Gli occhi della pelle. L'architettura e i sensi 9788816407725

174 113 3MB

Italian Pages 83 Year 2007

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Gli occhi della pelle. L'architettura e i sensi
 9788816407725

Citation preview

Juhani Pallasmaa

GLI OCCHI DELLA PELLE

~ Lo.

-·:,

o

-

'-.J

~

u

~

~

·-

-0

·-

L'archit ttura

JacaBook

n

1

Titolo originale The Hyes o/ the Skin. Architecture and the Senses Traduzione dall'inglese Cristina Lombardo ©2005 J ohn Wiley & Sons Ltd, The Atrium, Southern Gate, Chichester, West Sussex PO19 8SQ, England seconda edizione

© 2007 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione italiana maggio 2007 In copertina Antoni Gaudf, Casa Milà, Barcellona, 1906-1910, particolare della struttura interna del sottotetto (inJ. Berg6s i Masso, Gaudi. !..:uomo e l'opera, foto di Mare Llimargas, Jaca Book, Milano 1999)

Redazione e impaginazione Gioanola Elisabetta, San Salvatore Monferrato (Al) ISBN 978-88-16-40772-5 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a EditorialeJaca Book SpA - Servizio Lettori via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48193361 e-mail: [email protected]; internet: www.jacabook.it

INDICE

Prefazione: Ghiaccio sottile, dì Steven Hall Introduzione: Toccare il mondo

PARTE PRIMA Visione e conoscenza Critica dell' oculocentrismo L'occhio narcisistico e l'occhio nichilista Spazio orale contro spazio visivo Architettura retinale e perdita di plasticità Un'architettura di immagini visive • Materialità e tempo Il rifiuto della finestra di Alberti Una nuova visione e un nuovo equilibrio sensoriale

PARTE SECONDA

7 11

21

23 28 32 33 36 40 43 45 47

51

54

Al centro, il corpo Esperienza multisensoriale L'importanza dell'ombra

56 62

5

lnd1ce ~

Intimità acustica ' Silenzio, tempo e solitudine Gli spazi del profumo , La forma del tatto Il sapore della pietra Immagini muscolari e ossee Immagini di azione Identificazione corporea Mimesi del corpo Spazi di memoria e immaginazione Un'architettura dei sensi Il compito dell'architettura

6

65

68 70

73

75 77 79

82 83 85

87 89

Prefazione

GHIACCIO SOTTILE di

Steven Hall

Seduto a scrivere questa nota in una piovosa New York City, pensando alla neve fresca e bianca appena caduta a Helsinki e al ghiaccio sottile della prima stagione, mi tornavano alla mente episodi del freddo inverno finlandese, quando ogni anno, sul ghiaccio spesso dei laghi del Nord, si improvvisano scorciatoie. Mesi dopo, il ghiaccio comincia a farsi più sottile e, se qualcuno s'arrischia a guidare sul lago, sono guai. Immagino quell'ultimo sguardo alle fenditure del ghiaccio, coperte dall'acqua gelida e scura che sale mentre l'auto affonda. La Finlandia è una bellezza tragica e misteriosa. J uhani Pallasmaa e io cominciammo a concentrarci insieme sulla fenomenologia dell'architettura nel corso del mio primo viaggio in Finlandia per l' Alvar Aalto Symposium, a Jyvaskyla, nell'agosto del 1991. Nell'ottobre del 1992 ci incontrammo ancora a Helsinki, mentre mi trovavo lì a preparare il concorso per il Museo d'Arte contemporanea. Ricordo una conversazione sugli scritti di Merleau-Ponty e su come si possano interpretare o riferire alla sequenza spaziale, all'intreccio, al materiale e alla luce, secondo l'esperienza dell'architettura. Ricordo 7

