Gli sfregi di Napoli. Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei 9788820739072, 9788820762827

Straccioni ed emarginati, certi criminali e certe prostitute, tutti quanti spesso vittime di tante tragedie non volute,

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Gli sfregi di Napoli. Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei
 9788820739072, 9788820762827

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Introduzione
Bibliografia
Sfregio e onore nella cultura napoletana fra Otto e Novecento
Da la prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII (1899)
Da Napoli – Figure e paesi (1909)
Da novelle napoletane (1914)
Da l'ignoto (1920)
Da poesie (1927)
Appendice – Scritti giornalistici (1886-1895)
Quarta di copertina

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Testi 9

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Salvatore Di Giacomo

Gli sfregi di Napoli Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei

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a cura di Giovanni Greco Con un saggio di Stefano Scioli

ISSN 1972-0319

Liguori Editore

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2. Camorra, bassifondi, morale, poveri

I. Titolo

II. Collana

III.

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 22 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

1

Introduzione

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di Giovanni Greco

21 23

Bibliografia Sfregio e onore nella cultura napoletana fra Otto e Novecento di Stefano Scioli

41

Da La prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII (1899) [La sifilide non e` nata nell’Italia del Rinascimento] 41; [Conclusione morale] 49.

51

Da Napoli. Figure e paesi (1909) «Pasquino» 51; «Don Ferdinando d’ ’a Posta» 60.

67

Da Novelle napolitane (1914) Sfregio 67; In guardina 73; Bambini 78; Serafina 87; La taglia 90; Senza vederlo 94; La regina di Mezzocannone 101; Assunta Spina 104; Il voto 110.

121

Da L’ignoto (1920) L’ignoto 121; «Cocotte» 133; Quella delle ciliege 142.

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

149

INDICE

Da Poesie (1927) Da Sunette antiche (1884): La serenata 149, Minacce 150, Sfregio 150; Da Voce luntane (1888): ’O vico d’ ’e suspire 151; Da ’O fu´nneco verde (1886): ’O fu´nneco 152, ’O guaio 154, L’appuntamento p’ ’o dichiaramento 154, ’O ’nteresse 155; Da Canzone (1891-95): Tarantella scura 156, A San Francisco (1895) 157; Da Ariette e sunette (1898): Fortunata 162; Da Vierze nuove (1898-1901): ’E rrobbe vecchie 163, Irma 164, ’O pranzo a ’o nnammurato 165, Ll’acciso 166; Lassammo fa’ Dio... 166.

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Appendice Scritti giornalistici (1886-1895)

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La fattura 181; Amore allo spedale 186; Gli ultimi fondaci I 188; Gli ultimi fondaci II 192; Il mistero di Vico Equense 197; Le donne, i cavalier, l’armi, ecc. ecc. 201.

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INTRODUZIONE

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1. Marginalita` e letteratura Criminali, mafiosi, prostitute, poveri, folli, vagabondi, zingari...: da Robert Mandrou a Michel Foucault, da Jacques Le Goff ad Eric Hobsbawm, da Alain Corbin a Mary Douglas e – nella storiografia del nostro paese – da Albano Biondi a Carlo Ginzburg, da Paolo Sorcinelli a Paolo Pezzino, parecchi sono gli studiosi ‘de race’ che hanno elaborato contributi pregevoli e decisivi per lo studio scientifico (non solo storico, ma pure sociologico, antropologico e psicologico) dei marginali. Bronislaw Geremek – un maestro che ha consacrato a siffatte tematiche numerosi volumi, insieme pionieristici e imprescindibili – affermava anni fa che si possono considerare marginali tutti coloro che non partecipano alla divisione sociale del lavoro, che non partecipano alla vita collettiva della societa` globale e, infine, che non condividono i modelli culturali, i valori, le regole morali e gli usi sociali dominanti nei diversi contesti sociali in cui vivono. Queste sono senza dubbio le figure principali che popolano ed animano il percorso tematico qui presentato, che s’ispira per piu` aspetti ai Miserabili (1862) di Victor Hugo, al monumentale ed ancor vivo affresco storico, morale e sociale del piu` noto scrittore francese dell’Ottocento, di cui si e` non da molto degnamente celebrato, fra l’altro, il secondo centenario dalla nascita. Non diversamente che nel grande romanzo hugoliano, infatti, i protagonisti dei testi in prosa e in versi qui offerti sono donne e uomini oppressi da un sistema iniquo, spietato e corrotto, tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono ‘umiliati e offesi’ da un ordine sociale ingiusto e ingiustificabile il quale, se non li costringe, fa tuttavia molto per incoraggiarli a violare leggi e princı`pi fondamentali sia del foro esteriore sia di quello interno, ossia di quella coscienza che talora viene quasi obbli-

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INTRODUZIONE

gata, quasi forzata ad arrendersi e cedere, sopraffatta e schiacciata com’e` dall’infinita malvagita` del tutto. «Fino a quando – scriveva Hugo nell’intensa, memorabile Premessa alla prima edizione dell’opera, che ne racchiude l’essenza etica e le ragioni profonde – esistera`, per colpa delle leggi e dei costumi, una condanna sociale che, in piena civilta`, crea artificialmente degli inferni e complica con una fatalita` umana il fato, che e` divino; fino a quando non saranno risolti i tre problemi del secolo: la degradazione dell’uomo per colpa dell’estrema poverta`, la corruzione della donna per colpa della fame, l’atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre; fino a quando, in certi ambienti, sara` possibile l’asfissia sociale; in altre parole, e secondo un punto di vista ancor piu` esteso, fino a quando vi saranno sulla terra ignoranza e miseria, i libri come questo non potranno essere inutili». Cosı`, essendo oltremodo sensibile alla sofferenza piu` vera e piu` nera dell’altro – di ogni altro, ma specialmente di quanti patiscono senza colpa (o senza una vera colpa) –, lo scrittore autenticamente impegnato contempla attentamente, medita a lungo e delinea, infine, con trasporto vivo e commosso ladri messi alle strette dal bisogno, folli de facto privati di ogni diritto umano, meretrici infangate e orribilmente ferite da individui senza rispetto e dignita`, e bambini poveri, e zingari calpestati, e mendicanti senza speranze... coloro, insomma, che sono relegati ai margini piu` mortificanti ed amari del divenire civile e sociale. Nell’osservazione di queste realta` travagliose e strazianti, egli si distingue dalla maggior parte degli uomini soprattutto perche´ manifesta verso di esse una pieta` ad un tempo appassionata e lucida, sincera e coinvolgente, vigorosa e delicata, il cui alto valore morale non deve essere (o restare) taciuto. A tale sguardo riflessivo e scosso sul dolore del prossimo, si associa poi immancabilmente la denuncia dell’ingiustizia e, non di rado, un vibrante atto d’accusa contro ogni forma d’ingiustizia. I rei variano, c¸a va sans dire, e possono essere alternativamente i governanti, i padroni, i borghesi, i nemici, i malviventi e persino la natura o il caso, ma la volonta` di condannare i mali inflitti dai piu` forti a chi non puo` reagire appare pressoche´ costante nei versi di questi scrittori che, piu` o meno esplicitamente, sono tutti quanti engage´s. Per quanto riguarda la produzione letteraria sulla prostituzione, ci sembra che la maggior parte delle opere ad essa consacrate, pur mantenendosi ben lungi da tenerumi manierati, da sentimentalismi facili e melensi, consideri sempre e comunque la ‘donna caduta’

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INTRODUZIONE



come una persona, nella sua fragilita` di vittima (poco importa di chi o di che cosa...), di perseguitata e di sfruttata, nella sua marginalita` subita e sofferta, nella sua dignitas dolente, assalita di continuo da una foltissima schiera di violenze e di pregiudizi, tanto inveterati quanto vacui ed ipocriti. Pare opportuno, ancora, segnalare come gli hommes de lettres che hanno praticato con interesse ed efficacia maggiori gli aspri territori della marginalita`, quando dipingono personaggi per molti aspetti colpevoli e condannabili (si pensi a certe ‘mondane’ compiaciute ed appagate, a certi criminali crudeli o a certi privilegiati infami e sadici), ne illuminino e ne interroghino soprattutto la fragilita` e le paure, le debolezze e le perplessita`, i rimorsi piu` feroci e le migliori aspirazioni, i tratti – in una parola – piu` umani ed apprezzabili, e rendano fra l’altro questi ‘miserabili’ piu` vicini al sentire di ogni lettore davvero perspicace e maturo. In effetti, quantunque la fine penetrazione psicologica e la ponderata conoscenza del mondo consentano solitamente al vero poeta di possedere un’immagine completa e realistica del deviante, del fuorilegge in senso lato, e persino di raggiungere taluni recessi reconditi della sua cupa e tumultuosa interiorita`, egli non desidera tuttavia soffermarsi sulla descrizione di caratteri, atti o stati d’animo negativi o comunque deleteri, preferendo piuttosto caricare i propri versi di valenze etiche e di passioni ben precise e misurate, che quasi sempre – e` naturale – sono tutte sue, appartengono esclusivamente alla sua visione della realta` e della vita. In anni ormai lontani dalla nostra frastornata postmodernita`, da quest’epoca insieme minacciosa e minacciata, Henri Bremond, nel suo splendido saggio sui rapporti fra preghiera e poesia, scriveva che “scopo del poeta in quanto poeta e` promuovere in noi un’esperienza piu` o meno simile alla sua, innalzarci assieme a lui ad uno stato poetico”. Siamo persuasi che, ben piu` degli innumerevoli moralismi e perbenismi in circolazione, i ragionamenti e i sentimenti espressi per verba da siffatti scrittori possano incidere positivamente sia sulla formazione sia sulla crescita senza fine, sulla costante autoeducazione delle coscienze, facendole tra l’altro meno disattente al mare magnum dei mali e delle sventure che ancor guastano ed avvelenano moltissimi dei progetti esistenziali che abitano e percorrono l’incipit tetro e funesto del terzo millennio. «Gli scrittori – ha affermato una volta Simone Weil a proposito dei complessi, dibattutissimi rapporti sussistenti fra etica e letteratura

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INTRODUZIONE

– non han da essere professori di morale, ma devono esprimere la condizione umana. E non vi e` nulla di cosı` essenziale alla vita umana, per tutti gli uomini e in tutti i momenti, come il bene e il male. Quando la letteratura diventa per partito preso indifferente all’opposizione del bene e del male, tradisce la propria funzione e non puo` pretendere all’eccellenza. Da giovane Racine prendeva in giro i Giansenisti, ma non li prendeva piu` in giro scrivendo Phe`dre, e Phe`dre e` il suo capolavoro». Dal loro volontario esilio in una solitudine pensosa e creativa, dal loro vivido deserto interiore, fatto di saggezza problematica e di raffinatezza affettiva e stilistica, tali personalita` hanno saputo e sanno ancora offrirci – a parer nostro – nutrimenti interiori decisivi e sostanziali, che possono impedire (o quantomeno ritardare) quel vero e proprio isterilimento interiore, quella grave atrofia cognitiva e affettiva che – forse ora come non mai – rischiano le menti e i cuori occidentali. Co`mpito di ogni lettore consapevole della ricchezza e dell’importanza cruciale di tali messaggi e` allora disporsi nell’attitudine piu` adeguata – ossia piu` seria, piu` vigile, piu` partecipe e, in una parola, piu` attenta – onde ascoltare le loro voci insieme lievi e severe, preoccupate e musicali. D’altro canto, un percorso letterario dentro certi ‘bassifondi della modernita`’ puo` esser meditato da chi ama le bonae litterae anche come una via alternativa per accostarsi alla letteratura contemporanea: esso suggerisce, infatti, di ripercorrere due secoli determinanti della civilta` letteraria italiana e, piu` in generale, europea in una prospettiva diversa e tutt’altro che frequentata o convenzionale. Seguendo questa pista, si possono fra l’altro scoprire sfaccettature meno studiate e vulgate – ma non per questo meno rilevanti – della poetica di protagonisti delle letterature degli ultimi due secoli: come si diceva dianzi, tali elementi ci sembrano di frequente rivelare una Weltanschauung sensibilissima agli abusi ed ai tormenti che affliggono i piu` umili, nonche´ un engagement etico-civile non occasionale ne´ ` comunque indubbio il fatto che, da Blake a Goethe, epidermico. E da Dickens a Tolstoj, dal Belli a Charles Baudelaire, dal Verga ad Oscar Wilde, dal Bertolt Brecht piu` impegnato e sdegnato al magnanimo Eduardo De Filippo, fino alle voci travagliate e taglienti di Pasolini, di Testori, di Turoldo e della Merini, costanti e disvelanti sono le analisi e le condanne senza appello delle storture e delle nefandezze proprie di societa` e di giustizie troppo spesso (e troppo volentieri!) inique, immorali, assurde...

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2. Salvatore Di Giacomo e la sua attenzione per i marginali Che Salvatore Di Giacomo sia stato un poeta superbo ed esigente, un narratore efficace, sopraffino e mai monotono, ma pure uno storiografo intelligente e originale, nonche´ un giornalista particolarmente sensibile – per dirla col Tasso della Liberata – all’«aspra tragedia de lo stato umano», e` stato detto e ripetuto in maniera chiara e non di rado convincente da parecchie generazioni di studiosi e letterati; viceversa, non si sono ancora sottolineati abbastanza, secondo noi, altri aspetti rilevanti della sua poliedrica e complessa personalita`: il fatto, per esempio, che Salvatore Di Giacomo sia stato un bibliotecario valente ed appassionato come pochi, un devoto cultore del libro letteralmente innamorato di certe ineffabili, delicatissime attrattive che solamente tale professione, forse, sa elargire. Come che sia, stando a talune voci storico-critiche recenti, pare nondimeno che oggi sul grande Partenopeo si sia ormai detto tutto il necessario: sulle poesie e le canzoni, certo, ma pure sui racconti, sul teatro e perfino sugli splendidi saggi di storia della cultura; e` noto, poi, che da anni si sta preparando quell’edizione critica delle sue opere che tutti gli aficionados desiderano ansiosamente. D’altronde, non occorre appartenere all’esiguo manipolo dei ‘digicomiani’ per apprezzare il valore della sue creazioni, specie di quelle in versi: di sicuro non e` un mistero, in effetti, che tanti sono stati ed ancor sono i fruitori delle poesie e delle canzoni (fra le preferite, evochiamo Era de maggio..., A Marechiare, Marzo, Serenata napulitana, ’E spingole frangese e Pianefforte ’e notte, piccoli capolavori di cesellata levita` oggi inspiegabilmente, vergognosamente espunti da pressoche´ tutte le antologie scolastiche piu` adottate: mala tempora currunt, dunque...), liriche tutte legate all’amore, alla malinconia, al dolore tout court, al divenire insieme pacificante e inarrestabile della natura. Un dato peraltro e` indiscutibile: tutte le volte che, in spettacoli pubblici e pubblicizzati cosı` come in occasioni private, qualche lettore o cantante piu` o meno ‘autorizzato’ propone al pubblico la propria rielaborazione di un testo digiacomiano, tali ‘esecuzioni’, quando non cagionano un caldo fiume di lacrime, suscitano comunque nell’animo dei piu` profonde, intense, eloquenti emozioni. Rebus sic stantibus, chi puo` mai dubitare che si tratta di opere d’arte destinate a durare nel tempo, a trascendere i limiti angusti di un’epoca e di una maniera, ad avere un destino analogo a quello (per restare in Campania) del Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, nell’inquietante Cap-

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pella Sansevero, di certi estrosi approdi pittorici di Salvator Rosa o di Luca Giordano, oppure della sontuosa Reggia di Caserta? Capolavori simili – ci pare evidente – sono accomunati inter alia dal fatto di non essere frutti d’un furor poietico indubitabilmente felice ma capace d’appassionare toto corde, oggi, soltanto gli specialisti, ‘parti spirituali’ asserviti ad una moda effimera, superbe delizie di un gusto circoscritto, bensı` epifanie sublimi di archetipi decisivi dell’immaginario collettivo, pressoche´ aliene da artifici bizzarri quanto transeunti e pregne, piuttosto, d’un pensiero insieme solare e consapevole dell’ “infinita vanita`” di tutto quel ch’e` meramente umano. Ma rimanendo all’inquieto canzoniere digiacomiano, i suoi componimenti rappresentano per noi, in primis et ante omnia, la sintesi mirabile di una humana condicio affatto immutabile, perennemente sospesa fra l’angoscia indicibile della solitudine e i dolci travagli dell’amore, fra una luminosa gioia di vivere e il terrore raggelante della morte. E, al fine di meglio far comprendere la statura artistica e la portata davvero universale del messaggio lirico di un Di Giacomo che peraltro – per piu` ragioni anche di natura istituzionale cui s’accennava sopra e che non est hic locus comunque evocare – vien sempre meno letto e meditato, crediamo giovi trascrivere un passo famoso sull’essenza della poesia tolto dal capolavoro di Arthur Schopenhauer: Nella lirica dei veri poeti si rispecchia l’intima natura dell’umanita` intera, e tutto cio` che i milioni di uomini passati, presenti, futuri, in situazioni sempre eguali perche´ sempre rinascenti, hanno sentito e sentiranno, trova in quella la piu` eloquente espressione. E poiche´ quelle situazioni, nel loro incessante ritorno, durano eterne appunto come l’umanita` e producono gli stessi sentimenti, le produzioni liriche dei veri poeti rimangono nei secoli vere, efficaci, fresche.

Invero, le sue liriche possono diventare per il lettore postmoderno un locus amoenus di guarigione e di salvezza, un universo senza confini, ne´ violenze, ne´ miserie, una sorta di ‘paradiso degli artisti’ ove coabitano – tanto per non allontanarci dal milieu culturale partenopeo – i drammi piu` famosi di Scarpetta, Bracco e, soprattutto, di Eduardo, la maschera beffarda e sferzante di Raffaele Viviani, la duttilita` geniale, la stupefacente penetrazione psicologica e l’humanitas toccante di Vittorio De Sica, l’arte scaltrita e prorompente del miglior Nino Taranto, le suadenti, calibratissime, ‘classiche’ interpretazioni di Roberto Murolo (alla cui diffusione e valorizzazione a

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livello nazionale e internazionale, a onor del vero, Renzo Arbore, musicista di talento e gusto indubbi legato da profondo affetto al maestro napoletano, ha contribuito in maniera cospicua) e – non certo ultimo – l’intramontabile Antonio De Curtis, un Toto` ancor vivissimo nell’immaginario contemporaneo che noi reputiamo esser stato non solo un impareggiabile burattino disarticolato e ‘meccanico’, ma anche un ingegno ora arguto, ora aggressivo, ora commovente, talvolta galvanizzante e sempre sorprendente e coinvolgente. Circa poi la sensibilita` di Don Salvatore per i marginali – un tratto determinante, ci pare, della sua poetica squisita e dolorosa ad un tempo –, Antonio Ghirelli ha sostenuto persuasivamente, qualche decennio fa, che «il suo grande merito consiste nel rifiuto di ‘varcare la soglia del salotto borghese’, nella scelta del costume popolare e piccolo-borghese, come materia del racconto, che si ispira ai modi del naturalismo, anche se per temperamento egli sente l’influenza di Hugo assai piu` che non quella di Zola e indugia, con una scelta deliberata, sulla miseria dei bassi, cioe` sulla realta` sociale di Napoli, anziche´ sugli ambienti mondani». Gia` Attilio Momigliano – nella sua importante Storia della letteratura italiana – aveva d’altronde notato come, nella varia e vasta produzione digiacomiana, evidenti siano «i legami con la letteratura verista e regionale, per l’amore che egli ebbe per la storia e per l’aneddotica della sua Napoli, e sopra tutto per la folla di umili o miserabili napoletani, per i luoghi di malavita e di miseria, e per le tragedie che costituiscono la materia piu` comune del suo teatro, delle sue novelle e delle sue poesie. Ma lo spirito con cui questa materia e` animata non e` ne´ quello del verista ne´ quello del regionale, bensı` quello di uno dei piu` sentimentali e malinconici e musicali poeti che abbia avuto l’Italia». *** Nel 1860 Napoli era una grande e bellissima citta` di circa 600.000 abitanti, ricca di giardini, palazzi e marine magnifiche ed ammalianti. Il clima ed il paesaggio l’avevano resa meta, sin dal secolo precedente, di tanti viaggiatori d’Europa, che ne avevano via via costruito un autentico mito, fatto essenzialmente di colori forti e musiche dolci, di profumi soavi e di sapori intensi, di un mare e di un sole mirabili e incomparabili: il luogo d’elezione, in una parola, di molte delle piu` desiderabili passioni umane. Sappiamo bene che peraltro, col passare del tempo e delle generazioni, siffatto topos

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splendido e seducente e` stato spesso indebitamente trasformato in rappresentazioni oleografiche di vario genere, ma sempre tutt’altro che fini e vivificanti. Salvatore aveva soltanto pochi mesi quando Giuseppe Garibaldi arrivo` a Napoli e parlo` dal balcone di piazza dello Spirito Santo: alla conquista del Regno Delle Due Sicilie fara` seguito l’annessione al Regno d’Italia. Nato a Napoli il 12 Marzo del 1860, Di Giacomo, dopo gli studi classici, s’iscrive alla Facolta` di Medicina e Chirurgia per accontentare il padre Francesco Saverio, pediatra; nel frattempo pero` compone poesie e novelle... Un episodio raccapricciante, ed insieme emblematico, lo indusse pero` ad abbandonare l’Universita` dopo tre anni: una mattina, un bidello soprannominato “Setaccio”, cadendo dalle scale, quasi gli rovescio` addosso una bacinella piena di pezzi di cadaveri che erano serviti agli studenti per le esercitazioni anatomiche... Salvatore, sgomento e oltremodo disgustato, si rese davvero conto che l’arte d’Ippocrate non era la sua strada ed abbandono` definitivamente quegli studi. Passo` quindi al giornalismo collaborando, fra l’altro, al “Corriere di Napoli” di Scarfoglio e della Serao, e comincio` il suo tirocinio di cronista, spesso impegnato a denunciare senza mezzi termini le spaventose miserie e il degrado degli strati sociali piu` deboli. Successivamente, lavoro` in diverse biblioteche fino ad assumere la direzione della Lucchesi Palli, presso la Biblioteca Nazionale, ove ancor oggi si possono vedere, fra l’altro, quelle schede che sempre vergava con grafia minuta, nitidissima ed elegante. Nel frattempo, la sua fama era divenuta grande, grazie ad un importante articolo di Benedetto Croce (1903) ed anche ai notevoli consensi ottenuti dalla sua pie`ce piu` fortunata e riuscita, Assunta Spina; nel 1905, aveva conosciuto in biblioteca Elisa Avigliano, una ragazza fresca di laurea, bella e gentile, intelligente e sensibile, moderna e disinvolta per quanto consentito dai tempi. Nonostante la cospicua differenza d’eta`, fra il poeta ormai maturo e l’insegnante in pectore nacque un amore insieme profondo e quantomai tormentato: dopo ben undici anni di fidanzamento, i due infine decisero di sposarsi e, fra alti e bassi, rimasero insieme fino alla morte dello scrittore. Nel 1924, Mussolini nomino` Di Giacomo senatore insieme con Ugo Ojetti. Il Senato pero` non ratifico` quella nomina, peraltro caldeggiata da Benedetto Croce, giacche´ qualcuno aveva perentoria-

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mente sostenuto che: «Piedigrotta non puo` entrare in Senato»; l’Ojetti – penna eclettica e di gusto squisito che non per caso oggi si sta riscoprendo – ebbe a scrivere, dopo aver rifiutato la propria nomina: «arrossirei al pensiero di entrare per censo al Senato dove, solo perche´ povero, non ha potuto entrare un grande poeta». Di Giacomo ebbe una sorta di rivincita allorquando, nel 1929, fu nominato Accademico d’Italia: egli tuttavia non partecipo` mai alle sedute, anche perche´ non poteva permettersi la divisa necessaria... Possedeva soltanto un vecchio cappotto che cominciava ad essere impresentabile: «Era di un cosı` bel colore marrone – affermava celiando – ma ora sta diventando Rousseau; bisogna che lo faccia Voltaire». Per motivi per molti versi evidenti, la poesia e la prosa narrativa digiacomiane hanno avuto una sorte di gran lunga migliore della sua pur rilevante e ininterrotta attivita` di storico ed erudito. Molti hanno osservato che don Salvatore, quantunque assai sensibile ed attento ai comportamenti del popolo e della borghesia partenopei, auspico` costantemente un ritorno a quel nobile e glorioso passato della citta`, ch’egli tanto amava e che vedeva inesorabilmente minacciato dall’oblio. Fra le sue passioni, sottolineiamo innanzitutto la pittura e la civilta` letteraria del Seicento, la musica, il teatro e, in generale, la vita culturale e civile del Settecento, i due secoli in cui Napoli s’era apprestata a divenire una grande capitale europea, assieme a Parigi, a Vienna e a Londra, sino al tragico epilogo della Repubblica Partenopea. In una monografia memorabile, di recente saggiamente ristampata, Luigi Russo affermava con ragione: Egli ama il Settecento, e riesce a farne il suo centro spirituale, senza sforzo e senza inganni, per questa sua potente immaginazione che e` capace di straniarlo dal mondo contemporaneo, poco consentaneo al suo atteggiamento poetico. Non e` la consueta curiosita` e il consueto vezzo di erudito che lo inducono a rovistare tra i documenti ingialliti, che testimonino della sua vecchia Napoli, dei suoi teatri, dei suoi musicisti, delle sue cantanti, dei suoi poeti popolari, ne´ la sua e` la disposizione complicata dell’artista alla Gozzano. [...] Si fa figlio insomma di quel secolo, perche´ il suo mondo pittorico-lirico meglio si intona nell’eta` che amo` la musica di Pergolesi, di Iommelli, di Scarlatti e di Cimarosa, le ottave ariostesche e tassesche e le festevoli ariette del Metastasio. Storicamente, anche il suo scrivere dialettale e` lo scrivere una lingua che fu non il dialetto, ma la lingua-principe del reame da cui egli esce.

` questa, probabilmente, una delle ragioni forti per cui coltivo` E

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INTRODUZIONE

infaticabilmente «certe cose antiche», mettendo a frutto le sue ‘fatiche’ di bibliotecario dapprima presso il Conservatorio di San Pietro a Majella, poi alla Nazionale ed infine alla Lucchesi Palli. Don Salvatore si dedico` a meticolose ricerche sulla prostituzione napoletana in eta` moderna, sul San Carlino, sui Conservatori, sempre manifestando – s’e` accennato dianzi – in maniera ora piu` ora meno palese un’accorata nostalgia per quelli che percepiva come i momenti decisivi della storia di un Regno e di un’illustre civilta` in lento ma irreversibile declino. Nella belle e´poque partenopea, inoltre, l’atteggiamento del poeta Di Giacomo risulta alquanto originale, col suo sdegnoso distacco dalle mode letterarie del tempo: dal classicismo alla Carducci al simbolismo sui generis di Pascoli, dall’intimismo disincantato di Gozzano al furore immaginifico e vitalista di D’Annunzio. Altre sono – lo ha rammentato opportunamente il Ghirelli – le frequentazioni che predilige, come del resto attestano diversi suoi saggi: I compagni migliori sono per lui pittori e scultori – Morelli, Dalbono, Migliaro, Gemito, Luca Postiglione – piuttosto che letterati e giornalisti dei quali, scontroso ed ombroso com’e`, detesta la loquacita`, la superficialita`, i pettegolezzi; eppure e` capace di sedere per ore al caffe` Gambrinus, a discutere e ad ascoltare. Chi gli vuol bene sa che non bisogna interromperlo e neppure sollecitarlo: egli emerge improvvisamente da una meditazione, da un sogno, da un momento di malumore, per accettare il colloquio ed allora sa essere anche pungente ed allegro.

A proposito dell’assoluta originalita` della poetica del Napoletano, Biagio Zampano, una quarantina d’anni or sono, ha osservato: Libero Bovio disse che il Di Giacomo ‘era il piu` imitabile e il piu` inimitabile dei poeti italiani: imitabilissimo nella forma, inimitabile nella sostanza. Era una forza della Natura. I digiacomiani sono un fastidioso pleonasmo nella vita dell’arte. Il suo posto rimane vuoto, perche´ il genio non tollera successioni’. [...] Per la sua trasparente tersita` di cantore d’anime, umano per la sua nobile e confortevole spiritualita`, attuale per la fresca aderenza della sua poesia alla realta` sempre uguale del vivere, Di Giacomo appartiene agli spiriti piu` rappresentativi della nostra letteratura.

La sua opera e` stata attentamente studiata da diversi protagonisti della cultura contemporanea: da Croce a Russo, da De Robertis a Borgese, da Serra a Flora, da Pasolini a Mengaldo. Non va sottaciuto,

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inoltre, che la produzione del grande partenopeo – in primis et ante omnia, come d’altronde prevedibile, i suoi versi chiaroscurati e dolceamari, rastremati e melodiosi – ha colpito numerose altre individualita` di primo piano nelle lettere italiane otto e novecentesche: Verga, De Roberto, Fogazzaro, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Tilgher, Ojetti, Marotta, senza dimenticare Montale, Gatto, La Capria... A Luigi Russo, che gli aveva dedicato il libro importante dianzi citato, Salvatore Di Giacomo – ormai in eta` e gravemente indebolito dalla malattia – chiese accorato: «Croce sa come io sono ridotto?». Don Benedetto, informato di cio`, e certo non dimentico del loro antico sodalizio, nonostante le incomprensioni e il silenzio degli ultimi anni, decise allora di andare a casa sua. Ma leggiamo direttamente il racconto del Croce: Dissi a mia moglie di telefonare alla signora Di Giacomo e domandarle se avrebbero gradito una nostra visita. La risposta venne pronta, affermativa e premurosa; e noi andammo a visitarlo. Lo trovai che si era dato a leggere, per passare il tempo, ogni sorta di romanzi, dei piu` puerili, e aveva rinunziato allo scrivere. Parlammo di lui e dei tempi andati: non feci allusioni a cose politiche. La conversazione si svolse come se continuasse quelle solite tra noi. Gli detti buon animo, cercai di persuaderlo che si sarebbe ristabilito. Quando lo lasciai, e noi ci trattenemmo ancora un po’ con sua moglie, mentre stavamo per andar via ricomparve sulla porta della sua stanza, in piedi, sorridente, come per la sorpresa che ci faceva e per la prova che aveva data a se stesso del suo non del tutto esausto vigore, e ci saluto` ancora sull’uscio. Di tempo in tempo rinnovammo le nostre visite, finche´ un giorno sapemmo che era peggiorato ed era finito. Una signora inglese, sua vecchia amica, che lo aveva assistito, mi narro` delle sue ultime ore, e come le avesse detto che non immaginava che si dovesse soffrir tanto per morire.

Salvatore di Giacomo morı` il 4 aprile del 1934 nella sua casa di via S. Pasquale, dove si era trasferito due anni prima, e dove nel 1984 sarebbe stata apposta una lapide. La moglie gli sarebbe sopravvissuta per un trentennio, negli ultimi anni perdendosi tra i ricordi: un amico una volta la trovo` che imboccava un ritratto di gentiluomo del Settecento appeso sul divano, forse ricordando nella sua mente ormai confusa l’amore del poeta per quelle figure imparruccate e per quel mondo scomparso. E quando il fatto si seppe, nessuno ebbe l’ardire di sorridere delle cure, insieme amorose e amaramente eloquenti circa lo stato tragico della sua psiche, che la vecchia signora riservava all’ignoto personaggio della tela...

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3. Figure della marginalita` nella poesia digiacomiana Un dato comunque e` indubbio e inconcusso: Salvatore Di Giacomo e` ancor considerato, se non un protagonista, un autore famoso, e in special modo la sua opera in versi e` ancora ben presente nella ‘biblioteca mentale’ di parecchi lettori italiani: invero, come si potrebbe dimenticare l’eleganza suadente, misurata e profonda di numerosi suoi componimenti, diversi dei quali hanno avuto – lo si e` accennato sopra – ampia diffusione anche grazie alle melodie che da sempre li accompagnano. Viceversa, non e` forse altrettanto noto che buona parte della produzione del sommo poeta napoletano risente sensibilmente di temi e problemi allora al centro degl’interessi dell’imperante cultura positivista: in effetti, storie di miseria, d’emarginazione, talora tragiche e finanche macabre, ricorrono sovente nelle prose digiacomiane, cosı` come in raccolte poetiche quali Sunette antiche (1884) e ’O funneco verde (1886). «Attraggono il Di Giacomo – scriveva oltre un secolo fa Benedetto Croce in un articolo ampio ed importante, che tanto contribuı`, fra l’altro, a render celebre lo scrittore partenopeo – soprattutto gli spettacoli tragici, umoristici, macabri, i miscugli di ferocia e di bonta`, di comicita` e di passione, di abbrutimento e di sentimentalita`. E i suoi personaggi sono meretrici, camorristi, saltimbanchi, pezzenti, ubbriaconi, ciechi, storpıˆ, infermi, vecchi che malinconicamente vedono la vita velarsi ai loro sguardi. E i suoi ambienti sono vicoli sudici e pittoreschi, fondaci oscuri, botteghe e bassi, locande di mala fama, ospizıˆ, ospedali, carceri». Cosı`, in ’O vico d’ ’e suspire, per esempio, vediamo rappresentata una societa` di camorristi presi, assai piu` che dalle ordinarie, inevitabili rivalita`, dalle proprie avventure sentimentali. Lungi dagli ideali di virilita` spavalda e aggressiva che vorrebbe incarnare, il camorrista si manifesta qui in tutta la sua umanissima fragilita` di spasimante: ’A cchiu` meglia farenara sta ’int’ ’o vico ’e Ppaparelle, addo´ fanno ’e farenelle1 tutte ’e capesucieta`. Comm’ ’a gnostia2 tene ll’ uocchie

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I cascamorti. Inchiostro.

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

e se chiamma ’onna Rusina, nfarenata ’int’ ’a farina d’ ’a cchiu` fina qualita`. Dint’ ’o stesso vecariello, facce fronte ’a farenara, Peppenella ’a gravunara guarda ’e giuvene passa`.

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Chella rire e chesta guarda, chesta guarda e chella rire, e ne vo´tteno suspire3 tutte ’e capesucieta`!...

L’ appuntamento p’ ’o dichiaramento e`, invece, un serrato e sinistro dialoghetto preliminare a un duello fra camorristi: – – – –

Vuie site don Errico Benevento? A servirve. – ’O nepote ’e donna Rosa? Giusto. – Putite ascı` pe nu mumento? E pecche´? – V’aggia dicere na cosa...

– Fora? E pecche´, cca` dinto nun ce sento? – Me parite na zita cuntignosa! ` pe chill’ appuntamento... Nun capite?... E – Ah! Be’, scusate... – Io so’ Funtanarosa. – Funtanarosa? Aniello? – Proprio, Aniello... – Frate cugino a chillo mio signore? – Nonzignore, lle songo cumpariello. – Io mo nun m’ aspettavo tant’ onore! – Onore e` mio... – Va be’... dicitecello ca ce vedimmo... lla`... mmerzo cinc’ ore.

In questo mondo fondato su omerta` ed “onore”, terribile prassi comune – come ci rammenta la celeberrima, emblematica storia di Assunta Spina – e` lo Sfregio, che Di Giacomo rende in tutta la sua crudezza con una carica poetica d’intensita` quasi espressionistica: Ha tagliata la faccia a Peppenella Gennareniello de la Sanita`; che rasulata! Mo la puverella, 3

E ne gettano sospiri.

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

INTRODUZIONE

mo proprio e` stata a farse mmedeca`. Po’ ll’hanno misa ’int’ a na carruzzella, e` ghiuta a ll’Ispezzione a dichiara`, e ’o dellicato,4 don Ciccio Pacella, ll’ha ditto: – Iammo! Di’ la verita`. Ch’ e` stato, nu rasulo, nu curtiello? Giura primma, lla` sta nu crucefisso (e s’ha tuccato mpont’ a lu cappiello).

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Di’, nun t’ ammenacciava spisso spisso? – Chi? – ha rispuost’ essa. – Chi? Gennareniello! – No!... V’ ’o giuro, signo’! Nun e` stat’ isso!

Nella produzione del maggior lirico napoletano, poi, non mancano certo volti e vicende di prostitute. Si pensi, ad esempio, a Irma, alla sua sorte tanto amara quanto irreversibile: D’ ’a lucanna, aieressera, mmiez’ ’a via nne fuie cacciata: mmiez’ ’a via sulagna e nnera tutt’ ’a notte Irma e` restata. Tutt’ ’a notte ha fatto ’a cana: sotto e ncoppa ha cammenato na serata sana sana. E nisciuno s’e` accustato...

Altro che Irma, altro che questo nome dal sapore esotico: e` una povera “donna perduta” che si vende per sopravvivere ai morsi fatali della fame: Irma: nomme furastiero: ma se chiamma Peppenella: fuie ngannata ’a nu furiero, e mo... campa... (puverella!) ` fatto iuorno. Passa gente. E «Psst! Siente!...» E rire... e chiamma... C’ ha dda fa’ si ha perzo ’o scuorno? C’ ha dda fa’? Se more ’e famma.

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Il poliziotto.

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

Mmerz’ ’e nnove s’ha mangiata na fresella nfosa a ll’ acqua. E mo, comme a na mappata, sta lla` nterra. E dorme, stracqua.

La Nanninella di ’O pranzo a ’o nnammurato, ancora, e` un’altra “miserabile” che decide di ‘far la vita’ per offrire qualche pur modesta gioia al proprio amante, rinchiuso in carcere. Sempre acuto psicologo, ma specialmente osservatore finissimo della psicologia femminile, Di Giacomo la dipinge con magistrale essenzialita` in queste quartine, al cui fascino dolente e` arduo rimanere insensibili:

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Ah, si ’o sapesse Aniello «’o scarrecante», si ll’ appurasse chello ca e` custato sta mullica ’e furmaggio pizzicante e stu pullo nfurnato e mbuttunato!5 ` custato nu sı`, sceppato a fforza E a Nanninella «a rossa» ’a nu studente...6 E, doppo, s’ha mangiate ’e mane a mmorza sta femmena ’e chist’ ommo malamente!... Sı`: s’e` vennuta!...7 Ce vo’ nu curaggio!... Ma si no chi purtava a «San Francisco» stu pullo mbuttunato e stu furmaggio, e sta bottiglia ’e vino e ’o ppane frisco? Nu biglietto ’int’ ’o ppane essa ha mpezzato (quanno Aniello s’ ’o mmangia ’o liggiarra`): «Nega sempri, mi ha ditte l’avucato!... Sempre ferele Annina ti sarra`!...».

Meno eclatanti o sconcertanti, ma altrettanto difficili sono i percorsi esistenziali di altri sventurati presenti nel variegato canzoniere digiacomiano. Colpisce, fra gli altri, l’episodio evocato nel sonetto ’O ’nteresse: un’attempata strozzina non si fa scrupolo – in una vera e propria guerra fra miserabili – di spremere fino al sangue una povera madre di famiglia: – Quante so’? – So’ se’ solde... – Embe`?... – Scusate; ll’ ati quattro v’ ’e ddongo viernarı`... 5 6 7

Ripieno. Da uno studente. Si e` venduta.

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

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– Sette, allora. – Comm’ e`? M’ aumentate tre solde pe tre ghiuorne, se’ Marı`?! – Te cummiene? – Ma comme? Ve pigliate chisto ’nteresse? – Oi ne’, tu ’e buo’ accussı`? M’ e’ ditto niente quanno t’ ’aggio date?... ` troppo giusto... che ve pozzo dı`?... – E Penzate ca maritemo sta a spasso, ca nun me porta niente pe magna`, ca sta facenno ll’ arte ’e Micalasso!...8

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– Bella mia, tu che buo’? Che t’ aggia fa’? ` giusto, e` giusto... nun ve mporta niente... – E Vevitevillo,9 ’o sango de la gente!...

Se si considerano poi i versi di ’On Aceno ’e fuoco, e` probabile che ritorni alla mente un celebre personaggio vittorughiano, lo sventurato Quasimodo di Notre-Dame de Paris: nella composizione, infatti, si narra con tratti rapidi e sferzanti la triste storia di uno sguattero deforme e indesiderabile che, ormai trentenne, s’innamora della figlia del padrone, ma ne viene duramente respinto. Animo sensibile in un corpo sgraziato, l’uomo non sopravvivra` al dolore: 10

– E ce steva nu scartellatiello... nu scartellatiello!

– C’ a trent’ anne era sguattero ’e cuoco. Era sguattero ’e cuoco. Nun sapeva ne´ mamma e ne´ patre... Stu scurfaniello!11 – E ’o chiammaveno ’On Aceno12 ’e fuoco. Don Aceno ’e fuoco!

Avendo appreso delle imminenti nozze della figlia del padrone, di cui e` perdutamente innamorato

8

Che sta facendo il Mestiere di Michelaccio!... Bevetevelo. 10 Un gobbetto. 11 Piccolo scorfano. Lo scorfano e` un pesce dall’aspetto ripugnante. 12 Chicco, granello. 9

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

– P’ ’o dulore, p’ ’o schianto c’ avette! P’ ’o schianto c’ avette! – Se stutaie13, pover’ Aceno ’e fuoco! Don Aceno ’e fuoco!

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– E ncopp’ ’o fucularo... Ollao`! Laira`! ’E cennere nu pizzeco ce steva... e niente cchiu`! E ncopp’ ’o fucularo... Ollao`! Laira`! ’E cennere nu pizzeco ce steva... e niente cchiu`!

Ancor piu` straziante, se possibile, e` l’esistenza di Nummero Vintuno, un poveraccio d’infimi natali alla cui vicenda il lirico partenopeo consacra ben cinque sonetti. L’epigrafe (Fa bene, avarraie bene!) compendia e commenta con sarcasmo eloquente l’intera storia di questo personaggio, che non puo` fare a meno – quasi per istinto naturale – di manifestare sempre e comunque il suo amore verso il prossimo: ` nummero vintuno: e` nu surdato E d’ ’o sesto riggimento ’artigliaria: stette a ’e manovre, cadette malato e a Napule turnaie c’ ’a purmunia. Perdette ’a mamma ’a piccerillo; ’o pato, nu cammurrista, ’a reto ’a Cunciaria stutaie na guardia: ascette: fuie mbarcato, se’ mise doppo, p’ ’a Pantellaria. Na sora se spusaie n’ ato ammunito, fenette mala femmena, e partette ncopp’ a nu bastimento pe Marziglia; murette dint’ ’e ccarcere ’o marito: stu scasato ’e guaglione ’e leva ascette... E chesta e` ’a storia ’e tutta sta famiglia.

La sua bonta` e` tale che tutti se ne meravigliano e lo considerano “malato” di altruismo: 13

Si uccise.

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

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Embe`, quann’ uno e` buono, e` naturale, buono rummane: ’o povero artigliere, pe malato trasette ’int’ ’o spitale e malato comm’ e` vo’ fa’ ’o nfermiere. Isso dice: – E che fa? Che ce sta ’e male ca porto na stanfella o nu bicchiere? Cca` simmo tutte amice e tutte eguale; chello ca pozzo fa’, faccio: e` dduvere. –

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’O capitano medico ’o supporta: ce l’ hanno ditto e ha ditto: ’Assate ’o fa’: facitelo sfuca`, che ve ne mporta? – E pe tutto ’o spitale ’a Trenita` se dice ’e st’ ommo ca fa tanto bene: – Aiuta a tutte: e` malattia ca tene! –

Ma il giorno in cui e` lui ad aver bisogno degli altri, nessuno – guarda caso... – muove un dito per soccorrerlo: Dint’ ’o vierno, nu sabbato matina, na moneca ’e sti ffiglie ’a Carita`, purtannele a primm’ ora ’a medicina ’o truvaie muorto, ’o truvaie friddo gia`. Finalmente accussı`, stiso ’a supina, s’ arrepusava ’int’ a ll’ eternita`: ma mmiez’ ’a faccia addelurata e fina ll’ uocchie ancora cercaveno piata`... ’A moneca spiaie: – Ma com’e` stato?... – Stanotte... suora ma’!... Cercava aiuto... Ce chiammava... – dicette nu malato. – Cu stu friddo!... E nisciuno s’ e` susuto... – Nessuno e` accorso? – Suora ma’... nisciuno... – E chesta e` ’a storia ’e nummero vintuno.

Versi di tale altezza civile, morale ed umana tout court ben dimostrano quanto aveva ragione il grande Brodskij, allorquando affermava apertis verbis che «chi considera la poesia un modo per passare il tempo, una ‘lettura’, commette un crimine antropologico, in primo luogo contro se stesso». E una mirabile conferma di tali posizioni, della serieta` profonda della piu` alta poesia ci e` stata d’altronde offerta, non molti anni or sono, da una delle voci liriche

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

piu` sincere e struggenti del nostro tempo, Alda Merini, un’anima creatrice che – com’e` noto – ha bevuto sino all’ultima stilla l’amaritudo amarissima di una condizione umana davvero estrema: Per carita`, non tutti hanno voglia, quando tornano dal lavoro, di leggersi i poeti, che Dio ce ne guardi. Pero` la poesia educa il cuore, la poesia fa la vita, riempie magari certe brutte lacune, alle volte anche la fame, la sete, il sonno. Magari anche la ferita di un grande amore, un amore che e` finito, oppure un amore che potrebbe nascere.

Bologna, 15 giugno 2005

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Giovanni Greco

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BIBLIOGRAFIA

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1. Opere di Salvatore Di Giacomo utilizzate in questa crestomazia La prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII. Documenti inediti (1899), Napoli, Edizioni del delfino, 1968 Le poesie e le Novelle. Il Teatro e le Cronache, a cura di F. Flora e M. Vinciguerra, Milano, A. Mondadori, 1946, 2 voll. Poesie e prose (1977), a cura di E. Croce e L. Orsini, Milano, A. Mondadori, “I Meridiani”, 1995 La vita a Napoli, a cura di A. Fratta e M. Piancastelli, Napoli, Bibliopolis, 1986

2. Alcuni studi su Salvatore Di Giacomo AA.VV., Omaggio a Salvatore Di Giacomo [Contributi di F. Nicolini, M. Stefanile, M. Vajro et alii], Napoli, Azienda Autonoma di Soggiorno Cura e Turismo, 1960 M. Angarano Moscarelli, Il bibliotecario Salvatore Di Giacomo. Vicende poco note di un noto poeta, Napoli, Liguori, 1987 A. Benevento, Napoli in dialetto e in lingua. Saggi su Salvatore di Giacomo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2000 F. Bruno, La scapigliatura napoletana e meridionale, Napoli, La nuova cultura, 1971 B. Croce, Salvatore Di Giacomo (1903), in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, vol. III, Bari, G. Laterza, 1929 B. Croce, Salvatore Di Giacomo (1945), in Id., Filosofia, poesia, storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1996 E. Croce, Prefazione a S. Di Giacomo, Poesie e prose, a cura di E. Croce e L. Orsini, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 1977 G. De Robertis, Salvatore Di Giacomo (1912), in Scritti vociani, Firenze, Le Monnier, 1967 F. Flora, Nuova lettura delle poesie e delle prose di Salvatore Di Giacomo, Napoli, EPT, 1961 A. Fratta, Salvatore Di Giacomo, Roma, Newton & Compton, 1997

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BIBLIOGRAFIA

F. Gaeta, Studio sul Di Giacomo (1911), in Prose, a cura di B. Croce, Bari, G. Laterza, 1928 A. Gatto, Napoli N. N., Firenze, Vallecchi, 1974 A. Ghirelli, Salvatore Di Giacomo, in Storia di Napoli (1973), Torino, Einaudi, 1992 L. Giusso, Salvatore Di Giacomo, in Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese, 1942 T. Iermano, Il melanconico in dormiveglia. Salvatore Di Giacomo, Firenze, Olschki, 1995 R. La Capria, Quelle tre anime dei napoletani, in L’armonia perduta, Milano, Mondadori, 1986 F. T. Marinetti, L’originalita` napoletana del poeta Salvatore Di Giacomo, Napoli, Casella, 1936 P. V. Mengaldo, Tre studi su Salvatore Di Giacomo, Napoli, Liguori, 2003 A. Momigliano, Storia della letteratura italiana. Dalle origini ai nostri giorni, MilanoMessina, Principato, 1966 E. Montale, Salvatore Di Giacomo (1960), in Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976 U. Ojetti, Di Giacomo (1929), in Cose viste, a cura e con un saggio di T. Iermano, Cava dei Tirreni, Avagliano Editore, 2002 U. Ojetti, Salvatore Di Giacomo, in Piu` vivi dei vivi, Milano, Mondadori, 1935 A. Palermo, Salvatore Di Giacomo, in Da Mastriani a Viviani, Napoli, Liguori, 1974 P. Pancrazi, Rileggendo Salvatore Di Giacomo (1927), in Scrittori d’oggi. Serie prima, Bari, G. Laterza & Figli, 1946 P. P. Pasolini, La poesia dialettale del Novecento (1952), in Passione e ideologia. Prefazione di A. Asor Rosa, Milano, Garzanti, 1994 U. Piscopo, Salvatore Di Giacomo. Dialetto, impressionismo, antiscentismo, Napoli, Cassitto, 1984 U. Piscopo, Salvatore di Giacomo nel cinquantenario della morte, in “Cultura e scuola”, aprile-giugno 1984 S. Rossi, Salvatore Di Giacomo. Storia della critica (1903-1966), Napoli, Giannotta, 1968 L. Russo, Salvatore Di Giacomo (1945), Torino, Nino Aragno, 2003 R. Serra, Le lettere (1914). Introduzione, revisione testuale e commento a cura di U. Pirotti, Ravenna, Longo, 1989 E. Siciliano, Prefazione a S. Di Giacomo, Lettere a Elisa, a cura di E. Siciliano, Milano, Garzanti, 1973 A. Tilgher, Salvatore Di Giacomo, in La poesia dialettale napoletana. 1880-1930, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1930 M. Vajro, La canzone napoletana dalle origini all’Ottocento, Napoli, Vajro, 1957 B. Zampano, Salvatore Di Giacomo, in Letteratura italiana. I minori, IV, Milano, Marzorati, 1962

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SFREGIO E ONORE NELLA CULTURA NAPOLETANA FRA OTTO E NOVECENTO*

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di Stefano Scioli

Nel suo Dizionario moderno. Supplemento ai Dizionari Italiani pubblicato a Milano per i tipi Hoepli in editio princeps nel 1905, Alfredo Panzini cosı` annotava alla voce “sfregio”: «Nel dialetto napoletano indica il colpo di rasoio dato a tradimento sul volto, solitamente a scopo di vendetta amorosa» (p. 444). Sembra – stando al Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (Bologna, Zanichelli, 1988, V, p. 1194) – che questa sia la prima registrazione “ufficiale”, nella lessicografia italiana, di un uso, localmente specificato (in area partenopea e piu` latamente meridionale), del vocabolo, che risulta, invece, attestato – nel senso generale di «taglio, ferita, cicatrice e sim. che altera o deturpa il volto» – sin dal XVII secolo. * Nel testo si riproduce in parte la lectio da me tenuta l’8 aprile 2004 ai cadetti dell’Accademia Militare di Modena (Facolta` di Giurisprudenza) nell’ambito del corso di Storia contemporanea del Chiar.mo Prof. Giovanni Greco. Desidero qui ringraziare – per il prezioso aiuto fornitomi – il personale della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, e in particolare i Dott. Marilena Buscarini, Giacomo Nerozzi e Maurizio Avanzolini. Un grazie sentito va anche, per la costante disponibilita`, al personale della Biblioteca del Dipartimento di Italianistica, a quello della Biblioteca Universitaria e ai responsabili del Dipartimento di Biologia Evoluzionistica Sperimentale dell’Universita` degli Studi di Bologna. 1 Vd. il Vocabolario degli Accademici della Crusca, Quarta impressione all’Altezza Reale del Serenissimo Gio: Gastone, Granduca di Toscana loro signore, In Firenze, Appresso Domenico Maria Manni, 1735, IV, p. 510; cfr. anche il Vocabolario degli Accademici della Crusca. Oltre le giunte fatteci finora, cresciuto d’assai migliaja di voci e modi de’ Classici, le piu` trovate da veronesi, dedicato a Sua Altezza Imperiale il Principe Eugenio, Vice-Re d’Italia, Verona, Dalla Stamperia di Dionigj Ramanzini, 1806, VI, p. 170; il Vocabolario della lingua italiana gia` compilato dagli Accademici della Crusca ed ora novamente corretto ed accresciuto dall’abate Giuseppe Manuzzi, In Firenze, Appresso David Passigli e Socj, 1840, t. II, parte II, p. 1181; il Vocabolario Universale della lingua italiana, edizione eseguita su quella del Tramater di

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GLI SFREGI DI NAPOLI

Sulla scorta infatti del Vocabolario degli Accademici della Crusca1, ancora i piu` diffusi lessici della lingua italiana nella fin de sie`cle e nel primo Novecento lo spiegano soltanto nel suo significato generale di «taglio fatto altrui sul viso», ricordando il latino «vulnus oris inflictum», senza far alcun riferimento alla diffusione di tale pratica nel napoletano: cosı`, ad esempio, il Dizionario della lingua italiana di Niccolo` Tommaseo e Bernardo Bellini (Torino, UTET, 1872, VI, p. 867), il Vocabolario universale italiano compilato a cura della Societa` tipografica Tramater e Ci. (In Napoli, Dai torchi del Tramater, 1838, VI, p. 301) e il Dizionario della lingua italiana edito a Bologna, «Per le stampe de’ Fratelli Masi» nel 1824 (p. 257). E cosı` – ma con un’ulteriore precisazione sulle ragioni – anche Il Nuovo Vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, ordinato dal Ministero della Pubblica Istruzione, compilato sotto la presidenza del Comm. Emilio Broglio, dai signori Bianciardi Stanislao, Dazzi Pietro, et alii (Firenze, Coi tipi di M. Cellini, 1897, IV, p. 261), che ha: «Sfregio. Dicesi un taglio, una ferita sul viso, fatto per nimicizia, per odio e anche talvolta per religione, per costumanza»2. La segnalazione di Panzini non sembra, d’altra parte, essere stata successivamente ripresa dai lessici, dai repertori, e dai vocabolari seriori: e` assente nel Dizionario enciclopedico italiano (Roma, Ist. Enc. It., 1960, XI, p. 226) – opera lessicografica che accompagno` la rinascita dell’Italia post-bellica – e nelle successive sue “versioni” aggiornate, il Lessico universale italiano (ivi, id., 1978, XX, p. 647, con i Supplementi, ivi, id. 1986, II, p. 420, e ivi, id., 1998, II, p. 445) Napoli con giunte e correzioni a cura del Professore Bernardo Bellini, Prof. Don Gaetano Codugni, Antonio Mainardi, ecc. ecc., Mantova, Presso gli Editori Fratelli Negretti, 1855, VI, p. 329; il Supplimento a’ Vocabolarj italiani proposto da Giovanni Gherardini, Milano, Dalla Stamperı´e di Paolo Andre´a Molina, 1875, V, p. 485; il Vocabolario della lingua parlata compilato da Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, Firenze, Spese della Tipografia Cenniniana, 1875, p. 1434. 2 Nulla dicono i principali dizionari napoletani otto-novecenteschi, pur sensibili, in altri casi, verso l’uso locale di vocaboli di diffusione generale nella lingua italiana: nulla il Vocabolario domestico napoletano e toscano compilato nello studio di Basilio Puoti, In Napoli, Dalla Stamperia del Vaglio, 1860; il Vocabolario Napoletano-italiano tascabile compilato sui dizionari antichi e moderni e preceduto da brevi osservazioni grammaticali appartenenti allo stesso dialetto per Pietro Paolo Volpe, ivi, Gabriele Sarracino, Librajo-Editore, 1869; il Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri del professor Raffaele D’Ambra da Napoli, ivi, A spese dell’Autore, 1873 (in fine: presso Chiurazzi) [rist. anast. Bologna, Forni, s.d.] e R. Andreoli, Vocabolario napoletano-italiano, Torino, Paravia, 1887 [ora Napoli, Arturo Berisio Ed., 1966]. Nulla A. Altamura, Dizionario dialettale napoletano, con introd. storicolinguistica e note etimologiche, Napoli, Fausto Fiorentino Ed., 1956. Non lo trovo nemmeno in A. Prati, Voci di gerganti, vagabondi e malviventi studiati nell’origine e nella storia, Pisa, Stabilimento Tipografico G. Cursi & Figli, 1940.

