L'inizio e la fine. I confini del romanzo nel canone occidentale 8880637452, 9788880637455

"Il volume consiste di cinque capitoli, organizzati cronologicamente, dall'antichità classica (I), al medio ev

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L'inizio e la fine. I confini del romanzo nel canone occidentale
 8880637452, 9788880637455

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IL PORTICO

II volume consiste di cinque capitoli, organizzati cronologicamente, dall'an­

tichità classica (1), al medio evo romanzo (II), al Cinquecento derna

(III), all'età mo­ (IV), al Novecento (V). La trattazione si concentra sugli inizi e sulle fini

dei romanzi (nel senso che il termine assume nei vari periodi), indicando sia le implicazioni filosofiche delle categorie di 'inizio' e di 'fine', sia i loro risvolti semiotici. L'esposizione teorica è luminosa, ma l'aspetto più accattivante del libro consiste nelle ammirevoli analisi dedicate a singole opere, che chiari­ scono, in profili di una decina di pagine ciascuno, i tratti salienti e rivelatori degli incipit e degli explicit di grandi testi classici. Citerò, fra quelle che ho trovato più illuminanti e attraenti, le pagine dedicate a Boiardo, Ariosto, Tasso, Rabelais (con la sua straordinaria commistione di elementi paratestuali, metatestuali, e testuali, tanto nel Pantagruel quanto nel Gargantua), nel capitolo III, ai Promessi Sposi, a Moby Dick, ai Malavoglia, nel capitolo IV, a Proust, Joyce, Aann O'Brien, Calvino, nel capitolo V. "Il tema affrontato in questo libro è inesauribile", conclude l'autrice, con una frase adatta all'inizio, oltre che alla fine dell'opera, e poco dopo cita l'espres­ sione in medias res, in medias sententias, osservando che è stata coniata da Anthony Nuttall esclusivamente per gli inizi letterari, ma che lei non può non estenderla anche alle fini. Si tratta di un motivo con cui è sembrato appropriato cominciare e finire anche questa breve prefazione. (Giulio Lepschy) GIULIANA ADAMO è docente di Lingua e Letteratura italiana al Department of ltal ian del Trinity College dell'Università di Dublino. Si interessa dell'800 e del 900 ita­ liano, del genere romanzo all'interno del canone occidentale, di traduzione, di com­ paratistica, di storia. Tra i suoi volumi monografici o curati da lei, L'ultimo dono di Quetzalcoatl. Viaggio intorno al cioccolato e divagazioni, Pavia, Monboso Editore, 2001 (co-autrice Grazia Bruttocao, premio "Cesare Angelini" 2002); Metro e ritmo nel primo Palazzeschi, prefazione di Cesare Segre, Roma, Salerno Editrice, 2003; La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, (con un saggio della curatrice dal titolo Sull'inizio del Sorriso dell'ignoto marinaio), prefazione di Giulio Ferroni, San Cesario, Manni, 2006; Le fiabe di P icéto. Dieci fiabe per bambini dai sei ai cento anni, postfazione di Paolo Cherchi, Torino, Anti­ gone Edizioni, 2006; Luigi Meneghello. "Volta la carta la ze finia ". Biografia per immagini, (co-autore Pietro De Marchi), Effigie, Pavia, 2008; Paolo Cherchi. Eru­ dizione e leggerezza. Saggi di filologia comparativa, introduzione di Roberto Anto­ nelli, Viella, Roma, 2012; Vittore Bocchetta. Una vita contro. Ribelle, antifascista, deportato, esule, artista, prefazione di Oliviero Diliberto, postfazione di Paolo Cher­ chi, CUEC, Cagliari, 2012. Collabora con riviste di filologia e critica letteraria tra cui e . In copertina: M.C. Escher, Drawing Hands, 1948

ISBN 978-88-8063-745-5

IL PORTICO

€28,00

9 7888 o 637455

MATERIALI LETTERARI

IL PORTICO. BIBLIOTECA DI LETIERE E ARTI

1 6 1.

Sezione: MATERIALI LETIERARI

Ad Anna Laura e Giulio C. Lepschy

Giuliana Adamo

L'inizio e la fine I confini del romanzo nel canone occidentale

LONGO EDITORE RAVENNA

Chi rappresenta dal principio alla fine lo svolgimento completo della vita umana o di un fatto di lunga durata, arbitrariamente taglia e isola; ad ogni momento la vita è già incominciata da un pezzo ed ad ogni momento continua il suo corso; e ai personaggi capitano molte più cose di quante egli potrà mai raccontare. Ma quanto succede a poche persone nel giro di pochi mi­ nuti, ore o tutt'al più giorni, può forse essere descritto con una certa completezza. (Erich Auerbach) Nel mondo non si è verificato ancora nulla di definitivo, l' ultima parola del mondo e sul mondo non è ancora stata pronunciata, il mondo è aperto e libero, tutto è ancora nel futuro e sarà sempre nel futuro. (Mikhail Bachtin) In

un testo mai nulla è scontato, a cominciare dal titolo.

Questo libro è impossibile. l Questo libro è infinito.

ISBN 978-88-8063-745-5 ©Copyright 2013 A. Longo Editore snc Via P. Costa, 33- 48121 Ravenna

Te!. 0544.217026- Fax 0544.217554 e-mail: [email protected] www.longo-editore.it Ali rights reserved Printed in ltaly

(Michele Ranchetti) (Antonella Anedda Angioy)

PRESENTAZIONE

Sono stato coinvolto con l'inizio, �ltre che con la fine, di questo libro. Esso è nato come tesi di dottorato all'Università di Reading. In quanto direttore della ricerca ho seguito l'elaborazione del lavoro e ho avuto modo di apprezzarne la serietà, l'im­ pegno e la dottrina. Il tema dell'inizio e della fine delle opere letterarie era allora poco coltivato, e solo mentre portava avanti la sua ricerca l'autrice ha visto diven­ tare di moda l'argomento a cui si dedicava. Il volume consiste di cinque capitoli, organizzati cronologicamente, dall'anti­ chità classica (1), al Medio Evo romanzo (II), al Cinquecento (III), all'età moderna (IV), al Novecento (V). La trattazione si concentra sugli inizi e sulle fini dei ro­ manzi (nel senso che il tennine assume nei vari periodi), indicando sia le implica­ zioni filosofiche delle categorie di 'inizio' e di 'fine', sia i loro risvolti semiotici. L'esposizione teorica è luminosa, ma l'aspetto più accattivante del libro consiste nelle ammirevoli analisi dedicate a singole opere, che chiariscono, in profili di una decina di pagine ciascuno, i tratti salienti e rivelatori degli incipit e degli explicit di grandi testi classici. Citerò, fra quelle che ho trovato più illuminanti e attraenti, le pagine dedicate a Boiardo, Ariosto, Tasso, Rabelais (con la sua straordinaria commistione di elementi paratestuali, metatestuali, e testuali, tanto nel Pantagruel quanto nel Gargantua), nel capitolo m, ai P romessi Sposi, a Moby Dick, ai Malavoglia, nel capitolo IV, a Proust, Joyce, Flann O'Brien, Calvino, nel capitolo V. ··n tema affrontato in questo libro è inesauribile", conclude l'autrice, con una frase adatta all'inizio, oltre che alla fine dell'opera, e poco dopo cita l'espressione in medias res, "in medias sententias", osservando che è stata usata daAnthony Nut­ tall esclusivamente per gli inizi letterari, ma che lei non può non estenderla anche alle fini. Si tratta di un motivo con cui è sembrato appropriato cominciare e finire anche questa breve presentazione. Londra. l o novembre 201 2

Giulio Lepschy

Ringraziamenti

Vorrei esprimere tutta la mia gratitudine a Giulio Lepschy per gli insegnamenti im­ pagabili, il supporto e la pazienza dispiegati a piene mani nei lunghi anni del mio lavoro e ben oltre, ma soprattutto, per l'alta lezione di sapienza e di etica di cui ho beneficiato a partire dal nostro primo incontro. Un grazie particolare a Paolo Cherchi per avermi sempre sollecitata a non demordere incoraggiandomi e criticandomi con la sua erudizione, saggezza. amicizia. Versioni precedenti di questo libro sono state lette e commentate da Margherita Ga­ neri, Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Nasi, Cesare Segre: a tutti loro la mia profonda riconoscenza, e a me la responsabilità di non essere sempre riuscita a seguire tutti i loro preziosi suggerimenti. Un grazie di cuore a Vito Biolchini per il lavoro certosino grazie a cui il libro ha rag­ giunto la sua forma attuale e a Mario Diacono per le sempre illuminanti indicazioni. Un ringraziamento a tutti gli amici e colleghi dell'Università di Reading per l'aiuto e il con­ forto offertomi in più occasioni. In particolare il mio pensiero va a Nadia Cannata e a Francesca Medioli per l'assistenza e la vicinanza tenaci nei momenti belli e in quelli più duri. Sono debitrice nei confronti di Zyg Baraitski per la presenza assidua e i consigli sul Medio Evo e a Chris Wagstaff per gli scambi dialettici pugnaci e costruttivi. Un grazie sentito al Trinity College di Dublino, alla School of IAnguages Literatures and Cultura[ Studies e ai colleghi ed amici del Department of ltalian che mi hanno sostenuto e per­ messo di portare a termine questo lavoro. In particolare ringrazio Corinna Salvadori Lo­ nergan e Cormac 6 Cuilleanain per la grande, costante disponibilità. Un grazie a Mary Keating per il suo fondamentale supporto pragmatico. Grande il mio debito nei confronti di Marco Sonzogni, collega ed amico speciale, per i suggerimenti, le traduzioni, il soste­ gno ininterrotto e le belle risate. Un riconoscimento particolare va al Department of Ro­ mance IAnguages and Literatures dell'Università di Harvard, e al suo direttore Lino Pertile per avermi accolto come Fulbright Visiting Scholar durante il periodo sabbatico 2008-2009 e, poi di nuovo, come Visiting Scholar nel periodo sabbatico 2010-2011. Il mio ringraziamento si estende anche alla Fulbright Association per avermi offerto una ma­ gnifica opportunità di studio, ricerca, serenità. Ringrazio inoltre il personale della Wìde­ ner Library di Harvard dove ho, di fatto, scritto il libro. La mia riconoscenza alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Università di Cagliari, in particolare a Mauro Pala e Laura Sannia, per avermi accolto come Visiting Professar nell'anno accademico 2009-20 l O per un corso ai dottorandi sugli argomenti di­ scussi in questo libro. Sono obbligata nei confronti dell'Association and Trust del Trinity College senza il cui aiuto finanziario questo volume non esisterebbe. In ultimo, un grazie profondo a tutta la mia famiglia, agli amici più cari, e ad Alberto, per la sympathia, l'amore, la presenza, la pazienza e l'ironia con cui mi sono sempre stati vi­ cini. G.A.

INTRODUZIONE

1.0 Prime parole La storia del romanzo è lunga. variegata. complessa Le sue origini, la definizione, la natura, la materia. le funzioni, gli statuti, i fini, i molteplici generi e sottogeneri, le responsabilità dello scrittore, il pubblico dei lettori, sono stati nel corso dei secoli og­ getto di congetture, interpretazioni, dibattiti e polemiche spesso infuocati e accaniti; nonché di trattati, teorie e studi çon approcci differenti e spesso opposti. Solo alcune questioni sono state, forse, risolte definitivamente. Altre continue­ ranno - secondo i cambiamenti e i corsi e ricorsi del quadro sociale ed epistemolo­ gico della critica letteraria. delle aspettative del pubblico dei lettori, e, magari, grazie all'eventuale riemersione di materiali antichi e di scoperte attuali- ad essere rim­ postate, discusse, analizzate. Tra i tanti problemi inerenti ai romanzi è di particolare importanza quello che ri­ guarda l'inizio e la fine del racconto. Si tratta di un problema che, in momenti di­ versi del Novecento, ha suscitato un grande interesse da parte di autori, critici, teorici e che è stato affrontato, spesso con magistrale perizia, ma sempre in modo parziale. Non è stata ancora tentata un'analisi, sebbene non esaustiva. capace di abbracciare il doppio problema di come si inizia e come si finisce di narrare in una prospettiva storica di più ampio respiro che unisca teorie e testi letterari 1•

1 Quanto agli inizi, ampio lo spettro dei diversi approcci critici e letterari al problema incluse le bril­ lanti provocazioni di ARAaoN ( 1969), seguite dai contributi di una nutrita schiera di critici francesi (R. Jean, Dubois, Duchet, Alluin, Rousset, Lintvelt, Verrier, et a/il) e non (Brombert, Coletti, Pope, et a/il). La proposta didattica di VERRIER (1988); l'indagine trasversale di inizi di opere di letteratura, cinema e folklore curata da CAPRETI1NI ed EuGENJ (1988); lo studio degli esordi nel romanzo europeo di TRA­ VERSETII e ANDREANJ ( 1988); il tentativo di conciliare gli inizi letterari coa la teoria degli atti linguistici di SEARLE ( 1969) compiuto da GENETIE (1989); la informatizzazione della topica delle aperture narra­ tive anteriori al XIX secolo promossa dalla Société d'ATILllyse de la Topique Romanesque ( 1990); l' Ope­ nings di NUTIALL ( 1992), risposta al Sense of an ending di Kermode (1967); la proposta di una poetica degli incipit di DEL LUNGO (1 993); lo sforzo di illuminare il rapporto tra incipit e entrée en écriture di BoJE e FERRER (1 993 ) ; il vasto sguardo (comprensivo anche delle fini) degli appunti postumi sul C()­ minciare e il finire di CALVINO ( 1 995); il romanzo di inizi Se UTILI notte d'inverno un viaggiatore (1979). Quanto alle fini, E!CHENBAUM ([1927), 1968) e TOMASEVSKU ([1928), 1968) osservano che nell'econo­ mia globale del ritmo narrativo di un romanzo la conclusione presenta una struttura anticlimatica, di ral­ lentamento, riduzione, azzeramento della tensione narrativa (Spannung). Negli anni Sessanta queste

