Guerra e pace ai tempi di Hammu-rapi. Le iscrizioni reali sumemo-accadiche d’età paleo-babilonese [Vol. 1]

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Guerra e pace ai tempi di Hammu-rapi. Le iscrizioni reali sumemo-accadiche d’età paleo-babilonese [Vol. 1]

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Guerra e pace ai tempi di Hammu-rapi a cura di Stefano Seminara

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Paideia Editrice

Ai tempi di Hammu-rapi la pace e la guerra

0110 du fa cc della 'le a m daglia, o ì ra ·conta un antico mito umeri ·o ·o ndo il qual fu lo le o dio della apienza a parrr re tra gli uomini il eme d Ila di cordia, eco ì il]u 'lra il celebre Lendardo di r, cbe su una fa ·ia raffigura la partenza d Il ' e ·er ilo per la guerra e uli al tra la gioia fe Lo ·a p r la ,~ttoria e la pace. L travagliate vicend e di pace e gu rra cb co lellano i e oli lra il 2000 e il 1600 a.C. - o ia dalla caduta dell 'ultima dina Lia umerica al sacco di Babilonia ad opera degli Hillili fino ali effim era unificazione politica dell 'intera foso polamia otto il grande Hammu-rapi - ono alle tale nell e parole che i loro protagoni li i ovrani del tempo , ~ cero incidere su pietra e argi lla e eh ono perv nute fino a noi. uddivi e per g neri e per la prima volta lradolle inl gralm nle in italiano - con commento filologi ·o, storico e letterario - le i crizioni raccolte da Lefano I eminara on entono di far i un'immagine di prima mano dell industriosità di ·u i quei secoli diedero prova nell 'area va lis ima compre a tra la iria e l'Iran , e in ieme dei ru nli e infiniti fatti d'armi cb ebb ro come prolago ni li popolazioni che i combattevano a maggior gloria dei propri dèi.

Lefo.no eminara, docente di iriologia al l'Univer ·ilà di Roma «La apienza» e pr ·o il Centro 'Ludi del Vicino Oriente di Milano si occupa in particolare di Emar e di lelleralura umerica.

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Testi del Vicino Oriente antico

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Letterature mesopotamiche a cura di Giovanni Pettinato

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Guerra e pace ai tempi di H ammu-rapi

Paideia

Guerra e pace ai tempi di Hammu-rapi Le iscrizioni reali sumero-accadiche d'età paleo-babilonese voi.

I

a cura di

Stefano Seminara

Paideia

a Giulia

Tutti i diritti sono riservati © Paideia Editrice, Brescia 2004

ISBN

88.394.0686.7

Premessa

Quando, verso l'inizio del 2001, il prof. Giovanni Pettinato mi suggerì di curare la traduzione del corpus delle iscrizioni reali paleobabilonesi, nell'ambito del progetto, sostenuto da Paideia, di offrire al pubblico italiano, spesso per la prima volta nella nostra lingua, i tesori della letteratura mesopotamica, accolsi prontamente la proposta. Le ragioni del mio entusiasmo erano di varia natura, scientifica e non. Innanzitutto, si trattava, per me, di un ritorno agli albori del mio antico interesse per la materia. La mia passione per l'assiriologia, infatti, risale a un giorno di molti anni fa, quando, vagando tra gli scaffali di una vecchia biblioteca, mi imbattei nella monumentale Geschichte Babyloniens und Assyriens (Ber/in 1885) di F. Hommel. Avendo cominciato a sfogliare il libro, per caso la mia attenzione fu catturata dall'esordio di un'iscrizione, in cui un re assiro, dal nome lungo e per me fino ad allora completamente sconosciuto, si vantava dei suoi successi militari e della sua pietà verso gli dèi. Com 'era possibile - mi domandai allora - continuare a ignorare le vicende di sovrani che erano stati o avevano preteso di essere tanto potenti in terra? Delle antichità assire mi affascinavano allora, ancora ragazzo, l'eco di trionfali spedizioni militari in terre impervie e lontane, la gloria di sovrani un giorno potentissimi e poi caduti nel più profondo oblio, i nomi stessi di quei re come dei loro dèi e dei loro paesi, che suonavano alle mie orecchie del tutto nuovi e misteriosi, attraverso le parole che essi stessi avevano fatto incidere per sempre nella pietra e nell'argilla. Avrei scoperto, più tardi, che questo atteggiamento verso le antichità mesopotamiche non era molto lontano da quello dei pionieri dell'assiriologia, i quali, tra la seconda metà dell"8oo e gli inizi del '900, avevano riportato alla luce quella letteratura da secoli dimenticata. Vuoi per il caso dei ritrovamenti archeologici, vuoi per la relati-

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va facilità di quei testi, vuoi per gli orientamenti intellettuali e di gusto della cultura europea dell'epoca, proprio le iscrizioni reali (in particolare quelle dei sovrani assiri) furono tra i primi esemplari della letteratura mesopotamica a essere interamente e coerentemente decifrati, poi anche analizzati e studiati. Dal tempo delle prime edizioni di testi (fine '800), l'interesse degli assiriologi per le iscrizioni reali non ha mai conosciuto pause e le pubblicazioni sull'argomento si sono succedute nel corso degli anni praticamente senza soluzione di continuità. L'ultimo lavoro di sintesi sulle iscrizioni reali paleo-babilonesi risale solo a poco più di una decina di anni fa. Si tratta di The Royal lnscriptions of Mesopotamia, Early Periods, Voi. 4. Old Babylonian Period (2003-1595 B.C.), TorontoBuffalo-London 1990, a cura di D.R. Frayne, il quale ha collazionato i testi delle iscrizioni reali paleo-babilonesi disseminati nei più disparati musei del mondo, per presentarli in un'edizione completa (normalizzazione in caratteri latini, sinossi delle fonti o «partitura» in microfiche, traduzione in lingua inglese, commento, apparato critico in note) e destinata a durare. Perché dunque - ci si potrebbe chiedere - una nuova traduzione delle iscrizioni reali paleo-babilonesi a così breve distanza di tempo dall'ultima? Alcune motivazioni di ordine tecnico - l'aggiornamento del corpus (per aggiunta degli ultimi, a dire il vero pochi, esemplari pubblicati), l'ampliamento dell'orizzonte geografico (con inclusione dell'Elam e dell'Assiria), la nuova distribuzione della materia (ordinata per tipologie, anziché in sequenza cronologica) - non sembrano tali da giustificare tanta mole di lavoro. Le novità più importanti di quest'opera riguardano piuttosto il tipo di approccio e la metodologia. L'assiriologia è una disciplina relativamente nuova (i suoi più lontani incunaboli non possono essere fatti risalire oltre il 1802, l'anno della prima decifrazione a opera di G.F. Grotefend) e ostica (a causa delle difficoltà di interpretazione opposte dal sistema di scrittura cuneiforme, dalla casualità dei ritrovamenti archeologici, e così via). Per questo, mentre alcuni campi della ricerca assiriologica restano ancora quasi completamente oscuri, in altri - ancorché più fortunati - non si è andati molto al di là del lavoro per così dire di prima mano (cioè, sostanzialmente, di traduzione e di inter-

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pretazione poco più che letterale). Non molto dissimile da quello appena descritto è lo stato degli studi sul tema delle iscrizioni reali paleo-babilonesi, sebbene questi testi, come s'è detto, siano stati tra i primi a essere decifrati. Sembra tempo, ormai, che, anche in questo campo, il lavoro di prima interpretazione faccia spazio alla riflessione, a un'analisi sistematica, alle prime sintesi. In realtà, a questo nuovo tipo di approccio hanno fatto da viatico, in anni recenti, le ricerche di alcuni studiosi, molti dei quali italiani, che (limitatamente, per ora, al campo delle iscrizioni reali neo-assire) hanno sostituito alla vecchia lettura di stampo ottocentesco (spesso romantica e ingenuamente storiografica, tendente cioè ad accreditare i dati forniti dai testi come fonti genuinamente storiche) un approccio nuovo e più disincantato, che potremmo definire critico e semiologico (in cui cioè il testo antico viene inteso come un messaggio da decodificare in tutti i suoi molteplici e complicati risvolti: ideologici, politici, culturali, e così via). Di questi lavori si parlerà più avanti. A quanti hanno in vario modo contribuito alla realizzazione di questo lavoro vanno i miei più sinceri ringraziamenti: innanzitutto al prof Giovanni Pettinato, per avermi proposto il tema e per aver riletto il manoscritto prima della stampa; al prof Paolo Sacchi (curatore della collana), per aver accolto il volume in questa sezione e alla casa editrice Paideia (in particolare nella persona del dott. Marco Scarpat); al prof Claus Wilcke, per avermi ospitato nella biblioteca dell'Istituto di Vicino Oriente antico di Lipsia; alla profssa Maria Giovanna Biga, per avermi segnalato l'esistenza di tre esemplari dalla collezione Sinopoli; alla dott.ssa Grazia Giovinazzo, al prof François Vallate al dott. Gian Pietro Basello, per avermi aiutato nella ricerca del materiale d'origine e/amica. Un ringraziamento particolare va al prof Mario Liverani, per aver acceso il mio interesse per le iscrizioni reali in un corso sulla storiografia mesopotamica tenuto all'Università di Roma «La Sapienza» nell'anno accademico 1989-1990 e per aver acconsentito a leggere erivedere il manoscritto prima della pubblicazione. Roma, r 4 febbraio

2002.

Stefano Seminara

Introduzione

I. OGGETTO E LIMITI DEL LIBRO

Il sottotitolo di questo libro - «le iscrizioni reali sumero-accadiche d'età paleo-babilonese» - solo in parte rende ragione della materia che vi è effettivamente trattata. Per questo va qui discusso e più dettagliatamente circostanziato. Innanzitutto, l'oggetto. Il termine «iscrizioni reali» non designa sic et simpliciter i testi fatti scrivere da o per il re, dal momento che, in ultima analisi, quasi tutta la letteratura mesopotamica pervenutaci è legata più o meno strettamente all'ambiente della corte. Si tratta piuttosto di un'espressione, divenuta ormai tradizionale nel linguaggio assiriologico, per designare una certa tipologia di testi, sulla cui esatta definizione gli studiosi del settore continuano tutt'oggi a discutere. In sintesi, si può dire che per «iscrizione reale» si intende qui la parte scritta o testuale di un messaggio composito (integrato cioè da una parte non scritta, ma iconografica e monumentale), mediante il quale, attraverso un codice tradizionale (cioè con un suo lessico e un suo formulario convenzionali), il sovrano (o chi per lui) presentava al dio la sua opera, in segno di omaggio e allo scopo di ottenerne come ricompensa concreti benefici (in genere una lunga vita, discendenza e fama postuma). In secondo luogo, i limiti cronologici. Con il termine «età paleobabilonese» si intende tradizionalmente quel periodo della storia e della civiltà mesopotamiche compreso tra due eventi davvero epocali: la fine della III dinastia di Ur e la caduta della I dinastia di Babilonia a opera degli Hittiti. La cronologia assoluta di questi due episodi, veri e propri pilastri di tutta l'impalcatura sulla quale si basa la nostra ricostruzione della storia mesopotamica, è da sempre al centro di un vivace dibattito, nel quale convergono argomenti di varia natura (storici, filologici, archeologici e astronomici). AlI I

lo stato attuale delle ricerche, il mondo degli studi sembra oscillare tra due proposte di soluzione cronologica, dette «media» e «cortissima»: in base alla prima, la caduta di Ur viene datata al 2004 a.C., quella di Babilonia al 1595; sulla base della cronologia cortissima, invece, i due eventi sono fatti risalire rispettivamente al 1911 e al 1494 a.C. (con uno scarto, rispetto alla prima, di quasi un secolo). Soltanto nel caso dell'Assiria e in ragione della prospettiva storico-letteraria qui adottata, si è scelto di scendere molto al di sotto del limite cronologico (quello basso) rappresentato dalla caduta di Babilonia, includendo nel corpus le iscrizioni reali di tutti i sovrani (o governanti) assiri fino al regno di Adad-nirari I (1305-1274), dal momento che fu soltanto con questo sovrano che il genere iscrizione reale in Assiria ruppe definitivamente con la tradizione passata (di ascendenza babilonese) e si avviò verso uno sviluppo del tutto nuovo e originale (quello che sarà tipico, appunto, del periodo neo-assiro). La semplicità della definizione cronologica non rende giustizia alla complessità del quadro storico e geopolitico. Sotto la comune etichetta di «età paleo-babilonese» si intende, infatti, una grande varietà di fasi storiche. Nella Babilonia propriamente detta (corrispondente pressappoco all'attuale Iraq centro-meridionale), in seguito al crollo della III dinastia di Ur, all'età della rivalità tra le due città egemoni di lsin e Larsa succede, dopo un periodo di sovrapposizione, il dominio della I dinastia di Babilonia, che raggiunge il suo apogeo, vale a dire l'unificazione politica di tutta la Mesopotamia, sotto il celebre Hammu-rapi; già alla sua morte comincia l'inarrestabile decadenza, fino alla conquista straniera per mano del re hittita Mursili (1). Nell'Alta Mesopotamia (coincidente pressappoco con l'attuale Siria settentrionale e con l'area del Habur) questo periodo è noto anche come «età di Mari», dal nome della città che ha restituito il più ricco archivio di tavolette. In Assiria (odierno Iraq settentrionale), dopo l'emancipazione dal dominio di Ur, al periodo dei commerci in Cappadocia (noto anche come regno paleo-assiro) subentra l'età di ~amsi-Adad 1, un usurpatore d'origine amorrea, che giunge a conquistare la stessa Mari. Alla fine del suo regno e dopo una breve parentesi di re12

staurazione, inizia un lungo periodo di decadenza, in cui l'Assiria cade prima sotto l'egemonia di Esnunna, poi sotto quella del vicino stato di Mitanni. Bisognerà aspettare il regno di Assur-uballii 1 (1363-1328), con il quale si fa normalmente iniziare il periodo medio-assiro, prima che l'Assiria recuperi il ruolo di grande potenza internazionale. Nell'area del fiume Diyala coesistono varie città (ad es. Tutub, Nerebtum, Saduppiìm), più o meno indipendenti, tra le quali spicca, con un ruolo egemone, Esnunna, che a tratti giunse ad avere un ruolo di tutto rispetto anche a livello internazionale. Grande rivale di Esnunna è l'Elam, un regno iranico che in quest'epoca orbita intorno alla città di Susa (nell'attuale Khuzistan), dove si avvicendano la dinastia di Simaski e quella dei «Primi Ministri» (sukkal-mah in sumerico). Episodicamente emergono alla luce della documentazione piccoli ed effimeri regni periferici dell'area pedemontana degli Zagros (ad es. Simurrum e Lullubum), che emulano i grandi regni mesopotamici sia nelle ambizioni politiche sia nell'apparato celebrativo e monumentale che doveva supportarle. Purtroppo la casualità dei ritrovamenti archeologici (molti siti, soprattutto nel nord dell'area, restano ancora da scavare e moltissimi testi provengono da scavi clandestini e dal mercato antiquario) e la conseguente situazione di sbilanciamento documentario tra le varie zone nuocciono senz'altro alla fedeltà del quadro ricostruito. Ciononostante e a dispetto di altre soluzioni minimali (adottate da alcuni editori in passato), si è qui optato per lo scenario e per l'orizzonte geografico più ampi possibili (con inclusione di tutti i siti periferici o satellitari rispetto al grande centro rappresentato dalla Babilonia, compresi l'Elam e l'Assiria), dal momento che tutta l'area della Fertile Mezzaluna, dalla Siria all'Elam, rappresentava in quest'epoca una sorta di continuum culturale, tenuto insieme da una fitta rete di relazioni politiche e diplomatiche. A far da collante tra le varie tessere di questo immenso mosaico contribuì in maniera determinante l'elemento linguistico (con il quale siamo giunti all'ultimo dei punti toccati dal sottotitolo). Infatti, in seguito ai tre secoli di dominio babilonese sulla Mesopotamia e sulla periferia (prima sotto la dinastia di Akkad, poi sotto Ur) e in virtù dell'indiscusso primato intellettuale della Babilonia,

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l'idioma babilonese, noto anche come accadico, sia pure attraverso molte varietà locali, funzionava, in quest'epoca, come una sorta di lingua franca di tutta la Mezzaluna Fertile, impiegata sia nelle singole cancellerie sia nei rapporti internazionali (spesso insieme o in concorrenza con l'idioma locale). Per quanto riguardava la letteratura e, in particolare, le iscrizioni reali, erano possibili due opzioni linguistiche, corrispondenti ad altrettanti modelli politici e culturali (dal momento che nel Vicino Oriente antico la lingua, oltre a essere tutt'uno con il lessico e il formulario, è anche, più che altrove, inseparabile dal messaggio, cioè dal contenuto del testo): il modello sumerico (in lingua sumerica, appunto), che aveva avuto, dopo una storia quasi millenaria, la sua ultima fioritura sotto la III dinastia di Ur; e quello accadico (in lingua accadica), le cui vestigia monumentali, disseminate ovunque dai leggendari sovrani di Akkad, ancorché già vetuste all'epoca che qui ci interessa, esercitavano ancora la loro suggestione su re e regoli del tempo. Le scelte linguistiche sono esito di precisi programmi politici e delle corrispondenti ideologie. Il sumerico, insieme all'accadico, è adottato praticamente solo nel sud della Babilonia, soprattutto da quelle dinastie fortemente tradizionaliste, che intendono così proclamarsi legittime eredi dei sovrani di Ur 111, ultimi signori della Mesopotamia (è il caso di Isin), o di loro antenati ancora più remoti (Uruk). L'accadico, invece, conoscerà maggiore fortuna nella periferia, caratterizzata da un più alto livello di mobilità politica e da pretese, talvolta assolutamente velleitarie, di dominio universale (peculiari entrambe del modello di potere dei sovrani di Akkad). Anche la scelta di compromesso, il bilinguismo (che si manifesta in iscrizioni redatte sia in sumerico sia in accadico), sarà motivata, come si vedrà più avanti, da ragioni politiche e ideologiche. II. LO STATO DEGLI STUDI

Le ricerche assiriologiche sulle iscrizioni dei sovrani mesopotamici hanno radici lontane e la loro vicenda è pressoché coestesa alla storia stessa della disciplina. Tra i testi della letteratura cuneiforme, infatti, i primi a essere sistematicamente riportati alla luce dagli archeologi europei del xix

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secolo furono proprio le iscrizioni che i sovrani d'epoca neo-assira (1 mili. a.C.) avevano fatto incidere ovunque nei palazzi delle loro capitali - Ninive, Nimrud, Khorsabad -, i cui nomi suggestivi e le cui grandiose rovine avevano attirato l'attenzione dei primi viaggiatori europei. Di lì a breve, man mano che l'esplorazione archeologica si estendeva a tutto il suolo dell'Iraq, sia da scavi sistematici sia dal mercato antiquario cominciarono a venire alla luce, insieme ad altri testi, anche le iscrizioni reali di epoche più antiche. Da allora l'attività di recupero del materiale epigrafico non ha conosciuto interruzioni praticamente fino ai nostri giorni. Vuoi per il primato della scoperta, vuoi per la relativa facilità della lingua e per il carattere ripetitivo e stereotipo del formulario, le iscrizioni reali furono anche tra i primi testi della letteratura mesopotamica a essere coerentemente decifrati. Anzi, si suole tradizionalmente far risalire l'inizio ufficiale della scienza assiriologica all'anno 1857, quando quattro fra i primi pionieri della disciplina - H. Rawlinson, F. Talbot, J. Oppert ed E. Hincks -, invitati, l'uno all'insaputa dell'altro, dalla Royal Asiatic Soci.ety di Londra a decifrare un'iscrizione reale (il cosiddetto prisma di Tiglat-pileser 1), ne fornirono, l'uno indipendentemente dall'altro, quattro traduzioni sostanzialmente concordanti, vincendo il diffuso scetticismo e confermando in modo inconfutabile l'attendibilità e la scientificità dei risultati cui la nuova disciplina era pervenuta. Seguire la complessa e avvincente vicenda della scoperta e della decifrazione delle iscrizioni reali (prima quelle in lingua accadica, poi quelle in sumerico) significherebbe ripercorrere tutto il tortuoso e affascinante cammino della storia dell'assiriologia: una via che ci porterebbe troppo lontano dal nostro tracciato e alla quale dobbiamo pertanto rinunciare. Superata la fase pionieristica della decifrazione e della prima interpretazione letterale, le iscrizioni reali furono anche tra i primi testi della letteratura cuneiforme a essere studiati e analizzati, a diventare oggetto di riflessione. La storia di questi studi è inseparabile dall'avvicendarsi degli orientamenti ideologici e culturali in quella parte del mondo occidentale in cui è fiorita l'assiriologia. Per lungo tempo - vale a dire dal momento della prima interpretazione, nella seconda metà dell"8oo, fino ad anni molto recenti -

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delle iscrizioni reali mesopotamiche è stato fatto un uso essenzialmente strumentale. Esse furono cioè considerate quasi esclusivamente come fonti storiche e in quanto tali utilizzate per la ricostruzione storica delle epoche cui si riferivano. A questo atteggiamento contribuirono vari fattori, in gran parte riconducibili alla temperie intellettuale dell'Europa e del mondo occidentale in genere a cavallo tra '800 e '900: in primo luogo l'orientamento evenemenziale - di ascendenza romantica e positivista - della storiografia dell'epoca. In base a questa concezione della ricostruzione storica, la storia dei popoli era opera essenzialmente di grandi personalità (per lo più capi o sovrani, ordinati in dinastie) ed era scandita in fatti o episodi, alcuni (generalmente a carattere militare) più importanti di altri, in quanto tali da introdurre svolte epocali nel corso normale degli eventi. Questa idea della storiografia era tra l'altro assecondata dalle stesse fonti mesopotamiche, con i loro lunghi elenchi di guerre e battaglie ordinate per singoli regni, a loro volta raccolti in dinastie. Naturalmente non si trattava di un'accettazione ingenua o acritica dei fatti raccontati nelle fonti antiche. Del tutto parallelamente agli sviluppi avviati negli altri campi d'applicazione del pensiero storiografico (basti pensare al metodo storico di Th. Mommsen, per la storia romana), gli assiriologi cercavano di arrivare, attraverso i fatti narrati nei documenti antichi, al «nucleo di verità storica» che doveva senz'altro esservi contenuto. In sintesi, l'interesse degli studiosi era focalizzato non sul testo in sé, bensì sul suo contenuto (costituito da notizie storiche).' Soprattutto all'inizio della storia degli studi e in particolare negli ambienti di confessione e cultura protestanti, su questa attitudine dovette esercitare un peso notevole la possibilità, altamente suggestiva, di verificare (se non confermare), sulla base di fonti quasi coeve (e comunque esterne), i dati- anch'essi considerati storici-del testo biblico. La maggiore vicinanza cronologica al contenuto dei libri «storici» della Bibbia potrebbe inoltre spiegare - insieme ad altri fattori (il pri1 A testimonianza di questo orientamento, basti citare le opere fondamentali di A.T.E. Olmstead, Assyrian Historiography, Columbia 1916, e H.G. Giiterbock, Die historische Tradition und ihre literarische Gestaltung bei Babyloniern und Hethitern bis 1200: ZA 42 (1934), pp. 1-91 e 44 (1938), pp. 45-149.

mato nella vicenda dei ritrovamenti, il maggiore fascino delle vestigia assire, la suggestione dei grandi imperi) - la preferenza accordata alle iscrizioni reali neo-assire rispetto a quelle più arcaiche. A questo punto è evidente che, per arrivare a una nuova visione delle iscrizioni reali mesopotamiche, era necessario che si trasformasse prima radicalmente tutto il clima culturale e intellettuale nel quale era maturata la ricerca. In realtà, il profondo cambiamento nella considerazione delle iscrizioni reali da parte del mondo assiriologico fu solo il riverbero di un'autentica rivoluzione che investì la cultura occidentale nella seconda metà del xx sec. Da una parte, infatti, lo strutturalismo spostò l'accento dal contenuto (l'informazione storica) alla forma del testo, dalla sua unicità (in quanto memoria di eventi per loro stessa natura unici e irripetibili) alla sua esemplarità, cioè alla sua appartenenza a una tipologia, dotata di forme e regole fisse (un genere letterario, appunto). In tal modo, l'iscrizione reale, come testo (o, meglio, come tipologia testuale o genere), si avviava a diventare, da strumento di studio (per la ricostruzione storica), oggetto autonomo di indagine. D'altra parte, la recente fortuna della semiologia, all'interno del crescente interesse per le scienze della comunicazione, favorì un approccio al testo metodologicamente nuovo, nel quale vennero alla ribalta parole-chiave come «messaggio», «codice», «destinatario». L'iscrizione - alla medesima stregua di qualsiasi altro testo - venne considerata un messaggio, scritto secondo le regole di un proprio codice (non solo linguistico, ma anche fraseologico e ideologico), destinato a un determinato (o a diverse fasce di) pubblico e rispondente a precisi scopi, ideologicamente motivati. Nuovo compito dello studioso era ora decodificare il codice per arrivare a comprendere l'ambiente di produzione del testo, non l'epoca o i fatti cui quello si riferiva. Dai tempi in cui A.L. Oppenheim (Ancient Mesopotamia. Portrait of a Dead Civilization, Chicago 1964) proponeva - con toni allora decisamente provocatori - di separare le iscrizioni reali mesopotamiche, in quanto forma di letteratura, da altri generi di taglio e di intenzioni più specificamente storiografici,' molta strada , Del medesimo tenore erano anche le conclusioni di J.J. Finkelstein, Mesopotamian H istoriography: Proceedings of the American Philosophical Society 107 ( 196 3),

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è stata fatta, anche grazie al contributo determinante di studiosi italiani.' Molta ne resta ancora, però, da percorrere; né i nuovi orientamenti hanno ancora sviluppato una propria metodologia organica, unitaria e universalmente accettata. Anzi, sono ancora forti le tentazioni di ritorno al passato. Tornando al tema specifico di questo volume, la prima edizione normativa delle iscrizioni reali mesopotamiche arcaiche (dal periodo pre-sargonico fino alla I dinastia di Babilonia esclusa) fu quella di F. Thureau-Dangin (Les inscriptions de Sumer et d'Akkad), pubblicata a Parigi nel 1905 e poi ristampata in lingua tedesca (con l'aggiunta di una breve introduzione storica e di un indice-glossario dei nomi propri e dei «wichtigsten Kultgegenstande») a Leipzig, nel 1907, come primo numero della serie VAB, cioè Vorderasiatische Bibliothek (e con il nuovo titolo Die sumerischen und akkadischen Konigsinschriften). li grande assiriologo francese raccoglieva così in un'unica edizione il materiale epigrafico del tipo iscrizione reale venuto alla luce soprattutto negli scavi pionieristici di E. de Sarzec a Tello, di V. Scheil a Susa (i cui risultati furono pubblicati a più riprese nei volumi della serie MDP, cioè Mémoires de la Délégation en Perse) e in altri siti ancora. Per quanto riguarda il periodo paleo-babilonese, vi erano incluse le iscrizioni reali di Esnunna, Der, Susa, lsin, Larsa e Uruk. Erano deliberatamente omessi gli esemplari della I dinastia di Babilonia (raccolti, almeno limitatamente al regno di Hammu-rapi, da L.W. King, nell'opera The Letters and lnscriptions of Hammurabi, King of Baby/on, London 1898-1900). L'ordine di distribuzione del materiale era di tipo diacronico (o storico) e geografico (o dinastico), nel senso che le iscrizioni di sovrani di dinastie coeve erano ordinate per siti. Si trattava di un'edizione sobria, con testo normalizzato e apparato critico (o filologico) in nota, senza alcun commento di tipo storico o letterario. Minore fortuna ebbe l'edizione di poco successiva (New Haven 1929) di G .A. Barton ( The Royal I nscriptions of Sumer and Akkad). pp. 461-472. Poco più tardi, W.G. Lambert (OrNS 39 [1970], pp. 170-177 e OTS 17 [1972], pp. 65-72) arrivava a negare l'esistenza stessa di testi storici nella letteratura mesopotamica. , Basti qui citare, per tutti, l'opera di M. Liverani (in bibliografia).