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e, in tempi piu` recenti, La Piccola Treccani (ivi, id., 1997, XI, p. 82). Non compare ne´ nelle Appendici dell’opus magnus Treccani, l’Enciclopedia Italiana, ne´ nel Vocabolario Treccani (ivi, id., 1997, V, p. 14). E neppure negli altri moderni dizionari continuamente riveduti, corretti e ampliati. Sorte identica viene riservata al vocabolo nel Grande Dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia ed ora diretto da Giorgio Ba´rberi Squarotti (Torino, UTET, 1996, XVIII, pp. 937-38), e nel Grande dizionario italiano dell’uso diretto da Tullio De Mauro (ivi, id., 1999, VI, p. 25). Se, dunque, risulta ancora sostanzialmente escluso dall’enciclopedia del sapere formalizzato nei lessici e nelle enciclopedie, il fenomeno dello “sfregio” napoletano come preciso segno di un linguaggio realizzato su e attraverso il corpo e`, invece, conosciuto – anche se non profondamente investigato – dall’antropologia. Nel corso del tempo – sappiamo – molti studi etnografici sono stati spesi nel documentare la pratica, diffusa soprattutto presso popolazioni dell’Africa e dell’Oceania, d’incidere profondamente la pelle per ottenere, ad esempio, tatuaggi ornamentali. Pratica, questa, presente anche in certe forme di arte contemporanea, per non dire di talune mode giovanili dei nostri giorni: la pelle, d’altronde, com’e` stato giustamente detto, rappresenta «la totalita` di una superficie di confine» tra noi e il mondo esterno3. Ma – sappiamo anche – come l’uso del tatuaggio sia stato storicamente fatto proprio da gruppi malavitosi: «Non va neppure dimenticato» – annotano, a questo riguardo, Giovanni Greco e Davide Monda in uno studio dedicato all’analisi storica della delinquenza e della marginalita` contemporanee – che numerosi criminali solevano adoperare il tatuaggio come una sorta di scrittura telegrafica, per indicare l’appartenenza all’onorata societa` camorristica. Infatti, per esempio, una lineetta e un puntino significavano giovinotto onorato, una lineetta e due puntini picciotto, una lineetta e tre puntini camorrista, mentre coloro che aspiravano ad entrare nella camorra si facevano tatuare anche qualche particolare ambientale relativo alla propria zona d’appartenenza o al territorio che avevano

3 Vd. O. Ko¨nig, Pelle, in AA. VV., Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, a cura di C. Wulf, ed. it. a cura di A. Borsan, pref. di R. Bodei, Milano, Bruno, Mondadori, 2002, pp. 438-47. Utili informazioni danno anche il Dizionario di antropologia. Etologia, Antropologia culturale, Antropologia sociale, a cura di U. Fabietti e F. Remoti, Bologna, Zanichelli, 1997, sub vc. corpo (pp. 201-2) e tatuaggio (p. 738) e M. Aime – F. Buttafarro, Tatuaggio, in L’Universo del corpo, Roma, Ist. Enc. It., 2000, V, pp. 582-87.

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“in gestione”: un ponte, una chiesa, un arco, una via»4. E a tale argomento (alla «devozione» come veniva chiamato il tatuaggio in a`mbito camorristico) dedico` – in pieno clima lombrosiano – pagine celebri Abele De Blasio: Il tatuaggio dei camorristi e delle prostitute di Napoli, Ulteriori ricerche intorno al tatuaggio dei camorristi, Il tatuaggio in Usi e costumi dei camorristi, Il tatuaggio ereditario e psichico dei camorristi5, ecc. Nell’area di tali studi piu` generali dedicati al corpo “scritto”, strumento di una comunicazione ricca di dinamiche di senso ben precisate all’interno dei diversi “gruppi”, lo sfregio napoletano – particolarissimo signum praticato sulla pelle, carico di specifiche valenze simboliche – attiro` l’attenzione “classificatoria”, tassonomica dell’antropologia tardo-ottocentesca come testimonia l’interessante relazione (firmata Nocera, 1 novembre, 1885) che la dottoressa Dominique Ventra tenne sul fenomeno nel primo Congresso internazionale d’antropologia criminale6. La studiosa prendeva le mosse del suo discorso «sur le sfregio» («manifestation criminelle qui augmente sans cesse dans certaines couches du bas peuple napolitain, et y acquiert une importance et un caracte`re ende´miques»), a partire da un preciso interrogativo: se tale pratica – allora diffusissima – fosse motivata dall’indole del popolo napoletano, «faut–il conside´rer la coutume du sfregio comme l’effet des passions violentes, excessives, inne´es dans le me´ridionale et notamment dan le Napolitain»; oppure se essa fosse «la conse´quence de tendences he´re´ditaires a` mal faire». E, nell’esposizione delle sue «recherches» (destinate ad una piu` ampia «monographie spe´ciale» che non fu completata) diede – gia` in quel contesto – una definizione ancora utile della sanguinosa pratica: Le sfregio consiste d’ordinaire, a` Naples, dans la cicatrice plus ou moins apparente d’une blessure de dimensions variables, pratique´e sur le visage, a` l’aide d’un instrument tranchant, le rasoir de pre´fe´rence, plus rarement un couteau a` lame e´pointe´e. Dans le prisons, les 4 Vd. G. Greco – D. Monda, Bassifondi contemporanei. Malfattori, prostitute e vittime dentro la storia, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2003, p. 114. 5 Vd. A. De Blasio, Il tatuaggio dei camorristi e delle prostitute di Napoli, Torino, Fratelli Bocca, 1894; Id., Ulteriori ricerche intorno al tatuaggio dei camorristi napoletani, ivi, Camilla e Bertolero, 1894; Id., Usi e costumi dei camorristi, con pref. di Cesare Lombroso, Napoli, Stab. Tip. Michele Zambelli, 1897 (2ª ed. illustrata da S. De Stefano, ivi, L. Pierro, 1897); Id., Il tatuaggio ereditario e psichico dei camorristi, ivi, Stab. Tip. A. Tocco, 1898. 6 Vd. Note pre´liminaire sur le “sfregio” (la balafre) dans le bas peuple napolitain par M. le Dr. Domique Ventra, Extrait des Actes du 1er Congre`s international d’Anthropologie criminelle, ´ trange`res) 1887. Rome, Ippolito Sciolla (Imprimeur di Ministe`re des Affaires E

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camorristes pour infliger le sfregio se servent, faute d’autre instrument, d’un merceau de fer affile´ et parfois de morceaux de verre. L’habitude du sfregio, traditionelle chez nous, se relie, paraıˆt–il, au de´veloppement d’une plaie sociale, d’origine encore obscure, qu’on nomme la Camorra, sorte d’association criminelle, qui apparut a` Naples, il y a plus d’un sie`cle, y prit racine et s’y maintient encore de nos jours, par un privile`ge peu enviable, malgre´ tous les efforts tente´s, a` maintes reprises, pour l’extirper7.

L’antropologa, quindi, poneva subito in relazione la diffusione dello sfregio con gli usi dei gruppi malavitosi. Esso, d’altra parte, risultava ben radicato anche in altri codici malavitosi meridionali, come si puo` evincere, per esempio, dal Rapporto del Questore di Bari, Felzini, al Procuratore del Re, del 22 agosto 1890, «rivelante l’esistenza in Bari della MALA VITA». Felzini, dopo aver ricostruito la «gerarchia», l’«iniziazione nella Societa`», gli «obblighi dei Socii», spiega quali siano le «Sanzioni Penali», e annota: Le trasgressioni [...] sono, a seconda della gravita` delle circostanze che le hanno accompagnate, punite con la morte o con lo sfregio. Lo sfregio viene fatto in due diversi modi; o la persona che la deve subire viene sfregiata con un colpo di rasoio alla faccia, o nei casi piu` lievi gli viene gettato in pieno viso dello sterco umano. [...] La prostituta Grittani Filomena ebbe tagliata la faccia con un colpo di rasoio per avere sconsigliata, e giustamente, una sua compagna di mestiere dal presentarsi quale testimone a discarico del picciotto Mercoledisanto Salvatore, arrestato dagli agenti di P.S. accosto al di lei postribolo, perche´ sorpreso armato di un lungo pugnale (vedi mio rapporto in data 2 Luglio u. s. N. 8992). La prostituta Velon Tommasa venne sfregiata col gettarle in faccia dello sterco, per aver fatto delle rivelazioni in Questura a carico del picciotto Morisco Savino, arrestato per ferimento (vedi allegato N. 146). E prima anche che il fatto si verificasse, ne era gia` a conoscenza l’altra prostituta Cardani Eleonora, che ne faceva prevenzione alla 8 Grittani anzidetta . 7

Ivi, p. 4. ` bene Cit. in C. D’Addosio, Il duello dei camorristi, Napoli, Pierro, 1893, p. 151. E ricordare come il volume – nelle intenzioni dell’autore – fosse volto a colmare una lacuna della «letteratura giuridica» del tempo, ossia lo studio (non praticato a eccezione del Manduca) di «quella parte della vita camorristica, che si esplica sotto la forma del duello», nella versione del «dichiaramento» («che si combatte col revolver») e della «zumpata» («che si consuma col pugnale»): infatti, spiega D’Addosio nel rapido essai introduttivo, «[...] ogni giorno nei Tribunali e nelle Corti di Assise vengono a giudizio omicidii o lesioni,verificatisi in dichiaramento. E spesso l’avvocato difende, e il magistrato o il giurı` condanna, senza avere una idea precisa di questa forma speciale di delinquenza, e percio` dubbiosi intorno alle aggravanti o alle scuse che possano toccare al giudicabile», p. XII. 8

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Proprio il citato De Blasio, d’altra parte, in un suo studio del 1905 sui tatuaggi indicava l’esistenza a Napoli di un gruppo di malviventi “specializzato” nella pratica dello “sfregio”, una «combriccola taglia-faccia, che abbraccia i piu` vigliacchi della societa` minore della camorra, e, che per poche lire, si offre di sfregiare le piu` avvenenti fanciulle»: loro «distintivo», appunto, un rasoio9. Ricordiamo, en passant, come la camorra, «sorte d’association criminelle», era gia` stata oggetto di studio, in un’atmosfera culturale che – in quegli anni – vedeva sempre piu` radicarsi il sapere antropologico10 e farsi strada pur tra ingenuita` e aneddoti, che viziavano analisi, per alcuni aspetti, pregevoli: e cosı`, ad esempio, Dalbono, prima di iniziare il suo studio su Camorra e camorristi, ebbe a discutere la validita` delle considerazioni diffuse che legavano l’origine di quella forma delinquenziale alle abitudini oziose che si ritenevano tipiche dei napoletani, ecc.11. Era stato, comunque, Marc Monnier (citato dalla stessa Ventra) che, analizzando codici e riti della camorra, aveva messo in luce – gia` nel cuore dell’Ottocento – l’uso fatto dai gruppi malavitosi dello “sfregio” per “segnare” chi (soprattutto le donne) si fosse reso colpevole di azioni disonorevoli, o avesse con il proprio comportamento allungato – agli occhi della societa` – l’ombra 9

Vd. A. De Blasio, Il tatuaggio, rist., Bologna, Forni, 1978 [Napoli, 1905], p. 164. Proprio a Napoli, nel 1880, il prof. Nicolucci nella sua proluzione accademica, ringraziava, commosso, le autorita` per l’istituzione della cattedra di antropologia, vd. la Prolusione al Corso di Antropologia dettato nella Regia Universita` di Napoli dal Prof. G. Nicolucci, recitata il 22 aprile del 1880, Napoli, Tipografia dell’Accademia Reale delle Scienze diretta da Michele De Rubertis, 1880. Lo stesso De Blasio scrisse tra i suoi Appunti di antropologia: «Per gli studi antropologici l’Italia non e` seconda agli altri Paesi; fra noi, da circa mezzo secolo, detta scienza gia` fa parte dell’insegnamento superiore. Attualmente alcune universita` hanno cattedre e laboratorii di antropologia [...]» (A. De Blasio, Appunti di antropologia, Milano-Roma-Napoli, Societa` Ed. Dante Alighieri, 19153, p. 17. 11 Vd. C. T. Dalbono, Il Camorrista e la Camorra, in Usi e Costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti. Opera diretta da Francesco de Bourcard, rist. Napoli, s.e., 1976 [ivi, 1866], II, pp. 215-36. Sullo status della disciplina a cavaliere tra Otto e Novecento, vd. almeno R. G. Mazzolini, L’Antropologia fisica, in Storia della scienza, Roma, Ist. Enc. It., 2003, VII (L’Ottocento), pp. 698-708; P. Farber, Le leggi della natura e le leggi della vita (1780-1900), in Storia della scienza, Torino, Einaudi, 1994, IV, pp. 136-91 e B. Fantini, Le scienze della forma nel secondo Ottocento, in Storia della scienza moderna e contemporanea, dir. da P. Rossi, ivi, UTET, 1988, II (Dall’eta` romantica alla societa` industriale), t. 2˚, a cura di E. Bellone, U. Bottazzini et alii, pp. 631-44. Sulla psichiatria, vd. A. Massucco Costa, Studiosi contemporanei di psicologia scientifica e la psicologia in Italia, in Storia delle scienze, Torino, UTET, 1965, III, t. 2º, pp. 828-40 (in partic. su Lombroso pp. 831-2), S. Poggi – S. Nicasi, La psicologia e il dibattito psichiatrico fra Otto e Novecento, in Storia della scienza moderna e contemporanea, cit., 1988, III (Il secolo ventesimo), t. 1˚, pp. 127-71, S. Poggi, La nascita della psicologia scientifica, ivi, id., 1988, II, t. 2˚, pp. 999-1022 e V. P. Babini, La psichiatria, in Storia della scienza, cit., 1994, pp. 402-37. 10

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dell’infamia, del disonore sul partner, sulla famiglia, sul gruppo. E tutto questo in un clima pesante di omerta` totale: [...] Io rammento solo che essa la camorra era venuta di Sicilia d’onde avea condotto lo sfregio, una delle operazioni ordinarie della setta, una delle pene che essa infligge o applica al bisogno per conto altrui, in specie al di la` dello stretto. A Napoli s’incontra con uguale facilita` un uomo sfregiato come uno studente tedesco: si puo` scommetter a colpo sicuro che egli e` stato sfregiato da un camorrista. Ma e` particolarmente sulle donne che questa barbarie veniva commessa, in un accesso di collera o di gelosia: qualche volta anche a sangue freddo e dopo una sentenza. Gli sfregi divennero sı` frequenti fra il 1830 e il 1840 che fu necessaria una legge speciale per reprimerli; fu decretato che ogni ferita che avesse sfigurato il volto di chi l’aveva ricevuta, sarebbe punita con raddoppiamento di severita`. Fu anche proibito agli uomini di portare sopra di se` de’ rasoi, istrumento ordinario di questa sorte di supplizi. Ma come punire violenze di cui niuno si lagnava, ne` eranvi testimoni che parlassero, e neppur le vittime stesse? Saro` creduto se affermo sul onore che queste disgraziate (Victor Hugo direbbe queste miserabili) si affezionavano con una specie di furore all’uomo che li [sic] avea sfigurate? – «Bisogna che egli mi ami», esclamava una di esse, mostrando sulla gota una larga piaga d’onde usciva sangue, «bisogna che mi ami!» La folla s’era riunita: sopravvenne un agente di polizia, il quale chiese cio` che era accaduto. – «Non e` nulla» rispose ella «ho preso questo rasoio, ridendo, per imitare quel giovane quando si fa la barba: io non v’ho badato troppo e mi sono tagliata: ecco tutto. Io non scherzero` piu` coi rasoi»12.

Non sfugge alla Ventra, nella ricostruzione del fenomeno, di ricordare – giustamente – come la pratica dello sfregio non fosse esclusiva della cultura napoletana («Nous ne pre´tendons pas cependant que le sfregio n’ait jamais e´te´ en usage chez d’autres peuples que le napolitain»), e come, in tempi remoti, essa venisse censurata e punita presso diverse popolazioni (i Greci, i Longobardi, «les Burgundes»): Nous savons meˆme que les le´gislations de presque tous les peuples et de tous les temps, comme nous l’apprend Gioia, en e´tablissant des indemnite´s pour cause de blessure, ont augmente´ le taux des amendes pour celles qui endommageaient la beaute´. Platon voulait que les peines a` appliquer pour les blessures de´formant les traits fussent les meˆmes que pour les blessures incurables. La loi lombarde prescrivait 12

Vd. La Camorra. Notizie storiche raccolte e documentate per cura di Marco Monnier, trad. it., Firenze, G. Barbe`ra, 1862, pp. 75-6.

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

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le meˆme genre de punition pour la mutilation et pour les blessures au visage. Les Burgundes avaient de´cre´te´ que pour les blessures faites ai visage, les chaˆtiments fussent trois fois plus graves que pour celles faites sur les autres parties du corps13.

Ma la studiosa sottolinea anche come, in seno alla cultura napoletana, quel “gesto” abbia assunto, nel tempo – e in quegli anni in modo incisivo – una diffusione preoccupante e un preciso significato, legato soprattutto alla “vendetta”: «De nos jours, ce genre d’attentant qui, sans avoir la gravite´ de l’assassinat, offre a` la vengeance une manie`re facile de s’assouvir, une proie con tamment a` la porte´e, et qui laisse une marque inde´le´bile, ne se retrouve gue`re que dans le bas peuple napolitain, ou` il se maintient avec une remarquable tenacite´, et, meˆme, comme nous l’avons dit, paraıˆt augmenter de fre´quence». Analizzando, infatti, «les registres d’entre´e de l’hoˆspital des Incurables, ou` sont admises les femmes victimes de le´sions graves», si poteva notare come i casi di sfregio fossero «en progression notable»: Tandis que, de 1859 a` 1860, on constatait 116 cas de sfregio, le nombre des cas qui se sont ve´rifie´s dans le cours des deux dernie`res anne´es, a de´ja` de´passe´ le chiffre de 223. Il y eut, cependant, dans le passe´, une e´poque, de 1830 a` 1840, ou` les sfregi e´taient si fre´quents qu’il fallut une loi tout spe´ciale de re´pression. C’est a` cette occasion que l’on en vint a` de´fendre par des peines se´ve`res le port du rasoir, de´clare´ arme insidieuse (Marc-Monnier)14.

Attribuendo alla camorra l’introduzione del costume dello “sfregio” «dans le ville de Naples», la studiosa dava credito, peraltro, nel suo essai, all’ipotesi storiografica («la plus probable») che voleva la camorra proveniente dalla Spagna15: teoria fondata «sur l’analogie du but, des coutumes, des status de la Camorra napolitaine avec ceux d’une association de meˆme nature qui existait, il y a trois sie`cles, a` Se´ville et dont Cervantes parle dans ses Nouvelles». E dalla Spagna sarebbe stato importato anche il particolare ricorso allo “sfregio” di sangue per questioni d’onore16. 13

Ventra, Extrait, cit., p. 4. Ivi, pp. 4-5. 15 «Des diffe´rentes suppositions que l’on a faites et que nous ne voulons pas discuter ici sur les origines de la Camorra, la plus probable, semble-t-il, est que cette institution te´ne´breuse et criminelle nous vient d’Espagne», p. 5. 16 «On y voit que le sfregio e´tait un des moyens dont la secte se servait pour infliger des punitions, on pour remplir un mandat des particuliers. Marc Monnier cite, a` cet e´gard, des 14

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

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D’altra parte, tutta la letteratura scientifica, alla quale l’antropologa attinge (Pucci, Lombroso, Monnier e persino il romanziere Mastriani), confermava il legame tra la camorra e la pratica dello “sfregio”: Tous ceux, du reste, qui on e´tudie´ la Camorra, ont reconnu que pour les membres de cette secte le sfregio constitue le genre de chaˆtiment le plus fre´quent, soit qu’il s’agisse de punir des fautes le´ge`res commises par les affilie´s, soit qu’il s’agisse de vengeance a` exercer contre les profanes. Le plus grand nombre des accuse´s de sfregio sont de jeunes repris de justice, plus ou moins e´troitement lie´s a` cette association de malfaiteurs. Le professeur Pucci, dans une e´tude monographique sur la Camorra actuelle, nous apprend qu’au nombre des peines disciplinaires de la secte, figurent l’amende, le baisement des pieds et des mains des affilie´s, les soufflets, le noircissement de la figure et la suspension; et que les peines afflictives sont la destitution, la re´paration des dommages, les coups, le sfregio et enfin la mort. Dans ses remarquables recherches, Lombroso rapporte que, s’il s’agit d’accomplir un me´fait ou une vengeance, le camorriste n’he´site pas a` blesser, et meˆme a` tuer sa victime, mais que pour sa vengeance particulie`re, il recourt de pre´fe´rence au sfregio sur le visage de son adversaire, a` l’aide d’un rasoir. Enfin, Monnier et Mastriani assurent aussi que le sfregio est une des pratiques ordinaires de la secte, un chaˆtiment qu’elle inflige meˆme au besoin pour le compte d’autrui17.

A questo punto, la Ventra si sofferma a descrivere – da antropologa – gli aspetti rituali dello “sfregio”, secondo le movenze di un’analisi che nella sua implicita articolazione cerca di rispondere ad alcuni quesiti: chi, all’interno dei gruppi malavitosi, aveva concretamente l’incarico di fare gli “sfregi”? Quali i luoghi, nella citta` di Napoli, di maggiore diffusione di tale pratica? Chi erano le vittime? E, infine, quali le ragioni del gesto? I principali autori – sulla base di quanto emerge dalle ricerche della studiosa francese – andavano individuati nei “picciotti”, i giovani da poco “arruolati” tra le fila della camorra: di eta` compresa tra i 16 e i 30 anni; tutti di estrazione sociale bassa. E, in pieno stile lombrosiano, proprio dall’aspetto fisico caratterizzato da certi segni topici – secondo la lezione del extraits du registre sur lequel Monopodio trac¸ait les ordres a` exe´cuter: “Note des sfregi a` appliquer dans la semaine; la premie`re, au marche´, sur le coin de la rue; prix convenu 50 e´cus, dont 30 rec¸us a` compte. Exe´cuteur: Quiquinznaque, etc. Les meˆmes proce´de´s existant chez nos camorristes, on peut conclure que l’hypothe`se est admissible ou tout au moins qu’il existe entre les deux faits une grande et curieuse analogie”», ibid. 17 Ivi, pp. 5-6.

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

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criminologo italiano – si annettevano testimonianze di devianza sociale:

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Le mandat d’infliger le sfregio est toujours confie´ a` un picciuotto. Ce titre que l’on donne aux jeunes garnements qui s’initient dans le myste`res de la Camorra, correspond a` un des cinq degre´s hie´rarchiques qu’il faut successivement franchir pour devenir camorriste effectif: giovanotto onorato, picciuotto, picciuotto di sgarra, picciuotto di reggimento, capo picciuotto (Pucci). Le camorriste effectif n’inflige jamais le sfregio de sa main, ni pour son compte ni pour celui des autres; pourtant sa femme d’ordinaire aura e´te´ sfregiata par lui, lorsque jeune encore et n’e´tant que picciuotto, il lui faisait la cour. L’aˆge des sfregiatori varie, sauf de rares exceptions, entre 16 et 30 ans, comme j’ai pu m’en assurer par l’examen de 60 proce`s criminels et par de nombreuses informations qui m’ont e´te´ fournies par des camorristes. Le 70% d’entre eux est bien connu de la police et se recrute parmi les repris de justice. Ils sont, pour la plupart, adonne´s a` des me´tiers vils ou a` des professions basses: vidangeurs, revendeurs, camelots, marchands ambulants, etc. J’ai pu examiner personnellement douze de ces jeunes gens, dans les prisons ou en liberte´. Plus tard, en donnant plus d’extension a` mes recherches sur les sfregiatori, je pre´senterai en de´tail la description de leur physique. Qu’il me suffise aujourd’hui de signaler chez eux la fre´quence des asyme´tries du visage, des pommettes saillantes et d’autres indices tre`s apparents de de´ge´ne´rescence, comme le petit lobe darwinien, les dentes surnume´raires, les yeux coupe´s obliquement, le nez aplati. Presque tous les sfregiatori tirent vanite´ de leurs forfait et s’en vantent comme de traits de bravoure. Un d’eux, Nicolas P..., surnomme´ u mimmo (le mime), picciuotto de la section Porto, qui e´pousa son amante apre`s lui avoir sfregiata la figure, me disait que parmi eux on balafrait sa maıˆtresse non seulement pour attester la supe´riorite´ de l’homme sur la femme, mais aussi afin que tous pussent reconnaıˆtre a` cette marque caracte´ristique qu’elle appartenait a` un homme capable au besoin de la faire respecter18.

A cadere vittime dello “sfregio” – naturalmente – troviamo in 18

Ivi, p. 6-7. E aggiungeva: «A l’appui de notre assertion, nous avons ce fait bien connu que le sfregio est rarement signale´ dans les re´gions ou` la Camorra est inconnue, et meˆme dans les pays voisins et dans les environs imme´diats de Naple, ou` la Camorra n’a jamais pu pendre pied. A cet e´gard, Lombroso ajoute que “si, par hasard, quelques tentatives se sont produites, dans les villages ou les campagnes des alentours de Naples, elles ont e´choue´ devant l’aversion et les de´monstrations e´nergiques des populations.” Dans l’espace de dix ans, a` Nocera, ville peu e´loigne´e de Naples, on n’a eu a` de´plorer, d’apre`s le te´moignage du de´le´gue´ local de la suˆrete´ publique, que deux seuls cas de sfregio, et encore les victimes e´taient-elles des courtisanes», ivi, p. 7.

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

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numero elevato le donne, e, in particolar modo, femmine d’eta` variabile dai 15 ai 26 anni; raramente oltre i 4019. Cosı` continua ad annotare l’antropologa francese: Parmi les balafre´es, le nombre des filles est supe´rieure a` celui des femmes marie´es; les veuves viennent en dernie`re ligne. Tre`s souvent les femmes qui sont victimes de ce genre d’attentant se donnent pour des femmes de me´nage; il en est qui font les revendeuses; viennent ensuite les domestiques, tailleuses, coiffeuses, blanchissesuses et enfin les courtisanes matricule´es. Il est a` remarquer que nombre de celles qui se disent femmes de me´nage, ne sont en re´alite´ que des femmes perdues clandestines ou notoires, se dissimulant sous cette de´nomination e´lastique. Ge´ne´ralement on peut affirmer, sans crainte d’erreur ni de de´menti, que les femmes ainsi sfregiate ne sont pas des vertus de premier ordre; tout au plus appartiennent-elles a` la couche moyenne entre l’honneˆte femme et la courtisane; e´pouses sans grands scrupules, vierges de rue destine´es a` devenir des filles de ruisseau, ou veuves dont les larmes ont bientoˆt tari20.

Quanto poi agli “ambienti” che, con maggiore facilita`, divenivano teatro di atti lesivi, la studiosa indicava i “bassifondi” e certi quartieri napoletani, che proprio in quel torno di tempo la penna di poeti come Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, o di letterati come Matilde Serao andavano evocando in figurazioni liriche, in prose d’arte o in pagine di denuncia pittoresca celeberrime21: Le sfregio est le plus en vogue dans les quartiers mal fame´s ou` pullulent les femmes de mauvaise vie. Au syphilicome de Naples, sur 160 femmes qui se pre´sente`rent a` la visite et dont 32 e´taient des sfregiate, plusieurs avoue`rent qu’avant de se livrer a` la prostitution, elles avaient e´te´ sfregiate par celui-la` meˆme qui les avait de´shonore´es d’abord et abandonne´es ensuite. Toutes mes recherches, tous les nombreux renseignements que je dois a` M. le chevalier Donadio, secre´taire de la Questure a` Naples, me font conclure que ce genre d’attentat se commet le plus fre´quemment dans les quartiers de Vicaria, Mercato, Prato, Pendino; ensuite dans ceux de la Stella et Montecalvario, qui sont les repaires des camorristes (Lom-

19 «D’apre`s les registres des Incurables, l’aˆge auquel la plupart des femmes sont sfregiate varie entre 15 et 26 ans; il est rarement de plus de 40 ans», ibid. 20 Ibid. 21 Sulla pericolosita` delle strade napoletane – sin da epoca storica – scrisse pagine limpide Benedetto Croce commentando (1911) la novella di Andreuccio da Perugia di Boccaccio; il testo del critico-filosofo si puo` ora leggere in B. Croce, Storie e leggende napoletane, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2004, pp. 51-88.

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

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broso). S. Ferdinando, Chiaia, San Giuseppe offrent un moindre contingent22.

Diffusissima sulle donne, la piaga sociale dello sfregio non escludeva pero` regolamenti di conti feroci tra gli uomini:

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D’ordinaire c’est l’homme qui balafre la femme; souvent aussi les hommes se balafrent entre eux. Par jalousie de cœur ou de me´tier, on a vu des femmes se balafrer entre elles; mais il est plus rare qu’une femme se venge ainsi de son amoureux. A l’hospice des Pellegrini, ou` sont admis les hommes atteints de blessures graves, la statistique pre´sente une moyenne annuelle de balafre´s bien moindre que celle que les Incurabili nous fournit pour les femmes. Il n’y a gue`re, par an, que de 3 a` 8 cas d’individus blesse´s 23 dans un but de sfregio .

Venendo ai motivi del gesto cruento, diverse potevano essere le ragioni che spingevano o ispiravano lo “sfregio” nel «bas peuple» napoletano. Le piu` frequenti andavano ricercate in quel legame indissolubile che – in forme varie di complessita` comportamentale – vedeva coagularsi intono alla dialettica onore-vergogna il valore rispettato dai diversi gruppi sociali24: Les motifs qui poussent a` commettre cet attentat sont le plus fre´quemment la jalousie, une vanite´ de´place´e, les mauvais instincts; parfois c’est aussi une vengeance (vendetta) a` assouvir au compte de celui que balafre, ou par ordre de la secte, ou bien encore par mandat de quelques particulier qui a besoin d’un sicaire et qui le paie. Ce qui pre´ce`de ne doit pas induire a` croire que le sfregio n’existe que dans les bas-fonds les plus immondes de la ville de Naples. De nos jours la contagion morale monte et envahit, plus largement que par le passe´, d’autres couches sociales jusqu’ici indemnes ou peu atteintes. Le penchant si connu a` l’imitation, la tradition he´re´ditaire, une impressionnabilite´ excessive, une explosion exage´re´e de transports affectifs, expliquent comment, chez le peuple napolitain, une aussi de´plorable coutume puisse gagner du terrain parmi les classes moyennes. Sur 78 cas qui ont e´te´ soumis a` nos observations, nous avons pu constater par 18 fois que des jeunes gens, honorables du reste, mais emporte´s par une passion indomptable, par un acce`s de jalousie ou par un froissement d’honneur, avaient balafre´ le visage de leur maıˆtresse. 22

Ventra, Extrait, cit., pp. 7-8. Ivi, p. 8. 24 Vd. A. Zingerle, Onore e vergogna, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Ist. Enc. It., 1996, VI, pp. 340-47. 23

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

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La femme laide ou enlaidie passe pour plus fide`le; peut-eˆtre, en frappant leur maıˆtresse au visage, voulaient-ils atteindre la cause de soupc¸ons toujours renaissants, de brouilles et querelles d’amoureux incessantes. Dans ces cas, un sfregio, loin de briser les liens de l’affection mutuelle, ne fait souvent que les resserrer davantage, et de´cider une union par laquelle une jeune fille qui, sans cela, euˆt e´te´ perdue 25 d’honneur dans l’opinion publique, se voit re´habilite´e .

Analoghe ragioni possono ritrovarsi nei comportamenti interni alla camorra. La Ventra sottolinea ancora – come Monnier – il clima omertoso che avvolge la pratica dello “sfregio”, ma pure – il particolare e` notando – l’attrazione esercitata in certi contesti proprio da quei comportamenti improntati al ricorso e all’uso, detestabile, della violenza, della forza impiegata al fine di ottenere o conservare il “rispetto”: Il en est a` peu pre`s de meˆme chez les camorristes. La femme qui a rec¸u un sfregio ne de´nonce jamais celui qui l’a frappe´e; au contraire, elle s’attache a` lui davantage, toute orgueilleuse d’appartenir a` l’homme qui l’a de´figure´e. A ses yeux le sfregio est une action glorieuse (un «atto guapposo») qu’elle admire, dont elle est fie`re et dont d’autres peut-eˆtre lui portent envie. Qu’on remarque qu’il n’y a pas la` un sentiment de ge´ne´rosite´, mais simplement de vanite´. C’est le meˆme sentiment qui fait que, le mariage conclu, le camorriste, sans manifester une grande tendresse pour sa famille, l’entoure cependant de luxe (Lombroso). Il offre a` sa femme les grandes roses de perles (sorte de pendants d’oreilles), des bracelets, des toilettes couˆteuses pour les promenades a` Notre-Dame de la Neige, a` Montevergine, ou FuoriGrotta; ce qui ne l’empeˆche ni d’avoir en secret des concubines ni de fre´quenter les mauvais lieux26.

La varia fenomenologia dello “sfregio” meridionale – che abbiamo visto contenere una varia fenomenologia di significati (secondo un rapporto che vede la parola farsi gesto, e il gesto dello “sfregio” divenire, oltre che punizione per chi lo riceve, a sua volta segno capace di agire attraverso la carne e comunicare sanzioni alla comunita`) – registrava al suo interno una diversa modulazione nella messa in atto a seconda della gravita` dell’offesa. Si poteva distinguere uno sfregio «par sympathie» da contrapporre a uno «par vengeance»:

25 26

Ventra, Extrait, cit., pp. 8-9. Ivi, p. 9.

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

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Dans les dernie`res classes sociales, le sfregio s’applique d’ordinaire avec une froide pre´me´ditation. En voici une preuve. Des recherches minutieuses, des renseignements rec¸us de M. Canale, qui fut longtemps de´le´gue´ de la suˆrete´ publique a` la section Porto, me mettent a` meˆme d’affirmer que, chez les camorristes, le sfregio s’applique de diffe´rente fac¸on suivant le motif plus ou moins grave qui l’a provoque´. Le sfregio par sympathie, comme ils l’appellent dans leur argot, forme le cas le plus fre´quente; ce genre de balafre se fait a` l’aide d’un rasoir bien affile´, de l’oreille a` la le`vre, horizontalement; la cicatrice dans cette direction se confond presque avec les traits du visage sans trop le de´figurer et quelquefois meˆme, elle ajoute une certaine graˆce au minois coquet des filles du peuple. Aussi dans quelques cas advient-il que le juge, tenant compte de ce que la de´figuration n’est que momentane´e, n’applique que la peine re´serve´e a` une simple blessure volontaire. Plus grave est le sfregio par vengeance, pour lequel on se sert d’un rasoir e´bre´che´, afin de mieux de´chirer les chairs, et qui se pratique de haut en bas, en obliquant vers l’œil. Le visage est ainsi plus de´figure´; la blessure est plus apparente et peu atteindre non seulement les yeux, mais meˆme les glandes salivaires. Ce cas s’est pre´sente´ nague`re chez un individu admis aux Pellegrini. Ce genre de sfregio est spe´cialement re´serve´ aux espions et aux agents de police. Hors de Naples, comme nous l’avons dit, le sfregio est assez rare. On n’en constate gue`re de cas que dans quelques villes de la Sicile, et il n’y est en usage que parmi les affilie´s a` la Mafia (association de malfaiteurs, me`re, fille ou sœr de la Camorra). Par suite de la diffe´rence d’instincts et de coutumes du bas peuple sicilien et du bas peuple napolitain, le sfregio n’a pu pendre racine chez le premier, qui le de´laisse pour des moyens plus violents, plus cruels, qui vont jusqu’a` l’assassinat27.

La chiosa finale getta – rapidamente, senza approfondimenti (con ragioni in parte confermate, in parte smentite dalla cronaca) – lo sguardo su rapporti e differenze fra realta` criminose, che con diverse manifestazioni storiche, segnarono parte della storia del Mezzogiorno, e non solo28. Raccogliendo le fila del discorso, ecco le 27

Ivi, pp. 9-10. Vd. S. Lupo, Mafia, in Enciclopedia di scienze sociali, cit., 1996, V, pp. 388-99; P. Arlacchi, Criminalita` organizzata, cit., 1992, II, pp. 586-97 e M. B. Clinard, Criminalita`, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Ist. Enc. It., 1975, I, pp. 1059-70. Sulla “camorra” vd. G. Alongi, La Camorra. Studio di sociologia criminale, Torino, Fratelli Bocca, 1890, A. De Blasio, Saggio di un vocabolario dei camorristi, in «Archivio di psichiatria, scienze penali e antropologia criminale», XXI, 1900, pp. 96-101, E. Mirabella, Mala vita. Gergo, camorra e costumi degli affiliati, rist. Sala Bolognese, Forni, 1984 [Napoli, 1910] e, tra i piu` recenti, almeno M. Marmo, Tra le carceri e i mercati. Spazi e modelli storici del fenomeno camorrista, in AA. VV., Storia d’Italia, Le regioni dall’Unita` a oggi, La Campania, a cura di P. Macry e P. Villani, Torino, Einaudi, 1990, pp. 684-730. 28

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

conclusioni – per noi ancora problematiche – a cui approda la Ventra:

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De ces faits, bien que succinctement expose´s, nous pouvons de´duire : 1˚ que le fa`cheux usage du sfregio, importe´ chez nous avec la Camorra, est devenu ende´mique a` Naples, parce que dans cette ville seulement cette secte a pu se populariser et jeter de profondes racines ; 2˚ que le sfregio n’est qu’une forme spe´ciale de la de´linquance et proce`de le plus souvent d’une tendance inne´e a` mal faire; la preuve en est que la couche sociale dans laquelle cet attentat est le plus en vogue (affilie´s a` la Camorra, repris de justice, femmes perdues, etc.) est aussi celle ou` le de´lit trouve le terrain le plus favorable, celle ou` le sens moral est le plus perverti, ou` la vanite´ est morbide, ou` les marques de la de´ge´ne´rescence son les plus abondantes et les plus saillantes; 3˚ que, a` cause de son naturel tout spe´cial, duˆ aux influences cosmotelluriques, de ses tendances a` l’imitation et surtout de son affectivite´ excessive et toujours de´bordante, le peuple napolitain, plus que tout autre, devait adopter le sfregio; cette manifestation criminelle entre si bien dans ses habitudes que sortant peu a` peu de son premier domaine, ce genre de de´lit s’est repandu meˆme au dela` des basses classes, n’inspire plus la meˆme aversion et n’est gue`re conside´re´, surtout dans ces derniers temps, que comme un de´lit inspire´ par la passion; 4˚ que, tenant compte de son origine, le sfregio peut eˆtre conside´re´ comme une manifestation mitige´e d’instincts qui se re´ve`lent ailleurs d’une manie`re bien plus grave. Cette mitigation pourrait eˆtre le fait du milieu ou` le sfregio se produit le plus fre´quemment. Parmi les associations de malfaiteurs, la Camorra, en effet, a toujours e´te´ une des plus avance´es. Elle a une organisation, une discipline, des traditions, une sorte de code qui se transmet oralement. Elle s’arreˆte au sfregio, la` ou` le brigandage et la Mafia ont recours a` l’assassinat. Le Napolitain venge une offense par un coup de rasoir sur la figure, le Corse et la Sarde encore arrie´re´s en plongeant un poignard dans le cœur. Ou` l’un tue, l’autre se contente de de´figurer. Une genre de crime analogue au sfregio prend vogue en France. La`, de meˆme, le milieu social est e´videmment avance´. Mais la chimie y remplace le poignard et le rasoir par l’acide sulfurique, arme terrible, qu’aucun code pe´nal n’avait pre´vue jusqu’ici29.

Se questo studio registra tutti i limiti delle categorie concettuali applicate (allora in voga nelle comunita` scientifiche), e i segni delle ragioni ideologiche sottese, nondimeno esso conserva interesse come documento storico capace di mostrare come – da un particolare a`mbito scientifico (che andava in quei tempi definendo campo d’in29

Ventra, Extrait, cit., pp. 10-11.

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

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dagine e strumenti d’investigazione) – venisse analizzato uno specifico comportamento delinquenziale: un costume che in una porzione di territorio (“Napoli e dintorni”) aveva raggiunto – nella diffusione – proporzioni piu` che allarmanti. Di questa problema – come ricordava il Monnier – s’interesso`, piu` volte, anche il diritto (dottrina e giurisprudenza) ispirando l’intervento del legislatore che disciplino` tale pratica, configurandola come prassi criminosa: e anche oggi – nell’attuale Codice Penale – lo “sfregio” e` considerato circostanza aggravante del delitto di lesione personale (art. 583, 2˚ co., n. 4). Il fatto che, storicamente, tale specifica «aggravante» fosse destinata proprio alla repressione di questi rituali tipici delle varie forme di criminalita`, lo ricordava Giorgio Canuto in un suo studio del 1930 per «L’Archivio di Antropologia criminale, Psichiatria e Medicina Legale», la rivista fondata da Cesare Lombroso. «L’Archivio», infatti, in quell’anno – in occasione della promulgazione del nuovo codice penale che modificava quello del 1889 –, iniziava la pubblicazione di un «Commentario», volto a segnalare «ai giudici ed ai periti i criteri di applicazione tecnicamente meglio fondati». E affidava a Canuto l’analisi del «nuovo criterio medico-legale nella valutazione dello sfregio permanente del viso secondo il nuovo codice penale». Lo studioso, dopo aver riportato quanto scritto nel progetto preliminare del nuovo codice, le discussioni e i dibattiti che ne erano seguiti, e la scrittura definitiva, con la definizione precisa di cio` che doveva intendersi – da un punto di vista medico e d’interpretazione giuridica – lo “sfregio”30, si soffermava a considerare tale azione non solo come danno «estetico», ma anche di natura «morale». E questo a partire dalla “topografia” voluta della ferita: 30 Non si dimentichi l’importante discussione sorta nel corso degli anni – in dottrina e giurisprudenza – sulla definizione medico-legale della nozione di “viso”. Vexatissima quaestio resa ancora piu` problematica dal silenzio del legislatore in proposito e dal fatto che la ratio dell’aggravante si sostanzia proprio nell’accertamento o meno dell’alterazione estetica di tale parte del capo, vd. F. Ballotta, Lo sfregio permanente del viso nella pratica medico-legale, in «La giustizia penale», a. XL, 1934, vol. XL (X della 4ª serie), parte I, coll. 140-3; G. Cortesani, In tema di sfregio, ivi, parte II, coll. 1171-3; P. Frisoli, In margine all’accertamento giudiziale dello sfregio, in «Rivista italiana di diritto penale», 1954, p. 90 e L. Macchiarelli, Lesioni personali, in Enciclopedia medica italiana, Firenze, USES Edizioni Scientifiche, 1980, VIII, coll. 1449-58 (in partic. coll. 1455-6). Ma interessanti risultano anche le analisi ottocentesche: vd. G. L. Granelli, Commento ai principii medico-legali sulle lesioni violente, Milano, Chiusi, 1852; G. Gandolfi, Dottrina analitica delle lesioni violente del corpo umano considerate in rapporto alla legge criminale, Modena, Tip. Vincenzo Moneti, 1855; G. Lazzaretti, Dottrina medico-legale sull’omicidio e lesioni personali, Firenze, L’autore, 1861-1863 e E. De Pietra Leone, Sulle lesioni personali: nota medico-giuridica, Piazza Armerina, Stab. Tip. Fratelli Bologna, La Bella, 1887.

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

La limitazione topografica ha invece un valore quasi diagnostico medico-legale, in quanto denota l’intenzione nel feritore di sfregiare; come una cicatrice ai polsi, o del gomito, ci denota una intenzione suicida. La sede elettiva della lesione e` la estrinsecazione obiettiva della “caratteristica forma di delinquenza”, contro la quale si e` rivolto in modo specifico il legislatore. Ma questa estrinsecazione obbiettiva, di speciale delinquenza, come si puo` ravvisare in una lesione colposa? In modo indiretto. Lo sfregio non va considerato come un danno puramente estetico [...]. Il danno dello sfregio e` fondamentalmente un danno morale [...]; altre volte la sede e la direzione della lesione, la sua lunghezza, la sua natura (taglio, causticazione), richiamano senz’altro alla mente dell’osservatore, anche non medico, l’atto caratteristico dello sfregiatore che puo` aver colpito quel volto. Sara`? non sara`? La persona che ci sta innanzi fu vittima di un accidente o fu sfregiata? Ebbe dunque rapporti con persone della mala vita? Ecco il danno estetico-morale, obbiettivo, che e` conseguenza indiretta, direi per l’azione psicologica esercitata sull’osservatore, della “antica barbara costumanza, che disgraziatamente non e` ancora scomparsa, specialmente nelle provincie napoletane” (Lavori prepar. Vol. VI. p. 334)»31.

Quella «caratteristica forma di delinquenza» e la considerazione finale mostrano quali fossero le esigenze che muovevano il legislatore 31 Vd. G. Canuto, Per un nuovo criterio medico-legale nella valutazione dello sfregio permanente del viso secondo il nuovo c.p., in «Archivio di Antropologia criminale, Psichiatria e Medicina Legale», vol. L (vol. XX della Serie IV), 1930, pp. 948-54. Sullo sfregio nella giurisprudenza tardo-ottocentesca vd. R. Balestrini, Le lesioni personali ed il nuovo codice penale, Torino, Fratelli Bocca, 1889 (cfr. F. De Cola Proto, Il reato di lesione personale. Studio, Messina, Lo Turco e C., 1883); A. Adamo, Del delitto di lesione personale, Roma, s.e., 1890; A. Messina Sciamone, Sulle lesioni del viso specificate nell’articolo 872 del nuovo codice penale italiano. Illustr. scientifiche per la pratica medico-forense dell’autore medesimo. Con un’appendice sulle lesioni personali in genere, Noto, Tip. F. Zammit, 1890; L. Giampietro, Quali debbansi intendere le armi propriamente dette che aggravano il reato di lesione personale, Potenza, Tip. Giarramone e Marchesiello, 1892. Per il diritto moderno utili accessioni in P. Giolla, Sfregio e deformazione, Milano, Fratelli Bocca, 1948; G. De Matteo, Lesioni personali, in Enciclopedia forense, dir. da G. Azzariti, E. Battaglini e F. Santoro-Passarelli, Milano, Vallardi, 1959, IV, pp. 780-802; R. Pannain, Lesioni e percosse (Diritto penale comune), in Novissimo Digesto Italiano, dir. da A. Azara ed E. Eula, Torino, UTET, 1963, IX, pp. 742-67 (in partic. pp. 755-7) e M. G. Gallisai Pilo, Lesioni e percosse, ivi, id., Appendice, 1983, IV, pp. 860-6 (cfr. anche V. Chiarico`, L’art. 582 C. Pen. come modificato dalla L. 16 gennaio 1963, n. 24 e il diritto transitorio, in «Rivista penale», 1963, II, p. 457.) Per la giurisprudenza attuale vd. T. Galiani, Lesioni personali e percosse, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffre`, 1974, XXIV, pp. 140-64; V. Zagrebelsky, Lesioni personali e percosse, in Enciclopedia giuridica, Roma, Ist. Enc. It., 1990, XVIII e M. G. Gallisai Pilo, Lesioni personali e percosse nel diritto penale, in Digesto delle Discipline Penalistiche, Torino, UTET, 1993, VII, pp. 392-403; rapide, ma precise indicazioni fornisce anche S. Saglia, Lesione personale, in Dizionario enciclopedico del diritto, dir. da F. Galgano, Padova, Cedam, 1996, pp. 896-97.

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nel dettare la norma relativa allo “sfregio”. Si vede, dunque, come lo studio dello “sfregio” – quale pratica di tutela dell’onore nell’ambito di gruppi malavitosi – possa illuminare un aspetto non secondario della storia civile (e culturale) prima del napoletano, e poi dell’Italia intera.

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DA LA PROSTITUZIONE IN NAPOLI NEI SECOLI XV, XVI E XVII (1899) Per conto mio, senza aver l’aria d’avere scoperto il mondo nuovo, ho voluto, col mio libro modestissimo – breve prefazione storica a un altro che voglio scrivere intrattenendomi dell’attualita` non meno interessante d’un soggetto come quello – ho voluto, dicevo, dimostrar due fatti i quali possono avere una qualche importanza dal lato etnico e da quello sociale: e credo d’aver provato che la stanza dell’amor libero e` sempre rimasta la medesima in Napoli, da tre o quattrocento anni; che, ancora come nel vecchio tempo, una classe infelice, avvilita, spregiata e` nelle mani dello sfruttatore tipico, d’origine antica quanto e` forse remota quella del pietoso mestiere delle sue vittime. Uno scopo l’ho avuto: e vi dico, con orgoglio, che prima che fosse stato storico, esso ha voluto essere umano. (S. Di Giacomo, Arte e storia, ne “Il Corriere di Napoli”, 6 novembre 1899)

[La sifilide non e` nata nell’Italia del Rinascimento] Da’ principi e da queste lor donne fu stimolata l’intelligenza che rese cosı` magnifico, cosı` illuminato il secolo d’oro. Ebbero da queste signore sollecito ed attivo incitamento gli artisti, ebbe la poesia una popolarita` aristocratica e gl’illustri e fruttuosi argomenti per la tela delle sue imagini apologetiche; la scienza e le lettere ebbero sprone e guiderdone mai piu` avanti ottenuti e neppur appresso; l’Amore, finalmente, ebbe un omaggio perenne. Mai si e` tanto guerreggiato e odiato e amato come nel bel cinquecento: ogni illustre famiglia italiana s’e` gloriata in quelli anni d’un’eroina in casa e non sai s’ella abbia attinto celebrita` da’ suoi virili atteggiamenti o dalle sue vicende amorose: egli e` che spesso la conquisto` da tutte e due cose a un tempo. Il cinquecento muliebre va soltanto da poco in qua riconquistando miglior fama. In gran parte, adagiandosi comodamente sulla

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GLI SFREGI DI NAPOLI

tradizione, la storia gli aveva affibbiata una criminalita` che l’inesistenza delle prove snebbia a poco a poco e spoglia de’ suoi foschi colori. Cosı` or assumono una nova e paurosa fisionomia le apocrife Medee di quel secolo, cosı` per entro alla scura nuvolaglia di tante loro leggende si fa strada il sole a mano a mano e le ricolora con luce piu` grata. «La Rinascenza – scrive il Gregorovius1 – restera` eternamente uno de’ piu` ardui problemi psicologici della civilta`; causa le profonde contradizioni che nel seno suo accoglie, parte con spontaneita` affatto ingenua, piena consapevolezza della incompatibilita` loro; e causa pur quel certo elemento demoniaco onde le individualita` sono in quel periodo invasate. La Rinascenza e` stata paragonata ad un baccanale della civilta`». Noi non possiamo, in questo nostro lavoro, riguardar peculiarmente alla singolare espressione ch’ebbero in altre parti d’Italia gli eccitamenti d’un secolo rimasto memorabile nella storia del nostro paese; e` in Napoli che s’aggirano precisamente le nostre ricerche. Qui troviamo, e` vero, sulla fine del quattrocento un riflesso pur abbagliante di quelle attivita` spirituali, ma non meno v’incontriamo a ogni passo i manifesti segni d’una corruzione plebea, la quale pel penetrar ch’ella faceva creature non suscettibili di estetica di vizio, assumeva forme brutali e dilagava con impeto. Abbiamo or ora scorso un libro francese2 – sul quale avremo occasione di soffermarci piu` avanti – che, d’un flagello onde l’Italia tutta quanta fu colpita agli ultimi anni del quattrocento, vogliam dire la lue spaventosa chiamata mal francese, attribuisce lo scoppio imprevisto e violento alla disordinata e quasi degenerata vita fisica degli italiani in que’ tempi. Ma la dimostrazione di questo convincimento campanilista – badate che si tratta di liberare i francesi di Carlo VIII dalla trista accusa che ebbero e quasi di riversar su’ napoletani addirittura, i quali ne sono similmente irresponsabili, l’origine del male orrendo – puo` riescir facile a ogni straniero moralista il quale avendo per mani e sapendo sciorinare e avvedutamente disporre documenti che offrono a tutti gli studiosi, e con solita larghezza, i nostri archivii, intenda di cavar dalla sua architettazione arbitraria quel meglio che puo`, a onor della remota impeccabilita` della sua patria. Or penserete voi mai che negli

1 Lucrezia Borgia. Trad. di F. Mariani. [La nota, cosı` come le seguenti a La prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII, e` di Salvatore di Giacomo.] 2 Hesnaut, Le mal franc¸ais a` l’e´poque de l’expe´dition de Charles VIII en Italie, Paris, 1886.

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archivi dello Stato e de’ municipii francesi – tanto per riferircene alla Francia – non si debbano trovare somiglianti elementi sincroni i quali raccolti in gran copia e sapientemente ordinati valgano a renderci consapevoli di liberta` di costumi, di popolane sregolatezze, di corruzione signorile non minori di quelle onde negli stessi anni l’Italia ebbe cosı` pornografico vanto? Certo, presso di noi, quel periodo e` stato singolarmente notevole e in senso cosı` spirituale quanto – saremmo per dire – corporale. Piu` del corpo, tuttavia, s’agitava lo spirito, penetrato come dal presentimento d’una prossima rovina. Il piacere accompagnava ogni Corte sontuosa e illustre mentr’essa, declinando, s’avviava alla sua fine e spendeva le ultime sue nobili forze battagliere in fatali contese. Un tragico soffio percorreva l’Italia tutta quanta: da un capo all’altro della penisola erano irruzioni di stranieri e scorrerie pur indigene, d’un frutto peggiore di quelle altre: e i popoli d’Italia riguardavano, esterrefatti, a tanto sommovimento di cose. Alle quali quello di Napoli pareva che si fosse piu` facilmente avvezzato. Usciva, anzi, il cittadino napoletano dalla patria per far mostra della sua leggerezza o della indifferenza o della oziosita` del suo carattere. Lo si ritrovava un po’ da per tutto e a ciascuno che ne valesse la pena s’inchinava – dice l’Aretino – con una reverenza a la spagnuola annapolitanata3 che era proprio un bel vederla. Il medesimo Aretino, in un discorso fra due meretrici, soggiunge: «I napolitani son fatti per cacciar via il sonno, o per torne una scorpacciata, un dı` del mese, quando tu hai il tuo tempo nel cervello o sendo sola overo accompagnata da alcuno che non importa. Ti so dire che le frapperie vanno al cielo: favella de cavalli, essi gli hanno de primi di Spagna, di vestimenti, due o tre guardarobbe, denari in chiocca e tutte le belle del Regno gli muoiono drieto: e cadendoti o il fazzoletto o il guanto lo ricolgono con le piu` galanti parabole che s’udissero mai ne lo Seggio capuano... »4. E il senese Fortini, prima dell’Aretino, racconta: «...In Siena fu un prete napolitano il quale s’era invaghito di certe gentildonne al modo di suo paese, quali qua a noi sonno donne di partito, al modo di Roma, cortigiane di Ponte Sisto, o per dir meglio sgualdrine, le quali stavano da Santa Maria de le Grazie, luogo gia` dove altri che simili non abitavano... Or questo prete... come neapolitanesca usanza, mai si partiva da quella contrada, passeg3 4

Aretino, Capricciosi e piacevoli ragionamenti, Giornata I, p. 24. Ivi, p. 29.

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GLI SFREGI DI NAPOLI

giando tutto il giorno da la casa loro, con tutte faceva l’amante ne´ posseva negare in questo suo amore di non essere napolitano, cotanto faceva il presontuoso, lo sfacciato... e facendo il Cupido, sicome solgono fare tutti li napolitani che di continuo con li occhi vanno sagittando le donne talche´ dalle finestre le fanno cadere... »5. La satira toscana pungeva i nostri fin da’ primi anni del quattrocento: aperto il Regno al traffico de’ mercanti specie fiorentini – e gia` l’abbiamo visto agli anni del Boccaccio – costoro si pigliavano spesso delle nostre usanze, del nostro dire, d’ogni nostro costume. Qualche caudato sonetto del Pulci, che fu a Napoli nel 1471, altre molte invettive de’ suoi concittadini letterati, il personaggio napoletano introdotto nelle scene che abbisognavano d’un intervento goffo e ridevole, ecco le grazie di cui, per dovere d’ingratitudine a una citta` dove facevano i migliori negozii, e per natural senso ironico ci erano larghi coloro. E non si parlava a Firenze che di quel baciar di mani e sospirar sı` forte alla spagnuola, ch’ora e` sı` proprio de’ napoletani...6.

[...] Giuliano Passero ne’ suoi giornali, che si conservano manoscritti alla Nazionale di Napoli, narrando de’ fatti che seguirono nel gennaio del 1496, racconta come in quel tempo, mentre Federigo d’Aragona moveva con trentacinque navi et sessanta galere ben armate alla volta di Gaeta ove erano sbarcati i francesi, una gran carestia colpiva Napoli, dove che lo tumolo de lo grano vale nove carlini et dieci lo tumolo de farina, et questo ei per lo grandissimo male tiempo de pioggia che non fu mai simile. In quisti tempi – soggiunge – incomenzai ad venire in Napoli lo male franzese, et veneva con gran doglie. E nelle sue Chroniche antiquissime Tommaso da Catania, con precisione ancor maggiore, scrive: A 1496, a dı` 19 gennaio, incomenzo` lo male franzese in Napoli, con le doglie. Or Carlo VIII, dopo essersi fermato in Roma dal primo di gennaio 1495 al 9 febbraio dello stesso anno, era entrato in Napoli il 12 di questo ultimo mese: Hoggi che sono lı` 12 febbraro 1495, di domenica, alle 22 hore e` intrato in Napoli lo re Carlo de Franza de casa de

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Fortini, Le Giornate delle novelle dei novizii. Nov. XIX. Mauro, Opere burlesche, Capitolo del letto.

