Dizionario dei filosofi e delle scuole filosofiche 9788820375935

Il Dizionario dei filosofi e delle scuole filosofiche fornisce informazioni sia biografiche sia teoriche sui principali

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Dizionario dei filosofi e delle scuole filosofiche
 9788820375935

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DIZIONARIO DEI FILOSOFI E DELLE SCUOLE FILOSOFICHE

MAURIZIO PANCALDI MARIO TROMBINO MAURIZIO VILLANI

DIZIONARIO DEI FILOSOFI E DELLE SCUOLE FILOSOFICHE

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

Le voci relative a Gadamer e Heidegger sono opera di Roberto Sega. Le voci dedicate ad Averroè, Buber, Cohen, Lévinas, Maimonide, Mendelssohn, Rosenzweig e Stein sono state realizzate da Piero Stefani.

Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2014 via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy) tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886 e-mail [email protected]

www.hoepli.it Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

ISBN 978-88-203-7593-5

Realizzazione editoriale: Rosmarino S.r.l. - Bologna Progetto editoriale: Massimo Manzoni Impaginazione: Caterina Manieri Copertina: mncg S.r.l., Milano

Premessa

Il Dizionario dei filosofi e delle scuole filosofiche è un’opera che tratta i più importanti autori e movimenti della filosofia occidentale. Lo fa in forma rigorosa, ma con un linguaggio piano, non eccessivamente specialistico, accessibile a un pubblico di lettori formato da studenti e da persone di buona cultura interessate alle problematiche filosofiche. Il Dizionario si compone di circa seicento voci, in ordine alfabetico, che trattano i principali filosofi attraverso una sintetica presentazione biografica e una ricostruzione del loro pensiero, a partire dalle opere più significative. Le informazioni sulle caratteristiche delle diverse scuole filosofiche integrano le conoscenze sugli autori, contestualizzandoli all’interno di più vasti movimenti di pensiero. Nel corso della trattazione delle singole voci, la visione d’insieme sui pensatori affrontati è favorita dall’inserimento di tabelle che illustrano le fondamentali correnti della storia della filosofia. La scelta delle voci del Dizionario ha seguito due criteri selettivi: uno geografico e uno disciplinare. Il criterio geografico ha limitato l’area di riferimento agli autori e alle scuole di pensiero dell’Europa e del Nord America, integrati con rimandi alle tradizioni ebraica e islamica per quegli aspetti che hanno avuto diffusione e influenza in Occidente; resta quindi escluso il mondo orientale con il pensiero indiano, cinese e giapponese. Quanto al criterio disciplinare, si è scelto di restringere le voci agli autori e alle scuole che la tradizione considera strettamente appartenenti alla filosofia, assunta nella sua specificità di sapere essenzialmente distinto dalle scienze umane. Gli autori sono in debito di gratitudine nei confronti della professoressa Patrizia Giusti, senza la cui opera di revisione questo volume non avrebbe potuto vedere la luce. Ringraziano inoltre i professori Roberto Sega e Piero Stefani che hanno steso, il primo, le voci relative a Gadamer e Heidegger; il secondo, quelle dedicate ad Averroè, Buber, Cohen, Lévinas, Maimonide, Mendelssohn, Rosenzweig e Stein. Il libro infine non sarebbe uscito senza l’impegno della Casa Editrice Libraria Ulrico Hoepli, che ha creduto in questo progetto, portandolo a realizzazione; ad essa va il ringraziamento conclusivo degli autori.

Indice delle tabelle

Accademia Aristotelismo Cartesianesimo-razionalismo moderno Empirismo Ermeneutica Esistenzialismo Fenomenologia Filosofia analitica Filosofia del linguaggio Giusnaturalismo Idealismo moderno Illuminismo Marxismo Naturalismo rinascimentale Neoidealismo Neokantismo Neoplatonismo Pitagorismo Platonismo Positivismo Presocratici Scetticismo Scolastica Scuola di Francoforte Scuole di Alessandria Socratici Sofisti Stoicismo Storicismo moderno Tomismo

4 27 75 214 137 166 180 12 376 172 159 366 232 59 84 245 247 273 275 289 291 318 329 130 10 337 339 350 99 360

A Abbagnano, Nicola Filosofo esistenzialista italiano (Salerno 1901 - Milano 1990). Autore di numerose opere, saggi e della fondamentale Storia della filosofia, subì inizialmente l’influsso dell’indagine fenomenologica di ➔ Husserl e dell’esistenzialismo di ➔ Heidegger e ➔ Jaspers. L’opera da cui emerge in modo completo il suo pensiero è La struttura dell’esistenza. In essa è infatti illustrata la filosofia dell’esistenza umana come “possibilità delle possibilità”, secondo la quale l’uomo ha il compito, impegnandosi attivamente e concretamente, di giungere all’essere, non chiudendosi nella propria egoità ma rapportandosi con gli altri in un continuo libero sforzo di trascendere se stesso. Questa prospettiva contrappone il pensiero di Abbagnano all’“esistenzialismo negativo” dei pensatori tedeschi (che, nel dare valore a qualsiasi possibilità, vengono a privare l’esistenza della sua apertura problematica) e lo avvicina a correnti, quali il pragmatismo e il razionalismo, maggiormente disponibili a una visione positiva del rapporto dell’uomo con il suo mondo. Abelardo Filosofo e teologo francese (Nantes 1079 - Chalon-sur-Saone 1142). la vita. Nato da una famiglia della piccola nobiltà a Pallet, o Palais, presso Nantes, frequentò la scuola di diversi maestri (Roscellino a Tours, Guglielmo di Champeaux a Parigi, Anselmo a Laon) prima di aprirne una propria di dialettica a Melun e poi a Corbeil. Divenuto reggitore della scuola cattedrale di Parigi, fu maestro acclamato e di enorme successo, attirando studenti da tutta Europa con le sue brillanti lezioni di logica, dialettica, teologia. Tra i suoi allievi vi fu Eloisa, donna eccezionalmente dotta e di forte personalità, che strinse con il maestro una relazione dalla quale nacque un figlio. Lo zio e tutore di lei, il canonico Fulberto, sospettando che Abelardo volesse nuocere alla nipote, si vendicò facendolo evirare. Colpito nella dignità e scosso dalla vergogna, Abelardo prese i voti monastici (lo stesso fece Eloisa) e si ritirò nell’abbazia di St-Denis. Ben presto però riprese a scrivere (compose il trattato De unitate et trinitate divina che gli provocò da parte di Bernardo l’accusa di

eresia e la conseguente condanna nel concilio di Soisson del 1121 e di Sens nel 1141) e a insegnare, con il consueto successo e seguito di studenti. Di indole inquieta e polemica, vagò per molti luoghi (presso Troyes fondò l’oratorio del Paracleto, che ospitò una comunità dedita alla speculazione; fu abate a St-Gildas, da dove fuggì disgustato per la corruzione dei monaci), conservando una grande operosità e continuando nella costante e approfondita riflessione sui più ardui temi metafisici, etici e teologici. A questo periodo, che si conclude con la morte a Chalon-sur-Saone, risale l’autobiografica Historia calamitatum, ma soprattutto lo scambio epistolare con Eloisa, testo considerato tra i più belli e moderni della letteratura medievale. Il loro amore durò per tutta la vita, tanto che i due amanti furono sepolti l’uno accanto all’altra al Paracleto. il pensiero. a) La logica. Abelardo scrisse diverse opere di logica. Tra queste gli Ingredientibus (che comprendono i commenti all’Isagoge di Porfirio, alle Categorie e al De interpretatione di Aristotele, al De differentiis topicis di Boezio), la Nostrorum petitioni sociorum, commento a Porfirio, e la Dialettica, rielaborazione complessiva e originale dell’intera materia logica, frutto di un intenso lavoro di ripensamento che accompagnò tutto il periodo di insegnamento (come testimoniano le tre redazioni composte tra il 1118 e il 1137). Per il filosofo bretone la logica è “arte sermocinale”, analisi linguistica del discorso scientifico e delle condizioni formali della sua verità o falsità: come tale essa è autonoma, svincolata non solo da pregiudiziali metafisiche di ispirazione platonico-agostiniana, ma anche da considerazioni grammaticali e retoriche o da implicazioni di natura psicologica e gnoseologica. In questo contesto si comprende la trattazione abelardiana del problema degli universali, cioè di quelle “voces” che indicano genere e specie e che perciò possono venir predicate di più soggetti (per esempio il concetto di uomo, predicabile di tutti gli individui singoli). Già alla scuola di ➔ Guglielmo di Champeaux, Abelardo aveva avuto modo (anche sulla scorta dell’insegnamento di ➔ Roscel-

Abelardo

lino) di confutare la posizione realista del maestro, il quale sosteneva che la medesima realtà è presente interamente e in modo essenziale nei singoli individui, diversi solo per la molteplicità degli accidenti. A ciò Abelardo aveva obiettato che se veramente la stessa essenza fosse presente nei diversi individui, questa si troverebbe spesso a dover sostenere attributi e accidenti contraddittori. Inoltre, ammessa la realtà delle essenze, si dovrebbero considerare reali anche le categorie aristoteliche (quali essenze più generali di tutte le cose), ma ciò comporterebbe la perdita della realtà specifica e distinta degli individui. Infatti, se ogni categoria fosse essenza, tutte le sostanze si ridurrebbero a un’unica sostanzialità, così come tutte le qualità a un’unica qualità. Abelardo criticò la dottrina del maestro anche in una formulazione attenuata, secondo cui l’universale andava identificato con l’intera collezione degli individui cui esso si riferiva. In definitiva questa versione non si distaccava sostanzialmente dalla prima, e quindi si ripresentavano di nuovo le medesime difficoltà già emerse in precedenza. Per Abelardo l’universale, lungi dal costituire un’essenza o una reale proprietà comune a vari individui, è invece una semplice funzione linguistica, «un vocabolo trovato in modo che si possa predicare singolarmente di molti». Pertanto la conoscenza parte dall’individuale sensibilmente percepito, mentre l’universale assolve esclusivamente a una funzione logica, indispensabile nella costruzione dei discorsi umani. Ciò non significa tuttavia che esso debba essere ridotto alla condizione di puro e semplice flatus vocis (come voleva il nominalismo radicale di Roscellino), in quanto l’accettazione di questa conclusione comprometterebbe la possibilità di concepire il rapporto tra l’universale e le cose, e quindi anche di intendere queste ultime nella loro dimensione di esistenze concrete. Perciò al sermo deve connettersi un intellectus, cioè un contenuto concettuale presente nella mente. Quest’ultimo ha certo un fondamento reale, che non consiste però in una res ma in uno status, cioè in una condizione comune a più individui (per esempio Socrate e Platone non hanno in comune una stessa essenza, ma la condizione di essere uomini). Connessa con la teoria dello status è quella dell’astrazione: è vero che all’origine della nostra attività conoscitiva vi è la percezione sensibile, tuttavia l’intelletto è in grado di costruire un’immagine dell’oggetto indipendente dall’oggetto stes-

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Abelardo

so e persistente nella mente anche in assenza dell’individuo che l’ha prodotta. In forza di tale immagine l’intelletto può cogliere distintamente aspetti di una cosa reale che tuttavia in essa non sussistono in modo realmente distinto. Ciò non avviene per i termini universali, la cui percezione da parte dell’intelletto si risolve nell’immagine comune e confusa di molte realtà individuali, mentre le sole conoscenze chiare e connesse a oggetti reali provengono dagli individui particolari, uniche realtà di cui si dia all’uomo diretta intellezione. In conclusione, l’universale è solo una parola che designa l’immagine generica di una classe di individui, che ci permette di acquistare un’opinione limitata della realtà e suscettibile di mutamento. È tuttavia naturale che la mente converga la sua attenzione sugli aspetti simili o identici delle cose, così come lo è la costituzione di tale immagine, prodotto dell’attività dell’intelletto, che attraverso la riflessione separa e distingue ciò che nell’individuo è unito. A questa immagine mentale corrisponde un segno linguistico (per esempio la parola “uomo”), che di per sé è cosa distinta dalla realtà che significa, ma che è tuttavia connesso a essa in modo così stretto da evocarla immediatamente quando lo si proferisce, adempiendo così al suo compito logico, consistente esclusivamente nel rappresentare e significare le diverse cose. b) La teologia. Alla novità e profondità delle riflessioni logiche di Abelardo, corrisponde un’analoga arditezza in materia di teologia, tanto che alcune sue tesi vennero condannate come eretiche. È pur vero che egli mantiene una netta distinzione tra ragione e fede, tra filosofia (che si occupa, in modo conoscitivamente rigoroso e scientifico, di logica, di fisica e di etica) e teologia (che si occupa del soprannaturale, fondandosi sulla rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture). Sic et non è certo l’opera da cui emerge più chiaramente la sua impostazione metodologica, dato che qui egli procede alla presentazione e al vaglio delle autorità scritturali e patristiche, opponendo tra loro quelle che appaiono contrastanti e contraddittorie. Lungi dal sostenere che la ragione possa dimostrare i misteri della fede e dal mettere in dubbio il principio d’autorità, Abelardo intende mostrare che la dialettica può risultare uno strumento utile per la teologia, conferendole efficacia e consistenza nel momento in cui chiarisce difficoltà, confuta obiezioni, scioglie aporie interne alle argomentazioni tradizionali, distingue

Accademia

il vero dal falso. Il teologo, in un campo in cui nessun mortale può conseguire la verità con le sole proprie forze, procede nelle spiegazioni (come lo stesso Abelardo fa nei suoi scritti, dalla Theologia christiana alla Introductio ad theologiam) impiegando similitudini e paragoni tratti dal ragionamento umano (per esempio, per illustrare il rapporto trinitario tra le persone divine si serve della nozione platonica e stoica di anima del mondo). L’uso, peraltro puramente strumentale e analogico, di temi e argomenti desunti dalle dottrine filosofiche per chiarire i dogmi della fede, è frutto di una visione di implicita continuità tra riflessione classica e dottrina cristiana, che si esplica nella convinzione della sostanziale identità tra i contenuti della filosofia e quelli della rivelazione (Abelardo giunge ad affermare che i filosofi dell’antichità dovettero essere ispirati da Dio al pari dei profeti veterotestamentari). Questo orientamento teoretico risulta evidente anche nell’ultima opera (lasciata incompiuta e perciò pubblicata postuma) di Abelardo, il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, in cui il primo, seguendo la sola ragione nella ricerca della verità, perviene alla conclusione, nel confronto con gli esponenti delle due grandi religioni, che il Sommo Bene, identificabile con la legge naturale, coincide con quanto indicato dalla fede cristiana, in una perfetta convergenza tra i contenuti della rivelazione e quelli della filosofia. c) L’etica. Al problema etico Abelardo ha dedicato un’opera specifica dal titolo Scito te ipsum, in cui cerca di stabilire, su base esclusivamente razionale e attraverso un’analisi rigorosa dei concetti e delle definizioni, ciò che costituisce l’essenza del bene e del male. Escluso che si possano considerare peccato le inclinazioni naturali dell’uomo (come volevano gli asceti della tradizione monastica), posto che nessun rilievo hanno i difetti o i pregi del corpo, egli, ostile a una morale rigidamente prescrittiva di comportamenti ben codificati, tende a identificare il valore etico dell’atto con l’abito interiore che l’accompagna. Viene così distinto il vizio, cioè la cattiva inclinazione della volontà, dal peccato, che è il consenso accordato al primo. Il male è dunque tutto nell’intenzione, cui l’azione effettiva nulla aggiunge: infatti, poiché la moralità di quest’ultima non può derivare dall’imposizione di una norma estranea alla volontà, il medesimo atto può essere positivo se compiuto con buona intenzione, o negativo se dettato da intenzione malvagia. Ciò comporta, tra

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l’altro, che i poteri sacerdotali non possano avere un valore meramente carismatico se non sono accompagnati da una pratica attiva ed esemplare delle virtù. Accademia È la denominazione della scuola filosofica fondata da Platone al ritorno dal suo primo viaggio in Sicilia, così chiamata perché sorgeva nei pressi di un ginnasio in una zona consacrata all’eroe Akádemos. Quali fossero i caratteri della scuola è in discussione. Tre le ipotesi più importanti: — che fosse una istituzione consacrata alle Muse, dal carattere quindi religioso; — che fosse una vera e propria scuola di formazione politica, rivolta ai giovani migliori delle diverse parti della Grecia; — che fosse un’istituzione volta all’insegnamento e alla ricerca, simile a una moderna università. In ogni caso è nell’ambiente dell’Accademia che Platone compose i suoi dialoghi ed è lì che si formò il giovane Aristotele, rimanendovi fino ai 37 anni, al momento della morte di Platone. Dopo la scomparsa del suo fondatore, l’Accademia come istituzione filosofica sopravvisse per molti secoli. Si è soliti distinguere: — l’Accademia antica (sec. IV a.C.), caratterizzata dallo sviluppo degli ultimi interessi di Platone, in senso matematico-pitagorico; — l’Accademia di mezzo (III sec. a.C.), a indirizzo prevalentemente scettico (➔ Arcesilao di Pitane e ➔ Carneade di Cirene); — l’Accademia nuova (dal II sec. a.C. in poi), caratterizzata dalla ripresa di motivi platonici in un contesto prossimo all’eclettismo. Nel 529, quando ormai la nuova religione cristiana si era affermata del tutto, l’imperatore Giustiniano chiuse definitivamente l’ultima scuola filosofica antica, di ispirazione neoplatonica. Richiamandosi alla tradizione platonica, gli umanisti fiorentini del Quattrocento italiano dettero vita a una nuova Accademia, dal carattere informale: una libera comunità di ricerca, ispirata agli ideali di vita dell’umanesimo italiano e al platonismo rinascimentale. Ne fu ispiratore ➔ Marsilio Ficino, sotto la protezione dei Medici. Adorno, Theodor Wiesengrund Filosofo e sociologo tedesco (Francoforte sul Meno 1903 - Visp 1969), tra i maggiori esponenti della Scuola di Francoforte. È autore di scritti di teoria musicale, in particolare Filosofia della musica moderna (1949), in cui si fa emergere attraverso l’analisi della forma estetica il significato sociologico dell’ope-

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ra d’arte, lungo un percorso che proseguirà con saggi su Wagner e Mahler, Dissonanze (1956), Prismi (1955), Introduzione alla sociologia della musica (1962). Nel campo degli studi sociali, durante il periodo d’esilio negli Stati Uniti per l’avvento del nazismo (19381950) condusse una serie di importanti ricerche sugli aspetti più caratteristici della società moderna, industriale e di massa nel capitalismo avanzato, di cui il caso americano costituiva l’espressione più evidente e sviluppata. Ne La personalità autoritaria (una ricerca a più mani condotta, sotto la sua direzione, dall’Istituto per la ricerca sociale) evidenziò la predisposizione al razzismo, all’autoritarismo e al fascismo di questo tipo di società; in Dialettica dell’illuminismo (scritta con ➔ Horckheimer e pubblicata nel 1947) ne denunciò l’inumanità e lo stato di totale e irredimibile alienazione. Servendosi del concetto di illuminismo (equivalente di pensiero razionale in continuo progresso, baconianamente orientato a raggiungere «da sempre l’obiettivo di togliere gli uomini dalla paura e renderli padroni» della natura), quale paradigma ermeneutico per rintracciare il senso della storia dell’Occidente, Adorno lo individuò in quella dialettica per cui lo stesso concetto di una totale razionalizzazione del mondo con fini di emancipazione si realizza inevitabilmente nel suo opposto, un movimento di autodistruzione che porta al dominio dell’uomo sull’uomo.

Accademia

Adorno

In un generale asservimento degli individui a un sistema sociale al quale tutti «devono modellarsi anima e corpo, secondo le esigenze dell’apparato tecnico», ciascuno è chiuso nel suo ruolo alienante, in un processo di decadimento e imbarbarimento in cui (come mostra il mito di Ulisse, vero prototipo dell’uomo borghese, nell’episodio del suo incontro con le Sirene) si smarriscono libertà e felicità. Alla base del sistema si colloca la scienza, forma di razionalità strumentale che fonda sulla matematizzazione la sua stretta solidarietà con la tecnica, e il cui scopo non è la ricerca della verità, bensì dell’efficienza, del successo, del controllo efficace. In queste condizioni anche il pensiero perde la sua essenza, la valenza autonoma e critica, per diventare a sua volta alienato e produttore di un sapere straniante simile a quello del dittatore sugli uomini «che conosce in quanto è in grado di manipolarli». Questa linea di indagine viene proseguita in Minima moralia (1951), una raccolta di aforismi in cui Adorno sottopone a critica la sfera dei rapporti umani alienati nella vita quotidiana e in quella privata: nella più eterogenea gamma dei comportamenti e delle situazioni egli rintraccia (in una fitta trama di acute osservazioni e fini analisi) i segni di un “nuovo tipo umano” e della sua ideologia inconsapevole come prodotto dell’età del capitalismo monopolistico, contrasse-

Lo sviluppo delle scuole platoniche nei secoli SPEUSIPPO (393 ca.-339 a.C.)

ACCADEMIA ANTICA (387-315 a.C.) Atene

SENOCRATE (396-314 a.C.) ERACLIDE PONTICO (390 ca.-310 ca. a.C.) EUDOSSO DI ONIDO (408 ca.-355 ca. a.C.)

PLATONE (427-347 a.C.)

ACCADEMIA MEDIA E NUOVA (III-I sec. a.C.)

ARCESILAO (315 ca.-241 a.C.) CARNEADE (219-129 a.C.)

ACCADEMIA NEOPLATONICA – SCUOLA DI ATENE (V-VI sec. d.C.) fu chiusa da Giustiniano nel 529

SIMPLICIO (VI sec. d.C.)

ACCADEMIA PLATONICA DI FIRENZE (o Careggiana) 1462-1522 Firenze

MARSILIO FICINO (1433-1499)

PROCLO (410 ca.-485)

PICO DELLA MIRANDOLA (1463-1494)

Agostinismo

gnata dalla “freddezza borghese”, dall’“atrofia di tutto ciò che è umano”, dal “trattare gli uomini come cose”. In questo pessimistico scenario, Adorno difende il ruolo della cultura autentica: strumento che “denuncia la menzogna” nel momento in cui risveglia la coscienza e la ragione, restituendo loro quello spessore critico che consente di preavvertire la possibilità di un mondo diverso attraverso “le fratture e le crepe” dell’ordine attuale. Al ritorno in Germania dopo la guerra, Adorno si dedicò principalmente a esplicitare l’apparato teorico sotteso alla sua opera critica. Come risulta in Tre studi su Hegel (1963) e in Dialettica negativa (1966), egli intende richiamarsi soprattutto alla dialettica hegeliana e alle sue categorie (totalità, contraddizione, alterità) quali strumenti indispensabili per la comprensione del reale: di essa accoglie però l’aspetto negativo, cioè antisistematico e aperto, in grado di svelare lo iato tra ragione e realtà, nel momento in cui mette in evidenza le contraddizioni inconciliabili, l’aspetto irrazionale, non unificabile e non giustificabile della seconda. Ancora una volta, egli vede nell’attività teoretica l’unica forma di coscienza utopico-critica capace di non lasciarsi assimilare nello statu quo e di tenere viva, nella rinuncia al mito della “totalità pacificata” e nella contrapposizione ai “sistemi dell’identico”, la speranza in una condizione alternativa all’esistente. Di qui la sua polemica con Heidegger (che riducendo l’ente all’essere ha avallato la subordinazione dell’individuo al sistema sociale), con Husserl (che ha risolto idealisticamente l’oggetto nel soggetto, dissolvendo il reale nel concetto), con Popper (che ha posto lo scopo della scienza sociale in quello adattivo e tutto interno al “mondo amministrato”, di risolvere problemi nella prospettiva di una “società aperta”, capace di autoriformarsi). Agostinismo Termine che designa la corrente filosofica che si ispira al pensiero di Agostino di Ippona, accogliendone e sviluppandone i seguenti temi: — l’appassionata ricerca della verità come impegno totalizzante della vita; — la collaborazione tra ragione e fede e la sostanziale unione di filosofia e teologia; — la dottrina dell’interiorità della verità e dell’illuminazione con conseguente forte impronta spiritualistica; — la preminenza del bene sul vero e conseguentemente della volontà sull’intelligenza; — il rifiuto della sostanzialità del male (che

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Agostino

risulta essere solo di natura morale) e il riconoscimento della positività della materia e del corpo; — il senso della storicità e l’affermazione della razionalità della storia, sia pure in senso provvidenziale e trascendente. L’agostinismo fu particolarmente vivo nel medioevo, in ambito prima monastico (per esempio con Anselmo d’Aosta) e poi francescano (Alessandro di Hales, Roberto Grossatesta, Bonaventura da Bagnoregio, Duns Scoto ecc.), dove ebbe anche un significato polemico nei confronti dell’aristotelismo coltivato dai dottori domenicani. Nell’età moderna il richiamo ad Agostino è forte presso gli umanisti (Petrarca, Erasmo) e i platonici fiorentini (Pico, Cusano, Ficino), e costituisce una delle matrici del pensiero riformato (Lutero, Calvino) o eterodosso (Giansenio). Di agostinismo sono inoltre permeati molti indirizzi filosofici del Seicento (Pascal, Malebranche, Fenelon ecc.) e dell’età contemporanea (Rosmini, Kierkegaard, Barth, Blondel, Marcel ecc.). Agostino, Aurelio Massimo filosofo e teologo della tarda antichità (Tagaste 354 - Ippona 430), santo e Padre della Chiesa. la vita. Aurelio Agostino visse in una delle fasi più critiche dell’ormai inarrestabile declino dell’impero romano, stretto dai popoli barbarici e avviato alla divisione della parte occidentale da quella orientale. Dal punto di vista religioso i secoli IV e V videro la progressiva cristianizzazione dell’impero e il rafforzamento della struttura organizzativa della Chiesa, che surrogò in molte funzioni uno Stato sempre più debole. Le informazioni fondamentali della biografia di Agostino sono fornite da lui stesso nelle Confessioni. Nato nel 354 a Tagaste (l’odierna città algerina di Souk-Ahras) da una famiglia di modesti proprietari terrieri, ricevette un’educazione prevalentemente letteraria e fu avviato dal padre alla carriera di professore di retorica. Il temperamento passionale lo condusse a vivere una giovinezza disordinata e dissoluta, che egli stesso denuncia con asprezza nelle Confessioni. In questi anni l’esempio di vita cristiana della madre Monica sembra non avere alcuna influenza su di lui. Una prima svolta nell’esistenza di Agostino fu prodotta dalla lettura dell’Hortensius di Cicerone, opera oggi perduta che esortava allo studio della filosofia. La ricerca filosofica incominciò ad appassionarlo, spingendolo ad approfondire soprattutto le tematiche morali. È di questi anni (374) l’adesione al manicheismo. La-

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sciata Cartagine, nel 383 Agostino giunse a Roma e, dopo alcune deludenti esperienze di insegnamento, si trasferì a Milano, dove ottenne successi professionali e mondani e dove, in un ambiente ricco di stimoli culturali e religiosi (legati alla presenza del vescovo Ambrogio), Agostino maturò l’evento decisivo della sua esistenza: la conversione al cristianesimo (386). Iniziò da quel momento una febbrile attività di scrittore, volta alla difesa dei principi della fede e alla polemica contro i suoi nemici (manichei, donatisti, pelagiani). L’impegno pubblicistico non venne meno dopo il ritorno in Africa e la consacrazione a vescovo di Ippona (395) e si concluse solo con la morte (430). All’interno di una produzione vastissima, che tocca temi filosofici, teologici, esegetici e apologetici, ricordiamo, prima della conversione, il dialogo Contro gli Accademici, una confutazione dello scetticismo; La vita beata, in cui la felicità è identificata con la sapienza; i Soliloqui, un dialogo tra Agostino e la ragione che propone l’abbandono delle passioni come condizione per raggiungere la verità. Dopo la conversione, le opere maggiori sono: Sul libero arbitrio (388), che analizza il rapporto tra il male e la libertà umana; Il maestro (390), sull’insegnamento della verità; la Vera religione (390), in cui si sostiene che la vera filosofia coincide con la vera religione perché entrambe hanno per oggetto Dio; la Dottrina cristiana (397), un’introduzione alle Sacre Scritture in cui si rivaluta la cultura classica; le Confessioni (398); la Trinità (400-415), sul mistero della trinità (è considerato il capolavoro teologico di Agostino); la Città di Dio (413-426), una visione teologica della storia che vede contrapposte la città terrena e la città celeste. il pensiero. Il pensiero filosofico-teologico di Agostino non presenta un impianto sistematico e molti suoi scritti sono nati occasionalmente nel corso della sua attività pastorale in qualità di vescovo di Ippona. È possibile tuttavia individuare, all’interno di una produzione vastissima, alcuni nuclei tematici, che ruotano attorno a una polarità fondamentale, indicata all’inizio dei Soliloqui (I, 1): «Io desidero conoscere Dio e l’anima. Nient’altro assolutamente.» Nel condurre questa ricerca Agostino utilizza due potenti strumenti concettuali, che riesce a comporre in una sintesi originale: la filosofia platonica e neoplatonica da un lato, l’antropologia di San Paolo dall’altro. a) L’interiorità. La sintesi agostiniana sostiene la superiorità della dimensione interiore

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dell’uomo, nella quale solamente è possibile trovare quel valore che fa risplendere la luce della verità e del bene. Il problema della conoscenza è impostato a partire dalla confutazione dello scetticismo, una prospettiva filosofica che aveva attratto il giovane Agostino. Chi dubita di tutto, è tuttavia certo dell’azione del dubitare e dell’io che dubita: il dubbio, quindi, porta a una prima certezza (Vera religione, 39, 73). Come per ➔ Platone, anche per Agostino la verità non può derivare dall’esperienza sempre mutevole, essa deve consistere in idee immutabili; queste idee però sono conoscibili non per reminiscenza (l’anima non ha vissuto esistenze precedenti) ma per illuminazione, vale a dire attraverso l’intervento di Dio, che rende l’anima capace di conoscere la verità. La metafora dell’illuminazione ci mostra che Dio illumina interiormente l’anima conoscente come la luce permette all’occhio la visione delle cose. b) Fede e intelletto. L’illuminazione divina ci rende capaci di intendere ed è, perciò, il principio che fonda il comprendere; fede e intelletto stanno in uno stretto rapporto, in cui la fede condiziona l’intelletto più profondamente di quanto l’intelletto condizioni la fede. L’intelletto non può comprendere la verità se non è illuminato dalla fede, senza la quale non è in grado di intendere il contenuto che crede. La testimonianza che Agostino ci propone è quella di un filosofare nella fede, una fede che determina le dinamiche della ricerca razionale della verità, la quale a sua volta ha nella rivelazione il proprio fondamento ultimo. Agostino intende rimanere lontano sia da chi vuole rompere i legami tra fede e ragione, in nome di un fideismo radicale che afferma l’assurdità della fede, sia da chi pensa che la sola ragione umana possa raggiungere la verità, indipendentemente dalla fede. La sua posizione corrisponde a una concezione circolare del nesso fede-ragione, ben riassunta nella formula «credo per capire, capisco per credere» (La Trinità, VIIIXV). c) Eternità e temporalità. Agostino avvia la riflessione sul tempo (Confessioni, XI) affrontando il problema della creazione: «Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?» Per trovare la soluzione occorre comprendere il rapporto tra Dio e il mondo attraverso la chiarificazione della relazione che esiste fra l’eternità e il tempo. Dio è l’eterno, in lui tutto è presente insieme; le cose create invece sono disperse nella successione temporale; per Dio non c’è un prima e un poi, per cui non ha senso chiedersi cosa

Agostino

facesse Dio prima della creazione del mondo; Dio non ha creato il mondo nel tempo, ma ha creato il tempo col mondo. Netta è la contrapposizione tra il modo di essere di Dio – l’eternità – e il modo di essere delle creature – la temporalità. Dal punto di vista ontologico il tempo è un non essere: il passato non è più, il futuro non è ancora, il presente è un istante che immediatamente si dilegua. Solo nell’anima il passato è ancora nella memoria, il presente è nell’attenzione, il futuro è già nell’anticipazione. Dal punto di vista psicologico il tempo assume una consistenza relativa, che dipende dall’essere una “distensione dell’anima”. Passato e futuro vengono misurati a partire dal presente, sono una distensione di qualcosa di attuale, l’anima appunto, che è misura del tempo. In un certo modo l’anima riesce a ricomporre ciò che nel tempo si è disperso e viene così a costituire quasi un’immagine dell’eternità. Privo di una realtà oggettiva, il tempo assume nella riflessione agostiniana una precisa valenza soggettiva, destinata a esercitare un’influenza rilevante nella riflessione filosofica successiva. d) Il male. Nella riflessione sulla natura del male Agostino riprende il medesimo schema concettuale con cui ha affrontato il rapporto eternità-tempo. Anche in questo caso distingue il punto di vista ontologico da quello antropologico. Riprendendo tesi neoplatoniche, Agostino afferma che, dal punto di vista ontologico, il male è non essere, privazione del bene, come il buio è privazione della luce. Se Dio è il Bene e se Dio ha creato tutte le cose, allora tutte le cose sono buone, anche se la loro natura di creature le fa essere beni minori rispetto al bene assoluto che è Dio. Agostino rovescia le tesi manichee condivise in gioventù, secondo cui il male era un principio sostanziale del mondo. La negazione della sostanzialità del male comporta la soluzione del problema della sua origine: se il male in sé è non essere, non è imputabile a Dio; può essere imputabile solamente all’uomo, che lo compie ogni volta che commette un peccato, cioè quando sovverte l’ordine dei beni e sceglie un bene minore al posto di un bene maggiore. All’ottimismo ontologico di origine neoplatonica si contrappone il pessimismo morale, di origine paolina; per effetto del peccato originale la natura umana è stata corrotta al punto che l’uomo non può non peccare e, senza l’intervento di un aiuto soprannaturale, andrebbe incontro alla dannazione eterna.

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Agostino

e) Libertà e grazia. Il tema della redenzione è affrontato da Agostino nel contesto della polemica contro Pelagio, secondo cui il peccato originale non è ereditario, ogni uomo è perfettamente libero di scegliere tra bene e male e può con le buone opere meritare la salvezza. Agostino confuta queste tesi proponendo una dottrina della salvezza in cui non è la natura che rende gli uomini pienamente liberi, bensì la grazia, che concede alla volontà la capacità di volere liberamente. La volontà umana, dopo il peccato originale, non è veramente libera, non potendo non peccare; del resto, la libertà autentica, per sua natura, tende verso il bene. Occorre allora rendere la volontà libera dalla corruzione del peccato e metterla in condizione di compiere il bene; compito che può svolgere solo la grazia divina. Come sul piano gnoseologico l’intervento divino rendeva possibile, attraverso l’illuminazione, la conoscenza della verità, così sul piano morale l’intervento divino consente all’uomo, attraverso la grazia, di fare il bene e di raggiungere la salvezza. La dottrina della grazia pone il complesso problema della predestinazione, che ha suscitato aspre dispute nella storia del pensiero cristiano ed è stata al centro della rottura dottrinale tra cattolicesimo e protestantesimo. Infatti Agostino afferma non solo che Dio è libero di salvare o dannare, concedendo o no la grazia, secondo ragioni imperscrutabili per l’uomo; ma lascia anche intendere che Dio ha prescienza di quali uomini si salveranno e quali no, senza predeterminarne la libertà di scelta. Diviene dunque problematico stabilire quale margine sia lasciato alla libertà umana in una prospettiva in cui l’iniziativa della salvezza dipende interamente da Dio. f) Dio e la trinità. Ne La Trinità Agostino approfondisce la teologia trinitaria ponendo un’analogia tra l’essenza di Dio e la struttura dell’anima umana. Agostino pone alla base del suo ragionamento la constatazione che il mistero della trinità – Dio, unica essenza in tre persone – è insondabile per la mente umana. L’essenza di Dio, così come si manifesta attraverso la rivelazione nelle Sacre Scritture, trascende le capacità conoscitive dell’uomo; tuttavia l’analisi dell’anima può avvicinare la comprensione del mistero trinitario. Agostino osserva che l’anima è una mente che, in primo luogo, è, in secondo luogo sa di sé, in terzo luogo ama se stessa: essere, sapere, amare costituiscono una triplicità di aspetti dell’anima, la quale, pur con questa varietà di funzioni, conserva comunque la propria unità.

Agrippa di Nettesheim

L’anima umana si rivela così come immagine imperfetta di Dio stesso, che nella sua unità è contemporaneamente Essere (il Padre), Sapienza (il Figlio) e Amore (lo Spirito Santo). A differenza dell’Uno di Plotino, che era al di là dell’essere e indifferente al mondo, il Dio di Agostino è unità divina che comprende in sé l’essere, l’intelletto e l’amore e che attraverso questa triplicità di funzioni partecipa alle sorti del mondo sia con il Verbo – che contiene in sé idee, modelli e ragioni eterne delle cose – sia con lo Spirito – che esprime l’amore provvidenziale per il creato. g) La teologia della storia. Ne La città di Dio Agostino presenta la propria interpretazione della storia universale dal punto di vista cristiano, indicando il senso provvidenziale dello svolgimento di tutta la vicenda umana, che trova nel rapporto con la trascendenza divina il suo significato ultimo. Nella prima parte dell’opera Agostino, che intende confutare la visione pagana della storia, compie un’analisi critica della storia di Roma e denuncia l’impotenza spirituale del paganesimo; nella seconda parte, dopo aver delineato la storia del popolo eletto, espone la sua concezione provvidenziale della storia, la cui idea centrale risiede nella contrapposizione tra la città terrena e la città di Dio. «Due amori costituiscono queste due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio costituisce la città terrena; l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, la Città celeste» (XIV, 28). L’evoluzione storica dell’umanità passa attraverso tre età fondamentali: nella prima gli uomini vivono senza legge, nella seconda vivono sotto il domino della legge (l’impero romano è l’esempio più alto del dominio della legge), ma solo nella terza età raggiungono il fine dell’organizzazione politica, che coincide con il domino della grazia e l’affermazione dell’amore e della pace. La città terrena e la città celeste convivono nel corso della storia; solo alla fine dei tempi avverrà la separazione dei due regni e il destino escatologico dell’umanità sarà compiuto definitivamente. Agrippa di Nettesheim, Heinrich Cornelius Filosofo e medico tedesco (Colonia 1486 Grenoble 1535). Figura tra le più rilevanti della cultura rinascimentale, Agrippa operò un’originale sintesi tra le dottrine platoniche ermetiche e qabbalistiche giungendo alla magia come espressione suprema della filosofia. La magia diventa così strumento per conoscere e dominare la natura. Nella sua maggiore opera, De occulta philosophia,

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Alano di Lilla

Agrippa divide la realtà in vari livelli, dal più elementare a quello celeste e infine a quello intellettuale i quali, pur nella loro autonomia, sono collegati gerarchicamente e guidati dall’ordine superiore. Così tutta la realtà non solo è armonica e unitaria, ma in essa è presente una razionalità, una ragion d’essere del tutto, che si esprime in forma numerica e in rapporti geometrico-matematici nei quali è presente la parola di Dio. Per queste concezioni Agrippa subì diverse condanne da parte della Chiesa. Alain Pseudonimo di Emile-Auguste Charter, filosofo francese (Orne 1868 - Parigi 1951). Per molti anni Alain ha collaborato con la stampa periodica pubblicando brevi articoli, riflessioni, pensieri filosofici raccolti in vari volumi (i Propos) divenendo così una figura importante nel panorama filosofico francese. Una parte molto ampia del suo lavoro riguarda temi etici, come la felicità e la libertà, trattati da un punto di vista che prosegue la tradizione razionalista francese, rielaborata con grande autonomia di giudizio. Caratteristico del suo pensiero (essenzialmente asistematico ed espresso per lo più in forma aforistica) è il riferimento alla realtà, che deve essere costantemente punto d’arrivo del processo gnoseologico in contrapposizione a ogni astrattismo. L’arte stessa costituisce una concretizzazione della fantasia: come non esiste l’arte senza l’opera, così non si può parlare di “bello” se non in quanto realizzato nelle cose belle. Ogni altro tipo di ragionamento rischia di ridursi a un vago quanto inutile lavoro d’immaginazione. Alano di Lilla Filosofo, letterato e teologo (Lilla 1125 ca. - Citeaux 1203). Studiò a Chartres e insegnò a Parigi e a Montepellier; entrò, non si sa con precisione quando, nell’ordine cistercense e fu impegnato fino al 1194 nella missione di conversione dei catari. La concezione morale di ispirazione platonica, propria della ➔ Scuola di Chartres, si evidenzia sia nel De planctu naturae (opera in prosa e versi) in cui la Natura lamenta come i vizi dell’uomo alterino l’ordine e l’armonia del creato, sia nell’Anticlaudianus (in versi). In quest’ultima opera, nella quale si ritrovano alcune immagini della mistica ebraica, la Natura ottiene da Dio di poter creare un uomo perfetto i cui vizi siano sempre soccombenti alle virtù. Le sorelle celesti Pudore, Ragione, Modestia, Concordia, Abbondanza, Favore, Giovinezza, Riso, Decenza, Pietà, Fede, Intelligenza, Nobiltà e Generosità aiutano la Natura nella realizzazione dell’opera.

Alberto Magno

Le problematiche teologiche, nelle quali si ritrova l’influsso di Scoto Eriugena, di Boezio e dello Pseudo-Dionigi, trovano espressione nelle Regulae de Sacra Theologia e nella Summa quoniam homines (che doveva comprendere l’esposizione di tre argomenti: il Creatore, la Creazione, la Ricreazione – quest’ultima parte completamente mancante). Nelle Regulae Alano vuole rivendicare alla teologia delle regole o principi primi, dalle quali si ricavino le verità teologiche attraverso un rigoroso procedimento deduttivo. Infatti come ogni scienza si fonda su delle regole (la dialettica sulle “massime”, la retorica sui “luoghi comuni”) così la teologia, la scienza più alta, si deve fondare su postulati o principi primi, sul valore immutabile di Dio e sulla perfetta natura. Il discorso viene ripreso da Alano nella Summa, in cui la monade-Dio, suprema unità del tutto, si manifesta in un regno superceleste (dell’Assoluta Perfezione), in un regno celeste (delle Sostanze Angeliche), e in un regno subceleste (delle cose finite). La monade divina è «l’essere di tutto ciò che è», è ciò che informa il tutto senza essere informata di niente; non vi è nulla che possa determinarla e in tal senso è “eminentissima”. Alberto Magno Filosofo e teologo (Launingen 1200 - Colonia 1280). Nato in Germania da nobile famiglia, studiò a Bologna e a Padova; nel 1233 entrò nell’ordine domenicano e svolse il noviziato a Colonia. A Parigi divenne insegnante di teologia e fu maestro di Tommaso d’Aquino. Nel 1260 fu nominato vescovo di Ratisbona dal pontefice Alessandro IV e nel 1261 il nuovo papa lo inviò in Boemia e in Germania a promuovere la IV crociata. Dal 1269 alla morte fu lector emeritus presso lo studio teologico domenicano di Colonia. Tra le sue opere: Tractatus de natura boni, De unitate intellectus contra averroistas, Summa theologiae, Liber de causis. Per Alberto la natura è indubbia manifestazione dell’ordine divino ma la conoscenza di questa non può essere confusa con la conoscenza teologica: «Le cose teologiche non si accordano con le cose filosofiche nei loro principi, perché la teologia è fondata sulla rivelazione e non sulla ragione.» Filosofia e teologia sono scienze profondamente diverse: mentre il teologo muove dalla rivelazione, il filosofo può solo speculare su temi comprensibili dall’intelletto. Metodi e fini sono quindi diversi, anche se le conoscen-

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Alembert

ze naturali, campo della filosofia, sono sempre dominate dalla presenza del divino per cui non è possibile che la ragione, donata agli uomini da Dio, possa entrare in conflitto con le verità divine. Collegandosi al pensiero aristotelico (sia pure contaminato da molti elementi neoplatonici e avicennisti), Alberto identifica l’intelletto divino con l’intelletto agente in cui sono presenti le idee, platonicamente interpretate come forme sia preesistenti alle cose (universali ante rem), sia realmente e attualmente nelle cose (universali in re). L’atto del conoscere libera le idee-forma dalla materia e riporta l’universale in re in universale post rem. Questo processo di astrazione, che è la conoscenza degli universali, rende possibile all’anima di illuminarsi della luce divina e di comprendersi in Lui. Da queste teorie Alberto conclude che l’intelletto agente non può essere separato dal corpo, e che di conseguenza le singole anime degli uomini debbono essere immortali. Alcmeone di Crotone Filosofo greco (VI sec. a.C.). Di lui si hanno pochissime notizie. Si ritiene fosse allievo di Pitagora, e le tradizioni che lo riguardano sono sempre connesse alle prime fasi del pitagorismo. Gli viene attribuito uno scritto Sulla natura, perduto, e diverse scoperte anatomiche, avendo operato nel campo della medicina. Alembert, Jean Baptiste Le Rond d’ Filosofo, fisico e matematico francese (Parigi 1717-1783), tra le figure più significative dell’illuminismo. Fin da giovane si dedicò allo studio della fisica newtoniana e i suoi interessi furono principalmente scientifici: fu ammesso prima all’Accademia delle Scienze di Parigi (1742) poi, nel 1746, acclamato socio di quella di Berlino. In campo filosofico, la fama gli arrise quando fu chiamato da Diderot a collaborare all’Enciclopedia, di cui scrisse il Discorso preliminare nel quale emergono i temi fondamentali della sua indagine filosofica. Se Newton aveva determinato la costruzione di un metodo scientifico, la riflessione di Locke aveva permesso di delineare i limiti del campo gnoseologico e quella di Bacone di classificare il sapere, la distinzione tra memoria (che esprime la storia), ragione (il cui frutto è la filosofia) e immaginazione (che si realizza nella creazione delle arti) induce a far coincidere la filosofia col complesso delle scienze osservative. Al contrario, le questioni di metafisica (Éléments de philosophie, VI) sono «al di là delle no-

Alessandria, Scuola di

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stre capacità intellettuali e perciò si devono escludere con cura dagli elementi della filosofia», che sola può condurre l’uomo sul cammino del progresso. In Histoire de la destruction des Jésuites en France (1765) d’Alembert rivendica l’autonomia della politica di fronte a un potere religioso sempre troppo ingerente e sostiene la convinzione che la società abbia come fondamento solo la volontà degli uomini, che si dibatte tra desiderio di libertà e di uguaglianza, tra ambizioni individuali e necessità collettive controllate ed arginate dal diritto. Alessandria, Scuola di Il termine indica, prima che un’istituzione, un clima dottrinale improntato, pur in una generale tendenza eclettica, a uno spiccato indirizzo platonico che permea, in una fitta rete di scambi fecondi e influenze reciproche, vari ambiti culturali presenti nella capitale dei Tolomei. Qui prima si verifica la rinascita del pitagorismo (II sec. a.C.), poi la cultura ebraica (I sec. d.C.) si inserisce nel pensiero classico attraverso l’uso dell’esegesi allegorica della Bibbia (con Filone d’Alessandria), infine maturano l’ermetismo e lo gnosticismo. Alla seconda metà del II sec. risale la fondazione del Didaskalèion, scuola cristiana di teologia ed esegesi che cercò di conciliare (con Clemente, Origene, Dionigi, Teognosto fino a Didimo il Cieco, fine del IV sec.) il patrimonio ellenico con il messaggio evange-

Scuole di Alessandria

Alessandro di Afrodisia

lico attraverso l’adozione di una più decisa impostazione platonica e di un’ermeneutica tesa a scoprire, attraverso l’applicazione del metodo allegorico di derivazione filoniana, il senso spirituale della Scrittura celato dietro quello letterale. Nella sfera pagana Ammonio Sacca (II sec.) aprì una scuola neoplatonica che ebbe illustri discepoli (tra cui Origene, il retore Longino, Sinesio, ma soprattutto Plotino che ne trasferì l’insegnamento a Roma da dove si diffuse in Siria e a Pergamo) e degni continuatori (da Ipazia a Ermia e Olimpiodoro), e il cui ultimo rappresentante fu chiamato da Eraclio (dopo che Giustiniano aveva già fatto chiudere la Scuola di Atene nel 529) a insegnare a Costantinopoli. Alessandro di Afrodisia Filosofo greco (IIIII sec.), commentatore tra i più notevoli di Aristotele. Insegnante ad Atene tra il 198 e il 211, si distinse nell’intento di chiarire (peraltro in modo originale) le dottrine aristoteliche, specialmente nel campo della psicologia, dove il testo di ➔ Aristotele dava adito a varie interpretazioni sul ruolo dell’intelletto, distinto in possibile (la cui funzione conoscitiva è in potenza) e in produttivo o agente (che, come conoscenza in atto di tutte le essenze, permette al potenziale di operare l’astrazione e di formare il concetto). Aristotele aveva definito l’intelletto agente, in modo conciso e quindi ambiguo, come “separato, immortale ed eterno”, mentre

Scuole e autori operanti ad Alessandria

SCUOLA FILOLOGICA E CENTRO DI STUDI FIORITO ATTORNO AL MUSEO E ALLA BIBLIOTECA (dal III sec. a.C. fino alla conquista araba)

EUCLIDE (300 a.C.) ANDRONICO DI RODI (I sec. a.C.)

FILONE DI ALESSANDRIA (20 ca. a.C.-50 ca. d.C.) AMMONIO SACCA (180 ca.-242 ca.) SCUOLA NEOPLATONICA DI ALESSANDRIA

PSEUDO-LONGINO (III sec.) PLOTINO (205-270 ca.) IPAZIA (IV-V sec.) morta nel 415 ca.

ERMETE TRISMEGISTO (II sec. ca. d.C.) SCUOLA CRISTIANA DI ALESSANDRIA

CLEMENTE ALESSANDRINO (150 ca.-215 ca.) ORIGENE (185 ca.-253 ca.)

Althusius

Alessandro di Afrodisia lo interpreta come coincidente con l’Atto Puro, con il pensiero di Dio stesso contenente in sé tutti gli intelligibili, scisso dall’intelletto umano e quindi immortale. L’uomo possiede l’intelletto possibile che, attraverso la funzione dell’intelletto produttivo, può attuare il processo conoscitivo, mentre l’anima dell’uomo, poiché non partecipa dell’intelletto produttivo, è mortale. Questa interpretazione diede inizio a un lungo dibattito sulla mortalità dell’anima e fu ripresa con vasta eco nel rinascimento da Pomponazzi. Alessandro di Afrodisia fu anche autore di opere speculative autonome quali De fato, De anima, De providentia (questa conservata solo in traduzione araba). Althusius, Johannes Giurista e filosofo tedesco (Diedenshausen 1557 - Emdem 1638). Nella sua opera più notevole (Politica methodice digesta 1603), egli sostiene, pur sul presupposto aristotelico della natura “simbiotica” (sociale) dell’uomo, la teoria dell’origine contrattualistica della società e dello stato, di cui pertanto è considerato (per esempio da von Gierke) il fondatore. Come in ogni associazione l’autorità del capo eletto consensualmente è comunque inferiore a quella dell’associazione stessa, i cui membri prendono le decisioni a maggioranza, così nello stato, che è un’associazione pubblica universale sorta sulla base di associazioni particolari e più ristrette (famiglie, corporazioni ecc.), il sovrano riceve il potere dalla comunità (non dai singoli individui, ma dalle città e dalle province che sono relativamente autonome e dove il popolo è sovrano) impegnandosi a esercitarlo in funzione del bene di tutti. Naturalmente se il sovrano viola il contratto stipulato con il popolo, quest’ultimo, che gli ha affidato il mandato e si è impegnato con lui solo sub conditione, è legittimato a deporlo e anche a ucciderlo (Althusius fa parte della corrente dei “monarcomachi”) per nominarne un altro. Althusser, Luis Filosofo francese (Algeri 1918 - Parigi 1990), tra i maggiori esponenti dello strutturalismo. In Per Marx (1965), rifiutò l’interpretazione “umanistica” del marxismo (sostenuta dalla cultura ufficiale della Sinistra) per sostituirla con una concezione epistemologica derivata da ➔ Bachelard e da ➔ Lacan. Rimossa la dialettica storicistica (quale correlato dell’umanesimo), egli pervenne (in Leggere il Capitale del 1965) a una visione dominata dalla distinzione tra ideologia (non forma di coscienza,

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Analitica, Filosofia

ma sistema inconscio e astorico di determinazioni particolari) e scienza (Marx stesso avrebbe operato, rispetto alla sua precedente filosofia, una “rottura epistemologica” nel 1845 con L’ideologia tedesca): quest’ultima ha come oggetto la totalità globale e complessa (il modo di produzione come “tutto complesso strutturato già dato”), articolata al suo interno in strutture regionali (l’economia, la politica, l’ideologia). Di qui il concetto di surdeterminazione (le varie istanze sono in rapporto di reciproca determinazione causale mentre danno origine al tutto strutturale della società) e la ridefinizione di quello di contraddizione (da intendersi in senso complesso in quanto rilevabile solo all’interno della globalità strutturata in cui un elemento, in particolare quello economico, risulta dominante rispetto all’organizzazione degli altri). Convinto di poter recare con la sua opera una profonda trasformazione non solo a livello intellettuale ma anche su quello della prassi, Althusser ha poi compiuto negli anni Settanta una autocritica (Elementi di autocritica, 1974), riconoscendosi colpevole di “teoricismo”. Ammonio Filosofo greco, detto Sacca, appellativo attribuitogli perché sembra che fin da giovane fosse portatore di sacchi (175242 d.C). Fondatore della prima scuola neoplatonica di Alessandria, frequentata da Origene e da Plotino. L’insegnamento di Ammonio fu esclusivamente orale; si dice che sia stato Plotino ad aver mutuato dal maestro alcune importanti interpretazioni del platonismo elaborandole poi in modo personale. Si narra che Ammonio avesse abbandonato l’iniziale fede cristiana per abbracciare in toto il platonismo. Analitica,  Filoso¿a  Se l’analisi è modalità metodologica fondamentale del fare filosofia, in quanto è suo compito definire (quindi analizzare e discutere) il significato dei termini o dei concetti impiegati nei discorsi umani, allora questa denominazione può comprendere in senso lato gran parte delle correnti di pensiero, dall’antichità (a cominciare dagli eleati, Platone e Aristotele) al medioevo (Tommaso d’Aquino) e ai nostri giorni (Bergson produce una filosofia analitica della coscienza, Husserl una intenzionale, Dewey una esperenziale, Heidegger una esistenziale ecc.). Esiste tuttavia una nozione più specifica di filosofia analitica, con la quale si è soliti designare quelle indagini filosofiche che nell’età moderna hanno scelto come oggetto

Analitica, Filosofia Filosofia analitica

Oxford-Cambridge XX sec.

L. WITTGENSTEIN (1889-1951) G.E. MOORE (1873-1958) J. AUSTIN (1911-1960) B. RUSSELL (1872-1970) G. RYLE (1900-1976) P. STRAWSON (1919-2006)

privilegiato l’analisi linguistica delle nozioni, a discapito o con totale delegittimazione del compito metafisico della filosofia (tanto da poter affermare che l’analisi linguistica costituisce l’arma principale della critica antimetafisica della filosofia moderna). Non a caso le radici storiche della filosofia analitica contemporanea, viva soprattutto nei paesi anglosassoni (recentemente è stata infatti proposta la distinzione tra una tradizione continentale europea, impegnata nei grandi temi dell’esistenza e della storia, e una analitica propria di quelle aree geografiche) risalgono al lavoro degli empiristi inglesi (Locke, Berkeley, Hume) sulle nozioni fondamentali della filosofia (sostanza, materia, io, causalità ecc.). Essi condussero la loro analisi soprattutto da un punto di vista genetico-psicologico, studiando il modo con cui la nostra mente perviene, sulla base delle esperienze sensibili, a formare in sé le idee, connettendole poi tra loro in modo da formare idee più generali o complesse di quelle originariamente fornite dalle impressioni immediate. Ma la loro ricerca aveva anche una direzione semantica, in quanto si preoccupava di stabilire quali esperienze stessero a designare i termini in esame (significato), concludendo che gran parte delle nozioni tradizionali della metafisica sono insensate, cioè prive di designazione empirica. In ogni caso, prescindendo da queste premesse storiche (che potrebbero anche essere estese al pensiero di Johann Friedrich Herbart), si indica come filosofia analitica in senso stretto un movimento filosofico nato in Inghilterra come reazione al neoidealismo di Francis Herbert Bradley per opera di George Edward Moore e Bertrand Russell. Mentre il primo circoscrisse il compito della filosofia a un lavoro di chia-

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rificazione delle categorie del discorso (per esempio quello etico), accettando il punto di vista realistico del senso comune, il secondo, in base ai suoi interessi logico-matematici, era più interessato all’adozione di metodi rigorosi e concludenti. Russell partecipava appassionatamente ai dibattiti di quel periodo, intesi a liberare il calcolo infinitesimale da tutte le nozioni oscure e ad assestare la scienza su una dottrina aritmetica in grado di ridurre ogni enunciato delle matematiche pure (escluse le geometrie) a uno intorno a numeri interi positivi. Quest’impresa esigeva però che venissero poste le definizioni, prettamente filosofiche, di numero naturale e di numero infinito (o transfinito), quest’ultimo al centro della teoria degli insiemi creata da Cantor. Tale teoria in particolare sembrava poter costituire il fondamento cui ricondurre tutti gli altri rami delle matematiche: infatti, mediante le sue nozioni di base si potevano definire i concetti di numero cardinale sia finito sia transfinito, così che l’obiettivo diventava costruire, a partire da queste definizioni di base, l’insieme (sistema ordinale) dei numeri (Frege, Dedekind e Peano lavoravano a questo scopo). Russell era assai vicino alle posizioni di Frege, sia per quanto riguarda il platonismo matematico (gli enti matematici esistono in qualche regno dell’essere) sia per quanto riguarda la riduzione della matematica a logica (i concetti della matematica pura si possono costruire o derivare da quelli della logica pura); tuttavia aveva interessi filosofici più ampi, che lo avevano portato ad avvicinarsi alle teorie empiriocriticiste di Mach secondo le quali ogni nozione doveva, in ultima istanza, ridursi a un fascio più o meno complesso di sensazioni (questa teoria era tanto più interessante perché si accordava con la formazione empiristica di Russell). In questa costellazione di problemi e di interessi cadde la lettura del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, del quale Russell sviluppò alcune tesi che diedero luogo alla formulazione della teoria dell’atomismo logico. Essa consiste in un modello di linguaggio ideale e perfetto, le cui strutture rispecchiano quelle della realtà (Wittgenstein parlava a questo proposito di “corrispondenza pittoriale”) e in cui dovrebbe potersi tradurre ogni enunciato scientifico. Poiché il mondo è costituito da fatti elementari e da fatti complessi, specularmente le proposizioni che lo descrivono saranno atomiche (semplici) e molecolari (composte da un certo numero di proposizioni atomi-

Analitica, Filosofia

che). Poiché la verità di una proposizione atomica è data dalla corrispondenza con il fatto descritto, quella delle proposizioni molecolari verrà stabilita sulla base della verità delle proposizioni atomiche componenti. L’analisi consisterà allora nel mostrare se le proposizioni considerate siano atomiche o molecolari, e in questo secondo caso quali siano le loro componenti semplici e da quali costanti logiche siano connesse. Nelle sue intenzioni ultime il progetto mira a costruire proposizioni equivalenti a quelle intuitive, analizzate mediante una serie di proposizioni enuncianti fatti elementari e combinate in modo logicamente più o meno complesso. I metodi russelliani vennero accolti e sviluppati dall’empirismo logico (o neopositivismo), movimento filosofico sviluppatosi nel cosiddetto Circolo di Vienna, fondato da Schlick, che prese a invitare periodicamente nella sua casa viennese un gruppo di intellettuali per leggere e discutere il Tractatus di Wittgenstein. I neopositivisti però conferirono all’analisi un taglio accentuatamente empiristico, in quanto la fondarono sul principio di verificazione, per il quale il senso di un enunciato consisterebbe nelle sue procedure di verifica, ovvero nell’indicazione di quei fatti, empiricamente rilevabili, che deriverebbero dal suo essere vero. Su questo principio vennero innestate le metodologie dell’atomismo logico nella prospettiva (elaborata principalmente da Carnap) di poter ridurre tutti i discorsi aventi senso (escludendo pertanto la metafisica: lo stesso Carnap demolirà lo scritto di Heidegger Che cos’è la metafisica? come un cumulo di proposizioni insensate) a enunciati riferentisi (i neopositivisti rinunciarono al presupposto metafisico wittgensteiniano che le proposizioni dipingano i fatti) a fatti elementari, dati attraverso un’intuizione sensoriale immediata. A questa prima fase, caratterizzata da preoccupazioni di carattere scientifico (logico-matematico e fisico) che hanno indotto a seguire un’impostazione prevalentemente gnoseologico-ontologica (il problema di fondo era l’individuazione del rapporto tra il linguaggio e gli oggetti, la loro natura ed esistenza), ne è seguita un’altra, molto articolata e complessa, in cui l’attenzione si è spostata sull’atto del parlare in sé, cioè sul contesto in cui risulta appropriato l’impiego dei termini e degli enunciati. Questa svolta si giustifica storicamente con il contatto dei neopositivisti con il pragmatismo americano, che ne allarga gli orizzonti teorici. Un’o-

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pera fondamentale come Segni, linguaggio e comportamento di Morris ha evidenziato i tre piani dell’analisi linguistica: quello sintattico (che riguarda le regole di combinazione dei segni a formare un linguaggio), quello semantico (che concerne il rapporto dei segni con i significati) e quello pragmatico (che riguarda il fatto che i segni linguistici nascono tra gli uomini e stabiliscono i loro rapporti). Proprio l’analisi pragmatica ha aperto l’indagine a forme di discorso prima trascurate, quali il discorso persuasivo, valutativo, etico, giuridico ecc. Questo filone d’indagine, nato in seno al neopositivismo, e quindi condizionato dalle sue premesse scientistiche e ideal-linguistiche, è risultato fecondo nella misura in cui si è incontrato con la prospettiva aperta da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, composte durante il suo insegnamento a Cambridge (anche se in seguito il centro della scuola si sposterà a Oxford) già a partire dagli anni Trenta. In quest’opera egli imprimeva una svolta radicale al suo pensiero, abbandonando l’ontologia del Tractatus e con essa la teoria del linguaggio ideale e del significato come corrispondenza pittorica. Si apriva in tal modo la strada a un campo d’investigazione tutto nuovo, sia perché posto esclusivamente sul terreno linguistico (mentre il pragmatismo faceva ricorso al contributo delle scienze umane) e teso a risolvere nell’analisi tutto il lavoro filosofico (la filosofia rappresenta una sorta di terapia, poiché attraverso l’analisi, che chiarisce equivoci e oscurità presenti nel linguaggio, libera la mente da pseudo-problemi ossessionanti e maniacali), sia perché rivolto al linguaggio comune (o a linguaggi specifici, quali quello storico, politico, estetico, morale, religioso ecc., a esso assimilabili), emendabile, ma non riformabile o sostituibile, e ai suoi usi reali in situazioni determinate. Proprio quest’ultimo punto si oppone, anche polemicamente, alla teoria russelliana e neopositivista del significato: non solo esso è risolto nell’uso (dei termini, delle proposizioni, dei segni: è noto l’aneddoto di Wittgenstein messo in crisi dall’economista Sraffa che gli chiese di spiegargli, sulla base delle teorie del Tractatus, il significato e la struttura logica di un famoso gesto napoletano fatto con il palmo della mano destra e il gomito del braccio sinistro), ma è necessario anche precisare che «ogni espressione ha la sua sintassi». Vi è dunque un pluralismo di regole, di linguaggi, di impieghi che si riallacciano a un insieme di attività sociali multiformi che si intrecciano

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e tra cui sarebbe arbitrario e ingiustificato fare scelte di privilegio. Date queste premesse, risulta pressoché impossibile indicare i canoni della “scuola analitica”, i cui esponenti spesso hanno non solo interessi ma anche vedute metodologiche molto diverse tra loro. Così Peter Strawson si muove a costruire una metafisica descrittiva (opposta a quella classica, correttiva) che si limiti a illustrare come effettivamente si pensa, senza proporsi di produrre una forma migliore di capacità concettuale; Gilbert Ryle ricerca una geografia logica dei concetti, una loro rappresentazione che stabilisca limiti e relazioni; John Arthur Wisdom valorizza le asserzioni filosofiche tradizionali in quanto portano alla luce distinzioni e proprietà rimaste nascoste nel linguaggio comune; Friedrich Waismann si propone di costruire una grammatica filosofica del linguaggio comune; John Langshaw Austin elabora un inventario sistematico degli usi (una fenomenologia) delle diverse espressioni del linguaggio comune come premessa per la soluzione dei problemi filosofici; Geoffrey James Warnock sostiene che la varietà dei modi di parlare sussistenti nel linguaggio ordinario indicherebbe la numerosità e diversità dei fatti da descrivere e così via. Altrettanto arduo risulta seguire la produzione e i risultati conseguiti dagli analisti nei vari campi d’indagine (anche perché questi autori scrivono per lo più articoli e saggi su questioni particolari piuttosto che opere sistematiche). Tuttavia si possono segnalare le ricerche di Arthur Danto sulla storia (la filosofia della storia deve essere intesa come teoria del modo con cui gli uomini rappresentano il mondo in forma narrativa); quelle di Nowell-Smith, Williams e Hare sull’etica (quest’ultimo indica nella universalizzabilità la caratteristica formale delle valutazioni morali e sostiene l’utilitarismo come unica forma valida di filosofia morale, considerando che i principi morali devono essere posti sulla base delle conseguenze provocate dalla loro applicazione); quelle sulla religione di Flew (che applica il principio popperiano di falsificazione al linguaggio religioso rilevandone la mancanza di contenuto empirico malgrado la sua pretesa di darci informazioni sul mondo, sul nostro destino ecc.); di Alasdair MacIntyre (che, rilevando come i miti religiosi abbiano a che fare con le più fondamentali esperienze della nostra vita e quindi con il nostro atteggiamento verso di esse, vede nella religione un invito ad accettare un intero

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sistema di vita con un atto di fede che trova la sua giustificazione solo in base a una autorità); di Crombie (per il quale la presunta mancanza di contenuto empirico delle asserzioni religiose dimostra solo che esse concernono oggetti che non cadono sotto la nostra normale esperienza, mentre al contrario ci mettono di fronte al mistero); di Ramsey (per il quale la strana singolarità del discorso religioso ha la funzione di evocare situazioni in cui uno apprende il personale laddove gli altri trovano l’impersonale, un’inaspettata e profonda intuizione nei confronti dell’intero universo cui fa seguito un impegno-affidamento personale). Negli ultimi tempi il movimento analitico si è ulteriormente consolidato, diffuso e articolato. Oggi gli studiosi non oppongono più linguaggi formalizzati e linguaggi ordinari ma procedono insieme, dopo i contributi di Chomsky alla linguistica, verso una formalizzazione dei linguaggi naturali con strumenti logico-matematici. Peso decisivo in questo senso ha avuto la critica di Quine alla distinzione tra verità analitiche e verità sintetiche (distinzione sottesa alla concezione analitica della filosofia), che ha fatto saltare molte tradizionali dicotomie (scienze empiriche / scienze formali, metodo / contenuto ecc.). Seguace di Quine è Davidson, che ha concentrato la sua attenzione sul problema dell’interpretazione (intesa come quell’insieme di informazioni che consentono di capire un linguaggio inizialmente non conosciuto, passando quindi da un linguaggio a un metalinguaggio) collegandolo a quello della verità (poiché il significato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di verità, se ne ricava che una teoria della verità è eo ipso una teoria empirica del significato dove però la precedenza è assegnata alla verità, poiché solo sulla sua base si può istituire il rapporto di traduzione tra linguaggio e metalinguaggio), e su quello dell’azione (per la quale ha sostenuto la correttezza della relazione causale tra motivazioni e azioni, anche se il concetto di causalità deve essere inteso in modo diverso dalle scienze naturali per non compromettere la libertà umana). Ancora una volta l’ambiente americano ha favorito la confluenza di tradizioni, problemi e metodologie diverse, facendo incontrare (lo si vede appunto in Quine, ma anche in altri autori importanti come Hilary Putnam) il tradizionale indirizzo analitico con il pragmatismo, l’epistemologia, l’empirismo. Ciò ha fatto emergere il problema delle origini della filosofia analitica, con l’espli-

Anassagora

cito intento di indicare, a partire da queste, la natura, i compiti e gli sbocchi futuri di questo indirizzo del pensiero. ➔ Dummett ne pone le radici nell’ambito della filosofia tedesca della fine dell’Ottocento, precisamente in alcune tesi di Frege (compito della filosofia è l’analisi del pensiero, il pensiero è distinto dall’aspetto psicologico del pensare, il pensiero è ciò che si può comunicare nel linguaggio, gli oggetti del pensiero sono i significati), che consentono di riallacciare il movimento analitico a determinate problematiche apparentemente estranee alla sua tradizione, segnatamente alle ricerche di Husserl sull’intenzionalità e il significato. Tale ampliamento dell’orizzonte teoretico ha in parte determinato l’abbandono della rigidità di quella svolta linguistica che ne aveva caratterizzato le motivazioni originarie in vista dell’assunzione di nuovi oneri speculativi. Per esempio, un filosofo dell’ultima generazione, Nagel, ha colto nella polarità tra punto di vista soggettivo e oggettivo il perno attorno al quale far ruotare le questioni centrali del nostro tempo, da quelle epistemologiche a quelle linguistico-comunicative fino a quelle etico-politiche, campo particolarmente stimolante e fertile in cui la filosofia analitica ha offerto e continua a offrire, pur nelle profonde trasformazioni interne, i suoi frutti migliori. Anassagora Filosofo naturalista greco (Clazomene 500 ca. - Lampsaco 428 ca. a.C.). Nativo di Clazomene, in Asia Minore, trascorse gran parte della sua vita ad Atene, dove fu amico di Pericle ed ebbe tra i suoi discepoli il tragico Euripide. Condannato per empietà in un processo in cui i conservatori volevano in realtà colpire il suo potente patrono e la sua politica spregiudicata (a riprova di come l’impostazione della sua ricerca implicasse un modo radicalmente diverso di pensare rispetto a quello tradizionale), si ritirò a Lampsaco, dove rimase fino alla morte. Continuatore della tradizione razionalistica ionica, incarnò un modello di esistenza contemplativa e assorta negli studi: i risultati della sua riflessione furono raccolti (come ci riferisce Platone nell’Apologia di Socrate) in un libro di cui ci restano pochi frammenti. La sua dottrina, pur privilegiando il mondo organico, si svolge in un orizzonte fortemente condizionato dalle tesi eleatiche circa l’inammissibilità del divenire. «Poiché ciò che appare è un fenomeno di ciò che non si vede con gli occhi», occorre partire da ciò che immediatamente è con-

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Anassagora

tinuo e non separato (una serie di qualità), per giungere alle strutture ultime dell’essere mediante i procedimenti analitici dell’intelletto. Con tali presupposti si arriva ad ammettere (è un’ipotesi, acquisita per necessità logica) che, date infinite qualità, ciascuna ne deve contenere infinite altre e che ogni qualità è divisibile all’infinito in quanto essa stessa infinita: di qui la conclusione che «in ogni cosa vi sono particelle di ogni cosa» (“omeomerie” secondo l’espressione di Aristotele), gli innumerevoli “semi di tutte le cose”. Quali particelle qualitativamente discrete, esse costituiscono la realtà, che è tutta insieme una e infinita: se nulla è separato allora «nessuna cosa nasce e nessuna perisce, ma da cose esistenti ognuna si viene a comporre e a scomporre, per cui rettamente il nascere dovrebbe essere chiamato riunirsi e il perire separarsi». Nel presupposto che l’unità originaria del tutto sia una totale indeterminatezza, un mescolarsi “di tutte le cose insieme”, dove tutto è in ogni parte, pieno e compatto, si può giustificare l’individualità delle sostanze e dei corpi con il prevalere, in ognuno di essi, di una componente sulle altre. Di qui l’ammissione che il principio ordinatore dell’universo consiste nell’intervento di un Intelletto (Nous), infinito e dotato di forza propria (di cui Anassagora dice che «è la più sottile e la più pura di tutte le cose e ha ragione intera su ogni cosa e possiede la massima forza e quante cose hanno un’anima tutte domina l’Intelletto [...] e le cose commiste a quelle separate e distinte tutte ha presenti in sé»), che «sopraggiungendo le mise in ordine»: al suo intervento si deve, in una visione in cui si noterà la compresenza di finalismo e meccanicismo (per cui Platone e Aristotele lo hanno al contempo lodato e rimproverato), l’originarsi del movimento (del mondo e degli esseri animati) come distinzione dei semi e loro successivi processi di separazione e ricomposizione. In un’ottica storicamente più corretta (prescindendo quindi dalle problematiche posteriori), converrà concepire l’Intelletto non come entità trascendente ma come elemento vivificante, nucleo dinamico irradiante energia che non è divisibile perché ha in sé tutto, che è in tutte le cose e in nessuna, che è uno in quanto distingue: perciò «non essendo possibile che vi sia il minimo assoluto, non potrebbe nemmeno venir separato, né venire a essere di per sé; ma come era in principio, così anche ora tutte le cose sono insieme». L’Intelletto fonda, pur nell’infini-

Anassimandro

ta quantità dei semi, l’inscindibile interezza della realtà in quanto le è coesteso costituendo, insieme con la determinazione-distinzione delle qualità, la misura delle cose: dunque egli «che è eterno, è certamente anche ora dove anche sono tutte le cose, nella massa avvolgente in ciò che è stato unito a essa e in ciò che ne è stato separato». Da queste premesse deriva una visione strettamente fisicistica dei fenomeni naturali (per Anassagora «il sole è pietra e la luna terra»), un modo di pensare e concepire lontano da ogni ricorso a disposizioni teologiche. Anassimandro Filosofo greco (Mileto 610 ca. - 547 ca. a.C.), appartenente alla scuola di Mileto. Fu concittadino e seguace di Talete, autore di un libro Sulla natura (forse, come pare potersi intuire da alcune indicazioni di ➔ Diogene Laerzio, un trattato di geografia) di cui non resta che un frammento: «le cose dalle quali viene agli esseri la nascita, in quella avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità, poiché reciprocamente debbono pagare la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Dalle relazioni di Aristotele sembra che Anassimandro abbia intuito che nessuna natura particolare possa costituire l’archè (termine che egli per primo sembra abbia introdotto), giacché la generazione avviene per separazione delle qualità opposte e non può mai mancare in nulla: perciò come condizione del processo cosmico (e in una rappresentazione razionalizzatrice delle antiche teogonie e cosmogonie), la materia prima non ha né inizio né fine nel tempo, né misura spaziale. Essa quindi è àpeiron indefinito qualitativamente, eterno e illimitato da cui si sarebbero separati, per effetto di un moto rotatorio, i vari contrari. In questo senso la natura appare, nei suoi rapporti con i molti esseri determinati, inesauribile potenza animatrice e governo razionale del mondo: la sostanza primordiale, in quanto unità indistinta di forza e materia infinite, si manifesta nella produzione ciclica di infiniti mondi coesistenti e nel continuo susseguirsi in ciascuno di essi di generazioni e di dissoluzioni. Per la sua enigmaticità e concisione, il frammento si presta a una molteplicità di interpretazioni: dopo quelle mistico-religiose (che fanno riferimento all’orfismo e alla sua concezione pessimistica della vita) ed etico-politiche (per cui, sulla scia di Esiodo e Solone, la giustizia si presenta come legge dell’ordine secondo il principio della reciprocità, consistente nell’equilibrio e nel bilancia-

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Anassimene

mento degli opposti), conviene evidenziare quella fisicistica, nel quadro delle esigenze culturali dell’ambiente storico-sociale che Anassimandro intese soddisfare. Dalle attività economiche e militari di Mileto emergeva il bisogno di spiegazioni razionali sulla struttura del cosmo, in accordo con le osservazioni effettuate concretamente, traducibili in termini di misurazioni geometriche e di descrizioni geografiche. Di qui il rifiuto delle tradizionali concezioni per proporne altre di grande arditezza strutturale ma più rispondenti a criteri razionali (la terra è un cilindro che «si tiene in equilibrio grazie alla sua equidistanza, da ogni lato, dalla sfera celeste»; il corso degli astri è circolare; adozione della divisione babilonese del giorno in dodici parti ecc.); di qui, in un quadro dove ogni elemento e ogni ente appare determinato e circoscritto in un limite, il necessario rinvio a uno sfondo comune che li racchiuda, un contenente delle limitazioni e delle opposizioni, che a sua volta non può che essere senza limiti e che perciò «tutte le cose abbraccia e tutte regge». L’àpeiron dovrebbe essere inteso fondamentalmente (anche se non si possono escludere gli altri significati) non come entità a sé, ma come orizzonte infinito, “immortale e indistruttibile” perché in esso, che si determina nell’ordine del tempo e nella limitazione degli spazi, si scandisce il ritmo del nascere e del morire delle cose (mentre il tutto è indistruttibile e imperituro), condizione della loro determinazione e separazione reciproca (e quindi della loro misurabilità). Esse sorgono e periscono in quanto si definiscono e si compensano reciprocamente, in relazione essenziale all’indefinito che non nasce e non muore. Anassimene Filosofo greco (Mileto 585 ca. - 528 ca. a.C.), appartenente alla scuola di Mileto. Individuò (come sappiamo dalle testimonianze posteriori e dall’unico frammento rimastoci del suo trattato Sulla natura) l’archè nell’aria in quanto fonte di ogni esistenza, illimitata in estensione, ingenerata e incorruttibile nel tempo, elemento divino che abbraccia ogni cosa, vivificandola e governandola. Perciò Anassimene ha affermato che «come l’anima nostra, che è aria, domina noi, così anche spirito e aria contengono tutto il cosmo». Come in ➔ Anassimandro, è sottesa la concezione di un tutto ordinato organicamente, dove ciascuna parte è in funzione dell’altra e dell’intero: ciò vale per l’uomo (che si percepisce come essere vivente in quanto il soffio vitale si

Anders

manifesta diffondendosi nel corpo, principio connettivo delle sue membra) come per il mondo. Lungi dall’essere una mera entità fisica, l’aria è energia che necessariamente si concretizza in determinazioni particolari, sostrato permanente al processo di rarefazione e condensazione (Plutarco riteneva che Anassimene fosse pervenuto a questa dottrina dall’osservazione «che anche l’uomo emette dalla bocca il caldo e il freddo: perché si raffredda il soffio compresso e condensato dalle labbra, mentre cadendo dalla bocca rilasciata diventa caldo per rarefazione») con cui sembra venire a coincidere («il freddo è la materia che si contrae e si condensa, mentre il caldo è la materia dilatata e allentata»). Così essa genera le differenze e con queste le varie sostanze: «e rarefacendosi diviene fuoco, condensandosi diventa vento, poi nuvola, e ancora (più condensata) acqua, poi terra e quindi pietra, e tutte le altre cose derivano da queste», in un ciclo eterno di produzione e dissoluzione. Su queste basi Anassimene costruì il proprio sistema fisico in cui la terra, piatta e al centro del cosmo, era, al pari degli altri corpi celesti (che si muovono di moto circolare attorno al suo perimetro), sostenuta dall’aria: di qui la spiegazione di tutti gli altri fenomeni, dall’alternarsi del giorno e della notte (dovuto al fatto che l’orbita solare incontra lo schermo delle alte montagne), al lampo (che si produce in seguito alla lacerazione delle nubi da parte di forti venti), ai terremoti (causati dalle variazioni della terra in seguito all’eccessiva escursione termica) ecc. Il tutto era poi racchiuso dalla cristallina volta celeste, alla quale erano saldate le stelle fisse. Anders, Günther Vero nome Günther Stern. Filosofo tedesco di origini ebraiche (Breslavia 1902 - Vienna 1992). Dopo aver studiato con Scheler, Cassirer, Husserl e Heidegger, si interessò di ricerche fenomenologiche relative alla musica e all’antropologia, ma anche di produzione letteraria. Fu vicino alla ➔ Scuola di Francoforte e a molti intellettuali di sinistra (per esempio Bertolt Brecht e ➔ Hannah Arendt, con cui sarà sposato dal 1929 al 1937) negli anni della repubblica di Weimar, finché nel 1933 fu costretto dall’avvento del nazismo a emigrare prima in Francia e poi nel 1936 negli Stati Uniti. Tornato a Vienna nel 1950 fu saggista prolifico, specialmente in seno al movimento internazionale antiatomico (i suoi scritti sull’argomento sono raccolti in La minaccia atomica), di cui fu tra i prin-

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Andronico di Rodi

cipali promotori. Il suo pensiero è espresso soprattutto in L’uomo è antiquato (scritto in forma aforistica in due volumi, usciti rispettivamente nel 1956 e nel 1980), dove egli traccia una ridefinizione del paradigma filosofico dell’antropologia a partire dalla condizione dell’uomo nell’età attuale, caratterizzata dalla presenza del pericolo nucleare e dall’invadenza della tecnica. Se il primo sottolinea l’estrema vulnerabilità del genere umano che è posto di fronte, con la propria estinzione, alla possibilità concreta della fine del tempo storico e alla situazione apocalittica di un mondo senza uomo, la seconda evidenzia il suo scivolamento in uno stato di insuperabile nichilismo: affidandosi alla tecnica, l’uomo è stato detronizzato dal suo stesso prodotto e ridotto a semplice accessorio della macchina. A loro volta le macchine sono pezzi di un sistema totale che tutto ingloba e che, procedendo secondo una logica autonoma, nessuno può controllare. Possedendo una specie di immortalità, la tecnica è diventata come una seconda natura che ha finito per gettare l’uomo in una situazione di alienazione: prodotta da lui, lo ha però privato progressivamente dell’esperienza del mondo cui rimane essenzialmente estraneo. Anders parla di “vergogna prometeica” in quanto si è delineato un dislivello incolmabile tra i prodotti della tecnica da un lato e l’incapacità di prevederne gli effetti devastanti dall’altro. Contrariamente alla prospettiva utopica di ➔ Bloch animata dal “principio speranza”, si deve invece sostenere una visione pessimista animata dal “principio disperazione”: l’uomo è antiquato in quanto la tecnica è il vero soggetto della storia. Essa plasma il mondo senza di noi che non solo non possiamo tenerne il passo ma non possiamo neppure usarla secondo un nostro criterio etico, essendo lei che sceglie noi. La tecnica pertanto ci ha reso schiavi e moralmente irresponsabili, “incolpevolmente colpevoli”. Così il pericolo atomico è figlio della tecnica al suo ultimo stadio: ridotto il mondo a mera materia da sfruttare, l’uomo, ottenebrato da un’illusoria fede nel progresso, si comporta come un cieco che cammina sull’orlo di un abisso producendo lui stesso lo strumento della propria fine. Andronico di Rodi Filosofo greco, attivo nel I secolo a.C., del quale si hanno poche notizie. Fu a capo della scuola aristotelica tra il 78 e il 47 a.C. e in questa veste curò l’edizione degli scritti esoterici di Aristotele, di cui si erano per secoli perdute le tracce.

Antifonte sofista

È sua quindi la sistemazione che oggi conosciamo. Vale la pena ricordare che il termine metafisica è entrato nel lessico della filosofia dopo la sua scelta di indicare con questo termine i libri seguenti a quelli da lui raccolti sotto il titolo Fisica (dal greco meta, nel significato di “oltre”). Antifonte  so¿sta  Filosofo greco, attivo al termine del V secolo a.C., di cui si hanno notizie molto scarse e incerte. Restano frammenti che consentono di collocarlo nell’ambito della sofistica radicale, in polemica con la prima generazione dei sofisti (Protagora, Gorgia). Antifonte contrappone radicalmente la natura umana alla cultura e alle leggi, privilegiando la prima e giustificando tutto in suo nome. Anselmo d’Aosta Filosofo e teologo (Aosta 1033 - Canterbury 1109), monaco benedettino e arcivescovo di Canterbury, dottore della Chiesa, certo il più grande esponente della cultura monastica tra l’alto e il basso medioevo e uno degli iniziatori del metodo scolastico. la vita. Nato ad Aosta da una famiglia della piccola nobiltà, dopo la morte della madre abbandonò la casa paterna e girovagò per diverse scuole in Francia finché non si fermò nell’abbazia del Bec in Normandia. Qui fu discepolo del celebre Lanfranco di Pavia e prese i voti monastici. Quando il maestro fu nominato abate a Santo Stefano di Caen e in seguito chiamato da Guglielmo il Conquistatore sulla cattedra episcopale di Canterbury, Anselmo prese il suo posto prima come priore e poi come abate, trascorrendo tra il 1062 e il 1078 gli anni più sereni e più fecondi della sua vita. Gli impegni pratici connessi alla funzione abbaziale lo distolsero dalla meditazione e dalla speculazione filosofica, divenendo estremamente gravosi quando nel 1093 fu nominato a sua volta arcivescovo di Canterbury. Qui dovette scontrarsi sovente con i sovrani Guglielmo il Rosso ed Enrico II per difendere le prerogative della Chiesa dalle ingerenze regali, tanto che trascorse in esilio la maggior parte del periodo del suo episcopato, potendo tornare in Inghilterra solo poco prima della morte. La sua vita ci è nota attraverso il ricco epistolario e per le biografie scritte dal suo devoto discepolo e segretario Eadmero e da Giovanni di Salisbury. il pensiero. L’orizzonte intellettuale di Anselmo è quello del monaco che vive in una dimensione di contemplazione e di ricerca interiore: la sua tematica è dunque pretta-

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Anselmo d’Aosta

mente teologica (esistenza di Dio, trinità, incarnazione, peccato originale, libero arbitrio ecc.) e la sua dottrina conserva il fondamento e l’impronta ricevuti dall’insegnamento di Agostino, dal cui pensiero egli deriva gran parte delle premesse e delle indicazioni teoretiche sviluppate nel corso delle sue riflessioni. Ma il principale elemento di novità presente nei suoi scritti sta nel metodo impiegato: infatti Anselmo ha applicato per primo alle questioni teologiche un metodo razionale, basato non sul ricorso all’autorità ma sull’argomentazione, che si affida esclusivamente all’uso, sia pure misurato e guardingo, degli strumenti della dialettica. In tal modo egli pervenne in una materia già per molti aspetti consolidata a conclusioni originali a tal punto da rinnovarla radicalmente. La fiducia nel metodo dialettico presuppone la certezza dell’intimo accordo tra i procedimenti della ragione e i dati della fede, per cui, sulla scorta della formula agostiniana fides quaerens intellectum, si profila la necessità da un lato che i principi della rivelazione siano illuminati dalla ragione, dall’altro che questa si mantenga entro i limiti della fede. In quanto monaco e pastore d’anime, Anselmo è ben lungi dalla posizione dei dialettici che intendevano piegare il mistero divino ai metodi della grammatica e della logica: questi ultimi infatti hanno un valore puramente strumentale e sono proficui se impiegati esclusivamente per chiarire e delucidare ciò che la fede incontestabilmente insegna. La fede è sempre assolutamente superiore alla ragione e resta l’unica via per giungere a quella verità salvifica altrimenti inaccessibile alla limitatezza e debolezza umana (così si esprime Anselmo nell’Epistola de incarnatione Verbi; tuttavia essa è anche principio e fondamento della conoscenza umana poiché appunto «si crede per capire». I metodi della dialettica e i procedimenti razionali, pur nella loro valenza autonoma, vanno usati come un dono divino, con il fervore di una fede che è abbandono fiducioso alla grazia. Solo in questa chiave si può intendere adeguatamente il discorso anselmiano, che solo apparentemente affronta i sacri misteri (dell’esistenza di Dio, della trinità, dell’incarnazione) con baldanza e sicumera, azzardando le più ardite analogie: in realtà la fiducia completa nella ragione (nel Cur Deus homo si parla di “argomentazioni (o dimostrazioni) necessarie” e nel Monologion di “necessità dell’argomentazione”) poggia proprio sulla profonda convinzione dell’intima neces-

Anselmo d’Aosta

sità razionale dei misteri divini, anche se ciò non deve condurre alla conclusione blasfema che la mente umana possa comprendere l’abisso della rivelazione. Nessuno lo può, neppure i ➔ Padri della Chiesa hanno potuto sondarne la profondità in modo esaustivo: perciò è assurdo limitare l’indagine della ragione opponendole la loro autorità, quando è lo stesso Dio che non cessa mai di donare ai suoi fedeli che lo cercano e lo pregano con cuore puro (non a caso nel Proslogion incomincia con una preghiera la trattazione che condurrà alla prova dell’esistenza di Dio) un’illuminazione sempre più ampia della sua parola. Se questo è il filo conduttore che percorre tutta la produzione anselmiana, quest’ultima comprende, sotto l’aspetto filosofico, oltre le due opere fondamentali Monologion e Proslogion che trattano, da prospettive diverse, del rapporto tra ragione e fede, dell’esistenza e della natura di Dio, dei suoi attributi, altri testi che affrontano quelle questioni gnoseologiche e logico-linguistiche che Anselmo considera fondamentali nell’indagine teoretica. Così nel De grammatico, discutendo se questo termine sia sostanza o qualità, si affronta il problema più generale dei vari modi in cui un predicato possa riferirsi a un soggetto, sulla base della considerazione che il significato dei nomi si può distinguere in diretto e indiretto, dove il primo è essenziale alle parole mentre l’altro è accidentale. Risulta così che le due tesi non sono in contraddizione «per il fatto che nell’una si deve parlare e pensare del grammatico come uomo e nell’altra del grammatico in funzione della grammatica», dato che vi è diversità «fra il modo in cui il nome “uomo” significa i caratteri di cui consta l’uomo e quello in cui “grammatico” significa l’uomo e la grammatica. Il nome “uomo” infatti significa direttamente e come un tutto unico i caratteri dei quali consta l’uomo. E fra questi la sostanza tiene il primo posto, perché è causa degli altri. [...] “Grammatico” invece non significa l’uomo e la grammatica come una cosa sola, ma significa direttamente la grammatica e indirettamente l’uomo. E sebbene questo nome denomini l’uomo, tuttavia non lo significa propriamente; sebbene significhi la grammatica, non denomina tuttavia la grammatica.» In conclusione, distinguendo tra piano linguistico e piano reale, tra nome e cosa, il termine “grammatico” «significa la qualità, se me lo domandi della parola, che è qualità, se me lo domandi della realtà significata», allo stesso modo in cui «bianco non si-

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gnifica “qualcosa che ha bianchezza” né “chi ha la bianchezza”, ma significa solo “avere bianchezza”; significa cioè una qualità e un avere, dai quali soltanto non risulta un’unica realtà sostanziale, e perciò bianco è l’uno e l’altro perché significa l’uno e l’altro. E questo vedo che vale per tutti i termini semplici che similmente significano più elementi dai quali non risultà un’unica realtà.» Analogamente nel De veritate, indagando sui significati e sul valore del termine, si rileva che certamente la conoscenza umana incomincia dai sensi, ma che essi non ci danno ancora la conoscenza della verità. Essi hanno solo una funzione di trasmissione di dati e stanno, per così dire, al di qua del vero e del falso, che vengono determinati solo dall’intelletto che giudica e formula enunciazioni. Queste ultime sono vere se dicono come stanno le cose. E poiché l’enunciazione è fatta per significare come stanno le cose, essa può dirsi “retta” quando assolve a questo compito. La verità è quindi la “rettitudine” della conoscenza, «percepibile con la sola mente», quindi dotata di consapevolezza. E se l’enunciazione, per essere vera, deve modellarsi sulle cose, queste ultime, per poter a loro volta essere causa della verità dell’enunciazione, devono recare in sé una verità, data loro dal fatto che sono prodotte da Dio, che è verità suprema cui necessariamente rinviano. Si stabilisce pertanto una scala gerarchica tra piano metafisico, piano ontologico, piano logico-gnoseologico (e relativi livelli di verità tra loro interconnessi): la somma verità che è Dio è causa della verità delle cose, la quale a sua volta è causa della verità dell’enunciazione. Su questa base e su queste premesse Anselmo si fa convinto assertore, circa il problema degli universali, di una soluzione realista di stampo platonico, secondo la quale le vere essenze delle cose coincidono con le idee esemplari presenti nella mente del Creatore. Questa dottrina della verità contiene anche importanti implicazioni di carattere morale: infatti ogni cosa raggiunge la sua perfezione nella misura in cui riflette l’idea divina sulla quale è formata. Pertanto le cose sono come devono essere, in quanto ideate e volute dal creatore. Solo l’uomo, creatura intelligente, trova la sua perfezione nel volere essere ciò che deve essere. La rettitudine non coinvolge solo l’intelletto ma anche la volontà, e consiste nella bontà oggettiva di ciò che è voluto, la quale, unita a quella dell’intenzione, produce la giustizia, con la quale coincide la stessa moralità.

Antiochia, Scuola di

In un altro opuscolo, il De casu diaboli, si chiarisce che la moralità non può essere osservata solo per timore della pena conseguente al peccato, così come non si può perseguire la volontà di beatitudine a scapito della volontà di giustizia: chi si comporta in tal modo perderà anche la beatitudine, mentre chi cercherà la giustizia senza riguardo per la felicità, alla fine avrà anche questa. Nel De libero arbitrio, a partire dal presupposto che la moralità implica la libertà, si sostiene che quest’ultima deve essere intesa come assenza di coercizione dall’esterno e di determinazione dall’interno. Ma essa non può tradursi in una capacità indifferente di peccare o non peccare, perché, se la libertà è una perfezione, quella di peccare non lo è. Identificando libertà e volontà retta, si può affermare che l’autentica libertà è adesione al bene, per cui chi fa il male non è libero. Ciò naturalmente non significa non responsabile, poiché comunque si pecca in modo intenzionale. Come testimonia il caso del demonio, angelo decaduto perché scelse la ribellione a Dio, alla base della libertà autentica si deve ammettere una libertà indeterminata come potere di orientarsi verso un’opzione o l’altra. La creatura dunque si dà da sé la propria determinazione (in certa misura si autodetermina), anche se ciò può tradursi in un perdersi o in un realizzarsi con perfezione. Quanto poi alla compossibilità di libertà e predestinazione, problema affrontato nel De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio, Anselmo, dopo aver distinto nella volontà la facoltà stessa (instrumentum), l’orientamento della facoltà verso un certo tipo di atti (affectio) e l’atto stesso della facoltà (usus instrumenti), posto che tutti e tre questi momenti sono beni, afferma che il male consiste nello sconvolgimento dell’ordine dei beni, nel preferire un bene inferiore a uno superiore, nell’anteporre la felicità alla giustizia. Orbene, questa scelta non dipende da Dio che non ci predestina mai al male, ma solo al bene. Siamo noi ad abbandonare il bene: predestinandoci a esso Dio non ci toglie la libertà (quella indeterminata di scelta tra due opzioni), ma conserva in noi quella libertà che è potere di aderire al bene. Altre opere fondamentali di Anselmo quali il Cur Deus homo, l’Epistola de incarnatione Verbi, il De conceptu verginali, il De processione Spiritus Sancti, pur contenendo talvolta spunti di carattere filosofico, attengono fondamentalmente alla teologia e alla storia del dogma.

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Apel

Antiochia, Scuola di Denominazione che si riferisce ad un gruppo di maestri cristiani (Luciano, Teodoro di Mapsuestia, Diodoro di Tarso, Teodoreto di Ciro, Nestorio ecc.) attivi tra il IV e il V sec., riuniti non in una istituzione ufficiale, ma accomunati da spirito ascetico e impegno pastorale. Sul piano culturale essi rifiutavano l’interpretazione allegorica della Scrittura proposta dalla ➔ Scuola di Alessandria (Origene) per sostenere un metodo esegetico di tipo letterale fondato sulla determinazione del testo sacro (ricerca del dato grammaticale-letterale e del senso storico esatto, ricerca della logica interna del testo) e sull’inserimento degli elementi in un più vasto contesto storico-religioso. La scuola fu chiusa dall’imperatore Zenone nel 489 a causa dei rapporti che ebbe con le eresie ariana e nestoriana. Antistene Filosofo greco (Atene, 436 ca.366 ca. a.C.), fu allievo di Socrate e dopo la sua morte fondò una scuola che si disse cinica (➔ Cinici). Restano tuttavia solo scarsi frammenti della sua produzione, e, dal momento che dopo di lui la scuola ebbe personalità di primo piano come Diogene, risulta difficile identificare con precisione le sue teorie. Attivo ad Atene, dovette essere in polemica con l’Accademia, di cui certamente negava la teoria delle idee, ma anche l’impostazione generale dell’interpretazione delle dottrine del maestro. Da Socrate Antistene ricava una dottrina etica rigorosa in tema di libertà e autosufficienza, pienamente rispettosa della natura umana. La virtù consiste quindi nel seguire la natura e perseguire la libertà interiore. Apel, Karl Otto Filosofo tedesco di orientamento ermeneutico (Düsseldorf 1922), ha concentrato la sua attenzione soprattutto sul problema del linguaggio. Dapprima ne ha sondato la nozione nella cultura europea (nei volumi Il linguaggio in Cusano del 1955 e L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico del 1963) allo scopo di mettere a confronto l’attuale idea tecnico-scientifica di linguaggio come strumento segnico (espressa nel modo più rigoroso nella sintassi e nella semantica dell’empirismo logico) con la filosofia linguistica dell’umanesimo (che trova la sua naturale prosecuzione in una tradizione che parte da Hamann, Herder e Von Humboldt per giungere attraverso l’idealismo fino a Dilthey, al secondo Wittgenstein e a Heidegger), da cui emerge una concezione di lingua non come prodotto ma come produzione, come pro-

Apollonio di Tiana

cesso generativo e formativo, e infine come apertura su e rivelazione dell’essere. In sostanza Apel, attraverso la sua indagine, ha inteso rendere perspicua, sotto questo particolare profilo, la distinzione tra scienze esatte e scienze ermeneutiche o dello spirito, dove le prime spingono all’estremo l’oggettivizzazione intramondana del linguaggio come sistema di segni tecnicamente manipolabile, e le seconde ne ricercano una fondazione trascendentale come condizione della possibilità di costruire oggetti, un a priori (quindi non semplicemente costruito da noi) semantico della comprensione del mondo. Quello che per ➔ Kant era una struttura profonda della ragione, per Apel è linguaggio, senso linguistico immediato come «polo del senso apriori insito nella nostra comprensione del mondo»; tale trascendentale non è fissato una volta per tutte in senso linguistico immediato, ma è l’essenza di «quella preintelligenza del mondo, per cui di volta in volta siamo in anticipo su noi stessi quali appartenenti ad una determinata comunità linguistica della storia [...] in ogni attuale [...] comprensione del mondo.» Il linguaggio dunque è un fenomeno storico intersoggettivo che assumendo su di sé le funzioni del trascendentale kantiano lo storicizza conferendogli finitezza. A partire da queste premesse (di impronta nettamente heideggeriana) Apel ha orientato la sua ricerca (concretizzata in una serie di saggi raccolti nel volume Trasformazioni della filosofia del 1973) in una direzione più pragmatica, nel senso che la problematica trascendentale deve tradursi da filosofia del soggetto e della coscienza in filosofia dell’intersoggettività. Facendo incontrare l’impostazione analitica e quella ermeneutica, Apel ha insistito sul fatto che non v’è accesso al mondo se non attraverso la mediazione linguistica, quell’a priori che possiamo chiamare “la comunità illimitata della comunicazione”, per cui nessuno può usare un linguaggio se non rispettandone le regole in presenza di una comunità di parlanti. Affinché questa proposta non risulti astratta e squisitamente teorica, ma serva al recupero di una più autentica posizione dell’uomo nella storia, Apel prospetta un’integrazione della riflessione trascendental-ermeneutica sul linguaggio con la critica dell’ideologia proposta dalla ➔ Scuola di Francoforte (in particolare da Habermas) in modo da colmare lo iato tra comunità ideale e comunità reale della comunicazione. Infatti nell’esistenza sociale dell’uomo moderno si deve constatare “un’opacità”, una rottura

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Arcesilao di Pitane

della continuità dell’esistenza storica che di fatto blocca e ostacola il dialogo non solo con il passato ma anche nel presente. La filosofia, scontrandosi con un problema che in definitiva concerne il costituirsi e l’autocomprendersi di una cultura (sistema di simboli e norme in cui una società si riconosce) e i modi della sua legittimazione, non può dunque non porsi il problema prettamente etico delle cause e delle effettive condizioni di ristabilimento di una comunicazione reale e trasparente, di un perfetto intendersi, mutuando a tal fine strumenti idonei dalle scienze del comportamento. Tra le vie possibili, Apel indica la psicanalisi, il cui interesse consiste nel fatto che le spiegazioni che emergono via via con il metodo scientifico dell’analisi vengono comunicate al paziente, che supera così l’opacità della sua condizione di partenza diventando autentico interlocutore. La psicanalisi si propone come modello per ogni forma di interazione sociale e la filosofia deve diventare una specie di psicanalisi sociale, dove tutti gli individui sono posti in grado (anche attraverso un uso non manipolato dei mezzi di comunicazione) di diventare sempre più soggetti del dialogo comunitario, scegliendo in modo attivo, consapevole, trasparente. La riflessione sul linguaggio spinge dunque Apel ad aprirsi (ancora in sintonia con Habermas) al problema politico di una vera democrazia. Nell’ultima produzione (Etica della comunicazione, Discorso e responsabilità, del 1988) egli approfondisce le implicazioni etiche del suo pensiero, in particolare il principio base che impone la pari dignità tra i partner della comunità comunicante. Così, se si deve tenere distinta la comunità ideale da quella reale, in riferimento a quest’ultima la deontologia deve essere integrata in una morale della responsabilità, rivalutando, anche contro l’etica universalistica, l’eticità hegeliana, sia pure in una prospettiva che tende a mediare le istanze universalistiche con la concretezza dei dati culturali e istituzionali. Analogamente sul piano economico l’etica della responsabilità impone la ricerca di una sintesi tra libera iniziativa da un lato e socialità del mercato dall’altro. Apollonio di Tiana

➔ Neopitagorismo

Arcesilao di Pitane Filosofo greco (Pitane 315 ca.-241 ca. a.C.). Nell’ambito della vita dell’Accademia platonica, Arcesilao ne fu alla guida nel III secolo e, in polemica con le altre scuole ellenistiche, le impresse un

Archimede

indirizzo scettico, sviluppando alcune tendenze effettivamente presenti nel platonismo, ma allontanandosi del tutto dalla teoria delle idee e dalla visione metafisica del maestro (è il cosiddetto periodo dell’Accademia di mezzo). Non sono note opere di Arcesilao e le sue dottrine sono tramandate (come per tutto lo scetticismo greco antico) da Cicerone e da Sesto Empirico. Del platonismo Arcesilao sviluppò soprattutto la pratica dialettica, richiamandosi alle tecniche confutatorie risalenti a Socrate, e sottoponendo a dura critica ogni certezza sensibile. Archimede Matematico e fisico greco (Siracusa 287-212 a.C.), tra i più grandi scienziati dell’età ellenistica. Notevoli i suoi contributi in campo matematico (nell’Arenario dimostrò la possibilità di scrivere numeri molto alti) e geometrico, nel quale applicò in modo originale il metodo d’esaustione già ideato da Eudosso e utilizzato da Euclide (con il quale dimostrò la determinazione del volume di una sfera e dell’area della superficie sferica, la quadratura del segmento di parabola e dell’ellissi, la cubatura di un paraboloide rotondo, la determinazione di baricentri, la proprietà della spirale che da lui prende il nome). Nella Lettera a Eratostene tuttavia egli proponeva il ricorso, nella fase inventiva, a metodi intuitivi di carattere misto, matematico e meccanico (il metodo d’esaustione, rigoroso ma lento, era invece riservato a procurare alle proprie scoperte una base sicura), sostanzialmente consistenti nel procedere alla divisibilità infinita delle figure geometriche (i piani in corde parallele, i solidi in volumi in infiniti piani) per procedere successivamente a operazioni di confronto (tra la figura da indagare e una dal valore noto) e di misura. Tale metodo, accolto con indifferenza dalla scienza del tempo, fu invece ripreso con successo nel Seicento da Galilei, Torricelli, Cavalieri. È certo comunque che queste metodologie matematiche servirono ad Archimede per le sue indagini fisiche (particolarmente sulla statica dei solidi, con la teoria della leva, e sull’idrostatica, con il principio che porta il suo nome) e per le applicazioni tecniche (costruì macchine belliche impiegate durante l’assedio di Siracusa e un apparecchio per il sollevamento dell’acqua). Anche se, stando alla tradizione, privilegiò l’aspetto puramente teorico della scienza rispetto a quello pratico, è più probabile che egli li abbia intrecciati attingendo dall’esperienza il suggerimento di nozioni da precisare ed elaborare in un secondo momento a livello

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Arendt

superiore, nonché traendo dai principi generali l’indicazione di macchine idonee alla soluzione di problemi pratici. Archita di Taranto Filosofo greco (Taranto 430 ca.-360 ca. a.C.). Appartenente alla scuola pitagorica, si hanno poche notizie sicure su di lui e sulla sua opera. Fu tiranno di Taranto e in questa veste intervenne a favore di Platone, con cui dovette essere in stretti rapporti di amicizia al tempo dei suoi viaggi a Siracusa. La tradizione gli attribuisce una viva attenzione agli aspetti matematici della musica e una teoria dei numeri che dovette in qualche modo essere in rapporto con quella platonica. Ardigò, Roberto Filosofo italiano (Cremona 1828 - Mantova 1920), professore a Padova. Aderì (dopo essere stato sacerdote cattolico) al positivismo, pur riconoscendo alla filosofia un oggetto specifico, da lui chiamato “indistinto”, quale fondamento di tutti i processi studiati successivamente dalle varie scienze. Vicino alle posizioni spenceriane, ne rifiutò il concetto di “inconoscibile” (limite invalicabile per l’uomo) sostituendolo con quello di “ignoto” (limite relativo e provvisorio sempre superabile dai progressi del sapere). La conoscenza si identifica con il metodo scientifico sperimentale che dai fatti inferisce le leggi: la legge fondamentale della realtà è quella dell’evoluzione (dall’indistinto al distinto in un processo di differenziazione infinito), ricavata da Ardigò dalla psicologia (nella sensazione soggettivo e oggettivo non sono originariamente distinguibili), disciplina che egli contribuì (anche come sostegno alla pedagogia) a diffondere in Italia. In termini evolutivi Ardigò considerò anche il problema morale, da lui studiato in una prospettiva essenzialmente sociale: le norme sono originate dal vivere associato e a esso funzionali e mutano con il mutare della natura. Tra le sue opere sono da ricordare: La psicologia come scienza positiva (1870); Dottrina spenceriana dell’inconoscibile (1899); La scienza dell’educazione (1893). Arendt, Hannah Filosofa tedesca (Hannover 1906 - New York 1975), una delle voci più originali della filosofia politica contemporanea. la vita. Di origine ebraica, dopo aver studiato con Husserl, Heidegger, Jaspers, Bultmann, nel 1940 si traferì definitivamente negli Stati Uniti. Qui insegnò alla Berkeley, a Chicago, alla New School for Social Re-

Arendt

search di New York, dove morì quando era ancora in piena attività. Dopo la tesi di dottorato su Il concetto di amore in Agostino (1929), nel 1951 pubblicò il celebre Le origini del totalitarismo e nel 1958 Vita activa, forse il suo capolavoro. Nel 1963, dopo aver seguito a Gerusalemme il processo contro Eichmann, scrisse La banalità del male sostenendo (tesi che le suscitò contro molte critiche soprattutto dal mondo ebraico) che i carnefici non erano mossi da particolare cattiveria o mostruosità, ma erano uomini dalla normale vita comune e familiare che però nelle particolari condizioni create ad arte dalla macchina propagandistica e organizzativa del totalitarismo nazista divennero capaci delle più mostruose atrocità in quanto privi di pensiero autonomo. Autrice di molti saggi raccolti in vari volumi (Tra passato e futuro, 1961; Sulla rivoluzione, 1963; Ebraismo e modernità, postumo), ha lasciato incompiuto La vita della mente, completamento ideale del suo itinerario intellettuale. il pensiero. Già nella prima opera sul totalitarismo la Arendt individua alcuni fattori che connotano la condizione umana nel mondo moderno sui quali verterà la sua riflessione successiva. Se il totalitarismo instaura il suo potere attraverso l’intreccio perverso di terrore (esercitato attraverso la polizia segreta, che lo estende a tutta la società e anche alla vita del singolo fin nella sua sfera più intima, e i campi di concentramento, che annientano gli oppositori politici) e ideologia (che vuole spiegare, con disprezzo per la realtà e la fattualità, tutta la storia e i suoi segreti, mirando a trasformare la natura umana e le stesse regole della logica attraverso un sistema in cui, come in quello dei paranoici, ogni cosa deriva necessariamente e comprensibilmente una volta che ne sia accettata in modo assiomatico e acritico la premessa), le dittature europee si sono imposte attraverso un processo storico le cui tappe fondamentali sono l’antisemitismo (un’attenzione particolare è dedicata al caso Dreyfuss), l’imperialismo (con il nuovo protagonismo della borghesia, che ora aspira al potere politico oltre che a quello economico), la trasformazione plebiscitaria della democrazia (in cui gli individui sono sottomessi a ristretti gruppi di potere che possono orientarsi in senso dispotico). Alla domanda «Come è potuto succedere?» che mostruosità come il nazismo e lo stalinismo abbiano potuto realizzarsi, la Arendt risponde che questi sono effetti della progressiva spoliticizzazione della cultura mo-

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derna, della condizione di isolamento degli uomini nella società di massa, in cui la libertà politica è costantemente minacciata dal conformismo sociale (per cui il totalitarismo rimane un “costante pericolo” per il nostro tempo anche dopo la scomparsa delle sue forme storiche del Novecento, tesi dimostrata agli occhi della Arendt dal fenomeno del maccartismo). Se l’agire politico, come dimensione pubblica dell’esistenza umana, deve essere inteso come quello spazio in cui hanno senso il discorso e l’azione, allora, quando questo viene meno, il totalitarismo subentra come inevitabile conseguenza, giacché tra individui isolati ed estraniati si diffondono il sospetto e la paura, fattori che minano alla base la democrazia. In Vita activa si sostiene che la dimensione pubblica ha avuto la sua perfetta realizzazione nella polis greca, che rappresenta dunque il tipo ideale di comunità politica: in essa la prassi per cui l’uomo vive una condizione e-statica (termine di derivazione heideggeriana che significa esser-fuori, nel senso che l’individuo è proiettato all’esterno della sua sfera privata di isolamento e intimità), era sostituita con il fare e con il lavorare, che assicurano la mera sopravvivenza. Se le condizioni dell’esistenza sono “vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra”, esse non determinano mai in modo assoluto l’essere dell’uomo: l’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo e al mantenimento della vita attraverso il consumo dell’energia necessaria per provvedere alle esigenze fondamentali (essa è pertanto attività senza fine, che dura tanto quanto la vita), mentre l’operare corrisponde alla dimensione non-naturale dell’esistenza, il cui frutto è un mondo artificiale di cose nettamente distinto dall’ambiente naturale. Essendo l’uomo uno zoon politikón, l’azione politica è la «sola attività che lo metta in rapporto diretto con l’altro uomo senza la mediazione delle cose materiali»: perciò tra le manifestazioni della vita activa essa è la più importante, corrispondendo alla condizione della pluralità, specifica di un’esistenza politica fondata sull’interazione comunicativa tra uomini liberi, protagonisti diretti della vita pubblica. Nella polis «discorso e azione erano considerati coevi ed equivalenti, dello stesso rango e dello stesso genere, e ciò originariamente significava non solo che l’azione più politica [...] si realizza nel discorso, ma anche [...] che trovare le parole opportune al momento opportuno [...] significa agire»: essa costituiva pertanto la sfera della liber-

Aristarco di Samo

tà. Tutto il resto proprio dell’organizzazione domestica privata, in quanto sottoposto alla costrizione e alla necessità, apparteneva all’ambito pre-politico (dove la violenza e la forza si giustificano come mezzi per averne ragione). Nella società cristiano-medievale, alla vita activa viene contrapposta quella contemplativa: con essa si assiste alla sparizione dell’agire politico (stemperato nella sfera del fare), processo inevitabile e negativo che la modernità ha portato a compimento insieme con l’esaltazione dell’homo faber. Ma come il cristianesimo aveva sconfitto l’agire politico, ora anche l’homo faber deve cedere il passo all’animal laborans che ha come unico scopo la conservazione naturale della vita. Nel mondo contemporaneo l’agire politico è divenuto impossibile: la fine della politica consegna ineluttabilmente l’individuo alla società del lavoro, trasformandolo in impiegato o burocrate e riassorbendone la vita in quella della specie. Questo cupo pessimismo viene confermato dalle analisi condotte dalla Arendt negli altri saggi: in Sulla rivoluzione si mostrano gli esiti perversi della rivoluzione (intesa come capacità di prendere coscientemente un’iniziativa politica) americana e francese. Mentre quest’ultima si incentrava sulla “questione sociale”, la prima, scatenata da motivazioni squisitamente politiche, aveva conseguito importanti risultati per il miglioramento dell’esistenza umana. Ma al giorno d’oggi, con l’irruzione dell’economia nella sfera politica, anche l’America tende a dimenticare le sue origini e a rinnegare l’originario ideale di rivoluzione come forza spontaneo-creativa: la libertà pubblica scompare per lasciare spazio al dominio della società amministrata e dello Stato. Nei saggi raccolti in Tra passato e futuro si insiste invece sul tema della frattura che si apre nell’esistenza e nella cultura quando l’uomo, in conseguenza dello sgretolarsi dell’agire politico, non è più aperto al mondo e al presente. Provocando un’interruzione della tradizione storica, tale frattura determina anche i vari tipi di crisi di cui oggi l’uomo soffre: dell’autorità, della libertà, dell’istruzione, perfino del pensiero. Una prospettiva più positiva è presente nell’ultima opera (rimasta incompiuta), La vita della mente, la cui tesi di fondo è mostrare la complementarietà e l’interdipendenza di Pensare, Volere, Giudicare (cui sono dedicate rispettivamente le tre parti dell’opera, l’ultima rimasta allo stato di abbozzo) e quindi l’identità complessa, problematica e relazionale dell’essere umano. In riferimento al Pensare, la Arendt

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mostra come esso sia attività pura già sussistente nel mondo così come viene alla luce nelle comunità, nella vita, nel sentire degli uomini dove le cose appaiono (e quindi destinate a essere viste, udite, odorate ecc.), fino all’identità di Essere e Apparire: perciò, mentre il rapporto con il mondo è mantenuto dal linguaggio, in particolare attraverso la dimensione metaforica (che «ci permette di pensare [...] proprio perché consente di “portare oltre”, metaphorèin, le nostre esperienze sensibili»), il Pensare è esperito nel suo senso immanente al flusso della temporalità, cioè dentro ai «molteplici e interminabili affari dell’esistenza umana» che esigono un giudizio. Presente sulla scena del mondo, il Pensiero deve deciderne i conflitti unendosi alla Volontà. Questa, irrompendo nella sfera della politica ed essendo connessa alla trama contraddittoria e molteplice dei poteri e delle libertà altrui, rende problematica la realizzazione della libertà dell’individuo, per il quale l’unica via per sfuggire alla passività e al conformismo di massa resta l’agire comunicativo reso possibile dal linguaggio, vero centro motore della mente e anello di congiunzione delle sue facoltà. Aristarco di Samo Filosofo greco del III secolo a.C., scienziato e astronomo, vicino alle posizioni degli aristotelici. Sua è una delle opere astronomiche più note e importanti dell’antichità, Sulle grandezze e distanze del Sole e della Luna, e sua è l’ipotesi eliocentrica, proposta nell’ambito di una visione cosmologica di ispirazione aristotelica. Aristippo di Cirene Filosofo greco (Cirene 435 ca.-369 ca. a.C.), discepolo diretto di Socrate, sembra abbia fondato una scuola alla morte del maestro, ma la tradizione in proposito è controversa; molti studiosi ritengono che la cosiddetta Scuola cirenaica (dalla città di Cirene) sia stata in realtà fondata attraverso una sistemazione del pensiero del maestro da parte dei suoi successori. Comunque sia, al suo nome è legata la dottrina centrale dei cirenaici, la teoria che la felicità umana risieda nel piacere (edonismo), da perseguire nel suo legame diretto con la natura. Aristotele Filosofo greco (Stagira 384 Calcide 322 a.C.). la vita. Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, nella penisola Calcidica, da genitori greci. Il padre, Nicomaco, era medico della famiglia reale di Macedonia; la madre, Festide, era originaria dell’isola Eubea, dove

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possedeva una casa in cui Aristotele si rifugiò prima di morire. Rimasto presto orfano di padre, Aristotele fu allevato dal marito di sua sorella, che lo mandò nel 367, all’età di 17 anni, a studiare presso l’ ➔ Accademia di Platone. Aristotele rimase nell’Accademia per 20 anni, fino al 347, anno della morte di Platone, passando dal ruolo di studente a quello di insegnante e collaboratore del maestro e scrivendo alcune opere in difesa dell’attività della scuola. Alla morte di Platone, Aristotele lasciò l’Accademia: secondo alcuni, dispiaciuto per non essere stato designato quale successore del maestro; secondo altri, perché era considerato un sostenitore dell’espansionismo macedone, contro cui cresceva l’ostilità degli ateniesi. Il periodo compreso tra il 347 e il 335 fu caratterizzato da vari viaggi. Dapprima Aristotele si stabilì ad Asso, in Asia minore, presso il tiranno Ermia, di cui in seguito sposò la sorella. Successivamente si reco a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove conobbe Teofrasto, che divenne discepolo, amico e, più tardi, successore di Aristotele nella direzione del Liceo. Nel 343 Filippo II chiamò il filosofo a Mieza, in Macedonia, per incaricarlo dell’educazione del figlio Alessandro, allora tredicenne. Probabilmente Aristotele mantenne il ruolo di precettore del giovane principe fino al 340, quando Alessandro fu associato al trono del padre. Quale sia stato il rapporto tra il condottiero e il filosofo è questione molto controversa: di certo si può dire che Aristotele nelle sue opere non stabilì mai una relazione tra il proprio pensiero politico e le imprese dell’imperatore macedone. Nel 335, dopo che Alessandro Magno ebbe affermato il suo dominio sulla Grecia, Aristotele, già cinquantenne, rientrò ad Atene per aprirvi la sua scuola nei giardini dedicati ad Apollo Licio, e che per questo fu detta Liceo. Non vi è accordo tra gli storici sulla natura del Liceo, anche in considerazione del fatto che Aristotele, non essendo cittadino ateniese, non poteva possedere beni immobili nella città. Pare comunque che la scuola possedesse una biblioteca, un museo, uno spazio per passeggiare (il peripato) e che fosse sede sia di corsi di lezioni indirizzati al pubblico sia di attività di ricerca scientifica e filosofica condotte da gruppi di studiosi. Questa struttura organizzativa, perfezionata dal successore di Aristotele, Teofrasto, divenne il modello delle principali istituzioni scientifico-didattiche dell’antichità, come il Museo e la Biblioteca di Alessandria.

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La permanenza di Aristotele ad Atene si protrasse tranquilla fino al 323, quando giunse la notizia della morte di Alessandro. La reazione antimacedone fu particolarmente violenta e Aristotele temette per la propria incolumità. Abbandonò dunque la città e si stabilì nell’isola Eubea, dove l’anno seguente morì di malattia. La moglie Pizia e il figlio Nicomaco erano già morti; gli sopravvisse una figlia, anch’ella di nome Pizia che avrebbe chiamato il figlio Aristotele. Le opere di Aristotele sono tradizionalmente distinte in due gruppi: 1) le opere scritte per essere pubblicate, dette essoteriche (a quel tempo erano tali quelle che venivano lette in pubblico e circolavano in più copie scritte); 2) le opere costituite da testi di lezioni e appunti, non destinate alla pubblicazione ma utilizzate come materiale didattico nella scuola, dette esoteriche o acroamatiche. Delle opere essoteriche si sono conservati i titoli (contenuti in parte nel catalogo delle opere aristoteliche redatto da Diogene Laerzio nella Vita di Aristotele) e pochi frammenti: La giustizia, I poeti, Sulla filosofia, Politico, Grillo o della retorica, Nerinto, Sofista, Menesseno, Erotico, Simposio, Eudemo, Protreptico (un’esortazione alla filosofia). Le opere esoteriche, soli scritti aristotelici trasmessi ai posteri, furono nell’antichità oggetto di avventurose vicende, non tutte ricostruibili con certezza, al termine delle quali furono ordinate e pubblicate nel Corpus aristotelicum da Andronico di Rodi, tra il 40 e il 20 a.C. Secondo la testimonianza di Strabone (Geografia, XIII, 1, 54), i manoscritti di Aristotele passarono, alla morte di Teofrasto, al figlio di un amico di Aristotele, di nome Neleo, che li portò a Scepsi, sua città. Qui rimasero dimenticati per quasi tre secoli, fino a quando un ricco bibliofilo ateniese, Apellicone, venuto a sapere che gli eredi di Neleo possedevano la biblioteca di Teofrasto, acquistò i manoscritti e li portò ad Atene. Nell’86 a.C. Silla conquistò Atene e la biblioteca di Apellicone, con gli scritti di Aristotele, finì nell’immenso bottino di libri e opere d’arte che i vincitori portarono a Roma. Qui Andronico di Rodi pubblicò l’edizione delle opere di Aristotele secondo l’ordine del Corpus aristotelicum che ancora noi possediamo: procedette a raccogliere in trattazioni tematiche vari scritti e a unificarli sotto titoli generali, cui premise un’introduzione andata perduta. Da allora la tradizione filosofica occidentale ha recepito il Corpus aristotelicum come un modello di pensiero

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sistematico, caratterizzato dalla forma del trattato e dalla struttura enciclopedica del sapere. Secondo questo schema le opere di Aristotele sono classificate in questo ordine: — Opere di logica, riunite nella raccolta intitolata Organon: Categorie, Interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici e Confutazioni sofistiche. — Opere di fisica: Il cielo, Fisica, Sulla generazione e corruzione, Metereologica; quelle di psicologia: Anima, Piccoli trattati di storia naturale (Parva naturalia); quelle di biologia: Storia degli animali, Le parti degli animali, Il moto degli animali, L’andatura degli animali. — Metafisica, collocata da Andronico dopo le opere di fisica. — Opere di etica e politica: Etica Nicomachea, Etica Eudemea, Grande etica, Politica, Costituzione degli Ateniesi. — Opere retorico-letterarie: Poetica e Retorica. il pensiero. Il pensiero di Aristotele si viene costituendo, già negli anni di permanenza nell’Accademia, a partire da una critica al platonismo. Nell’opera Sulle Idee (andata perduta) Aristotele critica la dottrina platonica delle idee respingendo la tesi della loro separazione dalle cose; le idee, intese come forme delle cose, sono da intendere come predicati comuni delle cose, inseparabili da esse. Aristotele dissente anche sulla concezione platonica della filosofia come attività sapienziale rivolta all’innalzamento dell’anima alle idee; egli concepisce la filosofia come un’attività scientifica che ricerca le cause e i principi di tutta la realtà. Di qui il carattere enciclopedico e sistematico del suo pensiero filosofico-scientifico, come ci è stato tramandato nel Corpus aristotelicum. La totalità del reale (l’essere) è intesa divisa in parti (i generi); a ciascuna di queste parti corrisponde una scienza autonoma con un proprio oggetto e propri principi. Scopo della scienza è spiegare i fatti sulla base dei principi e delle cause, indicare cioè il perché dell’accadere di tutto ciò che si manifesta nell’esperienza. Ma aldilà dell’autonomia delle singole discipline, Aristotele prevedeva due operazioni unificanti: 1) la prima era svolta dalla logica, che definisce gli strumenti linguistici necessari alla costruzione delle proposizioni e delle dimostrazioni scientifiche; 2) la seconda era svolta dalla metafisica, attraverso la definizione di un ordine gerarchico degli ambiti della realtà, cui corri-

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sponde un primato della filosofia prima sulle altre scienze. Aristotele individua fondamentalmente tre ambiti della conoscenza: quello delle scienze teoretiche – distinte in metafisica, fisica e matematica –, quello delle scienze pratiche – distinte in etica e politica – e quello del sapere produttivo, costituito dalle conoscenze operative proprie delle professioni e dei mestieri. la logica. La logica aristotelica studia il discorso in quanto espressione del pensiero, e analizza la forma che deve avere per essere vero o falso. Poiché il discorso è costituito da proposizioni e le proposizioni sono costituite da termini, possiamo distinguere tre partizioni nello studio della logica: 1) la logica dei termini, 2) la logica proposizionale, 3) la logica del discorso. 1) La logica dei termini. Per termine si deve intendere il segno linguistico che svolge la funzione logica di soggetto e di predicato. Il trattato sulle Categorie studia questi elementi più semplici della logica, considerati in sé, e individua i significati ultimi cui sono riconducibili tutti i termini delle proposizioni. Da un punto di vista logico le categorie sono i generi sommi ai quali va riportato qualsiasi termine della proposizione; da un punto di vista metafisico sono i significati fondamentali dell’essere (Metafisica, V, 7 1017a). 2) La logica delle proposizioni. La proposizione, nella sua forma dichiarativa (apofantica), è «un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcos’altro» (Analitici primi, I, 24a 16). Essa è costituita da tre elementi: il predicato, il soggetto e la copula. Le proposizioni sono distinte da Aristotele secondo la qualità e secondo la quantità. Secondo la qualità una proposizione può essere affermativa o negativa. Secondo la quantità può essere universale o particolare. I due criteri distintivi, combinati insieme, danno luogo a quattro tipi di proposizioni: l’universale affermativa («tutti gli uomini sono mortali»); la particolare affermativa («qualche uomo è giusto»); l’universale negativa («nessun uomo è immortale»); la particolare negativa («qualche uomo non è giusto»). 3) La logica del ragionamento (sillogismo). Si dice ragionamento l’insieme di più proposizioni collegate tra loro da un nesso di consequenzialità. Il sillogismo è il ragionamento perfetto, in cui la conclusione deriva necessariamente dalle premesse. «Sillogismo è un discorso nel quale, poste alcune cose, deriva necessariamente qualcosa di diverso

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Aristotele Aristotelismo

Aristotele

Diffusione del pensiero di Aristotele fino al XVI secolo TEOFRASTO (370 ca.-287 ca. a.C.) ARISTOTELISMO GRECO Scuola del Liceo Atene III-I sec. a.C.

STRATONE (III sec. a.C.) ARISTARCO DI SAMO (III sec. a.C.) ALESSANDRO DI AFRODISIA (II-III sec. d.C.) ANDRONICO DI RODI (I sec. a.C.)

ARISTOTELISMO ARABO

AVICENNA (980-1037) AVERROÈ (1126-1198) BOEZIO (480 ca.-526)

ARISTOTELISMO CRISTIANO MEDIEVALE

ALBERTO MAGNO (1205 ca.-1280) TOMMASO D’AQUINO (1221-1274) RUGGERO BACONE (1214 ca.-1292)

ARISTOTELISMO RINASCIMENTALE (XV-XVI sec.)

dalle cose poste, per il fatto stesso che vi sono queste» (Analitici primi, I 1, 24a). La perfezione formale non è garanzia di verità, ma solo di correttezza. Perché un sillogismo sia scientifico occorre che, oltre alla correttezza del procedimento formale, vi sia anche la verità del contenuto delle premesse. Tale verità di contenuto non è oggetto della logica, ma delle scienze particolari. la metafisica. Nell’ambito delle scienze, la metafisica – o filosofia prima – svolge un ruolo fondamentale in quanto, al di sopra delle scienze particolari, essa studia i principi primi della totalità dell’essere. L’insieme dei trattati editi da Andronico di Rodi sotto il titolo di Metafisica (14 libri) affrontano quattro questioni fondamentali, che definiscono il significato di metafisica per Aristotele. Essa è: — Scienza delle cause e dei principi primi di tutte le cose. Nei primi tre libri Aristotele, dopo aver definito la scienza come conoscenza delle cause e dei principi, distingue tutte le altre scienze, che studiano settori particolari della realtà, dalla filosofia prima che studia principi e cause di tutte le cose. — Scienza dell’ente in quanto ente. Nel libro IV si precisa il carattere universale della me-

P. POMPONAZZI (1462-1525) J. ZABARELLA (1533-1589)

tafisica, che non indaga questo o quell’ente, ma l’ente in quanto tale e i suoi significati. Poiché la domanda che cos’è l’ente? è la più originaria, la scienza che se ne occupa è filosofia prima; le altre discipline teoretiche saranno filosofia seconda. Aristotele afferma che l’essere dell’ente si dice in molti modi (corrispondenti ai molti aspetti della realtà indicati dalle categorie), tra questi, importanza particolare ha la sostanza. — Scienza della sostanza. I libri centrali (dal VI al X) riprendono dettagliatamente a trattare le proprietà dell’essere, con particolare attenzione per la più importante di esse: la sostanza. La sostanza è il principio in base al quale un ente è quello che è; le altre categorie enunciano quantità, qualità e altri attributi della sostanza, e ne costituiscono delle determinazioni accidentali. La sostanza è dunque quel principio che ci consente di identificare l’unità di ciascuna cosa è sinolo, ossia insieme di materia e forma. Sulla base di queste distinzioni, Aristotele può sviluppare la sua teoria del divenire, definito come passaggio dalla potenza all’atto; passaggio che avviene allorché la materia assume in atto una forma che aveva precedentemente solo in potenza.

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— Scienza teologica. L’indagine ontologica si conclude con la domanda se esista una causa prima dell’essere. Dopo aver dimostrato l’esistenza della sostanza soprasensibile, cioè dio, Aristotele, nel libro XII, indica in dio la causa prima dell’essere e ne indaga l’essenza. la fisica. La fisica studia i principi della natura – cioè delle sostanze reali sensibili – e comprende la fisica propriamente detta, che indaga gli elementi del mondo terrestre e il mondo celeste, e le scienze bio-psicologiche, che studiano gli esseri animati, dalle piante all’uomo. Nello studio della natura Aristotele si avvale dell’apparato concettuale della metafisica: la dottrina delle cause e i concetti di sostanza e accidente, di materia e forma, di atto e potenza, con cui spiega i processi di mutamento che riguardano il mondo fisico. Oltre a questi, definisce altri concetti necessari per spiegare la natura: infinito, vuoto, spazio e tempo. Il tutto concorre a definire una scienza di tipo qualitativo, volta a determinare le strutture metafisiche dei fenomeni naturali, che ha il suo completamento nella visione finalistica per cui la spiegazione ultima dei processi di mutamento risiede nel fine a cui le cose tendono. La cosmologia aristotelica si basa su un dualismo tra mondo terrestre – soggetto a generazione e corruzione, composto da quattro elementi, nel quale i corpi si muovono di moto rettilineo – e mondo celeste – costituito da corpi incorruttibili che si muovono di moto circolare uniforme in un mondo finito, chiuso dal cielo delle stelle fisse oltre il quale vi è solo il motore immobile. Gli studi biologici di Aristotele rivestono ancora oggi un grande interesse, non solo per l’innumerevole serie di osservazioni particolari, ma per il loro carattere sistematico, che fanno del filosofo l’iniziatore del metodo comparativo in biologia. Fondamentali in questo contesto sono gli studi sull’anima, definita come il principio formale che dà la vita a un corpo che la possiede in potenza. L’anima ha tre funzioni – vegetativa, sensitiva e intellettiva – che definiscono l’ordine gerarchico dei viventi; solo l’uomo possiede la funzione intellettiva, che presiede al pensiero. Aristotele distingue tra intelletto potenziale (che riceve le impressioni dal mondo esterno) e intelletto attivo (che produce i concetti astratti) e fa dipendere la formazione del pensiero dall’interazione tra attività ricettiva e produttiva. la matematica. Terza scienza teoretica, i suoi oggetti di studio (e della geometria)

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sono enti di ragione, che corrispondono a certe caratteristiche delle cose sensibili ma vengono colti attraverso un processo di astrazione. Questo significa che nella realtà concreta non esiste, per esempio, il triangolo, ma esistono oggetti di forma triangolare; il matematico separa questa caratteristica (la forma-triangolo) dalla cosa reale e la fa oggetto della sua indagine. I numeri e le figure geometriche, per Aristotele, non hanno un’esistenza indipendente, ma sono solo aspetti delle cose sensibili; la mente umana ha la capacità di separare questi aspetti dalle cose e considerarli come se avessero un’esistenza autonoma. etica e politica. Si tratta di scienze pratiche che studiano l’agire umano e i fini che esso persegue; la prima dal punto di vista del singolo individuo, la seconda da quello di membro di una comunità politica. Sul piano metodologico Aristotele distingue le scienze teoretiche, che raggiungono la certezza dimostrativa, dalle scienze pratiche, che al massimo si basano sulle opinioni dei più. Sul piano contenutistico l’etica è impostata a partire dalla ricerca del fine dell’agire dell’uomo: tutti concordano che il fine sia la felicità e che la si raggiunga quando si ottiene il bene cui si tende. Ma non vi è accordo tra gli uomini in cosa consistano tale felicità e tali beni. Aristotele sostiene che la felicità per l’uomo coincide con l’attività che gli è più propria, ossia l’attività intellettiva, e che per raggiungerla si debbano mantenere comportamenti morali costanti che costituiscono le virtù. Tra queste vi sono le virtù etiche, che consistono nel giusto mezzo tra vizi opposti, e le virtù dianoetiche, che riguardano i modi con cui la ragione si realizza nelle attività sue proprie e che culminano nel possesso della sapienza. La politica deve, per Aristotele, studiare la realtà politica e sociale esistente, abbandonando visioni utopiche. L’analisi muove dalla natura socievole dell’uomo, che non può vivere isolato. Le forme associative di cui egli fa parte sono la famiglia, il villaggio, la città. Lo stato dunque esiste per natura e non nasce da una decisione contrattuale. Celebre è la classificazione dei tipi di stato, fatta sulla base della distinzione tra costituzioni giuste (quelle che hanno per fine l’interesse comune) e costituzioni ingiuste (quelle che mirano all’interesse personale dei capi) e sulla base di chi detiene il potere. Aristotele arriva così a definire tre forme rette di costituzione (monarchia, aristocrazia, democrazia) e tre forme degenerate (tirannide, oligarchia, demagogia).

Arnauld poetica e retorica. Sono annoverate tra le scienze poetiche. Nella Poetica Aristotele studia le forme della poesia greca, con particolare interesse per la tragedia. La poesia ha per oggetto il verosimile (ciò che in certe circostanze può accadere), e in ciò si differenzia dalla storia che si occupa del vero (ciò che è realmente accaduto). Aristotele ha una concezione imitativa dell’arte e giudica il valore della poesia a partire dall’efficacia con la quale il poeta utilizza i mezzi espressivi di cui dispone. Analizzando in particolare la tragedia, Aristotele evidenzia l’effetto di purificazione (catarsi) che il racconto mitico ha sugli spettatori, liberandoli dalle passioni e dalle emozioni dell’anima. Nella Retorica, Aristotele studia le regole e le tecniche dell’argomentazione, sottolineandone il carattere persuasivo; la definisce come «l’arte di scoprire in ogni argomento ciò che è adatto a persuadere». Dopo aver parlato degli aspetti emotivi su cui l’oratore deve far leva, Aristotele analizza il sillogismo retorico (entimema), che trae le proprie premesse da luoghi comuni o opinioni condivise.

Arnauld, Antoine Filosofo e teologo francese (Parigi 1612 - Bruxelles 1694), fu una delle personalità più eminenti del movimento giansenista e come tale espulso dalla Sorbona in cui era professore. Riappacificatosi con la Chiesa cattolica, condusse lunghe polemiche contro i gesuiti, per il loro lassismo in materia morale, e contro Malebranche sui temi della predestinazione e della grazia, mostrando un sempre più deciso orientamento verso l’armonizzazione delle tematiche moderne con la tradizione scolastica. Formatosi in un ambiente fortemente impregnato di agostinismo, incontrò lungo questa direttrice il razionalismo di Cartesio, che volle conciliare con le verità di fede. Nelle Obiezioni che rivolse alle Meditazioni metafisiche, Arnauld cercò di assimilare il cogito all’interiorità del vescovo di Ippona, interpretando quindi il razionalismo in senso spiritualistico e teistico. In questa prospettiva diffuse il cartesianesimo a ➔ Port-Royal dove, insieme a ➔ Nicole, scrisse la Logica o arte di pensare: qui egli sostenne una visione della disciplina non più intesa come arte del ragionamento (cui prescrivere regole formali) ma come forma del pensiero in generale, comprensiva di tutte le funzioni dell’intelletto. La conseguente convinzione sull’identità dei fondamenti del parlare e del pensare, porta a una sua identificazione con la grammatica, la quale non dev’essere

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Austin

descrittiva ma esplicativa, nel senso che deve mostrare la struttura razionale alla base del linguaggio parlato (in questa prospettiva si è potuto vedere un’anticipazione delle idee di Chomsky e di Saussure). Importante anche il carteggio di Arnauld con Leibniz sui temi del Discorso di metafisica. Austin, John Langshow Filosofo analitico inglese (Lancaster 1911 - Oxford 1960), appartenente alla cosiddetta scuola di analisi del linguaggio comune. Come molti esponenti di questo indirizzo, egli intende la filosofia non come dottrina ma come un metodo per affrontare determinati problemi. Più precisamente egli intese mostrare che certe questioni filosofiche potevano trovare una chiarificazione e una risposta attraverso l’analisi degli usi molteplici del linguaggio comune (in ciò la sua posizione divergeva da quella di ➔ Wittgenstein, che attraverso l’analisi intendeva dissolvere più che risolvere i problemi). Perciò, sulla base della convinzione che le distinzioni linguistiche presenti nel linguaggio comune abbiano una ragione profonda (in quanto contenente sedimentati l’esperienza e l’acume di molte generazioni di uomini) e che quelle filosofiche, ignorando o travisando le prime, finiscano per oscurare e complicare i problemi, si dedicò alla soluzione di questioni determinate (la volontà libera, il nominare, il descrivere, la percezione, la verità ecc.) con un raffinato lavoro d’analisi. Tuttavia, l’indagine a cui è principalmente legata la sua fama è quella dei cosiddetti atti linguistici. In Come fare cose con le parole (pubblicato postumo nel 1962) egli traccia una distinzione tra performativo e constatativo: vi sono asserzioni che descrivono fatti o stati di cose, e asserzioni che pur avendo la stessa forma grammaticale delle prime, non descrivono alcunché (quindi non sono qualificabili in termini di verità-falsità) ma danno luogo, se pronunciate in condizioni appropriate, all’esecuzione (performance) di un’azione per lo più moralmente o socialmente rilevante (e quindi valutabili a seconda del loro effetto). La distinzione performativo-constatativo è stata successivamente abbandonata per far posto ad una teoria generale degli atti linguistici (in cui sono state comprese anche le asserzioni constatative), fondata sulla considerazione che in ogni proposizione si deve riconoscere non solo un significato ma anche, in quanto proferita in una certa situazione, una forza pragmatica che essa produce in

Avenarius

quanto espressione o parte del comportamento umano. Avenarius, Richard Filosofo di origine francese (Parigi 1843 - Zurigo 1896), ma operante per lo più nell’area tedesca. È esponente, insieme con Mach e Schuppe, della corrente empiriocriticista, che intende ricostruire il carattere unitario e indifferenziato dell’esperienza originaria, pura, in cui l’io, il prossimo e l’ambiente sono sperimentati su un piano paritetico. Perciò nella sua opera più importante Critica dell’esperienza pura egli rifiuta la distinzione tra fisico e psichico, facendosi sostenitore di un realismo ingenuo e immediato come fase iniziale dello sviluppo spirituale. Inoltre, sulla base anche di presupposti biologici, Avenarius afferma che, poiché tutti i fenomeni naturali obbediscono al principio del minimo sforzo tendendo alla semplificazione e alla riduzione all’omogeneo, sul piano epistemologico si debba seguire lo stesso criterio economico. La conoscenza scientifica ha un valore eminentemente pratico e, lungi dal riprodurre oggettivamente la realtà, deve elaborare concetti che unificando l’esperienza assicurino un migliore equilibrio adattivo tra organismo umano e ambiente naturale. Averroè Nome con cui è conosciuto in Occidente Abu al-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Rushd (Cordoba 1126 - Marrakech 1198), filosofo e scienziato arabo spagnolo. Di illustre famiglia, studiò, oltre alla filosofia greca e all’astronomia, il diritto e la medicina e ricoprì varie cariche pubbliche presso la corte califfale. Verso il 1195 venne esiliato in seguito alla condanna delle sue dottrine; poco prima della morte venne però riabilitato. A lui si deve pure un ampio trattato medico conosciuto in Europa con il nome di Colligeto. Averroè nel medioevo latino fu conosciuto come il Commentatore, in quanto gran parte del suo impegno intellettuale fu dedicato alla composizione di commenti alle opere di Aristotele. Essi si dividono in tre classi: commenti minori o medi, in cui, in modo non sempre ben discernibile, vengono esposti sia la dottrina del filosofo greco sia quella del suo commentatore arabo; commenti maggiori, in cui Averroè cita prima una parte del testo di Aristotele e poi aggiunge il proprio commento; piccoli commenti, parafrasi o compendi a uso degli studenti, in cui sono riassunte solo le conclusioni aristoteliche, trascurando l’apparato probatorio. Un primo, importante nucleo del suo pensiero

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Averroismo

è costituito dalla discussione sul rapporto che intercorre tra Corano, teologia e filosofia. Averroè infatti si dichiarò sempre fedele musulmano, ma nello stesso tempo accreditò ad Aristotele la massima capacità di discernimento della verità. Questo problema è affrontato soprattutto in Trattato decisivo sull’armonia tra la religione e la filosofia e la Distruzione della distruzione in difesa della filosofia contro gli attacchi da essa subiti in ambito islamico. A lungo si è ritenuto che questo problema fosse risolto attraverso la dottrina della doppia verità proposta dall’averroismo latino. Ma in realtà nel pensatore arabo questa posizione non appare mai, dal momento che l’unica verità cui egli credeva era quella filosofica. Il Corano non mira a stabilire una verità, ma a istituire un sistema politico, e il popolo deve credervi, per il bene della società umana nel suo insieme e per la propria salvezza eterna. Il popolo ha bisogno delle esortazioni, il teologo si basa sul metodo dialettico (in senso aristotelico), cioè fondato su ragioni probabili, mentre solo il filosofo ricorre a dimostrazioni rigorose. Per Averroè la scala metafisica degli esseri si estende dalla materia pura, come limite più basso, all’atto puro, Dio, come limite più alto; in mezzo si trovano gli esseri composti da potenza e atto. La materia prima, equivalente al non essere, non può essere frutto di un atto creativo ed è quindi coeterna a Dio, il quale però estrae dalla materia pura le forme delle cose materiali e crea le dieci Intelligenze celesti, estrinsecamente collegate alle sfere. L’altro grande punto che suscitò molte discussioni è relativo all’unità dell’intelletto. L’ordine della scienza è prodotto alla luce di un’intelligenza originaria ed eterna, corrispondente all’intelletto attivo di Aristotele e alla sua azione corrisponde nell’uomo un intelletto possibile, capace di trascendere la conoscenza sensibile e di giungere all’universale. Anch’esso però, a differenza di quanto riteneva Aristotele, è considerato eterno e separato dall’individualità di ogni singolo uomo, compresa l’anima individuale, che è pertanto destinata a scomparire con la morte. Averroismo Il termine indica, nel mondo ebraico e latino della seconda metà del XIII secolo, lo sviluppo delle dottrine aristoteliche in base all’interpretazione di Averroè, in particolare intorno all’unicità dell’intelletto potenziale, la mortalità dell’anima individuale, la necessaria eternità del mondo,

Avicebron

la negazione della provvidenza. L’adesione a tali tesi (considerate eterodosse) sfociò spesso in una visione naturalistica dalle forti implicazioni astrologicamente fatalistiche (peraltro parzialmente accolte da Alberto Magno e Ruggero Bacone), aspramente combattuta dall’ortodossia. In questo contesto Tommaso d’Aquino ebbe cura di distinguere la corrente spuria averroista dall’aristotelismo autentico con cui spesso veniva confusa. A Parigi fu maestro averroista Sigieri di Brabante, ma importante fu l’averroismo latino sviluppatosi intorno al Trecento nella scuola di Padova e Bologna. Nel Cinquecento alcuni studiosi averroisti, come Agostino Nifo, sostennero, per desiderio del pontefice Leone X, le dottrine di Averroè dimostrando che non si poteva desumere, dall’unicità dell’intelletto, la mortalità dell’anima. Avicebron Nome (ma sono circolati altri come Avencebrol o Avicebrol) con cui è stato conosciuto in occidente il filosofo e poeta ebreo spagnolo Shelomoh ben Iehudah ibn Gebirol (Malaga 1021 - Valencia 1050/70), fautore di una visione sincretistica ma originale della realtà in cui si uniscono razionalismo e misticismo, creazionismo ed emanatismo. Nella sua opera principale Fons vitae Dio, realtà prima, è persona concepita come unità e semplicità assoluta, creatore ex nihilo di tutti gli altri esseri molteplici e composti di materia e forma. Questi due elementi esistevano intellettualmente da sempre in Dio, che li ha resi esterni con l’atto della creazione. Dio però non crea gli esseri direttamente, ma attraverso un elemento mediano che è la Volontà, che tutto crea, dispone, muove (di qui il titolo dell’opera). Più precisamente la Volontà crea le forme, mentre Dio crea la materia: di conseguenza la volontà crea gli esseri unendo l’anima (principio dinamico) alla materia. La materia è pura possibilità, sussistente per sé, e ha la proprietà di sostenere le forme; queste ultime invece sussistono solo nella materia, conferendo l’essere alle cose. La materia è unica ma assume perfezioni diverse a seconda della forma con cui si unisce: perciò, mentre la materia è genere generalissimo, la forma è principio di differenziazione. Materia e forma hanno due modi d’essere, in Dio e nelle cose, dando luogo a due processi discensionali che determinano una scala gerarchica degli enti a seconda della maggiore o minore distanza da Dio. Ma come vi è un processo discensionale, così parallelamente ne esiste uno ascensionale, che

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Avicenna

sospinge tutti gli esseri verso l’unità divina. In occidente la dottrina gebiroliana dei rapporti tra materia e forma (detta ilemorfismo universale perché tutti gli esseri, anche quelli spirituali, hanno questa composizione) suscitò molte discussioni, e mentre fu combattuta da Tommaso d’Aquino fu invece accettata dai maestri francescani (Bonaventura da Bagnoregio). Avicebron è autore anche della Corona reale, una composizione poetico-religiosa contenente un’intensa meditazione sugli attributi divini. Avicenna Filosofo e scienziato persiano, il cui nome è in realtà Abu Ali Ibn Sina (Afshana 980 - Hamadan 1036). Divenne celebre come medico (il suo Canone restò un testo base fino al rinascimento), ma soprattutto come filosofo: in questa veste intese rielaborare le dottrine di Aristotele fino a giungere a una concezione generale della realtà di impronta fondamentalmente neoplatonica, mantenendo l’accordo con la religione. La sua metafisica è focalizzata sul concetto di essere, nella duplice distinzione (derivata da quella tra essenza ed esistenza di ➔ al-Farabi) di essere necessario (che ha in sé la sua ragion d’essere e dunque non può non esistere) ed essere possibile (che esige una causa esterna per diventare attuale). Questa distinzione implica una diversità di grado e di perfezione, in quanto gli enti meramente possibili rinviano a una successione condizionata di cause, mentre il fondamento di tale successione deve stare in un essere che a sua volta è incausato. In questo modo Avicenna separa nettamente Dio, causa prima e radice fondamentale di tutto il reale in cui essenza ed esistenza si identificano, dal mondo, che invece non solo è prodotto, ma è caratterizzato da una catena determinata di cause ed effetti. Nella sua assoluta trascendenza, Dio è ineffabile e inconoscibile: perciò la creazione del mondo è spiegabile non con un atto di volontà o di scelta, ma come una produzione necessaria ed eterna che si svolge fatalmente secondo un ordine intrinseco alla sua natura, quindi con una successione di entità intermedie, disposte gerarchicamente e tutte dipendenti da Lui. Essendo sostanza intellettiva, l’atto produttore di Dio è quello in cui egli si conosce, dando luogo come effetto riflesso a una prima Intelligenza. Con un moto emanativo discendente, si procede nella produzione delle Intelligenze successive e delle rispettive anime, ciascuna a presidio della sfera celeste di un particolare pianeta, fino all’ultima,

Ayer

che è l’Intelligenza della sfera della luna. Questa costituisce l’intelletto agente che, irraggiando le forme intelligibili, le imprime nella materia (aristotelicamente concepita come principio della molteplicità) generando gli enti particolari. In questo quadro cosmologico va considerato l’uomo e il senso della sua esistenza nell’universo. Egli è infatti un composto di materia e forma, quest’ultima (forma corporeitatis) con la funzione di costituire la struttura del corpo. Tuttavia Avicenna ammette in tutti gli esseri una pluralità di forme, secondo una gerarchia di perfezioni che vanno a determinarne la specificità. L’anima è quella che fa dell’uomo l’essere più perfetto nel mondo sublunare: essa è separata dal corpo (che pure muove e vivifica) e come tale è in grado di pensare in astratto. Ciò significa che nel processo conoscitivo l’anima intellettiva ordina e confronta le immagini delle cose sensibili, anche se, per conoscere le forme intelligibili in esse presenti ha bisogno dell’intervento dell’unico Intelletto agente. Mediante la sua azione irradiante i singoli intelletti possibili acquisiscono sia i principi primi, sia i concetti universali, sia la possibilità di elevarsi e

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Ayer

unirsi misticamente con il supremo intelletto agente, raggiungendo in alcuni individui (i profeti) il grado della santità. Ayer, Alfred Jules Filosofo inglese (Londra 1910-1989), aderì dapprima al neopositivismo (o empirismo logico) che mirò a inserire nella tradizione empiristica britannica. Nella sua opera più nota Linguaggio, verità e logica, partendo dalla distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto accolta da Hume, Ayer adotta nella propria analisi il criterio di verificazione per concludere che solo le proposizioni empiriche o sintetiche sono significanti, essendo quelle logiche semplici tautologie e quelle metafisiche del tutto prive di senso. Il compito della filosofia è linguistico e consiste nel chiarimento e nell’analisi delle proposizioni in base al criterio empiristico di significanza su cui si fonda la scienza. Fuori da questo ambito vi è spazio solo per l’espressione di stati emotivi (etica, religione), ma non per la verità e la conoscenza. In seguito Ayer prese le distanze da questo radicale empirismo e si avvicinò alle posizioni degli analisti del linguaggio comune di Oxford e Cambridge.

B Baader, Franz von Filosofo tedesco (Monaco di Baviera 1765-1841), tra i maggiori rappresentanti del romanticismo cattolico. Pur avendo fatto studi scientifici di medicina e mineralogia, si dedicò a problemi religiosi e teosofici: per questi suoi interessi sfocianti in una visione del mondo magica e vitalista – che coltivò sotto l’influenza di autori della tradizione mistica tedesca come ➔ Eckhart e ➔ Böhme, ma anche dell’eriugenismo, della Cabala e dell’alchimismo neoplatonico di Paracelso – fu chiamato il “mago del sud”. Il suo pensiero si forma in polemica sia contro il razionalismo indifferente nei confronti di Dio e del mistero della natura (inconcepibile nei termini del meccanicismo newtoniano), sia contro una religiosità ridotta a fideismo e sentimentalismo (come in Jacobi): perciò egli rifiuta il fondamento moderno della filosofia nel cogito cartesiano, come l’autonomismo etico kantiano e il panlogismo immanentistico hegeliano. Nella sua opera principale, Fermenta cognitionis (1825), egli offre una visione unitaria della realtà religiosa, naturale e sociale pur nella costituzione delle specifiche differenze e reciproche relazioni. Fine di ogni processo naturale è la corporeità che ordina la pienezza primordiale dell’essere connettendo la libera disponibilità di se stesso da parte del singolo ente con la sua apertura verso ogni altro. Sulla base del principio “con l’incremento dell’unione va di pari passo la differenziazione”, Baader congiunge con questi due termini libertà e determinatezza, in una concezione che considera la stretta articolazione tra Dio, natura e uomo come un circolo vitale continuo. Il processo dell’intera realtà è costituito come da due anelli intrecciati (idea e natura): dapprima Dio (che è la causa assoluta) si schiude, in un processo interno (esoterico), passando nella natura (che è il fondamento di ogni ente ed evento), da cui però non si stacca ma stringe in un abbraccio che attesta l’indivisibile unità primordiale della vita (appunto, l’idea – o Sapienza – come fondamento e fine dell’essere). Nel secondo, in un processo esterno (essoterico), si manifesta l’essere esteriore che deve realizzare (come in una brama intrinseca) l’idea: così da un lato la

natura si protende per raggiungere l’oggetto della sua brama (cioè l’unione con Dio), dall’altro tende a conservare la propria autonoma stabilità. In questo quadro risulta chiaro che la creatura si fonda in Dio (insieme padre in quanto causa e fine, e madre in quanto fondamento che protegge e salva): poiché egli è autofondato in se stesso, non ha bisogno dell’altro da sé (il mondo) a cui quindi dà origine per libera e imperscrutabile decisione. Il dramma dell’uomo (ma si può dire di tutta la natura nella sua dimensione cosmica) consiste nell’essersi staccato dall’unità con Dio e di doversi pertanto affidare (in un abbandono passivo e mediatore, la fede) a Cristo che ci innesta ancora nella salvezza e nel suo volere, consentendogli di riconquistare se stesso, la propria libertà e stabilità. Da questa prospettiva si possono capire anche le idee politico-sociali di Baader, che, in linea con il clima della Restaurazione, rifiuta il liberalismo e si fa sostenitore del primato politico della Chiesa e del Papa. Enorme fu l’influenza delle sue idee non solo sui contemporanei (Schelling, Novalis, Schleiermacher, Kierkegaard), ma anche su pensatori russi del Novecento come Berdjaev e Solov’ëv. Bachelard, Gaston Filosofo francese (Barsur-Aube 1884 - Parigi 1962). Professore alla Sorbona, è stato tra i più significativi interpreti dei risultati e dei metodi della scienza contemporanea. Polemico verso la filosofia tradizionale, le raccomanda di “aggiornarsi” facendosi epistemologia, descrizione fenomenologica della scienza. A tal fine è necessario entrare nelle sue pratiche piuttosto che giudicarle dall’esterno: perciò non è la ragione che ammaestra la scienza quanto piuttosto è «la scienza che istituisce la ragione» (La formazione dello spirito scientifico, 1938). Secondo Bachelard nel Novecento è divenuto chiaro che la conoscenza scientifica non procede dai fatti, ma al contrario dall’invenzione di strutture teoriche, assiomatiche e matematiche, che pongono al proprio interno i singoli fatti: la realtà è l’oggettivizzazione della teoria nel suo tentativo di verificarsi sperimentalmente con approssimazione sempre migliore. La mol-

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teplicità dei sistemi teorici, la loro irriducibilità, mostra che l’epistemologia deve essere per essenza pluralista (in realtà non esiste la scienza ma le scienze, non la ragione ma i razionalismi regionali). Analogamente si dovrà adottare un modello storiografico fondato sulla discontinuità, per individuare le rotture storiche e fare emergere il nuovo contro il vecchio. Gli ostacoli più gravi da superare nel progresso della scienza (che consiste in negazioni di teorie preesistenti) sono quelli epistemologici, l’insieme cioè di tendenze irrazionali (abitudini, ideologie, istinti), che operando nel profondo della nostra psiche bloccano l’avanzare dello spirito scientifico. L’esigenza di eliminare l’errore dal nostro inconscio conduce Bachelard a operare una sorta di psicanalisi della conoscenza oggettiva: alla ragione si oppone l’attività della fantasia e dell’immaginazione poetica (da Bachelard estesamente esaminata in molte opere), eterogenea rispetto alla prima ma anche a essa complementare (e per certi versi più profonda). Per questo l’attività immaginativa non va repressa, ma lasciata espandere nel suo campo (l’importante è impedirle di infiltrarsi nel lavoro epistemologico) nella consapevolezza che da essa provengono anche le intuizioni che, razionalmente elaborate, entreranno a far parte del patrimonio scientifico. Bacone, Francesco In inglese Francis Bacon. Filosofo inglese (Londra 1561-1626), celebrato come uno dei maggiori teorici del metodo e della rivoluzione scientifica moderna. la vita. Figlio del lord cancelliere di Elisabetta I, studiò a Cambridge e fu avviato alla carriera diplomatica. In questa veste fu dunque a Parigi al seguito dell’ambasciatore inglese e al ritorno iniziò la carriera politica. Eletto al parlamento, sostenne con successo per incarico della regina l’accusa di tradimento contro il conte di Essex, che pure era stato il suo protettore. Sotto il regno di Giacomo I Stuart intraprese, con l’appoggio di lord Buckingham, una rapidissima carriera che lo portò a essere nominato lord guadasigilli e lord cancelliere con i titoli nobiliari di barone di Verulamio e visconte di Sant’Albano. Attiratosi l’odio e l’invidia di molti, in occasione dello scontro del parlamento con il re che voleva imporre nuove tasse (1621) fu accusato di corruzione e concussione nell’esercizio delle sue funzioni. Condannato a pagare una forte ammenda e interdetto dai pubblici uffici, fu perdonato dal re avendo ammesso le sue re-

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sponsabilità, ma dovette ritirarsi a vita privata fino alla morte, dedicandosi agli studi e alla composizione delle sue opere. La produzione baconiana è assai vasta, anche se può essere considerata nel complesso lo sviluppo dei vari rami di una enciclopedica Instauratio magna, intesa al rinnovamento universale del sapere. L’Instauratio baconiana è divisa in quattro sezioni: — divisione delle scienze ed esposizione delle varie parti del sapere scientifico, trattate nel De dignitate et augmentis scientiarum; — il metodo, illustrato nel Novum organum, in Cogitata et visa, nel Temporis partus masculus; — la storia naturale, cioè la raccolta del materiale osservativo e sperimentale, esposto nella Historia ventorum, Historia densi et rari, Historia vitae et mortis, Sylva sylvarum; — la filosofia vera e propria, la cui trattazione è rimasta allo stato di progetto. A questo elenco si devono aggiungere gli scritti politici e morali, comprendenti la Nuova Atlantide (posta in appendice alla Sylva), il De sapientia veterum, i Saggi, idealmente inseribili tra la prima e la seconda sezione. il pensiero. La significatività dell’opera baconiana non va cercata nelle proposte di innovazione metodologica né tanto meno nelle ricerche scientifiche, dove l’autore rivela per tanti aspetti il suo legame, malgrado le relative polemiche, con l’aristotelismo e la tradizione alchemica. Tuttavia, nessuno come lui ebbe chiara la percezione del ruolo innovativo che la scienza era destinata ad assumere nel mondo moderno, fino a modificare non solo le basi della cultura e della filosofia ma anche quelle della società (tanto che si è potuto vedere in lui il filosofo dell’età industriale). Bacone concepiva infatti una riforma delle scienze strutturata in modo da esigere un’organizzazione in grado di coordinare la ricerca scientifica e di gestirne tutte le istituzioni. Sotto questo profilo assume particolare rilievo l’utopia della Nuova Atlantide, insieme allegoria della conoscenza e descrizione di società ideale. La vicenda si apre con il racconto della navigazione (simbolo della curiosità umana per l’ignoto) di una nave spagnola che fa naufragio (il mare allude alla sterminatezza e alla forza incontrollabile della natura, che è allo stesso tempo misura per l’uomo delle proprie possibilità) durante un viaggio dal Perù al Giappone. I superstiti sbarcano sull’isola di Bensalem (secondo una simbologia consolidata, il luogo della

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vera scienza deve essere separato, altro dal mondo delle falsità e degli inganni), dove scoprono una civiltà organizzata come comunità scientifica, aconflittuale e perfetta. Qui la stessa urbanistica rispecchia la forma dell’ordine della città e struttura le funzioni sociali; gli abitanti hanno usi e costumi costanti nel tempo; tra loro vigono ruoli gerarchici vissuti senza conflitti; le istituzioni vengono rispettate a cominciare dalla famiglia, vero perno della società; i cittadini difendono la purezza dei propri costumi praticando una religiosità tollerante e conducendo una vita dai forti tratti comunitari pur senza rinunciare alla proprietà privata e ai vantaggi personali che ne derivano. I naufraghi sono accolti soltanto dopo essere stati esaminati sotto il profilo morale e, ovviamente, scientifico. Segue una parte in cui il governatore della casa dei Forestieri, un sacerdote cristiano, narra la storia di Betsalem, di come sia stata evangelizzata dall’apostolo Bartolomeo (risulta dunque qui che la scienza precede la cristianizzazione) e sia rimasta ignota al resto del mondo. La segretezza dell’isola non impedisce tuttavia ai suoi abitanti, pacifici e dediti alle scoperte e al sapere, di compiere regolarmente viaggi in terre lontane per reperire informazioni sulle scienze, le arti, le invenzioni di tutto il mondo. L’opera si chiude con la descrizione della “casa di Salomone”, autentico centro di Betsalem, istituzione suprema finalizzata (come lo sarà la futura Royal Society) «alla conoscenza delle cause e dei segreti moti delle cose, così da ampliare il più possibile l’orizzonte del potere umano (human empire)». Qui gli scienziati impiegano le loro attitudini particolari nello studio dei segreti della natura, svolto secondo un sistema di ricerca coordinato e complesso. La descrizione si sofferma sui metodi, sugli strumenti e i fini della scienza, sui progressi compiuti e sugli obiettivi da conseguire. In definitiva risulta chiaro da questa operetta (come anche dagli altri scritti) che Bacone delinea un modello di umanesimo scientifico-tecnologico fondato sulla biblica superiorità dell’uomo sulla natura (il regnum hominis), sulla tolleranza e la collaborazione nell’indagine come condizioni per l’acquisizione di risultati che assicurino l’aumento del benessere spirituale e materiale dell’umanità. Se la scienza vuole essere universale, allora deve essere intersoggettiva, cioè pubblica, democratica, collaborativa, formata dai contributi individuali ma finalizzata a un successo generale che sia patrimonio collettivo. In tali con-

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dizioni non può essere sterile e infeconda, come le vergini consacrate a Dio, ma deve congiungersi con l’azione. Bacone ripropone dunque, dalla sua specifica prospettiva, il tema umanistico della superiorità della vita attiva su quella contemplativa, e delinea quello empiristico della prevalenza dello studio concreto della natura sulle astratte questioni metafisiche. In questo quadro si inseriscono gli altri due punti fondamentali della speculazione baconiana. Innanzitutto il rifiuto dell’autorità degli antichi e la critica ad Aristotele, basata su una visione generale della storia e del sapere umano come progresso, come complesso di energie in continuo sviluppo che percorrerebbero varie fasi analoghe alla vita dell’uomo. La verità è filia temporis e dunque in questa concezione evolutiva gli antichi rappresentano l’età infantile (l’antichità di una dottrina non è più, come si pensava in passato, garanzia della sua solidità) mentre i moderni quella della piena maturità, con conoscenze valide perché frutto di lunghissima esperienze. Quanto ad Aristotele, la polemica di Bacone è diretta soprattutto contro la sua logica e l’artificiosità delle regole deduttive che la rendono improduttiva; infatti tali regole, pur pretendendo di ricavare il dato particolare (e quindi per necessità di dimostrare la verità della conclusione) dalle premesse generali del sillogismo, non dicono nulla sul modo in cui ricavare tali premesse e lasciano dunque ingiustificate le proposizioni universali, che risultano solo dalla frettolosa generalizzazione di alcune osservazioni. Inoltre Aristotele, come peraltro tutti i filosofi antichi, ha avuto la presunzione di ricavare la conoscenza del mondo esclusivamente dalla mente umana (e per questo peccato la scienza antica è stata privata del potere sulle cose) invece di cercarla pazientemente nell’osservazione della natura, la quale «non si domina se non obbedendole». Il secondo punto riguarda il nuovo metodo di ricerca, che costituisce il fulcro tematico del Novum organum. Esso sarà sperimentale e induttivo, poiché da un lato giungerà per gradi all’universale e di qui a nuovi particolari, e dall’altro non si affiderà alla sola esperienza passiva e occasionale, ma cercherà di guidarla in modo sistematico e di produrla mediante ipotesi. La logica di Bacone si suddivide in due parti: 1) la teoria degli idola, cioè l’insieme degli errori, pregiudizi, “anticipazioni della mente” e tutti gli altri presupposti soggettivi, da cui è necessario affrancarsi affinché la mente per-

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no, più delle armi, smascherare gli errori e condurre l’uomo alla soluzione dei problemi della vita in tutti i suoi aspetti. L’alchimia (con la medicina) ha questa forza veritiera e deve far parte della sapienza cristiana così come l’astrologia (la più importante tra le scienze matematiche) permette con i suoi calcoli, con lo studio del ritmo celeste, di confermare e legittimare le stesse verità presenti nelle Scritture.

venga a una corretta interpretazione della natura (pars destruens); 2) l’indicazione delle regole che costituiscono il vero metodo induttivo, in cui i fatti sensibilmente rilevati non sono solo osservati e contemplati, ma posti a confronto gli uni con gli altri mediante apposite tavole, e in cui a tale confronto segue la formulazione di ipotesi interpretative sempre più approssimate mediante la verifica o falsificazione empirica delle stesse (pars construens). Fine della ricerca è la determinazione delle forme o cause del fenomeno, cioè il complesso di qualità e delle note caratteristiche che lo qualificano rispetto agli altri (differenza vera) e ne spiegano il comportamento (natura naturans, fons emanationis) in base ai concetti di derivazione alchemica schematismus latens (la composizione interna) e processus latens (i processi che sono alla base di tale composizione). Se dunque la concezione della verifica sperimentale colloca a pieno Bacone nella mentalità scientifica moderna, quella ancora qualitativa della natura lo allontana dalla impostazione matematico-quantitativa della spiegazione mediante leggi, che si imporrà con Galileo e Cartesio.

Bakunin,  Michail  Alexandrovič  È una delle più importanti figure dell’anarchismo ottocentesco europeo. Russo (Tver´ 1814 Berna 1876), ha vissuto a lungo in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, dove negli anni Sessanta dell’Ottocento cercò di dar vita a focolai rivoluzionari. Convinto che l’anarchismo dovesse far leva soprattutto sulle masse contadine, a esse e al loro carattere potenzialmente rivoluzionario – meno integrabile della classe operaia in una società borghese – ha dedicato per decenni i suoi studi e la sua azione politica. La sua opera fondamentale, pubblicata postuma, è Dio e lo Stato (1882).

Bacone, Ruggero In inglese Roger Bacon. Frate francescano (Ilchester 1210 - Oxford 1294), scienziato, teologo e filosofo inglese. Fu docente a Parigi presso la facoltà delle Arti, da cui venne allontanato per le sue ricerche sperimentali. Vi tornò nel 1257, dopo aver abbracciato l’ordine francescano, riprendendo le sue indagini influenzate dalla conoscenza della scienza araba. Con l’ascesa al soglio pontificio di Clemente IV, stretto a lui da amicizia, si accinse a scrivere la sua riforma filosofica (Opera Maggiore, Opera Minore, Opera Terza) nella quale, dopo la morte del papa, furono ritrovate alcune tesi astrologiche ritenute eretiche (perciò fu imprigionato dal 1278 al 1292). La riforma auspicata da Ruggero Bacone da un lato indica nella Chiesa un organismo illuminato dalla grazia divina, dall’altro vede nella religione una guida e norma razionale per tutti i popoli i quali necessitano di una regola nell’azione e nelle pratiche scientifiche. Vi è in lui la consapevolezza che filosofia e sapienza cristiana non possono essere disgiunte: ogni verità discende da Dio e quindi il sapiente deve possedere anche il dominio delle artes tecnicales. Solo ascoltando la misteriosa e intima vita della natura il sapiente può impadronirsi delle sue forme e compiere “mirabili esperimenti” che posso-

Balthasar, Hans Urs von Teologo svizzero (Lucerna 1905 - Basilea 1986), è stato tra i massimi fautori del rinnovamento della teologia cattolica del Novecento (essa è “in cammino” perché la Rivelazione è una fonte inesauribile), di cui ha cercato le radici creative nella Patristica. Egli incominciò a denunciare, non per appiattimento sulla modernità ma per la fedeltà alla parola di Dio, le barriere che la Chiesa aveva innalzato tra sé e il mondo: prendendo le distanze dai progetti di riduzione antropologica (Rahner) e dialettica (Barth) della teologia, egli sostenne che il cristianesimo reca in sé la verità di Dio che si autogiustifica senza bisogno di interventi estrinseci. Questa verità si mostra nella croce, che è segno di gloria, poiché in lei si deve vedere la salvezza dell’uomo nella rivelazione di Dio come amore. In Gloria, la sua opera più importante, si delinea una “estetica teologica”: la bellezza appare come lo strumento più adeguato per spiegare e rendere credibile la Rivelazione al nostro tempo, in quanto «Dio viene primariamente [...] per mostrare e irradiare Se stesso, la gloria del suo eterno amore trinitario, in quella “assenza di interesse” che il vero amore ha in comune con la bellezza». L’evento della croce, mentre evidenzia come la Rivelazione sia la misura dell’uo-

Baden, Scuola del

➔ Neokantismo

Banfi

mo, palesa nel contempo il dono personale d’amore che contiene attraverso un’intuizione estetica: essa è gloriosa in quanto raccoglie in un’unica figura (il Cristo crocefisso) ciò che è Dio (la sua vita trinitaria) e ciò che è l’uomo (la sua storia e la sua salvezza). L’automanifestazione di Dio esibisce da sé la propria verità (per questo von Balthasar insisterà sempre più sulla specificità del cristianesimo) e perciò si rende visibile nella forma unitaria perfetta a chi la contempla, attraendolo verso la fruizione gioiosa della gloria risplendente. Ban¿, Antonio Filosofo italiano (Vimercate 1886 - Milano 1957). Allievo di ➔ Martinetti, studiò in Germania venendo a contatto con le nuove correnti speculative (neokantismo, fenomenologia, vitalismo), che egli fece conoscere tra i primi in Italia insieme con i rispettivi autori. Ostile al neoidealismo crociano e gentiliano, ma anche allo spiritualismo del suo maestro, fu piuttosto sostenitore di una forma di razionalismo critico (Principi di una teoria della ragione, 1926): la ragione è concepita in senso trascendentale, non facoltà della mente né causa o fine supremo (non importa se trascendente o immanente) all’esperienza, ma un’esigenza ideale che attraversa quest’ultima in tutti i suoi aspetti, mirando a una dimensione universale scevra da ogni preoccupazione pragmatica e naturalistica, da posizioni particolari e parziali. La ragione si concretizza culturalmente come sapere, sia in senso scientifico sia filosofico, dove la prima evidenzia la dimensione dell’universalità, mentre il secondo quella dell’autonomia come indipendenza da ogni principio e presupposto dogmatico. Orientata in questo senso, la filosofia imposta il suo lavoro di ricerca con un’intrinseca sistematicità che si concretizza nella critica di ogni sintesi concettuale in quanto parziale e incompleta rispetto all’infinità dell’esperienza (momento dialettico), nella messa a fuoco della specificità problematica di ogni suo singolo campo secondo un principio metodologico più comprensivo (momento eidetico) e nella sintesi dei due momenti precedenti (momento fenomenologico), in una visione che cerchi una sistemazione ordinata della complessa varietà dell’esperienza. Su questa base la filosofia deve farsi carico di plasmare il mondo della cultura in cui si viene a mediare, su vari piani (economico, giuridico, morale, educativo), il conflitto tra individuo e società. Nell’affrontare questo compito Banfi escluse (malgrado i suoi gio-

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vanili interessi per la teologia protestante) la religione, in cui vide più una fuga che non un impegno nel mondo, rifiutò la corrente esistenzialista giudicata troppo incline ad adottare un atteggiamento passivo e alieno dalla prassi, mentre rimarcò l’importanza della cultura scientifica e tecnica. Poiché ne L’uomo copernicano (1950) aveva esaltato la visione dell’uomo impegnato nell’affrontare le contraddizioni di una realtà costitutivamente problematica, egli si avvicinò al marxismo di cui condivideva l’esigenza di una visione globale della storia sulla base della legge della lotta di classe e della prospettiva del suo superamento mediante un’adeguata azione rivoluzionaria esercitata sulla struttura economica. Impegnato in prima persona nella lotta politica (fu senatore del Partito comunista italiano dal 1948 al 1953), vide nel materialismo storico la presenza di una nuova etica che considera la persona realizzata nell’orizzonte vitale dell’intera umanità, in un’attività pratica che implica la responsabilità sociale di ciascuno. Professore all’università di Milano dal 1932 al 1956, vi profuse un’appassionata e feconda azione didattica, da cui furono formati molti importanti intellettuali della generazione successiva che ne raccolsero la lezione e la svilupparono liberamente in direzioni diverse. Barth, Karl Teologo protestante svizzero (Basilea 1886-1968), professore in varie università tedesche e, dopo l’avvento del nazismo (a lui principalmente si deve la Confessione di Barmen che rifiutava ogni compromesso con il regime), a Basilea. Insieme con altri studiosi della sua generazione (Brunner, Gogarten, Thurneysen) diede vita, negli anni a ridosso della Prima Guerra Mondiale, a un nuovo orientamento teologico (la cosiddetta teologia dialettica) teso a reagire all’indirizzo liberale (che mediante il metodo storico-critico eliminava la cristologia e l’escatologia risolvendo la teologia in antropologia religiosa e il cristianesimo in forza storica immanente al mondo in vista di un suo progresso etico) allora dominante, verso il quale Barth incominciò a essere severamente critico in seguito all’esperienza come pastore in una zona operaia dell’Argovia. Frutto di questa crisi è la nuova proposta contenuta nel commento alla Lettera ai Romani (1922), dove, seguendo le orme di San Paolo, si intende aderire in modo totale e coerente alla Parola di Dio (quale termine oggettivo della Rivelazione e perciò

Basilio

unico contenuto della teologia) e alla storicità dell’Incarnazione. Riallacciandosi a ➔ Kierkegaard, Barth evidenzia l’infinita differenza qualitativa tra l’uomo e Dio, la totale trascendenza di quest’ultimo che nella sua positività non è raggiungibile attraverso alcuna mediazione. Solo nell’accettazione della radicale negatività dell’umano, nel profondo della “crisi” di tutto ciò che è mondano, si può avere il rovesciamento in un’affermazione: la gratuità della salvezza, la giustificazione per iniziativa esclusiva di Dio. L’uomo infatti non ha alcuna capacità (razionale, morale, spirituale ecc.) di conoscere e avvicinarsi a Dio: solo negandosi esiste “davanti a lui”, solo nella fede può uscire dalle tenebre. La fede è paradosso (Barth nega le prove dell’esistenza di Dio e respinge qualsiasi appello al sentimento soggettivo), è rischio (credo quia absurdum), è coraggio nonostante la mancanza di evidenze o di garanzie di qualsiasi genere: essa è un ponte gettato all’uomo da Dio stesso, che gli fa superare la “linea della morte”. Ma ciò accade nel momento in cui Dio si rivela nel Crocefisso, che è insieme il “no” di Dio al mondo (il quale perciò conserva la sua autonomia, pur nella sua irrilevanza per la venuta del Regno) e il “sì” alla sua salvezza escatologica (quale eterno progetto di salvarlo dal peccato): in questo senso la Parola di Dio risulta, pur in senso astorico (l’uomo resta peccatore anche dopo la giustificazione, perché questo è il suo stato essenziale e solo in relazione all’azione di Dio è possibile parlare dell’uomo nuovo), efficace. Questo orientamento trova conferma nello studio su Anselmo Fides quaerens intellectum (1931), dove si sostiene che la teologia deve muovere dalla realtà della Rivelazione in Gesù Cristo per intendere l’intima ragione dell’operare di Dio nella sua intrinseca incomprensibilità. A partire da questi anni tuttavia Barth ha già avviato un profondo lavoro di revisione che lo porterà ad attenuare le precedenti posizioni e talvolta a mutarle in modo significativo. Ciò risulta evidente ne L’umanità di Dio (1956) dove viene rettificata la precedente distanza tra Dio e l’uomo nell’«essere insieme di Dio con l’uomo», nella «divinità che come tale ha anche il carattere della umanità»; ma principalmente nella monumentale Dogmatica ecclesiale (iniziata nel 1932 e rimasta incompiuta). Qui scompare l’individualismo kierkegaardiano (la Parola è rivolta alla Chiesa che la medita e la predica) e viene riconosciuta all’uomo una maggiore autonomia e

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libertà, anche se resta della originaria impostazione il rifiuto della dottrina dell’analogia entis (essa porterebbe a ritenere la fede ragionevole, mentre l’uomo può solo lasciarsi conoscere e trasfigurare da Dio) e la concezione della fede come completa fiducia in colui che unicamente è capace d’ogni mediazione e iniziativa. Tra le altre opere di Barth, la storia de La teologia protestante nel XIX secolo (1947, dove, nell’esame del pensiero dei singoli autori, da Rousseau a Ritschl, Barth fa i conti con la teologia liberale) e la Introduzione alla teologia evangelica (1862), profilo sintetico di tutto il suo pensiero. Basilio Santo e padre della Chiesa greca (Cesarea 330-379). La filosofia di Basilio si ispira (come per esempio nelle omelie sull’Esamerone) al neoplatonismo, mediato sia da studi di scienze naturali mutuati da Aristotele sia da un’influenza stoica nel campo etico che lo porta ad accettare il dualismo di anima e corpo. Sul piano religioso Basilio sostiene l’impossibilità di nominare Dio, in quanto nessun termine può compiutamente far riferimento alla Natura divina, evidenziando così il tema, già presente in Plotino, della teologia negativa (come si può rintracciare nelle opere Sullo Spirito Santo, Contro Eunomio). Interessante il trattato (Omelia 22, esortazione ai giovani) dove Basilio manifesta la necessità da parte dei giovani di affrontare la lettura dei testi classici, visti come introduzione alla comprensione e alla stessa lettura della Sacra Scrittura. Già vescovo di Cesarea, dal 358 si ritirò a vita monastica. Bataille, George Scrittore e saggista francese (Billom 1897 - Parigi 1962), animatore e direttore di importanti riviste letterarie, si è opposto all’indirizzo fenomenologico e idealistico in nome di un concetto di negativo (coincidente con l’eccesso e la trasgressione) che mira a demolire ogni pretesa di sapere assoluto e definitivo. Nella Summa ateologica egli mostra una pratica, dalle forti influenze nietzscheane, di svuotamento e spossessamento della soggettività attraverso un’esperienza di violazione di tutti i limiti che avrà notevole ricaduta nel dibattito sul surrealismo, l’esistenzialismo, lo strutturalismo. Ciò risulta evidente anche nei suoi scritti (notevoli anche per le considerazioni estetiche) sul desiderio e l’erotismo. Le sue idee hanno evidenziato un certo risvolto politico nella misura in cui hanno opposto a un sistema economico fondato sulla

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produzione e lo scambio, fenomeni (il dono, il sacrificio ecc.) derivanti da un’eccesso di energia. Bateson, Gregory Psichiatra, antropologo ed epistemologo americano (Granchester 1904 - San Francisco 1980), una delle menti più geniali e poliedriche del Novecento. Dopo aver indagato, nel corso di ricerche in Nuova Guinea e Indonesia (Naven, 1936) il rapporto tra natura e cultura, biologia e storia fino a stabilire le dinamiche che strutturano ed equilibrano una comunità sociale, a partire dal 1949 si occupò di psichiatria. Studiando il problema della schizofrenia, ne individuò la genesi in un disturbo della comunicazione (il malato non riesce a comprendere i messaggi, in particolare non verbali, che gli vengono rivolti: di qui le sue chiusure e crisi di rabbia o di panico). Su questa base, Bateson elaborò la teoria del doppio legame, secondo la quale la patogenesi schizofrenica va rintracciata in una situazione infantile in cui il paziente è destinatario di messaggi, da parte dei genitori ma in particolare della madre, contenenti una certa ambiguità (rassicuranti dal punto di vista verbale e minacciosi da quello della condotta o viceversa). Se questi risultati furono sviluppati nell’indirizzo di ricerca chiamato pragmatica della comunicazione umana (o Scuola di Palo Alto), Bateson, occupandosi di molteplici problematiche nei più svariati campi (cibernetica, teoria dei giochi, arte, apprendimento, comunicazione animale ecc.), ebbe sempre più netta la convinzione che i singoli fenomeni fossero parte di una totalità organica (quindi governati da principi comuni) non frammentabile analiticamente (di qui la sua vicinanza al misticismo zen e la polemica contro la pretenziosità della cultura occidentale) e abbracciante mente, natura e cultura (a questo orientamento interdisciplinare sono dedicati Verso un’ecologia della mente, 1972 e Mente e natura, 1979). Baudrillard, Jean Scrittore, filosofo e sociologo francese (Reims 1929 - Parigi 2007). Iniziò la sua riflessione sulla società contemporanea negli anni Sessanta, combinando gli studi sulla vita quotidiana della scuola di Lefebvre e la semiologia sociale di Roland Barthes: ne Il sistema degli oggetti (1968) e La società dei consumi (1970) egli mostra come le cose, gli oggetti nella società consumistica del capitalismo avanzato, siano codificate in un sistema di segni che è speculare a quello dell’economia politica. Ne deriva

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Baudrillard

una visione (Per una critica dell’economia politica del segno, 1972) che culmina con il concetto di segno-valore, più idoneo, rispetto a quelli tradizionali di valore d’uso e di scambio, a giustificare fenomeni della nostra società come la pubblicità, la moda ecc. che rivelano e determinano un’accresciuta attenzione per la produzione di nuovi beni di lusso, in grado di fornire, più che utilità, prestigio e potere. Da sempre su posizioni politiche di sinistra (si è schierato contro la guerra d’Algeria e del Vietnam, ha partecipato agli eventi del 1968 a Nanterre dove ha insegnato), si è trovato vicino alla ➔ Scuola di Francoforte nel denunciare lo stato di alienazione totale in una società dei consumi in cui tutto è merce, in cui i processi di reificazione si associano a quelli di standardizzazione della vita. Ciò malgrado, nel corso degli anni Settanta ha proceduto a una critica del marxismo classico che lo ha portato su posizioni di tipo strutturalista e postmodernista. Ne Lo scambio simbolico e la morte (1976) egli ha mutuato da autori come Bataille e Mauss una serie di schemi che tendevano a opporre criteri comportamentali delle società primitive a quelli del capitalismo e del socialismo: così lo scambio simbolico appariva antitetico all’utilità e al profitto monetario, lo scambio poetico e l’attività culturale più importanti di produzione e vantaggio nella misura in cui consentono di espandere energia senza chiedere nulla in cambio. In queste società precapitaliste si attua un’economia generale fondata su principi alternativi alla nostra (consumo, elargizione, sacrificio, distribuzione, perdita), ma più coerenti con la natura dell’uomo. Perciò da questo punto di vista “aristocratico”, la nostra economia è inappropriata, i suoi criteri (risparmio, utilità, profitto) innaturali, mentre eccesso, consumo, spreco, feste e sacrificio danno gioia, sollecitano una sovrabbondanza di energie erotiche e creative. Da queste premesse Baudrillard è pervenuto a maturare conclusioni di tipo postmodernista che proclamano la fine del capitalismo e della storia insieme con quella del lavoro e della produzione di beni da consumare. In Della seduzione (1979), Le strategie fatali (1983), Simulacri e simulazione (1985) egli ha rilevato il processo di smaterializzazione in atto nella nostra epoca, la cessazione di riferimenti alla natura e al bisogno sostituiti dalla simulazione, situazione in cui, con un’attività di immagini e segni, codici e modelli semiotici organizzano un nuovo ordine sociale dove gli individui si relazionano

Bauer

e si percepiscono senza distinzioni di classi: ora che l’economia è plasmata dalla cultura, la produzione di segni sostituisce quella di beni, l’intrattenimento, le nuove tecnologie e l’informazione forniscono esperienze più intense (la realtà virtuale come iperealtà), il soggetto è ridotto a uno schermo, che assorbe stimoli in un bagno mediatico in cui politica e divisioni in classi spariscono. Così non deve meravigliare sia la tesi paradossale esposta in Il delitto perfetto (1995), che proclama la scomparsa della realtà come effetto del proliferare delle nuove tecnologie informatiche e il diffondersi dei nuovi mass media, sia quella del saggio La guerra del Golfo non è mai esistita (il titolo è provocatorio visto che le operazioni erano in corso) del 1991. Bauer, Bruno Storico, biblista e filosofo tedesco (Eisenberg 1809 - Berlino 1882). Dapprima sostenitore della destra (difese l’autorità della Rivelazione e tentò la conciliazione di teologia e filosofia), aderì successivamente alle tesi della sinistra hegeliana, giungendo a negare la realtà storica di Cristo e considerando (come già aveva fatto ➔ Strauss David Friedrich) i racconti neotestamentari come un mito prodotto della fantasia degli evangelisti. La sua “critica pura” intende mostrare, in chiave atea e radicale, che il senso della storia del mondo consiste nell’autocoscienza generale, come testimoniano le vicende della società europea dalla rivoluzione francese in poi. Bauman, Zygmunt Sociologo e filosofo polacco (Poznan´ 1925), ha insegnato a Varsavia, in Israele e infine in Inghilterra (dal 1971 all’università di Leeds). In una grande molteplicità di opere (tra le più importanti: Cultura come prassi, 1973; Modernità ed olocausto, 1989; Il teatro dell’immortalità, 1992; Le sfide dell’etica, 1996; La società dell’incertezza, 1999; La solitudine del cittadino globale, 1999; Modernità liquida, 2000; Vita liquida, 2005; Modus vivendi, 2007) ha cercato di descrivere nei suoi vari aspetti la condizione umana nella situazione contemporanea caratterizzata dalla cosiddetta “globalizzazione”, punto terminale del processo di modernizzazione che ha attraversato la storia dell’Occidente con una logica di razionalizzazione e burocratizzazione crescente. Questi fattori hanno provocato profonde trasformazioni sociali gettando l’individuo in un meccanismo massificante di isolamento e anonimato che lo deresponsabilizza e lo separa sia dalle istituzioni politiche cui

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Baumgarten

viene delegato ogni potere decisionale, sia dal complesso dei rapporti con i propri simili. In questa chiave risulta spiegato il genocidio nazista, che alla luce di questa analisi non costituisce un evento eccezionale e patologico della storia europea, ma un fenomeno normale della nostra vita collettiva quale è uscita dai grandiosi progetti di ingegneria sociale di cui è stata fatta oggetto. Peraltro essi se da un lato sono stati costruiti per soddisfare la domanda di sicurezza, dall’altro hanno creato nuovi motivi di paura e angoscia: così se la civiltà moderna sembra incentrata sulla libertà dell’individuo, è indubbio che essa non viene realizzata in modo egalitario e stabile. Infatti non solo molti sono esclusi da questa condizione, ma si assiste in generale a una precarizzazione degli spazi di vita in nome della difesa della sicurezza da nemici sempre nuovi. La tormentosa sfiducia esistenziale, il senso di solitudine e precarietà che caratterizza l’uomo occidentale sono dovuti, secondo Bauman, alla logica delle politiche neoliberiste che, esaltando la libertà senza limiti dell’individuo, la sua autonomia, a scapito della dimensione collettiva, l’hanno resa illusoria e realmente eteronoma per la subordinazione ai modelli comportamentali e ai consumi imposti dal mercato: ne è derivato così, insieme con la fragilità e la mutevolezza dei legami intersoggettivi, un aumento dell’impotenza sociale e la paralisi della politica, relegata a un ruolo marginale e insignificante. In questa prospettiva la globalizzazione, lungi dall’unificare il mondo e rendere omogenea la condizione umana, in realtà ripropone in nuove vesti vecchie forme di divisioni, conflitti e ingiustizie. Per identificare in modo unitario la molteplicità delle espressioni dell’attuale stile di vita, Bauman ha così coniato la categoria della “liquidità”: la nostra vita (ma anche il nostro amore, la nostra paura, la nostra modernità, il nostro mondo ecc.) si connota in questo modo nella misura in cui è segnata dalla precarietà, dalla continua incertezza, dalla paura di non riuscire a tenere il passo con il suo ritmo di sviluppo, di trovarsi in condizioni di passività e impotenza, senza più identità e punti fermi. Baumgarten, Alexander Filosofo tedesco (Berlino 1714 - Francoforte sull’Oder 1762). Studiò Wolff e Leibniz, dai quali riprese il concetto di metafisica, ma la sua fama è ascrivibile all’opera Aesthetica, nella quale viene introdotto per la prima volta questo termine per designare la disciplina filosofi-

Bayle

ca preposta alla riflessione sull’arte. La sua sfera d’interesse, mediana tra il piano della sensibilità (che fornisce solo dati oscuri) e quello dell’intelletto (che produce conoscenze chiare e distinte), è conoscenza chiara e distinta di ciò che è indistinto e confuso e ha come fine «la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale», costituita dalla bellezza. L’estetica è quindi scienza dei dati sensibili e si occupa dei prodotti dell’immaginazione e del piacere che l’immagine esercita sul soggetto percepiente. Le rappresentazioni artistiche sono tanto più poetiche quanto più particolari contengono in sé in modo indistinto, ed è proprio nella contemplazione di questa indistinzione che l’anima prova piacere, poiché in essa confluiscono, in una perfetta armonia, vari elementi indisgiungibili tra loro. Anche in campo letterario l’estetica non è separabile dalla poetica, in quanto consiste nell’insieme di regole e precetti necessari per elaborare un componimento passibile di essere definito bello. Le tesi di Baumgarten influenzarono la riflessione kantiana nella Critica del Giudizio. Bayle, Pierre Filosofo e storico francese (Ariège 1647 - Rotterdam 1706), autore di un celebre Dizionario storico e critico (1695) che ebbe grandissima fortuna nel Settecento e fu uno dei veicoli principali per la diffusione del pensiero razionalista del XVIII secolo. Il Dizionario è biografico, ma nelle cosiddette “note” Bayle affronta ogni sorta di problemi basandosi sulla sua amplissima erudizione, con l’obiettivo di fare chiarezza, nello spirito razionalista del tempo, su tutte le tematiche trattate. Nei Pensieri sulla cometa (1682) prende spunto dalla comparsa di una cometa per respingere le interpretazioni astrologiche e teologiche dei fenomeni celesti, pretesto per allargare poi il discorso a tutta una serie di questioni etiche. Beccaria, Cesare Giurista, filosofo, economista e letterato italiano (Milano 1738-1794). Nato da nobile famiglia, si laureò in giurisprudenza e dal matrimonio con Teresa Biasco ebbe due figlie, una delle quali, Giulia, fu madre di Alessandro Manzoni. Subì l’influsso dell’illuminismo francese e insieme all’amico Pietro Verri fondò l’Accademia dei Pugni, collaborando anche al Caffè. Dopo alcuni scritti di economia, nel 1764 pubblicò Dei delitti e delle pene, che, tradotto in francese e commentato da Diderot e Voltaire, gli procurò vasta fama. Chiamato nel 1768 alla cattedra di scienze camerali, dettò gli Elementi di economia politica (pubblicati

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Beccaria

postumi nel 1804) e nel 1770 pubblicò le Ricerche intorno alla natura dello stile. La sua filosofia raccoglie vari elementi dell’illuminismo francese. In economia fu di tendenze fisiocratiche, pur senza trascurare la preoccupazione mercantilistica per il bilancio statale; in estetica fu seguace del sensismo di Condillac, proponendo una precettistica basata sul numero, il grado d’interesse e l’armonia delle sensazioni accessorie che servono ad esprimere artisticamente un’idea; in politica si ispirò al contrattualismo di Locke e di Rousseau e all’utilitarismo di Helvétius, ravvisando nella «massima felicità divisa nel maggior numero» il criterio essenziale della convivenza umana. Consapevole della complessità della struttura sociale, Beccaria pensava che gli uomini potessero uscire dalla condizione di guerra imperante nello stato di natura con un patto associativo tramite il quale essi non cedono però ogni diritto, bensì la minima porzione possibile necessaria alla reciproca tutela: pertanto non è razionalmente concepibile che essi abbiano ceduto al sovrano l’arbitrio di ucciderli. Su questa base (in cui si innestano le teorie politiche di Montesquieu) si organizzano le argomentazioni dell’opera maggiore Dei delitti e delle pene: la pena di morte (vera e propria “guerra della nazione con un cittadino”) è non solo infondata in diritto, ma anche inutile e inneficace, per motivi sia umanitari che pratici. Infatti essa non ha mai impedito il crimine, mentre la pena, non più legata al concetto di espiazione, è strumento necessario di difesa sociale (perciò accanto a essa Beccaria invoca la prevenzione dei delitti, aprendo in tal modo il discorso a una prospettiva politica e sociologica). Bisogna dunque scegliere quelle pene e quel modo di infliggerle che, conservando la proporzione col delitto commesso (la vera misura è il danno arrecato alla società, non l’intenzione né la considerazione della peccaminosità), facciano l’impressione più efficace (non è necessario che la pena sia terribile, ma che sia certa e infallibile), essendo prive di ogni crudeltà non necessaria (infatti non è l’intensità della pena che fa il maggiore effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa, dato che la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da impressioni ripetute e costanti che non da un movimento forte ma passeggero: perciò in un governo libero e tranquillo le impressioni debbono essere più frequenti che forti). Per questo motivo viene respinta anche la tortura «mezzo sicuro per assolvere i robusti scellerati e condannare i deboli in-

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nocenti» e illegittimo, perché il reo non è tale prima della sentenza del giudice (dunque la società non può togliergli la pubblica protezione prima che sia stata accertata la sua violazione dei patti con i quali gli era stata accordata). Beck, Jakob Sigismund Filosofo tedesco (Danzica 1761 - Rostock 1840). Discepolo di Kant, ne espose e difese la dottrina conferendole tuttavia un orientamento idealistico. Secondo Beck infatti Kant si era posto nella prospettiva dogmatica della coscienza comune, facendo sorgere in tal modo molte difficoltà, tra cui principalmente la nozione di cosa in sé: perciò egli affermò la necessità di esporre i risultati della critica con un procedimento sistematico muovendo dall’unità sintetica della coscienza (l’io penso quale “principio originario” è il fondamento del conoscere) verso i suoi dati e non viceversa: senza la coscienza infatti non vi è alcun oggetto e quindi essa è presupposta dalla stessa attività rappresentativa (l’oggetto è il risultato e non il presupposto del processo conoscitivo). L’atto sintetico dell’intelletto, che ha sempre la forma di una sintesi determinata (e perciò riassorbe in sé la distinzione tra intuizione e concetto), non ha altro principio anteriore a se stesso, mentre l’oggetto appare come suo prodotto, risolvendosi tutto nella rappresentazione. Beda il Venerabile Monaco e scrittore inglese (Monkton 673 - Jarrow 735), dottore della Chiesa. Ebbe vasta erudizione (conobbe oltre al latino, lingua in cui scrisse, anche il greco) che profuse in una ampia varietà di opere scientifiche (De natura rerum, De temporibus, De ratione temporum), grammaticali (De arte metrica, De orthographia, De schematibus et tropis), storiche (Historia ecclesiastica gentis Anglorum), agiografiche, esegetiche. Pur non essendo un pensatore originale (i suoi propositi sono pratici, orientati a giovare e a edificare, mentre con ➔ Tertulliano e Gerolamo diffida della filosofia, cui antepone l’esauriente ricchezza della Bibbia), Beda è una figura importante per la trasmissione del sapere e del patrimonio culturale classico e cristiano nell’alto medioevo, concorrendo in modo determinante alla penetrazione in Inghilterra del pensiero patristico. Benjamin, Walter Pensatore e critico letterario tedesco di origine ebraica (Berlino 1892 - Port Bou 1940). Studiò filosofia avvicinandosi al marxismo attraverso l’ope-

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ra di ➔ Lukács. Scrisse L’origine del dramma barocco tedesco quale tesi di abilitazione (unica sua opera in forma di trattato, pubblicata nel 1928). Fu in amicizia con Horkheimer e Adorno e collaborò con l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, sulla cui rivista pubblicò diversi articoli. Riparato in Francia all’avvento del nazismo, morì in circostanze drammatiche mentre cercava di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Il pensiero di Benjamin, per lo più asistematico, appare (per effetto dell’influenza di Bloch) decisamente orientato in senso teologico e (quando aderisce al materialismo storico) messianico: sotto questo aspetto va considerato il problema del linguaggio, affrontato nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini (1916). Qui esso è inteso come partecipazione nelle creature del verbo creatore di Dio, che ha affidato all’uomo il compito specifico di dare un nome alle cose. Dopo il peccato originale la lingua originaria è decaduta a mero strumento di comunicazione, e si è dispersa in una pluralità di sistemi segnici (le lingue): di qui (come si evidenzia anche in Il compito del traduttore, 1923) il senso della traduzione (e della critica letteraria, che resterà l’attività principale di Benjamin) quale aspirazione a un ritorno (in sé illusorio e destinato allo scacco), attraverso approssimazioni successive e reciprocamente richiamantisi (Benjamin parla di “metodo di composizione”), alla lingua pura originaria, al rinvenimento dell’unico discorso divino nella diaspora dei linguaggi umani. Questa prospettiva viene trasferita nella visione marxiana della storia al fine di interpretare i segni della decadenza del mondo borghese e dell’avvento della società di massa. Così in Tesi di filosofia della storia (1940) Benjamin afferma l’inevitabile trionfo dell’ideologia materialistica che ha assorbito, laicizzandola, la teologia, rivelando l’attesa di redenzione presente nel tempo, che si esprime nella iniziativa e nella decisione rivoluzionariamente decisiva: se il capitalismo ha annientato l’autonomia dell’individuo trasformandolo in merce, a ragione il marxismo ha evidenziato il ruolo delle dinamiche collettive. In questo contesto Benjamin appare però oscillante nell’identificare la soggettività liberante (da un lato riconosce la positività di questo dato dall’altro non intende abdicare alla peculiare posizione del singolo) e si limita ad affermare la necessità di una rottura radicale (e l’avvento di un angelus novus) con un passato caratterizzato dal dominio e dall’ingiustizia. Il messianismo, fondendo teolo-

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gia e marxismo, appare così all’autore l’unica via d’uscita in una visione in cui domina la negatività del passato, la tragicità del presente, l’incertezza del futuro. Nel saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) Benjamin rileva la perdita dell’aura sacrale che originariamente circondava l’opera d’arte, rendendola un evento unico e irripetibile (e perciò aristocraticamente elitario), al contempo inavvicinabilmente lontana e fruibilmente presente. Al contrario il capitalismo ha trasformato l’opera d’arte in un semplice prodotto dell’industria culturale, oggetto di consumo da parte di una collettività che non può recepirla che in modo passivo senza coglierne la valenza conoscitiva. Se dunque nell’epoca moderna l’arte si è trasformata in strumento di dominio del potere sulle masse, tuttavia Benjamin resta convinto che essa possa conservare la sua funzione critico-emancipatrice, contribuendo a mantenere desta, insieme con la coscienza dell’inconciliabile contraddizione insita nella realtà, la speranza messianica. Bentham, Jeremy Filosofo, giurista e uomo politico inglese (Londra 1748-1832), fondatore dell’utilitarismo etico. la vita. Dopo aver compiuto gli studi giuridici a Oxford e aver esercitato per qualche tempo l’avvocatura, si dedicò alla missione di rendere felici gli uomini attraverso l’uso della ragionevolezza empiristico-pragmatica per la riforma delle istituzioni politiche e giuridiche, ispirata a idee liberali e filantropiche. Dopo aver pubblicato il Frammento sul governo (1776), la Difesa dell’usura (1787), l’Introduzione ai principi morali e di legislazione (1789), profuse le sue energie per la diffusione dell’insegnamento e per la riforma delle leggi sui poveri e di quella elettorale (Reform bill del 1832). Ideò inoltre un nuovo modello carcerario, detto Panopticon, prima bocciato dal parlamento e poi ispiratore della prigione cellulare di Millbank. Fondò la rivista Westminster Review che, raccogliendo attorno a sé le tendenze radical-liberali diffuse tra i giovani (tra essi James Mill e su figlio John Stuart), fu portavoce di molte battaglie politiche e strumento di diffusione delle idee utilitaristiche. Tra le sue numerose opere (ma molti manoscritti giacenti al British Museum sono ancora inediti) Tavola dei motivi dell’azione (1815), Saggio sulla tattica politica (1816), Manuale dei sofismi politici (1824), Deontologia o scienza della moralità (postumo 1834). il pensiero. Bentham deriva da Hume un

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deciso rifiuto del giusnaturalismo e del contrattualismo: le nozioni di legge e diritto di natura sono finzioni prive di contenuto reale, dato che in natura vi sono tendenze e facoltà ma non leggi o diritti dotati di valore normativo. Analogamente, per spiegare il fondamento della sovranità non servono neppure i vuoti concetti di stato di natura e contratto, che pongono alla base dell’obbligo giuridico una promessa fatta una volta per tutte. In entrambi i casi è il criterio dell’utile e della convenienza a regolare i rapporti sociali: come le uniche leggi sono quelle positive emanate da una volontà sovrana e capaci di ottenere obbedienza in quanto percepite dagli individui come vantaggiose nel loro rapporto con la sanzione, così la sovranità esiste di fatto e i suoi unici limiti sono quelli determinati storicamente dal calcolo di utilità compiuto dai soggetti sociali. Perciò Bentham teorizza (contro il diritto consuetudinario) la riformabilità delle istituzioni e la creazione di meccanismi politici tali da assicurare il miglior governo possibile. Poiché la società è un’aggregazione di individui e non un’entità a sé stante, il governo dovrà regolare la sua azione in base al criterio (già formulato da Hutcheson e Priestley) della “felicità sociale”, intesa come lo stato di maggior benessere che può essere conseguito da parte del più alto numero di persone. Così la legislazione deve continuamente modificarsi e perfezionarsi, per promuovere l’utile individuale e collettivo (secondo quattro fini subordinati che sono la sussistenza, la sicurezza, l’abbondanza, l’uguaglianza), mentre il singolo gode di diritti solo in quanto essi sono funzionali all’utile sociale (fuori da questa sfera essi non esistono: perciò Bentham giudicava la Dichiarazione dei diritti dell’ uomo e del cittadino il non plus ultra della metafisica, oltre che una totale sciocchezza). In questo senso la sua posizione è di segno riformistico liberal-democratico, dove però la democrazia non deriva dall’ideale settecentesco dell’uguaglianza naturale, ma dalla considerazione pragmatica che si tratta del sistema più idoneo ad assicurare la massimizzazione della felicità, e in questo ambito egli critica sia la vaghezza e l’astrattezza dei principi rivoluzionari francesi, sia il conservatorismo (per esempio di Burke) legato ciecamente e rigidamente alla tradizione (avversò dunque la monarchia e l’aristocrazia ereditaria). Ciò che vale per la collettività vale a maggior ragione per l’individuo: l’utilità è un concetto descrittivo che Bentham rintrac-

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cia nella natura umana e su cui intende fondare la morale col proposito di farne una scienza esatta. Già formulato da ➔ Helvétius, ➔ Beccaria e ➔ Hutcheson, il principio dell’utile appare l’unico reale movente dell’azione umana, che è sempre orientata alla ricerca del piacere e alla fuga dal dolore. Il giusto e l’ingiusto dipendono dalle conseguenze dell’azione (perciò Bentham rifiuta sia l’etica del sentimento di Shaftesbury, in quanto priva di oggettività, sia quella razionalistica, in quanto fondata su leggi astratte): l’etica dell’utilità esprime la sua razionalità nel calcolo dei piaceri e dei dolori che è possibile effettuare di fronte a ogni azione. Da questo punto di vista la virtù è quella forma di condotta che risulta più adatta a raggiungere il piacere e la felicità in modo permanente, chiamandosi “prudenza” o “benevolenza” a seconda che sia rivolta al bene individuale o a quello collettivo. Del resto Bentham afferma, di fronte alle accuse di sostenere l’egoismo personale contro l’interesse sociale, che il metodo migliore per raggiungere la felicità individuale è quello di procurare quella sociale: infatti per questa via si instaura un permanente scambio di prestazioni in cui tutti hanno da guadagnare (a patto naturalmente che una sicura ed efficace legge penale consenta di armonizzare interessi pubblici e privati: Bentham riteneva che la punizione dovesse essere più sicura che severa, e pertanto si battè per l’abolizione della pena di morte). L’importante è che si faccia un calcolo esatto delle conseguenze meno prossime e dirette, senza lasciarsi sedurre dall’attrattiva di quelle immediate. Questo calcolo dei piaceri e dei dolori può raggiungere un rigore di tipo matematico, in quanto il confronto tra i due termini ha sempre un carattere quantitativo e non qualitativo, che permette di conseguenza una vera e propria misura. Le caratteristiche differenziali (che possono riguardare i piaceri o i dolori isolatamente presi o considerati nei rapporti con altri piaceri o dolori, da essi prodotti o meno, con essi commisti o meno) sono: l’intensità, la durata, la certezza, la prossimità, la fecondità (quanti piaceri possono derivare dall’azione), la purezza, l’estensione (a quanti individui sono estensibili le conseguenze dell’azione). Per questa via occorre giungere a un’aritmetica (o algebra) morale, che ci renda capaci di compiere i calcoli giusti, senza quegli intralci di carattere metafisico o religioso che hanno sinora impedito alla morale di divenire una scienza.

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Berdjaev,  Nicolàj  Aleksandrovič  Filosofo russo (Kiev 1874 - Parigi 1948), esponente dell’esistenzialismo cristiano. Esiliato dal governo sovietico, si rifugiò a Parigi dove svolse la maggior parte della sua attività di pensatore e pubblicista. Nel solco del cristianesimo russo (La concezione del mondo di Dostoevskij, del 1923), Berdjaev pone il problema fondamentale della libertà come il potere non di scegliere ma di creare il bene o il male: come tale essa è la condizione della creazione e della stessa speculazione filosofica. Critico verso l’oggettivismo e lo scientismo moderno per il loro carattere alienante, Berdjaev intende anche il conoscere come attività creativa in quanto arricchisce la realtà conosciuta rendendola nuova, diversa e più intima al soggetto secondo un interiore coordinamento insito nella sfera dello spirito. Nell’uomo si rivela l’esistenza di un mondo superiore: vivendo nella sfera della natura, egli la umanizza e la apre alla dimensione del soprannaturale. Analogamente dunque, egli deve agire creativamente per imprimere un senso personale alla propria esistenza, incominciando a uscire dalla chiusura in se stesso. Una tale apertura non può però consistere nel semplice rapporto sociale, inevitabilmente inclinato o verso la banalità soffocante del quotidiano o verso la limitazione della libertà. L’originaria solitudine dell’uomo non può venire risolta se non in Dio, giacché Egli non può mai essere un oggetto, un altro, ma vive nell’anima. «Nella profondità dello spirito nasce questa umana ed eterna nostalgia di Dio e la ricerca di Dio da parte dell’uomo diventa la ricerca di se stesso, della propria umanità». Ma il movimento dell’uomo verso Dio implica anche quello opposto: perciò bisogna incominciare dal Dio-Uomo, Cristo, vero fondamento dell’esistenza liberata in lui dall’asservimento della natura e della morte. In una concezione teologico-escatologica della temporalità, Berdjaev sostiene che l’uomo può diventare strumento di riscatto e trasfigurazione dell’intero mondo rispondendo all’appello di Dio e portando a termine la creazione aldilà della storia, fino alla perfezione finale. Berengario di Tours Filosofo e teologo francese (Tours 1008-1088). Fu uno dei principali esponenti della ➔ Scuola di Chartres e difensore dell’impiego della dialettica anche in campo religioso, contro coloro che (come Lanfranco) ritenevano un abuso utilizzare per la fede i metodi razio-

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nali. In questo senso Berengario scrive De Sacra coena contra Lanfrancum, nel quale dimostra come la ricerca filosofica non debba avere limiti e possa intervenire anche nella comprensione della transustanziazione. Se la realtà è unione di materia e forma, al mutarsi degli accidenti deve corrispondere un mutarsi della sostanza, pertanto se nel pane e nel vino dell’Eucarestia rimangono inalterati gli accidenti, ciò significa che non vi è stata alcuna trasformazione (del pane nel corpo e del vino nel sangue) ma si deve solo parlare di presenza spirituale, e non materiale, di Cristo. Queste sue tesi, prima respinte con obbligo di abiura nel Sinodo di Vercelli (1050), furono nel 1079 definitivamente condannate dalla Chiesa. Bergson, Henri-Louis Filosofo francese (Parigi 1859-1941), una delle massime espressioni del pensiero postpositivistico tra Ottocento e Novecento. la vita. Distintosi al liceo per le spiccate attitudini negli studi matematici, si laureò in quella disciplina e in lettere ottenendo successivamente (1889) il dottorato in filosofia con due dissertazioni Quid Aristoteles de loco senserit e Saggio sui dati immediati della coscienza. Fu docente di filosofia nei licei fino al 1897, quando divenne professore prima all’École Normale e poi al Collège de France con grande successo di pubblico. In quegli anni scrisse Materia e memoria (1896), Il riso (1901), Introduzione alla metafisica (1903), L’evoluzione creatrice (1907). Accademico di Francia nel 1914, fu insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1928. Negli anni della Prima Guerra Mondiale Bergson svolse attività di conferenziere a favore dell’Intesa e fu incaricato di una missione diplomatica presso il presidente Wilson. Dopo la guerra fu presidente della commissione per la cooperazione culturale presso la Società delle Nazioni. All’ultima produzione appartengono L’energia spirituale (1919), Durata e simultaneità (1922), Le due fonti della morale e della religione (1932), Il pensiero e il movente (1934). Negli ultimi anni Bergson, che era di origine ebraica, si era avvicinato al cattolicesimo ma non volle convertirsi ufficialmente per non abbandonare i vecchi correligionari nel momento della persecuzione a opera dei nazisti che avevano occupato la Francia. il pensiero. La formazione di Bergson è di tipo positivistico, non solo per i suoi interessi specificamente matematici, ma soprattutto per la concezione generale della realtà e della filosofia. Per sua stessa am-

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missione, negli anni giovanili egli aveva subito l’influsso dell’evoluzionismo spenceriano, che intendeva anzi approfondire (specie per quello che concerneva la meccanica) e liberare dagli aspetti più deboli. Il suo programma di ricerca subì un’inversione di tendenza nel momento in cui considerò che nel modello fisico-matematico assunto dal positivismo nella spiegazione dei fenomeni naturali non trovava spazio il fattore tempo, malgrado la sua rilevanza per la teoria evoluzionistica. Poiché la scienza si interessa solo di ciò che è misurabile (a questa condizione la meccanica può impiegare equazioni nel suo lavoro esplicativo), solo lo spazio risulta passibile di questa riduzione quantitativa, non certo il tempo reale, vissuto. Quando la scienza considera il tempo, lo tratta come un’astrazione costituita da una successione di istanti identici colti nella loro staticità, distinti tra loro e indifferenti agli eventi in essi contenuti e alla loro specificità qualitativa. Si può ottenere una molteplicità numerica di istanti esclusivamente nell’esteriorità spaziale di un elemento rispetto all’altro, poiché per contare gli oggetti bisogna considerarli omogenei, astraendo dalle loro differenze e distinti quindi per una reciproca esternità. Solo apparentemente dunque si misurano nelle scienze durate cronologiche, mentre effettivamente la misura riguarda lo spazio percorso da un mobile tra due istanti (tempo spazializzato). Da queste analisi Bergson traeva la conclusione che un’adeguata considerazione del tempo esige uno studio di quei modi d’essere (a cominciare dalla nostra vita interiore) che sfuggono alla misurazione e alla scienza. Perciò il Saggio si propone di studiare i “dati psichici” cogliendoli immediatamente mediante l’introspezione, senza quel filtro riduttivo messo in atto dal positivismo nel momento in cui pretende di rapportare gli stati di coscienza interni ai fatti fisici esterni. In polemica con le ricerche psicofisiche condotte in quegli anni da ➔ Weber e ➔ Fechner, Bergson osserva che se si considera l’intensità di uno stato psichico, esso non può essere misurato, giacché ciò che noi sentiamo interiormente è sempre pura qualità, che viene tradotta in una pseudo-grandezza nella misura in cui la associamo a un concomitante fenomeno esterno. Che si tratti di percezioni, sentimenti, sforzi muscolari, di attenzione, di memoria ecc. non si deve confondere lo stimolo (misurabile) con la sensazione (non misurabi-

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le). Analogamente, il tempo concretamente vissuto dalla coscienza è costituito da una molteplicità qualitativa di “momenti”, che proprio per la loro irriducibilità reciproca non risulta assimilabile a una molteplicità numerica. Infatti la molteplicità qualitativa per l’intrinseca differenza degli elementi costituenti non può svilupparsi spazialmente, i momenti di cui è composta non sono discreti, ma compenetrati. Nel tempo reale i vari momenti procedono senza soluzione di continuità, compenetrandosi e dando vita a un amalgama (Bergson usa la metafora del gomitolo di lana) in un continuum di evoluzione non descrivibile dalla scienza. Esso è “durata” reale, in cui il momento presente si innesta nel processo dal quale deriva pur essendo qualcosa di nuovo. In questa prospettiva Bergson mostra come la libertà si riveli immediatamente alla coscienza (si tenga presente che il titolo originario del Saggio era Tempo e libertà). Poiché nel profondo dell’io tutto si compenetra con tutto, il rapporto deterministico tra causa-effetto risulta inapplicabile (lo sarebbe se esistessero stati d’animo distinti, omogenei, l’uno esterno all’altro, mentre nella coscienza non esistono mai due eventi identici), mentre è più corretto affermare che l’io si determina da sé, e che quindi è libero. Saranno pertanto liberi quegli atti che scaturiscono dal profondo dell’io, inconcepibile e inattingibile da quella forma di pensiero e di linguaggio (prevalente non solo nell’ambito specialistico della scienza, ma anche in quello del senso comune e delle convenzioni sociali) che sembra spazializzare tutto ciò che tocca (per questo motivo Bergson non può dimostrare, ma solo evidenziare, l’esistenza della libertà, limitandosi a confutare le argomentazioni dei deterministi). I successivi sviluppi del pensiero bergsoniano si indirizzano al superamento di un dualismo di fondo (materia-spirito, esterno-interno, necessità-libertà, superficiale-profondo ecc.) che lascia irrisolto il problema del rapporto tra i due livelli. Ciò avviene a partire da Materia e memoria, il cui obiettivo è stabilire il rapporto tra il cervello e la coscienza. Sia contro la tesi di coloro (gli spiritualisti) che fanno della vita psichica un’attività parallela e corrispondente a una serie di fenomeni fisico-somatici, sia contro quella di coloro (i materialisti) che riducono gli stati mentali a semplice epifenomeno dell’organo cerebrale, Bergson rivendica l’irriducibilità di spirito e materia, sostenendo che «in una coscienza c’è infinitamente di più che nel cervello corrispondente».

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Mentre la memoria coincide con la durata della coscienza stessa, da essa si deve distinguere il ricordo, quel frammento del nostro passato fatto riemergere unicamente in funzione dell’inserimento del nostro organismo nella situazione del presente. Nell’uomo ciò avviene nel cervello: quando il movimento giunge dall’esterno sotto forma di sensazione, l’organo cerebrale permette una scelta tra una molteplicità di modi attraverso i quali esso può trasformarsi in reazione motrice. In esso dunque non c’è pensiero, ma solo il “movimento esteriorizzato” del pensiero, ottenuto con quanto del processo della coscienza è traducibile in movimento. Dunque la memoria, in quanto pura e spirituale, è patrimonio della coscienza e conserva, fondendolo in unità, tutto il passato nel profondo della psiche (per cui «il nostro passato ci segue tutt’intero, in ogni momento»). Il cervello d’altra parte alleggerisce la portata della memoria, in quanto consente, in concomitanza con una percezione, di far affiorare unicamente un ricordo o un riconoscimento selezionato in vista della necessaria azione di risposta. D’altra parte il ricordo, come immagine del passato, contribuisce a orientare la percezione presente, per il fatto che noi agiamo sempre in base alle esperienze passate. Ciò significa che anche nella memoria il cervello non ha altra funzione che di «smistare movimenti», offrendo al ricordo uno schema che gli permette di riattualizzarsi (di conseguenza, se è vero che la memoria spirituale ha bisogno del corpo per riattualizzarsi, ne è tuttavia indipendente, tant’è che una lesione cerebrale non distrugge la memoria, che rimane intatta nel fondo della coscienza, ma solo la possibilità di riattualizzazione del ricordo). Il cervello assicura allora il collegamento tra l’interno della coscienza e l’esterno, tra l’io profondo e il corpo, in quanto mentre il primo termine raccoglie la totalità del vissuto passato, il secondo punta la sua funzionalità sul presente e sulle necessità pratiche dell’agire, utilizzando i meccanismi deterministici dell’abitudine e gli schemi intellettuali astratti. La nostra attenzione si concentra generalmente sull’azione attuale, per lo svolgimento della quale il sistema nervoso appronta il suo bagaglio di “meccanismi motori”, montati dalla ripetizione di un medesimo atto avvenuto nel passato (memoria abitudine contrapposta a memoria pura). Ma il nostro spirito ha un orizzonte più ampio del corpo, che trascende riassorbendolo nella propria durata nel momento in cui lo sospinge oltre il presente e il passato verso il futuro.