Gl1 occhi della pelle

che ne parlammo durante un pranzo, sottocoperta, dentro un'imponente barca di legno ancorata nel porto di Helsinki. Conosco l'architettura di Juhani Pallasmaa, a partire dagli splendidi ampliamenti museali di Rovaniemi fino alla sua casa di legno estiva su un bellissimo isolotto di roccia nell'arcipelago di Turku, nel Sud-Ovest della Finlandia. La percezione degli spazi, del suono e del profumo di questi luoghi è importante quanto il modo in cui le cose appaiono alla vista. Pallasmaa non è solo un teorico; è un brillante architetto della percezione fenomenologica. Pratica quel1' architettura dei sensi che sfugge all'analisi, le cui proprietà fenomeniche condensano i suoi scritti verso una filosofia dell'architettura. Nel 1993, a seguito di un invito di Toshio Nakamura, lavorammo insieme ad Alberto Pérez-G6mez alla realizzazione del libro Questions o/ Perception. Phenomenology o/ Architecture. Qualche anno dopo, trovandone le tesi importanti e comprovate anche da altri architetti, l'editore di Tokyo A+U, decise di ripubblicare il piccolo libro The Eyes o/ the Skin. Gli occhi della pelle di Juhani Pallasmaa, sviluppatosi da Questions o/ Perception, è un solido e chiaro intervento riguardo alle cruciali dimensioni fenomenologiche dell' esperienza umana in architettura. Era dai tempi di Experiencing Architecture (1959) del1'architetto danese Steen Eiler Rasmussen che non usciva un testo altrettanto chiaro e succinto, che possa servire agli studenti e agli architetti in un'epoca così critica nello sviluppo dell'architettura del XXI secolo. Il visibile e l'invisibile, il libro che di Merleau-Ponty stava scrivendo quando morì, contiene un capitolo sbalorditivo: «L'Intreccio - il Chiasmo» (è proprio da lì che presi il nome che avevo dato al concorso per il Museo d'Arte 8

Prefazione contemporanea a Helsinki - Chiasmo fu cambiato con Kiasma, perché in finlandese non esiste la C). Nel testo del capitolo sull' «Orizzonte delle cose», Merleau-Ponty scrisse: «Come il cielo e la terra, l'orizzonte non è una collezione di cose terrene, o un titolo di classe, o una possibilità logica di concezione, o un sistema di 'potenzialità della coscienza': è un nuovo tipo d'essere, un essere di porosità, di pregnanza o di generalità[. .. ]» 1. Il primo decennio del XXI secolo è il momento in cui simili riflessioni superano l'orizzonte per introdursi «sotto pelle». Nel mondo in cui viviamo, i beni di consumo, alimentati da tecniche pubblicitarie iperboliche, hanno il fine di soppiantare la nostra coscienza disperdendo la nostra capacità di riflessione. Come pure oggi, in architettura, si è fatta iperbolica l'applicazione di tecniche digitali nuove e sovrastimate. L'opera di Pallasmaa evoca, su quest'oppressivo rumore di fondo, una solitudine e un proposito indicativi - quella che lui una volta chiamò l' «architettura del silenzio>>2. La farò leggere ai miei studenti, perché riflettano sul «rumore di fondo». Oggi, la profondità di quello che siamo poggia su ghiaccio sottile.

1

Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, Bompiani, Milano 2003, p. 164. 2 Juhani Pallasmaa, Archùecture du Silence, Musée Finlandais d'Architecture, Helsinki 1994.

9

Introduzione

TOCCARE IL MONDO

Nel 1995, gli editori dell'Academy Editions di Londra mi chiesero di scrivere un volume per la loro collana «Polemics», un saggio di 32 pagine su un tema che mi parve pertinente al dibattito sull'architettura in corso in quegli anni. Il risultato - la mia piccola opera The Eyes of the Skin. Architecture and the Senses - fu pubblicato l'anno successivo. La seconda parte del manoscritto riprendeva le idee di fondo da un mio saggio intitolato An Architecture of the Seven Senses, pubblicato da «Architecture+Urbanism», Questions of Perception (luglio 1994), numero speciale della rivista sul lavoro architettonico di Steven Holl, che comprendeva anche saggi dello stesso Holl e di Alberto Pérez-G6mez. Qualche tempo dopo, nel giugno del 1995, una lezione tenuta durante un seminario sulla fenomenologia dell' architettura all'Accademia Reale danese di Belle Arti, a Copenaghen, cui partecipavano i tre autori di Questions of Perception, mi offrì gli argomenti di base e i riferimenti per la prima parte. Un libro semplice, che - cosa che in parte mi sorprese -