IO

Introduzione

Questo libro si sofferma sugli inizi e sulle fini narrative di alcuni capolavori del canone occidentale2. Il suo scopo è di portare qualche luce in questo campo cer­ cando di tracciare la storia del comportamento di modelli narrativi iniziativi e ter­ minativi vitali fin dali' antichità. Oggetto del mio studio è il genere romanzo. Questa scelta nasce dalla concezione della narrativa come una delle grandi ca­ tegorie, o sistemi di comprensione, a cui ricorriamo nei nostri negoziati col reale e con l'immaginario, e, in particolare, con i problemi di temporalità: i condiziona­ menti che l' uomo subisce da parte del tempo, la sua coscienza di dovere esistere entro i limiti precisi fissati dalla nascita e dalla morte. E il romanzo - essendo sempre, dal più fantastico al più realista, una rappre­ sentazione di sentimenti e passioni umane -, non può che proiettare nei suoi limina l'angoscia e il mistero (e la necessità di misurarsi con essi) di quegli ineludibili con­ fini biologici studiati da Kermode e Said3 • Da qui la mia fascinazione per gli inizi e per le fini. Anni di ricerche in proposito mi hanno portato a intravedere negli inizi e nelle fini narrative dei romanzi più diversi di epoche diverse, al di là della mercurialità on­ tologica del genere, una resistenziale iniziativa e terminativa sempre presente, co­ stante. Si tratta di archetipi irriducibili, incorruttibili come le idee di Platone, ur-strutturali della mens umana e creatrice. I per-inizio e iper-fine sono dotati di forte valenza semiotica, dovutamente inter­ testuali, sempre ricorrenti e costanti nonostante i cambiamenti degli individui, delle mentalità, delle società. Sono portatori di valori equivalenti, che svolgono funzioni idee fioriscono nei lavori della HERRNSTEIN S MITH , il cui Poetic Closure ( 1 968) rdppresenta una pietra miliare degli studi contemporanei sulle fini letterarie. Il primo, tuttavia, ad aver sollevato il problema delle fini letterarie, nella fattispecie poetiche, è stato I.A. RICHARDS in un suo breve ed eccentrico sag­ gio uscito nel 1 963 dal titolo: How Does a Poem Know When /t fs Finished. Mentre colui che ha deci­ samente rinnovato l'entusiasmo per questo problema a lungo trascurato è stato KERMODE con il suo libro del 1 967. Sulla scia del saggio della HERRNSTEIN SMITH ( 1 968), che è relativo alle fini poetiche, sono stati pubblicati altri importanti lavori tra cui bisogna segnalare Clausole di HAMON ( 1 975), Clo­ sure in the Nove/ della TORGOVNICK ( 1 98 1 ), e il numero unico della rivista de­ dicato al concetto di chiusura ( 1 984). Le proposte dei vari autori sopra menzionati riguardano la definizione e le modalità delle fini poetiche (Richards, Herrnstein Smith) e delle fini dei romanzi (Hamon, Torgovnick). J;>iverse le loro posizioni, fertile la discussione scaturitane. 2 Una precisazione terminologica: il termine canone è qui impiegato senza irrigidimento alcuno, né di ordine ideologico, né letterario, né critico. Uso canone semplicemente in riferimento ad un insieme di testi ormai considerati classici nella nostra cultura grazie ali' uso fattone da generazioni di lettori e studiosi. Ed è proprio il loro studio tutt'ora valido e fertile in ambito accademico (penso alle varie uni­ versità in cui mi sono trovata a studiare e lavorare) che mi ha portato a trarre da quel canone i testi del corpus qui proposto. Corpus che non ha pretesa alcuna di completezza, mancante di tanti testi fonda­ mentali, ma che è parso sufficiente per corroborare con l'esemplarità delle opere che lo compongono la sostanza del mio discorso. 3 KERMODE in The Sense of an Ending ( 1 967) affronta il complesso problema dell'ontologia della forma letteraria. La tesi di fondo del saggio di Kermode è che con l'affievolirsi dell'idea escatologica del tempo sia venuta a mancare anche l'autorità che consentiva di iniziare e finire una storia. SAIO, in Beginnings. lntention and Method ( 1 975), riflette sulla nozione di inizio in generale e sul début in quanto volontà di produzione di senso: l'autore sottolinea quest'aspetto intenzionale dell'inizio nel ro­ manzo e studia la sua evoluzione nella cultura occidentale a partire dal 1 700.

Introduzione

Il

analoghe (benché cambino le lingue, gli stili, le poetiche, il pubblico, che ne ri­ chiedono e rendono possibile l' esecuzione), evidentemente necessari sia all'uomo che si esprime (emittente, scrittore) sia a colui a cui il testo è rivolto (destinatario, lettore) e di cui è richiesta la partecipazione, più o meno attiva, a seconda del livello di competenza e degli orizzonti di attesa che mutuano con i tempi e coi generi4. Tema del presente volume è, dunque, l' ostinata resistenza dei modelli di inizio e fine del racconto dall' antichità fino ad oggi. Tale resistenza emerge dall' analisi diacronica di testi tra di loro tanto lontani, intesi - nel segno del romanzo - come strutture aperte e legati gli uni agli altri dalla letteratura come sistema, in nome della loro polifonia e pluridiscorsività (Bachtin), intertestualità (Kristeva), interdiscorsi­ vità (Segre)5. Prima di affrontare le analisi testuali delle opere scelte, il cui spettro cronologico è molto ampio e variegato quanto ai generi di riferimento (tra cui: epica classica, roman medievale, poemi cinquecenteschi, codificazione ottocentesca, metaromanzo contemporaneo), accennerò ad alcuni problemi relativi all'evoluzione del romanzo, in modo da chiarire i motivi che mi hanno spinto a scegliere questo genere, a sele­ zionare i testi studiati, ad adottare un metodo particolare di analisi. 1 . 1 Questione di termini

Sugli argomenti menzionati in apertura e su molti altri, esistono bibliografie ster­ minate. La complessità del problema si può inferire, per sineddoche, accennando alla varietà termino logica che dai tempi più remoti è stata impiegata per mettere a fuoco quello che, tutt' oggi, viene indicato con il termine ombrello romanzo. Accanto all' attività culturale e mentale attestata fin dall'antichità dai generi clas­ sici codificati e chiusi (quali epica e tragedia), è sempre esistita la necessità di ri­ flettere una serie di costanti dell'immaginario del proprio tempo in un insieme, un modo quasi, di narrazioni molteplici di argomento variato che, da un lato, hanno formato la tradizione orale - in cui vanno rintracciate le origini delle fabulae mile­ siae, dei racconti sibaritici, della satura menippea (dei cui tre generi nulla è rima­ sto se non vaghe menzioni e pochi frammenti), della novella - e, dall'altro, sono sfociate in opere letterarie scritte, più ampie, appartenenti a generi diversi, la mag­ gior parte delle quali mai giunte fino a noi, o perché andate perdute, o perché volu­ tamente ignorate e sdegnate dalle culture ufficiali che, in epoche e con modalità diverse (elitarismo, censure, etc.), si sono peritate di non tramandarle. Sintomatico è, a questo proposito, il caso del Myriobiblon, del patriarca di Co­ stantinopoli Fozio I (IX secolo d.C.), rassegna di notizie ed epitomi di opere in prosa greche e bizantine, cristiane e pagane. Per molti autori antichi le epitomi raccolte

4 Per le teorie della ricezione, si vedano almeno: EscARPIT ( 1 970); JAuss ( 1 969); lsER ( 1 987); Eco ( 1 979); RABINOWI1Z ( 1 987). Per una sinossi e una bibliografia ragionata CAmou ( 1 998). 5 Per una panoramica essenziale ed un'utile bibliografia, si veda PoLACCO ( 1 998). Su pluridiscor­ sivitàe pluristilismo, BACHTIN, ( 1 979, pp. 69-71 ). Per le altre osservazioni, v. KRisTEVA ( 1970, pp. 1 36146) e SEGRE ( 1 984, pp. 6 1 - 1 1 8).

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Introduzione

nella (altrimenti denominata) Biblioteca di Fozio, costituiscono tutto ciò che oggi resta delle loro opere: un esempio sono i romanzi di Antonio Diogene (Il secolo a.C.) e dello scrittore erotico Giamblico (Il secolo d.C.). Se si pensa, quindi, che dei centoventidue autori menzionati da Fozio novanta sono pressoché perduti, e ci si ricorda del fatto che un riassunto è, per definizione, altro dal testo originale, ci si può fare una vaga idea di quanto del mondo antico sia andato perduto per sempre. Ma quel vario genere di opere, incluse quelle di argomento erotico di cui persino un' auctoritas religiosa come Fozio si sentiva in dovere di salvare la memoria, come venivano definite? Gli antichi non avevano un termine specifico analogo al moderno romanzo sotto cui raccogliere generi così diversi. I greci si servivano di varie espressioni: historia (storia), mythos (mito, racconto), drama (dramma), ap6logos (racconto, apologo), diégema (esposizione), diégesis (narrazione). I latini si affidavano al più generico fa­ bula che indicava ogni varietà di racconti, compresi quelli drammatici (tragedia, commedia, mimo, farsa). L'assenza di un termine in grado di darci una resa più uni­ voca dell' antico romanzo greco e latino è dovuta alla mancanza nella stilistica tra­ dizionale e nella retorica classica di codificazioni esplicite e precise, analoghe a quelle che, dalla Poetica di Aristotele in poi, hanno riguardato l' epica e la tragedia diventando fondative nell'estetica occidentale. Occorre, quindi, usare sempre una certa cautela quando nel riferirsi a testi anti­ chi li si definisce, retrospettivamente, romanzi (si pensi, per esempio, al romanzo el­ lenico d' amore). Quanto al termine italiano romanzo, il dizionario storico del Battaglia ne chia­ risce la provenienza etimologica dali' antico francese romanz (provenzale antico ro­ mans ) derivato dall' avverbio latino romanice [loqui], ovvero 'parlare in volgare'. È del 1 1 60 la sua prima attestazione nel senso di 'racconto in lingua francese' (in op­ posizione alla lingua latina), per poi divenire più genericamente racconto, dapprima solo in versi, e più tardi, a partire dal XIII secolo, anche in prosa. Questa la defini­ zione: "Componimento letterario di carattere narrativo, di struttura complessa e ar­ ticolata e di ampia estensione, caratterizzato da libertà di invenzione e di intreccio"6. Al romance vero e proprio si ascrivono di diritto le opere francesi, originaria­ mente in versi, dei cicli bretone e carolingio, ovvero quelle che narrano, rispettiva­ mente, delle gesta d' armi e d' amore dei cavalieri della tavola rotonda di re Artù e quelle epico-guerresche di Carlo Magno e dei suoi paladini, primo fra tutti Rolando. Il romance, che in italiano si continua ad usare in tale forma come prestito dall' in­ glese settecentesco, è stato oggetto di estensioni, sviluppi, sfumature7• Oggi lo si usa, in ambito anglofono, limitativamente, per indicare soprattutto il cosiddetto ro­ manzo rosa, ma la sua storia e la sua area di azione sono più complesse. Il termine moderno affiora nel corso del XVIII secolo in Inghilterra in opposizione a nove! ('romanzo') che, si noti, l' Oxford English Dictionary spiega come prestito dall' ita-

6 Si veda anche il prezioso resoconto di RoNCAGLIA, «Romanzo». Scheda anamnestica d'un ter­ mine chiave, in Il romanzo, a cura di MENEGHETII, 1 988, pp. 89- 1 06. 7 Sulle estensioni, gli sviluppi e le sfumature del termine romance, si veda ZANOTTI, Il modo ro­ manzesco, 1 998.