Nel 1968, preceduta (Helsinki 1967) da uno studio grammaticale delle iscrizioni reali paleo-babilonesi (Die Sprache der sumerischen Konigsinschriften der fruhaltbabylonischen Zeit), usciva l'edizione di I. Kiirki, comprensiva dei soli esemplari da Isin, Larsa e Uruk, presentati in descrizione, traslitterazione e traduzione (Die sumerischen Konigsinschriften der fruhaltbabylonischen Zeit in Umschrift und Obersetzung). La versione finale del volume sarebbe poi apparsa nel 1980 (Die sumerischen und akkadischen Konigsinschriften der fruhaltbabylonischen Zeit, I. /sin, Larsa, Uruk), seguita a breve distanza (Helsinki 1984) da un'identica edizione, opera del medesimo autore, degli esemplari da Babilonia (Die sumerischen und akkadischen Konigsinschriften der fruhaltbabylonischen Zeit, 11. Baby/on). Nel frattempo (Parigi 1971), era stata pubblicata, in lingua francese, l'edizione di E. Sollberger - J.-R. Kupper, Inscriptions Royales sumeriennes et accadiennes. Preceduti da una lunga introduzione (comprensiva di cronologia, profilo storico e geopolitico, inquadramento letterario del genere iscrizione reale), vi erano presentati 463 testi (dal periodo pre-sargonico fino a tutta la I dinastia di Babilonia, inclusi gli esemplari d'origine periferica ed elamica), ordinati secondo il consueto criterio cronologico-geografico, in traduzione (senza testo), con descrizione, commento filologico in note e glossario finale. Nel 1990, nell'ambito del Royal Inscriptions of Mesopotamia Project, avviato alla fine degli anni '70 nell'Università di Toronto, sotto la direzione di A.K. Grayson, che si proponeva appunto l'edizione aggiornata dell'intero corpus delle iscrizioni reali mesopotamiche, veniva pubblicato il volume di D.R. Frayne, The Royal lnscriptions of Mesopotamia, Early Periods, Volume 4. 0/d Babylonian Period (2003-1595 B. C.). Vi erano inclusi tutti gli esemplari (anche le legende dei sigilli) del periodo compreso tra Isbi-Erra, primo sovrano della dinastia di lsin, e la morte di Samsu-ditana, ultimo sovrano della I dinastia di Babilonia (422 anni in tutto). Ai corpora di Isin, Larsa, Babilonia, Uruk, Esnunna e Mari seguivano quelli periferici, ordinati secondo un criterio geografico (da sudest a nord-ovest). Ovviamente, all'interno di ogni sito (o dinastia) e poi di ogni singolo regno, i testi risultano sistemati in ordine

cronologico (ricostruito in parte sulla base delle liste dei re, in parte sui nomi d'anno di ogni singolo regno). In ossequio ai parametri e alle caratteristiche del progetto, si tratta di un corpus completo (non di un'antologia); tutti gli esemplari, fatti salvi i casi di concreta impossibilità, sono stati collazionati sulla base degli originali; di ogni testo sono normalizzate in sinossi (ma separatamente, in microfiche) tutte le fonti, mentre nel volume le varianti principali sono date in nota all'interno dell'apparato critico. Vi è escluso il materiale paleo-assiro (pubblicato in altri volumi della serie, con la sigla RIMA, abbreviazione per The Royal lnscriptions of Mesopotamia, Assyrian Periods), mentre il lavoro secondario (cioè di analisi e di interpretazione) sui testi era destinato a trovare sede nei volumi della parallela rivista ARRIM (Annua/ Review of the Royal lnscriptions of Mesopotamia Project, Toronto 1983-). Elemento comune a tutte queste edizioni è il criterio diacronico o storico (parzialmente e secondariamente integrato da quello geografico) in base al quale è distribuito il materiale - retaggio, come si è visto, dell'approccio storiografico con cui erano affrontati i testi. Solo a seguito del mutato clima culturale e della fioritura di una certa letteratura secondaria sul tema della tipologia (soprattutto W.W. Hallo)' e del supporto dei testi (specialmente il lavoro di R.S. Ellis),2 si è fatto strada, in anni molto recenti, un approccio nuovo - formale, tipologico - al genere letterario iscrizione reale. Nel 1991, E.A. Braun-Holzingerl ha pubblicato l'intero corpus delle iscrizioni dedicatorie mesopotamiche e periferiche (inclusi i materiali d'origine iranica e assira) dal periodo proto-dinastico all'età paleo-babilonese compresa. Gli esemplari sono ordinati sulla base del tipo di supporto e solo all'interno di ogni tipologia così individuata il criterio di distribuzione della materia è geograficocronologico. Dopo un'introduzione generale, il catalogo e gli indici, ogni tipologia è preceduta da un'introduzione; quindi ogni testo è presentato in descrizione, traslitterazione, traduzione e commento. Coerentemente con questo nuovo approccio, F. Mal1

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In HUCA 33 (per cui si vedano le abbreviazioni bibliografiche). YNER 2. 3 HSAO 3. 20

bran-Labat ha recentemente pubblicato in un volume' tutte le iscrizioni reali elamiche da Susa incise su mattoni, lasciando intendere che sia il supporto a fungere da elemento di riconoscimento o da principio ordinatore di una tipologia testuale. III. OBIETIIVI E METODO DEL LAVORO

Come già anticipato sopra, il criterio di suddivisione del materiale epigrafico presentato in questo libro non è a carattere storico-diacronico, bensì tipologico. Le singole tipologie di iscrizione reale, a loro volta, saranno individuate non sulla base di elementi esterni, 1 bensì del contenuto delle iscrizioni, come risulta dai dati interni (oggetto e scopo dichiarato di ogni testo) e da quelli formali {lessico e fraseologia), intimamente legati ai primi. Poiché l'iscrizione reale è inseparabile dal programma politico della regalità e dal suo apparato celebrativo, dalle singole tipologie emergeranno altrettante metafore della regalità (il re pio, il re pastore, il re architetto, e così via), destinate a costruire, nel loro insieme, l'immaginario comune del re mesopotamico. Secondariamente e all'interno di ciascuna tipologia così individuata, si faranno poi intervenire i fattori di tipo geografico e cronologico come criteri per un'ulteriore suddivisione del materiale. Il cambiamento di prospettiva non è irrilevante: l'accento si sposta infatti dall'unicità del documento, in quanto fonte di un'informazione storica unica per la ricostruzione del quadro complessivo, alla sua esemplarità in quanto parte di un tutto, cioè di una tipologia testuale (corrispondente poi a un aspetto del programma ideologico del sovrano o della dinastia), che potremmo definire ancorché con buona dose di approssimazione - «genere letterario». La cautela nell'applicazione di questa categoria alla letteratura mesopotamica dipende sia dalla mancanza di una nomenclatura organica e sistematica delle singole tipologie nelle stesse fonti antiche 3 sia dalla nostra incapacità di rinvenirvi regole costanti (nel , Qui abbreviato IRS (si vedano le abbreviazioni bibliografiche). , Per esempio il supporto, come in Braun-Holzinger, HSAO 3. J Sull'argomento si veda C. Wilcke, Fs jacobsen, pp. 205-316. 21

senso occidentale o aristotelico del termine), semmai poi ve ne fossero, paragonabili alle nostre. L'unica regola riconoscibile è l'ossequio per la tradizione - fortissima nell'Oriente antico -, che doveva rappresentare un'inibizione quasi inviolabile nei confronti di eventuali spinte innovative e dell'originalità dei singoli scribi, garantendo così la perpetuazione di certe forme nell'arco di secoli. Le iscrizioni reali sono pertanto immaginabili come delle strutture formali in movimento, dove per movimento si intende la continua dinamica tra la costrizione della tradizione e l'ineliminabile spinta al cambiamento. L'abbandono della prospettiva storico-diacronica non significa rinuncia alla dimensione storica. Questa viene piuttosto recuperata per altra via: in luogo dei puri fatti (per lo più attività edilizie, misure socio-economiche, episodi bellici), la storia cui mira questo tipo di approccio è piuttosto quella della cultura e della tradizione, dove acquistano rilievo l'avvicendarsi dei modelli di potere (e dell'immaginario ideologico che vi è di volta in volta sotteso), i rapporti tra la regalità e le altre istituzioni (per esempio il tempio), la dialettica tra unità e varietà {per esempio quella tra centro e periferia, oppure tra nord e sud della Mesopotamia). Visto l'approccio tipologico e storico-letterario del lavoro, saranno esclusi tutti gli esemplari (a dire il vero molto pochi) che, a causa del loro stato di conservazione eccessivamente lacunoso, abbiano puro valore documentario (e che il lettore interessato potrà comunque recuperare dall'edizione di D.R. Frayne, RIME 4). A dispetto dell'impostazione storico-letteraria, la traduzione dei testi qui presentati resta l'elemento centrale ed essenziale dell'opera. Molto si è speculato intorno alle problematiche legate alla traduzione di testi antichi (o comunque prodotto di altre culture), talvolta (a dire il vero non spesso) anche in ambito specificamente assiriologico. 1 La soluzione qui adottata è un tentativo di compromesso o di mediazione tra le due esigenze contrapposte di fedeltà al testo di partenza (in sumerico o in accadico) e di rispetto per la leggibilità della lingua d'arrivo (nel nostro caso l'italiano). Alla prima delle due esigenze corrisponde la presentazione di ogni singolo testo. Infatti, coerentemente con la struttura modu' Da ultimo J.A. Black, Reading Sumerian Poetry, London 1998. 22

lare della lingua e del pensiero sumerici, ogni iscrizione (anche quelle accadiche, che ereditarono la forma dai loro precedenti sumerici) si lascia scomporre in una serie di moduli, di estensione variabile, a ciascuno dei quali corrispondono, dal punto di vista del contenuto, dei motivi (o topoi). La sequenza o la sintassi di questi moduli non è casuale, bensì fissa per tradizione ed estremamente significativa. Vi presiedono regole che, ove siano riconoscibili, non sempre paiono ispirate a criteri logici (cioè: quelli della nostra logica). La prima è il rango. Ciò significa che i moduli si succedono secondo l'ordine gerarchico dell'entità che vi è di volta in volta menzionata: per esempio, prima il modulo contenente il nome del dio, poi quello con il nome del sovrano, e così via. Non si tratta di una semplice gerarchia di ranghi. In una cultura come quella sumerica, in cui la parola (specialmente quella scritta) ha un valore che potremmo approssimativamente definire magico, anche la posizione delle parole - l'alto e il basso (noi, che scriviamo e leggiamo in senso orizzontale, diremmo: il prima e il dopo)- è carica di significati. Il rispetto della sequenza strutturale del testo di partenza (che doveva suonare spesso innaturale anche nel sumerico e nell'accadico della prassi quotidiana) è stato pertanto una scelta irrinunciabile, anche quando è andato a discapito della leggibilità della sintassi italiana. A questa, invece, si è cercato di rimanere fedeli il più possibile all'interno dei singoli moduli. Alla mancanza del testo originale (normalizzato in caratteri latini) a fronte si è cercato di ovviare, in parte, mediante la coerenza nella traduzione (e cioè rendendo, ove possibile, i lemmi sumerici e accadici sempre con i medesimi termini italiani).' Per quanto riguarda la presentazione dei testi, ogni sottogruppo tipologico è stato preceduto da una breve introduzione a carattere storico-letterario, nella quale vengono enucleate le caratteristiche del genere, ne sono individuati gli elementi costitutivi (cioè i moduli narrativi e i corrispondenti motivi o topoi) e, a volte, il loro sviluppo dalle iscrizioni reali più arcaiche fino a quelle d'età , Questo procedimento traduttivo risulta particolarmente utile in caso di sinonimia. Per esempio, i due apparenti sinonimi ni e me-lam sono sempre stati tradotti rispettivamente con •aura spaventosa• e •tremendo fulgore• (anche se non si sa bene quale preciso referente fosse sotteso a ciascuno dei due lemmi).

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paleo-babilonese. All'interno di ciascuna tipologia, poi, ogni singolo testo viene preceduto da una schematica presentazione (con sintetici ragguagli relativi a bibliografia, supporto, provenienza, lingua, la persona in cui parla il re, descrizione della tavoletta e del suo contenuto) e accompagnato da un apparato di note, in parte filologiche (per gli specialisti del settore), in parte esplicative (cioè a carattere storico, letterario, religioso, e così via). Queste ultime, insieme al glossario finale, sono state concepite per rendere fruibile e intelligibile il testo, al di là della lettera, anche al pubblico dei non addetti ai lavori. IV. PROFILO STORICO DELLA MESOPOTAMIA FINO ALL'ETÀ PALEO-BABILONESE

Molte delle dinamiche che governarono la storia della Fertile Mezzaluna in età paleo-babilonese - l'endemico confronto tra forze centrifughe (e particolaristiche) e centripete (tendenti a forme di volta in volta diverse di aggregazione politica); la conseguente dialettica tra uniformità (politica, economica, culturale) e varianti locali; l'incessante scambio, misto di relazioni pacifiche e di cronica belligeranza, tra il centro (rappresentato dalla Mesopotamia stricto sensu) e la periferia; l'osmosi, anch'essa spesso conflittuale, tra elementi sedentarizzati urbani e componente nomadica (o seminomade) - sono operanti fin dalle origini. L'inizio della storia sumerica viene generalmente datato al periodo di Uruk arcaico (3500-3200) - dal nome della città pilota-, quando la Babilonia e la Susiana (odierno Khuzistan) fanno, rispetto a tutto il mondo circostante, un salto di qualità in direzione di un incipiente sviluppo urbano. Il nuovo sviluppo è caratterizzato da diversi fattori: il lavoro specialistico, esito della divisione professionale; il primo embrione di una gerarchia tra le professioni (documentate nelle liste d'età successive); la nascita della scrittura (ancora in uno stadio embrionale, quello delle c.d. «tavolette numeriche»); l'avvio di un'arte che si potrebbe già definire «monumentale». La fase successiva (Uruk tardo, 3200-3000 a.C.) fa registrare l'esplosione di Uruk, teatro della prima rivoluzione urbana, carat-

terizzata dall'accelerazione del processo di urbanizzazione, da grandi edifici pubblici con funzioni di gestione e coordinamento, dalla maturazione della scrittura e dell'arte monumentale, dalla messa a punto di un meccanismo redistributivo (con un apparato burocratico che offre servizi alla massa dei lavoratori, in cambio di prodotti), dagli scambi a largo raggio con il mondo esterno. Solo la Susiana tiene il passo con la civiltà babilonese (grandi insediamenti, scrittura, ruota del vasaio), mentre il resto dell'area (che già si avvia a diventare periferia nell'ottica mesopotamica), mostra vari gradi di influenza urukita, decrescenti man mano che ne aumenta la distanza dalle colonie vere e proprie (Habuba-Kebira, Jebel-Aruda, forse Ninive). Da quasi un secolo, ormai, si discute se la civiltà di Uruk debba essere o meno etichettata come «sumerica», dal momento che le prime inequivocabili testimonianze della lingua sumerica non sono databili a prima del 2900 a.C., cioè al periodo Uruk 111 - Jemdct Nasr (e c'è chi vorrebbe far scendere questo limite fino al 2600 a.C.!). Connesso a questo problema è anche quello delle origini dei Sumeri e della data del loro (presunto) arrivo in Mesopotamia. Entrambe le questioni restano tuttora aperte (nonostante i molteplici e disparati tentativi di soluzione). Nel mosaico - in parte immaginabile per riflesso di età successive (meglio documentate), in parte ricostruibile per via induttiva - di elementi di sostrato e parastrato, l'altro gruppo etnolinguistico dominante nella Mesopotamia del III mili. è, accanto al sumerico, quello semitico (o accadico, da Akkad, il nome della capitale del primo regno semitico in Mesopotamia). Il paradigma ottocentesco voleva che i Semiti avessero invaso la Mesopotamia sumerica al seguito del conquistatore Sargon, fondatore del regno e della dinastia di Akkad (seconda metà del xxiv sec.). In realtà, le più recenti acquisizioni epigrafiche permettono oggi di far risalire la presenza semitica in Mesopotamia fino almeno al xxvi sec. (onomastica ed elementi linguistici semitici ad Abu-Salabih) e v'è chi, sulla base di questi dati e per riflesso delle età successive, vorrebbe proiettare la situazione di coesistenza tra Sumeri e Semiti in Mesopotamia ancora più indietro nel tempo, praticamente agli albori della storia.

La natura delle relazioni tra elemento sumerico e accadico in Mesopotamia è al centro di una questione, vecchia ormai quanto la stessa assiriologia, nota appunto come «sumero-accadica». Il nocciolo della questione è se si debba parlare di due distinte civiltà, una sumerica e l'altra accadica, oppure piuttosto di un'unica civiltà (etichettabile come «mesopotamica»), frutto di una simbiosi avvenuta prima dell'età propriamente storica, che si sarebbe espressa ora in una lingua ora nell'altra, o in entrambe contemporaneamente. Dopo una prima fase caratterizzata dall'esagerazione degli elementi di differenziazione linguistica e culturale e, in ultima analisi, razziale - esito della temperie ideologica e delle vicende politiche dell'Europa nell'epoca a cavallo tra '800 e '900 -, si è passati, nel periodo che va dalla seconda guerra mondiale agli anni '70, per una sorta di reazione, a un vero e proprio appiattimento delle diversità, nel nome di una comune civiltà mesopotamica. Mentre entrambi gli orientamenti continuano a sopravvivere, seppure depurati degli estremismi di un tempo, oggi prevale la tendenza a riconoscere le diversità (quanto a sistema politico, modello socio-economico e perfino quanto all'attitudine verso la vita e il mondo), sia pure spostandone le ragioni dal piano etnolinguistico (Sumeri contro Semiti) a quello ecologico-ambientale (sud contro nord). In particolare, il sud (sumerico) sarebbe caratterizzato, quanto al sistema politico, dal modello della città-tempio, in cui ogni cellula della società riconoscerebbe idealmente il suo signore nella divinità poliade (di cui il sovrano terreno sarebbe solo un vicario); da un punto di vista socio-economico, invece, dal predominio dell'economia templare su quella privata e dall'assenza di stratificazioni sociali che non siano quelle di natura economica. Nel nord, invece, dove era più forte l'impronta tribale (essendo l'area rimasta estranea ai grandi processi di coordinamento della forza lavoro collettiva che avevano reso possibili le gigantesche opere di canalizzazione dell'alluvio meridionale), sarebbero stati prevalenti un modello di potere di portata non più cittadina, ma sovraregionale, fondato sul carisma del capo, e un sistema economico incentrato sulla proprietà della corona e su quella privata. Qualunque ne fosse la caratterizzazione etnolinguistica, il sistema-mondo di Uruk collassa nell'età successiva (detta di Uruk

Jemdet Nasr, dal nome dei due siti più importanti, 3 100per una sorta di contrazione (forse dovuta a una crisi interna) o per un rigetto della periferia. L'età successiva, detta protodinastica, cioè delle prime dinastie (divisa in tre fasi: 1, 2900-2750; 11, 2750-2600; III, 2600-2350), è caratterizzata da un alto livello di conflittualità. Proprio in quest'epoca e a causa della crescente belligeranza, le città si cingono di mura (celebri quelle di Uruk, che sarebbero state innalzate dal leggendario Gilgames) e si rimettono al governo di uomini forti, i re (o, con termine sumerico, lugal), che si succedono in sequenze dinastiche e hanno tutti i tratti di capi militari (rispetto alla forte impronta sacrale e teocratica, nonché alla mancanza di personalizzazione, per non dire anonimato, dell'autorità terrena, che avevano caratterizzato il modello di potere di Uruk). A livello sociale, il fenomeno del crescente urbanesimo dirada e contrae il tessuto connettivo tra aree irrigue e sedentarie da una parte e quelle che non lo erano dall'altra, inasprendo l'incomprensione e la conflittualità tra città e steppa circostante, tra sedentari e nomadi. Infine, l'urbanesimo determinò una trasformazione radicale nell'assetto geopolitico dell'area. Rispetto all'assoluto primato di una sola città, Uruk, che aveva caratterizzato le età precedenti, si va affermando un nuovo sistema, pluralistico e policentrico. Accanto a Uruk, acquistano potere (pari o superiore a quella) altre città: per esempio, Kis, Lagas, Ur, Umma, ccc. A questo stadio dello sviluppo politico, non si può parlare né di uno stato né di una nazione sumerici. Ogni città è, infatti, teoricamente autosufficiente (per cui si è parlato, sulla falsariga del modello greco delle poleis, di città-stato) e ciascuna riconosce l'autorità della propria divinità poliade (per esempio Nanna a Ur, Ningirsu a Lagas, Sara a Umma, e così via), diversa da quella delle altre città, anche se tutti gli dèi sono poi ritenuti appartenere a un unico pantheon, presieduto da Enlil (dio della città di Nippur, il centro religioso - anche se privo di peso politico - di Sumer). Eppure, proprio la corrispondenza biunivoca tra città e divinità (unica eccezione: il dio-Sole, Utu, dio di Larsa e di Sippar) - per cui si è parlato di un «politeismo complesso»' - denuncia, fin dall'iniIII

2900),

' W.G. Lambert, The Historical Development of the Mesopotamian Pantheon: A Study in Sophisticated Polyteism, in H. Goedicke - J.J.N. Roberts (edd.), Unity

zio e al di sotto dell'indipendenza e autosufficienza delle singole città, un'opera di (forse primitivo) coordinamento e un senso di unità interna, insomma un principio di aggregazione su scala nazionale. Il riflesso politico ed economico di questo coordinamento ideologico e religioso potrebbe essere testimoniato dai c.d. «sigilli cittadini» (o «City Seals» ). Si tratta di impronte di sigilli lasciate su oggetti di varia natura (giare, porte, ecc.), rinvenuti a Uruk, Jemdet Nasr e {forse) a Tell-Uqayr e Susa per il periodo Uruk III Jemdet Nasr (3100-2900), solo a Ur durante il Proto-Dinastico 1 (2900-2750). Vi sono impressi i logogrammi di varie città, in una sequenza per lo più fissa (Ur, Nippur, Larsa, Uruk, Kes, ecc.), che ricorre quasi identica {fatte salve alcune varianti) anche nelle cosiddette «liste geografiche», a partire dalla tarda età di Uruk. Sulla base di questi sigilli è ipotizzabile che, in seguito alla spaventosa crisi di Uruk tardo, alcune città si fossero unite in una forma di collaborazione economica e forse anche politico-militare.' Nell'epoca immediatamente successiva (età di Fara - Abu Salabih, 2600-2500, a cavallo tra Proto-Dinastico II e m), l'aggregazione assume connotazioni sempre più marcatamente politicomilitari, se non avviene proprio in forme coatte. I testi di Fara (antica Suruppak) documentano per quest'epoca l'esistenza di una forma di cooperazione economica (che si concretizza in esborsi comuni di orzo) e politico-militare (mobilitazione comune di forza lavoro, fondazione di un centro, Unken, al confine con l'Elam, nell'Iran sud-occidentale) tra sei città del centro-sud (i cui nomi ricorrono insieme anche in un testo scolastico da Abu Salabih, ABS T 188, e in una lista da Ebla, MEE 3 44): Adab, Lagas, Nippur, Umma, Uruk (o Kullaba, un distretto della città), probabilmente sotto la direzione della stessa Fara. Contemporaneo ali' «esapoli di Fara/Suruppak» 2 è, nel nord, il and Diversity. Essays in the History, Literature and Religion of the Ancient Near East, Baltimore-London 1975, pp. 191-199. 1 Quella che Th. Jacobsen (ZA 52 [1957) pp. 91-140) definì «Kengir League». 2 Secondo la definizione di F. Pomp~mio, in F. Pomponio - G. Visicato, Early Dynastic Administrative Tablets of Suruppak (IUON Series Maior 1v), Napoli 1994, pp. 10-12.

periodo dell'egemonia di Kis (che avrebbe lasciato memoria in epoche successive nel titolo di «re di Kis», assunto anche da sovrani non kisiti, a significare, secondo alcuni, il controllo del nord, secondo altri, una forma autocratica di potere). Lo stretto legame politico tra le due città di Kis e Fara potrebbe trovare una conferma (di natura archeologica) nella loro comune sorte, dal momento che la distruzione violenta di Fara e quella del Palazzo A di Kis sono pressappoco contemporanee. Si è supposto' che artefice di entrambe le distruzioni e responsabile della fine dell'egemonia di Kis fosse Ur, i cui sovrani, di poco successivi o coevi, Mesannepada e Meskalamdu, portarono in effetti il titolo di «re di Kis». Che l'ipotesi sia vera o meno, certo è che Ur doveva rappresentare, accanto a Kis (forse con l'esapoli di Fara come appendice meridionale), un altro sistema di potere. Come si vede, il paradigma delle città-stato non è applicabile a questa fase della storia mesopotamica. Le città più forti tendono, da un lato, a una forma di aggregazione (anche coatta) delle città satelliti e di quelle più deboli, dall'altro a costituire una rete di relazioni (economiche, ma forse anche politico-militari) o di alleanze con altre potenze esterne. In particolare, sono documentati i rapporti di Kis con Ebla, in Siria, e di Ur con Mari, in Alta Mesopotamia (dove è stato rinvenuto un vaso dedicato dal re Mesannepada di Ur al dio Lugal-kalam di Mari). Le medesime tendenze all'aggregazione politica (ma in unità di estensione non più cittadina, bensì regionale) e alle relazioni diplomatiche ed economiche di lunga distanza si affermano, forse per riflesso della situazione mesopotamica, anche nella periferia, pressappoco contemporaneamente (anche se la cronologia è resa incerta dalla datazione dell'archivio più importante, quello di Ebla, oscillante tra il 2500 e il 2300). In particolare, nella Siria settentrionale e nell'Alta Mesopotamia sembra di assistere al passaggio dalle città-stato (circa una dozzina) a veri e propri Stati regionali. I sistemi politici più importati sono quelli incentrati su Ebla in Siria e su Mari in Alta Mesopotamia. Forse nel medesimo lasso di tempo, quasi tutta l'area del triangolo del Habur (compresa Tell Beydar, recentemente scavata) si , F. Pomponio, ibidem.

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avvia verso un'analoga forma di aggregazione in stato regionale, sotto l'egemonia di Nagar (quasi sicuramente da identificare con l'odierna Tell Brak), che funge da città-pilota. Ne restano indipendenti le città (anc~'esse di recente scoperta) di Tell Leilan e di Urkis (odierna Teli Mozan). La fine del sistema delle egemonie, culminata nella distruzione dei palazzi di Kis e di Ebla (anche se questa è generalmente datata molto più tardi della prima, intorno al 2300, e viene attribuita a Naram-Sin di Akkad, il cui nonno e predecessore, Sargon, sarebbe invece l'artefice del collasso di Mari), dà l'avvio a una nuova fase di disgregazione, di contrazione degli orizzonti politici a una dimensione locale, di conflittualità interna ed esterna (il ProtoDinastico mb, 2500-2350). Mentre in Siria prevale (o prevarrà) l'effetto di disgregazione e di ridimensionamento degli apparati statali, la Mesopotamia propriamente detta diventa teatro di un vero e proprio caleidoscopio di guerre di portata locale, ma croniche. Va qui però precisato - e questa cautela è metodologicamente applicabile a tutta la ricostruzione del III mili. - che la parzialità e l'episodicità della documentazione non autorizzano quadri definitivi, ma piuttosto impressioni (così, per esempio, a un'impressione di aggregazione succede una di disgregazione politica). La documentazione a carattere propriamente storico, anche se molto parziale (quasi tutti i testi provengono dalla città di Lagas), per la prima volta diventa consistente ed eloquente (proprio grazie al non casuale emergere delle prime iscrizioni reali) e consente di far luce sull'ideologia politica mesopotamica del tempo (anche se alcuni tratti non cesseranno mai di essere attuali). Il mondo umano (o microcosmo) altro non è che la proiezione speculare di quello degli dèi. Questi, come si evince dalla mitologia d'età successiva, si sarebbero divisi il cosmo all'inizio dei tempi e a ciascuno spetterebbe pertanto un ambito, all'interno del quale ognuno ha autorità suprema. Per riflesso di questa originaria spartizione, ogni città appartiene a un dio (e la situazione di particolarismo e di frammentazione politica incrementa il senso di identificazione di ogni città con il proprio santuario principale) e i suoi confini sono pertanto inviolabili. Tuttavia, le infrazioni al sistema ordina-

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da cui non è esente neppure il pantheon (lnanna, per esempio, tenta di ingerirsi o di impadronirsi del regno della sorella Erdkigal, l'oltretomba) - sono a maggior ragione inevitabili nel mondo degli uomini (per esempio, Lagas e Umma si contesero sempre il Gu'edenna, una zona stepposa, ma ricca di pesca, luogo di cerniera tra le due città). La guerra è l'estrema soluzione di conflitti tra città che non possono dirimersi altrimenti ed è sempre santa perché ciascuno dei contendenti pretende di agire secondo il volere e con l'appoggio del proprio dio. In particolare, il punto di vista dei vincitori (perché la storia, oggi come ieri, si scrive sempre dopo) è che la vittoria è stata assicurata dal proprio dio, contro nemici che ne sono stati invece abbandonati. Per esempio, E'annatum, nel rilievo della cosiddetta Stele degli Avvoltoi, fa rappresentare se stesso su una faccia, il dio di Lagas Ningirsu sull'altra, entrambi nell'atto di schiacciare il nemico umma'ita, rimasto privo di sostegno divino. D'altra parte, i vinti (uno dei pochi casi in cui questi hanno voce è rappresentato dalla cosiddetta Maledizione di Urukagina o Urukagina 16) reclamano sull'ingiusto vincitore la punizione divina. Al di sopra delle parti, infatti, si ritiene che a vigilare su tutto sia Enlil, dio di Nippur, ma anche capo supremo del mondo degli uomini, primo motore della storia e arbitro di tutti i conflitti (basti pensare all'esordio dei Coni di Entemena o Entemena 28/29). In una siffatta concezione dei rapporti politici (o, meglio, dell'universo), la vittoria di una città sulla rivale non ha mai come esito l'azzeramento della seconda o l'annessione di questa a quella, bensì il cumulo delle due entità politiche, teoricamente su un piano paritetico. Infatti, i signori di Uruk (Lugalkiginnedudu ed Ensakusanna), riusciti vincitori su Ur, si vantano di aver avuto in dono da Enlil la somma autorità sull'una (namen) e sull'altra (nam-lugal), a testimonianza della pervicacia delle tradizioni cittadine, almeno nell'estremità meridionale della Mesopotamia (mentre il nord, secondo alcuni. sarebbe sempre stato estraneo al modello della città-stato). Il quadro ricostruibile degli eventi è molto frammentario. La guerra aperta tra le vicine Lagas e Umma, antiche alleate al tempo dell'esapoli di Fara, dà il senso della mutata situazione. Il primo sovrano noto della I dinastia di Lagas, Ur-Nanse, si vanta di aver to -

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sconfitto contemporaneamente Umma e Ur, evidentemente alleate. Un altro blocco, al nord, dovette costituirsi tra Kis e Aksak, a giudicare dalle informazioni di un altro re di Lagas (e successore di Ur-Nanse), il grande E'annatum, che scrive di averle sconfitte entrambe (insieme ad altre città del sud, tra cui Uruk e Ur). Con E'annatum Lagas raggiunge il culmine della sua potenza. Già alcune generazioni più tardi, la supremazia sembra passare a Uruk. Un suo re, Lugalkiginnedudu, scrive di aver ricevuto in dono da Enlil la suprema autorità su Uruk e Ur (al pari di Lugalkisalsi, suo successore) e stringe un patto di «fratellanza» con Entemena di Lagas. Un altro sovrano di Uruk, Ensakusanna, celebra la vittoria su Kis e Aksak come un evento epocale e assume il titolo di «signore (en) di Sumer (ki-en-gi) » e «re (lugal) della nazione (kalam)». Si va affermando l'idea (ancorché lontana dal realizzarsi) di un'unità regionale e sovra-cittadina di tutto il sud sumerico, ambizione forse adombrata dal titolo, inaugurato da Ensakusanna, di «re (lugal) della nazione (kalam)» (insieme a quello di en ki-en-gi, di difficile interpretazione). Questa pretesa sarà realizzata, qualche tempo dopo, da Lugalzagesi. Forse originario di Umma, questi diviene (non si sa come) signore di Uruk e Ur. Quindi conquista Larsa e Lagas e assume il sacerdozio di Nippur. A giudicare dalle iscrizioni di Sargon, suo vincitore, una cinquantina di «vicari» (ensi) del sud dovevano riconoscere la sua «autorità suprema (nam-lugal)», una sorta di prefigurazione di quella che sarà l'organizzazione del regno di Sargon. A sentire le sue iscrizioni, il regno di Lugalzagesi si sarebbe esteso dal Mare Superiore al Mare Inferiore. La prima vera unificazione politica della Mesopotamia viene realizzata da Sargon, fondatore della dinastia di Akkad (2334-2154). Originario di Kis (dove sarebbe stato in principio il coppiere del re Ur-Zababa, anche se la sua nascita e la sua scalata al potere ai danni del re sono ammantate dalle leggende d'età successiva), ma certamente estraneo alla linea dinastica (a giudicare dal silenzio delle sue iscrizioni sui suoi natali), Sargon conquista tutto l'antico Sumer, sconfiggendo Lugalzagesi e 50 «vicari» locali, in 34 battaglie. Al culmine della sua espansione, il suo regno (con capitale Akkad) si estende dal Golfo Persico a Tuttul (sul Medio Eufrate).

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Dopo i due figli e successori di Sargon (Rimus e Manistusu), che si impegnarono a fondo militarmente sul fronte orientale (Elam), il regno raggiunge l'apogeo sotto Naram-Sin. Questi prosegue la politica orientale dei predecessori (fino a insediare un suo governatore a Susa, capitale elamica) ed estende l'impero fino all'Alta Mesopotamia e alla Siria (distruzione di Armanum ed Ebla). Naram-Sin introduce delle novità assolute nell'ideologia regale, rispetto sia ai suoi predecessori sia alla tradizione sumerica, assumendo il titolo di «re dei quattro quadranti» (segno della sua pretesa di dominio universale) - accanto a quelli di «re forte» e «re senza pari», portati già da Sargon - e facendosi divinizzare (egli si definisce «dio del suo paese»). Oltre che per la nuova concezione della regalità e per le ambizioni imperialistiche e universalistiche, anche dal punto di vista linguistico la dinastia di Akkad segna la definitiva affermazione dell'elemento semitico ai danni di quello sumerico: l'accadico diventa la lingua ufficiale dell'impero e, per la prima volta, è usato, accanto al sumerico, nella redazione delle iscrizioni reali. Già il regno del successore di Naram-Sin, Sar-kali-sarri, segna l'avvio di una crisi inarrestabile. Segue un periodo di anarchia, che apre la strada all'invasione dei Gutei, popolazione montana proveniente dagli Zagros. Questi occupano la Mesopotamia settentrionale per un breve periodo (mentre resta indipendente il sud, compresa Lagas, dove Ur-Baba, o Ur-Ba'u, fonda la n dinastia, quella del celebre Gudea), prima di esserne cacciati per mano di Utu-hegal, unico re della v dinastia di Uruk. L'egemonia di Utuhegal è una breve parentesi. Ur-Namma, suo uomo di fiducia preposto al governo di Ur, gli sottrae il potere (non si sa come) e assume il controllo di tutta la Mesopotamia (con il titolo di «re di Sumere Akkad»). La dinastia da lui fondata (Ur III, 2112-2004, secondo la cronologia media) raggiunge il suo apice sotto il figlio e successore Sulgi, che si fa divinizzare (e il suo esempio sarà seguito dai suoi successori) e avvia tutta una serie di riforme nel segno della statalizzazione e della centralizzazione. Da un punto di vista politico e ideologico, la III dinastia di U r segna un voluto (ma poco riuscito) ritorno al passato (o una «rinascita sumerica», come è stata forse a torto battezzata), probabil-

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mente per reazione al regno di Akkad (la cui politica doveva essere riuscita invisa al sud sumerico): il sumerico (anche se non più parlato) torna a essere la lingua ufficiale delle cancellerie, i sovrani abbandonano l'immaginario del re forte e si presentano come governanti pacifici, tutti dediti al culto e alle attività edilizie; abdicano alle ambizioni imperialistiche e universalistiche dei dinasti di Akkad, in favore di una concezione territoriale e regionale dello stato (Sumere Akkad, appunto). Dopo i regni di Amar-Sin e Su-Sin, la crisi sopraggiunge sotto Ibbi-Sin. La defezione delle province è aggravata dalle incursioni straniere, soprattutto dei nomadi (semiti) Martu (o Amorrei), che, originari dell'ovest, avevano già da tempo iniziato la loro lenta penetrazione nei territori dell'impero. Il colpo di grazia giunge per mano degli Elamiti, che espugnano e saccheggiano Ur e portano il re Ibbi-Sin prigioniero a Susa (2004 o 1911, rispettivamente secondo la cronologia media e cortissima). L'eredità di Ur viene raccolta da Isin, dove Isbi-Erra, prima governatore di Ibbi-Sin, poi ribelle (aveva rifiutato al re il grano che quello gli aveva richiesto), assume il titolo di «re» e si presenta come legittimo successore dei sovrani di Ur III (sull'esempio dei quali assume la divinizzazione e la pretesa di dominio sulle quattro parti del mondo). Al culmine della sua potenza, Isin ha il controllo di Ur e Nippur, due centri politicamente e ideologicamente importanti, l'uno come capitale del precedente impero, l'altro in quanto sede di Enlil, capo del pantheon sumerico e garante della regalità. L'assetto geopolitico è però ormai caratterizzato dal pluralismo, cioè dal frazionamento in una serie di Stati regionali (i più importanti sono Isin, Larsa, poi anche Babilonia) e città minori indipendenti (Uruk, Kis, Der, ecc.), per lo più sotto il controllo di dinastie di origine amorrea, almeno a giudicare dall'onomastica (la forte presenza amorrea determina, tra l'altro, la definitiva affermazione dell'accadico, mentre il sumerico resta solo come lingua dotta e tradizionale). Queste formazioni politiche si collocano geograficamente su due fronti, quello del Tigri (o settentrionale) e quello dell'Eufrate (o meridionale), ciascuno con una propria dinamica e con rari episodi di interferenza.