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Valois et alloggia a lo Castiello de Capuana et subito ha fatto indirizzare l’artegliaria contro lo castiello nuovo...7. Pero` noi domandiamo: Si deve prestar fede a’ due cronisti sopracitati? Nel qual caso non sarebbe da credere che la sifilide sia scoppiata in Napoli dopo – e non prima – la venuta di Carlo VIII fra noi? Gia` i due cronisti la chiamano mal franzese: ed essi hanno pur gia` parlato di tante e tante calamita` che precedentemente afflissero Napoli senza, proprio, addebitarle se non alle vere cause, a’ veri colpevoli dell’averle addirizzate alla volta nostra. Gli stessi Aragonesi non certo sono sfuggiti alla rapida critica, spesso non benevola, del loro governo, talvolta fin acerba per le lor donne, come quando si parla di quella nipote di Alfonso II, in un di codesti diarii, e in suo poco onore e` citata la frase da carrettiere di Sigismondo di Polonia. Il Guardato, il Morlino, novellatori popolari del secolo decimoquinto e scrittori veristi, come si direbbe oggi, non ricordano l’epidemia venerea del loro tempo null’affatto: e pur essi vissero e scrissero nella seconda meta` del quattrocento e, specie il Guardato, non ebbero ritegno d’offerire alla curiosita` de’ loro contemporanei soggetti scabrosi. Anzi il Guardato interpose proprio fra le parecchie del suo libro suggestivo una novella che racconta di due amanti capitati, fuori della citta`, in un accampamento di lebbrosi, i quali – e qui il racconto e` mirabile per colorito e per tragicita` – uccidon l’amante e abusano della fanciulla. Con la medesima forza narrativa pensiamo dunque ch’egli avrebbe descritto, ove mai si fosse abbattuto in qualcuno d’essi, i colpiti da un morbo che, a somiglianza della lebbra – la cui terapeutica e` ancor oggi incerta – riduceva l’organismo e l’aspetto degl’infermi allo stato piu` orrendo e pauroso. Ma l’Hesnaut, nel libro che abbiamo avanti citato, standosene a quanto sull’origine della sifilide scrive il Fulgosi, dice che gia` due anni avanti che scendesse in Italia Carlo VIII quel male vi faceva vittime e sviava la scienza medica. Il Fulgosi narra, difatti: Biennio antequam in Italiam Carolus veniret, aegritudo inter mortales detecta, cui nomen nec, remedia Medici ex veterum auctorum disciplina inveniebant, varie, ut regiones erant, appellata: In Gallia Neapolitanum dixerunt morbum, at Italia Gallicum appellabant, alii autem aliter...8 . Cosı` – 7

Passero, ms. cit., p. 68. Fulgosi, De dictis factisque, L. I, Capit. VI. (Due anni prima che Carlo scendesse in Italia, si manifesto` fra gli uomini una malattia della quale i medici non riuscivano a trovare ne´ nome ne´ cura nelle opere degli antichi autori, e fu chiamata in modi diversi a seconda 8

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GLI SFREGI DI NAPOLI

continua l’Hesnaut – nel 1492 l’esistenza della sifilide era conosciuta in Italia; l’anno seguente la si segnalava in Ispagna, in Germania, nella Lombardia: nel 1494 si manifestava a Berlino, a Halle, a Brunswick, nel Mecklemburg, nella Lombardia (?), nell’Alvergnate e in altri paesi. Ripetiamo, a questo punto, quel che abbiamo detto piu` sopra: il lavoro dell’Hesnaut, pregevole per parecchi riguardi, scritto con quel persuasivo e snello stile francese per ove fin la riproduzione del documento e` un accordo di buon gusto con la narrazione e la dimostrazione, ha, d’altra parte, la caratteristica, onorevole certo ma parziale, della difesa nazionale. Prima di tutto, fino a qual punto – seguitiamo a chiederci – s’ha da ritenere come sicura l’asserzione del Fulgosi? Ella, se non gratuita, potrebbe esser fondata sopra notizie non del tutto esatte, e se lo Hesnaut se ne vuole stare a quello che scrive il Fulgosi, l’opinione – ormai fondata sopra i documenti piu` certi – che il male ci sia venuto dall’America insieme a’ soldati di ` noto che il Cristoforo Colombo, sarebbe addirittura distrutta. E Colombo tocco` l’isola Hispaniola, o di S. Domingo, soltanto nel 6 dicembre del 1492: ne´ prima del gennaio del 1493 di la` fece vela per la Spagna, ove giunse nell’aprile dello stesso anno. L’asserzione del Fulgosi, che fa seguire lo scoppio del mal venereo in Italia fin dal 1492, fa credere ch’esso non sia di quella provenienza americana, mentre il medico spagnolo Ruiz Diaz de Isla afferma che nella Spagna, e precisamente a Barcellona, la quale fu la prima delle citta` europee ad esserne infetta, il morbo fu osservato nel 1493. «Esso ebbe origine dall’isola Hispaniola (S. Domingo) come e` stato accertato da lunga esperienza e fu ivi contratto dall’equipaggio di Cristoforo Colombo quando i suoi marinai ebbero contatto con quelle donne. E poiche´ i reduci dall’America, che gia` soffrivano pel morbo durante il viaggio di ritorno, si recarono subito a Barcellona la prima volta che vi si restituı` il Colombo nel 1493, cosı` immediatamente e largamente si diffuse il male fra quelli abitanti». Il de Oviedo rafferma la medesima opinione e dello stesso suo avviso e di quello del de Ruiz sono il Monardes, G. B. Montano, Pietro Martire, I. B. du Tertre, Lopez de Gomard e moltissimi altri scrittori forestieri: in Italia il Summonte, l’Aquilano, il Guicciardini, per dir de’ piu` noti e attendibili, confermano la notizia e la tengono sicura. Gli stessi dei territori: in Francia lo denominarono Morbo Napoletano, mentre in Italia lo chiamavano Morbo Gallico, e altrove con altri nomi ancora.)

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scrittori francesi non la mettono in dubbio: ma il Garnier9 scrive: Une maladie honteuse, inconnue jusqu’alors, acheva d’en graver un cruel souvenir dans la me´moire des hommes: les Franc¸ois qui en furent infecte´s par des Napolitaines, la nomme`rent mal de Naples; les Italiens, chez lesquels les Franc¸ois la re´pandirent a` leur retour, l’appele`rent le mal Franc¸ois. Ces de´nominations injurieuses sont e´galement injustes: cette maladie e´tait e´trange`re a` notre continent: la nature l’avait re´le´gue´e dans les ˆıles de l’Amerique ou` elle e´tait moins dangereuse, parce que les naturels du pays y trouvaient un reme`de facile dans le suc de gaı¨ac. Cristophe Colomb, Ge´nois de naissance, qui s’e´tait mis a` la solde d’Isabelle, reine de Castille, pour de´couvrir de nouvelles terres, et qui avoit compose´ son e´quipage d’Italiens beaucoup plus expe´rimente´s dans la navigation qu’aucun autre peuple de l’Europe, avoit le premier pe´ne´tre´ dans le Nouveau Monde, avoit soumis des peuples innombrables, avoit rapporte´ beaucoup d’or; mais il ne s’e´tait pas aperc¸u qu’il rapportait en meˆme temps un fle´au terrible que tout l’or du Pe´rou et du Me´xique ne pouvoit compenser, puisqu’il semble tendre plus directement qu’aucun autre a` la destruction de l’espe`ce humaine, en l’attaquant dans le principe de la re´production. Ed ecco additata Napoli come il focolare da cui presero il male i Francesi. Evidentemente il Garnier, a somiglianza d’altri parecchi suoi connazionali, se ne e` stato alle tradizioni: e in Francia la tradizione ripete lo stesso da parecchi secoli. Ma che davvero – scrive il professore Orazio Comes in una recente sua monografia10 – la lue sia apparsa in Francia fin dal 1493 e che vi si sia poi rapidamente diffusa nel 1494 e` provato da un documento di una incontestabile evidenza. Sei mesi prima del ritorno di Carlo VIII il nuovo morbo ch’era designato allora in Francia col nome di Grosse ve´role arrecava tanto danno agli abitanti di Parigi che il Senato francese fu costretto a pubblicare un editto per arginarlo. E la traduzione letterale dell’editto francese e` la seguente: «Oggi 6 marzo 1496, atteso che in questa citta` di Parigi si trovano infermi di una certa malattia contagiosa, denominata grosse ve´role, che, da due anni in qua, ha molto percorso questo regno tanto in questa citta` di Parigi che in altri luoghi... sara` fatto pubblico bando da parte del re affinche´ tutti gli ammalati di grosse ve´role, stranieri, cosı` uomini come donne... partano da Parigi e si restituiscano in patria o altrove sotto pena del capestro e non ritornino se non interamente guariti. Alle

9 10

Histoire de France, Tome X, Paris, 1770, p. 513. La lue americana, il mal francese, il mal napoletano ai tempi di Carlo VIII, Napoli, 1897.

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GLI SFREGI DI NAPOLI

donne ammalate saranno date le case per la lor dimora, i viveri e altre cose loro necessarie»11. Come, dunque, si puo` ancora parlar di mal di Napoli in Francia? Non dobbiamo piuttosto prestar fede al Ruiz Diaz che scrive: «Nel 1494 re Carlo VIII dovendo scendere in Italia con esercito numeroso accolse nelle sue schiere molti Spagnuoli. E poi che di questi alcuni erano gia` infetti cosı` il nuovo morbo fu introdotto dagli Spagnuoli in Francia e quindi anche nell’esercito francese. Ma ignorandosi la origine del male fu creduto ch’esso dipendesse dal clima stesso della regione. I Francesi piu` tardi lo chiamarono male napoletano, gl’Italiani, invece, mal francese...». Fino a quando non appariranno documenti nuovi e` al piu` recente e attendibile d’essi che ci tocca di credere. L’opuscolo del Comes e` l’ultima parola sopra una controversia antica, la quale seguitera` forse, per anni moltissimi ancora, a sperimentar gli argomenti piu` disparati. Quello principale che mette avanti l’Hesnaut per provare l’origine italiana del male venereo per quanto riguardi la Francia ci par davvero arrischiato. La sifilide e` un contagio e presuppone il contagiato, l’ammalato locale onde altri, a mano a mano, s’inquinano. Il lusso, la dissolutezza, la depravazione de’ costumi italiani della fine del decimoquinto secolo e del principio del decimosesto c’entrano, crediamo, come i cavoli a merenda. Si puo` piuttosto pensare che la lue sifilitica sia stata conosciuta dagli antichi, che il suo fatal cammino l’abbia finalmente portata in tutto il mondo, ch’ella sia stata da remotissimi tempi malattia, se non designata per le cause e combattuta per la terapeutica, conosciuta dovunque. Ma – osserva il Corradi, ne’ suoi Nuovi documenti per la storia delle malattie veneree in Italia – quando anche sia messo fuori di dubbio che i popoli antichi, siccome quelli del medioevo, ebbero non solamente mali venerei locali, ma anche generali, cioe` la vera lue o sifilide costituzionale, rimarrebbe pero` sempre da dimostrare come e per quali accidenti nel tempo anzidetto succedesse per siffatti morbi mutazione tanto profonda. Del che la cagione vera tuttora rimane ascosa.

11

Atti del Senato di Parigi. Registre du Conseil 1496-97, n. XL, f. 74.

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[Conclusione morale] Dal decimoquinto al decimosesto secolo la prostituzione crebbe in Napoli con facile aumento e da plebea ch’era, soltanto, e spregiata agli anni della dominazione aragonese, si costituı` appresso, da’ primi del viceregnato spagnuolo, come una vera e folta corporazione del costume, o meglio, del mal costume suntuario. Il seicento fece il resto e quella che era stata, nel secolo precedente, da parte de’ pubblici officiali una frequente e pericolosa intromissione in queste losche faccende, divenne addirittura, per la scandalosa opera loro, una manifestazione continua della corruttela piu` smodata e cinica e dell’impotenza civile di que’ governi oppressori. Conseguenza, del resto, come la sarebbe ancor oggi, della fatal comunione di due elementi quasi l’uno all’altro necessario. Da’ primi anni del secolo decimosesto a questi anni nostri l’amor libero ha avuto in Napoli una topografia stabile, una specie di relegazione in quei luoghi eccentrici della citta` i quali erano, or nell’alta sua parte, or fuori delle sue mura, in borghi frequentati, per lo piu`, dalla soldatesca attendata o acquartierata in que’ pressi. La fine del nostro secolo ha fatto, come nel borgo famoso che fu degl’Incarnati, crollare gli antichi baloardi che separavano dall’onesta gente quella che la societa` condanna e spregia: il Risanamento ha purgato in gran parte quella regione e dalle sue materiali demolizioni e sistemazioni e` quasi sembrato, in sulle prime, che dovesse rampollare nelle vie nuove e spaziose – le quali mettevano l’aria e la luce ove fino a quel punto i rituali misteri di quelle sacerdotesse s’eran compiuti nella semioscurita` di fondaci e chiassuoli – una civilta` novella e una morale piu` tollerabile. Ma come dilaga dal letto incapace d’un fiume l’acqua, e si spande, e trascorre per tanti rivoli nuovi e ne abbevera intorno il terreno, cosı`, ricacciate da que’ luoghi ove il loro commercio le aveva perfin viste invecchiare, centinaia di miserabili sciagurate si sono sparse ne’ pressi della piu` vecchia suburra e han popolato tutto un rione ch’era stato de’ primi a sorgere, per opera de’ risanatori, accanto alla Stazione Ferroviaria, sull’area sterminata di terreni paludosi e deserti. Qui pareva che si dovessero raccogliere pacifiche e oneste famiglie di borghesi decaduti, di poveri operai, di ferrovieri, di quelli oscuri professionisti dei grandi centri, afflitti da prole copiosa e da tribolazioni perenni. Qualcosa che somigliava a un sentimento pietoso aveva – mentre si levavano, alti e capaci, i nuovi palazzi – additato ai cittadini, con ipocrita retorica di gazzette e di discorsi pronunziati in sale munici-

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pali, il provvido e civil destino d’un rione che avrebbe dovuto ospitare gli umili eroi della fatica giornaliera e dar loro un tetto che non usurpasse tutto quasi il loro guadagno. Cosı` non e` stato. E, come per una fatalita` etnografica, la cui dimostrazione e` nei documenti di topografia che abbiamo raccolto, la stanza del meretricio non e` piu` mutata a Napoli da quei tempi antichi. Han mutato nome, non abitatori, gl’Incarnati; il quartiere dei Gelai, con quasi somigliante aggettivazione, continua a raccogliere quanto vi ha di piu` vile ed abbietto nella mala vita: prospera ancor sempre la pianta del griffone, e pare una flora notturna fecondata dalla tenebra. E i due grandi mali che hanno conquistata la nostra plebe dai tempi piu` remoti a questi d’oggi continuano, lentamente, a roderla. L’ignoranza, la miseria.

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)

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«Pasquino» Una ventina d’anni fa la vasta sala da biliardo di Gennarino ’o calavrese, in via Cisterna dell’olio, ha raccolto, tra quelli che giocavano a pulla o a bazzica tutto il giorno e tra gli altri che si davano la posta nella stanzetta del retrobottega per giocare a carte, i piu` famosi camorristi e sparatori. Tra le nove e le dieci di mattina gli studentelli che avevano marinato la scuola se ne venivano al biliardo, consegnavano i libri a Ciccio Mbriachella, assistente biliardiere, e principiavano ad esercitare le braccia, rimanendo a giocare fino al tocco, tra il va e vieni dei nuovi arrivati e il periodico tintinnio del campanello d’un biliardino Russ, posto in fondo alla sala per far perdere l’anima e i quattrini a’ piu` gonzi. Dalla stanzetta del retrobottega venivano fuori di tanto in tanto bestemmie rauche, ed urli e risate. A volte vi si faceva un silenzio profondo, un silenzio d’aspettazione viva e trepidante. Quindi una voce annunziava chiaramente: – Otto. E un lungo silenzio, daccapo. Il tenitore del banco a quell’infernale macao stillava le sue tre carte, terziava, come qui dicono, tra un batticuore generale. Era, il piu` delle volte, un giovanotto biondo, pallidissimo, nervosissimo, di modi villani, non napoletano. Perdeva sempre, lacerava ogni tanto un mazzo di carte, senza parlare, mangiandosi il labbro inferiore, gli occhi pieni di sangue. Dirimpetto a lui, accanto a uno stipo, giocavano due siciliani e due calabresi, a scopone. Era un tavolino romoroso; non si sentiva che Santo Diavolone! E gran colpi di pugni sul tavolino, mentre i denari ballavano nel piatto. Il giovinotto biondo girava di tanto in tanto la testa per dire a quelli dello scopone, sottovoce, tranquillamente: – Ce vulite fa’ fa’? Sto perdenno. E tornava alle sue carte, tornava a perdere, rimetteva in saccoccia

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GLI SFREGI DI NAPOLI

la mano e la cavava piena di denaro, al quale toccava, dopo un momento, la stessa sorte del precedente. La stanzuccia si empiva di fumo, vi si fumava anche la pipa. Di fuori, nell’attiguo stanzone, le palle s’urtavano con un colpo secco, il campanellino seguitava a suonare, e il gridio si faceva man mano assordante. Ciccio Mbriachella, col naso sempre rosso, raccogliendo mozziconi di sigari e sugheretti saltati via dalla punta delle stecche, girava attorno, annunziando: – In camera e due! Tredici e ventisette! Siete morto, co’ salute! C’e` una lira di scommessa per chi tira! Gennarino ’o calavrese, un gigante dalla lunga barba nera, gioviale e terribile a un tempo, feroce e fanciullo, coraggioso, temerario, manesco, le grandi mani ficcate nelle saccocce d’un soprabito peloso che gli scendeva fin su’ piedi, il sigaro in bocca, passeggiava davanti alla stanzetta delle carte, non mai levando gli occhi piccoli e neri dalla porta d’entrata, benche´ le cortine bianche, di cui la vetrata era provvista, nascondessero a lui la via e a quelli della via tutto quanto succedeva in questa sala di perdizione. Ma spesso, mentre Gennarino badava ad altro, la porta si apriva d’un subito, quattro o cinque uomini si avanzavano, carponi, rapidamente, e, a un tratto, si levavano tutti impiedi, irrompendo nel retrobottega, ove succedeva uno scompiglio indescrivibile tra i giuocatori. Erano guardie in borghese che poi si portavano via tre o quattro de’ frequentatori della bisca, quelli piu` macchiati nel registro della questura. Lı` per lı` gli studentelli, dopo aver ceduto, tremanti, a una rapida perquisizione sulla persona, se la svignavano, promettendosi ognuno in cuor suo di non tornare piu`. La gran sala si vuotava: non vi rimanevano che Gennarino, i suoi amici, Ciccio Mbriachella e un altro garzone biliardiere, il quale poi divento` distributore di libriccini protestanti e adesso sara` pur diventato pastore. Gennarino bestemmiava in albanese e se la pigliava con Ciccio, che, da lontano, protetto da un biliardo, gridava: – Ma che pozzo fa’, io? Pozzo bada` a ddoie porte? Chille so’ trasute comm’ ’e crape! Si vulite fa’ buono mettite a uno fora ’a strata! E piangeva come un vitello. Appresso non ci fu nemmanco bisogno di sorvegliare la porta. La polizia, impotente sempre, s’era seccata. Nessuno capitava a sorprendere piu` i giocatori, nessuno badava piu` nemmeno alle coltellate e a i colpi di revolver giornalieri, per cui il biliardo diventava sempre piu` un ridotto pericoloso.

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)

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Il mondo del quale si servivano gli sparatori per esercitare le loro armi assumeva forme stravaganti. Entrava un di loro, noto giovanotto guappo, e si fermava sul limitare della sala gridando a tutti: – Site na rocchia ’e carogne! E, non concedendo neppur il tempo di ringraziare, levava la mano armata del revolver e cominciava a sparare a casaccio. C’era un giovine grasso, commerciante, che, appena si apriva la porta, chiunque entrasse, si faceva sotto un biliardo e vi rimaneva cinque minuti a tremare di paura, avvilito e impressionato dalla abituale irruzione armata del giovanotto sparatore, la quale si ripeteva di tanto in tanto, con seguito di colpi di revolver nella strada e ferimenti di persone che andavano pei fatti loro. Una sera di settembre tutti i giocatori s’erano raccolti intorno al biliardino Russ. Vi si giocava d’azzardo e teneva banco proprio Gennarino. Di fuori veniva giu` l’acqua a rovesci: i giocatori e i curiosi, il paracqua sotto al braccio, tenevano dietro alle sorti delle giocate. Una penombra s’era fatta nella sala, avendo Mbriachella mitigato un poco le fiamme dei lumi, che si dondolavano ancora sui quattro biliardi in fila, sotto le loro ventole di mussola, bianche bianche nella mezza oscurita`. Luceva in fondo alla sala il lume penzolante sul biliardino Russ, ombre gigantesche si movevano sul muro di faccia, e il fumo dei sigari, che saliva dalla folla raccolta attorno al triste giochetto, si librava e ondulava lungamente nell’aria. Gennarino vinceva. E a coloro che, di colpo in colpo, facevano passare dalla loro saccoccia al piattello di lui gli ultimi quattrini, egli, Brenno novello, lanciava, motteggiando, da quel facchino che era, ogni sorta di contumelie. Appie´ del biliardo era un giovanotto rosso, malamente: uno degli habitue´s del luogo e giocatore disperato. Puntava, perdeva e ripuntava, mormorando. A un tratto esclamo`: – Pa`roli! Gennarino, che non lo aveva mai perduto di vista, rispose: – Pa`rule nun ne faccio. ’O ttengo pe malaurio. – E io no! Pa`roli! – T’aggio ditto ca nun ne faccio! – E io dico ca faccio pa`roli! Gennarino si scosto` dal biliardo e fece, minacciosamente, due passi. Il rosso mise la mano in saccoccia. Il gruppo dei giocatori si scioglieva; gia` alcuni passavano chetamente nell’altra stanzetta e chiudevano la porta. Vi fu un momento di silenzio e di aspettazione, poi la voce di Gennarino tuono`:

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GLI SFREGI DI NAPOLI

– Iesce fora, grannı`ssemo... Ma la frase fu interrotta da un colpo di revolver a cui seguı` un grido disperato. Il lume si spense. Si udı` un’altra volta la voce di Gennarino: – Haie acciso a n’amico tuio! Il proiettile aveva colpito un amico del rosso che nel momento dello sparo si trovava rimpetto allo sparatore. Da ogni parte si gridava: – Lume! Lume! E nella oscurita` che s’era fatta si udivano urli, bestemmie e gridi paurosi. La scena era diventata comicamente terribile. La porta d’entrata sbatteva, per una fuga generale. Alcuni urlavano: – Guardia! Guardia! Intanto Mbriachella accese un lume. Si vide allora il rosso che fuggiva, salvandosi pei corselli tra biliardo e biliardo, inseguito da Gennarino, spaventoso. Il rosso arrivato alla porta la spalanco`, si fermo` un momento sul limitare, pallidissimo, e grido` a Gennarino: – Nun ascı` si no sı` muorto! Poi, con un salto, si trovo` nella via. La porta si chiuse. Mbriachella s’era afferrato al cappotto di Gennarino, piangendo e gridando: – Don Genna`! Nun ascite! Pe carita`! Facitelo p’ ’e figlie vuoste! Gennarino si volse, allungo` il braccio formidabile, colpı` Mbriachella sulla faccia e lo mando` ruzzoloni sotto un biliardo. Quindi, fattosi all’uscio di strada, l’aperse violentemente ed uscı`. Subito si udirono altri due colpi di revolver, che misero il freddo addosso ai pochi che erano rimasti nel biliardo. Rientro` Gennarino, barcollando, e si butto` su di un divanuccio, bianco in faccia come la cera. Gli fu in gran fretta sbottonato il cappotto, e denudato il petto. A sinistra del petto si vide una macchia nera, grande come un soldo. Uno dei presenti mormoro`: – L’ha stutato! Allora Mbriachella si butto` alle ginocchia di Gennarino, che non si muoveva piu`, e piangendo disperatamente si mise a gridare: – Don Genna`! Don Genna`! Avite visto? Io ve l’avevo ditto! Vuie nun m’avite voluto sentı`! Bene ve sta! Subitamente Gennarino levo` la mano. Colpito poderosamente in faccia un’altra volta Mbriachella cadde riverso, balbettando, steso lungo per terra: – Comm’e`? Nun site muorto? Don Genna`!... Vuie nun site muorto?!...

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)

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Il proiettile s’era arrestato, incontrando, gia` indebolito dal panno del cappotto, l’osso d’una costola. La macchia nera era una contusione; il cappotto albanese aveva salvata la vita a Gennarino. Quando le guardie entrarono nel biliardo Gennarino era impiedi, chiacchierando e ridendo. Alle guardie disse di non conoscere il suo feritore. Tutti quelli del biliardo ripetettero lo stesso e le guardie se ne andarono come erano venute. Dopo tre mesi Gennarino morı`. Il colosso morı` di schianto, per lo sgomento di quella sera. I medici gli mangiarono tutto, la malattia gli spoglio` la casa e lo ridusse tanto a mal partito che si dovette promuovere una colletta tra i giocatori perche´ il poverino avesse una tazza di brodo per una settimana. Ciccio Mbriachella ripete ancora, quando gli si parla di Gennarino ’o calavrese: – Nun vulette sta’ a sentı` a me! L’ha voluto isso! In questo biliardo, tra i piu` famosi giocatori, era un giovanotto chiamato Pasquino. Gennarino ’o calavrese, il quale non amava e non temeva nessuno, se Pasquino gli avesse detto: «ammazzati» s’ammazzava. Il gigante adorava questo fanciullo vagabondo ed audace, questo piccolo don Giovanni delle donne perdute, questo delicato sbarbatello che aveva un polso di ferro e che giocava a Carolina come il famoso Carulli. Era allora Pasquino quasi ancor giovanetto ma gia` in fama di ragazzo di fegato e di opere ardite, per le quali la questura, retta, in quel tempo, se non mi sbaglio, dal Santagostino, lo aveva prudentemente messo in coda alla lista dei sorvegliati speciali. L’anguilla, il piu` delle volte, scivolava fra mani alle guardie e faceva loro le fiche, scomparendo per un paio di settimane, ricomparendo per andare a scontare, pazientemente, qualche mese di carcere, e tornando alle prodezze antiche per tornare alla Vicaria o a S. Francesco. Due biliardi lo vedevano piu` spesso: quello a porta S. Gennaro a Foria, accosto al caffe` d’Aceniello, questo alla Cisterna dell’olio, ove meno bazzicava la polizia. In tutti e due quasi nessuno de’ giocatori conosceva il nome di lui di battesimo: Luigi Soreca era Pasquino per tutti, senza che alcuno si fosse mai dimandato la ragione del vezzeggiativo. A Luigi Soreca chi aveva pel primo affibbiato il nomignolo lo aveva fatto non per nessun romanesco raffronto ne´ mai perche´ Soreca avesse addimostrato perizia in madrigali o in satire. Il piccolo Soreca, benche´ malizioso e motteggiatore, era assai lontano dalla letteratura, per popolare che essa potesse essere. Il nomignolo si

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GLI SFREGI DI NAPOLI

riferiva tutto a lui, proprio a lui, giovanottino fine, delicato, dall’esse sibilante, dal corpo agile e ben fatto, dai piccoli baffetti ch’erano piuttosto una pelurie biondiccia sulle labbra sottili e brevi. Non mai come a Napoli un nomignolo definisce fisicamente un uomo. Chi dice a Napoli pappone dice un uomo o un fanciullo grasso, tondo, rubicondo, mangione, allegro, cretino; chi dice tetillo dice il contrario; chi dice agrillo dice lesto, svelto, audace, manesco. Senza averlo visto mai vi potrete trovar davanti l’uomo che avete immaginato ascoltandone il soprannome; queste aggettivazioni napoletane non v’ingannano mai. A Luigi Soreca il soprannome era tagliato addosso mirabilmente, come a Ciccio Mbriachella, cotto sempre da tre o quattro litri, come un altro dei frequentatori del biliardo che aveva sempre le mani sudate e fredde e che chiamavano ’o nevaiuolo. Pasquino era un bel giovanetto, d’una bellezza simpaticamente regolare ne’ lineamenti, dalle mani e dai piedi aristocratici, dai denti allineati e bianchi, che egli curava, come le mani, con grande amore. Non fumava che sigarette, mentre tutti i giovanotti malamente non fumavano che napoletani, non cantava a figliole o a fronne ’e limone, non portava il cappello sulle ventitre´, non bestemmiava che santi. Tra un colpo e l’altro, alla bazzica o alla pulla, cavava la scatola del tabacco, si faceva una sigaretta, saliva sulla sponda del biliardo per accender la sigaretta al lume, e, aspirando poi, voluttuosamente, grandi boccate di fumo, con l’occhio sulle biglie che rovesciavano i birilli, dolcemente canticchiava: Noi ti mirammo insieme, Nel dı` dell’ultim’ora!... Stella del nostro amore!...

– Mirate! Mirate! – interrompeva Mbriachella. – Mirate ca sta perdenno ’a partita! Vuie pazziate e ’o contrario vuosto se recreia! – Pecche´? – Avita fa’ l’asso! Sulo chillo pazziariello la`. Si ll’ate sbriglie cadeno s’e` stutata ’a lucerna. Allora Pasquino si faceva serio. C’era l’asso solo da far cascare, un solo birillo. Il colpo era difficilissimo e ci andavano di mezzo cinque o dieci lirette. Sottovoce, qua e la`, tra i curiosi affollati attorno al biliardo, si scommetteva... Pasquino, molto praticamente, strofinava il gesso verde sul sugheretto della stecca, ne lasciava cadere il gesso che vi s’era appiccicato e si stendeva, una gamba all’aria, immobile, l’altra piantata salda a

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)

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terra. Per due o tre secondi la punta della stecca tentava la palla, che d’un subito partiva e percoteva la contraria; questa batteva nella mattonella, tornava, lenta, passava accosto ai cinque birilli e ne abbatteva un solo, pian piano. – Asso! – gridava Mbriachella, entusiasmato. – Siamo sempre noi! Pasquino intascava tranquillamente il denaro, riaccendeva la sigaretta e ricominciava a canticchiare:

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Noi ti mirammo insieme...

E il suo portatabacco, che mostrava, quando se ne faceva scattare una molla, lascive figurine di donne nude, passava di mano in mano come una rarita`, tra risate ed esclamazioni ammirative per questo Fortunio in cattiva edizione, che si portava le donne sue nella scatola del trinciato dolce. Questo il Pasquino del biliardo. Lı` tutti dicevano ch’egli avesse buon cuore, una bella innamorata e, a volte, denari parecchi in saccoccia. Ma per saperne la vita vera, che incominciava dalle dieci di sera e finiva all’alba, bisognava averlo seguito nelle sue peregrinazioni notturne, bisognava appartenere alla squadra volante della questura per incontrarlo su di una casa di mala fama, come il padrone temuto di quel serraglio. Nelle notti invernali, quando il freddo e la pioggia fanno deserte di gente le vie, nelle belle notti d’estate che diffondono il chiaro lume della luna per le strade e pei silenziosi vicoletti mentre passano sui muri dei palazzi immani ombre di carri e di bestie, in queste ore notturne ogni onesta casa napoletana dorme. Le altre vegliano, e strani fatti di amore vi si compiono. Bisognerebbe essere don Cleofa y Zambullo per correre, a cavallo dello zoppo Asmodeo, su pei tetti di certe casucce di Pendino e di Porto, fatte proprio per lasciar pensare a tutto un romanzo, o ad un dramma. La polizia, di tanto in tanto, vi si reca a sorprender qualcuno in flagranza di amore armato, un recidivo, un contravventore che sia all’ammonizione. Spesso non trova nessuno perche´ queste nostre donne perdute non mai perdono gl’innamorati, fortemente e avvedutamente amando. Ma piu` spesso il colpo riesce, la trappola dell’amore ingannando o attirando anche i piu` maliziosi. I Javert di via Concezione a Toledo si giovano di codesti attaccamenti per metter le mani sui pezzi grossi e piccoli della camorra: ma per questi Sansoni della mala vita nessuna innamorata e` mai stata Dalila.

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GLI SFREGI DI NAPOLI

E il sacrifizio di queste donne di malaffare e` alto. Esse appartengono tutte al loro amante per brutto, per cattivo che sia, purche´ sia guappo. Gia` spogliate dell’onor loro continuano a farsi materialmente spogliare degli orecchini, degli anelli, dello scialle di crespo che va in pegno al Monte di Pieta`, degli utensili di casa, della collanina di perle, che avevano destinato, per voto, alla Madonna del Carmine. Del denaro guadagnato col disonore fanno parte all’amante, perche´ questi comperi una rivoltella e impari a vendicarsi e a dichiararsi nel nome di Dio. E cosı` fortemente li legano all’amor loro ed alla loro disgrazia, e di cosı` gravi e, a volte, sanguinosi obblighi li creano debitori che, all’ultimo, colui che piu` e` avvinto da codesta drammatica catena amorosa e` appunto l’uomo, il piccolo guappo, il giuvinotto annurato, ’o picciuotto ’e sgarro, ’o guaglione ’e l’umirta`. Il primo anello della catena fa capo a un quarto o a un quinto piano d’un buio e sporco palazzuccio al Mercato, a Porto, a Pendino, un palazzuccio per gli scalini del quale, sudici e rotti, e` parecchie volte scorso il sangue davanti a un’immagine della Madonna, illuminata nella faccia antica da una povera lampada. L’altro anello s’attacca alle barre di ferro di San Francesco o del Carmine ove, nella notte silenziosa, come dice una nenia di carcerati: chi dorme e chi veglia, chi fa nfamita`... Da questa catena sono avvinti tutti i giovanottini armati senza licenza di porto d’armi, gl’imberbi frequentatori dei biliardi di bassa mano o dei teatrini di quarto ordine o delle sale del tribunale a Castelcapuano. Da questa catena, che le segue fino allo spedale, sono avvinte miseramente le povere donne perdute, per le quali tutto diventa, anche l’amore, una persecuzione o un martirio. Nelle vaste sale di Castelcapuano, per ove passano, strascicando le nere toghe, accusatori e difensori, un romore lungo e insistente si leva, e par che dalle scranne, consumate e logore, della giustizia, la giustizia stessa, senza saperlo, a furia di frasi vuote e di inutili verbosita`, di questa immane catena, spaventosa e indistruttibile, vada sempre piu` martellando e ribadendo le anella. L’amante di Pasquino era una prostituta. Si chiamava Fasulella. Lo adorava. Sull’imbrunire d’una sera d’estate Pasquino, in fretta e furia, si fermo` a bere un bicchierino di vermouth nella bottega di un liquorista, in un vicolo di via Roma. Ingollato il vermouth d’un fiato, gettando sul banco tre soldi, egli chiese al liquorista, che lo conosceva e conosceva pur gli amici suoi:

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)

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– Avite visto ’O russo? – Nun e` benuto – rispose il liquorista. – Nun e` benuto? – No. – Certo? – Quanno ve dico ca nun l’aggio visto. – Va buono, mo ’o trovo io. Si venesse dicitele ca io ’o sto gghienno truvanno... Giro` i tacchi e sparı`. Dopo mezz’ora una vettura da nolo andava a tutta corsa pel Corso Vittorio Emmanuele. Nella vettura erano Pasquino e tal Viscardi, ’O russo. Pasquino finalmente aveva trovato il suo amico, e se lo conduceva al dichiaramento come se lo menasse a pranzo. Giusto dovevano far sosta da Pastafina, il trattore celebre al Corso Vittorio Emmanuele, l’uomo dai vermicelli alle vongole e dai superbi arrosti di pollastri. La serata era dolcissima; tutta Napoli, vista dall’alto del Corso, tra una festa di lumicini, susurrava lontanamente e pareva una corona della quale lucessero solamente le punte brillantate. Un vago mormorio, il mormorio della sera, saliva fino al Corso silenzioso e deserto, ove, qua e la`, un chiarore di lumi arrossava, in alto, qualche finestra. La vettura era presso che arrivata. Ma a pochi passi dalla trattoria di Pastafina, Pasquino, il quale aveva, al lume della luna, veduto qualcuno lı` immobile presso all’entrata del viale, grido` al cocchiere: – Ferma! La vettura s’arresto`. Ne scesero, con un salto, Pasquino e ’O russo e si avvicinarono alle persone che li aspettavano. Vi fu un brevissimo scambio di parole, poi si udı` un colpo d’arma da fuoco e Pasquino cadde. La palla lo aveva colpito in pieno petto e gli aveva trapassato un polmone. Al caduto fu sopra, ferocemente, un giovane, armato di bastone di ferro. Vibro` un colpo sulla testa a Pasquino, che rantolava: – Mamma mia! Alfo`! Falle p’ ’a Madonna, nun m’accidere! Il compagno d’Alfonso impose: – Dalle, a st’affemmenato! Poi si videro scappare due o tre persone. Scapparono pure due vetture da nolo; erano due; quelli che aspettavano Pasquino erano, anch’essi, arrivati in carrozza. E Pasquino rimase solo, immobile, steso supino in mezzo al viale, nel chiaro della luna. Il sangue intorno a lui faceva una pozza, gli usciva pur dalla testa, sconciamente rotta dalla bastonata. Il bel giovanotto faceva orrore e pieta`; un corpo viperino e piccolo si

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GLI SFREGI DI NAPOLI

torceva sullo sterrato, e nella serena mite notte estiva, per quanto funesto, lo spettacolo di quel biondo ucciso aveva un non so che di poetico...

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«Don Ferdinando D’ ’A Posta» – Don Ferdinando, raccontateci la vostra storia. – Ma, signor cavaliere, che posso dirvi? Sospiro` profondamente. La notte era chiara e fresca: di su la leggenda della Trattoria del Progresso, in via Nardones, la lampada elettrica spandeva attorno il suo pallido lume. Gli ultimi ritardatarii, rincasando da Toledo, passavano lentamente nel diffuso chiarore, davano un’occhiata alle tavole della trattoria allineate davanti alla porta, sorridevano al saluto rispettoso di don Ferdinando e tiravano via. L’ostricaro Luigi, addossato a uno degli stipiti, con le braccia enormi conserte, gigantesco e muto come quel Gueulemer dei Miserabili, ma buono come Jean Valjean, lasciava cadere sul suo amico don Ferdinando uno sguardo tranquillo e dolce. Pareva una cariatide pensosa della miseria umana che le si sciorinava sott’occhi. Di volta in volta don Ferdinando levava il capo e ricambiava il sorriso. Qualcuno di noi ha udito allora mormorare teneramente: – Questo Luigi l’ostricaro e` un cavaliere. Qualche altro puo` dire d’avergli udito balbettare sottovoce: – Grande anima in grande corpo. Meditazioni sentenziose: quella di don Ferdinando era una poverta` lievemente filosofica. La grammatica gli avea lasciato pochi ricordi, alcuni de’ quali, annebbiati dal vino, andavano pure scomparendo a mano a mano; ma il buon uomo possedeva, per altro, una collezione di massime onde continuamente, con una grande nobilta` di gesto, spargeva il suo peripatetismo innocente. Di dove le cavava? Dal vino, o dalla miseria? Forse da tutte e due le cose. Agli ultimi sorsi il suo bicchiere ribolliva di gloriosi epifonemi, la gratitudine della poverta` consolata palpitava tra gli apotegmi, e l’uomo avvilito, disprezzato, insultato da tutti platoneggiava, declinando frasi riconoscenti e detti quasi memorabili. – Dunque, la vostra storia? – Sono infelice – rispose. Dopo un poco soggiunse, rialzando il capo e interrogandoci co’ piccoli occhi arrossiti dalla congiuntivite: – Voi da me che volete? Mi trattate come un cavaliere, ma mi

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)

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fate troppe domande. O mi volete bene assai o mi volete male. No! Mi volete bene! Io non vi ho fatto niente. Volete la mia storia? Prontissimo. Domandate e io rispondo. Comincio` allora il seguente interrogatorio. – Il nome? – Io mi denomino Biscogli don Ferdinando. Mettı`mmece ’o don: son un galantuomo. – Nato? – Quartiere San Ferdinando. – E quanti anni avete? – L’eta`? Qui assunse un’aria tragica. Levo` il braccio, additando le buie profondita` di Toledo, e rispose: – La sa la questura di Napoli! Come, adesso, un secondo bicchiere di asprino gli scioglieva lo scilinguagnolo, egli seguito`, arrestandosi, brevemente, di volta in volta, per ricordare. – Mio padre era tenente colonnello nell’antico esercito, dove io stesso ho servito da ufficiale. Morı` mio padre, si sciolse l’antico regime, si dirado` Francischiello e felice notte ai suonatori. Rimanemmo il vostro umilissimo servo, mio fratello e mia sorella... – Che vivono tuttora? – No. L’Ente Supremo se li ha chiamati. Mia sorella era una santa donna – e si scappello`. – Mi diceva sempre: Ferdina`, non bevere! Ferdina`, ca ’o vino te fa male! – E voi non le avete dato retta! – Signor cavaliere!... L’uomo e` debole... Sı`, e` vero, mi e` piaciuto di bevere un bicchiere, ma che per cio`? Piu` bevo e piu` galantuomo mi sento... Dove siamo rimasti? Ah, ecco, sissignore, ho fatto sette anni di servizio municipale, come guardia. Esaurito il servizio io pensai: mettiamoci a fare lo scrivano alla Posta. Eccoci alla Posta. La mia parentela era gia` morta e m’era rimasto soltanto nu bancariello. Porto il bancariello e due sedie alla Posta e mi metto a scrivere lettere per quattro o cinque anni, tra rispettabili colleghi. Bevve un altro sorso di vino e poso`, lentamente, con tutta attenzione, il bicchiere sulla seggiola che aveva davanti. – E poi? – E poi!... E poi ho dovuto levar mano per parecchie ragioni. In primis, s’arrubbaieno ’e ssegge, in secundis mi bersagliavano continuamente con bucce di frutta ed altro bene di Dio...

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GLI SFREGI DI NAPOLI

– In tertiis? – In tertiis, siccome avevo fatto amicizia col liquorista dirimpetto e ci andavo spesso... l’inverno e` cosı` freddo, signori cavalieri... dunque... bevevo il bicchierino... due, tre bicchierini, e cosı` la mia testa se ne ando`, non fissandosi piu` al punto della ragione. – E questo come c’entra? – Come c’entra? C’entra perche´ venendo da me la gente a farsi scrivere le lettere essendo io malmenato dal liquore... – Non potevate piu` scrivere. – Nossignore. Lloro dettavano aglie e io screvevo cepolle. Ecco come c’entra. Allora, per non danneggiare la societa`, abbandonai la Posta. Seguı` un silenzio. Egli ci aveva detto la verita` e pareva che ora meditasse sulla sua narrazione. Gli occhi gli s’erano un poco imbambolati, le mani andavano perdendo via via la loro facolta` prensile, e un lieve sorriso, che si sarebbe potuto definire ironico ed ebete a un punto, gli increspava le labbra. Un cane gli passo` accosto in quel momento, lo annuso`, si mise a brontolare, guardandolo. Il povero don Ferdinando si fece piccin piccino e con un filo di voce disse: – Passa la`! Il cane se ne ando`, seguitando a brontolare. Don Ferdinando sentenzio`: – Di questi mesi bisogna stare attenti. I cani sono tutti idrofobati. Ricadde nella sua meditazione: dopo un po’, col bastoncello che aveva in mano, minaccio` il vicolo deserto e torno` a ripetere: – Passa la`! – Don Ferdinando, avete mangiato? – Non ancora, nobili cavalieri. E i suoi piccoli occhi ebbero un lampo di suprema speranza. Egli non aveva mangiato ancora ed erano quasi le due ore dopo la mezzanotte. Dal Gambrinus s’approssimavano alle democrazie culinarie del Progresso i soliti nottambuli, a piccoli gruppi, occupati per via in discussioni animate che terminavano davanti alla trattoria. E dal buio della strada spuntavano, di tanto in tanto, de’ poveri bambini; gli straccioncelli di cui si popola la via di Toledo a tarda ora. Questi homunculi, come certi lepidotteri notturni, erano attirati dalla luce. Forse pur dal profumo delle vivande che si spandeva lievemente per la via. Le femmine andavano avanti, scalze, appena coperte da’ brandelli delle lor vesticciuole, col piccolo scatolo di cerini attaccato al collo. Ispezionavano la strada negli angoli suoi piu`

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)



riposti, si chinavano a raccogliere qualche cosa e allora un gruppetto di tutta la compagnia si formava nella penombra. Una breve discussione animava il gruppetto, davanti a un monte di spazzatura; si udivano le voci infantili nella notte. Poi qualcuno di quei nani cacciava in saccoccia il bottino e il gruppetto si scioglieva. Osservando attentamente questa folla di cherubini poveri si riconoscevano tutti quelli che ronzano attorno alle tavole del Gambrinus in piazza Plebiscito: v’e` un clan di acrobati che usa di chiedere l’elemosina con la testa in giu` e i piedi in aria, v’e` una famiglia di piccine bionde, quasi rosse, che offre cerini, v’e` un piccolo storpio allegro, un piccolo gobbo malinconico. Una delle biondine, la piu` piccola, fuma mozziconi di sigarette. Una sera sollecitava, assieme al fratello, un tedesco che beveva tranquillamente la sua birra. Il tedesco gitto` la sigaretta al maschietto e mise un soldo nella mano della piccola. Lei dette il soldo al fratello e prese per se´ la sigaretta. Ha cinque o sei anni. Che cosa sono questi esseri? Vittor Hugo ha consacrato loro uno de’ piu` belli capitoli de’ suoi Mise´rables; i monelli napoletani sono fatti come i gamins di Parigi: le grandi citta` nelle grandi miserie si rassomigliano. Il monello napoletano ha, come il parigino «de sept a` treize ans, vit par bandes, bat le pave´, loge en plein air, porte un vieux pantalon de son pe`re qui lui descend plus bas que les talons, un vieux chapeau de quelque autre pe`re qui lui descend plus bas que les oreilles, une seule bretelle en lisie`re jaune. Court, guette, queˆte, perd le temps, culotte des pipes, jure comme un damne´, hante le cabaret, connaıˆt des voleurs, tutoie des filles, parle argot, chante des chansons obsce`nes, et n’a rien de mauvais dans le coeur. C’est qu’il a dans l’aˆme une perle, l’innocence, et les perles ne se dissolvent pas dans la boue». Questi bambini si fermarono davanti alla trattoria, cominciarono per rimanere incantati nella contemplazione de’ fritti e degli spezzatini, offrirono le loro scatole di fiammiferi e finirono per chiedere qualche cosa. Ottennero: quattro pezzi di pane sbocconcellato, delle frutta e due piatti di rimasugli di spezzatino. Cercarono l’oscurita` e vi andarono a banchettare. Dopo un poco un avvenimento singolare interruppe il pranzo. Tutti si alzarono e circondarono una scia di spazzatura che si allungava in mezzo alla via. Il piu` grande comando`: «Silenzio!». Era uno spettacolo interessante per la loro osservazione; i piccini trattenevano il respiro, sgranavano i grandi occhi meravigliati. Difatti l’avvenimento era singolare. Nientedimeno, uno scarabeo attraversava la spazzatura.

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GLI SFREGI DI NAPOLI

– Io non faccio male a nessuno – seguito` don Ferdinando, dopo aver mangiato e bevuto – ma tutti fanno male a me. Mi inseguono, mi percuotono, mi irritano. Una volta m’hanno perfino lanciato un cane addosso. Quel cane pareva un uomo!... Nobili cavalieri, con questo pranzo che mi avete offerto mi avete sollevato. Lo spezzatino era soave. Dio mio, quanto siete abneghevoli! Nobili cavalieri, ricoveratemi in qualche parte, io non posso piu` vivere a questo modo! – Ma perche´ bevete? – Volete saperlo? Per umiliarmi. Altrimenti non so chiedere l’elemosina. Sono infelice. Vedete, prima mi arrestavano e con l’antica legge stavo dentro tre mesi. – E siete stato carcerato molte volte? – Uh! Il Carmine l’ho strutto. Ma lı` il capoguardia mi voleva bene. Mi metteva a fare lo scrivanello e il bicchiere di vino non mancava mai. Avevo una bella stanzetta, la pipparella e qualche volta leggevo pure i giornali per vedere le cose del mondo come andavano. Poi passavano i tre mesi e addio: un’altra volta in mezzo alla strada. Quando non ne potevo piu` andavo dal pretore: «Signor pretore, datemi tre mesi!». Mi dava tre mesi e tornavo al Carmine. Adesso tutto e` mutato, anche la legge sull’improba mendicita`. Cinque giorni di carcere, non piu` di cinque giorni! Si puo` andare avanti, di questo passo? Dunque per forza in mezzo alla via devo stare! – Tornereste in carcere? – No. In carcere si perde la soavita` della liberta`. Ricovero! Ricovero! – Ma dove? – All’Albergo dei poveri. Mi mettono la divisa dei pezzenti di San Gennaro? E che fa? Esco, cammino, posso vedervi, nobili cavalieri! – e la sua voce s’inteneriva. – Voi, quando passa un’esequie, salute a tutti i presenti, direte: Uh! ’O vi’ lla` don Ferdinando! Io vi vedro`, vi faro` un segno e voi vi accosterete e mi metterete in mano qualche soldo. Io bacero` quella soave moneta e accompagnero` il morto piu` contento. In mezzo alla via che resto a farci? Arrestano me, ma dovrebbero arrestare chi mi insulta. Ricovero! Ricovero! S’era levato e ci seguiva. La notte era alta, la strada cominciava a farsi deserta. Ove ella spunta a Toledo ci fermammo, ed egli si fermo`, sotto al fanale. – Dunque, buonanotte, don Ferdinando. E ora dove andate a dormire?

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DA NAPOLI – FIGURE E PAESI (1909)



– Laggiu` – disse lui, e indico` la caserma dei pompieri del teatro di San Carlo. – I pompieri mi permettono di sdraiarmi per terra e quello di guardia impedisce ai monelli di rubarmi. Una volta mi hanno tolto perfino le scarpe. Io dormo e il pompiere passeggia. L’Ente Supremo protegge il pompiere che smorza con la sua acqua benefica tutto il cattivo fuoco dell’umano consorzio... Balbetto` ancora delle parole incomprensibili, trincio` l’aria a destra e a manca col suo bastoncello e poi si scappello`. – Signori cavalieri, mi raccomando a voi. Ricovero! Ricovero, rispettabili signori! Raccomandatemi all’eccelso signor prefetto, all’eminente signor questore... Nel cappello gli cadde qualche soldo. Egli levo` gli occhi al cielo, fece quasi per inginocchiarsi e poi disse: – L’Ente Supremo e` grande. Ora mi sento in qualche parte, se non in tutta parte, felice. Me ne vado con un convincimento morale. Al lume del fanale i suoi occhi lucevano di tenerezza e di gratitudine. Egli avanzo` la mano fino a noi, poi la porto` alle labbra. Sorrise: fu un buon sorriso affettuoso, mancante di due denti. Porto` la mano agli occhi; voleva dire qualche cosa, perche´ si volse due volte. Ma non potette parlare. S’allontano`, barcollando lievemente. E udimmo che canticchiava, scivolando sui muri: Una furtiva lagrima sul ciglio suo...

L’aria dell’Elisir s’interruppe. Don Ferdinando sparı`. La miseria rientrava nella notte.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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Sfregio Fronn’ ’e vurraccia, Se nun te piglie a me te taglio ’a faccia!

Con Peppinella si volevano tanto bene che avrebbero fatto a morsi; cosı` di quello scandalo Nunziata n’empı` tutto il quartiere per due giorni di fila e ne parlava sempre, tanto che al sabato, quando Peppinella seppe chi avesse data la voce e ando` a trovare la spiona proprio innanzi alla casa, vennero alle brutte e si strapparono i capelli a manate. Quando le divisero, e ci volle molto, ansimavano che pareva avessero fatto una corsa e si guardavano ancora con tali occhiate velenose che si credette volessero ricominciar daccapo. La lotta era stata muta, senza un grido, ne´ un’insolenza; ora pigliavano fiato per lanciarsi ingiurie da trivio e giuravano sull’onore offeso ch’era un divertimento a sentirle. – Parla mo’, – disse Peppinella, mentre la tiravano via – t’ho sciolta la lingua, bruttona! – Schifosa! schifosa! – urlava l’altra, con le braccia levate – sappiamo tutto, sappiamo! Sei stata vista, t’ho vista io e non e` il primo, va, ne hai di moscerini attorno, e ci mangi... – Va, va! – disse Peppinella che stava a sentire e sorrideva di rabbia, stringendosi alla vita la veste strappata. – E tu no? Fai l’onesta?... Fa l’onesta, fa, vedete, e la sera Carmeniello le sciupa la faccia. – Chi? – fece Nunziata, con uno slancio terribile per gettarsele addosso. – Io? La sentite? Io? Qui s’odora di rose e ci tengono in palma di mano, ci tengono! Guardate chi parla: tu sei marcia. A Peppina un tremito nervoso agitava tutto il corpo; diveniva

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

pallida per l’ira e quando sentı` l’insulto che provocava delle occhiate ironiche nella folla si volto` come se cercasse qualcosa. Sulla panchetta del calzolaio c’era la gran pietra di marmo ove si battevano le suola; l’afferro` a due mani, coi denti stretti, levandola alta per lanciarla. Dei gridi di orrore la trattennero, spaventandola; d’attorno a Nunziata le donne si scostavano, abbassando la testa, rasentando il muro ella stessa che non s’aspettava una cosa simile stendeva innanzi le braccia e chiudeva gli occhi per non vedere. Ma il calzolaio, un giovinotto che sino allora era stato soltanto a sentire ridendo di piacere, s’era gia` levato. – No! no! – disse, facendosi serio – questo non si fa: lasciate stare la roba mia. Lei si lascio` togliere di mano la pietra, guardando Nunziata che ripigliava fiato, e si riaccostava per ricominciare. Allora le donnicciuole, che avevano paura che dovesse finir male, si misero a strillare. – Volete finirla o no? Nemmeno quelle di mala vita parlano cosı`!. .. E siete zitelle! Chi volete far ridere? E nella folla, mentre i curiosi arrivavano da tutte le parti, una di loro, Rosa Monaco, s’affaccendo` a metter pace, scalmanandosi per abitudine. Era gia` strano che non fosse capitata sino adesso in quel chiasso femminile; ora la gente del quartiere, che di lei sapeva vita e miracoli, se la disputava, cogliendo l’occasione per metterle le mani addosso, mentre lei si dava da fare, zoppicando sulla gamba offesa. E in mezzo a quella ressa, Rosa, ancora vegeta e robusta coi suoi quarant’anni addosso, s’agitava strepitando, con delle grandi risate che mettevano in mostra i denti bianchi come l’avorio. Il ricordo piacevole della sua gioventu` le tornava adesso alla mente, risvegliato da quella rissa di ragazze. – Che c’e`? Niente, – diceva – sono le ragazze che si spennacchiano. E ci avete colpa voialtri uomini, che Dio ne possa sperdere la semenza! E come i giovanotti riescivano persino a darle dei pizzicotti, ella si schermiva, affannandosi, coi piccoli strilli di donna solleticata. – Neh? Ebbene? Le mani a posto!... Guardate, fatemi passare che´ s’accapigliano un’altra volta. Faranno correre le guardie! In tutto questo diavoleto che metteva in moto la Concordia, lassu` ai vicoli di Toledo, ci aveva colpa quella benedetta leva che s’era pigliati i poveri figli di mamma e anche Tetillo, l’innamorato della Peppina; e lo scandalo era nato perche´ solo cinque giorni dopo che Tetillo era andato a Perugia, che qui non si sapeva se stesse in

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



Egitto, Peppinella fu veduta passeggiare a sera, con un giovanotto, sul corso Vittorio Emanuele. A sentir Nunziata, la sfacciata camminava a testa alta, lungo il parapetto, facendo gli occhi dolci al giovanotto che la teneva per mano e le dondolava il braccio. Sotto al fanale, quando proprio s’erano incontrate faccia a faccia, la brunetta aveva salutato Nunziata sorridendo, senza scomporsi, come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Cosı` la notizia si seppe la sera stessa, perche´ a Nunziata bruciavano i piedi d’arrivar subito alla Concordia e gridarla anche ai muri; fatto sta che gliene venne male perche´ nella rissa, Peppinella, ch’era piu` forte, se la mise sotto e Nunzia le prese e le prese davvero, tanto che n’ebbe un orecchino strappato e lo scialle in brandelli. Quando le divisero daccapo, Nunziata sedette innanzi alla porta di casa e rannodo` dietro la testa i capelli che le si erano sciolti e le cadevano pel volto. Di tanto in tanto un sussulto nervoso, come un singhiozzo, le saliva alla gola e negli occhi le passavano lagrime di rabbia. E in silenzio, raccogliendo a una a una le peripezie di quella lotta, si rodeva della sconfitta che ora le dava strane idee di vendetta, e pensava al male che avrebbe potuto fare a Peppinella con un desiderio di rivincita rumorosa. – Hai fatto peggio a darle retta, – le disse un’amica, appressando la sedia a quella di lei – ci si perde sempre con questa gente... – Va bene – disse Nunzia mordendosi le labbra bianche – s’e` fatto qualche cosa... poi e` stata lei che e` venuta qui. Non ne parliamo piu`. Intanto guardava sempre di sottecchi Peppina che, pochi passi distante, aveva l’aria di non badarle e girava con aria distratta attorno alla panchetta del calzolaio. E guardava sempre finche´ l’altra s’allontano` a piccoli passi, le mani dietro le spalle, impettita e sorridente, mentre un mormorio la seguiva. E quando cosı` giunse allo sbocco del vicolo ove c’era ancora qualcuno, come se niente fosse stato, mentre aveva la morte nel cuore, dondolandosi leggermente, si mise a canterellare: Me faie na pena, ah!...

