Idioteque. L'11 settembre nell'immaginario cinematografico dell'Occidente 8877968109, 9788877968104

La coincidenza di vari anniversari - del primo dei romanzi pubblicati da Ian Fleming (1952-2012), del primo dei film ded

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Idioteque. L'11 settembre nell'immaginario cinematografico dell'Occidente
 8877968109, 9788877968104

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Officina dei media

Comitato scientifico Direttore Rosaria Sardo

Giovanni Caviezel Marco Centorrino Alessandro De Filippo Antonino Di Giovanni Antonio Ferrero Francesco Pira Flavia Ursini

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Alessandro De Filippo

Idioteque I’ll settembre nell’immaginario cinematografico dell’occidente

Prefazione di Giuseppe Giarriz^p

Introduzione di Peppino Ortoleva

BONANNO EDITORE

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Proprietà artistiche e letterarie riservate Copyright © 2010 — Gruppo Editoriale s.rl Acireale - Roma

wwwbonannoeditore.com — [email protected]

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a Martina, perché possa crescere senza paura deU’./4Zfir0

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Indice

Prefazione di Giuseppe Garrito

pag.

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Introduzione & Ceppino Ortoleva

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Capitolo I - La catastrofe allo specchio 1 La catastrofe allo specchio 1.1 Limiti di campo 1.2 II corpus della ricerca 1.3 Questioni di metodo

„ „ „ „ „

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Capitolo II - dalla minaccia All’Evento „ 53 2. La catastrofe incombente „ 53 2.1 Dalla minaccia all’Evento „ 77 2.2 L’11 settembre e la lotta contro il terrorismo nella rappresentazione cinematografica „ 89 2.3 Le guerre in Afghanistan e in Iraq nella finzione cinematografica „ 100 2.4 La “ricostruzione” video dei fatti e i sensi di colpa „ 118 2.5 Un nuovo Medioevo „ 131 Capitolo in - non-umani disumani 3. La teoria detta cospirazione 3.1 Cloni e alieni 3.2 Non-umani disumani 3.3 Zombie 3.4 Vampiri 3.5 Intelligenze artificiali

151 151 154 162 167 180 187

Capitolo IV - strutture narrative 4. strutture narrative 4.1 La struttura del videogioco 4.2 La struttura del mockumentary 4.3 In chiusura, quasi un’esortazione

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Filmografia

pag. 225

Bibliografia

„ 231

Indice dei nomi

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Ringraziamenti

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Prefazione di Giuseppe Garrito

È un saggio bello e inquietante. Bello - né solo per la scrittura, ma perché risponde alla coscienza inquieta della sua generazione (che è quella dei figli dei miei figli accademici) con una ricostruzione, una lettura eminenti nel deserto della nostra contemporaneistìca, oggi un villaggio deserte dagli storici e dove impazzano in confusa scorriban­ da politologi, giornalisti e prezzolati “artigiani della gloria”. Inquietante - quando l’autore prova a dipanare con analitica compe­ tenza il groviglio di un presente, in cui individuiamo a fatica e per frammenti un passato, quello dell’occidente del post-imperialismo, che fa ressa invano per entrare nel vestibolo della nuova casa, la casa del futuro. E l’inquietudine interpreta la confessata impotenza di società che ‘temono’ il loro passato e sono portate a sottrarsi al peso della grande ondata di ritorno che incombe e minaccia catastrofe per l’assenza dell’alveo in cui tornare a scorrere: e invoca, non ascoltata, provvidenze artificiali a spianare dislivelli che altri proclama ‘natura­ li’. Ed i filosofi della storia, questi cantastorie di ultima generazione, disputano se preferenza va accordata ai profeti della ‘fine del mondo’ o al disvelamento dell’apocalisse. A tenere assieme l’intero discorso è qui, fatto e parola, 1’11 set­ tembre, ‘catastrofe certo, ma anche immagine della catastrofe’. E l’aspetto intrigante del saggio sta qui, nello studio del gioco perver­ so della multimedialità che riesce di continuo a trascorrere dal ‘fatto’ all’immaginario, e attraverso un abile gioco dell’immagine che narra può riportare in superficie i fatti, le storie, e così all’infinito: e nell’atteggiarsi dello sguardo sa suggerire allo spettatore la seduzione del potervi essere attore, quasi una cancellazione del dislivello teatrale tra palcoscenico e platea in cui Pirandello aveva rappresentato con denuncia dolorosa il Potere tragico della modernità. Immagine, immaginario: in una disordinata rincorsa dei linguag­ gi, verbali e no, lo storico occidentale vede sconvolto l’intero territo­ rio che una meditazione millenaria aveva affidato all’esplorazione

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che ordina via via che scopre, e lo scandire del tempo che vuol tro­ var ritmo (se non armonia) lo aiutava a descrivere lo spazio che si individua per confini convenzionali o ‘naturali’. Da vecchio storico, ho letto (e poi riletto) il dossier di De Filippo con un’ansia sottile: le mode che si son succedute nella crisi dello storicismo, dal linguistic turn al post-moderno, dalla microstoria alla retorica neo-darwiniana (porre al posto del ‘progresso’ esploso la evoluzione cui l’umanità è condannata), hanno visto bruciar le trasparenti ali della farfalla. Si era fatta strada l’illusione che, col concedere spazi all’immaginario, cosa diversa dalla fantasia dei romantici per il suo farsi ‘razionale’ antici­ pazione del futuro, lo storico potesse conferire evidenza oggettiva alla propria ricostruzione del passato, di un passato. Ora la stringen­ te dimostrazione di De Filippo toglie fondamento a siffatta illusio­ ne, e chiede all’osservatore/attore di vivere come immaginaria, con i colori ed i suoni (gli odori persino) del racconto, una realtà - che diventa leggibile nel momento stesso in cui si rinuncia alla differen­ za tra il fatto e la sua rappresentazione. Ritorno all’idealismo? Appaiono di tutta evidenza le affinità con il comune riferimento alla psicologia collettiva, ma l’immaginario della multimedialità vi cancella il segno forte della soggettività. Il sin­ golo, anche quando raffigura a sé medesimo il proprio vissuto, lo fa nel linguaggio che è della comunicazione ‘globale’: giacché questo linguaggio, nel render il vissuto accessibile ad altri, chiama questi altri a ritrovarsi nel flusso non più della coscienza ma della rappresenta­ zione. Ed il Potere ha da tempo optato per il rito e non rischia le avventure del mito: non è un caso la ritrovata fortuna della discussa copertura Nomina!Numina. E son le pratiche del culto a conferire fertilità alle piante agiografiche. La storia di queste affollate presen­ ze, che - esperto studioso di ‘documentari’, ed autore raffinato di corti, di brevi film di scopo - De Filippo qui ripropone non comin­ cia dall’l 1 settembre, che resta data-simbolo, ma dal 1957, la sospen­ sione e l’attesa del mondo occidentale che seguirono alla morte di Stalin, ed i trentanni successivi che l’Occidente consumò nell’incer­ tezza aspettando la fine della Guerra fredda: donde l’urgenza di una frattura da cui ricominciare, di un tempo nuovo per un nuovo avvio. E però la catastrofe è vista oggi attraverso la memoria e la speranza, entrambe ambigue perché entrambe disperate, dei ‘sopravvissuti. L’11 settembre perciò venne avvertito, nella memoria turbata e nell’attesa ansiosa dell’occidente, come il rivelatore di una nuova