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Sul fronte meridionale, all'egemonia di Isin subentra quella di Larsa, che all'apice della sua potenza (cioè con la dinastia di Kudur-mabuk e dei suoi figli Warad-Sin e Rim-Sin r), arriverà a controllare Ur, Lagas e Nippur. Mentre a Uruk si afferma una nuova dinastia indipendente, poco più a nord la città di Babilonia comincia una politica di potenza (conquista di Kazallu, Kis, Dilbat e Marad), che raggiungerà il suo apogeo sotto il grande Hammurap1. Il fronte settentrionale è ancora più variegato. A partire dal1'estremità orientale si incontrano: l'Elam, dove alla dinastia di Simas subentra quella dei sukkal-mah (o «primi ministri»), caratterizzata da una forte vocazione meridionale, da un punto di vista sia politico (con continue ingerenze nella Mesopotamia stricto sensu) sia culturale (adozione dell'accadico come lingua ufficiale); Esnunna, che controlla l'area del fiume Diyala; l'Assiria, che in quest'epoca allestisce una rete di colonie commerciali in territorio anatolico; Mari, che sotto Jahdun-Lim, grazie alla vittoria sui capi nomadi dell'area, estende il suo dominio sul Medio Eufrate (compresa Hana). All'estremità occidentale, il paese di Jamhad, con capitale Aleppo, gioca un ruolo non irrilevante nel difficile quadro politico. Su questo fronte, la turbolenza è maggiore che al sud e l'egemonia passa ancora più bruscamente dall'uno all'altro dei contendenti. Il primo episodio storicamente documentato di politica espansionistica è l'atto con cui il re d'Assiria Ilu-summa garantisce la «libertà» agli Akkadi (fino a Nippur e a Ur), forse come effetto di una sua campagna vittoriosa nell'estremo sud. Dopo di lui comincia il periodo delle colonie assire in Cappadocia (Anatolia). Una nuova egemonia si afferma solo più tardi, a opera di Esnunna. Dopo l'espansione di un suo re, Ipiq-Adad, nell'area del Habur, suo figlio e successore Naram-Sin arriva a dominare la stessa Assiria. Gli succedono i due figli, Dadusa sul trono di Esnunna, Irisum (II) su quello assiro. Quest'ultimo ne viene spodestato da Samsi-Adad r (1813-1781), con il quale inizia una fase (anch'essa effimera) di egemonia assira. Capo di una tribù amorrea in lotta con le altre per la supremazia, Samsi-Adad è un usurpatore in Assiria, dove cerca di trapiantare, contro le tradizioni locali e in

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seguito alla sua lunga permanenza nel sud, elementi d'origine babilonese (il modello accadico della regalità, il culto di Enlil in luogo di Assur). Egli lascia a suo figlio Isme-Dagan il governo di Ekallatum (sua sede originaria) e fonda la propria capitale a Subat-Enlil (od. Teli Leilan, sul Habur). Di qui arriva a conquistare la stessa Mari, dove intronizza un altro suo figlio: Jasmah-Addu. Il dominio di Samsi-Adad resiste poco e, stretto nella morsa tra Esnunna a Est e Jamhad a Ovest, finisce nell'oscurità. Mentre Isme-Dagan mantiene a stento il controllo su un regno assiro fortemente ridimensionato, a Mari la presenza assira finisce con il ritorno di Zimri-Lim, che si presenta come figlio e legittimo successore di Jahdun-Lim. Quasi in sovrapposizione cronologica con il regno di SamsiAdad, sul fronte dell'Eufrate si assiste a una nuova esplosione della potenza di Larsa sotto Rim-Sin 1 (1822-1763), che arriva a conquistare Der, Uruk e l'eterna rivale Isin. Quest'impresa sarà però il canto del cigno per il regno di Larsa. Il nuovo re di Babilonia, Hammu-rapi (1792-1750), in seguito a un'accorta politica di alleanze e alla fine della supremazia di Samsi-Adad e Rim-Sin, conquista uno dietro l'altro gli Stati rivali (Larsa, Esnunna, Mari), realizzando così, per la prima volta dopo la fine della III dinastia di Ur, una nuova unificazione politica di tutta la Mesopotamia. Da un punto di vista teologico, l'affermazione di Babilonia mette in primo piano il suo dio poliade Marduk (e il suo tempio Esangila), avviando quel processo che consacrerà questo dio, nel poema Enuma Elis, verso la fine del II mili., come «il re degli dèi del cielo e della terra» (in luogo di Enlil). L'unificazione, oltre che politica, è anche amministrativa e legislativa (con l'emanazione del famoso Codice di leggi); ma sarà anch'essa un episodio effimero. Già sotto il successore di Hammu-rapi, Samsu-iluna, comincia la decadenza di Babilonia (rivolta di Larsa ed Esnunna, costituzione del regno del Paese del Mare al sud), che prosegue poi inarrestabile sotto gli altri sovrani (Abi-esuh, Ammi-ditana, Ammi-~aduqa). La fine arriva intorno al 1595 (o 1499, secondo la cronologia cortissima), quando le truppe del re hittita Mursili (già vincitore del regno siriano di Jamhad), probabilmente con la collaborazione del regno di Hana (che da tempo ormai, dalla propria capitale Terqa,

controllava il Medio Eufrate), conquistano Babilonia (dove regnava Samsu-ditana) e saccheggiano il tempio di Marduk. L'episodio, che aprirà la via (di lì a poco) all'occupazione cassita della Babilonia (i Cassiti sono una popolazione montana degli Zagros), sarà un evento di portata epocale, che chiude una fase della storia mesopotamica e ne apre un'altra (quella, appunto, medio-babilonese o cassita). V. IL SENSO DELLE ISCRIZIONI REALI NELL'UNIVERSO MESOPOTAMICO

Le iscrizioni reali si incastrano nella visione sumerica del mondo - ereditata poi o condivisa in parte anche dagli Akkadi -, come tessere in un mosaico. Adottando questa similitudine, si potrebbe dire che il mosaico è rappresentato dal cosmo nella sua totalità.

Il cosmo e le sue parti Centrale, nell'universo mentale sumerico (o, in generale, mesopotamico, visto che al riguardo non ci furono sostanziali divergenze tra Sumeri e Akkadi), è l'idea di una corrispondenza quasi speculare tra mondo divino (o macrocosmo) e umano (o microcosmo). In entrambi - nell'ottica mesopotamica per riflesso del primo sul secondo (anche se si può a buon diritto affermare che, al di là del codice, fu piuttosto il primo a essere concepito a immagine e somiglianza del secondo) - la regola dominante è la specializzazione settoriale (o la divisione dei compiti e degli ambiti), che era poi stata una delle più grandi innovazioni della rivoluzione urbana. Il primo episodio della storia del cosmo, che fece seguito all'indistinto magma caotico primigenio, fu un atto di separazione: tra cielo e terra secondo la tradizione più antica e accreditata, tra acque dolci e acque salate secondo i teologi del I mili. (gli autori del poema nazionale babilonese Enuma Elis). Sia in cielo sia in terra, la divisione comportò fin da subito l'istituzione di una gerarchia. Ai sommi dèi del pantheon spettò la competenza sui vari domini del cosmo: ad An toccò il cielo, a Enlil la terra (cioè il mondo degli uomini), a Enki l'abisso delle acque sotterranee o Abzu (ov-

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vero il mitico KUR, secondo la tradizione del poemetto Gilga-

mes, Enkidu e gli inferi), a Ereskigal il regno degli inferi. All'interno di ciascun ambito, in una specie di gioco di scatole cinesi, a divinità di rango progressivamente decrescente vennero assegnati ambiti o competenze via via più settoriali. Il principio dominante è che ciascuna divinità è arbitra e sovrana indiscussa del dominio cui è preposta (anche se le storie degli dèi, quelle che chiamiamo generalmente «miti», sono piene di casi di infrazione al sistema, di insubordinazione, di tentativi di rivolta ... quasi sempre falliti). Parimenti, nel microcosmo la sovranità sulle città culturalmente (non politicamente!) più importanti spetta agli dèi di rango più alto: Nippur a Enlil, Eridu a Enki, Uruk ad An (e a !nanna), e così via. Il dominio sulle altre città compete invece agli dèi cadetti (o di rango inferiore) e ai loro divini familiari, ciascuno preposto a un settore della città. Le città, come tutti gli altri elementi della civiltà, sono una prerogativa esclusiva del «paese interno», quello cioè con il quale i Sumeri (poi Sumeri e Akkadi) di volta in volta culturalmente si identificarono: il kalam (termine designante approssimativamente in un primo momento, quando cioè cominciò ad affermarsi l'idea di un'unità sovracittadina al di là della tradizionale divisione in città-stato, la nazione sumerica, per poi diventare, al tempo delle iscrizioni reali paleo-babilonesi, sinonimo dell'unità territoriale comprensiva di «Sumer e Akkad» ). Chi calchi anche una sola volta il suolo dell'Iraq, l'antico Sumer, non può sfuggire all'impressione di trovarsi in una piana (l'alluvio basso-mesopotamico, appunto), circondata tutt'intorno da montagne (in realtà, tali solo per effetto ottico e per contrasto, dal momento che si tratta di rilievi di modesta altezza). Gli antichi abitanti della Mesopotamia mitizzarono questa impressione, immaginando che la particolare conformazione geomorfologica del loro mondo risalisse al tempo mitico delle origini (nella fattispecie quello raccontato nell'opera intitolata Lugal-e). In principio, la sede della vita sarebbe stata il mitico monte primigenio (il KUR). Questo, però, subornato dal principe e prototipo di tutti i demoni (Asag), si sarebbe ribellato agli dèi e in particolare all'ordine alla cui custodia era preposto Enlil. Ninurta, figlio e campione di En-

lii, riuscito vincitore dal cosmico conflitto, avrebbe demolito il KUR in tanti frammenti e li avrebbe poi disseminati tutt'intorno. Sarebbe così nata la «montagna» (in sumerico hur-sag) e le lande montuose tutt'intorno all'alluvio furono designate con il termine kur-kur (dove la reduplicazione del lemma è indice di pluralità e totalità) o semplicemente come kur, quando non se ne voglia considerare la frammentazione geopolitica (anche se kur e kalam restano concetti culturali, difficilmente ancorabili a una topografia storica ben precisa). Ciò che sta fuori del kalam, «ribelle» (ki-bal) per vocazione, come non ha città né civiltà, così non ha propri dèi. Per questo, il dominio sui kur-kur spetta agli dèi del pantheon sumerico (generalmente Enlil o Inanna). Il loro destino è quindi quello di essere recuperati al kalam, cioè al cosmo ordinato, e la loro funzione è quella di fornirgli materie prime (secondo il codice mesopotamico: offerte alimentari o d'altra natura ai suoi dèi).'

Il tempio Macrocosmo e microcosmo non sono solo simmetrici, sono anche comunicanti. Il punto di incontro per eccellenza fra mondo divino e umano, in Mesopotamia come altrove, è il tempio. Non è un caso che uno degli elementi più importanti dei complessi templari era la torre a gradoni (la più celebre è quella di Babele, di biblica memoria) o ziqqurrat, sulla cui sommità (dove si ergeva il sacello o gigun) si immaginava (almeno in un certo periodo) che il sommo rappresentante della comunità umana incontrasse la divinità patrona del tempio (per consumarvi, forse attraverso l'amplesso, il e.cl. rito delle «nozze sacre», una cerimonia sulla quale resta ancora da fare chiarezza). A questa funzione di tramite assolta dal tempio alludono rispettivamente l'epiteto Dur-an-ki (cioè «legame tra cielo e terra»), attribuito tradizionalmente al più celebre santuario di Sumer (l'Ekur di Enlil a Nippur), e la similitudine della montagna (in sumerico hur-sag), solitamente impiegata nei testi letterari per la descrizione dei templi. Tale è la centralità del tempio nella documentazione pervenuta' Sulla geografia cosmica mesopotamica si veda W. Horowitz, Mesopotamian Cosmic Geography (CM 8), Winona Lake, Ind. 1998.

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ci (sia quella letteraria sia quella economico-amministrativa), che, agli esordi dell'assiriologia, la società sumerica delle origini venne immaginata come una sorta di teocrazia primitiva (il cosiddetto modello della città-tempio). In anni recenti, l'arricchimento della documentazione e il progresso degli studi hanno messo in crisi i capisaldi di quella teoria: è stata messa in dubbio la natura sacrale dei grandi edifici pubblici delle origini; è stato ridimensionato il ruolo del tempio rispetto a quello del palazzo (che anzi spesso si servì del primo, sia ideologicamente, a scopi di mobilitazione di forza lavoro o per giustificare il regime di tassazione su cui si fondava il meccanismo redistributivo, sia come ganglio del sistema economico centrale); sono state rivalutate l'estensione e la consistenza del settore privato (più forte al nord che al sud). Ciononostante, difficilmente si rischierebbe di sopravvalutare il ruolo del tempio nella società mesopotamica. L'importanza del tempio nell'assetto socio-economico della Mesopotamia antica era infatti legata alla sua centralità nel cosmo. Il tempio era, innanzitutto, la casa del dio. Per questo non esiste, né in sumerico né in accadico, un termine generico per «tempio», ma uno solo, rispettivamente é (si legga semplicemente /e/) e bitum, che significa «casa», sia quella degli uomini sia quella degli dèi. Tagliando trasversalmente la nostra rigida distinzione tra le categorie di trascendenza e immanenza, nonché tra contenuto e contenitore, i Sumeri immaginavano che il dio non solo dimorasse nella sua casa (in forma di statua o di altro simulacro), ma che in qualche modo vi si incarnasse.' Per esempio, a Lagas, sia il dio Ningirsu (nel sogno di Gudea, descritto nel Cilindro A) sia il suo tempio Eninnu (il cui epiteto tradizionale era Anzu-babbar, cioè «Anzu candido») erano immaginati nelle sembianze della mitica aquila leontocefala, Anzu, che il dio un tempo avrebbe vinto, riducendola a un suo simulacro. Rispetto alla comunità, il tempio aveva pertanto la funzione di dare corpo alla presenza della divinità, unica garanzia per procurarle prosperità in tempi di pace e successo in guerra. Invano si cercherebbe nel lessico sumerico o accadico un termi• Th. Jacobsen, The Treasure of Darkness. A History of Mesopotamian Re/igion, New Haven - London 1976, pp. I 3- I 7·

ne sia pure lontanamente accostabile al nostro «caso» (o «accidente» o altri sinonimi). La ragione è che nella visione mesopotamica del mondo la casualità non è ammessa. Tutti gli elementi fondamentali della natura e della civiltà furono posti in essere, direttamente o indirettamente, dagli dèi, nel tempo mitico della creazione. Se tutto ciò che è uscito dalle mani degli dèi è per sua natura perfetto, non suscettibile di essere migliorato, l'unico sviluppo immaginabile è il degrado, l'unica soluzione auspicabile il ritorno alla perfezione originaria. La storia (dei popoli, degli individui, delle cose), per le genti della Mesopotamia, non può essere che ciclica. Ciò vale anche per i templi. Non v'era un solo dettaglio, in un tempio mesopotamico, che fosse lasciato al caso. Immodificabili, in quanto stabiliti dal tempo mitico della loro creazione per mano degli stessi dèi, erano l'ubicazione, la struttura e l'arredamento dei templi. L'area occupata dal tempio era considerata un punto d'intersezione tra macrocosmo e microcosmo e alcuni templi particolarmente prestigiosi aspirarono a una collocazione addirittura centrale nell'universo. Tale pretesa è evidente nell'epiteto Dur-an-ki, «collegamento tra cielo e terra», tradizionalmente attribuito a Nippur, la città che ospitava il santuario più importante del dio Enlil (l'Ekur). Verso la fine del II mili., i teologi dell' Enuma Elii immaginarono che l'Esa(n)gila, tempio di Marduk in Babilonia, si trovasse sull'asse cosmico che collegava la Terra con i cieli soprastanti (quello di An e quello di Enlil) e con l'Oceano delle acque sotterranee (Abzu), dominio di Enki, in perfetta simmetria con itempli delle tre divinità. Per questo i sovrani mesopotamici, nei resoconti delle proprie attività di restauro, si vantano di non aver modificato la posizione originale del tempio e sempre per questo motivo l'espressione sumerica e accadica per «restaurare» suona letteralmente «riportare al suo posto». Inoltre, poiché l'atto della costruzione iniziale del tempio risale in ultima analisi all'opera di un dio, collocabile nel momento mitico della creazione, non esiste, in relazione ai templi, né in sumerico né in accadico, una rigorosa distinzione lessicale tra «costruire» e «restaurare». Anche se le rovine delle strutture precedenti venivano sempre del tutto smantellate prima della nuova costruzione, nell'ottica mesopotamica si trat-

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tava in ogni caso di un recupero della struttura originale. Per questo, a designare la loro opera, i sovrani mesopotamici usavano indifferentemente ora l'uno ora l'altro verbo (senza alcuna apparente distinzione), talvolta entrambi cumulativamente. La modificazione del tracciato di un tempio era un atto di intenzionale e assoluta rottura con la tradizione. Solo due re se ne fanno vanto: Naram-Sin, re di Akkad, che, primo tra i sovrani mesopotamici, fece divinizzare la propria persona, e Samsi-Adad 1, il più famoso usurpatore del trono assiro e artefice di una riforma religiosa tendente a sostituire il dio nazionale assiro con il babilonese Enlil. Entrambi saranno condannati a una sorta di damnatio memoriae dalla tradizione posteriore (il primo soprattutto nella cosiddetta Maledizione di Akkad, l'altro in un'iscrizione di Puzur-Sin, la 1001). Come la collocazione, così anche la forma e la struttura del tempio erano considerate inalterabili, in quanto stabilite per sempre dal divino demiurgo nel momento mitico della creazione originaria. Anzi, da alcuni testi letterari sembra di potersi evincere che la sagoma e il tracciato dei templi fossero scritti in cielo.' Il ripristino del tracciato esatto del tempio, dopo lo smantellamento delle antiche strutture cadute in rovina, era avvertito come un'operazione assolutamente critica e delicata. A questa premura alludono i ricorrenti passaggi delle iscrizioni reali, in cui i sovrani mesopotamici si vantano di aver «eseguito perfettamente» il «disegno» o «tracciato» (gif-hur) del tempio, grazie al recupero dei suoi «prototipi» (in sumerico me). Questi me sono generalmente collegati all'antichissima città di Eridu, perché proprio da lì, secondo la tradizione più accreditata, avrebbero avuto origine e da lì Inanna, facendoseli consegnare da Enki ubriaco, li avrebbe diffusi ovunque, a partire dalla sua città, Uruk. Molto è stato scritto sul senso del termine sumerico me, senza mai arrivare a una soluzione definitiva (le traduzioni correnti sono «essenze», «poteri divini», «archetipi», «prescrizioni», ecc.).' Qualunque sia il campo semantico del termine - comunque troppo ampio per essere riducibile a una sola , G. Pettinato, l'Astrologia caldea e l'architellura templare in Mesopotamia, in Archeoastronomia, credenze e religioni nel mondo antico (Roma, 14-15 maggio 1997), Atti dei Convegni Lincei 141, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1998, pp. 41-63. 2 Si veda da ultimo J. Klcin, AoF 24 (1997), pp.211-218.

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parola nelle traduzioni-, nelle iscrizioni reali d'età paleo-babilonese i me sembrano designare una sorta di «prototipo» o «modello» del tempio o delle sue parti (concretamente immaginabile come oggetto o rappresentazione), sulla base del quale veniva recuperato, al momento del restauro, il «disegno» (gii-hur) originario. Sempre allo scopo di riprodurre esattamente struttura, dimensioni e tracciato originali del tempio, lo smantellamento del vecchio corpo di fabbrica caduto in rovina era solitamente accompagnato da un'attenta (quasi archeologica) opera di recupero delle iscrizioni che i sovrani precedenti avevano lasciato su vari supporti, seppelliti o murati in punti strategici o pregnanti (fondamenta, mura, pareti, soglie di porte, ecc.) del tempio. Ogni sovrano aveva poi cura di depositare le proprie iscrizioni nella struttura appena ricostruita, in parte perché fossero di istruzione ai loro successori in caso di futuri restauri, in parte per tramandare il proprio nome alla memoria dei posteri. Anche l'arredamento del tempio era dettato da regole immodificabili. Esso doveva evocare, in primo luogo, la storia o le storie del dio (in altre parole, la materia mitica incentrata sulla divinità). Per questo, nell'Eninnu del dio Ningirsu erano alloggiati i simulacri dei mostri vinti dal dio e per il medesimo motivo le armi di Ninurta, il «campione di Enlil» per antonomasia, godevano di speciale venerazione nei templi consacrati al suo culto e nel poema Lugal-e si racconta l'episodio della definitiva sistemazione della sua arma Sarur nel suo tempio, in seguito al trionfo del dio sulle forze del caos. L'intera vicenda del cosmo, che era poi tutt'uno con le vicende dei singoli dèi, si riverberava nella struttura del tempio. Per questo i santuari ospitavano una struttura designata con il medesimo nome del dominio cosmico di Enki (Abzu). Non si trattava di semplici cimeli o reliquie. Gli episodi che avevano visto protagonista il dio venivano periodicamente riattualiz1.ati grazie anche ai simulacri alloggiati nel suo tempio. Questa credenza diventa pienamente leggibile a livello documentario solo nel I mili., quando a Babilonia, ogni capodanno (in babilonese: Akitu), che coincideva con l'inizio della primavera, il trionfo di Marduk raccontato nel poema Enuma E/ii veniva drammatizzato, messo in scena e forse recitato nel suo tempio Esa(n)gila. Tale ce-

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rimonia può essere tuttavia proiettata indietro nel tempo fino al1' epoca più arcaica. Come si è accennato in precedenza, infatti, la concezione mesopotamica della storia è ciclica, per cui ogni singola storia prevede, dopo uno sviluppo che si potrebbe immaginare come circolare, un effettivo ritorno al punto iniziale, che, per essere stato posto in essere dagli stessi dèi al tempo della creazione primigenia, non può non essere concepito che come il momento dell'assoluta perfezione e purezza (e «puro», in sumerico kù(g), il medesimo aggettivo che designa lo stato dei metalli preziosi, è il termine più ricorrente per la descrizione di questo perfetto momento iniziale). Per questo, si pensava che ogni nuova intronizzazione inaugurasse un nuovo «ciclo» (in sumerico baia, lo stesso termine che designa «regni» e «dinastie») della storia del mondo. Il più lungo e dettagliato resoconto sulla costruzione di un tempio nella letteratura mesopotamica è rappresentato dal e.cl. Cilindro A, parte di un lungo inno (che constava sicuramente di un altro cilindro, B, e forse di un terzo, X, non pervenutoci) dedicato al restauro del tempio Eninnu del dio di Lagas Ningirsu a opera di Gudea, il «vicario» (ensi) della città. I fondamentali elementi strutturali del resoconto di costruzione (Baubericht o building account nel gergo assiriologico, rispettivamente tedesco e inglese) del Cilindro A sono comunque riconoscibili, seppure in forma sintetica e nonostante l'elisione di alcuni moduli narrativi, in tutte le iscrizioni di edilizia templare. La decisione della ricostruzione di un tempio, che coincide poi idealmente con l'assegnazione di un ciclo o destino (nam-tar) positivo alla città che lo ospita, viene presa dai sommi dèi del pantheon (generalmente An ed Enlil oppure il solo Enlil), per un atto di pura benevolenza (la «piena del cuore» di Enlil all'inizio del Cilindro A) e comunicata quindi al dio o alla coppia di divinità patrone della città, con l'incarico di trasmettere al sovrano terreno la «lieta novella» (gù-hul) e le opportune «istruzioni» (d-dg-gd). Chiuso questo momento iniziale, il teatro dell'azione si sposta sulla Terra, nel mondo degli uomini. Poiché il linguaggio degli dèi è diverso da quello degli uomini, il messaggio divino non è mai diretto, ma è sempre un segno (trasmesso per via onirica o mediante oracolo, giskim o a-rd) da decodificare e interpretare (inim-

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bai). In seguito all'invio del segno divino, Gudea intraprende una serie di viaggi per i vari santuari del regno (quelli di Ningirsu, di Gatumdu e di Nanse), allo scopo di impetrare dagli dèi la spiegazione del sogno e per ottenerne una conferma, che arriva poi per bocca dello stesso dio Ningirsu (di nuovo in un sogno, questa volta indotto tramite incubazione). È forse a questa complessa liturgia che allude, in forma oscura e sintetica, l'espressione «fervente preghiera» (ka-sa 6 -sa 6 ) così frequente nelle iscrizioni reali d'età paleo-babilonese. Dopo aver sciolto gli ultimi dubbi, Ningirsu istruisce il principe sulla forma, le misure e la struttura cui dovrà attenersi nell'opera di ricostruzione del tempio ed elenca i benefici che ne verranno alla città. La risposta del principe è solerte e immediata e subito sono avviati i preparativi dell'opera. Innanzitutto, la città deve essere purificata (mediante vari provvedimenti, tra i quali l'allontanamento degli elementi impuri e l'instaurazione di un giusto regime sociale), allo scopo di riprodurre la purezza perfetta del tempo mitico in cui il santuario venne per la prima volta costruito. Dopo la preparazione dello stampo per i mattoni, il terreno sul quale sorgerà il nuovo tempio viene purificato attraverso un complesso cerimoniale. La preparazione consta, accanto a un momento rituale, anche di una componente pratica e operativa. Viene reclutata la manodopera (comprese le «maestranze artigianali», alle quali si allude spesso anche nelle iscrizioni reali) e si fanno affluire materie prime (soprattutto quelle, legname e pietre, di cui è privo il suolo mesopotamico) da tutto il mondo noto. Il codice e.on cui viene presentato l'afflusso di risorse dalla periferia al centro può cambiare (invio spontaneo nei testi di Gudea, per lo più bottino di guerra nelle iscrizioni reali paleo-babilonesi), ma l'idea sottesavi rimane sostanzialmente identica: l'invio di materie prime dal mondo esterno, caotico per natura, al centro (cioè il mondo con cui i Sumeri si identificano) sta a simboleggiare, da una parte, la messa in funzione al grado più alto (dal momento che questi materiali diventano carne e ossa del tempio del dio) di quanto funzionale non era, dall'altra il dominio del mondo ordinato su quello caotico e incivile. La medesima idea è sottesa al fatto che gli dèi del pantheon mesopotamico erano soliti assumere come proprio animale-simbolo la creatura che un tempo avevano vinto (l'aquila leontocefala

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per Ningirsu, il drago per Marduk). Dopo la misurazione del sito sul quale sarà eretto il tempio, si passa alla preparazione dei mattoni, cui partecipa il sovrano in persona. Segue l'opera di costruzione vera e propria, cui si immaginava che prendessero parte anche gli dèi, e l'arredamento dei vani del tempio, destinati a ospitare simulacri e oggetti di varia natura (per esempio i trofei dei mostri vinti da Ningirsu, nell'Eninnu), perché rendano continuamente attuale la storia del dio. Alla costruzione vera e propria segue la cerimonia di insediamento del dio (insieme alla sua paredra e al suo sterminato corteggio) nel tempio, così importante da occupare per intero il testo del c.d. Cilindro B di Gudea.

Le statue di culto A essere fatta entrare nel tempio e a ricevere doni e offerte alimentari è in realtà la statua del dio, con la quale siamo arrivati a un altro grande tassello del nostro mosaico. La funzione fondamentale della statua divina o cultuale era quella di rendere attuale la presenza del dio nella sua dimora. Infatti, si riteneva che l'immagine fosse non semplicemente un'ipostasi del rappresentato, bensì una sua manifestazione sostanziale. La presenza del dio nel suo tempio era avvertita come un fatto di vitale importanza per la sopravvivenza e il benessere della comunità umana. Per questo, nel periodo critico tra la demolizione delle vecchie e cadenti strutture del tempio e la fine dei lavori di restauro, la statua del dio era ospitata al sicuro altrove (spesso nel santuario di una divinità imparentata). Parimenti, in caso di invasione straniera, si cercava di nasconderla per sottrarla al saccheggio dei nemici. Sempre per il medesimo motivo, era prassi comune dei vincitori portarsi dietro come bottino le statue divine dei nemici sconfitti ed era viceversa motivo di vanto eccezionale, per i vinti di un tempo, il recupero delle statue sottratte in passato. Per tutte queste ragioni e anche a causa del pregio dei materiali, che ne fecero prede ambite dai saccheggiatori di tutte le epoche, pochissimi sono gli esemplari di statuaria divina rinvenuti in suolo mesopotamico (si contano solo una statua di Narunde da Susa e una di Alla, da Lagas, risalente all'epoca di Gudea).

Anche le menzioni di statue divine sono così rare nei testi più arcaici da lasciare adito all'ipotesi' che, almeno nel III mili., emblemi divini facessero le veci delle statue, introdotte solo in età successiva. In realtà, le prime testimonianze di una statuaria divina risalgono al tempo di Ur-Nanse di Lagas (2500 a.C. circa), il quale nelle sue iscrizioni ricorda di aver «portato alla luce» la dea Nanse e il dio Lugal-uru, con evidente allusione alle loro rispettive statue, anche se il termine per «statua» (alan) è omesso (non diversamente, del resto, dal formulario egiziano per la fabbricazione di statue divine, qual è documentato nella e.cl. Pietra di Palermo ). 1 Il verbo usato per esprimere la fabbricazione della statua nelle iscrizioni di Ur-Nanse (e poi rimasto tradizionale nel lessico lagasita, mentre altrove sarà sostituito da dim, «plasmare», con riferimento alle arti plastiche) è tud, il medesimo impiegato per desiv;nare il «parto» di qualsiasi essere vivente (dagli dèi agli uomini). Il fatto è che le statue in Mesopotamia erano considerate appunto alla medesima stregua di esseri viventi. In quanto tali, esse andavano quotidianamente curate e nutrite.

L'uomo Come il mondo era concepito a guisa di un immenso serbatoio di risorse a disposizione delle divinità del paese, così agli uomini spettava il compito di alimentare le statue degli dèi e di costruire (cioè restaurare) le loro case. Anzi, secondo tutte le concezioni antropogoniche della Mesopotamia antica, l'uomo sarebbe stato creato apposta per sostituire gli dèi nel lavoro (e il lavoro principale era appunto quello di costruire le case dei grandi dèi). Nell'opera nota con il titolo di Inno alla Zappa, all'umanità appena creata viene fatta prendere in mano la zappa, il medesimo strumento con il quale Enlil l'aveva portata in esistenza facendola spuntare dal suolo a mo' di una pianta. Vi è sottesa l'idea che l'uomo, attraverso il proprio lavoro, continua l'opera degli dèi, niente meno che di , /\. Spyckct, Les statues de culte dans /es textes mésopotamiens des origins à la 11" clynastie de Babylone, Paris 1968, pp. 98-102. ' M.B. Dick, Bom in Heaven, Made on Earth. The Making of the Cult lmage in rhc Ancient Near East, Winona Lake, Ind. 1999, p. 124.