Ma quando si trovo` sola nella strada solitaria, il canto le morı` sulle labbra, porto` il grembiale sciupato alla bocca, lo strappo` con un impeto convulso e si volse indietro fermandosi, guardando innanzi a

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GLI SFREGI DI NAPOLI

se´ con gli occhi rossi nel vicolo oscuro ove indovinava dei commenti arrischiati e una opinione gia` dubbia sulla sua onesta`. – Hai ragione! – mormoro` torcendosi le mani. – Ma t’ho da far piangere sangue, va! Pure si tennero il broncio soltanto due giorni, perche´, al martedı`, quando Carmeluccia la cape`ra venne da Nunzia a pettinarla e le fece intendere, mettendole le forcinelle nei capelli, che Peppinella voleva far pace e le mandava a dire che quella brutta sera l’aveva dimenticata, Nunzia si trovo` a dire di sı` senza che l’avesse nemmeno pensato. E lo stesso giorno, innanzi a tutto il vicinato, s’abbracciarono e si baciarono; Peppinella, che in fondo era una ragazzona e aveva il cuore tenero, si mise a piangere; l’altra non ebbe un sussulto, le restava ancora nell’anima il pensiero della rivincita che nessun conforto poteva addolcire. Cosı` del fatto non se ne parlo` piu`. Intanto Peppinella cambiava innamorati a settimana, tornava a casa tardi e a volte tutta rossa come se fosse stata a cenare in compagnia, e non ci badava nemmeno agli sguardi di curiosita` maligna di cui, mentre passava, la investivano le comari del quartiere. Tanto lei non se ne dava per intesa. Era venuta su tutta in una volta, passando in un momento dalle forme indecise di fanciulla a quelle forti e voluttuose di giovane fatta, e correva ora su quella via poco sicura con una sbadataggine da bambina, punta solo dai desiderii ardenti della sua gioventu`. Per questo, lassu` alla Concordia, lo scandalo cresceva giorno per giorno, e quando, dopo due anni, Tetillo ritorno` da Perugia, sul conto di Peppinella se ne dicevano di nere come il carbone. Due anni fanno presto a passare; Peppinella se lo vide addosso appunto quando meno se l’aspettava; egli capito` alla Concordia la mattina di santa Teresa, quando c’era la festa alla strada vicina. Nunzia lo fece appena arrivare, e la stessa sera mentre lui tornava da salutare la sie` Rosa, che lo conosceva da bambino, gli disse le cose come stavano. – Per la Madonna del Carmine! – balbetto` Tetillo, diventando bianco come un cencio. – Ma e` vero quello che mi dite, Nunzia? – Per chi m’avete pigliata? Credete che voglia attizzar fuoco per ridere? Tant’e`, adesso anche le pietre della via lo sanno. – Ah! sangue di Cristo! – mormoro` lui. – Per questo, quando sono venuto, lei non m’ha detto nemmeno ben tornato, e la gente mi guardava in faccia come se rivenissi dall’altro mondo! Ah, va bene! E chi e` questo signore?

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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– Sı`! – disse Nunzia, che s’era trovata ad aprir la bocca e voleva snocciolarle tutte. – Uno? Dimandate quanti sono stati; e` il resto di quelli che sappiamo noi. – Ah? – esclamo` lui con un sorriso forzato, mentre le mani gli tremavano. – Me l’ha fatta bella, Peppinella! E va bene!... Privo di mamma mia se stasera non le dico una parola all’orecchio! – Dove andate? – fece Nunzia, mentr’egli s’avviava senza nemmeno salutarla. – Volete pigliare un guaio per lei? Lasciatela stare; a un giovanotto come voi d’innamorate non ne mancheranno... Lo aveva afferrato pel braccio e lo tratteneva, pentita di quello che s’era lasciato scappare di bocca. Egli si svincolo` dolcemente, senza parlare, ma a guardarlo in faccia era piu` bianco della camicia che aveva addosso. Nunziata lo seguı`; egli andava innanzi a piccoli passi, barcollando come se avesse alzato il gomito. – Sentite! – arrischio` ancora. – Che cosa volete fare? Tetillo si volse; era tutto stralunato, ma sorrideva come se niente fosse. – Non abbiate paura, vedete, non ci penso piu`; torno a casa, una buona dormita e passa. Si fermo` sotto il fanale e riaccese il sigaro, che si era spento; poi s’allontano` zufolando, con le mani in tasca. Quella sera Peppinella, come giunse in mezzo alla piazzetta, ancora illuminata, se lo vide sbucare innanzi dalla bottega del pizzicagnolo, ove era stato ad aspettarla. A guardarlo con quella cera che aveva, lei indovino` subito che le belle cose gliele avevano gia` soffiate all’orecchio. Ebbe un fremito di paura; prima che si rimettesse egli le stava accanto, col cappello di sghembo e le mani nelle tasche della giacchetta. – Buona sera – disse lei. – Buona sera. Rimasero un pezzo in silenzio, camminando di pari passo; a un tratto, dove la strada si faceva buia, egli si fermo` e, toccandole il braccio, come se del fatto ne stessero parlando da un’ora: – Dunque? – disse. – Dunque che? – Sapete che m’hanno detto? – disse lui, dandole ironicamente del voi – lo sapete? – Che v’hanno detto, se e` lecito? – M’hanno detto che vi siete messa a far l’amore con un altro... – Le male lingue sono come le forbici; – disse lei – e voi ci credete?

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– Ah! mannaggia! se fosse vero!... Peppinella ci penso` un poco a testa bassa, poi la risoluzione la piglio` subito e gli volle dir tutto in una volta, per liberarsi presto. – Mettiamo che fosse, – mormoro` – e poi?... Ma non pote´ finire; egli aveva gia` messo fuori il rasoio e le fu addosso con un urlo di rabbia. – E poi? E poi teh!... Peppinella non ebbe tempo neppure di gettarsi addietro che gia` lui, con un movimento rapido, le aveva tagliata la guancia e il rasoio le era passato nella carne come una staffilata. Fu un momento: ella non aveva sentito neppur dolore, ma quando porto` le mani alla faccia e se le vide piene di sangue, mise un grido terribile: – Ah! mamma mia! Ah, che m’ha fatto!... E cadde di peso come uno straccio. Tetillo rimase sbalordito, guardandola stesa lunga nel rigagnolo, ove non si moveva piu`. Si chino` a toccarla, ma lo spaventarono le grida delle femminucce. S’accorreva da tutte le parti e due guardie gli furono sopra prima che se n’avvedesse. L’afferrarono pel collo, spingendolo contro il muro; lui non si mosse nemmeno e si lascio` prendere senza aprir bocca. Ma aveva fatta una faccia cosa strana che nessuno volle dirgli niente. Solo una guardia, mentre lo teneva stretto, gli grido` in viso: – Carognaccia! Tetillo la guardo` negli occhi e si morse le labbra tanto forte che ne spiccio` il sangue vivo, poi tese le mani con un lieve tremito nelle braccia. Quando gli misero le manette, e ci volle fatica, che´ aveva i polsi grossi come le sbarre, mentre stringevano la catenella egli guardo` nella folla con un sorriso di feroce compiacenza e con un’aria cretina si mise a canterellare fra i denti: Fronn’ ’e vurraccia...

Cosa che dette i brividi a quanti gli stavano attorno e che per la bravata ringalluzzı` gli sbarazzini di tutto il quartiere. E cosı` fu che Tetillo ando` a scontare tre anni di carcere a San Francesco, e Peppinella, quando lo sfregio ricucito le dette un’aria di bellezza guastata, si dette alla mala vita e cinque mesi dopo getto` alla ruota dei trovatelli un suo bambino, pel quale non aveva ne´ latte, ne´ amore.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



In guardina

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........................... Aggio fatto n’ ato penziero, arrubbanno nun vogl’i’ cchiu`. Vaco sempe carcerato; ’a casa ’e mamma n’ ’a veco cchiu`!.. Canzone di carcerati.

Ciro lo arrestarono l’ultima sera di dicembre. Fu un siciliano magro e caparbio dell’ambulanza notturna; gli aveva messo l’occhio addosso da quando successe l’omicidio di Carmine il rosso, che nessuno mai ne seppe niente e il delegato del Pendino si mordeva la polpa delle mani, sfogandosi con gli appuntati che andavano acchiappando chi meno ci aveva che fare. Ora il siciliano s’era pigliato la rivincita, e bisogna dire che l’aiutasse il diavolo del paese suo con quel Ciro che gli sgusciava sempre dalle mani come un’anguilla. Lui quella sera se ne andava assaporando un sigaro, col cappelluccio di sghembo e il bastone animato sotto al braccio. Di colpo sentı` un correre precipitoso, un grido: arresta! Arresta! E Ciro gli venne proprio di faccia che divorava la via. Era stato un bel colpo, altro! Aveva strappata la catenella d’oro a un grosso borghese, che giunse poco dopo affannando e non potette raccontar nemmeno come fosse andata la cosa, tanto la voce gli s’era affiocata pel gridare che aveva fatto. Il siciliano si prese Ciro sotto al braccio e non disse mezza parola per tutta la via. Ma come arrivarono in questura e gli aprı` il cancello della guardina, lo spinse dentro, sferrandogli un calcio nella schiena. – Va muori, schefiuso! – esclamo`, e gli sbatte´ in faccia il cancello. Ciro lo guardo` attraverso l’inferriata; una vampa di collera gli salı` alla faccia e fu a un pelo di rispondergli. Ma, come l’altro se n’andava tranquillamente, strascicando la punta del bastone sul selciato, quello che gli voleva dire gli morı` sulle labbra. Gli tenne dietro con l’occhio invelenito sino a quando si perdette nell’ombra, rasentando la scala grande di cui biancheggiavano i primi gradini di marmo sporco. Poi, lentamente attraversando il corridoio scuro, Ciro fece due passi e si trovo` in guardina. – Buona sera a tutti – brontolo`, con le mani in tasca. Una voce rauca rispose: buona sera; e per un pezzo cesso` il rumore di una moneta che un ragazzetto, seduto per terra, faceva rotolare fra le gambe allargate. Non ci volle molto perche´ Ciro facesse l’occhio a

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GLI SFREGI DI NAPOLI

quella semi-oscurita` della stanzuccia; la guardina la sapeva come casa sua e questa era la quinta volta che vi avrebbe dormito. Soltanto gli entrava la malinconia nell’anima a vederla cosı` deserta e silenziosa. Una vera miseria; due compagni che non gli badavano nemmanco. Il ragazzo ricominciava a giocare col soldo, mentre dei piccoli brividi di freddo gli salivano pel corpo. L’altro, seduto sulla panchetta con le spalle al muro, aveva chinata leggermente sul petto la testa; forse pensava a’ guai suoi o s’era messo a sonnecchiare. Da un angolo, ove il muro faceva gomito, la lucernetta appesa nella stanzuccia spandeva intorno una luce rossastra di cui la poverta` lottava a sprazzi subitanei e brevi con la tenebra degli angoli, con le oscurita` fitte dei vuoti ove, fondendosi, la parete spariva. A volte, d’un subito l’aria si appesantiva; nell’afa tormentosa passava con una folata irrespirabile il puzzo forte ed acre della latrina, che pungeva le nari. – Cristo! – fece quello della panchetta, che s’era levato e passeggiava con le mani dietro la schiena – ci hanno pigliati per cani, ci hanno pigliati! Chi vuol morire di subito ha da star qui una nottata. – A chi lo dite? – sospiro` Ciro che si era messo a sedere sul tavolaccio e masticava un mozzicone, sputacchiando al muro – poveri i figli di mamma che ci capitano! L’altro seguito` a misurar la camera brontolando, poi disse: – Manco male che poco ancora ha da durare l’incomodo... – Uscite a liberta`? – Gia`, domani. – Io pure! – esclamo` il ragazzo che s’era avvicinato al tavolaccio. – Che figlio di mala femmina! – soggiunse quello della panchetta, ammiccando al monello che s’era ficcato in mezzo al discorso. – L’hanno acchiappato che giocava a zecchinetto e aveva tre fazzoletti addosso... – Non e` vero! – protesto` il ragazzo, passando sotto al naso la manica della giacchetta – i fazzoletti se l’hanno inventati loro; m’hanno preso perche´ sono vagabondo e non ho mestiere... Mentiva, con la sua spudoratezza di fanciullo viziato, senza levar gli occhi che aveva neri e profondi, acconciandosi addosso gli stracci unti che ad ogni strappatura lasciavano veder la carne di sotto. Succedette un silenzio. Ora nell’ombra si esaminavano a occhiate rapide, si riconoscevano nell’impronta di malizia e di sospetto che dava la mala vita alle loro fisionomie. – A me, – disse quello della panchetta – m’hanno preso per sbaglio. Qualcuna n’ho fatta anch’io e per questo... Ebbene, che

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



volete? Nella gioventu` non s’ha mai la testa allo stesso posto, e poi quando ho bevuto un bicchiere soverchio... Ma stavolta, com’e` vero Dio, non ho fatto niente, m’hanno preso perche´ m’hanno voluto prendere. C’e` il delegato che s’e` messo in capo di volermi tribolare... – Uh! – strillo` il ragazzo – la lucerna si smorza! Difatti il lucignolo crepitava, lanciando nel muro di faccia le sue ultime fiammate rosse, agonizzando nella spira di fumo denso e puzzolente che serpeva pesantemente nell’aria. Essi guardavano, seguendo quella vana lotta con le tenebre che trionfavano a vista, avanzando nella camera. Di colpo il lucignolo si spense, l’oscurita` divenne profonda. – Buona notte ai suonatori – disse Ciro, con un riso ironico. Stese la mano tastando; gli venne sotto la faccia magra e fredda del ragazzo che si era stretto al muro tutto pauroso. Il ragazzo, rabbrividendo, mise un piccolo grido di terrore. – Chi e`? – disse Ciro. – Sta zitto... per lo meno crederanno che t’ammazziamo... Dove sei? – Qua – piagnucolo` il ragazzo senza muoversi. – Non ci vedo piu`. – Si capisce – fece Ciro con la voce ridente, a rassicurarlo. – O che vorresti aver gli occhi del gatto, tu? Non aver paura, dammi la mano che ti metto sul tavolaccio... Come ti chiami? – Peppino – balbetto` il monello nell’oscurita`. – Va bene... Hai sentito?... Peppino? Dammi la mano... Quello gliela stese; tremava tutto. Ciro lo tiro` dolcemente sul tavolaccio e lo allungo` nell’angolo, mettendogli la giacchetta sotto alla testa. – Va bene? T’ho fatto anche il cuscino. Ora hai paura? – No – disse il ragazzo, guardando innanzi a se´ nel buio, con gli occhi spalancati. Poi a poco a poco, nel silenzio, il sonno li vinse. Quello della panchetta non s’era piu` mosso, russava con la testa abbandonata, le braccia in croce, le gambe stese, nel suo cantuccio sotto alla finestra. E non vi fu piu` un rumore; solo dal cortile saliva di tanto in tanto il suono cadenzato e secco del passo della sentinella sul selciato. Ciro per un pezzo era rimasto a occhi aperti, allungato sul tavolaccio accanto al fanciullo dormente di cui gli passava sul viso l’alito tepido in un respiro debole ed eguale. All’ultimo piglio` sonno anche lui. Ora tutti e tre dormivano. Dal finestrone di faccia, sgusciando per una larga strappatura alle stecche della gelosia sgangherata, un vivo chiarore di luna entrava nella camera, risalendo dolce-

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GLI SFREGI DI NAPOLI

mente per la parete. E, in quella tenera incertezza di luce che li lambiva appena, ondulando, le facce impallidivano lucenti di sudore, con le bocche schiuse, le sopracciglia stese, le narici all’aria, nere e profonde. Immoto, una mano aperta sul petto, il fanciullo sorrideva, sognando di sguazzar nelle pozzanghere ove i compagni cadevano a spintoni, impoltigliandosi come porcelli. Nella notte triste della stanzuccia immagini di bimbo aleggiavano rapidamente in una luce indefinibile. Tornavano col sonno al piccolo dormiente le care ingenuita` d’infanzia, pure e serene in quel torpore di malizia sopita. All’alba, come il sole era gia` entrato nella stanza, allo svegliarsi n’ebbero gli occhi cosı` feriti che non si potevano guardar in faccia e se li stropicciavano coi pugni chiusi, sbadigliando, stirando le braccia che l’inerzia della nottata aveva addormite. – Che tempo fa? – chiese Ciro a quello della panchetta che sbirciava attraverso all’inferriata. – Bella giornata – rispose l’altro, senza voltarsi. Il ragazzo s’arrampico` sul parapetto e dopo un momento ch’era stato a guardare: – Ecco Gennarino! – esclamo`. – Ci vengono a chiamare... Salto` a terra, sgambettando per l’allegrezza. L’altro, preparandosi, s’acconciava i capelli sotto il berretto, riannodando la cravatta di cui il fiocco gli era girato sulla nuca. – Ve n’andate? – disse Ciro alzandosi. – Ora ci chiamano, – rispose l’altro – vi saluto. Se volete che porti qualche imbasciata a casa vostra... – Sentite, – disse Ciro pigliandogli la mano – fatemi una finezza. Conoscete l’acquafrescaia all’angolo di Porta Nolana? – Sicuro! – disse l’altro. – Raffaele! – chiamo` dal basso la voce rauca del guardiano. – Chi e` Raffaele?... – Ora vengo! – strillo` quello della panchetta. – Abbiate pazienza – supplicava Ciro, stringendogli la mano mentre quegli cominciava a moversi. – Laggiu`, dimandate di Teresa, e` una vecchia che tutti la sanno... Ha un fazzoletto nero al collo... Ditele che non abbia paura... – Nient’altro?... – Abbiate pazienza, – continuo` Ciro accompagnandolo – ditele che se vuol venire a San Francesco domenica che e` giorno d’entrata... No, no, non le dite cosı`... Ditele che e` stata una rissa e m’hanno preso ubriaco...

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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– Va bene... va bene – promise l’altro, scendendo la scaletta. – Sentite... le baciate la mano per me... Vi ricordate?... Vi ricordate?... Nessuno rispose. Raffaele era sparito. Ciro risalı` i due scalini tremando sulle gambe. Si guardo` attorno: ora lo lasciavano solo come un cane, sbattendogli il cancello alle spalle, senza nemmeno guardargli in faccia. Ando` a sedere sul tavolaccio e nascose la testa nelle mani puntando i gomiti sulle ginocchia, le gambe penzoloni. – Pazienza! – mormoro` dopo un momento. E si mise a passeggiar nella stanza, con gli occhi a terra, tutto pensoso. Ora si stancava, non sapendo che fare per distrarsi. Si andava fermando innanzi alle pareti sporche, contemplando curiosamente tutti gli sgorbii che le macchiavano. Una era addirittura illustrata da cima a fondo; una filza di numeri grossolani scendeva fino a terra, qua e la` sotto ai terni e alle quintine c’era una giocata a lettere indecise, miscuglio ingenuo di maiuscole e di minuscole. Egli cerco` in un angolo la traccia del suo ultimo passaggio. Era ancora lı`, segnata con la carbonella in un quadratino fantastico: un cuore fiammante che una lama di pugnale trapassava a mezzo. Lı` tutto il suo amore ardente e minaccioso, pieno di gelosie e di tenerezze, lı` il ricordo degli occhi grandi e della bocca rossa di Vincenzella, il preludio di un tradimento e d’una rasoiata. Vi rimase innanzi, guardando, a lungo, con le labbra strette e le mani convulse. Poi sputo` nel muro con un moto di collera. Ricomincio` a passeggiare; la solitudine lo irritava; sbatteva i piedi a terra, fremendo, sferrando il tacco sul tavolone che vibrava con un rumore sordo e cupo. Ando` al finestrone e sedette sul parapetto. Faceva freddo; laggiu` nel cortile la moglie del guardiano attizzava il fuoco nel braciere, con una mano sul petto, nella piega dello scialle. Di sotto alla gelosia, tagliato sino alla meta` d’un cartellone da teatro, il muro di faccia appariva nella strada, bianca e pulita in una fredda giornata di capodanno. Nessuno si vedeva; solo di tanto in tanto passava un mattiniero frettoloso, con le mani nelle tasche del soprabito e il naso nel bavero. A volte nell’aria fresca impazzivano sul vento migliaia di scintille rosse, venute da fiammate vicine che l’angolo di un palazzo nascondeva. Piu` tardi, in quella malinconia, il sarto di faccia mise fuori ad asciugare, innanzi alla bottega, un panciotto scuro fumante, su cui aveva passato il ferro caldo.

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GLI SFREGI DI NAPOLI

Ciro guardava, rannicchiato nello spigolo del finestrone, le mani in saccoccia sino ai polsi. Lo consolava una strana compiacenza di quello che ora, a lui solo e chiuso, gli toccava soffrire; s’atteggiava con se stesso a vittima temuta, sorridendo all’abitudine sua di bassezza, alle persecuzioni di cui era fatto segno. E con la fronte appoggiata all’inferriata, la posa molle e abbandonata, canticchio` fra i denti:

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Vaco sempe carcerato a’ casa ’e mamma...

Ma, alla distesa, la voce gli venne meno. Era stato uno sforzo. Ora una tristezza atroce lo pigliava all’anima, spezzandogli le parole sulle labbra. – Che brutt’anno ho cominciato!... – sospiro`. E rimase a guardar nella strada deserta, con gli occhi arsi, mentre il ferro della cancellata gli segava la fronte e il freddo malinconico della giornata gli gelava il cuore.

Bambini I Dai tortuosi vicoletti del Mercato arrivavano pian piano. Sbucarono a piazza Dante, si fermarono un pezzetto sotto l’arco istoriato della Porta Alba, guardarono qua e la`, incantati. La piazza larga era piena di gente che andava e veniva, i giardinetti vi segnavano, piu` in la`, a destra, un quadrato tutto verde, screziato di bianche achillee in fiore, di dracene eleganti, di peonie ritte, sveltissime. A sinistra, dietro il muro d’un palazzo che faceva angolo, Toledo rumorosa cominciava; ne veniva un immenso mormorio, in cui di tanto in tanto le fruste schioccavano, gli organini si lamentavano sotto alle finestre e un carro pesante rotolava sul selciato. Erano tre – due bambine e un maschietto. Il maschietto poteva aver cinque anni; gli avevano messo in testa un berretto che non era suo, troppo largo; gli scendeva sulle orecchie. Portava in mano una cannuccia e per la via se ne serviva come di bastone, appoggiandosi. La cannuccia gli dava una grande gravita`. Aveva le scarpe sdrucite, senza tacchi, tutte arse. Il colletto della camicia gli si rivoltava sul panciottino, al quale tre bottoni manca-

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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vano; degli altri tre due erano bianchi, uno nero, attaccato col filo bianco. Attorno alla vita una cordicella gli assicurava i calzoni rattoppati alle ginocchia. Cacciava a ogni momento una mano in saccoccia, metteva fuori uno scatolino da fiammiferi vuoto, ne osservava sbadatamente le figurine, lo apriva, lo rinchiudeva, rimettendolo in tasca, con sopra la mano. Era biondiccio come la piu` piccola delle sorelle: come lei aveva gli occhi azzurri, il nasino all’insu`, il mento rotondo. A quella, piu` grande d’un anno, mancavano due denti superiori, tra la filza bianca e allineata. Vestiva di panno scuro, con un piccolo grambiale bianco, senza tasche. Sulla fronte le si dividevano i capelli fini, cascandole sulle tempie, arricciandosi naturalmente dietro la testa, alla nuca, ov’erano mozzati. Uno scialletto da pupa le copriva le spalle: la vesticciola troppo corta le giungeva appena al ginocchio, lasciando vedere i due nastrini azzurri che sostituivano le giarrettiere alle calze bianche e rosse a fasce. Parlava sola, sottovoce, con una manina in quella della sorella grande, che stava in mezzo; passando agitava il braccio ciondoloni, indicava qualcuno con l’indice teso, toccava leggermente, in punta di dita, le vesti delle signore, ragionando da sola, pigliando pose di donna fatta, interrogandosi, rispondendosi. A un momento, mentre si fermavano, dette una strappatina alla frangia d’uno scialle, tentata dalle palline di vetro che vi lucevano. – Bestia! – fece la sorella, arrossendo, tirandosela dietro pel braccio, mentre la signora dallo scialle si voltava, sorpresa. E la trascino` via, mormorando, menandole uno scappellotto. La piccina fece il muso e non disse nulla. Ma dopo quattro passi si volse, cautamente. La signora, appoggiata al braccio del marito, ancora la guardava con gli occhi che volevano parer severi. Allora lei le tiro` fuori tanto di lingua, con una smorfia, socchiudendo le palpebre, mettendosi in fianco il pugno, piegandosi in una riverenza comica. In piazza Dante, sotto la statua, si fermarono. – Vogliamo restare qui? – disse la grande. Sı`, sı`! Non chiedevano altro, volevano restare lı` un poco. La piazza, piena di sole, piena di monellucci liberi che facevano baccano sulla terra battuta, li entusiasmava. Subito il piccino abbandono` la mano della sorella. – Dove vai? – disse lei. – Qui... qui... Aveva adocchiata una comitiva di ragazzetti seduta per terra in

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GLI SFREGI DI NAPOLI

giro. Giocavano con certe pietruzze in un quadrato con tante caselline, disegnato col gesso sullo sterrato. Lui s’avvicino` lentamente, trascinando la cannuccia. Rimase lı` in piedi a guardare, con le mani dietro sul dosso, immobile. Poi si stanco`, sedette per terra anche lui. Allora, dopo un momento, uno de’ monellucci che non giocava lo urto` col gomito. Il piccino si volse. – Tu che fai qui? – disse quello. – Niente. – A chi sei figlio? – A papa` – disse il piccino. Disse l’altro ridendo: – Grazie! – A Giovanni il lustrascarpe – si corresse il piccino. Si guardarono. Il piccino cominciava a impensierirsi. L’altro lo esaminava con gli occhi vivi, pieni di malizia. Poi chiese: – Mi vuoi dare questa cannuccia? Cosa ne fai? – Mi serve – balbetto` il piccino, tirandosi un poco indietro. – Vattene! – disse quello. Il piccino s’alzo` impaurito, puntando a terra le palme, senza lasciare la cannuccia. Se ne ando` senza voltarsi, passo, passo, co’ calzoni sporchi di terriccio. Le sorelle sedevano sotto alla statua, sul gradino piu` largo. La piu` piccola piegava in quattro un moccichino, stirandolo sulle ginocchia con le palme delle mani; l’altra guardava innanzi a se´ distratta, con le mani in tasca. – Malia, – piagnucolo` il bambino accostandosele – quello lı` voleva la cannuccia!... – Siedi – fece lei. Egli sedette accanto alla piccola, con la quale si mise a parlare sottovoce, raccontando il fatto. Malia guardava ancora; le era parso di riconoscere nel piccolo servitorello inguantato, che se ne stava ritto allo sportello d’una carrozza, il figlio del macchinista il quale, un tempo, abitava di faccia a loro, al Mercato. Ah! sı`! Era proprio Peppino! Ora la carrozza, lasciando le signore che entravano in un palazzo, giro` e venne a mettersi nella piazza. Il servitorello scese, gironzo` un poco attorno, guardo` in aria, s’accomodo` sulla testa la tuba lucida, e rimase lı` impalato, sbadigliando. – Sentite, – disse Malia a’ bimbi – aspettatemi qui, ora vengo, non vi movete... Passo` dietro alla statua, sedette su uno de’ poggiuoli di marmo, e

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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sciolse i capelli, mettendosi in grembo le forcinelle. Rifece la treccia, passo` due o tre volte la palma della mano sulla frangetta ribelle che il vento le avea scompigliata in fronte e strinse dietro la vita il nodo dello scialletto. Torno` a’ bimbi. Il maschietto gia` sonnecchiava, la testa sprofondata nel berretto, sino agli occhi. – Levati, su! – disse Malia. – Andiamo... Gli aggiusto` in capo il berretto, gli netto` dal terriccio i calzoni e se lo prese per mano. Il servitorello non si moveva, guardando ai balconi di rimpetto. A un momento se la vide passare innanzi lentamente, in mezzo ai bimbi. – Buongiorno – sorrise Malia. – Oh! – fece lui. – E che fate qui? – Niente; camminiamo; la mamma e` uscita. Carina, con quella sua veste a fiori! Il ragazzo se la mangiava cogli occhi. Era alta quanto lui, avevano la stessa eta`, dodici anni. Lui veniva su atticciatello, co’ capelli neri crespi e gli occhi castagni. – Fatevi in qua – disse. – Da quanto non vi si vede! E la mamma vostra come sta? – A servirvi – disse Malia. – Favorirmi – disse il servitorello. Vi fu un silenzio. I bambini lo guardavano: il maschietto esaminava curiosamente i grandi bottoni dorati, che lucevano, sul soprabito attillato, in due file. – Voi vi siete fatta grande. Che fate? – disse il servitorello. – Fate la sarta? – Eh! No, – rispose lei – ci vuol tempo. Mi son messa con una stiratrice. Sto imparando. – Ah! davvero? – e s’incamminavano co’ bambini dietro. – Allora le camicie mie le voglio fare stirare a voi. Quanto mi fate spendere? Ella sorrise e lo guardo`, arrossendo un poco. – Se foss’io la padrona, – mormoro` – non vi farei... Ve le stirerei per niente... – Davvero? – disse lui. E con uno sguardo di ragazzetto impertinente la fece arrossire anche piu`. – Venite con me – disse ai bambini. Li condusse innanzi alla panchetta d’uno che vendeva i ceci arrosto, ne compro` per due soldi, n’empı` loro le mani. Il maschietto se li cacciava in tasca e ne mise perfino nella scatola de’ fiammiferi.

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GLI SFREGI DI NAPOLI

– Oh! – diceva Malia, confusa. – E perche´ fate questo? – Lasciate andare – rispose lui, gettando i due soldi sulla panchettina, come un signore. Tornarono indietro passo passo. I piccini si erano messi a rosicchiare i ceci, in silenzio. Malia accosto al piccolo galante si dava un’aria di languore, socchiudendo gli occhi al sole, guardandosi le mani, con la testa china. – Voglio venire a trovarvi; – ripiglio` il servitorello – voglio salutare mamma vostra che non vedo da tanto tempo. Abitate ancora laggiu`, di faccia alla bettola? – Sı`, – fece Malia, rialzando il capo – non vi potete sbagliare. Ma lo dite per dire, voi non ci verrete... – Oh! parola d’onore! – giuro`, stendendo la mano. E afferro` e strinse quella della bambina, che lo guardava sorridendo. – Ahi! Mi fate male! – disse Malia. Di colpo, a un fischio acuto, il servitorello si volse, lascio` andar la mano. – Diamine! – esclamo`. – Le signore scendono... addio... statevi bene... arrivederci!... Prese la corsa a capo basso. – Ricordatevi la promessa! – gli grido` dietro Malia. Egli accenno` di sı` col capo, galoppando per trovarsi in tempo allo sportello, con le ali del soprabito che svolazzavano. Malia si fece innanzi sul marciapiedi, per vederlo passare. Il servitorello, seduto in serpa accosto al grosso cocchiere tutto serio, la saluto` con un lungo sorriso. Ella tenne dietro con lo sguardo alla carrozza che s’allontanava, sino a quando, nel lontano, sparve. Per via il piccino chiese alla sorella: – Chi e` quel signore? Malia gli strinse il braccio con un’aria circospetta e maliziosa, e gli ammicco`, coll’indice sulle labbra. Il marmocchio non capı`, ma fu contento della risposta silenziosa. Si rimise a rosicchiare i ceci, trascinando la cannuccia. Malia andava innanzi di due passi, la testa alta, tutta compresa dell’idillio. Gli occhi grandi, attraverso alla frangetta, ridevano.

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II La via larga era piena di sole, quasi deserta, quantunque dalla piazzetta di Porto si potesse, attraversandola, arrivar presto alla marina. Era come un silenzio fra que’ due continui romori della piazzetta e del Molo. A Porto, sotto gl’immensi ombrelli incatramati, sotto le tende larghe, sotto le tettoie di zinco luccicanti, i venditori urlavano dall’alba, le spighe bollivano nelle caldaie enormi, le frittelle s’ammonticchiavano a piramidi, tra un fumo di tizzi scoppiettanti, in un odore di strutto bollente ch’entrava in gola come un’arsura e faceva venir la tosse stizzosa. I marciapiedi sparivano sotto le ceste dai fianchi gravidi, una voce gridava ai passanti il sapore e il colore bello de’ pomodori, de’ peperoni gialli, delle prugne more ammucchiate su per le panchette, in piattelli. Gli odori si confondevano: a volte dal gran magazzino di coloniali usciva un profumo dolce di alcool travasato. In giu` il mercato del pesce era tutto un formicolio, lo favoriva la giornata di magro. Dai tronchi immani dei tonni il sangue scorreva gocciolando nelle pozze, metteva qua e la` sul selciato sdrucciolevole delle larghe macchie rossastre. La povera gente, la borghesia meschina si decideva pei tonni, tentata dalle fette doppie e rotonde che ne tagliavano, tutta carne. Pei signori i cuochi venivano a pigliare i merluzzi e le orate rare e le triglie lucenti, macchiate di carminio sul dosso, stese sul letto verde di musco, le bocche spalancate. Al Molo era un commercio piu` largo, un movimento piu` rumoroso. Passavano i carri a tre, a quattro, in fila, carichi di balle, di botti enormi, con un fracasso di frustate, di cigolii aspri di ruote, di scricchiolamenti di balestre, di «arri» urlati alle bestie affaticate arrampicantisi sulle rotaie del tranvai che davano sbalzi improvvisi alle carrozzelle frettolose, agli omnibus lenti e pesanti. A destra, sul mare, l’inferriata a lance s’allungava perdendosi nel lontano, come fusa in una parete di ferro luccicante, dietro cui s’intricava la ragnatela de’ pennoni, de’ lunghi alberi delle navi ancorate. In cima agli alberi le banderuole colorate pendevano nell’afa, immobili. Questa via larga e deserta sbucava a Porto per un capo e per l’altro metteva al Molo. Era una scorciatoia, ma i vicoli attorno, pieni d’ombra e di frescura, la lasciavano abbandonata. Si passava per questi vicoli girando quel tratto di strada lungo e soleggiato, ove scottavano i lastroni, ove tutto era giallo di sole. Le tre bambine, dopo aver guardato qua e la`, si fermarono in

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GLI SFREGI DI NAPOLI

questa strada, andarono a cacciarsi sotto un androne, sedettero a terra e cominciarono a chiacchierare, gesticolando. Parlavano a bassa voce, dando a volte occhiate rapide nella via, quando qualcuno passava discutendo. La piu` grande mise fuori delle strisce di pannolino vecchio, infilo` un ago, fece a pezzetti uno straccio. Le altre guardavano attentamente, aspettando. – Rosinella – disse lei. Rosinella stese il braccio e tiro` su la manica della camiciuola. – Non mi pungere... – mormoro`. – Via! – disse l’altra. Le aggiusto` intorno al polso dei pezzetti di quello straccio, risalendo sino a meta` del braccino scarno. Avvolse tutto in una delle bende e si tiro` il braccino sulle ginocchia, tenendovelo fermo, cercando l’ago. Poi comincio` a cucir la benda perche´ non si svolgesse. A Rosinella salivano de’ brividi per tutto il corpo: spalancava gli occhi e seguiva l’ago paurosamente. A un tratto, come le parve che questo entrasse troppo, ritrasse il braccio con un piccolo grido. – Che e` stato? – disse Peppina. – Tu mi pungi!... – mentı` Rosinella, per trovar la scusa. – Non e` vero! – disse Carmela, la piu` piccola. – Non l’hai punta, vuol far la preziosa. Quand’ebbe finito, strofino` sulla fasciatura due ciliegie, spremendone il sugo, sporcandola di una macchia rossa che pareva sangue. – E una – disse. Carmela stendeva il braccio, sorridendo. Era una piccola grassottella scapata, con i capelli biondicci, con la bocca rossa fatta per ridere e per mangiare. – Oh! aspetta! – disse a un momento – qui no, qui ci ho l’anello. Infatti, si ricordava, al dito mignolo della manina aveva un cerchietto di stagno, una galanteria che voleva mostrare. Stese l’altro braccio e si lascio` fare tranquillamente. All’ultimo le due piccole fasciarono Peppina. Cosı` le tre minuscole mendicanti si facevano storpie. S’avviarono. Per le vie popolose e affaccendate di Porto allungarono il passo senza chiedere; i piccoli affari, l’occupazione della vendita e delle compere non potevano distrarre i passanti. Le urtavano, se le toglievano di fra le gambe con una spinta, non le guardavano nemmanco. Solo Peppina nella piazza si mise dietro a un marinaro russo, che arrotolava una sigaretta, camminando con le gambe allargate. Lui da

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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prima le sorrise bonariamente, guardo` il braccio ch’ella stendeva tutta piagnucolosa, le borbotto` qualcosa in una lingua che lei non capı`. – Carascio`! – fece Peppina, chiamandolo con la sola parola russa che i monellucci conoscono – guardate, carascio`, mi son fatta male alla mano, non posso lavorare... Il marinaro le accarezzo` i capelli, torno` a sorriderle, le offrı` la sigaretta... – Grazie, – disse Peppina – non so fumare, dammi un soldo. Gli s’afferrava alla giacchetta, le dava delle strappatine, invogliandolo, con gli occhi supplichevoli. – Via, via, carascio`, un soldo! Lui non le credeva, voleva scherzare, voleva acchiapparle il lobo dell’orecchio in punta di dita. Allora lei, seccata, lo pianto`. Salı` lentamente per via San Marco, ando` alla fontanella accosto a cui, per un momento, la tennero intenta delle parolacce che si scambiavano due femmine del popolo, scalmanandosi, con le braccia all’aria. S’allontano`, sbadigliando, quando si rappaciarono. Camminava a caso. Passando innanzi a una di quelle sorbetterie che hanno fuori nella strada il gran banco, chiese al garzone un po’ di sorbetto ch’era rimasto in fondo a un bicchierino. Lo ingoio` in fretta, avidamente, con gli occhi socchiusi. Piu` in la` trovo` per terra un mozzicone di sigaro, quasi mezzo sigaro, ancora acceso. A qualcuno era caduto in quel momento; un signore che passava in vettura si volto` indietro, era suo, gli era scappato di mano. Lei se ne accorse, ma lo spense strofinandolo contro il selciato e se lo mise in tasca lo stesso. S’avvicinava a Toledo. Le sue curiosita` ricominciavano innanzi alle vetrine, alla varieta` delle bacheche. Sovra tutto i giocattoli l’attiravano. Contemplo` lungamente, nella vetrina di un mercante di giocattoli, un cosacco barbuto che ingollava soldati, afforchettandoli. Se ne andava piena di desiderii. Vi fu a un tratto un affollarsi di carrozze e di pedoni; si traevano da parte per far luogo a un mortorio. Appariva in alto, a dieci passi, lo stendardo, barcollante, d’una confraternita. La piccina si perdette in quella confusione. Suonavano le tre. Il caldo diventava insopportabile, si camminava in fila rasente i muri, sotto l’ombra delle tende che scendevano davanti ai negozi. Ora le piccine s’incontravano al luogo dell’appuntamento, lassu` in via del Museo. Peppina da lontano vide Carmela e Rosinella che discutevano sotto il grande portone dell’Istituto di Belle Arti. Sede-

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vano sugli scalini, sotto uno de’ grandi leoni di bronzo, in una striscia d’ombra. – Rosinella ha i soldi! – annunzio` Carmela, correndole incontro. – Ma uno l’ha speso, ha voluto comprare una galletta. – Non e` vero! – grido` l’altra. Tornavano a sedere sui gradini. Rosinella mise fuori tre soldi. Carmela non possedeva nulla. Per un po’ rimase mortificata, poi fece spallucce. Era cosı` piccola, era! Nessuno le aveva badato. E poi lei chiedeva, lei faceva la faccia rossa e Rosinella intascava. ` una bugiarda. E perche´ – Gesu`! – fece costei. – Non le credere! E non te ne vai sola? – Mi sperdo – disse Carmela, gravemente. – Io ho avuto un sorbetto – disse Peppina. E racconto` la sua fortuna, esagerando, con una cornice di piccole bugie. Era stato un sorbetto bianco con la fragole in mezzo. Se lo aveva sorbito col cucchiaino, in un bicchiere grande, sotto il pergolato. Le bambine stavano a sentire sgranando gli occhi. A Carmela, golosa, saliva l’acquolina alla bocca. Mai aveva assaporato un sorbetto. Era dolce? – Un po’ dolce, un po’ diaccio – disse Peppina. – Signore! signore! – grido` all’improvviso, levandosi. – Un soldo! Non posso lavorare!... Scendevano ridendo per le scale dell’Istituto due sposi, a braccetto. L’uomo voleva tirar innanzi, continuava a ridere, parlava d’un quadro che gli aveva fatto una impressione grottesca. Ma la donnina ebbe un tremito, gettando gli occhi su quel braccio fasciato, su quelle macchie vive di sangue. – Oh! mio Dio! – mormoro`. – Signora bella! – pregava Peppina. – Un soldo, signorina bella... – Ma come e` successo? – Sono caduta, m’e` passata una ruota sul braccio... – Oh! – fece l’altra, rabbrividendo. Il marito avea cacciata in tasca la mano. La cavo` con due soldi. Allora Carmela e Rosinella s’accostarono, gli gironzarono attorno, mettendo in mostra la fasciatura. – Come! – disse il signore. – Anche voi? – Sono caduta... – balbetto` Rosinella. – Sono caduta... – disse Carmela. Il signore si mise a ridere. Carmela rideva anche lei, divertendosi, senza paura; le pareva naturale.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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– Ebbene? – disse Peppina, dopo un silenzio e con tutta serieta`. – ` meglio questo! Dobbiamo metterci a far qualche altra cosa? E Egli la guardo`, meravigliato. Era una bimba a dieci anni, non piu`. Pronunziava quelle parole gravemente, senz’arrossire, con l’incoscienza infantile della colpa vera, ma con l’aria maligna delle figlie del popolo, delle bimbe sperdute e libere che gia` sanno qualche cosa.

Serafina

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Martedı` – Maggio ’86

Il portinaio dello spedale dei Pellegrini e` un burbero rossiccio, il quale, quando in certi giorni ha infilato un soprabito che gli batte alle calcagna, tutto stinto e sparso di macchie d’olio, quando s’ha posta in capo una tuba gigantesca, crede d’esser il guardaporta di palazzo reale. Ha conservato un accento calabrese e la insolenza dei soldati borbonici; certo ha dovuto servire nell’esercito di Re Mbomma. Tra l’altro poco ci vede, per una congiuntivite che gli arrossa tutto intorno le palpebre. Sara` stato per aver continuamente avuto sott’occhi gente insanguinata. Ieri questo cerbero digeriva il pranzo, trattenendosi a chiacchierare con un vecchietto il quale gli faceva delle confidenze presso al casotto. Poco prima la campanella di avviso aveva suonato due volte – un tocco solo vuol dire: ferito semplice, – due vogliono dire: ferito in grave stato, – tre: ferito moribondo. Era stata trasportata su, alla sala delle medicature, una donna, una giovane. Cinque coltellate, ne´ piu`, ne´ meno. La donna si lamentava, si guardava intorno smarrita, mormorando: – Sant’Anna mia! Ve faccio nu voto!... Scanza`teme!... Uh, Madonna mia!... Chiano chiano!... Veniva da Piazza Francese, da una delle due suburre napoletane. Aveva denti e capelli splendidi, una mano piccolissima. Gli occhi grandi, azzurri, pieni di lacrime, lucevano. Si chiamava Serafina. Laggiu`, presso al casotto, il portinaio fumava la pipetta. Il gran cortile dei Pellegrini era tutto occupato dal sole, cosı` che il cuoco, un uomo grasso, ne profittava per sciorinare il suo gran moccichino, a quadroni scuri, sulla spalliera d’una seggiola. Due guardie di pub-

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GLI SFREGI DI NAPOLI

blica sicurezza leggevano insieme un libretto di Nuove canzoni napolitane, commentandole. Il brigadiere era salito in sala di medicatura per raccogliere la deposizione di Serafina. Diceva il vecchietto al portinaio: – La vedete cosı`, ora, perche´ lei e` nata con la mala sorte, come me. Due anni fa avreste dovuto vederla! Era un fiore. Tutti si voltavano per la via. Allora, come v’ho detto, io lavoravo da quel sarto alla Giudecca. Io dormivo nella bottega, sopra un divano sconquassato, e pensavo sempre a lei che se n’era fuggita. Tre mesi senza vederla! Consideratelo voi che siete padre!... Avete figlie?... – Caspita! Figlie? Ne tengo tre... Peppenella! Peppene`!... – e chiamava una ragazzetta ch’era uscita nella via a giocare. – Trase, viene cca`!... Siente! ... Quella e` una. – Il Signore ve la guardi. E badatele, ve lo dico come a un fratello... Il portiere sorrise. Fece scivolar la mano tra lo stipite del casotto e il muro e tiro` fuori un bastone. – Vedete questo?... Questo ci pensa... Senza eccezione pure per mo`gliema. Dicevate?... – Dunque una sera... che sera!... Io non ho vergogna di dirvelo... La verita`, m’ero messo in giro per chiedere l’elemosina. All’angolo del vico Sergente Maggiore vedo una signora che comprava fiori. M’accostai... «Signo`, qualche cosa a un povero galantuomo!... » «Non c’e` niente. » Io avevo fame e la fame, capite, non conosce educazione. Insistetti... Allora lei si volto` per dirmi, seccata, che me ne andassi... Non mi guardo` neppure... – Era lei. – Sarrafina. Il vecchietto sospirava, si guardava le mani scarne, dondolava il capo. A un tratto guardo` in su al balconcello della sala di medicatura. Un inserviente preparava filacce, presso alla balaustra, e parlava col cuoco, che di sotto gesticolava e rideva. – Che lle starranno facenno? – mormoro` il vecchietto. Due lagrime gli vennero giu` lentamente per le gote. Il portinaio vuoto` la pipetta nella mano e, dopo un silenzio, disse: – Mbe`? – Quanto duro` quella vita? N’anno. Poi fu come una caduta. Come uno che cade da una terrazza, all’ultimo piano, e si trova a terra... Povera figlia! Stette malata due mesi e perdette tutto. Divento`

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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un’altra. Cappello tolto, anella pegnorate, vesti vendute... Che mestiere, frate mio, che mestiere! Gesu`!... Ora piangeva pianamente, con lo sguardo a terra, con le mani strette sul petto. – E all’ultimo e` arrivata a Piazza Francese. E l’hanno fatto chesto!... Me pare un suonno! – Ma chi glie l’ha fatto? – Doie compagne, pe gelosia. Arrivo` in quel momento una vettura; dentro vi si abbandonava un giovanotto, che aveva buttato un braccio al collo della guardia la quale lo sorreggeva, guardandolo. Un sottil filo di sangue gli scendeva sulla camicia bianca, dal collo. La vettura entro` nel cortile, rincorsa da una folla di gente curiosa. Il vecchietto, anche lui, si accosto`, e caccio` la testa sotto il soffietto della vettura. Il guardaporta afferro` la fune della campanella. Tre tocchi. La guardia di pubblica sicurezza gli avea fatto certo segno disperato... Poi la gente fu cacciata via e il portone chiuso. – E chisto e` n’ato! – disse il guardaporta, tornando al vecchietto. Quello mormoro`: – Puveriello!... Dopo un momento chiese: – Serafina resta qua? – Non si puo`. Dopo medicata andra` agl’Incurabili. Donne qui non se ne ammettono – rispose il cerbero, tornando feroce e voltando al vecchio le spalle. Serafina fu scesa a braccia e collocata in vettura con le guardie. Fu levato il soffietto e nessuno piu` vide niente. Ma ella aveva visto il vecchietto. Una mano venne fuori tra serpa e soffietto, e chiamo`. Il vecchio accorreva. Dalla vettura uscı` una voce femminile, commossa: – A Nnincurabile!... Venite lla`... Nun e` niente... Nun avite paura!... Il vecchietto si mise a galoppare dietro alla vettura, con gli occhi pieni di lacrime, ansimando, chiamando: – Sarrafı`!... Sarrafı`!...

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

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La taglia Mariangela Santella non ne poteva piu`. S’era buttata sul pagliericcio e mordeva lo scialle stracciato, per non farsi udire. I dolori del parto l’avevano colta d’un subito, mentre raccoglieva di su al davanzale della finestra i peperoncelli rossi che avea posto a seccare al sole. Per terra il piu` piccolo de’ marmocchi, nudo e steso con la pancia all’aria, brancicava attorno con le manine e rideva ai pulcini della chioccia che lo vellicavano, saltellandogli sul petto con le zampine sporche di terriccio. L’altro, il rosso dagli occhi grandi e stupidi, sbucciava i fagioli nel tegame con una lentezza di ragazzo fannullone, rimanendo lungamente a guardar la madre che si torceva.. Bernardino Santella entro`, con la pipetta in bocca e le mani sul dosso. Di fuori qualche urlo di spasimo lo avea udito, sapeva di che si trattasse; gia`, un giorno o l’altro, era cosa che doveva accadere. – Mbe`, Mariangela? – fece, accostandosi alla moglie. – La chiamammo sta vammana? E sogghigno`, masticando un po’ la cannuccia della pipetta, battendo il piede a terra leggermente, con le labbra strette. Ora che a Durazzano non si poteva piu` fare un passo fuori l’uscio e la gente si chiudeva in casa come se ci fosse il cole`ra, si poteva pure morire di parto, e poi la mammana se n’era fuggita a Bisaccia, con le figlie e il farmacista Stoppella. Nel paesello sconsolato era un silenzio di morte; terrori improvvisi facevano raggricciare le carni, e un niente lo metteva sossopra. Mariangela non s’era messa a gridare, pensando alla paura che avrebbe fatto al vicinato, ove accosto alla stamberga sua c’erano le figlie del notaio che a momenti s’immaginavano di vedersi i briganti in casa ed erano quasi ammattite, pensando al loro onore in pericolo. Il notaio co’ due nipoti preti si fabbricava la polvere in casa e non usciva piu` da un mese nemmeno a sentir la messa. Da Atina, da Esperia le male notizie le portava il vento. Oggi il saccheggio alla casa del sindaco, ieri Fita Vocanello che avea mandata alla mamma di Benedetto Caruso un’orecchia del figliuolo in una lettera, dicendo che pel riscatto voleva mille ducati, e poi Angelo, il mandriano del signor marchese, arrostito sulla legna come un montone, e le due belle mule di Fortunato Sacco sparite col basto e la cavezza dalla stalla: un orrore, un orrore! La gente si raccomandava l’anima per le brutte morti che sentiva, guardandosi in faccia, spaurita. Uno dietro all’altro arrivavano i telegrammi; diceva il prefetto che subito avrebbe mandati i soldati e questi non si vedevano

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

mai. A mala pena ne vennero cinquanta nel giorno del Corpus Domini. Si abbandonarono qua e la` pe’ campi arsi, per la boscaglia fitta che non conoscevano e tornarono sfiniti, dopo sette ore di fucilate, con tre compagni morti sopra le barelle. Ma pure, fruga e rifruga, aveano presi due della banda e se li cacciavano innanzi legati, sputacchiando loro in faccia come fecero a Cristo sulla croce. Allora Mariangela, ch’era stata a vederli passare fra la gente accorsa, per poco non si sconcio` dal ribrezzo, e sempre diceva che avrebbe fatto un figlio col labbro rotto, come l’aveva uno di quelli, che le avea piantato gli occhi negli occhi mentre lei esclamava: – Dio sia lodato! La faccenda fu subito accomodata, senza romore di giudizio, senz’avvocati e tribunali. Laggiu`, dietro la chiesuola, li fucilarono sullo sterrato, e ancora si veggono i buchi neri delle palle nel muro. Quello del muso rotto si voleva a forza confessare, lagnandosi che gli perdevano l’anima col mandarlo all’altro mondo senza quel sacramento. Cosı` il sergente Mazzarella, intenerito, gli fece la proposta che s’acconciasse con lui ch’era chierico tant’anni addietro. Ma come gli accosto` l’orecchio alla bocca l’altro glie l’afferro` tra i denti e se lo mangio` come niente. Un orrore! Bernardino s’era messo a sedere sulla tavola zoppa, con le gambe penzoloni, le palme strette fra i ginocchi. Il sole di luglio irrompeva lı` dentro con una vampa che ardeva la carne e toglieva il respiro; bruciacchiava sotto l’uscio le fette di melanciane che si torcevano raggrinzendosi sul solaio. La chioccia beccava fra i chicchi sparsi, chiamando i pulcini che si rincorrevano pigolando. Un cagnolo puntava le zampe sull’orlo dell’orciolo e vi allungava il muso sporco, lambendo l’acqua che al sole era diventata tepida. Fuori un silenzio pesante per tutta la spianata fin dove arrivavano l’ultime case, ove il terreno s’incurvava leggermente e apparivano le cime spogliate dei primi alberelli. – A Battista de Lima`tula l’he`nne missa ncuollo ’a taglia – disse Bernardino, di colpo, levando gli occhi sulla moglie. Lei s’era allungata sopra un fianco, sbadigliando, sorreggendo la testa nella mano, mentre attorno le ronzavano le mosche, nell’afa. – Mille duche`te... – soggiunse lui. E nc’e` pure l’avviso sotto a lu Municipio. – E quante fanno? – disse Mariangela, che nel voltarsi a udire il marito mise un piccolo grido di dolore.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– Eh! – disse lui. – Fanno mille duche`te, fanno, e tutto Durazzano nu li vale. Vi fu un silenzio. Il marmocchio era arrivato sotto l’uscio carponi, e s’afferrava al manico della vanga, tirandosela addosso. L’altro, il rosso, lo guardava fare sorridendo; poi s’alzo`, gli venne ad accoccolarsi accosto, lo afferro` alle spalle e se lo rovescio` sul petto. Il bimbo nudo strillava, impazientendo, con le manine che volevano difendersi. Poi, steso bocconi sul fratello, gli rise con la bocca su la bocca, mettendogli le dita negli occhi. L’altro si schermiva, armeggiando con le mani, vellicato dalle carni fresche e sode del fratellino. – Sempre mille – sospiro` Mariangela, sputacchiando come se avesse bevuto fiele. – Vivo o muorto? – Ecche`? – fece lui sghignazzando. – Isso nun se fa pija` vivo!... Sapessero addo` sta, sapessero! Siente, neh, io saccio addo` sta... Sta la` nfunno, sott’a la pagliara e’ Dunat’ Auricchio, va!... E siente... Ma lei, nel sopore che succedeva agli spasimi, taceva, con la bocca schiusa, gia` quasi addormentata: il sudore le luceva sotto gli occhi affossati. Bernardino scese dalla tavola e s’accosto` a guardarla. – Mbe`? Aspetto` un momento che rispondesse, poi le volse le spalle, ando` su e giu` per la stanzuccia, con le mani che frugavano sbadatamente nelle tasche della giacchetta. Si fermo` innanzi alla botte sfasciata ove alloggiava la chioccia e si chino` a prendere qualche cosa ch’era nascosta la` dentro, fra la paglia. I bambini ridevano. Il rosso mordeva leggermente un braccio all’altro e sbarrava gli occhi, e ringhiava come il cagnuolo. Bernardino si chino` sul marmocchio e gli dette un gran bacione sul capo, tra i capelli sottili e dorati. Uscendo camminava a piccoli passi, poi tiro` innanzi affrettandoli, e pel sentieruolo storto che s’inerpicava di faccia al casolare si fece il segno di croce. In quell’ora il sole dardeggiava in un immenso bagliore accecante, nel cielo turchino ove a un punto s’allargava un’irradiazione abbagliante. Dalla finestretta si poteva vedere la via larga e deserta allungantesi di fianco al sentieruolo sino a i castagni che la sbarravano. Il terreno bruciava sotto quel bacio infocato, nell’afa insopportabile, nell’alito ardente che lo lambiva come fiato di belva. Da lontano il monotono piagnucolio d’un cuculo arrivava debolmente, mettendo in quella spianata gialla e disperata la tristezza d’una landa.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



Prima dell’Avemaria, Mariangela si sveglio` di soprassalto, tra le fitte orribili delle ultime doglie. – Ah! Santa Catarina, aiuteme! Allora il rosso le si accosto`, spaventato, non sapendo che dire. – Tata se nn’e` juto – mormoro`. – S’e` leve`te li scarpe... se nn’e` juto... – Ah! Santa Catarina – esclamava lei. – E cussı` me lasse! Il rosso si mise a correre su pel sentieruolo. Ma quando fu in cima il fiato gli venne meno: era tutto sudato e i piedi gli dolevano. Lassu` la boscaglia cominciava. Un gran pino stendeva a terra un’ombra gigantesca; una pina caduta s’apriva al sole, gia` secca. Il bambino si fermo`, la raccolse e la mise in saccoccia. Poi s’incammino` lentamente, voltandosi, voltandosi qua e la`, con l’istinto curioso dei fanciulli che cercano. Allo svolto, ove la spianata ricominciava avvallandosi, adocchio` una lucertola che s’era stesa pigramente al sole, con la pancia all’aria. Strisciando, con gli occhi spalancati, le mani pronte, il rosso l’acchiappo` sotto il berretto. Sedette a terra, allargando le gambe; avvolse la bestiolina in una pezzuola lacera, e la caccio` in saccoccia. e rimase a baloccarsi col pezzetto di coda che s’era staccata alla lucertola e balzava torcendosi sull’erba come un serpentello. Poi s’alzo` e si mise a correre daccapo. Dopo cinquanta passi il muricciuolo che riparava la pagliaia di Donato Auricchio gli si paro` innanzi. Era tutto diroccato, tra l’erbe selvagge, tra un roveto arso che lo assaliva alle spalle. Il ragazzo s’arrampico` sino in cima, sporse fuori il capo a guardare, afferrandosi con le mani alle pietre, calde ancora. Le ultime canne della pagliaia bruciavano nella cenere nera, a terra, e se ne levava una spira di fumo sottile, e saliva nell’aria greve. Piu` in la`, a due passi da un gigantesco fagio, un corpo si disegnava bocconi, tutto nero, sull’erba che rosseggiava co’ suoi fili nani sotto a quella testa con una gran macchia scura. Il rosso chiamo`: – Tata! Tata! Nessuno rispose. Ma egli aveva riconosciuto il padre, dalla giacchetta verdognola di velluto stinto, dalle scarpe enormi, irte le suola di bullette, le punte in sotto. L’ammazzato si vedeva poco in faccia, si vedeva appena il profilo adunco del naso e una ciocca di capelli scompigliati. Le mosche gli ronzavano attorno a frotte, correndogli a una mano che spuntava di fra l’erbe, tutta pesta e sanguinosa, aperta. Il ragazzo sedette sul muricciuolo ch’era troppo alto perche´ egli

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

avesse coraggio di saltarlo. Guardo` lungamente, senza comprendere... Poi torno` a chiamare: – Tata! Tata! In quel momento il sole tramontava. Nel cielo azzurro salivano due nuvole macchiate nel bianco argenteo di strie brunastre, come se per entro vi fossero passati i denti d’un pettine. Nel lontano, ove lo sguardo si perdeva nella stesa immensa dei campi, dalla parte del sole una nuvola aranciata s’orlava di spruzzi sanguigni. E da’ campi, dalla boscaglia respirante a ondate il zefiro della sera, arrivavano susurri indefinibili e incessanti, ronzii d’insetti in amore, pispigli brevi e sommessi; arrivavano gli odori acri del bosco, ancora fumigante d’arsura. – Tata! – chiamava il piccino – Tata, mamma chiange e ti vo’!... Oi, Tata!... S’impazientı`. Si stese boccone sul muricciuolo, mise fuori la lucertola dallo straccio, le attacco` uno spago al mozzicone di coda sanguinante e la fece camminare, rattenendola con improvvise strappate, gridandole dietro: – Ah! Ah!... Isce!...