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condizione. E le pagine di De Filippo, e le immagini-racconto, di epi­ sodi o di serial, lo rappresentano con modalità proprie del suo lin­ guaggio, tra sospensioni e riprese, tra irruzioni calcolate ed un abile mischiar di carte: racconti e pause della sua storia. Una storia che non cerca il lieto fine, e a tratti par chiedere al lettore/ spettatore di rinunciare al fine: in esiti che tutti si affidano nondimeno all’imma­ ginario positivo. Un po’ di apocalisse non guasta, ma il mondo non finirà — se d sarà sempre la coppia del Genesi a rifar l’umanità, d saranno i sopravvissuti o in loro assenza gli ‘alieni’ che sono civili o lo diventano attraverso la conquista della Terra. E qui toma, a pren­ der fiato, la speranza tardo-sdcentesca della pluralità dei mondi Accadrà ai lettori di questo saggio, che auguro molti e interes­ sati dal fascino del tema e dall’intrigo, quello che è accaduto a me, vecchio storico, di rileggerlo? E su questa esperienza di una secon­ da lettura mi piace conduder l’invito. De Filippo chiude con note di implicita confidenza nella multimedialità come modo di essere della sua contemporaneità: eppure lo stile non è di speranza ma di attesa. Intellettuale religioso senza religione, egli invoca un’antro­ pologia della speranza: si afferra frattanto a quel che rimane alla sua cultura del tradizionale provvidenzialismo cristiano, la certezza che la fine dell’umanità non è tra i segnali del presente/futuro, e che la cultura di cui è la nostra umanità parte sa riconoscere le crisi, e ingigantendole sa pensare come superarle se non vincerle. E dal mare, che resta per la civiltà mediterranea l’orizzonte d’attesa - da Arianna a Butterfly, - non verrà il mostro temuto ma un ‘diverso’ migliore. E nondimeno l’attesa indugia a farsi speranza (penso alla riflessione di mia moglie, che come me figlia di marinai, invidiava la generazione dei nostri padri ‘che sapeva sognare’): e De Filippo è costretto a cercare la fede degli altri per scoprire, se occorre a ritroso, quella speranza che (forse) non abbiamo.

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Introduzione di Peppino Qrtoleva

1. Tra i molti film citati e analizzati con passione e curiosità da Alessandro De Filippo in questo suo IcUoièque, non c’è quella che io considero (nella sua enigmaticità, nella sua diversità, e nella sua potenza) una delle opere-chiave del passato decennio: Elephant (2003). Eppure, il film di Gus Van Sant è un buon punto di parten­ za per una riflessione di metodo, e in parte anche di merito, sui temi che il lettore si troverà, finita questa mia premessa, a percorrere. Come molti sanno, Van Sant è tornato col suo film su un tema, la strage operata da due studenti nella High School di Columbine, Ohio, che già un anno prima era stato affrontato in un documen­ tario di notevole successo, Powlingfor Columbine di Michael Moore. Se proviamo a ragionare su ciò che differenzia i due film, al di là dei giudizi di valore estetico e di banali ragionamenti sui generi (anche perché identificare un preciso genere per 'Elephant è diffici­ le, e si rischia sempre di finire nell’arbitrio), ci rendiamo conto di trovarci di fronte a due ricerche profondamente diverse. Entrambe, per vari aspetti, paradigmatiche. Michael Moore chiarisce senza mezzi termini, fin dall’inizio, di voler cercare prima di tutto un colpevole, e un preciso rapporto di causa-effetto tra l’evento e il (o i) fattori che lo avrebbero prodot­ to; e lo fa più alla maniera di un giallo alla Perry Mason che come in un poliziesco di Agatha Christie: lo svelamento infatti ha la forma, non tanto di un’indagine puntuale e di una ricostruzione passo dopo passo, quanto di un’arringa accusatoria. Il colpevole, la National Rifle Association e le sue attività di lobbying a. favore del libero mercato delle armi, viene presentato già dalle prime battute, e il resto del film svolge l’argomentazione senza cambiare quasi mai registro. Dal fatto di cronaca, un evento specifico e particola­ re (e non a caso è proprio, e soltanto, quando si piega, con l’evi­ denza del tremolante bianco e nero della telecamera automatica, sulle vite spezzate di quegli studenti e di quegli insegnanti che il film

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riesce a commuoverci), si passa direttamente e senza passaggi intermedi a una causa generale: la troppo facile disponibilità di armi da fuoco negli U.S.A. Per Moore, Columbine è il sintomo, la love story degli americani con le armi è la malattia. La diagnosi è fatta, ora va applicata la cura. Con 'Elephant (e in parte già con il precedente Gerry) Gus Van Sant s’incammina in un percorso di ricerca radicalmente diverso e assolutamente personale, che continuerà poi, con grande coeren­ za, in East Days, 2005 (libera ricostruzione della morte di Kurt Cobain) e in Paranoid Park, 2007. Un percorso che ci riguarda non solo dal punto di vista del risultato estetico, ma anche da quello della prospettiva epistemica. L’ossessivo tornare del film su alcuni momenti apparentemente insignificanti della vicenda di Columbine, per guardarli da una pluralità di punti di vista, come in un interminabile sopralluogo, come in uno sforzo di memoria alla ricerca dei particolari che possono essere sfuggiti, è in effetti com­ movente anche più delle scene culminanti del film di Moore: per­ ché ci conduce dentro la pluralità dei vissuti che confluiscono in una tragedia; ma anche e soprattutto perché non possiamo non essere colpiti, anzi toccati in profondità, dalla determinazione di questa ricerca. Una determinazione tanto maggiore quanto meno è sicura, alla fine, di arrivare a un risultato. Elephant. H titolo fa riferimento a un racconto ambientato in India ma di invenzione europea: la storia di sei ciechi che avendo l’occasione di “esaminare” un elefante, ma servendosi solo delle mani, finiscono con il pretendere di comprendere il tutto a partire da una piccola parte, per cui uno vuole che l’elefante sia un muro, un altro un albero, un altro ancora una lancia e così via. Generalmente la storia dei ciechi e dell’elefante viene raccontata per sottolineare i limiti della conoscenza umana, per invitarci alla rassegnazione di fronte alla povertà delle nostre percezioni e all’inevitabile soggettivi­ tà delle interpretazioni. Quella di Van Sant è una lettura tutta diver­ sa. Il suo film ci invita, certo a diffidare delle generalizzazioni, a rico­ noscere che ogni osservazione è parziale e “angolata”, ma non per questo si rifugia nel facile scetticismo che è parte della retorica postmodernista, o nel generico soggettivismo; la cecità di coloro che cer­ cano di capire non basta a rendere irrilevanti i loro sforzi, né a sco­ raggiarci dal provare anche noi (ciechi tra i ciechi) a comprendere. Il modello di ricerca, e di conoscenza, all’opera nei film di Van

