde di una fiamma che supera il fuoco naturale. Senza riecheggiare davvero il canto intrecciato del «tutti e ciascuno» che conclude l’elegia dei Lillà, Stevens ne ricorda inoltre le

intensità rapsodiche, la fiducia che esistano davvero le «riemersioni dalla notte». Nell’estasi celebrativa di Stevens non avverto alcuna ironia, alcuna ideologia, alcuna energia sociale che permei i suoi versi o ne emani. Ciò che sento è il risuonare di un’immagine, l’immagine di una voce, una voce che canta, che salmodia, che passa, nell’assoluta convinzione che origine e fine, per amore della vita, possano essere tenute separate. In età avanzata, accarezzando i ricordi del suo mentore, Whitman riferì una consolante osservazione rivoltagli da Emerson, secondo cui alla fine il mondo sarebbe tornato dal poeta di Foglie d’erba perché avrebbe dovuto farlo, perché era in debito con lui. Qualunque siano stati i successivi fraintendimenti tra Emerson e Whitman – e ve ne furono molti – rammentiamo quella profezia azzeccata, proprio come rammentiamo la dichiarazione fatta da Whitman sulla tomba di Emerson: «Un uomo giusto, in equilibrio con se stesso, che amava tutto, che comprendeva tutto, e lucido e chiaro come il sole». Ciò che lega Whitman a Emerson è assai più vitale di ciò che li divideva, e Whitman lo colse in quel «che comprende tutto», l’immagine del sole come orbe autosufficiente. Nonostante tutte le sue reticenze, il saggio della religione americana si rivelava totalmente nei suoi scritti. Il poeta della religione americana, urlando le proprie confidenze, nascondeva quasi ogni cosa. Emerson è uno scrittore di sapienza, come Nietzsche, Kierkegaard, Freud e il suo precursore, Montaigne. Prudente e accorto, Whitman non ha sapienza da elargire, e non ne sentiamo la mancanza; ci offre il suo tormento, la sua divisione e la bizzarra facoltà di un io che è insieme conoscitore e conosciuto. Nella sua migliore produzione poetica è impossibile distinguere tra l’io ontologico e l’io empirico. Secondo i criteri della dialettica continentale, ciò dovrebbe rendere incoerenti anche i suoi testi migliori, trasformandoli nei precursori dei Canti di Pound. Tra Whitman e Pound esiste un rapporto complesso, ma non si fa molta luce su Canto di me stesso o sui Lillà trovandovi qualche accenno ai Canti, mentre occhiate retrospettive dalla Terra desolata e da Note verso la finzione suprema illuminano almeno in parte Whitman. Ciò che in lui sostituisce la sapienza o l’intuizione filosofica è ciò che Blake chiamava «visione». Blake, che, come si addice a un autore apocalittico, era più insistente, usava il termine «visione» per designare un programma di ristrutturazione dell’uomo. Nonostante la spavalderia americana di Whitman, la sua visione è più modesta: l’integrazione della psiche whitmaniana era già un progetto sufficiente. Un progetto incompiuto e irrealizzabile; ma il Dio

americano, per quanto io riesca a comprendere la religione americana, è altrettanto incompiuto, essendo un altro progetto perpetuo. Bisogna essere circolari quando si tenta di centrare Whitman, per spiegare la sua centralità assoluta nel Canone letterario americano. Abbiamo avuto alcune poetesse straordinarie: Dickinson, Moore, Bishop, Swenson. Anche se una decina di quelle illustri scrittrici svettasse ancora tra noi, non decentrerebbe Walt, perché quest’ultimo non era un fenomeno maschile più di quanto lo fossero Shakespeare o Henry James. Shakespeare mi sembra bisessuale, James asessuato, e Whitman autoerotico, ma qualunque sia la loro tendenza sessuale, nessuno dei tre è limitato a un sesso oppure orientato a quello maschile. Alcuni dei massimi scrittori lo furono: Milton, Wordsworth, Yeats e soprattutto Dante, che presentano caratteristiche difficili da accettare per la nostra critica femminista più aggressiva, e alcune di quelle caratteristiche non sono particolarmente amabili. Per un momento, questi grandi poeti possono sembrare vulnerabili alle nuove critiche culturali, ma alla fine i poeti modificheranno le critiche. La forza di ciò che è canonico si manifesta nella silenziosa persistenza degli scrittori più poderosi. La loro fecondità è senza fine perché rappresenta il cuore e la testa anziché i lombi o i privilegi di una casta, setta o razza. Se lo si desidera, si può contestare l’ethos di Dante o di Milton, ma quando si tratta di logos o pathos, questi due scrittori sono vicini all’invulnerabilità. Trotskij, che non era certo un intellettuale poco impegnato, si rifiutava di considerare la Commedia di Dante un «mero documento storico» e spronava gli scrittori russi a scorgere un «rapporto direttamente estetico» tra se stessi e il poema di Dante. Secondo Trotskij, il vigore e l’intensità dell’opera di Dante, la sua intelligenza e profondità sensibilità, la rendevano essenziale per gli scrittori marxisti. Un rapporto estetico diretto ci viene imposto dalla Commedia e dal Paradiso perduto, forse poemi cristiani, ma ciascuno di una singolarità e di uno splendore barbarico (come William Empson diceva del poema di Milton) che non trova quasi alcun rivale nella letteratura. Anche Whitman – che era proprio ciò che pensava D.H. Lawrence, cioè il più grande dei poeti moderni, dei poeti nati dal XIX secolo in poi – condivide quella singolarità e persino quella forza barbarica, una curiosa sopravvivenza negli scrittori più energici dell’Età democratica: Whitman, Tolstoj e Ibsen. In confronto agli scrittori centrali della nostra Età caotica – Joyce, Proust, Kafka, Beckett, Neruda – Whitman, come anche Tolstoj e Ibsen, recupera qualcosa di arcaico. In Canto di me stesso vi sono tanta stravaganza e

generosità quante ve ne sono in Chadzˇi-Murat di Tolstoj e in Peer Gynt di Ibsen, al punto che pare sensato definirli tutti e tre davvero omerici in opposizione all’Ulisse di Joyce, che, nonostante il suo arsenale di analogie accuratamente organizzate resta più vicino a Flaubert che a Omero. A prescindere dalle loro opacità e debolezze infantili, Canto di me stesso, Chadzˇi-Murat e Peer Gynt hanno, come i loro creatori, una statura eroica. Dopo tutto, anche Achille era infantile e, sebbene Odisseo sia certamente adulto, non sembra il più anziano dei greci, mentre il Poldy di Joyce, un uomo di mezza età, pare avere duemila anni in più di chiunque altro a Dublino. Il protagonista di Canto di me stesso assomiglia davvero a Emerson, a proposito del quale Nietzsche, un suo ammiratore, osserva con acume: «Non sa quanto sia già vecchio né quanto sarà ancora giovane». Ahimè, Nietzsche sfigura sul piano estetico se leggiamo Canto di me stesso e Così parlò Zarathustra a fianco a fianco. Rispetto a quelli di Whitman, i ditirambi di Zarathustra appaiono inferiori proprio perché Nietzsche sa fin troppo bene quanto è già vecchio ed è troppo sicuro di quanto tenterà di essere giovane. Cercare di vivere come se esistesse un mattino perenne è un’aspirazione estetica assai pericolosa, che ha irrimediabilmente affondato Zarathustra. A volte il Walt di Canto di me stesso interpreta l’Adamo del primo mattino, ma molto spesso è volutamente vecchio quanto il caos e la notte. Da Emerson, Whitman aveva appreso la difficile nozione secondo cui il futuro poeta americano doveva essere insieme colui che dava e toglieva il nome a qualunque cosa incontrasse. Posto di fronte a questo dilemma dialettico, Whitman scelse con astuzia la via dell’evasione: si rifiutò semplicemente di dare o togliere il nome a qualcosa. Emily Dickinson, il cui rapporto con Emerson era ancora più sottile, perfezionò l’arte del togliere e del restituire i nomi; ma, a quanto ne so, le sue capacità cognitive non avevano paragoni nella letteratura di fantasia occidentale da Shakespeare in poi. Whitman era una mente sagace, astuta e ingegnosa, ma non diede prova di originalità cognitiva più di quanto abbia fatto Tennyson (che Walt ammirava). La sua originalità è riscontrabile altrove: innovazioni in fatto di forma, stile, atteggiamento, cartografia psichica e prospettiva visionaria. Come in Tennyson, ciò che conta in Whitman è molto spesso la qualità della sua angoscia, da cui dipende in larga misura la forza della sua poesia, e a quell’angoscia si devono le due crisi nei paragrafi 28 e 38 di Canto di me stesso, la prima sessuale e dunque autoerotica, la seconda religiosa e simile a

Cristo, ma con la differenza americana. I primi frammenti contenuti nelle annotazioni che furono il punto di partenza per Canto di me stesso e per la conquista della voce poetica da parte di Whitman comprendono un abbozzo di quello che sarebbe divenuto il paragrafo 38. L’immagine del «promontorio», che ricorre in entrambe, mi sembra l’emblema essenziale dell’affermazione di Whitman come poeta. Nell’accezione comune, un promontorio è una sporgenza che estende sopra e verso l’acqua, creando così la minaccia di un brusco strapiombo. Senza dargli né togliergli il nome, come di consueto Whitman trasforma il promontorio in una metafora del suo rapporto antitetico con la propria sessualità, come nel seguente passo del taccuino, dove «It» è un tatto, il suo tatto. Porta i restanti attorno a esso, ed essi stanno tutti su un [promontorio e mi deridono Mi hanno lasciato toccare, e han preso posto su un promontorio. Le sentinelle hanno disertato ogni altra parte di me Mi hanno lasciato indifeso al torrente di toccamenti Sono tutti venuti al promontorio per testimoniare e collaborare [contro di me. Io vago qua e là sbronzo e barcollante Sono venduto da traditori, Parlo sfrenatamente e sono certo fuori di testa, Sono io stesso il massimo traditore. Sono andato io stesso per primo al promontorio.

Canto di me stesso aggiunge a quest’ultimo verso: «Le mie stesse mani mi portarono». Ho difficoltà a capire perché la critica non abbia preso in considerazione l’immagine della masturbazione di Whitman. Richard Chase e Kenneth Burke l’hanno notato prima di me, e io vi ho riflettuto più volte. I sensi di Whitman, ad eccezione del tatto, lo abbandonano e restano sul promontorio a farsi beffe di lui, a testimoniare contro di lui, e persino a dare man forte al tatto contro di lui. Tuttavia, i sensi insidiosi emulano Whitman, che fu il primo ad andare al promontorio. Quale Whitman è questo «Io»? E perché il «promontorio»? Deve trattarsi dell’«io stesso» o dell’«io reale» che si umilia davanti all’alterità dell’anima ignota, mentre il promontorio, ergendosi sopra le acque materne, è abbastanza concreto. Pur celebrando con esuberanza la sessualità maschile, Whitman vede nel fallo un luogo di pericolo con una brusca caduta verso la morte, la madre, l’oceano, la notte primordiale. Gerald Manley Hopkins, in piena fuga dal proprio omoerotismo, sottolinea la vicinanza della propria anima a quella di Whitman, ammira la metrica e la dizione di alcuni passi di Canto di me stesso e, volutamente oppure no, allude a un verso di The

Sleepers («Avanti ci muoviamo! una gaia banda di furfanti») nelle «gaygangs of clouds» all’inizio della sua poesia That Nature Is a Heraclitean Fire and of the Comfort of the Resurrection. In uno dei suoi sonetti più intensi, No Worst, There Is None, Hopkins ha una metafora, «rupi di caduta», che ricorda l’angoscia giobbiano del «promontorio» di Whitman, ma con riferimenti sessuali più nascosti: «O la mente, la mente ha montagne; rupi di caduta / Spaventose, abrupte, non sondate da nessuno». In Whitman la mente trova la sua rupe di caduta nel promontorio, emblema di una stravaganza psichica che il poeta celebra e teme al tempo stesso. Whitman ha la tendenza emersoniana a convertire le sue ossessioni personali in forze poetiche, e l’immagine del promontorio trasforma il pathos della masturbazione in dignità estetica. Qui si potrebbe contrapporre Whitman a Norman Mailer che, come Allen Ginsberg, discende più da Henry Miller che da Whitman. La metafora che Mailer usa per la masturbazione è «bombardamento di se stessi», un’immagine che è meno incisiva rispetto alla possibilità di cadere da un promontorio e che cozza anche contro con la celebrazione whitmaniana di un atto autoerotico compiuto con successo. Whitman resta sul promontorio solo fino all’orgasmo; poi esulta degli esuberanti paesaggi maschili che ha generato. Come un antico dio egizio, Whitman crea un mondo mediante la masturbazione, ma siamo inclini a giudicare i suoi promontori più memorabili dei suoi raccolti. La crisi è più acuta nel paragrafo 38, dove Whitman è in preda al tormento della sovraidentificazione con tutti i reietti dell’umanità e protesta contro il suo tentativo di espiare per tutti: «Basta! basta! basta! Per qualche motivo sono rimasto intontito. Fatevi indietro! / Datemi un po’ di tempo…». Si riprenderà con sorprendente forza e rapidità, nonostante la terribile amarezza che convoglia nella sua Passione, la sofferenza dell’io me stesso come Cristo americano: «Che abbia potuto contemplare con occhio distaccato la mia crocifissione e la corona insanguinata». Quando si alza, quando «i legami si sciolgono da me», ci viene offerta la principale manifestazione letteraria dell’ossessione della religione americana per la Resurrezione, in uno dei più strani passi di tutta la produzione whitmaniana: Io avanzo in truppa dotato d’un potere supremo, uno d’un corteo [interminabile, nell’entroterra e costeggiando procediamo, oltrepassando tutte [le frontiere, Le nostre pronte ordinanze si diramano per tutta la terra, I fiori che rechiamo sui cappelli sono la fioritura di migliaia di anni.

Whitman è un umanista di statura tale che qui l’ironia non può non essere presa in considerazione, ma resta difficile da comprendere. Il bardo di Canto di me stesso è simile a Cristo e anche «uno d’un corteo interminabile». L’immagine appartiene alla Resurrezione americana generale, i cui fiori preparatori crescono da millenni. «Fu una grande sconfitta», disse Emerson a proposito del Golgota, aggiungendo che, essendo americani, noi pretendiamo la vittoria, una vittoria dei sensi oltre che dell’anima. Canto di me stesso celebra la Resurrezione come grande vittoria americana proprio nello spirito di Emerson. Nel Discorso alla facoltà di teologia, Emerson aveva proclamato che Gesù «vide che Dio incarna se stesso nell’uomo, e sempre di nuovo procede a prendere possesso del suo Mondo». Questo «sempre di nuovo procedere» viene amplificato nel whitmaniano «avanzo in truppa dotato d’un potere supremo», nella tendenza della religione americana a trattare gli Stati Uniti come la più grande delle poesie, o come la Resurrezione generale. Il sorprendente ultimo quarto di Canto di me stesso è proprio questo, il poema di una Resurrezione che non richiede giudizio universale né giorni conclusivi. Mormoni e battisti meridionali, battisti neri e pentecostali, qualunque credo o confessione, qualunque amante secolare della poesia… tutti noi siamo liberi di identificare il Whitman delle ultime miracolose terzine di Canto di me stesso con il Gesù americano con cui l’americano cammina e parla nei quaranta giorni dilatati all’infinito tra la Resurrezione e l’Ascensione: Difficilmente saprai chi io sia o cosa significhi, E tuttavia sarò per te salutare, E filtrerò e darò forza al tuo sangue. Se non mi trovi subito non scoraggiarti, Se non mi trovi in un posto cerca in un altro, Da qualche parte starò fermo ad aspettare te.

Può darsi che, come tutti i grandi scrittori, Whitman sia stato un incidente della storia. Può darsi che non ci siano incidenti, che ogni cosa, compresa quella che consideriamo un’opera d’arte suprema, sia sovradeterminata. La storia, tuttavia, non è solo la storia della lotta di classe, dell’oppressione razziale o della tirannia di un sesso. «Shakespeare fa la storia» mi sembra una formula più utile di «la storia fa Shakespeare». La storia non è un dio o demiurgo più di quanto lo sia il linguaggio, ma, come scrittore, Shakespeare era una sorta di dio. Shakespeare si colloca al centro del Canone occidentale perché modifica la cognizione modificando la rappresentazione della cognizione. Whitman è il centro del Canone americano perché modifica l’io americano e la religione americana agendo sulla rappresentazione dei nostri

sé ufficiosi e sulla nostra religione postcristiana, persuasiva anche se nascosta. Una lettura politica di Shakespeare è destinata a essere meno interessante di una lettura shakespeariana della politica, proprio come una lettura shakespeariana di Freud è più riduttiva delle riduzioni freudiane di Shakespeare. Evidentemente Whitman non è Shakespeare, Dante o Milton, ma regge bene il confronto con qualsiasi scrittore occidentale da Goethe e Wordsworth fino ai giorni nostri. Che cosa significa scrivere le poesie del nostro clima, o del clima di chiunque? Goethe, facilmente esportabile per tutto il XIX secolo, oggi viene letto di rado fuori della Germania. Tuttavia, più di qualsiasi altro poeta di lingua tedesca, scrisse le poesie del suo clima. Whitman, esportabile fin dall’inizio, è ancora oggi una figura mondiale, ma alla fine resterà forse confinato alla sua lingua, come è accaduto a Goethe? Il suo peculiare status di poeta della religione americana può sembrare un’argomentazione a favore del suo perenne successo internazionale, ma poi ricordiamo che il giovane Goethe sembrava essere niente meno che un messia a molti dei suoi contemporanei. Credo che essere il centro di un Canone nazionale significhi garantirsi una perenne circolazione nell’ambito di una lingua, ma che un’eminenza al di là di una lingua particolare sia molto rara come fenomeno duraturo. Forse, all’estero, Whitman sbiadirà, ma penso che ciò non accadrà mai negli Stati Uniti. Il poeta di Foglie d’erba veniva da una famiglia disperata, piena di passione e cupa inerzia, assillata da demoni e spettri. Miracolo di sopravvivenza, Whitman sembra aver capito che la vocazione poetica dipendeva dalla capacità di restare aperti a tutti i tormenti familiari. Il secondo Foglie d’erba (1856) conteneva una nuova poesia, oggi nota come Sul ferry di Brooklyn. Originariamente intitolata Sun-Down Poem, ebbe il privilegio di essere l’opera whitmaniana preferita da Thoreau e di ispirare The Bridge di Hart Crane (1930), in cui la grande arcata del ponte di Brooklyn sostituisce il traghetto fra Brooklyn e Manhattan dei tempi di Whitman, una sostituzione insieme empirica e simbolica. Al pari di Canto di me stesso, il Sun-Down Poem è essenzialmente celebrativo, ma il sesto paragrafo è una delle litanie dell’io maggiormente negative della produzione whitmaniana: Non solamente su di voi cadono macchie di buio, Il buio gettò le sue macchie anche sopra di me, Quello che avevo fatto meglio mi sembrò scialbo e sospetto, I miei grandi pensieri, così li supponevo, non erano angusti in

[realtà? Non siete voi soli a conoscere che cosa sia il male, Anche io ho lavorato a maglia l’antico nodo delle contraddizioni.

La celebrazione e l’angoscia coesistono in molti grandi poeti, ma in Whitman l’autocelebrazione e l’autoangoscia sono una giustapposizione inaspettata e onnipresente. Grazie all’esempio di Whitman, le elegie dell’io sono diventate il genere caratteristico della poesia americana; non occorre domandarsi perché Whitman abbia inventato questo stile, bensì perché quest’ultimo sia stato tramandato con tanta insistenza dopo di lui. Le due grandi composizioni di Relitti marini che coronarono il terzo Foglie d’erba del 1860, Dalla culla che dondola incessante e As I Ebb’d with the Ocean of Life, hanno generato una progenie infinita e variegata come Dry Salvages di Eliot, L’idea dell’ordine a Key West di Stevens, End of March di Elizabeth Bishop, A Wave di John Ashbery e Corsons Inlet di A.R. Ammons. Poiché il mio argomento principale è il canonico, ritengo che l’interrogativo critico più pressante sia: che cosa rende così centrali quelle due poesie? La risposta va cercata in parte nel melodioso sibilo di «morte» prodotto dal mare in Dalla culla che dondola incessante, poiché nella letteratura nazionale americana qualsiasi considerazione sulla morte si rifà a Walt Whitman. In Dalla culla, la notte, la morte, la madre e il mare si fondono trionfanti, ma in As I Ebb’d with the Ocean of Life, la più vigorosa tra le due composizioni, vengono tenuti alla larga e quasi sopraffatti. Mentre Dalla culla ripercorre l’incarnazione del carattere poetico in Whitman, As I Ebb’d rappresenta indirettamente una crisi personale, oscura ma traumatica, che Whitman sembra aver attraversato nell’inverno del 1859-60. Il senso del fallimento, probabilmente sessuale, riempie As I Ebb’d di un nuovo pathos, più ricco di quello riscontrabile nelle precedenti opere di Whitman. Fino all’elegia dei Lillà, nella sua produzione nulla esprime il romanzo familiare americano come lo straordinario momento in cui il poeta precipita nell’angoscia sulla spiaggia e, a partire da quel gesto, crea la nostra immagine più forte di riconciliazione con il padre: Mi getto sul tuo petto, padre mio, Mi aggrappo a te che tu non possa sciogliermi, Saldo ti tengo finché non mi darai risposta. Baciami, padre mio, Toccami con le tue labbra come io tocco chi amo, Sussurrami mentre ti tengo stretto il segreto del mormorio che [invidio.

Il segreto del mormorio dell’oceano e del gemito materno è che, nonostante l’implacabilità del riflusso, il flusso ritorna sempre. Per Whitman

si tratta di un segreto religioso, parte di una gnosi, un sapere in cui è conosciuto anche l’io. Whitman sapeva bene che il suo Paese aveva bisogno di una religione e di una letteratura. Il suo posto al centro del Canone americano dipende almeno in parte dalla sua funzione e dal suo status di poeta religioso nazionale, entrambi ancora misconosciuti. I saggi e i teologi della religione americana sono un gruppo bizzarro e variegato: Ralph Waldo Emerson; Joseph Smith, il profeta mormone; Edgar Young Mullins, il tardivo visionario dei battisti meridionali; William James; Ellen Harmon White, che fondò gli Avventisti del settimo giorno; e Horace Bushnell, il più acuto dei teologi americani. Il poeta della religione americana è un solitario, benché continui a proclamare di essere una moltitudine. Quando cammina in compagnia, lo fa con Gesù o con la morte: Solitario a mezzanotte nel mio cortile, i miei pensieri di molto [allontanatisi da me, Percorrendo gli antichi colli di Giudea con il bello gentile dio [accanto a me.

Quegli antichi colli appartengono alla Giudea, ma si trovano in America, come l’ombrosa palude in cui Whitman sente il canto del tordo eremita nell’elegia dei Lillà. L’uccello intona un canto di morte e riconciliazione in cui il tabù dell’incesto con la madre viene infranto figurativamente. Whitman è un grande poeta religioso, sebbene la religione sia quella americana e non il cristianesimo, proprio come il trascendentalismo di Emerson è postcristiano. Come in Thoreau, in Whitman non manca un tocco del Bhagavadg¯ıt¯a, ma la visione induista è mediata dall’ermetismo occidentale con i suoi elementi neoplatonici e gnostici. In Whitman, la conoscenza prende il nome di «unisono» ed è associata sia con l’autoerotismo sia con la composizione di poesie. Quanto Whitman canta all’unisono, ricorda a se stesso, sull’esempio di Emerson, che non è parte della creazione, o meglio che la sua parte migliore e più antica risale a prima della creazione. L’«unisono» diviene la metafora whitmaniana della gnosi, la conoscenza atemporale della religione americana. Per estensione, l’unisono di Whitman è il suo fondamentale tropo canonico, al centro della letteratura nazionale americana. Hart Crane lo comprese nella sua invocazione a Whitman contenuta nel canto di The Bridge intitolato Cape Hatteras: «O, levandoti dai morti / Tu arrechi registrazione, e un patto neostretto / Di vivente fratellanza!». Nella visione di Crane, il nuovo patto di Whitman è orfico, con l’«unisono» che sostituisce Euridice. L’interpretazione del

Whitman elegiaco proposta da Crane mi sembra insuperata, perché l’unisono è davvero ciò che il poeta di Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa riporta dalla sua discesa nella morte, ma solo dopo aver offerto l’emblema dell’unisono alla bara di Lincoln: Su te, bara che lentamente passi, Depongo il mio rametto di lillà.

Il quarantaduesimo detto di Gesù nell’antico Vangelo protognostico di Tommaso è «Siate passanti». Forse Gesù vuole esortare i suoi discepoli a essere girovaghi come i saggi cinici, ma io preferisco una lettura più whitmaniana. «Passare» è la metafora verbale dell’elegia dei Lillà, proprio come l’«unisono» ne è la figurazione sostantivale, e la genialità della poesia di Whitman è la consapevolezza che la conoscenza è una sorta di passare, un indagare o un viaggiare verso il luogo in cui l’interiorità raggiunge il pieno unisono: Eppure serbo ogni cosa recuperata dalla notte, Il canto, il canto prodigioso dell’uccello grigiobruno E il canto concordante, l’eco destata nel mio spirito, E insieme l’astro lucente che tramontava colmo di tristezza, E chi mi teneva per mano avvicinandoci al canto dell’uccello, Compagni miei, e io in mezzo a loro, e la loro memoria da [mantenere sempre, per il morto che tanto amavo, Per l’anima più soave e più saggia di tutti i miei giorni e le mie [terre: per il suo amato ricordo, Lillà, astro e uccello intrecciati laggiù con il canto della mia [anima, Là nei pini odorosi, nei cedri neri e velati.

Questa straordinaria conclusione, probabilmente la più bella di Whitman o persino di tutta la poesia americana, viene intrecciata a partire dai numerosi e intricati fili di immagini che costituiscono la poesia. Essa non intreccia solo gli emblemi dominanti dell’elegia. Qui, dove il poeta canta con fiducia un unisono che coincide con la sua centralità canonica, confluisce tutta la più grande produzione poetica di Whitman. Se pensate ai maggiori scrittori americani, probabilmente, tra i romanzieri, ricorderete Melville, Hawthorne, Twain, James, Cather, Dreiser, Faulkner, Hemingway e Fitzgerald tra i romanzieri, cui aggiungerei Nathanael West, Ralph Ellison, Thomas Pynchon, Flannery O’Connor e Philip Roth. I poeti più importanti iniziano con Whitman e Dickinson e comprendono Frost, Stevens, Moore, Eliot, Crane e forse Pound e William Carlos Williams. Tra gli autori più recenti, elencherei Robert Penn Warren, Theodore Roethke, Elizabeth Bishop, James Merrill, John Ashbery, A.R. Ammons e May Swenson. I drammaturghi sono meno illustri: ormai Eugene

O’Neill è una lettura insoddisfacente, e forse solo Tennessee Williams trarrà beneficio dal passare del tempo. I maggiori saggisti americani rimangono Emerson e Thoreau, che non sono mai stati uguagliati da nessuno. Poe viene accettato a un livello così universale che è impossibile escluderlo sebbene la sua scrittura sia quasi sempre pessima. Tra questi trenta scrittori o giù di lui (compreso chiunque altro vogliate aggiungere) non vi è dubbio su chi abbia esercitato l’influenza più profonda, in patria e all’estero. Forse Eliot e Faulkner sono i rivali più vicini di Whitman nel loro effetto su altri scrittori, ma non hanno la sua incidenza quasi mondiale; forse Dickinson e James hanno un’eminenza estetica pari a quella di Whitman, ma non possono competere con la sua universalità. La letteratura americana all’estero è sempre, in primo luogo, Whitman, tanto nell’America di lingua spagnola quanto in Giappone, Russia, Germania e Africa. Qui vorrei commentare solo l’influenza di Whitman su due poeti, D.H. Lawrence e Pablo Neruda. Neruda può essere considerato il centro canonico di tutta la letteratura latinoamericana, mentre Lawrence, benché oggi sia fuori moda nella nostra era di dogmatica sociale, continua a essere un romanziere, un saggista, un poeta, anzi un profeta, il cui onore e la cui influenza non si spegneranno mai. Come Shelley e Hardy prima di lui, Lawrence seguiterà a seppellire i suoi impresari delle pompe funebri, proprio come Whitman ha seppellito parecchie generazioni di becchini beffardi. Lawrence credeva che Whitman possedesse qualcosa dell’aura che i mormoni devoti attribuiscono a Brigham Young, il Mosè americano. Il Mosè di Lawrence, più figurativo, sarebbe piaciuto a Whitman: Whitman, il grande poeta, ha significato moltissimo per me. Whitman, l’unico uomo che abbia aperto una nuova strada. Whitman, l’unico pioniere. E solo Whitman. Niente pionieri inglesi o francesi. Niente poeti-pionieri europei. In Europa, gli aspiranti pionieri sono semplici innovatori. Lo stesso in America. Davanti a Whitman, nulla. Davanti a tutti i poeti, pronto ad avventurarsi nel territorio selvaggio della vita sconosciuta, Whitman. Dietro di lui, nessuno.

Lawrence contribuì a promuovere la tradizione critica americana della continua riscoperta del vero Whitman, il grande artista della delicatezza, della sfumatura, dell’evasività ineffabile, della difficoltà ermetica e, soprattutto, dell’originalità canonica. Whitman fondò ciò che è squisitamente americano nella nostra letteratura di fantasia, sebbene fazioni rivali lo rivendichino oggi come antenato. Tra i poeti che ammiro nella mia generazione, James Wright ha colto un Whitman, John Ashbery un altro, A.R. Hammons un altro ancora e, senza dubbio, in futuro vi saranno altri Whitman autentici.

Ricordo un’estate in cui, in un periodo di crisi, mi trovavo a Nantucket con un amico intento a pescare, mentre leggevo ad alta voce i versi di Whitman e recuperavo me stesso. Quando sono solo e leggo ad alta voce, talvolta anche quando ho un disperato bisogno di lenire il dolore, scelgo quasi sempre Whitman. A prescindere dal fatto che leggiate a voce alta per qualcun altro o in solitudine, vi è una particolare appropriatezza nel recitare Whitman. Quest’ultimo è il poeta del nostro clima, insostituibile, e probabilmente ineguagliabile. Solo pochi poeti di lingua inglese hanno superato Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa: Shakespeare, Milton e forse pochi altri. E non sono sempre sicuro che persino Shakespeare e Milton abbiano raggiunto un pathos più intenso e un’eloquenza più oscura di quelli dei Lillà di Whitman. La grande scena tra il pazzo Lear e il cieco Gloucester e i discorsi di Satana davanti alle legioni cadute simboleggiano il sublime agonistico. Lo stesso vale per questi versi, che lo fanno però con una pacatezza soprannaturale: Nel recinto davanti a una vecchia casa di campagna, presso la staccionata dipinta di bianco, Cresce una pianta di lillà, alta, con le foglie a forma di cuore d’un verde intenso, E molti grappoli di fiori, delicati, dal profumo acuto che amo, Ogni foglia un miracolo – e là in quel prato davanti a quella casa, Da quella pianta dai fiori dal colore delicato, con le foglie a forma di cuore d’un verde intenso, Stacco un rametto fiorito.

12. EMILY DICKINSON: I VUOTI, I TRASPORTI, IL BUIO Se qualcuno prendesse in prestito il titolo The Playwright as Thinker di Eric Bentley per un libro da intitolare The Poet as Thinker, Emily Dickinson sarebbe uno dei principali argomenti del volume. Ad eccezione di Shakespeare, Dickinson dimostra più originalità cognitiva di qualsiasi altro poeta occidentale dopo Dante. Il suo rivale immediato può essere Blake, che, a sua volta, ha riconcettualizzato ogni cosa per sé. Blake, tuttavia, era un creatore sistematico di miti, e il sistema lo aiuta a organizzare le sue speculazioni. Dickinson ripensò ogni cosa per sé, ma scrisse meditazioni liriche anziché drammi teatrali o poemi epici mitopoietici. In Shakespeare vi sono centinaia di persone e in Blake vi sono decine di quelle che il poeta chiamava «Forme gigantesche». Dickinson si attenne all’Io con la I maiuscola praticando un’arte di singolare economia. Ciò che i critici sottovalutano quasi sempre è la sua sorprendente complessità intellettuale. Non vi è banalità che sopravviva alle sue appropriazioni; ciò che Dickinson non rinomina o non ridefinisce viene sottoposto a una revisione così radicale da renderlo quasi irriconoscibile. Whitman spediva le sue opere a Emerson; di solito Dickinson sceglieva Thomas Wentworth Higginson, un uomo coraggioso che però non era un critico. Higginson rimaneva sconcertato, ma la nostra reazione si distingue dalla sua solo per intensità: anche noi restiamo sconcertati, non tanto dalla straordinaria eminenza della poetessa quanto dalla forza della sua mente. Credo che nessun critico sia stato all’altezza delle sue complessità intellettuali, e non pretendo di esserlo neppure io. Spero tuttavia di affermare con maggiore veemenza la sua straordinaria originalità cognitiva e la conseguente difficoltà della sua produzione, in modo da riuscire a vedere che cosa c’è in alcune delle sue poesie più vigorose. La singolarità, come continuo a scoprire, è uno dei primi requisiti per l’ingresso nel Canone. Dickinson è singolare quanto Dante o Milton, che imposero le loro bizzarre visioni in maniera così persuasiva che i nostri studiosi li trovano assai più ortodossi di quanto siano in realtà. Dickinson è troppo scaltra per imporre qualcosa, ma è una pensatrice individuale quanto Dante. Whitman, un suo contemporaneo, ci supera in termini di sfumature ed evasività metaforica; Dickinson ci aspetta, sempre in fondo alla strada della nostra lentezza, perché pochissimi tra noi sono in grado di emularla ripensando ogni cosa per sé.

Circa dieci anni fa, in un libretto intitolato I vasi infranti, ho ricostruito la fortuna della metafora del vuoto nella poesia inglese e americana, da Milton a Wordsworth, Coleridge, Emerson, Whitman e Stevens. Mi ero riproposto di riflettere anche sui vuoti di Dickinson, ma ho fatto marcia indietro di fronte alla loro formidabile profondità. Sono presenti in nove delle sue poesie, tutte straordinarie, ma quella che preferisco è la 761, datata circa 1863, quando la poetessa aveva trentadue anni: Da un vuoto all’altro, In un cammino senza senso Muovevo passi meccanici, Per fermarmi, perire O andare avanti, A tutto indifferente – Se giungessi alla fine, Se di là da ogni fine L’indefinito si aprisse – Chiusi gli occhi e a tentoni Procedetti ugualmente: Era meno penoso essere cieca.

Non dovrebbe essere possibile riassumere tante cose in una quarantina di parole e una decina di versi. Questa lirica, simile a un minuscolo gnomo, ci guida da Teseo – archetipo dell’eroe ingrato, pronto ad abbandonare la donna che gli ha dato il filo per percorrere il labirinto – a Milton, che, tra i poeti di sesso maschile, domina l’uso della metafora di un vuoto universale offerto dalla natura alla sua cecità. Non vi è alcuna Arianna che fornisca a Dickinson il filo con cui trovare l’uscita, benché la poetessa immagini ciò cui ha paura di avvicinarsi, probabilmente il suo incubo di un Minotauro, un emblema della forza maschile, e forse anche della sessualità maschile. La paura provoca l’indifferenza della disperazione, la necessità di procedere a passi meccanici, andando senza filo da un vuoto all’altro. Qui viene profetizzato il cunicolo di Kafka, e ci torna in mente l’infatuazione di Paul Celan per Dickinson, un’infatuazione il cui risultato furono alcune notevoli traduzioni. Tutto ciò è contenuto nella ventina di parole della prima stanza; e vi è molto altro, perché come potremmo circoscrivere gli echi di Da un vuoto all’altro? La rovina o vuoto che vediamo in natura, aveva scritto Emerson, è nel nostro occhio. Probabilmente alludeva all’ode di Coleridge intitolata Depressione, dove il protagonista guarda «con un occhio così vuoto», un’ulteriore allusione, come Coleridge e Emerson ben sapevano, al lamento di Milton per la propria cecità. «Essere cieco» per scelta significa rinunciare a vedere il Vuoto che, in Dickinson come nei suoi precursori uomini, è una

metafora della crisi poetica. Senza dubbio gli incessanti vuoti di Stevens sono più vicini a quelli di Dickinson che a quelli di Milton o di Coleridge, e in Stevens l’associazione con la crisi poetica è incessante. Se rileggete la prima stanza di Da un vuoto all’altro, noterete che il verbo principale è all’imperfetto: «Muovevo». Dov’è dunque la poetessa ora? La seconda stanza non fornisce la risposta: «Se giungessi alla fine, / se di là da ogni fine – / l’indefinito si aprisse –». Si tratta di una scrittura molto dura e di un pensiero complesso. Il movimento dal «giungessi» al termine «aprisse» allude al fatto che Dickinson è davvero giunta a un fine, un fine che continua a finire oltre a una rivelazione per sempre indefinita. Nell’originale inglese, la parola testarda è il trascendente «beyond» (oltre), che conferisce un diverso valore tonale al condizionale «se giunsi a un fine» e ci ricorda il gioco di parole tra «fine» e «fini». Un fine che finisce oltre qualunque cosa non sia già un fine e ci prepara all’atto risolutivo della poesia, in netto contrasto con l’avanzare a passi meccanici: «Chiusi gli occhi». Quando smettete di contemplare il vuoto, siete fuori dalla rovina o dal labirinto della natura, ma il vantaggio che ne ricavate è equivoco: «Procedetti ugualmente: / era meno penoso». Dovremmo interpretarlo come: «E procedetti ugualmente come se fosse meno penoso»? Probabilmente sì, ma solo a spese di una spaventosa ironia, che si dilata nelle ultime due parole: «Essere Cieca». È meno penoso essere ciechi? In questa revisione metaforica, il lamento di Milton perde il suo pathos eroico, il pathos su cui Coleridge, Wordsworth e Emerson fondarono le loro metafore del vuoto. Tutte le poesie di ricerca composte da Dickinson hanno aspetti kafkiani e labirintici: sono viaggi verso nessun luogo, anziché i vagabondaggi intrapresi da Stevens sulla spiaggia delle Aurore d’autunno e quelli intrapresi da Whitman nelle poesie di Relitti marini. Mi sembra evidente che Da un vuoto all’altro svuota una certa tradizione di pathos eroico del poeta maschile. Il vuoto di Dickinson è Milton e/o Emerson, in un’accezione assai shakespeariana del vuoto: il centro del bersaglio, «il vuoto veritiero del tuo occhio». Forse il centro del bersaglio suggerì il filo di Teseo e Arianna a una Dickinson priva di filo, ma la succosa occasione di associare il Teseo classico (non quello shakespeariano) con il Milton patriarcale deve esserle sembrata troppo allettante per lasciarsela sfuggire. Da un vuoto all’altro è pertanto un movimento dal centro di un bersaglio al centro dell’altro, da Teseo a Milton, e il minuscolo gnomo di Dickinson reca davvero in sé una minaccia impercettibile.

Ciò che ho sottolineato fin qui è un esempio del gesto di togliere il nome alle cose, molto simile alla parabola di Ursula Le Guin in cui Eva toglie il nome alle bestie. Il titolo di Le Guin (She Unnames Them) potrebbe essere stato una creazione di Dickinson, se quest’ultima si fosse mai degnata di fare ricorso a un titolo. Se potessi, mi servirei di questo come titolo anziché di The Complete Poems of Emily Dickinson. La poetessa non smette mai di togliere i nomi, proprio come, in un gesto sublime e irriverente, toglie il nome persino ai vuoti. Emerson esortava il poeta a togliere e ridare nomi. Whitman evitava con prudenza di dare o togliere nomi. Dickinson non era molto interessata a ridare nomi, perché ciò avviene dopo la riconcettualizzazione, che è così simile all’atto del togliere il nome. Non mi interessa trasformare Dickinson nel Wittgenstein di Amherst più di quanto mi interessi considerarla la precorritrice di Adrienne Rich e altri ribelli alle tradizioni poetiche patriarcali. Lo stile inventato da Dickinson è difficilissimo da emulare e non ha avuto molta influenza sulle migliori poetesse americane del XX secolo: Marianne Moore, Elizabeth Bishop e May Swenson. L’influsso di Dickinson emerge con maggiore chiarezza in Hart Crane e Wallace Stevens, che ereditarono la sua passione per il gesto di togliere i nomi, gettando via luminari e definizioni, senza però riuscire a uguagliarne il complicato intelletto. Il compianto Sir William Empson pensava a Hart Crane quando affermò che la poesia del nostro tempo era divenuta un gioco di prestigio, un atto di disperazione dalle implicazioni quasi suicide. A parte Kafka, non mi viene in mente nessuno scrittore che abbia espresso la disperazione con la stessa forza e la stessa continuità di Dickinson. Tutti avvertiamo che la disperazione di Kafka è soprattutto spirituale; quella di Dickinson sembra essenzialmente cognitiva. La poetessa era abbastanza emersoniana da esaltare il suo capriccio, e abbastanza miltoniana da diventare una setta composta da una sola persona, sull’esempio ma non nello stile di William Blake. La sua angoscia è intellettuale ma non religiosa, e tutti i tentativi di interpretare Dickinson come una poetessa devozionale sono naufragati. Nella sua poesia, l’entità di nome «Dio» si trova in una situazione molto difficile e viene trattata con rispetto e comprensione assai minori rispetto a quelli mostrati verso l’entità rivale che Dickinson chiama «Morte». La poetessa si innamorò di uno o due ecclesiastici e di un giudice, senza però sprecare mai il suo affetto per un amante che, diceva, era troppo lontano e solenne per lei. Un poeta che si rivolge a Dio come padre solo dopo averlo definito ladro e

banchiere merita qualcosa di diverso dalla pietà. L’originalità letteraria assume dimensioni scandalose in Dickinson, e la principale componente di quell’originalità è il modo in cui la poetessa pensa in tutte le sue composizioni. Comincia prima di cominciare, con l’atto implicito del togliere i nomi compiuto sul vuoto miltoniano-coleridgeanoemersoniano e con la sottintesa sostituzione shakespeariana. In seguito scarta il tropo ripristinandone l’aspetto diacronico; sa implicitamente più di quanto noi sappiamo sull’inadeguatezza temporale della metafora. Lo imparò in parte leggendo Emerson, ma ancor più da sola; Emerson non aveva espresso nulla di simile alla diffidenza dickinsoniana verso la tirannia storica delle metafore dell’immortalità poetica e della sopravvivenza spirituale. E sebbene la poetessa sia abbastanza tardoromantica da andare alla ricerca di ciò che Stevens avrebbe definito un precocissimo candore, il senso della sua Bianca Elezione si accompagnava a una diffidenza ancora maggiore verso il costo di una precocità raggiunta nuovamente. Se siete la più grande poetessa occidentale mai vissuta, potete permettervi di riverire la signora Browning, che non è davvero capace di inibirvi. Come Whitman, Dickinson è la più pericolosa delle influenze dirette. I seguaci più fedeli di Whitman sono quelli più nascosti: l’Eliot della Terra desolata e Stevens. Allo stesso modo, la massima influenza di Dickinson si osserva in Elizabeth Bishop e May Swenson, che si sforzarono di non assomigliarle sulla superficie poetica. La sua affinità più ovvia è quella con la poesia di Emerson, ma i suoi immediati precursori, come quelli del filosofo, sono i tardoromantici inglesi, e le sue affiliazioni nascoste sono sorprendentemente shakespeariane. L’immensa eredità della tradizione maschile le assicurò un singolare vantaggio, poiché Dickinson aveva un originale rapporto con quel cosmo letterario. La critica femminista, incapace o poco disposta a rendersi conto che l’agone è la ferrea legge della letteratura, continua a trattare Dickinson come una compagna anziché come la figura piuttosto ostile che non può fare a meno di essere. Vi sono grandi poeti che si possono leggere quando si è esausti o persino disperati, perché consolano nella migliore accezione del termine. Wordsworth e Whitman rientrano senza dubbio in questa categoria. Dickinson richiede una partecipazione così attiva che la mente del lettore deve essere nelle sue condizioni migliori. Ogni volta che ho tenuto una lezione sulle sue poesie, ne sono uscito con un terribile mal di testa, perché le difficoltà vanno oltre i miei limiti. Il mio compianto maestro William K. Wimsatt traeva un macabro piacere dai miei seminari su Dickinson, che, a suo dire, confermavano il mio

status di monumento a ciò che lui aveva definito Fallacia affettiva; certo, Dickinson è una minaccia per chiunque creda che la letteratura sublime sia un invito a quello che un tempo si chiamava «trasporto». Dickinson nutriva un perfido amore per quel sostantivo e per il verbo corrispondente. Dai suoi manoscritti emerge che considerava «terrore» e «rapimento» come sinonimi di «trasporto». In una simile fusione di terrore e rapimento, a prima vista la poetessa pare regredire a una corrente di sensibilità in voga un secolo prima, nell’era letteraria del Sentimentalismo e del Sublime. Il suo «trasporto» è tuttavia qualcosa di totalmente diverso, anzi è la differenza che fa la differenza nel pragmatismo emersoniano, come avviene qui, nella poesia 1109, composta intorno al 1867: Mi preparo per loro E cerco il buio finché non sia pronta. Il lavoro è solenne, Con una sola e sufficiente dolcezza: Che una rinunzia come questa mia Procuri loro un cibo Più puro, se riesco – Se non riesco, avrò avuto il trasporto Del desiderio.

Nove versi su cui rompersi la testa, ma dimentico di rado la reinterpretazione di Shelley sul Sublime compiuta da Angus Fletcher, secondo cui il Sublime ci persuade a rinunciare ai piaceri più facili per viverne altri, più difficili e dolorosi. Freud non sarebbe stato molto soddisfatto di una simile formulazione, che pare innalzare il suo cosiddetto «premio di seduzione» mediante criteri sadomasochistici. Le cinque parole che costituiscono il centro di questa breve e vigorosa poesia sono «preparo» e «pronta», e la triade «buio», «trasporto» e «desiderio». L’interrogativo cruciale della poesia è «Chi sono il buio?» anziché «Che cos’è il buio?», una distinzione che fondo sul «loro» di «mi preparo per loro», dove «loro» sembra essere l’antecedente del «buio». In Dickinson, il buio, contrapposto alla «tenebra» sembra talvolta ciò che io e voi chiameremmo «i morti». Quasi tutti i poeti poderosi richiedono implicitamente che impariamo il loro linguaggio, leggendo tutte o quasi le loro poesie. In Dickinson, tanto vale che la richiesta sia esplicita, come vediamo studiando la poesia 419, composta intorno al 1862: Ci abituiamo al Buio Quando la Luce è spenta Dopo che la vicina ha retto il lume Che è testimone del suo addio, Per un momento ci muoviamo incerti

Perché la notte ci rimane nuova, Ma poi la vista si adatta alla tenebra E affrontiamo la strada a testa alta. Così avviene con tenebre più vaste Quelle notti dell’anima In cui nessuna luna ci fa segno, Nessuna stella interiore si mostra. Anche il più coraggioso prima brancola Un po’, talvolta urta contro un albero, Ci batte proprio la fronte – Ma, imparando a vedere, O si altera la tenebra O in qualche modo si abitua la vista Alla notte profonda E la vita cammina quasi dritta.

Il meraviglioso umorismo dei più coraggiosi che urtano contro un albero battendoci proprio la fronte contribuisce a salvare la composizione da un’allegoria troppo semplicistica. A mio giudizio, la poesia si incentra su «la vista si adatta alla tenebra», che profetizza la composizione di cinque anni dopo, «Mi preparo per loro / e cerco il buio / finché non sia pronta». La poesia precedente tratta il superamento della nostra paura dei morti e pertanto della nostra morte, mentre la successiva, «Mi preparo per loro», inizia da qualche parte oltre la trepidazione. Prepararsi per i morti, prepararsi per il buio è un obiettivo che si raggiunge mediante una lunga e deliberata meditazione sui morti. Ciò che segue comincia a essere un ragionamento molto arduo: che cosa può voler dire Dickinson definendo questa meditazione la sua astinenza, e aggiungendo che, se riuscirà nell’impresa, verrà prodotto un cibo più puro per il buio, per i morti? A meno che non leggiamo questi versi in termini occultistici, qui ci sembra di avere un equivalente di ciò che Freud chiamava, con una grande metafora, «il lavoro del lutto». Dickinson anticipa Rilke e Celan, il suo traduttore, associando un accurato adattamento tra chi piange e chi viene pianto con il cibo più puro che sostituisce quello meno adatto a un lutto destinato a trasformarsi in malinconia. Nonostante la magnifica linearità della poesia, Dickinson aggiunge, con prudenza, «se riesco». Resta una consolazione che è una crudele ironia: «Avrò avuto il trasporto / del desiderio». Ciò svuota il «trasporto», suggerendo che si tratta di una sineddoche del fallimento nella disciplina del lutto, e lo ricollega a quanto la poesia precedente, «Ci abituiamo al Buio», ci dà come alternativa più semplice all’alterazione della tenebra, anziché l’adattamento della vista alla notte profonda, la vera conquista dell’abitudine al buio, ai morti.

Dickinson non era un’adoratrice della notte profonda come sarebbe stato Yeats. Quando quest’ultimo scrisse che Dio avrebbe vinto al rintocco della mezzanotte, intendeva che la morte avrebbe trionfato, poiché Dio e la morte sono quasi equivalenti nella sua variante della visione gnostica. In Dickinson non vince Dio né la morte, perché la poetessa sta bene attenta a tenerli separati. Voleva che vincesse la poesia, «quest’amata Filologia», e alla fine la sua poesia ha vinto, lungo la strada rigidamente limitata che conduce in una tradizione ininterrotta da Petrarca al presente. Secondo studiosi diversi, le Laura petrarchesche di Dickinson sarebbero state uomini diversi, e la passione interiorizzata che la poetessa nutriva per loro, qualunque fosse il suo rapporto con la realtà, la ricompensò senza dubbio con una serie di metafore della poesia. Ecco qui un’altra delle sue brevi e incredibili liriche del trasporto, del vuoto e della morte, composta, nella versione inglese, di trentasei parole distribuite in otto versi concisi: la poesia 1153, scritta forse nel 1874, una dozzina d’anni prima che la poetessa morisse. Attraverso quali trasporti di Pazienza Raggiunsi la stolida Beatitudine Di respirare il mio vasto Vuoto senza te Me lo attesti questo e questo – Da quella sterile esultanza Ottenni più o meno questo Il tuo privilegio di morire Mi abbrevi questo –

A sciogliere le ironie è qui una tetra esultanza fine a se stessa. «Trasporti di Pazienza» è un ossimoro persino per Dickinson, che tende a seguire Keats nella dipendenza da una retorica di apparenti contraddizioni. Jane Austen avrebbe ammirato i «trasporti di Pazienza» come caratteristici del suo genere di ironia. «Stolida Beatitudine» è ancora più efficace come preparazione al sinistro processo di respirare il proprio Vuoto, il che trasferisce la rovina incontrata nella natura non tanto all’occhio corporeo emersoniano quanto alla vitalità. Da qui in avanti, tutto è difficoltà, incentrata sui quattro «questo». La poesia ruota intorno al contrasto tra il quarto e l’ottavo verso, «Me lo attesti questo e questo» e «Mi abbrevi questo». È il morto amato (o forse amante) che viene esortato ad attestare e abbreviare. Parafrasare Dickinson è pericoloso ma talvolta utile, e qui proverò a farlo. Sola e gravemente malata di semplice sopravvivenza, la poetessa ribalta con ironia tutte le sue difficili vittorie di sopportazione e stoicismo rispetto alle sue molteplici perdite. L’estasi si è ridotta a pazienza;

la contentezza è divenuta stolida; respirare significa accettare una visione rovinata. Continuare senza la persona perduta significa ottenere un’attestazione mediante l’atto, che è il primo «questo». Il secondo «questo» riassume lo stato magnificamente definito «sterile esultanza», una condizione shakespeariana simile a quella che potremmo provare alla fine della scena della morte di Amleto. Con il terzo «questo» («più o men questo») raggiungiamo il momento presente della poesia e il suo unico ossimoro positivo, il «privilegio di morire». L’ultimo «questo» è un residuo di vita, una morte nella vita. «Mi abbrevi questo» non è una preghiera né una richiesta, bensì un’asserzione di merito, un movimento verso ciò che è stato guadagnato, un affrancamento dalla disperazione di dover continuare a vivere. Nella lingua inglese, sia essa britannica o americana, esiste forse una breve lirica di profonda disperazione più meritevole di questa? Che cos’hanno in comune, per Dickinson, i «trasporti», i «vuoti» e il «buio»? Dickinson non è il primo poeta postcristiano della sua nazione, definizione che spetterebbe a Emerson, e senza dubbio giunge indirettamente al suo originalissimo atteggiamento di spiritualità, a differenza di Whitman, che in questo, e solo in questo, sembra diretto. Dickinson, tuttavia, aveva la mente migliore di tutti i nostri poeti, precedenti e successivi, e fa luce sulla religione americana come nessun altro scrittore. L’equivalente estetico della miscela americana di orfismo, entusiasmo e gnosticismo è l’originalità, e neppure Emerson pensò, attraverso l’originalità, con lo stesso acume di Dickinson. Quest’ultima voleva l’originalità persino nella disperazione, e la ottenne. Per lei, la disperazione è anche un’estasi o trasporto, e i vuoti non si possono distinguere dal buio, non tanto a causa della cecità quanto perché la poetessa nutre una profonda diffidenza verso tutto ciò che si potrebbe definire sentimento. L’amore, lo sa, non è un sentimento, mentre il dolore è un sentimento in tutto e per tutto. Vi è un aforisma wittgensteiniano che è pura Dickinson: L’amore non è un sentimento. L’amore, a differenza del dolore, viene messo alla prova. Non si dice: «Quello non era vero dolore perché è svanito così rapidamente».

Qualunque fossero le preferenze psicosessuali di Dickinson, quest’ultima non apprezzava il dolore come tale, perché si era fatta largo fino all’altra faccia del sentimento. Per lei, la disperazione non è un sentimento; come l’amore, la disperazione viene messa alla prova. Le sue poesie più originali costituiscono spesso quella prova e vengono giustamente annoverate tra le sue creazioni più celebri, come la 258: V’è un angolo di luce

Nei meriggi invernali Che opprime come musica D’austere cattedrali. Una celeste piaga Ci dà, senz’altro segno Che il tramutarsi intimo D’ogni significato. Insegnarla è impossibile – Il suggello è l’angoscia, Imperiale afflizione Discesa a noi dall’aria. Quando viene, il paesaggio Ascolta, fino l’ombre Trattengono il respiro. E quando va, somiglia alla distanza Sul volto della morte.

Suppongo che, per Dickinson, i trasporti avessero a che fare con la luce quanto i vuoti e il buio. Il suo miglior biografo, Richard Sewall, osserva in un’elegante minimizzazione, che la poetessa «era una sorta di specialista della luce» e cita la sua incantevole affabilità nei confronti di Wordsworth, il suo precursore, in una lettera del marzo 1866, cinque anni dopo la grande lirica «Angolo di luce»: «Febbraio è passato come un pattino e conosco marzo. Ecco che la “luce”, diceva lo Straniero, “non era sulla terraferma né in mare”. Io potrei fermarla, ma non Lo mortificheremo». Lo Straniero è Wordsworth, perché Dickinson lo identificava con l’attesa di un forestiero desiderato in Gelo a mezzanotte di Coleridge. Nella produzione della poetessa, la natura e la coscienza vengono spesso definite Straniere, e talvolta Dickinson si rivolge alla forma composita del maestro o del precursore maschile con il termine «Straniero». Quando Wordsworth, nelle Elegiac Stanzas su Peele Castle, aveva scritto e confessato mestamente che la luce visionaria non era mai sulla terraferma né in mare, bensì era solo il sogno del poeta, non aveva avuto il vantaggio di osservare le fasi finali di un inverno del New England, «quando i pomeriggi ritornano», per citare la riscrittura di «Angolo di luce» proposta da Wallace Stevens nelle sue Poesie del nostro clima. «Che cosa c’è qui salvo le condizioni atmosferiche?» – un grandioso interrogativo stevensiano – trova una risposta prolettica (come Stevens ben sapeva) nella superba lirica dickinsoniana della disperazione. La poesia di Dickinson è un trasporto di negazioni che cattura in maniera sublime il vuoto dei vuoti al centro di un bersaglio di visione, gli ossimori della «celeste piaga» e dell’«imperiale afflizione». I sostantivi sono «piaga» e «afflizione»;

la luce veicola il dolore della disperazione, ma gli aggettivi, «celeste» e «imperiale», suggeriscono che la luce dovrebbe essere la benvenuta, che veicola qualcosa di mirabile. Dopo tutto, essere oppressi dalla musica d’austere cattedrali è una peculiare modalità di oppressione, accessibile solo a una sensibilità vigile e intensificata. Essendo una pragmatista emersoniana, Dickinson scoprì «il tramutarsi intimo» che provoca una mutazione, un’alternanza di significati che trascende la possibilità di ulteriori istruzioni. Quel particolare angolo di luce, «certo» in un duplice senso, viene identificato come «suggello è l’angoscia», non come uno dei sette suggelli della rivelazione, bensì qualcosa di più simile a un’inversione del suggello erotico posato sopra il cuore nel Cantico dei cantici: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la gelosia; le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore!

Dickinson non trova alcun segno, ma un sigillo è stato messo su di lei. La disperazione, come spesso accade nelle sue poesie più poderose, è esplicitamente ontologica ma segretamente erotica, e il particolare angolo, o angolazione, di luce esprime la malinconia della perdita. Ciò fa parte del significato nascosto dell’«intanto» sottinteso dell’ultima stanza, dove la poetessa ci parla dell’andare e del venire dell’angolo di luce, evitando il breve intervallo in cui quell’angolo prevale. Il paesaggio in ascolto e le ombre che trattengono il respiro sono tra le più belle figurazioni di Dickinson, ma ancora più bella è la sua ellissi. Tutta la poesia ci descrive l’effetto della luce, ma non ci fornisce alcuna descrizione della luce stessa, limitandosi a precisare che scende con un certo angolo. Ogni parola ha un preconcetto o un’inclinazione, diceva Nietzsche, e così ogni parola, essendo un pregiudizio, è già un angolo, proprio come, secondo Dickinson, ogni verità andrebbe raccontata da un certo angolo. La parola «angolo» è dunque una parola di parole e, usandola, Dickinson la trasforma nell’ennesima metafora della sua disperazione. Non credo che l’interpretazione standard di questa poesia sia dickinsoniana; la composizione non riguarda infatti la paura della mortalità. Ciò che l’angolo di luce aggiunge al «tramutarsi intimo» è un’intuizione del tutto diversa, un’intuizione che implica un’ulteriore perdita erotica, la quale metterà un altro sigillo sul cuore della poetessa. In Dickinson, anche il più vuoto o negativo dei trasporti fa parte del Sublime americano ed è una celebrazione della misteriosità di un io che non fa parte della natura. A mio giudizio, anche il suo angolo di luce non fa parte della natura. È la sineddoche di un particolare angolo nella coscienza di Dickinson. Blake dice

che diventiamo ciò che guardiamo, ma Dickinson è vicina a Emerson, secondo cui possiamo vedere solo ciò che siamo. Quel che opprime Dickinson non è del tutto esterno; l’imperiale afflizione è, in certa misura, già sua, come la celeste piaga. In questa poesia, la sua coscienza, raramente passiva, viene rappresentata in maniera impercettibile come risposta alla luce invernale con uno scintillio aggiuntivo. A differenza di Wordsworth, lo Straniero, la poetessa affermò giustamente di aver fermato la luce che non era mai esistita, sulla terraferma né in mare. L’elemento più misterioso di «Angolo di luce» è il differimento del significato, un differimento intensificato ben al di là della prassi generale, già estrema, di Dickinson. In una lirica di «tramutarsi intimo», un silenzio segue la luce e ne costituisce il significato più profondo. Un anno dopo, nella poesia 627, la poetessa scrisse la sua opera più importante giungendo a un’intuizione analoga. Ad eccezione dei Lillà di Whitman, questa composizione mi sembra il vertice della poesia americana e, con il testo di Whitman, l’autentico Sublime americano: La Tinta che non posso avere – è la migliore – Il Colore troppo remoto Perché io lo possa mostrare in un Bazar – Ad una Ghinea ad occhiata – La fine – impalpabile Sfilata – Che s’impone all’occhio Come una Corte di Cleopatra – Replicata – in cielo – Gli Istanti di Dominio Che avvengono sull’Anima E la lasciano con uno Scontento Troppo squisito a dirsi – Il bramoso sguardo – sui Paesaggi – Come se essi trattenessero appena Qualche Segreto – che stesse premendo Come Bighe – nella Veste – L’Invocazione dell’Estate – Quell’altra Burla – di Neve – Che Imbottisce il Mistero con il Tulle, Per paura che gli Scoiattoli – sappiano. I loro modi Inafferrabili – ci deridono – Finché l’Occhio Ingannato Serra arrogante – nella Tomba – Un altro modo – di vedere –

Qui è compendiata la sua poetica, insieme emersoniana e controemersoniana, una nuova e totale fiducia in se stessa e un grandioso gesto di togliere il nome, un atto di negazione dialettico e profondo quanto

quelli tentati da Nietzsche o Freud. «La Tinta che non posso avere» sa, come nessun’altra poesia del secolo di Dickinson, che siamo sempre assediati da prospettive. Tutta l’arte di Dickinson ai suoi limiti estremi, come in questa composizione, consiste nel pensare e nello scrivere la propria strada fino a uscire da quell’assedio. La poetessa sa tuttavia che siamo governati dalla contingenza di vivere dentro la poesia primordiale delle prospettive dei nostri precursori. Gli aforismi della Volontà di potenza di Nietzsche, scritti una generazione dopo la maggiore fase di Dickinson, si possono leggere come commenti alla «Tinta che non posso avere – è la migliore». Ecco qui di seguito un centone della sezione 1046 (1884 circa) della Volontà di potenza: 1) Noi vogliamo conservare i nostri sensi e la fede in loro – pensarli fino in fondo! La controsensualità della filosofia sinora esistita è il massimo controsenso dell’uomo. 2) Vogliamo proseguire la costruzione del mondo presente, a cui ha lavorato tutto ciò che vive sulla terra (mosso durevolmente e lentamente) – non vogliamo criticarlo e negarlo come falso! 3) Le nostre valutazioni costruiscono quel mondo: accentuano e sottolineano. Che importanza ha il fatto che delle religioni dicano: «tutto è cattivo e falso e maligno»? Questa condanna dell’intero processo può essere solo un giudizio da falliti! 4) È proprio vero che i mal riusciti possano essere i più sofferenti e i più fini? I soddisfatti avrebbero poco valore? 5) Si deve comprendere il fenomeno artistico fondamentale che si chiama «vita» – lo spirito costruttore che edifica nelle circostanze più sfavorevoli, con estrema lentezza. La dimostrazione di tutte le sue combinazioni deve essere fornita di nuovo, così: dura e si conserva.

Nietzsche propone un duplice atteggiamento, che Emerson e Dickinson avevano già assunto. Occorre al tempo stesso riconoscere la contingenza delle nostre percezioni, ma anche trovare una nuova direzione per quelle percezioni, come se nessuno le avesse percepite e descritte prima di noi. L’accento di tutta la poesia della «Tinta» cade su ciò che non può essere acchiappato, un segreto inafferrabile, un tropo o una metafora inesprimibile. Il celebre verso conclusivo «un altro modo – di vedere –» è stato mal interpretato dai critici femministi come un’alternativa di genere alla visione. Questa è tuttavia una poesia estremamente difficile, seppur bellissima, e si presta solo a una lettura molto attenta, non all’ideologia o allo zelo polemico, per quanto benevoli in termini di finalità sociale. Nei momenti più brillanti di Dickinson, ci troviamo di fronte alla migliore mente comparsa tra i poeti occidentali nel corso di quasi quattro secoli. Qualunque siano i nostri scopi o le nostre politiche, dobbiamo prestare molta attenzione a non confondere i nostri atteggiamenti con i suoi. Emerson, Nietzsche e Rorty ci mettono in guardia dagli sconcerti del prospettivismo, mentre Dickinson, pur facendo lo stesso, ha anche la forza poetica di alludere a un aldilà, un altro modo di

mettere in relazione dialettica l’io e le contingenze della tradizione canonica. Nel 1862, quando Dickinson aveva trentun anni, iniziò la sua corrispondenza con il bonario seppur perplesso Thomas Wentworth Higginson, un eroe sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, ma non proprio un Emerson in fatto di intelletto. Per la poetessa, Higginson era una delle poche persone cui rivolgersi per trovare un pubblico ma, come gli altri, rappresentava una ricerca altamente qualificata da parte sua. Le fornì l’ennesima conferma che la tinta o il colore cui Dickinson aspirava era così remoto che metterlo in mostra nel bazar della pubblicazione era assurdo. Nondimeno, la prima stanza non è vanteria; l’enfasi principale non è sul bazar bensì sui limiti dell’arte di Dickinson, su ciò che quest’ultima vorrebbe afferrare o prendere, ma non può. Quattro tropi (o colori) vengono proposti successivamente per adombrare «la Tinta che non posso avere»: un cielo, uno scontento dovuto all’esperienza di dominio vissuta dall’anima, una certa luce o «bramoso sguardo» sul paesaggio, la differenza stagionale tra estate e inverno. Tutti e quattro hanno la tinta come antecedente, ma sono alleati o unificati in maniera ancora più impercettibile da una crescente urgenza di rappresentazione, dal bisogno di descrivere la negatività di ciò che «non posso avere» sebbene il riconoscimento di una presenza venga indicato con vividezza. Questo quartetto di sublimi negazioni ha inizio con la baldanzosa eleganza della corte di Cleopatra, ripetuta mediante una tonalità keatsiana più ineffabile nell’«impalpabile Sfilata», visibile nel cielo. «Impalpabile» non è una parola molto dickinsoniana. La poetessa la usa solo un’altra volta in tutti i suoi 1775 poesie e frammenti, dove osserva che «l’afflizione sembra impalpabile / Finché Noi stessi non siamo colpiti –» (poesia 799). Forse ciò che lei non può avere, e dunque non può rendere, non l’ha colpita lei, cosicché la tinta o la sfilata sembrano puramente visionarie seppur viste davvero. Ciò sarebbe concorde con la stanza successiva dove «gli Istanti di Dominio… hanno luogo sull’anima» (il corsivo è mio) anziché nell’anima o per suo tramite. Al momento della transizione al paesaggio, ci troviamo ancora di più nella dimensione dell’impalpabile: Il bramoso sguardo – sui Paesaggi – Come se essi trattenessero appena Qualche Segreto – che stesse premendo Come Bighe – nella Veste –

A essere palpabile è il fascino, in tutte le accezioni del termine. La parola

«Repressed» (tradotta in italiano con «Trattenessero») compare solo qui in tutta la produzione dickinsoniana, e nella nostra età postfreudiana dobbiamo tenere presente l’antico significato della parola, legato all’occultamento o all’oblio più volontario che involontario. I bramosi paesaggi, umanizzati in misura insolita per Dickinson, serbano a fatica il loro segreto, probabilmente reso manifesto in un certo angolo di luce. Quel segreto viene in parte spiegato nella stanza successiva, la penultima rivelazione della poesia: L’Invocazione dell’Estate – Quell’altra Burla – di Neve – Che Imbottisce il Mistero con il Tulle, Per paura che gli Scoiattoli – sappiano.

La neve è un velo o un abito di tulle, di bianca seta inamidata; ma qual è il mistero che imbottisce o nasconde, qual è il segreto? Che cosa invoca l’estate, per poi vedere l’inverno rivelare che persino l’invocazione di una stagione è solo l’ennesima burla? Invocare, fare burle, imbottire, sono tutte evasioni incoraggiate da un sospetto umanizzato e prospettivato della natura, il sospetto che gli scoiattoli conoscano il segreto, che abbiano penetrato il mistero. Gli scoiattoli sono tuttavia la componente più misteriosa della composizione. Come dobbiamo leggere il sorprendente verso in cui si dice che «I loro modi Inafferrabili – ci deridono –»? Nella grande poesia 1733, tuttora non datata, vi è forse una chiave interpretativa: Nessuno ha visto l’orrore, né in casa sua Fu mai ammesso un mortale Sebbene presso l’orribile residenza Si sia trovata la natura umana. Non giudicandola dimora del terrore – Finché sforzandosi di fuggire Sulla comprensione si abbatté una morsa Che bloccava la vitalità.

L’orrore è Geova (o magari l’amato Signore giudice), e probabilmente la sua casa terribile e spaventosa è l’eternità, in cui non si entra senza cedere la vitalità alla morte. La morsa abbattutasi sulla comprensione è un’accorta difesa dal principio della realtà o da quello che Freud chiamava «familiarizzare con la necessità del morire». Quando i modi degli scoiattoli vengono definiti «Inafferrabili», e si dice che ci deridono, può significare che nessuna morsa si è abbattuta sulla loro comprensione della prova di realtà, a differenza di quanto è accaduto a noi. Continuiamo a venire derisi: Finché l’Occhio Ingannato Serra arrogante – nella Tomba – Un altro modo – di vedere –

L’occhio di ciascuno di noi è stato ingannato perché una morsa si è abbattuta sulla nostra comprensione, e l’occhio si chiude arrogante nella falsa aspettativa di riaprirsi, ovunque. Che cos’è «un altro modo – di vedere» nel contesto della Tomba? A meno che l’ultimo verso finale non sia pura, aspra ironia, e a mio parere non lo è, veniamo ricondotti al prospettivismo che Dickinson apprese da Emerson e poi sviluppò oltre quell’insegnamento, fino a giungere alla sua poetica negativa. Il suo nuovo prospettivismo è un altro modo di vedere perché vede ciò che non può essere visto: le forze che inseriscono i paesaggi e le stagioni nei significati umani. Non è l’occhio di Dickinson a essere ingannato, perché la poetessa ha rinunciato al saccheggio o all’appropriazione. Ciò che non può avere è davvero la cosa migliore, e la conseguente ricettività della sua volontà la ricompensa con una capacità unica di togliere il nome alle cose. La volontà di potenza è ricettiva anche in Emerson e Nietzsche, ma la sua reazione è l’interpretazione, cosicché, in loro, ciascuna parola diviene un’interpretazione dell’umano o della natura. Il modo di Dickinson, il suo modo di vedere o volere, privilegia l’indagine rispetto all’interpretazione e delinea una sorta di alterazione sia dell’atteggiamento umano sia dei processi naturali. L’originalità della poetessa non viene uguagliata neppure dalla forza dei suoi discendenti poetici: Wallace Stevens, Hart Crane e Elizabeth Bishop. La sua canonicità è frutto della sua singolarità compiuta, del suo arcano rapporto con la tradizione. Ancora di più, essa sgorga dalla sua forza cognitiva e dalla sua agilità retorica, non dal suo sesso o da qualunque ideologia legata al sesso. Il suo trasporto unico, il suo Sublime, si fonda sulla capacità di togliere il nome a tutte le nostre certezze tramutandole in altrettanti vuoti; e offre a lei, e ai suoi lettori autentici, un altro modo di vedere, quasi nel buio.