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Questa teoria della continuità tra spirito e materia consente a Bergson di ritornare sulle sue tematiche primitive (il tempo e il mutamento), non più su un piano psicologico, ma cosmico. Non solo la coscienza evolve e dura: anche l’universo ha le stesse caratteristiche. L’evoluzione dunque può essere accolta come ipotesi più che plausibile, ammesso che la si intenda in modo adeguato. Da queste considerazioni ha origine L’evoluzione creatrice, lo scritto che diede a Bergson la più ampia notorietà. In esso l’autore si dichiara polemico sia riguardo il modello meccanicistico spenceriano sia verso quello finalistico. Il primo infatti non sa spiegare come variazioni casuali o parti di materia montate tra loro possano sommarsi e dare origine a organi complicatissimi e atti a svolgere funzioni semplici (per esempio l’occhio). Il secondo, premettendo allo sviluppo un piano già stabilito che deve solo essere attuato, finisce per proporre un meccanicismo rovesciato, dove la determinazione del cambiamento avviene in avanti invece che a ritroso. In entrambi i casi si smarriscono gli aspetti specifici dell’evoluzione, lo sviluppo e la novità. L’unità funzionale di organi complicatissimi si spiega supponendo un principio semplice e indiviso che sta alla loro base: la vita è manifestazione di uno slancio vitale, irreversibile e imprevedibile, energia originaria, «azione che di continuo cresce e si arricchisce» in cui il passato si accumula in una specie di memoria organica. Perciò lo schema evolutivo è rappresentabile non come una linea continua e uniforme, ma come una molteplicità di linee divergenti, come un «fascio di steli, ognuno dei quali rappresenta una via diversa» attraverso cui i viventi si specializzano in precise e specifiche funzioni. Il frammentarsi della vita in individui e specie è (in un rapporto analogo a quello tra memoria e percezione) il prodotto di due forze: quella esplosiva della vita, dovuta a un equilibrio instabile di tendenze a lei interne, e la resistenza opposta alla vita dalla materia. Ma se vita e materia sono entrambe alla base dell’evoluzione, la seconda non è una sostanza opposta alla prima, ma, per così dire, un suo momentaneo arresto, un suo riflusso, una sua ricaduta in una molteplicità di elementi privi della vitalità originaria. Come si dice nel secondo principio della termodinamica, essa è «azione che si dissolve e si logora», si depotenzia e degrada (secondo un’indicazione derivata da ➔ Plotino) divenendo in tal modo ostacolo per il moto successivo della libera creatività, e com-

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portando la perdita dell’unità primitiva dello slancio vitale in un ventaglio di direzioni divergenti. La storia dell’evoluzione è allora la storia dei tentativi della vita organica di liberarsi dell’inerzia della materia. La prima biforcazione si ha tra i vegetali (che immagazzinano energia attraverso la sintesi clorofilliana, ma restano poi immobili esaurendo così la propria carica evolutiva) e gli animali. Questi ultimi trasformano l’energia in movimento e in azione reagendo agli stimoli ambientali (istinto), dando così luogo ad altre linee direzionali, alcune sterili (come nel caso dei molluschi), altre più produttive (come quella che conduce agli artropodi, agli insetti e agli imenotteri) o decisamente feconde (fondamentalmente quella che conduce ai vertebrati e all’uomo). Nelle forme meno evolute prevale l’istinto, che è ereditario e funziona per mezzo di organi naturali. Esso trova il suo limite nella ripetitività e nell’abitudine (tratto fondamentale della materia) che rendono le sue soluzioni adeguate ma automatiche e rigide: perciò negli esseri più evoluti prevale l’intelligenza, che colma l’insufficienza dell’istinto naturale con la produzione di strumenti artificiali per raggiungere i propri fini e soddisfare così i bisogni vitali. Essa riveste essenzialmente un ruolo strumentale, avendo come scopo l’utilizzazione pratica dell’inorganico attuata mediante la costruzione di categorie e schemi astratti che si originano dalla funzione simbolica del linguaggio. L’intelligenza (e segnatamente la sua espressione più raffinata, la scienza, il cui valore è dunque puramente economico e pragmatico) procede analiticamente a frazionare la durata reale in parti distinte etichettandole e traducendole in segni statici che si possono quantificare, calcolare e dunque facilmente maneggiare in grazia della loro semplicità. Se dunque l’istinto ha il vantaggio di un contatto più immediato – ma cieco – con la vita, l’intelligenza in quanto conoscenza di rapporti tra gli oggetti può prevedere la realtà futura nella misura in cui si stacca da quella immediata: così apre alla coscienza e affranca l’individuo dai bisogni in virtù della sua maggiore adattabilità e flessibilità. Da un lato ciò permette di proseguire indefinitamente il movimento evolutivo, ma dall’altro condiziona il raggiungimento dei risultati al legame con la schematicità esteriore, con la spazialità matematica, con la materia. Il rischio della riproposizione di un nuovo dualismo impone a Bergson la ricerca di una sintesi unitiva, che viene individuata nell’intuizione (tema già svilup-

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pato nell’Introduzione alla metafisica, con cui Bergson può affermare di aver trovato il metodo conoscitivo contrapposto a quello analitico e adatto all’oggetto escluso dalla scienza). Del resto poiché l’intelligenza deriva evolutivamente dall’istinto, a esso può ritornare in modo disinteressato recando con sé la coscienza. L’intuizione mediante un processo di indentificazione simpatetica ci fa entrare in contatto diretto con le cose e cogliere immediatamente, al di là delle barriere costituite dai simboli astratti del linguaggio comune e dell’intelletto scientifico, l’unità e la qualità specifica dell’essenza del reale: pertanto essa è l’organo della metafisica quale conoscenza partecipativa della totalità della vita come durata e slancio vitale, rendendoci nel contempo consapevoli di quella libertà che siamo noi stessi. La teoria dell’intuizione apre poi il pensiero di Bergson anche al campo dell’estetica in quanto capacità, associata a un’intensa emozione, di trasfondere in complessi organici di immagini l’essenza profonda e ineffabile della realtà, in una dimensione in cui le cose ci appaiono slegate dai bisogni quotidiani e dalle urgenze dell’azione. Poiché l’uomo costituisce lo sbocco dell’evoluzione cosmica, l’attività con cui egli prosegue l’azione creatrice della vita costituisce naturalmente la conclusione della riflessione di Bergson. Morale e religione sono le attività con cui l’uomo si avvicina maggiormente allo slancio creatore, fino a coincidere, almeno in parte, con esso: perciò a esse è dedicata l’ultima opera del maestro francese. Egli prospetta un’etica e una filosofia della religione fondate sull’opposizione chiuso-aperto, che prevede non uno sviluppo graduale ma un salto qualitativo tra i termini considerati. Muovendo dalla nozione di dovere come elemento costitutivo della vita sociale, Bergson comincia con il distinguere tra una società chiusa che impone al singolo un insieme di comportamenti e una società aperta fondata sui valori di libertà, solidarietà, umanesimo universale e cosmopolitico. Le “due fonti della morale” sono dunque la pressione sociale e lo slancio d’amore, che devono essere intese come manifestazioni complementari della vita, così come lo slancio vitale è all’origine dei comportamenti che si fissano nei modelli etici. Da esse derivano due forme di morale: una chiusa e statica (che, quale strumento di autoconservazione, opprime con regole ferree e anche con violenza gli individui finché questi non acquisiscano le abitudini ritenute necessarie per il rafforza-

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mento della società) e una aperta, fondata non su norme e principi ma su un amore che non conosce confini e si estende a tutto il creato. Ai due tipi di morale corrispondono poi due forme di religione, una statica (che agisce contro la dissoluzione della compattezza sociale e consiste in una serie di miti e superstizioni con cui l’umanità cerca di proteggersi dagli effetti dannosi dell’esercizio dell’intelligenza quali l’egoismo, il timore di fallire, il timore della morte ecc.) e una dinamica. Quest’ultima è identificabile nel misticismo, che non consiste in un atteggiamento contemplativo e distaccato dal mondo, ma è attivo in quanto si sa elevare e trascinare con l’esempio il resto dell’umanità ponendosi al centro del movimento creatore. E se tale movimento deve essere inteso come Dio, allora l’energia creativa che sta a fondamento di tutto è amore: poiché la creazione in quanto amata da Dio è esposta a una trasformazione per opera dell’amore, l’uomo può contribuire immergendosi in questa energia creatrice a raggiungere lo scopo intrinseco dell’universo. Questa religione ha certo origini antiche, ma trova la sua compiuta realizzazione nel cristianesimo e nelle grandi figure dei suoi santi per i quali l’estasi è un superiore punto di slancio per l’azione nel mondo. La natura ha orientato l’uomo verso la socialità: gli esiti di quest’ultima però non sono necessariamente predeterminati, ma sono il frutto di scelte libere operate dall’intelligenza e dalla volontà. Perciò Bergson, pur guardando con apprensione e preoccupazione al progresso tecnologico, che ha ingrandito il corpo dell’uomo e da strumento di liberazione per tutti dal bisogno è diventato fine a se stesso e mezzo di benessere e lusso per pochi, auspica un nuovo salto evolutivo, un nuovo misticismo, un amore universale e attivo che sappia infondere un “supplemento d’anima” alle forze scatenate dall’intelligenza umana. Berkeley, George Filosofo irlandese (Thomastown 1685 - Oxford 1753), considerato uno dei più eminenti rappresentanti della corrente empirista. la vita. Nato da famiglia abbiente trasferitasi dall’Inghilterra in Irlanda dopo la Restaurazione, studiò a Dublino dove iniziò anche la carriera di professore. Già in questa fase giovanile si forma il nucleo essenziale del suo pensiero (Dio come causa di tutti i fenomeni naturali; polemica contro il monismo immanentistico e netta divisione tra Dio, mente e volontà infinita, e spiriti finiti; so-

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stanzialità dell’io umano; passività della natura e della percezione rispetto alla volontà di Dio) esposto nelle opere Saggio di una nuova teoria della visione, Trattato sui principi della conoscenza umana, Dialoghi tra Hylas e Philonous. Nel 1713 si recò a Londra e fu presentato a corte dal suo conterraneo Jonathan Swift: bene accolto dall’alta società, ebbe vari incarichi per i quali fece molti viaggi, soprattutto in Italia. Nel 1720 scrisse un De motu per partecipare a un concorso indetto dall’Accademia di Francia, dove assunse una posizione polemica verso i principi della fisica newtoniana. Nominato decano nella cattedrale di Derby, animato dal desiderio di riformare la società del tempo corrotta dall’ateismo e dal materialismo, progettò di fondare nelle Bermude un collegio per educare gli indigeni dallo spirito ancora incontaminato, ma attese invano per tre anni a Newport, nel Rhode Island, le sovvenzioni promesse. Qui compose l’Alcifrone, satira contro i liberi pensatori. Tornato in Inghilterra, ricevette nel 1734, anche a titolo di risarcimento per il mancato aiuto nell’impresa americana, la nomina a vescovo di Cloyne in Irlanda. Qui studiò a fondo i platonici antichi e dieci anni dopo pubblicò la Siris, un’opera dove, celebrando le virtù terapeutiche dell’acqua di catrame usata dagli indigeni del nuovo mondo come rimedio contro la peste del 1740, riprendeva i suoi propositi di rigenerazione morale dell’umanità e di difesa della religione. Nel 1752 si trasferì a Oxford pensando di realizzare nei collegi di quell’università la vita etico-filosofica che aveva inizialmente progettato per la sua istituzione nelle Bermude; qui, ormai stanco, si spense. il pensiero. La riflessione di Berkeley risulta motivata da una forte carica polemica contro i mali dell’epoca, razionalismo e materialismo che conducono all’ateismo, in nome dei valori religiosi e del primato dello spirito. Il suo è un empirismo (e un nominalismo) tanto più radicale quanto meno è limitato a una base sensistica: egli respinge come astratta la convinzione di una materia esistente in sé, inerte e informe, supporto per gli oggetti e premessa alla varietà delle percezioni, e si appella al buon senso per il quale la realtà si identifica con i fenomeni percepiti e con le loro qualità (esse est percipi). Non che questo mondo materiale non esista, ma certo esso non è pensabile indipendentemente dalle sensazioni che ne abbiamo. Se Locke aveva indicato quale peculiarità della mente umana la capacità di formare concetti o idee astratte, Berkeley op-

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pone che in questa presunzione sta la fonte di tutti i nostri errori. Ciò non significa negare la possibilità di generalizzare idee particolari, ma occorre respingere l’equazione tra tale possibilità e la presenza reale nella mente di un contenuto generale e indeterminato valevole di per sé. Quanto alla distinzione lockiana tra idee di sensazione e idee di riflessione, Berkeley la rifiuta, ammettendo l’esistenza delle sole idee sensibili e particolari. Di qui la conseguenza che un nome può certo rappresentare una molteplicità di idee e percezioni particolari, ma il suo significato rimane in esse, collegato all’esperienza sensibile e non trasformato in ente di ragione, trasferito in un ordine separato rispetto al nostro mondo di sensazioni. La polemica antiastrattistica ha il proprio naturale sbocco nell’antimaterialismo: noi non conosciamo oggetti, ma possediamo solo le nostre percezioni e le idee generate dalla loro combinazione. Credere allora in un mondo esterno al di là dell’essere concreto e reale da noi percepito nella sua integralità, in cose dotate di una supposta esistenza a sé stante (come se fosse possibile prescindere dal soggetto percipiente o operare distinzioni nel suo percepito), questo sì che è un pensare astratto senza contenuto veritiero. Anche la scienza newtoniana cade in questa trappola nel momento in cui relega nel “soggettivo” il complesso di qualità sensibili (o come diceva Locke “secondarie”) relative sempre a colui che percepisce, intendendo invece trattenere come “oggettivo” (le lockiane qualità primarie) solo ciò che viene astratto dal percepito come l’insieme dei fattori quantitativi costituenti la struttura del fenomeno. Ciò accade nel caso in cui, per esempio, si voglia distinguere uno spazio assoluto da uno spazio relativo conferendo al primo maggiore realtà che al secondo, quando invece lo spazio non è altro che il senso che noi abbiamo della lontananza dei corpi rispetto a noi, senso che si forma quando col tempo le impressioni visive attuali si associano con quelle tattili del passato. Stesso discorso quando si tratta di ammettere rapporti necessari di causa ed effetto, mentre a un’analisi più precisa tutto è riducibile all’associazione ripetuta di determinate percezioni, a sequenze costanti di percezioni come svolgentesi in una successione orientata in un determinato senso. Tuttavia l’antimaterialismo trova un contraltare nell’ammissione (da alcuni ritenuta incoerente) della sostanzialità sia del Soggetto infinito (Dio) sia (contro ➔ Spinoza) dei soggetti finiti, ammissione che consente

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a Berkeley di pervenire a una sana concezione teistica da opporre alla schiera corrotta di atei, libertini, scettici. Infatti se l’essenza della materia consiste nell’essere percepita, ciò significa che esistono sostanze immateriali che la percepiscono. E poiché la natura delle idee è passiva eppur dotata di una forza che le impone in modo indipendente dalla volontà del soggetto, allora bisogna ammettere, sgombrando il campo dai problemi derivanti dal dualismo sostanziale, non solo che esse non possono prodursi da sole ma anche che devono essere prodotte da Dio in quanto principio attivo. Senza questo rimando allo spirito infinito, la conoscenza umana resterebbe inesplicabile e senza senso. È Lui infatti che continuamente immette nella nostra mente le impressioni sensibili, seguendo una uniformità e un ordine prestabiliti dalla sua provvidenza tale da suscitare in noi le concezioni della regolarità della natura, dell’esistenza del mondo esterno ecc. Solo una posizione antirealista come quella che Berkeley sta proponendo garantisce che Dio continui a essere la causa universale e permanente. E poiché Egli è attività produttrice noi possiamo conoscerlo indirettamente attraverso le sue opere innumerevoli, giacché anche la più insignificante delle nostre percezioni è giustificabile solo se fatta risalire alla sua causalità. A partire dal De motu incomincia una seconda fase nel pensiero berkeleiano, caratterizzata da un’impostazione sempre più nettamente platonica. Resta tuttavia costante la polemica nei confronti di tutti coloro che diffondono idee false, dannose per la vita morale e sociale. Così l’Alcifrone prende come bersaglio quei “liberi pensatori” (Toland, Collins, Shaftesbury ecc.) che intendono elaborare una religione naturale e razionale (deismo) da sostituire a quelle tradizionali. A essi Berkeley ribatte mostrando l’astrattezza della loro concezione della divinità, impotente a fondare un’autentica morale perché lontana dalla natura e dall’uomo e in grado di produrre solo un vuoto in quella civiltà che tali pensatori vorrebbero illuminare. Solo la fede nella rivelazione insegnata dalla religione confessionale può recare un’effettiva incidenza nella vita dell’uomo, sia su quella dello spirito sia nei costumi sociali. Questa linea di pensiero viene ribadita in Siris, dove è esposta una filosofia religiosa della natura come immediata manifestazione dello Spirito divino. Partendo dalle virtù terapeutiche dell’acqua di catrame raccomandata per la salute del corpo, Berkeley la con-

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siglia anche per il rinvigorimento di tutto l’essere, giacché in essa opera il potere della scintilla della vita che Dio infonde nelle creature attraverso l’etere. Egli infatti parla il suo linguaggio di fenomeni alle menti che li percepiscono nella luce che è materia purissima. Il radicale teismo di Berkeley, nell’ampio arco teoretico che lo conduce dalla prospettiva empiristica a quella platonizzante, resta dunque confermato. Berlin, Isaiah Filosofo di origini lettoni (Riga 1909 - Oxford 1997), ha vissuto e insegnato in Inghilterra. Nell’ambiente di Oxford ebbe modo di conoscere e apprezzare la filosofia analitica, ma i suoi interessi si indirizzarono con il tempo preferibilmente verso questioni politiche, etiche e storiografiche. Le vicende personali e storiche del suo tempo gli fecero temere fortemente l’affermarsi dei regimi totalitari, ma allo stesso tempo lo indirizzarono in modo deciso verso il liberalismo, di cui fu uno degli esponenti teorici più importanti. Sotto questo profilo la sua opera maggiore è Due concetti di libertà del 1958 (seguita da Quattro saggi sulla libertà del 1969), in cui propone e discute la nota distinzione tra libertà negativa, che si ha quando l’azione dell’individuo non subisce limitazioni o impedimenti, e libertà positiva, sostanzialmente coincidente con la padronanza di sé e con l’autonomia di cui l’individuo può godere. Nessuno di questi due concetti è in grado di definirne integralmente la dimensione nella sfera personale e sociale, dal momento che la prima non dice ciò che l’individuo libero fa o può fare, e la seconda ciò che il singolo deve fare per conquistarla: ciò significa che, piuttosto che complementari, risultano in tensione conflittuale. Infatti, dal momento che uno degli aspetti qualificanti del liberalismo è il riconoscimento della molteplicità dei valori, questi (come ha insegnato ➔ Weber) si pongono in relazione concorrenziale, rivendicando ciascuno una propria assolutezza ed esclusività nella scelta. Indubbiamente, al fine di evitare i pericoli della coercizione e dell’oppressione, Berlin assegna un certo primato alla libertà negativa, ma è poi disposto a riconoscere che vi possono essere delle ragioni – e delle circostanze – per cui la libertà deve cedere il passo ad altri valori (dall’uguaglianza alle esigenze della libertà positiva). Convinto, contro l’economicismo marxista, del ruolo fondamentale delle idee nello svolgimento dei processi storici (come sostiene in Il potere delle idee del 1996), Berlin ha stu-

Bernardo di Chiaravalle

diato autori e movimenti che sono alla base del liberalismo moderno: così in Vico e Herder (1976) ha focalizzato soprattutto la visione antideterministica della storia presente in questi filosofi, mentre in Le radici del romanticismo (1965) e Idee politiche nell’età romantica (2006) ha distinto i diversi aspetti di questo rivoluzionario movimento culturale, evidenziandone sia gli elementi fecondi anche per il nostro orizzonte storico (quelli che hanno alimentato i movimenti democratici, libertari e identitari), sia quelli devianti che sono sfociati nei regimi totalitari, nazionalistici e fascisti. A tale scopo ha preso in considerazione anche pensatori fortemente critici delle concezioni illuministiche come ➔ Hamann in Il mago del Nord (1993) e filosofi portatori di una diversa prospettiva rispetto a quella europea in Pensatori russi (1978). Bernardo di Chiaravalle In francese Clairvaux. Monaco francese (Digione1090 - Clairvaux 1153). Santo e dottore della Chiesa. Fondatore nel 1115 del monastero di Chiaravalle, fu il massimo esponente della mistica cistercense (per la forza del suo pensiero e la poesia che esprime il suo slancio mistico è stato definito doctor mellifluus). Bernardo, non negando l’utilità della dialettica e della filosofia, soprattutto per confutare le eresie, sancisce l’inevitabile subordinazione di queste alla fede come unico strumento che possa, al di là della ragione, innalzare la mente verso il divino attraverso la contemplazione mistica e il silenzio. Cristo nei suoi insegnamenti ha mostrato le tappe per giungere alla verità: l’umiltà, la compassione, la contemplazione. Il culmine dell’ascesa spirituale (come risulta dai suoi testi De consideratione, De diligendo Deo, De gradibus humilitatis et superbiae, e dai suoi numerosi Sermoni e orazioni) è costituito dalla contemplazione estatica del Padre, che porta così a prendere consapevolezza non solo della miseria umana ma anche della necessità di recuperare ciò che col peccato è stato perduto, pervenendo alla ritrovata somiglianza col divino nell’unione mistica con Lui. Bione di Boristene Filosofo greco (Boristene 325 - Ponto Eusino 265 ca. a.C.). Vissuto al tempo delle prime scuole ellenistiche, scrisse delle Diatribe, di cui rimangono frammenti. Il suo stile e il metodo utilizzato, vicino a quello dei cinici, influenzarono la satira romana. Dai frammenti la sua filosofia appare come una corrosiva critica so-

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Bloch

ciale: contro le convenzioni, le religioni tradizionali e le superstizioni, contro i valori accolti acriticamente. La felicità appare come il frutto di un intelligente adattamento alle circostanze. Vicino per questi aspetti ai ➔ Cinici, la sua formazione avvenne però probabilmente negli ambienti vicini a Teofrasto e al Liceo. Tra i cinici, il suo nome è associato a quello di Cratete. Bloch, Ernst Filosofo tedesco (Ludwigshafen 1885 - Tubinga 1977), professore prima a Lipsia (nella Repubblica Democratica Tedesca) e poi, dopo la rottura con il regime comunista, a Tubinga. Dalle prime opere (Spirito dell’utopia del 1923, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione del 1921, Eredità del nostro tempo del 1935) fino a quelle più mature (Soggetto-oggetto del 1949, Ateismo nel cristianesimo del 1968, Experimentum mundi del 1975, ma soprattutto nel capolavoro Il principio speranza del 1959), è venuto delineando una visione del mondo e della storia percorsa da una costante tensione verso la compiutezza, da una permanente aspirazione escatologica, che si rivela come un profondo bisogno dell’uomo. In una sintesi che fonde la dimensione religiosa (derivata dalla sua origine ebraica) con quella di riscatto e trasformazione sociale, Bloch ha ripensato il marxismo, depurandolo degli aspetti meccanicistici ed economicistici per aprirlo verso un umanesimo dalle forti tinte messianiche. Poiché ciò che è “non-è-ancora-essere”, la spinta verso il futuro è intrinseca sia alla realtà naturale (raccogliendo gli spunti della “sinistra aristotelica” medievale e rinascimentale, da ➔ Avicenna fino a ➔ Goethe e ➔ Schelling, Bloch concepisce la materia come potenza “in fermento”, impulso a generare sempre nuove forme “latenti nel suo grembo”) sia a quella umana, dove si esprime come speranza e desiderio di nuovi modi di essere e di vita, contrassegnati dalla pienezza e dalla felicità. Hegel ha certo insegnato la razionalità della storia, ma per Bloch essa non consiste in una conciliazione già realizzata, in un ripiegamento dello spirito su se stesso, bensì in una negazione dell’esistente (questo è il senso del rovesciamento marxiano della dialettica) e in una proiezione verso ciò che è di là da venire. Se negli anni giovanili Bloch aveva creduto di cogliere le manifestazioni e le esigenze della “coscienza anticipante” nelle avanguardie artistiche, successivamente le individuerà anche nei vari aspetti della vita materiale e quotidiana (dai miti collettivi

Blondel

ai prodotti dell’industria culturale di massa come i film e le canzonette). Costante è il suo rapporto con la religione (poiché «dove c’è speranza c’è religione»): pur dichiarandosi “ateo per grazia di Dio”, egli ha visto in essa non solo l’“oppio del popolo” ma anche “la protesta contro la miseria reale”, e quindi una modalità per esprimere la critica dello statu quo e una richiesta di liberazione. Partendo da questi presupposti, Bloch ha guardato non tanto alle “configurazioni teocratiche” della religione, quanto alle correnti ereticali e millenaristiche (per esempio Thomas Müntzer) facenti capo alla dimensione utopica-itinerante delineata nell’Esodo e all’annuncio escatologico del Regno da parte del Cristo, integrandole nell’utopia concreta del marxismo quale filosofia dell’emancipazione umana da ogni forma di alienazione e di oppressione. Blondel, Maurice Filosofo francese (Digione 1861 - Aix-en-Provence 1949). Partecipò ai dibattiti sul modernismo (almeno fino alla sua condanna da parte della Chiesa) e, riallacciandosi alla tradizione spiritualista francese, volle contrapporre i valori del cristianesimo allo scientismo positivistico. Il nucleo centrale del suo pensiero (esposto soprattutto nel suo capolavoro L’azione del 1893) consiste nel sostenere il primato della volontà (forza spirituale creatrice e plasmatrice), la quale si manifesta nel corpo e nell’azione pratica. Poiché quest’ultima, per quanto efficace, non risulterà mai completa e soddisfacente rispetto alle intenzioni (l’uomo sperimenta uno iato incolmabile tra le sue aspirazioni e la precarietà delle realizzazioni), inducendo a un continuo sforzo di autoperfezionamento, bisogna concludere che nel mondo dell’immanenza vi è un vuoto d’essere che necessariamente rimanda alla trascendenza divina come al fondamento ontologico che giustifica e conferisce senso all’operare umano, pur libero ma altrimenti destinato allo scacco. Perciò Blondel chiama “metodo dell’immanenza” quel procedimento che intende dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalla finitudine e dall’insufficienza umana. Il credente è chiamato a esercitare la sua fede nel mondo e a contatto con la realtà del suo tempo nella misura in cui “vuole volere”, facendo cioè aderire la volontà al senso dell’azione che compie (in questo modo si può dire che Dio è reale perché produce effetti reali). Blumenberg, Hans Filosofo tedesco (Lubecca 1920 - Altenberge 1996). Facendo con-

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Blumenberg

vergere nella sua riflessione sia il concetto di “mondo della vita” derivato da ➔ Husserl (Tempo della vita e tempo del mondo, 1986) sia quello di “forma simbolica” derivato da ➔ Cassirer, nella sua prima opera fondamentale Paradigmi per una metaforologia (1960) concentrò la sua attenzione sul problema della metafora, rilevante, oltre che come luogo culturale, come fondo depositario di senso che, per la sua valenza polisemica, precede la formazione dei concetti che a essa non possono in ogni caso essere ridotti. Il lavoro di Blumenberg si orientò dunque a rintracciare le radici filosofiche del mondo moderno attraverso l’individuazione di quella rete di “metafore assolute” che sono alla base del nostro modo di pensare il mondo e orientamento nella realtà, mediante i modi con cui recepiamo ed elaboriamo gli apparati mitologici. Così in Elaborazione del mito (1979) egli riflette sulla forza simbolica di queste narrazioni: questa si conserva anche quando il logos progredisce, in quanto consente di arginare, mediante il conferimento di nomi e di significati al mondo (in questo senso è una forma primaria di razionalizzazione), il potere della natura ostile. Al centro del mito sta allora il racconto della divisione dell’assoluta potenza divina, chiaramente finalizzata alla preservazione dell’uomo dall’annientamento da parte dell’Assoluto. Da questo punto di vista un ruolo centrale è ricoperto dal mito di Prometeo (la cui metamorfosi è seguita da Esiodo a Kafka): da esso emerge come la successiva opera da parte della razionalità filosofica (la metafisica) non persegua se non un’analoga finalità (dominare l’ignoto) con strumenti meno immaginosi. E siccome questa finalità è mantenuta anche dall’impresa tecnico-scientifica moderna, secondo Blumenberg si assisterebbe a una continuità tra mito, metafisica e scienza nell’ottica di una persistente rielaborazione del primo, senza i drammatici strappi sostenuti da certi schemi storiografici. Dopo questa ponderosa opera egli proseguì il lavoro di scavo tra le metafore in La leggibilità del mondo del 1981 (a partire dalla distinzione tra la Bibbia e la natura, quest’ultima è progressivamente intesa come un libro da leggersi autonomamente, cui si aggiungeranno il libro della storia, i libri dei mondi virtuali, dei sogni e del codice genetico), Naufragio con spettatore (1979) e Il riso della donna tracia (1987). Accanto a questo filone a metà tra la teoria e la storiografia, la produzione di Blumen-

Bobbio

berg si è mossa in una direzione (peraltro strettamente connessa con l’altra) tesa a dimostrare La legittimità dell’epoca moderna (1966): contro coloro (per esempio Löwith e Voegelin) che non vi vedono se non il risultato di un processo di secolarizzazione di categorie religiose, egli rivendica la sua originalità centrata sull’idea dell’homo faber, emancipato dai vincoli teologici e autoaffermatosi costruttore di storia e di forme culturali, culminante nel dominio della ragione tecnico-scientifica. Si può dimostrare la fondatezza di questa tesi seguendo le trasformazioni semantiche della curiositas dalla visione ingenua dei greci alla concezione moderna come cura tecnico-teorica dell’esistenza. In questo quadro un ruolo fondamentale è occupato da ➔ Giordano Bruno, vero spartiacque tra il cosmo medievale e l’attuale assolutizzazione del mondo. Bobbio, Norberto Filosofo e politologo italiano (Torino 1909 - 2004). Una delle più eminenti personalità italiane nel campo della filosofia del diritto, nominato senatore a vita. In moltissimi scritti (è autore non soltanto di saggi, ma anche di una decennale produzione giornalistica) ha preso posizione a favore della “liberal-democrazia”, studiando le tecniche per la gestione del potere adeguate a una società fondata sul rispetto dei diritti dell’uomo, dei principi di libertà e di eguaglianza. Ha sempre sostenuto la necessità dell’indipendenza degli uomini di cultura dai partiti politici. Bodin, Jean Giurista e teorico politico francese (Angers 1530 - Laon 1596). Visse in Francia nel clima delle guerre di religione durante il regno di Enrico III e fu l’esponente di maggior prestigio del gruppo dei politiques che cercavano di restituire prestigio e autorità alla monarchia. In questo tentativo Bodin scrisse la sua maggiore opera Les six livres de la République (1576, da lui stesso tradotta in latino) nella quale si evidenzia la necessità di uno Stato forte in cui la sovranità sia assoluta, una, indivisibile. Il sovrano è legibus solutus (così Bodin si inserisce nel filone politico dell’assolutismo) poiché le leggi hanno origine solo dalla volontà del sovrano stesso. Ma la legge deve essere indirizzata verso la giustizia e quindi il sovrano deve operare a immagine e somiglianza di Dio e le sue leggi devono seguire quelle divine. Il potere sovrano (che può essere di un solo uomo, del popolo o di un gruppo di nobili, anche se Bodin predilige la forma monarchica) non deve essere dispotico ma

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Boezio

operare nell’armonia, in quanto la ragion di Stato richiede al principe di superare le dispute dogmatiche, gli interessi privati e di fazione. E proprio teorizzando la superiorità della ragion di Stato Bodin scrisse Colloquium Heptaplomores dove si dichiara pronto ad approvare tutte le religioni piuttosto che rischiare di escludere quella vera, affermazione che introduce un liberalismo religioso non come valore ma come necessità, giacché «a voler piegare le coscienze si rischia di perdere lo Stato». Anche nel Colloquium Bodin ribadisce la necessità di porre la ragion di Stato e la salvezza della nazione al di sopra di qualsiasi disputa. Boezio, Anicio Manlio Severino Torquato Filosofo e letterato latino (Roma 480 - Pavia 526). Studiò a Roma e ad Atene; divenuto funzionario durante il regno di Teodorico, tentò una mediazione tra latini e goti. In seguito fu accusato di tradimento, incarcerato e condannato a morte. Tradusse e commentò alcuni testi aristotelici (soprattutto di logica, per i quali sostenne una soluzione concettualista alla disputa degli universali) e scrisse opere teologiche (Opuscola Sacra) fortemente influenzate dal pensiero di ➔ Agostino. L’opera di maggior rilievo, Consolatio philosophiae, fu scritta da Boezio durante la prigionia. Si tratta di un testo di elevata spiritualità, animato da una forte esigenza morale e da una profonda coscienza della responsabilità umana. La Consolatio (da interpretare nel significato di “esortazione”) si presenta sotto forma di dialogo, alternato a versi, tra l’autore e la filosofia, presentata come una nobildonna. Costei mostra all’ascoltatore come gli uomini ripongano erroneamente la felicità in beni fallaci ed effimeri (ricchezze, onori, gloria), senza avvedersi che la vera felicità consiste nel fine supremo (Dio) a cui tutti devono tendere. Ciò avviene per l’estrema difficoltà con cui la mente umana (dovuta alla modalità di conoscenza propria dell’uomo, che giudica le azioni dall’esterno, incapace di coglierne le intime motivazioni) riconosce l’ordine provvidenziale che regola e governa l’universo e in cui libertà umana e prescienza divina convergono. Al contrario, l’Intelligenza divina (sulla base della dottrina platonico-aristotelica dei gradi della conoscenza), estranea alla temporalità, può contemplare tutte le cose in un eterno presente, e in questo modo Dio vede contemporaneamente gli eventi necessari e quelli liberi senza per questo mutarne la natura.

Böhme

Böhme, Jacob Mistico e teosofo tedesco (Alt Seidenberg 1575 - Görlitz 1624). Autodidatta, fu accusato di eresia per le sue idee (esposte nel capolavoro Aurora nascente, pubblicato postumo) e per il resto della vita fece il calzolaio, pur continuando a scrivere in segreto. Muovendosi all’interno di un monismo emanazionistico di matrice neoplatonica, Böhme concepisce la vita divina come un processo di automanifestazione scandito in tre momenti ideali-temporali collegati ad altrettante qualità fondamentali: Dio nasce e rinasce in se stesso, prima come volontà originale che intuisce se stessa (il Padre, che corrisponde alla Brama), poi come sentimento di piacere nel contemplarsi (il Figlio, corrispondente al Movimento), infine come movimento vitale originato dall’intuizione e che a essa vuole ricongiungersi (lo Spirito, corrispondente all’Angoscia). Ma la vita implica il contrasto e la lotta quali fattori essenziali: perciò, con il monismo come presupposto, anche la lotta tra bene e male procede necessariamente da Dio. Il male è una forza che in Dio si fa eternamente buona e gioiosa nella sintesi col suo contrario con cui vive in eterna unità, risultando alimento e fermento del positivo. Questo dualismo interno all’unità divina si ritrova anche nella sua manifestazione cosmica: infatti la natura è lo stesso essere divino, manifestantesi in modo visibile, tanto che le qualità divine (cui si devono aggiungere il Fuoco, che risveglia la pienezza della trinità divina, la Luce che la mitiga, il Suono che la comunica, e infine il Corpo, che rappresenta sinteticamente la natura divina) trovano un loro riflesso nei tre elementi della materia, Sale, Mercurio e Zolfo, unificati dal Salnitro, mentre il conflitto tra bene e male si esprime nelle varie contrapposizioni luce-tenebra, amore-odio ecc. Da questo complesso di idee si può comprendere come le concezioni di Böhme, in cui temi schiettamente teosofici si uniscono a motivi alchemici della tradizione paracelsiana, abbiano avuto un influsso decisivo su Schelling e Hegel e in generale su gran parte del pensiero moderno. Boltzmann, Ludwig Fisico austriaco (Vienna 1844 - Trieste 1906), noto soprattutto per gli studi sulla teoria cinetica dei gas e sulla termodinamica statistica, dove sostenne la correlazione tra entropia e probabilità. La sua riflessione si rivolse inoltre alla natura delle teorie fisiche, che egli intese non come semplici descrizioni del dato immediatamente constatato, ma nel loro valore tra-

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Bolzano

scendente (le loro affermazioni vanno ben al di là dell’esperienza, di cui forniscono una rappresentazione idealizzata): data la loro natura ipotetica (caratteristica condivisa da tutta la conoscenza scientifica), le teorie non costituiscono un corpo di verità assolute e definitive, che possono essere esposte con maggiore adeguatezza mediante il metodo deduttivo. Ispirandosi alle dottrine di Mach (insieme al quale cercò di sensibilizzare gli ambienti viennesi riguardo l’utilità di una filosofia scientifica), si dedicò alla costruzione di una gnoseologia della fisica, insistendo sulla struttura assiomatica della meccanica e sull’importanza delle proposizioni matematiche rispetto alle rappresentazioni meccaniche considerate come pure immagini. Bolzano, Bernhard Matematico e filosofo praghese di origini italiane (Praga 17811848). Come sacerdote si dedicò dapprima agli studi teologici e religiosi (e per le sue idee fu sospeso dall’insegnamento e alcuni suoi scritti furono posti all’Indice) e in seguito a quelli filosofici e matematici. Antikantiano e antiidealista, sostenne una metafisica scientificamente precritica, ispirata a ➔ Leibniz. Il suo nome tuttavia è soprattutto legato alle ricerche sui fondamenti della matematica e della logica. Riguardo a quest’ultima, egli cercherà di svincolarla dalla psicologia e dalla retorica, offrendo soluzioni originali ai problemi di proposizione, verità e rappresentazione considerate in sé (a prescindere cioè dal soggetto che attualmente le enuncia o le pensa): in tal modo aprì la strada all’orientamento logicista e alla concezione della deducibilità e dei problemi a essa connessi in termini esclusivamente formali. Nel campo della matematica (concepita come dottrina formale a priori degli oggetti) diede contributi decisivi nel processo di aritmetizzazione dell’analisi, con procedimenti dimostrativi senza ricorso all’intuizione e con la determinazione di importanti risultati (teorema di Bolzano-Weierstrass, esistenza di una funzione continua ovunque priva di derivata ecc.). Nei Paradossi dell’infinito diede una trattazione delle questioni inerenti agli insiemi infiniti, in cui sono anticipate molte nozioni della successiva elaborazione di Cantor. Attraverso la mediazione di ➔ Brentano, le idee di Bolzano giunsero a Husserl, che le elaborò dando vita alla concezione antipsicologica della logica e alla dottrina dell’equivalenza tra analitica apofantica e analitica formale matematica.

Bonaventura da Bagnoregio

Bonaventura da Bagnoregio Filosofo e teologo cristiano (Bagnoregio 1217 ca. - Lione 1274), massimo esponente dell’indirizzo scolastico francescano. la vita. Nato a Civita di Bagnoregio (il suo nome al secolo era Giovanni Fidanza), fu consacrato a San Francesco dai genitori in seguito a una malattia ed entrò nei frati minori a Parigi, dove era stato mandato a studiare. Qui intraprese l’iter accademico, componendo opere fondamentali, come un monumentale commento alle Sentenze di ➔ Pietro Lombardo, le Quaestiones disputatae de scientia Christi, quelle De mysterio Trinitatis e De perfectione evangelica, il Breviloquium vera e propria summa del suo pensiero. Insieme con Tommaso d’Aquino fu dal 1257 il primo maestro non regolare, ma non esercitò l’attività docente perché nello stesso anno fu eletto ministro generale del suo ordine. Per gli obblighi di questa funzione viaggiò molto, dovendo intervenire nel conflitto tra spirituali e conventuali. Durante un periodo di ritiro a La Verna compose l’Itinerarium mentis in Deum, capolavoro insieme speculativo e spirituale. Tuttavia a partire dal 1265 riprese i contatti col mondo universitario, in cui si era diffuso l’averroismo e con esso una serie di dottrine eterodosse o eretiche. A più riprese tenne, sempre con molto successo, cicli di conferenze nella capitale francese (Collationes de decem praeceptis, Collationes de septem donis Spiritus Sancti, Collationes in Hexaëmeron), per ribadire le posizioni dell’ortodossia cattolica secondo la prospettiva agostiniana di cui fu strenuo sostenitore. Creato cardinale e nominato vescovo di Albano nel 1273, morì l’anno successivo a Lione, dove si era recato in occasione del concilio lì convocato. il pensiero. Formatosi sulla base delle dottrine di Dionigi, Sant’Agostino e Sant’Anselmo, la preoccupazione fondamentale di Bonaventura resta quella di preservare la “sapienza” cristiana dall’invadenza naturalistica e paganeggiante delle dottrine aristoteliche e averroistiche accostate con troppa disinvoltura da molti maestri dell’epoca. Tale preoccupazione è evidente soprattutto nello sforzo di riaffermare il primato della teologia e la sua sovranità su ogni ramo del sapere, come risulta dal celebre opuscolo Reductio artium ad theologiam. Tuttavia egli non si limita a condannare la filosofia e la sua aspirazione a un sapere autonomo dalla Rivelazione, ma intende costituire un corpo organico di dottrine, che non rifiuti pregiudizialmente le concezioni provenien-

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ti dal mondo antico e da quello arabo, ma le incorpori (nei limiti del possibile) nell’insieme delle linee dominanti del sistema platonico-agostiniano e della sua visione di un universo dominato dalla presenza divina. Dunque, più che non riconoscere valore alla ragione e alla filosofia in sé o confondere la filosofia con la teologia, l’obiettivo di Bonaventura, come era stato di Agostino, è di non separare la filosofia dalla teologia, il naturale dal soprannaturale. La filosofia, trovando in Dio l’ultima risposta alle proprie questioni, sfocia necessariamente nella teologia e lo slancio della ragione diventa preghiera e visione mistica. Dunque compito della filosofia (che non può essere se non cristiana) è riconoscere che Dio è in tutto e rinvenire una sua traccia o un suo riflesso in ogni atto di conoscenza. E del conoscere Bonaventura offre un concetto elaborando le dottrine e il linguaggio aristotelici in senso agostiniano: distinto in sensibile, razionale e intellettivo, esso è il risultato di un ricevere e di un agire dell’anima su se stessa per determinarsi secondo l’azione dell’oggetto. La prima forma di conoscenza, legata ai sensi, si applica a ciò che ci è estraneo ed esteriore: essa consiste in un ricevere l’azione delle cose sul corpo. Questa azione provoca una reazione dell’anima (che non si limita a subire passivamente l’azione delle cose materiali) che determina la formazione e impressione della specie sensibile, ossia la percezione e il conseguente giudizio. Ma neppure la conoscenza razionale può superare l’incertezza dell’esperienza, in quanto consiste nell’astrarre l’universale contenuto negli oggetti sensibili. Anche se lo si può dire agente in quanto reagisce alla specie sensibile per formare quella intellegibile, e passivo in quanto riceve la specie intellegibile (universale) come frutto della reazione dell’anima intellettuale davanti all’oggetto, l’intelletto resta comunque unico. Fin qui la conoscenza naturale, le cui verità però hanno valore solo nella misura in cui imitano e manifestano la prima e suprema verità: la loro funzione è di permetterci di elevarci a Dio che nel momento in cui ha creato il mondo, ha posto un rapporto di similitudine tra Sé e la realtà creata, tra l’eterno e il perituro. L’ultimo momento conoscitivo incomincia dunque quando l’anima si ritrae dalle cose per riflettere su se stessa elevandosi al di là del mondo contingente e sensibile: questa conoscenza delle cose spirituali non si può dunque spiegare con l’astrazione dalle cose materiali ma dalla

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stessa realtà spirituale, immutabile ed eterna quale assoluto e necessario oggetto finale (Dio e le sue idee) in cui l’anima conosce le cose. Seguendo ➔ Agostino, Bonaventura chiama illuminazione questo ricorso alla causa prima che concorre, sia in senso efficiente sia in senso finale, nell’essere e nell’operazione delle cause seconde. Nell’anima umana è presente un riflesso dello splendore divino, così che Dio non solo dona all’uomo la facoltà intellettiva (causa efficiente), ma muove dalla potenza all’atto: l’illuminazione si risolve nel vedere (sia pure confuso e sbiadito) le cose nelle loro idee esemplari ed eterne che sono in mente Dei (causa finale), nel riferire alla fine ogni oggetto, prima percepito e poi compreso, alla sua ratio aeterna (Bonaventura chiama “contuitio” questo movimento naturale), cioè al suo valore assoluto d’essere nell’Essere assoluto. Dio è dunque conosciuto come fonte e termine di ogni cosa, e ciò naturalmente in diversi modi, sia che avvenga per affermazione o negazione (a seconda che ogni essere o ogni qualità dell’essere vengano portati all’infinito, oppure che l’intelletto negando ogni difetto o imperfezione giunga all’essere assolutamente perfetto), o “per creaturas et in creaturis” (l’intelletto sale dall’effetto alla causa o vede Dio in tutto), o attraverso l’amore, che è conoscenza superiore a quella concettuale perché penetra nel contatto interiore con Dio. È comunque essenziale considerare che l’anima può percorrere questi modi di conoscenza, che sono naturali ma elevabili dalla grazia, perché è stata creata in potenza all’infinito (l’agostiniano “fecisti nos ad te”). Oltre questi modi vi sono quelli derivanti dalla vita di unione soprannaturale con Dio, che ci consente, oltre alla fede, di fruire dei doni dello Spirito Santo, tra cui l’intelletto e la sapienza, che perfezionano l’intelletto con l’amore. È questo, su un piano soprannaturale e mistico, il vertice della conoscenza: nella presenza immediata di Dio all’anima. Del resto secondo Bonaventura l’idea di Dio come “ens simplicissimum, ens immutabile, aeternum, infinitum, unum, primum, onnipotens” è talmente connaturata all’anima naturaliter christiana da risultare sommamente evidente, in quanto per definire un qualsiasi oggetto si è costretti a ricorrere a un essere puro e assoluto che rappresenti la misura di ogni realtà contingente e particolare, talmente intrinseca alla sua essenza che non è possibile conoscere se stessi senza conoscere Dio. In questo senso vie-

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ne riproposto l’argomento anselmiano (anche se Bonaventura non esclude il ricorso alle prove a posteriori mediante le molteplici vie della causalità), perché l’evidenza dell’esistenza di Dio è l’evidenza di una necessità in sé, da cui traggono poi la loro necessità anche i primi principi dell’essere. Ma Dio è soprattutto amore, e come tale vuole darsi ad altri esseri che potrà amare e da cui potrà essere amato mediante la riduzione di tutto a sé in Cristo, Verbo incarnato. Di qui l’intransigente sostegno, contro le posizioni dell’averroismo latino che sostenevano l’eternità del mondo, alla tesi della creazione volontaria e nel tempo, per cui, mentre Dio è Atto puro, le creature sono atto (per partecipazione all’Essere assoluto) e potenza (per la loro limitatezza di essere e quindi di partecipazione al nulla), che corrispondono a forma e materia. Quest’ultima deve essere considerata (secondo una concezione già presente nell’ambiente francescano, per esempio con Grossatesta) essenzialmente come luce, divenendo poi spirituale o corporale a seconda della semplicità o della composizione fisica dell’essere in cui entrerà come principio costitutivo. Questa dottrina (un ilemorfismo molto vicino a quello di ➔ Avicebron) consente di intendere le anime (e gli angeli) come sostanze semplici e perfette, dotate di materia e forma proprie e del tutto indipendenti dal corpo, al quale si congiungeranno per conferirgli una forma ma da cui potranno distaccarsi mantenendo inalterata la propria perfezione e immortalità. Inoltre Bonaventura può innestare nella sua teoria della materia anche la dottrina della pluralità delle forme (anch’essa presente in Avicebron), per cui ogni essere, pur essendo uno, contiene in sé la presenza di diverse forme inferiori e di diverse sostanze incomplete. L’uomo è composto da due forme sostanziali incomplete, una spirituale (l’anima) e l’altra corporea (il corpo), entrambe composte di materia e forma e tuttavia costituenti una unità sostanziale. L’anima, pur essendo un essere in sé dotato di una propria attività, tende a unirsi col corpo a motivo della sua incompletezza. Essa risulta dotata di due potenze (facoltà), l’intelletto e la volontà, che, mentre le danno la capacità di operare, sono autonome, libere e tendenti all’infinito: perciò solo l’anima è fatta per possedere Dio (“capax Dei”). Per questo fine è immortale e destinata alla beatitudine eterna, fruizione del godimento infinito di Dio mediante l’attuazione di entrambe le potenze,

Boutroux

realizzato nella partecipazione unitiva alla conoscenza e all’amore divini, giacché in Dio tutto è uno. Boutroux, Etienne Emile Marie Filosofo francese (Montrouge 1845 - Parigi 1921), studioso del pensiero scientifico moderno, si sforzò di evidenziare la natura e i limiti della sua capacità conoscitiva. In un clima dominato dal positivismo, l’oggetto della sua attenzione fu soprattutto il determinismo dell’epistemologia del tempo, che egli mise in discussione domandandosi se nella natura ci sia veramente quel ripetersi dell’identico che soddisferebbe l’esigenza di un’assoluta necessità. Ne La contingenza delle leggi di natura egli sostenne che, essendo la legge di causalità sintesi di due elementi irridicibili, l’identità e il cambiamento, non è ammissibile che la causa contenga tutto ciò che è necessario per spiegare l’effetto: bisogna dunque ammettere un elemento nuovo quale condizione indispensabile affinché l’effetto sia tale, e quindi contingente, rispetto alla causa (cioè non deducibile da essa necessariamente). Ne L’idea di legge di natura Boutroux accentuò la critica al determinismo nella convinzione che l’applicazione della matematica (l’unica disciplina in cui possa valere la necessità) alla natura non possa essere che approssimativa, per l’eterogeneità incommensurabile dei due campi: pertanto, se la scienza persiste nello sforzo di stabilire leggi che adeguino la realtà alla matematica, ciò è dovuto all’esigenza pratica dell’intelletto umano, che tende all’immutabile e all’identico per orientarsi nella varietà infinita dei fenomeni. In realtà le leggi non fanno che tradurre variazioni qualitative in rapporti quantitativi mediante simboli: perciò, tenendo conto anche di una generica e relativa tendenza della natura a ripetersi, la sostanziale contingenza dei fenomeni naturali può anche lasciarsi interpretare, con grande utilità pratica, come necessità meccanica. Bradley, Francis Herbert Filosofo neoidealista inglese (Clapham 1846 - Oxford 1924), che nella sua opera metafisica fondamentale Apparenza e realtà sostenne un monismo radicale. Partendo dal presupposto che «la realtà definitiva è quella che non si deve contraddire», egli sottopose a critica serrata gli oggetti della nostra esperienza e del nostro pensiero, scoprendovi contraddizioni interne legate alla loro natura essenzialmente e intrinsecamente relazionale. Questo ci impedisce di considerarli reali e ci impone di

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Brentano

relegarli nella sfera dell’apparenza. Bradley raggiunge tale risultato attraverso una sottile analisi delle categorie (spazio, tempo, cosa, mutamento, identità, azione ecc.) che solitamente impieghiamo nella conoscenza delle cose e che al contrario si rivelano inconsistenti e inconcepibili. La verità si trova hegelianamente solo nell’unità del tutto, nell’Assoluto. Sebbene tutto ciò che noi conosciamo come apparenza non sia illusione ma debba in qualche modo entrare a costituire la realtà (che non può escludere nulla, appunto perché non ha relazioni esterne), non è detto che le apparenze siano equivalenti: tutte sono reali in una forma differente da quella in cui appaiono, disposte in una serie di livelli gerarchizzati per vicinanza o per diversità rispetto all’armonia totale costituente la realtà unitaria, che tuttavia può essere inferita in qualche modo e per approssimazione attraverso il loro ordine. In questo senso l’idealismo di Bradley è “da fare”, poiché ideale e reale sono termini che cercano una reciproca adeguazione ma che nella nostra esperienza non possono mai raggiungere. Così l’Assoluto è concepibile solo negativamente (cioè asserendo ciò che non è) e ciò conferisce alla filosofia di Bradley un tono mistico e insieme scettico, dalle conseguenze etiche miranti a recuperare, contro l’edonismo, l’utilitarismo e il formalismo, un organicismo sociale antindividualistico. Brentano, Franz Filosofo tedesco (Marienberg 1838 - Zurigo 1917), autore di molte opere di etica, logica, metafisica, psicologia. A quest’ultima disciplina è dedicato il suo capolavoro La psicologia dal punto di vista empirico dove sostiene che la sfera psichica è caratterizzata dall’intenzionalità (nozione che Brentano afferma di derivare da Aristotele, cui peraltro egli ha dedicato molti studi, e che sarà alla base della fenomenologia di Husserl e dei suoi discepoli), cioè dalla direzione verso un oggetto “dato interiormente”. La relazione intenzionale costituisce la coscienza (che infatti è sempre coscienza di qualche cosa), e in essa si determinano e differenziano i fenomeni psichici cartesianamente distinti in ideae (rappresentazioni sia concretamente intuitive o no), iudicia (mediante cui si aggiunge alla rappresentazione una seconda relazione intenzionale, il riconoscimento o il ripudio dell’oggetto), voluntates sive affectus (sentimenti e appetizioni in cui si aggiunge la relazione intenzionale dell’amare o dell’odiare). Le ultime due classi hanno una strut-

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tura bipolare, perciò a esse appartiene la possibilità dell’errore. Sulla base di questa classificazione (che segna peraltro una netta confutazione della dottrina delle tre facoltà – pensiero, sentimento, volontà – largamente diffusa dopo Kant) è costruita l’etica di Brentano, caratterizzata da un rigoroso assolutismo e antisoggettivismo: infatti vi sono proposizioni che, conosciute per via naturale, permangono come irrefutabili e di validità universale pur senza essere innate. Qualcosa è bene quando è giusto l’amore che gli si porta: e come nella classe dei giudizi ve ne sono di evidenti di per sé, così vi sono sentimenti evidenti (vi è un piacere o un dispiacere di natura superiore o inferiore) derivanti dalle nostre fonti intuitive immediate. Dunque il sapere, la verità, la gioia ecc. sono amabili per un atto d’amore che è giusto in modo apoditticamente evidente. Bridgman, Percy William Fisico e filosofo americano (Cambridge nel Massachusetts 1882 - Randolph 1961), professore a Harvard e premio Nobel nel 1946 per la fisica. Compì importanti ricerche sulle alte pressioni e i fenomeni a esse connessi. Sul piano epistemologico, in seguito alle rivoluzioni portate dalle teorie dei quanti e della relatività, mirò (specie in La logica della fisica moderna, 1927) a estendere a tutta la fisica il metodo impiegato da ➔ Einstein nel rielaborare i concetti di spazio e tempo nella formulazione ristretta della sua teoria. Ne risultò una versione dilatata del pragmatismo dai risvolti radicalmente empiristici in cui i concetti erano espressi in termini operazionistici (i loro significati sono fissati dai metodi della loro applicazione nella ricerca empirica, fino alla coincidenza tra un concetto e il gruppo di operazioni che esso designa), comprensivi anche dell’ambito mentale (come nel caso della matematica). In seguito Bridgman ha attenuato gli aspetti più radicali della sua proposta, confluita negli orientamenti più recenti del neopositivismo (per esempio Quine), che, pur conservando l’esigenza di una controllabilità empirica delle asserzioni scientifiche, hanno rinunciato alla richiesta di una loro verificabilità totale in favore di una solo contestuale. Bruno, Giordano Filosofo italiano (Nola 1548 - Roma 1600), tra i massimi interpreti della corrente del naturalismo rinascimentale. la vita. Nato a Nola presso Napoli entrò giovanissimo nell’ordine domenicano (qui cambiò il nome originario Filippo con quel-

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lo di Giordano) dove compì il regolare corso di studi. Inquieto e di ingegno vivace, acquisì una cultura estremamente vasta e profonda, comprendente oltre agli autori canonici (Aristotele, Tommaso) molti altri eterodossi (Eraclito, Parmenide, Democrito, Lucrezio, Anassagora, i neoplatonici, Averroè, Erasmo, Lullo, Cusano, Copernico). Queste letture lo portarono, dopo un tormentato travaglio mentale, a manifestare dubbi nei confronti della dogmatica cattolica e a professare idee da molti ritenute eretiche. Dopo aver subito un primo processo e aver ricevuto rimproveri e ammonizioni, smise l’abito nel 1576 e incominciò una vita errabonda per varie parti d’Europa cercando una sede in cui essere accolto e poter insegnare liberamente. Prima fu a Ginevra (dove aderì al calvinismo, trovandosi tuttavia presto in contrasto con le autorità locali) e di qui passò in Francia, prima a Tolosa poi a Parigi. Qui ebbe buona accoglienza e fu circondato di stima e interesse per le arti che professava (la mnemotecnica e l’arte combinatoria lulliana), sulle quali pubblicò varie opere in latino (De umbris idearum dedicata a Luigi XIII, Cantus circaeus, Sigillus sigillorum, De architectura et complemento artis Lulli), più una commedia in volgare, Il candelaio. La minaccia della guerra civile lo indusse ad abbandonare la Francia e a passare in Inghilterra (1583) al seguito dell’ambasciatore francese, conte di Castelnau. Qui diede alle stampe altre opere di mnemotecnica (Ars reminiscendi, Triginti sigillorum explicatio) precedute da una lettera ai dottori dell’università di Oxford cui chiedeva la libertà di esporre pubblicamente le sue dottrine. Malgrado l’ostilità del mondo accademico, a Londra Bruno fu estremamente fecondo, pubblicando i suoi dialoghi in italiano, di argomento sia metafisico (La cena delle ceneri, De l’universo infinito e mondi, De la causa, principio e uno) sia morale (Spaccio della bestia trionfante, Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’asino cillenico, De gli eroici furori). Richiamato a Parigi l’ambasciatore, Bruno lo seguì ma poi lasciò la Francia per passare (1586) in Germania. Fu a Wittenberg (dove pubblicò alcune opere in latino Acrotismus camoeracensis, De lampade combinatoria, Lampas triginta statuarum), a Praga, a Helmstaedt (dove pubblicò i trattati latini De imaginum signorum et idearum compositione, De magia, Theses de magia, De magia mathematica, De rerum principiis, Summa terminorum metaphysicorum) e infine a Francoforte, dove fu stampata la sua trilogia di poemi lati-

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ni De minimo, De monade, De immenso et innumerabilibus e il De imaginum compositione. Nel 1591 decise di accettare l’invito del nobile veneziano Giovanni Mocenigo che l’aveva chiamato a insegnargli quelle arti magiche alle quali negli ultimi tempi aveva dedicato altre due opere, De vinculis in genere e De sigillis Hermetis et Ptolomaei. Deluso nelle sue aspettative, il Mocenigo denunciò Bruno all’Inquisizione. Il processo, svoltosi in una prima fase a Venezia, fu poi trasferito a Roma e si concluse con una condanna, perché il Nolano non volle ritrattare nulla della sua dottrina. Fu arso sul rogo in Campo de’ Fiori e si narra che prima dell’esecuzione abbia ritratto il volto dal crocefisso che gli era stato porto. il pensiero. Il filo conduttore del pensiero di Bruno nelle sue varie fasi è costituito da una visione della natura come totalità organica, uno-tutto vivente, animato, infinito. Questa concezione si nutre di molti contributi e deriva da molte matrici, ma si può individuare un asse fondamentale neoplatonico-pitagorico-ermetico su cui si innestano elementi eterogenei tratti dal naturalismo presocratico e dalle concezioni immanentistiche medievali e rinascimentali. Ciò emerge subito nelle prime opere, De umbris idearum e Cantus circaeus apparentemente dedicate solo alla mnemotecnica, ma in cui è già presente più di un motivo del suo pensiero maturo. Fondamento dell’arte è la convinzione platonico-cabbalistica di un ordine che procede specularmente sul piano della realtà e su quello della conoscenza. Numeri pitagorici e segni cabbalistici, alfabeto della mente e alfabeto delle cose si corrispondono perfettamente. Svelato il segreto della combinazione degli elementi mentali noi ci troviamo in possesso delle combinazioni reali. È l’ordine e la connessione che lega tutte le cose ciò che permette a un tempo di ottenere per magia, di conoscere per intelligenza, di ricordare per memoria tutto da tutto. Nella nostra mente abbiamo solo le ombre delle idee, ma queste ci possono condurre, senza rischio di accecamento, alla visione delle seconde, che sono state propagate dal Primo intelletto con l’effusione della sua luce. Se concepiamo le parti e le specie dell’universo connettendole e unendole razionalmente tra loro, non c’è cosa che non possiamo intendere, fare, ricordare, poiché l’Uno è ciò che definisce tutto e un solo fulgore riluce nella varietà delle specie. Una siffatta concezione della realtà naturale viene subito a collidere con quella aristotelica e tolemaica di un universo finito e

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diviso qualitativamente. È su questa linea di pensiero che Bruno incontra e fa propria la teoria copernicana (esposta e difesa a Oxford, come risulta da La cena delle ceneri), anche se di questa non gli interessa propriamente l’aspetto scientifico (Bruno rimprovera a Copernico di essersi limitato a una descrizione matematica dei moti dei pianeti), quanto appunto, insieme con il suo potenziale critico verso la vecchia cosmologia geocentrica, il sostegno e la conferma delle proprie posizioni. Esse risultano, per esplicita ammissione, ispirate anche alle idee del “divino Cusano” che ha prospettato l’immagine di un universo infinito, senza centro e senza periferia, alto e basso, che il nolano ora vuole esplicitare e sviluppare con tutte le sue conseguenze. Il tema dell’infinito è dunque al centro di una serie di scritti, dal dialogo italiano De l’infinito universo e mondi al poema latino De immenso: infinito è lo spazio dove corrono infiniti corpi celesti, tutti irradianti luce, nessuno inferiore agli altri, ciascuno ricoperto da infinite forme d’esistenza, tutti animati da un’unica forza infinita. L’universo è riempito dappertutto e in egual misura da una materia infinita, mossa tutta dalla stessa causa che forma e fa ruotare gli innumerevoli mondi. Il moto non è più trasmesso da un primo motore attraverso sfe-

Naturalismo rinascimentale I maggiori esponenti tra XVI e XVII secolo J. REUCHLIN (1455-1522) G. FRACASTORO (1478 ca.-1553) AGRIPPA DI NETTESHEIM (1486-1535) PARACELSO (1493-1541) B. TELESIO (1509-1588) M. SERVETO (1511-1553) F. PATRIZI (1529-1597) G. BRUNO (1548-1600) G.C. VANINI (1585-1619) J. BÖHME (1575-1624) T. CAMPANELLA (1568-1639)

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re via via inferiori, ma vi è un solo moto interno a ciascun corpo celeste, che si muove con la stessa spontaneità con cui la nostra anima muove il nostro corpo al fine desiderato. Questa causa, infinita e intrinseca, è l’anima universale, vera divinità che pulsa dentro di noi come in ogni altro essere, nel nostro come in tutti gli altri mondi, principio di vita di conoscenza e di movimento. E poiché per l’onnipresenza di questo principio universale ogni cosa è specchio dell’universo, la conoscenza della natura è possibile a noi perché ne facciamo parte e dunque l’uomo può, a partire da se stesso, studiare e scoprire la natura universale dove tutte le cose sono unite da uno stesso vincolo d’amore e simpatia (in ciò sta la giustificazione teorica della magia, oggetto di una serie di opere dal De magia al De medicina lulliana e al De vinculis in genere). In questo universo infinito gli opposti coincidono (l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, la generazione e la corruzione, l’amore che unisce e l’odio che divide), e in esso, che è vita universale, la morte è mera apparenza nelle eterne vicissitudini della realtà, composizione e scomposizione, tramutarsi incessante. Di questo universo Bruno vuole intendere insieme la radice unitaria del tutto, la sua varietà, l’unità insieme alla molteplicità: perciò la sua cosmologia allo stesso tempo implica e si risolve in una metafisica, esposta fondamentalmente nel De la causa, principio e uno. Qui dopo aver definito i concetti di principio (ciò che intrinsecamente produce una cosa rimanendo nell’effetto) e di causa (ciò che produce una cosa esteriormente rimanendo fuori dalla composizione) e averli riportati a quelli di materia e forma, discute la teoria aristotelica della causalità e della costituzione della sostanza rifiutandone ogni separazione. Così delle quattro cause aristoteliche quelle formale e finale sono ridotte a quella efficiente, come forma e materia non sono separate ma costituiscono due aspetti dell’unica sostanza (la Natura). La forma è l’anima del mondo, vera e sola causa delle cose, artefice che dall’interno del seme fabbrica ogni cosa, essendo dotata di intelletto e perciò provvidenza che dall’interno governa tutto. Allo stesso modo la materia non è passività ma ricettacolo della forma, essa stessa principio attivo a tal punto da identificarsi con la forma. La forma agisce nella materia in modo così solidale che quest’ultima diventa essa stessa energia produttrice (natura naturans) che partorisce dal proprio seno rivestendosene (natura naturata)

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le forme in una perenne trasformazione che consente a ogni cosa di poter diventare tutte le cose. Bruno perviene così a un monismo eleatico-neoplatonico (unito alla dottrina del flusso eracliteo, dato che la Natura è incessante divenire) in cui vige la coincidentia oppositorum di materia e forma, potenza e atto, anima e corpo. Questo uno-tutto è un Dio-universo, natura infinita e divinizzata (in questo senso si può parlare di un panteismo naturalistico, anche se Bruno ammette l’esistenza di una Mente trascendente e inconoscibile). Quanto all’uomo, certo egli non occupa una posizione privilegiata all’interno della natura che ne circoscrive la vita (non si può infatti parlare di immortalità dell’anima individuale, che è solo una scintilla di quella universale) e l’attività. La stessa attività conoscitiva, se per un verso è concepita platonicamente come un processo ascensivo, dall’altro risulta circoscritta entro i termini monistici della sua teoria: l’unità della sostanza assicura quella della mente e delle sue facoltà, tanto che, pur ammettendo molteplici gradi conoscitivi (fondamentalmente senso, immaginazione, ragione, intelletto) essi sono riportati a una stessa radice in cui opera lo stesso principio. Per tanto l’intelletto finisce per confondersi nel senso e ogni grado conoscitivo in ogni altro, dal momento che l’unità del tutto ne suggerisce l’omogeneità. Del resto il conato che l’immanenza dell’anima universale desta in ogni essere è conato d’amore e di conoscenza insieme, così che man mano che la coscienza si illumina e si approfondisce, si eleva sia la sfera della conoscenza che quella dell’azione. Conseguentemente Bruno prospetta una concezione in cui morale e conoscenza, azione e contemplazione, senso e intelletto si fondono in uno stesso modo d’essere. Il motivo ispiratore dell’etica è dunque rivolto a questa pienezza di coscienza che a Bruno pareva ostacolata e impedita dalla cosiddetta “santa asinità”, l’ignoranza, il pregiudizio e la mancanza di virtù, autentiche radici della decadenza della sua epoca, elevata a sistema non solo dal cattolicesimo ma soprattutto dal protestantesimo fideistico e fanatico. Nello Spaccio della bestia trionfante si rappresenta Giove (simbolo del lume intellettuale presente in ciascuno) che caccia dal cielo la bestia trionfante (cioè i vizi che oscurano e schiacciano la parte divina dell’essere umano determinando impulsi e basse passioni). Di qui la proposta di una riforma dell’etica cristiana (specie calvinista) in cui alla

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dottrina della predestinazione (che genera irresponsabilità e intolleranza) si sostituiscano il merito e quelle virtù civili (lavoro, fatica, diligenza) che esaltano l’agire pratico quale mezzo per continuare nel regno dell’uomo la mirabile potenza plasmatrice della Natura. Alle religioni positive (che possono al massimo valere per governare ed educare il popolo rozzo) Bruno intende sostituirne una naturale e razionale (che egli identifica con la sapienza magico-ermetica degli Egiziani) che porta l’uomo al vero Dio (la Natura) e lo mette in contatto con i suoi poteri, divinizzandolo con essa. Ma in questo modo la religione finisce per essere un tutt’uno con la filosofia, quale infinito conato e “caccia” incessante del vero che costituisce l’unico possesso e modo di godere riconosciuti allo spirito. La virtù, che consiste nell’amore e nelle opere utili al “convitto umano”, deve fondarsi sulla conoscenza delle leggi divine e quindi si identifica con la contemplazione della Natura nella sua infinità. In De gli eroici furori si celebra allora la conversione dell’uomo a Dio, il suo indiarsi, lo slancio amoroso con cui l’essere finito tende a conoscere e possedere l’uno-tutto-infinito. Attraverso la simbologia del mito di Atteone (il cacciatore che per aver visto Diana nuda fu trasformato in preda e sbranato dai suoi stessi cani) viene esaltata la figura aristocratica del sapiente che si eleva a questa forma suprema di conoscenza, che è sforzo consapevole e impeto razionale della parte più alta dell’anima. Amando Dio, egli, posseduto da questo nobile e inesauribile ardore, si stacca in uno slancio supremo dalle cose finite per tendere solo a Lui, che poi coglie e ama nella sua presenza in tutti gli esseri, di cui è principio e causa. Al vero sapere e al giusto ruolo e riconoscimento spettanti agli intellettuali Bruno aveva affidato le sue speranze di rimedio ai mali del suo tempo e i suoi progetti di riforma culturale, civile e morale. Buber, Martin Filosofo, studioso della Bibbia e della tradizione ebraica di formazione tedesca (Vienna 1878 - Gerusalemme 1965). Studiò presso varie università, nel 1901 aderì al sionismo, ideologia che propugnava il ritorno degli ebrei in Palestina, divenendo direttore del settimanale ufficiale del movimento. A Berlino fondò il Consiglio nazionale ebraico e nel 1916 il mensile Der Jude. Insieme a ➔ Rosenzweig iniziò una originale traduzione tedesca della Bibbia. Dal 1924 al 1933 insegnò all’università di Francoforte. Nel 1938 si trasferì in Pa-

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lestina, dove divenne professore di filosofia sociale all’università ebraica di Gerusalemme fino al 1951, riprendendo, tra l’altro, il suo programma per l’educazione degli adulti iniziato in Germania negli anni in cui il nazismo aveva escluso gli ebrei dalla scuole tedesche. Gli interessi principali di Buber sono ben evidenziati dalla tripartizione da lui stesso proposta per la raccolta delle sue opere principali: “scritti sulla filosofia” (tra cui si segnala Il principio dialogico, del 1962, raccolta di vari saggi compreso il celebre Io e tu del 1923); “scritti sulla Bibbia” (tra cui La fede dei profeti del 1942 e Mosè del 1945); “scritti sul chassidismo”, movimento mistico e popolare ebraico, nato in Polonia nel XVIII secolo, cui Buber dedicò molti scritti, tra cui Gog e Magog (1943) e I racconti dei chassidim (1949). Per il suo pensiero politico-sociale si veda Sentieri in utopia (1950), per il pensiero religioso L’eclisse di Dio (1952) e per un confronto tra ebraismo e cristianesimo, Due tipi di fede (1950). Il nucleo unitario di tutto il suo pensiero si trova nella concezione “dialogica”, applicata da Buber sia alla coscienza ebraica vista all’insegna di un dialogo tra Dio e il suo popolo, sia, più in generale, alla filosofia dell’esistenza. Il senso specifico dell’esistenza umana sta nella capacità di porsi in una relazione diretta e coinvolgente con un Tu costituito non solo da un altro essere umano, ma anche da entità spirituali o da realtà naturali e infine da Dio stesso. L’uomo autentico prende coscienza della propria soggettività all’interno di questo tipo di relazione. L’atteggiamento di chi studia il proprio oggetto dall’esterno senza coinvolgimento reciproco è definito invece come rapporto Io-Esso. Nell’ambito del sapere oggettivabile quest’ultimo genere di relazione è del tutto legittimo, ma cessa di essere tale quando tende a svalutare il rapporto diretto Io-Tu. La concezione dialogica di Buber ha avuto vasta eco anche nell’ambito del pensiero cristiano. Buffon, George Louis Leclerc, conte di Naturalista francese (Montbard 1707 - Parigi 1788). Membro dell’Accademia delle scienze e intendente dell’Orto botanico di Parigi, espresse i propri interessi scientifici nella sua maggiore opera Storia naturale. La sua pubblicazione, iniziata nel 1749 (dapprima censurata dalla facoltà di teologia), fu conclusa in un lunghissimo arco di tempo e le sue contraddizioni interne costituiscono una testimonianza dello sviluppo della ricerca scientifica in quel tempo. Interessan-

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te la famosa ipotesi (che compare dal 1766) sulla “degenerazione” biologica (designata anche con i termini “alterazione” e “cambiamento”, per indicare la modificazione della propria natura) che avrebbe portato alla diversificazione (per cambiamenti climatici o alimentari) di alcune specie animali a partire da un certo numero di forme originarie. Per Buffon tale modificazione riguarda solo le specie semplici ed è limitata ai loro caratteri secondari. In tal modo la “degenerazione” non esce dai limiti propri della specie, che conserva la propria specificità al di sopra delle “varietà”, senza pervenire alla trasformazione di una specie in un’altra. Significativi anche i suoi studi cosmologici (in Storia e teoria della Terra ipotizzò l’età della terra in 74 00 anni e la sua origine dalla collisione tra una cometa e il Sole) e sui fossili (come frutto di leggi naturali e non come “scherzi di natura” o, polemizzando con Voltaire, come «residui di pranzi consumati durante i pellegrinaggi dai siriani»). Bultmann, Rudolf Teologo protestante tedesco (Wiefeldstele 1884 - Marburgo 1976), professore a Marburgo. Autore di opere esegetiche fondamentali (Storia della tradizione sinottica del 1921 condotta secondo il metodo storico-morfologico, Gesù del 1926, Il vangelo di Giovanni del 1941, Teologia del Nuovo testamento del 1953) e di impegnativi saggi teologici (la raccolta Fede e comprensione del 1933-65, Rivelazione ed evento salvifico del 1941, Storia ed escatologia del 1958), è stato dapprima vicino alle posizioni della teologia dialettica di Barth, per assumere un indirizzo autonomo in seguito all’incontro con il pensiero di Heidegger, che lo ha sensibilizzato al problema della temporalità come statuto ontologico fondamentale dell’essere umano. Bultmann è venuto così delineando (a partire da un famoso saggio del 1941 Nuovo testamento e mitologia) un programma di ricerca imperniato sul tema della “demitizzazione” e consistente nel liberare il messaggio cristiano (che è essenzialmente escatologico) dalle incrostazioni mitiche (miracoli, visioni, rappresentazioni di forze soprannaturali ecc.) per riproporlo, reinterpretato e ricondotto al suo autentico nucleo di annuncio, all’uomo moderno cui deve essere reso di nuovo fruibile. Accogliendo in gran parte le categorie dell’analitica esistenziale contenute in Essere e tempo, Bultmann ha cercato di saldare il tema dell’esistenza autentica e dell’apertura progettualizzante verso il futuro con

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quello dell’irruzione nella storia dell’evento salvifico (Gesù crocefisso in cui è presente il Dio salvatore), rispetto al quale ognuno è chiamato a prendere una decisione radicale. Buridano, Giovanni Filosofo francese (Artois 1290 - Parigi 1357 ca.). Poche le notizie sulla sua vita: di certo si sa che studiò all’università di Parigi e poi ne fu rettore prima nel 1328 e poi nel 1340. Interessato soprattutto a temi di logica (evidente l’influsso di ➔ Occam), scrisse varie opere tra le quali Summulae de dialectica (un compendio di logica), Sophismata, Consequentiae (sempre di argomento logico), Questioni sulla fisica e sulla metafisica. L’interesse per la logica non impedì a Buridano di allontanarsi dallo studio prettamente formale per approdare alla consapevolezza che la scienza è riferita a individui reali, per cui le categorie logiche significano solo cose concrete anche se i principi formali offrono gli strumenti per giungere, coi ragionamenti analitici, alla dimostrazione della verità. Buridano discusse inoltre la teoria aristotelica del movimento e ipotizzò l’esistenza di una forza – impetus – come causa diretta del movimento stesso (il moto di un proiettile è determinato da ciò che, mano o strumento, ha impresso l’impetus all’oggetto), forza che permane finché la resistenza dell’aria e il peso dell’oggetto lanciato non la annullano. Anche Dio, nel momento della creazione, ha impresso alle sfere celesti tale impetus che, non trovando alcun ostacolo, permette il moto dei pianeti. Buridano è ricordato inoltre per il celebre aneddoto dell’asino (o forse cane) che muore di fame non riuscendo a scegliere tra due cibi: il problema di fondo è quello della libertà, che Buridano tende a risolvere, ambiguamente, o accettando un ruolo fondamentale della volontà oppure, secondo l’interpretazione di Averroè, individuando l’identità della volontà con lo stesso Intelletto. Burke, Edmund Uomo politico e scrittore inglese (Dublino 1729 - Beaconsfield 1797). Di tendenze liberali, difese i diritti degli irlandesi e dei coloni americani, ma fu ostile (nelle Riflessioni sulla rivoluzione francese, 1790) agli avvenimenti d’Oltremanica per l’astrattezza razionalistica e utopistica che li avevano ispirati. In campo teoretico il suo nome resta legato all’Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee sul sublime e sul bello (1757), dove per sublime si intende tutto ciò che ha capacità di suscitare senti-

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menti di terrore senza pericolo (nella serie di esempi e nelle citazioni degli autori, Burke testimonia l’evoluzione del gusto estetico settecentesco verso la passione per l’oscuro, l’indefinito, il grandioso, il disarmonico, la solitudine, il silenzio). Quanto alla nozione di bello, egli nega che sia legata alla proporzione (se lo fosse il giudizio sarebbe intellettivo mentre esso è arazionalmente intuitivo), all’utile (oltre a esservi cose belle non utili e viceversa, l’utilità si percepisce con la riflessione mentre la bellezza si gode in modo immediato e irriflesso), alla perfezione (infatti nel sesso femminile è associata a

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un’idea di debolezza e quindi di imperfezione), alla virtù. A determinare la bellezza sono quelle qualità (il liscio, la delicatezza, la luminosità, la piccolezza ecc.) che destano un amore senza desiderio, puramente contemplativo. Nel difendere l’universalità dei sentimenti di bello e sublime, Burke sostiene anche che la poesia non è arte imitativa, ma ha un potere di suggestione sentimentale, che può essere suscitato anche attraverso immagini indistinte e scialbe. L’opera ebbe una larghissima diffusione e influì in modo decisivo sulla riflessione di Kant nella Critica del Giudizio.

C Cabanis, Pierre Jean Geoges Medico e filosofo francese (Corrèze 1757 - Parigi 1808), in relazione con i maggiori esponenti dell’illuminismo francese, si occupò di problemi sociali e teorici connessi alla medicina (ne La certezza della medicina), orientandosi sempre più verso la costruzione di una moderna antropologia. Proponendosi di fondare una scienza morale su basi certe come quelle della fisica, riteneva che ciò fosse possibile solo superando il dualismo cartesiano e quindi collegando strettamente l’etica alla fisiologia, che insegnava a tener conto non solo delle impressioni derivanti dagli oggetti esterni ma anche della sensibilità organica (impressioni interne), distinta, in quanto priva di coscienza, dalla coscienza dell’io. Nei Rapporti tra il fisico e il morale nell’uomo Cabanis insiste sull’influenza del cervello sul resto dell’organismo (con tesi dal sapore materialistico, come nell’affermazione «il pensiero digerisce in certo qual modo le impressioni e produce organicamente la secrezione del pensiero»), ma egli auspicava un’estensione di queste ricerche anche ad altri fattori della nostra costituzione fisica (sessualità, temperamento, età, alimentazione ecc.). Alcune sue idee sono state giudicate precorritrici delle teorie evoluzionistiche di Lamarck e Darwin. Cacciari, Massimo Filosofo italiano (Venezia 1944), professore nella sua città e a Milano. Nelle sue prime opere (Krisis, 1976, Pensiero negativo e razionalizzazione, 1977) ha concentrato (sulla scia di Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein) la sua attenzione sul “pensiero negativo” quale tratto essenziale della modernità segnata dal nichilismo: di solito considerato quale espressione di una cultura decadente e reazionaria, incapace di accettare la modernità, l’analisi di Cacciari, mette in evidenza come il pensiero negativo (che si staglia sullo sfondo delle grandi trasformazioni del capitalismo a cavallo tra XIX e XX sec.), che con Schopenhauer sembra essere fondato e sfociare nell’irrazionalismo, sia in realtà il frutto più maturo della tradizione metafisica occidentale. La sua crisi attuale, manifestata-

si come crisi dei fondamenti, non può che dare luogo a un’epistemologia convenzionalistica e a quel trionfo della tecnica che, mentre esalta la ragione occidentale, ne rivela anche l’inconsistenza ontologica (che essenzialmente poggia sulla nietzscheana volontà di potenza) e l’esposizione alla mancanza di un orizzonte ultimo di senso. Dunque, respingendo un luogo comune, bisogna riconoscere che «la tecnica realizza la direzione implicita della metafisica moderna – ma nel realizzarla ne critica e liquida anche l’idea centrale » e con ciò apre anche un’altra strada, opera un’inversione di tendenza, quella di un’epoca dominata dal nulla dei valori e dei fini e dunque della filosofia stessa ormai «tutta al passato, a prima della ratio». In seguito Cacciari ha orientato le sue ricerche alle origini storiche e ai presupposti teoretici (anche di matrice religiosa, come ne L’angelo necessario del 1986) della cultura europea e occidentale (di cui ha indagato l’irriducibile pluralità in Geofilosofia dell’Europa del 1994, e ne L’arcipelago del 1997): nella sua opera speculativa più impegnata significativamente, intitolata Dell’inizio (2001, II ed.), egli intende risalire in modo radicale alla fonte stessa del pensiero filosofico, inteso intrinsecamente e fatalmente come “pensiero negativo”, a quell’oggetto da cui esso ha il cominciamento e che fonda ogni altro sapere: ne emerge una concezione dell’essere (largamente ispirata all’ultimo Schelling e al neoplatonismo tardoantico e medievale, dove filosofia e teologia si confondono) caratterizzata da una scissione originaria che, proprio per la sua intima e strutturale costituzione, rende impossibile ogni sintesi conclusiva, ogni sbocco di tipo conciliativo. Questa visione tragica si completa nell’altra opera, che necessariamente tratta Della cosa ultima (2004), dal momento che i due termini non possono che coincidere, non nel senso di un’unità indifferenziata, ma come infinità, come ricchezza sorgiva di ogni possibilità e realizzazione dell’autentica libertà per un pensiero (e un’anima) che anela ad attingerla come alla propria unica destinazione.

Calcidio

Calcidio Filosofo neoplatonico, forse cristiano (IV sec.). La sua importanza è esclusivamente legata alla traduzione (non integrale) e commento del Timeo di Platone, nei quali peraltro non si discosta dalle interpretazioni di Posidonio. Nonostante la mancanza di originalità nell’esegesi del testo, il suo lavoro permise la diffusione fino al XII sec. del pensiero platonico. Calvino, Giovanni In francese Jean Couvin. Riformatore religioso di origini francesi (Noyon 1509 - Ginevra 1564). la vita. Destinato al sacerdozio, ricevette un’educazione umanistica a Parigi, addottorandosi in giurisprudenza a Orléans. Nel 1532 pubblicò un commento al De clementia di Seneca che testimonia, oltre alla solidità della sua cultura, la vicinanza con lo spirito erasmiano. Quest’ultimo lo rese sensibile alle idee luterane (in particolare la contrapposizione tra legge e Vangelo, nonché la concezione della salvezza mediante la sola fede) che difese pubblicamente nel 1533. La reazione del re Francesco I e delle autorità ecclesiastiche per l’affissione di manifesti irridenti la massa, lo costrinsero nel 1534 ad andare in esilio a Basilea. Qui nel 1536 pubblicò la sua opera maggiore, l’Institutio christianae religionis che, ampliata in successive edizioni fino a quella definitiva del 1559, doveva costituire la sintesi dottrinale delle chiese riformate ispirate alle sue idee, quali si affermeranno ancora lui in vita specialmente in Francia, Scozia, Paesi Bassi, Svizzera, Italia (dove influenzò la chiesa valdese). In quello stesso anno Calvino, di ritorno da una visita alla corte estense di Renata di Francia, che simpatizzava per la riforma, passò casualmente da Ginevra: qui si fermò facendo della città il centro della sua azione riformatrice. Mostrando grandi doti di propaganda e organizzazione, strutturò in modo efficiente la sua chiesa (vi era una gerarchia di funzioni comprendenti dottori, diaconi, pastori e anziani: questi ultimi con i pastori costituivano il Concistoro con funzioni sia ecclesiastiche sia civili), combattendo sia contro il cattolicesimo sia contro i liberi pensatori (o ➔ Libertini, come vennero chiamati da lui). Per effetto delle sue iniziative e decisioni, a Ginevra si venne a determinare un’identificazione tra Chiesa e città, vera e propria realizzazione del regno di Dio sulla terra: nella convinzione che i suoi abitanti dovessero essere una comunità guidata costantemente dalla volontà di Dio, si instaurò un clima di rigida disciplina che si espresse nel divieto di ogni

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Calvino

manifestazione mondana (feste, balli, gioco, spettacoli, banchetti, lusso) e nell’obbligo alla partecipazione al culto. Ogni infrazione era colpita da sanzioni (anche fisiche), così come non fu tollerato alcun dissenso o libera circolazione di idee giudicate eretiche (così ➔ Michele Serveto, che era sfuggito all’inquisizione spagnola, fu qui mandato al rogo per le sue posizioni antitrinitarie). il pensiero. La concezione di Calvino del mondo e della vita umana è di impronta nettamente teologica e biblica. Egli riprende infatti i grandi temi della riflessione di ➔ Lutero (il principio della “sola Scriptura” per cui solo la rivelazione contenuta nella Bibbia è fonte per la conoscenza di Dio, corruzione della natura umana dopo il peccato che spiega i limiti dell’intelletto e la debolezza della volontà, efficacia esclusiva della fede come dono di Dio per la salvezza), ma sposta l’accento dalla misericordia di Dio che salva l’uomo peccatore anche senza meriti, alla sua totalizzante realtà e sovranità assoluta che governa, con la sua provvidenza, tutte le creature, il mondo e i suoi eventi. Idea centrale è quella dell’efficacia esclusiva dell’azione di Dio di fronte all’insanabile incapacità dell’uomo. Nella sua assolutezza, Dio è la fonte di ogni verità e di ogni bene: data la sua nullità e impotenza, l’uomo non deve cercare alcunché fuori di lui (solus Deus), ma solo obbedire fermamente alla sua volontà. Da quest’ultima deriva essenzialmente la nostra predestinazione alla salvezza e alla vita eterna o alla dannazione: infatti la volontà umana è determinata dalla corruzione originaria al peccato o dalla grazia che gli è stata elargita e che lo guida verso il bene. Il criterio di questa elezione rimane un mistero, ma è certo che (secondo l’ispirazione pessimistica dell’ultimo Agostino) non tutti si salveranno, ma solo un piccolo numero di eletti che verranno a costituire la Chiesa, vera e propria comunità dei santi. Essi, riconoscibili dalla fede rigorosa e dall’austera rettitudine dei costumi, troveranno conforto nella preghiera e nella partecipazione ai sacramenti, presentati da Calvino come simboli delle divine promesse, la cui efficacia dipende dalla fede di chi li riceve. Secondo Calvino i sacramenti istituiti da Cristo sono due, il battesimo e la cena. A proposito di quest’ultima, essendo Cristo dono di Dio al suo popolo, egli adotta una posizione intermedia tra la consustanziazione luterana e il ricordo dei gesti di Cristo di ➔ Zwingli, parlando di una presenza spirituale del corpo di Cristo da riceversi sotto le due specie, presenza simbolica ma non reale.

Cambridge, Scuola di

In virtù della predestinazione il cristiano possiede una libertà spirituale per cui è soggetto solo a Dio e non ad alcuna autorità esteriore. Con ciò si riconosce la necessità di un’autorità nella Chiesa, legittima solo nella misura in cui è fondata esclusivamente sull’autorità della Scrittura (il potere papale deriva invece da un’iniziativa umana): in essa il credente si conforma liberamente a una norma che egli crede emanata direttamente dalla volontà divina. Da questa deriva anche il potere dello Stato, stabilito per il mantenimento della pace e a cui quindi ci si deve sottomettere, riconoscendo i limiti della propria libertà, fino a che non infranga la parola di Dio. In questo caso non solo è autorizzata la resistenza armata, ma anche l’uccisione del principe eretico. La fede calvinista non si deve esprimere lontano dal mondo, ma nel mondo: il cristiano, facendosi strumento della realizzazione del piano divino nel mondo, si santificherà nella vita sociale, nella famiglia e nel lavoro. Quest’ultimo (come ha messo in luce la nota tesi di ➔ Weber) deve essere inteso come preghiera, come vocazione che Dio premierà con buoni frutti e con un giusto guadagno. Cambridge, Scuola di Sviluppatasi in Inghilterra nel XVII secolo, fu costituita da personalità diverse per formazione culturale e professione (Whichcote, Smith, Culverwell, Cudworth, More) accomunate dalla preoccupazione di difendere i valori etici e spirituali cristiani dallo scientismo e meccanicismo del tempo. A tal fine la scuola adottò (ispirandosi al De veritate di Herbert di Cherbury) un indirizzo platonico sul modello dell’Accademia fiorentina di Ficino, i cui aspetti dottrinali furono fortemente condizionati dalla polemica nei confronti delle posizioni avversarie: al determinismo causalistico di Hobbes opposero un finalismo metafisico teso a una dimostrazione teleologica dell’esistenza di Dio; contro il meccanicismo cartesiano e galileiano riproposero una concezione organicistica della natura di derivazione rinascimentale, contro il materialismo di Gassendi sostennero un innatismo sia gnoseologico sia etico (Dio ha posto nella ragione nozioni intellettuali e morali immutabili). Malgrado i forti interessi teologici, l’orientamento della scuola fu fortemente razionalistico, con conclusioni deistiche e preilluministiche ispirate a criteri di tolleranza e di universalismo religioso. Campanella, Tommaso Filosofo italiano (Stilo 1568 - Parigi 1639), uno dei maggio-

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ri rappresentanti del naturalismo rinascimentale. la vita. Entrato a 15 anni nell’ordine domenicano, dove intraprese il normale corso di studi, insofferente della disciplina quivi imposta e insoddisfatto della cultura aristotelico-tomista, si volse a leggere i testi neoplatonici ed ermetici, che esercitarono un’influenza decisiva sul suo pensiero. Nel 1588 a Cosenza ebbe modo di leggere l’opera di Telesio, che gli aprì nuove prospettive intellettuali (a questo periodo risale la sua prima opera Philosophia sensibus demonstrata). Trasferito a Napoli per contrasti con i confratelli dei conventi calabresi in cui era fino allora vissuto, qui conobbe il della Porta, che lo introdusse agli studi di magia naturale e che gli ispirò il De sensitiva rerum facultate (poi tradotta in volgare nel 1604 col titolo Il senso delle cose e la magia). Per questo motivo nel 1591 subì un primo processo per eresia, in seguito al quale fuggì a Padova. Qui, nel clima relativamente tollerante e spregiudicato della repubblica, incontrò e discusse con molti intellettuali, tra cui Galilei e Sarpi. Per una nuova denuncia all’Inquisizione nel 1592 ebbe un nuovo processo, che fu poi trasferito a Roma, dove si svolse in due fasi tra il 1596 e il 1597. Costretto a tornare in Calabria, in un ambiente periferico ed emarginato dalle condizioni socio-economiche degradate, egli concepì una congiura contro il governo spagnolo, animato da sogni di riforme messianiche e ispirato dalle sue concezioni astrologiche. Tradito, fu arrestato e condannato a morte: si salvò dalla pena capitale fingendosi pazzo e sostenendo questa simulazione anche sotto tortura. Rimase in carcere dal 1599 al 1626, periodo durante il quale potè scrivere gran parte delle sue opere (tra cui l’Apologia pro Galilaeo, la Città del Sole, la Metaphysica, la Theologia). Liberato e tradotto a Roma, potè contare sull’amicizia di Urbano VIII. Ma quando nel 1634 fu scoperta un’altra congiura antispagnola ordita da un suo discepolo, Campanella fu ingiustamente ritenuto corresponsabile e per questo dovette fuggire a Parigi. Qui trascorse serenamente gli ultimi anni di vita, ammirato da molti dotti (non però da Cartesio, che si rifiutò di incontrarlo) e nobili e godendo della protezione di Luigi XIII e dei favori del cardinale Richelieu. il pensiero. Dominato da un’ansia millenaristica di riforma universale in vista della quale era certo di avere una missione da compiere, Campanella pensava che il rinnovamento radicale del mondo dovesse scatu-

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rire da una restaurazione di tutto il sapere da attingersi dal genio originale del cristianesimo e non da una sua contaminazione con la sapienza pagana (come accadeva nel tomismo). Filosofare è imparare a leggere il libro di Dio, la natura creata, direttamente per tactum intrinsecum. Riprendendo un’intuizione bonaventuriana, egli fa derivare la sapienza da “sapore”: come il gusto rivela quanto vi è di più intimo nella cosa, così il sapere si acquista immedesimandosi nella natura e facendosi intimi con essa, quasi in una partecipazione mistica. La filosofia è cognizione naturale delle idee divine lette nella sua opera: questo concetto viene provato sottomettendolo a una scepsi metodica radicale, in cui vengono affrontati uno a uno i classici argomenti con cui si cerca di minare le basi stesse del conoscere (inganno dei sensi, limitatezza, soggettività, instabilità e relativismo del conoscere umano ecc.). A essi Campanella oppone l’argomento agostiniano dell’autocoscienza (su questo punto si è voluto vedere un parallelo storico con Cartesio), in cui il nostro essere si manifesta con una evidenza irrefutabile. La conoscenza che l’anima ha di sé è l’anima stessa, presenza di sé a sé, in perfetta autotrasparenza e in modo innato (notitia indita). Gli altri enti sono conosciuti in modo indiretto (notitia illata), poiché l’anima li avverte nella misura in cui ne viene modificata. Con la sovrapposizione all’autocoscienza di queste conoscenze il “senso di sé” da un lato si arricchisce, dall’altro viene occultato (sensus abditus) e reso inconsapevole. Si può dunque parlare della conoscenza come di una diaspora, di uno smarrimento di sé nelle cose, di un processo di alienazione: infatti «tutti i conoscenti vengono alienati dal proprio essere, quasi finissero nella pazzia e nella morte; noi siamo nel regno della morte [...] perché ogni morte è mutarsi in altro e ogni mutamento è qualche morte [...]. E l’imparare e il conoscere, sendo un mutarsi nella natura del conoscibile, sono pur qualche morte». Le cose non causano la conoscenza ma solo la sua specificazione, la quale poi è possibile perché l’anima è una partecipazione di Dio, che è tutte le cose e perciò le conosce. L’io, oltre a “sensus sui” o “sapientia essendi”, è anche potenza di essere e amore o volontà di essere: agostinianamente, potenza, amore e conoscenza strutturano la soggettività, costituiscono, in quanto caratteri originari, le sue primalità, immanenti l’una all’altra. Ma ciò che viene riconosciuto

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nell’io può essere esteso a tutti gli altri enti, sia pure in modo diverso in rapporto alla loro natura: ciò significa che gli enti sono centro di tendenze psichiche, essenzialmente affini e omogenei al soggetto umano, così come quest’ultimo è profondamente immerso e partecipe della natura. Peraltro la creazione riproduce agostinianamente lo schema trinitario, in quanto Dio è Sapienza, Amore, Potenza assolute e infinite (negli enti finiti e creati, misti di essere e non essere, le primalità positive sono limitate da quelle negative impotenza, insipienza, odio). La dottrina delle primalità è una reinterpretazione di quella dell’animazione universale, che implica l’immanenza di un principio psichico (l’anima mundi) e l’attribuzione di una forma di sensibilità a tutte le cose (panpsichismo). La conservazione della vita cui ogni individualità tende è infatti inconcepibile senza ammettere la facoltà del senso quale capacità di ricevere stimoli e informazioni sull’ambiente esterno: così le cose parlano e comunicano tra di loro immediatamente anche perché l’anima, che è diffusa in tutte loro, le pone in collegamento. Se la natura non è che una «corteccia alle cui radici pulsa un’anima divina», allora la scienza non può essere che una via d’accesso a quell’anima a partire dal suo corpo, rinvenimento del vestigio divino nel mondo. Il vero scienziato è il mago che riconosce e coglie i rapporti simpatetici tra le cose e a loro ricorre, servendosi delle loro «proprietà attive e passive per produrre effetti meravigliosi e insoliti», per dirigere e modificare il corso consueto della natura. Quest’ultima è costituita dallo spazio, substrato primo in cui si collocano i corpi, e dalla materia, non pura potenza ma atto, nella quale operano le due forze attive, il caldo e il freddo, che vi introducono le forme costitutive delle cose. Sopra la natura fisica vi è la natura umana, che consta di corpo, spirito (fluido sottile e caldo che esercita la conoscenza sensitiva) e mente (incorporea e immortale che esercita l’intuizione delle idee e tende all’unione con Dio). Il suo culmine è la libertà, principio energetico capace di autodeterminarsi sotto il generale influsso divino. Noi «aneliamo a una patria e la nostra sede è presso Dio»: dunque fine dell’uomo è conoscere Dio in quanto «solo mutarsi in Dio è vita eterna, perché non si perde l’essere nell’infinito mar dell’essere, ma si magnifica». La religione rappresenta il moto finalistico dell’uomo che ritorna al suo principio, della creatura che torna al creatore: essa è perciò la for-

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ma generale di tutte le virtù, che invece sono particolarizzazioni di tale moto. In questo senso la religione è naturale (non determinata cioè da volontà politica o da arte umana) poiché è la creatura stessa che porta nel suo fondo la conoscenza di Dio e solo ordinandosi in lui si costituisce nel suo vero essere. Campanella non ammette perciò contrasto tra ragione e rivelazione, nel senso che solo il cattolicesimo rappresenta il sommo inveramento della ragione naturale: ciò perché Cristo, prima ragione, è la fonte da cui procede sia la natura (e con essa la razionalità umana) sia la rivelazione. Perciò devono essere respinte tanto le religioni in contrasto con la ragione (per esempio il protestantesimo) quanto le dottrine filosofiche e scientifiche (per esempio il copernicanesimo: Campanella difende Galilei per ragioni di principio, non perché ne condivida le tesi) che, in contrasto con la dottrina cristiana, non siano proposte solo ex suppositione o come pure ipotesi. Al tempo stesso tutti gli uomini che, pur ignorando la rivelazione, seguono la ragione, sono eo ipso cristiani di fatto. La riflessione politica di Campanella si fonda su questa base di metafisica naturalistica. La Città del Sole descrive infatti una società ideale le cui strutture risultano dall’applicazione della ragione naturale (i “solari” sono ignari della rivelazione, ma si comportano come dovrebbero i cristiani; perciò il governo è retto dal Metafisico, depositario del sapere, e non machiavellicamente della forza) e riproducono l’ordine unitario del reale (come la struttura degli enti finiti si risolve in quella delle tre primalità, altrettanto avviene per la molteplicità dei mestieri e delle funzioni sociali, tutte orientate ai fini dell’organismo della città). Quando in altri scritti traccia la via per la realizzazione di questo modello, Campanella avanza l’esigenza del superamento dei conflitti religiosi in nome di un Cattolicesimo restaurato e depurato dalle devianze e dagli abusi scolastici: perciò assegna al papa (vicario di Cristo, “prima ragione”) il compito di guidare come re-sacerdote i popoli e l’intera umanità. Questa teocrazia universale ha un chiaro sapore medievale, in quanto assegna ai sovrani un ruolo subordinato e puramente esecutivo dell’autorità ponteficia. E tra i vari governi, una posizione primaria è affidata alla monarchia spagnola, vero e proprio “braccio secolare” della Chiesa, anche se negli ultimi anni Campanella dirige l’attenzione verso quella francese cui spetta, in nome della discendenza da Carlo Magno, l’eredità dell’impero romano.

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Cantor

Canguilhelm, Georges Epistemologo francese (Aude 1904 - Yvelines 1995), professore alla Sorbona. Allievo di Bachelard, ne ha ereditato l’impostazione anti-positivista e anti-evoluzionista, imperniando la sua riflessione sulle nozioni di “rottura epistemologica” e di “discontinuità”. Nei suoi lavori, pur affrontando questioni specifiche (soprattutto di biologia e medicina), emerge un’esigenza nuova di fare e concepire la scienza che ne rovescia l’immagine tradizionale di accumulo ordinato di teorie e scoperte, agganciate le une alle altre in modo tale che ognuna abbia sempre il suo precursore e il suo continuatore. Secondo Canguilhelm ciò «vuol dire considerare concetti, discorsi e gesti speculativi e sperimentali come se potessero essere spostati o ricollocati in uno spazio intellettuale in cui è stata ottenuta la reversibilità delle relazioni dimenticando l’aspetto storico dell’oggetto in questione». Invece la vera storicità della scienza (che qualifica la sua epistemologia come “storica”, ma non storicistica) «procede per riorganizzazioni, rotture e mutazioni» della produzione concettuale in stretta relazione con l’emergere dei problemi. Infatti, definire un concetto significa enunciare un problema, che a sua volta «richiede la presenza simultanea e razionalmente ordinata di un certo numero di altri concetti»: solo quando questi ultimi, non potendo entrare a far parte di una teoria già costituita, fanno avvertire l’esigenza di una formulazione radicalmente nuova, nasce la scoperta, frutto non di accidentalità ma di precise condizioni che, mentre fanno apparire i concetti, rendono al contempo determinabile (e quindi risolubile) il problema. Canguilhelm ha sviluppato questo apparato teorico tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in stretto rapporto con la corrente strutturalista, influendo in modo decisivo su molti suoi esponenti, tra cui principalmente Foucault. Cantor, Georg Matematico, logico e filosofo tedesco (Pietroburgo 1845 - Halle 1918), fondatore della moderna teoria degli insiemi basata sul concetto di infinito matematico attuale. Definito l’insieme come la riunione in un tutto di determinati oggetti della nostra intuizione o del nostro pensiero legati da un fattore comune, i numeri cardinali così identificati comprendono i numeri naturali cardinali associati a insiemi infiniti. Secondo questa teoria, due insiemi infiniti si dicono equipotenti (o di uguale numero cardinale infinito) se è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra gli

Capella

elementi degli insiemi stessi: perciò tra essi è possibile stabilire relazioni di maggioranza o minoranza ed eseguire operazioni aritmetiche. Siccome in alcuni casi gli elementi di un insieme infinito si possono mettere in corrispondenza biunivoca con gli elementi costituenti una sua parte, per gli insiemi infiniti non valgono gli assiomi della disuguaglianza. Cercando di dare oggettività al concetto di insieme, la teoria di Cantor inerisce direttamente alla fondazione generale della matematica (cui lavoreranno in seguito Frege, Russell, Hilbert, Gödel ecc.) e, nella misura in cui sostiene l’esistenza oggettiva delle sue entità, anche al suo processo di logicizzazione. Capella, Felice Marziano Retore ed erudito africano, vissuto tra il IV e il V secolo. Scrisse verso il 340 un De nuptiis Mercurii et Philologiae (ma questo titolo fu forse dato più tardi) che costituisce, in una incorniciatura allegorica e sulla base di una impostazione filosofica neoplatonizzante, una sorta di enciclopedia delle sette arti liberali in forma di satira menippea: il sapere, articolato in una parte formale (le arti del trivio: grammatica, retorica e dialettica), e in un complesso di cognizioni utili (le arti del quadrivio: geometria, aritmetica, astronomia, musica), si costituisce infatti mediante l’interpretazione – Mercurio – dei testi e delle parole – la Filologia). L’opera avrà un’influenza vastissima su tutta la cultura medievale. Carnap, Rudolf Filosofo, logico ed epistemologo tedesco (Wuppertal 1891 - Santa Monica 1970), uno dei maggiori esponenti del neopositivismo. la vita. Studiò filosofia a Jena dove fu allievo di Frege, e iniziò la carriera accademica a Vienna, dove dal 1926 pertecipò alle riunioni del cosiddetto ➔ Circolo di Vienna (per suo suggerimento si cominciò a leggere e a discutere il Tractatus di Wittgenstein), fondando insieme con Reichenbach Erkenntnis, la rivista teorica del gruppo, e firmando nel 1929 il manifesto La concezione scientifica del mondo. Durante questo periodo scrisse La costruzione logica del mondo e molti importanti saggi, tra cui i noti Il superamento della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio e Il linguaggio fisicalistico come linguaggio universale della scienza. Professore a Praga dal 1931 al 1936 (del 1934 è La sintassi logica del linguaggio e del 1936 Controllabilità e significato), all’avvento del nazismo si trasferì negli Stati Uniti, dove rimase fino alla morte insegnando

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Carnap

a Chicago e a Los Angeles. Qui, a contatto con le correnti pragmatistiche ed epistemologiche locali, diresse l’Enciclopedia internazionale della scienza unificata, con i contributi dei nomi più prestigiosi nel campo della logica, della filosofia del linguaggio e della scienza. Tra le sue ultime opere Introduzione alla semantica (1942), Formalizzazione della logica (1943), Significato e necessità (1947), Fondamenti logici della probabilità (1950). il pensiero. I primi lavori di Carnap, nati nell’atmosfera del Circolo di Vienna e del suo programma epistemologico, vertono sulla possibilità di tradurre il linguaggio qualitativo quotidiano in quello strutturale-quantitativo della scienza, nonché di ridurre, per gradi e attraverso l’analisi logica, tutti i concetti e tutti gli enunciati delle diverse scienze a una base comune costituita dal dato (Carnap intende cancellare ogni questione metafisica sulla realtà del dato), ossia dal contenuto dell’esperienza immediata. Tale operazione coinvolge anzitutto i concetti riguardanti gli eventi psicologici del soggetto conoscente. Le proposizioni che riferiscono i dati immediati di osservazione sono dette protocollari. Successivamente, poiché ogni evento fisico può essere confermato (almeno in linea di principio) dalle percezioni del soggetto, i concetti della fisica sono ricondotti ai precedenti. Procedendo ancora di un grado, si dimostra che tutti i concetti relativi alle altre menti, sono costituiti da concetti fisici e perciò sono a essi riducibili. Infine anche quelli delle scienze sociologiche, conosciuti mediante manifestazioni mentali (idee, sentimenti, atti di volontà ecc.), possono venire ridotti ai concetti sopraenunciati. In sintesi, tutti i concetti sono costituibili in un ordine graduale come classi di proprietà e relazioni, il cui significato è garantito dai dati dell’esperienza personale. L’analisi logica carnapiana impiega, nella sua operazione riduzionistica, la cosiddetta “regola di costituzione”, la quale indica il modo in cui una proposizione contenente il nome di un oggetto può essere sostituita da una proposizione equivalente che non lo contenga: ciò è possibile poiché un concetto è rappresentato dalla sua estensione (ossia dalla classe degli oggetti in cui si realizza e dalle loro relazioni) e non già da un presunto contenuto da esso posseduto. Su questa “tesi dell’estensionalità” Carnap innesta quella wittgensteiniana secondo la quale le proposizioni molecolari sono funzioni di verità di quelle atomiche. Da tutta questa

Carnap

costruzione deriva che l’analisi logica applicata ai linguaggi delle varie scienze riesce a ridurle a un’unica scienza unificata, in cui tutte le nostre conoscenze trovano posto. È l’uso ingannevole di diverse forme linguistiche che fa nascere l’impressione che vi siano scienze diverse che procedano con metodi propri. D’accordo con Wittgenstein e con Schlick, Carnap adotta il criterio empirico di significanza, secondo il quale una proposizione ha senso solo se è possibile trovare un metodo per effettuare la sua verifica, ossia se è possibile determinare, almeno in linea di principio, delle osservazioni che ci permettono di qualificare la proposizione come vera o falsa. Naturalmente hanno senso, come per Russell, anche le proposizioni della logica e della matematica (queste riducibili a quelle), in quanto sono pure tautologie. Al di fuori di questi due generi di proposizioni (che ricalcano la distinzione humiana tra verità di ragione e verità di fatto) non vi sono altre proposizioni dotate di senso: logica e scienza empirica sono le uniche discipline valide. Questa posizione assume un valore polemico e critico particolarmente forte nei confronti della metafisica (celebre l’articolo pubblicato su Erkenntnis nel 1932, in cui vengono discusse e analizzate alcune asserzioni centrali del libro di Heidegger Che cos’è la matefisica), le cui proposizioni sono distinte in due gruppi: quelle che sono senza senso perché tali sono i termini (per esempio idea, assoluto, cosa in sé ecc.) che le compongono, e quelle i cui termini hanno sì in se stessi un senso, ma sono tra loro connessi in modo non conforme alla sintassi logica del linguaggio (per esempio nell’espressione heideggeriana «il Niente è prima del Non e della Negazione»). La metafisica va considerata solo come l’espressione di un atteggiamento emotivo di fronte alla vita, in analogia con quello di poeti e musici, con la differenza che questi ultimi esprimono le loro emozioni con mezzi adeguati e i metafisici no («i metafisici sono musici senza capacità musicale»). A partire dal 1935 Carnap incomincia una profonda revisione dei risultati conseguiti fino a quel momento, facendo proprie le obiezioni sollevate anche all’interno del neopositivismo ad alcune delle sue tesi centrali. I punti problematici parevano essenzialmente due. 1) Poiché i dati non appartengono a nessun soggetto (infatti l’io è una costruzione logica che sorge da essi), risulta inspiegato in che modo possano essere contemporaneamente molteplici e legati tra loro dal ricordo

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di similarità: quindi sono inadatti a fornire una solida base conoscitiva alla scienza. 2) Essendo comunque l’io costituito dagli stati psichici personali, resta non garantita la possibilità di costruire l’intersoggettività (esigenza essenziale della scienza) sulle sue esperienze elementari. In sostanza Carnap riconosce il carattere metafisico dell’appello al dato immediato: se la filosofia deve essere esclusivamente analisi logica del linguaggio e mantenersi nei limiti di questo, si trascende tale compito quando si fa riferimento al dato extralinguistico. Carnap giunge allora a sostenere che ogni linguaggio scientifico è traducibile nel linguaggio della fisica e che il linguaggio protocollare (che esprime i contenuti immediati dell’esperienza vissuta) può essere tradotto in un linguaggio che esprime solo “processi spaziotemporali.” Si sollevano pseudoproblemi metafisici quando si parla direttamente di contenuti immediati di esperienza o di processi spaziotemporali invece che di espressioni inerenti a quei contenuti e a quei processi. Inoltre, poiché non vi sono constatazioni certe e definitive dei dati, la verifica di un enunciato non può consistere nella sua riduzione a tali constatazioni. Di conseguenza non si può più parlare di verifica ma solo di conferma e confermabilità: un enunciato è confermato se da esso sono derivabili, mediante regole stabilite, gli enunciati che si sono scelti come protocollari. Si tratta del cosiddetto “processo di liberalizzazione dell’empirismo”: leggi ed enunciati osservativi hanno solo un valore ipotetico. Compito del filosofo è analizzare la struttura formale (sganciata quindi da ogni presupposto ontologico) dei linguaggi scientifici (la filosofia è la logica della scienza), cioè la determinazione delle regole (dipendenti esclusivamente da scelte plurime e convenzionali che vanno esplicitate secondo il cosiddetto principio di tolleranza: non esiste quindi un sistema logico o linguistico privilegiato) di formazione delle espressioni e delle proposizioni e di quelle di trasformazione che fissano i modi dell’inferenza logica. Questo il compito che Carnap svolge ne La struttura logica del linguaggio: segnando un netto distacco da ➔ Wittgenstein (per il quale la struttura linguistica si rivela da sé, essendo impossibile parlarne), qui tutta l’analisi linguistica si basa sulla distinzione tra linguaggio-oggetto (quello sottoposto ad analisi) e linguaggio sintattico o metalinguaggio (quello con cui si opera), insistendo sia sul fatto che la logica altro non è se

Carneade di Cirene

non sintassi (in quanto tutte le sue nozioni centrali – derivabilità, dimostrabilità ecc. – sono caratterizzabili in tali termini) sia che, quale che sia il metalinguaggio, esso deve prescindere dal significato delle proposizioni per concentrare l’attenzione solo sulla loro forma. Anche in questo contesto Carnap ribadisce il suo giudizio negativo sulla metafisica: i problemi filosofici vertenti su presunti oggetti non presenti nelle singole scienze (per esempio la cosa in sé) sono tutti pseudoproblemi nati dalla confusione nella scelta e nell’uso dei linguaggi, che si dissolvono nel momento in cui le loro proposizioni sono convertite nelle corrispondenti proposizioni sintattiche, dato che l’unico legittimo punto di vista da cui trattare le questioni è quello rappresentato dal modo formale di parlare. Anche l’impostazione formalistica non era tuttavia esente da difficoltà. In particolare: — le proposizioni protocollari, scelte tra quelle del linguaggio sistematico, anche se dotate di una forma sintattica conforme alle regole stabilite, devono pur essere desunte dall’osservazione; — il criterio per adottare certe proposizioni come scientifiche si basa solo sul fatto che sono ammesse dagli scienziati del tempo; — la scienza non può fare a meno di termini come vero e falso, che sono impiegabili con riferimento a ciò che viene designato. In tutti i casi si fa riferimento a elementi extralinguistici. La risposta a questi problemi impegna Carnap negli anni statunitensi: qui egli abbandona l’unilateralità della considerazione sintattica del linguaggio per integrarla con quella semantica e pragmatica. Un linguaggio viene definito come un sistema di atti che ha come scopo la comunicazione e la coordinazione delle attività tra i membri di un gruppo. Gli elementi di questo sistema sono i segni studiabili (oltre che sul piano sintattico) in riferimento a chi li enuncia, alla sua situazione, al contesto culturale in cui vive ecc. (dimensione pragmatica), o in riferimento a ciò che la persona intende con essi indicare (dimensione semantica). Carnap si occupa fondamentalmente di quest’ultimo aspetto: vi sono regole che stabiliscono le relazioni tra le espressioni e le cose designate e regole che stabiliscono le condizioni di verità degli enunciati. Prese insieme queste costituiscono le regole semantiche mediante le quali il linguaggio acquista un’interpretazione e viene compreso. Nell’ultima fase della sua vita, Carnap si occupò soprattutto dei problemi dell’indu-

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zione e della probabilità. Di quest’ultima distingue due accezioni: quella come grado di confermazione e quella come frequenza relativa. La prima rappresenta il rapporto tra i casi specifici dell’evento considerato e tutti i casi possibili: gli enunciati di tale probabilità riguardano classi di eventi e sono di natura empirica. La seconda è considerata come una relazione logica tra enunciati, nel senso che il significato di un enunciato è incluso direttamente nel significato di un altro secondo un rapporto numerico: solo se si vorrà stabilire la validità delle supposizioni su cui si fonda, si richiederà una ricerca empirica, ma l’inclusione dipende esclusivamente dall’analisi logica. Queste ricerche hanno apportato notevoli trasformazioni anche nella metodologia della scienza empirica. Carnap, già persuaso dalle critiche di ➔ Popper circa l’insostenibilità del concetto di verificazione completa, ripiega su quello di confermazione progressiva: data una legge, essa rimane sempre più confermata man mano che si controllano i casi da essa previsti. Poiché la conferma non può mai essere definitiva, resta alla fine la necessità di una decisione convenzionale (naturalmente il suo processo è sempre relativo a un predicato confermabile). Orbene, se è conosciuto un metodo effettivo per confermare un predicato di tal genere, allora questo è chiamato provabile. La provabilità si presenta dunque a un livello superiore rispetto alla confermabilità. Sia la conferma che la prova possono essere complete o incomplete. Il primo caso significa ridurre un enunciato alla conferma o alla prova di una classe finita di altri enunciati. Se questo non è possibile e, viceversa, dalla confermazione di un enunciato sono ricavabili infiniti altri enunciati (è il caso di una legge), allora tale enunciato non può ottenere una completa conferma o prova, che pertanto si dirà incompleta. Questa distinzione è di grande rilevanza filosofica, perché consente di abbandonare l’angustia della prima formulazione del principio empiristico di significanza per adottarne una più elastica e tollerante, annunciando così la dissoluzione del programma neopositivistico. Carneade di Cirene Filosofo greco (Cirene 214 - Atene 129 a.C.), fu a capo dell’Accademia in un periodo in cui la scuola platonica aveva assunto un indirizzo scettico in polemica con le altre scuole ellenistiche. Non ci sono noti suoi scritti, e le notizie che lo riguardano derivano da Cicerone e da scettici posteriori. Fu in rapporti con Roma, dove le

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sue idee divennero presto note ed erano popolari all’epoca in cui scriveva Cicerone. Il suo scetticismo ammetteva diversi gradi di probabilità nella conoscenza e quindi nella acquisizione degli elementi necessari a compiere scelte eticamente ben fondate. Cartesio, Renato In francese René Descartes. Filosofo e scienziato francese (La Haye 1596 - Stoccolma 1650), iniziatore del razionalismo moderno. la vita. Appartenente a una famiglia della piccola nobiltà (era signore di Perron), compì gli studi regolari al collegio gesuitico di La Flèche e si licenziò in diritto a Poitiers. Seguì un periodo (1618-1620) in cui si dedicò ai viaggi in un’Europa insanguinata dalla guerra dei Trent’anni (fu al seguito di Maurizio di Nassau prima e nell’esercito del duca di Baviera poi). Nella notte del 10 novembre 1619 presso Ulm ha l’intuizione dei mirabilis scientiae fundamenta (l’idea dell’unità del sapere sul modello della matematica) e la conferma della sua vocazione intellettuale. Tra il 1620 e il 1628 vive presso Parigi (tranne un periodo tra il 1623 e il 1624 in cui compì un viaggio in Italia), dedicandosi agli studi e alla vita mondana: risale a questo periodo l’amicizia con padre Mersenne, che farà da tramite con gli altri intellettuali quando Cartesio deciderà nel 1629 di trasferirsi in Olanda. Qui, in un clima tollerante e ricco di fermenti, vedranno la luce le sue opere più importanti: Il mondo e L’uomo (1633), i tre trattati scientifici Diottrica, Meteore, Geometria, accompagnati dall’introduzione del celebre Discorso sul metodo (1637), le Meditazioni metafisiche accompagnate dalle Obiezioni di alcuni dei maggiori filosofi e teologi dell’epoca (cui il manoscritto era stato sottoposto per un giudizio da padre Mersenne) e dalle Risposte dell’autore (1641), i Principi della filosofia (1644) e Le passioni dell’anima (1649). Nel 1649 Cartesio accettò l’invito della regina Cristina di Svezia di impartirle lezioni di filosofia, ma la sua debole costituzione fisica non resse al clima rigido di quel Paese. Il pensiero. Universalmente riconosciuto come fondatore della filosofia moderna, la critica si è poi divisa sulla questione del reale punto di rottura tra Cartesio e la tradizione scolastica su cui si era formato. Egli stesso, ripercorrendo all’inizio del Discorso sul metodo le linee fondamentali della sua biografia intellettuale, riconosce lo stacco rispetto alla cultura cui era stato educato e di cui compie una critica tanto impietosa quanto serena. Riflettendo sulle reali poten-

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zialità conoscitive delle varie scienze, Cartesio conclude che solo la matematica e la geometria, con il loro procedere per passaggi rigorosi e coerenti, sembrano offrire una soluzione al problema della mancanza di un metodo che sia insieme strumento efficace per la scoperta e per la fondazione del sapere (mancanza tanto più acutamente sentita per i fermenti filosofici e l’apertura di nuovi orizzonti scientifici dell’epoca presente). In realtà neanche queste discipline sono in possesso di uno statuto epistemologico unitario che consenta di affrontare con sicurezza nuovi problemi, e di qui il suo progetto di dar vita a una sorta di mathesis universalis, una scienza senza numeri e figure che possa costituire il modello per ogni forma di conoscenza. Tale disegno presuppone la sostanziale omogeneità tra matematica (che fino ad allora appariva una tecnica oscura e confusa) e geometria (limitata dal legame con le figure, che tra l’altro affaticano eccessivamente l’immaginazione) in quanto entrambe si ispirano allo stesso metodo, che permette la conversione dei problemi geometrici in problemi algebrici (possiamo servirci dell’algebra per studiare i problemi geometrici in quanto possiamo partire da equazioni di qualunque grado interpretando geometricamente le loro proprietà). La geometria analitica è il nuovo strumento metodologico, concepito da Cartesio a partire da un’idea semplice: date due semirette uscenti dallo stesso punto d’origine (assi), fissata un’unità di misura delle distanze, considerata la parte di piano compresa tra i due assi (quadrante), a un punto su quest’ultimo si possono associare due numeri ben determinati (coordinate), che misurano rispettivamente la distanza del punto dall’asse verticale (ascissa) e da quello orizzontale (ordinata), tale che a una coppia di ascissa e ordinata corrisponde un solo punto sul quadrante. Inoltre sul piano si possono rappresentare anche rette e curve, che, essendo costituite da un insieme infinito di punti, possono essere rappresentate dall’equazione i cui valori algebrici sono rappresentabili in un grafico come le coordinate sul piano di tutti i punti che formano la linea in questione. Se il numero (l’equazione) e la forma (la linea sul piano) hanno un denominatore comune (i valori numerici che risultano dall’equazione e descrivono la posizione sul piano della linea), può aver luogo in ognuno dei due campi (la matematica e la geometria) una composizione o una scomposizione secondo le leggi proprie di ciascuno. Tuttavia Cartesio non era interessato a sin-

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gole scoperte o risultati tecnici: la sua Geometria era l’espressione o un’appendice di quel progetto di ampia portata enunciato nel Discorso sul metodo. In sintonia con la critica alla fisica scolastica e con la matematizzazione dello studio dei fenomeni naturali compiute da Galileo, Cartesio si propone di fornire una base radicale alla nuova visione della realtà, dimostrando come la si debba concepire per poterle applicare la matematica quale strumento universale della scienza. Infatti, secondo il filosofo, il sapere può essere paragonato a un albero, le cui radici sono costituite dalla metafisica, il tronco dalla fisica e i rami dalle altre scienze (medicina, meccanica, morale). Secondo questo orientamento l’anima della ricerca della verità è il metodo. Il primo scritto dedicato all’argomento sono le Regulae ad directionem ingenii, in cui si formula per la prima volta la teoria innatistica delle idee, scoperte intuitivamente, e delle connessioni necessarie tra esse. A partire da queste considerazioni, ne Il mondo è presentata “l’ipotesi” (in polemica con la quale Newton enuncerà il suo famoso principio “hypotheses non fingo”) della possibile formazione meccanica del cosmo e l’interpretazione dell’eliocentrismo secondo la teoria dei vortici. Cartesio fornisce la messa a punto della sua prospettiva metodologica nel Discorso sul metodo, che contiene anche un’esposizione divulgativa della sua filosofia. Qui vengono enunciate le quattro regole alle quali tale metodo deve attenersi, palesemente ispirate alla matematica: — evidenza, che prescrive di accogliere solo ciò che si presenta con chiarezza e distinzione attraverso l’intuizione, atto autofondantesi per eccellenza in quanto si basa solo sulla mutua trasparenza tra ragione e contenuto; — analisi, poiché disarticolando il complesso nel semplice, si dissipano le ambiguità e si apre la via verso l’evidenza; — sintesi, nella quale si procede all’inverso dal semplice al complesso al fine di cogliere i nessi coesivi del tutto, ricomponendo l’ordine attraverso una serie di ragionamenti rigorosamente deduttivi come quelli geometrici; — enumerazione, in cui si controllano i singoli passaggi compiuti. La matematizzazione del metodo è possibile in quanto Cartesio pone come mediatore tra matematica e filosofia il concetto di natura semplice (equivalente a idea innata, dove semplice è sinonimo di innato), che sostituisce l’universale scolastico. Le cose posso-

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no essere conosciute lasciandosi decomporre in nature semplici, direttamente intuite e incatenate da rapporti essi stessi intuibili. Ma a questo punto occorre indagare se esiste una verità non matematica che, in sé indubitabile, evidente e distinta, possa giustificare tali regole ed essere fonte di tutte le altre possibili verità. Ai fini di questa indagine Cartesio avanza l’esigenza di un dubbio generale, esteso cioè a tutte le conoscenze, come unica condizione per acquistare certezza nella scienza e nella filosofia: si tratta di uno strumento artificiale (perciò il dubbio è detto metodico), mediante il quale eliminare dall’edificio del sapere tutte le opinioni non sufficientemente controllate. Poiché si dovrà assumere come falsa qualsiasi opinione su cui si possa sollevare anche il minimo dubbio, quest’ultimo assumerà infine un carattere iperbolico. Si inizierà col sottoporre a esame gli oggetti dei sensi, o idee avventizie (constatandone frequentemente l’erroneità) per concludere con quelli dell’intelletto, per esempio le cognizioni matematiche che sembrano vere a qualunque condizione. Ma anche la loro solidità si rivela puramente illusoria, infatti, sostiene Cartesio, finché non si sia trovato un principio veramente certo al quale ancorarle, si può sempre ipotizzare l’opera di un genio maligno che «abbia impiegato tutta la sua industria a ingannarmi», anche sulle certezze della matematica. C’è però qualcosa che, in questa esperienza del dubbio, necessariamente si sottrae a esso e che anzi si impone in forza del fatto che si sia giunti a revocare ogni altra certezza (la resistenza di una conoscenza al dubbio è segno della sua verità): infatti di tutto l’uomo può dubitare, tranne che del fatto stesso di dubitare, cioè di pensare, e quindi di esistere. «Cogito ergo sum»: questa proposizione «è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito». Questo nuovo “punto archimedeo” del sapere (aldilà delle analogie agostiniane), è “una semplice intuizione della mente” (la certezza del nostro io si presenta con i caratteri della chiarezza e della distinzione), al punto che il rapporto tra essere e pensiero è così stretto ed esclusivo («solo il pensiero non può essere staccato da me») da indurre Cartesio ad affermare «io sono una cosa che pensa» (res cogitans). Con questo passo teoretico Cartesio imprime una svolta decisiva alla filosofia moderna, che non è più da intendersi come scienza dell’essere ma come dottrina della conoscenza, gnoseologia. È il trionfo del sogget-

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to umano, della coscienza razionale che è trasparenza di sé a se stessa e si manifesta in modo unitario nei diversi rami del sapere: l’uomo non deve ammettere altre verità che non siano quelle chiare e distinte o dedotte da queste, senza preoccuparsi di altre giustificazioni. Tuttavia, per fondare in maniera definitiva il carattere oggettivo delle nostre facoltà conoscitive, Cartesio deve porre il problema dell’esistenza e del ruolo di Dio. Muovendo dalla constatazione che il cogito possiede la dotazione di un certo numero di idee (Cartesio usa questo termine per indicare qualsiasi contenuto mentale), e che tra queste alcune sono innate (le altre sono quelle avventizie, che derivano dai sensi, e quelle fattizie, che derivano dall’immaginazione), tra queste rinviene quella di Dio come essere perfetto: ebbene, poiché la causa deve contenere in sé tanta realtà quanta ne contiene il suo effetto, e dato che la causa di un’idea deve possedere tanta realtà formale quanta è la realtà oggettiva dell’idea, non può essere l’io, essere finito e imperfetto, la causa di Dio. Egli stesso ne deve essere la causa, e dunque Dio esiste. Se poi si ammettesse che l’idea di Dio è derivata dall’io, si dovrebbe anche ammettere che l’io si è creato da solo attribuendosi tutte le perfezioni che trova nell’idea di Dio. Poiché invece si deve constatare la sua imperfezione (come risulta dal dubbio o dalla aspirazione mai soddisfatta alla felicità), se ne deve concludere che l’io pensante è stato creato da Dio e che l’idea che noi abbiamo di lui è «come la marca dell’artigiano impressa nella sua opera». La terza prova è detta ontologica, ed è costituita da un argomento a priori: poiché possediamo l’idea di essere perfettissimo, è contraddittorio negarne l’esistenza, dato che essa è parte integrante dell’essenza (non è possibile perciò ammettere l’una senza l’altra). Poiché l’esistenza è un tipo di perfezione e Dio, in quanto essere perfettissimo possiede tutte le perfezioni, «segue che l’esistenza è inseparabile da lui e pertanto che egli esiste veramente». Ma se egli esiste ed è sommamente perfetto, allora è anche sommamente verace: dunque «è impossibile che Dio mi inganni mai, perché in ogni frode o inganno si trova qualche specie d’imperfezione». Sotto la forza protettrice di Dio, le facoltà conoscitive non possono ingannarci, giacché altrimenti Dio stesso, che ne è il creatore, sarebbe responsabile di questo inganno: così il dubbio è definitivamente sconfitto e il criterio dell’evidenza giustificato. Inoltre Dio, creatore assoluto, è anche

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responsabile delle idee e delle verità alla cui luce ha creato il mondo, eterne come è eterno e immutabile lui: perciò è garante di tutte quelle verità chiare e distinte che saremo in grado di raggiungere. Sotto questo aspetto l’errore è imputabile solo all’uomo, che non fa buon uso delle sue facoltà e non applica con coerenza i criteri metodologici. Dal punto di vista metafisico l’errore è legato alla nostra condizione di finitezza, esposta costitutivamente e costantemente all’esperienza del non essere. Da quello gnoseologico esso deriva dall’operatività del giudicare in cui intervengono sia l’intelletto (che costituisce l’essere dell’io come attività pensante) sia la volontà. Quest’ultima, come la libertà, non ha limiti, ed è perciò più estesa dell’intelletto: l’errore, in quanto assenso dato a ciò che l’intelletto non intende, che non è chiaro e distinto, ha un valore pratico (cattivo uso della facoltà di giudicare datami da Dio), non teoretico (nell’intelletto non sussiste la possibilità dell’errore: «perciò tutte le volte che tengo la mia volontà nei limiti della mia conoscenza, […] non può accadere che io mi inganni»). Data questa immensa fiducia nell’uomo e nelle sue capacità conoscitive, Cartesio può ora procedere alla conoscenza del mondo. Che l’esistenza di quest’ultimo sia possibile è evidente dalle dimostrazioni geometriche: tutto ciò che è oggetto della cognizione geometrica appare, lungi dall’essere incerto, come una dotazione innata dello spirito, di cui l’io può avere una conoscenza chiara e distinta. Ma per passare dalla possibilità all’esistenza effettiva si deve fornire un’ulteriore prova, rinvenibile nella presenza in noi dell’immaginazione: distinta dall’intelletto, essa appare “intimamente legata o dipendente dal corpo”, proprio perché è essenzialmente rappresentativa di entità materiali o corporee. È dunque probabile che esistano corpi, altrimenti il fenomeno dell’immaginazione resterebbe inesplicato. Per accertarci della loro esistenza non resta che rivolgerci ai sensi, che ce ne rendono note le qualità. Se immaginazione e sensibilità stabiliscono un potere d’aggancio con il mondo esterno e ne attestano l’esistenza, non c’è ragione di metterle in discussione. Ma poiché la sensazione è in molti casi oscura e ingannevole (le cose non esistono così come le sentiamo), essa va corretta alla luce dell’intelletto (come già per Galilei il conforto dei sensi può essere fonte di stimoli, non di conoscenza) per cui dobbiamo ammettere come proprietà dei corpi solo quelle che percepia-

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mo come chiare e distinte. Ebbene solo l’estensione risponde a questo requisito, e di conseguenza verrà ritenuta, insieme con le proprietà che sono modificazione dell’estensione (grandezza, figura ecc.) e perciò matematizzabili, essenziale e costitutiva della materia (res extensa), mentre tutte le altre sono secondarie. Res cogitans e res extensa costituiscono i due versanti distinti e irriducibili della realtà globale: se questo dualismo consente da un lato di escludere tutte le concezioni animiste del naturalismo rinascimentale, dall’altro pone le basi di una scienza unitaria costruita su basi rigorosamente deduttive. L’universo cartesiano è concepito in termini esclusivamente meccanicistici, riducendosi tutto a estensione (spazio geometrico) e movimento. Esso è semplice, logico e coerente: perciò la matematica è il modello stesso della realtà fisica. L’identificazione di materia ed estensione porta al rifiuto del vuoto (in quanto estensione non materiale) e degli atomi (in quanto estesi ma non divisibili, mentre la materia estesa è continua e infinitamente divisibile), come nozioni razionalmente contraddittorie e quindi inammissibili. Il mondo (senza distinzione tra sostanza celeste e terrestre) è come un uovo pieno, dove le parti di materia si urtano l’una con l’altra dando origine attraverso questo moto locale a tutti i fenomeni. Causa prima del moto è Dio, che ha dato alla materia una certa quantità di movimento, che si mantiene sempre costante (il moto è nel mosso, non nel movente) pur nella trasmissione da un corpo all’altro, e ha decretato anche gli altri principi della fisica, quello d’inerzia e quello dell’originarietà del moto rettilineo, da cui tutti gli altri derivano. Poiché Cartesio è interessato più a unificare la realtà che a coglierne la variabilità, egli estende il modello meccanicistico e le leggi dei corpi inanimati anche al mondo vivente (in tal modo sono spiegati i movimenti degli animali e le loro apparenti reazioni psicologiche). Anche il corpo umano è una macchina, il cui movimento interno è assicurato da “un fuoco senza calore” posto nel cuore (così Cartesio interpreta la scoperta della circolazione del sangue di Harvey): i movimenti vitali sono dovuti a elementi sottilissimi e purissimi (spiriti animali) che, portati dal cuore al cervello per mezzo del sangue, si diffondono dappertutto e presiedono alle principali funzioni dell’organismo. Il meccanicismo rappresenta peraltro anche un nuovo connubio tra ragione e immaginazione (e quindi anche tra ricerca teorica

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Cartesio Cartesianesimo-razionalismo moderno Influenza del pensiero di Cartesio fino al XVIII secolo R. CARTESIO (1596-1650) Amsterdam A. GEULINCX (1624-1669) Leida B. SPINOZA (1632-1677) Amsterdam Th. HOBBES (1588-1679) Parigi-Londra A. ARNAULD (1612-1694) Port-Royal P. NICOLE (1625-1695) Port-Royal N. MALEBRANCHE (1638-1715) Parigi G.W. LEIBNIZ (1646-1716) Parigi-Hannover S. CLARKE (1675-1729) Londra C. WOLFF (1679-1754) Halle

e tecnica, tra esperienza e ragione): infatti lo scienziato si avvale di modelli meccanici, che risultano comprensibili ed evidenti, dotati di un contenuto immaginativo concreto, proprio perché frutto di lunghe e laboriose operazioni intellettuali e costruiti su precisi postulati. In tal modo infatti si riesce a dare all’immaginazione quell’evidenza figurativa che è indice di effettiva comprensione ed intrinseca razionalità. Il dualismo tra res cogitans (per cui l’uomo è un essere spirituale e libero) e res extensa (per cui è corpo tra i corpi, macchina tra le macchine) pone tuttavia il problema del rapporto mente-corpo. Che il rapporto sussista è provato dal fatto che i nostri atti di volontà muovono il corpo e da una serie di sensazioni (fame, sete, dolore ecc.) che, percepite dal corpo, corrispondono a modificazioni dell’anima. Essendo l’anima spirituale, essa non è localizzata in un luogo particolare, ma è congiunta a tutto il corpo. Ciò non toglie che in quest’ultimo vi è un punto (localizzato da Cartesio nella ghiandola pineale – l’ipofisi dell’odierna fisiologia – posta nel cervello, che funge da connessione psicofisica) in cui essa esercita le sue funzioni (in particolare quella di percepire gli stati del corpo) in modo più specifico che negli altri. Tramite la ghiandola pineale, l’anima, che è unica e non tripartita, si inserisce tra le stimolazioni nervose e la risposta del cervello: quando essa subisce i moti por-

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tati dalle prime a quest’ultimo si hanno le sensazioni, quando essa fa pervenire le sue risposte al sistema nervoso si hanno le volizioni. Nel trattato omonimo, Cartesio classifica le passioni, in quanto subite, tra le percezioni, anche se appunto non sono riferite al corpo ma all’anima. Esse (Cartesio ne individua sei originarie, dalla cui combinazione si originano tutte le altre) sono causate dagli spiriti animali: perciò l’anima non è padrona delle proprie passioni, che dunque non possono essere eccitate o soppresse con un semplice atto di volontà. Essenziale è giudicare con ragione il valore degli oggetti verso cui sono dirette le passioni. Ciò suppone un valido criterio morale, che Cartesio avrebbe voluto inserire in una trattazione che elevasse questa disciplina al rango di scienza, in realtà mai realizzata. Nel Discorso sul metodo vengono indicate alcune regole di morale provvisoria: l’accettazione delle leggi, dei costumi, della religione e delle opinioni politiche moderate del proprio Paese; la perseveranza nelle decisioni assunte; l’autodominio dei desideri e la rinuncia a voler cambiare l’ordine del mondo. Aldilà delle formulazioni (Cartesio si intratterrà lungamente, anche se in modo non sistematico, su questioni etiche nei carteggi con Elisabetta del Palatinato e con Cristina di Svezia), il dualismo tra sostanze pone anche la dialettica, nella vita spirituale, tra ragione e passioni: queste ultime sono, in quanto costitutive del nostro essere e perciò insopprimibili, tutte buone, mentre cattivo può essere il loro uso. Poiché appartengono all’anima, esse rientrano nella sfera dell’esercizio della libertà e della razionalità: la virtù è sottomissione lenta e faticosa della volontà e delle passioni alla ragione. Con l’identificazione di virtù e ragione, si passa a quella di virtù e volontà del bene e di quest’ultima con la volontà di pensare il vero che, in quanto tale, è anche bene. Perciò, anche in campo etico, la ragione cartesiana si presenta come forza-guida di tutto l’uomo. Cassirer, Ernst Filosofo e storico della filosofia tedesco (Breslavia 1874 - Princeton 1945), professore a Berlino, Amburgo e alle università americane di Yale e Columbia. Già formatosi alla scuola neokantiana di Marburgo, ebbe vivo interesse per i problemi gnoseologici ed epistemologici, che poi progressivamente estese fino a includere la più generale capacità umana di produrre cultura (di alcuni momenti e figure fondamentali Cassirer fornì i tratti essenziali in

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Cassirer

opere importanti come Il sistema di Leibniz del 1902, Vita e opere di Kant del 1918, Individuo e cosmo nella filosofia del rinascimento del 1927, La filosofia dell’illuminismo del 1932). In Sostanza e funzione (1910) mise a confronto il criticismo con i più avanzati risultati della scienza moderna, sorta (come esposto ne Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’epoca moderna, 1906-7 voll. 1 e 2, 1920 vol. 3, 1954 vol. 4 postumo) con l’abbandono della teoria del concetto-genere (ottenuto per astrazione e presupponente la sua specularità ontologica con le sostanze seconde) e l’adozione di quello di funzione. Derivato dalla matematica, questo produce la realtà connettendo gli elementi di una molteplicità attraverso precisi nessi relazionali, apparendo come un principio d’ordine che determina “forme” stabili nel flusso dell’esperienza. Dalla consapevolezza della loro pluralità irriducibile (tale è per Cassirer la lezione di ➔ Einstein) e dei corrispondenti piani di realtà, egli sviluppò il progetto critico-trascendentale di una Filosofia delle forme simboliche (1923-9) che collocasse ciascuna all’interno di una totalità sistematica ed esplorasse le diverse funzioni spirituali (e le relative attività formatrici) che sono alla base del mondo della cultura. Ciò con la risalita dai “fatti” (i vari aspetti della civiltà) alle loro condizioni di possibilità (la rivoluzione copernicana si estendeva così da una critica della ragione a una critica della cultura), nell’assunto (divenuto esplicito nel Saggio sull’uomo del 1944) dell’essenza dell’uomo come “animale simbolico”, la cui natura spirituale consiste (secondo un’indicazione già presente nella Critica del Giudizio di ➔ Kant) in un’attività spontanea e produttrice che dà forma al molteplice empirico mediante mezzi d’espressione sensibili (segni, immagini ecc.) con cui manifestare i contenuti interni. Queste forme (che, rappresentando modalità diverse di costituzione del reale, possiedono tratti comuni – per esempio le fondamentali relazioni di spazio, tempo, causa-effetto – ma con un significato diverso a seconda dell’ambito simbolico in cui sono inseriti) sono anzitutto il linguaggio (non semplice strumento di comunicazione ma attività storicamente vivente che svolge funzioni di mediazione tra soggetto e mondo, tra esterno e interno, e di oggettivazione) e il mito. Matrice delle altre forme simboliche, questo deriva da una specifica funzione di coscienza dal carattere concreto (la coscienza mitica non opera la distinzione tra segno e significato, rima-

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nendo assorbita dalla presenza degli oggetti, senza risoluzione analitica in elementi distinti e in un complesso di relazioni), fascinoso (essa considera gli oggetti come dotati di potenza particolare: di qui il legame tra mito e magia), sacrale (essa distingue tra il sacro e l’eccezionale da un lato, il profano e l’ordinario dall’altro: di qui il legame tra mito e religione). L’indagine di Cassirer si sposta poi alla descrizione fenomenologica della conoscenza (la terza forma), dai gradi elementari della coscienza immediata a quello della coscienza pura, consistente nella sintesi intellettiva (dotata di un simbolismo astratto) propria della scienza. Cattaneo, Carlo Filosofo, storico e uomo politico italiano (Milano 1801 - Lugano 1869), fondatore del Politecnico, una delle maggiori riviste dell’Ottocento dedicata agli “studi applicati alla cultura e prosperità sociali” (cioè alle scienze sociali). Di formazione illuministica, può essere considerato un precursore del positivismo per la sua ostilità verso la metafisica e l’importanza data alla scienza e ai suoi metodi. Egli considerò la filosofia come studio dell’uomo nella vita associata, quindi “filosofia civile”, in quanto considerata in rapporto, oltre che con l’universo fisico, con “il mondo delle genti, l’ordine dell’umanità, la vita degli stati” fino a determinare una “psicologia delle menti associate” che studi le facoltà associate di più individui e di più nazioni. Nella convinzione che la natura comune agli uomini venga trasformata dalle istituzioni entro le quali si svolge la loro vita, Cattaneo intese collegare la psicologia e i problemi connessi alla conoscenza con la dimensione sociale, in particolare nel suo aspetto economico. Influenzato dal Vico, egli considerava il progresso né lineare né necessario, mentre la civiltà gli appariva policentrica nelle sue origini e multidirezionale nelle sue linee di sviluppo, nessuna delle quali privilegiata rispetto alle altre. Chartres, Scuola di Fondata dal vescovo Fulberto nel 980, fu centro fiorente di studi filosofici e scientifici, con maestri famosi (Teodorico di Chartres, Bernardo di Chartres, Guglielmo di Conches, Gilberto de la Porrée, Bernardo Silvestre ecc.) che impostarono il loro lavoro soprattutto nei termini di uno spiccato platonismo. Perciò accanto alle tradizionali auctoritates, essi proposero lo studio del Timeo, le opere di Boezio, Seneca, Agostino e numerosi trattati scientifici arabi

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Cicerone

tradotti in latino, in una dimensione che, ai fini di una completezza della ricerca scientifica, abbracciava sia le arti del quadrivio sia quelle del trivio. I pensatori di questa scuola ebbero dunque interesse per ogni aspetto del sapere e simpatia per il patrimonio culturale del mondo antico, mirando a comprendere il contenuto della loro fede e intendendo quest’ultima come punto sia di partenza sia d’arrivo della ricerca della verità. Il prestigio della scuola decadde in seguito alla nascita delle università nel XIII secolo. Chomsky, Noam Filosofo statunitense (Filadelfia 1928), docente al Massachusetts Institute of Technology. I suoi interessi scientifici si sono rivolti essenzialmente alla filosofia del linguaggio e alla linguistica teorica, ma negli Stati Uniti ha avuto un peso notevole anche il suo impegno pacifista e la sua critica radicale alla politica del Paese (I nuovi mandarini, del 1969; Conoscenza e libertà, del 1971). Sui temi linguistici, Chomsky è partito dalla constatazione che, data l’estrema complessità che contraddistingue qualsiasi lingua, se i bambini possono apprenderla da piccoli, deve esistere nella mente dell’uomo una sorta di struttura innata che lo consenta, e, viceversa, l’architettura delle lingue deve quindi rispondere a elementi strutturali dati. Da qui la ricerca di elementi invarianti che possano consentire l’individuazione di una sorta di grammatica universale, rintracciabile al di sotto dei caratteri di ogni singola lingua. Cicerone, Marco Tullio Oratore, scrittore, uomo politico romano (Arpino 106 - Gaeta 43 a.C.), completò in Grecia la sua solida cultura retorica. Conciliatore della tradizione culturale e civile romana con quella speculativa greca, ebbe una formazione filosofica eclettica, seguendo (sulla scia di Antioco di Ascalona suo maestro) la tendenza a operare un saggio accordo tra le maggiori scuole di pensiero (accademica, peripatetica, stoica, con la sola esclusione della epicurea) intorno ad alcune verità: la legge morale, la spiritualità dell’uomo, la sua libertà, l’immortalità dell’anima, l’esistenza del divino. Dello spirito latino valorizzò soprattutto la dimensione politica e sociale del vivere, per cui la preparazione filosofica doveva essere a fondamento del bagaglio culturale dell’oratore nel suo concreto impegno etico e civile. Il suo pensiero politico si orientava verso la concordia ordinum, mentre la Res Publica romana, fondata sul diritto, gli appariva come l’espressione più alta di huma-

Cinici

nitas: Cicerone, maestro di virtù per pagani e cristiani, può pertanto essere considerato il padre dell’umanesimo occidentale. Cinici Si chiamarono con questo nome i seguaci di ➔ Antistene (che era stato allievo di Socrate), e poi di Diogene di Sinope, secondo la tradizione perché si riunivano nel ginnasio chiamato Cinosarge (letteralmente “cane agile”) aperto agli stranieri alla periferia di Atene. La figura del cane richiamava quella dell’uomo libero da ogni vincolo e padrone di se stesso. Dopo la stagione dei maestri del IV secolo, i cinici divennero per lo più filosofi popolari, propagandando uno stile di vita fortemente anticonformista e ribelle, per nulla allineato ai valori sociali e politici dominanti. La scuola ebbe lunga vita, fino ai primi secoli dell’era cristiana, non tanto come insieme dottrinale quanto come promotrice di un ideale di vita libero e del tutto autosufficiente. Fu all’interno di questa scuola che venne proposto il genere letterario delle diatribe, caratterizzato da pungente ironia e da dura satira sociale. Circolo di Vienna Gruppo di filosofi e scienziati (tra essi Carnap, Neurath, Waismann, Hahn, Gödel, Feigl, Frank ecc.) raccolti intorno alla figura di Moritz Schlick, nella cui casa incominciarono a riunirsi a partire dal 1922. Accomunati dal proposito di conferire alla filosofia un’impronta scientifica, essi facevano riferimento alle dottrine di ➔ Mach (al cui nome fu intitolata l’associazione) trovando ampi stimoli di discussione nelle nuove teorie fisiche (teoria della relatività), matematiche (➔ Hilbert) e logiche (➔ Russell). Le riunioni divennero sistematiche a partire dal 1926 e si polarizzarono sulla lettura e il commento del Tractatus logico-philosophicus di ➔ Wittgenstein (che però mantenne con il circolo un rapporto distante e marginale). Nel 1929 fu steso il manifesto programmatico La concezione scientifica del mondo e l’anno successivo incominciò a essere edita la rivista Erkenntnis, che ospitò i lavori dei membri del circolo (che nel frattempo si era unito all’analogo circolo di Berlino giudato da ➔ Reichenbach). Ormai il Circolo di Vienna aveva dato vita al movimento filosofico del neopositivismo logico o neoempirismo, e in questa veste organizzò una serie di congressi (1931 a Königsberg, 1934 a Praga, 1935 a Parigi). Questa attività fu interrotta dall’assassinio di Schlick (1936) e dal passaggio della maggior parte degli altri esponenti in altri Paesi (specie negli Stati Uniti) in seguito all’av-

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Cleante di Asso

vento del nazismo: così questa corrente di pensiero si diffuse e sviluppò la sua problematica attraverso l’incontro con altre tradizioni culturali. Cirenaici Con questa dizione si indicano i filosofi della Scuola cirenaica, cioè una delle scuole, tutte parallele all’ ➔ Accademia platonica, cui diedero vita i diretti allievi di Socrate. Fondatori della scuola sono Aristippo di Cirene e i suoi discepoli (tra cui la figlia Arete e il nipote Aristippo il Giovane, da molti considerato il filosofo che diede sistemazione alle dottrine del fondatore). La scuola era ancora attiva nel III secolo a.C. Clarke, Samuel Filosofo inglese (Norwich 1675 - Londra 1729), ancora ventenne conobbe Newton, di cui tradusse i testi e difese le concezioni (famosa la disputa epistolare con Leibniz a sostegno della teoria di uno spazio e un tempo assoluti). Interessato soprattutto a problemi di teologia ed etica, seguì un indirizzo razionalistico (fu in questo senso un esponente del platonismo di Cambridge) ostile sia agli orientamenti sentimentali (Hutcheson) sia a quelli libertini (Toland), materialisti (Hobbes) e “atei” (Spinoza). In Dimostrazione dell’essere e degli attributi di Dio (1703) espose una concezione teologica di ispirazione cartesiana (fondata cioè su verità chiare e distinte o costituita da dimostrazioni rigorose), in fondo non distante da quel deismo che pure intendeva combattere (la rivelazione è solo un ausilio pratico per la massa degli uomini incapaci di raziocinio). Analogamente, anche i valori morali sono eterni e le norme morali hanno lo stesso grado di certezza e validità universale delle conoscenze matematiche. Cleante di Asso Filosofo greco (304-232 a.C.), dopo Zenone di Cizio fu il primo maestro della scuola stoica di Atene (Antica ➔ Stoà). Non ci rimangono sue opere teoriche, anche se fu lui a dare alla scuola una sistemazione dottrinale e a curare gli aspetti teoretici. Ci rimane però un Inno a Zeus, una composizione poetica di 40 versi in cui il Logos stoico – suprema forza buona e razionale che governa l’universo – è invocato nei termini della religione tradizionale, senza tuttavia perdere le caratteristiche filosofiche attribuitegli dalla scuola. La personalità di Cleante dovette essere notevole, in rapporto con quella degli altri filosofi delle scuole ateniesi del tempo (in particolare l’Accademia e la scuola epicurea), ma abbiamo scarse notizie, se non che dovette

Clemente Alessandrino

subire severi attacchi da parte degli altri filosofi, che portarono il suo successore, Crisippo, a dare nuove formulazioni alle dottrine stoiche. Clemente Alessandrino Filosofo greco (150 -215 ca.), è uno dei maestri cristiani della Scuola di Alessandria. Originario di Atene, formatosi nel contesto della cultura filosofica tradizionale, è uno dei primi scrittori cristiani e commentatori della Bibbia che applica al cristianesimo le categorie filosofiche greche. Autore di numerosi scritti, raccolti negli otto libri intitolati Stromata, fu in contatto con gli ambienti della gnosi cristiana. Cohen, Hermann Filosofo tedesco (Minsk 1842 - New York 1918). Nato da una famiglia ebrea ortodossa, in gioventù, oltre gli studi pubblici, seguì anche quelli rabbinici, poi abbandonati per frequentare corsi alle università di Breslavia, Berlino e Halle, dove divenne dottore in filosofia. Nel 1871 pubblicò la Teoria kantiana dell’esperienza, in cui propose un’originale e innovativa interpretazione di Kant. Quest’opera segna l’inizio di un movimento, culminato nella fondazione della Scuola di Marburgo, a cui parteciparono, tra gli altri, anche Paul Natorp (1854-1924) e il giovane Ernst Cassirer. Tale scuola costituisce l’espressione più nota del neokantismo. Accanto a una nuova edizione completamente riveduta della prima opera (1885), il culmine della reinterpretazione del kantismo proposta da Cohen è costituita dalla Fondazione kantiana dell’etica (1877) e dalla Fondazione kantiana dell’estetica (1889). Egli definì la propria filosofia “idealismo critico” e accentuò il carattere costruttivo-produttivo del metodo critico ereditato da Kant. Il suo “sistema di filosofia” venne esposto nei seguenti volumi: Logica della conoscenza pura (1902), Etica della volontà pura (1904), Estetica del sentimento puro (2 voll., 1912); una quarta parte dedicata alla psicologia venne progettata ma non scritta. Lasciata Marburgo nel 1912, Cohen si trasferì a Berlino, dove accentuò i suoi interessi nell’ambito della religione e dell’ebraismo che, anche in risposta alla crescita dei movimenti antisemiti, egli considerò compatibile sia con il germanismo sia con l’universalismo etico. Quest’ultima fase della sua vita sfociò nella stesura di due opere: Il concetto della religione nel sistema della filosofia (1915) e Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo (uscita postuma nel 1919). In quest’ultimo testo si af-

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Comenio

ferma che la ragione, muovendo dalle fonti del giudaismo, fonda la validità dei contenuti della religione. In essa viene introdotto il concetto di “correlazione”, volto a spiegare la coesistenza tra Dio e creato e tra Dio e uomo: proprio la collaborazione umano-divina prepara e compie l’ideale messianico ebraico. Collins, Anthony Filosofo illuminista inglese (Heston 1676 - Londra 1729), fu vivace e caustico polemista nella lotta contro il tradizionalismo religioso in favore delle ragioni del deismo, portando alle estreme conseguenze il razionalismo di Locke (di cui era amico) e Toland. Mentre negò il principio d’autorità e avanzò la necessità di sottomettere i dogmi religiosi alla ragione, restrinse le “ragioni” del cristianesimo alle sole profezie, che però destituì (raccogliendo le istanze della critica biblica di Hobbes, Spinoza e Bayle) di ogni fondamento oggettivo e soprannaturale e intese, alla pari dei miracoli e degli altri episodi e racconti scritturali, come mere allegorie dal valore unicamente morale. In un suo noto Discorso celebrò la libertà di pensiero come diritto naturale e strumento insostituibile nel conseguimento del sapere. Comenio In ceco Jan Amos Komensky. Pedagogista ceco (Nivnice 1592 - Amsterdam 1670) appartenente alla comunità dei Fratelli boemi, condusse una vita errabonda per le persecuzioni religiose durante la guerra dei Trent’anni. In questo clima di intolleranza egli concepì la sua riforma pedagogica (esposta in molte opere, tra cui la Didactica magna del 1631, Janua linguarum reserata del 1631, Orbis rerum sensualium pictus del 1658) che, ispirata a profondi ideali etici, risente sia dei valori dell’umanesimo che delle esigenze del nuovo metodo scientifico. Il fine (e il fondamento) dell’educazione è di portare l’uomo al possesso della sapienza, rendendolo consapevole di sé e capace di attingere alla vita soprannaturale: perciò essa è rivolta a tutti (senza distinzione di sesso o classe sociale) e deve fornire tutto il sapere (nel senso degli elementi essenziali, dei fondamenti per giungere a comprendere tutto: egli affermava che la scuola deve «insegnare a imparare»). La formula “tutto a tutti” esprime dunque l’ideale della “pansofia”, da intendersi non in chiave enciclopedica ma in funzione puramente metodico-educativa: da questo punto di vista egli riconosce la centralità dell’educando e dei suoi diritti, nella misura in cui

Comte

è lui il destinatario e il fine dell’azione pedagogica. Questa può essere veramente efficace e organica solo a condizione dell’impiego di un metodo valido, impostato secondo i criteri della naturalità e della gradualità. Secondo il primo criterio, le regole per un insegnamento proficuo vanno ricercate nella natura stessa (incominciare il lavoro nel tempo idoneo, preparare le condizioni per eseguirlo, non procede a salti, passare dal semplice al complesso, non fare cose inutili, suscitare interesse, procedere in modo concreto), con cui l’uomo è in rapporto armonico e di cui vuole scoprire le ragioni e i fini. In riferimento al secondo, Comenio delinea una struttura scolastica che parte dal livello pre-elementare (affidato alla madre che impartisce le basi dell’educazione morale e intellettuale), per passare alla scuola elementare (o “vernacolare”, che fornisce le nozioni di base – leggere, scrivere, contare – in un rapporto diretto con l’esperienza e con il sussidio di opportuni materiali didattici), alla “scuola latina” e infine all’accademia: nel passaggio da un livello all’altro si segue il principio della ciclicità, per cui la materia da apprendere fondamentalmente non muta, ma viene progressivamente approfondita e ampliata. Comte, Auguste Filosofo francese (Montpellier 1798 - Parigi 1857), tra i maggiori esponenti della prima stagione del positivismo. È autore di diversi saggi di storia della cultura e di sociologia, la disciplina di cui volle essere il promotore (Corso di filosofia positiva in sei volumi, editi tra il 1830 e il 1842; Discorso sullo spirito positivo del 1844; Sistema di politica positiva in quattro volumi, editi tra il 1851 e il 1854). Comte esaltò l’età presente come risultato di una lunga, secolare evoluzione storica; costruì una organica filosofia della storia finalizzata all’obiettivo di comprendere quali tratti della società presente siano orientati al futuro e quali invece appartengano a un passato ormai morto. La sua ottica è quella di uno scienziato sociale, di un riformatore che ritiene di avere scoperto gli strumenti scientifici per un razionale progetto di società futura. La storia dell’uomo è concepita secondo una precisa scansione, la cosiddetta legge dei tre stadi. — Nello stadio teologico il mondo si presenta all’uomo dominato da forze capricciose, irregolari, o comunque di cui è difficile comprendere le leggi; gli si presenta incomprensibile nei suoi aspetti fondamenta-

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Comte

li, nell’alternanza di vita e morte, nel senso dell’esistenza, e viene quindi interpretato come il frutto dell’azione di forze superiori (divine) presenti nella natura stessa. — Nello stadio metafisico sorgono le religioni monoteiste, che aprono la strada a una visione più raffinata del mistero della natura, in cui piuttosto che a forze personali – relegate semmai al momento della creazione, ma concepite come indipendenti dalle leggi proprie della natura – l’uomo si rivolge a forze oggettive, a essenze nascoste di cui i fenomeni sono manifestazione. Lo scopo dell’uomo in questo stato della civiltà è quello di comprendere le essenze elementari che compongono il mondo. In questa fase si inizia a fare uso di strumenti scientifici complessi, soprattutto nel campo della matematica e della fisica. L’uomo vuole comprendere per questa via le cause profonde e invisibili dei fenomeni, la loro ragione ultima. Tuttavia, nonostante l’evidente progresso, anche lo stadio metafisico non può essere considerato definitivo. L’uomo, infatti, non resta entro i confini della sua esperienza, né è in grado di esaminarla con strumenti appropriati. Piuttosto che concentrare la sua attenzione sul mondo dell’esperienza, si rivolge a ciò che immagina sia nascosto dietro di esso. Il suo sapere è dunque astratto, separato dai fatti: esso non può essere né confermato né confutato da nuove e più ricche esperienze. — Inizia così lo stadio positivo, in cui l’uomo ha cominciato, sebbene ancora faticosamente, ad abbandonare questa prospettiva di indagine. La ricerca scientifica, dall’età di Galilei e di Newton, non si è più posta problemi che riguardassero le essenze occulte dei fenomeni, non ha più cercato la spiegazione della natura in cause estranee all’esperienza umana. Ha piuttosto concentrato la ricerca sulla rilevazione esatta dei fenomeni, condotta con l’obiettivo della loro descrizione quantitativa e della definizione di leggi generali della natura, capaci di rendere ragione dei fenomeni, così come essi compaiono nella esperienza, e soprattutto di prevedere il comportamento dei fenomeni. Poiché l’obiettivo ultimo della conoscenza scientifica è di elaborare una forma di sapere che guidi l’uomo nella vita, – e quindi nella sua opera di trasformazione del mondo in funzione delle sue esigenze materiali e spirituali – la capacità della scienza di prevedere i fenomeni è decisiva. Nel contesto di quest’ultimo stadio, che caratterizza l’età presente del mondo, va compreso più a fondo che cosa sia la scienza e

Condillac

quali siano i rapporti tra le varie scienze. Comte, seguendo un indirizzo tipico della metà dell’Ottocento, propone una classificazione delle scienze che consenta di comprenderne i rapporti e la natura. Va innanzitutto sottolineato che ciascuna disciplina scientifica, come la storia dell’umanità, ha attraversato il momento teologico e metafisico prima di giungere allo stato positivo. Si pensi al caso della matematica e della fisica, che nascono all’interno di una cultura ancora mitica e si rivestono di valori religiosi e metafisici (si pensi al pitagorismo prima e alla fisica aristotelica in seguito) prima di giungere alla positività e alla concretezza nell’età moderna, a partire dal Seicento. Detto questo, Comte classifica le scienze in ragione del loro oggetto e di due parametri generali: la complessità e la particolarità. Ciascuna scienza ha infatti un ambito specifico, caratterizzato da una certa estensione del suo oggetto. Tanto più ampio è il suo oggetto, tanto più generico sarà il sapere che essa è in grado di elaborare: per esempio, la fisica ha un ambito più generale della biologia, ma quest’ultima fornisce una conoscenza più specifica e rende maggiormente ragione della complessità della natura. Nell’ordine di crescente complessità e particolarità, Comte pone – dopo la matematica – l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la sociologia. Ciascuna di esse utilizza il sapere racchiuso nella disciplina che la precede, approfondendolo. Da questa classificazione restano escluse la logica (che non costituisce una disciplina a parte, ma è lo studio della metodologia di ogni singola scienza e in quanto tale è interna a ciascuna) e soprattutto la psicologia. Comte infatti esclude che questa possa divenire una scienza, dal momento che non è possibile ottenere dati oggettivi, descrivibili quantitativamente, con gli strumenti dell’introspezione psicologica. Peraltro, una parte di ciò che si vuole far rientrare nella psicologia sta in realtà nel campo della biologia oppure, in quanto studio del comportamento sociale, è parte della sociologia. Comte attribuisce un’importanza particolare alla sociologia, disciplina di cui è da considerarsi in qualche modo il fondatore, se non altro nella misura in cui ne ha indicato la specificità rispetto alle altre scienze. Oggetto specifico della sociologia è la società. Se si riflette sulla classificazione comtiana delle scienze, si potrà osservare che in questa disciplina culmina tutto il percorso teorico della conoscenza umana. La società è infatti allo stesso tempo l’oggetto di studio

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Condillac

più complesso e più specifico e le metodologie di indagine necessarie alla sociologia possono costituirsi solo sul fondamento di tutte le discipline che precedono. Nell’ambito della sociologia vanno distinte la statica sociale e la dinamica sociale. La prima studia le strutture della società, cioè le costanti che in ogni tempo l’hanno caratterizzata: l’interazione tra le sue componenti (costumi, istituzioni, sistemi economici e politici ecc.) che le permettono di reggersi. La seconda studia le leggi della trasformazione sociale, della sua evoluzione storica (e quindi, in prima istanza, la legge dei tre stadi). L’estrema complessità dello studio della dinamica sociale fa sì che l’uomo riesca a padroneggiare questa disciplina solo al culmine del suo progresso storico, nell’età industriale. E arrivati a questo punto del percorso ci si può preparare all’avvento di una nuova forma di società, quella organica, caratterizzata dall’eliminazione del conflitto sociale e dal benessere dell’intera collettività. Nell’ultimo periodo della sua vita Comte è giunto a elaborare una sorta di nuova religione dell’umanità, che mira a sostituire pienamente le religioni tipiche della cultura dell’uomo nello stato teologico (in queste idee si manifesta un’inclinazione romantica effettivamente sottesa a tutta l’opera comtiana). La nuova religione è positiva, nel senso che non ricorre a entità fittizie come gli dei dell’antichità e a forme di sapere cariche di mistero. Il suo oggetto di studio è l’umanità stessa, onorata da uomini illustri che hanno operato per il bene delle generazioni future. Il corpo di dottrine che essa professa è lo stesso sapere scientifico, la nuova e pienamente compresa verità del mondo. Condillac, Étienne Bonnot de Filosofo francese (Grenoble 1715 - Beaugency 1780), una delle voci più autorevoli dell’illuminismo settecentesco. Autore di un celebre saggio sull’uomo e in particolare sulla teoria della conoscenza, il Trattato delle sensazioni (1754), e di molti altri scritti sul tema, Condillac ha dato avvio alla corrente filosofica del sensismo. Sul fondamento delle analisi di ➔ Locke, l’intera sfera della conoscenza umana e della vita interiore viene interpretata come sviluppo di elementi tratti dal rapporto sensibile tra il corpo umano e il mondo esterno, che danno origine allo sviluppo della mente e attivano le sue funzioni. Il sensismo di Condillac, di grandissimo successo nell’Europa del tempo e nei decen-

Condorcet

ni successivi (ha influenzato anche la prima generazione romantica), radicalizza le tesi empiriste lockiane. Condorcet, Jean Antoine Nicolas Filosofo, matematico, economista e uomo politico francese (Ribemont 1743 - Bourg-la-Reine 1794), esponente di spicco dell’illuminismo. Muovendo dalla convinzione (derivata sia dal razionalismo cartesiano che dal sensismo di Condillac) che l’analisi delle idee fosse l’unico metodo valido per la scoperta della verità, egli mirò a fondare un’“arte politica e sociale” sulla ragione quale facoltà universale e identica in tutti gli uomini. I rapporti tra questi ultimi sono certo in gran parte artificiali o frutto di un contratto (come quelli tra sudditi e monarca), ma poggiano sui diritti naturali fondamentali della libertà e dell’uguaglianza: così l’arte politica deve determinare le varie forme della libertà, mentre l’arte sociale ha il compito di ristabilire l’uguaglianza naturale in rapporto alla ricchezza, al ceto, all’istruzione. In varie circostanze Condorcet avanzò proposte di riforme e di intervento pubblico in questi tre campi, ma in ogni caso ritenne che l’applicazione di strumenti matematici (specialmente l’impiego del calcolo e l’uso scientifico dei dati statistici) alle questioni sociali costituisse la condizione migliore per la loro soluzione. Il suo scritto più famoso resta tuttavia l’Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano (1794) in cui, sulla base del concetto di perfettibilità dell’uomo, viene delineato, secondo uno schema diviso in dieci epoche (compresa quella futura, che si inaugura dopo la Rivoluzione), il percorso evolutivo dell’uomo in quanto determinato esclusivamente dal progresso della conoscenza. Constant de Rebecque, Benjamin-Henri Uomo politico, scrittore e pensatore francese (1767-1830). Di orientamento liberale, polemizzò contro l’autoritarismo napoleonico e sostenne un regime costituzionale sul modello inglese. Nel suo celebre Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) affermò che la libertà civile (per cui lo Stato è ammesso solo come condizione per la ricerca individuale della felicità) è una conquista della nostra età (gli antichi conobbero solo, e per una ristretta cerchia, quella politica), anche se spesso è stata disconosciuta (è il caso di Rousseau e Mably che, influenzati dai modelli politici della classicità greca e romana e scambiando autorità e libertà, finirono per teorizzare

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Cousin

il dispotismo e autorizzare una mostruosità come il Terrore). In altri scritti (per esempio in Lo spirito della conquista e dell’usurpazione composto contro Napoleone nel 1813, o nel Corso di politica costituzionale del 1818) egli insistette sulla necessità di dispositivi costituzionali per impedire l’emanazione di leggi lesive della libertà degli individui (altrimenti, qualsiasi sia il regime politico, si cade inevitabilmente nel dispotismo) e considerando come solo mezzo da contrapporre alla sovranità (del monarca o del popolo che sia) l’opinione pubblica e la stampa quali unici surrogati pratici della ragione. Copernico, Nicolò Astronomo e filosofo polacco (1473-1543), studiò a Cracovia e in varie università italiane. Riprendendo il pensiero degli antichi pitagorici e di ➔ Aristarco di Samo, ripropose la teoria eliocentrica per fare fronte alla crescente difficoltà di accordare il geocentrismo tolemaico (di cui però conservò numerosi elementi, dall’esistenza delle sfere celesti alla finitezza dell’universo) con l’osservazione dei fenomeni celesti. Per Copernico era fondamentale il richiamo al matematismo platonico (fu infatti più un teorico che un astronomo empirico, e per l’osservazione si avvalse sempre di strumenti modestissimi), in sintonia con lo spirito rinascimentale per cui la matematica costituisce insieme la struttura intellegibile del cosmo e il potere della ragione. Accolta con ostilità dalle autorità religiose (sia riformate che cattoliche) per le implicazioni contrarie alla rivelazione biblica, la rivoluzionarietà dell’opera di Copernico De revolutionibus orbium coelestium (1543), consiste soprattutto nel contributo alla formazione della struttura concettuale dell’epoca moderna e alla sua visione del mondo (si pensi soprattutto alle conseguenze filosofiche tratte da Bruno e dai pensatori moderni fino a Kant). Cousin, Victor Filosofo francese (Parigi 1792 - Cannes 1867) di orientamento spiritualista. Si inserì nella tradizione specifica del suo Paese, rispondendo alle esigenze della borghesia moderata nell’età della restaurazione e della monarchia orleanista, fu sostenitore dei valori spiritualisti fondati sull’introspezione, fece dell’eclettismo un metodo, un’applicazione (che Cousin sostenne anche sulla base di una determinata concezione della storia della filosofia) in modo da conservare ciò che hanno di valido le opposte e diverse istanze teoretiche (dalla ➔ Scuola scozzese del senso comune,

Crisippo di Soli

all’idealismo di Hegel). Come rettore dell’università di Parigi e ministro della Pubblica istruzione, esercitò una notevole azione di promozione e stimolo culturale, promosse traduzioni (Platone, Proclo) e l’edizione di classici (Cartesio), e vari studi di storia della filosofia, campo che in Francia fu il primo a coltivare. Tra le sue opere maggiori sono da annoverare: Frammenti filosofici (1826), Corso di storia della filosofia (2 voll. 182829), Studi su Pascal (1842). Crisippo di Soli Filosofo greco (Cipro 280 ca. - Atene 204 ca. a.C.), una delle voci fondamentali dello stoicismo antico, come allievo di Cleante e suo successore a capo della scuola. Della sua vasta produzione rimangono quasi soltanto i titoli (la tradizione gliene attribuisce quasi 700) e pochi frammenti. Nell’antichità, e già in vita, la sua fama fu amplissima, e la sua opera nel contesto della storia dello stoicismo antico si caratterizzò soprattutto sul piano logico. Nell’opera Sui possibili e in molte altre mise a punto i fondamenti della logica stoica, che sarebbero rimasti canonici nello sviluppo successivo della scuola. Croce, Benedetto Filosofo, storico, critico letterario e uomo politico italiano (Pescasseroli 1866 - Napoli 1952), uno dei maggiori esponenti del neoidealismo. la vita. Nato da una ricca famiglia di proprietari terrieri, fece gli studi regolari a Napoli. Perduti i genitori durante il terremoto del 1883, si trasferì a Roma in casa del cugino Silvio Spaventa, che lo introdusse in un ambiente vivace, frequentato soprattutto da uomini politici. Dapprima dedito a studi eruditi, la sua vocazione filosofica fu risvegliata dalla lettura della Scienza nuova di Vico, che gli ispirò il primo saggio La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), dove il giovane Croce si riallacciava al pensiero di De Sanctis in polemica contro il positivismo. Per influsso di Labriola, si interessò e discusse il pensiero di Marx in Materialismo storico ed economia marxista (1900), mentre grande stimolo intellettuale gli proveniva dal rapporto con Gentile, con cui collaborò alla rivista La critica e alla stesura di un progetto di riforma scolastica, che però Croce, senatore dal 1910 e ministro nel 1920-21, non fece in tempo a far approvare e che fu poi realizzata dal Gentile nel 1923 con il proprio nome. Le vicende e le scelte politiche segnarono la rottura del sodalizio tra i due filosofi: dopo il delitto Matteotti, Croce assunse una posizione di

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Croce

rigorosa opposizione al fascismo (il cui avvento dimostrò essere estraneo all’orizzonte ideale e politico dell’Italia e dell’Europa in due opere storiografiche, Storia d’Europa nel secolo XIX e Storia d’Italia dal 1871 al 1915) che mantenne fino al 1945, quando si adoperò per la ricostruzione del partito liberale e fu membro della Costituente. Intanto fin dagli inizi del secolo aveva elaborato un sistema filosofico comprendente i vari aspetti della vita dello spirito, cui vennero dedicati altrettanti volumi (Estetica, 1902; Logica, 1905; Filosofia della pratica, 1909). Negli anni successivi e fino alla morte si dedicò allo sviluppo di questi aspetti del sistema in un numero impressionante di opere, da quelle di estetica (Problemi di estetica, 1910; Nuovi saggi di estetica, 1911; Breviario di estetica, 1912; La poesia, 1936) e di critica letteraria (tra cui Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 1911; Goethe, 1917; Ariosto, Shakespeare e Corneille, 1920; La poesia di Dante, 1921; Poesia popolare e poesia d’arte, 1933; Letture di poeti, 1950; Conversazioni critiche, 1951), a quelle di teoria storiografica (Teoria e storia della storiografia, 1917; La storia come pensiero e come azione, 1938), di studi su autori particolari (La filosofia di G.B. Vico, 1911; Saggio sullo Hegel, 1913), di ricerca storiografica (La rivoluzione napoletana del ’99, 1912; La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, 1917; Storia del Regno di Napoli, 1925; Storia dell’età barocca in Italia, 1929), alle raccolte di saggi (Il carattere della filosofia moderna, 1940; Discorsi di varia filosofia, 1945; Filosofia e storiografia, 1949; Storiografia e idealità morale,1950). il pensiero. L’idealismo di Croce vuole essere una revisione dell’hegelismo, di cui intende preservare “ciò che è vivo” rispetto a “ciò che è morto”. Hegel ha scoperto che oggetto della filosofia è il concetto (escludendo alcunché di immediato come intuito o sentimento), universale (non una semplice generalità), concreto (in quanto coglie il reale nella sua essenzialità e nella sua ricchezza), e che «la realtà è nesso di opposti, e non si sfascia e dissipa a cagione dell’opposizione: anzi si genera eternamente in essa e da essa». Ma la realtà che nella sua totalità è Spirito, non è fatta solo di opposti destinati a essere superati, bensì anche di distinti (che Hegel ha ignorato) irriducibili uno all’altro. La vera vita dello Spirito la si comprende cogliendo questo particolare legame di unità-distinzione, che significa reciproca implicazione nella differenziazione. Le forme (o categorie) dello Spirito si distinguono

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Croce

sia per il duplice dominio (teoretico e pratico) sia per la duplice valenza (particolare e universale). Ne risulta uno schema in cui abbiamo la conoscenza dell’individuale (arte) e dell’universale (logica), la volizione del particolare (economia) e dell’universale (etica). Altre forme sono escluse, essendo il diritto incluso nell’economia e la religione in un’area mista di poesia e moralità. Se la dialettica degli opposti vale all’interno di ogni categoria (dove vigono le opposizioni rispettivamente di bello-brutto, vero-falso, utile-dannoso, buono-cattivo), il dinamismo interno dello Spirito prevede il passaggio dall’uno all’altro momento secondo un ritmo nello stesso tempo irreversibile (ogni forma presuppone la precedente – l’attività pratica presuppone quella teoretica, il concetto presuppone l’intuizione, la moralità presuppone l’efficacia tecnica, mentre quelle che precedono si possono pensare senza le seguenti – l’arte deve rimanere autonoma dalla conoscenza come l’economia può prescindere dalla morale) e circolare (in questo implicarsi-distinguendosi e viceversa sta la vichiana storia ideale eterna). Croce dedica a ciascuna categoria un’attenzione e uno sviluppo particolare, mentre alla considerazione complessiva dello Spirito sono consacrate Teoria e storia della storiografia e La storia come pensiero e come azione. L’estetica è certo la parte più conosciuta e di larga risonanza del pensiero di Croce, secondo cui l’arte o produzione fantastica costituisce la forma aurorale dello Spirito e possiede una totale autonomia rispetto a ogni altra attività umana. Essa è conoscenza intuitiva (ogni altro elemento è in essa sussunto come parte integrante) di un contenuto che ha sempre carattere individuale, ed è sempre a un tempo anche espressio-

Neoidealismo

Croce

ne (intuizione ed espressione coincidono in modo spontaneo e immediato: «l’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime», dando luogo a una sorta di linguistica generale dove il linguaggio è, in quanto espressione, anche creazione estetica): perciò appartiene a tutti gli uomini (la differenza tra uomo comune e artista non è di qualità ma solo di quantità, altrimenti quest’ultimo non potrebbe essere inteso). A sua volta l’intuizione è caratterizzata dal sentimento, da cui l’arte può sorgere conferendole l’aerea leggerezza del simbolo: ciò comporta che l’arte è essenzialmente lirica, disinteressata e autosufficiente, poiché liricità sono il sentimento e l’intuizione. D’altra parte l’identità di intuizione ed espressione si traduce nell’unione inscindibile di contenuto e forma (vera e propria sintesi a priori estetica). Perciò «in ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioiendo». Peraltro, come non esiste bellezza fisica ma solo per l’attività dello spirito, così non bisogna confondere l’espressione con la sua estrinsecazione: le tecniche artistiche non appartengono all’attività estetica ma a quella pratica. Dal canto suo, la Logica ha come oggetto la struttura generale dello Spirito, cioè è “scienza del concetto puro” inteso come universale concreto. Questi due caratteri, che nel vero concetto sono una cosa sola, si scindono invece negli pseudoconcetti, dove vi può essere l’uno senza l’altro, dato che sono solo finzioni con esclusiva finalità pratica. Di tal natura sono i concetti scientifici (sia quelli empirici delle scienze naturali,

Rinascita dell’idealismo tedesco tra XIX e XX secolo B. SPAVENTA (1817-1883) Napoli F. DE SANCTIS (1817-1883) Napoli IN ITALIA

A. VERA (1813-1885) Napoli G. GENTILE (1875-1944) Roma B. CROCE (1866-1952) Napoli

IN INGHILTERRA

F. BRADLEY (1846-1924) Oxford

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sia quelli astratti delle matematiche), che rispondono a un’esigenza di sola economicità, di mera utilità. Circa la molteplicità dei concetti, Croce ammette solo la distinzione tra le quattro forme dell’attività spirituale, dove la distinzione è anche unità: sicché il concetto ricopre l’intera filosofia dello Spirito pensando tutte le distinzioni che le sono proprie. Affinché il concetto sia unità nella distinzione, è necessario che non abbia altro cominciamento se non da se stesso: il concetto si scinde in due opposti solo quando è preso astrattamente, mentre in concreto è sempre unità degli opposti. Dunque ognuno dei distinti risolve in sé l’opposto, il negativo astratto, ma non il diverso, l’altro distinto che anzi si concreta proprio distinguendosi dal primo. In questo modo Croce cerca di risolvere il problema del male: esso non esiste come opposto al bene, mentre esiste concretamente come distinto, come altro. In tal modo la sua natura è buona in quanto esiste come distinto, mentre diventa male quando si pretende, con un atto pratico particolare (l’errore non è teoretico, ma un atto pratico accompagnato da un’affermazione logica), che sia altro da quello che è (un’azione non ha altro valore da quello che ha). Il concetto si esprime nel linguaggio (pensare è parlare: la chiarezza dell’espressione rispecchia quella del pensiero), e precisamente nel giudizio definitorio che realizza l’unità del soggetto con il predicato, dell’esistenza con l’essenza. L’espressione non può essere considerata a parte del contenuto espresso, donde l’impossibilità della logica formale. Dal giudizio definitorio non è sostanzialmente diverso quello individuale (percezione di ciò che è: è in esso che si conosce e si possiede il mondo) e quello storico (memorativo di ciò che è stato): ne deriva l’identità di filosofia (pensiero logico) e storia, dato che la storia non può essere che conoscenza filosofica del reale, e la filosofia non può nascere che storicamente ed essere storicamente condizionata e coltivata. La filosofia della pratica è indagine logica dell’attività economica ed etica, avendo come oggetto la volontà, sia del particolare (economia) sia del generale (etica). La volontà stessa è un atto pratico (agire è volere), da cui non si può distinguere un’intenzione non tradotta in atto, poiché l’intenzione si realizza solo agendo. L’atto pratico è libero ogni volta che «ci sia stata veramente volizione», non quando l’azione sia stata arbitraria. La libertà è il bene, mentre il suo contrario, se preso fuori dalla sua unità con esso, è un’astrazione.

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«Attività economica è quella che vuole e attua ciò che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova [...] si fonda il giudizio circa la maggiore o minore coerenza dell’azione per sé presa»: perciò sotto questa categoria Croce ingloba non solo tutte le attività umane rivolte al successo pratico e all’efficacia tecnica, come il diritto, la politica (Croce insiste a questo proposito sull’amoralità della politica, cioè dell’economia, per via «dell’anteriorità della politica alla morale») e la vita stessa dello Stato (che perciò non ha statura etica), ma anche (in sintonia con le correnti del pragmatismo) le scienze particolari sperimentali e deduttive, in cui vigono semplici generalizzazioni o pseudoconcetti. L’etica è invece volizione dell’universale, che è lo stesso Spirito, «realtà in quanto è veramente reale come unità di pensiero e volere» e dunque vita e libertà. Perciò l’uomo morale, nel momento in cui si nega e si supera come individuo, serve Dio. Se il giudizio filosofico si identifica con quello storico, allora la storia è l’unica realtà e il conoscere storico è l’unico dotato di validità teoretica. Poiché noi operiamo il giudizio storico per un bisogno pratico, per rispondere ai bisogni della situazione presente, ciò significa che, qualunque sia l’età o l’epoca a cui ci si riferisce, la storia è sempre attuale e contemporanea, storia che rivive in noi e si attua nel presente dello Spirito. In questo senso Croce contrappone la storia alla cronaca così come ciò che è vivo si contrappone al suo cadavere (la cronaca segue la storia come mera raccolta erudita di dati a scopo utilitaristico e pratico). Come filosofia in atto, la storia è sempre storia dell’universale (ma non una storia universale) quale storia dell’universalità concreta e individuale del concetto. Pertanto quello crociano si presenta come storicismo assoluto, che rifiuta la filosofia della storia nella misura in cui questa vorrebbe cogliere nella storia un significato trascendente. Tutti i fatti sono storici, mentre le diverse attività dello spirito sono dalla storia distinte ma mai separate (sicché la storia è sempre generale e particolare insieme). La storia e il giudizio storico sono necessari, nel senso che colgono una realtà immanente: il “se” storico è ridicolo, perché suppone l’impotenza dello Spirito e nega l’intimo nesso logico e razionale dell’universale concreto. Ma neppure ha senso il giudizio di valore, giacché lode e biasimo toccano agli individui nel momento in cui agiscono, ma non agli eventi una volta che siano accaduti: il

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tribunale della storia può solo conoscere e comprendere ciò che è stato, al di là e al di sopra delle parti, degli interessi e delle passioni particolari. Ciò non significa che si debba concludere in un costante atteggiamento giustificatorio e di accettazione passiva: di fronte agli avvenimenti in atto bisogna agire, e l’azione (res gestae) è stimolata dalla conoscenza (historia rerum gestarum), così come questa è motivata da quella secondo un perfetto e perenne movimento circolare che ribadisce anche in questa sede la distinzione tra teoria e pratica. La storia è storia della libertà, cioè della sua eterna azione formatrice: essa è la vita dello Spirito che attraverso contrasti e opposizioni costruisce se stesso. Crusius, Christian August Filosofo tedesco (Merseburg 1715 - Lipsia 1775). Di orientamento razionalista (per lui la filosofia era lo studio delle verità razionali il cui oggetto permane immutabile), sostenne, contro Leibniz e Wolff, un criterio di verità non esclusivamente formale, ma capace di risalire per via analitica ai presupposti fondanti a partire dai concetti delle scienze particolari e dai dati provenienti dai nostri sensi (egli delinea così quella spiegazione della correlazione tra esperienza e pensiero che verrà sviluppata da ➔ Kant). Per Crusius tuttavia il fondamento di ogni certezza obiettiva è la ragione divina, di cui quella umana è l’immagine. Egli sostenne pure l’immortalità dell’anima (dimostrata con la tendenza a un’eterna durata presente in essa) e la libertà d’indifferenza della volontà, stimolata ma non necessitata dagli impulsi. La sua principale opera è Schema delle verità di ragione necessarie, e il modo in cui si contrappongono a quelle contingenti (1745). Cusano, Nicola Matematico, filosofo e teologo tedesco (Cues 1401 - Todi 1464). la vita. Nato nel villaggio di Cues, vicino a Treviri (da cui la denominazione “Cusano”), da povera famiglia di battellieri della Mosella. Per benevolo interessamento di un nobile signore, potè compiere gli studi di diritto (ad Heidelberg e a Padova, dove si addottorò nel 1423) e di teologia (a Costanza). Partecipò al concilio di Basilea, dove sostenne, nel De concordantia catholica, una posizione mediana tra i sostenitori della supremazia del concilio e quelli del papa (da un lato viene riconosciuta la supremazia papale perché nessun concilio può essere valido senza la sua presenza o quella di un suo delegato; l’infallibilità però appar-

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tiene al concilio, delle cui decisioni il papa deve farsi fedele esecutore), nonché l’unità della Chiesa e delle confessioni cristiane. Fece parte dell’ambasceria inviata a Costantinopoli da Eugenio IV per preparare il concilio di Firenze del 1439 che avrebbe provvisoriamente stabilito l’unità della Chiesa latina con quella greca, scrivendo in questo periodo i due trattati De docta ignorantia e De coniecturis. Nominato cardinale nel 1449, fu mandato come visitatore apostolico in Germania, Paesi Bassi, Boemia, svolgendo il suo compito con fermezza e rigore. Eletto successivamente vescovo di Bressanone, dovette difendere contro l’invadenza del conte del Tirolo i territori concessi per antica consuetudine alla diocesi. Malgrado i numerosi impegni legati alle sue funzioni, continuò a pensare e a scrivere opere come De quaerendo Deum, De filiatione Dei, De idiota, De pace fidei (in occasione della caduta di Costantinopoli per mano dei turchi), De visione Dei. Tornato a Roma, fu preposto alla basilica di San Pietro in Vincoli, dove esercitò la sua funzione pastorale (ma continuava a essere di diritto vescovo di Bressanone) e si dedicò alla composizione delle sue ultime opere: De possest, De non aliud, De venatione sapientiae, De ludo globi, De apice theoriae. Di lui restano anche molte prediche e lettere, nonché trattati scientifici quali De geometricis transmutationibus, De calculi quadratura, De mathematicis complementis, De mathemathica perfectione. Morì a Todi mentre era in viaggio per raggiungere ad Ancona Pio II, che organizzava una crociata per riconquistare Costantinopoli. Per sua volontà fu fondato un ospedale nella cittadina natale alla cui biblioteca furono donati tutti i suoi libri. il pensiero. La filosofia di Cusano si presenta come una grandiosa sintesi in cui convivono in unità di ispirazione non solo diverse tradizioni di pensiero del passato ma anche le esigenze e le inquietudini del presente. Senza dubbio la matrice primaria della sua riflessione fu il neoplatonismo antico (Proclo, Sant’Agostino, Dionigi Areopagita) e medievale (Scoto Eriugena, gli autori della Scuola di Chartres, Avicebron, San Bonaventura, Meister Eckhart, Suso), ma egli conobbe anche l’aristotelismo (Alberto Magno, San Tommaso) di cui utilizzò numerosi e preziosi apporti. Inoltre, se il suo orientamento speculativo fu di impronta nettamente religiosa e mistica, è pur vero che non abdicò mai alla razionalità tanto da risultare denso di spunti e di profonde intuizioni scientifiche. È merito dello storico

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della filosofia ➔ Cassirer aver tolto all’oblio questo autore presentandolo come la soglia dell’età moderna: vissuto in un’età di crisi del principio di autorità (religiosa e civile, divina e umana, papale e imperiale), pilastro della civiltà medievale, Cusano cercò di armonizzare i principi del passato con le aspirazioni della cultura umanistica, da lui interpretata non solo in senso estetico-letterario ma come valorizzazione dell’uomo e della natura, in una prospettiva che proponeva una nuova sintesi di ragione e rivelazione. Il suo indirizzo teoretico era delineato già nel titolo della sua prima e fondamentale opera filosofica: l’espressione “dotta ignoranza” (da lui reperita in Agostino e Bonaventura) si trasformava in principio metodico e programmatico, indicando la consapevolezza, insieme socratica e cristiana, dei limiti della ragione umana nella ricerca di Dio come verità somma, Uno e Tutto. Di fronte a questo limite la ragione, pur essendo strumento autorevole e irrinunciabile, appare insufficiente, anche se Cusano conferisce al tema classico della teologia negativa una curvatura nuova, insistendo maggiormente sull’infinita ricerca e approssimazione all’assoluto. Quando la ragione, che è facoltà discorsiva e relazionale, si rivolge alla conoscenza degli enti finiti procede, per comparazione e misura, lungo una linea di sviluppo indefinita; ma quando cerca di estendere il suo sapere e i suoi metodi a Dio, si rende conto che egli è al di là di ogni possibilità di comprensione, che non può essere afferrato da nessun concetto o stretto in nessuna dimostrazione. Cusano però non si limita a proclamare lo sprofondamento della mente nella “nube della non conoscenza” e a dire ciò che Dio non è: per contro, si perviene alla consapevolezza dell’ignoranza con l’arricchirsi della conoscenza, all’irraggiungibilità della meta con il procedere del cammino conoscitivo, all’oscuro fondamento del Tutto attraverso la lente (il “berillo” di cui si parla in un’opera omonima) di una logica che usa i principi di ragione per andare oltre essi. Quando vuole spiegare la sua dotta ignoranza, ricorre ad analogie matematiche (come questa: preso un poligono inscritto in un cerchio, possiamo aumentare i lati del primo all’infinito ma il perimetro non si sovrapporrà mai alla circonferenza) per mostrare come essa non vanifichi il sapere e non induca ad atteggiamenti scettici (il desiderio di sapere è naturale e proprio dell’essenza umana), ma semplicemente ne determini i limiti negan-

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done l’assolutezza e venendo così a stabilire la demarcazione e la possibilità di passaggio tra il piano scientifico e quello teologico-metafisico. Cusano procede sempre su due piani: quello mistico-negativo (apofatico) e quello positivo (catafatico): se ogni ricerca è comparativa (paragoniamo l’ignoto al noto), allora la conoscenza, l’intero sistema della filosofia è fatto di congetture, immagini, simboli che ci avvicinano per approssimazione all’infinitamente-altro che ci sfugge e ci resta completamente ignoto. I due piani si intersecano ma non si confondono: la nostra realtà, sia mondana che conoscitiva, è piuttosto in-definita, mentre Dio nella sua ineffabile trascendenza è infinito in atto, perfetta unità senza limite alcuno. Ciò significa che nel mondo della finitezza e dei distinti possono valere i principi di ragione (come quello di non contraddizione: infatti le opposizioni in quanto si escludono sono causa di tutte le distinzioni), i quali però non sono applicabili a Dio in cui vige piuttosto la coincidentia oppositorum. Per questa via e da queste premesse Cusano perviene a un’originale concezione dei rapporti tra Dio e mondo: nell’infinita e perfetta unità tutto il molteplice è compreso (Dio è complicatio mundi), così come, inversamente, il mondo manifesta distesamente (explicatio Dei) ciò che in Dio era contratto. Il molteplice rimanda all’unità come alla sua origine e alla sua causa (infatti l’alterità non si comprende se non per l’unità di cui è alterità); tra finito e infinito, pur non essendoci proporzione alcuna che il potere discorsivo della ragione sappia sondare, è stabilita una profonda compenetrazione metafisica che consente una partecipazione reciproca. Infatti, se da un lato Dio si diffonde in modo da restare se stesso e in se stesso pur partecipandosi a ciò che è altro da sé, dall’altro il mondo risulta immagine e imitazione dell’essere divino. Questo tema prettamente umanistico reca con sé la conseguenza del rifiuto della cosmologia aristotelica nelle sue tesi fondamentali, sia in riferimento alla finitezza spaziale (se il mondo è explicatio Dei non può essere che infinito) sia in riferimento all’unico centro occupato dalla Terra (non vi è centro e circonferenza nell’infinito), alla sua figura (che non può essere del tutto sferica), alla forma delle orbite planetarie (che non possono essere esattamente circolari). Anche se in tali affermazioni si sono viste anticipazioni della teoria copernicana, bisogna però evidenziare che Cusano non vuole essere né astronomo né fisico e che la sua

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unica preoccupazione è quella di inserire la scienza dentro un quadro metafisico che certifichi i caratteri delle sue conclusioni e stabilisca i limiti del suo sapere. Poiché la dotta ignoranza ci ha resi consapevoli che la natura del nostro conoscere, muovendosi nell’ambito del relativo e del finito, è sempre congetturale e fallibile, allora è lecito mettere in discussione e rifiutare una teoria che intende presentarsi, senza adeguato fondamento, con i crismi della certezza e dell’esattezza. Date queste premesse si può dire che in tutti i suoi opuscoli Cusano abbia riproposto la stessa dottrina, solo esponendola con strumenti linguistici e concettuali diversi. In un’opera della vecchiaia, De venatione sapientiae, facendo un bilancio del suo itinerario speculativo, egli esamina i campi in cui avviene la caccia alla sapienza. Se si tiene conto che per campo si deve intendere l’ambito della sapienza reso accessibile da un particolare concetto, allora essi si possono indicare nel numero di dieci, corrispondenti ad altrettanti scritti. Oltre alla dotta ignoranza vi sono: — luce: nel De quaerendo Deum e nel De dato patris luminum è presente una metafisica della luce di origine dionisiana sia sotto l’aspetto di un movimento gnoseologico ascensivo dai sensi all’intelletto sia sotto l’aspetto di un moto discensivo, di una teofania, da Dio bene e padre dei lumi alla sua irradiazione e partecipazione a tutti i gradi dell’essere; — unità e non altro. Nel De non aliud e nel De genesi si usano le categorie dell’idem e dell’aliud per esprimere il rapporto tra Dio e mondo, nel senso che se Dio è l’essere come identità assoluta, il mondo è alterità assoluta o nulla. Poiché l’identità non può essere se non in rapporto a sé ed è immoltiplicabile, la creazione di un mondo altro dall’identità si configurerà come un’assimilazione dell’alterità nell’identità, essendo

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ogni ente un misto di essere e non essere, di identico e di altro, e in quanto tale similitudine dell’identità divina; — uguaglianza, termine, ordine. Per un verso il De visione Dei e il De beryllo tentano, rispettivamente con il linguaggio mistico e con quello della matematica, di esprimere l’essenza di Dio come unità suprema e coincidenza degli opposti e di qui di misurare i termini e le deficienze delle nostre espressioni concettuali; da un’altra ottica il De idiota, trattando da una prospettiva gnoseologico-psicologica il tema della mente, della sua sapienza, delle sue ricerche sperimentali, ribadisce che essa è immagine di Dio e che la sapienza umana è solo pregustazione di quella divina: si parte dal concetto di misura quale atto della ragione per concludere che l’unità di misura trascende ogni misurazione rendendoci consapevoli, insieme al fatto che in questo mondo la precisione non è mai possibile, dei limiti del nostro sapere; — possest: nel De possest e nel De apice theoriae viene ripresa la terminologia aristotelica di potenza e atto, ripensata sotto le nuove denominazioni concettuali di possest e posse; poiché nel mondo tutto ciò che è in atto è possibile che sia, deve esistere l’attualità assoluta che spiega questo passaggio: il nome di Dio è possest, cioè posse più est, in quanto indica che l’assoluta possibilità è in atto, che Dio è in atto tutto ciò che può essere; ma più adeguatamente è posse, perché con esso, attraverso una forte accentuazione del carattere attivo e creativo, si designa l’unità divina che è al di sopra della stessa coincidenza di potenza e atto. C’è infine da segnalare come il concetto di dotta ignoranza conduca il Cusano (in scritti come il De pace fidei, De Deo abscondito, Cribratio Archorani) a un atteggiamento di tolleranza e di dialogo nei confronti della diversità del pensiero religioso, secondo il principio “una religio in rituum varietate”.

D Dahrendorf, Ralf Filosofo e sociologo tedesco (Amburgo 1929 - Colonia 2009), insegna e vive in Inghilterra, Paese di cui ha preso anche la cittadinanza. In Classi e conflitto di classe nella società industriale (1959) ha analizzato questo conflitto in una prospettiva non marxista, riconducendolo alla condizione di disuguaglianza di potere (non di proprietà dei mezzi di produzione) presente nelle nostre strutture sociali e considerandolo un fattore positivo di dinamismo e di sviluppo (dunque non da eliminare o condannare), a patto che sia incanalato entro l’alveo istituzionale. In tutta la sua produzione successiva, Dahrendorf si è proposto come uno dei maggiori esponenti del liberalismo contemporaneo, di cui però ha cercato di rivedere i pilastri teorici fondamentali, al fine di renderli coerenti con le nuove condizioni storiche del mondo moderno. In particolare ha insistito sulla necessità di ripensare il concetto centrale di libertà in relazione a quello di contratto sociale come insieme di regole convenzionalmente stabilite per il raggiungimento di finalità comuni (secondo Dahrendorf si tratta infatti sempre di assicurare il maggior ventaglio possibile di opportunità di vita per tutti), mentre devono essere riviste le forme e le modalità di realizzazione. In opposizione al neoliberalismo, egli sostiene dunque l’impegno a governare le trasformazioni in atto (si pensi a quelle dopo il crollo del sistema sovietico), tenendo sempre presente la libertà come idea regolativa, ma da incarnare in un presente che, facendo emergere esigenze e bisogni nuovi, impone il dovere di trovare, senza dogmatismi o pregiudiziali ideologiche (questo è il vero spirito del liberalismo), nuove vie per la loro soddisfazione. Darwin, Charles Naturalista inglese (Ahrewsbury 1809 - Down 1882), padre della moderna teoria dell’evoluzione delle specie. Dopo aver studiato biologia e geologia, dal 1831 al 1836 compì un viaggio lungo le coste dell’America del Sud e nell’oceano indiano. Nel corso di questo viaggio Darwin raccolse molto materiale documentario, che elaborò negli anni successivi fino alla pubblicazione nel 1859 dell’Origine delle specie attraver-

so la selezione naturale, dove diede forma sistematica alla teoria del trasformismo biologico (già formulata da ➔ Lamarck – che però aveva cercato nelle sole condizioni ambientali la spiegazione delle deviazioni biologiche dal corso della natura – e da Lyell). Egli partì dall’idea che le specie sono soggette a un lento mutamento, suggeritagli, oltre che dalle sue osservazioni durante il viaggio sul Beagle (in particolare la grande variabilità della flora e della fauna nelle isole Galàpagos), dallo studio della selezione praticata dagli allevatori sugli animali domestici per ottenere tipi utili all’uomo: questa è possibile in quanto nelle specie animali si ha una moltitudine di variazioni accidentali che l’allevatore può sfruttare a proprio vantaggio, pur ignorandone la causa. Secondo Darwin la natura si comportebbe in modo analogo nel produrre le specie: la selezione naturale provoca, con l’accumularsi delle variazioni generazione dopo generazione, mutamenti nello sviluppo delle specie viventi (l’illusione della loro fissità è data dalla lentezza delle trasformazioni, che sono confermate dalla geologia e dalla paleontologia). Inoltre, estendendo al mondo animale la legge di ➔ Malthus secondo cui i mezzi di sussistenza crescono meno rapidamente del numero degli individui, Darwin ammise una lotta per l’esistenza che giustificherebbe il modo della selezione in rapporto alle variazioni casuali degli organi (di conseguenza, ammettendo il caso come azione meccanica delle circostanze e del tempo, è escluso il finalismo immanente o soprannaturale nei fenomeni biologici): sopravvivono gli animali le cui variazioni risultano vantaggiose (sopravvivenza del più forte), mentre, in casi estremi, si organizzano nuove specie caratterizzate da nuovi mezzi di adattamento i cui caratteri, liberamente insorti e selezionati dall’ambiente, divengono ereditari. Con La discendenza dell’uomo (1871), Darwin sostenne che anche la specie umana è il risultato evolutivo da specie inferiori, mentre lo sviluppo intellettuale e linguistico, e anche le facoltà morali e le disposizioni religiose sono da intendersi come variazioni biologiche, che si conservano

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in funzione della loro utilità in base all’accumularsi degli effetti in lunghi periodi di tempo. Aldilà degli aspetti puramente scientifici, la teoria darwiniana (al pari di quella copernicana e di quella newtoniana) ha esercitato una grande influenza in ambito filosofico, sociologico, psicologico ecc., e ha comunque contribuito al costituirsi della moderna concezione della realtà. Davidson, Donald Filosofo statunitense (Springfield 1917 - Berkeley 2003), professore di filosofia a Berkeley (California). Autore di saggi raccolti in vari volumi (Azione ed eventi, 1980; Verità e interpretazione, 1984; Soggettività, intersoggettività, oggettività, 2001), ha concentrato i suoi interessi attorno a due poli tematici (e ai concetti a essi riferiti): il linguaggio e la mente. Per quanto riguarda il primo, pur condividendo le posizioni del maestro ➔ Quine circa l’impossibilità di una traduzione, egli ritiene necessario cercare una teoria semantica dell’interpretazione che, dovendo fornire la dotazione complessiva dei concetti linguistici e mentali idonei a spiegare il fenomeno della comunicazione, si presenti come “teoria dell’interpretazione radicale”. Ma dal momento che si comprendono i significati di una lingua (la si interpreta) quando si conoscono le condizioni di verità dei suoi enunciati, è conseguentemente chiaro che si devono identificare con queste ultime le condizioni di cui un interprete deve essere in possesso per praticare una lingua inizialmente sconosciuta. Spiegare quando un enunciato è vero è dunque la stessa cosa che spiegarne il significato: quindi, se noi presupponiamo il concetto di verità e accettiamo il principio quiniano di carità (per cui diamo credito al nostro interlocutore di pronunciare il massimo di proposizioni vere), potremo istituire, sulla base di una relazione positiva tra parlante e interprete, quella condizione di traduzione tra espressioni del linguaggio oggetto (quello di cui si cerca il significato) e quelle condizioni del metalinguaggio (quelle in cui si cerca di esplicitarlo). Questa prospettiva semantica si fonda a sua volta su due condizioni: quella dell’olismo semantico, per cui non ha senso parlare di verità per una singola proposizione ma per un intero complesso di credenze, e quella empirica, per cui è il comportamento dei comunicanti a confermare o smentire l’interpretazione di un enunciato. Davidson affronta la questione semantica (lo studio delle condi-

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zioni di verità) da un punto di vista pragmatico, poiché nel linguaggio naturale gli enunciati operano in maniera e con finalità diverse: ne deriva una visione relativistica nella misura in cui bisogna riferire la verità di un enunciato alle circostanze della sua enunciazione. Inoltre, ostile a ogni forma di dualismo cartesiano o solipsismo, egli ritiene che il pensiero e il linguaggio (unitamente ai fenomeni della comunicazione e dell’interpretazione) si generino sul terreno di un’intersoggettività originaria in cui uno cerchi di fornire di senso il pensiero dell’altro. Per raggiungere questa finalità i parlanti devono procedere a un adattamento reciproco dei propri comportamenti linguistici, in un continuo gioco di formazione e revisione di teorie interpretative, senza la possibilità di pervenire a una teoria definitiva della comunicazione. Come filosofo della mente Davidson si è fatto sostenitore di un “monismo anomalo”, cioè di una concezione in cui si cerca di dimostrare, entro un quadro monistico-fisicalista (senza cioè riconoscere alcun tipo di dualismo di sostanze tra fisico e mentale), che le leggi degli eventi mentali hanno un loro proprio livello di esistenza autonomo rispetto a quello delle leggi fisiche, in quanto essi hanno efficacia causale nel determinare credenze e comportamenti pur non lasciandosi «catturare nella rete nomologica della teoria fisica». Le azioni sono certo causate dalle loro motivazioni (o ragioni), ma ciò non significa che si debba confondere la loro spiegazione psicologica con quella causale delle scienze naturali. Il mentale costituirebbe un’anomalia nel senso che non ci sono leggi deterministiche sulla base delle quali spiegare e prevedere gli eventi mentali: dunque non essendoci leggi dell’agire, si può impiegare la nozione di causalità per spiegare il comportamento umano senza comprometterne la libertà. La vita della mente è regolata da principi razionali che non sono applicabili alla natura, per cui, nello spiegare la sua dinamica interna, dobbiamo evitare tanto una correlazione psicofisica stretta quanto l’individuazione di leggi psicologiche simili a quelle della fisica. Deleuze, Gilles Filosofo francese (Parigi 1925-1995), professore a Parigi. Perseguendo un programma di liberazione del pensiero da tutti gli impedimenti logico-linguistici che, bloccando il movimento dei concetti, non consentono l’emancipazione dei corpi, Deleuze si è proposto di continuare il pro-

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gramma nietzscheano di “rovesciamento del platonismo”, quale forma speculativa tipica dell’Occidente: presupponendo il pensiero alla realtà, esso ha inteso il conoscere come rappresentazione nel momento stesso in cui ha contrapposto lo spirito alla materia. Da questa prospettiva “differenza e ripetizione” (questo il titolo della sua opera fondamentale del 1968) risultano le strutture entro cui si è coagulata la concezione occidentale dell’essere (ciò che è può ripetersi, pur con differenze debitamente registrabili, e quindi può essere concettualizzato): perciò Deleuze ha mirato a individuare un pensare al di fuori della generalità, del combinarsi normativo di differenza e ripetizione, cercando (come hanno fatto gli artisti contemporanei, per esempio Francis Bacon) “nuovi modi di vivere e pensare” alternativi a quelli finora perseguiti. Si tratterebbe di violare il principio dialettico della negatività della differenza (che viene così sottoposta al dominio dell’identità e perciò neutralizzata), di sfuggire alle maglie della metafisica classica che dissolve le differenze nelle leggi e nei principi universali per pensarle in sé quali individualità libere e sconnesse, non sottoposte alla tirannia normativa della ragione rappresentativa. Decisiva quindi l’eliminazione della differenza per antonomasia, quella tra materia e spirito (da cui conseguono quelle di Dio-creature, realtà-apparenza, essere-non essere ecc.) in vista di una concezione del reale come infinita pluralità di differenze tra loro irriducibili, come molteplicità di piani (come già era in Leibniz, cui è dedicato uno studio magistrale) privi del riferimento ultimo alla soggettività quale fondamento unificante (progetto perseguito cercando di rintracciare tale possibilità in ➔ Spinoza, ➔ Hume e ➔ Kant – cui sono dedicati altrettanti saggi – e valorizzando l’univocità dell’essere di ➔ Duns Scoto). Deleuze ha sostenuto questa prospettiva all’interno di una metafisica vitalistica (le cui radici stanno in ➔ Nietzsche e ➔ Bergson, autori molto amati e studiati da Deleuze) che vuole essere sostenitrice di un pensiero affermativo, creativo di nuovi valori (la filosofia non è critica o riflessione, ma “arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti”, non metodo ma techne), dalle chiare finalità di emancipazione sia politica sia culturale. Sotto quest’ultimo aspetto, Deleuze si è impegnato (insieme con lo psichiatra Felix Guattari) a rivedere in modo radicale l’opposto della ragione classica, la non-ragione, la malattia mentale: in particolare la schizofrenia, che si presenta come

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modo di vedere la realtà non riconducibile alla centralità del soggetto e del suo sistema categoriale e quindi non spiegabile sulla base dello schema edipico (cui la psicanalisi, specie lacaniana, riporta ogni evento patogenetico) generante il conflitto tra desiderio e difesa. Nell’Anti-Edipo (1972) Deleuze vede nello schizofrenico colui che crea una logica alternativa a quella dialettica della famiglia e quindi lo considera positivamente come simbolo del movimento di emancipazione: invece di curarlo (al fine di riassorbirlo alla vecchia logica edipica) bisogna assecondarlo (Deleuze parla a questo proposito di schizoanalisi) dando luogo a una metafisica schizofrenica che prepari la strada a una visione della realtà pluralistica e creativa. Del Noce, Augusto Filosofo italiano (Pistoia 1910 - Roma 1989) di ispirazione cattolica. Formatosi a Torino in ambiente laico e antifascista, fu professore a Trieste e Roma. Influenzato dal pensiero cristiano francese (fondamentale fu la lettura di ➔ Maritain), vide nel cattolicesimo ortodosso il sostegno per quei valori di libertà e dignità della persona che potevano costituire un punto d’incontro con lo spirito liberale. Venuto in contatto con il gruppo dei cattolici comunisti, se ne distaccò vedendo nel marxismo un’intrinseca base atea che nega, nella sua antropologia, sia la dottrina del peccato originale sia quella della costitutiva finitezza e creaturalità dell’uomo. Perciò tra il 1967 e il 1974 interpretò la contestazione giovanile non con le categorie della lotta di classe, ma con il profondo disagio culturale che investe i giovani di fronte a una cultura incapace di indicare un autentico senso dell’esistenza. In L’epoca della secolarizzazione (1970) Del Noce fa una diagnosi radicalmente impietosa di questo fenomeno che costituisce la vera essenza dell’età moderna: fascismo, nazismo, comunismo, società opulenta rappresentano diverse (ma nel fondo equivalenti) versioni della secolarizzazione e dell’ateismo che si fondano sull’idea dell’autoredenzione da parte dell’uomo, con il conseguente rifiuto della salvezza di Dio, di cui egli non ha bisogno per trascendersi e riscattarsi. Nel libro del 1971 Tramonto o eclissi dei valori tradizionali (scritto con Ugo Spirito) queste tesi vengono riprese e approfondite: il comunismo è fallito, perché il progetto immanentistico di autocreazione e autorealizzazione manca di un solido fondamento. Di qui quel vuoto e quel senso di smarri-

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mento che sono il segno della contingenza umana, dell’impossibilità della creatura di ergersi a unico attore della Storia: le attuali insuperabili contraddizioni, le crisi insanabili possono però indurre a riscoprire le tradizionali verità eterne del cristianesimo, da sempre professate e insegnate dalla Chiesa. Da questo punto di vista si possono comprendere le scelte pratiche di Del Noce (dalle polemiche ai tempi dei referendum sul divorzio e l’aborto, alla vicinanza alle posizioni di Comunione e Liberazione, dal rifiuto del compromesso storico a quello dell’eurocomunismo), schierato su posizioni ostili a tutto ciò che emerge dal mondo moderno secolarizzato, nichilista e laicista. Come filosofo Del Noce ha inteso l’ateismo attuale come l’estrema espressione del razionalismo, che rifiuta in modo pregiudiziale il soprannaturale e il peccato. Cartesio sta certamente alle origini di un processo che, sviluppando certe premesse, culmina con Hegel, Marx, Nietzsche. In Il problema dell’ateismo (1964) egli scorge in esso un’opzione di fondo (ma arbitraria, e dunque dogmatica) in favore di un immanentismo chiuso nella propria autosufficienza, orgoglioso dei propri successi tecnici nella lotta per il dominio della natura, intollerante verso la proposta di una verità assoluta e definitiva. Tuttavia egli ha scorto anche nell’epoca moderna una diversa linea di pensiero che pur partendo da Cartesio, attraverso Malebranche e Vico, è giunta fino a Gioberti e Rosmini: si tratta dell’ontologismo, che si propone come valido contrasto alla dilagante secolarizzazione in quanto consente di recuperare la ricchezza teorica e la profondità tematica del pensiero cristiano. Tale posizione è estremamente attuale nell’epoca dei totalitarismi per la capacità di pensare il problema del male in riferimento al reale statuto ontologico dell’uomo. Ne Il suicidio della rivoluzione (1978) egli denuncia come etica, fede e metafisica vengano fagocitate da una politica che pretende di rifondare la natura umana purificandola da un male che non le è intrinseco, ma frutto della corrotta società borghese: se la meta della rivoluzione è la divinizzazione dell’umanità, l’instaurazione del “regno di Dio” su questa terra, allora ogni mezzo è giusto e legittimo. Perciò, giunta al potere, essa, che ha demolito ogni tradizione, deve riempire il vuoto che ha creato con l’asservimento e la manipolazione delle coscienze; ma in tal modo essa si condanna all’autodistruzione, doveva cambiare il mondo e ha distrutto se stessa. Con

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ciò il crollo dell’Unione Sovietica si presentava come un evento del tutto prevedibile per effetto di una logica interna. Democrito Filosofo greco (Abdera 460 ca.370 ca. a.C.), principale esponente della scuola atomistica. Discepolo di ➔ Leucippo, concittadino di ➔ Protagora, contemporaneo di ➔ Socrate e ➔ Ippocrate, viaggiò molto alimentando la vastità dei suoi interessi, che ci è attestata dal gran numero di opere su un ampio ventaglio di materie (dalla fisica alla matematica, all’etica, al linguaggio ecc.). Ci sono pervenuti molti frammenti ma nessuno di essi integrale: ➔ Cicerone ci testimonia della chiarezza e limpidezza dello stile, avvicinandolo a quello di ➔ Platone per le cadenze poetiche. Sul piano dottrinale, la sua posizione si differenzia da quella degli altri presocratici per l’assenza delle qualificazioni di unità e divinità attribuite alla natura, nonché per l’uso del metodo definitorio e dimostrativo, che intende “salvare i fenomeni” risalendo da questi alle loro cause, attraverso una metodologia che coniuga osservazione e ipotesi esplicative. Sotto questo aspetto sembra che ➔ Democrito avesse ben chiaro il tipo di nesso tra il discorso e conoscenza: intendendo il linguaggio (esaminato in se stesso e in termini formali, senza subordinarlo a una ontologia) come un insieme di segni convenzionali e quindi privo (al contrario di quanto sostenevano gli eleati) di rapporti necessari con l’oggetto designato, egli intese conciliare discorso vero e opinione. Perciò escluse sia la tesi parmenidea dell’alternativa secca tra le due vie, sia quella eraclitea della naturale giustezza del logos, e stabilì la distinzione tra una conoscenza oscura (coincidente con l’esperienza diretta derivata dai cinque sensi) e una genuina (derivante dal pensiero), che interviene a supplire alle deficienze della prima pervenendo con appositi procedimenti argomentativi alle “cose invisibili”. Di fronte alle difficoltà poste dall’eleatismo circa l’ammissibilità del moto e del molteplice, Democrito procedette al chiarimento delle proprietà intrinseche dell’essere, giungendo ad accettarne le qualifiche di unitarietà ed eternità e a rifiutarne quelle di singolarità e immobilità; al contempo, per rendere conto di quanto risulta all’esperienza, determinò che il non essere esiste (nel senso che è pensabile) al pari dell’essere, fissando l’identificazione essere = pieno e non essere = vuoto, ambedue reali e possibili se non nell’unico spazio, che a sua vol-

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ta non è né assoluto pieno né assoluto vuoto. La realtà è misto di questi due principi, a patto poi che il primo termine (la corporeità) non sia concepibile come divisibile all’infinito (in tal caso si ricadrebbe o nell’esclusione o nell’identificazione di pieno e vuoto). Democrito giunge a stabilire l’esistenza degli atomi proprio argomentando sull’assurdità di tale operazione: se si ammettesse l’infinita divisibilità della materia corporea (anche attraverso la riduzione dei corpi a punti matematici, come sostenevano i pitagorici), si perverrebbe alla fine alla situazione in cui «allora non resterà più nulla e il corporeo si dissolverà nell’incorporeo». Peraltro a sua volta la divisibilità esige che ciò che viene diviso lo sia già in atto, che quindi sia composto di parti in contatto tra loro e separate dal vuoto: ma se la materia non è continua, ciò che divide il corpo è una realtà altra dal corpo stesso, le cui parti ancora una volta non sono pensabili come scomponibili all’infinito, giacché il corpo è costituito o «di punti [...] o di nulla». Dunque è razionalmente necessario che vi siano particelle indivisibili (quali punti estremi di astrazione cui si può arrivare per la forma sensibile e, insieme con il vuoto, principi d’intelligibilità del concreto mondo empirico) o atomi, eterni, non percepibili dai sensi, infiniti di numero (come testimonia la diversità degli eventi e la pensabilità di infinite forme dell’essere), omogenei e dotati di alcune differenze oggettive fondamentali (in base alle quali si devono distinguere, a livello gnoseologico, le qualità soggettive – colori, odori ecc. – dipendenti dalle condizioni particolari del senziente): forma e grandezza considerati in se stessi (il peso risulta invece una conseguenza della relazione tra loro), ordine e posizione in rapporto agli altri atomi (per spiegare l’innumerevole varietà dei fenomeni). Essi sono anche dotati di un movimento spontaneo e originario per cui si spostano, in una pulsazione eterna, in tutte le direzioni di moto unico, in corrispondenza della loro unicità sostanziale e dell’uniformità dello spazio vuoto (la cosmogonia di Democrito comprendeva un volteggiare degli atomi nello spazio primordiale e un loro afflusso in una zona vuota dove avrebbero formato un vortice, determinante della loro separazione secondo la grandezza e dell’attrazione secondo la similitudine: si sarebbe in tal modo formato un cosmo sferico, circondato dal cielo che come una membrana lo mantiene unito permettendone i successivi assestamenti): così se essi sono ingene-

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rati e indistruttibili, gli oggetti sensibili sono soggetti al nascere e al perire quali aggregazione e disgregazione degli atomi loro componenti. Tutti i fenomeni e tutti i corpi sono così spiegati razionalmente mediante una causalità meccanica (materia, vuoto e movimento), priva di ogni intenzionalità e finalità; il che però non significa casualità o caoticità quale assenza di ogni norma o determinazione: al contrario «nulla si produce a caso ma tutto con una ragione e necessariamente». Coerentemente con i principi della fisica, in psicologia Democrito, che già aveva respinto la distinzione tra intelletto e sentire, non assegnò all’anima una natura diversa dal corpo, ma solo una composizione da atomi più sottili e sferici, di specie ignea. Tale caratteristica è sufficiente a giustificare la sua funzione di muovere il corpo in cui è diffusa, essendo essa stessa intrinsecamente automotrice. E come ogni altro aggregato di atomi, l’anima è destinata a perire e a dissolversi. Sul piano etico Democrito ha cercato soprattutto di fissare i limiti entro cui l’azione umana può realizzarsi con relativa sicurezza: perciò l’ha collegata all’intelligenza quale facoltà atta a riconoscere ciò che è proprio della nostra natura e ciò che dipende dal caso o dalla fortuna. Essa stabilisce la misura della volontà nell’equilibrio, in posizione equidistante dal troppo e dal troppo poco, insegnando a godere di ciò che si ha e a desiderare solo ciò che è in nostro potere. E così, mentre ricchezze, onori, piaceri sensibili si corrompono inevitabilmente (e quindi non danno felicità), il saggio si regola esclusivamente in base ai guadagni che procura la sapienza, perseguendo la tranquillità dell’animo (che non è il piacere ma lo stato in cui esso è calmo ed equilibrato «non turbato da paura alcuna o da superstizioso timore degli dei o da qualsiasi altra passione») che lo rende bastevole a se stesso pur riconoscendo il necessario aiuto degli altri per i bisogni della vita. In questo senso Democrito interpreta la funzione delle leggi, che, portando ordine nelle relazioni sociali «procuran vantaggio alla vita degli uomini». Quanto alla religione, essa ha origine dal timore e dallo stupore degli uomini primitivi di fronte a fatti straordinari: infatti gli dei non esistono e pertanto è dannoso che gli uomini si rivolgano a essi con preghiere invece di esercitare liberamente la propria intelligenza quale unica guida al riconoscimento dei propri limiti e del proprio potere.