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Sant va decisamente oltre il sistema di corrispondenze biunivoche, già pienamente moderno ma fin troppo rassicurante, del “paradigma indiziario” caro a Carlo Ginzburg: per cui il disordine visibile può essere letto come un segnale, ovvero un indizio appunto, che ci conduce a un disordine più profondo che ne è il motore; per cui i piccoli scarti riconoscibili (con la debita attenzione) sulla scena del crimine, o comunque nella realtà osservabile, sono come dei signi­ ficanti che rimandano con logica ferrea a dei significati più remoti e profondi: i moventi e le azioni del colpevole. Elephant, per tutta la durata del film, continua invece a esplorare la scena del crimine, e i tanti mondi che la circondano, in un cammino zigzagante e ine­ sauribile, ma non per questo rassegnata Van Sant non rinuncia all’indagine, né alla verità: al contrario, porta avanti con determinazione un’indagine non meno ma più ambiziosa, non meno ma più determinata, di quella dei polizieschi classici, o di Michael Moore. Se è vero che i fatti sono un pu^le, allora la loro ricostruzione deve darsi insieme tutta la modestia e tutta l’ostinazione sperimentale di chi, montando e rimontando, provando e riprovando secondo il monito galileiano, cerca di venirne a capo. I tanti racconti dei ciechi a proposito dell’elefante non sono, banalmente, la dimostrazione che nulla è possibile sape­ re, piuttosto la testimonianza che la conoscenza è fatta di tanti errori e di tanti tentativi solo apparentemente inutili. Quello che Van Sant propone, insomma, non è il classico cam­ mino a ritroso di chi vuole risalire da un fatto a un altro, da un even­ to a un motivo; è un modo, per usare un termine oggi in voga, di “esplodere” i dati, di aprire per così dire i fatti, stabilendo non uno ma una serie di nessi possibili. A un modello “testuale” di verità come racconto, almeno in parte lineare, oppone un paradigma che è già tutto parte della nostra sensibilità: la verità come trama di connessioni, come apertura centrifuga (e centripeta insieme) in una varietà di direzioni. Moore va da Columbine verso quelli che considera i grandi mali dell’America: cerca di “svelare” le trame di interessi e complicità che si nasconderebbero dietro la nostra quotidianità, salvo diven­ tare evidenti quando il male esplode. Van Sant al contrario non si allontana mai da Columbine, e quando sembra prenderne per un atti­ mo le distanze è solo per tornarci ancora più ossessivamente. Non si rassegna a ridurre la tragedia a “segnale” di qualcos’altro, vuole

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insieme approfondire progressivamente lo sguardo e allargarlo per così dire a spirale, come nella convinzione che ogni corrisponden­ za troppo diretta tra effetti e cause, tra sintomi o indizi e mali sot­ tostanti, nasconda più di quanto sveli; ma che il senso della cata­ strofe debba essere trovato nella catastrofe stessa, in un itinerario fatto di ampliamenti progressivi ma anche di ritorni ricorrenti sugli stessi oggetti. Il film di Van Sant, se da un lato ci propone un modello di conoscenza coerente e innovativo (ma di broken knowledge parlava già Bacone, in un senso non poi tanto dissimile), dall’altro eviden­ zia comunque un disagio: perché gli altri itinerari di ricerca, quelli semplici e lineari, sono ben più rassicuranti non solo dal punto di vista cognitivo (in quanto ci promettono risultati univoci e soluzio­ ni definitive), ma anche dal punto di vista etico, in quanto permet­ tono tra l’altro di individuare e distinguere innocenti e responsabi­ li. Mentre i percorsi a spirale come quello che lui segue possono risultare frustranti; incerti non solo sul piano conoscitivo ma anche da un punto di vista morale. E anche un po’ claustrofobici: gli ulti­ mi giorni di Kurt Cobain, la pista di cemento di Paranoid Park, come Columbine, sono scene che non riusciamo mai veramente a lasciarci alle spalle. Il fatto di cronaca assume in Elephant portata piena del mito classico, le vittime sono sotto i nostri occhi quasi come in un even­ to sacrificale, dove la preparazione della vittima stessa al rito di san­ gue è altrettanto importante del momento dell’uccisione. Solo che fl sacrificio sembra non concludersi mai. «Non credo di essere pronto per Paranoid Park» dice il protagonista all’inizio di quel film, ed è questo senso di inadeguatezza che alla fine ci rimane addosso, in ParanoidPark come in Elephant non è per niente casua­ le, credo, la metafora dello skateboard, dove non ci sono avversari da battere ma solo le vertigini da sfidare; e nel film la morte arriva per caso ma ne nasce un senso di colpa almeno pari a quello pro­ dotto da un omicidio voluto. Perché in questo universo è più dif­ ficile che mai stabilire con certezza chi siano i carnefici 2. Possiamo così, con tante scuse per la lunga digressione, torna­ re al libro di Alessandro De Filippo: che mi ha colpito e interessato proprio perché sceglie, fin dall’inizio, non di cercare una spiegazione unitaria ma di esplorare una trama di connessioni, a partire comun­

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que da un fatto, quell’l 1 settembre che ha aperto almeno sul terreno mitico il nuovo millennio, e che viene in questo libro “esploso” in una trama di riferimenti ad altre immagini, ad altre storie. De Filippo attraversa decine di film: alcuni notissimi altri intro­ vabili o quasi; alcuni direttamente ispirati all’evento, altri connessi in modo trasparente, magari sul filo di una metafora, altri apparen­ temente del tutto remoti eppure, a guardar bene, legati da un nesso sottile ai fatti dell’l 1 settembre; alcuni pressoché coevi, molti altri successivi, fino a oggi, altri invece precedenti, anche di parecchi anni. Una scelta, questa, solo apparentemente incongrua, perché l’immaginazione non procede solo in avanti, dando vita a nuove elaborazioni e nuove versioni, ma anche a ritroso, cercando nuovi significati per storie già raccontate; perché la mitologia, quella clas­ sica come quella moderna, sa rendere coeve narrazioni nate in cir­ costanze diversissime, sa mettere in circuito (a volte in corto circui­ to) storie dalle origini più diverse. È in effetti una vera e propria mappa della mitologia che ha cir­ condato e circonda un fatto, storico e insieme mitico esso stesso come l’attacco alle torri gemelle, quella che De Filippo cerca di costruire, muovendosi anche lui per allargamenti successivi, tor­ nando più volte e da tante angolazioni diverse sulla scena primaria. Dapprima ci propone il corpus dei film che si sforzano di docu­ mentare o di capire l’evento in quanto tale; poi i tòpoi del racconto bellico, le narrazioni della guerra, quella reale ma anche e soprattut­ to (perché la guerra appare tanto meno rappresentabile quanto più è “vera”, quanto più è vicina all’esperienza effettiva del teatro di operazione) quella evocata dai generi “d’azione”; per passare quin­ di allej^w, alle rappresentazioni dell’altro, dal mostruoso classico dei vampiri e degli zombi a quella figura più attuale e per molti versi anche più inquietante dell’alieno, che è l’incrocio tra l’umano e il manufatto tecnico, il (yborg o l’intelligenza artificiale; e arrivare alla fine a proporre una classificazione delle strutture che stanno alla base di questi racconti. Forse, più che di strutture, si dovrebbe parlare di “forme culturali”, un’espressione introdotta da Raymond Williams parlando di televisione, e ripresa di recente con grande fortuna da Lev Manovich. È proprio nell’esigenza di accostarsi alle forme cul­ turali proprie del nostro tempo che De Filippo lascia da parte le linee narrative più consolidate (che pure sono nell’insieme prevalen­ ti anche nel suo corpufy e sceglie di soffermarsi sui modelli più nuovi:

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il film in forma ludica, che si rifa (a volte per importazione diretta, più spesso per allusione o per via di mimesi formale) al linguaggio e soprattutto al patto comunicativo proprio del videogame, e il mocku­ mentary, un altro esperimento ludico a ben guardare: che riprende, e insieme inabissa nel gioco di rimandi ironici, il modello veridittivo per eccellenza, quello appunto del documentario. Nel passare da un “livello” all’altro, come si direbbe in linguag­ gio videoludico, De Filippo fa riapparire più volte, ma modifican­ do il punto di vista, i luoghi della mitologia la cui mappatura, e clas­ sificazione, è il suo obiettivo. Un processo a spirale, in fondo non dissimile da quello proposto da Van Sant. 3. Non avrebbe senso anticipare qui il suo percorso: il libro è abbastanza scorrevole e rapido da farsi ben leggere da solo. Vale però la pena di ragionare su alcuni problemi di metodo, che potran­ no forse accompagnarci in un ulteriore ampliamento dello sguardo. In verità, all’orizzonte dei ragionamenti di De Filippo c’è come un duplice riferimento, una linea di tensione. Da un lato la rivendi­ cazione del diritto dell’autore a trattare tutti i materiali che analiz­ za come suoi contemporanei, come possibili frammenti di un unico pwgle, nel quale la scelta dei materiali da analizzare nasce esclusivamente dall’intuizione personale di chi quelpu^ype sta cer­ cando di comporre. Dall’altro il legame, quasi nostalgico, con il modello di lettura che fa del film, come di tanti altri oggetti («tutto può essere fonte nella storia delle mentalità» diceva Jacques Le Goff), un documento, o meglio appunto una fonte, cioè una sor­ gente d’informazioni che va interrogata, ma che ha comunque una voce propria, che è altra dalla voce dello storico perché gli è ante­ cedente: propria del tempo in cui il documento stesso è nato. Sono due angolature forse non inconciliabili, ma certo ben diverse, che fanno capo per altro a una doppiezza istitutiva dello stesso universo cinematografico: da un lato il punto di vista dello spettatore che vede lo spettacolo fatto di immagini in movimento come in ogni caso suo contemporaneo, in quanto le ombre sullo schermo “vivono” una vita che è sincronica alla nostra; dall’altro quello dell’archeologo che vede nel film, fatto di immagini fotogra­ fiche e quindi precedenti per definizione alla loro proiezione, una traccia di un tempo diverso dal suo. Tutti e due questi punti di vista possono essere alla base di un lavoro di smontaggio e rimontaggio

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alla maniera di un pusgk, tutti e due si prestano, per riprendere l’esempio con cui abbiamo aperto, a itinerari di ricerca alla manie­ ra di 'Elephant. Ma sono pusgk differenti, nell’andamento della loro ricostruzione e forse anche nel risultato finale: da un lato si punta ad arrivare a una mappa, e dichiaratamente soggettiva; dall’altro si cerca comunque di ricostruire dei processi, dei percorsi lungo il filo del tempo. Nonostante tutte le dichiarazioni, e tutti gli omaggi a chi in passato ha lavorato sul film come fonte storica (tra cui, venti-venticinque anni fa, chi scrive, e sono lieto che De Filippo ne abbia tratto qualche stimolo), la linea che guida questo volume è decisamente la prima. Nel libro, i film vengono legati tra loro, e con gli avvenimenti storici a cui fanno più o meno direttamente riferimento, non sulla base di un’analisi della loro potenzialità documentaria, ma in quan­ to parte di quella che potremmo chiamare una galassia mitologica, una trama di narrazioni immaginative che si intreccia con un ordi­ to costituito non tanto da fatti storici quanto da nuclei tematici che possono essere definiti storici in senso lato: le ideologie alla base del dominio americano (e, a contrappeso, quelle dell” ‘anti-imperialismo”), le letture diffuse di alcune delle novità del nostro tempo (dal terrorismo all’intelligenza artificiale), e un evento, quello dell’ll set­ tembre, inteso più nella sua portata simbolica e iconica che in quan­ to vicenda concreta. Una scelta che si può discutere, come tutte, ma che ha, e in parte lo abbiamo già evidenziato, importanti potenzia­ lità per la riflessione sul senso di questi nostri anni.

4. “Galassia mitologica” è un’espressione impegnativa, in tutti e due i suoi termini. Perché i miti non sono semplicemente “raccon­ ti possibili”, sono racconti condivisi e che chiamano in causa delle forme, se non di fede, quanto meno di disponibilità, di sospensio­ ne dello scetticismo; e perché una galassia è un insieme di entità distinte ma tenute insieme da alcuni elementi di connessione, di attrazione reciproca. Studiare una galassia mitologica implica il porsi due domande di base: domande che in questo libro sono implicite ma che è bene esplicitare, e affrontare con chiarezza. La prima: di che tipo di miti si tratta? La seconda: come si genera que­ sta galassia, e in particolare che rapporto possiamo individuare tra i miti e l’esperienza concreta di questa fase storica? Alla prima domanda vorrei rispondere con un concetto che mi