Senza vederlo Siccome in questo mondo chi pensa ai casi suoi e mette le cose a posto e` chiamato accorto, cosı`, quando dopo la morte di Selletta, spazzino, il quale prima aveva fatto il fiaccheraio e prima ancora aveva governato un negoziuccio di commestibili, la vedova Carmela ricovero` un suo maschietto all’Albergo dei Poveri, la bambinella mando` a imparare a cucire da una sartina, e si tenne in casa soltanto il marmocchio che le succhiava la vita appeso tutta la santa giornata al petto vizzo, parecchie delle vicine, e furono le piu` attempate, dissero che avea fatto bene a provvedere a quel modo alle cose sue, sconsolata e impoverita come Selletta l’avea lasciata. Dissero le altre, poche, e furono le mammine fresche del vicinato, le quali cominciavano con la prima maternita` a raccogliere tutto l’amor loro sui figliuoli, che questi erano il riso della casa e che proprio ci voleva un cuore assai duro per allontanarli e un coraggio, via, un coraggio! – Come fate a rimaner sola sola? – diceva alla vedova Nunziata Fusco, una bionda grassotta, con in collo un bambino biondo e grassotto come lei.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



– Dite voi, – piagnucolava Carmela – come avrei potuto fare con tre angioletti attorno? Sono tre bocche, sono. E poi Nanninella, voi sapete, torna a sera dalla sarta e la notte mi fa compagnia. Impara l’arte, oramai e` grandicella. Per Peppino... voi dite che... lı`, all’Albergo... e` brutto, non e` vero? L’altra diceva: – Sentite, me ne sarebbe mancato il coraggio. Voi non lo vedete piu`, Peppino, e lui non vede piu` voi. E chi chiama se s’ammala? – Come! Allora non sapete niente. Lı` si trova come a casa sua e niente gli manca... Ah! e` vero, – soggiungeva con le lagrime agli occhi – io non avevo pensato a questo, ma gia`, avranno medici e medicine, e se accade che lui s’ammali, lontano sia, me l’hanno da far sapere. – Vi dico che non lo fanno sapere – sentenziava la Fusco, carezzando il suo marmocchio, come per dire a Carmela: «Questo qui, vedete, me lo tengo io, che sono la mamma, e non uscira` mai di casa sua.» La vedova rientro` in casa e corse a baciare cosı` forte il suo piccino, che dormiva nella culla, da farlo svegliare in un sovrassalto. Il piccino si mise a piangere. – Bello mio! – fece lei. – Zitto, via, zitto! Oggi andiamo a trovare Peppino. Era venuto l’inverno a un tratto, con giornate buie e rigide. La casa di Selletta stringeva il cuore, tutta occupata dall’oscurita`. Appena, di sotto l’uscio, ci si vedeva il lettuccio di contro la parete, ove gli strappi al parato scoprivano la grigia nudita` del muro. L’umido penetrava nelle ossa; Selletta lı` dentro ci aveva perso la salute. La vedova imbacucco` alla meglio il piccino e lei si butto` addosso lo scialle nero che a quello era servito di coltre, nella culla. Cercava ora la chiave della porta. La trovo` nella cenere fredda del braciere che, con quella, aveva scavata il giorno prima, per riattizzare il fuoco. – Andiamo da Peppino – ripeteva al marmocchio, chiudendo l’uscio. La viuzza, trafficata dai piccoli venditori e dal vicinato in movimento, pareva allegra. Nel lontano, per un vicoletto che vi sbucava, una larga striscia di sole attirava i passanti, i quali si fermavano apposta in quel po’ di caldo a chiacchierare. – Dove andate? – chiese alla vedova una vicina. – Avete visto la buona giornata e andate a spasso? – Andiamo da Peppino – disse Carmela, mettendo in tasca la chiave.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– Peppino chi? – Peppino mio figlio, che ho messo a scuola all’Albergo dei ` stato lui che me Poveri quando Selletta e` morto, buon’anima sua. E l’ha raccomandato. Diceva: Mettilo lı` perche´ impara l’arte e portera` pane alla casa. – E voi l’andate a trovare? – Sono tre settimane che non lo vedo, e questo gli fara` piacere. Lasciatemi andare, bella mia, buongiorno. E tiro` via col bambino in collo, trascinando per la mota della viuzza un lembo della gonna lacera. In quel pezzo della via soleggiata, lı` dove il gruppetto di femmine s’era raccolto a ciarlare, trovo` Nanninella che guardava curiosamente, con le manine sotto il grembiule, il panchetto d’un venditore di caramelle il quale si godeva il sole fumando la pipa, con gli occhi socchiusi. – Nannina! – fece la vedova. – Come ti trovi qui? Che fai? La bambina le corse incontro, allegramente. – Non si lavora oggi, la maestra ci da` vacanza; ce ne ha mandate via tutte, perche´ lo sposo la conduce in campagna. – Andiamo da Peppino – disse la vedova pigliandosela per mano. Faceva un gran freddo, ma il tempo era sereno e la via asciutta. La bambina batteva ogni tanto i piedi a terra, per riscaldarsi, afferrata con una mano alla sottana della madre che le covriva il pugno. L’altra mano aveva ficcata nella piega dello scialletto, alla cintola. A volte, chinando la testa, passava il gomito sulla fronte per trarne indietro un ricciolo di capelli che le veniva sugli occhi. Non voleva metter fuori la mano dallo scialletto. ` molto lontano? – chiese, a un tratto, quando furono nella via –E di Foria. – Lı`, in fondo – disse la vedova. – Vedi quegli alberi? Lı`, guarda, di rimpetto a noi. – Com’e` lontano! – mormoro` la bambina. Allo sbocco di via del Duomo, sul marciapiedi, incontrarono la rivendugliola che teneva bottega accosto alla loro. La vedova non la vide; in quel momento rincappucciava il piccolo. La vide Nanninella. E come la rivendugliola le sorrideva, le grido`, passando: – Noi andiamo da Peppino. Torniamo piu` tardi! – Chi e`? – fece la vedova, voltandosi. – Marianna – disse la bambina. – Cammina! – disse la vedova.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



Arrivarono stanche; la bambina non ne poteva piu`. Cercarono il sole, presso alla grande scala dell’Albergo, ove quello batteva tutto sulla facciata. Sui gradini erano seduti tre ricoverati, tre vecchietti dell’Albergo, in chiacchiere con una venditrice di mele. La vedova s’accosto`, guardando nella cesta. – Me ne comprate, bella figlia? – le fece la venditrice. – Guardate, ve ne do tre, di quelle grosse, per due soldi, guardate. – Dite, – fece la vedova – le posso portare su a mio figlio? Lo permettono, sapete niente? – Come no? Vi pare? Son mele, non sono cannoni. Pigliatele. Dove le volete mettere? – Qui – disse la bambina, aprendo il grembiule. – Mettetele qui, le porto io. La vedova pago` i due soldi e si mise a salire la scala dell’Albergo, con dietro la bambina, tutta felice delle mele. Sul largo pianerottolo non sapeva dove piu` andare, le porte erano molte, la scala continuava. ` qui? – chiese la bambina. – E – Ancora piu` su. Non so. Aspettiamo qualcuno che ce lo dica. Sentivano zufolare su per la scala. Una voce d’uomo s’avvicinava canticchiando: M’hanno detto che Beppe va soldato, e chi vi han vista pianger di nascosto...

Spunto` subitamente un giovanotto, con le mani in saccoccia e uno scartafaccio sotto l’ascella. Quando fu sul pianerottolo dette un’occhiata alla donna e alla bambina e tiro` innanzi, continuando: Far pianger sı` begli occhi e` gran peccato...

– Signore, signore! – fece la vedova. – Che c’e`? – disse lui, mettendo il piede sul primo gradino dell’altra tesa, e voltandosi. – Dove si va per vedere... per parlare con un bambino? Io ho qui mio figlio... – Vi levate presto voi la mattina? Questa non e` ora di parlatorio. Ma, via, puo` accadere che vi facciano vedere il bambino. Andate su, dal segretario. – Dov’e`? – chiese timidamente la vedova. – Su, al secondo piano, prima porta a destra, ultima camera.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Parlando saliva; a un tratto la vedova non lo vide piu`. Ma udı` la sua voce, dall’alto, mentre saliva anche lei: – Ultima camera, avete capito? – Sissignore! – grido` la vedova. – Grazie, signore, Dio ve lo renda! Il segretario era un uomo assai maturo, molto per bene, con occhiali d’oro, con un bell’anello al dito indice. Sedeva presso la sua scrivania, firmando certe carte che un impiegato gli metteva innanzi una dopo l’altra, asciugando le firme sopra un gran foglio di carta rosa. Nella camera c’era la stufa, che vi spandeva un lieve tepore. – Chi siete? Che volete? – fece il vecchio, levando gli occhi dalle sue carte ed esaminando la vedova e la bambinella. La vedova non sapeva che dire. – Sono Carmela Selletta, eccellenza, volevo vedere, se e` possibile... io ho qui mio figlio... ha sette anni... Giuseppe Selletta... – Ma, Dio mio! Non dovete venire qui! – fece il Vecchio, con la penna levata. – Questo non e` parlatorio, Dio mio! Ah! santa pazienza! – Cosı` m’hanno detto, eccellenza – mormoro` la vedova, mortificata. – Ho incontrato per le scale un giovane, e m’ha insegnata la porta. – Ma non e` qui, non e` qui! – insisteva il vecchietto. – E poi, bella mia, non e` ora questa di parlatorio. La vedova rimase muta. – Come avete detto che si chiama vostro figlio? – soggiunse, dopo un momento, il vecchietto. – Peppino... Giuseppe Selletta. – Mazzia, fammi il piacere, guardate un po’ dentro, in archivio, se c’e` Larissa, e parlatene a lui di questo ragazzo. Anzi fatelo venire qui, che sara` meglio. – Come si chiama? – chiese l’impiegato alla vedova. – Giuseppe Selletta. Mazzia sparı` dietro una portiera. Il vecchietto raggiusto` sul naso gli occhiali, soffio` nelle mani e mise sulla scrivania una tabacchiera d’argento. Nannina aveva riguadagnato coraggio e s’accostava alla scrivania, guardandovi curiosamente il gran calamaio dorato, sul quale due pupazzetti reggevano a fatica un vasetto per le penne. Lo sguardo della piccina incantata passava dal calamaio a un fermacarte di cristallo, sotto il quale si vedeva la chiesa di San Pietro, col cupolone, la piazza e la gente in cammino, tutto colorato.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



– Sedete... – disse a un tratto il vecchietto, dopo una rumorosa soffiata di naso. – Pigliatevi lı` una sedia, quella dell’angolo... brava, sedete pure. Aprı` la tabacchiera, tiro` su una gran presa di rape` e allungo` le braccia sulla scrivania. – Ah, buon Dio di pace e d’amore! – sospiro`. Poi, voltandosi: – Che cosa avete in braccio? – domando`, aguzzando lo sguardo di sotto agli occhiali. La vedova alzo` un lembo dello scialle e scoverse il piccino che dormiva tranquillamente con una mano sul petto. – Figlio vostro? – Sissignore. Nanninella s’era avvicinata a guardare il fratellino, togliendosi alla contemplazione del calamaio. Stese la mano per carezzarlo. – Psst! – fece il vecchio, sottovoce. – Lascialo stare, tu. Si svegliera`. Ricopritelo... Appariva Mazzia sotto la portiera, impassibile. – Dunque? – fece il vecchietto. – Se il signor segretario – disse Mazzia – vuol favorire un momento... – Che c’e`? Si levo` poggiando le mani sui bracciuoli della sua seggiola, cercando in saccoccia il moccichino di seta rossa. Ripeteva, camminando: – Che c’e`, Mazzia? Quando il segretario gli fu vicino Mazzia lascio` ricadere la portiera e questa li nascose. – Ora viene Peppino – diceva la vedova a Nanninella. – Ora viene? – ripetette la piccina, sottovoce. La vedova col capo fece cenno di sı`. I due parlottavano ancora dietro la portiera, ma non si capiva nulla di quel che dicessero. A un tratto riapparve il vecchietto. Pareva molto turbato e veniva innanzi lentamente, con lo sguardo sulla vedova. Si fermo` presso alla scrivania, aggiusto` un quaderno sotto un libro e tossı` due o tre volte. – Sentite, bella mia. La vedova s’era levata, traendo indietro la seggiola. – Sentite, non si puo` parlare a quest’ora coi ragazzi... Io ve lo avevo detto, siete venuta troppo presto! Gli e` che a quest’ora il ragazzo...

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

S’interruppe. La vedova lo guardava. – Mazzia... – e il vecchietto si volse bruscamente all’impiegato. – Aiutatemi a dire... – Il ragazzo e` alla lezione – disse Mazzia secco secco. E si rimise a guardare di fuori, per la vetrata. – Ecco, – disse il vecchietto risollevato – e` alla lezione. Qui si e` molto severi... La vedova ebbe un moto di dispiacere. Strinse meglio sul petto il bambino, e rimase lı` impiedi, aspettando ancora, sperando ancora. ` proprio impossibile? – mormoro` timidamente. – E – Eh? – fece il vecchio. – Sicuro, impossibile! Voi siete sua madre, non e` vero? – Sissignore, sua madre. – Impossibile, bella mia... – borbotto`. – Come si fa? Dovreste tornare. Tornate... tornate lunedı`, che c’e` udienza, non e` vero, Mazzia? Mazzia guardava di fuori. Non udı` e non rispose. La vedova arrossiva. Caccio` lentamente la mano nel grembiale di Nannina. – Perdonatemi, – balbetto` – io gli avevo portato... gli volevo lasciare... queste mele... – Date qua – disse il vecchio. La bambina gia` ne avea posto due sulla scrivania, accanto al bel calamaio. Lui prese la terza e la mise presso alle altre. – Torno lunedı` – disse Carmela. – Sı`, sı`, lunedı`... piu` tardi. Non venite da me, chiedete del direttore, egli sapra` dirvi... La vedova gli prese la mano ch’egli stendeva per carezzar la bambina, e fece per baciargliela. – Oh! – esclamo` lui, come spaventato. – Macche´! Macche´!... Addio, addio... Buona giornata... Erano uscite. Il vecchietto rimase impiedi presso la porta. Ascoltava il romore delle ciabatte della vedova su per la scala, la vocetta della bambina che interrogava. Mazzia si ricolloco` di faccia a lui e gli mise innanzi le carte. – Piano, – disse il vecchietto – non c’e` fretta... Vi fu un silenzio. Il segretario scoteva malinconicamente la testa. – Glie lo dira` il direttore, lunedı`, – mormoro` – io no, di certo. Non voglio ricominciare la giornata a questo modo.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



Asciugati gli occhiali se li pianto` sul naso, tossı`, soffio` nelle mani e riprese la penna. – Ah! Signore Iddio! – sospiro`. – Buon Dio di pace e d’amore!... Date qua, Mazzia...

La regina di Mezzocannone

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Aprile 1886

Finora Mezzocannone ha avuto solo un re, quel buffo re di creta bronzata, mangiato dal tempo e dalle intemperie nel naso e nelle mani e negli occhi, nero, storto e contraffatto come un Esopo, bersaglio continuo alle invettive delle serve le quali vanno ad attinger l’acqua, e dei molti torsoli che gli lanciano i monelli impertinenti e democratici. Ma questo budello di Mezzocannone, questo lurido intestino napoletano, ha pur una regina. Il re e` orribile: la regina e` incantevole. Il re si chiamava, al tempo suo, Alfonso II d’Aragona. Ma la regina? Ella vive e regna ove finisce la stradicciuola. Come si chiama la regina? Le prime visite che feci alla via, mosse da ragioni affatto lontane dall’interesse artistico, me la resero sempre piu` antipatica. Sino a pochi anni fa, al quarto piano d’uno di quegli sporchi palazzetti vecchi, c’e` stata una Ricevitoria brutta e scura, nella quale, ogni due mesi, io mi recavo a pagare la tassa della fondiaria, immaginate con quanta soddisfazione dell’anima! Poi, un bel giorno, la Ricevitoria sloggio`; sloggiarono, rimossi in fretta e furia, i cancelletti di legno dai bastoni unti dalle mani dei poveri contribuenti, sloggiarono i pesanti registri che chiudono tanti segreti di ristrettezze e di privazioni, sloggio` un cassiere malinconico insieme ad un piccolo gatto grigiastro, il quale annusava specie le gambe dei salumai che venivano a pagare. La Ricevitoria se n’ando` e la casa rimase vuota, muta, spalancato l’uscio, sparse le camere di trucioli e di pezzetti di carta lacerata. I miei passi svegliavano un’eco breve e vibrante. Ancora sull’usciolino d’una delle stanzucce si vedeva un’addizione; i numeri erano segnati con la matita. Non avendo da fare altro collaudai l’addizione, con le mani in saccoccia e l’anima tutta dietro i miei ricordi aritmetici. Il cassiere avea ragione, la somma era giusta:

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

14.780. Vi diro` pure, non senza una certa mortificazione, che, avendo, per una radicata superstizione napoletana, ripassati i numeri nel mio taccuino, quando scesi dalla casa abbandonata me li andai a giocare al lotto. Naturalmente non vinsi nulla, la sfortuna mia essendo grande come la provvidenza del buon Gesu`. In verita`, quando mi trovo per cose mie o per gusto mio particolare a passare per una cosiffatta stradicciuola, mi si stringe l’animo. Dov’e` l’azzurro, dove il sole, dove il buon sangue e la buona salute nelle persone, dove l’aria e la luce nelle case e nelle botteghe? Dappertutto penombre, ed oscurita` fitta e facce smunte e scolorite, in cui solamente palpitano i neri e vivi occhi napoletani, pieni di desiderii e di curiosita`, tutti luminosi d’anima. Una pieta` grande queste povere donne pallide, questi lavoratori di metalli, dallo sguardo lento, dalla pelle sudata, traspirante il veleno delle ebollizioni di piombo e di rame, questi tintori che si movono nell’oscurita`, sotto un lumicino che pende dal soffitto, un lumicino rosso, quasi infernale. E i bambini che trascinano i piedi nudi per la mota, i piccoli piedi indolenziti, e un vecchio che cerca invano un pezzetto di sole per la sua panchetta di franfellicche, e la buia, misteriosa cantina che raccoglie tutta la gente affamata e puzzolente del quartiere, la cantina della miseria, in cui, al venerdı`, il fetore del baccala` fritto nell’olio soffoca il respiro e provoca le piccole tossi dei piccini che una famiglia di straccioni porta a mangiare nell’orrida caverna. Di rimpetto, l’antica fontanella mormora sempre. E par che il borbottio si parta dalla sconquassata bocca del re sovrastante, di questo ammantellato padrone della strada, e lamenti la miseria del tempo. Tutto roso dall’umido e dallo stesso tempo irrispettoso che a poco a poco ha fatto di lui un personaggio da burla, vuote le occhiaie come colui della Bibbia che in castigo ebbe mangiate le pupille dai vermi, l’infelice coronato pur vive ancora e concede la limpida vena dell’acqua a un popolo chiassone. L’acqua cade e si spande e allaga per buon tratto la via, commista a’ nuovi rivoletti di un’altra fontanella che piu` in su e` posta sul pendio, accanto alla bottega d’un torniere – una fontanella municipale, delle solite. E pero`, di state e di verno la via e` sempre lubrica; i pochi fanali, che vengono fuori, uscendo come dalle finestre, lasciano piovere una scialba luce sul selciato sconnesso, che somiglia una disgregata sutura di un cranio in cui s’infiltrino fantastiche lacrime. E qua e la`, per terra, si fanno bianche lucentezze sulle gobbe dei piu` gibbosi lastroni. Nel lontano,

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



ove la strada e` per finire, pende dal balconcello un fanaletto verde sul quale e` scritto qualcosa in bianche lettere: Albergo del Pavone. Un letto vi costa quattro soldi. Dal balconcello certo non si puo` aver sott’occhio un felice orizzonte; non c’e` di rimpetto che una scala, e in capo alla scala un immmane Cristo in croce, rifatto dagli ultimi furori religiosi, dopo il colera. Nella notte, con innanzi ed ai lati alcune lampade accese, il gigantesco Cristo e` vivo e spaventevole... La via e` sempre affollata. Vi sale e scende il commercio di Porto, della Marina, della vicina strada dei Mercanti, di tutte le stradicciuole circostanti. Gli operai, intenti alla loro bisogna nelle botteghe, non levano mai lo sguardo ai passanti e continuano a lavorare fino a notte. C’e`, a un posto di Mezzocannone, presso un caffettuccio ove si giuoca a carte, una bottega di ricamatrici. Intorno al telaio, come attorno ad una tavola, seggono quattro o cinque povere ragazze, curve sui ghirigori d’argento o d’oro, sui cuori di seta cremisina, sui fiori dai pistilli di conterie luccicanti. Tra costoro e` una rossa pallidissima, un po’ lentigginata sulla faccia di madonnina bizantina. L’oro del ricamo non ha piu` luce di quello dei capelli di lei, che, a volte, rischiarati da un filo di sole, si accendono. Questa e` la reginella di Mezzocannone. La piccola rossa, le labbra strette, gli occhi intenti, le bianchissime mani ravvicinate, trapassa con l’ago la trama e non ne leva gli ` la prima dalla parte dell’uscio. Ma chi passa, occhi per ore ed ore. E in quei momenti di raccoglimento, non vede di lei altro se non la banda dei capelli fulvi, un impreciso profilo, un po’ della guancia d’avorio vecchio. La reginella ricama. In un tramonto estivo, nel quale si spegnevano le ultime luci perfino nella bottega delle ricamatrici, la rossa – e` chiarissimo il ricordo nella mia memoria – aveva poggiato il gomito sull’asse del telaio, e nella bianca mano raccolto il mento, leggermente china da un lato la testa angelica, gli occhi nel vuoto, sognava. Le altre sommessamente chiacchieravano; la padrona preparava i lumi. Un grande silenzio s’era fatto per la via. La dolcezza del tramonto penetrava l’anima. E la piccola rossa, socchiuse le labbra esangui, lo sguardo perduto, continuava a sognare, come una santarella in un’aureola di pulviscolo d’oro...

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Assunta Spina

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I Era l’ora del tramonto e un silenzio di persone e di cose stanche chiudeva la grigia e triste giornata di febbraio. Come il buio sopravveniva rapidamente e penetrava nelle case, tutte le porte dei pianterreni, una dopo l’altra, s’aprirono sulla via e ancora per un poco l’ultimo chiaror freddo del giorno bagno`, ne’ poveri interni, della scarsa mobilia, qualche immagine, davanti alla quale ingialliva la fiammella d’una lampada, e la pallida sagoma d’un letto. Assunta Spina schiuse le sue vetrate e sulla soglia del basso trasse una seggiola, per un pezzo rimanendovi accanto, ritta, la mano sinistra sulla spalliera, le dita della destra tamburinanti sulla vetrata. Davanti a lei s’allargava la solitaria piazzetta di Sant’Aniello Caponapoli, tra le case alte, tra la chiesa, a manca, e il bianco fabbricato del teatro anatomico. In fondo, l’arco del vicoletto di San Gaudioso pareva una gran porta spalancata, sbadigliante sull’oscurita` della stradicciuola, gia` tutta confusa nelle ombre. Ma il giorno moriva come tra una infinita dolcezza. Nel lontano tintinnavano le campanelline d’una invisibile mandra di capre, arrivanti forse dalla strada d’Atri, o sparse a leccar le mura, laggiu`, a Regina Coeli. E nella piazzetta di Sant’Aniello alcuni piccini giocavano sullo sterrato, sotto gli alberi nudi, ai cui vecchi rami la gente di laggiu` attacca le corde per isciorinare il bucato. I piccini si rincorrevano senza gridare; a volte una risata argentina suonava nel silenzio, o una fresca voce infantile. Due amanti si spiavano alla finestra, scambiandosi la molle tenerezza dei loro sguardi. A un tratto una campanella suono` l’Angelus, e accosto alla casa d’Assunta, smettendo di spazzar via un monte di bucce, donna Rosa la vedova si fece il segno della croce, abbracciando il manico della scopa. – Voce di Dio! – sospiro`. – Buonasera, Assu`! L’altra rispose: – Buonasera... E saluto` lievemente con la mano. La vedova scese nella via e le s’accosto`, trascinandosi dietro la scopa. – Come state? – Come Dio vuole. – Ma che faccia avete?

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



– Come che faccia? – V’e` successo qualcosa? – A me? Niente! Ma perche´? Che ho in faccia? E si guardo` nella vetrata, in cui le sue forme, confusamente, si disegnavano. La vedova si mise a ridere. – Be’, non vi spaventate; cosı` mi pareva. Forse perche´ e` da ieri che non vi vedo... E guardando nel cielo soggiunse: – Sara` il riverbero. E saro` gialla pur io. Come l’altra sognava ancora a occhi aperti e non rispondeva, la vedova stiro` le braccia, se le lascio` ricadere lungo i fianchi e tra uno sbadiglio e un sospiro balbetto`: – Ah! Signore Iddio, dacci forza!... Raccolse la scopa ch’era caduta, giro` sulle calcagna, guardo` in cielo un’altra volta e quindi, voltandosi lentamente verso la Spina: – Volete sentire la verita`? – le fece. – Domani e` festa e io se fossi voi me ne andrei in campagna. Assunta Spina strinse le labbra e tentenno` il capo. – Voi i guai miei li sapete, donna Ro`. Se sapeste che campagna ci ho pel capo! – Avete ragione. Assunta rimbocco` una manica e scovrı` il polso sinistro. – Guardate... Soltanto l’ossa mi son rimaste... – Ma lui che vuol fare? – Lui che vuol fare? Io lo so che vuol fare? ... Non entrate?... – No, – disse la vedova, voltandosi per dare un’occhiata alla sua porta – ci ho dei pannucci da stirare e i ferri sul fuoco. Be’, ma che vi dice? – Dice che io sono pazza e che lui non prende mai l’acqua a due cisterne. – Tutti cosı`! – mormoro` la vedova, e dette un’altra occhiata alla porta. – Sentite, donna Ro`! – proruppe la Spina, bianca come una carta e tremante per tutta la persona. – Io lo so che meriterei d’esser bruciata viva, la` in quel larghetto, in una botte di pece, per quello che ho fatto a Ferdinando mio, che m’ha perdonato cinque volte, come le dita della mano... Io lo so... E mi raccomando ogni notte a quella bella Madonna Immacolata che e` sul canterano perche´ non mi faccia fare una brutta fine come tant’altre... – Gesu`! – esclamo` la vedova. – Lontano sia!...

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– Meglio sarebbe! Oppure me le raccomando perche´ mi faccia morire. Dico: Madonna mia, pigliami! Ferdinando se ne sposa un’altra. Figli non ne abbiamo fatti e io non lascio nessuno che mi pianga... La vedova seguitava a mormorare: – Gesu`! Gesu`! Non pare vero... – Donna Rosa mia datemi un consiglio! – disse la Spina, afferrandole il braccio e serrandoglielo convulsamente. – Ditemi qualcosa! ... – Figlia mia, che posso dirvi? V’avesse fatta qualche fattura? La Spina, liberandole il braccio, ebbe un moto di collera. – Ancora credete a questo, voialtre? La fattura e` qui... E si tocco` il petto, al posto del cuore. – Ma com’e` vero Dio!... – minaccio`. – Ho i ferri sul fuoco... – disse la vedova. – Permettetemi... II La Spina sedette, sulla soglia, puntando i gomiti sulle ginocchia e le dita medie alle tempie. Daccapo s’udiva un tintinnio che man mano si andava facendo piu` distinto. A un tratto una capra bianca sbuco` dal vicolo degl’Incurabili e subito dopo una frotta di capre belanti le tenne dietro. Il capraio passo` davanti alla Spina, la mazza sulla spalla, zufolando. – Assu`, latte ne volete? – Dimani – disse lei, senza muoversi. Poi guardo` nella strada e chiamo`: – Emilia! Emı`!... Una bambina s’era accostata alla fontanella e metteva la bocca al robinetto. Il vento le rubava l’acqua, allontanandole dalle labbra lo zampillo che si spandeva e si frangeva per un altro verso. La piccina s’ostinava e si bagnava tutta. – Che sete! – mormoro`, tornandosene, e ripassando il grembiale sulla faccia. Assunta l’aveva afferrata pel braccio e se la trascinava in casa. – Che t’ha detto Sofia? Da me t’ha mandata, non e` vero? – Sı`, la principale m’ha detto: va da donna Assunta, a Caponapoli... – E che t’ha detto?... Su! – M’ha dato questo. Era un pezzettino di carta, il bianco margine d’un giornale su cui era scritto con la matita. – S’e` bagnato alla fontanella – si scuso` la piccina. Al lume della

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



lampada Assunta lesse, balbettando: «Quella persona si piglia una di Soccavo e hanno fatto tutto». Divento` pallidissima; la sua mano si stese alla spalliera del letto maritale e vi si afferro`. La piccina aspettava. – Che devo dirle? La Spina s’era abbandonata su d’una seggiola e chiudeva gli occhi, come in uno smarrimento di persona ferita la quale si sviene alla vista del sangue che perde. La bambina ripetette: – C’e` risposta? Che le devo dire? – Che va bene... – balbetto` Assunta. – Che la ringrazio tanto e la saluto... L’altra era gia` sulla soglia. Ma si volse, subitamente, per annunziare: – Piove. Si tiro` in testa lo sciallettino, raccolse le gonne e scappo`, con un piccolo grido al vento ed all’acqua. La Spina accosto` alla bocca il vigliettino e si mise a lacerarlo in punta di denti, sputandone intorno, rabbiosamente, i minuti pezzetti. III Una grossa voce maschile, mentre suonavano sul pavimento due stivaloni, domando`: – Si mangia? Facciamo presto, che´ ho fame. E sotto la cappa del focolare un uomo si chino`, protendendo le mani alla brace della fornacetta, scoverchiando la pentola da cui saliva una nuvola roteante, il vapore appetitoso della minestra. La pentola cominciava a ronfare. La grossa voce soggiunse: – Posso? E una faccia barbuta, tutta arrossata dal fuoco, si volse. La Spina badava a stendere il mensale. – Sara` fredda... – osservo`. – Per me e` lo stesso, – fece il marito – calda o fredda qui ha da scendere. E si batteva sul ventre. Sedettero l’uno in faccia all’altra e l’uomo si mise a scodellare. Dopo tre o quattro cucchiaiate levo` la testa dal piatto. – E tu che fai? Non mangi?

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Ella, tutta assorta, le sopracciglia aggrottate, si lasciava raffreddar davanti la minestra. Rispose: – Non ho fame. E soggiunse subito: – Ho mangiato una «pizza» con la vedova. Vi fu un lungo silenzio. Mentre il muratore inzuppava il pane nella minestra e ve lo ripescava con le grosse mani ancora incrostate di calcina, a un tratto la moglie annunzio`, lentamente: – Peppino il sarto sposa una di Soccavo. L’uomo la guardo`, meravigliato. Parve che non avesse compreso. – Come? Chi sposa? Ella ripetette, fissandolo con i suoi occhi scuri e profondi: – Peppino il sarto... sposa una di Soccavo... Hanno fatto tutto. Egli rimase muto. Ma era colpito, cosı` che piu` volte si sforzo` di rispondere, senza che le sue labbra potessero articolare parola. Finalmente, senza pur levare lo sguardo, mormoro`: – Be’; e che me ne importa? – A me sı`! – disse la Spina. Si guardarono un secondo. Lui torse lo sguardo pel primo, si verso` un gran bicchiere d’acqua, lo bevve d’un fiato e rimise i gomiti sulla tavola. Per un pezzo gratto` con l’indice sul mensale, vi allineo` le michette di pane, scompose quelle linee, spazzo` il mensale con la larga mano e ve la poggio` aperta contemplandosi le dita brevi e nodose. Assunta ripetette: – Hai sentito? A me importa. Te lo dico per offenderti... Allora lui, di su la tavola, allungo` il braccio e le poso` l’enorme mano sulla spalla. Chiese, placidamente: – Ricominciamo? S’era levato e misurava la camera a grandi passi. Tornando dalla vetrata per la quale avea guardato, rapidamente s’era fatta buia e deserta, si venne a piantare davanti alla moglie. – Senti. Quello che io ho fatto a te nemmeno te l’avrebbe fatto quel Dio che ci ha creato – e porto` la mano al berretto. – Ma tu non ti sei pentita mai, e questa e` un’altra volta ch’io ti stendo la mano e tu me la mordi. Io passo e la gente mi ride in faccia. Oramai la vergogna nostra la sanno tutti... E levo` le braccia, e urlo` come un pazzo: – Tutti! Tutti la sanno!... Si percosse la faccia con le palme, due, tre volte, fortissimamente, e caccio` le mani nei capelli.

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



– Madonna Immacolata mia! – grido` all’immagine del canterano. – Oggi e` venerdı`... Ma non ebbe tempo di finire. La vetrata s’apriva e un uomo, chiudendo l’ombrella, salutava dalla soglia: – Buonasera a tutti... – Sangue di Cristo! – urlo` Ferdinando. E afferro` qualcosa che luceva sulla tavola. Peppino il sarto balbetto`: – Don Ferdinando... sentite!... Oh! Madonna mia!... E all’urto di quel gigante che gli si gettava addosso con una rauca imprecazione, cadde tra il letto e il canterano. La Spina si coperse la faccia con le mani. I colpi si seguivano. Il muratore, accecato, inferociva: – Questo e` per me, questo e` per la sposa di Soccavo, questo e` per Assunta... E a ogni colpo seguiva un rantolo soffocato. Dal corsello del letto la Spina supplico`: – Basta! ... E il gran muratore come se continuasse a obbedirle, si levo`, tutto coperto di sangue, e getto` il coltello. Alle sue spalle si apriva la vetrata. Lentamente, retrocedette, e scivolo` nella via. La vetrata si richiuse. Ma un gran clamore si faceva nella piazzetta. La vedova, di sotto alla sua porta, gridava: – Gente! Gente! Dal vicolo San Gaudioso arrivava la pattuglia delle guardie che tornavano dalla visita alle male case del vico del Sole. La piazzetta s’illuminava; brillavano lumi alle finestre, altri lumi s’inseguivano tra gli alberi. – Dov’e`? Dov’e`? – chiese il brigadiere. – La vedova indico` la casa d’Assunta. Il brigadiere comando`: – Due uomini qui avanti. E spinse la vetrata. Il corpo del sarto era steso a terra, presso alla tavola, immobile. Una pozza nera gli s’allargava sotto alla spalla destra, sotto alla testa. – Sagrestia! – mormoro` il brigadiere. E guardo` intorno nella stanzetta: – Chi e` qui? – chiese, a voce alta. – Chi e` che l’ha ucciso? Allora dal corsello del letto si fece avanti la Spina. Ella aveva in mano il coltello sanguinante e lo mostrava.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Si mise la mano in petto e disse, chiaramente: – Io, signor brigadiere.

Il voto

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I – Ah, Cristo crocifisso mio! – grido` Vito Amante, in mezzo alla viuzza piena di sole, e levo` ambo le braccia e le stese al Cristo che s’affacciava da un angolo. – Ah, Cristo crocifisso mio, morto in croce, ricordati di quello che ti dico oggi ch’e` l’ultimo sabato di maggio! Fammi guarire, e pei dolori ch’hai patito e per quella corona di spine, io ti faccio voto di togliere una femmina dal peccato!... E cosı` non possa io, se ti mentisco, arrivare vivo fino a quella porta! Si volse e mosse diritto alla sua bottega, che s’apriva dietro di lui. V’era accorsa a udire e a guardar, sulla soglia, tutta la turba cachettica dei suoi garzoni tintori, le nervose braccia nude, macchiate bizzarramente di verde o di porpora fin sopra a’ cubiti, infilate in matasse di lana e di seta gocciolanti azzurrine lacrime intorno. Altre pallide teste s’affacciavano e pigliavano rilievo sul fondo nero della tintoria, altre mani verdi, gialle, sanguigne si puntavano agli stipiti, insudiciati delle continue loro impronte. Come Vito tornava, avanzando con passo fermo e sicuro, pervaso in tutta la persona, negli occhi brillanti e nel volto dalla solennita` del giuramento, il piu` vecchio de’ suoi garzoni si volse agli altri, e disse: – Lasciate passare. Tutti si fecero da parte. Sulla soglia della bottega, faccia a faccia, il vecchio garzone e l’Amante si guardarono lungamente, assai commossi, in silenzio. Finalmente il vecchio mormoro`: – Bene, figlio mio. Poi soggiunse stendendo al Cristo della viuzza il suo lungo braccio magro e una mano che pareva inguantata di viola: – Quella e` la medicina. E non aver paura che Gesu` Cristo, d’oggi innanzi, ti guardera` particolarmente. – Cosı` sia! – disse Vito. – Io ho fatto il voto e lo voglio mantenere. Ma lui me ne ha da concedere la forza. Il vecchio aveva le lagrime agli occhi. – Te la dara`, figlio mio, non aver paura! Dio ci ascolta. – Ora mi sento meglio – sospiro` l’Amante. – Ci credete voi, don

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



Marco? Mi sento assai piu` sollevato. Gli e` come se avessi buttata via, lı`, in mezzo alla strada, qualcosa che mi pesava sul petto... Davanti a ciascuno di que’ bassi, de’ capannelli commentavano. La gente andava e veniva, passava, e guardava nella tintoria, curiosamente, cercando con gli occhi Vito, cercando d’ancora ascoltarne qualche parola, di sorprenderne un gesto. Certo l’avvenimento era stato strano. I bambini, davanti alla bottega, s’incantavano, le piccole mani sul dosso, la bocca aperta. E tutto il vicolo s’empiva d’un susurro incessante e partecipava al gran fatto. Un gruppo di femmine scese, dal sommo della stradicciuola, al Cristo dell’angolo. Passando, tutte a un tempo si voltarono a guardar di sfuggita nella tintoria, dove il lavoro era stato ripreso. Da una tinozza un gran fumo azzurrognolo si levava, si diffondeva per la bottega. De’ brevi colpi di tosse suonavano. Un acre odore usciva fin nella via, un pessimo odore di concia, che assaliva con fortissima nausea lo stomaco. De’ tonfi, a cadenza, si seguivano in fondo, nella semioscurita`, ove alcune figure s’agitavano. Vito non si vedeva. Quel gruppetto di femmine tiro` avanti, deluso; si fermo` al Cristo gigantesco e ognuna di quelle levo` in su gli occhi a contemplarselo. La croce s’ergeva lı`, dal tempo dell’ultimo colera, sopra una base a dado rivestita di mattoncelli azzurri e gialli. Una cupola di latta proteggeva il Cristo dalla pioggia, e il fondo della cupola era un campo d’azzurro consparso di piccole stelle d’oro. Il corpo di Cristo pendeva, la testa bendata ricadeva sulla spalla destra e per le forate palme delle mani, dal chiodo rosseggiante, un sottil filo di sangue scendeva lungo le braccia. Ancora alcune gocce di sangue nerastro tingevano quel pallido corpo, al sommo del petto; e piu` sotto, da un’altra ferita di lancia spicciava pur il sangue sulla bianca fascia che cingeva la vita. I due fanali della cupoletta erano accesi e, a volte, nel vivissimo chiarore del sole, le fiammelle loro vagavano incertamente. In giu`, sulla base di mattoncelli, presso allo scoglio della croce, due piante di camelie si levavano da piccoli vasi dipinti di rosso, e inaridivano. Piu` forte e tenace, piu` verde, sotto un lieve pulviscolo lucente al sole, un’edera saliva e conquistava quel legno. II Alcune di quelle femmine si misero a pregare sottovoce, gli occhi lacrimosi sul Cristo. E due altre, giovani, che s’erano piantate lı` davanti, a braccetto, lo contemplavano, mute. Una di queste sbadiglio` e mise un lungo sospiro, seccata.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Come le altre, pispiglianti giaculatorie, si voltavano: – Be’, – osservo`, confusa per dir qualcosa – ha fatto il voto e non gli porta nemmeno un cero... ` vero – disse la piu` vecchia. – L’uso e` questo. Glie lo voglio –E dire, io che l’ho visto nascere. E se ne tornarono. Per via la vecchia lo ando` prima dicendo a tutti. Ancora si parlava del voto, da per tutto. I passanti si fermavano e interrogavano la gente del vicolo. ` stato un giovine che ha fatto un voto al Crocifisso. – E – Dei ceri s’e` scordato – interrompeva la vecchia. – E ora ci vado io... Entro` nella tintoria e si mise a dire: – Neh, don Vi’, avete fatto il voto e vi siete scordato dei ceri! – Ah, Gesu` buono! – esclamo` l’Amante, venendole incontro dal retrobottega. – Avete ragione! E quanti ce ne vorranno, Nunziata? – Dodici, questo e` l’uso. E alle tre messe ci avete pensato? Fate le cose a modo, figlio! Non gli date collera al Crocifisso nostro!... – Avete ragione, avete ragione. Mi lavo le mani e vado pe’ ceri... La vecchia scendeva pian piano i due gradini della soglia, appoggiandosi allo stipite con una mano e dicendo: – Non e` niente... non e` niente... Il Signore vi dara` la salute... L’Amante si lavo` le mani e uscı`. Lungo la strada egli non osava levar gli occhi, assalito come da un certo senso di vergogna per quel che aveva fatto. Si sentiva addosso gli sguardi di tutti, quegli sguardi lunghi, insistenti, che vi seguono fino a quando voi non siete scomparso, che vi impicciano i liberi e inconsci movimenti del corpo e che tolgono a’ vostri passi il loro moto regolare. Sul suo cammino la gente si aggruppava, si parlava a bassa voce, perfino gli parlava. Una voce nasale, lenta, trascinante gli fece: – Don Vi’, coll’aiuto di Dio, statevene sicuro. La Madonna v’accompagni! Era la cieca Marianna che stendeva la mano gialla ai passanti fin da quando egli era bambino e scendeva col padre alla tintoria. Qualcuno le aveva detto: – Ecco Vito il tintore che passa. Egli non penso` nemmeno a metterle in mano qualche soldo. Anche la cieca sapeva del voto, lo sapevano tutti. Gli parve, appena sbuco` nella piazzetta di Santa Caterina Spina Corona, che lo sapessero pur tutti quei giovanotti commessi di mercanti, garzoni d’argentieri, lavoratori di sughero o di avorio, che si godevano il sole sulla

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



soglia delle botteghe e lo guardavano. Allora, tornando alla tintoria col pacchetto dei ceri sotto il braccio, prese pel vicolo Astuti, risalı`, girando pel vico Sempreviva e, a un tratto, per queste vie salvatrici, si trovo` di faccia al Cristo un’altra volta. La sua tintoria era di la`, a pochi passi e quindi il vicolo s’allungava, risaliva, svoltava. Nessuno gli bado`, poiche´ egli veniva dalle strade di sotto e scivolava lungo un muro cieco. Ma, a un tratto, qualcosa gli sfioro` lievemente la faccia, gli batte´ sulla spalla e gli cadde appiedi di rimbalzo. Egli guardo` a terra. Era una rosa di maggio. Guardo` in su. Non c’erano, sul muro grigio, se non che le piccole finestre d’una mala casa, chiuse da verdi persiane. Per le stecche delle persiane ancor due foglie di rosa caddero, dolcemente, nella via. Poi non vi fu piu` nulla. Vito Amante rimase lı` sotto, immobile, pensoso. Si guardo` intorno. Ciascuno attendeva alle cose sue. Un silenzio di pace s’era fatto e conquistava tutta la via, da un capo all’altro. Il Cristo enorme era in una gloria di sole. Vito Amante, senza levare il capo, guardo` ancora, per un secondo, alle mute finestre. Poi si chino`, raccatto` la rosa per lo stelo, la celo` come poteva tra il braccio e il pacchetto e scomparve nella tintoria. III Al giovedı` seguente, come Vı´to Amante, dopo aver chiuso la bottega, rincasava, la moglie d’Annetiello il cocchiere, la quale se ne stava a guardar nel vicolo, impiedi, col gomito sul canterano, gli fece un segno, sorridendo. – Don Vi’! Entrate un momento perche´ vi devo parlare. L’Amante, col mazzo delle chiavi in mano, si era fermato sulla soglia del basso. – Entrate, – disse la donna – qui dentro non piove. – Quali comandi? – disse Vito. – Preghiere. Prima di tutto, voi come state? – Meglio assai. Per voi non c’e` da far domanda perche´ mi sembrate Pasqua rosata. Be’? – Non vi volete sedere? – Donna Amalia mia, non ho mangiato ancora... Ho... scusate, ho appetito... – Buon segno. Cosı` vi voglio. Segno di salute. Dunque sentite, don Vi’...

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GLI SFREGI DI NAPOLI

Ma tacque, irresoluta, grattandosi il mento con la punta dell’indice e guardando un po’ Vito un po’ il san Giorgio che aveva sul canterano, sotto una campana di vetro. – Io non so come ve lo devo dire... – mormoro`, dopo un momento. – Non trovo le parole... Subitamente, vincendo ogni indugio: ` vero – domando` – che vi siete messo a far all’amore con – E Cristina la capuana? Vito divento` pallido e balbetto`: – Io?... E chi ve l’ha detto questo?... ` vero o no? – E Allora Vito la guardo` fiso. Ella aveva tutta la faccia illuminata dalla lampada del san Giorgio. – Mettiamo che fosse... – articolo`, lentamente. – E a voi che ve ne importa? – A me?! – esclamo` la moglie del cocchiere, battendosi in petto. – E cosa volete che me ne importi? Questa e` bella! – E allora perche´ me l’avete dimandato? – Come dite? – Dico perche´ me l’avete dimandato? – Per curiosita`. – Vi fa piacere di saperlo? – Mi fa piacere. – Be’, allora, giacche´ vi fa piacere, io vi dico sissignore, faccio all’amore con Cristinella la capuana. La moglie del cocchiere taceva. Lui faceva ballar nelle mani il mazzo delle chiavi. Dopo un silenzio di due o tre minuti Vito Amante mormoro`: – E buona nottata. – Sentite, Vito! Egli era gia` nella via. Ritorno` lentamente. – Altri comandi? – Sentite, – disse la moglie del cocchiere – io ve lo voglio dire come una sorella... E la voce le tremava e le mani tormentavano il grembiale. – ...Voi siete sulla mala strada, Vito. Pensateci bene a quello che ` per scrupolo di coscienza, non mica per altro che ve volete fare... E lo dico. Sentite, vi pare a voi, che siete un giovane onorato, vi pare a voi che una di queste femmine possa starvi a fianco? Voi volete far ridere la gente sul vostro cammino, voi volete dare un gran dolore a

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)



mamma vostra e a quel sant’uomo ch’e` vostro padre. E un gran dolore lo avrete anche voi, Vito, non vi fate belle speranze. Chi nasce quadro non puo` morir tondo... Vito la interruppe. – Avete finito? Posso parlare io? – Voglio dirvi ancora una parola. Che femmina e` questa Cristina? Ha i denti scritti, ha la faccia lentigginosa, ha la salute d’una caraffa di vetro. Almeno, se volete fare la sciocchezza, pigliatevi una che abbia il colore in faccia! Ma voi non ve la sposerete Cristina, metterei la mano sul fuoco! No, che non la sposerete, Vito! E se volete scommettere, tant’e` vero, io ci scommetto. Una scampagnata al Vomero, e vi ci conduco io nella carrozza d’Annetiello!... Rideva, ma rideva falso. Il suo sguardo palpitante non cessava d’interrogare il tintore. – Ora che avete finito, – disse questi, serio serio – due parole anch’io. Due settimane fa stavo male, e voi la sapete la mia malattia. Verso mezzodı`, mentre stingevo uno scialle nel rosso ci ho sputato su, rosso, anch’io. Capite? E non mica una volta sola. M’e` parso che la concia per lo scialle mi volesse uscire dal petto, donn’Ama`, e vi giuro sull’anima mia che e` stato un brutto momento.... La donna mormorava: – Oh, Dio! Dio!... Non lo dite... Non me lo dite!... – Be’, allora, io non so... voltandomi dalla parte della strada ho visto il Crocifisso... Ha tanto patito pure lui!... Una voce, qui dentro, mi diceva: «Va e buttategli ai piedi!». Cosi e` stato che ho fatto il voto. Seguı` un silenzio. Vito ansimava lievemente e aspetto` un poco per ripigliar fiato. L’Amalia non lasciava di contemplarlo, il gomito sul canterano, la guancia nella mano. ` – Come e` stato che ho conosciuta Cristina? Ora ve lo dico. E stato nello stesso giorno. Io passavo sotto la casa sua e lei m’ha gettato una rosa dalla finestra. Ho mandato, con una scusa, un garzone mio a dimandar lassu`. Lui e` pratico. A sera e` venuta Cristina alla tintoria. Si fermo` ancora un pezzetto. Sorrideva, come a un dolce e onesto ricordo. – Eravamo soli. Lei m’ha raccontata la sua storia e m’ha pur detto che mi conosceva di vista, che sapeva della disgrazia mia da quando era venuta a Napoli. Ella e` di Capua, percio` la chiamano la capuana. La moglie del cocchiere lo interruppe:

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GLI SFREGI DI NAPOLI

– E... le avete promesso?... Il tintore rispose brevemente: – Che l’avrei sposata. – No! – fece l’Amalia, a mani giunte. – Non lo dite piu`! Questa non e` parola che dovete profferire! Lui, tranquillamente, soggiunse: – Io ho fatto il voto a Cristo crocifisso, davanti al popolo, donn’Ama`! Al voto non si manca; e` sacrilegio. E poi... Stese la mano e disse: – Via, buonasera... – E poi? – chiese la moglie d’Annetiello. – Niente. Buonasera. E stendeva la mano. Ma lei non moveva la sua e insisteva ansiosamente: – Ma dite!... Volevate dir qualche cosa... Dite! E poi che?... Lui rispose, traendosi lentamente addietro: – E poi le voglio bene, ecco. – Sı`?... – fece donn’Amalia, con voce soffocata. – Sı`. Buonasera. Ella potette appena balbettare: – Buonasera... E si butto` prona sulla sponda del letto, le braccia stese, singhiozzando, addentando le coltri. IV Al 30 dell’agosto, nel giorno di santa Rosa, patrona dei tintori della lana, i garzoni di Vı´to Amante smessero di lavorare al tocco e se n’andarono in campagna. Ma la tintoria rimase aperta e Vito Amante, seduto tra un monte di stoffe multicolori, gia` asciutte, si mise a pensare, tutto solo, e a fumare. Intorno a lui era, tra la semioscurita` del luogo, una strana festa di colori, riganti confusamente le mura, cacciati negli angoli, pioventi come stalattiti rosse, azzurre, aranciate, verdine, dall’affumicata travatura del soffitto. E per terra, qua e la`, mucchi di stoffe si levavano, ancora sprigionanti i lievissimi vapori della concia e goccianti l’anilina, mentre lungo tutto un muro, da brevi e grossi bastoni confittivi, pendevano le matasse della seta e del cotone, note di verde sfacciato, strillanti nella concordia di tutta quella bassa tonalita` di tinte. Un telaio era poggiato ad un altro muro, e sul telaio si stendeva, si stirava, fermata intorno, a

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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via di chiodetti, la tela marrone di cui si servono i cappellai per le fodere al feltro. In fondo era buio pesto. Un lumicino rosseggiava in alto, certo davanti a una immagine, ma questa non appariva, e la piccola fiamma lottava, invano, con l’oscurita`, riuscendo appena a stampare un riflesso sul lembo inferiore della cornicetta d’oro. Da misteriosi angoli neri le fontanine delle vasche mormoravano, e come nelle vasche codesti tintori serbano le anguille pel Natale, di tanto in tanto, nel silenzio, s’udivano un fruscio d’acqua scompigliata, un piccolo tonfo sordo, de’ brevi gorgoglii. Di faccia a Vito, in alto, nel muro assai spesso, un finestrino si apriva e di la` era un giardino tutto conquistato dal sole. L’Amante, rovesciato leggermente indietro sulla seggiola, le gambe stese, una mano in saccoccia, l’altra col sigaro spento, abbandonata, era in contemplazione di quello spiraglio d’oro. Sopra un fondo giallo, tutto giallo e luminoso, un gruppo di foglie nereggiava, palpitava al lievissimo alito del mattino, e ancora piu` neri, piu` nettamente, si disegnavano i bastoni della inferriata. A un momento il sole si fece strada tra quelle foglie e penetro` nella tintoria. Un nastro d’oro lambı` tremante le ginocchia dell’Amante, gli salı` su pel petto, gli pervenne alla faccia, lo abbaglio`... – Vito! Vito!... La capuana era accosto a lui, gli posava la mano sulla spalla, si chinava per guardare, la testa quasi poggiata alla testa di lui, ov’egli guardasse. Subito la striscia di sole s’avvento` pur su di lei, la raggiunse in petto, sotto alla gola, tra i capelli biondi, che s’accesero. Ella era una piccola bionda, un po’ smagrita, un po’ malaticcia, e aveva la faccia d’avorio tutta sparsa di minutissime lentiggini. Intorno alle tempie le si spandeva una fine nebbiola di capelli tra’ quali il lobo nudo e roseo d’un piccolissimo e gentile orecchio spuntava. – Che fai? – domando`. – Nulla – rispose l’Amante. – Guardavo il sole. – Come stai? – Bene. E tu? – Io sto bene. Giro` intorno gli occhi, cercando una seggiola. – Sai, – gli fece, perduta nella oscurita` del retrobottega – ho gia` avuto le carte. Vito sospiro`. Non rispose. Ella tornava, trascinando una panca.

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GLI SFREGI DI NAPOLI

Ripetette: – Ho avuto le carte. L’ispettore ha voluto sapere come ti chiami. ` vero? Amante? Vito Amante. E Lui si volto` sorpreso: – L’ispettore? E come c’entra lui? – Come! Poi arrossı`, chino` la testa. ` da lui che si deve passare. – Cosı` e` l’uso... – mormorava. – E Nel lungo silenzio che seguı`, Cristina, a un tratto, volse gli occhi a guardarlo. L’Amante aveva poggiato i gomiti sulle ginocchia e nascondeva la faccia nelle mani. – Che hai? – gli chiese. – Ti senti male? Lui, col capo, fece cenno di no. Dopo un momento disse, seccamente: – Voglio chiudere la bottega. Me ne vado a casa... Lei si levo` per la prima, di scatto. Raccolse lo scialle e se lo butto` sul braccio. – Che fai? – disse Vito. – Me ne vado. Tu vuoi chiudere la bottega... Me ne vado. S’appoggio` con le spalle allo stipite, lo scialle sul braccio, le mani unite, in grembo. Egli cercava attorno qualcosa e s’indugiava. Sotto la porta Cristina si mise a canticchiare: Vurria sapere si certo m’amate o pure pe cupierchio mme tenite... calice d’oro mio!...

Dal fondo della tintoria la voce di Vito domando`: – Eh? – Niente... – disse lei. – Canto. Mi ricordo del paese mio. – Bella cosa! Capua! – fece lui, spuntando dal buio. – Gia`! – rispose, voltandosi, le gote accese. – Meglio Napoli! Cosı` non ci fossi venuta! – E perche´ ci sei venuta? Cristina si torse le mani. ` stato il destino... – mormoro`. – E Come Vito chiudeva la bottega e passava i catenacci, Cristina s’addosso` al muro della via e ricomincio`: Comme volimmo fare e nuie facimmo ca ma`mmeta nun vo’ ca ce pigliammo...

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DA NOVELLE NAPOLITANE (1914)

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La chiave strideva nella toppa. Ella si giro` un poco per guardare e seguito`: e ghiammoncenne... Ah!...

E la distesa fu un grido. Vito esclamo`: – Cristina! La gente li guardava, meravigliata. Ella si butto` addosso lo scialle e fuggı` come una pazza.

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V Nella notte serena il gran Crocifisso impallidiva sopra un fondo rossastro. Della cupola si disegnavano i margini merlettati e tutta la cupola era come una nuvola nera che sovrastava alla croce. La testa del Cristo, la superiore meta` del suo petto si perdevano nell’ombra e un’altra ombra bizzarra, quella d’un dei fanali, s’aggirava continuamente allato, sul muro, da cui pendevano due grucce di un voto. Dal sommo del petto fino alle bende de’ fianchi il corpo s’illuminava, e le piaghe rosseggianti parevano piu` vive. Ma tutto, la croce, la cupola, la base, della quale i mattoncelli lucevano, tutto era una strana macchia scura, dietro alla quale si stendeva la bianca facciata d’una chiesa, tagliata, in su, nettamente, sul cielo azzurro. La capuana, sbucando dal vico Astuti, ando` diritta al Crocifisso e gli si butto` in ginocchio davanti. L’avevano cacciata dalla casa di Vito, e la madre dell’Amante aveva scopata la soglia, urlando: – Fuori! Fuori, trista femmina! Fuori di casa mia! Qui si mangia onore e pane! Onore e pane! E la moglie d’Annetiello era lı`, e tutti lo sapevano che Vito s’era perso ancora una volta per la moglie d’Annetiello! E la moglie d’Annetiello, anche lei, gridava: – Fuori! Fuori! Vattene a Capua! E le carte? E tre mesi di privazioni, di vita solitaria, di umiliazioni? E il voto? Il voto ch’egli aveva fatto? Oh, Dio! Dio! Dio! – Tu lo sai! – grido` al Cristo, con le mani afferrate alla balaustra che cingeva il Crocifisso. – Tu lo sai che cosa ho sofferto! La mia vita la sai, Cristo in croce! E sei tu che mi ci fai tornare, pei peccati miei. Io mi volevo salvare. Ho fatto tutto, ho sofferto tutto, per salvarmi! Non hai voluto... E sia! Cosı` sia!... Cosı` sia!