v11

occm aeua peue

fu accolto molto bene e divenne lettura obbligatoria nei corsi di teoria architettonica in molte scuole d'architettura in tutto il mondo. Di conseguenza, l'edizione si esaurì in fretta, e il libro, negli anni seguenti, continuò a circolare in innumerevoli fotocopie. Il saggio polemico era da principio basato su esperienze, punti di vista e riflessioni personali. Ero sempre più preoccupato di fronte alla pregiudiziale in favore della vista e alla soppressione degli altri sensi nel modo in cui l'architettura era concepita, insegnata e criticata, e dalla conseguente scomparsa di qualità sensoriali e sensuali in arte e in architettura. Nei dieci anni che seguirono l'uscita del libro, l'interesse verso il significato dei sensi crebbe considerevolmente sia dal punto di vista filosofico, sia in termini di esperire, fare e insegnare architettura. Le mie convinzioni sul ruolo del corpo come luogo di percezione, pensiero e coscienza, e sulla rilevanza dei sensi nell'articolare, conservare e analizzare i responsi sensoriali e i pensieri, si erano nel frattempo rafforzate e confermate. Col titolo Gli occhi della pelle volevo esprimere la portata del senso del tatto nella nostra esperienza e nella nostra comprensione del mondo, ma intendevo anche creare un cortocircuito concettuale tra il senso dominante, la vista, e la modalità sensoriale soppressa, il tatto. Scrivendo il testo originario mi fu chiaro che la nostra pelle è effettivamente in grado di distinguere un certo numero di colori; noi, con la pelle, vediamo 1. Il primato del tatto ha acquisito evidenza sempre mag-

1 James Turrell, Plato's Cave and Light Within, in Mirko Heikkinen (a cura di), Elephant and Butterfly. Permanence and change in architecture. 9th Alvar Aalto Symposium, Jyvaskyla 2003, p. 144.

12

1ntroctuz1one giore. Inoltre, mi sono interessato del ruolo della visione periferica e sfocata nell'esperienza vissùta del mondo, nonché nella nostra esperienza di interiorità negli spazi che abitiamo. L'essenza più autentica dell'esperienza vissuta è modulata dalla tattilità e da una visione periferica non focalizzata. Mentre la visione focalizzata ci contrappone al mondo, la visione periferica ci involge nelle fibre del mondo. Accanto alla critica all'egemonia della visione, abbiamo bisogno di riconsiderare l'essenza stessa della vista. Tutti i sensi, vista compresa, sono estensioni del senso del tatto; i sensi sono specializzazioni del tessuto epidermico, e tutte le esperienze sensoriali sono modi di toccare e, quindi, sono legate alla tattilità. Il nostro contatto col mondo avviene sulla linea di demarcazione del sé attraverso parti specializzate della membrana che ci avvolge. Il punto di vista dell'antropologo Ashley Montagu, basato sull'evidenza medica, conferma la predominanza del regno tattile: [La pelle], il primo a formarsi e il più sensibile dei nostri organi, il nostro primo mezzo di comunicazione e anche il più efficiente dei nostri mezzi di protezione [ ... ]. Perfino la cornea, trasparente, è coperta da uno strato di pelle, seppur diverso. [ ... ] Il tatto è padre di occhi, orecchie, naso e bocca. È il senso che si è poi differenziato negli altri, evento che spiega l'antica definizione del tatto come «padre di tutti i sensi»2 • Il tocco è la modalità sensoriale che integra l'esperienza che abbiamo del mondo con quella che abbiamo di noi stessi. Perfino le percezioni visive sono fuse e integrate in un continuum tattile del sé; il mio corpo ricorda chi sono e

2

Ashley Montagu, Il linguaggio della pelle, A. Vallardi, Milano 1989, p.