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è caro, e che sono venuto sviluppando e mettendo a punto da qual­ che anno. Si tratta di miti “a bassa intensità”, ovvero per riprende­ re un mio testo recente «racconti fabbricati professionalmente e professionalmente distribuiti, che, anziché essere fissati in una tradìtio orale per essere di volta in volta ri-narrati sempre un po’ dif­ ferenti sempre sostanzialmente stabili, invece di essere incisi in forma diversa ma sacralizzata nelle scritture, si offrono e si ripre­ sentano in continuazione sempre eguali nel tessuto di fondo e sempre diversi nell’elaborazione singola. Racconti insieme volatili come le puntate di una serie televisiva (che devono ‘funzionare’ anche per chi si è perso tutte le puntate precedenti) e radicati non solo nella ricorrenza dei temi di fondo ma anche nella competen­ za dello spettatore/lettore: il quale deve senza fatica riconoscere le storie e collocarle in un sistema relativamente coerente». Sono storie sempre diverse anche se il numero delle matrici, dei racconti-base, è ristretto, perché come scrisse quasi sessantanni fa Robert Warshow, non si può vedere molte volte lo stesso film, ma si può guardare infinite volte la stessa forma. Sono miti che non richiedono fede ma disponibilità. E come ha intuito Bachtin, non sono collocati in un “passato assoluto”, quello proprio dell’epica o della mitologia classica, totalmente altro dalla vita quotidiana (ma proprio per questo capace, come le ninfe delle “favole antiche” leopardiane, di dare senso ai luoghi del mondo e ai ritmi del calen­ dario), bensì “in un tempo ancora incompiuto”, che è comune al racconto e al suo lettore, allo spettacolo e al suo spettatore, tutti uniti nella tensione di sapere come andrà a finire. La mitologia a bassa intensità del nostro tempo, anzi, sembra protesa, più che verso il presente, verso i possibili futuri, verso gli scenari che si aprono: non solo perché è parte del nostro orizzonte di vita l’attenderci innovazioni (tecnologiche, organizzative, cultur­ ali) che ridefiniranno almeno in parte le nostre caratteristiche antropologiche, ma anche perché le fratture che d siamo lasciati alle spalle, dalla fine della guerra fredda all’azione del terrorismo internazionale, hanno aperto nella nostra mappa del mondo una serie di punti interrogativi là dove in precedenza vi erano valori certi, o conflitti, ma tra antagonisti che apparivano immediata­ mente riconoscibili. La mitologia a bassa intensità accoglie l’informazione come la fiction, anzi costituisce uno dei collanti che legano le due; e apre,

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tanto più nei momenti più critici, verso rimmaginazione futuribile, che in termini di generi dà vita a quel filone carsico della narrativa moderna che chiamiamo genericamente “fantascienza”. I mondi possibili che accompagnano la fiction, in questo quadro, assumono la forma di scenari, e l’immaginazione narrativa si fa laboratorio dove, ancora una volta in forma disi compongono e scom­ pongono incessantemente le immagini di ciò che ci aspetta. Venendo ora alla seconda domanda, che rapporto c’è tra i miti e l’epoca che li genera, c’è in effetti nel volume un’oscillazione che mi pare non risolta. Da un lato, nelle prime pagine, De Filippo non esita a parlare, con una determinazione che potremmo dire fuori moda, di “rispecchiamento”, per cui il film, e in generale il testo o l’opera d’arte, «rispecchia la cultura del periodo storico in cui nasce». Il film è in sostanza il prodotto di un meccanismo lineare, inevitabile lo specchio, anche il più deformante, non può produr­ re altra immagine che quella, per quanto distorta, dell’oggetto o della persona che si trova davanti.,Dall’altro lato, verso la fine del libro, compare una citazione di Zizek per cui il cinema fabbrica i desideri: «Gnema is the ultimate pervert art. It doesn’t give you what you desire, it tells you how to desire». Da un lato un cinema che non agisce, restituisce; e che ha un rapporto passivo con la società da cui è stato prodotto. Dall’altro un cinema che non ha niente da restituire («Our desires are artificial» dice ancora Zizek: «we have to be taught to desire»); e che ha un rapporto attivo con i suoi spettatori, di più,produce quella che loro stessi percepiscono come la propria intimità. Da un lato il cinema appare forgiato dalla società, dall’altro forgia le menti dei suoi spettatori. Se seguiamo l’idea del rispecchiamento, la galassia mitologica è una sorta di alone che circonda la vita concreta dei singoli e della società, anzi ne è in sostanza la diretta proiezione; se aderiamo all’idea del cine­ ma come fabbrica dei desideri, la galassia mitologica è il prodotto di una realtà produttiva specializzata e predominante, e viene imposta ai singoli e alla società anche se con piena loro accettazio­ ne. Sono due interpretazioni contrastanti, ma entrambe semplici­ stiche; e sembrano condividere, al di là di tutte le contrapposizio­ ni, un’idea di fondo, secondo la quale il cinema è una cosa, le menti e la cultura del pubblico sono un’altra. In verità la galassia mitologica di cui parliamo si costruisce attraverso processi storici di una complessità assai maggiore di

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quanto ci prospettano queste due interpretazioni: processi che interessano una superiore varietà di soggetti e di comportamenti. Le attività di invenzione ma anche di adattamento e di adozione dei racconti coinvolgono, in un complesso e ininterrotto negozia­ to a distanza, spettatori, produttori, intermediari di ogni genere (tanto più, come vedremo fra poco, in un’epoca come la nostra con la potenzialità che offre a tutti di farsi in parte ri-creatori dei prodotti che amano). La pluralità di testi che consumiamo dà vita a quella che può essere chiamata “un’autobiografia immaginaria di una società”, a un repertorio di racconti possibili di un’epoca e su un’epoca, che si conquistano giorno dopo giorno il loro sèguito. Il senso di un film, e il contributo che il film dà al senso di un’epoca, non nasce dal singolo atto inventivo di chi produce il soggetto, al contrario è il frutto sempre provvisorio di un processo che non finisce fino a quando il film non ha finito di avere spettatori: cioè, potenzialmente, mai. È attraverso questo complesso itinerario di produzioni, adozio­ ni, adattamenti, che una serie di trame si trasforma in una mitologia:. un complesso di racconti che si integrano tra loro come in unpu^yle, e che richiedono per essere compresi un procedimento infati­ cabile e umile. Proprio come quello proposto da Van Sant. Se que­ sto è vero per tutte le galassie mitologiche che il cinema (e prima di lui il romanzo, e dopo e accanto a lui la serialità televisiva, il fumetto, e più di recente l’universo del videogame e quello mag­ matico di YouTube) ha costruito nel corso di molti decenni di sto­ ria, va detto però che quella studiata da De Filippo è una galassia per molti versi differente da tante altre che l’hanno preceduta. E vale la pena di spiegare rapidamente il perché. Un primo aspetto è colto dallo stesso De Filippo quando vede nel videogame e nel mockumentary due strutture privilegiate, due modelli narrativi e ludici insieme che traggono la loro forza dall’interattìvità prevalente nell’epoca del web. Due modelli che interpel­ lano lo spettatore, fino a farlo diventare co-produttore: coerente­ mente con un sistema dei media nel quale la filiera della produzio­ ne di senso si è ulteriormente allungata anche per l’attivarsi di milio­ ni di spettatori-diventati-rielaboratori; nel quale l’“esplosione” dei miti e del loro significato avviene giorno dopo giorno in un labora­ torio vastissimo, quello di You Tube e dei social network. Il film divie­ ne oggi “fonte” anche in un significato diverso (ma a ben vedere