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GLI SFREGI DI NAPOLI

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Si levo`, getto` indietro i capelli e si strinse nello scialle. Poi fece ancora, risolutamente, quattro o cinque passi, raccatto` una pietra e picchio` con quella al portoncino della mala casa. Una finestra si schiuse. Una voce di vecchia chiese: – Chi e`? Cristina rispose, liberando la testa dallo scialle e guardando in su: – Sono io. La capuana.

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DA L’IGNOTO (1920)

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I Sul piazzale di Porta Roma erano poche persone. Era deserta la via del laboratorio pirotecnico, deserta la via di faccia ad essa, ove, sul principio, e` la semplice e nuda fabbrica dell’Arcivescovado a cui seguono altre fabbriche basse e la Riviera Casilina, recinta da una fila di casette rossastre. L’ora del tramonto avanzava. Un lume dorato che poc’anzi avea tutto infiammato, nel lontano, il fuggevole dosso de’ Tifati si raccoglieva in coda a’ monti, ove la terra e la collina s’univano e pareva che l’ultima arborea decorazione di quelle gobbe immani sprofondasse nell’immensa e aperta campagna, verso Roma lontana. Tutto intorno taceva di quel triste silenzio invernale che pesa su Capua, citta` di chiese e di caserme. Sul ponte del Volturno, con le spalle rivolte alla Riviera Casilina, e ritta sul parapetto, si stagliava sul livido cielo la statua di san Giovanni Nepomuceno: un rigido braccio era steso al fiume e la mano spiegata ne benediceva il queto cammino trascorrente lungo le umide rive, a occidente. Erano ancora illuminate, in quel marmo barocco, la testa del santo e il busto suo quasi tutto: le membra inferiori, gia` investite dall’ombra, avevano apparenza confusa. Sotto la statua, addossati al parapetto, due uomini contemplavano il tramonto, e di volta in volta accennavano a qualcosa, lontana in quel punto, nota soltanto agli occhi loro o alla loro immaginazione, poi che di faccia ad essi, oltre al ponte ferroviario, parallelo a questo su cui stavano e ch’e` di remota origine, nulla pareva che turbasse, lungo il fiume e nel cielo e nel piano sterminato, la silenziosa agonia del giorno. A un tratto una fuggente nuvola s’agito` e si scompose alle

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GLI SFREGI DI NAPOLI

origini del ponte di ferro, mascherate da un breve caseggiato e dagli erici della sponda. Apparve un treno, fischiante, nero, sterminato: il treno di Roma, che per due o tre secondi fuggı` su per le arcate fragorose e d’un subito sparve, come insinuandosi, rimpetto, nelle viscere della collina, alla opposta sponda del fiume. Palpitarono nell’aria, per pochi attimi, l’eco lamentosa dell’ultimo sibilo della macchina e un lieve fumo diffuso, che poi subito si sciolse. Allora i due uomini si spiccarono dal parapetto e, parlando piano, con la mani in saccoccia, col capo basso, scesero lentamente dal ponte nella piazza. Alle spalle loro cominciava a nereggiare la torre del ponte; la scaletta che va fino al sommo di essa or appena s’intravedeva. Ma un lume brillo` a un tratto in cima a un palo forcuto, piantato in uno de’ balaustri del ponte e proprio dove esso quasi s’unisce alle mura della torre: e allora gli ultimi gradini biancheggiarono, mentre il soldato che aveva acceso il lume scivolava lungo il palo, saltava dal parapetto a terra e scompariva sotto l’androne abbuiato, la cui sonorita` fu brevemente risvegliata da un acuto zufolio che cesso` pur subito. Si rifece il silenzio, e il vecchio ponte rimase deserto. Chi si fosse in quell’ora, arrivando dal Corso Appio, soffermato sul piazzale di Porta Roma, avrebbe potuto cogliere nel suo momento piu` penetrante lo spettacolo della caduta del giorno. Le cose piu` vicine allo sguardo erano il fiume, il ponte antico, le rive oscure e la torre che terminava il passo del ponte: di la` dalla riva erano campagne invisibili, nascoste, e piu` in la` finalmente apparivano monti, con interrotto disegno, coloriti d’un verde ancor fresco. Un rosso lume persisteva ov’essi inclinavano al piano. Qui l’ultima fiamma del sole v’accendeva le cime d’un bosco; ma sotto quel dolce fuoco, il fiume, lento, quasi immoto in quel punto, non se ne colorava. Rispecchiava invece la verde collina che gli sovrastava, e le acque luccicavano verdeggiando, immobili come quelle d’un lago percosso dal placido lume della luna. Un ponte di ferro, nero e tagliente, correva su quell’acque. E sul ponte, e sul fiume, e sul tramonto era un cielo minaccioso, per ove alcune nuvole basse si rincorrevano, si gonfiavano a mano a mano e s’aggrovigliavano: le loro creste mobili e serpentine lambivano nell’alto un pezzo di cielo rimasto pallido e puro, e lentamente lo conquistavano. Fra tanto, come generata dalla lontana e invisibile campagna, una massa vaporosa, grigiastra e fitta, assorgeva rapidamente all’orizzonte. Era come una uguale cortina di fumo che si levasse da terra e cercasse di raggiungere le nuvole. Le investı`, a un tratto, e con quelle si confuse

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DA L’IGNOTO (1920)



e si diffuse. Nel medesimo tempo fu un borbottio dietro quella cortina, un rombo lieve e trascorrente, che per poco parlo` pur al dosso dei monti con piu` debole voce, e quivi si spense. Adesso il cielo s’era tutto oscurato. Tuttavia persisteva ancora, in coda a’ Tifati, il lume del sole: una fiamma sanguigna, diminuita ma tuttora viva, ardeva ancora in quel punto.

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II Un’ombra scivolo` rapidamente sotto il muro dell’Arcivescovado, e a un tratto se ne spicco` e prese forma, dirizzandosi al Ponte di Annibale. Una donna. E pareva giovane, dall’agile incesso e dal disegno della persona. Pareva: da che le pieghe di uno scialle scuro, che dalla testa le ricascava sulle spalle e sul petto, le ombreggiavano la faccia. L’ora gia` tarda rafforzava il pallido mistero di quel volto, biancheggiante, con apparenza indefinibile, tra lo sparato dello scialle. Tuttavia, com’ella, per un momento, quasi irresoluta, s’arrestava sul piazzale, un fanciullo la riconobbe e le si fece da presso. Il fanciullo veniva dal Corso Appio, e andava verso Riva Casilina. Portava la cartella dei suoi libri attaccata al dosso con due brevi corregge che gli passavano sotto le ascelle, e in una mano aveva una riga di legno con cui, camminando e zufolando, a volta a volta si percoteva la coscia. – Oh, Letizia! – esclamo`. E ristette davanti alla donna, interrogandola con gli azzurri occhi contenti, pieni di candido e inconscio riso infantile. La donna, sorpresa, si trasse addietro e si guardo` attorno. Altri non era in quel luogo in fuori di lei e dello scolaretto; le loro figure nere, vicine, differenti, si disegnavano nella vastita` del piazzale su cui non ancora era scesa l’ombra. La donna tremava, borbottava parole che il fanciulletto non riesciva a comprendere. Lo guardo`, a un punto, smarritamente, come se piu` non lo riconoscesse, e seguito` a restar muta. – Dove vai? – disse il piccino. E subito soggiunse: – Io vengo dalla scuola. Oggi la scuola e` finita piu` tardi. Ora vado a casa. Ho i guanti: guarda. E le mostro` la mano inguantata, in cui serrava il quadrello. L’altra egli aveva ficcata nella saccoccia dei pantaloncini fino al gomito. La cavo` lentamente e la levo`, spiegata. Era gonfia e arros-

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GLI SFREGI DI NAPOLI

sata; l’epidermide vi si screpolava sul dosso e si rigava di piccoli solchi lividi. – Vedi... Ho i geloni. Ella taceva, guardandolo. Non lo ascoltava. Il piccino torno` a domandare: – E tu dove vai, Letizia? Ora ella, improvvisamente, si piegava su di lui, gli gettava un braccio attorno al collo, si traeva addosso il ragazzetto obbediente, sorridente ancora. E come egli credeva che gli volesse dare un bacio, atteggio` e appresso` le labbra. Ella non lo bacio`. Gli mormoro` rapidamente, guardandolo negli occhi: – Tu non devi dire a nessuno che m’hai vista! Hai capito. A nessuno! E l’atto e il suono della voce furono cosı` imperativi che il ragazzetto, istintivamente, si ritrasse, e ritorse la faccia e cerco` di liberarsi. Ma Letizia gli prese il mento nella mano, costrinse piu` dolcemente quel piccolo volto quasi impaurito, e lo rigiro`, e si chino` fino a sfiorarlo col suo. Ripetette, con voce piu` bassa, con un soffio di voce: – A nessuno! Dimmi che non lo dirai a nessuno!... Me lo prometti, Paolino? Senti, guardami! Guarda Letizia tua... Me lo prometti?... Il piccino balbetto`: – Sı`... sı`... Non lo dico a nessuno. Ora Letizia lo baciava forte sulla guancia. Egli le mormoro` sulla gelida gota: – E alla mamma tua? Neppure?... – No! – fece Letizia, come inorridita. – Vuoi dirlo a mamma! ... – No, no! – promise il piccolo. E si chino` e raccolse il quadrello che gli era sfuggito. Ora lo brandiva nella piccola mano inguantata. Ripetette, solenne: – A nessuno! Si incammino` a piccoli passi. A meta` della via la infantile sua curiosita` lo punse: si volse. Letizia moveva al ponte, dirittamente, e la sua figura nera si rilevava, con fine disegno, sul tramonto. Parve a un tratto ch’ella, soffermata, incerta, facesse per tornare addietro. Subito lo scolaretto riprese la sua strada verso Riva Casilina. Ma sul punto d’arrivare a un vico verso il quale s’indirizzava egli si fermo` ancora una volta, e torno` a guardare dalla parte del piazzale gia` lontano. Ora Letizia, immobile, in mezzo al gran ponte, contemplava

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DA L’IGNOTO (1920)

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il fiume dal parapetto. Il segno della sua testa liberata dallo scialle, del suo busto proteso, delle sue braccia, lungo le quali lo scialle ricascava e s’allargava a’ gomiti puntati sul parapetto, era preciso. Il fuoco del tramonto ella raggiungeva col capo eretto, immoto. Una dorata aureola s’effondeva attorno a quel capo e quasi lo penetrava e lo immaterializzava. Pareva che in quel rosso vapore esso a momenti fosse per dissolversi, mentre al vento lieve ed opposto una ciocca di capelli, a volta a volta, vi palpitava e, investito dallo stesso vento, un lembo dello scialle sbatteva i fili della sua frangia su quell’incendio lontano.

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III Due, tre volte, perdutamente Letizia s’era quasi sospinta dal parapetto sul fiume tacito e lento. Aveva chiuso gli occhi, s’era allungata sul largo parapetto col busto, col ventre, lasciando penzolare le gambe dentro del ponte; e con le braccia stese, irrigidite quasi sul vuoto, aveva aspettato che una forza misteriosa, invocata, implacabile, la sospingesse improvvisamente. Ma al senso pauroso del vuoto s’erano ritratte le sue braccia pian piano, gli occhi suoi s’erano pian piano aperti e subito rinserrati sull’acqua torbida e oscurata, e piu` rilassato e inerte era rimasto quel corpo senza volonta`, sul parapetto. Ora ella quasi temeva di spiccarsene, anzi le pareva che nel punto in cui fosse per scivolare a terra qualcosa dovesse risospingerla e precipitarla. Rimase prona sul balaustro: poi riaperse pianamente gli occhi e riguardo` il fiume, di sotto. Il Volturno trascorreva lento e silenzioso tra le quattro arcate di fabbrica imperatoria. L’acqua torva pareva, a tratti, stagnante, cosı` tardo era il suo cammino. Ma a quando a quando dei gorghi l’agitavano, e su per la giallastra sua superficie si rincorrevano pezzi di fradicio legno e batuffoli di paglia e di fieno. S’oscuravano di qua e di la` le rive. Piu` avanti, sotto il ponte ferroviario, al punto ove esso cominciava a far gomito, l’acqua, incorrotta, luceva come uno specchio. La donna interrogo` un’ultima volta il fiume. Ora ne saliva un alito d’umidita`, e dal liquido fangoso, che alle lor basi immani lambiva i pilastri quadrati degli archi, s’esprimeva quasi un fascino freddo. – Che morte!... – ella mormoro` E come, nell’atto in cui s’indugiava, le cupe acque la tentavano, l’attiravano ancora, un improvviso tremito la percorse tutta. Ritrovo`

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GLI SFREGI DI NAPOLI

a mala pena la forza di lasciarsi scivolare sul ponte, dal parapetto, e a questo addossarsi, quasi mancando. Confusamente le appariva, adesso, uno spettacolo nuovo: sulla destra l’Arcivescovado, e poi le case basse. E poi una via che procedendo lungo quelle case si restringeva e, nell’alto, ancora piu` in la`, sul cielo bianchiccio, la cupola della chiesa della Santella: in fondo, rispetto a lei, l’alto anfiteatro della Riviera Casilina il cui largo arco a un punto era terminato dalla fabbrica rozza e massiccia della polveriera. Le finestre di Riviera Casilina rattenevano ancora il lume del tramonto e se ne accendevano. Abbasso, quasi sull’argine del fiume, l’infame contrada Mazzamauriello infilava su di un sentiero invisibile le sue due o tre losche casucce a un solo piano. Con la bocca serrata, con le braccia penzoloni, voltando le spalle al tramonto, Letizia non distoglieva lo sguardo da quel gruppo di case. Di la`, su pel fiume, le pareva che le arrivasse una voce, un susurro, un appello. Fascinata, immobile, ella rimase lı`, ritta tra le ombre che scendevano rapidamente sul ponte. L’ora scocco` all’Arcivescovado. Letizia si volse attorno, percossa da quel suono. Era notte. S’era spento l’incendio del bosco, il cielo s’era chiuso, un velo plumbeo subitamente era sceso sulla Riviera Casilina e la nascondeva. Nell’ombra, alcune forme confuse passavano sullo spiazzo e si disperdevano. Allora ella mosse dal ponte verso il Corso Appio. Traverso` lo spiazzo con celere passo, tutta raccolta nello scialle, affrettandosi. E pure sul punto di penetrare nel Corso illuminato e popolato, per un momento ella si soffermo` e parve incerta. – Andiamo! – mormoro` a un tratto. – Volonta` di Dio... Rabbrividı`, come se avesse bestemmiato. Si tappo` la bocca con un lembo dello scialle, quasi per soffocarvi, nell’atto stesso che le pronunziava, le parole sacrileghe. Ma ora, davanti a lei, luminoso e romorose, il Corso Appio quasi la irrideva: alcune donne ridevano forte sulla soglia d’una bottega, un cuoiaio canticchiava presso alla sua, appoggiato allo stipite, e con un cicaleccio allegro, parlando di cose vane e giovanili, sbucavano da un palazzo tre o quattro fanciulle e passavano. ` volonta` di Dio!... – Sı`, sı`! – ella fece, disperatamente. – E Entro` nel Corso Appio e ando` avanti, risoluta.

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DA L’IGNOTO (1920)



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IV Procedeva, senza fermarsi, con la testa bassa. In piazza dei Giudici, ove metteva il primo tratto del Corso, da un globo enorme si diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d’una pioggerella fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano abbandonato la piazza; vi s’indugiavano ancora un gruppetto di soldati d’artiglieria, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni, e lo scemo di vico Cimino, un piccolo uomo di forme e di fisonomia scimmiesche, le cui membra piteciche ora s’aggrovigliavano al palo del lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti. Come Letizia passo` davanti all’Arco Mazzocchi una folla d’operaie del laboratorio pirotecnico ne uscı` con alte voci confuse, imprecanti alla pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, e trascorse verso Porta Napoli. Letizia si mescolo` a quella folla e ando` avanti ancora. Di tratto in tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare, altre strade. Presso Porta Napoli la comitiva non si componeva piu` che di tre di quelle donne, le quali a un tratto si misero a scappare, rincorrendosi, strillando, sollevando e raccogliendo le sottane, e presto scomparendo nel buio. Letizia s’arresto`. Si guardo` attorno, cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e sparı` anch’ella in un palazzetto a una delle cui finestre del primo piano penzolava, sbattuta dal vento, la tarlata insegna d’una locanda. Ascese la scala a tentoni. Non v’era lume; ma ella conosceva il numero dei gradini e il posto della porticina. A quella picchio` due volte, colla mano spiegata. – Viene... – fece di dentro una rauca voce maschile. S’aperse la porta e un fiotto di luce dilago` sul pianerottolo. L’uomo che l’aveva schiusa reggeva un lume nella destra e cercava di affisar bene la sconosciuta. Poi si trasse addietro per lasciarla passare. – Be’ – disse, dopo avere cautamente rinchiuso l’uscio. – In che vi devo servire? Levo` il lume fino al volto della donna e con l’altra mano fece riparo alla fiamma. Ma ora ella si liberava dallo scialle, lo raccoglieva sul braccio e gli si rivelava, immobile, ritta di faccia a lui, e muta, e tutta illuminata dalla fronte al petto. Allora l’uomo esclamo`:

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– Gue’! Letizia!... Ah, tu sei, dunque? E voltandosi a una porticina socchiusa, dietro alla quale borbottava una vecchia voce femminile, annunzio`: ` Letizia di Riva Casilina... Letiziella... Quella del furiere... – E Letizia si coperse la faccia. Cesso` il borbottio dietro l’uscio socchiuso. E la voce senile, mentre l’uomo riponeva il lume sulla mensa dalla quale s’era levato, rispose: – Buona sera... Ora vengo. ` Chiarina – disse l’uomo, e sedeva daccapo alla tavola. – E – Ha le gambe enfiate, con rispetto, e le unge con una pomata che si vende a Napoli. Ha un’emicrania da cavallo, per giunta... Addito` una seggiola. – Mettiti a sedere... Vuoi crescere? – Vi devo parlare – disse Letizia. – Be’... Dunque siedi. Che mi dici? E il furiere che fa? – M’ha lasciata. – Il furiere?... – e con la mano spiegata l’uomo percosse la tavola. – Possibile? Hai sentito, Chiarina?... – e si giro` sulla seggiola, e si volto` a parlare forte all’uscio socchiuso. – Dice che il furiere l’ha lasciata... – Vengo... – ripetette la voce. Don Placido, un tipaccio rossigno, quasi calvo, animalesco, allungo` la mano a un piatto colmo di stufato d’agnello e se ne reco` un pezzo ala bocca, strappandogli, co’ forti molari, fin le ultime cartilagini. Si verso` del vino. Sotto il lume, agguantata al collo della bottiglia, la sua mano tremava come per impeto di sangue pulsante: sul dosso vi rigurgitavano le vene enfiate, e le dita unte e vellose, terminate da unghie rose e piatte, lucevano del recente contatto della vivanda. Un alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un fiato di anime e di materie corrotte. Dal mensale insudiciato, chiazzato di larghe macchie d’unto e di vino, si sprigionava un lezzo disgustevole. – Sentite, don Placido... – disse Letizia subitamente, – Io non posso restare piu` a Capua. Capite, don Placido... Sono rovinata, e la rovina mia non la posso nascondere piu`... L’uomo la guardo` fisamente. Poi, con gli occhi piccoli e vivi percorrendolo tutto, s’indugio` a interrogare quel corpo palpitante e raccolto. Letizia arrossı`. Raduno` in grembo lo scialle e ve lo trattenne con le pallide mani spiegate.

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DA L’IGNOTO (1920)



– Ho capito – disse don Placido. E si gratto` il capo con l’indice della sinistra: poi con quello della destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levo` la testa, e parve che interrogasse il soffitto. – E a casa tua? – Sono fuggita. – Quando? – Ora. – Sei andata da lui? – Inutile. Sono venuta qui. – Parla piu` basso. Seguı` un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido modero` la fiamma del lume, si levo`, fece pesantemente due o tre passi nella stanzuccia e Letizia lo udı` borbottare: – Evviva il furiere!... E bravo!... Evviva!... All’improvviso le si pianto` di faccia, presso alla tavola. Le chiese bruscamente, brutalmente: – Be’?... E ora che vuoi fare?... La vita! Ella aperse le braccia e chino` la testa. Don Placido, dopo un poco, soggiunse: – E a Napoli ci andresti? – A Napoli?... – balbetto` Letizia. – Vi ho un amico. Ti raccomandero`... La citta` e` grande, vedrai... E qualche altra vi ha fatto fortuna... Lo interruppe un colpo di tosse che arrivava da un’altra camera la cui porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa. ` la bionda – disse, con una occhiata a quell’uscio. – E ` una di –E Caserta. Parte a momenti per Napoli e io l’accompagno alla stazione. La breve tossicina si fece udire un’altra volta, ma ora don Placido non vi bado`. – Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace allora... vedi... puoi dirti fortunata, vi andrete assieme... Con la bionda. Ora deciditi. Hai capito? Grande citta`, gran gente, gran rumore, gran vita. Mica questi sordomuti di Capua, angiolo mio... Tese l’orecchio. Pioveva ancora: il borbottio della grondaia era superato dal crepitare della pioggia che percoteva il cortile. – Se vuoi vedere la bionda, e` di la`, in cucina. Si chiacchierava, appunto, quando sei arrivata. E s’e` voluta nascondere: si vergogna. Be’, se vuoi vederla... Intanto io vado per un affare mio, fino

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

all’Annunziata. E parla pure con Chiarina: tra femmine vi intenderete meglio... A voce alta, mentre cercava il mantello e il cappello, annunzio`: – Vado fino all’Annunziata, Chiarı`... La voce rispose dall’oscurita`: – E il treno?... – Parte alle dieci... – E don Placido aperse la porta delle scale. – V’e` il tempo. Torno subito. Sulla soglia si volto` a Letizia: – La casa la conosci: accomodati pure. Aggiustati con Chiarina... Uscı`. La porta si richiuse e Letizia rimase sola. Si guardo` attorno, guardo` l’uscio piccolo dietro del quale ella indovinava donna Chiara, l’orribile vecchia, gigantesca come il marito, quasi calva, dall’occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di carne molle, e ondeggiante dal petto enorme e floscio sul ventre... Si levo` in piedi. S’era mossa quella porta. Ma era il gatto. Apparve sbadigliando un gatto grigiastro e avanzo`, lentamente. Vide Letizia: si fermo`, la guardo`, poi rincamminandosi, scomparve nella penombra. Letizia sospinse la porta della cucina. V La bionda era seduta a una tavola, presso il focolare. Poggiava le mani aperte e la faccia su qualcosa che pareva un fagotto. Un lieve soffio inclinava accanto a lei la fiammella d’un lume a olio piantato sulla tavola tra le bucce d’un’arancia. Letizia urlo`: – Marta!... Ma come? Oh, Dio! Dio! Quella che il furiere aveva presa dopo di lei, quella per la quale l’aveva lasciata! Marta, Marta, la` dentro! Nella casa di don Placido!... La bionda, come istupidita, la bocca schiusa, gli occhi incertamente affisati, allungava la testa nell’ombra. Poi congiunse le mani, come accordandole a una muta implorazione. E Letizia, che s’appressava, la udı` infine mormorare con voce quasi di pianto: – Tu sı` Letizia d’ ’a Riva Casilina... E a un tratto si sentı` afferrare le mani, se le sentı` avvincere ai polsi e piego`, e quasi s’abbandono` su quel corpo palpitante e un po’ molle da cui, nell’ombra afosa della stanzuccia, vaporava un alito tepido di gioventu` e di salute.

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DA L’IGNOTO (1920)



La bionda balbettava: – Mbe`, perdo`name, perdo`name!... Ora piangevano, piano, sedute vicino, cosı` vicino che i loro ginocchi si toccavano e la scarsa fiamma della lampa, di volta in volta investita e piegata dal soffio esterno, stentava a disegnare e a separare que’ due corpi quasi immoti...

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VI – Avanti, avanti! – urlava don Placido, nella notte, correndo lungo la via della stazione. – Ora ci verra` addosso tutta l’acqua del santissimo cielo! Ah, corpo di Cristo! Avanti!... L’ombra sua nera e veloce scivolava e fuggiva su’ muri. Le donne lo seguivano, tenendosi per mano, chiuse ne’ loro scialli pesanti, inciampando, di tratto in tratto, ove si faceva piu` fitta l’oscurita`. Cosı` passarono per via Gran Quartiere, poi davanti alla Villa Ferdinandea le cui statue impallidivano confusamente, poi davanti al teatro. Adesso arrivavano alla porta vecchia della citta`. Sotto l’androne si scaldavano a una grande fiammata di fascine due guardie di finanza, e quella di piantone canticchiava, con le mani in saccoccia, addossata a uno stipite. – Salute! – le grido` Don Placido, seguitando a correre. – Salute e bene! – grido` la guardia. Adesso le loro ombre s’inseguivano sul ponte delle fortificazioni: sotto gli stivaloni di don Placido l’acciottolato crepitava. Sui fossati, sulla vallata di Capua era sceso un velario oscuro. – Avanti! Siamo arrivati! – egli urlo` ancora. – Io vado pe’ biglietti. Prendo la terza! Passate per l’ultima porta a destra e aspettatemi sul marciapiedi... Bruscamente apparve la fabbrica della stazione. Letizia si volse. Tutto era scomparso nella notte, dietro di lei: la citta`, la campagna, i bastioni. Nessuna luce brillava quasi piu` in quel lontano. Tutto finiva. Allora stese le braccia verso Capua e singhiozzo` perdutamente: – Addio! Addio! Addio!... Poi si sentı` trascinare dalla bionda, che quasi la sollevava, e si ritrovo` sul marciapiedi, davanti al treno nero, interminabile. La macchina sbuffava. Un vento umido e freddo la percosse in faccia. Udı` confuse voci e a un tratto urlare: – In vettura! In vettura!

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Uno sportello si spalanco`. La bionda salı` per la prima, stese le braccia, afferro` Letizia e se la trasse dentro. Lo sportello si chiuse sbatacchiando. L’impeto del treno che s’avviava le getto` l’una addosso all’altra. Lo scompartimento era quasi deserto. Due fattori fumavano sul sedile opposto, e subito si misero a parlare di derrate, d’olio, di vino, a voce alta. La pioggia sferzava i vetri dei finestrini.

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VII – Arriviamo... – le mormoro` Marta, a un tratto. Per piu` d’un’ora, senza parlare, senza neppure guardarla, se l’era tenuta a fianco, stretta, avvinghiandola quasi, rinserrando la stretta a ogni scossone del treno. Ora le parlava sottovoce, rapidamente, quasi all’orecchio. – Ascolta... Napoli non la so, non ci sono mai stata. Dicono ch’e` una citta` grande, immensa, pericolosa, un inferno... M’ascolti?... Letizia assentı` con un moto del capo. Marta continuo`: – Ci ha perdute lo stesso uomo. Bene, non importa... Senti... Siamo come due sorelle, ci siamo conosciute da tanto tempo... Pensa cosı`, come penso io. E tu ora mi vuoi bene, e io ti voglio bene... Senti... E la voce s’inteneriva sempre piu`, maternamente, e tutte e due quelle donne palpitavano. I fattori seguitavano a parlare piu` basso. – Io non ti lascero` mai! – balbetto` ancora la bionda. E in quel patto cerco` le mani di Letizia e le strinse. – E tu giurami lo stesso! Tu non mi devi lasciare!... Ho paura di Napoli... Senti... Dimmi che m’aiuterai, che mi difenderai... Letizia, giuralo a Marta, a questa povera disgraziata!... Letizia rispose con un soffio di voce: – Sı`, sı`... giuro... Il treno entro` sotto la tettoia e passo` sugli scambi con un fragore assordante. I fattori si levarono e agguantarono le loro valigie. Una voce, due, tre urlarono nell’oscurita`: – Napoli! Napoli! Napoli!... Marta si butto` giu` e stese le braccia alla compagna. Si spalancarono in quel punto gli sportelli di tutte le vetture e vomitarono sul marciapiedi un’ondata di soldati. Il ventottesimo d’artiglieria, il reggimento del furiere, era partito con loro da Capua. Ora i primi ranghi

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DA L’IGNOTO (1920)



si formavano in fretta, sotto la tettoia, e confusamente s’udivano altre voci, e lampeggiavano altre armi laggiu` in coda al treno. Gli ufficiali gridavano i loro ordini e correvano qua e la` lungo il treno. – Vieni! – disse Marta, trascinando la compagna. Sorpassarono i cancelli, s’arrestarono per un momento, ignare, indecise, sotto le arcate dell’uscita sulla piazza. Era quasi la mezzanotte. La pioggia batteva sul selciato. Migliaia di lumi, alti, bassi, ora bianchicci, ora rossastri occhieggiavano nella vasta piazza e dalle vie circostanti, ove le case apparivano e sparivano in una nebbia nera che a volte pareva le dissolvesse. Le due donne, attonite, irresolute, scesero dal marciapiede. Ma quel fiume di soldati che le aveva rincorse fu sopra di loro d’un subito, e le sospinse, e le separo`. Passo` tutto il reggimento, quasi fuggendo, sotto la pioggia. Letizia fu ricacciata sotto i giardini, dalla parte del Vasto. Ella sbarro` nell’oscurita` i suoi grandi occhi azzurri pieni d’orrore. E urlo`: – Marta!... Marta! Nessuno le rispose. Letizia si sentı` mancare. S’addosso` a un fanale. Raccolse la voce e con uno sforzo supremo chiamo` ancora: – Marta!... Marta!... Marta!... Nessuno, nessuno... Ora ella era a fronte dell’ignoto, nella misteriosa notte del suo destino. Sola.

«Cocotte» I Erano le cinque ore del mattino. La grande lampada posta davanti alla statua di legno di sant’Ignazio ardeva nella cappella del carcere femminile di Santa Maria ad Agnone, ancora addormentato. Fra poco le recluse avrebbero udito la campana della sveglia e sarebbero scese a borbottare le solite preghiere nella penombra di quel tempietto freddo e malinconico, i cui quattro finestroni affacciano sul tortuoso vicolo afrodisiaco intitolato dallo stesso nome delle prigioni e frequentato da soldati e da male femmine.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

In quell’ora – l’ottobre era agli ultimi suoi giorni – il vicolo, affatto deserto, offriva a’ sorci o a qualche cagnuolo abbandonato e vagante la copiosa vettovaglia de’ suoi rifiuti e della sua spazzatura, ammonticchiati qua e la`. Due fanali a gas, dal muro di faccia alle carceri – il muro cieco e altissimo d’un monastero di clarisse – stendevano due braccia di ferro, una delle quali, spiccandosi di su la piccola porta antica del monastero, coronata da un festone marmorea e dallo stemma quattrocentesco d’una famiglia illustre, si puntava proprio rimpetto a uno dei finestroni della cappelletta e ne inquadrava la sagoma sulla interna e prospiciente parete della chiesuola, ove parte d’un vecchio quadro se ne illuminava anch’essa, vagamente. L’altro fanale, molto piu` lontano, stava sulla garitta della sentinella, addossata allo stesso muro claustrale lı` ove il vicolo cominciava a far gomito, e a qualche passo dalla porta delle prigioni. Il silenzio era alto, la notte fresca. La sentinella – un soldato di fanteria, che s’era posto il fucile ad armacollo – passeggiava con le mani in saccoccia, e zufolava. Talvolta, lasciandosi addietro per buon tratto la sua garitta, allungava il passo fino all’arco depresso e oscuro ove il vicolo sbucava, nell’alto, sulla deserta via de’ Santi Apostoli. Talvolta, soffermandosi, piantato sulle gambe allargate, il soldato interrogava lungamente, con gli occhi in su, quella fetta di cielo che le alte mura della prigione e quelle del monastero pareva che attingessero con le loro creste taglienti: un pezzo di cielo sereno, rischiarato come da un lume prossimo ed invisibile. Era imminente l’alba. Difatti, a poco a poco, comincio` a mancare sulla intera parete della chiesetta quel riverbero giallastro che il lume del fanale vi stampava. Si liberarono a mano a mano dall’ombra l’altare, le scranne in fila, le pareti coperte di vecchie tele e di quadretti votivi, il piccolo confessionale di cui lo sportello era rimasto schiuso, e uno scarabattolo a vetri, custodia d’un presepe addossato a uno de’ pilastri. Pareva come se da gran tempo quel luogo fosse rimasto abbandonato: vi avevano conquistato ogni angolo le ragnatele, la poca cura della suppellettile ve la lasciava coprirsi di polvere o di muffa, e l’umidita` esalava un tanfo di terriccio rimosso. Continuando la luce a mostrare quelle cose, la breve navata del tempio anch’ella se ne abbevero` a poco a poco tutta quanta. Si svelo`, dietro l’altare, la porticina della sagrestia, e l’altare medesimo, carico di frasche e di candelieri, si bagno` tutto del freddo chiarore mattinale: la tovaglia ad orlo ricamato che v’era stesa sopra vi sembrava appiccicata con

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DA L’IGNOTO (1920)



l’acqua. E come, per un vetro rotto d’uno de’ finestroni, penetrava la` dentro il vento a quando a quando e sibilava, qualche volta, davanti alla statua di santo Ignazio, la fiamma della lampada, investita da una folata piu` veemente, allora si inclinava e pareva che si volesse spegnere a un tratto. Era giorno, adesso. Le ore suonavano al vicino orologio dal palazzo della Vicaria, lente e chiare. Nel vicolo s’arresto` in quel momento il romore de’ passi della sentinella: il soldato contava que’ rintocchi della campana e aspettava il cambio. Difatti s’udirono altri passi frettolosi e pesanti accostarsi dal lontano e subitamente davanti alla garitta si posarono sul selciato, con un romore breve e ferreo, i fucili: una voce dava la consegna, nel silenzio: e la voce della sentinella rimossa le rispondeva piano, brevemente. Poi daccapo risuonarono i passi cadenzati, e s’allontanarono. D’improvviso la porticella della sagrestia s’aperse tutta quanta. A una a una entrarono di la` nella chiesa dodici suole della Carita` e sedettero a un banco, rimpetto all’altarino. L’ultima, una vecchietta, si chiuse la porta addietro e rimase in piedi, ritta, davanti alla mensola dell’altare. Non s’era udito romore e quelle donne erano come scivolate sul pavimento: dalle loro gonne molli e copiose non s’era partito alcun fruscio. Ora nella mezza luce, le cornette bianche s’allineavano, immobili. Un colpo di tosse ne scosse una, per qualche tratto. II La suora addossata all’altare si fece il segno della croce e disse: – Sorelle mie, questo in cui ci troviamo per ordine della nostra reverenda madre generale e` il carcere femminile detto di Santa Maria ad Agnone. Fino ad ora la cura delle sciagurate donne che sono qua dentro e` rimasta affidata ai Gesuiti. Ma vi sono tante necessita`, tante circostanze, non so come dire, per cui in una prigione femminile valgono meglio le donne che gli uomini. Insomma, s’e` creduto necessario di farci venire qui a regolare non dico meglio, perche´ i buoni padri Gesuiti lo hanno fatto assai bene per quindici anni, ma con affetto, con amore di sorelle, con tutte le cure di cui hanno bisogno, queste povere anime vissute nel peccato. S’interruppe. Il suo sguardo percorse la bianca file delle cornette e vi frugo` sotto, come ad interrogare le pallide facce che ombreggiavano, in parecchie delle quali sarebbe stato difficile leggere: erano

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

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volti da cui nulla traspariva per gli occhi, erano pupille immote, inespressive, abituate al riverbero della passivita` di anime apatiche, depresse dalla preghiera e dalla regola. – Ho ancora qualche cosa da dirvi – soggiunse la superiora. E mentre la chiesuola si rischiarava tutta quanta e di fuori gia` suonavano voci confuse nel vicolo, ella annunzio` con voce piu` alta e piu` lenta: – Non tutte voialtre rimarrete qui, in servizio. Vi restero` io con otto di voi. Basteremo. Subitamente fu picchiato forte all’uscio della chiesa. Di fuori, dal vasto cortile ove le recluse s’adunavano ogni giorno, una rauca voce femminile urlo`: – Monache! Monache! Ove siete?... La superiora addito` l’uscio alle compagne e ordino`: – Aprite. La porta s’aperse. Un fiotto di luce si riverso` dal cortile nella chiesa e ne illumino` le ultime scranne. Tre o quattro donne apparvero sul limitare dell’uscio e vi si arrestarono, irresolute. Una di esse con le mani in cintola, protese la testa arruffata. – Ma dove siete? – grido`. S’udiva, nel silenzio, il loro ansimare: come se avessero voluto arrivare per le prime alla porticella della chiesa quelle donne respiravano forte. E, fra tanto, per la scala dei dormitorii altre recluse scendevano di furia nel cortile, urlando, ridendo, schiamazzando. – Fuori, fuori! – strillo` una che sopraggiungeva. – Venite fuori, monache! Vi vogliamo vedere! Si fece largo tra le compagne, stese le braccia e torno` a gridare, in fondo alla chiesa: – Fuori! Fuori! Le fece eco un urlı`o assordante. – Fuori le monache! Il cortile s’era affollato. Cento braccia si levavano, cento bocche continuavano a urlare. Sul pozzo che non s’usava piu` e sulla cui bocca era stata posta una tavola, tre o quattro delle recluse erano saltate in piedi, per veder meglio. E a un tratto, nella folla, avanzando, le suore apparvero e si raccolsero in un silenzioso gruppo, di faccia al pozzo. La superiora balbetto`: – Figliuole... Gli urli copersero la sua voce. E si mescolarono a quello schia-

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DA L’IGNOTO (1920)



mazzo spaventevole le apostrofi piu` insultanti, le piu` feroci invettive, delle risate scroscianti, delle frasi impure e minacciose. Intanto la scala de’ dormitorii seguitava a rifornire il cortile: ora, piu` lentamente, scendevano le anziane, orribili megere, discinte, qualcuna scalza perfino, qualcuna appoggiata a un bastone. Vi fu un momento di silenzio. La fila delle suore si rinserrava. Strette l’una all’altra, pallide, palpitanti, gli occhi pieni dell’orrore della scena, esse affisavano sullo spettacolo insolito il loro sguardo impaurito. E s’udiva in quel silenzio un balbettio cadenzato, quasi un canto sommesso: una idiota sedeva al sommo della scala dei dormitorii e cullava sulle ginocchia un fantoccio di stracci la cui testa informe aveva incappucciata in una piccola cuffia bianca. Il fantoccio andava su e giu` in grembo all’idiota, ed ella, piegata su quel sudicio fagotto, seguitava a ninnarlo: – Oh, oh! Dormi, figlio... oh, oh!... – Taci! – le grido` una vecchia. – Finiscila!... Tutta la santa giornata il lamento di questa scena! – Insomma? – fece un’altra, rivolta alla superiora. – Tu non parli, eh, mamma grande? – Ve lo dico io perche´ non parla – esclamo` un’altra. – Questa santa donna... Scoppio` a ridere. E mosse incontro alla suora, minacciosa. III Era una delle piu` singolari di quelle sciagurate. Alta, bionda, vestita d’un camice roseo dalle maniche orlate d’un pizzo gialletto che s’era sciupato e sbrandellato, ella aveva dei braccialetti ’a polsi, e al collo nudo un filo d’oro da cui pendeva una medaglietta. Con la mano sinistra ora raccoglieva sul fianco la vestaglia, e appariva da quel lato, fino al polpaccio, la gamba calzata di seta nera; a’ piedi aveva scarpini bianchi, trapunti, d’un taglio elegante, e li trascinava su pel sudicio selciato del cortile. Certo era stata bella un tempo: ma adesso faceva paura. La sua voce rauca, alcoolizzata, d’un timbro maschile, superava tutte le altre. Un tremito spasmodico le percorreva di volta in volta le labbra, a’ cui umidi angoli si raccoglieva una lieve e lucente schiuma bavosa. De’ grandi occhi azzurrini nei quali palpitava quell’aura epilettica onde lo sguardo si esprime singolarmente tra il terrore e lo spasimo, entro gli orli arrossati delle palpebre ammiccavano di tanto in tanto, come offesi dalla troppa luce.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– Non parla poiche´ ha scorno! Noi le facciamo scorno, si capisce! Non e` avvezza, la santa donna! Fece un altro passo. E poso` la mano sulle braccia conserte della suora. Sporse il capo. L’affisava muta. – Ti secca, non e` vero? Hai ragione. Delle suore tra le omicide, le ladre, le male femmine!... Incrocio` le braccia anche lei. E a una a una, curiosamente, squadro` le altre monache rimaste mute anch’esse e immobili. Nessuna di loro sostenne quello sguardo sfacciato: le suore abbassarono gli occhi, rabbrividendo. – Dunque rimarrete con noi, non e` vero? – disse la bionda. – Onoratissime! – Rispondi! – urlo` un’altra alla superiora. – Rispondi a Cocotte! Allora la superiora rispose: – Sı`. Nove di noi. Le sceglierete voi stesse. – Come! – disse quella che chiamavano Cocotte. – Ma davvero? – La nostra madre generale vi accorda questa facolta`. – Voialtre! La sentite? Abbiamo il diritto di scegliere! E Cocotte si volto` addietro a chiamo` le compagne con la mano. Cento voci urlarono: – Alla scelta! Alla scelta! L’orribile turba frenetica si riverso` sulle suore e le circondo`, le agguanto`, se le contese. Proruppe un assordante vocio. – Io voglio quella! – Io questa! – Io quest’altra! – La bruna! – La grassa! – Quella piu` modesta! – Di qua, di qua! Da questa parte! – Silenzio, silenzio! La vecchia vuol parlare! – Ascoltate!... – Un momento! Bisogna contare le prescelte! – disse una dal viso sconciamente butterato. – Devono essere nove, con la vecchia. Sotto il sole, davanti al pozzo, la fila delle suore aspettava. Ora la butterata, con l’indice teso, s’era messa a contare. – Una, due, tre, quattro, cinque e sei... – Otto devono essere le giovani – la interruppe Cocotte. – E ne manca una...

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DA L’IGNOTO (1920)



Lievemente una mano le sfioro` il gomito. Una voce le mormoro`: – Prenda me... Cocotte si volse. La suora che le aveva parlato ora chinava la testa: le sue braccia, nelle larghe maniche chiuse a’ polsi, pendevano come abbandonate. Un tremito impercettibile le correva lungo le mani bianche e nervose, che a un tratto s’afferrarono alla molle sottana azzurrina, convulsamente, e se ne empirono, come se volessero strapparla... Gli occhi arrossati della vecchia peccatrice cercarono di spiare tra quel soggolo e quella cornetta. Gli urli ricominciarono. – Alla scelta! Alla scelta! Disse Cocotte: – Tocca a me. Scelgo io. Stese la mano: prese il mento della suora tra il pollice e l’indice e lentamente le sollevo` la testa. Un viso quasi ancora infantile, una pallida faccia di giovinetta si coperse subitamente di luce. Due grandi occhi cilestrini s’affisarono sulla reclusa, ansiosi e sbigottiti. ` carina!... E come ti chiamano? – Ma guarda! – fece Cocotte. – E La suora balbetto`: – Suora Vittoria. Cocotte le mise la mano sulla spalla, si volse alle compagne e annunzio`: – Io scelgo questa. IV A poco a poco il cortile si era vuotato. Ora un’improvvisa calura sciroccale umida e greve occupava l’aria. Il sole scottava. In quello spiazzato irregolare, rinserrato da muri grigi, alti e interrotti da linee non simmetriche di finestre e di poggiuoli, la luce pioveva come in un pozzo e vi raccoglieva pesantemente. A uno de’ poggiuoli era seduta una reclusa, incinta, e rammendava un panno bianco che le si distendeva sul ventre rotondo e gonfio. Guardava abbasso, di volta in volta, e poi levava un lembo del panno per passarlo e ripassarlo sulla fronte sudata. Due altre donne, affacciate alla finestra accanto, chiacchieravano, e una fumava una sigaretta e sputava continuamente sotto, su un mucchio di calcinacci. E passavano e ripassavano dietro alle altre finestre altre recluse, e attraversavano corridoi e dormitorii, dai quali usciva un confuso vocio, uno strepito di voci discordi e di

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

risate, un fracasso di porte e di vetrate sbattute. Nella infermeria, i cui quattro poggiuoli stampavano sul bianco muro rivolto a mezzodı` il vivace colore de’ loro stipiti dipinti di verde, una suora gia` era sopraggiunta e apriva le persiane, sbatacchiandole sul cortile. Accanto, vestita d’un camice grigiastro e tutta raccolta sopra uno sgabelletto, a un cantone d’un altro poggiuolo, una malata infilava alla gamba scarna e nuda una calza, e si voltava a quel romore. Improvvisamente la campanella del refettorio tintinno`. Le tre porte del refettorio s’apersero, giu` a pian terreno, sotto gli archi che da quel lato ricorrevano davanti a un breve peristilio. Erano le otto del mattino e a quell’ora le recluse scendevano a sorbire il caffe`. S’udı` subito la` dentro un romore di panche trascinate sul pavimento, s’udirono cozzare le chicchere e a un tratto, mentre si faceva un silenzio profondo, una voce lenta e nasale giunse di la` fino al cortile. – Figliuole, un’altra giornata della nostra vita principia. Ringraziamo la santa Vergine Maria che ci ha concesso di vivere quest’altra giornata, e promettiamole di averla presente in tutte le nostre azioni. Un’avemaria secondo la intenzione di ciascuna di voi. Seguı` un breve mormorio come di preghiere recitate sommessamente. Poi ricominciarono lo strepito e il vocio. – Hai sentito? – fece Cocotte a una spilungona che si trascinava dietro una seggiola in cortile e vi cercava un posto all’ombra. – Ci raccomandano alla santa Vergine. I Gesuiti ci raccomandavano a quel bravo Eterno Padre, ti ricordi? Levo` il braccio e punto` al refettorio la mano spiegata. – Idiote! – urlo`. E subito dette in una risata folle, tenendosi i fianchi, battendo i piedi a terra, scotendo i pugni stretti. L’altra aveva trovata l’ombra e s’era seduta. Aveva cavato un coltellino e s’era messa a sbucciare un’arancia. – Levati dal sole – ammonı`. E una voce, da una finestra, ripetette, forte: – Cocotte, levati dal sole! – Ieri il Padre Eterno, oggi la santa Vergine! – strillo` Cocotte. – Napoli! Roma! Firenze! Si cambia! Ora s’accendeva e s’agitava, sorpresa da que’ suoi vapori convulsivi per cui si cominciava a mano a mano a scolorire nel viso, a tremare, a balbettare parole senza senso. Fece ancora qualche passo verso gli archi del peristilio e a un punto si soffermo`, piegandosi quasi, allungando il collo, spiando...

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DA L’IGNOTO (1920)



– La piccola!... – mormoro`. Suora Vittoria appariva sotto uno di quelli archi. Allora l’epilettica le si avvicino`, pian piano, con un sorriso ebete. ` – Badi! – fece alla suora quella dell’arancia, e si levo`. – Badi! E malata!... Suora Vittoria stese la mano, come per difendersi. Cocotte glie l’afferro` a volo e la strinse forte e la tenne fra le sue, borbottando. Vi fu un silenzio pauroso. Adesso l’epilettica, estatica, la bocca spalancata, affisava la suora. E sul suo volto inquieto, impallidito improvvisamente, e negli occhi suoi stralunati cresceva un terrore subitaneo e angoscioso. Le sue labbra si sforzavano di articolar parole che vi s’interrompevano confusamente e vi morivano tra un suono gutturale. Poi, lentamente, le sue mani si rilassarono. Il balbettio scemo`, s’udı` appena. Ed ella si ritrasse, tutta raccolta sopra se stessa, piegata, in un atteggiamento di bestia. Mise un alto strido, d’un subito, e barcollo`. – Scendi, Rita! – grido` la spilungona a una finestra. – Porta un cuscino! Accorreva con la bocca ancor piena. – Qui! Qui! Voialtre! Sopraggiungevano le recluse, dal refettorio. Cocotte era caduta sul selciato, con un tonfo sordo. E come la suora, in quel punto, le aveva profferto le braccia, l’epilettica le si era avvinghiata a’ fianchi, se l’era trascinata addosso e se la premeva sul petto ansante. Al sole ardente che lo investiva quel gruppo di membra s’aggrovigliava e sobbalzava. Le braccia di Cocotte, nude fino alla scapola, ora percotevano l’aria, i suoi denti stridevano, ed ella mugolava come un bruto ferito. – Lasciala! – grido` la butterata alla suora. – Scostati!... Si chino`, l’afferro` per la vita e tento` di svellerla da quelle braccia che l’avevano riafferrata, irrigidite e tenaci. – Lasciala! Cocotte, sfinita, ricadde di peso e resto` immota. La suora le passo` una mano sotto il capo, si piego`, poso` la sua guancia su quella faccia stravolta e bruttata di sozza bava sanguigna. La butterata, ginocchioni, cercava di liberarla e le urlava, faccia a faccia: – Ma sei pazza?... Ma bada!... Ricomincera`!... Allora la piccola suora balbetto`, soffocata da’ singhiozzi: – Mia madre... Mia madre...

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Quella delle ciliege

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I Stesa supina sul piccolo divanetto della sala terrena dell’Ospedale degl’Incurabili, lı` ove si fanno le immediate medicature a’ feriti che vi capitano di tanto in tanto da’ rioni popolani di Napoli, una giovane donna ripigliava i sensi a mano a mano. Erano le dieci ore di una magnifica sera di primavera. La lampadina elettrica, che la suora di guardia aveva incappucciata con un pezzo di carta rosea, bagnava il divanetto e quella donna di un dolce lume colorito, diffuso e uguale. In qua, presso a una tavola sulla quale era squadernato il registro per le Ricezioni notturne, il medico di servizio preparava, sbadigliando, le bende e l’ovatta. Quando ebbe tutto allestito per la medicatura, sedette alla tavola, si trasse davanti il calamaio e il registro, sbadiglio` ancora una volta e accese un’altra lampadina, per vederci meglio. – Dunque? – disse, voltandosi. – Voialtri, fatevi avanti. Due guardie di pubblica sicurezza uscirono dalla penombra e si posero di faccia al medico. Il brigadiere saluto` militarmente. – II fatto? – disse il dottore. – Vico Astuti, sezione Porto. – Scusi, brigadiere, – corresse l’altra guardia – sezione Mercato. Il medico scosse la testa, nervoso. – Vi ho chiesto del fatto, non del luogo. Come e` andato? Spicciatevi. – Il fatto del ferimento? – disse il brigadiere. – Ecco. Io e la guardia scelta Cosentino, qui presente, passavamo pel vico Astuti, verso le nove e un quarto. Costei urlava, in mezzo a certe femmine. Ci siamo avvicinati al gruppetto. «Be’?» dico «di che si tratta?» Dice una di quelle femmine: «Brigadiere, portatela all’ospedale: l’hanno sfregiata e perde sangue». E cosı` l’abbiamo portata qui, in vettura... Il dottore s’era levato e s’avvicinava al divanetto. – Dove ti hanno ferita, eh, bella bimba? La donna, che premeva sulla guancia destra una pezzuola la quale s’era tutta arrossata, ne la disgı´unse pian piano. Apparve la guancia sanguinante. Ella strinse i denti, con un brivido, e torno` a chiuder gli occhi. – Rasoio: – mormorava il medico, reclinato sulla donna – colpo

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DA L’IGNOTO (1920)



scorrente dalla tempia all’angolo mascellare inferiore. Ferita abbastanza profonda. Aspetta... Anche qui? Anche al braccio? Gli agenti s’accostarono per guardare. – Ferita anche al braccio! – esclamo` il brigadiere. – Era per questo che mi sentivo scorrere il sangue nella manica, quando l’ho afferrata pel braccio! Vuol dire che ha parato un altro colpo e ha preso anche quello. – Ah, Signore Iddio! – sospiro` la suora. – Come ti chiami? – chiese il dottore. La donna balbetto`: – Sofia Ercolano. – Soprannominata la rossa – disse il brigadiere. – E lo vuoi dire chi e` stato? Attraverso alla pezzuola che le nascondeva quasi tutta la faccia, la rossa mormoro`: – Non lo so... Non l’ho visto... – Sangue d’un cane! – esclamo` la guardia Cosentino. – Ma senti ` stato uno se non fanno tutte cosı`! «Non lo so! Non lo conosco! E sbaglio!...» Ah, brutte bagasce!... – Basta! – disse il dottore. – Ma Cristo! – mormoro` il brigadiere alla guardia. – Vuoi star zitto? Non vedi che c’e` la suora madre? Soggiunse, levando la mano spiegata al chepı`: – Possiamo andare? Senza badargli il chirurgo si volse alla monaca. – La catinella. La rossa sgrano` gli occhi spaventata, e tento` di rizzarsi. – No! No!... Che mi volete fare?... – Pazienza, bella mia. Poca roba. Ce la caveremo in cinque minuti. Rimbocco` fino a’ gomiti le maniche del lungo camice grigiastro e si mise a frugare tra’ suoi ferri. Intanto, piegato sulla cassetta ov’erano riposti, senza nemmeno voltarsi, diceva alle guardie: – Voialtri andatevene, pel momento. Poi vi chı´amero`. – Andiamocene – disse il Guglielmi a Cosentino. Nel corridoio incontrarono la suora che portava la catinella. Il brigadiere le domando`: – Scusi, resta qui la rossa? – Ma s’intende – disse la suora. S’udı` la voce dell’Ercolano, alta, squillante:

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– No! No!... Ah, bella Vergine!... Ah, Madonna del Carmine!... Ora, nello spazioso cortile tutto inondato dal chiaro lume della luna, le guardie, stanche, s’avviavano al largo sedile di marmo su cui, presso alla scala scoperta e marmorea, un gigantesco eucaliptus spandeva un’ombra nerastra. Sedettero. Il brigadiere accese un sigaro e lancio` alla fresca e pura aria notturna una copiosa boccata di fumo. Risuono`, ancora, piu` cupo, un urlo della rossa. Si rifece il silenzio. – Guardi che luna! – mormoro` Cosentino, levando gli occhi in alto. – Luna piena – disse il brigadiere, beatamente. – Pare giorno. Dopo un po’, Cosentino disse: – Ha un mezzo sigaro, per caso? II Nella Sala Ramaglia, al buon sole che v’entrava pe’ larghi finestroni, le ricoverate nell’ospedale chiacchieravano. Delle frasi allegre correvano di letto in letto fino in fondo allo stanzone, ove, presso alla bella porta di marmo e accanto a una tavola coperta da un tappeto verdognolo, una suora preparava filacce. Seduto alla medesima tavola l’impiegato delle entrate ricopiava in un quaderno le prescrizioni farmaceutiche. Era l’ora della visita. I parenti delle ricoverate arrivavano a gruppi, continuamente, e si sparpagliavano intorno a’ letti e subito vi si andavano a sedere accapo o nel corsello tra muro e letto, o rimanevano davanti ad essi, impiedi, con l’aria triste e meravigliata delle persone di buona salute che si trovano al cospetto d’un qualche loro caro diventato la` dentro cosı` pallido, cosı` triste, cosı` sfinito! Laggiu`, verso gli ultimi letti, una giovane contadina itterica baciucchiava il figliuolo che le avevano portato dal villaggio, un marmocchietto bianco e roseo il cui vivo incarnato dava maggior rilievo all’orribile color giallastro della madre. Un altro figliuoletto di lei s’era arrampicato sul letto e la` dove la coltre si alzava ad angolo sulle ginocchia della mamma egli si piegava, e abbracciava ridendo quelle ginocchia nascoste e le baciucchiava. La suora di guardia sospese la sua bisogna e mormoro` all’impiegato: – Guardi che bella scenetta per un pittore! – Idroclorato di morfina – fece l’impiegato, con l’indice della

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DA L’IGNOTO (1920)



sinistra puntato sul foglio dal quale ricopiava. – Ovatta pacchi nove... Diceva, suora?... Gia`: difatti. Scena per un pittore. C’e` la visita, oggi? ` giovedı`. – Certo. E – Non ci avevo badato. Rimasero muti per un pezzo, guardando a uno a uno i nuovi venuti dei quali qualcuno, capitato lı` per la prima volta, cercava il letto che gli avevano indicato. – Quella lı` non ha proprio nessuno che la venga a trovare – osservo` la suora, a un tratto. – Chi? – L’ottantuno. Laggiu`. – La rossa? E chi vuole che la venga a trovare? Ecco... se proprio ci volessero venire tutti quelli che la conoscono... Avremmo qui un reggimento, suora!... – Davvero? E perche´? – Perche´?... Perche´ queste cose lei non le sa. Sono piccole miserie della vita, ecco. Quella signorina e` un po’... Come devo dire? Un po’ la signorina omnibus. La suora arrossı` e si levo`. Minacciava l’impiegato, con l’indice teso. – Ah, quella linguaccia! – Gia`, gia`: ha ragione – disse quello, e si rimise a ricopiare. – Ovatta pacchi nove, garza tre, bende sette... La suora mosse dirittamente al lettuccio della Ercolano, che pareva assopita. Contemplo` a lungo quel volto ancora pallido, segnato dalla tempia all’angolo della bocca dalla ferita recente, che ora s’andava rimarginando. E come l’Ercolano lasciava penzolare fuori del letto un braccio ella glie lo sollevo`, dolcemente, e lo ripose sulle coltri. La rossa aperse gli occhi e sorrise. – Quel povero braccio! – disse la suora. – Il braccio malato! E lei se lo lascia cascar giu` fuori dal letto! ` guarito. – E – Ah, sı`? Come andiamo dunque? Bene? – Bene, sı`, sı`. E domani me ne voglio andare. Ecco gia` undici giorni che son qui. Ci perdo la salute, suora! Peggio d’un carcere! – Ma dove vuole andare? Parenti ne ha lei? – Non ho alcuno – rispose l’Ercolano, un po’ triste, un po’ impazientita. S’era messa a sedere in mezzo al letto e le sue mani esangui e

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

nervose tormentavano le lenzuola. Il suo sguardo errava, senza volonta`. E su’ letti in fila, sul viavai della gente esso passava come quello, gia` abituato e senza curiosita`, delle vecchie clientele dell’ospedale. A un momento, piu` a lungo, s’arresto` sulla cappelletta che veniva fuori da un angolo dello stanzone, nascosta da pesanti cortine a fiorami. La suora immagino` che pregasse. Si intenerı`. Stese la mano, dopo un poco, e lievemente glie la poso` sulla spalla. – A che pensa? – Penso – mormoro` l’Ercolano – al sogno che ho fatto stanotte. Ho sognato delle ciliege. E mi pareva di averne pieno il grembiale e di mangiarne tante, tante!... – Ciliege? – Le adoro. S’era fatta lieta. Si dimenticava. – Tante volte, quando mi cercano, chiedono di quella delle ciliege... ` il tempo loro – disse la suora, arrossendo. – Domani glie ne –E faccio avere. – Domani me ne vado. – Ma no! – esclamo` l’altra, scotendo il capo. – Non voglio che se ne vada cosı` presto! Ancora non siamo in gamba, figliuola! E le carezzo` i capelli, col suo solito atto materno che le ingraziava le ricoverate piu` difficili. Lentamente l’Ercolano si riaddosso` ai cuscini e vi affondo` il capo. Sulla sua pallida faccia passo` un’ombra di tedio e di stanchezza. – Dunque si resta intese – disse la suora. – Domani non si va via. E le portero` le ciliege, domani. La rossa aveva chiuso gli occhi. Pareva assopita. La suora si chino` sopra di lei e le mormoro`: – Arrivederci, non e` vero? – Arrivederci... – balbetto` la convalescente. III A poco a poco il sole risaliva su per le coltri del letto. Una chiazza ancor abbagliante dilagava sulla bianca parete, a capo; ancora gli origlieri se ne bagnavano e, come un casco dorato, lı`, copiosa e lucida, la capigliatura dell’Ercolano accoglieva riflessi quasi metal-

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DA L’IGNOTO (1920)



lici. Le coltri estive disegnavano una sagoma voluttuosa, un ricco e immoto seno giovanile. Era terminata la visita. Dei ritardatari s’indugiavano presso a’ letti, impiedi, con le mani ancora poggiate sulle spalliere delle seggiole dalle quali s’erano levati e dove pareva che stessero lı` lı` per rimettersi a sedere come per tornare a discorrere coi loro malati. Un giovanotto piccolo, bruno, col cappello di feltro molle su gli occhi, ronzava da un pezzo attorno al letto della rossa. Ed era adesso cosı` intento a contemplare l’Ercolano, cosı` conquistato da quella dolce immobilita` sopita, che non s’accorse null’affatto di due altri borghesi che gli stavano alle costole e spiavano ogni atto di lui. A un tratto si decise. Fece due passi verso il letto e caccio` la mano in saccoccia. – Fermo! – urlo` uno dei borghesi, ch’era il brigadiere Guglielmi. E gli fu addosso e la abbranco` pel colletto. La guardia Cosentino gli afferrava le braccia, di fianco. – Che vuoi fare? Un’altra rasoiata? Fermo, corpo di Dio!... L’uomo, agguantato cosı` d’un subito, sulle prime non aveva opposta alcuna resistenza. Ma ora cercava di divincolarsi. – Fermo! – gridava il Guglielmi. Cosentino gridava anche lui, voltato alla porta: – Qua, qua! Custodi! E mentre di laggiu`, dal fondo della sala, qualche inserviente accorreva e s’udiva gridare qua e la` anche da’ letti, la rossa si sveglio`, di soprassalto. Ora quel giovanotto le stava quasi di faccia. Lo riconobbe. Gli era cascato il cappello, a pie` del letto. Mise un grido rauco: – Tu! Tu!... Rafe`le!... – Cuccia! – le fece il Guglielmi. Cosentino le gridava: – Sorcio in trappola! Ora ce lo dira` lui chi e` stato che t’ha sfregiata! Lo sconosciuto mormorava, perdutamente: – Io... sı`... e` vero... Ma protesa dal letto, l’Ercolano urlava, con le braccia stese: – No! No!... Non e` stato lui!... – Va bene! – rise il brigadiere. – E ti credo, va! Parola d’onore. Vi metterete d’accordo davanti al giudice!... Cosentino si frugava, cercando le manette, e canticchiava:

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

E ll’ ammore e` na catena, nun se po` cchiu` scatena`!...