13. IL ROMANZO CANONICO: CASA DESOLATA DI DICKENS, MIDDLEMARCH DI GEORGE ELIOT Può darsi che la nuova Età teocratica del XXI secolo, sia essa cristiana o musulmana o entrambe le cose o nessuna, si amalgami con l’Era del computer, che incombe già su di noi nelle prime versioni di «ipertesto» e «realtà virtuale». Unito alla televisione universale e all’Università del risentimento (il cui consolidamento è già in fase avanzata) a formare un’unica rozza bestia, questo futuro cancellerebbe una volta per tutte il Canone letterario. Il romanzo, la poesia e il dramma potrebbero venire tutti sostituiti. Questo breve capitolo è una nostalgica analisi del romanzo canonico al suo culmine. Il romanzo, figlio dell’ormai arcaico genere del romance, divenne arcaico a sua volta quando i suoi limiti estremi furono toccati da Joyce, Proust, Kafka, Woolf, Mann, Lawrence, Faulkner, Beckett e dagli eredi sudamericani di Sterne e Faulkner. Durante il periodo della sua massima fioritura, nell’Età democratica, i maestri del romanzo furono numerosissimi: Austen, Scott, Dickens, Eliot, Stendhal, Hugo, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Turgenev, Goncharov, Dostoevskij, Zola, Flaubert, Hawthorne, Melville, James e Hardy, con un epilogo in Conrad. Dopo Conrad, l’ombra dell’oggetto si proiettò sull’ego e la narrativa in prosa entrò nell’era che ora sta per concludersi. Nessun romanziere dell’Ottocento, neppure Tolstoj, fu più vigoroso di Dickens, la cui ricchezza di inventiva rivaleggia quasi con quella di Chaucer e Shakespeare. Casa desolata, tende oggi ad asserire la maggior parte dei critici, è la sua opera centrale; Dickens nutriva un grandissimo affetto per David Copperfield, che tuttavia era il suo Ritratto dell’artista giovane. Il cosmo di Dickens, la sua Londra fantasmagorica e l’Inghilterra visionaria, emerge in Casa desolata con una chiarezza e un’intensità che superano il resto della sua produzione precedente e successiva. Nessun altro romanzo inglese inventa così tanto, anche se forse più nello stile di Ben Jonson che di Shakespeare. Spesso il protagonista dickensiano non può mutare e tende a essere sminuito dall’azione, osservazioni che traggo da G.K. Chesterton, il mio critico preferito di Dickens, oltre che di Chaucer e Browning. Non ci aspettiamo che Uriah Heep, Pecksniff e Squeers subiscano più mutamenti di coscienza di quanti potremmo osservarne in Volpone o in Sir Epicure Mammon. Senza dubbio, tuttavia, Esther Summerson continua a cambiare; nell’ingegnosa creazione della narrazione in prima persona a partire dal suo

carattere e dalla sua personalità, Dickens viene spesso sottovalutato. Devo ammettere che, ogni volta che rileggo il romanzo, tendo a piangere quando piange Esther Summerson, e non credo di essere un sentimentale. Il lettore deve identificarsi con lei o semplicemente non leggere il libro nell’accezione obsoleta di lettura, l’unica accezione che conti. Nella misura in cui restiamo traumatizzati, siamo versioni di Esther; come lei, «ricordiamo in anticipo». Esther piange di fronte a qualsiasi segno di amore e gentilezza; al nostro meglio, quando non siamo preda della morte in vita, anche noi siamo tentati di piangere. Il trauma ricorda in anticipo; ogni guarigione porta lacrime di gioia e sollievo. Il trauma di Esther è universale perché deriva dal fardello di essere orfana, e prima o poi tutti siamo condannati a restare senza genitori. I critici femministi sono stati sedotti dell’idea che Esther sia vittima di una società patrilineare, e tendono a non ammirare John Jarndyce, in netto contrasto con tutta l’arte dickensiana della rappresentazione; essendo un grande artista letterario, Dickens non è più patriarcale di Shakespeare, e, sul piano ideologico, il creatore di Rosalinda e Cleopatra non mi sembra patriarcale. Non sappiamo quale fosse l’ideologia dell’uomo Shakespeare. Dickens, marito, padre e profeta della saggezza casalinga, era senza dubbio un ideologo del patriarcato, il che provocò il giusto risentimento di John Steward Mill; ma il creatore di Ester Summerson, il romanziere Dickens, non è un ideologo. Esther, che non riesce a smettere di deplorare se stessa, è uno dei personaggi più intelligenti nella storia del romanzo e mi sembra un ritratto assai più autentico di elementi essenziali nello spirito dickensiano di quanto lo sia mai stato David Copperfield. Dickens non avrebbe mai detto ciò che Flaubert ha detto del suo rapporto con Emma Bovary; sarebbe stato molto strano se avesse confessato: «Esther Summerson sono io». Suppongo tuttavia che lo sia. Esther è la figura unificante della doppia trama di Casa desolata; è l’unica a tenere insieme il labirinto kafkiano della Cancelleria e la tragedia di sua madre, Lady Dedlock. Il suo legame con la Cancelleria non è la caduta di Richard Carstone e il suo matrimonio con Ada, bensì la negazione della Cancelleria da parte del tutore di Esther, John Jarndyce, una negazione cui la protagonista partecipa. La funzione principale di John Jarndyce in Casa desolata non è il fatto di essere il più amabile e, in sostanza, il più altruista dei patriarchi (e lo è), bensì il fatto che il suo reciso rifiuto della Cancelleria venga mantenuto con coerenza, in modo da dimostrare che un labirinto

costruito dall’uomo può essere distrutto dall’uomo. Uno degli effetti positivi dell’energica influenza esercitata da Dickens su Kafka è l’impatto borgesiano di Kafka sulla nostra comprensione di Dickens. La Cancelleria, come il Processo e il Castello di Kafka, è una visione gnostica: la Legge è stata usurpata dal Cosmocratore, dal Demiurgo. Blake non esercitò alcuna influenza su Dickens, tuttavia Casa desolata si legge come un libro molto blakeano grazie a una prospettiva gnostica comune, benché l’impulso eretico di Dickens sia tutt’altro che consapevole. In Casa desolata, la Cancelleria non può essere riformata; si incenerisce solo quando si smette di contemplarla, come fanno John Jarndyce e Esther. Sembra questo il significato apocalittico della combustione spontanea del povero signor Krook, la più celebre bizzarria di Casa desolata (anche se ve ne sono molte altre, tutte a vantaggio di un romanzo che è anche un fantasy-romance). Pazzo ma molto gentile, Krook si accende come un falò a causa dell’identità simbolica e autoammessa con il Lord Cancelliere. Esther Summerson ha sempre diviso i critici, dai tempi di Dickens fino ai giorni nostri; non credo abbia diviso i lettori comuni o i critici che sono rimasti lettori intuitivi. Le ironie retoriche di Casa desolata sono per lo più contenute nei capitoli del narratore anonimo. Dickens esclude l’ironia manifesta dalla narrazione di Esther finché quest’ultima non è abbastanza forte e guarita da formulare i suoi giudizi ironici, come fa alla fine contro Skimpole e altri. La protagonista non sembra tanto un esperimento dickensiano nella rappresentazione dell’altruismo o addirittura del trauma quanto l’unico grande tentativo dickensiano, e necessariamente shakespeariano, di descrivere il cambiamento psicologico. In un certo senso, Dickens crea Esther contro il proprio genio, come forse fu il primo a comprendere. Sebbene la fantasmagoria la travolga nella sua misteriosa malattia e nelle relative conseguenze, l’eroina appartiene meno al mondo di Dickens di quanto vi appartengano i suoi genitori, poiché sia Nemo sia Lady Dedlock scaturiscono dalla tipica turbolenza delle pulsioni dickensiane. Esther si distingue, così diversa dall’esuberanza di Dickens che talvolta quest’ultimo sembra in preda a un’affettuosa soggezione nei suoi confronti. Esther è il contributo di Dickens alla tradizione britannica di eroine della volontà protestante, discese da Clarissa Harlowe e culminate nelle donne innamorate di Lawrence, Ursula e Gudrun Brangwen; nelle sorelle di Forster, Margaret e Helen di Casa Howard; e nella Lily Briscoe di Gita al faro di Woolf.

Esther sembra meno solitaria se la confrontiamo con la Dorothea Brooke di Middlemarch o con Marty South di Nel bosco di Hardy. Una volontà altruistica è molto simile a un ossimoro, ma, a modo suo, Esther è dotata di una retorica formidabile, e il suo stile caratteristico è la minimizzazione. È una sopravvissuta, e la sua mitezza è una difesa contro il trauma. Tutta la sua personalità è un meccanismo teso a superare il trauma e a resistere alla folle società che attribuisce una colpa alla condizione di figlio illegittimo. Pur non sprecando mai energie combattendo contro la società, Esther non cede mai ai suoi osceni giudizi morali, nemmeno quando è una bambina costretta a sopportare le tirate della sua madrina riguardo alla sua perpetua vergogna. Fin da piccola, Esther sa di essere innocente e capisce che la sua salvezza dalla follia sociale dipende dalla sua intelligenza morale e dalla sua pazienza soprannaturale. La sua esplicita retorica di autodenigrazione è una difesa efficace, non solo da un sistema abominevole ma, cosa ancora più importante, dalla sua traumatizzazione, di cui è profondamente consapevole. Joyce non derivò «silenzio, esilio, astuzia» – le uniche armi che si concederebbe il suo Stephen – da David Copperfield bensì da Esther Summerson, che, nella sua oceanica passività, rimane la coscienza più formidabile di tutta la produzione dickensiana, anzi di tutta la letteratura britannica dell’Età democratica. L’avversione per Esther è una facile scelta per i critici «materialisti» della Scuola del risentimento. Esther non è proprio un ideale femminista o un esempio marxista di ribellione. La loro eroina in Casa desolata dovrebbe essere la splendida Hortense, precorritrice dell’ancora più superba Madame DuFarge in Storia di due città, scritto sette anni dopo. Hortense, come l’ancora più grintosa Madame DuFarge, stimola il masochismo di Dickens e del lettore, ma viene superata dalla sana resistenza dell’ispettore Bucket, il più curioso dei sorprendenti visionari dickensiani. L’attraente Hortense, espressionistica, impaziente, loquace e omicida, non è un surrogato di Lady Dedlock (come asseriscono i critici femministi), bensì l’antitesi di Esther, di cui mette in risalto la tranquillità e la saggia passività wordsworthiana. Esther è forse vittima di una società patriarcale? Il suo trauma è troppo individuale per poterlo ascrivere al più grande stigma impresso su una bambina illegittima in contrapposizione a un bambino bastardo. Non considero nemmeno la sua pazienza testarda come un fallimento dell’autostima. Qui, ancora una volta in maniera borgesiana, Kafka è utile per l’interpretazione di Casa desolata, perché è il maestro di quella che chiamerei

pazienza canonica; per Kafka, l’unico peccato è l’impazienza, e in Esther Summerson vi è qualcosa di terribilmente kafkiano. Mi riferisco più a Franz Kafka come persona che ai suoi personaggi o al suo cosmo inventato. Il trauma personale di Kafka è sorprendentemente parallelo a quello di Esther (e di Kierkegaard). Tutti e tre sono adepti del ricordo anticipato kierkegaardiano. È quasi come se Esther Summerson avesse atteso, fin dalla nascita, la comparsa di John Jarndyce, un padre forte e benevolo nonché la figura più incisiva creata dal Dickens di Casa desolata, ad eccezione della stessa Esther. Poiché quest’ultima è essenzialmente Dickens, o quello che Walt Whitman avrebbe definito il «vero io» o l’«io me stesso» di Dickens, John Jarndyce è il padre idealizzato che lo scrittore desiderava al posto del suo vero padre, tanto simile a Micawber. Oggi i critici delle nuove confessioni borbottano seccati che Dickens non ci rivela mai la fonte dei sostanziosi redditi di Jarndyce. Ciò equivale a fraintendere la natura di Casa desolata e a dimenticare che l’opera è tanto un fantasy-romance quanto un romanzo sociale. Il benevolo Jarndyce appartiene al romance; può darsi che piccoli elfi lavorino per lui da qualche parte, in una ridente valle, coniando oro fatato. I nomi che attribuisce a Esther puntano tutti a fare di lei la vecchietta (Dame Durden, Ragnatela o quant’altro) delle fiabe e il suo premuroso amore nei suoi confronti è insieme quasi materno e paterno. Tuttavia, in questo padre-madre da romance si mescola il pathos di una vita sprecata, di un grande rifiuto indubbiamente legato alla totale avversione di Jarndyce per il labirinto della Cancelleria. Dickens non svela che cosa sia stato a spingere questa fonte di benevolenza a ritirarsi anzitempo nella Casa desolata. Vale la pena notare che quasi tutte le figure importanti di Casa desolata si basano su prototipi: Skimpole sul saggista romantico Leigh Hunt; Boythorn sul poeta Walter Savage Landor; Bucket su un famoso ispettore della polizia di Londra; Hortense sull’assassina belga Maria Manning, alla cui esecuzione pubblica assistettero sia Dickens sia Melville. La signora Jellyby, la signorina Flute, il povero Jo e altri hanno tutti i loro modelli, mentre Esther sembra senz’altro assomigliare molto alla cognata preferita di Dickens, Georgina Hogart, che gli gestiva la casa. Sir Leicester Dedlock viene fatto risalire al sesto duca del Devonshire, mentre Lady Dedlock, come John Jarndyce, è pura invenzione. Qualcosa di Dickens, forse ciò che non diviene parte di Esther, trova espressione in Jarndyce; ma gli aspetti essenziali del tutore di Esther appartengono al romance, come anche Lady Dedlock. Jarndyce

rifugge dalla gratitudine, non a causa dell’autodistruttività, bensì perché non si tratta di una virtù da romance. La fuga di Lady Dedlock nella morte è invece pura narrazione da romance, una punizione parabolica di trasgressività femminile da parte di una società maschile. Se esiste un’espiazione, quest’ultima non è dovuta al fatto di aver riconosciuto una figlia illegittima, ma al fatto di averla affidata ad altri e di averla abbandonata a un’iniziale mancanza di amore. Questo elemento è, ancora una volta, più vicino al romance e ha poco a che fare con la politica patriarcale. Nel romanzo, la più drastica decisione di Dickens contro il romance si ha quando lo scrittore disobbedisce allo schema della rinuncia facendo in modo che Jarndyce si renda conto che la sua vera responsabilità nei confronti di Esther è paterna. Sposando Woodhouse anziché Jarndyce, Esther è libera da sovradeterminazioni: non ripeterà la storia di sua madre. Non si è sbarazzata completamente del trauma, e l’ossessione continua, ma sentiamo che la protagonista non si lascerà travolgere mai più dalle sue autonegazioni. È sorprendente come Dickens riesca a renderci partecipi della sua coscienza. Jarndyce è un altro discorso e, se brancoliamo un po’ nel buio, capiamo che gran parte di Jarndyce non è accessibile a Jarndyce, né tanto meno a Dickens. Qualunque cosa pensasse in merito, Jarndyce non è mai stato davvero in cerca di una moglie, bensì di due figlie e di un figlio. Perde il figlio, Rick, travolto dalla follia causata dalla Cancelleria, e finisce con Ada che torna da lui e con Esther che gli resta vicina. L’enigma irrisolto è il seguente: perché ha sognato di sposare Esther, dal momento che Jarndyce non è un essere sessuale mentre la protagonista (come sua madre) lo è senza dubbio? Forse la vera angoscia di Jarndyce era la possibilità che Esther si trasformasse in Lady Dedlock e dunque cadesse nella disperazione, ma la convivenza nella Casa desolata deve averlo liberato da quella paura. Forse la verità è molto semplice; Jarndyce si accorge di non essere forte come Esther e combatte la solitudine, lo spirito di solitudine che tormenta il mondo del romance, mediante la benevolenza attiva. Nessun lettore del romanzo crederebbe che Jarndyce nutra desideri carnali verso Esther; se il matrimonio progettato può essere definito semincestuoso, dev’esserlo dal punto di vista dell’eroina, non del suo tutore. Né Dickens né il lettore vogliono il matrimonio, e alla fine notiamo che neppure Esther e Jarndyce lo desideravano molto. L’enigma implicito è più vasto di Casa desolata; la questione della

volontà in Dickens mi sembra spiegare buona parte della singolarità e del fascino del suo mondo fittizio. In George Eliot, il lettore si imbatte in una lucidità morale che forse è senza paragoni nella narrativa di livello così alto, ma l’io è trasparente. La brulicante turbolenza del palcoscenico di Dickens esalta la pulsione al di sopra della volontà e talvolta ci induce a chiederci se nei personaggi dickensiani non vi siano diversi tipi di volontà. In Shakespeare, come in quella che abbiamo concordato di chiamare realtà, le volontà umane differiscono l’una dall’altra in termini di grado ma non di natura. In Dickens, gli individui davvero meschini hanno un certo tipo di volontà, i grandi grotteschi un secondo, e i più amabili un terzo. Sebbene i critici vedano giustamente in Jonson e Molière i precursori di Dickens, e Jonson in particolare condivida l’enorme brio dickensiano, Dickens non fu mai un drammaturgo. I suoi drammi non soddisfecero le sue aspettative; essendo uno spettacolo recitato da un uomo solo, che interpretava tutti i ruoli dei suoi romanzi, lo scrittore era travolgente, e il suo enorme dispendio di energie in quelle rappresentazioni al cospetto di un pubblico folto e adorante contribuì senza dubbio a ucciderlo all’età di cinquantotto anni. Sebbene Dostoevskij e Kafka lo seguano spesso, Dickens non ha un vero erede nella sua lingua. Come si può raggiungere ancora un’arte in cui le fiabe vengono raccontate come se fossero saghe di realismo sociale? Northrop Frye ha individuato il centro dickensiano nell’insistenza dei romanzi su ciò che non dovrebbe mai essere annichilato dallo stato di cose prevalente. I critici che si scontrano con la felice conclusione di Casa desolata, sembrano sempre fuori luogo: Pickwick rimane il personaggio dickensiano archetipico, e il più sublime momento di Dickens può benissimo essere la recitazione, nel Circolo Pickwick, dell’Ode a una rana morente da parte della moglie di Leo Hunter. Casa desolata contiene parecchie sublimi epifanie, come si conviene alla più vigorosa opera di Dickens, compreso un duplice momento in cui i due filoni narrativi del libro si uniscono nella fuga di Lady Dedlock. Il capitolo 56 del narratore finisce con una visione dell’ispettore Bucket: Colà, egli costruisce in mente un’alta torre, donde guarda lontano intorno intorno. Scorge molte figure solitarie che si trascinano attraverso le vie, molte figure solitarie che vagano per le brughiere e le strade di campagna o che son rannicchiate sotto un pagliaio. Ma non v’è fra esse quella ch’egli cerca. Ne scorge altre negli angoli dei ponti che guardano sull’acqua, e nei luoghi ombrosi sulle rive del fiume, e un’indistinta forma scura che va con la marea, più solitaria di tutte le altre, attira con forza la sua attenzione. Dov’è la signora Dedlock, viva o morta, dov’è? Se quel fazzoletto, che ora egli piega e accuratamente serba in tasca, potesse, per forza d’incantesimo, portargli innanzi il luogo dove fu trovato, il panorama notturno della cassetta nella quale servì a coprire il bimbo morto, scorgerebbe egli la fuggitiva? A traverso quel deserto, dove ardono le fornaci con un pallido bagliore azzurro, dove il

vento trasporta via i tetti di paglia delle misere capanne in cui si fabbricano i mattoni, dove l’argilla e l’acqua son rapprese e ghiacciate e dove il mulino, in cui gira tutto il giorno il magro cavallo cieco, sembra uno strumento di tortura umana – a traverso quel luogo triste e deserto, passa un’ombra solitaria, accecata dalla neve, staffilata dal vento e bandita, a quel che sembra, da ogni compagnia umana. Sì, è la figura d’una donna; ma è poveramente vestita, e cenci simili non varcarono mai l’atrio e non uscirono mai dal portone della magione dei Dedlock.

Qui Bucket è chiaramente un rappresentante di Dickens, e ciò che vede è la verità: l’imminente autodistruzione di Lady Dedlock. La visione cede il passo a un’immagine da incubo che presenta una sorprendente somiglianza con Childe Roland alla torre nera giunse; pur essendo stata pubblicata solo nel 1855, quest’ultima opera venne scritta da Browning nel 1852, lo stesso anno in cui Dickens cominciò Casa desolata. È poco probabile che Dickens abbia letto il poema prima di descrivere la visione di Bucket, anche se non è del tutto impossibile, perché talvolta John Forster passava i manoscritti di Browning a Dickens. Qui l’analogia è tuttavia più interessante di quanto potrebbe esserlo un’influenza diretta. Esattamente contemporanei (entrambi nati nel 1812), nel loro quarantesimo anno di vita Browning e Dickens elaborarono visioni parallele. Bucket vede il luogo «dove il mulino in cui gira tutto il giorno il magro cavallo cieco sembra uno strumento di tortura», mentre il cercatore di Browning scorge innanzi tutto «un cavallo cieco rigido e tutt’ossa, / levato in piedi istupidito, arrivato chissà come fin qua». E, dopo quel cavallo rosso e macilento, vede uno strumento infernale, simile allo «strumento di tortura» dickensiano: E più ancora – duecento passi avanti – perché là! Per quali torture era stata piazzata quella ruota, leva, non ruota, quell’ordigno dentato che dipana corpi umani seta? Preciso come lo strumento di Tofet, che ha dimenticato sulla [Terra O ce l’ha portato per affilarne i denti arrugginiti d’acciaio.

Browning e Dickens sono i due grandi maestri inglesi del grottesco, ma questo è l’unico punto di contatto tra i due. Qui lo stile visionario, comune a entrambi, ha come elemento dominante l’incubo della mortalità, forse perché sia l’uno sia l’altro giungono all’apogeo e divengono uomini di mezza età. Nel capitolo successivo a quello di Bucket, la visione di Esther Summerson ha inizio quando la protagonista accompagna l’ispettore in un vano inseguimento volto a salvare la fuggiasca Lady Dedlock: Le finestre che riflettevano le fiamme del focolare e le candele, così lucenti e calde per il freddo e il buio di fuori, si dileguarono subito, e di nuovo ci trovammo a sguazzare nella neve che si scioglieva. Si procedeva con una certa difficoltà; ma le strade non erano più orrende di come erano state, e la tappa sarebbe durata soltanto nove miglia. Il mio compagno che fumava a cassetta – avevo pensato nell’ultima locanda, vedendolo ritto innanzi al fuoco, avvolto da una bella nuvola di tabacco, di dirgli

di fumare pure se gli piaceva – si manteneva vigile come sempre, e di nuovo era svelto a scendere e a salire, quando ci trovavamo in vista d’una abitazione o di qualche creatura umana. Aveva acceso la lanterna, che sembrava egli prediligesse, perché la carrozza aveva i fanali, e ogni tanto la girava su di me per veder come mi sentissi. V’era un finestrino a due battenti sul dinanzi della vettura, ma non l’avevo chiuso, perché mi sarebbe parso escludere la speranza.

Lo «sguazzare nella neve che si scioglieva» rappresenta la rottura di uno scudo repressivo, che consente a Esther di conoscere meglio sua madre e conduce a un’altra visione del demoniaco mulino ad acqua di Browning: «E ripercorremmo la triste strada di prima, viaggiando nel fango e nella neve che si scioglieva e ci schizzava come l’acqua percossa da una ruota idraulica». Se Browning e l’ispettore Bucket vedono uno strumento di tortura, Esther Summerson vede tuttavia un ritorno di quanto è stato rimosso, distruggendo la barriera impostale dal trauma. Qui, come in molti punti di crisi della sua narrativa, le immagini di Dickens sono così profonde, accurate ed evocative da essere inquietanti. Nelle sue fantasie più audaci vi è una precisione occulta. Si potrebbe dire senza dubbio lo stesso di Edgar Allan Poe, che talvolta sembra una presenza spettrale in Casa desolata; ma la fantasmagoria di Poe trovava di rado un linguaggio adeguato alle sue intensità. La dizione e le metafore di Dickens non sono da meno della sua inventiva, da cui i trionfi della canonica singolarità di Casa desolata. L’esperienza della lettura di Middlemarch non ha quasi nulla in comune con l’immersione nel mondo di Dickens, in cui «lettura» sembra talvolta una definizione troppo tradizionale per il totale abbandono cui ci invita Casa desolata. Tra Shakespeare e Dickens, solo Byron ebbe qualcosa di simile al pubblico che Dickens ebbe sin dall’inizio, sin da quando aveva venticinque anni. La popolarità di cui il romanziere godette per tutta la vita si distingue, per natura e per grado, da quella di qualsiasi altro scrittore, compresi Goethe e Tolstoj, che non ebbero un effetto universale su tutte le classi sociali di così tante nazioni. Può darsi che Dickens, più di Cervantes, sia l’unico rivale di Shakespeare in termini di influenza mondiale e che dunque rappresenti – con Shakespeare, la Bibbia e il Corano – l’autentico multiculturalismo di cui già disponiamo. Il fatto che Shakespeare debba essere una sorta di Bibbia per laicisti non ci sorprende; è più stupefacente constatare che Dickens, tradotto e letto ovunque, è divenuto qualcosa di simile a una mitologia cosmica. La sua vastità canonica trascende il genere della narrativa in prosa, sebbene Shakespeare, rappresentabile e rappresentato ovunque, non possa essere confinato al teatro. In questo senso, Dickens costituisce di per sé un

pericoloso esempio del romanzo canonico dell’Età democratica. Balzac, Hugo e Dostoevskij hanno in sé almeno qualcosa della vastità dickensiana, benché ci portino più vicino ai limiti del romanzo canonico come conquista. Stendhal, Flaubert, James e George Eliot sembrano i romanzieri canonici inevitabili che si attengono sostanzialmente al genere; scegliendo Middlemarch di Eliot, sono guidato non solo dall’indiscutibile eminenza dell’opera, ma anche dalla sua peculiare utilità in questo brutto momento, in cui i moralisti in erba si appropriano della letteratura per scopi che, asseriscono, condurranno a mutamenti sociali. Se esiste una fusione esemplare di forza estetica e morale nel romanzo canonico, allora George Eliot ne è la migliore rappresentante, e Middlemarch è la sua analisi più sottile dell’immaginazione morale, e forse la più sottile mai effettuata nella narrativa in prosa. I piaceri che si ricavano da Middlemarch iniziano dalla forza delle sue storie e dalla profondità e vividezza delle sue caratterizzazioni, entrambi elementi che, a loro volta, dipendono dall’arte retorica di George Eliot, dalla sua padronanza delle risorse linguistiche, sebbene la scrittrice non sia una grande stilista. Tuttavia, è più che una romanziera; porta il romanzo nella sfera della profezia morale in un modo nuovo e vigorosamente sviluppato da D.H. Lawrence, che in superficie assomigliava poco a Eliot, ma in realtà era un suo discepolo. La discendenza dalla Dorothea Brooke di Middlemarch alla Ursula Bragwen di Donne innamorate è in linea diretta; la pienezza dell’essere è l’obiettivo della ricerca, e l’innegabile elezione del cercatore è una particolare varietà di coscienza morale, quasi del tutto distaccata dalle sue origini protestanti. Nietzsche affermava di disprezzare George Eliot per la sua presunta convinzione che ci si potesse liberare del Dio cristiano pur attenendosi alla morale cristiana, ma una volta tanto Nietzsche si è reso colpevole di una lettura scorretta e piuttosto superficiale. Eliot non è una moralista cristiana, bensì romantica o wordsworthiana; la sua concezione della vita morale scaturisce da Tintern Abbey, Resolution and Independence e dall’ode Intimations of Immortality. Riscontriamo insieme un’ammissione e una delicata ironia quando la scrittrice risponde al suo editore, che aveva «sentito il bisogno di luci più brillanti» nel pastorale Silas Marner: Non mi meraviglio che voi troviate la mia storia, nella misura in cui l’avete letta, alquanto cupa: in effetti, non avrei dovuto illudermi che qualcuno vi si interessasse a parte me stessa (giacché William Wordsworth è morto) se il signor Lewes non ne fosse stato fortemente colpito. Spero tuttavia che, nel complesso, non la giudichiate per nulla una storia triste, poiché getta – o si prefigge di gettare –

un’intensa luce sulle influenze riparatrici dei rapporti umani puri e naturali.

Silas Marner ci riporta a The Ruined Cottage, a Michael e a The Old Cumberland Beggar, alla visione di uomini e donne pastorali come il bene primordiale. Quel wordsworthianismo rimase sempre fondamentale per Eliot; la sua morale di rinuncia è significativa solo perché essa consiste nel trattare gli altri non solo come se il loro interesse trascendesse il proprio, ma anche come se fosse possibile persuaderli a praticare la medesima rinuncia. Isolato, questo sembra ora un idealismo arcaico; nella scrittrice, è la manifestazione pragmatica di un atteggiamento insieme morale ed estetico, poiché per «bene» Eliot e Wordsworth non intendono necessariamente una bontà convenzionale. Ci spingono verso un Sublime morale: agonistico, antitetico alla natura e a ciò che chiamiamo «natura umana», solitario e tuttavia aperto alla comunione con altri. È tuttavia impossibile vedere Wordsworth intento a scrivere romanzi. Middlemarch è un’enorme e complessa rappresentazione di un’intera società provinciale, una rappresentazione ambientata nel recente passato, il che non sembra rendere possibile una visione davvero wordsworthiana. Tuttavia, più di qualsiasi romanziere, Wordsworth rimane il precursore di George Eliot nella sua opera maggiore (se escludiamo la parte relativa a Guendolen Harleth in Daniel Deronda), o forse dovremmo parlare di un precursore composito, il Bunyan del Viaggio del pellegrino combinato con Wordsworth, un accostamento in cui seguo Barry Qualls. Middlemarch è ambientato nei primi anni Trenta dell’Ottocento, l’età della Riforma con cui iniziò l’era vittoriana, e l’idea di una speranza sociale fa da contrappunto in tutto il romanzo alla dura educazione morale dei protagonisti, Dorothea Brooke e Lydgate. Come rileva Qualls, quando questi due personaggi imparano in ritardo a sacrificare le finzioni del loro io, sono già esiliati o alienati da qualsiasi contesto comunitario. Pur ispirando sempre la narratrice, le visioni di Bunyan e Wordsworth sembrano estranee ai destini rassegnati di Dorothea e Lydgate; rimangono tuttavia appena sotto le apparenze della scelta. Riferendosi all’inganno di Lydgate da parte di Rosamond Vincy, Martin Price osserva che «George Eliot tentò un’opera di grande raffinatezza, lo studio di come le virtù di un uomo siano coinvolte nei suoi errori e in certa misura li causino». Al livello più sublime di The Ruined Cottage, quello è il pathos di Margaret, che distrugge se stessa e i suoi figli con la forza della sua apocalittica speranza nel ritorno del marito. L’ingegnosità è qui presente sia nell’inventore della poesia moderna sia nel

più intelligente di tutti i romanzieri, e vediamo ancora una volta quanto George Eliot fosse in debito con Wordsworth. In generale, la forza cognitiva non è una qualità che cerchiamo consciamente in un romanziere, in un poeta lirico o in un drammaturgo. George Eliot, come Blake e Emily Dickinson, e come Shakespeare, ripensò ogni cosa per se stessa. George Eliot è la romanziera come pensatrice (non come filosofa), e spesso la fraintendiamo perché sottovalutiamo la forza cognitiva che convoglia nei suoi prospettivismi. Esiste indubbiamente un’alleanza tra quella forza e la sua capacità di penetrazione morale, ma George Eliot possiede anche un’immediatezza del tutto autonoma come moralista, una caratteristica capace di liberarla da un’eccessiva autocoscienza che inibirebbe la sua disponibilità a giudicare i suoi personaggi, in modo implicito o esplicito. La sua discendente da questo punto di vista è Iris Murdoch, che spesso non regge un confronto diretto con George Eliot, ma nessun romanziere uguagliò l’autorità morale di quest’ultima più di un secolo dopo. Non abbiamo più saggi o sibille, letterari o spirituali, e proviamo insieme nostalgia e perplessità quando leggiamo che George Eliot venne accolta come un oracolo. L’aneddoto più celebre è quello di S.W.H. Myers, che descrive la visita della romanziera all’Università di Cambridge nel 1873: Ricordo che una volta, a Cambridge, passeggiai con lei nel Fellows Garden del Trinity College, in una piovosa sera di maggio; ed ella, spingendosi un poco al di là delle sue abitudini, e prendendo come testo le tre parole che così spesso erano state usate come appello agli uomini – le parole Dio, Immortalità, Dovere – osservò con terribile serietà quanto inconcepibile fosse la prima, quanto incredibile la seconda e tuttavia quanto perentoria e assoluta la terza. Mai, forse, accenti più gravi hanno confermato la sovranità di una Legge impersonale e ingenerosa. La ascoltai, e calò la notte; il suo volto grave e maestoso si voltò verso di me nel buio come quello di una sibilla; era come se sottraesse alla mia presa, uno per uno, i due rotoli della promessa e mi lasciasse solo il terzo rotolo, greve di fati inevitabili. E quando finalmente ci fermammo e ci dividemmo, al centro di quel colonnato circolare di alberi della foresta, sotto l’ultimo crepuscolo di cieli senza stelle, ebbi l’impressione di guardare, come Tito a Gerusalemme, sedie vuote e sale deserte, un tempio senza alcuna Presenza che lo santificasse, e un cielo svuotato da Dio.

Questa alta retorica, se fossimo noi a scriverla, suonerebbe ironica, ma sarebbe un’ironia di scarsa efficacia. Ironista quando voleva esserlo, George Eliot fu la meno comica dei romanzieri canonici, ma anche la più difficile da satireggiare; nella sua produzione vi sono solo parodie involontarie. La sublimità morale ci infastidisce quando non è sorretta da una causa o da un’istituzione. In parte, l’aura di George Eliot è sopravvissuta per noi; la intravediamo, ma abbiamo voglia di accantonarla, per parlare invece delle sue idee o della sua arte. Tuttavia, essa non svanisce del tutto, perché si fonda sui

romanzi, e in particolare su Middlemarch. Mentre Henry James, sottraendosi al ruolo di discepolo, meditava sulle lettere e sulle annotazioni di Eliot, pubblicate postume, dovette cadere nella stessa retorica della contemplazione del sublime: «Ma ne emana una sorta di fragranza di elevazione morale; un amore di giustizia, verità e luce; un modo ampio, generoso di guardare le cose; e un costante sforzo di tenere alta la torcia negli spazi bui della coscienza umana». James voleva essere elegiaco e non maligno, ma ci chiediamo come un romanziere, chiunque sia, possa sopravvivere a un simile elogio. Un romanzo canonico non deve essere letteratura di saggezza, e infatti pochissimi lo sono; forse lo è soltanto Middlemarch. Indietreggiamo di fronte al Dicembre del professor Corde di Saul Bellow; l’ho letto, e mi sono trovato d’accordo con ogni osservazione, ma sono stato irritato dalla sua incessante tendenziosità. In Middlemarch mi capita di rado di approvare i numerosi interventi della romanziera, che tuttavia sono gradevoli quanto il resto del libro. Il segreto estetico di George Eliot consiste nella padronanza di ciò che James, recensendola nel 1866, definì «una certa sfera intermedia in cui morale ed estetica agiscono di concerto». Forse non è un segreto quanto lo è la stessa George Eliot, perché non ricordo nessun altro grande romanziere precedente o successivo il cui moraleggiare esplicito rappresenti una virtù estetica anziché un disastro. Anche se si condivide appassionatamente la crociata contro gli esseri umani di sesso maschile promossa da Doris Lessing e da Alice Walker, la loro retorica dell’esclusione non è fonte di piacere. Un minuzioso esame di Middlemarch dovrebbe aiutarci a capire un po’ meglio come Eliot riuscisse ad armonizzare morale ed estetica. Middlemarch, come Daniel Deronda, l’ultimo romanzo della scrittrice, è concepito come una struttura ampia e ambiziosa con un legame implicito ma evidente con la Commedia di Dante. Alexander Welsh lo ha dimostrato a proposito di Middlemarch, e sia lui sia Qualls hanno rilevato la medesima influenza in Deronda. Il desiderio dantesco di conoscere e di essere finalmente conosciuti e ricordati viene interpretato da Welsh come il movente dei due grandi cercatori di Middlemarch: Dorothea, che in un certo senso è il surrogato dell’autrice, e Lydgate, per cui Eliot sembra nutrire una profonda ma cauta comprensione. Dante, il più ambizioso dei grandi scrittori, azzardò una visione del giudizio in cui tutti i personaggi raggiungevano inevitabilmente la definitività. Essi sfilano davanti a noi, ma non possono più cambiare; hanno già avuto la loro opportunità. George Eliot, una benevola

libera pensatrice, compì una scelta curiosa servendosi di Dante come paradigma, ma la sua capacità di esprimere severi giudizi morali contribuisce probabilmente a spiegare le sue somiglianze, di primo acchito sorprendenti, con il creatore della Divina Commedia, che forse l’avrebbe collocata nel canto V dell’Inferno benché per noi sia difficile considerare George Eliot e George Henry Lewes come una Francesca e un Paolo ottocenteschi. Le simpatie di Eliot nell’Inferno dovevano concentrarsi su Ulisse, la cui distruttiva ricerca di conoscenza umana è l’archetipo eroico seguito dai principali personaggi di Middlemarch. Riguardo a Lydgate, Welsh sottolinea che «è colui la cui levatura e punizione sono i più danteschi di tutti», ed è per questo che qui inizio con Lydgate e l’oscuro contrasto tra il capitolo 15, in cui ci viene presentato, e il capitolo 76, in cui ammette la sconfitta, abbandonando dunque ogni speranza di ulteriore conoscenza. Ecco dapprima un Lydgate di ventisette anni, medico promettente con una passione intellettuale per la ricerca: Non abbiamo paura di ripetere più e più volte come un uomo giunge ad innamorarsi di una donna e sposarla oppure a dividersi definitivamente da lei. È forse per eccesso di poesia o di stupidità che non ci stanchiamo mai di descrivere ciò che Re Giacomo chiamò le fattezze e la bellezza di una donna, non ci stanchiamo mai di ascoltare il suono metallico delle corde degli antichi trovatori e siamo relativamente indifferenti a quell’altro genere di fattezze e bellezza che deve essere corteggiato con pensiero operoso e una paziente rinuncia ai piccoli desideri? Anche nella storia di questa passione l’epilogo varia: talvolta c’è lo splendido matrimonio, talvolta la frustrazione e la separazione definitiva. E non di rado la catastrofe è congiunta con l’altra passione, cantata dai trovatori. Ché nella moltitudine di uomini di mezza età che si dedicano alla loro professione con un andamento quotidiano per loro determinato più o meno allo stesso modo del nodo della loro cravatta, vi è sempre un buon numero che un tempo ebbe intenzione di plasmare le proprie azioni e cambiare un po’ il mondo. La storia di come siano giunti ad essere plasmati come la media e adatti ad essere imballati a dozzine, non viene mai raccontata neppure nel segreto della loro coscienza; perché forse il loro ardore per un lavoro generoso e non pagato si raffreddò impercettibilmente come l’ardore di altri amori giovanili, finché un giorno il loro passato io si mise a camminare come un fantasma nella sua antica dimora e fece apparire spettrali i nuovi arredi. Nulla al mondo di più impercettibile del processo del loro mutamento graduale! All’inizio lo inspirarono inconsapevolmente; può darsi che voi ed io abbiamo mandato un po’ del nostro alito a contagiarli, quando abbiamo espresso le vostre menzogne conformiste o abbiamo tratto le nostre stupide conclusioni: o forse è giunto con i fremiti di uno sguardo femminile. Lydgate non voleva essere uno di quei falliti e si poteva sperare il meglio da lui perché il suo interesse scientifico ben presto assunse la forma di un entusiasmo professionale: aveva una fiducia giovanile nel suo lavoro retribuito, che non doveva venire soffocata da quell’iniziazione al compromesso chiamata i suoi giorni di apprendistato; ed egli portò nei suoi studi a Londra, Edimburgo e Parigi la convinzione che la professione medica idealmente era la più bella del mondo, in quanto presentava il più perfetto scambio fra scienza e arte; offriva la possibilità dell’alleanza più diretta fra conquista intellettuale e bene sociale. La natura di Lydgate esigeva questa unione: era una persona emotiva, con un senso umano della fratellanza che resisteva a tutte le astrazioni dello studio specialistico. Amava non solo i «casi clinici», ma John ed Elizabeth, soprattutto Elizabeth.

Qui «Re Giacomo» non è la Bibbia inglese, bensì Giacomo I in persona,

che parla della «forma e bellezza», ossia del contegno e dello splendore, di una dama. Il povero Lydgate, destinato a morire sconfitto a cinquant’anni, diviene uno dei tanti uomini di mezza età che non plasmano le loro azioni e che non cambiano affatto il mondo. Basta sostituire al nome del dottor Dick Diver quello del dottor Tertius Lydgate, e si possono inserire questi due paragrafi in Tenera è la notte, dove starebbero benissimo in termini di contenuto, anche se non in termini di forma. Come Lydgate, il Diver di Fitzgerald fallisce a causa di un matrimonio disastroso, e anche a causa di altre iniziative scaturite dalla commoness, o banalità, di entrambi i personaggi, come la chiama George Eliot. Frank Kermode osserva che «Middlemarch è un libro sugli aspetti sociali del matrimonio come L’arcobaleno è un libro sugli aspetti spirituali del matrimonio». Fitzgerald sembra essersi concentrato su entrambi gli aspetti; non avendo la straordinaria intelligenza di Eliot né l’intuito profetico di Lawrence, fallì nella sua impresa, sebbene Tenera è la notte rimanga uno splendido fallimento. Diver potrebbe benissimo essere il soggetto della magnifica affermazione di George Eliot, secondo cui Lydgate va alla ricerca dell’«immaginazione che rivela come azioni impercettibili siano inaccessibili a qualsiasi tipo di lente, ma vadano cercate in quell’oscurità esterna attraverso lunghi sentieri di sequenza necessaria, alla luce interiore che è l’estrema raffinatezza dell’Energia, capace di inondare persino gli atomi eterei nel suo spazio idealmente illuminato». Questa è la versione eliotiana del Paradiso di Dante, descritta come un pellegrinaggio secolare idealizzato, ed è la visione che Lydgate e Diver non riescono a concretizzare. Nella sua sconfitta, Lydgate anticipa ancora una volta il protagonista di Tenera è la notte, che finisce per esercitare la medicina in una o nell’altra delle cittadine sui Finger Lakes. Assistiamo al crollo di Lydgate nel capitolo 76, dove l’uomo dice a Dorothea: Per me è chiarissimo che non devo contare su nient’altro che andarmene da Middlemarch al più presto possibile. Nel migliore dei casi, non riuscirei per molto tempo a procurarmi un reddito qui e… è più facile sottoporsi ai necessari mutamenti in una nuova città. Devo fare come altri uomini, e pensare quello che piace alla gente e portare a casa soldi; cercare un piccolo varco nella folla di Londra e spingermi avanti; stabilirmi in una località termale, o andare in qualche città del Sud dove ci sono un sacco di inglesi oziosi, e lasciarmi lodare – questo è il genere di guscio in cui devo insinuarmi e cercare di tenerci viva la mia anima.

Questa è la caduta di Lydgate, da una ricerca paradisiaca della conoscenza a un luogo dove l’anima non può essere tenuta in vita, proprio come il corpo. Il destino opposto tocca a Dorothea, che sopporta un matrimonio purgatoriale con l’impotente Casaubon e sopravvive per sposare

Ladislaw, in un’unione che quasi tutti i critici trovano inadatta all’eroina, ma questo è un giudizio che non è di Dorothea né di George Eliot. Per quanto Lydgate sia una presenza incisiva, soprattutto nella sua caduta, il romanzo è comunque quello di Dorothea e avrebbe potuto benissimo intitolarsi Dorothea Brooke anziché Middlemarch. Virginia Woolf sosteneva che Dorothea parlava in nome di tutte le eroine della Eliot: È quello il loro problema. Non possono vivere senza religione, e cominciano a cercarne una sin da bambine. Ciascuna ha la profonda passione femminile per la bontà, il che fa del luogo in cui vive nell’aspirazione e nell’agonia il cuore del libro – silenzioso e claustrale come un luogo di culto – ma le impedisce di sapere chi pregare. Cercano il loro obiettivo nell’apprendimento; nei soliti compiti dell’essere donna; nel più ampio servizio del loro sesso. Non trovano ciò che cercano, e non possiamo meravigliarcene. In loro l’antica coscienza della donna, carica di sofferenza e sensibilità, e muta da tanti millenni, sembra essersi colmata fino a traboccare e aver espresso una richiesta di qualcosa – anche se non sanno cosa – che forse è incompatibile con i fatti dell’esistenza umana. George Eliot aveva un’intelligenza troppo forte per manomettere questi fatti, e un umorismo troppo ampio per mitigare la cruda verità. Eccezion fatta per il supremo coraggio della loro impresa, per le eroine la lotta finisce in tragedia o in un compromesso che è ancora più malinconico.

Ancora una volta, George Eliot non sarebbe stata soddisfatta dell’opinione di Virginia Woolf, secondo cui Dorothea finiva in un compromesso ancora più malinconico della tragedia, il che mi sembra un giudizio troppo severo sul secondo marito di Dorothea, il ben intenzionato ma un po’ inconcludente Will Ladislaw. Richard Ellmann, in un’acuta riflessione biografica sui «mariti di Dorothea», non trova alcun prototipo per l’infelice Casaubon, pseudostudioso di tutte le mitologie, ma suggerisce che il modello supremo fosse un lato più oscuro della stessa Eliot, la conseguenza di una lunga e precoce repressione sessuale e delle relative fantasie malsane. Altrettanto persuasiva è l’interpretazione di Ellmann, secondo cui il tedioso e idealizzato Will Ladislaw non è solo una versione di George Henry Lewes, primo marito di Eliot, ma anche di John Cross, più giovane della scrittrice di oltre vent’anni e suo secondo marito durante i suoi ultimi sette mesi di vita. Non si può dire che Eliot, come Dorothea, abbia trovato un suo pari in un marito; ma allora, a parte John Stuart Mill (che non era disponibile), dove trovare un suo pari intellettuale e spirituale? Lo straordinario «Preludio» a Middlemarch contrappone santa Teresa d’Avila a «queste nuove Terese» che «non furono aiutate da una fede condivisa e da un ordine sociale che potessero nutrire le loro anime ardenti di quel sapere di cui avevano bisogno». Nell’ultimo capoverso del Preludio, Eliot si abbandona a una forte lamentazione cupa, ironica e aggressiva per se stessa e per la sua Dorothea: Taluni hanno pensato che la confusione di queste esistenze sia da attribuire alla scomoda indeterminatezza con cui le Potenze Superiori hanno modellato la natura delle donne: se ci fosse un solo grado di incompetenza femminile, rigido come la capacità di contare fino a tre e basta, il destino

delle donne nella società potrebbe essere trattato con certezza scientifica. Frattanto l’indeterminatezza resta, e i limiti di variazione sono in realtà assai più ampi di quanto si potrebbe dedurre dall’uniformità delle acconciature femminili e delle storie d’amore in poesia e in prosa che vanno per la maggiore. Qua e là, nello stagno marrone, fra gli anatroccoli viene allevato con imbarazzo un piccolo cigno, che non trova mai il vivo flusso in armonia con la sua specie dalle zampe foggiate a mo’ di remi. Qua e là nasce una santa Teresa, fondatrice di nulla, i cui palpiti e singhiozzi traboccanti d’amore per un bene inattinto si spengono trepidi e si disperdono fra oracoli, invece di appuntarsi su qualche azione memorabile.

Quale posto del Paradiso avrebbe scelto Dante per una «fondatrice di nulla»? Per quanto George Eliot fosse decisa, non è una figura congeniale per gli attuali critici femministi più di quanto lo sia Jane Austen. Un saggio del 1972 di Lee Edwards è stato profetico di molti giudizi futuri. Lucidamente consapevole che «Middlemarch è un romanzo sull’energia dell’immaginazione», Edwards ha espresso una solenne protesta contro il rifiuto dell’autrice di dare a Dorothea qualcosa in più rispetto all’energia e alla volontà della romanziera: … Dopo tutto, George Eliot non creò una donna che sapesse in anticipo di detestare i mariti o di non averne bisogno, poiché quella preferenza l’avrebbe costretta alla sottomissione o alla distruzione. Se George Eliot fosse stata in grado di individuare un sistema di valori in base al quale una simile donna potesse vivere, forse sarebbe riuscita a infondere un nuovo alito di vita all’immagine disseccata di santa Teresa.

Dorothea, come la sua creatrice, non era preparata per rinunciare al matrimonio. Forse Middlemarch sarebbe stato un romanzo ancora più vigoroso se Eliot fosse stata una femminista radicale, o forse no. Ma Eliot era unica, non per grado di emancipazione, né per energia e volontà, bensì per l’ampiezza e la forza del suo intelletto. Avrebbe forse dovuto dotare Dorothea di una mente analoga, per originalità concettuale, a quella di Blake o di Emily Dickinson? Middlemarch non è un Ritratto dell’artista da giovane; è il ritratto di Dorothea Brooke, una potenziale santa Teresa protestante che tuttavia vive in un tempo e in un luogo incapaci di concedere adeguata libertà di movimento a una donna tanto pia. Lydgate è alla ricerca della conoscenza scientifica e della fama che può derivarne, ma l’aspirazione a conoscere di Dorothea è puramente spirituale. Contemplativa per natura, Dorothea non può essere una crociata sociale o una riformatrice politica. Come Jane Austen, George Eliot era un’artista troppo grande e un’ironista troppo acuta per lasciarsi paralizzare dalle strutture sociali della sua epoca. Entrambe le romanziere perseguivano il bene del romanzo; la differenza tra loro era il fatto che Eliot fondeva fini estetici e morali più esplicitamente di quanto facesse Austen, ma entrambe avevano un senso morale più preciso di quello ora diffuso tra noi. L’abile controllo di Eliot come narratrice le impedisce di scegliere per Dorothea possibilità

difficilmente disponibili alla stessa Eliot. Mordecai, il profeta ebraico esaltato, dice a Daniel Deronda che «il principio divino della nostra razza è azione, scelta, decisa memoria». Eliot era abbastanza dotata non solo per scrivere questa frase, ma anche per viverla, seppur solo in parte. Forse la critica femminista è giustificata nel suo desiderio di una George Eliot più femminista, ma la giustificazione non è di per sé letteraria. Henry James profetizzava l’ambivalenza dei critici femministi quando deplorava lo spreco della magnifica eroina e sottolineava che l’immaginazione del lettore esigeva, per Dorothea, più di quanto George Eliot avesse scelto di darle. La scrittrice, nella sua inesauribile sagacia, aveva previsto tutte queste lamentele nei capoversi conclusivi del romanzo: Certo quelle azioni determinanti per la sua esistenza non furono belle da un punto di vista ideale. Furono il risultato misto di un impulso giovane e nobile che si dibatteva fra i condizionamenti di una situazione sociale imperfetta in cui i grandi sentimenti spesso assumono l’aspetto dell’errore e una gran fede quello dell’illusione. Perché non c’è essere umano la cui essenza interiore non sia determinata in grande misura da ciò che è al di fuori di essa. Una nuova Teresa ben difficilmente avrà l’occasione di riformare una regola conventuale, come una nuova Antigone non dedicherà la propria compassione eroica a sfidare tutto per dare sepoltura a un fratello: l’ambiente in cui le loro azioni ardenti assunsero forma è per sempre scomparso. Ma noi, persone insignificanti, con le nostre parole e le nostre azioni quotidiane stiamo preparando la vita di molte Dorothee, alcune delle quali possono fare un sacrificio assai più triste di quello della Dorothea di cui conosciamo la storia. Il suo spirito delicato, tuttavia, ebbe le sue delicate espressioni, anche se queste non furono granché visibili. La piena natura di lei, come il fiume di cui Ciro domò la forza, si esaurì in rivoli che sulla terra non portavano un gran nome. Ma l’effetto della sua esistenza su coloro che la circondarono si diffuse in maniera incalcolabile: perché il bene crescente del mondo in parte dipende da azioni prive di storia; e il fatto che per me e per voi le cose non vadano così male come sarebbe possibile, è per metà merito di coloro che condussero fedelmente un’esistenza nascosta e riposano in tombe neglette.

Conosco poche frasi sagge e ammonitrici quanto «Perché non c’è essere umano la cui essenza interiore non sia determinata in grande misura da ciò che è al di fuori di essa». I paladini del risentimento non hanno bisogno di quella frase, ma io sì. Quel «in grande misura» è tuttavia assai preciso, e Eliot sottintende che la forza dell’essere interiore determina anche quale sarà l’entità di quel «in grande misura». La sovradeterminazione è un’oscura verità, nella vita e nella letteratura, e l’agone della volontà e dell’energia individuali con le forze sociali e storiche è incessante in entrambe le sfere. Dorothea ha scelto di non essere un’agonista, persuasa (come la sua creatrice) che «il bene crescente del mondo in parte dipende da azioni prive di storia». Forse James aveva ragione: talvolta anche la mia immaginazione di lettore aspira a una Dorothea i cui atti abbiano una storia. Ma forse James aveva torto: quali sono infatti gli atti storici delle sue eroine più affascinanti, Isabel Archer e Milly Theale? Il romanzo canonico, nell’estate della sua

esistenza, ha forse raggiunto il sublime in Middlemarch, la cui influenza sui lettori continua a diffondersi «in maniera incalcolabile».

14. TOLSTOJ E L’EROISMO La migliore introduzione a Tolstoj in cui mi sia imbattuto è Ricordi (1921) di Maksim Gorkij, basato sulle visite dell’autore al romanziere settantaduenne che, all’inizio del 1901, viveva in Crimea, in cattive condizioni di salute e di recente scomunicato dalla Chiesa russa ortodossa. Gorkij esprime direttamente le ambivalenze che sorsero tra sé e Tolstoj, ambivalenze che rafforzano l’incessante senso di misteriosità dello scrittore: Mi diede da leggere il suo diario, e fui colpito da uno strano aforisma: «Dio è il mio desiderio». Oggi, restituendogli il libro, gli ho chiesto che cosa significasse. «Un pensiero incompiuto» ha risposto, dando un’occhiata alla pagina e strizzando gli occhi. «Dovevo voler dire: Dio è il mio desiderio di conoscerlo… No, non così…» Si è messo a ridere e, arrotolando il libro a forma di tubo, se l’è infilato nella grande tasca della camicia. Con Dio ha rapporti molto diffidenti; a volte mi ricordano il rapporto di «due orsi nella stessa tana».

Citando con grande sagacia il proverbio, Gorkij coglie le verità segrete del nichilismo di Tolstoj e la sua incapacità di sopportare il nichilismo. Il pensiero compiuto del romanziere-profeta identificava Dio con il desiderio di non morire. Tolstoj, che era immensamente coraggioso, era mosso non tanto da una banale paura di morire o della morte, bensì dalla sua vitalità e dal suo vitalismo straordinari, che non riuscivano ad accettare l’idea di non esistere più. Ancora una volta, Gorkij è molto preciso al riguardo: Per tutta la vita ha temuto e odiato la morte; per tutta la vita, nella sua anima, ha pulsato il «terrore arsamasiano»: deve proprio morire? Il mondo intero, tutta la terra volge lo sguardo nella sua direzione; dalla Cina, dall’India, dall’America, da ogni dove fili vivi e pulsanti si protendono verso di lui; la sua anima è per tutti e per sempre. Perché la natura non dovrebbe fare un’eccezione alla sua legge e concedere a un solo uomo l’immortalità fisica?

Potremmo definire il desiderio di Tolstoj più una nostalgia apocalittica che un’aspirazione religiosa. Senza dubbio vi sono ancora tolstojani sparsi per il mondo, ma oggi sono difficilmente distinguibili da molte altre varietà di razionalismo spiritualizzato. Tolstoj amava ciò che chiamava Dio con una passione fredda, più bisognosa più ardente. Il suo Cristo era il predicatore del Discorso della montagna e nient’altro, forse meno dio dello stesso Tolstoj. Chi legge i suoi scritti sulla religione si imbatte in un moralista severo, a tratti feroce e tutt’altro che edificante, a meno che, come Gandhi, non anteponiate la non violenza a ogni altro valore. Tolstoj ebbe tredici figli da sua moglie, ma le sue concezioni di matrimonio e famiglia sono dolorose, e il suo atteggiamento nei confronti della sessualità umana è così misogino da essere spaventoso. Naturalmente, tutto ciò vale per il Tolstoj discorsivo, non per lo scrittore di narrativa, anche nel romanzo maturo Risurrezione o in successivi romanzi brevi come Il diavolo e la famigerata Sonata a Kreutzer. Il talento

narrativo di Tolstoj è così poderoso e prolungato che le sue digressioni sermoneggianti non deturpano molto la sua narrativa né la rendono tendenziosa. I critici russi hanno sottolineato che i suoi romanzi e racconti ritraggono il consueto con tale singolarità che ogni cosa sembra nuova di zecca. Quello che Nietzsche chiamava «il poema primordiale dell’umanità», il cosmo come abbiamo concordato di vederlo, viene reinterpretato da Tolstoj. Leggendolo di continuo, non cominciate tanto a vedere ciò che vede quanto a capire come tenda a essere arbitrario il vostro modo di vedere. Il mondo del lettore è meno ricco del suo, poiché Tolstoj riesce in qualche modo a suggerire che quanto vede è insieme più naturale e più singolare. Occorre un po’ di tempo per capire quanto sia metaforica la sua concezione di natura, poiché la sua apparente semplicità è un trionfo retorico. Il parallelo più evidente si ha, nella lingua inglese, con il giovane Wordsworth, prima di Tintern Abbey, in poesie come Guilt and Sorrow, The Ruined Cottage e The Old Cumberland Beggar. In queste composizioni Wordsworth non ha bisogno di alcun mito della memoria e di alcun senso coleridgeano di scambio reciproco tra la mente umana e la natura. Straziante nella sua visione dei dolori dell’uomo e delle donne allo stato di natura, la prima grande poesia di Wordsworth è tolstojana prima di Tolstoj, semplificata grazie a un’intensità così abile da nascondere quasi l’arte. Al suo culmine wordsworthiano, segnato da Adam Bede, George Eliot sembra curiosamente tolstojana, un’impressione confermata dall’ammirazione di Tolstoj per quel romanzo. Gli accenni di Wordsworth a quella che il poeta chiamava immortalità derivavano da ricordi della primissima infanzia e, per quanto destinati a scolorirsi alla luce della quotidianità, costituivano il sostegno della sua pietà naturale. In Tolstoj mancano accenni analoghi, e lo scrittore cercò l’equivalente della pietà naturale nel contadino russo. Qualunque cosa abbia trovato, non avrebbe potuto essere la rassicurazione di cui andava in cerca. Pur essendo troppo tradizionalista per condividere la fede del popolo, si sforzò di fare proprio il suo amore per Dio. Poiché rifiutava qualsiasi miracolo, è piuttosto difficile capire che cosa fosse per lui un Dio amorevole. Secondo Gorkij, Tolstoj «proseguì dicendo che la verità è la stessa per tutti: l’amore per Dio. Parlò tuttavia di questo argomento in tono freddo e stanco». In un’altra occasione, lo scrittore gli disse che la fede e l’amore richiedevano coraggio e audacia, un’affermazione che si avvicina maggiormente all’ethos tolstojano. Se l’amore per Dio è un atto di audacia, chi salverà i paurosi? A

suscitare la nostra ammirazione, qui e altrove nella produzione di Tolstoj, è la sua originalità o singolarità di temperamento. I suoi moventi sono raramente i nostri. Il coraggio e l’audacia sono virtù epiche, e la religione di Tolstoj (se vogliamo chiamarla così) assume le qualità della sua arte, sempre ricca di tendenze epiche. Quando Tolstoj si paragona a Omero, ci lasciamo persuadere come non ci lasceremmo persuadere da nessun altro scrittore postomerico. Sia come profeta sia come moralista, Tolstoj rimane insieme una figura epica e un creatore di epopee. Ma le convinzioni di Tolstoj (siano esse morali, religiose o estetiche) contano davvero? Se il quesito riguarda le convinzioni come tali, la risposta sarebbe affermativa per quanto riguarda il passato, quando esistevano molti tolstojani, ma non per quanto riguarda il presente, quando va letto in compagnia di Omero, dello Jahvista, di Dante e di Shakespeare, perché forse è l’unico scrittore postrinascimentale in grado di sfidarli. Come sarebbe stato insoddisfatto di questo destino, lui che si stimava più come profeta che come narratore. Come scrittore, avrebbe senz’altro accettato l’Iliade e la Genesi come compagne, ma non avrebbe certo smesso di disprezzare Dante e Shakespeare. Nutriva una particolare rabbia verso Re Lear, sebbene abbia trascorso i suoi ultimi giorni recitando, senza volerlo, il ruolo di Lear quando fuggì di casa in un salto disperato verso la libertà del reietto. Desiderava ardentemente il martirio, negatogli di continuo dall’astuzia del governo zarista, che perseguitava i suoi seguaci ma si rifiutava di toccare il famosissimo saggio e romanziere epico, riconosciuto quasi subito come vero erede e realizzatore di Pusˇkin, e dunque come il più grande fra tutti gli scrittori di lingua russa, un titolo che probabilmente non perderà mai. Forse qualcosa in lui non si sottrasse mai al desiderio di uguagliare e persino superare Omero e la Bibbia, benché la sua intensità agonistica si sia espressa, in genere, sotto forma di diffidenza verso la letteratura, se non addirittura di ripudio della sfera di valore estetica. Tuttavia, Che cos’è l’arte? (1896) – la sua aspra denuncia della tragedia greca, di Dante, Michelangelo, Shakespeare e Beethoven – viene contraddetto dal sorprendente Chadzˇi-Murat, il breve romanzo scritto tra il 1896 e il 1904 ma ancora inedito alla sua morte. Sebbene Tolstoj abbia talvolta criticato Chadzˇi-Murat definendolo un atto di indulgenza verso se stesso, scrisse vari abbozzi della storia, sapendo perfettamente che si trattava di un capolavoro capace di confutare quasi tutti i suoi principi in materia di arte cristiana e morale. Esitiamo a collocare Chadzˇi-Murat al di sopra di tutti gli altri esiti

tolstojani nell’ambito del romanzo breve, un genere in cui lo scrittore eccelse e che comprende opere notevoli come La morte di Ivan Ilijc, Padrone e servo, Il diavolo, I cosacchi, La sonata a Kreutzer e Padre Sergio. Tuttavia, neppure i primi due libri dell’elenco mi sono rimasti impressi come ChadzˇiMurat da quando lo lessi per la prima volta oltre quarant’anni fa. Quell’opera è la mia personale pietra di paragone per il sublime nella narrativa in prosa e, a mio giudizio, è la miglior storia del mondo, o almeno la migliore che io abbia mai letto. In tutto il presente volume ho sostenuto che l’originalità nel senso di singolarità è la caratteristica che, più di ogni altra, rende canonica un’opera; la singolarità di Tolstoj è singolare in sé e per sé, perché, per quanto possa parere paradossale, all’inizio non sembra per nulla singolare. Il lettore sente sempre la voce di Tolstoj come narratore, ed è una voce diretta, razionale, fiduciosa e benevola. Victor Shklovsky, un illustre critico russo moderno, osserva che «in Tolstoj la strategia più frequente è il rifiuto di riconoscere un oggetto, la tendenza a descriverlo come se lo si vedesse per la prima volta». Questa tecnica singolare, unità alla tonalità di Tolstoj, sfocia nella felice convinzione del lettore che lo scrittore gli consenta di vedere ogni cosa come se fosse la prima volta, pur comunicandogli anche la sensazione di aver già visto tutto. Essere estraniato e a proprio agio sembra improbabile, ma è quella l’atmosfera quasi unica creata da Tolstoj. Come può la narrazione essere insieme misteriosa e naturale? Credo sia lecito sostenere che le opere narrative più alte – La Divina Commedia, Amleto, Re Lear, Don Chisciotte, Il paradiso perduto, Faust parte seconda, Peer Gynt, Guerra e pace, Alla ricerca del tempo perduto – riuniscono in sé simili attributi antitetici. Si spalancano a un’infinita serie di prospettive, e forse creano addirittura quelle prospettive. Non vi sono tuttavia molti romanzi brevi capaci di ospitare antinomie stupefacenti. Chadzˇi-Murat è singolare quanto l’Odissea e familiare quanto Hemingway. Quando la storia di Tolstoj si conclude con l’ultimo, eroico combattimento di Chadzˇi-Murat, ingaggiato dal protagonista e da un manipolo di devoti contro una schiera nemica, ricordiamo inevitabilmente quello che, a mio giudizio, è l’episodio più memorabile di Per chi suona la campana, l’ultima resistenza di El Sordo con il suo gruppetto di partigiani contro i fascisti, nettamente superiori in termini di armi e numero. Hemingway, che fu sempre un attento studioso di Tolstoj, imita con maestria il suo grande originale. Chadzˇi-Murat, tuttavia, vive e muore anche come l’arcaico eroe epico, unendo in sé tutte le virtù e

nessuno dei difetti di Ulisse, Achille e Enea. Ludwig Wittgenstein e Isaak Babel hanno in comune quasi solo le loro diverse origini ebraiche, ma sono affascinato dal fatto che condividano anche una reverenza per Chadzˇi-Murat. Wittgenstein ne regalò una copia al suo discepolo Norman Malcolm perché lo portasse con sé durante il servizio militare, dicendogli che ne avrebbe ricavato molto. Babel, rileggendo più volte il libro nel 1937, durante un periodo difficile, assunse un tono quasi rapsodico: «Qui la scarica elettrica emanò dalla terra, attraverso le mani, dritta fino alla carta, senza alcun isolamento, strappando via senza compassione tutti gli strati esterni con un senso di verità». Un libro che spinse Babel e Wittgenstein ai loro unici tributi sfiora chiaramente l’universale, l’eterno desiderio di Tolstoj. Henry James, che preferiva di gran lunga Turgenev a Tolstoj, non sarebbe riuscito a definire Chadzˇi-Murat «un mostro floscio e cascante», il suo peculiare giudizio su Guerra e pace. Un attento esame dell’opera dimostra cosa rende Tolstoj il più canonico tra gli scrittori ottocenteschi, una figura quasi solitaria anche nella ricchissima epoca dell’arte democratica. Chadzˇi-Murat è innanzi tutto storia, anche se sarebbe singolare considerarlo narrativa storica, anche nel senso in cui Guerra e pace potrebbe essere definito un romanzo storico. In Chadzˇi-Murat, che è pura narrazione, non vi sono meditazioni sulla storia; tuttavia, quanto accade nel libro non è, a rigor di termini, un’invenzione di Tolstoj, almeno nella sua sostanza. Leggendo questo romanzo breve insieme con Russian Conquest of the Caucasus (1908) di J.F. Baddeley, mi ritrovo ancora una volta di fronte al paradosso secondo cui Tolstoj sembra seguire i fatti proprio come sembra seguire la natura, e tuttavia il suo misterioso Chadzˇi-Murat appartiene all’epopea mitica e non alla cronaca. Per tutta la prima metà del XIX secolo, l’impero russo ingaggiò guerre incessanti per sottomettere i musulmani delle montagne e delle foreste del Caucaso. I caucasici, uniti in una guerra santa contro i russi, erano guidati dall’imam Šamil, il cui miglior subordinato militare era Chadzˇi-Murat, divenuto leggendario assai prima di cadere in battaglia. Nel dicembre del 1851, dopo aver litigato con Šamil, ChadzˇiMurat passò ai russi. Quattro mesi dopo, nell’aprile del 1852, tentò di fuggire, venne inseguito e morì opponendo un’ultima disperata resistenza. Aylmer Maude, biografo e traduttore di Tolstoj, rintraccia l’origine della storia in una lettera che l’autore scrisse il 23 dicembre 1851, subito prima di cominciare a prestare servizio come ufficiale di artiglieria nella guerra contro

Šamil: Se volete fare sfoggio di notizie dal Caucaso, potete riferire che un certo Chadzˇi-Murat (secondo per importanza solo a Šamil) si è arreso pochi giorni fa al governo russo. Era lo scavezzacollo e il «temerario» di tutta la Circassia, ma è stato indotto a commettere un’azione meschina.