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complementare) rispetto a quello proposto dalla storiografia: sor­ gente di una quantità potenzialmente indefinita di storie sempre nuove, e insieme sempre legate, sul piano del contenuto e anche se così si può dire sul piano dell’affetto, ai soggetti iniziali La galassia mitologica ha un numero crescente non solo e non tanto di fruito­ ri quanto di operatori. E (letteralmente) di “amatori”. Un secondo aspetto riguarda appunto gli atteggiamenti sogget­ tivi, e affettivi, degli operatori come degli spettatori più tradiziona­ li. Viviamo l’epoca del cuti, nella quale la fruizione delle storie com­ porta non solo una wilting suspension of disbetif ma anche un’adesio­ ne personale, appassionata. Come ho avuto modo di scrivere altro­ ve, «mentre il modello classico della fruizione era basata sull’impe­ rativo: ‘guarda questo, è bello’, l’estetica del cuti propone, con for­ mula meno ingiuntiva e più colloquiale, ‘guarda questo, è mio’, nella speranza di potere allargare ulteriormente a: ‘guardiamolo insieme, ci possiamo riconoscere tutti’. Se il modello classico vive di testi e di opere, e di attività di fruizione, non propriamente ‘pas­ siva’ ma comunque distinta nettamente dall’atto creativo originario, il cult insieme postula e legittima azioni continue di appropriazio­ ne, di rielaborazione, di gioco». Anche se non dedica particolare attenzione alle pratiche del fandom e alle forme di culto che accom­ pagnano molti dei film da lui analizzati, De Filippo ha costruito il suo corpus tenendo conto, soprattutto per quanto riguarda i film che fanno da orizzonte all’indagine, come Rlade 'Runner o alcune opere di Carpenter, di una trama di riferimento assai vicina alle logiche del cuti. Cosa che giova all’attualità della sua indagine, anche se in qualche caso la condiziona. Un altro aspetto caratterizza la galassia mitologica che si è venuta costruendo attorno ai temi della guerra e della sicurezza, del terrorismo e dei rapporti con “l’altro”, ed è Yurgenza. Con 1’11 set­ tembre si è aperta quella che possiamo chiamare la terza fase nella rappresentazione dell’ordine, e del disordine, globale, nel mondo post-guerre mondiali. La prima era stata definita da un’espressione la cui potenza metaforica si è completamente persa nella fortuna stessa della frase: guerra fredda, un conflitto congelato che mette insieme due termini opposti, la radicalità dello scontro (di ideolo­ gie ma anche e soprattutto di armamenti, fino alla distruzione tota­ le dell’umanità), e la provvisoria concretezza della pace globale. La seconda, dagli anni Ottanta fino appunto alla fine del millennio, era

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stata caratterizzata da un’incertezza più subdola, l’apparenza di una pace senza effettive insidie, e l’inquietudine di un mondo sempre più interdipendente ma dai valori mal definiti. Con 1’11 settembre la pace fredda lascia il posto a un’insicurezza tanto più pressante quanto meno sensata è la minaccia. Un nemico che non sembra avere tanto un obiettivo quanto una pulsione. «Noi amiamo la morte molto di più di quanto l’Occidente ami la vita». Nella galas­ sia mitologica che si è costruita attorno all’l 1 settembre assume un ruolo centrale l’assurdo, la morte come mistero che possiamo allontanare da noi grazie ai trionfi della tecnica e della medicina ma che resta alla fine imperscrutabile. Se teniamo conto di questo aspetto, allora possiamo tornare su 'Elephant per trovarvi un film che parla del terrorismo tanto più limpidamente in quanto vede all’opera la pulsione di morte nella sua forma più pura, senza paraventi ideologici. Per trovarvi un film che parla dell’assurdo senza mai rassegnarsi a non capire ma anche senza cercare scorciatoie. Forse, dopo tutto, il film del dopo-11 set­ tembre.

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Radiohead, Idioteque Who’s in a bunker? Who’s in a bunker? Women and children first And the children first And the children [•••] I have seen too much You haven’t seen enough You haven’t seen it I’ll laugh until my head comes off Women and children first And children first

And children [•••] Ice age coming Ice age coming Throw them in the fire Throw them in the fire Throw them in the We’re not scare mongering This is really happening Happening We’re not scare mongering This is really happening Happening Mobiles quirking Mobiles chirping Take the money and run Take the money and run Take the money Here I’m allowed Everything all of the time (Radiohead, Kid A 2000)

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I

La

Capitolo catastrofe allo specchio

1. La catastrofe allo specchio

Il cinema americano ama raffigurare catastrofi. L’elicottero che esplode in aria, l’automobile in corsa che viene avvolta dalle fiamme, il lanciamissili che abbatte un blindato portavalori obbediscono alla tradizione action-movie, che regala polvere pirica e fuoco senza par­ simonia. È un continuo gioco d’artificio, colorato e fragoroso, che coinvolge gli spettatori con ripetute iniezioni di adrenalina, dritte al cuore; uno shock stroboscopico, seguito da una fragorosa battuta di spirito; una sparatoria e subito una capriola; un lancio con il para­ cadute giusto in tempo per non essere catturati o per evitare l’esplo­ sione di un ordigno a orologeria. Lo spettatore va sulle montagne russe, una salita ripida e poi giù a perdifiato, con il cuore in gola, urlando a più non posso, senza capire, senza pensare, senza analizzare nulla, godendo soltanto di questo spettacolo della distruzione che sta tutto intorno a noi e quasi ci accarezza, ma non ci colpisce, non d ferisce. Mai. È una convenzione. Nessuno si sorprende. Nessuno d fa caso. Fino a quando non avviene davvero Fino a quando un aereo di linea si schianta contro un grattadelo di una metropoli americana. H grattadelo è la Torre Nord del World Trade Center, l’aereo è la linea 11 dell’American Airlines e la metropoli è New York City1. Allora sembra tutto assurdo, perché non si è arrivati in tempo per saltare giù

1 Alle 08:46": 40", in Italia erano le 14:46, il volo American Airlines 11 si schiantò contro la facciata settentrionale della Torre Nord del World Trade Center. L’impatto avvenne fra il 93° e il 99° piano, a una velocità di circa 750 km/h, cfr. The 9 /11 Commission Report National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, 22 luglio 2004, cap. 1, p. 7. Le uniche immagini dell’im­ patto sono riconducibili alle riprese di tre persone: il regista francese Jules Naudet (sequenze pubblicate in Alan Feuet, Video captures Sept 11 horror in raw replay «New York Times», 12 gennaio 2002), il lavoratore ceco Pavel Hlava (filmati successivamente pubblicati in Tape of 9/11 ]VTC attack surfaces,

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col paracadute, per volare via col deltaplano dalla terrazza del gratta­ cielo. Tutto sembra lentissimo. Una camera fissa su un grattacielo in fiamme, avvolto dal fumo e dalle grida di terrore e di dolore E poi un corpo cade giù dalle finestre, dinoccolato come un pupazzo di pezza, inanimato come un manichino. Sembra vero. Sembra vivo mentre precipita. Poi un’altra ombra, un altro corpo in controluce, una sagoma dalle forme confuse, sembra un sacco di juta, come quel­ li usati per trasportare la posta, ma no, è un altro corpo che cade, un’altra persona che precipita. Zoom avanti della camera, che inquadra degli impiegati d’ufficio alle finestre, in maniche di camicia, che cercano di richiamare l’attenzione dei soccorsi. Qualcuno inter­ verrà. I vigli del fuoco, sicuramente Troveranno il sistema. Ma non succede niente Camera fissa. L’incendio procede inesorabile Tutto è lento e fetale come il fuoco e il fumo nero e denso che avvolgono l’edificio. Non c’è soluzione, non c’è salvezza, non c’è aiuta Nessun salvataggio in extremis, nessun sospiro di sollievo per un finale a sor­ presa, nessuna euforia. Non è adrenalina questa volta, ma una morsa che stringe il cuore di paura, che schiaccia le tempie in una garrota d’angoscia. E non fa riflettere, non fa pensare Fa guardare, immobili, attoniti, impotenti. È il più grande spettacolo catastrofico di tutti i tempi, il più assoluto, il più essenziale Un aereo che penetra in volo