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liano novella, attestato per la prima volta nel l 566, per indicare "one of the tales or short stories in a collection", ma destinato ad assumere, meno di un secolo dopo, la tradizionale forma più lunga: "long work of fiction" ( 1 639). Sulla differenza tra romance e nove[ è bene ricordare la celebre voce redatta da Walter Scott per l' Encyclopaedia Britannica nel 1 824, secondo cui il romance è una "narrazione fittizia in prosa o in versi, il cui interesse si impernia su fatti in­ consueti e meravigliosi", mentre il novel è una "narrazione fittizia che differisce dal romance perché i fatti si adattano al corso ordinario delle vicende umane e al mo­ derno assetto della società". Ma, aggiunge Scott (ripreso poi da tanti altri scrittori), la demarcazione tra i due concetti è tutt' altro che netta e "possono esistere compo­ sizioni che è difficile assegnare esattamente e unicamente all'una o all' altra classe e che di fatto partecipano della natura di entrambe". Così dicendo, Scott, per causa maggiore, definisce ed evade ad un tempo la sua stessa definizione. E questo suo atteggiamento, citato qui di proposito, è sintoma­ tico dei fiumi di inchiostro che dal Rinascimento in poi, in un crescendo rossiniano di vasta portata storica, sono stati versati per rintracciare, delineare, definire, ri­ scattare dalla paraletterarietà, provvedere di fini morali, investire di autonomia ar­ tistica degna delle arti sorelle, il nuovo genere romanzo (con i suoi numerosi generi e sottogeneri). Il romanzo è un genere che ha pagato per secoli lo scotto dell' "antica ostilità evangelica" (Henry James) che lo condannava, insieme al teatro, in quanto perni­ cioso per l ' anima immortale. Si pensi alle polemiche rinascimentali tra i fautori del romanzo (all 'epoca equivalente di poema eroico) vs i suoi detrattori; all' accanito dibattito francese tra il decoro classicista dei précieux ammessi all'Hotel de Ram­ bouillet e gli innovatori ; alle estenuanti battaglie anglo-francesi tra realismo e idea­ lismo, soprattutto nel corso del XIX secolo; al soggettivismo di Henry James a cavallo tra XIX e XX secolo, fino al modemismo e al post-modernismo novecente­ schi e oltre. Tutti argomenti su cui mi soffermerò nei prossimi capitoli. L'ampiezza e l'elasticità assunte dal termine romance sono tali da includere al­ cuni testi di cui mi occupo e che oggi vengono definiti romanzi: penso alle avven­ ture pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista; ai poemi di Chrétien de Troyes, il più famoso autore del romanzo cortese, attivo tra 1 1 70- 1 1 90; ai poemi eroici rina­ scimentali che derivano dalla linea del romance fantastico, cortese, epico e avven­ turoso; agli antiromance come Gargantua e Pantagruel8 ; a Don Chisciotte, liquidatore del romance e del romanzo cavalleresco; a Moby Dick, il capolavoro di Mel ville, considerato un romance nella rivisitazione nord-americana del genere, se­ condo la linea inaugurata da Hawthome, all'insegna del simbolismo allegorico9 . Nella storia complessa, e ancora lungi dall'essere chiarita, del genere anche la datazione della nascita del romanzo moderno è oggetto di incertezze anche di secoli:

8 Sull'antiromanzo si veda quanto dicono KERMODE: "The history of the novel is a history of anti­ novels" ( 1 967, op. cit., p. 1 3 1 ) e CALVINO: "Ogni storia del romanzo deve tener presente la storia del­ l' antiromanzo che corre contemporanea e parallela" (Appendice. Cominciare e finire, in Saggi 1945-1985, 1 995, pp. 743-753, p. 737). 9 Per le teorie anglofone sul romanzo si rimanda a PEROSA, 1 983 e 1 986.

Introduzione

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Dalla datazione più bassa, coincidente col romanzo inglese del Settecento (Hegel) o in particolare col Tom Jones di Fielding (Curtius), v'è chi è risalito sino al Don Chisciotte (Heine) o al l A ma dfs de Gaula (Menéndez Pelayo); alcuni indicano la partenza più in­ dietro col Jean de Saintré (Kristeva), con la Fiammetta del Boccaccio (modello, in ve­ rità, del romanzo sentimentale spagnolo), o con la Vita Nuova di Dante, né manca chi addita i romanzi arturiani in prosa. Ai romanisti, viceversa, pare ovvio considerare come primi romanzi quelli francesi del «cycle de l' antiquité» e soprattutto di Chrétien de Tro­ yes. Non sono già definiti romanzi dagli autori e dai contemporanei? (Segre)10 '

Il romanzo, genere par excellence della praxis, vinta lentamente l ' atavica diffi­ denza classicistica, soppianta i generi tradizionali (epica, dramma) acquistando nel mondo moderno la sua nuova connotazione di "epopea moderna" (Hegel). Nel No­ vecento sarà Bachtin a delineare la parabola della transizione dal monolinguismo degli antichi generi letterari al plurilinguismo del romanzesco, il solo genere "in contatto con l ' elemento dell' incompiuto presente" 1 1 • Lukacs invece, ampliando Hegel, puntualizza che il romanzo è l ' epopea di un' epoca nella quale la totalità estensiva della vita non si dà più in forma sensibile, nella quale l ' immanenza del senso della vita s'è fatta problematica, ma che, nondimeno anela alla totalità1 2 • To­ talità che nel Novecento, in seguito allo sfaldarsi degli ideali romantici e delle salde concezioni positiviste, si determina come quella "certezza dell' incertezza" 1 3 che, riflettendosi sui limina del testo ne sancisce apertamente l' assoluta arbitrarietà esor­ diate e l ' irrimediabile apertura finale che vedremo tematizzate e trattate metate­ stualmente nei romanzi novecenteschi, culminando nell' opera di Italo Calvino.

1.2 Corpus e motivazioni Il mio corpus include diversi testi fondativi del genere (con i loro rispettivi ap­ porti, contributi, eredità) dall' antichità ad oggi. Si considerano, pertanto, i poemi epici classici (Iliade, Odissea, Eneide), il ro­ manzo greco-latino (Satyricon, L 'asino d 'oro, i romanzi ellenici d' amore), il roman cortese medievale, la Comed{a di Dante, i poemi eroici del Rinascimento (Orlando innamorato, Orlando furioso, Gerusalemme liberata), il romanzo comico del XVI e del XVII secolo (Gargantua e Pantagruel; Don Chisciotte), il picaresco del XVI

1 0 S E GRE, I problemi del romanzo medievale, in Il romanzo, a cura di MENEGHETTI, 1 988, pp. 1 25 1 45, p. 1 27. 1 1 Bachtin, Epos e romanzo, in LuKAcs, B ACHTIN , et a/ii ( 1 976, p. 206). Si noti che la critica, a par­ tire dall' epoca rinascimentale, ha lungamente discusso sulle parentele del romanzo con i generi che lo precedono (il poema epico, la novella antica). Le recenti acquisizioni critiche optano preferibilmente per una definizione di specificità, piuttosto che per un riscontro di evoluzione dagli altri generi. Que­ sto non osta ai debiti contratti dai singoli scrittori con le auctoritates della tradizione, ragione per cui nel presente volume si parte dai testi dell'epica classica. Sul rapporto oralità/scrittura; novella (fatta per essere ascoltata)/romanzo (fatto per la lettura privata), si veda l' interessante saggio di Giusi Baldissone, Occhio al romanzo, in BARBERI SQUAROTTI, 1 994, pp. 1 09-1 2 1 . 12 LuKAcs, 1 972, p. 68. 13 STASSI, /1 'gioco ' del 'rovescio', in BARBERI SQUAROTTI, 1 994, pp. 1 23- 1 5 1 , p. 1 32.

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secolo (Lazarillo de Tonnes), quello psicologico e a chiave del XVlli (La princi­ pessa di Cléves), l' antiromanzo comico del XVIII (Tristram Shandy; Jacques il fa­ talista). E, per quanto riguarda l'Ottocento, il romanzo realista (La certosa di Panna; Madame Bovary), simbolico-allegorico (Moby Dick), storico (l promessi sposi), psi­ cologico (L'idiota; Anna Karenina), naturalista e verista (Genninale, I Malavoglia), premodernista (Ritratto di signora). Nel XX secolo la considerazione va al romanzo novecentesco moderno (Alla ricerca del tempo perduto), modernista ( Ulysses, Mrs Dalloway), postmoderno ( Una pinta d 'inchiostro irlandese, L'innominabile), meta­ romanzo sperimentale (Se una notte d 'inverno un viaggiatore). La scelta, ovviamente parziale e lungi da qualsiasi velleità esaustiva, - pur non lasciando tacere i miei gusti - ha incluso opere fondamentali per la tradizione let­ teraria occidentale. Classici con cui tutti gli scrittori successivi si sono confrontati direttamente o indirettamente, in modo aperto o dissimulato, con continuità e/o scarti, rifiuti, rotture. Si tratta di opere che si sono imposte come modello e, nel tempo, sono state continuamente riprese dalla critica, dai lettori, dagli scrittori che le hanno tenute vive usandole, menzionandole, citandole, parodiandole, critican­ dole, riscrivendole, traducendole, continuandone la tradizione innovandola o inter­ rompendola per fondarne una nuova. Tanti grandi autori sono stati esclusi (penso a Goethe, Balzac, Kafka inter a/ii), così come tanti importanti sottogeneri (come il ro­ manzo epistolare, quello fantascientifico, etc.). Pochi sono stati inclusi, con la spe­ ranza che il loro esempio possa aiutare a chiarire il senso del mio discorso rivolto, in particolare, agli studenti universitari. Ciò che ha reso necessario il ricorso, al­ l ' inizio di ciascun capitolo, a brevi cenni storici per abbozzare qualche linea gene­ rale dell'epoca considerata e presentare gli autori e le rispettive opere. 1.3 Definizione di inizio e di fine

Inizi e fini hanno sempre esercitato un grande fascino su lettori e critici e hanno sempre creato non pochi problemi agli scrittori. Si è anche assistito ad un lungo di­ battito, sia tra detrattori e fautori del romanzo sia tra questi ultimi, in relazione alla definizione, alla natura, all'importanza, al ruolo, all'interno di uno stesso testo, dei due loci testuali liminali, soprattutto in relazione alla responsabilità dell' inizio o della fine nella determinazione degli eventi della fabula e in rapporto alla tradizione. Contrastanti e affascinanti sono le posizioni dei critici più diversi e degli autori stessi. Il disprezzo per il "genere inferiore" culmina nella famosa presa di posizione di Paul Valéry che rivela a Breton che non avrebbe mai potuto scrivere un romanzo che cominciasse, per esempio, con la frase "La marquise sortit à cinq heures", e che si proponeva, per esigenze di epurazione, di riunire in un' antologia il più gran nu­ mero possibile di inizi di romanzo perché si aspettava grandi cose in fatto di imbe­ cillità 1 4. All' opposto, la tradizione dei sostenitori del genere - che ebbe

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BRETON, Premier manifeste du surréalisme [ 1 924], 1 988, p. 3 1 4.

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nell'Ottocento anglofono alcuni dei suoi più validi paladini (da Jane Austen a Henry James) - si coagula in Je n 'ai jamais appris a écrire ou les incipit ( 1969) di Louis Aragon. Lunga, affascinante, provocatoria riflessione sulle difficoltà della scrittura e sulla malia e potenza degli incipit letterari e della loro ontologica arbitrarietà che, riprendendo le suggestioni simboliste sugli inizi e sulla creazione artistica (si pensi a Mallarmé), inaugura un rinnovato interesse per la concezione degli inizi legata al­ l' imperscrutabilità del loro mistero. L'inizio come "urto delle parole con lo spazio bianco del testo"1 5 , cozzare delle parole contro il silenzio. E, da quell'urto, scaturi­ sce, impensato e impensabile, il libro. Per Aragon tutto nel romanzo è arbitrarietà: l' inizio e il testo che verrà. Il suo sogno, raffinato ed evasivo, è di vedere debuttare la singolarità del racconto fin dalle prime righe riallacciandosi, in questo, a Stendhal che diceva che ogni romanzo deve apportare qualcosa di nuovo nella prima o al­ meno nella seconda pagina. Aragon attribuisce agli inizi una significazione magica e fa sua la concezione di Kaverin, secondo cui la tonalità della prima frase è quella a cui lo scrittore presta orecchio per tutto il corso dell'opera. La prima frase,frase soglia, frase di risveglio, illuminazione, sorgente, fonte, è quella a cui tutto il testo si accorda. Tuttavia, benché Aragon dichiari l' incondizionata superiorità degli inizi sulle fini, non può negare che anche queste ultime siano ineffabilmente misteriose: ­

Se, per me, l'inizio dello scrivere è un mistero, più grande è il mistero di finire, quel si­ lenzio che segue la scrittura (p. 145).

E le fini, nonostante siano state più trascurate dalla critica, non lo sono mai state però da parte del pubblico, perché giocano un'importanza primaria ed analoga a quella degli inizi: sono, infatti, insieme alle loro controparti esordiali, le ultime pa­ role del testo quelle che più rimangono impresse nella memoria del lettore. Tra i più accaniti difensori della fine, Edgar Allan Poe dedica il suo The An of Composition16, alla necessità di scrivere partendo dalla fine. Corroborato da For­ ster che sostiene che la fine è cruciale per la determinazione della forma e dei si­ gnificati di un testo 17 • La quaestio è: qual è il momento determinante di un' opera letteraria? Il suo ini­ zio o la sua fine? La risposta ovvia sarebbe: 'Tutt'e due' , ma la storia del problema mostra che non è affatto così semplice. La discussione sull' argomento rimane tuttora fertile e aperta, e non se ne sot­ trasse certo Henry James, il "chief exemplar" di una nuova scuola di fiction e colui "who is shaping and directing American fiction", secondo le parole di Howells, che fonda il suo metodo analitico, aprendo la strada al modemismo, sulla forma aperta del romanzo, sottraendogli la fine riequilibrante. Per James ciò che conta in un ro­ manzo - il cui fine è artistico e non etico (come invece era, per esempio, per tutti gli scrittori anglofoni, tra cui George Eliot a James, per certi aspetti, la più vicina) - è

IS ARAGON, 1 969, p. 47. 16 PoE, The Philosophy of Composirion, 1875, vol. III, pp. 266-278. Poe era un fautore della forma breve, in particolare della novella, a lui più congeniale del romanzo. l? FORSTER, 1 927, p. 66.