Mezzo secolo dopo, Tolstoj non si pronuncia sulla meschinità reale o presunta delle azioni di Chadzˇi-Murat. In confronto a tutti gli altri personaggi del romanzo, e soprattutto ai leader rivali, Šamil e lo zar Nicola I, il protagonista è assolutamente eroico. Sebbene lo scrittore non si sia mai lamentato di alcun aspetto di Omero, Chadzˇi-Murat è, nella visione tolstojana, una vigorosa critica all’eroe omerico. Le ammirevoli qualità che Omero divide tra Achille e Ettore si fondono nell’eroe tolstojano, che non presenta né la furia omicida di Achille contro la mortalità né il crollo di Ettore verso una passiva accettazione della fine. Magnifico nel suo senso di forza, Chadzˇi-Murat è, come Achille, maturo, per nulla ambiguo e potente senza ferocia. Dotato di una vitalità più sublime rispetto a quella di Achille, uguaglia Odisseo in abilità e diplomazia. Come Odisseo, desidera tornare a casa dalle sue donne e dai suoi figli. A differenza di Odisseo, fallisce nella sua ricerca, ma Tolstoj ci offre un’apoteosi dell’eroe, non una lamentazione per la sua sconfitta. Nessun’altra figura centrale di Tolstoj è oggetto di una descrizione precisa e amorevole come quella di Chadzˇi-Murat, e ritengo che in tutta la letteratura occidentale non vi sia un equivalente di questo capo tartaro. Chi altri ci ha dato l’uomo allo stato naturale come protagonista trionfante, dotato di coraggio e astuzia? Il Nostromo di Conrad, un uomo del popolo, è una grande figura, ma venne concepito in maniera assai meno fantasiosa di Chadzˇi-Murat. L’intrepido eroe di Tolstoj è scaltro quanto il suo creatore e va incontro a una morte degna, splendida ed eroica quanto la morte di Nostromo è ironica. Non può essere irrilevante che Tolstoj fu sul punto di morire all’inizio del 1902. La malattia di cui soffriva regredì ai primi di aprile, permettendogli di riprendere la revisione di Chadzˇi-Murat, una ripresa riflessa nella fine del protagonista, che, per così dire, muore la morte dell’autore. Come il romanziere forse sapeva, a un certo livello egli era Chadzˇi-Murat, o meglio l’eroe è una versione shakespeariana di Tolstoj in un trionfo ironico del drammaturgo sullo scrittore che aveva parlato tanto male di lui. Chadzˇi-Murat è senza dubbio la storia più shakespeariana nella sua galleria di ricche caratterizzazioni, nella straordinaria gamma delle sue affinità drammatiche e soprattutto nella rappresentazione del cambiamento nel personaggio centrale. Come Shakespeare, il Tolstoj che narra la vicenda

di Chadzˇi-Murat è insieme tutti e nessuno, interessato e indifferente, commosso ma distaccato. Tolstoj ha imparato da Shakespeare (anche se l’avrebbe negato) l’arte di accostare scene molto diverse per ottenere continuità più complesse di quella che potrebbe fornire una progressione più semplice. Incontriamo Chadzˇi-Murat in contesti che l’autore non aveva mai conosciuto, e gioiamo della sua capacità di controllare situazioni e persone. Tolstoj sferrò un assurdo attacco a Shakespeare giudicandolo incapace di dare un linguaggio individuale ai suoi personaggi, che è più o meno come affermare che Bach non era in grado di comporre una fuga. Conoscere meglio l’inglese non sarebbe stato di aiuto a Tolstoj: la sua ira antishakespeariana aveva un carattere difensivo, anche se probabilmente lo scrittore non ne era consapevole. Gli piace solo Falstaff, e Lear in particolare lo riempiva di feroce disprezzo. È doloroso parlare di limitazioni in Tolstoj, limitazioni che tuttavia esistono solo se lo si paragona a Shakespeare. Il suo personaggio più vigoroso, Anna Karenina, racchiude in sé profonde venature shakespeariane, che Tolstoj, pur essendole affezionato, non le perdonerà. Poiché non è iperbolico osservare che Tolstoj odiava Shakespeare, è opportuno aggiungere che, al tempo stesso, lo temeva; Thomas Mann pensava che, in segreto, Tolstoj identificasse Shakespeare con la natura e se stesso con lo spirito. Il moralismo è tornato di moda nelle nostre accademie, e Tolstoj riceverà altre lodi per aver preferito Harriet Beecher Stowe a Shakespeare. Seguendo il suo esempio, i neostoricisti, le femministe e i marxisti dovrebbero preferire La capanna dello zio Tom a Re Lear. Chadzˇi-Murat è l’eccezione più grandiosa del Tolstoj maturo, perché qui il vecchio sciamano rivaleggia con Shakespeare, la cui straordinaria facoltà di dare un’esistenza esuberante anche ai personaggi secondari e di colmarli di vita viene assorbita con astuzia dallo scrittore russo. In Chadzˇi-Murat tutti i personaggi sono individualizzati con vividezza: Šamil; lo zar Nicola; Avdèev, lo sfortunato soldato russo ucciso durante una scaramuccia; il principe Voroncòv, cui Chadzˇi-Murat si arrende; Poltorackij, un comandante della compagnia; e il fedele manipolo di seguaci del protagonista: Eldar, Gamzalo, Khan Magoma, Chanefi. L’elenco sembra infinito, come in un grande dramma shakespeariano. Vi sono anche Voroncòv senior, capo dell’esercito russo; il suo aiutante di campo, Lorìs-Mèlikov, cui viene affidato ChadzˇiMurat; e Butler, un eroico ufficiale in grado di apprezzare le qualità del capo tartaro. Altrettanto splendide e persuasive sono le due donne che spiccano maggiormente nella storia: la principessa Marija Vasìlevna, moglie di

Voroncòv junior, e Maria Dimitrevna, l’amante di un piccolo ufficiale. Questi quindici personaggi e una dozzina di figure minori vengono tutti schizzati con una precisione e un entusiasmo shakespeariani che formano una cornice adatta a mettere in risalto Chadzˇi-Murat, che arriviamo a conoscere come conosciamo i grandi guerrieri di Shakespeare: Otello, Antonio, Coriolano o il bastardo Faulconbridge di Re Giovanni. Anzi, arriviamo a conoscere Chadzˇi-Murat ancor più di Anna Karenina, che è troppo vicina a Tolstoj. Una volta tanto, come Shakespeare, lo scrittore russo si esprime mediante una voce che non è del tutto sua e interpreta il grande ruolo di Chadzˇi-Murat, l’uomo allo stato naturale come eroe epico. Il Chadzˇi-Murat storico è e non è di Tolstoj. Nel racconto di J.F. Baddeley, l’eroe tartaro è forse meno audace e coraggioso, ma un po’ più cupo e inumano. All’inizio Chadzˇi-Murat, un avaro della nazione montana del Dagestan, combatté contro i mjurid, il movimento di massa del revivalismo mistico musulmano che scatenò una guerra di settant’anni tra i russi e gli avari. Pur attenendosi scrupolosamente ai fatti, Baddeley scrive una cronaca della carriera di Chadzˇi-Murat che assomiglia a un romanzo fantasy. Dopo aver ucciso l’imam Hamyad, il leader dei mjurid, l’eroe passò ai russi, poi venne tradito dal capo degli avari e falsamente denunciato ai russi come seguace di Šamil, il nuovo imam. Sfuggito ai russi dopo essere saltato da un alto dirupo, il sopravvissuto Chadzˇi-Murat si schierò con i mjurid, e lì le sue qualità lo trasformarono ben presto nel principale subordinato di Šamil. A lungo andare, la fama dell’eroe, rivelatosi formidabile sia durante le incursioni sia durante le battaglie campali, suscitò l’invidia di Šamil, che condannò a morte il suo miglior soldato per salvaguardare gli interessi della successione dinastica. Chadzˇi-Murat, che non aveva altra scelta, disertò passando nuovamente ai russi, come fa all’inizio della novella di Tolstoj. Quest’ultimo, che voleva dar prova di precisione fattuale, prese in parola il protagonista e non permise alle ombre dell’ambizione o della crudeltà di offuscare l’ardente luce della sua gloria. Il romanzo si apre con un breve preludio in cui, di ritorno da una passeggiata, il narratore coglie con grande difficoltà «un cardo d’un rosso vivo, in piena fioritura; di quel tipo particolare che da noi chiamano ‘il tartaro’». Già il cardo è l’emblema implicito Chadzˇi-Murat: «Come s’era tenacemente difeso e come aveva venduto a caro prezzo la propria vita!». Ogni volta che leggo questo preludio, mi meraviglio del fatto che il simbolismo troppo ovvio del cardo non mi sembri un difetto estetico. Poi,

tuttavia, penso che in Chadzˇi-Murat ogni cosa presenta un’elegante ovvietà. Non vi sono sorprese né svolte inaspettate in nessun punto della storia; anzi, molto spesso Tolstoj ci comunica in anticipo quanto sta per accadere. Questa tecnica raggiunge i culmini della sovversione narrativa quando ci viene mostrata la testa mozzata dell’eroe prima che la storia si concluda con un dettagliato resoconto dell’ultima resistenza di Chadzˇi-Murat. È come se Tolstoj supponesse che conosciamo già la storia, tuttavia la novella si astiene da qualsiasi riflessione sul significato della vicenda; non si trae alcuna morale e non si solleva alcuna polemica. Evidentemente l’essenziale non è l’azione o il pathos, bensì solo l’ethos dell’eroe, la rivelazione del carattere di ChadzˇiMurat. Benché l’eroe sia scaltro e audace, la sua sorte è segnata sin dall’inizio, perché il protagonista si ritrova tra due despoti crudeli, Šamil e lo zar Nicola. Il suo destino ultimo è dunque sovradeterminato: i russi non si fideranno abbastanza da permettergli di guidare un’insurrezione contro Šamil, ma Chadzˇi-Murat deve tentare di liberare i suoi famigliari, ostaggi dell’imam. Così anche lui, come Tolstoj e il lettore, sa come deve finire la storia, come devono finire tutte le storie che riguardano il destino finale dell’eroe. Egli, tuttavia, non è l’Ulisse di Dante né qualsiasi altro eroe epico intrappolato in un universo morale tardivo. È un protagonista shakespeariano il cui ethos più profondo è la capacità del mutamento interiore, rafforzata dall’opposizione a ciò che deve distruggerlo, come Antonio viene umanizzato quando il dio Ercole lo abbandona. Raccontando la storia di Chadzˇi-Murat, Tolstoj resta così affascinato dall’arte del narratore da affrancarsi dalle dottrine tolstojane e appropriarsi invece della purezza dell’arte e della sua prassi. In una fredda sera di novembre, Chadzˇi-Murat, incappucciato e avvolto in un mantello, scortato solo dal suo mjurid Eldar, penetra a cavallo in un villaggio tartaro a circa venticinque chilometri dalle linee russe. Qui scoprirà se i russi lo riceveranno, ora che è in fuga da Šamil, un imam che, secondo Baddeley, si faceva sempre accompagnare da un carnefice munito di scure. L’atmosfera creata dai capoversi iniziali del libro ci convincono di ciò che, a mio parere, Wittgenstein ammirava maggiormente in Chadzˇi-Murat, un eroe tragico che, al tempo stesso, stuzzica e placa il nostro scetticismo riguardo alla verità della tragedia rispetto alla natura. Un bel saggio di Laura Quinney, The Grimness of the Truth, applica l’atteggiamento dialettico di Wittgenstein nei confronti del senso tragico della vita sia al dottor Johnson sia a Shelley. Wittgenstein – affascinato da Tolstoj

e da Dostoevskij sebbene fossero antitetici tra loro – sembra aver trovato in entrambi qualcosa della sua ambivalenza verso la tragedia. Shakespeare aveva fatto infuriare Wittgenstein, che, a quanto pare, temeva il drammaturgo di Amleto e di Re Lear quasi quanto lo temeva Tolstoj. Se siete scettici nei confronti della tragedia ma la desiderate, come facevano Tolstoj e Wittgenstein loro malgrado, Shakespeare sarà il vostro problema più grande, perché vi risentirete del fatto che sembri scrivere tragedie con la stessa facilità con cui scrive commedie e commedie romantiche. Tolstoj in particolare non riuscì a perdonare quanto accadeva in Re Lear, e forse, nonostante il suo shakespearianismo inconscio, Chadzˇi-Murat è una critica al modo in cui l’eroe tragico del drammaturgo inglese scatena forze al di là della conoscenza umana. Essendo costretto a contare solo su se stesso, Chadzˇi-Murat, il più valoroso di tutti i tartari, non può salvarsi, ma non combatte né evoca forze demoniache. È tragico solo perché è eroico e naturale ma deve affrontare situazioni impossibili. Qui mi torna in mente Gorkij, perché il suo dialogo con Tolstoj mi induce a chiedermi come quest’ultimo, proprio in quel periodo, possa aver lavorato per finire ChadzˇiMurat: Dissi che tutti gli scrittori sono, in certa misura, inventori impegnati a descrivere la gente come vorrebbero vederla nella vita. Dissi anche che mi piacevano le persone attive e ansiose di resistere al male della vita con ogni mezzo, persino con la violenza. «E la violenza è il male principale» esclamò, prendendomi per il braccio. «Come uscirete da questa contraddizione, inventore? Ebbene, il vostro Signor Compagno di Viaggio non è inventato, ed è valido proprio perché non è inventato. Ma quando pensate, generate cavalieri, tutti Amadigi.»

Il cavaliere errante di Tolstoj, il suo Amadigi di Gaula è, naturalmente, il magnifico e (all’occorrenza) violentissimo Chadzˇi-Murat, l’eroe che il romanziere aveva e non aveva inventato. Come profeta della non violenza, Tolstoj è del tutto assente dal fiero racconto dedicato al leader tartaro. Qual è il Tolstoj più vero, il narratore di Chadzˇi-Murat o il visionario morale della Confessione o di Che cos’è l’arte? Esitiamo ad affermare che esistevano due Tolstoj, l’uno l’antitesi dell’altro. Come può il seguente passo non essere il Tolstoj che conta di più, il Tolstoj canonico? Lo sguardo dei due, incrociandosi, diceva reciprocamente molte cose intraducibili a parole e diverse da quelle che esprimeva l’interprete. Senza parole si comunicarono il loro pensiero reale. Gli occhi di Voroncòv dicevano chiaro che lui non credeva a una sola parola di Chadzˇi-Murat, che lo sapeva nemico di tutto ciò che era russo, che sarebbe sempre rimasto tale e ora si sottometteva solo perché si sentiva costretto. E Chadzˇi-Murat capiva e tuttavia voleva convincerlo della sua fedeltà. Gli occhi di Chadzˇi-Murat dicevano che il vecchio doveva pensare alla morte e non alla guerra; ma, sebbene carico di anni, era scaltro, e lui avrebbe dovuto stare bene in guardia. Anche Voroncòv coglieva benissimo il pensiero di Chadzˇi-Murat, e tuttavia gli diceva ciò che riteneva necessario al successo militare.

Tolstoj è anche il vecchio che scaccia il pensiero della morte e pensa invece alla guerra. Come Omero, non celebra e non deplora la battaglia: entrambi la accettano come legge fondamentale della vita. Ci interroghiamo ancora su Tolstoj e sulla non violenza, ma che cosa poteva avere a che fare la non violenza con il Caucaso di Voroncòv e di Chadzˇi-Murat? Nel romanzo, la battaglia è liberazione, l’unica via di fuga in un mondo sospeso fra i tradimenti di Šamil e Nicola. Chiaramente scrivere Chadzˇi-Murat fu una liberazione, la migliore delle indulgenze per il vecchio Tolstoj, che tuttavia disse a Gorkij: «Gli eroi – quella sì è una menzogna e un’invenzione; vi sono semplicemente individui, individui e null’altro». Chi è dunque Chadzˇi-Murat, se non un eroe? In parte è forse un surrogato della gioventù ormai perduta di Tolstoj, ma questo non basterebbe a spiegare i vari meriti del guerriero tartaro. Al suo confronto, i protagonisti dei maggiori romanzi tolstojani sono insieme meno vividi e meno comprensivi. In ogni lettore, qualcosa va alla ricerca di un personaggio fittizio che sia adeguato al suo mondo quanto lo è Chadzˇi-Murat. Più di qualsiasi altro scrittore postshakespeariano, Tolstoj possedeva il dono di rappresentare la lotta per il potere in un mondo in guerra, e Chadzˇi-Murat è degno di essere paragonato all’Antonio di Antonio e Cleopatra e al Nostromo di Conrad. Come Shakespeare, Tolstoj è insieme imparziale riguardo all’agone del suo eroe e profondamente partecipe del suo destino incombente. Nel rapporto di Tolstoj con Chadzˇi-Murat vi è un elemento aggiuntivo, qualcosa di meraviglioso e personale, che rasenta una vera e propria identificazione. Le circostanze hanno costretto Chadzˇi-Murat a divenire un reietto, un fuggiasco, seppur ammirato e persino onorato. Sebbene perfettamente inserito nel suo contesto, il protagonista è consapevole che il contesto sta per dissolversi, lasciandolo solo con il suo manipolo di uomini. L’ombra della fine aleggia in tutta la storia di Tolstoj, proprio come pervade ogni comparsa dell’eroe di Antonio e Cleopatra. A Chadzˇi-Murat, intrappolato tra Šamil e lo zar, non resta che l’ultima libertà di morire coraggiosamente, con un’identità non solo intatta ma anche esaltata. Non può essere un caso che i due personaggi letterari cui Tolstoj assomigliava di più fossero lo Yahweh dello scrittore J e il Lear di Shakespeare, ma l’autore russo avrebbe preferito assomigliare al suo ChadzˇiMurat, un guerriero valoroso e intraprendente, che a un irascibile dio-re. Thomas Mann, nell’insolito saggio Goethe e Tolstoj, conferma questa tesi, ma in un senso che non può aver condiviso:

In Tolstoj osserviamo la stessa tracotanza animale, per giunta fino in tarda età, che però in lui è priva della dignità, dell’equilibrio, dell’esteriore misuratezza che è propria del vecchio Goethe. Né deve far meraviglia. Chi infatti potrebbe dubitare che Goethe abbia condotto una vita più seria, più grave, più esemplare di quella che condusse lo Junker slavo? Che la sua opera culturale abbia richiesto in fondo molta più rinuncia vera, limitazione, disciplina e autocontrollo che non l’opera di Tolstoj, inattuabile nel suo radicalismo, arenata in uno sforzo mezzo selvaggio e assurdo di elevazione spirituale? La nobiltà e la grazia di Tolstoj erano, come anche Gorkij le descrive, quelle di un nobile animale. Egli non è riuscito mai a innalzarsi al grado di chi supera la natura nella dignità del mondo morale.

A dare una valida risposta a queste affermazioni è stato John Bayley, osservando che Goethe e Tolstoj erano entrambi grandi egoisti, anche se di tipo assai diverso: «Se Goethe non si curava di nulla salvo se stesso, Tolstoj non era nulla salvo se stesso; e il suo senso di ciò che lo aspettava e di che cosa la vita era giunta a significare per lui è, di conseguenza, più intimo e commovente». Tolstoj, come Chadzˇi-Murat, non era nulla salvo se stesso. Forse Mann avrebbe considerato Chadzˇi-Murat come un altro nobile animale, privo di dignità civilizzata, qualunque fossero le probabilità. Essendo un grande ironista, qui Mann affrontò ciò che andava al di là delle sue capacità artistiche. L’elemento più importante di Chadzˇi-Murat è la sua dignità estetica, che trascendente qualunque cosa possiamo scoprire nei personaggi di Mann. Con la questione della dignità estetica, giungiamo all’ultima resistenza e alla morte di Chadzˇi-Murat, forse la più bella delle epifanie fittizie di Tolstoj. L’unica differenza tra Tolstoj e Chadzˇi-Murat è che l’eroe ceceno ama suo figlio e sua moglie e muore in un disperato tentativo di salvarli dalla vendetta di Šamil. Non sappiamo se Tolstoj abbia mai amato qualcuno, compresi i suoi figli. Neppure Wordsworth o Milton, e neppure Dante, riescono a uguagliare il suo solipsismo. Gli scritti religiosi e morali di Tolstoj sono solo una confessione del suo solipsismo; tuttavia, come lettore di Guerra e pace o di Chadzˇi-Murat desidererebbe che Tolstoj fosse stato meno ossessionato da se stesso? Non si ottiene nulla per nulla, e alcuni scrittori poderosi (tra gli uomini come tra le donne) non raggiungono il loro splendore estetico senza solipsismo. Shakespeare, a quanto ne sappiamo, fu forse uno dei poeti meno solipsistici; Chaucer sembra rivaleggiare con Shakespeare da questo felice punto di vista, e talvolta sono tentato di organizzare un gioco di società in cui classificare gli scrittori più grandi in base al loro grado di solipsismo. Ma farebbe differenza? Nessuna per quanto riguarda la relativa eminenza delle loro produzioni, ma sembra esistere una differenza di natura. Joyce era un solipsista monumentale, mentre Beckett

sembra essere stato uno degli uomini più altruisti. Il contrasto tra La veglia di Finnegan e la trilogia di Beckett (Molloy, Malone muore e L’innominabile) ha qualcosa a che fare con il distacco di Beckett dal suo precursore, ma ancora di più con il loro senso nettamente diverso degli altri io. A differenza di altri protagonisti maschili di Tolstoj, Chadzˇi-Murat possiede un senso soprannaturale della realtà degli altri io. Senza questa caratteristica sarebbe morto già da tempo, ma la sua consapevolezza è assai più di una semplice diffidenza, come dimostrato dal suo affettuoso rapporto con Butler, la cui visione romantica e il cui vizio del gioco ci rammentano il servizio militare prestato dal giovane Tolstoj nel Caucaso. Se, per un verso, il tragico isolamento di Chadzˇi-Murat proietta il dilemma personale di Tolstoj, la generosità emotiva del guerriero tartaro introietta una qualità che il romanziere sapeva di non avere. Anche il valore militare del suo eroe era senza dubbio un attributo con cui Tolstoj cercava di identificarsi. John Bayley riassume il servizio militare di Tolstoj definendolo «dedicato quasi solo a conversare e tentare di comporre storie, a sparare a lepri e fagiani, ad amoreggiare con le ragazze cosacche e a farsi curare la gonorrea presso la stazione termale più vicina». Come aggiunge Bayley con acume, si tratta di un’esperienza simile alle imprese militari attive di Hemingway, la cui carriera fu tutta un goffo agone con quella di Tolstoj. Entrambi i romanzieri spinsero l’autoidolatria fino alle regioni più remote della loro arte, investendo il loro io nella natura delle cose, entrando così con forza nella sfera di quello che Freud chiamava «esame di realtà», ma senza la conclusiva saggezza freudiana del familiarizzarsi con la necessità del morire. Chadzˇi-Murat, magnifico nella sua ultima resistenza come in tutta la sua vita, dà prova di quella saggezza come sanno fare solo gli eroi e le eroine tragici di Shakespeare, combattendo sino alla fine e morendo con insolenza ma con grazia. Durante il suo ultimo mattino, quando è già chiaro ma il sole non è ancora sorto, il guerriero chiama il suo cavallo e se ne va accompagnato dai suoi cinque scagnozzi e da una guardia di cinque cosacchi. Dopo aver ucciso e fatto sparire questi ultimi, Chadzˇi-Murat e i suoi uomini non sono tuttavia in grado di sottrarsi alla massa degli altri cosacchi, e alla milizia tartara al servizio dei russi, da cui vengono circondati. Dopo un furioso scontro a fuoco, per Chadzˇi-Murat arriva la fine: Un’altra pallottola colpì Chadzˇi-Murat al fianco sinistro. Egli si adagiò nel fossato e di nuovo lacerò un brandello del besˇmet per tamponare la ferita. Questa volta la ferita era mortale ed egli si rese conto che di lì a poco sarebbe morto. Ricordi e immagini si alternavano vertiginosi nella sua mente. Gli

parve di vedere davanti a sé il vigoroso Abununzal-Chan, che, reggendo con la mano la guancia penzolante per un terribile fendente, col pugnale nell’altra mano, si gettava sul nemico. Ora vedeva il vecchio, esangue vecchio Voroncòv col suo furbo viso pallido e udiva la sua morbida voce; ora il figlio Jusuf, la moglie Sofjat, ora il bianco viso dalla barba rossa e gli occhi stretti del suo nemico Šamil. Tutti questi ricordi si rincorrevano nella sua mente senza però risvegliare in lui alcuna sensazione: né rimpianto, né ira, né desiderio. Tutto questo era un’inezia al confronto di ciò che ora cominciava, che già era cominciato per lui. Il suo forte corpo, intanto, continuava a compiere ciò che aveva iniziato: raccolte le ultime forze, si sollevò dal fossato, sparò con la pistola contro un uomo che stava fuggendo e lo colpì. L’uomo cadde. Poi si trascinò fuori dalla fossa e, brandendo il pugnale, avanzò dritto, zoppicando pesantemente, contro i nemici. Risuonarono alcuni spari: egli vacillò e cadde. Alcuni territoriali, con un urlo di trionfo, si gettarono sul suo corpo. Ma quello che a loro sembrava un cadavere si mosse. Prima sollevò il capo insanguinato, senza colbacco, coi capelli rasati, poi il busto e, aggrappandosi a un albero, si levò con tutta la persona. Il suo aspetto era così pauroso che gli accorsi si fermarono. Improvvisamente però ebbe un tremito, vacillò abbandonando il sostegno dell’albero e cadde, senza piegarsi, a viso in giù, come un cardo reciso alla base dalla falce, e non si mosse più. Non si mosse, ma sentiva ancora. Quando il primo uomo che era accorso, Gadzˇi-Aga, lo colpì al capo col grosso pugnale, gli parve che lo pestassero con un martello e non riuscì a capire chi mai lo pestasse e perché. Fu questa l’ultima sensazione cosciente del suo legame col proprio corpo. Poi più nulla, e i nemici calpestarono e sciabolarono qualcosa che non aveva più nulla in comune con lui.

A parte la forza obiettiva e quasi spassionata di questo brano, ci meravigliamo del fatto che Tolstoj, nonostante la sua identificazione con l’eroe, si astenga da qualsiasi sgomento, rimpianto elegiaco o orrore metafisico per il distacco di Chadzˇi-Murat dalla coscienza. Il cadavere «non aveva più nulla in comune con lui», e ricordiamo il grido di Natasˇa in Guerra e pace, quando sa della morte del principe Andrej: «Dov’è e chi è ora?». Cito la versione letterale suggerita da John Bayley, che quest’ultimo, considerando la capacità di identificazione tolstojana, commenta come segue: «Il solipsismo è indice d’immortalità». La morte di Chadzˇi-Murat, che fu la fuga del vecchio Tolstoj dal solipsismo, non suscita nulla di simile ai sentimenti provocati dall’angosciosa doppia domanda di Natasˇa. Invece, Tolstoj ci dice quanto segue: «Gli usignoli, rimasti muti per tutto il tempo ch’erano durati gli spari, tornarono a trillare, prima uno vicino, poi gli altri in lontananza». Restiamo con il cardo schiacciato, chiamato «il tartaro», sul campo arato, e con la trenodia degli usignoli. La forza impercettibile della storia di Tolstoj, omerica per ambientazione e shakespeariana per caratterizzazione, ci premia soprattutto con la sua immagine dell’eroismo. Chadzˇi-Murat è il migliore del suo universo – sia esso caucasico o russo – in tutti gli attributi che contano: audacia, abilità come cavallerizzo, capacità di comando, visione della realtà. Nessun altro eroe dell’epopea o della saga, antico o moderno, è un suo pari, o quasi altrettanto piacevole. Quando Chadzˇi-Murat muore, è libero dalla pietà, dalla rabbia e dal desiderio, e lo stesso vale per Tolstoj e per noi. Il

fatto che, fra tutti gli scrittori, proprio Tolstoj abbia immaginato una morte insieme così appropriata e così diversa dalla sua paura della morte è un trionfo inaspettato e rassicurante per la dignità estetica. Qualunque sia la nostra concezione del canonico, Chadzˇi-Murat ne è l’opera centrale dell’Età democratica.

15. IBSEN: I TROLL E IL PEER GYNT Di recente mi sono trovato sul palcoscenico dell’American Repertory Theatre a Harvard, impegnato a discutere Hedda Gabler di Ibsen. Gli altri relatori erano un illustre studioso di Ibsen, un’acclamata femminista di Harvard e la brava e bella attrice che aveva appena interpretato il ruolo di Hedda. Sono stato fischiato da gran parte del pubblico quando ho asserito, con tono pacato e amabile, che i veri precursori di Hedda erano lo Iago e l’Edmund di Shakespeare, cosicché anche se la società norvegese dell’epoca le avesse permesso di diventare amministratore delegato di una fabbrica di armi da fuoco, Hedda avrebbe continuato a essere masochista, manipolatrice, omicida e suicida, ossia il suo io spaventoso e affascinante. Forse con una punta di malizia, ho aggiunto che dunque non faceva differenza se Hedda fosse una donna o un uomo e che, come alcune attrici avevano interpretato Amleto, forse qualche attore avrebbe recitato la parte di Hedda. Il pubblico parve assai più soddisfatto quando la dotta femminista replicò che Hedda era vittima della società e della natura, perché era insieme infelicemente sposata e involontariamente incinta; «è intrappolata in un corpo di donna» divenne un ritornello, come l’idea che la società avesse vittimizzato Hedda non offrendole nulla da fare. La mia avversaria femminista non si è dimostrata molto originale; e nemmeno io. Nel 1970 Brigid Brophy ci aveva preceduti entrambi affermando che la tragedia di Hedda avrebbe potuto essere evitata se la donna fosse «divenuta il comandante in capo delle forze armate norvegesi», ma ritengo che la straordinaria autrice di Black Ship to Hell (uno dei miei libri preferiti) si sia sbagliata. A prescindere che Hedda fosse a capo di un esercito o di una fabbrica d’armi, si sarebbe comportata come i suoi predecessori Iago e Edmund: la sua genialità, come la loro, è volta alla negazione e alla distruzione. Ancora una volta come loro, Hedda è un drammaturgo che scrive con la vita di altri. La sua intelligenza è malevola, non a causa delle circostanze sociali, bensì per il suo piacere, per l’esercizio della sua volontà. Se assomigliava a qualcuno che Ibsen aveva mai conosciuto, quel qualcuno era lo stesso Ibsen, e quest’ultimo ne era consapevole. Non è un caso che Hedda Gabler, scritto a Monaco nel 1890, sia il capolavoro dell’Età estetica, quella pericolosa transizione tra l’Età democratica e quella caotica. Iago, che assapora con orgoglio l’umiliazione di Otello, e Edmund, che contempla con distacco la dabbenaggine di suo padre

Gloucester e di suo fratello Edgard, sono in combutta con Hedda nella viva speranza che Løvberg si sia sparato, come si conviene, su sua insistenza e con la sua pistola. Elevare Iago al grado di vicecomandante di Otello e Edmund a erede di Gloucester avrebbe avuto come unico risultato quello di rimandare le tragedie di cui essi sono gli artefici; si sarebbero infatti manifestati altri punti di partenza. Hedda come ministro degli armamenti o come capo delle forze armate avrebbe trovato un’altra ragione per distruggere Løvberg e se stessa. Tutto ciò va inteso come preludio al principale elemento della canonicità di Ibsen: le sue coloriture sociali sono solo una maschera per la sua conversione della tragedia shakespeariana e della fantasia goethiana in un nuovo tipo di tragicommedia settentrionale, un poema drammatico esplicitamente tardoromantico in Brand e in Peer Gynt, ma implicitamente tardoromantico in Hedda Gabler e nel Costruttore Solness. Le ombre dell’Amleto e del Faust si proiettano su tutta la produzione ibseniana durante l’intero mezzo secolo della carriera del drammaturgo. La sua canonicità, come anche il suo atteggiamento da drammaturgo, hanno molto a che fare con il suo tentativo di individuare la sua volontà poetica e quasi nulla con le energie sociali del suo tempo. Irritabile ed eccentrico, implacabile nella devozione al proprio talento, Ibsen, una figura non molto carismatica, assomiglia a Goethe solo nella misura in cui entrambi rinunciarono a una parte dei loro impulsi più vitali per praticare la loro arte senza impedimenti. Ibsen non affascinava quasi nessuno; Goethe affascinava tutti, compreso se stesso. Come Shakespeare, Ibsen possedeva la misteriosa dote del vero drammaturgo, cioè la capacità di conferire a un personaggio più vita di quanta ne possieda in prima persona. L’unica persuasiva creazione drammatica di Goethe è la sua personalità, o Mefistofele nella misura in cui quest’ultimo è Goethe. Nei drammi o nei poemi drammatici di Goethe non vi è nessuno di simile a Brand, Peer Gynt, Hedda Gabler, Solness o all’imperatore Giuliano. Esseri demoniaci o trolleschi, dotati di una forte carica vitale e capaci di formare una panoplia shakespeariana di ruoli che non ha rivali nella letteratura moderna. Sono tuttavia gravati anche di un fardello non shakespeariano, cioè la disapprovazione del drammaturgo. Quasi mezzo secolo fa Eric Bentley mise in risalto questa peculiarità centrale di Ibsen: «Scrisse opere che erano sempre più soggettive e difficili e recavano in sé una condanna nascosta degli uomini moderni, compreso il poeta stesso». Come implica Bentley, questa condanna è diretta ancora di più verso il pubblico, che, tramite i suoi surrogati scenici, soffre esattamente ciò che

Ibsen voleva fargli soffrire. Kierkegaard, che ebbe un’influenza forte anche se indiretta su Ibsen, distingueva tra due disperazioni: quella di non essere riusciti a diventare se stessi e quella, ancora più grande, di essere diventati davvero se stessi. I protagonisti di Ibsen sono diventati senza dubbio se stessi. Ad eccezione di Peer Gynt, finiscono tutti nella disperazione. Ibsen faticò moltissimo per portare Peer Gynt alla disperazione, ma questo è l’unico personaggio che si affrancò completamente da lui, per entrare nello spazio letterario abitato da Amleto, Falstaff, il Matto di Lear, il Bernardino di Misura per misura, Don Chisciotte, Sancho Panza e pochi altri. In parte, la strana comicità del Peer Gynt come poema drammatico deriva dal guardare Ibsen che lavora, duramente ma invano, per indurre se stesso e noialtri a disapprovare Peer o a trovarlo antipatico. L’arguzia di Falstaff giustifica ogni sua colpa e ne mitiga la vita finché iniziamo a rifletterci sopra; ma chi ha tempo per una simile riflessione quando Falstaff è sul palco? La noncuranza e l’energia inesauribile spingono Peer ad affrontare sia avversari formidabili e soprannaturali come il re dei troll, il Gran Curvo, il fabbricante di bottoni e il passeggero ignoto sia tutti i semplici oppositori umani. Sia a teatro sia nello studio, stiamo dalla parte di Peer, anzi ci lasciamo assorbire completamente dal grande io gyntiano. Ibsen è il drammaturgo esemplare del Periodo estetico perché, con ingegnosità addirittura maggiore rispetto a quella di Cechov, per non parlare poi di Strindberg, Wilde e Shaw, capì come prospettivare i suoi personaggi mediante aspetti delle nostre percezioni e sensazioni. È l’erede democratico dell’aristocratico Goethe e, sebbene non sia stato in grado di uguagliare il Faust, Parte seconda come poema drammatico, conosceva il segreto che Goethe non decifrò mai: come resuscitare il dramma poetico nell’epoca postilluministica. Le mitologie del Faust, Parte seconda erano troppo remote per acquisire un’immediatezza drammatica; Ibsen si affidò invece a un’occulta mitologia popolare norvegese che, per lui, svolse la funzione svolta dalla mitologia freudiana per molti scrittori della nostra Età caotica. La psicologia drammatica di Ibsen si incentra sulla figura del troll, tornata popolare all’improvviso tra le bambole. I piccoli folletti dai capelli arruffati che mi capita di vedere nelle vetrine dei negozi hanno tuttavia un aspetto molto più bonario dei troll di Ibsen, che sono autentici demoni. In un saggio giovanile sulle ballate popolari (1857), Ibsen osserva che la scrittura popolare del suo Paese aveva promosso «viaggi fantastici verso la terra dei troll… la guerra con i troll», il che ci introduce al mondo di Peer Gynt. Leggendo Ibsen

e vedendolo recitato, vengo sopraffatto dall’impressione che i troll non siano, per lui, fantasie antiche o metafore moderne. Come Goethe, Ibsen credeva nei suoi daimones, nelle fonti soprannaturali del suo genio. I troll non sono, come hanno ipotizzato alcuni critici, l’equivalente ibseniano dell’inconscio freudiano. Sono più simili alla successiva mitologia freudiana delle pulsioni, Eros e Thanatos, e poiché noi possediamo le pulsioni, nella nostra natura vi è qualcosa di trollesco. Ibsen è tuttavia un monista dove Freud tenta di essere un dualista; i nostri alterni desideri di vita e di morte non sono, secondo Ibsen, il nostro elemento umano. Nonostante ciò, poiché le pulsioni sono universali (o almeno sono una mitologia universale), i troll non possono essere semplici orchi come, tanto per citare un esempio, i troll montani del Peer Gynt. Peer rientra di stretta misura nella categoria dei troll e, come vedremo, Hedda Gabler e Solness, sono troll salvo che per le loro ritrosie puramente sociali. In Brand, la ragazza Gerd è una persona che ammiriamo e aborriamo al tempo stesso, perché il suo aspetto umano, tutto ciò che non è troll, è un’autentica profetessa spirituale. Qualcosa di fondamentale in Ibsen, un’astuta misteriosità alleata con fatica alla sua creatività, è puro troll. Non credo che Ibsen sarebbe stato d’accordo con le definizioni di troll proposte da alcuni dei suoi studiosi moderni. Muriel Bradbrook definisce il troll «la versione animale dell’uomo», ma l’animale sano in Peer Gynt, un individuo sempre attivo, rifiuta i troll. Rolf Fjelde, si spinge oltre, affermando che il troll, «nella storia recente, dirigeva i campi di sterminio». I troll di Ibsen sono particolarmente sgradevoli, soprattutto nel Peer Gynt, ma sono più simili a bambini sadici e capricciosi che ai sistematici tecnocrati del genocidio. Molto semplicemente, i troll sono prima del bene e del male, anziché al di là di entrambi. Il più terribile troll umanizzato di Ibsen è Hedda Gabler, che non può essere definita malvagia. Farlo sarebbe insensato come affermare che i suoi precursori, Iago e Edmund, sono perfidi. Ibsen pensava senza dubbio che gli antieroi di Shakespeare, Macbeth compreso, fossero troll, ma questo non è un mito molto shakespeariano. In Iago e in Edmund, come in Hedda, vi è una giocosità irrancidita e, nella misura in cui il sublime Falstaff cede a un certo irrancidimento, compare anche in lui un che di trollesco. Il contrario della natura trollesca sono l’arguzia e l’euforia che la pura arguzia sa generare. Sir John, arguto sino alla fine, non si tramuta mai in troll, mentre Touchstone, il sadico buffone di Come vi piace, è appena meglio di un troll. La natura trollesca, sia in Ibsen o, come quest’ultimo ci insegna in parte a

scoprirla, in Shakespeare, è una questione dialettica. Come il demonico goethiano, distrugge gran parte de valori umani, anche se sembra l’inevitabile lato oscuro delle energie e dei talenti che trascendono la misura umana. Hedda Gabler, la cui ambigua sessualità comprende desideri sadici nei confronti di Thea Elfstead, discende in ultima analisi da Lilith, la prima moglie di Adamo secondo la tradizione esoterica giudaica. In una versione, Lilith abbandona Adamo nell’Eden dopo avergli rifiutato ulteriori rapporti sessuali in quella che abbiamo cominciato a chiamare posizione del missionario. Quando Ibsen osservò che Hedda desiderava vivere in tutto e per tutto come un uomo, sottintendeva che la sua protagonista tragica si collocava nella discendenza di Lilith, poiché il folklore norvegese voleva che le donne troll nascoste (huldres) fossero figlie della prima moglie di Adamo. Ancora una volta, il problema non è la presunta perfidia di Hedda, bensì il suo charme soprannaturale. Se diretta e interpretata come si deve, Hedda dovrebbe essere dotata di freddo fascino e seduzione nichilistica quanto Edmund, e dovrebbe avere il potere di trasformare in Goneril o Regan qualcosa in ciascuno di noi. La sua natura trollesca è la sua gloria, per quanto sinistra. La critica o la rappresentazione che tramutano Ibsen in un moralista o riformatore sociale distruggono la sua conquista estetica e mettono a repentaglio il posto che gli spetta di diritto nel Canone drammatico occidentale, secondo solo a Shakespeare e forse a Molière. Ancora più dello Shakespeare maturo, Ibsen è un drammaturgo occulto o visionario. Scrive storie d’avventura dall’inizio alla fine, sebbene l’esuberanza di Brand, Peer Gynt e Imperatore e Galileo sembri svanire nelle tragedie borghesi e democratiche che divennero la sua produzione caratteristica. Abbandonando la poesia per la prosa, Ibsen dimostra di essersi arreso alla modernità, ma nella sua natura non vi è nulla di arrendevole. George Bernard Shaw ingannò se stesso e gli altri proclamando l’esistenza di un Ibsen sociale; non ricordo nessun altro drammaturgo occidentale di vera grandezza che sia coerente e arcano quanto quest’ultimo. Una singolarità che rifiuta l’addomesticazione, una visione eccentrica, un’arte barocca… Ibsen manifesta queste qualità come ogni altro titano del Canone occidentale. Con Ibsen accade esattamente ciò che accade con Milton, Dante, Dickinson o Tolstoj: perdiamo di vista la sua originalità perché siamo contenuti in quell’individualità; siamo stati in parte formati da Ibsen. Shakespeare è necessariamente il massimo esempio di questo fenomeno; ma l’Ibsen giovane e maturo rimase più shakespeariano di

quanto fosse disposto ad ammettere. In genere, i critici concordano nell’affermare che il primo dramma canonico di Ibsen è l’implacabile Brand, scritto in Italia nel 1865, quando il drammaturgo aveva trentasette anni. Ancor più del Peer Gynt, un’opera successiva, il Brand sembra un dramma destinato più al teatro della mente che a un vero palcoscenico. Ora gode di grande successo nella lingua inglese perché la versione eseguita dal poeta Geoffrey Hill (1978) di gran lunga il miglior Ibsen a noi pervenuto sotto forma di poesia. Hill, un maestro di impetuosa eloquenza, è un martirologista, e il suo temperamento, come si manifesta nelle sue composizioni poetiche, è specificamente brandiano. Egli si rifiuta di definire il suo Brand una traduzione, ma essa supera qualsiasi presunta traduzione disponibile in America. Ciò che Hill dimostra in maniera sublime è che Brand è sublimemente insopportabile; quando, alla fine, muore travolto da una valanga, gli spettatori e i lettori accolgono con sollievo l’idea che il sacerdote fatalista non potrà seguire i suoi principi più nobili e distruggere qualcun altro. Ibsen rimane nascosto o ambiguo di fronte a questa problematica centrale della sua tragedia: il Dio di Brand è forse solo un Brand ingrandito? Se credete (come me) che un tempo qualsiasi dio, Yahweh incluso, sia stato un uomo (l’intuizione fondamentale di Joseph Smith, il profeta mormone), siete portati a riflettere sulla verità della convinzione finale della folle Gerd, secondo cui Gesù non morì bensì divenne Brand. Quest’ultimo è il Gesù norvegese o vichingo, come i religionisti americani adorano non Gesù di Nazareth, bensì il Gesù americano. W.H. Auden, che aspirava a un’eminente ortodossia cristiana, condannò Brand come idolatra, un giudizio tutt’altro che ibseniano: «La nostra impressione finale è che Brand sia un idolatra impegnato a adorare non Dio, bensì il suo Dio. Non fa differenza se il Dio che chiama suo è il vero Dio; finché lo ritiene suo, è idolatra quanto il selvaggio che si prostra davanti a un feticcio». La lettura di Brand proposta da Gerd non è quella di Ibsen, ma è più pertinente dell’interpretazione di Auden. Il Dio di Brand è suo solo nella misura in cui il Dio di qualsiasi profeta o mistico è loro. Qualunque sia il rapporto di Brand con il suo Dio, non è questo a rendere il personaggio insopportabile. I suoi rapporti umani, a partire da quelli con la madre, sono impossibili, e ciò vale anche per il suo matrimonio, poiché, nel testo, Agnes non si innamora dell’uomo bensì di un eroe della fede. Per quanto Brand sia o fosse norvegese, la sua religione mi sembra molto

americana o postcristiana. Ci viene detto ben poco sul Dio di Brand, ma quel poco basta per rivelarci che Brand e Dio coesistono in reciproca solitudine, a prescindere dal fatto che si tratti di un solo io o di due. In Brand, Auden vede la raffigurazione non del tutto riuscita di un apostolo, ma il Brand di Ibsen non è l’apostolo di nessuno. Come Ibsen e come Peer Gynt, Brand è un io trollesco. Ibsen è un genio drammatico, e Brand è una raffigurazione molto persuasiva di un fenomeno terrificante: il genio religioso. Peer Gynt, come Don Chisciotte e Sir John Falstaff, è qualcos’altro, un genio del gioco, quello che Huizinga chiama Homo Ludens. Nella produzione ibseniana, il parallelo più vicino a Brand è Giuliano l’Apostata, un altro genio dello spirito, affascinante ma, in sostanza, insensibile e insopportabile. In entrambe le figure, come in quasi tutti i maggiori protagonisti di Ibsen, vi sono qualità che ci rammentano alcune bizzarrie nella natura trollesca dell’autore. Ho molti amici che sono autentici poeti, romanzieri e drammaturghi, e molti di loro presentano un buon numero di stranezze, ma nessuno tiene sulla scrivania uno scorpione velenoso sotto vetro, nutrendolo di frutta. Ibsen non era Brand né l’imperatore Giuliano, ma era un grande costruttore che sapeva di essere in combutta con troll. Se, evidentemente, voleva che Peer Gynt fosse solo, nel migliore dei casi, un’autoparodia, l’universalismo di Peer è quasi fratello di Amleto, Falstaff, Don Chisciotte e Sancho Panza. Molto più del Faust di Goethe (per cui Ibsen nutriva una profonda ammirazione), Peer è l’unico personaggio letterario del XIX secolo a possedere la grandezza delle maggiori figure delle fantasie rinascimentali. Dickens, Tolstoj, Stendhal, Victor Hugo e persino Balzac non crearono alcuna figura esuberante, scandalosa e vitalistica quanto Peer Gynt. All’inizio quest’ultimo sembra un candidato improbabile a una simile eminenza: che cos’è, ci chiediamo, se non una sorta di turbolento ragazzo norvegese, molto affascinante per le donne (quando era giovane), una sorta di poeta fasullo, un assurdo narcisista autoidolatra, un bugiardo, un seduttore, un autoimpostore ampolloso? Questo è tuttavia gretto moralismo, fin troppo simile al coro degli eruditi che si scagliano contro Falstaff. È vero, a differenza di quest’ultimo, Peer non è dotato di grande arguzia (sebbene sappia essere molto divertente). Nel senso della Bibbia yahwista, tuttavia, Peer il briccone è colui che porta la Benedizione: altra vita. Brand è fatalista ed è di per sé una nave vichinga della morte. Peer è foriero di calore, anche se non proprio di luce. Ibsen lo evidenzia nel meraviglioso pathos della scena in cui la fiera e affettuosa

madre di Peer muore confortata dalla giocosa tenerezza del figlio, una scena che è in netto contrasto con il fastidioso e supponente rifiuto opposto da Brand alla richiesta di facilitare la morte di sua madre, una donna avara e infelice. Gran parte della reazione critica al Peer Gynt consiste semplicemente nel vedere in Peer un Brand capovolto. Poiché l’essenza di Brand è «Nessun compromesso!», l’io gyntiano viene considerato un ornamento, in una debole interpretazione dell’ingiunzione pronunciata dal Gran Curvo: «Gira in tondo». Peer è una molteplicità di autoindulgenze, ma non è il tipo da scendere a compromessi. Come si conviene all’Età democratica, Peer è l’uomo allo stato naturale, fin troppo naturale. È anche, come Brand e Giuliano l’Apostata, l’uomo allo stato soprannaturale, spinto dal suo carattere trollesco e dalla necessità di trascendere il carattere trollesco. Non gradiamo molto Peer verso la fine del dramma, quando, a bordo della nave, si mostra crudele con l’equipaggio, e neppure il Peer naufrago che annega il cuoco con una punta di entusiasmo. Il più delle volte, tuttavia, questo personaggio suscita il nostro affetto. Il suo lato violento riflette non solo la sua natura trollesca, ma anche la sua origine mitologica e il suo status di assassino dei troll. Ibsen derivò dichiaratamente il suo Peer Gynt da un cacciatore quasi storico, Per Gynt, l’eroe di un racconto popolare norvegese. Il cacciatore incontra il Gran Curvo, un troll misterioso e invisibile che è una presenza deforme e simile a un serpente; ma, a differenza del Gynt di Ibsen, che deve obbedire all’ordine del Gran Curvo di girare in tondo, l’eroe del racconto popolare uccide il mostro. In seguito, il feroce cacciatore ammazza i troll che fanno l’amore con le mandriane, le stesse donne appassionate che ammaliano il Peer Gynt di Ibsen. Il drammaturgo attenua la violenza del Per originario, ma ne conserva la fama di narratore e inventore di frottole. Il Peer di Ibsen è un contadino norvegese del XIX secolo, il figlio di una famiglia in declino, non un cacciatore misterioso, tranne che nelle sue fantasticherie. Queste aspirazioni non dimostrano la veridicità dell’interpretazione di W.H. Auden, che vedeva in Peer l’artista-genio come un nuovo tipo di eroe drammatico. Il Peer di Ibsen non è un artista né un genio, e Auden insiste nel suo vistoso errore: Il Peer che vediamo sul palcoscenico non ha appetiti o desideri nel senso comune del termine; gioca ad averli. Ibsen risolve il problema di presentare drammaticamente un poeta mostrandoci un uomo che tratta qualunque cosa faccia come un ruolo, a prescindere che si tratti di vendere schiavi o idoli oppure di essere un profeta orientale. Nella vita reale, un poeta avrebbe scritto un dramma sulla

tratta degli schiavi e poi un altro dramma su un profeta, ma, sul palcoscenico, la recitazione simboleggia la creazione.

Il Peer in cui ci imbattiamo nelle pagine di Ibsen è consumato da appetiti e desideri meravigliosamente normali e senza dubbio è più un uomo allo stato naturale che un poeta. L’intuizione di Auden resta tuttavia valida; il Solness del Costruttore Solness è un architetto, mentre il Rubek di Quando noi morti ci destiamo è uno scultore. Per quanto riguarda il manoscritto bruciato di Løvberg in Hedda Gabler, né noi né Ibsen riteniamo che il prezzo culturale sia molto elevato. Auden cerca in Peer Gynt il poeta inesistente, perché Ibsen sembra avere un intimo rapporto con il suo protagonista, più che con Brand o con l’imperatore Giuliano. In parte, il mistero dell’Ibsen umano ed estetico è racchiuso nel fatto che, fra tutti i suoi personaggi, il drammaturgo sembra essersi immedesimato soprattutto in Peer Gynt e Hedda Gabler. Ibsen è Hedda, come Flaubert è Emma Bovary. Il suo rapporto con Peer Gynt è molto diverso e risiede nella separazione tra identità e non identità. Se torniamo all’associazione di Peer Gynt con Don Chisciotte e Amleto proposta da Shaw, il fenomeno è l’universalismo estetico, capace di trascendere i canoni nazionali. Con molta probabilità Amleto non è una rappresentazione dell’immaginazione di Shakespeare; Macbeth è più vicino a quell’intensità profetica. È inutile speculare su Don Chisciotte e Cervantes, perché quest’ultimo conclude la sua storia epica e avventurosa con una dichiarazione esplicita e memorabile: «Soltanto per me venne al mondo Don Chisciotte ed io soltanto per lui; egli seppe operare ed io scrivere; tutti e due insieme noi facciamo un solo». Sostituire «Don Chisciotte» con «Peer Gynt» ci sbalordirebbe, e Ibsen non l’avrebbe mai fatto. In realtà, tuttavia, per Ibsen solo nacque Peer Gynt, e Ibsen per lui, anche se forse nessuno dei due sapeva sperare (in senso cervantino). Gli altri drammi di Ibsen raggiungono un’eminenza tragica, ma nella sua produzione non vi è null’altro di così fecondo. Quasi mezzo secolo fa Eric Bentley definiva giustamente il Peer Gynt «un capolavoro e una delizia» e ci esortava a interpretare questo grande poema drammatico con una punta di comprensione. Io preferisco il suo termine «delizia». I contemporanei di Ibsen non apprezzarono gli atti quarto e quinto, che tuttavia costituiscono la gloria dell’opera, mai superata da Ibsen in termini di inventiva, l’essenza della poesia. Gli ultimi due atti messi insieme sono molto più lunghi degli altri tre sommati e trascendono la saga del giovane Peer. Nel primo, secondo e terzo atto, Peer ci viene mostrato a vent’anni, vitalista e irrefrenabile, impegnato a lottare con i vicini e con i troll. Ritenendosi

indegno di Solvejg a causa dei suoi flirt trolleschi, e isolato dalla morte di sua madre, va in esilio, e il dramma diventa surrealistico, forse poco realistico, più vicino a Beckett che a Strindberg. Il sontuoso e allegro atto quarto inizia sulla costa del Marocco, per poi continuare nel deserto del Sahara e concludersi in un manicomio del Cairo. Peer, ormai un uomo di mezza età, è un mercante di schiavi corrotto e americanizzato, che dà una cena all’aperto per i suoi compari altrettanto corrotti – britannici, francesi, prussiani e svedesi –, cui espone la sua filosofia morale gyntiana: L’io gyntiano, cos’è? Una grande armata Di cupidigie, appetiti e desideri, L’io gyntiano è un enorme mare Di fantasie, esigenze, propensioni, In breve quanto gonfia il petto mio E mi fa vivere secondo mia volontà. Ma come Dio abbisognò di argilla Per essere dell’universo il creatore Così io ne ho di oro, a impersonare Con forza il ruolo dell’imperatore.

Il troll in Peer ha trionfato, poiché ha seguito pragmaticamente l’ingiunzione del re dei troll: «Troll, ti basti d’essere come sei!» anziché l’imperativo umano: «Uomo, sii te stesso!». Mentre è in corso la rivolta greca contro i turchi, Peer ribalta l’eroismo byroniano e, con coerenza trollesca, propone di finanziare questi ultimi. Quando i suoi soci fuggono con la nave carica d’oro e saltano in aria, Peer loda Dio, pur lagnandosi che la divinità non è per nulla economica. Ora l’eroe dei primi tre atti è senza dubbio un antieroe, ma è anche coerente perché più spiritoso e persino più amabile; le sue dolorose disavventure toccano infatti con efficacia una corda universale delle fantasie umane. Pur sapendo ancora di essere rimasto in qualche modo un eletto, il briccone Peer si arrampica su un albero, dove lo vediamo lottare con scimmie come se queste ultime fossero troll. Con la solita noncuranza, vaga poi per il deserto meditando di migliorarlo. Questo personaggio, lo capiamo all’improvviso, è il legame tra il Faust di Goethe e il Poldy Bloom di Joyce. Entrambi sognano infatti un nuovo regno strappato alla natura disastrata; inoltre, il regno costiero di Faust, Gynziana, e la nuova Bloomsalemme di Poldy nella nuova Iberna del futuro vengono sintetizzati al meglio da Peer: Nel mezzo del mio mare, in ricca oasi, Le nordiche razze voglio ricreare. Quasi reale è il sangue a Hallingdal; Arabi incroci aggiungeranno il resto. Dentro una valle, sopra un’eminenza,

Perropolis fonderò, mia capitale. Il mondo è vecchio! Nuove ere chiamano. A te, Gyntiana, la mia Terra Nuova!

Ibsen mescola farsa, fantasia e un pathos nostalgico quando Peer continua a invocare una crociata contro la Morte, un presagio della meravigliosa ricerca dell’atto quinto. Il Fato (e Ibsen) portano a Peer il cavallo e le vesti rubate dell’imperatore del Marocco. Splendidamente montato e abbigliato, il protagonista si accinge a diventare un profeta, circondato da fanciulle danzanti guidate da Anitra, l’avvenente celebratrice dell’io gyntiano. Come profeta, Peer è quasi realizzato, ma ricade nella quotidianità quando tenta una soddisfazione più secolare con la scaltra Anitra, che fugge con il cavallo e le ricchezze del profeta senza aver accontentato il povero Peer. Quest’ultimo ci piace ancora di più per il suo rapido rimbalzo dall’ultima umiliazione erotica: Voler fermare il tempo con le danze; Lottar contro corrente coi belletti! Suonare il liuto, dar l’amore per scontato, Per poi finire spennato come un pollo. Poetica pazzia, potrei chiamarla – Spennato! Oh, Dio, spennato sono stato!

Una volta finita la sua carriera profetica, Peer si ripropone di diventare un vecchio storiografo, uno scrematore della panna storica. Come un nuovo Vico, cerca «la somma del passato» e va in Egitto per udire la statua di Memnone che saluta il sorgere del sole. L’impulso di Peer è una parodia del Faust nella Parte seconda del poema di Goethe, che ossessiona gli atti quarto e quinto di Ibsen. Invece dello straordinario recupero goethiano del classico, con Faust come amante di Elena, vediamo Peer come turista norvegese, che scrive nel suo taccuino: Cantò la statua. Udii note precise, Senza però capire il loro senso. Un’allucinazione, senza dubbio, Nient’altro degno di annotar quest’oggi.

Anziché trascinare Peer nell’abisso oscuro e arretrato della storia classica, Memnone gli ricorda solo il re dei troll. Quello che dovrebbe essere un confronto ancora più grandioso con la Sfinge di Gizah fallisce una volta ancora come storia mondiale e a Peer sembra solo un nuovo incontro con il Gran Curvo. La risposta edipica all’indovinello «Che cos’è l’uomo?» non viene data da Peer, bensì da Begriffinfeldt, il direttore del manicomio del Cairo, che si è recato dalla Sfinge in cerca di conoscenza (è questo infatti il significato letterale del suo nome). La ricerca finisce quando Begriffinfeldt proclama Peer imperatore degli esegeti, colui che ha risolto l’enigma della

vita dicendo alla Sfinge trollesca che l’uomo è «se stesso». Peer, sconcertato ma sempre volenteroso, si ritrova nel circolo dei Settanta, cioè nel manicomio dove Begriffinfeldt chiude i guardiani in gabbia e lascia liberi i ricoverati, senza trascurare di fare una grande affermazione antihegeliana: «La ragione assoluta / È spirata ieri sera alle undici». La ragione è morta, e lo scioccato Peer regna al suo posto, ricevendo il folle omaggio di Huhu, un riformatore della lingua; di un fellah, che porta sulla schiena la mummia di re Apis; e soprattutto di Hussein, un ministro che vive nell’illusione di essere una penna. Per Ibsen, queste erano feroci satire politiche contemporanee, che ora vivono però nella loro follia ispirata. Peer manda Huhu a interpretare la lingua delle scimmie del Marocco con cui ha lottato in precedenza e ordina al fellah di impiccarsi per diventare come re Apis. Per quanto la missione di Huhu si risolva bene, il suicidio del fellah riempie Peer di orrore, e un secondo suicidio, quello di Hussein, è troppo per lui e gli fa perdere i sensi. In un’apoteosi sordida e sublime, Begriffinfeldt incorona Peer con una ghirlanda di paglia e tutti salutano l’imperatore dell’io mentre il sipario cala sull’atto quarto. Non saprei indicare un dramma novecentesco che uguagli l’atto quarto del Peer Gynt come ripresa della tradizione di Aristofane e del Faust, Parte seconda. La verve di Ibsen è incrollabile mentre il drammaturgo passa da un’invenzione irriverente all’altra. Qualunque cosa Peer rappresenti, gli faremmo un torto invocando moralizzazioni agostiniane come fanno alcuni dei migliori critici di Ibsen. Quest’ultimo è più uno scorpione che un moralista e, in questo dramma, è più dionisiaco di quanto immaginiamo. Eric Bentley è forse un po’ troppo severo con Peer, più severo di quanto fosse lo stesso Ibsen: «Il Peer Gynt è un contro-Faust. Mostra l’altra faccia dell’anelito faustiano, l’anelito del carrierismo moderno con tutte le sue vaste implicazioni. Nella sua allegra mancanza di scrupoli, nel suo avventuroso egoismo e nella sua amabile immoralità, Peer Gynt è il Don Chisciotte della libera impresa e dovrebbe essere il santo patrono dell’Associazione nazionale degli industriali». Per un certo periodo, Peer è stato infatti un grande barone bandito, ma, in sostanza, è troppo vitalistico e metamorfico per attenersi a qualsiasi ruolo, e il suo egocentrismo produce un’indifferenza pragmatica. Peer è un genio del gioco, un gioco folle e trollesco. Come Cervantes e di Shakespeare, Ibsen non nutre interesse per il peccato originale. La natura trollesca non è una ribellione a Dio, nemmeno quando si manifesta negli uomini anziché nei

troll. L’atto quarto del Peer Gynt è tanto anticristiano quanto antihegeliano; ragione assoluta e spiritualità assoluta muoiono insieme a mezzanotte, mentre il malconcio Peer continua a vivere. Checché ne pensino i suoi critici, Ibsen non reputa Peer un fallito o un uomo vuoto. Il Faust, Parte seconda è un poema drammatico ancora più grande del Peer Gynt ma, a differenza di Faust, Peer è la trionfante raffigurazione di una personalità. Ciò che Ibsen apprezza in Peer è ciò che dovremmo apprezzare anche noi: il bizzarro che si rifiuta di confondersi con il riduttivo o il banale, l’agone riprodotto nell’atto quinto del dramma. Dissento con forza dall’opinione ora abbracciata da molti, che trova la sua massima espressione in Ibsen on File di Michael Meyer (1985): «A prescindere dal fatto che si consideri Peer morto in manicomio o durante il naufragio, l’atto quinto rappresenta senza dubbio la proiezione della sua vita passata nella sua mente al momento della morte o (cosa forse identica) il vagabondare della sua anima nel purgatorio». Il Peer Gynt di Ibsen non muore in manicomio né durante il naufragio, ed è ancora vivo e vegeto quando il sipario cala sull’ultima scena. Come Odisseo e Sancho Panza, e a differenza di Don Chisciotte, Falstaff e Faust, è un superstite, come si conviene al precursore di Leopold Bloom. Ibsen seppellisce allegramente Brand sotto una valanga, ma non sopporta di uccidere Peer Gynt. I grandi troll, Hedda Gabler, Solness e Rubek, devono morire tutti; il trollesco Peer, che è il senso della vita di Ibsen, deve vivere. Tutto l’atto quinto è un rifiuto della morte per annegamento, della fusione e delle sofferenze purgatoriali. A Peer Gynt non viene riservata l’apoteosi faustiana, l’ascesa in una sfera angelica e femminea; al contrario, Ibsen offre un ritorno alla donna che diviene insieme madre e sposa molto tardiva. Critici e registi non devono temere che ciò sia melodrammatico o sentimentale: si tratta piuttosto dell’ultima provocazione di Ibsen in un dramma che è provocatorio dall’inizio alla fine. I troll non sono riusciti a distruggere Peer perché quest’ultimo aveva donne pronte a sostenerlo, e il passeggero ignoto e il fabbricante di bottoni sono frustrati dallo stesso enigma byroniano e goethiano; il rapporto di Peer con Aase, sua madre, e con la pia Solvejg viene a essere volutamente velato da Ibsen, poiché è molto più probabile che ricordiamo le avventure erotiche, umane e trollesche, del protagonista. L’elemento unificante è l’entusiasmo, grazie al quale Ibsen perdona a Peer quasi ogni cosa. L’atto quinto oscura Peer, infliggendogli i suoi primi momenti brutti

all’interno del dramma. Parte della durevole singolarità del Peer Gynt consiste nel fatto di essere più una trilogia di drammi che un’opera singola. Il Peer ventenne dei primi tre atti è un vitalista eroico abbastanza misterioso da essere parzialmente troll in termini di energie e desideri. Il Peer di mezza età dell’atto quarto è sia un umorista maturo sia un birbone matricolato, e le sue fantastiche avventure restano a fatica entro limiti naturali. Il soprannaturale pervade l’ultimo atto, in cui il Peer anziano, è, a scapito del suo umorismo, insieme più irrancidito e più caustico di quanto fosse prima. Sebbene il Peer Gynt sia il più originale e il meno shakespeariano tra i drammi di Ibsen, questo duplice sviluppo del personaggio trova un parallelo nelle fortune di Falstaff quando la seconda parte dell’Enrico IV volge al termine. Il ritorno al mare e alle valli montane della Norvegia ha molto, ma non tutto, a che fare con la nuova atmosfera dell’ultimo atto. La vecchiaia – di Peer e, per prolessi, di Ibsen – esprime la cupezza di un cosmo in cui la morte è una presenza costante. Come il Faust, Parte seconda di Goethe (con cui contrae un altro debito), Ibsen ha una visione francamente elitaria dell’immortalità. La grande massa di anime si scioglie in un fondo comune, da cui la nuova vita può ricevere il suo spirito; ma le grandi anime creative conservano la propria individualità anche dopo la morte. Questa idea si rifà a Petrarca, ma Goethe e Ibsen la ravvivano con una disperata svolta verso la prosaicità. La domanda è allora: qual è la grandezza di Peer Gynt, ora al culmine della sua selvaggia natura trollesca, che giustifica la sua decisione di tenere a distanza sia il passeggero ignoto sia il fabbricante di bottoni? Una cosa è che Greta (e Goethe) salvino Faust, ma perché è ancora più persuasivo che Solvejg e Ibsen salvino Peer Gynt? Ibsen, bisogna riconoscerlo, non ci semplifica il problema. Peer diventa sgradevole per la prima volta, a meno di non essere il raccapricciante passeggero ignoto, che chiede in dono il cadavere di Peer per svolgere alcune orrende ricerche, e che rivolge all’eroe queste memorabili parole di conforto: «Nessuno muore a metà dell’ultimo atto». A due terzi dell’ultimo atto, tuttavia, Peer incontra il fabbricante di bottoni, che plasma il resto del dramma. Qui il debito di Ibsen nei confronti di Goethe è stato descritto con abilità nel 1942 da A.E. Zucker, che giustamente istituisce un paragone fra il tono del fabbricante di bottoni e quello di Mefistofele. L’inventiva di Ibsen uguaglia quella di Goethe per umorismo sardonico e macabro, e ha la forza aggiuntiva di un’ossessione che risale all’infanzia di Ibsen. Da ragazzo si era servito di una siviera per giocare a fondere bottoni, e Aase, all’inizio del

dramma, dice che da bambino l’aveva fatto anche Peer. Quando il fabbricante di bottoni dice a Peer: «Tu conosci il mestiere», tocca una fonte in cui una seduzione giovanile si mescola al terrore. La metafora implicita è biblica e profetica, perché comporta più una purificazione che una punizione, benché questa «purificazione» consista ironicamente nella perdita dell’autoidentità, cosa orribile per Peer (e anche per Ibsen). «Ti fonderemo» è la sardonica battuta che il fabbricante di bottoni rivolge a Peer, e lo strano fascino di questo personaggio dipende in parte dalla sua pazienza, dalla sua disponibilità ad aspettare fino al crocicchio successivo. Il fabbricante di bottoni sa che, prima di quell’appuntamento, Peer incontrerà lo sparuto e deposto re dei troll e che udirà ancora una volta la parola trollesca: basti. «Troll, ti basti d’essere come sei!» sfocia pragmaticamente in «ti fonderemo». Durante il loro secondo incontro, il dialogo tra Peer e il fabbricante di bottoni prende una piega che talvolta i critici di Ibsen tendono a cristianizzare. Peer, in preda a sincera confusione, chiede che cosa significhi «essere se stessi» e l’altro risponde con un paradosso troppo facile: «Essere se stessi è uccidere se stessi». Ma perché dovremmo pensare che il fabbricante di bottoni parli per Ibsen, o meglio per il dramma? Nella produzione ibseniana non vi è un protagonista che realizzi l’io mediante il suicidio, compresi Hedda Gabler e Rubek alla fine di Quando noi morti ci destiamo. Nessun artista letterario era meno interessato al suicidio di Ibsen e, a mio parere, il vero significato del fabbricante di bottoni è il fatto di essere così saggio da accettare un perpetuo rinvio. Come si può infatti fondere Peer Gynt nel comunitario? Peer teme tanto una fine così improbabile da offrirsi a un curioso personaggio chiamato Diavolo fotografo, la versione ibseniana di Mefistofele; ma il Diavolo fotografo ritiene che Peer non sia degno della dannazione, almeno sotto mentite spoglie. Il famoso Peer Gynt, donchisciottesco imperatore di se stesso, è un’altra questione, e il Diavolo fotografo parte verso sud per continuare la sua ricerca, indirizzato erroneamente dal Peer in incognito. Il crescente divario tra il Peer reale e il Peer leggendario comincia a sembrare il centro definitivo del dramma. Il fabbricante di bottoni cede per la terza volta, e l’arrivo di Solvejg, insieme a Greta e Beatrice, trasforma la situazione. Tuttavia, il dramma si conclude con un’antifonia di voci, quelle di Solvejg e del fabbricante di bottoni che tendono a cancellarsi a vicenda. Il fabbricante di bottoni promette un incontro all’ultimo crocicchio, mentre Solvejg abbraccia Peer, promettendo una regressività infinita. Vi sono pochi

motivi per associare Ibsen con il mantenimento delle due promesse. Per lui, e per noi, il dramma si conclude nell’ironia, cioè nella mancanza di significato. Peer non viene salvato né condannato a una fusione finale. Invece, deve dormire e sognare. Di sicuro non sarà abbastanza per e in se stesso, e sarà stato purificato; ma vorrà essere se stesso quando si sarà addormentato sulle ginocchia di Solvejg? Il Peer Gynt è più lungo di cinquecento versi rispetto all’Amleto non tagliato, sebbene in confronto al Faust sia un’opera breve. Il Peer Gynt è chiaramente l’Amleto e il Faust di Ibsen, il dramma o poema drammatico in cui viene esposta l’intera portata di un’immaginazione. Con il Brand come preludio e Imperatore e Galileo come enorme epilogo, il Peer Gynt è il centro di Ibsen, contenente tutto ciò che l’autore aveva, tutto ciò che cercava per i drammi in prosa della sua presunta fase maggiore. La canonicità del Peer Gynt forma, a mio giudizio, un tutt’uno con la sua natura trollesca, proprio come i migliori drammi in prosa di Ibsen sono i più trolleschi, in particolare Hedda Gabler. Tornare alla natura trollesca di Ibsen significa tornare all’Ibsen drammaturgo, perché la vera quintessenza dell’ibsenismo è il troll. Qualunque sia il suo significato nel folclore norvegese, nella produzione ibseniana il troll è la cifra dell’originalità dell’autore. I troll avevano una grande importanza per Ibsen perché può essere così difficile distinguerli dagli esseri umani, una difficoltà che si accresce nei suoi drammi successivi. La difficoltà, almeno per lo scrittore, non era morale né religiosa. Brand è un troll? La domanda è fastidiosa ma per nulla insensata, e smette di essere fastidiosa quando la poniamo, per esempio, riguardo a Hilde Wangel, Rebecca West, Hedda Gabler, Solness e Rubek. La natura trollesca è, per Ibsen e in Ibsen, una questione di cartografia psichica. In Goethe il demonico è una categoria a sé, ma non pervade ogni cosa. In Ibsen non vi sono confini, e non sappiamo chi sia del tutto umano e chi sia contaminato dai demoni del Nord. Tendiamo tuttavia a essere interessati soprattutto quando i personaggi sono trolleschi, e la formula ibseniana si avvicina dunque al principio nascosto secondo cui il drammatico è un’altra denominazione del soprannaturale. Ciò è molto diverso da quel che dovrebbe essere Ibsen; ma I’Ibsen vero, come drammaturgo, assomiglia al suo troll serpentino, il Gran Curvo. Ciò dovrebbe insegnarci, come minimo, a smettere di definire Peer Gynt uno smidollato morale, un individuo evasivo e incline ai compromessi, un io irrealizzato. Peer Gynt rientra di stretta misura

nella categoria dei troll, affascinante e vitalizzante, proprio come Ibsen. Molto tempo fa Eric Bentley sottolineava il fatto che l’Ibsen maturo era un realista fuori e una complessa fantasmagoria dentro. Naturalmente, aveva ragione: in Brand, Peer Gynt e Hedda Gabler è impossibile distinguere l’interno dall’esterno, e ci vengono dati suoni più acuti e demarcazioni più spettrali che in qualsiasi dramma successivo.

PARTE QUARTA L’ETÀ CAOTICA

16. FREUD: UNA LETTURA SHAKESPEARIANA Ogni critico ha (o dovrebbe avere) la sua battuta critica preferita. La mia consiste nel paragonare la «critica letteraria freudiana» al Sacro Romano Impero: non sacro, non romano, non impero; non freudiana, non letteraria, non critica. A Freud va imputata solo parte della colpa per il riduzionismo dei suoi seguaci angloamericani; né egli è corresponsabile della psicolinguistica franco-heideggerigna di Jacques Lacan e compagni. A prescindere dal fatto che consideriate l’inconscio un motore a combustione interna come i freudiani americani, una struttura di fonemi come i freudiani francesi o un’antica metafora (come faccio io), non fornirete un’interpretazione più utile di Shakespeare applicando alle sue opere la mappa della mente di Freud o il suo sistema analitico. L’allegorizzazione freudiana di Shakespeare è insoddisfacente quanto l’attuale foucaultismo (neostoricismo), le allegorizzazioni marxiste e femministe o le vecchie concezioni cristiane e morali che guardano le opere shakespeariane attraverso lenti ideologiche. Insegno da molti anni che Freud è sostanzialmente uno Shakespeare messo in prosa: la sua visione della psicologia umana deriva, in maniera del tutto inconscia, dalla lettura dei drammi. Il fondatore della psicoanalisi lesse per tutta la vita Shakespeare in inglese, riconoscendo nel drammaturgo il massimo scrittore. Shakespeare ossessionava Freud come ossessiona tutti noi; deliberatamente e inavvertitamente, Freud si ritrovò a citare Shakespeare (e a citarlo in modo errato) nelle conversazioni, nelle lettere e nella creazione di una letteratura particolare per la psicoanalisi. Non credo sia esatto affermare che Freud amava Shakespeare come amava Goethe e Milton, e mi sembra dubbio che lo si possa definire anche solo ambivalente nei confronti di Shakespeare. Freud non amava la Bibbia né mostrava ambivalenze nei suoi confronti, e Shakespeare, molto più della Bibbia, divenne l’autorità nascosta di Freud, il padre che quest’ultimo non avrebbe riconosciuto. Più o meno consciamente, a un certo livello Freud instaurò una bizzarra associazione tra Shakespeare e Mosè, come avviene nel suo saggio sul Mosè di Michelangelo. Questa straordinaria meditazione sulla scultura di Michelangelo venne pubblicata anonima nel 1914 sul periodico di psicoanalisi Imago, come se l’autore desiderasse sconfessarla pur rendendola nota ai suoi discepoli. Freud esordisce parlando dell’effetto sconcertante o enigmatico di alcuni capolavori della letteratura o della scultura, e prima di menzionare il Mosè di Michelangelo parla dell’Amleto definendolo un

problema risolto dalla psicoanalisi. Uno sgradevole dogmatismo pervade questa affermazione, protetta dall’anonimato: Pensiamo per esempio all’Amleto, il capolavoro creato da Shakespeare oltre tre secoli fa. Mi sono tenuto al corrente della letteratura psicoanalitica, e concordo con l’affermazione secondo cui soltanto la psicoanalisi, riconducendone la materia al tema di Edipo, ha risolto l’enigma dell’effetto suscitato da questa tragedia. Ma prima, che sovrabbondanza di tentativi d’interpretazione diversi e tra loro incompatibili, che grande disparità di opinioni sul carattere dell’eroe e sulle intuizioni del poeta! Shakespeare si è proposto di farci partecipare alle vicende di un malato, di un inetto minus habens, o di un idealista che è solo troppo buono per il mondo reale? E quante di queste interpretazioni ci lasciano freddi, al punto che non possono far niente per spiegare l’effetto suscitato dalla poesia e ci inducono piuttosto all’ipotesi che il suo incanto risieda unicamente nell’impressione provocata dai pensieri e nello splendore della lingua! Eppure questi sforzi non rimandano precisamente all’esigenza di trovare, al di là di questa, un’altra fonte dell’effetto poetico?

Anziché discutere questa opinione, preferisco chiedermi perché Freud abbia scelto di istituire un legame tra l’Amleto e il Mosè di Michelangelo. Strano a dirsi, è assai più suggestivo e fantasioso nella sua interpretazione della statua marmorea che nella sua riduzione del più complesso personaggio shakespeariano a vittima di una fissazione edipica. Forse l’identificazione con Mosè stimolò l’immaginazione di Freud, ma sono incline a credere che, al contrario di Michelangelo, Shakespeare suscitasse in lui una notevole ansia. Alla fine, Freud avrebbe istituito un legame indiretto e fastidioso tra Mosè e Shakespeare: le due figure non erano ciò che sembravano, e Freud si rifiutò di accettare qualsiasi interpretazione tradizionale dell’una o dell’altra. Nella fase finale della sua produzione, Mosè e il monoteismo sostituì il biblico profeta ebraico di Dio con un egiziano, mentre a William Shakespeare venne riconosciuta un’esistenza storica come attore, ma non come scrittore. Fino alla morte, Freud continuò a insistere che Mosè era stato un egiziano e che a scrivere i drammi e le poesie erroneamente attribuite a Shakespeare era stato il conte di Oxford. Quest’ultima idea, esposta da J. Thomas Looney nel suo Shakespeare identified (1921), è ancora più stramba della prima. Tuttavia, l’ipotesi di Looney divenne una verità freudiana nel giro di pochi anni e Freud seguitò a sostenerla in Compendio di psicoanalisi, la sua ultima opera, pubblicata postuma. Inutile dire che non potrebbe esserci nulla di più insensato: Edward de Vere, diciassettesimo conte di Oxford, era nato nel 1550 ed era morto nel 1604, prima che venissero composti Re Lear, Macbeth, Antonio e Cleopatra e le commedie romantiche mature di Shakespeare. Per essere looneysti, bisogna partire dall’affermazione secondo cui quei drammi furono lasciati sotto forma di manoscritto alla morte di Oxford, e procedere da qui. Come si spiega che Freud, forse la mente più acuta del nostro secolo, sia caduto in un errore così grossolano?