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– Perquisiscilo – disse il Guglielmi. L’uomo, pallido come un morto, si lascio` fare. – Ha le saccoccie piene di ciliege – disse Cosentino. Ne getto` sul letto due schiocche. E alla rossa, che mordeva gli origlieri e si torceva tra le coltri, grido` ridendo: – Toh, rossa! Le ciliege! E fattene buccole!...

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DA POESIE (1927)

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Da Sunette antiche (1884) La serenata 1

A li ffeneste de la Vecaria saglie, ogne ssera, all’u`nnece sunate, cu panduline e chitarre scurdate, la santanotte de li mammammia.2 Manco n’anema passa pe la via; ma, certo, arreto de li cancellate, sente sti suone e sti vvoce abbrucate3 lu malo sbirro de la pulezia... «Che sciorta nera a cchiagnere peccate! ma quante ancora chiagneno pe tte, quanta figlie de mamma ammanettate! Angelare`, mpo’ mpa’! Fatte vede´!...» Ah! Ca vurria spezza` sti fferriate!... E lu sbruffea la stesa:4 – «Angelare`ee!...»5 1

«Carcere posto nell’antico Castel Capuano, dove poi furono trasportati i tribunali (“la corte del vicario”)» (Nota di B. Croce). 2 La buonanotte dei malviventi. 3 Arrochite. 4 E lo sbeffeggia la cadenza strascicata della canzone. 5 «Sanno tutti per le bocche dei monellucci e degli sbarazzini il ritornello della prima terzina; ma il fatto non sanno che e` una vendetta assai strana. Angelare` fu un Angelo Rega, sbirro, e perseguito` la piccola malavita di due quartieri infimi napoletani. Arrestato lui, mi pare, per fatti sconci di donnacce e ruberie in cui si trovo` impegolato, fu messo in carcere

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Minacce – Sentite, mia signo’, vuie pe dispietto passate spisso spisso pe sta via, e ghiusto nnanze a la puteca6 mia facite ’o sentimento derimpetto!

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Embe`, che fa? P’ammore o gelosia mo nun se sceta cchiu` stu core mpietto... Vuie ve spassate cu nu don pippetto? E i’ so’ lu ddio de la sciampagneria! Ma... siente, mia signo’... Sa’ che t’aviso? Sta pazziella7 dura tropp’ assaie; nun passa` cchiu`, si vuo’ fa buono... e’ ntiso?8 Ca po’, quanno succedeno li guaie, quanno t’avraggio fatto nu straviso,9 tanno surtanto te n’addunarraie.10

Sfregio11 Ha tagliata la Gennareniello che rasulata!13 mo proprio e`

faccia a Peppenella de la Sanita`;12 Mo la puverella, stata a farse mmedeca`.

alla Vicaria. Ne seppero quei tali sbarazzini perseguitati; e sotto alla finestra sua, passando con chitarre e mandolini come per andare a svegliare le amanti, intonarono un ritornello, il quale colpı` il carcerato peggio d’un ceffone. Dicesi che, per averlo parecchie volte dovuto sentire, egli ne impazzı`. Certo, il ritornello non viene da nessuna leggenda; un fatto c’e` dal quale deriva» (Nota di B. Croce). 6 Bottega. 7 Gioco. 8 Non passar piu` se vuoi far bene... Hai capito? 9 Sfregio. 10 Allora solo te ne accorgerai. 11 « ‘Sfregio’ e` a Napoli la vendetta degli innamorati gelosi, che con colpi di rasoio o di altra arma da taglio deturpano i volti delle loro donne» (Nota di B. Croce). 12 «Regione di Napoli sottoposta alla collina di Capodimonte, detta cosı` dalla chiesa e convento di S. Maria della Sanita`. Gli abitanti di quella regione si chiamano ancora popolarmente “d’ ’o monte”, e hanno fama di rissosi e camorristi» (Nota di B. Croce). 13 Che rasoiata!

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DA POESIE (1927)



Po’ ll’hanno misa ’int’ a na carruzzella, e` ghiuta a ll’ Ispezzione a dichiara`, e ’o dellicato,14 don Ciccio Pacella, ll’ ha ditto: – Iammo! Di’ la verita`. Ch’ e` stato, nu rasulo, nu curtiello? Giura primma, lla` sta nu crucefisso (e s’ ha tuccato mpont’ a lu cappiello).

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Di’, nun t’ ammenacciava spisso spisso? – Chi? – ha rispuost’essa. – Chi? Gennareniello! – No!... V’ ’o giuro, signo’! Nun e` stat’ isso!

Da Voce luntane (1888)

’O vico d’ ’e suspire ’A cchiu` meglia farenara15 sta ’int’ ’o vico ’e Ppaparelle,16 addo` fanno ’e farenelle17 tutte ’e capesucieta`.18 Comm’ ’a gnostia19 tene ll’ uocchie e se chiamma ’onna Rusina, nfarenata ’int’ ’a farina d’ ’a cchiu` fina qualita`. Dint’ ’o stesso vecariello, 14

Il delegato di P.S. La piu` bella farinaia, venditrice di farina. 16 ` un vicolo nel quartiere del Pendino, detto cosı` perche´ sulla fine del secolo XVI una «E Luisa Paparo vi fondo` un conservatorio per fanciulle povere. Cfr. Celano, Notizie della Citta` di Napoli, ed. Chiarini, III, 208, e Capasso in Arch. stor. nap., XIV, 745-6» (Nota di B. Croce). 17 I cascamorti. 18 «Il capo-societa` e`, nella societa` della camorra, il camorrista capo di ciascun quartiere. Cfr. A. De Blasio, Usi e costumi dei camorristi, Napoli, 1897, pagg. 4-5» (Nota di B. Croce). 19 Inchiostro. 15

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

facce fronte20 ’a farenara, Peppenella ’a gravunara21 guarda ’e giuvene passa`. Chella rire e chesta guarda, chesta guarda e chella rire, e ne vo´tteno suspire22 tutte ’e capesucieta`!...

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Da ’O fu´nneco verde (1886) ’O fu´nneco23 I. Chisto e` ’o Fu`nneco verde abbascio Puorto, addo` se dice ca vonno allarga`:24 e allargassero, sı`, nun hanno tuorto, ca cca` nun se po’ manco risciata`!25 Dint’ a stu vico ntruppecoso e stuorto26 manco lu sole se ce po’ mpezza`,27 e addimannate: uno sulo c’e` muorto pe lu culera de duie anne fa!28 Ma sta disgrazzia – sı`, pe nu mumento, vuie ce trasite – nun ve pare overa: 20

Di rimpetto. La carbonara, la venditrice di carbone. 22 E ne gettano sospiri. 23 « ‘ ’O Fu´nneco verde’ era un vicolaccio al principio della strada di Porto, ora distrutto nei lavori del risanamento. Molti vicoli in prossimita` del porto si dicevano fondachi per essere stati un tempo depositi di mercanzie. Cfr. Summonte, Historia della citta` di Napoli, Napoli, 1675, I, 242» (Nota di B. Croce). 24 «Allusione ai lavori del risanamento edilizio, che allora (1886) si stavano per iniziare» (Nota di B. Croce). 25 Respirare. 26 Vicolo malagevole e storto. 27 Ci puo` penetrare. 28 «L’epidemia colerica, che infierı` in Napoli nel 1884» (Nota di B. Croce). 21

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DA POESIE (1927)



so’ muorte vinte? Ne so’ nate ciento. E sta gente nzevata e strellazzera29 cresce sempe, e mo so’ mille e treciento. ` na scarrafunera.30 Nun e` nu vico. E

II.

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E quanno dint’ ’o forte dell’esta`31 dorme la gente e dormeno li ccase, dint’ ’a cuntrora,32 nun se sente n’a, nisciuno vide ascı`, nisciuno trase. Gente ve pare ca nun ce ne sta; 33 ma che puzza! Appilateve lu nase!... cierti vvote ve saglie a vummeca` sulo vedenno chilli panne spase...34 Na funtanella d’acqua d’ ’o Serino,35 dint’ ’a n’angolo, a ll’ombra, chiacchiarea, e ghienghe36 sempre nu catillo chino... E po’?... Nu muntunciello de menesta, li scarde verde de na scafarea,37 e na gatta affacciata a na fenesta.

29 30 31 32 33 34 35 36 37

Unta e chiassosa. Un luogo pieno di scarafaggi. In piena estate. L’ora della siesta. Turatevi il naso!... Panni stesi. «Dell’acquedotto del Serino allora (1885) di recente inaugurato» (Nota di B. Croce). Riempie. Nu... scafarea: Un mucchietto di verdura, i cocci verdi di un recipiente di terracotta.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

’O guaio Peppina e Lucia Ajello, mamma e figlia, assettate vicino ’o ffuoco. Peppina s’e` addubbecchiata.38 Voce da la strata:

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– Arresta! Arresta!... Ferma!... – Uh, mamma mia! che sarra`?... Vuie sentite?... Che sarra`? Scetateve!... – Farranno... pe... pazzia... – Arresta! Arresta! – Vuie sentite, oi ma’? – Secutano a quaccuno mmiez’ ’a via... Iamm’ a vede´... – No... Che n’avimma fa’? ... Bene mio! Sta saglienno ’a pulezzia! Giesu`, ch’ e` stato?!... Oi ma’!... Ma’!... Ascite cca`! – Ch’e` stato? – Siete voi Giuseppa Ajello? – Sissignore, signo’... – Ci avete un figlio? – Nu figlio... sissignore... Peppeniello... – Ha avuto quattro colpi di cortello... – Madonna!... – E ’a chi?... – Da un certo Ciro Giglio. – Figlio mio!... – Frate mio!... – Figlio mio bello!

L’appuntamento p’ ’o dichiaramento39 – – – –

Vuie site don Errico Benevento? A servirve. – ’O nepote ’e donna Rosa? Giusto. – Putite ascı` pe nu mumento? E pecche´? – V’ aggia dicere na cosa...

– Fora? E pecche´, cca` dinto nun ce sento? – Me parite na zita cuntignosa!40 ` pe chill’ appuntamento... Nun capite?... E – Ah! Be’, scusate... – Io so’ Funtanarosa. 38

Appisolata. «Il ‘dichiaramento’ e` il duello dei camorristi. Cfr. De Blasio, Usi e costumi dei camorristi, Napoli, 1897, pagg. 103-118, e C. D’Addosio, Ilduello dei camorristi, Napoli, Pierro, 1893» (Nota di B. Croce). 40 Una zitella che sta in contegno. 39

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DA POESIE (1927)



– Funtanarosa? Aniello? – Proprio, Aniello... – Frate cugino a chillo mio signore? – Nonzignore, lle songo cumpariello. – Io mo nun m’aspettavo tant’ onore! – Onore e` mio... – Va be’... dicitecello ca ce vedimmo... lla`... mmerzo cinc’ ore.

’O ’nteresse

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’A se’41 Maria va essiggenno. Nnarella Scuotto. – Quante so’? – So’ se’ solde... – Embe`?... – Scusate; ll’ ati quattro v’ ’e ddongo viernarı`...42 – Sette, allora. – Comm’ e`? M’ aumentate tre solde pe tre ghiuorne, se’ Marı`?! – Te cummiene? – Ma comme? Ve pigliate chisto ’nteresse? – Oi ne’, tu ’e buo’ accussı`? M’ e’ ditto niente quanno t’ aggio date?... ` troppo giusto... che ve pozzo dı`?... – E Penzate ca maritemo sta a spasso, ca nun me porta niente pe magna`, ca sta facenno ll’ arte ’e Micalasso!...43 – Bella mia, tu che buo’? Che t’ aggia fa’? ` giusto, e` giusto... nun ve mporta niente... – E Vevitevillo, ’o sango de la gente!...44

41 42 43 44

Signora. Venerdı`. Che sta facendo il Mestiere di Michelaccio!... Bevetevelo, il sangue della gente!...

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Da Canzone (1891-95)

Tarantella scura

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Tu me vuo’ troppo bene e si’ geluso, e i’ nun so’ degna ’e te, ma so’ sincera; tu te si’ fatto amaro e capricciuso, mme lasse ’o vierno45 e tuorne a primmavera. E a primmavera vuo’ truva` custante chi nun ardette maie, manco ll’ esta`:46 no, fedele io nun so’, nun songo amante, ma nun me dice ’o core ’e te nganna`...47 Abballammo! (’O bbi’ c’ ’a gente rire, sente e tene mente?48...) Tarantella e lariulı`! Tarantella e lariula`!... (E sta storia malamente49 chi sa comme fenarra`!...) A tte te nfoca ammore e gelusia, e ’a nera gelusia maie nun se stracqua:50 coce sta mana toia: fredda e` sta mia, e simme tale e quale ’o fuoco e ll’ acqua. Chi sa qua’ vota lu´cere antrasatto51 nu curtiello appuntuto aggia vede´!... Chi sa qua’ vota fenarra` stu fatto ca i’ cado nsanguinata nnanz’ a te!...

45 46 47 48 49 50 51

D’inverno. D’estate. Ma non me la sento d’ingannarti. Ride, sente ed osserva? E questa brutta storia. Mai non si stanca. All’improvviso.

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

DA POESIE (1927)

Abballammo!... E nnanz’ ’a gente, ca ce sente e tene mente, nuie cantammo: E lariulı`! nuie cantammo: E lariula`! (Ma sta storia malamente chi sa comme fenarra`!...)

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A San Francisco (1895)52 A San Francisco mo sona ’o risveglio, chi dorme e chi veglia, chi fa nfamita`...53 Canzone ’e carcerate

I – Vuie cca`!... Vuie, don Giuva`!... Cca` dinto?!... – E’ visto?! So’ benuto ’int’ a cummertazione. – ... Sango?... – Embe`... sango. Mme so’ fatto nzisto...54 E tu? – Cuntrammenzione ’ammunizione.55 – Suna`ino ’e nnove. Na lanterna a scisto56 sagliette ncielo, mmiez’ ’o cammarone: lucette nfaccia ’o muro ’o Giesucristo ncroce, pittato pe devuzione. S’ aiza`ino ’a quattro o cinche carcerate... – E cchesta e` n’ ata notte – uno dicette – Managgia chillo Dio ca nce ha criate! – E ghiastemmanno57 se spugliaie. Trasette58 nu secundino. Nfaccia ’e fferriate 52 53 54 55 56 57 58

«Il carcere di S. Francesco di Paola, fuori la Porta Capuana» (Nota di B. Croce). «I versi messi per epigrafe sono un noto canto di carcerati» (Nota di B. Croce). Sono diventato un “duro”. Contravvenzione all’ammonizione. A petrolio. Bestemmiando, imprecando. Entro`.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

sunaie: sbattete ’a porta e se ne iette.59 II – E mo?... – Mo? Nn’ ’o bberite?60 Ce cuccammo.61 Tenite suonno? – Poco ’a verita`... – Nun ve cuccate?... – No. Veglio. – E vigliammo... Ve faccio compagnia, mastu Giuva`.

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` amico. – E... si parlammo? – E ’o carceriero? – E – Si ce sente? E che fa? Che ce po` fa’? Basta, p’ ogni chi sa,62 mo nce ’o chiamammo, ’o mmuccammo63 na lira e se ne va. – Questa e` ’a muneta. – Senza cumprimente ’a cacciasse semp’ io... Ma cca`, ’o ssapite, parlanno cu rispetto ’e chi mme sente, so’ zuzzuse,64 ’e renare65 so’ puibbrite, e fossero ’e renare sulamente... Zi’... Sta passanno ’on Peppe... ’On Pe`!... Sentite!... III Ce sta st’ amico mio... – Be’?.... – Mo e` trasuto...66 – Be’?... – Suonno nun ne tene... – E c’ aggia fa’? – Si premmettete... rummane vestuto... veglia... – C’ ha dda viglia`! S’ ha dda cucca`! «L’amico... mo e` trasuto... mo e` benuto...» Ma che m’ammacche? A chi vuo’ fa’ ncuita`?67 Addo` se crere ’e sta’? Cca` e` dditinuto: 59 60 61 62 63 64 65 66 67

Se ne ando`. Non vedete? Ci corichiamo. In ogni caso. Gli allunghiamo. Letteralmente, luridi, sporchi. I soldi. ` entrato ora. E Perche´ mi vuoi irritare?

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DA POESIE (1927)



nun pozzo fa’ particularita`... – Ce steva na liretta... – Comm’ e’ ditto? – Aggio ditto ce steva na liretta... V’ a proio?...68 – Fatte cchiu` cca`... Parla cchiu` zitto. ` de carta?... – Gnerno`, so’ so`rde... – E aspetta... E Pa`ssele chiano chiano... aspe`... che faie? Va quacche so`rdo nterra e tu mme nguaie!...

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IV Pe nu minuto, dint’ ’o cammarone, nun se pepetiaie.69 Stracque, menate,70 chisto ’a cca`, chillo ’a lla`, ncopp’ ’o paglione steveno ’a na dicina ’e carcerate. Duie runfaveno gia`, vestute e bbuone, e, mmiez’ a ll’ ate addurmute o scetate,71 mariuolo a dudece anne, ’o cchiu` guaglione vutava attuorno ll’ uocchie afflussiunate.72 E ’o cammarone se nfucava. ’O scisto feteva: ’a cazettella73 ca felava affumecava ’e ttrave rusecate. Ll’ ombra d’ ’a funa nfaccia ’o Giesucristo 74 tremmava, lenta: e ll’ aria s’ abbambava ’e ll’afa ’e tutte st’uommene e sti sciate...75

68 69 70 71 72 73 74 75

Ve la porgo? Non si fiato`. Stanchi morti, distesi. Svegli. Gli occhi infiammati. Lo stoppino. Avvampava. Fiati.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

V – Dunque – dicette ’o si’ Giuvanno Accietto, assettato76 cu Tore «Nfamita`» ncopp’ a nu scannetiello77 appede ’o lietto – dunque, aggio fatto ’o guaio: nun c’e` che fa’!

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’A n’anno nun truvavo cchiu` arricietto!78 Patevo ’a n’anno! E... ’o bbi’... Mo stonco cca`... Se fotte! ’O core mm’ ’o diceva mpietto ca nu iuorno perdevo ’a libberta`!... Fa ’u ualantomo, tratta buono ’a gente... Quante cchiu` meglio ’a tratte e cchiu` lle faie,79 cchiu` nn’ aie cate80 ’e veleno e trarimente! Rie´bbete,81 figlie, malatie: so’ guaie, ma non pogneno... ’E ccorna so’ pugnente!... To’!... Curtellate sı`, ma corna maie!... VI – Ma... che bulite di’?... – dicette Tore – Io... nn’ arrivo a capı`... Ronna Ndriana?!...82 – Leve stu ddonna, famme stu favore! Chiammela a nomme... Schifosa puttana!... ...Ll’ aggio accisa! – ’On Giuva`!... – Sı`!... Pe ll’ onore. – Ndriana!... Accisa!... E... quanno?... – ’A na semmana. Mme scurnacchiava cu nu mio signore, e io ll’ aggio accisa! Sı`! Comma’ a na cana!... – Siente... E pecche´ te scuoste? – Io?... Nun... me scosto... 76 77 78 79 80 81 82

Seduto. Panchetta. Da un anno non trovavo piu` pace. Fa... faie: Fa’ il galantuomo, tratta bene la gente... / meglio la tratti e piu` favori le fai. In gran quantita`. Debiti. La signora Adriana.

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DA POESIE (1927)



– E pecche´ te si’ fatto mpont’ ’o scanno?...83 – Io?... No... – Fatte cchiu` cca`... – Sto cca`... Mm’ accosto... – Tu siente?... Siente... Mme ngannava!... ’A n’ anno! E... saie cu chi? – Cu... chi?... – Mo nn’ ’o ssaie cchiu`?... St’ amico... nun ’o saie?... – Chi?... – Chi?... Si’ tu! – VII

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Lucette ’acciaro ’e nu curtiello. ’O scanno s’avutaie, s’abbucaie.84 Tore cadette ` n’ anno, e` n’ anno e chill’ ato ’o fuie ncuollo. – E 85 ca te ievo truvanno! – lle dicette. – Mamma r’ ’a Sanita`!...86 Chiste che fanno!... – strellaie nu carcerato. E se susette87 mmiez’ ’o lietto, e guardaie... Nterra, ’on Giovanno ncasava88 a «Nfamita`»... Tre botte89 ’o dette, tutte e tre mpietto... E s’aiza`ie. Pareva nu cadavere. ’O sango ll’ era sciso p’ ’a mano dint’ ’a maneca e scurreva... – Chiamate ’on Peppe!... Cca` ce sta n’ amico ca... me vuleva bene!... E io ll’ aggio acciso! Mm’ e` ccustato na lira... ’A benerico!90

83

Perche´ ti sei messo sulla punta del sedile?... S’inclino`. 85 ` un anno, e` un anno, / che ti cercavo! E`... truvanno: E 86 «La Madonna che si venera nella chiesa di Santa Maria della Sanita`» (Nota di B. Croce). 87 Si levo`. 88 Schiacciava, comprimeva. 89 Colpi. 90 La benedico. 84

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Da Ariette e sunette (1898)

Fortunata

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E ce steva na guagliona91 cu na faccia ’e na Madonna, cu na capa ionna ionna,92 c’ ’a salute assaie suttile, e cu n’ anema gentile. Puverella! A dudece anne primma ’a mamma lle murette: sola sola rumanette cu nu pate scemunito p’ ’a miseria e ll’ appetito.93 – Moro – dicette ’a mamma – e nun me lagno: ma chello ca mme coce e` ca rummane94 fı`gliema abbandunata!... – (Ah, povera, povera Fortunata!) E teneva sidece anne quanno ’o pate lle murette: i’ chessa` che lle venette ca passaie, dopp’ ’o spitale, a ngrassa` Puggeriale.95 Se vennette n’ anelluccio pe doie cere e na curona, chella povera guagliona... Lle spia`ino: – E mo addo´ ’e ppuorte? – Rispunnette: – Ogge so’ ’e muorte... –

91

E c’era una ragazza. Con una chioma biondissima. 93 La fame. 94 Ma quello che mi addolora e` che rimane. 95 «Luogo presso Napoli dove sorgeva gia` un palazzo reale e una villa dei re della dinastia aragonese, e dove, dal principio del secolo XIX, e` il cimitero della citta` di Napoli» (Nota di B. Croce). 92

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DA POESIE (1927)



E ’a lla` ncoppa turnaie cu ll’uocchie russe... E nu giuvanuttiello ’e mala vita96 piglie e ncuntraie p’ ’a strata... (Ah, povera, povera Fortunata!)

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E ched’ e` sta vita nosta! Quant’ e` amara e quant’ e` triste! Fortunata!... Ah, che faciste!... Sta criatura ca t’ e` nata mo addo´ ’a lasse? ’A Nunziata...97 (Penzatece a stu nomme ca teneva, e a sta barbara sciorta.98 A sidece anne e` morta e s’ e` atterrata...) Ah, povera, povera Fortunata!...

Da Vierze nuove (1898-1901)

’E rrobbe vecchie Panne, purtate ’a tanta e tanta gente, cammise ricamate e arrepezzate, ca ncuollo99 a quacche povero pezzente, o ncuollo a na cocotta site state; fazzulette ’e battista, e muccature100 viecchie, scuffie ’e nutricce,101 e barrettine, giubbe ’e surdate, veste ’e criature,102 giacchette, mantesine,103 e suttanine, 96 «Mala vita significa qui, e di solito, la societa` della camorra; ma anche, talvolta, la vita della prostituzione e altre forme di degenerazione sociale» (Nota di B. Croce). 97 «La pia casa dell’Annunziata, ospizio dei trovatelli» (Nota di B. Croce). 98 Sorte, destino. 99 Addosso. 100 Fazzoletti. 101 Cuffie di nutrici. 102 Bambini. 103 Grembiuli.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

add’ ’o revennetore ’e panne usate (sott’ a n’angolo ’e muro e mmiez’ ’a via) cca` v’hanno strascenate e ammuntunate104 ’o vizio, ’a famma, ’a morte, ’a malatia. Quanta rumanze105 ’e quanta e quanta gente! Ma stu revennetore a stu puntone106 nun ’e capisce. Ndifferentamente scose na cifra, o azzecca nu bottone.107

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Irma D’ ’a lucanna, aieressera, mmiez’ ’a via nne fuie cacciata: mmiez’ ’a via sulagna108 e nnera tutt’ ’a notte Irma e` restata. Tutt’ ’a notte ha fatto ’a cana: sotto e ncoppa ha cammenato na serata sana sana. E nisciuno s’e` accustato...109 Irma: nomme furastiero: ma se chiamma Peppenella: fuie ngannata ’a nu furiero, e mo... campa... (puverella!) ` fatto iuorno. Passa gente. E «Psst! Siente!...» E rire... e chiamma... 110 C’ha dda fa’ si ha perzo ’o scuorno?

104

Qui v’hanno trascinato e mmucchiato. Romanzi. 106 Angolo della strada. 107 Scuce una cifra, o attacca un bottone. 108 Solitaria. 109 Tutt’ ’a notte... s’e` accustato...: Tutta la notte ha fatto la cagna: / su e giu` ha camminato / un’intera serata. / E nessuno s’e` avvicinato... 110 Che ci puo` fare se ha perso il pudore? 105

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DA POESIE (1927)



C’ha dda fa’? Se more ’e famma.111 Mmerz’ ’e nnove s’ha mangiata na fresella nfosa a ll’ acqua.112 E mo, comme a na mappata,113 sta lla` nterra. E dorme, stracqua.114

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’O pranzo a ’o nnammurato Ah, si ’o sapesse Aniello «’o scarrecante», si ll’ appurasse chello ca e` custato sta mullica ’e furmaggio pizzicante e stu pullo nfurnato e mbuttunato!115 ` custato nu sı`, sceppato a fforza E a Nanninella «a rossa» ’a nu studente...116 E, doppo, s’ ha mangiate ’e mane a mmorza sta femmena ’e chist’ ommo malamente!... Sı`: s’e` vennuta!...117 Ce vo’ nu curaggio!... Ma si no chi purtava a «San Francisco»118 stu pullo mbuttunato e stu furmaggio, e sta bottiglia ’e vino e ’o ppane frisco? Nu biglietto ’int’ ’o ppane essa ha mpezzato (quanno Aniello s’ ’o mmangia ’o liggiarra`): «Nega sempri, mi ha ditte l’avucato!... Sempre ferele Annina ti sarra`!...».

111

Muore di fame. Un pane biscottato bagnato nell’acqua. 113 Grosso involto di panni. 114 Stanchissima. 115 Ripieno. 116 ` costato un sı`, strappato faticosamente / a Nanninella «la rossa» da E`... ’a nu studente: E uno studente. 117 Si e` venduta. 118 «Il carcere di San Francesco» (Nota di B. Croce). 112

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Ll’ acciso – Si ve cunviene nu dichiaramento,119 tant’onore pe mme. – L’onore e` mio... Cca` stesso? – Pe dimane. Appuntamento a mezanotte. – Resta fatto. – Addio. –

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Quatto parole. E, doppo mezanotte, ’a sera appriesso, Carmine de Riso pe mmano ’e Ciro Assante e cu tre botte,120 nterra, ’int’ ’o vico, rumanette acciso. Pe mbriaco ’o pigliaino albante iuorno:121 lle s’accustaie na femmena vicino, e se mettette a ffa’: – Te miette scuorno?!...122 Puorco! A primma matina vive vino!... Vino? Era sanco.123 Lle parette vino, nterra na macchia ’e sanco friddo e muollo... – Sciu`!124 Nnanz’ ’a cchiesia ’e Santo Severino!125... E lle menaie nu cato d’acqua ncuollo...126

Lassammo fa’ Dio... ’A dummenica ’e Pasca d’ ’o mille e noveciento, ’o Pateterno (ca s’ ’e` susuto127 sempe ’int’ ’e primm’ ore) di buonissimo umore se scetaie mmerz’ ’e sette,128 fece chiamma` san Pietro e lle dicette: 119

Duello fra camorristi. Con tre colpi. 121 Lo presero per un ubriaco, all’alba. 122 Non ti vergogni?!... 123 Sangue. 124 Vergogna! 125 «La chiesa del convento di S. Severino e Sossio, al largo S. Marcellino» (Nota di B. Croce). 126 E gli getto` un catino d’acqua addosso... 127 Alzato. 128 Si sveglio` verso le sette. 120

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DA POESIE (1927)



– Pie’, siente, stammatina e` na bella iurnata e ll’aria e` fina fina: vurria fa’ na scappata ’n Terra. Che te ne pare? – Mah! – dicette san Pietro – (santo napulitano e, mparaviso,129 capo guardapurtone) mah... Lei siete il padrone! Vulite vede´ ’a Terra? E fate pure... Pero`... vedete... francamente, ’a Terra e` nu poco afflittiva.130 V’ avesse disgusta`?... – Ma che! Che dici! Su, ve`stiti! Scendiamo!... Dove ci fermeremo? Dove andiamo?... Napoli!... Che? Ti pare? – Eh! Sissignore: se dice: Vide Napule e po’ muore! – E senza perder tempo, lla` ppe lla`,131 san Pietro se vestette comilfo`:132 nu pantalone inglese a quadriglie`, nu gile` (comm’ ’o po`rteno ’e coco`133) tutto piselli verdi in campo blu, 134 cappiello a tubbo, cravatta a raba`, 135 scicco stiffelio di color rape`, e un piccolo bastone di bambu`. – Sto bene. – Elegantone!... Andiamo dunque! – E ghiammo... Quanto mme piglio ’e guante... –136 129 130 131 132 133 134 135 136

In Paradiso. Triste, angosciante. Subitamente. Con eleganza ricercata (dal francese “comme il faut”). I viveurs. Cappello a cilindro, cravatta a` rabat. Elegante finanziera di color tabacco. Il tempo di prendere i guanti...

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

Ed in un batterdocchio eccoli a Napoli, in mezzo piazza Dante.

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’O Padre Eterno vutaie ll’ uocchie attuorno, scanzaie nu tramme, se mettette ’a lente, e proprio come un semprice murtale (ma pero` con acce`ndo forastiero), dice: – Sai, caro, ma l’ e` mica male questa vostra citta`! Mi fa piacere assai di rivederla: ci mancavo dal secolo passato... Ma proprio ha molto, molto migliorato! La statua qui davante cosa l’e`? L’Aligherio? – No, – dicette san Pietro – questo e` Dante... Grand’uomo!... E questa sulla mano destra e` la famosa chiesa ’e San Michele: quello e` il Liceo Vittorio Emmanuele: piu` sopra c’ e` il Museo. Questo, rimpetto, e` il caffe` di Diodati. Ce vulimmo assetta` diece minute? – Entriamo pure. – E ’o Signore trasette in quelle belle sale ornamentate, e san Pietro dicette al cammeriere: – Favorite due mezze limonate –. Erano ’e ddiece e mmeza e ’a iurnata era bella. A mille a mille passia`veno ’e gente pe mmiez’ ’a strata e ’ncopp’ ’e marciappiede; e vedive mmiscate femmene, uommene, gruosse e piccerille, nutricce,137 serve, prie`vete138 e surdate... – Oh, qual vista gentile! (dicette ’o Pateterno 137 138

Nutrici. Preti.

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DA POESIE (1927)



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pusanno ’o cucchiarino) ma com’ e` che si dice, caro quel mio Pierino, che la Terra e` infelice? Ma guarda, guarda un po’ che movimento, che scena pittoresca e che allegria! Via, son proprio contento!... Be’?... Pietro?... E parla, vecchio brontolone! Non sei della mia stessa opinione? – Sı`, – rispunnette ’o viecchio – e opera vosta e` certamente tutta chesta cca`: certo: chi ’o ppo` nega`?... Pero`... Vi siete presa ’a limunata?... – Sı`, ho finito... – Embe`, usciamo. Signori, a tutti!... – Buona passeggiata! – Dunque dicevi? – E c’ aggia dı`?... Guardate! Tenite mente attuorno!...139 Che bedite? Che ve pare?... Dicite. ’A carita`!... Dio guardaie – spaventato. Mmiez’ ’a strata, stuorte, struppie, cecate,140 giuvene e bicchiarielle, guagliune senza scarpe, vicchiarelle appuiate a ’e bastuncielle, scartellate,141 malate, e ciert’ uocchie arrussute chine ’e lacreme – e mane secche, aperte, stennute...142 – ’A carita`!... – Sta voce ’e voce a centenara

139 140 141 142

Osservate intorno!... Storti, storpi, ciechi. Gobbi. Stese.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

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sentette, ’a tutte parte,143 disperate, strella`: e quase lle parette dint’ a n’eco e ’a luntano,144 sentı` ’o stesso lamiento: – ’A carita`!... – ... Cu na resella amara, e allisciannose ’a barba ’a franciscana, san Pietro suspiraie: – Nun c’e` che fa’!... Mo nu’ ve frasturnate, sentite a me: mo iammuncenno ’a cca`: piuttosto quando siamo in Paraviso se ne riparlera`... – Come?... Non ho capito... –. ’O Patre Eterno 145 capuzziava, parlava isso sulo, teneva mente in aria... Tutto nzieme146 fece segno c’ ’a mano. E nu lenzulo scennette sulla Terra lentamente, lo stendettero a terra in Piazza Dante nu centenaro d’ angele tutte vestute ’e velo – nce ammuntunaino,147 dinto, ’e puverielle, e s’ ’e purtainio ncielo... ... ’A mappata.148 Figurateve nu poco sta mappata ca pe ll’ aria 143 144 145 146 147 148

Da ogni parte. Da lontano. Faceva sı` e no col capo. Guardava in aria... D’improvviso. Ci ammucchiarono. Il grosso involto.

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DA POESIE (1927)



ogne tanto s’ abbuffava, se sbuffava149 – e viaggiava ncopp’ ’o viento – chiena ’e strille, chiena ’e ggente. – Cchiu` de mille! Figurateve nu poco che nzalata e c’ ammuina!150 Chi chiagneva, chi rereva, chi alluccava:151– I’ mo mm’ affoco! –152 Chi cantava – chi chiammava: – Neh, Toto`!... – Peppı`!... – Giova`!... Donn’ Anie´! – Don Ferdina`!... – Mo addo` iammo?... – E ba’ nce ’o spia!...153 – Chi s’ ’a fatta ’a pippa mia?...154 – Prufesso´!... – Pronto!... – Addo´ state? – Sto cchiu` ncoppa...155 – A voi! Sapete, abbarate addo´ sputate!...156 – Ma che ghiammo ’int ’o pallone?!... – Pe’, tenisse nu muzzone?...157 – Bu! bu! bu!... – Chi e`?!... Passa lla`!... – Nun butta`!... – Sode cu’ ’e mmane!...158 – Neh, chiammateve a stu cane!... – ... Appena miso pe`de mparaviso ll’ angele mmiez’ a ll’ erba ’e na vallata se fermaino mparanza159 e pusaino ’a mappata, ca pe dduie tre minute se muvette, ruciuliaie pe terra e, tutto nzieme, s’ arapette essa stessa.160 E se sentette 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160

S’abbuffava, / se sbuffava: Si gonfiava, si sgonfiava. Che miscuglio e che confusione! Gridava. Io soffoco! E chi lo sa!... Chi si e` preso la mia pipa?... Sto piu` su... Badate a dove sputate!... Mozzicone di sigaro. Non spingere!... – Fermo con le mani!... Tutti insieme. ruciuliaie... stessa: rotolo` per terra e, d’improvviso, si aprı` da sola.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

’a voce ’e n’ommo ca diceva a ll’ ate: – Uscite, miei signo`, simmo arrivate!...

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’A tavuliata161 Mmiez’ a nu scampagnato,162 addo` nasceva vicino ’a viuletta ’a margarita, ncopp’ a ll’ e`vera163 corta, ca luceva, comm’ ’o velluto nfuso,164 quatto tavule, pronte e apparicchiate a ll’ uso d’ ’e meglie ristura`, pareva ca dicessero: – Venite! Favurite a mangia`!... – E che ce stava esposto! ’A meglia carne, ’o meglio pesce, ’e frutte cchiu` assurtite, cchiu` gentile e cchiu` ffine: ’a mela, ’a pera, ’o fenucchiello, ’a fava, ’a nanassa, ’o mellone, ll’ uva, ’e noce, ’e bbanane, ’e mandarine, e tutto ’o bbene ’e Dio fore staggione. Vine paisane, e vine mbuttigliate col su`vero d’ argento e l’ etichetta, liquori delle fabbriche premiate, curasso`, strega, cu´mmel e anisetta:165 e in mezzo a questi (pe fa’ na surpresa a quacche puveriello furastiero) preffino il vischisodo a marca inglesa!...166 ... Avite ntiso maie Miseria e nubilta`?167 161 162 163 164 165 166 167

La tavolata. Prato. Erba. Bagnato. Curac¸ao, strega, cummel e anisetta. Persino il whisky e soda di marca inglese!... Famosa commedia di E. Scarpetta, il cui protagonista e` Felice Sciosciammocca.

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DA POESIE (1927)



Ve ricurdate quanno Sciosciammocca e chill’ ati stracciune, con l’ acquolina in bocca guardano ncopp’ ’a tavola ’e mangia` chella bella zuppiera ’e mccarune?

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Non vi dico altro. Pe quase mez’ ora ato nun se sentette (mmiez’ a tutta sta gente ca mangiava, bbeveva, e sciglieva a piacere) ca ’o rummore d’ ’e piatte e d’ ’e furchette e ’o ndrı` ndrı` d’ ’e butteglie e d’ ’e bicchiere. E all’ u`rdemo d’ ’o pranzo (nu poco fatto a vino) s’ aizaie nu cecato ’e na trentina d’ anne.168 Doie tre vote tussette, s’ adderezzaie, sputaie, fece n’ inchino, e stu brı`nnese, a voce auta, facette: ’O brinnese. – Cumpagne e care amice! Premettete c’ a stu bello signore, ca nce ha fatto l’ onore ’e ce mmita` cca ncoppa169 a be´vere e a mangia`, io gli rivolgio nella sua presenza, come attestato di ricanoscenza, quatto parole p’ ’o ringrazia`! Grazie, grazie, signo’!... Grazie! Vv’ ’o dico a nomme ’e tutte chiste sfurtunate, ca se so’ saziate, e ca p’ ’a primma vota, 168 169

E... anne: E alla fine del pranzo / (un po’ ubriaco) / s’alzo` un cieco / di circa trent’anni. D’invitarci quassu`.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

senza stennere ’a mano, mmiez’ a ll’ aria addurosa ’e stu ciardino hanno pruvato ’o broro,170 ’a carne, ’o vino!... Ccellenza! E cumpatite171 stı` pparole, ca so’ napulitane e nun so’ ttaliane comme ve mmeretate! Io nun aggio pututo sturia`! Nun me pozzo applica`!... Guardate!... Io nun ve veco!172 ’A che so’ nnato io nun beco a nnisciuno!... So’ cecato, guardate... So’ cecato!... Ccellenza, e che ppiata`!... – ’A voce lle mancaie. Chiagneva... ’A mano ca teneva ’o bicchiere s’acalaie chiano chiano e ’o pusaie ncopp’ ’a tavula. Isso stesso, comme si ’o vino ’o fosse risturbato, se chı¨aie lentamente int’ ’e denocchie,173 e, cadenno assettato e abbandunato, fissaie dint’ ’o bbaccante ’o gghianco ’e ll’ uocchie...174 ... Nonnanonna.175 ... – Oi Suonno, Suonno!... Suonno, ca te ne parte ’a ll’ uriente, e nun t’ abbence prencepe o rignante,176 oi Suonno, e vienitenne lentamente, e, mponta ’e pe`de, fe´rmete cca` nnante... E, si si’ piatuso e si’ putente, 170 171 172 173 174 175 176

Hanno assaggiato il brodo. Vogliate perdonare. Io non vi vedo! Si piego` lentamente sulle ginocchia. Fisso` nel vuoto il bianco degli occhi... Ninnananna. E non ti vince principe o sovrano.

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DA POESIE (1927)



stienne sta mano, e adduorme a tuttuquante...177 Vienece, Suonno!... Te manna san Giuseppe ’a Battalemme, e, sotto ’a porta, chi te mmosta ’a via cu nu ramo ’e viole, e` ’a Vergene Maria...

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(E chi te chiamma cca`, Suonno, tu ’o ssaie, so’ chille178 ca cuntente nun se scetano maie...) Vienece, Suonno!... (E tu nchiudele ll’ uocchie doce doce, comm’ ’e nchiudiste a Giesu` Cristo ncroce...) – ... ’O Suonno s’accustaie... Ma n’ ombra nera lle camminava appriesso,179 n’ombra longa e liggiera, c’ appena isso ’a vedette e se fermaie – s’ acalaie, ll’ afferraie, s’ ’o strignette ’int ’e bbracce forte forte, e, cu nu filo ’e voce, lle dicette: – Vatte´nne! Famme passa`. So’ ’a Morte... ... – E mo che dice?... – dicette a San Pietro ’o Patre Eterno – guarda! Nun e` meglio accussı`? Tutta sta gente, turmentata e nnucente, mo ncopp’ ’a Terra che turnava a fa’?... Doppo n’ ora felice c’ ha passata,

177 178 179

E addormenta tutti quanti... Quelli. Vicino.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

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guarda, e` passata ’int’ a l’ eternita`... – La`!... Guardate!... La`... la`... – c’ ’a mano stesa e trattenenno ’o sciato,180 san Pietro lle mustaie ca quaccheduno ch’ era rummaso aizato181 mo se vutava attuorno – e se muveva... – La`!... Na femmena!... – E chella, comme fosse mpazzuta, cammenava, curreva, nciampecava182 e cadeva, e s’ aizava... E fuieva... – Chiamma`tela! Addo` va!... – Zitto!... dicette ’o Padre Eterno – zitto... Lass’ ’a fa’... lassa ’a fa’... – Cade ’a cielo, ’a mammarella, puverella, puverella... Curreva, fuieva pe nnanz’ ’e cumpagne passanno (ca nun se muvevano cchiu`), sperduta, – abbeluta,183 chiagnenno, tremmanno, mpauruta, – sbattuta, curreva, curreva ’int’ a ll’ ombre e dint’ ’o silenzio d’ ’a sera, Nannina ’a pezzente... E, senza sape´ cchiu` addo´ ieva, curreva, curreva... Nfi’ a che – tutto nzieme184 – uh Dio!... se sentette manca` sott’ ’e piede ’o tterreno... E ’a cielo cadette... 180 181 182 183 184

Il respiro. Ch’era rimasto in piedi. Inciampava. Avvilita. D’improvviso.

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

DA POESIE (1927)

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... Scinne, scinne, puverella ca – ’int’ ’a notte chiena ’e stelle – na palomma ’e notte pare cu nu trie´mmolo ’int’ ’e scelle...185 Scinne nterra, palummella, passa ’e monte, passa ’o mare, vola, sciu´lia,186 scinne... Va, ll’ aria e` ’a toia. Te porta ’o viento si te stracque187 e t’ abbandune... Quanta miglie staie facenno? Nu minuto e nne faie ciento – e quant’ ate, p’ arriva`!... Ma mo luceno, ’a luntano, luceluce188 a mmeliune... E so’ lume!... E ’a luna, ’a luna gia` fa ’o mare nnargenta`...189 Scinne – scinne... Si’ arrivata... Guarda... ’A i’ lla`... Napule! ’A i’ lla`!... ... Mammare`, ringrazia Dio... Nanninella ’a pezzente guardaie cca`, guardaie lla`, s’ urizzuntaie, e truvaie finalmente ’a via d’ ’a casa soia. Sunava ll’ una a Sant’ Eliggio.190 E dint’ ’o vico scuro sciuliava ncopp’ ’o muro191 nu raggio ’e luna... ... 185 186 187 188 189 190 191

na palomma ’e notte... scelle...: Una falena pare con un tremito nelle ali. Scivola. Se ti stanchi. Lucciole. Inargentare. Chiesa medievale sulla grande piazza del mercato. Scivolava sul muro.

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

GLI SFREGI DI NAPOLI

– Ninno! Ninno! Sto cca`!... Mamma e` turnata!... – E ’a porta, mez’ aperta e meza nchiusa, ’e nu vascio vuttaie cu na spallata.192 Trasette ’e furia.193 Currette addo´ steva nu piccirillo dint’ ’a nu spurtone... S’ acalaie... Chillo povero guaglione, c’ appena teneva nu mese, sennuzziava,194 cu ’e manelle stese...

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Lassammo fa’ Dio Nanninella ’a pezzente ll’ arravugliaie195 dint’ a nu sciallo viecchio, s’ ’o pigliaie mbraccia – s’ ’o strignette mpietto, e dint’ ’o chiaro ’e luna, e asciuttannose ll’ uocchie a ’o mantesino,196 lle dette ’o latte – e s’ ’addurmette nzino...

192 193 194 195 196

Di un basso aprı` con una spallata. Entro` di fretta. Singhiozzava. Lo avvolse. E asciugandosi gli occhi nel grembiule.

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APPENDICE

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SCRITTI GIORNALISTICI (1886-1895)

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APPENDICE APPENDICE

1 181

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La fattura Parecchie sere fa un garzone caffettiere che scendeva dalla casa di una popolana, la quale avea regalate di cattivo caffe` alcune sue comari, manco` poco non battesse col muso sul selciato, nell’oscurita` di vicolo Montesilvano. Una chicchera, al sovrassalto, scappo` fuori dal vassoio e si ando` a frantumare sotto il muro; caddero e si frantumarono pure in tanti pezzetti incandescenti alcuni carboncelli dallo scaldino. Tutto cio` fu accompagnato, a mezza voce, da una bestemmia del garzone, al quale era capitata qualcosa tra i piedi, come un sacco, abbandonato in mezzo alla via. Si chino` a guardare. Santo Dio! Un uomo, un morto forse. Lı` per lı`, mentre scaldino e vassoio gli tremavan fra mani, il garzone s’allontano` inorridito e chiamo` gente. Dopo cinque minuti il vicolo Montesilvano n’era pieno, era pieno di un mormorio d’indignazione e di orrore. Dal costato destro di quell’uomo supino scorreva ancora sangue, una larga chiazza nera s’allargava in quel posto, a terra, si distingueva bene, luccicando ai riflessi dei lumi con cui i vicini rischiaravano lo sconosciuto. Allora fu che uno del vicolo, Pascariello Schiattarella, chinandosi, le palme delle mani sulle ginocchia, a osservare il morto, esclamo` subitamente: – ’O mbrellaro! – Comme? ’O mbrellaro! Don Liopoldo ’o marito ’e Menechella? – Isso propio! – Giesu`, Giuseppe e Maria! – Uh! Povero don Liopoldo! Nessuno osava toccarlo. Il morto sbarrava quasi il vicoletto, le braccia stese, le mani raggricciate, la folta barba rossa arruffata. Gli occhi avea aperti, vitrei, fissi nel vuoto. Gli era schizzato in faccia il fango della via, tutto nero, cosı` la faccia sporca di mota sotto gli occhi, allo zigomo destro, pareva ammaccata da contusioni. Don Leopoldo era orribile. Qualcuno intanto era corso a chiamare le guardie di pubblica sicurezza, le quali, caricate del morto, se lo portarono in ispezione. Nella via rimasero le vicine ciarliere delle quali gia` i commenti principiavano. Allora, dietro esempio di un lampista, ogni marito tolse la moglie alla conversazione, prudentemente richiamandola in casa. A questo modo il vicoletto si svuoto`, non vi rimasero se non due o tre piccoli vagabondi che non sapevano staccare la curiosita` loro dalla pozza di sangue, tutta nera. Poco dopo, il lampista, che aveva stomaco, venne fuori con una tinozza e la scopa, butto` acqua

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

APPENDICE

sul sangue e spazzo` via tutto. Una pioggia fitta che incomincio` a cadere verso le dieci della sera, un’ora dopo il fatto, compı` lestamente l’opera del lampista. ` una delle parecIl vicolo, a quell’ora, e` stato sempre deserto. E chie traverse di sezione Stella. Nella dolce estate napolitana le comitive degli sbarazzini, le ‘rocchie’ d’ammoniti, vi passano cantando, a notte. Cantano:

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Aggio saputo ca ve mmaretate, ca ve pozza murire lu marito!...

fino a quando le guardie non pescano tra loro, a un tratto, il tal de’ tali, recidivo, il tal altro contravventore all’ammonizione. Una fatale sentimentalita` spinge questi giovani nelle grinfie della pubblica sicurezza, la sentimentalita` per la luna, per la bella notte fresca, per la canzone d’amore. Ma nel verno, mentre piove a scrosci, nessuno passa per quei vicoli, dopo una cert’ora. E il vicolo si riempie d’ombre, mentre la pioggia appanna i vetri al fanale in cui luce una povera fiamma gialla. Or in quella sera dell’uccisione di don Leopoldo l’ombrellaio, pioveva maledettamente. Nessun lume; tutti chiusi gli scuri de’ balconi e delle finestrelle, chiuse le botteghe. Ma nelle case, in tutte le case del vicolo Montesilvano, a letto, nel felice tepore, molti coniugi parlavano ancora di don Leopoldo, ammazzato come un cane. E nel mistero di tutte queste casucce borghesi il mistero della uccisione teneva svegliati, in molte strane supposizioni, i pacifici abitanti, parecchi de’ quali ebbero sogni neri e spaventosi. *** Al giorno dopo, la solita visita delle autorita` sopra luogo, le solite domande alla gente del vicinato, i verbali e i verbaletti. La polizia interrogo`, per la prima, una giovanetta bruna, che piangeva disperatamente. Era la figliuola di Leopoldo Sangiuolo, ’o mbrellaro; si chiamava Graziella. Abitava con la mamma un basso lurido, nella medesima sezione Stella. Ma il padre s’era allontanato da loro, s’era allontanato da Menechella sua moglie, e pernottava in una locanduccia, pagando quattro soldi a sera. Menechella, ancora giovane e fresca, gliene aveva fatte di tutti i colori; povero don Leopoldo, se n’era stancato.

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APPENDICE



Era fuggito via dalla casa, lasciando Graziella, la piccola bruna, e altri quattro figliuoli. Graziella, a sentir la madre, era una santarella. Casa e chiesa. Si confessava e si comunicava spesso, ma, via, cio` non le impediva di vestire pulitamente, di arricciarsi in fronte i capelli, di occhieggiare, seduta sul limitare del basso, ai molti giovanotti che passavano. Cosı` un bel giorno Ciccillo ’o marmoraro entro` nel basso e a Menechella Sangiuolo disse, subito subito, che lui si voleva, col permesso suo, mettere a far l’amore con la figlia. Menechella prese tempo per le informazioni e una settimana dopo disse a Francesco Vestuti, al giovanotto marmoraio, che non se ne poteva far niente. – Bello mio, tu che tiene? Tiene na quinnicina de solde a lu iuorno. Figliema nun tene niente. Bello mio, stu matremmonio nun e` cosa. – Comme, nun e` cosa? E chi se scorda de Graziella? – Figlio mio, lu tiempo se ne ncarreca isso... – Niente, niente! Pure se io vulesse nun me ne putarria scurda`. – E pecche´, neh, Ciccı`? Allora, tutto tremante, il giovanotto agguanto` pel braccio Menechella e le mormoro` all’orecchio: – Essa m’ha fatta na fattura! – Uh! Giesu`! Tu si’ pazzo. Tu si pazzo! – Pensatece! – minaccio` il marmoraio. – Nun me facite passa` nu guaio! – E se ne ando`. – Giesu`! Giesu`! – Andava esclamando Menechella a mani giunte. – Chisto che vo’? Neh, Grazie`? Tu siente? Dice ca tu l’aie fatta na fattura! *** La fattura si fa a questo modo. Uno degli amanti che non e` sicuro dell’amore dell’altro, o che e` sicuro di non essere amato, interessa al caso suo una megera che si incarica di rammollire il cuore piu` duro. Un’arancia o un limone sono bagnati nella cera vergine; intorno al frutto si avvolge uno spaghetto, unto di grasso di gallina nera. Si fa un buco nell’arancia e dentro vi si mettono i capelli dell’amante che fa la fattura, una ciocchetta tagliata dal sommo del capo. A ogni operazione di queste, uno scongiuro. All’ultimo si ficcano aghi e spille nella polpa dell’arancia, ed ogni spilla che la ferisce e che rimane nella ferita e` accompagnata, sottovoce, da queste parole:

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

APPENDICE

Trase e spertosa Stu core ngrato, Fallo addeventa` Core nnammurato! E si core nnammurato Nun volesse addeventa`, Capille, spavo e spingole Facitelo schiatta`.