9.

13

L:rll OCChl

della pelle

dove sono nel mondo. Il mio corpo è il vero e proprio ombelico del mio mondo, non nel senso del punto di vista della prospettiva centrale, ma come vero luogo di riferimento, memoria, immaginazione e integrazione. Chiaramente, un'architettura che «accresca la vita»3 deve rivolgersi a tutti i sensi contemporaneamente e fondere l'immagine che abbiamo del sé con la nostra esperienza del mondo. Il compito primo dell'architettura è accomodare e integrare. L'architettura articola le esperienze del1' essere-nel-mondo e fortifica il nostro senso della realtà e del sé; è l'architettura che ci consente di non abitare un mondo di pura artificiosità e fantasia. Il senso del sé, rafforzato da arte e architettura, ci permette di dedicarci pienamente alle dimensioni mentali del sogno, dell'immaginazione e del desiderio. I palazzi e le città offrono l'orizzonte per la comprensione e il confronto della condizione esistenziale umana. Invece di creare meri oggetti di seduzione visiva, l'architettura mette in relazione significati, li collega e li proietta. Il significato ultimo di ogni palazzo è dietro la sua architettura, che riporta la nostra coscienza al mondo e verso il nostro senso del sé e del1' essere. L'architettura, se pregnante, ci permette di fare esperienza di noi stessi come esseri pienamente corporei e spirituali. È questa, infatti, la funzione di tutta l'arte che abbia un significato. Nell'esperienza dell'arte ha luogo uno scambio peculiare: io do in prestito allo spazio le mie emozioni e le mie associazioni, e lo spazio dà in prestito a me la sua aura, che seduce ed emancipa le mie percezioni e i miei pensieri. Un'opera architettonica non è esperita come fosse una serie di figure retinali isolate, ma nella totale integrazione della

3

Johann Wolfgang von Goethe, cit., ibid., p. 222.

14

lntroctuz1one

sua essenza materiale, corporea e spirituale. Un'opera architettonica presenta forme e superfici gradevoli, plasmate perché l'occhio e gli altri sensi le possano sfiorare, ma incorpora e integra in sé anche strutture fisiche e mentali, dando così alla nostra esperienza esistenziale una coerenza e un valore rafforzati. Mentre lavorano, sia l'artista sia l'artigiano, più che concentrarsi su un problema esterno e oggettivato, sono impegnati direttamente col corpo e con la loro esperienza esistenziale. Un architetto accorto lavora con tutto il corpo e col proprio senso di sé. Mentre lavora a un palazzo o a un progetto, l'architetto è contemporaneamente impegnato in una prospettiva rovesciata, l'immagine di se stesso - o, più precisamente, la propria esperienza esistenziale. Il lavoro creativo implica un'identificazione e una proiezione potente; l'intera costituzione mentale e corporea di chi crea diventa il sito del lavoro. Ludwig Wittgenstein, la cui filosofia pure tende al distacco dall'immaginario corporeo, avverte l'interazione sia del lavoro filosofico sia di quello architettonico con l'immagine del sé: Il lavoro filosofico è propriamente - come spesso in architettura - piuttosto un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose [. .. ]4.

Il computer, spesso, è visto come un'invenzione esclusivamente benefica, che libera la fantasia umana rendendo più semplice un efficiente lavoro di progettazione. Vorrei esprimere la mia seria perplessità al riguardo, quanto meno considerando il ruolo attuale del computer nel processo di progettazione. Creare immagini al computer tende ad appiattire le nostre magnifiche capacità immaginative, mul4

Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, pp. 40-41.