The Age.com.au, 7 settembre 2003) e l’artista tedesco Wolfgang Staehle (pubblicate con il titolo Rare scenes from 9/17, in «Vanity Fair», 1 settembre 2006). La prima notizia dell’impatto venne data dalla CNN alle 08:49, con un’edizione straordinaria dal titolo Disastro al World Trade Center. Carol Lin e Vìnce Cellini etano i due giornalisti in studio. La prima a prendere la parola fu Carol Lin: «Sì, è appena successo. State vedendo delle immagini davvero inquietanti in diretta. Questo è il World Trade Center e abbiamo notizie non confermate che questa mattina un aereo si è schiantato contro una delle torri del World Trade Center. Il CNN Center ha cominciato adesso a lavorare sulla storia, chiamando ovviamente le nostre fonti e cercando di compren­ dere quanto è esattamente successo, ma chiaramente qualcosa di relativa­ mente devastante è successo stamattina nella parte più meridionale dell’isola di Manhattan» (trascrizione di CNN BREAKING NEWS - Terrorist Attack on United States, CNN, 11 settembre 2001). A partire dalle 08:52, tutte le altre reti televisive interruppero la loro normale programmazione con un’edizione straordinaria sullo schianto (8:48 a.m. September 11, 2001: CNN First Major Network to Show WTC Crash Footage, cff. Cooperative Research.org).

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dentro un grattacielo ed esplode. Fuoco, fiamme, lamiere contorte e vetri infranti, fumo nero e denso.

1. World Trade Center & Oliver Stone riproduce, con una fedele ricostruzione cinematografica, le immagini televisive dell’attacco alle Twin Towers. Il film è una patriottica testimonianza dell’eroismo dei Vigili del Fuoco di NYC.

Perché sovrapporre queste immagini? Perché raccontare la tragedia dell’ll settembre come se fosse la scena di un film? Perché ITI settembre è stato prima di tutto Vimmagine della catastrofe. Certo significa la morte di tremila persone, di individui innocenti, di civili inermi. Ma è stato anche, suo malgrado, spettacolo terrifico. E in questo ha scavalcato ogni possibilità di rappresentazione e di raffigurazione della paura. Dopo ITI settembre, il cinema deve fare i conti con la realtà, con il fuoco vero e il sangue vero e la vera polvere, che seppellisce ogni speranza. Era inevitabile allora uno spaesamento. Era inevitabile che il cinema si fermasse, balbettasse, inciampasse sui suoi stessi piedi. Era inevitabile che l’immagine della catastrofe non fosse più la stessa. L’immaginazione, ^immagine in anione, veniva così tenuta sotto scacco dai ricordi reali, dalle immagini trasmesse a ciclo continuo da tutte le televisioni inter­ nazionali. Un ricordo condiviso tra tutti i cittadini del pianeta, per un’immagine globale, anzi globalizzata, della paura e del dolore. Da New Delhi a Kinshasa, da Teheran a Bejing a Oslo, tutto il mondo sogna lo stesso incubo, partecipa alla condivisione di un’immagine 29

comune. Un’immagine che si solidifica in un ricordo collettivo e indelebile della morte di massa, inattesa e imprevedibile, che lascia tutti senza difese, senza risorse. E lascia a tutti la stessa irragionevole angoscia. Il cinema non sarà più lo stesso. Perché lo sguardo non potrà più essere lo stesso. L’11 settembre 2001 la catastrofe si è guarda­ ta allo specchio.

1.1 Limiti di campo

È opportuno, preliminarmente alla delimitazione di un’area di ricerca e di un campo operativo, fare una premessa, che consenta di tracciare (da parte dell’autore) e di rintracciare (da parte del let­ tore) le linee di interpretazione scelte per questo studio, che non vuole (ma d’altra parte non potrebbe, non riuscirebbe a) essere esaustiva. I limiti sono determinati dall’esigenza primaria di porre domande alle quali si sia in grado di offrire risposte. E, specificamente, risposte non ideologiche. Ideology is not, for me, something like a crazy abstract intellectual edifice, articulated and made to distract you from real problems, to mystify them. It is the way to perceive the real problems [...] the mystification is in the way it formulates, perceives these problems. The lesson is that: there are not only wrong answers to questions, there are also wrong questions. In the sense that the very way we perceive a problem, it can be a very real problem. The very way we perceive a problem is effectively a part of the problem [Itself; sa]. It mystifies the problem. That would be ideology2.

Il punto debole di una lettura americano-centrica che di rimbal­ zo, e solo di rimbalzo, include anche l’Europa Occidentale (quella

2 Slavoj Politeness and àwlity in thefunction of contemporary ideology, trascrizione della registrazione audiovisiva di una conferenza tenuta il 17 settembre 2008 presso la Powell’s Gty of Books a Portland, in Oregon (disponibile all’indirizzo , consultato il 26 agosto 2010).

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del primo gruppo U.E., prima dell’allargamento a ventisette) è di lasciare fuori la comparatone con gli immaginari dell’Europa dell’Est, con gli immaginari asiatici e con quelli africani. Restano così escluse dall’analisi l’industria cinematografica più produttiva e florida al mondo, quella indiana, e le platee più vaste di pubblico in termini numerici, come la Cina e ancora l’india. Resta esclusa tutta l’esperienza di cinema “d’autore” del blocco sovietico; ma resta fuori dall’analisi soprattutto il teatro di conflitto più importante, dal punto di vista geo-politico contemporaneo, cioè quello del Medio Oriente. Le guerre in Afghanistan, in Iraq, le frizioni con l’Iran, la Siria, le alleanze “difficili” con l’Egitto e l’Arabia Saudita sono raccontate spessissimo dal cinema americano, ma le rappre­ sentazioni realizzate da quegli stessi paesi che sono al centro del­ l’interesse spettacolare statunitense non trovano mai spazio nella distribuzione commerciale occidentale. H punto di vista è unico, non c’è confronto con chi vive questi conflitti quotidianamente da testimone oculare o, peggio, da vittima. Il limite che consegniamo al lettore non è di comprensione, ma di interpretazione. Qui non si tenta di spiegare il mondo attraver­ so gli occhiali del cinema statunitense, si tenta di spiegare l’idea dell’occidente, attraverso il suo stesso cinema commerciale distribuito nel suo stesso mercato. Alla base di questa debolezza, c’è la coscienza della relatività di un sistema di pensiero-immagine, senza però voler dare forma qui a una progettualità di tipo relativista. Questa premessa è prima di tutto una presa di coscienza3: cosa vuol dire