Il desiderio freudiano che Shakespeare non fosse Shakespeare assunse una serie di forme prima della felice scoperta dell’ipotesi di Looney. Si ha l’impressione che Freud fosse disposto ad accettare qualunque tesi confermasse che il figlio di un guantaio di Stratford, l’attore William Shakespeare, fosse un impostore. Ernest Jones, l’agiografo di Freud, riferisce che Meynert, che insegnò al giovane Freud l’anatomia del cervello, credeva nella teoria secondo cui a scrivere le opere di Shakespeare era stato Sir Francis Bacon. Nonostante l’ammirazione che nutriva per Meynert, Freud si rifiutò di diventare baconiano, ma per un motivo rivelatore: la conquista cognitiva di Bacon, aggiunta all’eminenza di Shakespeare, ci avrebbe dato un autore dotato del «cervello più brillante che il mondo abbia mai prodotto». Rifiutando la tesi baconiana, Freud diede credito a qualunque altra bizzarra idea circolasse sul conto di Shakespeare e contro quest’ultimo, compreso un suggerimento accademico italiano secondo cui il nome una versione di Jacques Pierre. Se qualcuno avesse accennato a qualsiasi rivelazione della vera identità dell’attore di Stratford, pare probabile che Freud l’avrebbe accolta. Quando, nel 1923, si imbatté nel libro di Looney, lo accettò senza scetticismi. Poco importava che il conte di Oxford fosse morto prima della composizione del Re Lear; invece, importava moltissimo che Oxford, come Lear, avesse tre figlie. Gli amici di Oxford avrebbero dunque portato a termine i suoi drammi dopo la sua morte, e in ogni caso l’attore di Stratford aveva solo due figlie. Che cos’era all’opera nella mente acuta e poderosa di Freud perché quest’ultimo prendesse in seria considerazione una simile pedanteria? Il complesso di Edipo, imposto a Amleto decenni prima da Freud, era ormai divenuto il complesso di Oxford. Come autore dell’Amleto, Oxford avrebbe perduto il padre mentre era ancora un ragazzo e avrebbe finito per allontanarsi dalla madre che si era risposata. A nulla sarebbe servito dire a Freud che si trattava di una prassi comune tra i grandi aristocratici elisabettiani: Freud voleva, aveva bisogno, che il poeta di Amleto, Re Lear e Macbeth fosse un nobile ricco e potente. Se, come ritengo, Freud aveva davvero un debito eccessivo verso Shakespeare, come poteva accadere che, se il suo precursore era Oxford e non l’attore di provincia, il suo fardello si alleggerisse? Si trattava semplicemente di snobismo sociale viennese? La mia ipotesi è che il fondatore della psicoanalisi avesse un disperato bisogno di leggere le grandi tragedie come rivelazioni autobiografiche. L’attore di Stratford avrebbe fatto al caso suo come drammaturgo delle Allegre comari di Windsor, ma non

come creatore di tragedie che mettevano in campo personaggi di alto livello: Amleto, Re Lear, Otello, Macbeth. In una lettera al suo vecchio amico Arnold Zweig del 2 aprile 1937, Freud sembra sul punto di perdere la calma di fronte all’incapacità di convertire al looneyismo il suo sbalordito interlocutore: «Pare non avere proprio nulla a sostegno della sua affermazione, mentre Oxford ha quasi tutto. Per me è assolutamente inconcepibile che Shakespeare abbia avuto tutto di seconda mano: la nevrosi di Amleto, la follia di Lear, la sfacciataggine di Macbeth e il personaggio di Lady Macbeth, la gelosia di Otello, eccetera. Quasi mi irrita che lei voglia sostenere quest’idea». Leggo queste parole con stupore: questa è una mente poderosa e complessa, ancora al culmine delle sue facoltà; anzi, è la mente della nostra epoca, come Montaigne era quella dell’epoca di Shakespeare. La mente di quest’ultimo, come Freud sa ma si rifiuta di ammettere, è stata la mente di tutte le epoche, e i secoli a venire non riusciranno mai a reggere il confronto. Freud, che certo non è una coscienza priva di immaginazione, asserisce che l’immaginazione di Shakespeare riceve «tutto di seconda mano». L’atteggiamento difensivo di Freud mi spaventa. È come se quest’ultimo avesse un gran bisogno che l’Amleto fosse stato scritto da Amleto, il Re Lear da Lear, il Macbeth da Macbeth e l’Otello da Otello. Il sottinteso sembrerebbe essere che Freud scrisse il suo Amleto nell’Interpretazione dei sogni, il suo Re Lear nei Tre saggi sulla teoria sessuale, il suo Otello in Inibizione, sintomo e angoscia e il suo Macbeth in Al di là del principio di piacere. L’«uomo di Stratford» non avrebbe potuto inventare la psicologia freudiana; non avrebbe potuto inventarla nemmeno il conte di Oxford, un nobile fiero e ribelle, che, a differenza dell’umile attore, avrebbe tuttavia potuto viverla. A meno che non si sia freudiani religiosi, questa è l’antica storia dell’influenza letteraria e delle relative angosce. Shakespeare è l’inventore della psicoanalisi; Freud ne è il codificatore. A Freud non bastava tuttavia fraintendere le opere di Shakespeare: il minaccioso precursore doveva essere smascherato, ripudiato, disonorato. L’attore di Stratford era, nella migliore delle ipotesi, un falsario e un plagio: Oxford, il grande sconosciuto, era il tragico protagonista capace, in qualche modo, di mettere per iscritto ciò che aveva sofferto. Rispetto a Freud, Oxford è solo un Elia nei confronti del Messia freudiano, un vagabondo nel deserto della psiche, impegnato a urlare per profetizzare l’avvento del vero interprete. Il Mosè egiziano della fantasia di Freud verrà ucciso dagli ebrei, divenendo così un padre totemico più

vigoroso di quanto fosse stato il profeta vivente. Shakespeare, nella fantasia looneyana di Freud, viene cancellato, per essere sostituito da un titanico aristocratico meno vigoroso di quanto fosse stato il poeta-drammaturgo vivente. Ovviamente, qui mi riferisco a Freud come scrittore e alla psicoanalisi come letteratura. Questo è un libro sul Canone occidentale di quella che, in tempi migliori, chiamavamo letteratura di fantasia, e la grandezza di Freud come scrittore è la sua conquista concreta. Come terapia, la psicoanalisi sta morendo, o forse è già morta: la sua sopravvivenza canonica deve essere racchiusa negli scritti di Freud. Qualcuno potrebbe obiettare che Freud è tanto un pensatore originale quanto un autore poderoso, al che replicherei che Shakespeare è un pensatore ancora più originale. Non è necessario aggiungere a Shakespeare gli esiti di Sir Francis Bacon per trovarsi davanti al maggiore psicologo della storia mondiale. Con questo non voglio dire che Shakespeare sia stato solo uno psicologo morale mentre Freud ha inventato la psicologia del profondo. Amleto non soffriva del complesso di Edipo, ma Freud soffriva senza dubbio del complesso di Amleto, e forse la psicoanalisi è un complesso di Shakespeare. Come studioso delle influenze letterarie, non riuscirei a sopravvalutare l’influenza di Shakespeare su Freud. Quest’ultima non differisce per genere, ma solo per grado, dall’influenza di Shakespeare su Goethe, Ibsen, Joyce e molti altri che sono argomento di questo libro. Ma voglio spingermi più in là: Shakespeare influenza Freud così come Emerson influenza Whitman; stiamo parlando del precursore iniziale, così come parleremmo di Wordsworth rispetto a Shelley, di Shelley rispetto a Yeats o di Yeats rispetto a tutti i poeti angloirlandesi successivi, compreso il magnifico Seamus Heany. Abbiamo già visto l’ansia di Freud nei confronti di Shakespeare; se Looney non fosse mai esistito, Freud si sarebbe inventato da solo un conte di Oxford. La critica letteraria freudiana di Shakespeare è uno scherzo celeste; una critica shakespeariana di Freud avrà una nascita difficile, ma arriverà, poiché Freud come scrittore sopravvivrà alla morte della psicoanalisi. Il transfert con uno sciamano è una tecnica di guarigione antica, diffusa in tutto il mondo, ampiamente studiata da antropologi e storici della religione. Lo sciamanismo ha preceduto la psicoanalisi e le sopravvivrà: è la forma più pura di psichiatria dinamica. La produzione di Freud, che è la descrizione della natura umana nella sua totalità, trascende di gran lunga la sbiadita terapia freudiana. Se esiste un’essenza di Freud, va individuata nella sua visione

della guerra civile all’interno della psiche. Quella divisione presuppone una concezione dell’organizzazione della personalità e una serie di miti e metafore per rendere dinamica (o, in termini più letterari, drammatica) quell’organizzazione. Queste figurazioni freudiane comprendono l’energia psichica, le pulsioni, i meccanismi di difesa. Sebbene Freud, come si addice a un fondatore, abbia compiuto un’autoanalisi per scoprire o inventare il suo dramma dell’io, vietò esplicitamente a tutti i suoi successori di emulare il loro leader. Questa autoanalisi iniziale dipendeva, in termini di coerenza, da un paradigma drammatico, e Freud lo trovò dove l’ha trovato, in generale, il romanticismo europeo: in Amleto. A mio avviso, Edipo venne trascinato dentro da Freud e innestato su Amleto soprattutto per adempiere un obbligo nei confronti di Shakespeare. Le analogie freudiane fra le due tragedie sono frutto di grandi fraintendimenti e risultano insostenibili da parte di un’analisi che si sottragga alla sopravvalutazione di ciò che Freud chiamava complesso di Edipo. Un complesso di Amleto è una questione molto complessa, poiché in tutta la letteratura occidentale non vi è personaggio più intelligente. Forse l’Edipo di Sofocle soffriva del complesso di Amleto (che io definisco non come la tendenza a pensare troppo, bensì come la tendenza a pensare troppo bene), tuttavia l’Amleto dell’uomo di Stratford non soffre assolutamente di alcun complesso di Edipo. L’Amleto di Shakespeare ama e onora senza dubbio la memoria di suo padre e nutre cospicue riserve nei confronti di sua madre. Secondo Freud, Amleto desidera inconsciamente sua madre e nutre inconsciamente pensieri omicidi riguardo a suo padre, pensieri di cui poi si appropria Claudio. Shakespeare è molto più ingegnoso; le sue tragedie edipiche sono Re Lear e Macbeth, non Amleto. La regina Gertrude, di recente divenuta oggetto di parecchie difese femministe, non ha bisogno di giustificazioni. Evidentemente è una donna dalla sessualità esuberante, che ispira passioni matrimoniali prima in re Amleto e poi in re Claudio. Freud non si sarebbe preso il disturbo di rilevarlo, ma Shakespeare fu bene attento a dimostrare che il principe Amleto era un bambino piuttosto trascurato, almeno dal padre. In nessun punto del dramma, qualcuno, compresi Amleto e il fantasima, ci dice che il padre dominato dalla moglie amava il figlio. Guerriero feroce come Fortebraccio, lo stizzoso re sembra non aver avuto tempo da dedicare al figlio per via della guerra, della lussuria coniugale e delle imposizioni statali. Così, quando il fantasma esorta Amleto alla vendetta, grida: «Se tu hai mai amato il

tuo diletto padre», ma non dice nulla a proposito del suo affetto per il principe. Allo stesso modo, Amleto, nel primo soliloquio, sottolinea la devozione tra suo padre e sua madre, tacendo l’attenzione che eventualmente gli dedicavano. I suoi ricordi d’amore, dato e ricevuto, si incentrano interamente sul povero Yorick, il buffone di suo padre, che aveva preso il posto dei genitori tanto cotti l’uno dell’altra: Ahimè, povero Yorick! Lo conoscevo, Orazio. Era un uomo straordinario, e dotato di uno spirito inesauribile, d’una fantasia sorprendente. M’ha portato sulle spalle non so quante volte. Ed ora, al pensiero, come mi mette paura! Mi fa rivoltar le viscere dal disgusto! Qui erano quelle labbra che ho baciato non so quante volte.

Amleto, nel cimitero del quinto atto, è quasi oltre l’affetto, anche quando discute con Laerte per stabilire chi amasse di più la compianta Ofelia. La tristezza della sua fredda elegia per Yorick avrebbe potuto indurre Freud a riflettere sul fatto che non vi erano altre labbra – non quelle di Ofelia, né di Gertrude, né di re Amleto – che il protagonista avesse baciato chissà quante volte. Il concetto freudiano del complesso di Edipo è il capolavoro di quella che Freud chiamava ambivalenza emotiva, di cui riteneva di essere stato lo scopritore. Ho liquidato il complesso di Edipo come irrilevante per quanto riguarda Amleto, ma dove aveva incontrato Freud una straordinaria ambivalenza affettiva e cognitiva nella letteratura? Dove, se non in Amleto, il personaggio in cui Shakespeare per primo aveva investito appieno la sua geniale capacità di rappresentare l’ambivalenza? Amleto impartisce la lezione dell’ambivalenza all’Europa e al mondo ormai da quasi quattro secoli, e Freud è arrivato in ritardo sulla sua scia. Come interprete del principe di Danimarca, Freud non merita la sufficienza, ma come commentatore di tematiche freudiane, Amleto supera tutti i rivali. Ecco qui l’esordio della celebre lettera scritta da Freud a Wilhelm Fliess il 15 ottobre 1897: Da allora sono andato molto più avanti, ma ancora non ho raggiunto un vero luogo di riposo. Comunicare l’incompleto è così faticoso e mi porterebbe così lontano che spero che lei vorrà scusarmi, accontentandosi di udire quelle parti che sono ormai certe e definitive. Se l’analisi procede come io mi aspetto, la metterò tutta quanta per iscritto sistematicamente e le metterò davanti i risultati. Per il momento, non ho trovato nulla di completamente nuovo, ma tutte le complicazioni alle quali ormai sono abituato. Non è cosa semplice. Essere affatto sinceri con se stessi è un buon esercizio. Mi è venuta alla mente solo un’idea di valore generale. Ho trovato anche nel mio caso amore per la madre e gelosia per il padre, e adesso credo che sia un fenomeno generale della prima infanzia, sebbene non sempre si verifichi altrettanto precocemente come in bambini che siano stati resi isterici. (Lo stesso vale per la «romanticizzazione delle origini» nel caso dei paranoici-eroi, fondatori di religioni.) Se le cose stanno così, la forza impressionante dell’Edipo re, nonostante tutte le obiezioni di carattere razionale nei confronti dell’inesorabilità del fato che la vicenda presuppone, diviene intelligibile, e si riesce a capire perché successivi drammi sul fato siano stati così fallimentari. I nostri sentimenti si ribellano contro qualsiasi fato arbitrario, individuale, come quello mostratoci nel Ahnfrau ecc., ma il mito greco fa ricorso a una pulsione che chiunque riconosce perché ne ha avvertito tracce in se stesso. Ogni

componente l’uditorio è stato almeno una volta, nella propria fantasia, un Edipo in boccio, e l’attuazione del sogno che si verifichi nella realtà induce chiunque a ritrarsi orripilato, con tutto il peso della rimozione che separa il suo stato infantile dal suo attuale. Mi è passata per la mente l’idea che la stessa cosa possa essere alla radice dell’Amleto. Non alludo a intenzioni consapevoli di Shakespeare, ma suppongo piuttosto che sia stato impulso a scriverlo da un evento reale perché il suo stesso inconscio comprendeva quello del suo eroe. Come si può spiegare la frase dell’isterico Amleto, «Tutti ci rende vili la coscienza», e la sua esitazione a vendicare il padre uccidendo lo zio, quando lui stesso con tanta indifferenza spedisce propri cortigiani alla morte e spaccia così sveltamente Laerte? Come si può spiegarlo meglio che con il tormento suscitato in lui dall’oscuro ricordo di avere egli stesso meditato l’identica azione contro suo padre a causa della passione per sua madre: «Se si trattasse ognuno a seconda del suo merito, chi potrebbe evitare la frusta?». La sua coscienza è il suo inconscio sentimento di colpa. E non sono forse tipicamente isterici la sua freddezza sessuale quando parla con Ofelia, la sua reiezione dell’istinto di generare figli, e infine il suo transfert dell’azione da suo padre a Ofelia? E forse che alla fine non riesce, esattamente allo stesso, singolare modo con cui lo fanno i miei isterici, ad attirare su di sé la punizione e a subire lo stesso destino di suo padre, quello di essere avvelenato dallo stesso rivale?

La peculiare cattiveria del secondo capoverso, se considerata come una lettura dell’Amleto, mi induce a trasalire e a battere le palpebre, ma la sua forza letteraria sopravvive al mediocre fraintendimento di un rivale che aveva avvelenato Freud e continuava ad avvelenarlo. Questi due capoversi sono molto differenti: Edipo re viene visto in termini astratti e a grande distanza dal testo, mentre Amleto viene visto da vicino, e abbondano i particolari e le reminiscenze verbali. Le osservazioni su Edipo re potrebbero riguardare qualunque opera letteraria culmini in un tragico destino; qui non vi è nulla che abbia una specifica attinenza con il dramma sofocleo. L’Amleto, tuttavia, tocca Freud da vicino: il dramma lo legge e gli permette di analizzare se stesso come Amleto. Quest’ultimo non è isterico, se non per brevi istanti, ma Freud ha i suoi isterici, i suoi pazienti, e vi affianca Amleto. Particolare ancora più interessante, affianca se stesso a Amleto e all’ambivalenza di Amleto. Questo processo continuò nel suo libro dei sogni, come amava chiamare L’interpretazione dei sogni del 1900, dove il complesso di Edipo trova per la prima volta una formulazione esplicita, benché venga denominato così solo nel 1910. Nel 1900, Freud aveva imparato a mascherare il suo debito nei confronti di Shakespeare; nel libro dei sogni fornisce un amplissimo (anche se stranamente arido) resoconto dell’Edipo re prima di passare a Amleto come persona. Ci domandiamo perché l’oggetto della vera preoccupazione e del vero interesse di Freud sia l’Amleto e non l’Edipo re, tuttavia il termine scelto non è «complesso di Amleto». Poche figure della storia culturale sono state abili quanto Freud nell’insinuare concetti nella nostra coscienza. «Be’, certo, è il complesso di Edipo, e ce l’abbiamo tutti», impariamo a bofonchiare, ma

in realtà si tratta del complesso di Amleto, e lo possiedono necessariamente solo gli scrittori e altri creatori. Perché Freud non lo chiamò complesso di Amleto? Edipo uccide suo padre senza saperlo, mentre Amleto non aveva impulsi simili nei confronti del re legittimo, sebbene, come principe delle ambivalenze, nutrisse senza dubbio alcuni controimpulsi nei confronti di chiunque a ogni livello della sua multiforme coscienza. Il complesso di Amleto avrebbe tuttavia avvicinato troppo il minaccioso Shakespeare alla matrice della psicoanalisi; Sofocle era molto più sicuro, senza contare il fatto che offriva il prestigio delle origini classiche. Nell’Interpretazione dei sogni, Amleto compare solo in una lunga nota a pie’ di pagina nel discorso su Edipo, e soltanto nell’edizione del 1934 l’ansioso Freud inserì nel testo la discussione sull’Amleto, sotto forma di un lungo, denso capoverso: Nello stesso terreno dell’Edipo re si radica un’altra grande creazione tragica, l’Amleto di Shakespeare. Ma nella mutata elaborazione della medesima materia si rivela tutta la differenza nella vita psichica di due periodi di civiltà tanto distanti tra loro, il secolare progredire della rimozione nella vita affettiva dell’umanità. Nell’Edipo, l’infantile fantasia di desiderio che lo sorregge viene tratta alla luce e realizzata come nel sogno; nell’Amleto permane rimossa e veniamo a sapere della sua esistenza – in modo simile a quel che si verifica in una nevrosi – soltanto attraverso gli effetti inibitori che ne derivano. L’effetto travolgente del dramma più recente si è dimostrato singolarmente compatibile col fatto che si può rimanere perfettamente all’oscuro del carattere dell’eroe. Il dramma è costruito sull’esitazione di Amleto ad adempiere il compito di vendetta assegnatogli; il testo non rivela quali siano le cause o i motivi di questa esitazione, né sono stati in grado di indicarli i più diversi tentativi di interpretazione. Secondo la concezione tuttora prevalente, che risale a Goethe, Amleto rappresenta il tipo d’uomo la cui vigorosa forza di agire è paralizzata dallo sviluppo opprimente dell’attività mentale («la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero»). Secondo altri, il poeta ha tentato di descrivere un carattere morboso, indeciso, che rientra nell’ambito della nevrastenia. Sennonché, la finzione drammatica dimostra che Amleto non deve affatto apparirci come una persona incapace di agire in generale. Lo vediamo agire due volte, la prima in un improvviso trasporto emotivo, quando uccide colui che sta origliando dietro il tendaggio, una seconda volta in modo premeditato, quasi perfido, quando con tutta la spregiudicatezza del principe rinascimentale manda i due cortigiani alla morte a lui stesso destinata. Che cosa dunque lo inibisce nell’adempimento del compito che lo spettro di suo padre gli ha assegnato? Appare qui di nuovo chiara la spiegazione: la particolare natura di questo compito. Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi. Il ribrezzo che dovrebbe spingerlo alla vendetta è sostituito in lui da autorimproveri, scrupoli di coscienza, i quali gli rinfacciano letteralmente che egli stesso non è migliore del peccatore che dovrebbe punire. Così ho tradotto in termini di vita cosciente ciò che nella psiche dell’eroe deve rimanere inconscio. Se qualcuno vuol dare a Amleto la denominazione di isterico, posso accettarla solo come corollario della mia interpretazione. A questa ben s’accorda l’avversione sessuale che Amleto manifesta poi nel dialogo con Ofelia, la medesima avversione sessuale che negli anni successivi doveva impadronirsi sempre più dell’animo del poeta, sino alle sue estreme manifestazioni nel Timone d’Atene. Naturalmente, può essere solo la personale vita psichica del poeta, quella che si pone di fronte a noi nell’Amleto. Traggo dall’opera di George Brandes su Shakespeare la notizia che il dramma è stato composto immediatamente dopo la morte del padre di Shakespeare (1601), quindi in pieno lutto, nella

reviviscenza – ci è lecito supporre – delle sensazioni infantili di fronte al padre. È noto anche che il figlio di Shakespeare, morto giovane, aveva nome Hamnet (identico a Hamlet). Come l’Amleto tratta del rapporto del figlio coi genitori, così il Macbeth, cronologicamente vicino, ha per tema la mancanza di figli. Del resto, nello stesso modo in cui ogni sintomo nevrotico, e il sogno stesso, sono passibili di sovrainterpretazione, anzi la esigono per essere totalmente compresi, così anche ogni autentica creazione poetica sorge da più di un motivo, da più di un impulso nell’anima del poeta e ammette più di un’interpretazione. Ho qui tentato soltanto l’interpretazione dello strato più profondo di impulsi esistente nella psiche del poeta creatore.

«Rimozione nella vita affettiva dell’umanità» è una strana espressione, poiché Freud non può parlare di Edipo e di Amleto, ma solo di Sofocle e di Shakespeare. Dopo tutto, Edipo non aveva idea di chi fosse colui che aveva ucciso al crocevia, e Amleto avrebbe dissentito da Freud riguardo al fatto che la sua ambivalenza nell’uccidere Claudio rappresentasse il rimorso per aver desiderato l’assassinio di suo padre. A questo punto si potrebbe ripetere che le capacità di autoanalisi di Amleto non solo uguagliano quelle di Freud, ma forniscono anche a quest’ultimo un paradigma di emulazione. Non è Amleto a giacere sul celebre lettino nello studio del dottor Freud, ma è Freud che aleggia con tutti noi in un miasma di corruzione nelle sale di Elsinore, e non gode di privilegi speciali mentre ci spintoniamo a vicenda nei corridoi: Goethe, Coleridge, Hazlitt, A.C. Bradley, Harold Goddard e tutti noi, poiché chiunque legga l’Amleto o assista a una sua rappresentazione è costretto a diventare un interprete. Freud ci dice che un Amleto sano ucciderebbe Claudio, e poiché Amleto evita di compiere quel gesto, dev’essere un isterico. Torno ancora al perfezionamento nietzschiano dell’opinione di Goethe, secondo cui Amleto non pensa troppo bensì troppo bene, e alle frontiere della coscienza umana si rifiuta di diventare suo padre, che, nelle stesse circostanze, avrebbe senza dubbio uccido suo zio. Il giovane Fortebraccio è il vecchio Fortebraccio tornato, un altro ragazzo prepotente, ma il principe Amleto non può essere definito solo come il figlio di suo padre. Dire con delicatezza che Freud legge Amleto in maniera sbagliata e lo sottovaluta grossolanamente non equivale, ahimè, a spogliare il fraintendimento freudiano della sua forza permanente. Freud si rifiuta di riconoscere la grandezza intellettuale di Amleto e Shakespeare, ma io non sottovaluto Freud. Oggi crediamo tutti di possedere la libido (o di esserne posseduti), ma non esiste una simile entità: non vi è infatti alcuna energia sessuale autonoma. Se Freud avesse deciso di alimentare la pulsione della morte con destrudo, un concetto che un tempo l’aveva tenuto impegnato, oggi ce ne andremmo tutti in giro non solo con il nostro complesso di Edipo e la nostra libido, ma anche con la nostra

destrudo. Per fortuna, Freud decise contro la destrudo, ma il fatto di averla evitata per un pelo dovrebbe essere istruttivo. Come avverte Wittgenstein, Freud è un poderoso mitologista, il grande creatore di miti dei nostri tempi, degno rivale di Proust, Joyce e Kafka come centro canonico della letteratura moderna. Il suo appello è l’ultima frase del lungo passo sull’Amleto appena citato; dopo un gesto poco convincente di modestia interpretativa, concedendo in via ipotetica che ogni autentica scrittura creativa «sorge da più di un motivo, da più di un impulso», Freud formula l’affascinante idea secondo cui la sua «interpretazione» tenta di raggiungere il substrato roccioso: «Lo strato più profondo di impulsi esistente nella psiche del poeta creatore». Nella mente non esistono strati «più profondi»; il Satana di Milton, un grande poeta, sottolinea giustamente che in ogni profondità si spalanca una profondità maggiore, pronta a divorarlo. Freud, essendo una figura più miltoniana che satanica, intendeva la metafora del «più profondo» come l’ha intesa chiunque altro. Il problema, insisto, non è il complesso di Edipo bensì il complesso di Amleto, e Freud tornò a occuparsene nell’abbozzo di un saggio, Personaggi psicopatici sulla scena, scritto nel 1905-1906, ma pubblicato solo postumo: Il primo di questi drammi moderni è l’Amleto. Tratta il tema di un uomo precedentemente normale che diventa nevrotico a causa della particolare natura del compito assegnatogli; in lui cerca di farsi strada un impulso che fino a quel momento era stato felicemente rimosso. L’Amleto si distingue per tre caratteristiche, che appaiono importanti per il nostro problema: 1) l’eroe non è psicopatico, ma lo diviene solo nel corso travolgente dell’azione; 2) l’impulso rimosso è di quelli che sono ugualmente rimossi in tutti noi, la cui rimozione è parte integrante dei fondamenti della nostra evoluzione personale, e proprio questa rimozione viene scossa dalla situazione drammatica. Grazie a queste due condizioni ci è facile riconoscerci nell’eroe; siamo suscettibili come lui dello stesso conflitto, dal momento che «l’uomo che non perde la ragione davanti a certi avvenimenti non ha una ragione da perdere». 3) Ma tale forma artistica sembra porre come condizione che, quanto più l’impulso che lotta per emergere nella coscienza è riconoscibile con certezza, tanto meno esso venga chiamato chiaramente per nome, così che nell’ascoltatore il processo si compia di nuovo mentre la sua attenzione è distratta ed egli sia in preda ai suoi sentimenti invece di rendersi conto di quanto avviene. In tal modo è ovviamente risparmiata una parte della resistenza, analogamente a quanto si verifica nel corso di un trattamento analitico quando i derivati del rimosso, a causa della scarsa resistenza, giungono alla coscienza, mentre il rimosso stesso ne è escluso. Nell’Amleto il conflitto è tanto ben nascosto che è toccato a me indovinarlo per primo.

Qui siamo molto distanti dall’Amleto, intralciati dal sistema di Freud e dal suo impeto di dogmatismo di «dissotterramento». È chiaro che qui non vi è ormai alcuna distinzione tra Amleto e un paziente freudiano, neppure in termini di grado d’interesse. L’eroe della coscienza occidentale è un altro psicopatico, e una tragedia shakespeariana si riduce a un caso da sottoporre al trattamento analitico. Questo passo piuttosto sterile potrebbe intitolarsi «La

dipartita del complesso di Amleto», ma io non ci credo. In realtà, Amleto è stato sostituito da Lear e Macbeth, e la lotta di Freud con Shakespeare si è spostata su altri campi di battaglia, poiché il commento all’Amleto in cinque contesti successivi aveva aggiunto solo ripetizioni edipiche, indegne di Freud come agonista. Freud trovò la sua prima Cordelia in Martha Bernys, prima che quest’ultima divenisse sua moglie, e la sua seconda e più autentica Cordelia nella piccola Anna, la grande prediletta fra tutti i suoi figli e sua degna continuatrice nel vigoroso libro sull’ego e sui suoi meccanismi di difesa di cui è autrice. La lettura freudiana del Re Lear è reperibile in parte in un affascinante saggio, Il motivo della scelta degli scrigni (1913), e in parte in una successiva lettera a un certo Bransom (25 marzo 1934), riprodotta in un’appendice alla Vita e opera di Freud di Ernest Jones. Bransom aveva scritto un goffo libro sul Re Lear, in cui il significato nascosto del dramma veniva individuato nella desiderio incestuoso rimosso di Lear verso Cordelia, un giudizio strampalato che Freud fu ben lieto di condividere. Ecco la conclusione, degli Scrigni, un passo sorprendente dal punto di vista mitologico: Lear è un vecchio. Per questo, come già dicemmo, le tre sorelle sono presentate come sue figlie. Il rapporto paterno, dal quale si sarebbero potuti trarre copiosi e fecondi spunti drammatici, non viene nel corso del dramma ulteriormente sfruttato. Lear non è però soltanto un vecchio, egli è anche un uomo che sta per morire. La tanto strana premessa della divisione ereditaria perde, quindi, il suo carattere bizzarro. Tuttavia quest’uomo votato alla morte non vuole ancora rinunciare all’amore della donna, vuole sentirsi dire fino a qual punto è amato. Si pensi ora alla straziante scena finale, ove il senso tragico raggiunge uno dei culmini della letteratura drammatica moderna: la scena di Lear che porta sul palcoscenico il corpo esanime di Cordelia. Cordelia è la Morte. Se si capovolge la situazione, la cosa ci appare comprensibile e familiare. È la Dea della Morte la quale porta via dal campo di battaglia l’eroe caduto, come la Valchiria nella mitologia germanica. La saggezza eterna, rivestita dei panni di un mito antichissimo, consiglia al vecchio di dire no all’amore, di scegliere la morte, di familiarizzarsi con la necessità del morire. Il poeta ci avvicina all’antico motivo allorché assegna a un uomo ormai vecchio e prossimo alla morte il compito della scelta fra le tre sorelle. L’elaborazione regressiva, che egli ha così compiuto sul mito – deformato dal capovolgimento dei desideri umani – ne lascia trasparire il significato primitivo a tal segno da consentirci, forse, anche una piatta interpretazione allegorica delle tre figure femminili del tema. Si potrebbe affermare che ciò che è qui raffigurato sono le tre relazioni inevitabili dell’uomo nei confronti della donna: verso colei che lo genera, verso colei che gli è compagna, e verso colei che lo annienta; o anche le tre forme nelle quali variamente si atteggia per l’uomo, nel corso della vita, l’immagine materna: la madre vera, la donna amata che egli sceglie secondo l’immagine della madre e, infine, la madre-terra che lo riprende nel suo seno. Ma quando un uomo è ormai vecchio, il suo anelito all’amore di una donna, a quell’amore che a suo tempo aveva ottenuto dalla madre, è vano. Solo la terza delle creature fatali, la silenziosa Dea della Morte, lo accoglierà tra le sue braccia.

Mi sorprende l’opinione di Freud secondo cui «il rapporto paterno […] non viene nel corso del dramma ulteriormente sfruttato». Il Re Lear si basa su

due rapporti paterni, quello di Lear con Cordelia, Goneril e Regan, e quello di Gloucester con Edgard e Edmund. Che cosa vuole rimuovere Freud? Lear, sebbene vecchissimo, non è moribondo se non nella scena finale, e la fedele Cordelia non può essere la Morte; ma chi vorrebbe contestare la splendida frase che conclude il primo capoverso? Persino in Proust, Joyce e Kafka vi sono momenti più memorabili della saggezza freudiana che ci ordina di «dire no all’amore, di scegliere la morte, di familiarizzarsi con la necessità del morire». Le eco di queste parole si ritrovano nell’eloquente poema in prosa dell’ultimo capoverso, in cui Lear e Freud si fondono in una figura mistica e più grande, quasi un dio moribondo. Ahimè, ventun anni più tardi riceviamo un guazzabuglio di riduzionismo psicoanalitico e oxfordismo looneysta. Bransom ha la certezza di avere ragione riguardo a Lear, e a questo punto Cordelia-Anna si aggiunge al pasticcio incestuoso: La Sua supposizione chiarisce l’enigma di Cordelia come anche quello di Lear. Le sorelle maggiori hanno già superato l’amore fatale per il padre e gli sono diventate ostili; per dirla in termini analitici, sono piene di risentimento per la delusione del loro primo amore. Cordelia si aggrappa ancora a lui; l’amore che nutre nei suoi confronti è il suo sacro segreto. Quando viene invitata a rivelarlo pubblicamente, non le resta che rifiutarsi con insolenza e restare muta. Ho visto quel comportamento in molti casi.

Ciò è troppo assurdo per confutarlo; quando fu l’ultima volta che Freud lesse o vide il dramma? Anziché attaccarlo, sarà meglio riflettere sui suoi errori o sulle sue invenzioni più interessanti. Freud dice che nel dramma non si accenna alla madre delle figlie di Lear; una madre esiste, ma non è un dettaglio fondamentale. Che cosa, tuttavia, suggerì a Freud l’idea che Goneril fosse incinta? E come poteva credere che la follia di Lear derivasse, non dalla furia del vecchio re, ma dal suo desiderio mai rimosso per Cordelia? Queste obiezioni impallidiscono accanto all’informazione fornita a Bransom, e a noi, secondo cui il duca di Albany del Re Lear, e l’Orazio dell’Amleto, vanno equiparati a Lord Derby, il primo genero del conte di Oxford. «Buon senso e assurdità mischiati insieme / ragione nella pazzia!» La resistenza a Shakespeare, abbastanza pronunciata nella lettura di Amleto come Edipo, ha raggiunto una spaventosa complessità in questa fusione di Lear, Oxford e Freud. Che ne è stato della tragedia apocalittica scritta da Shakespeare, e dov’è Sigmund Freud, che un tempo sapeva leggere? Sia la drammaticità sia la forza interpretativa di Freud svaniscono di fronte al terribile bisogno di tenere alla larga l’ignorante attore di Stratford. Il Re Lear era troppo vicino per Freud; il Macbeth gli diede modo di tornare in sé, soprattutto nel saggio Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro

psicoanalitico (1916), dove riscopriamo perché Freud sia davvero un autore canonico. Molto tempo prima aveva notato che la mancanza di figli da parte di Macbeth e di Lady Macbeth rappresentava una chiave per comprendere il significato della tragedia. Nel saggio del 1916 si concentra su Lady Macbeth come personaggio «rovinato dal successo» e dal successivo rimorso: Sarebbe un perfetto esempio di giustizia poetica a mo’ di taglione se la mancanza di figli di Macbeth e la sterilità della sua Lady fossero la punizione per i loro delitti contro la santità della progenitura; se cioè Macbeth non potesse diventare un padre perché aveva privato i figli del loro padre e un padre dei propri figli, e se Lady Macbeth avesse sofferto la sterilità che aveva impetrato dagli spiriti dell’assassinio. Credo che si potrebbe senz’altro spiegare la malattia di Lady Macbeth, la trasformazione della sua spietatezza in penitenza, quale una reazione alla sua mancanza di figli, che la convince della sua impotenza contro i decreti della natura, in pari tempo ammonendola che aveva da biasimare solo se stessa se il suo delitto è stato privato della parte migliore dei suoi risultati.

Quanti figli aveva Lady Macbeth? La domanda, formulata ironicamente da un critico formalista, non è affatto sciocca, anche se non si può rispondere con certezza. Freud parla della sua «sterilità», ma allora perché Lady Macbeth dice di aver allattato? Essendo la moglie di un potente capoclan che è cugino del re, si trova in posizione troppo elevata per aver allattato qualsiasi bambino ad eccezione del proprio. Dobbiamo concludere che ha avuto almeno un figlio, ma che quest’ultimo sia morto. Non si può nemmeno ipotizzare che sia rimasta sterile; elogiandone la decisione, Macbeth la esorta a partorire solo figli maschi. Il protagonista ha tuttavia un aspetto che ci rammenta Erode. Tenta di fare uccidere Fleance, il figlio di Banquo, e ordina l’assassinio dei figli di Macduff. Vi è un orrore verso la generazione nell’odio quasi gnostico di Macbeth verso il tempo, e sia il re sia Lady Macbeth sono ossessionati dalla profezia secondo cui i discendenti di Banquo (il lignaggio degli Stuart, iniziato in Inghilterra con Giacomo I, figlio di Maria regina degli scozzesi) regneranno sulla Scozia. Freud ha dunque perfettamente ragione quando asserisce che il Macbeth è un dramma «sulla mancanza di figli», e, per quanto possa sembrare strano, ammette di non saper fornire un’interpretazione totale del dramma, confessione che sarebbe stata altrettanto importante nei suoi giudizi sull’Amleto e sul Re Lear, ma probabilmente la sua reazione intima a Amleto e a Lear aveva reso impossibile una simile ritrattazione: Impossibile tuttavia, a mio giudizio, indovinare che cosa possano essere stati questi moventi che in un così breve lasso di tempo hanno potuto trasformare l’uomo esitante, ambizioso, in uno sfrenato tiranno, e la sua istigatrice dal cuore di acciaio in una donna malata dilaniata dal rimorso. Ritengo che dobbiamo rinunciare alla speranza di penetrare la triplice oscurità della cattiva conservazione del testo, dell’ignota intenzione del drammaturgo e dello sconosciuto significato della leggenda. Ma non posso ammettere che siffatte indagini siano inutili alla luce del potente effetto che la tragedia ha sullo spettatore. Durante la rappresentazione, il drammaturgo può, sì, travolgerci con la sua arte e paralizzare

le nostre capacità di riflessione; ma non può impedirci di tentare, in un secondo momento, di afferrare il meccanismo psicologico di quell’effetto. E l’affermazione che il drammaturgo è libero di ridurre a piacimento il tempo naturale e la naturale durata degli eventi che ci presenta, se mediante il sacrificio della comune probabilità possa incrementare l’effetto drammatico, in questo caso mi sembra irrilevante. Ché un sacrificio del genere è giustificato solo a patto che si limiti a smentire la probabilità, e non qualora infranga il nesso causale; inoltre, l’effetto drammatico avrebbe punto o poco sofferto se la durata temporale fosse stata lasciata nell’incertezza, anziché venire espressamente limitata a pochi giorni.

Il capoverso si apre con una nota di modestia interpretativa e procede a una feconda irritabilità riguardo a questioni di rappresentazione drammatica, soprattutto del tempo. Ancora una volta, sospetto che la rimozione di Freud spieghi il suo scontento, e suppongo che qui sia all’opera il complesso di Amleto. Se l’ambivalenza (o meglio la sua rappresentazione) è un concetto shakespeariano e non freudiano, ed è diventata freudiana solo a causa dell’esperienza che Freud fece di Shakespeare, ne consegue che Freud è costretto a risentirsi e a leggere erroneamente le più vigorose rappresentazioni shakespeariane dell’ambivalenza, cioè le quattro grandi tragedie domestiche: Amleto, Otello, Re Lear e Macbeth. Non conosco nessun altro esempio letterario, Dante compreso, che ci ponga in maniera così persuasiva in un cosmo equivoco, dove l’ambivalenza emotiva governa quasi tutti i rapporti e dove l’ambivalenza cognitiva – in Amleto, Iago e Edmund – contribuisce a sovradeterminare le intensità omicide che sono il soggetto più autentico di Freud. Amleto e Otello non soffrono del complesso di Edipo, e non ne soffrono neppure Cordelia, Desdemona, Ofelia e Edgard, ma Iago, Edmund, Goneril, Regan, Macbeth e Lady Macbeth sono capolavori immortali di ambivalenza elevata ai vertici del sublime. Freud, come poeta in prosa del postshakespeariano, naviga sulla scia di Shakespeare; e oggi l’ansia dell’influenza non ha vittima più illustre del padre della psicoanalisi, che scopriva di continuo che Shakespeare l’aveva preceduto, e troppo spesso non riusciva a sopportare quell’umiliante verità. Nel Macbeth l’ambivalenza ha un predominio tale che il tempo diviene la sua rappresentazione, come Freud avverte in maniera oscura. Quella che Freud chiamava Nachträglichkeit, la sensazione di arrivare sempre dopo l’evento, come un attore mediocre che perde immancabilmente la battuta, è la condizione peculiare di Macbeth. Freud è così astuto da mettere in discussione le uniche motivazioni evidenti di Macbeth e Lady Macbeth, poiché il frutto delle loro ambizioni è così tetro, e poiché Shakespeare evita enigmaticamente di definire la precisa natura dei loro desideri. Questi due personaggi non hanno nulla del Tamerlano di Marlowe o del Riccardo III di

Shakespeare: il senso di gloria che accompagna la dolce fruizione di una corona terrena. Perché, dopo tutto, desiderano diventare re e regina di Scozia? Il mesto banchetto durante il quale appare lo spettro di Banquo è senza dubbio tipico della vita di corte sotto Macbeth, tetra e minacciosa. Ciò cui si riferisce Freud è l’essenza del dramma: la mancanza di figli, l’ambizione vuota, il massacro del paterno Duncan, così mite e buono che nessuno dei Macbeth prova un briciolo di ambivalenza personale nei suoi confronti. Tuttavia, sebbene restino senza figli, la loro vendetta contro il tempo prevede l’usurpazione, l’assassinio e un tentativo di cancellare il futuro: tutti quei domani, domani e domani il cui ritmo meschino è così opprimente per Macbeth. Almeno per quanto riguarda questa tragedia, Freud ha tenuto sotto controllo il suo dogmatismo interpretativo e ci ha offerto molti spunti interessanti. Oltre il senso della supremazia dell’ambivalenza e del suo apice nel complesso di Amleto/Edipo, qual era il maggior debito (consapevole o inconsapevole) di Freud verso Shakespeare? Nella produzione freudiana, quest’ultimo è ovunque ed è molto più presente quando non viene citato che quando lo è. L’atteggiamento fondamentale di Freud verso Shakespeare è quello che egli chiamava Verneinung, «negazione», ossia la formulazione di un pensiero, sentimento o desiderio precedentemente rimosso e capace di penetrare nella coscienza solo mediante una sconfessione, cosicché la difesa o la rimozione possano continuare. Il rimosso viene accettato a livello intellettuale ma non emotivo; Freud accettava le idee di Shakespeare pur negandone la fonte. L’istinto di autoconservazione lo costringeva a negare Shakespeare, tuttavia Freud non cessò mai di identificarsi con Amleto, anche se non sempre consciamente, e in misura minore con il Bruto del Giulio Cesare, che, nello sviluppo di Shakespeare, era stato una sorta di pre-Amleto. L’identificazione con Amleto non è, naturalmente, una caratteristica esclusiva di Freud; è diventata universale, trascendendo i maschi europei bianchi defunti e manifestandosi in una straordinaria varietà di persone in diversi tempi e in diversi luoghi. Ernest Jones rileva che la citazione preferita di Freud, nelle conversazioni e negli scritti, era il monito rivolto da Amleto a Orazio: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non se ne sognino nei nostri sistemi filosofici». Si capisce perché Freud ne abbia fatto un motto implicito della psicoanalisi, e questa frase appare ancora più appropriata quando se ne ricostruisce il contesto. Subito prima di questa affermazione assistiamo a questo scambio di battute:

ORAZIO Per il giorno e per la notte, questo è davvero molto strano! AMLETO E quindi, come a straniero, dategli il benvenuto.

Per Freud, questa è la rappresentazione in miniatura della situazione psicoanalitica iniziale: Orazio simboleggia il pubblico, e Amleto Freud, che ci esorta a dare agli stranieri il cortese benvenuto che meritano. Non saprei indicare nessun passo delle lettere o degli altri scritti di Freud, o di qualsiasi conversazione a noi pervenuta, che possa averlo colpito come contrasto invidioso: la resistenza alla psicoanalisi in confronto all’accettazione quasi universale di Shakespeare, a partire dalla sua epoca e dalla sua nazione fino all’apoteosi mondiale nella nostra epoca. Ricordo che, quando Freud analizzò uno dei suoi sogni, trovò un paragone per il suo rapporto con Shakespeare nell’inconscia usurpazione della regalità da parte del principe Hal: «Ovunque vi siano rango e promozione, si apre la strada a desideri che richiedono la repressione. Il Principe Hal di Shakespeare non resistette, neppure al capezzale del padre malato, alla tentazione di provarsi la corona». Un’antica tradizione vuole che Shakespeare abbia recitato la parte del fantasma del padre di Amleto durante la prima rappresentazione della tragedia. La psicoanalisi, che per molti versi è una parodia riduttiva di Shakespeare, continua a essere ossessionata dal fantasma di Shakespeare, perché quest’ultimo potrebbe essere considerato come un tipo trascendentale di psicoanalisi. Quando i suoi personaggi cambiano, o voglio cambiare origliando se stessi, profetizzano la situazione psicoanalitica in cui i pazienti sono costretti a origliare se stessi nel contesto del transfert verso l’analista. Prima di Freud, Shakespeare era la nostra principale autorità riguardo all’amore e alle sue vicissitudini, oppure alle vicissitudini della pulsione, ed è evidente che Shakespeare continua a essere il nostro migliore maestro, quello che non ha mai smesso di guidare Freud. Se paragono le due teorie freudiane dell’ansia, il resoconto rivisto e corretto mi sembra più shakespeariano della prima ipotesi, poi rifiutata. Prima di Inibizione, sintomo e angoscia (1926), Freud credeva che l’ansia nevrotica e quella realistica fossero chiaramente distinguibili l’una dall’altra: l’ansia realistica era causata da un vero pericolo, mentre quella nevrotica scaturiva dalla libido frenata o dalla rimozione fallita, e dunque non era implicata nelle guerre civili della psiche. Dopo il 1926, Freud abbandonò l’idea che la libido potesse trasformarsi in ansia. Al contrario, iniziò a vedere quest’ultima come precedente la rimozione, e dunque come motivo della rimozione. Nella prima teoria, la rimozione precedeva l’ansia, che si manifestava solo se la rimozione falliva. Nella nuova formulazione, Freud abbandonò per sempre la distinzione

causale tra paura reale e ansia nevrotica. Trasposta nel cosmo drammatico di Shakespeare, la prima teoria è perfettamente a suo agio, soprattutto nelle tragedie alte che Freud preferiva, in cui l’ansia è originaria quanto l’ambivalenza. La Elsinore di Amleto, la Venezia di Iago, la Gran Bretagna di Lear e Edmund, la Scozia di Macbeth: in tutti questi luoghi, gli spettatori e i lettori sono alle prese con un’atmosfera di ansia che è antecedente al personaggio e all’evento. Se il capolavoro dell’ambivalenza è il complesso di Amleto/Edipo, il capolavoro dell’ansia è quello che vorrei chiamare il complesso di Macbeth, perché quell’antieroe è il più ansioso tra i personaggi shakespeariani. Nel complesso di Macbeth, è impossibile distinguere la paura dal desiderio, e l’immaginazione diventa insieme invulnerabile e malevola. Per Macbeth, fantasticare significa aver superato lo spazio vuoto sopra la volontà e trovarsi dall’altra parte del compimento dell’atto. Il tempo non è libero finché Macbeth non viene ucciso, perché i presagi temporali nel suo regno si compiono sempre, anche prima che il protagonista abbia usurpato il potere. Se il complesso di Amleto/Edipo nasconde il desiderio di generare se stessi, il complesso di Macbeth nasconde a stento il desiderio di autodistruzione. In Al di là del principio di piacere, Freud lo chiamò pulsione di morte, ma io preferisco il fatalismo e l’intensità atmosferica veicolati dal complesso di Macbeth. Sebbene Freud non si sia mai identificato pienamente con Macbeth come aveva fatto con Amleto, cita alcune sorprendenti analogie, per esempio la volta che, in una lettera del 1910, profetizzò i quasi trent’anni di lavoro che gli restavano: Che fare il giorno in cui i pensieri smettono di fluire e le parole giuste non vengono più? Non si può fare a meno di tremare di fronte a questa possibilità. È per questo che, nonostante l’arrendevolezza al fato che si conviene a uomo onesto, io prego segretamente: nessuna infermità, nessuna paralisi delle capacità causata da un’afflizione corporea. Moriremo con la corazza addosso, come diceva Re Macbeth.

Qui l’affetto, con il suo nobile umorismo, è piuttosto diverso dell’apocalittica disperazione dell’usurpatore Macbeth: «Comincio a esser stanco del sole, e mi prende desiderio di veder ridotta in rovina fin la fabbrica del mondo… suonate la campana d’allarme! Soffia, o vento! Vieni pure, o naufragio! Ch’io muoia almeno rivestito delle mie armi!». Freud morì davvero armato di tutto punto, pensando e scrivendo praticamente sino alla fine. Il fatto che la sua identificazione con Macbeth, per quanto superficiale, avesse un aspetto positivo è rivelato dalle parole

«come diceva Re Macbeth». Freud dichiarò più di una volta che la visione delle sue opere pubblicate lo sbalordiva, proprio come Macbeth reagisce gridando allo spettrale corteo dei regali discendenti stuartiani di Banquo: «E ché? Il corteo s’allungherà fino alla confusione del giorno del giudizio?». Ancora una volta, l’identificazione è lieve ma orgogliosa, a dimostrazione della forza contaminante dell’immaginazione di Macbeth. Forse Freud sosteneva che il tema del Macbeth era la mancanza di figli, ma a un livello più profondo associava la forza della sua immaginazione con quella di Macbeth, trovando nel sanguinario tiranno e in se stesso sia un’eroica perseveranza sia una fecondità creatrice di immagini. Shakespeare è l’apoteosi della libertà e dell’originalità estetiche. Freud era ansioso nei suoi confronti perché dal drammaturgo aveva imparato l’ansia, come aveva imparato le ambivalenze, il narcisismo e lo scisma dell’io. Emerson fu più libero e più originale nei confronti di Shakespeare perché da lui aveva imparato la sfrenatezza e la stranezza. È giusto che qui l’ultima parola spetti a Emerson anziché all’altrettanto canonico Freud: «Letteratura, filosofia e pensiero sono ormai shakespearizzati. La mente di Shakespeare è l’orizzonte oltre il quale, al momento, non vediamo».

17. PROUST: IL VERO CREDO DELLA GELOSIA SESSUALE Il maggior pregio di Proust, fra tanti altri, è la sua caratterizzazione: nessun romanziere del XX secolo riesce a uguagliare la sua sfilata di vivide personalità. Joyce ha la sua unica figura travolgente in Poldy, ma Proust ha una galleria di ritratti: Charlus, Swann, Albertine, Bloch, Bergotte, Cottard, Françoise, Elstir, Gilberte, nonna Bathilde, Oriane Guermantes, Basin Guermantes, la mamma del narratore Marcel, Odette, Norpois, Morel, SaintLoup, Madame Verdurin, la marchesa di Villeparisis, e soprattutto la duplice figura del narratore e del suo io precedente, Marcel. Probabilmente ho dimenticato alcuni nomi importanti quanto molti di quelli elencati, ma questa è già una ventina di personaggi indimenticabili. Alla ricerca del tempo perduto (qui di seguito chiamata Ricerca per ragioni di brevità) sfida davvero Shakespeare nella sua capacità di rappresentare le personalità. Germaine Brée osserva che i personaggi di Proust, come quelli di Shakespeare, riluttano a qualsiasi riduzione psicologica. Ancora una volta come Shakespeare, Proust è un maestro del tragicomico: trasalisco mentre rido, ma devo convenire con Roger Shattuck quando afferma che lo stile comico è centrale in Proust perché gli garantisce la distanza rappresentativa durante l’esplorazione dell’omosessualità, un argomento all’epoca parzialmente proibito. Grazie al suo genio comico soprannaturale, Proust rivaleggia con Shakespeare anche nella descrizione della gelosia sessuale, uno degli affetti umani più canonici ai fini letterari, trattato da Shakespeare come tragedia catastrofica nell’Otello e come avventura quasi catastrofica nel Racconto d’inverno. Proust ci offre tre magnifiche saghe della gelosia: le tribolazioni, in sequenza, di Swann, SaintLoup e Marcel (lo chiamerò Marcel anche se il narratore gli attribuisce quel nome solo una o due volte all’interno di questo monumentale romanzo). Queste tre angosce ossessive e tragicomiche sono solo uno dei fili di un’opera enciclopedica, ma si può dire che Proust, come Freud, si unisca sia a Shakespeare sia all’Hawthorne della Lettera scarlatta nel confermare la canonicità della gelosia sessuale. Quest’ultima è un inferno nella vita umana ma uno splendore purgatoriale come materia poetica. Shelley affermava che l’incesto era la più poetica delle circostanze; Proust ci insegna che la gelosia sessuale può essere la più romanzesca. Nel 1922, l’anno successivo alla morte di Proust (che si era spento a soli cinquantun anni), Freud pubblicò un breve e vigoroso saggio sulla gelosia

sessuale, Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità. Vi è un’associazione iniziale tra gelosia e dolore, e Freud ci assicura che chi sembra non manifestare questi due affetti universali ha subito una profonda rimozione, cosicché la gelosia e il dolore divengono ancora più attivi nell’inconscio. Con macabra ironia, Freud divide la gelosia in tre tipi: competitiva, proiettata, delirante. La prima è narcisistica ed edipica; la seconda imputa all’amato una colpa, reale o immaginaria, che appartiene all’io; la terza, che sconfina nella paranoia, prende come oggetto solitamente rimosso qualcuno del proprio sesso. Come spesso avviene in Freud, l’analisi è altamente shakespeariana, sebbene più nello stile del Racconto d’inverno, di cui Freud non fa menzione, che nella tragica oscurità dell’Otello, in cui una volta Freud aveva individuato specificamente la gelosia proiettata. Nel Racconto d’inverno Leonte attraversa quasi sistematicamente le tre varietà freudiane di gelosia. I tre grandi casi di gelosia in Proust trascurano la variante normale o competitiva, si soffermano brevemente su quella proiettata e insistono con accanimento sulla varietà delirante. Freud è tuttavia il rivale di Proust, non il suo maestro, e la descrizione proustiana della gelosia è in gran parte proustiana. Applicare Freud a Proust sulla gelosia è riduttivo e fuorviante quanto analizzare la visione dell’omosessualità nella Ricerca in termini freudiani. Nel XX secolo non vi è stato ironista più sottile di Proust, e, nel suo romanzo, il mitologico accostamento degli ebrei agli omosessuali non è esattamente una manifestazione di disprezzo verso l’uno o l’altro gruppo. Proust non era antisemita né omofobo. L’amore che nutriva per il suo padre gentile era reale, ma la sua passione per la madre ebrea era travolgente, e le sue storie d’amore con il compositore Reynaldo Hahn e con Alfred Agostinelli, il prototipo di Albertine, furono relazioni molto sincere; i profughi di Sodoma e Gomorra sono paragonati dall’autore agli ebrei della diaspora, e più esplicitamente a Adamo e Eva esiliati dall’Eden. J.E. Rivers sottolinea che questo parallelo tra Sodoma, Gerusalemme e l’Eden si colloca al cuore del romanzo di Proust e fonde la capacità di sopravvivenza degli ebrei con la resistenza degli omosessuali nel corso dei secoli, cosicché sia gli uni sia gli altri acquisiscono uno status rappresentativo come esempi della condizione umana poiché, come dice Proust, «i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto». L’umorismo di Proust può sembrare duro nei confronti dell’omosessualità masochistica di Charlus o alle insicurezze ebree dello sgradevole Bloch, ma facciamo violenza allo scrittore se lo giudichiamo

mortificato dalla sua discendenza ebraica o dal suo orientamento omosessuale. Giudicarlo significa fargli violenza in ogni caso; la Ricerca è un’opera così meditativa da trascendere i canoni occidentali di giudizio. La sua indole, come afferma Roger Shattuck, è curiosamente orientale: Proust, il narratore e Marcel si fondono nella convinzione implicita che non siamo mai completamente formati, ma che continuiamo a evolverci pian piano nella coscienza. So che Proust è un’apoteosi della cultura francese e non del pensiero indiano. Forse quel pazzo di Ruskin inculcò a Proust qualcosa del suo misticismo secolare o, cosa più probabile, la padronanza della fantasticheria condusse lo scrittore ai confini di una trasformazione interiore. A volte mi chiedo perché Proust sia l’unico a vedere e rappresentare la commedia alta, più che la farsa bassa, della gelosia sessuale. Il processo meditativo della Ricerca lo portò a una prospettiva in cui le sofferenze di Marcel si possono considerare squisitamente, anche se dolorosamente, comiche. Ciò non significa che Proust, nella solitudine e nel silenzio della sua stanza rivestita di sughero, si immergesse in un’opera improbabile come il Bhagavadg¯ıt¯a, ma la Ricerca è letteratura di saggezza, proprio come Montaigne, il dottor Johnson, Emerson e Freud sono autori che sfiorano il confine tra meditazione e contemplazione. A proposito della Ricerca, Roger Shattuck dice: «Possiamo leggerla finché lo permettono la nostra età e la nostra comprensione». Alla fine del romanzo non crediamo necessariamente che il Narratore sia giunto a conoscere una verità o una realtà, ma sentiamo che è sul punto di divenire una coscienza diversa da qualunque altra della narrativa occidentale. È dal punto di vista di quella coscienza appena emergente che la gelosia sessuale e l’amore appassionato diventano indistinguibili l’uno dall’altro, in maniera ridicola anche se sublime. Samuel Beckett, verso la fine del suo Proust (1931), afferma che gli uomini e le donne di questo scrittore «sembrano chiedere un soggetto puro, cosicché possano passare da uno stato di volontà cieca a uno stato di rappresentazione». Per Beckett, Proust diviene il soggetto puro: «È quasi esente dall’impurità della volontà». Suppongo che qui Beckett non si riferisca al narratore né a Marcel, bensì a Marcel Proust, che soffre di asma, legge Schopenhauer e aspira a raggiungere la condizione della musica. Walter Pater, che aveva con Ruskin lo stesso rapporto che aveva Proust, è il critico che avrebbe compreso meglio lo scrittore. Il «momento privilegiato» di Pater,

un’epifania secolarizzata e materialistica, è ciò che gli amanti gelosi di Proust – Swann e Marcel – cercano quando conducono ansiosamente le loro ricerche storiche ed erudite sul passato erotico. La terrificante alta commedia di Proust trasforma i protagonisti in veri e propri storici dell’arte della gelosia, che continuano le loro ricerche quando l’amore si è spento ormai da tempo e, nel caso di Marcel, persino dopo la morte dell’amata. La gelosia sessuale, suggerisce Proust, è una maschera per nascondere la paura della mortalità: l’amante geloso è ossessionato da ogni particolare spaziale e temporale del tradimento, perché teme che non vi saranno spazio e tempo sufficienti per se stesso. Come lo storico dell’arte, l’amante abbandonato cerca la verità di un’illuminazione passata, ma il ricercatore della gelosia scopre che l’illuminazione è oscurità. Proust riteneva che la parte fondamentale di Dalla parte di Swann, il primo volume della Ricerca, fosse lo straordinario resoconto delle sofferenze patite da Swann a causa della gelosia. In effetti, quando penso a Swann, ricordo innanzi tutto la traiettoria della sua discesa nell’inferno della gelosia. J.E. Rivers dice che «la visione di Proust non è femminile; è androgina», osservazione che talvolta vale anche per Shakespeare. Secondo la mia esperienza della Ricerca, e soprattutto della sua sequenza maggiore, quella dedicata ad Albertine (La prigioniera e La fuggitiva), la posizione del narratore può essere definita solo come la posizione di una lesbica di sesso maschile, una variante dell’immaginazione androgina che Proust manifesta e celebra. Il narratore di Proust in Sodoma e Gomorra invoca il mondo transessuale della commedia di Shakespeare: Il giovane che abbiamo tentato di descrivere era così evidentemente una donna che le donne che lo guardavano con desiderio erano votate (a meno di una loro particolare tendenza) allo stesso disappunto di quelle che, nelle commedie di Shakespeare, sono deluse da una giovane travestita che si fa passare per un adolescente.

Nelle commedie, Shakespeare tende a legare il travestimento sessuale e la gelosia sessuale in modi che sfuggono all’ossessività. La commedia proustiana si allontana da Shakespeare per dirigersi verso l’audacia che dà libero sfogo alla compulsività. Proust non concede mai un lignaggio letterario alla gelosia; Otello e Leonte sono lontani anni luce da Swann e Marcel. In Proust nessun amante geloso diventerebbe un assassino: lo spirito della commedia della Ricerca lo vieta. Ecco perché la metafora centrale di Swann e Marcel è quella del ricercatore erudito, in particolare lo storico dell’arte ruskiniano. La tortura causata dalla scoperta dei fatti è la formula comica di Proust, poiché si tratta di un autotormento, e i fatti sono essenzialmente

supposizioni scaturite dall’immaginazione. Lo schema viene inaugurato da Swann: Ma in questo strano periodo dell’amore, l’individuale assume qualcosa di così profondo che quella curiosità che sentiva risvegliarsi in sé, riguardo le occupazioni più insignificanti di una donna, era la stessa che aveva avuto un tempo per la Storia. E tutte quelle azioni di cui si sarebbe finora vergognato, spiare a una finestra, domani chissà? riuscire con abilità a far parlare le persone indifferenti, corrompere i domestici, ascoltare alle porte, non gli parevano altro, così come decifrare i testi, confrontare le testimonianze e interpretare i monumenti, che metodi di investigazione di un vero e proprio valore intellettuale, adatti alla ricerca della verità.

Più avanti, la passione che spinge Swann a ricostruire i minuscoli particolari della vita sociale di Odette viene paragonata alla passione dello «studioso di estetica che interroga i documenti superstiti della Firenze del Quattrocento per tentare di approfondire l’anima della Primavera, della bella Vanna, o della Venere del Botticelli.» Come scopre Swann, l’anima di Odette, è impenetrabile, il che diventa una perpetua provocazione a nuovi assalti dei tormenti della gelosia, mescolati al desiderio «più nobile» di conoscere la verità. In una delle più eleganti ironie proustiane, Swann scopre che si tratta di «un’altra facoltà della sua studiosa giovinezza, la passione della verità, ma d’una verità anch’essa interposta fra lui e l’amante, non ricevente che da lei la sua luce.» Una simile verità, nella matrice di tutte le gelosie, riceve solo oscurità dallo splendore emanato dall’amante. La descrizione ironica dell’innamoramento fornita da Freud, «la sopravvalutazione dell’oggetto», è inadeguata alla passione che la gelosia prima accresce e poi sostituisce. Qui il genio di Proust va oltre Shakespeare e oltre Freud in termini di conoscenza dell’ossessione erotica: Certo Swann non aveva una coscienza diretta della portata del suo amore. Quando cercava di valutarlo gli succedeva a volte che gli sembrasse diminuito, quasi ridotto a niente; ad esempio, la ripugnanza che gli avevano ispirato, prima di innamorarsi di Odette, i suoi lineamenti espressivi, la sua carnagione senza freschezza, lo riassaliva in certi giorni. «Davvero sto facendo un sensibile progresso,» si diceva il giorno dopo «a voler essere obbiettivi, ieri non avevo quasi nessun piacere a stare a letto con lei: è curioso, la trovavo quasi brutta», e certo era sincero, ma il suo amore si estendeva ben al di là delle regioni del desiderio fisico. La stessa persona di Odette non vi occupava più un gran posto. Quando i suoi occhi incontravano sulla scrivania la fotografia di Odette, o quando lei veniva a trovarlo, faceva fatica a indentificare il volto di carne o il volto di carta della fotografia con il tormento doloroso e costante che risiedeva in lui. Si diceva quasi con stupore: «È lei!» come se d’un tratto ci mostrassero esteriorizzata dinanzi a noi una delle nostre malattie e non le trovassimo nessuna somiglianza con la nostra sofferenza. «Lei»; Swann tentava di chiedersi cosa significasse. Infatti è l’analogia che esiste tra l’amore e la morte, più di quelle, così vaghe, di cui si parla sempre, ad indurci ad approfondire, nella paura che la sua realtà ci sfugga, il mistero della personalità. E quella malattia che era l’amore di Swann aveva talmente proliferato, si era così strettamente mescolata a tutte le sue abitudini, a tutte le sue azioni, al pensiero, alla salute, al sonno, alla sua vita, perfino a ciò che desiderava per dopo la morte, era diventata talmente tutt’uno con lui, che non si sarebbe potuto strapparla da lui senza distruggere quasi completamente anche lui: come si dice in chirurgia, il suo amore non era più

operabile.

Freud parla dell’accrescimento della passione mediante «premi di seduzione», ma si riferiva a barriere sociali e simili e al processo interiore della rimozione. Sul piano pragmatico, Proust ci dice che la gelosia sessuale è il più grande premio di seduzione, con la conseguenza comica di svalutare il sessuale stesso: «La persona stessa di Odette non vi occupava più molto posto». La sua fotografia, e persino il suo volto reale, rifiutano l’identità «con il turbamento doloroso e costante che lo abitava». Amore e morte si sono avvicinati pericolosamente, e l’affabile Swann si accosta all’abisso, ma per noi tutto ciò è squisitamente buffo: A volte sperava che lei morisse senza sofferenze in un incidente, lei che era sempre fuori, per le strade, in viaggio, da mattina a sera. E come tornava sana e salva, si meravigliava che il corpo umano fosse così agile, così forte da riuscire continuamente a tenere in scacco, sventare tutti i pericoli che lo circondavano (e che a Swann sembravano innumerevoli da quando il suo segreto desiderio li aveva presi in esame), e permettere così agli esseri umani di abbandonarsi ogni giorno e quasi impunemente alla loro opera di menzogna, al conseguimento dei piaceri. E Swann sentiva molto vicino al suo cuore quel Maometto II di cui amava il ritratto dipinto dal Bellini e che, avendo capito di essersi follemente innamorato di una delle sue donne, la pugnalò al fine, così riferisce ingenuamente il suo biografo veneziano, di ritrovare la propria liberà spirituale. Poi si indignava di non pensare in questo modo che a sé, e le sofferenze che aveva provato gli parevano non meritassero alcuna pietà poiché lui stesso teneva in così poco conto la vita di Odette.

Il culmine di Un amore di Swann, uno dei passi più celebri di tutta la produzione proustiana, segue un colorito sogno in cui convengono Forcheville, il rivale di Swann per l’amore di Odette, e Napoleone III, ancora una volta in un registro comico per noi, ma non per il povero Swann, che pensa finalmente di averne abbastanza: Ma, un’ora dopo il risveglio, mentre dava indicazioni al parrucchiere perché la sua pettinatura non si scompigliasse in treno, ripensò al suo sogno; rivide, vicinissimi come li aveva sentiti, il pallore di Odette, le guance troppo magre, i lineamenti tirati, gli occhi pesti, tutto ciò che – nel corso delle affettuosità successive che avevano fatto del suo durevole amore per Odette un lungo oblio dell’immagine primitiva che aveva avuto di lei – aveva smesso di notare dopo i primi tempi del loro rapporto, nei quali probabilmente la sua memoria, mentre dormiva, aveva dovuto cercarne l’esatta percezione. E con quella grossolanità intermittente che riappariva in lui non appena non era più infelice e abbassava nel medesimo tempo il livello della sua moralità, si disse: «E pensare che ho buttato via degli anni, che ho desiderato morire, che il mio più grande amore l’ho avuto per una donna che non mi piaceva che non era il mio genere!».

La grossolaneria ricompare quando cessa l’infelicità, e ciò permette alla nostra moralità di tornare al suo livello normale. Questa deliziosa osservazione fa da preambolo all’immortale lamentazione di Swann, una medicina adatta a tutti noi, a prescindere dal nostro sesso e dal nostro credo sessuale. Odette non apparteneva certo allo stile, al genere e al tipo di Swann, non essendo abbastanza elevata né abbastanza umile per un esteta e un dandy che conduceva una vita sociale così brillante. Swann, ahimè, è prigioniero;

nel cosmo di Proust non si può dire: «Addio, Odette, ti perdono per qualunque cosa ti abbia mai fatto» (il modo americano) oppure «Disamorarsi è una delle grandi esperienze umane; si ha l’impressione di vedere il mondo con occhi appena aperti» (il modo anglo-irlandese). Per Swann l’amore muore, ma la gelosia dura più a lungo; così il protagonista sposa Odette non nonostante ma perché l’ha tradito, tanto con donne quanto con uomini. La spiegazione che Proust dà di questo matrimonio è degna di lui: La cosa sorprendente è che quasi tutti si sorpresero di questo matrimonio. Probabilmente pochi capiscono il carattere puramente soggettivo di quel fenomeno che è l’amore: quella specie di creazione di un essere supplementare, distinto da quello che porta lo stesso nome in società e di cui la maggior parte degli elementi sono creati da noi stessi.

Molto tempo dopo che la gelosia di Swann verso la moglie è caduta nell’oblio insieme con il suo amore per lei, il ricordo della gelosia continua a tormentarlo, e le sue ricerche proseguono: Egli persisteva nel tentativo di sapere ciò che ormai non l’interessava più, perché il suo antico io, giunto all’estremo declino, agiva ancora meccanicamente, seguendo idee fisse, invalidate al punto che Swann non riusciva nemmeno più a rappresentarsi questa angoscia, un tempo pur così forte da non poter concepire di potersene mai liberare e che solo la morte di colei che amava (la morte che, come mostrerà più avanti, in questo libro, una crudele controprova, non diminuisce affatto le sofferenze della gelosia) gli sembrava capace di appianare per lui la strada, completamente sbarrata, della vita.