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Enlil. Veramente per i Sumeri il lavoro nobilita l'uomo! Nel mito Enki e Ninmah, Nammu, madre di Enki, porta alle orecchie del divino figlio il lamento degli dèi oberati di lavoro. La soluzione escogitata da Enki è di «creare» un essere che sostituisca gli dèi nel lavoro: l'uomo, appunto. Subito dopo la creazione, così il dio si rivolge alla madre (r. 38): «Madre mia, dopo che tu ne avrai deciso il destino, possa Ninmah assegnare (agli uomini) il lavoro (degli dèi)!». Nel famoso poema Atram-hasis, concepito proprio in età paleo-babilonese, gli dèi minori (lgigu), oberati di lavoro per il servizio reso ai grandi dèi (Anunnakku), alla fine decidono di ribellarsi, cingendo d'assedio il palazzo di Enlil, il capo del pantheon. Sarà Enki, dio della saggezza, a dirimere la questione, suggerendo di creare l'uomo, come sostituto degli lgigu nel lavoro. Dal mito intitolato Enki e l'Ordine del Mondo nonché da un rituale babilonese I sappiamo anche quali dèi fossero preposti alle singole fasi della costruzione: in particolare, Kulla alla fabbricazione dei mattoni, Musdamma alle fondamenta, Nin-ildu alla messa in opera delle strutture in legno, Nin-simug alla lavorazione delle parti in metallo (del resto, come si apprende da tutta la tradizione testuale, si immaginava che queste divinità non avessero mai cessato di intervenire nell'attività edilizia, neppure dopo la creazione dell'uomo).

Il re Che anche il re, non diversamente dall'uomo, fosse stato creato apposta da Enki per provvedere alla cura e ali' alimentazione degli dèi, si evince chiaramente, per esempio, dallo scongiuro Quando Anu Ebbe Creato il Cielo,' di redazione tarda, ma riflesso di un'antica tradizione, parte di un rituale nel quale erano prescritte le azioni del sacerdote-kalu in occasione del restauro di un tempio. Nell'introduzione allo scongiuro, tutta la creazione, opera del dio Enki/E'a, viene concepita in funzione della costruzione del tempio: primo fra tutti il dio Kulla, per la fabbricazione dei mattoni; quindi i vari ambiti del cosmo (canneti, boschi, mari, monti), per for-

' J. Bottéro, Mythes et Rites de Babylone, Genève-Paris 1985, pp. 293-299. 2

M. Dietrich, Fs Oelsner, pp. 32-46.

nire i materiali da costruzione, insieme alle divinità minori preposte alla lavorazione di ciascuno; poi la flora e la fauna per le offerte alimentari, insieme con le divinità incaricate della loro distribuzione; alla fine, il re e l'uomo per la cura dei grandi dèi. Nella visione mesopotamica del mondo, la regalità - al pari di tutte le altre istituzioni umane - è d'origine divina. Secondo la Lista Reale Sumerica, essa sarebbe «scesa dal cielo» all'alba dei tempi. Come Enki era tradizionalmente considerato il sommo architetto nel macrocosmo, così in terra era il sovrano - ispirato sempre dalla saggezza di Enki - a presiedere personalmente ai lavori di costruzione del tempio. La partecipazione del sovrano ai lavori di restauro del tempio non era semplicemente ideologica né la sua funzione soltanto organizzativa e direttiva. Almeno fin dai tempi di Ur-Nanse (2500 a.C. circa), sia l'iconografia (in particolare la c.d. Lastra di Ur-Nanse e, più tardi, la Stele di Ur-Namma) sia la letteratura (il Cilindro A di Gudea) concordano nel testimoniare il vivo e fattivo impegno del re nei lavori: ora nella fabbricazione del primo fatidico mattone, ora nel trasporto del canestro da lavoro. li diretto coinvolgimento della persona del re in tutte le fasi della costruzione del tempio non era mera propaganda, ma aveva un senso preciso nell'economia complessiva dell'universo mesopotamico. Come, infatti, il restauro del tempio riattualizzava i tempi mitici della divina creazione primigenia, così il sovrano, prototipo di tutti i sovrani, era immaginato come legittimo erede del primo divino demiurgo, il dio Enki, e suo successore nell'opera di costruzione degli elementi del cosmo. Al centro delle coordinate spazio-temporali dell'universo mesopotamico, in quanto punto d'incontro tra macrocosmo e microcosmo da una parte, tra mito e storia dall'altra, il sovrano era considerato responsabile della sopravvivenza della comunità, o, con fraseologia mesopotamica, era «la vita del paese». La correttezza (da intendersi soprattutto in senso rituale e cultuale) del rapporto istituito dal sovrano con il mondo divino ne garantiva il successo nelle altre attività legate all'esercizio della sua carica: l'amministrazione, la guerra, la difesa, la giustizia, la cura dei sudditi, e così via. Queste attività, che noi definiremmo «secolari», erano in realtà, per ~li antichi abitanti della Mesopotamia, un corollario della primaria

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funzione del sovrano in quanto tramite fra mondo umano e divino. Attraverso il suo rappresentante terreno, l'uomo sumerico vive immerso nella dimensione del mito, la quale è connessa all'attualità praticamente senza soluzione di continuità, e vive al centro del cosmo, dove i due mondi si incontrano senza fratture. Come la costruzione del tempio - che è la forma ideale dello spazio, in quanto compendia e sussume nelle sue strutture il disegno del cosmo - riattualizza il tempo mitico della prima creazione a opera di Enki, così ogni atto del re viene vissuto come la riattualizzazione - che noi, immersi nella dimensione della storia, definiremmo «ciclica» - dell'iniziale operato divino. La vittoria militare contro un nemico (fosse anche una sola città) viene avvertita come il trionfo sulle forze del caos che nei tempi del mito avevano minacciato il cosmo retto dagli dèi e come l'indispensabile premessa per una nuova fondazione (l'Esa(n)gila di Marduk, per esempio, nell' Enuma Elis) e per l'istituzione di una nuova età dell'oro. Per questo, nella c.d. Stele degli Avvoltoi, il monumento che (con immagini e parole) ne celebra la vittoria sull'eterna rivale Umma e sui suoi alleati, E'annatum, re di Lagas, fa accompagnare la propria effigie, rappresentata nell'atto di colpire il nemico con la lancia, dalla scritta (a mo' di didascalia) «soggiogatore-del-KUR del dio Ningirsu». Ciò significa che la vittoria sul nemico attuale viene presentata e vissuta come ripetizione del)' originaria e mitica vittoria di Ningirsu (o della sua ipostasi nippurita: Ninurta) sul KUR, la mitica montagna, che, subornata dal demone Asag, si era ribellata all'impero di Enlil, padre di Ninurta/ Ningirsu, all'inizio dei tempi. Questa visione delle cose e del loro sviluppo non annulla soltanto la storia (almeno nel senso in cui la intendiamo noi), ma anche la geografia, dal momento che per i Sumeri lo spazio attuale era tutto immerso in quello del mito. Tutto il reale deve essere compreso in questa visione del cosmo e deve pertanto avere una sua preistoria mitica e una sua proiezione nel mondo divino (che risulta pertanto concepito davvero a immagine e somiglianza di quello reale). Anche ciò che viene naturalmente percepito come negativo. Talvolta succedeva che un sovrano fosse vinto o ucciso - come si evince, per esempio, dai Coni di Entemena - sul campo di battaglia. Anche l'insuccesso e la scon-

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fitta debbono essere elaborati e coerentemente inseriti nella storia del cosmo. La sconfitta viene così vissuta come il punto di frattura in cui si inseriscono gli elementi di negatività e nello stesso tempo di sviluppo (che è sempre, come già accennato sopra, un deterioramento della perfetta situazione iniziale e preludio a una nuova restaurazione). La sconfitta è, in ultima analisi, un incidente verso il ripetitivo trionfo dell'ordine. Per questo, Ninurta nel poema /,ugal-e (come più tardi Marduk nell'Enuma Elis) viene più volte messo alle corde da Asag prima della vittoria finale. Ninurta, che vince il demone Asag, ribelle al padre suo Enlil, e che dà un nuovo ordine al cosmo, doveva essere stato immaginato come il prototipo mitico di ogni sovrano (e, in effetti, alle li. 684-700, dopo il suo trionfo, Enlil lo benedice, conferendogli, tra gli altri, il titolo di fugai, cioè «re»). Il cosmico conflitto tra Ninurta, campione di Enlil, e Asag aveva lacerato l'universo abitato, il KUR, dividendone gli abitanti immaginati come pietre, precursori dell'umanità - tra i sostenitori dell'uno e quelli dell'altro. Subito dopo il suo trionfo, Ninurta fa schierare tutte le pietre e le passa in rassegna, distribuendo benedizioni e maledizioni (noi diremmo: premi e condanne), a seconda della condotta (rispettivamente di lealtà o tradimento) da ciascuno tenuta durante il conflitto. Benedizioni del tutto particolari sono tributate all'arma (Sarur) e alla madre (Ninmah, poi ribattezzata Ninhursanga) del dio. Alla medesima stregua, quasi senza eccezioni, ogni sovrano mesopotamico fa precedere il resoconto delle proprie attività edilizie dalla clausola, destinata a diventare elemento lisso del formulario delle iscrizioni reali, «dopo che ebbi/e stabilito l'ordine (o: la giustizia) nel paese». Come si apprende dal Cilindro A di Gudea, solo l'ordine e la giustizia - da intendersi in senso sia sociale sia morale - potevano garantire alla comunità quella condizione di purezza che era premessa indispensabile per ogni nuova fondazione. La seconda parte del poema Lugal-e è dedicata alla riorganiz1.azione del cosmo a opera di Ninurta vincitore. Tra l'altro, gli sono attribuiti la creazione di difese naturali per il paese, lo scongelamento delle acque del Tigri che rende possibili l'agricoltura e la navigabilità dei corsi d'acqua, aprendo la via alla fondazione dico-

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Ionie commerciali (kar) al di fuori di Sumer. Anche in questo Ninurta sarà il prototipo di tutti i sovrani mesopotamici - non importa che questi spostino l'accento ora sulle attività militari (per esempio i sovrani di Akkad), ora su quelle cultuali (al tempo della 111 dinastia di Ur), ora piuttosto sull'attenzione per i sudditi (specialmente i sovrani d'età paleo-babilonese, in ossequio alle ascendenze nomadiche e alla caratterizzazione tribale di alcune dinastie). Sulla via del ritorno, Ninurta riceve la benedizione del padre Enlil, che gli concede, tra l'altro, un regno (baia) prospero e una «vita di lunghi giorni». Il motivo del ritorno di Ninurta vittorioso al cospetto di suo padre Enlil, nel suo tempio a Nippur (l'Ekur), è il tema centrale di un'intera composizione, intitolata Angimdimma. Deposte le sue armi all'ingresso del tempio, Ninurta entra nell'Ekur con il suo bottino e i suoi trofei (evidentemente per farne omaggio al padre) e ottiene, tra le benedizioni e l'ammirazione degli altri dèi, che venga istituito un suo culto nell'Ekur. Poco importa che, secondo un'altra tradizione (nota dal mito Ninurta e la Tartaruga), Ninurta, deluso dalla vacuità degli onori puramente formali tributatigli e subornato dall'infido Anzu, già da lui un tempo sconfitto, si sarebbe insuperbito e, mentre stava covando ambiziosi propositi di sedizione, sarebbe stato scoperto e umiliato da Enki. La mentalità sumerica non riconosce il principio di non contraddizione e Ninurta è il prototipo di ogni sovrano, anche di quelli superbi e tracotanti. Lugal-e e Angimdimma presentano invece il modello di comportamento corretto (per questo tipo di letteratura è stata a lungo proposta, non senza qualche ragione, l'etichetta di Lehrgedicht, «poesia didascalica»).

Le iscrizioni reali Il santuario era nello stesso tempo il punto di partenza e di arrivo di ogni attività del sovrano e nel tempio tutto doveva portare alle orecchie del dio il nome del sovrano e il resoconto del suo pio operato: la funzione delle iscrizioni reali, appunto. La distribuzione delle iscrizioni reali, nel tempo e nello spazio, rispondeva a una precisa economia e rientrava in un piano strategico complessivo. I punti più pregnanti (porte, fondamenta, ecc.)

del tempio - la cui costruzione era considerata premessa indispensabile per il successo in tutti gli altri ambiti e che viene generalmente presentata (almeno idealmente) come il primo atto di governo del re - ospitavano iscrizioni che celebravano e commemora vano l'opera del sovrano. Le altre opere edilizie del re (palazzi, dighe, canali, ecc.) recavano iscritto il nome del sovrano e invocavano la benedizione divina sulla sua persona. I successi militari del re, cui spesso seguivano le fondazioni di nuove fortezze in territori un tempo ostili - considerati, gli uni e le altre, come frutto della pietà del sovrano - erano commemorati da stele e iscrizioni di fondazione, collocate non più al centro (il tempio), bensì al confine (stele), se non all'esterno (fortezze), del regno. Nel tempio erano invece collocati i frutti del bottino di guerra consacrati ,11la divinità (spesso quella che si immaginava avesse assicurato la vittoria), per lo più accompagnati da un'iscrizione (dedicatoria, appunto) con il nome del re dedicante.

Le statue votive Ideale punto d'arrivo di questa multiforme attività e del messaggio che vi era sotteso era la collocazione di una statua rappresentante il sovrano all'interno del tempio, precisamente al cospetto della divinità, allo scopo di rendere presente continuamente e per sempre alle sue orecchie, attraverso le parole incise nella pietra, le opere pie del sovrano e di ottenerne, come ricompensa, un regno prospero, una lunga vita e la perpetuazione del nome attraverso la gloria postuma e la discendenza. Questo secondo tipo di statua (alan in sumerico, dùl come sumerogramma in iscrizioni della dinastia di Akkad, ~almu o tamsilu in accadico) si distingue dal primo (statue divine o cultuali) sia per il soggetto sia per il carattere e la destinazione. Si tratta sempre, infatti, come si evince dalle affinità di formulario con le altre iscrizioni votive (quelle incise su altri supporti), di una dedica alla divinità, che diventa pertanto «proprietaria» della statua (nell'iscri1ione Rimus 6, infatti, Enlil, al quale viene consacrata una statua da parte del re, è detto «padrone di questa statua»).' Il soggetto 1

hc-a/DÙLsu ◄ -a(ll.117-II8).

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rappresentato è sempre il dedicante, per lo più il re (ma anche, più raramente, suoi familiari o sudditi, che consacrano la statua al dio per la vita del re e per la propria). Le tipologie iconografiche della figura del re sono molto varie' e trovano puntuali riscontri nelle descrizioni di statue, numerose nelle formule d'anno della I dinastia babilonese («re con capretto offertorio», «re che incede innanzi all'esercito», «il re e le divinità protettrici», «il re di giustizia», «la statua del principato» del re, «la statua dell'eroismo» del re, «il re in preghiera», ecc.). Le prime statue votive (le cui più antiche testimonianze risalgono al Proto-Dinastico 11) sono in pietra (calcare o alabastro). La qualità è piuttosto scadente e spesso solo l'iscrizione distingue le statue di commissione regale (con soggetto il re) da quelle di comuni fedeli. Solo più tardi (il primo esemplare noto è una statua acefala di Entemena dedicata al dio Nanna, da Ur) diorite e metalli (rame o altri metalli preziosi - ma di questo tipo di statue non ci è pervenuto alcun esemplare, a causa del pregio dei materiali, che ne ha fatto la preda ambita dei saccheggiatori d'ogni tempo, e se ne conosce l'esistenza solo grazie alle fonti scritte) subentrano alle altre pietre come materiali distintivi ed esclusivi della statuaria regale. Così rilevante a livello ideologico dovette essere avvertito il passaggio dalla pietra tenera alla diorite, da essere sancito miticamente, ancora una volta, nel poema lugal-e (li. 463-478): Il mio re si piazzò davanti alla diorite, ... parlandogli come se cantasse. Ninurta, figlio di Enlil, ne determina il destino: «Diorite, poiché tu, avendo spostato il tuo campo di battaglia nelle retrovie, ti volatilizzasti come il fumo davanti a me, non alzasti il braccio e non ti precipitasti contro di me, ma anzi dicesti: 'È tutto sbagliato! Il signore (Ninurta) è l'unico campione! Chi può confrontarsi con Ninurta, il figlio di Enlil! ?', (per tutto ciò) ti si estrarrà dalle montagne del nord, ti si trasporterà dalla terra di Magan e, rivestito di rame duro quasi fosse la tua pelle, sarai perfettamente degno del mio braccio eroico, che è quello di un signore! Il re che vorrà farsi un nome eterno, farà scolpire statue di eterna durata e ti collocherà nel luogo del bere l'acqua dell'Eninnu, il santuario pieno di sfarzo, dove tu farai da splendido ornamento».

Come si evince dal passo citato, l'uso della diorite è significativo sotto molti riguardi (tant'è che si potrebbe parlare di una seman• M.Th. Barrelet, RAI 19, pp. 27-138.

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tica dei materiali). Innanzitutto, la diorite viene da molto lontano (le montagne del nord, Magan, forse da identificare con l'odierno Oman), comunque da un mondo che è esterno rispetto alla mappa mentale sumerica. L'importazione di quel materiale nel cuore del mondo e la sua conversione nell'effigie di colui che ne era il sommo rappresentante dovevano simboleggiare, nell'ottica sumerica, il dominio del proprio sovrano sul mondo esterno, l'addomesticamento e la riduzione all'ordine della natura selvaggia, la messa in funzione di quanto in origine funzionale non era. Nello stesso tempo, la trasformazione della materia grezza in un oggetto dotato di forma, eterno, levigato, perfetto nella fattura, lucente, doveva esprimere l'appartenenza del sovrano che ne era effigiato a un mondo che, se non era quello divino, certamente era superiore a quello dei comuni mortali. Visto il loro carattere votivo, le statue, una volta scolpite, erano collocate nel tempio, generalmente nel cortile principale, dove forse si trovava il «luogo dove si beve l'acqua (ki-a-nag)». Il reperimento della maggior parte delle statue in depositi secondari e l'incertezza circa l'esatta natura del ki-a-nag impediscono di trarre conclusioni più sicure circa la collocazione delle statue. Era importante che la statua votiva fosse al cospetto del simulacro del dio, per poterne essere vista e - come si vedrà meglio più avanti per potergli parlare (tant'è che il re di Larsa Sin-iqisam, in una sua iscrizione ( 1 ), ammonisce ogni re futuro contro la tentazione di piazzare una statua davanti alle proprie). Le statue quindi parlavano al dio (o, meglio, al suo simulacro), al pari degli esseri umani. Come gli esseri umani, infatti, esse - anche quando non se ne faccia esplicita menzione nel testo dell'iscrizione che vi era incisa - hanno un nome. Il nome non è solo il tramite imprescindibile verso lo stato di esistenza - coerentemente con l'ottica mesopotamica, per cui l'atto di nominare coincide con quello di far essere, porre in esistenza-, ma identifica anche ciascuna statua (quindi anche più statue del medesimo sovrano dedicante) come un individuo unico e irripetibile. Non diversamente dagli esseri umani, poi, le statue, almeno a Lagas, erano «partorite» (tud), mentre altrove sono per lo più semplicemente «foggiate» (dim, il verbo impiegato normalmente per

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le arti plastiche). È inoltre attestato, al tempo della III dinastia di Ur (e in riferimento a una statua di Gudea), un «rito di apertura della bocca», che ha paralleli egiziani e che sarà poi dettagliatamente documentato solo in testi d'epoca neo-assira (1 mili. a.C.). Infine, al pari di tutti gli esseri viventi, le statue andavano quotidianamente alimentate mediante offerte regolari. In sintesi, quindi, la statua non è una semplice ipostasi, bensì una manifestazione vitale (una delle molte possibili, ciascuna dotata dell'individualità che le viene dal proprio nome) del dedicante che vi è effigiato (generalmente il re). Probabilmente è proprio per neutralizzare la vitalità e la capacità operativa delle effigie del sovrano che la maggior parte di esse ci è pervenuta intenzionalmente mutilata - senz'altro in seguito a eventi traumatici (invasioni, rivolte interne, cambi dinastici) - nel volto (in particolare gli occhi e la bocca) e nelle mani.' Si trattava anche, forse, di contromisure magiche per difendersi dalle maledizioni con cui i sovrani concludevano il testo dell'iscrizione dedicatoria incisa sulla statua, all'indirizzo di chiunque, in futuro, osasse danneggiarla o rimuoverla (generalmente per depositarla nei magazzini del tempio). La preoccupazione per questo tipo di interventi (non soltanto il danneggiamento, ma anche il semplice immagazzinamento o lo spostamento in fondo al santuario) ben si spiega se si tiene presente lo scopo principale della consacrazione di una statua, cui si è accennato sopra. La funzione principale della statua è, infatti, anche quando non sia espressa esplicitamente, quella di rendere continuamente presente alle orecchie del dio che ne è ossequiato il buon operato del sovrano dedicante, per impetrarne, in cambio, tutto ciò che un re mesopotamico poteva augurarsi (che erano poi anche le più alte aspirazioni della gente comune): un regno felice, una lunga vita, discendenza e fama postuma. Solo con i sovrani di Akkad, conformemente all'immagine regale da loro imposta, l'accento si sposta decisamente sull'accento celebrativo. Per esempio Naram-Sin (7: 12-16) dice di aver dedicato una statua a Enlil «per l'ammirazione della propria potenza e delle battaglie da lui vinte». Talvolta lo scopo della statua viene reso in modo esplicito e allora il testo dell'iscrizione che vi è incisa assume la forma di una , Si veda da ultima B. Kaim, Fs Cagni, pp. 515-520.

vera e propria epistola alla divinità (Puzur-Insusinak 9, re dell'Elam, coevo ai sovrani di Akkad; la Statua B di Gudea; Sin-iddinam 1, che è l'iscrizione su una statua di Nur-Adad, padre del re dedicante). Nella maggior parte dei casi, però, lo scopo (cioè larichiesta o preghiera) della statua viene affidato al suo nome, che, non a caso, è espresso generalmente in prima persona (o, in altre parole, si rivolge al dio in seconda persona), quasi si trattasse del discorso (riportato in forma diretta) della statua al dio (mentre il resto del testo è solitamente in terza persona).

Il nesso inscindibile tra tempio, statue e iscrizioni Da quanto detto finora emerge chiaramente che la dedica della statua a un dio da parte del sovrano altro non è che l'atto finale di un preciso programma di governo e, nello stesso tempo, il momento conclusivo di un messaggio che ha come emittente il re e come destinatario il dio. La consacrazione di una statua (almeno di quelle commissionate dal re) è imprescindibile da un'occasione, che può essere o l'esito positivo di una guerra o la conclusione dei lavori per la costruzione di un tempio. I tre momenti fondamentali dell'attività di governo di un sovrano mesopotamico - costruzione di un tempio e dedica di una statua da una parte, resoconto di guerra dall'altra sono associati, sia pure per asindeto (cioè senza elementi di raccordo sintattici o narrativi), rispettivamente sul recto e sul verso di uno dei più antichi esemplari pervenutici di iscrizione reale (Ur-Nanse s, ). Poi, come si vedrà meglio più avanti, l'unità del discorso tenderà a frantumarsi. La consuetudine di ricavare il materiale per la fabbricazione della statua dal bottino dei nemici vinti si riflette in iscrizioni in cui la dedica della statua è preceduta da un resoconto di guerra (ad es. Ensakusanna I per il periodo Proto-Dinastico; Erridu-pizir 1-3 per il periodo del dominio guteo; Su-Sin 5 e 6 per l'epoca della III dinastia di Ur). Altre volte, la dedica di una statua fa seguito al resoconto della costruzione di un tempio. I più antichi esemplari sono rappresentati dalle iscrizioni di Ur-Nanse di Lagas. Proprio dall'analisi di queste è evidente che, mentre il resoconto edilizio può sussistere da solo, cioè senza la dedica di una

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statua, quest'ultima è invece imprescindibile dal primo, al quale necessariamente segue. Ciò significa che, al tempo di Ur-Nanse, è inconcepibile un'iscrizione reale incentrata unicamente sulla dedica di una statua e questa può esistere solo in quanto appendice di un'iscrizione edilizia. La medesima associazione tra costruzione di un tempio e dedica di una statua continua con i successori di Ur-Nanse (ad esempio E'annatum 62). In un'iscrizione di Entemena, la locuzione ud-ba, «allora, in quei giorni» {Entemena 1: 111 8), esprime, per la prima volta nella storia del genere, la sutura logica e narrativa tra il resoconto dell'attività di edilizia templare e la dedica di statue regali nei templi costruiti (mentre fino ad allora si era trattato di una semplice giustapposizione per asindeto). Fino ai tempi di Gudea, il resoconto della dedica di una statua regale conclude sempre un'iscrizione a carattere edilizio (il cui tema è rappresentato, appunto, dalla costruzione di un tempio). La prassi è confermata dal Cilindro A, dal quale (xxu 24 - XXIV 7) si evince che uno dei momenti fondamentali della costruzione di un tempio era l'erezione di «stele» (na-ru-a) al suo interno. Solo in età paleobabilonese la dedica della statua si emancipa narrativamente dal resoconto della costruzione del tempio, in cui verosimilmente doveva essere poi collocata. Il momento di sutura fra le due tradizioni è ben rappresentato dalla Statua Q di Gudea, nella quale il resoconto della costruzione del tempio è incorporato tra gli epiteti regali di Gudea, mentre l'unica forma verbale principale si riferisce alla «creazione» della statua: Per Ningiszida, suo dio (personale), Gudea, vicario di Lagas, colui che ha costruito l'Eninnu di Ningirsu, creò una statua di sé (segue il nome della

statua e il suo ingresso nel tempio). Se ne deduce che la frantumazione dell'originaria unità del messaggio - come si verificherà in età paleo-babilonese - al tempo di Gudea è solo apparente o formale. Semplicemente si può dire che l'associazione tra i due momenti dell'attività del re (costruzione del tempio e dedica della statua) o tra le due unità del messaggio corrispondenti era passata da paratattica {prima asindetica, poi sintattica) a ipotattica.

VI. VERSO UNA DEFINIZIONE DI ISCRIZIONE REALE. DALLA «METASCRIITURA» AL TESTO

Il termine «iscrizione reale» - cui corrispondono diverse parole in sumerico e in accadico: sikkatu per i chiodi iscritti; naru (calco dal sumerico na-ru-a, «pietra eretta») e iumu iatru (letteralmente «nome scritto») per le tavolette; temen, i#ir iumi («scrittura del nome») e musaru (calco dal sumerico mu-sara, «nome scritto») per cilindri e prismi; tuppu (letteralmente «tavoletta») e ~almu (letteralmente «effigie») per le stele - non dice molto circa la natura dell'oggetto che designa, dal momento che quasi tutta la produzione testuale mesopotamica pervenutaci è, più o meno direttamente, d'ispirazione o di commissione palatina. Molte proposte di definizione dell'oggetto iscrizione reale sono state avanzate, ma nessuna si è dimostrata del tutto convincente. Strettamente legata al problema della definizione del genere è ovviamente la questione circa le tipologie testuali che vi dovrebbero essere comprese. Si discute, per esempio, se sia lecita l'inclusione delle legende dei sigilli e se non siano piuttosto da ascrivervi i codici di leggi, le cronache reali, gli editti e le epistole diplomatiche. In considerazione della sua qualità comunicativa (sottolineata ~ià nelle pagine precedenti), l'iscrizione reale verrà qui intesa (o definita) come la componente scritta di un messaggio che ha il sovrano come emittente, la divinità (forse, a volte, anche quando non sia esplicitamente menzionata) o un eventuale sovrano futuro come destinatari (dichiarati) e l'opera del sovrano (per lo più coincidente con l'ambiente di collocazione o con il supporto del testo) come canale. Per questo (oltre che per il loro carattere essen1.ialmente documentario), ne sono state escluse le legende dei c.d. sigilli reali, nei quali l'incisione del nome del re sul sigillo ha carattere e funzione eminentemente pratici (cioè di garanzia). Parimenti sono stati esclusi editti ed epistole diplomatiche di emissione palatina, dal momento che non c'è alcuna relazione né con l'opera del sovrano né con la divinità (anzi, la loro destinazione sembra piuttosto, per così dire, secolare). Le iscrizioni di funzionari e familiari del re vi sono invece state incluse, sia per le analogie strutturali sia perché, come si vedrà più avanti, lo schema base di una

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iscrizione reale non vi viene negato, ma semplicemente complicato. Solo per motivi convenzionali, invece - cioè per l'esistenza di un genere letteratura legislativa mesopotamica, che nel corso degli anni ha assunto una propria autonomia - sono stati esclusi i codici di leggi (in particolare, per l'età paleo-babilonese, quelli di Lipit-lstar e di Hammu-rapi). Questi, infatti, ben si adatterebbero alla nostra definizione di iscrizione reale, dal momento che in essi il re comunicava al dio, mediante sia l'iscrizione sia la stele su cui quella era normalmente incisa, quanto giusto e ordinato fosse il suo regno. Difficile è pure stabilire la legittimità dell'inclusione tra le iscrizioni reali di quei testi in cui il sovrano dona il suo sigillo a funzionari e familiari, stante la nostra ignoranza circa il loro

Sitz im Leben. Si è detto sopra che l'iscrizione reale rappresenta la parte scritta del messaggio. Ne esiste dunque una componente non scritta ed era quella affidata in parte al contesto (cioè al luogo di collocazione o ambiente), in parte al supporto (canale o medium). A tal punto questi due ultimi elementi erano parte integrante del messaggio, da poter essere taciuti (in quanto sottintesi) nel testo dell'iscrizione. Già al tempo di Ur-Nanse (2500 a.C. circa, cioè quasi agli albori della storia del genere), lo schema tradizionale delle iscrizioni reali può essere decurtato del nome del dio ossequiato (solitamente in caso dativo), dal momento che quest'ultimo elemento era facilmente deducibile dal contesto (vale a dire il tempio in cui era collocata l'iscrizione). In età paleo-babilonese, poi, l'iscrizione edilizia può presentarsi in una forma estremamente sintetica (nome del re, seguito, tra gli altri, dall'epiteto che lo qualifica come costruttore del tempio del tal dio nella tale città). Il fenomeno è particolarmente evidente nelle cosiddette «iscrizioni dedicatorie», dove a essere taciuto è, il più spesso, l'oggetto della dedica, che coincide sempre con il supporto dell'iscrizione stessa ed è dunque facilmente deducibile. Vi sono poi, al limite estremo, iscrizioni dedicatorie consistenti nel solo nome del dedicante inciso sull'oggetto dedicato. Tutti gli altri elementi del messaggio erano infatti altrimenti deducibili: il nome del dio ossequiato dal tempio in cui l'oggetto risultava collocato, l'oggetto dedicato e il verbo esprimente la dedica dalla sua stessa presenza fisica in quel determinato luogo.