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Dennett, Daniel Filosofo statunitense della mente (Boston 1942), professore alla Tufts University dopo aver studiato a Harvard con ➔ Quine e a Oxford con ➔ Ryle. Ispirandosi alla teoria evoluzionistica di ➔ Darwin (L’idea pericolosa di Darwin, 1995) egli sostiene una concezione riduzionista definita “strumentalismo evoluzionistico” o, come lui preferisce, “realismo intenzionale debole”. Un insieme di sensazioni e percezioni che, pur avendo la sua sede nel cervello, ci pervade intridendoci integralmente e interamente: questa è la mente (La mente e le menti, 1996). La risposta alla domanda come il pensiero, autocosciente e intenzionale, abbia potuto emergere dal processo naturale dell’evoluzione non può essere se non nel riconoscere che «ciascuno di noi è un insieme di miliardi di miliardi di macchine macromolecolari» che la natura ha programmato, come robot organici, per lottare per la loro sopravvivenza e riproduzione. Ogni facoltà cognitiva specificamente umana va spiegata entro questo quadro strumentalistico-evoluzionistico che indica come l’uomo abbia sviluppato, nel corso di un processo graduale e continuo, l’abilità di attribuire determinate qualità funzionali (coscienza, intenzionalità, significato) a comportamenti complessi: esse dunque non sarebbero proprietà basilari, ma un effetto dell’evoluzione derivato dall’organizzazione delle cellule, che consente loro di cooperare e interagire sviluppando la capacità di fornire significato e coscienza ai nostri atti. Ciascuna di esse è come un robot, un omuncolo stupido ma estremamente specializzato e discendente dalle strutture macromolecolari all’origine della vita: esse ci costituiscono e, in base alla capacità di cooperazione resa possibile da un eccezionale programma evolutivo inscritto nel DNA di ciascuna di loro, emerge ciò che chiamiamo coscienza. Intelligente non è la singola cellula, ma il complesso delle cellule, il loro sistema integrato e unitario a produrre l’essere cosciente, che, andando ben oltre la struttura dei suoi componenti, è in grado di intendere le cose e di sviluppare un suo punto di vista interpretativo sul mondo. Affrontando l’omonima questione in L’atteggiamento intenzionale (1987), egli sostiene che il carattere intenzionale degli eventi mentali non va individuato in una supposta proprietà del cervello: piuttosto siamo noi che attribuiamo tale qualità a sistemi complessi quali sono i comportamenti considerati “intelligenti”. Considerare il comportamento delle persone “intenzionale” (mosso da credenze, desi-

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deri ecc.) lo rende più facilmente spiegabile, ci consente di comprenderne e prevederne le azioni: secondo Dennett è dunque sufficiente presumere (in base a una versione aggiornata del principio di carità) che esse agiscano come se avessero queste intenzionalità, sebbene il loro cervello funzioni in modo completamente diverso, in un modo ancora scientificamente non chiarito. Tutto ciò che parla della mente in termini qualitativi è un’illusione, un’etichetta linguistica non falsa ma provvisoria (come una prototeoria di carattere pre-scientifico) utilizzata per compensare la nostra ignoranza sugli effettivi processi cerebrali che un giorno verranno scoperti e quantitativamente spiegati (Sweet dreams, 2005). Derrida, Jacques Filosofo francese (Algeri 1930 - Parigi 2004), tra i più originali esponenti del poststrutturalismo e del pensiero contemporaneo. Insegnante all’École Normale Supérieure (dove aveva studiato) e direttore dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales, attività svolta alternando quella didattica in numerose università americane. Tra le sue numerosissime pubblicazioni Introduzione all’“Origine della geometria” di Husserl (1962), La scrittura e la differenza (1967), Della grammatologia (1967), La voce e il fenomeno (1967), Margini della filosofia (1972), La disseminazione (1972), Dello spirito (1988), Donare il tempo (1991), Spettri di Marx (1993), Politiche dell’amicizia (1994). Derrida chiama decostruzionismo la sua prospettiva teoretica, il cui punto di partenza è costituito dalla consapevolezza dell’autonomia comunicativa del testo scritto: esso funziona come un sistema indipendente dalle intenzioni e dalla volontà dell’autore, che rovescia la priorità dell’intellegibile (senso, significato, contenuto, voler dire) sul materiale (come i testi sono fatti e funzionano) e sparge il messaggio nel tempo e nello spazio. Pur avendo alle spalle la lezione di Nietzsche, Marx e Freud, i primi scritti di Derrida sono dedicati a Husserl e alla sua distinzione tra significato (il “voler dire” legato all’intenzionalità della coscienza cui è presente) e la funzione meramente indicativa del segno, rivolto alla trascendenza del mondo. La verità deve essere trasmessa oralmente a una comunità e successivamente scritta, ma paradossalmente la scrittura è prima della voce, nel senso che essa è la condizione perché si abbia la forma pre-linguistica e tacita dell’intuizione come presenza immediata di un contenuto al-

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la coscienza. Secondo Derrida, con Husserl si è evidenziato definitivamente l’orizzonte della metafisica occidentale, che ha stabilito la preminenza delle nozioni di presente e di presenza, privilegiando il discorso apofantico (la forma enunciativa alla terza persona dell’indicativo) e il cui punto d’approdo è il logocentrismo, costruito sulla scrittura fonetica. Tuttavia gli elementi scritti significanti ma non fonetizzabili (segni di interpunzione, corsivi, virgolette, spaziature ecc.) aprono la via al lavoro della decostruzione, che è, più che un’operazione teorica, una prassi. Essa si pone come pensiero della “non presenza”, allo scopo di individuare nel testo scritto, in apparenza compatto, ciò che è taciuto, e giungere psicanaliticamente (attraverso l’individuazione di lapsus, atti mancati, sintomi ecc.) a ciò che il logos ha rimosso, all’inconscio (la non presenza è inconscio), alla traccia come a un’alterità originaria che né si è né potrà mai presentarsi (dunque impensabile e irrappresentabile). Questo il fine di una nuova scienza, la grammatologia e della nozione di “differenza” (la différance) in quanto consistente in un gioco perenne di rimandi, verso (significante di) un ordine altro (in quanto sempre rinviato è senza fondamento) rispetto a quello del logos. Perciò, da un lato la decostruzione non porta a nessuna tesi (che si regge sulla metafisica della presenza) e il suo discorso è necessariamente non apofantico (le sue forma sono quelle del giuramento, dell’invocazione, dell’invito ecc.); dall’altro, poiché «non c’è nulla fuori dal testo», fa di esso una “disseminazione” (il senso-seme viene esposto all’abbandono e alla dispersione, ma con aspettativa di sue nuove e imprevedibili germinazioni), configurandolo come un complesso di assemblaggi e di innesti privo di una struttura portante che lo rendono leggibile in più modalità e a più livelli (se non c’è un senso, non c’è neppure un testo), senza che sia possibile individuare in esso alcun fine o destino poiché in fondo non c’è alcun mittente e alcun ricevente. La pratica decostruttiva ha, nelle intenzioni di Derrida, degli inscindibili ed espliciti risvolti etici e politici: la stessa nozione di différance “istiga alla sovversione” verso ogni forma di potere e di repressione dell’alterità, mostrando come ogni decisione risolutiva sia fondata su un atto di volontà che istituisce e legittima. Al contrario, il pensiero decostruttivo si apre verso l’altro, lo straniero, e lo invita a venire prima di ogni identificazione o presentificazione, senza calcoli o intenzioni assimilatrici o di appropriazio-

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ne, ma con una (auspicata) politica dell’ospitalità. Essa dovrebbe così aprire a quella indefinibile “democrazia a venire” nata dallo sgretolamento del modello politico occidentale e proiettata verso un futuro che, come la traccia, non è e non sarà mai presente. Giacché, se si vorrà rispettare davvero l’alterità inappropriabile dell’altro (si tenga presente che Derrida è nato in una famiglia di origine ebraica) si dovrà rinunciare a una sua identificazione preventiva e quindi anche alla pretesa di sapere che cosa avverrà. De Sanctis, Francesco Critico letterario italiano (Morra Irpina 1817 - Napoli 1883), impegnato in prima persona nelle vicende risorgimentali e attivo in politica anche dopo l’unità d’Italia, quando fu ministro dell’Istruzione, è una delle figure più eminenti del panorama culturale italiano dell’Ottocento. È autore di molti Saggi, e per la filosofia particolarmente importante è il dialogo Schopenhauer e Leopardi (1858) in cui per la prima volta in Italia viene presentato il pensiero di Schopenhauer. Destutt de Tracy, Antoine Louis Claude Filosofo francese (Parigi 1754-1836). Fu politicamente attivo durante la Rivoluzione schierandosi a favore del Terzo stato; scrisse molte opere, tra le quali notevoli sono i quattro volumi di Elementi d’ideologia, dai quali si cominciò a delineare una corrente di pensiero detta appunto ideologia. Per Destutt de Tracy l’ideologia diventa una filosofia della conoscenza: infatti si esaminano le idee, la loro origine e le loro combinazioni logiche fino a determinare scienze come l’economia, la politica, la morale. Fondamentale nel processo gnoseologico è l’“ostacolo”, che permette di prendere coscienza della realtà: in tal modo Destutt de Tracy supera il sensismo di Condillac dal quale era partita all’inizio la sua ricerca. Dewey, John Filosofo e pedagogista americano (Burlington 1859 - New York 1952), da molti considerato il più grande intellettuale di quel Paese, massimo esponente del movimento filosofico detto pragmatismo. la vita. Nato in una famiglia modesta, studiò alla John Hopkins University di Baltimora, dove venne a contatto con l’hegelismo. Insegnò nell’università del Michigan e del Minnesota finché non approdò, nel 1894, a quella di Chicago. Qui entrò in contatto con George Herbert Mead e con lui diede vita allo strumentalismo; si interessò molto di pedagogia, aprendo una scuola-la-

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boratorio e scrivendo alcune tra le sue opere più notevoli sull’argomento, tra cui Il mio credo pedagogico (1897) e Scuola e società (1899). Trasferitosi alla Columbia University di New York, vi condusse un costante e intenso lavoro fino alla conclusione della carriera nel 1929, pubblicando alcune tra le sue opere più notevoli (tra esse Come pensiamo del 1910, Democrazia ed educazione del 1916, Rifare la filosofia del 1920, Natura e condotta dell’uomo del 1922, Esperienza e natura del 1925, Le fonti delle scienza dell’educazione del 1929, La ricerca della certezza del 1929). Interessato ai problemi politici e sociali internazionali, Dewey viaggiò molto, visitando molti Paesi e tenendo conferenze in Giappone, Cina, Messico, Turchia, Russia. Di idee liberali, assunse in diverse circostanze posizioni politiche coraggiose, come quando si dichiarò favorevole all’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale o si oppose alla condanna di Sacco e Vanzetti. Fu tra gli intellettuali che sostennero il new deal del presidente Roosvelt e nel 1937 fu presidente della commissione che procedette al controprocesso di Lev Trotzkij dichiarandolo innocente e denunciando i crimini staliniani. Malgrado questa intensa attività pubblica, continuò fino alla morte il suo lavoro intellettuale, con la composizione di opere fondamentali quali Arte come esperienza (1934), Una fede comune (1934), Liberalismo e azione sociale (1935), Esperienza e educazione (1938), Logica: teoria dell’indagine (1938), Libertà e cultura (1939), Problemi degli uomini (1940). il pensiero. Del pensiero di Dewey, che si colloca all’interno della tradizione empirista e pragmatista, è stato evidenziato il tratto fondamentalmente umanistico e naturalistico, nel senso che esso da un lato intende essere una risposta consapevole e adeguata ai problemi dell’esistenza umana nella sua concretezza, dall’altro concepisce tale esistenza come parte di una totalità, evento temporale singolo e irripetibile eppure intrinsecamente legato con altri eventi che nella loro globalità costituiscono la natura. In quest’ultima sono distinguibili diversi livelli (fisico, psicofisico, spirituale), che, senza corrispondere a una gerarchia assoluta o a una valutazione teleologica, dipendono esclusivamente dal grado di complessità e interazione tra gli eventi, che sono legati tra loro da un rapporto di continuità evolutiva inteso come continuità di mutamento e compossibilità della continuità genetica delle forme più semplici e di quelle più complesse di organizzazione (Dewey si rial-

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lacia esplicitamente alla prospettiva darwiniana), anche se comunque il più complesso è concepito come un salto qualitativo indeducibile e imprevedibile rispetto al più semplice. Il naturalismo deweiano rifiuta anche le versioni meccanicistiche (poiché o irrigidiscono il divenire in una successione meccanica o lo disperdono in una irrelatività di eventi senza ordine) o materialistiche (troppo banalmente riduttive e parziali) per riconoscere il carattere essenzialmente temporale dell’esistenza, che consente di innestare la conoscenza e l’attività umana nel quadro generale della realtà e dei processi naturali. Ma temporalità significa che l’esistenza ha un ineliminabile carattere di precarietà: la scena del mondo è precaria e rischiosa, incerta e terribilmente instabile, perché nessun evento o gruppo di eventi è assolutamente garantito, sottratto alla minaccia del tempo o di altri ordini di eventi con esso incompatibili. Ma proprio l’assenza di un ordine assoluto e necessario consente di cogliere il carattere d’apertura dell’esistenza stessa, poiché l’uomo è certo immerso nella natura, e tuttavia è capace di modificare la natura stessa e di darle significato. Se non esiste una razionalità o una perfezione dell’essere, ciò vuol dire che progresso, perfettibilità, ordine, razionalità sono il compito fondamentale di una condotta intelligente della vita umana. Il male, l’errore, il disordine sono dure realtà che non vanno esorcizzate con metafisiche consolatorie e deresponsabilizzanti, ma dominate e controllate. Ma se la realtà è ordinabile, allora vi è posto per l’intelligenza come comportamento cosciente e pervasivo dell’intera esistenza, non limitato quindi a un organismo o a una sua parte. Essa opera sempre in un contesto immediato, nella totalità inclusiva di fattori soggettivi e oggettivi che costituisce l’esperienza. Mentre negli empiristi classici questa nozione è semplificata e ridotta a stati di coscienza chiari e distinti (le idee), in Dewey essa è storia, e possiede dunque le stesse caratteristiche di mutevolezza, disordine e precarietà del mondo. Al suo interno la coscienza, pur facendo parte dell’esperienza (anzi, essendo essa stessa un’esperienza, al pari dell’ignoranza, dell’errore, dell’ambiguità ecc.), appare qualitativamente e focalmente in un particolare momento. La non identificazione di esperienza e conoscenza permette a Dewey di avanzare un originale tentativo di soluzione del problema gnoseologico, per il quale egli utilizza il termi-

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ne strumentalismo. Il problema della conoscenza coincide con quello di individuare cosa è necessario per garantire, rettificare o evitare ciò che reca equilibrio e ordine nella nostra situazione: ciò è precisamente l’indagine, processo di mediazione, selezione, trasformazione controllata e diretta di una situazione indeterminata in una determinata convertendo in un tutto unificato e coerente gli elementi disordinati della situazione originaria. Il pensiero e l’indagine sono un processo in evoluzione, sempre aperto in quanto, raggiunta la stabilizzazione di una situazione sotto un particolare aspetto, essa può a sua volta divenire indeterminata sotto un altro e così via all’infinito: così gli esiti della ricerca, come di ogni operare umano, sono continuamente correggibili e perfettibili in relazione alle nuove situazioni in cui l’uomo verrà a trovarsi nel corso della sua storia. La ragione quindi è una forza attiva chiamata a trasformare il mondo conformemente a scopi umani. A partire da Come pensiamo fino alla Logica, Dewey ha cercato di precisare i momenti della metodologia investigativa: se l’indagine parte da situazioni che implicano incertezza, dubbio, turbamento, esse diventano problematiche nella misura in cui vengono intellettualizzate, sono cioè fatte oggetto di ricerca nel tentativo di avanzare qualche soluzione. Il problema viene formulato all’interno di un’idea (ipotesi) consistente in anticipazioni e previsioni di quello che può accadere: l’idea viene cioè sviluppata dal ragionamento, che ne deduce le conseguenze mettendola in relazione con altre idee e chiarendola così nei suoi vari aspetti. Segue l’esperimento che, diretto e articolato dalla soluzione proposta, ci dirà se quest’ultima è da accettare, respingere o correggere al fine di rendere conto dei fatti problematici. La verità è dunque identificabile con il “provato potere di guida” di un’idea. Dewey precisa che sia le idee sia i fatti sono di natura operazionale: le prime in quanto non sono altro che proposte o piani di operazioni e di intervento sulle condizioni esistenti (perciò non sono qualificabili in termini di verità o falsità, ma di efficacia, rilevanza, economicità e dei loro contrari); mentre i fatti, che non esistono in sé ma solo in relazione a un’idea espressa in termini simbolici, perché sono esiti di operazioni di organizzazione e di scelta. Date queste premesse, lo strumentalismo avanza la proposta di trattare i problemi umani (estetici, pedagogici, morali, sociali) per mezzo dello stesso metodo scientifico che rappre-

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senta una conquista dell’epoca moderna: si tratta infatti di partire dalla constatazione storica che nel concreto procedere della ricerca scientifica si è giunti a riconoscere la continuità di esperienza e natura, di realtà e pensiero, l’antropocentricità dei processi di scoperta e di controllo, l’unità delle diverse forme di esperienza e il carattere funzionale delle loro distinzioni (le discipline). Infatti la scienza persegue come proprio specifico scopo l’aspetto intellettuale della scoperta e la formulazione dei significati. Di conseguenza, se le idee provano il loro valore nella lotta con i problemi reali, allora anche le idee morali, i dogmi politici e i pregiudizi del costume non hanno una speciale autorità, ma devono essere sottoposti al controllo delle loro conseguenze sulla pratica, responsabilmente accettati, rifiutati o mutati in base all’analisi dei loro effetti. L’etica di Dewey è storica e sociale: ciò significa che se da un lato se ne devono esaminare le “condizioni generative” interpretando istituzioni e costumi in funzione dei valori che con loro sono storicamente emersi come frutto dell’ingegnosità umana, dall’altro bisogna valutare l’adeguatezza di tali valori prospettando la possibilità di un loro rinnovamento in rapporto alle esigenze nuove e ai bisogni che si sono determinati nella vita sociale (migliorismo etico). I fini non devono essere astratti e separati dai mezzi: ogni fine (cioè le previsioni e anticipazioni di ciò che può essere portato all’esistenza in condizioni determinate e controllate) è anche un mezzo, e ogni mezzo per raggiungere un fine è avvertito esso stesso come un fine. Il fine raggiunto è un mezzo in vista di altri fini e la valutazione razionale dei mezzi è fondamentale per ogni finalità che non voglia essere velleitaria e vana. Se non esiste valutazione al di fuori del rapporto mezzi-fini, ciò vale non solo sul piano etico ma anche su quello estetico, poiché l’arte, lungi dall’essere un atto mistico e contemplativo, è natura trasformata attraverso la realizzazione di un ordine fruibile e finale intrinsecamente valido, e perciò richiede la messa in atto di mezzi adeguati. L’arte non trascende l’esperienza, ma si pone in continuità con essa e la amplia poiché, come processo ricostruttivo e di fruizione intrinseca, implica la modifica attiva dei rapporti di interazione e l’utilizzazione dei significati nel nuovo ordine realizzato, consentendo così all’uomo di liberarsi dalla azione comune divenuta meccanica mediante la realizzazione di forme sempre più armoniche di comportamento.

Diderot

La ricerca di valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti perché connessi ai fondamenti della vita sociale, porta Dewey a considerare la democrazia come la forma più apprezzabile di organizzazione politica, in quanto essa significa compossibilità dello sviluppo dell’individuo in una società ordinata dall’intelligenza, e di una società riorganizzata intelligentemente attraverso il contributo inventivo di idee degli individui, le cui forze propositive e critiche sono stimolate affinché le necessità reali vengano affrontate con intenti spontanei e originali. La democrazia, come società non pianificata ma sempre pianificantesi, è un modo di vita, un metodo esteso in ogni campo che permette di discutere ogni finalità, è collaborazione e partecipazione a finalità congiunte in una ricerca senza fine. Per questo motivo essa si deve preoccupare della formazione dei futuri cittadini: il problema pedagogico è un problema politico e sociale ma anche filosofico ed epistemologico. Educare significa fornire agli individui tutti gli strumenti necessari per la riorganizzazione e ricostruzione continua dell’esperienza, per l’aumento della consapevolezza dei vincoli tra le attività presenti e future e in grado di aumentare le capacità dei singoli di dirigere il corso dell’esperienza a venire. Perciò la scuola deve promuovere nel fanciullo forme di attività concreta, anche manuale, in quanto proprio nel lavoro l’uomo avverte concretamente la sua continuità con il mondo fisico e sociale e acquista piena consapevolezza delle sue possibilità e dei suoi limiti. Dewey polemizza contro le forme nozionistiche di insegnamento in favore di una didattica attiva, che metta il ragazzo di fronte a situazioni problematiche reali, sollecitandone, con opportune stimolazioni e adeguati sostegni, lo sviluppo di un comportamento intelligente in un ambiente scolastico che dovrebbe essere la riproduzione di quel complesso di legami e di interessi in cui il fanciullo nasce ed è destinato a vivere e operare. Diderot, Denis Filosofo illuminista francese (Langres 1713 - Parigi 1784). Nato da famiglia borghese, studiò presso i gesuiti e fu avviato alla carriera ecclesiastica, che abbandonò per studiare a Parigi venendo così in contatto con i circoli illuministi. Dapprima chiamato presso la corte di Caterina II di Russia (dove cercò di portare il suo contributo di intellettuale riformatore), si recò poi in Olanda, patria del libero pensiero. Tornato a Parigi, fu animatore del progetto dell’Enciclopedia, che portò a termine

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Dilthey

quasi da solo e tra innumerevoli difficoltà nel 1772. In Diderot si ritrovano, elaborati in modo personale, i temi fondamentali del periodo: la fede nell’autorità della ragione (anche se con la consapevolezza dei suoi limiti che lo portano gradualmente ad accettare il dubbio scettico come «primo passo verso la verità») e il rifiuto dell’ateismo e delle religioni positive in nome del deismo. Se in Pensieri filosofici sulla materia e il movimento (1746) Diderot si mostra convinto deista, in opere quali Lettera sui ciechi (1749), media tale posizione con la convinzione dell’esistenza di una realtà fisica in continuo movimento, senza alcun finalismo e senza la necessità di un Principio ordinatore esterno a essa. Se la realtà è solo materia e movimento (per cui è impossibile ipotizzare l’esistenza di un essere superiore), si approda a una concezione di tipo spinoziano-materialista che viene da Diderot ulteriormente perfezionata. In Interpretazione della natura (1753) egli sostiene che la materia, nella sua eterogeneità, è presente nella natura in infiniti elementi dotati di forza autonoma, eterna, immutabile, generatrice di vita, e col suo infinito movimento determina i vari gradi della realtà. Da questa analisi emerge in Diderot l’interesse per gli studi di biologia secondo una prospettiva evoluzionista, che lo allontana dal modello newtoniano. Nelle ultime opere (Supplemento al viaggio di Bougainville, postumo, Saggi sui regni di Claudio e di Nerone e sulla vita e gli scritti di Seneca, 1782) emergono in Diderot interessi di carattere prevalentemente morale. In esse egli individua la superiorità di un’etica razionale come necessaria alla vita sociale, seguendo il pensiero della dottrina stoica di Seneca. Dilthey, Wilhelm Filosofo tedesco (Biebrich 1833 - Siusi 1911). Docente a Berlino, esercitò un grande influsso culturale. Centro della sua riflessione fu il progetto di costruire una “critica della ragion storica”, cioè la fondazione delle scienze dello spirito in contrapposizione a quelle della natura. Contro il positivismo, Dilthey evidenziò l’eterogeneità di oggetto tra i due campi epistemici: mentre la natura è mera esteriorità (e perciò le scienze relative ne forniscono una spiegazione mediante cause), la realtà storico-sociale può essere studiata dall’interno poiché in essa lo spirito umano ritrova se medesimo (dunque le scienze che la indagano tendono alla sua comprensione). La conoscenza delle scienze dello spirito doveva ricevere una fondazione non aprioristica

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Diodoro Crono Storicismo moderno

Diodoro Crono

“La critica della ragion storica” W. DILTHEY (1833-1911) W. WINDELBAND (1848-1915) G. SIMMEL (1858-1918) M. WEBER (1864-1920) STORICISMO TEDESCO

E. TROELTSCH (1865-1922) O. SPENGLER (1880-1936) H. RICKERT (1863-1936) K. MANNHEIM (1893-1947) F. MEINECKE (1862-1954)

STORICISMO ITALIANO

ma basata sull’esperienza concreta: perciò Dilthey riteneva che loro compito primario fosse dare origine a una psicologia descrittiva, che muovesse dalla unità interiore del soggetto reale per ritrovare il nesso strutturale e immediatamente sperimentato tra il suo vissuto (Erlebnis) e la complessità della storia e dell’ambiente sociale (Dilthey diede un saggio di questa possibilità nelle biografie di Hegel e Schleiermacher). Secondo Dilthey i caratteri distintivi delle scienze dello spirito sono costituiti soprattutto dalla diretta penetrazione del mondo spirituale, che permette (grazie anche alla tecnica ermeneutica e alla critica delle fonti) la rievocazione vissuta simpateticamente di epoche e ambienti passati. Grazie all’Erlebnis, le scienze dello spirito possono cogliere direttamente l’unità essenziale dell’evento storico attraverso la relazione sistematica tra lo stesso Erlebnis, l’espressione (il complesso delle concretizzazioni storiche create dallo spirito umano) e la comprensione, e mediante un adeguato sistema categoriale (temporalità, causalità, significato, sviluppo ecc.). Parallelamente Dilthey venne concependo la filosofia come coscienza della propria storicità, cercando di superare il conseguente relativismo con una “filosofia della filosofia” che cercasse di analizzare il sorgere delle varie “visioni del mondo” attraverso il mutare dei contesti storico-socia-

A. GRAMSCI (1891-1937) B. CROCE (1886-1952)

li. Le concezioni di Dilthey hanno esercitato una vasta influenza non solo sugli autori della corrente storicista (Meinecke, Troeltsch, Simmel, Weber ecc.), ma anche sull’esistenzialismo (Heidegger) e sull’ermeneutica (Gadamer, Ricœur, Pareyson). Diodoro Crono Filosofo greco appartenente alla Scuola megarica, vissuto nel IV secolo a.C. Fu famoso come dialettico e per i risultati raggiunti in questa disciplina esercitò una significativa influenza sia sullo scetticismo (➔ Arcesilao) sia sullo stoicismo (➔ Zenone di Cizio). In polemica con Aristotele, avanzò una serie di argomenti contro il movimento nello spazio e il divenire nel tempo che appaiono chiaramente derivati da quelli di ➔ Zenone di Elea e da ➔ Eubulide: così un argomento contro il movimento (ispirato al primo) sostiene che di un corpo si può affermare solo che si è mosso (dal momento che viene percepito successivamente in luoghi diversi) ma non che si muove, poiché di esso non si può concepire il movimento né nel luogo in cui si trova (infatti, occupandolo tutto, sta fermo in esso) né in quello verso il quale si muove (ma che risulta ancora vuoto). Al secondo è invece ispirata la riproposizione dell’argomento del sorite contro la molteplicità e la continuità nel tempo. Tuttavia, l’argomento più famoso attribuito a Diodoro è quel-

Diogene di Apollonia

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lo detto “dominatore” (o “vittorioso”), che critica la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto sulla base di quella (già presente nella scuola) del nesso ipotetico: partendo dalle due proposizioni a) «ogni verità passata è necessaria»; e b) «dal possibile non può seguire l’impossibile», si giunge a definire il possibile come «ciò che è o sarà vero», con la conseguente negazione di eventi contingenti futuri e l’affermazione di una necessità universale (infatti non potendosi sostenere la proposizione che nega la verità di un evento passato, ed essendo assurdo il passaggio dall’impossibile al possibile, non resta che ammettere che esso doveva già essere prima che accadesse). Più in generale, secondo Diodoro il nesso ipotetico è vero quando né è stato in passato né è ora possibile che l’antecedente sia vero e il conseguente falso: l’approdo teorico sembra dunque essere quello di una visione deterministica della realtà, dove possibilità ed esistenza, potenza e atto vengono a coincidere all’interno di una visione ontologica improntata al monismo eleatico (l’essere come omogeneità e compattezza). Diogene di Apollonia Filosofo greco (Creta, V sec. a.C). Della sua vita si hanno scarse notizie. Si tramanda che scrisse un trattato Sulla Natura (titolo convenzionale spesso attribuito alle opere dei filosofi del VI e V sec. a.C.) e un’opera Contro i sofisti. Riprese la filosofia di Anassimene sostenendo che l’aria è il principio da cui ogni essere – e tutta molteplicità della natura – è generato. L’aria è intesa come elemento fisico, ma allo stesso tempo è dotata di intelligenza e creatività: ha dunque alcune delle caratteristiche che, negli stessi anni, Anassagora attribuiva al Nous. Diogene di Sinope Filosofo greco (Sinope 413-323 ca. a.C.). Considerato il maggiore esponente del pensiero cinico e colui che diede sviluppo pratico ai principi teorizzati dalla scuola. Sebbene Diogene Laerzio gli attribuisca un lungo elenco di opere, di queste nulla rimane se non una serie di episodi riferiti da vari autori, che danno di Diogene l’immagine di una figura quasi leggendaria, con tratti polemici ed esibizionisti. Fra i vari aneddoti, famoso è quello secondo il quale egli fece di una botte la sua casa (simbolo del rifiuto di agi e ricchezze e del ritorno a uno stato di natura) ed era solito andare in giro con una lanterna accesa giorno e notte con la quale “cercava l’uomo”, probabilmente nel tentativo di

Dionigi Areopagita (Pseudo)

liberarlo da ogni bene effimero che lo allontanava dalla ricerca e dall’esercizio della virtù. Diogene Laerzio Scrittore e storico della filosofia greco (vissuto nel III sec. d.C.). Di lui quasi nulla ci è noto, ma la sua opera in dieci libri su Le vite, le dottrine, i detti dei filosofi celebri, ci è pervenuta quasi intera: malgrado l’esposizione non sappia sempre cogliere l’idea centrale dei singoli pensatori (84 per l’esattezza, dai Sette Sapienti a Epicuro) e proceda per lo più in modo aneddotico e frammentario, tuttavia, per l’accuratezza e la perspicacia con cui il materiale è stato raccolto, Diogene Laerzio ci ha lasciato un’insostituibile fonte di informazioni biografiche e dottrinali. Dionigi Areopagita (Pseudo) Sotto questa denominazione sono raccolti un gruppo di scritti, quattro trattati (De coelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia) e dieci lettere. Si tratta di scritti che una tradizione antichissima attribuiva al personaggio (Dionigi appunto) che è citato negli Atti degli Apostoli (XVII, 34) come convertito da San Paolo dopo il discorso sull’Areopago. In virtù di questa tradizione, il corpus godette di un’altissima autorità nel medioevo: inviato in dono dall’imperatore bizantino Michele il Balbo a Ludovico il Pio, esso venne custodito con solennità e devozione fino all’anno 827 nell’abbazia parigina di St-Denis, appositamente edificata. L’autore in realtà è anonimo, vissuto probabilmente nell’area siriaca tra il IV e il V secolo; certo è che dalle sue pagine emerge un pensiero fortemente impregnato di concezioni neoplatoniche, soprattutto di Proclo, le cui dottrine essenziali egli cerca di risolvere nel quadro dell’ortodossia cristiana. Così la Gerarchia celeste ci presenta una visione teologico-cosmologica della realtà in cui il molteplice deriva per emanazione da un primo principio che tuttavia rimane in sé inalterato e inesauribile. La processione da Dio ai vari gradi in cui sono disposti gli enti (dalle gerarchie angeliche ai corpi bruti) è assimilabile alla luce che, da autentico principio creativo qual è, si diffonde tutt’intorno e si riflette nei corpi. La creazione risulta dunque un’autorivelazione di Dio mentre il cosmo permane, nella sua unitarietà, legato in intima comunione al primo principio che tutto pervade con la propria potenza e su tutto esercita la propria azione provvidenziale. La realtà è una perenne ierofania perché Dio, mentre effon-

Donatismo

de la propria potenza creatrice, la richiama a sé in un processo di deificazione che corrisponde a un manifestarsi e a un riverberarsi della sua essenza nei suoi vari aspetti. Dionigi attribuisce a Dio tutte le perfezioni che la mente umana coglie nelle creature e che nella divinità sono esaltate al grado massimo, ma nega tutto ciò che di limitato e definito vi è in questi attributi umanamente apposti alla sostanza divina. Così nei Nomi divini Dio è definito come bontà, essere, luce, unità; eppure egli è impredicabile, perché anche il più eccelso attributo è sempre inadeguato, e la più alta conoscenza di Dio è data solo nell’oscurità tenebrosa del sapere mistico. Perciò la Teologia mistica è di tipo negativo: l’assoluta trascendenza divina rende impossibile di essa ogni definizione. Dio è l’ineffabile e di lui è possibile parlare solo affermando ciò che non è. Il sapere mistico, che si realizza nell’assoluta fusione della mente con Dio, è silenzio, smarrimento totale nell’oblio completo di tutto ciò che è limitato, creato e temporale; posto al di là di ogni affermazione e negazione, esso ignora sapendo d’ignorare e rifiuta qualsiasi determinazione concettuale. Le concezioni dionisiane ebbero una vastissima influenza in tutto il medioevo, su teologi e filosofi (Scoto Eriugena, Tommaso, i Vittorini, Eckhart), ma furono anche studiate e apprezzate nell’età moderna (Cusano, Ficino). Donatismo Il donatismo, movimento religioso ereticale del IV secolo, sviluppatosi dalla predicazione di Donato (morto nel 355), sosteneva che la Chiesa, in quanto comunità di perfetti, non dovesse collaborare con l’autorità statale e richiedeva che quelli tra gli ecclesiastici che riconoscevano l’influenza civile, fossero esclusi dall’amministrazione dei sacramenti in quanto macchiati dalla colpa del tradimento. L’apparato dottrinario del donatismo si fondava sulla convinzione che la salvezza non si ottenesse solo col battesimo e i sacramenti ma che fosse necessaria la purezza di colui che li impartiva; la Chiesa auspicata dai donatisti era una comunità di puri, perfetti e martiri. Agostino (Contra donatistas epistula) si oppose a tale intransigente interpretazione che rischiava di togliere alla Chiesa la possibilità di accogliere e fare proseliti tra coloro che si trovavano inizialmente estranei al suo credo. Duhem, Pierre Fisico, epistemologo e storico della scienza francese (Parigi 1861 -

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Dummett

Cabrespine 1916), professore a Rennes e a Bordeaux. Studioso di termodinamica e di chimica (elaborò una teoria che inquadrava i fenomeni termodinamici nella meccanica di Lagrange), sostenne, insieme con ➔ Poincaré, nella sua opera più famosa (La teoria fisica del 1906) una concezione pragmatistica delle teorie scientifiche. Tale posizione ribadisce il valore costantemente provvisorio e rivedibile delle teorie scientifiche (esse sono costruzioni che devono servire a rappresentare la realtà nel modo più semplice sintetizzando un insieme di leggi sperimentali attraverso un opportuno sistema simbolico), in generale negando alla scienza un autentico valore conoscitivo (il suo sforzo è solo classificatorio). Essendoci incomparabilità tra i simboli di una teoria e il mondo fenomenico, Duhem criticò la possibilità degli esperimenti cruciali (quelli in potere di falsificare un’ipotesi e convalidare la sua rivale in modo decisivo), in quanto il controllo empirico si riferisce non a un’ipotesi isolata o a una singola asserzione, ma alla teoria nel suo complesso (dopo Duhem torneranno su questi temi Popper e Quine). Dummett, Michael Filosofo del linguaggio e della matematica inglese (Londra 1925 Oxford 2011), seguace dell’indirizzo analitico. Ha contribuito fortemente a rivalutare la figura di Gottlob Frege, sia per quanto riguarda il suo programma logicista, sia come padre della filosofia analitica (in Le origini della filosofia analitica del 1988, Filosofia del linguaggio del 1973). Del resto egli identifica la filosofia con l’analisi del linguaggio come strumento unico e privilegiato per giungere alla chiarificazione del pensiero: il nucleo centrale delle sue ricerche è dunque costituito da una teoria generale del significato che renda conto del modo con cui comprendiamo gli enunciati impiegati nella comunicazione e delle operazioni che compiamo in vista di questo fine. Dummett si riallaccia al secondo Wittgenstein (in La base logica della metafisica, 1991), integrando il principio secondo cui «il significato è l’uso» con quello di “composizionalità”, secondo il quale noi siamo in grado di comprendere un enunciato mai udito prima nella misura in cui lo riportiamo ad altri già noti, di cui conosciamo gli elementi costitutivi. Poiché gli enunciati si manifestano nel comportamento linguistico (quindi nell’uso, come appunto voleva Wittgenstein), essi risultano controllabili in una dimensione pubblica e non sul piano mentale: ciò significa che, come noi comprendiamo il significato di un termine

Duns Scoto

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guardando il contesto in cui è usato (ciò accade in seguito alla nostra osservazione del comportamento di coloro che comunicano con noi), così siamo in grado di rispondere solo formando a nostra volta enunciati in cui quello stesso termine è usato correttamente. Perciò (contrariamente a quanto sosteneva Frege) il significato di un enunciato non è riducibile alle sue condizioni di verità (infatti noi comprendiamo alcune proposizioni di cui pure ci sono ignote tali condizioni), a meno che non si riveda questo concetto intendendolo come condizione di asseribilità: comprendere un enunciato equivarrebbe allora a conoscere e padroneggiare le condizioni in base alle quali saremmo disposti ad asserirlo, cioè a giustificarlo e a renderlo valido nella dimensione comunicativa attualmente impiegata. Peraltro ciò sembra coerente con la prassi comune mediante la quale noi apprendiamo gli enunciati in modo molecolare, cioè come un insieme in continuo sviluppo e nella cui rete di relazioni interne si viene progressivamente determinando il loro significato. Duns Scoto, Giovanni Filosofo e teologo inglese (Duns 1265 - Colonia 1308) dell’ordine francescano, uno dei grandi maestri della scolastica, professore a Oxford, Parigi e Colonia. Cercò una nuova sintesi tra il tradizionale agostinismo francescano e l’aristotelismo tomistico, respingendo tuttavia ogni tentativo di accordo necessario tra ragione e fede nella considerazione dello stato dell’uomo in seguito al peccato originale. Ciò lo portò più a una separazione profonda tra filosofia e teologia: infatti, sulle orme di ➔ Bonaventura, egli evidenziò il ruolo preminente della volontà e dell’amore sull’intelletto, contrapponendo alle dottrine di derivazione aristotelica l’idea di un mondo del tutto contingente in quanto dipendente da un atto assolutamente libero di Dio. In tal modo egli attribuì alla teologia il significato di un sapere eminentemente pratico ma non scientifico: alla suprema verità rivelata il credente deve la più totale sottomissione senza pretendere alcuna conferma da parte della ragione. Parallelamente Duns Scoto riservò alla filosofia un ambito problematico determinato in cui essa avesse il diritto di svolgersi in modo autonomo, lavorando su verità razionali necessarie e muovendo da principi assolutamente evidenti per giungere sillogisticamente a conclusioni altrettanto vere e necessarie. Con ➔ Avicenna, Duns Scoto affermò che l’oggetto della filosofia è l’“ens in quantum ens”, poiché

Duns Scoto

l’ente è sempre il primo oggetto del pensiero dotato di evidente priorità rispetto agli altri intelligibili. Per potersi applicare a tutto ciò che esiste, questa nozione deve essere concepita in una forma assolutamente astratta e indeterminata: quindi in senso univoco e non analogico (come in ➔ Tommaso). Ciò significa che per raggiungere il principio primo, fondamento di tutti gli esistenti, non si può procedere a posteriori (dalle cose sensibili e non necessarie), ma solo analizzando nelle sue proprietà universali e necessarie il concetto di ente. Infatti l’essere ha modi e determinazioni intrinseche che stanno rispetto all’essere come la maggiore o minore intensità luminosa sta alla luce: tali risultano quelle di “finito” e “infinito”, prima divisione dell’essere che include tutte le altre. Evidentemente il modo “infinito” coincide con l’idea stessa di Dio: la prova della sua esistenza parte da quella della possibilità di una causa incausata (poiché nulla è prodotto da se stesso bisogna ammettere un “primo” produttivo e applicare la stessa argomentazione all’analisi dei fini) per giustificare successivamente il passaggio dalla possibilità alla necessità, mostrando che la possibilità logica è una necessità assoluta (dire che il “primo” è possibile significa che il suo concetto non implica contraddizione logica: se diciamo che non esiste, se ne dovrà concepire una ragione, andando però a collidere con la definizione di causa incausata) e che la causa incausata è l’essere infinito (poiché in quanto incausata non ammette alcun limite estrinseco). Di fronte all’essere infinito, Duns Scoto cercò tuttavia di difendere i diritti dell’individualità e il valore reale delle essenze. Da un lato la possibilità di astrarre dimostra che gli universali sono reali e irriducibili alla nozione di individualità; dall’altro è altrettanto certo che essi si trovano in ogni ente sotto modalità particolari, subendo nel loro concretarsi una determinazione individualizzante che aggiunge alla loro struttura universale una caratteristica peculiare. Duns Scoto chiama haecceitas l’atto capace di atteggiare la forma specifica alla concretezza individuale, la caratterizzazione dell’individuo nella sua singolarità mediante un incremento di forma (e non di materia come in Tommaso). In lui il motore decisivo dell’azione morale sta nella volontà, in particolare nella possibilità di elevare a Dio (con un adeguato atteggiamento interiore) gli atti moralmente indifferenti, quelli cioè non necessari per il raggiungimento della salvezza. Tutto ciò che concer-

Durkheim

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ne la dimensione spirituale e soprannaturale dell’uomo (per esempio l’immortalità dell’anima), Duns Scoto lo riteneva indimostrabile razionalmente e oggetto di sola fede. È autore di diversi Commentarii a opere aristoteliche, dell’Opus oxoniense e di varie altre opere. Durkheim, Émile Sociologo e filosofo francese (Épinal 1858 - Parigi 1917). Sul piano metodologico, mentre rifiutò ogni concezione aprioristica che interpreti la società come mero riflesso di un congegno di fattori biologici e psichici, sostenne che la sociologia dovesse assimilarsi alle scienze naturali (i fenomeni vanno osservati oggettivamente e mediante la comparazione degli elementi comuni e costanti si perverrà alla determinazione delle leggi che li regolano). Ciò che caratterizza il fenomeno sociale in senso proprio è la coscienza collettiva, che emerge dai contatti e dai contrasti di quelle individuali come sintesi nuova, soggettività a sé stante. Ogni società ha la sua coscienza collettiva, di cui le idee religiose, morali, giuridiche ecc., e persino quelle più astratte sono altrettante proiezioni e creazioni. È lei che ispira e determina le azioni degli individui in quanto prodotti del corpo sociale. Basata su queste premesse, la linea fondamentale dei lavori di Durkheim consistette nel costruire una sociologia che non fosse tanto una teoria generale della società, quanto un modello per una sua efficiente e funzionale amministrazione. Ciò risulta chiaro dal classico Il suicidio (1897), che esamina (sulla base di un’ampia documentazione statistica) l’altra faccia della medaglia, la disfunzione del rapporto parte-tutto nell’organizzazione collettiva. Durkheim, dopo averne classificato le varie tipologie (altruistico, egoistico, anomico) e individuato le cause, sempre di natura sociale, prospettò come unica soluzione la reintegrazione dell’individuo nel gruppo mediante il lavoro. Oggi infatti non sarebbe più possibile, a tal scopo, contare sulla religione, di cui Durkheim, ne Le forme elementari della vita religiosa (1912), mise in evidenza, con ap-

Dworkin

profondite indagini etnografiche, la natura essenzialmente sociale quale «forma simbolica degli interessi sociali e morali»: dietro il culto degli antenati e i sacrifici allo spirito dei morti si deve scorgere il culto prestato inconsapevolmente dagli uomini alla loro stessa società. Dworkin, Ronald Filosofo americano del diritto (Worcester 1931 - Londra 2013), professore a New York e Oxford. Di indirizzo liberale, in I diritti presi sul serio (1977) ha sostenuto la tesi, antipositivistica e antiutilitaristica, del possesso da parte dei singoli cittadini di un certo numero di diritti fondamentali. Pur non essendo né naturali né universali, tali diritti hanno una priorità assoluta nei rapporti con gli altri e con lo stato, impedendo che le scelte e le decisioni politiche di chiunque (della maggioranza, del governo ecc.) possano compromettere (anche se utilitaristicamente compiute in nome della promozione del bene comune e dell’interesse pubblico) le scelte autonome dell’individuo per la propria felicità privata. Nel dibattito accesosi nel corso degli anni Ottanta con i comunitaristi (Taylor, McIntyre, Sandel, Walzer ecc.), Dworkin ha quindi cercato di coniugare queste posizioni ispirate al principio dell’uguaglianza dei cittadini nell’accesso alle risorse e nella considerazione e nel rispetto personale, con l’esigenza di una maggiore giustizia sociale, opponendosi a ogni misura economica finalizzata a produrre qualsiasi forma di privilegio. Se ne L’impero del diritto (1986) ha individuato nella pratica interpretativa, effettuata all’interno di una comunità, il fulcro della giurisprudenza (in quanto costruttrice di valori morali e della legittimazione di un sistema politico in cui tutti possano riconoscersi), in Virtù sovrana (2000) ha ulteriormente e organicamente ribadito le sue posizioni, sostenendo una versione del liberalismo (da lui chiamato “individualismo etico” perché fondato sui concetti di “pari importanza” di ciascuno e di responsabilità particolare) che deriva valori e diritti non dalla nozione di libertà ma da quella di uguaglianza.

E Eckhart, Joannes Teologo, filosofo e predicatore (Hochheim 1260 ca. - Colonia 1327), chiamato per rispetto alla sua autorevolezza Meister (magister, maestro). Tedesco di nascita, entrò da giovane nell’ordine domenicano, dove ricoperse diverse funzioni importanti; fu professore a Parigi e nello Studio generale di Colonia. Qui, un anno prima della morte, l’arcivescovo della città gli intentò un processo per eresia, che si concluse quattro anni dopo con la condanna di 28 proposizioni contenute nei suoi scritti. Questi ultimi, assai numerosi, comprendono (in latino) un Opus tripartitum, delle Quaestiones de esse e delle Quaestiones de anima, commenti a testi biblici (alla Genesi, all’Esodo, all’Ecclesiaste, al Vangelo di Giovanni); in tedesco, alcuni trattati (Il libro della consolazione divina, Dell’uomo nobile, Del distacco, Istruzioni spirituali) e soprattutto un corpus di centoventi prediche, indubbiamente la parte più originale della sua produzione. Diversamente dal confratello Tommaso, Eckhart rivolse la sua attenzione più che ad Aristotele a quel filone di speculazione neoplatonica (da Plotino a Proclo, a Dionigi e Scoto Eriugena) sempre vivo all’interno del suo ordine fino alla grande sintesi dell’Aquinate. Dio viene perciò concepito come assoluta unità, posto al di là e al di sopra di ogni realtà molteplice e determinata, e come tale non riducibile al concetto metafisico di essere. Perciò Egli è, apofaticamente, inconoscibile e ineffabile. Dio è la causa essenziale dell’essere: la sua pienezza e perfezione si esplica nell’atto supremo dell’intendere (Eckhart identifica il Padre con l’Intelligenza, onde scaturiscono il Figlio che è Vita e lo Spirito Santo che è Essere), in quella sapienza imperscrutabile da cui trae origine tutta l’esistenza finita del molteplice. La vita divina è risolta neoplatonicamente nella pura conoscenza (actus intelligendi), in un sapere eterno e inimitabile, antecedente a qualsiasi determinazione concreta. Così Eckhart distingue tra Gottheit (deitas, il divino), l’essenza assolutamente una di Dio, immobile unità, ferma nella sua perfezione, e la diversità delle persone implicite seppure distinte in quell’unità. Dalla divina fecondità del padre si genera

poi di grado in grado tutto l’universo creato. Eckhart però nega la creazione ex nihilo, nella sua determinatezza volontaristica: poiché Dio compendia in sé tutto l’essere, il mondo è eterno e infinito, e allo stesso modo ogni creatura possiede una propria forma che sussiste solo in virtù dell’esistenza divina, presente in ogni prodotto della natura e dell’arte. Conseguentemente, le creature non hanno realtà fuori del divino, mentre il distacco e allontanamento progressivo del molteplice dall’unità implica una decadenza e un depotenziamento ineliminabile che rende le creature un puro “nulla”, un radicale e necessario “non essere” nei confronti della trascendenza di Dio. Ciò non toglie tuttavia che Eckhart evidenzi anche l’intimo nesso tra Dio e le sue creature (variamente paragonato a quello tra materia e forma, tra parte e tutto, tra potenza e atto), fino a conferire alla sua concezione un’impronta chiaramente panteistica. Per quanto lontane dal loro “fonte” e decadute dal loro “principio”, tutte le creature recano il sigillo del loro creatore. Poiché l’anima umana sa comprendere e riflettere questo sigillo, essa può diventare il centro di un processo di elevazione che la riconduce al principio stesso. Riconoscendo la nullità dell’essere parziale e la verità di Dio, possiamo ritornare dalle tenebre alla luce. Tale ritorno risulta tuttavia possibile non per effetto di capacità umane (la volontà, la memoria ecc.) ma per l’azione di quella scintilla del fuoco divino, increata e increabile, che è presente nell’anima, nel suo fondo, che la fa permanere sempre nella realtà di Dio. Essa deve rafforzare la propria “cittadella” interiore, difendere il proprio tesoro respingendo le tentazioni delle cose terrene; godere, senza ricadere nella confusa molteplicità del mondo, della piena unità con Dio facendosi tutt’uno con il suo intelletto e identificando il suo agire con l’agire stesso di Dio. Per unirsi a Dio, rinnovando l’intero uomo, l’anima non deve uscire da sé, ma piuttosto sprofondare al proprio interno, perdersi, annegare, smarrirsi in Lui, diventare essa stessa Dio. Per questo la sola salvezza va indicata nella coscienza del proprio “nulla”, nella determinazione dell’uomo a ne-

Edelman

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gare tutto ciò che lo rende particolare e distinto separandolo dall’unità con Dio. In tal modo Eckhart predica l’ascesi più radicale e trascura volutamente ogni aspetto esteriore dell’esperienza religiosa: l’individuo deve spogliarsi di ogni cura mondana e mirare a quella assoluta “povertà” interiore che è liberazione completa da tutto ciò che impedisce di giungere a Dio, considerando cose del tutto secondarie e di scarso valore preghiere, prescrizioni rituali, obblighi disciplinari, leggi morali, la stessa funzione carismatica e mediatrice della Chiesa. Le idee di Eckhart ebbero grande diffusione tra i ceti popolari dell’Europa centrale e settentrionale, segnando la crisi della scolastica e riflettendo il contrasto tra le esigenze religiose delle borghesie di quei Paesi e la tradizione feudale delle gerarchie ecclesiastiche. Sotto questo profilo egli può dunque essere considerato un preparatore del movimento della Riforma. Non a caso Lutero rimaneggiò e pubblicò con il titolo polemico Una teologia tedesca, lo scritto di un anonimo francofortese seguace delle idee eccartiane, che peraltro si erano ampiamente diffuse per opera dei suoi discepoli Tauler, Suso, Ruysbroeck. Ma l’intrinseco valore speculativo degli scritti del maestro sassone può essere ancora più apprezzato considerandone l’influenza, più o meno esplicita e diretta, su tutta la cultura tedesca, romantica e idealistica, fino a Heidegger. Edelman, Gerald Neurologo americano (New York 1929), premio Nobel per la medicina nel 1972. Si è dedicato allo studio delle basi biologiche dei processi mentali superiori affrontando il rapporto mente-cervello: nelle sue opere (tra esse Darwinismo neuronale, 1987; Il presente ricordato, 1989; La materia della mente, 1992) ha assunto in proposito una posizione qualificabile come fisicalismo non-riduzionista in quanto, da un lato rifiuta il paradigma computazionale (che assimila il cervello a un calcolatore), dall’altro spiega attraverso i meccanismi selettivi delle risposte cognitive (che il computer non può fare) la genesi della mente e della coscienza. Questa prospettiva implicava però la comprensione della specificità biologica del cervello e della sua struttura complessa, che egli ha cercato di chiarire con la teoria detta “darwinismo cerebrale”. Poiché lo sviluppo embrionale viene regolato in rapporto alla posizione delle cellule (topobiologia), si trattava di stabilire come cellule di tipo diverso venissero ad assumere l’opportuno assetto per dar luogo alla forma dell’organismo con

Egidio Romano (Colonna)

la relativa specifica struttura tessutale. Il meccanismo che regola questi processi opera una vera e propria selezione tra i gruppi di cellule in grado di originare la complessità dell’organismo, il sistema nervoso e il comportamento intelligente. Quest’ultimo si caratterizza per una persistente plastica duttilità nei confronti dell’ambiente esterno: poiché da un lato il cervello, pur nella sua complessità, non è atto a svolgere l’attività conoscitiva in base a un’impostazione programmatica a priori (non c’è, come crede Fodor, un linguaggio del pensiero), così come dall’altro il mondo è privo di “etichette categoriali” che esso possa leggere come altrettante informazioni, l’intelligenza non è costituita da qualità specifiche che gli appartengano per natura, ma il risultato ottenuto dall’individuo al termine della sua evoluzione ontogenetica. Nel modello di Edelman il rapporto tra cervello e mondo esterno è soddisfatto da un sistema detto di “segnalazione rientrante”, consistente in un meccanismo spontaneo proprio del sistema nervoso centrale nella sua unitarietà funzionale tramite segnali di rientro e coinvolgente più strutture neuronali dell’individuo (di selezione, adattamento e differenziazione di gruppi di neuroni) a formare mappe. Esso funziona (come hanno dimostrato alcuni esperimenti condotti con strumenti informatici) con il permettere che, al di là della diversità anatomica, ogni struttura utilizzi per le proprie operazioni le procedure e gli esiti di quelle eseguite parallelamente dalle altre strutture del sistema tramite segnali di rientro, cioè grazie a informazioni rientranti di un’altra. In questo quadro si può interpretare la coscienza come prodotto di un cervello biologicamente evoluto che si sa elevare oltre i processi deterministici più elementari verso una mente autocosciente in grado di autodeterminarsi, di essere consapevole degli oggetti che sa differenziare e valutare. Egidio Romano (Colonna) Filosofo e teologo italiano (Roma 1247 ca. - Avignone 1316), primo maestro, celebrato e famoso, dell’ordine agostiniano a Parigi. Già allievo di San Tommaso, ne seguì, non senza elaborazione personale e differenziazioni sostanziali (vi è in lui una maggiore incidenza di temi e concetti neoplatonici; per esempio l’intelletto agente è considerato una “forma” dell’intelletto possibile), l’orientamento teoretico improntato a un aristotelismo moderato (ciò vale per il rapporto tra ragione e fede, per il primato dell’intelletto sulla vo-

Einstein

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lontà, per la dottrina dell’unità della forma nel composto umano e per quella della relazione tra essere ed essenza, anche se Egidio Romano tende a concepire i due termini come sostanze distinte e non come i due elementi inseparabili di un’unica realtà). Pur avendo scritto molto (commenti ad Aristotele, al Liber de causis, alle Sentenze, varie Quaestiones disputatae ecc.), la sua fama è legata a un’opera politica, il De Ecclesiae potestate, che servì da base dottrinale per la bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII contro Filippo IV il Bello. In essa si sostiene la tesi (di stampo platonico-agostiniano, successivamente sviluppata e radicalizzata da altri autori) della supremazia assoluta del papa (variamente argomentata con la superiorità dello spirito sulla materia, dell’anima sul corpo, della teologia rispetto alla filosofia, con la “cattolicità”, cioè universalità, del papa rispetto alla limitatezza di ogni altra autorità ecc.) su ogni altro potere spirituale e temporale. Einstein, Albert Fisico e matematico tedesco (Ulm 1879 - Princeton 1955), premio Nobel nel 1921. Nel 1905 formulò la teoria della relatività ristretta e nel 1916 la teoria della relatività generale. Partendo dalla discussione sull’esperimento di Michelson e Morley (che confutava l’esistenza dell’etere come mezzo di propagazione delle onde sonore e luminose) e dall’affermazione di Poincaré che i fenomeni naturali sono gli stessi per due osservatori che si muovono l’uno rispetto all’altro di moto rettilineo uniforme, Einstein postulò la costanza della velocità della luce nel vuoto esaminando da questo punto di vista i concetti di spazio, tempo e simultaneità e giungendo alle trasformazioni di Lorenz. Nella formulazione generale (che prende in considerazione anche la legge di gravitazione) asserì l’equivalenza di tutti i sistemi di riferimento, qualunque sia il loro stato di moto, ai fini della determinazione delle leggi di natura: in tal modo non solo eliminò la nozione di moto assoluto, ma mise in crisi anche il carattere euclideo della geometria dello spazio fisico, con importanti ripercussioni in campo sia cosmologico sia della fisica atomica. Se il contributo di Einstein alla fisica è assai ampio (scoprì la legge dell’effetto fotoelettrico introducendo il concetto di fotone; con gli studi sulla variazione del calore specifico con la temperatura estese la teoria dei quanti; cercò di pervenire a una teoria unificata del campo elettromagnetico), altrettanto notevole è quello alla riflessione filosofica:

Eleatica, Scuola

con la critica mossa alla nozione di simultaneità, egli introdusse l’esigenza di esplicite definizioni operative a delimitare l’ambito della scienza, mentre si professò conservatore nei confronti di un’eccessiva portata dell’indeterminismo e di un’interpretazione soggettivistica della meccanica quantistica. La sua epistemologia, mentre rifiuta sia il sensismo radicale di Hume e Mach sia l’apriorismo razionalistico di Kant, si orienta a concepire il metodo di ricerca come connessione certa di fattori logico-matematico-linguistici e di fattori empirici: in tal modo Einstein ha evidenziato l’aspetto costruttivo della fisica, il cui apparato concettuale è una creazione puramente umana. Rifugiatosi in America dopo l’avvento del nazismo, Einstein assunse un atteggiamento improntato a un radicale pacifismo (esplicito tra l’altro nel carteggio con Freud) e umanitarismo in merito al problema della responsabilità degli scienziati nei confronti degli usi militari delle loro ricerche e in generale degli intellettuali verso le vicende del mondo. Eleatica, Scuola o eleatismo. Una delle principali scuole presocratiche, sorta nel V secolo a.C. a Elea (l’attuale Velia) in Campania, dove vissero e operarono i suoi maggiori esponenti, ➔ Parmenide e ➔ Zenone. A essa è di solito associato anche ➔ Senofane, per lungo tempo consideratone – a torto – il fondatore, mentre fu un prosecutore e sistematore delle idee del maestro ➔ Melisso di Samo. Fulcro della riflessione eleatica (che rende dottrinalmente unitaria questa scuola) è la teoria dell’essere e della verità come contenuto della riflessione razionale: a essa sono associati una serie di problemi logico-linguistici la cui soluzione conduce alla netta distinzione tra due sfere di realtà (ciò che è e ciò che appare), di conoscenza (quella razionale e quella sensibile), di discorso (quello vero e l’opinione comune). Da un lato dunque gli eleati misero a punto la logica del procedimento dimostrativo, specialmente di tipo indiretto mediante la reductio ad absurdum; dall’altro impressero un forte impulso alle ricerche di tipo metafisico. Sotto entrambi gli aspetti la loro influenza fu feconda e di estrema importanza: da essi deriverà gran parte della logica e della “dialettica” greca (da quella socratica e platonica a quella sofistica, a quella megarica e stoica), nonché quelle dottrine (l’atomismo, l’idealismo platonico) nate da un proficuo confronto con le sue posizioni originarie.

Eliade

Eliade, Mircea Storico delle religioni romeno (Bucarest 1907 - Chicago 1986). Nelle sue opere di carattere generale (particolarmente nel Trattato di storia delle religioni), formulò una concezione del mito (come atto di creazione autonoma dello spirito il cui valore consiste nel carattere di rivelazione del sacro) e della religione (sempre fondata sulla manifestazione di significati trascendenti rispetto alla sfera della natura e della storia), la cui stretta solidarietà è confermata dalla coppia categoriale sacro-profano, che connota il mondo dell’esperienza religiosa. Anche se il primo termine indica la vera realtà e il secondo ciò che è irreale e privo di valore, essi non sono reciprocamente esclusivi, giacché il sacro si manifesta nel profano elevandolo a suo strumento rivelativo, suo simbolo. La storia delle religioni deve appunto procedere a una descrizione fenomenologica dei simboli, evidenziandone, aldilà dell’appartenenza a diversi sistemi culturali, la comune valenza ierofanica, scoprendone le strutture fondamentali e i significati essenziali. Nelle sue ricerche Eliade dimostrò come i simboli arcaici subiscano trasformazioni nelle mutate condizioni socioeconomiche dell’epoca contemporanea, ma non possano essere distrutti nella loro originaria essenza. Ciò risulta in modo evidente nella concezione del tempo: quello sacro è un eterno ritorno in quanto susseguirsi di momenti ciclicamente recuperabili e sperimentati durante le feste. Con ciò il mito si presenta con un forte valore archetipico, modello per le azioni umane e le vicende cosmiche, che assumono significato nella misura in cui si riattualizza la loro valenza sacrale. Empedocle Filosofo greco (Agrigento 492 ca. - 432 ca. a.C.). Appartenente a una illustre famiglia di Agrigento, dove fu eminente uomo politico di parte democratica, ebbe fama di sapiente ma anche di mago, taumaturgo e mistico, tanto che intorno alla sua figura sorsero numerose leggende (la più celebre quella della sua morte nell’Etna). Dei suoi due scritti Sulla natura e Purificazioni ci restano circa 450 versi (su 5000 complessivi), mentre le altre opere sono perdute. Come “fisico” egli si propone di rinnovare i metodi dell’indagine naturalistica dopo la critica di Parmenide, di cui però intende conservare la verità fondamentale dell’immutabilità ed eternità dell’essere, cercando di conciliarla con il motivo empiristico della molteplicità e del divenire. La teoria di Empedocle consiste allora nell’afferma-

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Empedocle

re l’esistenza di una pluralità di sostanze, dotate degli attributi dell’ontologia eleatica, elementi semplici, “non nati” e qualitativamente irriducibili tra loro, distinti e in sé “sempre eternamente uguali”. Le radici del cosmo sono identificabili (secondo i suggerimenti dell’osservazione sensibile, ma anche per l’influenza della scuola pitagorica) con i quattro elementi fondamentali aria, acqua, terra, fuoco, la cui natura è assimilabile a quella dei contrari (caldo-freddo, secco-umido). Da questi hanno origine le cose (molte ma, diversamente da ➔ Anassagora, non infinite) con un processo di mescolanza e disgregazione regolato da precise relazioni quantitative, che ne giustificano la generazione e la corruzione. L’autosufficienza dei quattro elementi impone il ricorso a un duplice principio attivo, a loro esterno, che dia ragione dei movimenti di associazione e dissociazione delle sostanza. Empedocle individua allora Amore e Odio, due forze fisiche eterne che, connaturate alle radici, sono le cause motrici dell’attrazione e della repulsione che configurano il tutto (concepito come un unico, immenso essere vivente) come un processo cosmico ordinato ciclicamente in cui si costituisce il rapporto mobile tra l’uno e i molti. Poiché le due forze tendono costantemente alla prevaricazione reciproca, il divenire cosmico da esse determinato risulterà scandito in un movimento che va dall’unità massima, costituita dallo Sfero (dove gli elementi sono tutti mescolati insieme) all’età dell’odio (il cui avanzare provocherebbe la separazione totale), a quella del caos (dove regna l’assoluta disgregazione e l’estremo disordine), per tornare infine all’età dell’amore (che riprenderà il sopravvento ricostruendo l’unità degli elementi e determinando il riavvio di una palingenesi cosmica). Da questa concezione generale, Empedocle fa derivare sia una teoria degli esseri viventi in cui è inserita una conseguente antropologia (l’uomo è un essere simpateticamente connesso con la natura di cui è parte, in quanto costituito degli stessi elementi delle altre cose) e gnoseologia (il cuore è la sede del pensiero: poiché il sangue è costituito da tutti gli elementi e nella stessa proporzione presente nella realtà, l’uomo può conoscere per via di affinità «la terra con la terra, l’acqua con l’acqua, l’aria divina con l’aria, il fuoco distruttore col fuoco, l’amore con l’amore, l’odio funesto con l’odio»), sia una dottrina magico-religiosa di ispirazione orfica. In quest’ultima si ritrovano i motivi della metempsicosi; della caduta degli esseri dal mondo beato del cie-

Empiriocriticismo

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Enesidemo di Cnosso

lo su questa terra, dove si incarnano sotto diverse forme e soffrono i dolori propri della condizione mortale; dell’espiazione che consente all’anima adeguatamente purificata (mediante regole e riti opportuni insegnati da Empedocle che, quale dispensatore della “parola che sana”, era venerato come un dio) di tornare all’originario stato di perfezione.

to che nel 1929 i membri del ➔ Circolo di Vienna adottarono la denominazione di Associazione Ernst Mach), ma fu anche bersaglio di diverse critiche: famosa è la polemica di Lenin (in Materialismo ed empiriocriticismo del 1909) contro Aleksandr Bogdanov, che aveva introdotto in Russia le idee di Mach proponendo, su questa base, una revisione del marxismo.

Empiriocriticismo Corrente di pensiero fondamentalmente riconducibile alle dottrine di ➔ Mach e ➔ Avenarius (che coniò il termine) concernenti l’“esperienza pura”, quella cioè ricondotta al semplice contenuto sensoriale depurato da ogni interferenza del pensiero. Essi polemizzarono con l’empirismo ingenuo e con tutte quelle filosofie (come lo stesso positivismo) che confondono i dati dell’esperienza con fattori di altra provenienza (metafisica o ambientale, o tradizionale), rivendicando la necessità di affidarsi a una versione dell’esperienza del tutto priva di presupposti o nozioni a loro volta di matrice non empirica. Su questa base risulta chiara la volontà di riferimento esclusivo alla metodologia della conoscenza scientifica e di conseguenza la negazione (come suggerisce il riferimento al criticismo kantiano) di ogni speculazione metafisica. Questa può essere ravvisata non solo nei sistemi idealistici, ma anche nella mira positivistica di pervenire all’impalcatura essenziale della realtà (con la conseguenza che invece di una metafisica spiritualista se ne ottiene una materialistica). Il concetto di esperienza pura implica l’abbandono della distinzione tra mondo esterno e mondo interno, per sottolineare al contrario l’unitarietà del reale e quindi la stretta relazione tra organismo e ambiente. Da questa prospettiva la sensazione è interpretabile come prodotto dell’interazione indifferenziata tra fisico e psichico, e a tale condizione essa costituisce il fondamento della conoscenza scientifica. Al contrario, nell’ambito di questa leggi e concetti sono impiegati in funzione descrittivo-classificatoria e pertanto rispondono a un’esigenza strumentale in senso meramente economico e non certo di conoscenza oggettiva. Come corrente filosofica l’empiriocriticismo ebbe un certo successo (infatti influì sulla fenomenologia di Husserl e costituì la premessa storica al neopositivismo, che ne adottò diversi temi – l’antimetafisica, il criterio descrittivo in epistemologia, lo scambio del concetto di causalità con quello di funzione, la riduzione della realtà al dato empirico – e che a essa si richiamò esplicitamente, tan-

Empirismo logico

➔ Neopositivismo

Enesidemo di Cnosso Nativo di Creta (metà del I sec. a.C. ca.), appartenne alla scuola scettica, e intese con il suo insegnamento, impartito soprattutto ad Alessandria, riportare l’Accademia all’originaria dottrina di ➔ Pirrone di Elide. Non a caso la sua opera più importante in otto libri (perduta, ma di cui abbiamo il riassunto di Sesto Empirico) si intitolava Discorsi pirroniani. La sua dottrina mira innanzitutto a individuare gli argomenti (tropoi), cioè i diversi modi in cui il giudizio sulla verità deve essere sospeso. Sul modello delle categorie aristoteliche, queste ragioni sono dieci e tutte mostrano la necessità del dubbio di fronte a punti di vista tanto parziali quanto equivalenti nella consistenza delle loro acquisizioni. Così 1) le differenze tra gli animali; 2) le differenze tra gli uomini; 3) la varietà e molteplicità delle sensazioni; 4) le circostanze con cui si manifestano esseri contrari; 5) la varietà delle sensazioni per effetto di fattori diversi; 6) l’interferenza o mescolanza di oggetti diversi nella sensazione; 7) le rappresentazioni sensoriali discordi per la quantità o composizione degli oggetti; 8) la relazione tra oggetti diversi; 9) la mutazione delle sensazioni in rapporto alla frequenza; 10) la diversità dei costumi, dimostrano che non è possibile la determinazione di alcun criterio di conoscenza valida e vanificano ogni pretesa di conseguire una verità oggettiva. Alla instabilità dei sensi si deve poi aggiungere la scarsa affidabilità dei processi razionali: in particolare Enesidemo dedica ampio spazio alla critica della conoscenza di cause tra le cose sia in modo diretto (per cui non sarebbe possibile passare dall’esperienza di un oggetto alla sua causa non sperimentata) sia indiretto attraverso segni (cioè a partire dagli effetti). Ma come le cose non sono legate da cause, così non ci possono essere relazioni tra idee: dunque la scienza è impossibile sia come conoscenza di cause sia come sistema di dimostrazioni. Anche sul piano etico Enesidemo segue Pirrone, facendo consistere il sommo bene nell’imperturbabili-

Engels

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tà dell’animo conseguente alla sospensione dell’assenso. Engels, Friedrich Filosofo tedesco (Barmen 1820 - Londra 1895), teorico del socialismo di cui fu uno dei fondatori. Nato da un ricco industriale (a più riprese nel corso della sua vita si occupò degli stabilimenti paterni a Manchester), passò attraverso l’esperienza dei giovani hegeliani per approdare infine al socialismo dopo l’incontro con Marx, con cui scrisse diverse opere (La sacra famiglia del 1844, L’ideologia tedesca del 1846, Il manifesto del partito comunista del 1848) e per conto del quale curò, dopo la morte dell’amico, la pubblicazione del Capitale. Fu dirigente della Prima e della Seconda Internazionale, svolgendo un’intensa attività e intrattenendo una fitta rete di corrispondenza e contatti con i suoi massimi esponenti in tutti i Paesi (in Italia con Antonio Labriola e Filippo Turati) fino alla morte avvenuta nel 1895. Sul piano teorico, dopo la pubblicazione di un’indagine socio-politica su La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), la sua opera più impegnata fu l’Antidühring (1878), in cui, polemizzando con le tesi para-positivistiche di Dühring, difese la concezione materialistica della storia e la correttezza dell’analisi marxiana del modo di produzione capitalistico (compresa la teoria del plusvalore) quali premesse essenziali per la fondazione del socialismo scientifico. Di questo cercò di determinare successivamente fonti e tappe costitutive in Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886) e in L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1883). Più ambiziose e di respiro più ampio appaiono L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884) e la Dialettica della natura (incompiuta e pubblicata postuma nel 1925). Nella prima Engels intese completare il quadro dell’evoluzione sociale delineato da Marx con lo studio delle epoche primitive, al fine di mostrare, attraverso le ricerche dell’etnologo americano Lewis Henry Morgan, l’incidenza del lavoro e dei rapporti di parentela nella formazione delle istituzioni. Nella seconda cercò di fornire un’interpretazione della dialettica in chiave naturalistica (materialismo dialettico), sostenendo (con una forte contaminazione di temi evoluzionistici e positivistici) che essa costituisce la legge non solo dell’evoluzione storica (come in Marx) ma anche del divenire naturale da cui dunque i tre principi fondamentali (della conversione dalla qualità in quantità e viceversa, della compenetrazione degli op-

Epicuro

posti e della negazione della negazione) vanno ricavati, come egli volle dimostrare sulla base di numerose prove. Enrico di Gand Filosofo e teologo fiammingo (Gand 1217 ca. - Parigi 1293), tra i maestri secolari più noti a Parigi alla fine del XIII sec. Da posizioni sostanzialmente avicenniane, si confrontò sia con l’agostinismo sia con l’aristotelismo tomista. In campo metafisico sostenne la dottrina dell’essere in quanto tale, distinguendo però tra essere necessario («che è necessariamente ciò che è» e in cui essenza ed esistenza coincidono) ed essere possibile (che non ha in se stesso una propria ragione necessaria e perciò trova il suo fondamento nell’essere necessario): escluse tuttavia tra essi qualsiasi rapporto di univocità, ponendo anzi una diversità incolmabile e incalcolabile. Dall’assolutezza e trascendenza dell’essere divino dedusse l’assenza di ogni necessità nei riguardi del mondo: di qui la rilevanza data all’atto creatore (impenetrabile dall’intelletto umano) e la radicale dipendenza da esso di ogni forma di esistenza. Concepì le idee come presenti nella mente di Dio, sia pur distinte dal suo essere: così Egli conoscendo se stesso, conosce anche l’essere di tutte le creature. Da qui la critica alle tesi tomiste della distinzione tra essenza ed essere, dell’individuazione per mezzo della materia “signata quantitate” (gli individui per Enrico di Gand sono “essenze esistenti”, essendo l’identità individuale esclusivamente dipendente dalla creazione divina), della supremazia dell’intelletto sulla volontà. Al contrario il suo insegnamento insistette su una originale dottrina circa i rapporti tra l’anima intellettiva e il corpo (la prima è infusa direttamente da Dio mentre il secondo possiede una propria forma sostanziale) che lo condusse a identificare l’intelletto agente con Dio e ad ammettere la necessità della sua illuminazione per ottenere l’astrazione degli universali. Epicuro Filosofo greco (Samo 341 ca. - Atene 270 a.C.), fondatore di uno dei più celebri indirizzi filosofici di età ellenistica. Nato a Samo da genitori ateniesi, dopo aver frequentato diversi maestri (il platonico Panfilo, il democriteo Nausifane) e aver molto viaggiato, aprì una propria scuola prima a Mitilene, poi a Lampsaco e infine ad Atene. Qui acquistò una casa (con annesso il celebre “giardino”), dove visse e insegnò aprendo le porte a tutti, dotti e ignoranti, uomini e donne, liberi e schiavi, in una comunità

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di vita fondata sull’amicizia e sulla ricerca della felicità. Affrontò la morte, avvenuta in modo molto doloroso, con animo sereno e con coraggio, testimoniando nella sua persona l’identità tra saggezza filosofica e vita. Delle sue numerose opere (secondo la tradizione circa 300 titoli), sono rimaste integre tre lettere (A Erodoto sulla fisica, A Pitocle sui fenomeni celesti, A Meneceo sull’etica) che compendiano la sua dottrina, oltre a una raccolta di 40 Massime capitali (un’altra raccolta della scuola, ma non scritta dal maestro, è quella delle Sentenze vaticane, così chiamate perché rinvenute nella biblioteca vaticana nel 1888). Altre informazioni provengono da testi e altri materiali espositivi lasciati da allievi e seguaci: è il caso di Filodemo (epicureo del I sec. a.C., nella cui villa di Ercolano sono stati trovati frammenti di un’opera Sulla natura oltre che di testi di altri discepoli), di Diogene di Enoanda (un benestante del II sec. d.C. che, avendo abbracciato l’epicureismo, non badò a spese per divulgare la dottrina del maestro, facendone incidere ampi brani su un muro nella piazza della sua città, parzialmente ritrovati), e soprattutto di Lucrezio il cui poema De rerum natura, oltre che costituire una delle maggiori fonti di informazione sull’epicureismo, ne segna l’ingresso nella cultura latina. Per Epicuro la filosofia è essenzialmente attività morale finalizzata alla liberazione dell’uomo, e dunque in questo senso fruizione piena della vita: «Come l’arte medica a nulla giova se non ci libera dalle malattie corporee, così neppure la filosofia se non ci libera dai mali dell’anima». È vero dunque che la cultura è funzionale all’etica e che la scienza «non forma un tipo d’uomo bravo a vantarsi e a straparlare»; ma questo nel senso che il vivere bene è strettamente dipendente dal corretto conoscere (sotto questo aspetto Epicuro è nettamente ostile al relativismo e allo scetticismo, che comprometterebbero i risultati in campo morale) e assecondare la verità, intesa come la costituzione del mondo e dell’uomo. Di questa conoscenza d’altra parte non avremmo bisogno «se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori». Dalla constatazione che l’infelicità che grava sull’animo degli uomini è effetto di un cumulo di paure e false opinioni, deriva la possibilità della terapia della filosofia, che si compendia nella dottrina del quadrifarmaco, quattro verità da tenere sempre presenti in quanto capaci di allontanare le princi-

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pali paure cui l’uomo è soggetto: 1) gli dei non sono da temere in quanto per loro natura non si interessano delle vicende umane; 2) non si deve temere la morte poiché quando c’è lei non ci siamo noi; 3) il bene è facile da procurarsi; 4) il male è facile a tollerarsi poiché il dolore è una condizione provvisoria e di breve durata. Il presupposto fisico della filosofia di Epicuro risiede in una interpretazione razionalistica della realtà: la sua fisica è basata su principi semplici accettabili per la loro non contraddittorietà e pienamente rispondenti all’esperienza nella sua evidenza; da un lato non ricorre ad apriorismi o intuizionismi, dall’altro è priva di ogni riferimento alla trascendenza o al finalismo. Condizione della pensabilità di qualsiasi cosa è la sua corporeità (testimoniata dai sensi), che a sua volta presuppone il vuoto, lo spazio infinito. Poiché «nulla nasce da qualcosa che non sia» e nulla si dissolve nel non essere, si deve ammettere la divisibilità della corporeità fino al raggiungimento dell’indivisibile: sua condizione sono perciò gli atomi, entità fisiche individuali, infiniti e indivisibili. Gli atomi sono la condizione da cui tutto deriva «altrimenti tutto nascerebbe da tutto». Movimenti di disgregazione e aggregazione degli atomi nello spazio continuo (che se non esistesse «i corpi non avrebbero né dove stare né dove muoversi come vediamo che si muovono») determinano il nascere e il perire degli esistenti (cose e mondi) dell’universo, anch’esso infinito, giacché non è pensabile un limite ad esso. Il movimento a sua volta risulta esplicabile sulla base dell’ipotesi che gli atomi, oltre che di grandezza (variabile ma non infinitamente, altrimenti alcuni supererebbero la soglia di percepibilità) e forma (che spiega la diversità degli aggregati), siano dotati di peso. Respinta la teoria aristotelica dei luoghi naturali, Epicuro teorizza che per natura ogni atomo sia dotato di una direzione infinita e costante nel vuoto, tesa perpendicolarmente verso il basso per via del peso specifico che trascina l’atomo. In questa condizione in cui gli atomi cadono parallelamente a velocità costante non si danno le condizioni perché possa avvenire tra loro quell’aggregazione che dà origine alle cose e ai mondi, pertanto Epicuro teorizza l’intervento di una deviazione (il clinamen, ritenuto spontaneo da Lucrezio, libero da Diogene di Enoanda e altri discepoli), che interferendo con il moto rettilineo degli atomi avrebbe scatenato tutta quella serie di urti e rimbalzi, aggregazioni e separazioni che hanno dato origine ai mondi, ai

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fenomeni fisici e ai processi di nascita e dissoluzione delle cose (senza quindi bisogno di ricorrere all’intervento teleologico di un Nous, ma in termini puramente meccanici anche se non rigidamente deterministici). L’infinita gamma di combinazioni possibili tra gli atomi e di eventuali fattori concomitanti danno adito a una pluralità di spiegazioni plausibili e formulazioni ipotetiche, ma per Epicuro la loro verità è di per sé irrilevante, purché sia fatta salva, in funzione morale, l’esclusione di ogni amministrazione divina. Anche l’origine dell’uomo rientra pienamente in questo quadro: anima e corpo sono composti da atomi (più leggeri e veloci quelli della prima, più grossolani quelli del secondo). L’anima è ammessa in quanto forza fisica in unità organica con il corpo, passibile di modificarsi, per via della sua costituzione materiale, in seguito alle sensazioni: certo «se tutto il corpo si distrugge, l’anima si disperde, e non ha più quei poteri e quei moti e quindi perde anche la facoltà di sentire. Non si può infatti concepire come senziente se non in questo complesso , né che possa più avere quei moti, quando il corpo che la contiene e la circonda non sia più tale com’è ora, stando nel quale tali moti possiede». Epicuro evidenzia il carattere radicalmente finito e mortale dell’esistenza umana e di qui ricava una gnoseologia nettamente sensista: ogni sensazione è una modificazione dell’anima dovuta a una pressione esterna di atomi che giunge a lei attraverso la mediazione di quella degli organi di senso. Infatti dalle cose promanano delle correnti di atomi, «calchi – e simulacri chiamiamo questi calchi che dalla superficie dei corpi partono in un flusso continuo – che hanno lo stesso schema degli oggetti solidi, ma che per la sottigliezza superano di gran lunga le cose quali appaiono, [...] emanazioni tali da conservare la disposizione e l’ordine che avevano anche nei corpi solidi». Contro la cultura fondata sulla dialettica e la retorica, Epicuro afferma che al saggio «basta seguire le voci delle cose» senza pregiudizio, accordando con esse il retto uso della ragione: infatti ogni sensazione è sempre vera «né vi è alcunché che possa confutarla». Il pensare invece incomincia con il ricordo e consiste nel connettere e nel relazionare le sensazioni. Da esse provengono i concetti, che si configurano come immagini la cui realtà è direttamente proporzionale al loro diventare nomi che consentono, attraverso il ricordo delle impressioni ricevute in passato, di anticipare quelle future: perciò «l’an-

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Epicuro

ticipazione è come un apprendimento [...] insita in noi, vale a dire la memoria di ciò che spesso si è presentato alla nostra mente dall’esterno […]. Per ogni nome ciò che da esso è immediatamente significato ha i caratteri dell’evidenza. E non potremmo mai ricercare alcunché se prima non ne avessimo avuto esperienza [...] né potremmo mai nominare alcuna cosa, se prima non ne conoscessimo per mezzo della prolessi i suoi caratteri». Sulle sensazioni e le anticipazioni (prolessi) si fonda la canonica, l’insieme dei criteri con cui si stabilisce il vero: da esse deriva la certezza degli oggetti evidenti e si formano le opinioni, che, come congetture, attendono di essere confermate o smentite da altre sensazioni. L’inganno e l’errore non sono dunque nei sensi, ma «in quel che nel giudizio aggiungiamo a ciò che attende di essere confermato o di non avere attestazione contraria». Il sapere è dunque basato sull’uso corretto della canonica e la sua validità è condizione essenziale per il nostro sforzo di basare su di essa la vita: in fondo il messaggio di Epicuro consiste nell’appello a giudicare i fenomeni entro i termini di una sana razionalità, riportando il sapere alla sua naturalità e accettandolo senza paure e superstizioni. A cominciare dalla nostra condizione mortale: «Si nasce una volta, due non è concesso, ed è necessario non essere più in eterno». E tuttavia «niente è per noi la morte», con la quale mai ci imbatteremo poiché «quel che è perito infatti è insensibile, e quel che è insensibile non ci tocca». Infatti non è la morte causa del turbamento, ma la sua idea: occorre dunque riflettere che la morte annulla insieme con l’aggregato psichico il soggetto senziente. La morte non mi annienta perché tutto quello che mi riguarda è tale per il tramite della coscienza, che proprio essa fa venire meno: in questo senso «il conoscere esattamente che niente è per noi la morte rende godibile la nostra esistenza nella sua stessa mortalità». Ovviamente, poiché nulla accade a chi non è più, insieme con il timore della morte si dissolve anche quello dell’oltretomba. E altrettanto accade per il timore degli dei: essi certamente esistono, come è testimoniato dalla prolessi di loro che è impressa nel nostro intelletto (essa non esisterebbe se non vi fosse una corrispondente esistenza). Ma non bisogna confondere la nozione del divino (consistente nel pensare gli dei come esseri formati anch’essi da atomi seppure di natura perfetta e beata, bisognosi di nulla e a tutto indifferenti, imperturbabili, esistenti negli “intermundia” dove regnano quiete e armonia)

Epimenide Cretese

con l’idea religiosa, che impropriamente attribuisce loro una presunta (e falsa) potenza attiva e provvidente sul mondo, alimentando (per una molteplicità di motivi e di vie) in tal modo un sentimento di soggezione e di timore. Con la rimozione delle paure, si restituisce l’uomo a se stesso, liberando in lui la capacità di produrre autonomamente il proprio bene. Questo si realizza certamente nella vita, consiste nella vita stessa liberata dal dolore (che è turbamento dovuto a ignoranza o a conoscenza distorta, mentre quello che affligge il corpo «è facilmente sopportabile: quello infatti che è intenso, affligge brevemente, e quello che dura reca poca sofferenza»), e dunque coincidente (come da evidenza immediata) con uno stato d’animo, con una sensazione di piacere. Ma poiché anche il piacere molto intenso provoca turbamento e si trasforma in dolore, Epicuro ravvisa il vero bene nello stato di appagamento esente da ogni movimento di piacere (piacere cinetico), in uno stato di misurato equilibrio interiore dove gli atomi dell’anima stanno senza urti e attriti (causa del turbamento e del dolore, la cui assenza consiste nell’atarassia) procurando una serenità stabile (piacere catastematico) frutto di razionalità e prudenza. Come la beatitudine del dio è l’assenza dei desideri, quella del saggio è la loro soddisfazione. Egli però deve saperli distinguere, per poterli scegliere in riferimento alla salute del corpo e alla tranquillità dell’animo, sapendo che ve ne sono alcuni naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri del tutto vani. Quando non avremo nulla da desiderare avvertendolo come mancante o da cercare come essenziale per il completamento del nostro essere (fisico o psichico), ogni tempesta interiore si placherà lasciando il posto al piacere più puro, frutto di quella misura consapevole che deriva dalla libertà di pensiero. Poiché «l’essenziale per la felicità è la nostra condizione intima di cui siamo padroni noi», Epicuro raccomanda di “liberarsi dal carcere degli affari e della politica”, dove regnano la violenza e la paura, nell’illusione che il denaro e il potere servano a «mettersi così al sicuro dagli altri uomini». In realtà, per Epicuro il diritto, la giustizia, lo Stato hanno senso solo in rapporto «all’utile dei rapporti reciproci». Lo stesso dicasi delle virtù, che sono necessarie nella misura in cui sono funzionali al bene, in sé unicamente desiderabile. E poiché la felicità non consiste nell’insensibilità e nella solitudine, il saggio non vive nell’isolamento (che è una condizione non umana) ma «procura serenità a sé e agli altri»:

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Epitteto

dunque il culmine dell’etica e della vita associata è l’amicizia, «il più grande di tutti quei beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita». Infatti essa non solo ci rafforza nella persuasione della validità dei risultati acquisiti con la filosofia, ma forma intorno a noi un mondo omogeneo che ha l’effetto di intensificare il piacere attraverso la sua aggregazione e scambio reciproco. La dottrina di Epicuro ha avuto un’ampia, anche se non facile, diffusione e una prolungata influenza: a Roma essa ha raccolto discepoli tanto in ambienti popolari quanto in circoli signorili in atteggiamento di fronda rispetto alla politica ufficiale. In ombra durante il medioevo per i suoi caratteri materialistici e “atei”, è stato ripreso (sia pure in forme attenuate) da Lorenzo Valla e Pierre Gassendi, che ne hanno cercato in vario modo una conciliazione con il cristianesimo. Motivi epicurei (l’edonismo, la pluralità dei mondi, la continuità di spirito e materia ecc.) sono inoltre ampiamente presenti nel vasto arco del pensiero libertino, in particolare francese, tra i secoli XVI e XVIII, sia per il richiamo alla libertà di pensiero, sia per i risvolti politici (in analogia con quanto era già avvenuto in età romana), sia per le implicazioni etico-religiose durante il periodo delle guerre di religione e dell’intolleranza del controriformismo cattolico. Epimenide Cretese Poeta e teologo greco (Cnosso, VII-VI sec. a.C.), spesso annoverato tra i Sette Sapienti. Figura avvolta da un alone di leggenda, della sua vita e della sua opera ci sono rimaste alcune testimonianze, tra cui quella di Platone (Leggi, I, 642d), da cui apprendiamo che avrebbe composto una Teogonia e dei Vaticinii di cui rimangono alcuni frammenti che mostrano come la sua concezione mitica (secondo cui tutta la realtà derivava dall’aria, dalla notte e dal Tartaro) fosse connessa alla tradizione esiodea e orfica. Epitteto Filosofo greco (Gerapoli 50 - Nicopoli 138 ca.). Visse a Roma fino al 93 ca., prima come schiavo di Epafrodito e poi come liberto. Frequentò il filosofo stoico Rufo. Quando Domiziano espulse i cultori di filosofia dall’Italia, Epitteto si rifugiò in Epiro dove, a Nicopoli, fondò una scuola di impostazione stoica. Nelle sue Diatribe (trascrizione delle sue lezioni fatta dal discepolo Arriano) e ancor più nel Manuale (tradotto in italiano da Leopardi) si delinea come tema dominante la ricerca della libertà, intesa come esercizio della ragione, come ca-

Eraclide Pontico

pacità di essere coscienti di ciò che è ineluttabile e quindi della debolezza delle facoltà umane. Secondo Epitteto, come per lo stoicismo in generale, il tutto è governato dal Logos (ragione intima delle cose) e il saggio deve distinguere il campo d’azione dell’uomo (il bene, il male, l’interiorità) da ciò che trascende lui e la sua volontà (il mondo, le cose), comprendendo l’impossibilità di opporvisi o modificarlo. Eraclide Pontico Filosofo greco (Eraclea 390-310 ca. a.C.). Fu membro influente dell’Accademia platonica, che abbandonò alla morte di Speusippo a causa di dissidi interni. Fra i suoi molteplici interessi restano famosi gli studi matematico-astronomici che lo portarono a ipotizzare l’eliocentrismo (ripreso in seguito da Aristarco di Samo): affermò infatti che la terra ruotava intorno al proprio asse e i pianeti Mercurio e Venere intorno al Sole. La sua indagine esulava tuttavia dal campo strettamente scientifico, in quanto i pianeti erano al tempo considerati come elementi divini e la cosmologia era pervasa da spirito religioso e influenzata dall’antica sapienza di Zoroastro. Eraclito Filosofo greco (Efeso 540 ca.-480 ca. a.C.). Nato a Efeso da nobile famiglia, durante il dominio persiano si ritirò dalla vita politica osteggiando comunque l’entrante regime democratico, che aveva cacciato Ermodoro, suo amico e capo del partito favorevole a Dario. I frammenti della sua opera (un centinaio di aforismi che in maniera densa e sintetica accennano e alludono alla sua dottrina) sono scritti in uno stile volutamente oscuro e ambiguo, espressione di un carattere altero e superbo e di una personalità aristocratica e orgogliosa che disprezzava il volgo ritenendo la sapienza (per sua natura nascosta e impervia) appannaggio di una ristretta cerchia. Pensatore isolato, fu tuttavia al corrente del tessuto culturale della sua epoca e conobbe le problematiche trattate dai milesii. Dai suoi versi oracolari emerge chiaramente il motivo dominante di una realtà una e vivente, resa tale dalla presenza di un Logos che tutto domina («vi è una sola sapienza: conoscere la Ragione che tutto governa penetrando in tutto [...] Tutto infatti avviene secondo questo Logos») e si manifesta negli individui (perciò Eraclito può affermare: «Ho indagato me stesso»; e proclamare l’incommensurabilità dell’anima: «così profonda è la sua ragione»), an-

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Eraclito

che se pochi lo sanno riconoscere. Così vi è in Eraclito da un lato la convinzione «che a tutti gli uomini è possibile [...] essere saggi» nella consapevolezza che «a tutti è comune la facoltà di pensare» e che «l’universale è il comune», poiché chi «parla con intelligenza deve appoggiarsi su ciò che è comune a tutti, come una città sulla legge»; dall’altro la constatazione, giacché «i molti sono cattivi, i buoni pochi», dell’intraducibilità della saggezza in un immediato e generale possesso. Infatti è costante in Eraclito la polemica contro il falso sapere dei più che, chiusi nell’angustia della loro intelligenza particolare e nella parzialità della loro esperienza, «non sono coscienti di ciò che fanno» (e perciò si rifugiano nelle pratiche magiche e religiose), vivendo come in un sogno ingannati dalle apparenze, inconsapevoli e come inesperti delle cose con cui nondimeno hanno costante contatto. La critica di Eraclito si estende anche agli altri sapienti (i poeti come Omero ed Esiodo e i filosofi come Pitagora) che, pur avendo parlato di tutto e aver preteso di essere maestri in discipline e tecniche particolari, tali non sono nella misura in cui è sfuggita loro la sola cosa essenziale: «L’unica legge divina, in quanto essa domina tanto quanto vuole, e basta a tutti e trionfa», senza la quale le varie conoscenze risultano disordinate e riducibili a “chiacchiere” e “trastulli di bimbi”. Nella loro insipienza essi tendono ad accumulare dati e fatti e a trasformarli, mediante la loro definizione o la loro determinazione quantitativa, in nomi che, mentre non colgono se non aspetti parziali delle cose, le distinguono e le distaccano, in una chiarificazione solo apparente, dall’unità di cui fanno parte, racchiudendole in rigide relazioni di alterità. Alle loro teorie Eraclito oppone il Logos, che egli stesso annuncia e al cui ascolto chiama: esso è insieme (in un’intima connessione tipica della cultura arcaica) Ragione, Realtà, Parola, e dunque la sapienza è Verità in triplice senso. Malgrado la consapevolezza «che la sapienza è una cosa separata da tutte le altre», non si tratta però di contrapposizione: l’esperienza (cui fanno appello sia l’uomo comune sia filosofi come ➔ Anassimandro) testimonia dell’evidenza del perenne divenire e trasformarsi del reale, dove “tutto scorre” (panta rei) e «scendiamo e non scendiamo in uno stesso fiume, noi siamo e non siamo gli stessi», sostenendo però che i termini di questo processo non solo sono discontinui (anzi, «Polemos» – il conflitto –

Erasmo da Rotterdam

«è padre di tutte le cose», giacché produce quell’opposizione tra elementi contrari che determina la stessa storia del mondo) ma irrelazionabili e reciprocamente escludentisi, irrigiditi in una pretesa autonomia a sua volta espressa in una molteplicità di coppie di segni antitetici (giorno-notte, sveglio-dormiente, freddo-caldo, umido-secco, giusto-ingiusto ecc.). Ma «occhi e orecchie sono per gli uomini cattivi testimoni [...] se accettano le cose così come appaiono, l’una distinta dall’altra, disarticolate; se non sanno scomporre ciascuna cosa secondo la sua intima natura»: proprio la lotta esige che ogni elemento sia legato al suo opposto, che la loro scomposizione conflittuale rinvii alla loro unità, che «il tutto sia governato attraverso tutto». Il Logos è dunque il principio razionale unificante che governa la natura, la sua “armonia segreta” (coglibile solo da pochi, poiché «l’intima natura delle cose ama nascondersi»), «armonia di tensioni contrastanti come nell’arco e nella lira», legge divina universale operante nel mondo, del cui essere costituisce l’identità traendola dal vincolo di necessità in cui stringe gli elementi in conflitto. In questo senso «la via in su e la via in giù sono un’unica e identica via», «da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose» in un rapporto di proporzionalità diretta tra funzione coesiva del Logos e divaricazioni oppositive che determina la coincidenza di questi processi «come nel cerchio in cui comune è il principio e la fine». Questa natura immanentemente comunicativa e partecipativa del Logos fa sì che esso venga identificato (forse a livello più simbolico che reale) con il fuoco quale principio fisico: «quest’ordine del mondo [...] è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno» che si diffonde in modo reciprocamente scambievole nelle cose «come delle merci con l’oro e dell’oro con le merci». Il fuoco, con la sua mobilità che congiunge le varie trasformazioni, risulta idoneo ad “alludere” all’ordine metafisico, la cui razionalità si riconosce nell’identità degli opposti e nell’incessante alternanza della vita e della morte: così la cosmologia di Eraclito considera il rapporto tra il fuoco (ragione eterna che dura nel tempo, separato e inseparato, mortale e immortale, generato e ingenerato) e le sue produzioni come simultaneità e interdipendenza dei due processi di separazione dell’uno nel molteplice e di riassorbimento del molteplice nell’uno. Dunque «le forme del fuoco: prima il mare; del mare la metà è terra e metà turbine infuocato [...] la terra si scioglie nel mare e regola la sua mi-

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Erasmo da Rotterdam

sura secondo quella stessa legge che esisteva prima che essa diventasse terra» secondo una scansione circolare di fasi per cui «l’anima muore in acqua e l’acqua muore in terra; ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua l’anima» in un quadro complessivo in cui «l’evo è un bambino che gioca, spostando qua e là i pezzi del gioco». La verità di Eraclito non poteva non avere un risvolto etico-politico: sull’unica legge divina devono fondarsi quelle umane, così come sommo peccato di hybris è l’individuazione, la separazione che non rispetta la misura assegnata ad ognuno. La «giustizia contrasto e tutto avviene secondo contrasto e necessità», e gli uomini commettono ingiustizia quando «discordano dalla verità, dalla legge del mondo» non comprendendo che «tutto è uno» e «tutto è a un tempo concordia e discordia» mentre il dio «si altera proprio come il fuoco quando si combina con aromi». Per la potenza espressiva e la polivalenza semantica dei suoi frammenti, il pensiero di Eraclito è risultato fin dall’antichità uno dei più ardui e stimolanti, costituendo uno dei pilastri di tutta la tradizione occidentale: come tale ricorre in tutta la riflessione teoretica, anche nell’età moderna e contemporanea. Erasmo da Rotterdam Umanista olandese (Rotterdam 1466 o 1469 - Basilea 1536), è uno dei maggiori intellettuali del rinascimento europeo. la vita. Figlio illegittimo e rimasto orfano dei genitori, fu forzato dai tutori a diventare monaco. Ordinato sacerdote, passò qualche tempo nel convento di Steyn, fruendo della sua ricca biblioteca. Diventato segretario del vescovo di Cambrai, fu al suo seguito in una serie di viaggi, prima a Parigi poi a Londra (dove stringe amicizia con Thomas More), a Lovanio, in Italia (a Roma e Venezia), ancora in Inghilterra e infine nel 1516 a Basilea, dove soggiornerà quasi ininterrottamente fino alla morte. Qui scrisse la maggior parte delle sue opere, intrattenendo (come è testimoniato dal ricco Epistolario) rapporti con i maggiori dotti dell’Europa e partecipando da protagonista ai grandi avvenimenti storici del tempo. il pensiero. Il pensiero di Erasmo ha un’impronta nettamente religiosa ed è ispirato a un ideale di profondo rinnovamento spirituale della vita della Chiesa e dell’intera cristianità. Perciò fu ostile alla teologia scolastica, che giudicava formalista e astratta nel suo intellettualismo fatto di sillogismi e

Ermete Trismegisto

sottigliezze speculative, e auspicò un ritorno alle fonti della fede. In questo senso va interpretata la sua intensa attività di filologo, che si concretizzò nell’edizione critica di numerosi testi patristici (soprattutto Agostino, Ambrogio e Gerolamo) e principalmente in quella del Nuovo Testamento. Su questo punto Erasmo anticipò (venendo poi ingiustamente accusato di collusione) Lutero, sostenendo la necessità di un accesso diretto alla Scrittura da parte di tutti e conseguentemente anche l’opportunità di una sua traduzione nelle lingue volgari. Infatti la portata pratica in vista della salvezza della dottrina del Vangelo ne esige la diffusione universale: il messaggio ivi contenuto è di tale immediatezza da essere comprensibile anche agli incolti senza timore di errori interpretativi, e va dunque sottratto al monopolio dei teologi. Inoltre, esso è la fonte di valori etici e spirituali che costituiscono il migliore antidoto contro quello scadimento della religione in superstizione cui l’ha ridotta la corruzione degli ecclesiastici (in più occasioni denunciata con sarcasmo) e la pratica ritualistica meramente esteriore. In effetti Erasmo detestò il fariseismo e difese la pura interiorità del cristianesimo, in cui deve prevalere non l’aspetto dottrinale ma quello pratico della “sequela” e dell’“imitazione di Cristo”. Sotto questo aspetto l’opera più notevole di Erasmo è l’Enchiridion militis christiani (1502), che vuole essere una guida alla devozione autentica: qui egli definisce la vita come lotta per la virtù contro il vizio, per la quale le uniche armi valide sono la preghiera e la Scrittura. In continuità con la saggezza degli antichi (Socrate, Platone ecc.), Erasmo afferma che noi siamo un composto di anima (con la quale apparteniamo al regno del divino) e corpo (con cui partecipiamo del regno animale), principi che, dopo il peccato originale, sono in lotta tra di loro e che aprono a inconciliabili forme di conduzione etica della vita. Poiché l’uomo è stato creato da Dio, resta in grado di fare il bene purché si sforzi di far prevalere in lui la ragione, con il sostegno della grazia e con l’impiego di alcune regole (indicate dall’autore). Nell’ottica della determinazione della philosophia Christi va collocato anche l’Elogio della Follia (1511), che pone quale massima espressione della sapienza la follia (così appare agli occhi del mondo) della Croce. L’ideale erasmiano di un umanesimo cristiano alieno da ogni rigorismo asceticamente umiliante ed estremismo dottrinale, irenicamente tollerante e comprensivo, volto a

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Ermete Trismegisto

una riforma profonda dei costumi e a una conversione che tocchi le radici dell’animo umano esaltandone tutte le risorse positive, emerge con tutta evidenza nella Diatriba de libero arbitrio (1524): in polemica con Lutero (che gli rispose con il De servo arbitrio, 1525) e la teologia riformata, Erasmo difese questa facoltà come conseguenza dell’opera creatrice di Dio. Fonte di ogni responsabilità morale, essa è stata oscurata ma non annullata dal peccato: perciò Cristo la presuppone nel momento in cui chiama la persona a cooperare consapevolmente alla propria salvezza, sostenendola con la grazia. Sul piano politico Erasmo si schierò per una prospettiva di pace e di giustizia (per esempio con il suo Lamento della Pace del 1517), coniugando (si veda Institutio principis cristiani del 1615, dedicato al futuro sovrano Carlo V) la gestione del potere con la dimensione morale in funzione del bene comune e della lotta contro l’iniquità. Infine, il taglio sostanzialmente etico del pensiero di Erasmo è presente in due operette entrambe più volte ristampate, di volta in volta corrette e ampliate. Gli Adagiorum collectanea contengono una serie di proverbi, aneddoti, simboli e allegorie tratte dalle letterature classiche e commentati con gusto e ampiezza di riferimenti eruditi. I Colloquia costituiscono una galleria di tipi umani colti nella molteplicità delle situazioni e degli aspetti della vita comune, che Erasmo fa scorrere sotto i nostri occhi per mettere a nudo e attaccare, sempre con pacata ironia e garbata e serena arguzia, vizi e debolezze, pregiudizi e menzogne, in un processo non di mera dissacrazione ma volto a cogliere la verità nascosta dietro i comportamenti degli individui, espressione di una natura proteiforme che egli (secondo la lezione degli antichi appresa e interpretata in piena sintonia di intenti) vuole indagare e adeguatamente rappresentare. Ermete Trismegisto Presso i greci Hermes era il nome col quale si identificava il nume tutelare della parola, e quindi messaggero di Zeus. Nella cultura egizia il corrispettivo di Ermes era Thoth, dio dell’astrologia e inventore della scrittura, al quale era dato l’appellativo di “tre volte grande” (trismegisto), mentre per gli gnostici era il Logos (discorso) divino. La tradizione attribuì a Ermete Trismegisto numerosi scritti, forse di provenienza alessandrina e composti tra il II e III secolo d.C., il più noto dei quali è il Corpus Hermeticum in 17 trattati; interessante anche la Tabula Smaragdina, tra-

Ermetica, Filosofia

dotta in latino e arabo, considerata un testo fondamentale dagli alchimisti del medioevo. Ermetica, Filoso¿a L’insieme delle dottrine esposte in una serie di scritti in lingua greca (17 trattati, di cui il primo Poimandres è il più importante, e il dialogo Asclepio, giuntoci incompleto in sola versione latina e contenente un’esposizione dei riti egiziani) databili tra il II e il III sec d.C. e attribuiti al mitico Ermete Trismegisto (figura risultante dall’identificazione del dio greco Hermes con l’egiziano Thoth), ma in realtà opera di autori diversi pure appartenenti a un comune clima culturale. Tale “filosofia” appare frutto di un sincretismo eclettico e si risolve in una mescolanza di elementi eterogenei (orfici, pitagorici, platonici, stoici, con influssi anche persiani e caldaici) che nel loro complesso costituiscono una forma di gnosi popolare dai tratti mistico-magici. La verità che si vuole diffondere è una “rivelazione”, un “dono divino” (riservato a quei pochi eletti che sono in grado di staccarsi da tutto ciò che è materiale e mondano) da accogliere con devozione e pietà in una sorta di culto che arreca salvezza e gioia. Al culmine del reale sta Dio, inconoscibile e ineffabile; egli è creatore del cosmo, che recando la sua impronta diviene esso stesso divino, figlio di Dio immortale come il Padre; infine viene l’uomo, compendio di tutto l’universo (“magnum miraculum est homo”). L’anima umana è discesa dalle sfere celesti, cui può fare ritorno in forza di una conoscenza superiore che consiste in una illuminazione estatica, «silenzio divino e riposo da tutte le sensazioni», acquisibile previa purificazione dal male e dall’errore. Oltre al Corpus Hermeticum propriamente detto, vi è tutto un complesso di scritti contenenti formule magiche e motivi alchemici e astrologici (tra essi la celebre Tabula smaragdina, testo fondamentale dell’alchimia) che formano il patrimonio basilare della tradizione occultistica ed esoterica fiorita in particolare nei secoli XVII e XVIII (quando trovò accoglienza presso le società segrete dei ➔ Rosacroce e della massoneria) e protrattasi fino ai giorni nostri. Storicamente invece la filosofia ermetica ebbe una straordinaria fortuna nel Quattrocento, quando i suoi testi, ritenuti realmente antichissimi (finché nel 1614 il filologo Casaubon dimostrò, sulla base di una rigorosa analisi filologica, che non poteva trattarsi di testi precedenti i primi secoli dell’era cristiana) e depositari

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Euclide

di una sapienza soprannaturale, furono di nuovo conosciuti, tradotti (da Marsilio Ficino) e studiati nell’ambito di quella cultura umanistico-platonica che intendeva proporre una docta religio e una conciliazione dottrinale tra paganesimo e cristianesimo sulla base della prisca sophia. Eubulide di Mileto Filosofo greco (IV sec. a.C.). Appartenne alla Scuola megarica fondata da Euclide di Megara e fu fautore dell’abbandono della dialettica socratica a vantaggio di quella eleatica, con la quale si affermava l’esclusiva realtà dell’Uno. Egli utilizzò questo strumento per portare all’assurdo alcune proposizioni o enunciati del linguaggio ordinario che potevano sembrare scontate, giungendo in tal modo a formulare, contro la logica apodittica, (secondo la testimonianza di ➔ Diogene Laerzio) i famosi sofismi, o discorsi insolubili, come quello del mentitore (la cui affermazione «io mento» risulta al contempo vera e falsa); del cornuto (se si assume di possedere ciò che non si è perduto, bisogna ammettere di avere le corna dal momento che non le si è perdute); del sorite (se un chicco di grano non fa un mucchio, e neppure l’aggiunta di un altro chicco, quand’è che la somma dei chicchi comincia a essere considerata un mucchio?); del calvo (analogo al precedente); di Elettra (che è in contraddizione con se stessa quando afferma di conoscere suo fratello Oreste, ma non lo riconosce quando le sta di fronte velato); del nascosto (analogo al precedente). Tali ragionamenti, ripresi e ampliati dagli stoici, sono stati oggetto di riflessione anche per la logica contemporanea (per esempio in Russell). Euclide Matematico greco (330-260 ca. a.C.), visse ad Alessandria dove, sotto Tolomeo I, svolse la sua attività di ricerca e fondò una scuola. Sotto l’influsso di Platone (alla cui scuola probabilmente studiò) e di Democrito, egli concepì la geometria come disciplina pura, cioè esclusivamente razionale (senza riferimenti empirici) in quanto studio delle relazioni tra gli elementi (le proprietà) delle figure, punti, rette, piani e spazi tridimensionali o pluridimensionali: nella sua opera principale, gli Elementi, in 13 libri (due ulteriori libri furono aggiunti da autori posteriori), egli cercò di conferire organicità a tutta la materia e a tutte le acquisizioni dei matematici a lui precedenti (tra cui ➔ Eudosso e Teeteto), che avevano condotto ricerche non sistematiche e accumu-

Euclide di Megara

lato in modo frammentario una molteplicità di teoremi e nozioni. In questo senso il suo merito principale consiste nel metodo seguito (il metodo assiomatico), che fino al XIX secolo fu considerato il modello perfetto di sapere apodittico e formalmente rigoroso (e come tale fu adottato da quegli autori che, come ➔ Spinoza, intesero proporre un sistema di conoscenze valido a priori): si tratta di una costruzione teorica che poggia su un numero circoscritto di definizioni concernenti gli enti primitivi (per esempio il punto), cinque enunciati relativi a questi (gli assiomi o postulati) e altrettanti di carattere generale (le nozioni comuni), di carattere intuitivo e universalmente evidente. Su questa base viene edificato un intero edificio di ulteriori proposizioni (i teoremi), tutte collegate tra loro a formare una catena e la cui dimostrazione è stabilita per via deduttiva sia in rapporto alle proposizioni primitive sia ai teoremi precedentemente dimostrati. Euclide scrisse altre opere (tra cui Dati, Della divisione delle figure, Ottica, Fenomeni, Introduzione armonica) in cui si evidenzia la sua concezione (di derivazione platonica) della matematica come struttura razionale della realtà e quindi come chiave esplicativa del mondo sensibile e dei suoi fenomeni. Euclide di Megara Filosofo greco (Megara o Gela, 450-380 a.C.), fondatore di una delle scuole socratiche, detta megarica. Prima di incontrare Socrate ed entrare nella sua cerchia (assistette alla morte del maestro e rimase in buoni rapporti con Platone, che ospitò dopo la fuga da Atene), aveva studiato Parmenide, per cui si può dire che egli cercò di conciliare l’eleatismo con la dottrina socratica. Infatti, nelle sue opere (sei dialoghi, tutti perduti) sembra sia avere sostenuto l’identità di essere e bene, sia aver coltivato gli studi di logica. In questo campo egli giunse ad affermare la non sostenibilità tanto della diversità (essere e bene sono assoluta unità che non ammette relazioni che non siano l’identità e la contraddizione) quanto della somiglianza, con il conseguente rifiuto del metodo comparativo, già utilizzato da Socrate al momento di procedere per via induttiva. Al contrario Euclide adottò, con Zenone di Elea, il metodo del ragionamento per assurdo (che il suo discepolo ➔ Eubulide di Mileto sviluppò attraverso l’individuazione di una serie di paradossi logici), che utilizzò in senso negativo per confutare un’argomentazione attaccandone la conclusione piuttosto che le premesse, e

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Evola

in senso positivo per la dimostrazione di asserzioni teoriche generali. Eudosso di Cnido Matematico e astronomo greco (409 ca.-355 ca. a.C.). Fu seguace dell’Accademia e si occupò di temi morali e filosofici, ma il suo nome presso i posteri è legato allo studio dell’astronomia. Per primo calcolò la durata dell’anno solare in 365 giorni e 6 ore. L’opera scientifica di Eudosso avverte l’esigenza dell’utilizzo dello strumento matematico (seguendo in questo il pensiero di Pitagora e di Platone) per evitare ogni ricorso all’intuizione e poter così procedere a rigorose dimostrazioni. In questo modo egli giunge a formulare due importanti teorie in campo matematico: quella delle proporzioni (relativa alle grandezze commensurabili e incommensurabili, inserita nel V libro degli Elementi di Euclide) e quella del “metodo di esaustione” (per confrontare tra loro le superfici di cerchi e quadrati, sfere e cubi nei loro rispettivi diametri, i volumi del cono e della piramide ecc.). Il modello astronomico di Eudosso, rigorosamente geocentrico, è una descrizione che cerca di giustificare “per ipotesi” i fenomeni osservabili nel cielo. Il moto dei pianeti è descritto come circolare uniforme (anche se con tale spiegazione non si vennero a motivare le variazioni di luminosità osservabili nei pianeti, oppure il loro moto a volte rallentato e retrogrado) e ciascun pianeta viene ipoteticamente posto nell’equatore di una sfera che ruota intorno all’asse inclinato di un’altra sfera e così via (sono necessarie fino a quattro sfere per i pianeti, tre per Sole e Luna, una per le stelle fisse). Contrariamente alla teoria aristotelica, che considerava le sfere come enti solidi e cristallini, per Eudosso esse sono pure costruzioni matematiche. Evola, Julius Filosofo italiano (Roma 18981974), considerato tra i principali maestri del pensiero della Destra. Personalità poliedrica e dai molteplici interessi (come pittore aderì ai movimenti del dadaismo e del futurismo, come scrittore fu vicino alle posizioni delle riviste La voce e Il Leonardo), si dedicò alla filosofia partendo dal pensiero idealistico di stampo gentiliano (Saggi sull’idealismo magico, 1925) in cui fece confluire il volontarismo di Nietzsche (Teoria dell’individuo assoluto, 1927; Fenomenologia dell’individuo assoluto, 1930). Da questo punto di vista assunse un atteggiamento non solo fortemente ostile al mondo borghese, ma anche al cristianesimo, esaltando, all’opposto, il mondo

Evola

e lo spirito pagano (Imperialismo pagano, 1928) anche nelle sue tradizioni culturali di iniziazione (Il mistero del Graal, 1937). Studiò il buddismo (specialmente quello delle origini) in cui vide la prospettiva della piena realizzazione del sé, di un potenziamento dell’individuo fino a una sua divinizzazione e assolutizzazione (L’uomo come potenza del 1925, poi rielaborato nel 1949 come Lo Yoga della potenza; La dottrina del risveglio del 1943); su questa linea di indagine delle forme di realizzazione interiore, studia anche l’alchimia (La tradizione ermetica, 1931). Aderì (pur conservando una propria indipendenza di pensiero) al fascismo, di cui condivise l’impalcatura ideologica di fondo; sulla questione della razza e dell’antisemitismo oppose però alla versione ufficiale di stampo materialistico e biologico, una sua prospettiva “spirituale”, in cui cioè “l’ariano” e “l’ebreo” erano da intendersi come tipologie antropologiche del tutto divergenti, quindi con valore positivo e negativo, ma non identificabili con specifici popoli (Il mito del sangue, 1937; Sintesi di dottrina della razza, 1941). Tradusse e face conoscere in Italia alcuni autori stranieri (Bachofen, Spengler, Weininger), mentre nel 1934 pubblicò la sua opera più importante, Rivolta contro il mondo moderno. Ispirandosi a ➔ Guénon egli si riallaccia alla concezione della Tradizione che si fonda sulla distinzione (da cui si

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origina ogni gerarchia politica, sociale e culturale) tra l’ambito superiore e quello inferiore dell’essere (divenire), tra piano metafisico e piano fisico, tra livello spirituale e trascendente e livello sensibile, materiale. Da queste due nature si costituiscono due poli d’esistenza per cui l’uomo superiore (tradizionale) sa elevarsi, con una sorta di nuova nascita, dal grado inferiore a quello superiore dell’essere, trovando in sé ciò che va oltre sé: disprezzando ciò che è inferiore, egli tende alla trascendenza (simboleggiata dall’impero e dalle caste) seguendo la via dell’azione eroica (regalità e cavalleria) e della contemplazione (sacerdozio). Da questa prospettiva il mondo moderno è considerato nel suo carattere regressivo, in una sorta di evoluzione antidarwinista che vede la decadenza dell’uomo-dio: i fenomeni di questa decadenza (peraltro già presente nelle teorie platoniche e induiste che considerano la storia come il succedersi di quattro età e dei relativi tipi d’uomo) sono individuati nel collettivismo socialista, nell’individualismo liberale, nel tecnicismo, nell’industrialismo, nel materialismo consumistico. Evola denuncia con forza che oggi siamo in un’“età oscura” dominata da potenze che portano l’Occidente alla rovina, ma auspica che i pochi eletti rimasti lottino per il risveglio della Tradizione che continua a sussistere pur nell’attuale confusione, chiama l’elite di rari solitari a “cavalcare la tigre”.

F Farabi, al- Nome completo Abu Nasr Muhammad al-Farabi. Filosofo arabo di origine turca (Wasig 870 - Damasco 950). Autore di molte opere e traduzioni dal greco, insegnò a Damasco trascorrendo gli ultimi anni ad Aleppo. Considerò la filosofia in posizione assolutamente preminente nell’intendimento della verità (esposta nelle varie religioni in chiave puramente simbolica), esponendosi in tal modo alla critica degli ortodossi (tra cui ➔ al-Ghazzali). Tentò di operare una sintesi tra le dottrine platonica e aristotelica e, ne L’armonia tra Platone e Aristotele, teorizzò una “creazione eterna” o emanativa, modificando in senso plotiniano la dottrina peripatetica dell’eternità del mondo. Distinguendo essenza ed esistenza ed intendendo la seconda come un accidente della prima, concepì Dio come assoluta perfezione (in Lui i due termini coincidono) e come causa prima, poiché Egli dà l’esistenza agli esseri finiti unendo alle essenze l’accidente estrinseco che le fa realmente esistere. La causa prima non è solo l’Uno assoluto, ma anche l’Intelletto che pensa se stesso: l’intelletto attivo aristotelico è concepito come svolgente gran parte delle funzioni del Nous plotiniano (al tempo stesso al-Farabi identifica le intelligenze con le sfere celesti) e come entità separata dagli uomini, nei quali è presente soltanto l’intelletto possibile, che riceve le forme intelligibili impresse in esso da quello agente per illuminazione. Scopo dell’uomo è l’unificazione con l’intelletto agente divino ed eterno (l’immortalità è concessa quindi solo alla parte razionale dell’anima), fonte di ogni cognizione e primo motore di tutta la realtà, unione che lo rende (come testimonia l’esempio sommo di Maometto) capace di profetare, di comprendere la realtà sovrannaturale e la sorte futura. Al-Farabi fu anche pensatore politico e in questo campo teorizzò la creazione di un’unica comunità umana, volta ad assicurare nel modo migliore la nostra esistenza mondana ma soprattutto a preparare (sotto la guida di un re-filosofo quale poteva essere il califfo, capo spirituale e politico dell’Islam) le menti alla beatitudine dell’altra vita. Le dottrine di al-Farabi ebbero grande influenza non solo

sui filosofi islamici ed ebrei (Avicenna, Averroè, Maimonide), ma anche sugli scolastici latini del Duecento e Trecento. Fechner, Gustav Theodor Psicologo e filosofo tedesco (Gross-Särchen 1801 - Lipsia 1887). Fu professore a Lipsia dove aprì, insieme con ➔ Wundt, il primo laboratorio di psicologia sperimentale. Fondò la sua concezione scientifica su una visione di tipo panpsichistico e panteistico in cui il mondo fisico non è che l’aspetto visibile di quello spirituale e in cui (secondo una prospettiva di stampo leibniziano) si stabilisce una gerarchia tra gli enti differenziati per la loro complessità fisica e psichica e costituenti nel loro insieme un’unità superiore chiamata “grande Anima della Terra”. L’universo è un tutto unico, un’entità animata, un solo organismo penetrato dallo spirito di Dio che tutto abbraccia e vivifica. Su questa base egli definì la psicofisica come «scienza esatta delle relazioni funzionali o delle relazioni di dipendenza tra corpo e mente», nata dall’intuizione che occorresse un aumento di energia corporea in corrispondenza di un aumento di energia mentale. Così, raccogliendo i risultati delle ricerche del collega ➔ Weber, egli ipotizzò che aumentando con una serie aritmetica l’intensità di una sensazione aumentasse con una proporzione geometrica l’energia, e che un aumento assoluto di intensità potesse essere proporzionale all’aumento della forza materiale. Da qui giunse a ipotizzare che in relazione all’indagine fisica si potesse rintracciare un’unità di misura della sfera psichica: bastava vedere in essa il correlato di un fatto nervoso e considerare questo come effetto di uno stimolo di cui si conoscesse esattamente l’intensità. Ne derivò la legge detta appunto di Weber e Fechner, che stabiliva la misura di una sensazione mediante il logaritmo dell’intensità dello stimolo. È autore degli Elementi di psicofisica (1860). Ferecide di Siro Poeta e filosofo greco (VI sec. a.C.). Tra i più antichi scrittori di cui siano stati tramandati frammenti, Ferecide è per i moderni figura misteriosa, non essendo a disposizione notizie precise su cui co-

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struire una biografia o descrivere una personalità. Condivide con altri poeti del tempo alcune caratteristiche; scrisse un’opera cosmogonica di cui sono rimasti alcuni frammenti, il cui titolo tramandato è Pentémycos (cioè “Le cinque caverne”), in riferimento a cinque elementi costitutivi l’universo; composto nel linguaggio immaginifico del mito, esprime valori e posizioni vicine a quelle dei primi filosofi. L’ordine del mondo è descritto come il risultato della lotta tra gli dei, dietro i quali si intravedono gli elementi costituivi della natura. Feuerbach, Ludwig Filosofo tedesco (Landshut 1804 - Norimberga 1872), massimo esponente della sinistra hegeliana. la vita. Intrapresi gli studi di teologia a Heidelberg, passò a quelli di filosofia, frequentando nel 1824 i corsi di Hegel a Berlino. Ottenuta la libera docenza a Erlangen, incominciò a tenere i suoi corsi e nel 1830 pubblicò, in polemica con la destra hegeliana, i Pensieri sulla morte e l’immortalità, che per la radicalità delle tesi sostenute, gli costarono la carriera accademica. Collaborò agli Annali di Halle con due notevoli saggi, Intorno a filosofia e cristianesimo e Per la critica alla filosofia hegeliana del 1839. Nel 1841 uscì L’essenza del cristianesimo, sua opera più nota che riscosse grande successo presso gli ambienti dei giovani hegeliani. Negli anni successivi vennero pubblicate le Tesi preliminari per la riforma della filosofia e i Principi della filosofia dell’avvenire (1843), L’essenza della fede secondo Lutero (1844), L’essenza della religione (1846), Teogonia (1857). Feuerbach trascorse gli ultimi anni della sua vita appartato e in povertà, dedicandosi alla riflessione e curando l’edizione dei suoi scritti. il pensiero. Se in una prima fase della sua riflessione Feuerbach aderisce all’hegelismo e alla sua tesi di una “ragione unica, universale, infinita” (come recita il titolo della sua dissertazione di dottorato) per polemizzare contro il personalismo eccessivo del cristianesimo moderno e contro i dissidi inconciliabili che travagliano la cultura dell’età presente (specialmente quello tra ragione e fede, filosofia e teologia), nel 1839 incomincia il suo distacco dall’idealismo, di cui ravvisa il significato nel carattere naturalistico e antropologico che lo sviluppo del pensiero moderno ha in esso raggiunto. In particolare la dialettica hegeliana e il suo progetto fondativo che identifica essere e ragione devono essere denunciati nel loro carattere mistificatorio: ingiustifi-

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cata è la pretesa a un cominciamento senza presupposti, quando è evidente la circolarità di una modalità espositiva che, mentre assume surrettiziamente e acriticamente il materiale empirico, lo presenta come espressione dell’Assoluto, illudendosi così di partire dal Pensiero puro. È innegabile che la ragione deve presupporre il suo opposto, cioè il sensibile, il materiale, l’empirico: in una parola la natura, vero compendio di tutta la realtà. Una filosofia che abbandona la natura si riduce a vana speculazione: infatti è nell’intuizione sensibile, principio della vita, che siamo determinati dall’oggetto, e soltanto nella determinazione dell’oggetto si crea il pensiero vero e oggettivo. È l’intuizione sensibile (da Hegel relegata nel non reale) che ci dà l’esistenza delle cose immediatamente identica con la loro essenza. Verità, realtà e sensibilità coincidono: solo la sensibilità risolve il mistero del rapporto, dell’azione reciproca uomo-natura e degli uomini tra loro, in quanto solo le nature sensibili agiscono le une sulle altre. Hegel ha voluto superare il contrasto tra pensiero ed essere privilegiando il pensiero che è soggetto e facendo dell’essere un suo predicato. Quando invece si parte dal sensibile, l’essere è ciò che è oggetto dei sensi, dell’amore, della passione: essendo la passione segno rivelatore dell’esistenza, essa assume così un significato ontologico-metafisico. L’amore è la prova ontologica dell’esistenza di un oggetto fuori di noi, così come nella sensazione sono racchiuse le verità più alte e profonde. Quella di Hegel è una teologia mascherata, poiché fonda la certezza del sapere assoluto nel processo circolare con cui lo Spirito (il vero essere, Dio) risolve in sé il finito per disvelare la propria pienezza, la propria verità: allo stesso modo la teologia scinde l’uomo e lo aliena da se stesso. L’Essere infinito non è altro che l’essere finito divenuto astratto, estraniato da se stesso, e analogamente lo Spirito di Hegel altro non è che l’essere dell’uomo posto al di fuori degli uomini. Dunque «il segreto della teologia è l’antropologia, ma la teologia è il segreto della filosofia speculativa»: Hegel aveva rifiutato il Dio trascendente della tradizione per sostituirlo con lo Spirito immanente, cioè con la realtà umana nella sua astrattezza, l’Idea di Umanità. Ma ciò che interessa Feuerbach è l’uomo reale in quanto corporeità, naturalità sensibile, bisogno: per raggiungerlo è necessario negare non solo l’hegelismo, ma più in generale il tei-

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smo come fonte di alienazione dell’uomo concreto colto nella sua interezza naturale e sociale. Pertanto la correzione che si deve fare alla teologia speculativa e alla religione è semplice e radicale: al posto di Dio e di divino si deve mettere Uomo e umano. Ma la filosofia non può limitarsi a ridicolizzare o negare la religione, che è un grande fatto umano (solo l’uomo ha religione): per criticarla deve comprenderla, e per comprenderla deve raccogliere la lezione di Hegel circa l’unità di infinito e finito. Tale unità non si realizza però in Dio ma nell’uomo: quindi «la coscienza che l’uomo ha di Dio è la coscienza che l’uomo ha di sé». La religione consiste nel «rapportarsi dell’uomo alla sua stessa essenza (in questo consiste la sua verità), ma alla sua essenza non come sua, bensì come un’altra essenza, separata, divisa da lui, anzi opposta (in questo consiste la sua falsità)». La religione è la proiezione ipostatizzata dell’essenza dell’uomo, il quale in essa pone le sue qualità, le sue aspirazioni, i suoi desideri: mediante questa estraneazione (alienazione) l’uomo costruisce la Divinità. Non è Dio che crea l’uomo ma l’uomo che crea Dio: «Dio è lo specchio dell’uomo», in quanto rappresenta la coscienza che l’uomo ha indirettamente di se stesso, spostando il suo essere fuori di sé prima di ritrovarlo in sé. Ma l’uomo comprende la specificità e insieme il radicamento del proprio essere nella natura e di fronte a essa: la religione nasce pertanto dal senso di dipendenza dell’uomo da essa. Se questa è «l’essere che si dà distinto e indipendente dalla natura umana», allora l’essenza divina che si manifesta nella natura (secondo le varie credenze religiose) non è altro che la natura stessa che si manifesta e s’impone all’uomo come essenza divina, dotata di proprietà ed effetti divini. Perciò la natura è il fondo permanente e quindi il primo originario oggetto della religione. In essa tutte le qualificazioni dell’essere divino (potenza, sapienza, amore, infinità, personalità ecc.) sono qualificazioni dell’essere umano, sono poste in primo luogo nell’uomo e con l’uomo. Dunque l’essere divino è unicamente «l’essere dell’uomo liberato dai limiti dell’individuo, cioè dai limiti della corporeità e della realtà, e oggettivato, ossia contemplato e adorato come un altro essere da lui distinto». Ma l’uomo si distingue dall’animale in quanto sa separare se stesso come individuo dall’insieme delle sue proprietà essenziali, sa che il limite della natura umana non coincide con i limiti dell’esistenza individuale. Sotto que-

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sto aspetto la coscienza di Dio non è altro che la coscienza del genere. Nel cristianesimo il Cristo rappresenta l’espressione più chiara dell’unità immediata di individuo e genere. Così il mistero dell’incarnazione, il mistero dell’amore di Dio per l’uomo, è in realtà il mistero dell’amore dell’uomo per se stesso: “homo homini deus”. Allo stesso modo quello della trinità è il mistero della vita sociale, poiché rappresenta la verità che nessun essere può costituirsi come perfetto e assoluto se non nell’unità, nella comunità con quelli della stessa natura. Di qui lo sbocco conclusivo del pensiero di Feuerbach: l’unione dell’uomo con l’uomo, pieno e integrale umanesimo che assegna alla filosofia moderna il compito di trasformare la teologia in antropologia. Se la coscienza religiosa ha a che fare con il cuore, ciò significa che esso è quanto di più alto vi sia nell’uomo (l’essenza di Dio è l’essenza del sentimento): l’amore mette in rapporto l’individuo con l’altro, tanto che l’universalità del genere coincide con la struttura intersoggettiva del vivere comunitario. La vera dialettica non è quella della ragione assoluta, ma è rapporto affettivo tra persone concrete “in carne e ossa”, dialogo tra un io e un tu. In questo tema Feuerbach può vantare di avere riunito vita e filosofia, dove quest’ultima è «dell’uomo e per l’uomo». Feyerabend, Paul Epistemologo austriaco (Vienna 1924 - Genolier 1994). Professore a Berkeley, è stato uno dei maggiori filosofi della scienza postpositivisti. Dopo aver studiato le questioni filosofiche connesse alla microfisica, ha concentrato la sua attenzione soprattutto sul problema del rapporto tra le teorie e la loro base empirica quale nodo metodologico fondamentale per giustificare il progresso della scienza. In I problemi dell’empirismo (1965-69) ha attaccato l’induttivismo dei neopositivisti, evidenziando la mancanza di chiarezza e i dogmatismi insiti nelle loro posizioni: infatti essi non possono né «identificare [...] il linguaggio osservativo su cui tutta la nostra conoscenza dovrebbe fondarsi e da cui essa dovrebbe ricevere il suo contenuto», né mostrare le ragioni per cui esso è così importante. Feyerabend intende invece lottare per la tolleranza nelle questioni scientifiche, per la libertà di pensiero, per il progresso della spiegazione e della comprensione, cercando di delineare una metodologia «che non incoraggi più una cristallizzazione dogmatica in nome dell’esperienza»: a tal fine egli suggerisce di «lavorare con

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molte teorie alternative invece che con un solo punto di vista o una singola visione o esperienza» al punto da esigere che «i problemi già risolti in base alla teoria accettata possano essere trattati di nuovo e forse in modo più minuzioso». Il punto fondamentale resta comunque che «per quanto un teoria sembri rispecchiare strettamente i fatti, [...] la sua adeguatezza fattuale può essere affermata solo dopo essere stata confrontata con varie alternative», a sostegno della convinzione che solo la pluralità delle teorie «permette una critica molto più approfondita delle idee accettate di quanto non lo permetta il confronto con il regno dei fatti». Feyerabend comprova quanto asserito sottoponendo a esame il modello esplicativo di Hempel, mostrandone l’insostenibilità «dal punto di vista di un empirismo tollerante» e l’incompatibilità con la concreta pratica scientifica. Da questi primi risultati (avvalorati da una molteplicità di riferimenti storici) Feyerabend è approdato (in Contro il metodo, 1975) a una concezione “anarchica”, sostenendo che non esiste alcun metodo scientifico universalmente valido, o “regola unica” dotata di valore cogente, che la razionalità non consiste nel conformarsi a schemi precostituiti, semplicemente perché non vi sono principi fondativi e assoluti che la garantiscano. «Tutto può andare bene», nel senso che di fatto gli scienziati procedono nell’indagine in una gran varietà di modi e con le più varie strategie, sono degli “opportunisti” perché usano i mezzi materiali e mentali più idonei al raggiungimento del loro fine: violando intenzionalmente e coscientemente presunte “regole” e supposti criteri di scientificità, hanno impresso al cammino della scienza un’accelerazione progressiva. Con la radicalità delle sue tesi, Feyerabend è venuto a trovarsi “a sinistra” sia di ➔ Popper (attestato su posizioni oggettiviste e realiste) che di ➔ Kuhn (di cui ha estremizzato la visione discontinuista delle teorie scientifiche, a suo parere del tutto incommensurabili), giungendo a ritenere che solo i criteri pragmatici possono orientare la scelta di una prospettiva teorica piuttosto che di un’altra. Con ciò il pensiero “dadaista” di Feyerabend ha inteso esaltare la creatività e l’inventività della scienza (non a caso intesa “come arte”), anche se poi (in particolare in La scienza in una società libera, 1978) ha trasformato la sua battaglia per la libertà del metodo di ricerca in una distruzione dei miti della Ragione (cui ha detto Addio in un libro omoni-

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mo del 1988) e della Scienza: quest’ultima è considerata «solo uno dei molti strumenti inventati dall’uomo per far fronte al suo ambiente», ma certo non superiore o privilegiato rispetto ad altri (miti, dogmi religiosi, costruzioni metafisiche, rituali magici, pratiche “primitive” ecc.). La società non solo “aperta”, ma libera è dunque quella che riconosce pari dignità a tutte le tradizioni culturali (la scienza invece è quella dell’uomo bianco occidentale e ha tratti inequivocabilmente maschili) e pari possibilità di accesso ai centri di potere per tutti gli individui che in quelle si riconoscono. Fichte, Johann Gottlieb Filosofo tedesco (Rammenau 1762 - Berlino 1814), tra i maggiori esponenti dell’idealismo postkantiano. la vita. Nato da una povera famiglia di contadini, studiò grazie al sostegno di un ricco possidente che aveva intuito le sue capacità. Studiò filosofia e teologia a Jena e a Lipsia e, dopo la laurea, fece il precettore a Zurigo (dove conobbe la futura moglie, Giovanna Rahn) e di nuovo a Lipsia. Qui lesse le opere di Kant, e pubblicò in seguito un saggio (Critica di ogni rivelazione, 1792) attribuito all’inizio allo stesso filosofo di Königsberg. Chiarito l’equivoco, Fichte ne ricevette grande notorietà, anche se il libro incorse nell’intervento autoritario della censura, da cui egli si difese con la Rivendicazione della libertà di pensiero (1793). Nello stesso periodo e sulla stessa linea di pensiero, scrisse i Contributi per rettificare i giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese, dove sostenne il diritto a rovesciare violentemente il dispotismo. Nel 1794 uscì un’importante recensione all’Enesidemo di ➔ Schulze e la sua opera più famosa, i Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (di cui operò successivamente varie rielaborazioni con modifiche anche profonde nel 1798, 1801, 1804, 1810), in seguito alle quali fu chiamato a succedere a Reinhold sulla cattedra di Jena. Qui compose i suoi scritti più notevoli (Fondamenti del diritto naturale del 1796, Sistema della filosofia morale del 1798) godendo di ampio prestigio tra i giovani e gli intellettuali romantici (Novalis, Schlegel, Schelling ecc.) che videro in lui il propugnatore di un’autentica rivoluzione epocale. Per le tesi esposte in Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo del (1798), in cui si sosteneva che Dio non deve essere inteso come persona ma come ordine morale, Fichte fu accusato di ateismo e costretto a rassegnare le dimissioni. Raggiunta Berlino, tenne lezioni private e fu impegnato in

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varie polemiche suscitate dalle critiche alla sua metafisica (tra le quali rilevanti quelle di Schelling ed Hegel). Nel 1805 fu chiamato a Erlangen, ma l’invasione napoleonica lo indusse a tornare a Berlino dopo appena un semestre. In questo periodo pubblicò molte opere popolari (Lo stato commerciale chiuso, I tratti caratteristici dell’epoca presente, L’essenza del dotto, Introduzione alla vita beata e soprattutto i Discorsi alla nazione tedesca), che restituirono a Fichte un poco della passata notorietà: così ebbe l’incarico di riorganizzare il sistema accademico prussiano e per due anni (1810-12) fu rettore dell’università di Berlino. Il tifo lo stroncò improvvisamente nel 1814. il pensiero. Fichte matura la propria concezione teoretica all’interno dei dibattiti sul criticismo: accogliendo l’esigenza di Kant stesso (espressa nella Critica del Giudizio) di un passaggio definitivo a un organico sistema del sapere umano come realizzazione della filosofia trascendentale, egli (nella considerazione delle posizioni di Reinhold, Maimon e Schulze) giunge a respingere il principio di coscienza come «cominciamento trascendentale del filosofare» (in quanto la rappresentazione rinvia a essa come fatto empirico) e a postulare, mediante la domanda sull’essere stesso della ragione (da Kant già qualificato in termini di praticità e spontaneità), che il suo principio primo sia un atto e non un fatto. Ma se il supremo principio del sapere (alla luce del quale Fichte intende mostrare la genesi della ragione e di tutte le sue forme nel presupposto della sua libertà e autonomia) deve essere assolutamente primo, allora questo non potrà essere dimostrato né determinato, ma attinto per via intuitivo-riflessiva, poiché quell’atto, in quanto frutto dell’autoriflessione della ragione che coglie se stessa, non si presenta come prodotto empirico della coscienza, ma sta piuttosto alle radici di essa e la rende possibile (Fichte parla in questo senso di “intuizione intellettuale”). In tal modo l’opera del 1794 indica già dal titolo il programma di una ricostruzione del sistema della ragione umana quale fondamento del sapere sia teoretico che pratico sulla base di un numero limitato di principi. A tal fine Fichte propone di partire da proposizioni assolutamente evidenti, che siano rivelative dell’attività originaria della coscienza trascendentale. A = A non solo è una proposizione indubitabile ma la sua certezza è tale solo se A è posto, quindi conseguenza dell’atto che lo pensa sulla base dall’autoposizione della ragione. Allo stesso modo

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A ≠ non-A è possibile solo presupponendo un’attività all’interno della soggettività; e A in parte = non-A e viceversa implica la relazione tra soggetto e oggetto secondo la forma logica del principio di ragione. Di qui la formulazione dei tre principi della dottrina della scienza: 1) l’Io pone se stesso assolutamente (questo è l’atto fondativo della filosofia come condizione trascendentale dell’attività della ragione: l’Io è autocreazione coincidente con l’intuizione di se stesso, è ciò che egli stesso si fa – esse sequitur operari – in una coincidenza tra attività agente e prodotto dell’azione); 2) l’io assoluto oppone a se stesso un nonio altrettanto assoluto (ciò significa che il sapere umano è vincolato al dato sensibile, quindi a una realtà altrettanto ingiustificabile quanto la ragione, che ora appare segnata da un’intrinseca finitezza); 3) nell’Io assoluto l’io divisibile si oppone ad un non-io altrettanto divisibile (quindi l’io è limitato dal non-io – non però in opposizione all’Io infinito in cui e da cui è posto – si costituisce come io empirico, come individuo singolo). Tali principi rispondono all’esigenza (imprescindibile per la filosofia) di giustificare a priori sia l’esistenza concreta della rappresentazione sia le condizioni trascendentali della sua genesi: e poiché i fondamenti del sapere sono tre (spontaneità, passività, sintesi concreta), altrettanti saranno i principi. Per mostrare quale sia il loro nesso organico (dialettico), e per fare emergere la loro verità (accertabile solo alla luce della deducibilità degli elementi fondativi delle varie forme di coscienza), Fichte rinvia a due facoltà trascendentali: l’intuizione interna (cioè la capacità della ragione di cogliere immediatamente i propri procedimenti e le forme che a essi presiedono) e l’immaginazione (che designa la capacità, affine alla creatività del genio, di ristrutturare il senso dell’esperienza uscendo dagli schemi della certezza comune per accedere a una soluzione nuova dei problemi filosofici). Alla luce dei primi due, il terzo principio assume una valenza essenzialmente pratica: stabilita l’impossibilità di dedurre le modalità di sintesi dagli altri due principi, questa si configura come come il risultato di un “ordine perentorio” della ragione in grado di mediare tra due termini (io e non-io) altrimenti destinati a un reciproco annullamento. Di qui la giustificazione che il terzo principio contenga tutte le modalità possibili della relazione soggetto-oggetto,

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sia quella per cui l’io fonda e limita il non-io (e con questa si fa riferimento alla capacità d’azione morale da parte della coscienza), sia soprattutto quella per cui l’io, attraverso il non-io, fonda, insieme con la divisibilità, la propria limitatezza (e così se ne determina l’atteggiamento teoretico in cui il non-io, in quanto è avvertito come limite, suscita l’attività dell’io). Se si parte da quest’ultimo, bisogna però presupporre l’omogeneità tra i due momenti, attivo e passivo, del conoscere: a tale scopo è finalizzata l’attività dell’immaginazione produttiva inconscia, mediante la quale l’io, ponendosi come limitato dal non-io, gli conferisce un’esistenza autonoma (in tal modo le sue immagini vengono a configurarsi come fenomeni di un’esteriorità, così come risulta alla coscienza comune). Si viene in tal modo a giustificare, a partire dalla polarità tra soggetto e oggetto così fondata, sia la struttura della coscienza (per poi dedurre di conseguenza l’una dall’altra tutte le facoltà del pensiero), sia quella della rappresentazione come loro sintesi a priori. In quanto questa è prodotto dell’immaginazione in seguito a un “urto”, questa attività va intesa non come derivante dall’opposizione al non-io, ma come propria dell’io, mediante la quale questo si autopone e autolimita manifestandosi come esigenza infinita di libertà (in tal modo si concepisce l’oggetto come prodotto del soggetto e si dissolve lo spettro della cosa in sé). Perciò Fichte interpreta l’attività dell’io come sforzo, tensione (Streben), autotrascendimento fino all’affermazione di sé come assoluta spontaneità e autodeterminazione, che appare inizialmente indeterminata nella sua assolutezza ma che può poi risultare produttiva quando incontra e investe un oggetto. Nel processo conoscitivo, la ragione non rispecchia oggettivamente il mondo, ma si libera del suo limite nell’esigenza di trasformarlo, realizzando in esso la propria tendenza alla libertà in un processo privo di appagamento finale, giacché (nella prospettiva della terza formulazione dell’imperativo categorico kantiano) l’aspirazione morale si traduce immediatamente in una tendenza infinita all’autorealizzazione procedendo oltre ogni esito determinato, ogni acquisizione parziale. In questo senso l’assoluto è umanamante sperimentabile come un’eterna vicenda di approssimazione a un limite, peraltro mai del tutto valicabile (titanismo): così l’uomo può perseguire la propria identità alienandosi nella realtà per riflettersi in essa, produttore e prodotto di

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quel processo storico in cui egli pensa e modifica il mondo nella misura in cui trasforma riflessivamente se stesso. La prospettiva teoretica di Fichte è così improntata a un radicale umanesimo (giacché l’uomo e la sua libertà sono il fine dell’intero universo). Ciò risulta chiaramente solo alla coscienza filosofica, che appare come libera speculazione comprensibile e praticabile solo tra spiriti tra loro omogenei (in questo senso Fichte nella Prima introduzione del 1797 afferma che ciascuno sceglie, nell’alternativa tra idealismo e dogmatismo, la propria filosofia in rapporto a quella che è la sua natura). Da ciò deriva una serie di conseguenze etico-sociali: nel Sistema di etica (1798) si ammette infatti che la sollecitazione all’azione e all’esercizio del dovere deriva dagli altri intesi come creature intelligenti con i quali l’individuo condivide la tensione verso la libertà. Questa non è un bene da godere privatamente, ma uno stato che deve abbracciare l’intera umanità: perciò ci si libera proporzionalmente al modo in cui si rendono liberi gli altri. Nelle Lezioni sulla missione del dotto (1794) Fichte assegna agli intellettuali il ruolo di educare gli uomini a maturare la consapevolezza «dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti a soddisfarli». A partire dal 1800 è sensibile l’insistenza con cui Fichte cerca di procedere oltre i limiti della gnoseologia su un terreno più squisitamente metafisico, pervenendo a una concezione (riportabile al Prologo del Vangelo di San Giovanni) dell’essere come logos, come unità originariamente indistinta e anteriore alla duplicazione tra coscienza e realtà, all’urto o sforzo della prima contro la seconda, quindi al divino presente nel mondo come vita totale. Dalla disputa sull’ateismo (durante la quale Fichte viene a concepire Dio come principio attivo, “causa ordinans” del mondo, fonte di ogni libertà e spontaneità cui elevarsi con il pensiero e con l’azione), l’obiettivo della ricerca fichtiana è una riformulazione del concetto di assoluto che lo depuri da ogni equivoco soggettivistico, facendogli assumere, da un iniziale significato trascendentale, una valenza etico-religiosa la cui intuizione si trasforma in quella dell’essenza unitaria dell’uomo. Così nell’Esposizione (1801) l’assoluto (Dio) viene fissato quale fondamento della dottrina della scienza, concepito come non-sapere, origine e principio di ogni essere e sapere, unità precedente ogni ulteriore dualismo (come quello tra soggetto e oggetto): questi elementi dovrebbero fondersi fino a

Ficino

una totale coincidenza, facendolo risultare uno stato di perfetta autonomia e di vivente compenetrazione di sé con sé. Poiché ciò avviene nel sapere, questo è la sua principale manifestazione, che come tale serve a raccogliere in unità la molteplicità degli individui che a esso possono parzialmente accedere acquisendo il carattere della razionalità. Nella discussione successiva, l’Esposizione (1804), Fichte accentua il tratto dell’incomprensibilità dell’assoluto, tanto da concepire l’accesso a esso da parte del sapere in senso sia negativo (giacché ne evidenzia l’irriducibilità e quindi l’assenza) sia positivo (infatti ne è pur sempre una componente costitutiva e necessaria, in un rapporto di totale immanenza). Peraltro il sapere è razionale dispiegamento dell’assoluto, che mentre si cala – pur non risolvendosi – in esso, resta essenzialmente chiuso nella sua oscura imperscrutabilità, al di là del mondo e della coscienza. Di qui un certo colorito mistico del pensiero dell’ultimo Fichte, che risulta accentuato nell’Introduzione alla vita beata (1806) e nelle Esposizioni del 1810 e 1812-13. Imperniata com’è sul motivo della libertà, la filosofia di Fichte possiede un’intrinseca ed esplicita dimensione politica. Partito da una posizione giusnaturalistica (sostenuta per esempio nella Rivendicazione del 1793) facente perno sugli individui come portatori di diritti naturali inviolabili, dalla loro volontà contrattualistica (in ogni caso sempre rivedibile) è stabilita l’origine dello stato, che dunque si regge sul reciproco riconoscimento tra cittadini e istituzioni. La strumentalità dello stato nei confronti della tutela dei diritti personali risulta ancora più evidente nel momento in cui Fichte lo considera una struttura temporanea (addirittura indirizzata “alla propria autodistruzione”) in attesa che gli uomini raggiungano l’autonomia etica e siano in grado di autodeterminarsi. Dalla svalutazione dello stato di fronte all’umanità come società di esseri liberi e ragionavoli, Fichte passa (ne Lo stato commerciale chiuso del 1800) a delinearne un modello autarchico e paternalistico, distributore dei beni e delle attività sociali. Infatti lo stato secondo ragione ha il compito di dare a ciascuno il suo (dunque non presuppone, ma è l’origine della proprietà) e poi di tutelarlo. In esso tutti sono servitori del tutto e partecipano con giustizia ai beni del tutto: perciò, per garantire l’equilibrio economico interno viene inibito il commercio con l’estero. Lo statalismo di Fichte sfocia nel nazionalismo dei Discorsi alla na-

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Ficino

zione tedesca (1808), dove si prospetta un nuovo mondo che il popolo tedesco (possessore di un’originaria, perfetta e incontaminata civiltà, fondata non certo sul sangue ma su elementi culturali e spirituali, in particolare la lingua, che è stata mantenuta viva e naturale e che costituisce un patrimonio comune in cui tutti possono riconoscersi senza fratture di classe) ha il compito di portare a compimento, erigendolo sulle rovine della vecchia civiltà corrotta dall’egoismo e dall’utilitarismo privatistico. Questo cambiamento porterà con sé una rigenerazione globale degli animi e una trasformazione interiore dei costumi e del carattere, che sarà conseguita mediante un’educazione impartita in collegi pubblici e rivolta a tutti senza distinzioni di sesso o di censo. Queste idee politiche si inseriscono nel quadro di una filosofia della storia (tracciata nei Tratti fondamentali dell’epoca presente del 1806): alla filosofia tocca infatti di determinare l’elemento a priori della storia (il fine), considerando il piano del mondo e le epoche in cui necessariamente si divide il suo corso. Se «lo scopo della vita terrena dell’umanità consiste nel disporre tutti i rapporti umani con libertà secondo ragione», si può delineare un percorso in cui l’umanità passa da uno stato di innocenza a uno in cui la ragione, pienamente realizzata, giustifica e santifica il mondo. La nostra epoca si colloca in una fase di transizione ormai conclusa, in cui l’individuo, ribellandosi all’autorità esteriore rappresentata dallo stato, pretende di elevarsi al di sopra della legge e di una libertà che è solo (come risulta dall’intellettualismo illuministico e dall’irrazionalismo sturmeriano) egoismo e anarchia degli istinti. Ma nella sua globalità la storia è teofania e tutto in essa è com’è perché Dio «non potrebbe manifestarsi altrimenti. Riconoscere ciò, rassegnarvisi umilmente ed essere felice nella coscienza della nostra identità con la potenza divina, è il compito dell’uomo». Sotto questo aspetto la storia è sviluppo della coscienza: il sapere ha per oggetto Dio esprimendone la potenza e costituendone l’immagine. Ficino, Marsilio Filosofo e umanista italiano (Figline Valdarno 1433 - Careggi 1499). Maggior rappresentante del platonismo rinascimentale, di cui rinnovò gli studi (attraverso un’opera immane di filologo e traduttore, resa possibile dalla protezione di Cosimo e Lorenzo de’ Medici) integrandolo nella cultura cristiana in vista di un deciso rinnovamento della teologia e della filosofia. In-

Filodemo di Gadara

tenzione di Ficino era riprendere quella tradizione filosofica che considerava la sapienza un dono divino, iniziata in oriente (in Egitto, come attestano gli scritti del corpus hermeticus) e passata poi in Europa, prima in Grecia (da Pitagora a Dionigi), poi nella cultura cristiana (Agostino, Scoto Eriugena), araba (al-Farabi, Avicenna) ed ebraica (Avicebron). Perciò il platonismo costituiva per Ficino il nucleo di una teologia razionale i cui principi non potevano non coincidere con quelli della rivelazione (e questo a conferma della superiorità del cristianesimo rispetto alle altre religioni positive). Tipicamente neoplatonica è la concezione generale della realtà espressa in opere come la Teologia platonica: Ficino intendeva Dio come l’Uno plotiniano, che raccoglie nella sua semplicità ineffabile l’infinita molteplicità degli archetipi ideali delle cose, e anche come Bene (che come tale si effonde dappertutto) e Verità perfetta e Bellezza pura (che illumina le cose infondendo in esse la grazia). Egli è in sé (trascendente), ma traboccando da Sé si ritrova in altro (immanente): è come il centro dell’universo intorno a cui si muovono tre sfere concentriche, Mente, Anima e Natura. Dio è presenza interiore nel tutto (artefice interno della natura, che così risulta un solo essere vivente: su questa concezione panpsichica si fonda la credenza ficiniana nella magia e nell’influenza degli astri) come nelle parti (ragione seminale che dona la vita). In questo quadro l’anima è intesa come “copula mundi, vera universorum connexio”, onnipresente poiché tutto nel cosmo è vivo e animato. A sua volta l’anima umana, partecipe di quella universale e della sua natura divina, collocata tra l’eterno e il tempo, è anch’essa a suo modo tutte le cose e perciò microcosmo: essa è dotata di un afflato creatore e il suo desiderio di infinito e di trascendersi è segno di una natura divina e immortale. Analogo segno è la forza progressiva che agita l’uomo, quel desiderio di potenza e dominio che lo spinge senza posa e che fa della storia un continuo progresso verso la perfezione. La dignità dell’uomo è riposta essenzialmente nella libertà per cui egli può diventare tutto (perciò è microcosmo) e ascendere fino a Dio. All’ultimo grado del processo emanativo vi è la materia quale mero non essere. Così tutto l’universo si presenta come sistema dell’uno-molti, limitato verso l’alto da Dio (Uno, Bene) e verso il basso dalla materia (dispersione, male). Trasformando l’emanazione plotiniana in creazione derivante dalla bontà di Dio, il nuovo platonismo cristiano di

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Filone di Alessandria

Ficino afferma che Dio crea il mondo e lo ama governandolo e, in quanto causa del tutto, conoscendolo in sé. Così l’amore non è solo la forza ascendente dell’anima a Dio, ma anche discendente da Dio agli uomini, i quali devono amarsi in Dio secondo il vincolo della carità: corrispondente all’anima come copula mundi, l’amore è attività che connette il mondo a Dio (perciò detto furor divinus). L’anima ascende per i diversi gradi dell’amore ripercorrendo in senso inverso le tappe della discesa cosmica, fino a giungere (con furor heroicus) in contatto con Dio. Filodemo di Gadara Filosofo e poeta greco (Gadara, 110-35 ca. a.C.). Figura importante nella Roma del I secolo a.C., diresse la Scuola epicurea di Napoli e a Ercolano sono stati trovati alcuni papiri contenenti sue opere che mostrano la vitalità dell’ambiente epicureo dell’epoca. Le sue opere sono per noi una delle fonti primarie di informazione sul pensiero di Epicuro. Scrisse diversi testi di commento agli scritti del maestro (compresa una storia dell’epicureismo e, più in generale, delle scuole filosofiche dell’epoca) e trattò di una vasta molteplicità di temi soprattutto etici (Sull’ira, Sui vizi, Sull’avarizia, Sull’amore, Sulla morte) e logici (Sui segni). Come poeta, fu autore di epigrammi amorosi, che ebbero notevole influenza sulla letteratura latina. I componimenti pervenuti mostrano una personalità libera, aperta e non dogmatica: l’arte appare del tutto libera da preoccupazioni etiche. Filolao di Crotone Filosofo pitagorico greco (V sec. a.C.). Di lui non si hanno notizie storiche certe; alcuni studiosi ne hanno negato la storicità, considerandolo piuttosto una figura di libera creazione platonica. Comunque stiano le cose, al suo nome è associata la prima organizzazione, nel V secolo, della scuola pitagorica nella forma in cui appariva storicamente al tempo di Platone. Secondo la tradizione fu attivo sia in Grecia (in particolare a Tebe) sia in Italia Meridionale. Al nome di Filolao è inoltre associata una delle prime teorie che non pongono la Terra al centro dell’universo e la concepiscono come un corpo in movimento. Il posto centrale sarebbe stato piuttosto occupato dal fuoco (tuttavia non identificabile col Sole). Filone di Alessandria Filosofo e teologo ebreo (Alessandria d’Egitto, 20 ca. a.C.-50 d.C.), di lingua greca. La sua figura è storicamente molto importante perché fu lui a

Fink

introdurre nella cultura cristiana (influenzò in particolare i primi rappresentanti della cristianità alessandrina, come ➔ Clemente e ➔ Origene) due elementi di metodo e di dottrina che domineranno per secoli il panorama della filosofia cristiana: — il metodo dell’interpretazione allegorica dei testi biblici: Filone proponeva una lettura della Bibbia in chiave figurata, sicché i singoli elementi (figure, eventi, dottrine) venivano interpretati mediante il filtro della tradizione filosofica greca; — la visione teologica biblica alla luce del pitagorismo e del platonismo: il pensiero greco, in particolare la tradizione platonico-pitagorica, veniva utilizzato come chiave di lettura della rivelazione cristiana (per esempio, l’origine e la struttura della natura è “narrata” coniugando Genesi e Timeo platonico). Scrisse molto, sia di teologia che di filosofia in senso specifico: Commento allegorico sulle Sante Leggi, Sulla migrazione di Abramo, Sulla provvidenza, Sulla eternità del mondo. Fink, Eugen Filosofo tedesco (Costanza 1905 - Friburgo 1975), assistente di Husserl e poi professore a Friburgo. Cercando una sintesi tra fenomenologia (di cui si evidenzia soprattutto il concetto di intenzionalità come atto del soggetto che conferisce senso all’oggetto) e ontologia heideggeriana, egli ha progettato una nuova cosmologia: se il mondo si pone come dare spazio e lasciare tempo per ogni finito, esso va interpretato come duplice regno dell’essere presente e dell’essere assente, gioco dell’individuazione per cui ogni cosa viene prima portata alla luce e poi a essa sottratta. Un’autentica antropologia filosofica potrà essere concepita solo a partire dalla “posizione dell’uomo nel cosmo”, dove il dasein umano è “apertura al mondo”, alla dimensione in cui tutto è uno (attuata specialmente nella coscienza della morte). Il rapporto (di differenza e di corrispondenza) dell’uomo con gli altri enti è fondato su quello essenziale con il mondo, di cui Fink ha cercato una dialettica esistentiva basata sui fenomeni fondamentali di amore, morte, lavoro, dominio, gioco. Quest’ultimo costituisce il “simbolo del mondo” poiché configura il legame tra soggetto (che non è pura progettualità) e mondo (che non è mera aggregazione di enti) come frutto di un’intenzionalità (concetto che Fink deve principalmente a Nietzsche, di cui è stato attento studioso) non strumentale e non necessitante, ma libera e creativa.

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Fodor

Fodor, Jerry Psicologo e filosofo della mente americano (New York 1935), insegnante a New York e a Rutgers. Allievo di ➔ Chomsky, ne ha sviluppato le teorie, rilanciando in senso radicale e con nuovi argomenti il modello cognitivista della mente. Egli infatti, riallacciandosi alla tradizione razionalista cartesiana, attribuisce alle funzioni cognitive (specialmente a quella linguistica) un marcato innatismo, finendo con il riconoscere un’analogia tra l’elaborazione delle rappresentazioni elaborate dalla mente e quella dei simboli formali effettuata da un computer. Ne Il linguaggio del pensiero (1975) egli ha sostenuto questa tesi in accordo con il modello funzionalista e computazionale di ➔ Putnam: infatti, dal momento che le rappresentazioni denotano gli oggetti ma senza intrattenere con essi alcuna corrispondenza configurativa, allora è necessario concludere che sono una realtà psicologica autonoma la cui presenza nella struttura genetica umana è fissata fin dalla nascita, formando come un codice, un sistema di rappresentazioni che costituiscono il linguaggio mentale o appunto “del pensiero”. Peraltro l’intenzionalità (il riferimento degli stati mentali a contenuti empirici) può trovare una spiegazione idonea solo sulla base dell’eterogeneità tra il codice linguistico mentale e quello verbale: così ogni pensiero è una rappresentazione significativa in modo primario che solo in senso secondario dota di tale qualità la corrispondente espressione linguistica. In Psicosemantica (1987) alla domanda come si instauri un rapporto tra rappresentazioni mentali e oggetti rappresentati, egli risponde con una teoria causale del riferimento (o informazionale) che trasferisce la teoria causale classica del riferimento al linguaggio della mente (per cui vi sono determinati legami causali extralinguistici tra le entità reali designate e i designatori linguistici): in base a essa si può sostenere che un esemplare di un tipo d’oggetto causa il richiamo del relativo simbolo nel codice linguistico mentale, determinando l’output percettivo, cioè il riconoscimento (o contenuto informazionale) di tale esemplare. Da queste tesi si può sviluppare quella sostenuta in La mente modulare (1983), per cui, stabilito un legame causale tra ogni esperienza sensibile e l’occorrenza di un corrispondente simbolo nel linguaggio mentale, si deve necessariamente ammettere che l’operazione di traduzione degli stimoli in rappresentazioni sia effettuata da apparati percettivi (o trasduttori) esistenti (lo si può

Fontenelle

giustificare con un procedimento deduttivo a ritroso) nel soggetto umano. Di qui si passa a spiegare l’elaborazione dell’informazione, che viene effettuata in prima istanza dai moduli cioè sistemi di elaborazione della stessa. Ogni modulo è determinato geneticamente e lavora autonomamente come una facoltà a dimensioni ridotte, manipolando un ambito circoscritto di dati sensoriali. I moduli preposti alle attività cognitive – percezione e linguaggio – attuano una modalità procedurale che va dagli stimoli alla conoscenza e non viceversa (quindi non si dà influenza delle facoltà superiori sul lavoro dei moduli). In seguito, le informazioni vengono inviate ai sistemi centrali che, operando (effettuando computazioni) secondo regole date, le collegano al bagaglio di conoscenze in precedenza accumulato. Queste tesi sono state confermate da Fodor nelle ultime opere tra cui La mente non funziona così (2000). Fontenelle, Bernard Le Bovier de Filosofo, scienziato e letterato francese (Rouen 1657 - Parigi 1757), segretario perpetuo dell’Accademia di Francia. Di fede cartesiana, nei suoi scritti anticipò molte tematiche illuministiche. Nella Digressione sugli antichi e i moderni (1688), intervenendo (con intenti polemici contro l’autorità e la tradizione) nella querelle assai dibattuta in quel momento, delineò una concezione della storia improntata al progresso (i moderni sono superiori agli antichi – che comunque non vanno negletti, in particolare gli oratori – perché possono contare su un orizzonte di conoscenze e di esperienza più vasto, che rende la loro mente adulta, mentre l’età antica può essere considerata come l’infanzia dell’umanità); mentre nella Storia degli oracoli (1687) impostò una critica alla religione come impostura. La sua opera più celebre è la Conversazione sulla pluralità dei mondi (1686) in cui, non senza intenti polemici in favore dell’emancipazione e del rischiaramento della ragione, divulgò in forma brillante e sostenne con coraggio (la materia era ancora soggetta a censura ecclesiastica) le teorie astronomiche di Copernico e Galileo. Foucault, Michel Filosofo e storico francese (Poitiers 1926 - Parigi 1984), professore al Collège de France, tra i rappresentanti più acuti e originali dello strutturalismo. La sua ricerca è incominciata con una Archeologia del sapere (titolo dell’opera in cui nel 1969 ha cercato di fornire una sistema-

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Foucault

zione generale della sua prospettiva teorica, dei suoi obiettivi e dei suoi metodi), cioè con un’indagine mirante a fare emergere l’insieme di nodi concettuali, procedurali e normativi che consentono il costituirsi (specie nell’“età classica”, quella compresa tra i secc. XVII e XVIII) di determinati campi disciplinari e delle relative istituzioni. Alla base di questo lavoro vi è l’epistemologia discontinuista di ➔ Bachelard e la sua negazione di un progressivo affermarsi della ragione scientifica nella storia: analogamente Foucault chiarisce i diversi paradigmi teorici che, rompendo con il passato (in genere la “rinascenza”), si affermano imponendo con il proprio statuto una diversa organizzazione della vita sociale. Così nella Storia della follia (1961) egli descrive la nascita della psichiatria (e parallelamente dei manicomi) e la determinazione del suo oggetto specifico (la follia come fatto patologico) da accertare e da affrontare secondo ben precisi dispositivi, componendo un quadro in cui domina il “monologo della ragione sulla pazzia”, la sua azione intollerantemente repressiva, la separazione dei “dementi” dai “normali”. Se nella Nascita della clinica (1963) Foucault ha studiato “lo sguardo medico” (e in parallelo il sorgere di un’altra istituzione “totale”, l’ospedale che “cura” i malati), ne Le parole e le cose (1966) il suo sguardo si rivolge alle scienze umane, la cui costituzione deriva da una duplice frattura: — quella avvenuta nel Seicento dell’abbandono del principio di somiglianza tra la scrittura e gli oggetti con l’adozione di una teoria della rappresentazione (tutto il reale è completamente simboleggiato da un sistema di segni, secondo uno schema prefigurato di ordini e di relazioni che stabiliscono identità e differenze tra le cose); — e quella, avvenuta nel XIX secolo, che ha visto la comparsa (in senso epistemico) dell’uomo, del soggetto che pone se stesso come oggetto di sapere specifico (sociologia, psicologia, scienza letteraria). Oggi però è giunto il momento della consapevolezza che ogni aspetto dell’essere umano (conoscenza, esistenza, vita, ereditarietà biologica) «è preso all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque [...] di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana» ma che al contrario (come dimostrano la psicanalisi, la linguistica, l’etnologia cui esplicitamente Foucault intende riallacciarsi) dominano il modo con cui gli individui parlano e agiscono. Come «l’uomo è

Fourier

un’invenzione recente», così è destinato a scomparire: la tesi di Foucault è infatti quella della “morte dell’uomo” e dell’avvio di un pensiero “antropofugale”, in cui egli non è più soggetto e fondamento epistemico. A partire agli anni Settanta, Foucault ha in parte abbandonato lo strutturalismo per dedicarsi a ricerche imperniate sul nesso sapere-potere: con ciò egli si è avvicinato al pensiero di Nietzsche, di cui accoglie motivi fondamentali quali lo smascheramento e la trasformazione della ragione illuministica in volontà di dominio. Differenziandosi dal marxismo, il potere che Foucault indaga (in L’ordine del discorso del 1970, Sorvegliare e punire del 1975, Microfisica del potere del 1977, oltre che in un’ampia serie di articoli, interviste, seminari ecc.) è ancora una volta strutturale e originario, essendo un’istanza materiale diffusa che si esercita ovunque. Esso si inscrive nei corpi degli individui inducendoli (in questo senso si tratta di un potere non solo repressivo ma attivo) a determinate forme di comportamento e autoconsapevolezza, a cominciare dalle loro relazioni quotidiane, vissute conformemente a precise esigenze (l’ultima grande opera di Foucault è una Storia della sessualità –1976 vol. I, 1984 voll. II e III – in cui vengono studiati i meccanismi che strutturano il desiderio, lo esprimono nei discorsi e lo assoggettano a tecniche di potere attraverso dispositivi di “normalizzazione”). Esercitate da specifiche strutture educative (la scuola, l’esercito, il carcere ecc.), le relazioni di potere si determinano passando «attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche» fino allo stato, dando vita a un intreccio di microstrutture in cui ciascuno, nel momento in cui viene costituito come soggetto (cioè gli si insegna un determinato modo di interazione con il mondo) si trova a essere al contempo dominante e dominato, nel contesto della comunicazione sociale. Di qui la prospettiva etico-politica di Foucault in senso emancipativo e libertario: infatti una volta individuati i poteri, essi possono essere combattuti (in un processo indefinito e da ciascuno, giacché il potere lascia sempre un residuo “plebeo” pronto a ribellarsi) attraverso la denuncia che ne rivela l’aspetto disumano e degradante. Fourier, Charles Filosofo ed economista francese (Besançon 1772 - Parigi 1837). Tra i massimi rappresentanti del socialismo francese, è autore di vari scritti di carattere utopico tra i quali Teoria dei quattro movimenti e dei destini generali e Teoria dell’u-

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Francescana, Scuola

nità universale. Fourier individua la soluzione dei conflitti sociali nell’organizzazione comune del lavoro, non escludendo la proprietà, acquisita in proporzione al lavoro dell’individuo, ma senza riproporre la forma dello sfruttamento e senza giungere all’“ipocrita” formulazione di un innaturale egualitarismo. L’autore individua positivisticamente nel divenire della storia e della società un processo di sviluppo dalle età degradate a quelle più evolute e armoniche. In questo contesto egli inserisce il suo progetto di società fondata sui “falansteri”: unità costituite da gruppi di circa 1600 persone che vivono in piena libertà sessuale e svolgono le diverse attività secondo una divisione del lavoro che sia rispettosa delle singole attitudini (quello che Fourier definisce “lavoro attraente”, dove anche i fanciulli vengono impiegati in semplici lavori di pubblica utilità), il cui scopo non è produrre ricchezza ma armonia e felicità collettiva. Fracastoro, Gerolamo Medico e filosofo italiano (Verona 1478 ca.-1553). È considerato il fondatore della moderna patologia (il contagio avviene per trasmissione di germi) per il poemetto Syphilis sive de morbo gallico (1530) e il trattato De contagione et contagiosis morbis (1543), ma scrisse anche di logica, astronomia, ottica. Nelle sue opere filosofiche (De sympathia et antipathia rerum, Turrius sive de intellectione, Fracastorius sive de anima) esprime, nella fusione di platonismo e aristotelismo, il motivo profondo dello spirito rinascimentale: la continuità della natura (e quindi la possibilità di una magia naturale) dove la reciproca influenza dei corpi è spiegata in termini meccanicistici (attraverso un flusso di corpuscoli) e non animistici. Pur essendo stato allievo di ➔ Pomponazzi, accettò la dottrina averroistica dell’unicità dell’intelletto universale, mentre in sede gnoseologica si orientò piuttosto in senso empiristico, identificando nell’impressione sensibile l’unico dato realistico del conoscere e concependo il concetto (in sé forma vuota soggettiva che ha solo funzione simbolica) come derivato dalla somiglianza di più percezioni. Francescana, Scuola È la scuola filosofica e teologica nata all’interno dell’ordine mendicante di San Francesco (Alessandro di Hales, maestro a Parigi, fu dal 1231 il primo titolare di una cattedra universitaria attribuita all’ordine). Si caratterizza per l’adesione alla spiritualità del suo fondatore, che si esprime nel proseguimento della tradi-

Francoforte, Scuola di

zione agostiniana (la filosofia come meditazione della fede centrata sul mistero dell’incarnazione e non come scienza separata) al cui interno viene accolta e discussa la nuova problematica sorta dall’aristotelismo. Spesso in polemica con il tomismo, la Scuola francescana ha assunto (anche in rapporto alle due tendenze fondamentali dell’ordine, quella conventuale e quella spirituale) un orientamento talvolta conservatore della tradizione cristiana ma in altri casi di radicale rinnovamento anche in campo gnoseologico e scientifico. Essendo rappresentata da maestri illustri (quali Bonaventura, Duns Scoto, Olivi, Ockham, Ruggero Bacone, Lullo, ecc.) che hanno dato vita ad altrettanti autonomi e originali indirizzi speculativi, non si può parlare di un corpo teorico unitario e omogeneo, anche se vi sono alcune tesi generalmente condivise e sostenute (sia pure in una riformulazione che ne salva, se non la lettera, lo spirito) che ne determinano la specificità dottrinaria. Così, in opposizione all’aristotelismo domenicano, la Scuola francescana difende l’argomento ontologico, attribuisce una rilevanza maggiore alla concretezza individuale rispetto alla specie universale, sostiene la dottrina dell’esemplarismo e della pluralità delle forme, mantiene la tesi agostiniana delle idee seminali e dell’illuminazione, estende la composizione ilemorfica a tutti gli esseri viventi, insiste sul ruolo preminente della volontà in campo etico. Francoforte, Scuola di Nome con cui si indica l’Istituto per la ricerca sociale (fondato nel 1922 da Weil e diretto a partire dal 1931 da Horkheimer) e il gruppo di intellettuali (economisti come Grossmann e Pollock, sociologi come Wittfogel e Löwenthal, storici come Borkenau, giuristi e politologi come Neumann e Kirchheimer, psicologi come Fromm e Bettelheim, filosofi come Adorno, Marcuse, Benjamin) gravitanti intorno alle sue attività. L’alto livello qualitativo delle sue indagini e il prestigio della sua Rivista per la ricerca sociale ne fecero un polo di attrazione e di riferimento per molti studiosi di varia provenienza e matrice culturale. L’avvento del nazismo costrinse gli esponenti della scuola a emigrare (specialmente negli Stati Uniti): dopo la guerra alcuni fecero ritorno in Germania e rivitalizzarono la scuola, formando una nuova generazione di saggisti e pensatori (il nome più significativo è quello di Habermas) che ne ha proseguito la tradizione speculativa. Questa è centrata sull’idea di

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Francoforte, Scuola di

teoria critica dell’attuale società industriale: l’obiettivo è di metterne a nudo le contraddizioni nell’ottica di un’emancipazione radicale dell’umanità dall’alienazione e dall’oppressione del sistema economico capitalistico. A tal fine i “francofortesi” hanno utilizzato una strumentazione concettuale che attinge non solo dalla tradizione hegelo-marxista, ma anche dalla psicanalisi di Freud, derivandone una concezione della società che vuole essere totale (considerandola nella sua globalità), dialettico-negativa (in quanto vuole metterne in evidenza le opposizioni conflittuali interne), critico-utopica (la negazione del presente passa per la configurazione di un modello che funge insieme da stimolo smascherante e da indicatore verso un possibile dover-essere rivoluzionario). Se la sconfitta del movimento operaio e l’avvento dei regimi totalitari hanno motivato l’orientamento dell’indagine verso le tematiche dell’autoritarismo e dei meccanismi ideologici e istituzionali che lo costituiscono e lo rafforzano (i primi lavori multidisciplinari dell’Istituto concernono L’autorità e la famiglia e La personalità autoritaria), successivamente l’attenzione si è spostata verso l’individuazione dei fattori essenziali e caratterizzanti della società tecnologica e opulenta tipica del capitalismo avanzato e della democrazia di massa dopo la fine del liberalismo e il fallimento del comunismo. Dagli esiti pessimistici delle analisi di Horkheimer e Adorno (che hanno colto nel legame tra dominio sulla natura e dominio sull’uomo la radice dello scadimento della ragione a funzione meramente strumentale e delle sue conseguenze oppressive), si è passati a una visione più aperta alle possi-

Scuola di Francoforte I rappresentanti dell’Istituto per la ricerca sociale W. BENJAMIN (1892-1940) Th. ADORNO (1903-1969) M. HORKHEIMER (1895-1973) H. MARCUSE (1898-1979) E. FROMM (1900-1980) J. HABERMAS (1929-viv.)

Frank

bilità rivoluzionarie in Marcuse, per approdare infine con Habermas a una prospettiva in grado di coniugare il tradizionale taglio critico della scuola con le esigenze dialogico-comunicative, pluralistiche ed etiche delle moderne democrazie occidentali. Frank, Philipp Fisico ed epistemologo austriaco (Vienna 1884 - Cambridge nel Massachusetts 1966) professore a Praga e alla Harvard University. Fu tra i fondatori del Circolo di Vienna e accolse le tesi neopositivistiche dell’analisi del linguaggio insistendo, contro le posizioni convenzionaliste, sulla essenzialità della base empirista. Secondo Frank gli equivoci e i “non sensi” filosofici sorgono dalla disattenzione verso i linguaggi scientifici specifici a vantaggio di quello quotidiano o di quelli scientifici già obsoleti. Criticò le interpretazioni indeterministico-spiritualiste della meccanica quantistica e sostenne una visione integrata e articolata della ricerca scientifica attraverso una sintesi intelligente degli aspetti validi presenti nelle varie scuole epistemologiche. Frege, Gottlob Matematico e logico tedesco (Rostock 1848-1925). Professore a Jena, coltivò un grande progetto di fondazione logica della matematica (specie dell’aritmetica) attraverso una rigorosa teoria della deduzione (senza quindi fare ricorso all’intuizione). Anima del progetto era l’idea che i concetti e i principi matematici potessero essere derivati esclusivamente da quelli della logica (e non anche dall’esperienza come in ➔ Stuart Mill): intendendo eliminare gli equivoci del linguaggio comune, Frege costruì una speciale ideografia per superare le imprecisioni grammaticali delle lingue parlate, in cui comparissero chiaramente la distinzione tra premesse e asserzioni, tra predicati significanti concetti e nomi significanti oggetti, e che esprimesse inequivocabilmente la relazione di implicazione e delle altre funzioni di verità. Il tentativo naufragò in seguito all’antinomia rilevata da Russell, che la superò mediante la teoria dei tipi logici. In ogni caso il suo contributo allo sviluppo della logica comprende anche l’ampliamento della nozione di funzione al pensato in genere (un concetto è una funzione mono-argomentale, i cui possibili argomenti sono oggetti qualsiasi e il cui significato è un valore di verità, mentre una relazione è una funzione pluri-argomentale), la nozione di quantificatore (per ogni ed esiste almeno un sostituiscono ogni e qualcuno), la teoria delle descrizioni (assimilate ai nomi propri,

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cioè espressioni che denotano oggetti), le regole di deduzione e l’esigenza di completa esplicitazione di tutti gli elementi che entrano nel sistema logico. Sul piano più generalmente filosofico Frege si oppose alla concezione psicologistica della logica (per cui le leggi della logica sarebbero le leggi del pensiero) e a quella formalistica della matematica (per cui i numeri sarebbero solo segni), sposando una visione platonico-realista (gli enti matematici e logici sussistono di per sé, indipendentemente dal pensiero) che lo indusse a rivalutare i giudizi analitici leibniziani contro quelli sintetici a priori kantiani. In questo quadro Frege operò, nella considerazione del segno, l’importante distinzione (ripresa dai neopositivisti per la loro analisi logica del linguaggio) tra significato (l’oggetto denotato), senso (il modo con cui l’oggetto ci viene dato nell’espressione) e rappresentazione (l’immagine soggettiva dell’oggetto che accompagna il segno). Freud, Sigmund Medico austriaco (Freiberg in Moravia 1856 - Londra 1939), fondatore della psicanalisi. la vita. Nato da una famiglia ebraica, si laureò in medicina nel 1881. Dedicatosi alla pratica clinica e ottenuta una borsa di studio, si recò per un anno a Parigi presso Charcot a specializzarsi in psichiatria e malattie nervose. Tornato a Vienna nel 1886, incominciò a curare casi di isteria (famoso quello di Anna O.) insieme a Breuer secondo il metodo della suggestione ipnotica (insieme all’amico e collega pubblicò nel 1895 gli Studi sull’isteria, dove espose la tecnica delle libere associazioni e usò i primi concetti della sua teoria). Allo scopo di affrontare anche i propri conflitti, incominciò un processo di autoanalisi, specialmente dei sogni, che diede come risultato L’interpretazione dei sogni (1899). Nominato professore straordinario all’università di Vienna, a partire dal 1902 riunì tutti i mercoledì sera a casa sua un gruppo di studiosi interessati alle sue teorie, primo nucleo del nascente movimento psicanalitico. Seguono anni di intensa attività di ricerca e di lavoro terapeutico: divenuto celebre in tutto il mondo, Freud venne invitato a tenere conferenze in università inglesi e americane, mentre nel 1908 si tenne il primo congresso internazionale di psicanalisi e nel 1910 fu fondata la Società psicanalitica internazionale, di cui Jung fu primo presidente. Intanto venivano pubblicate Psicopatologia della vita quotidiana (1901), Tre saggi sulla sessualità e Il motto di spirito (1905), relazioni dei casi

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clinici più famosi, tra cui quello del Piccolo Hans (1908), dell’Uomo dei topi (1909), del Presidente Schreber (1910), una serie di saggi sulla letteratura e sull’arte, Totem e tabù (1913) in cui si venivano esponendo i risultati delle sue indagini. Dopo la rottura con Jung e Adler, Freud si dedicò alla rielaborazione delle sue teorie (Introduzione al narcisismo del 1914, Metapsicologia del 1915, Il perturbante del 1919, Al di là del principio del piacere del 1920, Psicologia delle masse e analisi dell’Io del 1921, L’Io e l’Es del 1922, Inibizione, sintomo, angoscia del 1925, L’avvenire di un’illusione del 1927) che espose in più cicli di lezioni all’università di Vienna e che furono pubblicate nel 1932 con titolo Introduzione alla psicanalisi. Tra i suoi ultimi scritti: Il disagio della civiltà (1930), Analisi terminabile e interminabile e Costruzione dell’analisi (1937), L’uomo Mosè e la religione monoteista (1938). Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938, Freud emigrò con la famiglia a Londra dove morì l’anno dopo. il pensiero. Cresciuto nell’ambiente positivistico di Vienna (dove le malattie psicologiche erano considerate conseguenza di lesioni o alterazioni del sistema nervoso), dopo l’incontro con Charcot e con Breuer Freud si era convinto dell’esistenza di fatti morbosi mentali non dipendenti da fattori organici, ma da processi esclusivamente psichici rimasti oscuri al malato stesso. Introdotto alla pratica del metodo ipnotico, si rese conto che intere sequenze del comportamento potevano venire determinate da dinamiche psichiche sconosciute al soggetto. Pur affascinato, Freud osservò tuttavia che i risultati ottenuti con questo metodo erano di breve durata, poiché i sintomi benché scomparsi, ricomparivano ben presto. Studiando i casi di isteria (in particolare quello di Anna O.) e analizzando la storia dei pazienti, Freud arrivò a scorgere una correlazione tra i sintomi (afasie, allucinazioni, contratture, paralisi ecc.) e i ricordi del passato anteriore al manifestarsi della malattia: fatti dotati di una forte componente emozionale rimasta inespressa al momento degli accadimenti ma che ora, sotto trattamento ipnotico, riemergevano “scaricandosi” e producendo così l’attenuarsi dei sintomi (terapia catartica). Sotto questa prospettiva l’inconscio si rivelava dunque come un mondo di impulsi istintuali, di natura chiaramente sessuale, in contrasto con le accettate norme del vivere sociale e pertanto allontanati dalla coscienza (rimozione) per le sue caratteristiche di traumaticità. A causa di questa rimo-

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zione le isteriche soffrivano di reminiscenze, di esperienze affettive negative (lutti, incomprensioni, solitudini, traumi privati vissuti quasi sempre nell’ambiente famigliare) in attesa di poter essere espresse. Con la tecnica delle libere associazioni (il paziente fa fluire liberamente ricordi, fantasie, immagini ecc.), Freud trovò il modo di far riaffiorare dall’inconscio il materiale psichico traumatizzante (per lo più vissuti sgradevoli e imbarazzanti, rimossi nell’inconscio perché ritenuti inaccettabili) superando la ritrosia alla loro verbalizzazione (resistenza): compito del terapeuta è poi quello di cogliere il significato di queste manifestazioni (tra esse anche l’attaccamento affettivo del paziente per il medico, il cosiddetto transfert, come elemento da comprendere e utilizzare a scopo terapeutico) per rendere conscio ciò che, in seguito al meccanismo della rimozione, era divenuto inconscio. Nel tentativo di individuare le cause dei disturbi nervosi e la tipologia di esperienze traumatiche in grado di produrre sintomi, lo scavo analitico portava all’emergere di vissuti ed episodi legati alla prima infanzia del soggetto, per cui il sintomo appariva come l’espressione corporea di un disturbo psichico legato a un conflitto tra pulsioni sessuali infantili e il divieto sociale di soddisfarle, continuamente rielaborato dall’individuo nel corso della sua vita. In questo quadro si collocò l’indagine di Freud sui sogni: l’analisi dei processi onirici costituiva infatti un materiale prezioso per la conoscenza dell’inconscio proprio per le particolari condizioni che si verificano durante il sonno (riduzione del controllo della coscienza vigile che favorisce l’emergere di immagini, sentimenti, ricordi apparente dimenticati in quanto rimossi). Freud ritiene che il sogno non rappresenti l’inconscio in modo diretto, poiché il controllo sul materiale rimosso permane, sia pure in forma attenuata, anche durante il sonno. La produzione onirica rappresenta una formazione di compromesso tra le istanze della coscienza e i desideri e le pulsioni inconscie (il sogno è definito il “custode del sonno” perché una manifestazione esplicita dei contenuti inconsci finirebbe per turbare il sonno del paziente) attuata attraverso la funzione psichica della censura. Attraverso una complessa attività (lavoro onirico) costituita dai meccanismi della condensazione (tendenza a esprimere più elementi in un solo contenuto) e dello spostamento (la carica emotiva viene spostata da un elemento intensamente investito di affetti inconsci a uno meno importante), il desiderio viene

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deformato per poter essere accettato dalla censura e quindi espresso dal sogno in immagini visive. Il lavoro interpretativo dell’analisi consente così di passare dal contenuto manifesto (la scena onirica vissuta durante il sonno così come viene ricordata) al contenuto latente (il significato del sogno), nonché di cogliere le modalità attraverso cui il materiale rimosso viene trasformato per poter essere rappresentato, rendendo intellegibile ciò che il lavoro onirico ha occultato. I desideri che si esprimono nel sogno sono analoghi a quelli colti nell’analisi dei sintomi nevrotici: desideri sessuali infantili, rimossi per la loro natura prevalentemente incestuosa. Freud riconduce questi desideri al complesso edipico, speciale distribuzione dei desideri e costellazione affettiva in cui il bambino sperimenta sentimenti d’amore per il genitore di sesso opposto e di rivalità per quello del suo stesso sesso: le istanze sessuali incestuose dell’infanzia rappresentate in tale quadro vengono in seguito inibite ed elaborate dall’individuo per lasciare posto a uno sviluppo affettivo normale in senso esogamico. Freud approfondì inoltre l’analisi di una serie di manifestazioni (lapsus, dimenticanze ecc.), che come i sogni non hanno in sé nulla di patologico, ma che dimostrano l’attività costante dell’inconscio e la pervasività della sua presenza nella nostra vita, che risulta dominata non dalla coscienza, dalla razionalità e dal libero arbitrio (come nell’immagine tradizionalmente secolare dell’uomo) ma da elementi irrazionali, affettivi e passionali spesso inconsapevoli: le verità più profonde e nascoste del nostro essere devono essere deformate e distorte per poter entrare nella sfera della coscienza (non più come luogo cartesiano della certezza chiara ed evidente, quanto come velo occultante e deformante, che l’analisi deve liberare dal condizionamento del rimosso). Lungo questa linea di ricerca Freud pervenne sia a modificare la linea di demarcazione tra “normale” e “patologico” (condizione tra le quali sussiste una differenza non di tipo qualitativo ma di intensità, legata ai conflitti profondi tra la natura pulsionale dell’uomo e le esigenze poste dalla vita sociale) sia a ridefinire il concetto di sessualità, non più identificata con la funzione riproduttiva. La genitalità adulta appare infatti come il risultato di un lungo percorso del desiderio mentre il corpo risulta avere fin dai suoi esordi capacità e desiderio di provare piacere attraverso parti specifiche (zone erogene) che sono maggiormente predisposte e che mutano

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con lo sviluppo e la crescita. Così alla fase orale (legata all’alimentazione e all’attività di suzione al seno mateno) seguono quella anale (legata, intorno al secondo anno di vita, all’educazione degli sfinteri) e quella fallica (concentrata sugli organi genitali), quest’ultima culminante con il complesso di Edipo, il cui superamento conduce alla civilizzazione del bambino. Questa viene ottenuta mediante una rinuncia pulsionale, che lo rende capace di investire le proprie pulsioni, debitamente spostate da una meta sessuale a una dotata di valore sociale (processo di sublimazione), in un ambito relazionale più ampio. Spinto a cercare una sistemazione teorica organica per le scoperte emerse nella pratica clinica, Freud mise a punto, con fatica e non senza incertezze e contraddizioni interne, una metapsicologia per mezzo della quale descrivere il processo psichico nelle dimensioni dinamica, economica, topica. Nella prima si considerano i fenomeni psichici come derivanti da una relazione tra forze contrastanti facenti riferimento a spinte interne al soggetto (pulsioni) miranti verso un oggetto e distinte in sessuali (mosse dal desiderio e finalizzate alla conservazione della specie, sono regolate dal principio di piacere) e dell’Io (si propongono di assicurare la sopravvivenza dell’individuo e sono legate al principio di realtà). Entrambe mosse dalla stessa energia (libido), si istituisce tra i due tipi di pulsione un rapporto inversamente proporzionale: il computo degli spostamenti di energia tra le prime e le seconde costituisce il punto di vista economico nella descrizione delle vicende intrapsichiche. Questo dualismo pulsionale trova il suo parallelo nel funzionamento dell’apparato psichico diviso tra processo primario (che concerne il pensiero inconscio dove la libido fluttua liberamente, seguendo la logica della similitudine, della contiguità, della condensazione) e secondario (proprio della coscienza dove l’energia è legata stabilmente a determinate rappresentazioni permettendo lo svolgimento delle operazioni mentali di prova per la realizzazione del desiderio e quindi del pensiero logico-razionale). Alla descrizione del funzionamento dell’apparato psichico corrispondono le due topiche, modelli strutturali che rendono visibili i “luoghi” della psiche e le loro relazioni dinamiche. Nella prima (risalente all’Interpretazione dei sogni) si distinguono, all’interno del soggetto, l’inconscio (costituito da rappresentanti pulsionali – immagini – legati ai primissimi desideri infanti-

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li sottoposti a rimozione e caricati di energia che tende alla scarica), il preconscio (che si differenzia dall’inconscio in quanto retto dal pensiero secondario e costituito da parole – pensieri, ricordi – che possono venire selezionati nel loro accesso alla coscienza, consentendo l’attenzione e il pensiero vigile) e il conscio (costituente il nucleo dell’Io, riceve informazioni dall’interno e dall’esterno – percezioni – combinandole in modo da trasformarle in entità psichiche coscienti). Nella seconda topica l’apparato psichico risulta strutturato in tre istanze (che danno luogo alla scomposizione della personalità), i cui confini sono sfumati: l’Es (che, aperto nei suoi strati più profondi alla dimensione somatica, comprende il patrimonio impersonale ed ereditario della psiche, in primo luogo l’energia pulsionale, e i cui contenuti sono inconsci e si sedimentano attraverso la rimozione), l’Io (per certi aspetti un derivato dell’Es con funzioni adattive che permette al soggetto di entrare in rapporto con la realtà esterna mediandone le condizioni con le dinamiche pulsionali e costituito attraverso l’identificazione del soggetto con le figure parentali) e il Super-io (sorta di censore interiorizzato, costituito dalle norme e dai divieti parentali assimilati dal soggetto con i quali egli al termine della vicenda edipica può identificarsi). L’obiettivo che emerge dall’indagine freudiana è che «dove era Es deve diventare Io», consistente in un lungo cammino, un interminabile lavoro per annettere all’Io i territori dell’Es resistendo alle prepotenti istanze del Super-io. Con l’introduzione nel 1920 del concetto di pulsione di morte (scoperta attraverso l’analisi delle nevrosi traumatiche che determinano una coazione a ripetere non ascrivibile al principio del piacere) Freud portò un attacco radicale alla scienza e alla filosofia ottocentesche (dominate da una visione lineare, ottimistica e progressiva del tempo). Antitetica a Eros, funzione aggregante e vitale, Thanatos è una spinta disgregante verso il ritorno all’inorganico che si manifesta in forma di aggressività distruttiva sia verso di sé (masochismo, per cui il Super-io sarebbe da riferire a tendenze aggressive del soggetto che, represse e non utilizzate, vengono dirette verso l’Io con conseguente senso di colpa) sia verso l’esterno (sadismo). Se da tale punto di vista il conflitto psichico poteva rispecchiare quello originario tra le forze della vita e quelle della morte (fino a porci di fronte a un meccanismo ripetitivo del vissuto che provoca un senso di spaesamento – il perturbante), su questa ba-

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se Freud elaborò una concezione della vita umana in termini tragici: in particolare la vita civile appare come percorsa da una ineliminabile sofferenza, da un conflitto insanabile tra il principio del piacere e quello di realtà. Infatti poiché il Super-io si presenta come istanza inibitrice del soddisfacimento pulsionale sia erotico sia aggressivo, esso si costituisce anche come fondamento del vivere civile: la civiltà ha dunque un prezzo, poiché esige una riduzione della felicità personale (legata al soddisfacimento pulsionale diretto) a favore di una maggiore sicurezza, per cui l’incremento dell’inibizione degli impulsi libidici e aggressivi determina in modo direttamente proporzionale quello del senso di colpa. Freud stabilì un evidente parallelo tra lo sviluppo psichico individuale e il processo di incivilimento: anche in ambito sociale si sviluppa un Super-io collettivo, formatosi in genere a partire dall’impressione lasciata da grandi personalità dotate di forte carisma, spesso maltrattate o uccise (sorte analoga desiderata anche dal singolo per l’autorità parentale durante la fase edipica). Ma se da un lato le difese erette dalla civiltà per arginare l’aggressività dell’uomo non possono portare che alla nevrosi, dall’altro attraverso un processo di sublimazione (per cui viene mutata sia la meta sia l’oggetto delle pulsioni in relazione diretta con le valutazioni sociali) è possibile raggiungere un buon grado di soddisfazione pulsionale. Le attività intellettuali e artistiche (ma non quella religiosa che resta per Freud un’inutile illusione consolatoria), attraverso un’adeguata elaborazione interna, possono costituire un luogo verso cui indirizzare grande quantità di energia rendendo così l’uomo capace di dominare la realtà e la vita, sia singola che collettiva, più sicura e, entro certi limiti, appagante (anche se certo non felice, data la permanenza di una ferita insanabile prodotta dalla scissione in ognuno di noi tra la dimensione naturale – amore intenso ed esclusivo per la madre – e quella culturale – divieto dell’incesto). Fries, Jakob Friedrich Filosofo tedesco (Barby 1773 - Jena 1843), professore a Jena e Heidelberg. Ammiratore di Kant, ne difese la dottrina dagli sviluppi idealistici sviluppandola (e correggendola) in senso psicologistico: essendo ogni atto del conoscere una funzione psichica, Fries ridusse la gnoseologia e in generale tutta la filosofia a una scienza dell’esperienza psicologica (lo stesso trascendentale kantiano ha questa natura). Da-

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to che per lui la “scienza della ragione” era di natura sperimentale e basata sull’autosservazione, su quest’ultima pensò di stabilire un sistema di filosofia evidente. Malgrado questa impostazione, Fries attribuì alla conoscenza una validità oggettiva sia nella presupposizione della concordanza dei contenuti psichici con l’oggetto, sia in ciò che egli chiamò l’autofiducia della ragione. Improntate sulle idee del maestro, anche le dottrine etiche e politiche assumono un indirizzo nettamente liberale in nome del “rispetto della dignità dell’uomo” cui sono finalizzati gli ordinamenti dello stato che devono vivere attraverso la partecipazione del popolo.

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Fromm, Erich Psicanalista e filosofo tedesco (Francoforte 1900 - Locarno 1980), emigrato negli Stati Uniti in conseguenza delle vicende naziste. Ha lavorato con l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, legandosi a diversi filosofi e sociologi della Scuola di Francoforte. Negli Stati Uniti ha pubblicato saggi di notevole successo come Fuga dalla libertà (1941), L’arte di amare (1956), Avere o essere? (1976) nei quali tematiche di grande interesse per un vasto pubblico vengono trattate in modo approfondito e allo stesso tempo adeguato al tipo di lettore cui sono indirizzati. Fromm ha lavorato nel campo aperto da Freud, inserendo sulla psicanalisi elementi tratti dalle scienze sociali.