Il presagio dell’inferno di Albertine-Marcel si colloca in questo punto perché Swann è il predecessore di Marcel, il Giovanni Battista che profetizza la crocifissione gelosa dell’io più giovane del narratore. Proust offre una duplice transizione tra i due martìri, il tormento della gelosia che affligge Saint-Loup nella sua relazione con Rachel, e l’avvertimento diretto e profetico di Swann allo sbadato Marcel. Prima di esaminare questo attraversamento, mi sembra opportuno istituire un confronto tra due critiche ingiuste attualmente mosse a Proust. Perché il narratore non è mezzo ebreo come l’autore e, dettaglio ora sicuramente più importante, perché il narratore è eterosessuale mentre Proust era bisessuale, con un impulso omoerotico predominante? Una difesa prevalente sottolinea il desiderio proustiano di universalità, ma mi sembra un particolare di poco conto. Un’altra osserva che l’omosessualità veniva stigmatizzata anche nel 1922, quando le conseguenze dell’affare Dreyfus erano ancora fresche. Neanche questa tesi è del tutto convincente; Proust è un artista così grande che la sua dignità estetica merita una ricerca più approfondita dei moventi estetici di quelle che erano sostanzialmente decisioni estetiche. Il romanzo sarebbe forse migliore se il narratore fosse un eterosessuale cristiano? I biografi hanno cancellato l’assurdità che allegorizza la storia di Marcel con Albertine nella relazione di Proust con Alfred Agostinelli. Se ironizziamo

sul titolo All’ombra delle fanciulle in fiore, e pensiamo invece a un gruppo di fanciulli, si distruggerebbe la nostalgia estetica raggiunta da Proust. Il lesbismo di Albertine, uno splendore ossessivo nella descrizione fornitane da Proust, allegorizza con estrema crudezza quando Agostinelli sconfina nell’eterosessualità. Proust sapeva esattamente che cosa stava facendo. Swann e Marcel sono in contrasto con l’omosessuale Charlus e il bisessuale Saint-Loup. I tormenti dell’amore e della gelosia trascendono il sesso e l’orientamento sessuale, e la mitologia delle città della pianura cui si riferisce il romanzo verrebbe rovinata se il narratore non riuscisse a prendere le distanze sia dagli omosessuali sia dagli ebrei. Il principale interesse di Proust non è la storia sociale, la liberazione sessuale o l’affare Dreyfus (sebbene sia sempre stato un simpatizzante convinto di Dreyfus). L’impresa del suo grande romanzo è la salvezza estetica; Proust sfida Freud come maggiore creatore di miti dell’Età caotica. La sua storia è un romance visionario che descrive come il narratore maturi trasformandosi da Marcel nel romanziere Proust, che, nell’ultimo volume del libro, riforma la sua coscienza e riesce a plasmare la sua vita in una nuova forma di saggezza. Proust riteneva giustamente che il narratore sarebbe stato più efficace se avesse assunto un atteggiamento imparziale nei confronti della mitologia che eleva la storia al livello di un poema cosmologico, tanto dantesco quanto shakespeariano. Balzac, Stendhal e Flaubert restano indietro nel salto proustiano verso una visione che racchiude Sodoma e Gomorra, Gerusalemme e l’Eden: tre paradisi abbandonati. Il narratore, come eterosessuale gentile, è più persuasivo come veggente di questa nuova mitologia. Tra Swann e Marcel, che soffrono nell’aria asfittica della gelosia, il narratore inserisce Saint-Loup, destinato a sposare Gilberte, figlia di Swann e primo amore di Marcel, e a morire troppo presto, vittima della Prima guerra mondiale. Incastrato nella relazione sempre più debole tra Saint-Loup e Rachel, vi è forse il più pungente apoftegma proustiano sulla gelosia: «La gelosia, che prolunga il corso dell’amore, non è in grado di contenere molte più cose di qualsiasi altra forma dell’immaginazione». Leggendo queste righe, concludo che Proust è il vero medico di tutti coloro che sono infelicemente innamorati, cioè, prima o poi, di tutti coloro che sono innamorati. Purtroppo, la sua medicina, come tutti i rimedi d’amore, agisce solo dopo che la malattia – anche nella sua forma pura di gelosia – è svanita. Proust offre un conforto retrospettivo, l’unico che possiamo

accettare. Sentirsi dire che la gelosia è un poema mediocre, incapace di sviluppare anche solo le tre o quattro immagini che racchiude, è una soddisfazione ritardata. Nei romanzi che scriviamo con la nostra vita, la gelosia che ci consuma in un particolare periodo sfuma nel pathos seriocomico di tutti gli Eros deceduti. Saint-Loup non è uno storico dell’arte della gelosia, come suo suocero, né un romanziere della gelosia, come il suo amico Marcel. L’amore, tenuto in vita a stento dalla gelosia, muore con essa, e Saint-Loup subisce il dolce e curioso conforto di essere divenuto, per Rachel, una reliquia familiare e rassicurante: A volte Rachel veniva nella tarda serata per chiedere al suo ex amante il permesso di dormire accanto a lui fino al mattino. Per Robert era una cosa estremamente dolce perché si rendeva conto di quanto, nonostante tutto, fossero stati intimi, semplicemente notando che, anche se lui occupava con il proprio corpo più della metà del letto, non la disturbava affatto nel sonno. Capiva che lei era a suo agio più di quanto potesse essere stata altrove accanto a quel corpo amico che ritrovava al suo fianco.

Qui è difficile stabilire le priorità tra umorismo e tristezza; l’importante è che né Saint-Loup né Rachel provano amarezza o rimorso quando si addormentano insieme nel vuoto che ha sostituito la passione. La precedente gelosia di Saint-Loup l’ha abbandonato per precipitare in questo interscambio quasi familiare. Swann, come riconosce in presenza Marcel, non riesce ad avvertire neppure un barlume retrospettivo dei vecchi legami: «Le persone sono davvero curiose. Io non sono mai stato curioso salvo quando ero innamorato e quando sono stato geloso. E per quello che ne ho ottenuto! Voi siete geloso?» Dissi a Swann che non avevo mai provato gelosia, che non sapevo nemmeno che cosa fosse. «Bene, mi felicito con voi. Quando lo si è un po’ non è spiacevole, e da due punti di vista. Da un lato perché permette alle persone che non sono curiose di interessarsi alla vita degli altri, o almeno di un’altra.»

Nel suo solipsismo estetico, Swann sembra più che mai una parodia di Ruskin, la cui idolatria dell’arte si è tramutata nell’autoidolatria del collezionista. Nella sottile ironia di Proust, il termine «curioso» di Swann significa semplicemente «premuroso», e noi abbandoniamo Swann con un profondo senso di gelo. In Proust la metafora o transfert che Freud chiamava «amore» prende il nome di «gelosia», cosicché quando Marcel dice all’invalido Swann di non essere mai stato geloso, confessa implicitamente di non aver amato Gilberte. Le vendette del tempo stanno per calare su di lui nel grande tema della gelosia proposto dal romanzo, la demonica parodia della sua ricerca del tempo perduto. La saga di Albertine-Marcel – che si svolge all’insegna della possessività, della gelosia, della morte e del successivo accrescimento della gelosia – inizia come deve iniziare, con la gelosia che, secondo il narratore, precede l’amore di Marcel per Albertine. Lo schema viene chiarito all’inizio della Prigioniera: l’eccitazione della gelosia è ciò che anima Marcel, in una gara con le amanti lesbiche di Albertine, una gara che

non potrà mai sperare di vincere. In realtà, lasciando Balbec, avevo creduto di abbandonare Gomorra, strapparne Albertine, ahimè! Gomorra era sparsa ai quattro angoli della terra. E, un po’ a causa della mia gelosia, un po’ per ignoranza di simili piaceri (caso assai raro) io avevo regolato, a mia insaputa, quel gioco a nascondino in cui Albertine mi sarebbe sempre sfuggita.

Se l’amore freudiano è la sopravvalutazione dell’oggetto, la gelosia proustiana, assai più dialettica e ambivalente, è insieme la sottovalutazione dell’oggetto e la folle iperbolizzazione della sua attrattiva per tutti gli altri. Come sottolinea Proust, può inoltre contenere totali contraddizioni: Non sarei stato geloso se lei avesse goduto accanto a me piaceri che io avrei assecondato e tenuto sotto controllo, risparmiandomi così il timore delle sue bugie; non lo sarei stato, forse, nemmeno se fosse partita per un paese per me abbastanza sconosciuto e lontano da non permettermi di immaginare, né di avere la possibilità e la tentazione di conoscere il suo genere di vita. In entrambi i casi, il dubbio sarebbe stato soppresso da una consapevolezza o da un’ignoranza ugualmente complete.

Certezza e conoscenza distruggono il romance della gelosia, che, nell’interpretazione di Proust, è tutta romance, letterario ed empirico. Ma di cosa possiamo mai essere certi se non della morte, e che cosa possiamo conoscere alla fine, se non l’incomunicabile esperienza della morte? Perché Proust, l’artista della gelosia, produce una tragicommedia così inesorabile della compulsività dell’amante? È Proust – non Ruskin, Pater, Wilde o i loro eredi in Yeats, Joyce, e Beckett – a essere il sommo sacerdote indiscusso della religione dell’arte. L’arte, e non il possesso sessuale, è l’unica via di fuga proustiana dal romance empirico della gelosia, e Il tempo ritrovato, l’ultimo volume della Ricerca, salva il romanzo dal romance letterario della gelosia. Sebbene Proust abbia assunto un atteggiamento quasi induista dell’io, nella Prigioniera e nella Fuggitiva apprezza enormemente la sua apocalisse della gelosia, e la apprezziamo anche noi. Tuttavia, ne restiamo anche sconcertati, e Proust ci prepara per una visione assai diversa della realtà, una visione per cui vi sono un passato e forse anche un futuro, mentre per la gelosia esiste solo il presente, per quanto retrospettivo possa essere quel sentimento. Albertine non diagnostica affatto la gelosia di Marcel, assicurandogli che le sue menzogne sono solo frutto del suo amore per lui. Il narratore non svela mai al lettore perché Albertine si aggrappi per tanto tempo a Marcel; la donna è la Musa e non rivela i suoi segreti. Quando fugge, la sua lettera d’addio termina con le parole: «Ti lascio il meglio di me stessa», un’affermazione vera e falsa quanto tutti gli altri aspetti della relazione. Dopo la morte accidentale di Albertine a causa di una caduta da cavallo, Marcel riceve due biglietti in risposta alla lettera menzognera in cui le aveva comunicato che

avrebbe sposato la sua amica Andrée; nel primo, Albertine si congratula per la sua scelta, mentre nel secondo si offre di tornare da lui. Questa perfetta contraddizione, cancellata solo dalla morte di Albertine, prepara Marcel e il lettore alla campagna di ricerca quasi napoleonica che il superstite intraprende indagando sulla vita erotica dell’amata perduta, soprattutto investigando su Andrée, un tempo amante di Albertine e ora, per un periodo, anche sua. Solo un lettore sprovveduto oserebbe fare osservazioni moraleggianti contro la Ricerca di Proust; la grandezza e l’ironia del libro lo difendono dagli stolti. La saggezza di Proust è tuttavia molto dura; l’amore tra la nonna, la madre e Marcel è autentico, ma non si può dire lo stesso di quello che lega gli altri personaggi del romanzo. Persino l’amicizia sembra impossibile quanto l’amore; il vero credo è la gelosia, che presenta una complessità stupefacente tra i seguaci più fedeli del credo, i coraggiosi esuli di Sodoma e Gomorra: Certuni, coloro che probabilmente nella loro infanzia sono stati i più timidi, non si preoccupano del genere di piacere fisico che provano, purché possano riferirlo a un volto maschile. Mentre altri, avendo forse una sensualità più aggressiva, danno al loro piacere imperiose localizzazioni. Costoro turberebbero facilmente con la loro confessione la media della gente. Essi vivono forse meno esclusivamente sotto il segno di Saturno, perché per loro le donne non sono completamente escluse come lo sono per i primi, per i quali esse esisterebbero solo per la conversazione, la civetteria, gli amori celebrali. Ma i secondi ricercano le donne che amano le donne, esse possono procurar loro qualche giovane, accrescere il piacere che provano a incontrarsi con lui; inoltre possono assaporare con loro lo stesso piacere che con un uomo. Per cui, in coloro che amano gli uomini del primo tipo, soltanto il piacere che questi potrebbero provare con un altro uomo, e che è anche l’unico che essi considerano come un tradimento, suscita la loro gelosia, poiché non avendo rinunciato all’amore con le donne, avendolo praticato sempre e solo come abitudine e per riservarsi la possibilità del matrimonio, si rappresentano così poco il piacere che esso può dare da non soffrire se colui che amano lo assapora; mentre i secondi ispirano spesso gelosia per i loro amori con le donne. Infatti nei rapporti che hanno con loro, sostengono, per la donna che ama le donne il ruolo di un’altra donna, e la donna offre loro nel medesimo tempo press’a poco ciò che essi trovano nell’uomo, tanto che l’amico geloso soffre nel vedere colui che ama abbracciato a quella che per lui è quasi un uomo, e nello stesso tempo lo sente quasi sfuggire perché per queste donne egli è qualcosa che lui non conosce, una specie di donna.

Il tono di questo passo è indescrivibile: vi è ironia, naturalmente, e un certo distacco, ma l’aura primaria sembra essere una sorta di stupore. Proust ha avuto critici illustri – per esempio, Beckett, Brée, Benjamin, Girard, Genette, Bersani, Shattuck (che io preferisco) – ma, ancora più di Joyce, sconfigge i suoi critici. Un romanzo di 3300 pagine, incomparabilmente tortuoso, è quasi una Mille e una notte. La Clarissa di Richardson mi sembra l’unico romanzo occidentale altrettanto vigoroso (o altrettanto lungo), ma si incentra su solo su due personaggi, la martirizzata Clarissa e Lovelace, il suo saccheggiatore. Marcel e Albertine sono gli enigmi della Ricerca, ma

quest’ultima non è solo il loro romanzo. E neppure quello del narratore, l’ormai maturo Marcel; è, misteriosamente, il romanzo di Proust, che non coincide del tutto con il narratore né con Marcel. Conosco le idee del narratore sulla gelosia, ma non sono certo di conoscere quelle di Proust, perché il narratore non è omosessuale né ebreo. Quando la saggezza parla con la massima energia, nell’ultimo volume del romanzo, il narratore si fonde quasi impercettibilmente con il romanziere Proust, e il caustico umorismo della gelosia viene accantonato. Ciò avverrà più tardi, ma per ora non abbiamo ancora finito con il vero credo di cui stavamo parlando. Nella Prigioniera vi è un estatico passo che finge di attaccare la gelosia, ma che, in realtà, la celebra in tono ironico: Frugando nel passato per trarne qualche indicazione, non vi trova nulla; sempre retrospettiva, essa è come uno storico che debba scrivere un trattato di storia senza possedere alcun documento; sempre in ritardo, si getta come un toro inferocito là dove non si trova l’essere fiero e brillante che l’inasprisce con le sue trafitture, e di cui la folla crudele ammira la magnificenza e l’astuzia. La gelosia si dibatte nel vuoto.

Uno storico senza documenti e un toro ingannato: come metafore della gelosia, non sono certo lusinghiere, tuttavia il narratore, ricordando le indagini di Marcel sulla carriera attiva ed esuberante di Albertine nella sfera dell’Eros lesbico, viene spinto a instaurare un’analogia tra gelosia e desiderio di fama postuma: Quando ragioniamo su ciò che succederà dopo la nostra morte, non commettiamo forse l’errore di proiettarci come ancora vivi in quel tempo? Rammaricarci del fatto che una donna che non esiste più ignori che abbiamo saputo quello che faceva sei anni prima, è, forse, molto più ridicolo che desiderare che, da morti, il pubblico parli favorevolmente di noi tra un secolo? Se c’è qualche fondamento reale nel secondo desiderio più che nel primo, il rammarico della mia gelosia retrospettiva derivava dallo stesso errore d’ottica da cui ha origine negli altri il desiderio di una gloria postuma.

Per la precisione, gli altri uomini sono i precursori: Flaubert, Stendhal, Balzac, Baudelaire, Ruskin, ma comprendono senza dubbio Proust il romanziere, che si fonderà con il narratore. L’«errore ottico» è una malattia non ignobile, come avrebbe detto Keats, e il legame tra gelosia e arte letteraria appare evidente. In precedenza, tuttavia, il narratore aveva fatto un’osservazione parentetica: «È sorprendente ciò che una carenza di gelosia immaginaria, che passa il suo tempo a elaborare minuscole supposizioni che sono false, mostra quando giunge a scoprire ciò che è vero». Le limitazioni della gelosia sono un altro preambolo al delinearsi della vocazione proustiana. Annaspando nel vuoto, Marcel ha scoperto che «non c’è idea che non porti in sé la sua possibile confutazione, non c’è parola che non implichi il proprio opposto». Ne consegue la paralisi; Marcel si trova in una situazione appena migliore

quando afferma che «la menzogna è essenziale all’umanità. Forse ha parte altrettanto ampia della ricerca del piacere, ed è inoltre governata da quella ricerca». Forse una simile osservazione potrebbe contribuire a creare un moralista, ma non un romanziere. Un contrasto convincente si ha quando, nel Tempo ritrovato, il narratore comprende quanto Albertine gli sia stata utile da un punto di vista letterario: «Gli anni felici sono i perduti, gli anni sprecati, bisogna aspettare di soffrire prima di poter lavorare». Abbiamo la sensazione che il narratore sia divenuto tutt’uno con Proust il romanziere quando Albertine, morta ormai da tempo, riceve il suo giusto tributo: E in un certo senso avevo ragione di collegarle, perché se quel giorno non fossi andato sulla diga, se non l’avessi conosciuta, tutte queste idee non avrebbero potuto svilupparsi (a meno che non avessero avuto modo di svilupparsi attraverso un’altra ragazza). Ma avevo torto, perché quel piacere creativo che troviamo, retrospettivamente, in un bel viso di donna proviene dai nostri sensi: è comunque sicuro che le pagine che avrei scritto, Albertine, soprattutto l’Albertine di allora, non le avrebbe capite. Ma proprio per questo (ed è un’indicazione a non vivere in un’atmosfera troppo intellettuale), proprio perché era così diversa da me, essa mi aveva fecondato con il dolore, e all’inizio anche con il semplice sforzo per riuscire a immaginare ciò che differisce da sé. Quelle pagine, se fosse stata capace di capirle, per questa stessa ragione non le avrebbe ispirate. Questo spiega, in sostanza, perché il narratore, che prima era Marcel, può ora diventare Proust il romanziere e non semplicemente un altro Swann, ridotto a esaminare la sua collezione di ricordi gelosi. A salvare Proust dal rischio di diventare lo snob e il paranoico geloso che avrebbe potuto essere è un’enorme fatica, insieme terapeutica, estetica e (come chiamarla altrimenti?) mistica. Alla fine tutti i lettori di Proust sentono, nella Ricerca, le eco che Roger Shattuck paragona con acume alle concezioni induiste dell’io. La Ricerca è il prodotto di una disciplina capace di accantonare quella che, nel Bhagavadg¯ıt¯a, Krishna definisce «inerzia oscura». Forse è un’altra ironia, non necessariamente proustiana, il fatto che il romanziere di Alla ricerca del tempo perduto sia il nostro più autentico multiculturalista moderno, in grado di trascendere alcune delle differenze tra i Canoni occidentale e orientale.

18. L’AGONE DI JOYCE CON SHAKESPEARE James Joyce, cui di rado mancava l’audacia, vedeva Shakespeare come Virgilio e se stesso come Dante. Quell’ambizione era così elevata che neppure lui riuscì a realizzarla. In questo nostro lungo declino, che, se Vico e Joyce avevano ragione, ci condurrà sulla soglia di una nuova Età teocratica, l’Ulisse e La veglia di Finnegan trovano il loro unico rivale, per unanime consenso, nella Ricerca del tempo perduto di Proust. Forse anche Joyce e Proust sono quasi giunti a uguagliare il risultato ottenuto da Dante nella Divina Commedia, sebbene Kafka, che non si avvicinò a quel livello, sembra più il Dante di questa epoca. Chi ha letto a fondo Shakespeare e ha assistito a sue rappresentazioni ben dirette e ben recitate non vedrebbe tuttavia in Joyce il compimento di cui il drammaturgo fu il precursore. Joyce lo sapeva, e vi è una certa ansia nei suoi riferimenti ossessivi al poeta precedente, che affollano sia l’Ulisse sia La veglia di Finnegan. Se non vi fosse stato alcuno Shakespeare, probabilmente Joyce e Freud non avrebbero mai provato l’angoscia della contaminazione che solo Shakespeare pare aver suscitato in entrambi. Joyce riconobbe quell’influenza più di Freud e non concordò mai con l’ipotesi di Looney, benché nella Veglia di Finnegan giochi con la teoria baconiana. Joyce ci offrì innanzi tutto l’ipotesi esposta da Stephen Dedalus nella scena della biblioteca nell’Ulisse, una teoria che non attacca tanto il paternalismo come paternità e che certamente non attacca Shakespeare. Quando Frank Budgen gli chiese quale libro avrebbe portato su un’isola deserta se avesse potuto sceglierne uno solo, Joyce rispose: «Esiterei tra Dante e Shakespeare, ma non a lungo. L’inglese è più ricco e otterrebbe il mio voto». «Più ricco» è un’espressione azzeccata in quel contesto; chi resta solo su un’isola deserta desidera la compagnia di altre persone, e Shakespeare è più facoltoso di personaggi rispetto ai suoi concorrenti più prossimi, Dante e la Bibbia ebraica. Joyce, nonostante il vigore dickensiano dei personaggi minori dell’Ulisse, ha solo un Amleto piuttosto inadeguato in Stephen e una rivale della Comare di Bath in Molly. Leopold Bloom può sfidare Shakespeare, o tentare di farlo, ma si tratta di un atto impossibile, perché, in tutti gli agoni letterari, l’entità maggiore inghiotte la minore. Sebbene Stephen affermi di non credere alla sua teoria su Shakespeare e Amleto, Richard Ellmann dice che, secondo alcuni amici, Joyce la prese molto sul serio e non la ritrattò mai. Questo è l’indispensabile punto di partenza per

esaminare la lotta canonica di Joyce contro Shakespeare, sia nell’Ulisse sia nella Veglia di Finnegan. Il coraggio dimostrato da Joyce nel fondare l’Ulisse contemporaneamente sull’Odissea e sull’Amleto fu straordinario, perché, osserva Ellmann, i due paradigmi di Odisseo/Ulisse e del principe di Danimarca non hanno quasi nulla in comune. Un indizio per comprendere le intenzioni di Joyce potrebbe essere il fatto che il personaggio letterario più intelligente dopo Amleto (e Falstaff) è l’eroe dell’Odissea, anche se Joyce lo elogia più per la sua completezza che per le sue risorse mentali. Il primo Ulisse vuole tuttavia tornare a casa, mentre Amleto non ha casa, né a Elsinore né altrove. Joyce riesce a fondere Ulisse e Amleto soltanto mediante il raddoppiamento: Poldy è sia Ulisse sia il fantasma di Amleto senior, mentre Stephen è sia Telemaco sia il giovane Amleto, e Poldy e Stephen insieme formano Shakespeare e Joyce. Ciò sembra un po’ stupefacente, ma è adatto al proposito di Joyce, che vuole assorbire in sé Shakespeare. Come Joyce, Shakespeare è secolare, nel senso che sostituisce la Scrittura con gli scritti dell’umanità comune, e Joyce difende Shakespeare da Freud rifiutando giustamente un’identità tra Amleto e Edipo. Joyce, un critico dell’Amleto migliore di Freud, non trovava traccia di lussuria in Gertrude né intenti omicidi verso re Amleto nel loro figlio. Stephen e Bloom (mi riferisco a Poldy) paiono anche liberi dall’ambivalenza edipica e, se Joyce nutriva quest’ultima nei confronti di Shakespeare (in passato ne aveva nutrita), nell’Ulisse si sforza chiaramente di non manifestarla. La teoria di Joyce sull’Amleto viene esposta da Stephen nella scena dell’Ulisse ambientata alla National Library (parte 2, 9). James Joyce and the Making of «Ulysses» di Frank Budgen (1934), tuttora la migliore guida al libro perché contiene molti elementi del Joyce personale, ci dice che «Shakespeare l’uomo, il signore del linguaggio, il creatore di persone, occupò [Joyce] più di Shakespeare l’ideatore di drammi». È senza dubbio lo Shakespeare di Stephen a rispettare una tradizione consolidata salendo sul palcoscenico del Globe Theatre nel ruolo del fantasma del padre di Amleto: Il dramma ha inizio. Un attore spunta nell’ombra, ravvolto nella cotta smessa di un damerino di corte, un uomo ben piantato con voce di basso. È lo spettro, il re, re ma non re, e l’attore è Shakespeare che ha studiato l’Amleto per tutti gli anni di sua vita che non furono vanità per recitare proprio la parte del fantasma. Parla a Burbage, il giovane attore che gli sta davanti, al di là delle bende funebri, chiamandolo per nome: Amleto, io sono lo spirito di tuo padre ordinandogli di ascoltare. A un figlio egli parla, il figlio dell’anima sua, il principe, il giovane Amleto e al figlio del suo corpo, Hamnet Shakespeare, che è morto a Stratford affinché il suo omonimo

potesse vivere per sempre. È possibile che quell’attore Shakespeare, spettro per assenza, e in veste del sepolto signore di Danimarca, spettro per morte, che diceva le sue parole al nome del proprio figlio (se Hamnet Shakespeare fosse vissuto sarebbe stato il gemello del principe Amleto) è possibile, vorrei sapere, o probabile che egli non traesse o prevedesse la conclusione logica di quelle premesse: tu sei il figlio spodestato: io sono il padre assassinato: tua madre è la regina colpevole. Ann Shakespeare, nata Hathaway?

Ann Hathaway come Gertrude, il defunto Hamnet come Amleto, Shakespeare come fantasma, i suoi due fratelli come un Claudio composito: è tutto abbastanza provocatorio da avere un’eterna capacità di persuasione e da ispirare il miglior romanzo di Anthony Burgess, Nothing Like the Sun (1964), che è anche l’unico romanzo di successo mai scritto su Shakespeare. Burgess, un discepolo affezionato di Joyce, fornisce un prolungamento così joyciano della teoria di Stephen che, tempo fa, sovrapposi nella mia mente la scena della biblioteca e le invenzioni di Burgess e che, rileggendo Joyce, mi lascia sempre sbalordito perché non trovo granché di ciò che mi aspettavo erroneamente di trovare, e che invece è del tutto rintracciabile in Burgess. Ciò dipende in parte dal fatto che lo Stephen di Joyce possiede un’allusività impercettibile, condensando una visione totale della vita e della produzione di Shakespeare in una manciata di eloquenti battute che nascondono i loro sottintesi e le loro perplessità più sottili. In precedenza, Malachi «Buck» Mulligan, in cui Joyce aveva parodiato Oliver St. John Gogarty, poetamedico e scaricatore di porto, aveva spiegato la teoria come segue: «Stephen dimostra mediante l’algebra che il nipote di Amleto è il nonno di Shakespeare e che egli stesso è lo spettro di suo padre». Questa, che è un’astuta parodia, è anche una critica evidente, poiché il proposito di Stephen è dissolvere l’autorità della paternità. La paternità, in quanto generazione cosciente, è sconosciuta all’uomo. È uno stato mistico, una successione apostolica, dall’unico generatore all’unico generato. Su quel mistero e non sulla madonna che lo scaltro intelletto italiano ha gettato in pasto alle genti d’Europa è fondata la Chiesa e fondata irremovibilmente in quanto è fondata, come il mondo, macro e microcosmo, sul vuoto. Sull’incertezza, sull’improbabilità. Amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo, questa è forse l’unica cosa vera nella vita. La paternità forse è una finzione legale. Chi è il padre di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o viceversa?

Stephen schernisce ben presto questa opinione, ma non è facile schernirla e non è facile comprenderla, perché le sue implicazioni sono infinite. Se ci crediamo, la Chiesa e tutto il cristianesimo si dissolvono, e Joyce non ritratta né discute questa tesi. Il compianto Sir William Empson protestò contro quella che, con un’elegante definizione, chiamò la calunnia di Kenner, anche se avrebbe potuto denominarla la calunnia di Eliot, perché T.S. Eliot aveva

preceduto Hugh Kenner nel considerare l’immaginazione di Joyce «eminentemente ortodossa». Empson, naturalmente, aveva ragione: cristianizzare Joyce è una patetica procedura critica. Se nell’Ulisse vi è uno Spirito Santo, si tratta di Shakespeare e, se nell’Ulisse vi è una paternità che sia una finzione valida, Joyce vorrebbe vedersi nei panni del figlio di Shakespeare. Ma dov’è Joyce nell’Ulisse? È senz’altro rappresentato nel libro, ma scisso in maniera bizzarra tra Stephen e Leopold Bloom, Joyce come giovane artista e Joyce come uomo benevolo e curioso che ha rifiutato l’odio e la violenza. La singolarità della divisione si sottrae a qualsiasi soluzione critica; in quest’ultimo atteggiamento romanzesco della personalità nella lingua inglese, prima che i personaggi persuasivi si dissolvano nelle mitologie della Veglia di Finnegan e nelle negazioni di Samuel Beckett, riceviamo una dimostrazione amabile e disperata che la paternità è una pura finzione, un concetto estetico, ma solo un concetto incerto. Il lettore avverte giustamente che il romanzo Ulisse ha più a che fare con l’Amleto che con l’Odissea, ma quali sono i rapporti tra il quartetto formato da Joyce, Dedalus, Shakespeare e Bloom? L’Ulisse ha abbastanza splendore verbale da alimentare una legione di romanzi, ma notiamo che la posizione centrale del libro nel Canone trascende gli stili di Joyce, per quanto siano tutti magistrali. Il misticismo estetico di Proust non è lo stile di Joyce, e Beckett, erede sia di Joyce sia di Proust, mostra qualcosa di simile al rifiuto di un ascetico davanti al trionfo di Proust. Joyce resta enigmatico, e il suo interesse per Shakespeare mi sembra una delle poche vie da lui spianate verso la soluzione dell’enigma. Stephen estende la sua escursione shakespeariana alla guerra tra eresia e teologia ecclesiastica: «Sabellio, l’Africano, l’eresiarca più sottile tra tutte le bestie del campo, sosteneva che il Padre era Figlio di Se Stesso. Il mastino di Aquino, per il quale non vi è parola impossibile, lo confuta. Bene: se il padre che non ha un figlio non è padre, può il figlio che non ha un padre essere un figlio?». Ne consegue, aggiunge, che il poeta autore dell’Amleto «non era semplicemente il padre del proprio figlio ma, non essendo più figlio, era e si sentiva il padre di tutta la sua razza, padre del proprio nonno, padre del nipotino nascituro che, alla stessa stregua, non nacque mai». Da tutto ciò emerge uno Shakespeare simile a Dio, ma con molta probabilità si tratta solo del ritratto dell’artista secondo Stephen; e quest’ultimo, ossessionato da Shakespeare, è nel libro di Poldy, non nel suo.

Se nell’Ulisse vi è un mistero, è racchiuso in Leopold Bloom, che ha il suo enigmatico rapporto con Shakespeare, il dio mortale. Lo Shakespeare di Stephen è una profezia di Poldy. Shakespeare è il padre che è a sua volta il proprio padre. Non ha precursori né successori, il che coincide chiaramente con la visione idealizzata che Joyce aveva di se stesso come autore. Il padre di Poldy, il ramo ebraico della sua famiglia, si è suicidato, e Poldy non ha figli viventi, a meno che non si interpreti in qualche modo Stephen come figlio nello spirito. L’unico spirito dell’Ulisse è Shakespeare, padre spettrale e figlio spettrale, e cominciamo a capire che il suo spirito è calato non su Stephen, una figura più o meno dantesca, bensì su Bloom, una figura joyciana, la cui scena preferita della produzione shakespeariana è la conversazione tra Amleto e i becchini nell’atto quinto. Che cosa troviamo di shakespeariano in Poldy? Sospetto che la risposta abbia qualcosa a che fare con la rappresentazione completa di una personalità da parte di Joyce, che potrebbe essere considerata come l’ultima resistenza di Shakespeare, o come l’episodio finale della lunga storia della mimesi shakespeariana nella letteratura di lingua inglese. A prescindere dal fatto che crediate oppure no che Shakespeare sollevava uno specchio davanti alla natura, avrete difficoltà a trovare un ritratto più esauriente dell’uomo allo stato naturale di quello dipinto da Joyce in Poldy. Forse possiamo ritenerlo un giudizio eccentrico da parte di Joyce, ma il suo archetipo dell’uomo allo stato naturale sembrerebbe essere stato Shakespeare, uno Shakespeare joyciano, naturalmente. Lo Shakespeare di Joyce non era un drammaturgo; strano a dirsi, Joyce pensava che Quando noi morti ci destiamo di Ibsen fosse molto più drammatico dell’Otello. La concezione joyciana del dramma non è facile da comprendere, ed evidentemente lo Shakespeare joyciano non era un poeta dell’azione, bensì un creatore di uomini e donne. Se vogliamo scoprire lo shakespearianesimo di Poldy, dobbiamo tralasciare il dramma e concentrarci sulla rappresentazione del cambiamento. Quando penso all’Ulisse, penso innanzi tutto a Poldy, ma di rado come figura in uno scambio o in una relazione. L’essenziale del signor Bloom è, per via della sua completezza, sia il suo ethos o carattere sia il suo pathos o personalità, e persino il suo logos o pensiero, per quanto insieme divino e banale. Ciò che non è banale in Poldy è la ricchezza della sua coscienza, la sua capacità di trasformare i sentimenti e le sensazioni in immagini. E qui si trova, a mio parere, il substrato roccioso: Poldy ha un’interiorità shakespeariana, manifestata con profondità molto

maggiore rispetto alla vita interiore di Stephen, Molly o chiunque altro nel romanzo. Le eroine di Jane Austen, George Eliot e Henry James sono sensibilità sociali assai più raffinate di Poldy, ma nemmeno loro possono competere con la sua svolta interiore. Non gli sfugge nulla, sebbene le sue reazioni a ciò che percepisce possano essere scontate. Joyce lo predilige come nessun altro nella sua produzione, un aspetto che Richard Ellmann fu il primo a sottolineare. Joyce ammirava Flaubert, ma la coscienza di Poldy non somiglia a quella di Emma Bovary. È una psiche stranamente antica per un uomo di mezza età, e tutti gli altri personaggi del libro sembrano molto più giovani del signor Bloom. Forse questo elemento è legato all’enigma della sua fede ebraica. Da una prospettiva ebraica, Poldy non è ebreo ma lo è. Sua madre e sua nonna erano cattoliche irlandesi; suo padre, Virag, era un ebreo convertito al protestantesimo. Poldy è stato sia protestante sia cattolico, ma si identifica con il padre morto e si considera chiaramente ebreo, sebbene sua moglie e sua figlia non lo siano. Dublino lo considera con imbarazzo un ebreo, anche se il suo isolamento pare autoimposto. Poldy ha molti conoscenti e, a quanto sembra, conosce tutti, ma resteremmo sorpresi se qualcuno ci chiedesse chi siano i suoi amici, perché è sempre chiuso in se stesso, un atteggiamento sorprendente per un uomo così amabile. Poiché una volta sono rimasto incantato guardando Zero Mostel che recitava Ulysses in Nightown, danzando la parte quasi con agilità in una lettura chiaramente errata del ruolo, quando rileggo il libro, devo combattere contro l’immagine di Mostel. Joyce non è Mel Brooks, ma talvolta attribuisce a Poldy quello che sembra un pizzico di umorismo ebraico. Mostel era affascinante, Poldy no, ma Poldy commuove Joyce e commuove noi perché, fra tanti irlandesi, è l’unico a non avere quello che Yeats chiamava «un cuore fanatico». Hugh Kenner, che nel suo primo volume su Joyce aveva giudicato Poldy una sorta di ebreo eliotiano (l’antisemita T.S. Eliot, non la benevola George Eliot), dopo altri vent’anni di studio smise di considerare Leopold Bloom un esempio di depravazione moderna e riformulò un più eloquente giudizio joyciano, secondo cui il protagonista di Joyce è «adatto a vivere in Irlanda senza rancore, senza violenza, senza odio». Quanti di noi sono ora adatti a vivere, in Irlanda o negli Stati Uniti, senza rancore, senza violenza, senza odio? Chi tra noi è tentato di accondiscendere a Poldy come se la rappresentazione così persuasiva di un essere umano del tutto benevolo, che per noi continua a essere così interessante, fosse disponibile anche altrove?

Stravagante, abbastanza allegro, padrone di sé e infinitamente gentile, anche se masochista persino nella sua curiosità, Poldy sembra essere la versione joyciana non di un qualsiasi personaggio shakespeariano, ma dello spettrale Shakespeare, insieme tutti e nessuno, forse uno Shakespeare un po’ borgesiano. Questo, naturalmente, non è Shakespeare il poeta bensì il cittadino Shakespeare, che vaga per Londra come Poldy vaga per Dublino. Stephen, in un momento particolarmente avventato del suo discorso alla biblioteca, arriva al punto di affermare che Shakespeare era ebreo, forse sul modello di Poldy, sebbene non possa saperlo se non come prolessi mistica. Il culmine della teoria di Stephen giunge nella sua straordinaria e ossessiva evocazione della vita di Shakespeare come completamento universale: L’uomo non lo diletta e la donna neppure, disse Stephen. Ritorna dopo una vita di assenza nel luogo della terra ov’egli nacque, dove sempre è stato, uomo e ragazzo, testimone silenzioso, e là, terminato il viaggio della vita, pianta il suo gelso nel terreno. Poi muore. Il moto è finito. I becchini seppelliscono Amleto père e Amleto fils. Re e principe finalmente nella morte, con accompagnamento musicale. E, seppure da essi assassinato e tradito, è pianto da ogni fragile tenero cuore perché, Danesi o Dublinesi, il dolore per i morti è l’unico marito dal quale rifiutano di divorziare. Se l’epilogo vi piace, non vi stancate di guardare: il prospero Prospero, l’uomo buono ricompensato, Lizzie zolletta d’amore di nonno, e lo zietto Richie, l’uomo cattivo mandato dalla giustizia poetica dove vanno i negri cattivi. Un finale di polso. Trovò reale nel mondo esteriore ciò che era possibile nel suo mondo interiore. Maeterlinck dice: Se Socrate esce di casa oggi troverà il sapiente seduto sulla sua soglia. Se Giuda esce stasera i suoi passi lo porteranno verso Giuda. Ogni vita è una moltitudine di giorni, un giorno dopo l’altro. Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini. Ma sempre incontrando noi stessi. Il drammaturgo che ha scritto l’in-folio di questo mondo e l’ha scritto male (ci dette prima la luce e il sole due giorni dopo), il signore delle cose quali esse sono che i più romani tra i cattolici chiamano dio boia, è senza dubbio tutto intero in noi tutti, palafreniere e beccaio, e sarebbe anche ruffiano e becco se non fosse che nell’economia del cielo, predetta da Amleto, non ci sono più matrimoni, poiché l’uomo glorificato, angiolo androgino, è sposa di se stesso.

L’enfasi di Stephen, che qui è senza dubbio il portavoce di Joyce, è tanto una critica al dio boia del cristianesimo quanto una lode conclusiva al poeta dell’Amleto. Vi sono due drammaturghi, il Dio cattolico e Shakespeare, entrambi divinità; ma il profeta di Shakespeare, Amleto, predice la visione joyciana dell’«uomo glorificato, angiolo androgino, è sposa di se stesso», visione incarnata sia in Shakespeare sia nel povero Poldy. Tra i due in-folio, questo mondo e quello di Shakespeare, la preferenza di Joyce va al padre spettrale, che torna dopo una vita di assenza, come lo scrittore non ebbe modo di fare. Il resto è silenzio, essendo terminati sia l’esilio sia l’astuzia. Poche frasi, persino nell’Ulisse, sono inevitabili come: «Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini. Ma sempre incontrando noi stessi». Questa

affermazione si potrebbe condensare (non senza una qualche perdita) nel motto di Joyce: «Io cammino attraverso me stesso, incontrando lo spettro di Shakespeare, ma sempre incontrando me stesso». Una simile confessione di influenza, e di certezza di possedere la forza necessaria a interiorizzare Shakespeare, potrebbe essere definita il più bel complimento dell’Ulisse al proprio splendore canonico. Uno studio del Canone occidentale organizzato secondo i cicli di Vico non potrebbe trascurare La veglia di Finnegan, che si rifà a Vico per alcuni dei suoi principi strutturali. Poiché La veglia è, più dell’Ulisse, l’unico vero rivale novecentesco di Alla ricerca del tempo perduto di Proust, le spetta un posto in queste pagine. Il movimento erroneamente denominato «multiculturalismo», che è del tutto antintellettuale e antiletterario, sta eliminando dal programma di studi quasi tutte le opere che presentano difficoltà immaginative e cognitive, cioè quasi tutti i libri canonici. La veglia di Finnegan, il capolavoro di Joyce, presenta tante difficoltà iniziali che è impossibile non preoccuparsi per la sua sopravvivenza. Temo che finirà per fare compagnia al grande romance poetico di Spenser, La regina delle fate, e che entrambe le opere verranno lette, per il resto del tempo, solo da un manipolo di esperti entusiasti. È triste dirlo, ma ci avviamo verso un’epoca in cui Faulkner e Conrad subiranno forse lo stesso destino. Una mia carissima amica, seguace di Adorno e della Scuola di Francoforte, ha giustificato la decisione della sua università di eliminare Hemingway da un corso obbligatorio a favore di un mediocre scrittore di racconti messicano dicendo che così i suoi studenti sarebbero stati più preparati per vivere negli Stati Uniti. I criteri di misura estetici, sottintendeva, servivano ai nostri piaceri privati della lettura, ma ormai erano malvisti nella sfera pubblica. Vi è un bel salto dai racconti brevi di Hemingway – benché i migliori siano magnifici – alla Veglia di Finnegan, e la nostra nuova morale antielitaria destinerà il libro a un numero sempre minore di lettori, il che rappresenta un’enorme perdita estetica. Qui, in poche pagine, non riuscirò certo a rendere giustizia alla Veglia di Finnegan, fatta eccezione per l’osservazione secondo cui, se il merito estetico dovesse mai tornare a costituire il centro del Canone, l’opera di Joyce, come la Ricerca di Proust, sarebbe vicina agli apici di Shakespeare e Dante quanto potrebbe esserlo il nostro attuale caos. Qui di seguito il mio proposito è solo continuare la storia dell’agone di Joyce con Shakespeare, che l’autore irlandese considerava in qualche modo il più grande degli scrittori (almeno prima di sé), ma

drammaticamente inferiore a Ibsen (un giudizio irriverente da cui non si scostò mai; lo perdoniamo tuttavia in segno di gratitudine per la sua grandiosa affermazione: «Alcuni pensano che, in Hedda Gabler, Ibsen sia femminista, ma non era femminista più di quanto io sia un arcivescovo»). La veglia di Finnegan inizia, secondo il parere unanime di tutti i critici, dove finisce l’Ulisse: Poldy va a dormire, Molly rimugina splendidamente, e infine un Everyman più grande sogna il libro della notte. Questo nuovo Everyman, Humphrey Chimpden Earwicker è troppo enorme per avere una personalità, non più di quanto Albion, l’Uomo primordiale dei poemi epici di Blake, sia un personaggio umano. Questa è sempre la mia unica tristezza nel passaggio dall’Ulisse alla Veglia; la seconda è più ricca, ma perdo Poldy anche se guadagno quella che Joyce definiva una «storia del mondo». È una storia assai peculiare e poderosa, che include la storia letteraria e prende a modello tutta la letteratura, a differenza dell’Ulisse, che si basa su un curioso amalgama tra l’Amleto e l’Odissea. Poiché Shakespeare e il Canone occidentale sono tutt’uno, ciò riporta necessariamente Joyce a Shakespeare, la fonte principale (insieme con la Bibbia) delle allusioni e delle citazioni nascoste che inondano le pagine del libro. Da questo punto di vista sono in debito con The Books at the Wake di James S. Atherton (1960), tuttora il più utile tra i numerosi e interessanti studi ispirati dalla Veglia, e con il saggio pionieristico Shakespeare and Finnegans Wake di Matthew Hodgart, pubblicato nel 1953 in The Cambridge Journal. Nel suo Third Census of «Finnegans Wake» (1977), Adaline Glasheen osserva che Shakespeare, l’uomo e la sua produzione, fu la matrice della Veglia, ossia «la massa rocciosa in cui racchiusi o incastrati metalli, fossili e gemme». Naturalmente, questa è solo una prospettiva su un libro i cui lettori hanno assoluto bisogno di qualunque prospettiva riescano a sentire, ma ha sempre guidato la mia lettura della Veglia. La principale differenza tra lo Shakespeare dell’Ulisse, a mio parere uno spirito santo, e lo Shakespeare della Veglia di Finnegan è il fatto che Joyce è disposto per la prima volta a esprimere invidia verso il suo precursore e rivale. Non desidera tanto le doti e la portata di Shakespeare – si considerava allo stesso livello del drammaturgo da entrambi i punti di vista – quanto il suo pubblico, di cui è giustamente geloso. Quella gelosia trasforma la Veglia più in una tragicommedia che nella commedia voluta da Joyce. L’accoglienza riservata al libro scoraggiò l’autore moribondo, ma come avrebbe potuto essere diversamente? Dopo le profezie di Blake, nessuna opera letteraria in lingua inglese presenta tante difficoltà

iniziali anche al lettore più avido, generoso e informato. Solo qualche pagina dopo l’inizio del grande capitolo Anna Livia Plurabelle, Joyce esclama: «By earth and the cloudy but I badly want a brandnew bankside, bedamp and I do, and a plwnper at that!» (Per la terra e per il coperto, che ho bisogno marcio d’un derivantano nuovo fiumante, vado in madore, e paffuto per giunta). Bankside è un gioco di parole su backside (sedere), bedamp è un gioco di parole su bedammed (dannato) e, poiché a parlare sono il fiume Liffey e la moglie di Earwicker, il commento di Atherton è azzeccato: «Joyce dice di rimpiangere che il Liffey non abbia un South Bank dove la letteratura venga apprezzata come lungo il Tamigi di Shakespeare». Shakespeare aveva il Globe Theatre e il suo pubblico; Joyce aveva solo un gruppo ristretto di ammiratori. Fissando le pagine della Veglia, anche il lettore generoso deve chiedersi se Joyce sapesse quanto aveva innalzato il «premio di seduzione» freudiano qualora si intenda entrare con un balzo nella sua massima opera. Con incertezza, ma dopo aver riflettuto sulla questione per alcuni anni, ritengo che la sfida di Shakespeare a Joyce abbia determinato in parte la disperata audacia della Veglia. L’Ulisse tenta di assorbire Shakespeare sul suo terreno: l’Amleto. Dublino è un contesto ampio, ma non abbastanza da inghiottire Shakespeare, come indica con chiarezza un momento culminante del capitolo Circe, ambientato nell’inferno di Nightown. Subito dopo che il povero Poldy ha subito lo squallore di spiare dal buco della serratura, osservando Blazes Boylan che consuma un rapporto sessuale con Molly, l’ubriaco Lynch, il compare di Stephen, indica uno specchio e grida: «Specchio della natura». Ci viene poi offerto un confronto tra Shakespeare e le due componenti di Joyce, Stephen e Bloom: (Stephen e Bloom guardano nello specchio. Il volto di William Shakespeare, imberbe, vi appare irrigidito da una paralisi facciale, incoronato dal riflesso dell’attaccapanni a corna di cervo dell’ingresso.) SHAKESPEARE (solenne voce di ventriloquo) È l’alto riso a tradir la vacua mente. (a Bloom) Tu ritenesti d’essere invisibile. Mira. (Fa chicchirichì con un riso da cappone nero) Iagogo! Come il mio Ostello sgannò la sua Testimona. Iagogogo! BLOOM (Sorride verde alle tre puttane.) E a quando la barzelletta?

Lo Shakespeare cornuto (secondo la teoria di Stephen) guarda il Leopold Bloom cornuto e lo Stephen ubriaco dopo che Lynch ha citato il monito di Amleto agli attori, rammentando che il loro scopo «era ed è presentare, per

così dire, uno specchio alla natura». Imberbe e irrigidito da una paralisi facciale, Shakespeare viene incoronato dalle corna del cornuto, ma è ancora pieno di dignità quando cita erroneamente la poesia di Oliver Goldsmith, The Deserted Village (1770): «È l’alto riso a tradir la vacua mente», dove «vacua mente» ha il significato positivo di «tranquilla» o «riposata». Qui Shakespeare biasima non solo la mente vuota di Lynch, ma anche l’ottusità di Boylan e delle puttane che si fanno beffe del povero Poldy. A quest’ultimo, tuttavia, Shakespeare rivolge l’esortazione a non diventare un secondo Otello, indotto da Iago-Boylan ad assassinare Molly come il «mio vecchio», o «padre», uccise la sua «madre del Giovedì». Siccome Stephen è nato di giovedì, qui abbiamo (almeno) due sovrapposizioni: Stephen e Bloom si fondono mentre Shakespeare torna a essere il fantasma del padre di Amleto, che raccomanda alla fusione joyciana di non aggiungere un’ulteriore fusione tra Amleto e Otello, trasformando così Molly Bloom in un amalgama tra Gertrude, Desdemona e la madre morta di Stephen. Questa è una presa in giro dell’infelice Poldy, ma non chiarisce il punto principale: perché Shakespeare viene trasformato in modo da non essere solo un cappone, ma da essere anche imberbe e da avere il volto paralizzato? Ellmann sostiene che «Joyce ci avverte dicendoci che lavora su quasi identità, non su identità totali», ma io rimango fedele al mio giudizio precedente, secondo cui, alla fine, Joyce confessa il suo caso di angoscia da influenza. Shakespeare il precursore si fa beffe del suo seguace, StephenBloom-Joyce, dicendo, in sostanza: «Tu fissi lo specchio cercando di vedere te stesso come me, ma contempli ciò che tu sei: solo una versione imberbe, senza il mio vigore di un tempo, e irrigidita da una paralisi facciale, priva della mia scioltezza d’espressione». Nella Veglia di Finnegan, Joyce, ricordando questo passo come l’addio rivoltogli da Shakespeare nell’Ulisse, decide di fare meglio nella lotta con Shakespeare durante l’ultimo round. Il finale della Veglia di Finnegan, il monologo della moribonda Anna Livia – madre, moglie e fiume – viene spesso e giustamente definito dai critici il più bel passo di tutta la produzione joyciana. L’autore, che andava per i cinquantotto anni, scrisse la sua ultima finzione, evidentemente nel novembre del 1938. Poco più di due anni dopo era morto. Patrick Parrinder rileva con sensibilità che «la morte, affrontata con curiosità, angoscia, scherno e farsa nella produzione giovanile di Joyce, è qui l’oggetto di una dolorosa euforia, di un terribile rapimento». Se sostituissimo «di Joyce» con «di Shakespeare» in questa eloquente affermazione, il «qui» sarebbe la morte

del re alla conclusione del Re Lear. Il fiume che va verso casa, verso il mare, nel finale di Joyce sarebbe una versione della Cordelia morta tra le braccia del padre impazzito, che ben presto morirà a sua volta. Si può vivere l’intera storia letteraria nel sonno di una notte? La veglia di Finnegan risponde di sì e asserisce che tutta la storia umana ci può passare attraverso in un lungo sogno discontinuo. Anthony Burgess, discepolo devoto di Joyce – al contrario di Samuel Beckett, che se ne distaccò – afferma che «è la cosa più naturale del mondo vedere il dottor Johnson e Falstaff, e anche la vicina di casa, che aspettano alla stazione ferroviaria di Charing Cross». Ricordo un sogno bloomiano in cui arrivavo alla stazione ferroviaria di New Haven in ritardo per un appuntamento con il signor Zero Mostel, il mio doppio, e mi svegliai concludendo che era il mio solito sogno ansioso di non arrivare in tempo per una lezione sull’Ulisse. Alla stazione mi aspettavano tutti coloro che non avrei mai voluto rincontrare, sia nella vita sia nella letteratura. Quel sogno non era divertente; la Veglia lo è, e talvolta è molto divertente, divertente quanto Rabelais o Blake nel suo Notebook. Tuttavia, lo Shakespeare cui si rifà è, per lo più, non il drammaturgo comico, ma il tragediografo di Macbeth, Amleto, Giulio Cesare, Re Lear, Otello, oppure lo scrittore maturo di commedie romantiche, con l’eccezione di Sir John Falstaff, la più grande fra tutte le creazioni comiche. Che Joyce dovesse fondere Shakespeare e la storia è del tutto naturale, ma la Veglia è un libro più cupo di quanto intendesse essere oppure Shakespeare si intrufolava dove voleva. Earwicker o Everyman è anche Dio, Shakespeare, Leopold Bloom, il James Joyce maturo, Re Lear (e anche Re Leary), nonché Ulisse, Cesare, Lewis Carroll, il fantasma del padre di Amleto, Falstaff, il sole, il mare e la montagna, per citarne solo alcuni. Nel Third Census di Glasheen vi è uno splendido elenco con il grandioso titolo joyciano Who is Who When Everybody is Somebody Else. Joyce interpretava la riconciliazione e l’inclusione come, tra altri scrittori del XX secolo, solo Proust avrebbe potuto intenderle, anche se non su scala altrettanto cosmologica. Ma il tragico Shakespeare non è un riconciliatore, e il Macbeth in particolare è un’opera molto cupa per essersi fatta strada nella Veglia. Se Joyce era Lear nella sua forma celtica del vecchio e il mare, allora la sua Cordelia era sua figlia Lucia, tragicamente folle, e in alcuni momenti l’autore venne senza dubbio abbandonato dal desiderio di comicità. Joyce ricorda se stesso come giovane artista, Shem l’Amanuense, insieme Amleto e

Stephen Dedalus (Macbeth fa capolino anche qui), e udiamo quella che Harry Levin chiama saggiamente «l’indignazione del grande scrittore arrivato in ritardo»: Sei stato allevato, alimentato, ingrassato e incoraggiato dalla santa infanzia in poi in quest’isola bipasquale con le filippiche del festoso firmamento e lo strepito dell’altro posto (cantonate alla tua finestra, bastonate alla tua ministra, chiappa quel che puoi!) e adesso, da vero negrone tra i blankardi di questo secolo pusillanime, sei diventato di doppie duidee di fronte agli dei, quelli nascosti e quelli rivelati, anzi, come un pazzo condannato, un anarca, egoarca, iresiarca, hai fondato il tuo regno disunito sul vuoto della tua anima ipersensibilmente dubbiosa. Credi di essere un dio nella greppia, Shehohem, per dire che non vuoi servire o lasciar servire, pregare o lasciar pregare? E senti, porgimi la pietà, devo anch’io farmi forza e pregare per la perdita di autorispetto per attrezzarmi all’orribile necessità di scandalissare (mie care sorelle, siete pronte?) sbarazzandomi della mia speranza e delle mie trepidazioni mentre tutti noi notiamo insieme nella pozzanghera di Sodoma? Nera carogna, prematuro scavafosse, cercatore del rido del male nel grembo della buona parola, tu, che dormi alla nostra veglia e digiuni per il nostro desinare, tu con la tua ragione disturbata hai pronosticato abilmente, giofeta nella tua stessa assenza, riflettendo alla cieca sulle tue molte scottature, bruciature e bolle, piaghe e pustole impetiginose, con gli auspici di quella nuvola di corvi, tua ombra, e con gli auguri delle corooknacchie a convegno, morte con ogni malanno, la maloritizzazione dei colleghi, l’annientamento degli archivi in cenere, il livellamento di tutte le customdogane per gli incendi, l’arritorno in polle di sapone di una grande quantità di imprese umormiti e piricopolverose, ma non è mai enterrato nell’ottundità della tua testa di fango (Oh diavolo, ecco che arriva il nostro funerale! Oh peste, perderò ’l post!) che quante più carote triterai, quante più rape ridurrai a strisce, quante più patate pelerai, a quante più cipolle piangerai sopra, quante più bistecche di manzo macellerai, quanti più montoni squarterai, quante più erbette pesterai, più fiammeggiante sarà il fuoco, più lungo sarà il cucchiaio e più compatta sarà la grascia con più sugo nel gomito, tanto più allegro fumigherà il tuo stufato irlandese.

Qui vi è un po’ di umorismo sulla situazione della gioventù di Joyce, ma non sembra essere questo l’interesse primario. Vi sono profonda amarezza nei confronti dell’Irlanda, della Chiesa, dell’intero contesto di Joyce e un accanito investimento nella sua autonomia di scrittore. Suppongo che, come Beckett avrebbe iniziato a scrivere in francese per superare l’influenza di Joyce sulla sua produzione giovanile, nella Veglia di Finnegan Joyce abbia rotto con l’inglese di Shakespeare. La rottura fu dialettica, in parte ispirata dagli spiritosi giochi di parole shakespeariani: il tripudio linguistico di Pene d’amor perdute è già joyciano. Nei passi riportati sopra, oltre alla parodia della Brigata leggera di Tennyson diretta contro la Chiesa e all’eco di Stephen che nel Ritratto risponde: «Non servirò», vi è la più feroce delle parodie di san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi («Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?») nella parentesi di ritardo sottolineata da Levin: («O diavolo, ecco che arriva il nostro funerale! Oh, peste, perderò ’l post!»). Non è ancora chiaro se La veglia di Finnegan abbia perduto la posta, ma probabilmente la morte dello studio serio della letteratura in quanto letteratura condanna il più alto risultato di Joyce. Nella

Veglia, Shakespeare è il principale esempio di scrittore che ha creato la posta, anzi che è divenuto il servizio postale. Shem, ci viene detto, non conosceva nessun altro Shaggspiccone, nessun altro Shakglialabarba, sia presattamente diverso dalla sua hannoditetesi polare sia procisamente ugnale a ahia (parndon!) a quello che si immaginava o si supponeva uguale a quello che era lui, e che, per la barba di scotto, dichensino e zaccheraio, sebbene fosse fregato da fucsia a fucsia come un biggolo bunnyboy con tutti i lyonbusti da sala da tè di Lumdrum ivanoheizzati gagabilmente contro di lui, che è un lapsis liquo con un cartaracciazzo ruvididubbio, un orsacchiotto vanhatyoso e fiero, batto ratto tatto fatto gatto matto piatto, un consciesmorzatore della casualità, prevaricato crociverbamente in posposizione, sciatto, più sciatto, sciattorumurrayimo etuttoqueltipodicose, se il capo avesse retto fede alla coda e la sua linea della lankavita avesse lungodurato, avrebbe cancellato alley quelli che spiarlano inglese, multafoniacsicamente spirlando, dalla faccia della terrsa.

Vi sono un’aggressività controllata nei confronti di Shakespeare e un profondo desiderio di giocare a sostituire l’inglese con il dialetto della Veglia, il linguaggio del fuorilegge, conte avrebbe detto Joyce, che nega i romanzieri inglesi del XIX secolo (nell’originale, scoot, duckings and thuggery, ossia Scott, Dickens e Thackeray) ed è insieme l’antitesi di Shakespeare e Shakespeare in un ricorso vichiano. L’eco di Swinburne su Villon («Villon nome del nostro triste cattivo allegro pazzo fratello») è appropriata alla presentazione poco persuasiva che Joyce ci propone del suo mite io poldiano come fuorilegge letterario, Rimbaud o Villon. Qui e in tutta la Veglia, i lapsus vengono innalzati a un’ossessività shakespeariana, come se Joyce potesse essere confuso con lo Shakespeare linguisticamente impazzito di Pene d’amor perdute. Come accade in gran parte delle Veglia, la freschezza dell’effetto compensa più che a sufficienza l’oscurità, anche se Joyce non sale sempre in paradiso mediante la scala della sorpresa. Se non riuscite a esorcizzare Shakespeare (chi ci riesce?) e non riuscite ad assorbirlo (la lezione della sua epifania dello specchio a Nightown), dovete trasformarlo in voi stessi, oppure affrontare la rovinosa ricerca di tramutarvi in lui; ciò che Hodgart, Glasheen e Atherton hanno dimostrano è uno strenuo e delizioso sforzo joyciano di trasformare Shakespeare nel creatore della Veglia. Essendo uno studioso ossessivo dell’influenza letteraria, celebro questo sforzo come la metamorfosi più riuscita di Shakespeare nella storia letteraria. L’unico possibile rivale è Beckett, che, in Finale di partita, si appropria di Amleto con audacia e abilità. Beckett, precoce e attento studioso della Veglia, aveva tuttavia contratto un debito cauto con il suo ex amico e maestro, almeno per esempio. Vi è tuttavia una sorta di affabile disperazione evidenziata dalla grandiosa scala su cui il «Great Shapesphere» viene usato nella Veglia, ma non so che cosa ne sarebbe del libro se gli togliessimo tutto ciò che è Shapesphere.

Hodgart individua un’allusione significativa su quasi ogni altra pagina. Ve ne sono trecento in tutto, molte così significative da trascendere quelle che normalmente chiameremmo «allusioni». Earwicker – Dio, padre e peccatore – è il fantasma dell’Amleto, ma è anche Polonio e il perfido Claudio. Inoltre, Earwicker contiene il martirizzato Re Duncan del Macbeth, Giulio Cesare, Lear, l’odioso Riccardo III e due sublimità: Bottom e Falstaff. Shem o Stephen Dedalus è più che mai il principe Amleto, ma anche Macbeth, Cassio e Edmund, cosicché Joyce, con astuzia interpretativa, tramuta Amleto nell’ennesimo antieroe pragmaticamente assassino. Shaun, il fratello di Shem, è insieme il fratello di Joyce, il fedele e longanime Stanislaus, e il recalcitrante quartetto shakespeariano di Laerte, Macduff, Bruto e Edgard. Queste identità shakespeariane contribuiscono in grande misura a consolidare la trama di Joyce (ammesso che la si possa definire tale): forniscono ruoli per Earwicker e la sua famiglia, compresa Anna Livia come Gertrude, e Isabella (la figlia per cui Earwicker prova un desiderio incestuoso e colpevole) come Ofelia. Hodgart ci offre un’utile descrizione di questo gioco di ruolo: Un personaggio appare in un aspetto particolare reincarnandosi in uno dei «tipi», parlando con la sua voce come un «controllo» che si impossessa di un medium durante una seduta spiritica. […] Quando un «tipo» diviene il veicolo fondamentale della narrazione, le allusioni che lo riguardano si infittiscono. […] Occorre dunque aspettarsi che le citazioni shakespeariane non compaiano come singole spie bensì a battaglioni, sparpagliate in passi di lunghezza variabile, e che ciascun gruppo annunci la presenza di un personaggio corrispondente nel dramma.

I battaglioni più folti provengono, in ordine decrescente, da Amleto, Macbeth e Giulio Cesare. Ormai l’Amleto non è una sorpresa, ma rimane la difficile domanda sul perché del Macbeth, per non parlare poi del Giulio Cesare. Questi sono tutti drammi del regicidio, mentre Lear muore solo in un’agonia graduale, steso sulla ruota per cinque atti sempre più apocalittici, e forse è questa la ragione per cui Joyce lo tiene per ultimo, come aiuto per concludere la Veglia. Il re che viene ucciso è, naturalmente, Earwicker, ossia Joyce/Shakespeare, e nonostante il complesso di Amleto che si abbatte su Shem non è mai chiaro chi sia a compiere l’assassinio. Credo sia questo il motivo per cui il Macbeth è così importante per La veglia di Finnegan. Joyce, un superbo lettore di Shakespeare ma anche un maestro delle letture errate, usa il Macbeth per costruire allusioni volte a suggerire che l’assassino è l’immaginazione joyciana, shakespeariana, earwickiana, esattamente come la straordinaria forza prolettica dell’immaginazione di Macbeth ha una natura assassina tutta sua, che impone al resto del dramma. La primissima allusione shakespeariana nella Veglia è al

Macbeth, così come l’ultima è al Re Lear. Hodgart osserva che le citazioni dal Macbeth compaiono ogni volta che Earwicker è sottoposto a enormi tensioni emotive e quando la sua pulsione autodistruttiva emerge con la massima evidenza, per esempio nell’agitazione dell’eroe alla fine del libro primo: Humph is in his doge. Words weigh no no more to him than raindrops to Rethfernhim. Which we all like. Rain. When we sleep. Drops. But wait until our sleeping. Drain Sdops. (Humph sta dogecchiando. Le parole non pesano per lui più delle gocce di piova per Rethfernhim. E questo piace a tutti noi. Piova. Quando dormiamo. Gocce. Ma aspettate finché ci addormentiamo. A gocce spiova.)

«Duncan è nella sua tomba; dopo / il delirio della vita, dorme bene.» Rathfernharm è un quartiere di Dublino, «doge» è un gioco di parole su «doze» (sonnecchiare) e «sdops» deriva dall’italiano «sdoppiare». La successiva battaglia tra Macduff il vendicatore e Macbeth l’assassino ha debitamente luogo circa venticinque pagine più avanti, e le tre streghe o Fatali Sorelle, come i tre assassini di Banquo, fanno tutti diverse apparizioni. Hodgart dimostra che il soliloquio dell’atto quinto, scena quinta del Macbeth, il celebre «domani, e domani, e domani», viene ripreso quasi per intero completa, come il monologo «essere o non essere» di Amleto, ma sia l’uno sia l’altro sono sparpagliati e disposti in tutto il testo della Veglia, un atto di dispersione che è utile agli scopi di Joyce ma anche simile a una vendetta contro la prevalenza di Shapesphere. La vendetta di Shakespeare ricade tuttavia su Joyce: Eppure è il momento di essere ora, ora, ora. Perché un bruciante bocco è venuto fino a danzinane. Stregghe han cisol liebsonno e quindi Coldours non deves lippormire più. Maccabetto non deves lippormire più.

Lewis Carroll, Jonathan Swift e Richard Wagner vengono tutti chiamati in causa nella Veglia (anche se non con la stessa frequenza di Shakespeare), ma non reagiscono mai e non fuggono da Joyce come fa Shakespeare. Si potrebbe dire che, nella Veglia, Shakespeare ha con Joyce lo stesso rapporto che Amleto, Iago e Falstaff hanno con Shakespeare: la creazione si affranca dal creatore. Shakespeare è la creazione di nessuno o di tutti; e, a mio parere, Joyce perde la gara pur battendosi con valore. Tuttavia, nonostante la sconfitta, raggiunge il Sublime nel ritorno all’infanzia della moribonda Anna Livia alla fine della Veglia: Ma io detesto quelli che sono qui, tutti li detesto. Strolaghitaria nella mia solità. Per tutte le loro colpe. Sto venendo meno. O amara conclusione! Sguscerò via prima che si alzino. Non vedranno mai. Né sapranno. Né mi rimpiangeranno. Ed è vecchia e vecchia e triste e vecchia è triste e stanca che torno da te, mio freddo padre, mio freddo pazzo padre, mio freddo pazzo fatimoroso padre, finché la vista da vicino delle sue dimensioni, delle moylia e moylia della sua estensione, lamentonotonosa, fanno di me melma marina malata di malgemma, e mi precipito, mio solo, fra le tue braccia. Le vedo levarsi!

Salvatemi da quei terribili spunzoni! Ancora due. Undue muirmionmenti ancora. Così. Avelavalle. Le mie foglie si sono staccate da me. Tutte. Ma una resta ancora attaccata. Me la porterò addosso. Per ricordarmi di Lff! Così soave questa mattina, nostra. Sì, portami con te, baborchiotto, come facesti per tutta la fiera dei balocchi! Se lo vedo piombare su di me ora, con le ali aperte come se venisse da Arcangeli, mi sombra di dissolvermi ai suoi piedi, umilsardamente, solo per lavanascere. Sì, marea. Ecco dove. Prima. Passiamo sul piano frazitto il fitto fitto a. Sosotto! Un gabbiano. Gabbiani. Lungi chiame. Venente, lontano! Fine qui. Noi quindi. Finn, ancora. Prendi. Bussoavemènete, mememòrami! Fino alla finemiglia. Lbr. Le chiavi a. Date! Una via una sola un’ultima un’amata lungh’il.

Il dio marino celtico Manannán Mac Lir, che fa una singolare apparizione nella fantasmagoria di Nightown dell’Ulisse, è anche King Lir o Lear, il «mio freddo pazzo padre, il mio freddo pazzo feary», da cui Anna Livia-Cordelia torna nella morte, così come il Liffey sfocia nel mare. Poiché, nella Veglia, Lear rappresenta sia altri tre padri – Earwicker, Joyce e Shakespeare – sia il mare, questo bel passo sulla morte avrebbe potuto essere l’accenno deliberato di Joyce al fatto che lo aspettava un’altra grande opera, un poema epico sul mare. Keats scrisse il suo splendido sonetto Sul mare dopo aver riletto il Re Lear ed essersi imbattuto nelle parole «Ascoltate! Sentite il mare?» (4.6.4.). Possiamo rimpiangere che Joyce non sia vissuto oltre i sessant’anni per scrivere il suo Sul mare, dove il suo incessante agone con Shakespeare avrebbe senza dubbio imboccato un’altra strada, canonica quanto le precedenti.