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Per questa forma di comunicazione - in cui parte del messaggio è affidata a un canale che, pur accompagnandosi alla scrittura, va al di là di essa (una sorta di comunicazione non scritta, ma dentro e al di là della scrittura) - è stata proposta' la felice definizione di «metascrittura» (traduzione dell'inglese «meta-script»). Un'altra forma di metascrittura nelle iscrizioni reali consiste nella rilevanza semantica assunta dalla posizione degli elementi del discorso nello spazio testuale (quello della tavoletta o del monumento iscritto). Poiché l'orientamento originario della scrittura cuneiforme era verticale - vale a dire dall'alto verso il basso (e, secondariamente, da sinistra verso destra) - e poiché anche nel mondo sumerico l'alto è il luogo nobile per eccellenza, gli elementi del testo si dispongono fisicamente sulla tavoletta secondo un ordine di successione (o una sintassi) fondato piuttosto sulla gerarchia dei ranghi che non sulla logica. Per questo, nelle nostre iscrizioni il dativo precede l'agente (cioè il dedicante, solitamente il sovrano) quando l'ossequiato (in caso dativo, appunto) sia una divinità; lo segue, invece, quando sia un essere umano (e ogni essere umano, nell'ottica mesopotamica, è di rango inferiore al sovrano). Sempre per il medesimo motivo, nelle dediche fatte al sovrano dai suoi sudditi, questi figurano, in segno di umiltà, nell'ultima posizione, vale a dire in fondo a tutti gli altri elementi nominali della frase (e seguiti solo dal predicato, che solitamente la conclude). In realtà, il procedimento metagrafico era connaturato alle origini stesse del sistema cuneiforme, quando, essendo ancora l'iniziale protoscrittura ben lontana dal diventare una scrittura vera e propria, cioè una forma di trascrizione fonografica della lingua, molte informazioni passavano direttamente all'occhio del lettore attraverso canali non grafici. Per esempio, dal formato delle tavolette - diverso per ciascuna tipologia di documento - se ne poteva immediatamente dedurre il carattere del contenuto, funzione poi affidata alle cosiddette «etichette». Inoltre, la distribuzione delle caselle di scrittura sulla tavoletta era conforme al contenuto di ciascuna sezione di testo. Ciò significa, per esempio, che in una tavo1etta di computo d'epoca arcaica le somme occupavano tradizionalmente una sede fissa della tavoletta, facilmente e immediata' M.W. Green, VL I s (1981), pp. 345-372.

mente riconoscibile dal lettore. Solo più tardi, quando la tavoletta divenne un testo continuo (cioè occupato per intero da linee di scrittura), la sezione delle somme fu preceduta dalla dicitura «somma» (in sumerico: su-nigin). Parimenti, a ogni sezione del testo venne associata una dicitura identificativa o etichetta (ad es. zi-ga per «debito», és-gàr per «serie», ecc.). In ultima analisi, la scrittura intesa come trascrizione fonografica di un enunciato linguistico tende a subentrare a quei canali extralinguistici, riconoscibili al primo colpo d'occhio, che in epoca arcaica avevano funzionalmente integrato il testo scritto. Non solo le parti non scritte del messaggio cominciano a essere sostituite dalla scrittura; anche quest'ultima, a sua volta, tende a farsi sempre più la trascrizione fonografica di uno e un solo enunciato linguistico. Le tavolette più arcaiche, in effetti, si presentano piuttosto come un messaggio in codice che come un testo scritto. Per esempio, per dire che x beni di tipo y sono stati consegnati dal funzionario w all'unità amministrativa z, bastava rappresentare sulla tavoletta la sequenza dei logogrammi x y w z. I nessi linguistici, facilmente deducibili dal contesto, non erano esplicitati nella scrittura. Era cioè indifferente che lo scriba sciogliesse, per esempio, il verbo esprimente la consegna come «sono stati consegnati» o «ha consegnato», o in qualsiasi altro modo. Per le sue caratteristiche di estrema sinteticità, questo tipo di scrittura è stato definito «nucleare». Solo quando, molto più tardi, tutti gli elementi dell'informazione furono convertiti in altrettanti e unici enunciati linguistici e questi furono fissati nella scrittura in una e una sola forma, cominciò ad affermarsi l'idea di testo. Il passaggio dalla metascrittura alla testualità è ancora più evidente nell'evoluzione di quel messaggio - prima non scritto, poi integrato (nel senso indicato sopra) - che precedette le iscrizioni reali nella loro fase matura. All'inizio - come retaggio di millenni di preistoria, cioè di un'epoca senza scrittura - i monumenti parlavano da sé: il linguaggio muto delle cose. La stessa presenza fisica del tempio, opera del re, all'interno dello spazio occupato dalla comunità era sufficiente a comunicare a tutti - sia al mondo divino sia a quello umano-, e senza bisogno di scrittura, il buon ope-

rato del sovrano. Alla medesima stregua, a nessuno doveva sfuggire il significato della collocazione di una statua votiva rappresentante il re al cospetto del simulacro del dio, all'interno del suo santuario. E infatti il messaggio non era espresso in forma scritta. Il primo germe di testualità fu rappresentato dall'incisione del nome del re dedicante sulla superficie della statua. Non a caso, uno dei termm1 sumerici più comuni per «iscnz10ne» suona proprio musara, letteralmente «nome (mu) scritto (sara)», dove il «nome» è senz'altro quello del sovrano. In Mesopotamia, il nome del re ha un'importanza che difficil111ente si potrebbe sopravvalutare: la sua gloria deve essere comunicata agli dèi, la sua memoria tramandata ai posteri, il suo prestigio diffuso tra la gente del paese; esistono misure magiche per proteggerlo da eventuali violatori o contraffattori. Il nome del re è inoltre pregno di implicazioni (teologiche e non) che stentiamo spesso a individuare. Tuttavia, l'immaginario e il cerimoniale legati al nome del re si affermano solo molto tardi, cioè in piena età proto-dinastica. Prima di questa fase, il sommo rappresentante della comunità umana, detto en (il titolo documentato a Uruk e, co111e retaggio arcaico, a Ebla e in Iran), 1 era tradizionalmente anonimo (non può essere un caso che la pur copiosissima documentazione epigrafica di Ebla, dove regnava un en, non comprende nemmilllo un esemplare di iscrizione reale). Da quanto si può dedurre dall'iconografia dell'epoca (visto il silenzio delle fonti scritte), quel che contava era la sua funzione di rappresentante del dio in terra, non la sua personalità individuale. Solo in età proto-dinastica, probabilmente in connessione con l'accresciuto tasso di conflittualità dovuto forse all'esaurimento delle risorse idriche e alla competizione per appropriarsene, si afferma una nuova concezione, forte e personalistica, del sovrano. La nuova immagine della regalità si accompagna a due fondamentali innovazioni, strettamente legate l'una all'altra: l'introduzione di una nuova titolatura per il sommo rappresentante della comunità (fugai o, isolatamente e soprattutto a Lagas, ensi) e la nascita delle prime iscrizioni reali (uno dei primi esemplari è quello di Meharasi, forse da identificare con il leggendario Enmebaragesi noto 'W. Heimpel, ZA 82 (1992), pp. 4-21.

dal ciclo epico di Uruk). Quest'ultima constatazione concorda, tra l'altro, con la notizia, nota già da fonte antica,' che Enmerkar, mitico sovrano (en) della I dinastia di Uruk, non avrebbe lasciato alcuna «stele» (naru) - al contrario del suo secondo successore, Gilgames, che invece, secondo un'altra fonte (Epica di Gilgames 1 i 8), avrebbe lasciato memoria scritta delle proprie straordinarie imprese. Il nome del re sarà poi accompagnato da epiteti, i quali, in seguito, sotto la spinta di fattori culturali difficilmente individuabili, saranno sciolti in un testo completo: l'iscrizione reale, appunto. Metascrittura e testualità si contesero a lungo, comunque, il campo delle iscrizioni reali e, come spesso accadde in simili casi, tra due principi concorrenti, la cultura sumerica non espresse una scelta definitiva ed esclusiva (quale poteva essere dettata, per esempio, da un criterio economico), ma adottò una soluzione per così dire eclettica o di compromesso. Ciò significa che, anche in una fase di piena e matura testualità, resteranno, a mo' di fossili, tracce dell'iniziale stadio metagrafico. Così, su alcuni supporti (statue ostele), accanto al testo dell'iscrizione reale vera e propria, ma generalmente su una superficie fisicamente separata dalla prima (detta «Ober-» o «U nterschrift» 2 o «cartiglio») 1 e comunque senza rapporti né narrativi né sintattici con essa, può essere inciso il nome del re seguito dai suoi epiteti, cioè quello che era stato il primo germe delle iscrizioni reali in una fase di metascrittura (esempi illustri di questo tipo di iscrizione sono la Stele degli Avvoltoi e alcune statue di Gudea). VII. TASSONOMIA DELLE ISCRIZIONI REALI. DAL TESTO COMPLESSO AL TESTO «MONOTEMATICO»

Nel dare una definizione del genere letterario in questione, l'accento è stato posto sugli elementi di affinità tra quegli esemplari storicamente documentati che sono tradizionalmente inclusi sotto la comune etichetta di iscrizione reale. Non mancano, però, tra Il testo è stato pubblicato da O. Gurney, AnSt 5 (1955), p. 98 (I. 29). A. Falkenstein, Grammatik der Sprache Gudeas von Lagas, 11. Syntax (AnOr 29), Roma 1950, p. 2. 11.J. Winter, ZA 76 (1986), pp. 205-212. 1

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questi testi, alcuni non trascurabili elementi di diversità, tali da rendere legittima una tassonomia all'interno del genere. Vari sono i fattori discriminanti in base ai quali gli esemplari risultano suddivisibili per grandi tipologie: il supporto dell'iscrizione (e, a questo strettamente legato, il suo contesto o ambiente di collocazione); il contenuto, che si esprime di volta in volta con un lessico e un formulario distintivi; lo schema compositivo (vale a dire la distribuzione degli elementi significativi all'interno del testo); la funzione e lo scopo dell'iscrizione. Secondo che si sia assunto come punto di partenza l'uno o l'altro fattore discriminante, sono state avanzate, in passato, varie proposte di classificazione tassonomica del genere iscrizione reale. Quale che sia la soluzione tassonomica accettata, è opinione diffusa I che tutte le varie tipologie siano nate da un nucleo comune, rappresentato dal solo nome (in genere quello del re), per aggiunta di alcuni elementi (in primo luogo la titolatura, il dio ossequiato in caso dativo, il predicato verbale), dalla cui diversa combinazione sarebbe risultata la varietà tipologica. L'idea sottesa a questa ipotesi - che cioè la storia del genere iscrizione reale sia rappresentabile come uno sviluppo lineare dal semplice al complesso o dall'unità alla pluralità - è vera solo in parte. All'inizio, prima dell'applicazione della scrittura, cioè quando le cose parlavano ancora da sé, il messaggio era sempre unitario, completo, circolare: l'oggetto collocato nel tempio significava che un re pio, vittorioso sui nemici e premuroso verso i propri sudditi, aveva consacrato alla divinità patrona del tempio, per la propria vita e gloria postuma, parte del bottino sottratto ai nemici, nella sua forma originale o convertito in una statua di sé in atto di adorazione. Come si è già anticipato, almeno all'inizio, l'applicazione della scrittura fu solo parziale, nel senso che solo una parte (o un brano) di questo messaggio - una parte di volta in volta diversa, secondo il tipo di supporto o altri fattori che ci sfuggono - veniva depositata nella scrittura: spesso soltanto il nome del re dedicante, ma talvolta fino a una frase di senso compiuto (incluso il predica' Si vedano ad es. W.W. Hallo, HUCA 33 (1962), p. 6, e D.O. Edzard, RIA 6 p. 63.

(1981), s.v. Konigsinschriften,

to). Non importa che prevalesse la metascrittura o la piena testualità, in ogni caso il messaggio era sempre (almeno nell'ottica sumerica) completo. Ai nostri occhi - fruitori casuali e non voluti di quel messaggio e comunque estranei a quel codice - la completezza e l'unità del messaggio risaltano solo nei casi di testualità piena - quelli che nella letteratura assiriologica sono stati definiti «Rechenschaftsberichte» (D.O. Edzard) o «Obersichtinschrifte» (S. Franke). Uno dei più antichi esemplari di quest'ultimo tipo è rappresentato dall'iscrizione Ur-Nanse p. Si tratta di una lastra di pietra (forse appartenente a una stele, poi riutilizzata per altri scopi, secondo altri un esercizio scolastico), iscritta su entrambe le facce: l'una (il recto) con il consueto schema delle iscrizioni di Ur-Nanse (costruzione di un tempio e fabbricazione di una statua), l'altra (il verso) con il resoconto della guerra (il primo documentatoci) contro «l'uomo di Ur» e «l'uomo di Umma». La guerra e la pace sono due facce della stessa medaglia. I Sumeri lo sapevano bene, come dimostra uno dei monumenti più celebri dell'arte mesopotamica, il e.cl. Stendardo di Ur, sulle cui facce sono rappresentati rispettivamente la partenza per una campagna militare e la gioia festosa della pace che segue alla vittoria. Del resto, stando al poema sumerico Enmerkar e il Signore di Aratta, sarebbe stato lo stesso Enki, il dio della saggezza, a introdurre la «contesa» (a-da) tra gli uomini. In Ur-Nanse 51, le attività militari e le opere di pace sono giustapposte (cioè raccontate le une dopo le altre o, meglio, indipendentemente, senza alcun nesso logico o narrativo) e in perfetto equilibrio (le une sul recto, le altre sul verso della lastra). In seguito, i due momenti dell'operato del sovrano saranno narrativamente combinati - per esempio, nelle soluzioni di perfetto equilibrio delle iscrizioni di Lugalkiginnedudu e di Ensakusanna di Uruk oppure prevarranno ora le attività del tempo di pace (in quasi tutte le iscrizioni pre-sargoniche da Lagas), ora la guerra (specialmente nelle iscrizioni di E'annatum di Lagas e in quelle dei sovrani di Akkad). Un elemento rimane costante per tutto il III mili., fino alla III dinastia di Ur: anche quando il resoconto di guerra sia ridotto al

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nummo o soppresso, l'iscrizione commemora generalmente diversi atti del governo del re (attività edilizie, opere di canalizzazione o di ingegneria idraulica, dediche, fabbricazioni di statue, misure socio-economiche, ecc.), cioè raccoglie diversi temi (perciò definiremo queste iscrizioni «politematiche», per opposizione con quelle «monotematiche»), secondo una logica e una sequenza di cui ci sfuggono le ragioni. Il passaggio dalle iscrizioni politematiche a quelle monotematiche, almeno fino al tempo di Gudea, è, in realtà, solo apparente e va piuttosto inteso come uno sviluppo dalla paratassi all'ipotassi: il tema principale viene espresso da una forma verbale finita (generalmente in fondo al testo), mentre i temi accessori (un tempo ~iustapposti al primo) sono ora incorporati o tra gli epiteti del sovrano o nel modulo circostanze (quelle in cui l'opera avrebbe visto la luce). Rispetto alle diverse tradizioni che si erano succedute o sovrapposte in passato, la struttura delle iscrizioni reali d'età paleo-babilonese viene concepita nel segno della sintesi: da una parte viene recuperata la ricchezza dei temi che era stata tipica dei tempi arcaici; dall'altra si afferma la tendenza, già iscritta negli sviluppi dell'età di Ur III, alla corrispondenza biunivoca tra tema e iscrizione (nel senso che un'iscrizione ospita uno e un solo tema o argomento), sia pure, talvolta, attraverso l'espediente sintattico dell'ipotassi (per cui alcuni temi accessori sono incorporati, mediante subordinazione, o tra gli epiteti del sovrano o nel modulo circostanze). Non mancano, è vero - come retaggio del passato -, casi di iscrizione politematica (Lipi-lstar 5, Hammu-rapi 7 e Jahdun-Lim , : fondazione di una città e scavo di un canale; Hammu-rapi 1, 2 e , .?., Samsu-iluna 2 e 3, Asduni-jarim I e 2: erezione di mura e scarn di un canale; Irisum I IO: iscrizione dedicatoria ed edilizia insieme). Prevale, però, la tendenza all'atomizzazione dell'originaria unità e circolarità del discorso. Da questa frammentazione scaturiscono diverse tipologie testuali: iscrizioni standard (generalmente su mattone); iscrizioni per l.1 costruzione di templi; iscrizioni dedicatorie (statue o doni di 1·aria natura); iscrizioni per la fondazione di nuove città-fortezze; iscrizioni per l'erezione di mura urbane (solitamente accompa-

gnate dal resoconto dello scavo del canale cittadino); iscrizioni per la costruzione di palazzi reali; iscrizioni per la realizzazione di opere di ingegneria idraulica (soprattutto apertura di nuovi canali); iscrizioni trionfali. Del tutto coerentemente con questi sviluppi, il tema arcaico delle misure socio-giuridiche, quando non sia inglobato nel modulo circostanze all'interno di altre tipologie di iscrizione, diventa autonomo e dà luogo a un nuovo genere (anche se il più antico esemplare noto risale in realtà ai tempi della III dinastia di Ur: il Codice di Ur-Namma o di Sulgi), quello dei codici di leggi paleo-babilonesi (che a buon diritto andrebbero pertanto inclusi, al pari di tutte le altre tipologie, nel genere iscrizione reale). La formula paleo-babilonese di iscrizione reale è esito in parte di scelte programmatiche, a carattere ideologico o politico, in parte dell'affermazione di tendenze culturali di lungo termine. Il recupero di tutti i temi tradizionali del genere si iscrive coerentemente nel nuovo programma della regalità paleo-babilonese, ben rappresentabile dalla metafora del re pastore (a fronte del re guerriero della dinastia di Akkad e del re pio dell'età di Ur m), che vuole il sovrano impegnato «in modo indefesso» in tutti gli aspetti della vita della comunità. Inoltre, già con la dinastia di Isin si afferma - contro il protagonismo e la rivendicazione di novità e primato assoluti dei re di Akkad e contro le scelte selettive dei dinasti di Ur (che, nel tentativo di cancellare quanto di nuovo era emerso al tempo della dinastia di Akkad, fecero appello alle tradizioni sumeriche più pure e più antiche, in particolare quelle di Uruk) - la tendenza al recupero (quasi antiquario) del passato tutto il passato - sumerico (tendenza evidente nell'opera di sistemazione e revisione della tradizione scritta, nonché nella compilazione della Lista Reale Sumerica, che pretende di risalire all'inizio assoluto della storia umana, cioè sumerica). L'epoca di Isin e Larsa vede anche la prima affermazione dell'idea di testo come brano di scrittura, ritagliato sì nel grande flusso della tradizione, tuttavia da quello indipendente (cioè dotato di una propria autonomia e ragion d'essere). Non a caso è questa l'epoca della prima sistematica redazione della letteratura sumerica (gran parte della quale doveva circolare prima solo attraverso il

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canale orale-aurale, senz'altro in una forma diversa da quella assunta nel processo di scrittura). L'idea di un testo autonomo e in sé coerente impose la scelta monotematica anche nella redazione delle iscrizioni reali. Il compilatore (meglio che autore, concetto quasi estraneo alla letteratura sumerica) non decide più - secondo principi di cui ci sfugge la logica - quali elementi del messaggio vadano depositati nella scrittura e quali taciuti, ma seleziona un tema (generalmente uno e uno solo: la costruzione di un tempio o di un palazzo, la fondazione di una città, l'erezione di mura, ecc.), che è insieme l'argomento centrale e la ragion d'essere del testo. La sistematica subordinazione di motivi accessori al tema centrale, mediante l'espediente sintattico della subordinazione (o per inserimento tra gli epiteti del re o per creazione di un modulo circostanze che assume, col tempo, un rilievo sempre maggiore), nonostante abbia dei precedenti isolati, assume consistenza e sistematicità solo in età paleo-babilonese. E non a caso. È questa l'epoca in cui la componente (culturale e linguistica) accadica, grazie ,mche all'ingresso di nuovi elementi semitici (gli Amorrei), facilmente assimilabili alla prima per maggiore affinità (rispetto alla già evanescente componente sumerica), soppianta definitivamente l'anima sumerica della civiltà mesopotamica (destinata a sopravvivere quasi solo nelle scuole, nelle cancellerie e nel culto). Il sumerico, lingua agglutinante, aveva espresso un linguaggio (non solo scritto, ma anche figurativo) basato sulla modularità (cioè sulla possibilità di scomporre il discorso in moduli) e sulla giustapposizione (da un punto di vista sintattico, sulla paratassi). Il linguaggio ,1ccadico (frutto di una lingua flessiva o fusionale) predilige invece gli effetti di sintesi e di subordinazione.' La differenza tra i due linguaggi è particolarmente evidente nelle arti figurative, dove si suole spesso confrontare due monumenti - la c.d. Stele degli Avvoltoi di E'annatum di Lagas e la Stele della \ 'ittoria di Naram-Sin di Akkad - come esemplari paradigmatici delle due culture, rispettivamente sumerica e accadica, che li hanno espressi. Dal punto di vista della sintassi, il primo dei due mon umcnti si fonda sull'opposizione tra le due facce della stele (l'una rnn il risvolto umano, l'altra con quello divino della guerra tra 1

Sull'argomento, si veda S. Seminara, SEL 18 (2001), pp. 1-26.

Lagas e Umma) e sulla successione o giustapposizione di registri tematici (marcia, assalto con carro, rituali funebri, ecc.); nella stele di Naram-Sin, invece, tutto lo scenario (gli dèi che assistono dall'alto, l'avanzata dei guerrieri di Akkad, la fuga disordinata dei nemici) è subordinato al motivo centrale dell'ascesa del re, che campeggia gigantesco al centro del riquadro, su per la montagna sulla quale fuggono i nemici vinti. Figlie del loro tempo, le iscrizioni reali d'età paleo-babilonese, anche se scritte spesso in sumerico, per la concezione del testo e per il linguaggio che vi sono sottesi, esprimono una cultura molto lontana da quella sumerica originale. VIII. GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELLE ISCRIZIONI REALI: MODULI E MOTIVI

Il testo delle iscrizioni reali (quelle, s'intende, d'età paleo-babilonese e, più in generale, nella fase di piena maturità di questo genere letterario) risulta dalla combinazione di alcuni moduli narrativi fissi, a ciascuno dei quali corrispondono, dal punto di vista del contenuto, uno o più motivi o topoi. Il nome del dio (generalmente accompagnato dai suoi epiteti) è un elemento importante delle iscrizioni reali - ma non assolutamente necessario. Esso viene espresso generalmente - visto il suo ruolo di ossequiato (o di una dedica o di un'opera edilizia) - in caso dativo. Lo schema classico delle iscrizioni edilizie («al dio x il re y ha costruito il tempio w») può essere sostituito dallo schema «il re y ha costruito il tempio w del dio x», dove il nome del dio è in caso genitivo. Quanto alla posizione del nome del dio nel testo, esistono due tradizioni. In quella meridionale esso occupa l'inizio del testo. La ragione non è né logica né sintattica (cioè non linguistica), bensì, per così dire, ideologica (il dio è, tra gli enti menzionati nell'iscrizione, quello di rango più alto) e quasi magica (metascrittura). Nella tradizione settentrionale, fondamentalmente assira, è invece il nome del re a occupare la posizione iniziale del testo. Nella maggior parte dei casi il nome del dio viene accompagna-

to da epiteti, quasi sempre tradizionali. Alcuni sono a tal punto connessi con la natura della divinità, da poterne sostituire il nome: Nunamnir e Kurgal per Enlil (rispettivamente legati alla sua «autorità», nam-nir, e al suo ruolo di signore del KUR); Asimbabbar (che ha a che fare con la «candida luminosità», babbar) per il dioLuna Nanna; Nudimmud (dove dim significa «plasmare») per il dio demiurgo per eccellenza, Enki/E'a. Come già anticipato sopra, la presenza del nome del re è la condizione necessaria (ma non sufficiente) per l'assegnazione di un testo al genere iscrizione reale. In questo la tassonomia moderna concorda con quella antica, dal momento che la più classica tra le designazioni sumeriche per il genere, mu-sara (passata poi per calco all'accadico come musaru), letteralmente «nome (mu) scritto (sara)», sembra alludere proprio al nome del re. Non desta meraviglia, pertanto, che le iscrizioni reali più arcaiche constano del solo nome del sovrano. Siccome nella mentalità mesopotamica il nome non designa semplicemente, ma è l'essenza della cosa - nel senso che coincide sostanzialmente con le sue qualità e con le sue possibilità di sviluppo - ben si capisce che quanto più alto è il rango dell'ente nominato, tanto più complesso e strutturato è il suo nome, quanto più mobile è il primo, tanto più complicato e flessibile è il secondo, e così via. Quest'espansione del nome - che però, anche quando ce ne restino oscure le ragioni, è inseparabile dalla sostanza dell'ente che ne è designato - è ciò che viene generalmente definito, in riferimento al nome del sovrano, «titolatura regale». Accade assai raramente che i nomi dei sovrani mesopotamici, nelle loro iscrizioni reali, non siano accompagnati dalla titolatura (l'unica eccezione nel corpus delle nostre iscrizioni è rappresentata da Temti-Agun 1a, non a caso dall'Elam, nella periferia mesopotamica). I titoli decodificano o rendono esplicito quanto è implicito nel nome del re, quindi la sua essenza, cioè la sua natura (ad es. la sua forza, la sua pietà, la sua condizione divina, le sue opere, ecc.), il suo passato (generalmente patronimico ed elezione divina), il suo

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presente (ad es. l'estensione dei suoi domini) e il suo futuro (cioè le sue aspirazioni e i suoi programmi politici). Per questo la titolatura non è mai arbitraria, ma standard (o canonica); per questo, però, deve essere anche flessibile, cioè suscettibile di modificarsi in relazione al mutare delle condizioni e degli eventi. I titoli andavano dunque meritati sul campo, dovevano testimoniare fedelmente il reale potere e le effettive realizzazioni del sovrano (non importa quanto fossero ideologicamente amplificate) o almeno le sue ambizioni. Nella sua formulazione più estesa, la titolatura dei sovrani d'età paleo-babilonese comprende tre parti fondamentali: 1. le qualità e le prerogative del re (ad es. la forza e la pietà verso gli dèi), talvolta (come ad es. in Samsu-iluna 8) ampliate, per ipotassi, con gli epiteti che lo descrivono come vincitore sui nemici; 2. una sorta di mappa politico-cultuale del regno, a sua volta (almeno a Isin, Larsa e Babi1onia) suddivisa in due parti, di cui la prima elenca le città più prestigiose del regno. Talvolta i toponimi sono sostituiti, o accompagnati, dal nome della divinità poliade della città o da quello del suo tempio (ad es. accanto o in luogo della città di Nippur si possono trovare o il dio Enlil o il suo tempio, l'Ekur). La seconda parte della mappa è invece a carattere più propriamente politico. L'estensione dei domini del re vi viene descritta per ambiti via via crescenti: prima la capitale del regno (Isin, Larsa, Babilonia, Assur, ecc.); quindi, per i soli sovrani di dinastie egemoni, l'ambito regionale («Sumere Akkad», vale a dire la Mesopotamia propriamente detta, o «la terra fra il Tigri e l'Eufrate», in ~amsi-Adad 1 1), poi quello universale («re della totalità» o «re delle quattro parti del mondo», consueto solo a Babilonia). 3. La terza parte della titolatura regale è quasi invariabilmente rappresentata da quelli che proponiamo di definire «epiteti di legittimità». A Isin gli epiteti del sovrano sottolineano il suo legame con la dea lnanna/lstar. In questo modo, i dinasti di lsin, che rivendicavano, attraverso Ur, l'eredità dei Sumeri, intendevano espressamente recuperare la più antica e prestigiosa tradizione sumerica della regalità. Stando alle testimonianze letterarie d'età successiva (a cavallo tra III e II mili.) e alle poche conferme coeve (di natura per lo più iconografica), sembra infatti che nella Uruk degli inizi

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del III mili., la massima autorità dello stato, designata con il titolo en, fosse scelta direttamente dalla dea !nanna perché fosse il suo gran sacerdote e il suo sposo. L'unione veniva consumata, forse periodicamente, in un vero e proprio rito detto del «matrimonio sacro» (o delle «nozze sacre»), durante il quale forse la grande sacerdotessa di !nanna faceva le veci della dea. Il centro della titolatura è rappresentato dal termine o dai termini - i titoli, appunto - che designano il tipo di autorità di cui è investito il regnante. La titolatura reale d'età paleo-babilonese può a buon diritto definirsi «tradizionale», in quanto quasi tutti i titoli affondano le loro radici in altrettante fasi tradizionali della storia mesopotamica. Tre sostanzialmente sono i titoli che designano la sovranità nella Mesopotamia del III mili.: en, ensi (in accadico issi'akkum) e fugal (accadico sarrum).' In realtà, nessuno dei tre può essere a buon diritto tradotto con «re» (che è termine storicamente troppo connotato).' Anche se tutti e tre i termini designano la sovranità nella persona della suprema autorità del governo, essi differiscono sostanzialmente per etimologia, significato, epoca, distribuzione geografica, per il modello di potere al quale ciascuno fa riferimento. Il termine en, il più arcaico, designava in origine il capo umano (una sorta di re-sacerdote) di Uruk, scelto dalla dea !nanna (secondo il principio elettivo, dunque) per esserne lo sposo. In età pab1-babilonese, en o designa un titolo puramente sacerdotale o è un epiteto per divinità o, seguito dal toponimo Uruk, viene assunto nella titolatura regale (specialmente a lsin). Il termine fugai (letteralmente «uomo grande» o «grande tra gli uomini») è attestato per la prima volta come antroponimo in una lista di assegnazioni dell'epoca di Uruk mb e, come titolo, in una iscrizione di Mebarasi di Kis. A Ebla i fugai sono funzionari su' i\ dire il vero, nelle più antiche liste di professioni documentate (la c.d. ED lu A d,1 Uruk e la Lista delle Professioni) compare il solo en, ma sempre in associaziolll' rnn altri termini (ad es. en-nun, en-é-hi-nun, ecc.) e comunque mai in posi1iu11c iniziale. Questa è invece occupata rispettivamente dai logogrammi namesda I fursc «signore della mazza•) e unken (•assemblea•). La traduzione tradizionale di lugal/sarrum è esito, in realtà, della meccanica ,ipplicazione delle equivalenze documentate nelle liste lessicali: fugai = sarru = 11 1,dku =miila!J =basileus = rex =re (D.O. Edzard, RAI 19, pp. 141-149).

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bordinati all'en. A un certo punto il modello di potere designato con il termine fugai deve aver soppiantato il più arcaico en, imponendo una nuova concezione della regalità (personalistica, dinastica, guerriera, come dimostra anche l'associazione tra fugai e iscrizioni reali). Come si evince dai e.cl. kudurru del III mili., fugai (a prescindere dal significato per così dire etimologico) designa il «proprietario» (umano o divino) di un immobile o di una città (donde la nostra traduzione con «re»). Il titolo ensi (il cui logogramma, PA.TE.SI, significa forse «colui al quale si addice il bastone» del comando)' in epoca storica designa la sovranità nella sola città di Lagas, in concorrenza con fugai (alcuni sovrani portano il titolo fugai,' altri ensi).J Nei grandi centri politici d'età paleo-babilonese, quelli collocati all'esterno della Babilonia propriamente detta, continua a lungo la tradizionale titolatura del tempo della loro sudditanza a Ur: ensi/ issi'akkum a Esnunna, a Susa (accanto a sagina e sukkal) e ad Assur; sagina/sakkanakkum a Der. Il titolo lugal/sarrum viene invece riconosciuto al dio poliade: il dio Assur in Assiria, Tispak a Esnunna, lstaran a Der (e, implicitamente, lnsusinak a Susa). 4 Anche qui, però, in seguito a grandi successi politico-militari o all'affermarsi di programmi più ambiziosi, si assiste a una sorta di amplificazione della titolatura, che culmina con l'assunzione del titolo «re» (fugai). Infine, la periferia si divide tra capitribù d'origine amorrea (Diniktum, Mutah'.ì, Me-Turran, Batir), che si accontentano del modesto titolo di «capo» (rabianum) e signori dalle grandi (anche se spesso infondate) ambizioni politiche e dall'altisonante titolatura (i «re» di Mari, Malgium, Sadlas, Lullubum, Simurrum, Hana, Hursitum, della dinastia di Manana). Anche gli epiteti, come i titoli, servono a qualificare la persona del re e il suo governo. Da un punto di vista formale, un epiteto può essere rappresentato da un semplice attributo, da un'apposizione nominale (più o Th.Jacobsen, AuOr 9 (1991), pp. 113-121. Il primo (Ur-Nanse) e l'ultimo (Urukagina). J E'annatum, però, in due casi assume anche il titolo lugal. 4 Donde la nostra traduzione •vicario» per ensi. 1

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meno complessa) o da un'intera proposizione verbale subordinata (s'intende, al nome del re). Dal punto di vista del contenuto, gli epiteti, ancor più dei titoli (per il fatto di essere personali e non dinastici, a differenza di quelli) sono rappresentativi del programma politico, delle aspirazioni e dell'ideologia di ciascun sovrano, più raramente delle loro effettive opere e realizzazioni. Appartengono a quest'ultima tipologia gli epiteti del tipo «costruttore del tal tempio», nel genere iscrizione standard a carattere edilizio. In Mesopotamia, al contrario che in Egitto, il sovrano non è un dio, bensì semplicemente il suo rappresentante in terra. Per questo, i rari episodi di autodivinizzazione del sovrano furono avvertiti come fatti di straordinaria audacia e, il più delle volte, di empietà. Il primo sovrano mesopotamico a divinizzarsi fu NaramSin di Akkad e il suo esempio fu poi seguito dai re della III dinastia di Ur, a partire da Sulgi. Dai dinasti di Urla divinizzazione fu trasmessa in eredità ai sovrani di Isin, che in tal modo intendevano rafforzare il diritto alla successione di quelli. Al contrario di quanto era avvenuto all'epoca di Naram-Sin e di Sulgi, a Isin la divinizzazione del re non lasciò tracce consistenti né nel culto né nella letteratura. Le sue uniche manifestazioni sono l'associazione del determinativo divino (dingir, qui reso nelle traduzioni con «divino») al nome del re e le allusioni alle sue nozze sacre con la divinità femminile (I nanna).' Altrove, l'assunzione del determinativo divino sembra essere l'esito di iniziative isolate da parte di sovrani particolarmente ambiziosi, che intendevano così avallare l'avvio di una nuova politica di potenza (il più delle volte in aperta rivalità con Isin). L'autodivinizzazione, pertanto, sembra essere connotata più in senso politico-religioso che non teologico-cultuale. Strettamente associata al nome del re è la menzione della sua divinità personale o tutelare. Questa viene designata mediante le apposizioni «il suo (cioè: del sovrano) dio» (o «la sua dea» o, nelle , Questa inconsistenza delle fonti fece pensare a F.R. Kraus (RAI 19, pp. 235261) che all'epoca di !sin le nozze sacre fossero una mera finzione letteraria e che

la divinizzazione del re non andasse intesa in senso teologico, bensì come un segno di altissimo onore.