15

v11 ucuu ueua pe11e

tisensoriali, simultanee e sincroniche, mutando il processo di progettazione in una manipolazione visuale passiva, in un viaggio retinale. Il computer crea una distanza tra colui che fa e ciò che viene fatto, laddove invece disegnare a mano o creare modelli mette il progettista in contiguità tattile con l'oggetto o lo spazio. Nella nostra immaginazione, l'oggetto è tenuto contemporaneamente in mano e nella testa, e l'immagine fisica concepita e progettata è modellata dal nostro corpo. Siamo, allo stesso tempo, dentro e fuori dell'oggetto. Il lavoro creativo richiede un'identificazione corporea e mentale, empatia e compassione. Condizione fondamentale per un'esperienza che avvolga spazialità, interiorità e tattilità è la consapevole soppressione della visione focalizzata, netta. Tema, questo, che è entrato raramente nel discorso teorico dell'architettura, giacché la teoria architettonica continua a interessarsi piuttosto alla visione a fuoco, all'intenzionalità cosciente e alla rappresentazione prospettica. Le fotografie che ritraggono opere architettoniche sono immagini centrate di Gestalt messa a fuoco; eppure la qualità della realtà architettonica sembra che dipenda fondamentalmente dalla natura della visione periferica, che abbraccia il soggetto nello spazio. Una foresta, uno spazio architettonico riccamente strutturato offrono ampi stimoli alla visione periferica, e sono scenari che ci mettono al centro dello spazio effettivo. Il regno percettivo del preconscio, di cui si fa esperienza fuori della sfera della visione a fuoco, sembra avere la stessa importanza, a livello esistenziale, dell'immagine a fuoco. Infatti, anche la medicina corrobora con prove il fatto che la visione periferica abbia una priorità nel nostro sistema percettivo e mentale5.

5

Cfr. Anton Ehrenzweig, The Psychoanalisis o/ Artistic ½'sian and

16

Introduzione

Osservazioni simili sembrano suggerire che uno dei motivi per cui gli scenari architettonici e urbani del nostro tempo ci fanno sentire tendenzialmente degli esclusi, in contrasto con l'energico impegno emotivo degli scenari storici e naturali, sia la loro povertà a livello della visione periferica. La percezione periferica inconscia trasforma la Gestalt retinale in esperienze spaziali e corporee. La visione periferica ci integra nello spazio, mentre la visione a fuoco ci spinge fuori dallo spazio, rendendoci meri spettatori. Lo sguardo difensivo e sfocato del nostro tempo, sostenuto da un sovraccarico sensoriale, potrà forse schiudere nuovi regni di visione e pensiero, liberati dall'implicito desiderio di controllo e di potere dell'occhio. La perdita della messa a fuoco potrà finalmente affrancare l'occhio dalla sua storica sovranità patriarcale.

Hearz'ng. An Introductz'on to a Theory o/ Unconsàuos Perceptz'on, Sheldon

Press, London 1975. 17

Le mani vogliono vedere, gli occhi carezzare. Johann Wolfgang Goethe 1 [. . .] le dita dei piedi stavano in ascolto per comprenderti. Colui che danza, in/attz; ha il suo orecchio - in quelle dita' Friedrich Nietzsche2 Se il corpo fosse stato più semplice da comprendere, nessuno avrebbe pensato che avessimo anche una mente. Richard Rorty3

Brooke Hodge (a cura di), Not Architecture But Evidence That It Exists. Lauretta Vinciarelli: Watercolors, Harvard University Graduate School of Design, Cambridge, Mass. 1998, p. 130. 2 Friedrich Nietzsche, Cosi' parlò Zarathustra, Mondadori, Milano 1992, pp. 212-213. 3 Richard Rorty, La/iloso/ia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986,p.315.

Il sapore della mela sta nel contatto del frutto col palato, non nel /rutto stesso; [. .. ] la poesia sta nel commercio del poema col lettore, non nella serie di simboli che registrano la pagina di un libro. L'essenziale è l'atto estetico, il fremito, l'emozione quasi fisiar che sempre sopravviene leggendo. Jorge Luis Borges4 Come potrebbero il pittore e il poeta esprimere altro dal loro incontro col mondo? Maurice Merleau-Ponty5

4

}orge Luis Borges, Carme presunto e altre poesie, Einaudi, Torino 1979, p. 46. 5 Cit. in Richard Kearney, Maurice Merleau-Ponty, in Id., Modern Movements in European Philosophy, Manchester University Press, ManchesterNew York 1994, p. 82.