G Gadamer, Hans Filosofo tedesco (Marburgo 1900 - Heidelberg 2002). Cresciuto in un ambiente culturalmente ricco e vivace, dopo la maturità classica, conseguita nel 1918, si iscrisse dapprima all’università di Breslavia, seguendo le lezioni di Hönigswald, poi a quella di Marburgo, roccaforte del neokantismo (vi insegnavano ➔ Natorp e ➔ Hartmann), ancora incerto sul suo destino di studioso e indeciso su quale cammino scientifico intraprendere. Importanti le suggestioni che gli vennero, di volta in volta, dalla fenomenologia di Husserl, dalla letteratura della “crisi” (➔ Spengler, ➔ Lessing, Ernst), dalle prime opere di Mann e dal circolo poetico riunito intorno a George; ma davvero decisivo fu l’incontro (1923), avvenuto l’anno dopo la laurea, con ➔ Heidegger: «da allora seppi quel che volevo: [...] riduzione della filosofia a esperienze portanti dell’esistenza umana». Insieme alla filosofia, e per attenuare l’influenza quasi soffocante esercitata dal maestro – «Heidegger ci teneva incatenati a sé» –, coltivò studi di filologia classica sotto la guida di Friedländer. Nel 1929 conseguì la libera docenza con Heidegger, presentando uno studio sul Filebo platonico (poi confluito in L’etica dialettica di Platone, 1931) che, nel segno dell’interpretazione, coniugava istanze filosofiche e interessi filologici. Erano così fissati i suoi principali ambiti di ricerca: «L’ermeneutica e la filosofia greca rimasero i due capisaldi del mio lavoro». Negli anni 1937-38 Gadamer insegnò a Marburgo (con un breve intermezzo a Kiel). Nel 1939 passò a Lipsia, come titolare della cattedra di filosofia, dove continuò le sue letture dei classici del pensiero (dai Greci a Hegel, fino a Husserl) e le sue interpretazioni dei poeti (Goethe, Hölderlin, Rilke), senza tuttavia dare alle stampe nulla di rimarchevole. Alla fine della guerra fu nominato rettore dell’università (1946-47), anche a seguito della sua posizione politicamente defilata rispetto al nazismo. Negli anni 1948-49 fu a Francoforte e infine approdò a Heidelberg, come successore di Jaspers. Sono anni (19491968) di un appassionato, fervente impegno di insegnamento, anni di intensa attività didattica e di studio, che condurranno al-

la pubblicazione della sua opera maggiore, Verità e metodo (1960). Dopo essere stato nominato professore emerito, Gadamer ha iniziato una “vita di viaggi”, tenendo conferenze e seminari in numerose università europee e nordamericane, contribuendo così a diffondere, quasi in veste di ambasciatore speculativo, la sua filosofia ermeneutica. Con essa Gadamer non intende fissare un insieme di indicazioni tecniche per la riuscita dei processi interpretativi, né fornire «le norme del procedimento delle scienze dello spirito». Il suo obiettivo è un altro: da una parte, con un chiaro intento fenomenologico, delineare che cosa avviene effettivamente quando si comprende qualcosa – «In fondo io non propongo “alcun metodo”, ma descrivo “ciò che è”» –; dall’altra, mettere in luce le condizioni che consentono l’evento interpretativo – «per esprimerci kantianamente […], si domanda come sia possibile il comprendere». Ricollegandosi direttamente a Heidegger, Gadamer considera la comprensione alla stregua di un “esistenziale”, vale a dire come un modo d’essere peculiare dell’uomo, come la specificità fondamentale della sua esistenza. E proprio attraverso il comprendere si realizza un’esperienza di verità irriducibile al metodo delle scienze della natura, basato sui criteri di esattezza e oggettività. Il metodo scientifico, con le sue procedure matematiche e quantitative, non esaurisce il campo della verità; si danno, infatti, esperienze di verità extrametodiche, attinte in virtù dell’interpretazione, che risultano necessarie e indispensabili per l’uomo, perché lo toccano e lo trasformano, perché sono modi con cui arriva a comprendere se stesso; «noi possiamo discutere benissimo sui problemi delle scienze della natura, ma che noi con il loro concetto di verità, o della scientificità, possiamo venire a capo dei nostri problemi più autentici, come il senso della vita, della storia, della morte, non è possibile, non va». Pertanto Gadamer rivaluta tutte quelle esperienze di verità – rinvenibili nell’arte, nella religione, nel pensiero filosofico, nel diritto, nella storia – in cui accade qualcosa per cui e in cui noi ci riconosciamo, in cui

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prendiamo coscienza del nostro esserci, per quanto in forma parziale, sempre limitata, senza mai giungere a una piena, totale autotrasparenza: «Non possiamo conseguire una completa chiarificazione […]. Rimane sempre un resto». Un esserci, quello dell’uomo, finito, che ha il suo insuperabile orizzonte di vita (e di comprensione) immerso nella storicità – «Io […] ritengo che il senso dell’esserci […] risieda […] nel “ci”, cioè nella determinatezza storica dell’esistenza» – e che esperisce il suo essere-nel-mondo attraverso e mediante il linguaggio: «Chi ha linguaggio, ha il mondo». Nel linguaggio, visto nella sua dimensione sociale e storica, tutto ciò che è – il mondo con le sue cose, con le sue forme, con i suoi eventi – ci viene incontro, ci parla, si apre al nostro interpretare: «L’essere, che può venir compreso, è linguaggio». Di qui il fatto che ogni nostra esperienza d’essere, sempre (e inevitabilmente) radicata nella storia e articolata linguisticamente, possiede una valenza ermeneutica. Per questo essa mostra un carattere universale, applicandosi in ogni ambito del vivere umano. D’altra parte, visto che si interpretano cose che già esistono, l’ermeneutica ha il proprio indice temporale rivolto in primis verso quanto è tramandato. Non a caso, Gadamer parla della necessità di dare vita a una “cultura della tradizione”. Nei monumenti e nelle testimonianze provenienti dal passato, in tutti i suoi lasciti, in ciò che Hegel ha chiamato spirito oggettivo – le istituzioni sociali, l’ethos civile, il mondo della cultura, la lingua parlata da una certa comunità –, c’è qualcosa che ci interpella, che fa valere la sua pretesa di

Ermeneutica Linguaggio e interpretazione: lo sviluppo della ricerca F. SCHLEIERMACHER (1768-1834) Berlino W. DILTHEY (1833-1911) Berlino Ch.S. PEIRCE (1839-1914) Harvard L. PAREYSON (1918-1991) Torino H.G. GADAMER (1900-2002) Heidelberg J. DERRIDA (1930-2004) Parigi P. RICŒUR (1913-2005) Parigi

Gadamer

verità, che ci determina e che ci trasmette (traditur), qualcosa che costituisce e forma il nostro esserci e da cui non possiamo prescindere: «La nostra finitezza storica è definita proprio dal fatto che anche l’autorità di ciò che è tramandato […] esercita sempre un influsso sulle nostre azioni e sui nostri comportamenti». Ma il nostro essere collocati in (o derivare da) una tradizione non ci inchioda al passato, quasi fossimo condannati a ricostruire, in modo integrale, ciò che è stato, nell’illusione (o presunzione) di restituire una verità già data una volta per tutte. Appellandosi al principio aristotelico dell’applicatio, Gadamer sottolinea che le “problematiche della tradizione” vanno recuperate al presente e per il presente. Con ciò il passato è attualizzato, è ricondotto alle aspettative e alle preoccupazioni di colui che, qui e ora, interpreta: «l’interpretazione della tradizione non è mai la sua vera ripetizione, bensì è sempre una nuova creazione del comprendere». Per giustificare un tale processo di mediazione, di integrazione tra presente e passato – in cui «quando in generale si comprende, si comprende “diversamente”» –, Gadamer introduce il concetto di fusione d’orizzonti. Esso esplicita il fatto che l’esito di una interpretazione riuscita è il costruirsi di un unico, nuovo orizzonte di senso, che comprende e abbraccia tanto l’interpretandum quanto l’interpretante. Questo processo sintetico ha il suo modello nel dialogo, che si distende secondo una dialettica di domanda e risposta. Qui, più che a Hegel, Gadamer pensa (e rimanda) alla dialogica aperta del Socrate platonico, dove gli interlocutori mettono in gioco i propri pregiudizi, correggendoli e rivedendoli alla luce della cosa che è in questione e in rapporto allo sviluppo e alle pieghe impreviste che prende la discussione, dove, ammettendo il primato della domanda sulla risposta – la dialettica “è l’arte del domandare ancora” –, si registra l’infinità del comprendere, si prende atto che la verità non è un oggetto di cui si possa disporre a piacere, qualcosa che si sia dispiegato interamente, per sempre: «L’ermeneutica cerca di tener fermo ciò, in quanto fa emergere la connessione della tradizione, in cui stiamo, come una continua nuova acquisizione, che prosegue all’infinito». Secondo questa prospettiva la nostra interpretazione non è altro che uno dei tanti, innumerevoli anelli che formano quella catena di altre interpretazioni, che precedono la nostra e la condizionano, a cui Gadamer dà il nome di “storia degli effetti”: «Un’interpretazione definitiva sarebbe in

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sé una contraddizione. L’interpretazione è sempre in cammino». In ciò consiste la saggezza ermeneutica: riconoscere che rimane sempre qualcosa da dire. «Un cattivo ermeneuta è colui che si illude di dover avere l’ultima parola». Ma la saggezza ermeneutica acquista per Gadamer anche un altro significato. Facendo leva sul concetto aristotelico di phronesis, di un sapere razionale pratico, l’ermeneutica viene “urbanizzata”, è chiamata ad assolvere una funzione sociale, per altro iscritta nel suo codice genetico. Se essa, fin dalle sue origini greche, aveva il compito di ridurre l’estraneità, di rendere familiare l’incomprensibile, di mettere in rapporto e in comunicazione ciò che era distante e diverso, allora, nell’età della scienza e della tecnica dispiegate, il suo obiettivo sarà, attraverso il linguaggio di tutti i giorni, mediante i logoi che gli uomini quotidianamente si indirizzano, ricondurre all’ambito dei costumi di una determinata società quella materia che, a causa del suo radicale specialismo, si è allontanata, si è estraniata dalla coscienza comune. «Credo che il grande monologo della scienza […] debba restare inserito nel quadro di una più ampia solidarietà comunicativa. [...] L’idea di una scienza metodica e rigorosa resta senz’altro valida, a condizione però di riconoscerne i limiti e di riportare il nostro sapere tecnico a un sapere riflessivo, alimentato da un’intera tradizione culturale». Scopo dell’ermeneutica è dunque di riportare il discorso scientifico in quello che ➔ Husserl ha definito “mondo della vita”, nella dimensione pubblica di una ragione sociale che deve restituirgli giustificazione e legittimità. Galeno Medico e filosofo greco (Pergamo, 129-200 ca.). Dopo Ippocrate, vissuto cinque secoli prima, è il più celebre medico dell’antichità. Fu personalità di primo piano nella Roma antica, legato agli stessi imperatori Marco Aurelio e Commodo, presso la cui corte esercitò la professione medica. Autore di moltissime opere, soprattutto due ebbero fama secolare: una sul metodo terapeutico (Ars magna, o Macrotechnum) e una seconda sull’arte medica (Ars parva, o Microtechnum). Scrisse anche di vari temi filosofici lontani dalla medicina, e la sua attività dovette essere intensissima. Modificò profondamente la tradizione ippocratica, introducendo in medicina l’eclettismo tipico della cultura filosofica romana: così elementi aristotelici e stoici vennero fusi con le antiche tradizioni mediche greche. Oltre

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a condurre moltissime ricerche (a base empirica) su singole patologie, Galeno definì una teoria generale della malattia sulla base di un metodo di ricerca che univa l’evidenza sensibile all’intuizione intellettuale. Galileo, Galilei Scienziato e filosofo italiano (Pisa 1564 - Arcetri 1642). la vita. Galileo nacque a Pisa nel 1564 da genitori della ricca borghesia; ricevuta una prima educazione umanistico-letteraria, frequentò in seguito, senza concluderli, i corsi della facoltà di medicina presso l’ateneo pisano, dove incominciò a coltivare interessi per la fisica e la matematica. Nel 1589 ebbe un incarico di lettore di matematica nella stessa università, grazie ai suoi primi lavori di statica, ispirati dallo studio di Archimede. Già in questi anni giovanili, Galileo maturò alcune convinzioni che rimarranno ferme nel prosieguo della sua vita di scienziato: la fiducia platonico-pitagorica nella matematica, la critica alla fisica aristotelica e la condivisione dell’astronomia copernicana. Al periodo pisano si deve la scoperta della legge dell’isocronismo del pendolo. Nel 1592 Galileo si trasferì a Padova per insegnare matematica in quella università. Vi rimase 18 anni, che segnarono il periodo più felice della sua esistenza, ricco di soddisfazioni personali e culminato nella pubblicazione del Sidereus nuncius (1610). Nello stesso anno Galileo accettò il posto di “filosofo e matematico primario” senza obbligo di insegnamento offertogli dal granduca di Toscana e si trasferì a Firenze. La presa di posizione pubblica a favore del copernicanesimo (Lettere copernicane, 1613-15) portò alla denuncia al Sant’Uffizio e al primo processo contro di lui, che si concluse nel 1616 con l’ammonizione a non trattare più, né in pubblico né in privato, della dottrina copernicana. L’elezione a pontefice di Urbano VIII portò Galileo a confidare in un atteggiamento più favorevole della Chiesa; seguirono infatti la pubblicazione del Saggiatore (1623) e del Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632). Quest’opera, pur avendo ottenuto dopo lunghe trattative l’imprimatur, fu incriminata dal Sant’Uffizio e l’autore fu sottoposto al secondo processo, conclusosi nel 1633 con l’abiura del copernicanesimo e la condanna di Galileo al carcere, convertita poi negli arresti domiciliari nella sua abitazione di Arcetri. Umiliato dalla condanna e in precarie condizioni di salute Galileo continuò le sue ricerche scientifiche, che confluirono nell’ultimo capolavoro, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze,

Galileo

pubblicato a Leida nel 1638. Quattro anni dopo, nel gennaio del 1642, morì ad Arcetri. le opere. Durante il periodo pisano Galileo scrisse due opere, che circolarono manoscritte, relative ai suoi studi su Archimede e su questioni di statica: i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum (1586) e La bilancetta (1587); sempre a Pisa scrisse il De motu (1590), in cui criticò le tesi aristoteliche sulla dinamica. Nel successivo periodo padovano Galileo scrisse un Trattato di fortificazione (1593), su temi di ingegneria militare, le Meccaniche (1594), un importante saggio di statica e dinamica ispirato ad Archimede, un Trattato della sfera o Cosmografia (1597), Le operazioni del compasso geometrico e militare (1606); nel 1610, a conclusione della sua permanenza a Padova, pubblicò in lingua latina il Sidereus nuncius, in cui diede conto delle scoperte astronomiche rese possibili dalle osservazioni fatte con il cannocchiale (i satelliti di Giove, la struttura della Via Lattea, la natura della superficie lunare, la grandezza delle stelle fisse), le quali confermavano la validità della teoria copernicana. Il periodo fiorentino è aperto dalle quattro Lettere copernicane (una a Don Benedetto Castelli, del 1613; due a Monsignor Piero Dini, entrambe del 1615; una a Madama Cristina di Lorena, del 1615). Per i temi che sviluppano, relativi al rapporto tra scienza e fede e al corretto metodo scientifico, esse costituiscono un insieme unitario. Opera fondamentale di Galileo, scritta in italiano per avere accesso ad un pubblico colto di non specialisti, è Il saggiatore, pubblicata nel 1623 a Roma a cura dell’Accademia dei Lincei, cui apparteneva; essa nacque da una polemica con il gesuita Orazio Grassi intorno alla natura delle comete, ma offrì l’occasione per rilanciare il copernicanesimo e difendere il valore della scienza moderna, soprattutto dal punto di vista metodologico: troviamo in essa la distinzione fra qualità primarie e secondarie, l’interpretazione matematica dei fenomeni naturali, la critica al principio di autorità, la puntualizzazione del metodo sperimentale. Nel 1632 Galileo pubblica a Firenze il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano; scritta in lingua italiana in forma di dialogo, l’opera, divisa in quattro giornate, intende dimostrare attraverso esperienze e dimostrazioni la superiorità del sistema copernicano su quello aristotelico-tolemaico. Forma dialogica hanno anche i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze atti-

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nenti alla meccanica e i movimenti locali, pubblicati a Leida nel 1638, che raccolgono i risultati di tutte le ricerche fisico-dinamiche di Galileo. Vi compaiono indagini sulla struttura della materia (orientate in senso atomistico) e studi di statica e di dinamica, relativi alle leggi sul moto e a problemi della traiettoria dei proiettili. il pensiero. Galileo fu uno dei principali protagonisti della rivoluzione scientifica moderna. A lui si devono scoperte decisive nell’ambito della fisica e dell’astronomia, ma non meno rilevante è la sua importanza nella storia della cultura in generale e della filosofia, in particolare per una serie di questioni decisive ai fini dell’affermazione di una nuova concezione della conoscenza e della natura. Il suo interesse era del pari rivolto al progresso della scienza e al rinnovamento della mentalità dominante delle classi colte, aristocratiche ed ecclesiastiche. Egli si illuse di poter dimostrare la compatibilità della nuova scienza con la teologia cattolica tradizionale e di portare la Chiesa all’accettazione della sua posizione (avvenuta a distanza di oltre tre secoli). a) La critica al principio di autorità. La prima questione che riveste una rilevanza storico-culturale significativa è l’attacco galileiano al principio di autorità, rappresentata dalle dottrine di Aristotele e delle Sacre Scritture. Contro gli aristotelici, che in campo scientifico seguivano dogmaticamente l’autorità dei testi peripatetici, Galileo denuncia la debolezza metodologica della scienza aristotelica, priva di rigorose procedure giustificative, e afferma che “la sensata esperienza” e “le necessarie dimostrazioni” devono prevalere su ogni “umano discorso”, essendo le autorità decisive di ogni indagine scientifica. La polemica contro i teologi della Chiesa cattolica, sviluppatasi nel tentativo di dimostrare la compatibilità del copernicanesimo con la dottrina cristiana, porta Galileo ad affermare che l’autorità della Bibbia non può essere invocata per risolvere questioni scientifiche e che la scienza deve essere pienamente autonoma nel ricercare la verità intorno alla natura e alle sue leggi. Queste tesi furono combattute dalle gerarchie ecclesiastiche e costarono a Galileo le due condanne del tribunale del Sant’Uffizio. b) L’epistemologia. La nuova concezione della scienza elaborata da Galileo partiva dal rifiuto dell’essenzialismo: oggetto dell’indagine scientifica devono essere non le essenze – entità metafisiche inconoscibili – ma i dati empirici e le leggi quantitative che espri-

Galluppi

mono in linguaggio matematico la regolarità della natura. Il metodo galileiano, che si può definire ipotetico-deduttivo, si basa su un complesso rapporto tra esperienza e teoria: lo scienziato muove dall’osservazione di certi fenomeni naturali di cui vuole trovare la spiegazione; formula allora un’ipotesi di carattere generale; per via di deduzione elabora razionalmente delle previsioni sulle possibili conseguenze, che sottopone a verifica attraverso l’esperimento orientato a controllare la validità dell’ipotesi teorica (grande importanza hanno in questa fase le tecniche e gli strumenti di controllo). Se i risultati sperimentali forniscono sicure e ripetute conferme, si stabiliscono le leggi che fissano le relazioni costanti tra i fenomeni della natura. La natura quantitativa delle leggi è espressa dal linguaggio matematico della scienza, che rimanda a sua volta alla struttura matematica dell’universo. In una celebre metafora del Saggiatore, Galileo afferma che l’universo è «scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche». Gli studiosi discutono se questa concezione della matematica vada ricondotta alla tradizione platonico-pitagorica, che sosteneva la natura ideale degli enti matematici, o rimandi a una sua funzione meramente strumentale di descrizione razionale della realtà. Le riflessioni metodologiche portano a concludere che la nuova scienza è possibile grazie a tre condizioni: 1) la capacità di avere esperienze; 2) la capacità di sviluppare dimostrazioni razionali; 3) la capacità di comunicare le conoscenze mediante il linguaggio. Questa fiducia nelle capacità dell’uomo di conoscere la natura fa dire a Galileo che il sapere umano, tanto inferiore per ampiezza al sapere divino, può raggiungere nelle matematiche lo stesso grado di certezza di quello divino. c) Le scoperte scientifiche. In Galileo le acquisizioni metodologiche si accompagnano alle scoperte nell’ambito dell’astronomia e della fisica, che fanno dello scienziato pisano uno dei massimi protagonisti della rivoluzione scientifica moderna anche sotto questo profilo. Le osservazioni compiute con l’ausilio del cannocchiale portano a quattro scoperte: «l’immensa moltitudine delle stelle fisse mai prima vedute»; la superficie “scabra e ineguale” della Luna con monti e valli; la natura della Via Lattea; i quattro satelliti di Giove. Sulla base di questi dati osservativi, Galileo deduce sperimentalmente la conferma della teoria copernicana, che risulta pertanto un’immagine reale del cosmo e non una semplice

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Galluppi

ipotesi matematica, dimostra l’insostenibilità della teoria aristotelica che separava il mondo terrestre da quello celeste e afferma l’esistenza di un unico universo, regolato in ogni sua parte dalle stesse leggi fisiche. Nel campo della dinamica, gli studi sulla caduta dei gravi, l’intuizione del principio d’inerzia e la formulazione del principio di relatività portano al rifiuto della concezione aristotelica sulla teoria dei luoghi naturali e su quella del moto, secondo la quale la velocità di caduta dei gravi dipendeva dal peso del corpo. Le scoperte galileiane risulteranno fondamentali per la definizione della cinematica e della dinamica moderne. d) La concezione della natura. Alla base della concezione della natura di Galileo sta il suo realismo scientifico: la natura ha una costituzione vera e reale e un’esistenza oggettiva, conoscibili dalla scienza umana; possiede inoltre un’intrinseca e inesorabile regolarità, impostale da Dio stesso, che le impedisce di procedere secondo capricci o bizzarrie e di avere finalità estrinseche e intenzionalità antropomorfiche. L’ordine della natura non è però di tipo essenzialistico e finalistico – come era nella concezione greca e medievale – ma è l’ordine delle leggi che fissano le relazioni costanti di successione, di concomitanza o d’interdipendenza funzionale empiricamente rilevate tra i fenomeni. Galileo ripropone la distinzione, di origine democritea, tra le qualità oggettive o primarie, che riguardano le determinazioni quantitative delle realtà oggettivamente misurabili (figura, estensione, tempo, spazio, numero, movimento), e le qualità soggettive o secondarie, quei caratteri sensibili delle cose dipendenti dalla struttura soggettiva del sistema percettivo umano (sapore, odore, colore, suono). L’influenza di Democrito è presente anche nella teoria della struttura dei corpi – esposta nei Discorsi – in cui la coesione dei corpi e il loro cambiamento di stato sono spiegati ricorrendo alle nozioni di atomo e di vuoto (“le parti non quante” e “i vacui non quanti”) che sole possono spiegare quantitativamente fenomeni, come per esempio il cambiamento dallo stato solido allo stato liquido, apparentemente qualitativi. Galluppi, Pasquale Filosofo italiano (Troppa 1770 - Napoli 1846), professore a Napoli. Formulò una filosofia coscienzialista fondata (sulla scorta della Scuola scozzese di ➔ Reid) sulla certezza immediata del senso interno che desse oggettività sia al conoscere scientifico che alla morale. Collocando-

Garin

si in posizione equidistante tra l’empirismo e il trascendentalismo (Elementi di filosofia, del 1820-27), distinse contro i primi l’aspetto logico del conoscere rispetto al contenuto sensibile, ma ribadì contro Kant il carattere oggettivo e realistico della sensazione nonché il fondamento indubitabile della coscienza, giacché lo spirito sa cogliere immediatamente se stesso e, attraverso le sue modifiche, la realtà esterna. Lo stesso vale in campo morale, dove l’uomo trova nella propria coscienza la conferma della libertà e la consapevolezza della sua autonomia etica (anche se Galluppi dovette concedere che la legge del dovere vi era stata posta da Dio). Nella convinzione che alla consapevolezza dei problemi filosofici si pervenisse attraverso la chiarificazione critica del processo storico del pensiero, Galluppi concepì la filosofia come “scienza della scienza umana”, cioè indagine sui mezzi conoscitivi del soggetto (quindi scienza soggettiva e non oggettiva) come è attestato dal percorso della filosofia moderna da Cartesio a Kant. Tuttavia auspicò che, malgrado l’importanza dei contributi provenienti dall’estero, la filosofia italiana sapesse rinnovarsi attingendo, pur senza chiusure nazionalistiche, alla propria tradizione speculativa. Garin, Eugenio Pensatore e storico della filosofia italiano (Rieti 1909 - Firenze 2004). Professore a Firenze e alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato il massimo studioso del pensiero umanistico-rinascimentale e a esso ha dedicato moltissimi studi (tra questi L’umanesimo italiano del 1947, Medioevo e rinascimento del 1954, La cultura filosofica del rinascimento italiano del 1961, La cultura del rinascimento del 1964, Scienza e vita civile nel rinascimento italiano del 1965, Rinascite e rivoluzioni del 1975, Lo zodiaco della vita del 1976) che ne hanno evidenziato i vari aspetti, oltre a pubblicare testi di alcuni tra i più significativi autori del tempo (Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, Coluccio Salutati). Garin ha inoltre dedicato grande attenzione alla cultura filosofica italiana (Cronache di filosofia italiana 1900-1943 del 1955, La cultura italiana tra Ottocento e Novecento del 1962, Storia della filosofia italiana del 1966) e più in generale ad alcuni temi centrali del nostro tempo (Filosofia e scienza nel Novecento, 1977). Di carattere teoretico La filosofia come sapere storico (1959), in cui sostenne la tesi (di matrice crociana) che compito dello studioso non è la ricostruzione oggettiva e asettica, ma una presa di posizione impegnata sui

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Gehlen

compiti e sul significato della ricerca filosofica stessa. Di qui il suo interesse per il pensiero e l’opera di Villari, Labriola e soprattutto Gramsci. Collaborò anche alle riviste Il ponte e Belfagor. Gassendi, Pierre Filosofo francese (Champtercier 1592 - Parigi 1655), professore universitario, astronomo e scienziato. Vicino a posizioni empiriste, e dunque lontano tanto dalla linea di ricerca metafisica cartesiana quanto dalla impostazione galileiana, Gassendi si è a lungo occupato, con diverse pubblicazioni, della ripresa della filosofia atomista di Epicuro (De vita et moribus Epicuri, del 1647; Trattato filosofico, pubblicato postumo nel 1658). Partendo dalle posizioni dell’atomismo antico ha proposto una visione del meccanicismo tipicamente seicentesca, basata su principi diversi da quelli cartesiani. Gaunilone Monaco benedettino presso Tours al tempo di ➔ Anselmo d’Aosta (sec. XI), è noto per un solo testo, il Liber pro insipiente, scritto per confutare la prova ontologica di Anselmo, il quale rispose con uno scritto successivo al Proslogion e finì col considerare il testo di Gaunilone e la sua risposta parte integrante del suo libro. L’obiezione di Gaunilone è che non sia lecito il passaggio dal piano del pensiero al piano della realtà, e che dunque non si possa inferire l’esistenza di un ente – neppure di Dio – dalla sua definizione (anch’essa peraltro oggetto di discussione), allo stesso modo in cui dalla nozione di un’isola dotata della massima perfezione non è possibile ricavare alcuna certezza sulla sua esistenza. Gehlen, Arnold Filosofo, antropologo e sociologo tedesco (Lipsia 1904 - Amburgo 1976), è uno dei più rilevanti esponenti dell’antropologia filosofica del Novecento. Allievo di ➔ Scheler e ➔ Nicolai Hartmann (quindi generalmente influenzato dalla fenomenologia i cui concetti base ha però confrontato con i risultati delle scienze sociali), ha insegnato a Francoforte, Lipsia, Vienna e Aquisgrana. Nella sua opera principale, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), egli si è richiamato al pensiero di ➔ Herder per caratterizzare l’essere umano, rispetto all’animale, nel senso di una fondamentale “carenza biologica”, in quanto privo di quella dotazione istintuale e strumentale per la difesa e l’attacco di cui invece l’animale è adeguatamente fornito. Non specializzato rispetto a un ambiente preciso, è collocato in una posizione insuf-

Gemisto Pletone

ficiente a garantirgli la sopravvivenza, che può raggiungere solo trasformando le condizioni di esistenza (legge dell’azione): per questo egli deve essere considerato un “progetto autonomo” della natura, nella misura in cui segue una linea evolutiva diversa da quella degli altri esseri viventi. Evitati così inutili dualismi tra la componente fisica e psichica, si deve di conseguenza intendere la cultura come il progetto di uscire dallo stato naturale per entrare, in quanto artificiale, nel solo ambiente vivibile in cui può realizzare se stesso. In questo senso, come per Scheler, anche per Gehlen l’uomo è aperto al mondo, essendo con esso in un rapporto plastico e continuamente modificabile. In questa prospettiva l’azione ha anzitutto il fine di fornire all’essere umano un “esonero” dalle fatiche imposte dalla sopravvivenza: per sopravvivere deve alleggerirsi di questo carico per convogliare energie verso le funzioni superiori (attività intellettuali e linguistiche). Da questa prospettiva la tecnica rappresenta un mezzo indispensabile di esonero ed è quindi antica quanto l’uomo (L’uomo nell’età della tecnica, 1957): essa infatti supplisce alla mancanza di certi organi e potenzia quelli di cui è in possesso, evitando infine grandi fatiche. Ciò non toglie che non le si debba riconoscere una fondamentale ambiguità dal momento che se per un verso è al servizio della vita, dall’altro può rappresentare un terribile strumento di morte. Anche le istituzioni sociali vanno considerate nell’ottica del favorire l’esonero dalle necessità e dall’immediatezza del vivere naturale: a esse infatti sono delegati compiti e decisioni (che di conseguenza il singolo non è tenuto a compiere personalmente), determinando le norme (religiose, politico-giuridiche, morali) che permettono la vita in comune. Dal momento che l’uomo è un essere instabile e inquieto, gli istituti e le leggi operano come “puntelli esterni” che, funzionando come “forze di stabilizzazione”, garantiscono, insieme con le modalità di consolidamento del comportamento, la connessione tra gli individui e creano certezze nell’esistenza per un essere costitutivamente insicuro e perciò alla ricerca di un ambiente che gli fornisca punti fermi e regolarità di vita. È vero che in tal modo si inibiscono le fonti dell’azione, ma bisogna riconoscere che l’uomo deve essere “disciplinato” e indirizzato nelle sue scelte, con strutture sociali che potranno dargli una vita buona proporzionalmente alla loro forza e alla loro gerarchizzazione (questo spie-

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Gentile

ga la vicinanza di Gehlen al nazismo e in generale alle politiche conservatrici). Gemisto Pletone, Giorgio Filosofo bizantino (Costantinopoli 1353 - Mistra 1452), venuto in Italia al seguito dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo in occasione del concilio di Firenze. Qui compose la suo opera più nota Differenze tra Aristotele e Platone, che accese una forte polemica tra i dotti umanisti. La sua detrazione di Aristotele era motivata da fattori sia patriottici (egli addossava alla Chiesa la responsabilità dello stato di miseria della Grecia del suo tempo) sia culturali-religiosi (vagheggiando una rinascita del paganesimo, vedeva in Aristotele l’autore della teologia cristiana). Per contro, il suo entusiasmo per Platone non corrispose alla conoscenza del suo pensiero, dato che egli comprese sotto il suo nome, spesso confondendole, dottrine diverse tratte da altri neoplatonici e da autori orientali. In campo scientifico, fu lui a introdurre, attraverso Paolo dal Pozzo Toscanelli, i concetti geografici di Strabone, contribuendo, insieme con la correzione degli errori di ➔ Tolomeo, alla formazione della concezione rinascimentale della conformazione della terra. Genovesi, Antonio Filosofo ed economista italiano (Salerno 1713 - Napoli 1769), professore all’università di Napoli, tra i maggiori rappresentanti dell’illuminismo meridionale. In materia di economia politica avversò i fisiocratici e sostenne un protezionismo moderato, ispirandosi all’utilitarismo e proponendo vari provvedimenti (abolizione dei privilegi e delle immunità, diminuzione del numero e dell’estensione delle proprietà ecclesistiche, equa ripartizione delle proprietà fondiarie, diffusione dell’istruzione tra i ceti contadini) per incrementare l’industra e il commercio. In filosofia fu piuttosto un eclettico, subendo l’influenza dell’empirismo di Locke e del sensismo di Condillac e di Helvetius (ma riconoscendo un ruolo maggiore alla ragione) in sede gnoseologica, e del razionalismo di Leibniz e Wolff in campo metafisico. Gentile, Giovanni Filosofo e uomo politico italiano (Castelvetrano 1875 - Firenze 1944). Professore a Palermo, a Pisa e infine a Roma, aderì al regime fascista (adesione che rinnovò anche quando venne creata la Repubblica Sociale) e come ministro della pubblica istruzione varò la riforma della scuola che porta il suo nome, esercitando una forte influenza sulla organizzazione e

Gerberto di Aurillac

sulla produzione culturale. Tra le sue molte opere, oltre a quelle di storia della filosofia (dedicate soprattutto ad autori e momenti della cultura italiana), la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), il Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-22), il Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912), Filosofia dell’arte (1931), Genesi e struttura della società (postumo, 1946). Attraverso la mediazione di Spaventa, il pensiero di Gentile si riallaccia sia alla tradizione gnoseologica moderna da Cartesio a Hegel sia a quella nazionale da Bruno a Gioberti, ma il problema di una “riforma della dialettica hegeliana” costituì per lui un nodo centrale del problema circa la natura del pensare. Su questo punto Gentile osserva che l’essere non può definirsi se non come essere del pensiero (non l’assoluto indeterminato di Hegel che deve unirsi al non essere per dare origine al divenire che solo è reale) che definisce e pensa: e se esso è in quanto pensa, deve essere concepito come attivo e dinamico, concreto divenire, non fatto statico e passivo (infatti l’oggetto non è che oggettivazione del pensiero, morta concrezione che necessariamente rinvia alla sua matrice) ma atto che crea. Non costituendo più la posizione logica del reale, la triade hegeliana essere-non essere-divenire indica i momenti del pensiero pensante (e non del pensiero pensato come sosteneva Hegel): in quanto coscienza in atto esso si risolve nel concreto processo del sapere, che non tollera il frazionamento in momenti astratti in cui l’analisi (come accade nello scientismo positivistico) vorrebbe irrigidirlo spezzandone la continuità vitale. Nella prospettiva di un recupero del senso vivente dell’atto del pensiero, Gentile interpreta il sapere non kantianamente come sintesi a priori di materia e forma ma come pura forma, materia generata dalla forma quale forma formante, libera autocreazione nella distinzione di io e non-io (autoctisi): in questo senso il pensiero è atto puro (e perciò la filosofia di Gentile è detta attualismo), autocoscienza infinita e universale, creatore e non spettatore della realtà. Da esso (identificato anche con lo stato, che in quanto incarnazione del bene si pone come etico) si distinguono i singoli soggetti empirici, che ne sono espressioni particolari: di qui la concezione della prassi pedagogica che identifica educatore ed educato in un processo di reciproca autoformazione (ognuno vede sé nell’altro e attraverso l’altro forma un più alto se stesso). Lo spirito

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Gerberto di Aurillac

genera da se stesso la natura e crea lo spazio e il tempo nella sua dialettica di unificazione-moltiplicazione: lo spirito si pone infatti attraverso la natura, essendo autoposizione non statica e immediata ma dinamicamente concreta, e perciò dialettica. Poiché il soggetto si pone mediandosi come oggetto, lo spirito si afferma negando il suo opposto (la natura), inconcepibile in sé (su questa finzione lavorano le scienze empiriche, la cui pretesa conoscitiva risulta astratta e del tutto subordinata alla filosofia) eppure momento dialetticamente necessario affinché l’unità dello spirito possa affermarsi attraverso la molteplicità, il suo non essere (in questo modo si giustificano il male e l’errore che si trasformano in verità e bene quando nel successivo momento dialettico la natura viene attualizzata dallo spirito). Se lo spirito si esprime come processo di svolgimento del pensiero autocosciente, allora non solo la filosofia coincide con la storia della filosofia, ma con la storia tout court, cioè con la vichiana storia ideale eterna che si sviluppa nel tempo (in questo senso l’attualismo gentiliano si presenta, in quanto immanentismo assoluto, come umanesimo assoluto). A sua volta la filosofia rappresenta la forma più alta di espressione dello spirito, che si realizza a partire e nell’inveramento di quelle più basse, arte (momento soggettivo) e religione (momento oggettivo), la cui necessaria unilateralità viene tuttavia riconosciuta sia pure solo in vista del loro risolversi nella sintesi conclusiva, nel pensiero divenuto pienamente maturo e autocosciente. Da questo punto di vista non esiste neppure distinzione tra conoscere e volere (il pensiero in atto è attività creatrice, quindi il conoscere è immediatamente prassi), per cui ogni attività umana è di per sé filosofia (sotto questo profilo l’attualismo è attivismo). Gerberto di Aurillac Filosofo, scienziato e teologo francese (Alvernia 930 ca. - Roma 1003) l’uomo più dotto del suo tempo, monaco, abate, arcivescovo di Reims e Ravenna, papa col nome di Silvestro II. Scrisse di geometria, aritmetica e astronomia, ma la sua opera filosofica più notevole è un De rationali et ratione uti libellus in cui è discussa la validità dell’affermazione di Porfirio “rationale rationi utitur” pur violando la norma per cui il predicato deve essere più esteso del soggetto. La difficoltà viene risolta attraverso l’analisi delle funzioni e del significato logico dei vari termini della proposizione. Distinguendo tra enti necessari sempre

Geulincx

in atto ed enti contingenti che passano dalla potenza all’atto, “rationale” sta a “ratione uti” come la potenza sta all’atto mentre non stanno tra loro come tra genere e specie: se l’“essere ragionevole” si attua in una sostanza contingente, essa esiste come potenza, cosicché mentre “rationale” inerisce al soggetto come elemento costitutivo della sua essenza, “ratione uti” si presenta come accidente. La proposizione quindi è valida solo in quanto esprime un fatto particolare a cui non si applica la regola riguardante i rapporti tra genere e specie, e in questo contesto l’autore mostra di sapersi elevare dai problemi di carattere formale (di cui è comunque profondo conoscitore) a quelli ontologici. Geulincx, Arnold Filosofo olandese (Anversa 1642 - Leida 1669). Esponente dell’occasionalismo olandese,scrisse varie opere tra le quali Logica, Tractatus ethicus primus e, pubblicata postuma, Metaphysica vera et ad mentem peripateticam. In quest’ultimo scritto Geulincx sostiene l’impossibilità, da parte dell’uomo, di comprendere le cause a fondamento dei movimenti del corpo, delle sensazioni e delle idee, poiché non può conoscere la realtà nella sua essenza ma solo nel suo essere percepibile. L’uomo e la realtà diventano quindi solo “occasioni” per comprendere come la causa prima del tutto risieda in Dio, il quale si manifesta in qualunque azione dell’uomo lasciando a questo solo la responsabilità dell’intenzione alla base dell’azione stessa. La dottrina di Geulincx viene quindi ad avere un’indubbia validità e rispondenza sul piano religioso. Ghazali, al- Nome completo Abu Hamid Muhammad ibn Muhammad at-Tusi. Teologo, filosofo, mistico persiano (Tus 10581111), uno dei più grandi pensatori dell’Islam, prima professore a Baghdad e in seguito dedito a vita ascetica. Combattè il razionalismo e l’intellettualismo degli aristotelici (al-Farabi e Avicenna) scrivendo una Autodistruzione dei filosofi (contro la quale polemizzò ➔ Averroè) e auspicando una Vivificazione delle scienze religiose. Avvicinatosi al platonismo, sostenne una concezione di Dio come unità: Dio è il solo agente nel mondo, è luce, è misericordia, è bontà, saggezza e bellezza, è nascosto in virtù della sua aperta manifestazione. Tra Lui e l’uomo vi è reciproco amore, per cui il sommo godimento di quest’ultimo consiste nella Sua conoscenza e contemplazione. L’uomo come immagine di Dio è microcosmo: dun-

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Giannone

que conoscendo se stesso egli conosce Dio. La disposizione alla fede è naturale, mentre le circostanze storico-culturali determinano l’atteggiamento positivo (in questo campo al-Ghazali fu estremamente tollerante e antidogmatico: considerando le cose di questo mondo immagini di quelle del mondo celeste, attribuì puro valore simbolico e allegorico agli atti religiosi, compresi quelli del Corano) o al contrario la tendenza al male. Platonica è pure la dottrina dell’anima, sia come sede delle passioni sia come riflesso dell’universo sia come elemento spirituale e immortale infuso da Dio. Ma al-Ghazali considera pure la ragione (come introspezione e comprensione della realtà delle cose) e il cuore, vero e proprio organo centrale composto di ragione e volontà, la cui purificazione da tutto ciò che non è Dio è condizione necessaria per raggiungere la certezza assoluta (la gnosi, seguita da grande felicità e dall’amore) e il riflesso delle realtà celesti. Giamblico Filosofo greco (Celesiria 245 ca.-325 ca.). In periodo di diffusione del cristianesimo, Giamblico abbracciò il neoplatonismo vedendo nel processo di emanazione di ➔ Plotino una possibile giustificazione del politeismo. Delle sue opere sono rimasti alcuni libri della Silloge delle dottrine pitagoriche (I Sulla vita pitagorica; II Protrettico; III Scienza matematica; VII Teologia dei numeri) mentre restano scarsi frammenti, quando non il solo titolo, della Teologia caldaica, Sull’anima, Sugli dei. In un contesto particolare si inserisce l’opera I misteri dell’Egitto (il cui titolo originario era Risposta di Abammone alla lettera di Porfirio ad Anebo) nella quale la descrizione degli dei egizi (emanazioni dell’Uno di Plotino), della teurgia, della mantica divina è stata da molti interpretata come una corruzione delle dottrine neoplatoniche attraverso l’introduzione di forme di magia e teurgia considerate come strumenti efficaci per l’incontro tra umano e divino. Non va comunque dimenticato che, nonostante le molte critiche, lo scritto esercitò un influsso notevole su Giuliano l’Apostata, lo Pseudo-Dionigi, Ipazia, fino a giungere a Marsilio Ficino, che nel 1497 lo tradusse in latino. Giannone, Pietro Filosofo italiano (Foggia 1676 - Torino 1748) nonché autore di celebri saggi storici come la Istoria civile del Regno di Napoli (1723). Per le sue idee razionaliste e la sua opposizione al cristianesimo storico e al potere curiale e papale, dovette

Giansenio

emigrare nell’Europa del Nord e fu poi imprigionato a Torino, dove morì in carcere. Il suo scritto filosofico più importante è il Triregno, in cui espose una filosofia della storia basata sul diverso ruolo della religione nella civiltà umana, culminato nella funzione del papato nella società politica del tempo, che Giannone aspramente combattè. Giansenio, Cornelio In nederlandese Cornelis Jansen. Teologo olandese (Ackoy 1585 Ypres 1638), professore a Lovanio e vescovo di Ypres. Nella sua opera principale l’Augustinus espose una dottrina della grazia che avrebbe dovuto restaurare l’autentica dottrina cattolica in materia. Adamo prima di peccare era libero, ma poteva perseverare nella giustizia originale in virtù della grazia quale “adiutorium sine quo non” (su questo punto Giansenio si distingueva da Lutero). Dopo il peccato egli perse la libertà ed ebbe bisogno della grazia questa volta quale “adiutorium quo”, cioè per rendere buono qualsiasi atto. Perciò, dopo il peccato l’uomo è intrinsecamente corrotto, trascinato invincibilmente al male senza possibilità di resistenza: così è peccato tutto ciò che non procede ex fide e le opere dell’uomo sono malvagie se non interviene la carità (Giansenio riprese la teoria delle due antitetiche delectationes, la carità e la concupiscenza, formulata da Michele Baio). Dunque Giansenio proclamò che ogni grazia è efficace e che sotto la sua irresistibile azione l’uomo è necessitato a operare: Dio predestina alla salvezza o alla dannazione con volontà antecedente a ogni considerazione circa il merito o il demerito personale. Questa dottrina fu fortemente avversata dai gesuiti (che accoglievano invece quella del teologo spagnolo Molina e, distinguendo tra grazia sufficiente e grazia efficace, ponevano quest’ultima nell’assenso dell’uomo, di cui si ammetteva la permanenza del libero arbitrio anche dopo il peccato) che la fecero condannare da papa Innocenzo X nel 1653. I seguaci di Giansenio (Saint Cyran, Arnauld, Nicole ecc.) proseguirono la polemica e svilupparono in senso ascetico le implicazioni etiche della dottrina della grazia, dando vita a una corrente di pensiero teologico e a un’autonoma organizzazione culturale e pedagogica nel monastero di Port-Royal. Gilson, Étienne Filosofo neotomista e storico della filosofia francese (Parigi 1884 Cravant 1978). Docente in varie università del suo Paese e americane, è stato soprattutto uno studioso del pensiero medievale (ai

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Gioacchino da Fiore

suoi autori – Agostino, Tommaso, Bonaventura, Duns Scoto, Bernardo di Chiaravalle, Abelardo ed Eloisa, Dante – ha dedicato nel corso degli anni altrettante fondamentali monografie, presentandone una grande sintesi complessiva ne La filosofia nel medioevo del 1922), cui era pervenuto indagando le fonti teoriche di Cartesio (La liberté chez Descartes et la théologie del 1913, Etudes sur le role de la pensée mediévale dans la formation du système cartésien del 1930, nonché un ampio commento al Discorso sul metodo del 1925). Tuttavia Gilson non è stato uno storico puro: piuttosto egli ha visto nell’età medievale il momento essenziale di formazione di quella “filosofia cristiana” (Lo spirito della filosofia medievale del 1932, Elementi di filosofia cristiana del 1960) ancora intrinsecamente valida per la sua originalità e perciò riproponibile in tutto il suo vigore speculativo all’uomo di oggi. In questo senso egli è stato uno dei più notevoli rappresentanti del movimento della ➔ Neoscolastica, considerando la rivelazione divina come un aiuto indispensabile alla comprensione della realtà nei suoi aspetti di fondo (quindi uno stimolo per la filosofia, pur nella distinzione tra soprannaturale e naturale). Sul piano teoretico (L’essere e l’essenza, 1948) egli aderisce al tomismo quale filosofia che (a differenza dell’aristotelismo, fermo al concetto statico di sostanza) è in grado di fondare un’autentica ontologia dell’esistenza che, insistendo sul primato dell’essere nell’ente, abbraccia integralmente tutta la realtà, ed è quindi caratterizzata da un realismo che concepisce l’essere in modo concretamente dinamico (infatti, come in ➔ Tommaso, l’essere si attualizza nei singoli enti, conferendo loro valore e varietà), lontano sia da un’astratta metafisica che dal nichilismo. Gioacchino da Fiore Teologo e mistico italiano (Cosenza 1130 ca. - San Giovanni in Fiore 1202), monaco cistercense e poi abate della congregazione da lui fondata a Fiore, sull’altipiano della Sila, approvata nel 1196. Profondamente convinto di essere chiamato a una missione profetica (egli si sentiva il Battista e l’Elia dei tempi nuovi), ne cercò la conferma nella meditazione della Scrittura, interpretandola in senso analogico. Poiché per Gioacchino nella Scrittura tutto è simbolo, come il Vecchio è simbolo del Nuovo testamento, così quest’ultimo deve essere a sua volta simbolo di una terza età in cui si realizzerà pienamente la verità misteriosamente raffigurata nella precedente. Analoga

Gioberti

interpretazione viene applicata alla trinità, giacché il rapporto tra le persone è simbolo della vita umana e di quel che deve accadere nel processo storico (in tal modo Gioacchino da Fiore rifiuta il punto di vista cristocentrico di Agostino): alle età corrispondenti alle figure del Padre e del Figlio, ne dovrà seguire una corrispondente allo Spirito Santo. E come questo chiude il ciclo trinitario, l’epoca a esso corrispondente sarà l’età perfetta e conclusiva che segnerà l’avvento dell’amore e la fine di ogni interferenza tra Dio e i suoi figli. Sotto questo aspetto la Chiesa risulta in tutta la sua provvisorietà, specialmente per quanto riguarda la struttura gerarchica. È autore di una Expositio in Apocalypsim e di vari altri scritti, di alcuni dei quali è incerta l’attribuzione. Le idee di Gioacchino da Fiore avranno grande influenza sui movimenti millenaristi medievali e moderni, sui francescani spirituali e su Dante. Gioberti, Vincenzo Filosofo e uomo politico italiano (Torino 1801 - Parigi 1852). Sacerdote, si presentò come restauratore della tradizione cattolica e come fautore di un accordo tra il papato e la rivoluzione nazionale italiana. In filosofia egli oppose al soggettivismo proprio della modernità, la riflessione ontologica derivata dalla tradizione platonico-cristiana lungo l’asse Agostino-Malebranche. Critico verso la nozione rosminiana di “essere ideale”, accolse invece quella dell’intuito: per garantire l’oggettività del conoscere e della vita spirituale, occorre che il principio di entrambi sia posto nello stesso Ente assoluto, che cioè Dio, fondamento della realtà delle cose, sia presente nell’intuito originario. Ciò viene espresso nella formula ideale «l’Ente crea l’esistente e l’esistente ritorna all’Ente». Posta questa eterogeneità radicale di sostanze tra Creatore e creatura (Introduzione allo studio della filosofia, 1840), la filosofia si presenta come riflessione sistematica sull’intuizione dell’essere: la prima parte della formula costituisce la filosofia teoretica e la seconda quella pratica, il soggetto della formula fornisce il contenuto della scienza ideale (suddivisa in ontologia e teologia) e il predicato quello delle scienze fisiche che si occupano del sensibile. Al concetto di creazione (copula) Gioberti fa corrispondere i concetti matematici, logici e morali che pur essendo puri e necessari si applicano alla pratica come creazioni dell’uomo. Quanto alla seconda parte della formula (dal chiaro sapore neoplatonico), la storia e la civiltà sono

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Giovanni di Salisbury

interpretate da Gioberti come un cammino di progressivo ritorno a Dio proiettato nella destinazione ultraterrena dell’uomo. A questi temi è dedicata l’ultima meditazione di Gioberti, che ora accentua la natura divina dell’esistente fino ad affievolirne la differenza con l’Ente, di cui diventa il collaboratore e concreatore. Giovanni di Jandun Filosofo francese (Jandun 1280 ca. - Todi 1328), il più noto dei maestri averroisti dopo Sigieri di Brabante. Insegnò al Collegio di Navarra, collaborando con Marsilio da Padova (allora suo collega) alla stesura del Defensor pacis. Fu ostile alle teorie teocratiche e perciò sostenne le posizioni antipapali dell’imperatore Ludovico il Bavaro. In sede teoretica ritenne le dottrine di Aristotele e Averroè (di cui si proclamò “scimmia”, fedele seguace) la massima espressione della conoscenza e della ragione umana. Del filosofo islamico espose le dottrine metafisiche e gnoseologiche (l’unicità dell’intelletto umano, la negazione dell’immortalità personale e della vita oltremondana, l’eternità del mondo e del movimento, la pluralità delle forme sostanziali ecc.) difendendole dall’accusa di incoerenza e da quella di empietà, in nome dell’autonomia della ricerca filosofica, considerata (secondo la cosiddetta teoria della doppia verità) come del tutto separata dal mondo della fede (i cui principi sono assolutamente indimostrabili). Le idee e gli scritti (commenti alla Metafisica, alla Fisica, al De anima di Aristotele, al Sermo de substantia di Averroè, all’Expositio problematum Aristotelis di Pietro d’Abano) di Giovanni di Jandun ebbero vasta influenza sui maestri aristotelici di Padova e Bologna fino al XVII secolo. Giovanni di Salisbury Filosofo e scrittore inglese (Salisbury 1110 ca. - Chartres 1180), allievo a Parigi di Abelardo e Guglielmo di Conches, segretario di Thomas Beckett (di cui scrisse una biografia), infine vescovo di Chartres. Dalla scuola di questa città ricevette l’impronta culturale dominante: fu fine umanista, uomo di ricca cultura, amante dei classici, insistette sulla necessità di unire gli studi letterari con quelli filosofici. Nel Metalogicon difese la logica per la vita umana (Giovanni fu uno dei primi a conoscere l’intero Organon) contro i suoi detrattori (i cosiddetti cornificiani, che apprezzavano solo l’eloquenza per l’utilità pratica a scapito delle altre arti liberali), dichiarandosi d’accordo con i ➔ Peripatetici che ponevano il sommo bene dell’uomo nella cono-

Girard

scenza della verità, necessaria per guidare in tutte le cose la condotta umana (di qui l’utilità della logica, che individua e dissolve gli errori). Sostenitore di un realismo moderato di ispirazione aristotelica, si orientò in generale verso una posizione prudentemente probabilista, ai limiti dello scetticismo, nella convinzione che nel panorama delle conoscenze umane (limitate e incerte) ben poche fossero le affermazioni rigorosamente dimostrabili. Nel trattato politico Policraticus, se da un lato affermò la derivazione del potere temporale da quello ecclesiastico, dall’altro Giovanni individuò nell’equità («rerum convenientia, tribuens unicuique quod suum est») il fondamento di validità della legge civile e di legittimazione dell’autorità del principe. Girard, René Storico della letteratura e antropologo di origini francesi (Avignone 1923), vissuto dagli anni Cinquanta sempre negli Stati Uniti, dove ha insegnato in diverse università. Al centro del suo pensiero c’è il concetto di “desiderio mimetico” quale legge universale del comportamento umano. Il carattere del desiderio è mimetico nella misura in cui ciò che viene desiderato non ha valore in sé, ma in quanto è desiderato (ed eventualmente posseduto) dagli altri: dalla condivisione dello stesso modello di desiderio, non deriva però un rapporto di armonia, ma di conflitto in quanto l’altro, facendo desiderare all’imitatore lo stesso oggetto, è un rivale. Ai quesiti di come possa sorgere così un ordine sociale e determinare l’esistenza culturale dell’uomo, cerca di rispondere l’opera fondamentale di Girard, La violenza e il sacro (1972): il collegamento essenziale tra sacrificio e violenza si giustifica con la necessità da parte di un gruppo di sedare la prima (in quanto minaccia per la sua conservazione) attraverso l’individuazione di un suo membro su cui perpetrare, in quanto vittima espiatoria, un omicidio collettivo. Il sacro si presenterebbe allora come quel principio superiore che, mentre si esprime in questa violenza (lo stesso capro espiatorio è ambivalentemente sacro e colpevole), la giustifica come atto necessario, come evento fondatore della comunità e, allo stesso tempo, della religione. Il sacrificio è dunque il mezzo che consente al gruppo di sopravvivere, effettuando una “sostituzione” che riconcilia tutti nella misura in cui viene individuata nella vittima la minaccia di cui liberarsi: come mostrano Le baccanti di Euripide (ma la cosa potrebbe essere esemplificata anche dalla vicenda

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Gnosi / Gnosticismo

della “Colonna infame” di Manzoni), la soluzione vittimaria si esprime a livello arcaico come un linciaggio, un fare a pezzi il capro espiatorio in quanto portatore di colpa e dunque meritevole di uccisione, da immolare per il bene di tutti. Tutto il sistema religioso originario sarebbe dunque finalizzato a bloccare la diffusione della rivalità nella comunità concentrando la sua violenza sulla vittima, intesa come obiettivo comune. Questa tesi trova il suo necessario proseguimento nell’opera successiva, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978): in questo testo (e poi anche in Il capro espiatorio del 1982) si sostiene (come appare chiaro dalla lettura dei “testi di persecuzione”) che i miti sono il racconto trasfigurato di tale origine della cultura e della società, per cui la vittima è il “significante trascendentale” di tutte le istituzioni. Ciò che rimane nascosto è dunque la fondazione del mondo sulla violenza, sull’omicidio: ma i testi biblici e i Vangeli squarciano questo velo, spezzano il congegno dei miti rivelando che la vittima non è colpevole, che è la violenza che crea la vittima. Con la passione di Gesù si demistifica il meccanismo della vittima, si desacralizza il mondo e la struttura sacrificale della cultura: il Vangelo ha messo in crisi la società ma ha anche posto l’esigenza che, con la rinuncia a ogni violenza, si realizzi un nuovo modello di umanità e vita sociale. Dopo questi due pilastri teorici, Girard ha approfondito la ricerca applicando i suoi schemi interpretativi alla vicenda di Giobbe (L’antica via degli empi, 1985), al teatro di Shakespeare (Il teatro dell’invidia, 1990) e alle esigenze di rigenerazione salvifica emergenti dalla storia (Vedo Satana cadere come la folgore, 1999; Origine della cultura e fine della storia, 2002). Gnosi / Gnosticismo Il termine gnosi significa letteralmente “conoscenza”, ma con esso ci si riferisce a una forma di eresia cristiana diffusa nel I-II secolo. Lo gnosticismo è una filosofia sincretistica dove temi peculiari del cristianesimo si intersecano con elementi religiosi orientali ed ermetici e dove, da una prima ricerca razionale, si passa a una rivelazione, intuizione del divino che assicura all’iniziato la salvezza. Si è soliti distinguere una gnosi diffusa in Siria, Asia Minore e forse in Egitto, i cui principali rappresentanti furono Simon Mago e Menandro (e in cui un ruolo predominante ebbero le pratiche magiche e l’interesse per l’astrologia babilonese) e una gnosi con

Gödel

centro culturale ad Alessandria (caratterizzata da un maggiore interesse speculativo, sebbene non fossero estranei l’ermetismo e il giudaismo alessandrino). Le sette gnostiche furono molte e di vario genere, anche se per alcuni temi è possibile tracciare un percorso unitario. È infatti condivisa la concezione di un Dio eterno e ingenerato, Eone perfetto, estraneo al mondo dal quale vengono emanate una serie di coppie di eoni con funzioni mediatrici fino alla materia (elemento negativo) dalla quale derivano i quattro elementi (aria, acqua, fuoco, terra). Dalla tensione della materia verso Dio deriva il Demiurgo che, inconsapevolmente, determina l’uomo e la realtà sensibile; l’uomo, caduto dal mondo superiore, vive in uno stato di continua angoscia e nostalgia della perfezione: di qui il tipico atteggiamento gnostico di voler distruggere il mondo del male e della materialità. Gesù è il Salvatore, venuto a redimere coloro che possono essere salvati; è “profeta di Verità” e per mezzo Suo l’uomo salvato, liberato dalla realtà e dall’imperfezione creata dal Demiurgo, può tornare a Dio. Gli uomini che possono essere redenti sono coloro che hanno nell’anima una prepotente componente spirituale, che riescono ad abbandonare gli elementi inferiori che la compongono fino a farla divenire essenza luminosa. La gioia eterna è data dalla rivelazione della conoscenza superiore, che solo Gesù può donare e che spesso è ricercata con formule e pratiche magiche. Gödel, Kurt Logico e matematico austriaco (Brno 1906 - Princeton 1978), frequentò il Circolo di Vienna pur non condividendo le posizioni dei neopositivisti, finché nel 1940 si trasferì definitivamente negli Stati Uniti dove insegnò a Princeton. Nel 1931 enunciò due famosi teoremi detti “di incompletezza”, perché evidenziarono l’impossibilità di realizzazione del programma di una formalizzazione completa dell’aritmetica (ossia di costruire un sistema assiomatico formalizzato nel cui linguaggio ogni enunciato aritmetico fosse esprimibile con una formula che risultasse deducibile nel sistema stesso). Nel primo teorema si dimostra l’incompletezza sintattica di un sistema non contraddittorio e sufficientemente potente (bastante a esprimere l’aritmetica dei numeri naturali), cioè che in esso vi è almeno un enunciato formalmente indecidibile (né dimostrabile né refutabile: non è quindi possibile risolvere il concetto semantico di verità in quello sintattico di dimostrabi-

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Goethe

lità) e perciò non deducibile dal sistema. Il secondo teorema (diretto soprattutto contro il programma di ➔ Hilbert di provare entro tale sistema la non contraddittorietà dell’aritmetica) stabilisce che in ogni sistema formale non contraddittorio l’enunciato esprimente la sua non contraddittorietà è indeducibile dal sistema stesso (ma solo da un metasistema). In definitiva Gödel dimostrò che ogni teoria assiomatica e potente (almeno quanto l’aritmetica elementare) è incompleta e incapace di autogiustificarsi: ma se è impossibile fondare sul più semplice (l’aritmetica elementare) il più complesso (la matematica nel suo insieme), Gödel non intese escludere altre forme di fondazione mediante il ricorso ad altre teorie, a condizione che siano più potenti di quelle che si vogliono fondare. Goethe, Johann Wolfgang Poeta, scrittore e pensatore tedesco (Francoforte sul Meno 1749 - Weimar 1832), mente universale e genio multiforme. Come filosofo espresse, non in forma concettuale e sistematica ma piuttosto in una intuitiva e immediata, una visione del mondo improntata a un naturalismo monistico, derivato da Bruno, Spinoza, Plotino, Paracelso. Ostile al meccanicismo illuministico e alle scienze matematiche, Goethe muoveva verso un intendimento dei processi naturali come moto di formazione e trasformazione dall’interno verso l’esterno, giacché nella forma è immanente un’attività che la anima e in cui il gioco totale delle forze si può variamente distribuire, ma sempre con “un bilancio totale fisso”. Lungo questa direttrice Goethe si orientò a cercare un modello, o fenomeno originario (la “pianta originaria”, l’“animale originario”) da cui come da un primo nucleo indifferenziato si sviluppassero le varie specie del mondo vegetale e animale. Nella fase matura del suo pensiero giunse infine a concepire il mondo organico come risultante del concorso di due tendenze, la concentrazione (che culmina nell’individualità) e l’espansione (espressione della legge cosmica dell’accrescimento, da cui scaturisce un equilibrio dinamico e produttivo), e a formulare, contro quella corpuscolare di ➔ Newton, una teoria dei colori (intesi come fenomeni soggettivi generati dall’attività dell’occhio e dalla mescolanza di luce e ombra) che influì notevolmente sulla filosofia del primo romanticismo tedesco (e successivamente, da Wittgenstein alla scuola della Gestalt, a Kandinsky e Klee). Secondo Goethe anche l’uomo deve essere colto all’interno della natura e

Goodman

deve mirare all’armonia, anzi a una fusione con essa: solo assecondandola (non con una conoscenza intellettualistica ma con una viva esperienza basata sui cinque sensi corporei) egli potrà trovare felicità e salute. Gli interessi scientifici trovarono una sintesi equilibrata con quelli artistici per merito della terza critica di Kant: sulla scorta delle idee di Winckelmann e di Schiller, l’ideale estetico è individuato da Goethe nell’arte greca classica, che rivela immediatamente la vera essenza dell’umano nella misura in cui lo sa cogliere nella sua spontanea consonanza con la natura. Goodman, Nelson Filosofo americano (Somerville 1906 - Needham 1998), professore a Harvard. Partito con ➔ Quine (vedi Verso un nominalismo costruttivo del 1947) da un nominalismo radicale negatore del valore ontologico di tutte le entità astratte e dell’assolutezza del dato fattuale, si è successivamente orientato verso una posizione costruttivistica. Come risulta in La struttura dell’apparenza (1951), la conoscenza deve mirare alla formazione di modelli che, nella loro convenzionalità, non riproducono certo la realtà, ma sono come mappe che con essa hanno una corrispondenza logico-strutturale, permettendone l’esplorazione proprio in virtù del loro carattere schematico, selettivo e semplificativo. Questa concezione nettamente pluralista (ma non relativista o anarchica) viene ripresa con I linguaggi dell’arte (1968), nella considerazione dell’estetica come capacità di trattare “simboli” mediante i quali esprimere e rappresentare diversamente le cose, e infine approfondita con Vedere e costruire il mondo (1978). Qui Goodman ha insistito ancora sulla funzione costruttiva dei sistemi simbolico-concettuali (scientifici o artistici che siano) quali “modi di fabbricare mondi”, di realizzare cioè, in modo plurimo ed eterogeneo, la capacità (peraltro contingente e variabile a seconda delle situazioni) di farli sorgere (fino alla coincidenza di forma e contenuto, dei mondi e delle loro “versioni” rappresentative) mediante i nostri schemi metaforico-interpretativi. Poiché questi sono irriducibili ed equivalenti, Goodman, mentre dissolve i tradizionali quesiti ontologici sull’esistenza di un “mondo vero” e logico-gnoseologici circa la verità come corrispondenza, finisce per approdare a una loro considerazione fondata su criteri esclusivamente pragmatistici. Gorgia da Lentini Filosofo greco (Lentini 480-383 ca. a.C.). Fu probabilmente disce-

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Gracián y Morales

polo di Empedocle e influenzato dal pensiero eleatico e pitagorico. Secondo la testimonianza di ➔ Diogene Laerzio visse 109 anni. È, insieme a Protagora, il maggior rappresentante della prima sofistica. Delle sue opere sono pervenuti frammenti dell’Encomio di Elena, Sulla natura, Epitaffio, Discorso olimpico. Gorgia puntualizza l’analisi linguistica; definisce la parola «gran dominatore che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere» (Encomio di Elena), un prodigio il cui uso, da parte di un esperto oratore, può produrre l’effetto di controllare e dirigere l’animo umano suscitando gioia o dolore secondo il fine prefissato dallo stesso retore. La parola, essendo suscitatrice di emozioni, non può che avere come riferimento la realtà empirica, di cui è simbolo, e quindi non è possibile utilizzarla in un contesto meta-empirico. Famose a riguardo sono le sue tesi (Sulla natura) sulla dimostrazione che l’Essere non è. Infatti l’Essere o è o non è oppure è o non è insieme (il che porta ad assurde conseguenze); inoltre se, per ipotesi, ammettessimo l’esistenza dell’Essere, questo non sarebbe conoscibile dall’uomo, poiché non è parte della sua realtà empirica; infine, ammesso per assurdo che qualcuno potesse conoscerlo, non potrebbe comunicarlo, poiché non esistono termini o parole di riferimento per indicare una simile sostanza. Gorgia ritiene che il mondo al quale l’uomo può riferirsi e che può descrivere con parole sia solo quello dell’esperienza, e da questa posizione nasce la sua polemica antimetafisica. Gottinga, Scuola di ➔ Neokantismo Gracián y Morales, Baltasar Trattatista e letterato spagnolo (Belmonte 1601 - Tarragona 1658). Appartenente all’ordine dei gesuiti, fu predicatore e insegnante in varie città del suo Paese. Se il suo capolavoro è il romanzo filosofico-allegorico Il criticone (rappresentazione satirica della ricerca della felicità da parte dell’uomo nell’opposizione tra realtà ed errore, essere e parvenza), scrisse diversi trattati (particolarmente importanti sono l’Oracolo manuale e arte della prudenza e l’Acutezza e arte dell’ingegno) di precettistica morale ed estetica in cui emerge la condizione umana nella sua drammatica mistura di grandezza e miseria, dignità e corruzione, specie nella complessità enigmatica e sfuggente della dimensione sociale e politica che ne sfigura l’originaria immagine. Perciò Gracián fa appello all’intel-

Gramsci

ligenza (che detta la prudenza e l’acutezza, al fine di creare sia una barriera protettiva dagli inganni e dai pericoli sia un correttivo artificioso alla natura scoprendo nuovi e più remoti rapporti tra le cose) e all’esperienza (che purifica e libera dalle illusioni) nell’ambito di una spiritualità che sa distillare la saggezza nella messa in scena della commedia umana, dalla cui paradossalità invita a convertire i pensieri verso la vanità del tutto e verso la morte. Per la finezza e la profondità delle sue intuizioni, le concezioni di Gracián y Morales ebbero vaste influenze, dai moralisti francesi dei Seicento a Schopenhauer e Nietzsche. Gramsci, Antonio Filosofo e uomo politico italiano (Cagliari 1891 - Roma 1937), tra i fondatori del Partito comunista italiano. Dopo gli anni di militanza nel gruppo Ordine Nuovo e nel partito (durante i quali scrisse articoli d’analisi politica su problemi contingenti per la rivista e per l’Unità), nella sua opera maggiore i Quaderni dal carcere (circa duemila annotazioni stese – in modo per lo più estemporaneo tra il 1929 e il 1935, in vista di una elaborazione definitiva – in 33 quaderni durante il periodo di detenzione cui era stato condannato dal regime fascista) si propose di ripensare criticamente il marxismo e le modalità con cui realizzare una reale democrazia in Italia. Quanto alla “filosofia della prassi”, Gramsci la intese come una teoria organica, autonoma e coerente (non un mero strumento metodologico per la ricerca empirica, come voleva Croce), che dunque può imporsi, una volta depurata dalle incrostazioni volgari e dogmatiche, agli intellettuali e di conseguenza anche a più ampi strati popolari, dimostrandosi all’altezza dei nuovi e complessi compiti del movimento operaio. Questa preoccupazione teorica non è disgiunta in Gramsci da quella politica, visto che ai suoi occhi nei Paesi occidentali ad alto sviluppo industriale (dove la struttura della società è complessa, il potere della borghesia e dello stato è diffuso) la transizione rivoluzionaria al socialismo non può consistere che in un lento e incessante processo, guidato dalla classe lavoratrice in ascesa (che si propone perciò come classe dirigente, anche in rapporto ad altri gruppi sociali alleati o subalterni), che modifichi capillarmente e dal basso il complesso dei rapporti sociali (quella totalità articolata che Gramsci chiama il “blocco sociale”), creando una nuova eticità e ridefinendo in modo corrispondente le istituzioni. Il marxismo si presenta così

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Gramsci

come una filosofia idonea all’egemonia (che la classe lavoratrice può esercitare prima ancora della presa del potere), cioè a svolgere quell’indispensabile ruolo di “direzione intellettuale e morale” che fino a oggi è stato in Italia proprio dell’idealismo, specie crociano (cui va il merito di aver evidenziato, in termini antimetafisici e antireligiosi, la storicità del reale, pur restando limitato da un astrattismo speculativo di fondo che non sa cogliere il valore della prassi come fattore specificamente umano costruttore di storia). Di esso occorre inoltre valorizzare la componente sovrastrutturale, determinante per la presa di coscienza dei conflitti e dei processi in atto e quindi per l’azione. Infatti per Gramsci la coscienza è sempre «coscienza della prassi esistente» (quindi storicamente determinata) in quanto le dà forma e la rende atto di libertà indirizzando la volontà umana alla realizzazione di fini circoscritti da precise condizioni socio-economiche. Di qui l’importanza della cultura e l’insistenza sul tema del ruolo degli intellettuali, come insieme dei quadri (quindi alla fine coincidenti con il partito quale guida del proletariato, di cui rappresenta la totalità delle aspirazioni e degli interessi) che elaborano e trasmettono le idee-guida ai vari settori (produttivi e non) della società civile (perciò essi sono organici, in quanto non costituiscono un gruppo a sé stante, ma sono connessi ai bisogni della classe di cui sono espressione) al fine di produrre un nuovo “senso comune”, un movimento culturale di massa che porti a una radicale e intenzionale trasformazione della realtà, improntata a una più alta forma di vita. Dal punto di vista dell’analisi storica la situazione italiana appare anomala rispetto agli altri Paesi industrializzati (la struttura socio-economica è disomogenea, la borghesia non è in grado di esercitare un’adeguata funzione direttiva, con il conseguente eccessivo peso delle forze conservatrici degli agrari e della Chiesa, si accusa la mancanza di un moderno “blocco storico” e di momenti alti di vita collettiva, di un’unità culturale nazionale e popolare, gli intellettuali sono chiusi nella loro condizione castale) e caratterizzata da un clima di passiva apoliticità e amorfismo ideologico (sintomatica è da questa prospettiva la questione meridionale, frutto del modo con cui è stata condotta l’unificazione italiana, del blocco storico tra borghesia del Nord e agrari del Sud, degli errori di democratici e socialisti che non hanno capito il carattere nazionale di questo problema). In questa situazione Gram-

Gregorio di Nissa

sci vede nel proletariato (nella misura in cui saprà creare un sistema di alleanze con altre forze sociali, in particolare i contadini meridionali) la forza in grado di portare a compimento la storia d’Italia imprimendole un carattere finalmente unitario, moderno, democratico. Gregorio di Nissa Filosofo e teologo greco (Cesarea di Cappadocia 335 ca. - Nissa 394), padre della Chiesa. Fratello minore di Basilio, fu vescovo e uomo di vasta cultura e profonda spiritualità. Con la sua opera ha fortemente contribuito alla ricerca di una sintesi tra rivelazione cristiana e filosofia classica. In lui prevale il platonismo (il Dialogus de anima et resurrectione vuole essere una riproposta dei temi del Fedone in chiave cristiana) ma sono presenti anche elementi aristotelici e stoici. Molto importanti sono il De hominis opificio dove, nell’esegesi del racconto della Genesi e con evidenti influssi da Posidonio e da Filone, si sostiene la dottrina della doppia creazione (prima l’uomo spirituale e poi quello corporeo, sessualmente determinato e diviso, destinato al peccato e alla riproduzione fisica: con la resurrezione la natura umana sarà poi ricostituita secondo l’archetipo) e il De vita Moysis. Qui, nella lettura degli eventi biografici del grande profeta secondo lo stile di Origene, si intende presentare allegoricamente la vicenda dell’anima nel suo sforzo di purificazione e di ascesa verso Dio fino alla contemplazione mistica. Sotto il profilo teologico-dottrinale sono rilevanti il Grande discorso catechetico (esposizione sinteticamente organica dei principali dogmi del cristianesimo) e i dodici libri Contro Eunomio (dove si difende la dottrina ortodossa sulla trinità dall’eresia ariana). Grice, Paul Filosofo analitico inglese (Birmingham 1913 - Berkeley 1988), docente a Oxford e Berkeley. In una serie di saggi (particolarmente in Significato del parlante e intenzioni, del 1969), in polemica con quanti lo riportavano alle condizioni di verità (Frege, Russell), o all’uso nel gioco linguistico particolare (il secondo Wittgenstein), o alle condizioni di asseribilità (i neopositivisti, Dummett), egli trova le radici del significato nelle intenzioni comunicative del parlante. Nella misura in cui queste non sono ulteriormente analizzabili, egli valorizza i fattori soggettivi della comunicazione (oltre alle intenzioni, le competenze e le cognizioni del soggetto che parla): infatti, nella conver-

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Grossatesta

sazione è fondamentalmente rilevante ciò che uno vuol comunicare all’interlocutore quando usa un certo enunciato. In questo caso si intende ovviamente un significato non solo non naturale, ma anche proprio di chi parla, quello cioè che il parlante vuole che l’ascoltatore capisca davvero, al di là del significato letterale delle parole impiegate. Secondo Grice non solo il significato è dipendente dal contenuto della conversazione, ma anche quest’ultimo è dipendente dalle intenzioni del parlante che vuole ottenere un certo effetto nei suoi interlocutori. Accade frequentemente infatti che costui intenda comunicare qualcosa di diverso da quanto le parole normalmente significano, quindi con un riferimento a fattori che dipendono dal contesto conversazionale. Questo approccio basato sulle intenzioni dei parlanti ha portato Grice ad analizzare non tanto le componenti espressive del linguaggio (le parole), quanto piuttosto ciò che è implicito nella conversazione. Così egli chiama “implicatura” i contenuti dell’intenzione comunicativa (una sorta di significato aggiunto che l’ascoltatore deve inferire) non esplicitati nel significato convenzionale delle parole, ma che sono sottintesi nello specifico contesto comunicativo dei parlanti nel loro rapporto interattivo. Grossatesta, Roberto Filosofo e teologo inglese (Stradbrock 1175 - Lincoln 1253), fu cancelliere e maestro di teologia a Oxford; infine, entrato nell’ordine francescano, fu vescovo di Lincoln. Conoscitore del greco, tradusse molti testi classici (dal Corpus dionysianum all’Etica nicomachea, a vari scritti di Giovanni Damasceno). I suoi interessi sono prevalentemente scientifici, come testimoniano i titoli delle sue opere (De generatione stellarum, De cometis, De luce, De iride, De colore, De impressionibus, De lineis, angulis et figuris, De generatione sonorum, De colore solis ecc.); tuttavia, malgrado conoscesse bene Aristotele (di lui aveva commentato la Fisica e gli Analitici secondi), propugnò un ritorno al platonismo agostiniano. Ciò fece sì che il suo approccio allo studio dei fenomeni naturali fosse impostato su basi geometrico-matematiche (e ciò fu tipico dell’insegnamento francescano a Oxford, come è testimoniato dai prosecutori di questa tradizione, soprattutto Bacone e Ockham), sostenuto in ciò da una notevole conoscenza della letteratura (in materia di meccanica, ottica, astronomia) greco-araba. La sua fama di scienziato resta comunque legata a una originalissima metafisica

Grozio

della luce, considerata come forma universale di tutti gli esseri ed essenza costitutiva della stessa realtà. Nel dare origine all’universo, Dio avrebbe creato un semplice punto luminoso: sostanza corporea ma sottilissima, la luce si sarebbe propagata in ogni direzione con estrema velocità, producendo l’estensione spaziale e la corporeità; tutte le forme che erano implicite e contratte nel punto si sono poi esplicate determinando al contempo la struttura (che si esprime in angoli, linee e figure geometriche) e la natura materiale dell’universo. L’analisi geometrica può così indicare le cause dei fenomeni naturali, anche nell’ambito biologico e umano. Infatti l’anima dell’uomo opera centralmente nel microcosmo allo stesso modo con cui Dio opera nel macrocosmo. Come Dio è separato dal mondo, così lo è l’anima dal corpo, del quale non ha bisogno per esprimersi e conoscere. Anzi, proprio sotto il profilo gnoseologico Grossatesta riprese e rivalorizzò la dottrina agostiniana dell’illuminazione, saldando, come peraltro era già avvenuto nella teoria della luce, l’esperienza scientifica e quella mistico-religiosa, sperimentalismo e matematicismo scientifico ed interiorità spirituale, secondo un orientamento speculativo, tipico del francescanesimo, che tende ad evidenziare la superiorità della volontà sull’intelletto, fondata com’è sul concetto di onnipotenza divina (De veritate, De scientia Dei, De libero arbitrio, De unica forma omnium ecc.). Grozio, Ugo Vero nome Huig van Groot. Filosofo, giurista, teologo olandese (Delft 1583 - Rostock 1645), considerato il fondatore del diritto internazionale moderno. Fu precocissimo: dottore in legge a 15 anni, coltivò anche gli studi umanistci e teologici, ricoprendo importanti cariche pubbliche. Coinvolto nelle lotte tra Arminiani (per cui parteggiava) e Gomaristi, subì il carcere da cui riuscì a fuggire rifugiandosi in Francia. Qui pubblicò il suo capolavoro De iure belli ac pacis (1625), ottenendone gran fama tanto che fu chiamato a Stoccolma da re Gustavo Adolfo che lo nominò suo ambasciatore a Parigi. Morì durante il viaggio che doveva riportarlo in Olanda. La riflessione di Grozio intende affrontare le gravi questioni pratiche emerse in un particolare momento storico, contrassegnato dai conflitti di origine sia confessionale sia economica: venuto meno il tradizionale arbitrato del papa (la cui autorità non era riconosciuta dai protestanti), si trattava di trovare un comune terreno d’in-

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Grozio

tesa valido al di là delle divergenze politiche e religiose, conciliando la duplice esigenza di difendere la comunità internazionale e l’integrità delle singole entità statuali. Erede dello spirito di ➔ Erasmo (che gli ispirò il De veritate religionis christianae del 1627), Grozio individuò nel diritto naturale (o giusnaturalismo), in quanto procedente dalla ragione connaturata all’uomo, lo strumento più efficace per la regolamentazione e la composizione dei contrasti tra stati sovrani, autonomi e paritetici, che non possono essere risolti prescindendo dal problema della giustizia. Infatti se da un lato si possono distinguere le guerre giuste (che costituiscono la sanzione conseguente alla violazione di convenzioni tacite o espresse) dalle ingiuste, in generale le guerre devono comunque essere condotte secondo norme che gli stessi belligeranti sono tenuti in ogni caso a rispettare. Tali norme hanno validità universale in quanto sono dettate dalla ragione in funzione dell’istinto sociale insito nell’uomo e a lui peculiare (appetitus societatis) come la stessa razionalità: perciò secondo Grozio il diritto naturale sussisterebbe anche se Dio non esistesse, e comunque «è immutabile al punto che non può essere modificato neppure da Dio». Ciò implica che i principi giuridici, nella loro autonomia, non possono essere sospesi in tempo di guerra, la quale peraltro resta uno strumento (sia pure estremo, di cui bisogna “limitare i motivi”) per la soluzione delle controversie tra stati: a essa non deve quindi venir meno quel carattere di rettitudine etica e di giustizia che deve connotare tutti i rapporti umani in quanto intrinsecamente societari («senza diritto nessuna società può sussistere»). Da queste premesse Grozio individua le seguenti regole razionali essenziali: «l’astenersi dalle cose altrui; la restituzione di ciò che appartiene ad altri e che noi deteniamo, e del profitto che ne abbiamo tratto; l’obbligo di mantenere i patti; la riparazione del danno arrecato per propria colpa; l’incorrere in una pena arrecata per trasgressione». La loro naturalità consente di stabilire un solido fondamento di legittimità alle costruzioni successive nate da un libero e volontario contratto: dalle forme di convivenza civile a quelle successive di organizzazione politica. In questo quadro e in conseguenza del principio pacta sunt servanda risulta impostata la tutela e il rispetto della proprietà privata, l’obbedienza al potere sovrano dello Stato (non coincidente con la persona che lo esercita concretamente), le limitazioni di

Guardini

quest’ultimo ai contenuti originari del patto che ne vincolano tutta l’attività. Essa discende dal concetto di executio juris e consiste nella tutela del diritto tramite intervento contro le sue violazioni e per assicurare, con il suo godimento, la promozione del bene comune. Guardini, Romano Filosofo della religione e teologo cattolico italiano (Verona 1885 Monaco di Baviera 1968), si formò in Germania e insegnò a Bonn, Berlino, Tubinga e Monaco. Il suo interesse fondamentale è stato quello di formulare una nuova antropologia, che egli ha cercato di delineare utilizzando fondamentalmente le prospettive fenomenologiche di Husserl e Scheler. Da essi trasse la visione che considera il rapporto stretto di persona e mondo (Mondo e persona, 1939): se la prima può esserne distinta ma non separata, il secondo trae da essa il proprio significato. Questo rapporto però è un caso particolare e un’applicazione concreta di un concetto teorico più ampio, quello di opposizione polare (L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, 1925), che investe ogni aspetto della realtà. Esso consiste nel considerare due momenti che, pur escludendosi l’un l’altro, tuttavia si implicano e si presuppongono: da questo punto di vista l’opposizione polare è l’intuizione dell’essere nella sua struttura originaria e nella sua presenza concreta. I fenomeni di polarità (in fondo riconducibili a forme di opposizione dominate dalle leggi della correlazione, dinamicità, equilibrio instabile, rapporto quantitativo) possono essere distinti in tre tipologie: intraempirici (che spiegano l’essere in generale), transempirici (che spiegano l’essere concreto) e opposti trascendentali (che considerando l’essere da diversi punti di vista, convengono a ogni categoria). In questo quadro concettuale generale, la persona (l’io) è intesa come “totalità possibile”, che nella sua profonda positività, esprime il suo movimento vitale nell’atto, in quanto, come spazio aperto a infinite articolazioni, insieme lo determina e lo rivela nella sua originalità. Il fatto che l’atto sia circoscritto è dovuto ai limiti imposti dall’esterno, che però consentono all’io di cogliersi nella propria autotrasparenza, autonomia e apertura verso l’essere. Da queste posizioni Guardini ha cercato di fornire alla teologia una base teoretica, mostrando, all’interno di un orizzonte che coglie l’uomo nel suo itinerario esistenziale, carico di ambiguità e di destino, in situazioni storiche e socio-politiche di smarrimento

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Guénon

e di crisi (La fine dell’epoca moderna, 1950; Il potere, 1952; Ansia per l’uomo, 1958), il suo indispensabile approdo al divino per la propria realizzazione e perfezione ontologica: il cristianesimo rappresenta dunque il vertice dell’antropologia sotto l’aspetto etico e quello più strettamente spirituale (Il Signore, 1937). Queste tesi sono state sostenute anche in diversi saggi che esaminano l’opera di artisti e scrittori (Dante, Dostoevskij, Rilke, Hölderlin, Pascal) che hanno analizzato la condizione umana in tutta la sua profonda drammaticità. Guénon, René Filosofo e saggista francese (Blois 1886 - Il Cairo 1951). Convertitosi all’islamismo nel 1912, fu piuttosto un esponente di spicco del pensiero tradizionale che egli riscoprì nei suoi filoni esoterici presenti nelle religioni positive (non solo l’Islam, ma anche il cristianesimo) e nelle scuole filosofiche orientali (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, 1921; L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, 1925). L’idea centrale della Tradizione consiste nella convinzione di una sapienza originaria riservata a pochi, e accessibile attraverso una speciale iniziazione che definisce l’ambito propriamente esoterico: in Considerazioni sull’iniziazione (1946) egli mostra, in opposizione al misticismo, come questa via comporti una realizzazione metodica, ascetica, mediante la quale l’individuo realizza se stesso fino al superamento della propria dimensione particolaristica. In questa prospettiva si deve scindere iniziazione e magia (e occultismo), per identificare la prima con una scienza sacra, metafisica pura in quanto contemplazione del trascendente fino al raggiungimento dell’“Identità suprema”. Questa dimensione pratica si inquadra in una concezione generale della realtà quale viene esposta in Gli stati molteplici dell’essere (1932), dove si intende offrirne una “rappresentazione” che determini i suoi stati di manifestazione, quali sono disposti in una scala gerarchica di gradi d’esistenza, uno dei quali (l’unico direttamente accessibile a noi) è costituito dallo stato umano. Rispetto a questo ve ne sono di inferiori e superiori: questi ultimi sono esprimibili attraverso rappresentazioni simboliche (che verranno indagate in Simboli della scienza sacra, uscito postumo nel 1962), meno inadeguate del linguaggio ordinario (in uso nel sapere profano, filosofia compresa), da impiegarsi attraverso un opportuno insegnamento iniziatico. La “scienza sacra” che lo deve impartire è mirata al raggiungi-

Guglielmo d'Auvergne

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mento dell’“essere totale”, cioè all’espressione del legame tra il punto di vista individuale e quello metafisico. La concezione di una Tradizione originaria è presentata in Il re del mondo (del 1927, ampliamento di un saggio di tre anni prima, in polemica con la decisione di Pio XI di proclamare la festa di Cristo Re): dietro questa figura andrebbe vista non tanto una persona concreta (secondo alcuni il capo di una setta iniziatica dell’Asia centrale), nessuna figura storica determinata, ma il simbolo metafisico dell’unità originaria di sacerdozio e regalità, l’«intelligenza cosmica e legislatore universale nonché archetipo dell’uomo». Come tale è presente in molteplici forme delle tradizioni culturali, nei miti e nelle religioni di tutto il mondo che in questo principio trovano il proprio fondamento, così come si può manifestare nel mondo terreno in un particolare centro spirituale o in un’organizzazione che custodisca la Tradizione originaria. Nella nostra età “oscura”, di decadenza, l’umanità si allontana sempre più da tale centro spirituale, ormai non più localizzabile: essendo perduta per l’umanità nel suo complesso, la Tradizione viene osservata segretamente da pochi centri iniziatici ed esoterici, patrimonio di un’élite intellettuale. Queste idee hanno una chiara ricaduta politica che è espressa in La crisi del mondo moderno (1927) e Il regno della quantità e i segni dei tempi (1945): in queste opere la modernità è intesa come età di decadenza, di oscuramento delle verità sovrumane, di crisi di ogni vera normatività, in cui l’azione è considerata superiore alla contemplazione, l’autorità temporale superiore rispetto a quella spirituale. Sintomo di questa decadenza, di questo errore (le cui forme dominanti sono il materialismo e il democratismo), è l’affermarsi della mentalità scientifica come sapere profano (perciò incapace di comprendere la rappresentazione simbolica) e dell’individualismo, tipica espressione della mentalità quantitativa che trova il suo naturale sbocco nella “degenerazione della moneta” intesa come “equivalente universale” in una civiltà – quella occidentale – da intendersi come anomalia e mostruosità in rapporto ai criteri normativi della Tradizione. Guglielmo d’Auvergne Filosofo e teologo francese (1180 ca.-1249). Maestro e poi vescovo di Parigi, contribuì alla conoscenza e all’assimilazione dell’aristotelismo, e chiamò i domenicani all’insegnamento in

Guglielmo di Conches

quella università. Guglielmo conobbe Aristotele nell’interpretazione di Avicenna, che seguì soprattutto nella concezione di Dio come “ens secundum essentiam” e nella distinzione tra essenza ed esistenza nelle creature. Per dimostrare l’esistenza di Dio egli argomentava (applicando poi questo ragionamento anche alla considerazione del bene) che tutto ciò che si predica di un soggetto gli compete o per essenza o per partecipazione, e poiché l’essere per partecipazione rinvia necessariamente all’essere per essenza, le creature rinviano a Dio. Rifiutò invece la teoria emanazionista del dottore musulmano (e con essa quella dell’unico intelletto agente e separato, la cui funzione illuminante Guglielmo attribuiva invece a Dio) opponendogli, con ➔ Avicebron (di cui però criticò l’ilemorfismo universale), la dottrina della creazione libera per opera della volontà divina, esclusiva e senza intermediari. Guglielmo ritornò invece ad Avicenna quando si trattò di conciliare la dottrina agostiniana dell’anima come sostanza spirituale e incorruttibile con quella aristotelica dell’anima-forma (se si accetta questa definizione, l’attività intellettuale suppone però un soggetto indivisibile e spirituale, che non può essere se non l’anima, testimoniando in tal modo la sua indipendenza dal corpo). Guglielmo di Champeaux Teologo e filosofo francese (Champeaux 1070 ca.-1122), insegnò teologia alla scuola cattedrale di Parigi e nell’abbazia di San Vittore. Come il suo maestro Anselmo di Laon, fu tra i primi a impostare l’insegnamento sull’esame di argomenti determinati (quaestiones) e utilizzò come manuale per le lezioni raccolte di sentenze dei Padri della Chiesa. Abelardo, che fu il suo più celebre allievo, ce lo presenta come fautore di un realismo estremo, in nome del quale sostenne prima che l’universale è una realtà essenzialmente identica nei diversi individui e poi (in seguito alle obiezioni di Abelardo stesso) che è in essi solo indifferente. Guglielmo di Conches Filosofo e teologo francese (Conches 1080 ca.-1145), maestro nella scuola cattedrale di Chartres e autore di molte opere. In sintonia con lo spirito della scuola, fu sostenitore dell’importanza dello studio delle arti del trivio e del quadrivio, nella convinzione che le scienze abbiano il compito di contribuire all’intelligenza della fede (e che per raggiungere questo scopo debba essere utilizzato quanto il

Gundisalvi

pensiero umano ha prodotto). Amò Boezio e Platone, di cui commentò rispettivamente la Consolazione della filosofia e il Timeo e alla cui luce interpretò il racconto biblico della Genesi, interpretando il pensiero antico alla luce della rivelazione: Dio viene concepito come Bene, causa efficiente e finale della creazione (in un primo tempo lo Spirito Santo viene identificato con l’anima del mondo), che viene portata a compimento dalle cause seconde per forza autonoma. In questa visione, sostanzialmente ottimistica, il male non viene attribuito a Dio ma alla corruzione delle nature, che Egli aveva creato con indole buona. Gundisalvi, Domenico Filosofo e teologo spagnolo (sec. XII). Ebbe il merito di unire il pensiero orientale con quello occidentale, traducendo insieme con Giovanni ibn Daud nella Scuola di Toledo molti testi ara-

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Gundisalvi

bi ed ebraici che naturalmente influirono sul suo pensiero. Così nel De anima e nel De immortalitate animae, in un quadro platonico, sono riproposte le dottrine avicenniane sull’esistenza di un intelletto separato e sull’immortalità dell’anima razionale in quanto separata dal corpo; nel De unitate et uno si ripropone (con ➔ Avicenna e ➔ Avicebron) l’ilemorfismo e nel De processione mundi il dogma della creazione è interpretato in termini emanazionisti (Dio, prima causa da cui procedono la materia e le forme e quindi la molteplicità degli enti, crea omnia simul, mentre la successione temporale si manifesta con l’introduzione delle cause seconde). Scrisse anche un De divisione philosophiae (anch’esso ispirato a un’analoga opera di ➔ al-Farabi) che contribuì a far abbandonare lo schema tradizionale delle sette arti liberali in favore di quello aristotelico.

H Habermas, Jürgen Filosofo e sociologo tedesco (Gummersbach 1929), professore universitario, è tra gli ultimi rappresentanti della Scuola di Francoforte. Autore di saggi molto noti, è una delle voci più autorevoli della filosofia tedesca della seconda metà del XX secolo. Della sua amplissima produzione (si è impegnato anche in una continua attività saggistica sulla stampa periodica) segnaliamo i saggi Conoscenza e interesse (1968) e Teoria dell’agire comunicativo (1985). In particolare quest’ultimo saggio ha suscitato notevole interesse perché Habermas vi lega una teoria del linguaggio alla riflessione sul futuro (culturale e politico) della società moderna e dell’individuo nel contesto delle trasformazioni profonde della modernità. Hamann, Johan Georg Filosofo tedesco (Königsberg 1730 - Münster 1788), attivo in Germania negli anni di passaggio tra illuminismo e romanticismo. Per lui tutta la realtà è rivelazione, per cui il rapporto dell’uomo con Dio è condizionato dalle sue manifestazioni. Esse sono rappresentate, oltre che dalla Scrittura, da natura e storia, simboli e cifra, rivelazione e adombramento della trascendenza, per cui un’adeguata comprensione del reale esige un approccio più adeguato che non la semplice ragione. Così per Hamann la filosofia non può essere disgiunta dalla poesia, l’osservazione e l’analisi dalla sintesi e dalla profezia (per questi aspetti antirazionalistici del suo pensiero, che influirono notevolmente sulla cultura romantica, egli fu chiamato il “mago del Nord”), attività che includono un carattere imitativo e geniale insieme. Se il genio è spontaneità creativa unita a coscienza dei propri limiti e della propria ignoranza quali condizioni per l’apertura alla fede (in questo senso Hamann riteneva Socrate un profeta del cristianesimo), l’imitazione si modella sul reale, che però non è chiuso in se stesso ma ha un significato posto nel futuro (esprimibile quindi in un linguaggio simbolico: perciò attribuì valore sacro ai miti e all’antica poesia giacché essa è il linguaggio originario che esprime il contatto fondamentale dell’uomo con la realtà e con Dio).

Di qui la polemica di Hamann contro l’illuminismo, dal punto di vista sia storiografico (il progresso dei lumi è empio e astratto, perché attuato contro la religione e la tradizione) sia gnoseologico (solo attaccandosi a vuote leggi e astratti concetti si è giunti nel presente a una ragion pura, sostenendo una presunta superiorità delle scienze matematiche e naturali che trascurano facoltà essenziali come la sensibilità e la fantasia). Naturalmente la realtà è rivelazione solo per chi ha fede, intesa sia in senso humiano quale chiave di comprensione della realtà temporale, sia in senso religioso poiché in quanto dono di Dio è la via per accedere alla dimensione soprannaturale. Hare, Richard Mervyn Filosofo inglese (Backwell 1919 - Ewelme 2002), professore a Oxford e in Florida. Esponente della filosofia analitica, si è occupato principalmente di etica a cominciare dalla sua prima importante opera, Il linguaggio della morale (1952). Qui egli, osservando come questo sia un tipo speciale di linguaggio prescrittivo, ne conduce un’analisi accurata (metaetica) e con esso della logica degli imperativi nella sua differenza da quella degli indicativi. Attraverso la distinzione tra imperativi singolari e universali (i cosiddetti “principi”), Hare mostra (sulla scia di ➔ Kant) come gli imperativi morali siano qualificati per la loro costitutiva universalizzabilità. Ma per prescrivere il linguaggio etico ricorre anche a termini come “buono” e “dovrebbe”, termini cioè che esprimono valore: essi spingono a fare nella misura in cui hanno, insieme con un significato descrittivo, anche un senso emotivo. Questo non deve essere considerato essenziale, dal momento che in etica bisogna riconoscere un ruolo decisivo al ragionamento, condizione necessaria perché la valutazione etica possa assumere una dimensione di validità per tutti. Questa indicazione viene approfondita in Libertà e ragione (1963), dove egli giunge a precisare come una teoria del ragionamento morale concluda, con la sola analisi della sua correttezza, a una specifica teoria normativa – l’utilitarismo – sulla base dell’uguale considerazione delle preferenze degli individui:

Hartmann

grazie a queste ultime, la teoria del valore non si concentra né su un unico valore (il piacere o la felicità) né su un valore dato. In Il pensiero morale (1981), Hare ha combattuto sia il soggettivismo sia il relativismo (impliciti nell’intuizionismo) in nome di un universalismo prescrittivo che, convenientemente associato al principio dell’utilità sociale, si traduce in una particolare forma di “utilitarismo kantiano” o “delle regole”. Questa linea di pensiero che tenta di ricercare l’oggettività dell’etica nel carattere universalmente prescrittivo del suo linguaggio (carattere che tutte le culture possono condividere e in cui è possibile risolvere tutte le differenze tra esse sussistenti facendo convergere l’assenso di tutti gli esseri razionali) è confermata anche nell’opera Scegliere un’etica (1997). Inoltre egli ha discusso diverse concrete questioni in articoli e interventi raccolti in vari volumi come Sulla morale politica (1989) e Saggi di bioetica (1996). Hartmann, Eduard von Filosofo tedesco (Vienna 1842 - New York 1906), celebre ai suoi tempi per la Filosofia dell’inconscio (1867) che gli diede vasta ma effimera fama. Rifacendosi a Schelling, Schopenhauer e Hegel (ma egli dichiarò di aver seguito il metodo induttivo delle scienze della natura) Hartmann pose l’inconscio all’origine dell’essere, intendendolo non solo come Volontà ma anche come Idea. Irriducibili l’uno all’altro, questi due fattori ne costituiscono gli attributi e gli aspetti inseparabili, dato che la prima, irrazionale, pone l’esistenza del mondo e perciò anche il dolore, e la seconda, razionale, pone l’essenza del mondo consentendo la redenzione attraverso l’attuazione di una finalità. L’inconscio ha dunque creato la coscienza. Per Hartmann pessimismo e ottimismo sono conciliabili: il fine del processo cosmico consiste infatti nell’emancipazione dell’Idea e dell’intelletto dalla soggezione alla Volontà (il fine è quindi nello stesso svolgimento della coscienza), fino a una sorta di suicidio cosmico reso possibile dalla formazione della coscienza pessimista dell’umanità, che di essa costituirà pure (dopo aver attraversato una fase segnata dalla contemplazione della bellezza) la redenzione finale. Hartmann, Nicolai Filosofo tedesco (Riga 1882 - Gottinga 1950), professore universitario. Nelle sue opere (Principi di una metafisica della conoscenza del 1921, La fondazione dell’ontologia del 1935) sviluppa a fondo

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Hayek

le tematiche della fenomenologia di Husserl (da giovane si era però formato nell’ambito della ➔ Scuola di Marburgo). Il principio base è che il metodo fenomenologico husserliano consente un approccio puramente descrittivo al mondo esterno, ma anche l’elaborazione di una teoria (quindi di una ontologia come discorso teorico sull’essere) parallela alla descrizione della realtà. Hartmann si è quindi dedicato allo studio minuzioso e analitico delle strutture dell’essere e dei suoi diversi piani che la mente può descrivere, ciascuno al proprio livello. Hayek, Friedrich August von Economista e filosofo austriaco (Vienna 1899 - Friburgo 1992), professore a Londra, Chicago, Friburgo. Premio Nobel per l’economia nel 1974. Cresciuto alla scuola di Vienna, dai suoi maestri ereditò la forte ostilità verso ogni forma di socialismo (che criticò in Verso la schiavitù,1944) e di economia pianificata (compreso il welfare state di ispirazione keynesiana) unitamente al deciso orientamento liberale. In Legge, legislazione, libertà (197379) ha precisato il concetto di quest’ultima in termini negativi (come assenza di ogni costrizione esterna e perciò strettamente legata alla proprietà privata), insistendo sui limiti della razionalità umana (egli critica tutti i tentativi di farne una capacità perfetta e totalizzante) e individuando i modi in cui il singolo può utilizzare le informazioni (per esempio il meccanismo dei prezzi) per realizzare i propri progetti in coordinamento con quelli altrui. Nella logica della “mano invisibile” smithiana, Hayek si è orientato sempre più a concepire la società come un “libero gioco” di rapporti personali autoequilibrantesi (il mercato regolato dalla libera concorrenza) dove le conoscenze circolano e vengono scambiate capillarmente, mentre le norme generali della “legge” sorgono spontaneamente senza bisogno di un centro direttivo e pianificatore. Di qui la sua ostilità verso lo statalismo, sempre oppressore e dissipatore di risorse, tanto più quando, sulla base del volere di una maggioranza dai poteri illimitati (che si esprime in una serie di provvedimenti particolari, rigidi e quindi liberticidi, componenti la “legislazione”), intende promuovere, con manovre correttive del mercato, una politica di “giustizia sociale” attraverso la modifica forzosa della posizione economico-sociale dei singoli. Per queste teorie Hayek è considerato uno dei massimi esponenti del neoliberalismo contemporaneo e, per la sua critica alla democrazia, della cultura di destra.

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Hegel, Georg Wilhelm Friedrich Filosofo tedesco (Stoccarda 1770 - Berlino 1831), massimo esponente dell’idealismo classico tedesco. la vita. Nato da una modesta famiglia, frequentò la facoltà teologica di Tubinga, dove strinse amicizia con Hölderlin e Schelling e coltivò i propri interessi culturali leggendo Rousseau, Lessing e Kant e seguendo i dibattiti filosofici (le dispute tra Jacobi, Fichte, Herder) e politici del tempo (guardò con simpatia e speranza agli avvenimenti della rivoluzione francese). Dopo la laurea, fece il precettore presso ricche famiglie di Berna (fino al 1796) e Francoforte (fino al 1800): nel frattempo continuò la stesura (già iniziata a Tubinga) di opere che non completò mai per la stampa (spesso sono incomplete o lasciate allo stato di frammento) ma sono di grande importanza per la maturazione del suo pensiero (verranno raccolte e pubblicate da Hermann Nohl nel 1907 col titolo, discutibile e fuorviante, Scritti teologici giovanili). Recatosi a Jena per intraprendere la carriera accademica (qui insegnavano Reinhold e Fichte) e ottenuta l’abilitazione all’insegnamento, iniziò i suoi corsi come libero docente e poi come professore straordinario: ebbe inizio un periodo di proficua collaborazione con Schelling, con la pubblicazione di un Giornale critico di filosofia, su cui scrisse alcuni importanti saggi (Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling, Il rapporto dello scetticismo con la filosofia, I modi scientifici di trattare il diritto naturale, Fede e sapere). In questi anni terminò la stesura di uno scritto sulla Costituzione della Germania ma soprattutto attese alla stesura della Fenomenologia dello spirito (1807), pubblicata con un’importante Prefazione in cui si consuma il distacco da Schelling (per questo motivo tra i due filosofi intercorrerà un lungo periodo di freddezza). Dopo l’invasione della Germania da parte delle truppe napoleoniche, Hegel si rifugiò a Bamberga (dove lavorò nella redazione del giornale locale) e in seguito accettò l’incarico di direttore del ginnasio di Norimberga. Qui, insieme con il raggiungimento della sicurezza economica e della serenità affettiva (sposò una donna di nobile famiglia dalla quale ebbe due figli), continuò la ricerca teoretica che culminò con la pubblicazione, oltre che di una Propedeutica filosofica, della Scienza della logica (1812-16). Passato a insegnare all’università di Heidelberg, vi rimase fino al 1818 stendendo un quadro d’insieme del suo sistema nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compen-

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dio (ristampata con ampliamenti nel 1827 e nel 1830). Intellettuale ormai affermato, fu chiamato all’università di Berlino (di cui fu anche rettore), tenendo con grande successo lezioni sulle varie parti del suo sistema (estetica, filosofia della storia, filosofia della religione, storia della filosofia) che furono pubblicate postume sulla base degli appunti degli allievi. L’unica opera notevole di questo periodo sono i Lineamenti di filosofia del diritto (1821) preceduti da una importante Prefazione. Alla sua morte, avvenuta improvvisamente per un attacco di colera, gli furono tributati onori funebri eccezionali. il pensiero. Essenziali per comprendere la genesi e il successivo sviluppo della problematica di Hegel, i cosiddetti Scritti teologici giovanili costituiscono i suoi primi tentativi di fissare alcuni concetti chiave e di svolgere precise analisi interpretative intorno ad alcuni nuclei tematici fondamentali. Infatti da queste pagine si evidenzia la rivendicazione, sotto la suggestione dei grandi eventi contemporanei, della rottura con un passato oppressivo e liberticida di cui si cerca di decifrare i caratteri e di individuare le cause; emerge soprattutto la preoccupazione di cogliere il significato dell’orizzonte storico dell’uomo moderno (con i relativi problemi sociali, economici, politici, etici seguiti alla scomparsa delle repubbliche cittadine e all’affermarsi di un individualismo privo di rapporti organici con una comunità politica) attraverso l’ottica della religione risultante dalla riflessione illuministica. In particolare Lessing, Rousseau e Kant avevano in vario modo denunciato il degrado dell’autentico spirito religioso (che non può essere che etico e naturale, dovendo permettere a ciascuno di partecipare, in comunanza spirituale con gli altri, alla vita sociale e a quella dell’umanità) nel dogmatismo autoritario di un cristianesimo irrigidito su un trascendentismo antirazionale e antimondano. Hegel legge nelle loro conclusioni il tentativo del bourgeois, chiuso nell’angustia di un gretto privatismo senza libertà, di trovare una compensazione nell’aldilà al vuoto di valori civili e patriottici patito nella sfera concreta della sua realtà mondana. Di qui la presupposizione della rivoluzione degli spiriti quale condizione di quella politica, giacché solo coscienze profondamente rinnovate potranno trasformare le istituzioni rendendole consone al ritmo interiore della vita dei cittadini. Così se in Religione popolare e cristianesimo rivaluta quella forma che sappia guidare la vita di un popolo intero attraverso la solle-

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citazione della volontà e dei sentimenti e la conformità alla ragione, nella Vita di Gesù presenta Gesù come l’incarnazione dell’uomo virtuoso in senso kantiano, portatore di un messaggio di emancipazione etica e politica da ogni mortificante eteronomia (il fariseismo); mentre nella Positività della religione cristiana spiega la trasformazione del cristianesimo in religione positiva, fondata sull’autorità (a livello istituzionale, dottrinario e morale) e non sull’adesione soggettiva spontanea e immediata, con fattori sia interni (la necessità di Gesù di presentarsi in termini divini e trascendenti per accreditarsi presso il popolo ebraico) che esterni (il retroterra culturale dei discepoli che reintroducono il formalismo e il legalismo ebraico nel nuovo culto, che si afferma in seguito alla crisi della civiltà classica e ai suoi valori etici e umanistici). Nel successivo periodo di Francoforte si assiste all’adozione di una nuova prospettiva e di nuovi parametri ermeneutico-concettuali di tipo romantico e mistico. In Lo spirito del cristianesimo e il suo destino Hegel si presenta come sostenitore (probabilmente per influenza di Hölderlin) di una visione panteistica, dove l’amore costituisce il principio connettivo dell’uno-tutto, la realtà come organismo vivente rispetto alla quale l’individuo isolato non è che una “morte in divenire”, senza significato e valore, e perciò infelice. Gesù è il banditore di una “rivoluzione dei cuori” che rinnova la vita restituendole l’originaria unità nella ricongiunzione con il divino che è immerso nel Tutto. Alla condizione di conflittualità e lacerazione che, in contrasto con la bella armonia immediata goduta in passato dai greci, della loro serena fiducia all’interno di una natura pacificata, segna ogni aspetto dell’esperienza umana attuale (e che Hegel imputa all’ebraismo, religione propria di un popolo che ha accettato di vivere, dopo il diluvio e la schiavitù egizia, senza libertà sotto il giogo di una legge oppressiva pur di avere da un dio padrone salva la vita) Hegel oppone ora l’amore annunciato da Gesù come fattore di conciliazione e vivificazione, produttore di una ritrovata armonia dell’uomo con Dio e con la natura. Così Hegel indica nella fede la via per cogliere e ristabilire l’unità al di là delle scissioni: in realtà già ora la soluzione prospettata appare gravida di grandi difficoltà, nella misura in cui imputa allo stesso cristianesimo di aver fatto fallire la prospettiva rivoluzionaria di Gesù (dopo la sua morte, i discepoli ne stravolgeranno il messaggio “divinizzandolo” mediante i “miti” dei mira-

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Hegel Idealismo moderno Il trionfo del soggettivismo nella cultura moderna G. BERKELEY (1685-1753) Oxford G. FICHTE (1762-1814) Jena-Berlino G. HEGEL (1770-1831) Berlino F. SCHELLING (1775-1854) Jena-Berlino

coli e della resurrezione, e, specie con Paolo, “positivizzando” sul modello farisaico la nuova religione e la nuova Chiesa) e di essersi infiltrato (come testimonia la filosofia di Kant) nel mondo moderno plasmandolo col suo spirito di scissione. Tuttavia ancora nel 1800 Hegel sembra confermare la prospettiva appena delineata nel fondamentale Frammento di sistema, attribuendo alla religione la capacità di cogliere l’unità di umano e divino elevando la «vita finita alla vita infinita». Ma poiché quest’ultima «è unione di unione e non unione», Hegel pone (per la prima volta e in modo decisivo per la sua riflessione futura) il problema del rapporto tra finito e infinito come unità dialettica: affinché la vita universale possa affermarsi, deve essere concepita come una processualità perenne tesa a cogliere e superare quegli aspetti (l’opposizione, il finito, la morte e la scissione) negativi non come realtà esterne ma accolti e compresi in sé quali fattori necessari e costitutivi della sua essenza. Queste conclusioni non sono prive di risvolti politici: nella Costituzione della Germania (1801) si auspica l’unificazione del popolo tedesco secondo un modello statuale che, superando lacerazioni e particolarismi ormai obsoleti e legati a miopi interessi, realizzi le aspirazioni dei singoli a una vita migliore fondata sull’uguaglianza in modo non oppressivo ma organico, tale cioè da garantire loro libertà di iniziativa nella salvaguardia dei diritti individuali. Il passaggio di Hegel da Francoforte a Jena, avvenuto nel 1800, segna il momento di una vera e propria rielaborazione di tutta la sua filosofia, il cui ruolo egli sente di dover giustificare, in quanto tentativo di superare tutte le contraddizioni reali, tutti i conflitti che estraneano l’uomo da se stesso e dal mondo impedendogli una vita comunitaria felice. Traducendo in termini razionali quelli che sono i caratteri del momento storico,

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la filosofia può combattere queste tendenze disgregatrici facendo agire la “potenza d’unificazione” della ragione (più tardi dirà che «comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione»). Nella filosofia si esprimono i problemi di un’epoca: di qui la ricerca, attraverso i dibattiti contemporanei, di un adeguato principio fondativo assoluto che, come origine di ogni dualismo e opposizione, permetta di pensare in forma sistematica la realtà nella sua totalità. All’inizio la posizione di Hegel appare prevalentemente critica e solo indirettamente costruttiva: così nella Differenza, prende posizione contro le “filosofie della riflessione” che, legate all’intelletto e alla finitezza, sono espressione di un mondo scisso, diviso, i cui vari dualismi (essere-pensiero, finito-infinito ecc.) sono riconducibili a quello fondamentale tra soggetto e oggetto (la cui unità incondizionata è invece postulata dalla ragione). Ciò vale per Kant (che concependo le forme soggettive contrapposte a una realtà esterna compromette una potenziale feconda unità di soggetto e oggetto) e per Fichte (che pur partendo dal «pensare puro in se stesso», conclude malamente nella misura in cui oppone all’identità soggetto-oggetto la molteplicità delle rappresentazioni finite: sopprimendo queste ultime, Fichte si è illuso di ottenere quell’identità che richiederebbe per essere ristabilita un inattuabile processo all’infinito e che così risulta invece puramente soggettiva e astratta). In Schelling Hegel scorge invece realizzato il vero principio dell’identità «che non si smarrisce nelle parti, né tanto meno nel risultato» giacché essa (in analogia con la “vita infinita” nel Frammento di sistema, evidentemente ispirato alla posizione dell’amico) è sia soggettiva che oggettiva. Infatti è compito della ragione cogliere l’unità incondizionata di soggettività e oggettività pensando congiuntamente il finito e l’infinito, l’unità e l’opposizione: di qui la necessità di concepire l’assoluto come «identità dell’identità e della non-identità», l’implicazione cioè di una contraddizione interna che la ragione esige che sia tolta e superata col suo stesso procedere. L’attacco alla filosofia della riflessione prosegue con Fede e sapere (qui il bersaglio polemico è soprattutto Jacobi), in cui si intende dimostrare come la contrapposizione tra fede e conoscenza nasca proprio sul terreno della riflessione, quando da un lato si intende il conoscere come attività finita e separata dell’intelletto e non come conoscenza razionale dell’assoluto e dall’altro il ricorso alla fede è giusti-

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ficato dalla limitatezza in cui è costretta la ragione, malgrado il bisogno insopprimibile di superare le scissioni. Preparata da corsi sulla filosofia della natura e dello spirito pubblicati postumi, la Fenomenologia dello spirito del 1807 costituisce il culmine della speculazione hegeliana in questa prima fase. Fondamentalmente essa intende mostrare la via d’accesso all’Assoluto per la coscienza comune, che per un verso ha un indubbio “bisogno di filosofia” ma che dall’altro è estremamente distante dal suo tipo di sapere: da questo punto di vista essa costituisce una “introduzione” alla filosofia (una sorta di premessa al sistema della scienza, che in effetti Hegel aveva già pronto, sia pure solo in forma di abbozzo). Nella Prefazione, che costituisce un corpo a parte rispetto al resto dell’opera, Hegel torna sul rapporto tra filosofia e tempo storico, per rimarcare come solo a quella sia possibile la “lettura” dei tratti essenziali di questo, tanto più necessaria in un momento di rapida transizione come l’attuale. Solo la filosofia dispone infatti del concetto, elemento adeguato per cogliere, sotto le apparenze, la sostanza delle cose, mentre coloro (come Jacobi e gran parte dei romantici) che pretendono di avere un accesso immediato (un’intuizione, un atto di fede o del sentimento ecc.) a esso senza farsi carico della fatica del concetto, non possono partorire che arbitrarie fantasticherie rimanendo distanti dal vero, la cui gestazione in un adeguato sistema scientifico è annunciata da questa epoca di profondi rinnovamenti. Al raggiungimento di questo obiettivo non possono aspirare né coloro (Kant, Fichte) che sono impigliati nel formalismo (che separa nel tutto della conoscenza l’aspetto formale universale da quello materiale particolare), né quelli (come Schelling) che concepiscono l’assoluto come una formula astratta fondata sul principio d’identità quale paradigma epistemico: priva com’è di determinazioni, tale identità è equivalente a una indistinzione (non a caso attingibile mediante un’intuizione sovra-razionale), a «una notte in cui tutte la vacche sono nere» (cioè tutti i finiti sono nulla rispetto alla verità). Nella prospettiva di Hegel bisogna «intendere ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto»: il principio supremo non è dunque qualcosa di fisso (come in vario modo accade nelle concezioni di Spinoza, Fichte e Schelling), ma l’identità dell’assoluto è la mobile e vivente unità di un soggetto che si mantiene consapevolmente nella moltepli-

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cità delle sue manifestazioni (per cui l’essenza non è pensabile se non in rapporto al fenomeno): in questo senso questa soggettività è Spirito (come sostanza comune degli individui, il tessuto connettivo fatto dal loro patrimonio culturale e istituzionale condiviso: «Io che è Noi, Noi che è Io»), come la sua più alta espressione e adeguata definizione. Poiché esso è movimento, teso al proprio autoriconoscersi come tale attraverso una serie di momenti determinati, ciascuno dei quali ha senso solo colto in rapporto a tutti gli altri che costituiscono la globalità del processo che in esso si esplica, si può dire che «il vero è l’intero» (per cui il falso è il parziale in quanto inadeguato), che a sua volta «è l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo» (perciò lo Spirito è storia). La dialettica di Hegel è precisamente questo movimento dell’Assoluto (e nello stesso tempo della ragione che lo pensa) secondo un ritmo triadico di momenti nel primo dei quali l’assoluto si pone in sé, come astratta uguaglianza con se stesso, nel secondo necessariamente si estranea, oggettivandosi e ponendosi in altro (ma in tal modo diventando per sé si manifesta), nel terzo si riconquista negando entrambi i momenti precedenti, che vengono così ricomposti nell’unità assoluta (ora in sé e per sé, unità di essenza e manifestazione). Quest’ultimo momento costituisce la chiave di volta di tutto il processo dialettico, in quanto il finito è tolto dal suo isolamento pur restando conservato come momento necessario della costituzione dell’Assoluto: attraverso questa mediazione finito e infinito vengono realmente a coincidere, non essendovi più nulla che resti fuori e si opponga all’infinito. Parallelamente, il pensare speculativo o filosofico intende l’intero nella misura in cui vede legati organicamente in esso tutti gli opposti (che l’intelletto comune – peraltro “legittimato” da Aristotele e da Kant, che vi hanno posto a principio logico quello di non contraddizione – considera invece inconciliabili e reciprocamente escludentesi), ricompresi su un piano più alto e completo nella loro profonda unità. In base a quanto detto, l’autoriconoscersi dell’assoluto come spirito dà luogo necessariamente a una serie di figure logiche e storiche, costituenti i gradi che lo spirito deve percorrere (in una sorta di romanzo di formazione) per giungere alla conoscenza e al possesso di se stesso (in tal modo soggetto e oggetto del sapere coincidono, così come anche metodo e contenuto della ricerca filosofica): perciò essa è la «storia delle

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esperienze della coscienza» che dai livelli più elementari e oscuri sale fino al chiarore della scienza e da una posizione immediata passa a esperirne (sia pure in una fase successiva) la falsità, dove queste figure e forme sono modi necessari in cui si manifesta (fenomenologia, scienza del manifestarsi) lo Spirito. Perciò, compito primo della filosofia nella costruzione della prima parte del suo sistema scientifico deve essere quello di rintracciare questa serie di figure (che sono note a tutti ma non comprese nella loro essenza) della storia sia ideale che cronologica dello Spirito, quali stazioni teleologicamente orientate e ordinate di un itinerario obbligato. Il sapere assoluto cui tale itinerario mette capo è nient’altro che autocomprensione concettuale dell’intero, conoscenza delle precedenti figure in quanto momenti necessari del suo sviluppo, manifestazioni temporali della sua essenza. Ma ciò non può avvenire che nella forma compiuta del sistema in cui è appresa la realtà come totalità, cui Hegel può dedicarsi una volta esaurito il compito della formazione della coscienza. Sotto questo profilo l’opera più significativa dell’autore resta l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, dove l’impalcatura generale è esposta nelle linee più complete, mentre ad altre opere (Scienza della logica, Filosofia del diritto) e cicli di lezioni sarà affidato il compito di svilupparne singole sezioni. Nella Introduzione all’Enciclopedia Hegel chiarisce ambito e funzioni della filosofia: sotto il primo aspetto si deve precisare che è il pensiero stesso (e non le sue rappresentazioni, intuizioni, ecc., come accade nelle altre scienze, le cui spiegazioni restano irrimediabilmente ipotetiche) a costituirne l’oggetto (perciò il suo sapere è necessario e sta alla base degli altri campi conoscitivi) nella forma riflessiva più propria, cioè il concetto. Ciò comporta l’abbandono della “timidezza” di Kant, e della presunta necessità di stabilire in via preliminare possibilità e limiti del conoscere (nella presupposizione che il suo contenuto sia esterno), giacché ogni indagine è o filosoficamente vera (e allora rientra eo ipso nella “trattazione sistematica della filosofia”) o spuria ed estrinseca. La fondazione della filosofia non può dunque essere che assoluta (come il suo stesso oggetto), cioè la filosofia è autofondativa, proprio perché nel suo sapere soggetto e oggetto coincidono. Il suo organo essenziale è la logica speculativa (o dialettica), costituita secondo una modalità triadica che riproduce il ritmo stesso del movi-

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mento del pensiero, tanto nel suo prodursi complessivo quanto nello sviluppo interno di ogni suo singolo momento e per estensione a ogni ambito del reale (giacché il pensiero si esplica nella realtà come sua ragione immanente). La struttura di tale processo logico comprende tre stadi (o momenti): — quello astratto (in ogni momento esso prende avvio da una determinazione immediata e isolata, escludente le altre e perciò astratta); — quello dialettico o dell’alienazione (ogni determinazione viene colta nel suo intimo nesso con il suo opposto); — quello speculativo o della mediazione compiuta (la contraddizione tra gli opposti è negata nella loro “sussistenza separata e irrelata” per cogliere la loro unità nella contrapposizione, «l’elemento affermativo che è contenuto nella loro risoluzione e nel loro passare in altro», cioè nel passaggio a un piano di realtà o a una categoria più comprensiva). Nella sua struttura generale, la filosofia comprende tre parti, funzionali alla costituzione dell’intero e quindi dialetticamente collegate tra loro. Si ha così a) la logica, o scienza “dell’idea pura”; b) la filosofia della natura, che è “scienza dell’idea nel suo alienarsi da sé”; c) la filosofia dello Spirito o “scienza dell’idea che dal suo alienamento torna a sé”. a) La logica. È scienza dell’idea, della legge regolatrice del tutto in quanto sistema di relazioni tra le cose considerate «nell’elemento astratto del pensiero»: in questo senso il suo oggetto è il pensiero stesso in quanto si identifica con la ragione. Essa da un lato è unica, dall’altro si esplica in una molteplicità di categorie e concetti basilari, che si trovano a costituire la trama profonda della realtà (perciò Hegel li chiama “pensieri oggettivi”): avendo questi per oggetto, la logica non è più astratta e formale (viene respinta non solo quella aristotelica ma anche quella trascendentale kantiana), ma concreta e immanente. Il sistema scientifico della logica si articola dunque dialetticamente in tre momenti: logica dell’essere (o del pensiero immediato e del concetto in sé); logica dell’essenza (o del pensiero nella sua mediazione); logica del concetto (o del pensiero «nel suo ritorno in se stesso, e nel suo essere presso di sé totalmente sviluppato»). b) La filosofia della natura. Dalla sua perfezione la ragione trapassa nell’esteriorità spazio-temporale, alienandosi da se stessa e cadendo nel regno della natura, anche se proprio con questa degradazione e autoe-

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straneazione la ragione compie una necessaria autoriflessione. Ciò significa che la natura è nello stesso tempo razionalmente ordinata e conoscibile. Sotto questo aspetto risulta possibile una fondazione speculativa e razionale delle scienze naturali attraverso l’individuazione dei loro principi in conformità con le determinazioni pure del pensiero. Ciò non toglie che la sua negatività appaia in ogni suo aspetto: per sua essenza la natura ha un’esistenza meramente esteriore, così come esteriori sono i rapporti tra le sue determinazioni (perciò in essa non può vigere se non la mera accidentalità e necessità, peraltro evidenziata dalla sua infinita ricchezze di forme). Poiché la presenza del concetto è labile (vi sono infatti specie ibride e individui anomali) e la sua incidenza condizionata da una molteplicità di fattori casuali e contingenti, Hegel ritiene che si debba lasciar cadere la pretesa (propria del meccanicismo razionalistico) di una determinazione minuziosa dei suoi particolari e di una spiegazione esaustiva dei suoi fenomeni. La natura si configura così come un sistema, statico e privo di evoluzione, di gradi dove ciascuno deriva dal precedente desumendone solo quanto è strumentalmente necessario al suo costituirsi. La trattazione di Hegel procede dalla meccanica (con lo svolgimento della tematica dello spazio e del tempo quali forme dell’esteriorità e della giustapposizione, forze negative che limitano le cose finitizzandole e trascinandole in un divenire distruttivo), dalla fisica, dalla fisica organica (dove l’esteriorità è progressivamente riassorbita nell’unità, che raggiunge il suo culmine nell’animale). c) La filosofia dello Spirito. Attraverso l’organismo la ragione riprende coscienza di sé, divenendo, di ritorno dalla sua alterità, spirito, inteso come unità razionale che unifica e sorregge la molteplicità. La vita dello Spirito incomincia con il risvegliarsi e l’affermarsi della coscienza, quale segno del distacco dalla pura naturalità, fino alle manifestazioni intellettuali e culturali più complesse qualificanti in modo specifico l’essere umano. Il suo sviluppo comprende dunque le seguenti determinazioni: 1. lo Spirito soggettivo, che concerne la vita dell’individuo. Richiamandosi espressamente ad Aristotele, Hegel concepisce l’anima, che è immediata entità naturale in rapporto col corpo, quale complesso di determinatezze psicologiche dotate però di significato razionale. Nell’antropologia esso è rintracciato in una serie di fenomeni (dal destarsi alla follia, all’abitudine, all’impie-

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go del linguaggio), che nel loro progressivo svolgimento segnano il passaggio dall’unità psicosomatica alla distinzione tra una sfera dell’esterno e una dell’interno (l’io). La fenomenologia studia l’itinerario della coscienza nel suo elevarsi a ragione. La psicologia considera infine il soggetto nella sua compiutezza e interezza. In esso si distinguono il soggetto teoretico (che parte dall’intuizione e giunge al pensiero attraverso le forme del ricordo, dell’immaginazione e della memoria) e pratico (dai sentimenti agli impulsi e all’arbitrio fino all’aspirazione alla felicità) mostrandosi infine come spirito libero, che si propone fini e mezzi per il suo agire. 2. Lo Spirito oggettivo (studiato specificamente anche nella Filosofia del diritto) costituisce la fase in cui lo spirito entra nel mondo dei rapporti sociali e delle relazioni giuridiche e istituzionali. Il primo ingresso dell’individuo nella società è rappresentato dal diritto astratto, in cui gli altri sono considerati esseri altrettanto liberi e paritetici e il bruto possesso viene legittimato in proprietà (compreso l’habeas corpus). L’incontro di questi due fattori determina il contratto, da cui si originano fenomeni quali i contrasti (“diritto contro torto”), la frode, il delitto e le azioni mirate alla punizione di tali atti (la pena deve ristabilire il diritto attraverso l’affermazione dell’universalità della libertà in quanto coincidente con la volontà razionale). L’insufficienza del diritto si manifesta proprio nella punizione del delitto, manifestandosi come “diritto di violenza” con cui l’individuo si scontra con la società. Da questa scissione si produce la moralità, fondata sulla libertà e sulla riflessione del soggetto. Gran parte di questa sezione si risolve nella critica alla dottrina kantiana quale espressione perfetta cui essa è giunta nell’età moderna: il suo formalismo astratto e rigorismo intransigente evidenziano i limiti di una coscienza che si è isolata dal mondo ed è priva di un rapporto organico e armonico con la realtà. Solo nell’ambito delle istituzioni di una comunità il singolo trova doveri determinati e legittimi. Perciò bisogna passare nella sfera superiore dell’eticità in cui, nella conciliazione tra assolutezza della ragione e concreta definizione dei doveri particolari, l’uomo vede in questi ultimi la realizzazione dei suoi stessi diritti nell’unione con i propri simili (perciò il carattere di questa sfera è la fiducia). E se la famiglia (concepita come organismo immediatamente unitario, fondato sul matrimonio che legittima l’amore dei coniugi e comporta

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un patrimonio comune e l’educazione dei figli) è il primo momento di questa dialettica, la sua finitezza impone il passaggio a quello successivo, costituito dalla società civile. In essa sembra dominare la differenziazione, la dispersione e la disarticolazione, la scissione prevale sull’unitarietà, la mediazione sull’immediatezza, tanto che il rapporto del singolo con la totalità sociale non sempre è percepibile. Infatti la società civile è costituita dai soggetti economici (le famiglie) privati, dai loro interessi, bisogni, attività: Hegel analizza, nella loro necessità e positività razionale, la dinamica della moderna società capitalistica, mettendone in evidenzia i fattori costitutivi (interdipendenza economica, divisione del lavoro, sviluppo dei bisogni, “atomizzazione” individualistica, costituirsi delle classi) e gli elementi di mediazione tra il singolo e la totalità (amministrazione della giustizia, polizia, corporazioni). Proprio a partire da tali elementi lo spirito etico può partire per ritornare all’unità. Questa non può apparire nella forma dell’immediatezza, ma deve costituirsi nella conservazione della differenziazione quale si è manifestata nella società civile. Sotto questo aspetto lo Stato rappresenta il superamento della famiglia e della società civile nella loro finitezza e nel contempo si sostanzia in loro costituendosi come il loro fondamento: solo nello Stato si realizza compiutamente la libertà come volontà razionale, come pensiero universale autoconsapevole. Perciò Hegel respinge sia le concezioni giusnaturaliste sia quelle contrattualiste (entrambe fanno dello Stato un “ente artificiale” fondato sull’individuo) in nome della priorità (di derivazione aristotelica) della dimensione pubblica su quella privata. La razionalità dello Stato moderno si manifesta proprio in quanto, attraverso le sue articolazioni istituzionali, si pone come una soggettività autonoma che sa governare l’ordine oggettivo rendendolo funzionale al raggiungimento dei propri fini. Perciò la sua legittimazione dipende in modo direttamente proporzionale dalla conformità del suo agire alla volontà libera dei cittadini, almeno nella misura in cui essi, essendo moralmente responsabili e giuridicamente relazionati, si sanno elevare all’universale. Di qui la concezione della costituzione, come organizzazione interna rispondente allo “spirito del popolo”. In quanto soggetti individualmente compiuti in se stessi e autonomi, gli Stati si relazionano tra loro in modo esteriore per cui, fermo restando il principio della sovranità

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di ciascuno, essi stabiliscono relazioni sulla base esclusiva del proprio arbitrio particolare. Lontano dalle utopie pacifiste, in assenza di una volontà generale internazionale e di un valido ordinamento cosmopolitico dotato di un adeguato potere, Hegel vede nella guerra l’unico modo reale per risolvere le controversie tra Stati. Sulla scena della “storia del mondo”, l’unico giudice è lo “Spirito universale”, che si sviluppa nel tempo incarnandosi via via in singoli popoli, cui è affidata la funzione di portatore dello Spirito attraverso il ruolo di dominanza sugli altri. Il popolo dominante possiede un diritto assoluto solo in virtù del fatto di essere l’unico «rappresentante del presente grado di sviluppo dello Spirito del Mondo»: esso però è solo uno strumento (esaurito il suo compito, verrà posto ai margini del progresso ulteriore e cederà il passo ad altri popoli) all’interno di un orizzonte contrassegnato da un marcato teleologismo, per cui la storia, come ierofania o storia dello Spirito, è tesa alla realizzazione della libertà (nel senso dell’affermarsi dei concreti istituti etici): elevandolo al punto di vista dell’universale essa appare all’uomo dominata non dal caso o dall’accidentalità (che la renderebbe “un grande mattatoio”) ma da uno sviluppo razionale. Gli individui e i popoli che in epoche diverse sono chiamati, attraverso il conflitto, a realizzare questo sviluppo, lo fanno in modo inconsapevole (le loro motivazioni sono le passioni, i bisogni, gli scopi particolari nella loro immediata manifestazione), ma a un livello di progettualità più elevato essi sono degli strumenti di cui la ragione si serve astutamente in vista dell’attuazione dei suoi obiettivi universali. Come il sole anche lo svolgimento della storia procede da oriente a occidente, secondo una scansione quadripartita che vede prima l’affermarsi del regno orientale (dove regna il dispotismo, la “libertà di uno solo”), poi il predominio greco (in cui la libertà è privilegio pochi), quello romano (con il riconoscimento dell’astratta libertà giuridica dell’individuo sottomesso allo Stato) e infine il dominio germanico (in cui finalmente la libertà è riconosciuta a ogni singolo in quanto ente spirituale dotato di valore universale). 3. Con la “storia universale”, lo Spirito oggettivo tocca il suo culmine, divenendo, avendo realizzato la propria aspirazione all’universale, Spirito assoluto. A questo punto l’idea giunge all’autoconsapevolezza, cioè comprende di essere l’essenza di tutto il reale, mentre nella natura e nei gradi inferiori dello Spirito coglie i momenti necessari di

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questo risultato. Esso si mostra nelle forme dell’arte, della religione, della filosofia, che non si distinguono per il contenuto del loro sapere ma solo per la modalità con cui lo esprimono. L’arte è «l’intuizione concreta e la rappresentazione dello Spirito assoluto in sé come dell’ideale», che essa coglie in forma immediata in rapporto a una materia sensibile. Il concetto risulta in questa fase alienato nel sensibile come momento necessario del suo sviluppo. Anche l’arte, in quanto sua rappresentazione, segue lo sviluppo storico dello Spirito, scandendosi in arte simbolica (propria dell’Oriente e caratterizzata dalla preminenza della forma sul contenuto), classica (sviluppatasi nel mondo greco-romano e caratterizzata dall’armonia tra i due fattori), romantica (espressione della moderna Europa cristiana e in cui il contenuto si presenta come preminente per l’infinita ricchezza sulla forma). Se molte pagine delle Lezioni di estetica sono dedicate all’analisi e alla descrizione del “sistema delle arti” (che parte da quelle in cui la forma sensibile è percepita dai sensi della vista e dell’udito e culmina con la poesia, in cui lo spirito si libera dalla materia esterna per esprimersi nella dimensione più propriamente interiore), una particolare attenzione ha suscitato nella trattazione hegeliana la cosiddetta tematica della “morte dell’arte”, espressione deputata a descriverne lo stato nell’età moderna, segnato dalla perdita di capacità espressiva e di funzione in merito al vero e al suo sapere. Nel momento della religione il concetto (l’Assoluto, Dio) è espresso in forma di rappresentazione: perciò attraverso essa tutti possono accedere alla verità. In questa posizione Hegel prende le distanze sia dall’illuminismo (e dalla sua critica scettica in nome di un astratto deismo o di una supposta religione naturale) sia dal Romanticismo (che con ➔ Schleiermacher aveva indicato nel sentimento l’origine della religione), evidenziando l’intrinseca razionalità delle rappresentazioni religiose (che naturalmente toccano il loro culmine con il cristianesimo, la più spirituale tra le religioni, i cui dogmi si prestano a una compiuta reinterpretazione filosofica). Solo nella filosofia il contenuto ideale (inadeguatamente colto nell’intuizione sensibile e nella rappresentazione) si esprime nell’adeguatezza del concetto, quindi in forma assoluta. In essa infatti lo spirito assume se stesso come proprio oggetto, si sa nella modalità più piena. Essendo la ragione una,

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Heidelberg, Scuola di

anche la filosofia è una: le varie filosofie non sono allora che «il proprio tempo appreso in pensieri», espressioni dello sviluppo storico dello spirito (con ciò essendo ogni epoca più matura della precedente, ogni filosofia è la confutazione dell’antecedente, di cui conserva il nucleo logico inverandolo in un orizzonte speculativo e sistematico più ampio) che esse mirano a comprendere «quando una figura della vita è invecchiata». La filosofia è dunque chiamata ad apprendere e a cogliere il senso razionale già maturato nella realtà, a «conoscere, nella parvenza di ciò che è transeunte, [...] l’eterno che è presente». In questo senso può suonare quale cifra riepilogativa il principio fondamentale che stabilisce (contro l’utopistico e individualistico dover essere, ma anche contro il conservatorismo reazionario) che ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale: esso stabilisce sia che la ragione deve necessariamente oggettivarsi, che l’idea si autorealizza, sia che la realtà (ma non per questo ogni suo aspetto empirico, ogni esistente nella sua accidentalità) ne costituisce la rivelazione. A coloro che sono mossi dalla esigenza di conoscere, la filosofia offre, insieme con il «mantenere in ciò che è sostanziale la libertà soggettiva», il dono più raro: «la conciliazione con la realtà». Heidelberg, Scuola di

➔ Neokantismo

Heidegger, Martin Filosofo tedesco (Messkirch, 1889 - Friburgo, 1976). Nato da una famiglia cattolica di modeste condizioni, dopo la maturità classica si iscrisse alla facoltà di teologia dell’università di Friburgo in Brisgovia, per poi passare a filosofia, dove si laureò nel 1913, sotto la guida del neokantiano Rickert, con una tesi su La dottrina del giudizio nello psicologismo. Nel 1915 ottenne la libera docenza con un lavoro su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Per Heidegger sono decisivi gli anni friburghesi dal 1915 al 1923, soprattutto perché incontra Husserl con cui instaura un rapporto di viva amicizia e di stretta collaborazione intellettuale. Attraverso l’apprendistato filosofico con Husserl, Heidegger comincia a delineare e a maturare un proprio, originale pensiero. Nei corsi in qualità di libero docente (1919-23), Heidegger intreccia un fitto dialogo con alcune figure e momenti-chiave della storia della filosofia (Aristotele, il neoplatonismo, Agostino), esercitando e mettendo alla prova la fecondità del modo di vedere fenomenologico. Il successo nell’insegnamento gli val-

Heidegger

se la nomina di professore straordinario a Marburgo (1923-28), in un ambiente culturale assai ricco e stimolante, dove lavorò insieme al teologo Bultmann, coltivando una folta schiera di allievi di alto livello (Löwith, Gadamer, Arendt, Jonas). Qui pubblicò, nel 1927, Essere e tempo, la sua prima, grande opera. Fin dall’inizio, essa indica il tema centrale, unico, che ossessiona il pensiero di Heidegger: la questione del senso dell’essere. Secondo Heidegger, l’intera metafisica ha ridotto l’essere a semplice ente, considerandolo alla stregua di una cosa; un errore in cui è incorsa per aver privilegiato, della temporalità vista come orizzonte di comprensione ontologica, solo un’estasi, quella del presente, dimenticando le altre (passato, futuro). Di qui l’essere concepito, in via esclusiva, come stabile, sicura presenza. L’obiettivo di Heidegger consiste nel “ridestare”, nei suoi termini esatti, la questione ontologica, partendo da quell’ente che solo si pone la domanda sul senso dell’essere, l’unico che si interroga intorno al proprio essere, e cioè il Dasein (l’esserci, l’uomo). Vengono così definiti i caratteri che qualificano l’esistenza, che è il modo di essere dell’uomo. Esistenza vuol dire “essere-nel-mondo”, dove per mondo si deve intendere una totalità di significati, un insieme di cose dotate di un uso, di strumenti che “servono-per”. L’esserci si prende cura del mondo, ha da sempre una familiarità con esso, è aperto a esso. Questa apertura si articola anzitutto in due determinazioni esistenziali: il “sentirsi situato” e il “comprendere”, poi raccolte e dispiegate dal “discorso” (logos). Il “sentirsi situato” esprime la “gettatezza” dell’esserci, il suo essere immerso in un mondo che non ha scelto, in cui si trova secondo delle “tonalità affettive”, degli stati d’animo (noia, interesse, indifferenza ecc.) spesso indipendenti dalla sua volontà. Attraverso il “sentirsi situato” l’uomo esperisce la propria condizione di passività esistenziale, la propria “effettività”. Il “comprendere” mette in luce l’altro versante, quello attivo e produttivo, dell’esistenza. Per suo tramite, l’esserci apre e scopre il mondo, trascendendo ciò che è dato qui e ora, per lanciarsi in avanti, verso le possibilità. L’esserci, in un tale proiettarsi “a nord del futuro”, acquista la configurazione di un progetto. Ma per lo più l’uomo, piuttosto che vivere come un autentico poter-essere, versa in uno stato di “deiezione”, perso nel “si” anonimo e impersonale della quotidianeità-media (il mondo del “si fa così”, del “si pensa così”, del “ci si comporta così” ecc.). Solo assumendo in proprio, e

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cioè progettando la gettatezza in cui è, l’esserci compone un’esistenza autentica. E tale operazione è resa possibile dalla decisione anticipatrice per ciò che il singolo uomo ha di più proprio e irriducibile, di assolutamente non trasferibile: la morte. Questa, in qualità di possibilità autentica, in quanto necessariamente ultima ed estrema, consente un’esistenza che, non cristallizzandosi in una possibilità qualsiasi assunta come definitiva, rimane progettualmente aperta a tutte le possibilità date nel mondo. Essere e tempo, pur nella sua grandezza, è un’opera incompiuta. Heidegger, infatti, non riuscì a far seguire all’analitica esistenziale, com’era nelle sue intenzioni, un’ontologia fondamentale, che aveva il compito di tematizzare e mettere a fuoco il rapporto tra l’essere e la temporalità piena (un problema che impegnò la sua successiva meditazione). Nel 1928 Heidegger ritornò a Friburgo per ricoprire la cattedra di Husserl, resasi vacante a seguito del pensionamento del maestro. Gli anni friburghesi risultarono per lui particolarmente intensi. Nel solo 1929 diede alle stampe diversi lavori di alta tensione speculativa – Che cos’è la metafisica?, Dell’essenza del fondamento, Kant e il problema della metafisica –, che approfondivano quanto affrontato in Essere e tempo, e che lo portarono alla rottura umana e intellettuale con Husserl. Nell’aprile del 1933 Heidegger fu nominato rettore dell’u-

Esistenzialismo Il tema dell’“esistenza” e i suoi rapporti col mondo S. KIERKEGAARD (1813-1855) Copenaghen N. BERDJAEV (1874-1948) Mosca-Parigi K. BARTH (1886-1968) Basilea K. JASPERS (1883-1969) Heidelberg G. MARCEL (1889-1973) Parigi M. HEIDEGGER (1889-1976) Friburgo in B. J-P. SARTRE (1905-1980) Parigi N. ABBAGNANO (1901-1990) Torino L. PAREYSON (1918-1991) Torino R. BULTMANN (1918-1991) Marburgo

Heidegger

niversità. Il discorso d’insediamento L’autoaffermazione dell’università tedesca non lasciava molti dubbi intorno alla sua adesione al movimento nazionalsocialista, di cui divenne membro nel maggio di quell’anno. L’impegno istituzionale e politico durò poco, perché già nel febbraio del 1934 si dimise dalla carica di rettore, riprendendo i suoi studi. A guerra conclusa Heidegger liquidò questo controverso coinvolgimento politico con una lapidaria quanto laconica affermazione: «È stata una sciocchezza». Il fallimento del rettorato coincise con una crisi del suo pensiero, stigmatizzata con il termine “svolta” (Kehre). Essa non designa una rottura speculativa con la riflessione passata. Per Heidegger infatti, la questione ontologica rimane identica e costante, diverso è solo il modo di avvicinarla. Si tratta, ora, di “pensare l’essere senza l’essente”, cioè di cogliere il senso dell’essere senza dover passare, come accadeva in Essere e tempo, attraverso un’indagine rivolta alle cose e che faceva perno sull’analitica esistenziale. Il secondo Heidegger ripartì da qui, con la Lettera sull’“umanismo” (1947), dopo un lungo silenzio interrotto solo da qualche lavoro minore (Dell’essenza della verità, 1943; La dottrina platonica della verità, 1942; La poesia di Hölderlin, 1944). Dopo essere stato sospeso dall’insegnamento (1945) dalle forze alleate a causa dei fatti del rettorato, riprese l’attività didattica nel 1952, in qualità di professore emerito, radicalizzando i temi e i motivi concettuali già articolati e presentati nel corso delle sue lezioni friburghesi (1930-45). Attraverso una fitta serie di scritti, composti in un’ampia scansione temporale (Sentieri interrotti, 1953; Introduzione alla metafisica, 1953; Saggi e discorsi, 1954; Che cosa significa pensare?, 1954; Il principio di ragione, 1957; Identità e differenza, 1957; In cammino verso il linguaggio, 1959; Nietzsche, 1961; Tempo ed essere, 1969), diede vita a un’intensa, travagliata esperienza di pensiero, fatta di correzioni e revisioni continue, sempre “in cammino”, mai definitiva. Rifiutando anzitutto l’identità essere-presenza, Heidegger restituisce all’essere il suo significato “verbale” transitivo, sottolineandone la differenza rispetto all’ente: «Noi non diciamo: l’essere è, [...] ma “si dà” essere». L’essere è un dare che concede e arreca presenza all’ente, indica il destinare, l’inviare che porta l’ente a comparire, a manifestarsi. Esso è l’Aperto che consente alle cose di prendere corpo e di venire alla luce: «chiamiamo questa apertura che sola con-

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cede la possibilità di lasciar-apparire o mostrare la radura (Lichtung)». Il darsi di queste aperture storico-destinali entro cui le cose appaiono e acquistano senso, l’offrirsi dei luoghi in cui c’è accadimento di verità, non è nient’altro che evento (Ereignis) dell’essere. E l’uomo è appropriato a tale evento, vi appartiene. È gettato nella “radura” come un progetto estatico, ossia aperto alla comprensione del senso dell’essere, in suo attento ascolto, perché l’essere “parla”. In questa prospettiva, l’esserci diventa un interprete, chiamato a cor-rispondere al messaggio dell’essere, portandolo al linguaggio. È per questa ragione che l’ultimo Heidegger si impegna in un serrato confronto con il dire condensato nella tradizione filosofica (dai presocratici a Nietzsche) e con la parola dei poeti, in quanto modi privilegiati d’accadimento della verità dell’essere. E tuttavia nell’esercizio di questa attività ermeneutica l’uomo va incontro a difficoltà. Se la metafisica è storia dell’oblio dell’essere, allora come sarà possibile coglierne, se non proprio la voce, almeno l’eco? Per tentare di dare una risposta, Heidegger mostra che l’essere ha un carattere epocale: nell’aprire gli slarghi, entro cui viene alla presenza l’ente, esso si occulta e si trattiene: «l’essere si distoglie e si sottrae nell’assenza». Nel darsi delle varie epoche della storia della metafisica, l’essere si sospende. Non è un caso che in Occidente (Abendland, letteralmente “la terra della sera”), in cui la metafisica è nata e ha attecchito, domini incontrastata la logica del nichilismo: la riduzione a niente dell’essere, la sua dimenticanza. L’una e l’altra cosa coincidono. Nell’Occidente l’essere tramonta, viene meno, si spegne. Questa terra è sotto il segno della tecnica. Nella sua essenza, essa è l’insieme del porre, del disporre e del provocare, dove tutto è calcolo e pianificazione, dove tutto è ridotto a cosa da manipolare, è, in una parola, “impianto” (Gestell). Nella tecnica la metafisica raggiunge il suo compimento: l’essere diventa cosa, da sfruttare a fondo, riserva da esaurire. Dinanzi a questo stato di cose, Heidegger è convinto che il compito del pensiero consista nel “rammemorare” (Andenken) l’oblio dell’essere, nel fare cenno verso il suo distogliersi: «il pensiero scorge l’essenza dell’essere nell’estremo sottrarsi dell’essere stesso». Non solo, Heidegger ritiene, seguendo Hölderlin, che «là dove massimo è il pericolo cresce anche ciò che salva». Proprio nel mondo della tecnica dispiegata, dove si realizza la vocazione nichilista dell’Occidente, accade «un primo, incalzante lampeggiare

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dell’Ereignis». Sia nell’“impianto” che nella tradizione metafisica l’essere non «rimane velato in assoluto», c’è in essi un suo tenue “rilucere”, per quanto quasi inappariscente. Il pensiero, allora, non risulta solo memoria di un’assenza, evocazione di qualcosa di perduto – per Heidegger l’essere non si è mai dato in tutta pienezza –, ma ricordo di «qualcosa di poco conto», che nel darsi si ritrae; il pensiero diventa, come dice Heidegger nel suo ultimo seminario tenuto nel 1973, una “fenomenologia dell’inapparente”. Esso acquista i connotati di un’ermeneutica minimale, ponendosi in ascolto delle più piccole, quasi impercettibili, vibrazioni dell’essere, si fa interpretazione dei suoi ambigui cenni, dei suoi incerti segni. Di qui l’approdo apofatico, prossimo al silenzio, della meditazione del tardo Heidegger, una meditazione impervia e sperimentale, dai tratti esoterici, preda di una profonda indigenza linguistica, alla ricerca di una parola all’altezza dell’evento discosto dell’essere. Heisenberg, Werner Karl Fisico tedesco (Würzburg 1901 - Monaco di Baviera 1976), professore in varie università tedesche e americane, premio Nobel nel 1933, tra i fondatori della meccanica quantistica. Il suo nome è legato soprattutto alla formulazione del principio di indeterminazione, che ha portato a una profonda rielaborazione delle strutture categoriali della ricerca scientifica. Esso consegue da un parziale rifiuto del concetto di misurabilità delle grandezze di un sistema fisico, consistente nella critica della convenzione per la quale è possibile, almeno in linea di principio, effettuare tale misurazione senza alterare lo stato del fenomeno esaminato. In realtà questo non è possibile, in quanto si verifica sempre una interazione (particolarmente rilevante nel mondo microscopico) tra lo strumento con cui si effettuano le misure e i corpi su cui vengono effettuate. Il calcolo delle matrici (che Heisenberg utilizzò per la misura dei fenomeni subatomici) sostituisce alle grandezze caratteristiche della meccanica classica quadri di numeri che, pur obbedendo alle stesse equazioni formali delle grandezze della meccanica classica, non soddisfano alla proprietà commutativa della moltiplicazione (e ciò corrisponde all’impossibilità di misurare simultaneamente con esattezza le due grandezze in questione). Ne deriva la crisi del determinismo tipico della fisica classica fondata sulla possibilità di determinare simultaneamente posizione e quantità di moto di un corpo, in quanto l’atto di

Heller

misurazione di una delle due grandezze interferisce necessariamente sull’altra: nella nuova fisica è perciò necessario sostituire leggi statistiche alle leggi rigorose, ponendo in questione anche il concetto di causalità nel suo valore assoluto e definitivo (e di conseguenza la capacità previsionale) che nella fisica tradizionale era legato alla possibilità di isolare un sistema e di individuarne tutti gli elementi costitutivi (possibilità venuta meno, tranne casi speciali, nella meccanica quantistica). Di qui la polemica di Heisenberg contro la tendenza (frequente tra i neopositivisti) a fissare una volta per tutte il cammino della scienza, erigendo uno degli schemi teorici affermatosi in un periodo storico determinato come paradigma di ricerca di valore assoluto. Heller, Ágnes Filosofa ungherese (Budapest 1929). Allieva di ➔ Lukács, ha fatto parte di quel gruppo di intellettuali (filosofi, economisti, sociologi) che fino agli anni Settanta ha costituito la cosiddetta “Scuola di Budapest”. Quando nel 1973 le sue posizioni teoriche, giudicate “revisioniste”, le sono costate l’espulsione dall’Accademia delle scienze ungherese, è emigrata in Australia prima per approdare in seguito alla New School for Social Research di New York, dove ha occupato la cattedra intitolata alla Arendt. Partendo dalle ricerche della scuola, che, polarizzando l’attenzione sui temi antropologici ed etici del giovane Marx (e del giovane Lukács), miravano a una critica dell’alienazione politica ed economica e più in generale a un’indagine estesa alle condizioni della vita quotidiana individuale (approdando ad avanzare esigenze di democrazia e uguaglianza effettiva nei Paesi del blocco comunista fino a porre capo a una “rivoluzione sociale totale”), la Heller (che del gruppo è stata la personalità più originale e rappresentativa) si è mossa nella direzione di un rinnovamento della filosofia teso a renderla capace di comprendere ed esprimere le esigenze dei movimenti socio-politici reali (siamo negli anni intorno al ’68, della primavera di Praga e degli altri movimenti di dissenso in Europa). Tale progetto di rinnovamento è stato perseguito con l’impiego di una pluralità di strumenti teorici, dalla fenomenologia alla sociologia critica di Adorno, Fromm e Mills: il frutto più maturo di questo periodo (in precedenza aveva scritto su L’etica di Aristotele e L’uomo del rinascimento) è La teoria dei bisogni in Marx (1968) dove è sostenuta la teoria dei “biso-

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Heller

gni radicali”, quelli che si generano nell’ambito stesso del capitalismo e che comportano la rivoluzione del suo modo di vita (non solo delle forme politiche). Partendo da qui la Heller sviluppa il discorso abbracciando i temi della critica della vita quotidiana (svolta anche nella Sociologia della vita quotidiana, 1970) e della centralità dell’individuo sociale, che vengono trattati nella loro specifica origine marxiana (in particolare dei Grundrisse, considerati il luogo di maggior ricchezza del pensiero di Marx) fino a trovare il naturale sbocco nel decisivo tema del comunismo poiché «esclusivamente i bisogni radicali portano alla completa ristrutturazione del sistema dei bisogni». Infatti «solo i bisogni radicali possono far sì che gli uomini per soddisfarli realizzino una formazione sociale radicalmente diversa dalla precedente, il cui sistema dei bisogni – radicalmente nuovo – si differenzierà da quelli passati». Questo libro doveva costituire l’abbozzo di un più ampio studio della natura umana secondo una prospettiva storico-critica. Questo programma verrà in parte portato avanti dalla Heller dopo il trasferimento in Australia in lavori come Istinto e aggressività (1976), Teoria dei sentimenti (1978) Teoria della storia (1981). Progressivamente la Heller si stacca dall’ortodossia marxista e dall’idea della centralità del lavoro e della produzione nella spiegazione dei fenomeni sovrastrutturali per dare spazio al tema della ragion pratica, intesa nel senso della elaborazione del rapporto tra individuo e genere dalla prospettiva dell’evoluzione culturale dell’intera umanità. Avvicinatasi in tal modo alle dottrine di Habermas e Apel sulla comunicazione e l’interazione sociale, è venuta teorizzando una fondazione dei valori sulla base di una razionalità diffusa nell’ambito di una ideale comunità democratica (Filosofia radicale del 1978, Il potere della vergogna del 1983). L’ultima produzione del periodo americano vede accentuarsi l’interesse per la filosofia morale (anche per effetto dell’influenza delle idee degli intellettuali di quell’ambiente accademico: Rorty, Rawls, MacIntyre) in opere quali Al di là della giustizia (1987), Etica generale (1989) e soprattutto Filosofia morale (1990). In quest’opera, dopo aver preso atto del declino definitivo di ogni ordine di tipo trascendente, la Heller ritiene necessario partire dall’accettazione del mondo, come insieme contingente di possibilità senza un fine determinato, per operare una scelta esistenziale orientata verso l’ideale di una “vita

Helmholtz

buona e retta”, che evitando i riduzionismi utilitaristici e razionalistici approdi invece alla visione di un’etica non-direttiva, tollerante e laica. Helmholtz, Hermann Ludwig Ferdinand von Fisico e fisiologo tedesco (Potsdam 1821 - Berlino 1894). Conseguì vari risultati in elettrologia e in ottica, e fu suo merito l’aver scoperto che il fondamento della metrica è nella proprietà del trasporto dei corpi rigidi cosicché le geometria metrica appare come un ramo della fisica matematica. In fisiologia la sua fama è legata alle ricerche sulla percezione visiva (affermò l’esistenza sulla retina di tre recettori – la cui stimolazione produrrebbe la sensazione del rosso del verde e del blu – cui corrisponderebbero tre tipi di attività suscitati nella corteccia cerebrale) e su quella acustica (scoprì l’origine delle differenze di timbro). Meccanicista convinto, espose un programma di riduzione di tutti i fenomeni naturali a movimenti di materie dotate di forze, dai quali deriverebbero il principio di conservazione della forza e l’equivalenza di calore e lavoro meccanico: in questo quadro fece rientrare anche i processi metabolici e in genere quelli biologici. Da questo punto di vista von Helmholtz fornì una visione materialistica del kantismo (la sensazione dipende dalle fibre nervose e dalle loro connessioni), rifiutando l’apriorismo dello spazio e del tempo quali prodotto di elaborazione in relazione alla fisiologia degli organi di senso. Helvétius, Claude-Adrien Filosofo illuminista (Parigi 1715-1771), si è occupato di tutti i temi discussi nella Parigi del tempo (teoria della conoscenza, filosofia del diritto, progettazione sociale ed educativa ecc.) in stretto dialogo con gli altri philosophes, con cui ha collaborato per tutta la vita, anche nel contesto del suo celebre salotto. È autore di Dello Spirito (1758) e di L’uomo, le sue facoltà intellettuali, la sua educazione (pubblicato postumo nel 1773). Vicino al sensismo di ➔ Condillac, sviluppò a fondo la concezione illuminista dell’eguaglianza, allo scopo di riprogettare una società che consentisse (anche attraverso l’educazione) la realizzazione della natura umana nella sua pienezza. Hempel, Carl Gustav Filosofo della scienza ed epistemologo tedesco (Orianenburg 1905 - Princeton 1997). Allievo di ➔ Reichenbach e membro del Circolo di Berlino, dopo l’avvento del nazismo si trasferì negli

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Stati Uniti dove insegnò a Princeton e Pittsburg. Tra i maggiori esponenti del neopositivismo, ne avviò il processo di revisione interna, criticando la rigidità dell’originario principio verificazionista (l’unità minima di significato da sottoporre a verificazione non è la singola proposizione ma il sistema enunciativo nel suo complesso) e proponendo una più accurata analisi dei concetti di conferma e grado di conferma. Attento al problema della spiegazione, ne ha considerato l’eterogeneità logica in rapporto ai diversi campi disciplinari, indagando in particolare quello storico: qui, dato un insieme di condizioni iniziali accertate (explanans) e un insieme di regolarità con valore di legge (leggi di copertura), uno stato di cose (explanandum) risulta spiegato non se è logicamente deducibile dall’explanans, ma ammettendo solo l’elevata possibilità di tale deduzione, poiché in questa disciplina le leggi di copertura hanno solo un valore probabilistico-induttivo. Hemsterhuis, Frans Filosofo olandese (Franecker 1721 - L’Aia 1790), tra i maggiori esponenti dell’illuminismo in Germania, Paese dove visse a lungo e dove, attraverso il “circolo di Münster”, esercitò una certa influenza (su Herder, Jacobi, Schlegel, Novalis e in genere sul nascente romanticismo). Pur legato al sensismo e all’empirismo settecenteschi, sviluppò (in diverse opere, la più celebre delle quali è la Lettera sull’uomo e i suoi rapporti, che fu commentata da Diderot) anche delle dottrine originali, tra cui quella del cuore come “organo morale”, che ci fa sentire in rapporto con le cose, la nostra esistenza e la nostra tendenza alla perfezione. Infatti nel nostro animo è presente una forza di attrazione che ci spinge a unirci a ciò che ci è più simile: poiché desiderio e amore sono in sé indeterminati, noi tendiamo a un fine assoluto, trovando pieno appagamento solo in Dio (quindi la religiosità dell’uomo non necessita di una rivelazione ma scaturisce spontaneamente dalla coscienza). Questo orientamento si esplica anche sul piano estetico, giacché la tendenza dell’anima a ritrovare un principio superiore di armonia e ordine (non di qualità ma di essenze quali appaiono all’occhio divino) nell’universo fornisce una spiegazione al sentimento del bello. Herbart, Johann Friedrich Filosofo e pedagogista tedesco (Oldenburg 1776 - Gottinga 1841), professore a Gottinga e a Königsberg. Ostile all’idealismo, si riallacciò a Kant concependo la filosofia come elaborazione di concetti che rendono pensabile l’esperien-

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za, anche se, avendo luogo solo nella mente, non ne esprimono l’essere reale. Sotto questo aspetto la scienza si distingue dall’opinare comune in quanto si fonda sulla logica, che la costringe a organizzarsi in modo rigoroso in una serie di inferenze deduttive concatenate non contraddittoriamente; i diversi punti di vista disciplinari sono resi omogenei attraverso il “metodo delle relazioni”. Herbart chiama reali la molteplicità delle cose in sé di cui ci è ignota l’intima essenza: rispetto a essi l’esperienza si rivela accidentale e incongruente e i concetti con cui la rappresentiamo (movimento, mutamento, temporalità ecc.) meramente fenomenici, anche se la loro valenza razionale è garantita dall’intelligibilità dello spazio e del tempo quali ordini di aggregazione e interazione tra i reali. I rapporti causali sono validi solo per il soggetto conoscente, che di fronte al loro numero infinito li deve considerare come meri punti di vista (ma ciascuno è solo uno dei possibili rapporti tra i reali in gioco) contingenti, anche se ciascuno di essi contiene un rinvio al reale. Così la conoscenza scientifica si presenta come capacità interpretativa sostenuta dall’esperienza di un oggetto che è fenomeno di una pluralità di reali. Di qui il passaggio alla psicologia, che ha come scopo l’individuazione delle modalità che strutturano i fenomeni dello spirito, dato che quest’ultimo non è che una massa di rappresentazioni aggregatesi stabilmente in modo meccanicistico secondo la legge per cui esse si impediscono in quanto opposte e si compenetrano in quanto non lo sono. La psicologia fonda la concreta strutturazione della conoscenza scientifica poiché i concetti si generano psicologicamente nel rapporto con il dato empirico: in tal modo Herbart apre la strada sia alle ricerche di ➔ Wundt ed Ebbinghaus sia alle interpretazioni fisiologiche del kantismo di ➔ Helmoltz e Lange. Herder, Johann Gottfried von Filosofo e letterato tedesco (Mohrungen 1744 - Weimar 1803), in rapporti con i maggiori intellettuali del tempo. Il Diario del viaggio che egli fece nel 1769 da Riga a Nantes testimonia già della sua sensibilità preromantica, che si esprime anche in progetti di rinnovamento pedagogico. La sua attenzione fu però concentrata su tutto ciò che costituisce l’elemento individuale delle varie civiltà, in particolare il linguaggio, considerato un organismo vivo e frutto di una creatività originaria, evidente soprattutto nella poesia ingenua e popolare. L’interpretazione

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dei testi antichi deve perciò avvenire dall’interno, collocandoli nella loro epoca storica in cui ci si deve calare per coglierne le peculiarità specifiche e irripetibili. Herder nega sia che si possa intendere la ragione senza il linguaggio, sia che essa costituisca una facoltà separata dalle altre (Herder polemizzò in questo senso con Kant), essendo anzi la forma particolare in cui è organizzata tutta la vita psichica umana a partire dalle sue forme più elementari (impulsi, sentimenti, desideri ecc.). Di qui una concezione della conoscenza come una sorta di appropriazione, che sa cogliere una serie di rapporti sempre più complessi fino a comprendere la realtà come totalità organica che l’uomo riassume in sé. Da queste premesse si intende la concezione della storia: Herder respinge l’idea illuministica di un progresso rettilineo dovuto solo alla ragione astratta e in cui ogni epoca realizzi un incremento di perfezione e felicità rispetto alla precedente. Partendo da una comprensione effettiva delle varie forme di cultura irriducibili l’una all’altra, Herder sostiene che ogni età e ogni popolo ha una propria perfezione che li differenzia da tutti gli altri e in base alla quale soltanto deve essere giudicato. Comprensione e influenze reciproche sono possibili in quanto ciascuna epoca, come ciascun individuo, non è che la variazione di un unico tema, l’umanità: la sua realizzazione sinfonica, insieme estetica ed etico-religiosa, è dunque il fine della storia. Hess, Moses Filosofo tedesco (Bonn 1812 - Parigi 1875), è uno degli esponenti della sinistra hegeliana. Sostenne (ne La triarchia europea del 1841) che l’emancipazione dell’umanità può essere attuata solo da una trasformazione radicale della società e non da riforme politiche o religiose, non solo dalla critica ma anche con l’azione. Da questo punto di vista criticò la concezione feuerbachiana dell’alienazione religiosa, e auspicò l’avvento del socialismo, che egli concepì in termini essenzialmente morali ed educativi come espressione delle tendenze altruistiche dell’uomo. Dopo la rottura con Marx ed Engels, si dedicò a studi scientifici ed ebraici, pubblicando Roma e Gerusalemme (1862), considerato tra i testi fondativi del sionismo. Hilbert, David Matematico e logico tedesco (Königsberg 1862 - Gottinga 1943), professore a Gottinga, capo della scuola formalista e tra i grandi esponenti del movimento di ricerca sui fondamenti della matematica.

Hillman

Nei Fondamenti della geometria (1899) compì una approfondita analisi dei postulati su cui questa disciplina si regge, riducendo tutta la materia a un rigoroso sistema formale logico-assiomatico, privo di entità intuitive “evidenti” (punti, rette, piani). Di qui la sua prospettiva antilogicista e la considerazione delle teorie matematiche (teoria degli insiemi, analisi ecc.) come pure strutture assiomatico-deduttive. Poiché non esistono termini primitivi di contenuto intuitivo, essi non hanno altro significato se non quello dato dalle reciproche relazioni logiche, e quindi possono ricevere diverse interpretazioni (algebriche, geometriche, analitiche ecc.) in base agli assiomi assunti (perciò tutti i sistemi di enti che soddisfano le condizioni poste dagli assiomi rendono veri anche i teoremi): pertanto «ogni teoria può sempre essere applicata a infiniti sistemi di enti fondamentali». Le proprietà di tali sistemi devono essere la non-contraddittorietà (da un sistema non devono essere derivabili due proposizioni contraddittorie), la completezza (per ogni proposizione iscrivibile nei termini concettuali del sistema, essa o la sua negazione deve essere derivabile dagli assiomi) e l’indipendenza (nessun assioma del sistema deve essere derivabile dagli altri). Poiché, secondo la prospettiva analitica, degli assiomi della geometria è possibile dare un’interpretazione aritmetica, la contraddittorietà dell’una avrebbe dovuto apparire nell’altra: perciò Hilbert si propose di raggiungere una completa assiomatizzazione dell’aritmetica dimostrandone la non-contraddittorietà mediante una metateoria assolutamente certa. Basata su una lista finita di simboli combinati attraverso prefissate regole di inferenza e formazione, essa avrebbe presentato risultati definitivamente verificabili con manipolazioni determinate dei segni. Tutte le matematiche sarebbero state a questo punto varianti di questa metateoria combinatoria. Questo programma fu messo in crisi, ma anche chiarificato e per certi aspetti sviluppato, da ➔ Gödel. Hillman, James Psicanalista americano (Atlantic City 1926 - Thompson 2011). Di scuola junghiana, si è formato in Europa ed è stato un grande intellettuale che ha portato nella sua disciplina specialistica un patrimonio culturale di tipo filosofico (per esempio la tradizione neoplatonica), in grado di dare profondità e ampio respiro al lavoro di terapeuta. In Il mito dell’analisi (1972) ha criticato la pratica psicanalitica nei suoi presup-

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posti (essa mantiene uno schema metafisico che gerarchizza i suoi elementi andando dall’inconscio alla coscienza) e nei suoi metodi (essa privilegia la razionalità, ponendola al servizio dell’io). In realtà sotto accusa è il razionalismo astratto della nostra civiltà, vero nucleo di tutte quelle patologie che l’analisi pretenderebbe invano di curare nella misura in cui ne è essa stessa affetta (infatti vorrebbe bonificare l’inconscio attraverso il rafforzamento dell’io). Convinto che sia necessaria una terapia non solo del paziente ma anche delle idee, centro dell’elaborazione teorica di Hillman è la nozione di anima. Essa è un’attività essenzialmente poetica (la mente ha “una base poetica”) che converte i fatti in immagini, caricandole di valenze affettive e quindi conferendo a esse una capacità espressiva universale: per questo i miti e gli archetipi sono in grado di offrire, più che gli schemi concettuali, la trama della psiche con cui interpretare (data la loro natura semanticamente polivalente) il senso delle vicende. Il discorso sull’anima è dunque al centro dell’opera fondamentale di Hillman, Re-visione della psicologia (1975): esso dovrà essere condotto a partire dall’anima stessa, come realtà immaginativa e personificatrice universale, utilizzando quindi tutto il patrimonio di intuizioni della nostra tradizione, dai greci a Jung (vero padre fondatore della psicologia archetipica) passando per il rinascimento e i romantici. Come zona intermedia tra noi e gli eventi, essa, essendo in rapporto con la morte, approfondisce questi ultimi in esperienze attraverso la mediazione dell’immaginazione, dei simboli e delle metafore, producendo in tal modo un fecondo significato esistenziale che si comunica attraverso l’amore. Il razionalismo ha privato di simboli il mondo moderno, identificando la psiche con l’io soggettivo e quindi impoverendo l’esperienza interiore con la relegazione dell’immaginazione ai margini della vita sociale e culturale. Bisogna invece riattivare una “psicologia politeista”, nel senso di un passaggio dall’io (monoteismo) al noi, al pluralismo di forze e aspetti, di intenzioni e prospettive che la vita universale riverbera nella coscienza di ciascuno. Sotto questi aspetti la patologia non va considerata in termini negativi, poiché è al contrario la via con cui il divino (l’inumano) opera nell’anima. Su questa base teorica Hillman ha approfondito la natura dell’anima (Anima, 1985; Il codice dell’anima, 1996; La forza del carattere, 1999) e una serie di figure archetipiche

Hobbes

(Senex e puer, 1967; Il sogno e il mondo infero, 1979; Animali del sogno, 1997). Hobbes, Thomas Filosofo inglese (Westport 1588 - Hardwick 1679), massimo teorico dello Stato assoluto moderno. la vita. Dopo gli studi a Oxford, si legò alla nobile famiglia Cavendish, con la quale mantenne proficui rapporti per tutta la vita e dove svolse funzioni di tutore. In questa veste fece numerosi viaggi ed ebbe modo di attendere con calma agli studi. Ebbe rapporti con gli intellettuali più notevoli dell’epoca: conobbe personalmente Galileo e a Parigi, dove soggiornò a lungo durante la guerra civile nel suo Paese, fu introdotto nel circolo di padre Mersenne, che lo fece entrare in relazione con Gassendi e soprattutto con Cartesio, alle cui Meditazioni stese delle notevoli Obiezioni. Del 1640 è la sua prima opera, gli Elementi di legge naturale e politica, che contiene in sintesi la struttura della sua metafisica materialistica, cui è annessa un’interpretazione rigidamente naturalistica della vita politico-sociale. I temi in essa contenuti furono successivamente sviluppati in una trilogia (De corpore, De homine, De cive, stampati, non in ordine logico, tra il 1642 e il 1658) che espone in forma sistematica e organica tutto il suo pensiero. Rientrato a Londra, nel 1651, pubblicò il suo capolavoro, il Leviatano, che suscitò molte polemiche e l’accusa di promuovere l’ateismo. Del resto, l’orientamento deterministico della filosofia hobbesiana aveva suscitato reazioni negli ambienti ecclesiastici fin dagli anni dell’esilio francese: famosa la polemica con il vescovo di Derry sul problema della libertà del volere, cui Hobbes rispose con l’opuscolo Libertà e Necessità (sviluppato poi nell’opera Questioni concernenti Libertà, Necessità, e Caso). Malgrado la fama di spirito irreligioso e sovversivo gli procurasse fastidiosi attacchi da più parti, egli trascorse gli anni della Restaurazione in relativa tranquillità, componendo le sue ultime opere, tra cui Behemoth e il Dialogo tra un filosofo e uno studente del diritto consuetudinario inglese, che furono pubblicate postume. il pensiero. Il pensiero di Hobbes si presenta forte di una compattezza in grado di legare, in un unico filo sistematico, tutta la realtà (mentale, naturale, politica). Capovolgendo totalmente la prospettiva metafisico-teologica medievale, egli intende affrontare le due esigenze fondamentali dell’epoca moderna, quella scientifica e quella politica, sulla base di quel modello fisico-meccanici-

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stico che riconosce nella materia, nello spazio e nel movimento i soli principi esplicativi. La materia è l’unica sostanza, a essa si riporta ogni esistente come al puro principio del suo esistere: essa è dotata della fondamentale proprietà dell’estensione (come per Cartesio il vuoto non esiste) e al suo interno il divenire dei fenomeni è causato dal movimento. Spazio e tempo non posseggono una propria consistenza ontologica, ma sono astrazioni, enti immaginari (phantasmata) e soggettivi del corpo e del movimento. La convinzione che le leggi meccaniche siano universalmente applicabili, induce Hobbes a interpretare in questo senso i fenomeni biologici, organici e psichici. Il conoscere ha il suo fondamento nella sensazione, che a sua volta si giustifica con il principio causale del movimento: i corpi muovendosi e incontrando i nostri organi di senso, vi esercitano uno stimolo che genera le sensazioni. Queste ultime sono riducibili a moto, ma nel soggetto stimolato appaiono come immaginazioni. A questo apparire interno si riduce tutta l’attività mentale: infatti l’attenuarsi delle sensazioni trasforma il fantasma sensibile in immagini più trasparenti (quindi il sentire si trasforma in ricordare), queste si dispongono in serie riflettendo lo stesso ordine delle sensazioni che le hanno generate e si connettono in un discorso mentale comune a uomini e animali, mentre specifico dell’uomo è il discorso verbale. Mediante il linguaggio, le connessioni delle immagini sono tradotte in connessioni di segni, cioè in proposizioni affermative o negative (la verità quindi non è funzione della struttura ontologica del reale). L’attività ra-

Giusnaturalismo Lo studio del “diritto naturale” nell’età moderna U. GROZIO (1583-1645) Leida-Parigi Th. HOBBES (1588-1679) S. PUFENDORF (1632-1694) Heidelberg-Berlino J. LOCKE (1632-1704) Amsterdam-Londra J-J. ROUSSEAU (1712-1778) I. KANT (1724-1804) Königsberg J. FICHTE (1762-1814) Jena-Berlino

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zionale, che converte l’esperienza immediata nel tessuto logico costitutivo della scienza, si risolve nella costruzione del discorso e nella sua estrinsecazione linguistica. Ragionare è per Hobbes computare, cioè procedere a operazioni aritmetiche di nozioni mediante il linguaggio e i suoi termini generali, che possono essere applicati a una pluralità di cose singolari. Il valore estensivo dei nomi si esplica nella proposizione e nel sillogismo, che costituiscono così gli elementi del processo dimostrativo della scienza, processo dal carattere esclusivamente nominalistico e astrattamente mentale. La filosofia della natura, in coerenza con questa impostazione, è fondata sull’ipotesi metodologica della rerum annihilatio, un finto annientamento del mondo in seguito al quale un unico individuo sopravvissuto continuerà a concepire idee (fantasmi interiori) che gli appariranno come cose esterne e indipendenti dalla sua mente, cui imporrà nomi e con cui calcolerà. Allo stesso modo, pur in presenza delle cose, noi non procediamo se non al calcolo delle nostre idee: di qui l’autonomia assoluta della scienza dalla realtà. La teoria del movimento, concepito come relazione matematica costruita deduttivamente, garantisce l’accordo tra gli schemi esplicativi convenzionali e i processi reali, organizzati in una struttura concettuale tanto artificiale quanto controllabile dalla ragione. Hobbes non ammette altra esistenza che quella dei corpi, distinti in naturali e artificiali. Questi ultimi sono il risultato di un’operazione umana (quindi razionalmente interpretabili): tale risulta essere anche lo Stato. A monte si pone lo studio delle forme pratico-passionali della psiche. Se il conoscere si risolve in un moto dall’interno verso l’esterno, un moto inverso spiega i moti passionali e volitivi. Posto il cuore come centro vitale, essi sono la risultante dell’azione, eccitante (da cui il piacere, cui fa seguito il desiderio) o depressiva (da cui il dolore, cui fa seguito l’odio e l’avversione), esercitata dagli stimoli esterni sul moto vitale del cuore. In questo quadro è esclusa l’autodeterminazione dell’azione, mentre la libertà deve essere intesa come mancanza di impedimenti all’azione stessa. Con tali presupposti, il criterio etico di bene e male risulta meramente utilitaristico, legato a ciò che si desidera o si fugge. Dato che l’individuo è naturalmente spinto all’affermazione espansiva di se stesso, al centro della sua pulsionalità sta l’istinto di conservazione, non certo di socialità e benevolenza verso i propri si-

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mili: egli aderisce quindi all’organizzazione collettiva dello Stato per interesse e amore di sé. Hobbes vede nello Stato l’unica possibilità di pace, ordine e sviluppo degli individui. Ma i drammatici avvenimenti di cui egli è testimone lo rendono persuaso di una crisi ideologica che esige una nuova giustificazione dei rapporti sociali. Questa può trovare fondamento nel metodo galileiano di scomposizione e ricomposizione e in un modello logico costruito sul dualismo natura-cultura. La socialità non è una categoria innata dell’esistenza umana: se accogliamo l’ipotesi dello stato di natura, noi concepiamo una situazione in cui gli individui, mentre vivono in isolamento assoluto, godono di una condizione di uguaglianza, libertà e diritto illimitato di ognuno su tutte le cose. Ma di fatto lo stato di natura è intrinsecamente non realizzabile, per lo squilibrio tra la sconfinata pretesa dei singoli all’appagamento dei propri bisogni e la limitatezza dei beni a disposizione per soddisfarli, che genera uno stato di reciproca lotta e costante aggressività (bellum omnium contra omnes). Come via d’uscita da questa situazione, in netta collisione con il naturale istinto di conservazione, i singoli scendono a patti, obbligandosi a circoscrivere la sfera dei loro poteri e diritti naturali mediante l’alienazione di questi (a esclusione del diritto alla vita) nelle mani dello Stato e impegnandosi a rispettare i termini del patto. Nato dalla paura e delegato a proteggere la vita degli individui, lo Stato unisce le volontà dei cittadini in un’unica volontà (lo Stato-Leviatano è dunque un mostro, un organismo artificiale, la più grande macchina prodotta dal pensiero tecnico), senza comunque trasformare le tendenze egoistiche in altruistiche (la società non è altro che un aggregato atomistico di individui naturalmente asociali). Lo Stato manifesta la sua volontà (che grava su quelle individuali come una costrizione esteriore) attraverso le leggi civili emanate dal sovrano, che come unico legislatore è legibus solutus. La volontà del sovrano è l’unico criterio di giustizia (non ne esistono altri a cui l’individuo possa appellarsi per opporsi criticamente alle leggi: se ciò fosse possibile, lo Stato si dissolverebbe): quindi lo Stato è fonte di una nuova etica laica, mondana e convenzionale, che identificando l’uomo con il suddito finisce con lo stemperare la moralità nella legalità. Hobbes separa nettamente la sfera temporale da quella spirituale: il potere ecclesiastico è teso alla persuasione alla fede, la quale come non soggiace a costrizioni politiche così

Holbach

non può interferire con l’azione sovrana di uno Stato che, legittimato da una decisione razionale, ha in se stesso le regole della propria conservazione. Holbach, Paul-Henri Dietrich barone di Filosofo di origine tedesca (Heidesheim 1723 - Parigi 1789), ma vissuto quasi sempre in Francia, dove fu uno dei maggiori esponenti dell’illuminismo e collaboratore all’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, di cui fu amico. Nelle sue numerose opere (fra le quali: Cristianesimo svelato del 1761, Sistema della natura del 1770, La morale universale o i doveri dell’uomo fondati sulla natura del 1776) espose una concezione materialistica e atea della natura di cui l’uomo è parte integrante e alle cui leggi fisiche e chimiche è inevitabilmente sottoposto, sia per l’aspetto sociale sia per quello morale. Tutto in natura è in movimento (la materia stessa non è passiva ma dotata di movimento) e perciò anche i comportamenti umani si spiegano con i cambiamenti successivi dei rapporti del corpo con differenti punti dello spazio o con altri corpi: erroneamente si è quindi attribuito a una sostanza a parte (l’anima o spirito) la causa che produce i movimenti interni (passioni, volizioni, impulsi e lo stesso pensiero). In realtà tutto è prodotto deterministicamente (il libero arbitrio è un’illusione), basta distruggere le superstizioni (in particolare quelle religiose, da cui derivano l’assolutismo politico e la teocrazia) e conoscere le vere cause per giungere alla felicità stabile cui ognuno tende naturalmente. L’egoismo è superato in forza dell’istinto alla simpatia per i nostri simili: perciò d’Holbach finisce per fare l’elogio delle virtù civili e sociali, che consistono nel rendersi felici (nell’ambito di leggi e istituzioni idonee) mediante la felicità che si procura agli altri (il cristianesimo ha invece reso infelici gli uomini reprimendo le loro tendenze naturali). In questo senso compito della filosofia è emancipare l’uomo dalle imposture di cui è vittima, rendendolo padrone di sé attraverso la giusta conoscenza. Hölderlin, Friedrich Poeta tedesco (Lauffen am Neckar 1770 - Tubinga 1843). In amicizia con Schelling e Hegel al seminario teologico di Tubinga, elaborò con loro alcuni temi filosofici che verranno successivamente sviluppati in seno all’idealismo (vedi Il più antico programma dell’idealismo tedesco, di incerta attribuzione e difficile datazione, ma scritto di certo attorno al 1790). Fondamentale (anche se formulata

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in modo frammentario e asistematico in appunti lasciati allo stato di abbozzo) è la visione panteistica della realtà (influenzata dalla lettura delle Lettere sulla dottrina di Spinoza di ➔ Jacobi) concepita come Uno-Tutto, come organismo compenetrato in ogni aspetto dall’Intero di essa. L’Assoluto è dunque natura, Vita universale che si manifesta in infinite espressioni determinate, per cui il singolo individuo si trova in comunicazione immediata (non razionale, piuttosto affettiva) con il Tutto. Ne deriva la prospettiva di un’unione con esso come meta suprema per l’uomo, da attuarsi con un atto intuitivo e con l’entusiasmo estetico, con uno slancio continuo verso i suoi fondamenti che sono l’Amore e la Bellezza: ciò non significa approdo a una visione positiva della storia, dal momento che il destino umano è determinato dalle molteplici misteriose connessioni presenti nella Natura. Questa visione ha delle implicazioni politiche, come risulta dal romanzo epistolare Iperione (1794-95), in cui l’aspirazione giovanile a una rivoluzione che instauri una vita armonica e pacificata appare frustrata dalla mancanza di uno Stato organico che realizzi una comunità nazionale libera, lasciando come unica possibilità l’armonia degli spiriti da realizzare con l’educazione dell’umanità. Queste idee sono riprese nella tragedia Empedocle (1797-99) in cui il filosofo, che indica ai concittadini la meta di un’unione armoniosa con la natura e il divino presente in essa, deve constatare (fino alla propria rovina finale) l’irrompere di un destino segnato dalla scissione dell’essere, dalla perdita dell’armonia originaria, dall’abbandono degli dei, dalla separazione tra cielo e terra. Questa visione tragica circa il nostro mondo in un’età di povertà e oscurità è espressa anche nella sua opera poetica, composta di inni, odi ed elegie. Horkheimer, Max Filosofo e sociologo tedesco (Stoccarda 1895 - Norimberga 1973). È stato direttore dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte ed esponente di primo piano della ➔ Scuola di Francoforte. Emigrato in America per sfuggire al nazismo, ha scritto in quegli anni con Adorno uno dei saggi più celebri della scuola, Dialettica dell’illuminismo (1947). Nel 1968 un’ampia raccolta di suoi saggi è stata pubblicata col titolo Teoria critica. L’intestazione indica il taglio che Horkheimer ha dato per tutta la vita al suo lavoro di ricerca sociale e filosofica: oggetto di studio è l’uomo e la società, in particolare la cultura della ci-

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viltà moderna, letta e interpretata nell’ottica della tradizione filosofica tedesca (in particolare Schopenhauer e Marx) e della psicanalisi di Freud, alla ricerca degli impulsi che l’hanno determinata e delle dinamiche che l’hanno strutturata. La filosofia è innanzitutto intesa come opera di critica sociale, cioè di disvelamento delle condizioni che dominano l’uomo, in vista di un progetto di liberazione individuale e sociale, secondo le linee generali della Scuola di Francoforte. Huizinga, Johan Storico e filosofo olandese (Groningen 1872 - Arnhem 1945). Autore di fondamentali opere storiografiche sul medioevo e la prima età moderna (L’autunno del medioevo, 1919, un celebre saggio su Erasmo del 1925, ed altri), deve la sua fama in filosofia a un singolare saggio sul gioco (Homo ludens, 1938) in cui descrive un abbozzo di filosofia della storia dal punto di vista del passaggio tra la sfera della natura e quella della cultura attraverso la mediazione dell’impulso (insieme naturale e culturale) al gioco, identificato in moltissime attività dell’uomo nella storia. In particolare Huizinga, mediante moltissimi esempi storici e approfondite analisi psicologiche e sociologiche, mostra come il gioco consenta il passaggio dalla vita materiale alla vita spirituale. Humboldt, Karl Wilhelm von Filosofo, linguista, letterato e uomo politico tedesco (Potsdam 1767 - Tegel 1835). Nel suo Saggio sui limiti dell’attività dello Stato (1851, postumo), uno dei manifesti più alti del liberalismo politico, si sostiene che le funzioni dello stato devono essere circoscritte alla garanzia della sicurezza interna ed esterna, ma non estese alla cura del benessere dei cittadini (poiché in tal modo la loro iniziativa verrebbe meno) e a quella della sfera privata (difesa della religione, promozione dei costumi, educazione morale). Il suo pensiero è incentrato sull’idea di umanità, la cui formazione e realizzazione, se da un lato costituisce la storia (fatta perciò dalle nazioni e non dagli stati), dall’altro deve avvenire soprattutto attraverso i canali dell’arte, intesa come mezzo per suscitare uno stato d’animo volto alla percezione dell’universale nell’uomo e nella natura. Fondamentale per cogliere lo spirito di un popolo è il linguaggio: esso non è prodotto di un’attività volontaria, ma inconscia emanazione del suo spirito che, esprimendo la propria visione del mondo, condiziona la funzione stessa del pensiero. Perciò von Hum-

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bold si dedicò allo studio comparato delle lingue (dalle classiche alle amerinde, al basco, al giavanese, malese, sanscrito, cinese) nella convinzione che esse fossero rette, come organismi viventi, da leggi precise. Le sue idee sono a fondamento della linguistica, dell’etnolinguistica e della linguistica storica e comparativa contemporanee. Hume, David Filosofo scozzese (Edimburgo 1711-1776), illustre esponente della corrente empirista e dell’illuminismo inglese. la vita. Nato da una famiglia della piccola nobiltà, studiò giurisprudenza a Edimburgo, dove subì l’influsso del modello scientifico newtoniano. Studioso di autori classici (soprattutto Cicerone e Seneca) e moderni (in particolare gli scettici come Montaigne e Bayle), si appassionò alle problematiche sollevate dal pensiero di Locke e Berkeley, che gli rivelarono la sua vocazione filosofica. Viaggiò in Francia, e durante un soggiorno a La Flèche, all’ombra del grande Descartes, compose il suo capolavoro, quel Trattato sulla natura umana da cui si aspettava grande fama. Frustrato nelle sue aspettative, nel 1741 pubblicò dei Saggi morali e politici, composti in uno stile brillante, che ebbero un buon successo. Dieci anni dopo, rielaborata la materia del Trattato, la espose in forma accessibile al grande pubblico nella Ricerca sull’intelletto umano e sui principi della morale, mentre l’anno successivo pubblicò i Discorsi politici. Falliti più volte i tentativi di ottenere una cattedra a Edimburgo e a Glasgow, nel 1752 Hume ebbe finalmente un posto di bibliotecario: nella tranquillità economica poté dedicarsi alla stesura della Storia d’Inghilterra dall’invasione di Giulio Cesare all’ascesa di Enrico VII, che riscosse buoni consensi, ma anche critiche tanto aspre da indurlo alle dimissioni. Nel frattempo erano usciti nel 1757 le Quattro dissertazioni, delle quali la prima era l’importante Storia naturale della religione, mentre altre due Sul suicidio e su L’immortalità dell’anima furono ritirate. Esse furono poi pubblicate postume, come pure i Dialoghi sulla religione naturale che Hume non diede alle stampe per il timore delle polemiche e delle censure ecclesiastiche. Nel 1763, al seguito dell’ambasciatore Lord Hertford, Hume fu a Parigi, dove strinse amicizia con i maggiori esponenti dell’illuminismo. Al momento del rientro in Inghilterra, portò con sé Rousseau, che la marchesa di Verdelin gli aveva raccomandato per un soggiorno tranquillo: ma l’irrequietezza e le stranezze del ginevrino diedero vita a una situazione

Hume

spiacevole, che si concluse con una clamorosa rottura tra i due filosofi. Avvertiti nel 1775 i primi sintomi di un tumore al fegato, Hume, che già da qualche anno si era ritirato nella sua Edimburgo per dedicarsi esclusivamente agli studi, si preparò serenamente alla morte. il pensiero. Come recita il titolo della sua opera più importante, l’intento di Hume è di delineare, all’interno della tradizione empiristica inglese, la “natura umana” mediante un’analisi rigorosa e fondata sul metodo scientifico newtoniano. Nel presupposto che la natura umana sia uniforme, l’indagine parte dalla mente, i cui contenuti sono le percezioni. Queste ultime sono distinguibili, in base al doppio criterio dell’attualità e della forza, in impressioni e idee: mentre le prime sono costituite da percezioni (passioni, immagini ecc.) immediatamente presenti alla mente (l’istantaneità è perciò testimonianza irrefutabile della presenza dell’oggetto) e dotate di vivacità, le seconde sono riflessioni posteriori, che hanno origine quando la sensazione è già passata nella memoria e si presentano come copie sbiadite e illanguidite dell’originale. Poiché le idee dipendono sempre dalle corrispondenti impressioni, si potrà procedere a una loro critica per chiarirle e per controllarne la validità risalendo alle loro matrici e confrontandole con esse. In questo senso assume un ruolo fondamentale l’immaginazione, la quale da un lato comunica alle idee il vivo “senso di realtà”, riconducendole alla loro fonte originaria e concreta, e dall’altro elabora, per mezzo della memoria (che riproduce la successione dell’originario presentarsi di impressioni e idee), l’esperienza passata, alimentando mediante l’aspettazione quella futura. L’immaginazione è un’attività produttiva, perché associa le idee (che di per sé sono del tutto singolari e irrelate), sia scomponendole sia componendole, e determina la formazione di idee complesse unendole in rapporti fondati su precise leggi di associazione (Hume si presenta come il Newton del mondo psicologico) per le quali la mente passa quasi inavvertitamente da un’idea all’altra. Tali leggi sono la somiglianza, la contiguità spaziale e temporale, la causalità. Le idee generali o astratte non esistono (nominalismo radicale): analogamente al linguaggio, dove una parola si riferisce sempre a un individuo ma può evocare qualsiasi altro della stessa classe, esse non sono altro che idee particolari assunte come rappresentanti di un insieme di individui tra loro somiglianti. Tuttavia, la mente umana

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è in grado di elaborare, proprio sulla base della somiglianza, articolati sistemi di idee complesse: queste costruzioni artificiali costituiscono sia le scienze naturali sia pseudo-scienze come la metafisica, in cui si impiegano termini per indicare entità fittizie (per esempio la sostanza, le essenze ecc.). Anche spazio e tempo si rivelano, a un esame critico, nient’altro che ipostatizzazioni astratte rispetto all’esperienza: si presentano come rapporti, rispettivamente di coesistenza e di successione, tra le impressioni. Alle idee di spazio e tempo non può corrispondere nessuna impressione dalla quale possa ricavarsi l’una o l’altra, ma è il loro insieme che produce quel modo di percepire la realtà. Hume ammette due forme fondamentali di conoscenza: quella che si esplica in confronto tra idee e quella che istituisce, in riferimento all’esperienza, un legame tra cose o “materie di fatto”. La prima, propria della matematica, è astratta (in quanto prescinde dal legame tra le idee e le impressioni corrispondenti: infatti anche le idee della matematica hanno un’origine empirica), ma necessaria, in quanto fondata sui principi formali della logica secondo cui, date determinate idee, non sono possibili relazioni contrarie a quelle poste tra esse. La seconda è concreta in quanto concerne le cose di fatto, le nostre conoscenze sperimentali, i rapporti tra impressioni particolari e contingenti che però, non dipendendo da principi razionali, sono solo probabili. Questa alternativa posta da Hume tra le due forme eterogenee di conoscenza è destinata a rimanere inconciliabile, in quanto la matematica è inefficace per la spiegazione della realtà e non ha quindi alcun valore per la crescita delle scienze naturali. Esse fondano la loro capacità esplicativa e previsionale sulla relazione di causa-effetto, alla quale, per la sua rilevanza e per le sue implicazioni, Hume dedica un’ampia analisi. Egli incomincia con il polemizzare contro il concetto metafisico di causalità, per il quale tale rapporto è concepito come invariabile e necessario: ma nulla nell’esperienza giustifica l’ammissione di questa necessità. Si può parlare al massimo di una costanza, finora sperimentata nella successione di due idee e perciò appunto di probabilità. Ma bisogna fare un passo ulteriore e considerare che l’idea stessa di causalità richiede la presenza di tre condizioni: contiguità spazio-temporale, successione temporale, congiunzione costante, cui si deve aggiungere la connessione necessaria. Esclusa la sua ori-

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gine a priori, non resta che constatare quella a posteriori. In effetti l’esperienza ci pone di fronte, nel rapporto tra due idee, ad alcune circostanze (contiguità spaziale, successione temporale, congiunzione costante), senza fornirci però alcuna giustificazione di ciò che qualifica in modo specifico la causalità: il vincolo necessario tra causa ed effetto. Noi chiamiamo causa l’antecedente ed effetto il conseguente di due eventi che si succedono costantemente e in contiguità spazio-temporale, la necessità non è altro che una conclusione cui la nostra mente è spinta dalla forza dell’abitudine. Il rapporto causale, che noi pensiamo di ricavare induttivamente dall’esperienza, è dunque una credenza psicologica formatasi nel corso dell’osservazione ripetuta di casi simili, e non una conoscenza incontrovertibilmente provata: la scienza deve dunque sostituire la spiegazione in senso deterministico con una in senso puramente probabilistico e statistico. Le sue leggi, lungi dal conservare un valore assoluto e oggettivo, diventano generalizzazioni semplicemente probabili e perciò fallibili. Del resto molti atteggiamenti umani sia conoscitivi che pratici sono fondati proprio sulla credenza (belief, fiducia, fede), che appartiene alla sfera di un sentire tutto istintuale: essa, in quanto dotata di una forza tutta particolare, ottiene un primato sulla ragione, di cui riduce le pretese di costruire un sapere universale e necessario. In tal modo Hume getta la basi di una concezione antimetafisica che coinvolge anche l’idea cartesiana di sostanza pensante e quella di esistenza materiale e di permanenza degli oggetti esterni. Per quanto riguarda la sostanza pensante, l’esperienza che abbiamo del nostro io si riduce al flusso delle nostre stesse percezioni: esso quindi non è una sostanza ma un “fascio di impressioni” in continuo cambiamento e unificate dalla inclinazione associativa della nostra immaginazione (cadono quindi le tesi sull’immortalità e l’immaterialità dell’anima). Analogamente, l’idea di una sostanza materiale consiste in una collezione di idee semplici unificate dalla nostra immaginazione, dato che ciò che noi cogliamo della realtà non è altro che un insieme di impressioni e di idee. Domandarsi se i corpi esistano o no è perciò inutile: infatti noi non percepiamo propriamente i corpi, ma solo impressioni che penetrano nei sensi (è la mente che attribuisce loro esistenza corporea, anche se poi non può mai darcene la certezza razionale così come non può forni-

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re alcuna prova che siano essi la causa delle nostre percezioni). Reale è dunque solamente ciò che viene percepito, hic et nunc; vero è ciò che si consegue nell’attimo dell’impressione. Perciò ogni generalizzazione e anticipazione del futuro si istituisce e si regge su nessi fittizi o probabili: le costruzioni della metafisica sono infondate e incerte le idee del senso comune. Perciò le conclusioni di Hume sono chiaramente scettiche: la sussistenza, l’unità e l’ordine del mondo naturale, l’esistenza oggettiva delle cose oltre le impressioni che ne abbiamo, la stessa possibilità per l’uomo di porsi come soggetto di conoscenza e autoriflessione, tutto è fonte di dubbio e incertezza. Tuttavia questo scetticismo teorico, pur invitando a una maggiore consapevolezza dei limiti della ragione e dell’esperienza umane, non è in grado di modificare l’atteggiamento pratico del vivere quotidiano, che è rivolto ai fini della sopravvivenza e che ha bisogno di determinate “certezze”. Contro ogni possibile dubbio, l’istinto a credere «tanto in un mondo esterno quanto in un mondo interno» è forte e ineliminabile: esso dunque deve essere considerato nella sua utilità pratica e non va respinto. L’uomo però deve abbandonare la pretesa di possedere verità certe e indubitabili, e adeguarsi a trattarle per ciò che sono, pregiudizi dovuti alle nostre passioni e ai nostri istinti. Forte di questi presupposti generali, Hume può affrontare le questioni legate agli altri campi in cui si esplica la “natura umana”: la morale, la politica, la religione, l’estetica. In ambito etico egli respinge sia l’indirizzo razionalistico sia quello giusnaturalistico, in vista di una ricognizione esaustiva dei fattori caratterizzanti e motivanti l’azione umana, che vanno ricostruiti nella loro genesi e nella loro natura. Perciò il suo atteggiamento sarà descrittivo e non prescrittivo, mentre il suo scetticismo moderato lo induce ad assumere una linea mediana tra l’ottimismo di ➔ Shaftesbury e ➔ Hutcheson e il pessimismo di ➔ Hobbes e ➔ Mandeville: i comportamenti umani sono ambigui e polivalenti perché guidati da cause molteplici. Queste sono costituite soprattutto da passioni, che vanno studiate per individuarne le leggi, in modo analogo a quanto accade degli altri fenomeni naturali. La loro natura è di essere impressioni, cioè percezioni dotate di forza, ma interne: non derivanti dalla conoscenza, sono impulsi che non trovano il loro fondamento nella ragione che dunque può influire sulle azioni (essa ci informa su ciò che suscita la nostra passione e ci

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indica i mezzi per soddisfarla) ma non determinarle (la ragione non può produrre volizioni o passioni, impedire le une e annullare la preferenza per qualcuna delle altre). Classificate le passioni in violente e tranquille, semplici e complesse, derivanti dalle relazioni col mondo esterno e da un istinto naturale originario, l’etica trova il suo fondamento nel sentimento: l’agire umano è governato fondamentalmente dalla componente istintuale e affettiva (desideri, passioni ecc.). Ciò significa che i nostri giudizi di valore non rispondono ai criteri razionali del vero e del falso (accordo o disaccordo tra idee) e che non esiste un conflitto tra ragione e passioni, così come non esistono “misure eterne” del giusto o dell’ingiusto o norme universali che possano proporsi come moventi necessari e obbligatori dell’agire. In realtà noi troviamo virtuosa una data azione solo se lo è il suo movente: ma ciò dipende solo da impressioni diverse e soggettive. L’esperienza però ci mostra che queste ultime sono sempre associate a piacere e dolore, per cui un’impressione che nasce dalla virtù è piacevole, una che nasce dal vizio è spiacevole. Bisogna tuttavia precisare che la natura specifica del sentimento morale consiste nel partecipare al dolore o alla felicità dei nostri simili con atteggiamento disinteressato. È questo il sentimento naturale della simpatia, che, operando in modo tale che gli individui «siano come specchi gli uni per gli altri» e trasformando il sentimento altrui in un sentimento nostro, risulta la vera fonte della valutazione morale: mediante essa limitiamo gli interessi egoistici e operiamo collettivamente (cioè politicamente: Hume è dunque ostile alla teoria contrattualistica e razionalistica di Hobbes e Locke) secondo criteri di rispetto e giustizia, peraltro nella consapevolezza che l’interesse privato (benessere e felicità individuale) è più durevolmente assicurato in quello pubblico. Moderata in sede pratica, la posizione di Hume diventa radicale in rapporto al problema religioso. La sua critica corrosiva non solo demolisce le religioni rivelate (e la loro pretesa di essere avvalorate da eventi miracolosi), ma anche gran parte delle concezioni deiste. Da un lato Hume mostra l’insostenibilità di un fondamento razionale delle credenze religiose: in particolare egli confuta le prove dell’esistenza di Dio sia a priori (essendo l’esistenza di Dio una verità di fatto e non di ragione, l’argomento ontologico non regge, poiché non esiste essere la cui inesistenza implichi contraddi-

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zione) sia a posteriori (la presenza del male collide con la presenza di un essere infinitamente potente, buono e provvidente; l’analogia tra i manufatti causati dall’intelligenza umana e l’universo come prodotto di un divino architetto e ordinatore è del tutto arbitraria), concludendo in un prudente agnosticismo. Dall’altro cerca di giustificare il motivo (ovviamente istintivo e passionale) per cui gli uomini sentono universalmente il bisogno di una fede religiosa. Le credenze religiose nascono dall’incertezza e dalla precarietà delle vicende quotidiane: gli uomini, spinti dalla paura e dalle speranze per il proprio futuro, oltre che dall’ignoranza delle cause degli eventi terribili della natura, tendono a formarsi un’idea di divinità che possono essere influenzate con preghiere e sacrifici e altre pratiche propiziatorie per poter migliorare la propria vita (ciò spiega l’inseparabilità di religione e superstizione). Proprio la necessità di intrattenere rapporti strumentali e di scambio con il soprannaturale giustifica, secondo Hume, il passaggio dal politeismo al monoteismo (politicamente pericoloso in quanto il monoteismo è intrinsecamente intollerante): è stata l’esaltazione utilitaristica di una particolare divinità su altre a produrre l’esagerazione delle sue qualità fino a riconoscere a essa l’attributo sommo dell’unicità. Indifferente verso questo mondo di superstizioni e fanatismi, lo scettico si ritira «nelle calme regioni della filosofia», comprendendo e rispettando però benevolmente tutte le convinzioni spontanee nate dal naturale istinto di sopravvivenza. Husserl, Edmund Filosofo tedesco (Prossnitz 1859 - Friburgo 1938), fondatore della fenomenologia e della relativa scuola fenomenologica. la vita. Nato in Moravia da un’agiata famiglia ebraica (nel 1887 ricevette poi il battesimo nella Chiesa luterana), si laureò dapprima in matematica con Weierstrass a Berlino e poi in filosofia a Vienna sotto l’influsso di Brentano. Docente prima a Halle poi a Gottinga (dal 1901) e infine a Friburgo (dal 1916), dove si stabilì definitivamente. Autore di una Filosofia dell’aritmetica (1891), incominciò a delineare la propria posizione teoretica originale con le Ricerche logiche (1900-01), cui diede espressione definitiva, dopo alcuni lavori preparatori, tra cui L’idea della fenomenologia del 1906, La filosofia come scienza rigorosa del 1910, con le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913 vol. I, voll. II e III po-

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stumi, 1952). Anche dopo la messa a riposo per sopraggiunti limiti d’età nel 1928, continuò a tenere, malgrado i nazisti lo avessero radiato dall’università, lezioni e conferenze (da cui sarebbero poi scaturiti i volumi Meditazioni cartesiane (1931) e La crisi delle scienze europee (1935), pubblicata postuma nel 1954. Gli allievi Landgrabe e Heidegger pubblicarono, con la sua approvazione, alcuni manoscritti, rispettivamente Esperienza e giudizio (1939) e Lezioni sulla coscienza interna del tempo (1928). Alla sua morte lasciò circa 40 00 pagine autografe e stenografate contenenti le sue ricerche e riflessioni, ricche di spunti e tematiche, che furono salvate dai nazisti e custodite a Lovanio, dove sono state successivamente studiate e in parte pubblicate. il pensiero. Quando a Vienna Husserl assisteva alle lezioni di Brentano, restò colpito dalla nozione di intenzionalità che connota i fenomeni psichici, cioè il loro riferirsi a qualcosa di immanente come loro specifico oggetto, in base alla quale la ricerca psicologica non si dirige sulle cose esistenti all’esterno, ma sul modo in cui esse appaiono nell’orizzonte intenzionale del soggetto che le esperisce, ossia sulle strutture di ordine fenomenico, risalendo per astrazione dall’oggetto alle operazioni psichiche fondamentali, alla loro genesi e al loro significato. In questa prospettiva, Husserl pensò in un primo tempo di poter fondare le scienze logico-matematiche e i loro concetti di base, che sfuggono a ogni definizione logico-formale, sulla psicologia. Le critiche di ➔ Frege (che recensendo la Filosofia dell’aritmetica faceva osservare che il concetto di numero è irriducibile a fatto psichico) lo convinsero però a mutare orientamento teoretico in un senso maggiormente “oggettivistico”. Nelle Ricerche logiche, Husserl mostra da un lato l’impossibilità di ridurre le leggi logiche (che sono necessarie e universali) a leggi psicologiche (che sono induttive), invitando dunque a non confondere i fatti psichici con il significato logico che in essi si manifesta; dall’altro mira a ricercare quest’ultimo nella sfera del significato in quanto tale (non identificabile con la cosa conosciuta, motivo per cui l’empirismo ha negato l’esistenza di concetti universali). Noi possiamo avere significati universali, in sé, indipendenti ma non separati dagli oggetti, quelli che poi potremo chiamare essenze o idee (eida), apprendibili mediante una intuizione categoriale o eidetica (diversa da quella empirica, che comunque deve sempre essere presupposta come conditio sine qua non) che sa

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coglierli a partire da (ma appunto anche in connessione con) gli oggetti empirici. Husserl precisa che non si tratta di separare da un oggetto le qualità comuni ad altri della stessa classe, ma di un originario modo di vedere (in questo senso la fenomenologia si propone di pervenire “alle cose stesse”). La nuova disciplina che egli si appresta a fondare mira alla descrizione delle essenze, che costituiscono le strutture costanti dell’esperienza e perciò l’oggetto autentico del sapere: l’intuizione delle essenze è il fondamento dell’a priori, in quanto sarà possibile formulare proposizioni universali e necessarie soltanto nella misura in cui queste si fonderanno su essenze e non su fatti. Poiché le cose si presentano secondo diversi modi d’essere, questi saranno oggetto, quali “regioni” della realtà, di specifiche descrizioni (ontologie regionali). Rispetto alla prima fase del suo pensiero, Husserl mantiene nelle Ricerche logiche il tema dell’intenzionalità della coscienza, cioè la proprietà essenziale per cui essa non è una tabula rasa priva di oggetto ma sempre coscienza-di-qualcosa. Il significato non è parte costitutiva della coscienza ma un suo correlato intenzionale, tanto che è possibile distinguere in essa un aspetto per cui costituisce un complesso di fatti psichici (o “vissuti”, Erlebnisse, che non sono quelli della psiche individuale ma le articolazioni interne che la coscienza in quanto tale ha e non può non avere, che esista oppure no), e un altro per cui nella coscienza un oggetto è presente, qualcosa si mostra. In una fase successiva Husserl chiamerà noesi l’atto intenzionale di coscienza, noema ciò che vi è presente, così come con lo sviluppo della sua riflessione diverrà sempre più chiaro che la coscienza di un oggetto è insieme coscienza dei modi che vi sono impliciti secondo un loro senso a tal punto che essi travalicano l’oggetto percepito e lo rendono possibile in quanto costituiscono la sua unità di senso. Perciò l’intenzionalità non è statica coscienza-di, ma un superamento dinamico e continuo di se stessa. Essa non è, ma funge (e perciò Husserl la chiama fungente) perché in ogni esperienza l’intenzionalità funge come progetto implicito (e in ciò è intriso delle esperienze precedenti che si sono depositate in quella attuale) e come sguardo retrospettivo (per cui il progettare implica sempre coscienza del passato). L’oggetto è allora colto nel pro-getto delle sue possibili esplicitazioni e insieme nella storia che vi è sedimentata. Ciò significa che la temporalità (da Husserl sondata fin

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Husserl Fenomenologia Lo studio della scienza dei fenomeni puri M. SCHELER (1874-1928) Monaco-Francoforte E. HUSSERL (1859-1938) Friburgo E. STEIN (1891-1942) Gottinga-Münster N. HARTMANN (1882-1950) Gottinga M. MERLEAU-PONTY (1908-1961) Parigi E. FINK (1905-1975) Friburgo M. HEIDEGGER (1889-1976) Friburgo J-P. SARTRE (1905-1980) Parigi E. LÉVINAS (1905-1995) Parigi P. RICŒUR (1913-2005) Parigi

dagli anni 1904-05) è la dimensione specifica della coscienza, e pertanto il tempo costituirà uno dei temi principali di ricerca della scuola fenomenologica. Il progressivo distacco di Husserl dalla psicologia lo obbliga tuttavia a interrogarsi sulla natura della filosofia e sul suo ruolo rispetto alle altre scienze. Nel famoso saggio del 1910 La filosofia come scienza rigorosa egli la definisce appunto “scienza rigorosa”, assegnandole il compito di definire kantianamente una critica della ragione in seguito alla quale si determinino le condizioni di possibilità della scientificità del sapere. Fare filosofia significa allora tendere a una forma di sapere che, diversamente da quello quotidiano, sia in grado di garantire la propria validità oggettuale, indipendente cioè dalle condizioni contingenti in cui il singolo soggetto la apprende. Poiché nell’età moderna la qualifica di “scienza” è stata assegnata solo alla ricerca empirica e alle discipline positive, Husserl, che ritiene illusoria la fede nella loro capacità epistemologica, si pone in netto contrasto con il neopositivismo e con lo storicismo. Al primo rimprovera di mantenere una matrice naturalistica che riduce tutte le questioni relative al sapere a questioni di carattere psicologico affrontabili con i metodi delle scienze della natura e perciò fondate su fatti empirici; al secondo contesta la tendenza a cadere inevitabilmente nello

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scetticismo e nel relativismo nel momento in cui pretende di assolutizzare la vita dello spirito e le sue formazioni storicamente date. In entrambi i casi ne scaturisce un sapere contingente e condizionato, per nulla dotato di quella oggettività a cui aspirerebbe. I filosofi naturalisti fraintendono la nozione di scientificità perché la desumono non da concetti, ma dal dato storico di quei fenomeni sociali che chiamiamo scienza, non riconoscendo dunque che nessuna scienza dei dati di fatto può divenire fondamento di un sapere che ha per oggetto principi e leggi generali, norme valide a priori. In che cosa consiste il rigore della filosofia? qual è il carattere specifico della sua scientificità? A queste domande Husserl cerca di rispondere a più riprese, dal saggio citato fino alle Idee, seguendo la stessa linea argomentativa. Due sono gli atteggiamenti, diversi e tra loro inconciliabili, che si possono assumere di fronte alla realtà data nell’esperienza: uno ingenuo (o dogmatico), che accetta come ovvia l’esistenza del mondo esterno e si limita a indagare il suo funzionamento (questo atteggiamento, per noi più naturale, si è trasmesso anche alle scienze positive, che partono dall’assunto dell’attendibilità di ciò che appare all’esperienza), e uno critico, che si chiede a quali condizioni avvenga che noi assumiamo come reale l’esistenza del nostro mondo. Questo è l’atteggiamento della filosofia, che appunto pone in questione ciò che viene dato per scontato nell’atteggiamento dei più, per cui essa adotta uno sguardo diverso da quello delle scienze empiriche anche qualora l’oggetto d’indagine sia il medesimo. I vissuti di coscienza vengono studiati dalla fenomenologia non come fatti ma come modalità a priori delle variazioni nello svolgimento della vita della coscienza, le sue forme essenziali che determinano il tipo e la validità delle conoscenze possibili col loro darsi immediato e puro in una visione d’essenza e col loro reciproco rapportarsi. Il fenomeno non è dunque identico all’oggetto reale extracoscienziale che esso manifesta, ma è esso stesso manifestazione di un oggetto (contenuto della coscienza stessa) nella sua essenzialità, identico all’oggetto nel modo in cui esso si dà. Perciò la fenomenologia, scienza eidetica di fenomeni puri, tratta l’esperienza immanente quando conduce esclusivamente una riflessione su se stessa ponendo a proprio oggetto i vissuti di coscienza, trascurando tutto ciò che li trascende e interessandosi solo dell’osservazione dei fenomeni attraverso cui si manifesta il

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mondo naturale. Diversamente dalle scienze empiriche, che presuppongono una realtà naturale, la filosofia come scienza rigorosa non deve presupporre nulla se non ciò che è apoditticamente evidente: le essenze si mostrano nel momento in cui “mettiamo tra parentesi”, sospendiamo il giudizio di fronte a tutto ciò che pur ammesso non è giustificato, dalle persuasioni del senso comune (che ci permettono di svolgere la nostra vita quotidiana) alle certezze scientifiche. Questo fondamentale e radicale strumento metodologico è chiamato da Husserl nelle Idee col termine greco epoché o con l’espressione “riduzione fenomenologica”: esso ci permette di passare dall’atteggiamento naturale all’autentico “mondo della vita”. Ciò che nella epoché viene posto tra parentesi non è l’essere del mondo, bensì soltanto la sua rappresentazione ingenua e naturale: dell’essere del mondo noi siamo assolutamente certi, perché qualsiasi domanda e qualsiasi indagine lo investe sempre. Attraverso l’epoché attingiamo la possibilità di conoscere il mondo del cui essere siamo certi nel suo vero essere, vogliamo penetrare nella coscienza che abbiamo del mondo e cogliere la vita che esperisce il mondo così come si presenta esplicitamente. Ciò che risulta in questa dimensione originaria è che il mondo non è una parte dell’io né l’io una parte del mondo: il mondo è solo per l’io in quanto gli è trascendente, l’io è soltanto in quanto si trascende costantemente verso il mondo. Certo Husserl riconosce l’affinità tra l’epoché e il dubbio di Cartesio, ma sottolinea anche come essa se ne differenzi sia per la maggiore valenza metodologica sia per l’eterogeneità del tipo di coscienza cui si perviene, ancora empirica in Cartesio in quanto ente del mondo (e perciò testa di ponte da cui si possa riconquistare il resto), trascendentale (in quanto fine e punto di partenza della problematica che indaga radicalmente la soggettività ultima che costituisce il mondo attraverso l’esperienza e la conoscenza) nella fenomenologia. Operata tale riduzione ciò che resta, o meglio, ciò che emerge è il campo trascendentale della coscienza pura, in cui sarà possibile l’intuizione originaria delle essenze nella loro manifestazione evidente. E se è evidente che un mondo appare, esso appare a una coscienza: e questo è il residuo fenomenologico dell’epoché, l’essere della coscienza, nella sua apodittica evidenza, l’unico essere indubitabile. Nelle Meditazioni cartesiane Husserl insiste nell’affermare che la coscienza in quanto trascendentale è altro dal mondo, anche

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se si tratta di una coscienza soggettiva, personale (ma per sfuggire alla difficoltà del solipsismo cartesiano o dell’impersonalità fichtiana, Husserl giunge infine a concepire la sfera della coscienza come una vera e propria intersoggettività, che si manifesta nel mondo della cultura – linguaggio, società, arte ecc. – quale costruzione collaborativa in un operare comune). In ogni caso, poiché l’epoché non modifica in nulla l’intenzionalità della coscienza, il dato originario e indubitabile risulta “ego cogito cogitata”, cioè l’oggetto è presente alla coscienza e non è una sua parte. E siccome tutto ciò che è dato è dato alla coscienza, esso è costituito nel suo essere dalla coscienza, che risulta perciò, in quanto pura, l’unica realtà originaria, mentre il mondo ne dipende geneticamente come prodotto della sua costituzione (non costruzione) a partire dagli atti della sua intenzionalità. In questo senso la fenomenologia si presenta come scienza descrittiva, perché l’analisi intenzionale considera l’unità della conoscenza e ne ricostruisce la “storia” indagando le sue implicazioni intenzionali. Resta in sospeso il problema se costituzione significhi creatività della coscienza (in tal caso la fenomenologia approderebbe a una forma di idealismo, come sembrerebbe da alcuni passaggi delle Meditazioni) o modo, condizione, in cui la coscienza apprende un oggetto come tale. Certo è che il secondo volume delle Idee tratta la ricostruzione fenomenologica degli strati fondamentali delle realtà mondane (materiali, animali, spirituali), mentre nel terzo si discute dei fondamenti delle scienze. Questo è anche il tema specifico trattato nell’ultima opera di Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Mentre l’identità europea viene proprio indicata nell’idea di ragione (logos), quest’ultima (insieme alla civiltà che le è connessa) entra in crisi non nel senso che le scienze empiriche, che sembrano esserne la massima espressione, non siano più in grado di progredire, ma perché si è smarrito il senso dell’oggetto di cui esse dovrebbero indagare un aspetto. Infatti si è assunta quale realtà originaria la “natura” come emerge dalla fisica galileiana; e a questa schematizzazione ingenuamente naturalistica e oggettivistica si è poi contrapposto un “soggetto” conoscitivo dotato di un apposito apparato categoriale funzionale al raggiungimento di quel risultato. In tal modo però tutto è stato ridotto a mera “cosa”, compreso l’uomo e la sua vita psichica. Un’autentica razionalità risulterà possibile

Hutcheson

solo nella misura in cui, risalendo alla radice dell’essere della natura e del soggetto, si possa vedere come si costituiscano questi termini, recuperando il “mondo della vita” e l’insieme delle operazioni precategoriali e originarie dei soggetti concreti nell’autenticità della loro dimensione storico-sociale. È questo il compito ideale assegnato da Husserl alla fenomenologia: riscoprire l’intenzionalità liberatoria del sapere (e perciò il senso delle scienze e il loro valore universale) nei confronti dell’umanità intera e con essa la comprensione del senso del mondo secondo il fine della ragione, così come era percepita in Grecia agli albori della civiltà europea. Hutcheson, Francis Filosofo inglese (Drumalig 1694 - Glasgow 1746), pastore presbiteriano e professore a Glasgow, dove diede inizio alla cosiddetta Scuola scozzese, influenzando pensatori quali Smith, Hume, Reid, Ferguson. Hutcheson sostenne una visione sostanzialmente deista, affermando che l’uomo possiede una nozione innata di Dio, senza bisogno di rivelazione, e un originario “senso morale” che percepisce e approva l’azione virtuosa, sganciata in tal modo da considerazioni tanto razionalistiche (il buono è dedotto dalla natura obiettiva) quanto edonistiche (le prescrizioni morali

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che regolano i rapporti sociali sono dedotte dall’egoismo). Il senso morale è piuttosto un’intuizione immediata, associata alla benevolenza quale sensus communis, tendenza istintiva verso gli altri e “affezione calma dell’animo” verso la felicità altrui, di cui spontaneamente ci rallegriamo (in questo senso il pensiero di Hutcheson precorre l’utilitarismo di ➔ Bentham). Tra le sue opere: Saggio sull’origine delle nostre idee della bellezza e della virtù (1725), Sistema di filosofia morale (postumo, 1755). Hyppolite, Jean Filosofo e storico della filosofia francese (Jonzac 1907 - Parigi 1968), professore a Strasburgo e alla Sorbona. Convinto che Hegel sia per l’età moderna ciò che Aristotele era stato per il medioevo, concentrò gli studi su di lui (e sulle correnti da lui derivate: marxismo, fenomenologia ed esistenzialismo), evidenziandone soprattutto l’aspetto antropologico e storico e contribuendo in tal modo (con Wahl e Kojeve) alla Hegel-renaissance. Tradusse e commentò la Fenomenologia dello spirito ritrovandone la matrice genetica nella formazione teologica e romantica dell’autore, ma evidenziando anche come sia la storicità (e non viceversa) il fondamento e la condizione dell’evoluzione della coscienza, che di quella è il presupposto empirico.

I Ideologi Gli ideologi (idéologues) sono quei pensatori francesi, attivi tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, che, sulla scia dell’insegnamento di Condillac e Helvetius, fissarono la loro attenzione sul problema dell’origine delle idee (l’appellativo tuttavia fu dato loro da Napoleone con il senso spregiativo di “intellettuali astratti”). La loro ricerca fu improntata a una gnoseologia sensista (il dato sensoriale semplice e il relativo atto del sentire danno luogo, per successive composizioni, a tutto il complesso dei contenuti psichici) per estendersi successivamente anche al campo della morale e della politica (viste come ideologia applicata, con esiti per lo più utilitaristici e liberalistici): essi perciò rifiutarono, insieme con la metafisica, anche i grandi sistemi e le complesse costruzioni degli illuministi della generazione precedente, per concentrarsi su ambiti d’indagine più circoscritti, di carattere in particolare sociale ed economico, in cui applicarono metodologie matematiche di elaborazione dei dati empirici e di calcolo statistico delle tendenze e delle probabilità. Essi intendevano così ricavare previsioni attendibili in campi per lo più considerati soggetti a variazioni imprevedibili e dunque non razionalmente controllabili. Condorcet, Destutt de Tracy (che coniò il termine ideologia), Cabanis, Say, Madame de Stael furono tra gli esponenti di maggior rilievo di questo gruppo. Ionica, Scuola Dizione che fa riferimento all’insieme delle personalità, delle ricerche e delle tradizioni di pensiero che Aristotele nella Metafisica considera come l’inizio storico della filosofia: non solo i filosofi di Mileto (Talete, Anassimene, Anassimandro), ma anche il mondo culturale della Ionia, da cui provengono moltissimi pensatori (per esempio Eraclito) attivi anche lontano da questi territori (come Senofane). La Ionia, va ricordato, è la regione di lingua e cultura greca che comprende le coste dell’Asia Minore e le isole egee dell’area, quindi a stretto contatto con le civiltà dell’Oriente. Il termine “scuola” va inteso in senso generico, come tradizione di metodi e ri-

cerche e atteggiamento comune di pensiero. Ipazia Filosofa neoplatonica (IV-V sec.), che visse e insegnò ad Alessandria con grande autorevolezza e circondata da grande stima. Nulla ci è rimasto dei suoi scritti che forse erano commenti a Platone ed Aristotele. Fu uccisa nel 415 da una folla di cristiani fanatici che la ritenevano responsabile delle difficoltà del prefetto (su cui evidentemente aveva un certo ascendente) verso il vescovo Cirillo. Ippia di Elide Filosofo greco (prima metà del IV sec. a.C.). Appartenne a quella corrente della sofistica che individuava il sapere come possesso di molteplici tecniche e, per questo, si riteneva in diritto di chiedere per le proprie lezioni un compenso doppio rispetto ad altri sofisti. Dai dialoghi di Platone (Ippia Maggiore, Ippia Minore) sappiamo che ebbe molti interessi, come l’astronomia e la matematica uniti a studi di musica, retorica e dialettica. Inoltre fu fine conoscitore di costituzioni e attraverso la loro analisi giunse a una critica etico-politica del diritto positivo. Infatti per Ippia vi è eterogeneità tra leggi scritte e norme non scritte che sono a fondamento naturale della condotta umana. Le leggi scritte sono fondate non sulla natura ma su un patto, perciò Ippia conclude che essendo «il simile parente del simile», gli uomini (che sono tra loro legati dalle naturali norme non scritte) sono «cittadini di un medesimo stato». Tale posizione innescò un dibattito sull’arbitrarietà del valore assoluto del diritto positivo e sulla contrapposizione tra nomos e physis. Ippocrate di Cos Medico greco (Cos 460 ca. - Larissa 377 ca. a.C.), appartenente al gruppo degli Asclepiadi, che esercitavano presso la scuola medica di Cos. Gli si attribuisce il Corpus Hippocraticum (72 libri contenenti 53 scritti, differenti tra loro per stile letterario) anche se solo alcuni testi di questo possono essergli attribuiti con certezza. Famoso è il Giuramento di Ippocrate, una specie di decalogo deontologico che il medico pronunciava e al quale prometteva di rimanere fedele durante lo svolgimento della professione.

Ippocrate di Cos

La ricerca di Ippocrate partiva dalla consapevolezza dell’unità organica dell’individuo e dal presupposto che fonte della vita fosse un’energia con lo scopo di regolare e armonizzare le funzioni vitali. La guarigione da una malattia era determinata dall’intervento di tale energia a riparare eventuali lesioni, a ripristinare l’armonia. Infatti si riteneva che l’organismo fosse dotato di quattro umori (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) il cui equilibrio fosse indice di

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Ippocrate di Cos

sanità. L’indagine di Ippocrate esulava da credenze supestiziose o religiose indirizzandosi allo studio empirico di casi clinici: per ognuno di essi si individuavano le cause probabili (sempre di origine naturale) delle patologie e, dopo un accurato esame della storia medica del malato (anamnesi) si stabiliva una diagnosi con relativa prognosi. La tecnica medica più usata per ristabilire l’armonia del tutto era una dieta equilibrata.

J Jacobi, Friedrich Heinrich Filosofo tedesco (Düsseldorf 1743 - Monaco 1819). Pur dedito all’attività commerciale, fece della sua casa un centro di intensissime relazioni culturali, intrattenendo rapporti con le più notevoli personalità dell’epoca. Dai forti interessi morali (espressi nei due romanzi Allvill e Woldemar dove, in polemica con la morale astratta dell’illuminismo, si esalta il “cuore” come fonte di principi etici puri e di azioni nobili), si accostò, dopo una celebre discussione con Lessing, al pensiero di Spinoza quale forma più coerente di razionalismo (inteso come processo dimostrativo del tutto esauriente, che trova nell’idealismo, da Kant a Fichte a Schelling, la sua più intrinseca prosecuzione), dimostrandone, in una serie di lettere a Moses Mendelssohn, l’inevitabile sbocco in un sistema monistico e deterministico e nell’ateismo. Secondo Jacobi, solo mediante un contatto immediato con la realtà (che è, sulla scorta di Hume, “fede comandata dalla natura”, e perciò distinta da quella specificamente religiosa), non sostituibile né confutabile dalla riflessione dell’intelletto, si può giungere al riconoscimento della libertà dell’uomo, della determinatezza del reale e della sua dipendenza da Dio. Sviluppando questa linea di pensiero, Jacobi venne sempre più distinguendo l’intuizione sensibile della realtà da quella sovrasensibile data alla ragione delle “cose divine” sovrasensibili e incondizionate che possiedono, come vero, buono, bello in sé, valore normativo. Jaeger, Werner Filologo e storico della filosofia tedesco (Lobberich in Renania 1888 - Boston 1961), allievo di Wilamowitz, professore in varie università tedesche e, dopo l’avvento del nazismo, americane. Ammiratore, sulla scorta della tradizione romantica, del mondo classico, ne cercò una comprensione intima indagandone il nucleo essenziale e i presupposti della formazione. Lungo questa direttrice egli studiò il pensiero di Aristotele, fornendone un’interpretazione genetica, e l’ideale educativo greco (la sua Paideia costituisce un grande tentativo di ricostruire la civiltà ellenica nel suo ideale di uomo che si realizza pienamente nella co-

munità). In queste indagini storiche è però implicita una prospettiva teoretica di tipo umanistico: Jaeger vede nella grecità il modello cui si deve tornare per salvare i più alti valori culturali e spirituali, oggi compromessi dal progresso tecnologico. James, William Filosofo e psicologo americano (New York 1842 - Chocorua nel New Hampshire 1910), fondatore del pragmatismo. la vita. Nato in un ambiente famigliare ricco di stimoli culturali, fece studi soprattutto all’estero (in Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra), laureandosi in medicina dopo il rientro in America. Dopo un periodo di depressione e crisi spirituale, incominciò nel 1876 la carriera accademica a Harvard, come professore di fisiologia prima, di filosofia e psicologia poi. Nel 1878 scrisse i Principi di psicologia, che gli diedero grande fama, mentre da alcune serie di conferenze (a Edimburgo nel 1901, al Lowell Institute nel 1906, a Oxford nel 1908) nacquero rispettivamente La varietà dell’esperienza religiosa, Pragmatismo e Un universo pluralistico. Altre opere sono La volontà di credere (1897), Il significato della verità (1909), Alcuni problemi di filosofia (1911), Saggi sull’empirismo radicale (1912, postumi). il pensiero. Apparentemente asistematico, il pensiero di James è pervaso da un atteggiamento unitario che si esprime nella fedeltà assoluta all’esperienza nella sua varietà poliedrica contro ogni atteggiamento riduzionistico. Questo orientamento appare già chiaro nella lunga polemica (condotta nei Principi di psicologia) con ➔ Spencer, di cui egli attacca la concezione delle strutture mentali come rispecchiamento di quelle del reale e come effetto dell’ambiente sul sistema nervoso: al contrario la mente non è in rapporto armonico con l’ambiente (in rapporto al quale deve tuttavia essere studiata) ma è “un’intelligenza intelligente” che, propostasi coscientemente dei fini, ne cerca la realizzazione attraverso un processo aperto sia al successo che al fallimento. Sotto questa prospettiva, l’accordo con l’ambiente appare un fine problematico che la mente si pone e in vista del qua-

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le evidenzia e utilizza quanto è congruo: essa dunque non è un fatto di cui si tratti di studiare l’organizzazione interna, ma deve essere considerata nel suo farsi, nella sua processualità. La mente possiede quindi una spontaneità iniziale, una fertilità inventiva di ipotesi che l’esperienza può avallare o smentire, ma non produrre. Infatti se per l’empirismo classico il valore di un’idea è determinato dall’esperienza da cui è sorta, per James esso è giustificato dal suo destino futuro: quel che conta sono i risultati a cui porta e le prospettive che essi aprono. Sulla base della fedeltà al metodo sperimentale e al naturalismo darwiniano, egli intende la funzione della mente nel porre domande alla natura in modo da coglierne nuove configurazioni e nuovi legami tra le cose: in questo modo il nostro sapere si estende e aumenta la sua potenza. L’accordo tradizionale dell’idea con la realtà quale cifra della verità deve essere concepito come «essere messi in tal contatto operativo con essa da maneggiarla o da maneggiare qualcosa che le è strettamente relato [...] e adatti di fatto la nostra vita all’intero impianto del reale». Pertanto «la catena delle operazioni che un’opinione inizia è la sua verità, la sua falsità o la sua non pertinenza, a seconda del caso». Dunque secondo James la verità tende a coincidere con l’utilità, ed in particolare con quella individuale, e la verità di un’idea si ha quando, in termini funzionali, ci permette di manipolarla o di controllarla in modo tale da realizzare il fine che con un’azione progettata in base ad essa ci siamo proposti. Infatti un’idea non è uno stato mentale isolato, ma ha in sé una quantità di possibili rapporti e di possibili svolgimenti: di conseguenza quante più idee possediamo, tanto più aumenta la nostra inserzione armoniosa nell’ambiente in cui viviamo. Questa concezione della verità è strettamente collegata ad una gnoseologia improntata all’empirismo radicale. Nei Saggi James mostra che, se la conoscenza si fonda integralmente sull’esperienza (non solo i dati, dunque, ma anche le loro connessioni, senza bisogno di fare riferimento ad elementi – idee o categorie – a priori), questa non si esaurisce in un complesso di operazioni mentali, le quali invece presuppongono uno sfondo di immediatezza indispensabile al loro senso. In altri termini James riconosce un momento antecedente all’analisi, una consapevolezza vissuta di unione immediata con la natura, che vale per la sua ricchezza, concretezza ed inclusività e sul cui sfondo si staglierebbe la coscienza analizzante.

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Nella loro esperienza gli uomini non si limitano infatti ad avere percezioni della realtà esterna o interna (come sosteneva l’empirismo classico nella sua impostazione intellettualistica), ma provano anche, in una unità inscindibile, emozioni e desideri, fattori questi ultimi essenziali in quanto costituiscono la propensione all’azione. Con ciò James fa confluire i risultati della sua gnoseologia in quelli delle sue ricerche psicologiche, centrate sulla teoria del flusso di coscienza, che mira a dipingere la vita della coscienza non come un insieme di stati singoli separati gli uni dagli altri, ma come una processualità continua dove si alternano ordine e disordine e i cui momenti particolari sono sia qualitativamente diversi da quelli che li precedono sia in profonda continuità con essi. Sulla scia di ➔ Bergson, James finisce per offrire una vera e propria estensione metafisica della teoria del flusso di coscienza, facendo della novità e continuità i caratteri ultimi del reale. Tale metafisica ha il suo centro nel momento pulsante dell’esperienza colto nella sua inconfondibile individualità e relatività rispetto al resto dell’universo, mirando a spiegare ogni realtà come integrazione di questi momenti e considerandola come un processo continuo di auto-formazione: nuove pulsazioni di esperienza si aggiungono a quelle precedenti a formare un universo veramente crescente in cui si dà al tempo stesso permanenza ed emergenza, continuità e novità. Del resto l’esperienza è una globalità dominata dalle esigenze di adattamento all’ambiente e contenente al suo interno sia il momento soggettivo sia quello oggettivo: ciò significa che se l’esperienza ci fornisce le relazioni tra gli elementi di cui è costituita, non per questo è escluso l’intervento interpretativo del soggetto, che non ha luogo fuori, ma all’interno dell’esperienza di cui l’azione è parte integrante. Poiché ogni verità è legata al contesto esistenziale e ambientale del soggetto conoscente, il pensiero di James approda a una forma di relativismo che sostiene il carattere pluralistico dell’universo, regolato non da un ordine deterministico o teleologico rigido, ma da una molteplicità di realtà e possibilità relativamente indipendenti tra loro, i cui destini di progresso o di decadenza sono indissolubilmente legati alle scelte dei singoli uomini. Ma l’atteggiamento “migliorista” verso le sorti dell’universo travalica quanto può essere effettivamente sperimentato: per configurare la propria esistenza in funzione della

Jankélévitch

possibilità di un’armonia finale del tutto, è necessario un atto di fede, una scommessa pascaliana che ci impegna verso un qualche (e peraltro inevitabile: è impossibile il neutralismo agnostico) atteggiamento verso di esso. Del resto ci sono «casi in cui la fede crea la propria verifica»: ciò può essere sufficiente a rispondere all’intellettualista che nega la validità di un tale atto di fede, poiché «il carattere finale del mondo può dipendere almeno in parte dai nostri atti» e i nostri atti a loro volta «possono dipendere dalla nostra religione, dal nostro assoggettarci alle tendenze della nostra fede, o dalla volontà di rimanervi attaccati malgrado l’incompletezza dell’evidenza». La teoria della volontà di credere ci dice dunque che l’uomo ha il diritto di lasciare che esigenze di ordine pratico influenzino le sue credenze (diritto di credere), quando si trovi di fronte a un’opzione importante e non teoreticamente decidibile. Gli elementi che compongono il migliorismo sono la libertà umana (e quindi il pluralismo indeterministico che giustifica i giudizi di rimpianto e di merito, riconoscendo nell’universo parti buone e cattive) e il teismo (Dio è personalità mentale ed è il potere più profondo dell’universo): in definitiva la teologia di James ha un carattere postulatorio per liberare la disposizione etica più forte in quanto Dio è concepito come l’oggetto più adeguato per la mente umana (se il suo fine è l’azione) e che esige da noi il bene. Ne Le varietà dell’esperienza religiosa, Dio è invece visto come l’autore di esperienze salvifiche vissute nell’interiorità: la fedeltà incondizionata all’esperienza induce James a prendere atto e a valorizzare i fenomeni mistici che certo hanno autorità assoluta sugli individui che li subiscono (ma non su coloro che non li provano), mostrando, contro il razionalismo, la possibilità di ordini diversi di verità in cui poter continuare ad avere fede. In definitiva secondo James, sia sotto il profilo etico sia sotto quello mistico, la religione resta un’ipotesi vivente alla cui luce possiamo con pieno diritto interpretare e vivere la nostra vita. Jankélévitch, Vladimir Filosofo francese (Bourges 1903 - Parigi 1985), professore alla Sorbona. Nato da una famiglia ebraica di emigrati russi, ha dedicato alcuni scritti alle questioni connesse alla sua cultura di provenienza (La coscienza ebraica, 1984). Ostile a ogni forma di filosofia (soprattutto l’idealismo) che pretenda all’onnicomprensività concettuale, si è piuttosto assi-

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milato per stile d’analisi a ➔ Bergson cui ha dedicato una fondamentale monografia (Bergson, 1959). In questa linea, si è interessato di musica (Debussy e il mistero, 1949; Ravel, 1956; La musica e l’ineffabile, 1961) con fine sensibilità, ma soprattutto di etica, analizzando gli aspetti più comuni della vita umana, mostrando la loro inafferrabilità e irriducibilità a qualsiasi spiegazione che intenda racchiuderli in una struttura razionale definita ed esaustiva. In questa prospettiva egli ha esposto la propria concezione della filosofia in Il non-so-che e il quasi-niente (1957), affermando che essa è un “sapere acrobatico” tra diversi campi (ontologia, etica, estetica ecc.): il non-so-che si riferisce (secondo una tradizione mistica e teologico-negativa che va da ➔ Plotino a Giovanni della Croce) all’inafferrabilità e non-concettualizzabilità dell’essere (il quod per cui esso esiste), mentre del mondo e del suo spettacolo possiamo dire solo “che cosa è” (il quid). Questa fondamentale ignoranza si presenta come una forma di non-conoscenza che però rinvia a un implicito sapere (dunque una dotta ignoranza). Ne deriva una condizione paradossale per cui il nonso-che non è niente, ma un quasi-niente, «la sola che valga la pena di essere detta e proprio la sola che non si possa dire». Se dunque si dà uno scarto infinito tra il sapere e il quasi-niente, la conoscenza deve essere concepita come un “intravvedimento” di carattere intuitivo. Come ha affermato Bergson, solo l’intuizione rivela “l’essenza della totalità”, il suo mistero, per cui il non-so-che costituisce «lo charme che riveste la totalità», così percepibile come un tutto. Esso normalmente ci sfugge e diventa percepibile (sfiorabile) solo nel momento in cui ci è sottratta la realtà fisica: perciò solo gli artisti (musicisti e poeti) lo possono percepire attualmente. La libertà umana è così segnata dall’ambiguità, essendo un’altalena tra contrari simultaneamente presenti: la filosofia non lo può spiegare ma solo accettare il paradosso fondamentale dell’essere umano, che vive stando in una realtà dalla quale non può separarsi, ma senza sapere né il perché né il quando della sua esistenza e della sua temporalità. Nel Trattato delle virtù (1971) la riflessione morale si dispiega in modo articolato tra gli ineliminabili paradossi ed equivoci che avvolgono l’uomo e il reale. Per questo Jankélévitch si fa promotore di una forma di volontarismo (per cui l’atto volitivo è indipendente dal pensiero e autofondato), in quanto è sostenuto dalla convinzione che

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le azioni devono essere guidate da un senso di giustizia che è la conseguenza di uno sguardo capace di vedere limpidamente (e perciò assimilabile a una nuova innocenza) l’inscindibilità tra vita e morte, tra bene e male, il conflitto insanabile dei valori. Dalla drammatica intermedietà in cui l’uomo vive deriva la necessità della virtù, cioè un agire aspro e intransigente, che non viene appreso e non trova origine e giustificazione se non in se stesso. Jaspers, Karl Filosofo e psichiatra tedesco (Oldemburg 1883 - Basilea 1969). Dopo la laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria e psicologia, diviene nel 1916 professore di psicologia all’università di Heidelberg e nel 1921 di filosofia. Qui insegna fino al 1937, quando vien destituito dall’incarico dalle autorità naziste per la sua opposizione al regime e per essere sposato con un’ebrea. Nel 1938 vengono anche vietate tutte le sue pubblicazioni. Dopo la guerra, deluso dalla politica tedesca, si trasferisce in Svizzera, iniziando a insegnare all’università di Basilea, dove morirà nel 1969. Tra le sue opere principali ricordiamo: Psicologia delle visioni del mondo (1919, considerato il primo scritto di filosofia esistenzialistica); Filosofia (1932, divisa in: Orientamento filosofico nel mondo; Chiarificazione dell’esistenza; Metafisica); Ragione ed esistenza (1935). Tra le opere del dopoguerra: Il problema della colpa (1946, sulle responsabilità del popolo tedesco di fronte alla guerra e al nazismo); Della verità (1947); La fede filosofica (1948); Origine e fine della storia (1949); Cifre della trascendenza (1970, postumo). Compito primario della filosofia è per Jaspers la ricerca dell’essere. Questo, in un primo significato, coincide con l’esistenza “situata”, ossia sempre legata a una situazione determinata e di fatto; in questo orizzonte, l’esistenza si presenta come un “esserci”, in quanto è un elemento tra gli altri nel mondo, e la ricerca dell’essere consiste nell’orientazione nel mondo, ricerca mai conclusa perché ciò che si ottiene è solo la conoscenza delle cose, ossia una prospettiva particolare sul mondo, che il filosofo chiama “cosmo”. In quanto orizzonte trascendente e onnicomprensivo, esso sfugge continuamente e rimane irraggiungibile. Questa frattura tra mondo e cosmo segna lo scacco o naufragio della conoscenza che vuole essere oggettiva, in quanto il mondo si rompe nelle molteplici prospettive che lo guardano, ognuna delle quali vuole valere in modo assoluto, ma inevitabilmente

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si riferisce a un particolare punto di vista. Per uscire da questo relativismo, è necessario passare al piano della considerazione “esistentiva”, grazie alla quale ci liberiamo dalla dimensione meramente oggettivante e quantitativa propria delle scienze esatte, e capiamo che l’esistenza non è un oggetto come gli altri, ma è la mia stessa situazione e immagine del mondo: la mia situazione nel mondo non è un oggetto d’indagine in mezzo agli altri, ma è l’origine stessa del mio filosofare, essa coincide con me stesso. Di qui quel tratto tipico dell’esistenza che la vede sempre sporgere, trascendersi verso un significato possibile (l’atto del trascendere è indicato dall’“ex” di cui è composta la parola existentia). Entrano qui in gioco temi fondamentali, come quello della libertà, della colpa e della comunicazione. Se l’esistenza è sempre situata, in quanto calata in una realtà, l’io cerca però sempre di superarla al fine di realizzare le sue possibilità. L’esistenza in questo significato è libertà, non intesa però come libero arbitrio, ma come riconoscimento della propria situazione già data. L’io che sceglie coincide quindi con la sua stessa situazione nel mondo, storicamente determinata e particolare. La scelta, come accettazione di quell’unica possibilità da cui l’io è costituito, si presenta come il “non poter non essere”: io non posso scegliere tra il poter essere me stesso e il poter non essere me stesso. Si inserisce qui il tema della colpa: in quanto situata, ogni esistenza è colpevole della necessaria limitazione legata alla sua particolare e parziale situazione, ed è quindi questa una colpa inevitabile, che appartiene a tutti gli io. Vi è però anche una colpa evitabile, ed è quella della mancata accettazione della propria situazione, ossia del mancato riconoscimento di se stessi: unica possibilità per l’uomo, infatti, è quella di diventare ciò che è. Altro fondamentale tratto dell’esistenza è la comunicazione: l’esistenza, infatti, è relazione non solo a sé, ma anche all’altro. Se ogni esistenza è unica e irripetibile, essa si fa reale solo attraverso la comunicazione con le altre esistenze, che diviene una comunicazione tendente alla sincerità senza riserve, una sorta di “combattimento amoroso” in cui i due soggetti non aspirano alla supremazia, ma tendono insieme alla verità, mai peraltro posseduta definitivamente e mai assoluta perché sempre legata al carattere storico, personale, esistentivo proprio di ogni vero pensare. C’è un terzo significato che assume la ricerca dell’essere, quando questo è pensato co-

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me trascendenza. L’essere come trascendenza è inoggettivabile, non può dunque essere raggiunto dall’esistenza attraverso dei concetti logici, ma solo attraverso dei simboli, delle cifre. La trascendenza si rivela all’uomo soprattutto in quelle che Jaspers chiama “situazioni limite”, ossia in quelle situazioni immutabili, incomprensibili, a cui l’uomo non può sottrarsi o ribellarsi: trovarsi in una situazione-limite significa “non poter non” (morire, subire, essere colpevole), ossia sperimentare la necessità dell’essere e l’impossibilità di superare queste situazioni. Ogni esistente può essere la cifra dell’essere, se solo siamo disposti a lasciarlo parlare nella sua enigmaticità e a non volerlo a tutti i costi ingabbiare attraverso la sua oggettivazione. La cifra più potente della trascendenza è proprio lo scacco a cui l’uomo è destinato nel tentativo di superare e comprendere l’essere nella sua necessità e inesorabilità. Se l’uomo non può uscire dalla propria prospettiva puntuale, dalla propria storia e dal proprio tempo, potrà attraverso la lettura e l’interpretazione delle cifre scorgere l’essere come ciò che è irriducibile a ogni prospettiva e a ogni oggettivazione, come ciò che ci contiene e ci trascende. L’interpretazione, che può essere solo trasversale in quanto l’essere non si dà mai definitivamente e non si esaurisce nella totalità degli enti, non tenderà allora all’esplicitazione totale, ma cercherà di accogliere ciò che di volta in volta si offre, si svela dalla sua dimora nascosta. La verità, quindi, per Jaspers assume insieme i tratti dell’unità, in quanto viene a coincidere con il mio stesso essere individuale, e della molteplicità, in quanto essa è presente in tutte le diverse esistenze. Ecco perché è necessario pensare alla verità come a una totalità sempre aperta, che vive insieme alle molteplici esistenze e al loro tentativo, sempre problematico, di comunicazione. Jean, Paul ➔ Richter Jonas, Hans Filosofo tedesco, ebreo di nascita (Mönchengladbach 1903 - New York 1993), allievo di Husserl, Heidegger e Bultmann, emigrò dalla Germania all’avvento del nazismo insegnando in varie università canadesi e americane. Dopo aver studiato la gnosi antica in chiave esistenzialista, si è progressivamente interessato dei problemi di etica e di bioetica in merito al rapporto uomo-natura, fortemente alterato nell’età dello sviluppo tecnologico. Nella sua opera più nota Principio di responsabilità (1979)

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Jonas si pone il problema dell’uomo quale autore di comportamenti che sono possibilità di catastrofe (buco dell’ozono, distruzione delle foreste, aumento della natalità ecc.), da cui la necessità di riflettere sulla fondazione di una nuova etica che non sia (come quella tradizionale, compresa quella di Kant) unilateralmente antropocentrica e tenga miopemente conto solo dell’hic et nunc, ma consideri anche il mondo extraumano e le generazioni future per la loro salvaguardia dalle conseguenze irreversibili delle azioni del presente. Perciò è importante non formulare un’etica collettiva e pubblica ma anche assumere un orizzonte temporale in grado di prevedere effetti a lungo termine conseguenti all’azione tecnologica. Jonas in questo senso parla di “imperativo ecologico”, fondato sul criterio del primato dell’essere e dello scopo (la vita esige di essere conservata) e avanza il principio euristico della paura che, nell’incertezza, deve indurre gli uomini a temere più il male e gli effetti negativi del comportamento attuale rispetto a quelli immediatamente positivi, moderando così l’intervento sull’ambiente. La paura (ma non la disperazione) è una componente di quella responsabilità che, mentre deve guidare razionalmente i nostri comportamenti e le nostre scelte in modo da renderli compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra, Jonas vuole contrapporre (anche nel titolo del volume) all’utopia (➔ Bloch) il cui spirito prometeico (sia nella versione baconiana sia in quella marxista) ha generato euforie rivelatesi pericolosi veicoli di stravolgimento del mondo. L’indagine di Jonas si estende infine al campo politico, denunciando l’inadeguatezza degli attuali sistemi democratici, legati a interessi contingenti, e auspicando un’autorità che si assuma la responsabilità di salvare l’umanità e la natura stessa dall’imminente catastrofe, poiché in situazioni estreme non «rimane spazio per i lunghi processi decisionali della democrazia e non ci si può limitare ad attenderne gli esiti». Jung, Carl Gustav Medico svizzero, fondatore della psicologia analitica (Kesswill 1875 - Küsnacht 1961). Dopo essere stato allievo ed estimatore di Freud, si allontanò dalle dottrine del maestro per gravi divergenze di tipo teorico. Innanzitutto rifiutò il concetto freudiano di libido per assimilarlo a quello (di derivazione bergsoniana e schopenhaueriana) di energia psichica, capace sia di assumere varie forme (da quelle

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istintuali a quelle culturalmente determinate) trasformabili l’una nell’altra attraverso simboli, sia di avere uno scopo per un verso progressivo di adattamento all’ambiente e per l’altro regressivo di riattivazione di antichi conflitti. Partendo da questa premessa, Jung intese il lavoro terapeutico non solo come ricerca eziologica (in senso pluralistico) nel passato del paziente, ma anche come attenzione ai suoi problemi attuali, con riferimento alle sue motivazioni progettuali. Anche la dottrina dell’inconscio rielaborata da Jung risulta più complessa di quella freudiana. Dopo aver definito una “tipologia” psicologica fondata sui concetti di introversione ed estroversione, egli ne individua due diversi livelli: l’inconscio personale, relativo alle esperienze vissute del soggetto, alle sue piccole percezioni non avvertite ma conservate nella mente, all’insieme di fatti, pensieri repressi e rimossi; e l’inconscio collettivo, patrimonio ereditato da tutti, matrice “formale” di ogni esperienza. L’analisi dei sogni e di altri aspetti della psiche permise a Jung

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di parlare di schemi che si ripetono in ogni età fin dalle origini dell’uomo. Questi schemi sono detti archetipi o forme rappresentative, categorie della fantasia sottese alla libido e ai suoi simboli, costituite in genere da coppie di opposti bipolari. Essi, mentre dirigono l’energia psichica e concorrono a determinare la struttura profonda della personalità, hanno il senso di mostrare il gioco di opposti in cui si svolge la vita psichica (Jung e i suoi allievi vollero interpretare in questa chiave sia il simbolismo alchemico sia quello più latamente religioso, svolgendo un ampio lavoro interpretativo su una gran quantità di testi e materiale antropologico): di qui il nuovo concetto di sublimazione (che diventa per Jung unione di conscio e inconscio, personale e collettivo nel tentativo di ritrovare il Sé lontano da possibili nevrosi e in equilibrio con tutti i tratti della psiche) e di simbolo (che è segno della realtà parzialmente conosciuta e che nasconde l’aspetto migliore di sé in quanto esprime e tiene insieme le coppie di opposti presenti nella psiche).