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la ricerca basata sull' analisi dei motivi che spingono i personaggi all ' azione o al­ l ' inazione. È la personalità, non il destino dei suoi eroi che interessa lo scrittore americano (si pensi alla Isabel Archer di Ritratto di signora), di conseguenza, il pia­ cere non deriva dalla fine, ma dalla ricerca in progress che ha luogo nel testo. Il con­ tributo più importante di James al futuro del romanzo del Novecento è la fine aperta, ambigua, che non risolve, non scioglie, non compensa, non ripara, e chiama il let­ tore ad agire e, se vuole, a concludere da sé. Diceva, J ames, di detestare l' happy en­ ding tradizionale che sanciva conformisticamente la bontà del romanzo distribuendo a piene mani "premi, pensioni, mariti, mogli, bambini, milioni, paragrafi aggiunti e allegre osservazioni" 1 8 . Era consapevole che per un pubblico dal palato non fine la fine era come un dessert con cui coronare un lauto pranzo, e che qualsiasi innova­ zione a proposito, apportata dal romanziere-artista, fosse avvertita e avversata come la presenza di un medico che, a fine pasto, impedisce ai commensali di indulgere con il dolce finale. Nel 1 927 Forster sostiene che se non fosse per la morte e il matrimonio non sa­ prebbe proprio come uno scrittore medio potrebbe concludere il suo romanzo 1 9 • La fine aperta novecentesca, ribaltando la certezza di qualsiasi soluzione, lascia aperto il campo alle possibilità finali che, scomparsa l' onniscienza del narratore, chiamano in causa il lettore. Nel 1 979, in Se una notte d'inverno un viaggiatore Calvino affida a due personaggi la sua idea sui confini estremi del testo20: Un sesto lettore che stava in piedi passando in rassegna gli scaffali a naso alzato, s'avvi­ cina al tavolo. - Il momento che più conta per me è quello che precede la lettura. Alle volte è il titolo che basta ad accendere in me il desiderio di un libro che forse non esiste. Alle volte è l' incipit del libro, le prime frasi . .. [...] Per me invece è la fine che conta, - dice un settimo - ma la fine vera, nascosta nel buio, il punto d'arrivo a cui il libro vuole portarti. Anch'io leggendo cerco degli spiragli[ ... ] ma il mio sguardo scava tra le parole per cercare di scorgere cosa si profila in lontananza, negli spazi che si estendono al di là della parola "fine".

Accanto a riflessioni più sensibili alla creazione letteraria (James, Valéry, Ara­ gon) e a quelle di natura metaletteraria (Calvino )21, inizi e fini sono stati fatti oggetto, nel corso del Novecento, di teorie più razionali sul funzionamento del racconto nel senso più ampio del termine: E sono persino stati studiati i modi, in ogni epoca abbastanza codificati, di trattare l'ini­ zio e le fine delle composizioni, siano poetiche o narrative: nel complesso, essi mostrano la cura di presentare e, rispettivamente, concludere il mondo immaginario istituito nel 18

HENRY JAMES, The Art of Fiction [1 884], L'arte della narrativa, in PEROSA, 1 986, pp. 1 30- 1 46,

p. 1 33.

1 9 FORSTER, 1 927, p. 66. 2° CALVINO, Se una notte d 'inverno un viaggiatore, 1 979, pp. 256-258.

Su questo problema si ve­ dano: CALVINO, Appendice. Cominciare e finire, 1 995, pp. 743-753; STASSI, 1 994, particolarmente alle pp. 1 3 5- 1 44; ADAMO, Limina testuali nello sperimentalismo di /taio Calvino, 2003, pp. l -27. 21 Per ammissione dello scrittore gli inizi e (le fini) letterari sono decisivi perché "delimitano un mondo a sé stante, autonomo, autosufficiente, un mondo ipotetico, uno dei tanti possibili, un'isola in un arcipelago, un corpo celeste in una galassia" (CALVINO, 1 995, pp. 750-751 ) .

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testo stesso, già indicando in partenza il tipo di sviluppo che è lecito attendersi, e vice­ versa sottolineando, sul finire, la tonalità con cui si vuole che sia rimeditato tutto lo svi­ luppo testuale. [ . . ] Procedimenti non lontani dall' aprirsi e dal chiudersi di un sipario (Segre)22. .

E se, da un lato, la seduzione dei confini del testo è sentita ed espressa in termini di mistero, arbitrarietà, inconoscibilità, territorio dell'inconscio, incontro-scontro tra prima e dopo testuali, tra parola e silenzio, tra spazi tipografici bianchi e il nero dei caratteri a stampa; dall' altro, ai due limina sono stati riconosciuti inderogabili e necessari ruoli espressi in chiave pragmatica, sulla scia delle teorie dell' antica re­ torica - che molto si era soffermata sull' exordium e sulla conclusio dell'orazione fo­ rense e, soprattutto, sull'initium e sulla .finem narrationis - e degli antichi trattati di poetica (da Aristotele a Orazio) che avevano indugiato sulla descrizione delle tec­ niche di apertura e chiusura del testo letterario, mettendo a punto un armamentario che "pur mutato o diversamente inteso continua a mostrare sino ai nostri giorni la sua utilità descrittiva" 23 . La descrizione delle tecniche essendo stata fatta così bene da poter valere anche quando gli scopi dell' analisi sono venuti a cambiare24 . Ma in che cosa consistono gli inizi e le fini di cui questo libro si occupa? Non esiste un'accezione perentoria e omogenea, la loro definizione si è sempre scontrata con non poche difficoltà. Si parla - a volte differenziandoli secondo le derivazioni etimologiche, spesso so­ vrapponendoli secondo l'uso della lingua - di incipit, inizio, esordio, avvio, e di ex­ plicit, fine, scioglimento, epilogo, chiusura, clausola. Per non parlare delle differenze di significati e sfumature di lemmi di vicinanza etimologica, come quella che oc­ corre, per esempio, in italiano tra (la) fine, (il) fine, finalità; in inglese tra end, en­ ding e tra closure e close; in francese tra clausole e cloture; fin,finalité e finition. I teorici del Novecento si sono occupati di definirli in virtù delle proprie astra­ zioni relative alla catena di eventi narrati che costituisce ciascun testo narrativo (let­ terario, mitologico, folklorico). La critica letteraria novecentesca (che si è occupata quantitativamente più degli inizi che non delle fini) li ha, di volta in volta, diversa­ mente denominati e intesi (per esempio, come segmenti o sezioni più o meno lun­ ghi del testo e/o del paratesto). Tra i vari inizi e le varie fini identificabili in un testo (limina della fabula , del­ l'intreccio, della narrazione in senso genettiano, del modello narrativo), io prendo in esame l' inizio e la fine del discorso o racconto o récit25• Inizio della storia e inizio del racconto spesso, dunque, non coincidono. L' esem­ pio migliore rimane quello del Tristram Shandy di Steme: il primo libro comincia 22

SEGRE, Avviamento all 'analisi del testo letterario, 1 985, pp. 37-38.

23 Su questo argomento cfr. MoRTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, 1 989, p. 35.

24 La retorica classica descriveva puntigliosamente il modo e gli scopi (persuasivi) dell'inizio e del fine del discorso forense, cosl come i teorici moderni indugiano su inizi e fini del racconto e sulle loro funzioni e obiettivi. 25 La riflessione novecentesca per fini letterari o etnografici, si è a lungo dedicata, con approcci assai diversi, ai concetti di modello narrativo jabula intreccio, discorso, narrazione, storia, racconto, récit e ai problemi inerenti all' inizio e alla fine della catena degli eventi narrati, nonché al problema del con,

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ventitré anni prima della nascita dell' eroe-narratore che dice io. Quanto alla non coincidenza di fine del discorso e fine della storia, il caso insuperato è quello della Recherche di Proust: è alla fine del racconto che Marcel diventa scrittore e può co­ minciare a scrivere il libro che, paradossalmente, ha appena concluso. Quello che intendo per inizio è, quindi, un segmento testuale di estensione va­ riabile (da un minimo di due righe a brani di più capoversi) che comincia con la prima parola del discorso, dopo lo spazio bianco iniziale e che termina con una forte cesura narrativa, tematica, sintattica, lessicale, o tipografica facilmente avvertita dal lettore; e per fine un segmento testuale di estensione variabile (da poche righe a più capoversi) che inizia con una rottura di ordine narrativo, tematico, sintattico, lessi­ cale, o tipografico avvertibile senza difficoltà dal lettore e che termina con l' ultima parola del testo, prima dello spazio bianco finale. Questa definizione, inevitabil­ mente lapalissiana, credo descriva con sufficiente flessibilità alcune costanti di ogni apertura e di ogni chiusura. L' avervi incluso la reazione del lettore è importante, perché solo quest'ultimo può mettere in azione i meccanismi inerenti a una plausi­ bile lettura dell' opera: il fatto che egli sia capace di avvertire le pause, le rotture, le cesure (di qualsiasi ordine esse siano) fa parte della strategia costruttiva del testo e, quindi, dell' architettura e del senso degli inizi e delle fini. 1 .4 Metodo

Lo studio dei modi iniziali e finali di un certo numero di romanzi permette di rispondere a tre domande essenziali: - Cosa succede all'inizio e alla fine di ciascun testo? - Cosa costituisce e caratterizza gli inizi e le fini letterarie, sia nel proprio statuto individuale sia nella reciproca interazione nello stesso testo? - Come agiscono gli inizi e le fini attraverso i secoli? Rispondere a queste domande ha richiesto i seguenti passi: - L' analisi dei romanzi del corpus che ha portato ad un'individuazione sponta­ nea di elementi rilevanti per il mio discorso. - Lo studio di numerosi lavori critici, assai differenti fra loro, che includono la Poetica di Aristotele, gli antichi manuali latini di retorica e poetica, le poetriae me­ dievali, i trattati di retorica e poetica del Rinascimento, il secentesco Traité de l 'ori­ gine des romans di Huet, le teorie sul romanzo inglesi e americane del XVIII e XIX secolo, quelle francesi del XIX secolo, la vasta bibliografia del Novecento dettata

dizionamento (univoco o reciproco) di inizio e fine. Cfr.: i formalisti russi ToMASEVSKU ([I 925], I 968), E.JCHENBAUM ( [ 1927], 1968), S KLOVSKJJ ( [ 1 925], 1974); il folklorista PRoPP ( [ 1 928], 1966); l'etnologo OUNDES ( 1964); BREMOND ( 1 969; 1977); GREIMAS ( 1 966; 1 969); BENVENISTE ( 1 959); TODOROV ( 1 966, p. l 29); WEINRICH ( 1 978); GENETIE ( 1 976); larMAN ( 1 972; 1 975); VAN DUK ( 1 972); Eco ( 1 979); PRINCE ( 1982). Interessante la posizione dei folkloristi MARANDA ( 197 1), per i quali il racconto mitico "is built from its outcome, like a mistery story" (p. 30).

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da scuole, teorie e punti di vista molto diversi (formalismo, strutturalismo, deco­ struzionismo, semiologia, intertestualità, narratologia, teorie della ricezione, etc.). - L'ulteriore analisi al rallentatore dei testi del corpus fatta, questa volta, usando uno schema teorico che si avvale, in modo eclettico, flessibile e, il più possibile comprensivo, dei molteplici suggerimenti provenienti dallo studio della critica e dai testi stessi. Tale schema, o griglia interpretativa, prende in esame i cinque livelli testuali che agiscono simultanei nel testo, formando ogni inizio ed ogni fine. Si tratta dei livelli: retorico, linguistico (grammaticale e sintattico), semantico, stilistico, narratologico (tecnico-narrativo) 26 • Ciascun livello è, a sua volta, costituito dall'insieme degli ele­ menti presenti, rispettivamente, in sede iniziale e finale, la più parte permanenti, emersi dal confronto di tutte le analisi particolari27 • Ogni livello risulta, dunque, for­ mato da una serie di voci iperonime (ovvero generali, si vedano, per esempio, le voci "Tempi e modi verbali" a livello linguistico e "Schema di Todorov" a livello narratologico )2 8 sotto cui, quando si procede ali' applicazione del modello al corpus, 26 Retorica: intesa come arte della persuasione e quindi legata alla funzione appellati va, fàtica, pro­ logante del testo, ovvero al contatto tra autore e lettore. Sintassi e grammatica: insieme delle procedure sintattiche e degli elementi verbali, pronominali, avverbiali, aggettivali, etc. , attualizzati nel testo. Se­ mantica: in relazione ai campi semantici, alla tematica in risposta alla triade incipitaria 'Chi? Dove? Quando?' , ai topoi, ai motivi, alle forze attanziali, al tasso di informazione o ridondanza o rumore non informativo, etc. , esibiti dal testo. Stile: la scelta del tono stilistico dominante e/o la presenza della re­ torica del silenzio. Tecnica narrativa: i complessi aspetti legati alle scelte narrative del modo, del tempo narrativo, del tipo di narrazione, dello statuto del narratore, etc. 27 Mi pare opportuno dare un'idea metodologica fornendo la lista delle voci iperonimiche costitu­ tive di ciascun livello della griglia. l) Livello retorico: segnali semiotici; massime conversazionali di GRICE ( 1 978); patto di lettura; captatio benevolentiae (solo inizi); inizio come formazione del lettore (solo inizi); passo di lettura; protocollo di lettura (solo inizi); legenda dell'intero testo (solo fini). II) Li­ vello sintattico-grammaticale: sintassi, pronomi; tempi e modi verbali; fissazione del tempo (solo inizi); cessazione del tempo (solo fini); aspetto iniziativo (solo inizi); aspetto terminativo (solo fini); tipo di verbi; aggettivi; deittici e indicatori di discorso; avverbi; congiunzioni; negazioni; articoli. Ill) Livello semantico: campi semantici; temi; motivi e topoi; spazio (opposizioni binarie); naming; paesaggio l ambiente l atmosfera; atlanti; statuto illocutivo; teoria dell'informazione. IV) Livello stilistico: stile; retorica del silenzio. V) Livello tecnico-narrativo: schema di Todorov; caratteristiche; modo e voce; tecnica narrativa dell' incipit (solo inizi); tecnica narrativa dell' explicit (solo fini); tempo esplicitato (del racconto; della storia narrata; della narrazione); polifonia; discorso riportato; personaggi; tipo di nar­ razione; durata narrativa; frequenza narrativa. Sono molti gli studiosi delle discipline e delle branche più diverse i cui lavori hanno contribuito a farmi mettere a punto la griglia interpretativa. Lo schema di cui mi sono servita è nato dall'esigenza di individuare e descrivere le componenti costanti e quelle varia­ bili di ciascun inizio e di ciascuna fine. Per poter identificare con maggior chiarezza queste compo­ nenti occorreva che io procedessi sistematicamente registrando, all' inizio e alla fine dei singoli testi, la presenza o assenza e, quindi, il comportamento, di un numero fisso di elementi essenziali. Il ricorso allo schema ha, infatti, permesso di: a) separare i cinque livelli ; b) raggiungere un ordine (teorico) costante nella successione degli elementi analizzati; c) rendere possibile e agevole la comparazione finale di tutte le analisi testuali fra di loro; d) verificare l' assenza o la presenza di elementi equivalenti in testi diversi; e) consentire di vedere quali siano, di volta in volta, il comportamento e la funzione di tali ele­ menti (qualora essi siano presenti in più testi) e di identificare e definire le soluzioni alternative (nei testi in cui essi siano assenti). 28 Schema messo a punto per indicare le possibili gradazioni dell'onniscienza ovvia dello scrittore at­ traverso la figura-schermo del narratore. Cfr. ToooROV, Les catégories du récit littéraire, 1 966, pp. 1 25- 1 5 1 .