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iscrizioni in prima persona, «il mio dio») e «il dio suo creatore» (che poi, per incomprensione della grafia sumerica sag-dug 4 e sua conversione nella quasi omofona sag-du, «testa», divenne «il dio della sua/mia testa» nelle iscrizioni in lingua accadica). Poiché il sovrano mesopotamico non è un dio (se si fa eccezione dei rari casi di autodivinizzazione), bensì il suo rappresentante in terra, quindi un uomo (anche se gerarchicamente al di sopra di tutti i suoi simili), particolarmente urgente fu, da sempre, il problema della sua legittimità. In età paleo-babilonese, il principio dominante è quello dinastico, proclamato mediante la menzione del patronimico. In particolare, nell'Elam, al semplice patronimico succede il titolo «figlio della sorella di Silhaha (o di Siruktuh)». A Esnunna il patronimico compare nelle iscrizioni reali contemporaneamente alla riforma della titolatura e all'assunzione del determinativo divino da parte del sovrano (quindi sotto Ipiq-Adad u), alla cui scomparsa (esito delle periodiche eclissi del potere politico) sopravvisse. Soltanto in Assiria e in Babilonia, il semplice patronimico può essere sostituito dalla genealogia del sovrano (che copre un numero variabile di generazioni). Nelle iscrizioni reali di Isin la clausola finale della titolatura altrove occupata dal patronimico e dalla genealogia - è destinata a esprimere lo speciale rapporto tra il sovrano e la dea !nanna. Questo rapporto dovrebbe da una parte legittimare il sovrano, dall'altra giustificarne le pretese di impero universale. Il re è «lo sposo amato da !nanna», «colui che !nanna s'è portata al cuore», «lo sposo che !nanna ha chiamato al cuore», «lo sposo che !nanna ha guardato diritto negli occhi», «adatto alla funzione di en e degno di !nanna», «lo sposo amato di cuore da !nanna, degno del letto splendente». Raramente può accadere che il favore di !nanna sia sostituito (Enlil-bani 6) o accompagnato (Zambija 1) da quello di Enlil e Nininsina («amato da Enlil e Nininsina» ), rispettivamente il capo del pantheon e la dea poliade di lsin {la capitale del regno). Ibrida {tra il patronimico e la tradizione di Isin) sembra la soluzione di legittimità adottata da Anam (1-5), re di Uruk (dove altrimenti vige il principio dinastico, espresso mediante il patronimico), il quale si definisce «amato figlio di !nanna».

La maggior parte delle iscrizioni reali esordisce o con il modulo del dio ossequiato (in caso dativo) o, soprattutto in Assiria, con quello del sovrano artefice (in caso ergativo o nominativo, secondo che la lingua dell'iscrizione sia rispettivamente il sumerico o l'accadico). In alcuni casi, però, l'esordio tradizionale può essere preceduto da un modulo narrativo, deputato al resoconto degli eventi che precedettero l'esecuzione dell'opera commemorata nel1' iscrizione. Questi eventi hanno generalmente come teatro il cielo e come protagonisti gli dèi. Il prologo celeste consta di un copione narrativo fisso e tradizionale: i grandi dèi del pantheon (in genere An ed Enlil oppure il solo Enlil, arbitro del mondo abitato dagli uomini) decidono di assegnare alla città, quella che di volta in volta fa da teatro all'opera, un ciclo (baia) di prosperità e ne affidano le redini a colui che è predestinato a esserne il futuro sovrano. Prima che i lavori fossero effettivamente avviati, era necessario che il sovrano, dopo la designazione e l'incarico divini, preparasse il proprio regno, con una serie di misure che noi collocheremmo a metà tra l'ambito sociale e quello cultuale, ai grandi destini che l'attendevano. L'idea era che la città dovesse dimostrarsi «degna (du 7)» di ospitare la casa del dio e si presentasse pertanto come una sorta di prefigurazione terrena della città ideale. Le iniziative e gli atti di governo dei sovrani miranti a migliorare le condizioni di vita dei sudditi e in generale lo stato del regno occupano uno speciale modulo delle iscrizioni reali d'età paleo-babilonese, collocato per lo più dopo il prologo celeste e prima del resoconto dei lavori. Le misure dei sovrani a favore dei sudditi sono in parte di tipo sociale, in parte economiche, politiche, morali. L'opera del sovrano nulla ha di casuale, ma prende avvio in un preciso momento della storia della città e del cosmo, quello descritto, nelle iscrizioni reali, dal modulo circostanze. Esso è facilmente riconoscibile grazie alla fissità dello schema narrativo sul quale è costruito: è infatti sempre introdotto da una congiunzione temporale (ud---a in sumerico, inuma in accadico) ed è concluso dall'avverbio «allora» (ud-ba in sumerico, inumisu in accadico), con il quale si apre una nuova sezione di testo. Le circostanze (una o più) che fanno da cornice all'opera del

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sovrano possono essere di vario tipo: le misure socio-economiche, come il ripristino dell'ordine o della giustizia, ovvero abolizione di tributi o esenzione da tasse; l'allusione a eventi cerimoniali riconducibili alla sfera del culto; il resoconto delle grandi iniziative edilizie o ingegneristiche del sovrano; il racconto dei trionfi militari del sovrano; il prologo in cielo; il favore del dio per la città; la scelta divina del re; la commissione divina dell'opera; la preghiera del re e l'esaudimento; i preparativi dell'opera, vale a dire il reperimento dei materiali; gli scopi dell'opera; l'elogio del buon regno. Il modulo circostanze è un elemento essenziale della struttura delle iscrizioni reali (anche quando, per la particolare concezione sumerica del testo, resti inespresso nella scrittura), in quanto vi vengono descritte le condizioni necessarie all'avvio dell'opera da parte del sovrano. Il primo atto era avviato dal favore di Enlil (da solo o accompagnato da An), dal momento che si credeva che solo gli dèi potessero accordare e poi ineluttabilmente revocare a una città (quella di volta in volta prescelta) il suo ciclo (baia) di prosperità. Parimenti necessaria era la commissione dell'opera da parte del dio, che si credeva dettasse al sovrano il piano dei lavori fin nei minimi dettagli. Era assolutamente vietato al sovrano agire di propria iniziativa, senza consultare gli dèi. Il grande Naram-Sin, re di Akkad, che si era macchiato di tale hybris, era stato condannato all'eterna riprovazione nella letteratura (Maledizione di Akkad). Su un piano più propriamente umano, non meno necessaria era la guerra, almeno per due ordini concorrenti di ragioni. Da un punto di vista pratico, la guerra (insieme ai commerci) era l'unico mezzo con cui la Mesopotamia, povera di materie prime (in particolare di legname e pietre), poteva acquisire i materiali necessari alla realizzazione delle grandi opere pubbliche. Dal punto di vista ideologico, la guerra era lo strumento con il quale le genti estranee al mondo sumerico, ignare dei veri dèi e pertanto incivili (ovviamente dal punto di vista mesopotamico), venivano convertite all'unica forma possibile di civiltà e le loro ricchezze destinate a scopi utili (per questo a essere consacrati agli dèi nei templi mesopotamici erano soprattutto i frutti del bottino di guerra). Le ragioni per la realizzazione di un'opera non sono solitamente espresse nelle iscrizioni reali più arcaiche, probabilmente per-

ché implicite nell'ordine immutabile delle cose. Anche in età paleo-babilonese vi si allude solo episodicamente in alcuni testi isolati. Le ragioni addotte sono generalmente il favore di una divinità (Ammi-~aduqa 2001) o l'esaudimento della preghiera del re (Warad-Sin 24). Spesso il favore o l'esaudimento del dio si traducono in una non meglio precisata assistenza al sovrano (lrisum 1 1, 2, 14) o nel suo soccorso in guerra (Warad-Sin 26, Jahdun-Lim 2, Ilum/ Anum-muttabbil 2). In questi casi, l'attività edilizia del re viene presentata come una sorta di ringraziamento alla divinità benefattrice. In lpiq-lstar 1, i lavori di restauro all'Enamtila si rendono necessari a seguito dell'oltraggio subito dal tempio. In Temti-Agun 1a, il tempio costruito deve ospitare alcune statue prive di una collocazione fissa. Questi due ultimi casi potrebbero essere fatti rientrare nel motivo storia dell'opera, anche questo una novità dell'epoca paleobabilonese. Vi si raccontano le precedenti vicende dell'opera, attraverso una serie di motivi stereotipi: lo stato di oblio e di rovina in cui l'opera versava, di solito «da tempi immemorabili», prima dell'intervento del nuovo sovrano; più raramente (lpiq-lstar I e Arik-den-ili 1), gli oltraggi subiti dall'edificio per mano degli uomini; lo stato (Rim-Sin 1 15), le funzioni (Assur-uballii 1 3) o la collocazione (Enlil-bani 11) precedenti; specialmente in Babilonia e in Assiria, vengono spesso nominati o il primo o l'ultimo artefice dell'opera. Come ha delle cause, da collocare nel passato, così l'opera risponde a determinati scopi, la cui realizzazione viene prospettata nel futuro (cioè in seguito e come effetto della conclusione dei lavori). Anche il modulo scopi dell'opera è una novità paleo-babilonese nel genere iscrizione reale. Gli scopi variano essenzialmente sulla base del tipo di opera (e, conseguentemente, della tipologia testuale). Non manca, poi, anche se meno rilevante, una variabilità a carattere locale. Lo scopo di tutte le dediche è la vita del dedicante, generalmente il re. La «lunga vita» (per il re, per il dedicante e per i suoi parenti) è anche lo scopo degli omaggi agli dèi da parte di funzionari e familiari del sovrano. La vita del sovrano è anche lo scopo ultimo della fabbricazione di statue votive. Sisteinate nel tempio, al cospetto del simulacro della divinità, esse ave-

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vano dichiaratamente il compito di sostituirsi alla persona del sovrano nella preghiera al dio (Ur-Ninurta 2), al fine di celebrarne le lodi (Sin-iqisam 1) e di perorare per la sua vita e per il suo benessere (Abi-sare 1 ). In ossequio alla concezione mesopotamica della speculare corrispondenza tra macro- e microcosmo, ogni opera del sovrano viene considerata come l'esito dell'equilibrato concorso di forze divine e umane (che sono gli strumenti dell'opera). Più esattamente, il sovrano continua l'azione demiurgica degli dèi nel cosmo, facendosi esecutore della volontà divina. Nelle iscrizioni reali, all'enumerazione degli strumenti dell'opera del re è destinato un apposito modulo narrativo, normalmente caratterizzato dalla posposizione (sumerica) del caso ablativo-strumentale /ta/ (cui corrisponde in testi accadici la preposizione ina). Gli strumenti che rendono possibile l'opera del re sono quasi sempre d'origine divina. Quelli più comuni sono I' «intelligenza» e «la sapienza» o «le orecchie da saggio», di cui a volte si specifica che sono un dono del dio Enki al re. Altri strumenti dell'opera del sovrano sono: il comando (o la commissione) divino; la preghiera del re al dio; la benevolenza (o l'amore) della divinità per il re; il molteplice (e multiforme) concorso di più divinità; la «forza» prestata dal dio al re. Raramente si fa riferimento a strumenti puramente umani: il «trionfo» del re; la «forza» sua o del suo esercito. Se gli strumenti del sovrano sono per lo più d'origine divina (forse anche quando questa non sia esplicitamente menzionata), i preparativi dell'opera sono approntati quasi per intero in ambito umano. Da sempre, in Mesopotamia - il cui suolo era pressoché privo di materie prime da costruzione (in particolare pietre, legname, metalli) - il momento più impegnativo dei preparativi dell'opera consisteva nell'acquisizione dei materiali. Pertanto, questa sfera dell'operato del sovrano - alla quale si creò una sorta di preistoria mitica (basti pensare al poema Gilgamei nella Foresta dei Cedri, dove il leggendario re di Uruk penetra per la prima volta nella foresta, ricca del prezioso legname, aprendo idealmente la via ai suoi futuri successori) - era stata sempre particolarmente enfatizzata nelle iscrizioni reali. Soprattutto nella realizzazione di grandi opere architettoniche, in età paleo-babilonese altri tipi di

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preparativi acquistano rilievo: il reclutamento della manodopera, lo sgombero dell'area su cui insisterà il nuovo edificio, la demolizione delle strutture precedenti e, in particolare, la preparazione dei mattoni. Comunque vada inteso, quello delle iscrizioni reali è un mess,1ggio tutto contesto di riferimenti ideologici e religiosi. Per questo, pur essendo incentrato sulla costruzione di edifici o sulla fabbricazione di oggetti di culto, è singolarmente avaro di dettagli tecnici (o, meglio, questi sono risolti nel lessico delle iscrizioni stesse, in particolare nei due verbi «costruire» e «fabbricare»). Pochi sono gli esemplari d'età paleo-babilonese in cui vengano forniti dettagli sull'esecuzione tecnica dell'opera in un apposito modulo narrativo (descrizione dei lavori). Il sovrano elamico Idaddu II (iscrizione A) si vanta di aver restaurato il tempio Ekikununna, non riparando semplicemente con bitume il vecchio alzato delle pareti (come forse - pare di capire dalle sue parole - era stata consuetudine in passato), ma innalzandone delle nuove in mattoni cotti; Irisum 1 (10) scrive di aver spalmato uno strato di burro e micie tra una fila di mattoni e l'altra; Rim-Sin 1 (15) descrive in ordine cronologico tutte le fasi dello scavo di un canale: il disegno del canale stesso, il reclutamento della manodopera, l'erezione di due dighe alle sue sorgenti per renderne più spedito il corso; nel r.1econto di Samsu-iluna (8), la descrizione dell'erezione di una cint.1 muraria procede dal basso verso l'alto: lo scavo dell'alveo, l'innalzamento di un terrapieno, la preparazione dei mattoni e la costruzione delle mura fino alla merlatura. A volte - e nelle sole iscrizioni per la costruzione di templi - un modulo può fornire dettagli sugli clementi dell'arredamento dell'opera: per lo più porte, ma anche statue o figure apotropaiche. Altri clementi dell'arredamento erano la decorazione del tetto e l'intonaco delle pareti. In Nur-adad 6, a lavori ultimati, vengono introdotti nel tempio il trono, lo stendardo e il tesoro del dio; in lrisum r r 3, due tini per la preparazione della birra; in Ipiq-lstar 1 1·i viene piantato un giardino. Una novità quasi assoluta delle iscrizioni reali paleo-babilonesi rispetto alla tradizione del genere è la descrizione dell'opera. A es-

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sere descritti sono per lo più gli oggetti consacrati alla divinità. La descrizione insiste sui materiali, specialmente quando siano preziosi; sulle dimensioni; sulla funzione; sugli intarsi o sulle decorazioni; solo in caso di statue, sulla posizione e sull'attitudine. Assai più rara è la descrizione di templi e di altre strutture cultuali. La descrizione dell'opera viene talvolta accompagnata o seguita da un'appendice in cui il re (o l'artefice) afferma il primato della propria realizzazione su quelle di quanti lo avevano preceduto. Il primato consiste per lo più nell'ampiezza dell'opera, nella sua grandezza, in caso di mura, nella sua altezza, nell'inaccessibilità della sua posizione (Jahdun-Lim I si vanta di aver costruito per primo una città in mezzo al deserto), nella novità dell'iniziativa (Sin-iddinam I o afferma che il restauro da lui realizzato non era mai stato avviato «dalla notte dei tempi»; Zimri-Lim 3 dice di essere stato il primo a far allestire una ghiacciaia sulle sponde dell'Eufrate) o dei materiali impiegati (la diorite per un vaso in Rim-Sin 1 23; argento e cornalina per una statua, in Abi-sare 1). Jahdun-Lim (2) si vanta di essere stato il primo tra i suoi predecessori ad aver raggiunto le sponde del mare (il Mediterraneo) e ad avervi tagliato alberi di cedro e bosso. Non si trattava di pura vanagloria né di irriverenza verso i predecessori. Nell'immaginario mesopotamico convivono due diversi prototipi di regalità: da una parte, il custode dell'ordine cosmico stabilito una volta per sempre dagli dèi al momento della creazione originaria; dall'altra, il re-eroe, che continua e aggiorna, con le proprie realizzazioni, l'azione demiurgica degli dèi. Quest'ultima immagine della regalità si era andata affermando in Mesopotamia sotto i dinasti di Akkad, un'epoca di grandi e decisive trasformazioni rispetto al passato, di voluta rottura con la tradizione, di straordinario ampliamento degli orizzonti politici e geografici. In alcune iscrizioni reali da Larsa e da Babilonia, al modulo descrizione dei lavori si accompagna la dichiarazione - non priva di un certo orgoglio - che l'opera è stata realizzata con la massima rapidità (motivo del vanto della brevità dei tempi di realizzazione dell'opera): «in un (solo) anno» o in un arco di tempo ancora più breve («entro il 5° mese di regno» in Warad-Sin 21; «in due mesi» in Samsu-iluna 5 e 8).

La descrizione dei lavori si conclude spesso con un'allusione all'iscrizione stessa o al suo supporto (riferimento interno al testo). Lo scopo dichiarato dei depositi di fondazione è la gloria postuma del sovrano (Nur-Adad 7; Warad-Sin 22; Rim-Sin I 15, 20). Come apprendiamo dal Cilindro B di Gudea (1 20 - VI 23), i lavori di restauro del tempio si concludevano con il complesso cerimoniale dell'insediamento del dio (o, meglio, del suo simulacro). Per la prima volta nella storia del genere, le iscrizioni reali di età paleo-babilonese danno voce a questo momento fondamentale della vita della comunità. Poiché le statue erano considerate manifestazioni della persona rappresentata e come tali andavano quotidianamente nutrite, sia ,11le statue votive sia al tempio - in quanto dimora del simulacro del dio - erano destinate offerte alimentari regolari (sa 12 -dug 4 ). Nella concezione mesopotamica della realtà, il nome non designa semplicemente, ma è la cosa. Quindi, condizione ineliminabile di ogni forma di esistenza è l'avere un nome. Per questo, ogni creazione si conclude con un atto di «nominazione». Una sezione speciale (o modulo) delle iscrizioni reali è destinata a ospitare il nome dell'opera. Esso, oltre alla funzione identificativa connaturata a ogni nome, doveva servire in parte a dare animisticamente' esistenza all'ente nominato, in parte (almeno nel caso di omaggi agli dèi) a rafforzare l'aspettativa di una ricompensa divina.' A conclusione del resoconto dei lavori può trovarsi un modulo che ne rappresenta una sorta di ampliamento, dedicato alla descrizione degli effetti positivi dell'opera sul regno, sulla comunità e sull'intero universo. Una novità assoluta delle iscrizioni reali d'età paleo-babilonese è l'introduzione delle tariffe dei salari (in primo luogo quelli degli operai che avevano preso parte ai lavori) o delle t.1bclle dei prezzi correnti (ma forse sarebbe più opportuno dire ··ideali») ovvero di entrambe (Nur-Adad 7 e Sin-iddinam 6). Entrambi i moduli dovevano concorrere a celebrare la generosità e il \cnso di giustizia del sovrano (anche se è difficile comprendere il 1

I.J. Gelb, Names, pp. 65-69. D.O. Edzard, RIA 9 (1998), p. 100, s.v. Name, Namengebung. A.

senso dell'uno, ove sia separato dall'altro - e questo, come visto sopra, è il caso più frequente). L'opera, realizzata dal sovrano per la divinità con tanta profusione di sforzi e di mezzi, reclama sempre un premio. Talvolta quest'aspettativa prende corpo nel testo dell'iscrizione, in un apposito modulo (buoni auspici per il futuro), collocato generalmente alla fine (dopo il modulo esito positivo dell'opera e prima di quello maledizioni, ove sia presente). Al primo posto tra i doni richiesti dal sovrano è quasi sempre la vita. Il secondo degli auspici espressi dal sovrano riguarda, quasi senza eccezioni, il proprio «regno (baia)» (cioè il periodo di esercizio della sovranità), che deve essere «eterno», «lungo», «prospero (du, 0 )», ecc. Al terzo posto, tra le premure dei sovrani dell'epoca, veniva la stabilità di governo. Anche la felicità, spesso legata all'abbondanza, ha un ruolo importante nei desideri dei re. Alla morte del suo artefice, l'opera restava esposta a mille rischi. Le minacce dall'interno non erano meno gravi di quelle esterne. L'opera poteva essere distrutta, mutilata' o deportata da conquistatori (oppure, più raramente, da nemici interni, per esempio nel caso di tormentati cambi dinastici); oppure «spostata», cioè relegata nei magazzini del tempio o allontanata in altro modo dagli occhi e dalle orecchie della divinità; oppure potevano essere tagliate o del tutto revocate le offerte destinate dall'artefice; poteva inoltre accadere che i re facessero cancellare l'iscrizione fatta incidere sull'opera dall'artefice originale per apporvene un'altra, allo scopo di appropriarsene la paternità. Poco fiduciosi nel senso di pietà dei loro simili (soprattutto dei loro successori), i sovrani mesopotamici affidavano la salvaguardia delle proprie opere alle parole dell'iscrizione che vi facevano incidere sopra. Non si dimentichi, infatti, che in Mesopotamia la parola ha efficacia performativa (noi diremmo «magica»), nel senso che pone in essere la realtà o meglio, nel caso degli uomini, quanto è iscritto nell'ordine naturale (cioè d'origine divina) delle cose (in questo caso, la ricompensa per i pii, la punizione per sacrileghi e profanatori). La parola protegge quindi l'iscrizione e, attraverso essa, l'opera, quindi, inultima analisi, se stessa. , B. Kaim, Fs Cagni, pp. 515-520.

Varie erano le strategie messe in atto dai sovrani mesopotamici nelle loro iscrizioni a difesa dell'opera. L'artefice si rivolge sempre al futuro responsabile della comunità (e quindi anche delle sorti della propria opera), che sia il sovrano o un alto sacerdote di vario rango (secondo una casistica tradizionale, spesso presente nelle iscrizioni). Quest'ultimo può essere semplicemente ammonito oppure benedetto o maledetto secondo d1e il suo comportamento nei confronti dell'opera (e indirettamente anche del suo artefice) sia rispettoso o irriverente. In età paleo-babilonese, le prime due strategie - monito a un re futuro e benedizioni a un re futuro - sono una caratteristica quasi esclusivamente assira (se si fa eccezione di due esemplari da Larsa: Abisare I e Sin-iqisam 1). I due moduli narrativi che vi corrispondono precedono generalmente le maledizioni. Queste prevalgono in\'CCe altrove. li deterrente più comune contro ogni forma di oltraggio o vandalismo ai danni dell'opera era rappresentato dalla maledizione (as/J,il in sumerico, arratum in accadico). Documentata, oltre che nel genere iscrizione reale, anche in trattati e testi della pratica amministrativa, la maledizione è un'espressione tipica della mentalità mesopotamica. Si tratta di una formula, in cui, nella forma di un periodo ipotetico (del tipo «se uno commette il tale crimine, possa ,ubirne la tale pena»), si invoca ogni sorta di punizioni divine a L·,1rico del trasgressore (di un patto, scritto o non). Emersa contemporaneamente alle prime stele di confine - forse allo scopo di tutelarle da eventuali trasgressori' -, la maledizione resterà applirata quasi esclusivamente a statue e stele. Il bersaglio della maledii ione - che generalmente conclude il testo - è chiunque violi o l'opera o l'iscrizione che vi è incisa (essendo quest'ultima deposit.1ria del nome dell'artefice). L'artefice invoca sul trasgressore la punizione degli dèi, chiamandone alcuni a decretare la maledizione (spesso ciascuno nel proprio ambito di dominio, cioè Enlil per il potere sovrano, EnkifE'a, dio delle acque, per l'abbondanza, e rosì via), altri (in genere quelli di rango inferiore) a renderla esenniva «per l'eternità». Poiché il crimine è rivolto contro il «no•nc» dell'artefice, secondo la legge dell'analogia (alla quale è ispih·.111kc,

Konigsinschriften, pp. 210-213; Eadem, Fs Sjoberg, pp. 177- 180.

rata gran parte della giurisprudenza mesopotamica), a essere colpito dalla maledizione sarà innanzitutto il nome del trasgressore (con tutti i valori che vi sono collegati): la vita, la discendenza, il regno, il benessere del suo paese, il diritto di sepoltura, il successo in guerra, la virilità, l'integrazione familiare e sociale, la prosperità materiale. IX. STRUTTURA E DINAMICA DELLE ISCRIZIONI REALI

Gli elementi costitutivi delle iscrizioni reali analizzati nel capitolo precedente, combinandosi in schemi sintattici di volta in volta diversi, danno luogo, congiuntamente alle differenti scelte lessicali, ad altrettante tipologie testuali: iscrizioni standard (costituite dal solo modulo del nome del re con i suoi titoli ed epiteti), iscrizioni edilizie (introdotte in genere da antefatto e circostanze, modulo del dio in dativo, verbo di «costruire» o «restaurare»), iscrizioni dedicatorie (modulo del dio al caso dativo in testa, dedicante in caso ergativo o nominativo, verbo di «dedicare»), e così via. Oltre che dal pluralismo delle tradizioni locali, la fissità degli schemi strutturali - che proprio in età paleo-babilonese raggiungono il massimo di standardizzazione e di canonicità - può essere turbata da diversi fattori di variabilità. Alcune iscrizioni (come già anticipato sopra) sono, dal punto di vista del contenuto, politematiche, nel senso che al tema principale - che può essere o la costruzione di una città (Lipit-lstar 5 e Jahdun-Lim 1) o la fondazione di una fortezza (Hammu-rapi 7) o l'erezione di mura (Hammu-rapi 1, 2, 12; Samsu-iluna 2, 3; Asdunijarim 1, 2) - si aggiunge uno secondario (generalmente lo scavo di un canale, elemento indispensabile per la sopravvivenza delle città). L'unica eccezione è l'iscrizione Samsu-iluna 3, nella quale si fondono il resoconto dell'erezione delle mura di Sippar e quello della costruzione del tempio Ebabbar. Altre iscrizioni sono strutturalmente ibride, nel senso che contaminano tratti di tipologie diverse: iscrizione edilizia e dedicatoria (Su-ilisu I, Lipit-lstar 7, Rim-Sin I 2005, Atta-husu e, Idad-

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du-Insusinak A, Irisum 1 10, Arik-den-ili 2) ovvero iscrizione trionfale e dedicatoria insieme (Samsi-Adad I x, Iddin-Sin 1-3, Anu-banini 1 ). Ci sono poi delle iscrizioni in cui alcuni elementi strutturali del genere vengono incorporati (si potrebbe dire per ipotassi) all'interno di altri: per esempio, in lsme-Dagan 7, il modulo nome del re (comprensivo della titolatura) è inglobato in quello circostanze; in Samsu-iluna 8, titoli ed epiteti del re sono inseriti nel modulo antefatto; in Ammi-ditana 1, la maledizione è tutt'uno con il nome delle mura di Babilonia. Alcuni moduli possono invece essere ripetuti nel corso dell'iscrizione. La casistica delle ripetizioni è piuttosto varia. A essere ripetuti sono (in ordine decrescente di frequenza): l'agente, artefice o dedicante, in caso ergativo o nominativo (Lipit-lstar 3; Abi-sarc 1; Rim-Sin 1 20, 23, 2002, 2004, 2006, 2007; Hammu-rapi 2001; Samsu-iluna x; lkunum 1; Ilu-summa 2; lrisum 1 1, 8, 14); il nome del dio ossequiato, in caso dativo (Rim-Sin 1 12, 13, 18, 19, 23; I lammu-rapi 14, 16, 17; lrisum I 3, 6); l'opera, in caso assolutivo o accusativo (Abi-sare I e Samsu-iluna 5); il predicato (Gungunum .2, Jasmah-Addu 4); la formula «per la propria vita» (ldaddu II A). Talvolta - soprattutto nelle iscrizioni assire (Ilu-summa 1, 2; Irisum I i, 10, 1 5; Samsi-Adad 1 1), ma anche altrove (forse in Siniddinam 15, Rim-Sin 1 18, Ipiq-lstar 1) - gli eventi sono narrati nell'ordine inverso rispetto alla sequenza logica (o cronologica), cioè dal più recente al più antico (con effetto di hysteron proteron). Si è già anticipato che nella scrittura cuneiforme arcaica anche il supporto e la posizione degli elementi linguistici all'interno del tt:sto sono altamente significativi. Questa caratteristica del sistema cuneiforme - per la quale è stata proposta la definizione di meta,crittura - è responsabile di alcune apparenti (tali cioè solo ai no,tri occhi) anomalie sintattiche: alcuni elementi del discorso (cui corrispondono altrettanti dei nostri moduli) possono essere omessi nella scrittura, in quanto deducibili o dal supporto o dal conte-

sto (come, per esempio, nel caso di Samsi-Adad 1 2001, che consta del solo nome dell'opera). In altre iscrizioni (ad es. Bur-Sin 3), il rango degli elementi del discorso determina la loro posizione sintattica nel testo. Il testo di un'iscrizione reale è o unico o ripetitivo (nel senso che si riproduce in modo pressappoco identico), secondo che il suo supporto sia rispettivamente individuale (ad es. una statua o qualsiasi altro oggetto votivo) o plurimo (ad es. i mattoni o i coni di un edificio). La riproduzione del testo comporta due diverse tipologie di varianti (se si escludono quelle meramente ortografiche, assolutamente casuali e irrilevanti): quelle rilevabili su supporti tipologicamente diversi, per esempio mattoni e coni (entrambi commemoranti, comunque, la medesima opera e anzi in essa incorporati) e quelle che compaiono su supporti della medesima tipologia (dove le varianti sono da attribuire a fasi di redazione cronologicamente diverse, anche se tutte verosimilmente collocabili nell'arco di regno del sovrano artefice). Venendo a parlare della prima tipologia di varianti, si ricorderà che il testo di un'iscrizione reale è stato qui inteso come la parte scritta di un messaggio ancora più ampio, rappresentato dall'opera nel suo complesso. La parte scritta può pertanto ampliarsi o contrarsi in relazione allo spazio disponibile per la scrittura, che varia da supporto a supporto (dalla superficie minima dei mattoni a quella massima dei barilotti). In effetti, la fenomenologia di questo tipo di variabilità testuale può essere descritta come una dinamica di coppie oppositive del tipo aggiunta vs. omissione o ampliamento vs. riduzione (di un medesimo elemento testuale). A essere suscettibili di omissione (o di aggiunta) sono per lo più gli elementi satellitari del testo (ad es. l'antefatto, il nome dell'opera, la storia dell'edificio, e così via), mentre la titolatura è la sezione che meglio si presta ad ampliamenti (o, viceversa, decurtazioni). Un caso esemplare di questa tipologia di varianti è rappresentato dall'insieme dei duplicati Warad-Sin 18, 19, 20, 21 {tutti commemoranti il medesimo evento: l'erezione delle nuove mura di Ur), dove la complessità del testo-base (Warad-Sin 18, su mattoni) aumen-