PARTE PRIMA

Visione e conoscenza

La cultura occidentale ha sempre considerato la vista il più nobile dei sensi, e perfino il pensiero è stato concepito in termini visivi. Già nel pensiero degli antichi Greci, il certo si fondava su visione e visibilità. «Gli occhi sono testimoni più precisi delle orecchie» 1, scrive Eraclito in uno dei suoi frammenti. Platone considerava la vista il dono più grande dell'umanità2 , e sosteneva che gli universali etici dovessero essere accessibili all' «occhio della mente»3 • Aristotele, parimenti, considerava la vista il più nobile dei sensi «perché è il più simile all'intelletto in virtù della relativa immaterialità del suo apprendere» 4 . 1 Eraclito, Frammento 101a, in Eraclito, I /rammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano, Mondadori, Milano 1994. 2 Platone, Timeo, in Id., Dialoghi, a cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 1970, p. 45.3. 3 Georgia Warnke, Ocularcentrism and Socia! Criticism, in David Michael Levin, Modernity and the Hegemony o/ Vision, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1993, p. 287. 4 Thomas R. Flynn, Foucault and the Eclypse o/ Vision, in Levin, Modernity, cit., p. 274.

23

\Jll OCChl della pelle

Dopo i Greci, gli scritti filosofici di tutti i tempi abbondano di metafore oculari, al punto che la conoscenza corrisponde alla visione nitida e la luce è trattata come la metafora della verità. Tommaso d'Aquino applica perfino la nozione di vista ad altri regni sensoriali oltre che alla cognizione intellettuale. L'impatto che il senso della vista ha avuto sulla filosofia è ben riassunto da Peter Sloterdijk: «Gli occhi sono il prototipo organico della filosofia. Il loro arcano sta nel fatto che essi non solo possono vedere, ma possono anche vedere se stessi vedere, il che conferisce loro un primato sugli altri organi cognitivi del corpo. Buona parte del pensiero filosofico è in realtà solo un riflesso dell'occhio, dialettica dell'occhio, vedersi vedere»5 . Durante il Rinascimento, i cinque sensi erano intesi a formare un sistema gerarchico che partiva dal senso supremo della vista, giù fino al tatto. Il sistema rinascimentale dei sensi era legato all'immagine del corpo cosmico; la vista era correlata al fuoco e alla luce, l'udito all'aria, l'olfatto al vapore, il gusto àll' acqua, e il tatto alla terra6. L'invenzione della rappresentazione prospettica ha reso l'occhio il punto centrale del mondo percettivo e del concetto di sé. La stessa rappresentazione prospettica si è trasformata in una forma simbolica, che non solo descrive la percezione, ma la condiziona. Non c'è dubbio che la nostra cultura tecnologica abbia organizzato e separato i sensi in modo ancora più netto. La vista e l'udito, adesso, sono sensi sociali privilegiati, mentre

5

Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano 1992, p.

58. 6

Cfr. Steven Pack, Discovering (Through) the Dark Interstice o/ Touch, in History and Theory Graduate Studio 1992-1994, McGill School of Architecture, Montreal 1994.