K Kant, Immanuel Filosofo tedesco (Königsberg 1724-1804). la vita. Kant naque il 22 aprile 1724 a Königsberg (l’odierna Kaliningrad), capitale del ducato della Prussia orientale. Quarto di undici figli, proveniva da una famiglia di modeste condizioni socio-economiche; il padre Johann Georg era un artigiano sellaio di origine lituana; la madre Anna Regina Reuter, originaria di Norimberga, fu donna di profonde convinzioni religiose ed ebbe un’influenza decisiva sulla formazione del figlio. Dal 1732 al 1740 Kant frequentò il collegio Fridericianum, dove era impartita un’educazione basata sullo studio dell’antichità classica e della dottrina cristiana, secondo le concezioni di Melantone e della corrente religiosa del pietismo. Il suo giudizio sui metodi del collegio fu critico: egli lamentò l’eccessiva frequenza di pratiche religiose e la pochezza dell’insegnamento filosofico. Nel 1740 si iscrisse all’università di Königsberg, dove studiò matematica, scienze naturali, filosofia, teologia e letteratura latina. Dal 1746 si guadagnò da vivere facendo il precettore, fino al 1755, anno in cui ottenne l’abilitazione alla docenza e iniziò la carriera di insegnante universitario. Nei quindici anni successivi ricoprì varie cattedre, diede alle stampe numerose pubblicazioni e acquistò un certo prestigio nella società mondana di Königsberg, frequentando salotti, teatri e caffè della città. Dopo aver rifiutato la chiamata di altre università tedesche, venne nominato nel 1770 professore ordinario di Logica e metafisica. La Dissertazione con cui inaugurò in quell’anno il suo corso universitario rappresenta la prima, parziale, formulazione della sua filosofia critica. Gli anni successivi non presentarono eventi esteriori di rilievo: la vita di Kant divenne sempre più quella di uno studioso abitudinario, tutto dedito alla riflessione teorica e all’insegnamento, impegnato nella ricerca delle soluzioni ai problemi aperti dalla nuova prospettiva della filosofia critica; impegno che si tradusse, dagli anni ottanta in poi, nella pubblicazione dei suoi capolavori. Dal 1786 al 1788 fu rettore dell’università. Nel 1786, salito al trono di Prussia Fe-

derico Guglielmo II, sovrano di tendenze conservatrici e antilluministiche, Kant fu oggetto di un intervento censorio con cui si proibì la pubblicazione di un saggio di argomento religioso, intitolato Della lotta del principio buono con il cattivo. Per aggirare l’ostacolo, Kant raccolse questo e altri saggi di filosofia della religione nell’opera La religione nei limiti della semplice ragione, che presentò alla facoltà filosofica di Jena, ottenendo l’approvazione alla pubblicazione. Ancora nel 1794, per l’opuscolo di argomento religioso La fine di tutte le cose, fu solennemente ammonito dal governo prussiano a non trattare più argomenti di religione. Nel 1796 Kant concluse la sua carriera di docente universitario, ma non sospese le proprie ricerche, che restano documentate nelle pagine frammentarie dell’Opus postumum. Gli anni successivi videro un progressivo declino senile, fino al peggioramento grave che lo portò alla morte il 12 febbraio 1804. le opere. a) Il periodo precritico. — Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (1747), è uno studio sul concetto leibniziano di “forza viva”, prevalentemente rivolto agli aspetti fisici del problema, in cui però sono presenti osservazioni sul rapporto tra scienza e metafisica. — In Storia naturale universale e teoria dei cieli (1755) si espone l’ipotesi, nota sotto il nome di Kant-Laplace, secondo la quale il sistema solare avrebbe avuto origine da una nebulosa primitiva. — Sul fuoco (1755), è una dissertazione di argomento fisico in cui si discute anche dell’applicazione del metodo newtoniano alla metafisica. — Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova delucidatio (1755), è lo scritto presentato da Kant per conseguire la libera docenza; vi si discute del rapporto tra il principio di non contraddizione e quello di ragion sufficiente (segna il prevalere degli interessi filosofico-metodologici su quelli fisici e manifesta una presa di distanza dalla tradizione metafisica). — Nella Monadologia Physica (1756) si tenta una conciliazione tra la metafisica di Leibniz e la fisica di Newton.

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— Del 1759 è il saggio Alcune considerazioni sull’ottimismo (che Kant disconoscerà in seguito) in cui polemizza con il Poema sul disastro di Lisbona di Voltaire e sostiene con entusiasmo la bontà della natura. — La falsa sottigliezza delle figure del sillogismo (1762) è una critica serrata alla logica aristotelico-scolastica. — Nella Ricerca sul concetto delle grandezze negative (1763) si affrontano due questioni: l’applicabilità della matematica ai ragionamenti filosofici e la irriducibilità della logica (fondata sul principio di non contraddizione) al piano dell’esistenza reale (fondato sui rapporti di causa-effetto). — Ne L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763) si sostiene che l’unico argomento per dimostrare l’esistenza di Dio è quello a posteriori che muove dalla contingenza del mondo; si critica inoltre l’argomento ontologico sostenendo che l’esistenza non è un predicato logico (non basta che una cosa sia non contraddittoria per renderla reale). — Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale (1764) è un’importante riflessione metodologica che distingue la matematica e la geometria, che procedono sinteticamente per costruzione di concetti, dalla filosofia, che non costruisce concetti nuovi ma deve analizzare quelli confusi per arrivare alla loro definizione precisa. — Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764) risente dell’influenza degli empiristi inglesi per il peso riconosciuto al sentimento nella soluzione dei problemi estetici ed etici. — L’influenza dello scetticismo humiano è invece presente nei Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica (1766): i “visionari della ragione” sono i metafisici, che sognano mondi la cui illusorietà va smascherata col ricorso all’esperienza; la metafisica deve essere trasformata in scienza dei limiti della ragione umana. — Del 1768 è il breve saggio Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in cui è mostrata l’origine non empirica del concetto di spazio. — Opera fondamentale nello sviluppo del pensiero di Kant che segna il passaggio dal periodo “precritico” al periodo “critico” è la dissertazione Sulla forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile (1770); la prima parte della dissertazione è un’analisi della conoscenza sensibile; in essa Kant fissa alcuni principi che resteranno immutati anche nella Critica della ragion pura: la

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conoscenza sensibile è passiva, costituita da una materia (la sensazione ricevuta dal mondo esterno) e da una forma che organizza la materia; spazio e tempo sono le forme soggettive a priori della conoscenza sensibile. La seconda parte della dissertazione riguarda la conoscenza intellettuale, ma sviluppa tesi che lasciano Kant insoddisfatto e lo indurranno a una decennale riflessione precedente alla pubblicazione della Critica della ragion pura. b) Il periodo critico. — Critica della ragion pura (prima edizione 1781, seconda edizione profondamente rivista 1787). — Del 1783 sono i Prolegomeni a ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, un’esposizione degli stessi temi gnoseologici della ragion pura, fatta seguendo il metodo analitico (che muove dal fatto per risalire alle condizioni che lo rendono possibile), che Kant riteneva facilitasse la comprensione del suo pensiero, essendo più conforme al movimento della mente umana. — Del 1784 è Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo, scritto minore ma importante per comprendere le ragioni dell’adesione kantiana all’illuminismo. — Dello stesso anno è il saggio Idee di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, in cui il senso della storia è individuato nella tendenza degli uomini a unirsi in società e ad affermare progressivamente la libertà, nonostante i loro istinti aggressivi e individualistici. — Nel 1785 uscì La fondazione della metafisica dei costumi, prima esposizione della dottrina morale di Kant, che anticipa in forma semplificata e più accessibile al lettore non specialista i contenuti della Critica della ragion pratica. — Nel 1786 Kant scrisse i Primi principi metafisici della scienza della natura, in cui è esposta una metafisica della natura, intesa come la scienza delle strutture a priori di ogni possibile esperienza. — Nel 1788 uscì la Critica della ragion pratica. — Nel 1790 apparve la Critica del Giudizio, che portò a compimento il progetto del criticismo kantiano. c) Opere tarde. Negli anni novanta uscirono vari saggi: La religione nei limiti della semplice ragione (1793), in cui Kant propone illuministicamente di fondare la ragione sulla morale razionale; Per la pace perpetua (1795), un opuscolo in cui si auspica, per impedire le guerre, la creazione di una costituzione federale di tutti gli stati della

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terra, sottoposti ad un diritto universale; la Metafisica dei costumi (1797), che sviluppa le teorie kantiane del diritto e dello stato alla cui base sta il principio della compatibilità della libertà propria con la libertà degli altri. Dell’ultima opera scritta da Kant in vita, sul Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica, pubblicata postuma col titolo di Opus postumum, ci resta una gran mole di frammenti e abbozzi. Gli allievi pubblicarono dopo la sua morte le lezioni di logica, di geografia fisica e di pedagogia.

il pensiero.

a) Il periodo precritico. Come si è visto nell’esposizione delle opere, il periodo precritico è contrassegnato da interessi fisico-filosofici sviluppati all’interno della tradizione leibniziana, da cui il giovane Kant intende affrancarsi. L’istanza razionalistico-metafisica è affiancata dall’ammirazione per l’illuminismo anglo-francese e per la fisica newtoniana, che spinge Kant a cercare di fare per la metafisica qualcosa di analogo a quanto Newton aveva fatto per la fisica. Prima dell’approdo al punto di vista trascendentale Kant compì vari tentativi di ricerca per raggiungere il suo scopo: pensò che si potesse costruire una metafisica in modo sintetico, strutturata, come è la geometria, attraverso definizioni e teoremi; ipotizzò poi, al contrario, che la metafisica avesse un contenuto suo proprio e che esso fosse oggetto di analisi; da ultimo, dopo la lettura di Hume, che lo «risvegliò dal sonno dogmatico», concepì la metafisica come “scienza dei limiti della ragione umana”. Nessuno di questi tentativi si rivelò soddisfacente, ma la maturazione che ne conseguì portò a considerare il problema della conoscenza come la questione preliminare e fondamentale della filosofia. b) Il periodo critico. — Il problema della conoscenza. Dopo le anticipazioni della Dissertazione del 1770, in cui già era illustrata la dottrina dello spazio e del tempo, il problema della conoscenza trovò la sua soluzione nella Critica della ragion pura. Kant chiamò rivoluzione copernicana l’acquisizione del punto di vista trascendentale: come Copernico aveva invertito le posizioni della terra e del sole, così Kant capovolgeva il rapporto fra soggetto e oggetto, sostenendo che è l’oggetto a modellarsi alle strutture mentali del soggetto e non il soggetto ad adeguarsi all’oggetto. Da questo presupposto consegue che ogni nostra conoscenza risulta da un’operazione sintetica tra una materia, fornitaci dall’e-

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sperienza, e gli elementi formali, posseduti a priori dal soggetto; sono così possibili i giudizi sintetici a priori, capaci di ampliare la nostra conoscenza e di conferirle i caratteri dell’universalità e della necessità, propri della scienza. Kant chiama trascendentale lo studio del “modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori”. — L’estetica trascendentale. Il primo campo d’indagine della riflessone sulla conoscenza è l’estetica trascendentale, la scienza dei principi a priori della sensibilità. Definita la sensibilità come la capacità di ricevere rappresentazioni, Kant afferma che le sensazioni non ci fanno conoscere gli oggetti come sono in se stessi, ma solo come essi appaiono attraverso le modificazioni che producono in noi. L’oggetto della conoscenza sensibile è il fenomeno (ciò che appare). Nel fenomeno sono distinti due elementi: la materia, cioè il dato fornito a posteriori dall’esperienza, e la forma a priori, vale a dire il nostro modo di ordinare il molteplice empirico. Le forme a priori dell’intuizione sensibile sono lo spazio e il tempo. Kant sostiene che noi non intuiamo lo spazio e il tempo, ma intuiamo una sensazione nello spazio e nel tempo: essi sono le condizioni soggettive che rendono possibile la conoscenza sensibile. A questo punto trova soluzione il problema della scientificità della geometria e della matematica: entrambe sono vere scienze, in quanto si fondano su giudizi sintetici a priori resi possibili dalle intuizioni pure a priori, rispettivamente dello spazio e del tempo. — La logica trascendentale. Kant distingue all’interno della logica trascendentale un’Analitica trascendentale, che studia gli elementi della conoscenza pura dell’intelletto, e una Dialettica trascendentale, che si occupa della conoscenza illusoria in cui cade la ragione quando supera i limiti dell’esperienza. — Nell’Analitica vengono esaminati i modi con cui l’intelletto pensa il materiale fornitogli dall’intuizione sensibile. Anche in questo caso siamo in presenza di un’operazione sintetica tra una materia e una forma del conoscere. Kant, dopo aver affermato che l’attività conoscitiva dell’intelletto si esprime nei giudizi, ne individua dodici tipi e da lì risale alle dodici categorie, gli elementi formali del pensare che rendono possibile formulare giudizi sintetici a priori. È così individuata la condizione che rende possibile la fisica come scienza: la categoria di causa fonda i giudizi universali e necessari

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(a priori) che stanno alla base della spiegazione scientifica della natura. A questo punto Kant affronta il problema complesso di come giustificare il diritto di usare le forme con cui il soggetto pensa, per conoscere un oggetto che non crea lui, ma gli è dato della sensibilità. All’interno di questa trattazione Kant sostiene che l’unificazione operata dall’intelletto mediante le categorie presuppone (deduzione trascendentale) un’unità più profonda, quella in cui ogni rappresentazione viene unificata in una coscienza: perché io riconosca una rappresentazione come mia, questa deve essere accompagnata dall’atto dell’io penso. In quanto autocoscienza universale l’io penso non corrisponde a un io individuale, ma costituisce la forma unificatrice in generale, le cui funzioni sono le medesime in tutti i soggetti pensanti. La dottrina dello schematismo spiega come, attraverso gli schemi trascendentali, l’intelletto agisca sulle forme dell’intuizione (in particolare sul tempo) per condizionare l’oggetto. L’Analitica si chiude con la distinzione tra fenomeno e noumeno, rappresentante di ciò che è la cosa in sé al di là della percezione che l’uomo può averne attraverso lo spazio, il tempo e le dodici categorie, che Kant pone come limite delle nostre possibilità conoscitive. — La dialettica trascendentale è infatti quella logica illusoria che deriva dalla pretesa della ragione di conoscere oggetti fuori dal campo dell’esperienza possibile. Kant, secondo il quale «ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire nella ragione», chiama idee quei pensieri che la ragione formula indipendentemente dall’esperienza – che anzi pretendono di prescindere da essa –, dimostrando che a esse non può corrispondere nulla di reale. In particolare tre di queste idee – dell’anima, del mondo e di Dio – hanno dato luogo rispettivamente a una metafisica dell’anima (psicologia razionale), del mondo (cosmologia razionale) e di Dio (teologia razionale). Tutto il secondo libro della Dialettica contiene la critica a queste tre (pseudo) scienze. La psicologia razionale pretende di giungere a conoscere l’anima e di dimostrare che essa consiste di sostanza semplice, immateriale e immortale. Questa pretesa ha alla base un ragionamento sillogistico formalmente errato (paralogismo). La cosmologia razionale si occupa dell’idea del mondo, intesa come l’idea della totalità incondizionata dei fenomeni. Le proposizioni formulate dalla cosmologia razionale danno luogo

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ad antinomie, cioè a contraddizioni da cui è impossibile uscire. La parte più nota della Dialettica trascendentale è la critica alla teologia razionale e la confutazione delle prove dell’esistenza di Dio. Kant riduce a tre le prove metafisiche dell’esistenza di Dio (una a priori e due a posteriori): nella prima si parte dall’idea di Dio (essere realissimo e perfettissimo) per dimostrarne l’esistenza (prova ontologica); nella seconda si parte dalla struttura generale di ogni mondo possibile (prova cosmologica); nella terza si parte dalla struttura particolare del nostro mondo sensibile (prova fisico-teologica). Nessuno degli argomenti risulta probante perché, per Kant, l’esistenza si mostra in virtù di un’intuizione spazio-temporale, non si dimostra con ragionamenti. — Il problema morale. La ragione, impossibilitata a conoscere le idee, è dunque limitata nella sua funzione teoretica a un uso regolativo (può dirci solamente come deve fare l’intelletto per conoscere un oggetto); essa, però, svolge anche una funzione pratica, che consiste nel determinare le azioni secondo principi di ragione (e indipendentemente dalle inclinazioni della sensibilità o dall’esperienza). La volontà si esprime in imperativi – ipotetici se subordinati a un fine, categorici se assoluti e incondizionati –; il principio in base al quale la ragione determina la volontà è l’imperativo categorico del dovere. L’azione che obbedisce al dovere è morale. Kant definisce un tipo di morale formale, opposto a tutte le morali contenutistiche: non è il contenuto buono che rende morale la legge, ma è la forma della legge (“tu devi”) che rende buono il suo contenuto. Compiere il dovere per il dovere implica l’autonomia della moralità, che può essere solo voluta spontaneamente, mai imposta con la forza. Il concetto di autonomia è connesso a quello di libertà, intesa come capacità di determinarsi secondo la pura forma della legge morale: è veramente libero solo colui che obbedisce alla legge. Se la forma della legge è l’universalità, la formula del dovere deve essere espressa da un comando uguale per tutti; una di queste formule è: «Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come principio della legislazione universale». Il fine a cui tende la volontà determinata dalla legge morale è il sommo bene, l’unione di virtù e felicità. Nella vita terrena non c’è nessuna connessione necessaria tra virtù e felicità, in quanto non è detto che la vita virtuosa renda felici o che la ricerca della felicità comporti scelte virtuose; ne consegue che il raggiungimento

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del sommo bene, impossibile in questa vita, rimanda alla necessità di un’altra esistenza; bisogna allora ammettere, oltre alla libertà, altri due postulati pratici senza i quali la moralità non sarebbe possibile: l’immortalità dell’anima – per permettere di attingere la perfezione morale che le legge mi impone (la santità) – e l’esistenza di Dio, essere supremo, promulgatore della legge morale, che garantisce la possibilità di conseguire una felicità proporzionale al merito. Questa dipendenza della religione dalla morale è ribadita ne La religione nei limiti della semplice ragione, in cui Kant interpreta i dogmi cristiani come verità morali esposte in forma mitica e giudica le religioni positive necessarie per quegli uomini che non sono in grado di credere nella religione razionale, destinata ad accomunare tutti gli uomini in un’unica fede. — La Critica del Giudizio. Le due prime Critiche hanno posto in essere un’opposizione tra il mondo della natura, sottoposto a leggi necessarie, e il mondo umano, fondato sulla libertà del soggetto; la Critica del Giudizio propone una mediazione tra necessità e libertà, tra natura inorganica e vita. Questa mediazione è resa possibile dalla facoltà del giudizio, definita come la facoltà di pensare un particolare come contenuto nell’universale. Kant chiama determinante il giudizio che assume, in base a una regola, il particolare sotto un universale dato (caso studiato nella Critica della ragion pura); chiama riflettente il giudizio che riflette su un caso particolare per trovare un universale. La Critica del Giudizio esamina due tipi di giudizi riflettenti: il giudizio estetico e il giudizio teleologico. La critica del giudizio estetico analizza il sentimento del gusto, in base al quale si prova piacere e dispiacere di fronte a un oggetto. Tale oggetto della sensibilità suscita in noi piacere ed è giudicato bello quando vi è rispondenza tra esso e le esigenze dell’intelletto: l’oggetto si mostra come lo vorrebbe l’intelletto, qualora fosse lui a determinarlo. Il giudizio estetico è, per Kant, soggettivo ma universale, perché la contemplazione dell’oggetto bello deve provocare in tutti piacere. Analogo al concetto di bello è il concetto di sublime, che riguarda il rapporto tra l’oggetto e le esigenze della moralità: sublime è un oggetto della sensibilità che, per la sua grandezza o per la sua forza, rende evidente la piccolezza e la debolezza dell’uomo. La critica del giudizio teleologico esamina quei giudizi che attribuiscono una finalità alla natura; il concetto di fine viene così soggettivamente attribui-

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to al mondo naturale, “come se” esso agisse perseguendo delle finalità, in analogia con quanto fanno gli uomini. Kelsen, Hans Filosofo del diritto austriaco (Praga 1881 - San Francisco 1973). la vita. Insegnò diritto e filosofia del diritto a Vienna, Colonia, Ginevra e Praga, collaborando nel primo dopoguerra al progetto di costituzione austriaca. Trasferitosi nel 1940 negli Stati Uniti, ha svolto l’attività di docente prima a Harvard e poi a Berkeley. Delineata la sua teoria del diritto già nelle prime opere (Problemi fondamentali della dottrina del diritto e dello Stato del 1910, Dottrina generale dello Stato del 1925), la precisò nella Dottrina pura del diritto (1933; seconda edizione ampliata nel 1960) e nella Teoria generale del diritto e dello Stato (1945). Un carattere più politico rivestono Socialismo e Stato (1920), Essenza e valore della democrazia (1929), La teoria politica del bolscevismo (1948), Che cos’è la giustizia (1957), mentre sul versante antropologico e sociologico si colloca Società e natura (1943). il pensiero. La concezione di Kelsen in merito al concetto di diritto si caratterizza in senso formalistico, in quanto esso viene identificato nella sua struttura assolutamente formale di pura relazionalità (ordinamento di un complesso di norme con la conseguente identità di diritto e giustizia, diritto oggettivo e soggettivo), indipendentemente dal contenuto sia sociologico sia ideologico, che costituiscono invece oggetto e movente della valutazione normativa. Tale concezione comporta una presa di posizione critica verso il giusnaturalismo in quanto, considerando solo la struttura logica del diritto, nega che si possano ravvisare in esso norme naturali derivanti da un ordine di valore assoluto (divino o razionale) sulla base delle quali giustificare la legislazione positiva. In realtà, secondo la prospettiva kelsiana ogni contenuto valutativo è ideologico, storicamente variabile in rapporto a determinate esigenze e situazioni di fatto. Lo stesso dicasi per la realtà sociale a cui il diritto viene applicato e i cui fenomeni sono fatti naturali posti in relazione causale: l’autonomia del diritto è fondata sull’antitesi tra essere e dover essere (sollen), dove quest’ultimo istituisce un rapporto tra i fatti giuridici in base a una norma stabilita dall’autorità con un atto di volontà, la quale è assente nella causalità naturale. Conferendo in tal modo alla scienza giuridica una valenza esclusivamente descrittiva e avalutativa del proprio oggetto (senza quindi identificarsi con il di-

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ritto positivo), Kelsen si avvicina alla cosiddetta “teoria emozionale dei valori” e ai suoi presupposti teorici di impronta razionalistica (distinzione tra volontà e ragione, teoria e prassi, emozione e intelletto, filosofia e scienza), che gettano le loro radici sia nel neokantismo della ➔ Scuola di Marburgo (soprattutto ➔ Cohen) sia nelle posizioni del neopositivismo logico (specie per quanto riguarda la distinzione tra giudizi di fatto, i soli scientifici, e giudizi di valore). In modo consequenziale si è mosso Kelsen quando, dal punto di vista del problema della natura, dei mezzi e della funzione dell’attività del giurista ai fini della conoscenza del diritto, ha formulato la dottrina del purismo metodologico: l’attività del giurista può essere veramente scientifica (teoretica e descrittiva) se è mirata a ordinare e a formulare sistematicamente i risultati dell’interpretazione e dell’integrazione delle norme giuridiche e perciò se è esercitata in vista di un’analisi strutturale del diritto positivo, indipendentemente da qualsiasi implicazione empirica (sociologica, politica, tecnica). Separata da questa sfera, risulta l’attività (certo preponderante) di effettiva interpretazione e integrazione del linguaggio legislativo: ma essa è di natura pratica, politica, nel senso che dopo la ricognizione descrittiva e avalutativa di tutti i possibili significati della norma in oggetto (piano scientifico), opera tra essi una scelta “emozionale”, tipica della prassi ermeneutica giudiziaria. Sotto questo aspetto, la teoria di Kelsen si costituisce come dottrina dell’identità del diritto e dello Stato: infatti lo Stato come ordinamento sociale deve coincidere con un ordinamento giuridico specifico relativamente accentrato, in contrapposizione con l’ordinamento giuridico internazionale che invece è fortemente decentrato. L’esigenza di una loro unità nell’ambito di un sistema giuridico comprendente tutti gli ordinamenti giuridici positivi, riposa sul postulato cardine della norma fondamentale, quale pietra angolare dell’ordinamento giuridico come costruzione a gradi. Una pluralità di norme forma un’unità sistematica quando la sua validità può essere ricondotta a un’unica norma come fondamento unico (e ipotetico) di questa validità, la quale non discende dal suo contenuto ma dal fatto di essere stata emanata in modo specifico e prestabilito, essendo una regola che determina come si debbono produrre tutte le altre norme dell’ordinamento (producibili quindi correttamente in base a una modalità esclusivamente formale). Da tale norma

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fondamentale non possono pertanto essere dedotte le singole norme, che perciò devono essere prodotte mediante l’intervento di un atto particolare (atto di volontà) che le pone e si realizza in forma di “concatenazione produttiva”. Keplero, Giovanni In tedesco Johannes Kepler. Astronomo tedesco (Weil 1571 - Ratisbona 1630), legato da molteplici rapporti alla cultura scientifica italiana del tempo. Muovendo da ipotesi pitagoriche, condusse ricerche matematiche e osservazioni astronomiche molto accurate, che gli consentirono di formulare le celebri leggi sul movimento dei pianeti (Astronomia nova, seu phisica coelestis, del 1609; Epitomae astronomiae copernicanae, del 1618-1621; Harmonices mundi, del 1619). Nel contesto dell’astronomia copernicana, rifiutò sempre l’ipotesi della infinità dell’universo. Kerényi, Károly Filologo e storico delle religioni ungherese (Temesvár 1897 - Zurigo 1973). Dopo aver fatto gli studi tradizionali in Germania (tra i suoi maestri vi fu Wilamowitz), elaborò una propria metodologia che lo portò ad accedere in modo originale alla fenomenologia religiosa classica. Nucleo fondamentale della ricerca era la lettura dei testi greci e latini alla luce dei risultati della storia delle religioni e dell’etnologia. In questa prospettiva il mito doveva essere interpretato come una “storia vera”, che va considerata vichianamente nella sua autonomia in quanto esprimente in forma diretta e primaria proprio ciò che in esso viene raccontato, cioè un fatto dei tempi primordiali, che per tale motivo esprime una dimensione universale. I fatti che il mito espone sono allora non cause, ma degli archài, dei principi (o condizioni originarie) costituenti il fondamento del mondo che riposa tutto su di loro. Il mito quindi è formulato dall’uomo e parla dell’uomo, e ha in sé la capacità di creare un ampliamento della sua coscienza più della scienza e della filosofia. Questo quadro concettuale Kerényi lo ha elaborato attraverso il confronto con altri grandi intellettuali, tra i quali Thomas Mann e soprattutto ➔ Jung (Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, 1941), da cui però si è distaccato rifiutandone i concetti di archetipo e inconscio collettivo. Il suo lavoro si è concretizzato in molteplici saggi tra cui La religione antica (1940), Figlie del sole (1944), Miti e misteri (1945), Gli dei e gli eroi della Grecia (1951), Dioniso (pubblicato postumo nel 1976).

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Kierkegaard, Søren Aabye Filosofo e “scrittore cristiano” danese (Copenhagen 18131855). la vita. È vissuto nella prima meta dell’Ottocento in Danimarca, in un’area culturale vicina al mondo tedesco (la sua opera è rimasta poco conosciuta sino alla Prima Guerra Mondiale e al sorgere dell’esistenzialismo). Dal padre, pastore protestante, riceve una rigida educazione religiosa. Nel 1840 ottiene la licenza in teologia e si fidanza con Regina Olsen. Non diventa però pastore protestante. Il padre, morto due anni prima, gli lascia un consistente patrimonio, che gli permette di scegliere liberamente di praticare il “mestiere” di “scrittore cristiano”, libero da precisi impegni di lavoro. Ma le scelte del giovane Kierkegaard sul proprio futuro sono particolarmente travagliate: dopo un anno, nonostante l’affetto che prova nei suoi confronti, rompe il fidanzamento con Regina, sentendo che gli sarebbe impossibile adattarsi alla comune esistenza di uomo sposato. Nel 1841 è in Germania, a Berlino, dove frequenta le lezioni del vecchio Schelling, che inizialmente lo entusiasmano ma che ben presto finiranno per deluderlo. Negli anni successivi la vita di Kierkegaard – che morirà nel 1855 – si svolge tutta a Copenhagen, priva di avvenimenti esteriori di rilievo. È la vita di un uomo interamente dedicato ai suoi studi e all’attività di scrittore, che egli sente come una missione, interrotta da alcune polemiche e segnata dall’attacco alla Chiesa danese, da lui accusata di avere abbandonato l’autentico messaggio evangelico. Nonostante un’apparente serenità esteriore, la sua esistenza è segnata da eventi personali e familiari non ben identificati vissuti come oscure minacce, da un radicato senso di colpa e dall’intimo convincimento di sottostare a un ineluttabile destino (la rottura del fidanzamento con Regina Olsen, episodio centrale nella sua vita, va inquadrato in questo contesto). Le sue opere fondamentali sono Autaut (1843), Timore e tremore (1843), Il concetto dell’angoscia (1844), Briciole filosofiche (1844), Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole filosofiche” (1846), La malattia mortale (1849), Esercizio di cristianesimo (1850). I suoi Diari, documento dell’itinerario personale e spirituale di un uomo che si definisce non filosofo o teologo, ma “scrittore cristiano”, sono stati pubblicati postumi. il pensiero. Il pensiero kierkegaardiano è anzitutto – e strutturalmente – la filosofia di un solitario. Per lui centrale è la categoria del singolo, e questo contrappone

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il suo pensiero alla tradizione moderna. A parte la significativa eccezione di Pascal, da Cartesio fino agli idealisti la filosofia tende a risolvere il rapporto tra l’individuo e l’universalità (o l’assoluto) a favore della forte predominanza della Totalità sul singolo. Ciascun uomo ritrova il proprio valore, le proprie ragioni di vita, la propria identità personale, all’interno di un tranquillizzante principio superiore – Dio, Società, Storia o Assoluto che sia. In particolare, la più emblematica di queste filosofie sistematiche, che è per Kierkegaard quella di Hegel, tende a risolvere tutti i problemi del singolo riproponendoli al livello della razionalità dialettica del tutto. Per questo l’hegelismo – e la sua affermazione dell’identità di reale e razionale – è visto da Kierkegaard come una filosofia estremamente tranquillizzante: per tutti i problemi umani ci sono un senso e una interpretazione chiara, razionalmente comprensibile. Nella sua opera Kierkegaard smonta uno a uno i meccanismi dialettici e restituisce l’uomo singolo al dramma delle sue responsabilità, al rischio che i suoi problemi non trovino soluzione. Per Kierkegaard la filosofia ha inizio nel singolo, che deve prendere una decisione su come comportarsi, non sa che fare, ma non può sfuggire (può solo, come vedremo, illudersi di poterlo fare). Da questo non sapere nasce la filosofia, intesa non più come scienza dell’Assoluto, ma dei rapporti tra il singolo uomo e il suo mondo. E tale posizione non è data dal fatto che Kierkegaard non avverte il problema dell’Assoluto (è anzi vero il contrario), ma perché contesta la possibilità di collocarsi dal punto di vista del tutto, di conoscere la realtà in termini di ragione universale. Nell’affrontare la vita e le responsabilità che essa comporta, l’uomo si trova nel punto di vista più lontano dall’Assoluto: nella sua esistenza è radicalmente un singolo. Egli è solo nella scelta, e porta la responsabilità di ciò che farà.Ogni problema etico è infatti innanzitutto un problema di scelta. “Che fare?” Di fronte al singolo si aprono delle possibilità, e la scelta è sempre tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, il suo comportamento esclude radicalmente altri modi di comportarsi, altre possibilità etiche. Kierkegaard esprime la assoluta radicalità che è implicita in qualsiasi scelta con l’espressione latina aut-aut. La libertà implica quindi la responsabilità della scelta. L’uomo può rinunciare o meno ad autoingannarsi, a far finta che le responsabilità siano oggettive o di altri, ma non può sfuggire alla soggettività della scelta.

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La concezione kierkegaardiana della libertà è il riconoscimento di un vuoto nell’esistenza dell’uomo, della mancanza di ricchezza: l’uomo non conosce la verità oggettiva, né teoretica, né etica. La libertà implica l’accettazione del rischio di ogni scelta, perché essa non può essere oggettivamente fondata. La libertà è trovarsi di fronte a un bivio e dovere scegliere una delle due strade senza un motivo certo, valido, oggettivo. La scelta avviene sempre al buio, né serve trincerarsi dietro al caso perché il caso non ammette responsabilità: l’io invece non può sfuggirla. La coscienza della libertà è il rischio di chi accetta di muoversi nel vuoto. Questa impostazione delle problematiche della filosofia implica il rifiuto della metafisica, cioè della possibilità di fondare l’esistenza sulla stabilità di una struttura oggettiva delle cose. La metafisica è al di là delle possibilità dell’uomo, esula dai confini del suo sapere. Il bene e il male non possono essere conosciuti oggettivamente. a) Don Giovanni e la vita estetica. Di fronte alla vita ci si può comportare come Don Giovanni (il personaggio dell’omonima opera di Mozart), interpretandola come una continua seduzione. Egli si muove nel mondo senza metter mai radici, interponendo tra sé e gli altri un sottile velo di immagini seducenti. Il seduttore non mostra mai se stesso: mostra sempre un’immagine cangiante, in modo da potersi nascondere dietro di essa e apparire come la donna che corteggia vuole che egli sia, senza in realtà essere mai nessuna delle maschere di cui si riveste. Il suo è il mondo della pura esteriorità, dal quale è stata eliminata ogni dimensione di profondità, di certezza e di stabilità. Come in un gioco di superfici, tutto nella sua seduzione attrae, ma la vita di Don Giovanni è senza spessore. Egli vive della sua seduzione; essa gli permette di non radicarsi mai in un rapporto durevole, di non costruire mai nel mondo dei punti di riferimento stabili. Tutto ciò che tende a cristallizzare i sentimenti e le abitudini, a costruire una quotidianità ordinata fatta di impegni e di doveri, tutto questo viene rigettato. Don Giovanni non ha una moglie: vuole tutte le donne, vuole sedurle ma non legarsi ad alcuna per non dovere scegliere. Egli paga questa non-scelta (che si rivelerà apparente, perché egli sceglie in realtà di fuggire da ogni scelta) con l’impossibilita di costruire legami e affetti costanti, col vivere nell’esigenza continua del nuovo. Se si ferma è perduto. È assalito dalla disperazione. Don Giovanni è un esteta, ricerca il godimento

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immediato; ma la vita estetica è una vita letteraria, buona per il teatro in cui tutto è gioco di immagini e i sentimenti sono di cartapesta come le scene sullo sfondo. Se Don Giovanni smette di recitare e guarda lucidamente a se stesso, scopre soltanto il vuoto: non ha accettato di fare delle scelte (ha creduto di poter sfuggire alla necessità di scegliere), non è dunque altri che nessuno. È nulla. Questo nulla è disperazione, terrore del vuoto, del non essere altro che niente. b) L’uomo sposato e la vita etica. La scelta di Don Giovanni ha come propria antitesi l’atto con cui l’uomo accetta di scegliere, aderendo a un mondo etico. L’uomo che accetta il matrimonio permette alle profondità dell’amore di penetrare in lui, rifiutando la superficialità della seduzione. È un salto radicale, è la scelta di una possibilità totalmente diversa. Con la profondità di sentimenti stabili, con la moglie e i figli, persone di cui accetta la responsabilità nell’ordine borghese della società moderna, l’uomo sposato trova una propria identità. A partire dai punti fermi del suo mondo (la famiglia, il lavoro, la responsabilità che ne deriva, l’adesione a un ordine di regole sociali che gli garantiscono il rispetto degli altri e così via), l’uomo sposato costruisce un’esistenza regolare, fatta di diritti e di doveri accettati; ne è contento, acquisisce abitudini, aderisce a un sistema collettivo di valori, costruito dalla generalità dei suoi simili nella società in cui vive. Tuttavia questa generalità è anonima: nessuno in particolare stabilisce le regole del vivere sociale, definisce positivamente cosa è bene e cosa è male. È la società nel suo complesso a farlo. L’uomo etico aderisce ai valori impersonali di una collettività. Mentre il seduttore vive sempre nell’istante e non si fa mai carico del proprio passato e delle responsabilità che ne derivano, l’uomo sposato ha un rapporto del tutto opposto con il presente. Tutto ciò che egli fa non è limitato all’istante, ma deriva dall’assunzione delle responsabilità che gli derivano da scelte passate (dall’aver sposato quella donna, avere messo al mondo quei figli) in vista di progetti futuri ben chiari e predeterminati. Tuttavia neppure l’uomo sposato è al riparo dal vuoto dell’esistenza, anch’egli ha una libertà che si rivela vuota. Questo non accade tanto perché le responsabilità assunte lo limitano nelle sue scelte, in quanto ciò che egli chiede è proprio di essere liberato dal vuoto della scelta e di potersi affidare a un sistema oggettivo di valori da tutti accettato. Il punto è che l’uomo sposato si accorge di essersi liberato

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dalla responsabilità soggettiva della scelta accettando la responsabilità etica della famiglia, un ordine generale di valori –, ma di avere così solo coperto la sua più profonda libertà, basata sulla radicale soggettività di ogni decisione. Rifugiarsi dietro le scelte dell’anonimo prossimo, aderire a valori superiori, è solo un nascondersi dietro di essi. L’individuo rimane egualmente il soggetto responsabile di ciò che fa anche se si trincera dietro la sua rispettabilità borghese. Quando si accorge di questo, l’uomo sposato entra nella dimensione dell’angoscia, vive cioè il vuoto reale della sua esistenza. Questa crisi non è transitoria, perché affonda le sue radici nell’essere dell’uomo. Pertanto, se la superficialità del seduttore genera disperazione e la profondità dell’uomo etico genera angoscia, esiste un’alternativa per l’uomo singolo per sopravvivere nello spazio tra queste due possibilità? c) La fede e la scelta come salto. L’alternativa è Dio. Non il Dio tranquillizzante della filosofia della religione hegeliana, non il Dio razionale del deismo; non il Dio kantiano. Piuttosto il Dio di Abramo e di Isacco, il Dio la cui esistenza non si dimostra con la ragione, ma si accetta con la fede. L’uomo, posto di fronte alla scelta, una volta scoperto che ogni suo gesto è in fondo vuoto di senso – perché l’esistenza è tutta nella dimensione della possibilità e non in quella della necessità – sceglie di compiere l’unico gesto che possa permettergli di dare un senso all’esistenza: si pone di fronte a Dio, nella pienezza del suo essere, e con la fede “salta” il limite dell’esperienza e della ragione, accetta la finitezza del suo essere uomo di fronte alla infinità di Dio, accetta il suo nulla di fronte alla totalità infinita di Dio. Pone se stesso e la sua identità nella fede. Si affida a Dio, ponendo nelle sue mani la sua vita. Nessuna razionalità permette di superare l’infinito spazio che divide l’uomo da Dio: nessuna ragione umana potrà mai dare ragione dell’esistenza e della natura di Dio. L’atto religioso della fede appare folle tanto all’esteta quanto all’uomo sposato. Lo mostra la narrazione biblica di Abramo: come potrebbe non essere giudicato folle Abramo che accetta di diventare l’assassino di suo figlio (un delitto tremendo, che nessuna morale può giustificare)? Abramo non comprende il senso dell’ordine con cui Dio gli impone di uccidere il figlio. Non discute, non chiede nulla. Sceglie di accettare il suo nulla di fronte all’essere infinito di Dio. E obbedisce. L’angelo che ferma la sua mano non influisce che sul-

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le conseguenze di una scelta già compiuta. Abramo ha già dato il figlio per sacrificato; quando la sua mano viene fermata, ha già accettato di essere il suo assassino. E tutto questo senza che nessuno, nemmeno Abramo stesso, possa davvero dimostrare che Dio esiste, o possa dire di capire il suo essere. Quale tribunale non condannerebbe quest’uomo? Del tutto diverso è il caso di Agamennone e di sua figlia Ifigenia nell’antico mito greco. Il capo degli Achei deve sacrificare la figlia agli dei perché questo è necessario al buon esito dell’impresa del popolo di cui egli ha la responsabilità politica. Egli accetta la volontà degli dei, ma così facendo rimane dentro i confini della sua responsabilità etica: come capo infatti deve farlo. La sua non è una scelta religiosa, ma politica. Agamennone rimane entro i contini della morale, perché come capo ha il dovere di salvare il suo popolo: nella sua scelta due princìpi morali (la responsabilità di padre e quella di capo) si scontrano, ed egli non fa che anteporre l’uno all’altro, sacrificando la figlia. L’accettazione di Abramo va oltre i confini dell’etica, del bene e del male, valori a cui l’uomo non accede nella loro assolutezza. Il suo scopo non è terreno, come quello di Agamennone, ma si pone al di là di ogni possibile significato umano. Egli ha aperto il suo animo a una adesione totale a Dio, scandalosa per la ragione e per la stessa etica che guida l’azione di coloro che rimangono in un orizzonte umano. La fede allora è scandalo e paradosso. C’è infatti qualcosa di più scandaloso per la ragione dell’unione del divino e dell’umano in un persona storicamente vissuta, in Cristo? C’è qualcosa di più paradossale del “salto” verso la fede che l’uomo compie nell’aderire al messaggio evangelico? In questo modo Kierkegaard porta alle estreme conseguenze alcune tematiche proprie della Riforma protestante, tematiche assai lontane dalla tranquilla serenità della religione borghese, per la quale la coscienza è pacificata dall’adesione ai riti e dalla verità dei dogmi. Kierkegaard conduce una dura polemica contro la Chiesa ufficiale della sua città, accusata di avere burocratizzato il cristianesimo, di averne fatto una religione guidata da ministri stipendiati dallo stato, di avere tradito il dirompente messaggio di Cristo, incompatibile con la prassi tranquillizzante di coloro che vogliono inserire la Chiesa tra i poteri di questo mondo. Il senso della vita religiosa è tutto affidato al recupero della propria intima individualità, che ac-

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quista senso nell’accettare la propria nullità di fronte a Dio. Non ha senso aderire al cristianesimo per tranquillizzare la propria coscienza; non ha senso dire di essere buoni cristiani perché si seguono i precetti della Chiesa, perché ci si comporta bene, da buoni borghesi. L’adesione a Cristo non può garantire la tranquillità della coscienza: l’uomo è nella colpa e non può sfuggire a essa per suoi meriti. La dottrina luterana è molto chiara su questo punto. Il cristianesimo non dà garanzie, non è la via indicata perché dona serenità e pace. È solo la possibilità più autentica per la vita dell’uomo. Anch’essa come le soluzioni precedenti – la vita estetica e la vita etica – è una scelta radicalmente e irriducibilmente individuale. Kindi, al- Nome completo Abu Yusuf Ya‘qub ibn Ishaq al-Kindi. “Il filosofo degli arabi” (Bassora 800 ca.-873 ca.), ma anche scienziato e scrittore enciclopedico (scrisse oltre 270 opuscoli, in gran parte perduti, su tutto lo scibile: aritmetica e geometria, astronomia, musica, ottica, medicina, logica, psicologia, teologia ecc.). Tradusse e commentò Aristotele, ed espose le sue dottrine gnoseologiche nel De intellectu, opera che ebbe una grande risonanza tra gli scolastici medievali. Influenzato dal commento di ➔ Alessandro di Afrodisia e conoscitore degli altri interpreti di Aristotele (Damascio, Temistio ecc.), egli fornì della questione una versione (che sarà intensamente discussa dalla cultura islamica e cristiana successiva) fortemente platonizzante, concependo l’intelletto attivo come sostanza spirituale unica e distinta, superiore e agente sull’anima individuale. Nel Trattato circa il numero dei libri di Aristotele, dopo aver esposto l’utilità della sua dottrina, le contrappose la scienza derivata dall’illuminazione divina (quella che ricevette Maometto); nel De quinque essentiis spiegò i concetti fondamentali della fisica aristotelica; nel De anima sostenne la divinità dell’essenza, che dopo la morte si separa dal corpo e continua a sussistere nella luce del Creatore. Se l’Epistola sull’arte di allontanare la tristezza ha un carattere morale (si può vincere il dolore conoscendone le cause e tenendo presente che la felicità consiste nel possesso delle cose dello spirito, nell’esercizio delle virtù dianoetiche e nel controllo delle passioni), nel De somno et visione al-Kindi espose una teoria (dai forti risvolti mistici) della rivelazione onirica degli archetipi. Scrisse anche un De aspecti-

Kojève

bus (opera di ottica rinomata in Occidente) e un De radiis, che divenne il più diffuso manuale di magia naturale nel medioevo. Kojève, Alexandre Vero nome Aleksandr Vladimirovic´ Koževnikov o Kojevnikoff. Filosofo francese di origini russe (Mosca 1902 - Bruxelles 1968). Dopo gli studi in Germania, giunse a Parigi nel 1926. Pur essendo un intellettuale cui era riconosciuta una grande statura (i suoi seminari su ➔ Hegel, tenuti tra il 1933 e il 1939, erano frequentati dai più notevoli esponenti dell’intellighenzia francese dell’epoca), non entrò mai nel mondo accademico, restando un alto funzionario di stato. Formatosi alla scuola dello spiritualismo russo (i suoi maestri, oltre a Dostoevskij e Tolstoj, furono Florenskij, Sestov e soprattutto ➔ Solov’ëv), ebbe in comune con molti degli esuli come lui (per esempio ➔ Berdjaev) un forte interesse teologico e l’idea del ruolo messianico della propria terra. Egli però interpretò queste idee in senso ateo (L’ateismo del 1931, pubblicato postumo nel 1998), cioè come umanesimo assoluto, come risoluzione immanentizzata del divino nell’umano (in questo senso spirito), evento tipico dell’era moderna che dà origine alla “fine della storia”. Per lui il compimento della metafisica significava il superamento della sua dimensione religiosa, un’abolizione dell’idea di Dio (e la sua sostituzione con un’idea corrispondente, appunto l’uomo) come risultato dell’azione storica umana, che permettesse dunque all’uomo di comprendere se stesso e la propria storia senza ricorrere a Dio, che non è pensabile all’infuori dell’insieme uomo-mondo. Questa prospettiva (in consonanza con quanto affermava ➔ Heidegger in questo stesso periodo) conduce l’uomo alla coscienza della propria finitudine e della propria morte ma anche (i due motivi sono strettamente intrecciati) della propria autonomia e libertà. La scoperta da parte dell’uomo della sua libertà nella propria finitezza e mortalità è il grande tema che sta al centro delle lezioni sulla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel (Introduzione alla lettura di Hegel, 1947). Qui Kojève vede nell’opera hegeliana la descrizione fenomenologica (in senso husserliano perché descrive pienamente l’oggetto uomo, e in senso heideggeriano perché è un’indagine esistenziale e antropologica) del processo che ha portato gli individui a diventare soggetti autocoscienti e cittadini dello Stato universale e omogeneo (quello del modello napoleonico), quindi il proces-

Koyré

so che ha svelato, con la coscienza, l’essenza dell’uomo con la realizzazione di tutte le sue possibilità. Molla di questo processo non è la ragione ma il desiderio di essere riconosciuti dall’altro come soggetto libero e per il qual fine si è disposti a sacrificare la vita animale, biologica. Questa lotta segna l’atto di nascita dell’umanità (con l’uscita dalla naturalità) e della storia. Il momento negativo della lotta, imperniata sulla figura fondamentale del signore-servo, procura la libertà, il farsi riconoscere libero e uguale in un mondo di liberi e uguali: con ciò la storia è giunta alla sua fine, alla realizzazione di tutte le potenzialità insite nella lotta originaria e alla piena manifestazione dell’essenza umana. Ma questo risultato implica anche la fine dell’uomo (non c’è umanità senza lotta e storia) e della filosofia, che, esaurito il proprio compito di ricerca, è ormai trasformata in contemplazione di ciò che non può più mutare. Il significato della proclamata fine della storia poté essere precisato in occasione di una discussione (svolta a livello sia epistolare sia saggistico) con ➔ Leo Strauss che aveva pubblicato nel 1948 un’edizione commentata del “Gerone” di ➔ Senofonte (un dialogo fra il tiranno di Siracusa e il saggio Simonide): trattando del rapporto tra filosofia e potere, si viene ad affrontare il tema della modernità per chiedersi se la tirannia, dopo essersi oggi materializzata nei totalitarismi, appartiene costitutivamente al suo orizzonte al punto da svolgere un ruolo anche all’interno delle democrazie. Queste sono forse quella forma di riconoscimento che il tiranno cerca per legittimare il suo potere? La tirannia era forse il volto assunto dalla fine della storia culminante nello stato universale e omogeneo? Nel corso del dibattito Kojève si mise dalla parte del servo hegeliano, concependo la filosofia come un servizio in funzione del potere, per renderlo meno temibile: cessato il lavoro come forza negatrice, scomparse le grandi passioni che avevano mosso la storia, e con esse la violenza, sarebbe rimasta una dimensione ludica, che avrebbe restaurato un’animalità armonizzata con la natura e reso soddisfatto l’uomo con l’arte, l’amore e il gioco. Così compresa, la fine della storia (la modernità) è certo buona e desiderabile.

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Koyré, Alexandre Vero nome Aleksandr Vladimirovic´ Kojre. Filosofo e storico della scienza di origini russe (Taganrog 1892 - Parigi 1964). Compì i suoi studi in Germania con Husserl, ma nel 1912 si trasferì in Francia dove si laureò nel 1921 con una tesi su Cartesio e pubblicò nel 1923 il suo lavoro di dottorato, L’idea di Dio nella filosofia di Sant’Anselmo. Lo scopo centrale di tutta la sua attività di ricerca fu quello di individuare il contesto specifico in cui maturano le idee e i concetti, cioè il loro preciso ambiente culturale in cui interagiscono componenti religiose, filosofiche, scientifiche. Perciò egli si interessò a Paracelso, ai mistici tedeschi del Trecento e all’averroismo, prima di approdare a temi più direttamente scientifici, per mostrare il cammino tortuoso (quindi valorizzando, in chiave antipositivista, più gli errori e gli insuccessi) dei suoi concetti cardine sempre nella convinzione dell’intima connessione tra filosofia, matematica e scienza naturale. In questa prospettiva, che mette in rilievo come siano i mutamenti mentali a determinare – in precisi contesti sociali – le scoperte (vedi il magistrale saggio Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione del 1948), sono nati gli Studi galileiani (1940), il grande affresco che illustra i mutamenti nella concezione dello spazio Dal mondo chiuso all’universo infinito (1957), La rivoluzione astronomica (1961) che analizza il retroterra culturale di Copernico e Keplero, gli Studi newtoniani (pubblicati postumi nel 1965). Kuhn, Thomas Filosofo e storico della scienza statunitense (Cincinnati 1922 - Cambridge nel Massachusetts 1996). Autore di un celebre saggio sulla Struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), ha studiato la storia della scienza con l’obiettivo di comprendere il modo in cui avvengono le scoperte scientifiche (la sua indagine è stata fortemente influenzata dalle tesi filosofiche di ➔ Popper). Ha quindi sostenuto che in un determinato momento storico una teoria scientifica diventa dominante e lo resta, anche contro l’evidenza di successive scoperte che non sono più compatibili con il paradigma vigente, finché un nuovo paradigma, in grado di comprendere e spiegare le nuove osservazioni, non ne prende il posto.

L Labriola, Arturo Filosofo italiano (Cassino 1843 - Roma 1904), professore a Roma. Formatosi all’idealismo liberale dei fratelli Spaventa (che gli trasmisero la fiducia nel valore etico-civile della filosofia) si venne progressivamente avvicinando (attraverso la mediazione di Humboldt, Vico e Herbart, che lo aprirono all’esigenza di una visione multiforme e pluralistica della realtà) al marxismo, che intese studiare (come risulta dai suoi scritti principali In memoria del Manifesto dei comunisti del 1895, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare del 1896, Discorrendo di socialismo e di filosofia del 1898) e divulgare nella forma ortodossa, liberandolo dalle incrostazioni spurie dei vari revisionismi. Secondo Labriola la filosofia della praxis costituiva la moderna scienza della storia fondata non sulla dialettica hegeliana (che egli avversò, accusandola di dogmatismo), ma sul metodo genetico, che considera la derivazione dei fenomeni studiati da una molteplicità e complessità di fattori specifici e obiettivi (a partire da quelli economici), interdipendenti e in continuo movimento, irriducibili a uno schema rigido e impersonale. Di Herbart accolse il principio dell’autodeterminazione della volontà, che lo indusse a valorizzare nel marxismo il ruolo della coscienza e della sovrastruttura, polemizzando con le interpretazioni meccanicistico-deterministiche che deumanizzano il processo storico, rendendolo analogo a quelli naturali. Convinto che il marxismo stesso dovesse assumere una veste scientifica (senza diventare una metafisica o un’utopia) arricchendosi di apporti metodologici e teoretici diversi, Labriola ne difese tuttavia la specificità, rappresentando in tal modo una delle voci più originali tra gli intellettuali di fine secolo: sotto questa prospettiva la sua lezione ebbe molteplici influenze sulla generazione successiva, da Croce a Gramsci. Lacan, Jacques Psicanalista francese (Parigi 1901-1981), esponente del movimento strutturalista. la vita. Laureatosi in psichiatria nel 1932, si impose all’attenzione per l’originalità dei suoi lavori: i suoi seminari, tenuti, a parti-

re dal 1949, all’ospedale Sainte-Anne prima e in seguito all’École Pratique des Hautes Études, furono frequentatissimi (e incominciarono a essere pubblicati nel volume Seminari del 1979, arricchito in edizioni successive e non ancora completato). Ostile a ogni forma di accademismo e di sapere rigidamente codificato, nel 1952 decise di uscire dall’Associazione internazionale di psicanalisi per fondare la Societé Française de Psychanalyse, successivamente sciolta per lasciare il posto all’École Freudienne de Paris (a sua volta sciolta nel 1980). Nel 1966 sono stati pubblicati due volumi di Scritti. il pensiero. Il lavoro di Lacan è animato dall’ideale di un ritorno allo spirito (non alla semplice lettera) di Freud, in modo da acquisire, con la specificità del suo metodo, nuovi orizzonti teorici e clinici. Poiché l’inconscio non è in alcun modo riducibile alla coscienza, anche il suo studio deve essere condotto secondo modalità del tutto eterogenee da quelle della scienza e della filosofia. La malattia parla e l’analisi consiste (dato che si fonda sulla comunicazione verbale e segnica tra paziente e analista) nell’ascolto delle sue parole: l’inconscio infatti non è la sede degli istinti, ma è linguaggio, tanto più significante, ricco e strutturato quanto più intensa è la sofferenza. Per questo motivo Lacan si serve, al fine di interpretarne il senso (nel sogno, nella nevrosi, nella pazzia) degli strumenti della linguistica moderna (Saussure, Jakobson, Trubeckoj), in particolare della tesi della separazione tra significante e significato. Il segno di separazione tra i due (rappresentato da Lacan come una barra, come in una frazione) indica la dimensione costitutiva dell’inconscio, il cui discorso è senza oggetto, nel senso che il soggetto più che parlare è parlato («non “io parlo”, ma “es parla”»: su questo punto si è notata un’influenza delle tesi heideggeriane sul linguaggio, o per lo meno una convergenza con esse). L’uomo si costituisce nel linguaggio, obbedendo alla legge del significante, che gli crea intorno una rete di relazioni: quando entra nella condizione sociale, egli necessariamente si aliena, poiché i significanti culturali sono di per sé preesistenti e in rappor-

Lakatos

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to arbitrario con i significati pulsionali (Lacan dimostra questo passaggio con il cosiddetto “stadio dello specchio”, in cui il bambino ha esperienza del proprio corpo: egli si identifica con questa immagine esterna come nel simbolico si umanizza, nel senso che nasce una seconda volta quando è catturato in esso). Così il sintomo nevrotico è il significante di un significato rimosso, dato che la rimozione non riguarda una cosa o un evento, ma un discorso che procede al di fuori della coscienza del soggetto, cui sfugge la verità della propria storia, pienamente recuperabile con l’aiuto della psicanalisi e la decifrazione del linguaggio dell’inconscio. Malgrado quest’ultimo non rispetti le leggi logiche e temporali del discorso cosciente, presenterà tuttavia una precisa struttura. Così, se il bambino impiega appositi significanti per esprimere il proprio originario desiderio della madre (da non confondere col bisogno, che è richiesta di qualcosa, un semplice fatto fisiologico), che egli non desidera sessualmente ma piuttosto ambisce a esserne il desiderio (quest’ultimo identificato con il fallo, quale segno psicologico-affettivo dell’unità e della completezza), nel momento in cui accede alla parola si trova imprigionato in un codice oggettivo e anonimo che gli impedisce di esprimere e di soddisfare il suo desiderio (essendo chiamato a identificarsi con una determinata posizione sessuale). Se dunque il significante “fallo” è proprio dell’inconscio (poiché viene rimosso non appena il bambino accede all’ordine simbolico) allora la sua espressione può avvenire secondo figure retoriche quali la metonimia (sostituzione di un significante a un altro con rapporto di affinità solo mediato) e la metafora (sostituzione di un significante con un altro con cui ha affinità di senso o suono) che corrispondono alle categorie freudiane di spostamento e condensazione. È l’Altro (l’ordine collettivo della cultura) che detta i modi di esprimere il proprio desiderio, che seleziona i significanti secondo una regola che si inscrive nella psiche del soggetto determinandone tutte le possibilità espressive. L’inconscio è quindi il discorso dell’Altro (che è riprodotto fedelmente dalla vita cosciente): il codice culturale stabilisce i significanti che si possono associare in quanto selezionati come simili e che pertanto non riescono a esprimere pienamente un significato censurato. Per questo motivo il lavoro dell’analista dovrà essere focalizzato nel prestare attenzione ai significanti che insistono nel discorso del paziente, in cui quello che conta è “come” si parla e non “ciò

Lalande

che” si dice: perciò, in un tempo variabile (la durata di una seduta non è stabilita in anticipo secondo una misura costante), egli affida al soggetto la posizione di analizzante, limitandosi a evidenziare la coerenza interna dei significanti ma senza ricomporlo secondo un criterio normativo eteronomo. Lakatos, Imre Vero nome Imre Lipschitz. Epistemologo ungherese (Debrecen 1922 Londra 1974), riparato in Inghilterra dopo l’invasione sovietica del 1956 e qui allievo e successore di Popper alla London School of Economics. I suoi scritti sono raccolti nei due volumi, pubblicati postumi nel 1978, degli Scritti filosofici. Partendo dall’indagine di Popper sulla falsificazione, approdò gradualmente a una critica originale circa il concetto che la scienza non sia solo una serie di errori, congetture e confutazioni ma possieda una maggiore complessità. Tale complessità trova un chiarimento nel “programma di ricerca”, costituito da un “nucleo”, un insieme di teorie non confutabili poiché accettate per convenzione, e da una “cintura protettiva”, una serie di indicazioni che definiscono e ordinano il problema da studiare con un insieme di ipotesi ausiliare che permettono di salvaguardare il nucleo. In questo modo lo scienziato può proseguire nella ricerca senza preoccuparsi delle falsificazioni empiriche. Esiste comunque un criterio oggettivo per orientarsi tra i programmi, consistente nella differenza tra programma progressivo (quando lo sviluppo teorico precede quello empirico e lo conferma, dando luogo a teorie che prevedono fatti nuovi) o regressivo (in caso contrario). Un programma deve essere sviluppato per lungo tempo prima che lo si possa definire progressivo o regressivo, e solo a posteriori può essergli attribuita una delle due caratteristiche. La scienza per Lakatos evolve attraverso lunghi confronti mai definitivamente conclusi tra programmi rivali che possono avere carattere progressivo o regressivo. Il progresso di un programma di ricerca non coincide col progresso conoscitivo, poiché non è possibile stabilire il rapporto tra lo sviluppo empirico di un programma progressivo e la verità oggettiva del problema studiato. Lalande, André Filosofo francese (Digione 1867 - Parigi 1963), professore alla Sorbona, ebbe grande influenza nel mondo accademico francese anche per il suo importante Dizionario di filosofia. Rappresentante della reazione al positivismo di tipo evolu-

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zionistico (➔ Spencer) ma ostile anche ad ogni vitalismo (➔ Bergson), Lalande ritenne che vi fosse un principio di unità a sostegno non solo del pensiero ma anche della natura. Tale principio è legge generale della natura che parte dal diverso per giungere all’unità: come la vita che sembra fondata su elementi materiali differenziati in realtà tende all’identificazione, così la stessa ragione è elemento di unità delle diversità. La legge che governa la natura deve essere a fondamento della vita dell’uomo: il cieco individualismo deve essere superato per partecipare e condividere le scelte comuni dimenticando le ambizioni particolari e creare così una “società morale”. Lamarck, Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet de Naturalista francese (Bazentin 1744 - Parigi 1829), tra i fondatori dell’evoluzionismo. Opponendosi sia al finalismo che al meccanicismo (Filosofia zoologica del 1809), postulò la teoria della trasformazione della specie (contro il fissismo di Linneo e Cuvier), distinguendo due cause fondamentali. La prima interna agli organismi, nella convinzione (di derivazione deista) che la natura sia un insieme di leggi e movimento che agiscono sulla materia e procedono regolarmente. La seconda, esterna per cui il rapporto con l’ambiente incide in maniera significativa nel processo di trasformazione che spiega la non perfetta regolarità nello sviluppo degli organi e il loro graduale differenziarsi. Tale trasformazione avviene in modo indiretto, in quanto l’animale, per soddisfare certi bisogni, muta il proprio comportamento utilizzando in maniera maggiore o minore i suoi organi: in questo modo si determinano o l’atrofia e scomparsa di organi non usati o lo svilupparsi di nuovi organi e funzioni. Poiché la modificazione subita in seguito a precise esigenze vitali è per Lamarck ereditaria, se rimangono immutate le condizioni ambientali per un numero cospicuo di generazioni, le specie modificate hanno maggiore e migliore capacità di adattamento all’ambiente. L’uomo non sfugge a questo meccanismo e anche la sua evoluzione è il risultato di variazioni ambientali e non di un predeterminato disegno. Le teorie di Lamarck non ebbero immediata approvazione tra gli studiosi dell’epoca, solo ➔ Darwin riconoscerà i meriti della sua indagine, pur criticandone la mancanza di basi sperimentali. Lamennais, Félicité-Robert de Filosofo francese (Saint-Malo 1782 - Parigi 1954). Fonda-

Landsberg

tore del giornale L’Avenir (1830), ha avuto una grande influenza sia in Francia che in Italia, propugnando una visione liberale del cristianesimo, difendendo la libertà di coscienza, la tolleranza religiosa, la separazione tra Stato e Chiesa. Queste idee, che nel loro complesso hanno dato vita al cosiddetto cattolicesimo liberale, furono condannate da papa Gregorio XVI con l’enciclica Mirari vos (1832). La Mettrie, Julien Offroy de Filosofo e medico francese (Saint-Malo 1709 - Berlino 1751). Illuminista, è uno dei rappresentanti dell’illuminismo radicale, che porta alle estreme conseguenze il razionalismo dell’epoca fino a negare ogni forma di vita spirituale indipendente nell’uomo, visto come una macchina (per quanto riguarda sia il corpo sia quella che la tradizione chiama anima), sia pure estremamente complessa. È autore di una celebre opera, L’uomo-macchina (1748), che gli attirò varie condanne e lo costrinse a riparare alla corte di Federico II di Prussia. La Mothe Le Vayer, François de Scrittore francese (Parigi 1588-1672). Nelle sue opere riprende i temi dello scetticismo di ➔ Montaigne (Soliloqui scettici, 1670), sottolineando la radicale debolezza dell’uomo e della sua ragione, incapace di guidarlo verso la verità, verso usi e costumi sociali universalmente validi e non conflittuali. Propone quindi, richiamando gli antichi scettici greci, un ideale di vita scettico, basato sull’ideale del saggio, sull’equilibrio e il distacco dalle passioni e dalla razionalità dogmatica. Landsberg, Paul-Ludwig Filosofo personalista tedesco (Bonn 1901 - Sachsenhausen 1944). Appartenente a una famiglia di origini ebraiche battezzata nella fede protestante, Landsberg si avvicinò al cattolicesimo negli anni della sua formazione filosofica nelle università di Friburgo e Colonia, dove fu discepolo rispettivamente di Husserl e Heidegger e di Scheler. Ottenuta la cattedra di filosofia all’università di Bonn nel 1928, all’avvento del regime nazista fu costretto per ragioni razziali a emigrare, dapprima a Barcellona poi, dopo la vittoria di Franco in Spagna, a Parigi. Qui ebbe rapporti di collaborazione con Emmanuel Mounier e il gruppo della rivista Esprit. Rifiutata l’offerta di Maritain di riparare negli Stati Uniti dopo l’occupazione tedesca della Francia, fu catturato dalla Gestapo nel 1940 e deportato nel campo di concentramento di Sach-

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senhausen, dove morì nell’aprile del 1944. Le sue opere principali sono: L’esperienza della morte (1936), Introduction à una critique du mythe (1938) e Scritti filosofici. Gli anni dell’esilio (1934-1944). Al centro della riflessione di Landsberg si trova il concetto di persona, visto nel suo rapporto con Dio e con i valori. Sotto le influenze di Agostino, Pascal, Kierkegaard, Scheler e Romano Guardini, Landsberg intende il processo di personalizzazione come il percorso che fa superare la dimensione materiale dell’esistenza verso l’orizzonte della trascendenza, in cui la persona intuisce i valori e si rapporta a essi fino a elevarsi al divino nell’incontro con Cristo, visto come il modello assoluto della perfezione. La morte si rivela come l’esperienza fondamentale della spiritualità della persona perché con essa l’eterno irrompe nel temporale: come insegnano i mistici, oltre la morte si apre lo spazio per un più profondo rapporto con Dio. L’esistenza personale è combattuta tra la trascendenza autentica, sostanziata nella vita dello spirito, e l’immanenza della dimensione biologico-materiale. Tra queste opzioni la persona è chiamata a scegliere e in tale scelta si manifesta l’impegno totale del soggetto che cerca la verità e la giustizia. Laplace, Pierre-Simon de Astronomo, matematico e fisico francese (Beaumont-en-Auge 1749 - Parigi 1827). Suo il progetto di costruire, sul modello meccanicistico newtoniano (Trattato di meccanica celeste, 1799-1815), una grande scienza tale da organizzare, nella sua generalità, tutta la realtà e combattere così l’interpretazione teologico-metafisica dei filosofi tradizionali, inutile se l’unità del reale può essere compresa razionalmente in modo chiaro e controllabile, come avviene in astronomia, scienza paradigmatica per eccellenza. In tal modo Laplace sostenne l’idea di un universo totalmente deterministico, tale da poterne dedurre, conoscendo le sue leggi e le condizioni iniziali in un istante determinato, tutta la storia passata e futura (di qui l’ipotesi, formulata contemporaneamente da ➔ Kant, sull’origine del mondo per trasformazione di una massa gassosa in rotazione). Il progresso scientifico dimostra che l’uomo può muoversi entro un lungo intervallo di tempo compreso tra ignoranza totale e conoscenza totale allontanandosi dal primo per avvicinarsi al secondo: quindi bisogna utilizzare nella misurazione uno strumento che tenga conto della relativa ignoranza e conoscenza dell’uo-

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mo. Esso è da Laplace individuato nel calcolo delle probabilità, che deve essere perciò posto a fondamento di tutte le scienze (anche quelle giuridiche e morali). Sebbene la conoscenza totale non possa essere realmente raggiunta, deve entrare nel programma scientifico come limite cui tendere: unica possibile e attuabile è la conoscenza probabile e quindi l’uso del suo strumento deve essere considerato indispensabile. Importante il suo saggio sulla Teoria analitica della probabilità (1812). Lassalle, Ferdinand Filosofo e uomo politico tedesco (Breslavia 1825 - Ginevra 1864). Nel 1848 conobbe Marx ed Engels dei quali condivise l’analisi storica ed economica, ma con cui in seguito si maturò la rottura a causa di una differenza insanabile nell’interpretazione delle stesse dottrine socialiste. Infatti Lassalle, il quale nel 1863 costituì l’Associazione Nazionale degli Operai tedeschi, cominciò a delineare la posizione moderato-riformista, per la quale gli obiettivi socialisti non potevano attuarsi attraverso una violenta rivoluzione ma con una graduale conquista da parte dei lavoratori dell’apparato statale. Perciò era necessario battersi per il suffragio universale maschile, strumento indispensabile per ottenere una legislazione sociale favorevole agli operai e la sostituzione del lavoro salariato col lavoro associato derivato dalla costituzione, da parte dello Stato, di fabbriche assegnate agli operai riuniti in cooperative. Le tesi di Lassalle (Sistema dei diritti acquisiti, del 1861) di un superamento democratico dello stato liberale, ebbero rapida diffusione in seno al movimento socialista tedesco e fornirono la base al revisionismo di Bernstein. Leibniz, Gottfried Wilhelm von Filosofo, scienziato e storico tedesco (Lipsia 1646 Hannover 1716), secondo Dilthey «lo spirito più universale che i popoli moderni hanno prodotto fino a Goethe». la vita. Nato da una famiglia protestante di origini slave, si dimostrò precocissimo negli studi, per i quali attinse alla ricca biblioteca del padre, professore di diritto. Studiò matematica e soprattutto diritto e filosofia a Lipsia e Jena, discipline in cui si laureò con relative dissertazioni (importante quella De arte combinatoria del 1666). Dedicatosi alla carriera politica e diplomatica, a Norimberga strinse amicizia con il barone von Boineburg (già segretario della società dei ➔ Rosacroce) che lo introdusse alla corte del principe elettore di Magonza, ricevendone

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incarichi giuridici (il riordinamento del diritto civile), diplomatici (la questione dei tre vescovadi di Lorena) e politici (consigliere alla revisione della Cancelleria). Nel 1672 si recò a Parigi per sottoporre a Luigi XIV un progetto di spedizione in Egitto, al fine di distogliere il re dalle mire espansionistiche sugli stati tedeschi sfruttandone le divisioni religiose: in questo periodo, durato quattro anni (1672-76) e inframmezzato da un viaggio in Inghilterra, Leibniz ebbe modo di conoscere Arnauld e Malebranche e di perfezionare le sue conoscenze matematiche sotto la guida di Huygens (pervenne così alla scoperta del calcolo infinitesimale, in modo indipendente e in una forma diversa da quella che Newton aveva precedentemente elaborato e non diffuso, ma per questo la Royal Society lo accusò nel 1713 ingiustamente di plagio, amareggiando i suoi ultimi anni di vita). Passato al servizio degli Hannover con funzioni di bibliotecario e consigliere, la sua attività divenne estremamente poliedrica. In campo politico si adoperò per sostenere le prerogative sovrane del suo principe e per la riunione di cattolici e protestanti, in quello culturale progettò di far nascere anche in Germania un’accademia scientifica sui modelli francese e inglese (il progetto si concretizzò nel 1700 con la fondazione dell’Accademia delle scienze di Berlino, di cui divenne presidente a vita). Alla corte di Hannover ricevette l’incarico, ingrato e gravoso, di storiografo ufficiale della casa di Brunswick-Luneburg, e gli furono commissionate missioni diplomatiche che lo impegnarono in modo intenso (la concessione del titolo di elettore al duca Ernesto Augusto e la salita al trono inglese di Giorgio IV). Nello stesso tempo offrì i suoi servigi ad altre corti, non per ambizione personale, ma per desiderio di stabilire un’organizzazione europea di accademie per il progresso delle scienze e il miglioramento dell’umanità. Di contro a tanta febbrile attività, gli ultimi anni di vita di Leibniz furono segnati dalla solitudine e dall’amarezza: il suo signore, divenuto re d’Inghilterra, non lo portò con sé a Londra, inchiodandolo al suo lavoro di storiografo e abbandonandolo nella polemica con i newtoniani. Alle sue modestissime esequie presenziò solamente il suo segretario, mentre delle molte accademie di cui era membro solo quella di Parigi lo ricordò. La tomba venne ritrovata solo due secoli dopo, recante la semplice scritta «Ossa Leibnitii». Malgrado la sua mente fosse in continuo fermento e aperta ai più svariati campi del

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sapere (nulla gli fu estraneo e su tutto dimostrò competenze da specialista), Leibniz non riuscì a dedicare se non poco tempo alla produzione scientifica. Essa conserva perciò quasi sempre un carattere frammentario e occasionale, lasciata allo stato grezzo o di abbozzo. I suoi scritti sono per lo più brevi, memorie pubblicate nelle riviste del tempo: Discorso di metafisica (1686), Nuovo sistema della natura (1695), Nuovi saggi sull’intelletto umano (1705, incompiuti e pubblicati postumi nel 1765), Saggi di teodicea (1710), Principi della natura e della grazia e Monadologia (1714). A questi vanno aggiunti i corposi carteggi che intrattenne con molti tra gli intellettuali più in vista del tempo (i più notevoli dei quali con Arnauld, Clarke, Des Bosses). il pensiero. Se la caratterizzazione dominante del pensiero di Leibniz fu l’ideale enciclopedico del sapere, questo si fondava su un progetto logico-linguistico di scrittura universale in cui i rapporti tra le parole dovevano esprimere direttamente le relazioni logiche tra i concetti: se «le nozioni venissero ricondotte a una sorta di alfabeto dei pensieri umani [...] tutte le conclusioni che derivano razionalmente dalle nozioni date potrebbero essere scoperte per mezzo di una specie di calcolo, allo stesso modo in cui si risolvono i problemi aritmetici o geometrici». Nell’opera giovanile De arte combinatoria, la prospettiva appariva già chiara: si trattava di costruire una logica sul modello della matematica (in quanto ritenuta paradigma della perfezione della mente di Dio: cum Deus calculat, fit mundus) mirante a ridurre ogni ragionamento a combinazione di segni. A questo scopo era necessario trovare, per ogni concetto semplice, un segno che lo rappresentasse cosicché, combinando variamente tali segni, si formasse una specie di lingua filosofica e perfetta che avrebbe consentito di significare tutti i concetti complessi e tutte le relazioni tra le idee (caratteristica universale e linguaggio di tipo ideografico). Il progetto era di poter disporre di uno strumento per la produzione, mediante calcolo, di tutte le scoperte (ars inveniendi) e la soluzione di tutte le controversie (ars demonstrandi). Peraltro Leibniz intendeva restare fedele al modello aristotelico (al contrario, il criterio cartesiano dell’evidenza gli sembrava ingannevole), secondo il quale tutte le “verità di ragione” si fondano sul principio d’identità (o consistono in proposizioni assolutamente evidenti o riducibili a esse mediante il ragionamento), e viceversa il loro opposto implica contrad-

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dizione ed è pertanto impensabile. Distinte dalle verità di ragione sono le “verità di fatto”, che non sono deducibili a priori dalla ragione e il cui contrario appare pertanto logicamente ammissibile e pensabile. Di queste ultime deve essere sempre possibile indicare una ragione (principio di ragion sufficiente). Partendo da questi assunti Leibniz fissò due principi logico-metafisici che dovevano presiedere al governo della realtà: quello della continuità (natura non facit saltus), e quello degli indiscernibili (due enti che non si distinguono per nessuna differenza intrinseca, non possono essere due neppure numericamente: in caso contrario non vi sarebbe infatti nessuna ragione per cui Dio li collocasse in luoghi diversi). Sul piano più specificamente filosofico e scientifico, Leibniz, formatosi nella tradizione dell’aristotelismo scolastico, se ne allontanò in seguito alla conoscenza della nuova scienza meccanicistica della natura. Ma neppure di questa restò completamente persuaso: impadronitosi dei principi della dinamica, ne trovò insufficiente la fondazione metafisica. Se uno dei principi della fisica cartesiana era l’assunto che in natura si conserva costante la quantità di moto (massa per velocità), Leibniz osservò che esso contraddiceva al principio dell’equivalenza tra causa ed effetto, e che a restare costante era piuttosto l’energia viva (cinetica) definita dal prodotto della massa per il quadrato della velocità. Ciò implicava una concezione del moto non come modificazione estrinseca dei corpi, ma come loro proprietà intrinseca, effetto fisico di un’attività originaria della sostanza (conatus). Dunque, se la quantità di materia e la “forza viva” sono entità fisiche diverse, la materia non è riducibile a estensione (e la dinamica a geometria). Anche lo spazio doveva essere dunque una manifestazione fisica (di qui il rifiuto della nozione newtoniana di spazio oggettivo e assoluto), al pari del moto, che rinviava a una sostanzialità di tipo metafisico, dal cui ordine veniva a risultare (il principio degli indiscernibili vieta di concepire uno spazio e un tempo a parte rispetto alle sostanze perché i loro elementi non si potrebbero distinguere l’uno dall’altro). Ciò indusse Leibniz a pensare che l’essenza della materia consistesse nella forza e che alla radice delle forze che si manifestavano nel mondo fisico ve ne fosse una metafisica. Ne derivava una ridefinizione del problema della sostanza: se questa si identificava con la forza, allora la materia andava riconsiderata (la teoria atomistica era da respinge-

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re perché non è possibile trovare i principi dell’unità della materia in ciò che è passivo) in vista del reperimento di un suo principio originariamente attivo, limite della sua dispersione infinita. Alla base della teoria leibniziana vi è una nuova nozione del continuo (derivatagli dalle sue ricerche matematiche) la cui divisione «non deve essere considerata come quella della sabbia in granelli, ma come quella di un foglio di carta o di una tunica in pieghe, di modo che si possa formare un’infinità di pieghe, le une più piccole delle altre, senza che il corpo si dissolva mai in punti o in minimi»: come la tunica contiene infinite pieghe così il continuo contiene infiniti punti, che sono grandezze non fisse, ma fluenti, limiti che non esistono prima della divisione del continuo stesso. Se vi sono sostanze composte, ve ne devono essere di semplici (quindi prive di parti e perciò inestese). Leibniz chiamò queste sostanze monadi. In base al principio di identità degli indiscernibili «occorre che ogni monade sia differente da ogni altra»; al monismo spinoziano, Leibniz oppose una visione improntata a un radicale pluralismo metafisico. Quale centro di attività, la monade è avvicinabile al concetto di entelechia (dunque non atomo fisico ma psichico): anch’essa è forma, principio di unità e intelligibilità, opposto alla passività della materia, nel senso però che quest’ultima costituisce la limitazione dell’attività originaria della forma sostanziale (la materia è inerzia, resistenza, quindi meramente fenomenica: reale in senso metafisico è solo la monade). Si deve ammettere nei viventi una monade dominante (anima) che organizza sotto di sé le monadi subordinate (corpo). Perciò nella visione leibniziana il reale è simile a un immenso corpo organico, la natura è viva e animata, tutta piena come il brulichio di uno stagno. Contro l’infinito potenziale del continuo geometrico, Leibniz rilanciò l’infinito attuale della biologia, il mondo dell’infinitamente piccolo qualitativo reso accessibile dal microscopio (Leibniz si basava sulle teorie di Leeuwenhoek, che in quegli anni aveva scoperto gli spermatozoi): in ogni infima parte della materia vi sono innumerevoli monadi tra loro connesse e cooperanti nel produrre l’agire finalizzato del tutto. Le leggi della meccanica potevano spiegare il movimento dei corpi, ma dovevano essere inserite in un più ampio orizzonte teleologico. Se la scienza matematica spiega fenomenicamente il meccanismo corporeo ricorrendo a cause efficienti, nulla vieta di interpretare tale spiegazione alla luce di cau-

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se finali: il vitalismo non solo può coesistere ma ingloba il meccanicismo. D’altra parte, l’assoluta semplicità della monade, rendendo inconcepibile una sua modificabilità da parte di un agente esterno («Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire»), induce ad ammettere che essa racchiuda un intero cosmo di relazioni e che la sua attività interna, di natura rappresentativa, consenta di differenziare le monadi in senso qualitativo. Infatti tra le rappresentazioni e la realtà vi è analogia tra i rispettivi modi d’essere (cioè i rapporti, le proporzioni): di espressioni ve ne sono diversissime, così che il rapporto tra la singola monade e l’universo è un rapporto di espressione tra la parte e il tutto («come una stessa città è rappresentata diversamente a seconda della posizione di chi la guarda»). Se è necessario che le monadi abbiano qualità (perché siano distinguibili tra loro e perché noi percepiamo i mutamenti delle cose), ciò è giustificato con l’attività interna della monade, in quanto la realtà del mondo si risolve nelle infinite prospettive, tra esse reciprocamente traducibili, che di essa offre la singola monade quale “specchio dell’universo”. Perciò Leibniz non identificò in essa la percezione (lo stato rappresentativo interno corrispondente a ciò che è percepito) e la coscienza: un’idea è nella mente ma non necessariamente in modo chiaro e distinto. Solo le monadi più sviluppate pervengono a un tipo di attività rappresentativa cosciente (o appercezione): tra percezione e appercezione, tra oscurità e chiarezza, vi sono infiniti gradi intermedi (chiamati piccole percezioni) che appartengono tutti all’espressione della monade. Sotto questo profilo le monadi si possono allora distinguere per il diverso grado di perfezione delle loro percezioni: quelle che compongono lo strato della materia opaca e passiva hanno percezioni confuse e indistinte (la materia non è una sostanza a sé stante, ma un aspetto dell’attività percettiva della monade, il suo grado di rappresentazione inconscia e oscura); le anime ne hanno di distinte e accompagnate da memoria, mentre solo le monadi razionali possiedono la riflessione, che rende possibile l’autocoscienza. Dunque la vita della coscienza si svolge nell’uomo in modo condizionato dalla parte oscura e irrazionale del corpo, e gran parte delle sue funzioni vitali si svolgono al livello inconscio delle piccole percezioni. Questo infinito gradualismo coinvolge poi anche il mondo della vita: tra la vita e la morte vi sono infiniti gradi

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di congiunzione della materia, non essendo la generazione e la corruzione che processi di continua trasformazione dell’organico, composizione e scomposizione tra le monadi. Queste ultime, pur entrando nei composti, ne sono distinte e non sono toccate dal processo di transitorietà dei singoli organismi. Innumerevoli ma finite, esse sono state create da Dio e sono eterne, salvo un atto di annichilimento (Leibniz sostenne in questo modo l’immortalità personale). Le monadi sono infine dotate di appetizione, cioè della capacità di passare da una percezione all’altra (di qui la differenza qualitativa tra le varie sostanze): essendo insensibili agli influssi esterni, esse devono ricavare da se stesse le proprie rappresentazioni (in questo senso Leibniz riprese l’innatismo cartesiano) con un’attività determinabile a partire da puri principi immanenti. In polemica con ➔ Locke, Leibniz affermò che la mente «ha una disposizione alla conoscenza da cui le nozioni innate possono essere tratte»: l’esperienza non può insegnarci le verità necessarie, ma solo fornirci l’occasione per la loro scoperta. L’intelletto ha dunque una sua virtualità, una sua natura determinata, per cui non potrà esperire se non in un certo modo: «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, praeter intellectus ipse». Essere completo, la monade possiede nella propria definizione (secondo il modo con cui Dio l’ha concepita e creata) la ragione di tutto ciò che può accadere: gli stati futuri della monade sono pertanto logicamente deducibili dalle percezioni precedenti (perciò si può dire che “il presente è gravido dell’avvenire”). Il principio della completa determinazione razionale della monade rendeva dunque possibile la congiunzione di logica e metafisica attraverso la nozione di possibile-attuale. Possibile è tutto ciò che possiamo pensare senza contraddizione (quindi la sua definizione è perfetta ed esaurisce sul piano logico i requisiti di pensabilità di un oggetto), attuale è ciò che, oltre a essere possibile, esiste di fatto (e ciò costituisce il fattore essenziale sul piano metafisico, anche se l’esistenza non aggiunge nulla alla completezza della definizione). Ogni monade è un possibile e tutte quindi esistono in mente Dei, sono le Sue idee. Esse tuttavia sono realtà dinamiche che tendono spontaneamente all’esistenza: l’atto creativo traduce in atto la loro possibilità, rendendo reale ciò che è puramente razionale. Ne deriva l’enorme rilevanza anche sul piano metafisico dei principi logici di identità e non contraddizione: posto che anche

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per Leibniz l’essenza del metodo consiste nell’analisi (e nella sintesi) applicabile sia alle idee (e si ottiene una definizione) sia alle proposizioni (e si ottiene una dimostrazione), sul piano metafisico i principi logici devono essere completati da quello di ragion sufficiente, che serve a determinare oltre che le verità di ragione, quelle di fatto. Tuttavia tra i due tipi di verità (di ragione e di fatto) e tra i due piani (logico e metafisico) vi è perfetto parallelismo: le verità di fatto devono essere constatate a posteriori, ma possono essere anche dedotte a priori dalla definizione di monade cui appartengono, poiché il rapporto tra la sostanza (causa) e i suoi accidenti (effetti) è lo stesso di quello che lega nella logica soggetto e predicato. Come in questo caso il predicato è contenuto analiticamente nel soggetto, così la natura della monade è di avere una nozione così perfetta da rendere deducibili tutti i suoi accidenti. Il principio di ragion sufficiente estende quindi quello dell’analiticità delle verità di ragione a quelle di fatto. Mentre la spiegazione in base al principio di identità è evidente, quella in base al principio di ragion sufficiente è solo probabile. Tuttavia, se conoscessimo l’intera catena delle ragioni che legano un predicato al soggetto saremmo in grado di rendere assoluta la spiegazione di quel fatto: poiché solo Dio ha questa capacità conoscitiva, noi ci limitiamo a postulare l’esistenza di questa ragione, di cui non vediamo il nesso analitico che la lega al soggetto. Di qui l’ammissione del principio metafisico supremo che comprende anche i precedenti: vi è in tutta la realtà un’armonia di costruzione che deriva dalla perfezione di Dio, che l’ha creata in base a un principio d’ordine, certamente il più perfetto possibile, e che ci deve guidare nella spiegazione dei fenomeni. Dio è la mente più perfetta: quindi il mondo da lui creato ha una struttura logica che si esprime anche nelle più minute manifestazioni. Poiché le monadi non agiscono le une sulle altre se non idealmente, il perfetto accordo tra esse non si spiega se non ammettendo che Dio all’atto della creazione abbia fissato una volta per tutte un’armonia prestabilita, come un artigiano che abbia sincronizzato tra loro più orologi in base al loro meccanismo interno. Il concetto di armonia prestabilita vale a spiegare anche il rapporto tra anima e corpo, infatti negli esseri animati le monadi dotate di percezioni più oscure si subordinano a quelle dotate di percezioni più chiare, che ne formano l’anima. L’azione del corpo sull’anima è quindi

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solo apparente, e si spiega con la sincronia, stabilita ab aeterno, delle percezioni delle monadi che formano il corpo con quelle delle monadi che formano l’anima. Il ricorso a Dio era comunque motivato in Leibniz anche da sincere preoccupazioni di carattere apologetico e da ideali irenici. Respinte le concezioni di Cartesio e di Spinoza, Dio rappresentava la realizzazione perfetta di tutti i possibili, essendo la ragion d’essere di tutte le cose. La Sua esistenza poteva essere dimostrata sia a posteriori (a partire dall’armonia delle cose) sia a priori (attraverso l’argomento ontologico, a patto che si premettesse la dimostrazione della possibilità della nozione di “essere perfettissimo”). La Sua mente contiene molteplici idee ciascuna delle quali corrisponde a una diversa possibilità d’esistenza: mentre in Dio tutto ciò che è possibile è reale, nel mondo tutto ciò che è reale non per questo è necessario. Ciò significa che al momento della creazione Dio seleziona tra i molteplici possibili (non tutto ciò che è possibile è anche compossibile) in base a un criterio morale (regola del meglio). Dio, infinita perfezione, è anche infinita bontà: dunque sceglie, tra gli infiniti mondi, il migliore possibile, il più ricco di fenomeni, il più armonico (contro questo estremo ottimismo si sarebbe rivolta poi l’ironia caustica di Voltaire). In alcuni aspetti della realtà vi sono indubbiamente difetti o zone d’ombra: Leibniz però intendeva giustificare Dio (Teodicea) dall’accusa di aver prodotto il male presente nel mondo. Posto che il male è non essere, privazione connessa all’originaria limitazione delle cose create in relazione all’assoluta perfezione di Dio, migliore dei mondi possibile non significa l’ottimo in assoluto: dunque non solo sono ammissibili imperfezioni in alcune sue parti, ma il male si giustifica in considerazione della migliore armonia che domina nell’insieme del mondo, anzi serve a far risaltare l’armonia dell’organismo etico complessivo. Ma se il male metafisico non è imputabile a Dio, il male fisico è la conseguenza del peccato, per il quale le responsabilità ricadono tutte sull’uomo in quanto essere libero. Ma se le monadi possiedono già implicite tutte le azioni nella loro definizione, che ne è della libertà umana? E come si concilia quest’ultima con la prescienza divina? Leibniz respinge la concezione comune (illusoria perché ignora il carattere per lo più inconscio delle nostre deliberazioni: la differenza tra atti liberi e subiti sarebbe che nei primi l’intelletto ha una percezione chiara

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dei motivi, nei secondi no) di una volontà indifferente ai motivi e agli impulsi dell’azione: in realtà questa trova la sua ragion sufficiente nella connessione degli stati precedenti della monade («un’azione è spontanea quando il suo principio è in colui che agisce»), senza peraltro essere determinata (l’opposto di una verità di fatto è possibile in quanto appartenente a uno dei mondi che Dio ha scelto di non creare, anche se è certo che non si verificherà mai in quello attuale). La necessità che regola in modo razionale la connessione tra le azioni di una monade è solo ex hypothesi, avendo per fondamento la scelta creatrice di Dio. Essendo di tipo morale, essa non necessita ma inclina la volontà, che pertanto resta libera. Leonardo da Vinci Pittore, scienziato e ingeniere italiano, Leonardo (Vinci 1452 - Amboise 1519) ebbe una vita errabonda, lavorando presso le maggiori corti del rinascimento, interpretando lo spirito universalistico dell’epoca di cui fu un interprete geniale. Se si esclude il Trattato sulla pittura (pubblicato nel 1651), il suo pensiero è affidato a una mole disorganica di carte che comprendono appunti, note, abbozzi di opere, osservazioni, disegni sulle materie più varie (anatomia, meccanica, ottica, astronomia, matematica, fisiologia, botanica ecc., tutti campi in cui riuscì a conseguire notevoli risultati con scoperte e invenzioni): da esse emerge una concezione umanistica imperniata sul valore sommo della scienza, la quale è in grado (in forza della sua razionalità) di instaurare il dominio dell’uomo sulla natura. Questa impresa presuppone che la natura sia retta da un ordine immanente (platonicamente di carattere geometrico) che, attraverso un sistema di leggi, dispone le cose provvidenzialmente legandole in modo necessario e fissando la modalità di svolgimento dei fenomeni. Leonardo insiste sul rapporto di reciproca implicazione tra arte e scienza, entrambe fondate sull’esperienza (egli disprezza la pura speculazione e il vuoto verbalismo, definendosi con orgoglio “homo sanza lettere”, mentre al contrario «la sapienza è figliola della sperienza»): la ricerca scientifica è principalmente interrogazione delle cose, condotta con irrequieta passione e curiosità, continuità e libertà da ogni pregiudizio o dogma. Essa è sì conoscenza immediata dei sensi, ma viene completata e integrata dalla ragione che, attraverso la matematica, mostra le intrinseche proporzioni dei fenomeni e perviene a individuare i nessi tra gli effetti. Poste queste premesse, mentre

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Lessing

la scienza studia i rapporti quantitativi tra gli oggetti (e in tal modo «penetra dentro li medesimi corpi»), l’arte mira a coglierne gli aspetti qualitativi, che vengono visibilmente percepiti fino a scoprirne l’armonia e la disposizione proporzionata tra le parti (in ciò consiste la bellezza). Somma tra le arti è la pittura, dal momento che essa «abbraccia e restringe in sé tutte le cose che produce la natura», estendendosi “nelle superficie, colori e figure” di queste. Leone Ebreo Vero nome Yehudah Abravanel. Medico e filosofo ebreo (Lisbona 1460 ca. - Italia 1535 ca.). Fu costretto a emigrare in Italia al tempo della cacciata degli ebrei dalla penisola iberica. È autore dei celebri Dialoghi d’amore, in italiano (postumi, 1535), in cui il tema dell’amore, come principio cosmologico, è interpretato alla luce del neoplatonismo e dell’umanesimo italiano. Lessing, Gotthold Ephraim Filosofo e letterato tedesco (Kamenz 1729 - Brunswick 1781) tra gli esponenti più rilevanti dell’illuminismo. Il tratto originale del suo pensiero è la critica alle religioni positive, in particolare al cristianesimo (da Lessing distinto dalla religione professata da Cristo stesso) la cui verità non può essere provata da un fatto storico qualsiasi e neppure sulla base dell’autorità dei testi sacri (inattendibili in quanto pieni di incongruenze e contraddizioni). La posizione di Lessing (che, come ci testimonia ➔ Jacobi, approdò alla fine della sua vita al panteismo spinoziano) è ispirata all’ideale voltairiano di tolleranza (come dimostra il dramma Nathan il saggio, 1779 in cui è ripresa l’antica parabola dei tre anelli) anche se le religioni positive, pur false in sé, tuttavia rispondono al bisogno di creare un legame sociale intorno a un medesimo culto in un processo educativo (iniziato con gli ebrei e completato da Cristo) attuato provvidenzialmente da Dio per lo sviluppo morale dell’umanità. La religione rivelata è dunque un continuo processo storico di sviluppo della razionalità, e questa rende possibile interpretare la storia dell’uomo come un lungo perfezionamento morale e intellettuale che deve portare all’età del “Nuovo Evangelo”, dove religione naturale e rivelata, dogma e verità coincideranno: un’epoca moralmente adulta nella quale la virtù sarà amata e ricercata per se stessa. Rilevante anche la riflessione estetica di Lessing che nel Laocoonte (1766) contrappose la pittura (che opera con lo spazio e quindi rappresenta corpi) alla poesia

Leucippo

(che opera con il tempo e rappresenta azioni) e che nella produzione di drammi cercò il rinnovamento pur restando fedele alla tradizione nazionale tedesca. Leucippo Non si hanno notizie storiche su questo filosofo greco, che secondo Aristotele e Teofrasto dovrebbe essere vissuto nel V secolo a.C., contemporaneo di Empedocle e di Anassagora. Gli vengono attribuite due opere, Il grande ordinamento e Sull’intelletto, di cui restano scarse tracce. In rapporti con la Scuola eleatica, fu secondo la tradizione maestro di Democrito, con cui condivise le dottrine atomistiche. Lévinas, Emmanuel Filosofo ebreo francese di origine lituana (Kaunas 1905 - Parigi 1995). Seguì gli studi universitari in Francia e frequentò a Friburgo le lezioni di ➔ Husserl e ➔ Heidegger. Dal 1946 al 1964 diresse la École Normale Israélite Orientale di Parigi. A partire dal 1964 fu professore a Poitiers, poi all’università di Parigi-Nanterre e infine alla Sorbona. Tra le sue opere si segnalano: Dall’esistenza all’esistente (1947); Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1961); Difficile libertà. Saggio sull’ebraismo (1963); Altrimenti che l’essere o al di là dell’essenza (1974); Nomi propri (1975); di rilevanza filosofica pure i commenti a testi tradizionali ebraici tra cui Quattro letture talmudiche (1968) e Dal sacro al santo (1977). Lévinas è considerato uno dei più originali pensatori etici del Novecento; tuttavia egli non ha mai elaborato un’etica corredata da regole e prescrizioni, in quanto il compito da lui assunto non era di costruire un’etica, bensì di cercarne il senso. Questo avviene innanzitutto individuando la dimensione dell’“infinito” da lui contrapposto a quella della “totalità”. Con quest’ultimo termine si allude a una tradizione di pensiero occidentale stando alla quale la comprensione delle parti avviene compiutamente solo interpretandole come momenti in cui è articolato il tutto, un percorso al culmine del quale si trova in Hegel. In questa analisi Lévinas è esplicitamente influenzato dal pensiero di Rosenzweig. Tratti di grande originalità si trovano invece nella delineazione della prospettiva dell’infinitezza, da lui presentata in chiave etica. La rottura della totalità avviene infatti in virtù dell’alterità radicale del “volto” dell’altro. Con questo termine si intendono non le fattezze fisiche altrui, ma il fatto che l’altro si rivolga a me con una richiesta d’aiuto a motivo della sua miseria e indigenza. Il volto simboleggia la rinun-

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cia a ricondurre l’altro tanto al tutto, quanto a sé: «chiamiamo il volto il modo in cui si presenta l’altro che supera l’idea dell’altro in me». Questo comando etico originario si fonda dunque sull’esteriorità, che rende la persona soggetto responsabile. Radicalizzando la critica all’ontologia quale pensiero della totalità, in Altrimenti che l’essere Lévinas sostenne che l’essere non è l’origine ultima del senso, la quale va invece trovata in quel “dire” originario in cui il soggetto responsabile si espone all’altro, si fa suo prossimo, lo assume su di sé, giungendo a espiare le sue colpe e a sostituirsi a lui nella sua stessa responsabilità. Il volto altrui è “traccia” dell’infinito. Dio stesso “viene all’idea” non come un essere, sia pure sommo, ma tramite l’atteggiamento etico del soggetto disponibile senza riserve verso il prossimo. Tuttavia, non c’è dialogo a due, occorre essere in tre, ma dove appare il terzo tutto muta. Come devo comportarmi quando l’altro diventa oppressore del terzo? Per rendere possibile la convivenza civile, in cui non c’è solo la nudità del volto, ma vi è pure la componente violenta, si deve procedere verso una limitazione della responsabilità infinita che contraddistingue l’etica: e proprio in questo risiede la giustizia. Lévi-Bruhl, Lucien Storico delle idee ed etnologo francese (Parigi 1857-1939). È autore di un celebre saggio su La mentalità primitiva, in cui mette a fuoco il concetto stesso di “primitivo”, intendendolo come una vera e porpria categoria culturale storicamente ben identificabile. La cultura primitiva è caratterizzata dalla diversa interpretazione che dà degli eventi percepiti (su questa percezione non c’è alcuna differenza con le società avanzate): il mondo visibile è posto in diretta relazione con la sfera dell’invisibile, che si esprime nei sogni, nel magico, nel mistico, nelle forze sentite come divine presenti nella natura. Questa cultura vive quindi simpateticamente con un mondo percepito come superiore. Lévi-Strauss, Claude Antropologo e filosofo francese (Bruxelles 1908 - Parigi 2009), professore al Collège de France e accademico di Francia. Pervenuto all’antropologia durante un soggiorno in Brasile (dove partecipò a spedizioni in Amazzonia e nel Mato Grosso raccontate in Tristi tropici, 1955), ne approfondì l’aspetto teorico negli Stati Uniti, a contatto con le concezioni di Franz Boas. Il suo merito principale è di aver rinnovato la metodologia di questa discipli-

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na attraverso l’applicazione in questo campo delle dottrine linguistiche del Circolo di Praga (che ha elaborato, con Trubeckoj e Jakobson – quest’ultimo conosciuto personalmente da Lévi-Strauss durante il soggiorno americano – la tematica di Saussure), centrate sul fondamentale concetto di struttura intesa come sistema di regole e relazioni sincroniche, formalizzabili in termini algoritmici, che congiungono un complesso di segni o di fonemi, consentendo di comprenderne le possibili trasformazioni. Trattando gli elementi costitutivi dei fenomeni sociali (gli eventi collettivi, le azioni degli individui, anche appartenenti a popoli primitivi) come un sistema linguistico, se ne può intendere il significato solo all’interno della struttura che li governa, cui i singoli obbediscono comunicando tra loro, costituendo kantianamente lo “spirito umano” o freudianamente l’Inconscio. Da ciò la convinzione (Antropologia strutturale del 1958 e Antropologia strutturale II del 1973) che questo modello esplicativo attraverso l’individuazione di invarianti e schemi formali universali sia applicabile a qualsiasi cultura, consentendo in tal modo alla scienza dell’uomo di acquisire finalmente un adeguato statuto epistemologico, mettendo definitivamente da parte nozioni ormai obsolete come quelle di soggetto e coscienza: la determinazione della logica immutabile e costante, che reggendo la combinazione tra simboli (rispetto alla quale le culture nella loro individuale specificità sono solo modalità secondarie, varianti accidentali) produce tutti i fatti mentali e socio-culturali «di tutti gli uomini e di tutti i tempi», ha una rilevante portata filosofica in quanto chiude definitivamente i conti con l’umanesimo e lo storicismo (su questo punto l’incidenza di Lévi-Strauss sul dibattito filosofico degli anni Sessanta e Settanta è stata di estrema rilevanza). Alla luce di questo apparato metodologico-interpretativo Lévi-Strauss ha studiato soprattutto Le strutture elementari della parentela (1949, dove attraverso un’analisi comparata sui sistemi australiani, indiani, cinesi e americani mostra l’esistenza, sotto la complessità dei vari sotto-sistemi contingenti e concreti, di un unico ordine profondo fondamentale, la cui normativa è funzionale alla collaborazione tra i clan familiari mediante lo scambio delle donne e la proibizione dell’incesto) e il problema del mito (si vedano i quattro volumi – Dal crudo al cotto, Dal miele alle ceneri, L’origine delle buone maniere a tavola, L’uomo nudo – costituenti le monumentali Mitologiche, 1964-

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71, dove viene evidenziata la comune matrice categoriale di un’imponente massa, apparentemente eterogenea, di racconti delle più svariate culture), non più concepito come prodotto prerazionale, ma come una vera e propria forma di pensiero, manifestazione di un rigido complesso categoriale. Da questa linea di ricerca emerge (Il pensiero selvaggio del 1962), insieme con “la ragione nascosta” generatrice di tutte le culture, la sostanziale omogeneità qualitativa tra di esse, intollerante della differenza tra primitivo o selvaggio e moderno o evoluto (tra le due condizioni è infatti ammissibile solo la distinzione, non traducibile in palesi e apprezzabili vantaggi, tra freddo e caldo, equivalente all’impermeabilità del divenire delle prime e al mutamento incessante delle seconde), nonché la forte polemica (Razza e storia del 1952) verso l’etnocentrismo (la presunta superiorità dei valori comportamentali e sociali) dell’Occidente. Libertini Il termine indica generalmente coloro che, al di fuori (e spesso contro) delle determinazioni ecclesiastiche e dottrinali, sostengono la libertà individuale, di pensiero, di coscienza, di arbitrio. Si possono rintracciare le radici storiche del fenomeno nelle sette medievali del “libero spirito” e in un certo filone del pensiero rinascimentale orientato in senso panteistico (e perciò avversato da parte sia cattolica sia protestante, in particolare da Calvino) nel quale si intrecciano variamente tendenze naturalistiche (Vanini, Campanella), magico-ermetiche (Bruno), epicuree. Da queste origini prende vita il movimento formato da un gruppo composito di filosofi e intellettuali, che operò soprattutto in Francia nel XVII secolo: alcuni erano cattolici (Gassendi), altri protestanti ma non legati a Chiese particolari o a temi specificatamente religiosi (Diodati), e altri infine scettici (La Mothe le Vayer, Bergerac). Vista l’eterogeneità della provenienza culturale, il legame che li unisce è individuabile in alcuni temi principali: il rifiuto di un’etica rigida e di fondazione teologica per avere come regola di comportamento, sia individuale che collettivo, il piacere; il rifiuto di vari aspetti della religione tradizionale (l’esistenza di Dio, il fideismo, l’immortalità dell’anima, il miracolo, da loro interpretato come elemento illusorio), il riassorbimento dell’uomo entro i processi naturali (in particolare la sua equiparazione agli animali). Le idee dei libertini finirono per confluire in gran parte nel grande alveo dell’illuminismo.

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Linneo, Carlo In svedese Carl von Linné. Naturalista svedese (1707-1778), professore di botanica a Uppsala. Tentò per primo di introdurre nella disciplina una classificazione sistematica (fondata soprattutto sui caratteri degli organi di riproduzione) e un linguaggio tecnico. Nella denominazione delle piante impiegò una nomenclatura binaria (indicante il genere e la specie), mentre nella loro descrizione usò il metodo della diagnosi (indicazione in una successione fissa e costante delle singole parti). Dal punto di vista filosofico è importante ricordare che Linneo sostenne quella concezione fissista delle specie (secondo la quale esse sono immodificabili in quanto stabilite da Dio in un numero determinato al momento della creazione), che fu fortemente criticata dagli evoluzionisti. Locke, John Filosofo inglese (Wrington 1632 - Oates 1704), teorico dell’empirismo e del liberalismo moderno. la vita. Nato da famiglia borghese di tendenze liberali (il padre, avvocato, aveva militato nell’esercito del parlamento durante la guerra civile), studiò a Oxford, ricevendo una formazione scientifica (medicina, matematica e fisica le materie che occuparono i suoi interessi). Quando nel 1666 conobbe Lord Ashley Cooper, lo seguì a Londra, dove scoprì la sua vocazione filosofica entrando nella Royal Society. Qui, presso la Exeter House, si tenne la riunione di amici dalle cui discussioni ebbe avvio la sua ricerca sulla conoscenza, che trovò la sua prima espressione nelle cosiddette Draft A e Draft B. Quando nel 1672 Lord Ashley divenne Lord cancelliere, Locke ne fu nominato segretario ed ebbe incarichi ufficiali. Per motivi di salute (soffriva di una malattia ai polmoni che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni) soggiornò in Francia dal 1675 al 1679, dove si accostò al pensiero di Cartesio, di Gassendi e dei libertini. Tornato in Inghilterra, riprese il rapporto con Lord Ashley, ma quando questi fu accusato di tradimento contro Carlo II, Locke lo seguì nell’esilio in Olanda. Qui entrò in contatto con gli ambienti scientifici, approfondendo gli studi e portando a termine vari scritti già abbozzati: così nel 1689 pubblicò La lettera sulla tolleranza, nel 1690 il Saggio sull’intelletto umano e i Due trattati sul governo. Con la rivoluzione gloriosa e la monarchia costituzionale degli Orange, ritornò in Inghilterra circondato da simpatia per la sua precedente opposizione agli Stuart: ebbe così incarichi per conto della corona e

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del partito del Parlamento. Tra le sue ultime opere si ricodano i Pensieri sull’educazione (1693) e La ragionevolezza del Cristianesimo (1695). Negli ultimi anni fu ospite di Lady Mashan, e nella tranquillità della campagna dell’Essex si dedicò alla sistemazione dei suoi studi, ora rivolti all’esegesi biblica. Fino all’ultimo conservò lucidità di mente, spegnendosi quietamente e separandosi con serenità dalle persone care. il pensiero. La filosofia di Locke, mossa da un’esplicita esigenza critica, si propone di indagare i limiti e le possibilità dell’intelletto umano (human understanding), operando una chiarificazione preliminare circa le sue capacità, i suoi reali poteri, i suoi campi di applicazione. L’intento del Saggio è dunque di «esaminare l’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana, nonché i fondamenti e i gradi della credenza, dell’opinione e dell’assenso» seguendo «un semplice metodo storico», analitico e descrittivo. Tale metodo dovrà essere in grado di dare una spiegazione dei modi in cui il nostro intelletto acquisisce le nozioni sulle cose e di stabilire sia i gradi di certezza della nostra conoscenza, sia i fondamenti delle convinzioni umane, così varie e diverse. Ne derivano, in sede metodologica, sia il rifiuto del dogmatismo (la ragione umana è uno strumento limitato rispetto alla potenza divina, anche se è insostituibile per la ricerca della verità) sia dello scetticismo: ciò che importa non è conoscere tutto, ma solo ciò che è necessario per determinare ragionevolmente le proprie opinioni e le proprie azioni in questa vita. Il conoscere ha dunque un senso eminentemente pratico, indipendente sia dalle questioni metafisiche sia da quelle di filosofia naturale. Prima di affrontare l’analisi delle facoltà conoscitive umane, Locke ritiene tuttavia necessario eliminare il pregiudizio circa il possesso di idee e principi innati, nozioni primarie e comuni impresse nella mente fin dalla nascita. La polemica di Locke è rivolta non solo contro il cartesianesimo, ma soprattutto contro i neoplatonici di Cambridge (in particolare Herbert di Cherbury) e le volgarizzazioni di queste dottrine negli ambienti universitari. L’argomento fondamentale è che su queste verità che si pretendono innate (l’idea di Dio, il principio di non contraddizione, i principi morali) non vi è consenso universale, cioè accordo comune tra gli uomini: ci sono popoli primitivi che hanno idee di Dio molto diverse o ne sono del tutto privi, e possiedono concezioni etiche che all’uomo europeo appaiono addirittura

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ripugnanti. Quanto ai principi logici, essi sono sconosciuti ai bambini o agli idioti, e in genere a coloro che non abbiano avuto occasione di apprenderli. Insomma, tutta questa materia, in particolare morale e religiosa, che potremmo ritenere naturale e come scolpita nel nostro animo, in realtà l’abbiamo appresa, senza che ne avessimo consapevolezza, con la prima educazione. Al contrario per Locke la mente è una tabula rasa, inizialmente senza idee e senza conoscenza: quest’ultima non contiene alcun elemento a priori e deriva integralmente dall’esperienza, rispetto alla quale non è possibile che vi sia alcunché di antecedente sia in senso logico che in senso cronologico. Se per idea si intende con Cartesio qualsiasi contenuto mentale o “oggetto psichico”, allora solo l’esperienza può incidere i suoi segni sul foglio bianco della nostra mente: essa dunque è l’unico fondamento del nostro conoscere. «Le osservazioni che facciamo sia intorno agli oggetti esteriori e sensibili, sia intorno alle operazioni interiori della nostra mente [...], forniscono alla nostra intelligenza tutti i materiali del pensiero». Dunque vi sono due tipi di esperienza: esterna e interna, originata rispettivamente dalla sensazione e dalla riflessione. Vi saranno di conseguenza idee di sensazione (originate dal contatto degli oggetti esterni con i nostri sensi, sia con uno solo di essi sia con più di uno), di riflessione (per esempio di desiderio, memoria, discernimento, decisione ecc., che ci rivelano i modi d’operare dell’intelletto) e idee risultanti dalla combinazione di sensazione e riflessione (esistenza, piacere, dolore, numero ecc.). Sulla scia della scienza moderna (Galileo, Cartesio, Boyle), Locke distingue le qualità sensibili in primarie o oggettive (solidità, estensione, movimento, numero, figura) che corrispondono a caratteristiche effettive dei corpi, inseparabili da essi e indipendenti dal nostro rapporto con loro (perciò sono causa delle sensazioni), e le qualità secondarie o soggettive (colori, odori, suoni ecc.) che sono proprie solo del soggetto senziente in quanto scaturiscono dal suo incontro con gli oggetti (perciò non vi è nulla nei corpi di simile a queste idee). Le idee, sia di sensazione che di riflessione, si possono ulteriormente distinguere in semplici (non scomponibili e corrispondenti a singole qualità degli oggetti o singoli fatti psichici) e complesse (derivanti dalla combinazione di più idee semplici). Le prime, chiare, distinte, semplici, indefinibili, si impongono alla mente umana che non ha, rispetto a loro, alcun potere di crearle né di di-

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Locke Empirismo Lo studio dell’esperienza attraverso i maggiori autori F. BACONE (1561-1626) Londra J. LOCKE (1632-1704) Amsterdam-Londra G. BERKELEY (1685-1756) Dublino-Oxford D. HUME (1711-1776) Edimburgo J.S. MILL (1806-1873) Londra-Avignone W. JAMES (1842-1910) Harvard E. MACH (1838-1916) Praga-Vienna F. BRENTANO (1838-1917) Vienna J. DEWEY (1859-1952) Chicago-New York

struggerle: esse sono il materiale della conoscenza, il limite oltre il quale la mente non può andare ma su cui, tuttavia, esercita la sua attività. L’intelletto infatti non è del tutto passivo, in quanto ha il potere di combinare e di comparare le idee semplici dando vita a una varietà indefinita di idee complesse e astratte. Le idee complesse possono essere distinte in idee di sostanza, di modo, di relazione. Le idee di modo, che rappresentano affezioni della sostanza (quindi si riferiscono ad aspetti della realtà che non sussistono per se stessi), si distinguono in semplici (che risultano dalla ripetizione o combinazione della stessa idea semplice) e miste (ottenute per ripetizione o combinazione di idee semplici diverse operata dalla mente senza che vi corrisponda alcunché in natura: vi appartengono dunque tutte le nozioni morali, estetiche, giuridiche). In questo contesto Locke dedica ampio spazio all’analisi delle idee di spazio e tempo e soprattutto di potere, esaminando le quali egli prende posizione sulla questione della libertà del volere (la libertà è il potere di fare quel che si vuol fare: essa è quindi relativa solo al fare, non al volere stesso, che è determinato da passioni, bisogni, desideri ecc.). Quanto alle idee di relazione, Locke esamina soprattutto quella di identità (l’identità personale, che consiste nell’unione e persistenza dell’io, è garantita dalla continuità della coscienza, che percepisce di percepire e conserva in memoria i suoi diversi stati interni) e di causa (pur non negando l’oggettività di tale

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relazione, se ne mette in particolare rilievo l’aspetto soggettivo-psicologico senza ulteriormente indagare sulla natura della nozione stessa). Infine le idee di sostanza (combinazioni di idee semplici che rappresentano oggetti sussistenti per se stessi) hanno origine dalla consuetudine della mente di vedere costantemente insieme un certo numero di idee semplici relative a qualità sensibili contrassegnate nella loro unitarietà con un unico nome, e dalla conseguente convinzione che appartengano a una cosa sola. In realtà, al di là delle qualità percepite, non vi è nulla di conoscibile, anche se siamo convinti che tali qualità non possano sussistere senza qualcosa che le sostenga (perciò chiamiamo questo qualcosa “sostanza”, anche se non sappiamo bene che cosa essa sia). Locke distingue inoltre tra sostanze materiali e spirituali: di queste non si nega l’esistenza (peraltro attestata dalla stessa esperienza), ma solo l’identificazione con la res cogitans e la res extensa cartesiane, e quindi la conoscibilità. L’intelletto umano non ha quindi la capacità di accedere alla costituzione interna e alla vera natura delle cose, dovendosi limitare al modo con cui esse gli vengono rappresentate dalle idee (fenomenismo): di qui l’errore della metafisica, che pretende invece di individuare nella sostanza l’essenza del reale, la sua ragion d’essere più profonda. Le essenze reali della tradizione aristotelico-scolastica sono destinate a restare sconosciute, mentre ciò che esprimiamo nella definizione delle sostanze sono le essenze nominali (cioè i significati dei termini stessi), necessarie alla loro caratterizzazione. Di qui l’importanza che l’analisi del linguaggio (l’origine dei nomi, il loro rapporto con le idee e le cose) assume nei confronti del problema della conoscenza. Rifacendosi alla tradizione occamista, Locke afferma che le parole sono segni convenzionali (non vi è alcun legame naturale tra i due elementi) delle idee, e poiché queste ultime sono a loro volta segni delle cose, le parole sono segni di segni. La parola racchiude le idee che vi riponiamo e le conserva per la memoria, rendendo agevole la comunicazione sociale da cui traggono beneficio il progresso del sapere e il vivere civile. È necessario tuttavia evitare il pericolo di scambiare il linguaggio con il pensiero, donde le interminabili e sterili dispute tra le scuole derivate da un uso equivoco dei termini linguistici quando non addirittura vuoti di contenuto effettivo. La caratteristica convenzionale e pratica del linguaggio rende chiaro che i suoi termini genera-

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li sono solo nomi: usati per classificare le cose in generi e specie, essi sono ottenuti per un processo di astrazione con cui la nostra mente unifica qualità comuni a più idee particolari, formando idee astratte che certo si trovano solo nella nostra mente. Partendo da questa posizione nettamente empiristica e nominalistica, Locke giunge a definire la conoscenza come «la percezione del legame e della concordanza, o della discordanza e del contrasto, tra le nostre idee»: conoscere equivale dunque a stabilire se un’idea è uguale o meno a un’altra, se ha o non ha una relazione con qualche altra idea, se coesiste o meno con qualche altra idea nello stesso soggetto, se ha un’esistenza reale al di fuori della mente. Possiamo pervenire a questo risultato attraverso tre modi, posti su livelli decrescenti in base al grado di chiarezza ed evidenza in essi contenuto: l’intuizione (che percepisce l’accordo o il disaccordo tra due idee in modo immediato), la dimostrazione (che opera in modo mediato, per prova, cioè con una serie di passaggi e dunque con l’intervento di una terza o più idee), la sensazione (che ci consente di percepire l’esistenza particolare degli enti esterni). Al primo modo appartiene la conoscenza del nostro proprio esistere (Locke argomenta in termini cartesiani: non posso dubitarne perché lo stesso dubbio già la implica); al secondo l’esistenza di Dio (dimostrata con il classico argomento ex contingentia mundi); al terzo l’esistenza delle cose fuori di noi (le sensazioni sono causate dai corpi esterni, dato che i sensi sono passivi e la loro testimonianza è univoca circa il medesimo oggetto, ma non possediamo alcuna garanzia sulla conformità delle sensazioni con le cose). La conoscenza non può dunque mai andare oltre l’orizzonte delle idee di cui siamo in possesso: al di là di esso vi è la sfera dell’opinione, che è indispensabile alla condotta pratica pur essendo solo una presunzione di verità. Conoscenza approssimativa e probabile, l’opinione è infatti fondata sull’apparenza della concordanza delle idee ed è garantita, sia pure in modo parziale e provvisorio, dall’accordo della nostra esperienza con quella altrui. Coinvolgendo la maggior parte dei nostri atti, bisognerebbe sottoporre ogni opinione a un esame minuzioso per stabilirne il grado di verosimiglianza prima di accordarle il nostro assenso, anche se per ragioni di opportunità e di utilità siamo per lo più portati ad attribuire a esse un valore assoluto. Anche la fede religiosa non può sottrarsi all’indagine razionale: Locke è

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dunque ostile al fideismo fanatico di stampo calvinista. Riprendendo la distinzione medievale tra proposizioni conformi, superiori, contrarie alla ragione, la tesi lockiana è che tra fede e ragione non vi sia contraddizione ma neppure estraneità. La fede si muove soprattutto in un ambito che è superiore alla ragione, tuttavia è necessario espungere da essa tutte quelle proposizioni che sono inconciliabili con le nostre idee chiare e distinte. Se eviteremo di prestare il nostro assenso a ciò che è contrario alla ragione, la nostra adesione alla fede risulterà più critica e autentica. Da questo contesto emerge che l’intelletto non è un dato naturale, ma un processo di autoformazione spirituale, visto che non è una facoltà dell’anima ma il criterio per determinare la condotta dell’uomo, quindi uso ed esercizio di ragionevolezza. Di qui l’urgenza di una formazione educativa liberale, come sollecitazione alla massima apertura verso le indicazioni dell’esperienza e le istanze pratiche della vita, evitando ogni eccessiva rigidità d’orientamento e deformazione specialistica. L’interesse pedagogico esplode quindi dall’interno del problema dell’intelletto, una volta che questo sia giunto a maturazione: nei Pensieri sull’educazione Locke si fa banditore del modello di una nuova umanità, libera da ogni pregiudizio e aperta alle suggestioni di un progresso da lei stessa promosso col suo spirito d’iniziativa. L’educazione del moderno gentiluomo dovrà far leva soprattutto sui suoi immanenti interessi pratici e spirituali, che devono essere sollecitati dall’interno in un vivace ricambio con l’ambiente storico, in vista dell’acquisizione di un sapere utile, privo di presunzioni assolutistiche e concretamente innestato nelle urgenze e nelle esigenze etiche della vita. La rettitudine mentale, indicata da Locke come finalità massima dell’educazione, consisterà nel controllo equilibrato delle inclinazioni, coerenza del carattere, sviluppo armonico delle capacità operative, dominio intelligente delle prospettive offerte da una determinata situazione. Ma questo modello pedagogico deve trovare il suo necessario presupposto politico in quell’ordinamento costituzionale realizzato nel 1688 e di cui Locke è stato l’eminente teorico nei Due trattati sul governo. Il testo venne scritto in risposta alle tesi assolutistiche de Il patriarca di Robert Filmer (nessuno nasce libero: la naturale soggezione dei figli al padre genera quella dei sudditi all’autorità politica. I sovrani attuali derivano in-

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fatti il loro potere da quello patriarcale di Adamo, trasmesso successivamente ai patriarchi regnanti sui vari clan): se il primo trattato ha un carattere soprattutto confutatorio con argomentazioni tratte sia dall’esegesi biblica sia dall’analisi razionale, è solo nel secondo che si viene delineando una teoria liberale dello stato. Muovendo, come Hobbes, dalla descrizione dello stato di natura (effettivamente ancora presente nelle Americhe), Locke ne dà una connotazione positiva come luogo della libertà e dell’uguaglianza, e quindi fondamento del vivere civile e matrice dei diritti che improntano la società civile: nei limiti della legge naturale ognuno è libero di disporre di sé e dei propri beni come meglio crede. L’uguaglianza naturale non implica però una parità di status: in esso gli uomini sono di fatto differenti ma non politicamente diseguali. La legge naturale dota gli uomini di quattro grandi diritti (vita, sicurezza, libertà, proprietà) e prescrive il divieto di lederli: chi viola la legge naturale colpisce vincoli e garanzie reciproche, minacciando l’intera società. La legge di natura sarebbe inefficace se nessuno potesse renderla esecutiva con un potere coattivo: la politica deve perciò garantire il godimento dei diritti naturali e quindi il raggiungimento della felicità attraverso l’attivazione di tre premesse: pace, armonia, sicurezza. La spinta degli uomini a consociarsi e a farsi membri volontari di una società politica viene dalla necessità di superare la precarietà dello stato di natura e di prevenire lo stato di guerra. Lo stato civile bandisce infatti l’uso privato della forza e impone la soggezione universale alle decisioni della legge, rinviando la soluzione delle controversie a un’autorità apposita cui tutti possono appellarsi. Nello stato civile la libertà consiste nell’essere soggetti al potere legislativo e alle norme da esso emanate in conformità con il mandato conferitogli. La legge non limita la libertà, ma ne rende possibile il concreto esercizio: senza legge non vi è libertà ma arbitrio e oppressione, poiché solo essa protegge dall’invadenza altrui nella vita privata. La libertà è tale nello stato, ma è anche libertà dallo stato. Infatti lo stato deve proteggere i diritti naturali dei cittadini, ma può anche minacciarli se approfittando del monopolio della forza travalica i limiti delle funzioni per cui è stato creato, abusando del potere, pervertendo le leggi e la giustizia, perpetrando violenza e iniquità. In tal caso viene ripristinato lo stato di guerra e i cittadini hanno diritto a ribellarsi (Locke riconosce apertamente il diritto di

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resistenza a un potere illegittimo: però non si tratta di rivoluzione quanto di “restaurazione”, cioè di reintegro di un precedente stato di diritto). Infatti ci sono ambiti (l’istituto familiare, l’attività economica, le opinioni morali e religiose, i costumi) che esulano dalle competenze dello stato e non ne tollerano l’invadenza. L’istituzione del potere legislativo è la prima fondamentale legge positiva; tuttavia essa ha dei limiti precisi. Le leggi vengono emanate in vista del bene pubblico; tutto ciò che riguarda lo stato riguarda l’individuo ma non viceversa, perché il campo degli interessi privati va al di là del raggio d’azione dello stato; le leggi devono essere emanate in forma legittima, essere certe, stabili, uguali per tutti, affidate a giudici imparziali. Tra il popolo e il legislatore (che è privo di poteri sulla vita e sui beni dei cittadini) vige dunque un rapporto fiduciario: il potere politico è esercitato dietro delega popolare, ed è sempre revocabile ove agisca contro la fiducia ripostavi. La legalità costituzionale è limite e norma non solo per il cittadino ma anche per il potere politico. All’interno della tematica politica trova posto anche la soluzione del problema religioso, espressa nella celeberrima Lettera sulla tolleranza. In essa viene fissato da un lato il carattere laico della società civile, dall’altro il principio della libertà di coscienza religiosa. Allo stato compete infatti la tutela dei beni civili, mentre la tutela delle anime non è di competenza del magistrato ma della società religiosa. «Chiesa è una libera società di uomini, che si uniscono spontaneamente per servire Dio in quel modo che giudicano essere loro più accetto per conseguire la salute delle proprie anime». In essa le sanzioni non possono tradursi in effetti per lo stato civile. Gli ecclesiastici «redarguiscano e debellino pure, con la forza degli argomenti di cui sono capaci, gli errori altrui, ma risparmino le persone», e soprattutto non ricorrano al potere civile per il trionfo delle loro idee. Così la magistratura deve rispettare ogni credenza religiosa e lasciare piena libertà di culto, ove questo non contrasti con la morale e la legge pubblica. Si deve essere intolleranti solo con gli intolleranti: i papisti non si possono tollerare perché dipendono da un capo che si arroga il diritto di comandare, oltre che in campo spirituale, anche in quello temporale. Neanche agli atei si può estendere la tolleranza, in quanto con la loro predicazione, distruggono ogni fondamento della vita morale e civile. Al problema religioso è dedicata anche La ragionevolezza del Cristianesimo, scritta col

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proposito di combattere tanto coloro che negano all’uomo la facoltà di operare il bene dopo il peccato di Adamo (i calvinisti), quanto coloro che ritengono si possa fare a meno della redenzione di Cristo, ridotto a mero restauratore della religione naturale (deisti). Il Vangelo, nelle cose necessarie alla salvezza dell’anima, è un libro chiaro e aperto a tutti. Le innegabili difficoltà dei testi sacri si possono spiegare con i testi stessi, con pazienti raffronti tra le varie parti. E per i passi in cui restino tuttavia delle oscurità, si tenga presente che molte sono le verità che ci sfuggono e che si possono ignorare, senza che perciò si tolga nulla alla validità della fede. Noi siamo tenuti a credere solo a quello che intendiamo: l’intelligenza di cui Dio ci ha fatto dono è sufficiente alla salvezza. Perciò Locke procede a una radicale semplificazione della dottrina cristiana, di cui ammette infine un solo articolo di fede, la credenza in Dio e in Gesù Cristo, il Messia. La rivelazione contenuta nella Bibbia corrisponde alla legge morale della natura: siccome la maggior parte degli uomini è incapace di comprenderla, allora è indotta ad agire razionalmente attraverso le semplici proposizioni della Scrittura. Lorenz, Konrad Zacharias Psicologo e zoologo austriaco (Vienna 1903 - Altenberg 1989), premio Nobel per la medicina nel 1973. È uno dei fondatori della etologia, studio scientifico del comportamento animale nel suo ambiente considerando anche le sue componenti ereditarie. Il metodo della nuova scienza, di derivazione darwiniana, è osservativo e comparativo (si cerca di studiare l’animale non solo nel suo habitat o in situazioni a questo vicine ma si ricercano analogie anche parziali tra diverse specie). Lorenz, in particolare nel dibattito sul rapporto tra innatismo e apprendimento, pone l’accento sul carattere innato della maggior parte dei comportamenti in quanto l’istinto (per esempio l’aggressività, su cui ha scritto varie opere tra cui Il cosiddetto male del 1963) è elemento del patrimonio genetico, e l’apprendimento è il comportamento derivato dall’esperienza in rapporto a un certo ambiente. Lorenz sottolinea tuttavia che tale differenza non comporta assoluta indipendenza, come è evidente nell’impriting (impronta), condizionamento immediato che avviene in un periodo di tempo ben determinato (celebre è l’esempio degli anatroccoli, che se nelle prime 13-15 ore di vita sono venuti a contatto con una forma animale diversa dall’a-

Lotze

natra, scambiano quella per la propria madre). Lorenz ha dedicato molti studi ai codici di comportamento, ai riti e alle cerimonie degli animali in relazione alle attività fondamentali della vita (sessualità, cova ecc.) cercando in alcuni casi (suscitando polemiche comprensibilmente accese) di estendere alla sfera umana i risultati ottenuti. Oltre a una vastissima serie di pubblicazioni scientifiche, ha scritto diversi testi destinati al grande pubblico, tra cui il celebre L’anello di re Salomone (1949). Lotze, Rudolph Hermann Medico e filosofo tedesco (Bautzen 1817 - Berlino 1881) di orientamento teistico e spiritualistico, professore a Berlino. Il pensiero di Lotze è indirizzato in ottica antipositivista: la scienza per Lotze accerta nella realtà una connessione dovuta a leggi meccaniche, ma non spiega il perché di tale connessione. Solo la filosofia può giungere a motivare come tutti gli elementi appartengano a un unicum e che il meccanicismo è la realizzazione dei fini di Dio. Tali fini s’identificano nel Bene, che è «la vera sostanza del mondo». Lotze dimostra l’esistenza di Dio non attraverso un procedimento logico, ma come risposta a un bisogno. Dio è a fondamento delle relazioni tra i vari finiti come l’Io singolo lo è tra gli atti psichici. La sua opera più importante è Microcosmo. Idee sulla storia naturale e sulla storia dell’umanità, in tre volumi (1856-1864). Lovejoy, Arthur Oncken Filosofo americano (Berlino 1873 - Baltimora 1962), è il fondatore e direttore del Journal of the history of ideas (1939). Ha proposto una originale teoria sulla storia delle idee (Saggi sulla storia delle idee del 1935; La grande catena dell’essere, del 1936): Lovejoy studia la presenza e l’insieme delle trasformazioni di un’idea in discipline diverse e in tempi diversi; l’unità del percorso non è quindi dato dalla disciplina (la storia delle idee coinvolge tutte quelle in cui l’idea si presenta) ma dall’idea stessa, con la sua persistenza e capacità di trasmettersi e creare influenze in campi diversi. Löwith, Karl Filosofo tedesco e storico della filosofia (Monaco 1897 - Heidelberg 1973), allievo di Husserl e Heidegger, professore in Giappone e negli Stati Uniti durante il nazismo, a Heidelberg nel dopoguerra. Studiò (soprattutto in Da Hegel a Nietzsche, 1941) lo svolgersi della storia del pensiero moderno, individuando due mo-

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menti principali: l’hegelismo come massimo risultato di un’epoca e la sua dissoluzione nel pensiero marxista ed esistenzialista, fino all’approdo odierno nello storicismo relativistico e nella secolarizzazione. Mentre lo storicismo hegeliano viene abbandonato con la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche (a vantaggio di un recupero della natura e del concetto di eternità), il relativismo trae origine dal tentativo della ragione (da Marx in poi) di appropriarsi di ciò che è della fede. Tale passaggio è per Löwith da ritenersi illegittimo, poiché la ragione slegata dalla fede non può concepire la storia in un quadro unitario, non riuscendone a decifrare la finalità né la totalità e a fornire senso alla sua continuità. Solo la fede può comprendere il progetto salvifico di Dio, pertanto è possibile una comprensione della storia soltanto se teologicamente fondata in senso escatologico. Lucrezio, Tito Caro Poeta e filosofo latino (98 ca. a.C.-55 ca. a.C.). Espose la dottrina epicurea nel De rerum natura, raffinato poema filosofico in esametri (rimasto incompiuto e pubblicato da Cicerone) nel cui esordio è presente l’inno a Venere (la greca Afrodite) rappresentata come la dea che «infonde negli dei dolce desiderio» (quindi come forza vitale che muove la natura) e perciò implorata di distogliere Marte dai suoi compiti, affinché possa garantire ai romani una “placida pace” e permettere al poeta di attendere serenamente alla sua opera. Lucrezio riprende sia la dottrina fisica di Epicuro sul movimento degli atomi (ma introducendo l’ipotesi del clinamen per meglio spiegare la formazione dei mondi e rompere il rigido meccanicismo democriteo) sia la concezione etica edonistica e razionalistica, tesa a liberare l’uomo dalla paura dell’ignoto e dalla sottomissione ai pregiudizi (in particolare la superstizione religiosa) nel rifiuto di ogni visione teleologica e provvidenzialistica (quale per esempio quella degli stoici). Riscoperto nel 1418 da Bracciolini, Lucrezio ha avuto vaste e molteplici influenze: su Valla (per la polemica antiascetica), su Bruno (per l’infinità e la pluralità dei mondi), su Gassendi (per la concezione atomistica), su Vico (per la rappresentazione dell’umanità allo stato primitivo), sugli illuministi (per la polemica antireligiosa e la rivendicazione della libertà dell’uomo e della ragione). Luhmann, Niklas Sociologo e filosofo tedesco (Lüneburg 1927 - Örlinghausen 1998), professore a Bielefeld. Dopo aver studiato

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(con una metodologia priva di riferimenti a valori e a fattori ideologici o coscienziali per privilegiare quelli procedurali e di interazione) i problemi della fiducia (verso gli altri, verso la società) e della legittimazione (delle istituzioni), in Potere e complessità sociale (1975) ha inteso (in polemica con le dottrine tradizionali, con ➔ Marx e con ➔ Weber) il potere non come un attributo di determinati soggetti (gruppi o classi) e non identificabile con la coercizione o la forza, ma come un mezzo di comunicazione mediante simboli, diffuso e fluente all’interno del sistema sociale (solo così risulta spiegabile la sua produzione, circolazione e consumo nelle società industriali evolute, che lo sviluppo dei mezzi di comunicazione svincola da condizioni concrete e dai bisogni elementari e dove i fenomeni sono caratterizzati da un grado sempre più elevato di improbabilità evolutiva e di contingenza). Successivamente si è orientato (Pianificazione politica del 1971, Illuminismo sociologico del 1970-75) verso una teoria “sistemica”, dove singolo e società vengono visti come entità dotate di senso e funzionanti secondo criteri diretti a mantenere, nelle diverse situazioni, l’equilibrio interno dei vari elementi che le compongono. La nozione di sistema designa non i rapporti tra le parti di un insieme (come nelle concezioni organiciste o meccaniciste), ma le relazioni che un insieme intrattiene con il proprio ambiente complesso e mutevole, evidenziando non l’uomo e i suoi valori bensì i ruoli nell’interazione sistema-ambiente, non la libertà del pensiero ma la sua funzionalità selettiva. Luhmann ha difeso le sue idee da critiche mossegli da diverse parti (si vedano per esempio quelle di conservatorismo da parte di ➔ Habermas in Teoria della società o tecnologia sociale del 1971) e le ha ulteriormente sviluppate (La scienza della società, 1990). Lukács, György Filosofo e critico letterario ungherese (Budapest 1885-1971). Formatosi in Germania, dopo alcuni lavori di estetica (in cui già si evidenzia l’intenzione di comprendere la realtà attraverso la letteratura), aderì al marxismo e partecipò al governo rivoluzionario di Béla Kun. Di questo periodo è Storia e coscienza di classe (1923), in cui Lukács rielabora in modo originale (e perciò giudicato eterodosso) i temi dell’alienazione, del nesso teoria-prassi, della dialettica, della nozione di merce. In seguito egli adottò uno stile di pensiero più consono all’ortodossia leninista: in estetica sposò

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il realismo come unica prospettiva in grado di suscitare una presa di coscienza critica del tempo storico (all’opposto stanno le forme decadenti, che ne forniscono una visione deformata per proporre solo un’evasione da essa); mentre sul piano teoretico adottò quale modello di razionalità il materialismo dialettico (fuori di esso vi è solo irrazionalità e nichilismo, come testimoniano, in La distruzione della ragione del 1954, tutti gli esiti della filosofia borghese) studiandone le origini ne Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948). Le ultime grandi opere, la monumentale Estetica (1963) e l’Ontologia dell’essere sociale (1966) offrono una sistemazione organica ma scolastica del suo pensiero. A partire dagli anni Sessanta si è formata intorno a lui una scuola (la cosiddetta “Scuola di Budapest”) da cui sono usciti molti intellettuali che hanno percorso nuovi e autonomi itinerari di ricerca. Lullo, Raimondo In catalano Ramón Llull. Filosofo, logico, letterato, teologo e mistico catalano (Palma di Maiorca 1235-1315). Partendo dalla distinzione (ma non separazione in senso tomista) tra filosofia e teologia (della quale riconosce la superiorità poiché il suo oggetto è Dio), Lullo ritiene che il reale sia manifestazione del divino, unica Verità, alla quale l’intelletto approda grazie all’illuminazione della fede. Poiché il tutto deriva da una causa prima (per cui ogni cosa è gerarchicamente legata all’altra), esso può essere studiato e compreso dalla Logica Nuova (basata sia sulla logica formale che sulla conoscenza delle cose) intesa come “ars inventiva veritatum”: essa è una scienza che, fondandosi su principi comuni a tutte le altre (Lullo individua 18 principi, 9 attributi divini, 9 predicati degli esseri contingenti, che sono a fondamento della realtà) e utilizzando figure simboliche, può, mediante un metodo combinatorio di composizione e scomposizione di concetti e un apposito sistema meccanico per procedere con speditezza nelle varie combinazioni, giungere a ragionamenti risolutivi dei vari problemi e a ottenere tutte le verità conoscibili all’uomo (questo anche al fine di svolgere in modo più efficace la pratica missionaria e di diffusione della fede cristiana presso ebrei e musulmani). In tal modo logica e metafisica vengono a coincidere (perciò si è visto a torto in Lullo uno degli iniziatori della moderna logica simbolica). Lullo individua però nella mistica unione con Dio nella contemplazione l’approdo del processo conoscitivo.

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Lutero, Martin Riformatore religioso tedesco (Eisleben 1483-1546). Dopo aver iniziato gli studi di giurisprudenza e aver acquisito una certa cultura filosofica (un aristotelismo con impronta ➔ occamista), entrò come monaco nel convento degli eremiti agostiniani di Erfurt, dove nel 1507 ricevette l’ordinazione sacerdotale. Qui continuò gli studi filosofici diventando prima lettore di filosofia morale a Wittenberg e poi baccelliere e “magister sententiarum” a Erfurt. Durante questi anni cercò (senza successo, il che lo gettò in una cupa disperazione) di placare la sua inquietudine interiore con la pratica ascetica e la lettura dei mistici (soprattutto Bernardo, Tauler e Gerson), mentre era tormentato sia dalla concupiscenza sia dalla paura della dannazione eterna; in teologia, separata la fede dalla scienza, abbracciò un volontarismo assoluto, considerando i dogmi e le leggi morali come espressione della volontà di Dio. Nel 1510 fece un viaggio a Roma su incarico dell’Ordine e conobbe l’ambiente curiale di Giulio II che lo scandalizzò per la mondanità; al suo ritorno fu inviato a Wittenberg, dove divenne priore del locale convento e ottenne nel 1512 la laurea in teologia. Qui fino al 1518 commentò vari testi biblici, dai Salmi ad alcune lettere paoline (ai Romani, ai Galati, agli Ebrei), maturando i fondamenti della sua visione teologica e religiosa. Deluso dall’occamismo, si diede allo studio di ➔ Agostino, specialmente delle sue opere antipelagiane (per esempio il De spiritu et littera) dove si ritrovano alcuni temi fondamentali quali il peccato di Adamo e le sue conseguenze, la grazia e la predestinazione. Lutero dichiarò ora di aver scoperto il Vangelo, in particolare la radicale peccaminosità dell’uomo che può ottenere la liberazione dalla concupiscenza attraverso il totale abbandono alla misericordia divina. Dalla meditazione sull’epistola ai Romani egli si convinse poi di aver trovato il senso profondo del concetto di “giustizia di Dio”, da intendersi non come punizione dei peccatori, ma come misericordia che li perdona e giustifica donando loro la sua giustizia anche senza merito. Egli viene così a elaborare una theologia crucis, quale baricentro di tutto il discorso cristiano: da essa è infatti deducibile la dottrina della salvezza per grazia mediante la sola fede (cioè proveniente solo da Dio per i meriti esclusivi di Cristo, non surrogabili con le opere. Poiché non sono queste a generare la fede, non si può sperare di ottenere da esse la redenzione). Ne nasce un

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nuovo orientamento teologico che ha come conseguenza la condanna dei tradizionali istituti e pratiche devozionali (il ricorso alle indulgenze, il culto dei santi, i voti, i digiuni, i pellegrinaggi, le devozioni particolari), che pretenderebbero, in quanto meritorie, di avere un’intrinseca efficacia salvifica. La situazione del cristiano è definita con la formula “simul iustus et peccator” («giusti perché credono in Cristo, la cui giustizia li copre ed è loro imputata; peccatori, perché non compiono la legge, non sono senza concupiscenza»), mentre la Chiesa, che si è mondanizzata, soffre della condizione paradossale per cui «la sicurezza è peggiore e più terribile di ogni avversità». In effetti quando l’ambiente tedesco, già percorso da correnti antiecclesiastiche ostili alla pompa e agli interessi degli ecclesiastici, fu investito dallo scandalo delle indulgenze (la concessione di questo beneficio dietro versamento di denaro offerto per la costruzione del nuovo San Pietro), si trovò già ben disposto ad accogliere le posizioni che Lutero aveva già maturato e che espose nelle famose 95 tesi del 1517. Denunciato come eretico, fu protetto da Federico di Sassonia, e ad Augusta difese le sue opinioni, rafforzandole con la negazione del primato papale, dell’infallibilità dei concili e con la proclamazione della Scrittura come unica base della fede (principio della “sola Scriptura”). Nel 1520 fu emanata la bolla “Exsurge Domine” che condannava 41 proposizioni di Lutero, e che egli bruciò pubblicamente: perciò l’anno successivo fu scomunicato. La dieta imperiale convocata a Worms vide il suo rifiuto di ritrattare quanto in precedenza sostenuto e scritto e perciò fu bandito dall’impero: da questa condanna si salvò grazie ancora all’intervento del suo protettore, che lo tenne nascosto nel castello di Wartburg. In questo periodo compose la maggior parte dei suoi scritti. Ne Alla nobiltà della nazione tedesca per la riforma del ceto cristiano viene propugnato, quale premessa per la riforma della Chiesa, l’abbattimento della distinzione tra laici ed ecclesiastici (quindi la proclamazione del sacerdozio universale), del diritto esclusivo della gerarchia d’interpretare la Scrittura (che ora ognuno poteva svolgere in piena libertà di coscienza), del diritto esclusivo del papa di convocare il concilio. Nel De captivitate babylonica il rifiuto del calice ai laici, la dottrina scolastica della transustanziazione, il carattere sacrificale attribuito alla messa, la dottrina dei sette sacramenti (viene mantenuta

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questa qualifica, sia pure con un significato diverso da quello cattolico, solo a battesimo, cena e penitenza in quanto confermati dalle Scritture). Nella Libertà del cristiano si sostiene che il cristiano, confidando solo in Dio, si scioglie da ogni sottomissione e, in quanto partecipe della regalità di Cristo, diventa signore di tutte le cose; nei riguardi del prossimo è servo d’ognuno, tenuto a compiere opere buone, non per ottenere meriti presso Dio, ma come espressione del suo animo religioso. In successivi opuscoli polemici, Lutero condannò i voti monastici e il ritiro dal mondo (De votis monasticis iudicium) e ribadì la negazione del carattere sacrificale della messa come vergogna idolatrica (De abrogando missa privata, “Dell’abuso della messa”). Fondamentale resta la traduzione di Lutero della Bibbia condotta sugli originali greci (per il Nuovo Testamento quello curato filologicamente da ➔ Erasmo) ed ebraici: tale edizione, se da un lato rese accessibile la Scrittura ad ampi strati di popolazione, dall’altro ebbe una decisiva influenza sulla formazione della moderna lingua letteraria tedesca. Nel 1525 Lutero intervenne per condannare (Contro le brigantesche e micidiali masnade dei contadini) la rivolta di cavalieri e contadini guidati da Thomas Müntzer che, in nome del Vangelo, rivendicavano profonde riforme sociali: in quanto eversori dell’ordine temporale voluto da Dio, essi andavano giustamente sterminati da quei principi cui essi si erano ribellati e a cui invece andava affidata la conservazione della purezza della dottrina e la sorveglianza della vita delle comunità. In quello stesso periodo si svolse la polemica con Erasmo sul libero arbitrio, che interessa più ampiamente la concezione dell’uomo: se l’umanista ne sostenne nel “De libero arbitrio” la dignità e la sua libertà di scelta anche dopo il peccato, nel De servo arbitrio Lutero, rifacendosi all’Agostino della polemica antipelagiana nonché ad alcuni motivi paolini interpretati alla luce della dottrina del vescovo d’Ippona, propose una visione antropologica nettamente pessimistica (l’umanità è “massa dannata”, poiché il peccato originale ha irrimediabil-

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mente corrotto la sua natura inclinandola al male). Lyotard, Jean-François Filosofo francese (Versailles 1924 - Parigi 1998), professore a Parigi-Vincennes e negli Stati Uniti. Partito da posizioni fenomenologico-marxiste (vicine a ➔ Merleau-Ponty), le ha successivamente integrate con elementi psicanalitici, pervenendo (in Economia libidinale del 1974) a una concezione fortemente critica verso il marxismo tradizionale e aperta ad accogliere, attraverso la ricezione delle prospettive freudiane sul corpo e sul desiderio, i temi dell’emancipazione e di una società non repressiva. Nel noto saggio La condizione postmoderna (1979), il tratto caratteristico delle società industriali avanzate e informatizzate viene individuato in una rottura a partire dalla fine del XIX secolo con la cultura della modernità, connotata da una serie di sintesi filosofico-politiche (in fondo nient’altro che “favole per adulti”, “grandi narrazioni” come l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo), tese a fornire una legittimazione del pensare e dell’agire in termini di “progresso” e di “libertà” attraverso una visione unitaria della storia teleologicamente e positivamente orientata. Oggi, dopo le grandi trasformazioni del capitalismo che ha informatizzato e mercificato le conoscenze, si deve prendere atto, secondo Lyotard, della fine di queste concezioni totalizzanti (che si sono per così dire autodelegittimate) per lasciare il posto a una disincantata constatazione che la società e il sapere appaiono sempre meno compatti e uniti da norme e strutture rigide e sempre più frammentati e pluralizzati in una molteplicità di forme e giochi linguistici: caduta l’idea normativa di “ragione” essi risultano tra loro concorrenziali e non gerarchizzabili. In attesa di una nuova sintesi (un futuribile gioco di tutti i giochi, che comunque non potrà annullare le ormai irriducibili differenze), il sapere postmoderno si qualifica per l’estrema comunicazione e trasmissione dei risultati, nonché per la mancanza di una legittimità che vada oltre i limiti della parzialità, della reversibilità, della temporaneità.

M Mably, Gabriel Bonnot de Filosofo francese (Grenoble 1709 - Parigi 1785), fratello di Condillac. In una serie di scritti (Colloqui di Focione, Della legislazione, Principi di morale, Dubbi proposti ai filosofi economisti sull’ordine naturale ed essenziale delle società politiche, Diritti e doveri dei cittadini) indicò i fondamenti ideali della vita politica, sostenendo una concezione naturale e sociale della morale come senso d’umanità quale garanzia, rafforzata dalla religione (di qui la polemica teista contro l’ateismo quale pericoloso elemento antisociale), del benessere generale. Criticò il dispotismo illuminato e il liberismo dei fisiocratici in nome di una concezione di vita aristocraticamente egalitaria e austera, ispirata alla costituzione spartana e a Platone (propose pertanto l’abolizione della proprietà privata, quale fonte di degrado morale e sociale) da un lato, e all’antica democrazia dei franchi. Mach, Ernst Filosofo austriaco (Turas 1838 - Haar 1916), scienziato e fisico. Vissuto in ambiente positivista, ha elaborato una teoria della conoscenza che va sotto il nome di fenomenismo: i concetti e le teorie filosofiche sono concepiti come costruzioni della mente di carattere descrittivo, valide nella misura in cui riescono a descrivere i fenomeni e a consentire la previsione dei comportamenti della natura. Nella ricerca scientifica non si tratta quindi di scoprire delle verità, ma di elaborare concetti e teorie (Conoscenza ed errore, 1905). Queste idee ebbero molta influenza sullo sviluppo del dibattito scientifico di inizio secolo e furono al centro del dibattito negli anni del neopositivismo logico. Machiavelli, Niccolò Scrittore e teorico politico italiano (Firenze 1469-1527). Appartiene alla generazione dei giovani che, nella Firenze rinascimentale, vissero come esperienza politicamente esaltante la partecipazione alla vita pubblica nel corso della Repubblica fiorentina (1498-1512), tra il periodo del Savonarola e il rientro dei Medici. Machiavelli lavorò per anni nella Segreteria, svolgendo diversi incarichi soprattutto diplomatici. Conobbe quindi direttamente

la scena politica internazionale e, messo da parte al rientro dei Medici e costretto all’inattività, elaborò le sue conoscenze in due testi molto celebri, che sono a fondamento della scienza politica moderna: Il Principe (1512) e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (pubblicati postumi nel 1532). Machiavelli è riconosciuto come il fondatore della politica come scienza autonoma, avendone individuato il metodo e soprattutto identificato l’oggetto, isolandola rispetto all’etica, alla religione e alle altre discipline. La politica è scienza del potere e dello Stato (della sua formazione, della sua difesa, delle sue competenze, della sua fine) e possiede regole proprie che Machiavelli identifica. Nel Principe egli descrive il ruolo del costruttore e reggitore degli Stati, identificandone le qualità (metaforicamente espresse dal coraggio del leone e dall’astuzia della volpe), indipendentemente da ogni considerazione etica o religiosa, essendo queste ultime per lo Stato e il suo Principe soltanto strumenti al servizio di autonomi fini politici. L’opera di Machiavelli è storicamente molto importante, perché costituisce uno spartiacque per la filosofia politica moderna. Dopo di lui, i teorici politici si muoveranno in molteplici direzioni, ma per lo più accogliendo l’idea di fondo dell’autonomia della politica e dell’esigenza di definirne i metodi per identificarne le leggi, come accade per qualsiasi scienza. Machiavelli è anche autore di opere letterarie (celebre la sua commedia Mandragola) e storiche (le Istorie fiorentine, incompiute) e di altri trattati minori di teoria politica. MacIntyre, Alasdair Chalmers Filosofo cattolico scozzese (Glasgow 1929), prevalentemente interessato alle questioni di etica e filosofia politica. Ha studiato a Londra, Manchester e Oxford, in ambienti dominati dall’impostazione analitica. Ha insegnato dapprima in Gran Bretagna presso le università di Leeds, Essex e Oxford, poi, dal 1969, negli Stati Uniti in vari atenei, tra cui le università di Boston e di Notre Dame (Indiana). I primi interessi di studio di MacIntyre sono rivolti al rapporto tra marxismo e cristianesimo (Marxism. An interpretation,

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1954) e agli studi di filosofia della religione dal punto di vista della filosofia analitica (New Essays in Philosophical Theology, 1968). La notorietà internazionale gli deriva, però, dagli studi di filosofia morale, in particolare dal saggio Dopo la virtù (1981). In quest’opera MacIntyre contrappone la concezione pre-moderna della morale, regolata dalle virtù di derivazione platonico-aristotelica e cristiana, alla morale individualistica moderna, in cui sono rifiutate la tradizione e l’autorità in nome del soggettivismo e del relativismo etico. Sia nella polis greca sia nella societas christiana l’individuo faceva parte di una comunità di cui condivideva le virtù; nella modernità, dopo il fallimento del progetto illuministico dovuto all’incoerenza tra concezioni etiche e natura umana, prevale l’emotivismo, ossia la teoria che vuole dar conto dei giudizi morali in termini di emozioni e di sentimenti individuali ed esclude che i giudizi morali possano far parte di argomentazioni razionali. Solo il ritorno a un’antropologia aristotelico-tomista, basata su una nozione finalistica di natura umana, può consentire di fondare l’etica su un concetto di virtù radicata entro una comunità che riconosce valori condivisi e che su di essi assegna ruoli sociali comprensibili e accettati da tutti. L’esito cui giunge il pensiero politico di MacIntyre è una forma di comunitarismo che si oppone al liberalismo e al capitalismo e auspica il ritorno ad antiche forme di convivenza in cui tutti i membri si riconoscano nelle tradizioni collettive e nelle virtù comuni su cui deve reggersi una società bene ordinata. Negli anni successivi alla pubblicazione di Dopo la virtù, MacIntyre ha scritto due importanti saggi, Whose Justice? Which Rationality? (1988) e Three Rival Versions of Moral Enquiry (1990), in cui ha discusso le proprie tesi mettendole a confronto con altre posizioni emerse nel dibattito etico-politico statunitense e si è misurato con nuove realtà contemporanee quali le società multireligiose, multietniche e multiculturali. Maimon, Salomon Vero nome Salomon ben Jehoshua. Filosofo ebreo polacco (Niéswiez 1754 - Niedersiegersdorf 1800), vissuto e attivo prevalentemente in Germania. Dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant è stato uno dei protagonisti del dibattito sulla “cosa in sé”. Per Maimon la conoscenza è un processo che non può avere termine: esiste sì un limite, ma questo è in continuo spostamento, sicché la veri-

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tà dell’oggetto studiato non può mai essere colta nella sua totalità. Queste tesi apriranno la strada all’idealismo di Fichte. Maimonide, Mosè In ebraico Moshè ben Maimon. Filosofo, teologo e medico ebreo spagnolo (Cordova 1138 - Il Cairo 1204). A seguito della intolleranza religiosa dei califfi Almohadi, la sua famiglia dovette lasciare Cordova nel 1148 e peregrinare per varie città spagnole, nel 1160 riparò a Fez, dove pure incontrò difficoltà; dopo altri spostamenti nell’area mediorientale, Maimonide giunse infine a Fustat (Il Cairo vecchio) dove esercitò l’arte medica. La sua fama crebbe tanto da farlo nominare nel 1185 medico del Saladino; fino alla morte fu capo degli ebrei d’Egitto. La produzione di Maimonide può essere ricondotta a due filoni principali: quello dogmatico-religioso e quello filosofico-teologico. Il primo trova la più compiuta espressione in una vasta opera scritta in ebraico, Mishnè Torà (“Ripetizione della Legge”, nota anche come Jad ha-chazaqà “Mano forte”); il secondo filone culmina nel Moreh Nevuchim (“Guida dei perplessi”), ampio testo, scritto originariamente in arabo ma ben presto tradotta in ebraico. Composta tra il 1170 e il 1180, la Ripetizione della Legge è la prima, completa codificazione delle norme religiose ebraiche. Testimonia un enorme sforzo enciclopedico per ordinare in modo chiaro e preciso una vastissima precettistica; oltre a temi giuridici, affronta argomenti teologici e filosofici. Quest’opera era stata anticipata da un altro libro, scritto tra il 1150 e il 1168, il Commento alla Mishnà (per Mishnà si intende la codificazione canonica della Legge orale ebraica, risalente al III sec. d.C.), dove, accanto a un’esposizione sistematica del pensiero etico, in cui è evidente l’influsso aristotelico, si trovano I tredici articoli di fede, la più autorevole, anche se non normativa, elencazione dei principi basilari dell’ebraismo. La Guida dei perplessi fu portata a termine nel 1190; l’opera, in cui è palese l’influsso del pensiero di Aristotele mediato attraverso la riflessione araba, è dedicata a chi si dibatte nel dubbio di come conciliare tra loro fede e ragione ed è composta da tre parti: a Dio, al mondo e all’uomo. Maimonide ritiene possibile conciliare tra loro fede e ragione, ma per farlo è indispensabile interpretare in modo razionale la rivelazione biblica. Il punto di partenza è la discussione sugli attributi divini; l’unico che si può affermare è che Egli è l’Essere in cui essenza ed esistenza coincidono – questo sarebbe il senso

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razionale dell’affermazione biblica «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14) –, predicarne altri significa cadere nell’antropomorfismo. È quindi preferibile seguire la via della teologia negativa, in base alla quale si può indicare ciò che Dio non è. L’esistenza e l’unicità di Dio sono dimostrate razionalmente in base a prove, d’impianto aristotelico, legate al moto e al primato dell’atto sulla potenza. La ragione non può invece stabilire in modo definitivo la non eternità del mondo: solo la rivelazione offre conferma dell’origine temporale del creato. Pur riconoscendo grande dignità al sapiente, Maimonide sostiene la maggior completezza della verità affermata dal profeta, il quale per ricevere da Dio questo dono deve però già possedere la sapienza. Nonostante la critica di alcune sue posizioni, la Guida dei perplessi esercitò un grande influsso sia sul pensiero ebraico sia su quello cristiano. Maine de Biran, François-Pierre Vero nome Marie-François-Pierre Gonthier de Biran. Filosofo francese (Bergerac 1766 - Parigi 1824). Autore dei Nuovi saggi di antropologia o della scienza dell’uomo interiore (1824) e di un Diario intimo che tenne per tutta la vita, è uno dei padri dello spiritualismo francese, che avrà molti esponenti nel corso dell’Ottocento e fino a Bergson. L’idea di fondo di Maine de Biran è che si debba partire, per intendere la conoscenza umana e la vita stessa dell’uomo, dall’esperienza interiore. In essa troviamo la contrapposizione tra un io che vuole (la forza soggettiva originaria di tipo spirituale) e una resistenza di tipo organico che gli si oppone: una tensione costante tra un elemento spirituale e uno materiale. Maistre, Joseph de Politico e filosofo (Chambéry 1753 - Torino 1821), tra i maggiori esponenti del tradizionalismo. Ambasciatore e ministro del Regno di Sardegna, fu deciso oppositore della Rivoluzione francese. Nelle Serate di San Pietroburgo e ne Il papa espone le proprie convinzioni antimoderne: la storia nasce dal peccato originale, che segna il distacco da Dio. La laicizzazione è il peccato più grave, di cui le guerre (le disastrose guerre napoleoniche) sono la conseguenza. Tuttavia, la guerra e il sangue possono essere considerati strumenti di purificazione e stimolo al ritorno della verità. Poiché questa è stata rivelata da Dio, essa è data dalla tradizione, di cui è portavoce il papa, al quale secondo De Maistre i popoli dovrebbero sottomettersi.

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Malebranche, Nicolas de Filosofo francese (Parigi 1638-1715), appartenente alla congregazione dell’“Oratorio” ed esponente della corrente dell’occasionalismo. Formatosi sul pensiero di Agostino, fu poi attirato dalla filosofia di Cartesio, dal quale però venne staccandosi a motivo di alcune difficoltà interne al suo sistema, in particolare circa il rapporto tra anima e corpo e la nozione di causalità. Nella sua opera più nota, La ricerca della verità del 1674-75, egli sostiene che se per causalità si intende la capacità di produrre qualcosa di reale (se in sostanza equivale a creare), questo potere appartiene solo a Dio: attribuire efficacia alle cause seconde (o naturali) implica riconoscere alle creature (gli enti finiti) una funzione propria solo del creatore, e quindi ricadere nel paganesimo. Ma se solo in Dio si può stabilire un rapporto necessario tra causa ed effetto, le cause seconde hanno in lui la loro radice: i corpi non sono in grado di muoverne altri (come potrebbero se non sono dotati di forza motrice propria e sono privi di una loro facoltà autonoma?) e lo stesso dicasi dell’anima, la cui presunta azione sui corpi risulta incomprensibile per l’eterogeneità tra spirito e materia. Questa esaltazione dell’assoluta potenza e volontà divina conduce necessariamente a sminuire il ruolo e l’autonomia delle creature, ridotte a occasioni della manifestazione ed esplicazione di Dio. E lo stesso vale per il problema della conoscenza, giacché non si può spiegare l’origine delle idee delle cose esterne all’uomo (quelle che Cartesio chiama avventizie) postulando né un’azione di queste sull’anima, né una capacità produttiva di quest’ultima (che allora dovrebbe o ricavare un’entità spirituale da una realtà materiale o crearle dal nulla sostituendosi a Dio). Non resta allora che un ritorno al platonismo, considerando le idee come modelli (non come stati di coscienza) che l’anima contempla in Dio, attraverso il quale essa può cogliere la rappresentazione delle cose che Lui produce in noi. Malthus, Thomas Robert Economista inglese (Rooker 1766 - Bath 1834), uno dei padri della moderna demografia. Nel celebre Saggio sul principio della popolazione (1798) ha sostenuto la tesi che la popolazione umana cresce secondo una progressione geometrica, mentre le risorse alimentari crescono secondo una progressione aritmetica. Per conseguenza è indispensabile, per la salvezza dell’umanità, introdurre forme di controllo delle nascite. In quanto pastore

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anglicano, tuttavia, la sua proposta si limita all’idea di favorire i matrimoni in età avanzata e la castità volontaria. Per Malthus si tratta di rimedi indispensabili per la riduzione della crescita, alla quale, se non saranno adottati, la natura stessa provvederà con i suoi “freni naturali”, come guerre, pestilenze, aumento della mortalità per indebolimento, denutrizione ecc. Mandeville, Bernard de Filosofo di origine olandese (Dordrecht 1670 - Hackney 1733), vissuto a lungo in Inghilterra, dove pubblicò la sua celebre Favola delle api, o vizi privati, pubbliche virtù (1723-1729), riedita con aggiunte. Mandeville immagina un alveare in cui predominino costumi privati non certo irreprensibili, e nell’ambito del quale ciascuno persegua, finché può, il proprio interesse. Nonostante ciò l’alveare funziona. Ma nel momento in cui prende piede l’idea di moralizzare i costumi, il clima nell’alveare si deprime moltissimo e la vita sociale ne risente negativamente, anche dopo l’eliminazione dei vizi privati. La morale dell’apologo è che a vizi privati possono corrispondere pubblici vantaggi, perché ciascuno perseguendo il proprio interesse finisce col contribuire, come effetto secondario, al benessere collettivo. L’equilibrio sociale e l’aumento della ricchezza nascono dalla composizione degli egoismi individuali, non dall’altruismo e dalle virtù private. Manicheismo Dottrina attribuita al leggendario sacerdote persiano Mani (III sec. d.C.) che si ritenne sia stato l’ultimo dei profeti (il Paracleto – colui che aveva il compito di perfezionare il cristianesimo – dopo ➔ Zarathustra, Buddha e Gesù) giunto per redimere l’umanità. Il manicheismo presenta una dottrina di tipo dualistico: i principi del Bene (Luce) e Male (Tenebre) sono presenti nel cosmo, increati ed eterni: il primo prevale sul secondo ed è concepito come Dio, vita, verità; il secondo è corruzione, materia, ignoranza. Essi sono presenti anche nell’anima dell’uomo, che con la parte luminosa può raggiungere l’ascesi con il triplice sigillo: signaculum oris (astenersi dal cibo di carne di animali e da discorsi impuri), manus (astenersi dal lavoro e dalla proprietà), sinus (astenersi dal matrimonio e dai piaceri carnali). Il manicheismo si diffuse sia in Oriente che in Occidente (in particolare fino al VII sec. d.C.). ➔ Agostino, sebbene inizialmente avesse aderito a tale dottrina per nove anni, successivamente la ripudiò radicalmente,

Marcel

scrivendo molte opere polemiche tra cui De genesi contra manichaeos, Contra Faustum manichaeum, De moribus manichaeorum. Mannheim, Karl Sociologo e filosofo, ungherese di nascita ma tedesco di formazione (Budapest 1893 - Londra 1947), professore a Francoforte e a Londra. Ha concentrato la sua attenzione sulla sociologia del sapere (cioè sui condizionamenti sociali del conoscere), sintetizzando nel suo orizzonte teoretico diverse influenze culturali (dal marxismo, allo storicismo weberiano, alla Gestalt). Nella sua opera maggiore Ideologia e utopia (1929), i due concetti sono esaminati nei loro contenuti e nelle loro forme storiche, nei loro aspetti ricorrenti e contrastanti. Se l’ideologia ha un significato eslusivamente negativo (in quanto coscienza in contrasto con le strutture socio-economiche esistenti e incapace di una loro trasformazione), l’utopia assume una valenza positiva in virtù di un atteggiamento consapevole e rivoluzionario, non solo critico verso il presente statu quo. Accusato di relativismo (ogni ideologia e ogni utopia sono concepibili solo nell’orizzonte di determinati gruppi e classi sociali di cui esprimono i valori), Mannheim ha cercato di reagire indicando nel “prospettivismo relazionistico” il fondamento epistemologico della sua disciplina, che mirerebbe a una superiore oggettività attraverso il raggiungimento di una sintesi dinamica e integrativa (operata da intellettuali indipendenti sciolti da ogni vincolo politico) dei vari punti di vista complementari quale massimo criterio di spiegazione e risoluzione di tutti i problemi. Successivamente Mannheim ha rivolto il suo interesse alla comprensione del fenomeno politico e alla ricostruzione sociale (Uomo e società in un’età di ricostruzione del 1940 e Diagnosi del nostro tempo del 1944), ravvisando in una democrazia progressiva (lontana dunque dal neutralismo del liberalismo classico), caratterizzata dal controllo delle funzioni e dalla pianificazione delle competenze, la società nuova cui mirare. Marburgo, Scuola di

➔ Neokantismo

Marcel, Gabriel-Honoré Filosofo, drammaturgo e critico teatrale francese (Parigi 18891973), esponente del cosiddetto “esistenzialismo cristiano”. Sotto l’influenza del neoidealismo di Royce e Bradley e l’intuizionismo di Bergson, ha maturato progressivamente il concetto di esistenza come incarnazione o sentimento della nostra inserzio-

Marco Aurelio Antonino

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ne nel mondo e come partecipazione rivelativa sia all’“essere insieme” con gli altri sia al “Tu” assoluto. Distinguendo tra problema (l’ostacolo che è davanti a me e mi sbarra la strada) e mistero (che è qualcosa in cui sono implicato, che è in me e non distinguibile da me come un oggetto esterno), riaffermò, contro lo scientismo neopositivistico, il valore della metafisica quale apertura al “mistero dell’essere” (da realizzarsi con una conseguente “dialettica recuperatrice”, che ci conduce al suo riconoscimento dentro la totalità della nostra esistenza in alcune situazioni topiche – la fedeltà, l’amore, la speranza, l’invocazione ecc.); nello stesso tempo polemizzò contro il primo Heidegger e Sartre per concepire l’esistenza in termini non reificati. A tal fine è orientata la distinzione tra essere e avere, tra un modo d’essere oggettivato ed esteriore, segnato dal possesso e dalla soggezione alla tecnica, e uno autentico, caratterizzato da un rapporto intimo, profondo, consapevole con se stessi e con gli altri. A queste condizioni l’itinerario metafisico dal piano naturale sfocia in quello sovrannaturale, rendendo possibile avvertire la presenza di Dio come “Tu” personale assoluto. Marco Aurelio Antonino Imperatore romano e filosofo (Roma 121 - Vindobona, l’odierna Vienna, 180). Studiò retorica con Frontone e filosofia con Rustico e Apollonio, che lo introdussero alla dottrina stoica attraverso il pensiero di ➔ Epitteto. Adottato da Antonino Pio, gli successe nella suprema magistratura, forzando la sua vocazione di studioso e rassegnandosi a sopportare il peso delle cure politiche (in particolare quello della guerra, che ripugnava al suo animo mite e alieno dalla violenza). Frutto delle sue meditazioni è la raccolta di riflessioni e massime intitolata A se stesso (passata nella tradizione col titolo Ricordi), una sorta di diario intimo scritto in greco in 12 libri, documento spirituale tanto più vivo e spontaneo in quanto non destinato alla pubblicazione. Il pensiero di Marco Aurelio, pur inserendosi nel solco dello stoicismo romano con la sua visione umanitaria culminante nella “pietas”, si avvicina al neoplatonismo, orientandosi verso un’interpretazione metafisico-religiosa della realtà: così nell’uomo viene ammessa, accanto al corpo e all’anima (principio motore materiale, sede delle passioni e degli impulsi affettivi) un intelletto (nous) immateriale e immortale, sede della razionalità. Essendo in comunicazione con la divinità, con cui stabilisce

Marco Aurelio Antonino

un vincolo di parentela, esso viene a costituire un demone individuale, che funge da “guida” nella lotta quotidiana per il dominio delle passioni, la risoluzione delle incertezze, il lavoro per assolvere ai propri doveri. In tal modo, vivendo secondo coscienza, il saggio vive anche secondo ragione quale essenza del mondo, e di conseguenza compie il bene: egli è in pace con se stesso, libero dalle influenze esterne, perché accorda il proprio agire con le leggi, divine e naturali, del cosmo. Dunque, in Marco Aurelio sono frequenti i richiami all’interiorità e all’illusorietà delle evasioni («scava in te stesso, dentro è la fonte di ogni bene», «ritirati in te stesso. Perché in nessun altro luogo si ritrova l’uomo con maggior tranquillità e meno affanni che nell’anima sua»), poiché la pienezza della vita si realizza nel possesso di se stessi, abbandonando le passioni e le esteriorità, in una sublime indifferenza di fronte agli eventi. Poiché sull’universo in cui siamo organicamente inseriti veglia una volontà provvidenziale, la mente umana deve seguirne gli scarni precetti attraverso l’ascolto della voce interiore: vivere a contatto con Dio (accogliendone con rassegnazione i decreti) significa oggettivarsi in lui quale effetto del raccoglimento in se stessi come in un’intima cittadella. Nella rinuncia ai moventi esterni e nel fissare lo sguardo sull’unico punto da cui «tutto scaturisce», si trova l’apertura verso l’umanità in ogni sua forma, spesso errabonda e sofferente («ricordati che tutti gli uomini ti sono parenti, che essi peccano solo per ignoranza e involontariamente, [...] e specialmente che nessuno ti può danneggiare perché nessuno può intaccare la tua ragione»), amandola e prodigandosi per essa, con generosità, comprensione, tolleranza e accondiscendenza (il che però non gli impedì di disporre la persecuzione contro i cristiani). Fondamentale nel perseguimento determinato della saggezza e nel rafforzamento del proposito di bene operare per l’utile di tutti è il pensiero della morte: «non come tu avessi a vivere molte migliaia di anni [...]. La morte ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è dato, fa che tu sia uomo dabbene»; «Ancora un poco e son morto, e tutto è finito. Se ciò che faccio ora è conforme alla natura di un essere intelligente, socievole e isonomo a Dio, che cerco di più?» In sé essa non deve fare paura, essendo inscritta, al pari della vita, nella grande legge razionale del mondo: perciò vi si deve preparare consapevolmente, sapendo che l’unica cosa importante è vivere virtuosamente, la cui arte assomiglia a quella «della lotta [...] in quanto

Marcuse

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Marsilio da Padova

bisogna essere pronti a ogni accidente non previsto, e saldi per non cadere».

menti giovanili e sulla contestazione del Sessantotto, sia in America sia in Europa.

Marcuse, Herbert Filosofo tedesco (Berlino 1898 - Starnberg 1979), tra i maggiori esponenti della ➔ Scuola di Francoforte, professore in varie università americane dopo l’avvento del nazismo. Formatosi nel clima esistenzialista (Heidegger) e marxista della Germania di Weimar, cercò nell’hegelismo la radice della fondazione del concetto di storicità quale dimensione essenziale dell’essere (L’ontologia di Hegel del 1932) e del pensiero “negativo”, individuando nella dialettica (che pertanto intese liberare dalle interpretazioni «totalitarie di destra»: Ragione e rivoluzione del 1941) lo strumento più efficace per una critica dell’esistente, in nome delle esigenze della ragione e per la realizzazione piena dell’umano auspicata da Marx (dei cui Manoscritti economico-filosofici Marcuse fu uno dei primi estimatori). Nel progetto di liberazione del mondo dalla necessità e dall’alienazione, si innesta (con Eros e civiltà del 1955) il tema freudiano di una società non repressiva: se la civiltà presuppone la coercizione e la sublimazione degli istinti individuali, con i conseguenti controlli e le inibizioni che producono nevrosi, Freud stesso indicherebbe nella contraddittorietà incomponibile tra realtà e principio-del-piacere la via per la distruzione del sistema (quello della società industriale avanzata regolata sul criterio dell’efficienza delle prestazioni) che la produce, restituendo l’uomo (come già in ➔ Schiller) all’impulso fondamentale del gioco quale attività libera e creatrice. In L’uomo a una dimensione (1964), proseguendo la critica alla società tecnologica e dei consumi, ne coglie la negatività nella dimensione totalitaria, che fa apparire tutto organizzato razionalmente, come deve essere, celando le lacerazioni interne e ottundendo, con le continue occasioni di consumo e di gratificazioni superficiali, la volontà d’opposizione degli individui (compreso lo stesso proletariato, integrato con una politica di alti salari), imbavagliati in una falsa democrazia (dove tutto è deciso altrove) e tolleranza (che non mette però in discussione il sistema stesso). L’unica prospettiva rivoluzionaria consiste nel “grande rifiuto”, opposizione totale attuata dal vasto e complesso “sostrato” dei soggetti marginali, degli esclusi, dei non integrati sia della “società opulenta” sia del terzo mondo, la cui azione necessita di coordinamento e di simultaneità. A motivo di queste idee, Marcuse ha avuto larga influenza sui movi-

Maritain, Jacques Filosofo francese (Parigi 1882 - Tolosa 1973), tra i più autorevoli pensatori cattolici. Da un’iniziale simpatia per Bergson, dopo la conversione aderì al tomismo (della cui rinascita fu tra i principali esponenti) quale indirizzo teoretico più convincente per superare le difficoltà del pensiero moderno, i cui limiti più vistosi sono l’immanentismo e l’antropocentrismo, che lo rendono angustamente settoriale e antinomico (come risulta in Tre riformatori: Lutero, Descartes, Rousseau del 1925). Secondo Maritain si tratta di rivalorizzare l’oggettività dell’essere e della verità (Distinguere per unire o i gradi del sapere del 1932) in una visione che, mentre recupera, contro positivismo e idealismo e alla luce della dottrina dell’“analogia entis”, il senso insieme unitario e molteplice della realtà, riconosca un corrispondente pluralismo noetico, capace di individuare i vari livelli di conoscenza, gerarchicamente disposti e culminanti nella metafisica. Di qui il passaggio alla fondazione di un Umanesimo integrale (1936) per la conciliazione e integrazione, in un rinnovato organicismo, di quanto c’è di positivo nelle diverse concezioni attuali dell’uomo (esistenzialismo, marxismo). Opponendosi non solo ai totalitarismi di destra e di sinistra, ma anche all’individualismo borghese da un lato e al collettivismo comunista dall’altro, questo umanismo intende consentire, pur nell’ispirazione ai valori evangelici, una visione laica e universale della vita, in grado di soddisfare, in chiave etica, l’esigenza di promozione della persona nella sua dimensione comunitaria e solidale (La persona e il bene comune del 1947, Cristianesimo e democrazia del 1948, L’uomo e lo stato del 1953). Lo stesso indirizzo Maritain lo ha perseguito in campo pedagogico (L’educazione al bivio del 1943, dove ha polemizzato con l’attivismo in nome del radicamento filosofico della pedagogia e di un “personalismo sociale” che miri alla pienezza della formazione individuale in vista della costituzione di una compita democrazia) ed estetico (L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia del 1953, in cui, rifiutando l’intellettualismo e l’irrazionalismo, si individua nell’intuizione, derivante dal preconscio e dall’immaginazione, la matrice creativa della poesia, forma espressiva più elevata dell’arte). Marsilio da Padova Filosofo medievale (Padova 1276 ca. - Monaco di Baviera 1343 ca.).

Martinetti

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È autore del celebre Defensor pacis, composto nel 1324, uno dei testi di filosofia politica di maggior successo della sua età. Marsilio prende nettamente posizione a favore della nozione di sovranità legata al popolo (derivante in ultima istanza da Dio) e sottratta quindi alla derivazione papale. Anzi, teorizza la più rigorosa separazione tra la Chiesa (e quindi il clero a qualsiasi livello) e la gestione civile e politica del potere, a favore della piena autonomia del potere statale. Martinetti, Piero Filosofo italiano (Pont Canavese 1872 - Cuorgnè 1943). Studiò a Torino, dove si laureò nel 1893 con una tesi su Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana (pubblicata nel 1896); si perfezionò poi a Lipsia, prima di insegnare nei licei e di vincere a Milano alla Regia Accademia scientifico-letteraria (dal 1923 Regia Università statale), la cattedra di filosofia teoretica, che mantenne dal 1906 al 1931 quando abbandonò l’insegnamento a seguito del rifiuto di prestare giuramento al regime fascista, esempio di quell’intransigente rigore morale che caratterizzò tutta la sua vita. Martinetti fu l’unico filosofo italiano universitario che, assieme ad altri dieci accademici di varie discipline, rifiutò di giurare e venne di conseguenza collocato in pensione. Trascorse i rimanenti anni della vita dedicandosi alla ricerca filosofica e animando la Rivista di filosofia. Nel 1935 subì un breve periodo di detenzione per l’accusa di contiguità con il gruppo antifascista torinese di “Giustizia e libertà”. Le sue opere più importanti sono: Introduzione alla metafisica. I. Teoria della conoscenza (1902-1904), E. Kant. Commento ai prolegomeni (1913), Breviario spirituale (1922), Saggi e discorsi (1926), La libertà (1928), Gesù Cristo e il cristianesimo (1934), Il Vangelo (1936), Ragione e fede (1942). Martinetti ha definito la propria prospettiva filosofica una forma di “idealismo trascendente”. Si tratta di una concezione gnoseologica di chiara ascendenza kantiana secondo cui solo le leggi del pensiero possono operare l’unificazione della molteplicità dispersa del reale e consentirne la comprensione. Il carattere trascendente di questa impostazione deriva dalla convinzione che al di sopra della realtà empirica ve ne sia un’altra, assoluta e incondizionata, cui la filosofia può accedere solo parzialmente attraverso rimandi simbolici, sicché l’essere nella sua totalità rimane inaccessibile alla conoscenza. All’origine di questa visione stanno gli autori che in varia misura han-

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no maggiormente influenzato il pensiero di Martinetti: oltre a Kant, la filosofia indiana, Schopenhauer, Spinoza, Platone e Afrikan Spir (un filosofo russo vissuto tra il 1837 e il 1890 di orientamento postkantiano). In tutti questi pensatori vi è la contrapposizione tra il mondo fenomenico e il mondo noumenico, contrapposizione che Martinetti condivide e che interpreta ponendo alla coscienza dei limiti insuperabili nella conoscibilità del reale, di modo che l’essere trascendente resta inconoscibile anche se la sua esistenza è attestata sul piano morale dall’incondizionatezza dell’imperativo categorico. In queste tesi è evidente l’opposizione all’immanentismo idealistico, dominante nella filosofia italiana del primo Novecento; opposizione che si ritrova anche nella critica all’antiscientismo. «La filosofia ha il proprio fondamento nelle scienze; le scienze hanno il proprio fine nella filosofia». Il loro rapporto implica che filosofia e scienze non si distinguano in base all’oggetto, ma al metodo e che la filosofia realizzi l’unificazione totale dei dati d’esperienza, mentre le scienze ne possono dare solo un’unificazione parziale. Nel campo della filosofia morale, un tema caro a Martinetti è l’approfondimento del valore della libertà. In polemica con ogni forma di determinismo naturalistico viene rivendicata l’autonomia della coscienza umana, capace di libertà morale, civile e religiosa; in polemica con l’indeterminismo teologico, la cui morale è accusata di irrazionalità, si riaffermano il valore regolativo universale delle norme morali e la coincidenza tra l’intelligibilità razionale dei principi etici e l’esercizio pieno della libertà di coscienza. Negli ultimi anni di vita Martinetti si concentra sulle tematiche religiose, di cui dà conto in tre opere – Gesù Cristo e il cristianesimo, Il Vangelo e Ragione e fede – tutte messe all’Indice dei libri proibiti della Chiesa cattolica. Egli muove da un’interpretazione del Vangelo che separa gli aspetti mitico-leggendari della vita di Gesù da quelli razionalmente accettabili: Gesù in questa prospettiva è un profeta che predica una morale fondata sulla rinuncia al mondo, sull’amore per il prossimo e sulla comunione interiore con Dio. Nel Vangelo Gesù non manifesta né l’intenzione di fondare una Chiesa, né quella di stabilire un sistema dogmatico. Questi propositi gli verranno attribuiti solo in seguito. Martinetti è convinto che occorra sottoporre a critica razionale il deposito della fede cristiana, perché tra ragione e fede non può

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esservi contrasto in quanto credere è sempre un atto che comporta una valutazione libera e razionale: «la fede è essa stessa un’opera della ragione, un grado, un risultato provvisorio della ragione». Marx, Karl Filosofo, economista e politico tedesco (Treviri 1818 - Londra 1883), teorico del movimento socialista. la vita. Nato da agiata famiglia ebraica, ma educato in modo liberale secondo principi illuministici, dopo aver iniziato gli studi di giurisprudenza si dedicò alla filosofia, laureandosi a Jena con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro (1841). Non potendo intraprendere la carriera accademica, si dedicò al giornalismo lavorando alla Gazzetta renana, testata di indirizzo liberale: quando questa venne chiusa dalle autorità prussiane (1843), Marx si trasferì a Parigi. Qui entrò in contatto con diverse personalità (Proudhon, Bakunin e soprattutto Engels) e fece importanti esperienze intellettuali (frutto dei suoi studi di economia politica sono i Manoscritti economico-filosofici, del 1844, pubblicati solo nel 1932 in Unione Sovietica). Con Arnold Ruge redasse gli Annali franco-tedeschi che contengono alcuni suoi importanti contributi (La questione ebraica, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione) e con Engels scrisse La sacra famiglia, dove prese le distanze dai “giovani hegeliani”, in particolare da Bruno Bauer. Espulso dalla Francia riparò a Bruxelles (1845), dove scrisse, ancora con Engels, L’ideologia tedesca (anch’essa pubblicata nel 1932), che contiene la formulazione del materialismo storico, e la Miseria della filosofia, che testimonia, in polemica con Proudhon, i suoi approfondimenti in materia di economia. Parallelamente all’attività di studioso, svolse un altrettanto intenso lavoro politico all’interno del movimento operaio, che culminò nel 1847 con l’adesione alla Lega dei giusti, che sotto la sua direzione si diede una struttura organizzativa più democratica trasformandosi nella Lega dei comunisti (in occasione del suo secondo congresso scrisse con Engels il celebre Manifesto del partito comunista, pubblicato a Londra nel 1848). Dopo vari spostamenti per l’Europa durante il biennio rivoluzionario (Parigi, Colonia, Berlino, Vienna), Marx riparò infine a Londra, dove rimase fino alla morte potendo contare anche sul sostegno economico di Engels. Qui continuò il suo lavoro di ricerca, dedicandosi in particolare a un grande progetto di analisi del

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modo di produzione capitalistico, espresso in una quantità di materiali preparatori (pubblicati nel 1939-41 col titolo Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica), in Per la critica dell’economia politica (1859), nelle Teorie sul plusvalore (edite postume nel 1905-10 a cura di Karl Kautsky) e soprattutto nel Capitale (vol. I 1867, II e III postumi a cura di Engels nel 1885 e 1894). Sul versante dell’azione politica, mai trascurata, Marx partecipò alla fondazione della Prima Internazionale (1864) dove fece prevalere (contro Bakunin, Lassalle, Proudhon) la linea fondata sull’iniziativa rivoluzionaria del proletariato finalizzata a realizzare un nuovo ordine sociale attraverso l’abbattimento dello stato borghese. Fondamentali risultarono le sue analisi circa gli eventi della comune di Parigi (Le guerre civili in Francia, 1871) e i suoi interventi al congresso del Partito operaio socialdemocratico tedesco (Critica al programma di Gotha, 1891 postumo a cura di Engels). Negli ultimi anni Marx, malgrado le cattive condizioni di salute, rimase mentalmente lucido, interessandosi della situazione interna di alcuni Paesi (tra cui la Russia) rimasti fino a quel momento ai margini dello sviluppo capitalistico, e delle nuove teorie di Darwin e di Lewis Henry Morgan. il pensiero. Come era stato per Hegel, anche per Marx il problema fondamentale è il rapporto tra la filosofia e il mondo: comprenderlo è infatti la condizione essenziale per cambiarlo. Questa prospettiva (già presente nella tesi di laurea, dove si sostiene la superiorità della posizione di ➔ Epicuro in virtù della presenza, nella dottrina del clinamen, del principio dell’autocoscienza individuale e quindi della libertà) si precisa e si radicalizza negli anni 1839-42, a contatto con le idee dei “giovani hegeliani” (specialmente Feuerbach), come critica all’esistente. Come giornalista della Gazzetta renana Marx combatte contro il dispotismo e gli arbitri polizieschi prussiani, sostenendo la libertà e la legge quali espressione di razionalità contro gli interessi particolaristici in nome dell’universalità del diritto, dimostrandosi ancora legato ai principi del liberalismo e al razionalismo hegeliano. Proprio nello iato tra razionalità dello stato e irrazionalità delle istituzioni concrete, egli inserisce il cuneo di una critica, che tocca il suo culmine nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico (un testo non destinato alla pubblicazione, dato alle stampe solo nel 1927): commentando i §§ 261-303 della Filosofia del diritto egli coglie il pun-

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to debole del procedimento di Hegel nella deduzione del particolare finito (natura dello stato, sue articolazioni istituzionali, suoi rapporti con la società civile ecc.) dall’universalità dell’Idea, invertendo in tal modo (secondo uno schema argomentativo feuerbachiano) il rapporto tra soggetto e predicato (intendere la razionalità del reale comporta che la ragione, così disincarnata, sia presa come il soggetto di cui il reale, l’empirico è predicato, sua manifestazione essenziale). Riempiendo senza discernimento di accidentalità empirica (per esempio l’istituto feudale del maggiorascato) gli schemi della sua logica, Hegel si è precluso la possibilità di comprendere adeguatamente la realtà, finendo per giustificare acriticamente l’esistente immediato e spacciando “ciò che è” per l’essenza dello stato. Il carattere specifico di quest’ultimo è invece individuato con precisione (ecco il merito di Hegel) nella separazione tra sfera privata e sfera pubblica: con ciò Marx giudica gli “ordini” un punto di mediazione obsoleto e inefficace, mentre al momento ritiene la democrazia a suffragio universale la soluzione più credibile. Tuttavia in scritti successivi il rapporto tra società civile e stato è concepito in modo diverso: nella Questione ebraica egli già ritiene che «l’emancipazione politica non è la forma completa e perfetta dell’emancipazione umana», giacché quella dello stato è una falsa universalità, ridotta in concreto a strumento di interessi particolari, e l’uguaglianza formale (davanti alla legge, allo stato) è soltanto un velo che copre, presupponendole e sanzionandole, le disuguaglianze reali, sociali ed economiche. In tal modo Marx viene a negare valore ai “diritti dell’uomo e del cittadino”, pietra angolare dello stato liberale, evidenziando al massimo, quale limite costitutivo del sistema borghese affermatosi con la Rivoluzione francese, l’individualismo egoistico e asociale, che vede nell’altro «il limite della propria libertà» e chiude ciascuno nel proprio interesse privato: al contrario, egli scorge (in una visuale che coniuga Rousseau e Feuerbach) nell’autentica socialità fatta di compenetrazione perfetta tra individuo e comunità la piena realizzazione dell’umano e della libertà. Perciò (come risulta ne Per la critica della filosofia hegeliana del diritto. Introduzione) Marx ritiene esaurita la funzione della critica all’alienazione religiosa (punta di diamante della “sinistra hegeliana”) quale mero effetto di quella sociale e politica (in rapporto a questa funge da “oppio dei popo-

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li”), trasformando (questo il nuovo compito della filosofia, «teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse») la critica del cielo in critica della terra per «rovesciare tutti i rapporti in cui l’uomo è un essere umiliato, assoggettato, abbandonato, spregevole» e restituirlo all’integrità della sua essenza. Nel suo approdo radicale e universale, la filosofia può trovare «le sue armi materiali» nella classe sociale che le corrisponde pienamente: dunque Marx affida al proletariato la prospettiva rivoluzionaria, poiché solo questa classe «rappresenta la totale perdita dell’uomo e può quindi ritrovare se stessa col totale riscatto dell’uomo». Constatata l’insufficienza dell’emancipazione politica e posta al centro dell’attenzione quella sociale, Marx coglie nell’economia politica il fulcro della costruzione dei rapporti degli uomini, nel lavoro la loro vera essenza, il momento fondamentale del processo della sua autoproduzione. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 egli inaugura la sua critica all’economia, partendo dai presupposti di tale scienza per pervenire alle sue contraddizioni interne (la povertà dell’operaio come risultato dell’aumento della ricchezza, il monopolio della libera concorrenza, il conflitto tra interessi privati e interessi sociali), rilevandone il vizio di fondo «nel supporre ciò che deve spiegare» (le sue leggi). Nel quadro di un’antropologia che considera l’uomo “essere oggettivo” che realizza se stesso nel rapporto con la natura e con gli altri, Marx svolge questo compito impiegando la categoria di alienazione come chiave di lettura della condizione umana nella società capitalistica (l’alienazione religiosa descritta da Feuerbach ne è soltanto un surrogato): spiega in che senso il lavoro sia alienato (data la separazione tra capitale e lavoro, l’operaio viene espropriato di ciò che ha costituito l’espressione della sua essenza, l’oggettivazione del suo lavoro) e in che misura lo sia l’uomo (la sua riduzione a merce, il suo stato di sfruttamento e di degrado, il lavoro come momento di perdita dell’umano), pervenendo alla conclusione che la proprietà privata è insieme risultato del lavoro espropriato e “mezzo” della sua attuazione, per cui il capitale non è che “lavoro accumulato”, “lavoro oggettivo” di cui il capitalista si è impossessato. Di qui il tema dell’umanesimo come rovesciamento della dinamica svoltasi fino a questo punto, il comunismo come “negazione della negazione”, abolizione dell’a-

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lienazione e realizzazione piena dell’essenza dell’uomo, ricostruzione della sua totalità nella riappropriazione di se stesso, sua riconciliazione con l’altro e con la natura. Polemica contro il naturalismo acritico e astratto, considerazione dei fenomeni economici come «espressione di uno sviluppo necessario», movimento di alienazione-riappropriazione: la storia, finora implicita nelle categorie del discorso marxiano, viene chiaramente tematizzata nell’Ideologia tedesca e nel Manifesto del partito comunista. Il materialismo storico nasce sul terreno della critica a Feuerbach (condensata anche nelle celebri Tesi), la cui rivalutazione della sensibilità non è accompagnata dal concetto di “attività”, restando quindi confinata nella sfera della mera contemplazione teorica, in cui si smarriscono i concreti rapporti dell’uomo con il suo mondo «nella produzione della vita materiale». È invece nell’attività fondamentale per la produzione dei mezzi di sussistenza, nel lavoro per la soddisfazione dei bisogni primari, che Marx (con Engels) vede la radice della storicità, la “prima azione storica”: l’uomo infatti attraverso il lavoro determina se stesso nel rapporto con la natura entro una modalità di produzione specifica, che origina e condiziona i rapporti con gli altri uomini. Infatti da questa prima attività derivano le altre “condizioni storiche originarie”: la formazione di nuovi bisogni, della famiglia, della cooperazione. Risulta pertanto chiaro il carattere naturale e sociale della condizione umana, giacché il nesso di produzione e riproduzione della vita non può avvenire se non all’interno di determinate relazioni tra individui. Solo a partire da tali relazioni si giustifica il sorgere della coscienza, il cui sviluppo quale “prodotto sociale” è intrecciato e direttamente proporzionale a quello dei fattori che la costituiscono (mezzi di produzione, popolazione, rapporti intersoggettivi e cooperativi ecc.), trovando nella divisione del lavoro (vera e propria matrice di tutte le forme della vita materiale e relazionale, dalla distribuzione dei ruoli e della ricchezza, fino all’organizzazione istituzionale culminante nello stato, in cui si esprime sia il conflitto tra le classi sia il potere di quella dominante), in particolare quella tra lavoro manuale e intellettuale, la condizione per staccarsi dal mondo e per «figurarsi –

– di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente». In realtà, poiché l’uomo non solo lavora ma è lavoro, il pen-

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siero stesso diventa attività trasformatrice del reale, dal momento che «nella prassi soltanto l’uomo può provare la verità, [...] l’oggettività del proprio pensiero». In tal modo si stabilisce un nuovo parametro ermeneutico dei fenomeni storici: infatti, affermando che «non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza», viene assegnata una priorità causale-esplicativa alla sfera produttiva e all’insieme dei suoi rapporti (struttura), a partire dai quali si devono mostrare i nessi con i rapporti sociali, politici, giuridici e le espressioni culturali (sovrastruttura), che possono dunque essere correttamente intese solo all’interno di un determinato orizzonte storico (al quale Marx ed Engels intendono sottrarre lo spessore di sfere autonome, non la specifica incidenza e rilevanza nella dialettica della totalità storica: infatti solo a questo livello i conflitti reali possono essere concepiti e combattuti). Negando la verità di questo rapporto, l’ideologia costituisce una rappresentazione della realtà puramente concettuale che, nell’inconsapevolezza dei suoi condizionamenti materiali e nella presunta assolutezza e universalità della sua configurazione, riveste un ruolo meramente giustificatorio-conservativo in funzione degli interessi della classe dominante (sotto tale profilo possono essere qualificate sia il razionalismo hegeliano che l’economia politica). Dunque il materialismo storico, costituendosi come retta teoria che sola consente una corretta comprensione della realtà, si presenta allo stesso tempo come strumento finalizzato allo smascheramento e alla demistificazione delle ideologie, elementi di dominio di una classe sull’altra. È nel nesso teoria-prassi che va rinvenuto il carattere critico-rivoluzionario del marxismo: la comprensione della realtà nasce dalla prassi e ne promuove la trasformazione in quanto si colloca al suo interno consentendo la presa e la messa in moto delle forze che vi sono presenti. Perciò, se finora «i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi» ora «si tratta però di mutarlo»: con ciò si ha il «realizzarsi della filosofia nel mondo», la filosofia viene superata nel momento in cui viene realizzata come attuazione di una totalità (l’universalità del pensiero come espressione di una umanità non più alienata e conflittuale, come risultato della soppressione delle classi). Da questo punto di vista il comunismo non è un ideale, ma il punto finale di un processo storico di cui si sono individuati razionalmente i fattori dialettici (il conflitto tra ca-

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Marx e i suoi interpreti principali K. MARX (1818-1883) F. ENGELS (1820-1895) A. LABRIOLA (1843-1904) G. SOREL (1847-1922) A. GRAMSCI (1891-1937) W. BENJAMIN (1892-1940) Th. ADORNO (1903-1969) G. LUKÁCS (1885-1971) M. HORKHEIMER (1895-1973) E. BLOCH (1885-1977) H. MARCUSE (1898-1979) L. ALTHUSSER (1918-1990) J. HABERMAS (1929-viv.) A. HELLER (1929-viv.)

pitale e lavoro, la cui inconciliabile radicalità è direttamente proporzionale allo sviluppo della produzione e degli scambi in senso globale), «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». Nel Manifesto questa prospettiva è sviluppata intorno al concetto di lotta di classe, filo conduttore degli eventi delle altre epoche storiche, polarizzatosi nella nostra intorno allo scontro tra borghesia (di cui si ricostruisce la genesi e l’evoluzione, riconoscendone il ruolo profondamente innovatore) e proletariato. Differenziando il loro “programma rivoluzionario” in senso più marcatamente “scientifico” rispetto a quelli dei contemporanei (i cosiddetti comunismi utopistici), Marx ed Engels insistono sulla valenza dialettica della dinamica della lotta di classe, che necessariamente approderà al superamento del capitalismo e delle sue contraddizioni. La rivoluzione comunista si attuerà in quanto inserita in un preciso quadro di condizioni oggettive strutturalmente emergenti dallo stesso sistema borghese (la dipendenza del proletariato dal capitale, il suo sfruttamento, il suo continuo aumento quantitativo parallelo alla crescita della sua consapevolez-

Marx

za, il convergere dei suoi interessi con quelli di altre classi marginalizzate) e avrà caratteri del tutto peculiari: poiché il proletariato è stato spogliato di tutto, esso costituisce veramente la classe universale, che negando se stessa e la condizione della sua esistenza, la proprietà privata, abolirà definitivamente la divisione in classi sociali. Perciò questa rivoluzione, fondata non sull’appropriazione ma sulla socializzazione dei mezzi di produzione, risulterà quella definitiva e coinciderà (dopo una fase di transizione contrassegnata, come si afferma nella Critica del programma di Gotha, dalla dittatura del proletariato e dal collettivismo economico) con «un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti». Proprio l’esigenza di definire in senso scientifico la propria prospettiva teorico-politica (specie dopo il fallimento «delle lotte operaie in Francia» e nel resto dell’Europa), indusse Marx a uno studio più intenso e rigoroso delle strutture di funzionamento interno del sistema capitalistico, che culminerà con la stesura del Capitale. In esso si parte dall’analisi della merce (il cui feticismo consiste nell’apparire come avente in se stessa una propria consistenza e un proprio valore) per scoprirvi implicita tutta la complessità del modo di produzione di cui essa è il (apparentemente semplice, immediato, ovvio) risultato. In essa infatti si deve distinguere tra un valore d’uso (totalmente realizzato nel consumo in rapporto ai bisogni individuali) e valore di scambio. Poiché quest’ultimo si fonda sul puro rapporto quantitativo, esso presuppone un’astrazione che lo esprima, individuabile nella moneta (il denaro è «la forma in cui tutte le merci si eguagliano, si paragonano, si misurano»), la cui genesi rinvia però a un terzo fattore, una qualità che sia presente in tutte le merci. L’“essere prodotti del lavoro”, sua oggettivazione, è la caratteristica comune a tutte le merci, la fonte del valore che ne rende possibile lo scambio. Nella società capitalistica il lavoro è separato dalle sue determinazioni naturali e concrete, assumendo con ciò la pura forma sociale di lavoro astratto, di “forza-lavoro umana”: il valore di una merce è dunque determinato dal lavoro in essa contenuto e stabilito quantitativamente mediante il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione. Poiché il capitale non è una cosa ma «un rapporto sociale tra persone mediato da cose», si stabilisce un rapporto dialettico ambivalente per cui da un lato esso appare caratterizzato dalla

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dipendenza della creazione del valore dalla produzione di merci, e quindi del capitale dal lavoro, e dall’altro (giacché il valore proviene dal lavoro) dalla funzionalità del lavoro concreto alla valorizzazione del capitale (per cui «sono i mezzi di produzione che utilizzano l’operaio»). Con «il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore» si conferma l’essenza alienante del capitalismo, il carattere “rovesciato” del suo mondo. Nell’ottica capitalistica le merci prodotte devono realizzare un valore di scambio maggiore (il plusvalore) del valore dei mezzi di produzione (ciò si esprime con la formula D-M-D’ – denaro-merce-denaro più). E questo plusvalore non può avere origine se non nella sfera della produzione, precisamente nel momento in cui il capitale iniziale (D) acquista la forza-lavoro (M), l’operaio, che il capitalista paga quanto il valore dei mezzi necessari per farlo sopravvivere (il salario) ma il cui valore d’uso si qualifica per la capacità di produrre una quantità di valore superiore a quella che gli riceve con il salario (D’). Lo sfruttamento del capitalista consiste nell’uso della forza-lavoro per un tempo ulteriore rispetto a quello necessario per il suo riprodursi: così questo pluslavoro si trasforma in plusvalore. Alla luce di questa analisi critica si può stabilire il saggio di profitto medio dell’intero sistema economico, derivandolo dal rapporto tra il capitale costante (quello investito nell’acquisto dei mezzi di produzione) e variabile (investito nell’acquisto di forza-lavoro), nella convinzione che solo da quest’ultima componente possa derivare il plusvalore che dà origine al profitto. Poiché l’aumento di quest’ultimo è il fine primario del capitalista, o si prolunga la giornata di lavoro, o si aumenta la sua redditività: nella grande industria ciò accade con lo sviluppo tecnologico e l’introduzione delle macchine, al cui servizio si svolgono ora le funzioni lavorative parcellizzate dell’operaio. Alienazione significa allora anche questo: riduzione dell’attività umana «a mediare soltanto ormai il lavoro della macchina, [...] un automa gli operai stessi sono determinati solo come organi coscienti di esso». L’indagine marxiana approda comunque a un altro risultato di estrema rilevanza politica: l’accidentalità storica del modo di produzione capitalistico nella sua specificità rispetto a quello di altre epoche. Se se ne possono determinare le condizioni genetiche (la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, la loro necessità di vendere la forza-lavoro rendendola disponi-

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bile sul mercato, la pariteticità giuridica del lavoratore e del capitalista), per spiegarne i caratteri attuali (scissione di capitale e lavoro, separazione del lavoratore dai mezzi di produzione e dal prodotto, disarticolazione dei rapporti tra uomo e uomo) fino a stabilire il nesso circolare tra formazione del capitale, sviluppo delle forze produttive, condizioni storiche, risulta altrettanto accertata la sua tendenza dissolutrice, che porterà (specie se si considera la connessione con le crisi cicliche che provocano distruzione di merci e di forze produttive, disoccupazione e aumento della concorrenza), necessariamente e logicamente, al suo superamento. Nel Capitale la contraddizione fondamentale è individuata nella caduta tendenziale del saggio di profitto: infatti la costitutiva derivazione del plusvalore dal capitale variabile collide con la tendenza ad aumentare la produttività del lavoro attraverso investimenti sempre più massicci in tecnologia, mettendo capo infine, con la crescita del capitale costante, a uno squilibrio negativo nel rapporto tra plusvalore e capitale globale. Marx considera inevitabile il crollo del capitalismo, la cui evoluzione è segnata da una sostanziale “anarchia della produzione”, senza possibilità di armonizzazione degli interessi particolari ma al contrario con uno strascico di dispersione e di distruzione di ricchezza a fronte dell’impoverimento di larghe masse, conseguenza di uno sviluppo distorto in quanto non finalizzato alla soddisfazione dei bisogni sociali ma all’aumento del profitto fine a se stesso. Quanto alle caratteristiche della futura società comunista, Marx non ha mai fornito “ricette”. Certo le ha legate alla condizione in cui tutti gli individui, potendo sviluppare onnilateralmente le loro facoltà in quanto non più sottomessi a un lavoro alienato, saranno in grado di accrescere insieme le forze produttive sociali e regolare i loro rapporti, secondo il criterio «ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni». Marxismo Con questo termine si intende sia il sistema ideologico di Marx ed Engels, sia l’insieme di dottrine (spesso dagli esiti eterogenei e divergenti tra loro) che si sono sviluppati, pur nel comune richiamo al pensiero dei “padri fondatori”, nel corso dei dibattiti svoltisi successivamente. Infatti la specificità della prospettiva teorico-pratica di Marx emerse da un lato nell’ambito delle accese controversie all’interno del movimento operaio nelle varie fasi della sua costituzione e organizzazione (Prima Inter-

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nazionale, fondazione del partito socialdemocratico tedesco dove erano presenti, con i loro programmi alternativi al marxismo, Bakunin, Proudhon, Lassalle ecc.), dall’altro il problema della sua corretta interpretazione o eventuale correzione intervenne a fine secolo, quando si incominciò a parlare di una sua crisi. Durante il periodo della Seconda Internazionale infatti, mentre alcuni (➔ Sorel) si pronunciarono per un suo radicale superamento, lo scontro si polarizzò soprattutto tra gli ortodossi (guidati da Kautsky e Plechanov), che sostennero l’accoglimento integrale delle idee economiche e politiche di Marx quale patrimonio irrinunciabile del socialismo, e i revisionisti (il cui leader fu Bernstein) che invece intesero abbandonare alcuni suoi capisaldi (la rivoluzione come conseguenza dell’inevitabile crollo del capitalismo, che al contrario non solo si è trasformato ma si è dimostrato capace di migliorare le condizioni del proletariato) per conferirgli un carattere maggiormente etico (il socialismo come condizione collaborativa e fraterna tra le classi, da raggiungere attraverso una serie di riforme volte a integrare il proletariato nelle istituzioni borghesi) all’interno di una visione della storia dai tratti segnati non nel senso della lotta di classe ma dell’ottimismo evoluzionistico. Nello stesso periodo si può assistere sia a letture più rigorose dell’opera di Marx (➔ Labriola), sia a suoi innesti in altre tradizioni teoretiche (è il caso dell’austromarxismo di Rudolf Hilferding e Otto Bauer, che ne tentano una sintesi con i temi del neokantismo), in entrambi i casi con esiti in prospettiva assai interessanti e fecondi. A margine della polemica tra ortodossi e revisionisti (anzi, spesso in aperto conflitto con entrambi, in nome di una ripresa del programma rivoluzionario) si colloca la riflessione di Rosa Luxenburg e di Lenin. Entrambi convinti del crollo del capitalismo monopolistico e imperialistico (cui dedicarono importanti analisi socioeconomiche) sotto il peso delle sue contraddizioni interne, le loro posizioni risultarono divergenti sulla concezione e il ruolo del partito (la Luxenburg era fortemente critica verso il centralismo autoritario bolscevico). La posizione di Lenin è rilevante non solo sotto il profilo della prassi, ma anche da quello filosofico (a essa si rifarà poi tutta la tradizione comunista non solo in Unione Sovietica ma anche all’interno dei partiti affiliati alla Terza Internazionale): non solo egli conserva il nesso tra economia e politica (per lui il marxismo era fondamentalmen-

Maupertuis

te sociologia scientifica), ma tende a rivendicare al marxismo una portata filosofica di validità assoluta (come nella polemica contro ➔ Mach e nella valorizzazione della dialettica nei Quaderni filosofici). Se durante lo stalinismo il marxismo-leninismo scadde in una dogmatica materialistico-deterministica (che tra l’altro volle mettere al bando la “cultura borghese”), non mancarono posizioni all’interno dello stesso mondo comunista dai caratteri originali e dai risvolti importanti. Mentre l’opera di Gramsci deve essere considerata (per la matrice culturale dell’autore, le condizioni in cui si è svolta, la finalità cui era destinata) a sé stante, il caso più rilevante, per la complessità del suo percorso, è certo da questo punto di vista quello di Lukács, mentre contributi assai stimolanti (anche se forse non adeguatamente recepiti) sono venuti da Korsch e soprattutto dalla riflessione (dai toni fortemente messianico-rivoluzionari) di Bloch. Possono rientrare nell’ambito del pensiero marxista anche la cosiddetta ➔ Scuola di Francoforte (che nella specificità dell’apporto speculativo dei suoi singoli esponenti, Horkheimer, Adorno, Marcuse, Habermas, ha contribuito ad ampliarne l’orizzonte culturale con l’inserimento di categorie e tematiche derivate da altre tradizioni di pensiero come la psicanalisi, la filosofia analitica, la teoria della comunicazione ecc.) e (per sua stessa ammissione) l’esistenzialismo del secondo ➔ Sartre. Mathieu, Vittorio Filosofo italiano (Varazze 1923), professore a Torino. Ha studiato in particolare il pensiero di Bergson (Bergson. Il profondo e la sua espressione, 1954), di Leibniz (Leibniz e Des Bosses, 1960) e di Kant (La filosofia trascendentale e l’“Opus postumum” di Kant 1958), curando, per gli ultimi due, anche edizioni e traduzioni di loro opere. È inoltre autore di saggi teoretici, quali L’oggettività (1960), Il problema dell’esperienza (1963), La speranza nella rivoluzione (1972). Maupertuis, Pierre-Luis Moreau de Filosofo e scienziato francese (Saint-Malo 1698 - Basilea 1759), per molti anni presidente dell’Accademia delle scienze di Berlino. Newtoniano convinto, sostenne (in una serie di opere quali Riflessioni filosofiche sull’origine delle lingue, Saggio di filosofia morale, Saggio di cosmologia, Sistema della natura) le ragioni dello sperimentalismo, polemizzando (insieme con ➔ Condillac) contro i sistemi metafisici e teorizzando una concezione fenome-

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nistica (di derivazione humiana) della conoscenza (le nostre sensazioni sono soggettive e lo stesso concetto di esistenza si risolve in un complesso di impressioni che si ripetono e che proiettiamo fuori di noi). Questo soggettivismo è però temperato dall’ammissione (ispirata alle idee di Leibniz, che influenzò pure l’interpretazione della natura e della vita) dell’esistenza di una causa sconosciuta da cui dipendono le nostre percezioni e di un principio che ci fa conoscere Dio e le idee morali. In quest’ultimo campo Maupertuis propose una concezione utilitaristica (con un antecedente in ➔ Hutcheson) come assicurazione della maggiore felicità possibile (non con l’accrescimento dei beni ma con la diminuzione dei mali) per un numero il più possibile vasto di persone. Megarica, Scuola Una delle scuole filosofiche che la tradizione indica come postsocratiche. Ne fu infatti fondatore ➔ Euclide di Megara, allievo diretto di Socrate. La scuola visse fino al IV-III secolo a.C., e i suoi contributi più importanti furono nel campo degli studi logici (Eubulide di Mileto, Stilpone di Megara, Diodoro Crono). Celebri i paradossi studiati dai megarici. Megara fu una città della Grecia in posizione importante per i commerci ma anche per ragioni militari e politiche: a ovest di Atene, costituiva un passaggio obbligato per le comunicazioni tra la Grecia centrale e il Peloponneso. Meinecke, Friedrich Filosofo e storico tedesco (Salzwedel 1862 - Berlino 1954), professore a Berlino. Il suo interesse di storiografo e di pensatore è concentrato sul problema politico della Germania come stato nazionale unitario alla luce delle vicende culminate nell’esperienza delle due guerre mondiali. Di qui il suo ripensamento della storia e della cultura tedesca attraverso la determinazione di una serie di problemi (il rapporto tra libertà individuale e dovere verso lo stato, il problema della ragion di stato, la genesi dello storicismo) affrontati in una serie di studi fondamentali. Se in Cosmopolitismo e stato nazionale (1908) Meinecke riconosce al romanticismo il merito di aver evidenziato il tema dell’individualità dello stato (al cui interno i singoli trovano armonico fondamento alla propria libertà e senso per la propria azione storico-collettiva), in L’idea della ragion di stato nella storia moderna (1924) (da Machiavelli all’età contemporanea) avanza l’esigenza (dopo la constatazione della non ricomponibilità del rapporto tra spirito e po-

Melantone

tenza, ancora possibile per Hegel e Bismarck, nell’età dell’imperialismo) di una riconquista della dimensione universale della storia. Ne Le origini dello storicismo (1936), in un orizzonte problematico più radicale e ampio, viene indicato in Goethe il modello autentico di storicismo, che non scade nel relativismo immanentistico ma conserva l’assolutezza dei valori e la conciliazione tra individuale ed eterno. Meinong, Alexius Filosofo austriaco (Leopoli 1853 - Graz 1920). Discepolo di ➔ Brentano, sviluppò le dottrine del maestro in ambito psicologico e gnoseologico, proponendo un’originale “teoria degli oggetti” fondata sul concetto di conoscenza intesa come automanifestazione dell’essere, tesi che presenta analogie con la fenomenologia husserliana. Il suo pensiero esercitò una profonda influenza sulla filosofia austriaca del primo Novecento attraverso un’ampia produzione saggistica, di cui ricordiamo l’opera Ricerche sulla teoria degli oggetti e sulla psicologia (1894). Posto che non c’è conoscenza se non c’è conoscenza di qualche cosa, ne deriva che ogni atto di conoscenza è sempre un atto di trascendenza verso un oggetto. È necessario allora fondare una scienza che studi tutti gli oggetti in quanto oggetti, non solo quelli esistenti, come ha fatto la metafisica tradizionale, ma anche quelli non-esistenti (tali sono gli oggetti ideali come i numeri o i criteri di giudizio). Meinong procede a una classificazione degli oggetti riferita ai quattro processi fondamentali in cui si riassume ogni attività umana: rappresentazioni, pensieri, sentimenti e desideri. Ne derivano quattro categorie di oggetti, rispettivamente oggetti della rappresentazione, del giudizio, oggetti valutativi e desiderativi. Tali oggetti sono colti attraverso due distinti processi psichici: quello del presentarsi dell’oggetto nella rappresentazione (Vorerlebnis) e quello in cui l’oggetto viene “inteso” (Haupterlebnis), che è il processo attraverso cui l’“intendere” mette capo ai giudizi del pensiero. Con questa teoria Meinong ha voluto dare una base realistica alla dottrina dell’intenzionalità della coscienza, sottraendola ai rischi del soggettivismo. La stessa preoccupazione antisoggettivistica e realistica si ritrova nelle dottrine etiche, che mirano a dare una rigorosa fondazione a una teoria universale dei valori. Melantone, Filippo Nome latinizzato di Philippus Melanchthon, a sua volta risulta-

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to di una grecizzazione di Philipp Schwarzerdt. Riformatore tedesco (Bretten 1497 - Wittenberg 1560). Fu un valente umanista (studiò i padri e il Nuovo Testamento, curò l’edizione di testi, scrisse una grammatica greca che insegnò, insieme all’ebraico, a Wittenberg). Divenuto amico di ➔ Lutero, aderì alla sua riforma di cui espose (1521) per la prima volta in forma sistematica (Loci communes rerum theologicarum) i capisaldi dottrinali (peccato, grazia, libero arbitrio, giustificazione per fede, sacramenti ecc.), formulando soprattutto la tesi della Bibbia come suprema autorità. Tutta la sua teologia è incentrata sulla vita spirituale del credente, senza preoccupazione per le sottigliezze concettuali e facendo coincidere la fede con la fiducia nella misericordia di Dio. Adottò sempre un atteggiamento moderato, alieno dai toni polemici, nella preoccupazione costante di mantenere le tradizionali istituzioni ecclesiastiche e di conciliare le varie posizioni all’interno del movimento riformatore. Collaborò con Lutero nella traduzione della Bibbia (affermò la preminenza del senso letterale contro i quattro sensi ammessi dalla tradizione scolastica) e si schierò con lui nella lotta contro gli anabattisti e il radicalismo di Müntzer e Carlostadio; invece si avvicinò a ➔ Calvino sulla questione dell’eucaristia. Da buon umanista avversò anche l’estremismo antropologico luterano, ammettendo la collaborazione dell’uomo alla propria salvezza. Perciò si oppose al lassismo e insistette sulla pratica delle buone opere in quanto volute da Dio, anche se prive di valore meritorio. Si preoccupò di riconoscere importanza alla tradizione ecclesiastica, nella linea di salvaguardare l’ordine, la disciplina, l’uniformità di insegnamento e di culto. Fondamentale l’impronta lasciata da Melantone nella redazione della Confessio augustana (1530), così come nell’organizzazione degli studi nelle università tedesche: negli “Statuti” per l’università di Wittenberg (poi adottati in altre università) egli previde filosofia e scienza come base dello studio teologico, lingue classiche ed ebraico preminenti sulle altre lingue, insegnamento della filosofia fondato su Aristotele. Per questa sua opera duratura e capillare fu chiamato “praeceptor Germaniae”. Melisso di Samo Uomo politico e filosofo greco (Samo VI-V secolo a.C.), rappresentante della Scuola di Elea. Come uomo politico ci è noto per avere guidato una spedizione navale vittoriosa contro gli ateniesi nel 442 a.C. Come filosofo gli è attribuita

Mendelssohn

un’opera dal titolo Della natura o dell’essere, di cui rimane pochissimo, in cui la dottrina eleatica è esposta con sostanziali variazioni: Melisso aggiunge ai caratteri parmenidei dell’essere l’infinità, spostandone significativamente il senso (Parmenide lo concepiva perfetto e quindi finito, cioè compiuto, totalità conclusa non aperta). Le dottrine di Melisso sono però oggetto di approfondito dibattito sia filologico che filosofico, data l’esiguità delle fonti. Mendelssohn, Moses Filosofo ebreo tedesco (Dessau 1729 - Berlino 1786). Autodidatta, fu tra i più rilevanti esponenti del tardo illuminismo tedesco, anche nella sua versione propriamente ebraica, conosciuta con il termine di haskalà. Tenace sostenitore, assieme a Nicolai, della “filosofia popolare”, si impegnò nella divulgazione a vasto raggio del sapere filosofico. A tale scopo svolse un’intensa attività pubblicistica, collaborando a varie riviste. Fu vicino a vari esponenti dell’illuminismo tedesco, in particolare a ➔ Lessing, il quale, nel 1755, pubblicò, in forma anonima, alcuni dei suoi studi filosofici. È probabile che in seguito Lessing s’ispirasse alla sua figura per il proprio dramma, Nathan il saggio (1779). Nel 1763 l’Accademia reale delle scienze di Berlino, preferendolo a Kant, gli conferì il primo premio per lo scritto, Sull’evidenza delle scienze metafisiche. Nel Fedone, ovvero sull’immortalità dell’anima (1767) e nelle Ore mattutine. Lezioni sull’esistenza di Dio (1785), egli propose, in risposta al nascente criticismo kantiano, alcune delle tradizionali prove dell’immortalità dell’anima, sostenendo inoltre la validità dell’argomento ontologico relativo all’esistenza di Dio. Rivendicò inoltre pari dignità all’arte rispetto alla morale e alla filosofia. Fu tra i primi propugnatori della tripartizione psicologica della coscienza in pensiero, volontà e sensibilità. Nel 1769 partecipò a una disputa sull’ebraismo, in seguito alla quale si concentrò nell’attività letteraria più espressamente dedicata ai temi della fede ebraica. In tale ambito, il suo intento fu di conciliare la vita ebraica tradizionale con una piena partecipazione alla cultura profana. Mendelssohn, in contrasto con l’atteggiamento critico dell’illuminismo, recuperò pienamente il patrimonio biblico, intendendolo come una legislazione rivelata indiscutibile. Nel 1783 pubblicò una traduzione in tedesco (ma con caratteri ebraici) del Pentateuco e dei Salmi, accompagnata da un commento in ebraico attento anche agli aspet-

Menippo di Gadara

ti più propriamente linguistici (chiamato Bi’ur). La sua opera maggiore in campo religioso è Gerusalemme, o sul potere religioso e sull’ebraismo (1783), un’analisi dell’ebraismo presentato non come una dottrina rivelata, ma come una legge rivelata. Per lui le verità dogmatiche dell’ebraismo, coincidenti con quelle della religione naturale e quindi comprovabili con la ragione, si riducono sostanzialmente a tre: esistenza di Dio, provvidenza e immortalità dell’anima. L’ebraismo appariva a Mendelssohn più prossimo alla religione naturale di quanto non fosse il cristianesimo, in cui era ineliminabile la presenza di dogmi sovrarazionali. Menippo di Gadara Filosofo greco (Palestina, IV-III sec. a.C.) di cui si hanno pochissime notizie sicure. Attivo nell’ambito della tradizione popolare cinica, sul filone aperto da Diogene e da Cratete, scrisse delle Satire oggi perdute, ma molto celebri nell’antichità. Queste opere diedero il nome al genere, e satira menippea si chiamò un componimento poetico di carattere moraleggiante e filosofico, scritto in toni duramente satirici. Il filosofare di Menippo, come degli altri cinici popolareggianti, si caratterizzò quindi per la corrosiva critica sociale e uno spirito polemico, anticonformista e ribelle. Merleau-Ponty, Maurice Filosofo francese (Rochefort-sur-Mer 1908 - Parigi 1961), professore alla Sorbona e al Collège de France. Ha collaborato con Sartre, nel contesto di comuni posizioni esistenzialiste sull’impegno sociale e politico del filosofo, alla rivista Les Temps Modernes, distanziandosene poi a partire dai primi anni Cinquanta, per divergenze sulla concezione del comunismo. Oltre che di tematiche sociali e politiche si è occupato a fondo di teoria della conoscenza, di psicologia e di questioni filosofiche connesse all’antropologia (La struttura del comportamento, del 1942; Fenomenologia della percezione, del 1945). In particolare ha messo a fuoco da posizioni vicine alla fenomenologia e all’esistenzialismo le nozioni di “coscienza” e di “mondo”, in particolare in rapporto alla problematica, considerata centrale, della libertà umana. Mersenne, Marin Teologo e scienziato francese (Oizé 1588 - Parigi 1648). Appartenente all’ordine francescano, polemizzò contro tutte le tendenze del pensiero rinascimentale (libertinismo, deismo, scetticismo ecc.), che giudicava incompatibili con la fede. Aderì al contrario alla nuova fisica in quanto ritenu-

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ta in accordo con la religione (e in particolare con la nozione di miracolo). Se personalmente si dedicò in particolare agli studi di acustica (ma scrisse anche un’esposizione della Meccanica di Galileo), la sua figura è rilevante soprattutto come intermediario tra i maggiori scienziati dell’epoca (intrattenne rapporti personali con Cartesio, di cui fu il consulente teologico): perciò il suo epistolario costituisce un documento unico per intendere il clima intellettuale e spirituale in cui nacque la scienza moderna. Michelstaedter, Carlo Filosofo italiano (Gorizia 1887-1910). Nato da benestante e colta famiglia ebrea, studiò prima matematica a Vienna, poi filosofia a Firenze, laureandosi con la tesi La persuasione e la rettorica. Poco tempo dopo la stesura di quest’opera (quasi a conclusione di un travagliato e doloroso periodo iniziato nel 1909 con la morte prematura del fratello a New York) si suicidò. Di lui rimangono pochi scritti, tutti pubblicati postumi (oltre la tesi, alcune poesie e il Dialogo della salute), in cui compare un’impronta di forte pessimismo (di derivazione schopenhauriana), che identifica la vita col dolore e la delusione. Dal momento che l’uomo proietta la vita verso fini da raggiungere, non solo sarà costretto al continuo frustrante disinganno (poiché nulla può essere raggiunto), ma anche all’incapacità di trovare il vero senso dell’esistenza, che ha valore in sé e non in una realtà fuori da lei. In tal modo Michelstaedter, rivalutando le filosofie presocratiche (in particolare Parmenide) che avevano posto i valori dell’esistenza nell’aletheia (verità) e non nel mondo della doxa (apparenza), oppone la persuasione, come capacità razionale di appropriarsi autenticamente della propria vita (e quindi come il mondo della responsabilità proprio degli individui profondamente etici), alla rettorica, come accettazione degli schemi ipocritamente formali e illusori della società istituzionalizzata, che maschera la profonda radice dell’essenza della vita in cambio di effimere sicurezze. Mill, James Filosofo, economista e storico inglese (Northwater Bridge 1773 - Londra 1836). Amico di ➔ Bentham, ne condivise l’impegno politico negli anni di espansione del radicalismo inglese. Soprattutto attraverso diversi articoli per l’Encyclopaedia Britannica, Mill formulò i principi politici del radicalismo, che portarono poi alla Reform Bill del 1832 e alle successive lotte per il suffragio universale. Riprese le teorie

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di Malthus sulla popolazione. Sviluppò una originale teoria della conoscenza e dell’azione morale basata sul principio dell’associazione e riformulò su questa base l’utilitarismo di Bentham. Mill, John Stuart Filosofo ed economista inglese (Londra 1806 - Avignone 1873), tra i massimi teorici del liberalismo. la vita. Figlio di James Mill, che lo educò personalmente fin dalla tenera età, fece una brillante carriera nella Compagnia delle Indie e si dedicò anche al giornalismo, svolgendo propaganda in favore delle nuove idee politiche e sociali liberali. Subì l’influenza di ➔ Bentham (che era amico del padre), di Saint-Simon e di Comte (con cui fu per qualche tempo in contatto), ma generalmente il suo pensiero si colloca nel solco della tradizione empiristica britannica, come testimoniano le sue prime opere (Sistema di logica deduttiva e induttiva del 1843, Principi di economia politica del 1848, Saggio sulla libertà del 1859). Dal 1858 si ritirò ad Avignone, dove visse fino alla morte, escluso il triennio 1865-68 in cui fu deputato al parlamento. Tra le sue ultime opere le Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), Utilitarismo (1863), Comte e il positivismo (1865), Sulla servitù delle donne (1869), Tre saggi sulla religione (postumo). il pensiero. Il positivismo di Mill è di indirizzo spiccatamente empiristico: ciò risulta fin dalla sua prima opera importante, il Sistema di logica, che, di contro alla tradizionale logica deduttiva, vuole valorizzare quella induttiva, riconducendo la verità di ogni proposizione alla sua matrice fattuale. Tutte le nostre conoscenze, tutte le verità sono di natura empirica (comprese quelle delle scienze deduttive come la geometria, anch’esse verità sperimentali, generalizzazioni dell’osservazione o da essa suggerite), riconducibili alla constatazione di uno o più fatti, poiché l’esperienza ci fa osservare solo casi singolari (e la proposizione generale è solo uno strumento per conservare nella memoria molti fatti particolari). Al contrario il procedimento deduttivo (espresso per esempio dal sillogismo) è sterile, giacché la conclusione è già implicita nelle premesse. Ma se le proposizioni generali non sono che generalizzazioni di eventi singolari, Mill si trova di fronte al problema di offrire una fondazione valida al ragionamento induttivo, evitando le conclusioni scettiche di Hume. Ebbene, se «l’induzione è il processo con cui concludiamo che quello che è vero di certi individui d’una classe è

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vero dell’intera classe, o che quello che è vero in certi momenti sarà vero in circostanze simili in ogni momento», la garanzia della sua validità può derivare solo dalla constatazione degli innumerevoli casi in cui i fenomeni naturali si sono svolti secondo rapporti uniformi, concludendo che «è una legge che ogni cosa abbia una legge». Al fine poi «di scegliere tra le circostanze che precedono o seguono un fenomeno quelle cui è realmente connesso da una legge invariabile» Mill propone (sulla scorta di ➔ Francesco Bacone) i metodi della concordanza (che individua la causa di un fenomeno rilevando l’unica circostanza che ne accomuna tutti i diversi casi), della differenza (che arguisce la causa del fenomeno nell’unica circostanza che distingue due stati di fatto in cui il fenomeno una volta si verifica e l’altra no), dei residui (la causa di un fenomeno viene individuata sottraendo dall’insieme delle circostanze in cui si verifica tutto ciò che, per precedenti induzioni, sappiamo doversi attribuire ad altri fattori), delle variazioni (arguisce una relazione causale tra due fenomeni dal loro variare sincrono secondo una certa proporzione). Attraverso questi metodi tutta una serie lunghissima di constatazioni si correggono l’una con l’altra e ci fanno concludere con fondamento circa la legalità che noi attribuiamo ai fenomeni della nostra esperienza, cioè che «lo stato dell’intero universo a ogni istante sia la conseguenza dello stato di esso all’istante precedente». Si tratta del principio generale che garantisce l’oggettività delle nostre inferenze induttive: il principio dell’uniformità della natura per il quale siamo certi che il futuro assomiglierà al passato, assioma che da un lato poggia su generalizzazioni precedenti e dall’altro, una volta formulato, sta alla base di quelle successive che circolarmente contribuiscono a rafforzarlo e confermarlo (il che è come dire che l’esperienza è il criterio dell’esperienza). Affrontando alla fine del Sistema la questione della logica delle scienze morali, Mill difende, contro ogni forma di determinismo, la libertà del volere umano. Se fossimo in grado di conoscere tutti i moventi che agiscono su una persona, potremmo certo predirne con certezza i comportamenti. Ma ciò non significa cadere nel fatalismo, che si ha quando si è di fronte a una costrizione misteriosa e impossibile da mutare. In sede morale vale invece la necessità filosofica, che non vieta l’azione sulla causa della condotta una volta che si sia conosciuta. Del resto, quello che accade in natura accade an-

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che nella mente umana: al suo interno vi è «una uniformità di successione [...] secondo cui uno stato mentale succede a un altro». E se Mill demanda a una scienza ancora da creare, l’etologia, lo studio scientifico del carattere sulla base delle leggi generali della mente e dell’influenza delle circostanze, resta tuttavia convinto che la sociologia, che studia l’uomo in società e le azioni delle masse collettive, sia una scienza estremamente complessa. Per questo motivo, pur apprezzandone le intenzioni generali (specialmente il suo modellamento sulla fisica), Mill respinge gli esiti della sociologia di Comte, che sfocia nell’autoritarismo dispotico. In questo senso egli sostiene e difende (contro il positivista francese) l’autonomia dell’economia politica, ai cui problemi dedicò assidua attenzione. Nei Principi di economia e nei Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica egli si dimostra particolarmente sensibile al problema della distribuzione della ricchezza e dei profitti, sia all’interno di un Paese sia nei commerci internazionali. E se la produzione obbedisce (come avevano già sostenuto Smith e Ricardo) a leggi simili a quelle di natura, quelle della distribuzione, che è opera esclusiva dell’uomo, dipendono dalla volontà umana, e quindi dal diritto e dal costume. In questo senso egli difende, con la teoria dell’indipendenza secondo cui «il benessere del popolo deve risultare dalla giustizia e dall’autogoverno», il diritto dei lavoratori di prendere tutte le iniziative necessarie (naturalmente con mezzi pacifici e legali, come la cooperazione) per migliorare la propria condizione. L’importante è che la giustizia sociale non metta a repentaglio la libertà dell’individuo (come avviene nel socialismo): per questo egli si schiera per una politica di riforme tesa a realizzare un «governo di tutti per tutti». Del resto, questa prospettiva risulta perfettamente in linea con l’utilitarismo di Bentham (il piacere dell’individuo si accresce con la realizzazione della felicità altrui) e con l’altruismo (sentimento dell’unità e solidarietà del genere umano) teorizzato da Comte, in quanto è la stessa vita sociale che radica in noi sentimenti ispirati al disinteresse. Peraltro, nelle Considerazioni sul governo rappresentativo, Mill constata come la maggioranza possa governare tirannicamente (per esempio controllando l’amministrazione e la legislazione nel proprio esclusivo interesse), mentre una democrazia è autentica se sono rappresentate tutte le posizioni e «in cui gli interessi, le opinioni, le aspi-

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razioni della minoranza siano comunque ascoltati». Anche da questo punto di vista risulta come la preoccupazione costante di Mill sia il problema della libertà, vero fulcro del suo pensiero, cui è dedicato il famoso saggio Sulla libertà, scritto in collaborazione con la moglie. In esso si evidenzia l’importanza «di una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti», da difendersi non solo contro il governo ma anche contro l’interferenza dell’opinione collettiva nell’indipendenza individuale. «Ciascuno è il completo guardiano della propria salute, sia corporea, sia mentale che spirituale»: se ciascun individuo è in grado di sviluppare il proprio peculiare modo di vita (ovviamente fino al limite di non ledere la libertà altrui), ne beneficerà indubbiamente lo sviluppo sociale (per il quale certo ognuno è tenuto ad assumersi anche la sua parte di sacrifici). Dunque la più grande libertà possibile di ciascuno porta il benessere di tutti, senza restrizioni ed esclusioni. Per questo motivo in Sulla servitù delle donne Mill sostiene la necessità di creare condizioni sociali di parità tra i due sessi, considerando che l’inferiorità della natura femminile è un fatto storico, artificiale, voluto dagli uomini per il loro beneficio. Negli ultimi scritti dedicati alla religione Mill, mentre respinge come privo di valore l’argomento cosmologico, accetta invece quello teleologico come il più fondato in senso induttivistico. Tuttavia esso non è sufficiente a provare gli altri tratti del Dio cristiano, cioè l’onnipotenza e l’onniscienza, anche se la sua idea può aiutare l’umanità a formarsi una religione che la induca a limitare le pretese egoistiche, favorendo l’orientamento dell’attività del singolo verso la cooperazione con l’Essere invisibile nel realizzare armonia e giustizia per il benessere e il progresso umano. Montaigne, Michel Eyquem de Filosofo e letterato francese (Saint-Michel-de-Montaigne 1533-1592). Colto e raffinato, fu impegnato durante il regno di Enrico IV in varie missioni politiche; nel 1557 fu consigliere nel Parlamento di Bordeaux e poi sindaco (dal 1582 al 1586) della città. L’opera letteraria e filosofica di Montaigne è costituita dai tre volumi dei Saggi, in cui l’autore, attraverso un filosofare autobiografico e una accurata analisi introspettiva, mette in luce la crisi delle certezze a cui l’uomo è soggetto dopo la rivoluzione copernicana e la consa-

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pevolezza del “diverso” dopo la scoperta del nuovo mondo. Montaigne analizza i limiti propri del sapere umano, sapere che «comincia dai sensi e si risolve nei sensi». Ma poiché la natura è inconoscibile (in quanto non esiste un sicuro criterio per distingure il vero dal falso) Montaigne passa da un iniziale stoicismo (che riconosce una soggezione dell’uomo alla natura) a una concezione di classico scetticismo (con la critica alla ragione che ritiene di poter tutto controllare). In questa prospettiva Montaigne invita a non volere ciò che «non può vedere con i suoi occhi, né afferrare ciò che sfugga alla sua presa» e soprattutto saper accettare la morte come termine ultimo proprio dell’esistenza umana. La consapevolezza del limite non deve fungere da freno per l’uomo, ma anzi da sprone a vivere, senza timori, una vita più «piena e profonda». Montesquieu, Charles-Luis de Secondat barone di Filosofo francese (Bordeaux 1689 - Parigi 1755). Attivo e impegnato nella vita politica (fu membro del parlamento di Bordeaux e brillante magistrato), fu fortemente motivato verso un tipo d’indagine storico-scientifica che evidenziasse le cause della crescita e della decadenza delle società e dei regimi politici. Se nelle Lettere persiane (1721) egli si muove ancora su un terreno prevalentemente critico e schermato, nelle sue matrici teoriche (Montesquieu è deista e contrario al dispotismo di derivazione hobbesiana), dalla finzione letteraria (col pretesto del viaggio di due nobili persiani, Usbeck e Rica, in Europa, vengono mostrate, nell’ottica di contrasto dovuta alla diversità culturale, le intime contraddizioni dell’assolutismo francese, nonché l’irrazionalità delle sue istituzioni politiche, delle usanze sociali, delle credenze religiose), nelle opere successive emergono più chiaramente le sue reali intenzioni e i suoi interessi. Dopo un lungo viaggio, che gli consentì di conoscere direttamente l’indole, gli usi e i costumi dei principali popoli europei, scrisse nel 1734 le Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza dove mise in evidenza sia la mirabile armonia tra istituzioni e virtù civili nell’età repubblicana sia la loro rottura, determinata dall’eccessivo allargamento dei confini, in età imperiale. Questo esemplare fenomeno storico viene studiato nelle sue cause sociali e ambientali (che Montesquieu riassume e riconduce a unità nel concetto, peraltro ancora poco definito, di “spirito del popolo”) al fine di stabi-

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lire, mediante un’indagine empirica, le leggi generali della società. Tale prospettiva assumerà forma matura nel 1748, con la pubblicazione de Lo spirito delle leggi, capolavoro della scienza politica settecentesca. Alla base di quest’opera è certo il relativismo culturale delle Lettere, ma anche una fiducia tutta illuminista nelle possibilità conoscitive delle scienze, visto che egli tenta di estendere il metodo sperimentale (nella forma di esame comparativo dei vari fattori) al campo politico e giuridico, cogliendo nessi tra fenomeni storicamente ed empiricamente accertati. In questo senso non vi è contraddizione tra il piano oggettivamente descrittivo dei fenomeni indagati e quello critico verso il dispotismo, giacché la ragione è per Montesquieu un criterio normativo concreto che fornisce risposte adeguate ai vari problemi nelle più diverse situazioni, prospettando soluzioni per rendere migliori i sistemi effettivamente esistenti. Questi sono animati e improntati da uno spirito costituito da vari fattori (clima, religione, leggi, tradizioni, usi, costumi, comportamenti demografici, attività produttive ecc.) che nella loro molteplicità e nel loro intreccio determinano le leggi civili e politiche dei popoli (quelle positive, non quelle astratte del giusnaturalismo), rendendoli individualmente specifici e irriducibili a un’unica natura umana: perciò le leggi debbono modellarsi sui popoli e non viceversa. Quanto alle forme istituzionali, Montesquieu le classifica sulla base di un criterio non quantitativo (quanti individui detengono il potere) ma qualitativo, determinato dall’esistenza o meno di un governo costituzionale, retto da leggi fisse e stabilite. Su questa base Montesquieu descrive lo spirito e le caratteristiche delle leggi nei vari ambiti in cui si strutturano la società e lo stato, considerati come totalità coerenti e articolate, le cui singole componenti interagiscono reciprocamente senza poter essere separate. Ogni sistema istituzionale si regge su un ethos che permea la mentalità e i sentimenti del popolo, ha un fine particolare, possiede una propria funzionalità con i relativi mezzi per esercitarla. Tra essi Montesquieu ritiene che sia preferibile per i popoli europei la monarchia costituzionale, a motivo della sua moderazione (la repubblica democratica è eccessivamente dipendente dalle passioni del popolo e risulta pertanto di gestione troppo incerta): affinché il sovrano sia distolto dalla tentazione assolutistica, Montesquieu ritiene indispensabile mantenere le prerogative dei corpi intermedi (i diritti della nobiltà, del clero, del terzo stato, dei parlamenti

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cittadini). In questi attori, e nella presenza di una magistratura indipendente, egli vede un argine concreto contro la tirannide. Dunque la libertà politica ha bisogno di dispositivi istituzionali e di un sistema di garanzie per il suo effettivo esercizio: di qui la teoria della separazione dei poteri, che si equilibrano e bilanciano reciprocamente, e dell’indipendenza della magistratura, che deve essere permanente e protetta da interferenze esterne. Autentico strumento di protezione e tutela delle libertà civili, pubbliche e private, è la legge, che assume pertanto una suprema funzione garantista verso i cittadini e verso le istituzioni. Moore, George Edward Filosofo inglese (Londra 1873 - Cambridge 1958), professore a Cambridge, tra i maggiori esponenti della filosofia analitica. Fu estremamente critico verso il neoidealismo, di cui confutò il principio gnoseologico esse est percipi, argomentando che il contenuto di qualcosa è parte della cosa stessa ma non della coscienza, per cui nella coscienza di qualcosa c’è anche la coscienza che l’oggetto non è un aspetto inseparabile della propria esperienza. Con ciò egli si avvicinò al realismo del senso comune, di cui sostenne le “ovvie” verità (l’esistenza delle cose materiali e degli altri soggetti umani fuori di noi ecc.) attraverso l’analisi del linguaggio comune, strumento sia di chiarificazione delle sue asserzioni sia di demolizione delle tesi della “filosofia” (che sotto i suoi colpi apparivano confuse e deboli). Questa prospettiva metodologica (consistente nel ridurre gli enunciati complessi ad altri più semplici) appare particolarmente evidente nell’indagine in campo morale (Principia ethica del 1903): il “bene” è una nozione semplice e intuitiva, indicante qualità proprie e irriducibili delle cose, e l’etica ha il compito di analizzare le asserzioni che si fanno su tali qualità, stabilendo rapporti di causalità tra cose buone o cattive e graduando gerarchicamente i beni. Morelly Filosofo francese del Settecento (mancano del tutto le notizie sulla sua vita), cui vengono attribuite varie opere la più celebre delle quali è il Codice della natura (1755). Radicalizzando alcune idee rousseauiane, Morelly sostiene l’esistenza dello stato di natura come stato di felicità e socievolezza, caratterizzato dall’uguaglianza, dalla comunione dei beni e dall’integrità dell’amor proprio: la sua fine (e quindi l’origine della decadenza e del male, segnata dal sorgere della proprietà privata – causa

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di ogni infelicità – e dello stato) sarebbe stata determinata da fattori esterni alla volontà umana (la moltiplicazione delle famiglie, le trasmigrazioni ecc.). All’egoismo e all’avarizia Morelly oppone una serie di riforme tese al ristabilimento dell’uguaglianza tra i cittadini-lavoratori attraverso un sostanziale “comunismo” dei beni: per la sua forte carica utopistica tale egalitarismo esercitò un notevole influsso sull’ala più estrema del giacobinismo rivoluzionario e sul socialismo francese, da Babeuf a Fourier, Saint-Simon, Proudhon. Morin, Edgar Sociologo ed epistemologo francese (Parigi 1921), amico di Sartre e direttore di vari istituti di ricerca scientifica e transdisciplinare. Dopo le analisi pionieristiche condotte nel celebre L’industria culturale (1962), le sue ricerche si sono spostate nel campo della metodologia delle scienze umane (su cui ha scritto, a partire dal 1977 un monumentale Metodo in cinque volumi) concentrandosi sul tema della “complessità”. Polemizzando con la scienza moderna che, fondandosi sul primato assegnato da Cartesio all’analisi, ha semplificato e frantumato la ricerca smarrendo in tal modo, con la riduzione della realtà in termini di omogeneità, linearità e calcolabilità, il senso dell’identità del proprio lavoro, Morin (che si richiama ai più recenti indirizzi della microfisica, della cibernetica, della teoria dei sistemi e dell’informazione) propone un nuovo paradigma che permetta la reciproca articolazione e la circolare solidarietà di fisica, biologia e antropo-sociologia sulla base dei principi di dialogicità (per cui dati contrapposti risultano costitutivi di uno stesso fenomeno), di ricorsività (per cui c’è indistinzione tra causa ed effetto), di ologrammaticità (che mostra la presenza del tutto nella parte, nella coappartenenza di entrambi i termini). Perciò la scienza deve partire da fenomeni incerti, oscuri e confusi per individuare, in una dinamica fluida e sempre aperta, le relazioni con l’ordine e l’organizzazione: secondo Morin questo rinnovamento del pensare, proprio perché consente di cogliere la complementarietà di termini considerati antinomici e di penetrare nei legami tra soggetto e oggetto, mente e natura (e tutti i suoi derivati), è condizione indispensabile all’uomo per continuare ad abitare la Terra. Moro, Tommaso In inglese Thomas More. Umanista e uomo politico inglese (Londra 1478-1535). Amico di Erasmo, sotto il regno

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di Enrico VIII ebbe vari e importanti incarichi politici: membro prima della Camera dei Comuni, poi del Consiglio della Corona e infine Cancelliere. Rifiutò di giurare obbedienza all’Atto di Supremazia che sanciva lo scisma anglicano, per cui Enrico VIII lo imprigionò nella Torre di Londra e lo giustiziò con l’accusa di tradimento. Tra le opere di Moro Il dialogo del conforto nelle tribolazioni (1535), Dialogo sulle eresie (1529), Nell’orto degli ulivi (1534-35), Storia di Riccardo III (1515-18), Epigrammi (1518-20), Vita di Giovanni Pico della Mirandola (1510), anche se la più conosciuta rimane Utopia (1516, il titolo completo è Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia), romanzo filosofico nel quale l’autore, attraverso il personaggio di Raffaele Itlodeo, critica la situazione socioeconomica inglese del suo tempo e descrive una realtà immaginaria perfetta. Utopia è un’isola ignota e fantastica nella quale tutti, a turno, coltivano la campagna; non esiste proprietà privata e non si conosce l’uso di metalli preziosi; gli utopiesi hanno come fine dell’agire l’utile comune e alcuni magistrati (i filarchi) garantiscono che nessuno possa rimanere ozioso e cadere così preda del vizio e della corruzione dei costumi. Nell’isola, inoltre, è assicurata la tolleranza religiosa: tutti riconoscono l’esistenza di Dio ma libera è la pratica del culto; è vietata soltanto la diffusione pubblica di credenze quali la mortalità dell’anima e l’ateismo (politicamente pericolose) ma non l’accettazione di queste a livello privato e di coscienza personale. In questo modo Moro vuole operare un rinnovamento della società e si erge a difesa dell’uomo e dei suoi diritti, quali la libertà e l’eguaglianza sociale, necessari per affrancarlo dal bisogno. Morris, Charles Filosofo americano (Denver 1901 - Gainesville 1979), professore all’università di Chicago e del Texas. In rapporto fin dall’inizio col movimento neopositivistico, vi innestò temi e motivi del pragmatismo, liberando l’analisi linguistica da alcune angustie teoriche presenti nel pensiero dei fondatori (Schlick, Carnap). Nell’articolo Fondamenti della teoria dei segni (1938) scritto per l’Enciclopedia della scienza unificata, presentò una teoria del linguaggio (sviluppata in seguito in Segni, linguaggio, comportamento, 1946) che permetteva di chiarire i vari usi e tipi di discorsi umani (scien-

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tifico, poetico, religioso ecc.) attraverso l’individuazione di tre livelli nel campo segnico (semantica, sintassi, pragmatica), quella dei fattori che determinano la funzione del segno (veicolo, designatum, interprete, interpretante) e dei suoi usi (informativo, valutativo, stimolante, sistematico). In tal modo egli diede un forte impulso allo sviluppo della scienza generale dei segni (di cui il linguaggio fa parte), o semiotica. Mosca, Gaetano Filosofo della politica italiano (Palermo 1858 - Roma 1941), docente a Torino e a Roma, autore degli Elementi di scienza politica (1896). Sostenne la tesi (valida più come canone di interpretazione storica che di spiegazione sociologica) che, qualunque sia la forma di governo, il potere è sempre detenuto da una minoranza organizzata (la “classe politica”): essa si impone alla maggioranza sulla base di requisiti (forza, ricchezza ecc.) variabili nei tempi e nelle circostanze (la scienza della politica si occupa di studiare i mutamenti di questi fattori che determinano i concetti di regime e di classe politica), anche se poi giustifica e legittima a posteriori il suo dominio con un principio astratto (“formula politica”), che lo rende accettabile ai più. Mosca rilevò inoltre nell’attuale assetto sociopolitico una serie di antinomie (indipendenti e talvolta compossibili, che egli presentò sotto forma di legge scientifica). La prima tra la tendenza “aristocratica” a stabilizzare il potere nelle mani dei discendenti dell’“élite” governante e quella “democratica” che mira a rinnovare la classe dirigente con elementi provenienti dalle classi governate; la seconda tra il principio “autocratico” per cui l’autorità viene trasmessa dall’alto verso il basso, e quello “liberale” per cui essa viene delegata dal basso. Mosca indicava in un sistema che garantisse il pluralismo e la separazione dei poteri, il modello di governo più idoneo per l’età moderna. Mounier, Emmanuel Filosofo francese (Grenoble 1905 - Parigi 1950). Nei difficili anni tra le due guerre e nel secondo dopoguerra sostenne la posizione del cattolicesimo sociale, impegnato in un progetto di riforma della società in opposizione al marxismo, da posizioni vicine a quelle del personalismo e dell’esistenzialismo cattolico. È autore di Rivoluzione personalista e comunitaria (1935) e di Introduzione agli esistenzialismi (1946).