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L’arancia e` quindi buttata nel pozzo, ove infradicia sino a quando l’amante e` tornato all’amante. Oppure e` chiusa in un cassettino, o e` murata in cucina, o in una trave del soffitto. Povero chi ci capita! – dicono le comari – diventa magro come un tisico e se ne muore di consunzione. *** Graziella ha una piccola cicatrice sulla guancia destra. Ne e` fiera, come tutte le sfregiate. Lo sfregio vuol dire bellezza. Un giorno, in una festa popolare, Ciccillo ’o marmoraro, con un coltelluccio affilato, sfregio` la figlia di Leopoldo Sangiuolo, esclamando: – Levame la fattura! Gli consigliarono di mutar aria. Se ne ando` a Torre Annunziata e vi rimase tre mesi. Si doleva di un gran mal di capo; la fattura lo aveva colpito lı`, certamente. Pareva un pazzo. Parecchi giorni fa lo si vide a Napoli, daccapo, magro e allampanato. Poche sere dopo, Leopoldo Sangiuolo era ammazzato. La polizia non ci vedeva chiaro. Il primo ad essere arrestato fu Ciccillo ’o marmoraro. Giuro`, attonito, piangendo, che non ne sapeva nulla. Che nuova disgrazia era questa? Quale brutta stella lo aveva fatto incontrare in questa terribile famiglia Sangiuolo? Dapprima, sulle cause, sul modo dell’assassinio, nessuno seppe dir nulla. Finalmente un ragazzetto fece la sua deposizione innanzi all’ispettore. In quella brutta sera egli passava pel vicolo Montesilvano. Si accorse che tre uomini, uno armato di pugnale, uno di rasoio e l’ultimo di rivoltella, avevano aggredito ’o mbrellaro, il quale borbottava: – Nun m’accedite! Nun m’accedite! Uno degli sconosciuti, quello della rivoltella, propose ai compa-

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APPENDICE



gni di lasciarlo stare. Quello del pugnale, per tutta risposta, si avvento` su Leopoldo e lo colpı`. Il disgraziato cadde, dicendo: – Madonna mia! Protetto dall’oscurita`, il ragazzo riuscı` a svignarsela, allibito. Scomparvero pure i tre sconosciuti. Rimase sulla via solamente ’o mbrellaro, morto. Non si muoveva piu`.

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*** Menechella Sangiuolo, divisa dal marito, accoglieva in casa molto spesso, troppo spesso, certo Aniello Nardiello, che prima fece il fruttivendolo, poi divento` facchino. Nardiello, un pregiudicato della piu` brutta stoffa, mangiava i denari a Menechella facendole pagare il tradimento al marito. Menechella si stanco`, cerco` di riavvicinarsi all’ombrellaio e di richiamarlo in casa. Nardiello seppe il fatto e minaccio` parecchie volte la Sangiuolo, che pure si mostro` decisa a romperla a ogni patto. In questo tempo successe l’omicidio. Nardiello non si fece piu` vivo. Ieri le guardie del porto centrale arrestarono un venditore ambulante di acqua sulfurea, che girava al sole in piazza Municipio, con la bombola e il catino pieno di limoni. Lui si fece pallido, e seguı` le guardie barcollando. Era Aniello Nardiello, che la polizia conosce per l’uccisore di Leopoldo Sangiuolo. Ma il fatto di questa uccisione ` una doppia vendetta? O il Nardiello e` legato al fatto della fattura? E si e` servito di Ciccillo ’o marmoraro per salvare se stesso? Mistero. Certo e` che l’arresto di Nardiello era stabilito fin da quella sera dell’assassinio. La bombola e il catino rimasero in questura, nella stanza di un delegato, ove una cantatrice d’operette era venuta a querelarsi contro un amante che l’aveva abbandonata. La cantatrice aveva degli occhi bellissimi e una brutta voce. Nel corridoio una guardia di pubblica sicurezza tirava a un cane screanzato uno dei limoni di Nardiello. [“Corriere di Roma illustrato”, 6 febbraio 1886]

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APPENDICE

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Amore allo spedale1 Tempo fa una bella lavandaia del Vomero, Teresina Petringolo, bionda, forte e vivace, fu a tradimento colpita di rasoio alla faccia e bruttamente ferita. Ella, in quel momento, chiacchierava con una femmina all’angolo di uno dei piu` fetenti vicoletti di Borgo S. Antonio Abate. La Petringolo mise un altissimo grido, porto` la mano alla guancia e staccatala piena di sangue si svenne per la commozione. Lı` per lı` fu adagiata in una vettura e trasportata all’Incurabili. Ella piangeva per via e si strappava i capelli, dicendo: M’hanno sfregiata! E mo` che faccio cchiu`? Chi me piglia cchiu`? Allo spedale fu interrogata dal delegato Marcuzzi. Ella aveva avuto il tempo di decidersi a negare. Queste donne napoletane, e` conosciuto, non rivelano mai il nome del loro sfregiatore. Dunque la Petringolo asserı` al delegato Marcuzzi che ella non aveva potuto riconoscere il suo offensore. Camminando per Borgo S. Antonio Abate e giunta al vicolo Femminelle s’accorse che alcuni giovinastri le si accostavano pian piano, con l’intenzione, chissa`, di strapparle gli orecchini. Per la paura s’era messa a gridare: Mariuole! Mariuole! E allora uno di quegli sconosciuti le si era fatto addosso e l’aveva ferita a quel modo. L’invenzione era felice; ma il delegato Marcuzzi, una giovane volpe della Questura, arriccio` il naso e penso`: M’ha voluto infinocchiare. Senza perder tempo, iniziando personalmente le indagini egli riuscı` a sapere che Carmine Ferro, meglio conosciuto come ’o figlio d’ ’a mastedascella, era l’amante di Teresina Petringolo. Costei parve non lo ricambiasse del medesimo amore. Non amava un altro ma non si voleva maritare col figlio d’una delle piu` note e terribili usuraie e camorriste del quartiere. Carmine l’aspetto` e le taglio` la faccia. La Mastedascella mando` subito gente a pregare Teresina che non rivelasse nulla alle guardie. Le prometteva di farle sposare, appena guarita, il figliuolo, le prometteva, subito, dugento lire, prezzo dello sfregio. E Teresina non rivelo` niente a Marcuzzi. Il quale, saputo pure che Carmine Ferro non s’era fatto piu` vivo 1

Di Giacomo rielaboro` tale scritto giornalistico nella novella Le ciliege, apparsa sul “Corriere di Napoli” (5-6 giugno 1888). Egli decise poi di ristamparlo, con un titolo nuovo (Quella delle ciliegie) e con diverse varianti, prima nella raccolta intitolata Nella vita (1903) e quindi nel volume L’ignoto (1920).

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dal giorno in cui era della colpevolezza di guardie di P.S. del Carmine Ferro non

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accaduto il fatto, ebbe ragione di non dubitare lui e con grandissimo accorgimento ordino` alle drappello degli Incurabili di badare se mai s’aggirasse in quel luogo.

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*** Erano le tre pomeridiane di ieri. Un giovanotto assai ben vestito, simpaticissimo, bruno, s’e` accostato al portone dello spedale e gli ha chiesto se il dottor tal dei tali fosse in sala di medicatura. C’era. Il brunetto e` salito ed e` penetrato nella prima sala donne, gia` presa dall’afoso silenzio della controra. Quasi tutte le malate dormivano. Le tende dei finestroni erano abbassate e mitigavano il chiarore del sole. Da presso a una tavola la suora di guardia leggeva una Filotea, immobile come una statua, seduta in una grande poltrona. In fondo qualcosa s’agitava. Tra due infermieri il medico preparava una fasciatura a una piccola malata, una ragazza che metteva fuori della coltre un braccio nudo. Il giovanotto, lentamente, e` passato innanzi alla suora. La suora ha levati gli occhi dal libro, lo ha guardato per un secondo e s’e` rimessa a leggere. Il giovanotto avea l’aria indifferente; poteva ben essere uno dei soliti esterni apprendisti. Egli intanto seguitava a camminare, guardando qua e la` nei letti, di sfuggita. S’e` fermato presso quello segnato col numero quattordici. Una giovane bionda, la guancia fasciata, le braccia fuori della coltre, la testa incoronata da una folla di riccioli d’oro, dormiva. Il respiro uguale e forte le sollevava il petto, disegnato nettamente dalla coltre leggera, su cui s’allungava, traversa, una larga striscia di sole. Il giovanotto e` rimasto a contemplare la dormiente, incantato, le lagrime agli occhi. La suora, istintivamente, ha di nuovo interrotta la lettura. S’e` impensierita. S’e` levata ed e` uscita pian piano, come scivolando sul pavimento di marmo. Il giovanotto non se n’e` pur accorto, cosı` intensa era la sua contemplazione. Ma a un tratto ha trasalito. Un rumore di voci arrivava, un passo maschile, frettoloso, suonava nell’altro corridoio. Il giovanotto s’e` piegato sui ginocchi e s’e` ficcato sotto un letto. Una guardia di P.S. e` apparsa nella sala, e` andata diritta a quel letto, v’ha introdotto sotto un braccio ed ha agguantato pel collo lo sconosciuto.

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Era Carmine Ferro, trascinato dal suo amore al numero quattordici, al letto di Teresina. Pallido s’e` levato, ha battuto la mano sui ginocchi che s’erano sporcati, ha volto un ultimo sguardo al letto e s’e` fatto condurre via, in silenzio. Pel corridoio la guardia di P.S. gli andava, concitatamente, mormorando qualcosa. Egli non ha risposto mezza parola. La sala e` rimasta silenziosa. Qualcuna delle malate, che non dormiva, s’e` levata a sedere in mezzo al letto guardando quei due curiosamente. Un sussurro s’e` fatto lı`, in fondo, ove gli infermieri si voltavano, meravigliati. Il numero quattordici continuava a dormire. La striscia di sole arrivava pian piano al cuscino, mettendo come un’aureola intorno ai biondi capelli diffusi. S. Di Giacomo [“Corriere di Roma”, 3 agosto 1886]

Gli ultimi fondaci I L’ingegnere Travaglini – che la Societa` pel Risanamento ha preposto alle espropriazioni – m’aspettava, qualche settimana fa, per cose che non riguardano ne´ la Societa` medesima, ne´ l’architettura, ne´ il pubblico che mi legge. L’ottimo uomo – parola d’onore, e` una gran brava e simpatica persona – mi tese la mano dicendomi, com’entravo, alle 9 del mattino, nel suo ufficio: – Buongiorno e a tempo. Oggi si sgombera un fondaco. Volete assistere allo spettacolo? – Quale fondaco? – Fondaco Palazzotto. A Porto. – Andiamo pure. Egli avea da sbrigare alcune altre sue faccende: fra tanto, aspettandolo, cercai di risovvenirmi della topografia di quel posto che avevo visitato alcuni mesi fa., dopo aver attinte alcune mie impressioni sul Fondaco Verde. Mi ricordai, a proposito di luoghi simili, delle indicazioni del Capasso: secondo l’illustre uomo i fondaci pigliavano i nomi loro, assai spesso, da quelli de’ proprietari delle case di cui si componevano: cosı` il fondaco Miroballo, quel de’

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Caracciolo, l’altro de’ Fellapane e quello degli Agnani. Qualche volta si aggettivavano da’ nomi degli alberi che v’eran piantati, come quello del Fico, attiguo al fondaco Palazzotto, come il fondaco della Teglia (ossia del tiglio), come il fondaco Cetrangolo e quello della Mortella. A qualcuno di questi culs de sac de’ vecchi quartieri napoletani era annessa pur una cappella o doveva il nome un Conservatorio: la cappella di S. Maria d’Alvino, nel fondaco della Teglia, accoglieva la gente di quelle case, che vi si recava a sentir la messa; il Conservatorio Visitapoveri derivava da un budello di origine molto remota che avea la sua pietosa tradizione nel quartiere di Porto. Che cosa erano, anticamente, questi fabbricati? Non si potrebbe, con molta precisione, dirlo: forse la loro interna fisonomia era meno triste di quanto non e` oggi: a’ tempi del Summonte (1600) nel Fondaco Verde una fontana di rustica fabbrica dava da un mascarone di marmo buona copia d’acqua e, cosı`, tutti gli altri fondaci avean la loro vasca barocca, ove, con perpetuo chiacchierio, la limpida vena pettegoleggiava de’ casi plebei del vicinato. Una parte caratteristica ed interessante della Napoli antica, lieta di tutta la giocondita` partenopea, ha dovuto esser, di quei tempi, ogni fondaco: miseria ve n’e` stata sempre a Napoli e, specie negli anni del seicento, molta: eppur io non so immaginar buio, malinconico, opprimente, com’e` adesso, il fondaco di quei tempi, non so non rievocarvi le pittoresche figure masanielliane che vi praticavano, ne´ so immaginar inginocchiate nella cappelletta di S. Maria Visitapoveri o in Santa Maria di Porto salvo altre femmine se non che le belle mogli de’ marinai di que’ paraggi, vestite alla greca e orgogliose della lor collana di perle scaramazze. *** – Dunque, andiamo? E il buon Travaglini s’avviava. Io me gli misi appresso. Attraversammo piazza Depretis e, pigliando per una scorciatoia, uscimmo sulla via del rettifilo, disseminata de’ ruderi delle vecchie case, risuonante tutta dell’opera d’abbattimento, del passaggio dei carri, del tonfo delle pietre cadenti. A un tratto il vico Venafro s’aperse dinanzi a noi, silenzioso, quasi deserto. Una donna, che s’addossava al muro, se ne stacco` e ci seguı`, poi ne comparve un’altra, poi un’altra, che s’accompagnarono a quella. A mezzo il vicolo, quando eravamo giunti al fondaco Palazzotto, mi voltai addietro: eravamo seguiti da un centinaio di popolane.

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

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Di dove erano uscite? Il vicolo le aveva rivomitate dalle loro tane e, a poco a poco, altre cento, altre ancora ne mise fuori il fondaco. Come v’entrammo un’ondata umana ci sospinse e ci ridusse in un angolo, nel cortile: dalla scaletta comune scesero in fretta due carabinieri e si fecero largo per arrivare alla porta, una voce, di sopra, grido`: – Levateve ’a sotto! E cadde in mezzo al cortile un vecchio paravento, tra un nugolo di polvere. Al tonfo seguı` un urlo: urlavano tutte quelle donne, come se quel paravento strappato al lurido mobilio d’una delle case del fondaco fosse cosa strappata al corpo loro medesimo, urlavano e imprecavano le vecchie, le giovani, le bambine seminude, scalze, piangenti. Quale scena! Il cortiletto del fondaco era pieno, era pieno il vicolo, di fuori: gli uomini, pochi, borbottavano, con le mani in saccoccia, pallidi: le femmine or davano alla loro collera e al loro dolore una forma piu` tempestosa. La casa, la casa! Era quello il grido: era tolta loro la casa! Dove sarebbero andate? Impossibile, impossibile trovar casa in una giornata. E la notte? Dove avrebbero dormito? Qualcuno passava, scendendo la scaletta lubrica, sudicia, con sulle spalle un materasso e usciva nel vicolo, altri si caricavano di seggiole, di scranne da letto, di tavole e cercavano di farsi largo per portar la roba fuori. Improvvisamente apparve un cesto, ondeggiante, e s’udirono de’ vagiti: chi trasportava il cesto era una madre e in quello era il suo piccino. Un clamore altissimo accompagno` il viaggio pietoso: quando quella donna scomparve, la fiumana delle sciagurate abitatrici del vicolo e dei fondaci irruppe con furia maggiore nel cortiletto e si rovescio` sui carabinieri. Uno di costoro, che si vide a mal partito, fece atto di cavar la daga. Era presso di lui una giovane, incinta. Ella levo` le braccia, indietreggiando, e mostro` il ventre: voleva parlare e non poteva; girava attorno gli occhi spaventati, pieni di lagrime e le mani percotevano l’aria, tremanti. Fu un grido solo, di tutte le altre: ` prena! E ` prena! Nun tira` ’a sciabbula! – E Seguı` un silenzio. I carabinieri riescivano ora a tener addietro la folla e si piantavano sul limitare del fondaco. Quelle che eran rimaste nel cortile seguivano, singhiozzando, il triste esodo della mobilia e delle persone e balbettavano ancora: – ’A casa! ’A casa! Addo` jammo? Addo` jammo? ***

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

Allo sgombero del fondaco Palazzotto doveva seguir, oggi, quello del fondaco Pozzillo. Ma a quanto ho letto ne’ giornali di iersera, il Travaglini garantisce che passera` ancora molto tempo, prima che le sessanta famiglie che abitano quel fondaco ne escano. Sono quasi cinquecento persone: dove andrebbero? Quelle che hanno sgombrato il fondaco Palazzotto non pagavano fitto alla Societa`, che, fra tanto, pagava la fondiaria all’esattore. Il fondaco gia` era stato sgombrato tempo fa, un anno quasi, e la Societa` aveva circondato il fabbricato d’un muro basso. Ma a Napoli seguono avvenimenti che non accadono in nessun altro paese. Come mai il fondaco si ripopolo` a dispetto del Risanamento? Il fatto merita d’esser narrato. Una donna del vico Venafro, che deve la sua celebrita` a molte sue gloriose imprese e che impone la sua faccia tagliata e qualche volta pur le sue mani poderose a tutte le altre del vicinato, pochi giorni dopo lo sgombero del fondaco pratico` un buco nel muretto di cinta e per quello affaccio` la testa nel cul de sac. Lo esploro`, trovo` ch’era, contrariamente all’avviso della Societa` del Risanamento e alla Commissione per l’igiene, abitabile, allargo` il buco e quando questo divenne una porta l’aperse a chi voleva entrare. In due giorni il fondaco fu pieno fin al tetto. La Societa` seppe il fatto e mando` gente sua sul posto. Quella brava donna fu trovata davanti a un tavolo, occupata a ricevere le mesate dei suoi inquilini. Poi che i nuovi pigionali eran diventati suoi pigionali ed era a lei che pagavan le tre o quattro lire al mese di fitto! E tutto questo, che pare inverosimile, e` durato quasi un anno. In un anno le autorita` (c’erano allora il Senise e il Sangiorgi) nulla seppero o vollero o potettero fare, la Societa` reclamo` invano, l’ispettore di P. S. della sezione fece spallucce e il Risanamento pago` la fondiaria. Quando il fondaco fu sgombrato ho udito io quelle sciagurate gridare: – Ma nuie avimmo pavato! Nuie pavammo! Ma protestavano in questa maniera pochissime: le altre tacevano, per paura. La Societa` fece distribuire a ognuna di quelle famiglie una quindicina di lire perche´ avessero potuto pagare la casa nuova. Quindici lire rappresentano una somma per quella povera gente: una di quelle famiglie – per dirvi della miseria vera che le rode – composta del padre, della madre e di due bambini aveva – come ci disse un vecchietto del vico Venafro – fatto l’abbonamento c’ ’o pizzaiuolo ’e Puorto, ca pe quatto solde ’o juorno, ogne sera l’astipava tutte ’e curniciune d’ ’e pizze.

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

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Lo stesso vecchietto diceva: – Lo sappiamo, la Societa` del Risanamento fa quello che deve fare e la colpa non e` sua. La colpa e` del Municipio che dovrebbe darci le case. – E quelle dell’Arenaccia? – Signurı`, lla` ’e vice sinneche fecero tutto lloro. So’ case p’ ’e puverielle chelli lla`? Voi scherzate? La` ce sta gente ca tene ’o pianefforte! Nuie che simmo? Simmo niente. E ’o municibbio e` tutto! I vice sindaci, il municipio... Ah, che orrore, che orrore!... Salvador [“Corriere di Napoli”, 30 novembre-1˚ dicembre 1893]

Gli ultimi fondaci II Due o tre giorni fa il pianterreno del fondaco Pozzillo – un altro di quelli del famoso vico Venafro – e` stato sgomberato senza rimostranze popolari; la Societa` del Risanamento, dopo i fatti seguiti al fondaco Palazzotto, se ne sara` rimessa all’autorita` prefettizia – devo credere – e al questore; avra` pur, come usa di fare, distribuito a quegl’indigenti qualche po’ di denaro e sara` riescita a vuotare del loro infetto contenuto quelle caverne asfittiche. Dove avranno mi` da immaginare che si grato tante famiglie di pezzenti? Chi lo sa? E siano sparse – gente che ha contatto continuo col porto vicino – per i vicoletti di Porto ove i segni del Risanamento non ancora hanno condannato le mura centenarie o dove le rispettano ancora pur additandole a una prossima scomparizione. Fra tanto due altri fondaci del vico Venafro medesimo aspettano di essere sgombrati, e la Societa`, che per quasi un anno ha pagato la fondiaria per essi senza nulla poter cavare da quegli abitanti – arbitrariamente immessi nello stabile e tenuti a mensilmente compensar l’eroina che sfondo` la murata e ripopolo` le fetide stanze – non ha, a quanto pare, nessuna voglia di farsi far le fiche in barba alla legge. Conosco parecchi Lamennais posticci che, a proposito di questi esodi pietosi, abbandonandosi alla piu` verbosa retorica, mostrano d’infiammarsi e vociano, concitati, invocando l’umanita`, la giustizia, lo spirito fecondo e rinnovatore di una serie ultima di pronunziati sociali, onde la plebe, che ha il diritto di non essere oppressa,

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

ritroverebbe finalmente il buon fatto suo. Ogni grande sciagura ha la sua cornice: questi paupericultori, che son la parte decorativa della miseria, la espongono tutta semplice e nuda come la Verita`, inquadrandola di frasi barocche. V’ha di quelli che la rappresentano quasi ufficialmente, che, pel contatto frequente che ne hanno, per la cronaca triste e miserevole che ne sanno, ne conoscono, assieme alle necessita`, ogni altro male e potrebbero aver il coraggio – da che hanno tanta mirabile foga di propugnarne i diritti – d’additarle, a un tempo, i suoi doveri e il suo compito. Questo genere di plebe infima, che di ogni vicolo, d’ogni fondaco partenopeo ha fatto una Corte de’ Miracoli, non ottiene, specie per bocca di coloro cui ne sono affidate precipuamente le sorti, un sincero giudizio: quando essa, sospinta dal pericolo della casa, percote le porte del municipio o della prefettura e grida alto e piange, gli animi si commovono e, al cospetto di tanti sciagurati, innocenti, i quali la poverta` dell’opera, la copiosa famiglia, l’angustia della casa e la scarsezza del vitto opprimono cosı` barbaramente, ci si domanda, spaventati, se davvero uno de’ problemi del risanamento di Napoli, che doveva aver la sua soluzione nello spostamento e nel miglioramento della classe poverissima, debba venire abbandonato. *** Il vico Venafro e` una stretta e lunghissima traversa antica del quartiere di Porto. Chi da Piazza Francese procede verso la Piazzetta di Porto incontra, sulla sinistra, Rua Catalana, cosı` chiamata da Giovanna I, francese, che la destino` a’ calzolai e a’ cappellai catalani del bel trecento. La peste del 1656, che fece meglio di quattrocentomila vittime, spopolo` quella strada e ammucchio` nel vico Venafro, a migliaia, i cadaveri. Chi entra nella Rua Catalana da via di Porto vede, fatti pochi passi, aprirsi, sulla sua destra, fra’ muri di due vecchi palazzi, un’orribile stradicciuola che fa gomito poco avanti e della sua misteriosa e sospetta semioscurita` assale ogni cosa intorno. ` il vico Venafro, che il colera del 1884 ha trionfalmente percosso E dall’un capo all’altro. Quali mestieri vi si compievano prima d’ora? Chi lo sa? Ora vi si fanno tutti i mestieri e un de’ primi fondaci che forse e` il piu` sozzo, accoglie donne di mal’affare che le prime ore della sera sparpagliano per tutto il vicolo o cariatidano al suo ignobile ingresso, tra i rigagnoli del vicolo e della fontanina, tra la spazzatura sparsa o ammuc-

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chiata sotto grondaie che cantano rauche e tetti che spiovono. Una volta i quattro capi d’una tenda incatramata, che avea forse servito a difender dal sole o dalla pioggia la mercanzia d’un dei venditori della piazza di Porto, furono attaccati alle finestre che affacciano nel vicolo, presso al suo ingresso: la penombra, sotto questo improvvisato e nero soffitto, divento` oscurita`: la mala vita di Porto ritrovo` in quel luogo tenebroso per ove biancheggiavano, qua e la`, come tante figure imprecise d’uno sfondo di quadro olandese, il posto propizio a’ suoi conciliaboli. Cosı` come appariva nella notte, deserta Rua Catalana, quell’antro faceva orrore e metteva paura.

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*** Io non descrivero` l’interno di quel fondaco afrodisiaco: certamente Venere l’avrebbe indicato al suo primo marito perche´ tra quelle umide mura, su quel sudicio sterrato avesse piantato le sue incudini e accese le sue fucine, piuttosto. E pur quelle donne che smentiscono tutta l’estetica anatomica femminile e sono allontanate dalla societa`, al vico Venafro – come da per tutto ove accadono simili contatti dell’onesta` con l’impurita` – sono sopportate, compatite, fors’anche apprezzate da una certa sentimentale filosofia napoletana che fa due cose ben distinte dell’anima e del corpo. Dopo tutto una comune disgrazia parifica la familia a ogni singolo individuo di quell’accolta speciale: la miseria, l’alloggio. Senza luce, senz’aria, senza spazio, quella gente vive, brutalizzata, nell’ignoranza e nel sudiciume. Accetta, per ignoranza e per necessita`, e subisce la camorra e l’usura, questa che raddoppia il prezzo d’un pane o d’uno straccio comperati a credito, quella che ha piu` alte ramificazioni e in tanti modi e con tanti argomenti impone le sue, e, qualche volta, pur le volonta` di molte ambizioni superiori. Gli agglomeramenti sono un pericolo: qualcuno ha detto: sfollate – e ha ben detto. Non e` vero che gli abitanti dei fondaci chiedano di non uscirne per il puro e sentimentale desiderio di non abbandonare le loro vecchie pietre: in quelle umide, scure, sudicissime abitazioni essi hanno contratto spaventose abitudini, comunioni ignobili, obblighi disastrosi e immorali e parrebbe quasi che una immane fatalita`, pesando su tutte quelle sventure e su quel vizio, dovesse costringerlo a rimanere eternamente ripullulante in quel vasto focolaio. Ma ognuna di quelle madri prolifiche trema al conspetto dei suoi pallidi figli, assaliti da tutte le malattie, pascolo d’ogni epidemia, smunti, laceri, esangui: gli

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

uomini rilassati cadono sul loro strame infetto e benedicono il sonno che li toglie alla visione continua della loro miseria, al lezzo del loro canile, allo spettacolo angoscioso della loro famiglia: la vecchiaia marcisce, o immota o inutile, in quelle oscurita`. Chi e` che rifugge dal sole, dall’aria pura ed aperta? La gente de’ fondaci non ha giurato di morirvi: quando ha trovato riaperta la sua casa da tale che aveva avuto l’animo di farlo l’ha ripopolata perche´ non ne aveva altra. Ed ha anche pagato.

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*** Diremo una buona volta la verita`, couˆte que couˆte? Al contratto tra il Municipio e la Societa` del Risanamento, poco dopo che esso venne concluso furono apportate alcune modifiche. Dove sarebbero andate le famiglie indigenti che l’opera di demolizione avrebbe sgomberato dai fondaci dei quartieri bassi della citta`? Impegnatasi la Societa` alla costruzione di case economiche, queste furono destinate, con prezzi ridotti, ai rimossi dai fondaci. Vi avrebbero trovato luce e spazio, vi si sarebbero abituati alla nettezza che e` necessario ed obbligatorio mantenere in quelle case, in quei cortili ed in quelle strade e, divisi nella lor ributtante compagine da questa provvida selezione, avrebbero certamente migliorato pur moralmente. Si stamparono delle tessere e fu detto che ad ognuna delle miserabili famiglie dei fondaci, nell’atto dello sgombero, ne sarebbe stata concessa una, che permetteva ad essa di occupare una modesta e pulita camera alla quale era attigua la cucina. Le tessere furono distribuite dal Municipio – se non mi sbaglio – e da persone alle quali il Municipio, per farle equamente distribuire, le aveva affidate. Che ne seguı`? Riproduco testualmente una lettera, urgente, che l’amministratore delegato della Societa` del Risanamento invio` al sindaco nel 4 maggio di quest’anno. La lettera e` cosı` espressa: «Onorevolissimo signor Sindaco, una grave irregolarita` interviene nella distribuzione delle tessere per le case economiche concesse a prezzi ridotti ai termini dello schema di convenzione per modifiche al contratto di risanamento. Le dette case furono sub verbo segnanter concesse in favore delle classi meno agiate che vengono sgombrate dai fondaci dei quartieri bassi. Invece molte tessere sono state date ad ex inquilini delle nostre case economiche a S. Cosmo e S. Maria delle Grazie a Loreto ed altri siti, fittate a prezzi ordinari, i quali ex inquilini certo per la loro condizione professionale non appartengono

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

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alle classi meno agiate; e cio` con evidente e grave lesione dei nostri interessi e con la grande violazione dello spirito e della lettera dello schema di concessione suddetto e della corrispondenza al riguardo scambiataci. Possiamo fin da ora indicarle a titolo di esempio taluni fra gl’individui anzi cennati, cui furono date le tessere in parola. Tale irregolarita` gia` si era riscontrata nelle precedenti analoghe concessioni per le case dell’Arenaccia, dove, tra l’altro, abbiamo veduto nelle cosiddette case dei poveri anche de’ pianoforti a coda, essendo la maggior parte dei cosiddetti poveri piu` che altro pensionati, impiegati, negozianti, industriali e guardie municipali. Tale stato di cose costituisce una flagrante violazione dello spirito e della lettera degli accordi intervenuti fra la nostra Societa` e codesto spettabile Municipio e, se da un lato procura a noi una classe d’inquilini piu` pulita e civile dell’altra, ci pregiudica per cio` che concerne l’ammontare dei fitti mentre lascia insoluto il problema dello spostamento delle classi veramente povere che con gli imminenti sgombri dei fondaci si imporra` a codesta spettabile amministrazione. Tanto abbiamo dovuto dedurre a notizia della S. V., a tutela dei nostri diritti ed a scanso di responsabilita`». Questa lettera non approdo` a nulla, come al solito. Una seconda lettera comunicava al Municipio il risultato d’un’inchiesta sugl’inquilini entrati con tessera municipale nelle case chieste alla Societa` a prezzo di favore. Come risulta da un accluso elenco, di 1179 inquilini solo 657 possono considerarsi poveri, 622 risulterebbero agiati e fra costoro sarebbero ben 53 impiegati municipali. *** Da queste cifre eloquenti tragga il signor Prefetto le sue conclusioni: egli fu magistrato ed ebbe occhio vigile e sapiente. Il favore pel favore: ecco la verita` di questa disgraziata faccenda. Altri che non sono quelli cui eran precisamente destinate le case dei poveri le hanno occupate: certo, nemmeno questi intrusi sono persone facoltose; essi vivono una vita grama e stentata ma, dopo tutto, tolgono il ` ormai il rispetto delle leggi che tetto a chi proprio muore di fame. E si vuole veder instaurato da quelli, come da questi ultimi che l’ignoranza e la necessita` sospinsero fin alla violenza e arbitraria occupazione di uno stabile altrui. Ma e` piu` in alto, piu` in alto che bisogna cercare: un grave pericolo e` nella conoscenza e nell’apprezzamento

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

della corruzione, da parte del popolo, ed e` questo pericolo che bisogna scongiurare. Salvador [«Corriere di Napoli», 14-15 dicembre 1893]

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Il mistero di Vico Equense Cosı`, in tutti i giornali cittadini, fu intitolata, nel 1885, la narrazione d’un fatto che solletico` la curiosita` e l’interessamento di tutta Napoli, che li tenne vivi per un buon pezzo, mentre l’autorita` di P. S. e quella giudiziaria entravano in una nobile per quanto inutile gara. Assistevamo meravigliati a questi sforzi infruttuosi; dico meravigliati poi che a tutti pareva che agenti o funzionari magari dei meno illuminati o pratici dovessero cavar presto le mani dalla faccenda. Il giornalismo, si puo` dire, fece anche piu` di costoro: mantenne viva, se non altro, l’attenzione del pubblico intorno al misterioso avvenimento, ne chiese persino fuori d’Italia le cagioni e gli indizi che potevano additarne gli attori o il protagonista, s’occupo`, in Napoli stessa, d’altre ricerche, sulle quali fu intessuto un racconto che finı` per diventar, confessiamolo pure, bizzarro. Si parlo` d’una ancor piacevole donnina, francese, vedova, la quale avrebbe, per impadronirsi d’una certa eredita`, soppresso un dei suoi figliuoli per goderne la fortuna con un amante. Ma la poverina era innocente come l’acqua fresca, almeno della uccisione della sua prole. Fu abbandonato il tema di questa Medea trapiantata a Napoli da Parigi e, poco dopo, riesciti vani tutti gli altri tentativi, sorda la questura alle nostre sollecitazioni, piu` sorda pur l’autorita` giudiziaria, il mistero di Vico Equense fu abbandonato del tutto. Quando, nel giovedı` 19 novembre 1885, un telegramma da Vico Equense ci annunziava il delitto, io prestavo i miei servizi in qualita` di cronista in un giornale della citta` che si gloriava d’una provetta e volenterosa schiera di galoppini. Avrei potuto affidare a un di costoro le ricerche intorno al fatto ma preferii consacrarmivi io stesso: sognavo un pezzo movimentato, descrittivo, pietoso e, d’altra parte, m’induceva a far da solo una grande curiosita`: volevo veder con gli occhi miei, toccare con le mie mani. Le circostanze delle mie indagini peculiari essendo rimaste impresse nei miei ricordi piu` esatti, presente pure, specie, alla memoria dei miei occhi la figura di quel povero ragazzetto del quale appena si fu in tempo a far la fotografia, posso qui, dopo nove anni, rifar la storia precisa del fatto.

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

APPENDICE

La mattina del 19 novembre intervistavo il giudice Spaccapietra al quale era stata subito affidata l’istruzione del processo. Spaccapietra, avvedutissimo e perspicace magistrato, e` una di quelle poche persone, per giunta, che negli uffici del loro grave ministero vi accolgono con maniere geniali e, pur mantenendo intorno al compito loro l’austerita` e il segreto che gli convengono, per quanto possono non si rifiutano di render piu` facile il vostro. Quando entrai nella sua cameretta al secondo piano del palazzo dei Tribunali, un di quei tanti scomodi, meschini, sudici bugigattoli sparsi su in alto del palazzo della Vicaria, l’ottimo Spaccapietra era in confabulazione con qualcuno che gli parlava di cose d’ufficio. Parlavano faccia a faccia, sottovoce, e io non potevo ascoltar nulla. – Sei venuto per Vico Equense? – mi disse – Ho capito. Vuoi sapere qualche cosa? Be’, non si sa niente fino ad ora, tranne quello che avete stampato. Vuoi vedere? Be’, e tu vide. Si levo` quasi dalla sua poltrona e guardo`, di su la sua scrivania, dalla parte della finestra, dicendo all’uomo che parlava con lui: – Permettete un momento. Soggiunse a me, raccomodando gli occhiali sul naso e ricascando a sedere: – Quelli sono i panni d’ ’o piccerillo Sotto la finestra era un mucchio di panni, e su’ panni, un cappello, un piccolo cappelluccio nero, di feltro morbido, a brevi tese. C’era la camicia, che pareva usata per la prima volta, a colletto e polsi fissi, non inamidata, la camicia d’un provincialetto, o d’un contadinello; c’erano dei calzoni di fine panno nero, strappati in parecchie parti, c’era una giacchettina di zegrino pur nero e un paltoncino di panno azzurro scuro. Tutta questa roba era sporca, chiazzata di sangue, ancor umido. Spaccapietra seguitava a confabular con quell’uomo nella piccola stanza, tanto parlavan piano, s’era fatto il silenzio. Di fuori pioveva a dirotto. Io guardavo, commosso, quel mucchio di panni insanguinati, ch’erano stati di una povera creatura che cercavo di impersonare, di farmi presente, d’immaginar terrorizzata, la bocca aperta per chiamar aiuto, pieni gli occhi di orrore e di spavento, una povera, misteriosa creatura la quale ancor palpitava la` dentro, in quegli stracci parlanti. *** – Dunque! – disse Spaccapietra, che avea, fra tanto, licenziato

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

l’uomo – Hai visto tutto? E mo che buo`? Carta, calamaro e penna... Sedetti di faccia a lui, che puliva gli occhiali nella pezzuola e ammiccava. – Fatto grave, carissimo; chi sa se ne caveremo le mani. L’hanno fatto fuggire, l’assassino: non siamo piu` in tempo. E mo che buo`? – Addosso al ragazzo?... Ecco: addosso al ragazzo s’e` trovato un piccolo Crocefisso di metallo bianco, attaccato ad una catenella di ferro. Il Crocefisso era in una saccoccia della giacchettina: in un’altra avevano rinvenuto una borsettina di cuoio bianco, una specie di portamonete che conteneva mezza lira svizzera e sessanta centesimi in tante monete italiane. Il piccino aveva al collo due scapolari sui quali erano ricamate alcune frasi di religione, in francese: di fabbrica francese erano pur gli scapolari: parevano di quelli che le suore della Carita` mettono al collo de’ loro scolaretti, che fan loro baciare ogni sera, prima che vadano a letto, di cui, infine, fanno ripeter a’ piccini, inginocchiati a mezzo de’ loro lettucci, le parole di preghiera e di fede. Le calze del ragazzetto erano state, come si dice, repertate per un’indagine minuziosa, da che trapunte al sommo d’esse eran due iniziali, in rosso L. S. Il nome della vittima? Se ne fece un gran parlare, ma bisognava anche tener conto, a questo proposito, dell’abilita` dell’assassino. Le iniziali non dicevano nulla: l’assassino appunto per sviare le indagini della polizia avrebbe ben potuto scegliere le iniziali che gli fossero piaciute, certo non quelle del piccino. Ricordo che lo Spaccapietra ritrovo` perfino – almeno questo si disse e si stampo` – il fabbricante delle calze, francese. Ricordo che fu stabilita la poca euritmia de’ panni del piccino: il cappottino era rozzo e malfatto, una trina volgare era intorno agli orli e alle maniche. La camicia, nuova affatto, era stata comprata, indossata e tenuta addosso fin al momento del delitto. Niente mutande. I calzoni erano di panno nero di frack; manifatture e panno forestieri. Le scarpe, di solida fattura, punto eleganti, erano francesi o svizzere: due ordini di bullette sotto le suole, un cuoio spesso e duro le facevan somigliare a vere scarpe da touriste, da persona che deve far lungo viaggio. Ricordo in questo momento un altro particolare: le calze eran lunghe come quelle che portano le donne. ***

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

APPENDICE

L’uomo che era stato visto assieme al ragazzo vestiva un abito scuro, con pardessus chiaro: portava occhiali d’oro, cappello di feltro morbido a larghe tese, aveva capelli castagno chiaro, barba rossiccia, poco lunga, carnagione accesa. Era stato incontrato a Vico da un cocchiere. Il cocchiere gli offerse la sua vettura. L’uomo non rispose e s’allontano`. Era giunto col piccino a Castellammare il mattino del 10 verso le ore 8; compiuto il misfatto era tornato a Napoli la sera stessa con un biglietto di 3˚ classe. Le fotografie del cadavere – delle quali conservo una copia – furono spedite a tutti i consolati. La questura, intanto, appurava che nella notte che seguı` all’assassinio un individuo i cui connotati corrispondevano esattamente a quelli del forestiero di Vico Equense era sceso all’Hoˆtel de Gene`ve e vi era rimasto a dormire. Se n’era andato il giorno appresso, lasciando ne’ registri dell’albergo un nome indecifrabile. Ricordo anche degli arresti che si fecero. In un caffettuccio di Piazza Francese il delegato Cirese arresto` tre individui i quali, dopo aver subito un lungo interrogatorio, per mezzo d’un interprete della questura, furono spediti al consolato tedesco. Erano un barbiere e due pittori, tedeschi. Uno dei pittori si chiamava Halboff e somigliava molto all’uomo di Vico Equense. Altri particolari seguirono ai primi dopo due altri giorni. Qualcuno, nella sera del delitto, aveva visto il misterioso uomo che conduceva per mano, a Vico, il ragazzetto. L’uomo era avvolto in un lungo mantello. Il piccino gli si trascinava dietro a fatica; pareva stanchissimo... *** – Nu pacchiuttiello – avea detto Spaccapietra, parlando del piccino. Cioe` un ragazzo grassoccio, bellino, acconcio. Aveva capelli castano chiaro, mento rotondo, faccia grassottella: mostrava un dieci o dodici anni. Povero piccino! Ho ancora davanti agli occhi la sua immagine pietosissima: lo addossarono, per fotografarlo, a una seggiola rovesciata: la testa era appoggiata ai piuoli. Gli occhi chiusi, la bocca schiusa, delle ecchimosi sul lato sinistro della faccia, sotto il naso. Il cervello era venuto fuori da una profonda ferita dietro la testa, all’occipite. Il piccino era precipitato da un’altezza di settanta metri sugli scogli.

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

Quale morte, e in qual posto! Pochi giorni dopo il fatto, da Castellammare, con due amici, uno pittore, l’altro giornalista, costeggiammo quel tratto della marina di Vico ove il delitto era stato compiuto. A dieci passi da un seno che avea dovuto udire il grido supremo della vittima alcuni pescatori traevano, cantando, la rete alla morbida arena. ` qui – domandammo – che e` stato precipitato il fanciullo? – E – Ccellenza, sissignore – rispose il piu` vecchio de’ marinai – lla` bascio, vicino ’a Spilonca. ’A Spilonca e` una grotticella ove l’onde si raccolgono mormorando. Vi si precipitano, si ritraggono spumanti, tornano al mare e quel cavo luce, limpidissimo. Dal cavo a una piccola trattoria marinaresca la riva ha linee ondulanti: sull’acqua chiara era un cielo sereno: il porto pareva antico d’una remota antichita`, che conserva perennemente il suo divino sorriso. Salvador [“Corriere di Napoli”, 24 luglio 1894]

Le donne, i cavalier, l’armi, ecc. ecc. Le donne del popolo napoletano son fatte segno, da qualche tempo a questa parte, a studii antropologici dei quali in piu` d’una rivista, magari di lettere, appaiono a mano a mano i risultati. Ultimamente s’e` occupato di simili ricerche, nella Nuova Rassegna, il signor G. Ciraolo Hamnett il quale ha aggiunto alle sue dimostrazioni alcuni quadri statistici dai quali si rileva come qualmente in questa nostra sorridente e lieta e dolce citta` prosperino al sole che le riscalda, nelle nostre femmine della plebe, tutte quelle violente passioni che caratterizzarono Carmen. Negli ultimi fascicoli della Rivista di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale il dottore Abele de Blasio ha fatto non dico qualcosa dippiu` ma certo qualcosa di piu` interessante: egli ha precisamente esposto il risultato delle sue ricerche intorno ai segni della mala vita napoletana e ha posto quei segni in relazione coi comuni delitti che seguono tra i chiassuoli e nei vicoli partenopei. Moltissimi segnati, non poche segnate: delle intere centurie di malviventi fra i quali s’agitano ed operano – quasi sempre diventando vittime, non di rado incitando e incoraggiando – turbe di femmine. Simili donne, che, nello studio del de Blasio, appena sfiorato dalle sue indagini

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

APPENDICE

superficiali – dico superficiali nel senso della materia, nel senso dermico – occupano pure il loro posto nelle categorie che lo scrittore va determinando, sono di quelle che si trascinano dietro al vizio dei maschi per miseria men che per orgoglio, per bisogno piu` che per paura. Noi le vediamo affollar le Assise e i Tribunali portandovi la stessa spavalderia e lo stesso cinismo che vi portano i loro uomini, le ritroviamo sulla via, abituate a manifestare passioni virili davanti a un pubblico che si va facendo scettico ogni giorno piu`, davanti a una platea della plebe assai facilmente, per quanto paia indifferente, suggestionabile. Le piu` appartengono a quella speciale classe della societa` che, col nostro filosofico abito di definir pietosamente certe sventure, son dette disgraziate. Affiliate per necessita` alla mala vita maschile ne prendono le costumanze e anche certi riti: il tatuaggio, per esempio, che negli uomini e` piu` occulto, in quelle e` quasi sempre palese. Le signore dell’aristocrazia del secolo passato e fino quelle della borghesia usavano i nei, e li chiamavano le moschette. V’erano moschette passionate, pensose, sognatrici, altere, secondo il posto che occupavano, ora sull’angolo della bocca, ora sulla tempia, ora sulla gota, ora presso l’occhio. Le donne esaminate dal de Blasio si fanno un neo presso la bocca o sul pomello, un piccolo neo bluastro o nero. Il neo scompare quando la povera donna non e` piu` buona a nulla; le vecchie arrossirebbero di quell’ornamento. Scompare a furia... d’acquaforte, ma l’acido lascia una cicatrice deformante che non si cancella mai piu`. Il tatuaggio osservato dal de Blasio sul corpo di quarantasette donne era per lo piu` o fantastico, o amoroso, o religioso: una aveva sul petto una sirena, una, sulla regione epigastrica, due pupi in atteggiamento di duello, rappresentazione che l’amante della sciagurata, pentito delle gesta di Gano di Maganza o di Orlando, scelse per riprodurla sulla sua ronna. Un’altra portava sul petto, dal lato sinistro, due cuori infiammati, uniti fra loro da una catenella. E sotto v’era scritto Ferelta`. Autore del disegno e dell’operazione un camorrista di sezione Porto, vecchio arnese di questura. Un cuore trapassato da una freccia, un arco dal quale la freccia partiva, due colombi nell’atto di beccarsi erano i segni d’un’altra; una, ancora, portava incise sulla regione clavicolare sinistra le lettere V. S. A. (viva Sant’Anna); un’altra, sul braccio sinistro, per tener lontano il diavolo, il segno della Redenzione. Un’ultima, sulla regione interna dell’antibraccio, queste tre parole: Speranzella, Figurella, Tappia...

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APPENDICE



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*** La vita del carcere e` riassunta dal popolano in una mirabile quartina che e` andata finora per le bocche di tutti gli habitue´s di S. Francesco, o di Castelcapuano, o del Carmine: A. S. Francisco – mo sona ’o risveglio – chi dorme e chi veglia – chi fa nfamita`! Assonanze d’un poeta sconosciuto, d’uno di quei bardi plebei che usano d’improvvisar serenate sotto le grate delle prigioni. Il tatuaggio si pratica in carcere e il popolo di buona morale lo reputa una delle nfamita` che vi si compiono. Questore a Napoli il Sangiorgi, ricorderete, fu instituito un servizio fotografico di pregiudicati, le cui immagini raccolte elegantemente in un albo offrivano ai giornalisti molta materia laudativa per l’accorto funzionario e al duca di Maddaloni l’occasione di un altro de’ suoi cocenti epigrammi. Contemporaneamente, perche´ la prima questura del Regno potesse avere completo il servizio d’indagini scientifiche che a Parigi, nel 1880, aveva inaugurato il Bertillon, il dottore de Blasio chiedeva e otteneva dal ministro dell’Interno uno speciale permesso per impiantare in Napoli, nella questura, un ufficio antropometrico, mediante il quale egli potesse metter assieme non pur un prezioso materiale per le conclusioni della scuola, cosı` fiorente, d’antropologia criminale, quanto render piu` facile la ricerca del pregiudicato, con additarne esattamente certe caratteristiche. V’e` ancora in questura un simile ufficio? Non saprei dire: il Campolmi e` un mito; nessuno lo vede, nessuno lo conosce, ne´ credo ch’egli ami di s’afficher. Il de Blasio rende noti i suoi studii, d’altra parte, senza dire se li continua nel medesimo uffizio di via Paolo Emilio Imbriani. Comunque a me paiono d’una certa curiosita` pe’ lettori, abituati a udir ripetere le tante volte, nella cronaca nera, gli appellativi e certe qualita` degli inquilini di S. Francesco, o di S. Maria ad Agnone. Sul tatuaggio, che e` la caratteristica quasi principale della delinquenza a Napoli, il de Blasio scrive un piccolo capitolo abbastanza interessante, intrattenendosi da prima a ricercarne le origini in tutti i popoli e risalendo fin al precetto del Levitico che ammonisce: Non farete incisioni sulla vostra carne a causa di un morto e non farete figure o segni sopra di voi. Pare, dunque, che il tatuaggio esista fin dal tempo in cui Mose` scriveva leggi sotto dettatura. A causa di un morto: questa la ragione del tatuaggio antico, biblico per dir cosı`. A vanto, a offesa, a ricordo di vivi e di cose vive: questa la ragione del tatuaggio de’

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tempi nostri. In Francia il Lacassagne, professore di medicina legale all’ospedale di Lione, e` stato un de’ primi a pubblicare uno studio sul tatuaggio: la sua collezione unica riproduce iscrizioni e disegni copiati di su la pelle di 600 individui. I prigionieri – il tatuaggio segue sempre, quasi, nelle carceri – si servono di aghi finissimi fissati in un pezzetto di sughero. Il tatuato e` punto ove e` la traccia di un disegno a contorno eseguito a penna sulla pelle: l’epidermide traforata e` quindi fregata con inchiostro di China o con vermiglione o con bleu d’indaco. A Napoli la materia colorante e` ’o nniro fummo. I detenuti se lo procurano sovrapponendo alla fiammella della tradizionale lampada ad olio, che brucia cosı` nelle carceri come nei depositi delle ispezioni, una carta o un piattello che raccoglie il fumo puzzolente e denso. Poche gocce d’acqua bastano a sciogliere quell’untume; un ago da cucire infisso in un pezzetto di legno punge l’epidermide del paziente lı` ov’e` il segno, a matita, di uno scritto o d’una raffigurazione, gia` lievemente sparso d’uno strato di nero fumo. D’abitudine anche i novizi resistono a queste punture senza lamentarsi: se si lamentano corrono rischio peggiore: una bastonatura, degli schiaffi, magari qualche sputo in faccia. Compiuta la punzecchiatura, lo stesso artefice con un rapido massaggio lascia maggiormente penetrar nei buchi dell’ago il colore e quindi applica sulla parte sanguinante una pezzuola bagnata nell’aceto, quando se ne puo` avere, nell’acqua piu` spesso. Ed ecco, un nuovo decorato accresce le fila de’ combattenti p’ ’a picciuttamma. ` particolarita` della camorra questa specie d’illustrazione dell’eE pidermide, oppure e` comune a tutti coloro le cui pratiche voluminose occupano gli scaffali dell’archivio della nostra questura? Pare che il de Blasio ritenga che i tatuati sien tutti camorristi: cio` non e` esatto, come non e` esatto quel che gli hanno affermato de’ vecchi funzionari di pubblica sicurezza, che, cioe`, il tatuaggio si riscontrasse piu` frequentemente ne’ tempi passati. Son tatuati anche dei ragazzi decenni che non appartengono alla camorra e si esercita sempre il tatuaggio anche oggi su larghissima scala. La punzecchiatura arreca dolore irritante: difficilmente si riscontrano auto-tatuaggi, da prima perche´ son pochi quelli che hanno il coraggio di eseguir da se stessi quell’operazione, poi perche´ l’arte ha un’estetica particolare, che non e` di tutti. Tatuaggi di religione, di graduazione, di professione, di bellezza, di vendetta, di disprezzo, tatuaggi accennanti a un simbolo, a una data memorabile, a un nomignolo, a un mestiere: ecco i segni della

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malavita militante. Il tatuaggio d’amore – e quale! – ricorre assai spesso: ecco per esempio sul cuore di un pregiudicato rapinante una chiave con sotto la scritta: Tu seie la chiavitella di sto core; ecco sul braccio destro d’un borsaiuolo: Annina a craparella e` a passiona mia; ecco sulla regione sternale d’un don Giovanni della mala vita questo catalogo cronologico: Carmela 1879, Nannina 1881, Dunetta 1881, Luvisa a rossa 1883. Due sanguinarii portano sul petto il primo uno scarabeo l’altro una testa di gatto; erano conosciuti in Societa` quello col nomignolo di Totonno ’o scarrafone, l’altro con quello di Pascariello cape ’e gatta, de’ nomi di cui si trovano collezioni complete nelle cronache nere de’ giornali e ne’ romanzi di quel povero Mastriani, che pareva un esageratore antipatriottico di certi costumi, di certi delitti. *** Spigolando nello studio del de Blasio trovo qualche esempio di bello scrivere che vale la pena di riportare. Questa prima lettera e` scritta dal cliente al paglietta, ed e`, come si dice, breve, succinta e compendiosa: Gentilissimo Signore Avucato e Cavaliere Vi arraccumanno a non dormirvi perche so 22 ciorni che innocendemende sto da dindo e non pensate pe farme la scarcerazione: indando le granelle se ne vanno e niende di positivo si vete. Fate a dire al mio patrono di casa che non si vestesse di carattere perche´ tre mesate deve avere soltando e arricurdatelo che i veri e singeri amici si cunoscono ncarcere e in malattie. Del resto vuie gia` lo sapite che chillommo si veste di carattere quanno sa che nisciuno le po’ azzeccare qualche cincofrunno. Scusatemi di tanta impertinenza e allicurdatevi di me. Vostro servo. Pasquale Quest’altra – che accenna ai furti commessi per via della fogna, recente manovra dei ladri napoletani – e` spedita al picciuotto onorato Car` un interessante documento: mine Z. dal pregiudicato Vincenzo C. E Caro combagnone Con grande rammaricamento son venuto a conoscenzia che Andonio lo Schiavuttiello si fece per quellaffare far f...; del resto non era pietto pe isso e me ne faccio meraviglia di te che desti a lui lingarico.

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Laffare avrebbe riuscito se si scendeva dalla preta perciata che sta vicino la fontana delli Serpi e subbito si arrivava sopra luogo. Pe mo bisogna pensare a guardarsi perche´ i corsi (guardie) ce ne stanno a uffo. Abbadate alla riflessione se no ci va per sotto lannore nuostro. Bicienzo ’o... nelludienza di Biennari mi dicette che la parte do muorto non fu data con coscienza percio` badate che nisciuno si lagnasse. Lo Squarcione badasse allo affare de lo Buvero e Giuanniello ai bagnanti. Arricordati tu e gli amici che la gola e` secca e ci vonno per farla ammollire due palle di Gragnano. Qui tutto e` pace: paricchi dei nostri saranno mandati a Vendotene e Ciccillo a Tremiti. Se vai al vico Sole salutami a Pizzicatella. Tuo combagno Vicienzo Un libro pieno di vita, di passione, di curiosita` si potrebbe fare – pensavo leggendo questi ed altri impubblicabili documenti epistolari del carcere – sulla delinquenza a Napoli: un libro non infiorato, non verniciato di retorica come qualcuno se n’e` fatto fin qui, come lo stesso Marc Monnier – il quale sottoponeva la sua osservazione all’amabile simpatia pel nostro paese – fece pel primo. Uno scrittore, uno scienziato, un poliziotto potrebbero comporre un’opera siffatta, che riuscirebbe, come quelle che ha stampato in Francia il Mace´ – per citarne qualcuno – di grande curiosita` e forse anche di suggerimento. Un legislatore vi troverebbe cifre non pure e statistiche e confronti, quanto descrizione viva e narrazione esatta. Il de Blasio e` gia` ammirevole per aver dedicato a un simile soggetto le sue ricerche: d’un’importanza piu` grande e` lo scritto dell’Hamnett, specialmente dedicato all’esame della delinquenza muliebre a Napoli. Confortandolo di piu` profonde osservazioni, la cui verita` a quanti conoscono questo nostro popolo caratteristico non puo` certamente sfuggire, l’Hamnett, giudice accorto e sereno, vi mostra sensi di pieta` e d’umanita`. Le nostre donne – chi le studii – non sono piu` cattive delle altre d’Italia: son certo ignoranti assai piu`, e piu` presto, per colpa degli uomini, perdono il tesoro della lor femminilita` e il loro pudore. Paiono allora piu` feroci, piu` triste dei lor uomini: ma certi atteggiamenti dominatori nascondono la debolezza innata: la migliore educazione e il trattamento della bonta` onesta trionferebbero di queste finzioni. Per diventare migliori queste povere donne, come tutte le donne, hanno bisogno di essere amate. Salvador [“Corriere di Napoli”, 21 gennaio 1895]

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Testi

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J.J. Winckelmann, Le scoperte di Ercolano, a cura di Franco Strazzullo B. Panvini, Poeti italiani alla corte di Federico II U. Barbaro, L’essenza del can barbone, a cura di Lea Durante C. Tenca, Delle strenne e degli almanacchi. Saggi sull’editoria popolare (1845-59), a cura di Alfredo Cottignoli G. Guinizelli, Rime, a cura di Pietro Pelosi Michelangelo Buonarroti il Giovane, La fiera. Seconda redazione, a cura di Olimpia Pelosi G. Gozzano, Nell’Oriente favoloso. Lettere dall’India, a cura di Epifanio Ajello P. Bertinetti (a cura di), La commedia inglese della Restaurazione e del Settecento S. Di Giacomo, Gli sfregi di Napoli. Testi storici e letterari sui bassifondi partenopei, a cura di Giovanni Greco, con un saggio di Stefano Scioli Anonimo portoghese (XVII secolo), L’arte del Furto, traduzione e cura di Maria Luisa Cusati F. Fontanini (a cura di), Piccola antologia del pensiero breve L. Viani, Racconti (1928-1936), a cura di Marco Veglia E. Ajello (a cura di), Carlo Goldoni. Memorie italiane Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, a cura di G.A. Camerino Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di G.A. Camerino Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, a cura di G.A. Camerino A. Prenner, Mustione “traduttore” di Sorano da Efeso. L’ostetrica, la donna, la gestazione

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