24

Visione e conoscenza

gli altri tre sono considerati residui sensoriali arcaici con una funzione meramente privata, solitamente soppressi dal codice culturale. Solo sensazioni come il piacere olfattivo di un pasto, la fragranza dei fiori e la reazione al caldo e al freddo riescono ancora ad aprire la coscienza collettiva nel nostro codice culturale oculocentrico e ossessivamente 1g1emco. Sono molti i filosofi che hanno notato questa predominanza della vista sugli altri sensi - e i pregiudizi gnoseologici che ne derivano. La già citata raccolta di saggi filosofici a cura di David Michael Levin, Modernity and the Hegemony o/Vision, rileva che, «a partire dai Greci, la cultura occidentale è stata dominata da un paradigma oculocentrico, da un'interpretazione della conoscenza, della verità e della realtà generata dalla visione e incentrata sulla visione>>7. Un libro stimolante, che analizza la «connessione storica tra visione e conoscenza, visione e ontologia, visione e potere, visione ed etica» 8. Una volta rivelato dai filosofi il paradigma oculocentrico della nostra relazione con il mondo e della nostra idea di conoscenza - il primato epistemologico della vista -, è importante anche analizzare criticamente il ruolo della vista in relazione agli altri sensi nella nostra comprensione e nella nostra pratica dell'arte dell'architettura. L'architettura, come ogni arte, si confronta sostanzialmente con domande sull'esistenza umana nello spazio e nel tempo, esprime e collega l'essere dell'uomo nel mondo. L'architettura è profondamente coinvolta dalle domande metafisiche sul sé e sul mondo, su interiorità ed esteriorità, tempo e durata, vita e morte. «Le pratiche estetiche e culturali sono parti-

7 8

Levin, Modernity, cit., p. 2. Ibid., p. 3.

25

~11 uLuu ueua

peue

colarmente sensibili alla mutevole esperienza dello spazio e del tempo, proprio perché implicano la costruzione di rappresentazioni e prodotti spaziali a partire dal fluire dell' esperienza umana» 9 , scrive David Harvey. L'architettura è lo strumento primario nel nostro rapportarci allo spazio e al tempo e nel dare a queste dimensioni una misura umana. È essa che addomestica lo spazio illimitato e il tempo infinito perché l'umanità li tolleri, li abiti e li comprenda. Come conseguenza di tale interdipendenza di spazio e tempo, le dialettiche tra spazio esterno e interno, tra priorità fisica e spirituale, materiale e mentale, inconscia e conscia riguardo ai sensi, nonché i relativi ruoli e interazioni, hanno un impatto essenziale sulla natura delle arti e dell'architettura. David Michael Levin argomenta la critica filosofica alla supremazia dell'occhio con queste parole: Penso che l'egemonia della vista ,e,_J' oculocentrismo della nostra cultura vadano sfidati con qecisione. E penso che /' abbiamo bisogno di esaminare in modo molto critico il carattere della vista che oggi predomina nel mondo. Abbiamo bisogno di una diagnosi urgente della patologia psico-sociale del vedere quotidiano - e di una comprensione critica di noi stessi in quanto esseri visionari 10 • Levin rileva l'impulso all'autonomia e l'aggressività della vista, e gli «spettri del sistema patriarcale» che frequentano la nostra cultura oculocentrica: La vista ha una forte brama di potere, una forte tendenza ad agguantare e a fissare, a reificare e totalizzare: una tendenza a 9

David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993, p. 397. 10 David Michael Levin, Decline and Fall. Ocularcentrism in Heidegger's Reading o/ the History o/ Metaphysics, in Id., Modernity, cit., p. 205.

26

Visione e conoscenza dominare, assicurare, controllare, cosa che alla fine, proprio perché promossa in modo così insistente, ha assunto una certa incontestata egemonia sulla nostra cultura e sul suo discorso filosofico, stabilendo, in accordo con la razionalità strumentale della nostra cultura e col carattere tecnologico della nostra società, una metafisica oculocentrica della presenza 11 .