N Nagel, Ernst Filosofo americano di origine cecoslovacca (Nové Me˘sto 1901 - New York 1985), studioso di logica, metodologia ed epistemologia, sotto l’influsso sia del pragmatismo sia del neopositivismo. Nella sua prospettiva (espressa soprattutto ne La struttura della scienza del 1961) compito della filosofia è il chiarimento semantico dei termini linguistici attraverso l’esame del contesto in cui questi vengono impiegati, mentre la scienza contemporanea è sempre più consapevole di procedere senza fondamenti metafisici e della valenza probabilistica dei suoi risultati conoscitivi. Nagel, Thomas Filosofo americano di origini serbe (Belgrado 1937), professore a Princeton e New York. Si è interessato soprattutto di etica e politica, ma anche di filosofia della mente. In una serie di saggi raccolti in Questioni mortali (1979) ha affrontato diversi problemi cruciali e di estrema attualità, in quanto toccano la vita di ciascuno (la morte, il sesso, la guerra, il potere politico, la giustizia sociale, la libertà, la discriminazione razziale, la responsabilità), ma anche temi più astratti come l’identità personale e la coscienza. In ogni caso si tratta, come suggerisce il titolo della raccolta, di dilemmi che, concernendo il significato, la natura e il valore della vita, toccano le corde più profonde degli esseri umani che hanno esistenze finite. Dalla possibilità di considerare noi stessi e il mondo da due prospettive antitetiche, in modo personale e impersonale, soggettivo e oggettivo, interno ed esterno alle nostre vite, possiamo porre non solo domande filosofiche costantemente ricorrenti (la tensione tra ragioni personali e neutrali è alla base dei dilemmi morali), ma anche formulate da una varietà molteplice di punti di vista in tensione tra loro. Nagel conduce la discussione in modo approfondito e brillante, mettendo a confronto teorie etiche differenti (utilitarismo, intuizionismo, teoria della giustizia di ➔ Rawls e libertaria dei diritti) e passando dal piano meta-etico a quello normativo. Particolarmente rilevante è il saggio Che effetto fa essere un pipistrello? (1974), in cui assume una posizione antiriduzionista sul

problema della mente: egli infatti sostiene che, data la dimensione irriducibilmente soggettiva dell’esperienza con cui la realtà è accessibile, e la possibilità di cogliere la soggettività altrui solo con uno sforzo empatico del punto di vista dell’altro, possano esistere forme di esperienza che non siamo in grado di comprendere adeguatamente ed esprimere in quanto troppo differenziate dalla nostra. Più in generale Nagel ritiene che tanto l’approccio fisico quanto quello mentale costituiscano una descrizione incompleta: muovendosi in una prospettiva improntata al monismo spinoziano, egli afferma che in natura i sistemi fisici di natura biologica più complessi (come il cervello) hanno proprietà non fisiche; ciò significa che la mente ha proprietà autenticamente nuove rispetto a quelle fisiche da cui pure emerge. In Uno sguardo da nessun luogo (1986) egli riprende, in modo più sistematico ed esauriente, l’impostazione dell’opera precedente, insistendo sull’incompletezza, in campo etico, di una prospettiva soggettivista per adottarne una impersonale, oggettiva o esterna su noi e il mondo, e su noi nel mondo. Del resto essa – come testimonia l’impresa scientifica – risulta connessa al fatto che siamo esseri complessi, capaci sì di autotrascendenza, ma senza una prospettiva in grado di unificare i due modi di guardare il mondo. Dobbiamo perciò essere realisti e accettare umilmente che il mondo è indipendente dalla nostra mente (il mondo non è il “nostro”), che siamo limitati e che la comprensione della realtà è solo parziale. In etica ciò implica l’accettazione del pluralismo e dalla frammentazione dei valori. Nancy, Jean-Luc Filosofo francese (Bordeaux 1940). Formatosi nel clima del poststrutturalismo e del decostruzionismo, allievo di Ricœur, ha insegnato a Strasburgo e in varie università europee e statunitensi. Nancy è sempre stato aperto a molti interessi che vanno dalla letteratura alle arti, dalla psicanalisi alla politica. Ha fatto oggetto di riflessione filosofica anche la sua condizione di trapiantato di cuore (nei saggi Corpus del 1992 e L’intruso del 2000). È autore di

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opere su Lacan, Il titolo della lettera. Una lettura di Lacan (1973), scritto con Philippe Lacoue-Labarthe, sull’ideologia nazista, Il mito nazi (1991), sempre scritto con Philippe Lacoue-Labarthe, e di monografie su Kant e Hegel. La sua riflessione teoretica ha al centro il problema del senso dell’essere e muove dall’impostazione dell’ontologia heideggeriana per svilupparsi lungo percorsi originali che affrontano temi riguardanti la libertà, il mondo, la creazione, il corpo, la comunità. Concetti chiave di queste analisi sono quelli di “abbandono” e di “spartizione” – o condivisione – (in francese partage). Nel saggio L’essere abbandonato (1983) la nozione heideggeriana di “differenza ontologica” tra essere ed essente è reinterpretata in un duplice senso: come “essere abbandonato da” tutte le identificazioni con un essente (a iniziare da Dio) e come “essere abbandonato a” una pluralità di definizioni, dato che il puro essere è privo di essenza. Nei saggi L’esperienza della libertà (1988) e Essere singolare plurale (1996) analizzando la categoria di partage e ricollegandosi al detto di Aristotele “l’essere si dice in molti modi”, Nancy sostiene che l’essere si disperde nella singolarità/pluralità degli essenti e che questo suo ritrarsi implica che l’esistenza non sia diversa dall’essenza. La coincidenza di esistenza ed essenza (“l’esistenza è l’essenza di se stessa”) comporta che l’essere sia essenzialmente plurale in quanto disseminato nella molteplicità degli essenti. Questo pluralismo ontologico si estende nel pensiero di Nancy anche al piano politico e lo porta a formulare una proposta di un pluralismo comunitario. Natorp, Paul Filosofo tedesco (Düsseldorf 1854 - Marburgo 1924), professore a Marburgo, esponente, insieme con Cohen, della Scuola neokantiana. La filosofia ha per Natorp il compito di studiare l’attività del pensiero dal punto di vista logico-trascendentale (in questa prospettiva Natorp interpretò anche la dottrina platonica delle idee) e di penetrare la realtà che è solo nel e per il pensiero (poiché la coscienza è in correlazione indissolubile con l’oggetto, Natorp elevò la psicologia al rango di scienza filosofica). Riflettendo sui fondamenti delle scienze esatte (e in ciò riallacciandosi alle indagini di Cantor e Dedekind), Natorp affermò la sostanziale affinità tra matematica e logica (il numero è infatti essenzialmente un concetto di relazione), mentre spazio e tempo sono solo le condizioni della possibilità dell’esperienza. Ciò che muta in que-

Neohegelismo o neoidealismo

ste strutture deve essere qualcosa di sostanziale, un’energia intesa come un mero supporto (quindi non entificabile in una forza) cui riferire le funzioni matematiche presenti nelle formule fisiche e di cui le varie entità che in queste ultime compaiono sono determinazioni particolari. A sua volta l’etica è definita come logica del dover essere quale «fondamento di ogni validità che sia propria dell’esperienza» e del suo progresso: perciò la sua legge è oggettiva e universale. Di qui un’interpretazione socialista del kantismo (specie della seconda formulazione dell’imperativo categorico), in quanto la legge morale prescrive di subordinare ogni attività del singolo al fine di elevare tutti gli uomini all’altezza della loro umanità (di ciò è strumento lo stato). In questo senso l’umanità è l’idea non solo dell’etica ma anche della religione (che perciò Natorp priva di ogni trascendenza). È autore di diversi saggi su vari temi filosofici: Fondamenti logici delle scienze esatte (1910), Psicologia generale (1912). Neohegelismo o neoidealismo Intendono richiamarsi a Hegel due diverse correnti di pensiero, entrambe sorte tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX: una sviluppatasi in ambiente anglosassone (vivace e ricca di risultati, anche se più che ispirarsi a Hegel ripensa originalmente in chiave idealistica una serie di problemi sollevati da Kant), l’altra in Italia (maggiormente orientata verso un umanesimo e uno storicismo immanentistici). La prima prende avvio con Stirling (che nel suo famoso Il segreto di Hegel del 1865 intendeva mostrare la continuità del filosofo di Stoccarda rispetto al trascendentalismo di Kant) e prosegue con Green (fortemente polemico verso il positivismo e l’utilitarismo) e Caird (interessato soprattutto al problema religioso), culminando infine con Bradley, McTaggart (che intende l’Assoluto come unità di io eterni e spirituali reciprocamente relazionate, giungendo a definire l’universo come un insieme tutto connesso di sostanze, legate tra loro da una “corrispondenza determinante” che è amore) e Royce (che in polemica con Bradley concepisce l’infinito in termini cantoriani come “sistema autorappresentativo” – che contiene se stesso come una propria “parte” e quindi, pur restando individuale, può contenere in sé come proprie parti un’infinità di individui strutturati a sua immagine e somiglianza – approdando a una visione religiosa e comunitaria dalle forti implicazioni etiche e sociali).

Neokantismo o neocriticismo

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In Italia, dove Hegel fu studiato soprattutto nell’ambiente napoletano, il neohegelismo assume un aspetto più decisamente soggettivistico (quindi più vicino a Fichte): tale appare in Vera e in Spaventa, fino a giungere per questa via (dove l’Idea è intesa come mente) all’attualismo di Giovanni Gentile (per il quale l’atto del pensiero, in cui si risolve tutta la realtà, è derivabile dalla categoria hegeliana del divenire). A Hegel intende riallacciarsi anche lo storicismo immanentistico di Croce, che però intende delineare una concezione più “oggettivistica” e attenta alla salvaguardia dell’autonomia dei momenti della vita dello spirito. Anche in Francia si è avuto un indirizzo neohegeliano con Hamelin (che, senza sostenere l’identità di ideale e reale, ha tuttavia proposto una ricostruzione della realtà da parte del pensiero mediante un metodo “sintetico”) e Brunschvics (che, riallacciandosi a Kant e in polemica con il positivismo, ha cercato una fondazione spiritualistica della scienza e della stessa materia). Neokantismo o neocriticismo Corrente filosofica, sorta nella seconda metà del XIX secolo, alla quale si può ricondurre una serie di posizioni teoretiche e tendenze speculative (talvolta molto diverse ed eterogenee tra loro) caratterizzate dalla comune convinzione della necessità, contro le degenerazioni idealistiche, di un “ritorno a Kant”. Nel clima di esaltazione della scienza fisico-matematica favorito dal positivismo, ciò si traduceva nell’esigenza di un’indagine sulle sue condizioni di possibilità al fine di evitare dogmatismi o slittamenti metafisici, anche se non bisogna pensare che questo programma sia stato realizzato

Neokantismo

Neokantismo o neocriticismo

con fedeltà completa alla dottrina di Kant (si resero anzi necessari alcuni adattamenti in rapporto ai nuovi sviluppi delle scienze) e concordia di vedute circa il nucleo autentico del criticismo. Malgrado le divergenze interpretative sono rintracciabili alcuni elementi comuni agli esponenti di questo indirizzo filosofico: la critica allo psicologismo e all’empirismo (la genesi empirica e le caratteristiche soggettive dei contenuti mentali vengono distinte dalla loro validità), l’indagine volta a rilevare le strutture trascendentali della coscienza pura al fine di un’adeguata fondazione della cultura umana, il rifiuto del dualismo di sensibilità e intelletto (e quindi l’abbandono del riferimento al dato sensibile) per pervenire a una determinazione dell’oggettività conoscitiva in termini di validità intrinsecamente necessaria. In Germania il neokantismo è rappresentato soprattutto dalla Scuola di Marburgo che, con Cohen, Natorp e Cassirer, ne sviluppa soprattutto le tematiche gnoseologiche e logiche; e da quella del Baden, che con Windelband e Rickert si occupa in particolare della dottrina etica del dover-essere, concludendo in una filosofia dei valori. Neokantiani sono anche quegli autori (Dilthey e Weber) che affrontano la questione del metodo delle scienze storiche e sociali (o dello spirito) in opposizione a quelle della natura; e pure quei socialisti revisionisti (per esempio Vorlaender) che intendono riformare in senso etico il materialismo marxiano. Parallelamente si sviluppano programmi di ispirazione neokantiana anche in Francia (con Renouvier), in Inghilterra e in Italia (in questi due Paesi senza figure di particolare rilievo). Bisogna evidenziare infine come il neokantismo ab-

Il “Ritorno a Kant” nel XIX secolo H. COHEN (1842-1918) SCUOLA DI MARBURGO P. NATORP (1854-1924) W. WINDELBAND (1848-1915) SCUOLA DEL BADEN Heidelberg

E. TROELTSCH (1865-1923) P. RICKERT (1863-1936) E. CASSIRER (1874-1945)

Ch. RENOUVIER (1815-1903)

Neopitagorismo

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bia promosso una nuova filologia kantiana, nell’intento di fissare con scrupolo il testo delle Critiche. Neopitagorismo Corrente di pensiero che si originò (probabilmente ad Alessandria) verso la fine del II sec. a.C., intendendo riproporre (spesso affiancandosi all’orfismo) le idee e la vita etico-religiosa dell’antico maestro e della sua scuola. I nuovi adepti diffusero così una vasta letteratura apocrifa (i più noti sono le Lettere e i Versi aurei ascritti allo stesso Pitagora, il trattato Sulla natura del tutto attribuito a Ocello Lucano, gli scritti di Alessandro Polistore) in cui, sotto il nome autorevole dei pitagorici più antichi (Archita, Onato, Timeo, Metopo, Eurifamo, Ippodamo ecc.), erano esposte (con una terminologia che rimarrà acquisita nelle dottrine esoteriche delle epoche successive) le loro dottrine matematico-numerologiche dalle forti implicazioni soteriologiche e magiche (il dualismo monade-diade, la teoria delle idee-numeri, la funzione catartica e iniziatica delle matematiche, la concezione dell’anima ecc.). A Roma il neopitagorismo fu introdotto nel I sec. a.C. da Publio Nigidio Figulo e fu accolto in età imperiale dalla Scuola dei Sestii. Nel I secolo d.C. Moderato di Gades, nell’ambito di una aritmologia in cui i numeri diventano simboli di realtà trascendenti e metodo d’ascesa all’intellegibile, affermò un primo Uno superiore alle essenze e altri due corrispondenti rispettivamente al mondo noetico e all’anima, mentre Nicomaco di Gerasa (nella sua Introduzione aritmetica) assimilò i numeri alle idee e, considerando il ragionamento aritmologico come la struttura del pensiero e dell’ordine metafisico, identificò nella monade la fonte di tutti i numeri e nell’Uno (Dio) il principio di tutte le cose. Sensibile alle influenze pitagoriche fu anche Plutarco, mentre in Numenio di Apamea si nota una grande apertura verso le forme mistico-iniziatiche più svariate (anche giudaiche e gnostiche). Del clima sincretistico del III secolo, dominato da esigenze soteriologiche e da ansie di catarsi e interiorità, è infine espressione la Vita di Apollonio di Tiana (pitagorico del I sec d.C., taumaturgo e profeta, fondatore di una scuola a Efeso, il cui insegnamento era probabilmente improntato al tema della purificazione dell’anima e all’esercizio dell’ascesi) di Flavio Filostrato, scritta su ispirazione di Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, che intendeva così contrastare la nuova religione cristiana opponen-

Neoplatonismo

do la figura del sapiente a quella di Gesù. Nel III secolo d.C. il neopitagorismo perse la sua configurazione di indirizzo speculativo autonomo confluendo nel neoplatonismo (non a caso Porfirio e Giamblico scriveranno entrambi una Vita di Pitagora). Neoplatonismo Sorto ad Alessandria nel 232 ca. d.C. con la scuola di Ammonio Sacca e terminato nel 529 con l’editto di Giustiniano che ordinava la chiusura delle scuole filosofiche di Atene, il neoplatonismo si qualifica per la ripresa del sistema speculativo platonico, in cui però vengono originalmente fuse, nell’ambito di un più vasto movimento sincretistico, istanze ed elementi provenienti da altre scuole e correnti di pensiero, sia filosofico che religioso. Alla sua origine complessa si possono infatti individuare diverse e ramificate componenti: il giudaismo ellenizzante di ➔ Filone (con la dottrina delle Potenze intermedie e del Logos), il neopitagorismo (che riprende la teoria delle idee-numeri e con la trinità metafisica Uno-Idea-Anima preannuncia quella delle ipostasi plotiniane, mentre la filosofia si presenta come strumento di salvezza), il cosiddetto medioplatonismo (che accentua la valenza etico-religiosa del pensiero di ➔ Platone intendendo le idee come «pensieri della mente divina» e lo scopo della vita come «assimilazione a Dio»), l’ermetismo (con il suo apporto di motivi magico-astrologici e soteriologici orientati in senso gnostico e con una metafisica strutturata in ben precisi piani cosmici che trovano la loro unione nell’uomo), lo stoicismo (in cui ➔ Posidonio ha innestato una problematica più vasta e ➔ Seneca ha trasmesso il senso dell’interiorità e della dignità della persona umana), lo gnosticismo (con la sua tematica concernente la salvezza, il valore della vita, il significato della sofferenza e nel cui orizzonte si collocano gli Oracoli caldaici, poema del II sec. d.C. che narra, con un linguaggio ieratico e simbolico, l’odissea dell’anima e insegna la via per ritornare alla “fonte della vita”). Rispetto al platonismo originario, ➔ Plotino introdurrà alcuni motivi metafisici che verranno a costituire il nucleo teoretico specifico del neoplatonismo: la teoria dell’emanazione (volta a mediare i due livelli ontologici dell’intellegibile e del sensibile salvando la continuità dell’universo e l’unità delle distinzioni) e la concezione dell’Uno (che rompe con l’intellettualismo greco sconfinando nella celebrazione del soprannaturale e dell’inesprimibile nella misura

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Neopositivismo

in cui il processo dialettico del pensiero si conclude nell’estasi in cui l’anima si inabissa e si perde nell’assoluto). La riflessione del maestro verrà ripresa da Porfirio (che però si mostrerà più sensibile alle influenze misticheggianti e irrazionalistiche di provenienza orientale), Giamblico (che diffonderà il neoplatonismo in Siria, configurandolo come arte iniziatica e divinatoria), Edesio (che aprirà una scuola neoplatonica a Pergamo, tra i cui maestri vi sarà quel Massimo che iniziò Giuliano l’Apostata alle pratiche magiche e teurgiche sollecitandolo alla lotta contro il cristianesimo), Plutarco (che riportò il neoplatonismo ad Atene riconducendolo alla genuina ispirazione razionalistica e infondendogli nuovo vigore speculativo, e nella cui scuola furono maestri, tra gli altri, Siriano, Proclo, Marino, Damascio, Simplicio). Dopo la chiusura della Scuola di Atene, il neoplatonismo sopravvisse ancora (per iniziativa di Olimpiodoro il Vecchio, Ierocle, Teosebio) ad Alessandria, ma in forme contaminate con il cristianesimo: l’ultimo suo rappresentante fu Stefano di Alessandria, che, chiamato a insegnare a Costantinopoli, trasferì così

Neoplatonismo

Neopositivismo

nella capitale dell’impero bizantino la tradizione classica. Da questo momento in poi le istanze del neoplatonismo riaffioreranno in momenti topici della storia del pensiero, rivitalizzate dall’opera di autori che ne esalteranno tutta la potenziale fecondità: è il caso di Dionigi Areopagita, Giovanni Scoto Eriugena e soprattutto Marsilio Ficino, che sia attraverso traduzioni e commenti di testi sia attraverso la propria personale elaborazione speculativa le trasmetterà al pensiero moderno. Neopositivismo Movimento filosofico tra i più significativi del nostro secolo. Nasce storicamente nel periodo tra le due guerre dai dibattiti sviluppatisi all’interno del cosiddetto ➔ Circolo di Vienna e si contraddistingue per l’attenzione esclusiva ai metodi e agli atteggiamenti della scienza empirica, considerati gli unici validi (se ne auspica pertanto l’estensione graduale in tutti i campi) in quanto non indulgono a interpretazioni metafisiche, teologiche o mistiche dell’esperienza umana. In questa prospettiva il neopositivismo assegna (parallelamente alla filosofia analitica, colti-

L’elaborazione del pensiero di Platone in epoca tardo-antica e medievale AMMONIO SACCA (180 ca.-242) PLOTINO (205-270) PORFIRIO (233 ca.-305) NEOPLATONISMO PAGANO

GIAMBLICO (245 ca.-325 ca.) CALCIDIO (IV sec.) PROCLO (410 ca.-485) SIMPLICIO (VI sec.) DIONIGI AREOPAGITA (V sec.) SCOTO ERIUGENA (IX sec.)

NEOPLATONISMO CRISTIANO

J. ECKHART (1260 ca.-1328) M. FICINO (1433-1499) LEONE EBREO (1463-1523 ca.)

NEOPLATONISMO ARABO-EBRAICO

AVICENNA (980-1037) AVICEBRON (1020 ca.-1069 ca.)

Neoscolastica e neotomismo

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vata nelle scuole di Cambridge e Oxford) un ruolo centrale all’analisi del linguaggio, svolta sia in funzione essenzialmente metodologica nei confronti del linguaggio scientifico (considerato il solo paradigma del linguaggio corretto) sia in funzione polemica verso tutte le forme di speculazione estranea a questo orizzonte, delle cui tesi viene dimostrata l’infondatezza. In tal modo si viene a identificare il valore dei risultati della scienza contemporanea (diversamente da quella “meccanicistica” dell’Ottocento) con il rigore del linguaggio con il quale sono formulati, i cui criteri di significazione assumono pertanto una portata assoluta. Il neopositivismo è pervenuto a questa valutazione del nuovo volto della scienza sintetizzando (in particolare per merito di Schlick e Carnap) diversi motivi, dall’empiriocriticismo di Mach, al complesso di ricerche nel campo della logica formale e dei fondamenti della matematica culminanti nella riflessione di Russell, e soprattutto alle posizioni di Wittgenstein esposte nel Tractatus logico-philosophicus (che catalizzarono le prime tesi neopositivistiche). Ne è risultata una concezione rigidamente empiristica (consistente nel congiungimento della filosofia con la scienza sulla base di un’attività volta a determinare il significato di una proposizione attraverso la determinazione analitica delle sue singole parti per pervenire alla definizione ostensiva, riferentesi al dato immediato), oggetto di un intenso dibattito tra i maggiori esponenti del movimento (specialmente Neurath), che, ridimensionando e rivedendo la rigidità dell’empirismo originario (lo stesso Carnap si mostrò disponibile a rivedere le proprie posizioni di partenza), è sfociato in un programma di unificazione della scienza sulla base di un linguaggio unitario e identificabile con quello della fisica (fisicalismo) su base protocollare e convenzionalistica (secondo la nuova prospettiva aperta da Carnap in Confermabilità e significato e nella Sintassi logica del linguaggio la verità di una teoria dipende dalla coerenza interna delle sue proposizioni e non dalla corrispondenza di alcune di esse con il dato immediato). Nella fase “americana” del neopositivismo (in seguito cioè del trasferimento negli Stati Uniti della maggior parte dei suoi membri dopo l’avvento del nazismo) si assiste a una ripresa delle indagini al di là della pura problematica sintattica: ciò in seguito alle influenze del pragmatismo (in particolare Morris e Dewey) e della scuola polacca di logica (specialmente Tarsky), che spo-

Neoscolastica e neotomismo

starono l’attenzione specialmente sulla dimensione semantica (ancora una volta la produzione di Carnap in questa periodo risulta l’indicatore più significativo) e pragmatica del linguaggio. In ogni caso nell’ambiente americano (e più generalmente anglosassone) il neopositivismo ha ricevuto nel secondo dopoguerra una serie di stimoli fecondi dalle critiche avanzate da autori come Popper, Quine, Kuhn, Feyerabend e altri, che hanno messo in discussione (e talvolta demolito) alcuni dei suoi capisaldi teorici (in particolare la distinzione analitico-sintetico, il presupposto dell’astoricità della scienza): per effetto di tali critiche e in seguito alla morte degli ultimi grandi esponenti del movimento (Nagel, Hempel), il neopositivismo ha progressivamente perduto i contorni specifici di indirizzo di ricerca autonomo stemperandosi nel più ampio alveo della filosofia analitica. Neoscolastica e neotomismo Si designa con questo termine il movimento (vivo specialmente in Italia, Francia e Germania, ma certo diffuso in tutto il mondo per lo più in stretto rapporto con la presenza di università cattoliche) di ripresa della filosofia scolastica, sorto all’inizio del XIX secolo. Poiché in questo contesto le posizioni teoretiche di Tommaso (oltre che essere cronologicamente le prime a essere rivalorizzate, come testimoniano i vari collegi e le numerose accademie – a Piacenza, a Roma, a Napoli, a Torino, a Bologna, a Perugia – in cui furono riprese e nuovamente insegnate) sono considerate le più significative, complete e convincenti (specie in rapporto alla problematica contemporanea), la neoscolastica (che comprenderebbe altre autorevoli correnti della filosofia medievale come la Scuola francescana, l’agostinismo ecc.) ha finito per identificarsi (anche per precise ragioni storiche, come la fondazione della rivista dei gesuiti La civiltà cattolica nel 1849 e l’enciclica Aeterni patris di Leone XIII del 1879) con il neotomismo. La filosofia neoscolastica si caratterizza per una riflessione speculativa sviluppata intorno ad alcuni specifici nuclei tematici che ne definiscono, oltre che il profilo teoretico, anche il peculiare indirizzo di ricerca: la dottrina dell’astrazione in sede gnoseologica, quella connessa dell’anima come forma del corpo in sede psicologica, quelle dell’ilemorfismo e della potenza e dell’atto in sede metafisica. Da questa prospettiva la neoscolastica ha instaurato (dopo l’atteggiamento polemico prevalente nelle fasi iniziali) un fecondo confronto con

Neurath

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le più rilevanti espressioni del pensiero moderno e contemporaneo quali il kantismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo. Molti sono i nomi di rilievo: tra i più rilevanti Maréchal (che ha tentato il superamento dell’agnosticismo kantiano), Maritain, Gilson, Przywara (che ha elaborato una personalissima antropologia “tipologica”, fondata sulla dottrina dell’analogia entis, in cui sono fatti convergere motivi dionisiani e agostiniani), Rahner (che ha rinnovato a fondo l’impostazione della teologia imprimendole una svolta “antropologica”, in quanto l’apertura all’essere e la capacità del suo trascendimento sono costitutive della natura umana), Grabmann (studioso del metodo scolastico), Pieper (che si è rivolto alla fondazione dell’antropologia), Stein, Bontadini (che ha combattuto lo gnoseologismo moderno in nome di una nozione di esperienza come presenza totale e assoluta), Vanni Rovighi (interessata soprattutto alla gnoseologia e allo studio di particolari momenti storici del pensiero scolastico), Fabro (che ha sviluppato un serrato confronto con l’hegelismo, il marxismo, l’esistenzialismo e in generale con l’ateismo contemporaneo). Il movimento neoscolastico ha inoltre promosso, oltre ad una numerosa serie di studi specialistici sugli autori medievali, importanti edizioni critiche dei loro testi, a cominciare da quelli di Tommaso (edizione leonina iniziata nel 1882) e di Bonaventura (edizione Quaracchi 1883-1902). Neurath, Otto Filosofo austriaco (Vienna 1882 - Oxford 1945), tra i maggiori rappresentanti del ➔ Circolo di Vienna, autore di Fisicalismo (1931) e Fondamenti della scienza sociale (1944). Recò un contributo originale e decisivo all’elaborazione della dottrina dell’empirismo logico. Sviluppò con Carnap la tesi del “fisicalismo”, di cui concepì le idee fondamentali (la conoscenza umana coincide con quella scientifica, e questa con l’insieme delle proposizioni accolte da una comunità di scienziati e aventi come base il linguaggio della fisica, che è costituito da designazioni spazio-temporali e da predicati osservativi) e che estese al campo etico-sociale (le scienze sociali debbono convertirsi in senso comportamentistico, cioè come studio dei comportamenti osservabili di individui e gruppi). Simpatizzante dell’ideologia marxista, ne accettò solo gli aspetti scientifici, quelli cioè economici e sociologici: per il resto fu del parere che il filosofo potesse fornire solo una collaborazione per studiare e promuovere le condizioni di svi-

Newton

luppo della società. Infatti Neurath non fu solo un intellettuale ma nella Vienna socialdemocratica del dopoguerra profuse molte energie nel campo delle riforme sociali e dell’organizzazione culturale. Newman, John Henry Filosofo e teologo cattolico inglese (Londra 1801 - Birmingham 1890), fu proclamato cardinale e beato. Di famiglia anglicana, studiò a Oxford e divenne diacono della Chiesa d’Inghilterra, ma entrò in conflitto con le gerarchie per il tentativo di trovare una compatibilità tra la fede anglicana e i dogmi definiti dal Concilio di Trento. Nel 1845 si convertì al cattolicesimo, due anni dopo fu ordinato sacerdote e nel 1879 papa Leone XIII lo creò cardinale. Amplissima la sua bibliografia, tra cui si segnalano l’autobiografia Apologia pro vita sua (1864) e l’opera teoreticamente più rilevante, Grammatica dell’assenso (1870), un testo apologetico centrato sulle dinamiche della fede, esaminate alla luce delle categorie di assenso e di apprensione. Attraverso questa “grammatica dell’assenso” Newman vuole chiarire come si possa credere in ciò che non si capisce e in ciò che non può essere provato. Nel giustificare l’atto di fede come un atto di ragione Newman sviluppa il tema del primato della coscienza, intesa come l’elemento divino presente in noi cui ci si deve responsabilmente appellare per ogni decisione. Critico nei confronti del liberalismo, che riduce tutte le opzioni ideali morali e religiose a opinioni equivalenti, aprendo il campo al relativismo, Newman ha posizioni molto innovative per i suoi tempi in materia di rapporti tra fede e scienza (ritiene compatibile il darwinismo con il cristianesimo), sui temi ecclesiali (vuole valorizzare il ruolo del laicato) e su quelli dell’ecumenismo (auspica il dialogo tra le confessioni cristiane). Per queste ragioni fu ritenuto un precursore del Concilio Vaticano II. Newton, Isaac Scienziato e filosofo inglese (Woolsthorpe 1642 - Londra 1727), cui si deve la grande affermazione della fisica classica. Newton fu il primo a trovare una solida base dalla quale poter dedurre un gran numero di fenomeni mediante il ragionamento matematico e logico-quantitativo mantenendosi in accordo con l’esperienza. La sua scienza ammette una ragione limitata in quanto non ha il compito di scoprire sostanze o essenze, ma solo funzioni, riducendo i fenomeni del movimento a dati quantitativi e misurabili. Perciò egli insiste sulla necessità dell’osservazione sistematica

Nicola d'Autrecourt

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e della pratica sperimentale, in quanto sono gli esperimenti che convalidano le teorie scientifiche, rappresentandone l’unica verifica efficace. Essi non forniscono una certezza assoluta ma solo altamente probabile: osservazioni ed esperimenti (metodo analitico) sono alla base della costruzione delle teorie (metodo sintetico), nel senso che da essi devono essere tratte induttivamente le conclusioni generali con cui spiegare lo svolgimento dei fenomeni naturali. Sotto il profilo metodologico, Newton enuncia quattro fondamentali regole metodologiche. La prima raccomanda la semplicità delle teorie, usando parsimonia nell’apparato ipotetico delle nostre spiegazioni. Presupponendone anche l’uniformità, la seconda regola impone di assegnare le stesse cause agli stessi effetti, sia sulla terra sia sui pianeti. Di conseguenza (terza regola), come risulta ai nostri sensi, «si devono ritenere universali tutte quelle che universalmente si accordano con gli esperimenti; e che non possono essere né diminuite né tolte». Di qui la concezione del corpuscolarismo: «estensione, durezza, impenetrabilità, mobilità e forza d’inerzia del tutto risultano dalla estensione, durezza, impenetrabilità, mobilità e forza d’inerzia delle parti; e da qui concludiamo che le parti più piccole di tutti i corpi devono anche essere estese, dure, impenetrabili, mobili e dotate di loro propria inerzia. E questo è il fondamento di tutta la filosofia». L’ultima regola stabilisce che l’unica procedura valida per la scienza sperimentale è il metodo induttivo, affermazione che si accompagna in Newton a una forte critica al procedimento ipotetico. La sua nota dichiarazione «hypotheses non fingo» contiene una forte carica polemica sia nei confronti delle concezioni puramente deduttivistiche e basate su una qualche nozione a priori (Cartesio), sia nei confronti di quelle puramente congetturali (Huygens e Hooke a proposito della luce), non convalidate tramite osservazioni ed esperimenti. Nicola d’Autrecourt Filosofo scolastico francese (Autrecourt 1300 ca.-1350 ca.). Partito da posizioni occamiste e averroistiche trasse conclusioni radicali e scettiche; perciò venne condannato come eretico e i suoi scritti (Exigit ordo executionis e le Epistulae) vennero bruciati nel 1347. Per quanto riguarda le proposizioni razionali, esse dovrebbero potersi ridurre al prin-

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cipio di non contraddizione, l’unico evidentemente vero: ma nessuna proposizione risponde a questo requisito. Lo stesso si deve dire per le proposizioni empiriche, che dovrebbero fondarsi sull’evidenza della coscienza e sul suo principio, l’identità, mentre ci è testimoniata solo la nostra attività ma non l’inferenza dall’atto all’oggetto. Criticò i concetti di causalità e di sostanza, attribuendo loro un valore puramente presuntivo poiché non sono né intuibili né deducibili discorsivamente. Di conseguenza Nicola negò la razionalità del cosmo, il finalismo, la diversità di perfezione tra gli esseri (tutte affermazioni non evidenti) e i moti sostanziali (ammise i soli moti locali, sposando con ciò un certo democritismo di stampo abelardiano). Con queste posizioni egli precorse i grandi dibattiti svoltisi tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Nicola d’Oresme Filosofo, scienziato, teologo francese (Oresme 1325 ca. - Lisieux 1382), maestro a Parigi e vescovo di Lisieux. Aprì la strada alla scoperta della geometria analitica con l’idea delle proportiones tra funzioni e variazioni funzionali con le rappresentazioni grafiche, si occupò del rapporto tra potenza, resistenza, tempo e velocità, anticipò concetti svolti dalla fisica galileiana con la teoria dell’“impetus” nella caduta dei gravi e nel lancio dei proiettili. Argomentò a favore del moto giornaliero di rotazione della terra e dell’immobilità del cielo (astri e sole), sostenendo la compatibilità di tali dottrine con la Sacra Scrittura. Nicole, Pierre Filosofo, pedagogista e teologo francese (Chartres 1625 - Parigi 1695), tra i maggiori rappresentanti del giansenismo di ➔ Port-Royal, dove fu insegnante. Compose insieme con Arnauld la Logica o arte del pensare, opponendosi al cartesianesimo e difendendo le posizioni teologiche e morali dell’Augustinus dagli attacchi dei gesuiti. Nietzsche, Friedrich Wilhelm Filosofo tedesco (Röcken 1844 - Weimar 1900), massimo interprete della crisi dei valori della nostra civiltà. la vita. Figlio di un pastore protestante, dopo i severi studi liceali a Pforta, si dedicò, prima a Bonn poi a Lipsia, a quelli di filologia classica, anche se già durante gli anni universitari fu attratto dalla filosofia di Schopenhauer. Chiamato nel 1869 all’università di Basilea alla cattedra di lingua e letteratura greca, fu in stretti rapporti con

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Wagner (incontrato l’anno precedente e di cui frequentava la casa), e in amicizia con Rohde, Burckhardt, Overbeck. Nel 1872 pubblicò La nascita della tragedia, che gli attirò molte critiche e ostilità nel mondo accademico, e di seguito le quattro Considerazioni inattuali. Nell’anno successivo le sue condizioni di salute (già negli anni di Lipsia aveva sofferto di emicranie e di nausea, primi sintomi di quell’infezione luetica progressiva che lo condurrà prima alla pazzia e poi alla morte) peggiorarono gravemente (già nel 1870, durante la guerra franco-prussiana in cui si era arruolato volontario come infermiere, era stato colpito da una difterite che lo aveva molto indebolito), tanto da indurlo a chiedere un periodo di congedo dall’insegnamento e a trascorrere un periodo di riposo a Sorrento. Licenziatosi definitivamente dall’università, ruppe i rapporti con Wagner di cui non condivideva il nuovo orientamento estetico e dalla cui musica rimase deluso. Intanto veniva componendo, con un’intensa attività di scrittura, le sue opere (Umano troppo umano 1878, Aurora 1881, Così parlò Zarathustra 1885, Al di là del bene e del male 1886, Genealogia della morale 1887, Crepuscolo degli idoli e Il caso Wagner 1888), mentre conduceva una vita errabonda, tormentato dal suo male e dalla solitudine (data dal fallimento del rapporto sentimentale con Lou von Salomé – una giovane russa che a un certo momento Nietzsche vorrebbe sposare – e dell’amicizia con Paul Rée e con Rohde), finché nel 1889 cadde definitivamente nella follia, stato in cui rimase undici anni, fino alla morte. Postume uscirono L’anticristo, Ecce homo, Nietzsche contro Wagner. La sorella Elisabeth pubblicò nel 1906 La volontà di potenza, raccolta di aforismi arbitrariamente scelti e ordinati, tratti dai manoscritti del filosofo. il pensiero. Già i primi lavori filologici di Nietzsche evidenziano alcuni elementi chiave della speculazione successiva. Egli infatti contesta l’immagine classicista tradizionale della civiltà greca, mostrando come essa rappresenti un momento già di decadenza di questa civiltà, in cui lo spirito greco ha ormai definitivamente smarrito le sue “radici vitali”, di cui restano tracce nella musica e nella religione popolare. La filosofia di ➔ Schopenhauer guida poi l’attenzione di Nietzsche sul tema della vita, mostrandogli l’immagine di un mondo governato da un principio irrazionale e dominato dal dolore, dove l’esistenza umana, priva di un senso trascendente, non è che un even-

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to effimero destinato alla morte. Tuttavia il “lato terrificante” dell’esistenza, il suo carattere tragico, non conduce al pessimismo rassegnato e passivo con cui si conclude Il mondo come volontà e rappresentazione: nei testi letterari arcaici (negli eroi omerici, nei poeti come Teognide, nei presocratici) Nietzsche ravvisa, in un orizzonte (ispiratogli anche dal naturalismo di ➔ Goethe) dai forti accenti paganeggianti e anticristiani, un atteggiamento diverso, che accoglie il dolore e l’irrazionalità del reale con coraggiosa accettazione, comportando l’amore per la vita stessa e «le cose problematiche e terribili» di cui è fatta. Certo la vita distrugge ciò che produce, in un perenne ciclo di “generazione e corruzione” che implica dolore e crudeltà: ma di fronte a essa bisogna essere più crudeli, rispondendo con “più vita”. La vita è volontà, quale forza espansiva infinita cui l’uomo si deve aprire, dilatando il proprio spazio interiore per ospitarvi, in una drammatica mistura, il massimo di sofferenza e il massimo di felicità. L’accesso a essa è reso possibile (sulla scorta delle concezioni di Schopenhauer e Wagner) dalla musica, arte dell’interiorità per eccellenza, lingua in cui si esprime immediatamente l’essenza del reale e la vita elementare dei sensi, che, spezzando i vincoli concettuali della ragione astrattamente rappresentativa, restituisce l’uomo alla sua dimensione creativa originaria. Nella musica, e più in generale in quella forma di volontà che è l’esistenza artisticamente vissuta (che Wagner sembra ora incarnare e che un giorno tradirà), il giovane Nietzsche vede l’unica possibilità di riscatto e di salvezza: in termini romantici, solo con categorie estetiche si è in grado di spiegare l’intimo nucleo dell’essere e della vita, solo l’arte può consentire di vedere il mondo dietro il velo delle apparenze. Per la trattazione di questi temi La nascita della tragedia fece irritare i filologi: essa è infatti un’opera eminentemente filosofica, nella tragedia in quanto forma d’arte, Nietzsche vede la chiave che apre all’autentica comprensione del reale e attraverso la categoria del tragico (vera radice dello spirito greco) fa fronte agli enigmi del mondo. Questo vincolo solidale tra arte e vita i greci lo hanno espresso con le modalità del mito nelle figure dei loro dei: la tragedia nasce in un’epoca di pessimismo, prodotto di uno spirito profondamente tormentato che vi perviene trionfando del terrore in cui lo getta la visione chiara della vicenda di morte che domina tutte le cose. In essa si incontrano le

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due grandi forze che agitano l’anima greca e il suo istinto artistico, l’apollineo e il dionisiaco. Apollo è il dio della luce e della chiarezza, della misura e della razionalità e quindi simboleggia (nella scultura e nell’architettura) la tensione alla forma perfetta, definita e conchiusa in un mondo equilibrato e armonioso; Dioniso invece è il dio della notte e dell’ebbrezza, dello smodato e dell’irrazionale e in quanto tale raffigura l’eccesso e il furore propri dell’energia istintuale originaria: nella musica coribantica e passionale delle processioni in suo onore si esprime il suo impulso di liberazione e di abbandono al caos dell’esistenza. La tragedia acquista agli occhi di Nietzsche un’importanza capitale in quanto in essa si incontra lo stesso evento dell’origine del mondo, il sorgere della forma dal caos primigenio: in essa apollineo e dionisiaco restano in profonda tensione, fondendosi nella perfetta sintesi costituita dalla danza e dal canto del coro da un lato e dall’azione drammatica dall’altro. Malgrado ciò, la tragedia è tutta nel segno di Dioniso: infatti essa ha origine dal coro dei suoi seguaci mascherati, mentre l’eroe non è che una maschera del dio stesso, del quale ripete le sofferenze e la morte per poi ancora rinascere. Nella vicenda tragica (in particolare nella tragedia antica, inscenata da Eschilo e Sofocle) i greci avvertivano la drammaticità della vita e della condizione umana, in cui l’esistenza individuale, limitata e finita, è racchiusa in un ciclo cosmico di vita e di morte, in un destino tanto ferreo quanto immutabile. In termini kantianamente schopenhaueriani, il dionisiaco è il noumeno, il mondo della volontà di vivere e del dolore, mentre l’apollineo è il fenomeno, il mondo delle forme particolari e determinate: ma nel loro gioco dialettico essi esprimono anche il sistema di forze e impulsi che agiscono in ciascuno di noi (perciò la funzione della tragedia non è aristotelicamente catartica, in quanto lo spettatore non è affrancato ma piuttosto immerso nel flusso di dolore e di gioia suscitato dallo spettacolo in scena). L’apollineo è l’illusione, il sogno di un mondo stabile e razionalmente ordinato che rende tollerabile la vita; il dionisiaco è l’esperienza del caos, dell’erompere del gioco crudele della vita, del venir meno di ogni forma nel suo fluire incerto e magmatico. Tuttavia, la tragedia è anche gioia, perché la vita, rappresentata da Dioniso, è forza generatrice che si afferma al di là della morte: quindi nel dionisiaco l’uomo spezza le catene rappresentate dalle norme della cultu-

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ra e della società, liberandosi delle illusioni e riattingendo alla sua natura più vera e profonda. Nella prospettiva ermeneutica aperta da Nietzsche, la tragedia muore (e si rivelerà spurio il tentativo di far rivivere lo spirito greco attraverso la musica di Wagner) col prevalere del razionalismo socratico, che reciderà la radice dionisiaca del senso dell’essere e l’originario slancio creativo imponendo alla vita il primato del logos: allora, come accade in Euripide, l’azione drammatica si trasforma in dibattito teorico, la profondità religiosa lascia il posto alla mediocrità del quotidiano, il mito decade a mera narrazione realistica. Emerge in questo orizzonte il concetto di decadenza: una civiltà, pur grande come quella greca, muore quando si lascia determinare dalla concezione di un mondo razionalmente organizzato, di un ordine metafisico stabilito e immutabile che si tratta solo di riconoscere. All’uomo tragico si sostituisce l’uomo teoretico, che, spinto dal bisogno di rassicurazione e di rendere tollerabile il disordine doloroso della vita, tenta di dominarlo “scientificamente” costruendo un massiccio e imponente mondo di apparenze. In questa vittoria dello spirito razionalistico-socratico su quello musicale-dionisiaco proprio della tragedia, Nietzsche vede l’inizio della storia della decadenza dell’intero Occidente. Questo orientamento di indagine viene approfondito negli scritti del periodo 1872-75 (in parte pubblicati postumi). Così ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, mentre si conferma la frattura intervenuta nel pensiero greco con il razionalismo socratico-platonico, che sostituisce al pessimismo eroico e all’intuizione visionaria l’ottimismo etico e il meccanismo dialettico dei concetti, Nietzsche vede nei primi filosofi (specialmente in Eraclito, con cui condivide l’idea del primato del divenire sull’essere e dell’unità degli opposti) delle personalità eccezionali che, con l’atto creativo proprio del sapiente, legiferano su ogni cosa e rendono manifesto, nell’unità di filosofia e vita, il proprio ideale estetico dell’esistenza e del mondo. In Su verità e menzogna in senso extramorale, in polemica con il positivismo e col razionalismo scientistico che ritiene i concetti le essenze delle cose, Nietzsche, in accordo con Protagora e Gorgia, afferma che il linguaggio è un sistema di metafore liberamente prodotto, un proliferare di immagini a scopo persuasivo in cui si esprimono determinate opinioni e concezioni, frutto del prevalere di precisi inte-

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ressi e rapporti di forza, che solo convenzionalmente chiamiamo verità. Poiché non esiste alcun criterio oggettivo di discriminazione, tutte le “verità” prodotte si equivalgono quali prospettive differenti sulla realtà; a sua volta il mondo (e la vita) non esiste se non come risultato, sempre mutevole e provvisorio, di giochi e scontri di forze e prospettive diverse mediante le quali gli individui valutano e perciò organizzano il mondo in base alle proprie esigenze. Poiché il conoscere è appunto un valutare soggettivo, un atto di vita (ogni rappresentazione del soggetto deriva infatti da un bisogno, da un suo appetitus verso l’oggetto), non rispecchiamento obiettivo, neutro e distaccato, del “dato”: l’evidenza (considerata segno indiscutibile della corrispondenza dei nostri enunciati con la realtà) non si dà se non all’interno di una prospettiva (una verità puramente oggettiva, avalutativa e “speculativa”, è dunque impossibile). Il vertice della riflessione nietzschiana di questo periodo è tuttavia raggiunto dalle quattro Considerazioni inattuali, dedicate, ciascuna per un aspetto diverso, all’esame della cultura presente, in modo da suscitare verso di essa (almeno nelle sue componenti ancora sane e creative) un atteggiamento critico. Se nella prima Considerazione viene attaccato Strauss quale esponente della nuova cultura tedesca insensata e vuota, figlia del Reich e succube della ragione e del progresso, e nella terza e quarta si rende omaggio ai due intellettuali, Schopenhauer (“maestro ed educatore” perché ha perseguito un ideale di filosofia come denuncia del conformismo e ricerca disinteressata della verità) e Wagner (che ha indicato, con L’anello del Nibelungo, la via della rinascita dalle ceneri della catastrofe), protagonisti della rinascita del tragico nel mondo attuale, ideali della figura del “Genio”, modelli di quel tipo d’uomo che produce cultura ed è investito di una missione cosmica, sovrumana, che ne determina il destino, è soprattutto nella seconda Sull’utilità e il danno della storia per la vita che l’indagine di Nietzsche appare più intensa e meditata. L’attacco sferrato allo storicismo, quale tratto dominante della cultura ottocentesca, presuppone infatti il concetto di decadenza (delineato nella Nascita della tragedia) e l’analisi del rapporto che una civiltà stabilisce con il proprio passato. Lo storicismo odierno (cioè quell’atteggiamento che considera la storia una concatenazione di cause ed effetti di cui il presente è solo un anello determinato dalla sua posizione rispetto agli

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altri) è la trasposizione sul piano temporale dello schema razionalistico di matrice socratica per il quale come c’è un ordine rigoroso nelle strutture dell’essere, così ve ne è uno in quel loro particolare aspetto che è il divenire temporale. L’uomo dell’Ottocento è talmente consapevole della storicità, cioè della relatività e transitorietà, di ogni evento che non ha più la forza di prendere alcuna decisione per il futuro. Il presente soffre di “malattia storica” in quanto si dimostra eccessivamente legato al passato e privo dell’elemento creativo e attivo della sua cultura. Gli uomini vivono solo nel passato e non hanno più stimoli a creare “nuova storia”, passivi di fronte agli eventi perché convinti che nulla di nuovo possa sorgere e che tutto sia già stato deciso, destinato comunque a essere fagocitato nel fluire inarrestabile delle cose. In questo senso la storia non è utile alla vita: essa indebolisce gli uomini, trasformati in “enciclopedie ambulanti” di una cultura solo riproduttiva, incapaci di essere protagonisti del presente e di trarre da se stessi alcunché. La nostra civiltà non ha uno stile (ecco la decadenza dell’uomo occidentale) perché ciò implicherebbe un atto di vita, una decisione che produca una forma, una delimitazione di orizzonti arbitrariamente stabilita su uno sfondo oscuro di cui la vita ha bisogno per affermarsi (ancora un appello all’arte come potenza sovrastorica che conduce all’eterno salvando una civiltà dalla decadenza). Perciò l’uomo deve imparare “l’arte di dimenticare”, deve agire in modo “non storico”, cioè secondo quel grado di incoscienza senza il quale non c’è felicità e grandezza, ma solo paura. Nietzsche distingue tre modi positivi di porsi in rapporto con la storia: quello monumentale (proprio di chi cerca nel passato, anche col rischio di mitizzarlo e falsarlo, i modelli che non trova nel presente facendone modelli per il futuro), quello antiquario (caratteristico di quel tipo d’uomo che «conserva e venera», ha cura delle proprie origini e si dedica alla conservazione della tradizione, anche se ciò degenera nell’inaridimento del presente e nella mummificazione della vita) e quello critico (per l’uomo che «soffre e ha bisogno di liberazione», si libera del peso del passato trascinando la storia davanti al tribunale del presente: un processo pericoloso, che ha senso, per noi che comunque siamo figli del passato, solo se la vita sa porsi grandi compiti e solo per chi esprime una potente volontà di futuro). In sostanza Nietzsche evidenzia come la storia abbia senso solo in rapporto al futuro, senza il

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quale il sapere relativo al passato diventa un peso morto e anzi un pericolo, in quanto induce alla rassegnazione: dunque l’orizzonte storico della vita umana, la stessa struttura temporale della nostra esperienza, si istituisce sempre a partire da uno sfondo che non è infrastorico. A partire dal 1878 Nietzsche muta il corso della propria riflessione e cerca una nuova e più propria espressione, affrancandosi della metafisica schopenhaueriana e della seduzione wagneriana. Si tratta del cosiddetto “periodo illuminista”, in cui egli pone al centro della propria speculazione lo svelamento del carattere storico delle verità e dei valori su cui si fonda la cultura europea. Si tratta dunque di un grande tentativo “archeologico” di ricostruzione genealogica (in questo senso critico e disincantato, Nietzsche parla di scienza come della nuova via per la comprensione del mondo) dei sistemi culturali che costituiscono le basi dei criteri di verità e valore propri della civiltà occidentale. Il campo nel quale Nietzsche esercita la propria critica “scientifica” è quello della morale, che pretenderebbe di assogettare la vita a presunti valori trascendenti, mettendo invece in luce le radici non trascendenti, affondate nella vita, di tutto quanto ci si presenta come sacro e indiscutibile. Il bersaglio principale del suo attacco è il concetto di trascendenza (religiosa, filosofica, estetica) che illusoriamente duplica il mondo negando la vita, frutto di un inganno cui l’uomo volontariamente soggiace. Riprendendo il programma dei primi filosofi e i loro quesiti fondamentali (come può una cosa nascere dal suo contrario? quali sono gli elementi semplici delle cose?), Nietzsche disseziona i grandi sentimenti dell’umanità, li smaschera come illusioni mostrandone la radice “umana”, “bassa e persino spregevole”, per cui dietro ogni ideale viene scoperto il suo opposto. In realtà l’uomo agisce spinto dall’istinto di conservazione e dall’intenzione di procurarsi il piacere, mentre la vita è per sua essenza scontro tra forze e lotta per la sopravvivenza: dunque a partire da questi principi semplici è possibile ricostruire i processi che, con tutti i pregiudizi, le astuzie, le finzioni, hanno portato al mondo morale (ciò che a Nietzsche interessa non sono le regole etiche in se stesse, ma i comportamenti da cui quelle derivano). Attraverso questa opera di demitizzazione si raggiunge la libertà dello spirito, ci si vaccina contro tutti gli errori del passato ripercorrendone la storia: perciò al “Genio artistico” ora Nietzsche con-

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trappone lo “Spirito libero”, che non crede ciecamente nella ragione, che è scettico e diffida di tutte le venerabili verità, non indietreggia davanti a nulla, con coraggio e responsabilità è artefice del proprio destino, la cui grandezza sta nei progetti che è capace di esprimere e che sostanziano la sua esistenza, che giunge a riconoscere se stesso come colui che crea e impone i propri valori. Egli possiede la gaia scienza, che libera dall’ignoranza e dalla paura, che fa assumere l’intera storia dell’umanità come propria storia, che cerca la verità ma senza illusioni, che in modo freddo e radicale “penetra nelle carni della vita” per fare con essa degli esperimenti, giocando con l’incertezza e con l’animo di chi, orfano di ogni metafisica, si abbandona alla libertà, all’ebbrezza, alla danza dionisiaca. Tuttavia a un certo punto Nietzsche si rende conto che il pensiero genealogico cade in una contraddizione: la sua riduzione non è definitiva perché in esso non c’è qualcosa di veramente ultimo (anche gli istinti sono reazioni storicamente condizionate) e vi permane un residuo metafisico rappresentato dalla volontà di verità. Da questa difficoltà egli esce riconoscendo la necessità dell’errore per lo stesso essere uomo dell’uomo (del resto la vita si fonda e si fortifica nell’errore): esso non è solo un mezzo di conservazione di una determinata forma di vita individuale e sociale, ma è lo stesso modo di essere di una vita. La prospettiva in cui io vedo il mondo è il mio essere stesso (giacché l’essere non è che prospettiva-interpretazione continuamente in atto), e la prospettiva di un individuo o di un gruppo si identifica col suo destino, cioè con la sua capacità interpretativa (in questo senso si diviene «ciò che si è»). Si prospetta dunque una circolarità indeterminata tra errore-prospettiva-destino-interpretazione (in particolare le ultime due) che apre il pensiero di Nietzsche al «più abissale» dei suoi pensieri: l’eterno ritorno dell’uguale. Frutto di un’intuizione folgorante avuta nel 1881, esso significa che il tempo non ha fine, il divenire non ha scopo, il corso del mondo non è linearmente retto da alcuna teleologia provvidenziale di tipo trascendente o di tipo immanente: secondo la logica che tiene prigioniero l’uomo occidentale, ogni cosa ha un inizio e una fine, tutto tende a una meta, a una stabilizzazione che rende i momenti di questo processo transeunti e quindi irrilevanti. A questa concezione ebraico-cristiana per la quale il passato ci condiziona e il futuro si impone

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come evento incombente, Nietzsche oppone quella ciclica di matrice presocratica e orientale secondo la quale gli eventi sono destinati a ripetersi all’infinito in un tempo circolare. In questo modo non solo non vi sono più direzioni stabilite ab aeterno, ma viene meno anche il presupposto metafisico che regge il teleologismo: l’eterno ritorno indica quindi una concezione dell’essere come apertura, senza origine e senza struttura ultima fondante. Perciò questa nozione del tempo è proposta insieme con quella della morte di Dio. Con questo annunzio (af. 125 della Gaia Scienza) di un evento terribile (per certi aspetti ancora in corso), Nietzsche intende significare che nessun Dio ci può salvare, che oltre l’uomo c’è solo il nulla. La morte di Dio rappresenta l’esito finale della decadenza dell’occidente, della crisi mortale che ha sprofondato l’umanità nell’angoscia dell’assurdo: questo è il senso del nichilismo del mondo moderno, che si è rivelato il nulla su cui si fondava il complesso di valori, generati dalla tradizione platonico-cristiana, che regolavano i comportamenti della civiltà europea (quindi Dio, che riassume tutte le verità e i valori di questa tradizione, «si rivela come la nostra più lunga menzogna»). La morte di Dio significa dunque rifiuto (dopo la critica al razionalismo, allo storicismo, alla verità) di fare un’affermazione metafisica sulla struttura della realtà: l’ateismo significa che una determinata prospettiva, storicamente determinata (quella del Dio-fondamento, della struttura necessaria, dell’ente ultimo fondante tutti gli altri), è giunta alla fine e conclusa con il sistema di pensiero che l’aveva generata (quello caratterizzato dall’opposizione essere-divenire e dalla nozione di verità come evidenza). Con la categoria di nichilismo Nietzsche svolge un’operazione diagnostica dello stato del mondo moderno: il pessimismo e la passività di un’umanità per la quale nulla ha più senso e che pertanto sviluppa un sentimento di perdita e di dolore, di risentimento e di odio nei confronti della vita. Ma dopo che «il mondo vero è diventato favola» e che il pensiero si è accorto di poter fare a meno della distinzione tra realtà e apparenza, tra fenomeno e noumeno, allora anche l’errore non può più chiamarsi tale: il mondo non può esistere indipendentemente dalla nostra interpretazione, vi coincide senza residui. Siamo noi a creare i valori che fondano la prospettiva del mondo: ma per far questo bisogna averne la capacità, «essere uno che ha il diritto di asse-

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gnare valori». Nello studio delle condizioni e della possibilità di questa creazione di tavole di valori va visto l’avvento del superuomo in Così parlò Zarathustra. Egli è un uomo superiore, estrema realizzazione dello spirito libero, promotore di un nichilismo attivo che non solo assiste ma addirittura si fa promotore della distruzione degli antichi ideali per preparare così l’avvento di una nuova umanità, lo schiudersi di una nuova storia. Descritto con espressioni di tipo evoluzionistico («l’uomo è un cavo teso tra la scimmia e il superuomo»), egli non è tuttavia il prodotto immanente della Storia. È piuttosto una figura mitica, che redime e vive nell’ora della felicità e della compiutezza del mondo, “eroe affermatore” dalla disposizione dionisiaca verso la vita, di cui assume coraggiosamente le contraddizioni senza chiudere gli occhi di fronte alle verità più terribili. Come spirito creatore, salverà l’umanità dal nichilismo: perciò è l’uomo del grande amore e del grande disprezzo, della barbarica vigoria degli istinti integrata con l’educazione greca alla libertà, che con tracotanza e indifferenza porta l’energia tumultuosa che trasforma il deserto della vita in una contrada ubertosa e fertile, che tutto muta in affermazione. In quanto “precristiano” (Nietzsche contrappone al crocefisso, simbolo di rassegnazione e di sconfitta, il riso di Dioniso che gioiosamente «dice sì» alla vita come transizione e tramonto) è senza morale, si trova «al di là del bene e del male», cioè dei valori che hanno rappresentato fino a oggi i punti di riferimento dell’umanità. Il superuomo si caratterizza per la sua «fedeltà alla terra», per il rifiuto dell’estrema illusione di una speranza ultraterrena e della consolazione «di un mondo dietro al mondo» al pensiero della morte: nella vita terrena egli trova, con senso di appartenenza, la sua natura più propria e originaria. A questa meta egli giunge attraverso tre trasformazioni dello spirito: la liberazione dal peso delle tradizioni e da quello della riverenza di fronte a Dio e alla morale (rappresentata dal cammello), la liberazione, ancora negativa, dai fardelli metafisici ed etici (rappresentata dal leone), e infine la trasformazione in fanciullo, a significare l’innocenza ludica del superuomo, che estraneo al risentimento inventa la sua vita con creatività. Del resto, in un mondo caratterizzato dall’eterno ritorno dell’uguale, l’individuo può esistere solo come superuomo, cioè come colui che sa assumere la responsabilità di progettare il mondo, l’essere stesso del mondo,

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per cui l’amor fati non è accettazione rassegnata ma assunzione consapevole di una legge che trasforma il caso in una necessità voluta (e dunque per la quale ogni attimo dell’esistenza possiede tutt’intero il suo senso, meritando di essere vissuto come se dovesse tornare all’infinito: l’unità dell’attimo comprende in sé la totalità del tempo, poiché in essa eternamente ritorna la totalità del divenire). Perciò il superuomo, aderendo felicemente alla legge dell’eterno ritorno, vive l’attimo, affidato al coraggio e alla volontà, in modo tale da desiderare di riviverlo. Da questo punto di vista allora la creazione di valori non è un arbitrio, ma un destino cui è connessa inscindibilmente la nozione di volontà di potenza come tratto distintivo della nuova condizione di felicità del superuomo. Essa non è semplice volontà di dominio sugli altri, ma soprattutto su di sé, ed è perciò volontà che vuole se stessa, desiderio dell’individuo di affermarsi come volontà di fronte all’assurdità del mondo. Soggetto della volontà di potenza è allora colui che (paragonabile all’artista che dà forma alla materia, l’artista tragico) ha la forza per affermare la propria prospettiva del mondo, rendendo creativo un istinto (quello della lotta e del gusto distruttivo, della competizione che i greci avevano assunto come principio di organizzazione della vita) dopo aver imparato a dominarlo, e trasformandolo in tendenza affermativa ed espansiva, in impulso continuo a «oltrepassare se stessi». Ma «non basta annunciare una dottrina: bisogna trasformare con la forza gli uomini, in modo che la ricevano»: perciò gli ultimi scritti di Nietzsche si dedicano con particolare vigore alla ripresa della parte negativa e distruttiva della sua filosofia, propedeutica alla determinazione di un mutamento radicale nella civiltà, indispensabile per gettare le basi di una nuova umanità. La cosiddetta “filosofia del martello” lancia l’ultimo e più violento atto d’accusa contro le due menzogne più virulente per l’umanità: la morale e la religione. Esse, supportate dalla logica economica del mercato e da quella politica degli stati forti e burocratizzati, hanno isterilito la vita degli uomini moderni, chiudendoli in comportamenti anonimi e ripetitivi. Ammassati come in un gregge e imprigionati in una grande macchina etica, essi compiono il loro “dovere” negli ambiti istituzionali cui sono assegnati, acriticamente sedotti e incantati dai grandi ideali dell’uguaglianza e del progresso, che in realtà coprono la loro paura della

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responsabilità individuale e il senso di colpa per la propria mancanza di volontà. Il sistema dei valori morali e religiosi svolge una funzione protettiva e consolatoria per l’uomo debole, mediocre e servile, che innalza a valori supremi l’umiltà e la rinuncia e fa della propria debolezza una virtù. Condannando come immorale l’uomo forte, sano e creativo, l’uomo moderno rivela come tutto il suo comportamento sia fondato sul risentimento, sullo stato di malafede proprio di chi non sa accettare la propria impotenza e intende vendicarsi degli individui felici ed eccezionali negando la vita stessa e sperando nella ricompensa di una vita futura. Da questa prospettiva, tutte le religioni sono assimilabili, anche se il cristianesimo, in quanto fondato sulla repressione degli istinti e sul senso di colpa alimentato dall’angoscia del peccato, viene considerato da Nietzsche come la più pericolosa e come tale da mettere al bando. La morale ha inventato e imposto per secoli valori, fondati sulla volontà di potenza di singoli o di gruppi, come se fossero fondati sulla verità. Perciò il superuomo stabilirà una trasvalutazione dei valori al di fuori di ogni schema normativo per la liberazione della vita in senso attivo, per la creazione di nuove forme d’esistenza. Egli accetta il carattere doloroso della vita e tuttavia le “dice sì”, opponendosi con coraggio alla globalizzazione della paura. La vita non è in funzione del bene o della verità, così come non ci sono essenze nei valori, che esistono solo in rapporto alla volontà di potenza che vuole affermarsi e vincere rendendosi il mondo simpatetico. Nietzsche perviene così a una concezione aristocraticamente individualistica, fondata sull’esaltazione della differenza e sul disprezzo della massa (di qui il suo attacco alle dottrine socialiste e in genere alle ideologie egualitarie, sul cui ottimismo storicistico si è innestato il vecchio razionalismo etico e il provvidenzialismo cristiano), prospettando (ma senza ulteriori specificazioni) una società aristocratica, antistatalista e antinazionalista, retta da una “casta dominante” educata agli ideali del superuomo. Nozick, Robert Filosofo americano (New York 1938 - Cambridge nel Massachusetts 2002), professore a Harvard. Nel 1974 ha pubblicato Anarchia, stato, utopia, che ha avuto un grande successo: contrapponendosi a ➔ Rawls e riallacciandosi alla tradizione liberale, ha sostenuto che «ci sono soltanto individui» che dunque hanno, con i lo-

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ro diritti e i loro interessi (Nozick estenderà questo discorso anche agli animali, visto che come gli uomini possono soffrire), un’assoluta priorità sulla società (dunque sui fini comuni, sul bene pubblico, sugli interessi generali). Mentre essi hanno l’assoluto diritto di perseguire i propri piani di vita attraverso la proprietà privata (che è legittima se dotata di “titolo valido”, se cioè si è costituita senza violazione del diritto altrui), nessuno ha la facoltà di invadere la loro sfera senza consenso (ognuno deve essere libero di associarsi e di donare del suo a chi vuole). Ne deriva la teoria dello “stato minimo” che, come un “guardiano notturno”, si limita a garantire il rispetto della legge e la tutela dei singoli da ogni forma di pericolo o di violenza (e di qui la polemica contro il welfare state e le sue politiche solidaristiche di redistribuzione della ricchezza o di riequilibrio dei rapporti sociali, in cui le persone vengono trattate non come fini ma come mezzi per raggiungere gli obiettivi di un’entità in sé inesistente, la Società). Tuttavia Nozick non è un filosofo della politica (anche se negli anni seguenti è tornato sulle sue prime tesi, rivedendole parzialmente), ma si è occupato anche di questioni logico-epistemologiche (Spiegazioni filosofiche del 1981, Puzzles socratici del 1998) sempre in modo stimolante e imprevedibile. Novalis Vero nome Friedrich Leopold von Hardenberg. Poeta e pensatore tedesco

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(Oberwiederstedt 1772 - Weissenfels 1801), tra i massimi rappresentanti del movimento romantico. Fu in contatto con Schelling e i fratelli Schlegel (alla cui rivista Athenäum diede un vasto contributo) e si appassionò a Fichte (pur subendo l’influsso anche di Kant, Baader, Spinoza, Plotino, Goethe, Böhme, Hemsterhuis). Espresse il suo pensiero nei Frammenti (che comunque dovevano dare origine a una vasta Enciclopedia tesa al rinnovamento della cultura) dove costante è la ricerca dell’unità di teoria e pratica ed è formulata la sua dottrina dell’“idealismo magico”, consistente nell’inseparabilità di poesia e filosofia. Quest’ultima è organo della prima e ha il compito di risalire alla radice inventiva dell’intuizione intellettuale e della fantasia creatrice, al fine di trasformare il sapere in senso spirituale conferendo l’assoluta padronanza sui mondi interno ed esterno, armonizzati in una sorta di spinoziano panteismo realistico. In questa prospettiva tutto il reale è poesia, mentre la filosofia deve condurre l’uomo dal mondo inferiore a quello superiore attraverso una scala di gradi che vanno dalla fisica (ne I discepoli di Sais è presente una concezione organica e spirituale della natura animata da forze misteriose, mentre nel romanzo di formazione Enrico di Ofterdingen si prospetta la visione di redenzione della natura e di compenetrazione finale tra essa e l’uomo) alla fiaba, che costituisce il grado di verità più alto.

O Occam (Ockham) Gugliemo di Filosofo e teologo inglese (Occam 1290 ca. - Monaco di Baviera 1350 ca.), appartenente all’ordine francescano, massima espressione della crisi della scolastica. la vita. Entrato giovane nell’ordine dei frati minori, studiò a Oxford, dove incominciò la carriera accademica acquisendo il titolo di baccelliere e insegnando teologia e logica fino al 1324. Durante questo periodo scrisse le sue opere teoretiche più rilevanti quali il Commento alle Sentenze, commenti alla Fisica e all’Organon di Aristotele, e una fondamentale Summa totius logicae. Inquisito per sospetto di eresia si recò ad Avignone, dove si incontrò con Michele da Cesena e Bonagrazia da Bergamo, presenti nella sede papale a motivo del conflitto con Giovanni XXII sulla questione della povertà di Cristo, che i cosiddetti spirituali intendevano seguire. In questa circostanza Occam appoggiò le posizioni dei confratelli, aggravando però la propria nei confronti della curia. Quando il conflitto divenne aperto e non più componibile, il 26 maggio del 1328 Occam fuggì da Avignone e si rifugiò presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, anch’egli in conflitto con il papa. A Monaco si ritrovò con gli altri sostenitori della politica religiosa imperiale, Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun, e qui visse fino alla morte, avvenuta durante l’epidemia di peste che aveva colpito l’Europa a metà del secolo XIV, scrivendo le sue opere polemiche e politiche sulla povertà francescana, sulla concezione della Chiesa, sulla natura dello stato e i suoi rapporti con la Chiesa (Opus nonaginta dierum, De dogmatibus papae Johannis XXII, Contra Johannem XXII, Compendium errorum papae, Dialogus inter magistrum et discipulum de imperatorum et pontificum potestate, Octo quaestiones super dignitate et potestate papali, Breviloquium de potestate papae, Tractatus de imperatorum et pontificum potestate). il pensiero. Si può cogliere il baricentro del pensiero occamista (articolato nelle sue diramazioni metafisiche, gnoseologiche, teologiche, politiche) nel vivo e irriducibile senso dell’individuale che caratterizza la realtà. Ciò lo pone in netto contrasto con

una cospicua tradizione speculativa dominante nell’Occidente cristiano, segnata da un’impostazione teoretica aristotelico-averroista che aveva finito per condizionare la maggior parte delle posizioni teoriche degli scolastici, da San Tommaso a Duns Scoto. In sostanza si trattava di respingere quella continuità metafisica tra Dio e ordine mondano, costituita da essenze (le sostanze seconde, generi e specie) disposte in ordine gerarchico che consentivano la mediazione necessaria tra Creatore e creatura e la sintesi tra fede e ragione, filosofia e teologia. Il vero baricentro della riflessione di Occam consiste dunque nella consapevolezza dell’inconciliabilità tra la prospettiva religiosa cristiana (peraltro vissuta così radicalmente dal francescanesimo) e la concezione della realtà proposta dall’aristotelismo, con il conseguente rifiuto di tutti i complessi edifici metafisici in nome di un ritorno alla semplicità (ancora la simplicitas francescana) dell’esperienza. Si deve dunque stabilire una netta dicotomia tra il piano della scienza, fondato sull’evidenza esperienziale e sul rigore logico, e quello della teologia, radicato esclusivamente sulla nuda certezza della fede. Riflettendo su entrambi i campi Occam perverrà a conclusioni radicali e innovative, che gettano molte premesse del pensiero religioso e scientifico moderno. La posizione di Occam si definisce innanzitutto in opposizione immediata al realismo di Duns Scoto (che per molti anni aveva insegnato a Oxford), nel quale andava perduta la realtà più certa, il singolo, il concreto esistente, colto immediatamente con un atto intuitivo nell’esperienza sensibile e in quella intellettuale. Naturalmente se non differiscono per contenuto, le cognizioni sensitive e intellettive sono del tutto indipendenti sotto il profilo formale, in quanto le prime danno luogo solo a giudizi d’esistenza, le seconde a giudizi che ne prescindono e hanno pertanto valore universale. Da questo punto di partenza costituito dall’intuizione del singolo concreto, Occam procede a una critica radicale delle dottrine tradizionali sulla scorta di due principi fondamentali: quello dell’onnipotenza divina

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(per cui in natura non vi è nulla di necessario e le cose sono contingenti e sottomesse alla volontà assoluta, libera e creativa di Dio) e quello di economia (ogni complessità ontologica deve essere eliminata come con un rasoio, per far posto a una spiegazione esaustiva e consistente nel minor numero possibile di fattori). In ambito logico-gnoseologico, Occam nega che si possa attribuire qualsiasi forma di realtà (egli classifica quattro tipi di concezioni realiste che in un modo o in un altro ammettono la realtà di una natura universale extra animam) a quelle nature comuni ai vari individui che la tradizione poneva come idee o intelligibili. Agli universali viene tolto ogni fondamento ontologico (non importa se ante o post rem) poiché è sufficiente pensare che i termini generali di cui ci serviamo nel discorso siano forme verbali (nomi) mediante i quali la mente umana stabilisce unità e rapporti di esclusiva portata logico-linguistica (entia non sunt moltiplicanda praeter necessitate). Essi svolgono una funzione di supporto alla conoscenza intuitiva (l’unica chiara ed evidente) in quanto l’intelletto procedendo per astrazione, cioè organizzando e raccogliendo i dati sensibili nelle loro componenti di somiglianza sotto un unico segno mentale, semplifica l’esperienza. I concetti, pur costituendo una conoscenza più generica e confusa, offrono però il vantaggio di significare insieme una pluralità di individui. Il nominalismo di Occam non è dunque di tipo estremo (come quello di ➔ Roscellino), non riduce l’universale a mero flatus vocis ma si risolve in concettualismo, in quanto la capacità significativa degli universali è garantita dalla funzione di supposizione (suppositio = stare al posto di) che si ha sia sul piano personale (il termine, all’interno del discorso, rinvia a precise realtà individuali) sia su quello semplice (il termine si riferisce a un significato mentale). La separazione tra cose e segni conduce alla conclusione che la scienza non ha per oggetto l’universale, ma l’individuale: essa dunque deve rinunciare a cogliere un sistema di leggi necessarie o una struttura gerarchica dell’universo su cui fondare le nostre deduzioni (le aristoteliche dimostrazioni per causas), limitandosi a un valore di probabilità basato sulle analogie e ripetitività dell’esperienza passata. Ma così Occam, giungendo a separare la logica dalla realtà, assegna alla prima, pura scienza di segni, un valore semplicemente analitico, senza che i suoi meccanismi formali possa-

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no pretendere di corrispondere e di riprodurre l’ordine reale. L’empirismo nominalistico di Occam, unitamente al volontarismo assoluto di Dio, implica tutta una serie di rilevanti conseguenze sia metafisiche che cosmologiche. Liquidata la realtà degli universali, cadono automaticamente la dottrina tomista dell’analogia entis, quella scotista dell’univocità dell’ente, quella aristotelica della sostanza come sinolo: essenza ed esistenza vengono a essere una cosa sola nell’ente individuale in atto (anche se l’una lo significa come nome, l’altra come verbo), mentre delle dieci categorie si possono ammettere solo quelle di sostanza (ovviamente non scomponibile in una materia e una forma indipendenti), qualità e quantità. Quest’ultima però si identifica con la sostanza corporea e con le sue qualità, finendo così per perdere la qualifica di categoria autonoma e venendo a collidere con la dottrina cattolica sull’eucarestia (che afferma la mutazione della sostanza ma non della quantità, che anzi funge da sostegno alle qualità): infatti, se la quantità si identifica con la sostanza, scomparendo la sostanza del pane scompare anche la sua quantità. D’altra parte, l’identificazione di sostanza e quantità apre la strada alla moderna considerazione puramente quantitativa del mondo fisico. Quest’ultimo, privato del sistema di cause necessarie e ordinate presente nel cosmo aristotelico, viene concepito come un insieme frantumato di individui isolati, i cui rapporti sono assolutamente contingenti in quanto stabiliti dalla libera volontà divina. Come gli individui sono infiniti, così lo è anche l’universo (non in atto, nel senso che Dio potrebbe accrescerlo indefinitivamente), senza centro e senza struttura gerarchica. Il rasoio di Occam non risparmia neppure la nozione inutile di quinta essenza, concependo il mondo celeste e quello sublunare costituiti della stessa materia e quindi sottoposti alla stessa mutabilità e corruttibilità (la perfezione è riservata solo a Dio, che può benissimo aver previsto il mutamento anche per i corpi celesti). Inoltre, mentre da un lato l’eternità del mondo non risulta logicamente impensabile, dall’altro è razionalmente legittimo supporre che Dio abbia potuto o possa creare altri mondi distinti dal nostro (non vi è dunque alcuna ragione per sostenerne come indiscutibile l’unicità). Tuttavia, il contributo più rilevante e fecondo della riflessione occamista consiste nell’analisi dei concetti di spazio, tempo

Occamismo

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e moto e nella spiegazione dei processi naturali forniti dalla fisica aristotelica. Mentre spazio e tempo non possono più essere concepiti come entità distinte dall’estensione e dal moto (la temporalità in particolare viene risolta nella misura del movimento), l’irriducibilità ontologica degli individui porta a concepire i processi fisici che li riguardano come del tutto rapidi e discontinui. In particolare, il moto non può essere determinato dalla “natura” delle sostanze (e quindi non ha in sé alcuna realtà propria estranea alla realtà dell’oggetto) così come nella sua spiegazione, analogamente a quella di qualsiasi altro processo di trasformazione, si deve escludere la possibilità logica di uno svolgimento attraverso una serie di mutamenti qualitativi. Piuttosto è sufficiente pensare alla struttura temporale del fenomeno come al susseguirsi di stati distinti (stationes) dal punto di vista quantitativo (e perciò misurabili: da questo punto di vista Occam annuncia l’applicazione del calcolo matematico alla dinamica), mentre il suo carattere qualitativo risulta determinato dalla loro successione, intesa come sostituzione di uno stato all’altro con un brusco e radicale passaggio. Sul piano teologico il nominalismo antimetafisico di Occam si manifesta nella convinzione dell’impossibilità di prove razionali dell’esistenza di Dio. Infatti il ragionamento deduttivo, formale e tautologico, come è incapace di dimostrare l’esistenza di qualsiasi essere, così è del tutto sterile in rapporto all’essere assoluto, che certo non è direttamente sperimentabile in questo mondo; ma d’altra parte anche le prove a posteriori di Tommaso sono opinabili, e non possiedono quel carattere di evidenza immediata che è il requisito di una conoscenza valida. Analogamente non è possibile stabilire razionalmente e fornire prove rigorose degli attributi divini (dall’unità e unicità alla conoscenza dell’altro da sé e del futuro, che agisca liberamente o sia necessitato intrinsecamente ad agire), dell’esistenza dell’anima, della sua immaterialità e spiritualità. Tutto ciò è accettabile solo per fede. Se non è possibile una teologia razionale, lo è ancor meno un’etica: non esiste criterio per stabilire l’intrinseca moralità delle azioni umane, né Dio comanda un’azione perché buona in se stessa. La sua volontà creatrice è talmente assoluta da risultare del tutto svincolata da principi immutabili e imperscrutabile alla mente umana. Pertanto, come è da escludere nell’universo qualsiasi necessità metafisica, così il suo coman-

Occamismo

do è arbitro di ogni legge e di ogni valore (fino al paradosso che se Egli avesse stabilito di odiarlo, l’odio a Dio sarebbe buono e meritorio). Di fronte alla rivelazione, la ragione e la filosofia sono del tutto impotenti e devono sottomettersi alla fede e al testo sacro come unico fondamento della verità cristiana. La limitatezza della conoscenza umana porta a scavare un solco privo di mediazioni tra gli individui consegnati alla contingenza del loro orizzonte mondano e l’essere infinito di Dio. Di qui la svalutazione delle strutture gerarchiche e magisteriali della Chiesa a favore dell’esperienza religiosa individuale, umile e chiusa nel mistero della grazia, nella cui fede vive e si perpetua il Vangelo. La realtà e l’autorità della Chiesa consistono nella totalità dei credenti, questo corpus indistinguibile dai singoli che lo costituiscono perché vivente in e per loro. La purezza dottrinale e morale del papa e del clero sono dunque sottoposte al controllo della cristianità e del suo capo, l’imperatore. Del resto, tra potere imperiale e potere papale, tra ordine civile e ordine ecclesiastico esiste una eterogeneità di origine, di natura e di finalità, riconosciuta dalla stessa Scrittura, anche se ora devono collaborare affinché i cittadini possano raggiungere il loro fine ultimo, la salvezza eterna. Il primo è sorto per esclusiva volontà del popolo romano (divenendo successivamente cristiano e passando via via ai greci, ai franchi e ai tedeschi) che aveva stabilito che nessun altro potere umano poteva essergli superiore: perciò l’imperatore in quanto suprema autorità cristana e romana, custode e difensore della fede, ha diritto alla nomina papale e a giudicare se il vicario di Cristo sia rimasto nell’ortodossia. Pertanto l’imperatore è non solo sottratto alle pretese dell’autorità papale, ma poiché nel Vangelo è scritto che ogni regno diviso in se stesso è condannato a perire, non è bene che vi siano due poteri supremi: è sufficiente quello imperiale in quanto storicamente precedente. Quanto al papa egli resta il capo di una Chiesa del tutto spirituale, che non ha ceduto, quale sponsa Verbi, alla tentazione demoniaca della ricchezza e del potere mondano. Occamismo Corrente di pensiero che si ispira alle idee logiche, fisiche, teologiche e politiche di Occam. Diffuso e osteggiato nel XIV secolo (nel 1340 l’università di Parigi condannava personalmente Occam, mentre nel 1347 metteva al bando per dottrine affini Nicola di Autrecourt e Giovanni di Mire-

Olivi

court), finì per imporsi in diverse università europee con influssi molteplici su pensiero moderno. Le tesi fondamentali dell’occamismo sono: — l’empirismo gnoseologico (la conoscenza intuitiva è l’unica certa ed evidente); — il nominalismo (gli universali sono segni e non realtà) e il terminismo (i concetti sono termini linguistici che stanno al posto – suppositio – delle cose) in logica; — la separazione tra ragione e fede e lo scetticismo verso il razionalismo teologico (sotto questo aspetto Lutero è un occamista); — la separazione tra potere laico e potere ecclesiastico in politica. Tra gli esponenti di questa corrente oltre ai due già ricordati, vi sono Buridano, Nicola di Oresme, Alberto di Sassonia, Robert Holkot, Gregorio da Rimini, Pietro d’Ailly. Olivi, Pietro di Giovanni In francese Pierre de Jean Olieu. Teologo e filosofo francescano (Sérignan 1248 - Narbona 1298), appartenente all’ordine degli spirituali e assertore di idee gioachimite. Il suo pensiero (esposto in un Commento alle Sentenze e in una Summa quaestionum super Sententias) fu spesso oggetto di contrasti con le autorità dell’ordine e di condanna, ma rappresenta certo una delle espressioni più originali della scolastica: l’Olivi si mosse nell’alveo della tradizione agostiniana, conducendo un’aspra polemica contro l’aristotelismo. Tuttavia rifiutò le dottrine sull’illuminazione e sulle ragioni seminali (care a Bonaventura e al suo maestro Matteo d’Acquasparta), mentre accettò quelle sulla costituzione ilemorfica delle sostanze spirituali e della pluralità delle forme, che anzi impiegò per sostenere che solo l’anima vegetativa e sensitiva (in realtà forme diverse della stessa anima spirituale) costituiscono la forma del corpo (quella intellettuale vi è unita solo mediante le forme inferiori. L’Olivi fu uno dei primi sostenitori della teoria dell’impetus, mentre in sede gnoseologica anticipò le conclusioni di Occam circa l’intervento dell’intelletto agente e la presenza nella mente della “species impressa”. Orazio, Flacco Quinto Poeta latino (Venosa 65 a.C. - Roma 8 a.C.), membro del circolo di Mecenate, amico di Virgilio e come lui aderente all’epicureismo. Autore di Epodi, Satire, Odi scrisse anche delle Epistole, tra le quali la cosiddetta Ars poetica (III epistola del II libro, indirizzata ai figli di Calpurnio Pisone), testo essenziale nel campo dell’estetica che ebbe vasta risonanza nelle

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Origene

epoche successive. In essa Orazio critica la rozzezza della cultura romana, lamentando la mancanza di un programma artistico improntato ai modelli greci, di una doctrina e di un “labor limae” che consentano la nascita di una vera poesia dotta e raffinata indirizzata a un pubblico di estimatori. La poesia è come la pittura, si esprime in modo sempre nuovo, mentre il poeta deve unire l’utile al dilettevole e, in modo conciso, inventare restando prossimo al vero, curando la recitazione e la scelta lessicale in rapporto alla situazione e ai personaggi. Or¿smo  Setta religiosa greca, legata a tradizioni orientali e al culto del mitico cantore Orfeo. Non si hanno notizie sicure e documenti dell’orfismo originario, una delle religioni misteriche più importanti dell’antichità, e molte delle dottrine che ci sono pervenute si confondono in realtà con quelle pitagoriche o con culti dionisiaci. Per la storia della filosofia l’orfismo, tra le tradizioni presenti nella ricerca platonica, è importante per avere introdotto le tematiche della immortalità dell’anima umana (concepita come un demone di natura divina che si incarna ripetutamente nell’uomo secondo un ciclo di rinascite necessario per pervenire alla propria purificazione) e del destino ultraterreno nel contesto della dottrina della metempsicosi. Origene Teologo, filosofo e scrittore greco (Alessandria 185 ca. - Tiro 254 ca.), fondatore del Didaskaléion di Alessandria e tra i più eminenti Padri della Chiesa. Scrisse moltissimo, pare 800 opere (parzialmente pervenuteci, talvolta solo incomplete, spesso solo nelle traduzioni latine di Gerolamo e Rufino) tra Omelie e Commenti sui testi sacri, due opere dottrinali Sui principi (sorta di compendio di teologia e presentazione sistematica del dogma) e Contro Celso (apologia del cristianesimo, consistente nella confutazione delle critiche del filosofo platonico Celso). Fondatore della scienza biblica e della teologia spirituale (in corrispondenza con le tre parti della natura umana, fisica, psichica e spirituale egli distinse nella Scrittura un senso letterale, uno morale, uno mistico), assimilò dall’ambiente alessandrino molti motivi filosofici (specialmente platonici) che poi incorporò nella sua costruzione teologica. Questa insiste sull’assoluta trascendenza e ineffabilità di Dio, coincidente, in sede trinitaria, con la persona del Padre che, in quanto ingenerato, è fondamento del tutto. Da lui proce-

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de per contemplazione il Figlio, suo Logos e sua conoscenza (che come sua prima determinazione gli è subordinato pur essendo intrinsecamente unito a lui) nella cui unità-molteplicità assumono essere tutte le creature, e dal Figlio lo Spirito Santo, per il quale tutti gli enti sono presenti nell’eterno atto creativo di Dio. E se Origene ritiene, platonicamente, che questa processione discensiva trovi completamento circolare in una ascensiva, egli interpreta questi temi alla luce delle categorie cristiane della caduta e della redenzione. Infatti il distacco dall’Uno avviene non per un moto necessario ma per libera volontà degli individui che (a partire da Lucifero) vogliono orgogliosamente affermare la propria determinatezza, scegliendo sé come esistenti finiti. Peraltro, come la libertà determina il peccato (che è dunque principio dell’incarnazione e del costituirsi del corpo e della materia dove la libertà si perde), anche la salvezza non può essere che la conseguenza di un intervento gratuito da parte di Dio, attraverso il suo Logos mediante il quale l’uomo ritorna libero concentrando su di sé la consapevolezza del dramma dell’intero universo. In forza del suo spirito (pneuma) egli può rendersi simile al Logos e attraverso di lui a Dio, cogliendo con un atto conoscitivo superiore (gnosi) il “vangelo eterno” che viene così rivelato al di là delle condizioni storicamente contingenti della fede e delle Scritture. Analogamente, come il peccato di uno ha significato la caduta di tutti, così la redenzione non può essere che universale: tutti hanno peccato, e tutti (anche Lucifero) si salveranno e saranno riassunti in Dio in una reintegrazione finale – sia pure attuata attraverso tappe successive, consistenti in varie vite esplicantesi in più mondi dove si potranno purificare – alla condizione di perfezione originaria. Questa teoria detta dell’“apocatastasi” sarà condannata, insieme con altre proposizioni, nel 553: tuttavia, malgrado questi aspetti di eterodossia, l’influenza di Origene fu vastissima e di estrema rilevanza su tutta la cultura dell’età patristica e di quella monastica medievale. Ortega y Gasset, José Filosofo e saggista spagnolo (Madrid 1883-1955). Dopo aver conseguito la laurea in filosofia presso l’università di Madrid, si recò in Germania (Lipsia, Berlino, Marburgo) dove conobbe e fu allievo di Simmel e Cohen, anche se poi prevalse in lui l’adesione non tanto alle tesi neokantiane quanto allo storicismo di ➔ Dilthey. Dal 1910 al 1936 fu docente

Oxford, Scuola di

di metafisica a Madrid, e tale periodo coincise con la compilazione delle sue maggiori opere, tra cui Meditaciones del Quijote; Personas, obras, cosas; España invertebrada; Kant; La rebelión de la masas, La deshumanización del arte e ideas sobre la novela. Il pensiero di Ortega si delinea già in un celebre passo delle Meditaciones: «Io sono io e la mia circostanza». Il mondo è concepito come “circostanza”, come una prospettiva che fa parte dell’esistenza dell’uomo, e la vita stessa è una somma di infinite ed inesauribili possibilità concrete che determinano la realtà legata indissolubilmente all’individuo e alla sua situazione esistenziale. In tal modo Ortega può recuperare il concetto greco di alétheia, verità che si “disvela” luminosa come possibilità concreta di relizzare la circostanza che l’uomo liberamente sceglie, anche se la scelta determina la vita come “dramma”. Questa è comunque legata alla ragione, che non usa schemi astratti e assoluti ma è “ragione vitale” in quanto opera per meglio delineare i progetti intrinseci alla vita stessa e, in questo operare, diventa “ragione storica”. Attraverso di essa Ortega esamina le esperienze umane, soprattutto nel sociale, cercando un recupero della categoria di “convivenza”, l’unica che possa ristabilire, accanto all’individualità, la responsabilità dell’uomo, restituendo nello stesso tempo alla cultura il compito di creare nuove condizioni di vita, peraltro realizzabili solo da personalità eccezionali agenti secondo il dovere da loro scelto nella circostanza della vita. Owen, Robert Teorico politico e riformatore sociale inglese (Newtown 1771-1858). Autore di Una nuova concezione della società (1813) e Il libro sul nuovo mondo morale (1836-44), industriale e comproprietario delle filande di New Lanark in Scozia, negli anni turbolenti della prima rivoluzione industriale inglese progettò un nuovo modello di struttura sociale e produttiva nel contesto di quello che Marx chiamò in seguito socialismo utopistico. Promosse il movimento cooperativo e sindacale, tentando di mostrare non solo con le sue teorie ma con concreti esperimenti industriali e sociali (non sempre di successo) la possibilità che l’industrializzazione si risolvesse in un miglioramento delle condizioni materiali e morali della società. Oxford, Scuola di Il termine si riferisce a quel gruppo di studiosi che, nel periodo tra le due guerre e nell’immediato dopoguer-

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ra, hanno dato vita a un nuovo indirizzo di analisi filosofica, chiamato filosofia del linguaggio comune. Riallacciandosi ai lavori di Moore e soprattutto alle idee del secondo Wittgenstein, essi hanno infatti attribuito allo studio di quest’ultimo una fondamentale importanza allo scopo di eliminare i problemi filosofici, considerati come frutto di patologie della comunicazione. La chiari-

Oxford, Scuola di

ficazione logico-linguistica avviene dunque attraverso una ricerca descrittiva (analisi) degli usi linguistici correnti (quindi senza la pretesa di ricorrere alla formulazione di linguaggi artificiali o ideali, costruiti secondo le regole della logica simbolica). Tra i rappresentanti più autorevoli di questo indirizzo vi sono Ryle, Austin, Strawson, ➔ anche Analitica, Filosofia.

P Padri della Chiesa Espressione con cui si indicano alcuni teologi e scrittori cristiani che operarono nei primi secoli del cristianesimo tanto in Oriente (tra cui Basilio il Grande, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo) quanto in Occidente (tra cui Ambrogio, Girolamo, Agostino, Gregorio Magno). Si indica col termine patristica la produzione teologica e filosofica della Cristianità di quest’epoca. Nel medioevo l’autorità dei Padri fu altissima. Panezio di Rodi Filosofo greco (Rodi 185 ca. - Atene 110 ca. a.C.), iniziatore della Media ➔ Stoà. Soggiornò a Roma per 15 anni (145-130 ca. a.C.), entrando in contatto con il circolo degli Scipioni. Al ritorno in Atene diresse la scuola succedendo ad Antipatro di Tarso. Delle sue numerose opere (tra cui Del dovere, che ispirò Cicerone) restano solo frammenti. Il suo pensiero (esposto in uno stile brillante e piacevole sull’esempio di Platone) rappresenta l’accostamento dello stoicismo all’eclettismo dell’aristocrazia romana, della cui cultura accoglie i motivi umani, con una maggiore accentuazione dell’eticità individuale, fortemente attenuata rispetto all’iniziale rigorismo dei fondatori: infatti viene ammessa una virtù “dell’uomo comune”, consistente nell’armonizzazione della ragione con le consuetudini e i doveri sociali. Per il resto Panezio accetta le dottrine aristoteliche circa l’eternità del mondo, la tripartizione dell’anima e la forma mista di governo. Paracelso Vero nome Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim. Alchimista e medico tedesco (Einsiedeln 1493 - Salisburgo 1541). Figura di scienziato avvolta da un alone di mistero e di fantastico e scarsamente delineata da reali conoscenze storiche: di certo sappiamo che scrisse varie opere (Tre libri di chirurgia, Liber Paragranum, Opus Paramirum, La grande chirurgia ecc.) in cui indagini metodologicamente precise e razionalmente fondate si uniscono a elementi alchemici. Paracelso voleva creare una nuova figura di medico perfetto, che sapesse spaziare con le conoscenze oltre il campo strettamente specifico. Per questo motivo sostenne la necessità di stu-

diare gli intimi legami tra uomo e universo, tra microcosmo e macrocosmo, allo scopo di individuare gli “arcana”, i misteri della materia e di conoscere, al di là delle forme apparenti, le “qualità” della natura (Aria, Acqua, Terra, Fuoco) e i suoi “principi” (Zolfo, Sale, Mercurio – che corrispondono ad Anima, Corpo, Spirito). Paracelso vede infatti una linea di continuità tra l’uomo e la natura e ritiene di potere studiare l’una per capire e conoscere l’altro (per esempio le cause delle malattie possono essere curate attraverso la somministrazione di sostanze minerali sapientemente dosate dal medico alchimista, in modo da fornire una terapia di volta in volta adeguata alla patologia). Pareto, Vilfredo Sociologo ed economista italiano (Parigi 1848 - Céligny 1923), professore di economia a Losanna dove pubblicò il Manuale di economia politica (1906). Interessato allo sviluppo del movimento operaio e ai contrasti internazionali, si dedicò allo studio della sociologia scrivendo un monumentale Trattato di sociologia generale (1916). In economia aderì al marginalismo di Walras, sostenendo che l’utilità di un bene è funzione non solo della sua quantità ma anche di quella di tutti i beni consumati dal soggetto e distinguendo i coefficienti della produzione in costanti, variabili e compensabili da altri. Nel Manuale tentò inoltre di analizzare l’attività economica nella sua oggettività con il metodo della meccanica razionale: perciò concepì il sistema economico come determinato in quanto sistema di equazioni in cui il numero delle incognite è uguale a quello delle equazioni. Nel Trattato Pareto volle offrire una teoria delle azioni umane, classificandole in logiche e non-logiche (dove non c’è adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini): queste ultime sono l’oggetto specifico della sociologia, in quanto essa si deve occupare di ciò che appare dominante nel comportamento umano. In questo occorre distinguere tra residui (impulsi, istinti, bisogni, sentimenti) e derivazioni (i ragionamenti con cui si espongono e giustificano i comportamenti). Applicando questo criterio, Pareto affermò che il

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potere è sempre tenuto da minoranze (élites), quali che siano gli ordinamenti statali, che si rinnovano o mediante il lento assorbimento degli elementi migliori delle classi dominate o mediante il loro rovesciamento rivoluzionario. Secondo Pareto le élites si misurano attraverso la capacità di usare la forza (quelle sane e ascendenti distruggono l’avversario, mentre quelle decadenti si abbandonano ai sentimenti umanitari): perciò appoggiò il fascismo, dopo aver rimproverato alla borghesia del suo tempo le capitolazioni di fronte al movimento operaio. Questo atteggiamento antidemocratico era sostenuto sia dalla teoria della distribuzione del reddito (distribuito secondo una curva che rimane della stessa forma malgrado le variazioni del suo volume) sia da quella dell’impossibilità di un confronto interpersonale delle utilità (non si possono confrontare soddisfazioni di soggetti diversi), evidentemente ostile a una politica di redistribuzione equa della ricchezza. Pareyson, Luigi Filosofo italiano (Cuneo 1918 - Milano 1991), professore a Torino. Ha studiato in modo originale l’esistenzialismo (La filosofia dell’esistenza e Jaspers del 1940; Studi sull’esistenzialismo del 1943) e l’idealismo (Fichte, 1950; Schelling, 1973) offrendo interpretazioni nuove di autori e movimenti. Da queste indagini storiografiche ha tratto una prospettiva personale, caratterizzata da un personalismo dai forti tratti ontologici (Esistenza e persona, 1950), mentre sul piano della riflessione estetica ha proposto una teoria della formatività in opposizione all’intuizionismo crociano (Estetica, 1954). Nell’ultima fase del suo pensiera ha sviluppato, in Verità e interpretazione (1971), il tema dell’interpretazione come approccio infinitamente molteplice e aperto dell’uomo alla verità ed è ritornato sui temi dell’esistenza con Filosofia della libertà (1989), dove l’essere è inteso in questi termini (risultato stesso della libertà, per cui la realtà è gratuita e senza fondamento) e il male è considerato schellinghianamente come prodotto della libertà e dell’onnipotenza di Dio. Parmenide di Elea Filosofo greco (VI-V sec. a.C.), fondatore della Scuola eleatica. Sulla sua vita si hanno poche notizie: nativo di Elea, probabilmente fu uomo politico. Secondo Platone fece da vecchio un viaggio ad Atene accompagnato dall’allievo Zenone durante il quale incontrò il giovane Socrate, mentre secondo Diogene Laerzio fu in-

Parmenide di Elea

trodotto alla filosofia dal pitagorico Aminia. Scrisse un poema Sulla natura (diviso in due parti, “sulla verità” e “sull’opinione”, di cui ci restano 158 versi) in cui affrontava «la molto dibattuta questione» intorno all’intelligibilità del reale e alle possibilità del sapere, indicando la “via” risolutiva al termine di un percorso in cui tutte le altre venivano progressivamente scartate in quanto confuse e incoerenti. Nel prologo è descritto (con un complesso sistema di elementi simbolici) il viaggio compiuto dal filosofo, lontano dal comune cammino degli uomini («come lo è il giorno rispetto alla notte»), sotto il segno di un comando divino e della giustizia, fino al cospetto della Dea che gli mostrerà «la ben rotonda Verità» e insieme «le opinioni dei mortali nelle quali non è vera fede»: l’“unica via” consiste dunque nel conoscere razionale, che “non trema” in quanto non contraddittorio, e che perciò conduce il pensiero a definire in modo rigorosamente provato un sistema di verità immutabili, alla cui luce risulta l’incertezza delle altre forme derivate dall’esperienza sensibile (accolta dal naturalismo milesio). Il comando della Dea di procedere «col solo pensiero» si compendia dunque nella definizione di precise tecniche dimostrative: il suo argomentare afferma l’identità di essere e pensiero e la determinazione del criterio di esclusione del contrario come cardine del nuovo modulo esplicativo; di qui la conclusione inevitabile che le due vie sono «l’una che è e che non è possibile che non sia [...] l’altra che non è e che è necessario che sia [...] perché il non essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile) né esprimerlo». Mentre nell’“oscillante mente” dei mortali «l’essere e il non essere è lo stesso e non è lo stesso [...] per la parola e il pensiero bisogna che l’essere sia [...] e il nulla non è [...] poiché non potrà mai aver forza di costrizione che sia ciò che non è»: l’ontologia di Parmenide si determina pertanto come una procedura logico-verbale per cui il pensiero si coglie come logos unitario nel cui orizzonte quelle cose che nell’immediatezza empirica appaiono «tra loro distanti» (cioè molteplici e disarticolate) «sono invece per opera della mente saldamente unite». Pensare significa pensare ciò che è (oppure non si pensa assolutamente), nel senso che al di là dell’apparenza fisica si coglie la ragion d’essere del tutto che «non è mai stato e non sarà mai, perché è ora tutto insieme, nella sua compiutezza, uno» dove i suoi vari aspetti (considerati dai fisici antecedenti) sono simultaneamente concatenati insieme, nella

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continuità del discorso esprimente il tutt’uno compatto («è necessario o che sia tutto o che non sia affatto») che è la stessa realtà. Se invece che alle cose guardiamo a quel fattore che funge da connettivo in quanto predicato di tutte, allora il pensiero è forzato (da “segni” non contraddittori, al contempo condizioni di pensabilità e connotazioni ontologiche di ciò che è pensato) a qualificarlo come totale unità, perfetto e perciò finito, indivisibile, immobile, atemporale e aspaziale: di conseguenza risultano assurdi i modelli di realtà descritti dai precedenti sistemi naturalistici, comprendenti i molti e il divenire. Questi termini sono esclusi dalla sfera della verità-realtà: infatti, poiché Parmenide non distingue i significati dell’essere e riassorbe l’uso predicativo in quello nominale, rende l’è l’unico nome-cosa di cui si può enunciare “che è”, riducendo il discorso vero a un’indicazione silenziosa, quale risulta dall’identificazione simbolica dell’essere con la «massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni parte con ugual forza». In tale consapevolezza, «anche questo imparerai, come l’apparenza debba configurarsi, perché possa veramente apparire verisimile»: perciò le opinioni, che traducono in un complesso di nomi i modi con cui le cose sono sensibilmente colte e avvertite come reali, hanno solo un valore ipotetico (e come tale va accolta anche quella di Parmenide circa il mondo fisico, concepito come un complesso di cerchi concentrici formati dalla mescolanza dei due elementi – luce e notte, generatori delle cose e del loro divenire – inframezzati da altri omogenei), direttamente proporzionale alla coerenza interna con l’unica verità. Pascal, Blaise Filosofo, matematico e scienziato francese (Clermont-Ferrand 1623 - Parigi 1662). la vita. Riceve la prima formazione scientifica e filosofica dal padre, magistrato, studioso di matematica e di fisica, uomo di notevole cultura e amico di diversi scienziati del tempo. Trasferitosi giovanissimo con il padre a Parigi, ha occasione di frequentare i circoli scientifici della capitale. Genio precocissimo, a 16 anni pubblica il suo primo studio di argomento matematico, il Saggio sulle coniche. Il 1646 segna una svolta nella sua vita; entra infatti in contatto con gli ambienti religiosi giansenisti. Affascinato dal loro rigore morale, si interessa sempre di più allo studio dell’essere umano, pur senza abbandonare gli interessi scientifici (negli anni successivi, anzi, pubblica saggi

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fondamentali di argomento matematico e fisico: sul calcolo infinitesimale, sul calcolo delle probabilità, sul problema del vuoto). A partire dal 1655, tuttavia, l’interesse filosofico per l’uomo e l’intima necessità di seguire un ideale rigoroso di vita morale e religiosa lo spingono a una scelta decisiva. Decide di dedicarsi a una vita di meditazione filosofica e religiosa, presso i “solitari” di ➔ PortRoyal, un gruppo di intellettuali laici che, presso l’omonimo monastero, si dedicano a una vita di riflessione. Quando il giansenismo viene condannato, partecipa alla polemica in prima persona pubblicando le Lettere Provinciali (1656-1657), raccolta di scritti in difesa della dottrina giansenista. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla stesura di una vasta opera apologetica del cristianesimo, che non verrà mai completata. Ne rimangono gli abbozzi, raccolti dopo la sua morte con il titolo di Pensieri (1670) e destinati a riscuotere un notevole successo anche presso il pubblico non specialistico. Muore a Parigi nel 1662. il pensiero. La meditazione filosofica di Pascal si svolge su un duplice terreno: la scienza moderna e il cristianesimo di ispirazione giansenista. Egli è infatti, contemporaneamente e coerentemente, un grande scienziato – a lui si devono saggi fondamentali di matematica e di fisica – e un fervante religioso, per il quale il Dio dei filosofi deve cedere il posto al Dio di Abramo. Appartenente alla generazione successiva a quella di Cartesio e dei primi scienziati del Seicento, come Galilei, Pascal ha operato da un punto di vista scientifico sulla loro scia, ma la sua attività non è più animata da quello spirito “rivoluzionario” che caratterizza gli scritti dei suoi predecessori: nel momento in cui egli opera la scienza moderna ha già vinto. Pascal non accoglie però l’impostazione metafisica cartesiana. La scoperta scientifica è il frutto dell’attenta osservazione dei fenomeni, dell’elaborazione di ipotesi, degli esperimenti che ne seguono. La validità di una teoria si misura dalla sua capacità di descrivere e prevedere il comportamento della natura. L’“impalcatura metafisica” che Cartesio ha voluto costruire a fondamento della sua fisica rischia di precludere a partire da posizioni di principio la possibilità di intendere i fenomeni per quello che sono, come è accaduto nel caso del vuoto. Esperimenti successivi a Cartesio, a cui Pascal stesso ha dato un importante contributo, hanno messo in luce che il vuoto può esistere in natura, eventualità che Cartesio non negava sulla base dell’esperienza, ma in quanto inconciliabile

Pascal

con la tesi dell’identificazione di materia e estensione. Pascal si domanda a questo proposito se chiarire la natura metafisica della materia sia indispensabile per la sua comprensione scientifica, concludendo che in realtà lo scienziato può fare a meno di spiegazioni di tipo qualitativo. D’altro canto, nonostante la convinzione che la scienza moderna abbia saputo fornire un modello esemplare di un sapere concreto, continuamente ampliabile con il concorso di molti uomini che generazione dopo generazione accrescono il bagaglio delle loro conoscenze, egli non nutre alcuna fiducia nelle capacità della ragione di ottenere risultati scientifici in campo metafisico. La stessa sfiducia nelle possibilità della ragione di comprendere le radici metafisiche della natura anima la critica di Pascal al “Dio dei filosofi”. Per spiegare la natura i filosofi ricorrono a Dio, che essi concepiscono secondo schemi razionali, del tutto diverso dal Dio della religione. Questo Dio è definito da aggettivi che descrivono caratteri metafisici: perfetto, buono, onnisciente, onnipotente e così via, concetti della mente. Ma in realtà ciò che i filosofi sanno di Lui con certezza è davvero poco. L’ateo ha pertanto buon gioco nel non prestar fede alle argomentazioni filosofiche in favore dell’esistenza di Dio, anzi, mai nessun ateo si è accostato alla fede perché convinto dalle argomentazioni razionali dei filosofi sull’esistenza di Dio. Infatti, di fronte alla ragione non è un’ipotesi inconcepibile che Dio non esista. Cosa che è invece inconcepibile per la fede. Ma il Dio della fede non ha molto a che vedere con il Dio-geometra del cartesianesimo. Essi hanno in comune solo il nome. Per l’uomo di fede Dio è Padre, è Amore, di lui parlano la tradizione e la rivelazione, a lui ci si accosta con il sentimento e non con la ragione. L’uomo di fede non sa che farsene di un Dio-geometra. Pascal ha lucidamente applicato alla riflessione sull’uomo lo stesso rigore con cui ha esaminato le questioni fin qui trattate. Con una celebre immagine, egli paragona l’uomo a una canna mossa dal vento, non diverso da tutte le altre piante, da ogni altro oggetto che il vento trascina a suo piacimento. Ma l’essere umano, pur mosso dal vento, non è una cosa, e c’è qualcosa in lui che le leggi della natura non bastano a spiegare. L’uomo pensa. La sua anima – la concretezza del pensiero, che è ragione, ma anche volontà, sentimento, passione – non si lascia spiegare dalla forza meccanica della natura. Pascal è erede della tradizione umanisti-

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ca, quella che, ponendolo al centro dell’universo, ha concepito l’uomo come la più alta delle creature, ma allo stesso tempo ne ha riconosciuto la natura fragile, caduca. La sua meditazione filosofica ha come oggetto questa miseria e questa grandezza, che egli sperimenta nella sua stessa persona e osserva intorno a sé, negli altri uomini e nelle istituzioni umane. Inoltre, egli è uomo di fede, fortemente influenzato dal giansenismo, che pone l’accento sul peccato originale, cioè sulla corruzione radicale della natura umana. Per i giansenisti solo la grazia divina, non certo la debole e corrotta azione umana, può concedere la salvezza e guidare l’uomo al bene. Anzi, la stessa conoscenza di un bene oggettivo è preclusa all’essere umano: da dove infatti hanno origine la diversità dei costumi tra popolo e popolo, tra persona e persona? Da dove ha origine la continua oscillazione tra il giusto e l’ingiusto, concetti sui quali gli uomini non trovano un accordo duraturo? Ciò che è giusto oggi non lo sarà domani, ciò che è giusto per alcuni è ingiusto per altri. Non è forse questo il segno che l’oggettività del bene è sfuggita all’uomo per sempre, proprio in ragione del peccato originale? La miseria umana è la sua colpa, la sua grandezza è l’apertura a Dio, la possibilità di aderire alla grazia che salva. Grande è quindi il suo pensiero, la sua coscienza, in virtù della quale egli può meditare sulla propria miseria e rivolgersi a Dio come a un padre che lo salva. Non è certo tuttavia che Dio esista: la ragione umana su questo oscilla impotente. E allora Pascal nei Pensieri propone una scommessa, fa all’uomo una proposta che ha il sapore della provocazione, del ragionamento condotto al suo limite, come guida alla meditazione. Infatti, supponendo che Dio esista e che l’uomo abbia invece scelto per l’ateismo, egli avrà, rifiutandolo, rinunciato alla salvezza e all’eternità in nome di valori finiti e caduchi. Nell’ipotesi che invece Dio non esista, credendo in lui l’uomo perderebbe soltanto dei beni finiti. Alla luce di queste due ipotesi risulta chiaro come sia assai più vantaggiosa la prima, come credere in Dio sia assai più conveniente che non credere. Come mostra questo ragionamento, c’è indubbiamente nell’essere umano una ragione calcolante, un principio astratto che gli permette di formulare le sue ipotesi scientifiche e di elaborare complesse strutture matematiche. Nel suo linguaggio ricco di immagini Pascal chiama questa forma di razionalità esprit de géométrie, ne riconosce

Patrizi

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tutto il valore ma vede anche la sua insufficienza a descrivere la complessità dell’animo umano. Egli sa bene quanta passione vi possa essere nella geometria. È un grande matematico e a essa ha dedicato molto tempo, conseguendo anche risultati di grande valore scientifico. Ma l’anima umana aspira ad altro. La geometria ci permette di descrivere la natura secondo leggi, e presumibilmente ci permetterà di farlo sempre meglio in futuro, ma non ci permetterà mai di comprendere nei suoi schemi l’anima dell’uomo. Nella vita interiore dell’essere umano c’è una sfera del tutto diversa, la sfera dell’intuizione, che Cartesio, sbagliando, ha creduto potesse coincidere con la ragione (intendendo il cogito come “atto d’intuizione”). Essa è invece irriducibile alla ragione: è il mondo dei sentimenti, degli affetti, del cuore. È, con espressione intraducibile, l’esprit de finesse (letteralmente “spirito di finezza”). Mentre la ragione non coglie la contraddittorietà della condizione umana – canna che pensa, sospesa tra la miseria della colpa e la grandezza del pensiero – l’intuizione ci mette di fronte alla realtà del nostro stato. Questi fatti portano l’esprit de finesse ad aderire al cristianesimo storico. Indimostrabile con la ragione, il cristianesimo è invece in grado di spiegare perché l’essere umano si trovi in questa drammatica condizione di sospensione tra miseria e grandezza: la Genesi è la chiave del mistero. In essa si parla di Adamo, creato a immagine di Dio e caduto nella più profonda miseria per il peccato originale, ma ancora dotato di un’anima immortale, di un pensiero che lo eleva all’assoluto. L’esprit de géométrie abbandona l’uomo quando la sua vita interiore lo porta a interrogarsi su se stesso. Pascal stesso definì la geometria “il più bel mestiere del mondo”, ma essa rimane appunto soltanto un mestiere. Patrizi, Francesco Filosofo rinascimentale italiano (Cherso in Dalmazia 1529 - Roma 1597). Fermamente antiaristotelico, espresse in diverse opere (la più celebre è Nova de universis philosophia del 1591, che fu messa all’Indice) la convinzione che soltanto il platonismo possa essere coerente col messaggio evangelico. Si occupò a fondo anche di temi estetici (Della retorica, del 1562; Della poetica, del 1586), anche in questo caso polemizzando contro Aristotele e sostenendo che la poesia è cosa del tutto indipendente dal rispetto di determinate regole, ed è piuttosto frutto di una ispirazione poetica la cui radice ultima è in Dio.

Peirce

Peano, Giuseppe Matematico e logico italiano (Cuneo 1858 - Torino 1932). Intento alla costruzione di un rigoroso formalismo logico (Arithmetices principia nova methodo exposita, del 1889; Formulario matematico, del 1894-1908), si è occupato dello studio dei fondamenti logici della matematica, enunciando alcuni postulati allo scopo di costruire l’aritmetica come sistema ipotetico-deduttivo. Celebre è il cosiddetto “sofisma di Peano”, un sillogismo errato come nell’esempio: «Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono dodici; Pietro e Paolo sono dodici». Questo sofisma mostra come, in logica formale, le proprietà di una classe (gli apostoli) vadano distinte da quelle degli individui che la compongono (Pietro e Paolo). Peirce, Charles Sanders Filosofo americano (Cambridge nel Massachusetts 1839 - Milford 1914), tra i maggiori esponenti del pragmatismo, il valore della cui opera (costituita per lo più di articoli, saggi e altro materiale manoscritto non elaborato) è stato riconosciuto solo nel XX secolo, dando luogo a molteplici influenze. In Come rendere chiare le nostre idee (1878), egli indicò come principio fondamentale del pragmatismo (peraltro in continuità con quanto avviene nella sfera della vita comune) la consapevolezza delle conseguenze dei nostri concetti, venendo quindi a identificarne il significato con i loro effetti pratici. In tal modo Peirce intese immediatamente dare alla sua filosofia una curvatura semantica, prendendo le distanze dall’impostazione tradizionale (soprattutto cartesiana) centrata invece sul problema della verità (polemizzò con ➔ James e ➔ Schiller, che avrebbero falsato l’autentico spirito del pragmatismo presentandolo come una dottrina utilitaristica). In merito alla decidibilità dell’accettazione o del rifiuto di un’idea solo il metodo scientifico risulta valido in quanto, procedendo dal dubbio come condizione per la sua elaborazione, è intrinsecamente fallibilista e autocorrettivo, riconosce cioè il carattere sperimentale e aperto della ricerca e quello provvisorio delle nostre credenze (e in questo senso ci consente anche di avvicinarci alla verità quale conoscenza adeguata del mondo). Ne deriva, in sede gnoseologica, il rifiuto dell’intuizionismo (che accomuna razionalisti ed empiristi) come acquisizione immediata delle conoscenze: esse sono sempre frutto di un ragionamento ipotetico o abduzione (per lo più inconscio, ma che muovendo dalle conseguenze e cercando una causa in grado di spiegarle

Pelagio

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è euristicamente fecondo) che si appoggia sull’impiego di termini linguistici e schemi categoriali (questi ultimi studiati dalla faneroscopia che li riduce, sulla base della definizione kantiana di numero come unità sintetica del molteplice, a tre: primità, secondità, terzità). Di qui l’interesse di Peirce per la semiotica quale disciplina coinvolgente ogni nostro atto mentale («tutto il pensiero è un segno e partecipa [...] della natura del linguaggio»), fondata sulla relazione triadica segno – oggetto (significato) – interpretante. Dal momento che anche quest’ultimo termine va inteso come segno, il cui oggetto è il segno interpretato e che perciò rimanda a un altro interpretante e così via, il processo conoscitivo diviene una semiosi infinita a carattere collettivo. Peirce formulò anche una metafisica, una cosmologia evoluzionistica dove l’amore e il desiderio (agapismo) dirigono lo sviluppo verso la “razionalizzazione del reale” attraverso “semplici variazioni fortuite” (tychismo). Pelagio Monaco britannico (354 ca.-427 ca.), fondatore di una corrente ereticale che da lui prese il nome. Sulla base di una formazione ideologica di impronta stoica, egli intese reagire al fatalismo manicheo e a un certo lassismo dei costumi seguito alla conversione di massa dopo la fine delle persecuzioni, insistendo su un rigorismo ascetico privo di aiuti soprannaturali e su un ottimismo antropologico che giungeva ad affermare che la natura umana è integra dopo il peccato originale (che non si trasmette automaticamente, giacché ognuno si trova di fronte a Dio nelle stesse condizioni di Adamo) e dunque capace di operare il bene senza l’intervento della grazia. In tal modo la vita eterna veniva a essere a portata esclusiva del libero arbitrio dell’uomo, unico arbitro del proprio destino, e conseguenza dei meriti derivatigli dalla sua buona volontà, mentre la redenzione appariva piuttosto come un appello a una vita più nobile ed eticamente corretta in termini razionalistici e volontaristici. Sviluppato anche in modo originale da Celestio e Giuliano, il pelagianesimo fu combattuto dai Padri della Chiesa, da Girolamo e Agostino, e condannato dal concilio di Cartagine del 418. Perelman, Chaim Filosofo belga di origine polacca (Varsavia 1912 - Bruxelles 1984), professore a Bruxelles. Riprendendo il problema della ragion pratica e del suo ruolo nell’azione, egli intese affrontare il tema della “retorica” quale procedimento con-

Pestalozzi

creto e complesso di tecniche da utilizzare al fine di persuadere e convincere (Trattato dell’argomentazione del 1958, scritto con Olbrechts-Tyteca). Egli respinse il concetto cartesiano di ragione (limitato a ciò che è necessariamente certo e deducibile in modo rigorosamente formale) per rivolgersi al campo del discorso umano in cui domina il probabile e il verosimile. Qui, nel confronto tra opinioni diverse emerge la necessità di “argomentare” in favore della ragionevolezza di una posizione rispetto a un’altra, sottraendo in tal modo terreno al dogmatismo e alla violenza. Rispetto alla dimostrazione logico-scientifica, la retorica si fonda sul rapporto situazionale tra il discorso e l’uditorio, l’insieme concreto delle persone (diverse per condizione sociale, culturale ecc.) cui quello è diretto. Essendo la ragione teoretica subordinata a quella pratica, la filosofia trova così la propria base nelle categorie di giustificazione e decisione ragionevole allo scopo di determinare la giustizia quale nozione fondamentale e regola maestra nel vivere intersoggettivo (La giustizia, 1963). Peripatetici Filosofi che frequentavano il Liceo, la scuola di Aristotele, così chiamati per l’abitudine di fare filosofia all’aperto, passeggiando (peripathein) sotto i portici della scuola stessa. Pestalozzi, Johann Heinrich Pedagogista svizzero (Zurigo 1746 - Bruges 1827), dal cui pensiero ha origine tutta la problematica della moderna scuola elementare. Realizzò diverse iniziative educative (a Neuhof, Stans, Burgdorf, Yverdon) che suscitarono molto interesse (e altrettante critiche). Il suo pensiero (esposto in molte opere quali Leonardo e Gertrude del 1781-87, Mie indagini sul processo della natura nello sviluppo dell’umanità del 1797, Come Gertrude istruisce i suoi figli del 1801, il Libro delle madri del 1803, il Canto del cigno terminato alla vigilia della morte) è centrato sull’idea di umanità intesa come spiritualità, libertà e attività: essa è quindi punto di partenza e arrivo dell’opera educativa. Questa deve promuovere in ogni individuo (per questo motivo Pestalozzi proclamò la necessità di un’educazione popolare) lo sviluppo della natura in rapporto alle facoltà e disposizioni, svolgendo armonicamente, al fine di prepararlo ad affrontare i doveri di uomo e cittadino, le sue “potenze”. Esse sono il cuore, la mente e il braccio, cui corrispondono il volere, il sapere, il potere e tutti i relativi valori morali, intellettuali e

Piaget

sociali. Un ruolo centrale per la formazione integrale della personalità è attribuito da Pestalozzi al lavoro, in quanto mette in moto tutte le facoltà dell’educando: perciò la scuola deve essere realizzata come vita, giacché “solo la vita educa”. Il suo metodo deve essere conforme alla natura, aderente allo sviluppo spontaneo del fanciullo, atto a scoprire e stabilire gli elementi fondamentali di ogni insegnamento: esso dovrà avere come fondamentale punto di partenza l’intuizione, presupposto di ogni conoscenza e comportamento intelligente, sulla base dei tre elementi fondamentali costituiti da forma, parola, numero. Su di essi verrà scandito l’apprendimento e il relativo ruolo delle discipline curricolari che si dovranno succedere nell’itinerario didattico: prima il disegno e la rappresentazione grafico-espressiva, poi l’educazione linguistica, e infine la matematica. Piaget, Jean Psicologo svizzero (Neuchâtel 1896 - Ginevrea 1980). Ha lavorato presso l’Istituto J.J. Rousseau di Ginevra, città dove ha fondato il Centro Internazionale di Epistemologia Genetica. È autore di opere fondamentali per la psicologia e per la pedagogia del XX secolo, tra cui Dove va l’educazione (1948) e Psicologia e pedagogia (1969). La teoria piagetiana viene definita “genetica” perché segue gli sviluppi dell’intelligenza e dei sistemi di conoscenza attraverso le fasi proprie di ciascuna età e spiegando il passaggio dall’una all’altra. In particolare è studiato lo sviluppo delle funzioni e delle strutture cognitive legato all’intelligenza, intesa in senso funzionalistico come capacità che permette al soggetto di adattare il suo comportamento alle modificazioni dell’ambiente. Piaget respinge sia l’impostazione preformistica (secondo cui la mente è dotata di principi innati), escludendo una struttura senza genesi, sia quella associazionistica (che fa derivare ogni contenuto dall’esperienza), escludendo una genesi che non tragga origine da una struttura. In realtà la formazione dell’intelligenza ha carattere costruttivo, nel senso che essa costruisce continuamente schemi d’azione e strutture mentali attraverso lo scambio dinamico che il soggetto intrattiene con l’ambiente, seguendo un itinerario di equilibrazione per modificazioni successive in virtù delle quali ogni struttura mentale entra a far parte della struttura precedente con funzioni di ristrutturazione dell’insieme. In altri termini la psiche infantile si costruisce su una dotazione ereditaria di riflessi che vengono

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Pico della Mirandola

successivamente trasformati in azioni dirette verso una meta non innata; a questa trasformazione corrisponde la creazione nella mente di una struttura, uno schema. Sotto la spinta di nuovi stimoli si formano progressivamente nuove risposte, attraverso l’arricchimento e la modifica dell’organizzazione mentale (assimilazione-accomodamento-adattamento). Il soggetto non possiede quindi una struttura a priori, ma è un centro di funzionamento che costruisce le une dopo le altre, lungo un processo aperto e indefinito, strutture con particolari caratteristiche di totalità, trasformazione, autoregolazione varianti a seconda dell’età e degli stadi evolutivi. Pico della Mirandola, Giovanni Filosofo italiano (Mirandola 1463 - Firenze 1494), tra i massimi rappresentanti dell’umanesimo fiorentino. La sua opera più celebre è l’orazione De hominis dignitate. Venne scritta come introduzione a una raccolta di 900 tesi che Pico aveva messo insieme come base di discussione per un convegno di dotti che sperava di riunire a Firenze con un obiettivo preciso: trovare una sintesi, una conciliazione tra le tante posizioni diverse in campo religioso e filosofico, ma anche politico, fonte di divisioni, di guerre e di ogni sorta di mali per l’umanità. Quello di Pico era il sogno di un umanista che desidera riaffermare la fede nell’uomo e nella sua capacità di creare un consenso universale, per il rinnovamento dell’umanità secondo gli ideali propri del rinascimento italiano e i valori dell’umanesimo. Molte delle tesi esposte vennero condannate dalla Chiesa, il suo progetto fu osteggiato e il convegno non ebbe luogo. L’idea di fondo che Pico esprime nella orazione è che l’uomo occupa una posizione tutta particolare nell’ordine della creazione: la sua natura non è determinata come quella degli animali, guidati dall’istinto e privi di libertà autentica; e non occupa neppure un posto ben determinato come quello degli spiriti celesti, volti al bene. L’uomo è libero, la sua natura è indeterminata: può volgersi al bene ed elevarsi a Dio o volgersi al male, al mondo delle natura selvaggia. È in questa libertà, nel suo essere padrone di se stesso la sua più profonda dignità. Pico era contrario alla astrologia, così diffusa nei suoi anni. Riteneva infatti che ammettere un potere delle stelle sull’uomo, capace di influenzarne il comportamento, non potesse conciliarsi con la sua idea di libertà e dignità umana e fosse da respingere co-

Pier Damiani

me eredità di un pensiero antiumanistico. Al contrario, riteneva opportuno coltivare la vera magia, cioè la scienza della natura secondo le tendenze del tempo, il cui obiettivo di intendere le forze nascoste della natura e rivelarne l’essenza poteva essere volto al servizio dell’uomo. Pier Damiani Scrittore e monaco italiano (Ravenna 1007 - Faenza 1072), vescovo di Ostia, tra i massimi esponenti della renovatio Ecclesiae dell’XI secolo, culminata con la riforma di Gregorio VII. Sotto il profilo filosofico, si attestò su posizioni “antidialettiche”, ostili cioè all’introduzione di metodi logico-argomentativi (da lui peraltro conosciuti e impiegati, anche se giudicati frutto dell’orgoglio umano) nello studio della Scrittura e nelle questioni teologiche, in nome di un atteggiamento improntato a spirito di obbedienza e di umiltà verso l’autorità della Rivelazione. Tra i suoi opuscoli De divina onnipotentia, De sancta simplicitate (elogio dello spirito monastico), De perfectione monachorum (di contenuto ascetico), Liber qui appellatur Dominus vobiscum (di contenuto ecclesiologico). Pietismo Movimento religioso protestante, nella cui tradizione furono educati Kant e altri poeti e filosofi tedeschi del XVIII secolo, nato tra Seicento e Settecento in Germania per opera di un predicatore, Spener, che istituì in diverse località piccole comunità di fedeli dediti allo studio in comune della Bibbia. Si trattava di una “religione del cuore”, severa e rigorosa sul piano morale, che programmaticamente rifiutava lo sclerotizzarsi del cristianesimo riformato in istituzioni e in teologie codificate e razionali. Pietro d’Abano Medico e filosofo italiano (Abano 1250 ca. - Padova 1315 ca.), professore a Parigi e a Padova. Pur essendo circondato da grande fama, fu sospetto all’autorità ecclesiastica che, ancora in vita, lo prosciolse dall’accusa di eresia, ma lo condannò dopo la morte. Considerato un averroista, nella sua opera maggiore Conciliator differentiarum philosophorum et praecipue medicorum sembra assumere posizioni più vicine all’aristotelismo ortodosso, certo mantenendo una forte accentuazione naturalistica (rifiutava di attribuire immediatamente a Dio la causalità di tutti i fenomeni per evidenziare il ruolo delle cause seconde). Coltivò l’astrologia, da lui ritenuta fondamentale per l’esercizio della medicina.

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Pirrone di Elide

Pietro Ispano Filosofo e teologo (Lisbona 1210 ca. - Viterbo 1277), maestro di medicina a Siena e Lisbona, arcivescovo di Braga e Tuscolo, papa col nome di Giovanni XXI. Autore di diverse opere di medicina e scienze naturali, è famoso soprattutto per un manuale di logica (Summulae logicales divise in 12 trattati) che ebbe grandissima diffusione ed enorme successo. Dante lo ricorda in Par. XII, 134. Pietro Lombardo Teologo e filosofo scolastico (Novara 1095 ca. - Parigi 1160), maestro nella scuola cattedrale di Parigi e vescovo di quella città. Oltre a commenti a vari libri della Scrittura e a sermoni, scrisse i quattro famosi Libri sententiarum, che ebbero un’immensa fortuna nel pensiero medievale costituendo il manuale fondamentale obbligatorio per l’insegnamento della teologia nelle università. Quest’opera rispondeva all’esigenza di un’esposizione sistematica della dottrina cristiana attraverso una raccolta compilativa (evitando così di ricorrere ai testi originali) di citazioni e posizioni dottrinarie della tradizione a lui precedente (soprattutto Agostino) sui temi di Dio, le nature spirituali e quella umana, i sacramenti. Pirrone di Elide Filosofo greco (Elide 365275 a.C.). È considerato il fondatore della scuola scettica; non scrisse nulla e del suo pensiero rimangono solo le testimonianze di Cicerone, di Diogene Laerzio e del suo discepolo Timone di Fliunte. Secondo Pirrone la conoscenza empirica soggettiva è ingannevole, occorre perciò attuare una ricerca (skepsis) sull’essenza della realtà. Ma dal momento che questa è inconoscibile da parte dell’uomo, il quale per sua natura è legato indissolubilmente all’apparenza e alle sensazioni, egli finisce per concludere che non solo non è possibile conoscere l’essenza delle cose, ma neppure giudicare la verità o falsità delle opinioni senza un parametro sicuro di riferimento. Perciò l’unico atteggiamento praticabile e razionalmente coerente è la sospensione del giudizio (epoché), da cui la consapevolezza dell’impossibilità del conoscere e la somma indifferenza nei confronti della realtà. «Bisogna essere senza opinione , senza inclinazione, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è» (da una testimonianza di Aristocle di Messene, II sec. d. C.). La consapevolezza della non esistenza di una verità assoluta porta Pirrone a individuare la felicità

Pitagora

nell’accettazione dei limiti propri dell’uomo e delle sue facoltà e quindi a praticare l’atarassia (imperturbabilità) e l’afasia (astensione dal discorso) quali conseguenze della stessa epoché. Pitagora Filosofo e scienziato greco (Samo 570 ca. - Metaponto 490 ca. a.C.), fondatore della scuola omonima. Nativo di Samo, venne in Italia in seguito a dissidi col tiranno Policrate e si stabilì a Crotone dove, già circondato da straordinaria fama di sapienza, aprì una scuola e probabilmente compì in seguito molti viaggi in Egitto e in Oriente. La tradizione succesiva gli attribuì poteri magici e taumaturgici, facendo sfumare la sua figura nella leggenda. Sembra comunque che si sia occupato di molte discipline, introducendo per primo nella lingua greca il termine “filosofo”. Certo molte delle sue dottrine si confondono con quelle della sua scuola, con cui (come risultava già ad Aristotele) anche la sua persona finisce per identificarsi: indubbiamente essa costituì una comunità dove si praticava un determinato tipo di vita e si coltivavano precisi progetti politici di orientamento aristocratico (sappiamo infatti che a Crotone e in altre città della Magna Grecia vi furono rivolte democratiche contro il governo di pitagorici o di loro amici: Pitagora, scampato alla distruzione della sua scuola, fuggì a Locri passando quindi a Taranto e infine a Metaponto, dove morì). Probabilmente non scrisse nulla (i testi a lui attribuiti, come i Versi aurei, sono falsificazioni posteriori): di qui la difficoltà di indicare in modo sufficientemente preciso il suo pensiero (o per lo meno quello del primo pitagorismo), che sembra essersi concentrato essenzialmente su due punti: la dottrina della metempsicosi (testimoniataci da un passo di Aristotele e da un frammento di Senofane) e quella dei numeri. Quanto alla prima, se da un lato ci conferma l’atmosfera religiosa e la valenza iniziatica delle pratiche in vigore nella setta, dall’altro induce a considerare i rapporti di Pitagora con l’orfismo e i culti misterici (l’immortalità dell’anima può essere stata desunta da varie tradizione religiose misteriche), se non con lo sciamanismo asiatico. Mentre queste indicazioni sembrano rafforzare l’immagine di un atteggiamento profondamente spirituale e religioso, non va trascurata l’importanza che egli attribuì al sapere razionale, che intese come viatico di purificazione per le colpe dell’anima. Esso consistette probabilmente nello studio delle matematiche e della musi-

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Pitagorismo

ca: ciò in linea con la tradizione che gli attribuisce la risoluzione del teorema che porta il suo nome (a Ippaso spetta invece la scoperta dei numeri irrazionali) e l’osservazione che gli intervalli musicali sono esprimibili mediante rapporti numerici. Su queste basi, stando ad Aristotele, in una fase successiva (V-IV sec. a.C.) alcuni (Filolao e Archita) «credettero che i principi delle matematiche fossero i principi delle cose». Peraltro sembra plausibile che nella scuola il maestro discutesse con argomenti matematici i problemi sollevati dai filosofi ionici (dalla cui area geografica e culturale lui stesso proveniva), in particolare quello delle opposizioni, delle cose considerate nella loro determinazione e perciò in rapporto antitetico (secondo Aristotele il cosmo pitagorico era scandito da dieci coppie di opposti: «limite e illimitato, dispari e pari, uno e molteplice, destro e sinistro, maschio e femmina, quiete e movimento, diritto e ricurvo, luce e tenebra, bene e male, quadrato e rettangolo»). Infatti vi è un’indubbia consonanza tra la teoria “geometrizzante” della natura (processo ritmico, entro i confini dell’apéiron, delle determinazioni nel loro opporsi e compensarsi reciproco) di Anassimandro e quella di Pitagora, che identificando l’intelligibilità delle cose con la loro misurabilità finisce per concludere che dal numero nascono le cose stesse. Lo stesso vale per la teoria dell’aria di Anassimene, che trova una corrispondenza in quella pitagorica del “respiro” dell’universo come armonia dovuta alla sincronia dei due moti contrari di emissione e immissione, per cui come soffio vitale (anima) è onnipresente e si perpetua al di là della morte dei singoli individui. Da questi elementi risulta chiarita anche la fama di Pitagora come taumaturgo, che invita ad accordare la propria vita con quella del cosmo e che intende curare l’anima ristabilendone l’equilibrio mediante opportune purificazioni (la conoscenza dei contrari, dei rapporti numerici, del respiro del cosmo ecc.) e incantesimi (derivati dalle pratiche magiche vive nell’Italia meridionale, trasformati da Pitagora in discorsi sapienziali e ritmi musicali). Pitagorismo Col termine pitagorismo si indicano le dottrine e le scuole sviluppate verso il V sec. a.C. dai seguaci di Pitagora. Poche sono le fonti certe sul pitagorismo anche se il riferimento principale rimane Aristotele, secondo il quale essi «si dedicarono allo studio delle matematiche e per primi le fecero progredire [...] credettero che i

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Planck Pitagorismo Discepoli di Pitagora in Magna Grecia ed Efeso PITAGORA (570 ca.-490 ca. a.C.) ALCMEONE (VI sec. a.C.) ARCHITA (430 ca.-360 ca. a.C.) FILOLAO (V sec. a.C.) APOLLONIO DI TIANA (I sec. d.C.)

principi delle matematiche fossero anche i principi delle cose che sono». Il pari (infinito), il dispari (finito) e l’unità (parimpari) erano gli elementi a base del tutto (punto-uno; linea-due; piano-tre; solido-quattro) per cui l’intero universo era armonia e numero. Nello studio numerico della realtà i pitagorici scoprirono il numero irrazionale, che sembrò creare un’aporia nel perfetto sistema delle cose. Tutto ciò che era pensabile e conoscibile doveva avere un correlativo, messo in dubbio ora da tale scoperta. Si narra che la scuola pitagorica obbligasse i discepoli al silenzio e al segreto sugli studi effettuati e quando uno di questi, Ippaso di Metaponto, trasgredì, venne espulso e fu eretta una tomba col suo nome. Questo fatto evidenzia le particolari regole cui il pitagorismo era legato: oltre che al segreto, i discepoli dei primi anni erano tenuti ad ascoltare il maestro senza nemmeno vederlo (se non sotto forma di fugace ombra dietro un telo) e senza porre alcuna domanda (il maestro era depositario di divina sapienza e pertanto inconfutabile, secondo la massima divenuta proverbiale dell’Ipse dixit). Inoltre si tramanda che praticassero la comunione dei beni. I pitagorici credevano nella metempsicosi, la trasmigrazione dell’anima che, attraverso i riti purificatori e il progresso della conoscenza, si doveva liberare completamente del corpo (considerato la sua tomba) per riunirsi all’Anima universale. Da questa credenza derivava un ferreo regime alimentare (le fave erano proibite, poiché si credeva contenessero le anime degli antenati e si cibavano solo della carne di animali destinati al sacrificio rituale, pertanto privi di anima, per non interromperne il processo di purificazione). Le scuole pitagoriche si diffusero soprattutto in Magna Grecia. Tra i maggiori espo-

Platone

nenti sono da annoverare Simmia, Cebete e Timeo (ricordati da Platone), Filolao (che per primo ipotizzò una teoria cosmologica eliocentrica) e Alcmeone (che, esercitando a Crotone la professione di medico, individuò nel cervello e non nel cuore la sede della vita spirituale). Il pitagorismo ebbe una ripresa tra il I e II sec. d.C. (confondendosi spesso con il neoplatonismo e l’ermetismo) e influì notevolmente anche sulla scienza moderna nell’interpretare il linguaggio della natura in termini matematico-geometrici (Galilei). Planck, Max Fisico tedesco (Kiel 1858 Gottinga 1947), professore a Berlino e premio Nobel nel 1918. Dedicatosi allo studio della termodinamica, fu portato dalle sue ricerche sulla distribuzione spettrale dell’energia del corpo nero alla scoperta della relativa legge e successivamente alla sua fondazione teorica con la teoria dei quanta, in seguito elaborata ed estesa (con contributi decisivi da parte di Bohr, Heisenberg, Schrödinger, Dirac) a tutti i tipi di energia. Planck si interessò alle implicazioni filosofiche e metodologiche della fisica, che espose in varie opere tra cui La conoscenza del mondo esterno (1933) e Autobiografia scientifica (1948, postuma): respinse le interpretazioni operativistiche della sua teoria (per tanti aspetti alternativa alla fisica classica) in nome di un orientamento “realista” (il mondo esterno esiste indipendentemente dal pensiero umano e dalle impressioni del soggetto: compito dello scienziato è «stabilire un nesso quanto più stretto possibile tra il mondo reale e il mondo delle esperienze sensibili») che comportava anche l’accoglimento del determinismo causale (secondo Planck la ricerca scientifica presuppone la fede in un ordine razionale del mondo). Platone Filosofo greco (Atene 427-347 a.C.). la vita. Nato da una famiglia di antica nobiltà (discendeva dal mitico re Codro da parte di padre e da Solone da parte di madre), Platone (il cui nome vero era Aristocle, chiamato così per via della sua costituzione fisica robusta – dal greco platús, “ampio”) ebbe una accurata educazione, dedicandosi all’inizio alla pittura e alla poesia. Ventenne frequentò Cratilo (tardo seguace delle teorie eraclitee) e divenne infine allievo di Socrate. Malgrado i legami di parentela con Carmide e Crizia (tra i capi del partito oligarchico, che diede origine al governo dei Trenta tiranni), non si decise a entrare nella vita politica (anche se coltivò la convinzione che la filosofia potesse influirvi). Dopo la condan-

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na e la morte del maestro, rimase per qualche tempo a Megara presso Euclide e quindi, dopo un breve ritorno ad Atene (dove forse compose l’Apologia di Socrate), intraprese una lunga serie di viaggi, che lo portarono a soggiornare a Taranto (dove entrò in contatto con il pitagorico Archita) e a Siracusa. Qui cercò di indurre il tiranno Dionigi il Vecchio a intraprendere un programma di riforme: sospettato di complotto con Dione, suo intimo amico e cognato del tiranno, fu cacciato e fatto sbarcare a Egina, dove fu venduto come schiavo. Riconquistata la libertà, fondò ad Atene una scuola, detta ➔ Accademia perché posta nei giardini dedicati all’eroe Academo, tra i cui intenti vi era quello di formare una classe dirigente intellettualmente preparata. Nel 367 ritornò a Siracusa (ancora su invito di Dione) per cercare di realizzare i suoi progetti riformatori con il nuovo tiranno Dionigi il Giovane, ma anche questa voltà fallì, così come si risolse in un insuccesso anche un terzo viaggio nel 361. Tornato ad Atene, si dedicò completamente all’Accademia, all’insegnamento e allo studio fino alla morte. Le opere. Platone è il primo filosofo antico di cui ci rimangono integralmente le opere (nel I sec. d.C. il grammatico Trasillo ne propose un ordinamento tetralogico, in parte utilizzato ancora oggi), un corpus costituito dall’Apologia di Socrate, 13 Lettere (delle quali sembra accertata l’autenticità della VII e della VIII) e 34 dialoghi (di cui alcuni spuri: Ipparco, Amanti, Teagete, Minosse, Alcibiade secondo, Epinomide). La cronologia di questi ultimi è stata stabilita, attraverso l’impiego del criterio stilometrico (integrato dai rimandi interni e da quello fornito da Platone stesso in Resp., III, 392c-396e, che distingue tra forma espositiva, drammatica e mista, dichiarando di preferire la prima), dalla critica moderna (pur con delle varianti) nel modo seguente: dialoghi socratici giovanili (Apologia, Critone, Ippia minore, Alcibiade primo, Protagora, Eutifrone, Liside, Carmide, Lachete, Ione, Ippia maggiore, Menesseno); dialoghi della maturità, scritti tra il primo e il secondo viaggio a Siracusa (Gorgia, Menone, Eutidemo, Cratilo, Repubblica, Simposio, Fedone, Fedro); dialoghi tardi (Teeteto, Parmenide, Sofista, Filebo, Politico, Timeo, Crizia, Leggi, sicuramente l’ultimo scritto). il pensiero. Nella VII lettera Platone illustra i nuclei problematici fondamentali e le linee portanti del suo itinerario speculativo. Al centro vi sono interessi di tipo pratico, ruotanti intorno alla “saggezza” e ai suoi

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aspetti etico-politici (la prudenza e la giustizia), sollecitati dalla contingenza storica (la decadenza di Atene durante la guerra del Peloponneso, le lotte civili) e dalla vicenda della condanna e della morte del maestro Socrate, che gli fece apparire chiaramente come «solo la retta filosofia rende possibile vedere la giustizia negli affari pubblici e privati». Tutta la ricerca di Platone è perciò politica e prosegue la discussione del maestro con i sofisti intorno a una possibile riforma della città e della vita morale fondata sul conoscere. Perciò l’Apologia ci presenta la scienza socratica (di cui Platone rivendica di essere l’unico depositario) come norma delle azioni ed elemento essenziale di ogni virtù, dialogo insieme «dell’anima con sé» e con gli altri al fine di una catarsi comune dall’errore e dal sapere illusorio. Nei brevi dialoghi di cui è protagonista, Socrate è presentato come colui che pone insistentemente la domanda «che cos’è?» (tì estì), avente come oggetto il santo nell’Eutifrone, il bello nell’Ippia maggiore, il coraggio nel Lachete ecc.: le discussioni impostate in questi dialoghi non hanno una conclusione perché la filosofia nella visione socratica non ha un oggetto specifico proprio se non lo svilupparsi del pensiero stesso, ciò per cui l’uomo è uomo. Tuttavia, la convergenza tra l’antilogia protagorea, la retorica e l’ironia socratica (così com’era interpretata da cinici e megarici), tutte poste sul piano di un estremo relativismo individualistico, rendeva necessario una ridefinizione della ricerca, al fine di darle un contenuto orientandola positivamente. Tale contenuto non può essere che il bene, non risolventesi nel conoscere se stessi, come voleva Socrate, ma individuabile in un termine oggettivo di confronto. Sotto questo profilo il Clitofonte (vero spartiacque nell’itinerario platonico) rimprovera esplicitamente alla dialettica socratica il limitarsi a un’operazione protrettica, ed esige che l’ordine politico trovi il suo fondamento in un criterio trascendente, in una struttura normativa oltre-umana. Approfondendo la dinamica della ricerca (il “ragionare seriamente”) nella chiarificazione del pensiero a se stesso si perverrà a cogliere, secondo una regola scaturita e giustificata per necessità intrinseca, le condizioni e i presupposti che lo rendono possibile, un sistema di relazioni a sé stanti e omomorfe alle sue discutendo le quali il logos si rivela allo stesso tempo uno e molteplice e dunque, in quanto ragion d’essere del tutto, come paradigma assiologico, che impone anche un compito di realizzazione.

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Su questa linea si colloca il Simposio, in cui Socrate è iniziato (lui, il maestro!) dalla sacerdotessa Diotima ai misteri d’amore: simbolo della filosofia, Eros è generato dal dio Poro (abbondanza, possesso, ricchezza) e dalla mortale Penia (povertà, mancanza), collocandosi dunque in posizione intermedia tra il divino e il bestiale e significando con ciò che la ricerca umana suppone sia una privazione e un bisogno, sia un posse-

Platonismo

Platone

dere, una conoscenza già acquisita (quindi un termine oggettivo già dato). In questo modo Platone risolve il paradosso del Protagora e dell’Eutidemo circa l’insegnabilità della virtù (non si può apprendere con l’insegnamento ciò che non si sa, se si sa non v’è bisogno di insegnamento): se essa è scienza, l’indagine verte ora sul suo statuto e sul suo oggetto. Sbarazzatosi dell’errore sofistico circa il valore della retorica

I grandi interpreti di Platone fino all’età contemporanea

ACCADEMIA

vedi voce relativa

NEOPLATONISMO

vedi voce relativa

PLUTARCO (45-125) S. BASILIO (330 ca.-379) S. GREGORIO DI NISSA (335 ca.-395 ca.) S. AGOSTINO (354-430)

PLATONISMO CRISTIANO

PLATONISMO RINASCIMENTALE E SCIENTIFICO

SCUOLA DI CHARTRES

TEODORICO (XII sec.) GUGLIELMO DI CONCHES (1080 ca.-1154)

SCUOLA DI S. VITTORE

GUGLIELMO DI CHAMPEAUX (1070 ca.-1121) UGO DI S. VITTORE (1096 ca.-1141) RICCARDO DI S. VITTORE (1100 ca.-1173)

S. ANSELMO D’AOSTA (1033-1109) D. GUNDISALVI (XII sec.) GIOVANNI DI SALISBURY (1110-1180) ALANO DI LILLA (1125 ca.-1203) GUGLIELMO D’AUVERGNE (1180 ca.-1249) R. GROSSATESTA (1175 ca.-1253) S. BONAVENTURA (1217 ca.-1274) OLIVI P. DI G. (1248-1298) R. LULLO (1233 ca.-1315 ca.) G.G. PLETONE (1355-1452) N. CUSANO (1401-1464) M. FICINO (1433-1499) N. COPERNICO (1473-1543) G. GALILEI (1564-1642)

PLATONISMO DI OXFORD (XVI-XVII sec.)

PLATONISMO CONTEMPORANEO

A. SCHOPENHAUER (1788-1860) G. FREGE (1848-1925) B. RUSSELL (1872-1970) K. GÖDEL (1906-1978)

Platone

(nel Gorgia si obietta che essa, non avendo un oggetto proprio non può essere che una pratica adulatoria), Platone affronta direttamente l’argomento nel Menone (con la conclusione che l’uomo, se preso nell’immediatezza dei dati sensibili, non è in grado di pensare) per riprenderlo nella vecchiaia nel Teeteto, discutendo la formula protagorea secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose (se l’orizzonte conoscitivo dell’uomo fosse tutto circoscritto dalle impressioni, i giudizi che ne deriverebbero sarebbero particolari e privi di quella stabilità, universalità e certezza che pretendiamo dalla scienza). In tal modo Platone giunge a formulare una concezione generale dell’essere e della verità, che ha il suo fulcro nella cosiddetta teoria delle idee. La sua determinazione, pur trovando un annuncio già nei dialoghi giovanili (per esempio nell’Ippia maggiore), è il frutto di una serie di approssimazioni successive rintracciabili nei dialoghi della maturità. L’esordio è nel Menone con l’episodio dello schiavo che, opportunamente indirizzato da Socrate, riesce a dimostrare un teorema di geometria secondo un rigoroso ragionamento. Reintrepretando in una chiave nuova il “conosci te stesso” e la maieutica socratica e facendo riferimento alle dottrine orfico-pitagiriche sulla metempsicosi (richiamate con la stessa intenzione anche nel Fedone), Platone afferma chiaramente la disposizione innata della nostra anima alla conoscenza, il cui sapere latente (costituito dall’aspetto vero delle cose, dalle loro forme eterne, le idee) è riportato alla luce (anamnesi) in seguito agli stimoli derivati dall’esperienza. Inoltre, la veste mitica con cui viene fornita la spiegazione (lo schiavo ha potuto trovare la dimostrazione “ricordandosi” di una verità già presente all’interno della sua anima) è indice del piano ipotetico su cui Platone è conscio di muoversi: il discorso, la scienza esige un postulato non dimostrabile, ma tuttavia condizione indispensabile per giustificare quell’oggettività e razionalità senza la quale non sarebbe possibile la fondazione di un ordine sociale stabile e duraturo. A sua volta il Fedone sviluppa il tema dell’anima e della sua natura immortale. Mettendo a fuoco la nozione di “idea”, come forma dell’oggetto e quindi sua ragion d’essere (perciò logicamente e ontologicamente preesistente agli oggetti sensibili, che non sono se non copie di essa in un rapporto di presenza, partecipazione, imitazione e comunanza), visibile solo con gli occhi del-

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la mente, se ne evidenzia la funzione causale (si rafforza così la congettura sull’identità tra strutture dell’essere e del pensiero), mentre il pensiero (l’anima) è immortale in quanto (Platone porta oltre a questo, anche tre altri argomenti) non può essere (per il principio che «il simile conosce il simile») se non della stessa natura di ciò che costituisce il contenuto della sua attività. All’opposto, i sensi ci pongono di fronte a una realtà (quella materiale, fisica) molteplice, mutevole e disarticolata: essi sono perciò d’ostacolo all’apprendimento delle idee, per cui il filosofo, come disprezza il corpo (concepito, secondo il linguaggio dei misteri, come tomba per l’anima), così anela attraverso la morte a liberarsene per raggiungere quel mondo eterno e perfetto (e qui Platone ripropone la metempsicosi orfica per sostenere che le anime devono purificarsi attraverso la filosofia), che non è solo un dato ma anche un fine da realizzare e a cui tendere (nel Simposio la verità è presentata come oggetto elettivo dell’amore). Poste queste premesse, si comprende come la Repubblica costituisca il punto d’arrivo del percorso precedentemente svolto, proponendo una teoria della giustizia come armonia e misura, in cui i temi dello stato e dell’anima individuale si intrecciano, procedendo dall’individuo allo stato per poi tornare nuovamente all’individuo, costituito a immagine e somiglianza dello stato. Dato che l’uomo è costituito di razionalità e impulsi, la giustizia dell’anima consiste nell’equilibrio tra queste componenti: a sua volta lo stato è giusto se i cittadini sono giusti, e non possono esserlo se non collocandosi nel giusto rapporto reciproco e attendendo alle specifiche funzioni (essi sono infatti divisi nelle classi di reggitori, guerrieri e produttori, in una organizzazione armonica delle capacità particolari). Come ogni parte dell’anima (concupiscibile, irascibile, razionale) ha una propria collocazione all’interno dell’uomo, così nella città «ciascuno deve fare ciò che gli è proprio» e tutti nel comune rispetto della temperanza. Ma tutta questa organizzazione risulterebbe inconsistente se non fosse ancorata a valori oggettivi e trascendenti e retta da coloro che hanno le capacità per coglierli, i filosofi, che hanno realizzato in sé la giustizia e che dunque possono condurre anche gli altri a questa meta: perciò Platone sente ancora il bisogno di approfondire e precisare i contorni di questo “altro” mondo, con l’allegoria (mito) della caverna. Il racconto narra di uno schiavo prigioniero insieme con

Platone

altri in una caverna, all’interno della quale essi hanno il viso rivolto sul fondo della grotta e possono vedere soltanto le ombre provenienti dall’esterno, che pertanto scambiano per l’unica realtà. A un certo momento lo schiavo riesce a liberarsi dalle catene e a uscire all’aperto, dove può contemplare le cose nel loro vero essere e la luce del sole che ne mette in risalto l’essenza. Da tale narrazione emerge da un lato una ontologia nettamente dualistica (il mondo delle idee costituisce un mondo “più vero” rispetto al mondo della nostra esperienza), strutturata gerarchicamente intorno all’idea del Bene (rappresentata dal sole, che è collocata al di là delle altre idee, indefinibile e fonte del loro essere); dall’altro una gnoseologia altrettanto duplice, che distingue tra conoscenza sensibile (divisa in immaginazione e credenza) e conoscenza intellegibile (divisa in pensiero discorsivo e intellezione, o visione intuitiva). Posto il modello ideale di stato, Platone passa a descrivere le sue forme degenerative (tanto più malvagie quanto sono distanti da esso, cioè nell’ordine timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide), e mette inoltre al bando i modelli tradizionali di educazione fondati sulla lettura dei poeti (se nello Ione l’estro poetico era considerato un dono divino, qui l’arte imitativa viene condannata perché fondata sull’ignoranza e generatrice, insieme con le passioni, di disordine sia nell’anima sia nello stato), chiudendo la trattazione con un mito (quello di Er, il soldato morto in battaglia cui gli dei hanno concesso di tornare in vita a raccontare ciò che ha visto circa il destino delle anime nell’Aldilà) che ribadisce come il giusto sia l’unico uomo felice in quanto ha scelto la vita migliore. Da questo punto di vista Platone riprende anche il tema della persuasione e quindi del rapporto tra dialettica e retorica. Nucleo centrale del Fedro è la tesi dell’eccellenza della capacità di saper ragionare, e quindi discorrere, che trova il suo fondamento nell’intuizione delle idee e che presuppone l’immortalità dell’anima, la chiarificazione della sua essenza, la dottrina della reminiscenza e perciò del desiderio (amore) di rivedere quel mondo. Nel dialogo l’anima viene descritta attraverso il mito della “biga alata”: riallacciandosi ai dialoghi precedenti, il mondo delle idee è descritto come situato al di là del cielo (iperuranio) e l’anima vi accede attraverso la conoscenza che la innalza al di sopra di quello corporeo e la rende partecipe della vita degli dei. Nell’atto in-

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tuitivo (quasi un delirio d’amore) in cui essa coglie il tutto nella sua unità e armonia, l’anima si risolve a rifare l’ascesa alla verità ripercorrendo attraverso il discorso (quello rigoroso e senza contraddizioni) le stesse trame della ragione e dell’essere (per cui la dialettica non è solo la condizione della prima ma la stessa ragione del secondo), l’unità vivente del tutto come Bene: solo indirizzata a questo scopo la persuasione è verace e viene a costituire un tutt’uno con la filosofia (vero retore è il filosofo, che sa usare i discorsi idonei in rapporto alle anime per guidarle opportunamente al vero) come amore e dialogo comune. La dialettica appare dunque come lo strutturarsi del discorso che, abbracciando il tutto, è al contempo uno e molteplice, intuitivo e discorsivo, procedente dall’unità alla molteplicità (diairesis, divisione) per tornare da quest’ultima alla prima (sinossi). Poste queste indicazioni si trattava di svilupparle e portarle a compimento, risolvendo una serie di problemi che avrebbero rischiato di compromettere tutto il lavoro fin qui svolto: 1) come è possibile il conoscere senza risolverlo nel puro ambito linguistico? 2) qual è il rapporto tra idee e cose, senza che la loro molteplicità si riduca all’impensabile unità dell’essere? 3) come è possibile la dialettica delle idee (quindi il discorso che è e non è a un tempo, che è uno e molteplice), se esse sono identiche a sé? 4) qual è il rapporto tra l’ordine della ragione e il mondo delle cose? Per giungere a una soluzione soddisfacente di tali questioni Platone è costretto a mettere in discussione radicalmente tutta la teoria esposta nei dialoghi della maturità. Dopo aver distinto nel Teeteto tra opinione e scienza e definito lo statuto di questa (1), nel Parmenide evidenzia (2) come proprio il rigoroso procedere dialettico del discorso (è il grande eleate a muovere al giovane Socrate le obiezioni decisive) non può non farci persuasi dell’impossibilità di pensare gli eida (i generi) come enti per sé stanti, sia nel senso che le cose ne partecipino (in questo caso le idee dovrebbero dividersi e moltiplicarsi all’infinito) sia nel senso di un’assoluta eterogeneità rispetto a esse (l’imitazione in tal caso invocata incorre nel paradosso del terzo uomo, per cui dovremmo ammettere tra l’idea e l’ente particolare un numero infinito di forme intermedie), sia nel senso di pensare l’essere in quanto uno, al di là degli enti (in tal caso non si avrebbe di esso al-

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cuna possibilità di conoscenza umana). In ogni caso, posto che l’essere è, esso o è uno o è molti (il Parmenide si limita ad avanzare l’esigenza del mantenimento di entrambi gli aspetti). Nel Sofista Platone ritorna sulla nozione di partecipazione (3), questa volta però riferita al rapporto delle idee tra di loro, rapporto concepito come reciproca comunanza tale da poter conciliare unità e molteplicità, staticità e movimento dialettico tra idee. Ciò è reso possibile dal metodo della “divisione” (esso consiste nel prendere un concetto e dividerlo in due parti, lasciarne cadere una e dividere ancora l’altra in altre due parti e procedere così fino a giungere a un termine non ulteriormente divisibile), che permette di ritrovare, entro l’unità dell’idea, quel molteplice che la ricollega al mondo empirico. In tal modo ciascuna idea si raccorda con quelle subordinate e sovraordinate secondo precisi nessi gerarchici (costituiti dai generi e dalle specie) per cui il mondo delle idee assume l’aspetto di un organismo complesso e articolato. Ma ciò significa risolvere l’essere nella stessa dialettica, cioè nel pensiero, per cui l’essere non è un ente contrapposto a un non ente entrambi irrelazionabili nella loro astratta assolutezza, ma è discorso che rispecchia le reali identità e alterità degli enti, definendoli e distribuendoli nell’ordine gerarchico dei generi e delle specie fino al vertice costituito dai generi sommi (essere, identico, diverso, quiete, movimento) che si possono attribuire a tutti quelli subordinati. Di qui si giustifica il famoso “parricidio” (l’ammissione, in polemica con quanto sostenuto da ➔ Parmenide, che il non essere sia, dunque la sua inclusione nell’essere non come contraddittorietà ma come alterità), e può essere compreso l’errore (punto fondamentale per distinguere la dialettica dalla retorica ingannatrice) in cui si incorre quando, invece che ripercorrere correttamente con il discorso la struttura interna del mondo delle idee (mentre la retorica sofistica collega indiscriminatamente tutto con tutto), se ne stabiliscono arbitrarie comunanze in seguito a una difettosa divisione (in tal caso ciò che è viene scambiato per ciò che non è). Il Filebo sviluppa ulteriormente il tema dialettico dell’uno e dei molti con i concetti (di derivazione pitagorica) di illimitato-limitato, per cui mentre il primo si riferisce al fluttuare indefinito e incomposto, il secondo allude all’ordinamento razionale delle cose, che assumono stabilità mediante numerabilità, misurabilità e qualificazione:

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perciò l’essenza di una cosa è colta quando si perviene alla sua definizione (quindi in rapporto ad altro) e cioè la si coglie in termini di convenienza e proporzione (se ne coglie la forma, idea). In ciò consiste lo stesso piacere (questo l’argomento etico del dialogo), una intelligente e calcolata temperanza (in sé infatti il piacere è un illimitato) in rapporto al Bene (l’unità armonica e articolata nel molteplice, l’Uno proporzionato dei molti) secondo una precisa scala di valori: la misura e l’ordine, il bello e il compiuto, l’intelligenza, la scienza e la retta opinione (per cui tutte le forme di conoscenza devono far parte della vita umana, alle cui necessità sono indispensabili tutte le arti, anche quelle fondate sull’opinione), i piaceri puri. Nella stessa prospettiva si colloca il Politico, in cui la preoccupazione di Platone è di definire quel tipo d’uomo che possegga l’“arte regia” che consenta di realizzare l’ideate di stato indicato nella Repubblica. Poiché gli uomini sono molti e diversi ma la loro vita deve svolgersi nell’unità della polis, il politico non potrà essere che il dialettico (paragonato al tessitore) colui che sa intrecciare i simili-diversi in modo da armonizzare caratteri e funzioni (dunque la dialettica è condizione per realizzare il piano politico delineato nella Repubblica). Ancora viene alla luce il tema della “giusta misura”, che non può essere trovata con sistemi estrinseci ma soltanto con un lungo esercizio etico, tutto interno all’anima (che il politico quindi esercita prima di tutto su se stesso), quale condizione per fare incontrare il cosmo politico e la politèia cosmica (perciò il politico opera una mescolanza dei temperamenti individuali e delle virtù affinché gli stati terreni assomiglino il più possibile a quello ideale). Con i risultati fin qui ottenuti il vecchio Platone affronta l’ultimo scoglio problematico (4). Nel Timeo si vuol dimostrare, per non dissolvere l’essere in una vuota astrazione, che anche il mondo fisico è ordine e misura in senso geometrico-matematico. La conciliazione tra logos intellegibile e realtà corporea (in sé contrapposti e separati) si rende necessaria, sia pure (dato l’oggetto cui inerisce) sotto la forma del mito. Esso concerne il “divino artefice”, il demiurgo, intelligenza ordinatrice che ha dato forma all’universo (che in tal modo è finalisticamente costituito per il bene) introducendo l’ordine e la legge nel caos della materia originaria (che in sé è necessità). Fuor di metafora, Platone intende sostenere che l’ordine ha una precedenza logica, essendo il suo

Pletone

principio causa di esso; ma l’effetto che ne deriva è corporeo e visibile, in quanto l’informe assume limite e misura: dunque la cosmologia nel suo insieme deve servire da modello per quel microcosmo che è la polis (perciò nel Timeo è esposto anche il mito di Atlantide, isola leggendaria la cui costituzione è giusta e divina). In questo senso è significativo che le Leggi siano l’ultima opera di Platone: qui l’uomo è miticamente presentato come un prodigioso giocattolo fabbricato dagli dei (non è detto per quale fine), quasi una marionetta retta da quel groviglio di fili che sono le passioni che egli può regolare con la ragione. Solo attraverso di essa infatti egli può diventare cittadino, individuo in funzione del tutto, sociale e cosmico: il legislatore opera razionalmente, collegando in tal modo l’ordine politico con quello naturale (e lo fa tenendo presente il fine cui tendere sia nel formulare le norme, sia nel motivarle pubblicamente in modo che tutti possano interiorizzarle), giacché le leggi non sono mere convenzioni ma la traduzione attuale della struttura del pensiero (e perciò aventi forza necessitante). Solo la consapevolezza della debolezza e dell’instabilità della facoltà raziocinante negli uomini (il popolo non filosofa, quindi non può autodeterminarsi), può indurre Platone a ricorrere alla raffigurazione mitico-religiosa circa la loro sacralità, quale dimostrazione di un Dio che trascende e sorveglia. Perciò quella legge che per un verso esprime la ragione nel suo articolarsi dialettico (il sapiente è la stessa legge), dall’altro può presentarsi come religione di stato. E come nel Timeo l’intelligenza deve unirsi alla necessità, che pure fa resistenza, così ora nelle Leggi si dispongono una serie di meccanismi per la loro attuazione effettiva, soprattutto quello istituzionale dei “custodi”, supremi revisori e controllori di magistrati e funzionari. Ma tutto è inutile se la legge si limita a proibire, restando un vincolo esterno: essa è invece suprema educatrice e mira a incarnarsi (sia pure in un dualismo mai definitivamente risolvibile con la natura e il caso) nei cittadini (non più divisi in classi ma equiparati nel dovere di sostenere lo stato) fino a identificarsi totalmente con essi. Pletone Gemisto, Giorgio Filosofo grecobizantino (Costantinopoli 1355 ca. - Sparta 1452), attivo negli ultimi decenni di vita dell’impero d’Oriente. La sua opera è strettamente legata all’Italia, in particolare a Firenze e alla nascita della ➔ Accademia

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platonica protetta dai Medici. Nel 1438 infatti, in occasione del concilio che avrebbe dovuto sancire la riunificazione delle Chiese cristiane d’Oriente e d’Occidente, Pletone giunse in Italia e strinse rapporti con gli umanisti fiorentini, presso i quali sostenne la difesa del pensiero platonico. Con la sua conoscenza del greco contribuì alla rinascita degli studi platonici (e neoplatonici) nell’ambito del rinascimento italiano. Scrisse varie opere tra cui Le differenze tra Aristotele e Platone. Plotino Il principale rappresentante del neoplatonismo (Licopoli 205 - Minturno 270). la vita. Nato a Licopoli in Egitto, dopo aver frequentato diverse scuole, entrò ad Alessandria in quella di Ammonio Sacca che gli fece scoprire la sua autentica vocazione speculativa e presso cui rimase per undici anni. Desiderando conoscere meglio la sapienza orientale, seguì la spedizione militare contro i persiani dell’imperatore Gordiano, che però fu sconfitto e ucciso. Dopo essersi rifugiato ad Antiochia, Plotino si trasferì a Roma, dove aprì una sua scuola che fu frequentata anche da molti esponenti dell’aristocrazia senatoria e dove si leggevano, per avviare la discussione o per offrire lo spunto alla lezione del giorno, testi platonici, peripatetici e stoici nella più ampia disponibilità e apertura intellettuale. Il suo insegnamento e il suo prestigio morale gli guadagnarono le simpatie dell’imperatore Gallieno, che lo appoggiò nel progetto (poi naufragato) di costruzione di una città (Platonopoli) in cui si sarebbe vissuto secondo i precetti platonici. Ammalatosi, si ritirò in Campania nella villa di un amico, dove morì. Legato con altri a un giuramento di segretezza sulla dottrine di Ammonio Sacca, Plotino non scrisse nulla per molto tempo, ma quando uno degli amici violò la promessa, stese 54 trattati, che espongono il suo pensiero in modo non sistematico, ma su argomenti determinati, presumibilmente su richiesta dei discepoli o secondo le circostanze emerse nel corso dell’attività della scuola. Porfirio, suo discepolo prediletto, li pubblicò raggruppandoli in sei gruppi di nove (da cui il nome Enneadi) secondo un criterio non cronologico ma tematico, e premettendovi una Vita del maestro che resta la fonte principale di notizie sul filosofo. il pensiero. Anche se Plotino dichiara di non allontanarsi dal genuino pensiero di Platone, in realtà la sua speculazione rappresenta per tanti aspetti una grandiosa e

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conclusiva sintesi dell’intero pensiero classico e della civiltà pagana, nella cui tradizione egli si colloca in una ricerca tutta tesa ad approfondire il senso della conoscenza razionale di sé e dell’essere. Plotino pone in particolare l’accento sulla razionalità, intesa da un lato come condizione della pensabilità del reale, dall’altro come possibilità, entro la ragion d’essere del tutto, di rendere conto delle stesse umane esperienze, anche quelle apparentemente non riducibili a ragione. All’interno del problema, ancora dibattuto tra I e II secolo d.C., circa la possibilità o meno di determinare logicamente le condizioni di intelligibilità della struttura del reale (di particolare incidenza appare la tendenza, diffusa nel cosiddetto “medioplatonismo”, a concepire le idee come pensieri della divinità e l’intelligenza divina come pensiero che si articola e si esprime nella molteplicità degli intelligibili), Plotino sviluppa la tradizionale questione dell’uno e dei molti nel solco della convinzione platonica che la filosofia sia sforzo di purificazione e di elevazione dell’anima alla verità, in un orizzonte che abbraccia il dispiegarsi dell’intera realtà in un processo circolare (entro cui rientra la vita dell’uomo) di allontanamento e ritorno all’uno. Il primo atteggiamento verso la realtà, la prima e immediata esperienza conoscitiva è certo quella della molteplicità; ma quest’ultima è impensabile senza l’unità («l’esercito, il coro, il gregge non esistono se non costituiscono ciascuno un’unità; [...] e analogamente le grandezze continue non esisterebbero se non appartenesse loro l’unità»): Plotino dunque prende le mosse dai molti ma pone l’unità (l’uno è perciò un postulato) come condizione della loro pensabilità e definizione. Si ottiene la stessa indicazione considerando che tutto nel cosmo ha un fine: anche da questa prospettiva risulta che vi deve essere un’unità suprema a cui tutto aspira e da cui tutto deriva. La filosofia di Plotino è così dominata da quell’esigenza monistica che aveva trovato nell’eleatismo e nella dottrina pitagorica della monade le sue prime autorevoli espressioni: l’uno è sorgente prima e fine ultimo di ogni essere, fondamento del pensiero, della vita e dell’ordine cosmico. La natura dialettica e relazionale del pensiero, che si muove in seno alle distinzioni logiche e alla molteplicità (esso difinisce, distingue, discrimina), fa sì che l’uno preso in sé sia ineffabile e rappresentabile solo con immagini (propriamente il termine Uno indica l’assenza di determinazioni finite, non un contenuto positivo di

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pensiero; di lui possiamo dire soltanto che non è teologia negativa): condizione delle differenze e delle definizioni per cui i molti si connettono in unità discorsiva, esso è oltre tutte le essenze e a esso si può giungere cogliendo il discorso nella sua unità, per cui tale unità è oltre il discorso, oltre la distinzione pensiero-pensato. Tuttavia, se è vero che non c’è molteplice senza uno, è altrettanto vero che non c’è uno senza molteplice: i due termini sono dialetticamente relazionali. Del resto, se ci fosse solo l’uno si avrebbe solo indistinzione e silenzio: la presenza del discorso esige dunque che si giustifichi il molteplice e la sua derivazione dall’uno. Quest’ultimo non è una realtà per sé, ma è l’unità del discorso (e perciò dell’essere) che è la realtà una nell’unità articolata di tutto il suo processo. Pertanto, se da un lato l’uno trascende il discorso, dall’altro non esisterebbe se non si ponesse come definizione e intellezione di sé, distinguendosi in intelletto e intelligibili (le idee, oggetti molteplici dell’intelletto, hanno sede e si identificano con l’intelletto). E ancora, se l’uno è fonte dell’essere (il mondo iperuranico di Platone, senza il quale le cose non avrebbero essere, per cui essere e intelletto coincidono), quest’ultimo è a sua volta fondamento del pensiero cosciente, dell’unità-molteplicità (tale è l’anima, per la prima volta concepita come coscienza). L’anima è dunque attività unificante e giudicante, nella cui unità il molteplice, il definito, il corporeo sussistono e assumono realtà: quando l’anima si rende conto di ciò, allora coglie che suo fondamento è l’uno, che essa stessa è una e unificante il tutto molteplice in una vivente e animata organicità, che sottesa a sé vi è dunque l’anima una (anima mundi). Come Platone aveva distinto il Bene (fondamento del mondo intellegibile), le idee (fondamento dell’intelligibilità delle cose), le anime (principio di vita e di movimento), la materia (matrice irrazionale delle apparenze), così Plotino accetta la disposizione del paesaggio metafisico in quei precisi livelli sostanziali (ipostasi), che sono l’Uno, l’Intelletto (nous), l’Anima (distinta in anima del mondo e anima individuale). Ma Plotino è anche consapevole delle aporie che nella riflessione del maestro sussistevano nella giustificazione delle relazioni tra questi piani, e risolve il problema con la dottrina dell’“emanazione” (veramente Plotino usa il termine irradiazione – perílampsis – e Proclo introdurrà quello di processione – próodos) che risponde all’esigenza di salvare la continuità e l’unità del-

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le distinzioni e dell’intero reale. Questo processo deve essere inteso come puramente ideale e atemporale: le ipostasi sono coeterne, non tre momenti di un unico processo, ma tre ordini statici di realtà. Plotino lo rappresenta con diverse immagini (soprattutto quella del punto luminoso, che è tale nell’irradiarsi dei raggi – pur non identificandosi con essi – e dei raggi, che sono tali in quanto emanazioni della luminosità fino all’esaurimento della luce nell’ombra: insieme, pur distinti, costituiscono la luce in atto, la quale a sua volta è l’uno-tutto luminoso che in sé risolve il punto, i raggi e anche l’ombra) che intendono significare non la creazione per un atto arbitrario e deliberato, ma che necessariamente l’unità è – a qualsiasi livello – principio di realtà e che, viceversa, non c’è realtà che non porti e non manifesti ancora in sé l’impronta dell’unità da cui proviene. L’uno non si risolve nei molti, rimane quello che è, in atto, poiché il rapporto Uno-molti è un rapporto logico-dialettico, dove sia il momento della processione dall’Uno sia quello della conversione dell’anima all’uno sono due momenti di un solo processo senza processo, di una sola necessità. Anteriore e condizione dell’essere è dunque l’Uno, impredicabile, autosufficiente, extraspaziale, assoluta totalità che tutto trascende. «Diciamo di esso che è causa. Ma con ciò assegniamo un attributo non a lui ma a noi; intendiamo cioè dire che abbiamo qualcosa di lui, mentre esso rimane in se stesso». Come il punto luminoso contiene implicitamente tutti i raggi, così l’Uno, pur essendo perfezione e compiutezza infinita di tutte le forme, è privo di ogni forma e limite. Quale fondamento del tutto, l’uno è assoluta potenza in atto, potenza come pienezza e ricchezza, quindi infinito in quanto “illimitatezza di potenza”. Esso è libero, nel senso che la sua libertà è la conformità del suo essere. Sotto questo aspetto non ha senso chiedersi perché l’Uno, assoluta perfezione, abbia bisogno di manifestarsi nei molti, come non ha senso chiedersi perché dal punto luminoso si diffondano i raggi: avviene per intrinseca necessità, non per una scelta arbitraria che avrebbe potuto anche non aver luogo. L’Uno non può essere un essere pensante: per pensare occorre un intelletto che pensi e bisogna che questo intelletto abbia un intellegibile. L’intelletto costituisce allora la seconda ipostasi, derivante dalla prima perché l’intelletto, pur possedendo la capacità di unificazione, implica l’alterità tra sé e la molteplicità degli intellegibili. In esso esse-

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re e pensiero sono in stretta relazione reciproca. L’essere che il Nous universale ed eterno pensa con immobile atto intuitivo è il mondo eterno delle idee, perciò l’alterità tra pensato e pensante non è né di eterogeneità né di opposizione, perché il Nous, pur essendo inferiore all’Uno, ne è tuttavia partecipe come mondo noetico unitario che include la molteplicità delle idee. Pur nell’alterità, pensiero, intellezione e intellegibile sono nel Nous divino una sola cosa: principio d’ordine, il mondo delle idee non è altro che l’espressione dell’attività dell’intelletto, di cui ciascuna idea rappresenta una sorta di punto limite in una certa direzione. In questi termini il Nous è autosufficiente: pensando non esce da sé ma pensa se stesso (e così si pone come unità, il pensiero di pensiero aristotelico), e pensando se stesso pensa l’infinita ricchezza dell’essere. Il Nous è ciò che è in quanto si rivolge all’Uno e lo contempla, traendo da questa visione (theoria) l’inesauribile ricchezza del suo contenuto ideale: questo sguardo interiore al Nous apporta in esso il limite, la determinazione e la forma, facendolo così uscire dal suo stato di indeterminazione. Le idee, archetipi degli esseri sensibili, sono infinite: il tutto intellegibile è indivisibile, anche se ciascuna idea si differenzia dalle altre per la sua forma specifica. «Ora, se c’è una forma, c’è anche qualcosa che viene a essere informato e in cui si costituisce la differenziazione tra le idee». Plotino ammette dunque una materia intellegibile quale principio che introduce la molteplicità nell’unità, ombra che porta la luce a frazionarsi e a estinguersi. Se l’essere implica l’unità-dualità di intelletto-intelligibili, esso implica anche nello stesso tempo da un lato l’Uno assoluto come suo fondamento e assoluta potenzialità, su cui riposa, dall’altro lato, la materia come l’assolutamente indefinito, come condizione della molteplicità dell’intellegibile. La dinamica della vita concreta e del movimento del cosmo si giustifica solo con una terza ipostasi distinta, l’anima, che svolge una funzione intermediaria tra l’intellegibile e il sensibile. In quanto ipostasi, l’Anima è eterna, infinita e una, principio della vita e del movimento: pertanto essa è anzitutto anima universale, che lega tutte le cose sensibili mediante un profondo vincolo di simpatia reciproca, trattenendole dalla tendenza alla dispersione e al dissolvimento propri della materia. In quanto dipendente dal Nous, essa da un lato lo contempla, divenendo capace di generare una realtà inferiore, il mondo delle sensazioni; dall’altro essa,

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in quanto più lontana dall’Uno del Nous, è esposta maggiormente alla molteplicità e alle parvenze sensibili. Sotto il primo aspetto l’anima è soggetto di conoscenza e come tale si inserisce in un mondo noetico fuori del tempo; sotto il secondo è condizione del processo generativo che si svolge nel tempo. Se l’eternità è l’espressione dell’assoluta pienezza dell’essere, che in quanto tale non è mancante di nulla, il tempo c’è solo dove c’è mancanza, anelito verso l’essere. Il tempo incomincia con la finitezza, la distinzione: dunque è l’anima a generare il tempo. Infatti noi non potremmo parlare di eternità se con essa non avessimo contatto, se non ci rendessimo conto che il tempo è un nostro modo parziale di comprendere: ciò significa che il tempo non viene dopo l’eterno ma lo segue logicamente. Il mondo contingente e temporale non è altro dall’eterno ma vi è posto accanto. Il molteplice, che è derivato dall’Uno in quanto vi permane, si sente altro dalla propria fonte ma nello stesso tempo si rende conto che è altro in quanto determinazione dell’Uno: per cui torna, tende all’Uno e così si proietta verso il futuro. Qui nasce il tempo, che non esiste in sé ma solo come coscienza dell’anima che per un verso si perde e per un altro si riconquista. L’anima infatti oscilla tra limiti fissi e opposti, le idee eterne e le parvenze sensibili. E come il Nous implica la molteplicità delle idee, così l’anima universale implica molteplici anime, le quali, se sono omogenee alla prima, possono armonizzarsi all’ordine cosmico ma anche ribellarsi a esso, iniziando così un ciclo di destino personale. Esse danno vita a un corpo finito e corruttibile e trasmigrano di esistenza in esistenza, ma possono, se vogliono, riconquistare l’unità perduta. Il mondo visibile è opera dell’anima (la Natura è l’anima considerata nella sua attività demiurgica): come un inconscio artefice, essa opera contemplando le idee e trasmettendo l’intellegibile nel sensibile, che viene così plasmato e raccordato non solo all’intelletto ma anche all’Uno (perciò per opera dell’anima si riflettono nel mondo sensibile ordine, armonia, bellezza). Ogni essere vivente, pur appartenendo alla sua specie, si differenzia da tutti gli altri perché la sua anima, mentre gli dà la vita, è portatrice di quelle ragioni seminali che sono il principio della varietà degli individui. Quaggiù gli eventi umani si concatenano secondo una rigorosa legge remunerativa, mentre quelli cosmici sono congiunti da una profonda analogia che li fa cospirare in un ordine segreto. Tutto dunque è come dev’essere, co-

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me è bene che sia, tutto estrinsecazione in atto dell’Uno (in questo senso detto Bene e Bellezza assoluta), che non deve tendere a nulla perché non è provvidenza o ragione che abbia fini da raggiungere. Con l’anima termina la realtà sostanziale e divina: oltre essa vi sono il divenire e l’apparenza, che trovano giustificazione nella materia. Questa non è un’ipostasi, ma non essere, limite estremo della processione divina, quindi mancanza di luce, tenebra. Posta all’antipodo dell’Uno, essa è indefinibile per difetto di determinazioni. Illimitata e indeterminata, è la negazione di ogni forma, composta di una vuota semplicità, impassibile e inattiva, matrice e ricettacolo di tutte la apparenze che nascono e muoiono, pura aspirazione all’esistenza e perciò menzogna e male, in quanto principio di dispersione volto a infrangere l’unità e l’armonia del tutto. Come assoluta potenzialità, essa non è opposta all’essere, ma riveste una funzione dialettica in quanto privazione che accompagna tutto ciò che non è l’Uno e pertanto condizione della molteplicità (perciò Plotino ammette anche, come s’è visto, una materia intellegibile), che aumenta in modo direttamente proporzionale all’aumentare della distanza da Lui. L’anima è il compendio e il vero attore nel quadro della vita universale. Fuori di lei le ipostasi si irrigidiscono e restano l’una esterna all’altra: accogliendole tutte nella sua vita interiore, ne rende possibile la continuità mentre le riconquista nel dinamico processo della sua attività spirituale. Proprio puntando sulla nozione di anima come coscienza, discorso uno e molteplice, essenza eterna e vitalità temporale, Plotino tende a mostrare che la coscienza è, in quanto presenza dell’anima, l’essenza del tutto, a un tempo uno e molteplice, intelligibilità e vitalità, atemporalità e temporalità, incorporea l’essenza e corporea l’esistenza. Ogni percezione è limitazione che implica però consapevolezza: percepire è percepire la propria limitazione, divenire consapevoli di un limite. Perciò, se è vero che il corpo è il luogo in cui l’anima discende secondo la legge di necessità che governa la gerarchia degli esseri, lo è altrettanto che esso è consapevolezza che ha l’anima di avere un limite interno (perciò Plotino può dire che non l’anima è nel corpo, ma il corpo nell’anima). Avvertendo il limite, l’anima lo supera e coglie se stessa come sussistenza e aspirazione a cogliere sé come unità di tutti i limiti mediante cui sia possibile pensarli come molteplicità di un’unità articolata. Così,

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superando l’angusto cerchio delle sue esperienze particolari (anche se è sempre possibile che, accentuando l’interesse per il sensibile, vi rimanga impastoiata) essa può incominciare il percorso di riconversione, lasciandosi alle spalle ogni cosa frivola, ogni distrazione vana, in una storia che si consuma nel silenzio della coscienza ed è guidata solo dalla voce interiore. Risalendo la scala che aveva condotto dall’uno al molteplice, essa vive dapprima della vita dell’anima universale, e avvertendo la propria affinità con tutti i viventi acquista coscienza cosmica; oltrepassando i limiti dell’animazione universale, intuisce l’essere eterno e immutabile, fondamento dell’intelligibilità di tutto ciò che vive; infine approfondendo l’intuizione del Nous raggiunge l’Uno come suprema unità di sé con se stessa. La vera ascesa incomincia quando l’anima si svincola dalla sfera dell’utile e dei piaceri immediati per elevarsi alla condizione di pura visione. L’arte, l’amore e la virtù sono vie che conducono, con funzione mediatrice e iniziatica, alla contemplazione dell’Uno, ma solo a condizione di essere accompagnate e perfezionate dalla presenza del pensiero razionale. In realtà la vera via è quella filosofica, perché come conoscenza dell’essere essa sa discernere ciò che, in seno alle altre, è vero ed eterno da ciò che è solo apparenza. Poiché il sensibile è immagine dell’intellegibile, il bello sensibile rimanda alla sua ragione ideale. Dunque il Bello è Idea, e l’arte ne è la rivelazione; e siccome l’Idea è anche l’essere, il Bello è l’essere universale ed eterno, è Verità essenziale. Così l’artista non è vero creatore, ma la sua opera, peraltro limitata all’ambito delle espressioni sensibili, è intuizione e rivelazione dell’Essere: le immagini da lui prodotte suggeriscono e annunciano l’universale. Il compimento dell’opera d’arte si effettua per l’anima e nell’anima in una visione tutta interiore, sia pure occasionata dalle espressioni esterne: chi contempla un’opera d’arte esce momentaneamente da sé per tornare a se stesso e contemplare, insieme con l’essenza delle cose, la sua vera e originaria natura. Il bello sensibile suscita l’amore: l’eros è passione suscitata dall’atto della visione. Esso assume valore per lo spirito solo se guida l’anima a trascendere il finito e il molteplice verso l’intellegibile, interpretandone l’originaria aspirazione all’unità assoluta. Infatti, se l’amore è perenne insoddisfazione e irrequietezza, vuol dire che esso, anche nelle sue forme inferiori, subisce l’influenza inconscia dell’uno: l’uomo ama i beni im-

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perfetti perché ama prima il Bene, l’Uno, non viceversa. Se l’arte e l’amore sono ancora legati al sensibile, la dialettica invece si svincola da ogni ostacolo eterogeneo e si colloca immediatamente nell’ambito dell’intellegibile puro, discriminando il vero dal falso, l’essere dal non essere, il bene dal male. Essa condivide ed esprime la natura dell’anima: se questa è principio di vita e movimento, quella è discorsività, conquista e progressività graduale, destinata a fermarsi e a concludersi con la conoscenza noetica. Il pensiero ascende dalla sensazione alle congetture, all’opinione, al ragionamento discorsivo e infine all’intuizione intellettiva: esso è dunque scoperta dell’essere, della pura teoreticità, e, contemporaneamente, dell’interiorità. Infatti il pensiero è superamento dell’oscurità degli istinti e dei disegni pratici in vista di una contemplazione disinteressata del vero. Ciò significa che anche la dialettica, non meno dell’arte e dell’amore, ha bisogno di una purificazione morale con la quale finisce per identificarsi. La dialettica è in fondo una catarsi interiore, e l’atto morale altro non è che contemplazione noetica: perciò, se il processo morale è purificazione, la virtù è purezza assoluta. Ripercorrendo a ritroso i gradi dell’emanazione e rigettando via via ogni molteplicità, l’anima si ritroverà «sola e nuda» di fonte all’Uno. Poiché esso è al di là di ogni predicabilità e determinazione, il pensiero può solo postularlo, non conoscerlo. Tuttavia, mentre ne riconosce la necessità metafisica, ne coglie anche il valore condizionante: infatti il pensiero non sarebbe desiderio di unificazione e di trascendimento di ogni orizzonte finito, se l’Uno non fosse già oscuramente presente al pensiero. L’Uno si presenta all’anima come presenza di una mancanza, e perciò come termine di amore e come dovere, come spinta a riconquistare l’unità e la bellezza perdute. Il distacco dal sensibile e dal razionale, l’intimo contatto e unione assoluta, in assoluto silenzio, con l’Uno, è l’estasi. In questo rapimento, in questo atto visivo ultimo, l’anima si spoglia della propria autocoscienza individuale, perdendo se stessa nell’Uno (anzi, poiché l’Uno non è oggetto, ritrovando l’Uno in se stessa in una sorta di sprofondamento interiore), diventando Uno. Plutarco di Cheronea Filosofo, storico e scrittore greco (Cheronea 46 ca.-120 ca.), amico dell’imperatore Adriano (che gli tributò onori particolari) e sacerdote a Delfi.