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vengono annoverati gli elementi iponimi (ovvero specifici) attualizzati nel testo (si vedano, ad esempio, sempre in relazione al precedente esempio, le voci: "Imper­ fetto indicativo, narrativo, dello sfondo" di Weinrich29 ; "Narratore sa più del perso­ naggio" di Todorov). Le decine e decine di voci listate che sono emerse, via via, dalle analisi testuali sono relative alla soluzione di problemi che tutti i testi si trovano a dover affrontare e risolvere: anche il testo più rivoluzionario deve esprimersi attraverso la categoria della persona, focalizzare ciò che narra, scegliere la voce che narra, ricorrere all'uso dei tempi e dei modi verbali, optare per un' aggettivazione più o meno denotativa o più o meno connotativa, etc. 30 . I risultati delle due analisi (una più libera emergente dai testi, una più vincolata raggiunta lavorando sulle opere critiche) hanno evidenziato le componenti costanti, e per la maggior parte, permanenti in ciascun inizio e in ciascuna fine, e credo ab­ biano consentito di evitare il pericolo della formulazione di uno schema troppo ri­ gido da applicare agli sfuggenti confini del discorso letterario. In altre parole, non ho imposto ai testi uno schema prefissato, ma piuttosto sono stati gli stessi testi, prima liberamente analizzati e quindi corroborati dai numerosi studi sull' argomento, a suggerirrni come concepirlo e organizzarlo. Del resto, poiché le descrizioni ana­ litiche sono di natura inventariale e, quindi, lunghe e noiose, nei prossimi capitoli darò, per ciascun testo analizzato, un commento sintetico, dal taglio più narrativo. Si tratta di una proposta di lettura che spero possa servire a chiunque vi trovi motivo di interesse per procedere ad investigare oltre, contribuendo a discutere ed arricchire le mie congetture.

29 Sulla distinzione tra tempi commentativi e tempi narrativi, e all ' interno di questi ultimi, tra tempi dello sfondo e tempi dell' azione, cfr. il fondamentale testo di WEINRICH, Tempus. Le funzioni dei tempi

nel testo, 1 978.

30 Lo schema teorico è identico per gli inizi e per le fini, ma con alcuni elementi esclusivamente ini­ ziali o finali (v. nota 27 di questo capitolo).

PARTE PRIMA Inizi e fini dall 'antichità classica al Rinascimento

I. ANTICHITÀ GRECO- ROMANA

1 .0 Per cominciare

Nelle prossime pagine discuterò alcune questioni di teoria letteraria particolar­ mente significative per l'oggetto del mio studio. Innanzitutto cercherò di rendere conto degli elementi della trattazione teorica, re­ torica e poetica, riservata dagli antichi agli inizi e alle fini di un discorso (orale o scritto). A tal fine mi sono servita sia della precettistica retorica (da Corace a Quin­ tiliano) dell'exordium e della conclusio nonché dell'initium e della finem narratio­ nis nel discorso oratorio forense; sia della descrizione delle tecniche di apertura e chiusura del testo letterario dei trattati di poetica (da Aristotele ad Orazio) 1 • Successivamente, tenterò di identificare che cosa effettivamente caratterizzi gli inizi e le fini di alcune opere letterarie di grande importanza nella cultura occiden­ tale, con particolare riferimento a: Iliade, Odissea, Eneide; ai romanzi greci di età ellenistica e a quelli latini di cui abbiamo riscontro. Lo scopo di questo capitolo è di tracciare un quadro (tanto teorico quanto te­ stuale) dei modi di aprire e chiudere un testo così come si sono codificati attraverso l ' età classica venendo a costituire un paradigma di riferimento a cui tutt'oggi non ci si può sottrarre. 2.0 L'eredità greca

All'inizio, secondo una tradizione antica largamente diffusa ma non accreditata, fu Corace (V secolo a.C.) a sviluppare uno schema tripartito del discorso oratorio 1 Bibliografia essenziale. ARISTOTELE, The works of Aristotle Translated into English: Rhetorica, De rethorica ad Alexandrum, De poetica, 1 924; Rhétorique, 1 973; Poetica, 1 945. PsEuoo-CICERONE, Rhétorique à Herennius, 1 989. CICERONE, De l 'invention (s.d.); Divisions de l 'art oratoire, 1 924; Opere retoriche, 1 976. QUINTILIANO, lnstitution oratoire, 1975-80. ORAZio, Arte poetica di Orazio, 1 945. Ma­ nuali di retorica: LAUSBERG, 1 969; MORTARA GARAVELLI, 1 989. Altre opere: KENNEDY, 1963; BARILLI, 1 979 e 1 969-84; BARlHES, 1 972; GENEITE, Figure, in Figure /, 1 969, pp. l 87-202; La retorica ristretta, in Figure II/, 1 976, pp. 1 7-40. ORVIETO, La retorica antica dalle origini al Rinascimento e la sua at­ tualità, in Discorso e retorica, 1 98 1 , pp. 50- 1 08.

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Cap itolo primo

per aiutare i suoi concittadini a parlare nelle assemblee pubbliche: prooimion, agon, epilogos. La tripartizione interessa qui solo per il suo valore storico dato che, pre­ sumibilmente, immette per la prima volta in circolo le nozioni di proemio ed epilogo che tanta fortuna avranno nei futuri domìni della retorica. Tisia, dal canto suo, pare abbia elaborato meglio quella divisione applicandola al genere judiciale e antici­ pando quella che diverrà la struttura standard quadripartita dell'orazione classica: prooimion, diegesis, pistis, epilogos2 . Platone affronta nel Fedro (266d) la definizione di retorica, delle sue parti, della forma degli argomenti. Attraverso Socrate enuclea le parti costitutive del discorso forense ponendo una certa enfasi, ironica, sulla collocazione del proemio e sulla funzione dell'epilogo. Questa testimonianza attesta che all' altezza cronologica in cui si colloca il Fedro (prima metà del IV secolo a.C.) la quadripartizione dell'orazione giudiziaria era divenuta una realtà universalmente accettata. Quanto detto vale per la retorica, ma nel Fedro c'è di più. Vi si trova la conferma, per esempio, della grande attenzione con cui, fin dall' antichità più remota, sono stati considerati gli inizi di un lavoro letterario. Platone, infatti, insiste su ciò che Socrate (nel Fedro) chiama «necessità lo go grafica» di ogni scritto. Il principio di necessità logografica vuole che ogni composizione letteraria venga strutturata (ivi, 264c) come un organismo vivente con il suo proprio corpo, in modo che adesso non manchino né la testa né i piedi, ma abbia un mezzo e delle estremità ben adattati tra loro e il tutto.

Aristotele, nei capitoli 1 3- 1 9 del III libro della Retorica dedicato allo stile, di­ scute le quattro parti costitutive del discorso (epidittico, giudiziario, politico) e di­ stingue quelle essenziali (esposizione e argomentazione) da quelle non necessarie (proemio ed epilogo). Manca qualsiasi accenno alle opzioni stilistiche più appro­ priate a queste parti del discorso, eccezion fatta per il consiglio di usare l' asindeto in conclusione di un discorso, essendo l'efficacia di questa figura tale da ..mutare una sentenza ordinaria in un vero e proprio epilogo" (III, 19, 6- 1 0). Nella tardiva Rhe­ torica ad Alexandrum Aristotele insisterà unicamente, e laconicamente, sul carattere meramente pragmatico del proemio e su quello riassuntivo dell'epilogo. Nella Poetica affronta il problema degli inizi e delle fini nella narrazione lette­ raria pervenendo a un risultato opposto a quello raggiunto in sede retorica. Le in-

2 Di Corace non è rimasto nulla. Tisia, invece, è risaputo che insegnò una teoria sull'oratoria giu­ diziaria di cui Platone e Aristotele conoscevano un sommario scritto. Per Corace e Tisia si vedano: RA­ DERMACHER, 1 95 1 , A, V, pp. 1 1 -27 e B, II, pp. 28-35 ; KENNEDY, 1 963, pp. 26, 30, 52-6 1 ; MORTARA GARAVELLI , 1 989, pp. 17, 1 9, 27, 55, 90; COLE, 1 99 1 , pp. 5-9; EDWARDS, 1 994, pp. 2-3. Ricordo che gli antichi non sapevano quasi nulla di Corace. Platone non lo nomina mai. Aristotele lo nomina solo una volta nella Retorica ( 1 402" 1 8) e gli attribuisce lo stesso esempio sull' argomento per probabilità che Platone (Fedro, 273•6 ff.) aveva attribuito a Tisia. Cicerone nel De Inyentione (II, 6) dice che la perduta Sunagogé tekhnon si apriva con Tisia; nel Brutus accenna a Cornee (46 ff.). D' altra parte la tradizione dello storico siciliano Timeo (IV sec. a.C.) mostra un grande interesse per Corace e pochissimo per Tisia. Insomma, non è possibile stabilire con certezza chi siano realmente Corace e Tisia, quale fosse la qualità dei loro rapporti reciproci e che cosa abbiano veramente fatto. Li ho voluti ricordare per il loro status cronologico di anteriorità assoluta.

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formazioni più preziose si traggono dalla sua trattazione della favola o muthos, uno degli elementi costitutivi di tragedia ed epopea (VII, 1 450b , 25-32): Tragedia è imitazione di un' azione compiuta e intera avente una certa ampiezza. Intero è ciò che ha un principio, un mezzo e una fine. Principio è ciò che non viene necessaria­ mente dopo altro, mentre è naturale che altro esista o avvenga dopo di esso. Al contra­ rio, è fine ciò che per sua natura viene dopo altro, o necessariamente o il più delle volte, mentre ad esso altro non segue. Mezzo, infine è ciò che si trova dopo altro e altro viene dopo di esso. Bisogna quindi che le favole, per essere ben congegnate, non comincino e non finiscano dove capita.

L' apparente ovvietà del brano non deve trarre in inganno, perché Aristotele va an­ cora una volta a segno individuando con estrema lucidità la funzione motrice del primo elemento e quella conclusiva dell'ultimo3• Sono la necessità e la non arbitra­ rietà degli inizi e delle fini del muthos che colpiscono particolarmente in questo passo. La compiutezza e l'unicità del muthos della poesia epica, continua Aristotele riprendendo la metafora di Platone, sono indispensabili (XXIII , 1 459a, 1 9) affinché il poema epico come un organismo intero e vivente procuri quel piacere che gli è particolare.

La composizione delle favole epiche e tragiche non deve essere simile a quella delle trattazioni storiche (ivi, 20-35) in cui si narrano tutti i fatti che sono accaduti in una determinata epoca [ ... ] ciascuno dei quali si trova rispetto ali' altro in un rapporto casuale [ ... ]. Per questo anche sotto questo aspetto Omero può apparire divino in confronto agli altri [poeti ciclici], perché non si ac­ cinse a poetare di tutta quanta la guerra di Troia, che pure aveva un inizio e una fine [ ... ]. E allora, staccatone una sola parte, trattò delle altre sotto forma di episodi.

Aristotele insiste sulla coerenza, anzi sull' organicità dei fatti e sulla compiutezza della narrazione letteraria che deve essere autonoma, nel senso di avere un inizio e una conclusione tali da giustificarne l'estrapolazione dal flusso degli avvenimenti esterni, ed enfatizza il rapporto di reciproca necessità che deve sussistere fra le parti della favola4 . Ricordando, con B arthes, che per Aristotele la retorica è una tekhne speculativa e non una doctrina dicendi come, invece, sarà per i retori romani5, la lezione che egli

3 RosTAGNI ( 1 945, p. 98) chiosa l'assunto aristotelico: "Il principio, il caso primo di un'azione, può benissimo avere degli antecedenti, purché ad essi non sia legato da un nesso di necessità logico-este­ tica. Sono antecedenti storici, non poetici". 4 Cfr. Poetica Vffi, 1 45 1 ", 30-35: "Come dunque in tutte le altre pratiche imitative l ' imitazione uni­ taria è quella di un unico oggetto, così anche è necessario che la favola, poiché è imitazione di un'azione lo sia di un'azione unica e insieme intera e che le parti che la compongono siano così connesse che, spo­ standone o sopprimendone una, l'intero ne risulti mutato o alterato, perché ciò che, aggiunto o tolto, non produce nulla di evidente non è parte dell' intero". 5 BARlHES, L'ancienne rhétorique, 1 970, alle pp. 1 95- 1 96.