19. L’ORLANDO DI VIRGINIA WOOLF: IL FEMMINISMO COME AMORE DELLA LETTURA Sainte-Beuve, a mio parere il più interessante dei critici francesi, ci ha insegnato a porre la domanda fondamentale per qualsiasi scrittore in cui leggiamo a fondo: che cosa penserebbe di noi l’autore? Virginia Woolf scrisse cinque romanzi degni di nota – La signora Dalloway (1925), Gita al faro (1927), Orlando (1928), Le onde (1931) e Tra un atto e l’altro (1941) – che hanno molte probabilità di diventare canonici. Oggi è molto nota e viene letta come presunta fondatrice della «critica letteraria femminista», soprattutto per il suo polemico Una stanza tutta per sé (1929) e Le tre ghinee (1938). Non avendo la competenza per giudicare la critica femminista, qui mi concentrerò solo su un elemento della scrittura femminista di Woolf, il suo straordinario amore per la lettura e la sua difesa nei confronti di questa azione. La critica letteraria di Woolf mi sembra molto eterogenea, soprattutto per quanto riguarda i giudizi che la scrittrice esprime sui suoi contemporanei. Considerare l’Ulisse di Joyce come un «disastro» o ritenere che i romanzi di Lawrence non abbiano la «forza definitiva che rende le cose intere di per sé» non è ciò che ci aspettiamo da un critico erudito e percettivo come Woolf. Si potrebbe tuttavia sostenere che sia stata la più completa persona di lettere nell’Inghilterra del XX secolo. I suoi saggi e i suoi romanzi dilatano le fondamentali tradizioni della letteratura inglese in modi che vanno ben al di là di tutte le sue polemiche. La prefazione all’Orlando comincia con l’ammissione di un debito verso Defoe, Sir Thomas Browne, Sterne, Sir Walter Scott, Lord Macaulay, Emily Brontë, De Quincey e Walter Pater, «per citare soltanto i primi che mi vengono in mente». Pater, l’autentico precursore, o il «padre assente» come lo chiama Perry Meisel, avrebbe potuto trovarsi in cima all’elenco, poiché Orlando è senza dubbio la narrazione più pateriana della nostra era. La maniera in cui Woolf si pone di fronte all’esperienza e la rappresenta è pateriana quanto quella di Oscar Wilde e del giovane James Joyce. Vi sono tuttavia anche altre influenze, e quella di Sterne è forse la più decisiva dopo quella di Pater. Solo quest’ultimo sembra aver suscitato una certa ansia in Woolf, che lo cita assai di rado e attribuisce il modello dei suoi «momenti d’essere» non ai «momenti privilegiati» o alle epifanie secolarizzate di Pater, ma, per quanto possa sembrare curioso, a Thomas Hardy o a Joseph Conrad nei suoi istanti più pateriani. Perry Meisel

ha ricostruito i complessi modi con cui le metafore fondamentali di Pater informano di sé la narrativa e i saggi di Woolf, ed è una deliziosa ironia il fatto che molti dei seguaci dichiarati della scrittrice tendano a ripudiare i criteri estetici ai fini del giudizio, mentre Woolf fondava la sua politica femminista sull’estetismo pateriano. Forse vi sono altri importanti scrittori novecenteschi che amavano la lettura quanto Woolf, ma nessuno, dopo Hazlitt e Emerson, espresse questa passione in maniera utile e memorabile quanto lei. Una stanza tutta per sé era indispensabile proprio per leggere e scrivere. Conservo ancora la vecchia edizione Penguin di Una stanza tutta per sé, che acquistai per nove pence nel 1947, e continuo a riflettere sul passo che vi ho evidenziato, un passo che accosta Jane Austen e Shakespeare come una sorta di auspicato precursore composito: E mi chiedevo se questo romanzo [Orgoglio e pregiudizio] sarebbe stato migliore se Jane Austen non avesse ritenuto necessario nascondere il manoscritto ai visitatori. Lessi una pagina o due; ma non riuscii a trovare alcuna indicazione nel senso che questa circostanza avesse minimamente ostacolato il suo lavoro. E questo, forse, è il miracolo più grande. Ecco una donna che, intorno al 1800, scriveva senza odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza predicare. Era così che scriveva Shakespeare, pensavo guardando Antonio e Cleopatra; e quando si paragonano Shakespeare e Jane Austen, forse si vuole dire che la mente di entrambi aveva consumato ogni ostacolo; ed è per questo che non conosciamo Jane Austen e che non conosciamo Shakespeare, ed è per questo che Jane Austen pervade ogni parola da lei scritta; e così Shakespeare. Se qualche circostanza fece soffrire Jane Austen, questa fu solo la ristrettezza della vita che le fu imposta. Una donna non poteva uscire sola. Lei non viaggiò mai; non attraversò mai Londra su un omnibus, né pranzò da sola in un ristorante. Ma forse, per natura, Jane Austen non desiderava ciò che non aveva. Il suo talento e il suo ambiente combaciavano perfettamente. Dubito però che questo sia vero per Charlotte Brontë…

Da questo punto di vista, Woolf era più simile a Austen o a Charlotte Brontë? Leggendo Le tre ghinee con il suo furore profetico contro il patriarcato, è improbabile giungere alla conclusione che la mente di Woolf avesse abbattuto tutti gli ostacoli; ma leggendo Le onde e Tra un atto e l’altro, è possibile concludere che il suo talento e le sue circostanze erano in perfetta corrispondenza. Vi sono dunque due Woolf, una la precorritrice delle nostre attuali menadi critiche, l’altra una romanziera più valida di qualunque donna lavoratrice dopo di lei? Credo di no, sebbene in Una stanza tutta per sé vi siano profonde crepe. Come Pater e Nietzsche, la migliore definizione che si possa dare di Woolf è quella di esteta apocalittica, per cui l’esistenza umana e il mondo sono sostanzialmente giustificati solo come fenomeni estetici. Come qualsiasi scrittore, sia egli Emerson, Nietzsche o Pater, Virginia Woolf si rifiuta di attribuire il suo senso dell’io a condizionamenti storici, benché la storia in questione sia l’infinito sfruttamento delle donne da

parte degli uomini. Per lei, i suoi io sono una creazione come l’Orlando e La signora Dalloway, e qualsiasi attento studioso dei suoi scritti critici si rende conto che Woolf non considera romanzi, poemi o drammi shakespeariani come mistificazioni borghesi o «capitale culturale». La scrittrice, che non era una credente religiosa più di quanto lo fossero Pater o Freud, persegue il suo estetismo fino ai limiti estremi, fino alla negatività di un nichilismo pragmatico e del suicidio. Nutriva tuttavia maggiore interesse per l’avventura del viaggio che per la sua conclusione e riteneva che le cose migliori della vita fossero la lettura, la scrittura e le conversazioni con amici, occupazioni che non erano certo quelle di un fanatico. Avremo mai altre romanziere originali e superbe come Austen, George Eliot e Woolf, o una poetessa straordinaria e intelligente come Dickinson? Più di mezzo secolo dopo la morte di Woolf, quest’ultima non ha rivali tra romanziere o critici di sesso femminile, sebbene queste ultime godano della liberazione da lei profetizzata. Come osserva Woolf, se mai è esistita una sorella di Shakespeare, quella era Austen, che scrisse due secoli fa. Non vi sono condizioni o contesti sociali che incoraggino necessariamente la produzione di grande letteratura, anche se ci occorrerà ancora molto tempo per imparare questa scomoda verità. Come constateremo tra pochi anni, oggi non siamo certo inondati da capolavori istantanei. Nessuna romanziera americana vivente, di qualsiasi razza o ideologia, è paragonabile a Edith Wharton o Willa Cather in termini di eminenza estetica, né ora abbiamo poetesse che si avvicinino a Marianne Moore o Elizabeth Bishop. Semplicemente le arti non sono progressive, come scrisse Hazlitt in un magnifico frammento del 1814, in cui osserva che «il principio del suffragio universale […] non è applicabile in alcun modo a questioni di gusto». Woolf è sorella di Hazlitt quanto a sensibilità, e la sua immensa cultura letteraria ha ben poco da spartire con l’attuale crociata promossa a suo nome. In questo momento è difficile conservare una sorta di equilibrio o senso delle proporzioni scrivendo di Woolf. L’Ulisse di Joyce e Donne innamorate di Lawrence potrebbero sembrare opere di gran lunga superiori persino a Gita al faro e Tra un atto e l’altro, eppure molti odierni sostenitori di Woolf contesterebbero un simile giudizio. Woolf è una romanziera lirica; Le onde è più un poema in prosa che un romanzo, e Orlando raggiunge i suoi momenti migliori dove abbandona in larga misura la narrazione. Woolf – che, secondo l’attendibile testimonianza di Quentin Bell, suo nipote e biografo, non era marxista né femminista – è tuttavia una materialista epicurea, come il suo

precursore Walter Pater. Per lei, la realtà tremola e ondeggia a ogni nuova percezione e sensazione, e le idee sono ombre che contornano i suoi momenti privilegiati. Il suo presunto femminismo (se così vogliamo chiamarlo) è vigoroso e duraturo proprio perché non è tanto un’idea o un gruppo di idee quanto un formidabile insieme di percezioni e sensazioni. Metterle in discussione significa andare incontro a una sconfitta: ciò che la scrittrice percepisce e vive con la sua sensibilità è organizzato in maniera più fine di qualunque considerazione io possa trarne. Travolto dalla sua eloquenza e dalla sua maestria metaforica, mentre leggo non riesco a contestare Le tre ghinee anche quando mi fa trasalire. Nel XX secolo, forse solo Freud rivaleggia con Woolf come stilista di prosa tendenziosa. Una stanza tutta per sé persegue un disegno nei confronti del lettore, proprio come Il disagio della civiltà, ma nessuna consapevolezza del disegno impedirà al lettore di lasciarsi convincere dall’energia polemica di Freud e Woolf. Questi ultimi sono due modelli molto diversi di splendida persuasività: Freud anticipa le obiezioni del lettore, o almeno sembra dar loro risposta, mentre Woolf insinua con forza che il dissenso del lettore nei confronti della sua intensità è dovuto a una mancanza di percezione. Ogni volta che rileggo Una stanza tutta per sé o anche Le tre ghinee, mi chiedo come mai qualcuno possa scambiare questi testi per esempi di «teoria politica», il genere invocato dalle femministe letterarie per cui la polemica di Woolf ha assunto addirittura status scritturale. Forse Woolf ne sarebbe stata gratificata, ma sembra improbabile. Queste opere potrebbero essere classificate così solo dopo una ridefinizione persuasiva della politica, capace di ridurre quest’ultima a «politica accademica»; e Woolf non era un’accademica, né lo sarebbe ora. Non è una teorica politica radicale più di quanto Kafka sia un teologo eretico. L’una e l’altro sono scrittori e non hanno altri interessi. I piaceri che offrono sono piaceri difficili, impossibili da ridurre a giudizi categorici. Sono commosso, se non addirittura intimidito, dalle circumnavigazioni aforistiche di Kafka intorno all’«indistruttibile», ma è la resistenza dell’«indistruttibile» all’interpretazione a diventare ciò che occorre interpretare. Come disse John Burt nel 1982, il principale elemento che richiede un’interpretazione in Una stanza tutta per sé sono le sue «inconciliabili abitudini di pensiero». Burt dimostra che il libro presenta sia una centrale tesi «femminista» – il patriarcato sfrutta le donne sul piano economico e sociale per sorreggere la

sua misera autostima – sia una sottotesi romantica. Quest’ultima ci mostra le donne non come specchi del narcisismo maschile ma, dice la Woolf, come «rinnovamento della forza creativa, che soltanto il sesso opposto ha il dono di offrire». Questo dono, aggiunge, è andato perduto, ma non a causa delle depredazioni del patriarcato. Il cattivo è la Prima guerra mondiale, ma a questo punto che ne è stato della tesi esplicita del libro? Il periodo vittoriano è stato il brutto tempo antico o il buon tempo antico? La conclusione di Burt mi sembra quanto mai pertinente: «Le due tesi di Una stanza tutta per sé sono inconciliabili, e ogni tentativo di conciliarle non può essere più che un esercizio di difesa speciale. Tuttavia, Una stanza tutta per sé non è una tesi, bensì, come dichiara Woolf nelle prime pagine, la descrizione di come una mente tenta di venire a patti con il suo mondo». Woolf viene a patti solo come lo fecero Pater e Nietzsche: il mondo viene riconcepito esteticamente. Se Una stanza tutta per sé è tipica di Woolf, e lo è, allora è un poema in prosa quasi quanto Le onde, e un fantasy utopico quanto l’Orlando. Interpretarlo come «critica culturale» è possibile solo per chi ha rinunciato del tutto a preoccupazioni di carattere estetico o ha riservato la lettura di piacere (un piacere difficile) a un altro tempo e un altro luogo, dove saranno cessate le guerre tra donne e uomini e tra razze, religioni e classi sociali concorrenti. Dal canto suo, Woolf non ha fatto rinunce del genere; come romanziera e critica letteraria, alimentava la sua sensibilità, di cui faceva parte una forte propensione alla commedia. Persino i suoi saggi sono volutamente molto spiritosi, e dunque ancora più efficaci come polemica. Assumere un atteggiamento di gravità nei confronti di Woolf, analizzarla come teorica politica e critica culturale, significa non essere per nulla woolfiani. Evidentemente questo è uno strano periodo per gli studi letterari: in realtà, D.H. Lawrence si rivelò un teorico politico piuttosto stravagante nei saggi di The Crown, nel romanzo messicano Il serpente piumato e nell’australiano Kangaroo, l’ennesimo esempio di narrativa fascista. Nessuno sarebbe disposto a sostituire il Lawrence politico, o l’assai più interessante Lawrence moralista culturale, al romanziere dell’Arcobaleno e di Donne innamorate. Tuttavia, oggi Woolf è più spesso oggetto di discussione come autrice di Una stanza tutta per sé che come autrice della Signora Dalloway e di Gita al faro. La fama di cui gode attualmente l’Orlando è legata quasi solo alle metamorfosi sessuali dell’eroe-eroina e deve ben poco a ciò che più conta nel libro: la comicità, la caratterizzazione, un grande amore per i periodi più

fulgidi della letteratura inglese. Non mi viene in mente nessun altro grande romanziere che incentri tutto sul suo straordinario amore per la lettura come fa Woolf. La sua religione (non sarebbe adatto nessun altro termine) era l’estetismo pateriano: l’adorazione dell’arte. Essendo un tardo accolito di quella fede declinante, sono necessariamente devoto alle opere critiche e narrative di Woolf, e dunque sono disposto a scendere in campo contro le sue seguaci femministe, perché ritengo che abbiano sbagliato profeta. Woolf avrebbe voluto senza dubbio che si battessero per i loro diritti, ma certamente non svalutando l’estetica nella loro empia alleanza con gli pseudomarxisti accademici, i finti filosofi francesi e gli oppositori multiculturali di qualsiasi criterio di valutazione intellettuale. Parlando di una stanza tutta per sé, Woolf non intendeva tuttavia riferirsi a una sua facoltà accademica, bensì a un contesto in cui altri avrebbero potuto emularla scrivendo narrativa degna di Sterne e Austen e critica paragonabile a quella di Hazlitt e Pater. Virginia Woolf, amante della prosa di Sir Thomas Browne, avrebbe sofferto molto di fronte ai manifesti di coloro che asseriscono di scrivere e di insegnare in suo nome. Essendo l’ultima dei grandi esteti, è stata fagocitata da puritani senza scrupoli per cui la bellezza in letteratura è semplicemente l’ennesima versione dell’industria cosmetica. Riguardo a Shelley, il cui spirito ossessiona le sue opere, e soprattutto Le onde, Woolf osserva che «la sua lotta, per quanto intrepida, sembra essere contro mostri che sono un po’ obsoleti e dunque leggermente ridicoli». Il che sembra valere anche per la sua lotta: dove sono i patriarchi edoardiani e georgiani contro cui combatteva? Con l’inizio del nuovo millennio, siamo stati abbandonati dai mostri del patriarcato, sebbene le critiche femministe si sforzino di rievocarli. Tuttavia, come afferma giustamente Woolf, la grandezza di Shelley si impose come «uno stato dell’essere». Il romanziere lirico, come il poeta lirico, resiste oggi come nuovo inventore di certi straordinari momenti dell’essere: «Uno spazio di pura calma, di intensa serenità senza vento». La ricerca di Woolf, volta a raggiungere quello spazio, era più pateriana che shelleyana, non fosse altro perché l’elemento erotico al suo interno era molto ridotto. L’immagine dell’unione eterosessuale non abbandonò mai Shelley, sebbene sia diventata demonica nel suo poema sulla morte, ironicamente intitolato Il trionfo della vita. Woolf è pateriana o tardoromantica, con la pulsione erotica tradotta in larga misura in estetismo

sublimante. Ancora una volta, il suo femminismo non è distinguibile dal suo estetismo; forse dovremmo imparare a parlare del suo «femminismo contemplativo», che in realtà è un atteggiamento metaforico. La libertà di cui va alla ricerca è insieme visionaria e pragmatica e dipende da un Bloomsbury idealizzato, difficilmente traducibile in termini americani contemporanei. Nell’edizione americana della Penguin, in cui lessi per la prima volta l’Orlando nell’autunno del 1946, il risvolto di copertina comincia con queste parole: «Nessuno scrittore è mai nato in un ambiente più propizio». Woolf, come le sue seguaci femministe, non sarebbe stata d’accordo con questo giudizio, che tuttavia è in gran parte veritiero. Il fatto di veder sfilare John Ruskin, Thomas Hardy, George Meredith e Robert Louis Stevenson in casa di suo padre, o di contare i Darwin e gli Strachey tra i suoi parenti, non ritardò certo il suo sviluppo. Benché la sua polemica puntasse in altre direzioni, Virginia Stephen, una donna organizzata in maniera complessa, avrebbe subito crolli ancora più frequenti e completi a Cambridge o a Oxford, e non avrebbe avuto l’istruzione letteraria garantitale dalla biblioteca del padre e da insegnanti capaci come la sorella di Walter Pater. Suo padre, Leslie Stephen, non era l’orco patriarcale dipinto dal suo risentimento, anche se è difficile rendersene conto leggendo molte delle nostre attuali studiose femministe. So che queste ultime seguono Woolf, ai cui occhi Leslie era un egotista egoista e solitario, incapace di superare la consapevolezza di aver fallito come filosofo. Il suo Leslie Stephen è il signor Ramsay di Gita al faro, un ultimo vittoriano che per i suoi figli è più un nonno che un padre. La peculiare diversità di Leslie Stephen rispetto alla figlia ruota tuttavia intorno all’estetismo di lei e all’empirismo e al moralismo di lui, anzi al suo violento ripudio dell’atteggiamento estetico, compreso un virulento odio per Pater, che ne era il grande paladino. Come reazioni al padre, l’estetismo e il femminismo (chiamiamolo ancora una volta così) di Woolf erano così compatti che nessuno sarebbe più riuscito a dividerli. Oggi una prospettiva ironica è probabilmente la migliore da cui osservare come i discepoli di Woolf abbiano convertito la sua cultura puramente letteraria in un Kulturkampf politico. Questa trasformazione non può funzionare, perché la più autentica profezia di Woolf non fu deliberata. Nessun’altra persona di lettere del XX secolo ci dimostra con altrettanta chiarezza che, in mancanza di un’ideologia non screditata, la nostra cultura è destinata a rimanere letteraria. Religione, scienza, filosofia, politica, movimenti sociali: si tratta di uccelli vivi nelle nostre mani oppure di uccelli

morti e impagliati sullo scaffale? Quando i nostri modi concettuali ci abbandonano, torniamo alla letteratura, dove cognizione, percezione e sensazione non possono essere districate del tutto. La fuga dall’estetico è un altro sintomo del proposito inconscio ma deliberato di dimenticare il dilemma della nostra società, la sua tendenza a scivolare verso un’altra Era teologica. Qualunque cosa Woolf possa aver rimosso in questo o in quel momento, non fu mai la sua sensibilità estetica. Il fatto che i libri parlino necessariamente di altri libri e possano rappresentare l’esperienza solo trattandola dapprima come l’ennesimo libro è una verità limitata ma innegabile. Alcune opere aboliscono del tutto la limitazione: il Don Chisciotte ne è un esempio, come anche l’Orlando di Woolf. Il cavaliere dalla triste figura e Orlando sono grandi lettori, e solo in quanto tali sono surrogati di lettori ossessivi come Cervantes e Woolf. Nella storia della vita, Orlando è modellato su Vita Sackville-West, con cui Woolf ebbe una relazione sentimentale per un certo periodo. Sackville-West era tuttavia una grande giardiniera, una pessima scrittrice e non proprio una lettrice geniale, come invece era Woolf. Come aristocratico, come amante, e persino quale scrittore, Orlando è Vita e non Virginia. È come coscienza critica, votata a incontrare la letteratura inglese da Shakespeare a Thomas Hardy, che Orlando è l’insolito lettore comune, l’autore dei propri libri. Tutti i romanzi a partire dal Don Chisciotte riscrivono il capolavoro universale di Cervantes, anche quando ne sono del tutto inconsapevoli. Non ricordo che Woolf menzioni mai Cervantes, ma poco importa: Orlando è Don Chisciotte, e lo era anche Woolf. Il paragone con il Don Chisciotte non è certo favorevole a Orlando; anche un romanzo assai più ambizioso della giocosa lettera d’amore di Woolf a Sackville-West, e altrettanto ben scritto, uscirebbe distrutto dal confronto. Come Falstaff, Don Chisciotte si presta a una meditazione senza fine, cosa che non avviene invece con Orlando. È tuttavia opportuno confrontare Woolf e Cervantes per constatare che entrambi i libri appartengono alla dimensione del gioco di Huizinga, su cui mi sono dilungato parlando del Don Chisciotte. Le ironie dell’Orlando sono donchisciottesche: derivano dalla critica rivolta dalla giocosità organizzata alla realtà sociale e naturale. «Giocosità organizzata», in Woolf e in Cervantes, in Orlando e in Don Chisciotte, è un’altra denominazione dell’arte di leggere bene o, nel caso di Woolf, del «femminismo», se proprio vogliamo chiamarlo così. Orlando è un uomo, o meglio un giovane che diventa donna all’improvviso. È anche un aristocratico elisabettiano che, senza che questa

caratteristica appaia più assurda della sua metamorfosi sessuale, è immortale sul piano pragmatico. Orlando ha sedici anni quando lo conosciamo e trentasei quando la salutiamo, ma quei vent’anni di biografia letteraria coprono oltre tre secoli di storia letteraria. La dimensione del gioco, finché prevale, trionfa sul tempo, e nell’Orlando di Woolf persiste senza fatica, il che spiega forse perché l’unico difetto del libro è il fine troppo lieto. In Orlando, l’amore è sempre amore della lettura, anche quando si maschera da amore per una donna o per un uomo. Quando il ragazzo Orlando viene raffigurato nel suo ruolo primario, quello di lettore, coincide con la ragazza Virginia: Il gusto per i libri gli era venuto presto. Più volte, da bambino, un paggio l’aveva trovato, a mezzanotte suonata, ancora immerso nella lettura. Gli portavano via la candela e lui rimediava allevando lucciole. Gli portavano via le lucciole, e lui per poco non mandava a fuoco la casa con un acciarino. Per farla breve, lasciando al romanziere il compito di spianare le pieghe della seta e le sue implicazioni, diciamo che era un aristocratico malato d’amore per la letteratura.

Orlando, come Woolf (e a differenza di Vita Sackville-West), è una di quelle persone che sostituiscono una realtà erotica con un fantasma. Le sue grandi passioni per l’improbabile principessa russa, Sasha, e per l’ancora più assurdo capitano di mare, Marmaduke Bonthrop Shelmerdine, vengono interpretate al meglio come proiezioni solipsistiche: in realtà, in Orlando vi è un unico personaggio. L’amore per la lettura era insieme l’autentica pulsione erotica e la teologia laica di Virginia Woolf. Per quanto il libro sia bello, in Orlando nulla uguaglia l’ultimo capoverso di How Should One Read a Book, l’ultimo saggio contenuto in The Second Common Reader. Ma chi legge per provocare una fine, per quanto desiderabile? Non esistono forse attività cui ci dedichiamo perché sono buone in sé, e piaceri che sono definitivi? E questo non è forse tra loro? A volte ho sognato, almeno, che quando arriverà il Giorno del giudizio e i grandi conquistatori, avvocati e statisti andranno a ricevere la loro ricompensa – le loro corone, i loro lauri, i loro nomi incisi indelebilmente su marmo imperituro – l’Onnipotente si volterà verso Pietro e dirà, non senza una punta d’invidia al vederci arrivare con i libri sotto il braccio: «Guarda, quelli non hanno bisogno di ricompense. Qui non abbiamo nulla da dare loro. Hanno amato la lettura».

Le prime tre frasi sono il mio credo sin da quando le ho lette da bambino, e ora le ripeto a me stesso e a tutti coloro che possono ancora esserne attratti. Non precludono la lettura per ottenere il potere, su se stessi o sugli altri, ma solo mediante un piacere definitivo, un piacere difficile e autentico. L’innocenza di Woolf, come quella di Blake, è un’innocenza organizzata, e il suo senso della lettura non è il mito innocente della lettura, bensì l’indifferenza che Shakespeare insegna ai suoi lettori più profondi, compresa Woolf. Nelle parabole di Woolf, il cielo non concede ricompensa che uguagli la felicità del lettore comune o di quello che il dottor Johnson chiamava il

buon senso dei lettori. Dopo tutto, per la canonicità non esiste altro banco di prova all’infuori del supremo piacere shakespeariano dell’indifferenza, l’atteggiamento di Amleto nell’atto quinto e dello stesso Shakespeare nei momenti supremi dei suoi sonetti. Woolf scrisse opere più belle di Orlando, ma nessuna è più centrale di questo inno erotico al piacere della lettura indifferente. La favola della doppia sessualità è una componente intrinseca di quel piacere, sia in Woolf e Shakespeare sia nel padre critico della scrittrice, Walter Pater. L’ansia sessuale blocca il profondo piacere della lettura e, per Woolf, l’ansia sessuale non era mai molto lontana nemmeno dal suo amore per Sackville-West. Si avverte che per Woolf, come per Walt Whitman, l’omoerotismo, seppur nella sua variante naturale, era in larga misura intralciato dall’intensità solipsistica. Woolf avrebbe potuto dire con Whitman che «toccare con la mia persona quella di qualcun altro è quasi il massimo che riesco a sopportare». Non crediamo alle estasi di Orlando nei confronto di Sasha o del capitano, ma siamo convinti della sua passione per Shakespeare, per Alexander Pope e per la possibilità di una nuova opera letteraria. Forse l’Orlando è davvero la più lunga lettera d’amore mai redatta, ma è scritta da Woolf a se stessa. Implicitamente, il libro celebra la forza soprannaturale di Woolf come lettrice e scrittrice. Una sana autostima, ben meritata dall’autrice, trova un’accurata esternazione nel più esuberante dei suoi romanzi. Orlando è uno snob? Nel linguaggio corrente, si tratterebbe di un «elitista culturale», ma Woolf scrisse un candido saggio intitolato Am I a Snob?, che lesse davanti al Memoir Club, una riunione del gruppo di Bloomsbury, nel 1920: un testo autoironico che respinge l’accusa, pur contenendo una bella frase che caratterizza gli Stephen: «Una famiglia intellettuale, di nobilissimi natali in senso libresco». La famiglia di Orlando non è certo intellettuale, ma possono esistere poche descrizioni di Orlando più illuminanti di «nobili natali in senso libresco». Il senso libresco è il libro. Nell’Orlando non occorre cercare una trama secondaria, e in questa parodia non è nascosto alcun rapporto tra madre e figlia. Né Orlando ama leggere in maniera diversa dopo essere diventato donna. L’estetismo dell’Orlando femminile diviene meravigliosamente aggressivo e post-cristiano: «Dunque la missione del poeta è la più alta di tutte, continuò. Le sue parole giungono dove le altre non sono udite. Una qualunque canzoncina di Shakespeare ha fatto di più per i poveri e i malvagi, di tutti i predicatori e filantropi del mondo». Per quanto possa essere discutibile quest’ultima frase, Woolf si cela

dietro di essa con la sua passione e il suo umorismo. Che cosa succederebbe se la modificassimo leggermente affinché sia adatta al momento attuale? «Una qualunque canzoncina di Shakespeare ha fatto di più per i poveri e i malvagi, di tutti i marxisti e le femministe del mondo.» L’Orlando non è una polemica, bensì una celebrazione che il declino culturale ha trasformato in elegia. È una difesa della poesia, «mezzo ironica, mezzo seria», come scrive Woolf nel suo diario. Lo scherzo che dura troppo a lungo è un genere a sé, che non ha mai avuto un maestro capace di reggere il confronto con Cervantes (neppure Sterne, che tuttavia è una presenza concreta nei romanzi di Woolf). Don Chisciotte è più vasto di Orlando, ma persino il cavaliere dalla triste figura si allontana da Cervantes, come forse Falstaff si allontanò da Shakespeare, e come Orlando, ad eccezione della debole conclusione del libro, si allontana da Woolf. Né Vita né Virginia, Orlando diviene la personificazione dell’atteggiamento estetico, di ciò che significa, per il lettore, essere innamorato della letteratura. Una passione che può spesso sembrare bizzarra o arcaica, e l’Orlando sopravvivrà come suo monumento, una sopravvivenza che era nelle intenzioni di Woolf: «È una faccenda difficile, il calcolo del tempo; nulla lo disturba più facilmente quanto il contatto con un’arte qualsiasi; e può darsi che fosse colpa del suo amore per la poesia che Orlando perse la lista degli acquisti». Come in Sterne, il calcolo del tempo è antitetico all’immaginazione, e alla fine del libro nessuno non pretende che domandiamo: Orlando morirà mai? In questo romanzo beffardo, in questa vacanza dalla realtà, tutto è sciamanistico, e la coscienza centrale esemplifica una poesia senza morte. Ma di cosa si tratta? Il libro definisce acutamente la poesia come una voce che risponde a una voce, ma Woolf evita di sottolineare che la seconda voce è quella dei morti. Decisa, per una volta, ad assecondare se stessa come scrittrice, Woolf elimina ogni possibilità di ansia dalla sua storia. Tuttavia, non sa come possa esserci poesia senza angoscia, e non lo sappiamo neppure noi. Shakespeare è presente dall’inizio alla fine dell’Orlando, e ci chiediamo come possa esserci senza che sia stato inserito nel romanzo alcunché di problematico, qualcosa cui opporre resistenza come a un’autorità, poiché nel libro si mette in discussione e si schernisce ogni tipo di autorità ad eccezione della varietà letteraria. L’ansia di Woolf riguardo all’autorità poetica di Shakespeare viene trattata con ingegnosità in Tra un atto e l’altro, ma evitata nell’Orlando. L’evasività appartiene tuttavia a quello che ho chiamato lo sciamanismo del romanzo e opera, come quasi ogni cosa in questo testamento alla religione

della poesia, per esaltare la sensazione e la percezione al di sopra di tutto il resto. L’elemento bizzarro di Woolf, la singolarità duratura della sua migliore narrativa, è solo l’ennesimo esempio della qualità letteraria più canonica e sorprendente. Orlando è diverso da Woolf nel senso che trascende la ricerca della gloria letteraria, ma una vacanza è una vacanza, e Woolf era instancabile nel suo tentativo di unirsi a Sterne e a Hazlitt, alla Austen e al paradigma nascosto, Pater. Il suo estetismo è il suo centro, raffigurato con la massima ricchezza in Una stanza tutta per sé come un’affermazione shakespeariana secondo cui l’arte è natura: «La natura, col suo fare del tutto irrazionale, ha tracciato con l’inchiostro invisibile, sulle pareti della mente, una premonizione che questi grandi artisti confermano; uno schizzo che basta solo avvicinare al fuoco del genio perché diventi visibile». La personalità, per Woolf come per Pater, è la suprema fusione di arte e natura, e supera di gran lunga la società come determinazione normativa della vita e dell’opera dello scrittore. Al termine di Gita al faro, la pittrice Lily Briscoe, un surrogato di Woolf, guarda la tela, la trova confusa e «con improvvisa intensità, come se per un istante lo vedesse con chiarezza, tracciò una linea al centro. Era finito; era completo. Sì, pensò, posando il pennello con estrema fatica, ho avuto la mia visione». Forse arriverà un altro periodo in cui tutti giudicheremo arcaiche e superate le nostre attuali posizioni politiche, e in cui la visione di Woolf verrà compresa per quello che era davvero: l’estasi del momento privilegiato. Come sarebbe strano oggi se parlassimo della «politica di Walter Pater». In quell’epoca sembrerà strano parlare della politica, anziché dell’agone letterario, di Virginia Woolf.

20. KAFKA: LA PAZIENZA CANONICA E L’«INDISTRUTTIBILITÀ» Se voleste scegliere lo scrittore più rappresentativo del XX secolo, vi ritrovereste a vagabondare senza speranza tra legioni di spodestati. Probabilmente vi sarà un XXII secolo, e i lettori – ammesso che siano lettori nel nostro senso – sceglieranno il nostro Dante (Kafka?) e il nostro Montaigne (Freud?). In questo libro ho scelto nove autori moderni: Freud, Proust, Joyce, Kafka, Virginia Woolf, Neruda, Beckett, Borges e Pessoa. Non voglio dire che siano i migliori del Novecento; sono qui per rappresentare tutti gli altri per cui si potrebbe razionalmente affermare uno status canonico. Ad eccezione di Neruda e Pessoa, nel presente volume non compaiono i poeti dell’epoca: Yeats, Rilke, Valéry, Trakl, Stevens, Eliot, Montale, Mandelstam, Lorca, Vallejo, Hart Crane e tanti altri. Io preferirei leggere poesie piuttosto che romanzi o drammi, ma sembra evidente che persino Yeats, Rilke e Stevens sono meno rappresentativi dell’epoca rispetto a Proust, Joyce e Kafka. W.H. Auden vedeva in Kafka lo spirito peculiare del nostro tempo. È indubbio che l’aggettivo «kafkiano» ha assunto un significato misterioso per molti di noi; forse è divenuto un termine universale per designare ciò che Freud chiamava «l’arcano», qualcosa di assolutamente familiare ed estraneo al tempo stesso. Da una pura prospettiva letteraria, questa è l’epoca di Kafka, ancor più di quanto sia l’epoca di Freud, che, seguendo Shakespeare con astuzia, ci fornì la mappa della mente; Kafka ci insegna che non potremo sperare di usarla per salvarci, nemmeno da noi stessi. Per dimostrare la posizione centrale di Kafka nel Canone del XX secolo, bisogna spaziare ampiamente nei suoi scritti, perché nessun genere particolare fra quelli in cui si cimentò ne contiene l’essenza. Kafka è un grande aforista ma non un narratore puro, se non in frammenti e nei brevissimi racconti che chiamiamo parabole. Le sue storie più lunghe – America, Il processo e persino Il castello – sono migliori in alcune parti che come opere complete; e i suoi racconti più lunghi, persino La metamorfosi, iniziano meglio di quanto tendano a concludersi. Oltre agli aforismi e alle parabole, i prodotti più vigorosi della fantasia di Kafka sono brevi racconti o frammenti, alcuni straordinariamente compiuti come Il cavaliere del secchio, Un medico di campagna, Il cacciatore Gracchus e Durante la costruzione della Muraglia cinese. I suoi diari sono preferibili alle lettere, comprese quelle a Milena Jesenka, poiché possono essere esistiti pochi amanti più

catastrofici di Franz Kafka, persino nella finzione del suo discepolo Philip Roth. Freud, una volta liquidato da Kafka come «il Rashi delle angosce ebraiche contemporanee», avrebbe avuto una rara vendetta se avesse letto e analizzato le lettere d’amore di Kafka, probabilmente le più angosciose che siano mai state scritte. Per conoscere il profondo io del genio letterario canonico della nostra epoca, è necessario assorbirlo dove spera di essere più obiettivo e impersonale, per quanto sia vana questa speranza. Conoscere l’io più profondo anziché la psiche frammentata era lo stile, altamente individuale, della negatività di Kafka, appropriata a uno scrittore tra i cui motti rientravano: «Per l’ultima volta psicologia!» e «La psicologia è impazienza». L’impazienza, insisteva, era l’unico peccato grave, che abbracciava tutti gli altri. Tuttavia, non riesco mai a leggere Kafka senza ripensare al mio apoftegma preferito: «Dormi in fretta! Ci servono i cuscini», l’essenza dell’impazienza ebraica. Yahweh non è un dio paziente, almeno secondo l’autore del Libro di j, e forse Kafka, un neocabalista autodichiarato, si impose come ricerca teurgica segreta il proposito di trasformare il Dio degli ebrei in una persona più paziente. Le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch, che meritano scarso credito nonostante la loro persuasiva capacità di cogliere le inflessioni rintracciabili anche negli scritti di Kafka, dimostrano quello che alcuni definiscono lo gnosticismo ebraico di Kafka, evidente anche in Gershom Scholem e in Walter Benjamin, entrambi profondamente influenzati da Kafka. Quello gnosticismo, come qualsiasi altro, è impaziente nei confronti del tempo, ma nei suoi scritti e nelle sue conversazioni Kafka non mancava mai di raccomandare la pazienza prima di tutto. I paradossi sono ciò che i lettori si aspettano da Kafka, ma uno gnosticismo paziente è più di un paradosso. La gnosi è, per definizione, una conoscenza senza tempo, sia dell’io dentro l’io sia del dio alieno la cui scintilla rimane nell’io più intimo. La pazienza può essere il sentiero pragmatico verso la gnosi, come evidentemente era per Kafka, ma ha poco a che fare con la brusca negatività di qualsiasi gnosticismo. Esiste un indizio per risolvere questo dilemma; non fu la pazienza, la via di Kafka verso la conoscenza, a condurlo alle sue negazioni dualistiche o alla sua nuova Cabala. Anche se tendiamo a correlare o ad affiancare gnosi e gnosticismo, Kafka li teneva divisi, chiamando la prima «pazienza» e il secondo «il negativo». La gnosi è infinitamente lenta, lo gnosticismo è di una rapidità stupefacente, perché ammette un dualismo che Kafka scorge nel cuore di ogni

cosa e di ogni persona. La «pazienza» kafkiana scopre qualcosa di assai diverso: «Non occorre che esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, restatene tutto solo e in silenzio. Il mondo verrà da te a farsi smascherare, non può farne a meno, si voltolerà estatico ai tuoi piedi». «Il mondo non dev’essere privato della sua vittoria», mentre Kafka non cerca nessuna vittoria per sé. Tuttavia, non conosce la sconfitta, «poiché nulla è ancora accaduto». Se siete convinti che nulla sia ancora accaduto, non potete essere più lontani dalla tradizione ebraica. La memoria ebraica assomiglia alla rimozione freudiana: ogni cosa è già accaduta, e non può mai esservi nulla di nuovo. Nonostante il suo orrore per il proprio romanzo familiare, Kafka decise di scrivere come se «nulla fosse ancora accaduto». Per gli ebrei, l’avvenimento primario era l’Alleanza di Abramo e, per Kafka, Abramo è una figura di cui diffidare. Forse il ruolo di Abramo come eroe di Timore e tremore di Kierkegaard, indusse Kafka alle sue riflessioni negative, senza dubbio antitetiche alla tradizione giudaica e cristiana: Ma prendete un altro Abramo. Uno che voleva compiere il sacrificio proprio nel modo giusto e in generale aveva un’idea precisa dell’intera faccenda, ma non riusciva a credere che fosse lui il designato, lui, un brutto vecchio, e quel sudicio giovinastro che era suo figlio. In lui non manca vera fede, questa fede lui ce l’ha; vorrebbero compiere il sacrificio nel giusto spirito, se solo potesse credere di essere lui il designato. Ha paura che, una volta uscito quale Abramo con suo figlio, strada facendo si trasformerebbe in Don Chisciotte.

In alcuni modi oscuri, questo Abramo è il precursore donchisciottesco di Kafka. In termini di influenza letteraria, Goethe era l’Abramo da cui Kafka si ritraeva; in termini spirituali, la Legge o ebraismo positivo si incarnava in Abramo. Kafka, abbandonando la Legge per il suo Negativo, abbandonò anche un Abramo che aveva frainteso il mondo: Abramo cade vittima della seguente illusione: non riesce a sopportare l’uniformità di questo mondo. Ora, il mondo è però noto per essere straordinariamente vario, cosa che si può verificare in ogni momento prendendo una manciata di mondo e osservandola attentamente. Sicché, questa lamentela dell’uniformità del mondo è in realtà una lamentela per non essere stato mischiato abbastanza profondamente con la diversità del mondo.

Kafka era un ironista troppo intelligente per credere che la sua arte o la sua vita si amalgamassero abbastanza bene con la diversità del mondo. La sua ribellione sardonica a Abramo è una protesta contro il proprio io e le sue evasioni, comprese quelle dell’ebraismo e della principale tradizione letteraria di lingua tedesca, da Goethe in avanti. Il termine usato da Kafka per evasione era «pazienza», un tropo o una metafora preparatoria alla pratica della sua arte di scrittore. Quell’arte, più della produzione di qualsiasi altro autore dalle capacità analoghe, esiste in tensione dialettica con la possibilità

del commento. Joyce è all’estremo opposto: accoglie volentieri l’interpretazione e tenta premurosamente di guidarla. Beckett – che ebbe la temerarietà e il genio di unire Joyce, Proust e Kafka – assomiglia più a Kafka che a Joyce o a Proust in questa relazione con il commento; ma, per l’autore di Murphy, Molloy e Watt, Kafka era meno un’ombra di quanto lo fossero Joyce e Proust. La critica viene sconfitta da Kafka ogni volta che cade nella trappola invariabilmente preparata dallo scrittore per l’interpretazione diretta: la trappola della sua bizzarra evasione dell’interpretabilità. Nel suo genere di ironia, qualsiasi figura è e non è ciò che potrebbe sembrare. Per esempio, nel racconto maturo Indagini di un cane – che raggiunge un culmine straordinario quando un bel cane da caccia si manifesta al narratore, un povero cane steso a terra e intriso di sangue e vomito – non riusciamo a stabilire con esattezza chi sia il cane da caccia o che cosa rappresenti. Almeno un illustre commentatore di Kafka ha avuto l’audacia di affermare che il bel cane è Dio, ma, come tutte le identificazioni critiche del divino che si intrufolano nella produzione di Kafka, questa è la vittima di un’altra ironia kafkiana. Si può senz’altro affermare che non vi sono indicazioni, né tanto meno rappresentazioni, della divinità nei racconti e nei romanzi di Kafka. Vi sono molti demoni mascherati da angeli e da dei, e vi sono animali enigmatici (e concetti simili ad animali), ma Dio è sempre altrove, giù nell’abisso, oppure addormentato, o forse morto. Kafka, uno scrittore di genio quasi ineguagliabile, è un autore di romance e non uno scrittore religioso. Non è neppure lo gnostico o il cabalista ebraico delle fantasie di Scholem e Benjamin, perché non ha speranza, almeno non per se stesso e per noi. Tutto ciò che in Kafka sembra trascendente è, in realtà, una beffa, ma di tipo misterioso; si tratta di una beffa che emana da una grande dolcezza spirituale. Pur adorando Flaubert, Kafka era dotato di una sensibilità assai più delicata di quella del creatore di Emma Bovary. Tuttavia, le sue storie, brevi e lunghe, sono quasi sempre caustiche negli eventi, nelle tonalità e nelle situazioni. Accadrà qualcosa di spaventoso. L’essenza di Kafka può trovare espressione in molti passi, e uno di questi è la sua più celebre lettera alla straordinaria Milena. Le missive di Kafka, spesso tormentate, sono tra le più eloquenti del XX secolo. È già da tanto tempo che non Le scrivo, signora Milena, e anche oggi Le scrivo soltanto per caso. Veramente non dovrei neanche scusarmi se non scrivo. Lei sa come odio le lettere. Tutta l’infelicità della mia vita – e con ciò non voglio lagnarmi, ma soltanto fare una constatazione universalmente istruttiva – proviene, se vogliamo, dalle lettere o dalla possibilità di scrivere lettere. Gli uomini non mi

hanno forse mai ingannato, le lettere invece sempre, e precisamente non quelle altrui, ma le mie. Nel caso mio si tratta di una disgrazia particolare, della quale non voglio dire altro, ma nello stesso tempo anche di una disgrazia generale. La facilità di scriver lettere – considerata puramente in teoria – deve aver portato nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime. È infatti un contatto con fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove l’una conferma l’altra e ad essa può appellarsi per testimonianza. Come sarà mai nata l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro attraverso le lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane. Scrivere lettere però significa denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto. Con così abbondante alimento questi si moltiplicano in modo inaudito. L’umanità lo sente e li combatte; per cercar di eliminare l’azione dei fantasmi tra uomo e uomo e per raggiungere il contatto naturale, la pace delle anime, essa ha inventato la ferrovia, l’automobile, l’aeroplano, ma ciò non serve più, sono evidentemente invenzioni fatte già durante il crollo; la parte avversa è molto più calma e più forte, anche se l’umanità dopo la posta ha inventato il telegrafo, il telefono, il telegrafo senza fili. Gli spiriti non moriranno di fame, ma noi periremo.

È difficile immaginare frasi più eloquenti di «Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto» o «Gli spiriti non moriranno di fame, ma noi periremo». L’atteggiamento di Kafka verso il proprio ebraismo è forse il più grande tra i suoi paradossi. Nelle lettere a Milena vi sono tristi tracce di odio verso se stesso, ma sembrano abbastanza giustificabili, e nel peggiore dei casi sono irritanti superficiali. In modi infinitamente complessi, quasi ogni scritto di Kafka si incentra sul suo rapporto con gli ebrei e le tradizioni ebraiche. Bisognerebbe cominciare con alcuni chiari riconoscimenti di questo fatto, non fosse altro perché molto spesso quest’ultimo viene trascurato. Kafka, dotato di una sensibilità religiosa di raro genio, non credeva in Dio, neppure nel Dio infinitamente remoto degli gnostici. Condivideva questo scetticismo con Freud, Woolf, Joyce, Beckett, Proust, Borges, Pessoa e Neruda – le altre figure canoniche che ho scelto per la nostra epoca –, ma nessuno troverebbe negli altri otto qualcosa di simile agli interessi spirituali di Kafka, neppure in Beckett, su cui lo scrittore esercitò una profonda influenza. Heine, il principale scrittore ebraico in tedesco prima di Kafka, diceva che Dio si chiamava Aristofane, un’affermazione sfruttata in modo ammirevole da Philip Roth in Operazione Shylock. Heine era un credente tormentato; Kafka, un agnostico, non attribuiva alcun nome a Dio, ma se i servitori del Tribunale e del Castello di Kafka hanno un dio, tanto vale che sia Aristofane. Kafka parla per e a numerosi lettori, gentili ed ebrei, che si allontanano da Freud rifiutandosi di considerare la religione come un’illusione, ma che ammettono, con Kafka, di essere nati troppo tardi per affermare la validità delle tradizioni cristiane o ebraiche. Kafka non sapeva se fosse una fine o un

principio, e non lo sappiamo nemmeno noi. Ritchie Robertson, uno degli studiosi kafkiani più informati, rileva con acume che per l’autore del Castello «le immagini della religione sono valide come espressione dell’impulso religioso, ma fuorvianti come interpretazione di quell’impulso». Poiché Kafka evita di interpretare l’impulso e si rifiuta di sancire qualsiasi interpretazione ricevuta, il lettore viene lasciato alle rappresentazioni kafkiane dell’impulso, che talvolta seguono immagini familiari e talvolta le abbandonano. Ciò rende abbastanza importante capire con esattezza quale fosse l’atteggiamento di Kafka, nella misura in cui quest’ultimo ci permette di farlo. Concordo con Robertson sul punto di partenza: i testi fondamentali sono gli aforismi scritti nel 1917-18. Nietzsche, un aforista abile quanto Emerson, Kierkegaard e Kafka, denuncia l’abitudine di fare affidamento sulla scrittura aforistica definendola una sorta di decadenza. Forse l’opera più possente di Nietzsche è La genealogia della morale, tre saggi ben argomentati che però traggono gran parte della loro forza dagli aforismi, mentre la rapsodica finzione di Così parlò Zarathustra è ora illeggibile. Il resto di Nietzsche è aforisma, e possiamo considerarla una fortuna. Kafka è un incrocio molto originale tra un aforista e un narratore di parabole, stranamente affine a Wittgenstein e anche a Schopenhauer e Nietzsche. Dietro tutti e tre vi è Goethe nel suo ruolo di scrittore di saggezza, con l’aristofanico Heine che aggiunge una nota di scetticismo ebraico, poi trasmessosi a Kafka. Quest’ultimo non va tuttavia giudicato qualcosa di ebreo, a prescindere dal fatto che si pensi a uno scettico, a uno gnostico o a un eretico. Kafka è, come disse egli stesso, una fine ebraica o un principio ebraico, e forse entrambi. Nonostante tutte le sue negazioni e le sue belle evasioni, Kafka è semplicemente la scrittura ebraica, persino più di Freud. Un tempo pensavo che ciò dipendesse dalla forza dell’usurpazione: Kafka e Freud intenti a ridefinire la scrittura ebraica mediante le loro forze rivali, perché, in retrospettiva, per noi sono divenuti entrambi scrittura ebraica. Questa idea, sebbene esemplifichi i capricci del canonico, sottovaluta tuttavia le incessanti preoccupazioni ebraiche di Freud e di Kafka, divenuti entrambi Rashi delle angosce ebraiche contemporanee. La negazione freudiana e kafkiana, come ho scritto in precedenza, è molto diversa dalla negazione hegeliana, perché accetta la supremazia del fatto. La filosofia idealista, per quanto dialettica, non è adatta al rispetto ebraico per il letterale. Nonostante la forza della sua fantasia, Kafka è empirico quanto Freud o Beckett. La condizione ebraica di

marginalità denunciata è molto vicina a quasi tutta la produzione kafkiana; emerge in Durante la costruzione della Muraglia cinese, che potrebbe anche intitolarsi La torre di Babele, ed emerge dove meno ce l’aspettiamo, nelle favole sugli animali. Vi è qualcosa di fondamentalmente ebraico nella o attorno all’innegabile autorità spirituale di Kafka? Sono d’accordo con Ritchie Robertson nel ritenere che il centro spirituale di Kafka è il suo concetto di «indistruttibilità», sebbene io lo trovi più bizzarro e meno nello spirito dell’epoca di quanto faccia Robertson. Ecco un centone dei principali aforismi riguardanti l’«indistruttibile»: Credere significa liberare in se stessi l’indistruttibile, o meglio: liberarsi, o meglio ancora: essere indistruttibili, o meglio ancora: essere. L’uomo non può vivere senza una perenne fiducia in qualcosa d’indistruttibile in lui, la qual cosa non esclude che, sia tale fiducia, sia quell’elemento indistruttibile, gli possano restare perennemente nascosti. Uno dei modi coi quali può esprimersi questo nascondimento è la fede in un Dio personale. L’indistruttibile è unico. Ogni singolo uomo lo è e nel medesimo tempo esso è comune a tutti. Ecco l’origine dell’incomparabile, inscindibile unione che lega gli uomini. Se ciò che si dice sia stato distrutto nel paradiso terrestre era distruttibile, non si trattava certo dell’essenziale; ma se era indistruttibile, noi viviamo in una fede errata.

Credere è essere, perché qualcosa nell’essere più profondo non può venire distrutto. Ma fede è una ridondanza, perché un dio personale è solo una metafora per il proprio senso di indistruttibilità, un senso che ci unifica nostro malgrado. Non siamo caduti e non abbiamo perduto un’immortalità pragmatica, poiché, nel nostro essere essenziale, rimaniamo indistruttibili. Questa è forse solo l’ennesima esaltazione della volontà di vivere di Schopenhauer come la cosa in sé, simile all’Eros di Freud, oppure Kafka vuole arrivare a qualcosa di più specificamente sottile ed evasivo? Robertson, esaminando il rapporto piuttosto verboso di Kafka con la Cabala, trova nel seguente aforisma una versione del tikkun di Isaac Luria, la ricostruzione dei vasi infranti del nostro essere: «Esiste soltanto un mondo spirituale; quello che chiamiamo il mondo dei sensi non è che il male nel mondo dello spirito e ciò che definiamo cattivo non è che la necessità di un breve istante nel corso della nostra eterna evoluzione». Queste parole si situano a metà strada fra la Cabala lurianica e il grande mistico vitalistico tedesco, Meister Eckhart. A stupirmi è la sorpresa che suscitano in me tutti i grandi aforismi degli Otto quaderni in ottavo: come fa Kafka, tra tutti i meditatori spirituali, ad apparire così speranzoso? La risposta ovvia che è non è affatto speranzoso; come disse una volta a Max Brod, vi è molta speranza per Dio, ma non per noi. La speranza appartiene alla

coscienza, che è distruttibile, non all’essere indistruttibile. Non si possono narrare storie sull’essere, per quanto brevi, neppure se si è il conte Lev Tolstoj, che si avvicinò molto a quell’obiettivo in Chadzˇi-Murat, dove il protagonista fonde quasi il proprio essere e la propria coscienza. Se abbiamo adottato Kafka come scrittore più canonico del XX secolo, l’abbiamo fatto perché tutti quanti incarniamo la spaccatura tra essere e coscienza che è il suo vero oggetto, un oggetto che Kafka identificava con l’essere ebreo, o almeno con l’essere un ebreo particolarmente esilico. Quando la medesima spaccatura compare in Beckett, sentiamo che la sua profonda radice è più cartesiana che freudiana, come sembra essere in Kafka. Il dualismo ebraico è una sorta di ossimoro, se per «ebraico» intendiamo il giudaismo o la tradizione normativa che ne è permeata, e che continua a pulsare, seppur a tratti, in Freud e Kafka. Il primo non conosce certo alcun «indistruttibile» dentro di noi; alla fine, in lui la volontà di vivere vacilla. Tuttavia, come Nietzsche e di Kafka, Freud ritiene che un io recondito possa essere rafforzato, che Eros possa essere fortificato contro la pulsione della morte. La coscienza, per Freud, è falsa ed erroneamente speranzosa come in Nietzsche e Kafka. Sebbene Freud rifiuti il concetto mistico di essere (lo liquida chiamandolo «sentimento oceanico»), lo sostituisce in modo nobile e disperato con la sua benevola autorità e ci offre una cura per la falsa coscienza. Kafka rifiuta qualsiasi autorità (compresa quella di Freud) e non offre a se stesso, o a noi, alcun tipo di cura. Parla tuttavia a favore dell’essere, dell’indistruttibile, in termini che con molta probabilità sono puramente ebraici, una negazione ebraica: Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. Con questa – che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa – ho affrontato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare. Non ho ereditato alcuna parte, invece, dello scarso patrimonio positivo del mio tempo, o di quelle punte così esasperatamente negative da convertirsi addirittura in positive. Non sono stato condotto nella vita dalla mano del Cristianesimo, peraltro già pesantemente in declino, come Kierkegaard, né ho potuto ancora afferrare, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello di preghiera ebraico che già volava via. Io sono fine o principio.

«Quelle punte così esasperatamente negative da convertirsi addirittura in positive» dev’essere una vera e propria teologia negativa, sia essa gnostica, cristiana o cabalistica eretica (come in Nathan di Gaza, il profeta del falso messia, Sabbatei Zevi). Il negativo di Kafka è più impercettibile e più sfumato, come si addice allo spirito dell’epoca. Per coglierne insieme i contorni e l’aura traumatica, possiamo rintracciarlo in uno dei suoi capolavori, il breve racconto intitolato Un medico di campagna (1917). Il

tono brusco questa storia narrata in prima persona è stupefacente; viene per lo più raccontata al presente, anche se l’inizio suggerisce un aneddoto del passato. Il medico di campagna, costretto a recarsi con urgenza da un malato grave a una quindicina di chilometri di distanza sotto una violenta nevicata, non ha un cavallo, o almeno così crede. La porta di un porcile abbandonato sulla sua proprietà si apre misteriosamente, rivelando uno stalliere dall’aspetto animalesco e due magnifici cavalli robusti. Lo stalliere, ancor prima di attaccarli al carro del dottore, si avventa con furia su Rosa, la domestica del protagonista, mordendola forte sulla guancia. Il medico viene trascinato via, quasi senza volerlo, dagli enormi cavalli, e lo stalliere sfonda l’uscio della casa per continuare lo stupro della cameriera terrorizzata, il cui nome ricorrerà come descrizione della ferita con cui il medico si troverà ben presto alle prese, ma che non può sperare di guarire. Il paziente, un giovane contadino, non è meno strano e spiacevole della sua ferita. L’irrealtà è ovunque; i contadini spogliano il medico, gli cantano una serie di minacce e lo depongono nudo sul letto del ragazzo. Rimasto solo con il suo paziente, il dottore, dopo essere stato minacciato anche dal giovane, fugge in groppa a uno dei cavalli, mentre l’altro animale e la carrozza lo seguono, e i suoi vestiti gli volano dietro, ma con una terribile lentezza in confronto alla velocità soprannaturale del viaggio: In questo modo non arriverò mai a casa; la mia fiorente attività è perduta; un successore mi deruba, ma senza cavarne vantaggio, poiché non è capace di rimpiazzarmi; in casa mia imperversa l’obbrobrioso stalliere; Rosa è sua vittima; ma non voglio più pensarci. Nudo, esposto al gelo di questa stagione sventuratissima, con una carrozza terrestre, ma con cavalli non terrestri, mi trascino di qua e di là come un vecchio. La mia pelliccia penzola giù dalla carrozza, io non riesco a raggiungerla, e nessuno di quelle canaglie ambulanti dei miei pazienti muove un dito. Sono stato gabbato! gabbato! Quando si è dato retta al suono fallace del campanello notturno… non ci si può mai fare più nulla.

Il medico di campagna finisce, come altri protagonisti kafkiani – il cavaliere del secchio, il cacciatore Gracchus, e soprattutto K. l’agrimensore – né vivo né morto, né in vero movimento verso una meta né in condizione di stasi. Le aspettative – le loro e le nostre – vengono frustrate dal letterale, dalla dimensione dei fatti. Non sappiamo se Kafka voglia allegorizzare la condizione ebraica nella sua epoca e nella sua nazione oppure la sua condizione di scrittore. In qualche modo scopriamo che Kafka la passa liscia con il suo stile di negazione: sul piano cognitivo, qui vi è una liberazione dalla rimozione, e il destino del medico di campagna è esemplare in senso giudaico, oppure è legato al costo empirico dell’affermazione di Kafka come autore. Dal punto di vista intellettuale, queste identificazioni sono possibili, se

non addirittura suggestive, ma da quello emotivo non sono per nulla convincenti. Vi è una singolare mancanza di affetto nel destino del medico di campagna, anzi in tutta la sua storia. La rimozione persiste nella misura in cui riguarda il transfert del lettore; nella produzione kafkiana, nessuno è affabile o comprensivo, o almeno un po’ più o meno affabile di qualsiasi altro personaggio kafkiano. A livello mentale, il dilemma del medico di campagna può essere equiparato al nostro, ma ci viene negato ogni sentimento di solidarietà. Ciò che gli capita è insieme fantastico e inevitabile. Potrebbe capitare anche a noi in maniera diversa, e a volte ci capita davvero, ma nessuno condividerà il nostro pathos, proprio come noi non riusciamo a condividere il suo. Un inizio arbitrario – la nostra risposta a qualcuno che suona per sbaglio il nostro campanello durante la notte – ha conseguenze teleologiche nella storia di un eterno tempo presente, e non vi è modo di porvi rimedio. La categoria del kafkiano rappresenta una forma nuova di quello che un tempo veniva chiamato «grottesco» letterario, e incombe su di noi sia nella vita sia nella letteratura. Un medico di campagna ha qualcosa di simile alla forza demonica e ci ricorda che il vero demonico o misterioso raggiunge sempre uno status canonico. Nietzsche affermava che solo il dolore poteva assicurare la memorabilità. In termini letterari ciò si traduce nel duraturo effetto traumatico del Medico di campagna, dove il dolore si incentra sull’assenza di affetto. Il dono più peculiare e originale di Kafka è il fatto che le sue storie sembrano essere riemerse dal nostro oblio, lasciandoci sempre con la sensazione di continuare a dimenticare che cosa abbiamo provato quando abbiamo vissuto quelle stranezze. A più di ottant’anni dalla sua morte, Kafka sembra più che mai lo scrittore centrale dell’Età caotica di Vico, mentre turbiniamo verso la probabilità di essere inghiottiti da una nuova Età teocratica. Il processo e Il castello sono senza dubbio lontanissimi dall’eminenza estetica di Alla ricerca del tempo perduto, dell’Ulisse e della Veglia di Finnegan, ma i migliori scritti frammentari di Kafka – racconti, parabole e aforismi – superano Proust e Joyce nella capacità di regalarci una spiritualità che non dipende dalla fede o dall’ideologia. Non vi sono indistruttibili per Proust e Joyce, come non ve n’erano per Flaubert o Henry James, tutti sacerdoti del romanzo in sé e celebranti della percezione o della sensazione come lo era Walter Pater. Se esiste un mistero riguardo a Kafka, è il motivo per cui ora l’autore e i suoi scritti hanno un’autorità spirituale per molti di noi, come quella che Wordsworth e Tolstoj avevano un tempo, ma che ormai non hanno più. Con

molta probabilità, un giorno sbiadirà anche la curiosa aura religiosa di Kafka, ma per il momento resiste. Come abbiamo visto, in Kafka non vi sono teofanie; l’unica alleanza in cui lo scrittore credeva era quella che aveva stretto con la scrittura. Un tempo pensavo che l’evidente posizione spirituale di Kafka fosse in gran parte il prodotto della nostra retrospettività critica, simile ai processi che hanno fatto di Dante l’autore cattolico nonostante la sua gnosi privata di Beatrice, e di Milton il poeta protestante malgrado la sua eresia mortalistica e le sue aspirazioni monistiche a divenire una setta composta da un solo membro. Allo stesso modo, Kafka, nonostante il suo disagio nei confronti dell’ebraismo, pareva lo scrittore ebraico più di qualsiasi altro dopo la Bibbia ebraica. Questa descrizione sottovaluta tuttavia l’universalismo di Kafka nel e per il XX secolo. Kafka è la nostra icona della vocazione dello scrittore come ricerca spirituale, e i suoi aforismi continuano a indugiare dentro di noi con le eco dell’autorità. Questo è forse più un commento su di noi che su Kafka? In fin dei conti, si tratta della metafora kafkiana dell’«indistruttibile». Il vitalismo personale di Tolstoj sfociò in un’immensa e straordinaria volontà di sopravvivenza, omerica e dunque arcaica e destinata a svanire. In Kafka vi è una tranquilla forza di persistenza ma, come il cacciatore Gracchus, l’autore non muoveva proteste contro la mortalità. Qualunque cosa costituisca l’«indistruttibile», non occorre individuarvi alcuna immagine di immortalità. Vi è qualcosa di biblico nella mancanza di interesse mostrata da Kafka verso l’aldilà, un argomento che non interessava granché nemmeno lo Jahwista e la maggior parte dei profeti. Se Kafka ha un’idea della benedizione, come dono che gli era stato negato, non ci permette certo di sapere che cosa sia. Il Tribunale e il Castello non potrebbero benedire nemmeno se volessero farlo, cosa improbabile in ogni caso. Né, in Kafka, un padre può benedire un figlio. Nel suo cosmo non esiste altra vita in un tempo senza confini. Se l’immortalità e la benedizione non accompagnano l’indistruttibilità, che cosa la accompagna? Nella volontà di vivere di Schopenhauer o nel regno delle pulsioni di Freud non vi è alcuna autorità spirituale, e ho già espresso i miei dubbi sul fatto che l’«indistruttibilità» kafkiana affondi le sue radici nella Cabala lurianica. Nonostante tutte le sue negazioni, Kafka nutriva un certo interesse per le nostre credenze religiose. Non accettava il riduzionismo freudiano secondo cui gli impulsi religiosi tradirebbero semplicemente un anelito verso il padre. I suoi aforismi, tuttavia, non svelano mai con chiarezza la sua concezione di «indistruttibile», e anche i suoi critici

più sensibili hanno difficoltà a spiegarlo. In una lettera a Milena, Kafka difende il suo senso di indistruttibilità affermando che quest’ultimo fa «presa nel terreno reale» e che è tutto fuorché un’ossessione privata. Per lui era il vero legame tra le persone ed esprimeva il loro essere più intimo e segreto. Non saprei come chiamare questa percezione se non gnosi, ma non si tratta certo di gnosticismo, poiché ripudia qualsiasi idea di un Dio, per quanto remoto, per quanto nascosto nell’abisso primordiale. Ciò che Kafka afferma è un attributo umano originario, simile a dio ma secolare, una conoscenza in cui l’indistruttibilità è conosciuta. Kafka non era tuttavia né un santo né un mistico e, giustamente, non compare nella splendida anche se idealizzante antologia di Aldous Huxley, La filosofia perenne. Come Freud, Kafka era un pedante del Negativo, ma il suo tipo di negazione era più dialettico di quello freudiano. L’autorità del fatto, ripudiata da Hegel, veniva profondamente rispettata da entrambi gli scrittori ebraici, ma Kafka si concesse un senso del fatto più ampio di quello freudiano. Per lo scrittore, il suo senso di un’indistruttibilità centrale era un fatto, identico alla sua vocazione di scrittore. Forse questo è l’indizio per spiegare lo status di Kafka come nostra icona canonica di spiritualità: non era uno scrittore religioso, ma tramutava la scrittura in religione. Come ho accennato parlando di Dante, in una simile trasformazione non è necessario alcun elemento tipicamente romantico o moderno. Gli scrittori inevitabili si eleggono al Canone in parte scommettendo sulla loro scrittura, più o meno come Pascal scommise sulla fede. Shakespeare è ancora una volta la grande eccezione? Direi l’esatto contrario: il drammaturgo spianò la strada per Milton e Goethe, per Ibsen e Joyce, investendo implicitamente tutta la sua fiducia pragmatica nella sua arte. Cristianizzare Shakespeare il drammaturgo è un’impresa vana. In qualunque cosa Shakespeare credesse o non credesse, Amleto non può certo dirsi un eroe cristiano, e il cosmo di Otello, Lear e Macbeth è più sciamanistico che cristiano. Iago, Edmund e Macbeth ci danno la strana ma persuasiva impressione che ciascuno di loro sia il genio del suo luogo, un’incarnazione perfetta di tutto l’oscuro potenziale del mondo. Il lato oscuro della natura di Amleto è il paradigma della tragedia shakespeariana. Il mondo è sconnesso, e lo stesso vale per Amleto, il suo emendatore predestinato. Kafka, forse a causa dell’influenza di Goethe, ereditò l’interpretazione tedesca di Amleto come eroe troppo complesso e sensibile per prevalere in un cosmo abborracciato. L’allontanamento kafkiano dall’Amleto di Goethe

trasforma la delicatezza del protagonista in aggressività intransigente, l’atteggiamento assunto verso il Tribunale e il Castello da Joseph K. e da K. l’agrimensore. Una simile trasformazione è a metà strada nella direzione di Finale di partita, dove Samuel Beckett rivede Amleto in chiave kafkiana. Il suo Hamm è più vicino a Joseph K. che all’affascinante Amleto di Goethe, che non è affatto colpevole, a differenza dell’Amleto di Shakespeare, ed è incapace di sentirsi in colpa per i suoi concretissimi crimini: l’assassinio dell’indiscreto Polonio, l’allegria con cui manda i poveri Rosencrantz e Guildenstern incontro alla morte e, peggio ancora, il sadismo con cui spinge Ofelia verso la pazzia e il suicidio. Amleto si sente in colpa solo per l’assassinio che non ha ancora commesso. Kafka, da questo punto di vista più avveduto di Goethe, sembra aver compreso che, in Shakespeare, il senso di colpa è indubbio e che precede ogni crimine concreto. Non è il peccato originale cristiano, bensì l’inconscio senso di colpa shakespeariano-freudiano a diventare legge anche del cosmo di Kafka. In quest’ultimo il senso di colpa ha la priorità perché è il pagamento impostoci dalla nostra «indistruttibilità»; per Kafka, infatti, siamo colpevoli proprio perché il nostro io più profondo è indistruttibile. Sospetto che l’evasività e l’allusività kafkiane siano difese per il suo senso dell’indistruttibile, una caratteristica ereditata da Beckett nei suoi momenti migliori, cioè Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, Malone muore e Com’è. L’indistruttibile non è una sostanza che prevale dentro di noi, ma in termini beckettiani è un andare avanti quando non si può andare avanti. In Kafka, l’andare avanti assume quasi sempre forme ironiche: l’incessante assalto di K. al Castello, gli interminabili vagabondaggi di Gracchus sulla nave della morte, la fuga del cavaliere del secchio verso i monti ghiacciati, la cavalcata invernale del medico di campagna verso il nulla. L’«indistruttibile» risiede dentro di noi come speranza o ricerca, ma, con il più cupo di tutti i paradossi kafkiani, le manifestazioni di quel desiderio sono inevitabilmente distruttive, e in particolare autodistruttive. La pazienza non diviene tanto la prima virtù kafkiana quanto l’unica risorsa di sopravvivenza, come la pazienza canonica degli ebrei.

21. BORGES, NERUDA E PESSOA: IL WHITMAN ISPANICOPORTOGHESE La letteratura ispano-americana del XX secolo, probabilmente più vitale di quella nordamericana, ha tre fondatori: il favolista argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), il poeta cileno Pablo Neruda (1904-1973) e il romanziere cubano Alejo Carpentier (1904-1980). Dalla loro matrice è emersa una schiera di grandi figure: romanzieri diversi come Julio Cortázor, Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa e Carlos Fuentes; poeti di importanza internazionale come César Vallejo, Octavio Paz e Nicolás Guillén. Mi concentrerò su Borges e Neruda, sebbene il tempo possa dimostrare la supremazia di Carpentier su tutti gli scrittori latino-americani di quest’epoca. Carpentier era tuttavia fra i molti scrittori indebitati con Borges, e Neruda riveste un ruolo di fondatore per la poesia uguale a quello di Borges per la prosa narrativa e critica, così qui li prenderò in considerazione sia come padri letterari sia come scrittori rappresentativi. Borges fu un bambino straordinariamente letterario; pubblicò la sua prima opera all’età di sette anni, una traduzione della novella Il principe felice di Oscar Wilde. Tuttavia, se fosse morto a quarant’anni, non lo ricorderemmo, e la letteratura latino-americana sarebbe assai diversa. A diciotto anni cominciò a scrivere poesia whitmaniana aspirando a diventare il bardo dell’Argentina, ma finì per rendersi conto che non sarebbe stato lui il Whitman di lingua spagnola, un ruolo energicamente usurpato da Neruda. Invece cominciò a scrivere saggi-parabole cabalistici e gnostici, forse a causa dell’influenza di Kafka, e quello fu il punto di partenza della sua arte caratteristica. Il bivio gli si presentò sotto forma di un terribile incidente che subì verso la fine del 1938. Sempre afflitto da una vista debole, scivolò su una scala mal illuminata e cadde, riportando una brutta ferita alla testa. Durante le due settimane che trascorse all’ospedale in gravi condizioni, ebbe incubi spaventosi, seguiti da una lunga e penosa convalescenza, durante la quale cominciò a dubitare delle proprie condizioni mentali e della propria capacità di scrivere. Così a trentanove anni, per rassicurare se stesso, tentò di scrivere un racconto, e il divertente frutto fu Pierre Menard, autore del «Chisciotte», predecessore di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius e di tutte le altre brevi opere di narrativa con cui associamo il suo nome. La sua reputazione di scrittore di narrativa in Argentina iniziò con Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941); nel 1962, due raccolte di racconti, Labyrinths e Finzioni, comparvero anche negli

Stati Uniti, attirando subito l’attenzione del pubblico nordamericano. Fra tutti i racconti di Borges, quello che più ho amato trent’anni fa continua a essere il mio preferito: La morte e la bussola. Come quasi tutta la sua produzione, anche questo scritto è intensamente letterario: conosce e dichiara il proprio carattere tardivo, la contingenza che governa il suo rapporto con la letteratura precedente. La nonna materna dello scrittore era inglese, e il padre dell’autore possedeva una vasta biblioteca in cui prevaleva la letteratura inglese. In Borges abbiamo l’anomalia di uno scrittore ispanico che lesse inizialmente il Don Chisciotte in traduzione inglese e la cui cultura letteraria, per quanto universale, restò inglese e nordamericana nella sua sensibilità più profonda. Borges, orientato verso una carriera letteraria, era tuttavia ossessionato dalla gloria militare che tanta importanza aveva avuto sia nella famiglia di suo padre sia in quella di sua madre. Oltre ad aver ereditato la vista debole che aveva impedito a suo padre di diventare ufficiale, Borges sembra averne ereditato anche la tendenza a rifugiarsi nella biblioteca come rifugio in cui i sogni potevano compensare l’impossibilità di una vita d’azione. Ciò che Ellmann diceva del Joyce ossessionato da Shakespeare, cioè che ambiva solo a incorporare quante più influenze possibili, sembra ancora più vero di Borges, che assorbe esplicitamente e quindi riflette in maniera deliberata l’intera tradizione canonica. Non è facile capire se questo tentativo manifesto di abbracciare i precursori abbia, a lungo andare, penalizzato la produzione borgesiana, e spero di rispondere a questa domanda all’interno di questo capitolo. Maestro degli specchi e dei labirinti, Borges era un profondo studioso di influenze letterarie e, essendo uno scettico che nutriva maggiore interesse per la letteratura di fantasia che per la filosofia o la religione, ci ha insegnato il modo di leggere tali speculazioni soprattutto per il loro valore estetico. Il suo singolare destino come scrittore e come iniziatore più ragguardevole della moderna letteratura latino-americana non può essere separato dal suo universalismo estetico né da quella che, a mio giudizio, andrebbe definita la sua aggressività estetica. Rileggendolo ora, sono insieme affascinato e allietato, più ancora di quanto lo fossi trent’anni fa, perché il suo anarchismo politico (appartenente varietà piuttosto blanda di suo padre) è così entusiasmante in un’epoca in cui lo studio della letteratura è divenuto tutto politicizzato e in cui occorre temere la crescente politicizzazione della letteratura. La morte e la bussola è un esempio di quanto vi è insieme di più valido e

di più enigmatico in e intorno a Borges. Questo racconto di una dozzina di pagine narra la conclusione di una sanguinosa faida tra il detective Erik Lönnrot e il capo gangster Red Scharlach il Dandy, nella Buenos Aires visionaria che tanto spesso è l’ambientazione della tipica fantasmagoria borgesiana. Nemici mortali, Lönnrot e Red Scharlach sono doppi scontati anche se antitetici, come indica il colore rosso che compare nei nomi di entrambi. Borges, un filosemita convinto che a volte accarezzava la fantasia di essere di origine ebraica (un’accusa spesso rivoltagli dai seguaci fascisti del suo nemico, il dittatore Perón), scrive una storia di gangster ebrei che avrebbe deliziato Isaac Babel, l’autore degli splendidi Racconti di Odessa, incentrati sul leggendario bandito Benja Krik, un grande dandy come Red Scharlach. Borges scrisse un articolo sulla vita di Babel, la cui produzione (e il cui nome) doveva averlo affascinato, e persino un rapido riassunto della Morte e la bussola ci ricorda lo scrittore russo. Il dottor Marcel Yarmolinsky, uno studioso rabbinico, viene assassinato all’Hôtel du Nord con una coltellata al petto. Accanto al suo cadavere, vi è un biglietto che dice: «La prima lettera del Nome è stata articolata». Lönnrot, un ragionatore rigoroso come l’August Dupin di Poe, deduce che il riferimento è al Tetragrámmaton, il Nome Segreto di JHVH, il Dio Jahweh. Quando viene rinvenuto un altro cadavere che costituisce la seconda lettera del nome, il detective capisce che gli assassinii sono sacrifici mistici compiuti da una setta ebraica impazzita. Ha luogo un terzo presunto omicidio, ma non viene scoperto alcun cadavere, e a poco a poco comprendiamo che Lönnrot sta cadendo nella trappola di Scharlach. Il processo tocca il culmine nella villa abbandonata di Triste-le-Roy, alla periferia della città. Red Scharlach spiega il suo complesso piano, che ruota intorno alle tre immagini di cui si è servito per confondere la mente di Lönnrot: gli specchi, la bussola e il labirinto in cui l’investigatore è stato rinchiuso. Davanti alla pistola di Scharlach, Lönnrot condivide la tristezza impersonale del gangster e critica con freddezza il labirinto, affermando che presenta linee ridondanti e chiedendo, nella sua incarnazione successiva, di venire nuovamente ucciso dal suo nemico con un labirinto progettato in maniera più elegante. Il racconto termina con l’esecuzione di Lönnrot, e con Scharlach che dichiara: «Per quest’altra volta, le prometto quel labirinto invisibile, incessante, di una sola linea retta». Quest’ultima è l’emblema di Zenone Eleatico, e per Borges è il simbolo del quasi suicidio di Lönnrot. Riguardo a Pierre Menard, autore del «Chisciotte», il suo vero esordio

come scrittore, Borges disse che il racconto comunica una sensazione di stanchezza e scetticismo, di «giungere alla fine di un lunghissimo periodo letterario». È questa l’ironia o l’allegoria de La morte e la bussola, in cui Lönnrot e Scharlach tessono il loro mortale labirinto letterario con un amalgama di Poe, Kafka e numerosi altri esempi di doppi impegnati in un duello di partecipanti segreti. Come tanti racconti di Borges, anche quella di Lönnrot e Scharlach è una parabola che dimostra come la lettura sia sempre una sorta di riscrittura. Scharlach controlla impercettibilmente le letture degli indizi da parte di Lönnrot, anticipando così le revisioni interpretative del poliziotto. Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, un altro celebre racconto, esordisce con l’affermazione diretta: «Devo alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia la scoperta di Uqbar». All’immaginaria terra di Uqbar potete sostituire uno qualsiasi dei luoghi, delle cose e delle persone presenti nella narrativa borgesiana; contengono tutti uno specchio e un’enciclopedia perché, secondo l’autore, qualsiasi enciclopedia, esistente o presunta, è insieme un labirinto e una bussola. Anche se Borges non fosse il fondatore archetipico della letteratura ispano-americana (e lo è), e anche se i suoi racconti non fossero dotati di autentico valore estetico (e lo sono), egli sarebbe comunque uno degli scrittori canonici dell’Età caotica, perché più di qualsiasi altro scrittore ad eccezione di Kafka, che diviene oggetto di un’emulazione deliberata, è il metafisico letterario dell’epoca. Il suo atteggiamento cosmologico è dichiaratamente caotico; sul piano immaginativo, questo autore è uno gnostico dichiarato, anche se su quello intellettuale e morale è un umanista scettico. Per Borges, gli antichi eresiarchi gnostici, in particolare Basilide di Alessandria, sono veri precursori. Il breve saggio Una rivendicazione del falso Basilide si conclude con una stupenda difesa dello gnosticismo in generale: Durante il primo secolo della nostra era, gli gnostici disputarono con i cristiani. Vennero annichilati, ma possiamo immaginare la loro possibile vittoria. Se a trionfare fosse stata Alessandria anziché Roma, le storie stravaganti e confuse che ho qui riassunto sarebbero coerenti, maestose, perfettamente normali. Affermazioni come quella di Novalis, «la vita è una malattia dello spirito», o quella disperata di Rimbaud, «la vera vita è assente; noi non siamo al mondo», godrebbero del consenso condizionale dei pii laboratori. E comunque, quale altro dono possiamo sperare, che non sia insignificante? Quale maggior gloria per un Dio, che di essere assolto del mondo?