3 Una presa di coscienza stimolata dalle indicazioni del prof. Giuseppe Giartizzo; cito da una e-mail privata del 13 aprile 2009: «Isolare il caso ameri­ cano, e saggiarne i caratteri è un approccio importante: ma il reality non porta con sé solo il riferimento obbligato alla ‘realtà’, e alla traduzione in fiction. Attiene ai tre elementi dell’antropologia contemporanea cui proviamo, da storici, a dare rilievo: la fisiologia della memoria, i linguaggi non verbali, la reli­ gione. Nella economia della ricerca specifica appare ragionevole tener fuori il cinema ‘orientale’ e quello africano: non così sul terreno della ‘diversità’ [...]. La cultura dell’occidente post-imperialista ha misurato, e continua a misurare estensione e caratteri delle ‘catastrofi’ sulla propria misura: la conseguenza è fin troppo nota, l’insorgere di nazionalismi a sfondo municipale. Non vorrei esser frainteso. Non suggerisco modifiche dell’impostazione che risulterebbe incerta e persino confusa. Vorrei percepire la presenza di dimensioni, cui

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avere una “sensibilità diversa”? Il nostro mondo riflette ancora sul termine “integrazione”. L’elemento più complesso, in termini di comparazione, resta senza dubbio il modo di concepire la catastrofe, che nel mondo occidentale viene inscritta all’interno di una visione “continuista”. Noi cioè accettiamo a malincuore la natura violenta che si ribella, ma siamo in grado di farlo perché inscriviamo la cata­ strofe naturale all’interno dello schema provvidenziale. La nostra è un’auto-rassicurazione, perché abbiamo difficoltà a percepire la catastrofe al di fuori della nostra struttura conoscitiva. La tragedia dell’ll settembre rientra perfettamente all’interno di questo schema di accettazione e di rielaborazione collettiva della tragedia da parte del mondo occidentale. We wanted to see again and again repetitively just the same image. Twin Towers hit from here and hit from there and so on... But then I started to ask to myself: what was true function of this? Was it really a global catastrophe? And the more I think about it, the more I convince that after the first shock, the situation is not only re-normalized, but is even the opposite. This image of destroying, the last image, serves the purpose of returning things to normality-like that was not only before 11th of September; but even before this last crisis. My old idea is the exact opposite of the commonplace that we live in an imaginary western safe universe and then here the brutal reality intervened. No, I think that it was from somewhere around Vietnam times at least that the american society was unsure of itself You know, it not longer had the old automatic trust in itself Vietnam introduced the doubt. And whenever America intervened abroad it was a moment of doubt «Are we justified to do it? We don’t know». The main result of September 11 was precisely the re-assertion of the old ideological securities. Now America feels again «we have the right to attack, we have the right to be the global policeman». So, against this background, I think the way to understand the meaning of this image, which ended all the images, is to oppose these types of

sono interessato ma che non mi riesce di... raggiungere, anche quando ne per­ cepisco l’importanza». E ancora, in una conversazione avvenuta nel suo studio il 15 aprile 2009: «Bisogna assumere il fatto che la comparazione è la compren­ sione di un limite, che non è mio, ma che io consegno come problema inter­ pretativo. Noi storici non siamo più in grado di fare la storia universale».

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catastrophes: let’s call themfigure catastrophe and background catastrophe. In the West, we usually see figure catastrophe. I mean, against the background of normal satisfying random things, something hor­ rible and shocking happens, and then this is of course a shock, but things return to normal. This would be Twin Towers, even in Moscow this Cecenian invasion and occupation of the theatre, even the Indonesian attack in Bali. Against the background of normal, something exceptional happened. But it isn’t like that in the Third World countries, because the catastrophe is permanent there, it’s the background itself There it’s not that something hor­ rible and then things return to normal. The normal way of things is a permanent catastrophe. So I think that the way this September 11 * catastrophe functioned was not only a shock that shook us from our dream, but it was a kind of reminder of how happy we are in the background, in the normal state [...]. Wasn’t it September 11th re-appropriated by the mass-ideology as a reminder [...] that this shock happened against the background of our normal happiness? The idea was: how happy are we in our normal lives? This was a shock, but this shock reminded us how that other people, the Third World people, envies how happy we are. So I think, this was not a shocking event, that’s awaking us into the realities of terrible suffering of Third World, but it was right on the contrary a kind of real assertion of western self-con­ sciousness. I think it was instantly, perfectly re-appropriated by an hegemonic ideology. Not only it re-appropriated, but it served to cement a kind of a new ideological pact4.

Il mondo occidentale vive la catastrofe dìfacciata come momento eccezionale che lo spinge all’azione, alla reazione militare, per ripristinare il suo ordine, il suo stato naturale di agio e di ricchezza. Altre popolazioni vivono la catastrofe come la normalità quotidiana. Per alcuni l’attacco delle Twin Towers ha rappresentato un poten­ ziale cambiamento, l’avvento agognato di una nuova era: in Palestina e in Afghanistan, per esempio, ci sono stati gruppi di ragazzi che hanno esultato per il crollo delle torri, visto in televi­ sione o in fotografia sui giornali. Ci sono mondi aititi, che il cinema e la televisione occidentali tengono fuori-campo. Ma nonostante

4 Slavoj Zizek, trascrizione della registrazione dell’intervista realizzata da Enrico Ghezzi, andata in onda su Fuoriorario alla fine del 2002.

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l’opera di rimozione e in certi casi di negazione dellafiction occiden­ tale, dobbiamo tenere presente che il fuori-campo è reale, non cessa di esistere quando non viene inquadrato. E se il post-imperialismo ha prodotto questa angustia della cul­ tura, questa limitatezza dello sguardo, non vuol dire che non esiste ciò che semplicemente non siamo in grado di conoscere, che non siamo in grado qui di analizzare. Di questo almeno abbiamo piena coscienza e in qualche modo, con questa premessa, ce ne assumiamo la responsabilità. Resta però la sofferta consapevolezza di un con­ fronto privo dell’attrito del sé con V altro.

1.2 II corpus peti a ricerca

Per prima cosa è necessario definire un corpus, fissarlo con preci­ sione al fine di recintare il campo d’azione dell’indagine. Saranno presi in esame i film di grande distribuzione commerciale, i cosid­ detti blockbusters del mercato occidentale. I luoghi di produzione sono prevalentemente di lingua anglofona, Stati Uniti, Regno Unito e Australia, con qualche importante eccezione, come quelle di un film spagnolo, uno francese, uno serbo e due belgi Abbiamo ulteriormente suddiviso il corpus in sette sottogruppi, corrispondenti ai singoli temi che vengono di volta in volta appro­ fonditi. Il primo blocco è formato dai film catastrofisti, che minac­ ciano lo spettatore di una tragedia immane e incombente, non sempre chiara e motivata. Ne fanno parte la serie televisiva Survivors di Terry Nation (andata in onda sulla BBC, con 38 episo­ di trasmessi tra il 1975 e il 1977 e poi oggetto di un fortunato remake del 2008), il classicissimo The day