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ra man mano che si passa dalle tavolette (Warad-Sin 19, con l'ag~iunta del modulo buoni auspici per il futuro) ai coni (Warad-Sin 20, con l'aggiunta dei moduli elogio della città e tariffario dei prezzi) al barilotto (Warad-Sin 21, con l'aggiunta dell'antefatto e del modulo tempi dell'opera e ampliamento di tutti gli altri moduli narrativi). Rispetto alle prime, le varianti della seconda categoria sono rilevabili dal confronto tra duplicati iscritti sulla medesima tipolo~ia di supporti. Si tratta pertanto, con ogni verosimiglianza, di varianti diacroniche, le quali documentano cioè una fase di riscrittura del testo mediante aggiunte e modifiche apportate in un momento successivo rispetto alla prima redazione. Dal confronto tra i duplicati sembra inoltre che si tratti di varianti ideologiche (o ideologicamente motivate), nel senso che o apportano delle novità .1I programma celebrativo del sovrano (specialmente quando intervengano nella titolatura) o sono mirate a una revisione della precedente versione dei fatti, a maggior lustro del sovrano. Nei casi più semplici, il duplicato intende solo aggiornare il resoconto dei fatti o delle opere del sovrano steso nella versione precedente. Per esempio, le varianti interne di lrisum 1 4, che, oltre all'isarum e al mus"1/um, menzionano altre opere del sovrano (il kassum e la cella del dio Assur), potrebbero riflettere fasi cronologicamente diverse del1'.mività edilizia del sovrano. Altre volte i cambiamenti nella tito1.nura dei sovrani riflettono radicali mutamenti nella politica del re (spesso come conseguenza di eventi storici di grande momento) t) nella sua strategia celebrativa. Così va intesa l'aggiunta dell'epiteto «re potente» in lsme-Dagan 2 rispetto al precedente modello di iscrizione-standard del medesimo re (lsme-Dagan 1), per il resto in tutto identica alla prima; alla medesima stregua, l'aggiunta dell'epiteto «che ha ridotto all'unanimità le quattro parti del mondo» in Hammu-rapi 9 (variante, per il resto identica, di Hammur.1pi 8) si giustifica solo con le grandi vittorie del sovrano successi1 e al suo 30° anno di regno. Le vistose innovazioni nella titolatura delle iscrizioni-standard del re di Esnunna lpiq-Adad II (dove la wconda aggiunge, rispetto alla prima, il titolo di «re», seguito dall'attributo «potente», il patronimico e il determinativo divino prima del nome del re) riflettono la grande riforma politico-istitu-

zionale avviata dal sovrano. In tal modo, i sovrani mesopotamici si riservano la possibilità di riscrivere continuamente il passato, manipolando i fatti a loro piacimento e secondo il mutare degli eventi e degli orientamenti politici (come faranno poi, in modo ancora più sistematico, i sovrani assiri del I mili.). Le iscrizioni reali più antiche sono generalmente redatte in 3a persona. Il passaggio alla I a persona può dirsi avviato solo al tempo della III dinastia di Ur. In età paleo-babilonese, lo stile delle iscrizioni in I a persona conosce un ulteriore impulso (prima del grande successo che incontrerà nelle iscrizioni dei sovrani assiri del I mili.). A dire il vero, si potrebbe dire che i due stili - quello in 3a e quello in I a persona - in questo periodo si trovano ancora in una situazione di convivenza, ma con una distribuzione locale e cronologica abbastanza coerente. Lo stile in 3a persona è l'unico documentato nella maggior parte della periferia (Elam, Esnunna, Sadlas, Batir, Mutalu, dinastia di Manana, Me-Turran, Lullubum, Hana, Alalah, Der). Sono solo due i siti in cui è attestato esclusivamente lo stile in I a persona (ma il dato è forse viziato dalla casualità dei ritrovamenti): Kis e Malgium. Altrove - per lo più nelle aree centrali (lsin, Larsa, Babilonia, Uruk), ma anche in quelle zone periferiche tradizionalmente più legate alla bassa Mesopotamia (Assiria, Mari, l'area del fiume Diyala) - i due stili coesistono. Sia la maggiore resistenza dello stile in 3a persona nella più lontana periferia (da sempre e naturalmente più lenta a recepire le innovazioni innescate nel centro), sia la distribuzione dei due stili nella zona di sovrapposizione (il centro e la periferia più vicina) lasciano intendere che già in età paleo-babilonese lo stile in 3a persona è una forma arcaica, in procinto di essere superato dal nuovo. Accanto ai due stili, in 3a e in I a persona, ne esiste un altro, misto, che contamina cioè l'uno e l'altro. Solo raramente la distribuzione tra 3a e I a persona è meramente casuale (lsme-Dagan 6, U rN inurta 2, Sin-iddinam 10, Warad-Sin 13 e 25, Hammu-rapi 1001, Assur-uballii I 2, Assur-bel-nisesu 1); altrove la la persona è riservata alle maledizioni (Su-ilisu 1, Iddin-Dagan I e 3, Bur-Sin 3, Jahdun-Lim 2, Jasmah-Addu 1, Iddin-Sin 1-3), agli elementi narrativi a carattere non formulare (Ilu-summa 2, Irisum 1 2 e 3, Pu-

zur-Assur 1), agli inserti di tipo innografico (Warad-Sin 3), a sezioni speciali del testo (elogio del buon regno e tariffe dei prezzi e salari in Sin-kasid 11, 13, 14, 15). In alcune iscrizioni di WaradSin (24, 26 e 27) solo la titolatura del re è espressa in 3a persona, tutto il resto è in 1a. È evidente che questi casi vanno intesi in modo diverso l'uno dall'altro: mentre quest'ultimo e il caso dell'impiego della I a persona nelle sezioni non-formulari del testo vanno considerati come esito della giustapposizione di moduli narrativi tradizionalmente non coerenti (cioè alcuni tradizionalmente in 3a, altri in I a persona), le maledizioni e gli inserti innografici vanno piuttosto intesi come discorsi diretti impliciti, cioè non introdotti da verbum dicendi (in cui il re viene introdotto a parlare in forma diretta). La cultura letteraria e scritta della Mesopotamia, almeno fino agli inizi dell'era volgare, è senza dubbio qualificabile come bilingue, essendosi espressa in sumerico e in accadico, anche a dispetto del quadro linguistico reale (che vide il sumerico estinguersi assai presto dall'uso vivo e parlato e molte altre lingue diffondersi sul suolo mesopotamico fino a soppiantare l'accadico, come nel caso dell'aramaico nel I mili., senza però lasciare mai tracce consistenti o durature nella letteratura scritta). Come anticipato in precedenza, rimane ancora aperto il dibattito - uno dei più lunghi e appassionanti nella storia degli studi assiriologici, noto appunto come «questione sumero-accadica» - se la diversità linguistica possa essere assunta anche come discrimine culturale, in altre parole se alla letteratura scritta in lingua accadica corrisponda una cultura accadica, come a quella in sumerico una cultura sumerica. In età paleo-babilonese, quando l'estinzione del sumerico si era ~ià definitivamente consumata dopo una lunga agonia, la diversità delle scelte linguistiche non è più il segno di una cesura culturale (l'area, dopo l'invasione amorrea, era già abbastanza omogenea dal punto di vista sia culturale sia linguistico), ma semmai di differenti orientamenti tradizionali e ideologici. Tranne episodiche eccezioni (Lipit-lstar 3 e Sin-kasid 1), in sumerico soltanto furono redatte le iscrizioni delle più sumeriche tra le città paleo-babilonesi, cioè Uruk e Isin, i cui sovrani prete-

sero di essere imparentati o discendenti dell'antichissimo e leggendario re-semidio di Uruk Gilgames (i primi per via diretta, i secondi attraverso i sumericissimi dinasti di Ur m). L'accadico prevale invece nella periferia (anche qui con rare eccezioni: Ikun-piSin I e Sin-abusu 1001, nell'area del fiume Diyala) e in Assiria (dove, in seguito alla riforma babilonese di Samsi-Adad 1, il dialetto babilonese si sostituì temporaneamente a quello tradizionale assiro). Esiste poi una terza area linguisticamente mista (nella quale cioè le iscrizioni reali sono redatte ora in sumerico, ora in accadico), costituita da Larsa, Babilonia ed Elam (dove l'accadico, pur restando scritto prevalentemente mediante sumerogrammi, soppianta il sumerico nei testi più recenti). All'interno di quest'area, la distribuzione delle due lingue non è sempre casuale; anzi, talvolta la scelta linguistica è subordinata a criteri tipologici o tradizionali. Per esempio, l'uso del sumerico è esclusivo nelle iscrizioni dedicatorie e di omaggio, quasi che quella lingua fosse avvertita come inseparabile da queste due tipologie testuali (forse a causa del loro carattere estremamente tradizionale, a fronte di altre tipologie più ricettive verso le innovazioni). Non è un caso che fu proprio Hammu-rapi, l'unico sovrano d'età paleo-babilonese cui riuscì (seppure con risultati effimeri) l'impresa dell'unificazione politica di tutta la Mesopotamia, a rinverdire la tradizione delle iscrizioni reali bilingui (poi timidamente proseguita dai suoi successori). Evidentemente anche le scelte linguistiche furono messe al servizio del suo programma politico di compromesso e di unificazione tra le disparate componenti del regno. X. IL SITZ IM LEBEN DELLE ISCRIZIONI REALI

Come è stato anticipato sopra, il messaggio dell'iscrizione reale risulta dalla combinazione del testo scritto e del suo supporto (il quale, a sua volta, è rappresentato dall'unione inscindibile dell'oggetto che reca incisa l'iscrizione e del suo contesto). Così inseparabili erano questi due elementi, che a volte esiste un rapporto di corrispondenza esclusiva tra il genere (o sottogenere) di iscrizione reale e il tipo di supporto: iscrizioni per la costruzione di templi,

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mura e palazzi sono incise solo su coni d'argilla; iscrizioni di palazzo su mattoni (ma queste corrispondenze sono esclusive solo a lsin); iscrizioni trionfali su stele; iscrizioni-standard solo su mattoni (con l'eccezione dell'Assiria). Come esiste una relazione tra il tipo di supporto e il tema dell'iscrizione che è incisa sulla sua superficie, così ne esiste una tra quello e la sua destinazione (o, ma è lo stesso, il suo contesto). Limitatamente al corpus qui preso in esame (cioè quello delle iscrizioni reali paleo-babilonesi), sono rilevabili alcune corrispondenze tendenziali. In teoria, ogni oggetto di pregio può essere dedicato: statue, perle, seggi, pendenti, bacini, vasi, pesi, casse, prismi sono i supporti più comuni delle iscrizioni dedicatorie in età paleobabilonese. In genere, di minore valore sono gli omaggi dedicati al dio per la vita del re da parte di suoi funzionari e familiari (mazze, asce, piatti, giare, boccali, «occhi di pietra»). Le e.cl. iscrizioni di palazzo sono incise su pomi di bronzo e anelli, quelle relative a doni di sigilli sulla superficie del sigillo stesso, le iscrizioni trionfali su stele. I supporti, di varia natura, sui quali erano incise le iscrizioni per la costruzione di edifici laici o sacri (mattoni, coni d'argilla, cilindri, barilotti, tavolette di fondazione, figurine canefore, placche d'argilla, lastre di pietra, cardini o zoccoli di pietra) erano incorporati nella struttura stessa, lungo l'alzato in muratura (mattoni), all'interno dei vani (soprattutto in luoghi pregnanti, come le porte) e nelle fondamenta (in un'area apposita, sepolta sotto la zona sacra e designata con il termine temen, tradotto generalmente con l'espressione «deposito di fondazione»). Collocate all'interno del tempio (anzi, nel sancta sanctorum, «davanti alla divinità», come talvolta è espressamente detto), a mo' di dedica, o incorporate e sepolte nella struttura dell'edificio, tutte queste iscrizioni (con l'eccezione dei mattoni disposti all'esterno delle pareti e delle teste dei chiodi d'argilla) erano praticamente inaccessibili a occhio umano. Questo dato di fatto, congiuntamente alla considerazione del basso livello di alfabetizzazione (ma sarebbe meglio dire: «cuneiformizzazione») ipotizzabile nel Vicino Oriente antico, da sempre ha fatto pensare agli studiosi che i destinatari reali (o pubblico) delle iscrizioni fossero proprio quelli cui si ci si rivolge nel te-

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sto stesso, cioè le divinità e i sovrani futuri (accettando così per veri - come spesso è accaduto nella storia degli studi - il punto di vista e il codice del testo stesso). Oggi si è piuttosto inclini a credere che quanto ci è pervenuto delle iscrizioni reali fosse soltanto la base sommersa di un apparato celebrativo (o propagandistico, per usare una terminologia più attuale) che in vari gradi doveva raggiungere tutti i sudditi del regno (per cerchie via via più esterne rispetto all'ambiente palatino fino alla popolazione delle campagne) e, se possibile, tutto il mondo esterno (che doveva restare impressionato dalla gloria e dalla potenza del sovrano).' W.W. Hallo 2 è arrivato perfino a ipotizzare un'occasione, durante la cerimonia del capodanno, in cui gli episodi salienti del1' anno appena trascorso sarebbero stati celebrati in forma solenne, per poi prendere corpo nella scrittura, sia nelle iscrizioni reali sia nelle formule d'anno sia negli inni reali (il che spiegherebbe le affinità fraseologiche, stilistiche e lessicali fra i tre generi). Come i destinatari (o il pubblico), così anche gli scopi delle iscrizioni reali andrebbero in parte ricollocati nell'orizzonte del presente e dell'attualità (quelli dell'epoca, ovviamente). Anche in questo caso, il mondo degli studi ha spesso assunto per veri (o, meglio, per unici) gli scopi proclamati dai sovrani nelle loro stesse iscrizioni: la vita, il nome (postumo), il benessere del paese, e così via. Solo molto recentemente,} sono stati riconosciuti alle iscri.zioni degli antichi sovrani mesopotamici scopi differenti rispetto a quelli proclamati dai loro autori o committenti (legittimazione, celebrazione, mobilitazione). In tal modo, la nostra percezione del Vicino Oriente antico viene sempre più strappata al vecchio pregiudizio, che vi vedeva un mondo non solo diverso dal nostro (dove è pure una parte di verità), ma anche irrimediabilmente primitivo ed esoterico. 4 , Per una sintesi recente v. M. Liverani, CANE 4, pp. 23 53-2366. , RAI 17, pp.118-119. 3 Ad es. M. Liverani, CANE 4, pp. 2353-2366. 4 Subito dopo aver licenziate le bozze per la stampa, è stata pubblicata un'altra iscrizione reale (finora inedita), ascrivibile al genere che qui è stato definito •trionfale•, opera del sovrano Iddi(n)-Sin di Simurrum, A. Schaffer - N. Wasserman, Jd-

di(n)-Sin, King of Simurrum: A New Rock-Relief lnscription and a Reverential Seal: ZA 93 (2003), pp. 1-51, di cui purtroppo non si è potuto tener conto.

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Avvertenza

Quasi tutte le brevi avvertenze qui di seguito sono rivolte ai soli lettori non specialisti, vale a dire non assiriologi, e sono intese ad agevolar loro la lettura di questo libro. Innanzitutto, per quanto riguarda la «normalizzazione» dei nomi sumerici (cioè la loro trascrizione in caratteri latini dall'originale grafia cuneiforme), bisogna dire che non è stata ancora elaborata una convenzione unica e coerente, sia perché la nostra conoscenza del sistema fonetico sumerico è ancora molto lacunosa sia perché (di conseguenza) gli assiriologi non hanno ancora fissato norme definitive sull'argomento. In linea di principio, si è qui pertanto rinunciato a una normalizzazione coerente o troppo fedele a quella che possiamo oggi ipotizzare come la più verosimile pronuncia dei nomi sumerici, per non allontanarsi troppo dalla forma tradizionale con cui gli assiriologi sono ormai abituati a riconoscerli. Quindi, per esempio, si è preferita la tradizionale trascrizione /nanna (il nome di una dea) a quella, più probabile (nonché più scientifica) ma assolutamente inconsueta, *lnanak. Nella lettura dei nomi e dei termini sia sumerici sia accadici, si tengano presenti le seguenti convenzioni: il grafema /s/ corrisponde pressappoco al suono del gruppo /se/ (per esempio nella parola italiana sci.ame); /g/ ha sempre pronuncia dura (come nell'italiano gatto); nelle lettere Me /t/, il punto sottoscritto indica enfasi nella pronuncia; la lettera /h/ può esprimere vari gradi di aspirazione. Una delle caratteristiche del lessico sumerico è l'alto tasso di omofonia (sia che fosse reale sia che fosse esito della percezione babilonese dell.1 fonetica sumerica). Per distinguere i numerosi segni (meglio sarebbe dire «segni-parola», dal momento che, a causa del tendenziale monosillahismo del lessico sumerico, nella maggior parte dei casi a ogni segno, monosillabico, corrisponde un lessema) omofoni della scrittura cuneiforme, tin quasi dagli esordi dell'assiriologia fu inventato un sistema di segni diacritici (accenti, acuto e grave, e indici numerici in pedice), i quali accompagnano la trascrizione in caratteri latini del segno, secondo un principio di frequenza statistica (basato sui soli testi del periodo neo-assiro). Per esempio, du, du, dù, du 4 , ecc. sono le trascrizioni di altrettanti segni omoIoni, ordinate secondo un principio di frequenza decrescente (du è meno frequente di du - che è in assoluto il più frequente nella serie di omofoni -, dù è meno frequente di du, ma lo è più di du 4 , e così via).

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Un'altra caratteristica del cuneiforme sono i cosiddetti «determinativi», cioè grafemi che non esprimono un segno linguistico, ma servono da classificatori semantici, nel senso che indicano semplicemente la classe semantica alla quale appartiene la parola immediatamente successiva o precedente (in quanto possono essere preposti o posposti). Nella normalizzazione questi segni sono rappresentati dalla loro trascrizi~ne ·o da un simbolo in apice. Per esempio, nella sequenza dUtu, il segno d in apice (simbolo per dingir, parola sumerica per «dio») è il determinativo, Utu il segno per «sole» (ma, senza determinativo, anche per «luce del giorno», con lettura /ud/). Nelle note a piè di pagina, alcuni termini del testo origin~le sono riportati in trascrizione, in tondo per il sumerico, in corsivo per l'accadico. Come è consuetudine in filologia, le parentesi quadre indicano una rottura o lacuna (con o senza integrazione del testo), le tonde un ampliamento o una spiegazione, necessaria alla traduzione, ma assente nel testo; le parentesi uncinate semplici segnificano un'integrazione (morfologica o lessicale) del testo. Gli angolari in esponente indicano integrazioni parziali. I punti di sospensione indicano sequenze di segni incomprensibili. Al contrario dell'accadico (che, in quanto lingua sem:tica, non differisce molto dalla tipologia delle lingue indoeuropeej, nella descrizione del sumerico (lingua agglutinante anziché flessiva, ed ergativa anziché accusativa) è invalsa una nomenclatura grammaticale diversa da quella tradizionale. In particolare (per utilizzare una terminologia non specialistica), il caso «ergativo» corrisponde al (nostro) soggetto (o nominativo) di frasi transitive, quello «assolutivo» all'oggetto di frasi transitive (accusativo) o al soggetto di frasi intransitive; il «terminativo» corrisponde approssimativamente, tra l'altro, al nostro complemento di fine o scopo, ecc. Il numero che segue un nome di sovrano indica una sua iscrizione reale secondo il probabile ordine cronologico di redazione (ad es. Hammurapi 3 corrisponde a quella, tra le iscrizioni di Hammu-rapi pervenuteci, che probabilmente - almeno sulla base della ricostruzione di D.R. Frayne - è stata scritta per terza). Anche le iscrizioni reali di altri periodi sono citate sulla base della numerazione proposta nei volumi della serie RIM (RIME, RIMB e RIMA, per cui si vedano la bibliografia e le abbreviazioni in fondo al volume). Ogni testo in traduzione viene preceduto da una breve presentazione. Nella sezione bibliografica si evitano generalmente riferimenti anteriori all'editio princeps di D.R. Frayne (qui abbreviata con la sigla RIME 4), alla quale ovviamente si rimanda. La cronologia della storia mesopotamica, almeno per una certa fase, è molto problematica, tanto che esistono diverse proposte (da una cronologia «lunga», la più alta, a una «cortissima», la più bassa). Qui ci si è attenuti, per ragioni di comodità (e in attesa di una soluzione definitiva alla questione), a quella nota come «media». ·

Iscrizioni reali

Il re architetto

Iscrizioni standard

CARATIERISTICHE TIPOLOGICHE

La cosiddetta «iscrizione standard» consiste in un'iscnz1one breve, senza forme verbali finite, ma con la semplice indicazione del nome del re (o del signore), dei suoi titoli ed epiteti e, in alcuni casi, del suo patronimico. L'unico supporto documentato per questo tipo di iscrizioni in età paleo-babilonese è il mattone, secondo una tradizione introdotta a partire dagli ultimi anni di Amar-Sin, sovrano della III dinastia di Ur (mentre prima erano iscritte su qualsiasi tipo di monumento, per esempio anche statue e rilievi). L'iscrizione standard d'età paleo-babilonese ha i suoi diretti antecedenti nell'età di Ur m, dove si distinguono tre fasi dell'evoluzione del genere: 1. tra Ur-Namma e Sulgi il testo consiste del nome del re e dell'epiteto «costruttore del tempio del dio x» (eventualmente con l'aggiunta: «nella città y» ); 2. tra Sulgi e Amar-Sin il testo consiste del solo nome del re e dei suoi titoli ed epiteti (senza alcuna menzione delle sue attività edilizie); queste due tipolohie sono documentate su tutti i tipi di monumenti e supporti noti; 3. a partire dagli ultimi anni di Amar-Sin l'iscrizione standard è documentata solo su mattoni (esattamente come nell'età paleo-bahilonese). Come esiste un'evoluzione storica del genere iscrizione standard, così ne è documentata anche una variabilità di ordine geohrafico o locale. Innanzitutto, per l'epoca paleo-babilonese, questa tipologia sembra essere stata tradizionale solo a Isin e a Esnunna, mentre la sua comparsa in altri siti pare piuttosto episodica (a meno che questa impressione non sia addebitabile, come pure non si può escludere, al caso dei ritrovamenti). Per quanto rihuarda lo stile e la forma, anche in questa sottotipologia del gene101

re iscrizione reale si nota facilmente il contrasto tra l'essenzialità, il rigore, la sobrietà e il rispetto della tradizione del modello di Isin (seguito anche dai sovrani di Esnunna) e l'esuberanza dell'unico esemplare di Larsa pervenutoci. Secondo W.W. Hallo,' l'iscrizione standard sarebbe una sopravvivenza tarda delle prime iscrizioni monumentali consistenti del solo nome del sovrano; tutte le altre tipologie di iscrizione reale sarebbero derivate da questo embrione, per aggiunta di sempre nuovi elementi (prima titoli ed epiteti del sovrano, poi il nome della divinità ossequiata, quindi il predicato). L'origine delle iscrizioni standard ne spiegherebbe anche la funzione fondamentale, che sarebbe quella di «proclamare la proprietà del nominato nei confronti dell'oggetto-supporto». Quest'ipotesi ha trovato molti sostenitori, che considerano le iscrizioni standard come note di proprietà (qualcuno aggiunge: probabilmente con valore magico).' Secondo E.A. Braun-Holzinger, 3 invece, anziché un'iscrizione primitiva o il prototipo di tutte le tipologie di iscrizione reale, tiscrizione standard sarebbe l'esito di uno sviluppo secondario. Si tratterebbe infatti di una forma sintetica o dell'iscrizione di fondazione (come si evincerebbe dall'epiteto ricorrente «costruttore del tempio del dio x») o delle iscrizioni votive (quando si trovino su oggetti con funzione di ex voto). In epoca proto-dinastica l'iscrizione standard sostituirebbe su statua l'iscrizione dedicatoria; poi, in epoca paleo-accadica e neo-sumerica, vi si accompagnerebbe, ma non sempre (basti pensare alle statue di Gudea); su statue e su rilievi servirebbe generalmente a identificare il personaggio rappresentato (un caso esemplare è il cosiddetto cartiglio che identifica il re E'annatum su una delle facce della Stele degli Avvoltoi).

I

HUCA 33 (1962), p. 6.

z Ad es. D.O. Edzard, RIA 6 (1981), s.v. Konigsinschriften. J HSAO 3 (1991), pp. 17-18.

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ISIN

Isme-Dagan (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 26-27. - Supporto: (28) mattoni iscritti. - Provenienza: Ur e Isin (da vari siti ed edifici). - Lingua: sumerico. - Descrizione: in questa iscrizione viene formulata la titolatura-standard del re Isme-Dagan, seguita (senza sostanziali modifiche) dai suoi successori sul trono di Isin. Qui vengono sintetizzate l'ideologia e le ambizioni politiche della dinastia. Sia i luoghi sia l'ordine in cui si succedono sono ideologicamente e politicamente significativi: Nippur è la città del dio Enlil, il capo supremo del pantheon sumerico e garante (secondo, tra l'altro, la c.d. Lista Reale Sumerica) della regalità su tutto il paese di Sumer; Ur era stata la sede della prestigiosa III dinastia di Ur, di cui i sovrani di Isin rivendicarono sempre di essere gli unici legittimi successori; Eridu (sempre secondo la Lista Reale Sumerica) era stata la prima mitica sede della regalità (antidiluviana), dopo che questa era «scesa dal cielo»; Uruk era la città del mitico sovrano Gilgames, dal quale i dinasti di Ur si vantavano di discendere (in tal modo i re di Isin potevano reclamare i loro diritti alla regalità su tutto Sumer, contro analoghe pretese di altre dinastie coeve, per esempio Larsa, facendoli radicare fino in un passato lontanissimo e mitico); Isin, infine, era la capitale politica della dinastia. Con il titolo di «re di Sumere Akkad» Isme-Dagan compie una duplice operazione: da una parte si collega ai sovrani di Ur 111 (dal momento che il titolo è attestato per la prima volta in iscrizioni di Ur-Namma);' dall'altra vanta il suo controllo su Nippur, alla quale sembra che questo titolo fosse appunto legato, tanto da far pensare a un'equivalenza etimologica tra Nippur e il nome sumerico per Sumer, cioè *Kengir.1 Con l'ultimo epiteto, «sposo di lnanna», il testo riprende circolarmente il primo titolo: fin dai tempi di Ur 111, l'epiteto «sposo di Inanna» era condizione necessaria per l'esercizio della regalità.} Si noti, inoltre, che, mentre in rapporto a Isin e a Sumer e Akkad il sovrano fa uso della nomenclatura politica («re»), rispetto alle altre città si presenta come un generoso fornitore dei templi, per giunta rispettoso delle tradizioni locali (ad es. en di Uruk). 1-11

Il divino 4 lsme-Dagan, l'approvvigionatore I di Nippur,

, Hallo, AOS 43, p. 77. 2 Hallo, AOS 43, pp. 83-88. l Su Enlil e lnanna come i garanti della regalità nell'epoca successiva al diluvio, si veda G. Pettinato,/ Sumeri, Milano 1991, spec. pp. 91-93. 4 La grafia del nome dei re di Isin, come quella di qualsiasi altro sovrano mesopotamico divinizzato, è preceduta dal determinativo per esseri divini (segno AN, con lettura dingir). I re divinizzati i cui nomi comincino con un teoforo (ad es. Enlilbani, Sin-magir) sono già preceduti dal determinativo per divinità, che non viene 103

che provvede al mantenimento' di Ur, che attende' quotidianamente alla cura di Eridu, EN 3 di Uruk, re di lsin, re di Sumere Akkad, amato sposo di Inanna. 4

ripetuto. Per questo l'attributo «divino•, in questi casi, viene messo tra parentesi. Ciò non significa, però, che essi si considerassero meno divini dei loro colleghi. s Isme-Dagan è il primo sovrano documentato a usare il titolo u-a, •approvvigionatore•, dai tempi di Lugalzagesi (xxiv sec.) (Seux, Épithètes, pp. 456-458). Il termine aveva già allora una lunga storia. È già documentato nell'onomastica e nei testi di Fara, nelle liste lessicali e nei testi amministrativi di Ebla (F. Pomponio P. Xella, AfO 31, 1984, p. 31), nelle liste lessicali mesopotamiche (ED LU C 56 e ED LU E 63), nell'innografia divina (ad es. in riferimento a Nergal) e reale (UrNamma e Isme-Dagan). La prima attestazione nota nelle iscrizioni reali risale a Lugalzagesi (un vero e proprio innovatore nel campo della titolatura regale), che si proclama u-a della dea !nanna. Dopo di lui il titolo sarà ripreso dai sovrani di !sin, Larsa e Uruk, da quelli cassiti, assiri e neo-babilonesi. Esiste dunque, per quanto riguarda l'uso di questo titolo in relazione a sovrani, una continuità Lugalzagesi - Ur-Namma - Isme-Dagan. Nel riprendere un titolo che era stato prima di Lugalzagesi e quindi di Ur-Namma, lsme-Dagan si presenta come epigono e legittimo succe1sore della III dinastia di Ur. Si noti, però, che mentre Lugalzagesi è--~i!pprovvi'gionatore• di una divinità (!nanna), vale a dire del suo tempio, Ur-Namréìalo è di Nippur, lsme-Dagan di Sumere Akkad: già all'epoca di Ur III, pertanto, l'attenzione del sovrano si sposta dal tempio alla città tutta e alla regione, cioè alla popolazione. Il modello del re-pastore, che ebbe tanta fortuna in età paleo-babilonese, ha quindi i suoi prodromi nell'età di Ur 111. Poiché in molti inni e iscrizioni reali i sovrani sumerici si vantano di aver fornito «cibo• (u) e •acqua• (a) alla loro popolazione e vista l'equivalenza accadica di u-a (oltre che con il consueto zaninu, •curatore•) con nukaribbu (•giardiniere•) e con ritu u maiqitu (•cibo e acqua•) è possibile che u-a, generalmente tradotto •approvvigionatore•, significhi letteralmente •cibo e acqua• (s'intende: del paese). Così ( «Speise und Trank») traduce pressappoco il termine C. Wilcke (!SIN 3, p. 114). 1 Non è chiaro il significato letterale del verbo sumerico (sag--us, dove sag è •testa•, mentre us è un verbo di movimento). Il titolo, attestato per la prima volta al tempo di Amar-Sin di Ur 111 (Hallo, AOS 43, p. 146 e Seux, Epithètes, p. 440), fu portato dai sovrani sia di !sin sia di Larsa. Gli Akkadi lo tradussero con •far sollevare il capo•. Il verbo esprime comunque la cura del sovrano verso il tempio, visto che è sempre associato a una divinità (più frequentemente al suo tempio o alla sua città). 1 Il verbo sumerico (gub) significa letteralmente •stare in piedi•. 3 Prima che la città perdesse la sua indipendenza politica sotto la III dinastia di Ur, EN era stato il titolo della massima autorità (laica e religiosa insieme) di Uruk. In età paleo-babilonese, il titolo EN (non seguito dal toponimo Uruk) è sicuramente la designazione per il sommo sacerdozio (almeno in alcune città). 4 Il titolo •sposo di !nanna• allude forse alla cerimonia delle nozze sacre tra il re e la dea (forse rappresentata dalla sua sacerdotessa).

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Jsme-Dagan (2) Bibliografia: RIME 4, pp. 28-29. - Supporto: (17) mattoni iscritti. - Provenienza: Ur (più un esemplare di provenienza ignota). - Lingua: sumerico. - Descrizione: si tratta di una variante del testo precedente (IsmeDagan 1), dal quale si differenzia solo per l'aggiunta del titolo «re potente» (lugal-kalag-ga). L'aggiunta non è casuale. Questo titolo era stato introdotto per la prima volta da Amar-Sin, sovrano della III dinastia di Ur, che l'aveva sostituito al più tradizionale «maschio potente» (nitakalag-ga). Il titolo passò poi senza soluzione di continuità dai successori di Amar-Sin a Isbi-Erra e agli altri sovrani di Isin (mentre non attecchì mai a Larsa). Poi, fino al tempo di Enlil-bani, a Isin il titolo «re potente» restò confinato alla titolatura breve, mentre in quella lunga (del tipo lsme-Dagan 1) era assente (con Enlil-bani, invece, l'uso del titolo fu esteso a tutti i tipi di iscrizione). 1 È incerto quale significato politico o ideologico debba essere attribuito all'esistenza di due diversi modelli di iscrizione standard al tempo del regno di lsme-Dagan. 1-12 Il divino Isme-Dagan, l'approvvigionatore di Nippur, che

provvede al mantenimento di Ur, che attende quotidianamente alla cura di Eridu, EN di Uruk, re potente, re di Isin, re di Sumer e Akkad, amato sposo di lnanna.

lsme-Dagan (3) Bibliografia: RIME 4, pp. 29-30. - Supporto: (10) mattoni iscritti. - Pro\'enienza: Ur (Giparku, cioè la residenza della sacerdotessa-EN). - Lin~ua: sumerico. - Descrizione: era consuetudine dei sovrani mesopotamici collocare le proprie figlie come sacerdotesse-EN dei più importanti luoghi di culto, una volta che fossero stati inglobati nel proprio dominio. Nell'istallare la propria figlia Enannatumma come EN del tempio di Nanna a Ur, Isme-Dagan seguì l'esempio del suo predecessore Isbi-Erra.1 A Ur Enannatumma fu artefice di varie attività, soprattutto di natura edilizia, di cui ci ha lasciato traccia in iscrizioni. 1-6 Enannatumma, (sacerdotessa-)zirru,J EN di Nanna a Ur, tìglia 4 del divino Isme-Dagan, re di Sumere Akkad. Sulla problematica, si veda Hallo, AOS 43, pp. 88-89. Sulla questione si veda]. Renger, ZA 58 (1967), pp.118-121. , L il titolo specifico della sacerdotessa-EN del dio Luna. 4 In realtà, in questa come nella successiva iscrizione, il testo recita «figlio» (dumu), non •figlia» (dumu-MUNUS). Poiché un'altra famosa EN di Nanna, 1

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lsme-Dagan (4) Bibliografia: RIME 4, pp.30-31. - Supporto: (20) mattoni iscritti. - Provenienza: Ur. - Lingua: sumerico. - Descrizione: si tratta di una variante («l'amata EN del dio Nanna», alla I. 2, in luogo di «sacerdotessa-zirru») dell'iscrizione Isme-Dagan 3. La variante non sembra significativa, dal momento che zirru era appunto la designazione specifica per l'EN di Nanna.