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Fu uno degli ultimi grandi esponenti della cultura e dello spirito ellenico, nonché fautore della sintesi di questo con la romanità (in tale prospettiva egli compose le celebri Vite parallele, 46 biografie affiancate di un greco e di un romano, che ebbero vasta influenza sulla cultura umanistica e moderna). Il resto della sua vastissima opera (circa 200 scritti), è costituito da opuscoli di contenuto vario (filosofico, scientifico, etico, pedagogico ecc.) riuniti sotto il nome di Moralia: da essi emerge un atteggiamento antiepicureo (Non si può vivere felici secondo Epicuro) e antistoico (I paradossi degli Stoici) unito a un orientamento generalmente platonico (La generazione dell’anima nel “Timeo”, Questioni platoniche, Il demone di Socrate), con forti accenti religiosi (Sull’estinzione degli oracoli, Sulla E di Delfi, I responsi della Pizia, La tarda vendetta degli dei, Iside e Osiride), anche se ritenne, contro l’ortodossia della scuola, che il cosmo non fosse eterno ma generato nel tempo. Poincaré, Jules-Henri Scienziato e filosofo francese (Nancy 1854 - Parigi 1912), professore a Caen e a Parigi. Fornì contributi essenziali in campo matematico (approfondì la teoria delle equazioni differenziali lineari e delle funzioni fuchsiane), fisico (diffuse e sviluppò la teoria elettrodinamica e di propagazione delle onde elettromagnetiche di Maxwell e fu tra i precursori della teoria della relatività), astronomico (descrisse meccanicamente il distacco di un satellite da un pianeta e svolse un esame critico delle varie teorie cosmogoniche). Mentre nel dibattito sui fondamenti della matematica si oppose al logicismo di Frege e Russell in favore di una posizione intuizionista (anche se in base ai risultati delle geometrie non euclidee escluse che i postulati della geometria fossero giudizi sintetici a priori), in sede epistemologica espresse (in scritti quali La scienza e l’ipotesi, 1902, e Il valore della scienza, 1905, Scienza e metodo, 1909) una posizione “convenzionalista”, essendo di tale natura i concetti e le teorie fisiche: queste ultime non possono dunque essere considerate se non in termini di comodità o scomodità in rapporto alla loro capacità di consentire un’organizzazione più o meno semplice delle relazioni tra i fenomeni. Pomponazzi, Pietro Filosofo italiano (Mantova 1462 - Bologna 1525), tra le personalità più notevoli del rinascimento. Professore a Padova, Ferrara e Bologna, propugnò un ritorno ad Aristotele ma nell’interpretazione

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di ➔ Alessandro di Afrodisia. Nel De immortalitate animae (1516) sostenne l’unione dell’anima con il corpo e l’impossibilità di pensare l’universale senza il particolare sensibile. L’anima dunque è mortale secondo le conclusioni della ragione, ma ciò non esclude l’accettazione per fede della tesi opposta (in forza della dottrina della doppia verità), né può compromettere le basi della vita morale, giacché la pratica della virtù non è legata all’idea di un premio ultraterreno ma è premio a se stessa (l’autonomia della coscienza morale è motivata dal fatto che chi fa il bene senza speranza di premio ha merito maggiore di che è spinto da questa speranza). Di conseguenza la religione sembra assumere un ruolo esclusivamente pratico, come mezzo per disciplinare il popolo. Nel De incantationibus Pomponazzi sostenne (pur denunciando le superstizioni) le ragioni dell’astrologia e della magia naturale (negli astri si raccolgono e da essi discendono le virtù sparse nell’universo, riversandosi nella natura e nell’anima umana che perciò a volte è resa capace di compiere miracoli), mentre nel De fato riprese la tesi stoica di una provvidenza universale conciliando necessità e libertà nell’idea di una legge universale (volontà divina) che garantirebbe lo stesso libero arbitrio dell’uomo. Popper, Karl Raimund Filosofo austro-inglese (Vienna 1902 - Londra 1994). la vita. Popper nacque nei pressi di Vienna, a Himmelhof, nel 1902. Il padre, Simon Siegmund Carl era un avvocato di successo, massone di idee liberali, e possedeva una ricca biblioteca; la madre, Jenny Schiff, era una donna colta con la passione per la musica. Popper racconta di essere stato nella sua infanzia particolarmente colpito dalla degradante povertà dei quartieri popolari di Vienna, di fronte alla quale avvertiva la propria impotenza. Negli anni della Grande guerra (1914-1918) maturò i primi convincimenti politici, critici verso le scelte del governo imperiale e improntati a un socialismo pacifista. Fino al 1918 frequentò il ginnasio, poi proseguì gli studi privatamente e fu successivamente ammesso come uditore straordinario all’università, dove seguì corsi di storia, filosofia, letteratura, matematica e fisica. Gli anni dell’immediato primo dopoguerra si rivelarono decisivi per i futuri orientamenti di pensiero di Popper, che si convinse della “non scientificità” del marxismo e rimase colpito, nel corso di una conferenza di Einstein, dal carattere congetturale della teoria della relatività. Consegui-

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to un secondo diploma per l’insegnamento nelle scuole primarie, si impiegò come assistente sociale per i bambini abbandonati nell’istituto di consulenza per l’infanzia diretto dallo psicanalista Alfred Adler. Tra il 1925 e il 1927 lavorò presso L’Istituto Pedagogico di Vienna, dove fece ricerche su problemi della riforma scolastica, svolse attività di insegnamento e conobbe quella che sarebbe diventata sua moglie. Nel 1928 conseguì la laurea in filosofia con una tesi sulla metodologia della psicologia del pensiero, discussa con Karl Bühler, importante psicologo di formazione gestaltica, che influenzò profondamente Popper. Negli stessi anni entrò in contatto con i principali intellettuali viennesi di quel tempo: in particolare i filosofi del ➔ Circolo di Vienna Schlick e Hahn, lo storico dell’arte Gomperz e il sociologo Polanyi. Nei primi anni Trenta Popper si dedicò agli studi di epistemologia, che portarono alla pubblicazione del suo primo capolavoro, la Logica della scoperta scientifica (1934). La notorietà che gli derivò dall’uscita di quest’opera gli procurò inviti a tenere numerose conferenze in università inglesi e l’offerta della cattedra al Canterbury University College di Christchurch, in Nuova Zelanda. Il deteriorarsi del clima politico in Austria, che di lì a poco avrebbe portato all’annessione alla Germania hitleriana, indusse Popper ad accettare l’invito a trasferirsi nel 1937 in Nuova Zelanda, dove rimase fino al 1946. Sono questi gli anni in cui prevalgono gli interessi di filosofia politica e vengono scritte le opere più significative in difesa dei principi liberal-democratici contro i regimi totalitari (Miseria dello storicismo, La società aperta e i suoi nemici). Rientrato in Europa, Popper ottenne, per interessamento dell’economista von Hayek, un incarico di lettore alla London School of Economics; successivamente, nel 1949, ebbe la cattedra di logica e metodo scientifico all’università di Londra. La notorietà e il prestigio di Popper si erano intanto consolidati, procurandogli numerosi riconoscimenti accademici, la nomina a membro della Royal Society e il conferimento del titoli di baronetto (1965). Divenuto uno dei pensatori più influenti del XX secolo, sia come filosofo della scienza che come filosofo della politica, Popper visse nella campagna londinese sino alla morte, avvenuta nel settembre del 1994. le opere. L’elenco delle opere principali di Popper si apre con la Logica della scoperta scientifica (1934, riveduta e ampliata nell’edizione inglese del 1959), lo scritto fonda-

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mentale in cui sono esposte le tesi epistemologiche del filosofo viennese. Seguono i due saggi storico-politici Miseria dello storicismo, apparso sotto forma di articoli tra il 1944 e il 1945 e pubblicato nel 1957; La società aperta e i suoi nemici, (1945), vol. I Platone totalitario, vol. II Hegel e Marx falsi profeti. Ancora su questioni epistemologiche: Congetture e confutazioni (1963); Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972); La ricerca non ha fine: autobiografia intellettuale (1974); L’io e il suo cervello (in collaborazione con John Carew Eccles, 1977), vol. I Materia, coscienze e cultura, vol. II Strutture e funzioni cerebrali, vol. III Dialoghi aperti fra Popper e Eccles. I due problemi fondamentali della conoscenza (1979); Poscritto alla logica della scoperta scientifica (1982-1983), vol. I Il realismo e lo scopo della scienza, vol. II L’universo aperto, vol. III La teoria dei quanti e lo scisma in fisica. Nell’anno della morte escono Il mito della cornice (1994) e La conoscenza e il problema corpo-mente (1994). il pensiero. La filosofia di Popper è una forma di razionalismo critico, sia che affronti problemi epistemologici, sia che indaghi questioni di teoria politica. Due aspetti che possono essere sviluppati in successione. a) La filosofia della scienza. La conoscenza scientifica è assunta come punto di osservazione privilegiato per sviluppare una teoria della conoscenza che permetta di stabilire che cosa e come gli uomini possono conoscere. Tale teoria nasce in aperta polemica con le tesi del ➔ Circolo di Vienna, e si sviluppa a partire dalla critica al principio di verificazione, considerato dai neopositivisti il criterio di significanza degli enunciati scientifici. Popper attacca questa tesi iniziando dalla confutazione dell’induzione, ossia di quella logica che pretende di inferire asserzioni universali da asserzioni singolari. Riprendendo e sviluppando tesi già avanzate nel Settecento da Hume, Popper afferma che il principio di induzione è logicamente falso, in quanto non è né una proposizione analitica (una tautologia) né un’asserzione sintetica (empiricamente dimostrabile); è dunque un errore pensare che la scienza empirica proceda con metodi induttivi. È celebre l’esempio fatto per mostrare che non si possono inferire asserzioni universali da asserzioni singolari: «per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni siano bianchi». Popper sostiene che i procedimenti della scoperta scientifica non

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seguono la logica induttiva, bensì la logica ipotetico-deduttiva, che consta di due momenti fondamentali: 1) posizione delle premesse in forma di ipotesi; 2) esplicitazione di tutte le conseguenze contenute nelle premesse date. Se l’induzione non esiste, allora nessuna teoria scientifica può essere verificata dall’esperienza perché non può essere controllata all’infinito; è però sufficiente un unico esperimento contrario per falsificarla: ciò porta a stabilire che «il criterio della scientificità di una teoria è la sua falsificabilità». Esiste un’asimmetria logica tra verificazione e falsificazione, infatti non bastano milioni di conferme per rendere certa una teoria, ma è sufficiente un caso contrario per falsificarla. Il principio di falsificabilità è criterio di demarcazione tra scienza e non scienza (ma non criterio di significanza): è scientifica una teoria che può essere falsificata, non è scientifica una teoria non controllabile empiricamente, anche se conserva comunque un significato e può orientare le ricerca. L’esempio più probante di una teoria che soddisfa alle condizioni di scientificità del falsificazionismo è quello della relatività di Einstein. Popper fu colpito da un’affermazione di Einstein, in cui egli dichiarò che avrebbe considerato la sua teoria insostenibile ove avesse dovuto fallire in certe prove. Molte metafisiche antiche offrono, al contrario, esempi di teorie non scientifiche, che comunque sono dotate di senso e utili alla scienze, in quanto capaci di suggerire ipotesi empiricamente controllabili (è il caso delle dottrine naturalistiche dei presocratici o dell’atomismo). Popper si mostra invece critico verso la psicanalisi, di cui nega la scientificità in quanto incontrollabile e inconfutabile, e verso il marxismo, che giudica, nella forma del materialismo storico, una teoria scientifica errata, perché falsificata dal corso della storia. Popper sostiene che la scienza non parte da osservazioni, ma da problemi pratici o teorici che tenta di risolvere formulando delle congetture; queste congetture vengono sottoposte a numerosi tentativi di confutazione: quando una congettura viene confutata si procede a formulare una nuova congettura e così via, in un processo di ricerca che non avrà mai fine. Popper ritiene che la scienza non sia epistéme, sapere certo e provato, bensì doxa, conoscenza fallibile e congetturale; tuttavia non indulge nel relativismo o nello scetticismo, perché lo scopo della scienza resta la verità e le teorie scientifiche possono essere vere anche se la loro

Popper

verità non è dimostrabile. Egli propone una concezione realistica del mondo descritto sulla base di un modello triadico: c’è il mondo 1, costituito dai fatto materiali; c’è il mondo 2, costituito dai nostri stati di coscienza soggettivi; c’è il mondo 3, costituito dai nostri pensieri, ossia dalle teorie con cui spieghiamo i fatti: esse sono costruzioni oggettive della mente e possono essere vere o false a seconda della corrispondenza o meno con i fatti. Teorie scientifiche, pseudoscientifiche, metafisiche, religiose appartengono tutte al mondo 3, e occorre adottare il metodo corretto per valutare se sono controllabili empiricamente e quale sia l’esito di questo controllo (le teorie possono essere confermate o confutate). Questa ricostruzione razionale si applica sia al processo scientifico in generale sia al suo sviluppo storico, in modo da mettere a confronto le procedure seguite dagli scienziati con i principi dell’epistemologia critica. b) La filosofia politica. Popper stesso pone un nesso molto stretto tra la sua teoria della conoscenza – il razionalismo critico – e la filosofia della politica, che ruota tutta intorno al nucleo problematico del rapporto tra totalitarismo e democrazia. Tale rapporto ha sia un’origine biografica, in quanto le esperienze politiche giovanili di Popper esercitarono un’influenza su certe tesi epistemologiche, sia un fondamento teoretico, visto che si può stabilite una sorta di corrispondenza, da una parte, tra il dogmatismo conoscitivo e il totalitarismo politico, e, dall’altra, tra il razionalismo critico e la società democratica. Già nel saggio del 1937 Che cos’è la dialettica? Popper critica la dialettica da un punto di vista metodologico, negando che essa abbia un fondamento scientifico e che quindi possa essere assunta come logica delle scienze sociali. Nella Miseria dello storicismo la questione metodologica è riproposta attraverso la difesa dell’unità del metodo scientifico nelle scienze naturali e in quelle sociali. I due obiettivi polemici del saggio sono lo storicismo e l’olismo. Lo storicismo pretende di conoscere le leggi generali che determinano lo sviluppo storico e di prevederne gli esiti; l’olismo pretende di conoscere la totalità della società e di poterne progettare una rifondazione complessiva. L’errore epistemologico dello storicismo risiede nell’aver confuso le leggi con le tendenze e nel credere che le tendenze (asserzioni storiche singolari) abbiano il valore determinante delle leggi generali. Questo fraintendimento è alla base dell’illusoria convinzione

Porfirio di Tiro

che sia possibile prevedere lo sviluppo storico: in realtà, per Popper, le previsioni degli storicisti sono solo profezie e la storia in sé non ha altro senso oltre quello che gli uomini le attribuiscono. La critica all’olismo ha una base metodologica (la mente umana non può conoscere la totalità del reale, ma può solo avanzare congetture confutabili su aspetti parziali di esso) e tende a dimostrare che una concezione siffatta porta a due gravi conseguenze pratiche: sul piano della tecnologia sociale conduce a visioni irrealizzabili e utopistiche; sul piano del sistema politico si risolve nel totalitarismo. L’opera di filosofia politica più nota di Popper è La società aperta e i suoi nemici. Il libro è una teorizzazione della democrazia e una difesa dai suoi nemici. La prima parte propone la distinzione (desunta da ➔ Bergson) tra “società chiusa” e “società aperta”: la società chiusa nasce da un atteggiamento mitico-irrazionale, è organizzata in forma collettivista, è retta da norme rigide imposte da un’autorità, corrisponde politicamente a un regime illiberale; al contrario, la società aperta nasce da un atteggiamento razionale di fronte al mondo, tende a difendere la libertà degli individui che con la discussione possono criticare e modificare le norme di comportamento esistenti, assume le forme politiche della democrazia. Per Popper il carattere peculiare della democrazia non dipende dal soggetto politico che detiene la sovranità (il popolo, che potrebbe anche scegliere democraticamente la dittatura), ma dal meccanismo di controllo istituzionale, che deve impedire ogni degenerazione totalitaria. La vecchia domanda: «Chi deve governare?» deve essere sostituita con la nuova: «Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?». «Si vive in democrazia – scrive ancora Popper – quando esistono istituzioni che permettono di rovesciare il governo senza ricorrere alla violenza». C’è alla base di questa visione della società democratica una fede nella ragione, propria e altrui, che implica imparzialità, tolleranza, giustizia e libertà. I nemici della società aperta sono i pensatori totalitari. Popper ne ricostruisce la storia a partire dal mondo greco. Già in Eraclito e nella ferrea legge del destino che governa tutte le umane vicende egli vede operante lo storicismo illiberale. Ma il massimo esponente di questa posizione è Platone, il cui stato ideale – espressione della reazione aristocratica alla nuova società

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Porfirio di Tiro

dell’Atene di Pericle – presenta tutti i caratteri del regime totalitario e antidemocratico. La repubblica platonica è uno stato pietrificato in cui è impossibile qualsiasi mutamento socio-politico, in cui il potere dei filosofi-re è incondizionato e in cui la rigida divisione in classi impedisce ogni dinamica sociale. In età moderna Popper passa a esaminare Hegel e Marx. Accusa Hegel di aver fondato il suo pensiero politico su presupposti, a suo dire, inaccettabili: l’idea che lo stato sia tutto e l’individuo nulla, la convinzione che la legge della dialettica determini il processo della storia, la tesi dell’identità tra reale e razionale che porta a giustificare qualsiasi ordine sociale esistente. Per queste ragioni Hegel è all’origine dei movimenti totalitari moderni. Su Marx Popper esprime un giudizio più articolato: ne apprezza il valore intellettuale, riconosce l’importanza delle novità metodologiche introdotte nello studio dei problemi socio-politici e condivide la critica marxiana al liberismo radicale e all’inumano sfruttamento delle classi subalterne; lo accusa però di essere un falso profeta, per aver sostenuto che il comunismo si realizzerà necessariamente, grazie alle leggi del determinismo economico. Le previsioni economiche e politiche di Marx si sono rivelate sbagliate, per le ragioni messe in luce nella Miseria dello storicismo, ma il suo atteggiamento utopistico-profetico è all’origine dell’ideologia totalitaria che ha ispirato i regimi comunisti del XX secolo. In opposizione alle ideologie rivoluzionarie Popper sostiene la superiorità del riformismo gradualista, che altro non è che l’applicazione del metodo scientifico in politica, in quanto procede per via sperimentale, introducendo rettifiche parziali, correggendo gli immancabili errori e salvaguardando sempre la democrazia. Por¿rio di Tiro  Filosofo neoplatonico greco (Tiro 234 - Roma inizio IV sec.), fu il più importante allievo di Plotino a Roma. Ha sistemato le opere del maestro raccogliendone gli scritti in sei Enneadi, cioè gruppi di nove. È autore di una celebre Vita di Plotino che ha anteposto all’edizione delle Enneadi. Nelle sue opere ha operato un tentativo di conciliazione tra le filosofie di Platone e di Aristotele, secondo una tendenza propria del primo neoplatonismo. Si è occupato di logica nell’Isagoge, un’opera destinata a grande fortuna nel medioevo, da cui i logici medievali ricaveranno il cosiddetto albero di Porfirio.

Port-Royal

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Port-Royal Abbazia cistercense, fondata nel 1204, che verso la metà del Seicento divenne il maggior centro del movimento giansenista e fu sede di un gruppo di filosofi e teologi (tra cui Arnauld, Nicole, Pascal, SaintCyran) per lo più di orientamento razionalista e cartesiano. Essi, oltre a condurre vita ascetica e di studio, insegnavano nelle “piccole scuole” della comunità, che esercitarono un notevole influsso nella storia della pedagogia per la novità dei metodi impiegati. L’attività d’insegnamento subì una crisi in seguito alla condanna del giansenismo nel 1653, e cessò del tutto nel 1660. Malgrado ciò l’abbazia costituì uno dei maggiori nuclei di fermento spirituale e intellettuale nella cultura francese, con una certa ascendenza anche su quella italiana. Posidonio di Apamea Filosofo greco (Apamea in Siria 135 ca.-51 ca. a.C.) il più significativo rappresentante della Media Stoà, uomo dalla vasta cultura (fu anche geografo e storico) e maestro insigne (ebbe come allievi Pompeo e Cicerone). Delle sue numerose opere restano solo frammenti. Proseguì sulla via sincretistica avviata da Panezio, avvicinando lo stoicismo tradizionale all’eclettismo romano. Risolvendo la metafisica in fisica, identificò l’essere con il cosmo, in cui è presente una intrinseca armonia tra le varie parti: la realtà è come un grande organismo vivente pervaso in ogni aspetto dalla stessa linfa vitale e ordinato gerarchicamente nei cinque elementi. Ripropose la teoria della ecpirosi (generazione e riassorbimento ciclico nel Fuoco eracliteo attraverso una conflagrazione universale). L’uomo, platonicamente composto di corpo e anima, è mediatore tra cielo e terra: dopo la morte l’anima si libererebbe da ogni arazionalità materiale e ascenderebbe prima al mondo lunare (abitato da divinità minori) e poi a quello sopralunare, sede di ogni perfezione e beatitudine. Coerentemente con questi motivi mistico-religiosi, Posidonio ammetteva l’arte divinatoria come mezzo per elevare a una vita virtuosa l’uomo che da una primitiva miseria era passato a forme d’esistenza più raffinate, ma contrassegnate da una crescente corruzione morale. In questo campo egli abbandonò il tradizionale rigorismo della scuola per avvicinarsi all’ideale aristotelico di virtù: le passioni, non considerate come nemiche del bene (infatti fanno parte dell’anima), non vanno annullate, ma disciplinate mediante l’esercizio dell’intelletto.

Positivismo

Positivismo Movimento filosofico, nato in Francia agli inizi dell’Ottocento e diffusosi nel corso del secolo, in gran parte dei Paesi dell’Europa industrializzata. Se in precedenza la parola “positivo”, opposta a “naturale”, serviva a designare in senso generale ciò che è originato da un atto istituzionale (in questo senso vi è un diritto positivo, una religione positiva ecc.), in seguito il termine, coniato con intenzione più specifica da Saint-Simon, fu poi adottato da Comte che ne indicò i possibili significati e le relative radici storiche, insieme con i compiti della nuova filosofia. Positivo viene così a indicare ciò che è dato nell’esperienza, fatto dunque sensibilmente rilevabile (e perciò reale, effettivo) in opposizione all’astratta speculazione razionale. Di qui una seconda accezione per cui positivo coincide con ciò che è utile, fecondo, efficace, pratico, in antitesi a ciò che è sterile e ozioso: infatti il sapere deve condurre al miglioramento della condizione intellettiva, morale e materiale della società, al progresso dell’intera umanità riorganizzandone i modi di vita e gli assetti istituzionali. Date queste premesse, il positivismo intende riallacciarsi, già con il suo fondatore, alla tradizione scientifica di Bacone e Galilei, di cui accetta l’impostazione metodologica e i fondamenti naturalistici. Così Comte poteva intendere il termine “positivo” come sinonimo di “scientifico”, cioè di sperimentalmente provato: da questo punto di vista egli diede al positivismo (qualificando in questo modo lo stadio in cui il sapere umano è approdato nell’età odierna) un carattere essenzialmente storico e sociale, avendo per oggetto di studio, nel quadro dell’enciclopedia delle scienze, l’umanità che stringe gli individui nella convivenza civile secondo le leggi della solidarietà e della continuità. Soffermandosi sui risultati del nuovo sapere, Comte ne ha stabilito i caratteri secondo uno schema codificato che si imporrà anche in seguito in modo pressoché definitivo. Secondo lui dunque il positivismo: — obbliga a subordinare l’immaginazione all’osservazione, riducendo la sfera dell’intellegibile e del reale all’enunciazione di fatti particolari o generali; — esprime la relatività di ogni ricerca scientifica, che, essendo sempre legata a particolari condizioni del nostro organismo e a determinate situazioni, non può mai diventare assoluta; — elimina sia l’empirismo (che accumula disordinatamente i fatti senza spiegarli e quindi senza raggiungere quella capaci-

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Positivismo

tà previsionale che solo l’acquisizione delle leggi sperimentalmente verificate può garantire) sia il misticismo (cioè qualsiasi trascendimento metafisico dei fatti); — afferma dogmaticamente (come frutto di un’induzione graduale, individuale e collettiva) l’invariabilità delle leggi di natura. È chiaro che per Comte questo tipo di sapere deve risultare onnicomprensivo di tutti i campi, includendo quei fenomeni sociali che, in quanto più complessi, sono stati finora esclusi. In questo modo la nuova scienza (quella fisica sociale per la quale egli conia il termine “sociologia”) può dirsi nello stesso tempo punto d’arrivo del progresso della conoscenza e paradigma ricapitolativo di tutto il suo sviluppo. Di questo progetto ambizioso, dei suoi meriti (ma anche dei suoi limiti) si farà banditore in Inghilterra John Stuart Mill, il quale ne svilupperà autonomamente le linee direttrici secondo le indicazioni provenienti dal retroterra culturale del suo Paese (l’empirismo, l’utilitarismo, il liberalismo). Esaltando il metodo sperimentale e il sapere scientifico (espresso nella forma più completa nel modello meccanicistico di Newton e Laplace), il positivismo si veniva a porre come indirizzo speculativo esclusivamente

Positivismo

Positivismo

centrato su una considerazione della Natura quale complesso delle forze materiali e meccaniche che ineriscono alle cose. E questa, intesa non come struttura statica ma come capacità di costituire autonomamente il proprio sistema senza intervento di cause soprannaturali, finiva per costituire l’oggetto principale della scienza. Sotto questo aspetto la legge dell’evoluzione (per la quale le varie forme del reale si sarebbero generate per svolgimento spontaneo) fu il risultato più notevole del positivismo, in quanto consentiva una concezione della realtà in termini di dinamismo e sviluppo. Preparata dagli studi di Lamarck e Bernard, la teoria evoluzionistica di Darwin rappresentò certo il culmine del naturalismo positivistico, esercitando una larga influenza sulla cultura e la mentalità del XIX secolo e oltre, con ricadute sul piano politico-sociale (a sostegno dell’ideologia individualistico-liberale e del colonialismo) consone all’Inghilterra vittoriana. Sotto questo aspetto le conclusioni di ordine filosofico furono tratte da Spencer, che non solo propose una soluzione dei rapporti tra scienza e religione largamente conciliativa, ma soprattutto cercò di individuare una sola grande legge regolativa del divenire universale, esplicativa

La nuova cultura alla luce della scienza moderna A. COMTE (1798-1857) IN FRANCIA

J.E. RENAN (1823-1892) E. DURKHEIM (1858-1917) R. OWEN (1771-1858) D. RICARDO (1772-1823) J. BENTHAM (1748-1832)

IN INGHILTERRA

J. MILL (1773-1836) J.S. MILL (1806-1873) Ch. DARWIN (1809-1882) H. SPENCER (1820-1903) C. CATTANEO (1801-1869)

IN ITALIA R. ARDIGÒ (1828-1920) IN GERMANIA

H. HELMHOLTZ (1821-1894)

Presocratici

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di ogni regione del sapere. Di qui un lungo movimento di pensiero che ebbe vari sbocchi, il più notevole tra i quali è una forma di agnosticismo e relativismo gnoseologico per il quale ogni sistema di ipotesi e di leggi scientifiche (limitato all’identificazione di rapporti di concomitanza o successione tra i fenomeni ma certo incapace di penetrare nell’essenza della realtà) è dovuto a esigenze umane e ha quindi un mero valore strumentale ed economico. Su questa linea antimetafisica e fenomenistica della scienza si sono collocati Du Bois-Reymond (che ne I sette enigmi del mondo del 1880 dichiarò un definitivo ignoramus et ignorabimus circa l’origine della materia, del movimento, della vita, della sensibilità, della coscienza, del pensiero, del linguaggio) e Haeckel (che gli rispose con una fiducia incondizionata nella scienza, proponendo una soluzione agli “enigmi” alla luce di un monismo materialistico). Se in Germania il positivismo assunse spesso forme dogmatiche, materialistiche e pseudometafisiche (come nel caso di Moleschott e Büchner), trovando invece il proprio punto di forza nelle ricerche di psicologia sperimentale di Fechner e Wundt; in Francia, oltre ad una stanca prosecuzione del comtismo, si assistette a una certa ridefinizione da parte di Taine (che tentò una sintesi tra evoluzionismo e idealismo in chiave psicologistica, con apprezzabili risultati in ambito estetico) e Renan. In Italia (dopo gli esordi di Romagnoli e gli sforzi pionieristici di Cattaneo) il positivismo ebbe un notevole seguito, date le sue origini in un momento storico rivoluzionario e di crisi sociale e politica: il suo maggior rappresentante è stato Ardigò, che, pur nel solco dell’evoluzionismo, seppe emancipare l’orizzonte del positivismo dalle angustie del naturalismo e del meccanicismo, affrontando in forma rigorosa i problemi della conoscenza e della psicologia. Fiorente è stata la scuola positivistica in sede di ricerca pedagogica (soprattutto con Gabelli) e antropologica (importanti gli studi di Villari e Lombroso). Nato nell’orizzonte della società industriale borghese in ascesa, di cui aveva espresso i valori e le aspirazioni, a fine secolo assistiamo, in concomitanza con la crisi di quest’ultima, a un’ampia reazione ai suoi capisaldi teorici e ai suoi presupposti, sia da parte di filosofie irrazionaliste o neoidealiste (Nietzsche, Bergson, Croce, Gentile ecc.), sia dall’interno dello stesso mondo scientifico (dalle concezioni convenzionalistiche e strumentalistiche

Presocratici

dei concetti e delle teorie, al problema della crisi dei fondamenti in matematica e logica, all’indeterminismo e alla stessa teoria della relatività in fisica ecc.). Malgrado ciò, i suoi elementi più vitali hanno continuato ad alimentare la riflessione, entrando nella costituzione di nuovi indirizzi speculativi quali l’empiriocriticismo, il neoempirismo, il pragmatismo. Presocratici Termine utilizzato per indicare i filosofi e le filosofie anteriori a Socrate. L’anteriorità attribuita ai presocratici non riguarderebbe tanto il piano cronologico (alcuni di essi furono contemporanei se non addirittura più giovani di Socrate), quanto il fatto che, sebbene in modo diverso tra loro, non avrebbero partecipato alla rivoluzione culturale operata da Socrate. Infatti questi continuavano a incentrare i propri interessi sullo studio della natura e la ricerca dell’archè o del principio primo (monistico o pluralistico) a fondamento del tutto, mentre Socrate per la prima volta nella storia della filosofia individuò il fine ultimo della ricerca nell’uomo. Questi dati, apparentemente oggettivi, sono in realtà carichi di elementi interpretativi. Il termine “presocratico” compare infatti per la prima volta nell’opera storiografica di Zeller La filosofia dei Greci (1846-52) che, nel sostenere questo schema tematico (per tanti aspetti influenzato dalle dottrine hegeliane), presentò il periodo presocratico come un ciclo chiuso (caratterizzato appunto dall’interesse naturalistico), che si esaurisce con il relativismo dei sofisti. Come questi avevano superato il precedente dogmatismo dei “fisiologi”, così il metodo dialettico-definitorio di Socrate avrebbe aperto, con la scoperta del concetto, una nuova e più matura fase nel pensiero filosofico, detta appunto “umanistica” e realizzata nella sua massima espressione da Platone e Aristotele. Contro questa interpretazione (la cui fortuna è continuata nel corso del XX sec.) avevano cercato di reagire già nell’Ottocento Nietzsche e Rohde, proponendo non solo il termine “preplatonici”, ma anche una prospettiva centrata su criteri mistico-religiosi e psicologici, in quanto lo “spirito greco” tenderebbe a cogliere in ogni aspetto del reale una immanente manifestazione del divino. Nel Novecento un filone interpretativo autorevole è stato quello “neoumanistico” (Jäger, Stenzel, Snell, Pohlenz) che coglie nel pensiero antico lo sforzo unitario di costruire, anche attraverso la razionalizzazione del mito, l’ideale greco di umanità.

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Proclo

Nelle indagini più recenti si assiste a una sempre più intensa revisione del concetto di presocratici, e comunque alla proposta di punti di vista ermeneutici innovativi e alternativi a quelli tradizionali: così Jean-Pierre Vernant ha mostrato, con il metodo della psicologia storica, l’insostenibilità di una distinzione tra interesse “cosmologico” e interesse “umanistico” nei primi filosofi (per esempio in Anassimandro); Giorgio Colli ha sostenuto una visione (largamente debitrice di Nietzsche) che tende a far emergere (contro l’interpretazione fuorviante di Aristotele) una originaria “sostanza del mondo”, una autentica e remota “sapienza” (certamente anteriore a Talete) successivamente perduta; Eric Havelock ha invece visto nei filosofi che hanno preceduto Platone gli autori che hanno segnato il passaggio dalla cultura orale a quella della scrittura, quindi da un tipo di discorso narrativo e concre-

Presocratici

Proclo

to (talvolta sentenziario e formulare) a uno caratterizzato dalla trattazione esplicativa, concettuale e astratta. Proclo Filosofo greco (Costantinopoli 412 Atene 485). È considerato l’espressione più compiuta del neoplatonismo sviluppatosi ad Atene per opera di Plutarco agli inizi del V secolo. Le maggiori opere di Proclo (che sono state tramandate dal suo discepolo Marino, autore della Vita di Plotino) sono i Commentari ai dialoghi platonici (Repubblica, Timeo, Alcibiade primo, Cratilo, Parmenide), Teologia platonica, Sull’esistenza del male, Sulla provvidenza e il fato, Istituzioni di teologia, alcuni Inni. Il pensiero di Proclo è una sintesi delle dottrine di Platone e di Plotino attraverso una originale rilettura che utilizza un sofisticato apparato logico-dialettico di derivazione aristotelica e neoplatonica (soprattutto Porfirio e Giamblico).

LÕalba della ricerca filosofica occidentale TALETE (VII-VI sec. a.C.) IONICI Mileto VII-VI sec. a.C.

ANASSIMANDRO (610 ca.-547 ca. a.C.) ANASSIMENE (586 ca.-528 ca. a.C.) PITAGORA (570 ca.-490 ca. a.C.)

PITAGORICI Magna Grecia

ALCMEONE (VI sec. a.C.) ARCHITA (430 ca.-360 ca. a.C.) FILOLAO (V sec. a.C.)

ERACLITO Efeso 550 ca.-480 ca. a.C.

PARMENIDE (V sec. a.C.) ELEATI Elea, Samo

ZENONE (V sec. a.C.) MELISSO (VI-V sec. a.C.)

PLURALISTI Magna Grecia, Atene

ATOMISTI Abdera, Atene

EMPEDOCLE (V sec. a.C.) ANASSAGORA (496 ca.-428 ca. a.C.) LEUCIPPO (V sec. a.C.) DEMOCRITO (460 ca.-370 ca. a.C.)

Prodico di Ceo

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Partendo da Plotino e dal tema dell’emanazione, Proclo affina il procedimento triadico attraverso cui la realtà si origina da una Causa che la produce (Uno), diversificandosene (in quanto altro da Lei) ma nel contempo mantenendo alcune somiglianze (essendo da Lei derivata). Identico e diverso sono i termini che rendono la realtà altra dalla sua causa ma anche a questa legata: in tal modo il mondo è coeterno con l’Uno, e forma con questo, pur nella diversità, un’unità inscindibile. Così si può capire come l’uomo tenda a ricongiungersi al suo principio attraverso l’amore (che porta l’uomo alla visione della bellezza divina), la verità (che procura la conoscenza delle cose), la fede (che è elevazione mistica all’Uno). Moné («il permanere immutabile della causa in se stessa»), Próodos («il procedere da essa dell’essere derivato»), Epistrophé («la conversione dell’essere derivato alla sua causa originaria») sono i tre momenti della “processione” (o emanazione) che attaverso le Enadi (tre a ogni passaggio e alle quali corrisponde una divinità classica) si origina la realtà successiva all’Uno.

Proudhon

1970). È autore di un celebre saggio dal titolo Morfologia della fiaba (1928; 1969), in cui mostra come le fiabe di tutte le culture hanno una struttura costante, si sviluppano secondo ben precisi e identificabili modelli. Gli studi di Propp hanno avviato importanti sviluppi dell’antropologia del Novecento e hanno influenzato lo strutturalismo.

Prodico di Ceo Filosofo greco (Ceo 460 ca. - seconda metà V sec. a.C.). Sofista, fu ambasciatore ad Atene dove si distinse per le sue doti oratorie. La sua opera principale Le Ore contiene due sezioni: Sulla natura dell’uomo e Sulla natura, che per molto tempo furono ritenute scritti autonomi. Nell’opera è presentata (anche se da molti è ritenuta spuria) la favola di Ercole trovatosi nella difficile scelta tra virtù (la cui strada è faticosa) e corruzione (splendente e seducente), che allegoricamente vuole rappresentare la responsabilità etica dell’uomo nei confronti della vita. L’opera esamina inoltre quelle tecniche che, introdotte dall’uomo, hanno determinato la nascita della società agraria e i riti che hanno permesso l’evolversi di una coscienza religiosa. Per Prodico comunque natura e uomo sono tutt’uno: l’uomo trasforma la natura con l’uso delle tecniche, che a loro volta modificano la vita umana attraverso l’organizzazione della polis e la creazione di leggi. In tale sviluppo storico dell’umanità una particolare attenzione merita, per Prodico, lo studio dell’origine (etimologia) delle parole e del loro modificarsi, a cui si dedica cercando di capire e conoscere l’esatto significato (sinonimica) assunto da queste nei diversi contesti storici.

Protagora di Abdera Filosofo greco (Abdera 480 ca. - 410 ca. a.C.), insieme a Gorgia, uno dei massimi esponenti della prima sofistica. Sono documentate l’amicizia e la stima che lo legarono a Pericle, tanto da essere da questi incaricato di elaborare la legislazione di Turi. Esiliato in seguito da Atene con l’accusa di empietà, morì durante un naufragio mentre si rifugiava in Sicilia. Tra le sue opere Le antilogie e Discorsi sovvertitori. Il pensiero di Protagora s’incentra sull’uomo, tanto che a lui fu attribuita l’affermazione secondo cui «l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». Egli sostenne infatti il relativismo del processo gnoseologico, determinato dal fatto che l’esperienza soggettiva è a fondamento del conoscere e che solo da essa si ricava il criterio di validità e verità. Questo non può essere determinato in modo univocamente universale, poiché gli uomini sono soggetti a esperienze diverse sia nello spazio sia nel tempo. Nessuno può pensare il falso, in quanto ciò che si sperimenta è sempre soggettivamente vero, e da questa riflessione nascono le antilogie, ragionamenti tra loro contrapposti su uno stesso argomento (ciò che sembra bello a uno, può essere percepito in modo opposto da altri) senza che peraltro si possa attribuire ad alcuno di essi alcun giudizio di valore. Al relativismo gnoseologico non segue in Protagora quello pratico (o politico), poiché nel contesto sociale è necessario, per la convivenza dei cittadini e lo sviluppo armonico della polis, trovare un parametro a base dell’azione; questo canone è la ricerca dell’utile per la collettività, che si traduce anche in utile particolare. Da questa visione risulta chiaramente come Protagora non si interessi del divino, in quanto non oggetto dell’esperienza umana e quindi non conoscibile né pensabile. Di qui l’accusa di empietà, per cui fu costretto a lasciare Atene.

Propp,  Vladimir  Jakovlevič  Studioso russo di cultura popolare (Pietroburgo 1895-

Proudhon, Pierre-Joseph Filosofo e riformatore politico e sociale francese (Besançon

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Pseudo-Dionigi

1809 - Parigi 1865). Autore di celebri saggi, come Che cos’è la proprietà (1840) e Filosofia della miseria (1846), sostenne la tesi secondo cui la proprietà privata è un “furto”, vero e proprio fondamento dell’ineguaglianza sociale. Allo stesso tempo essa è però garanzia per l’individuo contro il potere oppressivo della società e dello stato: le riforme sociali necessarie (il pensiero e l’opera di Proudhon sono inquadrabili nel contesto di quello che Marx indicò come socialismo utopistico) devono quindi essere concepite entro questi due poli estremi della nozione di proprietà. Proudhon teorizzò una società dai tratti anarchici, o comunque fortemente centrata sulle libertà individuali, basata sullo sviluppo autonomo della società civile (associazioni, lavoro collettivo ecc.). Pseudo-Dionigi

➔ Dionigi Areopagita

Pseudo-Longino Ignoto retore del I secolo d.C., poco attendibilmente identificato con Cassio Longino (morto sotto l’imperatore Aureliano), autore di un trattato Sul sublime in cui si identifica questo concetto con il bello e se ne stabilisce la genesi nel vigore dell’ispirazione e nella nobile passione (la “divina mania” del Fedro platonico) come “risonanza di una grande anima”: in tal modo l’aspetto formale dell’opera d’arte viene subordinato alla forza creativa interiore. Conservata in un manoscritto del X secolo d.C. e riscoperta nel 1554, l’opera è stata al centro di grandi dibattiti tra XVIII e XIX secolo e ha influenzato la riflessione estetica di pensatori quali Burke, Kant, Schiller e degli intellettuali romantici in genere. Pufendorf, Samuel von Giurista e filosofo del diritto tedesco (Dorfchemnitz 1632 Berlino 1694), è uno dei teorici del giusnaturalismo seicentesco. Autore del saggio De iure naturali et gentium (1672), intende fondare la scienza del diritto in modo rigorosamente deduttivo, su base cartesiana. Sostiene l’autonomia del diritto naturale rispetto alla religione e separa in modo netto la sfera del diritto (in cui è elemento essenziale il fatto che la norma non osservata dia luogo a una sanzione) dalla sfera della morale (che rimanda invece alla coscienza, indipendentemente dalla sanzione).

Putnam

Putnam, Hilary Filosofo americano (Chicago 1926), professore a Harvard. Formatosi alla scuola di Reichenbach e Carnap e nel rapporto con Quine, si è occupato da principio di filosofia del linguaggio e di logica (campo in cui ha difeso il mantenimento della nozione di analiticità, sostenendo che vi sono verità non giustificabili empiricamente che è necessario assumere – ed è compito degli esperti indicare quali – in un certo modello concettuale, e ha combattuto il nominalismo in favore del mantenimento delle classi), per approdare a un realismo metafisico (Mente, linguaggio e realtà, del 1975) fondato (è a tutt’oggi l’ipotesi migliore, peraltro in accordo con il senso comune) sull’indipendenza della realtà dalla mente umana (di qui la sua difesa della verità come corrispondenza tra la nostra descrizione e la configurazione della realtà). Tale concezione ha poi subito (in Verità ed etica, del 1978) una correzione in senso trascendentale (la conoscibilità del mondo è possibile solo sulla base degli strumenti impiegati a questo fine: perciò Putnam parla, con Kant, Peirce, Wittgenstein, Goodman, di un realismo interno) che non sfocia nel relativismo (anche se si può ammettere più di una descrizione vera del mondo, tutte comunque rimandanti all’unico mondo esistente) in quanto l’esperienza resta pur sempre il fattore di controllo e di validità per ogni operazione teorica. Di qui lo sviluppo di una teoria del riferimento (Il significato di significato, 1975) che giustifica la costanza di significato di un termine (in particolare quelli osservativi) anche se impiegato in ambiti teorici diversi, e la confutazione dello scetticismo (Ragione, verità e storia, 1981). A questa riflessione gnoseologica e metafisica, Putnam ha associato quella etica, che lo ha portato ad abbracciare posizioni liberal-democratiche improntate al pluralismo e alla ricerca del dialogo e del confronto come via al progresso e alla razionalità (La sfida del realismo, 1987). Nello stesso tempo ha cercato di affinare la propria proposta, che si è progressivamente determinata (Realismo dal volto umano, 1990) in accordo con i caratteri della tradizione pragmatista americana (Il pragmatismo: una questione aperta, 1992), nella ricerca di un rapporto stretto tra realtà e comunità.

Q Quesnay, François Economista francese (Méré 1694 - Versailles 1774), fondatore della scuola fisiocratica. Legato al gruppo dell’Enciclopedia (per la quale scrisse alcune voci), divenne celebre per il suo Tableau économique (1758), che esercitò larga influenza (con relativi dibattiti) sull’opinione pubblica francese ed europea. Dal presupposto che il mondo umano sia retto, come quello fisico, da leggi immutabili e perfette stabilite da un Essere supremo, deriva la necessità della rispondenza dell’agire umano con tale ordine naturale quale unica garanzia di felicità (sensisticamente intesa, quindi coincidente con l’utile) e libertà. Di qui le dottrine economico-politiche fondate sul principio del primato dell’agricoltura (che sola fornisce il prodotto netto, mentre l’artigianato e l’industria si limitano alla trasformazione), sulla tassazione della terra, sulla libertà di produzione e scambio (solo così si ottiene un aumento della ricchezza generale). Quine, Willard Van Orman Filosofo, logico ed epistemologo americano (Akron nell’Ohio 1908 - Boston 2000), professore a Harvard. Ha perfezionato e semplificato la costruzione di Russell e Whitehead, avanzando l’esigenza di chiarire lo status ontologico delle entità logiche, per stabilirne la funzione gnoseologica. Così egli si orienta (in From a logical point of view del 1961) verso una forma di concettualismo in grado di evitare sia le difficoltà del considerare la logica come riferentesi a entità preesistenti sia quelle di un empirismo radicale. In questo senso va rifiutata la distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche e l’idea che ogni enuncia-

to dotato di significato sia equivalente a un complesso di termini osservativi: all’impostazione neopositivistica Quine contrappone una visione “senza dogmi” per cui, se la scienza è un sistema globale, non è possibile verificarne una singola proposizione, ma il controllo empirico deve toccare tutti gli enunciati (anche se è possibile scegliere il punto del sistema in cui esercitare tale controllo). Le teorie non possono essere intese come specchio della realtà (poiché sono costituite, come le proposizioni, da un intreccio di fattori linguistici ed empirici) e vanno quindi valutate con criteri essenzialmente pragmatici (non esiste “un” metodo scientifico e neppure “un” criterio di razionalità). Di qui in Parola e oggetto (1960) si affronta la questione del significato in modo complesso, in termini sia comportamentisti sia verificazionisti, dimostrando l’impossibilità di una traduzione radicale (la traduzione di un messaggio nel nostro linguaggio è possibile solo osservando il comportamento linguistico degli emittenti, per cui il significato di una proposizione è determinabile solo nel contesto del sistema linguistico di cui fa parte). Perciò ne La relatività ontologica (1968) Quine ha precisato l’impossibilità di fissare in modo assoluto gli impegni ontologici di un linguaggio (determinabili solo in riferimento a un altro), tantomeno ricorrendo al criterio empirico (non esistono oggetti che non siano culturalmente stabiliti): solo criteri pragmatici guidano le decisioni ed è solo in base a essi che Quine accetta la moderna concezione scientifica del mondo, del cui discorso egli intende offrire una rigorosa formulazione fisicalista.

R Ramo, Pietro In francese Pierre de la Ramée. Umanista e filosofo francese (Cuth 1515 - Parigi 1572). Per la sua adesione al calvinismo fu costretto a molte peregrinazioni finché, tornato a Parigi, morì nella strage della notte di San Bartolomeo. Fortemente polemico nei confronti di Aristotele e del formalismo logico degli aristotelici, propose, con fiducia illimitata nella ragione, una nuova metodologia dialettica (mutuata dai classici) consistente nella verifica del contenuto semantico delle proposizioni e nella tecnica argomentativa. Con ciò stabilì un rapporto molto stretto tra grammatica e retorica da un lato (e a tal fine studiò a fondo la morfologia e la sintassi del francese, del latino e del greco) e dialettica dall’altra. Quest’ultima (vera e propria grammatica del pensiero) si compone di due momenti: l’invenzione (con cui si trovano razionalmente gli argomenti per risolvere una determinata questione) e la disposizione (con cui li si concatena in modo logico). La proposta di Ramo ebbe notevole fama e diffusione fino a tutto il XVII secolo, dando luogo a vere e proprie scuole. Tra le sue opere si ricordano Dialettica (1555), Scholae in tres primas liberales artes (postuma, 1581-93) Ravaisson Mollien, Jean-Gaspard-Félix Filosofo francese (Namur 1813 - Parigi 1900), professore a Rennes e ispettore generale dell’insegnamento universitario, membro di numerose accademie. Con il Saggio sulla metafisica di Aristotele (1837) contribuì alla ripresa degli studi aristotelici nel suo Paese. Nel suo studio più importante L’abitudine (1838), sostenne l’importanza di quest’ultima per la comprensione della realtà. Termine medio tra volontà e natura, essa è un limite che va da un estremo all’altro: perciò può essere intesa, sulla scorta di Schelling (di cui Ravaisson era stato allievo a Berlino), come chiave di comprensione del rapporto tra i due elementi, consentendo di scendere dalle chiare regioni della prima alle profondità oscure della seconda. È una seconda natura, una natura naturata e acquisita che viene chiarificata dall’intelletto: da ciò tuttavia si può comprendere come la natura e la materia siano “frutto ed espres-

sione” della natura naturans che è lo spirito. Tuttavia, se da una lato gli atti spontanei e creativi si atrofizzano e scadono in una meccanicità cieca, solo sulla base dell’abitudine è possibile la vita morale, che così passa dallo sforzo e dalla fatica all’attrattiva e al piacere. A partire da questi risultati Ravaisson prospettò uno spiritualismo cristiano come concezione (fortemente ostile al positivismo) in grado di recuperare il primato della coscienza e dell’interiorità quale fonte originaria di autentica libertà. Sotto tale aspetto la filosofia di Ravaisson aprì la strada a quelle di reazione al positivismo, da Boutroux a Bergson a James. Altri scritti: Metafisica e morale (1893), La filosofia di Pascal (1887), Venere di Milo (1871). Rawls, John Filosofo americano (Baltimora 1921 - Lexington 2002), professore a Harvard. La sua fama è legata al saggio Una teoria della giustizia (1971), che costituisce il punto di riferimento obbligato per ogni dibattito contemporaneo di teoria politica. Intesa in modo primario come criterio di valutazione delle istituzioni comunitarie, la giustizia qualifica infatti nei suoi termini una società permeandone tutti gli aspetti e fondando «l’inviolabilità della persona» (anche di fronte ai «maggiori benefici goduti da altri»). Di qui il proposito di individuarne alcuni principi essenziali che possano essere, in quanto razionalmente fondati, anche universalmente condivisi e quindi costituire il criterio di decisione per un equo accesso dei singoli (nel rispetto della diversità delle loro finalità) al godimento dei beni primari. Rawls si colloca nella tradizione del contrattualismo, di cui ripropone lo schema argomentativo fondamentale: presentare una situazione presociale in cui gli individui siano chiamati a pattuire (con un opportuno procedimento operazionale che intende richiamarsi all’autonomismo etico di ➔ Kant) i principi che regoleranno la loro vita in comune dal punto di vista dell’equità, nel presupposto che sia loro interesse cooperare in modo vantaggioso per tutti in una associazione che risulti “bene ordinata”. In un’ipotetica “posizione originaria” essi devono scegliere sotto un “velo d’igno-

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ranza” circa le proprie concrete condizioni future (se fossero conosciute gli individui entrerebbero immediatamente in conflitto per assicurarsi posizioni di difesa dei propri interessi) e in possesso solo di un sapere generale che li rende uguali: derivando da una condizione equa, anche l’accordo finale sarà equo (cioè senza previi vantaggi manifesti per nessuno). La tesi centrale di Rawls è che da questa situazione risulterebbero decisi i seguenti due principi dalla forte valenza etica: — il principio d’uguaglianza, cioè il «diritto di ogni persona al più ampio sistema totale di uguali libertà fondamentali», determinate in libertà politica, di parola e di riunione, di pensiero, personale e di proprietà privata, dall’arbitrio dell’arresto e della detenzione; — il principio di differenza, subordinato a quello di uguaglianza (e secondo Rawls corrispondente «al significato naturale della fraternità», secondo un modello di società antimeritocratico e cooperativo), per il quale «le ineguaglianze sono ammesse quando massimizzano, o almeno contribuiscono generalmente a migliorare, le aspettative di lungo periodo del gruppo meno fortunato della società» (regola del maximun) e quando esse, essendo «collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza di opportunità» si risolvono in un beneficio per ciascuno. «L’ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti» (e quindi, nell’ambito di un agire razionale, sono dannose). Espressione del clima della lotta per i diritti civili nell’America di Martin Luther King e di John Kennedy, il libro di Rawls ha significato una forte ripresa delle problematiche dell’etica normativa, contribuendo a ravvivare il dibattito filosofico sia dal punto di vista storico sia da quello teorico: non a caso a esso sono seguite (in modo indirettamente polemico e confutatorio) le opere di Nozick e von Hayeck. Le loro critiche (e il diverso clima politico degli anni Ottanta) hanno indotto Rawls a una revisione della teoria della società “bene ordinata”, centrata non più sulla giustizia distributiva ma sulla complessità e il pluralismo. In Liberalismo politico (1993) essa è unita in una idea politica della giustizia che risulta “per intersezione” dalle diverse prospettive morali dei cittadini. Questi, per quanto «profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili» circa la forma migliore di vita da perseguire, riconoscono di avere in

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comune una “concezione minima” del bene, comprendente la tolleranza e l’uguale rispetto delle persone. Di qui la riformulazione dei due principi, ma soprattutto la convinzione che si debba prevedere in aggiunta a quelli fondamentali anche la garanzia del godimento di certi diritti particolari concernenti la soddisfazione dei bisogni essenziali. Nella sua ultima opera Rawls ha affrontato (sulla scia di Per la pace perpetua di Kant) l’“utopia realistica” della pace come conseguenza della giustizia internazionale, dove Il diritto dei popoli (1999) «viene sviluppato all’interno del liberalismo politico ed è l’estensione a una società dei popoli di una concezione liberale della giustizia elaborata per un regime nazionale». Reale, Giovanni Filosofo italiano (Candia Lomellina 1931). Professore all’università Cattolica di Milano, è uno dei massimi esperti europei di filosofia antica, di cui ha scritto una fondamentale Storia in cinque volumi (1975-80). Ha tradotto e curato edizioni di molti classici del pensiero (tra cui Melisso, Platone, Aristotele, Filone di Alessandria, Epitteto), cui ha premesso densi saggi introduttivi che costituiscono altrettante monografie. In particolare, si è fatto portavoce in Italia della scuola di Tubinga, di cui ha sostenuto e diffuso il paradigma ermeneutico sulla filosofia platonica, facendo anche conoscere i saggi più significativi di alcuni dei suoi esponenti (Hans Krämer, Thomas Szlezak). Come direttore del “Centro di ricerche di metafisica” della sua università, ha promosso edizioni di molti studi e testi, specie sul platonismo classico e patristico. Negli ultimi tempi è uscito dall’ambito strettamente specialistico, intervenendo su questioni culturali di attualità con La saggezza degli antichi (1995), Mente, anima, salute (1999) e Le radici culturali e spirituali dell’Europa (2003). Reichenbach, Hans Filosofo, matematico, epistemologo tedesco (Amburgo 1891 - Los Angeles 1953), professore a Stoccarda e Berlino e infine (dopo l’abbandono della Germania per l’avvento del nazismo) a Istanbul e all’università della California. Fu la figura più eminente del Circolo di Berlino, che si affiancò al ➔ Circolo di Vienna nell’affermazione della concezione neopositivista (con Carnap diresse la rivista Erkenntnis). Nella teoria della relatività einsteiniana scorse

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(Filosofia dello spazio e del tempo, 1928) l’indicazione della natura empirica dei concetti di spazio e tempo, nonché la confutazione dell’assolutezza della geometria euclidea e del suo carattere di evidenza intuitiva. Anche la causalità secondo Reichenbach ha un fondamento a posteriori, dato che la determinazione di leggi particolari è possibile solo sulla base di precisi controlli sperimentali: questi ultimi però consentono una verifica solo probabile e non definitiva. A questo problema (e a quello correlato dell’induzione) è dunque dedicata gran parte della fatica di Reichenbach nell’ultima fase del suo pensiero, che si orientò a risolverlo in termini statistici (data la forma indeterminata con cui si presentano le successioni naturali). Sotto questo aspetto l’inferenza non realizzerebbe le condizioni sufficienti ma quelle necessarie per il successo della previsione. Importante la divulgativa Nascita della filosofia scientifica (1951). Reid, Thomas Filosofo scozzese (Strachan 1710 - Glasgow 1796), professore a Glasgow. Nella sua Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune (1764, i cui temi saranno ripresi e approfonditi nei Saggi sulle facoltà intellettuali dell’uomo del 1785) sostenne che la filosofia deve costantemente riferirsi alle certezze e al linguaggio del senso comune (di qui il nome della scuola da lui fondata), pena la caduta nell’insensatezza. Dunque la ricerca dei fondamenti della conoscenza non può allontanarsi dalle credenze aproblematiche e acritiche abbracciate dalla grande maggioranza degli uomini, che ritengono le cose (e non le idee, come assurdamente ha sostenuto, da Cartesio in poi, la filosofia moderna, approdando non a caso all’idealismo di Berkeley e allo scetticismo di Hume) causa e oggetto delle nostre percezioni. Queste ultime (distinte dalle sensazioni, che hanno valenza esclusivamente soggettiva) garantiscono la presenza diretta e immediata delle cose apprese, suscitando quindi la credenza istintiva nella loro realtà. Di qui la convinzione che, contrariamente a quanto sostenuto dalle dottrine empiriste, non siano originarie le apprensioni semplici, bensì quelle complesse (solo a posteriori interviene l’opera analitica dell’intelletto), che ci danno l’oggetto nella sua unità e completezza. Quanto al fondamento di certezza del senso comune, Reid lo pone in Dio, che ne avrebbe iscritto nei nostri cuori i principi. Le dottrine della scuola del senso comune di Reid, combattute da Kant, furono cono-

Renan

sciute e si diffusero in Italia (con Galluppi) e in Francia (con Cousin), ed ebbero una ripresa e un certo sviluppo con il pragmatismo (in particolare con Peirce). Reimarus, Hermann Samuel Teologo e filosofo tedesco (Amburgo 1694-1768), esponente dell’illuminismo tedesco. È autore del saggio Apologia di coloro che adorano Dio secondo ragione, che non volle pubblicare: alcune parti furono pubblicate da Lessing con il titolo Frammenti di un anonimo di Wolfenbüttel (1774-1778). Reimarus legge le Sacre Scritture dal punto di vista della critica razionalista e interpreta la figura di Gesù come quella di un predicatore, attribuendo i miracoli alla semplice invenzione dei suoi discepoli. La critica razionalista di Reimarus ha avuto notevole influenza sullo sviluppo della filosofia della religione in Germania. Reinhold, Karl Leonhard Filosofo tedesco (Vienna 1758 - Kiel 1823), professore a Jena e a Kiel, importante soprattutto per il ruolo di mediatore tra la filosofia kantiana e la cultura del suo tempo. Egli intese infatti presentarsi come l’interprete e il sistematore del criticismo (soprattutto nelle Lettere sulla filosofia kantiana comparse sul Deutscher Mercur nel 1786-87 e nel Saggio di una nuova teoria della facoltà conoscitiva umana in generale del 1789), sostenendo che le analisi gnoseologiche di Kant avrebbero potuto trovare un sicuro fondamento solo se fossero state dedotte da un primo principio indubitabile identificabile nella coscienza, che giustificasse tutte le forme possibili delle sue funzioni. Principio fondamentale della filosofia (detto “principio di coscienza”) è dunque che in essa «la rappresentazione viene distinta attraverso il soggetto dal soggetto e dall’oggetto e riferita a entrambi». Poiché questo principio è evidente e immediatamente intuibile, non è necessario ricorrere ad altri elementi per la sua giustificazione, e in quanto assoluto rende superflua la dottrina della deduzione trascendentale (infatti la connessione tra soggetto e oggetto è data a priori). Da queste posizioni il pensiero di Reinhold (che poi piegò verso posizioni vicine a quelle di Jacobi e Fichte) risulta determinante per lo sviluppo dell’idealismo tedesco. Renan, Joseph-Ernest Storico e filosofo francese (Tréguier 1823 - Parigi 1892). Avviato alla carriera ecclesiastica, ne uscì dedicandosi agli studi e partecipando a varie

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missioni archeologiche. Dopo la pubblicazione di Averroè e l’averroismo (1861), divenne famoso con una Vita di Gesù (1863) che fece scandalo per le tesi sostenute, improntate sia al positivismo sia alla sinistra hegeliana: il rifiuto del soprannaturale e l’impossibilità dell’intervento di Dio nella storia con miracoli, rivelazioni ecc. Quest’opera faceva parte di una monumentale Storia delle origini del cristianesimo (7 voll., 186381) cui seguì una Storia del popolo d’Israele (5 voll. 1887-93). Renan in verità non aderì ad alcun sistema filosofico, ma sostenne che lo scetticismo era la posizione più adeguata per chi volesse avere la probabilità di vedere la verità almeno una volta in vita: con ciò egli espresse una mentalità largamente diffusa nella sua epoca. Renouvier, Charles Bernard Filosofo francese (Montpellier 1815 - Prades 1903). Discepolo di Comte e libero pubblicista, aderì dapprima (con l’Introduzione alla filosofia analitica della storia, quinto dei Saggi di critica generale del 1854-64) al neocriticismo come prospettiva teoretica generata dall’esigenza d’opposizione alle dottrine della Restaurazione (spiritualismo, idealismo, positivismo, socialismo), negatrici della libertà quale esperienza fondamentale della Rivoluzione francese. Sotto questo profilo la filosofia di Kant è interpretata in senso antimetafisico (Renouvier trascura la nozione di noumeno) e su questa base viene proposto un radicalismo libertario spogliato di ogni elemento spiritualistico: la realtà appare così costituita da individui autonomi, il cui fine è portare a compimento un ordine morale che è loro ispirato da un Dio perfetto ma finito. In seguito Renouvier si indirizzò verso una forma di personalismo religioso (con radici in Cartesio e Leibniz) ostile verso il naturalismo e il positivismo (Abbozzo di una classificazione sistematica dei sistemi filosofici, 1882), in cui, opponendo a un pensiero oggettivo (necessariamente concludentesi nell’ateismo) un altro centrato sulla persona, pervenne a definire l’antitesi tra sapere e fede. Tale posizione (Il personalismo, 1903) troverebbe la sua verità più alta nel riconoscimento del primato della volontà individuale quale centro di ogni relazione e fonte di ogni affermazione. Peraltro la sua religiosità è ancora di tipo filosofico con forti tratti gnostici, tanto da riprendere tesi di Origene nell’opera La nuova monadologia (1899), destinata a illustrare la sua concezione della vita come redenzione per opera della libertà e della moralità.

Ricardo

Rensi, Giuseppe Filosofo italiano (Villafranca di Verona 1871 - Genova 1941), professore a Ferrara, Firenze, Messina e Genova, prima di essere sospeso dall’insegnamento per la sua avversione al fascismo. Partito da posizioni improntate a un idealismo assoluto e sfocianti in un misticismo religioso ispirato a Platone e Malebranche (La trascendenza, 1914), approdò successivamente a una forma di scetticismo: il dramma della guerra gli chiarì la totale assenza di razionalità nella realtà. Tale prospettiva venne trovando i suoi fondamenti nella metafisica e nel diritto (Lineamenti di filosofia scettica, 1919) e le sue applicazioni in politica (La filosofia dell’autorità del 1920, dove si mostra che la sua base è la forza, anche se camuffata da legalità), in estetica, in etica (Critica della morale del 1935, in cui si sostiene che non esiste il Bene, ma solo i beni che ciascuno sceglie secondo ciò che gli sembra in un certo momento), in religione (Le aporie della religione, 1932 e Apologia dell’ateismo, 1925, dove accanto alla critica alle varie mitologie religiose si ritrova nell’ateismo «la più pura di tutte le religioni»). Lo scetticismo si associò all’irrazionalismo (Filosofia dell’assurdo, 1937) che lo portò, sulla base di un fenomenismo sensistico, a posizioni fortemente polemiche nei confronti di Croce e Gentile. Negli ultimi anni Rensi si aprì al divino (Lettere spirituali, postume, 1943): non è il Dio cristiano o di qualsiasi altra religione positiva, ma «il divino in me», attingibile con un atto “folle”, che procede oltre l’orizzonte di questo mondo illusorio. Reuchlin, Johannes Umanista tedesco (Pforzheim 1455 - Stoccarda 1522) che, in sintonia con il platonismo italiano di Pico e Ficino, considerò la cultura ebraica come una delle componenti essenziali della sapienza e della teologia. In particolare nel De verbo mirifico (il tetragramma “Jahvé”) si esaminano i vari nomi attribuiti alla divinità dalle varie religioni, culminando nel mistero cristiano del Logos e della trinità seguendo la via indicata dalla tradizione sia greca (orfismo, pitagorismo, platonismo), sia orientale (zoroastrismo), mentre nel De arte cabbalistica si sostiene la tesi di una prisca sophia che, sotto le vesti di una simbologia sacra (tale è la Cabbalah, una teologia simbolica), è giunta sotto forme diverse fino alla suprema manifestazione costituita dal cristianesimo. Ricardo, David Economista inglese (Londra 1772 - Gatcomb Park 1823). Dopo aver fatto fortuna come operatore di borsa e

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banchiere, si dedicò agli studi fino a pubblicare nel 1817 il suo capolavoro, Principi dell’economia politica e della tassazione, in cui riuscì a conferire a questa materia piena formulazione scientifica. Formulò infatti il principio del valore-lavoro, giustificando lo scambio in termini di proporzione tra le merci e i rispettivi valori (o, con traduzione monetaria, i loro prezzi): in questa prospettiva il salario sarebbe determinato dal costo di produzione del lavoro (cioè da ciò che è necessario al lavoratore per vivere). Accettando in pieno la teoria di Malthus, Ricardo pensava che un più alto saggio salariale avrebbe comportato sia un indesiderabile aumento demografico sia una diminuzione dei profitti (che sono un fattore residuale). Quanto alla distribuzione, Ricardo la considerò conflittuale per natura: infatti lo sviluppo economico avrebbe richiesto la messa a coltura di terre meno fertili per nutrire una popolazione in aumento, con la conseguenza di far declinare il saggio di profitto e con esso l’incentivo all’investimento. Ricardo trasse da queste considerazioni una visione pessimistica della crescita economica, di cui prevedeva la tendenza a uno “stato stazionario”, dal quale si sarebbe potuto uscire con l’introduzione di nuove tecniche più vantaggiose. Quanto al commercio internazionale, Ricardo ne individuò le condizioni di convenienza nella divergenza dei costi comparati (di cui Ricardo fu il primo teorizzatore). Il contributo di Ricardo all’analisi economica risulta fondamentale, tanto da condizionare non solo la riflessione dei continuatori della “scuola classica” a cui egli stesso appartiene, ma anche quella dei pensatori socialisti, Marx compreso. Riccardo di San Vittore Filosofo e teologo di origine scozzese (morto a Parigi nel 1173), fu priore e maestro nell’abbazia di San Vittore. La sua opera più rilevante è il De trinitate, dove fece largo impiego di argomentazioni razionali a sostegno della fede e dimostrò, sulla scia di ➔ Anselmo, l’esistenza di Dio senza appoggiarsi all’autorità (non può non esistere l’essere eterno e necessario altrimenti verrebbe a mancare la fonte da cui traggono il loro essere le cose contingenti e mutevoli). Riccardo di San Vittore fu anche guida spirituale: gran parte della sua opera ha dunque un carattere mistico e contemplativo, anche se vi ricorrono i temi filosofici dell’opera maggiore, in cui ragione e fede si saldano nell’unità del cammino verso Dio. Tra gli opuscoli di questo genere sono importanti il De gratia con-

Rickert

templationis (dove si esaminano le facoltà dell’immaginazione, della ragione e dell’intelletto per mostrare che la via mistica è segnata dalle corrispondenti tappe del pensare, del meditare e del contemplare), il De praeparatione animae ad contemplationem (in cui si simboleggiano i gradi e le virtù della via mistica con i figli che Giacobbe ebbe rispettivamente da Lia e Rachele – sentimento e ragione – e dalle ancelle Zilpa e Bila – sensibilità e immaginazione), il De quatuor gradibus violentae caritatis (che tratta degli effetti dell’amore divino sull’anima fino al suo totale rinnovamento) e il De exterminatione mali et promotione boni (in cui il Mar Rosso e il Giordano rappresentano il difficile cammino di purificazione dell’anima verso la contemplazione). Richter, Johann Paul Friedrich Noto con lo pseudonimo di Jean Paul. Romanziere, pedagogista e filosofo tedesco (Wunsiedel 1763 -Bayreuth 1825). Nel romanzo Siebenkäs (1797) inserì il celebre Discorso del Cristo morto in cui, partendo da premesse materialistiche e razionalistiche di matrice illuminista, espresse la visione di un universo insensato e caotico, producendo in tal modo uno dei primi documenti del nichilismo ottocentesco. Da questa angolatura, mosse una precisa critica a Fichte (in un’appendice al romanzo Titan, 1803) accusandolo di aver promosso con la sua teoria dell’Io assoluto un solipsismo metafisico che esprimerebbe solo l’incapacità di affrontare la vita reale. Nell’Avviamento allo studio dell’estetica (1804) formulò un’ampia analisi (anche se non sempre organica) dei concetti chiave del romanticismo (immaginazione, genio ecc.) e delle sue categorie (umorismo, ridicolo, arguzia, ironia, distacco ecc.), mentre in Levana (1807) difese l’autonomia spirituale e la creatività spontanea del fanciullo, che tuttavia ha bisogno di opportune stimolazioni esterne per manifestarsi. Rickert, Heinrich Filosofo tedesco (Danzica 1863 - Heidelberg 1936), professore a Friburgo e a Heidelberg, tra i maggiori rappresentanti della Scuola del Baden. Rifacendosi a Kant, individuò nel soggetto la “copula” tra il regno della realtà e quello dei valori, che si congiungono nell’atto concreto della valutazione. Da questo punto di vista, poiché ogni attività umana (compreso il conoscere) è una presa di posizione di fronte al valore che a sua volta la rende valida, cade la distinzione tra teoria e pratica. In I limiti della formazione dei concetti nelle

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scienze della natura (1896) e in Scienze della cultura e scienze della natura (1899) affermò che la distinzione tra questi due campi è d’ordine metodologico e non riguarda l’oggetto, giacché possiamo definire natura la realtà in quanto è considerata dal punto di vista del suo contesto concettuale dotato di generalità (leggi), mentre la storia è frutto di una “concettualizzazione individualizzante” che mira al particolare. Poiché non tutte le individualità sono storiche, risultano tali quelle che «si riferiscono al valore», cioè che incarnano valori costitutivi di una data civiltà, gli unici che risultano, in quanto universali, normativi (perciò tali scienze sono dette “scienze della cultura”): con ciò Rickert intese che lo storico non valutasse ma si riferisse in modo teoretico a quei valori che ispirano e dirigono l’agire concreto. Sotto questo profilo egli si oppose al relativismo, pervenendo a una forma di platonismo (i valori sussistono come eterne essenze indipendenti dal soggetto) e a una sistemazione tassonomica da cui fa derivare una corrispondente serie di “visioni del mondo.” Ricœur, Paul Filosofo francese (Valence 1913 - Parigi 2005), professore alla Sorbona e a Nanterre. Cresciuto nel clima dell’esistenzialismo (Marcel e Husserl sono stati i suoi maestri, cui ha dedicato i primi studi), ha incominciato a concepire un progetto di antropologia filosofica ruotante intorno alla volontà quale cifra della finitezza e fallibilità intrinseche alla condizione umana (Il volontario e l’involontario del 1950 e Finitudine e colpa del 1960), che si manifestano nella possibilità di compiere il male e nella colpa. La decodificazione dei simboli che hanno configurato storicamente questi temi ha indotto Ricœur ad abbracciare l’ermeneutica (di cui è risultato tra i più notevoli esponenti) quale accesso più idoneo a una concreta filosofia della soggettività, individuando nella domanda sul senso la sua solidale coestensione con l’esistenza e nella mediazione linguistica la possibilità della sua riflessione su ciò che le è estraneo e che si trova al di là di essa (l’esistenza, l’agire, la vita). Questo programma si è inizialmente concretizzato in un confronto con Freud (Dell’interpretazione, 1965), quale momento topico di critica della cultura ed esercizio ermeneutico sul linguaggio e sui simboli, che funge da archeologia della coscienza (si deve dubitare, con Marx e Nietzsche, della sua evidenza, “sospettando” l’inganno, il celato, il simulato dietro il manifesto e il mostrato), di cui ci insegna a considerare i

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limiti (e quindi anche di una filosofia, come quella di Husserl, che voglia trovare in essa il proprio punto archimedeo) diventando «essa stessa problematica». Poiché l’ermeneutica psicanalitica suppone ed esige una teleologia del senso (e quindi una ontologia del soggetto), Ricœur riprende (in Il conflitto delle interpretazioni del 1969) il tentativo di innesto e fondazione dell’ermeneutica nella fenomenologia attraverso la “via lunga” dell’analisi del linguaggio (simboli, segni), in un confronto con le scienze (linguistica, semantica, strutturalismo ecc.) che lo hanno come proprio oggetto. L’ermeneutica è necessariamente antinomica in quanto deve considerare diversi livelli di significato: la autoposizione del sé, come desiderio di essere e sforzo di esistere, è conseguita proprio attraverso la riappropriazione interpretativa della diaspora dei segni (da quelli psicanalitici a quelli religiosi) della sua esistenza mondana. Resta da conferire all’ermeneutica una valenza epistemologica, saldando le alternative comprendere-spiegare e verità-metodo: da questo punto di vista Ricœur rivaluta all’interno del processo di comprensione, contro lo strutturalismo che riduce il senso di un testo alla combinazione di unità minime secondo una certa regola, «l’intenzione pregna di significato», mentre a Gadamer muove il rimprovero opposto esigendo uno «spiegare per comprendere meglio». Nella misura in cui “l’arco ermeneutico” come struttura della «conoscenza delle cose umane» si compone del rapporto complementare-dialettico tra spiegazione e comprensione, emerge sempre più la centralità del testo come luogo in cui esso può articolarsi e concretizzarsi (Dal testo all’azione, 1986). Quale discorso fissato dalla scrittura, esso si esplica nella relazione-mediazione con l’atto della lettura (paradigmatico rispetto all’azione umana che può essere considerata un testo mentre il testo è a sua volta un’azione): il fenomeno della distanziazione ne consente, oggettivandolo, la fruizione, in un ascolto-confronto che ci condurrà al suo senso. D’altra parte, con l’entrata in scena della soggettività del lettore che lo fa vivere, il testo costituisce il veicolo per l’autocomprensione (comprendere è «comprendersi davanti al testo») poiché offre le condizioni di emergenza, suscitata dalla lettura, di un sé altro dall’io. Questa prospettiva ha trovato sviluppo in La metafora viva (1975), dove è studiata la creatività del linguaggio (attraverso la metafora l’immaginazione creativa del sogget-

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to apre a nuovi significati e nuovi aspetti del reale) e in Tempo e racconto (1983-85), che porta a compimento la “via lunga” dell’ermeneutica sviluppando il nesso tra tempo, storia e funzione narrativa, mostrando, data «la natura temporale dell’esperienza umana», che «il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in forma narrativa; per contro il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale». Nell’ultima opera Il sé come altro (1990) Ricœur ritorna sull’ontologia del soggetto, approfondendo il rapporto tra filosofie analitiche del linguaggio ed ermeneutica fenomenologica in una prospettiva pratica. Partendo dalla concezione del soggetto come entità non autofondantesi e autotrasparente, si perviene, attraverso la considerazione dell’agire sociale e dei processi linguistici e comunicativi che rendono possibile l’identificazione, a una concezione dialettica per la quale il nostro sé è strutturalmente alterità e l’identità si costituisce nel confronto con l’altro. Riemann, Bernhard Matematico tedesco (Breselenz 1826 - Selasca 1866), professore a Gottinga dove si era laureato con una tesi sui Fondamenti di una teoria generale delle funzioni di una variabile complessa. A essa seguirono Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria e Sulla rappresentabilità di una funzione mediante una serie trigonometrica (pubblicati postumi). I frutti più fecondi del suo lavoro sono stati quelli relativi alla geometria: infatti Riemann, ponendosi il problema di «costruire […] il concetto di grandezza pluridimensionale», era giunto a comprendere che questa è suscettibile di rapporti metrici diversi, con la conseguenza di rendere lo spazio tridimensionale un semplice caso particolare di grandezza. In tal modo, mentre la geometria euclidea, in quanto naturalmente evidente, veniva ridotta al rango di pura probabilità (non è possibile dedurre le proposizioni della geometria dai concetti di grandezza, dato che solo l’esperienza consente di determinare le proprietà distintive dello spazio da ogni altra grandezza tridimensionale immaginabile), Riemann creò una geometria ellittica fondata sul postulato che per un punto non è possibile condurre una retta parallela a una retta data e la cui concezione fondamentale è quella della finitezza dello spazio nel caso in cui la sua curvatura abbia un valore positivo: così vengono meno alcuni tra gli elementi essenziali della geometria tradizionale, poiché in tal caso non solo non si

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possono avere parallele, ma ne deriva anche la finitezza della retta. Consentendo, attraverso una concezione dello spazio non determinato a priori (i fenomeni che avvengono nello spazio condizionano lo spazio stesso), un’intima fusione tra geometria e fisica, tale geometria differenziale costituirà uno strumento indispensabile per l’elaborazione della teoria della relatività, la quale presuppone uno spazio-tempo in cui le leggi dei fenomeni fisici siano invarianti per ogni trasformazione. Romagnosi, Giovanni Domenico Filosofo italiano (Piacenza 1761 - Milano 1835). Appartiene all’ultima generazione illuminista, già attiva al tempo della Rivoluzione francese (tra il 1792 e il 1793 scrive Cosa è eguaglianza e Cosa è libertà) e poi tra i personaggi di primo piano nella vita culturale del periodo della Restaurazione. Giurista, filosofo della storia e del diritto, si è a fondo occupato di diritti naturali dell’uomo, negando l’origine contrattualista dello stato e proponendo una visione della civiltà umana basata su una sorta di salto rispetto alla natura: il sorgere della civiltà e della cultura dell’uomo è solo possibile in natura, ma è un fatto storico che sia nata di fatto, non una necessità intrinseca al corso del mondo (Cosa è l’incivilimento, 1832). Si è occupato a fondo di teoria della conoscenza, combattendo il sensismo (per esempio in Vedute fondamentali sull’arte logica). Rorty, Richard Filosofo americano (New York 1931 - Palo Alto 2007), professore a Princeton e all’università della Virginia. Allontanatosi dal filone analitico dominante nella cultura statunitense, si è progressivamente avvicinato a posizioni “continentali”, sfociando in un originale modo di filosofare quale è espresso in La filosofia e lo specchio della natura (1979). Polemizzando contro il sapere fondazionale (inaugurato da Kant e ripreso in diversi modi da Husserl, Russell, neoempiristi, filosofi analitici ecc.), che cerca un criterio assoluto su cui misurare la validità delle altre sfere di sapere, nella presunzione di poter accedere alle basi della mente e del conoscere, Rorty rifiuta il concetto di mente come “specchio”, luogo delle rappresentazioni della realtà, quale “mito” oggi in crisi. Con ciò la sua posizione intende essere terapeutica al fine di approdare, dopo la critica al passato, a una postfilosofia (sia pur nel senso di una ontologia e gnoseologia fondamentale), che voglia essere (con Kierkegaard, Nietzsche, Heideg-

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ger, Wittgenstein) stimolatrice e propositiva (anche in modo provocatorio) di nuovi stili di pensiero e nella ricerca (non necessariamente motivata, giustificata o “fondata”) di vie inedite (disciplinari, comportamentali, espressive ecc.) miranti a formare gli uomini, senza ruoli privilegiati ma nel più ampio orizzonte della “conversazione” umana, pluralistica nelle voci e democratica nella volontà di confronto. Rorty deriva tale atteggiamento antimetafisico dal pragmatismo e dall’ermeneutica (anche se rinviene in Gadamer e Ricœur un’ansia di universalità da abbandonare, in quanto prassi e consensualità comunicativa risultano categorie sufficienti e autoreferenziali, in un mondo divenuto totalmente secolarizzato e disincantato), che hanno evidenziato la situazionalità di ogni processo di comunicazione-comprensione (quindi la parzialità di ogni approccio col mondo), nonché la relatività storica di ogni prodotto culturale (con la conseguente correggibilità degli strumenti intellettivi). In La filosofia dopo la filosofia (1989) egli ha caratterizzato la propria prospettiva in termini di contingenza (come conseguenza dello storicismo), ironia (derivante dalla consapevolezza della labilità e provvisorietà di ogni posizione), solidarietà (quale atteggiamento etico dell’intellettuale che si impegna per rendere il mondo e le istituzioni più giuste in nome del «primato della democrazia sulla filosofia»). Rosacroce Società esoterica fondata, secondo il racconto di un testo anonimo (la Fama fraternitatis del 1614) da un mitico Christian Rosenkreutz per la rigenerazione del mondo (annunciata nella Confessio fraternitatis, anch’essa uscita anonima nel 1615) su un fondamento mistico e spirituale nel cui orizzonte convergono, in una sintesi non del tutto organica, elementi gioachimiti, dionisiani, cabbalistici, alchemici, eckhartiani, campanelliani. L’opera basilare è tuttavia Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, pubblicata nel 1616 dal teologo protestante Johann Valentin Andreae e tenuta come scritta nel 1459 dallo stesso fondatore della confraternita, in cui si descrive l’itinerario dell’anima verso la salvezza mediante l’illuminazione e la conoscenza. Da allora si sono formate (e al presente ancora sono vive) in molte aree dell’Europa settentrionale (oggi anche negli Stati Uniti) gruppi di cultori dei vari generi di scienze occulte (dalla teosofia all’alchimia, all’astrologia ecc.) che intendono promuovere e

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diffondere l’ideale “illuministico” della congregazione. Roscellino Teologo e filosofo francese (Compiègne 1050-1120). La fama di Roscellino è legata alla soluzione inedita che egli propose riguardo alla disputa sugli universali, che fu la tematica centrale e maggiormente dibattuta nel XII secolo dai pensatori scolastici. Roscellino oppose la propria interpretazione nominalista a quella realista di ➔ Guglielmo di Champeaux. Sostenne infatti che gli universali sono esclusivamente flatus vocis, semplici suoni emessi dalle corde vocali, meri segni convenzionali dati alle cose ai quali non è sottesa alcuna realtà: reali sono i singoli individui non l’universale a loro corrispondente (reale è “uomo” non “umanità”). Roscellino impiegò inoltre la sua concezione nominalista nell’interpretazione del dogma trinitario, per cui venne a negare la sostanziale unità delle Persone nella trinità (ogni persona è unica e singola ed è accomunata alle altre solo dal nome). La sua tesi (detta “triteismo”) fu condannata dal Concilio di Soisson nel 1092 ma Roscellino evitò la pena ritrattandola. Rosenkranz, Karl Filosofo tedesco (Magdeburgo 1805 - Königsberg 1879), professore a Halle e Königsberg, fu uno dei maggiori rappresentanti dell’hegelismo tedesco, collocandosi in posizione equidistante tra “destra” e “sinistra”. Difese la dottrina del maestro dai suoi detrattori e ne sviluppò alcune parti nella psicologia, nella logica e nell’estetica. La sua opera più importante resta la Vita di Hegel (1844), fondamentale per le notizie e per i documenti inediti riguardo all’autore. Rosenzweig, Franz Filosofo ebreo tedesco (Kassel 1886 - Francoforte sul Meno 1929). Nato da famiglia ebraica profondamente integrata, studiò filosofia e storia a Berlino e a Friburgo sotto la guida di Heinrich Rickert e Friedrich Meinecke. Nel 1913 conseguì il dottorato con una tesi, destinata ad avere ampia risonanza, intitolata Hegel e lo Stato. A seguito dei contatti intrattenuti con il mondo accademico, specie con il cugino Rosenstock, valutò di seguire l’esempio di quest’ultimo convertendosi al cristianesimo; tuttavia, dopo aver presenziato, nel 1913, alla preghiera del Giorno dell’Espiazione in una sinagoga ortodossa di Berlino, decise di restare ebreo. Anche a seguito dell’influsso esercitato su di lui dal pensiero formulato da Cohen nella parte fina-

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le della sua vita, Rosenzweig s’impegnò a elaborare una originale interpretazione dei rapporti e della complementarità esistenti tra ebraismo e cristianesimo. Nel corso della Prima Guerra Mondiale prestò servizio nell’esercito tedesco e, mentre era ricoverato in ospedale militare, cominciò a scrivere la sua opera maggiore, La stella della redenzione (pubblicata nel 1921). Rompendo con l’idealismo e lo storicismo e con tutta una tradizione filosofica che va dall’antica Grecia a Hegel, Rosenzweig si oppose alla riduzione della realtà a unità, individuata per il pensiero antico nel mondo, per quello medievale in Dio, per quello moderno nell’io. A tale scopo propose l’immagine di un triangolo i cui tre vertici, che rappresentano rispettivamente Dio, mondo e uomo, vanno considerati prima di tutto in se stessi senza possibilità di ridurli l’uno all’altro. A questo primo triangolo se ne sovrappone un secondo, grazie al quale si forma così la figura di stella a sei punte, in cui si pongono in rilievo i nessi tra gli elementi prima irrelati: il legame Dio-mondo costituisce la creazione, il nesso Dio-uomo dà luogo alla rivelazione, la relazione tra uomo e il mondo costituisce il cammino della redenzione. Tale articolata prospettiva fu chiamata dal suo autore “nuovo pensiero”, e si presenta come il frutto della fusione terminologica e concettuale di teologia e di filosofia all’insegna di un loro comune rinnovamento (Il nuovo pensiero, 1925). Nel 1920 Rosenzweig fondò a Francoforte un istituto di studi ebraici, con cui entrarono in contatto, tra gli altri, Gerschom Scholem e Erich Fromm. Nel 1921 fu colpito da una grave malattia, che lo rese a poco a poco completamente paralizzato; ciononostante, grazie all’aiuto della moglie, continuò a lavorare e a scrivere. In collaborazione con Martin Buber, iniziò la traduzione tedesca della Bibbia ebraica (l’opera sarebbe stata completata solo nel 1937). Rosmini, Serbati Antonio Filosofo cattolico italiano (Rovereto 1797 - Stresa 1855). la vita. Nato da nobile famiglia, dopo gli studi universitari fu ordinato sacerdote nel 1821. Trasferitosi a Milano, strinse varie amicizie (tra cui quella fondamentale con Manzoni che durerà tutta la vita) e fondò nel 1828 presso Domodossola una congregazione religiosa, l’Istituto della Carità. Intanto veniva maturando, sulla base di ampi e approfonditi studi (Agostino e Tommaso, e poi tra i moderni Locke, Condillac, Kant e i postkantiani), il suo pensiero filosofico e stendendo le sue opere: Nuovo saggio sull’o-

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rigine delle idee (1830) che è il suo capolavoro, Massime di perfezione cristiana (1830) e i Principi della scienza morale (1831), Filosofia della politica (1838), Teodicea (1845), Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848). Nel 1848, dopo la sconfitta di Custoza, fu inviato dal governo piemontese presso Pio IX per trattare un concordato e creare una confederazione tra gli stati italiani di stampo neoguelfo. Fallita la missione (a Torino prevalse l’opinione di una ripresa della guerra), Rosmini rimase a Roma, dove il papa intendeva farlo cardinale. Dopo l’assasinio di Pellegrino Rossi, si ipotizzò una sua nomina a presidente del consiglio: anche questa prospettiva sfumò dato il suo orientamento costituzionalista, mentre trionfò quello autoritario del cardinale Antonelli. Caduto in disgrazia nell’ambiente della curia pontificia (tra l’altro alcune sue proposizioni vennero messe all’indice e si avviò un processo d’esame di tutta la sua filosofia, conclusosi poi con un giudizio di assoluzione), tornò a Stresa dove si dedicò fino alla morte alla cura del suo istituto e alla stesura delle sue ultime opere, tra le quali Psicologia e Introduzione alla filosofia (1850), Logica (1854). Postume usciranno le fondamentali Teosofia (incompiuta) e Antropologia soprannaturale. il pensiero. Il pensiero di Rosmini rappresenta il tentativo più originale e organico compiuto in Italia di operare una sintesi tra la tradizione dell’ortodossia cattolica e le esigenze della cultura moderna (da Cartesio a Kant), di cui egli accetta il punto di vista metodico iniziale, cioè la considerazione del soggetto umano, pur combattendone le conclusioni, che ritiene atee e materialistiche, in nome della restaurazione di un autentico sentimento religioso. Nel Nuovo saggio sull’origine delle idee si intende scendere sul terreno gnoseologico del filone empiristico-sensistico contemporaneo, per mostrare l’insufficienza di una considerazione puramente esperenziale della genesi delle nostre idee senza ammettere alcunché a priori. Concordando con Kant nell’identificare conoscenza e giudizio, Rosmini mostra che la sensazione non può fornirci la nozione della cosa come è in sé, ma solo in rapporto con noi. Come ha mostrato Platone (e a suo modo Kant con la distinzione tra materia e forma del giudizio), il carattere oggettivo del conoscere è garantito solo dall’idea, la cui natura è di origine intellettiva, salvo poi adottare un criterio di economicità (nella spiegazione dei fatti non si deve assumere più di quanto è ne-

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cessario) eliminando tutto ciò che di eccessivo e di arbitrario i filosofi (oltre Platone, anche Aristotele e Leibniz) hanno ammesso nel giustificare l’attività della mente: «il formale della ragione è molto più semplice», riducendosi alla sola idea dell’essere, unica che possa essere pensata senza pensare ad altro e perciò inclusa in ogni altro pensiero. Colta in una intuizione immediata o “visione primitiva”, l’idea di essere (o di esistenza indeterminata) fonda ogni nostro atto conoscitivo ed è innata, concepibile eliminando dagli enti ogni qualità e determinazione. Poiché il soggetto umano è empirico, se è capace di un sapere oggettivo e universale, significa che l’idea di essere non è prodotta dalla mente, ma è da essa ricevuta passivamente mentre la sua origine (come avevano già affermato Agostino e Bonaventura) è in Dio (che è l’essere in sé, l’essere reale per eccellenza), che poi l’ha offerta a tutti gli uomini con decreto ab aeterno (perciò è sempre presente alla mente, anche se ne manca la consapevolezza: di qui il primato che Rosmini assegna alla prova ontologica dell’esistenza di Dio su quelle a posteriori). Tuttavia l’idea dell’essere non è sufficiente a giustificare la conoscenza delle cose inframondane: la realtà è concretamente conosciuta solo se è offerta dalla sensazione, mediante la quale l’idea di essere (dalla quale poi si possono derivare, mediante processi di astrazione, universalizzazione e combinazione, tutte le idee più complesse, nonché i principi di non contraddizione, di sostanza e di causa) si incarna e si determina nei dati sensibili (essere reale), permettendoci di giudicare esistente tutto ciò che percepiamo. Ma le sensazioni, nella loro passività, presuppongono il nostro corpo: sentire è sempre sentire di sentire, avvertire la modificazione della coscienza sensibile immediata che abbiamo nel nostro corpo (il sentimento fondamentale corporeo) provocata dall’azione esercitata dalle cose esterne, la cui esistenza non può essere negata o posta in dubbio, giacché la modificazione è l’effetto di qualcosa che avviene in noi ma non è determinato da noi. Infine l’uomo è un essere senziente e intelligente allo stesso tempo: perciò il suo atto conoscitivo è sintetico, atto che Rosmini chiama percezione (perché il soggetto coglie gli enti sensibili attraverso la modificazione dei suoi organi recettori) intellettiva (in quanto il soggetto riferisce le sensazioni all’idea dell’essere, giungendo così a formulare il giudizio). Nella linea direttiva del recupero di un integrale spiritualismo cristiano, Rosmini po-

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ne accanto all’essere ideale (fondante l’attività conoscitiva), l’essere morale, che è oggetto delle scienze deontologiche (morale, diritto, politica). Anche in questo ambito egli si propone di contestare gli indirizzi etici propri della modernità (utilitarismo, edonismo, soggettivismo) in nome del realismo della tradizione del cattolicesimo ortodosso: l’idea dell’essere è criterio, dopo esserlo stato della verità, anche della moralità. Infatti, in chiave agostiniano-tomistica, l’essere è il bene (ens et bonum convertuntur) che la volontà deve attuare e che pertanto si impone all’uomo quale valore oggettivo (il dover essere trova il suo fondamento nell’essere). Come l’atto teoretico compie una stima speculativa che consiste nel riconoscere la gerarchia degli esseri (Dio, uomo, cose), così la stima pratica deve conformarsi a essa e stabilire, senza operare confusione, che alcuni esseri sono fine e altri mezzo. Rosmini precisa che il “riconoscimento” dei gradi dell’essere è un atto sintetico intellettivo-pratico, in cui la volontà del soggetto interviene attivamente (nello sforzo di adeguarsi all’idealità) accanto al puro conoscere, e la cui obbligatorietà categorica è evidente in quanto l’uomo sente che vi deve essere coerenza dell’azione con ciò che l’intelletto presenta (e così l’atto morale è giustificato dalla ragione senza esserne determinato). In quanto ogni individuo è portatore dell’essere-bene ed è libero nella misura in cui è dotato di raziocinio e di volontà, egli possiede un valore inviolabile che deve essere rispettato e promosso: perciò il concetto di persona sta al centro della filosofia pratica di Rosmini, con inevitabili ricadute anche nella sfera giuridica e politica. Come la legge morale impone il dovere del riconoscimento pratico dell’essere, attribuendo a ciascuno il suo, così il diritto si fonda sulla morale, giacché presuppone una persona responsabile delle proprie azioni e il suo dovere di rispettare la persona e la libertà altrui (in tal modo il diritto deriva dal dovere): la libertà giuridica si fonda sulla persona che per sua natura non tollera alcun possessore ed è soggetta solo alla legge morale. Anzi, siccome nella persona si realizza sul piano naturale la maggior perfezione possibile dell’essere, essa non solo “ha” dei diritti ma “è lo stesso diritto sussistente”. I diritti naturali innati (alla verità, alla giustizia, alla felicità) vengono lesi quando si attenua l’autonomia personale e si turba la sua integrità etica, così come lo sono i diritti derivati connaturati quando si invade il dominio della persona

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sul suo corpo, la sua vita e la sua conservazione. I diritti acquisiti sono invece soggetti a una maggiore flessibilità, legata alle circostanze storico-sociali; tra essi spicca quello di proprietà, che si giustifica col legame fisico-morale stabilito tra la persona e le cose utili al proprio sviluppo. A sua volta la società sorge dal vincolo di solidarietà tra le persone, trovando radice in quell’essere ideale che è principio unificatore di tutte le intelligenze. La società civile (intermedia tra la famiglia e l’umanità) ha il compito di disciplinare le modalità dei diritti in modo che lo scambio tra i suoi membri avvenga con sicurezza e profitto: pertanto il suo carattere storico e artificiale non l’autorizza a strumentalizzare ai propri fini gli individui. Il governo è giusto quando si prefigge sia il bene comune (cioè dei singoli) sia quello pubblico (del corpo sociale nel suo complesso), dove però il primo ha l’assoluta preminenza sul secondo, pena la caduta nella ragion di stato e nel dispotismo. Del resto, in chiave liberale Rosmini si schiera per restringere il più possibile i poteri dello stato, la cui competenza è peraltro circoscritta alla sfera dell’utile, che a sua volta risulta legittimo purché sia subordinato a quel bene morale di cui la Chiesa è custode e unico giudice, così come è, quale società fondata sull’autorità divina, l’unico argine di fronte alla tirannia dello stato. Ciò a condizione irrinunciabile di un rinnovamento etico e spirituale della Chiesa, una purificazione della sponsa Verbi dalle “cinque piaghe” (la divisione del popolo dal clero, l’insufficiente educazione del clero, la disunione dei vescovi, la loro nomina condizionata dal potere laicale, la servitù dei beni ecclesiastici) anche attraverso riforme coraggiose (la rinuncia ai diritti feudali, il ritorno alla povertà e alla comunità dei beni, la trasparenza e il rendiconto pubblico nella loro amministrazione ecc.). Nell’ultima fase del suo itinerario filosofico Rosmini indaga sui fondamenti metafisici del proprio pensiero. Rilevata l’unità dialettica delle forme o modi dell’essere (ideale, reale, morale), è pur vero che esso nella sua “virtualità” è impersonale e astratto (esso è da Dio, ma non è Dio, è il “divino” insito nella nostra mente: di qui l’accusa mossa a Rosmini di panteismo): di qui la necessità di ammettere l’Essere Reale capace di far sorgere nell’essere dialettico, la cui essenza è unitaria, la molteplicità dei suoi termini (che infatti hanno e partecipano dell’essere: in questo modo Rosmini deduce la creazione). Nella sua Teosofia Ro-

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smini si sforza di dimostrare che l’essenza non è un’ipostasi, ma esiste solo nell’unità e insieme nella molteplicità delle sue forme, le quali a loro volta non sono uno sviluppo dialettico dell’essere, ma una condizione della sua stessa unità, tanto che nessuna potrebbe sussistere a sé stante senza partecipare a tutto l’organismo dell’essere. Ne consegue che nessuna forma possiede un primato rispetto alle altre: se l’essere ideale è condizione dell’intelligibilità di tutto (e perciò comprende idealmente gli altri due) ma postula un Reale Assoluto (Dio) come proprio corrispondente metafisico, l’essere morale, come nesso di ideale e reale, completa il circolo. La persona umana realizza nel creato la dialettica e la sintesi delle tre forme dell’essere, ma non con la perfezione che si riscontra in Dio, di cui possiamo così scorgere per figurazione analogica (come avevano già affermato Agostino e tutto il filone del platonismo cristiano da Riccardo di San Vittore a Bonaventura) il mistero trinitario. Rousseau, Jean-Jacques Filosofo, letterato e pedagogista (Ginevra 1712 - Ermenonville 1778). la vita. Nato da una famiglia modesta, rimasto orfano di madre e separato dal padre, costretto a emigrare per via di una lite, ebbe una adolescenza e una giovinezza difficili ed errabonde, senza trovare una collocazione stabile. Fu protetto per un certo periodo da M.me de Warens (che gli consentì di dedicarsi con ordine e tranquillità agli studi), ma poi fu costretto a nuove peregrinazioni e a destreggiarsi nella pratica di numerosi mestieri finché, giunto a Parigi, entrò in contatto con il mondo culturale degli illuministi e iniziò l’attività di scrittore. Gli vennero affidate le voci musicali e quella sull’economia politica dell’Enciclopedia e nel 1750 compose (per partecipare a un concorso indetto dall’Accademia di Digione) il Discorso sulle scienze e sulle arti, che gli procurò la vittoria nel concorso e la notorietà, ma, per le tesi sostenute, anche critiche e dissapori con gli altri illuministi. Nel 1754, sempre per un concorso, pubblicò il Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini cui seguì il ritorno a Ginevra dove, approfittando dell’ospitalità di M.me d’Epinay prima e del duca di Montmorency poi, visse una stagione assai feconda in cui videro la luce Giulia o La Nuova Eloisa (1761), il Contratto sociale e l’Emilio o Dell’educazione (1762). Il carattere scontroso, le eccentricità e l’equilibrio psichico instabile gli aliena-

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rono molte simpatie e causarono la rottura di molti rapporti (famosa quella con Hume, nella cui casa a Edimburgo fu per qualche tempo ospite), gettandolo in un isolamento doloroso in cui egli vide ovunque trame e complotti ai suoi danni: malgrado questo clima di sospetti e di sofferenza, Rousseau riuscì a scrivere altre opere importanti come il Progetto di costituzione per la Corsica (1768), le Considerazioni sul governo della Polonia (1772), le Fantasticherie di un passeggiatore solitario (1776-78), e le due opere autobiografiche Confessioni (iniziate nel 1765 e pubblicate postume) e Rousseau giudice di Jean-Jacques (1772-76). Morì improvvisamente nel 1778. il pensiero. In un’epoca “illuminata” che attribuiva al progresso intellettuale il merito di aver diradato l’oscurità dei pregiudizi e delle superstizioni quali condizioni per la riforma della società, il pensiero di Rousseau si colloca nettamente controcorrente. Alla distinzione tra le classi sociali egli oppose l’originaria uguaglianza naturale tra gli uomini, fondata non sulla ragione ma sul sentimento immediato: di qui la denuncia sia del ruolo mistificatorio della cultura che, nata «dall’ozio e dalle vanità», occulta l’ingiustizia e rafforza il potere, sia dell’alienazione in cui l’uomo vive nella società moderna. Nella prospettiva della sua critica, se da un lato il sapere risulta fonte di insincerità, di menzogna e di decadenza dei costumi (Rousseau si ispira ai modelli di virtù degli antichi improntati alla sobrietà e alla naturalezza, esaltati dalla letteratura moralistica classica), dall’altro il vivere “civile” appare imporre l’adozione di una ingannevole uniformità in cui si è succubi delle convenienze e «non si osa più apparire ciò che si è»: i rapporti tra gli individui sono così contrassegnati dalla finzione e dall’artifizio, dalla scissione tra realtà e apparenza, dal predominio dell’avere sull’essere, dall’impossibilità di penetrazione reciproca per via di una insincerità che origina, dietro una patina di formale cortesia, dubbio e insoddisfazione permanente. Se nella corruzione generale si ode frequentemente l’esortazione «torniamo alla natura», è pur vero che questo concetto è impiegato da Rousseau in un’accezione molto particolare: introdotto nel secondo Discorso in un confronto serrato con Hobbes e i giusnaturalisti, lo stato di natura costituisce per lui un’ipotesi teorica, una congettura, un modello dal valore esclusivamente metodologico ed euristico («esso non esiste più, forse non è mai esistito, probabilmente

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non esisterà mai») per spiegare l’origine e le cause dei mali dell’uomo (la disuguaglianza economica, lo sfruttamento, l’ingiustizia sociale, il dispotismo politico). Poiché costituisce un termine normativo per giudicare l’esistente, la sua costruzione presuppone che si eviti l’errore di proiettare su di esso le caratteristiche della civilizzazione (come hanno fatto Hobbes, Locke, Pufendorf): di qui si potrà attingere a uno “stato” originario radicalmente diverso dall’attuale, mediante un’indagine entro l’animo umano che sveli, sotto gli strati della storia, il vero volto dell’uomo. L’immagine che ne emerge è quella di un essere che vive a contatto diretto con la natura, cibandosi e procurandosi il necessario con ciò che essa spontaneamente offre, dotato di bisogni modesti e passioni elementari. In quanto privo di relazioni fisse, egli è anche privo di linguaggio, di memoria, di immaginazione, di riflessione e progettualità: in sintesi un essere amorale (egli ha solo l’amore di sé e la pietà) che non ha ancora sviluppato l’intelligenza. Però essendo, diversamente dagli altri animali, un “agente libero” e perfettibile, l’uomo ha la possibilità di avere una storia e di mutarla, di dare quindi origine a un processo in cui, in seguito a eventi rivoluzionari che segnano altrettanti momenti di discontinuità (la nascita dell’agricoltura e della metallurgia, lo sviluppo della tecnologia, la divisione del lavoro ecc.), si intrecciano progresso (una maggiore disponibilità di beni) e corruzione. Tutto ha inizio con l’istituzione della proprietà privata, che è alla base della vita collettiva come organizzazione di relazioni stabili e codificate (gli istituti civili e giuridici, per la loro stessa genesi, sono funzionali al suo mantenimento), caratterizzate dall’interdipendenza quale condizione e conseguenza per lo sviluppo economico e sociale. Ma se da un lato ciò comporta uno sviluppo indefinito della razionalità (insieme con quello delle altre facoltà), dall’altro genera la continua formazione di nuovi bisogni, la competizione e l’invidia, l’individualismo egoistico, l’amor proprio. In questo contesto si ha “l’origine dell’ineguaglianza” (inesistente nello stato di natura, dove era ridotta a quella fisica), come prodotto artificiale che sancisce la differenza tra ricchi e poveri e i suoi derivati, l’usurpazione e la sopraffazione. La critica alla società corruttrice non si trasforma tuttavia in Rousseau in rifiuto regressivo, ma nella ricerca di una nuova forma in cui si possano ritrovare la semplicità e la sincerità della natura. Essa dovrà

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essere istituita mediante un apposito contratto che consenta il pieno esercizio della libertà e il ripristino dell’originaria bontà e integrità: sotto questo aspetto la politica dovrà creare, insieme con una nuova società, un uomo nuovo. Il contratto sociale, studiato nell’omonima opera, mentre rompe la continuità tra diritto positivo e diritto naturale (il diritto infatti si fonda sulla convenzione), cerca di risolvere il problema della compossibilità tra libertà naturale e uguaglianza da un lato e associazione politica dall’altra, ammettendo un pactum unionis, che difendendo e proteggendo la persona e i beni di ogni associato faccia sì che ciascuno, unendosi a tutti (e quindi alienando il proprio potere individuale alla comunità, vero e proprio “io collettivo”), obbedisca solo a se stesso (si esclude quindi un pactum subiectionis). In questa condizione di totale e incondizionata alienazione di se stessi a tutti gli altri quale fondamento della sovranità (o esercizio della “volontà generale” in quanto mirante al bene comune), si istituirà l’identità tra interessi dei singoli e interessi del corpo politico, per cui, anziché distruggere l’uguaglianza naturale, questo patto ne pone una morale e legittima che rende i singoli, diversi per capacità o intelligenza, uguali per legge e per contratto (quindi Rousseau ammette una disuguaglianza di censo, di rango ecc., ma solo fino al punto in cui essa non metta in pericolo la libertà di qualcuno). In tal modo il pactum unionis conferisce al popolo un potere assoluto su tutti i suoi membri, costituendoli cittadini (per cui solo nella società politica l’individuo realizza la propria libertà, quale libertà civile, qualitativamente diversa da quella naturale). Il popolo è vero sovrano (in modo inalienabile e indivisibile) e in quanto tale detiene il potere legislativo, mentre i governanti e i magistrati esercitano il potere esecutivo e giudiziario per delega, sempre e comunque revocabile. Rousseau, riconoscendo la necessità di una effettiva partecipazione dell’individuo al potere politico, finisce per privilegiare quella democrazia diretta possibile solo negli stati piccoli (come la repubblica di Ginevra) o a struttura federale. Ma una costituzione che attui la piena uguaglianza dei cittadini non è possibile se non si formano nell’uomo le sue genuine e naturali attitudini che consentano di avere piena coscienza dei valori propri della natura umana (le virtù civili al posto dell’amoralità naturale): perciò Rousseau tiene fermamente congiunte l’esigenza politica e quella

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pedagogica. Anche nell’Emilio viene presentata un’ipotesi, un esperimento mentale: per neutralizzare i condizionamenti storico-sociali e consentire lo svolgersi libero e spontaneo della natura umana, sarà necessario lasciare che il bambino si sviluppi in ordine ai suoi bisogni essenziali, senza imporgli alcuna cultura o autorità. Pertanto Rousseau afferma decisamente un modello pedagogico puerocentrico, che rispetti tempi ed esigenze dell’educando. Questo processo pedagogico si svolgerà dunque in campagna, in un isolamento che possa procurare le condizioni favorevoli al completo e spontaneo sviluppo delle facoltà del fanciullo secondo le leggi proprie della natura umana e in ordine alle esigenze e alle esperienze proprie di ciascuna età (che dunque ha in sé il suo fine e non può essere intesa come preparazione a quella successiva). L’educazione di Emilio ripercorrerà in tal modo, su scala individuale, il cammino dell’umanità dallo stato di natura a quello sociale, in modo non disordinato e indeterminato ma sotto la guida di un pedagogo che sottoponga tutto il processo a controllo razionale. La sua funzione sarà tuttavia (almeno in linea di principio) “negativa”, in quanto limitata «non già a insegnare la virtù e la verità, ma a preservare il cuore dal vizio e la mente dall’errore». Se egli provocherà talvolta qualche stimolo, lo farà in modo che Emilio sia condotto dalle cose ad apprendere nozioni nuove (ma a un certo punto sarà evidente che il pedagogo ha già tutto pianificato in modo che Emilio creda di scoprire da se stesso ciò che in realtà è stato sapientemente predeterminato), fermo restando che il vero maestro è la vita nelle sue molteplici forme. Rousseau descrive ampiamente, secondo uno schema quadripartito, lo sviluppo cognitivo (dalla sensazione al pensiero razionale), morale (che cresce senza premi o punizioni ma con la pura autorità fino all’accettazione della “necessità delle cose” e dei propri doveri, nel governo delle proprie passioni da parte della ragione) e religioso (fondato sulla “fede” naturale in un essere intelligente che anima l’universo governandolo provvidenzialmente e che trova nel cuore la forma più adeguata di culto, e nella libertà dell’uomo) del fanciullo. Questo sviluppo è sempre legato a esperienze concrete, fino a che Emilio raggiungerà la dimensione sociale e, pur cresciuto solo e autonomo come l’uomo naturale, sarà pronto per incontrare gli altri in un confronto sincero e schietto: essendo in grado di distinguere autonomamente il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, si sotto-

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porrà liberamente all’autorità della volontà generale della comunità in cui vive. Per la novità delle idee e lo spessore teorico, il pensiero di Rousseau ha avuto molteplici influenze ed è stato al centro dei dibattiti successivi in sede politica (dagli idealisti a Marx ai teorici odierni della democrazia) pedagogica (da Pestalozzi all’attivismo) e letteraria (intorno alla sua figura e alla sua opera ruotano gran parte delle indagini attuali sulle forme espressive e i modi d’essere della modernità). Rozanov, Vasilji Filosofo e scrittore russo (1856-1919). Al centro della sua esperienza spirituale vi è l’esigenza di una pienezza di vita che, mentre risultava inattingibile entro gli schemi della ragione, egli sentiva realizzata nella sfera dell’affettività e della sessualità. Di questa Rozanov celebrò la potenza generativa e creatrice (come tale essa appariva racchiudere un profondo significato religioso), il cui centro era costituito dall’intimità familiare, autentica sede dei valori vitali culminanti nel concepimento e nella nascita, quali momenti di rinnovamento e affermazione della vita sulla morte. Di qui le sue simpatie per il paganesimo (e l’Antico Testamento) e la sua avversione per il cristianesimo, che al contrario rappresentava un atteggiamento di sconfitta e di rinuncia (per questi suoi motivi antirazionalistici e anticristiani viene chiamato il “Nietzsche russo”). Questo tema è presente soprattutto in Il volto oscuro (dove Rozanov accusa Cristo di aver affascinato il mondo con la bellezza della morte spegnendo la gioia in un mare di lacrime con il suo culto per la sofferenza e la mestizia), in un suo commento filosofico alla Leggenda del grande inquisitore di Dostoevskij (dove però la lotta contro Cristo diventa una lotta per rendere Cristo accetto all’uomo) e nell’Apocalisse del nostro tempo, dove egli si scaglia contro il nichilismo cristiano che ha svuotato il mondo della sua energia, con l’inazione, con la fuga nel deserto, consegnandolo alle forze distruttive dell’empietà, al disastro apocalittico della rivoluzione. Ruskin, John Filosofo, critico e storico dell’arte inglese (Londra 1819 - Brantwood 1900), autore di opere famose quali Pittori moderni (3 voll. rispettivamente del 1843, 1846, 1856), Le sette lampade dell’architettura (1849), Le pietre di Venezia (1851-53), Preraffaellismo (1851). Teoreticamente vicino ai romantici e all’idealismo (Wordsworth, Coleridge, Carlyle), egli pone nell’amo-

Russell

re il fattore determinante dell’espressione artistica, che non deve riprodurre la realtà ma aderirle con simpatia immediata per coglierne, attraverso gli aspetti visibili, l’intima essenza e verità. Nulla in essa è indegno di essere rappresentato, anche se l’artista sceglie sempre determinate forme, più adeguate al suo gusto inteso come categoria della visione (o schema visuale). Nella storia dell’arte si può notare, secondo Ruskin, il prevalere di una categoria sulle altre: in corrispondenza con lo sviluppo della visione artistica secondo tre fasi (quella lineare priva di spazio, quella della superficie dove lo spazio è reso nelle sole dimensioni del piano, quella della massa dove lo spazio assume anche la profondità), si sarebbe passati dalla semplice linea (età primitiva) alla combinazione di linea e luce (ceramica greca), a quella di linea e colore (vetrate gotiche), di massa e luce (Leonardo), di massa e colore (Giorgione), infine di massa luce e colore (Tiziano). Ruskin fu un fervente estimatore (e quindi ripropositore) del gotico, che egli interpretava come naturalmente proprio dei popoli dotati di vigore creativo: perciò la sua decadenza è sintomo di una crisi generale della civiltà e di un’involuzione storica, che oggi ha toccato il suo culmine nel capitalismo, distruttore del rapporto dell’uomo con la natura e con esso di ogni capacità espressiva esteticamente significativa. Russell, Bertrand Arthur William Filosofo, logico, matematico inglese (Trelleck 1872 - Penrhyndeudraeth 1970), tra le maggiori personalità del XX secolo. la vita. Nato da nobile famiglia, dopo un’educazione privata frequentò l’università di Cambridge, dove si laureò e strinse amicizia con varie personalità del mondo intellettuale, tra cui particolarmente importante fu quella con Moore. Dopo un periodo segnato dall’idealismo di ➔ Bradley, la conoscenza delle teorie di ➔ Peano impresse una svolta al suo pensiero, che si orientò in senso logico (aderì al programma di ricostruzione logica della matematica sulla linea di Cantor e Frege, come testimoniano i Principi della matematica del 1903 e i tre volumi dei Principia mathematica, stesi con ➔ Whitehead nel 1913), affrontando in modo originale le questioni più complesse della teoria degli insiemi e della filosofia del linguaggio (famoso è il saggio Sulla denotazione del 1905). Intrapresa sempre a Cambridge la carriera accademica, ebbe come allievo Ludwig Wittgenstein, con cui intrecciò un forte legame

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intellettuale, discutendo punto per punto le teorie del Tractatus. In questo modo Russell pervenne a una concezione empiristico-realista in sede ontologica e gnoseologica, espressa nella Filosofia dell’atomismo logico del 1919 e in una serie di scritti quali I problemi della filosofia (1912), La nostra conoscenza del mondo esterno (1914), Misticismo e logica (1918), L’analisi della mente (1921), Ricerca su significato e verità (1940), La conoscenza umana (1948), Logica e conoscenza (1956). Dopo aver compiuto viaggi in Cina e Russia, dal 1938 alla Seconda Guerra Mondiale risiedette negli Stati Uniti dove insegnò in vari istituti. Tornato a Cambridge, ricevette nel 1950 il Nobel per la letteratura. Sempre impegnato sul piano etico e politico, fu un pacifista convinto, schierandosi contro il totalitarismo sovietico (Teoria e pratica del bolscevismo, 1920) ma anche contro il maccarthismo americano, contro la corsa agli armamenti nucleari delle superpotenze, contro i crimini di guerra americani in Vietnam. Fu di vedute radicali in campo religioso e pedagogico e in materia di morale sessuale – Matrimonio e morale (1927), Educazione e ordine sociale (1932), Perché non sono cristiano (1927) – assumendo spesso atteggiamenti anticonformisti che gli costarono anche denunce e ostilità nell’ambiente puritano anglosassone. Da una serie di conferenze nacque la famosa e brillante Storia della filosofia occidentale (1934). il pensiero. Gli esordi della filosofia russelliana possono essere fissati nella lettera inviata a ➔ Frege nel 1902, in cui viene comunicata l’antinomia che apre la cosiddetta “crisi dei fondamenti”. Nel programma di ricostruzione rigorosa della matematica su basi logiche (ogni concetto matematico può essere dedotto da quelli fondamentali della logica, e ogni proposizione matematica può essere ricavata dagli enunciati primi della logica), Frege, una volta ridotto il concetto di numero a quello logico di classe (o di insieme), era giunto a concepire la relazione tra classi in termini di corrispondenza biunivoca (estesa per analogia ai concetti, che sono equinumerosi quando è possibile stabilire una corrispondenza tra le rispettive estensioni) per cui due classi hanno lo stesso numero cardinale (o potenza) se ogni elemento dell’una corrisponde a ogni elemento dell’altra. Russell fornirà un essenziale contributo alla realizzazione di questo progetto con i Principi della matematica, definendo il numero come «nient’altro che una classe di classi equipotenti». Tuttavia egli rileva che

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in questa struttura fregeana vi è una proposizione (deducibile anche dall’assioma di astrazione, per cui ogni proprietà individua l’insieme degli oggetti che ne godono) che, pur essendo legittima, risulta autocontraddittoria (si tratta di un paradosso che riproduce lo schema di quello antico del mentitore): dato un insieme che non contenga se stesso come elemento (e perciò detto normale), e posto che tutti gli insiemi sono di questo tipo, si potrà tuttavia darne uno non normale, infatti, l’insieme I di tutti gli insiemi normali è a sua volta normale o non normale? Se I contiene se stesso come elemento, allora è normale e come tale non può contenere se stesso. Se non contiene se stesso, allora è per definizione normale, ma insieme a tutti gli altri insiemi normali deve essere elemento di I e quindi contenere se stesso come elemento. In entrambi i casi si cade in contraddizione, rendendo in questo modo inaccettabile più in generale l’assunzione dell’esistenza, per ogni condizione linguistica, dell’insieme di tutti e soli gli oggetti che la soddisfano. A questa difficoltà Russell fa fronte con la teoria dei “tipi logici”: essa si risolve in una prescrizione di carattere linguistico, secondo la quale, una volta distinti i predicati in vari tipi (al livello 0 i nomi di individui, al livello 1 le proprietà di individui o classi, al livello 2 le proprietà di proprietà o classi di classi ecc.), non si può mai impiegare un predicato in una proposizione in cui il soggetto sia di tipo uguale o superiore a quello del predicato stesso. L’universo del discorso viene considerato come stratificato in vari livelli, per cui quando parliamo di tutti gli oggetti che soddisfano una data condizione, dobbiamo intendere solo gli oggetti di un dato tipo, sicché le classi di questi oggetti devono essere omogenee per quanto riguarda i loro elementi. Superato questo scoglio egli (insieme con Whitehead) realizzerà in concreto (nei monumentali Principia mathematica) l’unificazione della matematica classica sulla base di alcuni assiomi e nozioni fondamentali, costruendo in questo modo una grande logica come fondazione del pensiero astratto nella sua globalità. In questo campo Russell, come Frege, è un platonico: in opposizione alle dottrine psicologistiche e formalistiche, egli sostiene che gli enti logici (classi, relazioni ecc.) sono realtà dotate di sussistenza oggettiva che la mente deve solo scoprire (e non inventare), in quanto da essa indipendenti. Ma se il logico tedesco, presupponendo che una descrizione (assimilabile ai no-

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mi propri) si attagli a un solo oggetto, aveva distinto in una proposizione tra senso e significato, cioè tra l’oggetto indicato (significato o denotazione) e ciò che dell’oggetto viene detto (senso o connotazione, per cui si possono dare due proposizione con lo stesso significato ma di senso diverso), su questo punto Russell apporta una fondamentale correzione. Prendendo spunto dall’osservazione di Meinong per cui possono esistere proposizioni vere e dotate di significato, pur non riferendosi a nulla (per esempio se io dico «il circolo quadrato non esiste», ciò non implica l’esistenza degli oggetti indicati dalle espressioni denotanti, in tal caso dei circoli quadrati), nel saggio Sulla denotazione egli approda a una teoria delle descrizioni per cui una parola o una frase non ha né significato né essenza di per sé (sono simboli incompleti), ma li acquisisce solo nel contesto di una proposizione significante: poiché le espressioni denotanti sono sempre incomplete, si tratterebbe di sostituire le espressioni apparentemente denotative (compreso il verbo “esistere” e il verbo “essere” in funzione non copulativa) con parafrasi costituite da una combinazione di predicati che si possano o meno applicare a individui e che ne esplicitino in tal modo la struttura logica. In tal modo Russell viene ad attenuare il realismo delle classi precedentemente sostenuto, pur senza accogliere (come i neopositivisti) una versione puramente nominalista della logica (per lui il concetto di relazione conserverà sempre un immediato valore ontologico). Se, in base alla teoria delle descrizioni, le espressioni denotanti sono incapaci di avere significato autonomo e vanno perciò nettamente distinte dai nomi propri che soli, isolatamente presi, sono significanti, allora si può distinguere tra conoscenza diretta e conoscenza per descrizione, dove quest’ultima è riducibile alla prima mediante l’analisi logica. Del resto, questo è l’indirizzo preso da Russell a partire dal 1912, culminante con la Filosofia dell’atomismo logico del 1919: in sintonia con le idee di Wittgenstein e dell’empirismo inglese (per cui la conoscenza scientifica del mondo è una costruzione fondata sui dati dell’esperienza pura), egli teorizza un’ontologia di oggetti (fatti atomici e fatti complessi) cui corrisponde un’analoga struttura proposizionale del linguaggio. Se in un primo tempo egli accoglie le coppie categoriali mentale-fisico e universale-particolare, progressivamente (a partire da La nostra conoscenza del mondo esterno del 1914), egli sostituisce alla concezione

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della materia come causa dei dati di senso quella come complesso di dati di senso privi della nota della sensazione (sensibilia), e (nell’Analisi della mente del 1921) giunge a concepire anche il soggetto, che non è mai dato come entità dell’esperienza, come costruzione sulla base di sensibilia. La diversità tra mente e materia non è perciò di tipo sostanziale ma relazionale, cioè relativa ai modi in cui vengono raggruppati gli elementi atomici dei sensibilia. In tal modo, se da un lato viene meno il realismo proprio della scienza e del senso comune, dall’altro la realtà diventa il risultato di una costruzione senza costruttore (La conoscenza umana del 1948). Gran parte della produzione russelliana è dedicata alle problematiche etiche, politico-sociali e religiose, nelle quali mostra lo stesso atteggiamento aperto e antidogmatico. Le sue concezioni in merito ruotano intorno a due presupposti: da un lato la netta distinzione tra giudizi conoscitivi riguardanti materia di fatto e giudizi di valore (per cui i valori esprimono stati emozionali e non si possono dedurre scientificamente), e dall’altro la strenua difesa della libertà individuale. Sotto quest’ultimo aspetto egli si è battuto costantemente contro ogni forma di dogmatismo, di assolutismo e di fanatismo che mortificano e frustrano il naturale desiderio umano di amore e di felicità. Con coraggio e coerenza, Russell ha polemizzato contro le ingiustizie sociali del capitalismo, contro il totalitarismo bolscevico, contro le ingerenze e gli abusi del potere sotto qualsiasi sistema si manifestasse; ha difeso il libero amore dalla bigotta e ipocrita morale vittoriana; ha attaccato le forme religiose tradizionali (e le relative istituzioni ecclesiastiche) quali visioni dogmatiche, insensate dal punto di vista teorico e implicanti una morale oscurantista e morbosa; ha cercato di promuovere la creatività e lo spirito critico minacciati dal progresso tecnico anche attraverso rivoluzionari esperimenti educativi (malgrado gli esiti deludenti sul piano pratico). Ryle, Gilbert Filosofo inglese (Brighton 1900 - Whitby 1976), professore a Oxford e direttore della rivista Mind. Il suo orientamento squisitamento analitico si è costituito non solo per l’influenza di Moore, Russell e più tardi di Wittgenstein, ma anche per quella di Husserl, Platone e Aristotele (in quanto maestri di analisi linguistico-concettuale e tecnica argomentativa). Egli attribuì alla filosofia un compito essenzialmente cri-

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tico-terapeutico, consistente nello scoprire, correggere e prevenire gli errori generati dall’assegnazione di concetti a categorie cui non appartengono: l’analisi dovrebbe mirare alla riformulazione di espressioni “sistematicamente fuorvianti” (termini o frasi in cui la forma grammaticale non corrisponde a quella dei fatti) al fine di evitare equivoci e fallacie argomentative (in tal modo Ryle prende le distanze dalla pretesa dell’atomismo logico di riformare il linguaggio per renderlo isomorfo con la realtà). Ryle affidò alla filosofia anche il compito costruttivo di determinare una sorta di topografia dei nostri concetti (dove il luogo cui un concetto appartiene è «l’insieme dei modi in cui è logicamente legittimo operare con esso») e studiare la logica delle proposizioni in cui vengono usati (con quali altre proposizioni sono compatibili, quali altre proposizioni sono deducibili ecc.). Questa concezione

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del filosofare ha trovato la sua applicazione più organica ne Lo spirito come comportamento (1949), in cui Ryle combatte quello che ritiene il “mito” dello “spirito della macchina” (cioè la dottrina cartesiana circa l’antitesi radicale tra corpo e anima), mostrando la risoluzione degli stati mentali in comportamenti effettuati secondo regole sociali. In Dilemmi (1954) Ryle sostenne che conclusioni mutualmente incompatibili si dissolvono con la consapevolezza che si tratta di affermazioni appartenenti ad aree logico-linguistiche diverse e indipendenti. Nell’ultima fase della sua attività si è occupato (in Teoria del significato, 1973) della teoria denotazionista (fondata sull’indebita assimilazione di ogni tipo di parola al nome proprio) criticandola in nome di una concezione plurifunzionale del significato, non limitabile in senso neopositivistico alla relazione della parola con un oggetto.

S Sade, Donatien-Alphonse-François marchese de Letterato e filosofo francese (Parigi 1740-1814). Nato da nobile famiglia, è autore di molti romanzi (Le 120 giornate di Sodoma, 1782-85; Justine, 1791; Aline e Valcour, 1795; La nuova Justine seguita dalla storia di Juliette sua sorella, 1797; La filosofia nel boudoir, 1795; I crimini dell’amore, 1800) in cui le vicende dei personaggi si stagliano sullo sfondo di una natura regolata da proprie leggi che rendono l’uomo privo di libero arbitrio e quindi anche di responsabilità morale. Naturali divengono dunque il vizio (superiore alla virtù perché procura piacere) e il crimine (è la stessa natura a regolarsi sul principio di distruzione infliggendo dolori alle creature e legittimando così l’inclinazione al male presente nell’uomo), poiché la natura non ha in Sade nulla di benevolo e di armonioso. Nel Dialogo tra un prete e un moribondo (1782), Sade sostiene un ateismo radicale, del tutto omogeneo e coerente con il suo materialismo: le religioni sono un’impostura e costituiscono uno strumento di controllo sociale e politico, compreso il razionale e laico deismo. Saint-Simon, Claude-Henry de Rouvroy conte di Filosofo francese (Parigi 1760-1825), tra i maggiori esponenti del socialismo utopistico. Al centro della sua riflessione, avviata già in età napoleonica (Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei del 1803, Introduzione ai lavori scientifici del secolo XIX del 1808), è il tema dell’industria, intesa come intero complesso delle attività produttive: ne consegue che tutti gli uomini che lavorano per produrre e mettere a disposizione ciò che serve per la soddisfazione dei bisogni (imprenditori, operai, contadini, commercianti, banchieri) si devono ritenere “industriali”, e che la “società industriale” si oppone a quella degli oziosi (nobili, cortigiani, militari, magistrati). Saint-Simon ha duramente polemizzato, nell’età della Restaurazione, contro l’irrazionalità di un sistema che subordina politicamente i creatori di ricchezza agli oziosi parassiti, e ha sostenuto caldamente una riorganizzazione della società fondata sulla base del sistema unitario delle scienze e

delle arti (non semplicemente enciclopedico ma illustrativo delle connessioni e gerarchie tra le varie discipline) e di un sapere idoneo a rispondere alle esigenze dell’epoca moderna. Come scienziati e industriali sono chiamati a dirigere la nuova società in modo da assicurarle sviluppo e progresso, così Francia e Inghilterra sono chiamate alla guida dei popoli europei per unirli contro le potenze oscurantiste e reazionarie (Della riorganizzazione della società europea, 1814): questo progetto si inserisce in una visione progressiva della storia in cui si alternano epoche “organiche” (quali l’antichità e il medioevo), basate su un sapere sistematico e aprioristico e su un’organizzazione della società improntata all’equilibrio e all’unità (culturale, politica, sociale), a epoche “critiche” in cui prevalgono fattori di conflittualità e frammentazione e in cui il sapere è prevalentemente analitico e fondato sull’esperienza. Secondo Saint-Simon l’età presente segna il culmine di una fase critica, mentre si preparano le condizioni di una nuova organicità: in particolare lo sviluppo recente della fisiologia può costituire il modello per la fondazione di una nuova scienza dell’uomo e della società come «vera macchina organizzata nella quale tutte le parti contribuiscono in maniera diversa alla vita dell’insieme». Il nuovo ordine sociale e istituzionale (Del sistema industriale del 1820-22, Catechismo degli industriali del 1823-24) sarà guidato dal “partito degli industriali”, unico partito “nazionale” in cui imprenditori e operai agiranno in modo solidale per il progresso della società, nel quale ci saranno diritti solo per chi porterà un contributo concreto all’incremento della ricchezza e la proprietà privata sarà garantita in modo proporzionale al lavoro prestato e comunque unicamente in vista dell’utilità comune. La società industriale non è basata su un’uguaglianza astratta, giacché essa è direttamente collegata con i diversi ruoli e funzioni che competono ai singoli: così, con lo sviluppo produttivo conseguente alla nuova organizzazione razionale della società centralmente pianificata, ognuno troverà soddisfazione ai propri bisogni e regnerà l’armonia in quanto «tutti sono

Sansimonismo

dei collaboratori, dei soci, dal più semplice manovale al più ricco industriale, all’ingegnare più illuminato». Nell’ultima fase della sua vita Saint-Simon impresse al proprio pensiero una svolta religiosa (Il nuovo cristianesimo, 1825), valutando indispensabile accompagnare la riforma della società con una riforma morale che aggiornasse all’epoca moderna l’etica cristiana: se questa è imperniata sull’amore per il prossimo, allora essa deve tradursi nell’impegno a «migliorare il più rapidamente possibile l’esistenza morale e fisica» degli uomini, specialmente delle classi più povere. Sansimonismo Dottrina filosofica ed etico-politica coltivata e diffusa, dopo la morte di ➔ Saint-Simon, dai suoi seguaci (tra i quali principalmente Enfantin e Bazard) che, uniti da un vincolo quasi religioso (costituirono una setta gerarchicamente strutturata), ne avevano raccolto e sviluppato le concezioni teoriche cercando di realizzarne l’ideale sociale. Attraverso vari giornali (Le Globe, Le Producteur, Le Credit) essi promossero la pace (quale necessario presupposto della produzione e dello sviluppo, pur approvando i moti popolari come giuste rivolte contro la feudalità), l’abolizione dell’eredità e della proprietà capitalistica (secondo il principio «a ciascuno secondo le sue capacità, a ogni capacità secondo le sue opere» e al fine di convogliare tutte le energie dallo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” a quello del “globo”), la creazione di una banca centrale con funzioni di intermediazione per la pianificazione e l’incentivazione delle attività produttive, un ordine sociale fondato sulla gerarchia delle competenze e sul potere degli industriali, la sostituzione della politica con la gestione “scientifica” delle cose. Il gruppo espose i suoi progetti in un manifesto collettivo La dottrina di Saint-Simon (1828-30), tentando una sintesi tra positivismo e romanticismo contenente forti motivi antirazionalistici e panteistici. Il carattere mistico fu accentuato sotto la guida di Enfantin, che orientò gli interessi del sansimonismo verso l’Oriente e in particolare l’Egitto (di cui si propose l’industrializzazione attraverso il taglio del canale di Suez e la costruzione di una diga sul Nilo), finché il gruppo si disgregò e i suoi membri finirono con l’aderire al regime di Napoleone III. Malgrado ciò il sansimonismo costituì un centro attivo di fermenti culturali e al suo interno si formarono importanti esponenti sia dell’industria e della finanza (come Lesseps) sia del socialismo francese.

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San Vittore, Scuola di

Santayana, George Filosofo americano di origine spagnola (Madrid 1863 - Roma 1952), professore a Harvard. Inizialmente naturalista e umanista (la sua prima opera La vita della ragione del 1906 è la storia del progresso umano in chiave evoluzionistica), vide la ragione e lo spirito emergere dalla natura e dal corpo come loro ragion d’essere e rispettive entelechie. Ammiratore e seguace di Schopenhauer e delle filosofie orientali, seguì un indirizzo di realismo critico, per il quale restava fondamentale la distinzione tra soggetto e oggetto almeno nei termini di essenza (ente puramente logico, eterno e immutabile) ed esistenza (il complesso della natura nel suo continuo divenire spaziotemporale, insieme di tutte le forze e cause efficienti): poiché la nostra vita organica implica contatti continui con le cose esterne (esse trasmettono stimoli che trovano una risposta negli stati mentali), noi siamo certi della loro esistenza per “fede animale” (Scetticismo e fede animale, 1923). Ai fini della loro conoscenza (guidata da bisogni pragmatici e sociali), l’uomo usa le essenze come simboli, sfruttandone solo una parte: le altre possono essere contemplate disinteressatamente nell’arte e nella contemplazione mistica. Questa prospettiva venne approfondita ne I regni dell’essere (1927-40), mentre ne L’idea di Cristo nei Vangeli (1949), Gesù è presentato, per la sua duplice natura divina e umana, come l’ideale stesso della vita spirituale nella sua costante tensione fino al sacrificio. Da questo punto di vista Santayana criticò tutte le forme di oppressione sociale e politica, dal comunismo al capitalismo (la società americana viene rifiutata per il suo eccessivo conformismo e materialismo), in quanto impediscono il libero sviluppo della personalità umana. San Vittore, Scuola di Fondata da Guglielmo di Champeaux nel 1108 presso Parigi, fu una delle più celebri scuole abbaziali di questo periodo, grande centro di cultura e spiritualità, tra i più dinamici e fecondi punti di diffusione intellettuale. I chierici che la reggevano intendevano offrire, attraverso un’attività didattica che copriva l’intero arco del trivio e del quadrivio, uno strumento per una più ampia formazione umana e religiosa, attraverso una via mediana tra un sapere puramente laico e mondano e una sapienza di derivazione soprannaturale ed esclusivamente ascetica. Gli studia humanitatis (la Bibbia e i Padri, ma anche autori pagani come Platone, Cicerone, Virgilio, Ovidio) venivano dunque coltivati non per

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il loro valore intrinseco, ma in quanto mezzi, certo utili e indispensabili, per l’innalzamento dell’anima alla contemplazione di Dio. La scuola ha annoverato tra le sue fila grandi maestri, come Ugo e Riccardo di San Vittore, ma anche figure meno rilevanti come Tommaso da Vercelli, Goffredo e Gualtiero, che hanno saputo mantenerne alto il nome diffondendo gli ideali di quell’umanesimo religioso che è stato tra i fattori vitali della “rinascita del XII secolo”. Sartre, Jean-Paul Filosofo, romanziere e drammaturgo francese (Parigi 1905-1980), uno dei massimi rappresentati dell’esistenzialismo, testimone attento e acuto del nostro tempo. la vita. Nato da una famiglia della borghesia intellettuale, educato in un clima fortemente religioso e segnato dalla morte precoce del padre (clima e vicende che determinarono i tratti del suo carattere e le sue scelte di uomo, come ricorda nel libro autobiografico Le parole), studiò filosofia all’École Normale Supérieure fino al 1927. Venuto a contatto con il pensiero di Husserl e Heidegger, potè appropriarsi approfonditamente degli strumenti della fenomenologia durante un soggiorno a Berlino nel 1933-34, cui seguì la pubblicazione di opere ispirate a questo metodo (L’immaginazione del 1936, Abbozzo di una teoria delle emozioni del 1939, L’immaginario del 1940). Parallelamente alla strutturazione della sua ontologia, inizia anche la sua attività letteraria, con il romanzo La nausea (1938), la raccolta di novelle Il muro (1939), i drammi Le mosche (1943) e A porte chiuse (1945), mentre del 1943 è il capolavoro teoretico L’essere e il nulla. Durante la guerra Sartre fu rinchiuso in un campo di prigionia e partecipò alla resistenza, maturando convinzioni politiche in senso libertario e marxiano. Nel dopoguerra fondò, con Merleau-Ponty, la rivista Les temps modernes, pubblicò i saggi L’esistenzialismo è un umanismo (1946) e Che cos’è la letteratura (1947), romanzi (L’età della ragione e Il rinvio 1945, La morte nell’anima 1949), scritti per il teatro (La sgualdrina timorata 1946, Le mani sporche 1948, Il diavolo e il buon Dio 1951, I sequestrati di Altona 1960), pamphets politici (L’antisemitismo 1946, I comunisti e la pace 1952). Nel clima teso della guerra fredda, Sartre si avvicina in termini sia politici (pur con posizioni indipendenti e talora critiche) che teorici al comunismo sovietico e al marxismo. Mentre ciò gli costa (specialmente dopo l’inva-

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sione sovietica dell’Ungheria) la rottura dei rapporti con Camus e Merleau-Ponty, egli viene maturando nuove prospettive teoriche, che trovano espressione in Questioni di metodo (1957) e soprattutto nella Critica della ragione dialettica (1960). Negli anni Sessanta si schiera contro la guerra d’Algeria e si impegna nei problemi della decolonizzazione, scrivendo dense prefazioni ai libri di Nizan e Fanon. Nel 1964 gli viene conferito il Nobel per la letteratura, ma Sartre lo rifiuta in segno di protesta contro i valori borghesi. Quando nel 1968 i carri armati sovietici invadono la Cecoslovacchia, rompe con il Partito comunista e si avvicina al maoismo e all’estrema sinistra, partecipando ai dibattiti e alle manifestazioni politiche del movimento studentesco di quegli anni. Gli ultimi suoi scritti sono un biografia di Flaubert (L’idiota di famiglia del 1971-72), scritti polemici contro lo strutturalismo, articoli, saggi. Negli ultimi anni, divenuto quasi cieco, affida il suo pensiero a interviste, restando lucido e acuto fino alla fine. il pensiero. Le prime ricerche di Sartre sono di natura psicologica: servendosi del metodo fenomenologico e di quello della Gestalt, indaga il mondo dell’immaginazione e delle emozioni. Da esse emerge una questione di carattere ontologico, l’essenza della coscienza stessa come intenzionalità (la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa) e libertà (intesa come possibilità di porre i propri oggetti). Approfondendo quest’ultimo aspetto, Sartre ne evidenzia il lato negativo: i prodotti dell’immaginazione sono “irreali” e perciò aspetti del “niente” in rapporto al mondo che è totalità del reale. Il mondo non è la coscienza, che al contrario è apertura al mondo, incarnata nella densa realtà dell’universo. La coscienza è “il nulla”, capacità “nullificante” in quanto ha la proprietà di distanziarsi dall’essere che le sta di fronte come supporto e residuo irriducibile della sua attività, in funzione di significati e di possibili orizzonti di senso che essa liberamente pone. Ma allora, se la coscienza è costitutiva del reale (non esiste un senso del mondo se non per la coscienza) nello stesso tempo è anche un suo annichilimento (quando l’uomo non ha più scopi, il mondo resta privo di senso): l’uomo è l’essere «mediante il quale il niente viene al mondo». Questa la tesi espressa nel romanzo filosofico La nausea, in cui Sartre contrappone l’assurdo ai valori della filosofia classica (dall’illuminismo all’idealismo, al positivismo) incarnato da un personaggio che, ri-

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flettendo sulle ragioni della propria esistenza e del mondo che lo circonda, vive l’esperienza rivelatrice della nausea quale sentimento che invade l’uomo allorché scopre la totale contingenza e assurdità del reale, la gratuità delle cose e di se stesso. L’essere e il nulla raccoglie e sviluppa in un’ampia e articolata struttura teoretica i temi fin qui affrontati, esaminandone anche le implicazioni etiche. Innanzitutto Sartre presenta una concezione ontologica in cui l’essere è considerato nell’irriducibile dualità (di derivazione cartesiana) di essere-in-sé (sistema globale della realtà bruta, immediata, non isolabile, irriducibile, inerte, densa, opaca a se stesso e piena di sé) ed essere-per-sé (coscienza, che si muove in quella realtà da cui parte per tessere un’infinita trama di rapporti). Di fronte all’“insé” sta il “per-sé”: la coscienza è nel mondo ma è radicalmente eterogenea rispetto a esso. «La coscienza è coscienza di qualcosa: questo significa che la trascendenza è struttura costitutiva della coscienza, cioè che la coscienza nasce rivolta sopra un essere che non è essa stessa». Non legata al mondo, la coscienza è assolutamente libera: l’essere è pieno e compiuto (a questo proposito si è potuto parlare di eleatismo sartriano), la coscienza è vuota di essere, è “nulla” (ha la proprietà «di non essere quel che si è e di essere quel che non si è»), è possibilità e quindi libertà. Correlato necessario della negazione dell’in-sé, essa è il farsi del per-sé, «l’essere dell’uomo, cioè il suo niente d’essere». L’uomo è del tutto e sempre libero o non lo è mai (su questo si fonda l’ateismo di Sartre: se Dio ci fosse io non sarei libero; ma io sono libero: dunque Dio non esiste). «Io sono condannato a esistere per sempre aldilà dei moventi e dei motivi del mio atto: io sono condannato a essere libero. Ciò significa [...] che non siamo liberi di cessare di essere liberi». Una volta gettato nella vita, l’uomo è responsabile di tutto quello che fa: si sceglie incondizionatamente, è ciò che progetta di essere, e il mondo è quello che è unicamente perché egli l’ha voluto e fatto così (nulla è per se stesso un ostacolo, se non è interpretato e dunque voluto così). Voler sfuggire alle proprie responsabilità, cercare delle scuse significa essere in malafede, cioè presentare come intrinsecamente necessario e inevitabile ciò che è stato voluto, assumere il modo d’essere delle cose identificandosi conformisticamente con modelli comportamentali reificati legati a ruoli e gerarchie sociali (ne La nausea e nelle novelle del Muro vengono bersagliate

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le figure dei borghesi che si rifugiano dietro valori consacrati dalla tradizione). Come la nausea svela la gratuità e assurdità dell’esistenza, così l’angoscia è il sentimento metafisico del nulla, cioè della libertà assoluta: poiché l’uomo è «l’essere per cui tutti i valori esistono». Manca tuttavia in Sartre l’indicazione di un criterio per definire la qualificazione positiva o negativa di tali valori e quindi per determinare in modo corrispondente il nostro progetto di vita: tutti i valori, tutte le attività umane sono equivalenti («ubriacarsi in solitudine o condurre popoli»). Ciò si può constatare esaminando le relazioni con l’altro: posto che l’essere-per-sé è anche essere-per-altri, l’altro si rivela come tale nelle esperienze in cui invade il campo della mia soggettività. L’incontro intersoggettivo si configura sempre come tentativo reciproco di riduzione strumentale a oggetto del proprio mondo, perciò è intrinsecamente conflittuale («l’inferno sono gli altri» come afferma un personaggio del dramma A porte chiuse): l’altro è colui che mi vede, che mi scruta, che mi spia per cogliere il momento opportuno in cui impossessarsi di me. Quando nel mondo della mia coscienza entra un altro, io non sono più libero, sono espropriato di me stesso perché mi trovo come elemento di un progetto che non è il mio e non mi appartiene: perciò «ciascuno di noi è il carnefice dell’altro». Infine, se le cose sono prive di senso, le azioni degli uomini sono senza valore, anche se il loro senso ultimo esprime la tensione a realizzare un progetto in cui si realizzi l’impossibile sintesi di in-sé e per-sé (cioè di diventare Dio, assoluta libertà e insieme assoluta necessità). La vita è un’avventura senza senso, la libertà consistente nella scelta del proprio essere è assurda, l’esistenza è un progetto destinato al naufragio: in questo senso l’uomo è “una passione inutile”. Negli anni del dopoguerra, Sartre cerca di riqualificare positivamente il proprio esistenzialismo, presentandolo come filosofia umanistica dell’impegno e della responsabilità in senso storico ed etico-politico. Il saggio del 1946 L’esistenzialismo è un umanismo vuole essere una risposta a quei marxisti che avevano accusato la sua precedente posizione di essere un’espressione del nichilismo borghese. I temi de L’essere e il nulla (l’identificazione dell’uomo con la sua libertà, la precedenza dell’esistenza sull’essenza, nel senso che non è un’essenza fissa ma è ciò che progetta di essere) vengono ripresi e svolti in polemica con una certa inter-

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pretazione deterministica del materialismo storico, nei cui confronti l’esistenzialismo si propone come elemento insieme correttivo e integrativo quale unico approccio concreto alla realtà (Sartre considererà sempre il marxismo come “l’orizzonte insuperabile” e “la filosofia del nostro tempo”, rimanendo tuttavia rispetto al partito comunista e all’Unione Sovietica un “compagno di strada”). Sartre insiste perciò non solo sulla libertà, ma soprattutto sulla responsabilità a essa correlata. «Noi vogliamo la libertà per la libertà e attraverso ogni circostanza particolare. E volendo la libertà, scopriamo che essa dipende dalla libertà degli altri, e che la libertà degli altri dipende dalla nostra». E questo in prospettiva rivoluzionaria, contro ogni alienazione e ogni oppressione individuale e collettiva, per la denuncia delle quali è fondamentale l’opera dell’intellettuale “impegnato” nelle questioni concrete e nelle situazioni storiche in cui si decide delle sorti dell’uomo (sotto questo profilo è fondamentale il saggio Che cos’è la letteratura del 1947). Su questa base, Sartre approda alla Critica della ragione dialettica, in cui egli riformula i principi della sua filosofia per adattarli all’analisi del sociale, convinto che «le condizioni materiali della sua esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità [...]. E questo campo, a sua volta dipende strettamente dalla realtà sociale e storica». In questa prospettiva Sartre, mentre concepisce la libertà non più come assoluta ma condizionata, accoglie il materialismo storico ma respinge quello dialettico di Engels e della “scolastica” sovietica, accusato di ignorare l’individuo e il singolare sfociando in una visione meccanicistica e rigidamente deterministica, in cui il principio «cercare il tutto attraverso le parti» si è trasformato nella pratica del terrorismo staliniano, volto a «liquidare le particolarità», dissolvendo gli uomini «in un bagno di acido solforico». Al marxismo l’esistenzialismo è in grado di offrire un’antropologia e una teoria del soggetto, stimolandolo a innestare nel suo corpus teorico gli elementi fecondi delle scienze umane quale condizione per continuare a essere la dottrina “euristica” per eccellenza dell’orizzonte contemporaneo. La ragione dialettica deve partire dalla prassi individuale per guadagnare la totalità di quella sociale (la lotta di classe è fatta da individui concreti e la storia è sintesi di molteplici totalità particolari). Diversamente dalla precedente impostazione, ora il rapporto con il prossimo è mediato dalla penuria materia-

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le e dal bisogno: si giustifica così il permanere del conflitto come elemento essenziale nella caratterizzazione delle relazioni sociali. Sartre distingue gli insiemi “pratico-inerti” (i gruppi che si presentano come oggettivazione alienata delle prassi individuali in ruoli e in funzioni sociali irrigidite) dai “gruppi in fusione”, che realizzano in modo vivo e dinamico la libertà e la solidarietà umana per mezzo della coscienza di classe e del lavoro. La libertà risultante dal reciproco riconoscimento nell’uguaglianza corrisponde alla fondamentale instabilità della formazione spontanea dei gruppi in una situazione rivoluzionaria. Attraverso le diverse forme di alienazione (per esempio il terrore) o di organizzazione e dominio, nasce la società come quintessenza dei gruppi e dei collettivi e, infine, lo stato come gruppo limitato di organizzatori e amministratori che, mediante le istituzioni, si stabiliscono come gruppo dominante. La storia, mentre da un lato è vista come superamento degli antagonismi, dall’altro è considerata nel suo carattere di apertura in misura corrispondente al riconoscimento della libertà, che Sartre intende possibile solo in un orizzonte di rapporti interpersonali. Saussure, Ferdinand de Linguista svizzero (Ginevra 1857 - Vufflens 1913), caposcuola dell’indirizzo linguistico strutturalista. Nella sua opera principale Corso di linguistica generale (postuma, 1916), concepì la lingua come «un sistema di segni esprimenti idee», segni di tipo verbale (per cui la linguistica entrerebbe a far parte di una più ampia scienza dei segni o semiologia) da studiarsi in modo non diacronico (la lingua come entità dotata di un’evoluzione nel tempo, come organismo in sviluppo continuo) ma sincronico (sistema costituito da un insieme di regole utilizzato da una comunità linguistica in un dato momento). Perciò Saussure distingue tra langue (il codice linguistico socialmente elaborato e istituzionalizzato, che si impone all’individuo in quanto membro di un gruppo parlante) e parole (l’uso mutevole e creativo della lingua nelle sue varie forme espressive da parte del singolo per i propri fini comunicativi contingenti), assegnando alla linguistica solo lo studio esclusivo (cioè la descrizione e l’analisi della lingua come sistema organico, nella sua struttura interna e nella logica risultante dalle innumerevoli relazioni di opposizione e di indentità dei segni tra loro) della prima. Nella teoria saussuriana la natura convenzionale del segno è comprova-

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ta non dal rapporto tra il nome e l’oggetto, ma da quello, del tutto arbitrario e indiretto, tra il significante (il segno come mezzo, veicolo espressivo) e il significato, costituito dal collegamento di un concetto con un’immagine acustica. Poiché il valore e i limiti di ciascun segno sono stabiliti da quelli di tutti gli altri, il mutamento di una relazione o di un parametro comporta la trasformazione dell’intero sistema e l’evoluzione del linguaggio è giustificabile come passaggio da un sistema a un altro in una successione di stati discreti. Sebbene inerenti a un campo disciplinare del tutto specifico e specialistico (che si è sviluppato e arricchito con i contributi delle scuole di Ginevra, Praga e Copenhagen), le idee di Saussure hanno avuto un’influenza rilevante in un ambito epistemologico molto più ampio, venendo a costituire il punto di riferimento privilegiato per la corrente dello strutturalismo. Savigny, Friedrich Karl von Giurista e filosofo del diritto tedesco (Francoforte sul Meno 1779 - Berlino 1861), professore a Berlino e massimo esponente della “scuola storica”. Sostenne, contro le astrattezze dell’illuminismo e il razionalismo di Hegel, la necessità dello studio della giurisprudenza in senso storico quale condizione per coglierne i nessi con il passato e la tradizione e per penetrarne lo spirito (perciò egli valorizzava il diritto romano, in quanto era stato incorporato in quello tedesco tre secoli prima). Savigny riteneva indispensabile rintracciare i rapporti profondi del diritto con la cultura di un popolo, per consentire la sua innovazione (e quindi anche l’eliminazione di ciò che risultava morto e inattuale) nell’organico svolgimento della continuità storica: perciò la sua fonte primaria non doveva più essere la legislazione ma, pur coordinata all’interno di una visione sistematica (ancora secondo le indicazioni del diritto romano), la consuetudine. Savonarola, Girolamo Monaco e riformatore politico-religioso italiano (Ferrara 1452 - Firenze 1498), appartenente all’ordine domenicano. Formatosi in senso filosofico (studiò Platone e Aristotele) e teologico (Tommaso), fu costantemente persuaso della necessità di porre rimedio alla grave crisi morale e religiosa del tempo (di qui la sua implicazione nelle vicende politiche della repubblica fiorentina e la sua condanna a morte) attraverso la restaurazione della genuina spiritualità cristiana. Spirito ascetico e mistico, Savonarola condannò la va-

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nità della scienza mondana e della sapienza pagana, manifestando una viva ansia e una forte tensione soteriologica di ispirazione agostiniana (e in questo senso umanistica) per il problema dell’uomo e della sua vita integralmente intesa. Questi sono i temi delle sue numerose prediche e opere, tra cui il De simplicitate vitae christianae (dove la vita religiosa, incentrata sulla carità, è opposta alla filosofia), il Compendium totius philosophiae (rifacendosi a Tommaso, Savonarola subordina alla vita etico-religiosa quella politica, per cui lo stato deve permettere al cittadino il conseguimento della virtù nella prospettiva della vita soprannaturale), il Trattato circa il reggimento e il governo della città di Firenze (qui egli propone come forma politica più adatta al popolo fiorentino il “reggimento civile”, una oligarchia moderata e illuminata che realizzi quell’ideale di buon governo teso al bene comune e alla promozione dello sforzo individuale verso la virtù con l’assolvimento dei doveri verso Dio e il prossimo), Il trionfo della Croce (in cui l’integrità del cristianesimo è opposta al tentativo di quei filosofi che, come Ficino, ne avevano tentato una sintesi con la filosofia pagana in una improbabile “docta religio”), il Tractato contro gli astrologi (che riprende le tesi di Pico sull’argomento). Scetticismo Dal greco sképsis (ricerca, dubbio), il termine indica l’atteggiamento di pensiero di chi sostiene l’impossibilità di ogni conoscenza certa, da cui la diffidenza verso le capacità della ragione, la critica demolitrice di tutte le posizioni dogmatiche, la negazione dell’esistenza della stessa verità. Già individuabile in alcune posizioni sofistiche (è implicito infatti nelle Antilogie di ➔ Protagora e nello scritto Sul non essere di ➔ Gorgia) e nelle scuole socratiche minori, lo scetticismo classico ha origine con Pirrone e Timone di Fliunte. Essi, considerando i fenomeni come mere rappresentazioni sensibili accettate da noi involontariamente e perciò prive di certezza sia di percezione sia di ragionamento («le cose ci appaiono uguali, per quel che concerne la loro credibilità e la non credibilità», prive di significato assoluto), identificarono la saggezza con l’atarassìa (imperturbabilità), l’apatia (libertà dalle passioni) e l’adiaforia (indifferenza verso la preferibilità o meno delle cose) come conseguenza della convinzione circa l’incomprensibilità del vero (ciò avviene attraverso la constatazione dell’equivalenza delle opposte ragioni in ogni aspet-

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Scetticismo Scetticismo

Scetticismo

Lo sviluppo delle tematiche dello scetticismo PIRRONE (365 ca.-275 ca. a.C.) TIMONE (325-230 ca. a.C.) SCETTICISMO ANTICO

ARCESILAO (315 ca.-241 a.C.) CARNEADE (219-129 a.C.) ENESIDEMO (II sec. a.C.) SESTO EMPIRICO (180-220) M.E. MONTAIGNE (1533-1592) F. LA MOTHE LE VAYER (1588-1672)

SCETTICISMO MODERNO

D. HUME (1711-1776) G. SCHULZE (1761-1833) G. RENSI (1871-1941)

to dell’esperienza) e della necessità dell’epoché (sospensione del giudizio) e dell’afasia (rinuncia a qualsiasi affermazione o negazione «per non essere in grado di dire a quale delle cose proposte bisogni prestare o non prestare fede»). Verso posizioni scettiche inclinò Arcesilao di Pitane, scolarca della Media Accademia, negando la possibilità di dare l’assenso alla fantasia catalettica, per la mancanza di rappresentazioni vere o credibili o false e la presenza di mere persuasioni verisimili o probabili: egli tuttavia escludeva non solo che i sensi e la ragione potessero raggiungere la verità obiettiva (di qui la polemica con gli stoici), ma anche la probabilità o la fede nella credibilità di alcunché. Così alla ragione egli sostituì il criterio del “ragionevole”, al fine di deliberare in quelle circostanze di convenienza e responsabilità pratiche nelle quali la sospensione del giudizio risultava impraticabile. Su posizioni analoghe si collocò Carneade, che però (stando alla testimonianza di Cicerone) radicalizzò l’antidogmatismo estendendo il dubbio allo stesso scetticismo (la negazione nega, oltre il suo oggetto, anche se stessa, risultando così del tutto priva di valore affermativo: noi non possiamo neppure sapere di non sapere e dobbiamo rinunciare anche a dubitare del dubbio) e pervenne a una posizione probabilistica, adottando il criterio pratico del “persuasivo” (il riconoscimento

di ciò che è conveniente e opportuno in base a un certo numero di ragioni che determinano la nostra credenza). Dopo Filone di Larissa, lo scetticismo riprese la sua configurazione autonoma con Enesidemo, che fondò la sua dottrina su una visione del reale come divenire di derivazione eraclitea e formulò la dottrina dei dieci “tropi”, argomenti contro la certezza dei sensi e a favore della sospensione del giudizio, più altri otto contro l’affermazione scientifica della causalità naturale. Su questa linea si mosse anche Agrippa (I sec. d.C.), autore dei cinque tropi (la discordanza delle opinioni, il regressus ad infinitum, la relatività dell’oggetto al soggetto, la presunzione di ipotesi senza prova, il circolo vizioso) dell’epoché. In età imperiale la pratica dello scetticismo fu accolta dai medici “empirici” (così chiamati per la loro opposizione ai “dogmatici”), il più famoso dei quali fu Sesto Empirico, maggiore storico e autore sistematico di questa scuola. Nel medioevo lo scetticismo compare come momento interno della teologia negativa sia cristiana che giudaica (giacché la mente umana è inadeguata a comprendere l’infinitezza e assolutezza di Dio), e come posizione specifica dell’empirismo nominalistico (Occam, Nicola di Autrecourt) verso le pretese della speculazione metafisica. Nell’età moderna esso appare, almeno

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all’inizio, associato al relativismo e all’utilitarismo di certe concezioni psicologicometafisiche (Pomponazzi) o etico-politiche (Machiavelli, Guicciardini), per diventare esplicito in Montaigne e nella corrente dei libertini francesi, da Charron a La Mothe le Vayer (contro i quali polemizzò Cartesio, che utilizzò il dubbio solo in senso metodico), fino a Bayle (che fu criticato da Vico), risultando tuttavia temperato dall’affermazione dell’autonomia e libertà della coscienza soggettiva, quale sede di una legge naturale uguale in tutti gli uomini. Tuttavia la forma più radicale di scetticismo in epoca moderna fu quella di Hume, la cui analisi è rivolta contro la presunzione razionalistica di conseguire conoscenze obiettive per sé stanti nella convinzione che «tutti i nostri ragionamenti riguardanti cause ed effetti non hanno altra origine che l’abitudine; e che la credenza è piuttosto un atto della nostra natura sensibile che della razionale». Venature scettiche si ritrovano anche in Diderot e Voltaire in rapporto alle pretese assolutistiche dell’etica e della metafisica, mentre Schulze e Maimon rinnovarono lo scetticismo come conseguenza della loro discussione del kantismo. Una posizione del tutto particolare è quella di Hegel, che considera valido «il rapporto dello scetticismo con la filosofia» se considerato sotto la prospettiva della critica al “finito” e più in generale (come afferma nelle Lezioni sulla storia della filosofia) al concetto di “verità oggettiva”. Nel pensiero contemporaneo non mancano posizioni esplicitamente scettiche: tra le più interessanti quella di ➔ Rensi. Scheler, Max Filosofo tedesco (Monaco 1874 - Francoforte sul Meno 1928), professore a Jena, Monaco, Colonia, Francoforte. Avvicinatosi a Husserl (cui dedicò Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori del 1916 e Essenza e forme della simpatia del 1923), cercò di estendere il metodo fenomenologico dell’intuizione eidetica al campo dell’etica e dell’affettività. Distinse perciò tra valori (forme oggettive assolute ed eterne, indipendenti dalla nostra intenzionalità, gerarchicamente disposte, coglibili attraverso l’intuizione sentimentale pura), beni (le cose in quanto incorporano i valori) e fini (le conclusioni del nostro agire in riferimento agli uni e agli altri) mirando a fondare sui primi un’etica materiale, cioè concreta e autonoma (Kant, al contrario, ha confuso questi aspetti e perciò la sua morale è meramente formale). Di qui una teoria della persona come entità reale (né astratta razio-

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nalità né mero individuo empirico), centro unificante dei suoi atti, dotata di rapporto organico (analogo a quello tra cosa e valore) con il proprio corpo, con il mondo (di cui ne esistono tanti quante sono le persone), con il prossimo (instaurato dal sentimento della simpatia e fondato sull’amore) e con Dio. Questi è concepito come identità del mondo, come mondo unico e oggettivo al di là di quelli individuali, persona spirituale e infinita, che si dà all’uomo attraverso un rapporto di rivelazione facendolo penetrare in Lui (L’eterno nell’uomo del 1921). Scheler applicò il metodo fenomenologico anche alla sociologia, cercando l’intuizione delle essenze delle comunità e classificandole in base ai valori che esse incarnano (Scritti di sociologia e di dottrina delle visioni del mondo del 1923-24): ampie analisi sono dedicate alla moderna visione capitalistica, nata dal risentimento borghese contro la nobiltà medievale-cristiana e fondata sull’utilitarismo (Il risentimento nell’edificazione delle morali del 1912). Nell’ultima opera sulla Posizione dell’uomo nel cosmo (1928) Scheler si allontanò dal cristianesimo per abbracciare una visione di stampo panteistico-storicistico: in Dio vi sarebbe una dualità di impulso cieco e spirito impotente (perciò Dio ha bisogno dell’uomo come suo strumento) dalla cui lotta si sarebbe generata la storia del mondo quale storia della divinità stessa. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph Filosofo tedesco (Leonberg 1775 - Ragaz 1854), tra i maggiori esponenti dell’idealismo. la vita. Figlio di un pastore protestante entrò giovanissimo nel seminario teologico di Tubinga, dove strinse amicizia con Hegel e Hölderlin, suoi compagni di studi. Abbandonata la carriera ecclesiastica per la filosofia, per alcuni anni (1773-78) fece il precettore privato a Stoccarda e a Lipsia, dove frequentò la locale università, interessandosi ai problemi della filosofia della natura. Intanto aveva composto le sue prime opere (Sull’io come principio della filosofia del 1775 e Lettere filosofiche su idealismo e dogmatismo del 1776), che lo fecero conoscere e apprezzare nel mondo intellettuale. Nel 1778 incontrò a Weimar Schiller e Goethe: quest’ultimo lo fece chiamare all’università di Jena, allora centro della filosofia idealistica, sulla cattedra lasciata vacante da Fichte. Nei circoli di quella città e di Dresda strinse rapporti di amicizia con i maggiori esponenti della cultura idealistica (Novalis, i fratelli Schlegel, Tieck, Schleiermacher ecc.), mentre pubblicava il Primo ab-

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bozzo di un sistema di filosofia della natura (1799), il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), la Esposizione del mio sistema filosofico (1801), il dialogo Bruno o il principio naturale e divino delle cose (1802), le Lezioni sul metodo dello studio accademico (1803) e fondava insieme con Hegel il Kritische Journal der Philosophie. Nel 1803 sposò Carolina Michaelis (che aveva divorziato da Schlegel) e si trasferì a Würzburg, dove diede alle stampe Filosofia e religione (del 1804, scritto che inaugura un nuovo orientamento nel suo pensiero) e scrisse Filosofia dell’arte (pubblicato postumo). Nel 1806, nominato socio e poi segretario generale dell’Accademia delle scienze di Monaco, lasciò l’insegnamento (al quale fece poi brevi e occasionali ritorni, come nel 1810, quando tenne un ciclo di lezioni a Stoccarda) e intrattenne fecondi rapporti con von Baader che lo introdusse in quegli studi di mistica e teosofia (specialmente su Jakob Böhme) che sono alla base delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809). Negli anni successivi tenne cicli di lezioni e conferenze a Erlangen e a Monaco (importanti le sue lezioni sulla filosofia moderna) e lavorò a Le età del mondo, opera che rimase però incompiuta e fu pubblicata postuma. Nel 1841 Federico Gugliemo IV chiamò Schelling a Berlino, nell’intento di contrastare con il prestigio del vecchio filosofo l’invadenza degli epigoni di Hegel: alle sue lezioni sulla Filosofia della mitologia e sulla Filosofia della rivelazione presenziarono personaggi che a vario titolo avrebbero avuto un ruolo notevole nella filosofia successiva (Kierkegaard, Engels, Feuerbach, Bakunin, Burckhardt ecc.), ma nel complesso il suo insegnamento non riscosse successo, mostrandosi inadeguato alle esigenze culturali delle nuove generazioni. Ritiratosi dall’insegnamento trascorse gli ultimi anni nel raccoglimento e negli studi. il pensiero. Pur operando nel solco del nuovo indirizzo idealistico impresso da Fichte alla filosofia trascendentale (solo Fichte avrebbe interpretato in modo corretto e coerente il kantismo segnando una tappa decisiva nello sviluppo della riflessione filosofica), Schelling mostra fin dall’inizio una propria autonomia teoretica che si esprime, in sintonia con molti romantici, in una nuova concezione della natura. Se nella Dottrina della scienza questa era considerata come un semplice non-io, priva di identità specifica e quasi annullata nella sua riduzione a mero strumento per l’esercizio etico del soggetto verso la libertà, ora Schel-

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ling cerca di pensarla come il corrispondente più concreto della coscienza, in quanto l’oggetto è intellegibile nella misura in cui è omogeneo allo spirito. Riallacciandosi ai concetti di organismo e di finalità enunciati nella Critica del Giudizio e all’idea della necessità di sostituire a una concezione meccanica della natura una più dinamica determinata dai principi newtoniani di attrazione e repulsione, Schelling intende rintracciarne l’origine in quel principio unitario da cui scaturisce anche la coscienza. Dunque, trasferendo alla natura l’attività pura individuata da Fichte come essenza dell’Io, Schelling giunge a supporre l’unità tra ideale e reale, tra spirito e natura, dove entrambi i termini non sono che le due facce del medesimo processo e sono spiegati dagli stessi principi (l’idealismo assoluto si incaricherà di spiegare la scissione e il successivo ritorno all’unità di questi termini). «Il sistema della natura è insieme il sistema del nostro spirito», per cui non è possibile, dato il rapporto di profonda reciprocità, studiare l’una senza giungere all’altro e viceversa. «La natura deve essere lo spirito visibile, lo spirito natura invisibile»: ciò che spiega la natura è la stessa Intelligenza che spiega l’Io, solo «una intelligenza irrigidita in un essere». Infatti, se nella natura vi è un’organizzazione generale, essa non è pensabile senza una forza produttiva che a sua volta rinvia a un principio organizzativo che deve aver agito in modo finalistico. Esso non può essere se non un principio spirituale (e perciò ideale), di uno spirito fuori del nostro spirito: ma poiché Io e coscienza coincidono, lo spirito che opera nella natura è inconscio quale «arte formatrice di idee che trasforma in corpi» (in questo senso Schelling riprende il concetto di “anima del mondo”, che regge e produce la natura intesa come organismo universale). Nella Natura si riscontra ciò che Fichte ha stabilito per la vita spirituale: la dinamica di una forza che si espande e di un limite che le si contrappone. Ma quest’ultimo non arresta se non momentaneamente la forza espansiva, la quale proprio in tal modo riprende vigore e prosegue il suo processo per arrestarsi a un ulteriore limite e così all’infinito. A ogni fase costituita dall’incontro tra la forza espansiva e quella limitante corrisponde la produzione di un grado e di un livello della natura progressivamente più ricco e gerarchicamente più elevato in cui agiscono specifiche potenze: la prima si manifesta nella forza di gravità, la seconda nei fenomeni elettrici, magnetici e chimici,

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la terza nella vita organica. Questo processo culmina con l’uomo, autentico fine della natura perché in lui si ridesta quello spirito che negli altri esseri appare come assopito. Ma dopo aver mostrato come dalla natura si giunga all’intelligenza, occorreva rivedere come l’intelligenza arrivi alla natura: ciò implicava un riesame della filosofia della coscienza e un ripensamento delle acquisizioni fichtiane. La filosofia trascendentale ricerca il supremo principio del sapere nel sapere stesso: ciò significa che non si esce mai dalla sfera dell’autocoscienza, che circoscrive tutto l’orizzonte del nostro sapere. L’Io è originariamente puro produrre: perciò l’autocoscienza richiede che questa attività infinita diventi oggetto a se stessa, quindi finita e limitata (in questo senso l’Io è intuizione intellettuale autocreatrice). Di conseguenza, per essere non solo producente ma anche prodotto, l’Io deve porre un limite al suo produrre, opporre a sé un oggetto costituente una resistenza, che però deve essere continuamente superata nel senso di una infinita estensione del limite. Questo esiste solo in quanto l’attività dell’Io lo raggiunge e ciò avviene sia perché è attività infinita sia perché agisce su di esso. Pertanto il limite è reale in quanto indipendente dall’Io, (che altrimenti non sarebbe realmente limitato); è ideale in quanto dipendente dall’Io (che altrimenti non s’intuirebbe come limitato). Tuttavia né l’attività limitata né l’attività limitante esauriscono l’Io che è solo nell’autocoscienza, insieme puro soggetto e puro oggetto. Perciò in tal modo Schelling sviluppa la propria prospettiva nel senso di un ideal-realismo, dato che l’attività reale (l’attività che produce all’infinito, per cui il limite appare indipendente dall’Io) e l’attività ideale (quella che prende coscienza nell’opposizione con l’oggetto e che consiste nell’affermazione che il limite è stato posto solo dall’Io) si presuppongono a vicenda originando l’intero meccanismo dell’Io. Nella filosofia teoretica è spiegata l’idealità del limite (o come mai esso divenga tale per il sapere: perciò è idealismo), mentre la filosofia pratica deve spiegarne la realtà (cioè come il limite da soggettivo divenga oggettivo: perciò è realismo). Nella prima gli oggetti ci appaiono invariabili e le nostre rappresentazioni determinate da essi; nella seconda le cose appaiono modificabili in rapporto alle nostre rappresentazioni e ai nostri fini. La filosofia trascendentale sarebbe compiuta se potesse dimostrare nell’Io-coscienza l’identità tra l’attività inconscia che ha prodotto la natura e quella conscia che si

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manifesta nel volere. Questo è possibile perché nell’intelligenza, nella coscienza stessa si può trovare un’attività e indicare un’intuizione per la quale un solo fenomeno dell’Io sia per se stesso conscio e inconscio insieme: essa è l’intuizione, l’attività estetica che produce sia i prodotti dello spirito sia quelli della natura, e l’opera d’arte rappresenta la perfetta fusione di conscio e inconscio, di libertà e necessità, di finito e infinito. E quindi se il mondo oggettivo rappresenta la poesia ancora primitiva e inconscia dello spirito, l’arte è l’organo della filosofia, «l’unica ed eterna rivelazione», perché in quanto intuizione divenuta obiettiva (mentre la filosofia resta rappresentazione soggettiva) assume un valore universale che «porta l’uomo intero, com’egli è, alla conoscenza del sommo vero». Dopo che la filosofia trascendentale ha evidenziato la natura dell’Assoluto come unità di opposti, Schelling ne accentua (in senso marcatamente spinoziano) l’aspetto di identità indifferenziata di Io e Nonio, di Ideale e Reale, di Soggetto e Oggetto. La filosofia è sapere dell’Assoluto, fondato sull’intuizione di esso. E ormai l’Assoluto è inteso come Ragione e il punto di vista della Ragione è quello del sapere assoluto, dell’identità assoluta e infinita. Poiché la Ragione è l’Uno-Tutto, ogni finitezza si risolve in questa identità in quanto esiste solo in essa. Tutto è in questa identità che non esce fuori di sé e al di fuori della quale non esiste alcuna cosa per sé (si tratta di un panteismo che afferma che tutto è in Dio, ma non che tutto è Dio). Ogni individualità è una manifestazione dell’Identità originaria da cui è derivata, pur restandovi radicata, per differenziazione qualitativa. La diversità tra le individualità è invece data dalla differenziazione quantitativa nel rapporto tra “potenze”, collegate al prevalere del momento della soggettività-idealità (A) o a quello dell’oggettività-realtà (B). Così, se il principio che esprime l’infinita identità di soggettivo e oggettivo, dell’ideale e del reale nell’Assoluto-Indifferenza è A=A, quello che esprime la loro differenza quantitativa nel finito è A=B. Naturalmente tra i due principi non v’è opposizione, poiché nella sfera del finito nel prevalere di A è sottinteso B e viceversa, così che alla fine l’Identità si conserva nella totalità e si riafferma in ogni differenziazione. Resta comunque insoluto il problema del come e del perché il finito e la differenza nascano dall’Assoluto-Identità indifferenziata, cioè il problema dell’origine del finito dall’infinito, del mondo da Dio. Esclusa la soluzione

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creazionista (che suppone la trascendenza, concetto collidente con quello di Uno-Tutto-Identità) e quella spinozista (che annulla il finito e comunque si fonda su un concetto di assoluto come sostanza inaccettabile dopo Fichte), Schelling si orienta ad accogliere la prospettiva coltivata dalla mistica gnostica e teosofica (Eckhart e Böhme soprattutto) largamente presente nella cultura tedesca, che parla dell’esistenza delle cose e della loro origine per effetto di una caduta, di un distacco da Dio. Schelling costruisce così una cosmogonia che è anche una teogonia, inserendo nel seno della vita divina il dramma del male, della libertà, della redenzione. Dio è certo persona, ma persona-che-si-fa attraverso un processo che vede in posizione antitetica e conflittuale gli elementi che in precedenza erano ammessi come unificati nell’Assoluto. Dall’originaria indistinzione che costituisce il fondo oscuro del suo essere, Dio deve elevarsi alla conquista di una vita personale. In lui vi è un principio cieco, che è volontà irrazionale, e un principio positivo che è razionalità: la storia di Dio, che coinvolge anche l’uomo e il mondo, è la vittoria del secondo sul primo. Di questo processo la natura è il primo grado, la storia il secondo: in entrambi sono ricalcate le stesse fasi produttive, anche se nella seconda elevate a una potenza maggiore. L’età dell’oro rispecchia, nell’indistinzione di bene e male, quella primordiale delle forze della natura. Nei tempi pagani le forze naturali sono divinizzate e, in seguito, si cerca invano di creare un dominio universale. Il principio del male è personificato da spiriti maligni che la magia tenta di propiziare. A essi si contrappone il Dio umanizzato per ricostruire il rapporto tra naturale e divino. L’antitesi tra i due principi si manifesta chiaramente all’epoca delle invasioni barbariche e dura fino all’età contemporanea: ma nello sforzo di risolvere il male nel bene (il male è però necessario in funzione della manifestazione dell’amore e della vita divina, che ha senso solo come suo superamento), Dio si rivela come spirito, reale in atto. Quanto all’uomo, anche in lui il male si spiega in rapporto a questa tensione interna al divino e si attua quando egli tende a farsi principio a se stesso in contrapposizione invece che accettazione del dramma divino. Nell’ultima fase della sua speculazione (coincidente con l’insegnamento berlinese) Schelling cerca di costruire una “filosofia positiva” ed “empirica” concernente l’esi-

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stenza reale delle cose (e non solo la loro essenza o la loro possibilità logica, come fa il nuovo dogmatismo hegeliano che identifica reale e razionale), aprendo una prospettiva che cerca di mediare tra l’esigenza di spiegare la necessità della rivelazione e quella di salvaguardarne la peculiarità storica. Infatti questa filosofia positiva è eretta contemporaneamente sulla ragione e sulla rivelazione del Dio-persona, propria della concretezza religiosa, che crea il mondo e redime l’uomo. La rivelazione non è però limitata alla religione cristiana ma estesa a tutte le confessioni storiche, comprese quelle politeiste: anzi, l’intera storia delle religioni è una sorta di rivelazione progressiva di Dio, processo in cui Dio si realizza nel mondo prima come natura e poi come libertà e persona, e di cui l’uomo fa esperienza in entrambi i sensi. La filosofia della mitologia studia il realizzarsi di Dio come natura: la comprensione dei miti è possibile solo collocandosi in una prospettiva che consideri la catastrofe cosmica ed esistenziale in cui l’uomo, perduta l’unità edenica con l’essere, si è scontrato con forze terribili che gli si sono presentate come figure mitologiche, il cui senso è “tautegorico”, poiché nasce dallo sviluppo stesso del mito che procede dalle credenze astrali a quelle antropomorfiche della divinità (esaminato da Schelling con ampiezza di riferimenti e finezza d’analisi). Tutto ciò costituisce il preludio al presentarsi di Dio in forma personale e in modo inesauribile, il cui esplicitarsi storico è il “fatto” più vero e originario, opposto e irriducibile ai procedimenti puramente logici di una filosofia speculativa e autosufficiente. Schelling intende così rivalutare la fede, pur restando la sua una religione filosofica. Schiller, Ferdinand Canning Scott Filosofo inglese di origine tedesca (Altona 1864 Los Angeles 1937), professore a Oxford e a Los Angeles. Oltre che di numerosi saggi, è autore de Gli enigmi della sfinge (1891), in cui sono sostenute posizioni molto vicine al pragmatismo di James e Dewey. La sua filosofia, che volle chiamare umanismo, consiste in una particolare dottrina dell’evoluzione postulante tre verità fondamentali: il mondo, l’uomo, Dio. Se il primo è una pluralità di interazioni, l’uomo si trova al centro dell’universale gioco di azioni e reazioni cui sa conferire senso. Guardandosi intorno per definire se stesso e chiarire il mistero dell’esistenza (ecco il senso del quesito della sfinge), l’uomo scopre la storicità del reale in quanto regolato dal principio dell’e-

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voluzione. Poiché questa è concepita come svolgimento da un primo stato fisico caotico e impersonale (implicante la finitezza del tempo nel passato) a un termine finale (implicante la finitezza del tempo nel futuro), fisica e metafisica si conciliano: in questa prospettiva vanno intese in chiave soggettivistico-strumentalistica sia la conoscenza sia l’etica (campo in cui Schiller dichiara di ispirarsi a ➔ Protagora). Ma se l’uomo è il risultato più alto dell’evoluzione, la sua natura ambivalente (in cui coesistono bene e male, ordine e disordine, Faust e Mefistofele) implica la presenza nell’universo di Dio, quale causa finale e forza di redenzione verso uno stato di armonia comunitaria tra spiriti perfetti. Schiller, Johann Cristoph Friedrich von Filosofo, poeta e drammaturgo tedesco (Marbach 1759 - Weimar 1805), che con la sua opera diede un decisivo contributo alla formazione della cultura romantica tedesca. Se nei suoi drammi (I masnadieri, Maria Stuarda, Wallenstein, Don Carlos, Gugliemo Tell ecc.) rappresentò il tema della libertà e della spontaneità dell’io, il suo pensiero filosofico si alimentò soprattutto della lettura della Critica del Giudizio di Kant, che lo portò a formulare un’originale teoria del bello (consistente nella spontaneità dell’autodeterminazione della natura, per cui contemplare un oggetto significa vederlo in se stesso, come se si fosse prodotto da sé) e del sublime (identificantesi col tragico quale espressione della tensione tra obbligazione morale e inclinazione sensibile), in cui l’arte esercita anche una funzione morale perché ne esalta le condizioni, la libertà e la potenza del volere. Sotto questo profilo, Schiller cercò di superare la divaricazione tra etica ed estetica, sostenendo che la legge della ragione esige l’educazione della sensibilità, mentre la perfezione dell’uomo consiste nell’armonia delle due facoltà (l’anima bella è quella che è buona per il solo fatto d’essere bella). Questo ideale di umanità integrale (per cui il pensiero di Schiller si avvicina al classicismo di Goethe e Herder) come supremo equilibrio tra le sue due nature, e quindi tra libertà e passività, forma e realtà, è al centro delle Lettere sull’educazione estetica dell’umanità (1795), in cui l’impulso verso il bello è individuato nel gioco come massima espressione dello spirito libero e fondamento di tutte le possibilità umane. In Sulla poesia ingenua e sentimentale (1796) si delinea una filosofia della storia quale processo teso tra una primitiva interezza (che si manife-

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sta nella poesia ingenua) e l’attuale stato di scissione: ne deriverebbe una nostalgia (che si esprime nella moderna poesia sentimentale) per la totalità perduta e uno sforzo di recupero e tensione verso una nuova e più ricca armonia. Schlegel, Friedrich von Filosofo e critico tedesco (Hannover 1772 - Dresda 1829), tra i fondatori, con il fratello August, del Circolo romantico di Jena. Appassionato studioso del mondo classico, scrisse su di esso vari saggi tra cui Sullo studio della poesia greca (1794) che intende istituire, attraverso il rapporto tra questa (che è oggettiva in quanto incentrata sulla mitologia, e insieme spontanea e naturale) e la poesia moderna (frutto della riflessione e perciò tesa progressivamente al futuro verso un’integrazione tra arte e vita), un confronto tra due mondi e forme di vita. Questi temi vengono ripresi e sviluppati negli articoli e nei Frammenti, pubblicati sulle riviste Lyceum e Athenäum, dove la poesia romantica è vista come generata dall’interesse per l’individuale e il caratteristico suscitato dalla fantasia del poeta, e quale condizione per la infinita perfettibilità estetica dell’uomo, che nella crisi del mondo presente aspira all’infinito. Essa è concepita come poesia trascendentale (Dialogo sulla poesia del 1800) poiché mira alla realizzazione, in compenetrazione con la filosofia, dell’identità tra ideale e reale: perciò è anche ironica, poiché fondandosi sulla vita, segna, nella forma del paradosso, la consapevolezza del contrasto insolubile tra condizionato e incondizionato e dei limiti della stessa opera d’arte (nella sua finitezza, essa può essere solo immagine e simbolo dell’infinito). A questa prospettiva non è estranea la dimensione religiosa, giacché Dio si manifesta solo nelle creature (che ne diventano perciò una manifestazione allegorica): di qui la rilevanza dell’amore come presentimento del divino e il carattere soggettivo della religione. Convertitosi al cattolicesimo, Schlegel propose una Filosofia della vita (1827) in cui la storia è vista come ristabilimento della spiritualità che sta a fondamento dell’universo e dell’uomo, riconquista dell’interiorità perduta con il peccato attraverso la rivelazione positiva che ci è comunicata e partecipata dal cristianesimo. Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst Filosofo e teologo tedesco (Breslavia 1768 Berlino 1834). Educato secondo i principi del pietismo, dopo gli studi a Halle, fu cap-

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pellano e precettore in diverse località della Prussia. A Berlino entrò in contatto con Schlegel e con il circolo romantico dell’Athenäum: in questo clima scrisse i Discorsi sulla religione (1799), i Monologhi (1800), le Lettere confidenziali sulla “Lucinde” di Schlegel (1800). Datosi alla carriera accademica, a Berlino fu (durante l’invasione napoleonica) tra i fautori del nazionalismo tedesco, e in seguito (durante la Restaurazione) si schierò su posizioni liberali. Attivo e autorevole (fu direttore della facoltà teologica e segretario dell’Accademia delle scienze), scrisse opere fondamentali (tratte dalle sue lezioni e pubblicate postume) di estetica, dialettica, etica, ermeneutica, e la ponderosa Fede cristiana (1821-22). Di grande importanza anche l’edizione critica dei Dialoghi di Platone. Esponente di spicco del movimento romantico, egli ne espresse (almeno nelle prime opere) le istanze panteistiche e sentimentali: con esplicito riferimento a Spinoza, da un lato portò a compimento la critica illuminista alle religioni storiche, dall’altro, valorizzando al massimo la coscienza panica (in pieno accordo con Hölderlin) in una identificazione con la contemplazione del Tutto, risolse l’atto religioso in uno stato d’animo. Nei Discorsi cercò infatti di enucleare l’essenza della religione, distinguendola da ciò che costituisce la funzione specifica della metafisica e della morale: queste, pur avendo quale proprio oggetto (in comune con la religione) il rapporto dell’uomo con l’universo (la prima ne ricerca le ragioni e l’intrinseca necessità con intento interpretativo-teoretico; la seconda ne deduce un sistema di doveri con finalità normative), non ne riescono a cogliere adeguatamente l’unità poiché adottano metodi che implicano discorsività e alterità. La religione è invece vero principio unificatore, in quanto la sua essenza è intuizione e sentimento (perciò, quale punto neutro tra intelligenza e volontà, la sua esperienza garantisce ciò che le altre possono solo presupporre), apprensione immediata dell’Uno-Tutto che consiste nell’accettazione di ogni cosa come sua parte in una coesistenza dove tutte sono una sola cosa e tutte sono vere. Dunque essa vede nell’uomo l’Infinito non per dissolverlo e annientarne l’autocoscienza individuale, ma per esaltarlo in quel “sentimento di dipendenza” per il quale il singolo si sente in rapporto esclusivo con l’Assoluto. Ricondotta ad atto vitale, la religione è posta da Schleiermacher al di sopra di tutte le sue determinazioni storiche, in una dimensione dove

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tutti i dogmatismi, le teologie e le chiese (in seguito parzialmente rivalutati nella Fede cristiana) si confondono in modo indiscriminato (o hanno valore solo se sono animati dal sentimento di dipendenza o se ne costituiscono espressioni simboliche: esclusivamente in questo senso il cristianesimo ha una prevalenza sugli altri culti). Tuttavia, dovendo realizzarsi nella concretezza del reale, nel vivo dei rapporti umani, la religione diventa religiosità, sentimento che investe tutta la vita e che «deve accompagnare come una musica sacra ogni azione dell’uomo». Se è vero che l’esperienza religiosa si svolge fuori da ogni deontologia etica, è altrettanto vero che questa preoccupazione è ben presente al pensiero di Schleiermacher, che nei Monologhi celebrava, con la libertà interiore dell’uomo, l’amore quale supremo vincolo umano, condizione prima di ogni progresso individuale e sociale. Di qui l’idea che da un lato l’attività morale non ha senso se non sulla base di quell’opposizione di natura e spirito che essa è chiamata a superare, dall’altro che l’eliminazione di questo dualismo è attuabile solo in un’unificazione dell’impulso naturale e della volontà etica, cioè appunto nell’amore. A partire da Croce anche la riflessione estetica di Schleiermacher è stata ampiamente rivalutata. Essa concepisce l’arte come forma prelogica del conoscere rivolta specificamente alla “differenza”, cioè al proprio e all’individuale: la sua condizione va ricercata dunque nella “diversità stessa dei momenti” in cui la vita si articola e manifesta, poiché nasce dalla ricchezza dei sentimenti e degli stati d’animo di cui è formata la vita spirituale nella sua immediatezza per elevarla sul piano teoretico per mezzo dell’espressione e dell’immagine che risolve il pathos in misura e forma. Ciò avviene con quell’atto specifico che Schleiermacher chiama “chiarimento di sé a se stesso”, mediante il quale l’arte si chiude in un’immagine interna esaurendosi in essa. In linea con le prospettive dell’etica e dell’estetica, Schleiermacher ha sviluppato (in modo non sistematico ma comunque ricco di spunti e feconde indicazioni teoretiche) anche il tema dell’ermeneutica, rivolgendo l’attenzione al problema della comprensione, di cui cerca di indicare e fondare adeguatamente le regole universali. Da tecnica dell’esegesi linguistica essa si trasforma in metodica psicologica, per cogliere simpateticamente un pensiero esteriorizzato in una forma linguistica sensibilmente determinata: se i testi sono espressione di un’indivi-

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dualità nel suo rapporto peculiare con l’infinito, il loro senso può essere afferrato da altre individualità in sintonica corrispondenza quali necessari complementi della stessa umanità, in un processo dialogico perenne. Sotto questo aspetto Schleiermacher ha avuto un’influenza rilevante su un filone cospicuo della filosofia contemporanea da Dilthey a Heidegger, Ricœur, Gadamer, Pareyson ecc. Schlick, Moritz Filosofo tedesco (Berlino 1882 - Vienna 1936), professore di fisica a Kiel e di filosofia a Vienna. Dalle riunioni nella sua casa viennese di un gruppo di studiosi interessati all’eleborazione di una “filosofia scientifica” nacque il famoso Circolo che sviluppò il movimento neopositivistico. A esso Schlick dedicò tutte le sue energie, formulandone anche i principi basilari. La lettura del Tractatus di Wittgenstein lo orientò verso una gnoseologia tradotta in termini di analisi del linguaggio, i cui elementi sono le proposizioni atomiche rispecchianti i dati immediati e le connessioni logiche tra esse. Il campo dell’esprimibile è così circoscritto al linguaggio della scienza, giacché «il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica»: risultano così escluse dalla sfera del significante la maggior parte delle proposizioni della metafisica, dell’etica, dell’estetica e della religione (che hanno una funzione di espressione affettiva o di visione emozionale del mondo). Compito della filosofia è accertare le regole per un uso corretto delle proposizioni e per lo studio del significato da attribuirsi a esse in un dato sistema espressivo. La posizione di Schlick circa il “criterio empiristico di significanza” parve angusta già ad alcuni dei circolisti (Neurath, Carnap) e diede vita a fecondi dibattiti cui egli rispose confermando le sue originarie posizioni anticonvenzionaliste. Morì assassinato da uno studente. Tra i suoi scritti fondamentali Sul fondamento della conoscenza (1934) e Significato e verificazione (1936). Schmitt, Carl Filosofo tedesco del diritto (Plettenberg in Westfalia 1888-1985), professore a Colonia, Bonn e Berlino prima di essere privato della cattedra nel 1945 per la sua adesione al nazismo. Dopo aver studiato il Romanticismo politico (1919), in Teologia politica (1922) Schmitt sostenne, in polemica con ➔ Kelsen, una posizione decisionista, vedendo il fondamento della sovranità non nella norma ma nella volontà che la pone in essere (evidente nelle situa-

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zioni di emergenza). Ciò viene giustificato dal fatto che i concetti della politica derivano dalla sfera religiosa subendo un processo di secolarizzazione che ne lascia tuttavia intatta la forma. Del resto Il concetto di politico (1927) è intimamente connesso all’ambito dell’azione, definendosi in base alla distinzione tra amico e nemico (hostis publicus non inimicus privatus), che è a fondamento dello stato quale insieme di individui che si riconoscono reciprocamente e che decidono, in opposizione ad altri, di collaborare. Ne deriva una forte critica (Chi è il custode della costituzione, 1931) al parlamentarismo liberale e al sistema dei partiti, mera somma di interessi particolari, non più in grado di decidere né di esprimere la volontà del popolo: di qui le sue simpatie per l’assolutismo di Hobbes e per il totalitarismo hitleriano, idoneo a riempire quel vuoto di centri di riferimento tipico dell’età contemporanea. Tutti questi temi confluiscono nell’ultimo grande saggio di Schmitt, Il nomos della terra (1950), dedicato al processo di appropriazione primaria su cui si fonda il diritto pubblico: esso sarebbe dunque l’ordine risultante dall’occupazione e delimitazione di uno spazio. Il diritto internazionale (nato in età moderna con la pluralità di stati sovrani) consisterebbe nell’accettazione al di fuori del proprio ordine di quello di un altro soggetto nel proprio spazio. Oggi secondo Schmitt lo jus publicum sarebbe entrato in crisi a causa dell’interesse delle potenze vincitrici dopo la Prima Guerra Mondiale a imporre, dietro la facciata di un generico universalismo umanistico, la propria egemonia economica in un libero mercato mondiale. Schopenhauer, Arthur Filosofo tedesco (Danzica 1788 - Francoforte sul Meno 1860) tra le massime espressioni dell’irrazionalismo ottocentesco e della reazione antihegeliana. la vita. Nato da una ricca famiglia borghese, dopo aver conseguito la laurea con una dissertazione su La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813) si dedicò ai viaggi e alla composizione del suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione (1819). Dopo aver tentato invano di intraprendere la carriera accademica e aver constatato la scarsa accoglienza della sua opera, si ritirò a vita privata attendendo solo agli studi. Nel 1836 pubblicò La volontà nella natura e nel 1841 I due problemi fondamentali dell’etica (comprendenti i saggi Sulla volontà del volere umano e Sul fondamen-

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to della morale), mentre nel 1844 ripubblicò una seconda edizione del Mondo arricchita dai Supplementi. La fama giunse solo poco prima della morte con la pubblicazione di Parerga e Paralipomena, dove in una serie di saggi scritti in stile brillante divulgò i temi fondamentali della sua dottrina, facendosi interprete della nuova sensibilità del pubblico dopo la fine degli entusiasmi romantici e rivoluzionari. il pensiero. Se l’indagine schopenhaueriana intende esprimere l’“unico pensiero” racchiuso nella domanda metafisica «perché ogni vivere è per essenza un soffrire?», nello svolgere in forma teoreticamente strutturata e argomentata questa “intuizione” essenziale, egli riprende la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, attribuendo tuttavia al concetto limite della cosa in sé una definizione positiva, persuaso che la filosofia debba pervenire a una conoscenza effettiva della realtà e della sua essenza. Per individuarne la via d’accesso all’essenza è necessario partire dall’analisi del rapporto conoscitivo del soggetto con l’esterno, cui si conferisce validità oggettiva mediante l’impiego delle forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e dell’intelletto (causalità, che è la sintesi delle altre due in quanto è l’agire nello spazio per un certo tempo). Ne consegue che il mondo che noi percepiamo direttamente, costituito di cose molteplici e in relazione tra loro, non sussiste in sé ma è “la mia rappresentazione” (cioè è un oggetto relativo a un soggetto), per cui se tutti i soggetti svanissero «il mondo come rappresentazione cesserebbe di esistere». Di qui Schopenhauer trae (con Pindaro, Platone, Shakespeare, Calderon de la Barca ecc.) la conclusione della falsità e illusorietà delle cose mondane, espressa nella maniera più adeguata dalla sapienza Veda («è Maya, il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei mortali [...] il mondo è infatti simile a un sogno»), che confermerebbe le tesi di ➔ Kant. Tuttavia vi è un’altra componente costitutiva del soggetto, rappresentata dalla volontà, come risulta evidente quando si distoglie lo sguardo dall’esterno per rivolgerlo verso l’interno dell’autocoscienza: qui l’individuo, rendendosi conto della matrice dei propri atti intenzionali, può accedere alla propria essenza, scoprendosi, insieme con la condizione della pensabilità del soggetto, egli stesso una cosa in sé. In questa prospettiva risulta determinante la nozione di “corpo”, giacché esso è per un verso (quale sede degli organi e apparati funzionali)

Schopenhauer

un “fenomeno” tra i tanti, per l’altro è l’espressione della volontà del soggetto che si traduce in movimento. Se l’uomo riflette su se stesso può rendersi conto che al di sotto delle sue azioni, desideri, rappresentazioni c’è un impulso più profondo, che lo spinge ad agire, volere e anche pensare secondo ben determinate modalità: si tratta di una tendenza primordiale a esistere, ad attuarsi e affermarsi a ogni costo (in questo senso “Volontà di vivere”). E alla luce di tale scoperta possono essere interpretate, per via analogica, tutte le manifestazioni del mondo, “intuendo” che alla radice di tutto si trova quella stessa essenza che costituisce il mio essere. La Volontà di vivere, nella sua semplice immediatezza, unità, indifferenziazione, coincide dunque con la cosa in sé che (attraverso le forme del principium rationis e i modelli di generi e specie o idee in senso platonico) si oggettiva e frammenta (pur rimanendo in sé intera e indivisa) nel mondo in una molteplicità di elementi. La natura si rivela così come un’unica, complessa e stratificata manifestazione (dal mondo inorganico a quello vegetale, animale e umano) della Volontà: se la scienza la spiega in termini di rapporti causali tra forze (che però rimangono in sé incognite), la metafisica ne completa razionalmente l’analisi, facendocela apparire (una volta sollevato il velo di Maya) come un desolante spettacolo di lotta e di dolore. I singoli elementi e individui cercano di affermare sé a danno degli altri, in quanto ciascuno è strumento inconsapevole di un principio esclusivo che tende (senza scopi né fini, quindi in modo “cieco e irrazionale”) a subordinare a sé la totalità del mondo: nell’uomo anche le facoltà superiori della coscienza (intelletto e ragione) non sono che uno strumento per l’affermazione della singolarità empirica (esse offrono alla volontà i motivi per cui essa possa attuare consapevolmente ciò che in realtà vuole inconsciamente: vengono così a cadere le illusioni sull’amore, sul progresso storico e sociale ecc.). Ma l’uomo è anche un “animale metafisico” e come tale ha la possibilità di cogliere con lucidità la propria condizione e di liberarsene (in modo radicale e autentico e non con l’espediente spurio e inutile del suicidio). Il primo grado di liberazione si ha nell’arte quale contemplazione disinteressata delle cose: essa è una forma di conoscenza poiché il soggetto conoscente non è più quello empirico ma quello puro (emancipato dalle forme del principio di ragione) «chiaro oc-

Schulze

chio del mondo» che astrae dalla propria singolarità per «perdersi appieno nell’oggetto»: essendo questo costituito dall’idea, il soggetto si pone di fronte al mondo come rappresentazione pura della Volontà (in particolare nella musica che «non è, come le altre arti, l’immagine delle idee, bensì l’immagine della Volontà stessa») riuscendo in tal modo (sia pur momentaneamente e con la conseguente temporanea sospensione del dolore e del bisogno) a identificarsi con essa e a cogliere l’oggetto in sé. «Non ancora una via per uscire dalla vita, ma solo, a volte, un conforto nella vita medesima», pertanto si deve superare l’eccezionalità ed episodicità della catarsi estetica in una esperienza più stabile e radicale che consenta una liberazione definitiva dalla servitù alla Volontà. Schopenhauer indica la via dell’etica, culminante nel sentimento di amore compassionevole che, sorgendo dal principio comune che lega i viventi, spinge l’individuo a considerare il destino di ciascuno come del tutto uguale al proprio, inducendolo al sacrificio disinteressato di sé e della propria vita per gli altri. Questa forma (ancora parziale) di negazione della Volontà di vivere sfocia infine nella scelta deliberata (derivata da una conoscenza sempre più intima del mondo noumenico e dall’«orrore [...] per l’essere [...] per l’essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore») della liberazione definitiva dal dolore costituita dall’ascesi, cioè dall’astensione intenzionale (come appare soprattutto nella letteratura sanscrita e nella saggezza indiana) da ogni affermazione di vita (castità, digiuno, sacrificio, mortificazione, povertà ecc.). Non è possibile definire positivamente lo stato con cui termina l’ascesi (nirvana, noluntas): «quel che rimane dopo la soppressione completa della Volontà è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della Volontà. Ma per gli altri, in cui la Volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale [...] è, esso, il nulla» (quindi relativo al mondo, mentre essi hanno raggiunto il tutto in uno stato di redenzione e catarsi totale e assoluta). La riflessione di Schopenhauer ha variamente influenzato tutta la cultura della “decadenza”, sia in campo artistico-letterario (Wagner, Svevo, Pirandello, Kafka, Thomas Mann, Hesse ecc.) sia in campo filosofico, dove ha influenzato pensatori dall’indirizzo teoretico eterogeneo (Nietzsche, Bergson, Freud, Simmel, Spengler) o in apparenza

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Schumpeter

lontani dalla sua sensibilità (Horkheimer, Wittgenstein, Heidegger). Schulze, Gottlob Ernst Filosofo tedesco (Heldrungen 1761 - Gottinga 1833), professore a Gottinga dove ebbe come allievo Schopenhauer. La sua fama è legata all’Enesidemo (1792), in cui è proposta, con un esplicito richiamo all’antico scetticismo, un’invalidazione del criticismo (nella versione di Reinhold) proprio in base ai suoi stessi principi. Infatti Schultze osserva che se il trascendentale, quale suo oggetto specifico, è dato a posteriori, allora esso dovrebbe rinunciare alla sua definitività (l’analisi di un dato empirico non può pretendere di per sé universalità e necessità); se esso è dato con un trascendimento dell’esperienza, allora ciò è ottenuto con un uso illegittimo delle categorie. Anche in riferimento alla questione della cosa in sé, Schulze rileva l’impossibilità di applicare una categoria a una realtà transfenomenica, attribuendo a questa nozione una funzione positiva come causa e condizione dell’esperienza. Se in quest’opera la conclusione è prudente (Kant non sarebbe riuscito a superare lo scetticismo di Hume, anche se non si esclude la possibilità di riuscita di altri futuri tentativi) più tardi le posizioni scettiche diventeranno più palesi e radicali nella Critica della filosofia teoretica del 1801 (e in questo senso verranno attaccate da Hegel in un famoso articolo del 1802). Schumpeter, Joseph Alois Economista e pensatore austriaco (Trˇešt’ 1883 - Taconic 1950), professore a Graz, alla Columbia University, a Bonn e infine all’università di Harvard. Di cultura storicistica, valorizzò nello studio dei fenomeni economici e delle trasformazioni dei sistemi produttivi l’attività innovatrice dell’imprenditore quale fattore dinamico del processo di sviluppo (L’essenza e i principi dell’economia teorica del 1908 e Teoria dello sviluppo economico del 1912). In Capitalismo, socialismo, democrazia (1942), respinse le critiche tradizionali al capitalismo (che in realtà ha saputo aumentare la produzione e distribuire più equamente la ricchezza) ma paventò la sua fine constatando come esso tenda a distruggere i suoi stessi presupposti (l’imprenditoria è burocratizzata, l’innovazione programmata, il profitto si trasforma in stipendio: così la borghesia perde la sua identità e funzione) fino a confondersi con le strutture del socialismo. Analogo pericolo correrebbe la democrazia, dove la maggioranza

Sciamanesimo

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finirebbe per fungere da semplice supporto di consenso e di legittimazione per un potere detenuto essenziamente da gruppi ristretti. Schumpeter è anche autore di una fondamentale Storia dell’analisi economica (postuma, 1954). Sciamanesimo Complesso di atteggiamenti e pratiche psicologiche, magiche e mistiche presente in varie religioni delle popolazioni dell’Asia (in Siberia, nell’India meridionale), dell’America (settentrionale e meridionale), in Groenlandia, in Africa (specialmente nel Sudan), di cui è componente culturale essenziale. Esso è intimamente legato alla figura dello sciamano (dal tunguso shaman, «colui che è stato in estasi»), individuo (generalmente maschio ma talvolta anche femmina) dotato di particolari facoltà (speciale sensibilità, qualità psichiche, grande eccitabilità, capacità ipnotiche ecc.) che gli permettono, mediante apposite tecniche (apprese dopo un periodo di iniziazione), di raggiungere volontariamente (e quindi di dominare) uno stato di raptus o trance durante il quale stabilisce una comunicazione con spiriti e altre entità superiori (attraverso la possessione da parte loro o attraverso il viaggio estatico nel loro mondo: per questo motivo lo sciamanesimo può essere considerato una vera e propria dottrina esoterica). Lo sciamano svolge dunque una funzione essenziale di “mediazione” (perciò di carattere sacerdotale) nella vita delle comunità, poiché in tal modo acquista il potere di guarire malattie, di interagire con l’anima che sta per separarsi dal corpo, mantenendo la persona in vita o accompagnandola nell’aldilà, di individuare colpevoli, di ritrovare oggetti, di rendere fruttuosa la caccia ecc. Secondo alcuni studiosi, molte delle dottrine pitagoriche sull’anima sarebbero di derivazione sciamanica. Scolastica In senso lato il termine viene usato per indicare la trasmissione di un insegnamento o di una dottrina in modo meccanico e passivo (si possono così avere una scolastica cartesiana, idealistica, marxista ecc.). In senso specifico il termine rimanda a una periodizzazione culturale designante il pensiero filosofico e teologico medievale dell’Occidente latino, in quanto fu insegnato nelle scholae (scuole monastiche e cattedrali, università), che dal VI al XIV secolo furono i luoghi esclusivi della elaborazione della cultura (perciò scholasticus è chi, come studente o insegnante, opera in esse). Poiché quest’ultima possiede nel medioevo

Scolastica

una unitaria e omogenea impronta cristiana, anche la filosofia delle scholae è orientata in questo stesso senso, ricevendone determinati caratteri intrinseci comuni. È inoltre legittimo parlare di scolastica araba e bizantina, in quanto anche in questi ambiti e nello stesso arco cronologico si affrontava la medesima questione cruciale circa i rapporti tra rivelazione divina e ricerca razionale. Tipico della scolastica è il metodo che, a partire dagli antecedenti antichi (Aristotele, Epicuro, gli Stoici, Agostino), assume l’aspetto (da ➔ Abelardo in poi) della quaestio, fino a costituirsi come genere autonomo nella quaestio disputata (e nella variante detta quodlibetalis): proposto un argomento, dopo ampie discussioni (con il ricorso sia a nozioni scientifiche sia all’appoggio dell’autorità) e confutazione delle obiezioni (la base logica del metodo era la “distinzione” del concetto nei suoi elementi fondamentali, analizzati singolarmente, fino alla eliminazione delle antitesi), veniva stesa la determinazione magistrale, secondo un formulario espressivo e uno schema procedurale codificati. Ormai consueta è la distinzione cronologica tra prima scolastica (sec. VI-XII), apogeo (sec. XIII), tarda scolastica (sec. XIV), importante per l’indicazione delle tematiche, degli strumenti e degli indirizzi speculativi. Così se nel primo periodo, quasi esclusivamente monastico, il problema essenziale è quello della comprensione del dato rivelato (assunto inizialmente come vero) secondo la regola “fides quaerens intellectum” (per cui la filosofia, limitandosi a fornire i mezzi – idee, tesi, procedimenti logici, apparato linguistico-concettuale ecc. – per leggere e capire il testo sacro, è incorporata nella teologia); in seguito, per effetto della diffusione di molti testi classici prima sconosciuti (il Fedone e il Menone di Platone, le opere teoretiche di ➔ Aristotele, sia pure con la mediazione dei commentatori arabi), si ebbe la percezione di un pensiero costruito indipendentemente dalla rivelazione e quindi di una conoscenza filosofica autonoma dalla teologia (e talvolta in contrasto con essa). Il merito di Tommaso (centro del secondo periodo) è dunque quello di aver proposto – attraverso un ripensamento originale di Aristotele (al di là delle deformazioni platonizzanti di Avicenna, Avicebron, Maimonide) e parallelamente a una corrente che intendeva sviluppare il sistema dello stagirita secondo l’interpretazione di Averroè (“averroismo latino” rappresentato principalmente da Sigieri di Brabante) – una nuova sin-

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Scoto Eriugena Scolastica

Scoto Eriugena

Le scholae e i loro esponenti

PRIMA SCOLASTICA VI-XII sec.

MARZIANO CAPELLA (IV-V sec.) BOEZIO (480 ca.-524 ca.) BEDA (676-735) BERENGARIO DI TOURS (1008-1088 ca.) S. ANSELMO (1033-1109) TEODORICO DI CHARTRES (XII sec.) D. GUNDISALVI (XII sec.) GUGLIELMO DI CONCHES (1080 ca.-1154) GUGLIELMO DI CHAMPEAUX (1070 ca.-1121) UGO DI S. VITTORE (1096-1141) ABELARDO (1079-1142) RICCARDO DI S. VITTORE (1100 ca.-1173) ALANO DI LILLA (1124 ca.-1203) GUGLIELMO D’AUVERGNE (1180 ca.-1249) G. DI SALISBURY (1115-1180)

APOGEO XIII sec.

R. GROSSATESTA (1170 ca.-1253) ALBERTO MAGNO (1200 ca.-1280) S. TOMMASO (1225-1274) S. BONAVENTURA (1221 ca.-1274) R. BACONE (1214 ca.-1292 ca.) ENRICO DI GAND (1217 ca.-1293)

TARDA SCOLASTICA XIV sec.

SIGIERI DI BRAMANTE (1240 ca.-1284 ca.) G. DUNS SCOTO (1265 ca.-1308) EGIDIO ROMANO (1243 ca.-1316) R. LULLO (1232 ca.-1316 ca.) M. ECKHART (1260 ca.-1327) GIOVANNI DI TANDUN (1280 ca.-1328) G. DI OCKHAM (1285 ca.-1349) G. BURIDANO (1300 ca.-1360 ca.) N. D’AUTRECOURT (1300 ca.-1369) NICOLA D’ORESME (1322-1382) J. WYCLIF (1328-1384)

tesi tra filosofia e teologia, tra ragione e rivelazione. Proprio la rottura di questo equilibrio (e la conseguente negazione dello statuto di scienza alla teologia con ritorno a molte tesi dell’agostinismo) contrassegna l’ultimo periodo della scolastica, dominato dalla figura di Ockham. Tra il XV e il XVII secolo si ha, in concomitanza con la Controriforma cattolica, una seconda scolastica consistente principalmente in una forte affermazione del tomismo, che prevalse sugli indirizzi concorrenti (scotismo e occamismo ancora vivi nel periodo umanistico). In questo milieu commentarono Aristotele e Tommaso (spesso con originalità, indipendenza di metodo e di pensiero) il de Vio detto il Gaetano, il de Vitoria, il Bellarmino, il Molina e soprattutto Francisco Suàrez. Tra Otto e Novecento si sviluppa un movimento detto ➔ Neoscolastica.

Scoto Eriugena, Giovanni Filosofo irlandese (IX sec.). Chiamato Eriugena da “Eriu”, antico nome dell’Irlanda, Scoto rappresenta una figura abbastanza isolata nel panorama filosofico dell’epoca: maestro nella Schola palatina sotto Carlo il Calvo (per ordine del quale tradusse dal greco molti testi dei padri orientali), acquisì notorietà con il De praedestinatione sostenendo tesi vicine a quelle di Origene (per questo sarà condannato dalla Chiesa nell’855). Il pensiero di Scoto si fonda sulla convinzione che la fede possa trovare chiarimenti e sostegno dall’uso corretto della ragione, in quanto l’una e l’altra vengono garantite e armonizzate da Dio. In questo contesto egli elabora la sua principale opera De divisione naturae (in 5 libri e in forma di dialogo tra discente e docente intorno alla dottrina cristiana), dove dimostra come tutto il creato (la natura), attraverso un procedimento

Scozzese, Scuola

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logico (secondo il modello neoplatonico) di divisione e ricomposizione, derivi e ritorni a Dio. I momenti di tale processo sono: — la natura che crea e non è creata (Dio); — la natura che è creata e crea (il Logos, nel quale sono presenti gli archetipi del tutto – simile al mondo delle idee platonico); — la natura che è creata e non crea (il mondo sensibile); — la natura che non è creata e non crea (il ritorno a Dio, che potrà realizzarsi solo con la morte di tutto il mondo e di tutte le creature: con l’annichilimento del tutto solo Dio esisterà e a questo momento seguirà la resurrezione dei corpi e l’intellezione pura della beatitudine). Infatti l’uomo, creato simile a Dio, ha perso, col peccato originale, il dono dell’incorruttibilità ma non la possibilità di salvarsi attraverso un lungo processo di “ritorni”, nei quali la mente ripercorre tutti gli stadi della creazione. Tali ritorni sono: la morte fisica, la resurrezione, la graduale trasfigurazione del corpo nello spirito e infine la contemplazione della Divina Sapienza, che non implica identità di umano e divino ma «adunatio sine confusione, vel compositione, vel iunctura». Per lungo tempo l’indagine di Scoto Eriugena fu dimenticata, solo nel XII secolo fu riscoperta e interpretata (da Amalrico di Bennes e David di Dinant) secondo un’interpretazione panteistica (in realtà Scoto Eriugena afferma che il mondo è identico a Dio, ma Dio non è identico al mondo e lo trascente) che causò nel 1225 la condanna della Chiesa e investì anche le altre opere del pensatore. Scozzese, Scuola Fondata da Thomas Reid ad Aberdeen verso il 1760, si diffuse anche a Edimburgo e a Glasgow quando egli stesso e i suoi allievi si trasferirono in quelle università. Conosciuta come filosofia del senso comune, essa intendeva reagire con vigore polemico alle estreme conseguenze dell’empirismo e in particolare alle conclusioni scettiche di Hume. A queste si opponeva l’idea di una credenza istintiva nell’esistenza della realtà esterna, posseduta da tutti gli uomini naturalmente e connessa all’atto della percezione. Seguaci del maestro furono Beattie e Oswald, che applicarono le sue concezioni in difesa delle verità religiose. Tra i più prestigiosi esponenti della Scuola scozzese vi fu Hamilton, che tentò, nel primo Ottocento, una fusione tra senso comune e criticismo kantiano, sviluppando le tematiche tradizionali della scuola

Searle

in senso agnostico, mentre Veitch ne cercò una conciliazione con l’idealismo postkantiano. Con l’avvicinamento alla speculazione tedesca, si assiste al progressivo dissovimento della scuola, che agli inizi del Novecento ha ormai perduto i suoi connotati specifici originari e si va stemperando nelle varie correnti dell’empirismo anglosassone. In questo senso è rilevante la figura di McCosh, che si trasferì in Stati Uniti influendo su Charles Sanders Peirce e sulla nascita del pragmatismo. Searle, John Rogers Filosofo americano (Denver 1932), dedito soprattutto all’analisi del linguaggio e della mente. Dopo gli studi a Oxford, è diventato professore a Berkeley (California). Nella sua prima opera di rilievo, Atti linguistici (1969), ha sviluppato la teoria del linguaggio ordinario di ➔ Austin, concependola come parte di una più generale teoria dell’agire sulla base del principio che il linguaggio sia una forma di comportamento intenzionale retto da regole. Dopo aver classificato sia queste ultime sia gli stessi atti, l’attenzione si è concentrata soprattutto sugli “atti preposizionali”, quelli cioè che esprimono un contenuto intenzionale (la proposizione o atto retico). Essi si compongono di due fattori, l’atto autonomo della referenza (che isola gli oggetti singoli ai quali il parlante si riferisce) e quello non autonomo della predicazione (la determinazione attribuita dal parlante all’oggetto di riferimento), che a loro volta possono essere impiegati nei più diversi ruoli illocutori (per esortare, avvertire ecc.). Secondo Searle, tuttavia, un contenuto preposizionale può conservare la sua identità in atti espressivi e ruoli linguistico-comportamentali diversi. Interessandosi con sempre maggiore intensità ai problemi di filosofia della mente, egli ha assunto una posizione decisa in senso antiriduzionista in difesa dell’autonomia del mentale. In Menti, cervelli e programmi (1980) ha attaccato il programma dell’intelligenza artificiale forte, negando che si possa identificare il funzionamento di una macchina (anche se ben programmata in modo da farle intendere un linguaggio) con quello della mente. Per mostrare come una macchina possa manipolare simboli ma non comprenderne il significato, egli ha proposto il famoso esperimento mentale della “stanza cinese”: se supponiamo che un individuo sia chiuso in una stanza in cui siano presenti simboli cinesi, insieme con un manuale che contiene regole nella sua

Sen

lingua con cui associare a quei segni parole e significati a lui noti, si può evidenziare come l’operazione di associazione – ancorché eseguita correttamente – di ideogrammi cinesi ai rispettivi termini nella sua lingua, mediante precise istruzioni fornitegli da un manuale, non equivale a una reale interpretazione e traduzione di questi ideogrammi. In questo caso l’individuo si comporterebbe come una macchina che manipola formalmente dei simboli secondo le regole che il programma gli ha installato, ma che non per questo capisce o interpreta i simboli di cui si sta servendo. La capacità della macchina è solo una proprietà formale sintattica (che non configura un’intenzionalità intrinseca) ma non una capacità semantica, l’unica che è esercitabile intrinsecamente dalla mente umana. In Dell’intenzionalità (1983) egli cerca una teoria dei fenomeni mentali naturalistica sì, ma non riduzionista. L’intenzionalità, intesa come la capacità della mente di relazionare l’organismo umano con il mondo, è dunque un fenomeno cruciale da cui dipendono tutti gli altri aspetti della vita di coscienza (percezione, desiderio, credenza, significato ecc.). Desumendo questa nozione sia da ➔ Brentano (come direzionalità della mente verso un oggetto) sia da ➔ Husserl (come stato della mente o “evento della coscienza”), egli la concepisce come proprietà costitutiva della mente, irriducibile a principi più semplici, rilevabile dall’analisi del comportamento sia verbale (gli atti linguistici) sia non verbale (le azioni). Con ciò i fenomeni mentali sono certamente biologicamente fondati (cioè non entità metafisiche o trascendenti, ma causati da operazioni del cervello), ma comunque distinti e irriducibili a proprietà naturali da cui pur derivano. Questa linea di ricerca è proseguita da Searle in altre opere successive (per esempio La riscoperta della mente, 1992, e Il mistero della coscienza, 1997) in cui ha identificato intenzionalità e coscienza fenomenica, quest’ultima causata da fatti neurologici ancora ignoti ma comunque non tali da porre particolari problemi epistemologici. Searle ha proposto, inoltre, un’ontologia della realtà sociale (La costruzione della realtà sociale, 1995), dove le più comuni azioni quotidiane sono presentate come il frutto di una straordinaria complessità di fattori, che le abitudini mantengono in vita. Ne La razionalità dell’azione (2001) ha difeso la libertà di agire, proponendo, in polemica con ➔ Davidson, una teoria che rifiuta di

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Sen

descrivere i comportamenti umani in termini di cause e leggi rigorose, sostenendo che le ragioni (desideri, intenzioni, volontà) non sono cause delle azioni intenzionali, non sono gli antecedenti causali dell’azione e da esse non segue necessariamente l’azione. Solo uno studio più approfondito del cervello potrà fornire una spiegazione della razionalità pratica, riconoscendo che la libertà è una sua caratteristica: fino a quel momento una logica formale della ragion pratica non è possibile. Sen, Amartya Kumar Filosofo ed economista bengalese (Santiniketan 1933), professore in diverse università indiane, americane e inglesi, premio Nobel per l’economia nel 1998. Inserendo l’indagine economica in un più ampio contesto filosofico-morale, egli incomincia (in Utilitarismo e oltre, con Bernard Williams, 1984) con il muovere alcune severe critiche all’orientamento prevalente in questa disciplina, l’utilitarismo: se si considera il piacere, o la soddisfazione delle preferenze individuali, come fine a se stesso, non si valuta che questi fattori tendono a essere adattati alle situazioni esterne. Si tratta del cosiddetto fenomeno delle “preferenze adattive”: proprio prendendo in considerazione la situazione di vita precaria e difficile dei paesi del terzo mondo, si può osservare come gli individui tendano ad adattarsi a esse (quindi ad accontentarsi di un grado basso di soddisfazione) senza tentare di migliorarle. Ciò significa non solo che l’utilitarismo, proprio perché astrae dalle circostanze concrete in cui si svolge l’esistenza delle persone, non rileva le situazioni di ingiustizia e discriminazione, ma anche che il piacere e la soddisfazione non possono essere criteri per la determinazione del livello né di giustizia sociale né di benessere o bisogno di un individuo. Da questa prospettiva Sen ha affrontato il problema della libertà e della disuguaglianza, in relazione ai fenomeni attuali della globalizzazione e della giustizia a livello planetario: in diverse opere (Scelta, benessere, equità, 1982; La disuguaglianza, 1992; Lo sviluppo è libertà, 1999; Globalizzazione e libertà, 2002) egli ha criticato il concetto di sviluppo nella misura in cui è identificato con la crescita economica. Se con Aristotele identifichiamo una serie di capacità umane (vita, salute, sentimenti, partecipazione alla vita pubblica ecc.) che ne determinano l’intrinseca essenza, allora non è pensabile che una persona possa definirsi (e sentirsi) libera di scegliere se anche una

Seneca

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sola di queste è sminuita o compromessa. Dal momento che la libertà è strettamente dipendente dalle capacità e dai mezzi per esercitarla, la vera uguaglianza consiste nel poter godere delle stesse condizioni materiali di vita, mentre si assiste al fenomeno diffuso dell’impedimento di alcune fondamentali abilità per effetto di diversi fattori (presenti anche nelle società liberali) come mancanza di istruzione, malattie, disabilità, povertà ecc. Se si intende dunque tutelare la libertà degli individui occorre promuovere allo stesso tempo l’uguaglianza attraverso politiche che (mediante l’intervento delle istituzioni e la regolamentazione della libertà di mercato) dispongano qualche forma di ridistribuzione della ricchezza per attuare l’emancipazione dal bisogno. Più in generale è dunque lo sviluppo dei diritti umani (nell’accezione più ampia, comprendente la possibilità paritaria di accesso alle risorse) che mette le persone in grado di esercitare la libertà, intesa fondamentalmente come libertà di scelta. Peraltro, bisogna precisare che questa concezione dell’uguaglianza non collide con l’evidenza di una reale differenza tra gli esseri umani, che è determinata dalla loro eterogeneità e la cui identità è formata da “affiliazioni molteplici” (cioè appartenenza contemporanea a raggruppamenti classificatori diversi tra loro): vera uguaglianza non è quella che (come accade nei paesi comunisti) livella tutti gli individui su un piano di uniformità indifferenziata, ma che garantisce loro, con la possibilità di scelta, la realizzazione completa del loro essere mediante il raggiungimento di un’adeguata qualità complessiva della vita. In questa prospettiva eticamente umanistica, antieconomicista e pluralista, Sen è intervenuto in alcune delle più spinose questioni politiche del presente, mostrando come la democrazia non sia riducibile al modello occidentale (Laicismo indiano, 1997; La democrazia degli altri, 2004; L’altra India, 2005), e come sia inaccettabile la definizione dell’individuo in base a categorie collettive come razza, religione, lingua, nazione, veri semi di sopraffazione e «minimizzazione dell’essere umano» (Identità e violenza, 2006). Seneca, Lucio Anneo Filosofo e scrittore romano (Cordoba 4 ca. a.C. - Roma 65 d.C.). Di origine spagnola, fece a Roma una brillante carriera politica, anche se segnata da un lungo periodo di forzato esilio, finché non cadde in disgrazia presso Nerone e fu costretto alla morte, affrontata con un

Senofane di Colofone

coraggio e una serena determinazione tipicamente stoici. Massimo rappresentante dello stoicismo romano, ne sviluppò le dottrine e difese le idee in opere filosofiche e letterarie, ma soltanto per quanto riguarda gli aspetti etici. È autore di molti Dialoghi sui più vari temi etici e di 124 Lettere a Lucilio. Senocrate di Calcedonia Filosofo greco (Calcedonia 396 - Atene 314 a.C.), successore di Speusippo alla guida dell’Accademia. Della sua opera restano scarsi frammenti, dai quali emergono le influenze dell’indirizzo pitagorizzante dell’ultimo ➔ Platone: infatti egli distinse la filosofia in etica, fisica e logica, e accolse la concezione dell’anima come «numero che muove se stesso», la teologia astrale e la demonologia, la divisione del cosmo in tre piani gerarchici – della sostanza sensibile (terra), opinabile (cielo) e intellegibile. Quest’ultimo è costituito dai numeri assimilati alle grandezze ideali: contro questa concezione polemizzerà in seguito Aristotele. Propose infine una dottrina delle categorie, fondata sulla distinzione degli enti in “per sé” e “in relazione ad altro”. Senofane di Colofone Filosofo e poeta greco (Colofone 580 ca.-485 ca. a.C.). Nativo di Colofone, ebbe una vita lunga ed errabonda. Delle sue opere restano frammenti dalle Elegie (di contenuto conviviale, autobiografico e storico), dai Silli (di contenuto satirico contro la tradizione mitica di Omero ed Esiodo) e da un trattato Sulla natura, mentre sono perduti i due poemi su La fondazione di Colofone e La colonizzazione di Elea. Una tradizione antica, risalente a Platone e Aristotele, fa di Senofane il maestro di Parmenide (ma secondo alcuni studiosi fu un suo continuatore e divulgatore), anche se in lui si notano segni dell’influenza della Scuola ionica. Infatti Senofane afferma che l’arché è la terra («dalla terra tutto proviene e nella terra tutto finisce col ritornare»), da cui si generano l’acqua e il fuoco: essa nella sua parte inferiore si estende illimitatamente all’infinito mentre verso l’alto «tocca l’aria». Il riconoscimento della divinità dell’arché salda in uno stretto legame le dottrine fisiche e quelle teologiche: queste testimoniano non tanto una rivoluzione in senso monoteistico, quanto una riforma delle figure olimpiche tradizionali sulla base di esigenze morali e politiche. Infatti Senofane constata da un lato l’immoralità dei miti narrati da Omero ed Esiodo

Senofonte

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(che «hanno attribuito agli dei tutto ciò che per gli uomini è onta e biasimo») e il fallace antropomorfismo di ogni rappresentazione della divinità («i mortali si immaginano che gli dei siano nati e che abbiano vesti, voce e figura come loro», tanto che «gli Etiopi dicono che i loro dei hanno il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi»), dall’altro afferma la necessità del logos per esprimere l’unitarietà razionale al di là della contingenza delle sensazioni e delle opinioni. Questa esigenza razionalistica viene attuata ricercando gli attributi che si addicono alla divinità, che quindi risulta (in ciò l’analogia con Parmenide) immortale e ingenerata, immobile, «tutto occhio, tutto mente, tutto orecchio», che «senza fatica realizza tutto con la forza della mente»: insomma «un solo dio [...] né per figura né per pensieri simile ai mortali». Coerentemente con questa prospettiva, Senofane sostiene, nei confronti dei valori aristocratici propri della società del suo tempo, improntata al modello agonale, la supremazia della sua “sapienza”: essa è portatrice di bene (e perciò più valida della forza fisica) e salda coscienza morale («di agir giustamente, ché questo è ciò che più importa») per cui «la città vive in un ordine migliore» e può raggiungere una maggiore floridezza economica. In questo senso Senofane preannuncia l’illuminismo dei sofisti, con il primato della ragione e l’affermazione del progresso, poiché solo «ricercando, gli uomini trovano a poco a poco il meglio». Senofonte Storico e moralista greco (Atene 430 ca. - Corinto 354 ca. a.C.). Nacque ad Atene e fu discepolo di Socrate. Trasferitosi a Efeso, per una serie di circostanze partecipò alla spedizione di Ciro contro Artaserse fino alla ritirata dei 10 00 soldati mercenari presso le coste del Mar Nero (la vicenda è narrata nell’Anabasi). Bandito da Atene per le sue simpatie filospartane, si ritirò a Corinto, dove morì. Tra le sue opere sono da ricordare: le Elleniche (sulla storia greca del tempo, ideale continuazione dell’opera di Tucidide); la Costituzione di Sparta (dove emerge chiaramente la sua simpatia politica); l’Economico; la Ciropedia (opera pedagogica per l’educazione di Ciro il Vecchio) e infine i Detti memorabili di Socrate. Questi rivestono una grande importanza storica, non tanto per il contenuto filosofico quanto per essere una delle più ampie e importanti testimonianze storiche (accanto ad Aristofane, Platone, Aristotele) sulla figura di So-

Sesto Empirico

crate. Egli è presentato da Senofonte in modo meno idealizzato rispetto a quanto appare nelle opere platoniche, in una trattazione incentrata soprattutto sul suo pensiero morale e volta a scagionarlo dall’accusa di corruzione dei giovani e di empietà, forse non attendibile ed esaustiva ma ricca di sfumature psicologiche e di aneddoti di grande interesse. Serveto, Michele In spagnolo Miguel Servet. Medico e riformatore spagnolo (Villanova de Sixena 1511 - Ginevra 1553). Dopo gli studi, compì numerosi viaggi nell’Europa lacerata dalle dispute religiose, conobbe Calvino (col quale intrattene un fitto e interessante scambio epistolare) e si accostò alle tesi degli anabattisti. A Parigi studiò medicina, contribuendo alla scoperta della piccola circolazione. Scrisse opere importanti quali De trinitatis erroribus e Restitutio Christianismi, che lo stesso Calvino però non approvò tanto da denunciarlo all’Inquisizione romana. Serveto riuscì a fuggire fino a quando, trovandosi a Ginevra nel 1553 fu riconosciuto da Calvino e condannato al rogo. Nelle opere menzionate Serveto ripropone un ritorno alle origini del cristianesimo e sostiene che Dio è uno, immobile, presente come forza vivificante in tutta la natura, anch’essa di natura divina. Cristo è la manifestazione di Dio attraverso la quale veniamo a conoscere il tutto. Serveto nega valore all’autorità papale e limita quello dell’eucarestia al solo aspetto spirituale. Nella situazione storica del XVI secolo Serveto incarna la tipica figura di pensatore esposto all’intolleranza sia cattolica sia riformatrice. Sesto Empirico Medico e filosofo greco (180-220 ca.). Rappresenta una preziosa fonte per la conoscenza delle dottrine tardoscettiche e del pensiero antico in generale. Tra le sue opere pervenute ricordiamo: Contro i dogmatici, Contro i matematici, Memorie mediche, Schizzi pirroniani, da cui emerge chiara la sua posizione contro ogni forma di sapere chiuso e codificato. Sesto abbraccia invece la posizione dello scettico, che si ferma ai puri dati del senso rifiutando tutti i tentativi di presentare delle posizioni definitive garantite dalla ragione. Egli non ritiene possibile l’attuazione di un processo conoscitivo, né utilizzando il metodo deduttivo né attraverso l’induzione. Infatti il primo conduce a un circolo vizioso, poiché partendo da una premessa universale pretende di dimostrare un caso particola-

Severino

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re che però è già presente in quella; mentre al contrario con l’induzione si possono solo accumulare infinite esperienze senza mai approdare a una verità. Fermo restando che il vero sapiente è colui che fa della sua vita una continua ricerca, l’atteggiamento scettico non si traduce tuttavia in criterio per la vita pratica: per non rischiare di cadere nell’inerzia, occorre attenersi comunque ad alcune regole generali, tra cui l’accettazione dei fenomeni, cioè le norme che la natura offre ai sensi, la soddisfazione dei bisogni del corpo, l’adesione alle leggi e ai costumi della società in cui si vive. Severino, Emanuele Filosofo italiano (Brescia 1929), professore a Milano e a Venezia. Ha imperniato la sua riflessione sulla nozione di “nichilismo” come oggetto del pensiero e della storia dell’Occidente. Ciò appare evidente non solo nei suoi primi lavori (La struttura originaria del 1958, Studi di filosofia della prassi del 1962) ma soprattutto nella sua opera capitale, Essenza del nichilismo (1972). Partendo dalla verità inoppugnabile di ➔ Parmenide secondo cui l’essere è e non può non essere, egli deriva che gli enti, in quanto sono, sono eterni e immutabili: al contrario, la filosofia dell’Occidente, conferendo realtà al divenire, conclude necessariamente che «l’ente sia niente», in quanto, essendo nel tempo, nasce (viene dal nulla) e muore (sprofonda nel nulla). Come ha insegnato Nietzsche, questa dottrina corrisponde alla volontà di potenza che anima la nostra civiltà, costituendo la condizione per il trionfo della tecnica e della ragione strumentale (esaltate dalla scienza con la sua capacità di calcolo e di previsione) quali suoi elementi caratterizzanti. Essi sono evidenti anche in componenti della nostra cultura apparentemente in posizione opposta: Severino segnala in particolare il cristianesimo, con il suo Dio che ha potere di creare e distruggere il mondo, ma poi il suo discorso comprende anche il marxismo, «le istituzioni sociali, gli individui, le masse e i popoli che via via sono stati sottoposti a questa struttura dominante». Questa tesi è stata confermata in opere ulteriori (Gli abitatori del tempo del 1978, Destino della necessità del 1980), ricevendo ultimamente una svolta di tipo costruttivo attraverso la proposta (esposta in Oltre il linguaggio del 1992, Tautòtés del 1995, L’anello del ritorno del 1999, La gloria del 2001) di un “ritorno a Parmenide” e al suo senso dell’essere, quale orizzonte in cui l’apparire è tale in riferimento all’eternità di ogni cosa e dei suoi rapporti.