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consegnò al mondo latino è la seguente: in sede retorica, funzionalità meramente pragmatica, e quindi non necessità testuale, dei proemi (la cui funzione era quella di indicare l' obiettivo del discorso ad un pubblico grossolano e ignorante per met­ terlo in condizione di seguire e disporlo favorevolmente nei confronti dell' oratore) e degli epiloghi (le cui funzioni erano due: ricapitolare i punti principali del discorso per rinfrescare la memoria dei presenti e suscitare nell'uditorio emozioni di un certo tipo). In sede poetica, essenzialità e pregnanza estetico-narrativa degli inizi e delle fini letterarie.

3.0 L'eredità romana Animati da un pragmatismo didascalico, sostanzialmente alieno alle preoccupa­ zioni teoriche aristoteliche, i retori romani si soffermarono a lungo sulla trattazione degli esordi e delle conclusioni dell' orazione fornendo minuziose, quasi ossessive, casistiche e scrupolose elencazioni delle caratteristiche e dei pregi e dei difetti da ot­ tenere e da evitare in quelle due specifiche sedi. Cicerone, Pseudo-Ciceroné, Quin­ tiliano dicono cose simili circa il modo di avviare e concludere un discorso. Sono debitori di Aristotele per la fondamentale caratterizzazione pragmatica e testual­ mente non necessaria di exordia e conclusiones, ma radicalmente mutato è lo spi­ rito che anima le loro teorizzazioni. Il malcelato disprezzo aristotelico nei confronti della retorica (inferiore all' analitica e alla dialettica), viene sostituito, grazie so­ prattutto a Cicerone, da un fiducioso entusiasmo per una disciplina le cui sorti si erano indissolubilmente legate a quelle della repubblica. Quintiliano, autore della massima summa retorica del mondo antico, sintetizzerà la concezione romana del­ l ' eloquenza (il vir bonus dicendi peritus di catoniana e ciceroniana memoria) nella figura dell' oratore perfetto. I latini accentuano enormemente, rispetto al modello greco, l' uso di exordia e conclusiones in rapporto alla necessità di condizionare il pubblico: quello che per Aristotele era uno espediente un po' vile per imbonire un pubblico di incompetenti, diventa a Roma un mezzo importante per la persuasione pubblica, linfa vitale della res publica. Questo spiega la contaminazione operata dai latini tra le considerazioni aristoteliche relative alla tecnica retorica (taxis, dispositio) e quelle da lui fatte in sede poetica (con particolare riguardo agli affectus). L' exordium, che è il punto più indicato per conseguire la captatio benevolentiae, diviene così, a Roma, il luogo de­ putato all' ethos (nessun accenno a questo si trova nella Retorica di Aristotele); la pe­ rorazione, il cui fiore ali' occhiello è la mozione degli affetti, quello del pathos: dove si intendano per ethos i sentimenti moderati e per pathos quelli più concitati.

6 Così è indicato per convenzione l 'autore della Rhetorica ad Herennium, trattato latino di retorica, che fino al XVI secolo fu attribuito a Cicerone, mentre fu scritto, non si sa da chi, fra 1' 86 e 1'82 a.C. È rielaborazione di una fonte greca, ignota. Il trattato ha i pregi della brevità e chiarezza e ha avuto lar­ ghissima fortuna nel Medioevo. Nulla si sa deii' Erennio a cui il libro è dedicato, (si confronti la voce Rhetorica ad Herennium curata da Giorgio Brugnoli, in Enciclopedia Dantesca, 1 970).

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Nei retori latini si riscontra, inoltre, la preoccupazione (assente in Aristotele) di precisare anche stilisticarnente il problema indicando, benché non sistematicamente, le figure retoriche o gli espedienti dell' ornatus che più si confanno al clima del­ l ' inizio e a quello della fine. Un rapido sguardo alla precettistica dell' exordium aiuta a inquadrare meglio il problema7 . I punti essenziali dell' exordium dell'orazione (che, tuttavia, poteva anche mancare)8, erano relativi al suo scopo e alla sua forma (di cui si descrivevano vizi e virtù). Scopo: l ' exordium serviva per rendere il pubblico docile, attento, benevolo9 • Vizi : l' exordium veniva considerato difettoso se era banale (vulgare), generale (commune), interscambiabile (commutabile), lungo (longum), non attinente (sepa­ ratum), fuori luogo (traslato), contrario ai precetti (contra praecepta). I vitia degli esordi andavano evitati come la peste: un exordium vitiosus veniva paragonato ad un viso ricoperto di cicatrici. Virtù: quella principale era riconosciuta nella contenzione e nella parsimonia nell ' impiego delle emozioni e dell' elocutio. Si raccomandavano la brevitas (affin­ ché "la testa non dia l ' impressione di essere più grande del corpo") e l'accurate non callide dicere. Si consigliava il ricorso alle sentenze e alla gravitas. Lo stile del­ l ' esordio doveva essere sorvegliatissimo, ricco di urbanitas, all 'insegna del lenis sermo e della usitata verborum consuetudo. Quintiliano consigliava l'uso dell' apo­ strofe, della prosopopea, degli exempla, della metafora e dell' ironia. Le virtutes degli esordi andavano perseguite con ogni mezzo. Una delle parti più importanti dell' inizio era l ' esposizione dell' argomento (pro­ tasis, propositio) 1 0• Ed è noto che il proemio, con la protasi e l' invocazione (alle 7 La parola greca prooimion (proemio), osserva Quintiliano, mostra meglio della latina exordium (che significa soltanto "inizio") che "questa parte è collocata prima del passaggio all ' argomento vero e proprio di cui si deve trattare", sia che si colleghi il termine con oime (canto) e ci si riferisca agli ac­ cordi che i suonatori di cetra intonano prima de li' esecuzione del brano, sia che il riferimento si faccia a oimos (via, percorso), e allora il proemio è ciò che si può dire prima di avviarsi in un argomento (cfr.

De institutione oratoria, IV, l , 1 ). 8 Cfr. De institutione oratoria, IV, l , 4. La necessità dell'esordio dipendeva dal tipo di causa: nel genus deliberativum, dato il carattere urgente del discorso, l' exordium doveva essere brevissimo o po­ teva mancare del tutto; nel genus demonstrativum lo si poteva benissimo saltare. Inoltre, le idee e le for­ mule dell' esordio potevano trovarsi anche in altri punti del discorso (narratio, argumentatio) quando

si rendeva necessario attirare l'attenzione del pubblico e sollecitarne la benevolenza. La forza proe­ miale non era una prerogativa esclusiva dell'esordio: "Est interim proemii vis etiam exordio" (ibid. ). 9 L'accezione semantica di docile è così spiegata da Il nuovo Zingarel/i ( 1 988): "Voce dotta, lat. do­ cile(m), propriamente "che si può istruire (docere)". Agg. I "che apprende senza sforzo: un'intelligenza docile e ricettiva". Si noti che il pubblico si rendeva docile se si faceva un'enumerazione concisa degli assunti che si sarebbero affrontati nella narratio (cfr. Rhetorica ad Herennium, l, 7; De institutione ora­ toria, IV, l , 34). Lo si rendeva attento se si eliminava il tedio (levare tedium) attraverso l'uso delle fi­ gure di pensiero e di parola e la promessa di parlare di magna, nova, mirabi/ia, etc. (cfr. Rhetorica ad Herennium, l , 7). Benevolo se elogiando, nella dovuta maniera, la propria causa e la propria azione si riusciva ad ottenere il favore del pubblico per sé e il suo disprezzo per la parte avversa (cfr. Rhetorica ad Herennium, I, 8; De inventione, I, 1 6, 22). I O Cfr. Lexicon Totius Latinitatis: "Protasis (gr. protasis): propositio, seu id quod ad dispuntandum proponitur''. Questa accezione di protasi è quella che maggiormente calza al mio discorso. Qualche in­ certezza definitoria nasce dalla contiguità lessicale e semantica di protasi e protesi e potrebbe ingene-

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muse, ai celesti, al committente o al destinatario dell'opera), è modulo fisso nell' aper­ tura dei poemi epici, eroici, cavallereschi, eroicomici, da Omero ai tempi moderni. Quanto alla precettistica della conclusio (chiamata anche peroratio, epilogus), i romani, come già per gli exordia, ne accentuarono il carattere di contatto con il pub­ blico, distinguendovi due parti corrispondenti ad altrettante funzioni principali: re­ capitulatio (enumeratio, renovatio) e movere affectum. La recapitulatio si riferiva alla res e doveva riassumere i punti principali del­ l' argomentazione. Il suo fine era triplice: rinfrescare la memoria dei giudici, porre tutta la causa davanti agli occhi del pubblico, cominciare a fare leva sui sentimenti degli astanti. Doveva conformarsi ad un ideale di concisione e chiarezza. Tuttavia, si ricordi, che la recapitulatio poteva aver luogo in qualunque altro punto del di­ scorso e non solo nell' epilogo: di qui la sua natura accessoria, non necessaria alla fine dell' orazione. Il movere affectum era il luogo deputato del pathos dove, come diceva Quinti­ liano, "totos eloquentia aperire fontes licet". Alcuni dividevano la mozione degli af­ fetti in due parti: indignatio (amplificatio, exaggeratio) e conquestio (commiseratio) portando a tre le parti della perorazione. La indignatio era diretta contro l ' avversa­ rio e traeva la sua materia dai loci argomentorum, aventi tutti lo scopo di eccitare l' ira, lo sdegno, l' orrore del pubblico contro la parte nemica. La conquestio consi­ steva, invece, nel suscitare la compassione del pubblico per la propria causa. I loci communes di quest'ultima appartengono alla sfera dei casi di fortuna: fragilità umana, sorte avversa, circostanze penose, etc. Anche la conquestio (come già la recapitula­ tio e la indignatio) "brevem esse oportet " perché "nihil lacrima citius arescit" 1 1 • La mozione degli affetti dei latini è frutto della spregiudicata contaminazione tra l ' ambito retorico e quello poetico aristotelico. E dovrebbe essere chiara, a que­ sto punto, l' operazione compiuta da Cicerone e dai suoi colleghi che ridussero ed adattarono, in funzione del successo oratorio, quella tematica emotiva che, per Ari­ stotele, culminando nella catarsi delle passioni, giustificava moralmente la subli­ mità dell' arte tragica 1 2 • I latini descrissero le conclusiones anche dal punto di vista dell' elocutio carat­ terizzandole in contrasto con gli exordia che dovevano essere un esempio di mode­ razione sotto tutti gli aspetti. Tutti i mezzi erano ritenuti validi ad movendos affectus nel finale dell' orazione, purché si abbia il talento necessario ad u sarli, se no è me-

rare confusione. Protasi, gr. protasis: "tensione in avanti" da proteinein "tendere in avanti, proporre". Protesi, gr. prothesis "posizione in avanti" da protithenai "mettere innanzi, esporre". Mi preme sotto­ lineare che l' uso che io ho fatto della parola protasi (esposizione dell' argomento) sembrerebbe riman­ dare curiosamente a protesi, ciò che tuttavia non è. Per l'etimologia e il significato di protasi e protesi si rimanda ai dizionari curati da: TOMMASEO e BELLINI ( 1 865-79); BATTISTI e ALESSIO ( 1 950-57); COR­ TELAZZO e ZOLLI ( 1 979-88); BATTAGLIA ( 1 96 1 ); ZINGARELLI ( 1 988). 1 1 Rhetorica ad Herennium, II, 50. La frase è citata anche da Cicerone e da Quintiliano. 1 2 ARISTOTELE, Poetica (XIV, 1 453 b , 1 0- 1 4): "Nella tragedia non si deve cercare un piacere qual­ siasi, ma quello suo proprio. Poiché il poeta deve produrre il piacere che si dà grazie all'imitazione da pietà (eleos) e paura (phobos)". Nella tragedia la catarsi (katharsis) si compiva per mezzo di pietà e paura (cfr. ibid. , V, 1 450•, 25-28). Questi sentimenti sono gli stessi che i latini, specialmente Quintiliano, in­ fiammavano o calmavano (a seconda delle circostanze) perorando la propria causa.