Per Borges, come per gli gnostici, la creazione e il peccato originale del cosmo e della specie umana sono il medesimo evento. La realtà primordiale era il Pleroma, o pienezza, quello che viene chiamato Caos dagli ebrei normativi, dai cristiani pii e dai musulmani, ma che era visto dagli gnostici

come Protopadre e Protomadre. Nelle sue fantasie, Borges torna a quella concezione. La condivide? Come Beckett, Borges leggeva Schopenhauer con intensa empatia, ma riteneva insinuasse «che noi siamo frammenti di un dio che, all’inizio del tempo, distrusse se stesso mosso da un desiderio di non esistenza». Un dio morto o scomparso o, nello gnosticismo, un dio alieno, che si è ritratto da questa falsa creazione, è l’unica traccia di teismo residua in Borges. La sua metafisica, quando non gioca con l’Idealismo, segue anch’essa Schopenhauer e gli gnostici. Noi viviamo in una fantasmagoria, in una deformata immagine speculare dell’eternità, che Borges descrive con grande entusiasmo. «L’ordine inferiore è uno specchio dell’ordine superiore; le forme della terra corrispondono alle forme del cielo; le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili», scrive in Tre versioni di Giuda, dove Runeberg, un teologo danese condannato al fallimento, elabora una teoria secondo cui Giuda, e non Gesù, era il Dio Incarnato, aggiungendo così al «al concetto del Figlio, che sembrava esaurito, le complessità del male e della sventura». Poiché i valentiniani avevano insegnato la dottrina della degradazione divina, Borges è molto gnostico, anche se forse più di quanto lo siano tutti gli altri gnostici dopo gli ofiti, che celebravano il serpente nella storia del peccato originale. La perfezione di Borges in questo stile emerge nel racconto I teologi, in cui due sapienti dottori della Chiesa antica, Aureliano di Aquileia e Giovanni di Pannonia (entrambi invenzioni borgesiane), rivaleggiano nelle confutazioni delle eresie esoteriche. Borges riassume con abilità il loro scontro, sottolineando che Aureliano, il meno dotato e dunque il più rancoroso, è ossessionato da Giovanni: «Entrambi servirono nello stesso esercito, bramarono lo stesso guiderdone, mossero guerra allo stesso Avversario, ma Aureliano non scrisse una parola che in segreto non fosse protesa a superare Giovanni». Alla fine del racconto, Aureliano chiede di bruciare Giovanni sul rogo con un’accusa di eresia, e muore anch’egli nello stesso modo in una foresta irlandese incendiata da un fulmine. Nell’aldilà, Aureliano scopre che, per Dio, lui e Giovanni «formavano un’unica persona», proprio come Lönnrot e Red Scharlach. Borges mostra una malinconica coerenza: nel labirinto del suo universo ci troviamo di fronte alle nostre immagini speculari, non solo della natura ma anche dell’io. Come hanno notato tutti i critici, il labirinto è l’immagine centrale di Borges, il punto di convergenza di tutte le sue ossessioni e di tutti i suoi incubi. I suoi precursori letterari, da Poe a Kafka, sono chiamati a fornire

questo emblema del caos, perché quasi ogni cosa può essere tramutata da Borges in un labirinto: case, città, paesaggi, deserti, fiumi, e soprattutto idee e biblioteche. Il labirinto supremo era il palazzo progettato dal favoloso artefice Dedalo, insieme per proteggere e imprigionare il Minotauro, mezzo uomo e mezzo toro. Non ho mai capito bene perché Joyce abbia scelto questo nome per il suo io più giovane; è vero che Dublino è un labirinto, che l’Ulisse è un altro labirinto e che la ciclica Veglia di Finnegan è labirintica, ma – a differenza di Kafka, Borges e Beckett – Joyce è insieme troppo comico e troppo naturalistico per esaltare un’immagine del caos in quanto tale. Joyce aveva tendenze manichee, ma non si identificava con Schopenhauer o con lo gnosticismo, né sviluppò una propria visione gnostica. Sebbene in Borges il labirinto sia un’immagine sostanzialmente giocosa, ha implicazioni oscure come ne ha in Kafka. Se tutto il cosmo è un labirinto, ne consegue che l’immagine prediletta di Borges è legata alla morte oppure a una concezione essenzialmente freudiana della vita, il mito della pulsione di morte. Ecco allora la fonte dell’ironia; i due scrittori moderni più esasperati da Freud furono Nabokov e Borges, che si dimostrarono entrambi irritati e sgradevoli nei suoi confronti. Ascoltiamo Borges in uno dei suoi passi meno interessanti: Lo considero una sorta di pazzo, no? Un uomo che si affanna per un’ossessione sessuale. Be’, forse non se la prendeva a cuore. Forse lo faceva come una specie di gioco. Ho provato a leggerlo e, in un certo senso, l’ho giudicato un ciarlatano oppure un pazzo. Dopo tutto, il mondo è troppo complesso per essere ridotto a quello schema troppo semplice. In Jung, tuttavia… Be’, naturalmente, ho letto Jung in modo molto più approfondito di Freud, ma in Jung si avverte una mente vasta e ospitale. Nel caso di Freud, si riduce tutto ad alcuni fatti piuttosto spiacevoli.

Nel caso di Borges, questi «fatti piuttosto spiacevoli» sono un primo e unico matrimonio, contratto a sessantotto anni e finito tre anni dopo con un divorzio, un sorprendente attaccamento alla madre e una lunga convivenza con lei, che morì nel 1975, all’età di novantanove anni. Né questi «fatti» né l’antipatia di Borges per Freud sono di particolare utilità per i lettori, anche se contribuiscono a illuminare sia il suo atteggiamento verso la tradizione letteraria sia l’economicità della sua arte. Il piacere particolare che Borges ricavava dalla letteratura è il capovolgimento delle precedenti descrizioni dell’influenza, come nell’analisi dell’incidenza di Kafka su Browning in Kafka e i suoi precursori: In ciascuno di quei testi c’è l’idiosincrasia di Kafka, in grado maggiore o minore, ma se Kafka non avesse scritto, non la avvertiremmo; vale a dire che non esisterebbe. La poesia Fears and Scruples di Robert Browning profetizza l’opera di Kafka, ma la nostra lettura di Kafka affina e altera sensibilmente la nostra lettura della poesia. Browning non la leggeva come ora la leggiamo noi. Nel vocabolario critico, la parola «precursore» è indispensabile, ma bisognerebbe cercare di purificarla da ogni

connotazione di polemica o di rivalità. Il fatto è che ogni scrittore crea i suoi precursori.

Borges si rifiutava di ammettere che erano la polemica e la rivalità a guidare la creazione del precursore. Nell’Artefice (El hacedor, in spagnolo) identifica il suo precursore argentino nel poeta Leopoldo Lugones, morto suicida nel 1938. La dedica del libro a Lugones accantona opportunamente l’atteggiamento di ambivalenza di cui Borges e la sua generazione avevano dato prova nei confronti del poeta, sebbene Borges fosse stato ambivalente come al solito riguardo alla propria ambivalenza. Invecchiando, cominciò ad accettare l’opinione secondo cui la letteratura canonica era più di una continuità ed era un racconto e un’unica grande poesia compilati da molte mani nel corso delle epoche. Negli anni Sessanta, quando Borges era divenuto quello che il suo biografo Emir Rodríguez Monegal definiva «il vecchio guru», il suo idealismo letterario cominciò a diventare assoluto, superando le versioni più scettiche di autorialità comune che lo scrittore aveva trovato in Shelley e Valéry. Un curioso panteismo, applicato soprattutto agli autori, compenetrò Borges: non solo Shakespeare, ma tutti gli scrittori erano insieme ognuno e nessuno, un unico labirinto vivente di letteratura. Come Lönnrot e Red Scharlach, come i teologi Aureliano e Giovanni, Omero, Shakespeare e Borges si fondono in un unico autore. Di fronte a questo idealismo nichilistico mi torna in mente il miglior giudizio che mi sia capitato di leggere sul conto di Borges, formulato da Ana María Barrenechea: «Borges è uno scrittore ammirevole, impegnato a distruggere la realtà e a convertire l’uomo in un’ombra». Quel progetto mozzafiato sarebbe stato al di là persino delle capacità di Shakespeare, se quest’ultimo avesse deciso di intraprenderlo. Borges può ferire il lettore, ma lo fa sempre nello stesso modo, dunque è facile scoprire il suo principale difetto: la sua produzione migliore manca di varietà, sebbene egli attinga all’intero Canone occidentale e ad altre risorse. Forse rendendosene conto, nei tardi anni Sessanta Borges tentò un passo indietro nella direzione del realismo naturalistico, ma Il manoscritto di Brodie (1970), che ne è il risultato, è ancora essenzialmente una fantasmagoria. Che cosa c’è al centro del labirinto di Borges? I suoi racconti sembrano frammenti di un romance, ma Borges – a differenza di Hawthorne, uno scrittore che apprezzava molto – non scrive romance che dipendono dall’incanto e dalla conoscenza imperfetta. Borges è scettico, molto dotto, ed evita volutamente la stravaganza del romance, il suo senso di vagabondaggio

oltre i limiti. La sua arte è controllata con molta attenzione e talvolta piuttosto evasiva. Né Borges né il lettore riescono a perdersi nelle storie, in cui ogni cosa è calcolata. Il timore di quello che Freud chiamava romanzo familiare, e di quello che potrebbe definirsi il romanzo familiare della letteratura, confina Borges nella ripetizione e nell’iperidealizzazione del rapporto scrittorelettore. Forse ciò che fa di lui il padre ideale della moderna letteratura ispanoamericana è proprio la sua sterminata allusività e il suo distacco dai grovigli culturali. Nella letteratura moderna lo si potrebbe tuttavia condannare a un’eminenza minore, sempre canonica ma non più centrale. Un confronto tra i suoi racconti e le sue parabole da una parte e quelli di Kafka dall’altra è tutt’altro che lusinghiero per Borges, ma sembra inevitabile, in parte perché molto spesso Borges invoca Kafka, sia esplicitamente sia implicitamente. Nei suoi momenti migliori, Beckett, con cui Borges condivise un premio internazionale nel 1961, induce a un’intensa rilettura, a differenza di Borges, che dà prova di sagace abilità ma non sostiene una visione schopenhaueriana in modo altrettanto convincente. Nonostante ciò la posizione di Borges nel Canone occidentale, se prevarrà, sarà sicura quanto quella di Kafka e Beckett. Fra tutti gli autori latino-americani del XX secolo, Borges è il più universale. Ad eccezione dei più vigorosi scrittori moderni – Freud, Proust e Joyce –, egli ha una forza di contaminazione superiore a quella di quasi tutti gli altri, anche quando le loro doti e la portata della loro produzione superano di gran lunga le sue. Se leggete Borges con frequenza e attenzione, divenite in un certo senso borgesiani, perché leggerlo significa alimentare una consapevolezza della letteratura in cui questo autore si è spinto più lontano di qualsiasi altro. Questa consapevolezza, insieme visionaria e ironica, è difficile da descrivere, perché abbatte le antitesi discorsive tra individualità e comunità. Essa è legata alla constatazione secondo cui tutta la letteratura è, in certa misura, un plagio, un’intuizione che Borges deve a Thomas De Quincey, saggista romantico inglese, plagio esuberante e autocosciente, e forse il più cruciale di tutti i precursori borgesiani. De Quincey è autore di una prosa tardoromantica, quasi barocca nella sua sinuosa intensità emotiva e nella sua pulsione rapsodica, spesso incantatrice. Lo stile della prosa di Borges è quasi una reazione-formazione a quella di De Quincey, ma i procedimenti e le ossessioni borgesiani sono assai vicini a quelli dell’autore delle Confessioni di un mangiatore d’oppio e dell’incompiuto Suspiria de Profundis. L’originalità e la raffinatezza di De Quincey toccano il culmine nella

descrizione dei suoi sogni, alcuni dei quali tramutati in racconti da Borges. Uno di loro, L’immortale, è il più misterioso di tutti gli scritti borgesiani: un condensato, una ventina di pagine, di quasi tutte le sue ossessioni creative. Si tratta di uno dei pochi esempi sublimi di letteratura fantastica novecentesca. Gran parte dell’Immortale è una narrazione in prima persona di Flaminio Rufo, il tribuno di una legione romana di guarnigione in Egitto durante il regno dell’imperatore Diocleziano. La sua identità costituisce una sorpresa sin dall’inizio; il manoscritto, trovato nel 1929 a Londra, era nascosto nel sesto e ultimo volume dell’Iliade di Alexander Pope (1720). Scritto in inglese, probabilmente negli anni Venti del Novecento, il racconto viene spacciato per l’opera di un antiquario, Joseph Cartaphilus di Smirne, «un uomo consunto e terroso, grigio d’occhi e di barba, dai tratti singolarmente vaghi», che parla francese, inglese e «una misteriosa mescolanza di spagnolo di Salonicco e portoghese di Macao». Alla fine del racconto ipotizziamo che questi tratti vaghi e singolari siano quelli dell’Immortale, il poeta Omero in persona, che si è fuso con il tribuno romano e, in sostanza, (per implicazione) con lo stesso Borges, proprio come L’immortale fonde Borges con i suoi originali: De Quincey, Poe, Kafka, Shaw, Chesterton, Conrad e molti altri. L’immortale potrebbe intitolarsi «Omero e il labirinto», perché a costituire la vicenda sono queste due entità, l’autore e la labirintica Città degli Immortali in rovina. Il tribuno Rufo, che parte alla ricerca della Città degli Immortali, vede il proprio doppio in una figura piuttosto spaventosa che si rivela poi essere Omero, il primo dei poeti immortali. Ronald J. Christ (un nome borgesiano), nel suo The Narrow Act: Borges’s Art of Illusion, interpreta il racconto come un viaggio conradiano-eliotiano verso il Cuore di tenebra simbolico. Questa analogia è utile se accantoniamo la componente morale di Conrad, che non trova posto nell’Immortale e che solo di rado ha importanza in Borges, la cui grandezza è alleata di un estetismo eroico che ripudia le consuete preoccupazioni morali e sociali e gioca persino con ironia a svalutare Omero, come se la sua arte epica fosse banale. Come Shakespeare, Omero è per Borges l’Artefice o il poeta archetipico, ma anche l’uomo archetipico, come Albion in Blake o Earwicker (Here Comes Everyone), e questo deve essere il motivo per cui Borges, anche se con ironia, descrive L’immortale come «l’abbozzo di un’etica per immortali». Questa etica si rivela l’unica evasione di Borges nel romanzo familiare della letteratura, la sua idealizzazione dei rapporti di influenza. Tutti gli scrittori sono uguali; l’originalità è improbabile. Omero e Shakespeare, essendo

ognuno e nessuno, rendono impossibile l’individualità, cosicché la personalità è un mito superato. Noi tutti viviamo per sempre, dunque avremo il tempo di leggere tutto e tutti, come in Torniamo a Matusalemme di Shaw, una delle principali ispirazioni dell’Immortale. Questo idealismo letterario, se non fosse accompagnato da una feroce ironia, renderebbe Borges insipido e farebbe dell’Immortale una sorta di profezia parodistica di un manifesto multiculturale. Ma non dobbiamo avere paura: il racconto è il più nero e il più agghiacciante degli incubi di Borges, e l’idealizzazione della letteratura viene ridotta, con ironia swiftiana, a un pessimismo nichilistico, in cui l’immortalità viene vista come l’incubo più grande, un’architettura onirica che può solo essere labirintica. Fra tutte le fantasmagorie di Borges, la Città degli Immortali è la più inquietante. Il tribuno Rufo, esplorandola, la trova «così orribile che il suo solo esistere e perdurare, […] contamina il passato e il futuro e in qualche modo coinvolge gli astri». Qui la parola chiave è «contamina», e l’atmosfera predominante dell’Immortale è l’angoscia della contaminazione. Quando Omero si identifica per la prima volta, è un troglodita muto, infelice e mangiatore di serpenti, e il tanto ricercato fiume dell’immortalità non è che un rivolo sabbioso. Come gli altri Immortali, Omero è stato quasi distrutto da una vita di «pura speculazione». Se davvero Amleto non pensava troppo ma con troppa saggezza, l’Omero di Borges (che è anche Shakespeare) non pensava troppo bene, ma in maniera troppo infinita. In parte, Borges satireggia Torniamo a Matusalemme, ma si scaglia anche contro il proprio idealismo letterario. Senza rivalità e polemica tra gli Immortali, paradossalmente non vi è più vita e la letteratura muore. Per Borges, la teologia è tutta un ramo della letteratura fantastica. Nell’Immortale, lo scrittore osserva, con magnifica ironia, che, nonostante la loro professata credenza nell’immortalità, ebrei, cristiani e musulmani venerano solo questo mondo, perché, in realtà, credono solo in esso e legano a esso gli stati futuri solo come premi o punizioni. Una nota di Borges del 1966 contiene una splendida riflessione sullo status dell’ontoteologia e della metafisica speculativa: Una volta ho compilato un’antologia di letteratura fantastica. Devo ammettere che il libro è uno dei pochi che un secondo Noè dovrebbe salvare da un secondo diluvio, ma denuncio l’omissione colpevole dei maggiori e inattesi maestri del genere: Parmenide, Platone, Giovanni Scoto Eriugena, Alberto Magno, Spinoza, Leibniz, Kant, Francis Bradley. Che cosa sono, infatti, i prodigi di Wells o di Edgar Allan Poe – un fiore arrivato dal futuro, un cadavere sottoposto a ipnosi – in confronto all’invenzione di Dio, alla laboriosa teoria di un essere che, in un certo senso, può essere trino e sopporta per sempre in una solitudine senza tempo? Che cos’è il bezoar in confronto all’idea di

un’armonia prestabilita? Che cos’è l’unicorno davanti alla Trinità? Chi è Lucio Apuleio davanti ai proliferatori di Buddha del Grande Veicolo? Che cosa sono tutte le mille e una notte di Shahrazâd in confronto a una tesi di Berkeley? Ho venerato la graduale invenzione di Dio, e anche del paradiso e dell’inferno (una ricompensa mortale, una punizione immortale). Si tratta di ammirevoli e curiosi prodotti dell’immaginazione umana.

I termini chiave, ironici ed esatti, sono «venerato» e la ripetizione di «immortale». Dio, inventato a poco a poco, è forse la più grande opera di letteratura fantastica. Lo Jahwista non inventò Yahweh, ma il dio adorato da ebrei, cristiani e musulmani è il personaggio letterario Yahweh, che lo Jahwista creò; e chiunque abbia scritto il Vangelo di Marco, creò il personaggio letterario di Gesù, adorato da tutti i cristiani. La «ricompensa immortale» del cielo include, come parte del pagamento, quei personaggi letterari, e questo ci riporta all’Immortale, dove Borges ci lascia solo parole. Le immagini, persino quelle di Dio, si dissolvono nella memoria; le parole rimangono e sono sempre le «parole di altri», perché nessuno di noi può avere le proprie. Se L’immortale è, come sospetto, un’autopunizione per un eccesso di idealismo letterario, che cosa ci danno questo racconto e il resto della produzione borgesiana? Si tratta forse di una realizzazione estetica abbastanza vigorosa da superare il suo evidente nichilismo? Borges vede se stesso come celebratore delle cose nel loro addio; la sua produzione poetica e narrativa più matura esprime spesso l’esperienza di fare qualcosa per l’ultima volta, di vedere una persona o un luogo come un commiato. La perdita fu sempre l’enfasi creativa di Borges: si può perdere solo ciò che non si è mai avuto è un ritornello che torna in tutta la sua produzione. Nessun altro, nella tradizione occidentale, ha sovvertito con altrettanta spietatezza l’idea di immortalità letteraria. Borges riporta i lettori al suo movente iniziale della metafora, il desiderio di essere diverso, di trovarsi altrove, di scegliere di diventare uno scrittore. Una vocazione militare perduta viene sostituita dalla vocazione della letteratura, e tuttavia Borges, un gentiluomo argentino, non riuscì mai a riconciliarsi con le verità agonistiche sulla natura dell’autonomia e dell’originalità poetiche. La personalità e l’individualità potevano trovare espressione nell’eroismo e nella leadership militare, soprattutto da parte dei suoi antenati, molti dei quali erano morti combattendo per cause perdute. Il coraggio era la specialità del suo nonno materno, Isidoro de Acevedo Laprida, che da giovane aveva combattuto durante le guerre civili argentine, per poi vivere una lunga pensione e morire in una fantasmagoria della difesa visionaria della sua nazione: «Riunì un

esercito di fantasmi di Buenos Aires / per farsi uccidere in battaglia». Vi sono anche poesie borgesiane dedicate ad altri due antenati eroici, uno ucciso dai ribelli durante una precedente guerra civile, e l’altro il vincitore della battaglia di Junín, durante la guerra d’indipendenza dell’Argentina. In confronto a quei guerrieri di famiglia, Omero e Shakespeare vengono descritti in maniera ambigua da Borges. A suo parere, il loro principale attributo spirituale è una certa vaghezza di profilo; i tratti sfumati della loro identità riflettono in parte la nostra mancanza di conoscenza biografica, ma derivano in primo luogo dall’esigenza borgesiana di immergerli ancora nella letteratura. In Borges vi è grande amore per loro, come vi è passione per Dante, Cervantes, Whitman, Kafka e altri; ma non manca neppure una grande ambivalenza. Borges trasferì la sensazione di essere arrivato tardi, che gli aveva fatto capire di assomigliare più a Pierre Menard che a Cervantes, a tutti gli altri autori, compresi Omero e Shakespeare. «Desidero che il tempo sia trasformato in una piazza», è il dolce lamento di una delle sue poesie. È un trionfo dell’abilità di Borges il fatto che in Tutto e niente lo scrittore abbia interpretato il ritiro di Shakespeare a Stratford come stanchezza dovuta a «quella controllata allucinazione», la sua capacità di creare «l’eccesso e l’orrore» di una miriade di personaggi. Un simile Shakespeare è un Immortale esausto, come l’Omero di Borges. È un tributo a Borges ricordare che quest’ultimo cominciò e finì come l’ennesimo Immortale stanco e che fondò un’autentica dignità estetica sul suo ambivalente ingresso nel labirinto della letteratura canonica. Walt Whitman, che non fu tanto l’Omero nordamericano (la sua aspirazione) quanto un grande originale, mi sembra una confutazione della visione labirintica della letteratura borgesiana, intesa come evanescenza delle identità autoriali, sebbene Whitman abbia spesso espresso il desiderio di assorbire tutte le altre identità nella sua vastità messianica, nella sua capacità di contenere le moltitudini. Questa era, come abbiamo visto nel capitolo dedicato a Whitman, la proclamazione di «Walt Whitman, un americano, un individuo grezzo», e non del Whitman più autentico, «il vero io» o l’«io me stesso». Per quanto Whitman sia vario nella sua produzione poetica, fu ancora più vario in termini di influenza esercitata sugli altri poeti nordamericani e ispanici. La sua incidenza più cospicua sugli eredi è quasi sempre un’incidenza rimossa, come avviene, per esempio, nella produzione poetica di T.S. Eliot e di Wallace Stevens. Per quanto Whitman sia stato fondamentale per questi due scrittori e per Ezra Pound (loro malgrado) e per

Hart Crane (assai più bendisposto), sarebbe lecito sostenere che le influenze più vitali di Whitman sono state quelle da lui esercitate sull’America Latina: Borges, Neruda, Vallejo e Paz. Borges, che aveva esordito come whitmaniano, si sottrasse a quell’influenza iniziale, pur continuando a sviluppare una comprensione matura e raffinata di Whitman, forse manifestata al meglio dalla sua traduzione di una selezione di Foglie d’erba nel 1969. Negli anni Venti, Borges aveva polemizzato con i whitmaniani latino-americani perché avevano fatto del loro eroe il centro di un culto della personalità; e aveva anche denigrato il poeta di Canto di me stesso per la sua presunta convinzione che dare un nome agli oggetti bastasse per trasformarli in originali saliti sulla scala emersoniana della sorpresa. Nel 1929, tuttavia, Borges si pentì di quei commenti, ma solo per trasformare Whitman nel Borges impersonale come l’ennesimo modernista piuttosto laconico. Troppo intelligente per fermarsi a quel Whitman, Borges passò a una seconda e migliore interpretazione in Nota su Walt Whitman, oggi contenuta in Altre inquisizioni. Qui Borges distingue con acume tra la persona o maschera, Walt Whitman, e la persona o autore, Walter Whitman junior: «Questi fu casto, riservato e piuttosto taciturno; quegli espansivo e orgiastico. Moltiplicare tali discordie è facile; più importante è comprendere che il semplice vagabondo felice presentato dai versi di Foglie d’erba sarebbe stato incapace di scriverli». Il migliore e più illuminante tributo borgesiano a Whitman si trova tuttavia in un’intervista del 1968: Whitman è uno dei poeti che più mi hanno colpito in tutta la mia vita. Penso che esista una tendenza a confondere il signor Walter Whitman, l’autore di Foglie d’erba, con Walt Whitman, il protagonista di Foglie d’erba, e che Walt Whitman non ci fornisca tanto un’immagine quanto una sorta di ingrandimento del poeta. In Foglie d’erba, Walter Whitman ha scritto una sorta di poema epico il cui protagonista era Walt Whitman: non il Whitman che scriveva, bensì l’uomo che avrebbe voluto essere. Naturalmente, non lo dico per criticare Whitman; la sua produzione non andrebbe letta come le confessioni di un uomo del XIX secolo, bensì come poema epico su una figura immaginaria, una figura utopica, che è in certa misura un ingrandimento e una proiezione dello scrittore e del lettore. Ricorderà che in Foglie d’erba l’autore si fonde spesso con il lettore, e naturalmente ciò esprime la sua teoria della democrazia, l’idea secondo cui un unico protagonista può rappresentare un’intera epoca. È impossibile esagerare l’importanza di Whitman. Anche tenendo conto dei versetti della Bibbia o di Blake, si può dire che Whitman è l’inventore del verso libero. Lo si può guardare in due modi: vi è il suo lato civico – il fatto di essere consapevoli delle folle, delle grandi città, dell’America – e vi è anche un elemento intimo, benché non possiamo avere la certezza che sia autentico. Il personaggio che Whitman ha creato è uno dei più amabili e memorabili di tutta la letteratura. È un personaggio come Don Chisciotte o Amleto, ma meno complesso e forse più amabile di entrambi.

Paragonare Walt Whitman, il protagonista di Foglie d’erba, a Don Chiosciotte o Amleto è corretto e stimolante; Whitman è davvero il suo più grande (e unico) personaggio letterario, la sua vigorosa creazione. Amleto, in realtà, non è molto amabile, anche se carismatico; ma Don Chisciotte lo è, e lo è anche Walt Whitman. La questione è più complessa di quanto ammetta Borges: chi fu l’infermiere non pagato che accudì con tanto altruismo i feriti e i moribondi durante la guerra civile a Washington, D.C.? Non era forse sia Walt Whitman l’eroe poetico sia Walter Whitman junior, che si erano fusi in quel contesto? L’immagine di Walt Whitman intento a medicare ferite è non meno travolgente dell’immagine di Abraham Lincoln martirizzato, e forse più amabile. Il poeta elegiaco di Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa si era guadagnato l’autorità di piangere Lincoln mediante il suo servizio alla vita e alla letteratura. Come hanno dimostrato i poeti latinoamericani, vi è qualcosa di misterioso e travolgente nelle migliori poesie di Whitman, ma anche in quest’ultimo come immagine dell’America, sia settentrionale sia meridionale. Pablo Neruda è, per consenso generale, il più universale di questi poeti e può essere considerato l’erede più autentico di Whitman. Il poeta di Canto general è un rivale più degno di qualsiasi altro discendente di Foglie d’erba, un’affermazione difficile per me a causa della mia predilezione per Hart Crane e Wallace Stevens. Non saprei dire se Neruda, nonostante tutta la sua varietà e intensità, abbia davvero l’eccellenza di Whitman o di Emily Dickinson, ma nessun poeta novecentesco dell’emisfero occidentale regge un confronto aperto con lui. Il suo deplorevole stalinismo è spesso un’escrescenza, una sorta di verruca sulla tessitura delle sue poesie, ma ad eccezione di qualche punto non deturpa troppo Canto general. Per quanto riguarda il suo rapporto con Whitman, Neruda imitò lo schema borgesiano: un’iniziale condizione di discepolo, seguita da una denuncia e infine da una complessa revisione del Whitman delle opere mature. In un’intervista del 1966 a Robert Bly, Neruda distinse la poesia dell’America Latina (la sua e quella di Cesar Vallejo) da quella dei poeti spagnoli moderni, molti dei quali erano stati suoi amici: Lorca, Hernàndez, Alberti, Cernuda, Aleixandre, Machado. Costoro avevano alle loro spalle, nell’età dell’oro spagnola, i grandi poeti del barocco (Calderón, Quevedo, Góngora), che avevano denominato tutto l’essenziale. Il merito di Whitman era stato insegnare a vedere e a denominare ciò che in precedenza non era stato visto o denominato:

La poesia del Sudamerica è una questione del tutto diversa. Vede, nei nostri Paesi ci sono fiumi che non hanno nome, alberi che nessuno conosce, uccelli che nessuno ha descritto. È più facile per noi essere surrealisti, perché ogni cosa che conosciamo è nuova. Il nostro dovere, dunque, come noi lo intendiamo, consiste nell’esprimere l’inaudito. Ogni cosa è stata dipinta in Europa, ogni cosa è stata cantata in Europa. Mai in America. In questo senso, Whitman è stato un grande maestro. Che cos’è infatti Whitman? Non aveva solo una profonda consapevolezza, ma aveva anche gli occhi bene aperti! Aveva occhi meravigliosi, capaci di vedere ogni cosa, e ci ha insegnato a vedere le cose. È stato il nostro poeta.

Questa sembra più un’idealizzazione nerudiana di Neruda che un’accurata descrizione dello sfumato ed evasivo Whitman. Tuttavia, Neruda prosegue dicendo che «Whitman non è così semplice; è un uomo complicato, ed è al meglio quando è più complicato». Le complessità di Whitman sono infinite; quelle di Neruda forse no. Borges e Neruda nutrivano una reciproca antipatia; il benevolo Borges non era disposto ad abbracciare lo stalinismo, e il comunista Neruda deprecava il fatto che Borges non vivesse nel mondo reale, un mondo fatto di operai, contadini, Mao e Stalin. Vi è un’abile decapitazione di Neruda da parte di Borges, un uomo con cui non era consigliabile avere uno scontro verbale: Lo ritengo un uomo molto meschino […] ha scritto un libro sui tiranni del Sudamerica, e poi diverse stanze contro gli Stati Uniti. Ora, sa benissimo che è spazzatura. E non ha pronunciato una sola parola contro Perón, perché, come mi hanno spiegato in seguito, aveva una causa legale in corso a Buenos Aires e non voleva correre rischi. Così, quando avrebbe dovuto scrivere con voce piena, gonfia di nobile indignazione, non ha avuto una sola parola da dire contro Perón. Era sposato con una signora argentina, e sapeva che molti dei suoi amici erano finiti in carcere. Era al corrente delle condizioni del nostro Paese, ma non una parola contro Perón.

Il libro è Canto general (1950); forse Borges, che pronunciò queste frasi nel 1967, pensava astutamente a quella che Enrico Mario Santi definisce la sua satira profetica contro Neruda nel grandioso racconto L’Aleph, scritto nel 1945 e pubblicato nel 1949, un anno prima dell’enciclopedico poema epico di Neruda. A dire il vero, Canto general consiste di circa trecento poesie separate, raccolte in quindici gruppi e composte tra il 1938 e il 1950. Il libro venne ampiamente pubblicizzato in anticipo da Neruda e dal Partito comunista cileno, e Borges ne era senza dubbio informato. Nell’Aleph, Neruda viene satireggiato come rivale di Borges, il fatuo Carlos Argentino Daneri, un poeta di incredibile mediocrità e un ovvio imitatore di Whitman. Ha luogo una demolizione totale ed elegante dell’opera di Neruda; Canto general mira a cantare tutta l’America Latina: topografia, alberi e fiori, uccelli e animali terrestri, antieroi indigeni e stranieri, eroi come Pablo Neruda, il Partito comunista e il Grande Punitore Stalin, di cui Neruda sembra approvare gli assassinii: «La punizione è necessaria». In tono blando, Borges offre punizione letteraria in anticipo:

Una sola volta nella mia vita ho avuto occasione di esaminare i quindicimila dodecasillabi del Polyalbion, l’epopea topografica nella quale Michael Drayton registrò la fauna, la flora, l’idrografia, l’orografia, la storia militare e monastica d’Inghilterra; sono certo che quell’opera considerevole ma limitata è meno tediosa della vasta impresa consimile di Carlos Argentino. Questi si proponeva di mettere in versi tutta la rotondità del pianeta; nel 1941 già aveva sbrigato alcuni ettari dello stato di Queensland, più di un chilometro del corso dell’Ob, un gasometro a nord di Veracruz, le principali ditte commerciali della parrocchia della Concezione, la villa Mariana Combaceres de Alvear in via Undici Settembre, in Belgrano, e uno stabilimento di bagni turchi posto non lungi dal ben noto acquario di Brighton. Mi lesse certi laboriosi passi della zona australiana del suo poema; i lunghi e informi alessandrini mancavano del relativo movimento dell’introduzione. Ne copio una strofa: Si sappia. A man dritta del cippo consueto (venendo, è naturale, da nord, anzi nordovest) un ossame s’annoia – tinta? Biancoceleste – mentre presta all’ovile apparenza d’ossario. «… E che mi dici di quella trovata, biancoceleste? Il pittoresco neologismo suggerisce il cielo, che è un fattore importantissimo del paesaggio australiano. Senza quell’evocazione, le tinte del bozzetto risulterebbero troppo cupe e il lettore sarebbe costretto a chiudere il libro, l’anima ferita nel più intimo da incurabile e nera malinconia.» Verso la mezzanotte mi congedai.

Nei suoi momenti peggiori, Canto general uccide davvero la vegetazione, gli animali, gli uccelli, i fiumi e persino i minerali del Sudamerica. In un commento all’Aleph del 1970, Borges sconfessò l’idea secondo cui Daneri andasse inteso come imitatore di Dante (i versi citati parodiavano evidentemente Neruda e gli imitatori secondari di Whitman), dopo aver reso un altro abile tributo al catalogatore quasi omerico di Foglie d’erba: Il mio problema principale, scrivendo il racconto, è stato ciò che Walt Whitman aveva compiuto con grande successo: la stesura di un catalogo limitato di cose infinite. Questa impresa, com’è evidente, è impossibile, perché una simile enumerazione caotica può essere solo simulata e ogni elemento apparentemente casuale dev’essere legato al suo vicino per associazione segreta oppure per contrasto.

Nel riassunto che ne dà lo stesso Borges, l’Aleph, il feticcio o talismano cabalistico del racconto, è l’equivalente spaziale dell’eternità in cui «tutto il tempo – passato, presente e futuro – coesiste simultaneamente. Nell’Aleph, la somma totale dell’universo spaziale è reperibile in una minuscola sfera lucente, del diametro di poco più di due centimetri». Rispetto a Foglie d’erba e a Canto general, questa è una valida descrizione del racconto (venti pagine nella versione italiana), L’Aleph che, tra molte altre cose, è una critica della sovrabbondanza poetica. Oso affermare che Borges aveva assai più in comune, dal punto di vista intellettuale e formale, con Emerson che con Whitman. Per Neruda, Whitman era un padre idealizzato che sostituiva il vero genitore del poeta, il ferroviere José del Carmen Reyes. «Pablo Neruda» era uno pseudonimo ancor più dell’abbreviazione di Walter Whitman junior in «Walt Whitman». Come quest’ultimo non poté cominciare a scrivere Foglie

d’erba finché non seppe che suo padre, il falegname quacchero alcolizzato Walter Whitman senior, era in punto di morte, così Neruda non poté cominciare Canto general finché non perse il «mio povero duro padre […] virile nell’amicizia, il bicchiere pieno». Se si è poeti, un padre idealizzato si presta benissimo a essere frainteso, e può darsi che Neruda abbia compreso Whitman fin troppo bene. I suoi fraintendimenti creativi di Whitman erano in larga misura deliberati, come ha chiaramente intuito Doris Sommer, secondo cui Neruda tentò di «distruggere il suo maestro resuscitando modelli anteriori, che non hanno mai tentato il lettore con una promessa di uguaglianza e somiglianza con colui da cui Whitman si era congedato nella prefazione alle sue poesie». Forse è così, ma nei suoi momenti migliori Neruda azzarda un confronto diretto con Whitman. Per consenso comune, la parte migliore di Canto general è la seconda, una magnifica sequenza di dodici canti, Le alture di Machu Picchu. In Perù, a circa centoventi chilometri da Cuzco, l’antica capitale dell’impero inca, una città abbandonata sorge sulle vette del Machu Picchu, sulle Ande. Tornato in Cile nell’autunno del 1943, dopo i tre anni trascorsi a Città di Messico come console generale del Cile, Neruda fece tappa in Perù e si recò a visitare le rovine. Due anni dopo videro la luce Le alture di Machu Picchu, che oggi sono probabilmente la migliore introduzione a Neruda per chiunque abbia bisogno di aiuto con la poesia scritta in spagnolo. Felstiner, il traduttore americano, fa notare che Whitman compenetra il pathos della voce di Neruda: «La plasmica comprensione umana, l’accettazione della materialità e della sensualità, la consapevolezza di vite e fatiche comuni, l’apertura alla prospettiva umana, il poeta che si offre volontario come redentore». Quest’ultima immagine mi sembra la più importante, sebbene sia uno degli aspetti più fastidiosi di Neruda, poiché la gnosi emersoniana di Whitman è assai diversa dal suo comunismo manicheo. Un confronto diretto tra Le alture di Machu Picchu e Canto di me stesso, espressione dei due poeti nei loro momenti migliori, non favorisce certo Neruda: Ditemi tutto, catena a catena, anello ad anello, e passo a passo, affilate i coltelli che serbaste, posatemeli in petto e nella mano, come un fiume di gialle saette, come un fiume di tigri sepolte, e lasciatemi piangere, per ore, giorni, anni, per età cieche e secoli stellari.

Datemi il silenzio, l’acqua, la speranza. Datemi la lotta, il ferro, i vulcani. Unite a me i corpi come calamite. Accorrete alle mie vene, alla mia bocca. Parlate con le mie parole e col mio sangue. (da Le alture di Machu Picchu) Come l’aria svanisco, scuoto i miei bianchi capelli al sole che [fugge, Spargo la mia carne in vortici e la trascino in frange merlettate. Lascio me stesso alla terra per nascere dall’erba che amo, Se ancora mi vuoi cercami sotto le suole delle scarpe. Difficilmente saprai chi io sia o che cosa significhi, E tuttavia sarò per te salutare, E filtrerò e darò forza al tuo sangue. Se non mi trovi subito non scoraggiarti, Se non mi trovi in un posto cerca in un altro, Da qualche parte starò fermo ad aspettare te. (da Canto di me stesso)

Entrambi i poeti si rivolgono alle moltitudini, e le metafore di Neruda sono un miscuglio di barocco alla Quevedo e di realismo magico o surrealismo: il fiume che convoglia luce gialla, i giaguari sepolti e la «lotta, il ferro, i vulcani» capaci di animare i lavoratori morti, che a loro volta magnetizzano il linguaggio e i desideri di Neruda. È un pathos credibile, intenso e vigoroso, ma meno persuasivo della pacata autorità dei versi di Whitman, in cui si leggono una pazienza e una ricettività misteriose. In Neruda vi è un’ansia che deriva dalla sensazione di essere arrivato tardi, anche se il poeta esorta con solennità i lavoratori morti a parlare tramite le sue parole e il suo sangue. Whitman ci chiede se noi parleremo prima che lui sia scomparso, se noi arriveremo troppo tardi per raccogliere la sua testimonianza, sebbene sia disposto ad aspettarci. Neruda mostra altrove di aver imparato la lezione di Whitman, e precisamente nella conclusione della poesia Il popolo, che è una magnifica aggiunta alle due terzine conclusive di Canto di me stesso: E che nessuno si turbi quando sembro essere solo e non lo sono; non sono con nessuno e parlo per tutti. Qualcuno mi ascolta senza saperlo, ma quelli di cui canto, quelli che sanno, continuano a nascere e riempiranno il mondo.

Mi sembra indubitabile che in questi versi Neruda alluda a Whitman, di cui era stato il traduttore, e la fusione di padre e figlio è quasi completa, almeno in questo passo. Neruda pare d’accordo con il poeta e critico messicano Octavio Paz, che sfidò Borges e tentò di unire il Whitman

pubblico e il Whitman privato nell’appendice che conclude il suo L’arco e la lira (1956): Walt Whitman è l’unico grande poeta moderno che non sembra provare disagio di fronte al proprio mondo. E neppure solitudine; il suo monologo è un immenso coro. Senza dubbio coesistono, per lo meno, due persone in lui: il poeta pubblico e la persona privata, che nasconde le sue vere inclinazioni erotiche. Ma la sua maschera – il poeta della democrazia – è più che una maschera: è il suo vero volto. Nonostante alcune recenti interpretazioni, in Whitman il sogno poetico e quello storico coincidono completamente. Non esiste frattura tra le sue credenze e la realtà sociale. E questo fatto è superiore – voglio dire, è più ampio e significativo – a ogni circostanza psicologica. L’originalità della poesia di Whitman nel mondo moderno, quindi, non si può spiegare se non in funzione di un’altra originalità, ancora maggiore, che la ingloba: l’originalità dell’America.

Questo è un passo insieme splendido ed erroneo, perché fraintende Borges («certe recenti interpretazioni») e sottovaluta al tempo stesso la complessità poetica di Whitman. Il problema non sono le «reali inclinazioni erotiche» e le circostanze psicologiche; ciò che conta è la mappa mentale di Whitman, una cartografia in cui quest’ultimo mette in campo due io contrapposti e un’anima distinta dall’uno e dall’altro. Il vero volto di Whitman non è democratico né elitario; è ermetico, come Neruda sembra aver compreso suo malgrado. Forse il Whitman ispanico è una questione assai difficile da capire, perché le principali figure coinvolte – Borges, Neruda, Paz, Vallejo – non lessero con sufficiente attenzione Canto di me stesso e Relitti marini. In opposizione ai poeti latino-americani, offro il sorprendente poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935), la cui fantastica inventiva supera qualsiasi creazione di Borges. Pessoa, nato a Lisbona e discendente per via paterna da conversos ebrei, crebbe in Sudafrica e, come Borges, divenne bilingue al punto che, fino all’età di ventun anni, scrisse poesia solo in inglese. In termini di eminenza poetica, Pessoa non ha nulla da invidiare a Hart Crane, cui assomiglia molto, soprattutto in Mensagem («messaggio» o «convocazione», 1934), una sequenza poetica che ha per oggetto la storia portoghese e ricorda da vicino al Ponte di Crane. Tuttavia, per quanto siano efficaci molte delle sue liriche, costituiscono solo una parte della produzione di Pessoa, che si è inventato una serie di poeti «sostitutivi» (Alberto Caeiro, Alvaro de Campos, Ricardo Reis e altri), scrivendo interi volumi di versi per loro o, per meglio dire, assumendone l’identità. Due di loro, Caeiro e Campos, sono grandi poeti, completamente diversi l’uno dall’altro e da Pessoa, mentre Reis è un interessante poeta minore. Pessoa non era né pazzo né un semplice ironista: è un Whitman rinato, ma un Whitman che dà nomi diversi al «me stesso», al «vero io» e alla «mia

anima» e scrive stupendi libri per tutti e tre, oltre a un volume separato con il nome di Walt Whitman. Si tratta di parallelismi troppo vicini per essere considerati semplici coincidenze, soprattutto perché l’invenzione degli «eteronimi» (per usare il termine utilizzato di Pessoa) è venuta dopo un’immersione in Foglie d’erba. Walt Whitman, uno degli «individui grezzi», un «americano», il «me stesso» di Canto di me stesso, diviene Alvaro de Campos, un ingegnere navale ebreo portoghese. Il «vero io» o «il me stesso» diviene il «custode di pecore», il pastorale Alberto Caeiro, mentre l’anima whitmaniana si tramuta in Ricardo Reis, un materialista epicureo autore di odi oraziane. Pessoa ha fornito biografie e fisionomie a tutti e tre, permettendo loro di diventare indipendenti nei suoi confronti, al punto che il poeta si unisce a Campos e Reis nel proclamare Caeiro come suo «maestro» o precursore poetico. Pessoa, Campos e Reis sono tutti influenzati da Caeiro, non da Whitman, e Caeiro non ha subito l’influenza di nessuno, bensì è un poeta «puro» o allo stato naturale, quasi privo di istruzione, morto alla romantica età di ventisei anni. Octavio Paz, uno dei sostenitori di Pessoa, sintetizza questo quadruplice poeta con sottile economia: «Caeiro è l’unico nella cui orbita ruotano Reis, Campos e lo stesso Pessoa. In ciascuno di loro vi sono particelle di negazione o irrealtà. Reis crede nella forma, Campos nella sensazione, Pessoa nei simboli. Caeiro non crede in nulla. Esiste». La studiosa portoghese Maria Irene Ramalho de Sousa Santos, affermatasi come critico canonico di Pessoa, interpreta gli eteronimi come la sua «lettura, in parte complice, in parte dettata dal disgusto per Whitman, non solo della poesia di quest’ultimo, ma anche della sua sessualità e della sua politica». L’omoerotismo appena rimosso di Pessoa emerge nello sfrenato masochismo di Campos, che ha ben poco di whitmaniano; e l’ideologia democratica di Foglie d’erba era inaccettabile per un monarchico visionario portoghese. Ramalho de Sousa Santos tenta di evitare l’angoscia di contaminazione che Pessoa aveva nei confronti di Whitman, ma le angosce da influenza non sono facili da cancellare. Come D.H. Lawrence in Classici americani, Pessoa-Campos dà prova di un’enorme ambivalenza nei confronti dell’ambizione whitmaniana di abbracciare il cosmo e tutto ciò che contiene; Pessoa sembra tuttavia sapere, assai meglio dei suoi critici idealizzanti, fino a che punto gli sia impossibile scindere i suoi io poetici da quello di Whitman, nonostante la splendida finzione degli eteronimi. Persino Ramalho de Sousa

Santos, dopo aver tentato una fuga femminista dai gravami dell’influenza, torna brillantemente alle aspre realtà della filiazione temporale, del romanzo familiare poetico: Partendo dal dialogo implicito che accade tra l’io e l’Io me stesso in Whitman, Pessoa ha plasmato due immagini di voce esplicitamente distinte. In precedenza, Whitman, in virtù di una coscienza connettiva e organica, era riuscito a intrecciare quelle due voci in un tutto dinamico. Pessoa, arrivato mezzo secolo dopo, immerso in correnti di pensiero contemporaneo, e profondo conoscitore di Nietzsche, Marinetti, e soprattutto Pater, che aveva in parte tradotto, avrebbe dovuto scoprire una nuova strategia per esprimere il Sé in maniera whitmaniana, sul piano sia tecnico sia filosofico. Rinvenendo in Foglie d’erba e soprattutto in Canto di me stesso due io potenzialmente opposti, Pessoa trovò il modo di inscrivere poeticamente il perpetuo flusso di una singola coscienza correndo avanti e indietro tra due atteggiamenti essenziali verso l’Essere. Caeiro e Campos ricantano insieme il Canto di me stesso come un duetto, con la voce principale del solista perennemente soverchiata dalla presenza dell’altro. Interpretare una persona come parte essenziale dell’altra permette una nuova interpretazione degli eteronimi.

Secondo questa tesi, con cui concordo, Pessoa accetta il suo ruolo nel dramma dell’influenza poetica, ma porta la lettura di Whitman a un grado di coscienza più elevato esteriorizzando la cartografia psichica del suo precursore come interazione di due poeti fittizi. Desidero innanzi tutto applicare questa lettura alle poesie di Caeiro e Campos, per poi tornare a Neruda, la cui diversificazione poetica ha suscitato tanti commenti critici. Quando Ricardo Neftalí Reyes assunse lo pseudonimo di Pablo Neruda e fece di Walt Whitman il proprio padre adottivo, compì il primo passo verso il principio eteronimico di Pessoa. A prescindere dal fatto che, con il tempo, Canto general si confermi oppure no come canto generale dell’America al posto di Foglie d’erba, come profetizzano alcuni suoi ammiratori, non va dimenticato che esiste anche un enorme corpus poetico di Neruda separato dal suo poema epico enciclopedico. Il rapporto tra i volumi e le fasi della sua variegata carriera è altamente whitmaniano, perché nelle poesie si manifestano molti io nerudiani assai diversi, proprio come Caeiro e Campos sono diversi anche se whitmaniani. Caeiro, come l’«io reale» di Whitman, è insieme dentro e fuori del gioco, intento a guardarlo e a meravigliarsene: In un modo o nell’altro A seconda del momento, Capace di dire a volte ciò che penso, Altre invece dicendo male e confusamente, Continuo a scrivere le mie poesie senza volerlo, Come se scrivere non fosse cosa fatta di gesti, Come se scrivere fosse cosa che mi è accaduta Simile al sole che fuori splende su me. Tento di dire ciò che sento Senza pensare a ciò che sento.

Tento di adattare parole all’idea Senza imboccare un corridoio Di pensiero per trovare parole. Non sempre riesco a sentire ciò che so dovrei sentire. Il mio pensiero nuota nel fiume solo assai lentamente, Gravato da indumenti che uomini gli han fatto indossare. Tento di spogliarmi di ciò che ho imparato, Tento di dimenticarmi il modo di ricordare che mi hanno insegnato, E di grattar via l’inchiostro con cui usavano pitturarmi i sensi, Spacchettando le mie vere emozioni, Scartocciando me stesso, ed essere me stesso, non Alberto Caeiro, Ma un animale umano prodotto da Natura.

L’io reale di Whitman non scrisse Foglie d’erba e si fece beffe del grezzo Walt in As I Ebb’d with the Ocean of Life dopo aver subito lo stupro masturbatorio di Canto di me stesso. Un’intuizione indicò a Pessoa che tipo di poesia avrebbe potuto scrivere l’io me stesso whitmaniano: involontario, l’espressione dell’animale umano o dell’uomo allo stato naturale, con l’eliminazione dell’apprendimento, della memoria e delle rappresentazioni passate dei sensi. Può esistere una simile poesia? Certo che no, e naturalmente Pessoa lo sa; ma le poesie di Caeiro sono un affascinante tentativo di scrivere ciò che non può essere scritto. All’altro estremo dell’espressione – la rapsodia autocelebrativa del demonico, grezzo Walt – Pessoa colloca lo scandaloso Campos, come qui in Saluto a Walt Whitman: Infinito Portogallo, undici giugno, millenovecentoquindici… A-hoi-hoi-hoi-hoi! Da qui in Portogallo, con tutte le mie passate età dentro il cervello, Saluto te, Walt, saluto te, mio fratello nell’Universo, Col mio monocolo e la mia marsina bene abbottonata, Non sono indegno di te, il mio saluto è bastante a far che così [sia… Io, così dedito all’indolenza, così facilmente annoiato, Sono con te, e tu ben lo sai, e ti capisco e amo te, E anche se mai ti ho incontrato, nato lo stesso anno che sei morto, So che tu mi amavi, mi conoscevi, e sono felice. So che mi conoscevi, che mi rispettavi e spiegavi chi sono, So che è così che sono, sul traghetto di Brooklyn, dieci anni prima [di essere nato O percorrendo Rua de Oro pensando a tutto quanto non è Rua de [Oro, E come tu sentivi ogni cosa, ogni cosa io sento, e così siamo qua [a serrarci la mano, Serrarci la mano, Walt, serrarci la mano, con l’Universo che danza [nelle nostre anime. O cantore di concreti assoluti, sempre moderno ed eterno, Focosa concubina del disperso mondo, Gran pederasta che ti strofini alla diversità delle cose,

Eccitato da rocce, da alberi, da gente, dai loro commerci, Invogliato dal transitorio, da incontri casuali, da ciò che è soltanto [osservato, Il mio entusiasmo per quanto è dentro ogni cosa, Mio grande eroe che vai per la Morte a balzi e salti, Ruggendo, gridando, muggendo saluti a Dio! Cantore di feroce e gentile fratellanza con ogni cosa, Grande democratico epidermico, attaccato a tutto quanto con [corpo e anima, Carnevale di ciascuna azione, baccanale di tutte le intenzioni, Gemello di ogni impulso subitaneo, Jean-Jacques Rousseau del mondo infernalmente proteso a [produrre macchinari, Omero dell’insaisissable di incerta carnalità, Shakespeare della sensazione sull’orlo della propulsione a vapore, Milton-Shelley del nascente futuro dell’elettricità! Incubo di ogni gesto, Spasmo penetrante ciascun oggetto-forza, Souteneur dell’Universo intero, Puttana di tutti i sistemi solari…

Questa fantasia del 1915 si sviluppa per oltre duecento versi ed è accompagnata da due stravaganze whitmaniane, Ode e Ode marittima; quest’ultima, lunga una trentina di pagine, è il capolavoro di Campos e uno dei maggiori poemi del XX secolo. Ad eccezione delle parti migliori di Residenza sulla terra e di Canto general di Neruda, nulla che abbia visto la luce sulla scia di Whitman è paragonabile all’Ode marittima in termini di esuberanza inventiva. Saluto a Walt Whitman, con la sua sublime ambivalenza che supera D.H. Lawrence come reazione-formazione whitmaniana («puttana di tutti i sistemi solari»), si conclude benedicendo Whitman come «impotente e ardente amante delle nove muse e delle grazie». Quindici anni dopo (nel 1930, l’anno in cui fu pubblicato Il ponte di Hart Crane), nel suo surrealistico Poeta a New York, Federico García Lorca, rivolge un omaggio a Whitman scrivendo un’Ode a Walt Whitman che non regge il confronto con i canti di Campos; ma Lorca, a differenza di Pessoa, conosceva Whitman solo indirettamente e immaginava un «amabile vecchio» dalla «barba piena di farfalle». Pessoa-Campos, immersosi in Whitman e acceso da quest’ultimo, combatte in difesa della sua vita poetica, in parte ricorrendo alla strategia borgesiana (in anticipo rispetto a Borges) di divenire Walt Whitman, proprio come il Pierre Menard di Borges divenne Cervantes per usurpare la paternità del Don Chisciotte. Neruda si rese conto, almeno nelle sue poesie whitmaniane, che l’autore di Foglie d’erba era evasivo, ritroso, sulla difensiva, invariabilmente

metamorfico. Come osserva Frank Menchaca, «anche Neruda doveva aver compreso che l’io che, nella poesia di Whitman, si proclama ovunque liberamente accessibile, non è reperibile in nessun luogo». La morte è forse parte integrante di quel «nessun luogo» sia in Whitman sia in Neruda, ma è uno dei momenti della produzione nerudiana in cui Whitman, il curatore di ferite, tende a imporsi. Residenza sulla terra, culmine della poesia giovanile di Neruda, mostra quest’ultimo alle prese con la cupezza del Whitman elegiaco che contempla se stesso come parte dei relitti marini. Neruda affermò che «è poesia senza via d’uscita» e affermò di essere emerso dalla disperazione solo grazie alle sue attività a favore dei repubblicani condannati alla sconfitta durante la guerra civile spagnola. Leo Spitzer, uno dei pochi critici moderni eruditi che contano davvero, definisce Residenza sulla terra un’«enumerazione caotica», che sarebbe il Whitman più oscuro e fuori controllo, il processo creativo whitmaniano ridotto a quelle che Spitzer chiama «attività disintegranti», ossia Whitman abbandonato a fluttuare con l’oceano della vita. In termini degli eteronimi di Pessoa, le poesie di Residenza sulla terra sono scritte dall’elemento Caeiro imprigionato in Campos, un Whitman intrappolato dentro se stesso. Forse questa caratteristica si coglie meglio nella conclusione del vicolo cieco intitolato Walking Around: E per ciò il lunedì brucia come il petrolio quando mi vede giungere con viso da recluso e urla nel suo scorrere come ruota ferita e fa passi di sangue caldo verso la notte. E mi spinge in certi angoli, in certe case umide, in ospedali dove le ossa escono dalla finestra, in certe calzolerie che puzzano d’aceto, in strade spaventose come crepe. Vi sono uccelli colo zolfo e orribili intestini appesi alle porte delle case che odio, vi sono dentiere dimenticate in una caffettiera, vi sono specchi che avrebbero dovuto piangere di vergogna e spavento, vi sono ombrelli dappertutto e veleni e ombelichi. Io passeggio con calma, con occhi, con scarpe, con furia, con oblio, passo attraverso uffici e negozi ortopedici e cortili con panni tesi a un filo metallico: mutande, asciugamani e camicie che piangono lente lacrime sporche.

Nei suoi momenti più alti, Canto general è il supremo antidoto a questa versione suicida del whitmanianismo di Neruda. Roberto González

Echevarria definisce Canto general una «poetica del tradimento», una tetra profezia del terribile pathos che accompagnò la morte di Neruda, avvenuta il 23 settembre 1973, dodici giorni dopo i massacri iniziati con l’assassinio del suo amico, il presidente Salvador Allende, per mano dell’esercito cileno. Il tradimento è solo un tema minore in Whitman, i cui coinvolgimenti politici vengono sottolineati con eccessiva enfasi in questo momento negativo della critica americana, un momento in cui ogni cosa viene politicizzata. Il tradimento, fosse esso della repubblica spagnola o del Cile da parte dell’esercito, era tuttavia stato una liberazione poetica per Neruda, poiché l’aveva emancipato dal lato oscuro che il poeta condivideva con Whitman senza la soprannaturale capacità whitmaniana di produrre da solo un’alba, ora e per sempre. L’influenza di Whitman – su Borges, Neruda, Paz e molti altri – insegna forse che solo un’originalità irriverente come quella di Pessoa poteva sperare di accoglierla in sé senza rischi per l’io o per gli io poetici.

22. BECKETT… JOYCE… PROUST… SHAKESPEARE In James Joyce, la sua biografia definitiva, Richard Ellmann dipinge un deliziosa vignetta dell’amicizia tra Joyce e Beckett, che in quel momento avevano rispettivamente di cinquant’anni e ventisei: Beckett era dedito ai silenzi, e lo stesso era Joyce; si impegnavano in conversazioni che spesso consistevano di silenzi diretti l’uno verso l’altro, entrambi soffusi di tristezza, Beckett soprattutto per il mondo, Joyce soprattutto per se stesso. Joyce sedeva nella sua solita posizione, a gambe incrociate, l’alluce della gamba superiore infilato sotto il piede dell’altra, Beckett, anch’egli alto e sottile, compiva lo stesso gesto. A un tratto Joyce poneva domande tipo: «Come riuscì l’idealista Hume a scrivere una storia?». Beckett rispondeva: «Una storia di rappresentazioni».

La fonte di Ellmann era un’intervista con Beckett del 1953, più di vent’anni dopo, ma Beckett aveva buona memoria. Joyce morì nel 1941, prima di compiere sessant’anni, e Beckett nel 1989, a ottantatré anni. Beckett amò sempre Joyce come secondo padre e iniziò da assoluto discepolo del maestro. Fra tutti i suoi libri preferisco Murphy, il suo primo romanzo pubblicato, scritto in inglese nel 1935 ma comparso solo nel 1938; si tratta tuttavia di un libro non meno joyciano di qualsiasi romanzo di Anthony Burgess, e certamente ha pochi elementi espliciti in comune con il Beckett maturo della trilogia (Molloy, Malone muore, L’innominabile), di Com’è o dei drammi maggiori (Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp). Scelgo Murphy come punto di partenza per la presente trattazione, in parte per via del piacere che ne derivo e in parte per esaminare un Beckett particolarmente joyciano. Lo stesso Joyce amava tanto questo romanzo da imparare a memoria la descrizione dell’eliminazione finale delle ceneri di Murphy: Qualche ora più tardi Cooper estrasse il pacchetto con le ceneri dalla tasca, dove l’aveva risposto durante la serata per sicurezza, e lo scagliò rabbiosamente su un uomo che lo aveva profondamente offeso. Rimbalzò sulla parete e finì crepato sul pavimento, dove divenne subito oggetto dei più svariati calci, passaggi, dribbling, parate, interventi di pugno e di testa, e persino di qualche attenzione da parte degli amanti della palla ovale. E prima ancora dell’ora di chiusura, il corpo, la mente e l’anima di Murphy erano liberamente distribuiti sul pavimento del locale; e prima ancora che un’altra alba tornasse a rischiarare tenuemente la terra, furono spazzati via con la segatura, la birra, le cicche, i cocci di vetro, i fiammiferi, gli sputi, i vomiti.

Menzionando «il corpo, la mente e l’anima», questo brano amabile e scioccante intende rammentarci il testamento di Murphy, cui è stata data lettura poche pagine prima: Per quanto concerne i qui presenti corpo, mente e anima, desidero che siano cremati, posti in un sacchetto di carta e portati all’Abbey Theatre, Abbey Street, Dublino, e una volta lì, senza esitazione alcuna, in quello che l’ottimo Lord Chesterfield ha definito l’appartamentino dei bisogni, sulla destra della buca dell’orchestra, dove trascorsero le ore più liete, e desidero che una volta immersi venga su di loro tirata la catena, preferibilmente durante una rappresentazione teatrale, il tutto da eseguire senza

cerimonie né esibizione di dolore.

In Murphy quello che potrebbe essere definito un buonumore negativo è, per fortuna, incessante. La bellezza del libro è racchiusa nell’esuberanza del linguaggio: quest’opera è il Pene d’amor perdute di Samuel Beckett. Non è tuttavia molto beckettiana, in parte perché è sfacciatamente joyciano, in parte perché è l’unico testo corposo di Beckett che rientri appieno in una storia delle rappresentazioni, il romanzo come venne scritto da Dickens, Flaubert e dal Joyce giovane, anziché la più problematica forma di «anatomia» (come amava definirla Northrop Frye) di Rabelais, Cervantes e Sterne. Murphy ha una storia di sorprendente continuità e, quando sono presenti i miei due personaggi preferiti – i pitagorici dublinesi Neary e Wylie, a volte in compagnia del «caldo culo cremoso della signorina Counihan» – Beckett attribuisce loro conversazioni di una vivacità e di un’allegria che non avrebbe più offerto a se stesso né a noi: «Sedetevi, tutt’e due, qui davanti a me» disse Neary «e non disperate. Rammentatevi che non v’è triangolo, per quanto ottuso, di cui una circonferenza, di qualsivoglia diametro, non attraversi i miserabili vertici. E rammentatevi altresì che uno dei due ladroni fu salvato.» «Le nostre mediane» disse Wylie «o quello che diavolo sono, s’incontrano in Murphy.» «Al di fuori di noi» aggiunse Neary «al di fuori di noi.» «Nella luce al di fuori» disse la signorina Counihan. Adesso toccava a Wylie, ma non gli veniva niente. Non tardò a realizzare che non sarebbe stato capace di trovare in tempo nulla che gli rendesse onore, e così assunse l’atteggiamento non di chi fosse in cerca della battuta, no davvero, ma di chi, avendola pronta, aspetta solo il suo turno. Infine Neary disse senza pietà: «A lei la palla, Spillo». «E privare la signora dell’ultima parola?» esplose Wylie. «E mettere la signora nell’affanno di doverne trovare un’altra? Caspita, n-ni, Nory!» «Quale affanno?» disse la signorina Counihan. Così era stato saltato il turno. «Molto bene» disse Neary. «Ciò che in realtà volevo dirvi, ciò che vorrei proporvi, è questo. Facciamo in modo che la nostra conversazione non abbia precedenti, nella realtà come nella letteratura, di modo che ciascuno di noi dica al meglio delle proprie capacità la verità, al meglio di quanto la conosce. Questo intendevo quando vi ho detto che mi cavavate via il tono, se non le parole, di bocca. È giunto il tempo per noi tre di separarci.»

Neary ha pronunciato solo la prima, ottimistica metà della citazione di Sant’Agostino preferita da Beckett, che diventerà il centro dell’ethos di Aspettando Godot: «Non disperare – uno dei ladroni è stato salvato; non farti illusioni – uno dei ladroni è stato dannato». Una volta Beckett dichiarò: «Mi interessa la forma delle idee anche se non credo in esse […] questa frase ha una bellissima forma. È la forma che conta». Nel cristianesimo protestante, che torna a volgere lo sguardo verso Agostino, la forma del perdono divino è insieme antitetica e arbitraria; e Beckett, un agnostico convinto, aveva ricevuto un’educazione da protestante irlandese. Murphy, un’opera insieme

deliziosa e miscredente, è la commedia più pura mai scritta da Beckett. I suoi oscuri sottintesi sono onnipresenti, ma una verve incessante li trattiene alla periferia. In tutto il libro, Joyce viene mitigato dall’unica altra influenza narrativa che Beckett abbia mai subito: il diversissimo Proust, su cui, nel 1931, Beckett aveva pubblicato un breve e vivace libro, culminante in una visione di Proust che forse solo un discepolo di Joyce avrebbe saputo scrivere. Per Proust la qualità del linguaggio è più importante che qualsiasi sistema etico o estetico. Perciò non fa alcun tentativo di dissociare la forma dal contenuto. L’una è una concrezione dell’altro, la rivelazione di un mondo. Il mondo proustiano è espresso metaforicamente dall’artigiano poiché è appreso metaforicamente dall’artista: l’espressione indiretta e comparativa di una percezione indiretta e comparativa.

Se si sostituiscono «Joyce» o «Beckett» a «Proust», questo passo sarebbe almeno altrettanto cogente. All’inizio di Proust, Beckett parla della «nostra compiaciuta volontà di vivere» e si unisce a Proust in una resistenza schopenhaueriana a questa volontà. Nella monografia, il suo credo di scrittore emerge in due lucide frasi che gettano un ponte tra Joyce e Proust: «La sola ricerca fruttuosa è uno scavo, un’immersione, una discesa, una contrazione dello spirito. L’artista è attivo, ma negativamente, in quanto si ritrae dai fenomeni extracirconferenziali, ed è trascinato verso il centro del vortice». Questa discesa nell’abisso dell’io appartiene più all’arte della trilogia beckettiana che a quella della Veglia di Finnegan o della Ricerca proustiana. A parte l’amicizia, Joyce affascinava Beckett soprattutto per la maestria soprannaturale di cui dava prova senza sosta. Beckett non ritenne mai che Joyce fosse stato travolto dalla materia poetica poi tramutata nell’Ulisse e nella Veglia di Finnegan. Al contrario, il Proust di Beckett viene presentato come un padre letterario antitetico, dotato del coraggio necessario per lasciarsi vittimizzare e imprigionare dal suo materiale, di accettarlo con ansia romantica. Il nome di Joyce non viene citato in nessun punto della monografia di Beckett, tuttavia egli appare come l’artista classico contrapposto al romantico Proust (e a Beckett), che, a differenza di Joyce, intende scrivere come ha vissuto, nel Tempo: L’artista classico si provvede di onniscienza e onnipotenza. Si eleva artificiosamente fuori del Tempo, per dar rilievo alla sua cronologia e casualità al suo sviluppo. La cronologia di Proust è estremamente difficile da seguire, la successione degli eventi è spasmodica, e i suoi temi e caratteri, benché sembrino obbedire a una quasi insana necessità intrinseca, sono presentati con buon dostoievskiano disprezzo per la volgarità di una concatenazione plausibile.