Io, analogamente, credo si possano comprendere molti aspetti della patologia dell'architettura quotidiana attraverso un'analisi dell'epistemologia dei sensi e attraverso una critica della predisposizione ali' oculocentrismo della nostra cultura in generale, e dell'architettura in particolare. La mancanza di umanità nell'architettura e nelle città contemporanee può essere compresa come la conseguenza della negligenza verso il corpo e i sensi, come l'esito di uno squilibrio nel nostro sistema sensoriale. Le crescenti esperienze di alienazione, distacco e solitudine nell'odierno mondo tecnologico, per esempio, possono essere poste in relazione con una certa patologia dei sensi. Dà da pensare il fatto che questo senso di estraneità e distacco sia spesso evocato dagli scenari tecnologicamente più avan,-;ati, come ospedali e aeroporti. La supremazia dell'occhio e la soppressione degli altri sensi tendono a spingerci al distacco, all'isolamento e all'esteriorità. L'arte dell'occhio ha sì prodotto strutture grandiose e degne d'attenzione, ma non ha certo facilitato il radicarsi dell'uomo nel mondo. Il fatto che l'idioma modernist~ in generale non sia stato in grado di penetrare la superficie del gusto e dei valori popolari sembra dovuto alla sua unilaterale enfasi intellettuale e morale; il design modernista, in generale, ospita l'occhio e l'intelletto, ma lascia senza tetto il corpo e gli altri sensi, come pure i nostri ricordi, l'immaginazione e i sogni. 11

Ibid., p. 212. 27

U'H uLu11 ueua peue

Critica del!' oculocentrismo

Già prima delle odierne perplessità, la tradizione oculocentrica del pensiero occidentale e la teoria spettatoriale della conoscenza che ne deriva incontrarono le critiche dei filosofi. René Descartes, per esempio, considerava la vista il più universale e nobile dei sensi e, di conseguenza, basò sul privilegio della visione la sua filosofia dell'oggettività. Tuttavia, egli equiparò la vista al tatto, senso che considerava «più sicuro e meno esposto all'errore rispetto alla vista» 12 . Friedrich Nietzsche, in apparente contraddizione con la linea generale del suo pensiero, cercò di sovvertire il primato del pensiero visivo. Criticò l'occhio «fuori dal tempo e dalla storia» 13 che molti filosofi avevano teorizzato. Accusò perfino i filosofi di «ostilità cieca e sleale nei confronti dei sensi» 14 . Max Scheler definisce seccamente tale attitudine «avversione profonda nei confronti del corpo» 15 . La visione «antioculocentrica» che si sviluppò nella tradizione intellettuale francese del xx secolo, fortemente critica della percezione e del pensiero oculocentrici occidentali, è dettagliatamente documentata da Martin Jay nel suo libro Downcast Eyes. The Denigration o/ ½"sian in Twentieth-Century French Thought 16 , in cui l'autore delinea lo 12

DaliaJudovitz, Vision, Representation, and Technology in Descartes, in Levin, Modernity, cit., p. 71. 13 Levin, Modernity, cit., p. 4. 14 Friedrich Nietzsche, The Will to Power, Book II, trad. Walter Kaufmann, Random House, New York 1968, nota 461, p. 253 (trad. it. La volontà di potenza, Bompiani, Milano 2001; ed. or. Der Wille zur Macht, Kroener, Leipzig 1887). 15 Max Scheler, Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Au/siitze, cit. in David Michael Levin, The Body's Recollection o/ Being, Routledge & Kegan Paul, London-Boston-Melbourne-Henley 1985, p. 57. 16 Martin Jay, Downcast Eyes. The Denigration o/ Vision in TwentiethCentury French Thought, University of California Press, Berkeley 1994.

28

Lnt1ca dell' ocu1ocentrismo

sviluppo della moderna cultura incentrata sulla vista attraverso l'analisi di diversi elementi, come l'invenzione della stampa, l'illuminazione artificiale, la fotografia, la poesia visiva e la nuova esperienza del tempo, Inoltre analizza le posizioni antioculocentriche di molti autorevoli autori francesi, tra cui Henri Bergson, Georges Bataille, Jean-Paul Debord, Roland Barthes, J acques Derrida, Luce Irigaray, Emmanuel Lévinas e Jean-François Lyotard. Sartre era dichiaratamente ostile al senso della vista, fino all' oculofobia; si stima che la sua opera contenga 7 .000 occorrenze per «sguar