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glio lasciar perdere: "Nihil habet ista res medium: sed aut lacrimas meretur aut risum" 1 3 • Tra i vizi della peroratio i latini annoveravano, infatti, l ' ilarità suscitata da atti o parole inadeguate nonché l' effetto controproducente di un uso sbagliato dei sentimenti da parte di un oratore maldestro. Si raccomandavano la massima conci­ sione e l ' impiego di figure variate. In particolare, nella indignatio, risultavano fondamentali la scelta delle parole (verba) e della materia (res). Bisognava servirsi di parole dotate di forza icastica, che non fossero lontane dall ' uso corrente, che fossero forti, sonore, piene, nuove, com­ poste, mai volgari, sinonimiche, iperboliche e soprattutto traslate (metaforiche). L' exaggeratio si costruiva, sintatticamente, sui parallelismi delle espressioni, sulle riprese anaforiche, sulle ripetizioni, sulle gradazioni ascendenti. II discorso, benché intriso di parole gravi, doveva conservarsi agile e scorrevole. Le principali figure da impiegare perorando erano l ' asindeto, la similitudine, l' exemplum, la prosopopea, l ' interrogazione indiretta, l' ironia. Accanto a exordia e conclusiones, parti non necessarie dell' orazione, sono di grande interesse le prescrizioni relative alla narrazione che ne è, invece, parte fon­ damentale1 4 . La narratio aveva, infatti, un inizio, un mezzo, e una fine che dovevano essere chiari, brevi, verisimili 15. Sull' initium narrationis la precettistica latina è perento­ ria: doveva cominciare dal punto dei fatti che ha importanza perché il giudice po­ tesse emettere il suo verdetto e non partire dalla loro preistoria. Si consigliava di

institutione oratoria, VI, l , 45. La narratio, o esposizione dei fatti, seguiva l' exordium (nel caso in cui questo ci fosse) ed era la parte riservata ad esporre i termini della questione sulla quale il giudice doveva pronunciarsi. Da qui le classiche definizioni della narratio (gr. diegesis) come racconto persuasivo di un'azione come è stata fatta o come si suppone sia stata fatta. ll fine tipico della narratio era il docere, non disgiunto, dal de­ lectare. L'efficacia della narratio consisteva nel farsi ascoltare volentieri, nel suscitare la curiosità del pubblico, nel non annoiare (cfr. De institutione oratoria, IV, 2, 30-38). Tutti elementi che ritroveremo nel romanzo. 1 5 Nel loro insieme, le qualità richieste alla narratio (brevità o essenzialità, chiarezza, verosirni­ glianza, con le commistioni e le varianti che la tradizione retorica distinse e analizzò minuziosamente; cfr. LAUSBERG, 1 969, pp. 1 63-90) sono divenute così familiari, in secoli di pedagogia e di pratica, da ap­ parire come nozioni ovvie. Ma ciò non sminuisce la loro importanza, e in ogni caso non significa che fosse ovvia la loro formulazione. Come non lo è, oggi, ciò che si teorizza, nell' ambito della pragma­ tica, riguardo alla comunicazione e alle regole che la governano. Basterà qui accennare alle ormai ce­ lebri (e discusse) "massime della conversazione" del logico Grice proposte ne1 1 967, che non vogliono essere un galateo linguistico, ma tentano di descrivere i requisiti (ideali) di un uso efficace della lingua negli scambi comunicativi e nell' insieme esprimono un principio di cooperazione generale. È piutto­ sto facile notare, passando in rassegna le massime listate sotto le quattro categorie indicate da Grice, come vi si ritrovino le nozioni proposte dall 'antica retorica come virtutes della narratio. La prima ca­ tegoria, della quantità è l 'equivalente del quantum opus est e del quantum satis est. La seconda categoria, della qualità presenta forti analogie con la verosimiglianza classica. La terza categoria, della relazione ha a che fare con la pertinenza (nozione che la retorica classica sviluppò nelle casistiche relative non solo alla narrazione, ma anche all' argomentazione). La quarta categoria, del modo è quella in cui si trovano le maggiori possibilità di accostamenti con la precetti stica classica, dal momento che sono in gioco procedure, modi di ordinare la materia e di esprimersi. Alle massime di Grice ho fatto ricorso, con opportuni adattamenti, nel mio schema interpretativo. Per un approfondimento di quanto appena espo­ sto si rimanda, oltre che ai trattati di retorica classica, a GRICE ( 1 978, pp. 1 09-29). 13

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De

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cominciare dagli elementa narrationis che erano almeno sei : persona, causa, tem­ pus, locus, materia, res 16 • Altrettanto stretti i dettami sulla .finis narrationis, si do­ veva arrivare solo fino a quel punto che fosse utile per la decisione del giudice: "Non ad extremum, sed usque eo quo opus erit persequemur" 17 • Quindi, in nome della brevitas la narratio doveva cominciare laddove era necessario, senza risalire alle origini prime dei fatti e doveva arrestarsi al giusto limite senza arrivare alle conse­ guenze estreme. Le indicazioni per la felicità dell'inizio e della fine narrationis, benché concepite per l'oratoria forense, si rivelano valide anche per il testo scritto, appartenente alla sfera letteraria. Sul versante della poetica, non più della retorica, è stato Orazio a trasportare nella latinità, con inevitabile semplificazione e contaminazione, la teoria aristotelica dell 'unità del muthos (favola) in cui, come abbiamo già visto, si sosteneva che le fa­ vole non devono cominciare e finire dove capita e si elogiavano gli inizi epici di Omero di contro a quelli dei poemi ciclici. Orazio riprende il modello, indiretta­ mente conosciuto, e descrivendo quale sia la miglior tecnica per cominciare a nar­ rare, conia l ' opposizione di inizio ab ovo ed inizio in medias res che tanta fortuna avrà dopo di lui (Ars Poetica, vv. 143-52):

145

1 50

Non fumum ex fulgore, sed fumo dare lucem cogitat, ut speciosa dehinc miracula promat Antiphatem Scyllamque et cum Cyclope Charybdin. Nec reditum Diomedis ad interitu Meleagri, nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo. Semper ad eventum festinat, et in medias res non secus ac notas auditorem rapit, et quae desperat tractata nitescere posse, relinquit atque ita mentitur, sic veris falsa remiscet primo ne medium, medio ne discrepet imum.

[Omero] non pensa di trar fumo dallo splendore, ma luce dal fumo per offrirti dinanzi quelle inattese meraviglie: Antifate e Scilla e il Ciclope e Cariddi, né canta il ritorno di Diomede movendo dalla morte di Meleagro, né la guerra Troiana dalla storia delle due uova; sempre si affretta allo scioglimento e trasporta l'uditore nel mezzo degli eventi come fossero noti e trascura quel che non spera possa risplendere se mai lo trattasse, e inventa e mescola il finto con il vero in maniera tale che dal principio non discordi il mezzo né dal mezzo la fine 1 8 . 16 La trattatistica medievale ha ricavato dal De inventione ciceroniano un elenco dei principali ele­ menti della narrazione chiamati circostanze, codificati nelle due serie degli attributi (tratti dai loci) e delle domande a questi correlate: una specie di promemoria per verificare la presenza delle condizioni necessarie alla compiutezza dell'esposizione. Ecco lo schema: persona (quis ?);factum (quid? ); causa (cui?); locus (ubi ?); tempus (quando ?); modus (quemadmodum ?) ; facultas (quibus adminiculis ?). La somiglianza di queste considerazioni con le precettistiche del comporre è notevole: si pensi alla regola delle "cinque W", elaborata per la produzione giornalistica e compendiata, in lingua inglese, dagli in­ terrogativi who, what, when, where, why, corrispondenti ai primi cinque latini. Per questo problema si vedano LAUSBERG ( 1 969) e MORTARA GARAVELLI ( 1 989). Sappiamo, inoltre, dell ' importanza giocata negli inizi (e nelle fini) dei romanzi dalle risposte alle domande della triade 'Chi? Dove? Quando?' . 1 7 Cfr. Rhetorica ad Herennium, l, l O. 18 QU INTO ORAZIO PLACCO, traduzione di Enzo Cetrangolo, 1 968, p. 537.

Antichità greco-romana

L e narrazioni devono cominciare

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in medias res, perché l ' ordine poetico non coin­

cide con quello storico-cronologico, ed inoltre bisogna fare sempre in modo che l ' u nità e l ' organicità della favola siano salve.

È, inoltre, importante mettere a fuoco alcuni elementi della dispositio di notevole

valore per lo scopo di questo libro. La

dispositio per organizzare parti,

contenuti e pa­

role del discorso, poteva contare su due generi: "Uno derivato dai principi della reto­ rica, l' altro adattato all' occasione particolare" 1 9• n primo genere

naturale

è riflesso dell'ordine (ardo naturalis) e corrisponde al normale stato espressivo di pensieri e parole

secondo la successione cronologica degli eventi e la loro concatenazione logica; men­ tre il secondo, suggerito da opportunità pragmatiche o da esigenze estetiche, segue l' or­ dine artificiale (ardo artificialis): mutamento artistico dell' ordine naturale ai fini della riuscita argomentativa o artistica del discorso. Se effettuiamo una traslazione dalle re­ gioni della retorica a quelle della teoria letteraria, si può azzardare un' analogia tra i concetti classici di

ardo naturalis e artificialis e l ' opposizione difabula e intreccio ela­ di­

borata dai formalisti russi negli anni Venti del XX secolo20• La discussione sulla

spositio, in ambito sia antico che moderno, interessa qui in relazione all'inizio e alla fine di un testo. È chiaro, per esempio, che l ' apertura di un intreccio narrativo è sempre, ti­ picamente, in medias res, laddove quella della fabula non può che essere ab avo. La riflessione antica sulla dispositio oratoria e quella moderna sull' organizza­ zione della sostanza narrativa di un testo scritto, partono entrambe dall' assunto ari­

stotelico dell' adattamento dell ' ordine testuale al destinarlo (ordine esterno) e da una logica che giustifichi e spieghi il testo stesso (ordine interno).

A proposito

di que­

st' ultimo il Lausberg teorizza un modello di organizzazione tripartito derivato dalla teoria aristotelica secondo cui "intero è ciò che ha un principio, un mezzo, una fine"2 1 • È interessante notare come l o schema del Lausberg sia molto vicino ai modelli nar­ rativi proposti da Propp e Greimas nell' ambito delle teorie narratologiche del Ricordo, in ultimo, che tra i compiti della

dispositio

'900.

rientrava anche la scelta

dell ' ordine delle parole e, per quel che riguardava la loro dimensione, valeva la re­ gola di mettere la più breve prima di quella più lunga22• Tale regola

è osservata nel

19 Rhetorica ad Herennium III, 9, 6. 2° C fr. I formalisti russi, a cura di TODOROV, 1 968, p. 1 85 sgg. Si veda anche SEGRE, 1 985, p. l 03 sgg. La vicinanza tra i due antichi ordini retorici e il prodotto delle teorie narratologiche sovietiche non deve sfociare in una sovrapposizione: l'ardo naturalis e l'ardo anijìcialis erano due opzioni (spesso in­ trecciate) che la precettistica antica offriva a chiunque volesse costruire un discorso e, quindi, se da un lato erano immanenti alla struttura del testo poiché coincidevano con la sua dispositio, dall'altro pree­ sistevano al testo a livello teorico. La fabula e l'intreccio della stilistica moderna sono, invece, due astrazioni teoriche, parafrasi riassuntive del testo, extratestuali, costruite in sede critica posteriormente non solo alla sua scrittura, ma anche alla sua lettura. Nella retorica classica il problema dell' ordine da seguire nella strutturazione di un testo oratorio era codificato dai maestri di eloquenza e risolto dallo iu­ dicium dell' autore; in ambito moderno il problema di fabula e intreccio appare, invece, enfatizzato in rapporto alla fruizione del testo. Per quest' ultimo aspetto cfr. SEGRE, 1 974, pp. 2 1 -33. 2 1 Poetica, 1 450b, 7, 2 1 -30. LAUSBERG ( 1 969, pp. 24 1 -47) teorizza due modelli di organizzazione. Il primo, binario, altamente tensivo, comporta una polarità il cui schema tipico è quello oppositivo del­ l' antitesi (dove si fronteggiano due elementi, o opposti o contrari). Il secondo, tripartito, accentua, in­ vece, la completezza di un insieme senza lacune, ricomponendo gli opposti in un terzo momento finale e risolutivo e deriva dalla teoria aristotelica. Qui interessa il secondo schema di Lausberg. 22 Per questo aspetto si veda JAKOBSON, 1 966, p. 1 90.

Capitolo primo

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parlare comune e nel discorso letterario. Nelle precedenti pagine, nel tentativo di individuare e definire, attraverso secoli di teorie e generi letterari, i modi dell'inizio e della fine del discorso letterario, sono emerse alcune componenti di notevole importanza che vedremo ricorrere, con le dovute contaminazioni e differenze, nei testi del corpus oggetto di questo libro. Pen­ siamo in particolare: alla funzione esordiale della captatio benevolentiae e a quella conclusiva della mozione degli affetti, ovvero al loro rispettivo valore pragmatico di aggancio del destinatario, elementi che benché originariamente retorici si rivele­ ranno vitali nei testi letterari; ai sei elementa dell' initium narrationis che attraverso la codificazione medievale vennero trasformati in una sorta di promemoria per ben esporre e che, ridotti di numero, attecchiscono negli inizi dei romanzi, locus depu­ tatus della triade incipitaria costituita dalle risposte al 'Chi? Dove? Quando?' ; alla de­ finizione di inizio in medias res che tanta fortuna avrà nella produzione romanzesca seriore; all' individuazione dei due ordini espositivi classici (naturalis e arti.ficialis) che in qualche modo anticipano l' opposizione fabula/intreccio della narratologia del '900, dove è campale la scelta di come iniziare e finire. Fin qui le principali indicazioni teoriche desunte dai trattati di retorica e poetica dell'età classica. Si tratta ora di vedere che cosa succedeva realmente negli inizi e nelle fini degli antichi testi letterari.

4.0 l poemi omerici L'Iliade (/ÀLaç) comincia così (vv. 1 -8):

5

5

Mi'jvLV aEu5E 8Eà nllÀ'li:a6Ew AXIÀf'ioç ouÀOIJÉVr']V, � IJUpt" AxaLo'lç W..y E' e811 KE, noMà� 6' lcj>8l1Jou� I)J uxà�'Ai:6L rtpoTaljJEv �pwwv, au"tOÙ� 6È ÈÀWpla "tEUXE KUVEOOLV olwvoTal "tE naaL, tnò� 6' É"tEÀELE"tO j3ouM, è� o ù 6� •à npw•a 6Laa.�uJV éplaav.E A"tpET611ç "tE ava� àv6pwv Kal 6Toç AXIÀÀE Uç. Tlç T ap acj>WE 8EWV EpL6L �UVEilKE IJQXE08aL;

Canta, o dea, l' ira d' Achille Pelide, rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei, gettò in preda all'Ade molte vite gagliarde d'eroi, ne fece il bottino dei cani, di tutti gli uccelli - consiglio di Zeus si compiva da quando prima si divisero contendendo l' Atri de signore d' eroi e Achille glorioso. Ma chi fra gli dèi li fece lottare in contesa2 3 ?