Questo passo è addirittura più vicino a Murphy che alla Ricerca ed è già una difesa della trilogia. «Più Joyce sapeva, più poteva»; la modalità alternativa consiste nel «lavorare con l’impotenza, l’ignoranza». Queste

parole andrebbero interpretate come metafore di alcuni acutissimi stati di coscienza, da cui scaturirono Aspettando Godot, la trilogia, lo splendido Finale di partita e l’autentico trauma di Com’è. Tendo a credere che questi stati siano essenzialmente gradi diversi di coscienza – di coscienza della coscienza, per così dire –, che è poi l’allegoria postcartesiana di Hugh Kenner, il cui Beckett è essenzialmente l’ultimo dei Grandi Modernisti, l’epilogo comico di Pound, Eliot, Joyce (e Wyndham Lewis), e dunque un ultimo testimone della distruzione dell’Occidente a opera dell’Illuminismo. Il senso beckettiano del nostro malessere era soprattutto una consapevolezza postprotestante, derivata più da Schopenhauer che da Cartesio. L’autocoscienza è una componente della visione beckettiana della nostra vertigine, ma solo come ennesimo frutto della rabbiosa volontà di vivere. Persino Schopenhauer, ossessionato ed eloquente riguardo alla pulsione dietro il principio di piacere, è solo uno tra coloro che sono arrivati tardi per rappresentarla, come Freud dopo di lui. Tra i maestri della volontà di vivere si contano Falstaff e Macbeth, o meglio Falstaff come maestro e Macbeth come vittima. Amleto, che inevitabilmente ossessionava Beckett nonostante la sua dichiarata preferenza per Racine, è insieme maestro e vittima, e come tale permea il dramma canonico di Beckett, Finale di partita. L’Amleto di Beckett segue il modello francese, in cui una coscienza eccessiva nega l’azione, il che si pone a una certa distanza dall’Amleto di Shakespeare. T.S. Eliot, che avrebbe voluto preferire l’Amleto francese, affermò che «l’Amleto di Laforgue è un’adolescente; l’Amleto di Shakespeare non lo è, non ha quella spiegazione e quella scusa». L’Hamm di Beckett, come l’Amleto di Laforgue, è un adolescente gonfiato fino a divenire un dio decaduto o un demiurgo. L’autocoscienza non è tuttavia il fardello di Hamm; ad albergare in lui è la volontà di vivere, in forma orribilmente deteriorata, ed essa rimane sempre il demone di Beckett. Se siete artisti, risentite del peculiare accrescimento della volontà di vivere tipico della vostra vocazione, un desiderio di riconoscimento che, all’inizio e in un ultima istanza, aspira all’immortalità. Beckett sembra essere stato un essere umano buono e decoroso come tutti gli scrittori vigorosi, anzi molto più di tanti altri: estremamente compassionevole e infinitamente gentile anche se ancor più infinitamente chiuso in se stesso. Ma, come scrittore in quanto scrittore, soffrì come tutti gli scrittori; più è poderoso lo scrittore, e più è profonda la sua sofferenza, e Beckett era uno scrittore molto poderoso, l’ultimo autore (finora) inattaccabile del Canone ancora più di Borges o di

Pynchon. Dopo aver superato la transizione di scrivere in francese per poi tradursi in inglese, Beckett si ritrova a essere libero da Joyce sul piano stilistico e abbastanza immune dalla visione di Proust nonostante la loro comune discendenza da Schopenhauer. Nessuno, di fronte a Finale di partita o a Com’è, troverà in Beckett una mancanza di stranezza, di concreta originalità. La sua ombra massiccia si proietta sui drammi di Pinter e di Stoppard; la sua produzione narrativa sembra essere stata un capolinea: nessuno riesce a dilatare o ad approfondire quello stile. Finale di partita può essere il finale di partita dell’ultima grande fase del Canone occidentale, mentre aspettiamo con disagio Godot, che si rivelerà essere il demiurgo di una nuova Età teocratica, sgradevole per Beckett come per chiunque di noi. Che cosa se ne fanno di Com’è o Finale di partita i nostri fiorenti convegni occulti di Studi culturali, se non forse definirli – insieme con Alla ricerca del tempo perduto, La veglia di Finnegan e Kafka – il culmine dei brutti tempi antichi, i paradisi perduti degli esteti? Beckett, come Joyce, presuppone un lettore che conosca Dante e Shakespeare, Flaubert e Yeats e tutti gli altri grandi e immortali uomini e donne morti, per usare la lode di Coleridge a Shakespeare. Il teatro ha le sue tradizioni e la sua continuità, e il Beckett dei drammi sopravviverà quanto Shakespeare e Molière, Racine e Ibsen, sul palcoscenico più che sulla pagina scritta. Il Beckett delle narrazioni in prosa rischia la stessa eclisse dei suoi precursori, Joyce e Proust, poiché i nuovi teocrati imporranno il loro nonCanone semianalfabeta e multiculturale. Quante probabilità hanno Malone muore o Com’è contro a Meridian di Alice Walker o a tutte le altre corrette letture prescritte? Essendo uno scrittore elegiaco, sono rassegnato e abbastanza realista da incentrare la sopravvivenza canonica di Beckett su Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp e, anche se a malincuore, nelle pagine seguenti trascurando il successivo Beckett non drammatico. Sebbene i protagonisti di Beckett mostrino una sorprendente varietà, condividono quasi tutti una caratteristica: la ripetizione, il fatto di essere condannati a raccontare e a vivere di continuo una storia. Si collocano nella scia dell’Ebreo Errante, del Vecchio Marinaio di Coleridge, dell’Olandese Volante di Wagner, del cacciatore Gracchus di Kafka. Il genere di Beckett è la tragicommedia (l’esplicita designazione di Aspettando Godot): per quanto l’atmosfera sia cupa, lo stile non è tragico, se non in Finale di partita. Aspettando Godot, diretto da un buon regista e recitato da attori adeguati, non

è esattamente una passeggiata; ma ho sempre voglia di rivederlo, mentre devo temprarmi per affrontare una rappresentazione, anche buona, di Finale di partita, opera più grande ma più crudele. Hamm, l’irascibile Amleto di Finale di partita, è un solipsista quasi perfetto, e le capacità di rappresentazione che Beckett rivela in questo dramma possono essere difficili da sopportare. L’intramontabile popolarità di Aspettando Godot ha qualcosa a che fare con la tristezza dei suoi clown, Gogo (Estragon) e Didi (Vladimir). Alla fine, tuttavia, il dramma, seppur più pacato e meno apocalittico di Finale di partita, si rivela, nelle sue implicazioni, «allegro» quasi quanto l’Ibsen maturo. Mentre aspettate Godot, tanto vale aspettare il momento in cui noi morti ci desteremo. Finale di partita si ispira a un paradigma shakespeariano che innesta sull’Amleto elementi del Re Lear, della Tempesta, del Riccardo III e del Macbeth. Aspettando Godot, come riconoscono tutti i suoi critici, ricava tuttavia i propri modelli dal vaudeville, dal mimo, dal circo, dal music hall, dalla comicità dei film muti e, in un’ultima analisi, dalle loro origini: la farsa, medievale e successiva. Aspettando Godot sembra arcaico quanto Finale dipartita sembra profetico: l’antica Età teocratica si incontra con quella nuova, che sta per piombarci addosso. Inoltre, come convengono tutti i critici, Aspettando Godot è ossessionato dalla Bibbia protestante: Caino e Cristo aleggiano nelle vicinanze, ma Godot non è più dio di quanto lo sia lo spaventoso Pozzo. Il suo nome è arbitrario e insignificante, a prescindere dal fatto che la sua fonte vada ricercata in Balzac (che Beckett detestava) o nella vita dello stesso Beckett. Quanto al cristianesimo e a Aspettando Godot, Beckett assunse un tono brutale e reciso: «Il cristianesimo è una mitologia con cui ho perfetta familiarità, dunque la uso. Ma non in questo caso!». Vale sempre la pena ricordare che Beckett condivideva in grandissima parte l’avversione di Joyce per il cristianesimo e l’Irlanda. Entrambi scelsero la miscredenza e Parigi, e, secondo la spiegazione beckettiana del perché l’Irlanda avesse prodotto tanti importanti scrittori moderni, un Paese così buggerato dai britannici e dai preti era costretto a cantare. La salvezza, che non è certo un’opzione per Beckett, non è disponibile neppure per Vladimir e Estragon in questo dramma, che è il meno agostiniano di tutti nonostante la parabola dei due ladroni. Beckett temeva che un giorno Aspettando Godot finisse per sembrare un dramma legato a un particolare periodo. Ricordo ancora la prima rappresentazione cui assistetti, a New York nel 1956, con Bert Lahr nella

parte di Estragon e E.G. Marshall in quella di Vladimir, entrambi superati da Kurt Kaznar nel ruolo di Pozzo e da Alvin Epstein in quello di Lucky. Beckett, che si era rifiutato di presenziare allo spettacolo, gli decretò il pollice verso considerandolo «una rappresentazione spaventosamente errata e volgare». Rileggendo il dramma nel 1993, convenni che alcuni aspetti hanno davvero il sapore di un periodo storico, ma forse dipende dal fatto che oggi il mondo di quarant’anni fa, quello precedente gli anni Sessanta, sembra lontano circa un secolo nell’abisso del tempo. Ciò che allora mi sbigottì ora mi rende nostalgico, il che non vale certo per Finale di partita. Hamm è insieme un campione di scacchi, sempre sul punto di essere battuto, e un giocatore mediocre, sebbene non sia chiaro chi sia con esattezza il suo avversario, ad eccezione di noi spettatori. Estragon e Vladimir, impegnati solo in un gioco di attesa, vanno interpretati come, e da, grandi intrattenitori, e devono instaurare un rapporto amabile con il pubblico. Evidentemente Beckett non desiderava che i suoi vagabondi ci affascinassero, ma in questo caso avrebbe dovuto elaborarli in maniera diversa. Hamm, il meno affascinante dei solipsisti, non poteva certo essere interpretato dal defunto Bert Lahr, ma allora nessuno (lo spero) avrebbe affidato a Lahr la parte di Pozzo, precursore di Hamm. Vidi per la prima volta Aspettando Godot prima di leggerlo, e rammento di essere rimasto sbalordito udendo Lahr citare Shelley quando sorge la luna: «Pallida per la stanchezza […] di arrampicarsi in cielo e di guardare quelli come noi». Come Joyce, Beckett non condivideva l’avversione per Shelley professata da Eliot (in seguito emerse che nemmeno Eliot la condivideva). Il frammento dedicato da Shelley alla luna è, in concreto, l’epilogo dell’atto primo: Sei pallida perché sei stanca di scalare il cielo e fissare la terra tu che ti aggiri senza compagnia tra le stelle che hanno una differente nascita, tu che cambi sempre come un occhio senza gioia che non trova un oggetto degno della sua costanza?

Qui Shelley, per certi versi uno scettico simile a Hume nonostante la reputazione platonica, è forse impegnato in un gioco ironico con il vescovo Berkeley; in ogni caso sospetto che Beckett abbia letto il frammento in questo modo, il che spiega perché Estragon lo cita. Poiché per Berkeley gli

oggetti in sé non esistevano ma avevano sede solo nella mente dell’uomo quando quest’ultimo li percepiva, la luna shelleyana è una parodia della coscienza soggettiva berkeleyana, mutevole e senza gioia, perché nessun essere umano è un degno candidato alla costanza gli oggetti. «Quelli come noi» non sono degni dello sguardo della luna, cosicché non raggiungiamo l’esistenza. Essendo una vagabonda solitaria, la luna di Shelley è l’emblema dell’ansia di Estragon che Vladimir possa abbandonarlo, cosa che il personaggio tende a esprimere minacciando di abbandonare Vladimir. L’ansia è connessa alla mania suicida di Estragon, a sua volta legata al paragone che quest’ultimo instaura tra se stesso e Cristo. Dierdre Bair, il biografo di Beckett, dice che in origine Estragon si chiamava «Levy», e forse possiamo supporre che all’inizio Beckett gli abbia attribuito l’immagine di alcuni amici ebrei, come l’altro joyciano Paul Léon, assassinato dai tedeschi. Vi è un legame tenue ma sempre inquietante tra l’«attesa» di Godot e l’ansiosa attesa che tanta parte ebbe nella silenziosa attività eroica di Beckett a favore della Resistenza francese. La mortalità è il fardello esplicito di Aspettando Godot e la sua ironica parodia dell’evasione di Berkeley dal principio di realtà, dalla finalità della morte, è uno degli aspetti che impediscono al dramma di trasformarsi in un pezzo d’epoca. Poco dopo l’inizio dell’atto secondo, Shelley ricompare quando Estragon adotta la figura shelleyana delle foglie morte per «tutte le voci morte», per tutti gli amici e le amanti perdute da Beckett. La successiva isteria di Pozzo accentua la lamentazione per la mortalità: «Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte». Prima, nella sbalorditiva litania di Lucky, il vescovo Berkeley subisce una confutazione dialettica: «Insomma, il calo per testa di rapa dalla morte del vescovo Berkeley essendo in misura di due dita e cento grammi per testa di rapa circa». Oggettivati dalla morte, perdiamo esistenza e ci preoccupiamo in anticipo domandandoci se l’abbiamo mai davvero avuta. Così Vladimir teme di essere solo una proiezione onirica di Estragon e ha paura che qualcuno possa guardarlo mentre guarda Estragon addormentato. Qui Beckett come drammaturgo raggiunge un effetto ricco e singolare che è sproporzionato alla sua effettiva originalità. Esistono molti drammi filosofici e lo scrittore si rifà apertamente alla Vita è sogno di Calderón de la Barca, come nel suo libro su Proust. Il pathos dei vagabondi di Beckett è tuttavia di bizzarra originalità, benché alle loro spalle si levino le ombre dei

buffoni di Shakespeare, culminanti nel feste della Dodicesima notte. Strano a dirsi, Beckett si avvicina al dottor Johnson nei suoi atteggiamenti verso la mortalità, il che spiega forse il suo desiderio giovanile di scrivere Human Wishes, in cui sarebbe apparso sul palcoscenico Johnson in persona. Come Johnson, Beckett associa ossessivamente l’iniziale gusto della mortalità con la convinzione che l’amore sia già perduto o non possa mai esistere. È quanto viene sottolineato nell’Ultimo nastro di Krapp, che riguarda l’ipotesi dell’autore nel quarantesimo anno della sua visione estetica di coincidere ironicamente con l’ombra dell’oggetto proiettato sull’ego, per citare Freud al culmine della sua abilità in Lutto e melanconia. Se i modelli estremi di Estragon e Vladimir fossero Beckett e sua moglie Suzanne, la marcia di un mese che affrontarono da Parigi alla Francia sudorientale nel novembre del 1942 per sottrarsi alla Gestapo potrebbe essere considerata la materia poetica da cui venne plasmato Aspettando Godot. Il crogiolo dell’immaginazione drammatica di Beckett era così intenso che, a oltre sessant’anni distanza, ci riesce assai difficile assorbire questa informazione sulle origini del dramma. La sua dignità estetica rimane assoluta e vanifica ogni sforzo teso a collegare le angosce empiriche di Beckett con l’angoscia raggiunta nella sua arte drammatica. La fama di Beckett ha poco a che fare con le sue narrazioni in prosa (se così si possono chiamare); la sua reputazione internazionale si fondava e si fonda sui drammi, in particolare Aspettando Godot. Per quanto siano straordinari i suoi quasi romanzi, il suo capolavoro è senza dubbio Finale di partita, e il teatro è il luogo in cui Beckett approdò a un’arte quasi del tutto sua. L’unica opera teatrale di Joyce, Esuli, è un esercizio di ibsenismo, e un dramma di Proust sarebbe stato una catastrofe proprio come si dimostrarono quelli di Henry James. La misteriosa affinità con Kafka, sgradita a Beckett, è ravvisabile nei suoi drammi, ma è limitata dal senso kafkiano dell’«indistruttibilità» che, come abbiamo visto, Beckett non condivideva. Joyce era almeno in parte ermetico e manicheo. Beckett no, e non si confondeva con Dio né con Shakespeare, sebbene l’Amleto, La tempesta e il Re Lear vengano tutti rivisitati in Finale di partita, il cui rapporto con Shakespeare non è meno importante di quello della Veglia di Finnegan. Tra i migliori drammaturghi della nostra Età caotica (Brecht, Pirandello, Ionesco, García Lorca e Shaw) è difficile trovarne uno in grado di uguagliare Beckett. Nessuno di loro ha un Finale di partita; per rintracciare un dramma di tale potenza evocativa, bisogna rifarsi a Ibsen. L’autore di Murphy aleggia

ancora mentre aspettiamo Godot, ma è scomparso quando entriamo nella trappola per ratti di Hamm, la sua versione della trappola per topi di Amleto, che è a sua volta una revisione del presunto Assassinio di Gonzago. Non ricordo nessun’altra opera letteraria del XX secolo anteriore al 1957 che abbia tanta originalità quanto Finale di partita, né da allora vi è stato qualcosa in grado di sfidare una simile originalità. Forse Beckett rinnegò la «maestria» giudicandola impossibile dopo Joyce e Proust, ma Finale di partita la raggiunge. Nel 1956, dopo aver superato la cinquantina, Beckett ebbe cinque straordinari anni di creatività, un periodo che comincia con Finale di partita e comprende L’ultimo nastro di Krapp e Com’è, che, insieme con Finale di partita, stabilirono un nuovo criterio di misura mai più toccato dall’autore. La primissima opera teatrale di Beckett a noi pervenuta è l’unica scena superstite di un dramma sui rapporti tra il dottor Johnson e la signora Thrale. Indicata come atto primo con il titolo Human Wishes, si svolge nella strana dimora del dottor Johnson, invasa da personaggi vanitosi e casi filantropici: il signor Williams, la signora Desmoulins, la signorina Carmichael, il gatto Odge e il dottor Levett. Mentre le donne litigano, ci ritroviamo a un tratto quasi vent’anni dopo nella carriera di Beckett come scrittore. Levett entra sbronzo e sale barcollando al piano di sopra, e le signore reagiscono: (Scambio di occhiate fra le tre donne. Gesti di disgusto. Bocche che si aprono e si chiudono. Alla fine tornano alle loro occupazioni.) SIGNORA W. Non abbiamo parole. SIGNORA D. Questo è il momento in cui uno scrittore di teatro ci [farebbe senza dubbio parlare. SIGNORA W. Dovrebbe farci spiegare Levett. SIGNORA D. Al pubblico. SIGNORA W. Al pubblico ignorante. SIGNORA D. Al loggione. SIGNORA W. Alla platea. SIGNORA C. Ai palchi.

Un solo passo separa questo brano da Aspettando Godot, e un altro passo lo separa da Finale di partita. Sin dall’inizio l’atteggiamento di Beckett si distoglie dagli attori per rivolgersi al pubblico, e mai viceversa. In Finale di partita ci troviamo di fronte a una radicale interiorizzazione: l’intero dramma è come un teatro nel teatro, ma sul palcoscenico non vi sono spettatori, e potremmo benissimo essere nella mente del bizzarro solipsista Hamm, un Amleto nella fossa finale, che è anche Prospero dopo lo smarrimento del suo libro, e potrebbe essere persino Lear nella sua follia quasi definitiva. Come

Joyce prima di lui, Beckett attinge a Shakespeare, ma non nello stile di Joyce. In Finale di partita le allusioni esplicite a Shakespeare sono rarissime. Beckett ripensa le crisi di tutti e tre i drammi. Clov è Calibano e Ariele in relazione con Prospero; Orazio e il becchino intenti a dialogare con Amleto; il Matto e Gloucester terrorizzati da Lear. Le trasposizioni sono moltissime; Gloucester/Clov non è cieco; Lear/Hamm sì. Hamm/Lear esige amore da Clov/il Matto; per quanto il Matto sia rancoroso, ama il re come se fosse il vero e unico figlio di Lear. Alla fine Amleto è disinteressato e trascendente; Hamm è sempre pragmaticamente mostruoso, ma per nulla pericoloso come Amleto. Clov è un Orazio per niente affettuoso, ma come Orazio rappresenta gli spettatori nei confronti di Hamm/Amleto. Prospero ha compiuto un rarissimo atto di perdono; Hamm è volgare e vendicativo nei confronti della vita in tutte le sue forme. Nei suoi risentimenti, Clov è più Calibano che Ariele, ma non può desiderare di andarsene, perché non vi è un luogo in cui andare. Con stupefacente economicità, Beckett elimina ogni contesto da Shakespeare e concentra in un unico attore i tre più poderosi protagonisti shakespeariani. Come osservano tutti i critici, Finale di partita ha una consapevolezza teatrale ancora maggiore rispetto a quella di Aspettando Godot: Hamm è un drammaturgo-attore che recita mentre è impegnato in una competizione (simile a un gioco di scacchi) con il pubblico, ad eccezione del fatto che lo spettacolo si rivela essere la competizione. L’attore è tuttavia odioso; Finale di partita va al di là di ogni effetto di alienazione. Di fronte a noi non vi sono malinconici clown-vagabondi: Hamm è simile a Pozzo, ma è dotato di un talento creativo che investe in una falsa creazione. Clov è appena più simpatico, e Magg e Nell sembrano resti di genitori degni di Hamm. Leggendo il dramma o assistendo alla sua rappresentazione, mi meraviglio sempre che personaggi così antipatici riescano ad avvincermi con qualcosa di stranamente parallelo alla forza carismatica di Amleto, Prospero e Lear, e con qualcos’altro che compensa la mancanza del supremo pathos di Orazio, Calibano, Gloucester e del Matto. La sfida canonica di Finale di partita consiste nel fatto di comparire quasi alla fine del Canone; Finale di partita è il nostro momento di ultima resistenza della letteratura, se la letteratura significa Shakespeare, Dante, Racine, Proust e Joyce. Beckett, cui forse non importava nulla (anche se ne dubito) è il profeta del silenzio subito prima del ricorso vichiano. Sembra quasi preannunciare l’epoca in cui Dante, Proust e Joyce non avranno più lettori profondi, e Shakespeare e Racine non verranno

più rappresentati. Quello sarà il vero finale di partita, e molti di coloro che sono in vita oggi vivranno forse quanto basta per vederlo. Se doveste recitare o addirittura dirigere l’Amleto come se a scriverlo fosse stato lo scacchista Beckett, potreste concepirlo come una partita tra Amleto e Claudio in cui il finale di partita dell’atto quinto sgomberasse il palcoscenico lasciando solo Orazio, un cavallo abbandonato, e Fortebraccio, un re introdotto sulla scacchiera dopo lo scacco matto. In Finale di partita non vi è un forte oppositore all’Hamm dagli occhi bianchi; quest’ultimo gioca a scacchi contro se stesso e perde, oppure la sua partita è contro gli spettatori, e non vi è alcun vincitore. Dietro le quinte dell’Amleto vi è un appassionato rapporto d’amore tra Claudio e Gertrude; non sappiamo se vada inteso come adulterino, poiché Shakespeare non dice con esattezza quando sia iniziato. In confronto, la storia d’amore tra Nagg e Nell viene ridotta in maniera grottesca, e sembra essere questo il motivo della loro presenza nel dramma, che, a rigor di termini, non la richiede. Suppongo che Beckett si sia appropriato con astuzia anche del Macbeth; il ragazzino che causa l’inquietudine di Hamm è il Fleance del dramma shakespeariano, antenato di una discendenza di re che forse regnano ancora su quelle che paiono essere le macerie di un mondo distrutto. Il rapporto tra Clov e Hamm ha rammentato ad alcuni critici che in gioventù Beckett aveva interpretato il ruolo del fedele Orazio verso il solipsistico Amleto di Joyce. Non so come escludere questo elemento da Finale di partita, poiché uno dei punti di forza del dramma è il fatto che la sua ruvida povertà lo universalizza al punto che qualsiasi opera di Shakespeare, compreso il Riccardo II e il Riccardo III, sembrerebbe non esserne affatto influenzata. Un modo per rendersi conto della forza interpretativa di Finale di partita è notare la differenza tra le illuminazioni che proietta sulla produzione di Shakespeare e il fallimento di ogni illuminazione retrospettiva sull’Ulisse e sulla Veglia di Finnegan, due opere epiche intrise di Shakespeare. Si tratta di una differenza soprattutto formale; Beckett plasmò l’equivalente teatrale novecentesco di Shakespeare. Non sono stato soddisfatto di assistere a un Re Lear rappresentato come Finale di partita o a un Amleto presentato come Aspettando Godot nel Rosencrantz and Guildenstern Are Dead di Tom Stoppard, un’opera ossessionata da Beckett. Sarebbe più fantasioso e più beckettiano mettere in scena il Re Lear come Aspettando Godot e l’Amleto come Finale di partita, e persino La tempesta come L’ultimo nastro di Prospero.

Per quanto usiamo Finale di partita come una critica dei drammi shakespeariani, Shakespeare resta tuttavia scrittura, e Finale di partita resta commento. Si tratta di un’interpretazione anglo-irlandese-francese di Shakespeare, con qualche ironica cavalcata filosofica: l’analitica cartesiana, ben illustrata da Kenner, e la spaventosa parodia schopenhaueriana della volontà di vivere, utilizzate dal giovane Beckett nella sua monografia su Proust. Se stesso in Finale di partita, Beckett (non possiamo sapere a quale livello di intenzione conscia) scrive il dramma della coscienza di Hamm, una sfida non raccolta da Ibsen, sebbene di tanto in tanto baleni nell’imperatore Giuliano di Imperatore e Galileo. Comunque leggiate l’Amleto, il principe vi sconcerta come sconcerta se stesso. Non si è rivelato efficace nessun approccio dogmatico alla massima rappresentazione occidentale della coscienza. Con l’Amleto Shakespeare compì una sperimentazione così radicale che non sappiamo come conciliare il principe infantile dell’atto primo con lo stoico purificato dell’atto quinto, che pare avere quindici anni di più dopo un intervallo di tempo che è probabilmente solo di un mese o due. Beckett, come Joyce, sembra perdere interesse per Amleto dopo la scena del cimitero, salvo aver captato le parole di Amleto moribondo: «Il resto è silenzio». Amleto, eroe (o antieroe) della coscienza occidentale, è il ritratto di un carismatico. Hamm, la sua poderosa parodia, è tutto tranne questo; tutto ciò che conserva di Amleto è il dottore del dramma e il regista del dramma nel dramma; si tratta tuttavia di una parte notevole, quella capace di convincerci che, unico tra tutti i personaggi shakespeariani, il principe di Danimarca potrebbe essere stato l’autore di tutto il suo dramma. Come tutti sanno da sempre, tutte le opere teatrali di Shakespeare parlano, a un certo livello, di recitazione, almeno da Pene d’amore perdute in avanti. «Troppo lungo per una commedia» protesta Berowne quando Rosalina gli dice che, se vuole conquistarla, dovrà trascorrere un anno e un giorno tra i malati e i moribondi. Nelle quattro grandi tragedie domestiche di sangue – l’Amleto, l’Otello, il Macbeth e il Re Lear –le metafore teatrali si susseguono, come se Shakespeare debba rifarsi a ciò che meglio conosce per recuperare l’inventiva che abbonda ai vertici della sua produzione. L’impulso drammaturgico di Shakespeare, in Amleto e chiunque altro viene espresso alla perfezione da Hamm: «E poi parlare, presto, delle parole, come il bambino solitario che si mette in diversi, in due, in tre, per essere insieme, e parlare insieme, nella notte».

È vero che, di primo acchito, Beckett sembra più stilizzato di Shakespeare; Beckett ammirava i drammi di William Butler Yeats, molto adatti alla messa in scena e simili al Nô giapponese, e la sua estrema stilizzazione assorbe elementi da Yeats. Una riflessione sull’Amleto rivela tuttavia che la stilizzazione – in Racine, nell’Ibsen maturo, in Yeats o in Beckett – non può spingersi al di là dell’Amleto, il dramma più che il principe, un personaggio che conserva molta spontaneità ma che viene spinto avanti nella missione della morte con una stilizzazione crescente, fino alla messa nera del rituale della spada e del veleno alla fine dell’opera. La violenza retorica di Hamm viene promossa da quella di Amleto, e sarebbe difficile stabilire quale delle due violenze sia più stilizzata. Anche Hamm è pazzo solo fra tramontana e maestrale e, quando il vento soffia da sud, reagisce con lucide distinzioni. Nessuno potrebbe restare affascinato dalla malinconia di Hamm come i secoli sono rimasti affascinati da quella di Amleto, ma nessuno deve sottovalutare l’intelligenza ferita di Hamm, analoga a quella di Amleto. La migliore osservazione critica mai formulata su Finale di partita è quella di Hugh Kenner, che (al contrario di me) legge l’opera come una commedia stoica e sostiene che siamo dentro la testa di Hamm dall’inizio alla fine. Hamm è un pasticcione ed evidentemente è un pessimo giocatore di scacchi, ma la sua forza ossessiva ha una componente intellettuale, ed egli è un personaggio di grande entusiasmo. Non viene solo interpretato da un attore; è un attore, ancora una volta sulle orme di Amleto, che tende ad accusare se stesso di essere un attore anche quando vorrebbe non esserlo. Negli anni in cui Beckett lo servì fedelmente, Joyce recitò Joyce per tutto il tempo, cioè giocava a essere Shem l’amanuense, Amleto, Shakespeare, Stephen e il signor Bloom. A quanto si dice, Beckett non aveva nulla del mattatore. Belacqua, il suo primo surrogato nei racconti, è un Oblomov ma non un Hamm. Non sapremo mai se Shakespeare sia entrato in Amleto (anche se sembra assai probabile), ma sappiamo per certo che Beckett restò sempre fuori dei suoi migliori protagonisti drammatici, al contrario dello straordinario Krapp, in cui la barriera tra drammaturgo e personaggio cede con risultati efficacissimi. Hamm si delinea con chiarezza, l’uomo centrale del dramma novecentesco come Hedda Gabler è la donna centrale del dramma a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Ciò è sconcertante, ed è giusto che sia così: abbiamo uno Iago femminile e un re detronizzato (per così dire) nonché un

servo che non può sedere, mentre lui è cieco e non si regge in piedi. Nella sua retorica, ha deliri di identità sia con Edipo sia con Cristo, che W.B. Yeats vedeva entrambi come antitetici e in rapporto ciclico tra loro. A Hamm piacerebbe essere un crudele dittatore, ma non siamo mai certi se si tratti oppure no di un semplice desiderio scenico, un capriccio da attore, anziché di un desiderio davvero maligno. Nonostante la chiarezza della rappresentazione, Hamm potrebbe non appartenere alla dimensione imitativa della rappresentazione, il che ci fornirebbe un’etica e una psicologia con cui giudicarlo e analizzarlo al tempo stesso. La mimesi shakespeariana consente a Amleto di interpretare se stesso e insieme di essere se stesso; forse Hamm può solo interpretare se stesso. Poiché Amleto è il suo paradigma, e noi pensiamo a Amleto come a un poeta, come possiamo escludere Hamm dalla categoria degli artisti letterari? Per me, questo interrogativo, abilmente esaminato da Sidney Homan, è fonte di turbamento, perché abbiamo vissuto (come Beckett) in un’epoca di «artisti» distruttivi, di Hamm su scala gigante: Hitler, Stalin, Mussolini. Hamm deve loro qualcosa, e ancor più all’Ubu re di Alfred Jarry. Non è chiaro che cosa debba al cieco Milton e al quasi cieco Joyce. Ci sconcerta l’insistenza con cui Homan definisce Hamm un creatore, e temo che abbia ragione, anche quando arriva al punto di chiamare in causa Shakespeare: «Il destino di Hamm, il destino del drammaturgo – e la condizione che Shakespeare lamentava nei Sonetti – è esprimere ogni cosa, prostituire emozioni interiori di fronte a un pubblico». Anche questo separa Hamm da Beckett, che si rifiuta di essere un drammaturgo così shakespeariano. Ma, in sostanza, di chi è il dramma? Di Beckett, di Hamm, oppure, per dirla in maniera assai cruda, di Beckett o di Shakespeare? Joyce citava Dumas padre dicendo che, dopo Dio, Shakespeare era colui che aveva creato più cose. Finale di partita non rientra forse nella creazione di Shakespeare? Lo gnosticismo antico, la più negativa delle teologie eretiche, aveva ideato un falso creatore, il Demiurgo (una parodia dell’artigiano del Timeo platonico), i cui strafalcioni facevano della creazione e del peccato universale un unico evento simultaneo. In concreto, come affermano molti critici, il riferimento biblico di Finale di partita è la storia di Noè e di suo figlio Ham (o Cam), maledetto per aver assistito alla scena primaria reinterpretata da suo padre e sua madre, forse per un’offesa più grave a Noè. Non sappiamo (Beckett si rifiuta di dircelo) se la cecità di Hamm sia frutto della sua maledizione edipica, né siamo in grado di dire quanta rilevanza abbiano Noè

e il Diluvio per Finale di partita. Per gli gnostici (e credo che Beckett lo sapesse) il Diluvio era opera del Demiurgo, il falso creatore simile a Hamm, che desiderava distruggere ogni vita, fosse essa umana, animale o naturale. Borges, nel suo racconto La morte e la bussola, nota che, per gli gnostici, specchi e padri erano altrettanto abominevoli, perché moltiplicavano il numero di esseri umani: una posizione molto vicina a quella macbethiana di Hamm, che ha paura del ragazzo intravisto attraverso la finestra come «potenziale procreatore». Clov, come Orazio, rappresenta il pubblico e funge da mediatore tra Hamm e Amleto. Se Clov se ne va, Finale di partita deve concludersi, ma sebbene il personaggio dichiari di volersene andare, rimane lì in silenzio, con i vestiti da viaggio, intento a fissare Hamm mentre cala il sipario. Evidentemente Clov non se ne va e con lui non restano solo il fazzoletto («vecchio straccio») e il pubblico. Calibano e Prospero finiscono per rivelarsi inseparabili perché sono figlio adottato e padre-maestro adottivo, e lo spettatore viene lasciato nell’incertezza a proposito della possibilità che Clov venga separato da Hamm. Orazio, in quello che ho sempre considerato l’episodio più sorprendente dell’Amleto, vuole tentare il suicidio quando si rende conto che il principe è moribondo. Amleto, con sorprendente forza e furore, considerando la sua ripetizione di «muoio», strappa il veleno a Orazio, non per affetto, ma affinché l’altro sopravviva per raccontare la storia di Amleto a Fortebraccio e agli altri superstiti. Hamm non ha bisogno che Clov riferisca la sua vicenda, e, a differenza di alcuni critici, sono incline a dubitare che il ragazzo fuori della finestra stia per sostituire Clov. In Finale di partita nulla è più problematico del rapporto tra Clov e Hamm; serve a poco definirlo una variante della dialettica hegeliana di schiavo e padrone. Amalgamando Amleto-Orazio con Prospero-Calibano, si ottiene solo una miscela volatile e contraddittoria. Poiché Hamm è l’artefice, Clov può essere solo una creazione, e Clov è molto ostile verso il resto della creazione. Come tutti sanno, Beckett disse che Finale di partita era «un testo piuttosto difficile ed ellittico, dipendente per lo più dalla sua capacità di artigliare, più inumano di Godot». L’intero dramma è un’ellissi, e, a differenza di quanto accade in Godot, ciò che ne viene omesso in maniera deliberata è l’antecedente. Shakespeare pratica sempre un’arte di antecedenti, senza i quali non riusciremmo mai a comprendere perché Hal si scagli contro Falstaff – episodio che precede l’apertura dell’Enrico IV, Parte prima – o perché il Matto spinga senza pietà Re Lear alla pazzia. Beckett ci nega

qualsiasi antecedente, ma se la mia idea che Shakespeare sia il coautore di Finale di partita è fondata, dovrebbe essere possibile ipotizzare l’antecedente di questo dramma straordinario e canonico. Adorno interpretava Finale di partita come un agone tra coscienza e morte. Per Kenner, il dramma veicolava la condanna della disperazione. Nessuno di questi due giudizi mi sembra azzeccato. A predominare sono le aspettative ansiose, e l’ansia non è reazione né lotta contro la morte. Freud osserva che l’ansia è una reazione al pericolo della perdita dell’oggetto, e Hamm teme la perdita di Clov. Mi piace l’affermazione freudiana secondo cui l’ansia è solo una percezione, ma una percezione della possibilità dell’ansia. Mentre aspettate Godot, siete nel kenoma; l’antecedente di Finale di partita è Godot, e ci ritroviamo nel kenoma, un’inondazione asciutta, una vastità nel vuoto. Quando Amleto si scaglia contro Rosencrantz e Guildenstern, prepara il palcoscenico per il finale di partita della sua vendetta contro se stesso: «Oh Dio, potrei restare confinato pur in un guscio di noce e credermi re di uno spazio senza limiti. Ma faccio dei brutti sogni». Ecco l’esistenza in un guscio di noce, nell’entropia della coscienza di Amleto: HAMM Va’ a prendere l’oliatore. CLOV Per fare? HAMM Per oliare le rotelle. CLOV Le ho oliate ieri. HAMM Ieri! Cosa vuol dire. Ieri! CLOV (con violenza) Vuol dire già mille disgrazie fa. Adopero le parole che m’hai insegnato tu. Se non vogliono più dir niente, insegnamene delle altre. O lascia che me ne stia zitto. (Pausa.) HAMM Ho conosciuto un pazzo che credeva che la fine del mondo ci fosse già stata. Dipingeva. Gli volevo bene. Andavo a trovarlo, al manicomio. Lo prendevo per la mano e lo tiravo davanti alla finestra. Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là! Guarda! Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza ! (Pausa.) Lui liberava la mano e tornava nel suo angolo. Spaventato. Aveva visto solo ceneri. (Pausa.) Lui solo era sopravvissuto. (Pausa.) Dimenticato. (Pausa.) Sembra che questi casi non siano… non fossero così… così rari. CLOV Un pazzo? Quando è stato? HAMM Oh, altri tempi, altri tempi. Tu non eri ancora di questo mondo. CLOV La belle époque! Pausa. Hamm si toglie la calotta. HAMM Gli volevo bene. (Pausa. Rimette la calotta. Pausa.) Dipingeva. CLOV Ci sono tante cose terribili. HAMM No, no, non ce ne sono più tante. (Pausa.)

Hamm e Clov, Prospero e Calibano si combinano qui come un Macbeth alla rovescia, con i due «ieri» appartenenti a tutti gli ieri che hanno illuminato i pazzi, la strada verso la morte polverosa. Ignorando la violenza di Clov, Hamm invoca un William Blake rivisto. Blake non andò mai in un manicomio, ma molti lo ritenevano pazzo. Pittore e incisore, era un visionario

apocalittico che, attraverso la natura, vedeva la creazione e il peccato originale gnostici. La battuta fondamentale, una tra le più essenziali del dramma, è quella pronunciata da Hamm: «Lui solo era sopravvissuto». Vi è l’argomentazione gnostica o schopenhaueriana di Finale di partita, nella misura in cui è possibile isolarla. La prospettiva di Hamm è ora quella di Blake: essere risparmiati non significa essere salvati, ma se non altro non ci si lascia ingannare né dalla natura né da se stessi. Come Lear, Hamm ha perduto un regno ma ha guadagnato un disprezzo verso le apparenze di un mondo illusorio. Mentre procede verso il finale della partita, le cose non gli appaiono poi così terribili proprio perché vengono viste e riconosciute come sempre più terribili. Il vero antecedente di Finale di partita è una versione del Re Lear, sebbene ciò che si colloca al di là della sua conclusione debba essere una variazione sulla Tempesta. Nel frattempo siamo nel dramma di Hamm, un secondo dramma nel dramma dell’Amleto e una permanente epifania di quello che Ruskin chiamava «fuoco scenico». La coda di Finale di partita, ammesso che sia mai esistita nelle successive opere teatrali di Beckett, è il monologo biografico dell’Ultimo nastro di Krapp (1958). In questo testo, Kenner individua con acume l’eredità protestante dell’ateo Beckett, che aveva imparato da Schopenhauer a diffidare della volontà di vivere, ma non era riuscito a sottrarsi alla volontà protestante con la sua forte enfasi sulla luce interiore come versione individuale della candela del Signore. Krapp è l’ennesimo studioso della candela, ma in versione vagabondo anziché in stile emersoniano o stevensiano. Vedendo Patrick Magee (per cui la parte era stata scritta) intento a cantilenare Krapp in almeno tre tonalità diverse, corrispondenti a tre età dell’uomo, si approda a una comprensione inedita dell’economia estetica di Beckett, una celebrata parsimonia che aveva il potere di ridursi a finzione di infinità. Inteso come sostituto di Atto senza parole I, alla fine di un cartellone che annunciava Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp è quasi troppo vigoroso per quella funzione, perché neppure Finale di partita riesce a eclissarlo. Probabilmente perché scritto per Magee, L’ultimo nastro di Krapp fu il primo ritorno all’iniziale scrittura in inglese dopo dodici anni. Nel linguaggio vi è un’atmosfera di liberazione, un ritorno proustiano, quasi wordsworthiano, al passato personale, all’Irlanda, alla morte della madre e forse alla fine di un grande amore, probabilmente quello di Beckett per sua cugina Peggy Sinclair, morta nel 1933. Tuttavia, ciò che udiamo dei nastri è

una rivelazione, l’istante in cui una luce particolare esplose dentro Beckett. Il momento più alto e delicato registrato sui nastri viene fatto ascoltare due volte, trasmettendo il ricordo di una magica soddisfazione sessuale, ma nel finale udiamo quella che non mi sembra essere un’ironia: «Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro». In Beckett non vi è nulla di simile, né prima né dopo. A prescindere dal fatto che si tratti di pathos o di ironia, o di un miscuglio delle due cose, queste righe sono così dirette da essere sorprendenti. Come coda di Finale di partita, l’Amleto della nostra era elegiaca, frustrano l’immaginazione. Questo non è Hamm, ed è e non è Beckett. Non è nemmeno chiaro se quel fuoco possa essere categorizzato in termini tratti dalla tradizione artistica. Kenner conclude uno dei suoi studi su Beckett garantendo a se stesso e a noi che l’autore del giovanile Proust e del maturo Finale di partita non era un seguace della «religione dell’arte», e dunque era in qualche modo tutt’uno con T.S. Eliot. Penso che potrei preoccuparmi all’idea che i nuovi teocrati futuri possano andare oltre Kenner e convertire postumamente Beckett, ma la totale stranezza di Finale di partita salverà il dramma da questa sorte.

PARTE QUINTA CATALOGARE IL CANONE

23. CONCLUSIONE ELEGIACA Non intendo proporre il «progetto di letture per una vita», sebbene questa espressione abbia ormai assunto un fascino antico. Vi saranno sempre (o almeno si spera) tenaci lettori che continueranno a leggere nonostante la proliferazione di nuove tecnologie per lo svago. Talvolta cerco di immaginare il dottor Johnson o George Eliot davanti a un programma televisivo come MTV Rap oppure alle prese con la realtà virtuale, e mi sento rincuorato da quello che, credo, sarebbe il loro rifiuto veemente e ironico di intrattenimenti così irrazionali. Dopo una vita trascorsa a insegnare Letteratura in una delle maggiori università americane, ho poca fiducia nella possibilità che l’istruzione letteraria sopravviva al suo attuale malessere. Iniziai la mia carriera didattica oltre cinquant’anni fa in un contesto accademico in cui predominavano le idee di T.S. Eliot, idee che mi mandavano su tutte le furie e contro le quali ho lottato con tutte le mie forze. Oggi mi ritrovo circondato da professori di hip-hop, da cloni della teoria gallico-germanica, dagli ideologi del genere e di vari credi sessuali, da innumerevoli multiculturalisti, e mi rendo conto che la balcanizzazione degli studi letterari è irreversibile. Tutti costoro, pieni di risentimento verso il valore estetico della letteratura, non stanno certo per scomparire, anzi alleveranno altri risentiti istituzionali. Essendo un romantico istituzionale avanti negli anni, rifiuto tuttora la nostalgia eliotiana verso l’ideologia teocratica, ma non vedo il motivo di litigare con qualcuno per le preferenze letterarie. Il presente volume non è destinato agli accademici, poiché ormai solo pochi di loro leggono ancora per amore della lettura. Quello che Johnson e Woolf dopo di lui chiamavano lettore comune esiste tuttora e probabilmente continua ad accettare suggerimenti su cosa leggere. Un simile lettore non legge per trarre un facile piacere o espiare colpe sociali, bensì per ampliare un’esistenza solitaria. L’ambiente accademico ha assunto caratteristiche così incredibili che un illustre critico ha denunciato quel tipo di lettore, sostenendo che leggere senza uno scopo sociale costruttivo era immorale ed esortandomi a rieducarmi mediante un’immersione negli scritti di Abdul Jan Mohammed, un leader della scuola del materialismo culturale di Birmingham (Inghilterra). Essendo incline a leggere qualsiasi cosa, gli ho obbedito, ma non ho trovato la salvezza, e sono tornato a dirvi non che cosa leggere né come leggerlo, bensì solo che cosa ho letto e ho giudicato degno di rilettura, criterio che forse è l’unico banco di

prova pragmatico del canonico. A mio parere, una volta che possedete la «critica culturale» e il «materialismo culturale», dovete anche accettare l’idea di «capitale culturale». Ma che cos’è il «plusvalore» che è stato sfruttato per accumulare un «capitale culturale»? Il marxismo, notoriamente un grido di dolore più che una scienza, ha avuto i suoi poeti, ma li ha anche ogni altra importante eresia religiosa. Il «capitale culturale» non è una metafora né una vacua pedanteria. Nella seconda ipotesi designerebbe solo l’attuale mercato di editori, agenti e club del libro. Come figura retorica, rimane in parte un grido di dolore e in parte un’espressione di rimorso proveniente da chi appartiene al gruppo di intellettuali generati dall’alta borghesia francese, oppure da chi, nelle nostre accademie, si identifica con quei teorici francesi e dimentica pragmaticamente quale sia il Paese in cui vive e insegna davvero. Esiste, è mai esistito, un «capitale culturale» negli Stati Uniti d’America? Noi dominiamo l’Età del caos perché siamo sempre stati caotici, persino nell’Età democratica. Foglie d’erba è forse un «capitale culturale»? E Moby Dick? Non vi è mai stato e non potrà mai esservi un Canone letterario americano ufficiale, perché in America l’estetico esiste sempre come atteggiamento solitario, eccentrico, isolato. «Classicismo americano» è un ossimoro, mentre «classicismo francese» è una tradizione coerente. Non credo che gli studi letterari abbiano un futuro, ma ciò non significa che la critica letteraria sia destinata a morire. La critica come ramo della letteratura sopravvivrà, ma probabilmente non nelle nostre istituzioni didattiche. Proseguirà anche lo studio della letteratura occidentale, ma su scala assai più modesta rispetto a quella delle attuali facoltà di lettere classiche. Quelle che oggi vengono chiamate «facoltà di inglese» verranno ribattezzate facoltà di «studi culturali», in cui il rock, i film, la televisione, i fumetti di Batman e i parchi tematici mormoni sostituiranno Chaucer, Shakespeare, Milton, Wordsworth e Wallace Stevens. Le università e i college più prestigiosi, che un tempo erano elitari, continueranno a offrire qualche corso su Shakespeare, Milton e i loro pari, ma l’insegnamento verrà fornito da facoltà formate da tre o quattro studiosi, equivalenti a insegnanti di latino e greco antico. Non è necessario deplorare questa evoluzione; ora sono pochi gli studenti che si iscrivono a Yale con un’autentica passione per la lettura. Non potete insegnare a qualcuno ad amare la grande poesia se quella persona viene da voi senza quell’amore. Come si fa a insegnare la solitudine? La lettura vera è un’attività solitaria e non insegna a diventare cittadini

migliori. Forse le epoche della lettura – aristocratica, democratica, caotica – volgono ora al termine, e la rinata Era teocratica sarà quasi interamente una cultura orale e visiva. Negli Stati Uniti, «una crisi degli studi letterari» ha la stessa peculiarità di un revival religioso (o Grande risveglio) e di un’ondata di criminalità: sono tutti eventi giornalistici. Il Paese vive un perpetuo revival religioso ormai da due secoli; la sua inclinazione alla violenza civile e domestica è ancora più venerabile e incessante, e nei sessant’anni che ho dedicato agli studi letterari, questa attività è stata continuamente messa in discussione dalla società e, in genere, ritenuta irrilevante. Le facoltà di inglese e simili sono sempre state incapaci di definire se stesse e tanto ingenue da ingurgitare qualunque cosa sembri disponibile per l’ingestione. Vi è una spaventosa giustizia nel fatto che tale voracità si sia rivelata autodistruttiva: l’insegnamento di poesie, drammi, storie e romanzi viene ora sostituito dalla promozione di varie crociate sociali e politiche. Oppure i manufatti della cultura popolare soppiantano gli abili stratagemmi di grandi scrittori come materiale per l’istruzione. Non è la «letteratura» ad aver bisogno di essere ridefinita; se non riuscite a riconoscerla quando la leggete, nessuno potrà mai aiutarvi a conoscerla o ad amarla di più. Gli idealisti postmarxisti propongono «una cultura ad accesso universale» come soluzione alla «crisi», ma come potranno il Paradiso perduto o il Faust, Parte seconda prestarsi a un accesso universale? La poesia più alta è troppo difficile a livello cognitivo e immaginativo per essere letta a fondo se non da pochi rappresentanti di qualsiasi razza, sesso, classe sociale o origine etnica. Quando ero bambino, il Giulio Cesare di Shakespeare, che faceva parte del piano di studi quasi ovunque, era un’ottima introduzione logica alle tragedie di Shakespeare. Oggi gli insegnanti mi dicono che in molte scuole il dramma non viene più letto per intero, perché gli studenti trovano che superi il loro arco dell’attenzione. In due scuole, la realizzazione di scudi e spade di cartone ha sostituito la lettura e la discussione della tragedia. Nessuna socializzazione dei mezzi di produzione e nessun consumo di letteratura può sopperire a un simile svilimento dell’istruzione di base. La moralità dell’erudizione, come praticata oggi, consiste nell’incoraggiare tutti a sostituire piaceri difficili con piaceri universalmente accessibili proprio perché più facili. Trotzkij esortava i suoi compagni marxisti a leggere Dante, che tuttavia non verrebbe accolto a braccia aperte nelle attuali università. Io sono il vostro vero critico marxista, seguace di Groucho più che di

Karl, e il mio motto è la grandiosa frase di Groucho: «Qualunque cosa sia, io sono contrario!». Io sono stato contrario, di volta in volta, al nuovo criticismo neocristiano di T.S. Eliot e dei suoi seguaci accademici; al deconstruttivismo di Paul de Man e dei suoi cloni; alle attuali sfuriate della nuova sinistra e della vecchia destra nei confronti delle presunte ingiustizie, e delle moralità ancora più dubbie, del Canone letterario. I rarissimi critici poderosi non ampliano, non modificano e non rivedono il Canone, anche se compiono senza dubbio un tentativo in questo senso. Tuttavia, consapevolmente o meno, non fanno che ratificare la vera opera di canonizzazione, che viene compiuta dal perpetuo agone tra passato e presente. Non esiste processo socioeconomico che abbia aggiunto John Ashbery e James Merrill o Thomas Pynchon all’idea vaga, inesistente e tuttavia persuasiva di un Canone americano ancora possibile. La poesia di Wallace Stevens e Elizabeth Bishop ha individuato i suoi eredi in Ashbery e Merrill, proprio come la poesia di Emily Dickinson ha scelto Stevens e Bishop. Si può dire che l’opera migliore di Pynchon sposi S.J. Perelman e Nathanael West, ma il potenziale canonico dell’Incanto del lotto 49 dipende più dalla nostra misteriosa impressione che venga imitato da Signorina Cuorinfranti. Shakespeare e Dante fanno invariabilmente eccezione alle discendenze della canonicità; non ci convinceremo mai che abbiano letto troppo a fondo in Joyce, Beckett o chiunque altro. Questo è un altro modo per ripetere ciò che ho cercato di affermare in tutto il presente volume: il Canone occidentale è Shakespeare e Dante. Più in là vi è ciò che hanno assorbito e che li assorbe. Ridefinire la «letteratura» è un’impresa vana perché è impossibile usurpare una forza cognitiva sufficiente per racchiudere Shakespeare e Dante, e questi ultimi sono la letteratura. Per quanto riguarda la loro ridefinizione, vi auguro buona fortuna. Questa impresa viene portata avanti in larga misura dal «neostoricismo», che è lo Shakespeare francese con Amleto all’ombra di Michel Foucault. Abbiamo apprezzato il Freud o il Lacan francese, e il Joyce o il Derrida francese. Il Freud ebreo e il Joyce irlandese sono più di mio gusto, come lo Shakespeare inglese o lo Shakespeare universale. Lo Shakespeare francese è un’assurdità così irresistibile che ci si sente ingrati quando non si apprezza un’invenzione così comica. Pur essendo sconcertante, la ragione precisa per cui gli studiosi di letteratura si sono trasformati in politologi dilettanti, sociologi malinformati, antropologi incompetenti, filosofi mediocri e storici culturali sovradeterminati non è impossibile da individuare. Costoro nutrono

risentimento nei confronti della letteratura, oppure se ne vergognano, o semplicemente non sono per nulla amanti della lettura. Per loro, leggere una poesia, un romanzo o una tragedia shakespeariana è un esercizio di contestualizzazione, ma non nel senso ragionevole di circoscrivere antecedenti adeguati. A prescindere dai criteri di scelta, i contesti si vedono attribuire una forza e un valore maggiori di quelli che Milton attribuì al poema, Dickens al romanzo o Shakespeare al Macbeth. Non saprei dire con esattezza che cosa la metafora delle «energie sociali» rappresenti o sostituisca, ma, come le pulsioni freudiane, tali energie non sono in grado di scrivere, leggere o fare qualsiasi altra cosa. La libido è un mito, e lo stesso vale per le «energie sociali». Shakespeare, scandalosamente disinvolto, era una persona in carne e ossa che riuscì a comporre l’Amleto e il Re Lear. Quello scandalo era inaccettabile per quella che oggi viene spacciata per teoria letteraria. O esistono valori estetici o esistono solo sovradeterminazioni di razza, classe e sesso. Dovete scegliere, poiché, se credete che tutto il valore attribuito a poesie, drammi, storie e romanzi sia solo una mistificazione al servizio della classe dominante, perché dovreste leggere anziché continuare a servire i disperati bisogni delle classi sfruttate? L’idea di aiutare gli offesi e i feriti leggendo a qualcuno della sua origine anziché leggendogli Shakespeare è una delle illusioni più strambe mai promosse dalle o nelle nostre scuole. La verità più profonda sulla formazione secolare del Canone è che a compierla non sono i critici né le accademie, né tanto meno i politici. A creare i canoni sono gli scrittori, gli artisti e i compositori, che gettano ponti tra forti precursori e forti successori. Prendiamo, per esempio, i più vitali autori americani contemporanei: Ashbery e Merrill, due poeti, e Pynchon, uno scrittore in prosa di finzioni epiche. Sono incline a definirli canonici, ma per ora è impossibile dirlo con certezza. La profezia canonica va messa alla prova per circa due generazioni dopo la morte di uno scrittore. Wallace Stevens, vissuto dal 1879 al 1955, è chiaramente un poeta canonico, forse il maggior poeta americano dopo Walt Whitman e Emily Dickinson. I suoi unici rivali sembrano essere Robert Frost e T.S. Eliot; Pound e William Carlos Williams sono più problematici, come anche Marianne Moore e Gertrude Stein (quando considerata solo per la sua produzione poetica), e Hart Crane è morto troppo presto. Stevens contribuì a generare Merrill e Ashbery, come anche Elizabeth Bishop, A.R. Ammons e altri poeti di vero talento. Anche se io ne sono convinto, è tuttavia troppo presto per sapere se

dalla loro influenza emergeranno poeti destinati a durare. Quando ne saranno comparsi chiaramente uno o più, ciò contribuirà a confermare Stevens, ma non ancora Merrill o Ashbery, almeno non allo stesso livello. È un processo curioso, e tendo a mettere in discussione il mio modo di vederlo domandandomi: che fine farà Yeats? I successivi poeti angloirlandesi sono estremamente cauti verso la sua influenza e sembrano averlo respinto. Ancora una volta la risposta è che occorre un po’ di tempo anche solo per vedere l’influenza con precisione. Yeats morì nel 1939; dopo quasi settant’anni riesco a vederne l’influenza su coloro che l’avevano negata, Eliot e Stevens; e la loro influenza è stata feconda, per esempio nel loro effetto congiunto su Hart Crane, il cui accento bizzarro, per quanto contestato, aleggia quasi ovunque. Eliot e Stevens avevano atteggiamenti culturali opposti, mentre il rapporto di Crane con Eliot in particolare era quasi del tutto antitetico. Le considerazioni sociopolitiche possono tuttavia essere ribaltate dai rapporti d’influenza capaci di produrre un Canone. Crane rifiutò la visione di Eliot ma non riuscì a sottrarsi all’idioma di Eliot. I grandi stili sono sufficienti per la canonicità perché possiedono il potere della contaminazione, e la contaminazione è il banco di prova pragmatico per la formazione del Canone. Immergetevi, diciamo per diversi giorni di fila, nella lettura di Shakespeare e poi passate a un altro autore, precedente, successivo o contemporaneo. Ai fini dell’esperimento, scegliete solo il più illustre esponente di ciascun gruppo: Omero o Dante, Cervantes o Ben Jonson, Tolstoj o Proust. La differenza nell’esperienza di lettura sarà una differenza di natura e di grado. Questa diversità, avvertita universalmente dall’epoca di Shakespeare a oggi, viene espressa da lettori comuni e sofisticati, secondo cui è legata alla nostra percezione di ciò che vogliamo chiamare «naturale». Il dottor Johnson assicurava che nulla può piacere a lungo, ad eccezione delle rappresentazioni di natura generale. Questa affermazione mi sembra tuttora incontrovertibile, anche se molto di ciò che viene ora esaltato ogni settimana non supererebbe il test johnsoniano. La rappresentazione di Shakespeare, la sua presunta imitazione di ciò che viene considerato più essenziale in noi, viene giudicata più naturale di qualsiasi altro riflesso della realtà da quando i suoi drammi vennero messi in scena per la prima volta. Passare da Shakespeare a Dante, a Cervantes o persino a Tolstoj equivale in qualche modo ad avere l’illusione di subire una perdita in termini di immediatezza sensuosa. Ci voltiamo verso Shakespeare e rimpiangiamo la nostra assenza da

lui perché sembra un’assenza dalla realtà. I motivi per leggere e per scrivere sono molto diversi e spesso non sono chiari neppure per i lettori o gli scrittori autocoscienti. Forse il principale motivo della metafora, o per la scrittura e la lettura del linguaggio figurativo, è il desiderio di essere diversi, di essere altrove. In questa asserzione seguo Nietzsche, secondo cui ciò per cui riusciamo a trovare le parole è già morto nei nostri cuori, cosicché vi è sempre una sorta di disprezzo nell’atto del parlare. Amleto concorda con Nietzsche, ed entrambi avrebbero potuto estendere il disprezzo all’atto dello scrivere. Noi non leggiamo tuttavia per svuotare i nostri cuori, dunque non vi è alcun disprezzo nell’atto del leggere. Le tradizioni ci dicono che l’io libero e solitario scrive per superare la mortalità. Ritengo che l’io, nella sua aspirazione a essere libero e solitario, legga, in sostanza, con un unico scopo: trovarsi di fronte alla grandezza. Quel confronto non maschera il desiderio di unirsi alla grandezza, che è il fondamento dell’esperienza estetica un tempo chiamata Sublime: la ricerca di una trascendenza dei limiti. Il nostro destino comune comprende la vecchiaia, la malattia, la morte, l’oblio. La nostra speranza comune, tenue ma persistente, è una versione della sopravvivenza. Trovarci di fronte alla grandezza durante la lettura è un processo intimo e dispendioso, e non è mai andato molto di moda tra i critici. Ora è fuori moda più che mai, perché la ricerca di libertà e solitudine viene condannata come politicamente scorretta o egoistica e non adatta alla nostra società angosciata. Nella letteratura dell’Occidente, la grandezza si incentra su Shakespeare, che è diventato la pietra di paragone per tutti gli scrittori precedenti e successivi, siano essi novellieri, drammaturghi o poeti lirici. Ad eccezione dei suggerimenti chauceriani, Shakespeare non aveva alcun vero precursore nella creazione di personaggi e influenzò tutti i successori con il suo modo di rappresentare la natura umana. La sua originalità era ed è così facile da assimilare che restiamo disarmati e non capiamo quanto ci abbia cambiati e continui a cambiarci. Gran parte della letteratura occidentale dopo Shakespeare è, in vario grado, una difesa da Shakespeare, che sa essere un’influenza così travolgente da soffocare chiunque sia costretto a studiarlo. L’enigma di Shakespeare è il suo universalismo: le riduzioni cinematografiche del Macbeth e del Re Lear proposte da Kurosawa sono assolutamente Kurosawa e assolutamente Shakespeare. Anche considerando i personaggi shakespeariani più come ruoli per attori che come personaggi drammatici, non riuscite a spiegare la persuasività umana di Amleto o

Cleopatra quando li paragonate ai ruoli proposti da Ibsen, senza dubbio il principale drammaturgo postshakespeariano prodotto dall’Europa. Quando passiamo da Amleto a Peer Gynt, o da Cleopatra a Hedda Gabler, sentiamo che la personalità è svanita, che il demonico shakespeariano si è ridotto alla natura trollesca ibseniana. Il miracolo dell’universalismo di Shakespeare è l’impossibilità di ottenerlo trascendendo le contingenze: i grandi personaggi e le loro vicende sceniche accettano di incastrarsi nella storia e nella società, rifiutando al tempo stesso qualsiasi modalità di riduzione: storica, sociale, teologica o legata alle nostre psicologizzazioni e alle nostre moralizzazioni tardive. Falstaff possiede quasi tutti gli squallidi difetti che, sull’esempio di Hal, gli studiosi trovano in lui, ma Sir John – che è insieme un personaggio dotato di grande arguzia, un pensatore vigoroso e un vero umorista – è al livello di Amleto come coscienza originale. Non è sufficiente dire che offre un ruolo magnifico: Falstaff è un cosmo, non un ornamento, e presenta lo specchio non tanto alla natura quanto alla nostra estrema capacità di nuova vita. Blake sosteneva che l’esuberanza era bellezza, e alla luce di una simile equazione nessun altro personaggio drammatico è bello quanto Falstaff. L’esuberanza delle forme gigantesche di Rabelais viene uguagliata da Sir John, costretto a muoversi entro i limiti di un palcoscenico mentre Panurge si erge in una Francia visionaria. William Hazlitt trovava soprattutto in Shakespeare la caratteristica che aveva battezzato entusiasmo («una forza o una passione capaci di definire qualsiasi oggetto») e la attribuiva a Boccaccio e Rabelais sopra a tutti gli altri scrittori in prosa. Hazlitt ci esorta anche a comprendere che le arti non sono progressive, una constatazione cui epoche tardive come la nostra tentano di opporsi. Perché un singolo critico, arrivato così tardi nella tradizione, dovrebbe catalogare il Canone occidentale così come lo vede? Ora persino le nostre università più prestigiose sono passive di fronte alle imminenti ondate di multiculturalismo. Tuttavia, anche se le nostre mode attuali prevarranno per sempre, le scelte canoniche delle opere presenti e passate hanno il loro fascino e il loro interesse, perché rientrano a loro volta nella continua competizione rappresentata dalla letteratura. Tutti hanno, o dovrebbero avere, un elenco di libri in vista del giorno in cui, fuggendo dai nemici, faranno naufragio su un’isola deserta, o in cui, dopo aver concluso le loro battaglie, si allontaneranno zoppicando per trascorrere il tempo loro rimasto a leggere tranquillamente. Se potessi scegliere un solo libro, sarebbe l’opera omnia di

Shakespeare. Se potessi sceglierne due, quella e la Bibbia. E se fossero tre? Qui iniziano le difficoltà. William Hazlitt, uno dei pochi critici con una presenza assicurata nel Canone, scrisse uno splendido saggio intitolato On Reading Old Books: Non penso affatto male di un libro perché è sopravvissuto all’autore di una o due generazioni. Ho più fiducia nei morti che nei vivi. Gli scrittori contemporanei possono essere generalmente suddivisi in due classi: i propri amici e i propri nemici. Dei primi siamo costretti a pensare troppo bene, e dei secondi siamo propensi a pensare troppo male, per trarre grande piacere dalla lettura o per giudicare equamente i meriti degli uni e degli altri.

Hazlitt esprime una cautela appropriata per il critico in un’epoca di ritardi sempre più prolungati. La sovrappopolazione di libri (e di autori), causata dalla lunghezza e dalla complessità della storia documentata del mondo, si colloca ora più che mai al centro dei dilemmi canonici. Poiché oggi, nell’era del cinema e della televisione, le persone che leggono sono così poche, la domanda non è più: «Che cosa devo leggere?». L’interrogativo pragmatico è divenuto: «Che cosa non dovrei prendermi il disturbo di leggere?». Appena si accetta questa o quella parte del dogma proposto dalla Scuola del risentimento e si ammette che le scelte estetiche sono maschere delle sovradeterminazioni sociali e politiche, simili domande trovano ben presto una facile risposta. Per una variante della legge di Gresham, la cattiva scrittura scaccia quella buona, e al cambiamento sociale contribuisce più Alice Walker di qualsiasi autore dotato di maggiore talento e di immaginazione più disciplinata. Ma i riformatori sociali dove troveranno le direttive per le loro scelte? La politica, per nostro dispiacere collettivo, diventa rapidamente obsoleta come il giornale del mese scorso, e continua a fare notizia solo di rado. Forse la politica letteraria è sempre all’opera, ma gli atteggiamenti politici hanno scarsa incidenza sul romanzo familiare stranamente intimo dei grandi scrittori, che si influenzano a vicenda senza molta attenzione alle somiglianze e alle differenze politiche. L’influenza letteraria è «la politica dello spirito»: pur riflettendo sempre gli interessi di classe, la formazione del Canone è un fenomeno assai ambivalente. Anziché uno dei due massimi poeti inglesi (Chaucer e Shakespeare), la figura centrale nella storia del Canone poetico angloamericano è Milton. Allo stesso modo, lo scrittore antico di importanza fondamentale per l’intera storia del Canone letterario occidentale non è uno dei maggiori poeti – Omero, Dante, Chaucer –, bensì Virgilio, il grande anello di congiunzione tra la poesia ellenistica (Callimaco) e la tradizione poetica europea (Dante, Tasso, Spenser, Milton). Virgilio e Milton restano

poeti che provocano enormi ambivalenze nei loro successori, e quelle ambivalenze definiscono la centralità in un contesto canonico. Nonostante gli idealizzatori – da Esdra lo Scriba al compianto Northrop Frye – un Canone non esiste per liberare i suoi lettori dall’ansia. Un Canone è infatti un’ansia compiuta, proprio come qualsiasi vigorosa opera letteraria è l’ansia compiuta del suo autore. Il Canone letterario non ci battezza dandoci accesso alla cultura; non ci affranca dall’ansia culturale. Anzi, conferma le nostre ansie culturali, ma contribuisce a dar loro forma e coerenza. Se si vuole insistere nell’affermare che un atteggiamento estetico è un’ideologia – un’insistenza che è comune a tutti e sei i rami della Scuola del risentimento: femministe, marxisti, lacaniani, neostoricisti, decostruzionisti, semioticisti –, l’ideologia svolge un ruolo notevole nella formazione del Canone letterario. Naturalmente, c’è estetica ed estetica, e gli apostoli convinti che lo studio letterario debba essere una crociata aperta per il cambiamento sociale manifestano ovviamente un’estetica diversa dalla mia versione postemersoniana di Pater e Wilde. Non so se questa sia una differenza che fa la differenza: io e i riformatori sociali sembriamo concordare sullo status canonico di Pynchon, Merrill e Ashbery come tre presenze americane del nostro periodo. I seguaci della Scuola del risentimento schierano candidati canonici alternativi, donne e afroamericani, ma senza molta convinzione. Se i canoni letterari sono solo il prodotto di interessi di classe, razza, sesso e nazione, probabilmente lo stesso dovrebbe valere per tutte le altre tradizioni estetiche, comprese la musica e le arti visive. Matisse e Stravinskij possono dunque unirsi a Joyce e Proust per aggiungere altri quattro maschi europei bianchi defunti. Guardo con stupore le folle di newyorkesi alla mostra di Matisse: sono davvero lì per via del sovracondizionamento sociale? Se la Scuola del risentimento diviene predominante tra gli storici e i critici d’arte nella misura in cui lo è tra gli accademici letterari, Matisse passerà inosservato mentre tutti ci accalcheremo per andare a vedere le croste delle Guerrilla Girls? L’insensatezza di interrogativi come questo è abbastanza palese quando si tratta dell’eminenza di Matisse, e nemmeno Stravinskij corre il rischio di essere sostituito da una musica politicamente corretta per le compagnie di ballo di tutto il mondo. Allora perché la letteratura è così vulnerabile all’assalto degli idealisti sociali contemporanei? Una risposta pare essere l’illusione collettiva secondo cui, per la produzione o la comprensione della letteratura di fantasia (come la chiamavamo un tempo), sono necessarie

meno conoscenza e meno capacità tecnica che per le altre arti. Se tutti parlassimo in note musicali o in pennellate, suppongo che Stravinsky e Matisse potrebbero correre gli stessi peculiari rischi cui oggi sono soggetti gli autori canonici. Tentando di leggere molte delle opere elencate come alternative al Canone proposte dal risentimento, penso che questi aspiranti credano di aver parlato in prosa per tutta la vita o di aver già trasformato le loro passioni sincere in poesie che richiedono solo un poco di sovrascrittura. Passo ora le mie liste, sperando che i sopravvissuti eruditi trovino libri e autori in cui non si sono ancora imbattuti e raccolgano le ricompense offerte solo dalla letteratura canonica.

RINGRAZIAMENTI I miei editor, Anne Freedgood e Pat Strachan, e i miei agenti letterari, Glen Hartley e Lynn Chu, hanno dato contributi essenziali a questo libro. Richard Poirier, John Hollander, Perry Meisel e Roberto González Echevarria mi hanno incoraggiato e consigliato durante tutta la sua stesura. Martha Serpas, che mi ha assistito nelle ricerche, ha reso possibile l’intero processo di revisione, durante il quale mi ha aiutato a dare al volume la sua forma definitiva. Le biblioteche della Yale University, mia risorsa inesauribile per oltre quarant’anni, hanno stoicamente sopportato le mie abitudini di lavoro. HAROLD BLOOM Timothy Dwight College Yale University

BIBLIOGRAFIA Sono qui raccolte le edizioni da cui sono tratte le citazioni riportate da Harold Bloom, ove non indicato la traduzione è a cura dei traduttori del presente volume.

Dante Alighieri, La divina commedia, Inferno, Purgatorio e Paradiso, a cura di Daniele Mattalia, BUR, Milano 1975. Dante Alighieri, La vita nuova, Sansoni, Firenze 1970. Jane Austen, Persuasione, traduzione di Giulietta Cardone Cattaneo, BUR, Milano 1996. James Boswell, Vita di Samuel Johnson, a cura di Giorgio Spina, BUR, Milano 1993. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, traduzione di Alfredo Giannini, BUR, Milano 1981. Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, traduzione di Cino Chiarini e Cesare Foligno, BUR, Milano 1978. Charles Dickens, Casa desolata, traduzione di Silvio Spaventa Filippi, Sansoni, Firenze 1957. Emily Dickinson, Poesie, a cura di Margherita Guidacci, BUR, Milano 2004. George Eliot, Middlemarch, traduzione di Mario Manzani, BUR, Milano 2008. Ralph Waldo Emerson, Natura e altri saggi, Rizzoli, Milano 1990. Ralph Waldo Emerson, Teologia e natura, a cura di Cesare Bori, Marietti, Genova 1991. Johann Wolfgang Goethe, Il divano occidentale orientale, a cura di Ludovica Koch e Ida Porena, BUR, Milano 1997. Johann Wolfgang Goethe, Faust, traduzione di Guido Manacorda, BUR, Milano 2005. Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, traduzione di Sossio Gianetta, Fabbri, Milano 2001. Henrik Ibsen, Peer Gynt, a cura di Alessandra Ghiglione, Vita e pensiero, Milano 1994. John Milton, Paradiso perduto, traduzione di Andrea Maffei, Trachinda Editori, Milano 1991. Molière, Il misantropo, a cura di Luigi Lunari, BUR, Milano 1982.

Molière, Il Tartuffo, a cura di Luigi Lunari, BUR, Milano 1978. Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1982. Friedrich W. Nietzsche, La volontà di potenza, traduzione di Angelo Treves, Bompiani, Milano 1994. Blase Pascal, Frammenti, a cura di Enea Balmas, BUR, Milano 1994. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, La fuggitiva, Il tempo ritrovato, traduzione di Maria Teresa Nessi Somaini, BUR, Milano 1985-1994. William Shakespeare, Le allegre comari di Windsor, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 1976. William Shakespeare, Amleto, traduzione di Gabriele Baldini, BUR, Milano 2006. William Shakespeare, La cronaca di re Enrico V, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 1985. William Shakespeare, Cymbeline, parte I e II, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 2002. William Shakespeare, Enrico IV, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 1989. William Shakespeare, Macbeth, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 1980. William Shakespeare, Il mercante di Venezia, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 2003. William Shakespeare, Misura per misura, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 1988. William Shakespeare, Otello, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 1984. William Shakespeare, Re Lear, a cura di Gabriele Baldini, BUR, Milano 1974. Percy Bysshe Shelley, Poesie, a cura di Giuseppe Conte, BUR, Milano 1989. Lev N. Tolstoj, Chadzˇi-Murat, traduzione di Milli Martinelli, BUR, Milano 1994. Lev N. Tolstoj, Guerra e pace, a cura di Leone Pacini Savoj e Maria Bianca Luporini, BUR, Milano 2002. Walt Whitman, Foglie d’erba, traduzione di Ariodante Marianni, BUR,

Milano 1988. Oscar Wilde, Intenzioni e altri saggi, traduzione di Marcella Dallatorre, BUR, Milano 2002. Virginia Woolf, Gita al faro, traduzione di Luciana Bianciardi, BUR, Milano 1995. Virginia Woolf, Orlando, traduzione di Alberto Rossatti, BUR, Milano 1993.

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Frontespizio Il Libro L'autore Insegnare la solitudine di Andrea Cortellessa Nota bibliografica Prefazione e preludio Parte prima - Sul canone 1. Un’elegia per il canone Parte seconda - L’età aristocratica 2. Shakespeare, il centro del canone 3. La singolarità di Dante: Beatrice e Ulisse 4. La comare di Bath, l’indulgenziere e il personaggio shakespeariano 5. Cervantes: Il dramma del mondo 6. Montaigne e Molière: L’elusività canonica della verità 7. Shakespeare e il satana di Milton 8. Il dottor Samuel Johnson, il critico canonico 9. Il Faust, parte seconda di Goethe: Il poema controcanonico Parte terza - L’età democratica 10. La memoria canonica nel giovane Wordsworth e in persuasione di Jane Austen 11. Walt Whitman come centro del canone americano 12. Emily Dickinson: I vuoti, i trasporti, il buio 13. Il romanzo canonico: Casa desolata di Dickens, Middlemarch di George Eliot 14. Tolstoj e l’eroismo 15. Ibsen: I troll e il Peer Gynt Parte quarta - L’età caotica 16. Freud: Una lettura shakespeariana 17. Proust: Il vero credo della gelosia sessuale 18. L’agone di Joyce con Shakespeare 19. L’orlando di Virginia Woolf: Il femminismo come amore della lettura 20. Kafka: La pazienza canonica e l’«indistruttibilità» 21. Borges, Neruda e Pessoa: Il Whitman ispanico-portoghese 22. Beckett… Joyce… Proust… Shakespeare Parte quinta - Catalogare il canone 23. Conclusione elegiaca Ringraziamenti Bibliografia

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