Enannatumma, l'amata EN di Nanna, EN di Nanna a Ur, figlia del divino lsme-Dagan, re di Sumere Akkad. 1-6

Lipit-Istar (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 47-48; W. Sommerfeld, ISIN 4, p. 145 (nuovo esemplare). - Supporto: (16) mattoni stampati e iscritti. - Provenienza: Ur, Uruk, Isin. - Lingua: sumerico. 1-16 Il divino Lipit-lstar, umile pastore di Nippur, retto fattore' di Ur, che non si concede tregua' per Eridu, EN degno 3 di Uruk, re di Isi,i re di Sumere Akkad, colui che lnanna s'è portata al cuore,4 il r,ir~he ha stabilito l'ordine 1 in Sumere Akkad. 6

Enheduanna, la figlia di Sargon di Akkad, è sicuramente di sesso femminile e poiché l'EN di Nanna porta il titolo di •sposa di Nanna•, si è pensato che l'EN di Nanna fosse sempre di sesso femminile (generalmente si ritiene infatti che a divinità maschili fossero consacrate EN femminili e viceversa). Resta quindi aperto il problema dell'impiego di dumu in luogo di dumu-MUNUS, anche perché un'altra EN di Nanna, Ninzi'anna, figlia di Isbi-Erra, viene detta espressamente «figlia (dumu-MUNUS) del re• (j. Renger, ZA 58, 1967, p. 133). , «Fattore• (engar) va qui inteso come la persona che gestisce grandi estensioni di terra coltivabile e che ne è responsabile di fronte al re (come all'epoca della III dinastia di Ur). «Pastore• e «fattore• sono altrettante metafore dell'immagine che il sovrano paleo-babilonese vuole dare di sé: egli amministra il gregge dei sudditi e gestisce la proprietà del dio con onestà e per diritto divino (donde l'attributo •retto•, «legittimo•, zid). z L'immagine del re «indefesso•, «che non prende sonno• per il dio e per le altre incombenze da cui è gravato in virtù del suo incarico è un vero e proprio topos della letteratura sumero-accadica. J In sumerico: me-te. 4 Generalmente il verbo di questa formula è •scegliere• (pàd), non •portare•, e il termine •cuore• è più frequente al locativo ( •nel cuore•) che al locativo-terminativo (•al cuore•). 1 In sumerico: nì-si-sa. 6 Consueta allusione alla promulgazione di un atto-misarum da parte del sovrano. 106

Ur-Ninurta (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 64-66; W. Sommerfeld, ISIN 4, p. 145 (circa 100 esemplari). - Supporto: (47) mattoni iscritti o con iscrizione stampata. - Provenienza: Nippur, Isin, Uruk, Han Hafudh. - Lingua: sumerico. 1-13 Il divino Ur-Ninurta, pastore che solleva ogni cosa (per offrirla) a Nippur, custode' di U r, purificatore di Eridu dalle mani immacolate, 2 ligio EN di Uruk, re di Isin, re di Sumere Akkad, lo sposo sul quale !nanna ha sollevato gli occhi.

Bur-Sin (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 69-70; W. Sommerfeld, ISIN 4, p. 145 (circa 100 esemplari). - Supporto: (8) mattoni iscritti o con iscrizione stampata. Provenienza: Nippur e Isin. - Lingua: sumerico. 1-10 Il divino Bur-Sin, pastore che ha compiaciuto il cuore di Nippur, 3 potente fattore di Ur, che ha ripristinato il disegno (originale) di Eridu, 4 EN di Uruk degno dei prototipi,! re di Isin, re di Sumere Akkad, degno del puro grembo di lnanna. 6

, Il termine sumerico (na-gada) designa propriamente il «pastore di bestiame minuto», da distinguere da sipa, •pastore-capo» (ovvero, sulla base della Statua F di Gudea, il «custode di asini• in opposizione a sipa, «custode di pecore•). , In sumerico: sikil. J Il •compiacimento» di Nippur 4

è motivato dalle generose elargizioni del sovrano.

11 re intende dire di aver rispettato, nel restaurare l'area sacra di Eridu, il suo di-

segno originale. Era vanto dei sovrani mesopotamici non effettuare alcun cambiamento nel corso dell'opera di restauro dei templi. Qualunque innovazione architettonica o d'altra natura, presa di propria iniziativa, veniva aspramente condannata dal clero (come nel caso di Naram-Sin, nell'opera La Maledizione di Akkad). 1 In sumerico: me. La traduzione e la comprensione di questo termine, centrale nella civiltà sumerica, è forse uno dei problemi più difficili della sumerologia. Viene ~cneralmente tradotto con •essenze» (in quanto condivide con il verbo •essere» la radice verbale), •poteri divini», •prescrizioni», «archetipi». Certamente, però, designava oggetti o rappresentazioni concrete (oltre che il concetto che vi era sotteso).

r, Un'altra allusione al rito delle nozze sacre tra la divinità (forse fisicamente rappresentata dalla sua somma sacerdotessa) e il sovrano. In realtà, anziché con •grembo», il sumerico ur andrebbe meglio tradotto con «cosce» (A.R. George, BSOAS 55, 1992, pp. 538-540).

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Enlil-bani ( 1) Bibliografia: RIME 4,pp. 77-78; W. Sommerfeld, ISIN 4, p. 145. -Supporto: ( 1 o) mattoni. - Provenienza: Isin. - Lingua: sumerico. 1-13 (Il divino) Enlil-bani, pastore che moltiplica ogni cosa per Nippur, fattore che fa crescere alto l'orzo per Ur, che rende puri i prototipi di Eridu, ligio EN di Uruk, re di Isin, re di Sumere Akkad, lo sposo che !nanna ha chiamato al (suo) cuore.

LARSA

Nur-Adad (1)

.

Bibliografia: RIME 4, pp. 13~ 139. - Supporto: ( 5) mattoni. - Provenienza: Larsa. - Lingua: sumerico.' Descrizione: l'iscrizione standard - l'unica pervenutaci di un re di Lars menziona le due città più prestigiose del regno: Ur (sede della III dinas ia di Ur) e Larsa (capitale del regno), con il suo dio Utu (e il suo santuario: l'Ebabbar). Vista l'assenza della menzione di altre importanti città mesopotamiche e sulla base di altra documentazione, si può ipotizzare che il regno di Nur-Adad avesse segnato un momento di recessione delle sorti di Larsa. 1-18 Nur-Adad, maschio potente,' approvvigionatore di Ur,l re di Larsa, che ha ricevuto in affidamento 4 il santuario Ebabbar, che il giovane I Utu ha chiamato legittimamente nel suo cuore, che ha sottomesso il mondo esterno 6 (per conto) di Utu,7 al quale Is-

' Si tratta di un sumerico molto sgrammaticato. Per esempio, gli epiteti sono seguiti talvolta (impropriamente) dalla desinenza /e/ dell'ergativo. z Il titolo «maschio potente• (nita-kala-ga), ereditato dai sovrani di Ur 111 (i quali a loro volta l'avevano ricevuto da Uruk), sarà reclamato da tutti i sovrani dell'età di !sin e Larsa, con particolare sistematicità proprio da quelli di Larsa. Già AmarSin, re della III dinastia di Ur, infatti, l'aveva sostituito con •re potente•, lugalkala-ga (Hallo, AOS 43, pp. 69-71). 3 Evidentemente in questo periodo Larsa doveva aver strappato a !sin il controllo della prestigiosa città di U r. 4 •Affidamento• è traduzione intesa a riprodurre l'accezione legale del termine. L'epiteto (sag-èn-tar) è esclusivo dei sovrani di Larsa (Seux, Épithètes, pp. 438 s.). ! La «giovinezza• è un attributo tipico del dio-Sole Utu. 6 In sumerico: kur (per cui si veda il glossario dei toponimi ed etnonimi). 7 L'epiteto kur-gu-gar-gar + teonimo - lett. (forse) •colui-che-ha-fatto-esporreil-collo-(in segno di sottomissione)-al-KUR del dio x• - risale direttamente ai sovrani della I dinastia di Lagas (E'annatum l'aveva usato per primo, ad es. nella fa-

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kur ha dato un nome di buon augurio,' colui che ha reso stabili le fondamenta del trono di Larsa e che ne ha ricondotto la popolazione, prima dispersa, alla sua sede originaria. ESNUNNA

Nur-ahum (1) Bibliografia: RIME 4, p. 485. - Supporto: mattoni (non numerati). Provenienza: Esnunna (palazzo di Nur-ahum). - Lingua: accadico. 1-4

Nur-ahum, amato da Tispak, vicario' di Asnunna.l

Bila/ama (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 491-492. - Supporto: (5) mattoni. - Provenienza: Esnunna (palazzo di Bilalama). - Lingua: accadico. 1-4

Bilalama, amato da Tispak, vicario di Asnunna.

mosa Stele degli Avvoltoi, ed Enannatum I ne aveva seguito l'esempio), naturalmente con riferimento al dio poliade locale Ningirsu. Nur-Adad è l'unico sovrano documentato a usare questo epiteto dai tempi della I dinastia di Lagas (Seux, Épithètes, p. 409). Si tratta di un isolato recupero antiquario o di una consapevole scelta politica? , Chiara allusione al significato del nome del sovrano, Nur-Adad: «Adad è luce (nur)»; e Adad (scritto in sumerico Iskur) è appunto l'equivalente accadico di Iskur. Poiché il nome rappresenta l'essenza e il destino di chi lo pona, il «nome buono• (mu-du, 0 ) ha a che fare al contempo con la natura e con il futuro del sovrano. Per la relazione tra il nome del sovrano e la sua politica religiosa e, più in generale, sul significato del nome del re, si veda H. Steible, Fs Sjoberg, spec. pp. 210-211; sulla questione del nome di trono in Mesopotamia, si veda J.-M. Seux, RIA 6 (1981), s.v. Konigtum, pp. 149-150. , In effetti sappiamo che Nur-ahum fu istallato da Isbi-Erra, re di Isin, come primo «vicario» (ensi) di Esnunna. Dopo Su-ilija, che aveva assunto, rendendosi indipendente dal dominio della Ili dinastia di Ur, il titolo di •re», a partire da Nurahum (suo successore), tutti i signori di Esnunna poneranno il titolo di «vicario», fino a Ipiq-Adad n, che assunse nuovamente il titolo di •re» e, a volte, il determinativo divino (dingir). Il suo esempio fu seguito dai suoi successori (sulla questione si veda D. Charpin, Fs Birot, spec. pp. 62-66). l Fino a Naram-Sin la grafia per Esnunna è con il segno iniziale AS. 109

fsar-ramasu (I) Bibliografia: RIME 4, p. 500. - Supporto: (4) mattoni. - Provenienza: palazzo di Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5

Isar-ramasu, amato da Tispak, vicario di Asnunna.

Azuzum (1) Bibliografia: RIME 4, p. 505. - Supporto: (3) mattoni. - Provenienza: palazzo di Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5

Azuzum, amato da Tispak, vicario di Asnunna.

Ur-Ninmar (1) Bibliografia: RIME 4, p. 509; Grégoire, MVN 10, pi. 11 nr. 28 (autografia); Idem, AAICAB 1/2, p. 246 (studio). - Supporto: (6) mattoni. - Provenienza: palazzo di Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5

Ur-Ninmar, amato di Tispak, vicario di Asnunna.

Ur-Ningiszida (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 516-517. - Supporto: (13) mattoni. - Provenienza: Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5

Ur-Ningiszida, amato da Tispak, vicario di Asnunna.

Ipiq-Adad I (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 521-522. - Supporto: (5) mattoni. - Provenienza: Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5

Ipiq-Adad 1, amato da Tispak, vicario di Asnunna.

Sarrija (1) Bibliografia: RIME 4, p. 531. - Supporto: mattoni (non catalogati). - Provenienza: Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5

Sarrija, amato da Tispak, vicario di Asnunna. I IO

Belakum (1) Bibliografia: RIME 4, p. 534. - Supporto: (5) mattoni. - Provenienza: Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5 Belakum, amato da Tispak, vicario di Asnunna.

!bai-pi-El I (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 539-5 40. - Supporto: (6) mattoni. - Provenienza: Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5 Ibal-pi-EI, amato da Tispak, vicario di Asnunna.

Ipiq-Adad II (1) Bibliografia: RIME 4, p. 544. - Supporto: ( 1) mattone. - Provenienza: Esnunna. - Lingua: accadico. 1-5 Ipiq-Adad, amato da Tispak, vicario' di Asnunna.

Ipiq-Adad II (2) Bibliografia: RIME 4, p. 545. - Supporto: mattoni (non numerati). Provenienza: Esnunna (strada a sud del palazzo). - Lingua: accadico. Descrizione: a un certo punto del suo regno, Ipiq-Adad II deve aver abbandonato la titolatura tradizionale dei sovrani di Esnunna («vicario») per assumerne un'altra, in linea con la probabile riforma del regno. Questa dovette prevedere in primo luogo l'assunzione del titolo «re» (lugal) e del determinativo divino. Collegata al primo punto è senz'altro l'introduzione del patronimico nella titolatura del sovrano, dal momento che il «lugalato» (cioè la regalità contraddistinta dal titolo lugal) era l'unica forma legittimamente riconosciuta come dinastica (cioè per trasmissione di padre in figlio) in Mesopotamia.' La riforma del potere a Esnunna avviene in parte per recupero del passato (Su-ilija aveva già assunto il titolo di «re»), in parte per emulazione dei sovrani di Isin, in parte per innovazione originale. Ipiq-Adad, infatti, restituisce al sovrano terreno il titolo di «re potente», che era stato coniato al tempo della III dinastia di Ur (Amar-Sin) ed era passato prima ai sovrani di Isin, poi a Su-ilija di Esnunna (dopo il quale era stato appannaggio esclusivo del dio poliade Tis' Nelle iscrizioni più tarde, Ipiq-Adad II abbandonerà il titolo di •vicario» per assumere quello di •re» (lugal). 'Sulla problematica si veda W. Heimpel, ZA 82 (1992), pp. 4-21. II I

pak).' Forse in virtù delle sue vittorie militari, egli è il primo re mesopotamico a proclamarsi «allargatore» (murappii) del proprio territorio 2 e «pastore delle teste nere» (espressione poetica per l'umanità intera). 3 La coppia di iscrizioni Ipiq-Adad 1 1 e 2 rappresenta uno dei numerosi casi in cui i sovrani mesopotamici, a seguito di qualche evento politico, riscrivono le proprie iscrizioni.

Il divino lpiq-Adad, re potente, re che ha esteso Esnunna, pastore delle teste nere, amato da Tispak, figlio di Ibal-pi-El. 1-8

Naram-Sin (1) Bibliografia: RIME 4, pp. 553-554. - Supporto: (3) mattoni. - Provenienza: Esnunna (strada a sud del palazzo). - Lingua: accadico. - Descrizione: Naram-Sin, per quanto è possibile constatare dalla sua titolatura, sembra attenersi alle linee fondamentali della politica paterna (determinativo per divinità, patronimico, titoli «re» e «re potente»). Sotto di lui deve essere avvenuta una sorta di riforma della grafia: Esnunna non si scriverà più con il segno AS, ma con quello ès (= AB) e dannum («potente») con la sequenza da-an-nu-um (che subentra alla grafia tradizionale danum). 1-5 Il divino Naram-Sin, re potente, re di Esnunna, amato da Tispak, figlio del divino Ipiq-Adad.

I qis-Tispak (I) Bibliografia: RIME 4, pp. 560-561. - Supporto: (1) mattone. - Provenienza: Esnunna (contesto secondario). - Lingua: accadico. - Descrizione: Iq is-Tispak sembra fare un passo indietro rispetto ai suoi predecessori per quanto riguarda la titolatura (abbandono del titolo «re» per quello di «vicario», del determinativo divino e degli altri titoli più prestigiosi; resta solo il patronimico). Combinando il dato della breve durata del suo regno con la notizia (che si evince dal nome del 22° anno di regno del suo contemporaneo Rim-Sin I di Larsa) di una spedizione di Larsa contro Esnunna, si può pensare che Iqis-Tispak fosse un uomo di paglia insediato dal conquistatore Rim-Sin. 1-4 Iqis-Tispak, servitore di Tispak, vicario di Esnunna, figlio di Ibni-Erra.

, Hallo, AOS 43, pp. 89-99. CAD R, p. 157. 3 Seux, Épithètes, pp. 249-250.

2

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Ibal-pi-El II (1) Bibliografia: RIME 4, p. 573. - Supporto: (6) mattoni. - Provenienza: Esnunna (nei pressi del palazzo). - Lingua: accadico. - Descrizione: dopo la breve parentesi di interregno apertasi con Iqis-Tispak, Ibal-pi-EI II, figlio e successore di Dadusa, avoca nuovamente a sé tutti i titoli introdotti da Ipiq-Adad II ( «re", «re potente», patronimico), a eccezione del determinativo divino. 1-5 Ibal-pi-EI, re potente, re di Esnunna, amato da Tispak, figlio di Dadusa. KISURRA

I tur-Samas (I) Bibliografia: RIME 4, p. 65 r. - Supporto: mattoni (non numerati). - Provenienza: Kisurra/Abu-Hatab. - Lingua: accadico. - Descrizione: evidentemente qui ltur-Samas presenta le due componenti del suo regno: quella tribale dei Rababu (nei confronti della quale è appunto un «capo») e quella urbana di Kisurra (per la quale è un «vicario»). Dall'uso del titolo «vicario» si intende che Itur-Samas (che poi diventerà indipendente e assumerà il titolo di «re») è sottoposto a un'autorità superiore (forse quella del sovrano di Uruk). 1-8 ltur-Samas, capo dei Rababu, figlio di Iddin-ilum, vicario di Kisurra, amato da Samas e Annunitum.

DINIKTUM

Sin-gamil ( 1) Bibliografia: RIME 4, pp. 684-685. - Supporto: (2) mattoni. - Provenienza: ignota. - Lingua: accadico. 1-4

Sin-garni), capo amorreo di Diniktum, figlio di Sin-semi.

Iscrizioni standard con epiteti relativi ad attività edilizie

BABILONIA

Hammu-rapi (13) Bibliografia: RIME 4, pp. 349-350. - Supporto: mattoni (8 esemplari). Provenienza: Larsa. - Lingua: anche se scritto interamente in sumerogrammi (con l'unica, ovvia eccezione del nome del re), il testo, a giudicare dalla sintassi, doveva essere letto in accadico. - Descrizione: costruzione (dfm in luogo del consueto dù)' dell'Ebabbar, tempio di Samas a Sippar, a opera di Hammu-rapi. 1-5 Hammu-rapi, re potente, re di Babilonia, re dei quattro quadranti, 6 costruttore 7-9 dell'Ebabbar, casa di Samas a Larsa.

Hammu-rapi (15) Bibliografia: RIME 4, p. 3 52. - Supporto: mattoni (9 esemplari). - Provenienza: Zabala(m) (od. Tall-Ibzeh). - Lingua: accadico (ma scritto interamente con sumerogrammi). - Descrizione: costruzione (dfm) dell'Ezikalamma, tempio di Istar a Zabala(m), a opera di Hammu-rapi. 1-5 Hammu-rapi, re potente, re di Babilonia, re dei quattro quadranti, 6 costruttore 7-9 dell'Ezikalamma, casa di !star a Zabala(m).

URUK

Sin-kasid (I) Bibliografia: RIME 4, pp. 440-441. - Supporto: mattoni (9 esemplari). Provenienza: Uruk. - Lingua: anche se scritto interamente in sumerogrammi, il testo, a giudicare dalla sintassi (ad es. ba-dfm é-an-na, «costruttore dell'E'anna» è un perfetto costrutto participiale accadico), doveva es' La forma verbale, ba-dim, apparentemente finita, funziona in realtà come un participio. Si tratta, infatti, di un sumerogramma.

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sere letto in accadico. Del resto, poiché le iscrizioni reali urukite sono altrimenti tutte scritte in sumerico, è possibile che il costrutto ba-dim + NOME DEL TEMPIO (in caso genitivo) fosse già divenuto formulare. - Descrizione: costruzione (dim) dell'E'anna di Uruk, a opera di Sin-kasid.

Sin-kasid, figlio della dea Ninsun,' re di Uruk, 4 costruttore 5 dell'E'anna. 1-3

MARI

Zimri-Lim (2) Bibliografia: RIME 4, p. 624. - Supporto: mattoni (non numerati). - Provenienza: palazzo di Zimri-Lim a Mari. - Lingua: accadico. 1-5 Zimri-Lim, re potente, che ha fatto eseguire il lavoro per gli

dèi. 2 ASSIRIA

Samsi-Adad I (8) Bibliografia: RIMA 1, pp. 59-60. - Supporto: (1) tavoletta d'argilla. Provenienza: Terqa. - Lingua: accadico. 1-5 Samsi-Adad, re dell'universo, preposto da Enlil, timorato di Dagan, vicario del dio Assur, 6-8 costruttore dell'Ekisiga,J la sua «casa del silenzio»,4 la casa di Dagan, 9 a Terqa. , Dicendosi figlio della dea Ninsun (e quindi anche di Lugalbanda, padre, secondo una cena tradizione, del mitico re di Uruk Gilgames), Sin-kasid, fondatore di una nuova dinastia (vista anche l'assenza di patronimico in tutte le sue iscrizioni), da una parte legittimava la sua regalità, dall'altra si collegava alla linea dei sovrani della III dinastia di Ur, i quali, proclamandosi «fratelli• di Gilgames, avevano inteso allacciarsi alla gloriosa I dinastia di Uruk, oltre che autorizzare la propria divinizzazione (almeno a partire da Sulgi), vista la natura divina di Gilgames, e le proprie ambizioni politiche (ossia l'aspirazione al dominio sull'intero Sumer). , Probabile allusione all'attività edilizia del sovrano per il culto degli dèi della città. ì li nome della casa significa: «Casa - luogo silenzioso•. 4 Nelle liste lessicali (o vocabolari} sumero-accadiche non è mai documentata l'equivalenza SI(G) (sumerico)= qultum («silenzio•, in accadico}, bensì quella tra SJ(G) e alcuni sinonimi di qultum, per esempio piristum, sahun-atum e saqummat11n, (CAD Q, p. 302b). Si tratta dunque di una traduzione per sinonimia. Silenzio e rumore sono spesso associati al tempio e al palazzo, ma è difficile comprendere il legame tra alcune divinità e il silenzio (CAD Q, p. 302b).

Samsi-Adad I (9) Bibliografia: RIMA 1, pp. 60-61. - Supporto: mattoni (8 esemplari). Provenienza: Assur. - Lingua: accadico. 1-7 Samsi-Addu,' vicario del dio Assur, figlio di Ila-kabkabu, creatore' della casa di Assur.

Samsi-Adad I ( 11) Bibliografia: RIMA 1, pp. 62-63. - Supporto: (3) zoccoli di porta, (1) piccola pietra preziosa circolare, ( 17) mattoni. - Provenienza: Assur (tempio di Assur). - Lingua: accadico. 1-3 Samsi-Adad, creatore della casa del dio Assur.

Assur-nirari I (I) Bibliografia: RIMA 1, pp. 83-84. -Supporto: mattoni (20). - Provenienza: Assur (alcuni esemplari presso il tempio di Assur). - Lingua: accadico. 1-5 Assur-nirari, vicario del dio Assur, figlio di Isme-Dagan (11), vicario del dio Assur, creatore della casa di Bel-ibrija.

Assur-nirari I (2) Bibliografia: RIMA 1, pp. 84-85. - Supporto: mattoni (9). - Provenienza: tempio di Assur ad Assur (cortile). - Lingua: accadico.

1-6 Assur-nirari, vicario del dio Assur, figlio di lsme-Dagan (11), vicario del dio Assur anch'egli, rinnovatore del cortile di piombo.

Assur-nirari I (3) Bibliografia: RIMA 1, p. 85. - Supporto: ( 1) mattone. - Provenienza: tempio di Sin e Samas ad Assur. - Lingua: accadico. 1-5 [A]ssur-nirari, [vica]rio del dio Assur, [figlio] di lsme-Dagan (11), creatore della casa di Sin [e] Samas. , La grafia (Sa-am-si-diskur) farebbe pensare alla forma amorrea del nome del re. Nel testo: bani.

2

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Iscrizioni di palazzo

ISIN

Enlil-bani ( 1 o) Bibliografia: RIME 4, p. 85. - Suppono: (2) mattoni. - Provenienza: Isin. - Lingua: sumerico. 1-2

Palazzo del (divino) Enlil-bani.

Sin-magir (3) Bibliografia: RIME 4, pp. 99-100. -Supporto: (3) mattoni. - Provenienza: Isin. - Lingua: sumerico. 1-2

Palazzo del (divino) Sin-magir.

Damiq-ilisu (4) Bibliografia: RIME 4, p. 105. - Supporto: (1) frammento di mattone. Provenienza: Tulul al-Humr (a sud di Isin). - Lingua: sumerico. 1

[Pa]lazzo del [divino Da]miq-ilisu.

LARSA

Sin-iribam (1) Bibliografia: RIME 4, p. 188. - Supporto: ( 1) frammento di peso in diorite. - Provenienza: ignota. - Lingua: sumerico. 1-2

(Peso di) pietra (equivalente a) un talento: palazzo di Sin-iri-

bam.

I

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Rim-Sin I (21) Bibliografia: RIME 4, p. 301. - Supporto: (1) testa d'ascia. - Provenienza: Turub (od. Khafajah). - Lingua: sumerico (o accadico scritto interamente in sumerogrammi). 1

Palazzo del divino Rim-Sin.

BABILONIA

Hammu-rapi (18) Bibliografia: RIME 4, pp. 355-356. - Supporto: (2) pomi di bronzo. Provenienza: Teli Muhammad (Baghdad). - Lingua: sumerico (o accadico scritto interamente in sumerogrammi). 1

Palazzo di Hammu-rapi.

ESNUNNA

!bai-pi-El (I o II) (2) Bibliografia: RIME 41 p. 574. -Supporto: (1) anello d'oro. - Provenienza: ignota. - Lingua: sumerico (o accadico scritto interamente in sumerogrammi). 1

Palazzo di Ibal-pi-El.

HURSITUM

Puhija (1) Bibliografia: RIME 41 p. 718. - Supporto: (3) mattoni a stampo. - Provenienza: Tuz Hurmath (forse da identificare con l'antica Hursitum). - Lingua: accadico. 1-4

Palazzo di Puhija, figlio di Asirum, re del paese di Hursitum.

ASSIRIA

Assur-uball# I (7) Bibliografia: RIMA 1, p. 11 5. - Supporto: (2) giare d'argilla (sui bordi). Provenienza: Assur. - Lingua: accadico. 1

Del palazzo di Assur-uballih il sovrintendente.

II8

Arik-den-ili (7) Bibliografia: RIMA

1,

p. 125. -Supporto: (1) mattone. -Provenienza: As-

sur. - Lingua: accadico.

1 Palazzo di Arik-den-ili, re del paese di Assur, figlio di Enlilnirari, re del paese di Assur, figlio di Assur-uballii (1), re del paese di Assur.

Costruzione di templi e di altri edifici sacri

CARATTERISTICHE TIPOLOGICHE DELLE ISCRIZIONI EDILIZIE

«Iscrizione edilizia» è la traduzione italiana dei termini «Bauinschrift» e «building inscription» {rispettivamente tedesco e inglese), con i quali si è soliti designare, nella letteratura assiriologica, il tipo di iscrizione reale avente per tema la realizzazione del programma edilizio di ciascun sovrano. Il termine include qualsiasi tipo di opera architettonica o ingegneristica, dal momento che (come si è accennato nell'introduzione) solo in età paleo-babilonese si assiste a una specializzazione tematica del genere (per cui si avranno iscrizioni tendenzialmente monotematiche, alcune per templi, altre per palazzi, altre ancora per mura, città, ecc.). Quando la tematica in oggetto sia inserita all'interno di iscrizioni più lunghe e più complesse dal punto di vista del contenuto, è preferibile parlare di «resoconto edilizio» {traduzione del tedesco «Baubericht» o dell'inglese «building account»). Lo schema base originario prevede alcuni elementi fondamentali: l'artefice (in caso ergativo o nominativo, rispettivamente in sumerico e in accadico), l'opera (assolutivo o accusativo), il predicato verbale (di solito una forma del verbo dù/epésum, «costruire»), eventualmente la divinità ossequiata (in caso dativo o in genitivo, come rectum del sostantivo designante l'opera). Nella Lagas d'età proto-dinastica (1 dinastia), subito dopo il regno di Ur-Nanse, lo schema re + opera + (dio) + predicato (mudù) viene soppiantato da quello dio+ re+ opera ... + predicato (muna-dù), già anticipato da Ur-Nanse 41 e destinato a diventare classico (è infatti l'unico documentato al di fuori di Lagas). Al tempo dei sovrani di Akkad, il resoconto edilizio viene inserito all'interno di un'iscrizione o standard (in cui la titolatura del sovrano si 120

chiude con l'epiteto «costruttore dell'opera x») o trionfale (con le uniche eccezioni di Naram-Sin 9 e di Sar-kali-sarri 1, che, con il motivo iniziale della commissione divina, sembra il prototipo delle iscrizioni edilizie paleo-babilonesi), o come epiteto del sovrano o come scopo delle attività militari (in una proposizione finale). Lo schema classico dio + artefice + opera + predicato, sopravvissuto per esempio nell'Elam d'età accadica (Puzur-Insusinak 6 e 7), corna sia nelle iscrizioni del periodo guteo (U mma e II dinastia di Lagas) sia in quelle dei sovrani della m dinastia di Ur. Talvolta viene sostituito dallo schema con l'artefice (in caso ergativo) iniziale, specialmente quando si tratti di costruzioni a carattere secolare (ad es. Amar-sin I 2 e Ibbi-Sin I). Come già anticipato, la grande novità del periodo paleo-babilonese è la specializzazione tematica delle iscrizioni reali. In particolare, quelle per la costruzione di templi si distinguono da tutte le altre per la posizione iniziale del dio (in caso dativo). Fanno eccezione le poche in cui l'artefice (in genere il sovrano) precede il dio ossequiato, sia che questo si trovi in caso dativo (Sin-iddinam 10 e , 1, Ipiq-lstar 1, Samsu-iluna 6) o in genitivo rispetto all'opera (Hammu-rapi 8 e 9, Samsu-iluna 6, Ajabum 1) o che sia anticipato nell'antefatto (Nur-Adad 5 e Sin-iddinam 4) o, infine, del tutto assente, in quanto implicito nel nome del tempio (Zambija 1 ). La posizione del dio e dell'artefice costituisce un importante elemento discriminante tra le iscrizioni babilonesi e quelle assire: in queste ultime, infatti, il nome dell'artefice (l'ensi o il re) è sempre in testa (tranne che nelle iscrizioni di Samsi-Adad 1, dove i due stili, a causa della sua riforma babilonese, coesistono). Nelle iscrizioni per la costruzione di opere secolari (palazzi, mura, città, canali) i riferimenti a una divinità ossequiata sono invece molto rari (fanno eccezione Sin-iddinam 13, Warad-Sin 25, Hammu-rapi 1 e 12). ISIN

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