23 OMERO, Iliade (testo a fronte), 1 990, I, 1 -8, testo greco a p. 2, traduzione-di Rosa Calzecchi One­ sti, p. 3. Riporto anche la ormai classica traduzione di Vincenzo Monti, il "gran traduttor de' traduttor d' Omero" (Foscolo), rimasta indelebile nella memoria di tutti quelli che hanno studiato epica a scuola (me compresa): "Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l'ira funesta che infiniti addusse / lutti agli Achei,

Antichità greco-romana

Questi otto versi celeberrimi aprono il poema che non racconta, come dice i l ti­ tolo, la guerra di Ilio, ma uno specifico episodio di essa. La traduzione inverte l ' or­ dine delle tre parole:

"Menin aeide, thea" che mettono da subito in primo piano l ' i ra di Achille24. E anche nel "da quando prima" del verso 6 si perde qualcosa del la pre­ gnanza del verso originale "ex hou de ta prota diasteten"25. L' attacco in medias res dell' Iliade, lodato dalla tradizione poeti ca che va da Ari­

stotele ad Orazio, indica subito programmaticamente i l tema e l ' eroe pri ncipal i del poema e lo fa per sottrazione. Due sono, infatti , e non una soltanto, le ire di Achille: la prima, apertamente enunciata nell' esordio, è quella contro Agamennone (che gli ha tolto la schiava Briseide) e spinge l'eroe ad astenersi dai combatti menti ; la se­ conda menis, più fiera e più feroce, che sostituisce e abolisce la prima, è quella per la morte di Patroclo che convince l'eroe a ritornare a combattere, ma su quest ' u ltima l'esordio del poema tace. Come è tipico degli inizi rapsodici studiati da Race26, l ' i nvocazione esordiale alla musa nell 'Iliade identifica brevemente il soggetto dell ' opera e procede espan­ dendone il significato grazie al ricorso alle proposizioni relative: "Menin . . . Akhile6s, be muri ' Akhaiois ... " ('•L' ira ... di Achille, che infiniti agli Achei ..."). Una volta fatto questo, rimane il problema di dove cominci are a narrare.

molte anzi tempo all ' Orco / generose travolse alme d'eroi, / e di cani e d'augelli orrido JY o l ÉnEKÀwoavm 8Eol oTK6voE v€w8at Ei.c; '18clKI'JV, ouo' Ev8a nEUVIJ.ÉVoc; �EV Ct€8Àwv KaL IJ.Età oTm 4JlÀOLOL· 8Eol o' ÉÀÉaLpov anaVTEc; v6o4JL nooELOclWVOlEJtOV nicj>ov''EKtopoc; lnnOOCxtJOL0 34 .

34 Ornero, Iliade, 1 990, traduzione dì Rosa Calzecchi Onesti, p. 886.

Antichità greco-romana

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Versato il tumulo, tornarono indietro: essi, poi, raccolti come conviene, banchettarono glorioso banchetto in casa di Priamo, il re stirpe di Zeus. Così onorarono la sepoltura d'Ettorre domatore di cavalli 35 •

Morte (cfr. "tumulo", v. 80 1 ), pace (si confronti "glorioso banchetto", v. 802), se­ poltura (cfr. "onorarono la sepoltura", v. 804): la tematizzazione della fine è qui pre­ gnante. E un explicit molto appropriato al sentimento di universale pietà e infelicità che caratterizza gli ultimi due libri del poema, in cui, non a caso, sono narrati gli stessi sentimenti, causati dalla morte di un eroe (i giochi funebri per Patroclo nel libro XX:Ill, il riscatto e la sepoltura di Ettore nel libro XXIV), provati da due gruppi di persone rivali (Achei e Troiani). Anche la fine dell'Iliade, come già il suo inizio, è ellittica. Si noti, infatti, che il convito funebre alla reggia di Priamo si tiene nel­ l'undicesimo giorno della tregua di dodici giorni concessa da Achille, ne consegue che il giorno successivo dovrebbero ricominciare l' assedio e la guerra. Ma su questo, con quella coerenza narrativa che Aristotele tanto gli ammirava, Omero tace. La luttuosa immagine finale si ricollega, completandola circolarmente, a quella prolettica iniziale della morte di numerosi eroi. Quanto all' Odissea è Atena, sotto le spoglie di Mèntore, la protagonista dello scorcio finale del poema. A lei il narratore affida l' ultimo discorso diretto del testo che la vede autrice di un duplice intervento in cui, dapprima, istiga Laerte a comin­ ciare la battaglia (vv. 5 16-20), poi ammonisce gli abitanti di Itaca affinché cessino definitivamente di combattere (vv. 53 1 -32): "LaT' A811vall1. Toùc; 6È xAwpòv lié:oc; eTAe·

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TWV 6' apa 6ELOQVTWV EK XElpWV EffiQTO TEUXEQ, nétVTa 6' f:nl xSovì. ntmE, Seac; ona QlWVI10QOI1c;· npòc; 6È n6Atv TpwnwVTo ALAaLÒjJ.EVOL f3L6ToLo. Oj.l.Ep6aÀÉov 6' f:f3611oe noMTÀac; Oì:oc; '06uooeuc;, Olj.li10EV 6È étÀELc; Wc; T' QLETÒc; ÙlfJLnET�ELc;. KQÌ. TÒTE 6� Kpov[6 11 c; CxQllEL lfJOÀOEVTQ KEpaUVÒV, Kà6 6' €neoe np6o8e yÀau Kwm6oc; òf3ptj.lonaTPI1c;

35 lvi, p. 887. Cosi la fine dell'Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti, vv. 1 020-25 : "Innalzato il sepolcro dipartirsi l tutti in grande frequenza, e nella vasta l di Priamo adunati eccelsa reggia l fune­ bre celebrar lauto convito. l Questi furo gli estremi onor renduti l al domatore di cavalli Ettorre". 36 OMERO, Odissea, 1 989, p. 682. 37 lvi, p. 3. Traduzione della Calzecchi Onesti.

Capitolo primo

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O� TÒT' '0c5uocr�a npocrEtf>ll yÀaUKWnu; �8�VIl · "c5LoyevteLv61 •

O dio dell'Amore garantiscici il potere di scrivere gli amori degli altri con assoluta purezza di cuore.

La solenne invocazione alla musa della poesia epica viene sostituita da un bona­ rio appello al dio dell' amore, ma, a differenza dei poeti epici, il narratore della sto­ ria non ha nessuna intenzione di lasciarsi abitare dal sostituto della musa. L'indugio esordiate, lento e rallentante, frutto della manipolazione del tempo nar­ rativo da parte del narratore, atto a stimolare la curiosità del lettore, ha avuto molta fortuna nella produzione romanzesca, dal romanzo greco ai tempi moderni. Si pensi, per esempio, a quello paradigmatico che apre l promessi sposi di Manzoni . Quanto alle fini dei romanzi greci, sono del tipo detestato da Henry James: agni­ zioni, smascheramenti, punizione dei cattivi, gratificazione dei buoni, matrimonio. Le nozze, spesso con allusione alla futura prole, dei due protagonisti (di solito quelli del titolo) suggellano l'intreccio soddisfando tutte le attese dei lettori. L' happy ending convenzionale e ripetitivo dei romanzi greci, preso a prestito dalla commedia, avrà immensa fortuna sia nella letteratura alta che in quella cosiddetta di consumo e, a seconda del tipo di lettori, si rivelerà rassicurante o frustrante: rassicura e pacifica perché il lettore vi trova tutte le conferme che il testo ha previsto egli debba e voglia avere, frustra perché limita le possibilità di cooperazione del lettore con il testo. B asti, a titolo di esempio, la fine di Dafni e Cloe (IV, XXXVIII-XL) in cui i ge­ nitori dei protagonisti ritrovano i loro rispettivi figli che avevano abbandonato subito 60 61

lv i , I, I, l . Traduzione mia. lvi, Proemio, IV, p. 2. Traduzione mia.

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dopo la nascita; Dafni e Cloe scoprono di non essere affatto due poveri pastorelli, ma due giovani bennati e ricchi; il loro matrimonio viene celebrato in una perfetta cor­ nice pastorale. Amore è la parola chiave di questi ultimi paragrafi. In quello conclu­ sivo, ripartito in tre periodi, si accenna al calare delle tenebre, alla fine dei festeggiamenti e agli sposi novelli che, scortati da tutti quelli che avevano partecipato alla baldoria - con pifferi, flauti e torce accese - fino alla soglia, si chiudono nella camera nuziale (IV, LX, l ), circondati dai canti imenei (IV, LX, 2). L'ultimo periodo si chiude sulla notte insonne, dedicata alle effusioni d' amore, dei due giovani62: C.étcj>vu:; OÈ Kal XM11 VUilVOi cruyKataKÀL9é:vw:; rtEpLé:�aMov ill �Àouc; Kal Ka•ecj>O..o uv, aypunv� craV"(Ec; t�>

65 65 68 70 71 73 74 76 80 83

Indice generale

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4.4 Le roman de tnéas: inizio e fine 4.5 Il punto 5.0 Prologhi e fini di Chrétien de Troyes: caratteristiche e funzioni 5. 1 Il punto 6.0 L' anti-roman Aucassin et Nicolette: inizio e fine 7.0 Inizio e fine dell a Commedia 7 . l Commedia: il punto 8.0 Conclusioni Capitolo III. Il Cinquecento 1 .0 Introduzione 2.0 Il Cinquecento: retorica e poetica 2. 1 Trattati di retorica e di poetica: esordi e conclusioni del discorso letterario 2.2 Sul romanzo 3.0 Il Cinquecento: il punto I testi coevi: inizi e fini dai poemi al romanzo 4.0 I poemi italiani: l ' inizio dell Orlando innamorato 4. 1 La fine dell' Orlando innamorato 4.2 L' inizio dell' Orlando furioso 4.3 La fine deli' Orlando furioso 4.4 L' inizio della Gerusalemme liberata 4.5 La fine della Gerusalemme liberata 5.0 I romanzi stranieri : l' inizio di Gargantua e Pantagruel 5 . 1 La fine di Gargantua e PantagrueJ 5.2 L'inizio del Lazarillo de Tormes 5.3 La fine del Lazarillo de Tormes 6.0 Poemi e romanzi del Cinquecento: il punto 7 .O Riflessioni sulla Parte Prima '

PARTE SECONDA Dal XVII al XX secolo Capitolo IV. Il romanzo moderno. Sei, Sette e Ottocento 1 .0 Introduzione 2.0 Il Seicento. L' inizio di Don Chisciotte (Prima parte) 2. 1 La fine di Don Chisciotte (Prima parte) 2.2 L' inizio di Don Chisciotte (Seconda parte) 2.3 La fine di Don Chisciotte (Seconda parte) 2.4 La lezione di Don Chisciotte 3.0 L' inizio della Principessa di Clèves 3 . 1 La fine della Principessa di Clèves 3.2 La lezione della Principessa di Clèves 4.0 Il Settecento. L' inizio di Tristram Shandy 4. 1 La fine di Tristram Shandy 4.2 La lezione di Tristram Shandy 5.0 L' inizio di Jacques il fatalista 5 . l La fine di Jacques il fatalista

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Indice dei nomi

5.2 La lezione di Jacques il fatalista 6.0 L' Ottocento. L' inizio della Certosa di Parma 6. 1 La fine della Certosa di Parma 6 . 2 L a lezione della Certosa d i Parma 7 . 0 I l caso italiano: l promessi sposi 7. 1 L' inizio dei Promessi sposi 7.2 La fine dei Promessi sposi 7.3 La lezione dei Promessi sposi 8.0 America: l' inizio di Moby Dick 8. 1 La fine di Moby Dick 8.2 La lezione di Moby Dick 9.0 L' inizio di Madame Bovary 9.1 La fine di Madame Bovary 9.2 La lezione di Madame Bovary 10.0 Russia: l' inizio dell'Idiota 10.1 La fine dell'Idiota 1 0.2 La lezione dell'Idiota 1 1 .0 L' inizio di Anna Karenina 1 1 . 1 La fine di Anna Karenina 1 1 .2 La lezione di Anna Karenina 1 2.0 Francia. L' inizio di Germinale 1 2. 1 La fine di Germinale 1 2.2 La lezione di Germinale 1 3 .0 Italia: l Malavoglia 1 3 . 1 L' inizio dei Malavoglia 1 3 .2 La fine dei Malavoglia 1 3 .3 La lezione dei Malavoglia 1 4.0 Conclusioni: gli inizi 14. 1 Conclusioni: le fini

Capitolo V. Il Novecento. Dissoluzioni, incertezze, ambiguità 1 .0 Introduzione 1 . 1 Henry James e la forma aperta 2.0 Proust: Alla ricerca del tempo perduto 3.0 James Joyce: Ulisse e sperimentalismo 4.0 Alcuni limina esemplari: Virginia Woolf, Flann O'Brien, Samuel Beckett 4. 1 La signora Dalloway 4.2 Una pinta d 'inchiostro irlandese 4.3 L'innominabile 5.0 Dalla parte del lettore 6.0 La seduzione degli inizi : il caso di Italo Calvino 7 .O In conclusione

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Bibliografia generale

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Indice dei nomi

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Finito di stampare nel mese di settembre 20 1 3 per A . Longo Editore in Ravenna da Global Print, Gorgonzola MI