Sigieri di Brabante

Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper conte di Filosofo inglese (Londra 1671 - Napoli 1713), la cui riflessione si colloca in posizione di passaggio tra le discussioni sui problemi etico religiosi emersi dalle vicende rivoluzionarie e i dibattiti tipici dell’illuminismo. Nella questione se la perdita del fondamento teologico togliesse validità ai valori morali facendoli sprofondare nel relativismo, Shaftesbury difese (Ricerca sulla virtù e il merito del 1699) l’autonomia etica fondata su un principio immanente, tutto interno alla coscienza, chiamato senso morale. Consistente in una sorta d’intuizione interiore percettiva di accordo o disaccordo, convenienza o contrasto tra le motivazioni dell’agire, esso rende immediatamente possibile la valutazione della condotta, anche in termini di ragione, poiché l’individuo non è chiuso nel proprio egoismo ma ha una struttura relazionale che lo lega di “simpatia” ai suoi simili. Con la definizione della virtù come disposizione del singolo all’accordo con il bene della sua specie e dell’universo che lo comprende, Shaftesbury perviene a una visione ottimistica della vita morale, con la conseguente armonizzazione di individuo e società, egoismo e altruismo, felicità e virtù e l’esclusione di ogni rigorismo religioso e fanatismo politico (contro cui polemizzerà nella Lettera sull’entusiasmo del 1708). Tale concezione assume tonalità religiose ne I moralisti (1709) dove, in termini panteistici e prerousseauiani, si esalta il sentimento quale espressione della spontaneità vivente e inventiva della natura, di cui Dio sarebbe il principio animatore. Affine all’etica è l’estetica: fondata sui concetti di armonia e proporzione, la “grazia dell’agire” risulta infatti una esemplificazione e una specificazione della bellezza estetica quale accordo unitario tra le parti, tanto che «la bellezza più naturale [...] è l’onestà e la verità morale». Sigieri di Brabante Filosofo medievale (1240 ca.-1282 ca.), maestro a Parigi e massima espressione dell’“averroismo latino”. Malgrado riconoscesse nella fede l’unica verità, volle essere il più aderente possibile al pensiero di Aristotele e dei suoi commentatori (specialmente di Averroè) anche se non escluse dottrine attinte da Proclo e Avicenna. La sua dottrina si focalizza su due tesi: a) l’eternità del mondo (sostenuta nello scritto omonimo, nelle Quaestiones in physicam e nelle Quaestiones in metaphysicam) in conseguenza della causalità divina che è immediata, per cui l’effetto è eterno e uni-

Simmel

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co; b) la natura dell’anima intellettiva quale sostanza separata e unica per tutti gli uomini (Quaestiones in tertium de anima, Quaestiones de anima intellectiva, Quaestiones super librum de causis), con la conseguenza che l’anima individuale non è immortale e non possiede una capacità conoscitiva propria. Le tesi di Sigieri furono attaccate sia da San Tommaso (nel De unitate intellectus contra averroistas del 1270) sia da San Bonaventura (nelle Collationes in Hexaemeron del 1273). Malgrado Sigieri si fosse difeso sostenendo che queste teorie erano la logica conseguenza delle premesse poste da Aristotele e quindi valide solo nell’ambito della ragione naturale (teoria della doppia verità), esse furono sia incluse nell’elenco delle proposizioni condannate dal vescovo di Parigi Stefano Tempier, sia direttamente inquisite nel 1277. Simmel, Georg Filosofo e sociologo tedesco (Berlino 1858 - Strasburgo 1918), professore a Berlino e Strasburgo. Combinando il criticismo (Kant del 1890, Kant e Goethe, 1906) con elementi tratti dall’evoluzionismo e da Nietzsche (Schopenhauer e Nietzsche 1907), si mosse dapprima verso concezioni di tipo relativistico, riducendo la conoscenza a mera costruzione del soggetto, dotata di un valore (con ➔ James e ➔ Bergson) solo pragmatico, coincidente con l’utile per la specie. Questa prospettiva venne applicata sia al campo storiografico (I problemi della filosofia della storia del 1892: solo una penetrazione psicologica può comprendere la varietà e molteplicità dei mondi e delle epoche) sia sociologico (La differenziazione sociale del 1890). In seguito Simmel venne attenuando le sue posizioni originarie, ammettendo (ne I problemi fondamentali della filosofia del 1910), sulla scorta della fenomenologia e della Scuola del Baden, un regno dei contenuti ideali e un’etica normativa diretta all’essere dell’uomo, in cui trovano posto anche i temi della vita associata (Sociologia del 1908), religiosi (La religione del 1906) ed estetici (Rembrandt del 1916): in generale Simmel conduce le sue analisi (nella forma asistematica del saggio) riflettendo sui diversi tipi di spiritualità umana, quali si manifestano nei vari modi di concepire le cose, e di vita, specie dopo le variazioni tipiche della modernità (Filosofia del denaro del 1900, Cultura filosofica del 1911, che contiene il celebre La moda, La metropoli e la vita dello spirito del 1903, Il conflitto della cultura moderna del 1918). Nell’ultima fase della sua evoluzione intellettuale Sim-

Singer

mel pervenne a un vitalismo (L’intuizione della vita del 1918) dalle forti venature mistiche: la vita è concepita come una totalità, in cui sono contenute e superate le contraddizioni, in una tendenza perenne ad andare oltre se stessi verso un olismo organicistico derivato da Goethe. Notevole e varia è stata l’influenza di Simmel, su autori anche di diversa estrazione culturale (Bloch, Lukács, Buber ecc.) e sugli indirizzi speculativi contemporanei (esistenzialismo, marxismo). Simplicio Filosofo greco (VI sec. d.C.) di indirizzo neoplatonico. È importante soprattutto per i suoi commenti ad Aristotele (nella prospettiva di una conciliazione con Platone sulla base di una sintesi eclettica di tutto il pensiero classico): in particolare in quello alla Fisica egli riporta, con estrema serietà e precisione e per mezzo di citazioni di prima mano, le opinioni dei filosofi cui il testo fa riferimento, venendo così a costituire una delle fonti principali per la nostra conoscenza del pensiero antico. Il suo commento al De anima, in cui si sostiene l’interpretazione che l’intelletto agente e l’intelletto possibile sono parti o potenze dell’anima individuale, ebbe una notevole influenza sull’aristotelismo italiano del Cinquecento. Singer, Peter Filosofo morale australiano (Melbourne 1946), insegnante in varie università dell’Australia e degli Stati Uniti. È diventato ideologo di punta del movimento animalista internazionale da quando nel 1975 in Liberazione animale ha denunciato lo specismo, cioè la discriminazione degli esseri viventi a seconda della specie. Infatti, in base a un pregiudizio antropocentrico, vengono riconosciuti diritti agli uomini ma non agli animali, che invece dovrebbero essere inclusi nella comunità morale in quanto capaci (come già riconosceva Bentham) di provare piacere e soprattutto dolore: e poiché l’utilitarismo, cui Singer si riallaccia, sostiene il dovere di evitare (o almeno diminuire) le sofferenze, questa prospettiva etica trova la sua concretizzazione pratica nel divieto di cibarsi di carne, di praticare sperimentazioni su cavie, di utilizzare pelli per l’abbigliamento. Il suo è un utilitarismo “della preferenza” in quanto assume questo termine (e non i tradizionali del piacere e del dolore) da soddisfare nel maggior numero di soggetti come criterio-guida nelle scelte politiche: di qui il rifiuto della “sacralità della vita” in questioni come l’eutanasia e l’aborto. Tali questioni di bioetica, oltre ad altre di estrema attualità come quelle della

Skinner

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fecondazione assistita e il trattamento dei bambini handicappati, sono state discusse (sempre con la consueta libertà e spregiudicatezza) in La vita come si dovrebbe (2001). Skinner, Burrhus Frederic Psicologo statunitense (Susquehanna 1904 - Cambridge nel Massachusetts 1990). Professore in varie università americane tra cui Harvard, fu uno dei rappresentanti della corrente del comportamentismo, e difese a fondo il punto di vista della tradizione positivista in psicologia. Fondatore e direttore del Journal for the Experimental Analysis of Behavior, periodico di indirizzo esclusivamente sperimentale, ha lasciato numerosi saggi tra cui La scienza e il comportamento umano (1953) e, in campo pedagogico, La tecnologia dell’insegnamento (1967). Smith, Adam Filosofo ed economista scozzese (Kirkcaldy 1723 - Edimburgo 1790). Docente di filosofia morale a Glasgow, fu il fondatore della scuola economica classica. Fondandosi sull’insegnamento di Hutcheson, rivalutò nella Teoria dei sentimenti (1759) il carattere soggettivo e relativo della morale, in quanto le regole e i giudizi di valore non sono frutto della ragione ma della “simpatia”. Questa è l’atteggiamento e anche il metodo che permette di comprendere le intime motivazioni delle azioni umane. Smith estende poi tale metodo al campo sociale ed economico. Nelle Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) egli illustra il complesso fenomeno dello scambio delle merci e della divisione del lavoro come elementi propri della naturale tendenza cooperativa degli individui, dalle attività dei quali si origina, per l’intervento provvidenziale di una “mano invisibile”, la prosperità sociale. Smith basa i principi del liberismo su premesse individualistiche estranee allo stato, i cui compiti sono limitati ai campi della difesa, della giustizia, dell’istruzione (e di qui l’opposizione alle teorie mercantiliste, che ne prevedevano l’intervento nella direzione economica con l’introduzione di leggi protezionistiche). Di notevole importanza nell’indagine economica è la distinzione da lui introdotta di un valore d’uso e uno di scambio della merce, e l’avere individuato nel lavoro la «misura reale del valore di scambio di tutte le merci» (tale analisi sarà ripresa e approfondita da ➔ Marx). Socrate Filosofo greco (Atene 470-399 a.C.). la vita. Figlio di uno scultore (Sofronisco)

Socrate

e di una levatrice (Fenarete), svolse forse da giovane la professione del padre, ma di certo volle intraprendere sul modello di quella materna la ricerca filosofica cui si venne successivamente dedicando. La sua prima educazione fu quella propria dei figli della piccola borghesia agiata ateniese (ginnastica, musica, poesia) ma poi la tradizione sostiene che frequentò Anassagora e il suo scolaro Archelao, Diogene di Apollonia, Parmenide e Zenone durante un loro soggiorno ad Atene e, naturalmente, i sofisti più in vista del tempo (Protagora, Gorgia, Ippia ecc.). Fu cittadino esemplare, rispettoso delle leggi e dei doveri. Fu marito e padre di tre figli, nonché buon soldato (durante la guerra del Peloponneso combattè valorosamente da oplita nella campagna di Potidea e nelle battaglie di Delo e Anfipoli). Nel 405 fece parte, come membro del Consiglio dei Cinquecento, della Pritania che dovette giudicare i navarchi dopo la battaglia delle Arginuse, e solo si oppose al procedimento illegale contro di loro. Allo stesso modo durante la dittatura dei Trenta tiranni, protestò contro l’arresto del democratico Leonzio di Salamina voluto da Crizia. Caduta la dittatura e restaurata la democrazia, fu chiamato in tribunale con l’accusa di empietà e di corruzione dei giovani, ma in realtà si trattava di una manovra politica per eliminare una figura troppo compromessa con il passato (Alcibiade e Crizia erano stati suoi allievi), la cui influenza era ritenuta nociva per una città che, dopo il trauma della guerra e della dittatura, aveva bisogno di trovare nei valori della tradizione etica e religiosa le basi per la sua ricostruzione al riparo da insegnamenti troppo spregiudicati e destabilizzanti. Sia durante sia dopo il processo Socrate non accettò compromessi (in realtà i suoi avversari intendevano solo sbarazzarsi, attraverso l’esilio, di una voce fastidiosa e poco accomodante: di qui anche l’offerta proposta ai suoi amici di farlo evadere prima dell’esecuzione) e affrontò serenamente la morte per avvelenamento. il pensiero. Socrate non scrisse nulla: tutto quello che sappiamo su di lui è tramandato da una serie di fonti, alcune contemporanee e altre posteriori, generalmente non concordi nel delineare la sua figura e i suoi orientamenti di pensiero. Se il commediografo Aristofane lo presenta nelle Nuvole come un sofista dedito a ricerche naturalistiche, ➔ Platone e ➔ Senofonte insistono invece sulla sua contrapposizione costante ai sofisti e alla loro retorica in nome della dialettica, delineando una nobile figura di

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Socrate

intellettuale, assorbito solo dalla sua missione etica che egli svolge fino alla fine in modo disinteressato (contrariamente ai sofisti, che impartivano i loro insegnamenti a pagamento). Infine Aristotele, che era stato per vent’anni alla scuola di Platone, riassume l’insegnamento socratico in quattro punti: l’interesse esclusivo per le questioni etiche ed estetiche, l’identità di sapere e virtù, la scoperta dell’universale (sia pure circoscritto a questi campi) oggetto della definizione, l’induzione. Socrate fu indubbiamente una figura poliforme e dai molteplici interessi, curioso e aperto a tutti gli stimoli culturali, che gli giungevano abbondanti da quell’Atene periclea in cui era profondamente radicato e da cui non volle mai allontanarsi. Così non disprezzò le indagini naturalistiche e scientifiche, quando fossero condotte con serietà e si rivelassero utili alla vita degli uomini, e fu sensibile all’esigenza religiosa, anche fuori dai canoni convenzionali della tradizione ufficiale. Soprattutto fu interessato alle problematiche introdotte dai sofisti, di cui comprese tutto il significato, e accettò dunque la loro istanza che, accantonando il problema dell’essere e del divino, poneva la ricerca entro i limiti dell’orizzonte umano. In effetti, le profonde trasformazioni sociopolitiche che avevano investito Atene dopo le guerre persiane e le innovazioni istituzionali di Solone e Clistene, avevano caricato il cittadino di responsabilità che egli non

Socratici

Socrate

avrebbe potuto affrontare con il solo bagaglio culturale tradizionale: perciò Socrate trovò che le esigenze di riforma educativa avanzate dai sofisti fossero adeguate alla situazione storica. Egli però, come fu nemico di ogni posizione cristallizzata e ripetuta in nome della chiarezza mentale, così assunse verso di loro (certo in seguito a una crisi intellettuale avvenuta intorno al 430 e rappresentata drammaticamente dalla missione ricevuta, tramite l’amico Cherofonte, dall’oracolo delfico) un atteggiamento critico e ironico, al di fuori di qualsiasi collaborazionismo professionale o corporativo. Né il suo atteggiamento fu più tenero nei confronti di coloro che sborsavano ingenti somme per seguire le lezioni dei maestri sofisti, da cui traevano supinamente un insegnamento il cui spessore qualitativo erano del tutto incapaci di valutare. Proprio su questi atteggiamenti si basa l’immagine, tramandata dalla tradizione platonica, di un Socrate che non volle essere maestro o insegnare niente a nessuno in quanto non aveva alcuna dottrina da insegnare, che non pretese alcun compenso per la sue parole, che fu solo un “esaminatore” di anime. E noi possiamo intendere perché non abbia voluto scrivere alcunché: il suo fine non era di rendere gli uomini più dotti, ma più consapevoli, di suscitare in loro, attraverso un esame continuo e vitale, il risveglio di una consapevolezza critica relativa alle proprie idee e alle proprie azioni. Il suo

Gli indirizzi dottrinali dopo Socrate ANNICERI DI CIRENE (IV sec. a.C) CIRENAICI ARISTIPPO (435 a.C.-366 a.C.) EUBULIDE (IV sec. a.C) MEGARICI

EUCLIDE DI MEGARA (450 ca. a.C.-380 ca. a.C.) STILPONE (360 ca.-280 ca. a.C.) ANTISTENE (436 ca.-366 ca. a.C.)

CINICI

DIOGENE DI SINOPE (413-323 ca. a.C.) BIONE DI BORISTENE (325 ca.-265 ca. a.C.)

PLATONE (427-347 a.C.)

Socrate

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insegnamento si è compendiato (secondo l’interpretazione fornita da lui stesso dell’oracolo delfico, che egli era il più sapiente perché «sapeva di non sapere») nella lotta al principio di autorità, nell’esortazione a discutere ogni insegnamento e ogni dottrina senza accettarli passivamente e nella convinzione che proprio in questo continuo esercizio di discussione e ricerca stia il più utile insegnamento che un maestro può fornire a un allievo. Perciò Socrate si è dedicato totalmente alla missione di educare i suoi concittadini (e in particolare i giovani) alla conoscenza di sé, della propria condizione umana, alla cura della propria anima (e per far ciò critica spregiudicatamente mettendoli in ridicolo tutti i falsi sapienti che si riempiono la bocca del bene e della santità e rimette in discussione tutti i venerabili valori della tradizione patria, irritando e facendo vergognare di sé quelli che si sentono al sicuro nelle proprie pacificanti concezioni). Poiché ciò che importa a Socrate è insinuare nell’animo del suo interlocutore il turbamento, il dubbio, purificando la sua mente mediante la confutazione del suo presunto sapere: egli non si limita dunque a opporre una tesi a un’altra tesi, ma pone la domanda «che cos’è?», cioè la richiesta di una definizione dei valori etici sul cui significato universale la ricerca deve vertere. E cade anche la questione se Socrate abbia o meno “scoperto il concetto”: presumibilmente l’obiettivo della discussione di giungere a una definizione assoluta dell’oggetto dell’indagine (che cos’è bene? che cos’è virtù? ecc.) va intesa in senso puramente “regolativo” (tra l’altro la ricerca “vera” di una definizione sarebbe stata in contrasto con il motivo delfico: saranno poi Platone e Aristotele a sviluppare in questo senso le indicazioni del maestro), mentre il suo fine immediato era quello di condurre l’interlocutore a liberarsi dei pregiudizi e a rendersi conto del peso e del significato della parola usata, per trovare l’accordo con sé e con gli altri, mostrando che il dialogo è possibile soltanto attraverso un processo di chiarimento di ciò che si pensa e vuole, che ha luogo al suo stesso interno. Ciò si accorda perfettamente con l’espressione che «la virtù è sapere» e che tutte le virtù si riducono unitariamente a sapere. Sul piano morale sapere non equivale infatti a conoscere un determinato contenuto dato, ma è dialogare con sé e gli altri per far scaturire dalla propria coscienza il bene, ciò che è da fare di volta in volta. Perciò il sapere non è tale in rapporto a un presunto Bene assoluto di cui non si sa nulla,

Socrate

ma è consapevolezza di quando è bene fare questa o quell’azione, che diviene buona in quanto si è appreso, attraverso l’esame e il ragionamento, che in questo momento è bene compierla. La coscienza di sé è insieme conoscenza delle proprie possibilità e dei propri limiti, sintesi di competenza specificamente tecnica (ognuno è chiamato a far bene il proprio mestiere, a compiere scelte in campi e situazioni professionalmente specifiche: di qui la critica alla democrazia, che affida responsabilità pubbliche a chiunque anche attraverso l’estrazione a sorte) e di moralità. Dunque la virtù è una sola, conoscenza di sé che è scienza di scienza (far bene il proprio mestiere significa sapere che “fare bene il proprio mestiere” è bene) e misura interiore (consapevolezza, sempre disposta a porsi in discussione, di quand’è che il bene è bene). Ma data l’identità di virtù e sapere, il male è ignoranza, poiché chi conosce sé non può volere il male, che sarebbe un andare contro se stessi. La vita morale non ha un suo contenuto specifico (come lo hanno invece i singoli saperi tecnici e coloro che ne hanno competenza), ma lo trova di volta in volta nella ricerca stessa: e il bene cioè sta proprio in questa discussione continua, nel conoscere la propria anima attraverso il confronto con quella altrui sì che ciascuno trovi in rapporto agli altri la posizione che deve rispettare. E questo processo non si ferma neanche con la morte, poiché, se siamo uomini, anche nell’aldilà continueremo la ricerca attraverso il dialogo, volta a costruire insieme noi stessi. Socrate dunque non dissimula il proprio sapere, e neppure ne possiede uno cristallizzato e sterile (Clitofonte nell’omonimo dialogo platonico lo rimprovera di esortare alla virtù ma di essere incapace di darne una definizione): egli semplicemente afferma che la consapevolezza del proprio agire spetta a ciascuno di noi poiché «per l’uomo il bene più grande è quotidianamente ragionare della virtù e [...] la vita senza esame è vita indegna all’uomo d’essere vissuta». A lui non spettava che svegliare le coscienze alla serietà della vita, portando gli incompetenti a irritarsi, a entrare in contraddizione con se stessi mediante il procedimento dell’ironia, con cui Socrate oppone, sul piano strettamente logico-linguistico, infinite posizioni tra loro contraddittorie fino allo smarrimento completo dell’interlocutore. A chi invece mostrava di essere fecondo, cioè di avere attitudine e capacità alla conoscenza, Socrate tentava, attraverso il dialogo e la confutazione, di fargli “parto-

Socratiche, Scuole

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rire” traendola da sé la sua propria verità (e in questo senso Socrate afferma di esercitare l’arte che era stata di sua madre, la “maieutica”). Coerente fino all’ultimo, Socrate cercò sempre di essere ironico e maieutico anche e soprattutto con se stesso obbedendo, secondo la rappresentazione platonica, a quel demone interno che lo tratteneva dal fare o dire qualcosa di male spingendolo a cercare il bene. Perciò egli ritenne che, nella particolare contingenza storica e culturale dell’Atene in cui visse, la sua funzione (la “missione” affidatagli dal Dio delfico) fosse di rappresentare uno stimolo e sprone per i suoi concittadini, «stimolando, persuadendo, rampognando, giorno per giorno». Ma la ricerca dialogica del vero implica che la “politicità”, la dimensione civica e comune, sia costitutiva dell’essere umano: essa si fonda sulla legge, di cui ogni uomo è conseguentemente “figlio”. La legge, stabilita convenzionalmente da una comunità umana organizzatasi in stato, potrà essere discussa ed eventualmente modificata, ma va sempre obbedita (non perché ciò che prescrive sia di per sé il giusto, ma perché è giusto il suo rispetto consapevole). Perciò l’uomo che si sottrae alla legge (come avrebbe fatto Socrate se durante il suo processo avesse chiesto l’esilio, o se fosse fuggito dopo la condanna), viene meno ai patti implicitamente contratti al momento della nascita e in seguito mai denunciati, e cessa in tal modo di essere uomo. Socrate invece rimane fedele a se stesso e alla città, morendo per una legge ingiustamente applicata: e così facendo egli prosegue la sua missione, incontrando i suoi concittadini (e gli altri uomini di tutte le epoche), non più in piazza o al ginnasio come era solito fare in vita, ma all’interno delle loro coscienze. Socratiche, Scuole Con il termine si indicano quegli indirizzi dottrinali che, dopo la morte di Socrate, si proponevano di continuarne l’opera e svilupparne il nucleo essenziale di pensiero mentre in realtà, indirizzando l’indagine verso la ricerca della felicità e della virtù individuale, ne deformavano lo spirito originario. Perciò Platone si oppose a esse, rivendicando per sé nell’Apologia il ruolo di vero continuatore dell’eredità del maestro. Tra le scuole socratiche vi sono la megarica, fondata da Euclide di Megara, la cinica, fondata da Antistene, la cirenaica, fondata da Aristippo.

Solov’ëv

una scuola unitaria ma furono accumunati dall’indirizzo politico e antropologico della loro ricerca, che li poneva in contrasto con il carattere naturalistico comune alle dottrine precedenti. Di sofisti si individuano abitualmente due gruppi, il primo dei quali comprende le figure di maggiore prestigio (Protagora, Gorgia) giunte ad Atene nell’epoca di Pericle per diffondere il loro sapere e le tecniche discorsive da utilizzare nell’esercizio della vita pubblica. La novità del loro pensiero (relativismo umanistico; possibilità di insegnare la virtù, non più privilegio di pochi; retribuzione dell’insegnamento) provocò spesso opposizione da parte delle élite conservatrici (sebbene neppure queste fossero immuni al loro fascino), poiché i sofisti ebbero tra i loro discepoli i rampolli dei ceti emergenti, che utilizzavano questi insegnamenti per sostenere l’ascesa del nuovo regime democratico. Il secondo gruppo di sofisti comprende coloro (Callicle, Crizia, Antifonte ecc.) che, nella fase terminale della guerra del Peloponneso, portarono alle estreme conseguenze le tesi della prima sofistica, contestando la convenzionalità dell’ordine della polis e delle sue normative in nome della legge di natura: poiché quest’ultima sanciva il diritto del più forte, essi trasformarono l’arte retorica in eristica quale strumento di affermazione del potere individuale. È soprattutto a questa seconda generazione di sofisti che si rivolge la critica di Platone presente in molti Dialoghi, in seguito alla quale il termine “sofista” è venuto ad assumere un’accezione negativa e contrapposta a “filosofo”. Solov’ëv, Vladimir Sergeevič Filosofo e teologo russo (Mosca 1853 - Uzkoe 1900), docente a Mosca e Pietroburgo. Formato alla tradizione spirituale e morale della sua terra, seguì (malgrado le influenze occidentali di Spinoza, Leibniz, Schelling, Kant)

Sofisti

Atene V-IV sec. a.C.

PROTAGORA (490 ca.-morto dopo il 411 a.C.) GORGIA (490 ca.-391 ca. a.C.) IPPIA (443 ca.-prima metà del IV sec. a.C.) ANTIFONTE (V sec. a.C.) PRODICO (470 ca.-prima metà del IV sec. a.C.)

So¿sti Gruppo di pensatori attivi nell’Atene del V sec. a.C.: i sofisti non costituirono

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un orientamento mistico (ebbe una visione durante un viaggio in Egitto) e profondamente religioso, centrato sul problema cristologico (Lezioni sulla divino-umanità, del 1881, dove l’incarnazione è vista come il culmine della rivelazione storica di Dio) ma dalle grandi aperture ecumeniche (La Russia e la Chiesa universale del 1889). Secondo Solov’ëv la filosofia si impone come problema metafisico della vita (I fondamenti spirituali della vita del 1884), intesa come sintesi comprensiva della realtà in cui le varie parti si costituiscono armonicamente in unità (l’unità vera è omniunità, sintesi di unità e molteplicità) sulla base di un principio assoluto (Idea) rivelantesi nell’attuazione del mondo e della storia. Individuando nel contenuto dell’assoluto tre momenti, il vero, il bene e il bello, diversi solo per la forma, Solov’ëv rivendicò l’esigenza di una conoscenza integrale (coincidente con la teologia) comprensiva di percezione sensibile, pensiero intellettivo, intuizione mistica (o atto di fede), e su cui avrebbero dovuto svolgersi tutti gli aspetti della vita, dall’economia alla politica (perciò la storia avrebbe dovuto portare all’attuazione di quei valori assoluti assegnati da Dio al mondo). In questo senso Solov’ëv vide nella rivelazione teandrica il momento in cui il Logos scende nel mondo per organizzarlo e salvarlo, configurandosi come la perfetta unione dell’umanità con Dio (che Solov’ëv chiama Sofia, 1876). Nell’ultima opera I tre dialoghi (1899) il suo pensiero assume toni più pessimistici: nell’appendice Il racconto dell’Anticristo, egli ne scorge l’irrompere sotto forme diverse in una storia umana desacralizzata e priva di trascendenza, frammentata in una molteplicità caotica di popoli e religioni. Sorel, Georges Filosofo francese (Cherbourg 1847 - Boulogne-sur-Seine 1922), teorico del “sindacalismo rivoluzionario”. Di professione ingegnere, si formò sulle letture di Proudhon, Marx, Nietzsche e Bergson, dedicandosi all’attività pubblicistica su varie riviste francesi, tedesche e italiane. Deluso dalla politica dei capi socialisti dopo l’affaire Dreyfus, partecipò alla revisione del marxismo (su posizioni vicine a quelle di ➔ Croce) denunciando il determinismo meccanicistico delle correnti ortodosse e confermandosi interessato alle componenti etiche del movimento operaio. In vari scritti (L’avvenire socialista dei sindacati, L’insegnamento sociale dell’economia contemporanea) ma soprattutto nelle famose Considerazioni sulla violenza (1906), vide nel ri-

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formismo sociale una forma di corruzione della classe operaia, la cui lotta veniva insidiata anche dal solidarismo e dal cristianesimo sociale: perciò ne sostenne l’organizzazione autarchica e spontanea a partire dalle condizioni materiali di esistenza in vista di un orizzonte rivoluzionario (la “guerra di classe”) generatore, sotto la spinta di una forte idea guida (un mito) quale lo sciopero generale, di nuovi valori etici e di civiltà (spesso però coincidenti con quelli tradizionali, anche cattolici). In altri scritti (La decomposizione del marxismo e Le illusioni del progresso del 1908) polemizzò contro la democrazia parlamentare mediocre e corrotta, contro gli intellettuali professionisti della politica, contro il materialismo e l’economicismo, contro l’ottimismo storicistico ereditato dalla cultura borghese, i cui valori razionalistici e utilitaristici andavano radicalmente rovesciati. Le analisi politiche di Sorel poggiano su una visione metafisica di ispirazione bergsoniana, per la quale ogni spirito deve cogliere la linfa e la forza creatrice della vita oltre le costrizioni materiali in cui l’hanno isterilita gli interessi e l’abitudine. Sorel si avvicinò progressivamente alla destra, salutando con simpatia la nascita del fascismo. Spaventa, Bertrando Filosofo italiano (Chieti 1817 - Napoli 1883), professore a Bologna e a Napoli. Studioso del pensiero italiano del Cinquecento, vi scorse (La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea del 1861, pubblicata da Gentile nel 1908) le radici della filosofia moderna, fino alle sue conclusioni maturate in Germania con Kant e Hegel (in tal modo Spaventa fece dell’hegelismo la filosofia del nuovo stato italiano). Di quest’ultimo fornì un’interpretazione gnoseologistica basata sulla contrapposizione tra soggetto e oggetto (da questo punto di vista l’opera fondamentale di Hegel era a giudizio di Spaventa la Fenomenologia): perciò ne Le prime categorie della logica di Hegel (1864) sostenne che essere e pensiero si congiungono nell’atto del pensare (in ciò consisterebbe anche la sintesi a priori kantiana), quale autentico cominciamento della filosofia («questa distinzione [...] è lo stesso Pensare»). Con la conseguente modifica, all’interno di questa “metafisica della mente”, del concetto di identità nel senso soggettivistico di identificazione (Logica e metafisica del 1867) come atto di una coscienza che pensa se stessa, Spaventa veniva progressivamente accentuando il primato del pensiero, fino a farne un’attività

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originaria, creatrice del proprio stesso oggetto. Attraverso tale riforma dell’hegelismo in un’accezione più vicina a Fichte, Spaventa fu iniziatore di uno stile di pensiero assai diffuso in Italia, che culminò nell’attualismo di ➔ Gentile. Spencer, Herbert Filosofo inglese (Derby 1820 - Brighton 1903), massimo rappresentante del positivismo evoluzionistico. la vita. Dopo gli studi di matematica e scienze naturali, svolse per alcuni anni la professione di ingegnere meccanico. Nel 1850, dopo aver letto i lavori di geologia di Lyell, scrisse la Statica sociale, dove appare per la prima volta la nozione di evoluzione, seguita cinque anni più tardi dai Principi di psicologia, ispirati allo stesso principio. Avendo concepito il progetto di spiegare tutto l’universo e lo scibile da questo punto di vista, a partire dal 1858 lavorò, col sostegno morale ed economico di un gruppo di amici, alla sua realizzazione che si concretizzò in un Sistema di filosofia sintetica in dieci volumi comprendenti i Primi principi (1862), Principi di biologia (2 voll., 1867), Principi di psicologia (2 voll. 1872), Principi di sociologia (3 voll. 1896), Principi di etica (5 voll. 1892). Tra le altre sue opere Educazione (1861), La classificazione delle scienze (1864), Individuo e stato (1884). Negli ultimi anni, dopo aver raggiunto la fama, fu ospitato da un ricco Lord, che provvide al suo mantenimento, consentendogli così di attendere con tranquillità agli studi. il pensiero. La filosofia di Spencer intende fornire, più che una teoria scientifica in senso stretto, una concezione generale della realtà, sia naturale che storico-sociale. Tutta la conoscenza umana si basa sull’esperienza sensibile e su leggi generali ricavate per via induttiva: essa si forma attraverso infiniti gradi di unificazione dei dati empirici che costituiscono una concatenazione logica, dalla pura constatazione del fatto al riconoscimento del più alto grado di generalità in cui esso si inquadra. La filosofia come «conoscenza completamente richiamata all’unità» rappresenta il grado terminale di questo processo: pertanto essa si distingue dalle scienze solo per grado, poiché mentre le prime riconducono i fenomeni alle varie leggi da cui derivano con una unificazione parziale, la filosofia riconduce tutta la molteplicità dei fenomeni alle due sole classi di quelli forti (i dati primari della percezione) e di quelli deboli (i prodotti derivati dalla riflessione). I primi sono oggettivi e strettamente connessi tra loro in un

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ordine indissolubile; i secondi sono soggettivi e i loro nessi sono molto più deboli (per esempio la connessione tra le idee è poco durevole). Se la relazione è forma universale della conoscenza (ogni fenomeno postula la riduzione del particolare all’universale), essa si presenta distinta in due specie: quella di successione, in cui i termini sono reversibili (tempo), e quella di coesistenza in cui i termini non sono reversibili (spazio). Spazio e tempo sono dunque le condizioni inalterabili dei fenomeni soggettivi, mentre a essi corrisponde, sul versante oggettivo, la materia. Essa è indistruttibile, come il movimento che è continuo: una ripartizione sempre nuova della materia e del movimento avviene sotto l’impulso di una forza inconoscibile e persistente, producendo un mutamento incessante dell’intero universo, che si evolve (quando le parti di materia preesistenti in moto disordinato si aggregano in un tutto, mentre il loro moto si riduce) e si dissolve (quando le parti tornano a muoversi ciascuna per sé, mentre il tutto si disgrega) all’infinito. Come tutte le scienze ammettono analiticamente l’indistruttibilità della materia (in natura nulla si crea e nulla si distrugge), nella continuità del moto (che si trasmette da un corpo all’altro) la forza assume forme diverse (meccanica, termica, elettrica ecc.) ma rimane costante la sua quantità, così la filosofia può giungere sinteticamente alla legge generale dell’evoluzione, che riguarda il reale in tutti i suoi aspetti (cosmologici, geologici, biologici, psicologici, sociologici, in quanto l’evoluzione della conoscenza segue parallelamente quella dello scibile): «L’evoluzione è l’integrazione della materia e la dispersione concomitante del movimento, mentre la materia passa da un’omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente, e in cui il movimento conservato subisce una corrispondente trasformazione». In generale, il passaggio avviene dunque dall’incoerente al coerente (gli elementi stabiliscono rapporti di dipendenza funzionale via via più complessi), dall’omogeneo all’eterogeneo (nel tutto che si è integrato le parti si differenziano l’una dall’altra, sia per i caratteri materiali sia per quelli funzionali), dall’indistinto al distinto (l’eterogeneità che si è così costituita è ordinata), dal semplice al complesso. Delineare la legge dell’evoluzione e i suoi sviluppi non implica però secondo Spencer poterne spiegare la causa ultima: all’estendersi della conoscenza si accompagna infatti nell’uomo la coscienza della finitezza e condizionatezza dei suoi ri-

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sultati e la consapevolezza che al di là di ciò che viene conosciuto esiste una realtà assoluta e infinita, in sé inesauribile e quindi inconoscibile. Per questa via Spencer ritiene possibile una conciliazione tra filosofia e religione, che risultano non antagoniste ma complementari, in quanto competenti in campi e con compiti diversi. Spencer applica la legge dell’evoluzione alle diverse sfere della realtà. In biologia essa ci mostra come la vita consista nell’adattamento all’ambiente, attuato attraverso processi che portano gli organi a differenziarsi e a specializzarsi, mediante l’opera di selezione dell’ambiente che favorisce la sopravvivenza del più adatto. Quando il processo graduale di differenziazione giunge alle scosse nervose emotive sorge la coscienza, oggetto di studio della psicologia. La vita psichica è costituita da stati di coscienza (percepibili all’introspezione) e relazioni tra di essi: questi sono costituiti da sensazioni (che sono integrazioni di scosse nervose provenienti dalla periferia e riproducenti nell’io i movimenti della materia) e da emozioni (scosse nervose provenienti dal centro), le seconde danno luogo alle cognizioni. Attraverso i fenomeni dell’associazione si giunge infine all’evoluzione intellettuale, che obbedisce alla legge secondo la quale «la persistenza della connessione tra gli stati di coscienza è proporzionata alla persistenza della connessione tra i fenomeni esterni che li producono». La prima forma di adattamento psichico è l’azione riflessa, mentre la memoria sorge quando si producono delle relazioni interne che non presentano più una regolarità automatica. A un livello evolutivo superiore si colloca l’atto razionale, che si può risolvere in una serie più complessa di atti istintivi (come è provato dalle abitudini mentali, che sono atti mentali ripetuti). Gli atti intellettuali più elevati costituiscono il ragionamento, che può essere quantitativo (che implica le idee di estensione, coesistenza e identità) o qualitativo (che implica l’idea di qualità determinata e stabilisce una relazione tra qualità). Di particolare importanza è l’esame dell’a priori gnoseologico, con cui Spencer interviene nel dibattito tra innatisti ed empiristi: i dati dell’esperienza, fissandosi nella coscienza e accumulandosi, formano una predisposizione che influisce sempre più direttamente sulle conoscenze ulteriori, che devono essere inquadrate, come specificazioni maggiori, negli stessi schemi che l’intelligenza già possiede e dai quali non possono differire. Attraverso l’eredità biologi-

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ca questo a priori passa dall’individuo alla specie, divenendo in tal modo il naturale retaggio dalla nostra capacità conoscitiva. Selezionate nel corso della lotta per la vita, le strutture e gli schemi intellettuali che si sono mostrati più idonei, in quanto rispecchiano più adeguatamente rilevanti strutture del mondo (e quindi filogeneticamente a posteriori) si sono conservati e costituiscono il patrimonio (ontogeneticamente a priori) degli individui attuali. È nel campo della sociologia che le teorie spenceriane hanno una più ampia e nota applicazione: infatti la forma più alta di evoluzione si ha con la formazione e lo sviluppo delle società umane. Così Spencer distingue due fondamentali funzioni sociali (corrispondenti alle due essenziali nella lotta per la vita): la necessità di aggredire e di difendersi e il bisogno di sostentamento, cui corrispondono la funzione militare e quella industriale. Si avranno di conseguenza due tipi di società, in rapporto alla dominanza di una funzione sull’altra: le società militari (in cui vigono l’accentramento dell’autorità, la cooperazione forzata e la subordinazione dell’individuo al bene del tutto) e quelle industriali (dove la cooperazione è libera, le libertà individuali garantite, il governo rappresentativo). Queste ultime sono le più evolute, in quanto in esse le funzioni sono differenziate e interagenti, rendendo gli individui maggiormente dipendenti dalla complessità della struttura sociale. Secondo Spencer si viene profilando attraverso il processo evolutivo (che deve essere lasciato scorrere spontaneamente senza interruzioni o alterazioni rivoluzionarie) un tipo di società in cui la cooperazione è basata su motivi altruistici e le funzioni dello stato si riducono con gradualità e continuità a vantaggio della libera iniziativa degli individui. In campo etico Spencer cerca, in base alla legge dell’evoluzione, la conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo in un utilitarismo razionale che ammette l’equilibrio progressivo tra singolo e società, piacere e dolore, individuo e ambiente, dovere e godimento. Partendo dalla morale primitiva, fondata sull’altruismo dei genitori che si sacrificano per i figli, si è giunti a una concezione di felicità più completa e ricca, fatta di piaceri più raffinati: oggi, in seguito all’esperienza accumulata dalla specie, l’uomo progredito ha appreso di poter meglio raggiungere il proprio benessere seguendo sentimenti altruistici e interiorizzando determinati principi morali come moventi

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delle proprie azioni. Questi, ereditati geneticamente (e perciò ipotetici e a posteriori per la specie), si presentano all’individuo (per il quale dunque sono kantianamente assoluti e a priori) come doveri in contrasto con gli impulsi che tendono a una immediata ed egoistica soddisfazione: ma con l’ulteriore evoluzione della specie l’adesione alla legge morale sarà sempre più spontanea, stabilendo un perfetto accordo tra egoismo e altruismo, in sintonia con lo svolgimento armonico della vita. Appendice della morale è l’educazione, che deve dimostrarsi rispettosa dell’equilibrio esistente tra le forze dell’animo, intelligenza da un lato e sentimenti dall’altro: perciò Spencer si dichiara ostile alla cultura umanistica (troppo sbilanciata in senso intellettualistico), mentre è favorevole a una formazione improntata al metodo sperimentale. Se la metodologia non consiste che nel ricalcare la legge dell’evoluzione (con il passaggio dal concreto all’astratto, dall’incerto al certo, dall’empirico al razionale), la didattica esige che sia rispettata l’attività spontanea del fanciullo, che deve essere lasciato libero anche sul piano fisico. Per tendere a costituire un essere che si governi autonomamente da sé, le sanzioni disciplinari dovranno consistere esclusivamente in quelle reazioni naturali che sono inevitabili dopo una cattiva azione e che il bambino spontaneamente comprende. Spengler, Oswald Filosofo tedesco (Blankenburg am Harz 1880 - Monaco 1936), tra i maggiori esponenti dello storicismo. Raggiunse ampia notorietà con Il tramonto dell’Occidente (1918 e 1922), in cui sostenne una visione naturalistica della storia cui applicò modelli interpretativi biologistici e deterministici: poiché in essa si manifestano fenomeni unici denotanti una precisa direzione temporale (destino del quale l’individuo non può che prendere atto con rassegnata accettazione), Spengler chiamò “fisiognomica” la loro morfologia. Partendo dalla pluralità delle “culture” come unico oggetto della scienza storica (il suo nominalismo escludeva concetti generali come “civiltà” e “umanità”), esse vengono però considerate non come un fatto universale, ma piuttosto come un’eccezione (secondo Spengler ne sono esistite solo otto), del tutto irriducibili e incomunicanti tra loro, nate da un inesplicabile spazio-madre (stato della “terra” e del “sangue”) e dalla durata media di vita di circa un millennio (la cultura russa si presenta come quella del millennio a veni-

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re), dopo essere passate per fasi corrispondenti alle stagioni dell’anno e a gradi sempre più elevati di risveglio intellettuale. La crisi di una cultura (Kultur) è segnata dallo scadimento in “civiltà” (Zivilisation), indice che «la forza creatrice si è esaurita» e «la vita stessa è diventata problematica» (i cui sintomi sono lo scetticismo, il materialismo, l’irrazionalismo), fino alla fine assoluta (il ritorno a una condizione primitiva) evidenziata in particolari atteggiamenti sentimentali (per esempio il socialismo), nello spegnimento di ogni tipo di stile e di forma esistenziale, nella riproduzione del passato, nella riduzione dell’autorità a cesarismo (di qui la simpatia dimostrata da Spengler verso il nazismo in Anni decisivi del 1933). Tutto ciò sarebbe perfettamente riconoscibile nell’attuale civiltà occidentale, dove la tecnica (anche L’uomo e la tecnica del 1931) non è più privilegio di uomini superiori, ma è ridotta a bruta strumentalità. Speusippo Filosofo greco (Atene IV sec. a.C.). Nipote di Platone, gli succedette nella direzione dell’ ➔ Accademia. La tradizione riporta delle sue opere solo alcuni frammenti dai quali si evince da un lato la rivalutazione del mondo empirico e sensibile, dall’altro l’orientamento a individuare nei numeri la base della conoscenza scientifica (con chiara influenza pitagorica). Così Speusippo interpretò l’universo come espressione compiuta della razionalità dei numeri (sostituiti alle Idee platoniche), facendo di questi una realtà trascendente. Speusippo cercò di attenuare questo marcato dualismo sostenendo che la natura era un’infinità di aspetti differenti dell’Essere (numero) e la gerarchia di questi (dalla minore alla maggiore perfezione) un’evoluzione nel tempo. Essa ha la sua forza nei Principi, il suo agente nell’Anima e il fine nel Bene (che quindi non è ma diviene costantemente). Spinoza, Baruch Filosofo olandese (Amsterdam 1632 - L’Aia 1677), tra le massime espressioni del razionalismo moderno. la vita. Nato da agiata famiglia ebraica emigrata in Olanda dal Portogallo per motivi religiosi, studiò nella scuola rabbinica di Amsterdam (il padre, ricco commerciante, era membro del comitato direttivo della comunità ebraico-portoghese e intenzionato a fare del figlio un rabbino) ma poi completò la sua educazione presso quella di van der Ende, un cattolico che professava idee libertine. Appreso il latino, lesse gli autori clas-

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sici (Cicerone e Seneca), rinascimentali e moderni (Bacone, Cartesio, Hobbes). Staccatosi dalla sinagoga, fu, presumibilmente per le sue idee eterodosse, cacciato dalla comunità, e un fanatico tentò anche di pugnalarlo. Morto il padre fu costretto a lasciare la sua attività commerciale, e visse da allora modestamente e appartato (prima in un sobborgo presso Amsterdam, poi in un villaggio presso Leida e infine in uno presso l’Aia), esercitando il mestiere di fabbricante e pulitore di lenti ottiche e tutto dedito all’attività speculativa. Il suo totale disinteresse gli impedì di accettare gli aiuti in denaro offerti dai numerosi amici e ammiratori (ai quali faceva conoscere manoscritte le sue prime opere il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua beatitudine, il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, i Principi della filosofia cartesiana, alcuni Pensieri metafisici) e per amore della libertà di pensiero rifiutò una cattedra universitaria a Heidelberg. Nel 1665 terminò il suo capolavoro l’Ethica ordine geometrico demonstrata. Intanto era entrato in rapporti, oltre che con membri di comunità cristiane emarginate (quali i Mennoniti e i Collegianti), con molti intellettuali (tra cui Huygens e Oldenburg; a partire dal 1671 anche con Leibniz) e con Jan de Witt, capo del partito liberale, da cui ricevette aiuto e protezione. Nel 1670 pubblicò (anonimo e con indicazioni fittizie dell’editore e della città di stampa) il Trattato teologico-politico: conosciuto in tutta Europa, il libro, di cui fu presto individuato il vero autore, fu giudicato empio e blasfemo e come tale condannato sia dai cattolici che dai protestanti. Rovesciato il governo repubblicano e ucciso de Witt nel 1672, Spinoza rinunciò alla pubblicazione dell’Ethica, vista l’intolleranza del governo di Guglielmo d’Orange. Minato fin da giovane dalla tisi, morì lasciando agli amici l’incarico della pubblicazione dei suoi manoscritti, tra cui un incompiuto Trattato politico. il pensiero. La prima produzione di Spinoza appare improntata all’entusiasmo per la filosofia cartesiana, che egli si propone di esporre e diffondere (Principi della filosofia di Cartesio), commentandone e confrontandone i concetti fondamentali con quelli della scolastica (Pensieri metafisici), di cui pure eredita, almeno in parte, problematica, nozioni e lessico. Il distacco dalla cultura tradizionale appare invece netto sul piano epistemologico: al modello organicistico aristotelico Spinoza oppone quello meccanicistico, mentre la sua metafisica intende fornire una salda base alla scienza moder-

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na, con prospettive ben più radicali di quelle avanzate da Cartesio. Quest’ultimo aveva assicurato all’uomo una conoscenza stabile e certa, ma limitata al mondo e quindi senza accesso alla trascendenza di Dio, insondabile nel suo essere e incomprensibile nella sua libertà e volontà. La conoscenza umana appariva dunque bisognosa, per essere affidabile, della garanzia divina, mentre la scienza restava metafisicamente relativa (Dio potrebbe aver creato altri mondi o aver voluto diverso questo mondo). Spinoza intende sciogliere questa difficoltà assicurando alla conoscenza umana un’assolutezza che la equipari a quella divina, emancipandola dal bisogno di garanzie e avalli. Ma per fare questo Spinoza deve demolire la concezione giudaico-cristiana della divinità, e in particolare rompere quel rapporto tra Dio e mondo che da essa è derivato in quanto fondato sull’idea della libera creazione. Il Trattato sull’emendazione dell’intelletto è una sorta di discorso sul metodo, poiché affronta il problema del modo in cui pervenire a una conoscenza vera, liberando l’intelligenza dall’errore; tuttavia, implicitamente, tratta anche della verità (della vera connessione tra le cose e della loro dipendenza dalla causa prima), poiché solo in rapporto a questa la mente si purifica. Ma l’intenzione del trattato è in ultima istanza morale, perché mira, attraverso la sua correzione, al perfezionamento della natura umana. Essa consiste nella conoscenza che la mente ha della sua unione con la natura intera, un bene che si deve estendere al maggior numero di persone e che richiede, insieme con la medicina per la salvaguardia della salute e la meccanica per rendere più comoda la vita, la costituzione di una società che ne consenta la massima diffusione. Dopo un preludio autobiografico, in cui Spinoza descrive la via attraverso la quale si è staccato dall’amore per i beni finiti dedicandosi a quello del bene infinito che solo acquieta, vengono enumerate quattro forme di conoscenza: per sentito dire (perceptio ex auditu), l’esperienza vaga (nostra, ma casuale), la ragione dimostrativa (che risale dagli effetti alle cause), l’intuizione dell’intelletto (che conosce nella sua essenza l’ente incausato), la sola che ci consente di conoscere adeguatamente il vero. La regola prima del metodo insegna a organizzare il sapere secondo la quantità di conoscenza che può essere ricavata da un’idea: un’idea è vera (e perciò feconda) se manifesta le sue caratteristiche interne e la capacità di dedurre tutte le pro-

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prietà della cosa definita. La verità è norma di se stessa (e perciò anche del falso) e la si conosce solo che la si veda: si dovrà solo esibire l’idea vera per fugare ogni dubbio. Perciò l’idea fondante il sistema delle conoscenze dovrà essere quella da cui tutte le altre dipendono e corrispondente a quell’ente che sia la causa di tutte le cose. L’idea di un essere causa sui è definita in base alla sua intima essenza: si tratta dell’idea prima, cui seguiranno le idee delle leggi di natura, valide per tutti gli enti, che sono invece prodotti in base alla causa prossima. La deduzione delle proprietà dalla definizione data è, nel pensiero, quello che in natura è la produzione di un effetto dalla causa: in tal modo l’ordine della conoscenza riprodurrà quello delle cose. Il filo conduttore del sistema del sapere dovrà pertanto essere quello della concatenazione logica delle idee, con la conseguente identità tra il metodo di ricerca della verità e quello della sua esposizione, dato che la ricerca della verità si deve muovere all’interno della verità stessa. Questo l’obiettivo e il contenuto dell’Ethica. Preceduta e preparata dai Pensieri metafisici e dal Breve trattato, essa è strutturata more geometrico, cioè secondo un metodo sintetico di stampo euclideo, che premette assiomi e definizioni e da essi fa discendere i teoremi: in tal modo la verità si mostra con tutta evidenza e non sono possibili dubbi o incertezze di sorta. Spinoza parte dunque dal concetto di sostanza come ciò che non ha bisogno d’altro per sussistere e per essere concepita (causa sui). Data questa definizione, cadono le sostanze finite ammesse da Cartesio, mentre solo Dio è sostanza unica e infinita, insieme produttività e prodotto infinito, al di fuori della quale nessuna produttività e nessun prodotto è concepibile. Secondo Spinoza, Dio è dunque causa immanente e non transitiva del mondo, in quanto Egli agisce in sé e non fuori di sé: Dio non crea il mondo come una sostanza separata e distinta dalla natura divina, ma il mondo discende dalla natura divina (Deus sive natura). Le cose finite constatate dall’esperienza, mentre non derivano dall’uno in quanto tale (che come causa sui non produrrà se non se medesimo), sono reali e si conciliano con il concetto di sostanza, che nulla ammette fuori di sé, essendone dei modi, sue modificazioni accidentali, inconcepibili senza di essa. Come già in Cartesio ogni corpo era modificazione dell’unica estensione, così in Spinoza ogni mente è modificazione di un unico pensiero, dove però pensiero ed estensione non sono sostanze, ma attributi

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dell’unica sostanza. La dottrina degli attributi nasce dunque in funzione della spiegazione delle cose particolari e non viceversa. Attributo è «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza», e Dio è «una sostanza constante di infiniti attributi, ciascuno dei quali ne esprime l’eterna e infinita essenza». Ciò va inteso come il rifrangersi della sostanza, in sé unica, nel prisma della mente umana, la quale coglie solo due dei suoi attributi, il pensiero e l’estensione, che sono, in quanto espressione di una sostanza infinita, a loro volta infiniti. Ma poi anche ciò che consegue da un attributo divino «modificato di una tale modificazione che per esso esista necessariamente e come infinita, deve, del pari, esistere necessariamente e come infinito»: esistono dunque modi infiniti per ogni attributo, di cui noi percepiamo per l’attributo estensione il moto e la quiete, che danno forma all’intero universo, per l’attributo pensiero l’intelletto infinito (totalità delle menti finite). Essi rivestono una funzione mediatrice e mostrano che se ogni cosa è in Dio, Dio è distinto dalle cose come l’infinità dalla finitezza, l’eternità dalla durata. Infatti solo successivamente l’attributo estensione e l’attributo pensiero diversamente modificati danno origine ai rispettivi modi finiti, i singoli corpi e le singole menti. Il mondo finito in quanto tale nasce «da un’altra causa finita anch’essa e avente un’esistenza determinata e così via indefinitamente». Ciò significa che il passaggio dall’infinito al finito non avviene immediatamente o per un atto creativo volontario, ma secondo una causalità necessaria e immanente, e che la particolarità è introdotta originariamente in seno all’infinità, al cui interno deve comunque essere compresa. Naturalmente questo processo riguarda sia l’estensione (fisica) sia il pensiero (psicologia). Così, se si considera il mondo fisico, la materia è variamente modificata grazie alle leggi del movimento, che discendono anch’esse da Dio (né potrebbe essere altrimenti, visto che nulla può darsi fuori di lui) dando luogo alla totalità dei corpi e dei processi che li riguardano. La fisica spinoziana è fisica del movimento spaziale: partendo dai corpi complessi si giunge ai corpi semplici che li compongono e che si muovono più o meno celermente, si aggregano e si disgregano. Se l’attributo estensione è infinito, infinite sono anche le leggi del movimento (nel senso che la loro validità non è limitata a un certo momento del tempo o a un certo luogo dello spazio): è il movimento che applicato alla materia

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produce aggregati di corpuscoli in diversi rapporti di quiete e movimento, dando così origine ai diversi corpi. Per spiegare l’intero universo è sufficiente fare riferimento alla materia e alle leggi di natura (che causano ma non sono i singoli corpi), senza dunque uscire dall’infinità; ma per spiegare l’origine di un singolo corpo o di un singolo evento si dovrà esaminare lo stato dei corpi immediatamente precedenti nel tempo e nello spazio. Spinoza distingue a questo proposito tra natura naturans (indicante la causa attraverso cui l’intero universo esiste ed è conservato) e natura naturata (l’insieme degli effetti derivanti da quella causa): ciò per marcare la distanza tra Dio e gli attributi da un lato, e ciò che ha bisogno della sostanza per essere concepito (i modi) dall’altro, e che l’immanenza della prima alla seconda (anche se questa deriva necessariamente da quella) non significa identità e confusione della causa con i suoi effetti. Si danno perciò due serie causali: ogni modo finito è determinato a esistere e operare all’interno della natura naturata (serie infinita di causalità reciproche tra i modi finiti, distinte e parallele in corrispondenza di ogni attributo), e contemporaneamente, all’interno della natura naturans attraverso gli attributi, i modi e le leggi infiniti. In entrambi i casi la spiegazione avviene nell’orizzonte della totalità, mentre la contingenza e la casualità costituiscono un’illusione dovuta alla nostra ignoranza. Spinoza rifiuta la distinzione tra i piani del possibile, del reale e del necessario: tutto il possibile si realizza (altrimenti Dio non sarebbe potenza assoluta) e tutto ciò che è reale è necessario (se si annullasse una sola cosa, si annichilirebbe il tutto e Dio stesso). Dal canto suo, la psicologia procede parallelamente alla fisica: se infatti pensiero ed estensione sono attributi della stessa sostanza, devono seguire una stessa logica. I modi del pensiero dovranno avere con la materia una connessione, non di natura, ma d’ordine. Come il mio corpo è composto di corpuscoli, così la mia anima si compone di idee. Risolvendo il problema cartesiano del rapporto tra corpo e mente, Spinoza sostiene che una causalità tra eterogenei è impossibile: i corpi agiscono sui corpi, le menti sulle menti, mentre la parvenza di una causalità dell’uno sull’altra o viceversa è dovuta solo al fatto che gli eventi dei due attributi sono concatenati nello stesso ordine. «L’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose»: a ogni evento materiale corrisponde un

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evento mentale, che è causato da un altro evento mentale a sua volta corrispondente a un evento materiale da cui il primo discende. E così si procede all’infinito, secondo un perfetto parallelismo che, se ci fa capire che ciò che per un verso è rapporto causa-effetto per l’altro è rapporto premessa-conseguenza, consente infine di ridurre la necessità causale nella necessità logica. Per questo se Dio è la condizione senza la quale nulla può essere inteso, allora sarà la causa di tutte le cose. La capacità produttiva è ciò che caratterizza l’unica sostanza: Dio è potenza e produttività infinita, premessa e causa prima da cui discendono tutte le cose. La sua attività non è però una libera creazione, ma una causalità efficiente (il finalismo è un antropomorfismo: il Dio-persona che agisce liberamente e finalisticamente riflette un livello prescientifico e immaginativo di approccio alla natura, non intesa in base alle proprie leggi) necessaria e immanente: tutte le cose seguiranno dalla potenza divina con la stessa necessità con cui la conclusione di un teorema matematico deriva dalle premesse. Dio non avrebbe potuto operare diversamente da come ha operato (questo è perciò l’unico mondo possibile), dunque ha operato necessariamente; in lui necessità e libertà coincidono se per libertà si intende che Dio non è determinato da altro che da se stesso ad agire e operare. Questo non avviene per gli enti finiti che, essendo inseriti nell’infinita serie causale che li precede, sono sempre determinati da altro (in questo senso Spinoza nega all’uomo il libero arbitrio). Ciò implica che la spiegazione di un certo evento risulta, in base alle leggi di natura, dalla sua collocazione nel tempo (cioè tra gli eventi che lo precedono – cause – e quelli che lo seguono – effetti): lungi dall’appartenere a Dio, la dimensione “tempo” può essere tradotta in una collocazione spaziale e in una serie di connessioni logico-causali che rende la mia spiegazione vera in ogni tempo. Per questo Dio, in cui sono contenute tutte le infinite serie causali, conosce le cose sub specie aeternitatis. Solo l’uomo, la cui conoscenza è inadeguata o parziale, vive nel tempo e vede le cose nascere e perire, ma per Dio esse sono eterne. La teoria spinoziana della conoscenza si fonda sul parallelismo tra modi del pensiero e modi dell’estensione (in realtà si tratta del medesimo evento visto da due prospettive diverse), dato che si tratta di modi dell’unica sostanza. È conoscenza adeguata quella in cui siano contenute tutte le cause o ragioni di un evento: in questo senso essa è

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propria di Dio. Anche l’anima umana può conseguire questo livello, purché abbandoni quello dell’immaginazione. Infatti quando un evento è colto nella sua immediatezza sensibile, non si ha cognizione delle sue cause, ma solo della particolare affezione del corpo (quelle che in Cartesio erano le qualità secondarie) in cui è impossibile distinguere la parte dovuta al corpo afficiente da quella dovuta al corpo affetto. Occorre dunque una riflessione attiva sulle percezioni, in cui la mente diriga da sé il corso dei pensieri, prestando attenzione ai fattori geometrico-matematici comuni al corpo affetto e al corpo afficiente. Ciò consentirà di determinare le caratteristiche generali dei corpi e quella particolare proporzione di movimento e quiete che ne individua una certa classe a differenza di altre. Questo livello è la scienza, che è conoscenza universale (le leggi del movimento e le proprietà geometrico-matematiche sono comuni a tutti i corpi) e adeguata (quelle leggi e quelle proprietà sono le cause delle cose). Ma Spinoza mira più in alto, a una conoscenza analoga a quella di Dio, immediata e intuitiva delle cose e non solo delle loro proprietà generali. Essa è fondata sull’idea di Dio, la cui cognizione «implicita in ogni idea è adeguata e perfetta» perché «ciò che è comune a tutti, ed è allo stesso modo nel tutto e nella parte, non può concepirsi se non adeguatamente»: ciò offre alla scienza un punto di partenza assolutamente certo, a cui si può commisurare la certezza di ogni altra cognizione. Ogni conoscenza adeguata implica dunque l’idea di Dio: ciò significa che ognuno, in quanto ha idee adeguate, ha anche un’idea adeguata di Dio (su questa base Spinoza accoglie l’argomento ontologico dell’esistenza di Dio). In ogni caso, la mente che fosse arrivata a questo livello si muoverebbe nell’ambito della conoscenza divina, conoscerebbe sub specie aeternitatis, e sarebbe essa stessa eterna (l’immortalità dell’anima coincide in Spinoza con l’eternità del vero). Da questa prospettiva, la teoria cartesiana dell’errore risulta insostenibile. L’errore non è qualcosa di positivo ma una mancanza: quella immaginativa è una conoscenza erronea in quanto inadeguata, che cioè deve essere completata con altri dati, e le idee sono più o meno vere (adeguate) a seconda del livello di informazione che forniscono sulle cause degli stati del corpo che esse esprimono. Anche la vita emotiva viene studiata da Spinoza geometricamente (le passioni non vanno detestate o compiante ma comprese):

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come alla base della fisica è il principio d’inerzia, così alla base della affettività umana vi è la tendenza, lo sforzo (conatus) comune a tutti gli esseri, a conservare la propria esistenza. Nella sua forma più semplice esso è appetito, cupidità, in quella più elaborata è detta volontà (che non è una facoltà a sé stante, ma un nome astratto per indicare i nostri impulsi desiderativi sempre particolari e determinati). Ciò che asseconda il conatus è avvertito come piacevole: la potenza dell’ente è aumentata e questo aumento di potenza provoca nella mente un affetto di letizia. Perciò il piacere è «una passione in cui la mente passa a una perfezione maggiore», cioè a un grado di realtà più alto. Per il dolore (e l’affetto della tristezza) vale l’inverso. Partendo da queste passioni fondamentali si possono costruire tutte le altre (che Spinoza analizza a lungo e in modo analitico e puntuale una per una per tutto il libro III), a cominciare dall’amore e dall’odio, che sono piacere e dolore (letizia e tristezza) accompagnati dall’idea di una loro causa esterna. Bene e male vengono detti ciò che è amato e odiato: essi sono dunque conseguenze degli affetti. Questi sono detti passioni in quanto procedono da idee inadeguate, quando cioè il corpo è determinato da eventi che non dipendono da lui e di cui ignora le cause. Di qui l’estrema variabilità delle passioni e il relativismo dei giudizi di valore. Ma poiché la mente prova il conato di conservarsi sia che abbia sia che non abbia idee adeguate, non tutti gli affetti sono passioni. Il possesso di idee adeguate è accompagnato solo da letizia, perché giudichiamo bene ciò che sappiamo con certezza far aumentare la nostra realtà (perciò la nostra realtà è direttamente proporzionale alla conoscenza delle cause e quindi alla capacità di dominare gli eventi): dunque la conoscenza adeguata è bene in se stessa, e l’uomo che desidera il vero bene (che poi coincide con il veramente utile) desidera in primo luogo la conoscenza adeguata. Ma poiché questa implica l’idea di Dio, l’uomo che ha idee adeguate desidera primariamente conoscere Dio. Esiste dunque una nozione di bene comune a tutti gli uomini, che sono così uniti dalla conoscenza anche nei desideri, mentre le passioni li dividono. E tanto più un uomo è simile a un altro uomo quanto più possiede idee adeguate, pertanto la società con uomini che si comportano secondo ragione è quella sommamente desiderabile e utile per la conservazione e il perfezionamento di se stessi. Il determinismo spinoziano non sfocia in un’etica che

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insegna l’apatia stoica (infatti la struttura emotiva è invariabile e ineliminabile), ma la dominanza degli affetti attivi sulle passioni, necessaria per vivere secondo ragione (che vuol dire conoscere la natura umana nella sua integralità ed esaltare ciò che in essa aumenta la potenza e la felicità). La ragione non può contrastare di per sé o reprimere le passioni, ma può promuovere l’affettività e l’emotività positiva. L’uomo che aumenta la propria conoscenza è dunque quello che raggiunge l’autentica libertà, nel senso che è in grado di dominare il meccanismo causale del sistema della natura in cui è inserito. Ma il suo fine ultimo è uno stato di beatitudine che è “amor Dei intellectualis”, in quanto accompagna necessariamente il possesso delle idee adeguate che implicano quella di Dio. Se l’Ethica non circolò se non manoscritta, il Trattato teologico-politico fu invece stampato per essere il più possibile diffuso: con esso Spinoza intendeva infatti sostenere la politica di tolleranza religiosa e di sovranità dello stato sulla Chiesa dell’amico de Witt. A tal fine egli dichiara di esaminare razionalmente la Scrittura, per conservarne solo ciò che essa insegna con assoluta certezza. Ma da questo esame (condotto con rigorosa perizia filologica) risulta che il testo è per lo più corrotto, oscuro, apocrifo. In realtà la Scrittura non insegna nulla che non si accordi con l’intelletto, dato che essa consiste in un semplice concetto pratico: «obbedire a Dio con animo integro, coltivando la giustizia e la carità», rivestito però dai profeti di una forma atta a muovere le folle all’emozione verso Dio, a fornire un incentivo psicologico alla devozione (ciò significa che è inutile cercare un significato “spirituale” o un nucleo razionale nelle loro espressioni, che risultano irrimediabilmente false per quanto riguarda il contenuto conoscitivo). Così la Scrittura «lascia assolutamente libera la ragione», mentre si deve lasciare a ciascuno libertà di giudizio e di interpretazione dei fondamenti della fede (solo le opere diranno se essa è empia o pia). Dunque la Scrittura non si propone di insegnare la verità (di pertinenza esclusiva della filosofia), ma di indurre all’obbedienza e alla pietà (finalità pratica). Pertanto nessuno (neppure lo stato, che deve essere del tutto laico) ha il diritto di vietare la ricerca filosofica e la circolazione delle idee in nome di una qualche verità rivelata dalla Scrittura, dato che filosofia e religione hanno due fini del tutto eterogenei (e perciò compatibili: non potrà mai accadere che i risultati di una portino danno all’altra).

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Quanto allo stato, l’analisi di Spinoza procede in parallelo con quella di Hobbes. Nello stato di natura il diritto è proporzionale alla forza, mancando le nozioni di giusto e ingiusto. Si tratta di uno stato in cui la vita degli uomini, che seguono solo gli istinti, si svolge in condizioni miserevoli e conduce a un esito funesto. Lo stato nasce per decisione contrattuale al fine di instaurare una regola generale: questa viene rispettata se ognuno cede tutto il proprio diritto al potere comune, che risulta pertanto assoluto. Diversamente da Hobbes, Spinoza sostiene che lo stato è finalizzato alla libertà a patto che il potere venga usato in modo moderato e non dispotico: in tal caso è naturale che quanto più la libertà dei singoli è limitata (come quando viene proibito un comportamento naturale quale la manifestazione delle proprie idee), tanto maggiore dovrà essere il controllo e l’uso della forza a fini repressivi da parte dello stato che, non potendo contare sul consenso e la fiducia dei cittadini, risulterà perciò fragilissimo. Del resto, gli individui che con il patto hanno ceduto il proprio potere lo hanno fatto aspettandosi un ritorno di utilità: se gli svantaggi sono maggiori dei vantaggi, scoppieranno sommosse e ribellioni, e il tessuto sociale andrà in rovina. Stabile e forte è lo stato che assicura la felicità dei cittadini, concedendo la libertà di pensiero e di critica anche verso le stesse istituzioni politiche e le loro decisioni. Al potere politico spetta non solo il diritto civile, ma anche la facoltà di determinare che cosa sia da considerarsi giusto e pio, e cosa ingiusto ed empio. Se i governanti ammettono il diritto all’espressione aperta delle opinioni e alla circolazione delle idee, l’obbedienza alla legge avviene non per paura ma perché è ritenuta giusta. Stein, Edith Filosofa tedesca (Breslavia 1891 - Auschwitz 1942). Di famiglia ebraica, fu allieva a Gottinga di ➔ Husserl. In quel periodo conobbe pure ➔ Scheler, il cui influsso fu tra i fattori che la indussero nel 1922 a convertirsi al cattolicesimo. Negli anni di Gottinga contribuì a ordinare i manoscritti di Husserl, in seguito pubblicati come il secondo e il terzo volume delle Idee per una nuova fenomenologia pura. Docente di filosofia a Münster, divenne attenta lettrice di Tommaso d’Aquino e avviò il progetto di inserire la dottrina dell’intenzionalità, propria della fenomenologia, nella rielaborazione della filosofia scolastica. L’esito di tali ricerche culminò nel testo La fenomenolo-

Stilpone di Megara

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gia di Husserl e la filosofia di San Tommaso d’Aquino (1929). Nel 1932 compose il saggio La donna, dedicato al rapporto tra femminilità e religione letto in chiave cristiana. Nel 1933 abbandonò l’insegnamento per entrare nel Carmelo di Colonia, assumendo il nome di Theresia Benedicta a Cruce. Nel 1938 per sfuggire alle persecuzioni naziste si rifugiò nel Carmelo di Echt in Olanda. Qui fu catturata e deportata, assieme alla sorella Rosa, ad Auschwitz, dove entrambe trovarono la morte nelle camere a gas. Fra le opere pubblicate postume si segnalano, Essere finito ed eterno (1950); La scienza della croce. Studio su San Giovanni della Croce (1950) in cui analizza l’essenza e le tappe della esperienza mistica. Stilpone di Megara Filosofo greco (Megara 360-280 ca. a.C.). Appartenne alla Scuola di Megara nel momento della sua massima espressione. Ci dà sue notizie ➔ Diogene Laerzio, che gli attribuisce nove Dialoghi. Come gli altri esponenti della scuola si occupò soprattutto di temi di logica, opponendosi alla platonica teoria delle idee e negando validità a ogni tipo di giudizio affermativo. In etica ebbe un’influenza notevole sulla nascente scuola stoica, avendo sostenuto gli ideali dell’autosufficienza (autarchia) e dell’indifferenza (apatia) mediante il controllo delle passioni. Stirner, Max Vero nome Johann Kaspar Schmidt. Filosofo tedesco (Bayreuth 1806 Berlino 1856), è il padre del moderno anarchismo individualista. Nell’opera L’unico e la sua proprietà (1845) sostenne che l’unica realtà cui dare credito è l’individuo. Questa tesi, proposta con assoluta radicalità, lo portò a negare valore a ogni concetto e a ogni forma di potere fondata su valori oggettivi, ideali, consuetudini, o altro. La sua opera è inquadrabile nel movimento della sinistra hegeliana. Stoà / Stoicismo Scuola filosofica affermatasi nell’età ellenistica e proseguita fino all’età imperiale. Fu istituita ad Atene da ➔ Zenone di Cizio verso il 300 a.C. e fu così chiamata perché aveva sede presso il portico (stoà) decorato da Polignoto. La sua storia comprende tre grandi periodi: antica Stoà (III-II sec. a.C.) in cui i padri fondatori (oltre a Zenone, Cleante e Crisippo) gettano le basi della dottrina; media Stoà (II-I sec. a.C.), rappresentata soprattutto da Panezio e Posidonio, di orientamento eclettico e con influenze notevoli sul

Stoà / Stoicismo

mondo romano; nuova Stoà (sec. I-III d.C.) che segna un ritorno all’impostazione originale, pur con quelle accentuazioni etiche o religiose che emergono in Epitteto, Seneca, Marco Aurelio. Già al momento della sua fondazione, la scuola intese svolgere il suo insegnamento articolandolo secondo una tripartizione gerarchica (logica, fisica, etica), divenuta poi comune a tutti i sistemi del periodo. a) La logica. Scienza del discorso, si viene a intrecciare con la gnoselogia e con il problema dell’individuazione del criterio di verità. Fonte di ogni conoscenza è la sensazione mediante la quale gli oggetti esterni lasciano la loro impronta (o rappresentazione) nell’anima: fissate nella memoria, il loro complesso costituisce l’esperienza. Alla rappresentazione (in sé accolta passivamente), il soggetto può accordare o meno l’assenso trasformandola in rappresentazione catalettica (comprensiva): quest’ultima è vera in quanto l’oggetto viene afferrato in forza dell’evidenza con cui si impone alla mente. L’assenso alla rappresentazione è un atto libero, e perciò indice di quell’attività razionale che, elaborando l’esperienza, mette capo alla formazione dei concetti universali. Pertanto gli stoici identificarono nella proposizione l’elemento base (essa esprime un fatto) e non scomponibile (come sostenuto dalla logica aristotelica, che mirava a individuare i rapporti tra i termini all’interno della proposizione) del discorso. Le argomentazioni sono il risultato della combinazione di più proposizioni, e possono essere classificate come concludenti (in cui la conclusione è formalmente corretta rispetto alle premesse: se però queste sono false anche quella lo è), vere (corretta nella forma e vera nel contenuto) e dimostrabili (che da un fatto empiricamente attestabile risalgono a un altro non evidente). Queste comprendono una classe di cinque ragionamenti, indimostrabili ma necessari per dimostrare le altre argomentazioni: 1) se P allora Q, ma P dunque Q; 2) se P allora Q, ma non Q allora non P; 3) non e P e Q, ma P dunque non Q; 4) P o Q, ma P dunque non Q; 5) P o Q, ma non Q dunque P. Nel presupposto di una stretta corrispondenza tra ordine linguistico e ordine delle cose, gli stoici fondano una valida teoria del significato così da garantire l’oggettività e l’universalità dei nostri discorsi, distinguendo tra significanti (le espressioni linguistiche, i segni fonetici ecc.) e significati (i contenuti concettuali, le rappresentazioni degli oggetti dell’esperienza considerate nella loro strut-

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turazione logico-linguistica): questi ultimi mediano tra le cose e i nomi (che sono entità fisiche), e possono dunque essere veri o falsi, dando luogo alle proposizioni semplici quali unità minime dotate di significato. b) La fisica. Secondo gli stoici il cosmo è un immenso organismo vivente, governato da un principio unitario e immanente di organizzazione interna, chiamato logos, o pneuma, o fuoco. Tuttavia, poiché solo ciò che agisce o subisce è reale, e ciò che agisce o patisce è corporeo, tutto ciò che esiste è corpo. Nel tutto corporeo operano dunque due principi: uno attivo (il pneuma, soffio caldo che pervade tutte le cose) e uno passivo (la materia), entrambi coincidenti con la divinità (Zeus, cui Cleante dedicherà un famoso Inno), la cui esistenza è attestata sia dall’ordine naturale sia dal consensus gentium. Come artefice di tutto, il pneuma contiene le “ragioni seminali” di tutte le cose, e genera in esse una “tensione”, una forza coesiva che si trasmette a tutte le cose (tra e nelle quali perciò non c’è vuoto), animandole e vivificandole. Di qui una visione da un lato deterministica (tutto ciò che accade ha una causa ed è inserito in una catena causale che lo determina in modo assoluto: il caso non esiste ed è solo il nome di ciò che non si conosce) e fatalistica (ciò che è non poteva essere altrimenti e ciò che sarà è già inscritto necessariamente nell’ordine del tutto), dall’altro ottimistica (il mondo è perfetto in quanto retto da un’organizzazione intelligente che lo rende bello e armonioso), provvidenzialistica (in quanto nella realtà opera teleologicamente la razionalità divina) e antropocentrica. L’uomo rappre-

Stoicismo

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senta, per la presenza in lui del logos, l’espressione più pura del pneuma: di esso è parte l’anima (indivisibile dal corpo), che a esso ritorna dopo la morte. L’anima costituisce un tutto unitario anche se in essa si possono distinguere sette funzioni (i cinque sensi più l’apparato generativo e quello vocale) unificate dall’apparato egemonico, in cui si svolgono tutti i processi psichici (da quelli mentali all’istinto). c) L’etica. La riflessione morale si costituisce nell’ambito di questa visione della realtà: poiché natura e logos coincidono, bene e felicità consistono nel vivere in conformità con essi, rispondendo ai comandi di entrambe. Ogni essere tende all’autoconservazione e cerca ciò che gli giova: nell’uomo questa valutazione può avvenire in modo riflessivo e consapevole mediante il logos. Utile e buono è dunque ciò che consente all’uomo di realizzare la sua natura di essere razionale, male ciò che lo ostacola, indifferente ciò che non contribuisce all’uno né all’altro: poiché l’uomo è per natura portato a fare il bene, il male è una perversione del giudizio, frutto di un errore di valutazione conseguente a un’incapacità di esercitare correttamente il logos. Ciò avviene quando su di esso prevalgono le passioni e di conseguenza viene dato l’assenso a rappresentazioni false del buono e dell’utile. Dunque le passioni, essendo una malattia, vanno eliminate con una pratica rigorosa e con una rigida disciplina, fino a raggiungere l’imperturbabilità (apatia), vero e proprio ideale eroico di saggezza, per liberare l’individuo dall’accidentalità delle cose contingenti e dal flusso del divenire. Tuttavia gli stoici

Atene e Roma: la nuova filosofia ZENONE DI CIZIO (333-263 a.C.) STOICISMO ANTICO Atene

CLEANTE (304-232 a.C.) CRISIPPO (280 ca.-208 ca. a.C.)

STOICISMO MEDIO Atene, Roma

PANEZIO (185 ca.-110 ca. a.C.) POSIDONIO (135-51 a.C.) SENECA (4 ca. a.C.-65 d.C.)

STOICISMO NUOVO Roma

EPITTETO (50 ca.-138 ca.) M. AURELIO (121-180)

Stratone di Lampsaco

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ammettono anche delle azioni medie che, pur lontane dalla perfezione, sono tuttavia convenienti alla natura dell’uomo (rientrano in questa classe la maggior parte dei doveri sociali) e perciò degne di essere scelte e compiute. Di qui uno dei motivi più originali dell’etica stoica: lo spirito cosmopolitico (fondato sull’unica legge della natura e sull’unica provvidenza) che porta a una solidarietà universale e al senso di uguaglianza di tutti gli individui aldilà delle differenze di cultura e condizione sociale.

(i fatti narrati, in sé privi di credibilità e di significato). In opere successive (La fede cristiana del 1842, L’antica e la nuova fede del 1872) sostenne tesi vicine a quelle di Feuerbach (Dio non è che l’umanità e le leggi di natura sono i suoi attributi) e sposò concezioni materialistiche di derivazione darwiniana (l’Universo è un’unità organica, infinita e attiva, in perpetuo movimento verso un sempre maggiore perfezionamento: nel sentimento di dipendenza verso di esso consiste la religione dell’uomo moderno).

Stratone di Lampsaco Filosofo greco (328268 ca. a.C.), secondo scolarca del Peripato dopo Teofrasto, di cui fu discepolo. Fu precettore di Tolomeo II Filadelfo, diffondendo così la conoscenza dell’aristotelismo ad Alessandria. Dedito agli studi scientifici (tra i suoi allievi ➔ Aristarco di Samo e i medici Erasistrato di Ceo ed Erofilo di Calcedonia), sappiamo da Diogene Laerzio (di lui sono pervenuti solo scarsi frammenti) che si orientò verso una visione immanentistica del reale, nella cui spiegazione abbandonò il finalismo collegato al concetto di forma per avvicinarsi al meccanicismo democriteo (di cui però negò il vuoto originario e l’omogeneità qualitativa della materia per dare maggior spazio alle qualità fisiche fondamentali del caldo e del freddo). Sul piano gnoseologico-psicologico affermò la dipendenza del pensiero dalla percezione sensibile (per cui trascurò i concetti e distinse solo tra parole e cose, collocando sul piano linguistico il problema della verità e dell’errore) e propugnò una concezione unitaria dell’anima che localizzò nel cervello (perciò pare che abbia tentato un’ampia confutazione delle teorie esposte nel Fedone platonico).

Strauss, Leo Filosofo tedesco della politica (Kirchhain 1899 - Annapolis 1973). Di origini ebraiche, con l’avvento del nazismo emigrò negli Stati Uniti, dove fu professore a New York e Chicago. Interrogandosi sul significato della politica e del vivere in comunità dopo l’impatto con la modernità e i relativi fenomeni (rifiuto della tradizione, egalitarismo e legittimità del potere per volontà popolare, mentalità razionalistica e laica ecc.), egli ha duramente polemizzato (specialmente nel suo capolavoro Diritto naturale e storia del 1953) contro le tendenze del pensiero politico contemporaneo (storicismo, sociologismo, positivismo ecc.) che, assumendo acriticamente il modello di una democrazia di massa, condurrebbero al nichilismo e al relativismo. Questa infatti non può essere che l’inevitabile conclusione se si sostiene, in nome dell’avalutatività scientifica, l’uguaglianza delle preferenze o, in base alla mutevolezza dei principi di giustizia, l’impossibilità di un diritto universalmente riconosciuto: di qui il disordine per mancanza di leggi valide e la tirannia nelle sue varie forme (il discorso sulla tirannia è significativamente riproposto nell’edizione commentata del “Gerone” di Senofonte del 1948). Di contro a una politica disgiunta dai valori, egli recupera la nozione di diritto naturale in quanto appare (lo testimonia la Dichiarazione d’indipendenza americana) come l’unica istanza normativa in grado di illuminare l’uomo nella scelta dei fini da perseguire con la propria azione sul fondamento dell’idea di una giustizia perenne. Non si tratta però del giusnaturalismo seicentesco, interessato, dopo la disgiunzione operata da Machiavelli tra politica e ricerca del sommo bene, solo al mantenimento della pace e a salvaguardare l’autoconsevazione, i diritti e la proprietà del singolo attraverso l’intervento dello Stato: piuttosto Strauss pensa alla lezione dei classici greci (Platone soprattutto, ma anche gli stoici e San Tommaso) che insegnavano come il

Strauss, David Friedrich Filosofo tedesco (Ludwigsburg 1808-1874), esponente della sinistra hegeliana, cui diede avvio con la sua Vita di Gesù (1835). Conducendo a termine con coerenza il processo di immanentizzazione della teologia, Strauss (e dopo di lui gli altri giovani hegeliani) pervenne a conclusioni atee: sostenne infatti, in base alla concezione della religione quale rappresentazione inadeguata della verità, che il Gesù dei Vangeli è un mito (cui si deve negare tutto ciò che non è riducibile a ragione o a storia), originato dall’attesa messianica del nazionalismo ebraico e dalla personalità eccezionale di quest’uomo. Perciò il suo valore consiste solo nell’idea metafisica (la realizzazione dell’unità di finito-infinito) e non nell’immagine che la esprime

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compito della filosofia fosse quello di ricercare la verità al di là delle mutevoli opinioni, e come si dovesse individuare, attraverso lo studio della natura umana associata, la migliore forma di governo. Questa non può che essere un’aristocrazia (un governo dei migliori per natura, oggi declinabile come classe dirigente illuminata, preparata mediante un’adeguata formazione ed educazione politica), che, convinta che la vita secondo natura sia quella umanamente eccellente, pienamente sviluppata in tutte le sue potenzialità e realizzabile solo in una città ben ordinata, impronta la sua azione al fine di generare cittadini virtuosi, coscienti dei propri doveri, mediante una costituzione politica appropriata. Strauss rifiuta di pensare (Liberalismo antico e moderno, 1968) che il rispetto dovuto a ciascuno, garantito dall’universalità del diritto naturale, coincida con un governo affidato a tutti (il senso della cosa pubblica che deve animare chi è chiamato a dirigere lo Stato non può che essere di pochi), quanto si tratta piuttosto dell’antica virtù della liberalità, non confondibile con la libertà negativa dei moderni. In questa prospettiva, egli vede un rapporto intrinsecamente conflittuale tra il filosofo e la città, in quanto il primo rifiuta l’opinione comune su cui invece si fonda le seconda. Per questo il primo (come nel caso dei liberi pensatori quali Averroè, Maimonide, Spinoza), deve cercare di sfuggire alla persecuzione mediante un’opportuna tecnica di scrittura cifrata che sia comprensibile solo da chi è veramente desideroso di apprendere il vero attraverso la sua lezione (Persecuzione e arte di scrivere, 1952). La polemica antimoderna contro la scissione tra etica e politica, la riduzione dei valori in termini di razionalità strumentale e la funzionalizzazione di politica e filosofia al servizio del potere e di interessi dominanti, è implicita anche in La città e l’uomo (1964). Sulla base del modello esemplare rappresentato da Atene-Socrate, si ripropone infatti l’ideale della vita associata tesa al compimento della virtù con la conseguente valorizzazione dell’intellettuale-filosofo. E se ciò spiega l’ostilità aristotelica alla democrazia (il demos è per natura incapace di filosofia), la prospettiva utopistica di Platone ha il significato di mostrare come un sistema di vita sociale intrinsecamente giusto implichi di necessità una violenta costrizione nei confronti della refrattarietà della natura umana (dunque realizzabile per o da pochi). Ciò è provato dall’opera di Tucidide che, studiando le vicende del suo

Suarez

tempo, era persuaso di aver individuato i limiti eterni delle cose umane (quindi ancora una verità universale): il rapporto conflittuale tra diritto e costrizione, tra giustizia e forza (nello specifico la verità universale del diritto del più forte). Questi esempi sono per Strauss un monito alla necessità di un ritorno ai classici per il superamento della crisi dell’Occidente, consistente nello smarrimento del proprio compito storico (e che essi, maestri di saggezza, possono di nuovo renderci chiaro): la creazione di una lega mondiale di nazioni libere e uguali, realizzabile solo alla condizione dell’instaurazione universale della democrazia. Strawson, Peter Frederick Filosofo inglese (Londra 1919 - Oxford 2006), tra i maggiori rappresentanti dell’indirizzo analitico, docente a Oxford. Incominciò (Sul riferimento, 1950) con una critica a Russell e alla sua teoria delle descrizioni (un enunciato significante è falso se una sola delle sue proposizioni, mancando di riferimento a un oggetto, è falsa), rilevando la necessità di distinguere tra enunciato (espressione significante o non significante) e asserzione (che può essere vera o falsa) e di tener conto della pluralità degli usi di un medesimo enunciato in diversi contesti. Se in Introduzione alla teoria logica (1952) ha affrontato il problema del rapporto tra logica formale e logica del discorso ordinario, difendendo l’autonomia di quest’ultima, in una serie di articoli si oppose alla dottrina semantica e di corrispondenza della verità (primo perché i “fatti” implicano già il rapporto parola-mondo, e poi perché l’espressione «è vero» esprime non una proprietà ma un consenso). Nella sua opera più complessa, Individui del 1959, ha inteso muoversi sul piano descrittivo, indicando gli schemi concettuali con cui effettivamente pensiamo (e non come dovremmo pensare) quali strutture spazio-temporali in cui far rientrare tutti i particolari. Poiché questi ultimi, in quanto fondamentali individuali, sono i soggetti logici basilari (cioè gli oggetti essenziali del riferimento), tra essi emerge l’importanza dei corpi (il nostro schema concettuale riconosce solo oggetti osservabili) e delle persone (non riducibili né a cose né a pura mente): il carattere primario della loro esistenza sarebbe dunque convalidato dal rapporto tra soggetti logici e realtà di ciò cui essi fanno riferimento. Suarez, Francisco Filosofo e teologo spagnolo (Granada 1548 - Lisbona 1617), ge-

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suita. La sua monumentale produzione (commenti ad Aristotele e Tommaso, vari trattati di metafisica e teologia; in particolare le Disputationes metaphysicae costituiscono una trattazione sistematica di tutta la materia, ordinata per questioni, intorno ai due temi dell’ente e delle sue cause in generale e degli enti effettivamente esistenti, quello finito e quello infinito) rappresenta il tentativo più organico e riuscito, nell’ambito della Controriforma cattolica, di rilanciare la cultura scolastica, che tuttavia egli elaborò originalmente con soluzioni aperte al contatto con i problemi e le innovazioni del mondo moderno. Così in gnoseologia si avvicinò all’occamismo nel valorizzare la conoscenza dell’individuale concreto (il concetto universale, formato dall’intelletto passivo, si costituisce dopo e in conseguenza dell’immagine empirica che ci fa conoscere il singolare), e in metafisica cercò di soddisfare la stessa esigenza con una concezione analogica dell’ente che, pur fondata sulla dottrina della potenza e dell’atto, salvaguardasse le pecularità specifiche della singolarità (potenza e atto sono due aspetti logici dell’ens quod, in cui concetto inerisce a tutti gli analoghi, ma in modo diverso, in rapporto a uno di essi, Dio che è sostanza). In materia teologica intervenne nella disputa tra tomisti e scotisti sul tema dell’incarnazione (che è dettata dalla volontà divina di redimere l’uomo, pur in sé consistendo nella libera manifestazione della gloria di Dio) e in quella tra gesuiti e domenicani sulla grazia (la sua soluzione è di tipo molinista). Importanti anche

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le sue dottrine giuridiche (che hanno dato avvio alla costituzione del diritto internazionale, con il riconoscimento che esso, derivando da quello positivo delle singole nazioni e dalle loro analogie, trova il suo fondamento in quello naturale) e politiche (l’autorità è conferita da Dio alla società, che la trasferisce al sovrano: egli è soggetto alla legge e deve mostrarsi degno della sua funzione). Swedenborg, Emanuel Naturalista e mistico svedese (Stoccolma 1688 - Londra 1772). Partito da idee meccanicistiche (sulla base di Cartesio e Newton) e interessato ai problemi del rapporto anima-corpo, si avvicinò progressivamente a una concezione neoplatonizzante del mondo come emanazione della divinità. Convinto, in seguito a una visione di carattere allucinativo, di essere chiamato da Dio a dare una nuova esposizione e interpretazione della Scrittura, si diede totalmente a questa missione fondando anche una chiesa (la “Nuova Gerusalemme”) e componendo le sue opere teosofiche tra cui Arcana coelestia del 1749-56 (ironicamente criticata da ➔ Kant nei giovanili Sogni di un visionario) e La vera religione cristiana del 1771 (dove, sulla base delle sue esperienze paranormali, di visioni e colloqui con gli spiriti, sostenne una concezione di Dio come infinità assoluta da cui tutto procede e una teoria della corrispondenza tra gli enti di natura e lo spirito da cui trasse una descrizione della struttura del cielo, del mondo degli inferi e di quello degli spiriti).

T Talete di Mileto Filosofo greco (Mileto 624 ca. - 546 ca. a.C.), secondo la tradizione iniziatore della filosofia occidentale. Ebbe fama di sapiente, sia che con questo termine si intenda la pura ricerca teoretica contrapposta all’attività pratica (in questo senso Platone riferisce l’aneddoto che Talete, assorto nella contemplazione delle stelle e del cielo, suscitò il riso di una servetta tracia cadendo in una buca) sia che si voglia sostenere la superiorità del sapere su ogni altro interesse umano (perciò Aristotele narra di una sua incetta di frantoi che egli fece in previsione di un’abbondante raccolta di olive, ricavandone grandi guadagni). Gli si attribuiscono molte conoscenze in campo matematico e geometrico (la scoperta del metodo per determinare l’altezza di una piramide in base alla misurazione della sua ombra e quello per calcolare la distanza di una nave dalla costa, la dimostrazione del teorema che porta il suo nome), ma quello che sappiamo di Talete (che probabilmente non lasciò nulla di scritto) ci deriva da Aristotele, che lo presenta come colui che per primo avrebbe, al di là del mito, indagato consapevolmente il fondamento del tutto, cioè il “principio (arché) di tutte le cose”, la causa prima. L’averla individuata nell’acqua gli sarebbe derivato «dall’aver osservato che il nutrimento di tutte le cose è umido e che perfino il caldo si genera dall’acqua e vive di essa [...] e anche dal fatto che ogni germe ha una sua natura umida, e l’acqua è il principio della natura di ciò che è umido»: come gli enti prendono origine da essa per successive trasformazioni, così (secondo uno schema proprio delle cosmogonie) vi ritornano dissolvendosi. In questa prospettiva, l’arché appare anche la materia (viva perché originariamente dotata di movimento, da cui il termine ilozoismo per indicare questa concezione nel suo complesso) costitutiva di tutte le cose, l’elemento immanente e onnipervasivo che anima l’universo: perciò Talete lo considerò divino, affermando di conseguenza (tramite Aristotele) che «tutto è pieno di dei». Aldilà delle elaborazioni fantasiose successive, è storicamente corretto considerare Talete un attento osservatore della natura, da cui tras-

se spunto per ideare (sulla base di procedure di misurazione e calcolo di derivazione egizia o caldaica) tecniche risolutive di precisi problemi sorti nel contesto del suo ambiente sociale: soprattutto allora egli segnò la piena maturazione di un modo di pensare e di concepire il mondo totalmente nuovo e spregiudicato rispetto alla tradizione, teso a spiegare i fenomeni in modo oggettivo e razionale. Tarsky, Alfred Filosofo e logico polacco (Varsavia 1901 - Oakland 1983), professore a Varsavia e, dal 1939, a Berkeley e all’università della California. Concentrò la sua attenzione sui sistemi formali deduttivi (Introduzione alla logica del 1951) e sulla logica simbolica, all’interno della quale svolse ricerche di semantica con l’intento di affrontare il problema di quel tipo di antinomie (per esempio il paradosso del mentitore) non risolvibili con la teoria dei tipi di ➔ Russell (dette perciò “semantiche”, in quanto legate alla struttura del linguaggio e distinte da quelle “logiche”). A tal fine Tarsky procedette a una rigorosa definizione del concetto di verità (e di quelli ad esso connessi, come designazione, definizione ecc.) nell’ambito dei linguaggi formalizzati sulla base esclusiva delle forme delle espressioni linguistiche, alla condizione di servirsi per esse di un altro linguaggio (o metalinguaggio) di tipo logico superiore: ne deriva che le espressioni di un linguaggio L sono vere solo se lo sono le loro traduzioni nel metalinguaggio. Soddisfatta questa condizione risultava accettabile anche la tradizionale concezione della verità come “corrispondenza con la realtà”. In sintonia con la “sintassi logica” di ➔ Carnap, anche la “semantica logica” di Tarsky muove dallo studio delle regole di costruzione dei linguaggi per individuare concetti non determinabili in modo puramente sintattico e che tuttavia prescindono dal rapporto tra segni e oggetti designati. Tarsky si occupò anche della teoria degli insiemi e della teoria dei modelli, oltre che di altre questioni di geometria e algebra. Una serie di suoi scritti è stata raccolta col titolo Logica, semantica, metamatematica (1956).

Tatarkiewicz

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Tatarkiewicz, Wadyslaw Filosofo polacco (Varsavia 1886-1980), professore a Varsavia. Incominciò con ricerche connesse alla filosofia dei valori (era stato allievo di ➔ Cohen e ➔ Natorp), in lavori Sul valore assoluto del bene (1919) e su La felicità (1947) dove vengono esaminate le varie soluzioni fornite dalla tradizione occidentale, mentre la decisione è lasciata socraticamente al lettore. Successivamente i suoi interessi si sono rivolti all’estetica, di cui ha scritto un’ampia Storia (1962-67) completata con una Storia di sei concetti (1975): in queste opere si evidenzia la funzione positiva esercitata da nozioni (bello, forma, arte ecc.) non definibili in modo assoluto in quanto mutevoli nel tempo, ma che raccolgono intorno a sé un complesso di significati densi di spessore storico. Ciò sarebbe coerente con l’esperienza fantastica, in cui le immagini e le loro associazioni, sebbene suscitate dall’oggetto, si producono liberamente nel soggetto. Taubes, Jacob Filosofo e teologo austriaco (Vienna 1923 - Berlino 1987). Di origini ebraiche, rabbino, insegnò a Gerusalemme, Berlino, Harvard, Princeton e alla Columbia di New York. Nella sua prima opera, Escatologia occidentale (anche l’unica data alle stampe nel 1947), egli si interroga sull’essenza della storia individuandone la chiave interpretativa nell’idea apocalittico-messianica. Poiché tale essenza (da identificarsi con la libertà) può realizzarsi solo nello spirito, questo si concretizza nel tempo nella forma dell’eschaton, contemporaneamente tempo della creazione e della fine: in questa prospettiva ogni evento riceve il suo senso come approssimarsi verso la libertà. L’apocalittica contrappone alla totalità di questo mondo (negativa) un’altra totalità (positiva), che si attuerà nel futuro con un moto rivoluzionario. Israele, il popolo dell’erranza, del tempo e dell’esilio, è il luogo storico dell’apocalittica e quindi di ogni fermento innovativo, ancorché ora indistinto. Infatti Javeh, diversamente da quello greco che è narrato nel mito e si manifesta nel cosmo, è il Dio che crea il mondo e poi lo distrugge per realizzare “cieli e terra nuova”. La filosofia della storia occidentale, da Agostino a Marx, passando per Gioacchino da Fiore e Hegel, è percorsa in continuità (pur con le evidenti razionalizzazioni e laicizzazioni) da questo filo rosso. La prospettiva qui tracciata implica un nesso stretto tra teologia e politica che Taubes da un lato ha discusso con pensatori quali ➔ Benjamin e ➔ Sch-

Taylor

mitt e dall’altro ha sviluppato in La teologia politica di Paolo (testo tratto da un ciclo di lezioni tenute a Heidelberg sull’Epistola ai Romani, pubblicato postumo nel 1993): partendo dal concetto ebraico di “fede”, egli ne evidenzia la dimensione paradossale, in quanto il Salvatore è un escluso dalla comunità e, allo stesso tempo, è l’annunciatore della fine dei tempi. Così in Paolo emergerebbe una teologia politica negativa (quindi distruttrice di ogni ordine mondano attuale) da contrapporre a una teologia politica positiva (sostenuta per esempio da Schmitt, ma in generale dal cattolicesimo postcostantiniano e controriformistico), che si fonderebbe sul rifiuto sia della legge statuale (per esempio quella romana) sia dei vincoli naturali (per esempio quelli etici, di sangue) per privilegiare lo “spirito” e l’unico precetto dell’amore quali fondamenti della futura socialità. Tauler, Johannes Mistico tedesco (Strasburgo 1300 ca.-1361), appartenente all’ordine domenicano. Discepolo di ➔ Eckhart, sviluppò l’aspetto morale del pensiero del maestro, attenuandone in tal modo le tesi più audaci con un significato simbolico edificante. Ciò risulta evidente in rapporto alle opere esteriori, che svolgono un ruolo imprescindibile (seppure non essenziale) nell’avvicinamento dell’anima a Dio, culmine e fine della vita religiosa. Mentre le facoltà dell’anima (sia quelle della parte sensibile sia quelle della parte intellegibile) sono rivolte all’esterno e al molteplice, nel suo “fondo” (luogo ideale in cui avviene l’incontro tra Dio e l’uomo) si trova il Gemüth (termine intraducibile, che può essere approssimativamente reso con “aspirazione originaria” o “indole affettiva”), che ha come oggetto Dio stesso e quindi dà a quelle la potenza operativa, pur restandone al di sopra. Presente in tutti gli uomini (i platonici ne ebbero piena cognizione), essa deve trasformarsi da vago impulso in coscienza luminosa del fine: perciò è necessario un completo distacco dalle cose mondane e da se stessi, convogliando in sé l’amore quale guida e assoluta libertà per Dio, finché l’anima si spoglia della sua creaturalità e celebra con Lui le mistiche nozze. Tauler, che aveva fondato il movimento degli “amici di Dio”, fu soprattutto un predicatore: di lui ci restano 84 sermoni trascritti dai discepoli. Taylor, Charles Filosofo canadese (Montréal 1931), insegnante in diverse università americane ed europee. Riallacciandosi a

Teilhard

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Hegel (Hegel e la società moderna, 1979) ha polemizzato con l’individualismo liberale e ha sostenuto una prospettiva “comunitarista”, secondo la quale il singolo può trovare un valido sviluppo di idee e principi morali solo all’interno di una comunità in cui radicarsi. Così le scelte delle finalità etiche devono essere sottratte alla coscienza soggettiva per essere effettuate sulla base di una scala di valori condivisa dall’intero gruppo di appartenenza. Da questa prospettiva in Multiculturalismo (1992) ha polemizzato con ➔ Habermas, sostenendo la necessità, come fondamento dell’uguaglianza, di rispettare la specificità delle singole culture in un atteggiamento di reciproco riconoscimento. All’opposto la modernità – oggi rappresentata dalla globalizzazione – sembra andare verso una deriva di anonimato e di disgregazione nella misura in cui non sa accompagnare l’universalismo con la valorizzazione delle differenze in un orizzonte di armoniosa organicità (Il disagio della modernità, 1991). Questi spunti, tutti convergenti nella dialettica tra particolare e universale, finito e infinito, hanno trovato una loro sintesi nella prima opera capitale di Taylor, Radici dell’io (1989), che tratta dei modi in cui l’esperienza dell’io si è venuta a costituire in seno alla civiltà occidentale. Mostrata l’insufficienza della tesi naturalistica che riduce le azioni morali a reazioni biologiche, si avanza l’esigenza di una teoria del bene, che però non ricada in vecchie ontologie giustificatrici di istituzioni assolutiste e intolleranti. In realtà vi sono molteplici beni e differenze qualitative tra beni, alcuni dei quali sono fonti di moralità (beni costitutivi o iperbeni), in quanto ci consentono di essere buoni e fare il bene. L’umanesimo moderno si è posto su questa linea riconoscendo come bene costitutivo una forma superiore di umanità che sappia affrontare la vita senza l’appoggio di vecchie verità metafisiche e religiose, quindi in un universo disincantato. Questa prospettiva culmina (dopo un lungo itinerario storico che parte da Agostino) nella moderna morale razionale che intende poggiarsi sul principio di responsabilità per realizzare la massima felicità per il nostro prossimo. Tuttavia, secondo Taylor, tale orientamento può trovare una valida concretizzazione solo a patto di eliminare alcuni ostacoli: da un lato la diffidenza (tipica della filosofia analitica) verso ogni discorso sui beni per rifugiarsi in un’astratta meta-etica, e dall’altro il relativismo che li equipara tutti sullo stesso piano.

Telesio

Nella ponderosa L’età secolare (2007) si esaminano le conseguenze per una società in cui la fede in Dio (una volta indiscutibile) è scomparsa o ridotta a una delle tante opzioni. Questo sbocco è il risultato di una serie di posizioni (storicamente studiate) che, mentre dissolvono vecchie forme di religione, reinterpretano il sacro in nuovi modelli. Oggi la secolarizzazione si presenta non tanto come ateismo, ma come molteplicità di configurazioni religiose e spirituali, in uno scenario disomogeneo e segnato dalla frammentazione di ogni identità, indice delle incertezze e delle contraddizioni della nostra epoca storica. Teilhard de Chardin, Pierre Scienziato, filosofo e teologo francese (Sarcenat 1881 New York 1955), gesuita, membro di diverse spedizioni paleontologiche in Asia e Africa. Si propose di estendere le moderne teorie evoluzionistiche (che egli come scienziato riteneva vere) alla cosmologia, alla teologia e a tutti i settori dell’essere: perciò le sue idee (esposte in opere quali L’ambiente divino, Il fenomeno umano, Il gruppo zoologico umano, La visione del passato, L’avvenire dell’uomo, circolanti manoscritte tra gruppi ristretti e pubblicate postume) suscitarono grandi entusiasmi ma anche la decisa avversione dell’autorità ecclesiastica. La sua concezione è un “evoluzionismo integrale” in quanto considera la vita nel suo sviluppo (da una materia elementare contenente in modo latente ma reale tutte le energie fisiche e spirituali, e perciò già includente la coscienza) come un unico processo, culminante (dopo le forme viventi elementari e quelle via via più complesse costituenti la “biosfera”) con l’uomo e la “noosfera” (il complesso dei prodotti storico-culturali prodotti dall’ominizzazione del reale). Secondo Teilhard de Chardin il futuro è proiettato verso la formazione di una superumanità, unità biologica e “cristica” insieme (sotto questo aspetto il cristianesimo sembra un prodotto dell’evoluzione, sia pure il più alto), costituita da persone mosse dall’altruismo e dalla grazia, che convogliano tutte le loro energie caritative verso la realizzazione di una meta finale (o “punto Omega”, causa finale e immanente di tutto il processo) identificabile con la “Cristosfera”, cioè con l’innesto della realtà, della storia e della rivelazione nel Cristo. Telesio, Bernardino Filosofo naturalista italiano (Cosenza 1509-1588).

Teodorico di Chartres

Studiò filosofia, fisica e medicina, ma in seguito si ritirò per alcuni anni in un convento benedettino (probabilmente presso la grancia di Seminara). Nel 1565 vennero alla luce i primi due volumi della sua maggiore opera De rerum natura juxta propria principia che solo nel 1585 fu completata in nove libri. Telesio, criticando le teorie aristoteliche che volevano ricavare i principi della natura in modo razionale, individua nella sensibilità la base della conoscenza (“non ratione sed sensu”) pervenendo così a una visione panpsichistica (tutto è anima, sensibilità). Il senso permette di trovare in natura le due forze, caldo e freddo, che agiscono come principi primi e meccanicamente (è quindi escluso ogni finalismo). Il caldo è principio dilatante, ha sede nel sole e rende le cose leggere; il freddo è principio condensante, ha sede nella terra e rende le cose pesanti e immobili. Affinché caldo e freddo (incorporei) possano scontrarsi-incontrarsi, necessitano di un terzo elemento: la terra, posta al centro dell’universo, provvista di inerzia, passiva e soggetta all’azione delle due forze. Dall’incontro di questi fattori si generano gli esseri animati, differenti tra loro solo per il grado di calore presente. Dio diventa il garante del principio della conservazione, dell’ordine e dell’autonomia della natura. Anche la vita morale dell’uomo è limitata ai principi naturali: bene è ciò che conserva la forza calore, male è ciò che la distrugge, la virtù è la condizione per la conservazione dell’uomo e risiede nell’esercizio della medietà, nel porre dei limiti alle passioni evitando gli eccessi. Solo la vita religiosa esce, per Telesio, da questo schema. Infatti essa si rivolge a un soggetto non sensibile, l’anima divina, che deriva direttamente da Dio ed è peculiare specificità dell’uomo. Teodorico di Chartres Filosofo e teologo francese (prima metà del XII sec.), maestro nella scuola cattedrale, cui diede un forte impulso culturale facendo tradurre e conoscere un gran numero di testi della speculazione, filosofica e scientifica, anche arabi. Nell’Hexaemeron (o De sex dierum operibus) interpretò la nascita dell’universo alla luce del Timeo platonico, ma in generale ricorse alla dottrina dell’esemplarismo ideale (con riferimenti a Boezio, Agostino e Scoto Eriugena) per spiegare i rapporti tra Dio, unità suprema e immutabile nonché forma essendi di ogni cosa, e gli enti molteplici e mutevoli. Scrisse anche un Heptateuchon, che è un’enciclopedia delle arti liberali.

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Timone di Fliunte

Teofrasto Filosofo e scienziato greco (Efeso 371 - Atene 287 a.C.), successore di Aristotele nella direzione del Peripato, cui diede un forte orientamento scientifico ed erudito con la vastità dei suoi interessi e il suo impegno speculativo. A parte i frammenti delle sue numerosissime opere, ci sono rimaste integrali solo una Storia delle piante e le Cause delle piante (importanti per la terminologia e gli schemi classificatori), una Metafisica (che, sull’esempio del libro II dell’analoga opera di Aristotele, contiene il rilevamento di una serie di aporie, anche negli scriti del maestro), parti di opere di Fisica (tra cui l’importantissima Opinione dei fisici e Sul fuoco, in cui si rielabora la dottrina dei quattro elementi), e i notissimi Caratteri (schizzi di tipi umani che ebbero grande influenza, specie tra i moralisti francesi del Seicento). Rispetto ad Aristotele, Teofrasto mostrò originalità di ricerca e indipendenza speculativa in tutti i campi, dalla logica (in cui precisò i sillogismi ipotetici e sviluppò il ragionamento disgiuntivo, mettendo a punto l’adattamento delle strutture formali alla concreta indagine scientifica), alla metafisica (dove operò una riduzione “cosmologica” di tutta la materia, riducendo la funzione di Dio e delle sostanze sovrasensibili a cause dell’universo, fornendo una spiegazione dei moti celesti che anticipa la stoica anima mundi e afferma una più stretta unità del mondo fisico, aprendo la strada a Stratone ed Epicuro con una più marcata propensione per il modello meccanicistico rispetto al finalismo), alla psicologia (difese l’immaterialità e l’immortalità dell’intelletto umano, accentuando l’immanenza dell’intelletto agente), all’etica (dove sostenne il primato della vita teoretica e della naturale affinità tra tutti gli uomini). Tertulliano, Quinto Settimio Fiorente Scrittore e teologo cristiano romano (Cartagine 160-220 ca.), autore di molte opere apologetiche e di violenti attacchi alle pratiche pagane (egli stesso era un convertito). In opere come Apologeticum (197) e Adversus Marcionem (207-212) attaccò le pratiche superstiziose pagane, proponendo una visione radicale del cristianesimo, spirituale e distaccata dalle strutture terrene (anche ecclesiastiche). Sua è la celebre formula “credo quia absurdum”, che sottolinea l’aspetto irrazionale e di scelta totale della fede contro la ragione stessa. Timone di Fliunte Filosofo greco (Fliunte 325 - Atene 230 ca. a.C.). Discepolo dappri-

Tocqueville

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ma di Stilpone, poi di Pirrone di Elide, insegnò ad Atene, dove morì. Nelle sue opere mise per iscritto l’insegnamento di Pirrone, che non scrisse nulla, e ne tratteggiò la figura delineandone così l’ideale di vita. Appartiene quindi alla corrente del primo scetticismo, quella che risale direttamente a Pirrone. Celebri soprattutto i suoi Silli. Tocqueville, Alexis-Charles-Henry Clérel de Storico, pensatore e uomo politico francese (Verneuil-sur-Seine 1805 - Cannes 1859). Scoprì la propria vocazione intellettuale dopo un viaggio negli Stati Uniti che gli ispirò la sua prima grande opera, La democrazia in America (1835). Da quell’esperienza trasse materia di riflessione anche per le vicende europee, giungendo alla conclusione che la società moderna si orienta in modo sempre più deciso verso l’uguaglianza, con la conseguente modifica delle relazioni economiche, politiche, morali e giuridiche degli uomini. Tuttavia non gli sfuggì che il passaggio verso la democrazia fosse denso di gravi pericoli, tali da compromettere il valore della personalità individuale e della socialità: Tocqueville li riconosceva nell’eccessivo individualismo ed edonismo (con conseguente sopravvalutazione dell’interesse economico) da un lato, e nella ricerca dell’uniformità che portava alla dipendenza dalla volontà egemonica della maggioranza (e dello stato) dall’altra. Se questi elementi erano macroscopicamente evidenti in America (Tocqueville prevedeva una rapida decadenza di quel sistema una volta che l’utilitarismo economico fosse diventato l’esclusivo fattore costitutivo dei vincoli sociali), essi erano presenti anche (sia pure allo stato di latenza) nelle società europee: di qui la ricerca di meccanismi istituzionali e di garanzie reali capaci di prevenire e bloccare questi processi degenerativi. Posto che la libertà consiste oggi nella reciproca limitazione degli interessi, Tocqueville ne cercava la salvaguardia (sulla scia del liberalismo classico, da Locke a Constant) in un sistema (proprio delle monarchie costituzionali) di controlli reciproci e di reciproche esigibilità che mediasse i rapporti tra stato e società. L’ultima opera, L’antico regime e la rivoluzione (1856), può essere considerata uno studio di sociologia politica comparata, in quanto dall’analisi delle condizioni che hanno determinato gli eventi della Rivoluzione francese emerge come da essi sia sorto un tipo di sistema non fondato su un patto tra comunità libere ma su una costituzione assoluta, derivata da quel-

Tolomeo

lo stato dispotico che si pretendeva di abbattere, e quindi contenente i germi della propria dissoluzione. Toland, John Filosofo e teologo irlandese (Redcastle 1670 - Putney 1722), il più notevole tra i liberi pensatori e deisti inglesi. Nel suo Cristianesimo senza misteri (1696) egli intese mostrare, a fini apologetici, la necessaria razionalità della religione cristiana, e in questo senso sostenne la superiorità della ragione sulla rivelazione, in quanto strumento indispensabile per intendere il Nuovo Testamento (analogamente si potrebbe sostenere la superiorità della grammatica greca sulla lingua in cui sono scritti questi testi). La moderata intenzione iniziale venne successivamente esasperata dalle polemiche che seguirono l’uscita del libro, sfociando in un naturalismo religioso privo di ogni riferimento positivo e spogliato della sua dimensione trascendente. Perciò nelle opere successive Toland assunse posizioni ispirate a motivi materialistici (Lettere a Serena, 1704) da un lato e antichiesastiche dall’altro, rilevando la corruzione della società e dello stato da parte del clero (Nazarenus del 1718), pronunciandosi contro la rivelazione e in favore di una interpretazione razionalistica dei miracoli (Tetradymus del 1720), sostenendo infine una visione esplicitamente orientata verso un panteismo naturalistico (Pantheisticon del 1720). Tolomeo, Claudio Astronomo e geografo greco (II sec.), celebre soprattutto per l’Almagesto, nome arabo della sua opera astronomica (in originale Grande composizione matematica), in cui viene esposta in modo sistematico tutta la scienza astronomica dell’antichità, sulla base delle teorie fisiche e metafisiche di Aristotele. Nei tredici libri dell’opera viene esposta, con ampio impiego di strumenti matematici (ma anche di osservazioni dirette), la teoria della sfericità del cosmo, della centralità della Terra e del moto del sole, della luna e dei pianeti. Riguardo a quest’ultimo punto egli riprese e completò la dottrina di Ipparco, comprendente epicicli, eccentrici ed equanti, cioè di quel sistema di orbite che aveva la funzione di giustificare e spiegare i dati d’osservazione in linea con il modello teorico proposto, giungendo alla stesura delle tavole per la determinazione della posizione dei corpi celesti in ogni momento, passato presente o futuro. Tolomeo scrisse anche un Tetrabiblion di argomento astrologico, e un Del criterio e dell’egemonico in cui è esposta una conce-

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zione della realtà secondo la quale, con evidenti influssi stoici oltre che aristotelici, è presente in essa un dualismo tra principio vitale e anima razionale. Tomismo Detto della filosofia di Tommaso d’Aquino. Nel Novecento, richiamandosi alle sue posizioni, ma su un piano di riflessione filosofica che dialoga con la filosofia moderna e contemporanea, alcuni filosofi hanno dato vita al cosiddetto neotomismo. Tommaso d’Aquino Filosofo e teologo italiano (Roccasecca 1225 ca. - Fossanova 1274), massima espressione della filosofia scolastica medievale. la vita. Nato da famiglia appartenente alla piccola nobiltà, ebbe la prima formazione a Montecassino e poi a Napoli. Qui entrò (non senza contrasti con i parenti) nell’ordine domenicano, proseguendo gli studi filosofici e teologici a Colonia sotto la guida di Alberto Magno, che lo propose come baccelliere a Parigi. In questa funzione commentò le Sentenze, avendo Bonaventura come collega per l’ordine francescano: insieme, essi ebbero la “licenza” e furono aggregati da Alessandro IV, dopo un duro scontro con i maestri secolari, nel corpo docente di quella università. Tommaso rimase nella capitale francese (componendo il commento ai libri di ➔ Boezio, la maggior parte delle Quaestiones de Veritate, alcune delle Quaestiones quodlibetales, il De ente et essentia) fino al 1260, quando fu chiamato in Italia, prima a Orvieto (dove risiedeva la curia papale di Urbano IV), poi a Roma nel convento di Santa Sabina, e infine a Viterbo presso la corte di Clemente IV. Gli anni italiani furono assai intensi per le letture e la meditazione (compose le Queastiones de potentia, il De spiritualibus creaturis, il De regimine principum, i commenti a Dionigi e ad alcuni tra i più importanti libri biblici, forse portò a termine la Summa contra Gentiles e iniziò la Summa theologiae). Tornato a Parigi in un clima di forte conflittualità non solo tra maestri secolari (laici ed ecclesiastici) ma anche tra gli stessi “regolari” (domenicani e francescani), dovette difendere il proprio aristotelismo dagli attacchi incrociati di averroisti (contro cui scrisse il De unitate intellectus contra averroistas) e agostinisti, venendo coinvolto nella condanna del 1270 del vescovo Tempier. Scagionato anche in seguito all’intervento di Alberto Magno, riprese febbrilmente l’attività, componendo vari commenti ad Aristotele e alla Scrittura, le Quaestiones de anima, De malo, De vir-

Tommaso d'Aquino

tutibus, nonché portando avanti la Summa. Nel 1272 tornò a Napoli, insegnando sia nello Studio dell’Ordine sia nell’università: qui, malgrado il deterioramento delle sue condizioni di salute, continuò le numerose opere avviate e ne scrisse di nuove (tra cui il Compendium theologiae, rimasto incompiuto). Chiamato da Gregorio X a partecipare al concilio di Lione, morì durante il viaggio nell’abbazia cistercense di Fossanova. il pensiero. Impegnato a superare il contrasto (assai avvertito nella sua epoca) tra rivelazione divina e ragione umana, egli tese a inserire il pensiero di Aristotele (considerato come la massima espressione del sapere naturale dell’uomo) entro il quadro della cultura cristiana. Questa operazione richiese da un lato la liberazione della filosofia dello stagirita da tutte le incrostazioni interpretative erronee o spurie (specialmente quelle di matrice neoplatonica pervenute in Occidente attraverso i commentatori arabi), dall’altro la precisa definizione degli ambiti disciplinari e dello statuto epistemologico di filosofia e teologia. Circa quest’ultima, Tommaso sostiene che è una scienza a pieno titolo ma subalterna alla scientia Dei (quella cioè da Lui posseduta e rivelata): gli articoli di fede che essa presuppone, di per sé non razionalmente evidenti, vanno accolti ex suppositione, cioè in quanto propri di una scienza superiore (infatti la fede ci proietta verso la visione beatifica della Verità, di cui godremo un giorno in paradiso), onde partendo da questi postulati, si richiedono alla ragione opportuni procedimenti argomentativi (la fede presuppone la ragione sia nel senso che si presta alla sua indagine, sia in quello che nessuno dei suoi contenuti è falso o in contraddizione con essa) al fine di un ampliamento sia chiarificativo sia conoscitivo (l’obiettivo di Tommaso è infatti la costruzione di una dottrina ben fondata su solide dimostrazioni logiche, capace di provare le verità di fede anche a chi vuole procedere sull’unica via della ragione naturale). Tra ragione e fede, entrambi doni di Dio, viene perciò stabilito un regime di piena concordia e conciliazione (sono pertanto erronee sia le pretese dei teologi di imporre alla filosofia, nel campo che le è proprio, i principi della rivelazione e dell’autorità, sia quelle dei filosofi di applicare i loro metodi alle verità soprannaturali) che anzi si deve esigere come indubbio e necessario (così se alcuni articoli non risulteranno dimostrabili, non per questo sarà provata la loro confutabilità, ma solo l’insufficienza e l’incongruità degli argomenti finora formulati).

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Tommaso d'Aquino Tomismo

Tommaso d'Aquino

Nuovo interesse per il pensiero di S. Tommaso

TOMISMO MODERNO TOMMASO D’AQUINO (1225-1274)

TOMISMO CONTEMPORANEO (NEOSCOLASTICA) O NEOTOMISMO

L’autonomia della ragione viene dunque rivendicata e proclamata, ma ciò non esclude (anzi postula) la superiorità della fede (che non è mai suscettibile di errore): si tratta di una autonomia condizionata, rivolta nello stesso tempo a un fine negativo (critica delle dottrine che contraddicono i dati di fede) e a uno positivo (chiarire alcuni presupposti della fede). Il sapere umano si esplica nella capacità di fornire una spiegazione esauriente della realtà: sotto questo aspetto la metafisica, nella forma datale da Aristotele, costituisce il suo modello definitivo. Tuttavia Tommaso, mentre la assume nella convinzione che in quanto perfettamente conforme alla ragione deve essere ritenuta vera, vi apporta alcune significative correzioni e integrazioni, allo scopo di realizzare più efficacemente il proprio programma teoretico. Mentre ribadisce la sua natura di “scienza dell’ente in quanto tale”, Tommaso sposta l’asse speculativo dal plesso nozionale sostanza-accidente (poiché non ha un significato univoco, riferendosi a cose diverse con significati diversi, Tommaso assegna a questo termine un senso puramente logico, considerandone poi i significati come effettivamente riferiti a qualcosa di reale) a quello di atto-potenza. Infatti se l’ente è la “cosa determinata in virtù di una essenza”, quest’ultima (quidditas: il “ciò che è” dell’ente, la sua natura e principio del suo divenire) non può essere intesa come il fattore che fa di una sostanza qualcosa di esistente (l’ente nella sua individualità e concretezza), giacché questa funzione deve essere attribuita a un atto specificamente distinto, o atto d’essere, rispetto al quale quella è solo potenza. Questo atto risulta per se stesso illimitato (è l’essenza che lo determina secondo un particolare genere o specie) e dunque come avente in sé la propria ragion d’essere: quindi è identificabile con Dio, quale atto puro d’esistere nella sua semplicità e unita-

F. DE VITORIA (1490 ca.-1546) F. SUAREZ (1548-1617) E. STEIN (1891-1942) J. MARITAIN (1882-1973) E. GILSON (1884-1978)

rietà. Collocando la metafisica dell’ente su questa base concettuale, Tommaso ne garantisce l’unità di significato, a partire dal fatto che tutti gli enti sono atto d’essere, illimitato per quanto riguarda Dio (la cui essenza è perciò l’essere stesso nella sua assoluta realtà, identità perfetta di essenza ed esistenza), limitato dall’essenza per quanto concerne tutti gli altri enti. Questi ultimi risulteranno disposti secondo un ordine gerarchico-causale, stabilito in proporzione della propria essenza (l’atto d’essere è invece comune): si andrà quindi dall’accidente alla sostanza materiale, a quella spirituale. Al culmine si trova Dio, Atto puro d’essere, causa dell’atto d’essere degli altri enti, che lo ricevono in proporzione alla propria essenza. Ciò che i cristiani chiamano creazione, è appunto l’atto con cui Dio causa gli esseri particolari, attribuendo alle essenze l’attualità determinata e concreta dell’esistere, e ciò perché egli possiede in sé tutte le forme intelligibili e perciò conosce in sé tutte le forme che si individueranno più tardi nella realtà. La creazione, riguardante tutto l’essere, non potrà essere perciò se non ex nihilo (si esclude sia una materia pura sia un mondo d’idee preesistenti all’atto creatore di Dio), assoluta e immediata, derivante solo dalla sua libera e pura volontà. Su questa base l’essere di Dio e l’essere delle cose sono posti in rapporto analogico (se vi fosse univocità si cadrebbe nel panteismo, concependo la realtà come espressione dell’essenza divina), salvaguardando in tal modo sia la distinzione tra creatore e creatura sia il loro nesso comunicativo: questa dottrina dell’analogia entis consente così a Tommaso di fondare la possibilità di una teologia razionale (o naturale, culmine e conclusione della filosofia), risalendo dall’ordine creato al principio creatore. Rispetto a quella “sacra” (o “rivelata”) essa potrà non certo penetrare nel mistero del soprannaturale (del

Tommaso d'Aquino

tutto inaccessibile alla mente umana), ma renderà palese l’accordo tra ragione e fede, in particolare dimostrando di quest’ultima alcuni “preamboli”. Poiché il presupposto di ogni credenza religiosa è l’esistenza di Dio, su questa questione (le altre concernono gli attributi di Dio e l’immortalità dell’anima dell’uomo) si concentrerà tutta l’attenzione di Tommaso, che ne esigerà la dimostrazione su un piano strettamente razionale. Perciò viene respinto l’argomento a priori di ➔ Anselmo (in quanto ammette un indebito passaggio dall’ordine del pensiero a quello dell’essere e postula un’evidenza che il nostro pensiero non possiede), orientandosi a cercare Dio attraverso lo “specchio” delle creature, nel cui essere si riflette la “similitudine” di quello divino. Ciò significa che sarà possibile una dimostrazione “quia”, che procederà dagli effetti (gli enti sensibili) alla causa (Dio) secondo “cinque vie” (tante ne enumera la Summa theologiae, ma altre ne vengono fornite in testi diversi: ex causa, ex motu, ex contingentia mundi, ex gradibus perfectionum, ex finibus) che consentiranno di individuare Dio, esistente come causa prima, primo motore, principio necessario, ente dotato di ogni perfezione, mente ordinatrice. Naturalmente queste prove nulla dicono dell’essenza di Dio (la stessa necessità della prova non è quella per cui Dio esiste in se stesso, ma solo che l’effetto non esisterebbe senza la causa), che ci resta ignota (così come restano sostanzialmente impenetrabili dall’intelletto i misteri del cristianesimo: Dio uno e trino, creatore e salvatore, l’incarnazione, la morte e la resurrezione di Cristo) e accessibile solo per via “negativa” (sappiamo ciò che non è, non ciò che è) e “analogica” (ciò che dico positivamente di lui, devo dirlo in modo eminente e trascendente): per questo i limiti della ragione umana toccati nel corso di questo processo investigativo aprono al desiderio di possedere quell’evidenza di cui l’uomo manca “in statu viatoris” e che possiederà nella visio beatifica, ora anticipata dalla fede. Resta il fatto (in verità si tratta di un assunto) che l’universo è intellegibile (se venisse meno il principio assoluto trascendente, anche il mondo diverrebbe un enigma inesplicabile): creato da un atto libero di Dio, esso è un sistema che ne riflette la sapienza e la luce razionale, mentre la sua imperfezione è una deficienza fondamentale, espressione del limite inevitabile che lo distingue dal creatore. Al suo interno, nel quadro di un ordine gerarchico che ha il suo culmine negli angeli per scendere fino agli esseri corporei e alle

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forme più basse della realtà, un posto particolare è occupato dall’uomo, che con l’anima partecipa della realtà intellegibile mentre con il corpo è integrato nell’ordine materiale. Ma poiché corpo e anima formano un composto sostanziale inscindibile (secondo Tommaso, che su questo punto polemizza con le concezioni ilemorfiche, ciò non collide con l’ammissione dell’immortalità dell’anima, che è principio incorporeo capace di sussistere, sia pure solo contingentemente, anche quando il corpo sia distrutto, mentre per fede sappiamo, con la resurrezione dei morti, che Dio non l’annichilerà), anche la sua conoscenza è condizionata da un’origine sensibile e non può sollevarsi direttamente alla conoscenza intellegibile ma deve muovere sempre dall’esperienza per poter astrarre da essa le specie universali. Dal presupposto che le capacità operative siano distinte l’una dall’altra dagli atti e questi ultimi dai rispettivi oggetti, Tommaso concepisce il rapporto tra conoscenza sensibile e intellettiva in termini di proporzionalità e trascendimento: le specie immateriali non sono intelligibili in quanto legate a un’origine empirica, ma possono divenire tali ove siano liberate dai loro caratteri sensibili e contingenti (dunque gli oggetti dei sensi sono in potenza intelligibili, per cui sensibile in atto e intellegibile in potenza coincidono): questa funzione spetta all’intelletto agente, che astrae le species universali illuminandole con la sua luce e muovendo l’intelletto possibile al proprio atto. Contro ➔ Averroè e gli altri pensatori arabi (nonché i loro seguaci nella facoltà delle Arti, come Sigieri di Brabante) Tommaso evidenzia “l’unità dell’intelletto” nella sua connotazione individuale, che si dice agente in quanto è capacità di far divenire intellegibile in atto l’intellegibile in potenza, e possibile in quanto sollecita l’attitudine, presente nella stessa anima razionale, a ricevere e a far proprie le species. L’uomo però non è solo intelletto, ma anche volontà il cui movente non può essere che il raggiungimento del fine che gli permetterà di essere felice (il bene): essa è perciò libera di autodeterminarsi scegliendo in piena autonomia se compiere o meno un certo atto. Ovviamente Tommaso distingue tra la felicità che l’uomo può conseguire entro i limiti della vita naturale e quella soprannaturale: poiché la seconda supera infinitamente le capacità e le possibilità di rappresentazione intellettiva dell’uomo, egli è costretto a muoversi tra beni particolari cercando di connetterli a quello supremo e di realizzare su questa terra un giusto

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ordine razionale. In questo senso l’etica è la disciplina che svolge il compito di indicarci il nostro giusto fine terreno e il modo retto del nostro comportamento: essa ci farà comprendere come il più alto fine mondano sia il sapere, così come la suprema virtù è la ricerca della verità, premessa per la sua contemplazione de visu dopo la morte e fruibile con l’esercizio di altre virtù (quelle teologali) i cui principi sono infusi in noi da Dio stesso. Tommaso riconosce con Aristotele la naturale socialità dell’uomo: essa sfocia nella società politica come sviluppo di quella naturale, sulla base della libertà personale. Da essa deriva l’autorità (cioè l’istanza del bene comune, identificabile con la giustizia) che viene esercitata attraverso la legge. La bontà di una società è giudicabile sulla base di un criterio etico: non connota dunque il tipo di regime (monarchia, aristocrazia, democrazia), ma valuta invece il fine per cui si opera (dunque è necessario che non vi sia degenerazione in forme di tirannide). La legittimità per l’esercizio del potere deriva certo da Dio, ma in modo mediato attraverso il consenso popolare (è esclusa quindi la teocrazia): come sul piano etico anche su quello politico Tommaso riconosce sia la distinzione sia l’autonomia degli ambiti. Ciò significa che se da un lato i due poteri, religioso e politico, restano distinti, dall’altro (senza peraltro che da ciò si possa ricavare una gerarchia istituzionale) il secondo resta subordinato al primo («nella legge di Cristo i re sono soggetti ai sacer-

Troeltsch

doti») come il fine della vita soprannaturale è il valore massimo per l’uomo. Troeltsch, Ernst Filosofo e storico tedesco (Augusta 1865 - Berlino 1923), professore a Berlino. Interessato al rapporto tra valori (in particolare quelli legati alla religione) e storia, da una posizione ispirata al romanticismo e all’idealismo (come teologo protestante, fu portato a considerare la pienezza dello spirito nello sviluppo storico) passò a una vicina alla scuola neokantiana del Baden (L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni del 1902, Una moderna filosofia della storia del 1903), nella costante preoccupazione di superare, con l’attingimento di norme trascendenti, lo storicismo e soprattutto il relativismo che da esso sembrava inevitabilmente derivare. Sensibile alla concreta individualità del fatto storico, si incontrò successivamente con Weber nella doppia esigenza di studiare i rapporti tra cristianesimo e mondo moderno e in quella di determinare il condizionamento dei fenomeni culturali da parte di quelli economico-sociali (Le dottrine sociali della Chiesa e dei gruppi cristiani del 1912). Alla fine del suo percorso (Lo storicismo e i suoi problemi del 1922) tentò di concepire la fondazioni dei valori non su astratti sistemi di pensiero, ma su una “logica materiale della storia”, che considerasse, nella sintesi tra riflessione filosofica e ricerca empirica, la vita nella sua concretezza e i fenomeni individuali come pregni di senso.

U Ugo di San Vittore Filosofo medievale (1096 ca.-1141), è uno dei più importanti maestri della ➔ Scuola di San Vittore, autore di testi filosofici e mistici (De sacramentis christianae fidei). L’Abbazia di San Vittore, alle porte di Parigi, ospitò nel XII secolo la scuola abbaziale più rinomata del tempo. Essa intese indicare una via mediana tra un sapere puramente laico e mondano e una sapienza di derivazione soprannaturale, tra la ricerca razionale e la tensione al superamento dell’orizzonte profano per l’innalzamento dell’anima alla dimensione dell’eterno e dell’assoluto. Diversamente che a Chartres, vengono maggiormente curati gli studia humanitatis, non in quanto validi in sé, ma come mezzi utili per un tipo di vita che, pur trascorsa nel mondo, sia orientata verso la contemplazione mistica di Dio quale fonte di senso e sua destinazione ultima. La mistica di Ugo di San Vittore, come quella degli altri “vittoriani”, è molto diversa da quella, ascetica e severa, di altre correnti contemporanee: cresciuta in un ambiente

dolce e sensuale (quello della poesia cortese, raffinato nelle forme e gentile nelle modalità espressive), essa presenta tratti più speculativi, toni più caldi e un più ampio spazio concesso ai moti affettivi, che sono sublimati verso una meta più pura e profonda. Unamuno, Miguel de Filosofo spagnolo (Bilbao 1864 - Salamanca 1936); fu anche scrittore e poeta. Tra le opere filosofiche vanno segnalate Vita di Don Chisciotte e Sancho (1905) e Del sentimento tragico della vita (1913), in cui propone una versione personale della tradizione pragmatista, molto attiva nella cultura americana ed europea in quegli anni: «Vivere come se il sogno di Don Chisciotte fosse realtà», cioè considerare l’esperienza e l’azione come la fonte della verità. Unamuno sottolinea, contro la tradizione idealista e razionalista, il valore radicale dell’individuo e della sua esperienza (in questo riprendendo posizioni di ➔ Pascal e di ➔ Kierkegaard).

V Vailati, Giovanni Matematico, epistemologo e filosofo italiano (Crema 1863 - Roma 1909), assistente di ➔ Peano, maggior rappresentante del pragmatismo nel nostro Paese. Pur aderendo al gruppo del Leonardo, ne respinse gli aspetti irrazionalistici di ispirazione jamesiana (seguiti da Papini e Prezzolini) per formulare un orientamento (sulla scorta di ➔ Peirce e precorrendo ➔ Dewey) operativistico. Convinto sostenitore dell’oggettività della scienza, tese (in una serie di Scritti raccolti postumi nel 1911) a definire il valore logico della sua conoscenza mediante un’opportuna metodologia che assicurasse la verifica delle sue asserzioni. Costituita sulla base di una rigorosa analisi del linguaggio, Vailati evidenziò, accanto a quella induttiva, la componente deduttiva di tale metodologia: il criterio di validità di qualsiasi proposizione è la sua conseguenza pratica, intesa come riferimento al futuro, alla sua attuabilità (lungo questo percorso di perenne approssimazione si giustifica l’errore e l’insuccesso). Secondo Vailati, la distinzione tra scienze morali e scienze fisiche viene a cadere in riferimento alla normale uniformità dei fenomeni studiati: perciò il carattere previsionale dell’azione umana consentirebbe (confortati in ciò dello studio della storia della scienza, rivalutata e raccomandata da Vailati anche in sede didattica) di aver fiducia nell’umanità e nel suo futuro. Valdes, Juan de Riformatore spagnolo (Cuenca 1490 ca. - Napoli 1541). Fin da giovane frequentò il gruppo intelletuale degli alumbrados (setta mistica che si definiva degli “illuminati dalle tenebre di Satana”), poi verso il 1527 iniziò un fitto epistolario con Erasmo, col quale condivise l’atteggiamento critico contro gli elementi formali estranei al vero sentimento cristiano. Fu osteggiato in Spagna dopo la pubblicazione del Dialogo della dottrina cristiana (1529, nel quale auspicava per tutti gli uomini, e non solo per i monaci, una vita che si identificasse coi dettami del vero cristianesimo) per cui dovette trovare rifugio a Napoli, dove fu consigliere spirituale della giovane Giulia Gonzaga, per la quale scrisse Alphabeto christiano (1536).

La speculazione di Valdes è profondamente incentrata sulla figura di Cristo ed è proprio l’intimo e profondo legame con Lui che dà valore alle pratiche religiose, togliendo loro il ruolo esteriore e formale nel quale erano state relegate dalla Chiesa. Le sue idee furono accolte calorosamente da alcuni seguaci (tra i quali Ochino e Vermigli, che si allontanarono in seguito dal cattolicesimo) ma invise all’autorità ecclesiastica, senza tuttavia incorrere in alcuna palese condanna. Valdesi Seguaci del mercante riformatore lionese Pietro Valdo, vissuto tra il 1140 e il 1217, che professarono povertà e non violenza con l’intento specifico di ricondurre il cristianesimo alle origini e sollecitare la Chiesa a seguire il messaggio evangelico. L’opposizione dell’ufficialità cristiana costrinse i valdesi a limitare la loro presenza in piccole zone dell’Italia settentrionale e a riunirsi in “piccole chiese” autonome da Roma con gruppi di predicatori (barba) itineranti dediti alla diffusione della parola di Cristo (anche le donne potevano essere predicatori). Con la Riforma, i valdesi aderirono al protestantesimo, fondando una nuova comunità religiosa (1532, sinodo di Chanforan). Dopo aver subito persecuzioni per circa due secoli, riuscirono a ottenere nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia il riconoscimento ufficiale, atto che permise ai valdesi il “glorioso rimpatrio” nelle valli piemontesi, dove tuttora risiedono. Attualmente, pur risentendo della dottrina calvinista, non accettano di questa l’assoluta predestinazione e ritengono che Cristo abbia operato e sia morto per tutti. La loro autorità si esprime attraverso un sinodo convocato annualmente, intervallato dalla riunione di laici ed ecclesiastici nella “Tavola”. Valla, Lorenzo Filosofo, filologo e umanista italiano (Roma 1405-1457). È considerato una delle maggiori figure della nuova cultura dell’umanesimo e nelle sue opere vengono affrontati numerosi temi anche di argomento religioso, improntati al recupero del cristianesimo delle origini. Nel De libero arbitrio (1439) Valla sostiene che non vi è contrapposizione tra liber-

Vanini

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tà dell’uomo e volontà divina (prescienza) e che la filosofia, non potendo addentrarsi nella spiegazione della salvezza, deve lasciare che sia la fede a guidare il cristiano. Nel De voluptate (1431), Valla tenta una conciliazione tra cristianesimo ed epicureismo e polemizza contro lo stoicismo (in realtà contro l’ascetismo medievale), di cui ritiene inutile e sterile la ricerca della virtù. Al contrario, l’uomo deve tendere al piacere come manifestazione di spontanea adesione e pienezza di quella vita, che Dio ha creato e che renderà completamente felice nella visione paradisiaca. Del 1444 è l’opera Elegantiae linguae latinae, nella quale Valla elegge la lingua di Cicerone a massimo modello di perfezione espressiva e trova nella filologia un valido stumento di ricerca e conoscenza. Ed è la filologia, infatti, che porta Valla a denunciare nel De falso credita et ementita Constantini donatione l’inautenticità del documento sul quale la Chiesa aveva fondato il potere temporale, dando così inizio alla sua decadenza morale e spirituale. Vanini, Giulio Cesare Filosofo italiano (Lecce 1585 - Tolosa 1619), tra i maggiori esponenti del naturalismo rinascimentale, arso sul rogo come eretico. Nelle sue opere (Anphiteatrum aeternae providentiae e De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis) si fa sostenitore (sulla scia dell’insegnamento di Pomponazzi e Cardano e sulla base di un averroismo di fondo) di una posizione assai critica verso le religioni rivelate, propugnando una religione razionale e naturale che, se nega le verità tradizionali (la creazione del mondo, l’immortalità dell’anima ecc.) asserisce l’universalità dei valori morali e la necessità della conoscenza (e il conseguente adeguamento) delle forze e degli elementi della Natura cui ogni fenomeno è ricondotto. Vattimo, Gianni Filosofo italiano (Torino 1936), professore nell’università della sua città. Studioso di Schleiermacher (Schleiermacher filosofo dell’interpretazione, 1968), Heidegger (Essere, storia e linguaggio in Heidegger, 1963) e Nietzsche (Il soggetto e la maschera, 1974), ha orientato il suo pensiero (sulla scorta dei suoi maestri ➔ Pareyson e ➔ Gadamer) in senso ermeneutico, intendendo l’essere come linguaggio e la verità come patrimonio culturale che rende possibile, con un’adeguata precomprensione, l’orientamento nel mondo. Questi presupposti lo hanno portato a formulare un paradigma teorico, Il pensiero debole (1983), che consi-

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ste nella rinuncia al bisogno di verità oggettive e nella dissoluzione di ogni fondamento ontologico assoluto in nome di una prospettiva di emancipazione dalla metafisica quale condizione non di caduta nel nichilismo pessimistico e rinunciatario, ma viatico per tentare di incamminarsi verso nuove forme di pensiero e di condotta. Di qui egli è successivamente pervenuto (in La fine della modernità del 1985, La società trasparente del 1989, Oltre l’interpretazione del 1994) a una concezione della storia e della modernità fortemente caratterizzata dalla secolarizzazione, le cui fondamenta sono da rintracciare nello stesso cristianesimo e nel suo evento centrale (l’incarnazione e la dottrina della “kenosi” – svuotamento): ciò per rispondere alle esigenze della società postmoderna, pluralista e frammentata, percorsa da istanze spesso contrapposte e inconciliabili, ma fortemente bisognosa di una forma di razionalità e di etica in grado di istituire un clima umano, improntato alla dialogicità e alla tolleranza e tale da promuovere la responsabilità nei rapporti intersoggettivi pur nell’assenza di assoluti di carattere religioso o politico. Vera, Augusto Filosofo italiano (Terni 1813 - Napoli 1885), professore a Napoli. Studiò intensamente Hegel (di cui tradusse e commentò le principali opere, contribuendo alla sua diffusione nel nostro Paese e in Francia), sviluppandone alcune questioni e sostenendone, contrariamente a Spaventa, una versione ontologistica. Insistette dunque sull’autonomia dell’idea di fronte allo spirito umano: in tal modo, essendo la possibilità di realizzazione e il modello trascendente che informa la storia, gli individui manterrebbero di fronte a essa la loro libertà. Dedicò attenzione al problema della natura, mentre, riguardo al rapporto tra filosofia e religione, si collocò su posizioni di “destra” (pur riconoscendo al cristianesimo il valore di religione assoluta). La sua lezione, combattuta da Gentile, fu seguita da altri (Jaia, Maturi, Martinetti) che diedero vita a una corrente autonoma nel panorama specultivo neoidealistico. Verri, Pietro Filosofo ed economista italiano (Milano 1728-1797). Nella Lombardia illuminista, parte dell’impero austriaco all’epoca del dispotismo illuminato, Verri fu funzionario pubblico e riformatore. Tra il 1764 e il 1766 diresse col fratello Alessandro la rivista Il Caffè, che divenne lo strumento del riformismo lombardo, espressio-

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ne del gruppo di intellettuali (tra cui Cesare Beccaria) raccolti intorno alla cosiddetta Società dei Pugni. È autore di diverse opere economiche, giuridiche e filosofiche, tra cui il celebre saggio Osservazioni sulla tortura del 1777. Vico, Gianbattista Filosofo italiano (Napoli 1668-1744). Di famiglia modesta, fece studi irregolari, in gran parte per conto proprio, riuscendo a laurearsi in giurisprudenza. Dopo aver fatto per nove anni il precettore presso una nobile famiglia a Vatolla (durante i quali potè dedicarsi completamente agli studi), ottenuta la cattedra di eloquenza e retorica, pronunzia una serie di Orazioni (la più no-

Illuminismo

Vico

ta è De nostri temporis studiorum ratione del 1708) in occasione dell’inaugurazione degli anni accademici, e lavora al De antiquissima italorum sapientia (1710). Oppresso da preoccupazioni economiche per il mantenimento della numerosa famiglia, cercò (senza successo) di concorrere per una più remunerativa cattedra di diritto: tra molte difficoltà, portò avanti la stesura de La scienza nuova, che pubblicò nel 1725 e da cui si attendeva ampi riconoscimenti per i suoi meriti. La delusione per la freddezza con cui venne accolta, lo indusse a una seconda redazione (1730), ulteriormente rielaborata, rivista e corretta fino alla forma definitiva, che vide la luce dopo la sua morte, avvenuta

Un nuovo modello di razionalismo

IN FRANCIA Parigi

MORELLY (sec. XVIII) BAYLE (1647-1700) LA METTRIE (1709-1751) MONTESQUIEU (1689-1755) FONTENELLE (1657-1757) MAUPERTUIS (1698-1759) HELVÉTIUS (1715-1771) QUESNAY (1694-1774) VOLTAIRE (1694-1778) ROUSSEAU (1712-1778) CONDILLAC (1715-1780) D’ALEMBERT (1717-1783) DIDEROT (1713-1784) MABLY (1709-1785) BUFFON (1707-1788) HOLBACH (1723-1789) CONDORCET (1743-1794)

IN ITALIA Milano Napoli

VICO (1668-1744) GIANNONE (1676-1748) GENOVESI (1713-1769) BECCARIA (1738-1794) VERRI (1728-1797)

IN INGHILTERRA Londra

TOLAND (1670-1722) COLLINS (1676-1729) MANDEVILLE (1670-1733) HUTCHESON (1694-1746) HUME (1711-1776) SMITH (1723-1790) REID (1710-1796) MALTHUS (1766-1834)

IN GERMANIA Berlino

BAUMGARTEN (1714-1762) REIMARUS (1694-1768) CRUSIUS (1715-1775) LESSING (1729-1781) MENDELSSHON (1729-1786) HEMSTERHUIS (1721-1790) KANT (1724-1804)

Vico

dopo un lungo periodo segnato dalle malattie e dalla decadenza senile. Influenzato, come da sua esplicita dichiarazione, soprattutto da Platone, Tacito, Bacone, Grozio, Vico vuole delineare, contro lo scetticismo libertino (in particolare Bayle) una concezione della storia funzionale alla difesa della tradizione religiosa, cogliendo il disegno provvidenziale sotteso allo sviluppo delle vicende del mondo umano attraverso lo studio delle sue leggi. Benché imposte da Dio, queste sono rilevabili mediante la messa a punto di strumenti metodologici ed epistemologici adeguati (in sintonia con quelli impiegati nella sfera naturale), necessari per elevare al rango di scienza l’indagine sulle “umane cose civili”. Per un verso Vico appare però in posizione controcorrente rispetto allo spirito della sua epoca: nell’orazione del 1708 egli critica l’eccessiva presenza nei curricoli scolastici, secondo lo spirito cartesiano, delle discipline matematiche, difendendo, contro l’aridità e la rigidezza del metodo geometrico, il valore delle discipline che favoriscono lo sviluppo della fantasia e dell’immaginazione per la formazione della mente, nonché auspicando una ripresa dello studio delle materie umanistiche (diritto, retorica, eloquenza) come le più utili all’uomo e alla sua vita sociale. La critica al cartesianesimo è ripresa anche nella prima opera teoretica, in cui Vico stabilisce (come desunto dall’“antichissima sapienza italica”, ma in realtà presente in autori moderni come Gassendi, Hobbes, Bacone) il proprio criterio di verità: se spiegare una cosa è conoscerne la causa, la sua pienezza si ha quando si evidenzia il procedimento causale che consente di produrlo o riprodurlo. “Verum ipsum factum”: si spiega nella misura in cui si fa, per cui in questo senso la verità è “conformità della mente con le cose”. Di qui l’attribuzione a Dio dell’onniscienza e in particolare il sapere l’intima costituzione del mondo che egli ha creato, mentre il campo umano è circoscritto alla storia (bandita da Cartesio come inutile e incerta). Essa è nello stesso tempo scienza (come «arte critica [...] che ne dia le regole di sceverare il vero in tutte le storie» dei popoli) e filosofia (poiché ricerca nelle ragioni ultime una legge assoluta del divenire umano). Infatti, se in ultima istanza la storia è prodotto di Dio, che provvidenzialmente detta le leggi generali nell’ordine eterno delle quali tutto si deve svolgere, «questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini»: la libera azione umana si intreccia dunque con l’intervento di Dio, come l’opera del fabbro con quella dell’architetto. Ciò significa che

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Vico

la scienza storica si presenta insieme come certezza e verità: da un lato essa deve osservare i fatti e accertarli (compito questo della scienza che, esaminando i documenti del passato, giunge a cogliere, mediante l’analisi etimologica, le notizie e i dati informativi rilevanti per la conoscenza delle civiltà che in essi si esprimono); dall’altro questo materiale deve essere spiegato mediante cause rese a loro volta perspicue alla luce delle leggi della Provvidenza (questo il fine della filosofia che «contempla la ragione onde viene la scienza del vero», nella sua dimensione universale e necessaria). Emerge così «la storia ideale eterna sopra la quale corron in ogni tempo le storie di tutte le nazioni», mentre di queste «se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (in quanto contemporaneamente produttrice e prodotto della storia). Poiché lo schema della sua evoluzione individuale prevede una scansione nelle tre facoltà del senso, della fantasia e della ragione (per cui gli uomini prima «sentono senza avvertire, di poi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»), il mondo storico seguirà una linea di sviluppo del tutto corrispondente (risulteranno così in successione l’“età degli dei”, “degli eroi”, “degli uomini”), che ne potrà spiegare le varie espressioni (linguaggio, mentalità, arte, disposizioni giuridiche, istituzioni ecc.). L’esistenza e la funzione della Provvidenza sono così provate, in quanto non risulterebbe giustificabile (troppo ampio il divario tra fini e mezzi) come “bestioni” preumani tutto senso e passione abbiano potuto dare origine alla società e alla civiltà (e perciò la scienza storica non può non concludere in una «teologia civile ragionata della provvidenza divina»): nella misura in cui gli uomini venerano e temono un essere superiore, riescono a superare gli impulsi, a moralizzarsi e a incivilirsi. Dalla coincidenza di religione e civiltà deriva che la decadenza e lo scivolamento in una nuova barbarie è dovuto all’abbandono di Dio da parte dell’uomo, la cui mente, una volta che si sia tutta dispiegata nella riflessione, abusa della libertà fino a chiudersi in se stessa, avviando così un moto regressivo e dissolutore (poiché questo è un ritmo ciclico, Vico può parlare di “corsi e ricorsi storici”). La parte quantitativamente più rilevante della Scienza nuova consiste nella dimostrazione di queste tesi e conseguentemente nelle lunghe descrizioni dei caratteri delle singole età. In particolare, Vico ritiene che una storiografia scientifica debba essere finalmente in gra-

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do di mettere in chiaro quel mondo primitivo che rimane nascosto nell’inaccessibilità dei documenti e delle testimonianze: il suo sforzo maggiore è quindi profuso nell’analisi dell’età degli dei. In essa gli uomini, dotati di “corpolentissima” fantasia che impronta di sé tutti gli aspetti della vita sociale, si rappresentarono (in conformità con la loro ridotta esperienza e debole raziocinio) il mondo popolato di esseri animati, originando una teologia (o metafisica) politeista. Fondarono inoltre un diritto, nella convinzione che tutto fosse proprietà degli dei (si hanno costituzioni teocratiche che si esprimono nelle divinazioni, nei matrimoni e nelle sepolture); si espressero in una lingua fatta di gesti e oggetti dotati di immediata vicinanza con le idee e le emozioni che si volevano comunicare (di qui i miti primitivi e i primi poeti, che furono sacerdoti e capi). All’età degli dei seguì quella degli eroi, coloro che per la loro forza erano riusciti a imporsi e a sottomettere il resto della società: instaurarono un regime aristocratico che, pur fondato sul diritto del più forte, era ancora fortemente intriso di elementi sacrali (gli eroi sono di discendenza divina, il timore della vendetta degli dei rappresenta un freno per la tracotanza e la violenza). Infine l’età degli uomini, è dominata dalla ragione: in essa il comportamento è improntato al calcolo razionale, al senso del dovere, alla subordinazione a una legge che si sa di fondamento umano. Il potere politico è accessibile a tutti, costituito su criteri di merito e di censo (e perciò stimolatore di energie), in questo clima fiorisce la cultura. Tuttavia, l’uso libero della ragione finisce col tempo per dare luogo ai fenomeni degenerativi dello scetticismo e del relativismo etico. E quando i rapporti umani non sono più retti dal senso del giusto e del vero, allora viene lasciato libero campo all’edonismo e all’individualismo egoistico, che distruggono il tessuto connettivo del corpo sociale fino a condurlo all’anarchia. I rimedi a tale condizioni sono o un monarca (che stringa con energia nelle sue mani la cosa pubblica) o la subordinazione a un popolo più virtuoso: e quando anche questi dovessero o fallire o non potersi verificare, allora la «Provvidenza a questo lor estremo male adopera questo estremo rimedio»: il ritorno alla barbarie come premessa per un nuovo ricorso storico. In questo schema i risultati più importanti sono quelli relativi alla “sapienza poetica” propria della spontaneità sensitivo-fantastica del mondo primitivo (dei “bestioni” prima e degli “eroi” poi). Tale denominazione evidenzia che il vero vi è presente ma in una

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forma diversa da quella propria della ragione, come avvolto nell’involucro dell’espressione immaginifica. I miti non sono invenzioni favolistiche o semplici travestimenti, ma espressioni del “senso comune”, di un vero spontaneo e irriflesso, dunque “vere e severe istorie”, i cui significati (messi in luce con l’aiuto della filologia) sono riscontrabili sul piano fisico, o umano naturale, o umano civile, o metafisico: dunque sono testimonianze e documenti delle età in cui sono nati, così come la verità in essi contenuta fonda l’autorità attraverso le sue espressioni sociali (leggi, costumi, consuetudini ecc.). In termini più ampi, la poesia è attività fantastica (perciò la sua forma più alta è data dai poemi di Omero, in cui si riflette tutta l’età “barbara” che li ha generati, e dalla Commedia di Dante) con un suo proprio parlare che nasce dal bisogno della mente di esprimersi secondo i modi e le possibilità del suo livello evolutivo (di qui la sostituzione dell’astratto con il concreto, la ricchezza delle metafore e delle similitudini ecc.). Misconosciuto nel suo secolo, il pensiero di Vico è stato valorizzato dalla cultura romantica e dal neoidealismo italiano: e se la sua influenza è stata forte soprattutto in campo estetico, oggi interessa gli studiosi di altri campi del sapere dalla linguistica all’antropologia culturale, alla sociologia. Vitoria, Francisco de Teologo e filosofo del diritto spagnolo (Vitoria 1492 - Salamanca 1546), domenicano, professore a Valladolid e Salamanca. È famoso soprattutto per quelle lezioni straordinarie (Relectiones theologicae XII) che trattavano, da un punto di vista tomista, questioni particolarmente scottanti, specie quelle concernenti i problemi suscitati dalla scoperta e dalla conquista del nuovo mondo (De Indis recenter inventis e De iure belli). Partendo dall’idea dell’umanità (totus orbis) come comunità dei popoli fondata nel diritto naturale e legata dal vincolo della natura comune, ne deriva che lo ius gentium è parte del diritto naturale, con il conseguente riconoscimento della personalità giuridico-internazionale anche per le comunità politiche non cristiane. Tuttavia de Vitoria riconosceva anche il diritto di libera comunicazione, al quale non ci si può sottrarre senza giusta causa e che dunque (dato che il bene comune prevale su quello dei suoi membri) può imporsi con la forza. In tal modo, il rapporto con gli indigeni era legittimato sul piano della protezione e della tutela ai fini della civilizzazione e dell’evangelizzazione, non su quello della conquista violenta e della co-

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ercizione violenta. Quanto alla guerra, essa è giusta a precise condizioni (causa giusta: ingiuria grave non riparata; autorità legittima: i principi agiscono come rappresentanti dell’orbe; retta intenzione: essi operano come i giudici che portano a termine un’esecuzione), che la fanno configurare come necessaria per reprimere l’ingiustizia tra i popoli. Per queste teorie il de Vitoria è considerato tra i fondatori del diritto internazionale. Voegelin, Eric Filosofo della politica tedesco (Colonia 1901 - Palo Alto 1985). Dopo aver insegnato a Vienna, dal 1938 fu in varie università degli Stati Uniti dove era emigrato; al ritorno insegnò a Monaco, per poi tornare nel 1969 negli Stati Uniti a Stanford. Il suo pensiero si focalizza sui concetti di ordine e disordine che riflettono (come sostenuto in Anamnesis, 1966) nella società e nella storia lo stato della coscienza. Per questo già in La nuova scienza della politica (1952) egli aveva inteso restaurare tale disciplina, rifacendosi ai classici greci (Platone e Aristotele), come scienza dell’ordine; e poiché esso è espresso dalla trascendenza come base di quello politico, la filosofia della politica si configura come scienza della coscienza (e della razionalità) che si apre alla verità divina per comprendere la propria umanità e il senso della propria esistenza. Ne consegue una teoria della storia fondata sulle esperienze nelle quali si rivela all’uomo il suo legame con il divino: partendo dal cristianesimo, che ha evidenziato come l’uomo comprenda se stesso nella differenziazione dalla struttura del cosmo e dalla propria posizione in esso, si mostra come a partire dal XVII secolo, egli si sia sempre più chiuso al soprannaturale per tentare di creare un uomo nuovo e un mondo nuovo. È così cominciato un processo di decadenza spirituale che, in un crescendo di irrazionalità, è sfociato nei moderni fenomeni totalitari (comunismo e nazismo). Questi ultimi sarebbero una versione adattata alla condizione sociale attuale dell’antica “gnosi”: l’analogia tra questa e i movimenti politici di massa del XX secolo sarebbe da individuare nell’esigenza di disconnessione e trascendimento del mondo (i mezzi sono diversi: dalla tecnica all’eugenetica, dall’introspezione alla cultura), per creare un ordine politico che instauri una sorta di paradiso in terra, in modo da chiudere in uno schema intramondano l’escatologia. In fondo il totalitarismo è una forma di teocrazia, di divinizzazione di un ordine politico nuovo, di una nuova forma d’essere stabilita (fino a prati-

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care un’ideologia dell’uccidere) da un’élite, che si mostra come alternativa al presente stato corrotto del mondo. Questo disegno si è ulteriormente precisato e sviluppato in Ordine e storia (1956-1987, in cinque volumi l’ultimo dei quali postumo) che si propone di delineare, in un quadro di filosofia della storia e della coscienza comprensivo di tutte le grandi civiltà, i fondamenti spirituali della nostra cultura occidentale. Si tratta dunque di una storia dello spirito che parte dalle forme di ordine cosmologico nelle antiche civiltà (Mesopotamia, Egitto, Israele) per passare al mondo della polis, ai grandi sistemi filosofici, alla comparsa di un’umanità ecumenica nell’età ellenistica e romana fino alla moderna civiltà europea. Di essa Voegelin invita a riscoprire i fondamenti, restaurando i principi della tradizione greca e cristiana. Voltaire Vero nome François-Marie Arouet. Filosofo francese (Parigi 1694-1778), tra i massimi esponenti dell’illuminismo. Educato dai gesuiti, acquistò presto fama di spirito mordace e brillante tanto che, per l’indipendenza dei suoi giudizi e l’irrequietezza del comportameno, fu rinchiuso due volte alla Bastiglia. Recatosi in Inghilterra, ebbe numerosi contatti e rapporti da cui ricavò numerosi stimoli di riflessione che gli ispirarono le celebri Lettere filosofiche (o Lettere inglesi, 1734). Tornato in Francia si stabilì nel castello della marchesa di Chatelet, che lo protesse e gli diede la possibilità di dedicarsi all’attività letteraria. Alla sua morte, passò alla corte di Federico II a Berlino dove rimase tre anni. Dopo la rottura con il sovrano, si stabilì a Ferney, al confine tra Francia e Svizzera, dove trascorse il resto della sua vita. Recatosi a Parigi, fu accolto in modo trionfale: vi morì pochi mesi dopo e fu sepolto nel Pantheon. La sua vasta produzione spazia dal teatro (Edipo del 1718, Bruto del 1730, La morte di Cesare del 1733 ecc.), alla storiografia (Storia di Carlo XII del 1731, Il secolo di Luigi XIV del 1753, Storia della Russia sotto Pietro il Grande del 1759 in cui, opponendosi al provvidenzialismo di Bossuet, evidenziò la funzione civilizzatrice delle scienze e delle arti per i mutamenti dei costumi e dello spirito umano), al racconto (Il mondo come va del 1746, Zadig del 1747, Micromega del 1752, Candido del 1759, L’ingenuo del 1767 ecc., dove aveva modo di mettere in ridicolo con spirito critico e corrosivo le dottrine altrui), al saggio (Trattato di metafisica del 1734, Elementi della filosofia di Newton del 1737, Trattato

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sulla tolleranza del 1763, Il filosofo ignorante del 1761, Dizionario filosofico del 1764 ecc.). Voltaire non elaborò un proprio sistema filosofico: l’originalità e l’efficacia storica della sua opera consistette nel propagandare in una forma letteraria brillante e aggressiva le idee-forza dell’età dei lumi. Infatti egli intese la filosofia come attività militante, mirante a diffondere la conoscenza e a coltivare lo spirito critico in modo da trarre il beneficio maggiore possibile per il progresso dell’umanità, in vista del raggiungimento di una concezione del mondo e di un sistema di vita più conforme alla ragione. Perciò egli profuse tutte le sue energie per combattere il dispotismo, il dogmatismo (che egli identificava non solo nella metafisica scolastica, ma anche nel razionalismo di Cartesio, Malebranche e Leibniz) ma soprattutto il fanatismo, vero e proprio flagello dell’u-

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manità, nonché causa di gran parte dei suoi mali, identificato con la religione positiva (non solo il cristianesimo) quale cumulo di menzogne e assurdità che, strumentalizzate dal potere, portano alle persecuzioni e all’intolleranza (il che però non gli impedì di scrivere pagine virulentemente antiebraiche, dense dei più triti pregiudizi). Di qui deriva da un lato l’entusiasmo per l’empirismo di Newton e Locke, dall’altro l’accoglimento di un deismo puramente razionale e naturale (di cui Voltaire riteneva di trovare conferma nella saggezza di altri popoli, per esempio nel confucianesimo cinese), garante dell’ordine morale del mondo. In questo senso, dietro il suo apparente scetticismo, Voltaire manifesta una forte fede nell’uomo e nella sua perfettibilità (di qui la critica a ➔ Pascal), nel momento in cui si fa strenuo e sincero difensore della sua dignità.

W Wackenroder, Wilhelm Heinrich Letterato e scrittore tedesco (Berlino 1773-1798), tra i fondatori dell’estetica romantica, che egli espresse negli Sfoghi di un monaco amante dell’arte e nelle Fantasie sull’arte (postume). Secondo Wackenroder il senso della vita compenetra, come sentimento di partecipazione di ogni fenomeno a un unico tutto, l’intero universo: l’intuizione estetica possiede un’essenziale qualità religiosa, in quanto da un lato è simbolo dell’universalità dello spirito e dall’altro è veicolo dell’unione del finito con l’infinito. L’uomo deve sviluppare in se stesso la tendenza naturale al bello, ripiegando sull’intimo nucleo della propria essenza, realizzando, nella connessione con Dio, la visione che questo ha delle cose (perciò la suprema realizzazione spirituale coincide con la suprema realizzazione estetica). Wackenroder considerò il medioevo tedesco come l’epoca in cui meglio si era realizzato il suo ideale (i cui canoni riteneva validi anche per il presente): in quest’epoca infatti (ma anche nel Cinquecento, specialmente con Dürer) la natura era apparsa come il libro di Dio, i suoi fenomeni simboli dell’universale, capaci di suscitare al contempo l’immediatezza poetica e l’elevazione religiosa. Weber, Max Sociologo, economista e filosofo tedesco (Erfurt 1864 - Monaco 1920), tra i maggiori intellettuali mitteleuropei a cavallo tra i due secoli. Incominciò la carriera accademica (fu professore a Berlino, Friburgo, Heidelberg) in modo brillante, ma dovette abbandonarla per gravi disturbi nervosi. Guarito, riprese gli studi e fu fondatore e direttore (con Werner Sombart) dell’Archivio per le scienze e la politica sociale, dove pubblicò alcuni fondamentali saggi metodologici (L’oggettività conoscitiva della scienza sociale, Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura). Nel frattempo proseguì le sue vaste ricerche, che daranno vita ai suoi capolavori (pubblicati postumi) Economia e società e Sociologia della religione (in cui verrà inserito il famoso saggio del 1904 su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo). Durante e dopo la guerra si impegnò politi-

camente, facendo parte della commissione che formulò la costituzione della repubblica di Weimar. Negli ultimi anni di vita aveva ripreso l’insegnamento a Vienna e a Monaco, pronunciando due conferenze capitali sulla Scienza come professione e la Politica come professione. Iniziatasi con importanti lavori di storia economica e giuridica, la ricerca di Weber è stata accompagnata da una partecipazione intensa al dibattito sul metodo delle scienze storico-sociali, avviato, in polemica con il positivismo, da ➔ Dilthey. Pur accettandone la distinzione tra lo “spiegare” (proprio delle scienze della natura e mirato al rilevamento del generale) e il “comprendere” (impiegato dalle scienze dello spirito che hanno come oggetto il particolare), egli intende difendere il procedimento ipotetico-esplicativo (e il suo apparato strumentale) come essenziale al comprendere storiografico (altrimenti destinato a dissolversi in un intuizionismo irrazionale e soggettivo). La sua struttura contempla un fondamentale “riferimento al valore” (che non ne intacca la costitutiva “avalutatività”, cioè il divieto per la scienza di esprimere giudizi di valore sui fenomeni studiati) poiché solo mediante esso (la molteplicità dei fenomeni giustifica le diverse angolature d’indagine, inducendo a un confronto fecondo) si può studiare un fenomeno rendendolo intellegibile secondo uno schema coerente ed empiricamente verificabile. Esso si risolve nella costruzione di un suo “tipo ideale”, cioè di un modello astratto (ottenuto selezionando e connettendo alcuni dati che risultano rilevanti dal punto di vista dal quale il ricercatore conduce l’indagine) ma strumento dall’essenziale funzione euristica (perché orientano l’analisi dell’oggetto consentendo comparazioni) ed esplicativa (in quanto congetture teoriche che consentono lo studio e il vaglio dell’oggetto, istituendo plausibili sequenze causali, in attesa di adeguato riscontro empirico), specie in riferimento alla sua genesi e al suo sviluppo (famosa è l’indagine sul rapporto tra condizione economica ed etica religiosa per il sorgere dello spirito capitalistico). Di qui, una riconsiderazione della causalità storica come istituzione (esclusa

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l’esistenza di leggi deterministiche) di rapporti tra fattori mediante l’accentuazione della dipendenza di alcuni da altri in modo ipotetico-probabilistico e aperto alla verifica (per cui l’oggettività nelle scienze storico-sociali non consiste nell’individuazione di tutte le cause, ma di alcune di esse, producendo una spiegazione condizionale, verificata quindi solo a un certo grado di adeguatezza). Su queste premesse trova fondamento la sociologia di Weber, il cui compito (e oggetto) è la “comprensione” del senso dell’agire sociale in quanto «riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui e orientato nel suo corso in base a questo». In questa prospettiva Weber propone una classificazione dei comportamenti intelligenti, distinti a seconda del loro orientamento rispetto: a) allo scopo (con conseguente determinazione dei mezzi per conseguirlo; b) al valore (il fine è dotato di una pregnanza assiologica che si presenta come prioritaria rispetto a ogni altra considerazione); c) all’affettività; d) alla tradizione (quando i moventi dell’azione sono rispettivamente le emozioni o le consuetudini). Nell’esame delle forme di organizzazione sociale (in cui questi risultano dominanti), Weber ha posto particolare attenzione allo studio del potere, determinandone gli elementi costitutivi nella coercizione e nel consenso. Proprio sulla base di quest’ultimo (in quanto istituente la sua legittimità) ha rilevato tre fondamentali configurazioni del potere: a) quello tradizionale (per esempio monarchico-feudale); b) quello legale-burocratico (tipico del moderno stato di diritto, fondato su regole razionalmente stabilite); c) quello carismatico (fondato sui poteri straordinari di un capo cui viene accordata una fiducia illimitata da parte dei singoli che con lui stringono rapporti identificativi e personali aderendo entusiasticamente alle sue direttive). Da queste premesse lo sguardo di Weber si è allargato fino ad abbracciare il complesso della moderna società capitalistica, di cui ha cercato di cogliere i caratteri essenziali. Tra questi emerge «l’agire razionale rispetto allo scopo» come base comportamentale dell’intero sistema, trasformatosi in totale razionalità tecnica ed esclusiva capacità organizzativa e previsionale. Partendo da una matrice etico-religiosa (lo spirito calvinista del lavoro come preghiera e del guadagno come segno di elezione divina), il capitalismo è giunto, attraverso un processo di “razionalizzazione”, al “disincanto del mondo”, cioè

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alla sua completa laicizzazione in funzione della sola dimensione pragmatica. La razionalità strumentale è però solo formale, non potendosi, per sua intrinseca natura, orientare verso un qualsiasi fine concepito come eminente rispetto ad altri: privi di giustificazione, di assolutezza, di gerarchia interna, i valori sono dunque tutti ugualmente infondati (nichilismo) e quindi anche indifferentemente abbracciabili secondo modalità prettamente fideistiche. Rotto il rapporto tra teoria e prassi, lo scienziato sociale deve limitarsi a indicare mezzi (la sua sarà pertanto un’etica della responsabilità verso le conseguenze), ma è impotente a sostenere la preferibilità di interessi ideologici o soluzioni politiche determinate: di qui la pessimistica constatazione della presenza, nella civiltà moderna, di una conflittualità incomponibile e della riduzione della direzione politica a mero uso della forza. Per il rigore metodologico, la lucidità delle analisi, l’ampiezza della problematica, le tesi di Weber continuano a costituire un termine di confronto obbligato, al di là degli schieramenti di scuola, per tutta la sociologia contemporanea. Weil, Simone Filosofa e scrittice francese (Parigi 1909 - Ashford 1943). la vita. Nata da una famiglia ebraica benestante e laica, dopo aver studiato con Le Senne e Alain, insegnò filosofia in vari licei francesi. Sensibile ai problemi sociali e del lavoro, dopo aver collaborato con articoli a vari giornali sindacali di sinistra, trascorse otto mesi, tra il 1934 e il 1935, come operaia alle presse e alla fresa presso la Renault (frutto della riflessione di questo periodo sono i saggi Sulla condizione operaia e le Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, in cui matura l’idea di quanto siano inestricabili e insolubili le contraddizioni sociali, al punto che una prospettiva rivoluzionaria le appare quanto mai lontana). Costretta a licenziarsi a motivo delle precarie condizioni fisiche, inadatte a reggere il ritmo duro del lavoro in fabbrica (l’infanzia era già stata segnata da una salute incerta), e dopo aver partecipato brevemente alla guerra civile spagnola nelle file dei repubblicani, iniziò un periodo di intensi viaggi. Nella Pasqua del 1938 a Solesmes ebbe un’esperienza mistica che doveva aprirla al pensiero religioso cristiano, in seguito alla quale trascorse periodi di intense letture, dai classici greci e latini alla Bibbia ebraica, alle Upanishad, ai testi filosofici greci, ai libri sapienziali cinesi ed egizi:

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se molte delle riflessioni suscitate da queste letture sono contenute nelle Intuizioni precristiane e in La conoscenza soprannaturale, la maggior parte del suo pensiero è affidata a una molteplicità di appunti e note scritti di getto e senza ordine sistematico, raccolti e pubblicati dopo la sua morte (come del resto quasi tutti i suoi scritti) in tre volumi di Quaderni. In questa fase la riflessione della Weil è di carattere religioso: ella si sentiva cristiana e cattolica tanto che prese in considerazione la possibilità di farsi battezzare. Scrisse pertanto una lunga Lettera a un religioso (il padre Couturier) per chiedergli un parere sulla compatibilità delle sue idee con l’appartenenza alla Chiesa cattolica: la lettera non ebbe mai una risposta ma costituisce una sorta di testamento spirituale. Dopo l’invasione nazista della Francia, la Weil abbandonò Parigi e si rifugiò prima a Marsiglia e poi a New York. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale passò in Inghilterra dove lavorò per l’organizzazione France libre (qui scrisse anche l’ultimo saggio La prima radice) prima di morire di tubercolosi. il pensiero. Prima ancora che religioso, il nucleo della riflessione della Weil è essenzialmente etico: questa è infatti la motivazione determinante per le sue scelte in campo politico-sociale, che la indussero a schierarsi con gli oppressi e a prendere le distanze dal marxismo (rimproverato per il suo materialismo e per la riduzione delle idee a espressione di un gioco di forze) e dalle stesse organizzazioni politiche a esso ispirate (che, animate da uno spirito totalitario, si sono burocratizzate, diventando una specie di chiesa). La Weil ebbe modo di sperimentare direttamente il male e i suoi effetti di abbrutimento, ricavandone la convinzione che l’uomo (e non solo la classe operaia) non possa autoredimersi nella pura dimensione orizzontale della dialettica storica (che dunque sia illusoria la fede marxiana nel raggiungimento del bene e dell’emancipazione dall’alienazione mediante il meccanismo sociale e le sue leggi materiali). Proprio negli anni bui dell’ascesa di Hitler al potere, ella medita (a partire dall’Iliade) sulla “forza”, quel terribile potere che trasforma gli uomini in cose, individuando proprio in questo fattore (e nelle sue manifestazioni derivate, il principio del prestigio e il principio del nazionalismo) il perverso filo rosso che attraversa la storia d’Europa, da Roma a Luigi XIV, a Napoleone, fino appunto al nazismo. Questa idea torna anche negli ultimi scritti: il male, che con la svastica ha toccato il li-

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vello più drammatico e devastante, può essere redento se al posto del potere si pone, con Platone, il concetto del bene assoluto, che gli uomini dovrebbero eleggere a fulcro del loro operare cercando di rendere migliore la vita terrena di ogni essere umano, oggi segnata dalla frattura tra la sua individualità e la collettività con i suoi perversi ingranaggi distruttivi. Perciò in un primo tempo la Weil aveva creduto nella possibilità di trovare una soluzione al problema dell’oppressione attraverso l’impegno politico a fianco dei più poveri: ma poi questa componente del suo pensiero dovette per forza sfociare in un piano squisitamente religioso, soprannaturale, l’unico che possa controbilanciare e porsi come approdo salvifico rispetto alla miseria di questo mondo. La Weil, che si dichiara cattolica, pensa che il cristianesimo sia emerso dalle credenze dei popoli mediterranei, cui Platone aveva dato espressione unitaria con la sua filosofia: ma più in generale ritiene che tutte le tradizioni religiose siano manifestazioni diverse della stessa verità, la quale in sé risulta intraducibile nella forma della razionalità e del linguaggio umani. Ma se si sente attratta dalla Chiesa cattolica, è al contempo consapevole che essa ha coltivato quel culto della forza e della supremazia di derivazione ebraica e romana che, mentre la rende non immune da responsabilità verso i totalitarismi contemporanei, mette in pericolo la vita spirituale del singolo e a disagio la sua intelligenza. È vero che la sua struttura organizzativa è in grado di mettere al riparo dai dubbi, dai timori e dalle incertezze, ma non sfugge alla Weil come l’esperienza religiosa più profonda sia quella della solitudine così come il Cristo l’ha sperimentata prima della passione. A questo stato interno corrisponde anche il concetto di de-creazione, con cui la Weil intende riferirsi a una sorta di rinuncia mistica alla propria individualità (quella che Dio ha decretato e mantenuto con la sua volontà creatrice) per ritrovare l’unità con l’assoluto. Di qui derivano l’idea di ordine e di obbedienza (quasi una trascrizione cristiana dell’amor fati), che connotano la vita dello spirito in quanto segnano la sua condizione di nudità e spogliazione da tutte le falsità illusorie e malvagie derivanti dalla creazione: poiché con essa «Dio si è vuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità» abdicando a se stesso. In questo senso va inteso anche l’apprezzamento della Weil per il mondo greco (che si incentrerebbe sul riconoscimento della infinita trascendenza e perfezione divina contro alla miseria uma-

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na) a scapito di quello ebraico, e la concezione della scienza come strumento di purificazione. In ogni caso, la fede religiosa non attenua il suo pessimismo nei confronti della condizione umana, per la quale l’apertura al soprannaturale è direttamente proporzionale all’accettazione della realtà così com’è. Perciò, come la contraddizione dell’esistenza le appare irresolubile (almeno su un piano intramondano), altrettanto le appare vano il tentativo della filosofia di cercare di risolverla o giustificarla (mentre la sua autentica funzione è quella di mantenerla in vita).

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Weininger, Otto Filosofo austriaco (Vienna 1880-1903). Dopo aver studiato matematica e scienze naturali, divenne celebre con Sesso e carattere (1903), opera che ripropone, nel dualismo sessuale di maschile e femminile, quello metafisico di bene e male, ordine e bellezza da un lato, caos, follia, distruttività e abnormità dall’altro (di questo elemento ctonio e demoniaco l’ebraismo è tra le manifestazioni più evidenti). Sulla base di questi “archetipi” o idee eterne (l’Uomo e la Donna in sé) vengono interpretate tutte le manifestazioni della vita empirica, da quelle religiose a quelle etico-sociali, a quelle intellettuali. L’individuo partecipa di ambo i sessi in diversa misura, mentre l’accoppiamento è regolato dalla legge dell’integrazione (ognuno cerca come compagno chi possieda i due caratteri in proporzione inversa alla propria). Weininger intese gettare le basi di una nuova spiritualità e libertà, prospettando, in termini visionari e irrazionalistici, una rigenerazione dell’umanità (comprese le stesse donne) dalla negatività dell’“eterno femminino” e delle sue espressioni. Postumo è apparso Delle cose ultime, dove vengono ripresi in forma aforistica i temi dell’opera maggiore.

bale polivalente e come costituente il concreto porsi cosmico di ogni esistente: esso è un atto posto in un rapporto di “prensione” e di concrescenza verso l’intero universo (di cui fornisce leibnizianamente un’interpretazione prospettica) e perciò anteriore a ogni dualismo di conoscente-conosciuto. Poiché la realtà è costituita da eventi in connessione reciproca perenne, Whitehead respinge la “mentalità matematica” cartesiana (dominata dalla subordinazione del “flusso” alle “permanenze”) e il sostanzialismo tradizionale, negando anche un ruolo preminente al soggetto (che non è punto di partenza del processo, ma d’arrivo o “supergetto”), comunque non identificabile idealisticamente con l’autocoscienza (punto di arrivo di quell’aggregato particolare di eventi che è il corpo umano). Tuttavia Whitehead perviene a una visione dualistica nel momento in cui ammette anche gli “oggetti” quali obiettivazioni di determinati rapporti tra eventi (pure forme di possibilità che la realtà esistenziale può concretare in aspetti singoli) e i valori (esclusi dal meccanicismo e recuperati attraverso l’esperienza estetica dei poeti romantici e quella religiosa (Scienza e mondo moderno del 1925 e Il divenire della religione del 1926) quali oggetti eterni che trascendono il processo (ma intuibili nell’immediatezza emozionale) e ne rendono possibile la valutazione. Whitehead tenterà una sintesi (Processo e realtà del 1929) all’interno di una cosmologia religiosa dove Dio è insieme di due nature, una “primordiale” (sistema degli oggetti eterni) e una “conseguente” (realizzazione del mondo attuale nell’unità della sua natura), concentrando in lui tanto il mondo delle relazioni oggettive quanto quello del fluire temporale in una dialettica in cui essi si inverano reciprocamente.

Whitehead, Alfred North Matematico, logico e filosofo inglese (Ramsgate 1861 - Cambridge nel Massachusetts 1947), professore a Londra e a Harvard. Dopo essersi dedicato alla matematica (Trattato di algebra universale del 1893, elaborazione del calcolo logico come fondamento di tutto il sapere) e alla stesura, con Russell, dei Principia Mathematica (1910-13), scrisse nel 1919 la Ricerca sui principi della conoscenza naturale (Il concetto di natura del 1920 ne è una esposizione divulgativa). Dal presupposto che la filosofia debba integrare i risultati della scienza per rispondere ai quesiti (etici, religiosi, estetici) da essa emergenti, considerò il concetto di evento come unità glo-

Williams, Bernard Filosofo inglese (Westcliff-on-Sea 1929 - Roma 2003). Compiuti gli studi classici a Oxford, si è dedicato alla filosofia morale, insegnando a Londra, Cambridge e Berkeley. La sua riflessione, espressa in una numerosa serie di opere (tra le più significative: La moralità, 1972; Problemi dell’io, 1973; Sorte morale, 1981; L’etica e i limiti della filosofia, 1985; Vergogna e necessità, 1993), ruota attorno alla convinzione che la filosofia moderna e contemporanea sia colpita da una malattia grave (i cui sintomi sono già presenti in Aristotele): la pretesa di costruire teorie onnicomprensive, sistematiche e oggettive. Questa prospettiva doveva essere realizzata con il ricorso a una

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concezione della razionalità, che ci consenta di rispondere alla domanda “come vivere” mediante l’individuazione di criteri universali per la valutazione, la decisione, la scelta, la giustificazione. Secondo Williams tale pretesa era destinata al fallimento per aver supposto un’analogia troppo stretta tra ragione teoretica e ragion pratica, che trascura riduttivamente la dimensione strettamente individuale della vita morale, per la quale “io devo decidere sulla base di ciò che sono”. Ciò appare in tutta evidenza sia nell’utilitarismo sia nel kantismo: se il primo, prescrivendo di operare per assicurare benessere al maggior numero di persone, subordina a questo obiettivo la separatezza delle persone, il secondo sostiene un approccio puramente razionale che astrae dalle emozioni e dalle storie degli individui per prospettare una vita morale del tutto sciolta dalle circostanze accidentali della sorte in cui ciascuno opera. Il punto fondamentale è invece che la nostra volontà è costituita e condizionata da una molteplicità di fattori cui essa è estranea (per cui lo spazio per una giustificazione razionale è sensibilmente ridotto), che abbiamo un carattere, dei progetti con cui ci identifichiamo, dei desideri ecc., tutti elementi soggettivi irriducibili che rendono il processo deliberativo essenzialmente indeterminato. Esposti come siamo a un complesso di situazioni interne ed esterne del tutto contingenti, il nostro ragionamento pratico deve operare secondo modalità che lo avvicinano piuttosto a un “processo euristico e creativo”, facendo sì che la moralità non sia riducibile a un insieme di proposizioni (come vorrebbero gli analisti), ma un’esperienza personale e sociale che ciascuno deve affrontare con responsabilità e senza il sostegno di criteri teorici da applicare semplicemente alla pratica. Criteri e regole possono dunque emergere solo dall’interno della nostra concreta prassi morale in tutta la sua complessità. Winckelmann, Johann Joachim Archeologo, storico e teorico dell’arte tedesco (Stendal 1717 - Trieste 1768). Approfonditi gli studi durante alcuni viaggi in Italia (convertitosi al cattolicesimo, dal 1763 fu ispettore delle antichità per tutto il Lazio), espose la sua concezione estetica neoclassica in una serie di scritti quali Sulla grazia delle opere d’arte (1759), Trattato sulla forza del sentimento del bello (1764), Storia dell’arte nell’antichità (1764), Considerazioni sulla storia dell’arte (1767), esercitando un notevole influsso sul gusto e sulla cultura del suo

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Windelband

tempo (tra gli altri su Kant, Schiller, Goethe, Foscolo, Canova ecc.). Secondo Winckelmann la bellezza è forma o immagine ideale, cui l’artista mira trascendendo il piano della materia naturale e delle passioni: essa è rinvenuta nel mondo umano, dove viene fissata nei termini, pure attenuati fino al dissolvimento, di espressione e azione. In questo senso «la figura, per essere bella, deve essere indefinita», così come indefinibile risulta la bellezza stessa, che quindi sa generare in chi la contempla un senso di calma, di maestà e di dolcezza. Perciò la bellezza è oggettiva: infatti l’artista non esprime se stesso, ma interpreta un soggetto secondo la sua natura, come risultava soprattutto dall’arte greca, non a caso mitizzata e proposta come modello eterno. Windelband, Wilhelm Filosofo tedesco (Potsdam 1848 - Heidelberg 1915), professore a Zurigo, Friburgo, Strasburgo e Heidelberg, tra i maggiori esponenti della Scuola del Baden. La sua opera è in gran parte costituita da ricerche di storia della filosofia (Storia della filosofia moderna del 187880, Storia della filosofia occidentale nell’antichità del 1888, Manuale di storia della filosofia del 1892) che hanno esercitato una larga influenza. Dal punto di vista teoretico i suoi interessi (Preludi del 1884, in due volumi) si sono rivolti al recupero del criticismo kantiano in funzione antimaterialistica e antipositivistica, esteso però, sulla scia della lezione idealistica, al mondo storico. Circa lo statuto epistemologico delle scienze dello spirito, Windelband lo fissa in termini puramente metodologici e formali, distinguendo tra scienze che mirano alla determinazione di leggi generali (nomotetiche), e scienze che si occupano della descrizione dei singoli avvenimenti (idiografiche). Tuttavia le scienze storiche necessitano di un criterio orientativo dell’indagine, che viene reperito nel valore: perciò, se la filosofia deve costituirsi come critica della storia e quest’ultima è storia di valori (incarnati in civiltà, culture ecc.) ne consegue che la filosofia è scienza critica dei valori e che la storia è l’organo della filosofia. Mentre le scienze della natura impiegano giudizi teoretici (rilevanti la reciproca appartenenza di due rappresentazioni), la scienza storica si fonda su quello critico, che esprime una presa di posizione sul suo oggetto. La filosofia a sua volta riflette sul giudizio critico e sulla sua pretesa a una validità assoluta, individuandone proprio nei valori le condizioni di possibilità. In tal modo Windelband crede

Wittgenstein

di aver raggiunto il genuino significato del criticismo, costituendolo come sistema di norme universalmente valide e fondandolo sulla “coscienza normale”. Wittgenstein, Ludwig Filosofo austriaco (Vienna 1889 - Cambridge 1951), tra gli iniziatori e massima espressione della “svolta linguistica” nella filosofia contemporanea. la vita. Nato da una ricca famiglia di industriali dell’acciaio, crebbe in un ambiente denso di stimoli culturali. Il padre lo avviò a studi tecnico-scientifici, ma egli, dopo essersi laureato in ingegneria a Berlino e specializzato in aeronautica a Manchester, si dedicò alla matematica pura, trasferendosi a Cambridge per studiare con ➔ Russell. Durante la Prima Guerra Mondiale fu fatto prigioniero dagli italiani e trascorse un anno a Cassino. Qui elaborò il materiale, già steso in precedenza, che verrà pubblicato, dopo averlo discusso con Russell, con il titolo Tractatus logico-philosophicus (1921). Dopo aver insegnato come maestro elementare in alcuni paesi della bassa Austria e aver partecipato alle riunioni del ➔ Circolo di Vienna in casa Schlick, nel 1929 ritornò a Cambridge, dove intraprese la carriera accademica. Da questo momento non pubblicò più nulla, ma testi di conferenze, appunti delle sue lezioni o di conversazioni e molti fogli manoscritti furono raccolti dopo la sua morte dando luogo a una serie di volumi pubblicati postumi, tra cui le importantissime Ricerche filosofiche, e poi Considerazioni sui fondamenti della matematica, Libro blu e libro marrone, Letture e conversazioni sull’estetica, la psicologia, la fede religiosa, Zettel, Della certezza, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, oltre ai Diari e al ricco epistolario. Affetto da gravi problemi psicologici, dopo il 1947 lasciò l’insegnamento e trascorse lunghi periodi in solitudine. Avendo scoperto di avere un cancro, morì in casa del suo medico che l’aveva ospitato. il pensiero. Le due opere fondamentali di Wittgenstein, il Tractatus e le Ricerche filosofiche, corrispondono ad altrettante fasi del suo pensiero. Al centro dell’attenzione speculativa del cosiddetto “primo Wittgenstein”, vi è il tema fondamentale della connessione tra linguaggio e realtà: egli infatti si propone di definire le “condizioni di sensatezza” del linguaggio, in modo da determinare ciò che legittimamente si può dire e ciò che non si può dire intorno al mondo. Questo progetto (per tanti aspetti somigliante a quello di ➔ Kant) implica l’esistenza di un’ontologia nella misura in cui si

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intende mostrare come dev’essere il mondo se le proposizioni del linguaggio devono poter avere un senso determinato: l’identificazione di pensiero e linguaggio (inteso come l’insieme delle proposizioni sensate) porta di conseguenza all’eliminazione di un piano mentale specifico intermedio tra linguaggio e realtà. In questa prospettiva la filosofia assume la funzione di critica del linguaggio, poiché deve chiarire le regole, i limiti e i divieti che determinano la correttezza del pensare e del dire. L’esistenza del mondo, che noi sperimentiamo in modo immediato, è per Wittgenstein presupposto del linguag-

Filosofia del linguaggio La svolta linguistica nel pensiero contemporaneo F. DE SAUSSURE (1857-1913) M. SCHLICK (1882-1936) Ch.S. PEIRCE (1839-1914) L. WITTGENSTEIN (1889-1951) G.E. MOORE (1873-1958) J. AUSTIN (1911-1960) B. RUSSELL (1872-1970) R. CARNAP (1891-1970) G. RYLE (1900-1976) M. HEIDEGGER (1889-1976) Ch. MORRIS (1901-1979) A. TARSKY (1902-1983) A. AYER (1910-1989) N. GOODMAN (1906-1998) W.V.O. QUINE (1908-2000) H.G. GADAMER (1900-2002) P. RICŒUR (1913-2005) PF . . STRAWSON (1919-2006) K. APEL (1922-viv.) N. CHOMSKY (1928-viv.)

Wittgenstein

gio. Il mondo è tutto ciò che accade, ossia la totalità strutturata dei fatti. A sua volta un fatto può essere complesso, cioè composto da altri fatti “atomici”, chiamati anche stati di cose. Questi sono combinazioni di oggetti, di cose, elementi semplici, permanenti, fissi e immutabili (gli oggetti restano quello che sono, indipendentemente da ciò che accade, cioè dai fatti: il cambiamento investe gli stati di cose, le configurazioni di oggetti, non gli oggetti stessi) che costituiscono il tessuto, la sostanza del mondo. Nello stato di cose gli oggetti, in sé inconcepibili, ineriscono l’uno all’altro secondo modalità che ne formano la struttura: perciò il mondo è un aggregato di fatti, non di cose. Da questa ontologia discende la teoria del linguaggio: esso, come complesso di segni formato da regole grammaticali e sintattiche ben determinate, è un sistema raffigurativo, nel senso che rispecchia la realtà riproducendone specularmente le proprietà formali. C’è linguaggio perché è possibile stabilire isomorfismi, cioè identità strutturali tra situazioni diverse, tra il fatto raffigurante e il fatto raffigurato, al punto che tra fatto e immagine esiste un rapporto di corrispondenza formale. Nell’immagine è rappresentata la struttura, cioè il modo con cui gli oggetti sono connessi l’uno all’altro nel fatto e che corrisponde a quello degli elementi dell’immagine. Mentre la verità o falsità di un’immagine è determinata dalla sua corrispondenza o non corrispondenza con il fatto rappresentato, il suo senso è dato dalla possibilità di essere vera o falsa: pertanto un’immagine è sensata in quanto rappresenta una situazione possibile, indipendentemente dal fatto che la rappresentazione sia fedele o meno. Alla domanda in che modo un’immagine è connessa con il mondo, Wittgenstein risponde con l’esempio del modello in scala di un incidente stradale: il come dell’incidente viene raffigurato dalla disposizione spaziale dei pezzi, che ci consente di vedere ciò che effettivamente è accaduto nella realtà. La proposizione è una specie particolare di immagine: il nome è l’elemento semplice della proposizione, essendo in essa il corrispettivo dell’oggetto nel mondo (se non ci fossero degli oggetti ultimi, in connessione diretta con i nomi, nessuna proposizione direbbe qualcosa sul mondo): dunque alla configurazione dei nomi (la struttura della proposizione) corrisponde quella degli oggetti (la struttura del fatto). Di conseguenza il nome denota l’oggetto (questo è il suo significato, anche se poi la funzione referenziale viene svolta solo en-

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tro il contesto della proposizione, così come gli oggetti sussistono solo all’interno di stati di cose), mentre la proposizione descrive il fatto (in ciò consiste il suo senso). Perciò, se il nome ha una sola relazione con la realtà, la proposizione ne ha due: quella del senso e quella della verità, io quanto io posso comprendere una proposizione senza sapere se è vera o falsa. Una proposizione complessa viene compresa se si comprendono le sue parti costitutive o proposizioni elementari, che a loro volta raffigurano fatti elementari. La condizione di comprensibilità di una proposizione elementare è naturalmente la significanza dei nomi che la compongono. In modo analogo viene stabilita la verità di una proposizione complessa a partire da quella delle proposizioni elementari che la compongono: se si combinano in tutti i modi possibili i valori di verità delle proposizioni elementari, si ottiene un elenco delle loro possibilità di combinazione corrispondente a quello del numero totale delle combinazioni possibili di stati di cose. Di conseguenza a seconda del particolare connettivo (e, o, se..allora, né..né) che dà luogo alla proposizione complessa, a una data assegnazione di valore di verità delle sue componenti semplici corrisponde un valore di verità risultante. Avendo indicato le condizioni logiche che consentono di costruire un linguaggio formalmente corretto, Wittgenstein traccia una netta distinzione tra ciò di cui si può parlare (il ristretto ambito di ciò che è esprimibile in modo chiaro ed esaustivo) e ciò di cui al contrario si deve tacere (la vastità di quanto è misticamente ineffabile in quanto si sottrae alla possibilità di un linguaggio rigoroso). Il linguaggio dotato di senso è l’espressione dei fatti e coincide con quello della scienza (essa è l’insieme delle proposizioni vere). Se le sue proposizioni sono contingenti, da esse si distinguono quelle della logica, la cui natura è puramente analitica: esse sono o tautologie (e allora sono necessariamente vere) o contraddizioni (e allora sono necessariamente false). In ogni caso esse sono compatibili con tutti i possibili stati di cose, perché non descrivono fatti ma condizioni di possibilità di fatti. Esse pertanto non dicono nulla sul mondo (non hanno valore conoscitivo), ma valgono per tutti i possibili stati di cose. Fuori della sfera delle proposizioni della scienza e della logica, vi sono tutte le “pseudo-proposizioni”, cioè gli enunciati che non sono traducibili in espressioni linguisiche dotate di senso (appartengono a questo ambito la maggioranza delle propo-

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sizioni della metafisica, dell’etica, dell’estetica ecc.). Gran parte dei problemi tradizionali della filosofia sorgono da un cattivo uso del linguaggio, che deve essere smascherato mediante un suo autentico impiego. Essa non ha oggetti propri (non ci sono verità filosofiche), non è una scienza né una dottrina produttiva di conoscenze. Il suo campo è piuttosto il linguaggio: essa è un metodo, un’attività di chiarificazione logica del linguaggio e del pensiero attraverso una critica del linguaggio comune, che viene ridotto a quello formale delle scienze esatte e sperimentali, l’unico adibito a parlare in modo adeguato del mondo. Oltre la sfera dell’esprimibile, vi è l’ineffabile, il mistico che concerne il senso del reale, in sé non logicamente giustificabile, e comprendente i valori estetici, morali, religiosi (i nostri problemi vitali, dunque). Non essendo fatti, questi ultimi non solo non sono conoscibili, ma neppure esprimibili: perciò sono al di là del pensiero. «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»: se i neopositivisti interpretarono l’aforisma conclusivo del Tractatus come un invito riduttivamente scientistico ad attenersi al fattuale e allo sperimentabile, in realtà Wittgenstein intendeva dare un “senso etico” al suo discorso, rendendo consapevole l’uomo dei suoi limiti e non certo intendendo negare con il silenzio ciò di cui si tace: esso è dovuto semplicemente in quanto il nostro linguaggio è inadatto a parlarne. Negli anni seguenti, dopo le esperienze di maestro elementare (e quindi in seguito al contatto con il linguaggio infantile) e per influenza del pensiero di Brouwer, Moore e Ramsey, Wittgenstein matura nuovi orientamenti speculativi: egli ritiene che la teoria elaborata nella sua prima opera non sia in grado di render conto di tutto l’uso effettivo del linguaggio, che può essere sensato anche nella sua dimensione non scientifica e ideale. La filosofia pertanto dovrà occuparsi del linguaggio ordinario e non formalizzato, indirizzandosi verso l’analisi dei suoi usi concreti e particolari. Così, specialmente nelle Ricerche filosofiche, egli ritorna su molte delle sue precedenti concezioni. In particolare vengono abbandonate le dottrine dell’“atomismo logico” (le proposizioni elementari non sono più considerate sotto l’aspetto del nesso di nomi con oggetti semplici; le proposizioni complesse non sono più intese come funzioni di verità di proposizioni elementari) e del senso (esso non consiste nella possibilità di una proposizione di raffigurare uno stato di cose, secondo il principio di denotazione,

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ma nel suo uso). Il linguaggio appare così come un insieme di espressioni che svolgono funzioni diverse nell’ambito di pratiche e regole discorsive differenti, che nascono da un complesso di circostanze e di bisogni (il linguaggio è lo strumento di vita di un gruppo sociale, sottoposto al controllo pubblico e al consenso pratico di una comunità linguistica). Se non c’è un linguaggio ideale, non c’è neppure una sua teoria generale (alla varietà di pratiche, non può corrispondere un’essenza, una loro natura comune). Poiché tutte le nostre pratiche intellettuali sono intrecciate con l’uso del linguaggio, esse sono paragonabili a giochi linguistici, i quali, essendo disciplinati da regole, criteri di validità e finalità diverse e irriducibili, escludono l’esistenza di una ragione unica e comune. L’analisi linguistica deve pertanto procedere considerando i diversi contesti significativi in cui i segni trovano posto, seguendo i concetti nelle sue articolazioni grammaticali, nelle ambiguità d’impiego, nelle parentele tra i differenti usi. Rispetto al Tractatus, Wittgenstein mantiene però la convinzione che la filosofia sia non una dottrina ma una pratica con finalità essenzialmente chiarificatrici, volta a prevenire i fraintendimenti che nascono nella pratica quotidiana, senza pretendere di portare alla luce una qualche struttura formale nascosta ma limitandosi a mostrare il modo con cui le parole e gli enunciati trovano applicazione entro le regole stabilite dai giochi linguistici. La filosofia è in questo senso una terapia perché, descrivendo il disordine intervenuto in un gioco, si propone come guida al buon funzionamento dei linguaggi, liberandoli dalla malattia dei fraintendimenti. Tali sono i cosiddetti problemi metafisici: sorti quando «il linguaggio fa vacanza», essi non vanno risolti ma dissolti, riportando le parole dal loro patologico impiego metafisico al sano e appropriato uso quotidiano. Wolff, Christian Filosofo tedesco (Breslavia 1679 - Halle 1754), massimo rappresentante dell’illuminismo in Germania. Studioso di matematica, seguace di Cartesio e in contatto con Leibniz, elaborò, durante il suo lungo magistero a Halle, il progetto di un grande e onnicomprensivo sistema razionalistico, articolato in filosofia teoretica (a sua volta distinta in metafisica generale o ontologia, e nelle tre branche della metafisica speciale che sono psicologia, cosmologia e teologia razionale) e pratica (suddivisa in etica, economia e politica: Philosophia rationalis sive Logica del 1728, Philosophia

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prima sive Ontologia del 1729, Philosophia practica universalis del 1738-39, Cosmologia generalis del 1731, Psycologia rationalis del 1734, Theologia naturali 1736-37, Jus gentium del 1749 ecc.), nell’ideale di una ragione che ha il diritto di investigare tutta la realtà con un metodo rigoroso di analisi. Nella presupposizione tra modi del pensiero e modi dell’essere, ciò pone la logica come dottrina preliminare dell’intera enciclopedia del sapere: fondata sul principio di non contraddizione (esso è legge non solo del discorso razionale, ma di ogni oggetto “possibile”, cioè non logicamente contraddittorio), il suo procedimento deduttivo e a priori si identifica con quello di ogni scienza perfetta (in tal modo è possibile ricavare per via esclusivamente formale caratteristiche e relazioni degli enti), dove le dimostrazioni partono sempre da concetti ben definiti e da assiomi e i passaggi sono sempre controllati e giustificati (metodo della fondazione), mentre quello empirico e induttivo resta incerto e di rango inferiore. Malgrado la sua opera apparisse già a Kant come espressione di “dogmatismo” a causa del suo formalismo scolastico, resta il fatto che essa ha improntato di sé gran parte della cultura filosofica tedesca, con una persistenza anche oltre l’orizzonte settecentesco. Wundt, Wilhelm Fisiologo, psicologo e filosofo tedesco (Mannheim 1832 - Lipsia 1920), assistente di Helmholtz e professore a Lipsia, dove fondò nel 1879 il primo laboratorio di psicologia sperimentale, scienza alla cui metodologia dedicò il suo lavoro fondamentale Fondamenti di psicologia fisiologica (1873-74). Per Wundt la psicologia è una disciplina empirica, del tutto autonoma e con una propria metodologia. Quest’ultima si distingue in un metodo sperimentale (per l’analisi dei processi psichici individuali, che sono i più complessi) e nell’osservazione (per lo studio della psicologia dei popoli, o sociale, i cui fenomeni sono di carattere generale). Relativamente al primo ramo essa si occupa dei dati psichici come serie di atti concatenati, come connessione di processi (tra i quali emergono per importanza quelli volitivi, cui Wundt in un secondo tempo attribuì un valore determinante per la reazione psichica fino a farne il centro dell’intera personalità), di cui si tratta di evidenziare gli elementi costitutivi (empiricamente rilevati e opportunamente quantificati) per passare poi alla determinazione delle connessioni e alle leggi che vi

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presiedono. Queste ultime sono distinguibili in leggi di relazione (delle risultanti psichiche, delle relazioni psichiche, dei contrasti psichici) e leggi di evoluzione (dell’accrescimento spirituale, dell’eterogenesi dei fini, dello sviluppo dei contrari). Cresciuto in un ambiente positivistico, Wundt ritenne tuttavia che la filosofia non dovesse solo operare una sistemazione dei risultati della scienza, ma anche procedere a un loro approfondimento metafisico, senza il quale il primo aspetto risulterebbe sostanzialmente inintellegibile (Sistema di filosofia, del 1889): seguendo la lezione di Kant, la metafisica (che è preceduta da una logica e da una gnoseologia) pone i problemi trascendentali (cosmologico, psicologico, ontologico) miranti a un progresso verso l’idea di una totalità infinita e verso l’idea di una unità assolutamente indivisibile. Wyclif, John Teologo e riformatore inglese (Hipswell 1320 ca. - Lutterworth 1384), professore a Oxford e difensore dei diritti della corona (in scritti come De dominio divino, De civili dominio, De potestate papae, De ordine cristiano ecc.) contro la pretesa sovranità papale. Dalla lotta contro gli abusi e la corruzione mondana del clero si spinse a negare il diritto di proprietà della Chiesa (poiché tutto è di Dio, solo chi è in stato di grazia può avere di diritto di possesso), cui è anche tolto il ruolo di mediatrice con Dio nel quadro di una concezione (di derivazione occamista) individualistica e interioristica della religione (da cui deriva una svalutazione di tutte le pratiche esteriori, tra cui quella delle indulgenze). Su questo punto Wyclif ha insistito, sviluppando in particolare i temi dell’immediatezza di Dio (presente nella coscienza e unico signore del mondo, che non delega a nessuno il suo potere), del peccato (l’egoismo proprietario è una sua conseguenza) e della grazia (unico fattore di salvezza) e considerando la Scrittura (di cui progettò una traduzione in inglese poi realizzata dai suoi seguaci) come unica fonte dottrinale (di qui il suo rifiuto della dottrina eucaristica della transustanziazione: De eucharistia, De veritate Scripturae, Trialogus). Le sue idee, che furono alla base del movimento dei “lollardi” e dell’insurrezione popolare del 1381, furono condannate dal concilio di Costanza (1428): tuttavia, fatte conoscere in Boemia dagli studenti cechi di Oxford, ispirarono la riflessione di Hus e possono essere considerate una delle matrici della Riforma protestante.

Z Zabarella, Jacopo Filosofo italiano (Padova 1533-1589), professore a Padova, della cui scuola aristotelica fu uno dei maggiori esponenti, interessandosi principalmente di logica e psicologia. Nel primo campo diede un importante contributo (De methodis, De regressu) alla determinazione del metodo scientifico (il cui fine è produrre conoscenza e che pertanto è uno strumento della filosofia), da lui proposto in termini di semplicità e sistematicità, basato sul carattere induttivo della conoscenza umana (ordo doctrinae opposto all’ordo naturae, sostenuto dai suoi avversari Piccolomini e Petrella), che parte dagli effetti sensibili per giungere all’individuazione delle cause sovrasensibili (momento risolutivo), per poi procedere a ritroso a ricostruire i primi attraverso le seconde (momento dimostrativo o compositivo). Mentre è chiaro l’influsso delle idee di Zabarella su ➔ Galileo (esse ebbero anche una notevole diffusione in Germania presso i teologi protestanti), nel campo della psicologia egli fu un seguace di ➔ Alessandro di Afrodisia, negando (De mente humana, De mente agente) l’unità dell’intelletto e identificando con Dio l’intelletto attivo (e aggiungendo che esso illumina le immagini della fantasia, inducendo così quello passivo all’astrazione: De ordine intelligendi, De speciebus intelligibilibus). Zarathustra O Zoroastro, profeta e riformatore religioso iranico (vissuto probabilmente tra i secc. VII e VI a.C., o forse in un periodo ancora antecedente). Dell’Avesta (il testo sacro della religione zoroastrista) egli probabilmente compose il nucleo più antico, costituito da 17 inni (Gatha): da essi apprendiamo i pochi tratti storici della sua figura (era sacerdote addetto al canto degli inni, sposato e padre di due figli, subì l’ostilità dei nobili e del clero tradizionale fino alla conversione del re Vistaspa). La sua predicazione e la sua riforma consistono nel sostituire al politeismo naturalistico indoariano un netto monoteismo (centrato sul culto di Ahura Mazdah, il Signore Saggio, che comunque è circondato da altre entità divine o “Immortali santi”, Amesha Spenta, che altro non sono che le sue modalità

o manifestazioni, fungenti da mediazione tra l’unità dello spirito e la molteplicità del mondo materiale e perciò dotate di un elemento fisico corrispondente: Vohu Manah – il buon pensiero, il bue, Asha o Arta – la verità e la rettitudine, il fuoco; Armati – la devozione, la terra; Xshathra – l’Impero, i metalli; Haurvetat – la totalità o integrità, le acque; Amurtatat o Ameratat – l’immortalità, le piante) e in un codice morale molto rigido, che aboliva i sacrifici cruenti e proponeva un ideale elitario di giustizia e moderazione per rendersi degni della felicità in questo e nell’altro mondo (chi segue questa via, coincidente con la corretta pratica rituale, conseguirà la visione delle cause prime e degli “Immortali santi” divenendo, nel rinnovamento radicale della propria vita, un “perfetto”, capace di incidere anche sul mondo materiale). In questa chiave va considerato anche il dualismo che connota la religione di Zarathustra, in origine costituito dall’antitesi (morale e rituale, ma con effetti anche sul piano dell’ordine cosmico e sociale) verità (asha)-menzogna (drug) rispetto alla quale ogni essere (anche Ahura Mazdah) è chiamato a fare una scelta sotto l’impulso di due “spiriti” (Mainyu, figli di Ahura Mazdah), Spenta per il bene e Anra per il male. In una fase successiva (durante il regno degli Achemenidi) si operò (per iniziativa della tribù sacerdotale dei Magi) su questo tronco dottrinale l’innesto di altri elementi di derivazione tradizionale, dando origine a un composto sincretistico (più adatto alla penetrazione in ampi strati popolari, in modo da costituire un codice disciplinare) in cui si accentuava l’aspetto dualistico (Ahura Mazdah si identificava con Spenta Mainyu e si trovava opposto ad Anra Mainyu o Ahriman: la loro lotta si concluderà con la vittoria del primo e l’escatologia finale), ritualistico (con il ritorno dell’indoiranico Mithra, si ravviva il culto del fuoco), naturalistico (si introducono numerose divinità come Xshaeta – il sole, Mah – la luna, Zam – la terra, Atar – il fuoco, Apam Napat – le acque, Vayu – il vento). Sotto questa forma la religione di Zarathustra (mazdeismo) fiorì fino al regno dei

Zenone di Elea

Sassanidi e alla conquista islamica, mentre alcuni suoi elementi entrarono nella formazione del manicheismo. Peraltro la figura di Zarathustra passò, sempre circondata della fama di sapiente (come tale compare in Platone, Aristotele, Eudosso, Plutarco) nel mondo greco, romano e rinascimentale, fino alla ripresa simbolica da parte di Nietzsche. Zenone di Elea Filosofo greco (490 ca.-430 ca. a.C.), continuatore della Scuola eleatica. Secondo la tradizione fu allievo di Parmenide (che, secondo Platone, accompagnò durante un viaggio ad Atene), ma anche uomo politico, morto durante la lotta contro il tiranno Nearco. Delle sue opere (Disputazioni, Esegesi d’Empedocle, Contro i filosofi, Sulla natura), ci restano scarsi frammenti. Da questi si desume che le sue dottrine e le sue argomentazioni si inserivano, presupponendola, nella teoria dell’Essere-Uno, intendendo sostenere (mediante l’impiego del procedimento dimostrativo per assurdo) che nessuna prova razionale può essere addotta a favore della molteplicità e del movimento e che coloro che ne affermano la realtà (da Zenone assunte ipoteticamente come premesse) sono condotti a conclusioni “ridicole”. Circa il primo punto: «se le cose constano di una pluralità è necessario che i loro elementi siano tanti quanto sono, né più né meno; e se sono tanti quanto sono, sono limitati. Se le cose constano di una pluralità, questa è illimitata, perché tra i singoli elementi ce ne possono essere degli altri e, fra questi, altri ancora. E così sono infiniti». E come sono nello stesso tempo finite e infinite, «se le cose sono una pluralità, sono anche grandi e piccole allo stesso tempo: tanto grandi da essere per grandezza illimitate, tanto piccole da non avere grandezza alcuna». Così o le cose sono continue (e allora si annulla la molteplicità), o discontinue (se ciascuna occupa una spazio, questo ne implica un altro all’infinito sino all’unico luogo che è il nulla), ma in entrambi i casi i molti, se posti come reali l’uno accanto all’altro non sono concepibili (come nel caso di un medimmo di grano, che fa rumore pur essendo risultante da una molteplicità di grani che presi singolarmente non lo fanno). Famosi sono i quattro argomenti, riportati da Aristotele, contro il movimento (quindi contro la traducibilità della fisica in termini logico-matematici). Questo è impensabi-

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Zenone di Cizio

le se non in quanto estensione e perciò rappresentato da una retta: poiché essa è divisibile all’infinito (argomento della dicotomia), risulta impossibile il passaggio da un punto a un altro, in quanto tra i due punti così stabiliti ne esisterà sempre uno intermedio. Analogamente, l’eroe “piè veloce” (argomento di Achille) non raggiungerà mai la tartaruga, poiché necessariamente egli dovrà sempre raggiungere il punto da cui questa muove di continuo, e, per l’infinita divisibilità dello spazio, lei si sarà sempre già spostata in un punto, anche se di poco, ulteriore. E una freccia scagliata (argomento della freccia) non si muoverà a colpire il bersaglio, poiché si troverà costantemente in un attimo nel quale risulterà ferma a occupare uno spazio uguale a se stessa. Infine un corpo si muove in uno stadio (argomento dello stadio) con tempo insieme determinato e doppio a seconda che lo si consideri rispetto a un punto fermo o a un altro mobile che proceda alla stessa velocità ma in senso contrario. Se le conclusioni di Zenone sembrano porsi su un piano esclusivamente critico e negativo (per questo è considerato l’“inventore della dialettica”), esse hanno però costituito un fattore di stimolo per la riflessione successiva (da Melisso ad Anassagora, a Democrito ai tardi pitagorici Filolao e Archita, fino ai sofisti), non senza influenze sul pensiero logico-matematico (teoria degli insiemi, analisi infinitesimale ecc.) e filosofico (per esempio ➔ Bergson e ➔ Russell) moderno. Zenone di Cizio Filosofo greco (Cipro 335 ca. - Atene 263 a.C.), fondatore della scuola stoica. Fu mercante e secondo la tradizione si dedicò alla filosofia in seguito a un naufragio che gli fece perdere tutti i beni, costringendolo a fermarsi ad Atene. Fu scolaro del cinico Cratete, dei megarici Stilpone e Diodoro Crono, degli accademici Senocrate e Polemone, quindi aprì una scuola con sede nel portico (stoà) decorato da Polignoto, da cui essa prese il nome. Delle sue numerose opere (tra cui Della vita secondo natura, Lo Stato, Delle passioni, Del dovere, Dell’universo, Universali, Dissertazioni, Logica, Della natura, Dell’essere) non restano che frammenti. Zenone fissò per primo la distinzione dei tre momenti della ricerca filosofica in logica, fisica ed etica, in una connessione per cui la rettitudine del discorso manifesta (e contiene) sia la vera realtà e l’ordine delle cose sia l’ordine del vivere («come il tuorlo e la chiara entro il guscio”).

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a) La logica. Zenone individua le condizioni del pensare nelle rappresentazioni come impressioni, cioè «un’affezione che si produce nell’anima e che manifesta in se stessa anche la causa produttrice». Questa si verifica attraverso la sensazione, che rende l’oggetto presente alla mente. La rappresentazione in sé non è vera né falsa, ma se è forte allora è evidente (rappresentazione afferrante o catalettica), per cui le prestiamo fede, assentiamo all’esistenza dell’oggetto (questo atto è proprio di quella parte dell’anima, oltre i cinque sensi l’organo della voce e quello della generazione, che Zenone chiama “egemonia”). Dunque «non tutte le rappresentazioni sono attendibili, ma solo quelle che presentano una certa evidenza e si possono ricondurre alla realtà. Un’immagine siffatta, quando si contempla in se stessa, è comprensibile; quando si accetta e si riconosce (come reale) abbiamo la comprensione, che consiste nell’afferrare la realtà». Al riconoscimento della visione catalettica come criterio esclusivo della verità, corrisponde una svalutazione del concetto, semplice rappresentazione generale o “visione mentale” (ottenuta per accumulo nella memoria di molte impressioni simili, costituente una “nozione comune” o anticipazione di future esperienze) cui viene attribuito un nome: esso è tuttavia l’unica realtà dell’oggetto sia in quanto è pensato sia in quanto in termini grammaticali funge da soggetto (in tal modo la logica non verte più sulle classi, ma sulla proposizione). Se la sua genesi ne evidenzia la natura ipotetica (né vero né falso, né opinabile né non opinabile) ne deriva una radicale ridefinizione circa il problema delle premesse del discorso (per Aristotele necessariamente o probabilmente vere), la cui verità o falsità consiste nella connessione delle rappresentazioni che ivi sono unificate e coordinate nel giudizio (nel modo con cui si afferma o si nega qualcosa di qualche altra) in cui i concetti si articolano. Perciò logica e dialettica coincidono in un’arte che «insegna a distinguere il vero dal falso, ad accertare i gradi della probabilità, a scoprire le ambiguità» (ed è perciò assolutamente indispensabile al sapiente). E poiché «il discorso è [...] ragionativo e oratorio», alla dialettica spetta «scoprire e confutare i sofismi» (consistenti nello slittamento semantico di un termine in un altro): ciò attraverso ragionamenti (detti anapodittici) che, basandosi su nozioni indimostrabili ma evidenti (in quanto rappresentazioni catalettiche), giungono (secondo lo schema «se x allora y: ma x, allora anche

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y») a conclusioni tali per cui «mediante le cose più comprensibili si spiegano le cose meno evidenti». b) La fisica. Zenone distingue con ➔ Eraclito due principi nel cosmo, uno passivo (materia) e uno attivo (Dio, Logos): «questo principio penetra nella materia, produce i quattro elementi e produce tutte le cose». Il mondo è concepito come un grande organismo animato dal soffio divino (pneuma), o fuoco primordiale, che governa razionalmente e provvidenzialmente il nascere e il perire di tutte le cose che in esso hanno la loro ragione o seme razionale (logos spermatikós). «Il fuoco primordiale è come un seme che ha in sé tutte le ragioni e le cause degli esseri che furono, che sono e che saranno: l’intreccio e la serie di esse è il fato, la scienza, la verità, la legge dell’esistenza; legge a cui non è dato sottrarsi e sfuggire». Dal fuoco l’universo nasce e si sviluppa in un grande ciclo temporale: quindi, dopo un’immane conflagrazione, si ritrae in esso per ripetersi in necessari cicli identici a sé (eterno ritorno). c) L’etica. Da questo quadro teorico, Zenone deriva un’etica fondata su una condotta di vita secondo natura: l’uniformarsi all’ordine razionale del cosmo è la virtù che si identifica con il bene e la felicità. Essa esige la rinuncia alle passioni, realizzando il pieno dominio di sé (autárkeia) che consiste nella completa indifferenza (apátheia) di fronte ai moti affettivi e agli impulsi, considerati «contro natura e aberranti alla ragione». Solo il sapiente è dunque libero e del tutto autonomo: a lui spetterebbe dunque la guida della società, concepita in termini cosmopolitici e retta secondo principi di moderazione in una costituzione mista, senza templi (perché sarà libera dalla superstizione religiosa) e tribunali (perché vi regneranno l’amicizia e la comunione di donne e beni). Sviluppato dai suoi successori Cleante e Crisippo, lo stoicismo di Zenone fiorirà in età romana, mentre alcuni suoi motivi saranno variamente ripresi nel medioevo (per esempio nelle cosmologie della ➔ Scuola di Chartres), nell’età moderna (specie dall’indirizzo razionalistico) e contemporanea (in particolare nell’ambito degli studi di logica e semiologia). Zwingli, Huldrych Teologo svizzero (Wildhaus 1484 - Kappel 1531), che introdusse la Riforma a Zurigo. Di formazione umanistica, entrò nel 1616 in contatto con Erasmo, che influì sulla sua concezione di un

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ritorno della Chiesa alla semplicità evangelica e della teologia alle sue fonti scritturali. Alleatosi spiritualmente con Lutero, sviluppò un’autonoma riflessione religiosa che espose sistematicamente nel Commentarius de vera et falsa religione (1525). Presentando Gesù più come maestro che come salvatore, Zwingli intese il cristianesimo come conoscenza della verità, che si traduceva in un rigoroso esercizio della virtù: lontano (almeno all’inizio) dal pessimismo luterano, egli intepretò infatti il peccato più come l’indicazione di una condizione che è propria di ogni uomo che come un radicale stato di corruzione. Ne derivarono, in un clima di una più larga razionalità (la religione di Zwingli ha, in rapporto a quella di Lutero, minore senso del mistero), da un lato il rifiuto delle pratiche esteriori e dei sacramenti (tranne il battesimo e l’eucarestia, sia pure in forma di pura significazione spiri-

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tuale), dall’altro l’individuazione della Bibbia come esclusivo fattore normativo per la fede e la condotta morale. In seguito tuttavia, sotto l’influsso di San Paolo e Agostino (che lo distaccarono dall’originario spirito erasmiano), concepì la giustificazione come opera esclusiva della grazia e conseguenza della fede nella misericordia divina, mentre in seguito all’azione di Lutero, ne accettò le posizioni in materia ecclesiologica (rifiuto del primato del papa e della struttura istituzionale della Chiesa, del celibato e dei voti monastici ecc.). Dopo la sconfitta dei cantoni protestanti da parte di quelli cattolici, la riforma di Zwingli perse vitalità istituzionale in favore del calvinismo, ma rimase un punto di riferimento sia sul piano sociale sia su quello dottrinale per tutti coloro (per esempio molti riformati italiani in esilio) che avversarono il rigorismo eccessivo di Calvino.